20130601-152 Bianco e nero
Il mio vicino di casa mi ha detto che mentre ero a Rimini qui è sempre piovuto. Ho cercato di
consolarlo dicendogli che neppure a Rimini era andata benissimo. Gli ho detto la verità... pur
sapendo di mentire. Non sembri un paradosso. Anche lì le previsioni indicavano pioggia, ma non
solo non era mai piovuto ma, a tratti, si era sentito un bel sole caldo, al punto che più d’uno tedeschi per lo più - s’era azzardato a buttarsi in acqua. A sentire i riminesi quello di questi giorni
era stato un tempaccio, ma è evidente che tutto è relativo. L’unica cosa che posso affermare con
certezza è che ieri pomeriggio, appena varcata la sella del Fadalto, mi son dovuto fermare per
indossare un pullover di lana. Sette gradi di differenza si sentono, eccome se si sentono. Più che il
termostato di casa, sono stati i brividi del rientro a convincermi ad accendere la stufa.
Le previsioni per oggi non le avevo guardate: meglio non saperle e quello che viene, viene. Tanto
non ho voce in capitolo e sapere in anticipo che pioverà servirebbe soltanto a mettermi in anticipo
di malumore. E se poi fosse spuntato il sole… be’, sarebbe stata una gradita sorpresa.
E sorpresa fu. Graditissima, come potete immaginare. Il sole delle sette non scaldava molto, ma
almeno era sole! E alle nove, quando sono uscito per riprendere la mia vecchia consuetudine di
fotoamatore vagabondo, si stava discretamente anche in maniche di camicia. La strada mi ha poi
portato in piazza Duomo dove, tra le altre, ho scattato la foto che vedete.
PS
Non sono un habitué del bianco e nero; forse perché è tipico dei professionisti o di coloro che
ritengono di esserlo, me ne tengo lontano. Probabilmente sbaglio, anzi, sbaglio di sicuro: non so se
per eccesso di modestia o di snobismo (vallo a sapere da che parte tira l'indole…). Però è vero che
ci sono delle foto che “nascono” in bianco e nero e volerle fare per forza a colori significherebbe
impoverirle. Non so, vedete voi.
20130602-153 Cronaca dal Vietnam
Suono il campanello e, alla signora che si affaccia, chiedo il permesso di lasciare il camper nel suo
cortile, “per fare due foto alla Villa Angelini, qui di fianco”. Permesso accordato. Sto imparando
che la gente è gentile se ci si rivolge loro in modo gentile. Da tenere a mente.
Mi dedico quindi a fotografare la villa. Dopo due o tre scatti però, noto che da una finestra,
qualcuno mi osserva. Per quanto ne so potrebbe essere una domestica, ma potrebbe essere chiunque,
in realtà. Memore della litigata di qualche giorno fa (#143 La fontana mancata) non ho voglia di
imbarcarmi in discussioni analoghe. Facendo ritorno al camper mi viene in mente che lì, proprio lì
a due passi, scorre il Turriga, e dovrebbe esserci una bella cascata da fotografare. Decido di andarci.
Naturalmente non avevo tenuto in conto le piogge di questi giorni. La stradina che porta al sito è
intrisa d’acqua e fango, e tuttavia, facendo un po’ di attenzione, riesco ad arrivare in vista della
cascata. Più che vederla - opzione difficile data la folta vegetazione che la occulta - ne avverto il
fragore. Adoro il fracasso prodotto delle cascate. Per me che soffro di acufene, è un vero balsamo.
Come una crema idratante per la pelle troppo secca, se m’intendete.
Volendo scattare qualche foto è d’uopo avvicinarsi. Aggiro il boschetto seguendo la stradina, ma
poi la stradina si trasforma in un viottolo finché anche quest’ultimo scompare disperdendosi in un
generico sottobosco umido e scuro. Mi avvicino ancora, ma ora devo schivare le piante che mi
vengono incontro. La vegetazione è folta e rigogliosa. Per forza, con tutta l’acqua che è caduta!
Cammino su un tappeto di arbusti che mi arrivano a mezza gamba. Praticamente non riesco a
vedere dove metto i piedi. Pare di stare nel Vietnam. Avete presente Apocalypse Now? Qualcosa
del genere. Non manca molto oramai, ma devo stare attento perché il terreno è scivoloso. Mi
seccherebbe cadere a terra e sporcarmi di fango. Ma questo sarebbe il meno. Ancora di più mi
seccherebbe scivolare fin giù in basso, al livello del torrente. Da dove mi trovo ci sarà un salto di
dieci, dodici metri. Non sarebbe igienico finire laggiù troppo precipitosamente. Mi calo dunque con
cautela - la fida Berta a tracolla - tenendomi aggrappato ai tronchi e ai rami che riesco ad
acchiappare.
Nonostante tutta la mia attenzione, ad un certo punto metto il piede su un rametto che non avevo
visto e che mi fa perdere l’equilibrio, scivolo e in un attimo mi vedo giù, sfracellato sulle pietre del
Turriga, ad ascoltare per sempre il fragore della cascata. In quell’attimo mi passano per la testa
un’infinità di pensieri. Penso ai miei figli e al loro dolore per la morte repentina del loro papà.
Penso ai miei fratelli che ho appena riabbracciato a Rimini. Penso all’Amore che non cerco più, ma
che mi gira intorno da tempo, senza trovarmi. Penso ad una cosa che non voglio dire. Penso infine
che è troppo presto per morire. Non so quale di questi pensieri guidi la mia mano fino ad incontrare
un’esile pianta di nocciolo. Mi ci avvinghio con la forza della disperazione, col rischio che si
strappi, ma invece resiste, mi trattiene, interrompe il mio volo restituendomi il fiato che avevo
sospeso.
Mi siedo a terra, nel fango, piango e rido contemporaneamente per liberarmi l’anima stretta da una
morsa. Sono di fronte alla cascata. Sotto di me, ad una spanna, il Turriga. Aspetto di calmarmi, non
voglio che venga mossa. Questa foto mi serve, non solo per il blog, ma per ricordarmi che la vita è
un caso e ogni giorno è un regalo. Prendo la mira, inquadro e scatto.
20130603-154 Non ci pago neppure l’IMU!
Rassegnatevi. Quando vado a far rifornimento di acqua alla fontana della Vena D’Oro mi fermo a
Rio Cavalli. E’ sulla strada e viene comodo, ma non è solo per questo, è proprio perché Rio Cavalli
mi piace.
L’ho scoperto quest’anno. In teoria sarebbe un posto dove andare a pescare, in pratica ci possono
andare tutti, anche chi, come me, non s'interessa di pesca, di fatto però non ci va nessuno, o ci
vanno in pochi. Quando sono arrivato io, verso le dieci, ero il primo visitatore, poi, nell’arco della
mattinata, se ne sono aggiunti un altro paio. Basterebbe questo a farmelo piacere. Già, perché se è
vero che amo la folla, tant’è che mi mescolo volentieri nei mercatini del sabato, è altrettanto vero
che apprezzo il silenzio, la tranquillità e la quiete. Entrambe mi sembrano esperienze salutari perché
predispongono l’una alla socialità e l’altra alla meditazione solitaria.
E la quiete davvero non manca percorrendo i viali bianchi di Rio Cavalli. Tutto sembra concorrere a
questo scopo. I laghetti levigati sono uno specchio naturale per i monti che si affacciano sulla Val
Belluna. Tra tutti il Serva, forse perché più vicino, appare il più vanitoso. Di tanto in tanto, quando
qualche pesce, più coraggioso degli altri, viene a galla a boccheggiare, le acque si increspano
appena, tracciando cerchi concentrici che si allargano digradando. Tavoli e panche che si
concentrano sotto i salici, promettono fantastiche merende autogestite, mentre le panchine
disseminate in quantità lungo il perimetro dei laghetti garantiscono a pescatori e visitatori di potersi
sedere e riposare in qualsiasi momento. Camminando, accade di frequente di venire sorpassati da
papere frettolose che badano ai fatti loro senza farsi condizionare dalla presenza degli umani. Sul
lato più lontano del parco poi, si possono osservare altri animali, per lo più cervi e cerbiatti, mentre
pascolano tranquilli nel recinto loro destinato.
Quando si sta bene, senza accorgersene, passano le ore. Una bella giornata, un luogo ameno, chi è
più ricco di me? Così, per gioco, immagino di essere il principe padrone del parco, dei viali e di
tutto quello che c’è. Principe di Rio Cavalli. Suona bene, no? Ma poi penso: “che mi frega di essere
un principe se posso venirci quando mi garba e starci quanto mi pare?” Molto meglio non esserlo,
anzi: non ci pago neppure l’IMU!
20130604-155 Può sembrare strano
Non avrei mai immaginato di postare una foto così. Ero diretto a Ponte nelle Alpi per andare a
vedere la mostra, recentemente inaugurata, del mio amico Alfonso Lentini. All’inaugurazione non
avevo potuto essere presente, ma contavo di rifarmi in settimana. Alfonso mi aveva suggerito di
portarmi la Berta, con l’invito a scattare qualche foto. Figurarsi se mi faccio pregare.
Al mio arrivo però, ho la sgradita sorpresa di trovare il cancello chiuso. In una bacheca lì fuori un
manifesto riporta l’orario di apertura. Vado a controllare per paura di essermi sbagliato. Non mi
sono sbagliato: il martedì mattina la mostra avrebbe dovuto essere aperta al pubblico dalle 9:30 alle
12:30. Sono le dieci e il cancello è sprangato. Queste sono cose che non mi piacciono. Scambio
qualche parola con una ragazza sopraggiunta nel frattempo, anche lei bloccata dal cancello.
Aspettiamo una decina di minuti, poi la ragazza se ne va. A quel punto, con grande dispiacere, me
ne vado pure io.
Invece che tornare a Belluno prendo la direzione opposta, verso Longarone. Mi è venuto in mente
un possibile percorso della memoria. Da bambino, prima del Vaiont, i miei per qualche tempo,
avevano abitato a Faè. Chissà che effetto mi avrebbe fatto rivedere quel borgo! Trovare Faè non è
difficile, posteggio il camper e mi metto a gironzolare a piedi. Mi aspetto di vedere qualcosa - non
so bene cosa - che inneschi un ricordo, che agganci un’immagine di quegli anni. Sarebbe una
magia, se accadesse, ma le magie non sempre riescono. Tutto, lì, mi risulta estraneo: non solo la
gente, ma anche le case, le strade, è come se le vedessi per la prima volta e, in fondo, è davvero
così. Che pretendo? Quello che non ha fatto il Vaiont lo ha fatto il Tempo che, lentamente ma
inesorabilmente, cambia uomini e cose.
Così, con un pelo di amarezza e un pizzico di nostalgia (per i tempi andati, s’intende…) riparto. A
questo punto non ha senso che torni a Belluno. Che ci vado a fare? Chi m’aspetta? Prendo la strada
per Zoldo: mi sarei fatto un giretto da quelle parti, magari potevo fermarmi a mangiare una
pastasciutta in qualche trattoria e tornare a casa nel primo pomeriggio. Se non che, dietro una curva,
sulla sinistra, intravedo la Passerella di Igne e mi viene voglia di fotografarla.
Può sembrare strano che, tra le tante fotografie che documentano la Passerella in lungo e in largo,
mettendo in evidenza il gioco dei tiranti, le simmetrie prospettiche del manufatto o il pauroso salto
sul Maè (il torrente sottostante), alla fine decida di postare questa foto dove l’esistenza di un ponte è
più supposta che provata, dove sullo sfondo s’intravede appena un abbozzo di montagna - troppo
poco per una localizzazione certa - e dove il soggetto sembra essere un lucchetto che racconta la
storia di un tale che, in modo non proprio originale, dichiara il suo amore per una certa Elisa. Può
sembrare strano. Ed in effetti lo è.
20130605-156 A casa di A*
Avevo sempre pensato che fosse il caso a guidare i miei passi quando la mattina esco di casa per
scattare le mie foto. Non è vero: sono i parcheggi. Il mio fido-camper ne va ghiotto. Soprattutto per
quelli gratuiti. Quelli a pagamento gli sono indigesti e gli procurano una strana orticaria che si
traduce in uno sgonfiamento progressivo del mio portafogli. I parcheggi in divieto sono stimolanti,
per certi versi restituiscono il brivido dell’avventura ma, a parte il fatto che non è corretto, se il
vigile cattivo - e in ogni città, per contratto, ce n’è almeno uno - ti becca anche una volta sola, ti
tocca pentirti per tutte le altre che l’hai fatta franca. Sia chiaro, in tutto questo io non c’entro. Fosse
per me posteggerei allegramente in piazza dei Martiri, pagando il giusto e facendo girare
l’economia, ma lui a queste cose ci tiene molto ed io non posso far altro che assecondare la sua
spasmodica ricerca di parcheggi gratuiti. Che oggi mi ha condotto in uno spiazzo di via Lungardo.
Da lì alle scalette il passo è breve. Ho cominciato a scattare, ma dopo un po’ mi sono reso conto che
stavo facendo le stesse foto che avevo già fatto qualche tempo addietro. Allora piovigginava mentre
oggi c’era il sole ma, a parte le considerazioni atmosferiche, le foto erano proprio le stesse nel senso
che sceglievo gli stessi soggetti e li inquadravo dallo stesso punto di vista. Non avevo la
controprova, ma c’era da scommettere che pure la zoomata fosse simile.
Sia ben chiaro, sono il primo a sostenere che un friccico di luce in più o in meno, rende la fotografia
completamente diversa, che, in generale, non è possibile ripetere due volte la stessa identica
fotografia, ma ugualmente mi sentivo mortificato dal punto di vista della creatività. Ogni fotografo,
o aspirante tale, vorrebbe misurarsi ogni volta con situazioni e problematiche diverse, perché la
ripetitività, alla lunga, annoia.
Stavo riflettendo su questo quando ho incrociato il mio amico A* che abita in via Rivizzola. “Stai
andando a casa?”, gli chiedo. Alla sua risposta affermativa sono partito al contrattacco: “Mi
offriresti un caffè?”. “A casa mia?”, fa lui. “Si, a casa tua”, rispondo.
Io a casa sua non c’ero mai stato, ma sapevo che doveva avere almeno una finestra o un balconcino
che dava su Borgo Prà. Ero curioso di vedere che razza di panorama si vedeva da lassù. Scusandomi
per la mia sfacciataggine spiego ad A* che mi piacerebbe scattare qualche foto da casa sua. Lui
sorride benevolmente: sa della mia dolceamara pena fotografica perché mi vede spesso in giro per
Belluno con la Berta al collo.
Dopo aver convinto il suo cagnolino che non sono un invasore nemico e mentre A* si appresta a
preparare il caffè, mi sporgo dal suo terrazzino. “E’ fantastico da qui”, gli urlo. “No, oggi no. Non è
proprio sereno” risponde sullo stesso tono. Mi chiedo se A* si renda conto di quale meraviglia si
apparecchia ogni mattina sotto i suoi occhi, o se la consuetudine consumi tutto fino a renderlo
invisibile. Non lo saprò mai, naturalmente.
20130606-157 Cosa beve la ragazza?
Il tempo si va stabilizzando: bel sole il mattino e acquazzone nel pomeriggio. Senza acqua non ci
sappiamo stare, ma perlomeno ora arriva ad orari fissi e ci si può regolare. In compenso, udite,
udite, ho messo definitivamente in armadio le camicie con le maniche lunghe. Giuro solennemente
che d’ora in poi e fino al cambio di stagione, dovesse pure arrivare uno di quei tornado che vanno
tanto di moda negli USA in questo periodo, rimarrò comunque in maniche corte. Sono molto fiero
della mia determinazione. Mi sento un vero uomo. “Veri uomini si nasce”, direbbe Totò, “ed io,
modestamente, lo nacqui”.
Aggiungo solo due parole sulla foto di oggi. E’ una ragazza, presa di spalle, in un bar all’aperto. La
situazione presenta una piccola ambiguità, non difficile da cogliere, ma che potrebbe sfuggire al
primo sguardo. Perciò vi consiglio di guardarla due volte. La domanda è quella del titolo: cosa beve
la ragazza?
20130607-158 Un giorno speciale
Oggi è un giorno speciale per me. Devo fare in fretta a sbrigare “la mia pratica fotografica” perché
nel primo pomeriggio prendo il treno e parto. Direzione: Trieste. Missione: nuova registrazione del
format “SOS Tata”. Cioè, in sostanza, devo tenere Sofia, la mia prima nipotina, mentre i ragazzi si
preparano per gli esami.
Quando devo prendere il treno sono sempre contento. Lo so che vado incontro a dei disagi, che con
la macchina farei prima, ma il treno mi piace, mi fa tornare bambino. In effetti credo giochi la sua
parte una sorta di nostalgia: ho già detto (#113 Km 81 – o della nostalgia) che mio padre faceva il
ferroviere e finché è stato in servizio anche la sua famiglia aveva diritto ad un certo chilometraggio
gratuito sulla rete nazionale. Oggi lo si direbbe un privilegio; allora era una sorta di compensazione
rispetto alle paghe da fame con cui lo Stato elemosinava alcuni suoi dipendenti. Sia come sia, da
ragazzo ho viaggiato molto in treno. Vivevamo nel veneto, ma mio padre era di Rimini e mia madre
di Trapani. Ognuno con la sua cerchia di amici e allegri parenti ospitanti. Tutti gli anni partivo per il
mio personale giro d’Italia. Naturalmente in treno.
Ma oggi è una giornata speciale anche per un motivo più prosaico. Mi è finalmente arrivata la
nuova Berta: una nuova macchina fotografica che aspettavo con ansia da più di un mese. L’ho
ordinata su internet dall’Inghilterra, come si addice a noi sessantenni moderni, e quando mi è
arrivata, quindici giorni fa, ho dovuto rispedirla indietro perché era guasta. Il venditore per fortuna
non ha fatto storie, me l’ha sostituita subito con quella arrivata oggi. L’ho provata immediatamente
e il post di oggi è il risultato dei primi scatti. Sembra funzionare, ma è ancora presto per dire che è
tutto ok. Mi riservo il fine settimana, Sofia permettendo, per leggere il libretto di istruzioni e
trafficarci un po’. Poi si vedrà.
20130608-159 Tartarughe in fuga
A Trieste l’estate c’è già, altro che a Belluno. Non vorrei dirlo, ma il sole comincia a dar fastidio.
Nonostante le maniche corte e l’abolizione della maglietta della salute, al sole si suda. Non ho avuto
il coraggio di tirar fuori dalla valigia i pantaloncini corti e con i vecchi, sdruciti, pesantissimi jeans,
la vita è dura. Io e Sofia camminiamo rasenti ai muri, rincorrendo l’ombra di ogni cornicione. La
bimba si stanca presto di camminare, vuole salire sul passeggino, ma non è che lì il sole picchi di
meno, sicché dopo qualche minuto vuole tornare a casa.
La tengo buona con la promessa di un gelato e intanto mi dirigo verso il parco Tommasini dove mi
auguro di trovare un po’ di frescura. Sono appena entrato che quasi inciampo… in una tartaruga! E
ce n’è un’altra poco distante. Sono due tartarughe che normalmente stanno nello stagno, che ci
fanno così prossime all’uscita? Stanno scappando? Ancora un paio di metri e sarebbero in strada.
Col traffico che c’è le spiaccicherebbero in un momento. Per quanto, con quella corazza… In ogni
caso potrebbero costituire un pericolo, per sé e per gli altri. L’unica cosa da fare è riportarle allo
stagno. Chiedo ad una signora di passaggio se mi da una mano: ho il passeggino con la bimba
dentro e due macchine fotografiche al collo; posso prendere una tartaruga, ma per l’altra mi troverei
in difficoltà.
La signora è di Trieste e, nel suo dialetto aperto, che non riuscirei a replicare, mi spiega. “Sono i
ragazzi, sa? Sono dispettosi. Le prendono dallo stagno e le abbandonano lontano, così perdono
l’orientamento, poverine…” E io che pensavo a delle tartarughe in fuga!
PS
Questa volta, in via del tutto eccezionale, pubblicherò due foto. Nella prima si vedono le due
fuggitive tornate nel loro habitat insieme alle consorelle, nella seconda si vedono delle mani di
bimbi allacciate a delle assi. Sono le assi di un ponte di legno da cui è possibile osservare le
tartarughe. I bambini non si vedono, ma si intuiscono, dietro quelle mani, i loro occhi curiosi. Ed io
curioso di loro.
20130609-160 Volevo un gatto nero
“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qua…” così Celentano dipingeva l’Italia
d’Azzurro, qualche anno fa. Qualcosa del genere succede al sottoscritto qui a Trieste. Ancora una
giornata all’insegna del sole caliente. La pioggia e il freddo dei giorni passati sono ormai un
ricordo. Ho abbandonato i vecchi jeans per sostituirli con un paio di comodi pantaloncini e va
decisamente meglio. Sandali, pantaloncini e maglietta: sembravano oggetti obsoleti, “vintage”,
cimeli da ricordare con nostalgia, ma per fortuna, forse per scaramanzia, li ho ficcati in valigia,
altrimenti questa mattina sarei schiattato.
Complice il caldo, Sofia, dondolata dal movimento del passeggino, s’era assopita per un po’. Così
nel pomeriggio, al posto del solito riposino, mi è toccato fare gli straordinari. Mi sarebbe bastata
una mezz’oretta di tranquillità per scrivere questo benedetto articolo. Ma non è aria. Scrivo
queste righe mentre la mia adorata nipotina, mi strimpella nelle orecchie “Volevo un gatto nero,
nero, nero, | mi hai dato un gatto bianco | ed io non ci sto più.”.
PS
Anche oggi, in via del tutto eccezionale, posto due foto. Visto che è la seconda volta si potrebbe
obiettare circa l’eccezionalità del caso, ma tant’è. Il fatto è che durante il giro di stamane Sofia ed io
ci siamo imbattuti in un paio di personaggi di rilievo, gente importante per Trieste ed i triestini. La
cosa singolare è che entrambi hanno voluto accompagnarci per un tratto di strada e ciascuno ha
insistito per spingere il passeggino di Sofia. Lo so che è difficile da credere, ma ne ho le prove,
eccole:
20130610-161 Anche a costo di mentire
Giornata, quella di oggi, caratterizzata dal ritorno a casa. Sono tornato in treno, ovviamente. Alla
biglietteria di Trieste sembrava avessero smarrito la tratta che passando per Gorizia ed Udine
arrivava a Conegliano. Volevano a tutti i costi farmi passare per Mestre. Non ce l’ho con Mestre né
con i mestrini, ci mancherebbe, ma la loro stazione ferroviaria, sicuramente funzionale, mi sembra
francamente anonima e, mi si perdoni la franchezza, un po’ bruttina. Così ho optato per il viaggio
più lungo, che mi faceva partire prima facendomi comunque arrivare alla stessa ora. Avrei avuto più
tempo da passare a Conegliano, ma pazienza, anzi, meglio così.
Conegliano mi piace; la stazione, prima di tutto, che ho fotografato in lungo e in largo in altre
occasioni, ma anche le immediate vicinanze. Specie quando le immediate vicinanze (viale
Carducci) sono costituite da una gelateria/pasticceria siciliana gestita da siciliani autentici che
spacciano (è il caso di dirlo perché inducono alla dipendenza) prodotti siciliani doc. I cannoli e i
gelati che si mangiano lì – ve lo garantisco – li potete trovare soltanto ad Agrigento. Per quanto
riguarda la città, è da parecchio che mi riprometto di farci un giro, ma non ne ho ancora avuto
l’occasione. Credo meriti una visita. Oggi, dovendo aspettare un’ora, ho percorso viale Carducci
dove purtroppo, essendo lunedì, la pasticceria era chiusa e, dopo aver attraversato la strada, ho
risalito i gradini che mi hanno portato in piazza Giovanni Battista Cima.
C’erano degli operai che stavano attrezzando gli spalti in vista di una qualche manifestazione. Una
specie di Dama vivente, mi ha detto una signora, come a Marostica la partita di scacchi. Non
sapendo se e quando, nel dubbio ho cominciato a fotografare. Pensavo proprio che sarebbe stata una
di queste la foto che avrei postato oggi, ma il bello del mio mestiere di fotografo improvvisato è che
le da un momento all’altro le cose possono cambiare. E infatti sono cambiate nel momento in cui,
sotto la pioggia (!), sono sceso a Ponte nelle Alpi dove avevo lasciato il camper, per rifugiarmi,
provvisoriamente, presso la locale Biblioteca Civica.
Finalmente potevo visitare, in piena libertà, la mostra del mio amico Alfonso Lentini intitolata “Il
morso delle cose”. La mostra prende il nome da una sua composizione poetica che ho avuto il
privilegio di leggere qualche tempo fa. Ero curioso di vedere come i suoi versi si traducessero in
una mostra visuale. I “manufatti” di Alfonso – lui li chiama “poesie oggettuali” – nascono da
un’intera vita dedicata ad un lavorio costante, coerente, indefesso, intorno alla Parola e alla
possibilità di oggettivizzarla collegandola alle cose. Le cose di cui Alfonso si occupa sono spesso
degli scarti di lavorazione, avanzi di cantiere, oggetti arrivati al termine del loro ciclo di vita e che
tuttavia, nella sua testa prima, e quindi nelle sue mani, si oppongono al depauperamento, vivono
una nuova vita, riabilitati in quanto oggetti d’arte, espressione di una cocciuta volontà di resistenza.
La foto di oggi coglie un aspetto di questo procedimento creativo. Qui la materia è piegata ad
indagare il rapporto tra Menzogna e Verità attraverso la mediazione della Parola. Un tema alquanto
ostico da trattare in un’opera d’arte, e tuttavia necessario. Un tema al quale guardo con attenzione e
che mi è molto caro. Perché io dico sempre la verità, anche a costo di mentire.
20130611-162 Chissenefrega
Sarà capitato anche a voi di trovare nella buchetta delle lettere un avviso di deposito di dubbia
interpretazione. Forse sono arrivati i documenti che aspettavo, mi son detto. Dal tagliando si capiva
solo che l’addetto era passato e non mi aveva trovato in casa. Bella forza, sono sempre in giro a fare
foto! Così sono andato all’ufficio postale di competenza, che per me è quello di Castion.
L’impiegata, gioviale come al solito, appena m’ha visto mi ha apostrofato: “Cosa mi tocca fare per
vederla signor Fantini… mi tocca farle arrivare una multa!” Una multa? Che multa? Io aspettavo
dei documenti che… “Be’”, fa lei, “di solito con questa busta verdolina…” Sulla busta c’era scritto:
“servizio notificazione atti giudiziari/amministrativi”. Ahi! L’ho aperta. Doppio ahi! Era proprio
una multa. Da parte del comune di Venezia. Cosa avevo da spartire io con il comune di Venezia?
Ho dovuto leggerla fino in fondo per capire. In puro stile burocratese si diceva che in data primo
maggio transitando sul Ponte della Libertà che immette a Venezia avevo superato di cinque km/h il
limite consentito e pertanto a norma di legge dovevo pagare l’ammenda di… ecc, ecc.
Così, amaramente, m’è tornato in mente di quel primo maggio (#121 Una città liquida) che avendo
perso il treno, l’avevo inseguito a lungo per poter raggiungere il mio gruppo fotografico diretto alla
città lagunare. Alla fine c’ero riuscito, ma a che prezzo lo realizzavo soltanto ora. E’ proprio vero
che certi giorni nascono storti e proseguono sotto le insegne della sfiga. Forse bisognerebbe lasciarli
andare per il loro verso quei giorni, non inseguirli come avevo fatto io. Ma forse no. In fondo ero
tornato a casa contento, avevo scattato delle belle foto ed ero stato in compagnia di gente
simpatica… ma sì, in fondo, chissenefrega.
PS
Per la foto di oggi, poiché mi trovavo in quel di Castion, mi sono spostato di poco. Volevo
documentare, finalmente! la villa Miari Fulcis di Modolo, che inseguivo da tempo (#129 Nessuno
nasce imparato). Una buona occasione per testare le capacità della mia nuova Berta.
20130612-163 Bando di Concorso
Se seguite il mio blog ormai saprete che da qualche tempo Berta non è più sola. A farle compagnia
è arrivata una nuova macchina fotografica che in qualche occasione ho chiamato “nuova Berta”. Ma
non funziona, non può durare. Finché non potrò rivolgermi alla nuova arrivata con un nome proprio,
non sarà veramente mia. Sarà sempre un corpo estraneo, un’ospite, un prestito da restituire appena
possibile.
Non crediate che passi il tempo a nominare e rinominare le cose che mi capitano per le mani, ma tra
queste ce ne sono alcune che entrano a far parte della mia vita in modo importante e dandogli un
nome riconosco loro uno spazio, un posto di rilievo. Del resto, che c’è di strano? Non diamo forse
dei nomi agli animali di casa? Chiamiamo Bobi il cane o Pussy la gattina solo per potergli fare le
coccole, perché ci sentiamo meglio quando possiamo esternare il nostro affetto riversandolo su
qualcuno, fosse anche un animale.
Io nomino le cose. Non ogni cosa, s’intende: non convivo con il cucchiaio Renato o la camicia
Francesca, ma ad esempio, e come già sapete, chiamo Fido il mio Camper e Berta la macchina
fotografica. Nominandoli, li accolgo nella mia famiglia, diventano parenti stretti. Io pretendo che
loro facciano la loro parte, che si rendano utili, ma in cambio me ne prendo cura, qualche volta,
perfino, ci parlo.
Ora si è determinata una situazione inedita. Non posso non concedere alla nuova macchina
fotografica lo stesso “status” dell’attuale; è necessario che pure lei entri a far parte della “famiglia”;
in altre parole, devo darle un nome. Per questo chiedo il vostro prezioso aiuto. A partire da questo
momento è aperto il Bando di Concorso per l’attribuzione di un nome alla nuova arrivata. Non ho
suggerimenti da darvi, ma neppure limiti da porvi. Potrete dare il vostro libero contributo
commentando questo e i prossimi post sul blog, via facebook, tramite email, per telefono oppure
“de visu”. Vi garantisco che terrò in debito conto ogni vostro suggerimento, senza snobbarne
alcuno, fermo restando che la scelta definitiva, alla fine, sarà comunque mia.
PS
Entrambe le foto che posto oggi (i post doppi stanno diventando un vizio…) sono state realizzate
con la nuova macchina. Sono andato a fare una passeggiata a San Liberale, ho fotografato la
chiesetta e ve la documento, ma mi dispiaceva non condividere il panorama su Belluno che si
godeva da lassù…
20130613-164 Senza pioggia
Che sia la volta buona? Sarà oggi il primo giorno senza pioggia? Non vorrei parlare troppo presto,
ma sembrerebbe proprio di sì. Sarebbe anche ora. Da almeno un mese non c’è stato giorno che non
ci abbia bagnato il sedere. Non ho i dati dell’Arpav e quindi parlo a braccio tenendo conto della mia
personale percezione, ma ho l’impressione che sia stata tanta, troppa, ben oltre la nostra umana
capacità di sopportazione.
A chi non è capitato di farsi sorprendere da un temporale, da un acquazzone o da un rovescio, se
non da un vero e proprio diluvio? Chi non se l’è sentita addosso, sulla propria pelle, nel proprio
cervello, quell’acqua che veniva giù forte, fitta, torrenziale, a dirotto, a secchi, a catinelle? O
quando sotto forma di moderata pioggerellina o di pioviggine leggera, ci penetrava nelle ossa in
modo costante, continua e uggiosa? A chi, al risveglio, non è cambiato l’umore scorgendo fuori
dalla finestra i segni dell’ennesima giornata sotto l’acqua?
Goccia a goccia, giorno dopo giorno, la pioggia è penetrata nei nostri tessuti vitali arrivando fino ai
meandri più nascosti del nostro cervello inumidito, scavando percorsi inediti tra le sinapsi,
trasformandolo in un malleabile blocco d’argilla e contribuendo, insieme alla crisi economica da cui
siamo tuttora attanagliati, al formarsi di una sorta di sindrome depressiva di massa.
Tra pochi giorni il calendario sancirà l’inizio ufficiale dell’estate. Che estate sarà non possiamo
ancora dirlo. Quel che possiamo dire è com’è stata la primavera. Non basteranno certo questi ultimi
giorni di sole, ammesso che arrivino, per riscattare una stagione che, a essere moderati, potremmo
definire con la emme maiuscola.
Diciamo la verità: la primavera ci ha fregati. Forse ci fregherà anche l’estate, ma nell’uomo, anche
il più scettico, alberga la speranza che le cose possano cambiare, che non sarà così per sempre, che
il domani sarà diverso e sicuramente migliore. Così ci attacchiamo ad un raggio di sole per tirar
fuori tutta la nostra allegria, la nostra voglia di vita, il nostro desiderio di benessere. Come i gitanti
che questa mattina ho incrociato a Lambioi sull’argine del Piave. Un posto davvero fantastico per
asciugare membra, ossa e cervello al primo sole vero.
20130614-165 Il libretto di istruzioni
Ho cominciato a ricevere alcuni suggerimenti, sia pubblici che privati, circa il nome da dare alla
mia nuova macchina fotografica e vi ringrazio. Il concorso, in cui non si vince niente se non la
soddisfazione di averci partecipato, è ancora aperto. E rimango aperto anch’io ad ogni vostra
indicazione. Nel frattempo, per farla più mia sto leggendo avidamente il libretto di istruzioni.
L’handicap è che lo leggo dal video.
Tutto nasce dal fatto che l’acquisto l’ho fatto online tramite un importatore inglese, e non ho la
minima idea di come questo si sia procurato l’oggetto dei miei desideri. Oggi la merce viaggia
attraverso le vie più traverse. “E’ la globalizzazione, bellezza. La globalizzazione! E tu non puoi
farci niente. Niente!” direbbe Humphrey Bogart se vivesse i nostri tempi.
Io so soltanto che aprendo il pacco contenente la macchina fotografica ho trovato dei libretti di
istruzioni scritti in cinese, in coreano, in giapponese e in inglese. La mia conoscenza delle lingue
orientali è, lo confesso, piuttosto scarsa. Per fortuna c’è l’inglese. Per fortuna per modo di dire
perché il mio inglese è rimasto quello scolastico contaminato da tutti i corsi più o meno interattivi
che ho iniziato e mai finito. E sono stati parecchi, ve l’assicuro – a testimonianza della mia buona
volontà o della mia scarsa applicazione – a partire da quelli registrati su degli antidiluviani nastri
magnetici, per arrivare a quelli più recenti su CD o addirittura online, ma tutti regolarmente
interrotti dopo poche lezioni. Per intenderci: se mi dicono che “the book is on the table”, ok, li
capisco, ma se spostano il book da qualche altra parte, comincio ad avere dei problemi. Voi capite
che con questa po’ po’ di preparazione anche il libretto in inglese, per quanto interessante, risulta
poco utile.
Sicché non ho potuto far altro che scaricare dalla rete – e per fortuna l’ho trovata! – una versione in
formato “pdf” del libretto di istruzioni italiano. E ho cominciato a leggerlo. Non so voi, ma
personalmente trovo la lettura dal video molto stancante. Lo leggo a piccole dosi, ogni giorno un
po’ perché già dopo un quarto d’ora gli occhi mi vanno in pappa, salto le righe e non riesco più a
distinguere un carattere dall’altro. Ma non saranno queste piccole avversità a fermare la marcia di
un grande fotografo…
PS
l’immagine di oggi non c’entra nulla con il libretto di istruzioni tranne per il fatto che essendo
ancora indietro con la lettura del medesimo, nel frattempo continuo a scattare anche con la mia
vecchia e fedele Berta. Questo scatto è suo e viene da una chiesetta alla “periferia” di Orzes
(speriamo non si risenta nessuno) guardando verso i Monti del Sole.
20130615-166 Le giostre
Continuo a ricevere indicazioni e suggerimenti circa il nome da dare alla nuova macchina
fotografica. Vi ringrazio per i vostri sforzi, ma francamente ho l’impressione che ancora non ci
siamo. Non è scattata quella scintilla che potrebbe farmi dire dire: eccolo, è lui, è questo qui! Ma
non dispero perché, memore di antiche saggezze, so perfettamente che l’unione fa la forza. Sono
certo che prima o poi, col vostro aiuto, il nome arriverà. Perché sarà anche vero che uno vale uno,
come usa adesso, ma tutti assieme si vale molto di più. Qualcuno glielo vada a dire, al guru stellato.
Ma torniamo a noi. Complice il sabato sono calato in città per il mercato. Dovevo comperare un
mestolo e un cappellino da sole. Per il mestolo non c’era alcuna urgenza, potevo anche
soprassedere; non così per il cappellino. Poiché il tempo (udite, udite…) versa decisamente al bello,
il sole picchia duro ed io, che sono di cervice delicata (leggi: quasi pelato… o meglio: diversamente
pettinabile…), mi devo difendere. Ecco perché quest’ultimo articolo mi stava particolarmente a
cuore.
Al parcheggio del palasport mi sono subito accorto che qualcosa non andava. Tutti i posti a
pagamento erano occupati. “Figurarsi quelli gratuiti”, mi sono detto. La ragione mi si è palesata
dopo pochi metri. Tutto il piano sopraelevato della zona riservata ai parcheggi gratuiti era stata
occupata dai giostrai. Lo sapevo, avevo visto i manifesti, ma me ne ero completamente dimenticato.
Più che altro per inerzia, il camper procede da solo; sono convinto che dovrò invertire la marcia
e andare a trovare un posteggio da qualche altra parte. E invece no. Ci sono almeno una decina di
posti inspiegabilmente liberi nella zona gratuita lasciata sgombra dalle giostre. Non riesco a
capacitarmi, ma sono felice. Alle volte basta veramente poco a rendermi felice.
Ovviamente posteggio e, non è neanche il caso di dirlo, riverso le mie attenzioni fotografiche sulle
giostre. Il cappellino, lo prenderò dopo, non mi brucerò per questo, ed il mestolo, be’ il mestolo
posso anche farne a meno, non brucerà neppure il sugo.
20130616-167 La rivincita del cavallo
Stamattina, appena uscito dalla doccia, mi sorprende un rumore, una sorta di calpestio, ma più forte,
che non riesco a definire. Sarà un gregge, penso. A volte capita che passino proprio di qui, sulla
strada davanti a casa. Prendo in fretta un accappatoio e mi affaccio. Altro che gregge: sono cavalli,
una teoria infinita di cavalli, con tanto di cavalieri ed amazzoni a tirare le redini. Corro a prendere la
macchina fotografica e mi precipito sul terrazzo.
Dalla strada si sono accorti di me e qualcuno accenna dei saluti. Punto la macchina fotografica, ma
non vedo niente. “Il tappo”, mi gridano, “togli il tappo”. Cristo, che figura! nella concitazione me
l’ero scordato. Lo tolgo e inizio a scattare. I cavalieri formano un tutt’uno con il loro cavalli. In
gruppi di due o tre occupano una corsia della strada; procedono rilassati, a passo di marcia,
chiacchierando e guardandosi attorno. Dalla strada lo zoccolio dei cavalli sommato al
chiacchiericcio dei cavalieri sale verso di me sotto forma di allegra sarabanda.
Non smettono più di sfilare. Ma quanti sono? Saranno un centinaio, no, molti di più. Quando sono
passati tutti passa un furgone con delle spazzole rotanti che raccoglie le deiezioni dei cavalli.
Accidenti che organizzazione! Ma chi sono? La decisione è presa in un istante: andavano verso
Belluno, ci vado anch’io… Mi vesto di furia e li inseguo con il camper.
Davvero una gran bella idea! Visto che loro proseguono alla stessa velocità di un corteo di
metalmeccanici, mi ritrovo ben presto in coda insieme ad un milione di altre auto. E’ da quando
andavo al lavoro che non mi capita più! Si procede lentamente. A tratti, dalla strada, nonostante il
furgone netturbino, si leva un tenue, non sgradevole, odore di stallatico.
PS
la manifestazione, ho poi scoperto, era organizzata dall’associazione trichianese “Natura a
cavallo” che in occasione del 25° della sua fondazione ha organizzato a Belluno (sede logistica a
Trichiana) il XII raduno nazionale. Erano presenti circa duecento cavalli e altrettanti cavalieri
provenienti da ogni parte d’Italia.
La foto di oggi mostra una coppia che cavalca percorrendo via Mezzaterra. A me sembra che
contenga un messaggio vagamente nostalgico, forse utopico. I cavalli hanno un sapore antico, ci
parlano di un tempo passato in cui il rapporto tra l’uomo e la natura era più ravvicinato e spontaneo
di quanto sia oggi possibile. L’utopia consiste nel credere possibile la coesistenza tra il mondo
artificiale costruito dagli uomini e quello millenario della Natura.
20130617-168 Lo spazio vitale
Due parole per spiegare la genesi della foto di oggi. Dovendo andare a Sedico prendo per la Sinistra
Piave. Sul ponte San Felice mi scappa l’occhio sul fiume e vedo che c’è gente che sta bellamente
prendendo il sole. “Beata lei”, penso, ma poi mi viene voglia di andare a vedere più da vicino. Il
mio impegno può ben aspettare una mezz’oretta.
Posteggio e, ripercorrendo il ponte a piedi, mi affaccio al parapetto per guardare di sotto. In effetti
ci sono delle persone, non molte a dire il vero, che prendono il sole. C’è un uomo e una donna,
entrambi di una certa età, forse marito e moglie, probabilmente pensionati; ci sono due ragazze che
potrebbero essere amiche, sorelle o qualsiasi cosa; c’è una giovane mamma col proprio bambino; e
una signora sola. In totale quattro diverse unità.
La cosa curiosa è che ciascuna di queste unità – se vogliamo continuare a chiamarle così – si è
sistemata cercando di mettere la maggiore distanza possibile rispetto all’unità più vicina. Viste
dall’alto formano un quadrilatero di almeno duecento metri di lato. Chissà quali considerazioni
interessanti si potrebbero fare – avendone gli strumenti – partendo da questo semplice dato. D’altra
parte mi viene da pensare a Rimini, dov’ero stato qualche tempo fa e dove la gente si mescola con
grande e reciproca soddisfazione. Con qualche piccolo effetto collaterale però, se è vero che in
spiaggia, tra una sdraio e l’altra, lo spazio vitale è di circa un metro… ma questa è un’altra storia.
Un centinaio di metri dopo la fine del ponte lo sguardo mi cade su un albero e un campo seminato a
pannocchie. Nell’insieme formano una configurazione interessante, che vi propongo come post di
oggi.
20130618-169 Un percorso lungo una vita
A prendersi cura dei quattro peli che mi restano in testa ho eletto un barbiere di Cavarzano. Proprio
perché ormai sono rimasti in pochi, pretendo che siano trattati bene. Tagliatori di scalpi ce ne sono
in giro tanti, ma lui, il barbiere di Cavarzano, è stato l’unico che alla mia richiesta: “me li lasci
abbondanti sopra le orecchie” non abbia riso. E’ bello sentirsi capiti.
Questa mattina la sua bottega era già piena. Dopo il riposo del lunedì ed in vista dell’estate, un
sacco di gente va dal barbiere. “Vengo più tardi”, gli ho detto, e mi sono guardato un po’ in giro per
capire dove avrei potuto scattare le mie foto. Dopo aver camminato per qualche centinaio di metri,
mi attira il vociare intenso che proviene dal cortile di un asilo. I bambini stanno facendo ricreazione.
Giocano e corrono senza stancarsi. Perché dovrebbero? Hanno energia da vendere.
In situazioni come questa tendo ad immedesimarmi. Penso al bambino che ero e mi vedo inseguire i
compagni o farmi inseguire da loro, urlando come l’ultimo del Mohicani. E guarda adesso come
sono diventato: un sobrio signore di mezza età (a proposito, quando finisce la mezza età?) con due
macchine fotografiche al collo che gioca come un bambino avendo smesso, da un pezzo, di esserlo.
E’ incredibile come passino, inesorabili, gli anni. Solo ieri ero uno di questi bimbi, ed oggi…
Mentre mastico questi pensieri mi accorgo che sullo sfondo si affaccia, severo, l’edificio della Casa
di Riposo Maria Gaggia Lante. In un attimo mi trovo la Berta in mano: miro, inquadro e scatto. Mi
pare che ci sia un percorso in questa foto. Per questo mi piace. L’asilo e la casa di riposo sono
praticamente confinanti, eppure così distanti nel tempo! Qualcuno di questi bimbi che oggi corre e
schiamazza, è destinato a finire lì, in quell’edificio, ma ci vorrà una vita e chissà quali vicissitudini
per arrivarci…
20130619-170 L’ultima rosa
Anche se la primavera formalmente sussiste, in realtà l’abbiamo già archiviata. Complice il caldo
che finalmente è arrivato, ma colpa anche della primavera stessa che, quest’anno, non si è fatta
particolarmente apprezzare. Anzi. Chi fino a ieri chi si lamentava del troppo freddo ora può
lamentarsi del troppo caldo. Questo è il tempo che viviamo.
Le dinamiche del periodo si ripetono uguali tutti gli anni. Dopo aver attraversato la primavera più
pazza del secolo prepariamoci ora ad affrontare l’estate più secca, o più torrida, o più quello che
volete voi… Nei telegiornali hanno già cominciato a tempestarci di saggezza: meglio vestirsi
leggeri, bere molta acqua ed evitare di praticare attività sportive nelle ore più calde. Grazie, vale la
pena pagare il canone per godere di consulenze tanto preziose…
Intanto le scuole, tranne per chi ha degli esami da fare (auguri!), sono ormai chiuse, e quello che noi
tutti vogliamo davvero è voltare pagina e goderci le prossime meritatissime ferie, foriere di riposo e
distensione. Sarà davvero così? Riusciremo a riposarci e a dimenticare gli affanni? Il clima –
stavolta non mi riferisco a quello atmosferico, ma a quello sociale e politico – non è dei migliori.
Saranno molte le aziende che al rientro dalle ferie non riapriranno i battenti e molte famiglie si
aggiungeranno al già folto esercito dei precari. Continueremo a pensare che non tocca a noi? Eh già,
con tutta la gente che c’è, perché dovrebbe toccare proprio a noi? Ma se toccasse a noi?
PS
Camminando tra i giardini e gli orti, questa mattina, mi sono imbattuto in questa rosa. Ce n’erano
anche altre, ma questa mi ha colpito perché svettava solitaria e austera sopra le altre e mi pare che,
da sola, rappresenti l’intero rosaio, e forse anche qualcos’altro. Una rosa, rossa. Chissà com’era
bella qualche tempo fa; ora mostra tutti i segni del tempo: è ancora bella, ma di un bello
malinconico, come una signora matura che, davanti allo specchio, constati i guasti provocati dal
tempo. Una rosa, una signora matura, una vecchia Nazione con un grande passato e un nebuloso
avvenire. Questi, i tempi che viviamo.
20130620-171 La foto sbagliata
Non credo capiti tutti i giorni che un fotografo, o aspirante tale, metta sul proprio blog una foto
sbagliata. Io lo faccio oggi. Non sono un anticonformista a tutti i costi, non cerco di stupire, è,
invece, un gesto di umiltà. In qualche modo, con questo atto, riconosco la necessità di uno “stop and
go” o, per dirla alla nostrana, di una mia necessaria rifondazione fotografica.
Tutto nasce dal fatto che da qualche tempo la mia vecchia e gloriosa Berta mi andava stretta.
Intendiamoci, è una macchina fantastica, che mi ha dato, mi dà e penso mi darà ancora in futuro,
delle grosse soddisfazioni ma, finalmente trovo il coraggio di confessarlo, si tratta pur sempre di
una “bridge”, una macchina “ponte” tra la fotografia di consumo e quella professionale.
La nuova nata, cui tra l’altro, presto dovrò dare un nome (aspetto i vostri suggerimenti…), è invece
una vera reflex. Non il top della gamma, che non mi potrei permettere, ma una dignitosa soluzione
intermedia. Il problema nasce dal fatto che le prime foto scattate con la reflex, sono tutt’altro che
soddisfacenti. Luci eccessive che azzerano i dettagli o, al contrario, bui profondissimi che li
occultano. Nel mezzo, qualche foto azzeccata, il cui criterio sembra tuttavia rispondere a logiche
che non sempre corrispondono ad una mia precisa e consapevole volontà.
Dove sto sbagliando? Con questa domanda in testa questa mattina ho suonato il campanello del mio
guro fotografico. L’ho trovato al lavoro, come al solito. Stava sottoponendo a revisione le foto
scattate di recente in occasione del raduno nazionale del gruppo “Natura a cavallo”, di cui pure io
mi sono occupato (#167 La rivincita del cavallo). Naturalmente trovava difetti in fotografie che per
me erano assolutamente perfette.
Abbiamo parlato a lungo, di tecnicalità e di creatività. Un discorso serrato fatto di confuse
domande, le mie, e di risposte sempre puntuali, le sue, al termine delle quali sempre più prendevo
coscienza di quanto fossi distante dalla padronanza di un mezzo, la macchina fotografica, che
credevo di dominare con qualche disinvoltura. Lui parlava ed io bevevo il suo verbo; presi dai
rispettivi ruoli non ci accorgevamo, né io né lui, di come il tempo stesse passando.
Alla fine, poiché era tardi e la mattinata volgeva al termine, mi ha concesso di scattare dal suo
balcone la foto del giorno. Quella che pubblico oggi è la foto più sbagliata tra quelle che ho scattato,
ma la pubblico ugualmente come promemoria, qualora avessi l’ardire di credermi un fotografo, del
fatto che la strada sarà ancora molto lunga e, forse, non avrà mai fine.
20130621-172 Il primo di diecimila
La foto che ho pubblicato ieri ha suscitato qualche minimo dibattito. Il più critico, giustamente, è
stato il mio prof. il quale, senza mezzi termini, ha sentenziato: “L’inquadratura è felice,
l’esposizione meno”, per poi correggersi in un post successivo con un giudizio molto meno
diplomatico: “Foto decisamente sbagliata!”. Sono d’accordo con lui. Qualcun altro mi ha fatto
notare che, anche se l’esposizione era sbagliata, il risultato complessivo non era del tutto banale.
Insomma, l’immagine poteva essere classificata come “interessante”. Concordo anche con questo
giudizio.
Poiché tendo a conciliare gli opposti qualcuno potrebbe pensare che sono il classico “paraculo”.
Magari un po’ lo sono, ma non del tutto. Per la parte in cui non lo sono, mi muove l’idea che ogni
arte ha le sue regole le quali sono in genere codificate, conosciute e largamente condivise. E tuttavia
non vi è movimento artistico che non sia nato da una rottura rispetto alle regole precedenti. E’ stato
così per secoli, fino ai giorni nostri. E la fotografia non fa certamente eccezione.
Cosa voglio dire? Che sono il capofila di un nuovo movimento? Non diciamo sciocchezze! Non
pensatelo neppure per un istante. Sono passati solo pochi mesi da quando ho “subìto” il mio ultimo
corso e sono ben lontano dall’aver imparato anche solo l’ABC di quel che c’era da imparare.
Praticamente sto alle aste! Voglio dire, invece, una cosa diversa.
Quando avvertirò la mia macchina fotografica come una parte di me stesso: come fosse il mio
gomito, la mia spalla o il mio fegato, e la userò facendo ogni cosa in modo giusto senza pensarci su,
senza riflettere; quando avrò buttato alle ortiche, senza rimpiangerli, i miei primi diecimila scatti,
allora, e solo allora, mi porrò il problema di violare coscientemente le regole. Solo allora mi sentirò
libero di “cercare” un’immagine “interessante” alterando deliberatamente qualsiasi parametro,
esposizione compresa. Magari otterrei una foto identica a quella postata ieri la quale, tuttavia, per
come è nata non vale niente, è un’immagine sbagliata, frutto di un errore e del caso, mentre l’Arte
non è mai casuale è, piuttosto, un percorso consapevole, un viaggio che si propone una meta, un
obiettivo che si sposta più in là.
PS
Lo scatto di oggi – una veduta del Piave dal Ponte della Vittoria – non è che il primo di quei
diecimila scatti che mi propongo di fare nel rispetto delle regole, per padroneggiarle, e poterle poi
violare in assoluta libertà e consapevolezza.
20130622-173 All’improvviso
Le cose cambiano in fretta intorno a noi, ma molto spesso, presi dalle nostre faccende quotidiane,
non ce ne accorgiamo. Poi accade qualcosa, o magari non accade niente, solo che guardandoci
attorno un po’ meglio ci rendiamo conto, “all’improvviso”, che la realtà ha fatto uno scarto, che è
più avanti di dove l’avevamo lasciata soltanto poco tempo prima.
Una cosa del genere mi è successa ieri quando, su indicazione di un amico, sono entrato in un
negozio nuovo – nuovo per me, s’intende, in verità non ho idea di quando l’abbiano aperto – gestito
da cinesi dalle parti della Veneggia. Si tratta di un grande magazzino, ma solo nel senso che è
grande e che c’è dentro talmente tanta roba da dare l’idea di un magazzino. La parola migliore per
definirlo sarebbe “bazar”. E infatti vi si trova di tutto, dalla rete per acchiappare farfalle alla risma
di carta, dalla canottiera ai giochi per bambini, dai sandali al bricco del latte, e un sacco di altre cose
che non ti aspetteresti di vedere accostate insieme.
Mentre osservavo la merce esposta ho colto qualche brano di conversazione tra un paio di
commessi e un tale che pareva essere il grande capo. Tutti rigorosamente cinesi eppure, tra loro,
parlavano la nostra lingua.
La stessa sensazione che qualcosa fosse avvenuto a mia insaputa, l’ho avuta stamattina quando,
dopo aver parcheggiato il camper, alzando lo sguardo ho incrociato quello di una donna nera che
stava stendendo dei panni. “All’improvviso” ho compreso che quell’atto per certi versi così normale,
era in realtà l’ultimo di una serie che avevano portato quella donna ad essere lì, piuttosto che nel
suo Paese, in quel terrazzino bellunese, a stendere i propri panni. Dietro quel gesto ho percepito una
storia: il dolore di una lacerazione, il vuoto dell’abbandono, la speranza di una rinascita e il
desiderio di integrazione. La voglia di normalità.
Al mercato, un tempo gli stranieri stavano per lo più dietro il banco, dalla parte del venditore. Oggi
stanno dal nostro stesso lato, come noi percorrono i corridoi tra le bancarelle con l’intento di fare
acquisti. Osservano la merce, trattano il prezzo, fiutano la bufala o l’affare, comprano, pagano e
portano a casa. Proprio come noi.
Cos’è successo a mia insaputa? Che l’Italia, da luogo di emigrazione si sia via via trasformato fino
al punto da attirare masse ingenti di immigrati, non è una novità. Sono anni che gli stranieri
provenienti dai paesi dell’Est o dal Nord Africa, arrivano nel nostro Paese. Quello che è successo è
che oggi questi stranieri mi sembrano un po’ meno “stranieri”. Non sono cambiati loro, è evidente,
sono io che ho maturato nei loro confronti un atteggiamento diverso.
Per qualche misteriosa alchimia, invece di percepirli come “altro da me” com’è stato finora,
“all’improvviso” mi sento empaticamente dalla loro parte. Dalla parte di gente che ha patito ed ha
dovuto tirar fuori tutta l’energia di cui era capace per superare ogni sorta di avversità ma che,
nonostante tutto, guarda al nostro Paese con fresca speranza. Quell’energia, quella speranza, quella
freschezza che noi italiani stiamo invece perdendo.
20130623-174 Ce l’ho!
Ce l’ho!
Il nome della nuova macchina fotografica finalmente ce l’ho. Ringrazio tutti coloro che si sono
adoperati, e sono stati tantissimi, per fornirmi le loro indicazioni. Vi garantisco che su ogni nome
che mi è stato suggerito mi sono impegnato a ragionarci su, a farlo diventare mio. Alcuni erano
semplici, lineari e schietti, come Camilla e Mafalda, altri più impegnati e ricchi di riferimenti come
Geltrude, Gerda o Zelda, altri decisamente più prosaici, come Bertolda e Jolanda. Non posso
elencarli tutti, ma su tutti ci si potrebbe fare un ragionamento. Però… Però, come ha sostenuto la
mia amica Laisa e come io stesso ho alla fine compreso, pur tenendo doverosamente conto di ogni
suggerimento, la scelta non poteva che essere una scelta personale. E così è stato.
La mia prima macchina, Berta, aveva preso il nome dalla pistola di Philip Marlowe. Mi pareva che
il grilletto della pistola potesse in qualche modo essere assimilato al pulsante della fotocamera.
Ogni clic, uno sparo, ogni clic, una foto. Berta non era forse la mia arma? Ho sperato che lo stesso
criterio potesse essere adottato per nominare anche la seconda macchina fotografica, così partendo
dalla pietra e passando per la fionda, l’arco, la spada, l’alabarda, il moschetto, l’archibugio, la
carabina, il cannone, sono approdato alla mitragliatrice e all’obice. Mi ci sono arrovellato per giorni
senza approdare ad alcunché di utile. Finché non ho completamente abbandonato questo genere di
ricerca.
La soluzione è arrivata da sé, quasi per caso, riflettendo su quanto ormai la fotografia riempia le mie
giornate al punto da essere diventata quasi una droga, qualcosa di cui non riesco più a fare a meno.
Come quando fumavo ed ero dipendente dalla nicotina. Questa parola: “Nicotina”, ha fatto trillare
dentro di me un campanello. Giacché, mi perdonino i canonisti, la mia nuova macchina è una Nikon
e visto che la prima parte del nome, “Nico” poteva echeggiare la marca, non restava che trovare un
senso alla seconda parte, a quel “tina” che chiude il termine, ma questo è stato facile. Tina è un
nome proprio. Per esempio della Bellunese (di Trichiana, per l’esattezza) Tina Merlin, comunista,
giornalista, che si è distinta nel denunciare il groviglio di interessi che ha causato il disastro del
Vaiont. Ma Tina è anche Tina Modotti, anch’essa comunista, attrice e fotografa di fama
internazionale. E, per finire, Tina è anche il nome di mia madre. Ora che non c’è più, non mi
dispiace ricordarla associandola ad un passatempo, la fotografia, che riempie così tanta parte delle
mie giornate.
PS
La foto di oggi è stata scattata all’ingresso dell’abitato di Villiago, un posto in collina che, quando
c’è sole come oggi, sembra un pezzetto di Toscana.
20130624-175 Ventun gradi (di differenza)
No, stamattina non ce l’ho fatta. So di attirarmi gli strali di quelli che lo fanno tutti i giorni, e senza
tante storie. Ma è diverso! Io ci ho provato a uscire di casa, ve lo giuro, ma ero in pantaloni corti,
canottiera e sandali e nel breve percorso per arrivare al camper oltre ai suddetti, mi sono bagnato
anche l’anima. Ho capito subito che era meglio cambiare programma. Non ce l’ho più il fisico per
andare a fotografare sotto la pioggia. Come diavolo facevo quest’inverno? Quando c’era addirittura
la neve? Bah, di sicuro non vestivo con la canottiera e i sandali. Oltretutto mi è scoppiato un
raffreddore fetente, di quelli con la goccia perennemente appesa al naso. Dove vado con questo
tempo? Recupero l’ombrello, il treppiede, e me ne torno a casa.
Questa breve uscita mi ha infreddolito. Per curiosità vado sul balcone a vedere cosa dice il
termometro. Diciannove gradi? Ma se ieri, sotto il sole, si capisce, il termometro urlava quaranta!
Ventun gradi di differenza; così, da un giorno all’altro. Non è mica normale… No, no, io oggi non
mi muovo di casa. Vorrà dire che i miei “clienti”, oggi, dovranno accontentarsi di una foto d’interni.
Lascio Berta a riposo. La fatica gliela faccio fare tutta a Nicotina, la neo nata. Sarà un’ottima
occasione per verificare se l’obiettivo che ho comprato per lei è veramente luminoso come dicono.
Lascio le luci spente, mi limito a scostare un po’ le tende per far entrare quella del giorno. In casa
non ho niente che valga una foto, tranne, forse, il mio ambiente di lavoro. Sia chiaro che dico lavoro
senza malizia, è solo un modo convenzionale di esprimersi, così, tanto per capirsi.
Non ci vuole una grande preparazione: basta lasciare più o meno le cose come stanno. Il tavolo in
sala svolge la duplice funzione di tavola da pranzo e scrivania da lavoro. Per fortuna si può
raddoppiare ed io lo tengo sempre aperto, al centro della stanza, ma appoggiato al muro sul lato
minore. Sopra ci metto tutto quello che mi serve, soprattutto il computer con il quale mi collego al
resto del mondo, qualche libro che leggo o sbircio e un blocco per gli appunti. Nel corso della
giornata il tavolo via via si riempie di ogni sorta di ammennicoli. Tutto quello che mi passa per le
mani, in attesa di improbabili riordini, finisce lì sopra. Sicché a pranzo o a cena, se voglio stendere
un paio di tovagliette, spesso, e senza tanti complimenti, devo ammassare tutto quanto in un angolo.
La foto di oggi – spero apprezziate lo sforzo – mostra un tavolo abbastanza sgombro e il sottoscritto
che, nonostante i meno ventuno da ieri e la goccia che gli cola, sembra in piena attività. In realtà
sono un attore nato. Riesco a far finta di essere impegnato in ogni situazione. E’ un retaggio di
quando lavoravo…
Fuori dall’inquadratura rimangono i fazzoletti di carta appallottolati che traboccano dal cestino,
mentre, appesa al muro, una bandiera stinta testimonia del mio antico patriottismo e un ventilatore,
ahimè fermo, ricorda i giorni caldi che ci siamo lasciati alle spalle.
20130625-176 Tra la terra e il cielo
Come spesso accade, dopo la pioggia di ieri e il forte calo della temperatura, la giornata di oggi si è
aperta all’insegna del bel tempo. L’aria era deliziosa, la temperatura perfetta e il cielo, be’, in questi
casi si usa dire che era terso, ma per me era molto di più, era una vera e propria gioia per gli occhi.
Sono uscito di casa con la voglia di testimoniare il mio stato d’animo.
Non è facile rappresentare le proprie emozioni attraverso una foto, anche perché le emozioni sono
sempre qualcosa di molto personale e non è detto che, nella stessa situazione, tutti provino gli stessi
brividi. Ma qualcosa in comune ce l’abbiamo tutti: è il substrato su cui si edifica la nostra comune
umanità. In fondo siamo tutti degli attori che vivono tra la terra e il cielo come tra le quinte di un
teatro. Siamo legati alla terra perché ci ospita, perché qui si rivelano le nostre tradizione più
feconde, troviamo le nostre radici e prendono sostanza i valori in cui crediamo; ma aspiriamo al
cielo perché è il motore dei nostri sogni, perché ci apre all’infinito, perché nel cielo si esprime la
nostra voglia di pace e l’inappagata aspirazione all’eternità. E dunque spero mi capiate se dico che
questa mattina, quando mi sono trovato con questo spettacolo davanti agli occhi – tra la terra e il
cielo – be’, sì, un tantino mi sono emozionato…
20130626-177 Inseguendo una nuvola
Una pizza probabilmente non ben lievitata ha deciso di completare la lievitazione nel mio stomaco
disturbandomi la digestione ed il sonno. Dopo essermi ribaltato per ore e aver sognato cose turche,
questa mattina, bianco come un cencio, mi sono alzato che saranno state le cinque.
Da casa sono uscito molto presto, senza saper bene dove andare. Mi sono messo ad inseguire una
nuvola che, vista da lontano pareva posteggiata sopra il Piave di San felice. Ma la prospettiva era
ingannatrice e, una volta arrivato al ponte, la nuvola, quasi prendendomi in giro, stazionava a bassa
quota sulla pedemontana tra San Gregorio e Sospirolo. Poteva essere un altro miraggio, ma era
ancora presto, gasolio ne avevo in abbondanza e dunque potevo permettermi di cincischiare.
Nella mia marcia di avvicinamento la nuvola prendeva corpo, si dilatava sempre di più e già – a
tratti – nascondeva alla vista il Pizzocco. Che avrei fatto se, ad un certo punto, ci fossi finito dentro?
Il bel cielo azzurro che ci stava intorno potevo sognarmelo e allora addio foto, non mi sarebbe
restato che invertire la marcia e tornare a casa. E invece la nuvola ha fatto la brava: occupava la sua
posizione a mezza costa come fosse inchiodata e non manifestava alcuna intenzione di spostarsi.
Sulla strada il cartello che indicava Maras mi ha fatto sorridere: ho pensato che poteva essere il
nome di un rivoluzionario francese, uno dei tanti ghigliottinati da Robespierre, prima che lui stesso
facesse la stessa fine. Poi mi è venuto in mente che a Maras doveva esserci una villa, la villa SandiZasso. Me ne avevano parlato. Era da un po’ che volevo vederla e questa poteva essere l’occasione.
Chiedo ad una signora che sta passeggiando con un cane e ricevo le indicazioni che cercavo.
Temevo che la nuvola me l’avesse inghiottita invece la trovo subito. La nuvola staziona qualche
centinaio di metri più in alto e non è di nessun disturbo, anzi. Arrivo da dietro, posteggio e vado in
esplorazione. Ad aspettarmi non c’era nessuno. Cioè no, non è esatto. C’è un cancello rosso sul lato
destro della costruzione. E’ per metà aperto e nel bel mezzo troneggia un gatto bianco dagli occhi
chiari. Cammino adagio per non farlo scappare, ma quello non ha nessuna paura di me, anzi, ad un
certo punto mi si fa incontro. Lo coccolo un po’ e lui si strofina come se non avesse aspettato altro.
Riprendo la perlustrazione. Giro intorno alla villa, poi prendo coraggio ed entro nel giardino. Non
incontro nessuno, ma il gatto è diventato la mia ombra. Mi segue, mi precede, mi aspetta. Sembra
farmi da cicerone. Avessero a Pompei una guida così!
PS
La villa mi è piaciuta molto e Nicotina, la mia nuova macchina fotografica, si è comportata bene.
Sarebbero così tante le foto che vorrei condividere con voi che proprio non riesco a selezionarle una
soltanto, perciò ne pubblico addirittura tre. Nella prima c’è la villa ma, se osservate bene, in basso a
sinistra, c’è un gatto bianco; la seconda mostra il panorama che si vede da lassù: bellissimo. La
terza l’ho riservata proprio a lui, il mio immacolato mentore a quattro zampe, non è carino?
20130627-178 Un istintivo di buon senso
Uscendo dal parcheggio di casa non avevo ancora deciso se sarei andato a destra verso Limana o a
sinistra verso Belluno. Se di trattasse di una scelta politica non avrei dubbi, ma da un punto di vista
geografico-topologico, se non devo andare necessariamente in qualche posto, destra o sinistra si
equivalgono. Alla fine sono andato a sinistra perché da destra stava arrivando un’auto che avrebbe
potuto infastidirmi nella manovra.
Percorrendo il ponte Bailey la scelta destra-sinistra si è riproposta pari pari. Quale uscita avrei preso
una volta entrato nella rotonda? Anche questa volta la decisione è stata semplice e istintiva: per
l’ennesima volta ha prevalso la voglia di fare una foto al Ponte della Vittoria da via Alzaia.
Quello di via Alzaia è un punto di sosta che mi piace molto. Il Comune ci ha messo pure un tavolo
con le panche per sedersi e fare merenda. Chissà se qualcuno si sarà mai fermato lì a fare merenda
dal momento che è proibito l’accesso alle auto su tutta l’area. Sennò ti fanno la multa. Forse
bisogna andarci a piedi. Certo che arrivare a piedi con la merenda… Che stupido! E ovvio che
l’hanno fatto per quelli che arrivano in bici. Ci potranno sostare le bici? Boh, non si capisce. Forse
Superman, a patto che arrivi volando… (ma dove la metterà la merenda? avrà una tasca segreta nel
mantello?)
Io la merenda non ce l’ho, ma ho con me “Nicolina”, la nuova macchina fotografica, che smania
dalla voglia di far vedere quello che sa fare. Certo, quel divieto è un problema, ma decido di correre
il rischio. Del resto è un rischio che ho già corso mille volte. Sì, perché di foto del Ponte della
Vittoria fatte via Alzaia ne ho da vendere… Una l’ho pure postata nel blog in aprile (#107
L’importanza e l’urgenza). Ovvio che non potrei postarne una uguale! E allora che ci vado a fare in
via Alzaia? Perché ostinarsi a scattare delle foto che non mi serviranno a niente? E’ una domanda
oziosa, naturalmente. La risposta la so, ma non è una risposta razionale. Da un punto di vista
razionale si tratta di un comportamento insensato. Ma che c’entra? La risposta razionale non è mica
l’unica possibile! Ce ne sono altre che non tengono conto dell’utilità pratica, ma non per questo
sono meno gratificanti. Per crearsi una piacevole consuetudine, ad esempio, per ripetere
un’esperienza positiva, oppure per osservare i mutamenti dovuti al cambio di stagione. Ma pure
queste, a ben vedere, sono risposte razionali. Ad un istintivo di buon senso, categoria alla quale mi
onoro di appartenere, può bastare una sola risposta: perché sì! O, al limite, la sua versione più soft:
perché no?
PS
Le foto del ponte della Vittoria le ho poi messe nel calderone, insieme alle altre. Hai visto mai che
possano servire! Da via Alzaia l’unica via di fuga portava a Borgo Piave. E’ lì che, entrando in una
corte assai caratteristica e un po’ fatiscente, ho scattato la foto del post di oggi.
20130628-179 Il carattere della cappa
Mentre stavo fotografando, stamane, mi sibila il cellulare. E’ il suono che fa quando ricevo una
mail. “Non ora”, penso, e termino lo scatto. Ma il soggetto mi stimola e mi vien voglia di provare
altre combinazioni di tempo e diaframma. Dopo una decina di scatti la mail è completamente sparita
dal mio cervello. Passando vicino all’Insolita Storia e poiché l’ora è quella topica, decido di
premiarmi con un buon caffè.
Dietro il banco c’è Romana con la quale scambio due chiacchiere sul tempo. Nel sedermi al
tavolino metto la mano in tasca, inciampo sul cellulare e mi ricordo. Il messaggio, spedito dal
responsabile del mio SilFanClub (un club di miei sostenitori che ha solo tre iscritti, ma molto
tosti…), dice testualmente:
“Ti avverto che il pc non ha accettato il nuovo nome della tua Nikon e l’ha ribattezzata ‘Nicolina’.
Perché non adotti la variante Nikotina?”
Tutto nasce dal fatto che qualche giorno fa, volendo battezzare la mia nuova macchina fotografica
mi era uscito il nome “Nicotina” (#174 Ce l’ho!). Alfonso Lentini, di professione artista, nonché
amico mio, me l’aveva detto subito: non mi piace, puzza di sigaretta… Naturalmente avevo respinto
la sua osservazione con sdegno: come si permette! E se uno si chiama Nicola lui che fa, non lo
frequenta perché puzza di fumo? E quanto puzzeranno gli abitanti di Nicotera? Ma in cuor mio
sapevo che qualche ragione ce l’aveva. Essendo uno scrittore, Alfonso conosce bene il potere
evocativo delle parole, e non c’è dubbio che le foto scattate con una macchina fotografica che si
chiama “Nicotina” emanano un cattivo odore.
Ma ora il mio piccolo-grande SilFanClub mi salva. Come ho fatto a non pensarci? Basta sostituire
la “ci” con una “cappa” e il lezzo, magicamente, se ne va. Non è forse vero che si attiva la “cappa”
quando si vogliono convogliare i cattivi odori verso la canna fumaria? Potenza evocativa delle
parole! Ma questa cappa non finisce di stupire, ha un “carattere” davvero speciale, lo si capisce da
come punta il piede per terra mentre alza in alto il suo braccio: non pare anche a voi? Guardatela: K
– e ditemi se non è la rappresentazione grafica di un fotografo in posizione di scatto!
Basta. Non servono altre argomentazioni. L’emendamento suggerito dal SilFanClub è accolto e il
nuovo nome della mia nuova macchina fotografica da questo momento in poi sarà: Nikotina.
PS: sentite ancora puzza di sigaretta?
La foto di oggi:
Sono passato per il chiostro dell’agenzia delle entrate proprio nel momento in cui, da un cielo
impastato di grigio, è filtrato un po’ di sole. Nikotina ha fatto del suo meglio per catturarlo.
20130629-180 La ricompensa più bella
Sabato e mercato (quello delle bancarelle, non quello dei banchieri) sono praticamente sinonimi per
me. Nella mia testa l’uno richiama necessariamente l’altro. Così stamattina non sono stato troppo a
pensare e al camper non ho dovuto spiegare niente, sapeva già la strada.
Mentre salgo con le scale mobili, tuttavia, mi assale un pensiero negativo: “cosa credi di trovare, al
mercato, che non sia già stato visto e fotografato?”. La paura di non riuscire a scovare un soggetto
adeguato prende spesso i fotografi. E’ un po’ come, per gli scrittori, la paura del foglio bianco.
Nell’uno e nell’altro caso si parla di “blocco” che, in altre parole, significa mancanza di idee, senso
di inutilità, vuoto interiore, incapacità di esprimersi. Di solito accade per effetto della routine,
quando tutto è già stato visto e detto e la vita ha smesso, ormai da un pezzo, di sorprenderci. “Mio
Dio”, penso, “sono già a questo punto?”.
In effetti comincio ad aggirarmi stancamente tra le bancarelle: la solita gente, i soliti colori, il solito
schiamazzo. Davvero non riesco ad isolare un particolare che valga la pena di fotografare… Sono
preoccupato. Finché non vedo quei due. Cioè, a dire la verità, non vedo loro, vedo le loro mani
intrecciate quindi risalgo lungo gli avambracci fino ad identificare le figure di due persone anziane,
vestite in modo modesto, ma decoroso, che camminano mano nella mano. Passano da una
bancarella all’altra, si fermano stando un po’ discosti dai banchi, guardano la merce, discutono tra
loro, ripartono all’unisono, senza mai staccare le mani.
E allora mi commuovo. Non so dirvi perché, ma mi commuovo. Vedere due persone anziane che, a
dispetto dei loro inevitabili problemi – chi non ne ha? – mostrano di essere così uniti, mi scioglie
qualcosa dentro. Li seguo con discrezione e li fotografo anche, ma da dietro e da distante, cercando
di non riprenderli in viso. Non mi interessa renderli riconoscibili, soprattutto non intendo violare la
loro intesa.
Cose come queste ancora riescono a sorprendermi. Confusamente mi pare che ci sia un messaggio
da cogliere. Un semplice gesto, a volte, può innescare domande fondamentali. Qual è il senso della
nostra vita? Che ci siamo venuti a fare su questo mondo? Scienza e Filosofia ci hanno fornito
qualche risposta: siamo qui garantire la sopravvivenza della specie. La nostra vita è una staffetta e
alla fine della nostra frazione dovremo passare il testimone. Nel frattempo siamo liberi di
interpretare la gara come ci pare: sprecando le nostre energie o concentrandole su qualcosa che sia
vitale per noi o importante per gli altri; il tempo passa comunque. In questo quadro l’Amore, quello
con la A maiuscola, quello – per intenderci – che dopo decenni di convivenza ti fa camminare mano
nella mano tra le bancarelle del mercato, è un dettaglio non necessario. Si sopravvive anche senza e
dunque può anche non esserci. Non siamo venuti al mondo per amare, ma amare, per i fortunati che
ne hanno la possibilità e i pochi che ne sono capaci, può essere la nostra ricompensa più bella.
20130630-181 Il colore rosso
Salivo per la Panoramica stamattina, indeciso a tutto. Fin lì mi ci aveva portato il camper,
praticamente di sua iniziativa, ma era necessario che prendessi in mano le redini della situazione e
decidessi, una buona volta, da che parte andare. La giornata si annunciava splendida. Il cielo di un
blu elettrico appariva qua e là velato da leggere striature. Sotto di me, sulla sinistra, il tratto di Piave
che da Lambioi arriva fino a Limana serpeggiava nel cuore di una folta vegetazione di verdi
cangianti. Sulla destra, ad ogni curva della strada, Belluno si affacciava in modo diverso, con le sue
casette colorate che sembravano tante scatole di fiammiferi svedesi accostate l’una all’altra.
Non c’è niente di meglio di una giornata di sole per esaltare la bellezza di questa città. Questo
pensavo. E intanto pensavo se non valesse la pena fermarsi da qualche parte per scattare qualche
foto. Già, ma come si fa a fermarsi sulla Panoramica? I rari rientri immettono in garage privati,
impossibile sostare. Ho dovuto raggiungere Piazzale Marconi dove, percorrendo l’intera rotatoria,
sono tornato sui miei passi. La cosa migliore, mi son detto, era parcheggiare da qualche parte a
Borgo Piave e risalire su per la Panoramica a piedi. E così ho fatto.
Nel percorrere via Uniera dei Zater per imboccare la Panoramica, tuttavia, l’occhio mi è caduto su
una combinazione di colori dove il rosso la faceva da padrone. La fotografia è fatta anche di questo
e il rosso è uno dei miei colori preferiti. Si ha un bel dire che la purezza è rappresentata dal bianco.
Io dico che è solo una questione di convenzioni. Per me il colore che meglio di tutti evoca la
purezza è proprio il rosso. E la speranza? Sarà mica verde la speranza! Per me anche la speranza è
rossa. E qui non c’entra la politica, ve l’assicuro, e neppure l’etica: è una questione assolutamente
estetica!
Mentre prendevo la mira per scattare la foto, mi sono accorto del semaforo sullo sfondo. Era verde.
Ho aspettato che diventasse rosso ed ho scattato.
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20130601-152 Bianco e nero Il mio vicino di casa mi ha detto che