20130601-152 Bianco e nero Il mio vicino di casa mi ha detto che mentre ero a Rimini qui è sempre piovuto. Ho cercato di consolarlo dicendogli che neppure a Rimini era andata benissimo. Gli ho detto la verità... pur sapendo di mentire. Non sembri un paradosso. Anche lì le previsioni indicavano pioggia, ma non solo non era mai piovuto ma, a tratti, si era sentito un bel sole caldo, al punto che più d’uno tedeschi per lo più - s’era azzardato a buttarsi in acqua. A sentire i riminesi quello di questi giorni era stato un tempaccio, ma è evidente che tutto è relativo. L’unica cosa che posso affermare con certezza è che ieri pomeriggio, appena varcata la sella del Fadalto, mi son dovuto fermare per indossare un pullover di lana. Sette gradi di differenza si sentono, eccome se si sentono. Più che il termostato di casa, sono stati i brividi del rientro a convincermi ad accendere la stufa. Le previsioni per oggi non le avevo guardate: meglio non saperle e quello che viene, viene. Tanto non ho voce in capitolo e sapere in anticipo che pioverà servirebbe soltanto a mettermi in anticipo di malumore. E se poi fosse spuntato il sole… be’, sarebbe stata una gradita sorpresa. E sorpresa fu. Graditissima, come potete immaginare. Il sole delle sette non scaldava molto, ma almeno era sole! E alle nove, quando sono uscito per riprendere la mia vecchia consuetudine di fotoamatore vagabondo, si stava discretamente anche in maniche di camicia. La strada mi ha poi portato in piazza Duomo dove, tra le altre, ho scattato la foto che vedete. PS Non sono un habitué del bianco e nero; forse perché è tipico dei professionisti o di coloro che ritengono di esserlo, me ne tengo lontano. Probabilmente sbaglio, anzi, sbaglio di sicuro: non so se per eccesso di modestia o di snobismo (vallo a sapere da che parte tira l'indole…). Però è vero che ci sono delle foto che “nascono” in bianco e nero e volerle fare per forza a colori significherebbe impoverirle. Non so, vedete voi. 20130602-153 Cronaca dal Vietnam Suono il campanello e, alla signora che si affaccia, chiedo il permesso di lasciare il camper nel suo cortile, “per fare due foto alla Villa Angelini, qui di fianco”. Permesso accordato. Sto imparando che la gente è gentile se ci si rivolge loro in modo gentile. Da tenere a mente. Mi dedico quindi a fotografare la villa. Dopo due o tre scatti però, noto che da una finestra, qualcuno mi osserva. Per quanto ne so potrebbe essere una domestica, ma potrebbe essere chiunque, in realtà. Memore della litigata di qualche giorno fa (#143 La fontana mancata) non ho voglia di imbarcarmi in discussioni analoghe. Facendo ritorno al camper mi viene in mente che lì, proprio lì a due passi, scorre il Turriga, e dovrebbe esserci una bella cascata da fotografare. Decido di andarci. Naturalmente non avevo tenuto in conto le piogge di questi giorni. La stradina che porta al sito è intrisa d’acqua e fango, e tuttavia, facendo un po’ di attenzione, riesco ad arrivare in vista della cascata. Più che vederla - opzione difficile data la folta vegetazione che la occulta - ne avverto il fragore. Adoro il fracasso prodotto delle cascate. Per me che soffro di acufene, è un vero balsamo. Come una crema idratante per la pelle troppo secca, se m’intendete. Volendo scattare qualche foto è d’uopo avvicinarsi. Aggiro il boschetto seguendo la stradina, ma poi la stradina si trasforma in un viottolo finché anche quest’ultimo scompare disperdendosi in un generico sottobosco umido e scuro. Mi avvicino ancora, ma ora devo schivare le piante che mi vengono incontro. La vegetazione è folta e rigogliosa. Per forza, con tutta l’acqua che è caduta! Cammino su un tappeto di arbusti che mi arrivano a mezza gamba. Praticamente non riesco a vedere dove metto i piedi. Pare di stare nel Vietnam. Avete presente Apocalypse Now? Qualcosa del genere. Non manca molto oramai, ma devo stare attento perché il terreno è scivoloso. Mi seccherebbe cadere a terra e sporcarmi di fango. Ma questo sarebbe il meno. Ancora di più mi seccherebbe scivolare fin giù in basso, al livello del torrente. Da dove mi trovo ci sarà un salto di dieci, dodici metri. Non sarebbe igienico finire laggiù troppo precipitosamente. Mi calo dunque con cautela - la fida Berta a tracolla - tenendomi aggrappato ai tronchi e ai rami che riesco ad acchiappare. Nonostante tutta la mia attenzione, ad un certo punto metto il piede su un rametto che non avevo visto e che mi fa perdere l’equilibrio, scivolo e in un attimo mi vedo giù, sfracellato sulle pietre del Turriga, ad ascoltare per sempre il fragore della cascata. In quell’attimo mi passano per la testa un’infinità di pensieri. Penso ai miei figli e al loro dolore per la morte repentina del loro papà. Penso ai miei fratelli che ho appena riabbracciato a Rimini. Penso all’Amore che non cerco più, ma che mi gira intorno da tempo, senza trovarmi. Penso ad una cosa che non voglio dire. Penso infine che è troppo presto per morire. Non so quale di questi pensieri guidi la mia mano fino ad incontrare un’esile pianta di nocciolo. Mi ci avvinghio con la forza della disperazione, col rischio che si strappi, ma invece resiste, mi trattiene, interrompe il mio volo restituendomi il fiato che avevo sospeso. Mi siedo a terra, nel fango, piango e rido contemporaneamente per liberarmi l’anima stretta da una morsa. Sono di fronte alla cascata. Sotto di me, ad una spanna, il Turriga. Aspetto di calmarmi, non voglio che venga mossa. Questa foto mi serve, non solo per il blog, ma per ricordarmi che la vita è un caso e ogni giorno è un regalo. Prendo la mira, inquadro e scatto. 20130603-154 Non ci pago neppure l’IMU! Rassegnatevi. Quando vado a far rifornimento di acqua alla fontana della Vena D’Oro mi fermo a Rio Cavalli. E’ sulla strada e viene comodo, ma non è solo per questo, è proprio perché Rio Cavalli mi piace. L’ho scoperto quest’anno. In teoria sarebbe un posto dove andare a pescare, in pratica ci possono andare tutti, anche chi, come me, non s'interessa di pesca, di fatto però non ci va nessuno, o ci vanno in pochi. Quando sono arrivato io, verso le dieci, ero il primo visitatore, poi, nell’arco della mattinata, se ne sono aggiunti un altro paio. Basterebbe questo a farmelo piacere. Già, perché se è vero che amo la folla, tant’è che mi mescolo volentieri nei mercatini del sabato, è altrettanto vero che apprezzo il silenzio, la tranquillità e la quiete. Entrambe mi sembrano esperienze salutari perché predispongono l’una alla socialità e l’altra alla meditazione solitaria. E la quiete davvero non manca percorrendo i viali bianchi di Rio Cavalli. Tutto sembra concorrere a questo scopo. I laghetti levigati sono uno specchio naturale per i monti che si affacciano sulla Val Belluna. Tra tutti il Serva, forse perché più vicino, appare il più vanitoso. Di tanto in tanto, quando qualche pesce, più coraggioso degli altri, viene a galla a boccheggiare, le acque si increspano appena, tracciando cerchi concentrici che si allargano digradando. Tavoli e panche che si concentrano sotto i salici, promettono fantastiche merende autogestite, mentre le panchine disseminate in quantità lungo il perimetro dei laghetti garantiscono a pescatori e visitatori di potersi sedere e riposare in qualsiasi momento. Camminando, accade di frequente di venire sorpassati da papere frettolose che badano ai fatti loro senza farsi condizionare dalla presenza degli umani. Sul lato più lontano del parco poi, si possono osservare altri animali, per lo più cervi e cerbiatti, mentre pascolano tranquilli nel recinto loro destinato. Quando si sta bene, senza accorgersene, passano le ore. Una bella giornata, un luogo ameno, chi è più ricco di me? Così, per gioco, immagino di essere il principe padrone del parco, dei viali e di tutto quello che c’è. Principe di Rio Cavalli. Suona bene, no? Ma poi penso: “che mi frega di essere un principe se posso venirci quando mi garba e starci quanto mi pare?” Molto meglio non esserlo, anzi: non ci pago neppure l’IMU! 20130604-155 Può sembrare strano Non avrei mai immaginato di postare una foto così. Ero diretto a Ponte nelle Alpi per andare a vedere la mostra, recentemente inaugurata, del mio amico Alfonso Lentini. All’inaugurazione non avevo potuto essere presente, ma contavo di rifarmi in settimana. Alfonso mi aveva suggerito di portarmi la Berta, con l’invito a scattare qualche foto. Figurarsi se mi faccio pregare. Al mio arrivo però, ho la sgradita sorpresa di trovare il cancello chiuso. In una bacheca lì fuori un manifesto riporta l’orario di apertura. Vado a controllare per paura di essermi sbagliato. Non mi sono sbagliato: il martedì mattina la mostra avrebbe dovuto essere aperta al pubblico dalle 9:30 alle 12:30. Sono le dieci e il cancello è sprangato. Queste sono cose che non mi piacciono. Scambio qualche parola con una ragazza sopraggiunta nel frattempo, anche lei bloccata dal cancello. Aspettiamo una decina di minuti, poi la ragazza se ne va. A quel punto, con grande dispiacere, me ne vado pure io. Invece che tornare a Belluno prendo la direzione opposta, verso Longarone. Mi è venuto in mente un possibile percorso della memoria. Da bambino, prima del Vaiont, i miei per qualche tempo, avevano abitato a Faè. Chissà che effetto mi avrebbe fatto rivedere quel borgo! Trovare Faè non è difficile, posteggio il camper e mi metto a gironzolare a piedi. Mi aspetto di vedere qualcosa - non so bene cosa - che inneschi un ricordo, che agganci un’immagine di quegli anni. Sarebbe una magia, se accadesse, ma le magie non sempre riescono. Tutto, lì, mi risulta estraneo: non solo la gente, ma anche le case, le strade, è come se le vedessi per la prima volta e, in fondo, è davvero così. Che pretendo? Quello che non ha fatto il Vaiont lo ha fatto il Tempo che, lentamente ma inesorabilmente, cambia uomini e cose. Così, con un pelo di amarezza e un pizzico di nostalgia (per i tempi andati, s’intende…) riparto. A questo punto non ha senso che torni a Belluno. Che ci vado a fare? Chi m’aspetta? Prendo la strada per Zoldo: mi sarei fatto un giretto da quelle parti, magari potevo fermarmi a mangiare una pastasciutta in qualche trattoria e tornare a casa nel primo pomeriggio. Se non che, dietro una curva, sulla sinistra, intravedo la Passerella di Igne e mi viene voglia di fotografarla. Può sembrare strano che, tra le tante fotografie che documentano la Passerella in lungo e in largo, mettendo in evidenza il gioco dei tiranti, le simmetrie prospettiche del manufatto o il pauroso salto sul Maè (il torrente sottostante), alla fine decida di postare questa foto dove l’esistenza di un ponte è più supposta che provata, dove sullo sfondo s’intravede appena un abbozzo di montagna - troppo poco per una localizzazione certa - e dove il soggetto sembra essere un lucchetto che racconta la storia di un tale che, in modo non proprio originale, dichiara il suo amore per una certa Elisa. Può sembrare strano. Ed in effetti lo è. 20130605-156 A casa di A* Avevo sempre pensato che fosse il caso a guidare i miei passi quando la mattina esco di casa per scattare le mie foto. Non è vero: sono i parcheggi. Il mio fido-camper ne va ghiotto. Soprattutto per quelli gratuiti. Quelli a pagamento gli sono indigesti e gli procurano una strana orticaria che si traduce in uno sgonfiamento progressivo del mio portafogli. I parcheggi in divieto sono stimolanti, per certi versi restituiscono il brivido dell’avventura ma, a parte il fatto che non è corretto, se il vigile cattivo - e in ogni città, per contratto, ce n’è almeno uno - ti becca anche una volta sola, ti tocca pentirti per tutte le altre che l’hai fatta franca. Sia chiaro, in tutto questo io non c’entro. Fosse per me posteggerei allegramente in piazza dei Martiri, pagando il giusto e facendo girare l’economia, ma lui a queste cose ci tiene molto ed io non posso far altro che assecondare la sua spasmodica ricerca di parcheggi gratuiti. Che oggi mi ha condotto in uno spiazzo di via Lungardo. Da lì alle scalette il passo è breve. Ho cominciato a scattare, ma dopo un po’ mi sono reso conto che stavo facendo le stesse foto che avevo già fatto qualche tempo addietro. Allora piovigginava mentre oggi c’era il sole ma, a parte le considerazioni atmosferiche, le foto erano proprio le stesse nel senso che sceglievo gli stessi soggetti e li inquadravo dallo stesso punto di vista. Non avevo la controprova, ma c’era da scommettere che pure la zoomata fosse simile. Sia ben chiaro, sono il primo a sostenere che un friccico di luce in più o in meno, rende la fotografia completamente diversa, che, in generale, non è possibile ripetere due volte la stessa identica fotografia, ma ugualmente mi sentivo mortificato dal punto di vista della creatività. Ogni fotografo, o aspirante tale, vorrebbe misurarsi ogni volta con situazioni e problematiche diverse, perché la ripetitività, alla lunga, annoia. Stavo riflettendo su questo quando ho incrociato il mio amico A* che abita in via Rivizzola. “Stai andando a casa?”, gli chiedo. Alla sua risposta affermativa sono partito al contrattacco: “Mi offriresti un caffè?”. “A casa mia?”, fa lui. “Si, a casa tua”, rispondo. Io a casa sua non c’ero mai stato, ma sapevo che doveva avere almeno una finestra o un balconcino che dava su Borgo Prà. Ero curioso di vedere che razza di panorama si vedeva da lassù. Scusandomi per la mia sfacciataggine spiego ad A* che mi piacerebbe scattare qualche foto da casa sua. Lui sorride benevolmente: sa della mia dolceamara pena fotografica perché mi vede spesso in giro per Belluno con la Berta al collo. Dopo aver convinto il suo cagnolino che non sono un invasore nemico e mentre A* si appresta a preparare il caffè, mi sporgo dal suo terrazzino. “E’ fantastico da qui”, gli urlo. “No, oggi no. Non è proprio sereno” risponde sullo stesso tono. Mi chiedo se A* si renda conto di quale meraviglia si apparecchia ogni mattina sotto i suoi occhi, o se la consuetudine consumi tutto fino a renderlo invisibile. Non lo saprò mai, naturalmente. 20130606-157 Cosa beve la ragazza? Il tempo si va stabilizzando: bel sole il mattino e acquazzone nel pomeriggio. Senza acqua non ci sappiamo stare, ma perlomeno ora arriva ad orari fissi e ci si può regolare. In compenso, udite, udite, ho messo definitivamente in armadio le camicie con le maniche lunghe. Giuro solennemente che d’ora in poi e fino al cambio di stagione, dovesse pure arrivare uno di quei tornado che vanno tanto di moda negli USA in questo periodo, rimarrò comunque in maniche corte. Sono molto fiero della mia determinazione. Mi sento un vero uomo. “Veri uomini si nasce”, direbbe Totò, “ed io, modestamente, lo nacqui”. Aggiungo solo due parole sulla foto di oggi. E’ una ragazza, presa di spalle, in un bar all’aperto. La situazione presenta una piccola ambiguità, non difficile da cogliere, ma che potrebbe sfuggire al primo sguardo. Perciò vi consiglio di guardarla due volte. La domanda è quella del titolo: cosa beve la ragazza? 20130607-158 Un giorno speciale Oggi è un giorno speciale per me. Devo fare in fretta a sbrigare “la mia pratica fotografica” perché nel primo pomeriggio prendo il treno e parto. Direzione: Trieste. Missione: nuova registrazione del format “SOS Tata”. Cioè, in sostanza, devo tenere Sofia, la mia prima nipotina, mentre i ragazzi si preparano per gli esami. Quando devo prendere il treno sono sempre contento. Lo so che vado incontro a dei disagi, che con la macchina farei prima, ma il treno mi piace, mi fa tornare bambino. In effetti credo giochi la sua parte una sorta di nostalgia: ho già detto (#113 Km 81 – o della nostalgia) che mio padre faceva il ferroviere e finché è stato in servizio anche la sua famiglia aveva diritto ad un certo chilometraggio gratuito sulla rete nazionale. Oggi lo si direbbe un privilegio; allora era una sorta di compensazione rispetto alle paghe da fame con cui lo Stato elemosinava alcuni suoi dipendenti. Sia come sia, da ragazzo ho viaggiato molto in treno. Vivevamo nel veneto, ma mio padre era di Rimini e mia madre di Trapani. Ognuno con la sua cerchia di amici e allegri parenti ospitanti. Tutti gli anni partivo per il mio personale giro d’Italia. Naturalmente in treno. Ma oggi è una giornata speciale anche per un motivo più prosaico. Mi è finalmente arrivata la nuova Berta: una nuova macchina fotografica che aspettavo con ansia da più di un mese. L’ho ordinata su internet dall’Inghilterra, come si addice a noi sessantenni moderni, e quando mi è arrivata, quindici giorni fa, ho dovuto rispedirla indietro perché era guasta. Il venditore per fortuna non ha fatto storie, me l’ha sostituita subito con quella arrivata oggi. L’ho provata immediatamente e il post di oggi è il risultato dei primi scatti. Sembra funzionare, ma è ancora presto per dire che è tutto ok. Mi riservo il fine settimana, Sofia permettendo, per leggere il libretto di istruzioni e trafficarci un po’. Poi si vedrà. 20130608-159 Tartarughe in fuga A Trieste l’estate c’è già, altro che a Belluno. Non vorrei dirlo, ma il sole comincia a dar fastidio. Nonostante le maniche corte e l’abolizione della maglietta della salute, al sole si suda. Non ho avuto il coraggio di tirar fuori dalla valigia i pantaloncini corti e con i vecchi, sdruciti, pesantissimi jeans, la vita è dura. Io e Sofia camminiamo rasenti ai muri, rincorrendo l’ombra di ogni cornicione. La bimba si stanca presto di camminare, vuole salire sul passeggino, ma non è che lì il sole picchi di meno, sicché dopo qualche minuto vuole tornare a casa. La tengo buona con la promessa di un gelato e intanto mi dirigo verso il parco Tommasini dove mi auguro di trovare un po’ di frescura. Sono appena entrato che quasi inciampo… in una tartaruga! E ce n’è un’altra poco distante. Sono due tartarughe che normalmente stanno nello stagno, che ci fanno così prossime all’uscita? Stanno scappando? Ancora un paio di metri e sarebbero in strada. Col traffico che c’è le spiaccicherebbero in un momento. Per quanto, con quella corazza… In ogni caso potrebbero costituire un pericolo, per sé e per gli altri. L’unica cosa da fare è riportarle allo stagno. Chiedo ad una signora di passaggio se mi da una mano: ho il passeggino con la bimba dentro e due macchine fotografiche al collo; posso prendere una tartaruga, ma per l’altra mi troverei in difficoltà. La signora è di Trieste e, nel suo dialetto aperto, che non riuscirei a replicare, mi spiega. “Sono i ragazzi, sa? Sono dispettosi. Le prendono dallo stagno e le abbandonano lontano, così perdono l’orientamento, poverine…” E io che pensavo a delle tartarughe in fuga! PS Questa volta, in via del tutto eccezionale, pubblicherò due foto. Nella prima si vedono le due fuggitive tornate nel loro habitat insieme alle consorelle, nella seconda si vedono delle mani di bimbi allacciate a delle assi. Sono le assi di un ponte di legno da cui è possibile osservare le tartarughe. I bambini non si vedono, ma si intuiscono, dietro quelle mani, i loro occhi curiosi. Ed io curioso di loro. 20130609-160 Volevo un gatto nero “Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qua…” così Celentano dipingeva l’Italia d’Azzurro, qualche anno fa. Qualcosa del genere succede al sottoscritto qui a Trieste. Ancora una giornata all’insegna del sole caliente. La pioggia e il freddo dei giorni passati sono ormai un ricordo. Ho abbandonato i vecchi jeans per sostituirli con un paio di comodi pantaloncini e va decisamente meglio. Sandali, pantaloncini e maglietta: sembravano oggetti obsoleti, “vintage”, cimeli da ricordare con nostalgia, ma per fortuna, forse per scaramanzia, li ho ficcati in valigia, altrimenti questa mattina sarei schiattato. Complice il caldo, Sofia, dondolata dal movimento del passeggino, s’era assopita per un po’. Così nel pomeriggio, al posto del solito riposino, mi è toccato fare gli straordinari. Mi sarebbe bastata una mezz’oretta di tranquillità per scrivere questo benedetto articolo. Ma non è aria. Scrivo queste righe mentre la mia adorata nipotina, mi strimpella nelle orecchie “Volevo un gatto nero, nero, nero, | mi hai dato un gatto bianco | ed io non ci sto più.”. PS Anche oggi, in via del tutto eccezionale, posto due foto. Visto che è la seconda volta si potrebbe obiettare circa l’eccezionalità del caso, ma tant’è. Il fatto è che durante il giro di stamane Sofia ed io ci siamo imbattuti in un paio di personaggi di rilievo, gente importante per Trieste ed i triestini. La cosa singolare è che entrambi hanno voluto accompagnarci per un tratto di strada e ciascuno ha insistito per spingere il passeggino di Sofia. Lo so che è difficile da credere, ma ne ho le prove, eccole: 20130610-161 Anche a costo di mentire Giornata, quella di oggi, caratterizzata dal ritorno a casa. Sono tornato in treno, ovviamente. Alla biglietteria di Trieste sembrava avessero smarrito la tratta che passando per Gorizia ed Udine arrivava a Conegliano. Volevano a tutti i costi farmi passare per Mestre. Non ce l’ho con Mestre né con i mestrini, ci mancherebbe, ma la loro stazione ferroviaria, sicuramente funzionale, mi sembra francamente anonima e, mi si perdoni la franchezza, un po’ bruttina. Così ho optato per il viaggio più lungo, che mi faceva partire prima facendomi comunque arrivare alla stessa ora. Avrei avuto più tempo da passare a Conegliano, ma pazienza, anzi, meglio così. Conegliano mi piace; la stazione, prima di tutto, che ho fotografato in lungo e in largo in altre occasioni, ma anche le immediate vicinanze. Specie quando le immediate vicinanze (viale Carducci) sono costituite da una gelateria/pasticceria siciliana gestita da siciliani autentici che spacciano (è il caso di dirlo perché inducono alla dipendenza) prodotti siciliani doc. I cannoli e i gelati che si mangiano lì – ve lo garantisco – li potete trovare soltanto ad Agrigento. Per quanto riguarda la città, è da parecchio che mi riprometto di farci un giro, ma non ne ho ancora avuto l’occasione. Credo meriti una visita. Oggi, dovendo aspettare un’ora, ho percorso viale Carducci dove purtroppo, essendo lunedì, la pasticceria era chiusa e, dopo aver attraversato la strada, ho risalito i gradini che mi hanno portato in piazza Giovanni Battista Cima. C’erano degli operai che stavano attrezzando gli spalti in vista di una qualche manifestazione. Una specie di Dama vivente, mi ha detto una signora, come a Marostica la partita di scacchi. Non sapendo se e quando, nel dubbio ho cominciato a fotografare. Pensavo proprio che sarebbe stata una di queste la foto che avrei postato oggi, ma il bello del mio mestiere di fotografo improvvisato è che le da un momento all’altro le cose possono cambiare. E infatti sono cambiate nel momento in cui, sotto la pioggia (!), sono sceso a Ponte nelle Alpi dove avevo lasciato il camper, per rifugiarmi, provvisoriamente, presso la locale Biblioteca Civica. Finalmente potevo visitare, in piena libertà, la mostra del mio amico Alfonso Lentini intitolata “Il morso delle cose”. La mostra prende il nome da una sua composizione poetica che ho avuto il privilegio di leggere qualche tempo fa. Ero curioso di vedere come i suoi versi si traducessero in una mostra visuale. I “manufatti” di Alfonso – lui li chiama “poesie oggettuali” – nascono da un’intera vita dedicata ad un lavorio costante, coerente, indefesso, intorno alla Parola e alla possibilità di oggettivizzarla collegandola alle cose. Le cose di cui Alfonso si occupa sono spesso degli scarti di lavorazione, avanzi di cantiere, oggetti arrivati al termine del loro ciclo di vita e che tuttavia, nella sua testa prima, e quindi nelle sue mani, si oppongono al depauperamento, vivono una nuova vita, riabilitati in quanto oggetti d’arte, espressione di una cocciuta volontà di resistenza. La foto di oggi coglie un aspetto di questo procedimento creativo. Qui la materia è piegata ad indagare il rapporto tra Menzogna e Verità attraverso la mediazione della Parola. Un tema alquanto ostico da trattare in un’opera d’arte, e tuttavia necessario. Un tema al quale guardo con attenzione e che mi è molto caro. Perché io dico sempre la verità, anche a costo di mentire. 20130611-162 Chissenefrega Sarà capitato anche a voi di trovare nella buchetta delle lettere un avviso di deposito di dubbia interpretazione. Forse sono arrivati i documenti che aspettavo, mi son detto. Dal tagliando si capiva solo che l’addetto era passato e non mi aveva trovato in casa. Bella forza, sono sempre in giro a fare foto! Così sono andato all’ufficio postale di competenza, che per me è quello di Castion. L’impiegata, gioviale come al solito, appena m’ha visto mi ha apostrofato: “Cosa mi tocca fare per vederla signor Fantini… mi tocca farle arrivare una multa!” Una multa? Che multa? Io aspettavo dei documenti che… “Be’”, fa lei, “di solito con questa busta verdolina…” Sulla busta c’era scritto: “servizio notificazione atti giudiziari/amministrativi”. Ahi! L’ho aperta. Doppio ahi! Era proprio una multa. Da parte del comune di Venezia. Cosa avevo da spartire io con il comune di Venezia? Ho dovuto leggerla fino in fondo per capire. In puro stile burocratese si diceva che in data primo maggio transitando sul Ponte della Libertà che immette a Venezia avevo superato di cinque km/h il limite consentito e pertanto a norma di legge dovevo pagare l’ammenda di… ecc, ecc. Così, amaramente, m’è tornato in mente di quel primo maggio (#121 Una città liquida) che avendo perso il treno, l’avevo inseguito a lungo per poter raggiungere il mio gruppo fotografico diretto alla città lagunare. Alla fine c’ero riuscito, ma a che prezzo lo realizzavo soltanto ora. E’ proprio vero che certi giorni nascono storti e proseguono sotto le insegne della sfiga. Forse bisognerebbe lasciarli andare per il loro verso quei giorni, non inseguirli come avevo fatto io. Ma forse no. In fondo ero tornato a casa contento, avevo scattato delle belle foto ed ero stato in compagnia di gente simpatica… ma sì, in fondo, chissenefrega. PS Per la foto di oggi, poiché mi trovavo in quel di Castion, mi sono spostato di poco. Volevo documentare, finalmente! la villa Miari Fulcis di Modolo, che inseguivo da tempo (#129 Nessuno nasce imparato). Una buona occasione per testare le capacità della mia nuova Berta. 20130612-163 Bando di Concorso Se seguite il mio blog ormai saprete che da qualche tempo Berta non è più sola. A farle compagnia è arrivata una nuova macchina fotografica che in qualche occasione ho chiamato “nuova Berta”. Ma non funziona, non può durare. Finché non potrò rivolgermi alla nuova arrivata con un nome proprio, non sarà veramente mia. Sarà sempre un corpo estraneo, un’ospite, un prestito da restituire appena possibile. Non crediate che passi il tempo a nominare e rinominare le cose che mi capitano per le mani, ma tra queste ce ne sono alcune che entrano a far parte della mia vita in modo importante e dandogli un nome riconosco loro uno spazio, un posto di rilievo. Del resto, che c’è di strano? Non diamo forse dei nomi agli animali di casa? Chiamiamo Bobi il cane o Pussy la gattina solo per potergli fare le coccole, perché ci sentiamo meglio quando possiamo esternare il nostro affetto riversandolo su qualcuno, fosse anche un animale. Io nomino le cose. Non ogni cosa, s’intende: non convivo con il cucchiaio Renato o la camicia Francesca, ma ad esempio, e come già sapete, chiamo Fido il mio Camper e Berta la macchina fotografica. Nominandoli, li accolgo nella mia famiglia, diventano parenti stretti. Io pretendo che loro facciano la loro parte, che si rendano utili, ma in cambio me ne prendo cura, qualche volta, perfino, ci parlo. Ora si è determinata una situazione inedita. Non posso non concedere alla nuova macchina fotografica lo stesso “status” dell’attuale; è necessario che pure lei entri a far parte della “famiglia”; in altre parole, devo darle un nome. Per questo chiedo il vostro prezioso aiuto. A partire da questo momento è aperto il Bando di Concorso per l’attribuzione di un nome alla nuova arrivata. Non ho suggerimenti da darvi, ma neppure limiti da porvi. Potrete dare il vostro libero contributo commentando questo e i prossimi post sul blog, via facebook, tramite email, per telefono oppure “de visu”. Vi garantisco che terrò in debito conto ogni vostro suggerimento, senza snobbarne alcuno, fermo restando che la scelta definitiva, alla fine, sarà comunque mia. PS Entrambe le foto che posto oggi (i post doppi stanno diventando un vizio…) sono state realizzate con la nuova macchina. Sono andato a fare una passeggiata a San Liberale, ho fotografato la chiesetta e ve la documento, ma mi dispiaceva non condividere il panorama su Belluno che si godeva da lassù… 20130613-164 Senza pioggia Che sia la volta buona? Sarà oggi il primo giorno senza pioggia? Non vorrei parlare troppo presto, ma sembrerebbe proprio di sì. Sarebbe anche ora. Da almeno un mese non c’è stato giorno che non ci abbia bagnato il sedere. Non ho i dati dell’Arpav e quindi parlo a braccio tenendo conto della mia personale percezione, ma ho l’impressione che sia stata tanta, troppa, ben oltre la nostra umana capacità di sopportazione. A chi non è capitato di farsi sorprendere da un temporale, da un acquazzone o da un rovescio, se non da un vero e proprio diluvio? Chi non se l’è sentita addosso, sulla propria pelle, nel proprio cervello, quell’acqua che veniva giù forte, fitta, torrenziale, a dirotto, a secchi, a catinelle? O quando sotto forma di moderata pioggerellina o di pioviggine leggera, ci penetrava nelle ossa in modo costante, continua e uggiosa? A chi, al risveglio, non è cambiato l’umore scorgendo fuori dalla finestra i segni dell’ennesima giornata sotto l’acqua? Goccia a goccia, giorno dopo giorno, la pioggia è penetrata nei nostri tessuti vitali arrivando fino ai meandri più nascosti del nostro cervello inumidito, scavando percorsi inediti tra le sinapsi, trasformandolo in un malleabile blocco d’argilla e contribuendo, insieme alla crisi economica da cui siamo tuttora attanagliati, al formarsi di una sorta di sindrome depressiva di massa. Tra pochi giorni il calendario sancirà l’inizio ufficiale dell’estate. Che estate sarà non possiamo ancora dirlo. Quel che possiamo dire è com’è stata la primavera. Non basteranno certo questi ultimi giorni di sole, ammesso che arrivino, per riscattare una stagione che, a essere moderati, potremmo definire con la emme maiuscola. Diciamo la verità: la primavera ci ha fregati. Forse ci fregherà anche l’estate, ma nell’uomo, anche il più scettico, alberga la speranza che le cose possano cambiare, che non sarà così per sempre, che il domani sarà diverso e sicuramente migliore. Così ci attacchiamo ad un raggio di sole per tirar fuori tutta la nostra allegria, la nostra voglia di vita, il nostro desiderio di benessere. Come i gitanti che questa mattina ho incrociato a Lambioi sull’argine del Piave. Un posto davvero fantastico per asciugare membra, ossa e cervello al primo sole vero. 20130614-165 Il libretto di istruzioni Ho cominciato a ricevere alcuni suggerimenti, sia pubblici che privati, circa il nome da dare alla mia nuova macchina fotografica e vi ringrazio. Il concorso, in cui non si vince niente se non la soddisfazione di averci partecipato, è ancora aperto. E rimango aperto anch’io ad ogni vostra indicazione. Nel frattempo, per farla più mia sto leggendo avidamente il libretto di istruzioni. L’handicap è che lo leggo dal video. Tutto nasce dal fatto che l’acquisto l’ho fatto online tramite un importatore inglese, e non ho la minima idea di come questo si sia procurato l’oggetto dei miei desideri. Oggi la merce viaggia attraverso le vie più traverse. “E’ la globalizzazione, bellezza. La globalizzazione! E tu non puoi farci niente. Niente!” direbbe Humphrey Bogart se vivesse i nostri tempi. Io so soltanto che aprendo il pacco contenente la macchina fotografica ho trovato dei libretti di istruzioni scritti in cinese, in coreano, in giapponese e in inglese. La mia conoscenza delle lingue orientali è, lo confesso, piuttosto scarsa. Per fortuna c’è l’inglese. Per fortuna per modo di dire perché il mio inglese è rimasto quello scolastico contaminato da tutti i corsi più o meno interattivi che ho iniziato e mai finito. E sono stati parecchi, ve l’assicuro – a testimonianza della mia buona volontà o della mia scarsa applicazione – a partire da quelli registrati su degli antidiluviani nastri magnetici, per arrivare a quelli più recenti su CD o addirittura online, ma tutti regolarmente interrotti dopo poche lezioni. Per intenderci: se mi dicono che “the book is on the table”, ok, li capisco, ma se spostano il book da qualche altra parte, comincio ad avere dei problemi. Voi capite che con questa po’ po’ di preparazione anche il libretto in inglese, per quanto interessante, risulta poco utile. Sicché non ho potuto far altro che scaricare dalla rete – e per fortuna l’ho trovata! – una versione in formato “pdf” del libretto di istruzioni italiano. E ho cominciato a leggerlo. Non so voi, ma personalmente trovo la lettura dal video molto stancante. Lo leggo a piccole dosi, ogni giorno un po’ perché già dopo un quarto d’ora gli occhi mi vanno in pappa, salto le righe e non riesco più a distinguere un carattere dall’altro. Ma non saranno queste piccole avversità a fermare la marcia di un grande fotografo… PS l’immagine di oggi non c’entra nulla con il libretto di istruzioni tranne per il fatto che essendo ancora indietro con la lettura del medesimo, nel frattempo continuo a scattare anche con la mia vecchia e fedele Berta. Questo scatto è suo e viene da una chiesetta alla “periferia” di Orzes (speriamo non si risenta nessuno) guardando verso i Monti del Sole. 20130615-166 Le giostre Continuo a ricevere indicazioni e suggerimenti circa il nome da dare alla nuova macchina fotografica. Vi ringrazio per i vostri sforzi, ma francamente ho l’impressione che ancora non ci siamo. Non è scattata quella scintilla che potrebbe farmi dire dire: eccolo, è lui, è questo qui! Ma non dispero perché, memore di antiche saggezze, so perfettamente che l’unione fa la forza. Sono certo che prima o poi, col vostro aiuto, il nome arriverà. Perché sarà anche vero che uno vale uno, come usa adesso, ma tutti assieme si vale molto di più. Qualcuno glielo vada a dire, al guru stellato. Ma torniamo a noi. Complice il sabato sono calato in città per il mercato. Dovevo comperare un mestolo e un cappellino da sole. Per il mestolo non c’era alcuna urgenza, potevo anche soprassedere; non così per il cappellino. Poiché il tempo (udite, udite…) versa decisamente al bello, il sole picchia duro ed io, che sono di cervice delicata (leggi: quasi pelato… o meglio: diversamente pettinabile…), mi devo difendere. Ecco perché quest’ultimo articolo mi stava particolarmente a cuore. Al parcheggio del palasport mi sono subito accorto che qualcosa non andava. Tutti i posti a pagamento erano occupati. “Figurarsi quelli gratuiti”, mi sono detto. La ragione mi si è palesata dopo pochi metri. Tutto il piano sopraelevato della zona riservata ai parcheggi gratuiti era stata occupata dai giostrai. Lo sapevo, avevo visto i manifesti, ma me ne ero completamente dimenticato. Più che altro per inerzia, il camper procede da solo; sono convinto che dovrò invertire la marcia e andare a trovare un posteggio da qualche altra parte. E invece no. Ci sono almeno una decina di posti inspiegabilmente liberi nella zona gratuita lasciata sgombra dalle giostre. Non riesco a capacitarmi, ma sono felice. Alle volte basta veramente poco a rendermi felice. Ovviamente posteggio e, non è neanche il caso di dirlo, riverso le mie attenzioni fotografiche sulle giostre. Il cappellino, lo prenderò dopo, non mi brucerò per questo, ed il mestolo, be’ il mestolo posso anche farne a meno, non brucerà neppure il sugo. 20130616-167 La rivincita del cavallo Stamattina, appena uscito dalla doccia, mi sorprende un rumore, una sorta di calpestio, ma più forte, che non riesco a definire. Sarà un gregge, penso. A volte capita che passino proprio di qui, sulla strada davanti a casa. Prendo in fretta un accappatoio e mi affaccio. Altro che gregge: sono cavalli, una teoria infinita di cavalli, con tanto di cavalieri ed amazzoni a tirare le redini. Corro a prendere la macchina fotografica e mi precipito sul terrazzo. Dalla strada si sono accorti di me e qualcuno accenna dei saluti. Punto la macchina fotografica, ma non vedo niente. “Il tappo”, mi gridano, “togli il tappo”. Cristo, che figura! nella concitazione me l’ero scordato. Lo tolgo e inizio a scattare. I cavalieri formano un tutt’uno con il loro cavalli. In gruppi di due o tre occupano una corsia della strada; procedono rilassati, a passo di marcia, chiacchierando e guardandosi attorno. Dalla strada lo zoccolio dei cavalli sommato al chiacchiericcio dei cavalieri sale verso di me sotto forma di allegra sarabanda. Non smettono più di sfilare. Ma quanti sono? Saranno un centinaio, no, molti di più. Quando sono passati tutti passa un furgone con delle spazzole rotanti che raccoglie le deiezioni dei cavalli. Accidenti che organizzazione! Ma chi sono? La decisione è presa in un istante: andavano verso Belluno, ci vado anch’io… Mi vesto di furia e li inseguo con il camper. Davvero una gran bella idea! Visto che loro proseguono alla stessa velocità di un corteo di metalmeccanici, mi ritrovo ben presto in coda insieme ad un milione di altre auto. E’ da quando andavo al lavoro che non mi capita più! Si procede lentamente. A tratti, dalla strada, nonostante il furgone netturbino, si leva un tenue, non sgradevole, odore di stallatico. PS la manifestazione, ho poi scoperto, era organizzata dall’associazione trichianese “Natura a cavallo” che in occasione del 25° della sua fondazione ha organizzato a Belluno (sede logistica a Trichiana) il XII raduno nazionale. Erano presenti circa duecento cavalli e altrettanti cavalieri provenienti da ogni parte d’Italia. La foto di oggi mostra una coppia che cavalca percorrendo via Mezzaterra. A me sembra che contenga un messaggio vagamente nostalgico, forse utopico. I cavalli hanno un sapore antico, ci parlano di un tempo passato in cui il rapporto tra l’uomo e la natura era più ravvicinato e spontaneo di quanto sia oggi possibile. L’utopia consiste nel credere possibile la coesistenza tra il mondo artificiale costruito dagli uomini e quello millenario della Natura. 20130617-168 Lo spazio vitale Due parole per spiegare la genesi della foto di oggi. Dovendo andare a Sedico prendo per la Sinistra Piave. Sul ponte San Felice mi scappa l’occhio sul fiume e vedo che c’è gente che sta bellamente prendendo il sole. “Beata lei”, penso, ma poi mi viene voglia di andare a vedere più da vicino. Il mio impegno può ben aspettare una mezz’oretta. Posteggio e, ripercorrendo il ponte a piedi, mi affaccio al parapetto per guardare di sotto. In effetti ci sono delle persone, non molte a dire il vero, che prendono il sole. C’è un uomo e una donna, entrambi di una certa età, forse marito e moglie, probabilmente pensionati; ci sono due ragazze che potrebbero essere amiche, sorelle o qualsiasi cosa; c’è una giovane mamma col proprio bambino; e una signora sola. In totale quattro diverse unità. La cosa curiosa è che ciascuna di queste unità – se vogliamo continuare a chiamarle così – si è sistemata cercando di mettere la maggiore distanza possibile rispetto all’unità più vicina. Viste dall’alto formano un quadrilatero di almeno duecento metri di lato. Chissà quali considerazioni interessanti si potrebbero fare – avendone gli strumenti – partendo da questo semplice dato. D’altra parte mi viene da pensare a Rimini, dov’ero stato qualche tempo fa e dove la gente si mescola con grande e reciproca soddisfazione. Con qualche piccolo effetto collaterale però, se è vero che in spiaggia, tra una sdraio e l’altra, lo spazio vitale è di circa un metro… ma questa è un’altra storia. Un centinaio di metri dopo la fine del ponte lo sguardo mi cade su un albero e un campo seminato a pannocchie. Nell’insieme formano una configurazione interessante, che vi propongo come post di oggi. 20130618-169 Un percorso lungo una vita A prendersi cura dei quattro peli che mi restano in testa ho eletto un barbiere di Cavarzano. Proprio perché ormai sono rimasti in pochi, pretendo che siano trattati bene. Tagliatori di scalpi ce ne sono in giro tanti, ma lui, il barbiere di Cavarzano, è stato l’unico che alla mia richiesta: “me li lasci abbondanti sopra le orecchie” non abbia riso. E’ bello sentirsi capiti. Questa mattina la sua bottega era già piena. Dopo il riposo del lunedì ed in vista dell’estate, un sacco di gente va dal barbiere. “Vengo più tardi”, gli ho detto, e mi sono guardato un po’ in giro per capire dove avrei potuto scattare le mie foto. Dopo aver camminato per qualche centinaio di metri, mi attira il vociare intenso che proviene dal cortile di un asilo. I bambini stanno facendo ricreazione. Giocano e corrono senza stancarsi. Perché dovrebbero? Hanno energia da vendere. In situazioni come questa tendo ad immedesimarmi. Penso al bambino che ero e mi vedo inseguire i compagni o farmi inseguire da loro, urlando come l’ultimo del Mohicani. E guarda adesso come sono diventato: un sobrio signore di mezza età (a proposito, quando finisce la mezza età?) con due macchine fotografiche al collo che gioca come un bambino avendo smesso, da un pezzo, di esserlo. E’ incredibile come passino, inesorabili, gli anni. Solo ieri ero uno di questi bimbi, ed oggi… Mentre mastico questi pensieri mi accorgo che sullo sfondo si affaccia, severo, l’edificio della Casa di Riposo Maria Gaggia Lante. In un attimo mi trovo la Berta in mano: miro, inquadro e scatto. Mi pare che ci sia un percorso in questa foto. Per questo mi piace. L’asilo e la casa di riposo sono praticamente confinanti, eppure così distanti nel tempo! Qualcuno di questi bimbi che oggi corre e schiamazza, è destinato a finire lì, in quell’edificio, ma ci vorrà una vita e chissà quali vicissitudini per arrivarci… 20130619-170 L’ultima rosa Anche se la primavera formalmente sussiste, in realtà l’abbiamo già archiviata. Complice il caldo che finalmente è arrivato, ma colpa anche della primavera stessa che, quest’anno, non si è fatta particolarmente apprezzare. Anzi. Chi fino a ieri chi si lamentava del troppo freddo ora può lamentarsi del troppo caldo. Questo è il tempo che viviamo. Le dinamiche del periodo si ripetono uguali tutti gli anni. Dopo aver attraversato la primavera più pazza del secolo prepariamoci ora ad affrontare l’estate più secca, o più torrida, o più quello che volete voi… Nei telegiornali hanno già cominciato a tempestarci di saggezza: meglio vestirsi leggeri, bere molta acqua ed evitare di praticare attività sportive nelle ore più calde. Grazie, vale la pena pagare il canone per godere di consulenze tanto preziose… Intanto le scuole, tranne per chi ha degli esami da fare (auguri!), sono ormai chiuse, e quello che noi tutti vogliamo davvero è voltare pagina e goderci le prossime meritatissime ferie, foriere di riposo e distensione. Sarà davvero così? Riusciremo a riposarci e a dimenticare gli affanni? Il clima – stavolta non mi riferisco a quello atmosferico, ma a quello sociale e politico – non è dei migliori. Saranno molte le aziende che al rientro dalle ferie non riapriranno i battenti e molte famiglie si aggiungeranno al già folto esercito dei precari. Continueremo a pensare che non tocca a noi? Eh già, con tutta la gente che c’è, perché dovrebbe toccare proprio a noi? Ma se toccasse a noi? PS Camminando tra i giardini e gli orti, questa mattina, mi sono imbattuto in questa rosa. Ce n’erano anche altre, ma questa mi ha colpito perché svettava solitaria e austera sopra le altre e mi pare che, da sola, rappresenti l’intero rosaio, e forse anche qualcos’altro. Una rosa, rossa. Chissà com’era bella qualche tempo fa; ora mostra tutti i segni del tempo: è ancora bella, ma di un bello malinconico, come una signora matura che, davanti allo specchio, constati i guasti provocati dal tempo. Una rosa, una signora matura, una vecchia Nazione con un grande passato e un nebuloso avvenire. Questi, i tempi che viviamo. 20130620-171 La foto sbagliata Non credo capiti tutti i giorni che un fotografo, o aspirante tale, metta sul proprio blog una foto sbagliata. Io lo faccio oggi. Non sono un anticonformista a tutti i costi, non cerco di stupire, è, invece, un gesto di umiltà. In qualche modo, con questo atto, riconosco la necessità di uno “stop and go” o, per dirla alla nostrana, di una mia necessaria rifondazione fotografica. Tutto nasce dal fatto che da qualche tempo la mia vecchia e gloriosa Berta mi andava stretta. Intendiamoci, è una macchina fantastica, che mi ha dato, mi dà e penso mi darà ancora in futuro, delle grosse soddisfazioni ma, finalmente trovo il coraggio di confessarlo, si tratta pur sempre di una “bridge”, una macchina “ponte” tra la fotografia di consumo e quella professionale. La nuova nata, cui tra l’altro, presto dovrò dare un nome (aspetto i vostri suggerimenti…), è invece una vera reflex. Non il top della gamma, che non mi potrei permettere, ma una dignitosa soluzione intermedia. Il problema nasce dal fatto che le prime foto scattate con la reflex, sono tutt’altro che soddisfacenti. Luci eccessive che azzerano i dettagli o, al contrario, bui profondissimi che li occultano. Nel mezzo, qualche foto azzeccata, il cui criterio sembra tuttavia rispondere a logiche che non sempre corrispondono ad una mia precisa e consapevole volontà. Dove sto sbagliando? Con questa domanda in testa questa mattina ho suonato il campanello del mio guro fotografico. L’ho trovato al lavoro, come al solito. Stava sottoponendo a revisione le foto scattate di recente in occasione del raduno nazionale del gruppo “Natura a cavallo”, di cui pure io mi sono occupato (#167 La rivincita del cavallo). Naturalmente trovava difetti in fotografie che per me erano assolutamente perfette. Abbiamo parlato a lungo, di tecnicalità e di creatività. Un discorso serrato fatto di confuse domande, le mie, e di risposte sempre puntuali, le sue, al termine delle quali sempre più prendevo coscienza di quanto fossi distante dalla padronanza di un mezzo, la macchina fotografica, che credevo di dominare con qualche disinvoltura. Lui parlava ed io bevevo il suo verbo; presi dai rispettivi ruoli non ci accorgevamo, né io né lui, di come il tempo stesse passando. Alla fine, poiché era tardi e la mattinata volgeva al termine, mi ha concesso di scattare dal suo balcone la foto del giorno. Quella che pubblico oggi è la foto più sbagliata tra quelle che ho scattato, ma la pubblico ugualmente come promemoria, qualora avessi l’ardire di credermi un fotografo, del fatto che la strada sarà ancora molto lunga e, forse, non avrà mai fine. 20130621-172 Il primo di diecimila La foto che ho pubblicato ieri ha suscitato qualche minimo dibattito. Il più critico, giustamente, è stato il mio prof. il quale, senza mezzi termini, ha sentenziato: “L’inquadratura è felice, l’esposizione meno”, per poi correggersi in un post successivo con un giudizio molto meno diplomatico: “Foto decisamente sbagliata!”. Sono d’accordo con lui. Qualcun altro mi ha fatto notare che, anche se l’esposizione era sbagliata, il risultato complessivo non era del tutto banale. Insomma, l’immagine poteva essere classificata come “interessante”. Concordo anche con questo giudizio. Poiché tendo a conciliare gli opposti qualcuno potrebbe pensare che sono il classico “paraculo”. Magari un po’ lo sono, ma non del tutto. Per la parte in cui non lo sono, mi muove l’idea che ogni arte ha le sue regole le quali sono in genere codificate, conosciute e largamente condivise. E tuttavia non vi è movimento artistico che non sia nato da una rottura rispetto alle regole precedenti. E’ stato così per secoli, fino ai giorni nostri. E la fotografia non fa certamente eccezione. Cosa voglio dire? Che sono il capofila di un nuovo movimento? Non diciamo sciocchezze! Non pensatelo neppure per un istante. Sono passati solo pochi mesi da quando ho “subìto” il mio ultimo corso e sono ben lontano dall’aver imparato anche solo l’ABC di quel che c’era da imparare. Praticamente sto alle aste! Voglio dire, invece, una cosa diversa. Quando avvertirò la mia macchina fotografica come una parte di me stesso: come fosse il mio gomito, la mia spalla o il mio fegato, e la userò facendo ogni cosa in modo giusto senza pensarci su, senza riflettere; quando avrò buttato alle ortiche, senza rimpiangerli, i miei primi diecimila scatti, allora, e solo allora, mi porrò il problema di violare coscientemente le regole. Solo allora mi sentirò libero di “cercare” un’immagine “interessante” alterando deliberatamente qualsiasi parametro, esposizione compresa. Magari otterrei una foto identica a quella postata ieri la quale, tuttavia, per come è nata non vale niente, è un’immagine sbagliata, frutto di un errore e del caso, mentre l’Arte non è mai casuale è, piuttosto, un percorso consapevole, un viaggio che si propone una meta, un obiettivo che si sposta più in là. PS Lo scatto di oggi – una veduta del Piave dal Ponte della Vittoria – non è che il primo di quei diecimila scatti che mi propongo di fare nel rispetto delle regole, per padroneggiarle, e poterle poi violare in assoluta libertà e consapevolezza. 20130622-173 All’improvviso Le cose cambiano in fretta intorno a noi, ma molto spesso, presi dalle nostre faccende quotidiane, non ce ne accorgiamo. Poi accade qualcosa, o magari non accade niente, solo che guardandoci attorno un po’ meglio ci rendiamo conto, “all’improvviso”, che la realtà ha fatto uno scarto, che è più avanti di dove l’avevamo lasciata soltanto poco tempo prima. Una cosa del genere mi è successa ieri quando, su indicazione di un amico, sono entrato in un negozio nuovo – nuovo per me, s’intende, in verità non ho idea di quando l’abbiano aperto – gestito da cinesi dalle parti della Veneggia. Si tratta di un grande magazzino, ma solo nel senso che è grande e che c’è dentro talmente tanta roba da dare l’idea di un magazzino. La parola migliore per definirlo sarebbe “bazar”. E infatti vi si trova di tutto, dalla rete per acchiappare farfalle alla risma di carta, dalla canottiera ai giochi per bambini, dai sandali al bricco del latte, e un sacco di altre cose che non ti aspetteresti di vedere accostate insieme. Mentre osservavo la merce esposta ho colto qualche brano di conversazione tra un paio di commessi e un tale che pareva essere il grande capo. Tutti rigorosamente cinesi eppure, tra loro, parlavano la nostra lingua. La stessa sensazione che qualcosa fosse avvenuto a mia insaputa, l’ho avuta stamattina quando, dopo aver parcheggiato il camper, alzando lo sguardo ho incrociato quello di una donna nera che stava stendendo dei panni. “All’improvviso” ho compreso che quell’atto per certi versi così normale, era in realtà l’ultimo di una serie che avevano portato quella donna ad essere lì, piuttosto che nel suo Paese, in quel terrazzino bellunese, a stendere i propri panni. Dietro quel gesto ho percepito una storia: il dolore di una lacerazione, il vuoto dell’abbandono, la speranza di una rinascita e il desiderio di integrazione. La voglia di normalità. Al mercato, un tempo gli stranieri stavano per lo più dietro il banco, dalla parte del venditore. Oggi stanno dal nostro stesso lato, come noi percorrono i corridoi tra le bancarelle con l’intento di fare acquisti. Osservano la merce, trattano il prezzo, fiutano la bufala o l’affare, comprano, pagano e portano a casa. Proprio come noi. Cos’è successo a mia insaputa? Che l’Italia, da luogo di emigrazione si sia via via trasformato fino al punto da attirare masse ingenti di immigrati, non è una novità. Sono anni che gli stranieri provenienti dai paesi dell’Est o dal Nord Africa, arrivano nel nostro Paese. Quello che è successo è che oggi questi stranieri mi sembrano un po’ meno “stranieri”. Non sono cambiati loro, è evidente, sono io che ho maturato nei loro confronti un atteggiamento diverso. Per qualche misteriosa alchimia, invece di percepirli come “altro da me” com’è stato finora, “all’improvviso” mi sento empaticamente dalla loro parte. Dalla parte di gente che ha patito ed ha dovuto tirar fuori tutta l’energia di cui era capace per superare ogni sorta di avversità ma che, nonostante tutto, guarda al nostro Paese con fresca speranza. Quell’energia, quella speranza, quella freschezza che noi italiani stiamo invece perdendo. 20130623-174 Ce l’ho! Ce l’ho! Il nome della nuova macchina fotografica finalmente ce l’ho. Ringrazio tutti coloro che si sono adoperati, e sono stati tantissimi, per fornirmi le loro indicazioni. Vi garantisco che su ogni nome che mi è stato suggerito mi sono impegnato a ragionarci su, a farlo diventare mio. Alcuni erano semplici, lineari e schietti, come Camilla e Mafalda, altri più impegnati e ricchi di riferimenti come Geltrude, Gerda o Zelda, altri decisamente più prosaici, come Bertolda e Jolanda. Non posso elencarli tutti, ma su tutti ci si potrebbe fare un ragionamento. Però… Però, come ha sostenuto la mia amica Laisa e come io stesso ho alla fine compreso, pur tenendo doverosamente conto di ogni suggerimento, la scelta non poteva che essere una scelta personale. E così è stato. La mia prima macchina, Berta, aveva preso il nome dalla pistola di Philip Marlowe. Mi pareva che il grilletto della pistola potesse in qualche modo essere assimilato al pulsante della fotocamera. Ogni clic, uno sparo, ogni clic, una foto. Berta non era forse la mia arma? Ho sperato che lo stesso criterio potesse essere adottato per nominare anche la seconda macchina fotografica, così partendo dalla pietra e passando per la fionda, l’arco, la spada, l’alabarda, il moschetto, l’archibugio, la carabina, il cannone, sono approdato alla mitragliatrice e all’obice. Mi ci sono arrovellato per giorni senza approdare ad alcunché di utile. Finché non ho completamente abbandonato questo genere di ricerca. La soluzione è arrivata da sé, quasi per caso, riflettendo su quanto ormai la fotografia riempia le mie giornate al punto da essere diventata quasi una droga, qualcosa di cui non riesco più a fare a meno. Come quando fumavo ed ero dipendente dalla nicotina. Questa parola: “Nicotina”, ha fatto trillare dentro di me un campanello. Giacché, mi perdonino i canonisti, la mia nuova macchina è una Nikon e visto che la prima parte del nome, “Nico” poteva echeggiare la marca, non restava che trovare un senso alla seconda parte, a quel “tina” che chiude il termine, ma questo è stato facile. Tina è un nome proprio. Per esempio della Bellunese (di Trichiana, per l’esattezza) Tina Merlin, comunista, giornalista, che si è distinta nel denunciare il groviglio di interessi che ha causato il disastro del Vaiont. Ma Tina è anche Tina Modotti, anch’essa comunista, attrice e fotografa di fama internazionale. E, per finire, Tina è anche il nome di mia madre. Ora che non c’è più, non mi dispiace ricordarla associandola ad un passatempo, la fotografia, che riempie così tanta parte delle mie giornate. PS La foto di oggi è stata scattata all’ingresso dell’abitato di Villiago, un posto in collina che, quando c’è sole come oggi, sembra un pezzetto di Toscana. 20130624-175 Ventun gradi (di differenza) No, stamattina non ce l’ho fatta. So di attirarmi gli strali di quelli che lo fanno tutti i giorni, e senza tante storie. Ma è diverso! Io ci ho provato a uscire di casa, ve lo giuro, ma ero in pantaloni corti, canottiera e sandali e nel breve percorso per arrivare al camper oltre ai suddetti, mi sono bagnato anche l’anima. Ho capito subito che era meglio cambiare programma. Non ce l’ho più il fisico per andare a fotografare sotto la pioggia. Come diavolo facevo quest’inverno? Quando c’era addirittura la neve? Bah, di sicuro non vestivo con la canottiera e i sandali. Oltretutto mi è scoppiato un raffreddore fetente, di quelli con la goccia perennemente appesa al naso. Dove vado con questo tempo? Recupero l’ombrello, il treppiede, e me ne torno a casa. Questa breve uscita mi ha infreddolito. Per curiosità vado sul balcone a vedere cosa dice il termometro. Diciannove gradi? Ma se ieri, sotto il sole, si capisce, il termometro urlava quaranta! Ventun gradi di differenza; così, da un giorno all’altro. Non è mica normale… No, no, io oggi non mi muovo di casa. Vorrà dire che i miei “clienti”, oggi, dovranno accontentarsi di una foto d’interni. Lascio Berta a riposo. La fatica gliela faccio fare tutta a Nicotina, la neo nata. Sarà un’ottima occasione per verificare se l’obiettivo che ho comprato per lei è veramente luminoso come dicono. Lascio le luci spente, mi limito a scostare un po’ le tende per far entrare quella del giorno. In casa non ho niente che valga una foto, tranne, forse, il mio ambiente di lavoro. Sia chiaro che dico lavoro senza malizia, è solo un modo convenzionale di esprimersi, così, tanto per capirsi. Non ci vuole una grande preparazione: basta lasciare più o meno le cose come stanno. Il tavolo in sala svolge la duplice funzione di tavola da pranzo e scrivania da lavoro. Per fortuna si può raddoppiare ed io lo tengo sempre aperto, al centro della stanza, ma appoggiato al muro sul lato minore. Sopra ci metto tutto quello che mi serve, soprattutto il computer con il quale mi collego al resto del mondo, qualche libro che leggo o sbircio e un blocco per gli appunti. Nel corso della giornata il tavolo via via si riempie di ogni sorta di ammennicoli. Tutto quello che mi passa per le mani, in attesa di improbabili riordini, finisce lì sopra. Sicché a pranzo o a cena, se voglio stendere un paio di tovagliette, spesso, e senza tanti complimenti, devo ammassare tutto quanto in un angolo. La foto di oggi – spero apprezziate lo sforzo – mostra un tavolo abbastanza sgombro e il sottoscritto che, nonostante i meno ventuno da ieri e la goccia che gli cola, sembra in piena attività. In realtà sono un attore nato. Riesco a far finta di essere impegnato in ogni situazione. E’ un retaggio di quando lavoravo… Fuori dall’inquadratura rimangono i fazzoletti di carta appallottolati che traboccano dal cestino, mentre, appesa al muro, una bandiera stinta testimonia del mio antico patriottismo e un ventilatore, ahimè fermo, ricorda i giorni caldi che ci siamo lasciati alle spalle. 20130625-176 Tra la terra e il cielo Come spesso accade, dopo la pioggia di ieri e il forte calo della temperatura, la giornata di oggi si è aperta all’insegna del bel tempo. L’aria era deliziosa, la temperatura perfetta e il cielo, be’, in questi casi si usa dire che era terso, ma per me era molto di più, era una vera e propria gioia per gli occhi. Sono uscito di casa con la voglia di testimoniare il mio stato d’animo. Non è facile rappresentare le proprie emozioni attraverso una foto, anche perché le emozioni sono sempre qualcosa di molto personale e non è detto che, nella stessa situazione, tutti provino gli stessi brividi. Ma qualcosa in comune ce l’abbiamo tutti: è il substrato su cui si edifica la nostra comune umanità. In fondo siamo tutti degli attori che vivono tra la terra e il cielo come tra le quinte di un teatro. Siamo legati alla terra perché ci ospita, perché qui si rivelano le nostre tradizione più feconde, troviamo le nostre radici e prendono sostanza i valori in cui crediamo; ma aspiriamo al cielo perché è il motore dei nostri sogni, perché ci apre all’infinito, perché nel cielo si esprime la nostra voglia di pace e l’inappagata aspirazione all’eternità. E dunque spero mi capiate se dico che questa mattina, quando mi sono trovato con questo spettacolo davanti agli occhi – tra la terra e il cielo – be’, sì, un tantino mi sono emozionato… 20130626-177 Inseguendo una nuvola Una pizza probabilmente non ben lievitata ha deciso di completare la lievitazione nel mio stomaco disturbandomi la digestione ed il sonno. Dopo essermi ribaltato per ore e aver sognato cose turche, questa mattina, bianco come un cencio, mi sono alzato che saranno state le cinque. Da casa sono uscito molto presto, senza saper bene dove andare. Mi sono messo ad inseguire una nuvola che, vista da lontano pareva posteggiata sopra il Piave di San felice. Ma la prospettiva era ingannatrice e, una volta arrivato al ponte, la nuvola, quasi prendendomi in giro, stazionava a bassa quota sulla pedemontana tra San Gregorio e Sospirolo. Poteva essere un altro miraggio, ma era ancora presto, gasolio ne avevo in abbondanza e dunque potevo permettermi di cincischiare. Nella mia marcia di avvicinamento la nuvola prendeva corpo, si dilatava sempre di più e già – a tratti – nascondeva alla vista il Pizzocco. Che avrei fatto se, ad un certo punto, ci fossi finito dentro? Il bel cielo azzurro che ci stava intorno potevo sognarmelo e allora addio foto, non mi sarebbe restato che invertire la marcia e tornare a casa. E invece la nuvola ha fatto la brava: occupava la sua posizione a mezza costa come fosse inchiodata e non manifestava alcuna intenzione di spostarsi. Sulla strada il cartello che indicava Maras mi ha fatto sorridere: ho pensato che poteva essere il nome di un rivoluzionario francese, uno dei tanti ghigliottinati da Robespierre, prima che lui stesso facesse la stessa fine. Poi mi è venuto in mente che a Maras doveva esserci una villa, la villa SandiZasso. Me ne avevano parlato. Era da un po’ che volevo vederla e questa poteva essere l’occasione. Chiedo ad una signora che sta passeggiando con un cane e ricevo le indicazioni che cercavo. Temevo che la nuvola me l’avesse inghiottita invece la trovo subito. La nuvola staziona qualche centinaio di metri più in alto e non è di nessun disturbo, anzi. Arrivo da dietro, posteggio e vado in esplorazione. Ad aspettarmi non c’era nessuno. Cioè no, non è esatto. C’è un cancello rosso sul lato destro della costruzione. E’ per metà aperto e nel bel mezzo troneggia un gatto bianco dagli occhi chiari. Cammino adagio per non farlo scappare, ma quello non ha nessuna paura di me, anzi, ad un certo punto mi si fa incontro. Lo coccolo un po’ e lui si strofina come se non avesse aspettato altro. Riprendo la perlustrazione. Giro intorno alla villa, poi prendo coraggio ed entro nel giardino. Non incontro nessuno, ma il gatto è diventato la mia ombra. Mi segue, mi precede, mi aspetta. Sembra farmi da cicerone. Avessero a Pompei una guida così! PS La villa mi è piaciuta molto e Nicotina, la mia nuova macchina fotografica, si è comportata bene. Sarebbero così tante le foto che vorrei condividere con voi che proprio non riesco a selezionarle una soltanto, perciò ne pubblico addirittura tre. Nella prima c’è la villa ma, se osservate bene, in basso a sinistra, c’è un gatto bianco; la seconda mostra il panorama che si vede da lassù: bellissimo. La terza l’ho riservata proprio a lui, il mio immacolato mentore a quattro zampe, non è carino? 20130627-178 Un istintivo di buon senso Uscendo dal parcheggio di casa non avevo ancora deciso se sarei andato a destra verso Limana o a sinistra verso Belluno. Se di trattasse di una scelta politica non avrei dubbi, ma da un punto di vista geografico-topologico, se non devo andare necessariamente in qualche posto, destra o sinistra si equivalgono. Alla fine sono andato a sinistra perché da destra stava arrivando un’auto che avrebbe potuto infastidirmi nella manovra. Percorrendo il ponte Bailey la scelta destra-sinistra si è riproposta pari pari. Quale uscita avrei preso una volta entrato nella rotonda? Anche questa volta la decisione è stata semplice e istintiva: per l’ennesima volta ha prevalso la voglia di fare una foto al Ponte della Vittoria da via Alzaia. Quello di via Alzaia è un punto di sosta che mi piace molto. Il Comune ci ha messo pure un tavolo con le panche per sedersi e fare merenda. Chissà se qualcuno si sarà mai fermato lì a fare merenda dal momento che è proibito l’accesso alle auto su tutta l’area. Sennò ti fanno la multa. Forse bisogna andarci a piedi. Certo che arrivare a piedi con la merenda… Che stupido! E ovvio che l’hanno fatto per quelli che arrivano in bici. Ci potranno sostare le bici? Boh, non si capisce. Forse Superman, a patto che arrivi volando… (ma dove la metterà la merenda? avrà una tasca segreta nel mantello?) Io la merenda non ce l’ho, ma ho con me “Nicolina”, la nuova macchina fotografica, che smania dalla voglia di far vedere quello che sa fare. Certo, quel divieto è un problema, ma decido di correre il rischio. Del resto è un rischio che ho già corso mille volte. Sì, perché di foto del Ponte della Vittoria fatte via Alzaia ne ho da vendere… Una l’ho pure postata nel blog in aprile (#107 L’importanza e l’urgenza). Ovvio che non potrei postarne una uguale! E allora che ci vado a fare in via Alzaia? Perché ostinarsi a scattare delle foto che non mi serviranno a niente? E’ una domanda oziosa, naturalmente. La risposta la so, ma non è una risposta razionale. Da un punto di vista razionale si tratta di un comportamento insensato. Ma che c’entra? La risposta razionale non è mica l’unica possibile! Ce ne sono altre che non tengono conto dell’utilità pratica, ma non per questo sono meno gratificanti. Per crearsi una piacevole consuetudine, ad esempio, per ripetere un’esperienza positiva, oppure per osservare i mutamenti dovuti al cambio di stagione. Ma pure queste, a ben vedere, sono risposte razionali. Ad un istintivo di buon senso, categoria alla quale mi onoro di appartenere, può bastare una sola risposta: perché sì! O, al limite, la sua versione più soft: perché no? PS Le foto del ponte della Vittoria le ho poi messe nel calderone, insieme alle altre. Hai visto mai che possano servire! Da via Alzaia l’unica via di fuga portava a Borgo Piave. E’ lì che, entrando in una corte assai caratteristica e un po’ fatiscente, ho scattato la foto del post di oggi. 20130628-179 Il carattere della cappa Mentre stavo fotografando, stamane, mi sibila il cellulare. E’ il suono che fa quando ricevo una mail. “Non ora”, penso, e termino lo scatto. Ma il soggetto mi stimola e mi vien voglia di provare altre combinazioni di tempo e diaframma. Dopo una decina di scatti la mail è completamente sparita dal mio cervello. Passando vicino all’Insolita Storia e poiché l’ora è quella topica, decido di premiarmi con un buon caffè. Dietro il banco c’è Romana con la quale scambio due chiacchiere sul tempo. Nel sedermi al tavolino metto la mano in tasca, inciampo sul cellulare e mi ricordo. Il messaggio, spedito dal responsabile del mio SilFanClub (un club di miei sostenitori che ha solo tre iscritti, ma molto tosti…), dice testualmente: “Ti avverto che il pc non ha accettato il nuovo nome della tua Nikon e l’ha ribattezzata ‘Nicolina’. Perché non adotti la variante Nikotina?” Tutto nasce dal fatto che qualche giorno fa, volendo battezzare la mia nuova macchina fotografica mi era uscito il nome “Nicotina” (#174 Ce l’ho!). Alfonso Lentini, di professione artista, nonché amico mio, me l’aveva detto subito: non mi piace, puzza di sigaretta… Naturalmente avevo respinto la sua osservazione con sdegno: come si permette! E se uno si chiama Nicola lui che fa, non lo frequenta perché puzza di fumo? E quanto puzzeranno gli abitanti di Nicotera? Ma in cuor mio sapevo che qualche ragione ce l’aveva. Essendo uno scrittore, Alfonso conosce bene il potere evocativo delle parole, e non c’è dubbio che le foto scattate con una macchina fotografica che si chiama “Nicotina” emanano un cattivo odore. Ma ora il mio piccolo-grande SilFanClub mi salva. Come ho fatto a non pensarci? Basta sostituire la “ci” con una “cappa” e il lezzo, magicamente, se ne va. Non è forse vero che si attiva la “cappa” quando si vogliono convogliare i cattivi odori verso la canna fumaria? Potenza evocativa delle parole! Ma questa cappa non finisce di stupire, ha un “carattere” davvero speciale, lo si capisce da come punta il piede per terra mentre alza in alto il suo braccio: non pare anche a voi? Guardatela: K – e ditemi se non è la rappresentazione grafica di un fotografo in posizione di scatto! Basta. Non servono altre argomentazioni. L’emendamento suggerito dal SilFanClub è accolto e il nuovo nome della mia nuova macchina fotografica da questo momento in poi sarà: Nikotina. PS: sentite ancora puzza di sigaretta? La foto di oggi: Sono passato per il chiostro dell’agenzia delle entrate proprio nel momento in cui, da un cielo impastato di grigio, è filtrato un po’ di sole. Nikotina ha fatto del suo meglio per catturarlo. 20130629-180 La ricompensa più bella Sabato e mercato (quello delle bancarelle, non quello dei banchieri) sono praticamente sinonimi per me. Nella mia testa l’uno richiama necessariamente l’altro. Così stamattina non sono stato troppo a pensare e al camper non ho dovuto spiegare niente, sapeva già la strada. Mentre salgo con le scale mobili, tuttavia, mi assale un pensiero negativo: “cosa credi di trovare, al mercato, che non sia già stato visto e fotografato?”. La paura di non riuscire a scovare un soggetto adeguato prende spesso i fotografi. E’ un po’ come, per gli scrittori, la paura del foglio bianco. Nell’uno e nell’altro caso si parla di “blocco” che, in altre parole, significa mancanza di idee, senso di inutilità, vuoto interiore, incapacità di esprimersi. Di solito accade per effetto della routine, quando tutto è già stato visto e detto e la vita ha smesso, ormai da un pezzo, di sorprenderci. “Mio Dio”, penso, “sono già a questo punto?”. In effetti comincio ad aggirarmi stancamente tra le bancarelle: la solita gente, i soliti colori, il solito schiamazzo. Davvero non riesco ad isolare un particolare che valga la pena di fotografare… Sono preoccupato. Finché non vedo quei due. Cioè, a dire la verità, non vedo loro, vedo le loro mani intrecciate quindi risalgo lungo gli avambracci fino ad identificare le figure di due persone anziane, vestite in modo modesto, ma decoroso, che camminano mano nella mano. Passano da una bancarella all’altra, si fermano stando un po’ discosti dai banchi, guardano la merce, discutono tra loro, ripartono all’unisono, senza mai staccare le mani. E allora mi commuovo. Non so dirvi perché, ma mi commuovo. Vedere due persone anziane che, a dispetto dei loro inevitabili problemi – chi non ne ha? – mostrano di essere così uniti, mi scioglie qualcosa dentro. Li seguo con discrezione e li fotografo anche, ma da dietro e da distante, cercando di non riprenderli in viso. Non mi interessa renderli riconoscibili, soprattutto non intendo violare la loro intesa. Cose come queste ancora riescono a sorprendermi. Confusamente mi pare che ci sia un messaggio da cogliere. Un semplice gesto, a volte, può innescare domande fondamentali. Qual è il senso della nostra vita? Che ci siamo venuti a fare su questo mondo? Scienza e Filosofia ci hanno fornito qualche risposta: siamo qui garantire la sopravvivenza della specie. La nostra vita è una staffetta e alla fine della nostra frazione dovremo passare il testimone. Nel frattempo siamo liberi di interpretare la gara come ci pare: sprecando le nostre energie o concentrandole su qualcosa che sia vitale per noi o importante per gli altri; il tempo passa comunque. In questo quadro l’Amore, quello con la A maiuscola, quello – per intenderci – che dopo decenni di convivenza ti fa camminare mano nella mano tra le bancarelle del mercato, è un dettaglio non necessario. Si sopravvive anche senza e dunque può anche non esserci. Non siamo venuti al mondo per amare, ma amare, per i fortunati che ne hanno la possibilità e i pochi che ne sono capaci, può essere la nostra ricompensa più bella. 20130630-181 Il colore rosso Salivo per la Panoramica stamattina, indeciso a tutto. Fin lì mi ci aveva portato il camper, praticamente di sua iniziativa, ma era necessario che prendessi in mano le redini della situazione e decidessi, una buona volta, da che parte andare. La giornata si annunciava splendida. Il cielo di un blu elettrico appariva qua e là velato da leggere striature. Sotto di me, sulla sinistra, il tratto di Piave che da Lambioi arriva fino a Limana serpeggiava nel cuore di una folta vegetazione di verdi cangianti. Sulla destra, ad ogni curva della strada, Belluno si affacciava in modo diverso, con le sue casette colorate che sembravano tante scatole di fiammiferi svedesi accostate l’una all’altra. Non c’è niente di meglio di una giornata di sole per esaltare la bellezza di questa città. Questo pensavo. E intanto pensavo se non valesse la pena fermarsi da qualche parte per scattare qualche foto. Già, ma come si fa a fermarsi sulla Panoramica? I rari rientri immettono in garage privati, impossibile sostare. Ho dovuto raggiungere Piazzale Marconi dove, percorrendo l’intera rotatoria, sono tornato sui miei passi. La cosa migliore, mi son detto, era parcheggiare da qualche parte a Borgo Piave e risalire su per la Panoramica a piedi. E così ho fatto. Nel percorrere via Uniera dei Zater per imboccare la Panoramica, tuttavia, l’occhio mi è caduto su una combinazione di colori dove il rosso la faceva da padrone. La fotografia è fatta anche di questo e il rosso è uno dei miei colori preferiti. Si ha un bel dire che la purezza è rappresentata dal bianco. Io dico che è solo una questione di convenzioni. Per me il colore che meglio di tutti evoca la purezza è proprio il rosso. E la speranza? Sarà mica verde la speranza! Per me anche la speranza è rossa. E qui non c’entra la politica, ve l’assicuro, e neppure l’etica: è una questione assolutamente estetica! Mentre prendevo la mira per scattare la foto, mi sono accorto del semaforo sullo sfondo. Era verde. Ho aspettato che diventasse rosso ed ho scattato.