GENERALI E SOLDATI La strategia e le tattiche degli Stati Maggiori E’ stato scritto che la prima Guerra Mondiale è stata l’ultima dell’ottocento e la prima del novecento, ed è sicuramente vero se si pensa alla mentalità ottocentesca con la quale gli Stati Maggiori degli eserciti europei impostarono la strategia e le tattiche dei loro eserciti e alla potenza delle armi del novecento. Dopo la guerra del 1870 tra francesi e tedeschi, nella quale la vittoria tedesca indusse gli Stati Maggiori degli altri paesi a modellare gli eserciti sul modello tedesco, vi erano state varie guerre coloniali, la guerra tra Giappone e Russia del 1904-1905 e le guerre balcaniche del 1912 e 1913. Le guerre coloniali non insegnarono nulla perché troppo disuguali le forze e i mezzi in campo, mentre la guerra che vedeva coinvolto il Giappone si svolse molto lontano dell’Europa, e anche se la sconfitta di un esercito così importante come quello russo destò molta impressione, forse non si trasse il dovuto insegnamento riguardo all’uso delle artiglierie. La battaglia finale per la presa di Port Arthur fu una vera e propria anticipazione delle battaglie della Grande Guerra: trincee, reticolati, mitragliatrici, assalti in massa con uomini lanciati contro difese quanto mai solide. Le guerre balcaniche poi coinvolsero stati di nuova formazione, con eserciti che godevano di ben poca considerazione per poterne trarre qualche insegnamento. Così nel 1914 gli Stati Maggiori iniziarono la guerra con la mentalità ancora legata a quella del 1870, e la tattica preferita, soprattutto dai francesi e degli italiani, era quella dell’offensiva a oltranza, dello slancio in avanti con la baionetta, con gli ufficiali in testa, spada in mano e con le uniformi con simboli che marcavano la differenza dai soldati semplici. Ora però ad attendere gli attaccanti vi erano batterie di cannoni sempre più potenti, fili spinati e nidi di mitragliatrici che falciavano inesorabilmente la fanteria avanzante. Basti pensare che quasi tutti gli eserciti entrarono in guerra senza elmetti realmente protettivi, e i francesi indossavano ancora la giubba blu e i pantaloni rossi, che dovevano essere il simbolo del coraggio del soldato, ed era la stessa divisa del 1870. La guerra iniziò nell’agosto del 1914 e subito sul fronte occidentale gli Stati Maggiori tedesco e francese misero in opera i loro piani strategici di guerra di manovra. Quello tedesco, piano Schlieffen, prevedeva l’avvolgimento dell’esercito francese penetrando dal Belgio, e quello francese, Plan XVII, l’attacco alla Germania attraverso l’Alsazia e la Lorena. La battaglia che fu poi chiamata “delle frontiere” vide i francesi attaccare sconsideratamente: la supponenza, o meglio l’incapacità degli alti e medi ufficiali francesi condusse gli uomini all’assalto in masse compatte, con le loro divise così visibili, con gli ufficiali a cavallo. Attaccarono anche reggimenti di cavalleria, e fu una strage: le mitragliatrici e l’artiglieria aprivano vuoti paurosi negli attaccanti. Il 22 agosto fu una giornata terribile per i francesi, che ebbero 27.000 morti in un solo giorno e un numero ancora più alto di feriti e dispersi. Anche i tedeschi commisero gli stessi errori, attaccando sovente in masse compatte, con altissime perdite. Cartoline di propaganda italiane del 1915, quando ancora la guerra era vista come un assalto alla baionetta, con gli ufficiali in testa a spade sguainate. Le prime grandi battaglie misero tragicamente in chiaro la superiorità della difesa contro gli assalti della fanteria, ma gli Stati Maggiori continuarono a non voler capire le prime lezioni. In pochi mesi la guerra di manovra divenne una guerra di posizione, almeno sul fronte occidentale dove gli eserciti si fronteggiarono poi per tutto il conflitto. Sul fronte orientale, dove agivano gli eserciti tedeschi e austriaci contro i russi, le manovre erano possibili per l’ampiezza del territorio, e le armate non si trovavano una di fronte all’altre come in occidente, se non in occasione delle offensive. L’esercito russo, sebbene tecnicamente arretrato, aveva grande disponibilità di uomini che rendevano inutili anche le vittorie tedesche, ma i suoi alti comandi furono i più inefficienti di tutta la guerra, che pure di comandi inefficienti ne vide molti. Ponte provvisorio a Saint Mihiel, villaggio occupato dai tedeschi nel 1914 e ripreso dalle truppe americano solo nel settembre 1918 (cartolina tedesca spedita dal fronte in Germania nel gennaio 1917) Le grandi e sanguinosissime battaglie del 1914 misero anche in luce la scarsa capacità degli alti comandi di tutti gli schieramenti che non riuscirono a realizzare le loro strategie, dei comandanti d’Armata, di Corpo d’Armata e di Divisione, che si dimostrarono sovente insufficienti e qualche volta incapaci, responsabili di errori che portavano migliaia di morti. Misero anche in evidenza come le strutture logistiche di tutti gli eserciti fossero nettamente insufficienti per tenere in efficienza milioni di combattenti. I rifornimenti per le prime linee usavano in gran parte cavalli e muli, perché i mezzi meccanici erano ancora poco affidabili e si guastavano continuamente: sovente le truppe combattenti non ricevevano cibo per uno o due giorni di seguito. I due anni successivi, 1915 e 1916 videro un seguito senza fine di offensive e controffensive da parte di tutti i contendenti che non portarono a sostanziali cambiamenti della linea del fronte occidentale. Continuava a crescere l’importanza dell’artiglieria, soprattutto quella pesante dei grossi calibri, e degli aerei, non solo per osservazione, ma anche per attacchi di mitragliamento e di bombardamento. Il capo di Stato Maggiore francese, generale Joseph Joffre (1852-1931) dopo il 1914 inaugurò la tattica del “grignoter”, cioè “rosicchiare” i tedeschi, convinto che il logoramento continuo avrebbe avuto ragione delle risorse tedesche, senza rendersi conto che il logoramento valeva anche per l’esercito francese. Dopo la battaglia di Verdun, dal febbraio al dicembre 1916 da lui presentata come “l’ultimo assalto verso Berlino” e finita in un immane massacro senza risultati pratici, Joffre fu sollevato dal comando. Joffre al centro con altri due generali Le innovazioni portate dagli eserciti per svincolarsi dalla guerra di trincea furono i gas e i carri armati. Per i primi, dopo saltuari usi di gas lacrimogeni da parte francese alla fine del 1914, vi fu una vera e propria corsa allo sviluppo di gas e liquidi letali, da spargere nell’atmosfera o lanciare con proiettili. L’uso dei gas, che iniziò su vasta scala nell’aprile del 1915 a Ypres, aveva anche lo scopo di terrorizzare le truppe attaccate, ma non fu mai risolutivo, portando solo a vantaggi tattici, se non forse proprio in Italia, dove un attacco con gas ben riuscito aprì la porta per la rotta di Caporetto. Questa forma di guerra, da tutti considerata una delle più orribili, era comunque troppo legata alle condizioni atmosferiche, per essere risolutiva: qualche volta il vento cambiava e riportava il gas sulle posizioni di partenza. Divenne invece comune l’uso di proiettili di artiglieria con gas e altri liquidi per colpire le fanterie e le batterie nemiche, mettendo in difficoltà gli artiglieri. francesi, ormai tutti convinti che gli attacchi frontali in massa non servivano altro che a provocare ingenti perdite, senza essere mai risolutivi. Il 1917 fu un anno difficile, i soldati erano stanchi e sempre più insofferenti della guerra e della vita di trincea, anche a causa delle notizie che giungevano dalla Russia e della sua rivoluzione. Vi furono ammutinamenti anche molto estesi in Francia, che furono domati solo con arresti di massa, processi e fucilazioni. Il successore di Joffre, Philippe Petain (1853-1951), comprese però che oltre al pugno di ferro erano necessari anche miglioramenti per i combattenti, periodi di riposo più lunghi, miglior rancio, frequenti avvicendamenti alle truppe di prima linea. Capì anche che i soldati non erano più disponibili a offensive frontali di massa. Carro armato canadese in Francia Cartolina “Canadian official” La necessità di riuscire a penetrare le difese protette da filo spinato e da nidi di mitragliatrici che bloccavano la fanteria, portò a studiare e realizzare mezzi corazzati: i primi carri armati inglesi entrarono in azione il 16 settembre 1916 nella battaglia della Somme, ma erano poco affidabili, soggetti a guasti, e riuscirono solo a terrorizzare i fanti tedeschi che li vedevano per la prima volta, senza portare reali vantaggi. Con il passare dei mesi, diventarono macchine più affidabili, furono studiate tattiche di coordinamento con la fanteria, e la loro importanza andò crescendo. I tedeschi all’inizio del 1917 iniziarono a studiare nuove tattiche sia di disposizione dei triceramenti sia di attacco, e lo stesso fecero poi i Un forte di Verdun (cartolina francese) Nel 1918, l’ultimo anno del conflitto, dopo l’uscita dalla guerra della Russia, gli eserciti tedesco e austriaco poterono dedicarsi interamente al fronte occidentale e italiano, ma la situazione interna era cambiata: gli anni di guerra e il blocco navale imposto dagli alleati avevano ridotto la Germania e l’Austria letteralmente alla fame. Le offensive inglesi e francesi, e, in minor parte, anche quelle italiane, erano ora condotte in modo razionale, con intensi cannoneggiamenti sull’artiglieria avversaria con proiettili esplosivi e a gas, e gli attacchi vedevano in prima linea carri armati seguiti dalla fanteria, mentre dall’aria, gli aerei davano tutta la copertura possibile, difensiva e offensiva. La difesa tedesca reggeva a fatica, ma continuava a tenere, e anzi sia i tedeschi sia gli austriaci riuscirono a lanciare nell’estate le loro ultime offensive, ben contenute. E poi per loro fu la fine nel mese di novembre. L’Austria crollò sul fronte italiano per disfacimento della struttura politica e militare, e le operazioni cessarono il 4 novembre. Sul fronte orientale la Turchia e la Bulgaria si erano già arrese, mentre sul fronte occidentale i combattimenti continuarono fino al giorno 11 novembre. La guerra era finita, l’Europa era cambiata. Nessuno dei grandi comandanti occidentali, i francesi Joffre, Foch, e Petain, gli inglesi French e Haig, l’americano Pershing e l’italiano Cadorna, era riuscito a imporre le proprie strategie, ma a guerra appena vinta, nessuno li criticò direttamente e furono anzi esaltati, solo la storiografia successiva cominciò a ridimensionarli, mettendo in luce i loro grandi errori militari. E lo stesso si può dire di quelli tedeschi, austriaci e russi. Anche i generali in sottordine, i comandanti d’Armate, di Corpo d’Armata e Divisione si rivelarono troppo spesso incapaci e di corte vedute, in particolar modo quelli austriaci, russi e italiani. Tutti però ebbero in comune la noncuranza per la vita dei propri soldati, che furono troppe volte mandati al macello insensatamente. La Grande Guerra non vide sorgere alcun Napoleone, e nemmeno un mezzo Napoleone: lapidario, a questo proposito, è il titolo di un libro recentemente uscito “Grande Guerra piccoli generali” (v. bibliografia) tempo, più ottocentesco che moderno, testardo, di carattere molto difficile che lo rese sempre temuto dai subalterni, mai amato. Nominato capo di Stato Maggiore, intese l’Alto comando in modo “dittatoriale” nel senso che non volle mai rendere conto delle sue azioni nemmeno al Governo, con il quale ebbe sempre rapporti molto difficili. In questo era molto simile al suo omologo francese, il generale Joffre. Del resto i suoi propositi strategici erano stati ben chiariti in un libretto rosso distribuito nel febbraio 1915 a tutti gli ufficiali, nel quale si sosteneva la superiorità degli attacchi frontali rispetto a quelli di avvolgimento, ignorando totalmente quanto accaduto in Francia nel 1914. Ribadiva che gli avversari si vincono con la superiorità di fuoco e il movimento in avanti. Lo Stato Maggiore Italiano e gli Ufficiali Superiori In Italia, il comando supremo era affidato al Generale Luigi Cadorna (1850-1928), nato a Pallanza da nobile famiglia piemontese, che aveva svolto tutta la sua carriera attraverso una serie di comandi in Italia, e l’unica guerra cui partecipò fu quella del 1870 per la presa di Roma, come tenente d’artiglieria nel Corpo d’Armata comandato dal padre Raffaele. Si distinse nei suoi scritti come sostenitore dell’offensiva a oltranza, e, nei reparti da lui comandati, per la durezza della disciplina. Su di lui e sulla sua personalità sono stati scritti moltissimi articoli e libri, alcuni laudatori altri denigratori. Possiamo dire solo che fu uomo del suo Cadorna in una cartolina del 1915 Cadorna era il tipico rappresentante degli alti ufficiali italiani che, come del resto i loro omologhi degli eserciti alleati, costituivano, come diremmo oggi, una “casta”, con le proprie regole, attraversata da rivalità interne, ma unita nell’insofferenza verso il potere politico. Una casta superba, anche se proprio non si capisce da dove potesse arrivare questa superbia, dato che l’esercito e la marina dopo l’Unità avevano raccolto solo sconfitte, a Custoza, Lissa, Adua e anche la condotta della campagna di Libia era stata molto incerta, per non dire altro. Cadorna aveva avuto tutti i mesi dall’agosto 1914 al maggio 1915 per fare tesoro dell’esperienza delle battaglie del fronte occidentale ma, fedele alle proprie convinzioni tattiche, iniziò subito con gli sbalzi offensivi sull’Isonzo che portarono a sei sanguinosi attacchi durati molti giorni (dalla I alla VI Battaglia dell’Isonzo), senza sostanziali vantaggi. In tutte queste battaglie, gli italiani avevano una nettissima superiorità numerica ma una cronica carenza di artiglieria, intesa sia come mancanza di cannoni, soprattutto di grosso calibro, sia come capacità tecnica di sostenere col fuoco l’avanzata della fanteria o di controbattere quello nemico. Veniva così a mancare uno dei due cardini del pensiero tattico di Cadorna, quello della superiorità di fuoco, ma questo fatto non gli impedì di continuare con le offensive, contando sulla superiorità numerica dei fanti. Dalla VII Battaglia del settembre 1916 fino alla XI nell’agosto del 1917, iniziò le spallate contro il fronte austriaco, offensive più limitate nello spazio, che dovevano portare a un logoramento degli avversari, la stessa tattica di Joffre, e che produsse anche un vistoso logoramento dell’esercito italiano. Vale la pena lasciare la parola allo stesso Cadorna citando alcune frasi delle sue memorie, pubblicate nel 1921, nelle quali si può rilevare una lucida analisi delle difficoltà tecniche del nostro esercito, accompagnata da continue accuse al Governo, contrapposta al totale silenzio sulle difficoltà dei soldati e sull’assurdità di mandare continuamente all’assalto uomini in condizioni di inferiorità tecnica. Parlando della III Battaglia dell’Isonzo dell’ottobre del 1915 scrive: la nostra superiorità veramente notevole stava nella fanteria; ma essa non poteva prevalere, sia perché le fanterie nemiche erano ormai da più di un anno esercitate a questo genere di guerra, sia perché nelle odierne battaglie occorrono superiorità grande di artiglieria, e largo munizionamento, che a noi mancavano. Cadorna dimostra quindi di avere ben chiara l’impossibilità di avere ragione delle difese avversarie, sa di non poter prevalere, ma non ha nemmeno per un momento il dubbio di dover sospendere azioni di attacco di questo tipo. Anzi, continua con altre sette offensive sull’Isonzo nel 1916 e nel 1917 prima della rotta di Caporetto. Cadorna aggiunge poi: ciò malgrado le nostre truppe si batterono valorosamente e con slancio superiore a ogni elogio, come ne fecero fede le gravi perdite incontrate. Le gravi perdite furono di 67.000 uomini fuori combattimento, con più di 10.000 morti e 11.000 dispersi. Continua poi scrivendo che l’offensiva abbia proceduto così faticosamente, senza darci risultati territoriali rilevanti, e più avanti ancora essa ottenne in ogni modo il risultato di logorare molto il nemico. Ecco, questa era la strategia di Cadorna: logorare il nemico, anche a prezzo di 21.000 morti e 45.000 feriti in un mese. L’agiografia del dopoguerra ebbe anche il coraggio di definirlo come il vincitore di undici battaglie, mentre la XII dell’Isonzo non fu di sua iniziativa, ma fu la rotta di Caporetto, dopo la quale fu destituito e sostituito da Armando Diaz. La rotta di Caporetto fu resa possibile, oltre che dalla capacità tattica di comandi intermedi di piccoli reparti tedeschi, da una serie concomitante di concause, il maltempo, un attacco locale con gas ben riuscito, gli ordini fraintesi, il panico che si scatenò quando le truppe si credettero circondate, una carenza di comando per i malintesi fra Cadorna e i Comandanti dei Corpi d’Armata e infine la stanchezza morale delle truppe italiane. Cadorna non aveva voluto credere fino all’ultimo alla possibilità di un attacco in forze da parte degli austriaci, ai quali si erano aggiunti i tedeschi, anche se le notizie portate dei disertori croati e rumeni erano molto chiare: addirittura un disertore portò i piani di attacco. Cadorna si era lasciato sorprendere, come era già successo nell’estate del 1916 con la Spedizione punitiva austriaca in Trentino, per la quale i segnali erano stati chiari: in quel caso almeno Cadorna seppe però porvi rimedio con una accorta difesa. Caporetto fu anche la tragica conclusione del metodo di comando di Cadorna, che aveva tolto qualsiasi possibilità di iniziativa ai comandi sottoposti, che attendevano sempre ordini scritti per agire: i comandi di divisioni, reggimenti e brigate non si muovevano senza ordini precisi dall’alto, pena la rimozione dal comando e anche la corte marziale. Al momento dell’attacco austriaco nessuno dei subalterni ebbe mai il coraggio, e forse nemmeno la capacità, di prendere le iniziative che la situazione sul campo richiedeva. I maggiori difetti di Cadorna erano comunque simili a quelli di quasi tutti i Capi di Stato Maggiore degli eserciti europei: la testardaggine nel mantenere le strategie iniziali anche quando si palesavano insufficienti, l’indifferenza, per non dire il disprezzo, per le vite degli uomini, la disciplina inflessibile come unico mezzo per motivare i soldati. A questi Cadorna univa i suoi personali difetti, il comando inteso come assoluta autorità sugli inferiori e la tendenza a incolpare i subalterni dei rovesci: se un’offensiva non era andata a buona fine rimuoveva i comandanti che incolpava di scarsa convinzione e animosità, stati d’animo che, secondo lui, si ripercuotevano sulla truppa al loro comando. Con il Bollettino del 28 ottobre del 1917 Cadorna scaricava la colpa di Caporetto sui soldati: La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere, ignominiosamente arresisi al nemico o dandosi codardamente alla fuga, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia. Il Governo ne diffuse poi una versione lievemente corretta: "La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra del fronte Giulia". Il giorno 8 novembre il Cadorna fu sostituito dal generale Armando Diaz (1861-1928), nato a Napoli, dove frequentò fin da giovanissimo l’Accademia Militare “Nunziatella”. Partecipò da tenente colonnello alla guerra di Libia e nel 1915 col grado di maggiore generale, fece parte del comando Supremo, ma nel 1916 chiese un comando operativo e col grado di tenente generale comandò una divisione sul Carso e poi un Corpo d’Armata. La sua nomina suscitò molte sorprese, ma era una scelta del Re che vide in lui l’uomo giusto al momento giusto. Molto diverso da Cadorna come carattere, riuscì a stabilizzare la ritirata sulla linea Altipiani-Monte Grappa-Piave, già scelta da Cadorna come linea di estrema resistenza, e a ridare in parte saldezza e fiducia all’esercito, che seppe riscattare la sconfitta di Caporetto. Di fronte alle grandi perdite di uomini e materiali dopo Caporetto, Diaz fu obbligato ad assumere un atteggiamento prudente e poco propenso ad azzardate offensive, anche contro le pressanti richieste degli Alleati. Diaz vedeva l’esercito combattere bene in difensiva, ma non si azzardò a impiegarlo in offensive frontali come quelle di Cadorna, ed anche alla fine di ottobre del 1918, con l’esercito austriaco in disfacimento, fu lento a lanciare l’offensiva. In tutto il 1917 l’esercito aveva perduto 800.000 uomini, fra caduti e morti per malattia, sbandati, prigionieri, dispersi e ricoverati in ospedale: nel 1918 le perdite furono di 175.000 uomini, anche grazie alla strategia di Diaz. Fu rafforzato il Servizio Informazioni che così cattiva prova aveva dato nel 1916 con l’offensiva austriaca e nel 1917 a Caporetto, favorendo la fattiva collaborazione con l’aviazione furono mandati al fronte molti “imboscati” nei Comandi e nei Sevizi, fu intensificata la propaganda presso le truppe, evitando l’eccesso retorico che aveva caratterizzato fino al 1917 l’azione di sostegno alle truppe. Diaz riorganizzò il sistema delle licenze, quello dei turni in prima linea e dei periodi nelle retrovie, e istituì una polizza di assicurazione per tutti i soldati. Di Cadorna mantenne però la rigida disciplina e l’atteggiamento negativo verso i nostri prigionieri. In compenso riuscì a migliorare i rapporti con il governo. Tutto sommato fu un esercito nuovo quello che combatté nella seconda meta del 1918 fino alla fine della guerra. Bibliografia La bibliografia sulla Grande Guerra è immensa, sovente di parte e distorta dalle ideologie. Durante la guerra non vi furono ovviamente pubblicazioni, se non quelle dei giornali che si avvalevano anche delle grandi firme del giornalismo di allora: le notizie stampate erano quelle volute dallo Stato Maggiore, non essendo i giornalisti ammessi nelle zone di operazioni, e molti resoconti erano semplicemente inventati. Nei primi anni del dopoguerra fu un fiorire della memorialistica, con descrizioni dure e crude della guerra. Fu pubblicata nel 1919 la relazione della Commissione istituita per far luce sui fatti di Caporetto, che ben poco fece chiarezza. Uscirono alcuni libri di generali comandanti, tra cui quello di Cadorna, che altro scopo non avevano che di giustificare le loro azioni. La vittoria mise in ombra gli errori e le mancanze dei grandi comandanti, non solo italiani, che finirono anzi per essere onorati come gli artefici della vittoria. Il fascismo poi pose fine al dibattito su Caporetto, per esaltare invece la vittoria finale del 1918 in funzione di una ricomposizione nazionale. Le relazioni ufficiali dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore furono stampate negli anni ’30 per gli avvenimenti del 1915, 1916 e 1918, ma quella sul 1917, che comprendente Caporetto, fu pubblicata solo nel 1954. In quegli anni gli scritti furono quasi sempre di autori militari di carriera. Dopo la seconda guerra mondiale, la Grande Guerra non fu dimenticata, anzi a partire dagli anni ’60 vi fu un fiorire di pubblicazioni che mise finalmente in luce tutti gli aspetti sociali e umani, oltre che militari, e che ridimensionò quelli che fino ad allora erano stati considerati i generali vincitori. Finalmente si fece anche luce sulla grande tragedia dei prigionieri italiani, abbandonati dal governo e dalle autorità militari. A pensarci bene, è singolare questo rifiorire di studi sulla Prima guerra negli anni successivi alla Seconda, segno che la Prima fu veramente la “Grande Guerra”. Cito solo le opere ultimamente consultate per la preparazione di questo lavoro. Melograni Piero, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori 1998 Pieri Piero, Storia della prima Guerra Mondiale, Einaudi 1968 Rochat Giorgio, L’Italia nella prima guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Feltrinelli, Milano 1976 Robbins Keith, La prima guerra mondiale, Mondadori Storia 1984 Tuchman Barbara, I cannoni di agosto, Ed. Garzanti 1973 L’Esercito Italiano e i comandanti De Simone Cesare, Soldati e generali a Caporetto, Ed. Tindalo 1970 Del Boca Lorenzo, Grande Guerra, piccoli generali, Utet Torino 2008 Lumbroso Alberto, Fame usurpate, Joffre, Foch, Haig: il mito infranto dei Generalissimi, Book System 2014 (ristampa edizione 1934, pubblicata con il titolo “Fame usurpate, il dramma del Comando Unico Interalleato”) Multari Massimo (Col. f. alp.), L’esercito italiano alla vigilia della battaglia di Caporetto, www.cimeetrincee.it Santini Rinaldo, Cadorna e Diaz, due generazioni a confronto, Rivista Militare giugno 1989 La guerra Cadorna Luigi, La guerra alla fronte italiana, Milano, Fratelli Treves Editori, 1921 Fabi Lucio, La prima guerra mondiale 1915-1918 (Storia fotografica), Ed. Riuniti 1994 Forcella E. Monticone A., Plotone d’esecuzione: i processi della prima Guerra Mondiale, Laterza 1968 Hart Liddel Basil, La prima Guerra Mondiale, 1914-1918, Rizzoli BUR Storia., 2001 Hart Peter, La grande storia della Prima guerra mondiale, Newton Compton 2013 Hastings Maz, Catastrofe 1914, l’Europa in guerra, Neri Pozza Ed. 2014 Isnenghi Mario, Il mito della Grande Guerra, Il Mulino 2014 Isnenghi M. – Rochat G., La Grande Guerra, Il Mulino 2014 Martin Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Mondadori Le Scie 1998 12/2015