3.1.7. GIULIANO 281 Il successo del “Giuliano” di Riccardo Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Messaggero», 19.4.1928 - p. 2, col. 2-3 Il libretto del Giuliano che Arturo Rossato ha elaborato per Riccardo Zandonai è chiaro, plastico, e presenta episodi tragici impressionanti, così da corrispondere bene al temperamento del musicista: ma non si può a meno di riconoscere che e nel soggetto e nello svolgimento, soprattutto in ciò che si stacca dalla schematica antica leggenda cristiana, risulta improntato ad una violenza sanguinaria che fa del protagonista quasi un criminale irresponsabile, che in compenso della strage dei genitori in circostanze non bene spiegabili è assunto alla gloria celeste. Inoltre il dramma non è lumeggiato da quelle passionali espressioni umane che interessano e trascinano: i due giovani innamorati e sposi manifestano una ponderatezza tranquilla nelle loro manifestazioni sentimentali, e lo scatto si presenta soltanto nelle furie di Giuliano anelante alla strage. Il prologo, più delle altre parti, ha una linea armoniosa e una condotta organica che si presta assai bene ad una estrinsecazione musicale ben sentita e graduata, tale da raggiungere espressioni ed effetti di immediata efficacia. Mentre il velario è ancora chiuso e l’orchestra tace, si odono tenui armoniosi accordi di voci lontane: è il saluto degli spiriti della foresta dell’Eterno Amore che regge l’universo; e in quelle note è il nucleo iniziale delle laudi al Signore che si leveranno alla chiusa del prologo e, con diversa espressione ritmica, nell’epilogo. All’aprirsi del velario, si uniscono alle voci misteriose le vive armonie della selva, col gorgheggiare degli usignoli, col ritmo insistente del cuculo, col frusciar del vento tra i rami, che risorgono mentre Giuliano impetuosamente compie la strage degli innocenti uccelli e della cerva fatale. Turbina la tempesta, mentre si oscura la selva ed echeggiano le voci maledicenti: un armonioso tema del violoncello accompagna il voto solenne del peccatore pentito; quindi alle dolci voci della selva che risorgono con la luce si uniscono le voci osannanti del cielo nella promessa della redenzione, e tutte si fondono in un complesso riboccante di esultanza, mentre squillano gioiose le angeliche trombe. Questo prologo, non ostante la varietà dei sentimenti e il loro contrasto fonico, ha una bene intesa e ben conseguita organicità ed una gradazione magistralmente condotta, che giunge ad una chiusa di sicuro effetto. ** Nel primo atto, tra gli appelli delle scolte e le espressioni di Reginella, interviene un breve tema melodico che sembra racchiudere il germe del sentimento amoroso sbocciato nel cuore della fanciulla, tema che serpeggia nella partitura conferendole un interessante carattere di unità, anche di fronte al contrasto offerto dalla scena della giovinetta folle. L’arrivo di Giuliano vincitore chiude con impressionante eloquenza la prima parte dell’atto. La seconda parte, nella sua serenità quasi statica, in cui pur non mancano episodi gustosi come la frase di Giuliano «E un dì se al rintoccar della campana» e quella delle due voci all’unisono «Son la tua fonte dal fresco cantare», nel complesso risulta meno sentita della prima, e meno convincente. Il secondo atto contiene una delle più delicate e armoniose pagine dello spartito, la canzone dell’usignolo, il cui tema appare all’inizio dell’atto e tutto lo pervade, risorgendo a traverso il prorompere delle urla della belva misteriosa e dei ripetuti turbamenti di Giuliano e 3.1.7/1 all’arrivo dei vecchi peregrinanti: così da stendere un velo di tristezza su tutto l’atto, anche dopo la dolcezza del dialogo tra i genitori di Giuliano e la gentile sposa di lui e il tumulto violento che sottolinea l’attimo fatale della strage. Nell’epilogo, ecco, dopo la fiera tempesta, una religiosa calma, preannunziata da un breve preludio in cui riappaiono i temi augurali dell’inizio del prologo: sereno è il canto del Crocifero e dei pellegrini salmodianti; dolce è il dialogo tra Giuliano e Reginella, sottolineato da ricordi dei temi che già accompagnarono le impressioni della amorosa donna ma un grigio velo di malinconia vi si distende sopra. Quando appare l’Incognito, il dialogo è sostenuto da arpeggi che gli conferiscono purezza sempre più sensibile, finché, rivelatasi la sua Divina natura, le falangi celesti intonano canti osannanti con un crescendo poderoso che ricorda bensì la sacra promessa del prologo, ma con sensibile differenza nella sostanza intima: solenne apoteosi che illumina l’anima del peccatore assurta alla gloria celeste. ** Il nuovo spartito di Riccardo Zandonai conferma nettamente la sicura orientazione del pensiero artistico del maestro, il quale ha voluto, con un soggetto prevalentemente mistico inspiratogli da religiose impressioni della prima età, assurgere a più nobile visione d’arte; e se l’ambiguità delle significazioni che si vanno delineando nello svolgimento del soggetto e gli elementi meno convincenti che ne turbano l’essenza intima contribuiscono a renderne non immediata l’efficacia, pur tuttavia devesi riconoscere nel Giuliano la stessa mente e la stessa mano da cui furono ideati e vergati i precedenti spartiti. Chiarezza melodica, grande abilità formale che si manifesta in una armonizzazione ingegnosa, ardita senza arbitrarie contorsioni, in una strumentazione varia e colorita che lumeggia il quadro scenico con molta efficacia plastica e dà bel rilievo ad ogni atteggiamento, in una salda quadratura organica che conferisce allo spartito carattere unitario ben definito. Notevole merito è questo, anche se le tristezze e le antinomie del soggetto provocano, a traverso la bella veste, sensazione di tristezza e talvolta di disagio. ** Il Giuliano è stato presentato al pubblico del Teatro Reale dell’Opera in veste veramente ammirevole: protagonista è... Riccardo Zandonai, che ha concertato e diretto lo spettacolo non soltanto con l’amore profondo dell’artista per l’opera propria, ma con abilità, vigorìa, finezza, con cura di ogni particolare e con profonda e sicura estrinsecazione delle grandi linee della partitura che ne ottiene saldezza organica singolare, confermandosi direttore e animatore di eccezionale vigorìa. Protagonista... sulla scena è il tenore Franco Lo Giudice, che creò la parte di “Giuliano” quando la prima volta lo spartito apparve sulle scene al San Carlo di Napoli: ha voce limpida, estesa, di bel timbro, accento incisivo, impeto superbo, e insieme grande finezza e dolcezza di espressioni; si è affermato cantante e attore eccellente sotto ogni aspetto. “Reginella” è Ines Alfani Tellini, nuova per il pubblico romano, di cui ha saputo conquistar subito tutte le simpatie per la voce armoniosa, calda, estesa, modulata con grazia squisita che sa emettere con sicurezza e facilità ammirevoli, per l’intelligenza con cui ha plasmato il personaggio. Maria Zotti si è ottimamente affermata nella difficile parte della “Fanciulla folle” che essa ha eseguito con bella voce e giusto accento, con indovinato senso drammatico. Anna Gramegna e Adolfo Pacini hanno sostenuto le brevi parti dei genitori di Giuliano con l’arte eletta di cui hanno dato sì belle prove in altre parti di primaria importanza; Luigi Bernardi ha reso con vera nobiltà ieratica, voce calda e ben modulata, la parte dell’“Ignoto”; Arturo Pellegrino, Blando Giusti, Nadia Kovaceva, Ubaldo Tofanetti, Franco Staffile, Gianni Salzedo hanno contribuito nel miglior modo alla completa e perfetta estrinsecazione del nuovo spartito. Sicura, agile, colorita l’orchestra; organico, saldo, armonioso il coro, bene addestrato dal maestro Giovanni [sic] Conca. Ottimo l’allestimento scenico diretto da Pericle Ansaldo, ammiratissime le caratteristiche scene di Pieretto Bianco. 3.1.7/2 ** La cronaca dello spettacolo porta al prologo tre chiamate agli artisti e tre all’autore, tra applausi unanimemente calorosi; quattro chiamate agli artisti al primo atto e due all’autore; tre chiamate agli artisti e tre all’autore al secondo; tre agli artisti e due all’autore all’epilogo. ** [...] 282 A[ugusto] Cart[oni], “Giuliano” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Corriere d’Italia», 20.4.1928 - p. 5, col. 1-2 (con foto giovanile di Zandonai) Appena a due mesi di distanza il Giuliano di Riccardo Zandonai, l’ultima opera del maestro, è passato dal San Carlo di Napoli al nostro Teatro dell’Opera in una edizione magnifica curata dallo stesso autore che ieri sera la diresse. Le accoglienze di Roma sono state, se non entusiastiche come quelle di Napoli, certamente cordiali: tanto da poter dire che anche fra noi l’opera ha riportato un successo di applausi meritato nonché significativo. Poiché il Giuliano di Riccardo Zandonai si ascolta con sommo interesse per quella fluidità melodica che tutto l’avviva. Una melodicità che può anche non avere dei punti di assoluta superiorità o preponderanza ma che la si ritrova un po’ da per tutto: nascosta tra le famiglie dei vari istrumenti, nelle masse corali che in questo lavoro sono trattate meravigliosamente, nell’insieme dell’orchestra, nella fusione completa di tutti gli elementi sinfonici e delle voci dei solisti. Vi ha qualche punto, in questo Giuliano, di particolare tenerezza: citeremo la nenia del terzo1 atto, il duetto che la precede, il finale del secondo – quel finale che segue il movimento intenso delle masse che sono là sul piazzale del Castello in attesa, con Reginella, del vincitore e liberatore. Poi, in tutta l’opera, vi ha quella robusta melodicità che rivive nello stile dello Zandonai e che si segue con sommo diletto e si sente progredire ad ondate. Una dietro l’altra sovrapponendosi, fingendosi, presentandosi in una agitazione continua. L’opera dunque ha riportato anche qui in Roma accoglienze ben liete, sebbene non calorose come al S. Carlo. Questo Giuliano non prende né può prendere il pubblico come altre opere dello stesso Zandonai, la Francesca per esempio, perché nell’azione non si rinvengono situazioni drammatiche e passionali che vincano e suggestionino. Qui ci troviamo di fronte ad una situazione prevalentemente mistica, e quando il librettista ne è uscito per invadere il campo passionale, il musicista vi è invece tornato con sollecita premura perché aveva inteso, nello spirito, di comporre un’opera in cui il misticismo musicale avesse un predominio assoluto. Ciò non toglie che alcuni punti, brevi purtroppo, concisi e conclusivi, come l’entrata di Giuliano al secondo atto e la uccisione dei genitori nel terzo, abbiano un risalto di preponderante e convincente drammaticità. Ma sono pochi e brevi, rispetto al complesso quadro, e di una consistenza musicale più smorta di quella usata in tante altre situazioni nelle quali il musicista ebbe momenti di felice ispirazione. Reginella, nell’apprendere la strage che Giuliano ha fatto dei genitori, non ha uno scatto – ascolta quasi serenamente. Anche lei risente di una freddezza che non ha passione mancando la vita. Noi riteniamo che l’opera percorrerà molto cammino, per quale durata di tempo non sapremmo certo dirlo. Possiamo però affermare che i futuri successi saranno principalmente 1 Per tutto l'articolo il critico incorre nell'equivoco di considerare la struttura dell'opera in 4 atti anziché in 2 con Prologo ed Epilogo. 3.1.7/3 dovuti allo Zandonai musicista, e sinfonista in particolar modo, più che allo Zandonai operista. Giuliano conserva quella genialità di forma, quella chiarezza di linguaggio che sono proprie dello stile di Riccardo Zandonai e che danno alle sue opere un interesse spiccato. Dell’opera già avemmo occasione di parlare diffusamente quando apparve per la prima volta sulle scene del S. Carlo2. Non è quindi il caso di ripeterci. Possiamo perciò passare alla cronaca della serata – che fu lietissima – ed a parlare della meravigliosa esecuzione. Durante il corso degli atti si ebbe un applauso al termine della nenia, anzi prima un tentativo di applauso subito soffocato, e che scoppiò fragoroso dopo la ripresa. Poi si ebbero tre chiamate agli artisti e tre all’autore dopo il prologo, quattro chiamate agli artisti e due all’autore dopo il primo atto, tre agli artisti e tre all’autore dopo il secondo e in fine tre agli artisti e due all’autore all’epilogo. Protagonista nell’opera: il tenore Franco Lo Giudice dalla voce di sanissimo timbro, melodiosa, calda, vibrante. Si mostrò padrone della scena, cantò con viva espressione modulando dolcemente nei punti di estrema dolcezza e conservando una linea di piena armonia. Alle note acute, che lanciò con indicibile chiarezza, seppe dare una consistenza di felice risalto tanto da meritarsi applausi calorosi. Reginella era la Ines Alfani Tellini che compose con vivace espressione la figura del personaggio che rappresentava. È, l’Alfani Tellini, cantante di eccellenti mezzi vocali ai quali unisce un sentimento nobile ed una espressività musicale assai sentita. Cantò, ieri sera, con passione, accentuando con grazia ed avendo momenti di completo abbandono. Riscosse dal pubblico meritati applausi. Le parti dei genitori vennero sostenute dalla signora Anna Gramegna – artista di notevoli requisiti canori – e dal baritono Adolfo Pacini – cantante dalla voce generosa – i quali diedero ai due personaggi una espressione assai sentita, modulando con quello stile che li rende ormai ricercati fra i migliori artisti del nostro teatro lirico. Molto bene, nella parte dell’Ignoto, Luigi Bernardi, voce sensibile ad ogni espressione ed ogni dolcezza. Felicemente a posto risultarono le parti di minore importanza affidate ad Arturo Pellegrino, Blando Giusti, Nadia Kovaceva, Ubaldo Tofanetti, Franco Staffile, Gianni Salzedo. Magnificamente istruite le masse corali che nell’opera hanno una parte di eccezionale importanza e la cui preparazione è dovuta al maestro Giovanni [sic] Conca. E magnifica, in ultimo, l’orchestra comandata dallo stesso autore. Di grandissimo effetto l’allestimento scenico diretto da Pericle Ansaldo [ ] le due mistiche visioni del prologo e dell’epilogo, la vivacità delle luci, ed ammiratissime le scene dovute all’abilità di Pieretto Bianco. 283 r[affaello] d[e] r[ensis], “Giuliano” di Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 20.4.1928 p. 5, col. 5 (con un ritratto a matita di Zandonai) Sebbene presentato quasi improvvisamente, tra le alternative d’una più volte annunziata e molto attesa Traviata, e quindi con un pubblico la cui disposizione di spirito non era la più preparata, il Giuliano di Zandonai ha ricevuto ieri sera liete e cordiali accoglienze. Gli applausi all’autore, che era anche il direttore, e magnifico direttore, scoppiati al suo primo apparire sul podio, si son ripetuti calorosi alla fine di ogni episodio ed alla fine dell’opera. La quale, dunque, se per quella condizione di spirito collettivo di cui sopra non ha 2 Cfr. nn. 377 e 378. 3.1.7/4 potuto forse essere intimamente intesa – il che avverrà nelle repliche – si è ugualmente imposta all’attenzione e all’ammirazione di tutti gli ascoltatori d’intelletto ed obiettivi. Ed in verità il Giuliano, come avemmo occasione di notare dopo la vittoriosa rappresentazione al “S. Carlo” di Napoli, segna una nuova tappa nella feconda, tenace e rettilinea vita artistica di Zandonai, segna una nuova affermazione delle sue tendenze estetiche. Quando la sensibilità del nostro pubblico riconquisterà i suoi naturali e tradizionali attributi, si troverà in grado di accettare più prontamente l’opera drammatica del maestro trentino, la quale, fatta com’è di poesia, di emozione e d’irruenza, può vantarsi di una personalità che a poco a poco diventa riconoscibile e familiare. Molti ieri sera notavano, in alcuni momenti dell’opera e in alcuni atteggiamenti del linguaggio, contatti e somiglianze con altri momenti ed atteggiamenti di opere precedenti. Nulla di più esatto. Si tratta di elementi espressivi e di mezzi tecnici propri di Zandonai, che lo rendono oggi, dopo Mascagni e Puccini, una spiccata individualità artistica. Senonché, questi elementi e questi mezzi, dapprima paludati con ridondanza e spesso nascosti nella orgiastica sovrapposizione di colori e di linee, di armonie e di contrappunti, son venuti chiarificandosi, semplificandosi, alleggerendosi, stabilizzandosi, al punto che nel Giuliano appaiono nella loro più adamantina purezza stilistica e nella loro più stretta necessità psicologica. Il prologo, che pur si prestava ad uno sfoggio descrittivo degno della doviziosa tavolozza di Zandonai, si serve di pochi disegni, di chiari temi, di ritmi normali per dar vita misteriosa e soprannaturale alla foresta in risveglio. Il mormorare delle fronde, il cinguettare degli uccelli, le folate di vento in unione o in alternativa con le voci che giungono dall’alto o di lontano, formano un tessuto sonoro di una incomparabile trasparenza, che si mantiene anche quando i canti e l’orchestra levano un inno all’amore e concludono in una solenne perorazione. Siamo nel simbolo, in quel simbolo tanto ostico alle platee latine, ma qui senza misteri o astrusità. La natura, che in fondo è vivente ed operante per sé stessa, partecipa all’azione prima con le laudi e le luci, ora col dolore e col buio, infine con alleluia e osanna. Il prologo, oltre che della squisita, vibrante coralità, si orna di due episodi fortemente incisi e comunicativi. Quello della maledizione, allorché dalle viscere dell’orchestra e dai meandri della foresta sorgono possenti voci lanciate da un cupo megafono, e quello del pentimento e dell’invocazione di Giuliano. Non ricordiamo se Zandonai abbia altra volta espresso l’angoscia di un uomo con tanta melodiosità di pensiero, con tanta efficacia ritmica ed armonistica; certo questa pagina prorompe da un cuore che palpita, da una gola che singhiozza, e determina la precisa impostazione della tragedia; poiché Giuliano è una vera e propria tragedia umana, in cui la commistione con gli elementi mistici e soprannaturali derivanti dalla leggenda sacra nulla toglie di grandezza, bellezza e verosimiglianza. Si capisce che non è agevole penetrare nelle sue più intime pieghe e scorgervi la arditissima sostanza ideale. Un occhio miope o superficiale può trovar tutto, dettagli e soluzione incoerente e criticabile; ma questa sorte tocca ad ogni vicenda tragica, dalle greche alle shakespeariane, se non ci si sforza di coglierne la significazione riposta e la epicità universale. In ogni modo, nel primo e secondo atto del Giuliano, siamo non certo nel verismo ma nella verità umana e terrena. La figura di Reginella appare subito nella luce della dolcezza e dell’umiltà. Il suo canto d’amore e di attesa si scioglie gentile e patetico. Non giunge diritto al cuore degli ascoltatori, perché o inframmezzato o contemporaneo al movimento delle scolte e alle voci di lontano. È però un canto accorato e insieme fidente, intessuto sopra un disegno melodico che produce delicate risonanze emotive. Così pure il duetto tra Giuliano e Reginella non è di quelli faciloni e infarciti di luoghi comuni; non è uno sfoggio di ondate romantiche ma un delicato discorso, gentilmente 3.1.7/5 melodioso, che solo di tanto in tanto s’accende e fiammeggia. Un’anima mistica come lui e docile come lei non può trascendere in eccessi passionali. Se si tien presente questa considerazione, del resto ovvia, la bellezza di questo duetto non può sfuggire. Indubbiamente il secondo atto è il più riuscito e il più vigoroso della tragedia. La nenia dell’usignolo, al di sopra di qualunque derivazione o coincidenza, è una delle gemme più preziose e fini del ricco forziere di Zandonai. La tempesta di fuori, l’ululo impressionante della fiera, la lotta interiore di Giuliano sono resi con energia verdiana e con efficacia straordinaria. Si sente che la tragedia procede serrata e ineluttabile. E si compie orrendamente. Zandonai ha superato lo scoglio più aspro dell’opera, dando un saggio magnifico della sua formidabile potenzialità drammatica. Che questa sia stata perfettamente intesa dal pubblico romano di ieri sera non sapremmo dichiararlo con sincerità. Il ritorno all’atmosfera soprannaturale e più specificamente mistica, dopo lo scoppio della tragedia umana, è effettuato dal musicista col ritorno di alcune delle melodie e delle descrizioni del prologo. Inoltre, il coro dei pellegrini: Roma antica, Roma santa è nobile, largo, severo e religioso; il colloquio tra Giuliano e Reginella si distende musicalmente sui motivi della redenzione e dell’usignolo, ed è doloroso e rassegnato; l’apparizione del Signore, sopra uno sfondo paradisiaco e tra le voci osannanti degli angeli, è resa con sentito ardore di fraternità umana e divina. In conclusione, quale che siano stati o saranno per essere i giudizi concordi o contrastanti dei vari pubblici sui risultati estetici e drammatici, l’importanza della nuova opera di Zandonai non viene per nulla intaccata, perché essa vive di una vita intensa e schietta e perché si ricollega direttamente al tipo tradizionale dell’opera italiana, sia dal punto di vista melodico, cromatismo compreso, che da quello strumentale sobrio ma nuovo, moderno, personalissimo, tale da rispondere alle più raffinate esigenze della psicologia. Giuliano è un’opera che alla immediatezza musicale, in alcuni momenti irresistibile, non unisce per tutti i pubblici una uguale immediatezza concettuale. Bisogna entrare nello spirito, non certo consueto, dell’azione mistico-umana perché si riceva completa e definitiva l’impressione e perché si possa dare un giudizio globale e preciso. Giuliano è un’opera che racchiude tale somma di bellezze da rilevarle e goderle in ripetute audizioni. A noi, che l’abbiamo seguita ed ascoltata nella rappresentazione napoletana, il valore emotivo, nella salda e nitida struttura, è apparso ieri sempre più completo, più sano e determinante. Gli è che l’arte di Zandonai, anche quando tende ad avvicinarsi alla sensibilità corrente del pubblico teatrale, rimane sempre – ed è la sua gloria e il suo avvenire – arte eletta ed aristocratica. E questo è un convincimento generale, che non richiede parole illustrative. Diremo invece che l’esecuzione apprestata dal “Teatro Reale dell’Opera” non ha smentito le lodevoli abitudini affermate in numerosi spettacoli. L’allestimento, cioè gli scenari di Pieretto Bianco, genialmente congegnati, abbondantemente coloriti, discretamente stilizzati, il gioco delle luci particolarmente adoperato, i pittoreschi costumi, la disciplina delle masse, l’encomiabile addestramento dei cori, hanno formato una cornice ed uno sfondo appropriati, aderenti e talora suggestivi. L’orchestra, condotta dall’autore con disinvolta perizia e con quell’animazione che gli deriva dalla facoltà creativa, ha mirabilmente amalgamato, fuso ed integrato il complesso delle parti. Franco Lo Giudice, nella non facile reincarnazione del protagonista, ha dato prova di acuta intuizione. Ha cantato ed agito senza mai uscire dalla misura. Nell’invocazione e nella scena tragica è stato apprezzatissimo. Anche Ines Alfani Tellini ha saputo leggiadramente impersonare reginella dolce e soave: ha detto con soavità la canzone dell’usignolo. Perfetti i genitori, cioè Adolfo Pacini ed Anna Gramegna, artisti intelligenti e valenti. Bene tutti gli altri, che solo ragioni di spazio ci impedisce di menzionare personalmente. 3.1.7/6 284 L[uigi] C[olacicchi], La prima di “Giuliano” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Popolo di Roma», 19.4.1928 - p. 7, col. 4-5 Si va a risentire un’opera nuova dopo pochi mesi dal battesimo come per prendere possesso definitivo delle impressioni suscitate alla prima rappresentazione e, consolidate che siano le teste di ponte, si tenta di spingere l’esplorazione estetica più avanti che sia possibile. Come dire una specie di sostituzione della guarnigione fissa alla compagnia da sbarco, con tutti i vantaggi che possono derivarne per la maggiore comprensione dell’opera d’arte. Siamo andati al Giuliano con questo preciso divisamento e via via che l’opera si svolgeva ci siamo accorti che approdavamo agli stessi punti dove avevamo gettato l’ancora alla recita del teatro “San Carlo”; cosicché le impressioni fondamentali di allora son rimaste invariate e si possono riassumere in poche parole. Giuliano come mistero, ossia come melodramma che in certo qual modo possa costringerci a respirare l’aria pura e diafana del mistico racconto di Jacopo da Varagine, non ci pare che sia stato realizzato. Un po’ perché Arturo Rossato nel trasportare la leggenda dalla forma narrativa a quella rappresentativa l’ha appesantita e complicata di episodi tutt’altro che di natura divina; un po’ perché Riccardo Zandonai, secondo noi, non è il temperamento musicale più incline ai rapimenti contemplativi, fatto si è che l’opera, nonostante l’impiego di tutti i mezzi ritenuti capaci di creare un’atmosfera di misticismo – in prima linea il coro, con le voci della terra e del cielo, poi l’apparizione degli angeli e infine la comparsa dello stesso Gesù sul palcoscenico – dal punto di vista della religiosità sia mancato al suo scopo. Il prologo e l’epilogo, che dopo la rappresentazione di Napoli parvero ad alcuni le pagine migliori della partitura perché dotate di una certa unità stilistica e compattezza formale non raggiunte da Zandonai né in Giulietta e Romeo né nei Cavalieri di Ekebù, potranno magari meritare, come pezzi sinfonico-corali a sé, tale riconoscimento. Tuttavia se consideriamo qual è il fine poetico-religioso ch’essi si propongono, con tutta la nostra buona volontà non potremo mai ascoltarli come la realizzazione completa di sì elevate intenzioni. E se anche vi si volesse vedere compiutamente espressa la leggenda vera e propria di Giuliano che da feroce cacciatore di belve diventa umile e devoto servitore della legge di Cristo, osserveremmo che se mai il mutamento si esaurisce già nel prologo, la perorazione del quale – per la sostanza sonora che l’alimenta e per la crescente tensione corale e strumentale che alla fine cerca attingere le vette dell’apoteosi – mostra l’eroe già pentito, perdonato e glorificato. L’epilogo inoltre non ci sembra che presenti differenze sostanziali dal prologo e l’apparizione dell’Ignoto, che ancor più evidente vorrebbe rendere nei confronti del prologo il senso del sovrumano, ci lascia completamente indifferenti. Della leggenda dell’Ospitaliero, quindi, non si svolge nell’opera di Zandonai che la parte diremo così terrena, distribuita dal Rossato in episodi guerreschi e amorosi culminanti nel duplice omicidio dei genitori di Giuliano per mano del figlio. Si capisce che alle prese con un uomo e giovine e ardente, e per giunta cavaliere e innamorato, al quale il librettista ha posto accanto una dolce figura di castellana anch’essa innamorata, la vena di Zandonai s’è rinfranchita ed ha trovato subito le forme per cui incanalarsi or tranquilla e serena, or trepida e appassionata. È vero che alla fin fine Giuliano e Reginella finiscono per parlare lo stesso linguaggio di Paolo e Francesca, un linguaggio però sia pure più sfrondato, più semplice e più puro; e l’atmosfera di Francesca e di Giulietta si ritrova di quando in quando nelle veglie ansiose presso le mura del castello assediato, nei richiami delle scolte, nello scalpitare dei cavalli al galoppo, nei clangori del trionfo, nelle sospensioni dell’azione, nei sospiri degli amanti. Ma è pur vero d’altra parte che nei due atti fra il prologo e l’epilogo l’impostazione 3.1.7/7 del dramma è tale che nulla più rimane ormai di quella spiritualità che pareva dovesse avvolgerlo dal principio alla fine, e se non fosse per il delitto del secondo atto dimenticheremmo senza fatica il pentimento e il giuramento di Giuliano e il tragico destino che grava su di lui. Lo vedremmo soltanto tenore innamorato e nemmeno geloso. La leggenda si rifà opera con tutti gli annessi e connessi e Zandonai si rifà operista facile e sicuro. Si rifà cioè abilissimo cantore al servizio delle passioni incipienti, duettista eccellente, coloritore d’ambiente come pochi, musicista cavalleresco e generoso che si slancia a corpo morto nelle mischie descrittive manovrando accortamente i ritmi, le armonie e i timbri che gli occorrono per ottenere gl’impasti, le sonorità, in una parola gli effetti desiderati. I due atti centrali pertanto, nei limiti consentiti dal libretto, presentano una certa coesione fra azione e musica, e molti sono gli episodi che l’attestano: dall’arrivo di Giuliano alla rocca di Reginella ad alcuni bei momenti d’espansione lirica del seguente atto; dall’inizio del secondo atto alla ninnananna dell’usignolo: una parentesi, questa, larga di sviluppi tematici ad andamento sinfonico. Poi con un ritorno della ninna-nanna sopraggiungono i genitori di Giuliano e la profezia tremenda, purtroppo, ha da compiersi nel modo che tutti sanno. È noto come di solito i musicisti si regolano in questi casi di morte violenta: la musica si gonfia di sonorità, si arroventa di tutto il fuoco di cui dispongono gli ottoni, i ritmi si agitano, il canto diventa urlo, le armonie si susseguono febbrili e ferrigne come colpi di stile, quasi a voler scarnificare un volto e ridurlo un teschio. Poi, a cose fatte, il silenzio si distende assoluto sull’orchestra e sulle voci, e soli rimangono a singhiozzare i timpani atterriti. Tale procedimento si dice potentemente drammatico e pare che sia inevitabile e di prammatica. In questo modo, più o meno, Giuliano uccide il padre e la madre, tuttavia non ci abbandoneremo ad inutili recriminazioni. Di feroci ammazzamenti sulla scena lirica da che teatro è teatro ne sono avvenuti tanti che ormai non ci fanno più impressione, ed anche se il delitto appaia mostruoso, illogico, inesplicabile, lasciamo correre. Tanto dovrà ben spuntare il giorno in cui il melodramma lascerà alla cronaca nera il compito d’illustrare i fattacci, e della morte, se proprio non se ne possa fare a meno, rifletterà soltanto l’ombra. *** L’esecuzione di Giuliano, curata dallo stesso autore in funzione di direttore, è stata soddisfacente specialmente dal lato orchestrale. Il maestro Zandonai ha ottenuto dall’orchestra un’estrema flessibilità e prontezza ritmica, e si è valso di tali qualità per ricavarne ottimi effetti d’insieme. I cantanti da parte loro hanno dedicato all’interpretazione amore e intelligenza e ben coadiuvati dal coro, cui è assegnato un compito assai importante, han composto quadri fusi ed equilibrati. Il tenore Franco Lo Giudice per robustezza di voce e ricchezza d’accenti drammatici si è egregiamente comportato nel raffigurare Giuliano. In Reginella la signorina Ines Alfani-Tellini ha mostrato oltre a una bella voce un acuto intuito scenico. La signora Anna Gramegna (la madre) e Adolfo Pacini (il padre) nelle loro brevi parti sono stati come sempre efficaci. Così pure può dirsi della signorina Maria Zotti (la fanciulla) e degli altri tutti che si sono agevolmente disimpegnati. Gli scenari sono stati ideati dal pittore Pieretto Bianco che nel realizzarli ha avuto a collaboratore il pittore Luigi Tarra. Essi sono sobri e ben composti, ma non oltrepassano i limiti della comune scenografia. Le vaghe apparizioni degli angeli nel prologo e la visione del Paradiso nell’epilogo, specialmente quest’ultima, ad onta dei fasci di luce che le avvolgono e le fanno aeree e lontane, han qualcosa d’irrimediabilmente macchinoso che rompe l’incanto. L’uditorio foltissimo che assisteva allo spettacolo ha seguito i quattro quadri attentamente e alla fine d’ognuno di essi ha applaudito cordialmente il maestro Zandonai e gli interpreti, chiamandoli alla ribalta quattro volte dopo il prologo e il primo atto, tre dopo il secondo e di nuovo quattro dopo l’epilogo. 3.1.7/8 285 A[lberto] G[asco], “Giuliano” di Zandonai al Teatro Reale, «La Tribuna», 20.4.1928 - p. 3, col. 2-3-4 (con caricatura di Zandonai in posa direttoriale) Claudia Muzio, forse un po’ stanca di travestirsi da Violetta Valery e di morire a scadenza fissa tra le braccia di Alfredo, ha chiesto una breve tregua e in sua vece è apparso alla ribalta del Teatro Reale Giuliano, cacciatore protervo, parricida ed eremita ospitaliero, personaggio multiforme e preoccupante, le cui gesta hanno curiosamente eccitato l’estro del maestro Riccardo Zandonai. Chi si struggeva aspettando la dolce Violetta è rimasto un po’ male, trovandosi faccia a faccia con questo Giuliano che maneggia l’arco, le frecce e il coltello da caccia con una disinvoltura terrorizzante e che – pare impossibile! – diventa santo proprio per il fatto di aver macellato i propri genitori in un accesso di follia sanguinaria. Tuttavia, passato il primo momento di sorpresa, gli habitués del Teatro Reale hanno fatto buon viso al nuovo venuto; resta inteso però che le cose sarebbero andate assai meglio se Giuliano si fosse presentato a momento opportuno invece di giungere all’improvviso, prima che il ricevimento in suo onore fosse stato preparato. Bando a qualsiasi querimonia. Diamo senz’altro il resoconto esatto dello spettacolo di iersera. Saremo brevi e lesti al massimo grado. Della nuova opera è piaciuto in modo speciale il Prologo, che può dirsi un vasto poema sinfonico-corale. Canta la selva al bacio del mattino. Le voci degli esseri viventi si fondono con quelle delle piante e dell’acque sorgive: le creature concorsi inneggiano a Dio. Avendo già esaminato altra volta3, cioè dopo la première del Giuliano al “San Carlo” di Napoli, questo Prologo – di tipo affine a quello del Mefistofele, ma di contenuto melodico indiscutibilmente originale – ci basta segnalare che i suoi pregi sono stati iersera ben compresi. In mancanza di fervore schiettamente religioso, c’è in codesta musica un calor di vita benefico, un fluire di melodia chiaramente italiana, una ingegnosa ricerca degli effetti sonori: c’è insomma più di quanto occorra per sedurre un uditorio intelligente e senza preconcetti. Il grande successo del Prologo ha un po’ nuociuto al resto dell’opera. Quando uno spettacolo comincia trionfalmente, c’è sempre da temere un... abbassamento di temperatura. Comunque anche il secondo episodio del Giuliano ha riscosso encomi lusinghieri. La scena tra “Reginella” e l’Arciere, sugli spalti del castello, è parsa paragonabile ai brani migliori della Francesca e della Giulietta. Anche l’arrivo dell’eroe, dopo il duello col “Barbaro”, ha prodotto una forte impressione, sopra tutto per la veemenza delle sonorità orchestrali. Ma il duetto tra Reginella e Giuliano, per quanto adorno di lucidi motivi, non ha soddisfatto interamente il pubblico, perché privo di quello slancio che la situazione avrebbe richiesto. Troppe cautele. Troppa pruderie... Si attende invano uno scatto di audacia giovanile, di incontenibile ebbrezza amorosa. Giuliano, sebbene sia reduce da un’epica impresa, non mostra la minima eccitazione. Il suo cuore dà 70 pulsazioni al minuto, non una di più. Egli parla con freddo giudizio e quando alfine si decide a prendere Reginella fra le sue braccia, lo spettatore prova un indicibile senso di sollievo... Bella, assai bella la prima parte del terzo quadro. Il colore della scena è squisito. Nella stanza di Reginella vagano fantasmi melanconici. L’orchestra, che bisbiglia e freme, è discreta, sinuosa, piena di tenerezza. La canzone dell’usignolo reca fragranze nuove di melodia. Ecco, finalmente, un usignolo degno non solo di rispetto ma d’infinito amore! 3 Cfr. n. 374. 3.1.7/9 Chiudiamolo in una gabbia di gran prezzo e mettiamolo a molta distanza da quello di Stravinski, affinché non disimpari l’arte di modulare canzoni soavi e italianissime... Andiamo avanti: non ci è concesso sostare... Il dramma s’infosca (ahimè!). Urla un lupo nella boscaglia che cinge il castello. Giuliano, dopo vari tentennamenti, va a uccidere la fiera. Il resto è noto. Ci resta soltanto da ripetere quello che già scrivemmo altra volta: la vicenda tragica del Giuliano lascia il pubblico quasi inerte. Invero la rabbia omicida del giovane può soltanto interessare gli psichiatri. Si tratta di un semplice caso clinico che non può formare argomento di un’opera d’arte. Il parricidio orrendo di Giuliano è un autentico fattaccio, né conviene tirare in ballo Iacopo da Varagine e gli altri antichi scrittori cristiani che hanno raccontato questa lugubre istoria. Riccardo Zandonai, dotato di vivido ingegno teatrale e splendido signore della tecnica musicale odierna, se l’è cavata nel miglior modo possibile, alternando i fragori orchestrali e i silenzi ansiosi, facendo divampare grandi fuochi e addensando qua e là ombre fitte; però la sua bravura non ha bastato a rendere accettabile una situazione teatrale disperatamente odiosa. Peccato! Il pubblico, alla chiusa del terzo quadro, ha applaudito con qualche esitazione. Soltanto all’apparire di Riccardo Zandonai sul palcoscenico s’è udito nella sala un potente scroscio di applausi. L’assemblea giudicante ha voluto scindere le responsabilità del musicista da quelle del librettista, dando al primo un premio, non troppo vistoso ma pur significativo e confortante. L’epilogo, grigio e nobilmente melanconico, è stato ascoltato con attenzione lusinghiera. La scena del supremo addio di Giuliano a Reginella ha un po’ depresso gli animi per la sua uniformità: però il ritorno della generosa sinfonia corale e strumentale che già si era udita nel Prologo ha recato un magico sollievo ai cuori attristati: così, finita l’opera, il maestro Zandonai e i suoi interpreti sono stati applauditi lungamente, con sincerità non dubbia. Tout bien consideré, può dirsi che Giuliano abbia vinto la battaglia ingaggiata col pubblico romano in condizioni sfavorevoli. Il successo si è illanguidito soltanto là ove il poema drammatico ha urtato la suscettibilità degli spettatori, alieni dalle visioni torve di demenza e di stragi famigliari. Lo Zandonai si è riaffermato uno dei pochi musicisti contemporanei che posseggano un genuino ed acuto intuito teatrale e quindi possano arricchire il nostro repertorio melodrammatico – alquanto striminzito – di opere ben costruite e sontuosamente policrome. *** L’esecuzione del Giuliano non ha risentito affatto dell’allestimento frettoloso. Tutti gli interpreti si sono mostrati all’altezza del proprio còmpito. Franco Lo Giudice, cantante dalla voce robusta e dal timbro metallico, ha sempre raggiunto un alto grado di espressività: nell’episodio catastrofico del terzo quadro egli si è comportato con fierezza leonina. Aggraziatissima e dignitosa come una vera “Reginella”, la signorina [!] Ines Alfani Tellini, che fino a ieri non conoscevamo neppure di nome, si è rivelata a noi come una delle più valorose artiste del teatro lirico. La voce carezzevole e intonatissima di questa cantatrice ha esercitato un singolare potere di seduzione sul pubblico. Ottima la signora Anna Gramegna (La madre) e assai apprezzato il baritono Adolfo Pacini (Il padre); bene la signorina Maria Zotti nella parte della ragazza folle; il baritono Luigi Bernardi, il tenore Tofanetti e gli altri hanno meritato espliciti encomi. Orchestra alacre e palpitante, guidata con ferrea mano dallo Zandonai, il cui talento direttoriale diventa sempre più solido. Impeccabile la massa corale; di notevole effetto gli scenari dipinti dall’illustre Pieretto Bianco con l’aiuto del pittore Tarra. La messa in iscena brillante e il gradevole giuoco delle luci hanno valso all’Ansaldo e al Cellini complimenti fervidi. 3.1.7/10 Questa sera (Deo gratias!) la Traviata con Claudia Muzio e Tito Schipa. Il glorioso melodramma verdiano sarà diretto da Gino Marinuzzi. 286 l. a., “Giuliano” di Riccardo Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «L’Impero», 20.4.1928 p. 3, col. 5-6 C’è, nel libretto, un vizio d’origine: la sproporzione tra il romanticismo dell’azione che si svolge tra castelli, imprese guerresche e amici di castellane e la violenza sanguinaria, sebbene fatale, del protagonista. Il quale obbedisce bensì a una specie di destino che giustifica in certa qual guisa tale discordanza. Ma il destino non basta. Manca l’atmosfera della favola. Non si può creare una favola con elementi realistici e fantastici che non si amalgamino tra loro. Se si concede troppo realismo a una parte non si può pretendere che la fantasia dell’altra si fonda nella misura giusta. Ecco perché dal soggetto di quest’opera risulta un non so che di arbitrario, di sconnesso che nuoce all’interesse di tutta la favola musicale. Arturo Rossato è un uomo di forte ingegno e ha una grande pratica in materia librettistica. Io ho grande ammirazione per lui; ma mi sembra che questa volta egli non abbia raggiunto quella pienezza di fusione che è anzi una caratteristica delle opere sue di teatro. *** Il prologo è veramente degno, musicalmente, dell’ingegno di Riccardo Zandonai. Organico, armonico, selvaggio, misterioso, esso ha le linee della grandiosità e dell’effetto, e reca un segno sicuro e chiaro del talento del Maestro. Voci misteriose della selva, gorgheggiare d’uccelli, frusciare del vento e, a poco a poco, col sopraggiungere della tempesta, la maledizione che si riversa con la violenza della bufera stessa; indi le voci del pentimento, il risorgere della luce, le promesse della redenzione, l’osannare delle trombe d’argento degli angeli... Tutto questo è reso con perizia rara, con un effetto lirico e appassionato veramente mirabile. Peccato che questa pagina del prologo non trovi riscontro di bellezza e di potenza negli altri atti! Forse Riccardo Zandonai si trova più a suo agio quando deve descrivere l’impeto delle passioni tumultuanti che quando deve assurgere alle bianche vette del misticismo. Fatto sta che l’opera non è sopra lo stesso piano di elevatezza. Tra il prologo e l’epilogo la sproporzione ideale che abbiamo rilevato nel libretto si verifica nella musica. L’organicità della favola non è ottenuta. Pagine bellissime come quella della ninna-nanna e il tema dell’usignolo stanno sempre lì a testimoniare il talento di Zandonai; ma tutti sappiamo di quale somma di fusione e di pienezza sia fatta un’opera d’arte che voglia vivere a teatro la sua bellezza immortale. I meravigliosi frammenti non bastano. Ma pur facendo queste riserve dobbiamo rendere omaggio alla nobiltà e al talento dell’autore di «Giulietta e Romeo» e dei «Cavalieri di Ekebù». *** L’esecuzione è stata, se non mirabile, soddisfacente. L’orchestra, diretta dall’autore, ha risposto pienamente alle intenzioni ritmiche e agli effetti che il Maestro si proponeva che fossero espressi. Il tenore Lo Giudice non possiede mezzi eccezionali, ma una limpidezza di voce e una abilità scenica non comuni. Egli aveva creata la parte di “Giuliano” quando si era data per la prima volta al San Carlo di Napoli. Si vede che l’ha maturata e sentita scenicamente e infatti ieri sera il personaggio fu reso con grande rilievo. 3.1.7/11 La signorina [!] Alfani Tellini fu una leggiadra “Reginella”. Ha una bella voce, ottima dizione e moltissima grazia. Era nuova al pubblico romano, ed ella ha saputo alla prima prova conquistarlo. La signora Gramegna (la madre) e il Pacini (il padre) si fecero notare per la loro efficacia, come sempre, e anche la Zotti (la fanciulla) si disimpegnò lodevolmente. Gli scenari di Pieretto Bianco eseguiti da Luigi Terra [sic] non si sono elevati dai soliti scenari il cui difetto più visibile è di essere più macchinosi che grandiosi. Nessuna realizzazione fantastica. Neanche a parlarne! Il pubblico chiamò quattro volte al proscenio gli interpreti e il Maestro dopo il prologo, tre dopo il primo e il secondo atto, quattro dopo l’epilogo. 287 d[omenico] a[laleona], Il successo di “Giuliano” al Teatro Reale dell’Opera, «Il Lavoro d’Italia», 20.4.1928 - p. 3, col. 2-3-4 (con un bozzetto per la scena dell’ultimo quadro e una fotografia di Zandonai) In occasione della prima comparsa sulle scene del Giuliano al San Carlo di Napoli, circa due mesi or sono, ci occupammo esaurientemente di questa nuova creazione di Riccardo Zandonai4. Mettemmo in luce i caratteri del soggetto, tolto da una poetica leggenda di Jacopo da Varagine. E dicemmo che simili leggende, che – come i miti – riassumono nel giro di pochi tratti e di poche parole, con l’esagerazione il più delle volte grottesca e mostruosa propria della ingenua fantasia popolare, un certo ordine di aspirazioni e di sentimenti, hanno un profondo fascino quando sono lasciate nella loro semplicità e imprecisione primitiva. È enormemente difficile tradurle in una successione compiuta, minuziosa, logica, cronologica, scenica di vicende concrete. Bisogna riempire i vuoti, costruire gli episodi e gli atti del dramma, creare un nesso soddisfacente di cause e di effetti di cui nella schematica e ruvida invenzione primitiva non è, né può essere, il minimo cenno o la minima necessità. Per esempio, la maledizione a Giuliano, così terribile nella inumana punizione che predice, così sproporzionata alla innocente causa che la provoca, può apparire ammissibile e profonda nella sommaria e colorita sintesi della leggenda, dove ha valore di simbolo e può tradurre nei suoi brevi tratti scolpiti certe voci tremende, oscure e inaspettate della coscienza. Perde invece molto della sua naturalezza ed efficacia presentata in precisi elementi scenici (con il babau dei due occhi di bragia) e stemperata in una successione di vicende che vuol condurre al sollecito avveramento della predizione a tutti i costi. Dicemmo che il Rossato è riuscito con notevole abilità a costruire, sul brevissimo abbozzo della leggenda, i due atti, il prologo e l’epilogo; specialmente creando la figura di Reginella, che gli ha dato modo di uno sviluppo non altrimenti possibile. Ma, nella difficile impresa, è necessariamente caduto qua e là in troppo sensibili durezze e inverisimiglianze. Qualcuno dirà che tutto, in tal campo, nel teatro lirico è tollerato. È un gravissimo errore. Le inverisimiglianze di cui va famoso il teatro lirico non sono tutte della stessa natura. Alcune sono benedette inverisimiglianze; e son quelle che traggono origine sulla linea dell’ardente appagamento di sentimenti, di passioni vere e irresistibili. Quando sia nella travolgente foga di una prepotente passione, ben vengano le traversate di barriere di fuoco e di muri impenetrabili (come nell’ultimo atto di Aida). Di ben altra natura sono invece le inverisimiglianze che – al contrario – fanno a pugni con la verità dei sentimenti e con quelle che, in un dato momento dell’azione, dovrebbero essere le naturali tendenze dell’animo dei 4 Cfr. n. 381. 3.1.7/12 personaggi. Come nel Giuliano lo strano atteggiamento di Reginella alla fine del secondo atto, quando, invece di attendere vegliando angosciosamente e disperatamente il ritorno dello sposo dopo la fuga di lui in mezzo alla tempesta, ella scompare totalmente e inesplicabilmente per tutto il tempo necessario al compimento della strage. Ma – ripeto – la materia era difficile. E Riccardo Zandonai, sulla trama offertagli dal Rossato, ha avuto il merito di stendere doviziosamente le sue migliori inspirazioni musicali, passando dalla soavità e freschezza primaverile di certe pitture di ambiente, di cui egli diede così cospicui saggi nelle più belle pagine di Francesca e Giulietta, alle più acerbe e crude espressioni dell’angoscia, dell’agitazione, del terrore. Un elemento nuovo nell’arte di Zandonai appare nel Giuliano: l’elemento mistico, che gli ha dato campo di creare, nel prologo e nell’epilogo, pagine di più largo respiro di quello che non sia abituale alla sua natura; per quanto, alla chiusa dell’opera, mentre sulla scena è apparsa e permane la figura del Redentore, si sarebbero attesi effetti sonori e canori di maggior sobrietà e austerità. Non starò a rielencare le pagine migliori del lavoro: dalla grandiosità altisonante del Prologo, dove sono anche da notarsi gli espressivi accenti dolorosi di Giuliano, agli effetti di agitazione e terrore della prima parte del primo atto e alla dolce soavità del duetto che chiude l’atto stesso; dagli episodi non meno soavi, appassionati e drammatici che si succedono nell’atto secondo (il migliore dell’opera), con la squisita “Canzone dell’usignolo”, con l’arrivo dei genitori di Giuliano improntato musicalmente a grande nobiltà e dolcezza quasi ieratica, sino alla logica conclusione dell’epilogo. È innegabile che Riccardo Zandonai ha, con il Giuliano, offerto nuova e luminosa prova delle sue doti superiori di musicista esperto e dal preciso intuito, arricchendo di una nuova opera pregevolissima il repertorio moderno italiano. Il Teatro Reale dell’Opera, anche nella realizzazione musicale e scenica, della nuova creazione di Zandonai ha posto ogni attenta e amorosa cura. L’esecuzione è stata diretta, con la ben nota precisione e vigoria, dall’autore stesso, il quale è stato ottimamente assecondato dagli artisti e dalle masse. L’orchestra, cui è affidato nel Giuliano un compito assai difficile sia dal lato dei ritmi che degli intrecci e della coloritura, è stata veramente mirabile per fusione, potenza e delicatezza sonora. Franco Lo Giudice – che già creò la parte del protagonista a Napoli – è apparso anche al nostro pubblico un interprete efficacissimo del complesso personaggio di Giuliano per freschezza e vigoria di voce, per la sua figura balda e giovanile e per l’appropriato gioco scenico. Ines Alfani Tellini si è rivelata artista dotata di voce bella, armoniosa e ben modulata e di fine intuito scenico nella soave, dolente parte di Reginella. Maria Zotti ha delineato con perfetta efficacia la breve ma espressiva parte della Fanciulla folle; il Pacini e la Gramegna, artisti stimatissimi, sono stati interpreti eccellenti delle parti dei genitori di Giuliano; Luigi Bernardi, impersonando nobilmente la figura dell’Ignoto, il Pellegrino, il Giusti, la Kovaceva, il Tofanetti, lo Staffile, il Salsedo [sic] hanno sostenuto lodevolmente le parti minori. 288 R. Svicher, “Giuliano” del M° Zandonai, «La Maschera» IX/7, 21.4.1928 - p. 2, col. 6 Siamo al solito!... Il successo vero, spontaneo, duraturo è mancato a quest’opera, come a tutte le altre del maestro Zandonai, e qualunque cosa ne dicano qualche giornale e gli interessati per gonfiare ed imporre questo genere di musica agli italiani, prima fra tutti la casa editrice, il foltissimo e vero pubblico pagante che assisteva alla rappresentazione non si è 3.1.7/13 entusiasmato ma solo ha applaudito il “prologo”, che è veramente originale e può ben definirsi un ottimo poema sinfonico-corale, e i punti più salienti che emergono nello spartito. Il libretto di Ronzato [sic] effettivamente ha offerto pochissime risorse allo spirito del maestro Zandonai, di conseguenza non ha entusiasmato alcuno, anzi ha urtato la suscettibilità del pubblico. È inutile dissimularlo, ma i giovani maestri d’oggi non vogliono capire come gli italiani possono cambiare di gusto e di tendenza in molte cose; non cambieranno però il proprio sentimento melodico, che è l’essenza della loro anima e che vive ancora presente e puro oggi come cinquant’anni fa. Non è il caso di fare una critica di quest’opera, non ne vale la pena, perché bisognerebbe tornare a dire le solite cose già dette per altre opere dello stesso genere. La gran tecnica c’è, la profonda conoscenza della orchestrazione strumentale c’è, tutti gli effetti, le trovate e anche le esagerazioni e abusi polifonici ci sono, ma manca l’ispirazione, manca la quadratura completa della frase melodica continuata, chiara e finita, manca infine il genio creativo, quel genio vero, tutto italiano, che possedevano pieno e smagliante i grandi e gloriosi maestri passati quali un Rossini, un Bellini, un Donizzetti [sic], un Verdi, un Boito, ed in ultimo un Mascagni, un Puccini e alcuni altri. Ci sono anche nell’opera del Zandonai dei momenti felici, ma sono brevi, fugaci e non tali da poter dare una vitalità vera e propria ad un’opera musicale. Ed ecco perché il vero successo è mancato, ed ecco perché quest’opera, passato il primo momento di curiosità del pubblico, morrà o finirà di dormire lunghissimi sonni negli scaffali editoriali. Le opere moderne, salvo qualche rarissima eccezione, non sono scritte per il pubblico italiano ma per i tecnici e per i maestri. Nell’affannosa e tormentosa ricerca di una forma nuova, che non esiste parlando della vera musica melodica, i giovani maestri tarpano le ali alla loro ispirazione, al loro entusiasmo, ai palpiti del loro cuore, allo slancio della loro anima, e quindi, concentrandosi solo in tutte le astruse formule contrappuntistiche e polifoniche, finiscono poi col produrre solo opere pesanti e prive di genialità, di quella genialità che fa scattare l’entusiasmo dei pubblici e decreta il trionfale successo di un’opera musicale. Dunque! Ritorniamo all’antico, come ha detto il sommo Verdi, e vedrete allora, o giovani autori, che avrete il pieno consenso dei pubblici e il reale successo dei vostri lavori. Più cuore ed anima e meno scienza: ecco il segreto. L’opera è stata diretta dall’autore magistralmente e con ogni cura. L’esecuzione artistica, molto lodevole in ogni sua parte, ha riscosso applausi e consensi incondizionati dal numerosissimo pubblico. 289 Il successo del “Giuliano” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Piccolo», 19-20.4.1928 - p. 5, col. 3-4 La nuovissima opera di Zandonai, Giuliano, su libretto di Arturo Rossato, per la quale da vari giorni v’era negli ambienti artistici e mondani vivissima attesa, ha richiamato iersera al “Teatro Reale dell’Opera” il miglior pubblico della Capitale. Una sala magnifica, degna dell’elevatissimo avvenimento, e che resterà indimenticabile nella memoria di coloro che hanno presenziato. Del prologo sono stati ammirati i cori limpidi ed efficaci e la potente invocazione di Giuliano e il duetto d’amore dall’ampio e vibrante respiro; ma, come era da prevedersi, tutto intero il secondo atto ha scosso la sensibilità dell’uditorio prima con,la dolcissima canzone dell’usignolo e poi con lo scoppio fulmineo e travolgente della tragedia. La grandezza lirica e 3.1.7/14 drammatica dell’arte di Zandonai rifulge in quest’atto e si riallaccia alle espressioni e alle realizzazioni più forti dell’opera musicale moderna. L’epilogo ci riporta nell’atmosfera della pace e della pietà divina. Il canto dei pellegrini che vanno a Roma antica, Roma santa risuona con profonda e umana religiosità. L’apparizione di Gesù, tra voci di angeli e sprazzi di luce, desta la più gradevole impressione. E così l’opera, tra continui e crescenti consensi, ha ottenuto un lieto successo, provato da calorosi applausi e numerose chiamate alla ribalta. L’esecuzione eccellente sotto tuti i riguardi. Cori ed orchestra addestratissimi, le masse ben disciplinate ed aggruppate. Il tenore Franco Lo Giudice ha dimostrato di essersi compenetrato nella figura morale di “Giuliano”; egli ha cantato con passione e commozione. La Ines Alfani Tellini, nella mite raffigurazione di “Reginella”, è riuscita ad affermarsi diligente attrice e cantante. I “genitori di Giuliano” erano impersonati da due artisti esperti, Anna Gramegna e Adolfo Pacini. Bene tutti gli altri, cioè Pellegrino, Giusti, Zotti, Tofanetti, ecc. Particolarmente adatti allo spirito dell’azione gli scenari di Pieretto Bianco. Apprezzatissimo il contributo della valentia di Ezio Cellini e Pericle Ansaldo. [...] 290 m[ario] l[abroca], “Giuliano” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Tevere», 19.4.1928 - p. 3, col. 7 Di Giuliano parlammo lungamente su questo giornale or sono circa due mesi, quando fu rappresentato a Napoli5. L’opera è rimasta quella che era in quei giorni di prima rappresentazione, e il nostro giudizio non muta col mutar delle stagioni, tanto varrebbe perciò ripubblicare nella sua interezza quello che allora dicemmo. Il Giuliano appartiene ad un mondo artistico dal quale ci sentiamo decisamente lontani: come pianeti che si contemplano a distanza procediamo ciascuno per la nostra strada sicuri che le leggi della gravitazione non ci permetteranno incontri; noi possiamo forse ammirare di quel mondo alcuni aspetti e alcuni atteggiamenti ma la sostanza fondamentale di cui esso è intessuto ci lascia indifferenti ed estranei. Detto questo e detto anche che per Zandonai nutriamo stima e che ammiriamo la sua serietà artistica e la sua tenacia lavorativa, dobbiamo dichiarare che il Giuliano in questa seconda edizione romana ci ha lasciati freddi e scettici come dopo la prima rappresentazione napoletana. Il successo non è mancato neanche a Roma e si sa bene che di fronte ai giudizi del pubblico le osservazioni della critica fanno un po’ l’effetto di innocui brontolii: tuttavia la nostra sincerità, la fede che abbiamo nei caratteri propri della nostra musica, la speranza che il melodramma italiano trovi in un prossimo avvenire possibilità di affermarsi attraverso tutte le tendenze da cui è oggi percorso, ci costringono a ripetere che il Giuliano è un’opera che non ci convince. La continuità del discorso musicale, la melodia che invece di crearsi una sua strada dilaga nella palude del recitativo, la mancanza di contrasti drammatici, l’insistenza su certi melismi, su certe armonie, su certi pedali, le fragorosità sonore che creano una retorica musicale di gusto assai dubbio, costituiscono a parer nostro altrettanti difetti cui invano si oppongono i pregi della orchestrazione e i due episodi corali del principio e della fine dell’opera che sanno imporsi per la loro costruzione e sostanza melodica. Si aggiunga a questo il libretto statico, convenzionale e retorico che poche risorse offre allo spirito del musicista e si comprenderà come il nostro giudizio non possa essere di fervorosa adesione alla nuova fatica del maestro trentino. Tutto questo naturalmente viene detto da un altro 5 Cfr. n. 379. 3.1.7/15 pianeta, dove si crede che il melodramma ha la sua ragion d’essere nei contrasti che scaturiscono dall’avvicinamento di forme ben definite e ricche ciascuna di un suo carattere e di un suo spirito musicale, dove si pensa che queste elementari leggi praticate fino a tutto Verdi è impossibile romperle senza cadere nelle nebulosità del melodramma tedesco. L’esecuzione dell’opera è stata curata con affettuosità e con entusiasmo. L’autore ha concertato e diretto la sua partitura con sicurezza, slancio ed equilibrio confermando le sue qualità di direttore d’orchestra. Il tenore Lo Giudice è stato un Giuliano perfetto: la sua voce calda e persuasiva, la sua arte di intelligente interprete gli hanno permesso di dare alla figura del protagonista grande rilievo e spirito. La Alfani Tellini per noi che non la conoscevamo è stata una autentica rivelazione: ottima voce, buona scuola, sicurezza e disinvoltura fanno di questa artista uno dei migliori elementi del nostro teatro lirico. La Gramegna, Pacini, la Zatti [sic], la Kovaceva e tutti gli altri hanno contribuito efficacemente alla riuscita dello spettacolo. Buoni i cori. I quadri scenici molto curati se non sempre perfetti, discreto il movimento delle masse. Il successo è stato deferente e affettuoso: le chiamate sono state molte pur non essendo mancato qualche contrasto specialmente dopo il secondo atto. 291 Ytfel, “Giuliano” méritera d’être entendu une seconde fois, «L’Italie», 20.4.1928 - p. 3, col. 3-4 Il y avait des vides hier soir au Théâtre de l’Opéra, mais la salle n’en était pas moins superbe et Giuliano, l’œuvre profonde, savante, aux éclats triomphants et aux douceurs suaves, a eu le public d’élite qu'elle méritait. Malheureusement il s’était glissé dans la salle des spectateurs qui devaient payer leur places en enthousiasme; ils ont exagéré naturellement; ce qui a motivé des murmures de la part des véritables spectateurs qui savent que pour aller au théâtre il faut commencer par ouvrir son portefeuille. Nous blâmons les premiers et nous regrettons la réaction des seconds, car Giuliano ne méritait ni cet excès d’honneur ni cette indignité; et moins encore que Giuliano, Zandonai, artiste à l’âme puissante, à la technique fouillée, aux sentiments d’une délicatesse subtile. Il faut en finir avec la claque! Et ainsi on évitera des réactions qui sont au moins fâcheuses dans une salle qui réunit le public le plus stylé de Rome. Giuliano est une œuvre qui doit être étudiée et qu'on doit entendre de nouveau. L’interprétation de Franco Lo Giudice a été prestigieuse. Ines Alfana [sic] Tellini allie une beauté suave à des qualités de cantatrice particulièrement remarquable. Les autres rôles, qui sont plutôt météoriques, n’ont fatigué ni les artistes ni le public, qui en a apprécié l’ensemble. Le prologue a au trois applaudissements unanimes; les autres actes auraient été également applaudis sans contrastes si le public spécial dont nous avons parlé n’avait voulu multiplier les rappels. Nous préférons ne pas parler de la mise en scène, car voir onduler des pins centenaires et des châteaux-forts médiévaux nous porte aux nerfs, de même qu'il est très désagréable de voir un azur sataniquement craquelé. La faute n’en est sans doute pas à l’azur, mais au fauteuil qui nous est réservé au tout premier rang, ce qui nous oblige à admirer les chaussures d’adorables spectatrices, si nous voulons épargner à nos régards de lamentables craquelures. 3.1.7/16 292 [La chiusura della stagione lirica al teatro Reale dell’Opera], «Musica» XXII/10, 31.5.1928 - p. 1, col. 4 [...] Non meno caloroso è stato il successo del Giuliano di Riccardo Zandonai, che in quest’opera ha ritrovato, nella sua pienezza, quel calore emotivo al quale maggiormente si raccomanda la produzione di questo nostro geniale artista. L’opera, come è noto, è intessuta sulla nota leggenda di San Giuliano l’Ospitaliero che ispirò a Gustavo Flaubert uno dei suoi più preziosi racconti. Ma il libretto allestito da Arturo Rossato per la musica di Zandonai non si ispira al racconto di Flaubert bensì alla primitiva e semplice leggenda di Jacopo Varagine. Della musica di Zandonai già si occupò ampiamente la stampa quotidiana quando l’opera fu rappresentata per la prima volta a Napoli, nello scorso febbraio, e non è il caso di ritornarvi sopra. Ci limiteremo a dire soltanto che il prologo e l’epilogo di quest’opera ci sembrano le cose più belle, più commosse e più compiute che siano fiorite dalla fervida fantasia dell’illustre e fecondo compositore trentino. [...] 3.1.7/17