Primapagina Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche Settembre 2012 n.61 Lauro Costa: la piccola grande banca di casa Tara Ghandi, sentire la propria coscienza Elif Shafak la voce della Turchia Fantastichini e la fanta... scienza Istao, il profilo di un sogno Giovane favoloso Giacomo Leopardi sommario FOCUS Jesi Cube, un’idea per favorire la nascita di nuove imprese di Fabio Lo Savio....................... 5 A COLLOQUIO CON BancaMarche? “La piccola grande banca di casa” di Mauro Bignami..................................... 6 ISTAO, il profilo di un sogno di Agnese Testadiferro............................................................... 8 Leggere il territorio, trasformarlo in valore di Lucia Cataldo................................................ 10 Incontro con Tara Gandhi all’Università di Macerata di Simonetta Cipriani......................... 12 Elif Shafak, la maggiore scrittrice turca di Giovanni Filosa.................................................. 14 Etica e professionalità al servizio del mondo di Matteo Tarabelli......................................... 16 Kalòs kai agathòs: lo sguardo sul mondo di Maria Grazia Capulli, la popolare giornalista del Tg2, inviato speciale per la cultura di Pamela Temperini............ 18 L’attore Ennio Fantastichini, che adora la fanta... scienza di Paola Stefanucci..................... 20 Giovane favoloso Giacomo Leopardi di Silvia Barocci......................................................... 22 A colloquio con Juliet Gael: dall’America all’Italia, passando per Parigi di Chiara Giacobelli......................................... 24 30 anni di Martin Mystère? Molto ben portati di Federica Grilli.......................................... 26 Girl Geek Dinners Marche Donne alla conquista dei Nuovi Media di Giulia Pieretti........... 28 H.H. La lunga corsa di Mauro verso la meravigliosa umanità del suo grattacielo di Francesca Pieroni......................................... 30 Luigi Teodosi, fanciullo o sovversivo? di Giancarlo Bassotti................................................ 32 ATTUALITÀ E CULTURA Arturo Ghergo: l’immagine della bellezza di Michele De Luca............................................. 34 Scultura più vera del vero di Johannes Genemans di Armando Ginesi.................................. 36 Piccolo Pantheon Personale: era bella o no la Prima Repubblica? di Alberto Sensini........... 37 A Michele Ambrosini la “Paul Harris Fellow” del Rotary di Barletta di Mauro Lopizzo...... 40 “Canterò per Te”, la chitarra di Dodi Battaglia fa vibrare 4.000 cuori di Talita Frezzi......... 41 Sferisterio sul solco della tradizione di Ilaria De Maximy e Stefano Gottin.......................... 42 ROF: “Ciro in Babilonia”, ossia quando la realizzazione è migliore dell’opera. Mariotti jr. e Florez sugli scudi nella ripresa della “Matilde di Shabran” di Stefano Gottin...... 44 Sesta edizione del Premio Vallesina a Villa Salvati di Tiziana Tobaldi.................................. 46 Il Polittico di San Domenico del Lotto tornato all’originale splendore di Marta Paraventi........47 Pane e tulipani, quando la realtà non è un film di Pietro Balducci......................................... 48 Idee e proposte sul mondo, ecco “l’Effetto Domino” di Diego Pierini di Talita Frezzi......... 49 Bere con un occhio all’etichetta responsabile di Giovanni Filosa......................................... 50 Le vele di Frusaglia di Lorenzo Verdolini............................................................................... 52 La Fondazione Colocci, per la formazione professionale di Pietro Balducci........................ 54 LIBRANDO Il libro “La S.A.F.F.A. di Jesi” di Agnese Testadiferro........................................................... 55 Il buonsenso di Padre Pino Puglisi nel libro di Mauro Rocchegiani di Ilaria Cofanelli........ 56 ATTUALITà E TERRITORIO Gabriella Zagaglia e la vibrazione cosmica di Fernando Pallocchini.................................... 57 Vangi nello stupendo scenario di Arezzo di Ivana Baldassarri.............................................. 58 XII Festival Pergolesi Spontinie 45^ Stagione Lirica del Teatro Pergolesi di Jesi . .............. 60 Simone Massi storie a matita di Loretta Fabrizi..................................................................... 61 PRODOTTI DI MARCA Parte la sfida tra comuni per ridurre il consumo di shopper monouso, ci guadagna la scuola locale................................................................. 62 BancaMarche per l’educazione finanziaria dei giovani di Marina Argalìa............................ 63 Ecco i nuovi testimonial della Campagna sul Conto Corrente MY di BancaMarche di Marina Argalìa................................................. 64 Seconda edizione per i “Gazebo Day” di BancaMarche di Carla Branchetti........................ 65 Un prestito per studiare senza interessi e senza spese di Filippo Cantarini........................... 66 primapagina3 primapagina Primapagina Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche Settembre 2012 n.61 BANCA DELLE MARCHE S.p.A. Sede sociale Via Ludovico Menicucci 4/6, Ancona Lauro Costa: la piccola grande banca di casa Tara Ghandi, sentire la propria coscienza Elif Shafak la voce della Turchia Fantastichini e la fanta... scienza Istao, il profilo di un sogno Giovane favoloso Giacomo Leopardi Direzione generale Centro direzionale Fontedamo, Via Alessandro Ghislieri 6, Jesi Capitale sociale: 662.756.698,76 Banca dal 1841 40.000 azionisti circa 312 filiali 3.120 dipendenti Direttore generale Massimo Bianconi Vicedirettore generale Leonardo Cavicchia Stefano Vallesi Pier Franco Giorgi @ Mandate alla redazione i vostri commenti e suggerimenti. CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Presidente Lauro Costa Vicepresidenti Michele Giuseppe Ambrosini (vicario) Federico Tardioli Primapagina Anno XV n. 61 - Settembre 2012 Direzione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An) Direttore Responsabile Giovanni Filosa Redazione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An) tel. 0731/539608, fax 0731/539654 e-mail [email protected] Editore Tecnostampa S.r.l. Progetto grafico advcreativi Stampa Tecnostampa S.r.l. - Recanati Sped. abb. post. - art. 2, comma 20/B legge 662/96 - Filiale di Ancona Aut. Trib. di Ancona n. 25/96 del 25/9/96 Componenti Pietro Alessandrini Giuliano Bianchi Alfredo Checchetto Emanuela Scavolini Francesco Maria Cesarini Roberto Civalleri Federico Valentini Giuseppe Grassano COLLEGIO SINDACALE Presidente Pietro Paccapelo Componenti effettivi Alberto Landi Massimo Felicissimo Componenti supplenti Paolo Balestieri Lodovico Valentini focus di Fabio Lo Savio Jesi Cube, un’idea per favorire la nascita di nuove imprese “I l Gruppo Maccaferri è disponibile ad investire fino a cinque milioni di euro in attività di venture capital per start-up che si riveleranno innovative e coerenti con i nostri core business, ulteriore testimonianza della nostra volontà di realizzare nuovi importanti investimenti strategici in questo territorio e valorizzare i giovani talenti marchigiani, nelle cui capacità crediamo fermamente.” Con queste parole Massimo Maccaferri, presidente del Gruppo Maccaferri, ha presentato il progetto Jesi Cube, il 1° incubatore d’impresa delle Marche, un’opportunità per i giovani neo imprenditori ed occasione di rilancio del sistema industriale marchigiano - come è stato definito nel titolo del convegno organizzato per presentare l’iniziativa che rientra nel piano di riconversione dell’ex zuccherificio della città di Federico II. Massimo Maccaferri ha anche sottolineato che “Eridania Sadam, attraverso un primo investimento di un milione di euro ed il comodato d’uso della sede nella quale le aziende saranno incubate, intende supportare un progetto importante per le Marche e vuole contribuire a dare un nuovo impulso alla politica industriale di un territorio a forte vocazione imprenditoriale” - ha concluso. Jesi Cube è un’idea di Eridania-Sadam, Comune di Jesi e Università Politecnica delle Marche con l’obiettivo di favorire la nascita di nuove imprese science based con validata potenzialità, supportandole nei primi anni di vita, offrendo servizi d’accompagnamento e tutoraggio, fornendo spazi attrezzati per ospitare le neo-imprese, creando sinergia e stimolo reciproco tra i giovani neo imprenditori. Coloro che vorranno accedervi partiranno da un’idea di business e formuleranno un business plan. Se le idee supereranno questa prima selezione a cura di un comitato paritetico che sarà presentato nei prossimi giorni, l’incubatore si impegnerà ad ospitare la start-up e a seguire le successive fasi di sviluppo dell’azienda per accelerare il più possibile la crescita dell’impresa. “L’obiettivo di un incubatore – ha detto Gian Mario Spacca, Presidente della Giunta Regionale - non è tanto la for- Il primo incubatore d’impresa delle Marche mazione di un manager, ma la nascita di nuovi imprenditori. Auguro a Jesi Cube di svolgere in pieno questo ruolo. Il parametro per valutarne il successo – ha aggiunto - sarà la qualità dell’output e la crescita del fattore organizzativo imprenditoriale che saprà generare l’investimento”. “Istituzioni, Università e privati – ha continuato - devono lavorare insieme per creare le condizioni migliori alla nascita di nuova imprenditorialità. Nelle Marche, regione con la maggiore densità di imprese in Italia, l’ambiente è favorevole e la Regione lavora per continuare a mantenerlo tale”. La mission dell’incubatore sarà quella di sviluppare nuovi modelli imprenditoriali in ambiti ad alto contenuto d’innovazione quali biotecnologie, energie rinnovabili, Ict, robotica, creando valore attraverso la crescita delle aziende incubate, attraendo investimenti privati in capitali di rischio, e non delegando più alle sole disponibilità pubbliche e del credito, le principali possibilità di finanziate l’avvio di nuove imprese. Presente anche Michele Ambrosini, vice presidente di BancaMarche che nel suo intervento ha posto l’accento su due concetti che hanno animato il dibattito coordinato dal giornalista Rai Paolo Notari: “BancaMarche si pone da sempre l’obiettivo di sostenere le aziende del territorio marchigiano e lo dimostra ogni giorno, dati di bilancio alla mano, con gli impieghi. Ma c’è un’altra missione che ci sta altrettanto al cuore e che è strettamente legata alla precedente: la valorizzazione dei talenti, che siano essi imprenditori con le loro aziende che necessitano di credito, che i neo imprenditori, con il progetto del Prestito d’Onore regionale già attivo da anni, e realizzato in collaborazione con la Regione Marche. Negli ultimi anni infatti abbiamo stanziato fondi per finanziare la nascita di strat-up che significano investimento sul futuro per la rinascita economica del nostro territorio e vedendo un gruppo importante impegnarsi per importanti investimenti, non possiamo che essere pronti a fare la nostra parte anche in questo progetto di assoluto interesse. Stiamo parlando di imprenditorialità in settori innovativi, non tipici della tradizione marchigiana e quindi considerabili come nuova frontiera dell’economia regionale ma, in un momento congiunturale come questo, nessun singolo euro può essere disperso ma anzi investito con oculatezza. Questo però non significa non accettare il rischio di finanziare nuove iniziative e siamo qui in molti a chiedere che tutto venga fatto a regola d’arte perché non possiamo permetterci di sprecare risorse per difetti di progettazione.” primapagina5 di Mauro Bignami BancaMarche? “La piccola grande banca di casa” L auro Costa, 61 anni, maceratese, succede nella carica di presidente di Banca delle Marche a Michele Ambrosini. La notizia della nomina di Costa era nell’aria, ma non è mai esplosa perché era a immagine e somiglianza del personaggio: schietto, fermo, sorriso aperto a volte ironico e, soprattutto, un agire da understatement che gli fa onore. Al neo Presidente abbiamo fatto questa prima intervista per sondarne 6Primapagina il pensiero su alcuni argomenti di carattere generale in attesa che, con il tempo, ci riveli quello sulle questioni particolari. Nel momento attuale, così irto di difficoltà, lei rappresenta… … il segno della continuità, nel senso che in BancaMarche niente è casuale: la proprietà, avendo deciso di creare una banca locale al servizio del territorio, ha anche definito i ruoli che i propri rappresentanti, tempo per tempo avranno. Io, di fatto, sono la continuità di chi mi ha preceduto. Ossia? La missione e il progetto sono gli stessi: Michele Ambrosini è stato il mio predecessore e io continuo sulla linea tracciata da lui. Felice di ripetere un’esperienza fatta sei anni fa? Sì, perché le difficoltà del momento stimolano l’iniziativa mia e del Consiglio di amministrazione per trovare soluzioni. A suo tempo le trovammo e oggi, visto com’è cambiato il mondo, dovremmo sforzarci di nuovo per trovarne di adatte a far crescere la banca e, soprattutto, per far crescere il territorio che noi serviamo. Gli appelli alle banche perché allarghino i cordoni della borsa alle imprese sono quotidiani: per lei, chi li fa conosce l’attività bancaria? Sono strumentali: chi chiede alle banche di allargare i cordoni della borsa non si rende conto che, nelle Marche, non c’è un’impresa che chieda nuova finanza per gli investimenti. Gli interventi che facciamo sono solo tamponi per una situazione difficile a livello di pagamenti, di incassi e, oramai, anche di capacità dell’imprenditore di guardare con fiducia al domani. Gli azionisti privati della banca sono aumentati del 40%: che segnale ci vedete? Avere 11.414 nuovi soci fa capire che quanto abbiamo seminato per tanti anni ha creato un valore che si chiama banca al servizio del territorio. Una valenza rilevante, se così tante persone hanno creduto nella nostra impresa, nei servizi che eroghiamo e, soprattutto, hanno ritenuto che entrare in uno sportello di BancaMarche vale qualcosa di più che entrare in un qualsiasi altro sportello. Dieci anni fa non sarebbe stato così; oggi la gente ha capito e divenire socio e cliente della banca è ritenuto un fatto importante. È importante oggi essere una banca radicata nel territorio? Quale il valore aggiunto, se c’è? Il valore aggiunto c’è e anche l’importanza. Conoscendo i soggetti del territorio (operatori economici, famiglie, pensionati, studenti) cerchiamo di risolvere le loro esigenze e i loro problemi quotidiani: quelli cui altri non riescono a dare risposta. Foto Cristian Ballarini A COLLOQUIO CON A COLLOQUIO CON Una visione minimalista… Sarà anche minimalista, ma è il problema del momento e gli undicimila e passa nuovi soci l’hanno confermato. Siete interlocutori di riferimento per le forme di aggregazione che esprimono valori culturali e interessi positivi per il territorio: perché? Il fatto di investire in attività culturali, sportive e aggregative da un lato ci dà visibilità; dall’altro fa capire alle persone che BancaMarche è presente sul territorio e per il territorio. Si pensi alle attività sportive giovanili: non ce ne è una che BancaMarche non sponsorizzi. Per loro acquistiamo magliette, scarpe, sacche e altro ancora, perché crediamo che lo sport sia un veicolo per creare una società migliore domani e a questo nuovo e migliore futuro abbiamo sempre convogliato i due terzi dei nostri investimenti pubblicitari. Si può dire che spendiamo più per i settori sportivi giovanili che per le nostre squadre di riferimento. Un fatto inusuale… Forse sì, ma crediamo che le attività sportive giovanili siano gli strumenti più adatti per valorizzare le capacità dei nostri futuri clienti/soci. Oggi poi, nella situazione di crisi in cui ci troviamo, con molte famiglie che non possono più sostenere alcune spese per i figli, il nostro intervento a copertura di alcuni costi vivi dell’attività ci sembra dovuto. In questo modo i ragazzi, anziché andare in strada o a fare altro, si impegnano in un’attività sportiva. E domani avrete dei buoni clienti… Avremo persone che considerano BancaMarche un fatto di casa, familiare. Quali i servizi richiesti dalle imprese, soprattutto piccole e medie, in un periodo difficile come l’attuale? Il tessuto imprenditoriale marchigiano, come del resto quello emilianoromagnolo, è configurato da una forma importante di associazionismo: l’80/90% delle imprese aderisce ad associazioni di categoria, nelle quali trova i punti di riferimento che poi dialogano con noi. Quindi, più che l’impresa, è l’associazione di categoria che richiede servizi o ci pone il problema e ciò ci aiuta. Basti pensare al legame esistente tra imprese e consorzi di garanzia fidi, tramite i quali avviene il 70% dell’approccio al mercato. Come recuperare i margini in periodo di crisi e di crescita dell’inflazione? Facendo nostre le criticità e le problematiche della clientela. Espansione o consolidamento: che cosa preferisce? Espansione, che non significa apertura di sportelli. Se trovassimo un partner con caratteristiche complementari alle nostre, sarebbe ideale. Si spieghi. Il nostro tipo di modello di sviluppo ha fatto sì che, per sostenere le attività economiche del territorio, ci siamo indebitati con il mercato più di quanto raccoglievamo dal territorio; se trovassimo un partner che avesse una raccolta maggiore degli impieghi, domattina BancaMarche avrebbe un exploit portentoso, perché potremmo investire molto di più. Questo è il modello di espansione che io vedo. L’espansione e i tempi richiedono un personale sempre più professionale che ponga maggiore impegno, attenzione nel rapporto con la clientela e, anche, assuma maggiore responsabilità… Per fare questo ci vuole formazione. Quella tecnica l’abbiamo fatta in questi anni e ha dato concreti risultati: siamo alla pari di grandi banche che hanno capacità operativa diversa dalla nostra. Per il futuro ci vorrà un altro tipo di formazione per la quale è necessario fare un progetto che risponda a una semplice domanda: in che modo lo formo il personale? Si pensi alla possibilità di dare consigli alle imprese in molti settori, ivi compreso quello del passaggio generazionale. Ad Ancona c’è il Segretariato dell’Iniziativa Adriatico-Ionica: mai pensato di espandervi in qualche Paese di questa macro regione? No, perché finora abbiamo ritenuto che il nostro business dovesse essere concentrato nelle Marche e nelle regioni limitrofe, dove il tipo di economia è simile al nostro e dove, in qualche modo, il nostro modello di fare banca fosse capito dal cliente. Credo che se noi andassimo in qualche regione del nord, nelle nostre filiali non entrerebbe nessun tipo di cliente, perché il nostro modello di fare banca è tarato per un certo tipo di esigenze. Per esempio, certe sofisticazioni finanziarie non le facciamo non perché non siamo pronti ma perché nessuno le chiede. Non è un limite? Sì, ma d’altra parte è un vantaggio, perché nei nostri territori siamo sempre più in crescita. primapagina7 A COLLOQUIO CON di Agnese Testadiferro ISTAO, il profilo di un sogno «P rima di tutto bisogna avere un sogno. Poi coltivarlo costantemente e prendersi il rischio di andare da qualche parte per aprirsi al mondo. Avere coraggio, intraprendenza e spirito di sacrificio. Non accontentarsi». Parole che arrivano da chi, dopo una laurea in legge, una specializzazione in diritto del lavoro, un master in marketing, esperienze lavorative importanti, con la valigia in mano, ha capito che credere in se stessi è la chiave mentre la tenacia, lo studio e l’impegno sono la porta per iniziare a vedere il cambiamento. Qualcuno diceva che dobbiamo essere il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo, ma a pensarci bene non sembra così facile se nessuno sta lì a sostenerci. A volte cambiare è una cosa buona, e spesso è 8Primapagina tutto ciò che serve per dare una vera svolta. E lui, il dottor Giuliano Calza, Direttore Generale dell’ISTAO, con presidente il dottor Andrea Merloni, di esempi da dare in merito ne ha veramente molti. L’ISTAO, non è solo l’acronimo di Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell’economia e delle aziende, la scuola manageriale di Ancona nata nel 1967 dal volere dell’economista Giorgio Fuà, del Social Science Research Council degli Stati Uniti e della Fondazione A. Olivetti, ma significa eccellenza, internazionalizzazione, collaborazione. Gli chiediamo cosa può fare oggi la differenza, in un momento di demotivazione e preoccupazione. “Cercare l’eccellenza, sempre. L’ISTAO con i master che propone, tra gli ultimi i Master in Management delle Risorse Umane e Sviluppo Organizzativo e in Strategia e Management d’Impresa, punta all’alta qualità, con docenti e collaborazioni internazionali di alto livello. La provincia diventerà inevitabilmente superata da città allargate: ciò significa che occorre un’apertura verso il cambiamento, un pensiero innovativo e la disponibilità, perché questi sono i tre aspetti per vincere le sfide, accompagnati però da una perfetta conoscenza della lingua inglese. Proprio per quest’ultimo presupposto i nostri Master e corsi di specializzazione, che contengono alcuni moduli didattici in lingua, fino a prevederne tutti a breve, sono aumentati nell’obiettivo dell’ internazionalizzazione, con docenti che provengono sempre più da università straniere”. Foto Cristian Ballarini Intervista a Giuliano Calza direttore generale dell’ISTAO A COLLOQUIO CON L’innovazione parte da una buona preparazione teorica, ma alla possibilità di sperimentare sul campo se stessi, viene data altrettanta importanza? “L’ISTAO, che si avvale della partecipazione istituzionale di Banca d’Italia, ABI, Confindustria, Regione Marche e Università Politecnica delle Marche, del sostegno di fondazioni, associati, imprese, istituti bancari, tra cui BancaMarche e Veneto Banca, e della collaborazione del Comitato di Orientamento composto da docenti universitari e personalità dell’economia e della cultura, crea sinergia tra studio e lavoro. Per significa che gli altri curricula di studio siano esclusi, anzi. La selezione avviene con test scritti e colloqui con noi e con le aziende che collaborano ai progetti del corso: tutto dipende dall’entusiasmo e dalla motivazione di chi chiede di iscriversi. E da questa fame di conoscenza, l’ISTAO riconosce le eccellenze e sostiene i migliori studenti con borse di studio a totale o parziale copertura della tassa di frequenza, anche per chi proviene da percorsi insoliti”. Questo istituto ha un legame molto stretto con l’economia regionale marchigiana. Oggi è difficile trasmettere il valore del rimettersi in creare quello che fa la differenza coinvolgiamo i nostri allievi, che sono laureati, occupati, manager, imprenditori, professionisti, coinvolgendoli in stage e progetti concreti che nascono dalle aziende a noi associate. L’azienda riconosce la qualità e l’impegno dei nostri studenti tanto che l’ISTAO ha e mantiene un ottimo livello di placement pari al 95% di occupati al termine del master”. Vedendo lo scenario in cui opera l’ISTAO, vengono fatte delle selezioni per accedere a corsi e Master? “Le nostre materie sono economicoumanistiche volte alla gestione e alla strategia d’impresa, per questo sono più alla portata di chi ha conseguito una laurea di tipo magistrale in ingegneria ed economia. Ma questo non gioco in una realtà dove nella seconda metà degli anni 80 la crisi non si conosceva? “Entrare nell’executive education manageriale di chi già manager lo è, valorizzare i prodotti territoriali, far crescere gli studenti ISTAO, stringere legami di partecipazione diretta con i nostri partner e consiglieri, nonché con la Regione è alla base del nostro lavoro: la collaborazione e il sostegno dell’economia e delle capacità che ci appartengono. Nelle Marche ci sono tante risorse, ma per valorizzarle occorre, in un periodo come quello attuale, farsi conoscere ancora di più, re-inventarsi e fare impresa insieme. E il lavorare fianco a fianco, istituto e impresa, teoria e pratica, è la carta vincente per risollevarsi”. Il mandato Merloni–Calza si sta focalizzando molto sulla reputazione ISTAO a livello nazionale e a livello internazionale. Questo è un lavoro di squadra a cui si sta impegnando lo staff ISTAO dall’area didattica, all’area comunicazione, al gruppo di supporto. L’entusiasmo e il sacrificio consentiranno di ottenere ottimi risultati provenienti non solo da studenti marchigiani, ma anche da altre regioni e da paesi esteri. Questa scuola manageriale ha una sede nella spettacolare e storica Villa Favorita, ha avuto docenti come Modigliani, Giolitti, La Malfa, Ciampi, Pininfarina che hanno tenuto lezioni inaugurali degli anni accademici fino alle recenti lezioni magistrali di Poli, Cucinelli, Della Valle e dell’economista Innocenzo Cipolletta ed ora non può che continuare a crescere sotto una buona stella. primapagina9 A COLLOQUIO CON di Lucia Cataldo Leggere il territorio, trasformarlo in valore D opo le celebrazioni del Bicentenario della Camera di Commercio di Macerata abbiamo chiesto al presidente, Giuliano Bianchi, un bilancio sul significato degli eventi e sulle prospettive della vocazione dell’Ente Camerale maceratese. Presidente, quali considerazioni sono scaturite dal “giro di boa” dei duecento anni dell’istituzione della Camera di Commercio di Macerata? Una tappa importante per il periodo della mia presidenza, ma soprattutto per l’Ente Camerale. Ci siamo resi conto che malgrado siano passati duecento anni la Camera ha an- tutte di autori del nostro territorio, penso che, al di là del valore monetario, rappresenti la nostra cultura, il valore identitario del territorio. Partendo da questa considerazione ritengo che la specificità della Camera di Commercio debba essere proprio quella di saper leggere l’identità del territorio in tutti i suoi aspetti. Ho apprezzato anche, nella mostra sugli oggetti e sui i materiali metrici, la storia del lavoro all’interno dell’Ente Camerale, gli aspetti poco noti delle diverse misure metriche nel nostro territorio maceratese, unificate solo dopo l’Unità d’Italia e il ritrovamento di oggetti rari cora molte cose da dire e da fare sia per i compiti istituzionali assegnati dallo Stato che per il ruolo che ha per l’economia del territorio. Cosa ricorda in particolare delle tre mostre, che dopo la chiusura delle celebrazioni ha deciso di rendere esposizioni permanenti all’interno degli spazi camerali? All’interno delle mostre per il Bicentenario la collezione delle opere d’arte che sono nei nostri uffici, come l’addizionatrice della fine degli anni’40. La mostra sui documenti storici ha invece aperto lo sguardo su ciò che è stato fatto in passato, sugli scenari e le problematiche e sugli obiettivi e le azioni intraprese da chi ci ha preceduto. I fatti del passato - visti attraverso i documenti - e la comparazione dei temi del presente con le scelte operate in alcuni momenti storici salienti cosa le fanno pensare? 10Primapagina Il tema della strada statale 77, della ferrovia, degli uffici postali sono temi che la Camera con i suoi consiglieri ha sempre saputo interpretare con anticipo. Chi ci ha preceduto ha operato con intelligenza e lungimiranza ed inoltre c’era molta coesione sociale anche se l’economia era agricola e le attività manifatturiere erano di tipo artigianale. Guardando i documenti abbiamo visto che la Camera è intervenuta su temi sociali e strategici, come ad esempio sulla ferrovia. Un altro tema che era caro ai nostri predecessori era, come lo è oggi, l’internazionalizzazione: dai documenti in mostra si evince come nel 1880 la Camera abbia sostenuto anche economicamente chi partecipava all’Esposizione di Londra, oltre che alle fiere nazionali, per far conoscere i prodotti del territorio e le procedure manifatturiere. Nel passato, e questo forse ci sorprende, c’era già visione del territorio, internazionalizzazione, coesione sociale anche fra le categorie economiche. Partiamo da questo spunto sulla coesione del territorio, inteso come territorio geografico, economico e umano: è in questo senso che si sviluppano le vostre idee sulla ferrovia? Le evidenzio un dato che secondo me non è privo di significato: abbiamo sempre avuto difficoltà sul tracciato della strada per Roma, con le diatribe fra chi voleva il passaggio attraverso la valle del Chienti e chi voleva invece la valle A COLLOQUIO CON MOSTRE PERMANENTI DELLA CAMERA DI COMMERCIO DI MACERATA del Potenza. Se si guarda invece il tracciato della ferrovia, ci si accorge che essa attraversa entrambe le vallate: a parte l’esigenza viaria di raggiungere Fabriano, penso che ci sia stata una mediazione intelligente per rispondere alla esigenze del territorio, “facendo” e non trovando la scusa per “non fare”. Cosa significa per lei avere “visione del territorio”? Il territorio non è fatto da 57 comuni separati ma da aree omogenee di territorio, ciascuna con le sue specificità e dei valori particolari. Bisogna valorizzare e sviluppare ogni area con le sue caratteristiche. Se l’impresa produttiva è nell’area litoranea e zone limitrofe, lì si deve puntare sull’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Nelle zone più intatte, va invece data più attenzione all’ambiente ed alle piccole attività artigianali locali o ai prodotti tipici. Per quanto riguarda Macerata si può immaginare un futuro di mediolungo termine facendola diventare una “città della cultura”. Stiamo ragionando a partire da quello che già c’è, mettendolo a valore, senza pensare a fare forzature, cattedrali nel deserto. Il territorio è il valore di riferimento: quando esportiamo un prodotto dobbiamo trasmettere il territorio, con la sua cultura e la sua storia, il suo paesaggio. Nel raccogliere quest’eredità del passato, come pensa di trasformare la riservatezza tipica del Maceratese evolvendola in valore? Stiamo cercando di insistere su questi concetti da tempo. I cambiamenti sono sempre difficili ma le buone idee, dopo essersi sedimentate, riemergono da sole, come quelle sulla metropolitana di superficie. Il territorio piano piano sta comprendendo: cito il caso di Pievebovigliana dove abbiamo immaginato lo sviluppo di un comune delle aree interne attraverso un gemellaggio con delle associazioni culturali tedesche confederate alla “Unione delle società culturali tedesco-italiane”. Si stanno già vedendo i risultati. Ci vorrebbe forse meno tempo in un territorio più “pronto” ma abbiamo bisogno di un cambiamento culturale. Dovremo imparare velocemente a fare bene i servizi, l’accoglienza, il turismo, le attività culturali e altre attività ancora. Non è un passaggio facile, è difficile, ma non demordiamo. Peraltro i successi del passato sono qui ad incoraggiarci. Dobbiamo capire che la concorrenza si fa oggi per territori, che si combatte per territori e si diventa attrattivi per territori, altrimenti si va fuori dai circuiti di sviluppo. In occasione del Bicentenario della Camera di Commercio di Macerata sono state organizzate tre mostre collegate fra di loro. La prima, a cura di Goffredo Binni, allestita nei mesi di dicembre e gennaio presso la Galleria Galeotti di Macerata ha presentato una selezione della collezione artistica della Camera, una raccolta di opere di artisti maceratesi acquisite nel tempo come elementi di arredo e che sono in seguito divenute uno stimolo per la valorizzazione della cultura artistica del territorio. La collezione testimonia la vivacità della cultura artistica maceratese e ne rappresenta uno spaccato che copre oltre settant’anni di storia. Fra le opere storiche si segnalano diversi lavori di Wladimiro Tulli, Ivo Pannaggi, Umberto Peschi, Luigi Bartolini. Dell’esposizione rimane testimonianza un interessante catalogo curato da Goffedo Binni ed edito da Retecamere. Le altre due mostre curate da Lucia Cataldo e dall’Accademia di Belle Arti di Macerata sono state rese permanenti e sono visitabili presso la sede dell’Ente Camerale. Mostra “Manifesti e Documenti Storici” Con quest’esposizione la Camera ha voluto recuperare le tracce di tutta la sua storia, mettendo in mostra bandi, manifesti e documenti che raccontano il ruolo dell’istituzione nella città e nel territorio. Sono presenti - oltre a diversi pannelli esplicativi corredati di foto d’epoca - oltre trenta documenti che vanno dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento e la riproduzione integrale del Decreto istitutivo della Camera del 1811. Mostra “Strumenti di Lavoro e Oggetti Metrici” La mostra presenta oggetti del lavoro degli uffici e antichi strumenti metrici, passati alla Camera dopo l’acquisizione delle competenze dell’Ufficio Metrico. Attraverso la mostra si è inteso raccontare l’Ente Camerale - secondo i più recenti orientamenti della museologia contemporanea - come “storia del lavoro” attraverso i materiali tecnici usati nella pratica quotidiana. All’interno dell’esposizione si segnalano la prima “Tavola di conversione” delle misure metriche della provincia di Macerata datata 1863, un’addizionatrice elettrica Monroe prodotta negli anni Quaranta. Diversi pannelli esplicativi raccontano la storia delle verifiche metrologiche dal Settecento ad oggi, l’evoluzione del calcolo automatico e molte altre curiosità storico-scientifiche. Sede delle mostre: Camera di Commercio Sede Camerale, Via Lauri, 7 - Macerata Orari di apertura al pubblico: martedì e giovedì dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14.30 alle 18:30. Venerdì ore 9.00-13.00. Infotel. 0733-2511. primapagina11 A COLLOQUIO CON di Simonetta Cipriani Lo testimonia Tara Gandhi, una degli otto nipoti del Mahatma, nell’Aula Magna dell’Università di Macerata È una figura minuta e pacata quella di Tara Gandhi, che abbiamo incontrato a Macerata. È ospite dell’Università che in collaborazione con l’Istao ha organizzato 12Primapagina un importante evento. Dice di non aver ereditato il talento del nonno, il Mahatma. Lei è la figlia del figlio minore di Gandhi. Eppure l’Aula Magna dell’Università di Macerata, gremita, è in religioso silenzio in attesa di ascoltarla. Il rettore Luigi Lacché la presenta all’uditorio insieme al presidente Istao Andrea Merloni. C’è anche Adolfo Vannucci nella platea, oltre ad altre autorità. Entrambi i massimi esponenti della cultura non vogliono sottrarle la parola, nell’introdurre l’iniziativa. Lei esordisce: “Capisco molto attraverso il silenzio, percepisco cuore, intelletto e disponibilità” in quest’uditorio. E subito risponde alla domanda oggetto della conferenza. India ieri e oggi: cosa rimane del pensiero di Gandhi. “L’India di ieri è diversa da quella di oggi, come per tutto il mondo. Non c’è un tempo di Gandhi. Oggi, si vive questo momento di crisi perché la tecnologia ha portato troppa informazione: quella positiva non passa così velocemente come quella di portata negativa. Ci sono tante persone di vero cuore, che mi hanno colpito nel mio viaggio in Italia, ma esse non si conoscono oltre confine. Così avviene anche per l’India. Gandhi aveva bisogno di altri intelletti, non poteva agire da solo. Quando avevo 14 anni fu assassinato e l’India aveva già conquistato l’Indipendenza politica da quattro mesi. Ma, dopo, il cielo a Delhi si è sempre più inquinato. Prima, potevamo vedere le stelle. Le porte di casa erano sempre aperte Foto Pixelmatica di Macerata “Gandhi, ieri come oggi, ispira ogni persona a sentire la propria coscienza” A COLLOQUIO CON e c’era una grande fiducia. C’era la mancanza di paura. Oggi non più: siamo diversi”. Allora le chiediamo: l’India multilingua, multipartitica e plurireligiosa vive l’eredità di difficili conquiste sociali e la patologia di residui di arretratezza culturale. Senza farci terminare ci dice: “Oggi l’India vive una realtà molto difficile perché ha contraddizioni estreme: in mezzo agli indiani c’è un po’ di America, un po’ di Italia, di Giappone, c’è un po’ di tutto. C’è sviluppo. Ma cosa vuol dire questa parola nell’economia. E come definire il “sottosviluppo”. Ma cos’è la ric- gli Inglesi volevano speculare sulle stoffe filate in India, Gandhi spinse a recuperare il proprio Arcolaio e così ha dato riconoscimento all’identità e all’autonomia dell’India, affinché potesse sfruttare direttamente le proprie risorse. Questa filosofia, che appartiene all’India è, però, utile al mondo. Mio nonno ha studiato le filosofie di tutte le culture ed ha colto i concetti di amore, non violenza e verità applicandoli alla propria vita”. E poi ci dice che “Gandhi aveva un gran senso dell’umorismo, non aveva malizia, non giudicava mai perché sapeva penetrare l’animo umano, era un grande veramente difficile. Si crede che solo il maschio possa avere un ruolo nella società. Gandhi era un femminista, per lui la donna andava valorizzata in tante maniere. Noi, con il “Kasturba Gandhi National Memorial Trust” -creato proprio dal Mahatma con il nome della moglie per aiutare donne e bambini- stiamo organizzando in questi giorni una marcia per andare chezza quando viviamo con paura. Si ha tutto ma si va ancora alla ricerca di altro: allora c’è povertà. Oggi, in India siamo forse più avanzati dell’America. Ci sono i più ricchi del mondo e persone che muoiono di fame”. È qui che s’inserisce la “filosofia dell’Arcolaio”? continuiamo a chiederle. “Le persone che tessono non hanno niente, possono essere uomini o donne in piena parità, lo possono fare anche per meditare e man mano creano qualcosa. Ciascuno può tessere il proprio futuro in amore e con senso di umanità. La filosofia dell’Arcolaio è la bomba atomica della non violenza. Quando psicologo, aveva a cuore il concetto di salute in relazione all’anima ed in armonia con l’ambiente. Aveva sempre in mente il bisogno di preservare i cinque elementi dell’aria, acqua, fuoco, terra a cui aggiungeva lo spazio”. Ci dice ancora: “Per Gandhi la parte più importante della creazione è la forza della madre”. E allora ci viene spontaneo chiederle: come si coniuga la potenza di questo pensiero con il fenomeno dell’aborto selettivo, che è una patologia della popolosa India? Cosa ci ha insegnato Gandhi per colmare questo deficit di civiltà e dignità? Far crescere una figlia femmina in India è contro questa tradizione e ci sta molto a cuore creare una cultura diversa”. Tara è venuta a Macerata e continua a girare per il mondo a testimoniare. E alla nostra ultima domanda: il cittadino del mondo vive oggi qualcosa dell’esempio di Gandhi o ne è profondamente lontano? Perché è importante per l’umanità dei nostri tempi recuperarne lo spessore? Risponde: “Gandhi adesso appartiene a tutta l’umanità. Gandhi è globale, non appartiene solo all’India, al Sud Africa o alla sua famiglia. Gandhi ispira ogni persona a sentire la sua coscienza. Gandhi è un appello di coscienza”. primapagina13 A COLLOQUIO CON di Giovanni Filosa Elif Shafak, la maggiore scrittrice turca Cittadina del mondo, anima globale, critica verso tutte le ideologie estremiste T utto è incominciato all’aeroporto di Kaìseri, diciamo nel cuore della Turchia. Una chiacchierata con la guida, Amin mi pare si chiamasse, che da una decina di giorni ci scarrozzava per quello straordinario ed affascinante Paese, sfocia in un faccia a faccia quasi intellettuale. “Quali autori turchi hai letto”, mi spara subito addosso. Gli rispondo immediato, “ne conosco due, la Aykol e Pamuk, soprattutto lui, coi suoi sguardi sghembi sulla borghesia turca”. Mi fa: “Prova a leggere Elif Shafak, avrai un’altra visione di questo Paese, in ogni senso”. Dopo alcuni giorni, in Italia, sbarcato, trovo all’aeroporto “Le quaranta porte”. Provo, mi dico. Inizio e non lo lascio più. Non posso abbandonare Shams e Rumi ma anche la vita, o forse meglio dire la storia, che si confronta attraverso generazioni e contraddizioni. E così ho comprato tutto, anche l’ultimo, “Honour”, in italiano “La casa dei quattro venti”. E poi alzi il telefono, perché se non ci provi non ci riesci, abbozzi un’intervista, mentre ti aiuta nella traduzione la collega Rita Perticaroli, e alla fine esce fuori un vis a vis con Elif Shafak, una quarantenne, la più grande scrittrice turca, donna bella e sensibile, che scrive perché ama scrivere e raccontare storie di tradizioni familiari, che ha rischiato la galera turca per aver parlato del massacro subito dagli armeni all’inizio del ‘900, una che non si tira mai indietro, che cura come un fiore la cultura e la tradizione del suo Paese. Te ne accorgi ad ogni pagina che sfogli. Ed hai voglia di rileggerla. Tieni una matita in mano, c’è sempre qualcosa da sottolineare fra le righe, da ricordare e far ricordare, per quando si sarà più grandi. Ecco, questo spiega come mi sono innamorato della Shafak. La scrittrice, ovviamente, che della donna sarebbe capace chiunque. Comunque la mia famiglia è stata avvertita e se n’è fatta una ragione. Tu scrivi in inglese e in turco ma appare sempre, nei tuoi libri, l’orgoglio dell’appartenenza all’identità turca: giusto? 14Primapagina A COLLOQUIO CON Come scrittrice, sono interessata all’esistenza umana e penso che essa sia un tema universale. Ritengo che la letteratura debba superare qualsiasi tipo di confine: nazionale, etnico, religioso, di classe sociale. Uno scrittore può essere particolarmente affezionato a una terra o a una cultura, ma l’arte della narrazione non può limitarsi a un luogo o ad un Paese. Ci sono molte cose in Turchia a cui sono legata: amo Istanbul, amo la cultura femminile, la cultura orale, ma sono cittadina del mondo e sono un’anima ‘globale’. Sono critica nei confronti di tutte le ideologie estremiste. Penso che tutte le varietà dell’ultra-nazionalismo creino solo problemi e dividano l’umanità. Qual è il ruolo della letteratura nel cercare di superare i muri culturali fra i popoli? La letteratura è fatta di legami e di empatia. Quando leggiamo un romanzo, ci mettiamo nei panni di un’altra persona. Forse per un’ora, o per qualche giorno. Per un po’, smettiamo di essere “io” e diventiamo ‘qualcun’altro’. E’ un esercizio tonificante per la mente e per l’anima. Ci aiuta a prendere le distanze dalla nostra arroganza, dal nostro egocentrismo, dal nostro ego. Ci permette di guardare la vita da angolature diverse. Se conosciamo la storia di qualcuno, sappiamo capirlo meglio. Le storie ci collegano, lo fanno da secoli. Da “La bastarda di Istanbul” a “Latte nero” per arrivare a “Honour”, quanta acqua è passata sotto i ponti della cultura e della tradizione turca? La Turchia è un Paese molto complicato. Ci sono così tanti conflitti. In generale, si può dire che la cultura turca cambia rapidamente. Si tratta di una società orientata al futuro. E’ anche una società molto giovane. Metà della popolazione ha meno di 30 anni. Per questo il Paese è dinamico e ha tan- te sfaccettature. La Turchia è unica, se confrontata con il resto del Medio Oriente. Ma la democrazia non è matura. C’è ancora molta strada da fare verso la libertà di stampa, la libertà d’espressione, i diritti umani, i diritti delle minoranze. In più, si tratta di una società patriarcale. Dobbiamo raggiungere la parità tra i sessi. Talvolta, cambiare la mentalità sul genere e la questione femminile è più dura che cambiare la politica. La Turchia e l’Europa, cosa le avvicina, cosa le tiene lontane? Dipende da quale Turchia o quale Europa intendiamo. In Europa ci sono persone contrarie all’Unione Europea e in Turchia ci sono persone contrarie all’ingresso della Turchia nell’UE. Ma io ritengo che il pericolo maggiore per l’umanità sia quello delle ‘comunità chiuse e basate sulle somiglianze’. Se i turchi fanno amicizia solo coi turchi, gli olandesi si parlano solo con gli olandesi, se ai tedeschi piacciono solo i tedeschi … il mondo sarebbe migliore o peggiore? Penso che se l’umanità si divide in ‘ghetti mentali’ il mondo diventa più problematico e disposto allo scontro. La Turchia e l’Europa possono ritrovarsi su ideali comuni, come la democrazia, i diritti umani, la libertà di espressione, il pluralismo, le relazioni economiche e finanziarie. Dì la verità, l’ultimo libro scritto è sempre il più amato, il figlio migliore? A dire la verità, penso che il mio libro più amato è quello che non ho ancora scritto. Quello che ho in animo, ma che devo ancora cominciare a scrivere. A che punto della tua ispirazione artistica è nato lo straordinario “Honour”, in italiano “La casa dei quattro venti”? Le famiglie mi hanno sempre molto interessato, forse perché non ne ho avuta una. A casa eravamo solo io e mia madre. E sono cresciuta osservando con curiosità le famiglie patriarcali intorno a me. Quando ho cominciato a scrivere Honour, ho voluto interrogarmi sulla maniera in cui alleviamo i nostri figli maschi, come fossero i sultani della famiglia. E come noi donne, più o meno consapevolmente, contribuiamo a questa discriminazione. Le donne hanno un ruolo importante nel perpetuare le culture patriarcali. Qual è il tuo rapporto con il pubblico italiano? Mi sento molto vicina all’Italia. La cultura, le città, l’arte, la letteratura contribuiscono a legarmi al vostro bellissimo Paese. Tanti scrittori italiani, Cesare Pavese, Italo Calvino, Umberto Eco, Primo Levi, Alberto Moravia, Pasolini e molti altri hanno lasciato un segno su di me nel corso degli anni. www.elifshafak.com http://twitter.com/Elif_Safak http://www.facebook.com/Elif.Shafak primapagina15 A COLLOQUIO CON di Matteo Tarabelli Etica e professionalità al servizio del mondo T re principi cardine: legalità, meritocrazia, rinnovamento. E un ambizioso obiettivo: entrare nelle case della gente, contribuendo a depotenziare stereotipi spesso causati da errori di comunicazione. Mauro Bignami, neo governatore del Distretto 2090 del Rotary International, l’ente di coordinamento dei 64 Club Rotary di Abruzzo, Marche, Molise e Umbria, ha già delineato il suo programma di mandato. Nominato due anni fa, il giornalista ed esperto di marketing, bolognese di nascita ma anconetano di adozione, è entrato in carica lo scorso 1 luglio. Un anno a disposizione per far conoscere e promuovere con maggiore vigore le numerose e lodevoli iniziative del Rotary, migliorandone la struttura organizzativa. Bignami, in che modo si è avvicinato al Rotary? «Da giovane sono stato interessato al servire (ero Boy Scout) e, prima ancora di diventare socio, avevo un grande rispetto per il Rotary. Così, quando il Club Ancona Conero mi cooptò, non ebbi esitazioni: per me essere rotariano ha voluto dire vivere la mia professione come una realizzazione personale, arricchita dalla possibilità di metterla al servizio di chi possa trarre benefici dalle mie competenze». 16Primapagina Come vede il suo ruolo di governatore? «Assieme al mio staff assisterò i Club per servire in modo più efficace il nostro territorio. Vorrei inoltre far sì che questa associazione sia riconosciuta non solo dall’ONU (presso cui ha un seggio permanente) e dalle sue Agenzie specializzate come Unicef, Unesco e Fao o dai grandi enti internazionali come l’OMS, ma anche dalle persone comuni. Non siamo un’associazione di beneficenza. Svol- giamo attività di servizio per alleviare povertà, fame, malattie, eliminare l’analfabetismo, tutelare l’ambiente, promuovere azioni a favore del territorio e dei giovani, che sono il nostro futuro. Comprensione, tolleranza e pace nel mondo - ideali condensati efficacemente dal motto scelto dal presidente internazionale 2012-2013 Sakuji Tanaka: La pace attraverso il servizio - sono i valori condivisi da oltre un milione e duecentomila soci mondiali del Rotary». Concetti da veicolare e tradurre in ambito locale... «Ritengo imprescindibile puntare sul merito, spesso misconosciuto o ignorato, sull’istruzione, la formazione. E sull’educazione civica: conoscere il funzionamento di uno Stato, le sue leggi, è fondamentale per acquisire concretamente lo status di cittadino e operare sempre nel rispetto delle regole della civile convivenza e per il bene comune». Quali i progetti attuati? «Tra i passati cito l’ultimo, la ristrutturazione dell’edificio A della facoltà di Ingegneria dell’Università de L’Aquila. Il costo, circa 2,5 milioni di euro, è stato sostenuto dal Rotary con finanziamenti privati e il lavoro gratuito di tecnici e professionisti rotariani. Poi i Foto Cristian Ballarini A colloquio con Mauro Bignami, Governatore del Distretto 2090 del Rotary International A COLLOQUIO CON tre Campus disabili e i corsi per non vedenti e ipovedenti, l’acquedotto per un quartiere della città di Durazzo, la Fabbrica del latte in Tanzania…». E per il futuro? «Fra i tanti progetti in cantiere, cito la riqualificazione dell’Istituto Montani di Fermo per rafforzare lo sviluppo e le competenze della zona. Nel 2013 avremo SPRECO, un’iniziativa in occasione dell’anno europeo contro lo spreco alimentare: il Distretto 2090, su spinta del Club San Benedetto del Tronto Nord, sta predisponendo un forum con personalità di fama internazionale per promuovere stili di vita eticamente consapevoli. Un progetto di rilancio dell’educazione civica partirà da Avezzano, coinvolgendo le scuole. A Urbino invece, centro storico Patrimonio dell’Unesco, convergeranno i Rotary Club europei, le cui città vantano tale riconoscimento, per un convegno di studi che diverrà biennale e itinerante, al fine di salvaguardare i patrimoni storici dell’umanità». Quali ritiene siano i principali punti di forza e di debolezza del Rotary? «In generale, ma penso al Distretto 2090, il nostro punto di forza è nella capacità di collaborazione tra individui di grande integrità, donne e uomini, motivati a servire disinteressatamente ed agevolati anche dalla struttura a rete, che ci permette di operare su larga scala. Le nostre debolezze sono tecniche, dovute in parte all’invecchiamento cui si può sopperire con l’inserimento di forze nuove ben selezionate e preparate. Inoltre non sono pochi i preconcetti da combattere. La comunicazione diventa perciò determinante per far sapere cosa facciamo, per coinvolgere i giovani e attivare nuove iniziative con le tante professionalità diverse e la consapevolezza di impegnarci per il prossimo senza guadagnarci nulla. Anzi, autotassandoci. Spero di riuscire a trasmettere il messaggio. Ci proverò con tutte le mie forze». primapagina17 A COLLOQUIO CON di Pamela Temperini Kalòs kai agathòs: lo sguardo sul mondo di Maria Grazia Capulli, la popolare giornalista del Tg2, inviato speciale per la cultura D ue parole antiche, kalòs kai agathòs, il bello e il buono, traslate nel mondo moderno con la leggerezza della voce di Maria Grazia Capulli. La incontro nella sua città natale, Macerata, dove si trova da qualche giorno per quattro ragioni “belle e buone”, in coerenza con la sua filosofia di vita e di lavoro. Da anni inviato speciale per la cultura del Tg2, le chiedo subito la sua posizione nei confronti del giornalismo culturale. Non ha esitazioni. E se il tono delle parole è composto, professionale, gli occhi tradiscono quasi un velo di sana turbolenza. Sono bellissimi gli occhi di 18Primapagina Maria Grazia, di un celeste intenso, limpido come il suo sguardo diretto sulle cose del mondo. “Il mio modo di intendere la cultura, di viverla e restituirla da sempre va oltre la canonica recensione di un libro, di un evento teatrale o cinematografico. La cultura è lo sguardo sulle cose, si dilata dalle conversazioni che intrattieni con gli altri, dal cibo che mangi, dalla dialettica delle relazioni, dalla continuità della crescita personale. Sono spinta dalla voglia di non dover fare giornalismo A COLLOQUIO CON solo raccontando notizie negative, ma seguendo lo spirito del kalòs kai agathòs, bello e buono, e di accendere l’attenzione su realtà positive come quelle che, per fare un esempio, ho vissuto in questi giorni. Ad Osimo, ho visitato il giardino sensoriale della Fondazione Grimani Buttari che ospita persone anziane, molte delle quali non più autosufficienti, o affette dal morbo di Alzheimer. È una bellissima struttura in cui gli anziani possono praticare l’orticoltura, il giardinaggio ricavandone notevoli benefici, soprattutto a livello psichico. Ad Amandola, invece, ho avuto il piacere di conoscere un ebreo polacco che dopo molti viaggi e un soggiorno in Giappone ha deciso di fermarsi in questo stupendo angolo delle Marche ed insieme a sua moglie si diletta a fare la carta a mano e ad organizzare corsi per insegnare quest’arte e la sua antichissima storia. Nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, nell’alto maceratese, una coppia intraprendente, lui un gra- fico lei un’avvocatessa, ha deciso di mettersi in gioco restaurando un piccolo borgo medievale e facendone un agriturismo ecosostenibile, a km zero. E a Macerata, alla scuola primaria Enrico Fermi ho vissuto insieme ai bambini momenti splendidi seguendoli all’interno di un progetto per l’’integrazione multiculturale, armati di fogli e matite e della comune lingua dell’arte.” Chissà se Maria Grazia sarebbe diventata la stessa persona di oggi se, invece di seguire la strada del giornalismo, avesse continuato ad insegnare greco e latino come aveva iniziato a fare subito dopo la laurea in Lettere. Curiosa lo è sempre stata, così come sognatrice e comunicativa, ma il contatto con realtà ogni volta nuove e stimolanti le hanno senza dubbio permesso di soddisfare una ricerca tutta personale, cogliere cioè la bellezza nel cuore delle cose e delle persone. Forse per questo il personaggio fittizio a cui è più legata è Martin Eden, il protagonista del romanzo omonimo di Jack London, il marinaio sognatore e di gran cuore che in nome dell’amore sfida le convenzioni borghesi di una società americana classista, mentre nel folto ginepraio della poesia moderna si sente molto vicina e si riconosce nel “Valore” di Erri De Luca che non dimentica tra i beni della vita un sorriso involontario, risparmiare acqua, il viaggio del vagabondo, l’uso del verbo amare, per finire con Jorge Luis Borges del quale condivide la scelta tutta particolare dei “Giusti”, quelli che coltivano un giardino o sono contenti che sulla terra esista la musica o accarezzano un cane addormentato. Immagini che nella loro disarmante e laconica chiarezza trasmettono quella serenità o meglio quella gioia che Maria Grazia considera un obiettivo fondamentale nella vita per sé e per gli altri. A questo punto non stupisce sentirsi confidare, con gli occhi un po’ birichini, che da bimba sognava di fare la “golosiera”, dispensare felicità con i dolci fatti a mano da lei, ma subito dopo, riprendendo il filo dei pensieri “più seri” cuciti alla memoria trova il nome di una donna straordinaria, Jane Goodall, l’etologa ed ambientalista inglese che ha dedicato tutta la vita allo studio e alla protezione degli scimpanzé. Io le avevo chiesto di un personaggio del passato al quale si sentisse affine e lei mi parla, giustamente, di una donna del presente, Messaggero di Pace delle Nazioni Unite, come a dire che il passato è prezioso ma la vita è ora e c’è tanto da fare. “La bellezza salverà il mondo” proclama stentoreo il generoso e candido principe Miškin di Dostoevskij. Bisogna, però, cercarla, produrla e sostenerla perché questo accada. primapagina19 A COLLOQUIO CON I di Paola Stefanucci L’attore Ennio Fantastichini, che adora la fanta... scienza nfaticabile: Ennio Fantastichini è (quasi) sempre in tournée, o sul set. Colgo un’occasione (fortunata) al volo. Mi riceve nella sua casa romana. Davanti ad un caffè aromatizzato alla vaniglia, si accende con voluttà una sigaretta dietro l’altra e si lascia intervistare, o meglio è lui a condurre il nostro colloquio. Grintoso e sincero, esplicito e graffiante. Peccato non poter riportare integralmente, per ragioni di spazio, la nostra lunga conversazione. Talento acclamato da pubblico e critica, migra con sorprendente versatilità dal teatro al cinema e alla tv da un quarto di secolo e più. Nei panni di Enrico Fermi ne I ragazzi di via Panisperna (1988) di Gianni Amelio è tatuato nella memoria di ogni cinefilo. Altrettanto indimenticabile è in Porte aperte (1989) dello stesso regista accanto a Gian Maria Volonté. Attore eccellente regge alla grande il confronto con altri suoi colleghi che hanno la fortuna di recitare in ruoli più significativi e remunerativi. Ma lui viene puntualmente premiato: nella sua collezione può esibire anche due Nastri d’Argento. Sul grande schermo lo abbiamo apprezzato di recente nel ruolo minuscolo e simpatico di uno sceicco nel film di Laura Morante “Ciligiene” e in quello, ben più impegnativo, del commissario Curti ne “L’arrivo di Wang”, l’ultima pellicola (autoprodotta) dei registi, Marco e Antonio, Manetti bros. in collaborazione con Rai Cinema. In proposito, Fantastichini esprime la sua perplessità e mi confessa la sua amarezza: si tratta di un film paradossalmente bistrattato in Italia ma pluripremiato all’Estero e accolto con entusiasmo in prestigiosi festival 20Primapagina internazionali a Glasgow, a Brussels e in Spagna. Parliamone... è d’obbligo una premessa: io adoro la fantascienza. Tanto che alla mia società di produzione ho dato il nome Klaatu, dalla parola d’ordine pronunciata dall’alieno, nel film Ultimatum alla terra, per fermare il robot che sta per distruggere il mondo. Ringrazio, quindi, i Manetti bros. per avermi dato quest’opportunità. Il copione mi ha subito entusiasmato. Abbiamo girato in venti giorni. Con un budget molto basso. Eravamo tutti coinvolti. La trama? L’agente Curti, io, deve interrogare d’urgenza e in segreto un fantomatico signor Wang. Viene chiamata Gaia (Francesca Cuttica) un’interprete di cinese che è costretta a tradurre bendata in quanto non può per ragioni di riservatezza vedere il suo interlocutore. Quando Gaia scoprirà l’identità del signor Wang il suo destino e quello del nostro pianeta è segnato… è stato difficile interpretare un agente alle prese con un extraterreste? Sì, Un esercizio mnemonico notevole per la quantità straordinaria di parole. Però necessarie. Nei copioni italiani ce ne sono troppe. Troppi dialoghi pleonastici, inutili, che mortificano lo spazio visionario. Faccio un esempio. Dico “mi accendo una sigaretta” mentre la sto accendendo. Che bisogno c’è di dirlo? L’ho accesa. Si tende ad adattare, a raccontare quello che non possiamo vedere, perché costa. Il thriller dei Manetti ha già collezionato alcuni premi tra i quali il Méliès d’Argento come miglior lungome- A COLLOQUIO CON traggio fantastico europeo... Sì. L’arrivo di Wang ha avuto delle recensioni trionfali in Inghilterra e altrove, ma non qui da noi dove alla mostra di Venezia presentati a “Controcampo italiano” siamo stati ignorati, siamo capitati tra due produzioni cosiddette forti. La distribuzione, Iris film, è molto coraggiosa, il film uscirà anche in Brasile. Nella sua lunga carriera lei è stato più volte premiato. Finora sempre come attore “non” protagonista. Che effetto fa? Provoca disagio solo in contesti molto provinciali. Cito Stanislavskij: “non esistono piccoli ruoli ma esistono piccoli attori”. Il “non protagonista” può avere talvolta un’importanza robusta, pari a quella del protagonista. In una storia poi non c’è un solo protagonista, c’è il protagonista etico, il protagonista morale... Un ruolo che ritiene a lei congeniale? Faccio sempre con piacere il ruolo di padre, forse perché sono padre. Ho un figlio di sedici anni, Lorenzo. Exploit nel 1970 in Aspettando Godot di Samuel Beckett per la regia di Stefano Mastini al teatro capitolino L’abaco. Lei è nato attore? No, sono nato musicista. Avrei voluto fare il musicista, ma eravamo una famiglia non ricca, papà maresciallo dei carabinieri, tre figli da mantenere, le lezioni di piano costavano troppo e ho dovuto rinunciare. La musica è il grande rammarico di tutta la mia vita. So suonare la batteria a orecchio. Ero attratto molto dal mondo delle arti, complice mio fratello Piero pittore e scultore. L’incontro con il teatro è avvenuto, non proprio per caso, ma attraverso la lettura di Skakespeare e, in particolare, di Amleto. Il suo esordio sul palcoscenico è stato precoce (a quin- dici anni) ma non altrettanto sul grande schermo dove approda nel 1982, a ventisette anni. Come mai non si è lasciato incantare prima dalla magia della celluloide? Allora non facevo cinema ma ci andavo molto, ricordo una sala storica “L’occhio, l’orecchio, la bocca” a Trastevere. Era il periodo delle maratone tematiche si entrava alle tre del pomeriggio, si usciva a tarda notte. Poi è arrivato il provino per fare Enrico Fermi con Gianni Amelio. Un’operazione intelligente e raffinata, come tutti i film di Amelio che aveva piacere di avere sempre sul set tutti gli attori. Un’esperienza indimenticabile, per me. Oltre a Gianni Amelio, quale altro regista le è particolarmente caro? Peter Del Monte, fa un cinema poetico, senza la volontà di piacere a tutti, non rincorre l’incasso. Come fanno tanti. Oggi non si chiede più “Com’era il film?” ma “Quanto ha fatto?”. Nel corso delle sue lunghe tournée quante volte ha fatto tappa nelle Marche? Non si contano... Un ricordo, un episodio, particolare legato alla nostra Regione. Tanti ma in particolare, il Festival di poesia a Recanati. Recitavo le poesie di Jorge Luis Borges accompagnato da un gruppo di musicisti argentini. In quell’occasione feci un appello ai genitori di non portare i figli al cinema a vedere i cinepanettoni. Ci fu un boato (di consenso) non un applauso. Prossimi impegni? Una trilogia di cortometraggi “Amoronor”, vale a dire amore e onore nel passato, presente e futuro. Qualcuno l’ha paragonata a De Niro... Ne sono lusingato. è un attore formidabile. Ma io sono Ennio Fantastichini. primapagina21 A COLLOQUIO CON di Silvia Barocci Giovane favoloso Giacomo Leopardi I l giovane favoloso: il titolo del film che Mario Martone sta preparando per il 2014 non è solo un omaggio a Leopardi, ma anche a una famosa scrittrice napoletana, Anna Maria Ortese che così l’aveva chiamato nel racconto “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”. Non c’entra il campanilismo: il suo è proprio un modo di vedere le cose. Si parte da Leopardi, si finisce per parlare di Napoli e poi di Recanati e poi ancora dell’infinità vanità del contemporaneo. Attingendo direttamente alla mole di scritti lasciati da Leopardi, Martone, dopo il successo di Noi credevamo del 2010, ambisce a conquistare nuovamente il grande pubblico: del film non dice nulla, ma la direzione dei lavori affidati alla Palomar di Carlo degli Esposti, produttore di fiction di grande successo come la saga di Montalbano in tutte le sue varianti, oltre che di Noi credevamo, lascia intravedere che il “biopic”, il film biografico su Leopardi, avrà molto 22Primapagina del “docufic”, assecondando cosi il gusto del pubblico televisivo italiano. E, con un ambizioso regista come Martone alle spalle, ci sono tutte le premesse per aspettarsi, oltre che un grande successo, anche un buon prodotto. Perché proprio Leopardi allora? La risposta più plausibile è che sono anni che il regista di natali napoletani finisce per imbattersi in Leopardi. Almeno dal 2004, quando con Enzo Moscato ha licenziato per il Teatro Mercadante di Napoli L’Opera segreta, dedicata in parte a Leopardi per il tramite delle parole di Anna Maria Ortese. Di nuovo: Napoli, Ortese e Leopardi. La preparazione di Noi credevamo, il film monumento sulla storia nascosta del Risorgimento italiano con cui si è ritrovato padrino delle celebrazioni per il 150 anniversario dell’Unità d’Italia, è stata poi un’occasione per tornare con il cuore ad alcuni autori che hanno preparato, raccontato, giudicato quella stagione di moti e rivoluzioni che è stato il diciannovesimo secolo e Leopardi non poteva certo mancare. Il film è uscito nelle sale nel 2010 ma da dieci anni Martone andava riflettendo su come strutturarlo, decidendo infine di tornare alle “fonti primarie” e alla voce diretta di quei protagonisti che il Risorgimento l’hanno pensato. E arriviamo a Leopardi. Il 2007 è l’anno delle Operette morali versione palco- scenico, ovvero di come Martone abbia trasformato una geniale intuizione in uno dei più fortunati successi teatrali degli ultimi anni. Nate come prova di composizione di un giovane Leopardi alle prese con “l’esistenzialismo” del proprio tempo, le Operette assunsero fin da subito una forma dialogica: pensate quindi non per il teatro, ma adattabilissime alle esigenze sceniche proprio per questa loro struttura. Nessuno vi aveva pensato prima: la cosa è invece riuscita benissimo a Martone che ha selezionato, tagliato e rimontato gran parte dei testi pensando allo spettatore moderno. Risultato: Premio Ubu 2011 per la migliore regia, più un seguito di altri prestigiosi riconoscimenti che hanno imposto il nome di Martone all’attenzione del pubblico italiano e quello delle Operette morali nei migliori cartelloni di tutta Italia. La decisione di lavorare ad un film biografico su Leopardi è stata ufficializzata ad Ancona il 27 aprile scorso in occasione della presentazione del Premio Ludovico Alessandrini (l’ennesimo riconoscimento al regista): «Sono molto felice della serietà e dell’intelligenza con cui mi trovo sempre a confrontarmi qui nelle Marche – ha detto Martone nel corso della conferenza stampa a palazzo Raffaello - Con questa regione ho un rapporto molto bello: qui si pensa, si agisce attualità e cultura e si lavora in molti modi diversi. Le Marche trasmettono profondità di spirito e di pensiero, a Recanati ci sono dei luoghi consustanziali a Leopardi. Ed è bello constatare che in questa regione questo spirito si senta così vivo: è un bene tutto il paese». L’appoggio di un uomo di sostanza come Carlo degli Esposti ha consentito così a Martone di rinnovare la collaborazione con Rai Cinema continuando a lavorare a quel cantiere aperto di idee, metodi e approcci che caratterizza, fin dalle prime prove di Noi credevamo, il modo di lavorare del suo staff. «La potenza vitale della voce di Leopar- di - dice Martone, che sta lavorando alla sceneggiatura con la fidata Ippolita Di Maio - mi ha accompagnato in tutti questi anni: Leopardi era concreto ma volava con la fantasia verso spazi sconfinati e guardava alla realtà come nessuno del suo tempo». Per concludere: si tratta di una grande opportunità anche per tutte le Marche che, dopo Dustin Hoffman, tornano a legare la loro immagine all’ “Infinito”: «Siamo agli inizi di un lungo lavoro – ha detto Carlo degli Esposti - e certo Recanati sarà al centro dei luoghi più importanti. Il film sarà locale, italiano, ma anche internazionale, per garantirgli il massimo respiro. Sicuramente sarà uno sguardo intenso di un regista come Martone su Leopardi: e quando dico Martone, intendo che bisogna prenotarsi per tempo».. primapagina23 A COLLOQUIO CON di Chiara Giacobelli A colloquio con Juliet Gael: dall’America all’Italia, passando per Parigi Sulle tracce di Charlotte Brontë e Mary Shelley A l nostro appuntamento nella hall di un albergo fiorentino Janice Graham (in arte Juliet Gael) si presenta in sella a una bici. E non è un caso. Vive a Firenze da circa due anni e ha già imparato tutto quello che c’è da sapere sull’Italia: la passeggiata mattutina, il ritmo dolce dei tempi, la colazione con cornetto e cappuccino, una tagliatella a pranzo e le serate trascorse tra amici, buon vino, arte e cultura. Scrittrice americana di successo, definita nel suo stesso sito “New York Times bestselling author and screenwriter”, nel Belpaese Janice ci è sbarcata un po’ per reale necessità, e un po’ no. Dopo aver pubblicato una serie di titoli andati a ruba, firmato un film (Until September), trovato il tempo di metter su famiglia e vivere quindici anni nella sua amata Parigi, adesso Janice – da adulta – ha scelto di realizzare un sogno. E quel sogno si chiama Italia. “Quando ho cominciato a fare le ricerche per il mio nuovo libro, che racconterà l’appassionata storia di Mary e Percy Shelley, avevo in testa di trascorrere qualche mese a Firenze, dove i due coniugi hanno passato un periodo importante della loro vita – mi racconta Janice, che alla coppia ha dedicato tutto il suo tempo negli ultimi due anni – ma in realtà tra me e me sapevo benissimo di essere alla ricerca di una scusa: quello che volevo davvero era venire a vivere in Italia”. Quali posti hai già visitato? “Moltissimi, anche perché mentre abitavo in Francia venivo spesso da queste parti in vacanza e anno dopo anno mi sono innamorata di questo Paese. Sono stata a Roma, in Sardegna, Sicilia, Capri e Venezia. Ho girato in lungo e in largo tutti i dintorni di Firenze e la Toscana fino a Pisa, dove gli Shelley hanno trascorso la maggior parte del loro soggiorno italiano. Delle Marche mi pia24Primapagina cerebbe tantissimo visitare Urbino, ne ho sentito parlare da tutti e sarà sicuramente la mia prossima meta! Ormai mi sento molto più europea che americana”. Ciò che comunque, almeno all’inizio, ti ha condotto in Italia è stato un libro… “Sì, sto scrivendo un nuovo romanzo che vedrà protagonista una delle coppie più appassionate e infuocate della storia: Mary Shelly (l’autrice di Frankestein) e suo marito Percy Shelley, poeta romantico e filosofo. I due vissero in Italia per quel poco tempo che la vita concesse loro – dal momento che Percy morì giovanissimo – e io ho voluto seguire le loro tracce. Non solo. Il loro periodo italiano mi ha affascinato così tanto che, dopo aver scritto le prime 220 pagine, ho buttato via quasi tutto e ho preso la decisione di ricominciare il romanzo proprio da qui, dall’Italia, tornando poi indietro nella narrazione con un lungo flashback”. Intanto però in libreria è possibile trovare il tuo ultimo romanzo Romancing Miss Brontë, in Italia tradotto da Tea. Un nuovo successo editoriale. “In questo caso la storia che racconto è quella delle sorelle Brontë, che tutti conoscono. La prima volta che lessi Jane Eyre ero all’università, ma la mia vera pas- A sinistra un ritratto di Charlotte Brontë a destra di Mary Shelley A COLLOQUIO CON sione per le Brontë nacque quando seguii un corso postlaurea tutto incentrato sulla loro letteratura. Lessi allora tutti i romanzi che avevano scritto e anche le biografie pubblicate su di loro. La storia della famiglia Brontë, in particolare il rapporto così stretto e intimo tra il padre e le figlie, mi colpì persino più dei libri stessi. All’inizio pensai di scriverci sopra una sceneggiatura (quindici anni fa), ma poi preferii trasformare il tutto in un romanzo, perché volevo crescere come scrittrice e sentivo l’esigenza di fare questa nuova esperienza professionale”. Il libro si focalizza soprattutto su Charlotte: i suoi successi professionali, l’affetto nei confronti delle sorelle e poi, quasi inaspettato, l’amore per Arthur Bell Nicholls. “Charlotte è un personaggio romantico in tutti i sensi: non solo per quello che riguarda la sua storia d’amore con Arthur, ma anche la sua indole e poi ovviamente i libri che scrisse. Era una donna alla ricerca di una vita più completa, adatta alla sua complessità di carattere. Ho scelto di raccontare lei più delle altre sorelle perché delle tre era quella con maggiore ambizione, coraggio e interesse nei confronti di una vita esterna. Amava la società, aveva dei progetti in tal senso, era disposta a enormi sacrifici per la sua famiglia. Inoltre fu l’unica a innamorarsi e sposarsi”. Dalle pagine traspare però anche qualcosa di Emily, autrice del libro a mio parere più bello e intenso mai scritto in tutta la storia della letteratura: Cime tempestose. “Emily era molto diversa da Charlotte, viveva nel suo La scrittrice Juliet Gael mondo, non sentiva la necessità di uscirne fuori, era completamente libera e si sentiva autorizzata a comportarsi un po’ da selvaggia. Così Cime tempestose rispecchia questo suo essere “wilde”, outsider e ribelle. Veniva anche lei dalla tradizione romantica e aveva letto tantissimi autori, Walter Scott per primo. Inoltre era una grande osservatrice e registrava tutto quello che vedeva attorno a lei, nella provincia inglese dell’epoca: personaggi rudi e a volte violenti, con sentimenti forti ed esperienze di vita molto dure. Siccome non si sentiva obbligata a scrivere né a pensare come una donna dell’Ottocento, diede vita a un romanzo che riversava sulle pagine una passionalità non trattenuta e un ardore estremo”. Un’ultima domanda: che rapporto hai con i lettori italiani? “Molto buono. Chi legge i miei libri entra in profondità e mostra un bagaglio culturale ampio, strutturato. Sia dai giornalisti che dai lettori, nel corso delle presentazioni o delle interviste, ricevo domande intelligenti e non banali, non ovvie. Ho l’impressione che in Italia si abbia la tendenza a capire, a scavare, ad andare oltre il primo strato delle cose. Ecco perché mi sento assolutamente a mio agio in questo Paese”. La copertina dell’ultimo romanzo scritto da Juliet Gael La locandina del film “Jane Eyre” tratto dal capolavoro di Charlotte Brontë primapagina25 A COLLOQUIO CON di Federica Grilli 30 anni di MARTIN MYSTÈRE? Molto ben portati Intervista a Giancarlo Alessandrini, disegnatore storico dell’eroe bonelliano C erto, se paragonati ai sessantaquattro dell’inossidabile Tex o ai cinquantuno del coriaceo Zagor possono sembrare pochi, ma trent’ anni di vita per un eroe di carta, in un mondo che in due anni ha già prodotto quattro generazioni di iPad, sono un’enormità. Cavallo di punta della scuderia Bonelli, una volta chiusasi la stagione dei “western-avventurosi” (Tex, Zagor, Mister No) Martin Mystère - primo fumetto ambientato nella contemporaneità - ha inaugurato l’avvio delle moderne serie degli anni ’90, come Dylan Dog e Nathan Never. Il personaggio dell’archeologo esploratore, avventuriero e amante dell’ignoto, creato dalla penna di Alfredo Castelli e dalla matita di Giancarlo Alessandrini è ormai fin troppo conosciuto perché si renda necessario parlar di lui. Conviene forse dare la parola ad Alessandrini, il creatore grafico del personaggio, il più prolifico e ispirato disegnatore - nonché unico copertinista - della serie. Nato a Jesi nel 1950, oggi Alessandrini è un simpatico e disponibile trentino che conserva sensibili tracce della parlata di Ancona-Falconara, dove è vissuto fino a dodici anni fa. Prima di diventare famoso come il “padre” di Martin, ha cominciato a lavorare giovanissimo in reda26Primapagina A COLLOQUIO CON zioni prestigiose con alcune pietre miliari del fumetto italiano, come Mino Milani o Giancarlo Berardi (all’attivo ha sei album del mitico Ken Parker). Insieme a quello dello sceneggiatore Castelli il suo nome è oramai nell’olimpo dei grandi del fumetto, di quelli storicizzati nei testi di critica, ma che pure si trascinano dietro schiere di adoranti seguaci. Partiamo dal BVZM, il “Buon Vecchio Zio Marty”, come dicono cripticamente i fans. Sulla carta compie trent’ anni, ma nella vita lo scorso giugno (essendo nato il 26 giugno 1942), è arrivato a settant’ anni. È invecchiato bene? Invecchiato? Casomai ringiovanito! Non me n’ero reso conto, ma mi hanno fatto notare proprio recentemente che Martin ora, con quel grosso ciuffo, dimostra qualche anno di meno rispetto ai primi numeri. Il numero 320, uscito ad aprile, ha celebrato i 30 anni della serie portando Martin Mystère negli anni ’30… Sì, Castelli ha voluto giocare su questo numero scrivendo una fantastica storia in cui c’è tutto degli anni ’30 americani, da King Kong ad Al Capone. Mi sono divertito molto a disegnarla e sono sicuro che si saranno divertiti molto i lettori a leggerla. In un certo senso è stato anche un ritorno alle origini, perché la prima storia che disegnai con sceneggiatura di Castelli era “L’uomo di Chicago”, della serie “Un uomo un’avventura”, ambien- tato proprio negli Stati Uniti degli anni ’30. A proposito di Castelli, com’è lavorare con lui? A chi spetta raccogliere la documentazione necessaria per rendere credibili i particolari? È compito dello sceneggiatore, è lui che passa al disegnatore il materiale su cui basarsi, ma spesso il disegnatore integra le informazioni ricevute. Ricordo che una volta la raccolta di documentazione era lunga e complessa, bisognava procurarsi libri, raccogliere fotocopie, frequentare biblioteche, musei… Ora con internet è tutto molto più facile e veloce, e si può fare anche stando comodamente a casa! Per quanto tempo potrà rimanere in attività Martin Mystère? O crede che fare un bilancio sia prematuro? Per adesso Martin Mystère gode di ottima salute e non dà segni di cedimento. Anzi, le vendite sono in costante aumento, attualmente sono sulle 40.000 copie. È vero che qualche tempo fa, come tutti i fumetti, aveva attraversato un periodo di crisi, ma dopo l’opera di rystaling della serie (da mensile è passato a bimestrale e sono state apportate modifiche alla copertina) ha recuperato ampiamente nelle vendite. In ogni caso Bonelli non avrebbe mai chiuso una serie storica come questa, e so che la pensa allo stesso modo il nuovo direttore Marcheselli. L’anno scorso la città di Ancona l’ha omaggiata con una im- portante mostra alla Mole Vanvitelliana e alla Galleria Puccini. Si è sentito gratificato? E come sono i suoi rapporti con il territorio? I rapporti con le Marche sono ancora molto intensi. In fondo ho abitato a Falconara fino al 1999 e lì in zona, tra Jesi e Ancona, ho ancora tutti i miei parenti e le amicizie, dai compagni dell’Istituto d’Arte, ai miei colleghi di band (io suono la chitarra). Partecipo volentieri, quando mi è possibile, a iniziative che si svolgono nel territorio, come la Mostra Mercato del Fumetto di Falconara o i seminari alla Scuola Internazionale di Comics. La mostra di Ancona è stata per me un regalo bellissimo: in fondo ho fatto molte mostre, spesso all’estero, anche in sedi prestigiose, ma devo dire che nessuna è venuta bene e mi ha fatto piacere come questa. primapagina27 A COLLOQUIO CON di Giulia Pieretti Girl Geek Dinners Marche Donne alla conquista dei Nuovi Media C he significa Geek Girl? E Girl Geek Dinner Marche? Il termine “Geek” (si pronuncia ghiik) ha origini anglosassone, “indica una persona affascinata dalla tecnologia e dalla fantasia” [Fonte Wikipedia]. Le Geek Girl sono donne professioniste ma anche studentesse appassionate di tecnologia, internet e Nuovi Media che si incontrano per condividere idee, presentare progetti e perché no, idearne di nuovi. Le Girl Geek Dinners o GGD, sono eventi informali a carattere conviviale, il format è stata ideato nel 2005 da Sarah Blow una software engineer e si è diffuso rapidamente in tutto il mondo. Gruppi di ragazze volontarie organizzano periodicamente cene o aperitivi tematici dove intervengono, ospiti, relatrici ed aziende, fornendo così occasioni di confronto, networking e formazione. In Italia esistono oltre 10 team ed il numero è in costante crescita. Per rimanere aggiornati sulle ultime tendenze e novità in campo tecnologico è possibile seguire il blog nazionale: Gir Geek Life www. girlgeekdinnersitalia.com. Come e quando è iniziata l’avventura Girl Geek Marche? Il team Girl Geek Dinners Mar28Primapagina È nato un nuovo modo di condividere conoscenze e idee: Girl Geek Dinners. In tutto il mondo e anche nelleMarche. Primapagina intervista il team GGD marchigiano, composto da Anna Torcoletti, Silvia Marinelli, Sara Aura e Laura Bolletta che è nato nel 2008, in occasione del Festival dei Blog di Urbino è stata organizzata la prima GGD non metropolitana grazie anche alla collaborazione del team di Milano, il primo in Italia che ci ha fornito un solido sostegno e al contributo degli sponsor. Chi sono le organizzatrici di zona? Le fondatrici del team GGD Urbino diventato poi GGD Marche sono Anna Torcoletti, Sil- via Marinelli e Sara Aura. Nel 2010 si è unita Laura Bolletta e nel 2012 sono salite a bordo della “macchina” organizzativa Erica Rigucci e Serena Canu. Siamo tutte ragazze legate alla regione, la maggior parte di noi ha origini marchigiane, ad esempio: Anna è di Senigallia, Silvia di Civitanova Marche, Sara di Pesaro, Erica di Fano. Serena invece è sarda ma ha studiato all’università di Ur- A COLLOQUIO CON bino e attualmente vive a Mondolfo. Ci scambiamo diverse email al giorno soprattutto a ridosso degli eventi, utilizziamo Skype ed i documenti condivisi di Google per rimanere sempre in contatto. Alcune di noi si sono conosciute all’Università, altre a eventi dedicati al Web come BarCamp o conferenze, altre invece in rete per poi ritrovarsi di persona proprio ad una Girl Geek Dinners. Lavoriamo tutte in ambito web, ognuna con una specializzazione diversa dal Design al Web Marketing fino a strategie di Social Media Marketing. Potete raccontarci qualche evento che avete realizzato o qualche aneddoto particolare? Alcune di noi dopo essersi scambiate email per mesi, partecipato a Skype conferenze e definito meticolosamente ogni dettaglio, si sono conosciute di persona proprio il giorno stesso dell’evento. Le GGD vengono organizzate nel tempo libero - spesso ci sentiamo di sera e le nostre email a volte riportano orari improbabili. Alcune di noi lavorano o hanno lavorato fuori regione o all’estero, ma la tecnologia ci ha sempre tenuto in forte contatto. Cosa vi spinge a continuare? Ogni hanno partecipano sempre più ragazze ed è proprio il loro entusiasmo che ci spinge a mettere nuovi appuntamenti in calendario. Inizialmente la maggior parte delle persone venivano da Milano, Bologna, Firenze, Roma ora invece riscontriamo un’adesione sempre maggiore sia da parte delle ragaz- ze che dalle aziende della Regione. Tutto ciò ci gratifica molto e siamo contente di questo risultato perché la valorizzazione e il coinvolgimento del territorio sono gli elementi principali sui quali è stato fondato il team GGD Marche. Come vi sembra che stiano evolvendo le professione legate a internet? Quali sono le professioni del futuro e i consigli da non dimenticare per essere una geek girl di successo? Molte di noi hanno cambiato lavoro e trovato nuove opportunità grazie a conoscenze nate in rete o a contatti stretti durante occasioni di networking come le GGD. Il web è in costante fermento e sviluppo così come le nuove professionalità legate al marketing, al design e allo sviluppo di applicazioni facebook e mobile. Ogni giorno ci mettiamo in discussione, il nostro lavoro è anche passione, curiosità e costante aggiornamento. Tutti elementi chiave per raggiungere, ci auguriamo, importanti traguardi. Avete altri eventi in programma? Il prossimo evento avrà come tema il turismo: casi di successo, strategie e tecniche di promozione online attraverso i Nuovi Media. Anche questa volta non mancheranno sorprese ed ospiti d’eccezione. Comunicheremo tutti gli aggiornamenti sul nostro blog: http://www. girlgeekdinnersmarche.com Pagina Facebook: https://www.facebook.com/ggdmarche Twitter: @ggdmarche. primapagina29 A COLLOQUIO CON di Francesca Pieroni H.H. La lunga corsa di Mauro verso la meravigliosa umanità del suo grattacielo D ell’Hotel House sappiamo molto. Conosciamo i suoi numeri (i 17 piani con 480 appartamenti, gli 8 ascensori di cui solo 2 funzionanti); sappiamo che qui convivono 32 etnie provenienti da diversi paesi del mondo, in particolare Senegal, Pakistan, Bangladesh; e non è una novità il fatto che d’estate la sua popolazione aumenti perché arrivano da tutta Italia i venditori ambulanti. Sappiamo anche che solo all’Hotel House vivono circa 400 bambini. Quello che non sappiamo è chi sono le persone che lo animano, perché l’essere diventato negli anni un grattacielo abitato in larga parte da stranieri e soprattutto l’essere stato usato come luogo per lo spaccio di sostanze stupefacenti, lo ha trasformato in un ghetto, lontano e isolato dalla bella Porto Recanati. Sono bastate queste poche ed elementari informazioni per far sorgere a Carolina D’Angelo, autrice offidana di 36 anni, la suggestione per scrivere H.H., l’albo illustrato da Marco Paci ed edito da Prìncipi e Princípi rivolto a ragazzi dai 9 agli 11 anni, che ha già vinto il premio speciale per la miglior coerenza grafica-testo del concorso Un libro per l’Ambiente, è stato scelto da IBBY Italia per la Biennale di Illustrazione di Bratislava, è stato selezionato per il White Ravens 2012, e soprattutto, è fra i tre finalisti del premio Anderson come miglior libro 30Primapagina illustrato per questa fascia di età. Ne abbiamo parlato con gli autori. Carolina D’Angelo e Marco Paci, come avete lavorato per realizzare H.H.? Carolina: Con Marco ci conosciamo molto bene e c’è sempre stata una sintonia sulle storie che ci toccano. Io non entro mai nel suo ambito o nel lavoro di un illustratore perché il bello del libro illustrato è avere a disposizione due visioni, quella del testo e quella delle immagini. Se ci influenzassimo a vicenda il lettore ne avrebbe una sola. Ad esempio, la prima volta che abbiamo lavorato insieme era per Acqua Nera e io avevo ambientato la storia in Afghanistan ma quando sono andata a vedere le tavole Marco aveva fatto un paesaggio tipicamente africano, perché anche lì vivevano la stessa condizione. La cosa mi è piaciuta moltissimo. Lo stesso per H.H. La storia era già nella mia testa e quando ho visto l’Hotel House davvero ho messo a fuoco solo dei dettagli narrativi, senza chiedere come Marco avrebbe sviluppato la grafica. Ognuno ha fatto il suo lavoro in completa autonomia. Marco: Io e Caterina ci siamo conosciuti dieci anni fa a un corso di grammatica della fantasia tenuto da Antonio Faeti. Lì abbiamo iniziato a confrontarci genericamente su storie per bambini per capire in fretta che avevamo un territorio comune, costi- tuito dalle tematiche legate all’integrazione, ai diritti negati, e alla nuova realtà che per forza di cose comprende anche i bambini. H.H. è il nostro terzo libro insieme. Prima di delineare lo sviluppo delle immagini dalla storia mi devono arrivare dei nuclei tematici fondamentali. In questo caso mi sono concentrato sul rapporto bambinoarchitettura-fuga. Il resto viene dopo. Quali sono le storie che vi piace raccontare e disegnare? Carolina: Le storie che racconto io sono quelle che hanno sempre una nota di indignazione. Acqua nera parlava di petrolio e bambini, e in particolare dei giochi inventati per riadattare l’ambiente deturpato da chilometri di petro-pipe. I bambini ci correvano sopra e facevano degli equilibrismi. La stessa operazione è presente anche in H.H. perché il bambino protagonista, Mauro, trasforma i 17 piani del suo condominio in una lunga corsa dove scopre tanti mondi diversi. E in questo lui trasforma la realtà, che magari non è sempre bella e piacevole, nella sua realtà. Tutte le storie che ho raccontato fino ad ora trattano temi che mi colpiscono quotidianamente perché La copertina del Libro A COLLOQUIO CON nel mondo ci sono situazioni che non hanno risonanza mediatica. Ecco io voglio raccontare quelle storie. Marco: L’intento è quello di dar voce alle tante storie di cui i bambini del mondo sono portatori. E dire a tutti che quel mondo è molto vicino a noi. Le vicissitudini di cui parliamo sono a lieto fine e capita spesso che presentando il libro nelle scuole, dei bambini si identifichino nella storia e ci parlino dei ricordi vissuti o da loro stessi o dai fratelli più grandi, dai genitori, da un parente. In quel momento si dona a quella storia il valore di essere raccontata. Ci siamo trovati d’accordo sulla necessità di affrontare le tematiche dell’integrazione e H.H. parla di come possono convivere mondi diversi superando le paure del diverso. E come traducete temi da adulti in racconti e immagini adatte ai bambini? Carolina: La letteratura per l’infanzia, e mi riferisco a quella alta, a Dickens o a Barrie, si è sempre confrontata con temi da adulti. Il gioco è tutto lì, nel tradurre in metafore comprensibili ciò che indigna della vita reale perché il bambino può comprendere qualunque cosa sempre se mediata da un adulto che usa bene il linguaggio. La bravura dello scrittore sta tutta nel tradurre senza tradire. Mi spiego meglio. In H.H. volevo parlare del concetto di libertà e tolleranza e anche se avessi ripetuto mille volte quelle parole senza trovare una metafora per farle comprendere sarebbero rimaste vuote, anche per un pubblico adulto. Dovevo trovare delle situazioni per spiegare al bambino che cos’è la libertà, che è un concetto astratto. E quindi può essere più funzionale, ad esempio, parlare del volo di una farfalla dall’inizio alla fine, da quando si leva in volo per passare da un fiore all’altro. Marco: Mi sono concentrato sui piccoli dettagli della vita quotidiana perché stiamo parlando di grandi temi che però si concretizzano in piccole cose, come la possibilità di comunicare con il vicino di banco, la difficoltà di capirsi anche con chi parla la mia stessa lingua. In H.H. ho rappresentato la paura dell’altro attraverso un filtro, un diverso punto di vista. L’architettura che Mauro ha tutt’intorno è misteriosa, incombente, ma lo accompagna lungo la corsa alla scoperta degli altri. Dal buio alla luce attraverso quello di cui si ha paura. Che stile avete usato nel racconto? Carolina: All’inizio del percorso mi piaceva moltissimo scrivere in rima, ma approcciandomi agli editori italiani ho dovuto cambiare stile, sia perché è molto difficile trovare una perfezione nella musicalità sia perché non è facile attirare l’attenzione del compratore su questo genere. Pian piano poi tutto è diventato più maturo e ora scrivo in prosa, con il ritmo tipico del romanzo. Marco: Come dicevo la storia ruota attorno alla fuga all’interno del palazzo che diventa però metafora del mondo intero. Visivamente ci sono continui cambi di inquadratura, dettagli che mi servono a trascinare il lettore all’interno della storia. Prima di arrivare allo stile definitivo mi prendo sempre un po’ di tempo e faccio vari tentativi. Per H.H. ho scelto di usare il bianco e nero e dei tagli abbastanza espressionistici per esprimere sia l’avventura del bambino, che si trova ad esplorare il mondo senza la mediazione di un adulto, con un misto di coraggio, incoscienza e paura, sia l’atmosfera grigia dell’Hotel House che tende a incupire le vite dei suoi abitanti. Quando però si aprono le porte delle case, metafora dell’incontro con l’altro, Mauro scopre le tante vite degli altri, e quindi le tavole sono colorate, pittoriche. Il contrasto del bianco e nero mi è servito inoltre per non addentrarmi nella differenze dei colori della pelle. Tutti i bambini si possono identificare in Mauro perché solo alla fine scopriamo le sue origini. Perché questa non è la storia di Mauro all’interno dell’Hotel House, ma è la storia di ogni bambino nell’hotel Italia. primapagina31 A COLLOQUIOCON di Giancarlo Bassotti Luigi Teodosi, fanciullo o sovversivo? ntrando nello studio dell’artista Luigi Teodosi, nato nel 1935 a Jesi, nelle Marche, si è attratti da un minuscolo ritaglio ricavato da un foglio di cartoncino, appeso alla parete alle sue spalle, nel quale campeggia un motto“vivere da sovversivo o vivere da fanciullo?”. Perché proprio quel motto vergato a mano? “Sono all’eterna ricerca del fanciullo, ma posso trovarlo solo se agisco da sovversivo” esordisce l’artista, rispondendo d’istinto alla nostra domanda. “Sono un sovversivo alla ricerca della pace! Ciò che affermo potrebbe sembrare una ingannevole, illusoria, romantica contraddizione, ma a ben pensarci un fanciullo sovverte sempre il nostro modus vivendi perché è spontaneo, è libero da ogni condizionamento dell’ambiente in cui vive quindi è in pace con se stesso e con il mondo che lo circonda. Io cerco la pace attraverso il fanciullo che sovverte ogni giorno il mio modo di agire, di pensare, di dipingere”. Anche attraverso il sorriso di un fanciullo? “Senza dubbio. Nel sorriso di un fanciullo c’è tutto il sorriso della Kore greca. Sorriso arcaico e testa eretta; un sorriso appena accennato, leggermente beffardo, forse dovuto alla forte relazione tra esso e la pace interiore del soggetto della statua che rappresenta un giovinetto in cui la bellezza, sia fisica che spirituale, è al suo apice”. Tutta la vicenda esistenziale, artistica, culturale e politica di Luigi Teodosi si dipana all’interno di questi estremi. Se è vero che gli estremi si toccano, è vero anche che in Teodosi gli estremi non solo si toccano ma addirittura si fondono: egli è sempre sovversivo e fanciullo allo stesso tempo in una sorta di unità duale, in cui non solo gli estremi ma anche gli opposti convivono e in qualche modo animano il suo essere uomo e artista che, nel suo caso costituiscono una sola realtà. La storia artistica di Luigi Teodosi è intimamente legata alla sua biografia. Per brevità ci limitiamo a chiedere degli anni, cosiddetti, della formazione. “A 17 anni mi iscrivo al Liceo Artistico di Roma e successivamente alla Scuola Libera del Nudo. Fra i miei insegnanti ci sono tra gli altri, Renato Guttuso, Mario Mafai, Franco Gentilini e il Prof. De Angelis. Quest’ultimo preme su mio padre perché io prosegua gli studi di architettura, mentre Guttuso incita mio padre a farmi continuare gli studi di pittura e mandarmi a Parigi. Grazie ad una borsa di studio, insieme all’amico e grande artista prematuramente scomparso, Claudio Cintoli, nel 1956 sono a Parigi. Frequento Gino Severini e le lezioni di Jean Paul Sartre. Nel 1958 Sono a Zagabria – tappa fondamentale per la formazione e la maturazione dell’artista – dove frequento l’Istituto per il Perfezionamento Artistico della attuale Repubblica Popolare di Croazia e sono a stretto contatto con artisti e critici locali, quali: Belizar Ba- 32Primapagina Foto Cristian Ballarini E horic, Edo Murtic, Dusan Dzamonja, Katarina Ambrosic”. Nei primi anni sessanta il rientro in Italia è caratterizzato dall’interesse per la progettazione di oggetti e di mobili (il padre è titolare di una ebanisteria) ma anche dal proseguimento della ricerca pittorica. “Sono anche gli anni in cui vengo a contatto con la cultura visiva italiana. Frequento artisti quali Virgilio Guidi, Giorgio Bompadre, Valeriano Trubbiani, Edgardo Mannucci, Achille Pace; critici d’arte come Toni Toniato, Vittorio Rubiu. Conosco e frequento Michele Provinciali, Bruno Munari, Dino Gavina, conosco, insieme a Luigi Ricci, gli architetti e designer Afra e Tobia Scarpa e in seguito Gaetano Pesce. Si tratta di quello che amo definire un definitivo incontro tra le forme dell’arte e la produzione industriale. - sono gli inizi degli anni Settanta – Ma è anche il periodo dei primi grandi viaggi: Algeri, Teheran, New York, Londra, San Francisco, Los Angeles che avranno una importanza fondamentale per la mia crescita perché ho vissuto queste realtà da dentro e non da turista, a contatto con le persone prima e con le cose poi”. Alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli Ottanta vuoi “uscire dalla gabbia e ridare purezza alle parole della tribù”. “È in questo periodo che nasce il ciclo delle capanne. Esse rappresentano come un riparo per una umanità instabile ed angosciata. Ridare purezza alle parole della tribù (1983) è un quadro importantissimo per me in quanto arriva dopo un periodo di azzeramento, dopo il quale riprendo fiducia nel mio lavoro”. In occasione dell’apertura del Museo della carta e della filigrana a Fabriano si tiene una grande mostra dal titolo emblematico “In Chartis”, tu sei tra gli invitati. “Si, espongo quattro opere realizzate tra il 1983 e il 1984. La mostra diventa itinerante e tocca le città di Verona (1986), Milano (1986), Spello (1986), Spoleto (1987), Maastricht (1988), Magonza, Museo Gutemberg (1988). Sempre nel 1988 realizzo attualità e cultura “Presepe nel deserto” Foto di Angelo Trevisan i cicli “Il bestiario della luna”, “Il ciclo lunare”, “I progetti per il mutamento”, essi rappresentano nella ripetizione ritmica ossessiva della forma e della materia l’immutabilità della luna e di tutto ciò che la grande pupilla di Dio guarda” Un’altra data importante è il 1993. La mostra a Fossato di Vico “La Soglia. Artisti a Fossato di Vico” a cura di Mariano Apa, che ripercorre l’intero itinerario della tua ricerca, fino a quel momento. “In questo periodo il mio lavoro è sorretto da un principio che io riassumo in queste poche parole: rendere possibile il passaggio dal silenzio alla parola, dalla struttura all’emozione”. Mariano Apa scriveva per l’occasione che la tua produzione è libera da qual si voglia scadenza e committenza, per farsi aderenza massima e assoluta al flusso del tempo di coscienza della propria personale realtà esistenziale e non è forse anche per questo che Giuseppe Appella ti definisce “Un artista contemporaneo delle 24 ore” o forse anche perché un giorno vivi da fanciullo ed un altro da sovversivo?”. “Tutta la mia vicenda esistenziale ed artistica credo si possa distinguere sulla base di alcuni tratti caratteristici quali appunto l’estrema libertà nella ricerca, la non appartenenza a questa o a quella tendenza artistica, il rifiuto di ogni tipo di committenza in modo particolare mercantile e tutto ciò mi porta ad essere un giorno fanciullo e l’altro sovversivo, praticamente un contemporaneo delle 24 ore”. Tutto questo indirizza la tua ricerca verso ogni tipo di tematica, senza preclusioni ideologiche, con la finalità di riaffermare la tua libertà di espressione, qualsiasi ne siano i contenuti e le tecniche, così come la tua autonomia culturale. È su questo fronte che nascono i Gorilla-gorilla ed il Presepe deserto? “Le mie ricerche le ho fatte quasi sempre di notte, in segreto, le vivo nel buio con le ‘lucciole’; di giorno le faccio osservare come i leoni che fronteggiano l’ingresso del mio studio e diventano veri per magia rendendo oggettiva la loro vitalità. Gorilla-gorilla è la proiezione sul quadro, sulla parete del mio inconscio nel tentativo di recuperare frammenti di una identità cancellata. È un sistema di richiami ai valori, ai rapporti con le persone e con le cose.” Il ciclo Gorilla-gorilla continua anche oggi. L’installazione presso la Pinacoteca Civica di Jesi, scalone d’ingresso, nell’ambito della mostra “Luigi Teodosi, nostalgia senza dramma”. “È la messa in scena di una realtà perduta (come sostiene Giuseppe Appella) è l’interrogativo che si ripete all’infinito: il dove, senza tempo, verso il quale il mio Gorilla-gorilla buono, è una radura segreta nel cuore della foresta o nel cuore dell’uomo? È il recupero di una coscienza emotiva, sorretta dalla speranza. Le immagini reiterate ma non seriali, si strutturano per sovrapposizione, per distruzione e non per sottrazione della materia, che è la carne. La moltiplicazione dell’immagine sposta la stessa dal suo referente assumen- do un significato altro e il fruitore diventa il protagonista dell’opera. Il Gorilla buono sono io, identificato nell’immagine di mio padre che mi ha sempre sollecitato e sostenuto fin da fanciullo verso l’espressione artistica”. Recentemente hai realizzato un’opera idealmente impegnativa quanto culturalmente audace. Mi riferisco al “Presepe deserto”. “Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, a Matera, Museo della Scultura Contemporanea, vanno in scena Le Muse irrequiete di Leonardo Sinisgalli e il mio Presepe deserto. Stesso periodo ma a cavallo tra il 2011 e il 2012, su iniziativa del critico Giuseppe Appella, nell’ambito del progetto Presepi d’Artista itineranti in Italia, insieme al Presepe giocoso di Ettore Consolazione espongo la mia installazione del Presepe deserto nell’atrio d’accesso alla Scala Santa della Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma. Che significati assume per te il presepe nel deserto? “Si comprende subito che il presepe si sottrae ad ogni rappresentazione che abbia qualche attinenza con la tradizione e sollecita ad affrontarlo con l’idea che la crisi d’oggi stia tutta nella fragilità “infrastrutturale” del recinto, della capanna, della famiglia. Ecco allora -come afferma Giuseppe Appella- i templi della modernità, le aspre architetture in cemento armato, costruite nel deserto, subire la stessa sorte dell’acropoli di Selinunte. Tutto è scomparso: lo splendore delle cose, lo sfarzo delle luci, la maestà dei suoni. Case, palazzi, ponti, strade giacciono abbandonati, svuotati di ogni anima. C’è, in tutta la sua solitudine, il bambino che è la luce che spezza il buio e ci assicura che la vita continua. Oltre quella strada desolata c’è il mondo invisibile. Basta seguire la luce per trovare il cammino”. Progetti per il futuro? “Dal 2010 dedico la mia ricerca ad una visione futura della terra, alla ricerca di un linguaggio espressivo, a un’analisi e chiarezza radicale per resistere alla voracità di una globalizzazione, ingorda, selvaggia e volgare”. primapagina33 attualità e cultura Arturo Ghergo: l’immagine della bellezza di Michele De Luca Adriana Benedetti, attrice 1941-48 circa Massimo Girotti, attore 1942-48 S i può senz’altro dire che alla creazione di quell’ideale di bellezza che dagli anni Trenta ai Sessanta ha alimentato l’immaginario collettivo di intere generazioni di italiani, ha contribuito moltissimo il lavoro del famoso fotografo marchigiano Arturo Ghergo (nato a Montefano in provincia di Macerata nel 1901, dove aveva appreso i rudimenti della tecnica fotografica nello studio del fratello Ermanno, e morto a Roma nel 1959, giusto trent’anni dopo che vi si era trasferito dalle Marche) nel cui atelier al civico 61 di Via Condotti a Roma sono passati per essere da lui ritratti i divi e gli aspiranti divi del nostro cinema, a partire da quello che preludeva al neorealismo, ancora provinciale nei suoi riti e nei suoi orientamenti, fino alle soglie degli anni Sessanta, in cui il cinema italiano (La dolce vita di Fellini è del 1959) avrebbe assunto per un paio di decenni quel successo e quel ruolo internazionale universalmente riconosciuti. 34Primapagina Una galleria di oltre duecentocinquanta dei suoi stupefacenti ritratti, raccolti in una affascinante mostra curata da Claudio Domini al Palazzo delle Esposizioni di Roma (magnifico il catalogo pubblicato da Silvana Editoriale), ci rievoca un trentennio di società italiana, vista in particolare attraverso l’occhio sensibile e raffinato di un protagonista della fotografia italiana che ha reso, con il suo inimitabile stile, immortali dive del cinema e della moda, celebrità politiche e religiose, ed esponenti dell’alta società della metà del Novecento. I suoi ritratti, inconfondibili soprattutto per il sua sapiente uso dell’illuminazione, dimostrano il forte ascendente psicologico che egli seppe esercitare sulla persona che stava davanti alla sua macchina fotografica, creando con lei un momento di magica ed irripetibile “complicità”; davanti all’obiettivo, e all’occhio di Ghergo, ci si affida con piena fiducia, annullandosi completamente, lasciando la propria effige nelle mani del fotografo, a cui è demandato di controllare scrupolosamente la posa, l’illuminazione, il taglio dell’inquadratura, il tipo di obiettivo, la velocità della pellicola, il valore della carta da stampa, il ritocco del negativo, coniugando tutti questi elementi in una sintesi che conferisce una particolarissima cifra al suo stile. La glamour e la fashion photography arrivano in Italia negli anni Trenta, dunRossana Martini, prima Miss Italia 1948-54 Foto © Archivio Arturo Ghergo Il grande fotografo marchigiano al centro di una mostra al Palaexpo di Roma attualità e cultura Alida Valli 1946-47 que nel pieno di una fase in cui il regime fascista si prefigge con sempre maggiore consapevolezza di incarnare una “via nazionale” al modernismo; in questa industria, la fotografia svolge un ruolo di grande importanza nel divulgare i nuovi modelli estetici di riferimento. Non serve più la fotografia d’arte e pittorialista, improntata a criteri formali ed espressivi derivati dall’arte accademica o del modernismo tardo-ottocentesco. Serviva, piuttosto, una via “originale”; lo studio Ghergo diventa il promotore più efficace ed evoluto di questa nuova fotografia, il più sofisticato ed emblematico rappresentante del glamour nostrano, concentrato in particolare nel definire nuovi modelli femminili, decisamente evoluti rispetto al cliché matronale e familiare dell’Italia più conservatrice, destinato a riscuotere successo fino alla fine degli anni Cinquanta. Pioniere riconosciuto della fotografia di moda in Italia, Ghergo ha ritratto stelle del cinema, personaggi di spicco dell’alta borghesia e discendenti di nobili casati che cercarono nel famoso tocco Ghergo la chiave attraverso la quale farsi immortalare, in maniera decisamente elegante ed accattivante in un’epoca in cui questo geMariella Lotti, attrice nere di immagini 1942-43 tardava nel nostro paese a trovare la risposta di riviste specializzate, già in gran voga oltre oceano: le “sue” modelle porteranno i nomi altisonanti del “gran mondo”, come una giovanissima Contessa Conseuelo Crespi 1951-52 circa abito Galitzine Marella Caracciolo, Consuelo Crespi, Mary Colonna, Josè del Drago, che si prestavano ad indossare come testimonial le creazioni esclusive delle nascenti case di moda (Fontana, Gabriella Sport, Galitzine, Simonetta, Carosa, Gattinoni). Cultore della perfezione e professionista dal gusto impeccabile, egli seppe inventare un suo stile fatto di sofisticata classicità, costruito attentamente senza timore delle sperimentazioni, attraverso tagli diagonali, dissonanze spiazzanti, illuminazioni ricercate e il ricorso a veri e propri ritocchi, effettuati raschiando dal negativo le ridondanze dell’immagine catturata e ridisegnandone poi i contorni a pennello. La bellezza italiana trovò modo di rifulgere nel suo inimitabile modo di usare il bianco e nero e grazie soprattutto ad una originale illuminazione ed anche a sapienti ritocchi in camera oscura che oltre a sublimare i lineamenti riuscivano ad immergere i personaggi in un’atmosfera molto sofisticata: Isa Miranda, Alida Valli, Mariella Lotti, Francesca Ferrara Pignatelli di Strongoli, il duca Marco Visconti, i fratelli Bulgari, Leonor Fini, Alcide De Gasperi, Gabriella di Robilant, Domitilla Ruspoli, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Ingrid Bergman, Marina Berti, Vittorio Gassman, Massimo Girotti, Amedeo Nazzari, e poi Maria Felix, Pio XII, Luigi Einaudi, De Gasperi, Andreotti, l’Aga Khan, Pietro Badoglio, sono solo alcuni dei nomi del suo ricchissimo archivio. Peculiarità della rassegna è, infine, lo spazio riservato a una forma espressiva sicuramente meno studiata e conosciuta del maestro maceratese: quella del Ghergo pittore che, soprattutto negli Principessa anni ’50, influenDomitilla Ruspoli zato in particolar (Salviati) 1945-50 circa modo dal cubismo picassiano e dall’esperienza futurista e cinematografica, coniugò la ricerca istintiva per l’inquadratura, propria del suo mestiere, con l’esaltazione di un allestimento visivo di più ampia regia, tipico della pittura. primapagina35 attualità e cultura di Armando Ginesi Scultura più vera del vero di Johannes Genemans Q uando l’arte sembra più vera del vero. Nel nostro caso si tratta di scultura. Mi riferisco alle ultime opere di Johannes Genemans, olandese italiano, anzi marchigiano d’adozione. Già designer della moda, in particolare della calzatura, un giorno ha scelto di dare una svolta decisa alla sua vita e di porre al servizio dell’arte pura, quella che non ha funzioni pratiche da svolgere, le sue straordinarie qualità inventive, la sua capacità tecnica e, soprattutto, il senso plastico di cui indubbiamente è portatore. Grande assimilatore delle produzioni scultoree dei tempi passati egli ha studiato con passione l’evoluzione del “bello” attraverso i secoli, restando folgorato dai grandi esempi della classicità greca e del rinascimento europeo, con particolare riferimento a quello italiano. E si è impresso quei modelli dentro l’anima. Sicché quando, con la sapienza, la meticolosità e la pazienza che sono proprie delle sue origini nordiche, inizia il processo ideativo e creativo (dalla progettazione grafica, alla realizzazione in creta, alla fusione, per quanto riguarda il bronzo, anche se non disdegna l’uso di altri materiali: pietra o marmo che sia) egli accosta l’idea progettuale ai paradigmi storici riuscendo a mediare straordinariamente tra il passato e il presente, nel senso che il concetto di bellezza anticamente intesa sa trasmutarlo (per usare un verbo caro ad Hans Georg Gadamer) in sensibilità moderna. Siamo o no in piena cultura citazionista? Ebbene eccolo il citazionismo di Genemans: riferimento all’antico con le passioni e i sentimenti di sempre (perciò eterni) inverati in modalità sentimentali della contemporaneità. I volti, i torsi, i nudi di donna sono realizzati con una quota non di verosimiglianza (come avrebbe detto Aristotele) ma di verità, che rende il vero autentico quasi carente di fronte alla vivezza del vero-falso delle sue opere. In particolare io sono affascinato dalle figure femminili in conversazione: da quei loro visi sorridenti e loquaci che ti fanno percepire auditivamente i suoni delle voci; dai gesti delle mani così naturali, dalle positure veridiche dei corpi seduti o in piedi, dai capelli dettagliati con un’acribia quasi maniacale. Vorrei comporre un gruppo in conversazione e collocarlo in luoghi pubblici tra gente in carne ed ossa che va e che viene (un supermercato, una grande stazione ferroviaria, un aeroporto) unendo il vero fisico al vero artistico in un 36Primapagina gioco di rimandi, di specularità, di ammiccamenti, di equivoci anche, per sottolineare quella dose di ambiguità che l’arte porta sempre con sé e che Genemans sa elevare all’ennesima potenza e per evidenziare l’aspetto ludico di cui a volte essa si riveste. Quasi avesse due anime, Johannes Genemans in altri momenti dà alle sue opere – soprattutto ai suoi volti – una fissità metafisica che sposta la dimensione del vero “oltre” la fisicità, in una sorta di area dell’ “oltre” prossima alla qualità non vera del mistero e dello spirito. Il tutto sempre utilizzando gli stilemi della naturalità espressiva, in una soluzione, dunque, di ambiguità e di contraddizione (in cui quasi sempre l’iperrealismo viene a trovarsi) che salda intimamente il vero e il suo stesso superamento. In questi casi i lavori dello scultore olandese assumono un senso di sacralità che induce alla contemplazione meditativa. In fondo, con questi due modi di raccontare la sua verità artistica, uno naturalistico, anzi veristico, ed uno metafisico, lo scultore è come se riproducesse nei suoi materiali plastici quel grande mistero che è l’uomo, nella sua doppia natura di corpo e di anima, di ragione e di spirito, di mente e di sentimento; quel suo essere creatura ad immagine e somiglianza del Creatore, capace di cogliere i suoni ma anche di percepire le voci inespresse del silenzio. attualità e cultura di Alberto Sensini Piccolo Pantheon Personale: era bella o no la Prima Repubblica? S ono passati soltanto pochi anni e sembra un secolo. Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica il costume politico è cambiato in profondità. I rapporti fra leader e giornalisti sono troppo spesso affidati alle piccole frasi mormorate al telefonino e poi rimaneggiate e spesso ingigantite. I rapporti personali non sono più quelli di prima: tira a Montecitorio e a Palazzo Madama l’aria di un cameratismo insincero, di una sorta di compromesso tacito, accettato da chi fa politica e di chi la politica dovrebbe spiegarla e farla capire ai lettori, mantenendo le distanze fra i due mondi. Il “tu” imperversa e il “lei” è considerato come una sorta di inutile muro divisorio. La vecchia cronaca politica, l’onesto “pastone” così detto dai tempi del grande Petruccelli della Gattina dei “Moribondi di Montecitorio” è stato seppellita senza onori e senza rimpianti. In TV parlano ormai soltanto i soliti noti, corazzati in una sorta di reticenza allusiva, gli ospiti fissi dei TG della sera (perennemente vestiti con pullover di cachemire, la domenica e sempre con sfondo di libreria…). Maschere fisse della malinconica commedia di cui è inutile fare i nomi. Ma quanto fosse diverso il clima della Prima Repubblica vorrei ricordarlo qui, in qualche pagina di diario di un giornalista politico che la Prima Repubblica l’ha vissuta, raccontata e commentata dal l960 a oggi. IL SALUTO DI LEONARDI A Firenze, erano gli anni terribili del terrorismo brigatista, Aldo Moro mi fece sapere che mi avrebbe visto volentieri e ovviamente fui ben felice dell’ invito inatteso. Il Presidente metteva soggezione a tutti. Dava il Lei anche agli uomini della scorta. Non concedeva più di una intervista all’anno e accettava soltanto domande scritte. Considerava il massimo dell’elogio la frase canonica “L’ho letta con interesse” accompagnata e non sempre da un sorriso timido. Andai all’appuntamento ben lieto di quell’invito. Sull’uscio dello studio incontrai il Maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Gli andai incontro e gli tesi la mano. Mi rispose porgendomi la sinistra, “perché vede direttore, - mi disse - nell’altra mano tengo sempre la pistola”. Lo stesso Presidente Moro nel breve incontro mi raccomandò più volte di essere prudente, mi rimproverò quasi affettuosamente per essere arrivato in bicicletta e senza scorta. Mi parlò con un filo di voce della situazione politica generale di quei mesi di tensione e di morte. “Sono tempi terribili” disse con un soffio di voce, salutandomi sulla porta. Non l’avrei rivisto mai più. Poche settimane dopo fu catturato dalle BR e poi assassinato. LA MOGLIE DI ANDREOTTI Come Presidente della stampa parlamentare ero ossessionato da una richiesta dei colleghi i quali volevano che intercedessi a loro nome con Andreotti, allora Presidente del Consiglio, perché non convocasse i Consigli dei Ministri nella tarda serata come era solito fare. I colleghi avevano ragione ma non la spuntammo. Con un piccolo bigliettino scritto a mano il Presidente mi rispose così: “Caro Sensini, avete proprio ragione e infatti è la stessa cosa che mia moglie mi chiede da anni. Tanti cari saluti a Lei e ai suoi colleghi”. Senza commento. primapagina37 attualità e cultura IL LAMALFA DEL PRIMO MATTINO Ugo La Malfa era un onnivoro lettore di giornali. Se li faceva portare verso le sei della mattina e li leggeva, anzi li consultava come testi sacri, spesso annotandoli con un matitona rossa e blu. Purtroppo però il leader repubblicano era convinto che tutti avessero le stesse abitudini mattiniere. E quindi telefonava, magari alle sei e mezza di mattina, per lui ora già tarda. Di decine di telefonate me ne è rimasta impressa una particolare. Giovanni Spadolini era stato licenziato dalla direzione del “Corriere della Sera” con una lettera spicciativa e inelegante di poche righe, firmata dai proprietari del più grande giornali italiano. La mattina dopo, ero sicuro sarebbe arrivata la telefonata del Leader repubblicano e così fu. La Malfa, più irascibile di sempre,era scandalizzato del modo volgare con cui Spadolini era stato messo alla porta. Ne parlava con la solita irruenza, con quella tipica voce cavernosa. Ma si trattenne poco “dobbiamo reagire, fare qualche cosa per Spadolini, nemmeno un cameriere si licenzia così”. Il “qualche cosa” era già chiaro nella mente di La Malfa: era la candidatura al Senato per il collegio più importante di Milano, candidatura che l’ormai ex Direttore del “Corriere” accettò senza esitazione e che fu l’inizio di una carriera politica culminata con la Presidenza del Senato. La cosa buffa è che Spadolini raccontò sempre negli anni successivi, che “il primo e il solo a sapere della candidatura era stato Indro Montanelli”. Non era vero. Ma si capisce il motivo di quella piccola alterazione della verità, ovviamente l’investitura del grande Indro era ben più prestigiosa di quella che La Malfa mi aveva annunciato all’alba di quel giorno. LE CAMICIE DI GIOVANNONE Appena eletto a Palazzo Madama, Spadolini con cui negli anni si era cementata un’ amicizia affettuosa, mi convocò all’albergo Nazionale, a fianco di Montecitorio. “Vieni subito “mi disse. Non capivo il motivo di tanta fretta. Giovannone, come lo chiamavano noi amici, era di solito poco incline alla fretta, spesso silenzioso, ma anche capace di battute fulminanti e di risate omeriche. La verità di quella convocazione non aveva nulla a che fare con la politica che era il nostro leit- motif quotidiano: Giovannone aveva bisogno di camicie taglia XL, maglie di salute e calzini ma non sapeva dove andare non essendo mai entrato in un negozio in vita sua. Ebbi allora un colpo di genio e lo accompagnai in un suntuoso negozio nella zona del Panteon, dove da decenni si servivano e si servono tuttora i Cardinali, i Vescovi e tutta la créme del Vaticano. Spadolini ne fu felice. E ogni tanto mi ricordava la visita a quel negozio a cui era rimasto fedele fino alla fine dei suoi giorni. Nessuna sorpresa : in fondo un pò Cardinale, Giovannone lo era proprio… 38Primapagina attualità e cultura LE ACQUEFORTI DI FANFANI Telefonata di Piero Ottone, direttore del Corriere negli anni Settanta: “guarda Albertino (Albertone era Ronchey…) che più tardi viene Fanfani a casa tua. Il fondo che hai fatto ieri non gli è piaciuto e te ne vuole parlare”. Io era a letto con la febbre, cercai invano di evitare l’incontro ma Fanfani alle tre per pomeriggio si presentò a casa, puntualissimo con il fido Cresci al seguito. Ero curioso, anche se sapevo che cosa voleva il leader della DC. Appena arrivato il Presidente cominciò a guardare due sue acqueforti che mi aveva regalato nei giorni di Natale, ne smontò una, la colorò e la dedicò a mia moglie. Ci raccontò di quel pazzo che gli aveva tirato le orecchie fino a farlo svenire svelando un humour inatteso e poi finalmente quasi con noncuranza, mise la mano in tasca, tirò fuori pò di fogli e disse, con un sorriso amabile “Caro dottore ecco l’intervista che ho concordato con il suo Direttore”. Rimasto senza parole, ebbi appena la forza di dire: “veramente non ne sapevo niente e comunque lasci che almeno le domanda le faccia io, non crede?” “Vedi, disse Fanfani, rivolgendosi al suo segretario che era stato il regista di quella visita inopportuna, lo dicevo che non era il caso…” e con mossa rapidissima stracciò le cartelle dell’intervista mancata, finì di sorbire il caffè e se ne andò con un gran sorriso. “Venga a trovarmi in studio, caro Sensini, vedo che le incisioni Le piacciono”. Più tardi quando Fanfani divenne Presidente del Senato, il rapporto si fece più intenso - Solo una volta accennai con lui a quell’episodio. “Davvero? - disse con aria furbetta - pensi che me ne ero proprio dimenticato”. IL WHISKEY DI BERLINGUER Oggi si parla sempre male delle Tribune Politiche degli anni passati. Ma si sbaglia, perché la formula dell’incontro a due fra un giornalista e un leader politico inventata da Jader Jacobelli era pur sempre un’occasione di dialogo e spesso di chiarezza. Fra i tanti ricordi di quegli incontri, c‘è quello con il potentissimo capo del PCI, Berlinguer assistito come sempre dal fedele segretario, il burbero e un po’ cupo Tatò. Eravamo in pieno governo delle convergenze, il monocolore Andreotti. Io ero allora direttore di uno dei pochissimi giornali di opposizione, “La Nazione “di Firenze e sapevo bene di non essere amato alle Botteghe Oscure. A Berlinguer feci, di fatto una sola domanda in dieci versioni diverse: “avrebbe il PCI appoggiato ancora a lungo Andreotti?”. Chiaramente Berlinguer non poteva rispondere su due piedi a una domanda del genere ma io, come interlocutore, volevo quella risposta e sia pure indirettamente la risposta ci fu e fu un “no” appena mormorato. A incontro finito, Tatò portò al leader il solito whiskey allungato con l’acqua e poi mi attaccò con irritazione, dicendo che ero stato “scorretto”, mentre il leader delle Botteghe Oscure taceva, forse imbarazzato anche lui da quell’attacco così poco elegante. “Io - risposi a Tatò quando ebbe chiuso la sgradevole strigliata - vengo alle Tribune perché spero che sia possibile tirar fuori degli incontri qualche notizia inedita. Capisco che il “no” appena sussurrato da Berlinguer sia una notizia e ti basta aspettare domani per averne conferma”. E conferma fu. Pochi giorni dopo il governo Andreotti non c’era più. Esattamente come aveva detto fra i denti il potente Segretario delle Botteghe Oscure. primapagina39 attualità e cultura di Mauro Lopizzo A Michele Ambrosini la “Paul Harris Fellow” del Rotary di Barletta “P er aver donato negli anni prestigio al nostro territorio diventando un alto punto di riferimento per le nuove generazioni che mirano all’eccellenza, questo il testo della targa donata dal Rotary Club di Barletta all’Avv. Prof. Michele Ambrosini, nel corso di una serata dedicata al tema: ”Le banche del territorio e la nuova economia”. Ambrosini, nato a Barletta nel 1948, dopo aver frequentato il Liceo classico “Casardi” di Barletta ha intrapreso una carriera che lo ha portato a ricoprire prestigiosi incarichi, tra gli altri è stato membro di diverse commissioni presso il Ministero dei Beni Culturali ed Architettonici, della Commissione dell’U.N.C.P.I. per la riforma del Codice di Procedura Penale, Presidente della Camera Penale di Urbino e componente del Consiglio Nazionale dell’Unione delle Camere Penali, docente e ricercatore presso l’Università di Urbino “Carlo Bò”, già presidente di BancaMarche, opinionista del TG1 economia e, infine, premiato nel 2009 tra i migliori pugliesi nel mondo. Parterre qualificata ed attratta dal 40Primapagina carisma espressivo del relatore. Erano presenti: l’Assistente del Governatore Prof.ssa Carla D’Urso; Mons. Savino Giannotti, vicario generale dell’Arcidiocesi di TraniBarletta-Bisceglie e Nazareth; il vice sindaco della città di Barletta, dr. Antonio Cannito; dr. Giorgio Giovannini, direttore centrale BancaMarche; Ing. Antonio Ruggiero, Vice Presidente Nazionale UNESCO; rappresentanti dell’I.T.C. “M. Cassandro” di Barletta e dell’I.T.C. “Suore Salesiane dei Sacri Cuori”; numerosi imprenditori e dirigenti di banca. Mauro Lopizzo, Presidente del Rotary club di Barletta, ha introdotto la serata evidenziando che, il mondo intero sta vivendo una crisi sistemica che contamina ogni nazione e ogni cultura; la crisi, oltre che finanziaria, economica e istituzionale è una crisi di valori. Una funzione di organo propulsore dell’economia locale dovrà essere svolta dalla “banca del territorio”, non è un concetto geografico, ovvero banche che operano nel territorio appoggiandosi all’economia locale; ma la banca del territorio deve essere attore attivo di ciò che avviene nei contesti di sviluppo economi- co, culturale e sociale. Purtroppo, le banche, tendono a considerare il cliente in termini di probabilità di default, un rischio che si misura con il rating. È un errore, perché in primo piano deve esserci non il rischio, ma l’opportunità di business. “Se i clienti crescono … cresce la banca” (essenza del tema). Dopo la presentazione del relatore, curata dal dr. Nicola Miulli, socio del club di Barletta , la parola ad Ambrosini. “Viviamo in tempi di grande confusione, alle banche vengono attribuite responsabilità gravi ma va tenuto conto che il sistema bancario italiano è assoggettato alla situazione internazionale. Inoltre, in questo momento, la maggior parte delle richieste di credito serve per sanare i debiti pregressi. I nostri imprenditori non finanziano i nuovi progetti. Le banche hanno, sicuramente, le loro colpe ma, nell’attuale contesto, soffrono come tutti. Le banche sul territorio, rivestono un ruolo importante e sono elemento di supporto alla società in cui operano”. La serata si è conclusa con il saluto dell’assistente del Governatore Prof.ssa Carla D’Urso, che ha invitato: gli studenti a non scoraggiarsi perché il lavoro, lo studio alla fine riservano delle importanti soddisfazioni nella vita (prendere come modello l’Avv. Michele Ambrosini); gli imprenditori di curare il restyling dei propri prodotti, rendendoli innovativi in relazione alle esigenze del mercato del momento e del target di riferimento - “chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si becca solo i mali”,diceva Voltaire; le banche, di finanziare le idee e i progetti, soprattutto dei giovani. Il Rotary club di Barletta si è arricchito, mediante la cooptazione di un giovane, dr. Riccardo Verderosa, esperto in materie fiscali e tributarie, ex ryliano che nella sua famiglia si è nutrito di Rotary , presentato dall’instancabile Prefetto Felice Bonadies. attualità e cultura di Talita Frezzi “Canterò per Te”, la chitarra di Dodi Battaglia fa vibrare 4.000 cuori È il 1980 e la canzone “Canterò per Te”, è il primo singolo dei Pooh a non essere musicato da Roby Facchinetti. È il 2012 e la canzone “Canterò per Te”, trentadue anni dopo, da il titolo al concerto che la Scuola Musicale “G.B.Pergolesi” regala alla città di Jesi. Sul palco salgono un centinaio di ragazzi, poi Dodi Battaglia, chitarrista, compositore e voce dei Pooh. La sua chitarra scioglie assoli vibranti, capaci di tenere sospeso il cuore di 4.000 persone in una piazza della Repubblica trasformata in un mare di gente che ondeggia e canta. È lì, da quel pubblico fatto di generazioni diverse, che nasce il sole dei Pooh, uno dei gruppi italiani più longevi e più amati di tutti i tempi. Il concerto rilegge la storia della musica italiana, quarant’anni sul filo dei ricordi legati a successi intramontabili e senza tempo come “Chi fermerà la musica”, “Piccola Katy”, “Cercando di te”, “Noi due nel mondo e nell’anima”, “La mia donna”, “Dove comincia il sole”. Dodi regala un’intensa interpretazione di “Uomini soli”, brano con cui i Pooh vinsero il Festival di Sanremo nel 1990. In chiusura, la struggente “Tanta voglia di lei”. La piazza risponde, canta, si emoziona. Com’è tornare nelle Marche? “Sono felicissimo di essere qui, un bellissimo spettacolo stasera. Ho ricevuto un’accoglienza calorosa dice Dodi Battaglia - eravamo già stati in concerto nelle Marche e ci torneremo presto per il nuovo tour dei Pooh, che parte a ottobre per promuovere un album speciale con la partecipazione dell’Ensemble Symphony Orchestra”. E sentire un centinaio di giovani che cantano le sue canzoni? “È una grandissima emozione. A dire la verità è la prima volta che accetto di partecipare a un concerto di questo tipo, ospite di un istituto musicale, seppur di alto livello come la Scuola Musicale Pergolesi. Ho partecipato a seminari o come li chiamo io, ‘incontri’, ma sono sempre molto tecnici. Questo di Jesi è anche un approccio con la gente che ruberò ed esporterò anche alla scuola di Verona (“Città della musica”, ndr.) di cui sono presidente. Partecipando al concerto della Scuola Pergolesi, che ringrazio di cuore per avermi invitato, ho capito che insegnando si impara”. Lei è stato definito “miglior chitarrista europeo”, è uno dei pochi musicisti ad avere uno strumen- to musicale dedicato (la chitarra Fender Dodi Battaglia) e nel 2009 ha pubblicato il suo “metodo per chitarra”. Quindi nella sua lunga carriera non c’è spazio solo per i Pooh? “I Pooh sono una parte molto importante della mia vita professionale e spero con loro di arrivare ai 50 anni di carriera insieme, sarebbe bello anche umanamente. Ma ho anche avuto molte collaborazioni e gratificazioni da solo. Ho collaborato con Vasco Rossi (dal 1983 al 1985 suonando in “Una canzone per Te”, “Tofee” e “Va bene, va bene”), con Mia Martini che mi è rimasta nel cuore, con il grandissimo chitarrista Tommy Emmanuel, con Al Di Meola… Proprio in questi giorni è uscita una ristampa del mio album “D’Assolo”, secondo disco solista strumentale acustico, ora ripubblicato con una canzone nuova: “4 marzo 2012” scritta per Lucio Dalla, un caro amico cui ho voluto dedicare un brano sereno”. Il suo rapporto con la chitarra? “Se ho un merito, credo che sia di essere riuscito ad inserire uno strumento che non aveva un sistema italiano, infatti il suono della chitarra elettrico era bandito dalle sale di incisione...”. primapagina41 attualità e cultura di Ilaria De Maximy e Stefano Gottin Sferisterio sul solco della tradizione S feristerio: Francesco Micheli nuovo direttore artistico subentrato a Pier Luigi Pizzi, titoli popolari, incassi sicuri nell’estate della crisi, dei tonfi della borsa e dello spread altalenante. Nella speranza di non ridurci come gli squattrinati ragazzi della Bohéme, siamo tornati giovani ritrovando la genialità di Josef Svoboda del mitico allestimento de La Traviata di una ventina d’anni fa, con lo specchio a 45 Toscanini: una volta basterebbe per capire come va eseguita la scena della festa a casa di Flora e tutto il resto. Myrtò Papatanasiu è stata una buona Violetta, più a proprio agio nelle parti liriche e intimistiche (soprattutto nel II atto), un po’ fragile negli acuti, volenterosa nella dizione, bella scenicamente. Luca Salsi (Giorgio Germont) ha cantato con buona linea e un certo gusto, anche “La Traviata” gradi che riflette ciò che accade in palcoscenico. È uno dei rari casi in cui - senza nulla togliere a Henning Brockhaus – la scenografia è regia, dato che proprio grazie alla prima si assiste alla contemporanea riproposizione, secondo diverse angolazioni, delle interazioni sceniche dei personaggi, in un originale quanto semplice gioco di raddoppi e di duplicazioni mai uguali a se stessi. Ottima, anzi esemplare anche sul piano finanziario, l’idea del recupero di un allestimento che non ha perso né fascino né modernità. Debole in compenso la direzione musicale di Daniele Belardinelli, lenta e poco incisiva. Mi chiedo se qualche direttore di oggi abbia mai sentito le prove de La Traviata di Arturo 42Primapagina se l’eccessiva copertura del suono rendevano la dizione un poco impastata e l’accento generico. Il tenore Ivan Magrì (Alfredo Germont) è la dimostrazione che una bella voce deve essere anche supportata dal gusto e dallo stile, certamente migliorabili. Buona la Flora Bervoix di Gabriella Sborgi, decorosi gli altri. Successo non delirante ma comunque caloroso: in fondo Traviata è sempre Traviata, e Verdi è sempre Verdi. Non esistono i colori dei gitani di Siviglia, gli aranci, il flamenco e neppure le nacchere nella Carmen di Serena Sinigallia; la felice follia degli zingari è piuttosto instabilità e confusione, le nacchere sono bottiglie vuote e la scena non cambia mai...la taverna, la prigione, la piazza, tutto è sullo stesso sfondo di una periferia di sabbia, povera e degradata, in cui gli spazi sono delineati solo dallo spostamento di transenne e cassette di plastica colorate. In una regia di taglio dichiaratamente politico, i gendarmi entrano dalla platea con manganelli e in tenuta anti sommossa (per un attimo sembrava di essere tornati al Mosè di Graham Vick!) e Carmen tatuata e in pantaloni, arriva indifferente parlando al cellulare! Escamillo acclamato da un tifo da stadio è rappresentato come un divo, mentre le apparizioni di Micaela e Don Josè insieme, hanno sempre sullo sfondo un corteo funebre con tanto di fiaccole a rappresentare la presenza ossessionante della figura materna e dell’amore familiare. Roberto Aronica (Don Josè) è sicuro e di giusta potenza vocale, ben riuscita la trovata per l’aria «La fleur» in cui il tenore canta rivolgendosi ad una Carmen ammanettata e costretta ad ascoltarlo. La complessità del personaggio di Carmen, non è invece resa in modo totalmente efficace: mancano in alcuni momenti la sensualità e l’erotismo anche se Veronica Simeoni è comunque di bella presenza scenica e vocalmente convincente. Bene anche Gezim Myshketa come Escamillo e Alessandra Marianelli, dolcissima Micaela. Diversi momenti di scollamento tra l’orchestra diretta da Dominique Trottein e il palcoscenico, specie nelle parti corali; insolita ma ugualmente efficace la scelta di tempi molto lenti per «Les tringles des sistres» e «Voyons, que j’essaie a mon tour». Qualche riserva anche per le scelte registiche del finale: emozionante la disperazione di Josè che colpisce ripetutamente Carmen mentre insiste sul suo amore, non funziona però la Carmen a terra sanguinante con il testo « Eh bien! Frappe-moi donc, ou laisse-moi passer» (Colpitemi al- Foto Tabocchini applaudita stagione operistica con la presenza di Roberto Bolle e il ricordo di Mario Del Monaco attualità e cultura lora! O Lasciatemi passare!); infine la morte: Josè colpisce molte volte Carmen prima di lasciarla a terra ed invocare il proprio arresto, inaspettatamente arriva Micaela, che, visto l’accaduto, lo porta via e affida il pugnale al vagabondo che per tutta l’opera ha seguito Carmen e che ora la tiene tra le sue braccia. Pochi giorni dopo, grazie alla tra Civitanova Danza e Macerata Opera Festival, è stata la volta della Étoile del Teatro alla Scala Roberto Bolle, che tornava allo Sferisterio dopo la performance di qualche anno fa con Alessandra Ferri ed era perciò molto atteso (biglietti a ruba) nel suo Trittico Novecento, un programma originale, elegante, accattivante. In apertura di programma Who Cares?, di George Balanchine su musiche di George Gershwin, danzate da Juliana Bastos, Magali Guerri, Maria Gutierrez e Roberto Bolle. Nella seconda parte, 27’52 coreografia di Jirí Kylián e musica di Dirk Haubrich, con protagonisti Nataša Novotná e Václav Kuneš. A seguire Aus Holbergs Zeit di John Cranko su musica di Edward Crieg, danzato da una Alicia Amatrian davvero magnifica e da Alexander Jones. Quindi, Le Jeune Homme et la Mort di Roland Petit, nell’intensa interpretazione di Jia Zhang e Roberto Bolle su musica di Johann Sebastian Bach ha condotto il pubblico entusiasta alla conclusione di una serata da non perdere, soprattutto alla luce della memorabile esibizione, lo scorso anno, di Svetlana Zakharo“Bohème” “Carmen” va con le Étoiles del Teatro Bol’šoj e dell’Opera di Kiev. In pratica, ormai gli appuntamenti conla danza a Macerata Opera sono diventati un must irrinunciabile. Il 2 agosto il Macerata Opera Festival commemorava Mario del Monaco nel trentesimo anniversario della morte, in singolare coincidenza con quello di Enrico Caruso, scomparso proprio il 2 agosto del 1921. Ovviamente foto d’archivio e qualche registrazione (poca roba) del più grande tenore eroico del ’900, che inaugurò nel 1967 la prima di tante gloriose stagioni operistiche allo Sferisterio, con Otello (regista il figlio Giancarlo, ideatore della serata che qui commentiamo). Il raffronto tra la straripante personalità, non solo vocale, del « Moro del secolo » e i (troppi) cantanti ospiti della serata del 2 agosto sa- rebbe stato ingrato, soprattutto con riferimento ai tenori presenti (bravo Roberto Aronica), tutti dotati, chi più chi meno, di buone frecce al proprio arco ma con qualche… difetto di mira. Pertanto, Del Monaco paradossalmente si è visto poco, ed è mancata una conduzione della serata che conciliasse gli aspetti inerenti la voce, la personalità e la carriera del grande tenore con lo spirito divulgativo e popolare dell’evento. Chi, tra gli artisti, ha saputo distinguersi sono state, manco a dirlo, le donne, e in particolare Daniela Dessì e Fiorenza Cedolins, dotate di una classe che consente loro di reggere il paragone con le illustri colleghe che le hanno precedute nel repertorio che esse attualmente praticano. Comunque, serate come questa rendono evidente che il mondo della lirica, soprattutto «di repertorio », non annovera più i calibri di un tempo, non solo sul piano vocale ma della personalità, e questo è un vero peccato. Luciano Pavarotti mi raccontò che al concerto commemorativo di Enrico Caruso al Teatro di San Carlo nel 1973 cantarono lui stesso e proprio Mario del Monaco, oltre a diversi altri tenori di livello non secondario. Beh, che dire… ? Mi dicono che Bohéme sia uno spettacolo riuscito (regia di Leo Muscato e direzione d’orchestra di Paolo Arrivabeni), ma l’urgenza di andare in stampa non si concilia con gli impegni del recensore. È comunque lecito pensare che un tenore vero come Francesco Meli (Rodolfo) e un soprano emergente come Carmen Giannattasio (Mimì) stiano facendo in pieno il loro dovere. primapagina43 attualità e cultura “Ciro in Babilonia”, ossia quando la realizzazione è migliore dell’opera. Mariotti jr. e Florez sugli scudi nella ripresa della “Matilde di Shabran” “Ciro in Babilonia” N on sono un sostenitore del teatro “di regia” – chi mi conosce lo sa - perché tende a dirottare l’attenzione dalla parte musicale, e vocale in particolare, a quella visiva, dando l’impressione che i cantanti costituiscano una variabile marginale e quasi accidentale e non invece l’elemento irrinunciabile e più specifico dello spettacolo. Nel “Ciro in Babilonia” che apriva la 33^ edizione del ROF, mi sono dovuto ricredere perché lo spettacolo firmato da Davide Livermore (regia), Nicolas Bovey (scene e progetto luci) e Gianluca Falaschi (costumi) supportavano il relativo interesse dell’opera giovanile di Rossini con una riuscitissima ed elegantissima messa in scena in bianco e nero, stile anni Venti, con gli spettatori in palcoscenico ad assistere a un film del cinema muto quale rafforzativo delle prestazioni degli artisti, le cui riprese in atteggiamenti alla Francesca Bertini, scorrevano nello schermo gigante, con tanto di didascalie a commentare la vicenda intanto che essi, in carne ed ossa, cantavano le vicende tratte dall’Antico Testamento di Ciro, Baldassarre, Amira e così via. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna era diretta con diligenza e buon gusto da Will Crutchfield che 44Primapagina Stefano Gottin avrebbe fatto meglio a evitare di affermare (vedi l’intervista pubblicata su Il Messaggero del 13 agosto) che il talento giovanile di Rossini sarebbe superiore a quello di Mozart. Non scherziamo! Né il ROF né Rossini hanno bisogno di queste forme di piaggeria vagamente manipolatorie nei confronti dei meno avveduti, che rafforzano un’autoreferenzialità e un assurdo campanilismo culturale dei quali Rossini in primis non avverte minimamente il bisogno. Il ROF è per definizione una grande operazione, unica nel suo genere, che si protrae da oltre trent’anni, e dire che di “meglio non ce n’è” non è solo fuori luogo ma è controproducente e forse anche ridicolo, giacché la credibilità di una affermazione è spesso inversamente proporzionale al suo ricorrere. Il cast era decisamente all’altezza della situazione, con il contralto Ewa Podles nel ruolo di Ciro, re dei Persiani). La Podles, vera artista dotata di grande esperienza e di singolari mezzi vocali, magari con qualche artificio nelle discese al registro grave, è stata in grado di affrontare con ottimo piglio la coloratura e di porgere con accenti commossi le parti più patetiche e sentimentali del ruolo. Il soprano Jessica Pratt (Amira, moglie di Ciro e prigioniera di Baldassarre, re di Babilonia) tornava a Pesaro dopo la bella prova nell’Adelaide di Borgogna dell’anno passato, e nuovamente metteva in luce la propria voce bella e sicura, insieme a una avvenenza di donna piena di salute. Il tenore emergente Michael Spyres (Baldassarre), in un ruolo da “cattivo” (che nel Rossini-serio è usuale assegnare alla corda tenorile) metteva in mostra la ricchezza della propria gamma timbrica e l’estensione vocale per cui è ormai assai noto. Sostanzialmente omogeneo il resto del cast con Carmen Romeu (Argene), il basso Mirco Palazzi (sicuro e incisivo Zambrì), l’interessante tenore Robert Mchperson (Arbace) e Raffaele Costantini (Daniello). Ottimo il coro del Comunale bolognese diretto da Lorenzo Fratini. Il secondo titolo in cartellone era la “Matilde di Shabran” “Matilde di Shabran” Foto Studio Amati Bacciardi ROF: di attualità e cultura “Il Signor Bruschino” nella fortunata edizione del 2004 con la regia di Mario Martone, la razionalistica scenografia di Sergio Tramonti (quella della scala elicoidale semovente, evocativa del castello di nefandezze di Corradino) e i costumi di Ursula Patzak. L’Opera, caratterizzata da un mix di elementi fintamente drammatici, comici e grotteschi, con un ruolo, quello del poeta Don Isidoro, in vernacolo napoletano (evidenti i richiami a quel capolavoro che è il Flaminio di Pergolesi), era diretta con grande stile e proprietà di gesto da Michele Mariotti, attento ai tempi, alle timbriche, alla concertazione e al fraseggio, ben reso dalla “sua” orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Il maestro pesarese, sempre più sugli scudi, tendeva però, ogni tanto, a farsi prendere la mano coprendo i cantanti. Eccetto forse il baritono Nicola Alaimo, unica vera “voce” della serata nel ruolo di Aliprando, ne facevano le spese un po’ tutti, inclusa la star Juan Diego Florez (Corradino), sicurissimo vocalmente, elegante nel porgere, incredibilmente bravo in scena, divertentissimo nel produrre i grotteschi risvolti misogini di Corradino che si sveglia all’amore, ma che per tutta la prima metà del I atto scontava i larghi spazi della sala e il piglio eroico che il personaggio impone. So di essere controcorrente, ma Corradino – pur eseguito benissimo dal tenore peruviano, ma non è questo il punto – è una parte da baritenore, perdipiù misogino e non da un tenore amoroso sentimentale qual Florez è (nell’Ottocento lo eseguiva Donzelli, primo interprete di Norma, insomma un tenore alla Del Monaco). Ma queste cose non bisogna dirle troppo forte, così come che Florez – come tutti i grandi artisti – ha bisogno di altri grandi artisti intorno a sé per essere stimolato. Ma il suo entourage è più preoccupato che chi gli canta vicino non lo “copra”…. Insomma, Florez deve essere l’”unico” e gli altri cantanti devono riscuotere, al massimo, un successo riflesso. Di qui un calo del livello medio del cast rispetto al 2004 giacché il basso (?) Simon Orfila (Ginardo) non vale certo Carlo Lepore e men che meno Paolo Bordogna (Don Isidoro) vale Bruno de Simone, giacché il primo risolve il ruolo del Poeta (difficilissimo e centrale nella Matilde) con la consueta serie di vezzi, gag e mossettine graditi ai pressappochisti di bocca buona, mentre il secondo (al pari di Florez, colonna portante nell’edizione del 2004) conosce magistralmente i segreti della commedia dell’arte, della dizione, dell’accento sapido, dello stare in scena con sobrietà e arguzia e della “napoletanità” nel senso migliore del termine. Insomma, Don Isidoro non è un ruolo da “buffo caricato”, ma è un personaggio buffo sì; ma anche tragico, impegnato per tutta l’opera a salvare la propria vita e a gestire le situazioni più difficili con prontezza e arguzia. Olga Peretyatko era Matilde, elegantissima in scena, bellissima, un po’ vuota nei centri e nel registro grave ma sicura negli acuti e nel fraseggio. Per il ruolo occorrerebbe un soprano un po’ più strutturato ma la futura sig.ra Mariotti (auguri a entrambi!) ha compensato qualche leggero deficit vocale con una classe e uno charme che non le si possono certo negare ma che non hanno oscurato il ricordo della precedente interprete, Annick Massis. Bravo il giovane mezzo-soprano Anna Goryachova, sicura e intensa nel ruolo impervio en-travesti di Edoardo benché la prima aria, con le sue micidiali escursioni nel registro grave, l’abbia messa un po’ a disagio. Ottimo, come detto, Nicola Alaimo (Aliprando) finalmente un vero baritono, dotato di voce larga e di accento appropriato, destinato a grandi cose a condizione di non saltabeccare da un ruolo all’altro senza un progetto coerente. Brava caratterista Chiara Chialli nel ruolo caricaturale della biliosa Contessa d’Arco. Positive le prove comprimariali di Marco Filippo Romano (Raimondo Lopez) e di Giorgio Misseri (Egoldo). Per concludere, un successo strepitoso, per tutti, giusto per fare piazza pulita di talune osservazioni controcorrente di chi scrive, perché - si sa - il pubblico ha sempre ragione! Terzo titolo “Il signor Bruschino”, con la regia del Teatro Sotterraneo e le scene e costumi dell’Accademia di Belle Arti di Urbino. Suonava – evviva evviva!! – la brava Orchestra sinfonica G. Rossini, diretta in modo appropriato dal giovane Daniele Rustioni. La scena si svolgeva in una sorta di rossiniano parco dei divertimenti, in una zona del quale avevano luogo i fatti e gli equivoci tipici dell’opera buffa, di cui il Bruschino è espressione idiomatica. Cantava una compagnia equilibrata che si sorreggeva sulla voce importante del basso Carlo Lepore (Gaudenzio), un artista in netta crescita che dovrebbe cantare al ROF ruoli di maggiore impegno, peraltro da lui già eseguiti in numerosi circuiti internazionali di prima grandezza. Nel ruolo di Sofia cantava il soprano leggero Maria Aleida, Bruschino padre era l’esperto Roberto De Candia, Bruschino figlio Francisco Brito, Florville il bravo tenorino David Alegret, Filiberto Andrea Vincenzo Bonsignore, mentre Chiara Amarù prestava la propria voce di mezzo-soprano, non priva di interesse, al ruolo di Marianna. Infine, il 13 agosto abbiamo assistito al concerto vivaldiano del mezzosoprano/contralto Sonia Prima: che classe, che stile, che passo interpretativo! Questi sono gli artisti che vorremmo sempre ascoltare, coloro dai quali si riesce sempre ad apprendere qualcosa di nuovo, coloro che davanti a tutto mettono la musica e non se stessi. Successo trionfale, a ragion veduta. Italiani in sala, quasi nessuno, comunque pochi, troppo pochi. primapagina45 attualità e cultura di Tiziana Tobaldi Sesta edizione del Premio Vallesina a Villa Salvati Foto Vincenzoni L a raffinata residenza neoclassica di Villa Salvati a Pianello Vallesina ha ospitato il 23 giugno la sesta edizione del Premio Vallesina, dedicata ai figli illustri che rappresentano in Italia e nel mondo l’eccellenza di questo territorio ricco di cultura, lavoro, storia e tradizione. Una festa nel segno della solidarietà e dell’impegno sociale: come nell’edizione 2010, l’incasso è stato devoluto al “Progetto Brasile” per il completamento dei lavori del Centro educativo di don Luigi Carrescia, missionario originario di Santa Maria Nuova. La manifestazione ha avuto il patrocinio di Regione Marche, Provincia di Ancona, Consolato della Federazione Russa nelle Marche, Ordine dei Giornalisti delle Marche e il sostegno di molte imprese. Le note della Banda Musicale ”I due castelli”, diretta da Manolo Rango e l’esibizione delle majorettes hanno aperto la serata. Un video del giornalista Gianni Rossetti con le immagini di Enio Tiburzi ha presentato la realtà di Monte Roberto e di Castelbellino, seguito dal saluto dei sindaci Olivio Togni e Demetrio Papadopulos. Quest’anno giovani i premiati, giovanissimi a consegnare il premio: «un legame ideale che intreccia speranze, aspirazioni, destini, emozioni.- ha spiegato il conduttore Paolo Notari -Un Premio che costituisce un’indicazione per il futuro.» Per le Arti, Premio Vallesina al maestro Alessandro Fossi, nato a Monteroberto nel 1975, considerato dalla critica il più grande suonatore di tuba al mondo. Ha consegnato l’Ulisse in bronzo dello scultore Floriano Ippoliti, simbolo del 46Primapagina Premio, il suo allievo Luca Morresi, musicista diciassettenne. Premio all’Imprenditoria a Massimo Stronati, nato a Jesi nel 1962, uomo dalla spiccata sensibilità sociale, che ha dato lavoro e futuro a tanti marchigiani e immigrati. «Lavoro significa costruire giorno per giorno, mattone su mattone la fiducia e la speranza.» ha affermato Stronati, premiato da Elisa Rosolani e Mario Skoza, figli di due suoi collaboratori. Premio alla Scienza e all’ingegno messi a disposizione della ricerca per migliorare la qualità della vita a Ruggero Paraventi, nato a Castelplanio nel 1970, laureato in chimica, ricercatore. Attualmente si occupa di nuovi strumenti per completare il sistema di crescita vertebrale. Ha offerto l’Ulisse Andrea Diotallevi, anno 1989, promettente musicoingegnere di Monte Roberto. Per le attività sociali, il Premio al sottotenente Daniele Riggio, nato a Jesi nel 1968, responsabile per le relazioni esterne con Afghanistan, repubbliche Centro Asiatiche, Iraq e Mongolia presso la divisione della diplomazia pubblica del Segretariato Internazionale NATO nel quartiere generale di Bruxelles. Ha premiato il ventottenne pakistano Shahid Mohammad Ajmal, in Italia dal 2000 per studiare, primo consigliere straniero in Confcooperative Marche. E quest’anno un omaggio allo sport con la Targa del Presidente della Repubblica al Club Scherma Jesi, ad oggi la Società più titolata al mondo di ogni disciplina, e al suo presidente Alberto Proietti Mosca. Un’impronta vincente è lasciata da atleti come Giovanna Foto Ubaldi Trillini (portabandiera olimpica Atlanta 1996), Elisa Di Francisca, Stefano Cerioni e Valentina Vezzali (portabandiera olimpica Londra 2012). Ha premiato la campionessa europea di Twirling Margherita Rocchetti di Castelbellino classe 1993, in Nazionale ai prossimi mondiali di Parigi. Ospiti della serata Frate Mago, con i suoi giochi di illusionismo, la cantante Linda, che ha proposto tre emozionanti brani. E il gruppo jesino Onafifetti: Giovanni Filosa, Piergiorgio Memè e Mario Sardella in una satira brillante e pungente che percorre con ironia, leggerezza e acume temi sociali e di attualità, ottenendo la simpatia del pubblico da 44 anni. Al gruppo un Premio speciale dal presidente dell’Associazione Premio Vallesina Gianluca Fioretti per la lunga e brillante carriera artistica. Poi il saluto del segretario generale Nicola Di Francesco, ideatore nel 2001 della manifestazione: «Grazie a tutti coloro che, con il loro impegno, hanno collaborato all’organizzazione del Premio Vallesina. E un auspicio: spero che la Regione Marche si accorga di noi e possa essere presente nelle prossime edizioni in maniera più significativa di quanto fatto finora». A chiusura una suggestiva e poetica coreografia della Compagnia dei Folli e il buffet di prodotti offerti da aziende locali. Il sindaco di Maiolati Spontini ha donato un riconoscimento per i sessant’anni di attività a Pio Porcarelli, titolare della gelateria Ciro e Pio. «Una serata ricca di contenuti, fiducia, solidarietà.» ha affermato Fioretti. Valori importanti, di questi tempi. attualità e cultura di Marta Paraventi Il Polittico di San Domenico del Lotto tornato all’originale splendore Dopo le lunghe operazioni di restauro Particolare del Polittico dopo il restauro 3 00 giorni di cantiere, oltre 6 mq restaurati ed ora è possibile finalmente ammirare nel museo di Villa Colloredo Mels il monumentale Polittico di San Domenico (1506-1508), una delle opere più significative di Lorenzo Lotto, tornato all’originario splendore grazie al restauro durato circa un anno condotto dai laboratori COO.BE.C. di Spoleto e reso possibile da Enel. Il restauro rientra tra le attività promosse dal progetto territoriale Terre di Lotto ed era stato avviato a seguito di un’accurata campagna di analisi scientifiche e indagini diagnostiche, finanziata dalla Regione Marche, che aveva rivelato il grave stato conservativo in cui versava l’opera: sollevamenti della pellicola pittorica, viraggi nel colore, numerosi fori da tarlo che avrebbero potuto causare la perdita del bene, sovrapposizioni di interventi di restauro con forti abrasioni e pesanti ritocchi oltre a cadute di colore. “Vasta e complessa l’im- presa, solenne e impressionante quando la si osserva dal vero: stupefacente per l’occhio che continua ad esplorare meravigliato i particolari dettagliatissimi, le minuzie che Lotto dipinge con assoluta precisione” dichiara Giovanni C.F. Villa, curatore della mostra lottesca realizzata presso le Scuderie del Quirinale lo scorso anno, a proposito del polittico il cui restauro era iniziato proprio in occasione della mostra romana con un laboratorio aperto dove i restauratori hanno completamente restaurato la cimasa e condotto, dal vivo, operazioni di pulitura della tavola con i santi Lucia e Vincenzo Ferrer. Le complesse operazioni di restauro hanno dato risultati incredibili sotto l’aspetto cromatico. In particolare, nella tavola raffigurante Santa Caterina da Siena e San Sigismondo sono emerse cromie sorprendenti: dal violetto del drappo nel fondo, all’abito di San Sigismondo realizzato mediante il verde resinato agli splendidi incarnati che si stagliano nei fondi scuri, creando un forte impatto emotivo. Nel registro inferiore, nella tavola raffigurante San Vito e San Pietro martire la qualità della mano lottesca ha continuato ad emergere in modo straordinario man mano che si provvedeva a liberarla dalle sostanze e dalle ridipinture alterate applicate nel tempo: il risultato è il grande effetto dettato dagli accostamenti di colori preziosi utilizzati per la veste di San Vito, dalla resa metallica dell’armatura, dal dettaglio dei personaggi con le spade e a cavallo, realizzati con una punta di pennello sottilissima, che si intravedono nel piccolo brano di paesaggio. I risultati del restauro saranno oggetto di un volume finanziato da ENEL che si integrerà con la serie di pubblicazioni edite in occasione della mostra romana dedicata a Lorenzo Lotto. Tra queste, oltre al catalogo della mostra ricordiamo il volume “Lotto nelle Marche” edito da Silvana editoriale, promosso da Regione Marche e curato da G.F. Villa e V. Garibaldi con il coordinamento scientifico di M. Paraventi, che costituisce lo strumento più aggiornato per conoscere la grande opera marchigiana del maestro Lorenzo Lotto. Particolare del Polittico dopo il restauro primapagina47 attualità e cultura di Pietro Balducci Pane e tulipani, quando la realtà non è un film È il primo bene confiscato alla criminalità in provincia di Ancona e presto diventerà una comunità residenziale per malati psichiatrici. Si tratta del podere Tufi a Cupramontana, sequestrato vent’anni fa e poi confiscato perché di proprietà, tramite un prestanome, dell’allora tesoriere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti. Dopo averne affidato la gestione ad alcuni privati, il comune di Cupramontana nel 2009 ha sottoscritto una convenzione con la cooperativa sociale Vivicare di Jesi con l’obiettivo di costituire nel podere una comunità psichiatrica. A marzo 2013, terminata la ristrutturazione del casolare che si trova in mezzo al podere, prenderà il via la nuova comunità psichiatrica con 14 ospiti fissi. Non sarà utilizzato solo il casolare, ma anche tutta il terreno intorno, circa tre ettari, che sarà coltivato proprio dagli ospiti della comunità. Per gestire la parte agricola della struttura la Vivicare ha costituto una cooperativa sociale di tipo B, la Pane e Tulipani, con l’obiettivo specifico di svolgere l’attività per l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati ospiti della comunità. “Ci occuperemo di coltivare il fondo” - spiega Stefano Sensoli, presidente di Pane e Tulipani - “puntando ad inserire gli utenti della comunità nelle fasi della lavorazione ad essi congeniali con il supporto degli educatori. Il valore educativo e riabilitativo delle attività agricole, in modo particolare le coltivazioni ortive, è ormai ampiamente riconosciuto”. 48Primapagina All’aspetto educativo, però, si affianca anche uno pratico. “Nel fondo – continua Sensoli - verrà realizzato un orto i cui prodotti, rigorosamente biologici e certificati, saranno venduti nel mercato limitrofo, privilegiando le esigenze della locale Casa di Riposo presso cui è impiegata una parte del personale infermieristico ed assistenziale della Cooperativa Vivicare, che gestisce anche la comunità residenziale. Altri canali di vendita saranno i Gas (gruppi di acquisto solidale), i negozi locali, la vendita diretta e “la spesa nell’orto” tramite raccolta diretta da parte del cliente, la vendita on-line, i mercati locali, le consegne a domicilio”. Per preparare il terreno, incolto da anni, alle future coltivazioni e “per accrescere il rilievo sociale delle attività, promuovendo la cultura della legalità, abbiamo pensato che sarebbe stata una ottima opportunità entrare a far parte del circuito di “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” organizzando già da quest’estate un campo di volontariato della durata di una settimana nell’ambito del progetto Estate Liberi 2012. Durante la prima settimana di luglio, 15 volontari, scelti da Libera, con il contributo di BancaMarche, “hanno dato vita a una sorta di campo sociale, preparando il terreno e le aiole dell’orto, predisponendo il sistema di irrigazione e iniziando la lavorazione del terreno”. Non solo lavoro, perché i ragazzi hanno svolto attività formative sui temi della lotta alla criminalità e la diffusione della cultura della legalità”. attualità e cultura di Talita Frezzi Idee e proposte sul mondo, ecco “l’Effetto Domino” di Diego Pierini “D edicato a chi crede che una conversazione possa trasformare l’universo”. Non si inizia un libro dalla dedica, di solito. Ma in “Effetto Domino” è un passo obbligato. Un passo imprescindibile perché quelle dieci parole raccolgono la sintesi di un’avventura letteraria incredibilmente originale, affrontata con coraggio da Diego Pierini, classe ’79 anconetano d’origine ma romano d’adozione. Un giovane che con le parole ci lavora, ci scherza, ci riflette e fa riflettere gli altri. Pierini è autore del programma “Parla con Me” di Rai3 e “The Show must go off” (La7) condotti da Serena Dandini, collabora con “Voyager” (Rai2), ha scritto di cinema per “Ciak” “34mm” e “Movie&co”. Giornalista, speaker radiofonico, autore, scrittore, pensatore in progress. Diego e le sue parole, che si incontrano, scontrano, generano qualcosa. È tutto qui “Effetto Domino”, un libro in equilibrio tra filosofia, esistenzialismo e new age, perché “ogni opinione dà il via a una cascata di trasformazioni, come un effetto domino - spiega Diego Pierini - le idee, o meglio i frammenti di idee, qui disordinatamente archiviate, germogliate liberamente e poi propagatesi attraverso il web, che spaziano senza etichette né auctoritas dalla musica alla religione, dalla sociologia al cinema, hanno l’unico scopo di essere una leva per accendere curiosità e generare discussioni. E alimentare così il processo infinito della loro evoluzione”. “Effetto Domino” - edito da Tutti Autori Milano - è un libro ‘on demand’ la cui stampa avviene quantitativamente “su richiesta”, formula nuova per nuovi originali autori. È un sasso che riesce a muovere un mare, scatenare curiosità e accendere discussioni. Dopo l’onirico saggio di filosofia “Noi, robot” sugli ibridi uomo/ macchina, Diego Pierini raccoglie con “Effetto domino” una serie di riflessioni filosofiche, pensieri e opinioni scritti nel corso degli anni e diffusi attraverso il web (il sito www.dkp.it è una esperienza multisensoriale più che un banale sito Internet). “Nessuno di questi miei “sassi” di pensiero gettati nell’universo ha pretesa di completezza e di definitività - aggiunge - ma solo l’ambizione di fornire una prospettiva in grado di innescare critiche, generare confronto”. Teoricamente, a voler essere rigidamente coerenti, questo libro non dovrebbe neppure esistere, perché la fissità della pagina scritta contraddice l’idea portante del continuo movimento e autogenerazione progressiva del pensiero: infatti l’autore annuncia che sul web saranno presto pubblicati degli “aggiornamenti”. primapagina49 attualità e cultura Bere con un occhio all’etichetta responsabile Basta leggere e puoi stare tranquillo. Una chiacchierata sul Verdicchio, con Andrea Pieralisi, della Monteschiavo L a notizia è curiosa, se volete. Ti trovi al ristorante, mettiamo la sera, sai quanto sei alto, quanto pesi, ti fai portare una bottiglia di vino e, alla perfezione, conosci i limiti della tua “bevuta”, la cosiddetta corretta quantità di vino. Senza che poi, mettendoti in macchina, nessuno ti imputi chissà cosa. Vale per maschietti e femminucce. Significa cosa? Non violare la 50Primapagina di Giovanni Filosa legge e bere un prodotto che la natura, da sempre, ci propina. Che ti fa, Gennaro Pieralisi, deus ex machina dell’industria (ma anche dell’agricoltura) mondiale? Quando gli è venuta l’idea, l’ha brevettata e ora trovi sulle etichette del suo vino, di un suo vino, le Coste del Molino, una tabella. Se sgarri da quella, sei fuori della normativa. E ti possono far soffiare e beccare. Si chiama “etichetta responsabile” e ne parliamo con Andrea Pieralisi, amministratore delegato della ditta “Terre Monteschiavo”. Perché è nata l’etichetta? “Gennaro l’ha inventata, l’ha brevettata, si basa sulle tabelle ministeriali che si riferiscono a quanto si può bere in base al grado alcolico del vino contenuto in bottiglia. Vale per l’uomo e per la donna, direi che il progetto di partenza era ed è tuttora valido. È un’idea nuova, va calata con giudizio in tutti i punti vendita. Perché il vino è un business, ed in giro c’è scetticismo, come avviene sempre per le novità nel vino. Hai presenti le diatribe circa il tappo in polimeri piuttosto che i tappi di sughero? Non tutti si rendono conto che oggi c’è più il retrogusto di tappo ma, una volta era da non crederci, c’è chi propina al mondo anche il tappo a vite, richiestissimo all’estero. Ma come? Il vino e l’olio, insieme al pane, sono i frutti della terra più antichi del mondo: pensi che ci sia qualcuno restio alle novità? Tu lo berresti un verdicchio classico superiore riserva col tappo a vite? In realtà, oggi, al di là delle novità, quel che conta è la produzione, è fondamentale che il cliente si focalizzi sul prodotto, sul contenuto. Dicono che il nostro Verdicchio, se si confronta la scarsa produzione rispetto ad altri vini italiani, sia attualità e cultura La prima etichetta per cONSUmare cONSapeLvOLmeNte iL viNO e teNere iL taSSO aLcOLemicO SOttO cONtrOLO FINO QUI PER di 45kg L’ ETICHETTA RESPONSABILE FINO QUI PER di 55kg FINO QUI PER di 60kg FINO QUI PER di 65kg FINO QUI PER di 75kg FINO QUI PER di 80kg Questa etichetta aiuta a conoscere quanto vino può bere una sola persona con lo STOMACO PIENO in base al proprio peso, senza così rischiare di superare il tasso di alcolemia consentito dal codice della strada. FINO QUI PER LIVELLI CONSENTITI UOMO Per un consumo responsabile! LIVELLI CONSENTITI DONNA considerato quasi di nicchia. Siamo noi che non facciamo abbastanza per farci conoscere? Noi non siamo presenti nei tavoli degli opinion leader e della stampa specializzata, tutti e ovunque conoscono altre regioni italiane definite più blasonate, le Marche di meno. Perché? Forse perché c’è un errore a monte nella programmazione della promozione del territorio. Siamo all’inizio ma dobbiamo impegnarci di più, far conoscere il Verdicchio, ce la potremmo battere alla pari con altri vini, soprattutto stranieri. I produttori ce la mettono tutta ma non basta, ci vogliono aiuti istituzionali. Una volta promosso, il nostro vino viaggia da solo, il prodotto c’è, il blasone pure, il pakaging anche, sono assolutamente sicuro che il Verdiccio decollerebbe. Oggi sta acquistando mercato, vedo, soprattutto con le “riserve”, vini bianchi invecchiati più di quanto uno possa pensare. Ho bianchi del 2.000, straordinari, chiedetelo in giro, c’è solo da spingerli un pochino. Questa etichetta, dunque, è un prodotto promozionale e sociale, in sintesi? Perché no? L’anno scorso producemmo il “Vino dell’Imperatore” e chiamammo la notte in cui avvenne la vendemmia “La notte dell’imperatore”. La rifaremo a giorni, a settembre, la riproporrà la cantina Montecappone, perché tutti i viticoltori debbono essere coinvolti, anno dopo anno. Un format che ormai girerà, nato da noi ma che dovrà uscire dai nostri confini. La sostanza della “Notte”? Promuovere e far vedere come si fa un vino eccellente. Adesso a settembre tanti arriveranno come l’anno scorso, vendemmieranno insieme, ridendo e cantando produrranno, alla fine, il vino dell’Imperatore. Il mio sogno? È che questo format, cioè un gruppo di persone che giocano, diciamo così, ma in realtà lavorano sulle viti tutti insieme, sia fatto suo e realizzato dalla Regione Marche. Perché è nato per promuovere il vino. Obiettivo? L’arrivo di opinion leader e giornalisti italiani e stranieri che presentino al mondo i nostri prodotti. Sarà, se accadesse, dirompente. Il nostro fiore all’occhiello? La nostra azienda agricola, terra, vinificazione di qualità, commercializzazione coinvolgente di prodotti che qui crescono e si sviluppano”. Lo conferma anche il fondatore, Gennaro Pieralisi, quando scrive “Con il lavoro ed i prodotti della cantina vorrei trasmettere lo spirito campestre che ancora vive nelle nostre terre, quello spirito e quella cultura di mezzadri che tra noi hanno saputo essere anche un po’ imprenditori”. Pensata per la ristorazione, indica la corretta quantità di vino da consumare a stomaco pieno e successivamente potersi mettere alla guida. La consultazione è molto semplice, basterà non versarsi più da bere quando il livello del vino contenuto nella bottiglia si approssimerà alla tacca corrispondente al proprio sesso e peso corporeo. di 55kg FINO QUI PER di 65kg FINO QUI PER di 70kg L’etichetta si basa sulle tabelle ministeriali e il FINO QUI PER suo uso non costituisce di 75kg prova legale. FINO QUI PER di 80kg Poter gustare dell’ottimo vino serenamente e senza trasgredire la legge è un diritto. L’etichetta resPonsabiLe per noi della Monte schiavo è un dovere verso i nostri estimatori. primapagina51 attualità e cultura di Lorenzo Verdolini Le vele di Frusaglia Ludovico Spagnolini (1858-1943), Vele al sole, 1932 (collezione privata, Roma) Visita al Museo della Marineria Washington Patrignani di Pesaro «G randi vele latine, vele a trapezio, vele quadre, a triangolo, bianche, scarlatte, arancione, verdi, azzurre, nere, le vele delle barche, dei trabaccoli, delle sciabiche, dei velieri, spiccano nell’aria come a giugno gli ortaggi dietro casa». Sono le vele Ludovico Spagnolini, L’arrivo del pesce, 1938 (collezione privata, Roma) 52Primapagina della pacifica flotta di Frusaglia, ritratte da Fabio Tombari nel romanzo La vita, del 1930. Viste dall’alto, dal colle di Babicca «che dà sulla marina azzurra», nelle limpide giornate estive dovevano apparire come una manciata di coriandoli sparsi sul selciato lucido. Quelle leggere pennellate di colore distribuite qua e là sul blu intenso del mare si intersecavano, si sovrapponevano, si mescolavano come ad una festa di luce e di vento. «Il sole le infiamma, la pioggia le bagna, il vento le impregna», scriveva ancora lo scrittore fanese. «Sono le vele di Frusaglia», e con quel termine immaginario si potevano racchiudere le vele di tutte le marinerie dell’Adriatico: da Fano a Pesaro, da Rimini a San Benedetto del Tronto. Anche se ognuna aveva una sua specificità, un elemento identificativo che la distingueva da tutte le altre. Le vele erano un vessillo di riconoscimento, come le targhe per le nostre auto. Dal porto, dalla costa, dai promontori affacciati sul mare occhi abili scrutavano l’orizzonte e individuavano in quelle macchie di colore lontane quale fosse la barca che stava facendo ritorno, chi ne era il proprietario o il paròne. Allora la vedetta avvisava il parcenevole, cioè l’uomo dell’equipaggio attualità e cultura rimasto a terra con l’incarico di vendere il pesce. Quando invece il cielo si caricava di nubi color della pece e il mare «imbestialito e sconquassato dai venti urlava per la marina come un dannato», quei disegni all’orizzonte potevano significare speranza o dramma per le famiglie dei pescatori e dei marinai, per le tante donne che dalle mura della città interrogavano con gli occhi lucidi il mare arrabbiato e le imbarcazioni che riuscivano a rientrare in porto, cercandovi i colori e i simboli familiari. Non sempre tutte rientravano, e allora «la gente non rideva più e camminava a testa bassa, e le finestre del porto eran tutte chiuse». Il mare era vita, ed era morte. Una morte che poteva presentarsi all’improvviso con le vesti della tempesta o della tromba marina, lo scione: fenomeno meteorologico piuttosto ricorrente a fine estate in Adriatico. Quest’ultimo, in particolare, era temutissimo dagli uomini di mare, perché improvviso e terribile. Quasi a volerne esorcizzare il pericolo ed allontanarlo, la sua rappresentazione simbolica era frequente su molte vele della marineria pesarese, e non solo, per tutto l’Ottocento. In tale secolo e nei precedenti, per tingere le grandi tele di cotone si impiegavano i pochi, semplici colori disponibili in natura: le “terre colorate”, cioè il rosso carminio, il rosso mattone, il giallo ocra e il nero. Le tinte venivano variamente abbinate dai maestri velai e formavano disegni ora geometrici, ora più complessi, evocativi di elementi sacri, mitologici o scaramantici (come appunto lo scione) scelti per proteggere la barca contro la cattiva sorte. Una di queste grandi, bellissime vele color della terra è esposta al Museo della Marineria Washington Patrignani, di Pesaro. Accoglie il visitatore all’ingresso della mostra e fa quasi tenerezza a vederla lì appesa al muro, consunta e sbiadita, muta testimo- ne di un mondo scomparso. Perché uno se la immagina in mare, gonfia di vento e vibrante d’energia, trattenuta a stento dalle corde dell’albero, e pensa al veliero panciuto dov’era issata che rientra in porto fra l’agitazione e il vociare di una folla vivace e colorata. Attorno alla marineria ruotava l’economia di tutte le città della costa: armatori, paròni, pescatori, capitani marittimi, marinai, portuali, maestri d’ascia, carpentieri, calafati, segantini, maestri velai, velaie, cordai, vedette, parcenevoli, bottegai, mercanti, locandieri, cuochi lavoravano sul mare o grazie al mare. Questo mondo antico, duro e affascinante è scomparso da anni, ma per fortuna qualche traccia è rimasta, preservata da chi l’ha conosciuto e amato profondamente. Come Washington Patrignani, studioso di storia e tecniche navali, che già nel 1988 era riuscito a coinvolgere l’amministrazione comunale nella creazione di un “Museo del Mare”, con sede a Villa Molaroni. Ma il successivo degrado della villa portò alla chiusura del museo. Dopo anni di abbandono, il Comune di Pesaro ha ripreso quell’antica idea e grazie al finanziamento e alla collaborazione di un importante partner privato – la Renco spa – ha potuto restaurare la bella villa della prima metà del Novecento, e riorganizzare e rilanciare il museo attraverso l’elaborazione di un progetto che è allo stesso tempo scientifico e di promozione. «Il lavoro che ci attende – ha spiegato a tal proposito la professoressa Maria Lucia De Nicolò, Direttore scientifico della struttura – e che vorrebbe distinguere il Museo della marineria di Pesaro dai vari musei del mare sparsi su tutto il territorio nazionale è motivato appunto dalla volontà di superare la valenza di museo etnografico e caricare le esposizioni visive e documentarie di un valore aggiunto, quello della ricerca storica sulla scorta dell’utilizzo di fonti e documenta- Angelo Landi (1879-1944), Tempesta, 1913-1918 ca. (collezione privata) zione altre rispetto a quelle proprie dell’antropologia, per far sì che la marineria, la sua gente, le barche passino da “oggetto di folclore a soggetto di storia”». Un percorso che procede nel solco tracciato dal professor Patrignani, e che a lui è stato giustamente intitolato. * Le citazioni dell’articolo sono tratte da: Fabio Tombari, La vita, Mondadori, Milano 1930. Villa Molaroni, viale Pola, 9 - Pesaro Info: tel. 0721 35588 / call center 199 151 123 Comune di Pesaro, Assessorato alla Cultura: tel. 0721 387393 [email protected] www.museomarineriapesaro.info www.pesarocultura.it primapagina53 attualità e cultura di Pietro Balducci La Fondazione Colocci, per la formazione professionale E lo sviluppo della cultura, partendo dalla Vallesina T ra le tante iniziative di BancaMarche a favore della cultura spicca l’impegno a favore della fondazione Colocci, istituto per l’istruzione universitaria, la formazione professionale e la promozione della cultura nella Vallesina. Fondata nel 2006 con il contributo, fra gli altri, della Fondazione Cassa di risparmio di Jesi e BancaMarche, la fondazione Colocci nei suoi primi sei anni di vita è riuscita a creare un piccolo polo universitario a Jesi grazie a un accordo con l’Università di Macerata. La facoltà di giurisprudenza dell’ateneo maceratese, infatti, proprio nel ’96 ha trasferito nella sede della fondazione Colocci il corso di diploma universitario in operatore giuridico d’impresa, a cui sono affiancati i corsi di laurea di primo e secondo livello in consulente del lavoro, operatore giudiziario , operatore del no profit e consulente giuridico per la finanza e la previdenza. L’alleanza universitaria Jesi e Macerata si è rafforzata nel 2008 con l’istituzione del dipartimento di studi giuridici ed economici nella sede della fondazione Colocci, unico dipartimento dell’ateneo maceratese presente in una sede distaccata. Ad oggi 54Primapagina a Jesi sono presenti i corsi di laurea in consulente del lavoro, consulente per l’impresa e operatore giudiziario e criminologico dell’università di Macerata. In sei anni sono stati 4296 gli studenti iscritti al polo giuridico jesino, con un trend sempre crescente, dai 40 del 96 al record di 746 dell’anno accademico 2011-12. “Ma il nostro obiettivo è di arrivare a mille” spiega Gabriele Fava, presidente della Fondazione, durante la conferenza stampa in cui ha illustrato i risultati ottenuti negli ultimi tre anni. “Diamo la possibilità ai ragazzi di frequentare l’università vicino casa, offrendo loro un percorso formativo di alto livello a costi contenuti, cosa quanto più apprezzabile in un momento di crisi come questo”. Due terzi degli studenti che frequentano l’università a Jesi, infatti, provengono dalla provincia di Ancona, mentre solo il 14% arriva da fuori regione. “Abbiamo già un accordo con l’università di Macerata per attivare gli attuali corsi anche in modalità e-learning in modo da aumentare l’appeal della nostra sede e ci piacerebbe portare a Jesi anche una scuola di specializzazione in professioni legali, che troverebbe nella nostra sede un luogo ideale”. LIBRANDO di Agnese Testadiferro Il libro “La S.A.F.F.A. di Jesi” Inediti e testimonianze di una storia da non dimenticare di Riccardo Ceccarelli e Anna Virginia Vincenzoni U na storia da non dimenticare, per la città di Jesi e per tutte le famiglie che devono il loro benessere e una vita dignitosa anche al lavoro nella fabbrica della Saffa. È vero che nella seconda metà dell’Ottocento le condizioni di vita degli operai, tra cui molti bambini, erano poco invidiabili: ambienti insalubri e tante ore di lavoro ma è proprio in questi periodi che prendono il via le prime richieste di riduzione degli orari e di miglioramento delle condizioni di lavoro come pure le organizzazioni per il tempo libero. Un lavoro che oltre ad essere faticoso era anche pericoloso per i vapori di zolfo e di fosforo che provocavano danni alle ossa della mascella e ai denti. Un lavoro in prevalenza femminile, pagato di meno rispetto a quello maschile, ma che ha visto le donne capaci di conquistarsi un posto e di mantenerlo per offrire ai figli la possibilità di studiare e di vivere ancora meglio. Queste sono alcune delle considerazioni che emergono leggendo il libro “La S.A.F.F.A. di Jesi. Inediti e testimonianze di una storia da non dimenticare”. La pubblicazione, a cura di Riccardo Ceccarelli e di Anna Vincenzoni, è edita dall’associazione culturale Res Humanae di Jesi con il patrocinio della Regione Marche, della Provincia di Ancona e del comune di Jesi e con il contributo di alcuni sponsor tra cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi e Banca Marche. Le origini della Saffa risalgono al 1865 quando fu impiantata a Jesi la prima fabbrica di fiammiferi, nella zona di via Roma e che rimase attiva per una decina di anni. Nel 1873 prese il via un altro opificio, vicino al centro cittadino, che inizialmente ha 110 dipendenti e che nel 1898 viene rilevato dalla milanese “Società Anonima Fabbriche Riunite di Fiammiferi”. La concorrenza era molto agguerrita e la fabbrica jesina riuscì comunque a garantire il lavoro alle numerose donne: nel 1928 si contavano 155 operaie e solo 22 operai. Nel 1937 la società proprietaria cambiò nome in “Società per Azioni Fabbriche di Fiammiferi ed Affini” (Saffa) stabilimento di Jesi. La storia della Saffa nel periodo della seconda guerra mondiale si è poi fortemente intrecciata con le vicende cittadine. Scorrendo i tanti documenti riprodotti nel libro si rimane quasi commossi dalla premura e dalle intuizioni che i dirigenti dell’azienda avevano nel proteggere gli operai e le macchine dalle devastazioni compiute dai tedeschi. Dal diario del 5 luglio 1944 trascritto da Anna Vincenzoni e riprodotto nel manoscritto si legge alle ultime righe: «Anche il controllo è passato così felicemente, senza che la fabbrica sia stata menomata nella sua sostanziale efficienza, mentre sorte ben più grave è toccata a tutte le altre industrie jesine, anche le più piccole e disparate, senza discriminazione alcuna sul loro valore bellico o meno». I dirigenti erano riusciti a limitare la visita delle squadre guastatori alla parte dell’officina alla quale avevano dato una apparente devastazione, anche grazie all’offerta del sempre gradito bicchiere di vino e alla brillante dialettica dell’interprete capace di distrarre i controllori. Segno che il legame con il proprio lavoro e la sensibilità per le persone che da quel lavoro dipendono sono capaci di compiere miracoli. E tutta la storia della Saffa, dalle origini fino ai vari cambi di proprietà e alla chiusura nel 1988, è intessuta di eventi che possono essere spiegati ed inseriti in una storia più grande, quella della industrializzazione dell’Italia, del miglioramento dei processi lavorativi, nella scomparsa del lavoro minorile, delle tutele sindacali… «Una storia che la città non deve dimenticare per ritrovare le radici di una comunità che ha fondato se stessa sul lavoro, sulla testimonianza, sull’occupazione femminile» ha spiegato Riccardo Ceccarelli. Anna Vincenzoni ha voluto dedicare questo lavoro di ricerca a sua madre, Ester Latini, una delle fiammiferaie che ha dedicato tanti anni della sua vita alla fabbrica ma che dalla fabbrica ha saputo anche cogliere la possibilità di un riscatto personale e culturale partecipando alla filodrammatica aziendale. Dipendenti S.A.F.F.A.,1941 Festa della madre e del fanciullo, stabilimento S.A.F.F.A. di Jesi, Epifania 1941 La copertina del libro primapagina55 LIBRANDO di Ilaria Cofanelli Il buonsenso di Padre Pino Puglisi nel libro di Mauro Rocchegiani T ra le ultime novità editoriali è senza dubbio da segnalare il bel libro di Mauro Rocchegiani, giornalista e direttore artistico dell’Associazione MonsanoCult, “Se ognuno di noi… Padre Pino Puglisi, 9 sentieri di buonsenso”, incentrato sulla figura di padre Giuseppe Puglisi, la cui vita è stata brutalmente spezzata in un attentato mafioso nel settembre del ‘93. Un libro particolare che non vuole essere una biografia, quanto piuttosto un manuale di pratiche del buon senso, cui attingere consigli per la vita di tutti i giorni. Emblematico, infatti è il titolo della pubblicazione. Cosa è, di fatto, il buonsenso? Sono dodici anni che, a Monsano, cerchiamo la risposta a questa domanda e lo facciamo proprio tramite la Festa del Buonsenso che si tiene ogni anno in paese. Ogni festa è un’occasione in cui, con l’Amministrazione Comunale, cerchiamo di offrire possibili diverse visioni del buonsenso. Temi centrali delle passate edizioni sono stati, ad esempio, il risparmio idrico, il problema dello smaltimento dei rifiuti, la legalità, l’accoglienza, il risparmio energetico. Com’è collegata la figura di padre Pino Puglisi con il buonsenso? In occasione della decima edizione della Festa del Buonsenso, dal tema “Il senso della Legalità”, abbiamo dedicato il nostro piccolo parco urbano di Monsano alla figura di padre Puglisi e, cercando di conoscerlo meglio, ne siamo rimasti affascinati; di lui sono noti solo gli ultimi tre anni a Brancaccio, in realtà la sua figura è molto più complessa e si snoda nell’arco dell’intera vita in cui egli si dedicò a tutti quelli che avevano perso la propria dignità, cercando di ridarla loro. Cercavamo un eroe e abbiamo scoperto un uomo umile, lontano dai 56Primapagina riflettori, il cui scopo era quello di dedicarsi agli altri, senza cercare un palcoscenico: quanto di più distante ci viene proposto dai media. Padre Pino Puglisi era un vero uomo del buonsenso. E quindi dall’amore per questa figura è nata l’idea di questo libro, che però non è una biografia… No, infatti. Abbiamo deciso di esplorare la vita di padre Pino Puglisi attraverso la lente delle buone pratiche. Attraverso, cioè, la sua biografia, vari documenti, testimonianze e suoi scritti siamo riusciti a trovare nove lemmi, i sentieri del titolo, che oltre a esplorare la vita di Puglisi potessero essere anche esempi per ciascuno di noi. E non è un libro che parla di mafia, quantomeno non solo. Il nostro obiettivo era di trovare concetti realizzabili da ognuno di noi secondo le proprie possibilità, attraverso l’esempio della figura di Puglisi, volutamente non un santo o un supereroe, ma una persona comune, il cui percorso fosse possibile seguire. Un po’ sulla falsa riga delle ‘Lezioni americane’ di Italo Calvino, in cui l’autore analizza la letteratura passata per dare suggerimenti a quella futura. Una struttura del libro particolare, diversa dalle classiche biografie, insomma. Un po’ un manuale, un po’ una biografia. Le voci che abbiamo isolato (Accoglienza, Dialogo, Normalità, Impegno, Silenzio, Umiltà, Legalità, Educazione, Ribellione), tra le infinite possibili legate a Puglisi, ritraggono quel tale aspetto nella figura del prete. Ad esempio, nel capitolo dedicato all’accoglienza, analizziamo la sua intera figura attraverso quel tema particolare: come l’ha vissuta, cosa ha scritto; e contemporaneamente lasciamo lungo questi sentieri dei suggerimenti per i lettori. Non lezioni, quindi, ma interpretazioni. Ogni sentiero è leggibile a sé e tutti contribuiscono a formare un mosaico completo della figura di Pino Puglisi. All’apparenza un libro complesso, ma invece scopriamo una semplice lettura. Chi sono, infatti, i destinatari dell’opera? Tutti! In particolare i giovani, gli adolescenti. Il nostro scopo è quello di rendere accessibili questi sentieri a ognuno di noi. Come diceva spesso padre Pino Puglisi, ‘se ognuno di noi fa qualcosa, insieme possiamo fare molto’. Un libro impreziosito anche da interventi importanti… Abbiamo infatti avuto l’onore di una postfazione ad opera di don Luigi Ciotti, che ha fatto della lotta alla mafia una delle sue bandiere. Quello che, però, ci riempie di orgoglio è la prefazione di suor Carolina Iavazzo, amica di Puglisi e testimone degli eventi di cui parliamo nel libro. Abbiamo voluto fosse di buonsenso anche il prezzo, solo 10 euro: il volume, oltre ad avere un inserto a colori, è realizzato in carta riciclata. Per info e prenotazioni: [email protected] attualità e TERRITORIO di Fernando Pallocchini Gabriella Zagaglia e la vibrazione cosmica G abriella Zagaglia, artisticamente, vive una continua fase evolutiva da non scambiare per semplice ricerca di materiali, tecniche espressive e figurazioni da proporre ogni volta. Il suo è un rinnovamento che si muove di pari passo con la sua crescita personale, e le permette una sempre maggiore incisività nel suo essere interprete del mondo che la circonda. Un mondo che lei, più che osservare, vive profondamente percependone, in essenza, quelle sensazioni che solo gli artisti sanno, se non sempre capire scientemente, quantomeno intuire: canalizzazione, oggi si usa dire. Sensazioni riversate su tele vestite di reminiscenze figurative, cui le pennellate danno multiple valenze simboliche, fatte di vibrazioni e di messaggi. Una sorta di ultracognizione che parte dall’oggi oggettivo del mondo reale (non quello “virtuale” troppo spesso impostoci, teso a mascherare discrepanze e a donare infelici felicità fittizie) e sconfina in un tempo senza tempo, dove tutto è momento. Le città di Gabriella Zagaglia sono spesso ritratte nel buio, angosciante per chi lo vede tale, ma ricco di umanità che genera e narra vicende fatte di passioni, altalenanti in contrapposizioni continue di bene e male. E nell’oscurità ammiccano le luci che raccontano di appartamenti, di stanze, di persone, soprattutto brillano con la forza di promesse lontane. La natura è presente, circonda ogni azione umana, madre attenta, affettuosa e gentile, pur maltrattata. Tutto è percorso da una vibrazione, che è superamento del futurismo meccanico intriso di veloci metalli in quanto va oltre e volge la sua attenzione non al manufatto dell’uomo ma all’uomo stesso. L’artista percepisce l’umanità come parte integrante del cosmo, della vibrazione universale che unisce esseri e cose e la manifesta nelle sue tele con moti ascensionali che, partendo dalle città, dai paesini arroccati, sfumano verso l’alto integrandosi in qualcosa di spiritualmente elevato. È un mostrare, è un donare, è un estrapolare l’essenza spirituale dell’uomo per elevarla oltre la materia, per svincolarla dalla materia . È una sorta di ricongiunzione. Un ritorno all’origine. E giù, nei caseggiati simbolo dell’operosità e della ricerca di sicurezza dell’umanità legata alla materia, vincolata alla stessa, ci sono tutte le pulsioni della nostra società che si dibatte in contrapposizioni fatte di slanci generosi e abiette manipolazioni, tra il crudo e insensibile materialismo e la ricerca spirituale più pura. È l’eterna lotta che si dipana nel percorso dell’esistenza tra la vita e la morte, entrambe necessarie l’una all’altra, vincolate e ineludibili; tra il bene e il male, con il secondo “male necessario” per la comprensione del primo. L’artista sente e vive tutto questo e lo racconta nei suoi lavori, dove la sintesi poetica va cercata e interpretata perché la distorta figurazione è parvenza, al pari delle ombre che, in questo nostro tempo, nascondono e distorcono il reale. Ovunque, immanente, è l’attesa. si evince in presenza dei paesi, siano questi posti in basso o in un angolo o altrove nella tela. Nelle opere più recenti, a scapito di una figurazione decisamente accattivante, c’è una semplificazione delle masse, una maggiore capacità di sintesi che, eludendo una forma per così dire “barocca”, rende di più immediata comprensione il messaggio sostanziale. Addirittura il paesaggio è arrivato a essere scomposto tanto da fondersi con l’atmosfera per raggiungere una vibrante congiunzione dei vari elementi che, inevitabilmente e scientemente, porta a una visione cosmica del tutto. Gabriella Zagaglia firma le sue opere con lo pseudonimo di Zagà. È nata a Loreto nel 1959 e ha conseguito, a soli 18 anni, la maturità artistica presso l’Istituto Statale d’Arte “Cantalamessa” di Macerata con il massimo dei voti. In seguito si è dedicata ai problemi psicomotori dei bambini, laureandosi in Fisioterapia e specializzandosi a Parigi in Arteterapia e sviluppo del disegno nel bambino. Solamente in quest’ultimo decennio ha ripreso l’attività artistica personale ottenendo consensi dalla critica e riconoscimenti dai collezionisti privati, grazie alla sua ricerca espressiva mirata al raggiungimento di un linguaggio cosmico. A livello estetico le opere di Gabriella Zagaglia hanno una resa altissima dovuta al sapiente accostamento dei toni freddi e caldi che con la loro alternanza danno un sostanziale equilibrio alla composizione, anche quando le masse occupano una sola sezione del dipinto. Circostanza che primapagina57 attualità e TERRITORIO di Ivana Baldassarri Vangi nello stupendo scenario di Arezzo N ella bellissima cattedrale duecentesca dei Santi Piero e Donato di Arezzo, che evoca nelle sue forme gotiche i grandi templi del Nord Europa, sono scesi, bellissimi gli angeli di Giuliano Vangi, pronti ad accogliere le solennità delle celebrazioni dei riti cristiani. Nel grande presbiterio dominato dalla candida arca lapidica di San Donato, Vangi ha appoggiato, e sembrano veramente scesi dal cielo, l’altare, l’ambone e la sede vescovile: tre oggetti, tre sculture, tre racconti che attraverso la creatività dell’arte sanno trasmutare l’inerzia della materia in catechesi, in apparizione, in Vangelo. Vangi non è nuovo agli inserimenti prodigiosi e spesso scioccanti delle sue sculture mozza fiato in architettu- 58Primapagina re che credevamo ormai fissate in un loro assoluto e fideistico ed estetico. In Arezzo, forse pensando a tutta la tradizione storica e artistica toscana che lo ha sempre nutrito, Vangi si è in- serito nella grandiosità della Cattedrale con delicata naturalezza concependo accostamenti armoniosissimi che, complici le materie più strane, e quel gruppo di artigiani di tipo rinascimentale che ha “tirato su” come si faceva una volta nelle antiche botteghe, hanno dato vita ad un complesso prezioso che invita ad una spiritualità alta, che sa ripercorrere le vie della preghiera privata e della storia cristiana. Giuliano Vangi è il gran mago di materie vecchie e nuove che sono il suo lessico geniale e composito, le sue parole poetiche per una attenta analisi esistenziale, per l’identificazione di un sogno o di un disagio, una sorpresa e ora per un incantamento celeste. La materia riceve da lui una sommossa plastica che sa impaniare la luce nei volumi e nei contorni come fosse una “luce zenitale”, un trasalimento, una rivelazione. Marmo bianco per la mensa quadrata sorretta e sostenuta dalle ali di un angelo, sceso un attimo fa, con vaporosi capelli d’oro, fuso in una lega di bronzo e nichel in contrasto materico, che ha anco- attualità e cultura ra negli occhi lucenti e nel gesto del corpo l’ebbrezza del grande volo; ha ancora in mano il ramo d’ulivo della pace perché sa che quella “Mensa”, luogo bianco e splendente, si imbandisce ogni volta per invocare la pace del mondo. Marmo bianco per la cattedra, solenne nella sua severità di forma icastica, fregi di piante in bassorilievo, qualche accenno ad episodi della vita del santo e niente schienale per non interferire con la splendida e dominante arca di San Donato che fa da sfondo.E poi l’ambone, quasi una culla, quasi un sepolcro dove la vita e la morte si incontrano nella parola, nel Verbo dell’officiante. Guardando l’angelo dell’ambone, bello, biondo, sorridente, con gli occhi azzurri come tutti gli angeli del Cielo, sfiorato da una ventosità impressa dal recente volo, che non ha ancora del tutto toccato la terra, si capisce che lui non è in attesa di Dio, ma aspet- ta che l’Uomo vada verso Dio e che lui è lì, pronto per accompagnarlo verso la luce di cui è testimonianza; fa pendant all’angelo meraviglioso, una composizione di alberi in marmo cipollino, simbolo di quegli alberi del Golgota che ascoltarono i lamenti del Morente, appena accennato nel bassorilievo sulla struttura portante, come fosse la controfigura dell’angelo. Sorride Vangi quando parla di questo angelo biondo come se fosse il superamento di quell’immagine di Uomo chiuso nel plexiglass, disperato e solo. Questo angelo immagine di luce, di libertà e d’armonia, è lo stesso che ha annunciato alle donne la Resurrezione, con la consapevolezza di proclamare la salvezza e il riscatto. Il volto dell’angelo esce dal biancore del marmo come un fiore dalla brattea e con la delicatezza che Vangi vi prodiga; l’angelo è tutto sotto il segno della luce, in una forma di luminismo che è quella degli astri che brillano di luce propria nel cosmo. Tutta la composizione, è percorsa da un brivido luminoso che genera un fenomeno di risonanza rimandato dalle colonne, dagli archi, dalla antica arca bianca e dagli affreschi, un fenomeno di armonia istintivamente misurata e prevista dalla creatività artistica di Vangi e concentrata in un respiro senza fine, in un processo di acquisizione e di arricchimento che non può fare a meno della memoria storica e della Fede. Lo scultore Vangi diventa così, attraverso le sue opere altissime, testimonianza di storia umana e divina insieme. Con la visita del Papa nel Duomo di Arezzo sono arrivati tutti i grandi di oggi; quelli di ieri c’erano già stati, da Arnolfo di Cambio, Andrea Pisano, Donatello, Michelangelo, Canova, Rodin, Wildt, Moore, Martini, Manzù, Giacometti e tanti altri; se non altro per complicità di mestiere! primapagina59 attualità e TERRITORIO XII Festival Pergolesi Spontini e 45^ Stagione Lirica del Teatro Pergolesi di Jesi L a Fondazione Pergolesi Sponti“V. Bellini”. Maria Aleida interpreta ni, vincitrice nel 2011 del XXXI Elvira, Luca Tittoto è Sir Giorgio, Yijie Premio della critica musicale “Franco Shi è Lord Arturo, Julian Kim è Sir RicAbbiati” per l’integrale delle opere di cardo Forth, Elide De Matteis Larivera Pergolesi nell’ambito delle Celebrazioè Enrichetta di Francia, Luciano Leoni ni Pergolesiane a Jesi, produce nel 2012 è Lord Gualtiero Valton, Dario Di Viequattro titoli d’opera. tri è Sir Bruno Roberton. “Macbeth” di La prima esecuzione in epoca moderna Verdi, in scena da mercoledì 7 novembre de “La fuga in maschera” di Gaspare alle ore 21 (repliche venerdì 9 novembre Spontini, commedia per musica in due ore 21 e domenica 11 novembre ore 16, atti su libretto di Giuseppe Palomba, anteprima giovani il 5 novembre) è un ritenuta perduta ed il cui manoscritto nuovo allestimento della Fondazione autografo è riapparso presso una casa Pergolesi Spontini in coproduzione con d’aste londinese, inaugura al Teatro la Fondazione Teatro Lirico G. Verdi di Pergolesi di Jesi venerdì 31 agosto alle Trieste e la Fondazione Teatro Carlo Feore 20 il XII Festival Pergolesi Spontini lice di Genova. (replica domenica 2 settembre ore 20) La direzione è di Giampaolo Maria Biche prosegue fino al 16 settembre con santi, nella compagnia di canto Macbeth Foto © Benito Leonori concerti, spettacoli ed eventi dedicati ai è Luca Salsi, Lady Macbeth è Tiziana temi del travestimento e della trasformaCaruso, Banco è Mirco Palazzi, Maczione. L’opera andò in scena solo una volta, al Teatro Nuovo duff è Ji Myung Hoon, Malcolm è Thomas Yun. I costumi di Napoli in occasione del carnevale del 1800; la partitura, sono di Nanà Cecchi. La “Lucia di Lammermoor” di Doniritenuta scomparsa, è stata ritrovata nel 2007 ed acquistata dal zetti, in scena da venerdì 23 novembre alle ore 21 (repliche Comune di Maiolati Spontini. Il Festival Pergolesi Spontini sabato 24 ore 21 e domenica 25 novembre ore 16, con anne mette in scena la revisione critica di Federico Agostinel- teprima giovani il 22 novembre), è un nuovo allestimento li in un nuovo allestimento in coproduzione tra Fondazione della Fondazione Pergolesi Spontini in coproduzione con i Pergolesi Spontini e il Teatro San Carlo di Napoli, con la re- Teatri del Circuito Lirico Lombardo, il Teatro dell’Aquila di gia di Leo Muscato, le scene di Benito Leonori, i costumi Fermo, il Teatro Coccia di Novara ed il Teatro Alighieri di di Giusi Giustino, light designer Alessandro Verazzi. Corrado Ravenna. Direttore è Matteo Beltrami; nel doppio cast in cui Rovaris dirige I Virtuosi Italiani, una delle formazioni più at- si alternano Julian Kim (Lord Enrico Asthon), Sofia Mchetive e qualificate nel panorama musicale internazionale. Nel dlishvili (Miss Lucia) e Gianluca Terranova (Sir Edgardo di cast, interpreti di spicco quali Ruth Rosique (Elena), Caterina Ravenswood) con i giovani vincitori del Concorso AsLiCo. Di Tonno (Olimpia), Alessandra Marianelli (Corallina), Cle- Lord Arturo Bucklaw è Matteo Falcier, Raimondo Bidebent mente Daliotti (Nardullo), Filippo Morace (Marzucco), Ales- è Giovanni Battista Parodi, Alisa è Cinzia Chiarini. I costumi sandro Spina (Nastagio), Dionigi D’Ostuni (Doralbo). sono di Patricia Toffolutti. La 45^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi è dedicata a Josef Svoboda nel decimo anniversario dalla Per info: sua scomparsa, e di cui verranno riproposti due celebri alle- www.fondazionepergolesispontini.com stimenti: “Macbeth” e “Lucia di Lammermoor”, ad opera di Biglietteria Teatro Pergolesi: tel. 0731-206888 Henning Brockhaus per la parte registica e di Benito Leonori (già assistente di Svoboda) per le scene. L’inaugurazione è mercoledì 3 ottobre con “I Puritani” di Vincenzo Bellini (repliche venerdì 5 ottobre ore 21 e domenica 7 ottobre ore 16, anteprima giovani lunedì 1 ottobre ore 16) in un allestimento in coproduzione con i Teatri del Circuito Lirico Lombardo. L’opera torna sul palcoscenico del ‘Pergolesi’ dopo 161 anni: vi fu rappresentata per la prima e unica volta nel 1851. La regia è di Carmelo Rifici, le scene di Guido Buganza, i costumi di Margherita Baldoni. La direzione d’orchestra è affidata al giovane direttore marchigiano Giacomo Sagripanti sul podio della FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana. Canta il Coro Lirico Marchigiano 60Primapagina attualità e TERRITORIO di Loretta Fabrizi Simone Massi storie a matita Come NASCE UN CORTOMETRAGGIO D avid di Donatello 2012 per il miglior cortometraggio all’intenso e suggestivo disegno animato di Simone Massi. “Questo premio arriva da lontano – ha dichiarato l’artista e filmaker marchigiano alla cerimonia di premiazione – , è una piccola storia che parla di colline, di cani, di animali, di animali ammazzati e che voglio dedicare ai contadini, agli operai e ai partigiani”. Nato a Pergola nel 1970 da una famiglia di origini contadine, operai ed emigranti, ex operaio egli stesso, a ventitré anni decide di seguire la sua passione per il disegno e frequenta il corso di cinema d’animazione presso l’Istituto d’Arte di Urbino diplomandosi con lode nel 1996. Temperamento schivo e poco incline a farsi avanti, operatore solitario e indipendente, in diciotto anni di attività ha realizzato una quindicina di piccoli film presentati nelle più prestigiose rassegne internazionali del settore che hanno raccolto oltre duecento premi. Dell’ammazzare il maiale è l’ultimo lavoro di una serie di microstorie ispirate alla nostra terra marchigiana, il paesaggio, la campagna, la gente, i ricordi, con racconti che assomigliano a sogni: Tengo la posizione del 2002, Piccola mare del 2003, con la voce narrante di Marco Paolini, Io so chi sono del 2004, La memoria dei cani del 2006 e Nuvole mani del 2009. Tre anni di lavoro mediamente per otto minuti di animazione di circa millecinquecento disegni, tre tavole al secondo, per lo più in bianco e nero, rigorosamente fatte a mane, con la musica di Stefano Sasso, anche lui ormai marchigiano, che disegna con il suono quello che nell’immagine non c’è, che non si vede, completando il racconto con i rumori delle cose, gli echi delle notti lunari, il crepitio delle fiamme sul focolare, l’abbaiare lontano dei cani, il verso degli animali, su un tappeto sonoro di fondo di natura elettronica. Massi disegna con una varietà di strumenti, carboncino, pastelli, grafite, ma da La memoria dei cani l’utilizzo dei pastelli ad olio stesi sul foglio e graffiati con gli strumenti da incisione è diventato il suo tratto inconfondibilmente originale. Lo stile di regia si avvale del piano sequenza, ovvero dell’inquadratura lunga che esalta l’autonomia del segmento narrativo e rende fluida e senza stacchi la narrazione; a questo si aggiunge il movimento di camera in avanti, lo zoom, che si presta a mostrare le cose dentro le cose “perché credo che da lontano le cose siano un po’ bugiarde e solo av- vicinandoci scopriamo la realtà; a volte sono sorpreso di come una forma possa mutare e da vicino mostrare altri aspetti”. E’così che nasce la fantastica metamorfosi delle sue immagini che si formano l’una dall’altra, si scompongono, sovrappongono, compenetrano, in un gioco dello sguardo che insegue un infinito spazio leopardiano, dall’alto a volo d’uccello si cala sulle cose, le case, i tetti, le colline, vi si appoggia, si appunta su dettagli significativi penetrandoli e abitandoli da dentro, mescolando sogno e realtà. Dell’ammazzare il maiale è un piccolo grande capolavoro ispirato alle ritualità cicliche della vita contadina. Il soggetto, il maiale, non c’è, evocato da un fil rouge, letteralmente, che corre lungo i fotogrammi, lega i passaggi di inquadratura, muta in cappio, stringa, fenditura, lama, ferita per sciogliersi infine nel volo liberatorio di un fagiano multicolore. Il vero soggetto è la memoria, il ricordo nostalgico e incantato, filtrato dallo sguardo del bambino che l’artista stesso è stato, al banco di prova delle prime incomprensibili crudeltà del mondo dei grandi. “Sono libero – dichiara l’artista – miro ad un punto preciso che ha a che fare con la memoria e con l’anima, animazione viene da anima, soul, che è fatto di silenzi, di spazi vuoti e di sensazioni difficili da descrivere a parole. Quello che voglio fare è poesia, o meglio haiku: un piccolo viaggio che ha come meta lo smarrimento e il perdersi”. Ma, il senso profondo di ogni viaggio è il ritorno, il ritorno a se stessi e alla propria identità: Io so chi sono / sono mio nonno e mio padre / ogni faccia che ho visto e incontrato, baciato / io so chi sono / sono la casa dove sono nato / i posti di cui ho letto, sognato / le strade, i tetti e la terra / chiusi dentro la valigia mia / dentro le nuvole della pipa mia / dentro il vino del bicchiere mio / io so chi sono. primapagina61 PRODOTTI DI MARCA Parte la sfida tra comuni per ridurre il consumo di shopper monouso, ci guadagna la scuola locale È ufficialmente aperto il bando per la prima edizione di “Sfida all’Ultima Sporta”, l’iniziativa promossa dall’Associazione dei Comuni Virtuosi, con il patrocinio del ministero dell’Ambiente e dell’Anci. Si tratta di una competizione riservata ai comuni che hanno raggiunto il 60% di raccolta differenziata nel 2011 e con una popolazione compresa tra gli 8000 e i 16000 abitanti. L’iniziativa, promossa all’interno del progetto di Porta la Sporta, offre l’occasione per fare riflettere le comunità coinvolte – ma non solo- sulle conseguenze che gli attuali stili di vita “spreconi” hanno sull’ambiente e per spingerci ad adottare nuovi comportamenti consapevoli e più rispettosi del nostro territorio. I comuni si sfideranno in una competizione che premierà il migliore risultato ottenuto di “uso consapevole delle risorse” con la collaborazione di tutta la comunità. L’indicatore che è stato scelto per misurare le performances dei partecipanti è rappresentato e misurato dal consumo di sacchetti monouso, in quanto esempio emblematico di un utilizzo “usa e getta”, che è necessario ridurre al minimo. Il premio è destinato alla scuola locale Concretamente il comune che, nell’arco di sei mesi, sarà più capace di ridurre il consumo dei sacchetti monouso, a livello pro-capite, otterrà un premio in denaro pari a 20.000 euro offerto da tre sponsor da destinare alla scuola locale. Il sistema di misurazione che verrà applicato si baserà sia sui dati forniti dai comuni, come numero di acquisti effettuati in supermercati e 62Primapagina negozi, sia sugli esiti dei rilevamenti effettuati dalla segreteria organizzativa e dalle sedi locali delle associazioni nazionali partner della campagna. Punti vendita della GDO e del piccolo commercio locale verranno quindi presto interpellati dalle amministrazioni comunali in possesso dei requisiti perché la loro partecipazione è indispensabile per rilevare la quantità di sacchetti risparmiati dai clienti che non prendono sacchetti monouso. “Questa iniziativa vuole essere portatrice verso l’opinione pubblica di alcuni messaggi semplici, ma importanti, che possono condurre a una maggiore sostenibilità ambientale. Il messaggio chiave è che serve una presa di responsabilità sia individuale sia collettiva che possa contrapporsi alla deresponsabilizzazione attuale, diffusa a tutti i livelli della società. Per invertire questa tendenza e cambiare i comportamenti è necessario dare esempi alternativi coinvolgendo le persone” spiegano gli organizzatori. Sei mesi di sensibilizzazione ambientale Durante i sei mesi di competizione le amministrazioni comunali coglieranno l’occasione per sensibilizzare i cittadini sulle buone pratiche che possono portare ad una riduzione dei rifiuti a cominciare da una loro prevenzione. Bevendo l’acqua del rubinetto, acquistando detersivi e detergenti alla spina, sostituendo spazzolini e rasoi monouso con versioni a testine intercambiabili, evitando le stoviglie usa e getta e incentivando l’uso tra i nei genitori di pannolini riutilizzabili è possibile ottenere importanti risparmi per singoli e collettività. Il sito di Porta la sporta ha un’apposita sezione Entra in azione (http://www.portalasporta.it/ azione_materiali.htm) con varie sezioni dedicate ai singoli, attività commerciali, amministrazioni comunali ricche di spunti su come diminuire il volume della nostra pattumiera. Gli sponsor La versione nostrana può essere lanciata grazie al contributo complessivo di 20.000 euro che verrà donato al comune vincitore da tre sponsor: BancaMarche, sponsor principale, Frà Production, con il suo marchio Ecottonbag e Novamont. BancaMarche è stata l’unica banca ad aver aderito alla campagna diffondendo attraverso l’estratto conto un messaggio ad hoc ai propri correntisti e regalando loro borse riutilizzabili. Frà Production come unica azienda italiana che produce su scala industriale borse a rete realizzate totalmente in Italia è già da tempo partner tecnico dell’iniziativa Mettila in rete che propone l’affiancamento di una soluzione riutilizzabile in tutti i settori ortofrutta della GDO. Le buone pratiche attraversano l’oceano Sfida all’ultima sporta diventerà la seconda iniziativa internazionale del suo genere. Si ispira infatti a “Reusable Bag Challenge” che ha visto fronteggiarsi nel 2009, in Colorado, oltre 30 cittadine e un’intera contea in una gara a quale comunità consumava meno sacchetti. Tutti i dettagli sull’iniziativa si trovano sul sito di Porta la Sporta http:// www.portalasporta.it/index.htm PRODOTTI DI MARCA di Marina Argalìa* BancaMarche per l’educazione finanziaria dei giovani L’ economia non è una materia facile da affrontare, tanto che l’Indice di Cultura Finanziaria per l’Italia, elaborato da PattiChiari, si è fermato a 4,3 punti – su una scala da 1 a 10 - e la fascia d’età che desta le maggiori preoccupazioni è proprio quella dei giovani che registrano mediamente il più basso livello di cultura finanziaria in Italia. Tale contesto genera nuove opportunità per affrontare una materia che, sebbene indispensabile per gestire le complessità economiche quotidiane, non trova sufficiente spazio nell’offerta formativa attuale. “L’impronta Economica TEENS” di PattiChiari è un programma gratuito di educazione finanziaria rivolto alle scuole superiori di II grado italiane che, nell’anno scolastico 2011-2012, ha coinvolto circa 12.000 studenti in 32 province, con l’obiettivo di fornire le conoscenze di base sui servizi bancari, il sovraindebitamento, l’accesso al credito e il Business Plan. Nelle scuole delle Marche, attraverso l’intervento formativo degli esperti di BancaMarche, i ragazzi e i loro insegnanti, hanno avuto la possibilità di partecipare ad un incontro preliminare sul tema dell’economia con l’obiettivo di sviluppare un vero e proprio Business Plan, ovvero un progetto di impresa socialmente utile Il Capo Area Commerciale di BancaMarche premia la classe vincitrice del concorso PattiChiari e radicato sul territorio da inoltrare attraverso l’utilizzo di un software online sviluppato appositamente dal Consorzio PattiChiari. Il 31 maggio, presso la direzione Generale di BancaMarche, si è svolto l’evento di premiazione per le Marche del Concorso “Sviluppa la tua idea imprenditoriale”, collegato al modulo didattico “L’impronta Economica TEENS”, che ha visto la partecipazione dei ragazzi delle classi aderenti sapientemente coordinati dal DJ Alvin di Radio Arancia Network. La classe vincitrice per le Marche, è la III A programmatori dell’Istituto CUPPARI di Jesi, guidata da Paola Benigni, con il progetto “Banca del Tempo” diretto a realizzare un’associazio- La III A programmatori dell’Istituto Cuppari di Jesi vince il premio per le Marche *Servizio Marketing ne di promozione sociale in cui si possa scambiare tempo invece di denaro. Sostanzialmente un Istituto di Credito particolare a cui ricorrere se si ha bisogno di servizi quali la cura dei bambini o della persona, l’assistenza degli anziani, il bricolage, i lavori domestici, il disbrigo di pratiche, l’insegnamento, le consulenze professionali, un supporto per fare i compiti eccetera. Il valore in ore di questi servizi verrà pagato con altrettante ore, dei servizi più disparati, messe a disposizione dell’associazione da chi ne ha usufruito. Il tutto con un conto corrente in ore e un regolare estratto conto. La classe vince un viaggio a Roma di 3 giorni per partecipare alla selezione nazionale del concorso che si terrà il prossimo 5 ottobre alla presenza di una prestigiosa giuria composta da imprenditori, giornalisti, professori universitari, esponenti della Commissione Europea e delle Istituzioni italiane, la quale proclamerà il vincitore finale dell’edizione 2011-2012. E se la classe finalista a livello nazionale fosse anche quest’anno quella di BancaMarche? Si confermerebbe, con un risultato tangibile, il valore del nostro impegno quotidiano a sostegno dei bisogni del territorio. BancaMarche crede nell’educazione finanziaria perchè i giovani sono il nostro futuro. primapagina63 PRODOTTI DI MARCA di Marina Argalìa* Ecco i nuovi testimonial della Campagna sul Conto Corrente MY di BancaMarche E ssere “testimonial” di un’azienda o di un prodotto significa essere clienti e utilizzatori del prodotto che testimoniano a favore della marca e del prodotto. Sostanzialmente i testimonial confermano al mercato di riferimento, con il sorriso, la cordialità, la competenza e le qualità morali di cui sono implicitamente portatori, il valore del brand o del prodotto pubblicizzato. A volte questo termine è però usato impropriamente per gli “endorser” ovvero i personaggi famosi che, profumatamente pagati, pubblicizzano prodotti di cui fanno uso durante la loro attività sportiva o artistica. Già dalla nascita, per l’immagine pubblicitaria del Conto MY di BancaMarche, è stata adottata l’idea di fotografare delle persone reali, che non fossero dei modelli, persone che potessero essere effettivi portatori dei vantaggi del prodotto. Nella prima campagna pubblicitaria è stato dato risalto alle caratteristiche del conto senza mostrare i volti dei due personaggi che sarebbero apparsi successivamente. Era quindi già nella genesi del pacchetto MY, l’evoluzione della prima campagna in una seconda che svelasse i volti dei testimonial. Il momento è arrivato! Con la promozione a premio “Porta un amico e partecipi al casting del Conto MY di BancaMarche” diretta a tutti i correntisti del pacchetto giovani, BancaMarche ha voluto dare seguito al progetto per scegliere i suoi testimonial. La promozione, pubblicizzata tramite la MY newsletter che ogni mese propone ai giovani notizie e novità del mondo BancaMarche, proponeva, a tutti i correntisti MY che presentavano un amico sottoscrittore del Conto MY, una ricarica telefonica da €10 e la partecipazione di entrambi al casting fotografico per diventare testimonial della nuova Campagna MY 2012 in cui BancaMarche avrebbe svelato il volto dei due giovani della campagna attuale. Dall’evento del 20 Aprile scorso organizzato a Jesi, presso la Direzione Generale di BancaMarche per il casting fotografico, la giuria ha scelto i due nuovi volti del Conto MY: si tratta di Erika Bernini, 18 anni, di Pesaro e di Davide Demontis, 23 anni, di Jesi. Durante l’evento, sono state scattate le foto e i partecipanti sono stati coinvolti in una video intervista, il tutto accompagnato dalla simpatia di DJ Alvin e da un gustoso aperitivo. Davide ed Erika sono quindi diventati testimonial ufficiali del conto giovani di BancaMarche e presto li vedremo anche in tutte le filiali. Finalisti e organizzatori all’evento per il casting fotografico del conto MY di BancaMarche 64Primapagina BancaMarche crede nei giovani perché sono il nostro futuro. Seguici sulla MY newsletter, per non perdere le iniziative BancaMarche dedicate ai giovani! *Servizio Marketing PRODOTTI DI MARCA di Carla Branchetti* Seconda edizione per i “Gazebo Day” di BancaMarche Carla Branchetti della Direzione Centrale Rete Distributiva di BancaMarche al XVII Meeting Regionale CNA Pensionati A ncora si parla della necessità per le banche di uscire dalle filiali e coinvolgere le persone parlando un linguaggio semplice e diretto. Per far questo, la politica di marketing territoriale di BancaMarche ha inaugurato, ormai da due anni, l’utilizzo di uno stand, utile a presidiare gli eventi organizzati dalla banca e non solo, presso i quali essere presenti in modo visibile ed efficace. I “Gazebo Day 2012” sono stati incentrati in particolare su tre prodotti: ON CARD MY ovvero la nuova carta prepagata di BancaMarche; Conto Sconto Plus, il conto sempre più amato dalle Famiglie e la raccolta amministrata con l’iniziativa “Sposta il dossier titoli da noi… una mossa ancor più vincente!”. I consulenti delle 40 Filiali e delle 15 Zone che hanno presidiato i principali eventi dell’estate del cen*Direzione Centrale Rete Distributiva tro Italia, hanno intrattenuto clienti e potenziali presso gli stand consegnando gadget e raccontando i nostri prodotti cercando di cogliere, come sempre, le reali esigenze del pubblico. Sono occasioni di contatto importanti perché, fuori dall’ambiente certamente più formale della Filiale, le persone sono più accoglienti ed aperte, più disposte a raccontarsi e ad ascoltare. Il brand della Banca viene rafforzato passando attraverso l’experience del cliente sviluppata durante un evento ludico che ha permesso ad ognuno di conoscere nuove persone o vedere le stesse sotto un’altra luce. Eventi e Territorio si confermano connubio vincente anche per fare banca e per dare valore a chi, come BancaMarche, il territorio lo sostiene da sempre. Lo scorso 8 Maggio si è svolto presso il Palaterme di Riccione il XVII Meeting Regionale di CNA Pensionati. All’iniziativa hanno partecipato oltre 500 ospiti associati a CNA, provenienti da tutte le province dell’Emilia Romagna. L’iniziativa ha trattato il tema del Turismo Sociale e del Marketing Territoriale, ampiamente discusso dai relatori presenti fra i quali ricordiamo Fabio Giungi Presidente CNA Pensionati Emilia Romagna e il Sindaco del Comune di Riccione Massimo Pironi. È anche intervenuta Carla Branchetti, in rappresentanza di BancaMarche, che ha parlato dei principali prodotti dedicati al target dei Pensionati. L’iniziativa, sponsorizzata dalla banca e da CNA Unione Artistico Tradizionale, ha coinvolto gli artigiani locali che hanno esposto i propri prodotti tipici alimentari ed artistici. Notevole l’afflusso al Gazebo BancaMarche presso il quale sono stati consegnati vari gadget molto graditi dal pubblico. primapagina65 PRODOTTI DI MARCA di Filippo Cantarini* Un prestito per studiare senza interessi e senza spese P er essere ancor più vicina alle esigenze delle famiglie messe a dura prova dall’attuale situazione economica, BancaMarche ha aumentato a €900 l’importo del “prestito personale per fini scolastici” diretto agli studenti. Tale iniziativa, che BancaMarche promuove da diversi anni, ha l’obiettivo di supportare le famiglie con un reddito ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) non superiore a €30.000, che all’inizio di ogni anno scolastico o accademico si trovano ad affrontare un esborso finanziario per il pagamento di libri scolastici, testi universitari, tasse scolastiche ed universitarie e materiale didattico in genere. Il prestito può essere concesso anche direttamente allo studente, se maggiorenne. Il prestito, senza interessi e senza spese, prevede un importo fisso di €900 a studente, da rimborsare mediante 12 rate mensili di €75 ciascuna, corrispondenti alla sola quota capitale. Per richiedere il finanziamento è necessario presentare in Filiale, oltre ai documenti di rito, apposita documentazione attestante il requisito di reddito (attestazione ISEE del nucleo familiare aggiornata) e l’iscrizione al corso di studi. L’iniziativa ha riscontrato negli anni un interesse crescente perchè rappresenta un valido strumento per sostenere le famiglie con figli in età scolare. BancaMarche si conferma punto di riferimento del territorio, soprattutto per l’offerta di credito. 66Primapagina *Servizio Marketing