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Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche
Settembre 2012
n.61
Lauro Costa:
la piccola grande
banca di casa
Tara Ghandi,
sentire la propria
coscienza
Elif Shafak la
voce della Turchia
Fantastichini e la
fanta... scienza
Istao, il profilo
di un sogno
Giovane favoloso
Giacomo Leopardi
sommario
FOCUS
Jesi Cube, un’idea per favorire la nascita di nuove imprese di Fabio Lo Savio....................... 5
A COLLOQUIO CON
BancaMarche? “La piccola grande banca di casa” di Mauro Bignami..................................... 6
ISTAO, il profilo di un sogno di Agnese Testadiferro............................................................... 8
Leggere il territorio, trasformarlo in valore di Lucia Cataldo................................................ 10
Incontro con Tara Gandhi all’Università di Macerata di Simonetta Cipriani......................... 12
Elif Shafak, la maggiore scrittrice turca di Giovanni Filosa.................................................. 14
Etica e professionalità al servizio del mondo di Matteo Tarabelli......................................... 16
Kalòs kai agathòs: lo sguardo sul mondo di Maria Grazia Capulli,
la popolare giornalista del Tg2, inviato speciale per la cultura di Pamela Temperini............ 18
L’attore Ennio Fantastichini, che adora la fanta... scienza di Paola Stefanucci..................... 20
Giovane favoloso Giacomo Leopardi di Silvia Barocci......................................................... 22
A colloquio con Juliet Gael:
dall’America all’Italia, passando per Parigi di Chiara Giacobelli......................................... 24
30 anni di Martin Mystère? Molto ben portati di Federica Grilli.......................................... 26
Girl Geek Dinners Marche Donne alla conquista dei Nuovi Media di Giulia Pieretti........... 28
H.H. La lunga corsa di Mauro verso
la meravigliosa umanità del suo grattacielo di Francesca Pieroni......................................... 30
Luigi Teodosi, fanciullo o sovversivo? di Giancarlo Bassotti................................................ 32
ATTUALITÀ E CULTURA
Arturo Ghergo: l’immagine della bellezza di Michele De Luca............................................. 34
Scultura più vera del vero di Johannes Genemans di Armando Ginesi.................................. 36
Piccolo Pantheon Personale: era bella o no la Prima Repubblica? di Alberto Sensini........... 37
A Michele Ambrosini la “Paul Harris Fellow” del Rotary di Barletta di Mauro Lopizzo...... 40
“Canterò per Te”, la chitarra di Dodi Battaglia fa vibrare 4.000 cuori di Talita Frezzi......... 41
Sferisterio sul solco della tradizione di Ilaria De Maximy e Stefano Gottin.......................... 42
ROF: “Ciro in Babilonia”, ossia quando la realizzazione è migliore dell’opera.
Mariotti jr. e Florez sugli scudi nella ripresa della “Matilde di Shabran” di Stefano Gottin...... 44
Sesta edizione del Premio Vallesina a Villa Salvati di Tiziana Tobaldi.................................. 46
Il Polittico di San Domenico del Lotto tornato all’originale splendore di Marta Paraventi........47
Pane e tulipani, quando la realtà non è un film di Pietro Balducci......................................... 48
Idee e proposte sul mondo, ecco “l’Effetto Domino” di Diego Pierini di Talita Frezzi......... 49
Bere con un occhio all’etichetta responsabile di Giovanni Filosa......................................... 50
Le vele di Frusaglia di Lorenzo Verdolini............................................................................... 52
La Fondazione Colocci, per la formazione professionale di Pietro Balducci........................ 54
LIBRANDO
Il libro “La S.A.F.F.A. di Jesi” di Agnese Testadiferro........................................................... 55
Il buonsenso di Padre Pino Puglisi nel libro di Mauro Rocchegiani di Ilaria Cofanelli........ 56
ATTUALITà E TERRITORIO
Gabriella Zagaglia e la vibrazione cosmica di Fernando Pallocchini.................................... 57
Vangi nello stupendo scenario di Arezzo di Ivana Baldassarri.............................................. 58
XII Festival Pergolesi Spontinie 45^ Stagione Lirica del Teatro Pergolesi di Jesi . .............. 60
Simone Massi storie a matita di Loretta Fabrizi..................................................................... 61
PRODOTTI DI MARCA
Parte la sfida tra comuni per ridurre il consumo
di shopper monouso, ci guadagna la scuola locale................................................................. 62
BancaMarche per l’educazione finanziaria dei giovani di Marina Argalìa............................ 63
Ecco i nuovi testimonial della Campagna
sul Conto Corrente MY di BancaMarche di Marina Argalìa................................................. 64
Seconda edizione per i “Gazebo Day” di BancaMarche di Carla Branchetti........................ 65
Un prestito per studiare senza interessi e senza spese di Filippo Cantarini........................... 66
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Periodico di informazione, attualità e cultura di BancaMarche
Settembre 2012
n.61
BANCA DELLE MARCHE S.p.A.
Sede sociale
Via Ludovico Menicucci 4/6, Ancona
Lauro Costa:
la piccola grande
banca di casa
Tara Ghandi,
sentire la propria
coscienza
Elif Shafak la
voce della Turchia
Fantastichini e la
fanta... scienza
Istao, il profilo
di un sogno
Giovane favoloso
Giacomo Leopardi
Direzione generale
Centro direzionale Fontedamo,
Via Alessandro Ghislieri 6, Jesi
Capitale sociale:
662.756.698,76
Banca dal 1841
40.000 azionisti circa
312 filiali
3.120 dipendenti
Direttore generale
Massimo Bianconi
Vicedirettore generale
Leonardo Cavicchia
Stefano Vallesi
Pier Franco Giorgi
@
Mandate alla redazione i vostri
commenti e suggerimenti.
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Presidente
Lauro Costa
Vicepresidenti
Michele Giuseppe Ambrosini (vicario)
Federico Tardioli
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Anno XV n. 61 - Settembre 2012
Direzione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An)
Direttore Responsabile Giovanni Filosa
Redazione Via Ghislieri, 6 - Jesi (An)
tel. 0731/539608, fax 0731/539654
e-mail [email protected]
Editore Tecnostampa S.r.l.
Progetto grafico advcreativi
Stampa Tecnostampa S.r.l. - Recanati
Sped. abb. post. - art. 2, comma 20/B
legge 662/96 - Filiale di Ancona
Aut. Trib. di Ancona n. 25/96 del 25/9/96
Componenti
Pietro Alessandrini
Giuliano Bianchi
Alfredo Checchetto
Emanuela Scavolini
Francesco Maria Cesarini
Roberto Civalleri
Federico Valentini
Giuseppe Grassano
COLLEGIO SINDACALE
Presidente
Pietro Paccapelo
Componenti effettivi
Alberto Landi
Massimo Felicissimo
Componenti supplenti
Paolo Balestieri
Lodovico Valentini
focus
di
Fabio Lo Savio
Jesi Cube,
un’idea per favorire
la nascita di nuove imprese
“I
l Gruppo Maccaferri è disponibile
ad investire fino a cinque milioni
di euro in attività di venture capital per
start-up che si riveleranno innovative
e coerenti con i nostri core business,
ulteriore testimonianza della nostra
volontà di realizzare nuovi importanti
investimenti strategici in questo territorio e valorizzare i giovani talenti marchigiani, nelle cui capacità crediamo
fermamente.” Con queste parole Massimo Maccaferri, presidente del Gruppo Maccaferri, ha presentato il progetto
Jesi Cube, il 1° incubatore d’impresa
delle Marche, un’opportunità per i giovani neo imprenditori ed occasione di
rilancio del sistema industriale marchigiano - come è stato definito nel titolo
del convegno organizzato per presentare l’iniziativa che rientra nel piano
di riconversione dell’ex zuccherificio
della città di Federico II. Massimo
Maccaferri ha anche sottolineato che
“Eridania Sadam, attraverso un primo
investimento di un milione di euro ed
il comodato d’uso della sede nella quale le aziende saranno incubate, intende
supportare un progetto importante per
le Marche e vuole contribuire a dare un
nuovo impulso alla politica industriale
di un territorio a forte vocazione imprenditoriale” - ha concluso. Jesi Cube
è un’idea di Eridania-Sadam, Comune
di Jesi e Università Politecnica delle
Marche con l’obiettivo di favorire la
nascita di nuove imprese science based
con validata potenzialità, supportandole nei primi anni di vita, offrendo servizi d’accompagnamento e tutoraggio,
fornendo spazi attrezzati per ospitare le
neo-imprese, creando sinergia e stimolo reciproco tra i giovani neo imprenditori. Coloro che vorranno accedervi
partiranno da un’idea di business e
formuleranno un business plan. Se le
idee supereranno questa prima selezione a cura di un comitato paritetico
che sarà presentato nei prossimi giorni,
l’incubatore si impegnerà ad ospitare la
start-up e a seguire le successive fasi di
sviluppo dell’azienda per accelerare il
più possibile la crescita dell’impresa.
“L’obiettivo di un incubatore – ha detto Gian Mario Spacca, Presidente della
Giunta Regionale - non è tanto la for-
Il primo incubatore
d’impresa delle Marche
mazione di un manager, ma la nascita
di nuovi imprenditori. Auguro a Jesi
Cube di svolgere in pieno questo ruolo.
Il parametro per valutarne il successo –
ha aggiunto - sarà la qualità dell’output
e la crescita del fattore organizzativo
imprenditoriale che saprà generare l’investimento”. “Istituzioni, Università e
privati – ha continuato - devono lavorare insieme per creare le condizioni
migliori alla nascita di nuova imprenditorialità. Nelle Marche, regione con
la maggiore densità di imprese in Italia,
l’ambiente è favorevole e la Regione lavora per continuare a mantenerlo tale”.
La mission dell’incubatore sarà quella
di sviluppare nuovi modelli imprenditoriali in ambiti ad alto contenuto d’innovazione quali biotecnologie, energie
rinnovabili, Ict, robotica, creando valore attraverso la crescita delle aziende
incubate, attraendo investimenti privati
in capitali di rischio, e non delegando
più alle sole disponibilità pubbliche e
del credito, le principali possibilità di
finanziate l’avvio di nuove imprese.
Presente anche Michele Ambrosini,
vice presidente di BancaMarche che
nel suo intervento ha posto l’accento
su due concetti che hanno animato il
dibattito coordinato dal giornalista Rai
Paolo Notari: “BancaMarche si pone
da sempre l’obiettivo di sostenere le
aziende del territorio marchigiano e lo
dimostra ogni giorno, dati di bilancio
alla mano, con gli impieghi. Ma c’è
un’altra missione che ci sta altrettanto
al cuore e che è strettamente legata alla
precedente: la valorizzazione dei talenti, che siano essi imprenditori con le
loro aziende che necessitano di credito,
che i neo imprenditori, con il progetto
del Prestito d’Onore regionale già attivo da anni, e realizzato in collaborazione con la Regione Marche. Negli ultimi
anni infatti abbiamo stanziato fondi per
finanziare la nascita di strat-up che significano investimento sul futuro per
la rinascita economica del nostro territorio e vedendo un gruppo importante
impegnarsi per importanti investimenti,
non possiamo che essere pronti a fare la
nostra parte anche in questo progetto di
assoluto interesse.
Stiamo parlando di imprenditorialità
in settori innovativi, non tipici della
tradizione marchigiana e quindi considerabili come nuova frontiera dell’economia regionale ma, in un momento
congiunturale come questo, nessun singolo euro può essere disperso ma anzi
investito con oculatezza. Questo però
non significa non accettare il rischio
di finanziare nuove iniziative e siamo
qui in molti a chiedere che tutto venga
fatto a regola d’arte perché non possiamo permetterci di sprecare risorse per
difetti di progettazione.”
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di
Mauro Bignami
BancaMarche?
“La piccola grande
banca di casa”
L
auro Costa, 61 anni, maceratese,
succede nella carica di presidente di Banca delle Marche a Michele
Ambrosini. La notizia della nomina
di Costa era nell’aria, ma non è mai
esplosa perché era a immagine e somiglianza del personaggio: schietto,
fermo, sorriso aperto a volte ironico
e, soprattutto, un agire da understatement che gli fa onore.
Al neo Presidente abbiamo fatto
questa prima intervista per sondarne
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il pensiero su alcuni argomenti di carattere generale in attesa che, con il
tempo, ci riveli quello sulle questioni particolari.
Nel momento attuale, così irto di
difficoltà, lei rappresenta…
… il segno della continuità, nel senso che in BancaMarche niente è casuale: la proprietà, avendo deciso di
creare una banca locale al servizio
del territorio, ha anche definito i ruoli che i propri rappresentanti, tempo
per tempo avranno. Io, di fatto, sono
la continuità di chi mi ha preceduto.
Ossia?
La missione e il progetto sono gli
stessi: Michele Ambrosini è stato il
mio predecessore e io continuo sulla
linea tracciata da lui.
Felice di ripetere un’esperienza
fatta sei anni fa?
Sì, perché le difficoltà del momento
stimolano l’iniziativa mia e del Consiglio di amministrazione per trovare
soluzioni. A suo tempo le trovammo
e oggi, visto com’è cambiato il mondo, dovremmo sforzarci di nuovo
per trovarne di adatte a far crescere
la banca e, soprattutto, per far crescere il territorio che noi serviamo.
Gli appelli alle banche perché allarghino i cordoni della borsa alle
imprese sono quotidiani: per lei,
chi li fa conosce l’attività bancaria?
Sono strumentali: chi chiede alle
banche di allargare i cordoni della
borsa non si rende conto che, nelle Marche, non c’è un’impresa che
chieda nuova finanza per gli investimenti. Gli interventi che facciamo
sono solo tamponi per una situazione difficile a livello di pagamenti, di
incassi e, oramai, anche di capacità
dell’imprenditore di guardare con fiducia al domani.
Gli azionisti privati della banca
sono aumentati del 40%: che segnale ci vedete?
Avere 11.414 nuovi soci fa capire
che quanto abbiamo seminato per
tanti anni ha creato un valore che
si chiama banca al servizio del territorio. Una valenza rilevante, se
così tante persone hanno creduto
nella nostra impresa, nei servizi che
eroghiamo e, soprattutto, hanno ritenuto che entrare in uno sportello
di BancaMarche vale qualcosa di
più che entrare in un qualsiasi altro
sportello. Dieci anni fa non sarebbe
stato così; oggi la gente ha capito e
divenire socio e cliente della banca è
ritenuto un fatto importante.
È importante oggi essere una banca radicata nel territorio? Quale il
valore aggiunto, se c’è?
Il valore aggiunto c’è e anche l’importanza. Conoscendo i soggetti del
territorio (operatori economici, famiglie, pensionati, studenti) cerchiamo di risolvere le loro esigenze e i
loro problemi quotidiani: quelli cui
altri non riescono a dare risposta.
Foto Cristian Ballarini
A COLLOQUIO CON
A COLLOQUIO CON
Una visione minimalista…
Sarà anche minimalista, ma è il problema del momento e gli undicimila
e passa nuovi soci l’hanno confermato.
Siete interlocutori di riferimento
per le forme di aggregazione che
esprimono valori culturali e interessi positivi per il territorio: perché?
Il fatto di investire in attività culturali, sportive e aggregative da
un lato ci dà visibilità; dall’altro fa
capire alle persone che BancaMarche è presente sul territorio e per il
territorio. Si pensi alle attività sportive giovanili: non ce ne è una che
BancaMarche non sponsorizzi. Per
loro acquistiamo magliette, scarpe,
sacche e altro ancora, perché crediamo che lo sport sia un veicolo per
creare una società migliore domani
e a questo nuovo e migliore futuro
abbiamo sempre convogliato i due
terzi dei nostri investimenti pubblicitari. Si può dire che spendiamo più
per i settori sportivi giovanili che per
le nostre squadre di riferimento.
Un fatto inusuale…
Forse sì, ma crediamo che le attività
sportive giovanili siano gli strumenti
più adatti per valorizzare le capacità dei nostri futuri clienti/soci. Oggi
poi, nella situazione di crisi in cui
ci troviamo, con molte famiglie che
non possono più sostenere alcune
spese per i figli, il nostro intervento a
copertura di alcuni costi vivi dell’attività ci sembra dovuto. In questo
modo i ragazzi, anziché andare in
strada o a fare altro, si impegnano in
un’attività sportiva.
E domani avrete dei buoni clienti…
Avremo persone che considerano
BancaMarche un fatto di casa, familiare.
Quali i servizi richiesti dalle imprese, soprattutto piccole e medie,
in un periodo difficile come l’attuale?
Il tessuto imprenditoriale marchigiano, come del resto quello emilianoromagnolo, è configurato da una forma importante di associazionismo:
l’80/90% delle imprese aderisce ad
associazioni di categoria, nelle quali
trova i punti di riferimento che poi
dialogano con noi. Quindi, più che
l’impresa, è l’associazione di categoria che richiede servizi o ci pone
il problema e ciò ci aiuta. Basti pensare al legame esistente tra imprese
e consorzi di garanzia fidi, tramite i
quali avviene il 70% dell’approccio
al mercato.
Come recuperare i margini in periodo di crisi e di crescita dell’inflazione?
Facendo nostre le criticità e le problematiche della clientela.
Espansione o consolidamento: che
cosa preferisce?
Espansione, che non significa apertura di sportelli. Se trovassimo un
partner con caratteristiche complementari alle nostre, sarebbe ideale.
Si spieghi.
Il nostro tipo di modello di sviluppo ha fatto sì che, per sostenere le
attività economiche del territorio, ci
siamo indebitati con il mercato più
di quanto raccoglievamo dal territorio; se trovassimo un partner che
avesse una raccolta maggiore degli
impieghi, domattina BancaMarche
avrebbe un exploit portentoso, perché potremmo investire molto di più.
Questo è il modello di espansione
che io vedo.
L’espansione e i tempi richiedono
un personale sempre più professionale che ponga maggiore impegno, attenzione nel rapporto con
la clientela e, anche, assuma maggiore responsabilità…
Per fare questo ci vuole formazione. Quella tecnica l’abbiamo fatta in
questi anni e ha dato concreti risultati: siamo alla pari di grandi banche
che hanno capacità operativa diversa
dalla nostra. Per il futuro ci vorrà un
altro tipo di formazione per la quale
è necessario fare un progetto che risponda a una semplice domanda: in
che modo lo formo il personale? Si
pensi alla possibilità di dare consigli alle imprese in molti settori, ivi
compreso quello del passaggio generazionale.
Ad Ancona c’è il Segretariato
dell’Iniziativa Adriatico-Ionica:
mai pensato di espandervi in qualche Paese di questa macro regione?
No, perché finora abbiamo ritenuto
che il nostro business dovesse essere concentrato nelle Marche e nelle
regioni limitrofe, dove il tipo di economia è simile al nostro e dove, in
qualche modo, il nostro modello di
fare banca fosse capito dal cliente.
Credo che se noi andassimo in qualche regione del nord, nelle nostre
filiali non entrerebbe nessun tipo di
cliente, perché il nostro modello di
fare banca è tarato per un certo tipo
di esigenze. Per esempio, certe sofisticazioni finanziarie non le facciamo non perché non siamo pronti ma
perché nessuno le chiede.
Non è un limite?
Sì, ma d’altra parte è un vantaggio,
perché nei nostri territori siamo sempre più in crescita.
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A COLLOQUIO CON
di
Agnese Testadiferro
ISTAO, il profilo di un sogno
«P
rima di tutto bisogna avere
un sogno. Poi coltivarlo costantemente e prendersi il rischio di
andare da qualche parte per aprirsi al
mondo. Avere coraggio, intraprendenza e spirito di sacrificio. Non
accontentarsi». Parole che arrivano
da chi, dopo una laurea in legge, una
specializzazione in diritto del lavoro,
un master in marketing, esperienze
lavorative importanti, con la valigia
in mano, ha capito che credere in se
stessi è la chiave mentre la tenacia,
lo studio e l’impegno sono la porta
per iniziare a vedere il cambiamento. Qualcuno diceva che dobbiamo
essere il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo, ma a pensarci
bene non sembra così facile se nessuno sta lì a sostenerci. A volte cambiare è una cosa buona, e spesso è
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tutto ciò che serve per dare una vera
svolta. E lui, il dottor Giuliano Calza, Direttore Generale dell’ISTAO,
con presidente il dottor Andrea Merloni, di esempi da dare in merito ne
ha veramente molti. L’ISTAO, non
è solo l’acronimo di Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione
dell’economia e delle aziende, la
scuola manageriale di Ancona nata
nel 1967 dal volere dell’economista Giorgio Fuà, del Social Science
Research Council degli Stati Uniti
e della Fondazione A. Olivetti, ma
significa eccellenza, internazionalizzazione, collaborazione. Gli chiediamo cosa può fare oggi la differenza,
in un momento di demotivazione e
preoccupazione. “Cercare l’eccellenza, sempre. L’ISTAO con i master
che propone, tra gli ultimi i Master
in Management delle Risorse Umane e Sviluppo Organizzativo e in
Strategia e Management d’Impresa,
punta all’alta qualità, con docenti e
collaborazioni internazionali di alto
livello. La provincia diventerà inevitabilmente superata da città allargate:
ciò significa che occorre un’apertura
verso il cambiamento, un pensiero
innovativo e la disponibilità, perché
questi sono i tre aspetti per vincere le
sfide, accompagnati però da una perfetta conoscenza della lingua inglese.
Proprio per quest’ultimo presupposto i nostri Master e corsi di specializzazione, che contengono alcuni
moduli didattici in lingua, fino a prevederne tutti a breve, sono aumentati
nell’obiettivo dell’ internazionalizzazione, con docenti che provengono
sempre più da università straniere”.
Foto Cristian Ballarini
Intervista a
Giuliano
Calza
direttore
generale
dell’ISTAO
A COLLOQUIO CON
L’innovazione parte da una buona
preparazione teorica, ma alla possibilità di sperimentare sul campo
se stessi, viene data altrettanta importanza?
“L’ISTAO, che si avvale della partecipazione istituzionale di Banca
d’Italia, ABI, Confindustria, Regione Marche e Università Politecnica
delle Marche, del sostegno di fondazioni, associati, imprese, istituti bancari, tra cui BancaMarche e Veneto
Banca, e della collaborazione del
Comitato di Orientamento composto da docenti universitari e personalità dell’economia e della cultura,
crea sinergia tra studio e lavoro. Per
significa che gli altri curricula di studio siano esclusi, anzi. La selezione
avviene con test scritti e colloqui con
noi e con le aziende che collaborano
ai progetti del corso: tutto dipende
dall’entusiasmo e dalla motivazione
di chi chiede di iscriversi. E da questa fame di conoscenza, l’ISTAO
riconosce le eccellenze e sostiene i
migliori studenti con borse di studio
a totale o parziale copertura della
tassa di frequenza, anche per chi
proviene da percorsi insoliti”.
Questo istituto ha un legame molto stretto con l’economia regionale
marchigiana. Oggi è difficile trasmettere il valore del rimettersi in
creare quello che fa la differenza
coinvolgiamo i nostri allievi, che
sono laureati, occupati, manager,
imprenditori, professionisti, coinvolgendoli in stage e progetti concreti che nascono dalle aziende a noi
associate.
L’azienda riconosce la qualità e
l’impegno dei nostri studenti tanto
che l’ISTAO ha e mantiene un ottimo livello di placement pari al 95%
di occupati al termine del master”.
Vedendo lo scenario in cui opera
l’ISTAO, vengono fatte delle selezioni per accedere a corsi e Master?
“Le nostre materie sono economicoumanistiche volte alla gestione e alla
strategia d’impresa, per questo sono
più alla portata di chi ha conseguito
una laurea di tipo magistrale in ingegneria ed economia. Ma questo non
gioco in una realtà dove nella seconda metà degli anni 80 la crisi
non si conosceva?
“Entrare nell’executive education
manageriale di chi già manager lo è,
valorizzare i prodotti territoriali, far
crescere gli studenti ISTAO, stringere legami di partecipazione diretta con i nostri partner e consiglieri,
nonché con la Regione è alla base
del nostro lavoro: la collaborazione
e il sostegno dell’economia e delle
capacità che ci appartengono. Nelle
Marche ci sono tante risorse, ma per
valorizzarle occorre, in un periodo
come quello attuale, farsi conoscere ancora di più, re-inventarsi e fare
impresa insieme. E il lavorare fianco
a fianco, istituto e impresa, teoria e
pratica, è la carta vincente per risollevarsi”.
Il mandato Merloni–Calza si sta
focalizzando molto sulla reputazione ISTAO a livello nazionale e a
livello internazionale. Questo è un
lavoro di squadra a cui si sta impegnando lo staff ISTAO dall’area
didattica, all’area comunicazione,
al gruppo di supporto. L’entusiasmo e il sacrificio consentiranno di ottenere ottimi risultati
provenienti non solo da studenti
marchigiani, ma anche da altre
regioni e da paesi esteri. Questa
scuola manageriale ha una sede
nella spettacolare e storica Villa
Favorita, ha avuto docenti come
Modigliani, Giolitti, La Malfa,
Ciampi, Pininfarina che hanno
tenuto lezioni inaugurali degli
anni accademici fino alle recenti
lezioni magistrali di Poli, Cucinelli, Della Valle e dell’economista
Innocenzo Cipolletta ed ora non
può che continuare a crescere
sotto una buona stella.
primapagina9
A COLLOQUIO CON
di
Lucia Cataldo
Leggere il territorio,
trasformarlo in valore
D
opo le celebrazioni del Bicentenario della Camera di Commercio di Macerata abbiamo chiesto al presidente, Giuliano Bianchi,
un bilancio sul significato degli
eventi e sulle prospettive della vocazione dell’Ente Camerale maceratese.
Presidente, quali considerazioni
sono scaturite dal “giro di boa”
dei duecento anni dell’istituzione
della Camera di Commercio di Macerata?
Una tappa importante per il periodo
della mia presidenza, ma soprattutto per l’Ente Camerale. Ci siamo
resi conto che malgrado siano passati duecento anni la Camera ha an-
tutte di autori del nostro territorio,
penso che, al di là del valore monetario, rappresenti la nostra cultura,
il valore identitario del territorio.
Partendo da questa considerazione
ritengo che la specificità della Camera di Commercio debba essere proprio quella di saper leggere
l’identità del territorio in tutti i suoi
aspetti.
Ho apprezzato anche, nella mostra
sugli oggetti e sui i materiali metrici, la storia del lavoro all’interno
dell’Ente Camerale, gli aspetti poco
noti delle diverse misure metriche
nel nostro territorio maceratese,
unificate solo dopo l’Unità d’Italia e il ritrovamento di oggetti rari
cora molte cose da dire e da fare sia
per i compiti istituzionali assegnati
dallo Stato che per il ruolo che ha
per l’economia del territorio.
Cosa ricorda in particolare delle
tre mostre, che dopo la chiusura
delle celebrazioni ha deciso di rendere esposizioni permanenti all’interno degli spazi camerali?
All’interno delle mostre per il Bicentenario la collezione delle opere d’arte che sono nei nostri uffici,
come l’addizionatrice della fine
degli anni’40. La mostra sui documenti storici ha invece aperto lo
sguardo su ciò che è stato fatto in
passato, sugli scenari e le problematiche e sugli obiettivi e le azioni
intraprese da chi ci ha preceduto.
I fatti del passato - visti attraverso i documenti - e la comparazione
dei temi del presente con le scelte
operate in alcuni momenti storici
salienti cosa le fanno pensare?
10Primapagina
Il tema della strada statale 77, della ferrovia, degli uffici postali sono
temi che la Camera con i suoi consiglieri ha sempre saputo interpretare
con anticipo. Chi ci ha preceduto ha
operato con intelligenza e lungimiranza ed inoltre c’era molta coesione sociale anche se l’economia era
agricola e le attività manifatturiere
erano di tipo artigianale.
Guardando i documenti abbiamo
visto che la Camera è intervenuta
su temi sociali e strategici, come
ad esempio sulla ferrovia. Un altro
tema che era caro ai nostri predecessori era, come lo è oggi, l’internazionalizzazione: dai documenti
in mostra si evince come nel 1880
la Camera abbia sostenuto anche
economicamente chi partecipava
all’Esposizione di Londra, oltre che
alle fiere nazionali, per far conoscere i prodotti del territorio e le procedure manifatturiere.
Nel passato, e questo forse ci sorprende, c’era già visione del territorio, internazionalizzazione, coesione sociale anche fra le categorie
economiche.
Partiamo da questo spunto sulla
coesione del territorio, inteso come
territorio geografico, economico
e umano: è in questo senso che si
sviluppano le vostre idee sulla ferrovia?
Le evidenzio un dato che secondo
me non è privo di significato: abbiamo sempre avuto difficoltà sul
tracciato della strada per Roma,
con le diatribe fra chi voleva il
passaggio attraverso la valle del
Chienti e chi voleva invece la valle
A COLLOQUIO CON
MOSTRE PERMANENTI DELLA CAMERA
DI COMMERCIO DI MACERATA
del Potenza. Se si guarda invece il
tracciato della ferrovia, ci si accorge che essa attraversa entrambe le
vallate: a parte l’esigenza viaria di
raggiungere Fabriano, penso che ci
sia stata una mediazione intelligente per rispondere alla esigenze del
territorio, “facendo” e non trovando
la scusa per “non fare”.
Cosa significa per lei avere “visione del territorio”?
Il territorio non è fatto da 57 comuni separati ma da aree omogenee
di territorio, ciascuna con le sue
specificità e dei valori particolari.
Bisogna valorizzare e sviluppare
ogni area con le sue caratteristiche.
Se l’impresa produttiva è nell’area
litoranea e zone limitrofe, lì si deve
puntare sull’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Nelle
zone più intatte, va invece data più
attenzione all’ambiente ed alle piccole attività artigianali locali o ai
prodotti tipici.
Per quanto riguarda Macerata si può
immaginare un futuro di mediolungo termine facendola diventare
una “città della cultura”. Stiamo
ragionando a partire da quello che
già c’è, mettendolo a valore, senza
pensare a fare forzature, cattedrali
nel deserto. Il territorio è il valore
di riferimento: quando esportiamo
un prodotto dobbiamo trasmettere
il territorio, con la sua cultura e la
sua storia, il suo paesaggio.
Nel raccogliere quest’eredità del
passato, come pensa di trasformare
la riservatezza tipica del Maceratese evolvendola in valore?
Stiamo cercando di insistere su questi concetti da tempo. I cambiamenti sono sempre difficili ma le buone
idee, dopo essersi sedimentate, riemergono da sole, come quelle sulla
metropolitana di superficie.
Il territorio piano piano sta comprendendo: cito il caso di Pievebovigliana dove abbiamo immaginato
lo sviluppo di un comune delle aree
interne attraverso un gemellaggio
con delle associazioni culturali tedesche confederate alla “Unione
delle società culturali tedesco-italiane”.
Si stanno già vedendo i risultati. Ci
vorrebbe forse meno tempo in un
territorio più “pronto” ma abbiamo
bisogno di un cambiamento culturale.
Dovremo imparare velocemente a
fare bene i servizi, l’accoglienza, il
turismo, le attività culturali e altre
attività ancora.
Non è un passaggio facile, è difficile, ma non demordiamo. Peraltro
i successi del passato sono qui ad
incoraggiarci.
Dobbiamo capire che la concorrenza si fa oggi per territori, che si
combatte per territori e si diventa
attrattivi per territori, altrimenti si
va fuori dai circuiti di sviluppo.
In occasione del Bicentenario della Camera di
Commercio di Macerata sono state organizzate
tre mostre collegate fra di loro.
La prima, a cura di Goffredo Binni, allestita nei
mesi di dicembre e gennaio presso la Galleria
Galeotti di Macerata ha presentato una selezione della collezione artistica della Camera, una
raccolta di opere di artisti maceratesi acquisite
nel tempo come elementi di arredo e che sono
in seguito divenute uno stimolo per la valorizzazione della cultura artistica del territorio.
La collezione testimonia la vivacità della cultura artistica maceratese e ne rappresenta uno
spaccato che copre oltre settant’anni di storia.
Fra le opere storiche si segnalano diversi lavori
di Wladimiro Tulli, Ivo Pannaggi, Umberto Peschi, Luigi Bartolini. Dell’esposizione rimane
testimonianza un interessante catalogo curato
da Goffedo Binni ed edito da Retecamere.
Le altre due mostre curate da Lucia Cataldo e
dall’Accademia di Belle Arti di Macerata sono
state rese permanenti e sono visitabili presso la
sede dell’Ente Camerale.
Mostra
“Manifesti e Documenti Storici”
Con quest’esposizione la Camera ha voluto recuperare le tracce di tutta la sua storia, mettendo
in mostra bandi, manifesti e documenti che raccontano il ruolo dell’istituzione nella città e nel
territorio. Sono presenti - oltre a diversi pannelli
esplicativi corredati di foto d’epoca - oltre trenta
documenti che vanno dalla metà dell’Ottocento
alla metà del Novecento e la riproduzione integrale del Decreto istitutivo della Camera del
1811.
Mostra
“Strumenti di Lavoro e Oggetti Metrici”
La mostra presenta oggetti del lavoro degli
uffici e antichi strumenti metrici, passati alla
Camera dopo l’acquisizione delle competenze
dell’Ufficio Metrico.
Attraverso la mostra si è inteso raccontare l’Ente Camerale - secondo i più recenti orientamenti
della museologia contemporanea - come “storia
del lavoro” attraverso i materiali tecnici usati
nella pratica quotidiana.
All’interno dell’esposizione si segnalano la prima “Tavola di conversione” delle misure metriche della provincia di Macerata datata 1863,
un’addizionatrice elettrica Monroe prodotta negli anni Quaranta.
Diversi pannelli esplicativi raccontano la storia delle verifiche metrologiche dal Settecento
ad oggi, l’evoluzione del calcolo automatico e
molte altre curiosità storico-scientifiche.
Sede delle mostre:
Camera di Commercio
Sede Camerale, Via Lauri, 7 - Macerata
Orari di apertura al pubblico: martedì e giovedì
dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14.30 alle 18:30.
Venerdì ore 9.00-13.00.
Infotel. 0733-2511.
primapagina11
A COLLOQUIO CON
di
Simonetta Cipriani
Lo testimonia
Tara Gandhi,
una degli otto nipoti
del Mahatma,
nell’Aula Magna
dell’Università
di Macerata
È
una figura minuta e pacata quella
di Tara Gandhi, che abbiamo incontrato a Macerata.
È ospite dell’Università che in collaborazione con l’Istao ha organizzato
12Primapagina
un importante evento. Dice di non
aver ereditato il talento del nonno,
il Mahatma. Lei è la figlia del figlio
minore di Gandhi. Eppure l’Aula
Magna dell’Università di Macerata,
gremita, è in religioso silenzio in attesa di ascoltarla. Il rettore Luigi Lacché la presenta all’uditorio insieme
al presidente Istao Andrea Merloni.
C’è anche Adolfo Vannucci nella platea, oltre ad altre autorità. Entrambi i
massimi esponenti della cultura non
vogliono sottrarle la parola, nell’introdurre l’iniziativa. Lei esordisce:
“Capisco molto attraverso il silenzio,
percepisco cuore, intelletto e disponibilità” in quest’uditorio. E subito
risponde alla domanda oggetto della
conferenza. India ieri e oggi: cosa rimane del pensiero di Gandhi. “L’India di ieri è diversa da quella di oggi,
come per tutto il mondo. Non c’è un
tempo di Gandhi.
Oggi, si vive questo momento di crisi
perché la tecnologia ha portato troppa informazione: quella positiva non
passa così velocemente come quella
di portata negativa. Ci sono tante persone di vero cuore, che mi hanno colpito nel mio viaggio in Italia, ma esse
non si conoscono oltre confine. Così
avviene anche per l’India.
Gandhi aveva bisogno di altri intelletti, non poteva agire da solo. Quando
avevo 14 anni fu assassinato e l’India
aveva già conquistato l’Indipendenza
politica da quattro mesi. Ma, dopo, il
cielo a Delhi si è sempre più inquinato. Prima, potevamo vedere le stelle.
Le porte di casa erano sempre aperte
Foto Pixelmatica di Macerata
“Gandhi, ieri come oggi,
ispira ogni persona a sentire
la propria coscienza”
A COLLOQUIO CON
e c’era una grande fiducia. C’era la
mancanza di paura. Oggi non più: siamo diversi”.
Allora le chiediamo: l’India multilingua, multipartitica e plurireligiosa
vive l’eredità di difficili conquiste sociali e la patologia di residui di arretratezza culturale. Senza farci terminare
ci dice: “Oggi l’India vive una realtà
molto difficile perché ha contraddizioni estreme: in mezzo agli indiani
c’è un po’ di America, un po’ di Italia,
di Giappone, c’è un po’ di tutto. C’è
sviluppo. Ma cosa vuol dire questa
parola nell’economia. E come definire il “sottosviluppo”. Ma cos’è la ric-
gli Inglesi volevano speculare sulle
stoffe filate in India, Gandhi spinse a
recuperare il proprio Arcolaio e così
ha dato riconoscimento all’identità e
all’autonomia dell’India, affinché potesse sfruttare direttamente le proprie
risorse. Questa filosofia, che appartiene all’India è, però, utile al mondo.
Mio nonno ha studiato le filosofie di
tutte le culture ed ha colto i concetti
di amore, non violenza e verità applicandoli alla propria vita”. E poi ci
dice che “Gandhi aveva un gran senso
dell’umorismo, non aveva malizia,
non giudicava mai perché sapeva penetrare l’animo umano, era un grande
veramente difficile. Si crede che solo
il maschio possa avere un ruolo nella
società. Gandhi era un femminista,
per lui la donna andava valorizzata in
tante maniere. Noi, con il “Kasturba
Gandhi National Memorial Trust”
-creato proprio dal Mahatma con il
nome della moglie per aiutare donne
e bambini- stiamo organizzando in
questi giorni una marcia per andare
chezza quando viviamo con paura. Si
ha tutto ma si va ancora alla ricerca di
altro: allora c’è povertà. Oggi, in India
siamo forse più avanzati dell’America. Ci sono i più ricchi del mondo e
persone che muoiono di fame”. È qui
che s’inserisce la “filosofia dell’Arcolaio”? continuiamo a chiederle. “Le
persone che tessono non hanno niente, possono essere uomini o donne in
piena parità, lo possono fare anche per
meditare e man mano creano qualcosa. Ciascuno può tessere il proprio futuro in amore e con senso di umanità.
La filosofia dell’Arcolaio è la bomba
atomica della non violenza. Quando
psicologo, aveva a cuore il concetto di
salute in relazione all’anima ed in armonia con l’ambiente. Aveva sempre
in mente il bisogno di preservare i cinque elementi dell’aria, acqua, fuoco,
terra a cui aggiungeva lo spazio”. Ci
dice ancora: “Per Gandhi la parte più
importante della creazione è la forza
della madre”. E allora ci viene spontaneo chiederle: come si coniuga la potenza di questo pensiero con il fenomeno dell’aborto selettivo, che è una
patologia della popolosa India? Cosa
ci ha insegnato Gandhi per colmare
questo deficit di civiltà e dignità? Far
crescere una figlia femmina in India è
contro questa tradizione e ci sta molto
a cuore creare una cultura diversa”.
Tara è venuta a Macerata e continua
a girare per il mondo a testimoniare.
E alla nostra ultima domanda: il cittadino del mondo vive oggi qualcosa
dell’esempio di Gandhi o ne è profondamente lontano? Perché è importante per l’umanità dei nostri tempi recuperarne lo spessore? Risponde: “Gandhi adesso appartiene a tutta l’umanità. Gandhi è globale, non appartiene
solo all’India, al Sud Africa o alla sua
famiglia. Gandhi ispira ogni persona a
sentire la sua coscienza. Gandhi è un
appello di coscienza”.
primapagina13
A COLLOQUIO CON
di
Giovanni Filosa
Elif Shafak,
la maggiore
scrittrice turca
Cittadina del mondo,
anima globale, critica verso
tutte le ideologie estremiste
T
utto è incominciato all’aeroporto di Kaìseri, diciamo
nel cuore della Turchia. Una chiacchierata con la guida,
Amin mi pare si chiamasse, che da una decina di giorni ci
scarrozzava per quello straordinario ed affascinante Paese,
sfocia in un faccia a faccia quasi intellettuale. “Quali autori turchi hai letto”, mi spara subito addosso. Gli rispondo
immediato, “ne conosco due, la Aykol e Pamuk, soprattutto lui, coi suoi sguardi sghembi sulla borghesia turca”. Mi
fa: “Prova a leggere Elif Shafak, avrai un’altra visione di
questo Paese, in ogni senso”. Dopo alcuni giorni, in Italia,
sbarcato, trovo all’aeroporto “Le quaranta porte”. Provo,
mi dico. Inizio e non lo lascio più. Non posso abbandonare
Shams e Rumi ma anche la vita, o forse meglio dire la storia,
che si confronta attraverso generazioni e contraddizioni. E
così ho comprato tutto, anche l’ultimo, “Honour”, in italiano “La casa dei quattro venti”. E poi alzi il telefono, perché
se non ci provi non ci riesci, abbozzi un’intervista, mentre ti
aiuta nella traduzione la collega Rita Perticaroli, e alla fine
esce fuori un vis a vis con Elif Shafak, una quarantenne,
la più grande scrittrice turca, donna bella e sensibile, che
scrive perché ama scrivere e raccontare storie di tradizioni
familiari, che ha rischiato la galera turca per aver parlato del
massacro subito dagli armeni all’inizio del ‘900, una che
non si tira mai indietro, che cura come un fiore la cultura e
la tradizione del suo Paese. Te ne accorgi ad ogni pagina che
sfogli. Ed hai voglia di rileggerla. Tieni una matita in mano,
c’è sempre qualcosa da sottolineare fra le righe, da ricordare
e far ricordare, per quando si sarà più grandi. Ecco, questo
spiega come mi sono innamorato della Shafak. La scrittrice, ovviamente, che della donna sarebbe capace chiunque.
Comunque la mia famiglia è stata avvertita e se n’è fatta
una ragione.
Tu scrivi in inglese e in turco ma appare sempre, nei tuoi
libri, l’orgoglio dell’appartenenza all’identità turca: giusto?
14Primapagina
A COLLOQUIO CON
Come scrittrice, sono interessata
all’esistenza umana e penso che essa
sia un tema universale. Ritengo che
la letteratura debba superare qualsiasi
tipo di confine: nazionale, etnico, religioso, di classe sociale. Uno scrittore
può essere particolarmente affezionato
a una terra o a una cultura, ma l’arte
della narrazione non può limitarsi a
un luogo o ad un Paese. Ci sono molte
cose in Turchia a cui sono legata: amo
Istanbul, amo la cultura femminile, la
cultura orale, ma sono cittadina del
mondo e sono un’anima ‘globale’.
Sono critica nei confronti di tutte le
ideologie estremiste. Penso che tutte le
varietà dell’ultra-nazionalismo creino
solo problemi e dividano l’umanità.
Qual è il ruolo della letteratura nel
cercare di superare i muri culturali
fra i popoli?
La letteratura è fatta di legami e di empatia. Quando leggiamo un romanzo,
ci mettiamo nei panni di un’altra persona. Forse per un’ora, o per qualche
giorno. Per un po’, smettiamo di essere “io” e diventiamo ‘qualcun’altro’.
E’ un esercizio tonificante per la mente
e per l’anima. Ci aiuta a prendere le distanze dalla nostra arroganza, dal nostro egocentrismo, dal nostro ego. Ci
permette di guardare la vita da angolature diverse. Se conosciamo la storia
di qualcuno, sappiamo capirlo meglio.
Le storie ci collegano, lo fanno da secoli. Da “La bastarda di Istanbul” a “Latte nero” per arrivare a “Honour”,
quanta acqua è passata sotto i ponti
della cultura e della tradizione turca?
La Turchia è un Paese molto complicato. Ci sono così tanti conflitti. In generale, si può dire che la cultura turca
cambia rapidamente. Si tratta di una
società orientata al futuro. E’ anche
una società molto giovane. Metà della
popolazione ha meno di 30 anni. Per
questo il Paese è dinamico e ha tan-
te sfaccettature. La Turchia è unica,
se confrontata con il resto del Medio
Oriente. Ma la democrazia non è matura. C’è ancora molta strada da fare
verso la libertà di stampa, la libertà
d’espressione, i diritti umani, i diritti
delle minoranze. In più, si tratta di una
società patriarcale. Dobbiamo raggiungere la parità tra i sessi. Talvolta,
cambiare la mentalità sul genere e la
questione femminile è più dura che
cambiare la politica.
La Turchia e l’Europa, cosa le avvicina, cosa le tiene lontane?
Dipende da quale Turchia o quale Europa intendiamo. In Europa ci sono
persone contrarie all’Unione Europea
e in Turchia ci sono persone contrarie
all’ingresso della Turchia nell’UE. Ma
io ritengo che il pericolo maggiore per
l’umanità sia quello delle ‘comunità
chiuse e basate sulle somiglianze’. Se
i turchi fanno amicizia solo coi turchi,
gli olandesi si parlano solo con gli
olandesi, se ai tedeschi piacciono solo
i tedeschi … il mondo sarebbe migliore o peggiore? Penso che se l’umanità
si divide in ‘ghetti mentali’ il mondo
diventa più problematico e disposto allo scontro. La Turchia
e l’Europa possono ritrovarsi su ideali
comuni, come la democrazia, i diritti umani, la libertà di espressione, il
pluralismo, le relazioni economiche e
finanziarie.
Dì la verità, l’ultimo libro scritto è
sempre il più amato, il figlio migliore?
A dire la verità, penso che il mio libro
più amato è quello che non ho ancora scritto. Quello che ho in animo, ma
che devo ancora cominciare a scrivere.
A che punto della tua ispirazione artistica è nato lo straordinario “Honour”, in italiano “La casa dei quattro venti”?
Le famiglie mi hanno sempre molto
interessato, forse perché non ne ho
avuta una. A casa eravamo solo io e
mia madre. E sono cresciuta osservando con curiosità le famiglie patriarcali
intorno a me. Quando ho cominciato
a scrivere Honour, ho voluto interrogarmi sulla maniera in cui alleviamo
i nostri figli maschi, come fossero i
sultani della famiglia. E come noi donne, più o meno consapevolmente, contribuiamo a questa discriminazione.
Le donne hanno un ruolo importante
nel perpetuare le culture patriarcali. Qual è il tuo rapporto con il pubblico
italiano?
Mi sento molto vicina all’Italia. La
cultura, le città, l’arte, la letteratura
contribuiscono a legarmi al vostro bellissimo Paese. Tanti scrittori italiani,
Cesare Pavese, Italo Calvino, Umberto Eco, Primo Levi, Alberto Moravia,
Pasolini e molti altri hanno lasciato un
segno su di me nel corso degli anni.
www.elifshafak.com
http://twitter.com/Elif_Safak
http://www.facebook.com/Elif.Shafak
primapagina15
A COLLOQUIO CON
di
Matteo Tarabelli
Etica e professionalità
al servizio del mondo
T
re principi cardine: legalità, meritocrazia, rinnovamento. E un ambizioso obiettivo: entrare nelle case
della gente, contribuendo a depotenziare stereotipi spesso causati da errori di comunicazione. Mauro Bignami,
neo governatore del Distretto 2090
del Rotary International, l’ente di coordinamento dei 64 Club Rotary di
Abruzzo, Marche, Molise e Umbria,
ha già delineato il suo programma di
mandato. Nominato due anni fa, il
giornalista ed esperto di marketing,
bolognese di nascita ma anconetano di adozione, è entrato in carica lo
scorso 1 luglio. Un anno a disposizione per far conoscere e promuovere
con maggiore vigore le numerose e
lodevoli iniziative del Rotary, migliorandone la struttura organizzativa.
Bignami, in che modo si è avvicinato
al Rotary?
«Da giovane sono stato interessato al
servire (ero Boy Scout) e, prima ancora di diventare socio, avevo un grande
rispetto per il Rotary. Così, quando il
Club Ancona Conero mi cooptò, non
ebbi esitazioni: per me essere rotariano ha voluto dire vivere la mia professione come una realizzazione personale, arricchita dalla possibilità di
metterla al servizio di chi possa trarre
benefici dalle mie competenze».
16Primapagina
Come vede il suo ruolo di governatore?
«Assieme al mio staff assisterò i Club
per servire in modo più efficace il
nostro territorio. Vorrei inoltre far sì
che questa associazione sia riconosciuta non solo dall’ONU (presso cui
ha un seggio permanente) e dalle sue
Agenzie specializzate come Unicef,
Unesco e Fao o dai grandi enti internazionali come l’OMS, ma anche
dalle persone comuni. Non siamo
un’associazione di beneficenza. Svol-
giamo attività di servizio per alleviare povertà, fame, malattie, eliminare
l’analfabetismo, tutelare l’ambiente,
promuovere azioni a favore del territorio e dei giovani, che sono il nostro
futuro. Comprensione, tolleranza e
pace nel mondo - ideali condensati
efficacemente dal motto scelto dal
presidente internazionale 2012-2013
Sakuji Tanaka: La pace attraverso il
servizio - sono i valori condivisi da
oltre un milione e duecentomila soci
mondiali del Rotary».
Concetti da veicolare e tradurre in
ambito locale...
«Ritengo imprescindibile puntare sul
merito, spesso misconosciuto o ignorato, sull’istruzione, la formazione.
E sull’educazione civica: conoscere
il funzionamento di uno Stato, le sue
leggi, è fondamentale per acquisire
concretamente lo status di cittadino e
operare sempre nel rispetto delle regole della civile convivenza e per il
bene comune».
Quali i progetti attuati?
«Tra i passati cito l’ultimo, la ristrutturazione dell’edificio A della facoltà di
Ingegneria dell’Università de L’Aquila. Il costo, circa 2,5 milioni di euro, è
stato sostenuto dal Rotary con finanziamenti privati e il lavoro gratuito di
tecnici e professionisti rotariani. Poi i
Foto Cristian Ballarini
A colloquio
con
Mauro Bignami,
Governatore
del
Distretto 2090
del Rotary
International
A COLLOQUIO CON
tre Campus disabili e i corsi per non
vedenti e ipovedenti, l’acquedotto per
un quartiere della città di Durazzo, la
Fabbrica del latte in Tanzania…».
E per il futuro?
«Fra i tanti progetti in cantiere, cito la
riqualificazione dell’Istituto Montani
di Fermo per rafforzare lo sviluppo e
le competenze della zona. Nel 2013
avremo SPRECO, un’iniziativa in occasione dell’anno europeo contro lo
spreco alimentare: il Distretto 2090,
su spinta del Club San Benedetto del
Tronto Nord, sta predisponendo un
forum con personalità di fama internazionale per promuovere stili di vita
eticamente consapevoli. Un progetto di rilancio dell’educazione civica
partirà da Avezzano, coinvolgendo
le scuole. A Urbino invece, centro
storico Patrimonio dell’Unesco, convergeranno i Rotary Club europei, le
cui città vantano tale riconoscimento,
per un convegno di studi che diverrà
biennale e itinerante, al fine di salvaguardare i patrimoni storici dell’umanità».
Quali ritiene siano i principali punti
di forza e di debolezza del Rotary?
«In generale, ma penso al Distretto 2090, il nostro punto di forza è
nella capacità di collaborazione tra
individui di grande integrità, donne
e uomini, motivati a servire disinteressatamente ed agevolati anche
dalla struttura a rete, che ci permette
di operare su larga scala. Le nostre
debolezze sono tecniche, dovute in
parte all’invecchiamento cui si può
sopperire con l’inserimento di forze
nuove ben selezionate e preparate.
Inoltre non sono pochi i preconcetti da combattere. La comunicazione
diventa perciò determinante per far
sapere cosa facciamo, per coinvolgere i giovani e attivare nuove iniziative
con le tante professionalità diverse e
la consapevolezza di impegnarci per
il prossimo senza guadagnarci nulla.
Anzi, autotassandoci. Spero di riuscire a trasmettere il messaggio. Ci proverò con tutte le mie forze».
primapagina17
A COLLOQUIO CON
di
Pamela Temperini
Kalòs kai agathòs:
lo sguardo sul mondo
di Maria Grazia Capulli,
la popolare giornalista del Tg2,
inviato speciale per la cultura
D
ue parole antiche, kalòs kai
agathòs, il bello e il buono,
traslate nel mondo moderno con la
leggerezza della voce di Maria Grazia Capulli. La incontro nella sua
città natale, Macerata, dove si trova
da qualche giorno per quattro ragioni “belle e buone”, in coerenza con
la sua filosofia di vita e di lavoro.
Da anni inviato speciale per la cultura del Tg2, le chiedo subito la sua
posizione nei confronti del giornalismo culturale. Non ha esitazioni.
E se il tono delle parole è composto, professionale, gli occhi tradiscono quasi un velo di sana turbolenza. Sono bellissimi gli occhi di
18Primapagina
Maria Grazia, di un celeste intenso,
limpido come il suo sguardo diretto
sulle cose del mondo. “Il mio modo
di intendere la cultura, di viverla e
restituirla da sempre va oltre la canonica recensione di un libro, di un
evento teatrale o cinematografico.
La cultura è lo sguardo sulle cose,
si dilata dalle conversazioni che intrattieni con gli altri, dal cibo che
mangi, dalla dialettica delle relazioni, dalla continuità della crescita personale. Sono spinta dalla voglia di non dover fare giornalismo
A COLLOQUIO CON
solo raccontando notizie negative,
ma seguendo lo spirito del kalòs kai
agathòs, bello e buono, e di accendere l’attenzione su realtà positive
come quelle che, per fare un esempio, ho vissuto in questi giorni. Ad
Osimo, ho visitato il giardino sensoriale della Fondazione Grimani
Buttari che ospita persone anziane,
molte delle quali non più autosufficienti, o affette dal morbo di Alzheimer. È una bellissima struttura
in cui gli anziani possono praticare
l’orticoltura, il giardinaggio ricavandone notevoli benefici, soprattutto a livello psichico. Ad Amandola, invece, ho avuto il piacere
di conoscere un ebreo polacco che
dopo molti viaggi e un soggiorno
in Giappone ha deciso di fermarsi in questo stupendo angolo delle
Marche ed insieme a sua moglie
si diletta a fare la carta a mano e
ad organizzare corsi per insegnare
quest’arte e la sua antichissima storia. Nel Parco Nazionale dei Monti
Sibillini, nell’alto maceratese, una
coppia intraprendente, lui un gra-
fico lei un’avvocatessa, ha deciso
di mettersi in gioco restaurando un
piccolo borgo medievale e facendone un agriturismo ecosostenibile, a
km zero. E a Macerata, alla scuola
primaria Enrico Fermi ho vissuto
insieme ai bambini momenti splendidi seguendoli all’interno di un
progetto per l’’integrazione multiculturale, armati di fogli e matite
e della comune lingua dell’arte.”
Chissà se Maria Grazia sarebbe
diventata la stessa persona di oggi
se, invece di seguire la strada del
giornalismo, avesse continuato
ad insegnare greco e latino come
aveva iniziato a fare subito dopo
la laurea in Lettere.
Curiosa lo è sempre stata, così
come sognatrice e comunicativa, ma il contatto con realtà ogni
volta nuove e stimolanti le hanno
senza dubbio permesso di soddisfare una ricerca tutta personale,
cogliere cioè la bellezza nel cuore
delle cose e delle persone. Forse
per questo il personaggio fittizio
a cui è più legata è Martin Eden,
il protagonista del romanzo omonimo di Jack London, il marinaio
sognatore e di gran cuore che in
nome dell’amore sfida le convenzioni borghesi di una società americana classista, mentre nel folto
ginepraio della poesia moderna si
sente molto vicina e si riconosce
nel “Valore” di Erri De Luca che
non dimentica tra i beni della vita
un sorriso involontario, risparmiare acqua, il viaggio del vagabondo, l’uso del verbo amare,
per finire con Jorge Luis Borges
del quale condivide la scelta tutta particolare dei “Giusti”, quelli
che coltivano un giardino o sono
contenti che sulla terra esista la
musica o accarezzano un cane addormentato. Immagini che nella
loro disarmante e laconica chiarezza trasmettono quella serenità
o meglio quella gioia che Maria
Grazia considera un obiettivo fondamentale nella vita per sé e per
gli altri.
A questo punto non stupisce sentirsi confidare, con gli occhi un po’
birichini, che da bimba sognava di
fare la “golosiera”, dispensare felicità con i dolci fatti a mano da
lei, ma subito dopo, riprendendo
il filo dei pensieri “più seri” cuciti alla memoria trova il nome
di una donna straordinaria, Jane
Goodall, l’etologa ed ambientalista inglese che ha dedicato tutta la
vita allo studio e alla protezione
degli scimpanzé. Io le avevo chiesto di un personaggio del passato
al quale si sentisse affine e lei mi
parla, giustamente, di una donna del presente, Messaggero di
Pace delle Nazioni Unite, come a
dire che il passato è prezioso ma
la vita è ora e c’è tanto da fare.
“La bellezza salverà il mondo”
proclama stentoreo il generoso e
candido principe Miškin di Dostoevskij. Bisogna, però, cercarla,
produrla e sostenerla perché questo accada.
primapagina19
A COLLOQUIO CON
I
di
Paola Stefanucci
L’attore Ennio Fantastichini,
che adora la fanta... scienza
nfaticabile: Ennio Fantastichini è (quasi) sempre in
tournée, o sul set. Colgo un’occasione (fortunata) al
volo. Mi riceve nella sua casa romana. Davanti ad un caffè
aromatizzato alla vaniglia, si accende con voluttà una sigaretta dietro l’altra e si lascia intervistare, o meglio è lui a
condurre il nostro colloquio. Grintoso e sincero, esplicito
e graffiante. Peccato non poter riportare integralmente, per
ragioni di spazio, la nostra lunga conversazione. Talento
acclamato da pubblico e critica, migra con sorprendente
versatilità dal teatro al cinema e alla tv da un quarto di
secolo e più. Nei panni di Enrico Fermi ne I ragazzi di
via Panisperna (1988) di Gianni Amelio è tatuato nella
memoria di ogni cinefilo. Altrettanto indimenticabile è in
Porte aperte (1989) dello stesso regista accanto a Gian
Maria Volonté. Attore eccellente regge alla grande il confronto con altri suoi colleghi che hanno la fortuna di recitare in ruoli più significativi e remunerativi. Ma lui viene
puntualmente premiato: nella sua collezione può esibire
anche due Nastri d’Argento. Sul grande schermo lo abbiamo apprezzato di recente nel ruolo minuscolo e simpatico
di uno sceicco nel film di Laura Morante “Ciligiene” e in
quello, ben più impegnativo, del commissario Curti ne
“L’arrivo di Wang”, l’ultima pellicola (autoprodotta) dei
registi, Marco e Antonio, Manetti bros. in collaborazione
con Rai Cinema. In proposito, Fantastichini esprime la sua
perplessità e mi confessa la sua amarezza: si tratta di un
film paradossalmente bistrattato in Italia ma pluripremiato
all’Estero e accolto con entusiasmo in prestigiosi festival
20Primapagina
internazionali a Glasgow, a Brussels e in Spagna.
Parliamone...
è d’obbligo una premessa: io adoro la fantascienza. Tanto
che alla mia società di produzione ho dato il nome Klaatu, dalla parola d’ordine pronunciata dall’alieno, nel film
Ultimatum alla terra, per fermare il robot che sta per distruggere il mondo. Ringrazio, quindi, i Manetti bros. per
avermi dato quest’opportunità. Il copione mi ha subito entusiasmato. Abbiamo girato in venti giorni. Con un budget
molto basso. Eravamo tutti coinvolti.
La trama?
L’agente Curti, io, deve interrogare d’urgenza e in segreto un
fantomatico signor Wang. Viene chiamata Gaia (Francesca
Cuttica) un’interprete di cinese che è costretta a tradurre bendata in quanto non può per ragioni di riservatezza vedere il
suo interlocutore. Quando Gaia scoprirà l’identità del signor
Wang il suo destino e quello del nostro pianeta è segnato…
è stato difficile interpretare un agente alle prese con un
extraterreste?
Sì, Un esercizio mnemonico notevole per la quantità straordinaria di parole. Però necessarie. Nei copioni italiani
ce ne sono troppe. Troppi dialoghi pleonastici, inutili, che
mortificano lo spazio visionario. Faccio un esempio. Dico
“mi accendo una sigaretta” mentre la sto accendendo. Che
bisogno c’è di dirlo? L’ho accesa. Si tende ad adattare, a
raccontare quello che non possiamo vedere, perché costa.
Il thriller dei Manetti ha già collezionato alcuni premi
tra i quali il Méliès d’Argento come miglior lungome-
A COLLOQUIO CON
traggio fantastico europeo...
Sì. L’arrivo di Wang ha avuto delle recensioni trionfali in
Inghilterra e altrove, ma non qui da noi dove alla mostra
di Venezia presentati a “Controcampo italiano” siamo stati
ignorati, siamo capitati tra due produzioni cosiddette forti.
La distribuzione, Iris film, è molto coraggiosa, il film uscirà anche in Brasile.
Nella sua lunga carriera lei è stato più volte premiato.
Finora sempre come attore “non” protagonista. Che
effetto fa?
Provoca disagio solo in contesti molto provinciali. Cito
Stanislavskij: “non esistono piccoli ruoli ma esistono piccoli attori”. Il “non protagonista” può avere talvolta un’importanza robusta, pari a quella del protagonista. In una
storia poi non c’è un solo protagonista, c’è il protagonista
etico, il protagonista morale...
Un ruolo che ritiene a lei congeniale?
Faccio sempre con piacere il ruolo di padre, forse perché
sono padre. Ho un figlio di sedici anni, Lorenzo.
Exploit nel 1970 in Aspettando Godot di Samuel Beckett per la regia di Stefano Mastini al teatro capitolino
L’abaco. Lei è nato attore?
No, sono nato musicista. Avrei voluto fare il musicista,
ma eravamo una famiglia non ricca, papà maresciallo dei
carabinieri, tre figli da mantenere, le lezioni di piano costavano troppo e ho dovuto rinunciare. La musica è il grande rammarico di tutta la mia vita. So suonare la batteria a
orecchio. Ero attratto molto dal mondo delle arti, complice
mio fratello Piero pittore e scultore. L’incontro con il teatro
è avvenuto, non proprio per caso, ma attraverso la lettura
di Skakespeare e, in particolare, di Amleto.
Il suo esordio sul palcoscenico è stato precoce (a quin-
dici anni) ma non altrettanto sul grande schermo dove
approda nel 1982, a ventisette anni. Come mai non si è
lasciato incantare prima dalla magia della celluloide?
Allora non facevo cinema ma ci andavo molto, ricordo una
sala storica “L’occhio, l’orecchio, la bocca” a Trastevere.
Era il periodo delle maratone tematiche si entrava alle tre
del pomeriggio, si usciva a tarda notte. Poi è arrivato il provino per fare Enrico Fermi con Gianni Amelio. Un’operazione intelligente e raffinata, come tutti i film di Amelio
che aveva piacere di avere sempre sul set tutti gli attori.
Un’esperienza indimenticabile, per me.
Oltre a Gianni Amelio, quale altro regista le è particolarmente caro?
Peter Del Monte, fa un cinema poetico, senza la volontà di
piacere a tutti, non rincorre l’incasso. Come fanno tanti. Oggi
non si chiede più “Com’era il film?” ma “Quanto ha fatto?”.
Nel corso delle sue lunghe tournée quante volte ha fatto
tappa nelle Marche?
Non si contano...
Un ricordo, un episodio, particolare legato alla nostra
Regione.
Tanti ma in particolare, il Festival di poesia a Recanati. Recitavo le poesie di Jorge Luis Borges accompagnato da un
gruppo di musicisti argentini. In quell’occasione feci un appello ai genitori di non portare i figli al cinema a vedere i cinepanettoni. Ci fu un boato (di consenso) non un applauso.
Prossimi impegni?
Una trilogia di cortometraggi “Amoronor”, vale a dire
amore e onore nel passato, presente e futuro.
Qualcuno l’ha paragonata a De Niro...
Ne sono lusingato. è un attore formidabile. Ma io sono
Ennio Fantastichini.
primapagina21
A COLLOQUIO CON
di
Silvia Barocci
Giovane favoloso
Giacomo Leopardi
I
l giovane favoloso: il titolo
del film che Mario Martone sta
preparando per il
2014 non è solo
un omaggio a
Leopardi, ma anche a una famosa
scrittrice napoletana, Anna Maria Ortese che così
l’aveva chiamato nel racconto “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”. Non c’entra il campanilismo: il
suo è proprio un modo di vedere le
cose. Si parte da Leopardi, si finisce
per parlare di Napoli e poi di Recanati e poi ancora dell’infinità vanità del contemporaneo. Attingendo
direttamente alla mole di scritti lasciati da Leopardi, Martone, dopo
il successo di Noi credevamo del
2010, ambisce a conquistare nuovamente il grande pubblico: del film
non dice nulla, ma la direzione dei
lavori affidati alla Palomar di Carlo
degli Esposti, produttore di fiction
di grande successo come la saga di
Montalbano in tutte le sue varianti,
oltre che di Noi credevamo, lascia
intravedere che il “biopic”, il film
biografico su Leopardi, avrà molto
22Primapagina
del “docufic”, assecondando cosi il
gusto del pubblico televisivo italiano. E, con un ambizioso regista
come Martone alle spalle, ci sono
tutte le premesse per aspettarsi, oltre che un grande successo, anche
un buon prodotto. Perché proprio
Leopardi allora? La risposta più
plausibile è che sono anni che il regista di natali napoletani finisce per
imbattersi in Leopardi. Almeno dal
2004, quando con Enzo Moscato ha
licenziato per il Teatro Mercadante
di Napoli L’Opera segreta, dedicata in parte a Leopardi per il tramite
delle parole di Anna Maria Ortese.
Di nuovo: Napoli, Ortese e Leopardi. La preparazione di Noi credevamo, il film monumento sulla storia
nascosta del Risorgimento italiano
con cui si è ritrovato padrino delle
celebrazioni per il 150 anniversario dell’Unità d’Italia, è stata poi
un’occasione per tornare con il cuore ad alcuni autori che hanno preparato, raccontato, giudicato quella
stagione di moti e rivoluzioni che
è stato il diciannovesimo secolo e
Leopardi non poteva certo mancare. Il film è uscito nelle sale nel
2010 ma da dieci anni Martone andava riflettendo su come strutturarlo, decidendo infine di tornare alle
“fonti primarie” e alla voce diretta
di quei protagonisti che il Risorgimento l’hanno pensato. E arriviamo
a Leopardi. Il 2007 è l’anno delle
Operette morali versione palco-
scenico, ovvero di come Martone
abbia trasformato una geniale intuizione in uno dei più fortunati
successi teatrali degli ultimi anni.
Nate come prova di composizione
di un giovane Leopardi alle prese
con “l’esistenzialismo” del proprio
tempo, le Operette assunsero fin da
subito una forma dialogica: pensate
quindi non per il teatro, ma adattabilissime alle esigenze sceniche
proprio per questa loro struttura.
Nessuno vi aveva pensato prima: la
cosa è invece riuscita benissimo a
Martone che ha selezionato, tagliato e rimontato gran parte dei testi
pensando allo spettatore moderno.
Risultato: Premio Ubu 2011 per la
migliore regia, più un seguito di
altri prestigiosi riconoscimenti che
hanno imposto il nome di Martone
all’attenzione del pubblico italiano e quello delle Operette morali
nei migliori cartelloni di tutta Italia. La decisione di lavorare ad un
film biografico su Leopardi è stata
ufficializzata ad Ancona il 27 aprile scorso in occasione della presentazione del Premio Ludovico
Alessandrini (l’ennesimo riconoscimento al regista): «Sono molto
felice della serietà e dell’intelligenza con cui mi trovo sempre a
confrontarmi qui nelle Marche – ha
detto Martone nel corso della conferenza stampa a palazzo Raffaello
- Con questa regione ho un rapporto
molto bello: qui si pensa, si agisce
attualità e cultura
e si lavora in molti modi diversi.
Le Marche trasmettono profondità
di spirito e di pensiero, a Recanati
ci sono dei luoghi consustanziali a
Leopardi. Ed è bello constatare che
in questa regione questo spirito si
senta così vivo: è un bene tutto il
paese». L’appoggio di un uomo di
sostanza come Carlo degli Esposti
ha consentito così a Martone di rinnovare la collaborazione con Rai
Cinema continuando a lavorare a
quel cantiere aperto di idee, metodi
e approcci che caratterizza, fin dalle prime prove di Noi credevamo, il
modo di lavorare del suo staff. «La
potenza vitale della voce di Leopar-
di - dice Martone, che sta lavorando alla sceneggiatura con la fidata
Ippolita Di Maio - mi ha accompagnato in tutti questi anni: Leopardi era concreto ma volava con
la fantasia verso spazi sconfinati e
guardava alla realtà come nessuno
del suo tempo». Per concludere:
si tratta di una grande opportunità
anche per tutte le Marche che, dopo Dustin
Hoffman, tornano a legare la loro immagine
all’ “Infinito”: «Siamo
agli inizi di un lungo
lavoro – ha detto Carlo
degli Esposti - e certo
Recanati sarà al centro dei luoghi
più importanti. Il film sarà locale,
italiano, ma anche internazionale,
per garantirgli il massimo respiro.
Sicuramente sarà uno sguardo intenso di un regista come Martone
su Leopardi: e quando dico Martone, intendo che bisogna prenotarsi per tempo»..
primapagina23
A COLLOQUIO CON
di
Chiara Giacobelli
A colloquio con
Juliet Gael:
dall’America
all’Italia,
passando
per Parigi
Sulle tracce di Charlotte Brontë e Mary Shelley
A
l nostro appuntamento nella hall di un albergo fiorentino Janice Graham (in arte Juliet Gael) si presenta in sella a una bici. E non è un caso. Vive a Firenze
da circa due anni e ha già imparato tutto quello che c’è
da sapere sull’Italia: la passeggiata mattutina, il ritmo
dolce dei tempi, la colazione con cornetto e cappuccino, una tagliatella a pranzo e le serate trascorse tra
amici, buon vino, arte e cultura.
Scrittrice americana di successo, definita nel suo stesso sito “New York Times bestselling author and screenwriter”, nel Belpaese Janice ci è sbarcata un po’ per
reale necessità, e un po’ no. Dopo aver pubblicato una
serie di titoli andati a ruba, firmato un film (Until September), trovato il tempo di metter su famiglia e vivere
quindici anni nella sua amata Parigi, adesso Janice – da
adulta – ha scelto di realizzare un sogno. E quel sogno
si chiama Italia.
“Quando ho cominciato a fare le ricerche per il mio
nuovo libro, che racconterà l’appassionata storia di
Mary e Percy Shelley, avevo in testa di trascorrere
qualche mese a Firenze, dove i due coniugi hanno passato un periodo importante della loro vita – mi racconta
Janice, che alla coppia ha dedicato tutto il suo tempo
negli ultimi due anni – ma in realtà tra me e me sapevo
benissimo di essere alla ricerca di una scusa: quello che
volevo davvero era venire a vivere in Italia”.
Quali posti hai già visitato?
“Moltissimi, anche perché mentre abitavo in Francia
venivo spesso da queste parti in vacanza e anno dopo
anno mi sono innamorata di questo Paese. Sono stata a
Roma, in Sardegna, Sicilia, Capri e Venezia. Ho girato
in lungo e in largo tutti i dintorni di Firenze e la Toscana
fino a Pisa, dove gli Shelley hanno trascorso la maggior
parte del loro soggiorno italiano. Delle Marche mi pia24Primapagina
cerebbe tantissimo visitare Urbino, ne ho sentito parlare da tutti e sarà sicuramente la mia prossima meta!
Ormai mi sento molto più europea che americana”.
Ciò che comunque, almeno all’inizio, ti ha condotto
in Italia è stato un libro…
“Sì, sto scrivendo un nuovo romanzo che vedrà protagonista una delle coppie più appassionate e infuocate
della storia: Mary Shelly (l’autrice di Frankestein) e
suo marito Percy Shelley, poeta romantico e filosofo.
I due vissero in Italia per quel poco tempo che la vita
concesse loro – dal momento che Percy morì giovanissimo – e io ho voluto seguire le loro tracce. Non solo.
Il loro periodo italiano mi ha affascinato così tanto che,
dopo aver scritto le prime 220 pagine, ho buttato via
quasi tutto e ho preso la decisione di ricominciare il romanzo proprio da qui, dall’Italia, tornando poi indietro
nella narrazione con un lungo flashback”.
Intanto però in libreria è possibile trovare il tuo ultimo romanzo Romancing Miss Brontë, in Italia tradotto da Tea. Un nuovo successo editoriale.
“In questo caso la storia che racconto è quella delle sorelle Brontë, che tutti conoscono. La prima volta che
lessi Jane Eyre ero all’università, ma la mia vera pas-
A sinistra un ritratto di
Charlotte Brontë
a destra di Mary Shelley
A COLLOQUIO CON
sione per le Brontë nacque quando seguii un corso postlaurea tutto incentrato sulla loro letteratura. Lessi allora
tutti i romanzi che avevano scritto e anche le biografie
pubblicate su di loro.
La storia della famiglia Brontë, in particolare il rapporto così stretto e intimo tra il padre e le figlie, mi colpì
persino più dei libri stessi. All’inizio pensai di scriverci
sopra una sceneggiatura (quindici anni fa), ma poi preferii trasformare il tutto in un romanzo, perché volevo crescere come scrittrice e sentivo l’esigenza di fare
questa nuova esperienza professionale”.
Il libro si focalizza soprattutto su Charlotte: i suoi
successi professionali, l’affetto nei confronti delle
sorelle e poi, quasi inaspettato, l’amore per Arthur
Bell Nicholls.
“Charlotte è un personaggio romantico in tutti i sensi:
non solo per quello che riguarda la sua storia d’amore
con Arthur, ma anche la sua indole e poi ovviamente i
libri che scrisse.
Era una donna alla ricerca di una vita più completa,
adatta alla sua complessità di carattere. Ho scelto di
raccontare lei più delle altre sorelle perché delle tre era
quella con maggiore ambizione, coraggio e interesse
nei confronti di una vita esterna. Amava la società, aveva dei progetti in tal senso, era disposta a enormi sacrifici per la sua famiglia. Inoltre fu l’unica a innamorarsi
e sposarsi”.
Dalle pagine traspare però anche qualcosa di Emily,
autrice del libro a mio parere più bello e intenso mai
scritto in tutta la storia della letteratura: Cime tempestose.
“Emily era molto diversa da Charlotte, viveva nel suo
La scrittrice Juliet Gael
mondo, non sentiva la necessità di uscirne fuori, era
completamente libera e si sentiva autorizzata a comportarsi un po’ da selvaggia. Così Cime tempestose rispecchia questo suo essere “wilde”, outsider e ribelle.
Veniva anche lei dalla tradizione romantica e aveva
letto tantissimi autori, Walter Scott per primo. Inoltre
era una grande osservatrice e registrava tutto quello che
vedeva attorno a lei, nella provincia inglese dell’epoca:
personaggi rudi e a volte violenti, con sentimenti forti
ed esperienze di vita molto dure. Siccome non si sentiva obbligata a scrivere né a pensare come una donna
dell’Ottocento, diede vita a un romanzo che riversava
sulle pagine una passionalità non trattenuta e un ardore
estremo”.
Un’ultima domanda: che rapporto hai con i lettori
italiani?
“Molto buono. Chi legge i miei libri entra in profondità
e mostra un bagaglio culturale ampio, strutturato. Sia
dai giornalisti che dai lettori, nel corso delle presentazioni o delle interviste, ricevo domande intelligenti e
non banali, non
ovvie. Ho l’impressione che in
Italia si abbia la
tendenza a capire, a scavare,
ad andare oltre
il primo strato
delle cose. Ecco
perché mi sento
assolutamente a
mio agio in questo Paese”.
La copertina
dell’ultimo romanzo
scritto da Juliet Gael
La locandina del film “Jane Eyre” tratto dal capolavoro di Charlotte Brontë
primapagina25
A COLLOQUIO CON
di
Federica Grilli
30 anni di
MARTIN
MYSTÈRE?
Molto ben portati
Intervista a
Giancarlo Alessandrini,
disegnatore storico
dell’eroe bonelliano
C
erto, se paragonati ai sessantaquattro dell’inossidabile Tex o
ai cinquantuno del coriaceo Zagor
possono sembrare pochi, ma trent’
anni di vita per un eroe di carta,
in un mondo che in due anni ha
già prodotto quattro generazioni
di iPad, sono un’enormità. Cavallo di punta della scuderia Bonelli,
una volta chiusasi la stagione dei
“western-avventurosi” (Tex, Zagor,
Mister No) Martin Mystère - primo
fumetto ambientato nella contemporaneità - ha inaugurato l’avvio
delle moderne serie degli anni ’90,
come Dylan Dog e Nathan Never.
Il personaggio dell’archeologo
esploratore, avventuriero e amante
dell’ignoto, creato dalla penna di
Alfredo Castelli e dalla matita di
Giancarlo Alessandrini è ormai fin
troppo conosciuto perché si renda
necessario parlar di lui.
Conviene forse dare la parola ad
Alessandrini, il creatore grafico
del personaggio, il più prolifico e
ispirato disegnatore - nonché unico copertinista - della serie. Nato
a Jesi nel 1950, oggi Alessandrini
è un simpatico e disponibile trentino che conserva sensibili tracce
della parlata di Ancona-Falconara,
dove è vissuto fino a dodici anni fa.
Prima di diventare famoso come il
“padre” di Martin, ha cominciato
a lavorare giovanissimo in reda26Primapagina
A COLLOQUIO CON
zioni prestigiose con alcune pietre
miliari del fumetto italiano, come
Mino Milani o Giancarlo Berardi
(all’attivo ha sei album del mitico
Ken Parker). Insieme a quello dello
sceneggiatore Castelli il suo nome
è oramai nell’olimpo dei grandi del
fumetto, di quelli storicizzati nei
testi di critica, ma che pure si trascinano dietro schiere di adoranti
seguaci.
Partiamo dal BVZM, il “Buon
Vecchio Zio Marty”, come dicono
cripticamente i fans. Sulla carta
compie trent’ anni, ma nella vita
lo scorso giugno (essendo nato il
26 giugno 1942), è arrivato a settant’ anni. È invecchiato bene?
Invecchiato? Casomai ringiovanito! Non me n’ero reso conto,
ma mi hanno fatto notare proprio
recentemente che Martin ora, con
quel grosso ciuffo, dimostra qualche anno di meno rispetto ai primi
numeri.
Il numero 320, uscito ad aprile,
ha celebrato i 30 anni della serie
portando Martin Mystère negli
anni ’30…
Sì, Castelli ha voluto giocare su
questo numero scrivendo una fantastica storia in cui c’è tutto degli
anni ’30 americani, da King Kong
ad Al Capone. Mi sono divertito
molto a disegnarla e sono sicuro
che si saranno divertiti molto i lettori a leggerla. In un certo senso è
stato anche un ritorno alle origini,
perché la prima storia che disegnai
con sceneggiatura di Castelli era
“L’uomo di Chicago”, della serie
“Un uomo un’avventura”, ambien-
tato proprio negli Stati Uniti degli
anni ’30.
A proposito di Castelli, com’è
lavorare con lui? A chi spetta
raccogliere la documentazione
necessaria per rendere credibili i
particolari?
È compito dello sceneggiatore, è
lui che passa al disegnatore il materiale su cui basarsi, ma spesso il
disegnatore integra le informazioni ricevute. Ricordo che una volta
la raccolta di documentazione era
lunga e complessa, bisognava procurarsi libri, raccogliere fotocopie,
frequentare biblioteche, musei…
Ora con internet è tutto molto più
facile e veloce, e si può fare anche
stando comodamente a casa!
Per quanto tempo potrà rimanere in attività Martin Mystère? O
crede che fare un bilancio sia prematuro?
Per adesso Martin Mystère gode
di ottima salute e non dà segni di
cedimento. Anzi, le vendite sono
in costante aumento, attualmente
sono sulle 40.000 copie. È vero
che qualche tempo fa, come tutti i
fumetti, aveva attraversato un periodo di crisi, ma dopo l’opera di
rystaling della serie (da mensile è
passato a bimestrale e sono state
apportate modifiche alla copertina)
ha recuperato ampiamente nelle
vendite. In ogni caso Bonelli non
avrebbe mai chiuso una serie storica come questa, e so che la pensa
allo stesso modo il nuovo direttore
Marcheselli.
L’anno scorso la città di Ancona l’ha omaggiata con una im-
portante mostra alla Mole Vanvitelliana e alla Galleria Puccini. Si
è sentito gratificato? E come sono
i suoi rapporti con il territorio?
I rapporti con le Marche sono ancora molto intensi. In fondo ho abitato a Falconara fino al 1999 e lì in
zona, tra Jesi e Ancona, ho ancora
tutti i miei parenti e le amicizie, dai
compagni dell’Istituto d’Arte, ai
miei colleghi di band (io suono la
chitarra).
Partecipo volentieri, quando mi è
possibile, a iniziative che si svolgono nel territorio, come la Mostra
Mercato del Fumetto di Falconara o
i seminari alla Scuola Internazionale di Comics. La mostra di Ancona
è stata per me un regalo bellissimo:
in fondo ho fatto molte mostre,
spesso all’estero, anche in sedi prestigiose, ma devo dire che nessuna
è venuta bene e mi ha fatto piacere
come questa.
primapagina27
A COLLOQUIO CON
di
Giulia Pieretti
Girl Geek Dinners Marche
Donne alla conquista
dei Nuovi Media
C
he significa Geek Girl?
E Girl Geek Dinner Marche?
Il termine “Geek” (si pronuncia
ghiik) ha origini anglosassone, “indica una persona affascinata dalla
tecnologia e dalla fantasia” [Fonte Wikipedia]. Le Geek Girl sono
donne professioniste ma anche
studentesse appassionate di tecnologia, internet e Nuovi Media che
si incontrano per condividere idee,
presentare progetti e perché no,
idearne di nuovi.
Le Girl Geek Dinners o GGD, sono
eventi informali a carattere conviviale, il format è stata ideato nel
2005 da Sarah Blow una software
engineer e si è diffuso rapidamente
in tutto il mondo. Gruppi di ragazze volontarie organizzano periodicamente cene o aperitivi tematici
dove intervengono, ospiti, relatrici
ed aziende, fornendo così occasioni
di confronto, networking e formazione.
In Italia esistono oltre 10 team ed il
numero è in costante crescita. Per
rimanere aggiornati sulle ultime
tendenze e novità in campo tecnologico è possibile seguire il blog
nazionale: Gir Geek Life www.
girlgeekdinnersitalia.com.
Come e quando è iniziata l’avventura Girl Geek Marche?
Il team Girl Geek Dinners Mar28Primapagina
È nato un nuovo
modo di condividere
conoscenze e idee:
Girl Geek Dinners.
In tutto il mondo e
anche nelleMarche.
Primapagina
intervista il team
GGD marchigiano,
composto da Anna
Torcoletti, Silvia
Marinelli, Sara Aura e
Laura Bolletta
che è nato nel 2008, in occasione
del Festival dei Blog di Urbino è
stata organizzata la prima GGD
non metropolitana grazie anche alla
collaborazione del team di Milano,
il primo in Italia che ci ha fornito
un solido sostegno e al contributo
degli sponsor.
Chi sono le organizzatrici di zona?
Le fondatrici del team GGD Urbino diventato poi GGD Marche sono Anna Torcoletti, Sil-
via Marinelli e Sara Aura. Nel
2010 si è unita Laura Bolletta
e nel 2012 sono salite a bordo
della “macchina” organizzativa
Erica Rigucci e Serena Canu.
Siamo tutte ragazze legate alla regione, la maggior parte di noi ha
origini marchigiane, ad esempio:
Anna è di Senigallia, Silvia di Civitanova Marche, Sara di Pesaro, Erica di Fano. Serena invece è sarda
ma ha studiato all’università di Ur-
A COLLOQUIO CON
bino e attualmente vive a Mondolfo. Ci scambiamo diverse email al
giorno soprattutto a ridosso degli
eventi, utilizziamo Skype ed i documenti condivisi di Google per rimanere sempre in contatto. Alcune
di noi si sono conosciute all’Università, altre a eventi dedicati al
Web come BarCamp o conferenze,
altre invece in rete per poi ritrovarsi di persona proprio ad una Girl
Geek Dinners. Lavoriamo tutte in
ambito web, ognuna con una specializzazione diversa dal Design al
Web Marketing fino a strategie di
Social Media Marketing.
Potete raccontarci qualche evento che avete realizzato o qualche
aneddoto particolare?
Alcune di noi dopo essersi scambiate email per mesi, partecipato a
Skype conferenze e definito meticolosamente ogni dettaglio, si sono
conosciute di persona proprio il
giorno stesso dell’evento. Le GGD
vengono organizzate nel tempo libero - spesso ci sentiamo di sera
e le nostre email a volte riportano
orari improbabili. Alcune di noi
lavorano o hanno lavorato fuori
regione o all’estero, ma la tecnologia ci ha sempre tenuto in forte
contatto.
Cosa vi spinge a continuare?
Ogni hanno partecipano sempre
più ragazze ed è proprio il loro entusiasmo che ci spinge a mettere
nuovi appuntamenti in calendario.
Inizialmente la maggior parte delle
persone venivano da Milano, Bologna, Firenze, Roma ora invece
riscontriamo un’adesione sempre
maggiore sia da parte delle ragaz-
ze che dalle aziende della Regione. Tutto ciò ci gratifica molto e
siamo contente di questo risultato
perché la valorizzazione e il coinvolgimento del territorio sono gli
elementi principali sui quali è stato
fondato il team GGD Marche.
Come vi sembra che stiano evolvendo le professione legate a internet? Quali sono le professioni
del futuro e i consigli da non dimenticare per essere una geek girl
di successo?
Molte di noi hanno cambiato lavoro e trovato nuove opportunità
grazie a conoscenze nate in rete o a
contatti stretti durante occasioni di
networking come le GGD. Il web
è in costante fermento e sviluppo
così come le nuove professionalità
legate al marketing, al design e allo
sviluppo di applicazioni facebook e
mobile.
Ogni giorno ci mettiamo in discussione, il nostro lavoro è anche passione, curiosità e costante aggiornamento. Tutti elementi chiave per
raggiungere, ci auguriamo, importanti traguardi.
Avete altri eventi in programma?
Il prossimo evento avrà come tema
il turismo: casi di successo, strategie e tecniche di promozione online attraverso i Nuovi Media. Anche questa volta non mancheranno
sorprese ed ospiti d’eccezione.
Comunicheremo tutti gli aggiornamenti sul nostro blog: http://www.
girlgeekdinnersmarche.com
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/ggdmarche
Twitter: @ggdmarche.
primapagina29
A COLLOQUIO CON
di
Francesca Pieroni
H.H. La lunga corsa di Mauro
verso la meravigliosa umanità
del suo grattacielo
D
ell’Hotel House sappiamo molto. Conosciamo i suoi numeri (i
17 piani con 480 appartamenti, gli 8
ascensori di cui solo 2 funzionanti);
sappiamo che qui convivono 32 etnie
provenienti da diversi paesi del mondo, in particolare Senegal, Pakistan,
Bangladesh; e non è una novità il
fatto che d’estate la sua popolazione
aumenti perché arrivano da tutta Italia
i venditori ambulanti. Sappiamo anche che solo all’Hotel House vivono
circa 400 bambini. Quello che non
sappiamo è chi sono le persone che
lo animano, perché l’essere diventato negli anni un grattacielo abitato in
larga parte da stranieri e soprattutto
l’essere stato usato come luogo per
lo spaccio di sostanze stupefacenti, lo
ha trasformato in un ghetto, lontano
e isolato dalla bella Porto Recanati.
Sono bastate queste poche ed elementari informazioni per far sorgere
a Carolina D’Angelo, autrice offidana
di 36 anni, la suggestione per scrivere
H.H., l’albo illustrato da Marco Paci
ed edito da Prìncipi e Princípi rivolto
a ragazzi dai 9 agli 11 anni, che ha già
vinto il premio speciale per la miglior
coerenza grafica-testo del concorso
Un libro per l’Ambiente, è stato scelto da IBBY Italia per la Biennale di
Illustrazione di Bratislava, è stato
selezionato per il White Ravens 2012,
e soprattutto, è fra i tre finalisti del
premio Anderson come miglior libro
30Primapagina
illustrato per questa fascia di età.
Ne abbiamo parlato con gli autori.
Carolina D’Angelo e Marco Paci,
come avete lavorato per realizzare
H.H.?
Carolina: Con Marco ci conosciamo
molto bene e c’è sempre stata una
sintonia sulle storie che ci toccano.
Io non entro mai nel suo ambito o nel
lavoro di un illustratore perché il bello del libro illustrato è avere a disposizione due visioni, quella del testo e
quella delle immagini. Se ci influenzassimo a vicenda il lettore ne avrebbe
una sola. Ad esempio, la prima volta
che abbiamo lavorato insieme era per
Acqua Nera e io avevo ambientato la
storia in Afghanistan ma quando sono
andata a vedere le tavole Marco aveva
fatto un paesaggio tipicamente africano, perché anche lì vivevano la stessa
condizione. La cosa mi è piaciuta moltissimo. Lo stesso per H.H. La storia
era già nella mia testa e quando ho visto l’Hotel House davvero ho messo a
fuoco solo dei dettagli narrativi, senza
chiedere come Marco avrebbe sviluppato la grafica. Ognuno ha fatto il suo
lavoro in completa autonomia.
Marco: Io e Caterina ci siamo conosciuti dieci anni fa a un corso di
grammatica della fantasia tenuto da
Antonio Faeti. Lì abbiamo iniziato a
confrontarci genericamente su storie
per bambini per capire in fretta che
avevamo un territorio comune, costi-
tuito dalle tematiche legate all’integrazione, ai diritti negati, e alla nuova
realtà che per forza di cose comprende
anche i bambini. H.H. è il nostro terzo libro insieme. Prima di delineare lo
sviluppo delle immagini dalla storia
mi devono arrivare dei nuclei tematici
fondamentali. In questo caso mi sono
concentrato sul rapporto bambinoarchitettura-fuga. Il resto viene dopo.
Quali sono le storie che vi piace raccontare e disegnare?
Carolina: Le storie che racconto io
sono quelle che hanno sempre una
nota di indignazione. Acqua nera parlava di petrolio e bambini, e in particolare dei giochi inventati per riadattare
l’ambiente deturpato da chilometri di
petro-pipe. I bambini ci correvano sopra e facevano degli equilibrismi. La
stessa operazione è presente anche in
H.H. perché il bambino protagonista,
Mauro, trasforma i 17 piani del suo
condominio in una lunga corsa dove
scopre tanti mondi diversi. E in questo
lui trasforma la realtà, che magari non
è sempre bella e piacevole, nella sua
realtà. Tutte le storie che ho raccontato fino ad ora trattano temi che mi
colpiscono quotidianamente perché
La copertina
del Libro
A COLLOQUIO CON
nel mondo ci sono situazioni che non
hanno risonanza mediatica. Ecco io
voglio raccontare quelle storie.
Marco: L’intento è quello di dar voce
alle tante storie di cui i bambini del
mondo sono portatori. E dire a tutti
che quel mondo è molto vicino a noi.
Le vicissitudini di cui parliamo sono a
lieto fine e capita spesso che presentando il libro nelle scuole, dei bambini
si identifichino nella storia e ci parlino dei ricordi vissuti o da loro stessi
o dai fratelli più grandi, dai genitori,
da un parente. In quel momento si
dona a quella storia il valore di essere
raccontata. Ci siamo trovati d’accordo
sulla necessità di affrontare le tematiche dell’integrazione e H.H. parla di
come possono convivere mondi diversi superando le paure del diverso.
E come traducete temi da adulti in
racconti e immagini adatte ai bambini?
Carolina: La letteratura per l’infanzia,
e mi riferisco a quella alta, a Dickens
o a Barrie, si è sempre confrontata con
temi da adulti. Il gioco è tutto lì, nel
tradurre in metafore comprensibili ciò
che indigna della vita reale perché il
bambino può comprendere qualunque
cosa sempre se mediata da un adulto
che usa bene il linguaggio. La bravura dello scrittore sta tutta nel tradurre
senza tradire. Mi spiego meglio. In
H.H. volevo parlare del concetto di
libertà e tolleranza e anche se avessi ripetuto mille volte quelle parole
senza trovare una metafora per farle
comprendere sarebbero rimaste vuote,
anche per un pubblico adulto. Dovevo
trovare delle situazioni per spiegare al
bambino che cos’è la libertà, che è un
concetto astratto. E quindi può essere
più funzionale, ad esempio, parlare
del volo di una farfalla dall’inizio alla
fine, da quando si leva in volo per passare da un fiore all’altro.
Marco: Mi sono concentrato sui piccoli dettagli della vita quotidiana perché stiamo parlando di grandi temi
che però si concretizzano in piccole
cose, come la possibilità di comunicare con il vicino di banco, la difficoltà
di capirsi anche con chi parla la mia
stessa lingua. In H.H. ho rappresentato la paura dell’altro attraverso un
filtro, un diverso punto di vista. L’architettura che Mauro ha tutt’intorno è
misteriosa, incombente, ma lo accompagna lungo la corsa alla scoperta degli altri. Dal buio alla luce attraverso
quello di cui si ha paura.
Che stile avete usato nel racconto?
Carolina: All’inizio del percorso mi
piaceva moltissimo scrivere in rima,
ma approcciandomi agli editori italiani ho dovuto cambiare stile, sia perché
è molto difficile trovare una perfezione nella musicalità sia perché non
è facile attirare l’attenzione del compratore su questo genere. Pian piano
poi tutto è diventato più maturo e ora
scrivo in prosa, con il ritmo tipico del
romanzo.
Marco: Come dicevo la storia ruota
attorno alla fuga all’interno del palazzo che diventa però metafora del
mondo intero. Visivamente ci sono
continui cambi di inquadratura, dettagli che mi servono a trascinare il lettore all’interno della storia. Prima di
arrivare allo stile definitivo mi prendo
sempre un po’ di tempo e faccio vari
tentativi. Per H.H. ho scelto di usare
il bianco e nero e dei tagli abbastanza espressionistici per esprimere sia
l’avventura del bambino, che si trova
ad esplorare il mondo senza la mediazione di un adulto, con un misto di
coraggio, incoscienza e paura, sia l’atmosfera grigia dell’Hotel House che
tende a incupire le vite dei suoi abitanti. Quando però si aprono le porte
delle case, metafora dell’incontro con
l’altro, Mauro scopre le tante vite degli altri, e quindi le tavole sono colorate, pittoriche. Il contrasto del bianco
e nero mi è servito inoltre per non addentrarmi nella differenze dei colori
della pelle. Tutti i bambini si possono
identificare in Mauro perché solo alla
fine scopriamo le sue origini. Perché
questa non è la storia di Mauro all’interno dell’Hotel House, ma è la storia
di ogni bambino nell’hotel Italia.
primapagina31
A COLLOQUIOCON
di
Giancarlo Bassotti
Luigi Teodosi,
fanciullo o sovversivo?
ntrando nello studio dell’artista Luigi Teodosi, nato nel
1935 a Jesi, nelle Marche, si è attratti da un minuscolo
ritaglio ricavato da un foglio di cartoncino, appeso alla parete
alle sue spalle, nel quale campeggia un motto“vivere da sovversivo o vivere da fanciullo?”.
Perché proprio quel motto vergato a mano?
“Sono all’eterna ricerca del fanciullo, ma posso trovarlo
solo se agisco da sovversivo” esordisce l’artista, rispondendo
d’istinto alla nostra domanda. “Sono un sovversivo alla ricerca della pace! Ciò che affermo potrebbe sembrare una ingannevole, illusoria, romantica contraddizione, ma a ben pensarci un fanciullo sovverte sempre il nostro modus vivendi perché
è spontaneo, è libero da ogni condizionamento dell’ambiente
in cui vive quindi è in pace con se stesso e con il mondo che lo
circonda. Io cerco la pace attraverso il fanciullo che sovverte
ogni giorno il mio modo di agire, di pensare, di dipingere”.
Anche attraverso il sorriso di un fanciullo?
“Senza dubbio. Nel sorriso di un fanciullo c’è tutto il sorriso
della Kore greca. Sorriso arcaico e testa eretta; un sorriso appena accennato, leggermente beffardo, forse
dovuto alla forte relazione tra esso e la pace
interiore del soggetto della statua che rappresenta un giovinetto in cui la bellezza, sia fisica
che spirituale, è al suo apice”.
Tutta la vicenda esistenziale, artistica, culturale e politica di Luigi Teodosi si dipana all’interno di questi estremi. Se è vero che gli estremi si toccano, è vero anche che in Teodosi gli
estremi non solo si toccano ma addirittura si
fondono: egli è sempre sovversivo e fanciullo
allo stesso tempo in una sorta di unità duale,
in cui non solo gli estremi ma anche gli opposti convivono e in qualche modo animano
il suo essere uomo e artista che, nel suo caso
costituiscono una sola realtà.
La storia artistica di Luigi Teodosi è intimamente legata alla sua biografia. Per brevità ci limitiamo a chiedere degli anni, cosiddetti, della formazione.
“A 17 anni mi iscrivo al Liceo Artistico di Roma e successivamente alla Scuola Libera del Nudo. Fra i miei insegnanti
ci sono tra gli altri, Renato Guttuso, Mario Mafai, Franco
Gentilini e il Prof. De Angelis. Quest’ultimo preme su mio padre perché io prosegua gli studi di architettura, mentre Guttuso incita mio padre a farmi continuare gli studi di pittura e
mandarmi a Parigi. Grazie ad una borsa di studio, insieme
all’amico e grande artista prematuramente scomparso, Claudio Cintoli, nel 1956 sono a Parigi. Frequento Gino Severini
e le lezioni di Jean Paul Sartre. Nel 1958 Sono a Zagabria
– tappa fondamentale per la formazione e la maturazione
dell’artista – dove frequento l’Istituto per il Perfezionamento
Artistico della attuale Repubblica Popolare di Croazia e sono
a stretto contatto con artisti e critici locali, quali: Belizar Ba-
32Primapagina
Foto Cristian Ballarini
E
horic, Edo Murtic, Dusan Dzamonja, Katarina Ambrosic”.
Nei primi anni sessanta il rientro in Italia è caratterizzato
dall’interesse per la progettazione di oggetti e di mobili (il padre è titolare di una ebanisteria) ma anche dal proseguimento
della ricerca pittorica.
“Sono anche gli anni in cui vengo a contatto con la cultura
visiva italiana. Frequento artisti quali Virgilio Guidi, Giorgio
Bompadre, Valeriano Trubbiani, Edgardo Mannucci, Achille
Pace; critici d’arte come Toni Toniato, Vittorio Rubiu. Conosco e frequento Michele Provinciali, Bruno Munari, Dino
Gavina, conosco, insieme a Luigi Ricci, gli architetti e designer Afra e Tobia Scarpa e in seguito Gaetano Pesce. Si
tratta di quello che amo definire un definitivo incontro tra le
forme dell’arte e la produzione industriale. - sono gli inizi
degli anni Settanta – Ma è anche il periodo dei primi grandi
viaggi: Algeri, Teheran, New York, Londra, San Francisco,
Los Angeles che avranno una importanza fondamentale per
la mia crescita perché ho vissuto queste realtà da dentro e non
da turista, a contatto con le persone prima e con le cose poi”.
Alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli Ottanta vuoi
“uscire dalla gabbia e ridare purezza alle parole della tribù”.
“È in questo periodo che nasce il ciclo delle capanne. Esse
rappresentano come un riparo per una umanità instabile ed
angosciata. Ridare purezza alle parole della tribù (1983) è
un quadro importantissimo per me in quanto arriva dopo un
periodo di azzeramento, dopo il quale riprendo fiducia nel
mio lavoro”.
In occasione dell’apertura del Museo della carta e della filigrana a Fabriano si tiene una
grande mostra dal titolo emblematico “In Chartis”, tu sei tra gli
invitati.
“Si, espongo quattro opere realizzate tra il 1983 e il 1984. La
mostra diventa itinerante e tocca
le città di Verona (1986), Milano (1986), Spello (1986), Spoleto (1987), Maastricht (1988),
Magonza, Museo Gutemberg
(1988). Sempre nel 1988 realizzo
attualità e cultura
“Presepe nel deserto” Foto di Angelo Trevisan
i cicli “Il bestiario della luna”, “Il ciclo lunare”, “I progetti
per il mutamento”, essi rappresentano nella ripetizione ritmica ossessiva della forma e della materia l’immutabilità della
luna e di tutto ciò che la grande pupilla di Dio guarda”
Un’altra data importante è il 1993. La mostra a Fossato di
Vico “La Soglia. Artisti a Fossato di Vico” a cura di Mariano
Apa, che ripercorre l’intero itinerario della tua ricerca, fino a
quel momento.
“In questo periodo il mio lavoro è sorretto da un principio
che io riassumo in queste poche parole: rendere possibile il
passaggio dal silenzio alla parola, dalla struttura all’emozione”.
Mariano Apa scriveva per l’occasione che la tua produzione
è libera da qual si voglia scadenza e committenza, per farsi
aderenza massima e assoluta al flusso del tempo di coscienza
della propria personale realtà esistenziale e non è forse anche
per questo che Giuseppe Appella ti definisce “Un artista contemporaneo delle 24 ore” o forse anche perché un giorno vivi
da fanciullo ed un altro da sovversivo?”.
“Tutta la mia vicenda esistenziale ed artistica credo si possa distinguere sulla base di alcuni tratti caratteristici quali
appunto l’estrema libertà nella ricerca, la non appartenenza
a questa o a quella tendenza artistica, il rifiuto di ogni tipo
di committenza in modo particolare mercantile e tutto ciò mi
porta ad essere un giorno fanciullo e l’altro sovversivo, praticamente un contemporaneo delle 24 ore”.
Tutto questo indirizza la tua ricerca verso ogni tipo di tematica, senza preclusioni ideologiche, con la finalità di riaffermare
la tua libertà di espressione, qualsiasi ne siano i contenuti e le
tecniche, così come la tua autonomia culturale. È su questo
fronte che nascono i Gorilla-gorilla ed il Presepe deserto?
“Le mie ricerche le ho fatte quasi sempre di notte, in segreto,
le vivo nel buio con le ‘lucciole’; di giorno le faccio osservare come i leoni che fronteggiano l’ingresso del mio studio e
diventano veri per magia rendendo oggettiva la loro vitalità.
Gorilla-gorilla è la proiezione sul quadro, sulla parete del
mio inconscio nel tentativo di recuperare frammenti di una
identità cancellata. È un sistema di richiami ai valori, ai rapporti con le persone e con le cose.”
Il ciclo Gorilla-gorilla continua anche oggi. L’installazione presso la Pinacoteca Civica di Jesi, scalone d’ingresso,
nell’ambito della mostra “Luigi Teodosi, nostalgia senza
dramma”.
“È la messa in scena di una realtà perduta (come sostiene
Giuseppe Appella) è l’interrogativo che si ripete all’infinito:
il dove, senza tempo, verso il quale il mio Gorilla-gorilla buono, è una radura segreta nel cuore della foresta o nel cuore
dell’uomo? È il recupero di una coscienza emotiva, sorretta dalla speranza. Le immagini reiterate ma non seriali, si
strutturano per sovrapposizione, per distruzione e non per
sottrazione della materia, che è la carne. La moltiplicazione
dell’immagine sposta la stessa dal suo referente assumen-
do un significato altro e il fruitore diventa il protagonista
dell’opera. Il Gorilla buono sono io, identificato nell’immagine di mio padre che mi ha sempre sollecitato e sostenuto fin
da fanciullo verso l’espressione artistica”.
Recentemente hai realizzato un’opera idealmente impegnativa quanto culturalmente audace. Mi riferisco al “Presepe
deserto”.
“Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, a Matera, Museo
della Scultura Contemporanea, vanno in scena Le Muse irrequiete di Leonardo Sinisgalli e il mio Presepe deserto. Stesso
periodo ma a cavallo tra il 2011 e il 2012, su iniziativa del
critico Giuseppe Appella, nell’ambito del progetto Presepi
d’Artista itineranti in Italia, insieme al Presepe giocoso di Ettore Consolazione espongo la mia installazione del Presepe
deserto nell’atrio d’accesso alla Scala Santa della Basilica di
San Giovanni in Laterano a Roma.
Che significati assume per te il presepe nel deserto?
“Si comprende subito che il presepe si sottrae ad ogni rappresentazione che abbia qualche attinenza con la tradizione
e sollecita ad affrontarlo con l’idea che la
crisi d’oggi stia tutta nella fragilità “infrastrutturale” del recinto, della capanna, della
famiglia. Ecco allora -come afferma Giuseppe Appella- i templi della modernità, le aspre
architetture in cemento armato, costruite nel
deserto, subire la stessa sorte dell’acropoli
di Selinunte. Tutto è scomparso: lo splendore delle cose, lo sfarzo delle luci, la maestà
dei suoni. Case, palazzi, ponti, strade giacciono abbandonati, svuotati di ogni anima.
C’è, in tutta la sua solitudine, il bambino che
è la luce che spezza il buio e ci assicura che
la vita continua. Oltre quella strada desolata
c’è il mondo invisibile. Basta seguire la luce
per trovare il cammino”.
Progetti per il futuro?
“Dal 2010 dedico la mia ricerca ad una visione futura della
terra, alla ricerca di un linguaggio espressivo, a un’analisi e
chiarezza radicale per resistere alla voracità di una globalizzazione, ingorda, selvaggia e volgare”.
primapagina33
attualità e cultura
Arturo Ghergo:
l’immagine
della bellezza
di
Michele De Luca
Adriana Benedetti, attrice
1941-48 circa
Massimo Girotti, attore
1942-48
S
i può senz’altro dire che alla creazione di quell’ideale di bellezza che dagli anni Trenta ai Sessanta ha
alimentato l’immaginario collettivo di intere generazioni
di italiani, ha contribuito moltissimo il lavoro del famoso
fotografo marchigiano Arturo Ghergo (nato a Montefano
in provincia di Macerata nel 1901, dove aveva appreso i
rudimenti della tecnica fotografica nello studio del fratello Ermanno, e morto a Roma nel 1959, giusto trent’anni
dopo che vi si era trasferito dalle Marche) nel cui atelier al
civico 61 di Via Condotti a Roma sono passati per essere
da lui ritratti i divi e gli aspiranti divi del nostro cinema,
a partire da quello che preludeva al neorealismo, ancora
provinciale nei suoi riti e nei suoi orientamenti, fino alle
soglie degli anni Sessanta, in cui il cinema italiano (La
dolce vita di Fellini è del 1959) avrebbe assunto per un
paio di decenni quel successo e quel ruolo internazionale
universalmente riconosciuti.
34Primapagina
Una galleria di oltre duecentocinquanta dei suoi stupefacenti ritratti, raccolti in una affascinante mostra curata
da Claudio Domini al Palazzo delle Esposizioni di Roma
(magnifico il catalogo pubblicato da Silvana Editoriale),
ci rievoca un trentennio di società italiana, vista in particolare attraverso l’occhio sensibile e raffinato di un protagonista della fotografia italiana che ha reso, con il suo
inimitabile stile, immortali dive del cinema e della moda,
celebrità politiche e religiose, ed esponenti dell’alta società della metà del Novecento. I suoi ritratti, inconfondibili
soprattutto per il sua sapiente uso dell’illuminazione, dimostrano il forte ascendente psicologico che egli seppe
esercitare sulla persona che stava davanti alla sua macchina fotografica, creando con lei un momento di magica
ed irripetibile “complicità”; davanti all’obiettivo, e all’occhio di Ghergo, ci si affida con piena fiducia, annullandosi
completamente, lasciando la propria effige nelle mani del
fotografo, a cui è demandato di controllare scrupolosamente la posa, l’illuminazione, il taglio dell’inquadratura,
il tipo di obiettivo, la velocità della pellicola, il valore della carta da stampa, il ritocco del
negativo, coniugando tutti questi
elementi in una
sintesi che conferisce una particolarissima cifra al
suo stile.
La glamour e la
fashion photography arrivano
in Italia negli
anni Trenta, dunRossana Martini,
prima Miss Italia
1948-54
Foto © Archivio Arturo Ghergo
Il grande fotografo
marchigiano al
centro di una mostra
al Palaexpo di Roma
attualità e cultura
Alida Valli
1946-47
que nel pieno di una fase in cui il regime fascista si prefigge con sempre maggiore consapevolezza di incarnare una
“via nazionale” al modernismo; in questa industria, la fotografia svolge un ruolo di grande importanza nel divulgare i nuovi modelli estetici di riferimento. Non serve più la
fotografia d’arte e pittorialista, improntata a criteri formali
ed espressivi derivati dall’arte accademica o del modernismo tardo-ottocentesco. Serviva, piuttosto, una via “originale”; lo studio Ghergo diventa il promotore più efficace
ed evoluto di questa nuova fotografia, il più sofisticato
ed emblematico rappresentante del glamour nostrano,
concentrato in particolare nel definire nuovi modelli femminili, decisamente evoluti rispetto al cliché matronale e
familiare dell’Italia più conservatrice, destinato a riscuotere successo fino alla fine degli anni Cinquanta. Pioniere
riconosciuto della fotografia di moda in Italia, Ghergo ha
ritratto stelle del cinema, personaggi di spicco dell’alta
borghesia e discendenti di nobili casati che cercarono nel
famoso tocco Ghergo la chiave attraverso la quale farsi
immortalare, in maniera decisamente elegante ed accattivante in un’epoca
in cui questo geMariella Lotti, attrice
nere di immagini
1942-43
tardava nel nostro
paese a trovare la
risposta di riviste
specializzate, già
in gran voga oltre
oceano: le “sue”
modelle porteranno i nomi altisonanti del “gran
mondo”, come
una giovanissima
Contessa Conseuelo Crespi
1951-52 circa
abito Galitzine
Marella Caracciolo, Consuelo Crespi, Mary
Colonna, Josè
del Drago, che
si prestavano ad indossare come testimonial le creazioni
esclusive delle nascenti case di moda (Fontana, Gabriella
Sport, Galitzine, Simonetta, Carosa, Gattinoni). Cultore
della perfezione e professionista dal gusto impeccabile,
egli seppe inventare un suo stile fatto di sofisticata classicità, costruito attentamente senza timore delle sperimentazioni, attraverso tagli diagonali, dissonanze spiazzanti, illuminazioni ricercate e il ricorso a veri e propri ritocchi, effettuati raschiando dal negativo le ridondanze dell’immagine catturata e ridisegnandone poi i contorni a pennello.
La bellezza italiana trovò modo di rifulgere nel suo inimitabile modo di usare il bianco e nero e grazie soprattutto
ad una originale illuminazione ed anche a sapienti ritocchi
in camera oscura che oltre a sublimare i lineamenti riuscivano ad immergere i personaggi in un’atmosfera molto
sofisticata: Isa Miranda, Alida Valli, Mariella Lotti, Francesca Ferrara Pignatelli di Strongoli, il duca Marco Visconti, i fratelli Bulgari, Leonor Fini, Alcide De Gasperi,
Gabriella di Robilant, Domitilla Ruspoli, Sophia Loren,
Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano,
Ingrid Bergman, Marina Berti, Vittorio Gassman, Massimo Girotti, Amedeo Nazzari, e poi Maria Felix, Pio XII,
Luigi Einaudi, De Gasperi, Andreotti, l’Aga Khan, Pietro
Badoglio, sono solo alcuni dei nomi del suo ricchissimo
archivio. Peculiarità della rassegna è, infine, lo spazio riservato a una forma espressiva sicuramente meno studiata
e conosciuta del maestro maceratese: quella del Ghergo
pittore che, soprattutto negli
Principessa
anni ’50, influenDomitilla Ruspoli
zato in particolar
(Salviati)
1945-50 circa
modo dal cubismo picassiano
e dall’esperienza
futurista e cinematografica,
coniugò la ricerca istintiva per
l’inquadratura,
propria del suo
mestiere, con l’esaltazione di un
allestimento visivo di più ampia
regia, tipico della
pittura.
primapagina35
attualità e cultura
di
Armando Ginesi
Scultura più vera del vero di
Johannes Genemans
Q
uando l’arte sembra più vera del vero. Nel nostro caso
si tratta di scultura. Mi riferisco alle ultime opere di
Johannes Genemans, olandese italiano, anzi marchigiano
d’adozione. Già designer della moda, in particolare della
calzatura, un giorno ha scelto di dare una svolta decisa alla
sua vita e di porre al servizio dell’arte pura, quella che non
ha funzioni pratiche da svolgere, le sue straordinarie qualità inventive, la sua capacità tecnica e,
soprattutto, il senso plastico di cui indubbiamente è portatore.
Grande assimilatore delle produzioni scultoree dei tempi passati egli ha
studiato con passione l’evoluzione del
“bello” attraverso i secoli, restando folgorato dai grandi esempi della classicità greca e del rinascimento europeo,
con particolare riferimento a quello
italiano. E si è impresso quei modelli
dentro l’anima. Sicché quando, con la
sapienza, la meticolosità e la pazienza
che sono proprie delle sue origini nordiche, inizia il processo ideativo e creativo (dalla progettazione grafica, alla
realizzazione in creta, alla fusione, per
quanto riguarda il bronzo, anche se non
disdegna l’uso di altri materiali: pietra o
marmo che sia) egli accosta l’idea progettuale ai paradigmi storici riuscendo a mediare straordinariamente tra il
passato e il presente, nel senso che il
concetto di bellezza anticamente intesa
sa trasmutarlo (per usare un verbo caro
ad Hans Georg Gadamer) in sensibilità
moderna. Siamo o no in piena cultura
citazionista? Ebbene eccolo il citazionismo di Genemans: riferimento all’antico con le passioni e i sentimenti di sempre (perciò eterni) inverati in modalità
sentimentali della contemporaneità.
I volti, i torsi, i nudi di donna sono realizzati con una quota
non di verosimiglianza (come avrebbe detto Aristotele) ma
di verità, che rende il vero autentico quasi carente di fronte
alla vivezza del vero-falso delle sue opere. In particolare io
sono affascinato dalle figure femminili in conversazione:
da quei loro visi sorridenti e loquaci che ti fanno percepire
auditivamente i suoni delle voci; dai gesti delle mani così
naturali, dalle positure veridiche dei corpi seduti o in piedi, dai capelli dettagliati con un’acribia quasi maniacale.
Vorrei comporre un gruppo in conversazione e collocarlo
in luoghi pubblici tra gente in carne ed ossa che va e che
viene (un supermercato, una grande stazione ferroviaria,
un aeroporto) unendo il vero fisico al vero artistico in un
36Primapagina
gioco di rimandi, di
specularità, di ammiccamenti, di equivoci
anche, per sottolineare
quella dose di ambiguità che l’arte porta
sempre con sé e che
Genemans sa elevare
all’ennesima potenza e per evidenziare
l’aspetto ludico di cui
a volte essa si riveste.
Quasi avesse due anime, Johannes Genemans in altri momenti
dà alle sue opere – soprattutto ai suoi volti
– una fissità metafisica
che sposta la dimensione del vero “oltre” la fisicità, in una sorta di area dell’
“oltre” prossima alla qualità non vera del mistero e dello
spirito. Il tutto sempre utilizzando gli stilemi della naturalità espressiva, in una soluzione, dunque, di ambiguità e di
contraddizione (in cui quasi sempre l’iperrealismo viene a
trovarsi) che salda intimamente il vero e il suo stesso superamento. In questi casi i lavori dello scultore olandese
assumono un senso di sacralità che induce alla contemplazione meditativa. In fondo, con questi due modi di raccontare la sua verità artistica, uno naturalistico, anzi veristico,
ed uno metafisico, lo scultore è come se riproducesse nei
suoi materiali plastici quel grande mistero che è l’uomo,
nella sua doppia natura di corpo e di anima, di ragione e
di spirito, di mente e di sentimento; quel suo essere creatura ad immagine e somiglianza del Creatore, capace di
cogliere i suoni ma anche di percepire le voci inespresse
del silenzio.
attualità e cultura
di
Alberto Sensini
Piccolo Pantheon Personale:
era bella o no la Prima Repubblica?
S
ono passati soltanto pochi anni e sembra un secolo. Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica il
costume politico è cambiato in profondità. I rapporti fra leader e giornalisti sono troppo spesso affidati alle
piccole frasi mormorate al telefonino e poi rimaneggiate e spesso ingigantite. I rapporti personali non sono più
quelli di prima: tira a Montecitorio e a Palazzo Madama l’aria di un cameratismo insincero, di una sorta di
compromesso tacito, accettato da chi fa politica e di chi la politica dovrebbe spiegarla e farla capire ai lettori,
mantenendo le distanze fra i due mondi. Il “tu” imperversa e il “lei” è considerato come una sorta di inutile muro
divisorio. La vecchia cronaca politica, l’onesto “pastone” così detto dai tempi del grande Petruccelli della Gattina dei “Moribondi di Montecitorio” è stato seppellita senza onori e senza rimpianti. In TV parlano ormai soltanto
i soliti noti, corazzati in una sorta di reticenza allusiva, gli ospiti fissi dei TG della sera (perennemente vestiti con
pullover di cachemire, la domenica e sempre con sfondo di libreria…).
Maschere fisse della malinconica commedia di cui è inutile fare i nomi. Ma quanto fosse diverso il clima della
Prima Repubblica vorrei ricordarlo qui, in qualche pagina di diario di un giornalista politico che la Prima Repubblica l’ha vissuta, raccontata e commentata dal l960 a oggi.
IL SALUTO DI LEONARDI
A Firenze, erano gli anni terribili del terrorismo brigatista, Aldo Moro
mi fece sapere che mi avrebbe visto volentieri e ovviamente fui ben
felice dell’ invito inatteso.
Il Presidente metteva soggezione a tutti. Dava il Lei anche agli uomini
della scorta. Non concedeva più di una intervista all’anno e accettava
soltanto domande scritte. Considerava il massimo dell’elogio la frase
canonica “L’ho letta con interesse” accompagnata e non sempre da un
sorriso timido.
Andai all’appuntamento ben lieto di quell’invito. Sull’uscio dello studio incontrai il Maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Gli
andai incontro e gli tesi la mano. Mi rispose porgendomi la sinistra,
“perché vede direttore, - mi disse - nell’altra mano tengo sempre la
pistola”. Lo stesso Presidente Moro nel breve incontro mi raccomandò
più volte di essere prudente, mi rimproverò quasi affettuosamente per
essere arrivato in bicicletta e senza scorta.
Mi parlò con un filo di voce della situazione politica generale di
quei mesi di tensione e di morte.
“Sono tempi terribili” disse con
un soffio di voce, salutandomi
sulla porta. Non l’avrei rivisto mai più. Poche settimane dopo fu catturato
dalle BR e poi assassinato.
LA MOGLIE DI ANDREOTTI
Come Presidente della stampa parlamentare ero ossessionato da una richiesta dei colleghi i quali volevano che intercedessi a loro nome con Andreotti,
allora Presidente del Consiglio, perché non convocasse i Consigli dei Ministri nella tarda serata come era solito fare.
I colleghi avevano ragione ma non la spuntammo.
Con un piccolo bigliettino scritto a mano il Presidente mi rispose così:
“Caro Sensini, avete proprio ragione e infatti è la stessa cosa che mia moglie mi chiede da anni. Tanti cari saluti a Lei e ai suoi colleghi”. Senza
commento.
primapagina37
attualità e cultura
IL LAMALFA DEL PRIMO MATTINO
Ugo La Malfa era un onnivoro lettore di giornali. Se li faceva portare verso
le sei della mattina e li leggeva, anzi li consultava come testi sacri, spesso
annotandoli con un matitona rossa e blu.
Purtroppo però il leader repubblicano era convinto che tutti avessero le
stesse abitudini mattiniere. E quindi telefonava, magari alle sei e mezza
di mattina, per lui ora già tarda. Di decine di telefonate me ne è rimasta
impressa una particolare. Giovanni Spadolini era stato licenziato dalla direzione del “Corriere della Sera” con una lettera spicciativa e inelegante
di poche righe, firmata dai proprietari del più grande giornali italiano. La
mattina dopo, ero sicuro sarebbe arrivata la telefonata del Leader repubblicano e così fu.
La Malfa, più irascibile di sempre,era scandalizzato del modo volgare con
cui Spadolini era stato messo alla porta. Ne parlava con la solita irruenza,
con quella tipica voce cavernosa. Ma si trattenne poco “dobbiamo reagire,
fare qualche cosa per Spadolini, nemmeno un cameriere si licenzia così”.
Il “qualche cosa” era già chiaro nella mente di La Malfa: era la candidatura
al Senato per il collegio più importante di Milano, candidatura che l’ormai
ex Direttore del “Corriere” accettò senza esitazione e che fu l’inizio di una
carriera politica culminata con la Presidenza del Senato.
La cosa buffa è che Spadolini raccontò sempre negli anni successivi, che “il primo e il solo a sapere della candidatura era stato Indro Montanelli”. Non era vero. Ma si capisce il motivo di quella piccola alterazione della verità,
ovviamente l’investitura del grande Indro era ben più prestigiosa di quella che La Malfa mi aveva annunciato
all’alba di quel giorno.
LE CAMICIE DI GIOVANNONE
Appena eletto a Palazzo Madama, Spadolini con cui negli anni si era cementata un’ amicizia affettuosa, mi convocò
all’albergo Nazionale, a fianco di Montecitorio. “Vieni subito “mi disse. Non capivo il motivo di tanta fretta. Giovannone, come lo chiamavano noi amici, era di solito poco incline alla fretta, spesso silenzioso, ma anche capace di
battute fulminanti e di risate omeriche. La verità di quella convocazione non aveva nulla a che fare con la
politica che era il nostro leit- motif
quotidiano: Giovannone aveva bisogno di camicie taglia XL, maglie di
salute e calzini ma non sapeva dove
andare non essendo mai entrato in
un negozio in vita sua. Ebbi allora
un colpo di genio e lo accompagnai
in un suntuoso negozio nella zona
del Panteon, dove da decenni si servivano e si servono tuttora i Cardinali, i Vescovi e tutta la créme del
Vaticano. Spadolini ne fu felice. E
ogni tanto mi ricordava la visita a
quel negozio a cui era rimasto fedele
fino alla fine dei suoi giorni. Nessuna sorpresa : in fondo un pò Cardinale, Giovannone lo era proprio…
38Primapagina
attualità e cultura
LE ACQUEFORTI DI FANFANI
Telefonata di Piero Ottone, direttore del Corriere negli anni
Settanta: “guarda Albertino (Albertone era Ronchey…) che
più tardi viene Fanfani a casa tua. Il fondo che hai fatto ieri
non gli è piaciuto e te ne vuole parlare”. Io era a letto con
la febbre, cercai invano di evitare l’incontro ma Fanfani alle
tre per pomeriggio si presentò a casa, puntualissimo con il
fido Cresci al seguito. Ero curioso, anche se sapevo che cosa
voleva il leader della DC. Appena arrivato il Presidente cominciò a guardare due sue acqueforti che mi aveva regalato
nei giorni di Natale, ne smontò una, la colorò e la dedicò a
mia moglie. Ci raccontò di quel pazzo che gli aveva tirato
le orecchie fino a farlo svenire svelando un humour inatteso e poi finalmente quasi con noncuranza, mise la mano in
tasca, tirò fuori pò di fogli e disse, con un sorriso amabile
“Caro dottore ecco l’intervista che ho concordato con il suo
Direttore”. Rimasto senza parole, ebbi appena la forza di
dire: “veramente non ne sapevo niente e comunque lasci che
almeno le domanda le faccia io, non crede?” “Vedi, disse
Fanfani, rivolgendosi al suo segretario che era stato il regista di quella visita inopportuna, lo dicevo che non era il
caso…” e con mossa rapidissima stracciò le cartelle dell’intervista mancata, finì di sorbire il caffè e se ne andò con
un gran sorriso. “Venga a trovarmi in studio, caro Sensini, vedo che le incisioni Le piacciono”. Più tardi quando
Fanfani divenne Presidente del Senato, il rapporto si fece più intenso - Solo una volta accennai con lui a quell’episodio. “Davvero? - disse con aria furbetta - pensi che me ne ero proprio dimenticato”.
IL WHISKEY DI BERLINGUER
Oggi si parla sempre male delle Tribune Politiche degli anni passati. Ma si sbaglia, perché la formula dell’incontro
a due fra un giornalista e un leader politico inventata da Jader Jacobelli era pur sempre un’occasione di dialogo e
spesso di chiarezza. Fra i tanti ricordi di quegli incontri, c‘è quello con il potentissimo capo del PCI, Berlinguer assistito come sempre dal fedele segretario, il burbero e un po’ cupo Tatò.
Eravamo in pieno governo delle convergenze, il monocolore Andreotti.
Io ero allora direttore di uno dei pochissimi giornali di opposizione, “La
Nazione “di Firenze e sapevo bene di non essere amato alle Botteghe
Oscure.
A Berlinguer feci, di fatto una sola domanda in dieci versioni diverse:
“avrebbe il PCI appoggiato ancora a lungo Andreotti?”. Chiaramente
Berlinguer non poteva rispondere su due piedi a una domanda del genere ma io, come interlocutore, volevo quella risposta e sia pure indirettamente la risposta ci fu e fu un “no” appena mormorato. A incontro
finito, Tatò portò al leader il solito whiskey allungato con l’acqua e poi
mi attaccò con irritazione, dicendo che ero stato “scorretto”, mentre il
leader delle Botteghe Oscure taceva, forse imbarazzato anche lui da
quell’attacco così poco elegante. “Io - risposi a Tatò quando ebbe chiuso la sgradevole strigliata - vengo alle Tribune perché spero che sia
possibile tirar fuori degli incontri qualche notizia inedita. Capisco che
il “no” appena sussurrato da Berlinguer sia una notizia e ti basta aspettare domani per averne conferma”. E conferma fu. Pochi giorni dopo
il governo Andreotti non c’era più. Esattamente come aveva detto fra i
denti il potente Segretario delle Botteghe Oscure.
primapagina39
attualità e cultura
di
Mauro Lopizzo
A Michele Ambrosini
la “Paul Harris Fellow”
del Rotary di Barletta
“P
er aver donato negli anni
prestigio al nostro territorio diventando un alto punto di
riferimento per le nuove generazioni che mirano all’eccellenza,
questo il testo della targa donata
dal Rotary Club di Barletta all’Avv.
Prof. Michele Ambrosini, nel corso di una serata dedicata al tema:
”Le banche del territorio e la
nuova economia”.
Ambrosini, nato a Barletta nel
1948, dopo aver frequentato il Liceo classico “Casardi” di Barletta
ha intrapreso una carriera che lo
ha portato a ricoprire prestigiosi
incarichi, tra gli altri è stato membro di diverse commissioni presso
il Ministero dei Beni Culturali ed
Architettonici, della Commissione dell’U.N.C.P.I. per la riforma
del Codice di Procedura Penale,
Presidente della Camera Penale di
Urbino e componente del Consiglio Nazionale dell’Unione delle
Camere Penali, docente e ricercatore presso l’Università di Urbino
“Carlo Bò”, già presidente di BancaMarche, opinionista del TG1 economia e, infine, premiato nel 2009
tra i migliori pugliesi nel mondo.
Parterre qualificata ed attratta dal
40Primapagina
carisma espressivo del relatore.
Erano presenti: l’Assistente del Governatore Prof.ssa Carla D’Urso;
Mons. Savino Giannotti, vicario
generale dell’Arcidiocesi di TraniBarletta-Bisceglie e Nazareth; il
vice sindaco della città di Barletta,
dr. Antonio Cannito; dr. Giorgio
Giovannini, direttore centrale BancaMarche; Ing. Antonio Ruggiero,
Vice Presidente Nazionale UNESCO; rappresentanti dell’I.T.C. “M.
Cassandro” di Barletta e dell’I.T.C.
“Suore Salesiane dei Sacri Cuori”;
numerosi imprenditori e dirigenti
di banca. Mauro Lopizzo, Presidente del Rotary club di Barletta,
ha introdotto la serata evidenziando che, il mondo intero sta vivendo
una crisi sistemica che contamina
ogni nazione e ogni cultura; la crisi, oltre che finanziaria, economica
e istituzionale è una crisi di valori.
Una funzione di organo propulsore
dell’economia locale dovrà essere
svolta dalla “banca del territorio”,
non è un concetto geografico, ovvero banche che operano nel territorio
appoggiandosi all’economia locale;
ma la banca del territorio deve essere attore attivo di ciò che avviene
nei contesti di sviluppo economi-
co, culturale e sociale. Purtroppo,
le banche, tendono a considerare
il cliente in termini di probabilità
di default, un rischio che si misura
con il rating. È un errore, perché in
primo piano deve esserci non il rischio, ma l’opportunità di business.
“Se i clienti crescono … cresce la
banca” (essenza del tema). Dopo
la presentazione del relatore, curata dal dr. Nicola Miulli, socio del
club di Barletta , la parola ad Ambrosini. “Viviamo in tempi di grande confusione, alle banche vengono
attribuite responsabilità gravi ma va
tenuto conto che il sistema bancario
italiano è assoggettato alla situazione internazionale. Inoltre, in questo
momento, la maggior parte delle
richieste di credito serve per sanare
i debiti pregressi. I nostri imprenditori non finanziano i nuovi progetti.
Le banche hanno, sicuramente, le
loro colpe ma, nell’attuale contesto,
soffrono come tutti. Le banche sul
territorio, rivestono un ruolo importante e sono elemento di supporto
alla società in cui operano”. La serata si è conclusa con il saluto dell’assistente del Governatore Prof.ssa
Carla D’Urso, che ha invitato: gli
studenti a non scoraggiarsi perché il
lavoro, lo studio alla fine riservano
delle importanti soddisfazioni nella
vita (prendere come modello l’Avv.
Michele Ambrosini); gli imprenditori di curare il restyling dei propri
prodotti, rendendoli innovativi in
relazione alle esigenze del mercato
del momento e del target di riferimento - “chi non vive lo spirito del
suo tempo, del suo tempo si becca
solo i mali”,diceva Voltaire; le banche, di finanziare le idee e i progetti, soprattutto dei giovani. Il Rotary
club di Barletta si è arricchito, mediante la cooptazione di un giovane,
dr. Riccardo Verderosa, esperto in
materie fiscali e tributarie, ex ryliano che nella sua famiglia si è nutrito
di Rotary , presentato dall’instancabile Prefetto Felice Bonadies.
attualità e cultura
di
Talita Frezzi
“Canterò per Te”,
la chitarra di Dodi Battaglia
fa vibrare 4.000 cuori
È
il 1980 e la canzone “Canterò
per Te”, è il primo singolo dei
Pooh a non essere musicato da Roby
Facchinetti. È il 2012 e la canzone
“Canterò per Te”, trentadue anni
dopo, da il titolo al concerto che la
Scuola Musicale “G.B.Pergolesi”
regala alla città di Jesi. Sul palco
salgono un centinaio di ragazzi, poi
Dodi Battaglia, chitarrista, compositore e voce dei Pooh. La sua chitarra
scioglie assoli vibranti, capaci di tenere sospeso il cuore di 4.000 persone in una piazza della Repubblica
trasformata in un mare di gente che
ondeggia e canta. È lì, da quel pubblico fatto di generazioni diverse,
che nasce il sole dei Pooh, uno dei
gruppi italiani più longevi e più amati di tutti i tempi. Il concerto rilegge
la storia della musica italiana, quarant’anni sul filo dei ricordi legati a
successi intramontabili e senza tempo come “Chi fermerà la musica”,
“Piccola Katy”, “Cercando di te”,
“Noi due nel mondo e nell’anima”,
“La mia donna”, “Dove comincia il
sole”. Dodi regala un’intensa interpretazione di “Uomini soli”, brano
con cui i Pooh vinsero il Festival di
Sanremo nel 1990. In chiusura, la
struggente “Tanta voglia di lei”. La
piazza risponde, canta, si emoziona.
Com’è tornare nelle Marche?
“Sono felicissimo di essere qui, un
bellissimo spettacolo stasera. Ho
ricevuto un’accoglienza calorosa dice Dodi Battaglia - eravamo già
stati in concerto nelle Marche e ci
torneremo presto per il nuovo tour
dei Pooh, che parte a ottobre per
promuovere un album speciale con
la partecipazione dell’Ensemble
Symphony Orchestra”.
E sentire un centinaio di giovani
che cantano le sue canzoni?
“È una grandissima emozione. A
dire la verità è la prima volta che
accetto di partecipare a un concerto di questo tipo, ospite di un istituto musicale, seppur di alto livello
come la Scuola Musicale Pergolesi.
Ho partecipato a seminari o come
li chiamo io, ‘incontri’, ma sono
sempre molto tecnici. Questo di Jesi
è anche un approccio con la gente
che ruberò ed esporterò anche alla
scuola di Verona (“Città della musica”, ndr.) di cui sono presidente. Partecipando al concerto della
Scuola Pergolesi, che ringrazio di
cuore per avermi invitato, ho capito
che insegnando si impara”.
Lei è stato definito “miglior chitarrista europeo”, è uno dei pochi
musicisti ad avere uno strumen-
to musicale dedicato (la chitarra
Fender Dodi Battaglia) e nel 2009
ha pubblicato il suo “metodo per
chitarra”. Quindi nella sua lunga
carriera non c’è spazio solo per i
Pooh?
“I Pooh sono una parte molto importante della mia vita professionale e spero con loro di arrivare ai
50 anni di carriera insieme, sarebbe
bello anche umanamente. Ma ho
anche avuto molte collaborazioni
e gratificazioni da solo. Ho collaborato con Vasco Rossi (dal 1983
al 1985 suonando in “Una canzone per Te”, “Tofee” e “Va bene, va
bene”), con Mia Martini che mi è
rimasta nel cuore, con il grandissimo chitarrista Tommy Emmanuel,
con Al Di Meola… Proprio in questi
giorni è uscita una ristampa del mio
album “D’Assolo”, secondo disco
solista strumentale acustico, ora ripubblicato con una canzone nuova:
“4 marzo 2012” scritta per Lucio
Dalla, un caro amico cui ho voluto
dedicare un brano sereno”.
Il suo rapporto con la chitarra?
“Se ho un merito, credo che sia di
essere riuscito ad inserire uno strumento che non aveva un sistema italiano, infatti il suono della chitarra
elettrico era bandito dalle sale di
incisione...”.
primapagina41
attualità e cultura
di
Ilaria De Maximy e Stefano Gottin
Sferisterio
sul solco della tradizione
S
feristerio: Francesco Micheli
nuovo direttore artistico subentrato a Pier Luigi Pizzi, titoli popolari, incassi sicuri nell’estate della
crisi, dei tonfi della borsa e dello
spread altalenante. Nella speranza
di non ridurci come gli squattrinati
ragazzi della Bohéme, siamo tornati giovani ritrovando la genialità di
Josef Svoboda del mitico allestimento de La Traviata di una ventina d’anni fa, con lo specchio a 45
Toscanini: una volta basterebbe per
capire come va eseguita la scena
della festa a casa di Flora e tutto il
resto.
Myrtò Papatanasiu è stata una
buona Violetta, più a proprio agio
nelle parti liriche e intimistiche (soprattutto nel II atto), un po’ fragile
negli acuti, volenterosa nella dizione, bella scenicamente. Luca Salsi
(Giorgio Germont) ha cantato con
buona linea e un certo gusto, anche
“La Traviata”
gradi che riflette ciò che accade in
palcoscenico. È uno dei rari casi in
cui - senza nulla togliere a Henning
Brockhaus – la scenografia è regia,
dato che proprio grazie alla prima
si assiste alla contemporanea riproposizione, secondo diverse angolazioni, delle interazioni sceniche dei
personaggi, in un originale quanto
semplice gioco di raddoppi e di duplicazioni mai uguali a se stessi.
Ottima, anzi esemplare anche sul
piano finanziario, l’idea del recupero di un allestimento che non ha
perso né fascino né modernità. Debole in compenso la direzione musicale di Daniele Belardinelli, lenta e
poco incisiva. Mi chiedo se qualche
direttore di oggi abbia mai sentito
le prove de La Traviata di Arturo
42Primapagina
se l’eccessiva copertura del suono
rendevano la dizione un poco impastata e l’accento generico. Il tenore
Ivan Magrì (Alfredo Germont) è la
dimostrazione che una bella voce
deve essere anche supportata dal
gusto e dallo stile, certamente migliorabili. Buona la Flora Bervoix
di Gabriella Sborgi, decorosi gli
altri. Successo non delirante ma comunque caloroso: in fondo Traviata
è sempre Traviata, e Verdi è sempre
Verdi.
Non esistono i colori dei gitani di
Siviglia, gli aranci, il flamenco e
neppure le nacchere nella Carmen
di Serena Sinigallia; la felice follia
degli zingari è piuttosto instabilità
e confusione, le nacchere sono bottiglie vuote e la scena non cambia
mai...la taverna, la prigione, la piazza, tutto è sullo stesso sfondo di una
periferia di sabbia, povera e degradata, in cui gli spazi sono delineati
solo dallo spostamento di transenne
e cassette di plastica colorate. In una
regia di taglio dichiaratamente politico, i gendarmi entrano dalla platea con manganelli e in tenuta anti
sommossa (per un attimo sembrava
di essere tornati al Mosè di Graham
Vick!) e Carmen tatuata e in pantaloni, arriva indifferente parlando
al cellulare! Escamillo acclamato
da un tifo da stadio è rappresentato
come un divo, mentre le apparizioni
di Micaela e Don Josè insieme, hanno sempre sullo sfondo un corteo
funebre con tanto di fiaccole a rappresentare la presenza ossessionante
della figura materna e dell’amore
familiare. Roberto Aronica (Don
Josè) è sicuro e di giusta potenza
vocale, ben riuscita la trovata per
l’aria «La fleur» in cui il tenore
canta rivolgendosi ad una Carmen
ammanettata e costretta ad ascoltarlo. La complessità del personaggio di Carmen, non è invece resa in
modo totalmente efficace: mancano
in alcuni momenti la sensualità e
l’erotismo anche se Veronica Simeoni è comunque di bella presenza
scenica e vocalmente convincente.
Bene anche Gezim Myshketa come
Escamillo e Alessandra Marianelli, dolcissima Micaela. Diversi momenti di scollamento tra l’orchestra
diretta da Dominique Trottein e
il palcoscenico, specie nelle parti
corali; insolita ma ugualmente efficace la scelta di tempi molto lenti per «Les tringles des sistres» e
«Voyons, que j’essaie a mon tour».
Qualche riserva anche per le scelte
registiche del finale: emozionante la
disperazione di Josè che colpisce ripetutamente Carmen mentre insiste
sul suo amore, non funziona però la
Carmen a terra sanguinante con il
testo « Eh bien! Frappe-moi donc,
ou laisse-moi passer» (Colpitemi al-
Foto Tabocchini
applaudita stagione operistica con la presenza
di Roberto Bolle e il ricordo di Mario Del Monaco
attualità e cultura
lora! O Lasciatemi passare!); infine
la morte: Josè colpisce molte volte
Carmen prima di lasciarla a terra ed
invocare il proprio arresto, inaspettatamente arriva Micaela, che, visto
l’accaduto, lo porta via e affida il
pugnale al vagabondo che per tutta
l’opera ha seguito Carmen e che ora
la tiene tra le sue braccia.
Pochi giorni dopo, grazie alla tra Civitanova Danza e Macerata Opera
Festival, è stata la volta della Étoile
del Teatro alla Scala Roberto Bolle,
che tornava allo Sferisterio dopo la
performance di qualche anno fa con
Alessandra Ferri ed era perciò molto atteso (biglietti a ruba) nel suo
Trittico Novecento, un programma
originale, elegante, accattivante. In
apertura di programma Who Cares?, di George Balanchine su musiche di George Gershwin, danzate
da Juliana Bastos, Magali Guerri,
Maria Gutierrez e Roberto Bolle.
Nella seconda parte, 27’52 coreografia di Jirí Kylián e musica di Dirk
Haubrich, con protagonisti Nataša
Novotná e Václav Kuneš. A seguire
Aus Holbergs Zeit di John Cranko
su musica di Edward Crieg, danzato da una Alicia Amatrian davvero
magnifica e da Alexander Jones.
Quindi, Le Jeune Homme et la Mort
di Roland Petit, nell’intensa interpretazione di Jia Zhang e Roberto
Bolle su musica di Johann Sebastian
Bach ha condotto il pubblico entusiasta alla conclusione di una serata da non perdere, soprattutto alla
luce della memorabile esibizione, lo
scorso anno, di Svetlana Zakharo“Bohème”
“Carmen”
va con le Étoiles del Teatro Bol’šoj
e dell’Opera di Kiev. In pratica, ormai gli appuntamenti conla danza a
Macerata Opera sono diventati un
must irrinunciabile.
Il 2 agosto il Macerata Opera Festival commemorava Mario del
Monaco nel trentesimo anniversario della morte, in singolare coincidenza con quello di Enrico Caruso,
scomparso proprio il 2 agosto del
1921. Ovviamente foto d’archivio e qualche registrazione (poca
roba) del più grande tenore eroico
del ’900, che inaugurò nel 1967 la
prima di tante gloriose stagioni operistiche allo Sferisterio, con Otello
(regista il figlio Giancarlo, ideatore
della serata che qui commentiamo).
Il raffronto tra la straripante personalità, non solo vocale, del « Moro
del secolo » e i (troppi) cantanti
ospiti della serata del 2 agosto sa-
rebbe stato ingrato, soprattutto con
riferimento ai tenori presenti (bravo Roberto Aronica), tutti dotati,
chi più chi meno, di buone frecce
al proprio arco ma con qualche…
difetto di mira. Pertanto, Del Monaco paradossalmente si è visto poco,
ed è mancata una conduzione della
serata che conciliasse gli aspetti inerenti la voce, la personalità e la carriera del grande tenore con lo spirito
divulgativo e popolare dell’evento.
Chi, tra gli artisti, ha saputo distinguersi sono state, manco a dirlo,
le donne, e in particolare Daniela
Dessì e Fiorenza Cedolins, dotate
di una classe che consente loro di
reggere il paragone con le illustri
colleghe che le hanno precedute
nel repertorio che esse attualmente
praticano. Comunque, serate come
questa rendono evidente che il mondo della lirica, soprattutto «di repertorio », non annovera più i calibri di
un tempo, non solo sul piano vocale
ma della personalità, e questo è un
vero peccato. Luciano Pavarotti mi
raccontò che al concerto commemorativo di Enrico Caruso al Teatro
di San Carlo nel 1973 cantarono lui
stesso e proprio Mario del Monaco,
oltre a diversi altri tenori di livello
non secondario. Beh, che dire… ?
Mi dicono che Bohéme sia uno spettacolo riuscito (regia di Leo Muscato e direzione d’orchestra di Paolo
Arrivabeni), ma l’urgenza di andare in stampa non si concilia con gli
impegni del recensore. È comunque
lecito pensare che un tenore vero
come Francesco Meli (Rodolfo) e
un soprano emergente come Carmen Giannattasio (Mimì) stiano
facendo in pieno il loro dovere.
primapagina43
attualità e cultura
“Ciro in Babilonia”, ossia quando
la realizzazione è migliore dell’opera.
Mariotti jr. e Florez sugli scudi
nella ripresa della “Matilde di Shabran”
“Ciro in Babilonia”
N
on sono un sostenitore del teatro “di regia” – chi mi conosce lo sa - perché tende a dirottare l’attenzione dalla
parte musicale, e vocale in particolare, a quella visiva, dando
l’impressione che i cantanti costituiscano una variabile marginale e quasi accidentale e non invece l’elemento irrinunciabile
e più specifico dello spettacolo.
Nel “Ciro in Babilonia” che apriva la 33^ edizione del ROF,
mi sono dovuto ricredere perché lo spettacolo firmato da Davide Livermore (regia), Nicolas Bovey (scene e progetto
luci) e Gianluca Falaschi (costumi) supportavano il relativo
interesse dell’opera giovanile di Rossini con una riuscitissima ed elegantissima messa in scena in bianco e nero,
stile anni Venti, con gli spettatori in
palcoscenico ad assistere a un film del
cinema muto quale rafforzativo delle
prestazioni degli artisti, le cui riprese
in atteggiamenti alla Francesca Bertini,
scorrevano nello schermo gigante, con
tanto di didascalie a commentare la vicenda intanto che essi, in carne ed ossa,
cantavano le vicende tratte dall’Antico
Testamento di Ciro, Baldassarre, Amira
e così via.
L’Orchestra del Teatro Comunale
di Bologna era diretta con diligenza e
buon gusto da Will Crutchfield che
44Primapagina
Stefano Gottin
avrebbe fatto meglio a evitare di affermare (vedi l’intervista pubblicata su Il Messaggero del 13 agosto) che
il talento giovanile di Rossini sarebbe superiore a quello di Mozart. Non scherziamo! Né il ROF né Rossini
hanno bisogno di queste forme di piaggeria vagamente
manipolatorie nei confronti dei meno avveduti, che rafforzano un’autoreferenzialità e un assurdo campanilismo culturale dei quali Rossini in primis non avverte
minimamente il bisogno. Il ROF è per definizione una
grande operazione, unica nel suo genere, che si protrae da oltre trent’anni, e dire che di “meglio non ce
n’è” non è solo fuori luogo ma è controproducente e
forse anche ridicolo, giacché la credibilità di una affermazione è spesso inversamente proporzionale al suo
ricorrere.
Il cast era decisamente all’altezza della situazione, con
il contralto Ewa Podles nel ruolo di Ciro, re dei Persiani). La Podles, vera artista dotata di grande esperienza
e di singolari mezzi vocali, magari con qualche artificio
nelle discese al registro grave, è stata in grado di affrontare con ottimo piglio la coloratura e di porgere con accenti commossi le parti più patetiche e sentimentali del
ruolo. Il soprano Jessica Pratt (Amira, moglie di Ciro
e prigioniera di Baldassarre, re di Babilonia) tornava
a Pesaro dopo la bella prova nell’Adelaide di Borgogna dell’anno passato, e nuovamente metteva in luce
la propria voce bella e sicura, insieme a una avvenenza
di donna piena di salute. Il tenore emergente Michael Spyres
(Baldassarre), in un ruolo da “cattivo” (che nel Rossini-serio
è usuale assegnare alla corda tenorile) metteva in mostra la
ricchezza della propria gamma timbrica e l’estensione vocale
per cui è ormai assai noto. Sostanzialmente omogeneo il resto
del cast con Carmen Romeu (Argene), il basso Mirco Palazzi (sicuro e incisivo Zambrì), l’interessante tenore Robert
Mchperson (Arbace) e Raffaele Costantini (Daniello). Ottimo
il coro del Comunale bolognese diretto da Lorenzo Fratini.
Il secondo titolo in cartellone era la “Matilde di Shabran”
“Matilde di Shabran”
Foto Studio Amati Bacciardi
ROF:
di
attualità e cultura
“Il Signor Bruschino”
nella fortunata edizione del 2004 con la
regia di Mario Martone, la razionalistica scenografia di Sergio Tramonti
(quella della scala elicoidale semovente, evocativa del castello di nefandezze di Corradino) e i costumi di Ursula
Patzak. L’Opera, caratterizzata da un
mix di elementi fintamente drammatici, comici e grotteschi, con un ruolo,
quello del poeta Don Isidoro, in vernacolo napoletano (evidenti i richiami
a quel capolavoro che è il Flaminio di
Pergolesi), era diretta con grande stile e
proprietà di gesto da Michele Mariotti, attento ai tempi, alle timbriche, alla
concertazione e al fraseggio, ben reso
dalla “sua” orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Il maestro pesarese,
sempre più sugli scudi, tendeva però,
ogni tanto, a farsi prendere la mano coprendo i cantanti. Eccetto forse il baritono Nicola Alaimo, unica vera “voce”
della serata nel ruolo di Aliprando, ne
facevano le spese un po’ tutti, inclusa
la star Juan Diego Florez (Corradino), sicurissimo vocalmente, elegante
nel porgere, incredibilmente bravo in
scena, divertentissimo nel produrre i
grotteschi risvolti misogini di Corradino che si sveglia all’amore, ma che per
tutta la prima metà del I atto scontava i
larghi spazi della sala e il piglio eroico
che il personaggio impone. So di essere controcorrente, ma Corradino – pur
eseguito benissimo dal tenore peruviano, ma non è questo il punto – è una
parte da baritenore, perdipiù misogino
e non da un tenore amoroso sentimentale qual Florez è (nell’Ottocento lo
eseguiva Donzelli, primo interprete di
Norma, insomma un tenore alla Del
Monaco). Ma queste cose non bisogna
dirle troppo forte, così come che Florez
– come tutti i grandi artisti – ha bisogno di altri grandi artisti intorno a sé per
essere stimolato. Ma il suo entourage è
più preoccupato che chi gli canta vicino non lo “copra”…. Insomma, Florez
deve essere l’”unico” e gli altri cantanti
devono riscuotere, al massimo, un successo riflesso. Di qui un calo del livello
medio del cast rispetto al 2004 giacché
il basso (?) Simon Orfila (Ginardo)
non vale certo Carlo Lepore e men che
meno Paolo Bordogna (Don Isidoro) vale Bruno de Simone, giacché il
primo risolve il ruolo del Poeta (difficilissimo e centrale nella Matilde) con la
consueta serie di vezzi, gag e mossettine graditi ai pressappochisti di bocca
buona, mentre il secondo (al pari di Florez, colonna portante nell’edizione del
2004) conosce magistralmente i segreti
della commedia dell’arte, della dizione,
dell’accento sapido, dello stare in scena
con sobrietà e arguzia e della “napoletanità” nel senso migliore del termine. Insomma, Don Isidoro non è un ruolo da
“buffo caricato”, ma è un personaggio
buffo sì; ma anche tragico, impegnato
per tutta l’opera a salvare la propria vita
e a gestire le situazioni più difficili con
prontezza e arguzia. Olga Peretyatko
era Matilde, elegantissima in scena,
bellissima, un po’ vuota nei centri e nel
registro grave ma sicura negli acuti e
nel fraseggio. Per il ruolo occorrerebbe
un soprano un po’ più strutturato ma la
futura sig.ra Mariotti (auguri a entrambi!) ha compensato qualche leggero deficit vocale con una classe e uno charme
che non le si possono certo negare ma
che non hanno oscurato il ricordo della
precedente interprete, Annick Massis.
Bravo il giovane mezzo-soprano Anna
Goryachova, sicura e intensa nel ruolo
impervio en-travesti di Edoardo benché
la prima aria, con le sue micidiali escursioni nel registro grave, l’abbia messa
un po’ a disagio. Ottimo, come detto,
Nicola Alaimo (Aliprando) finalmente
un vero baritono, dotato di voce larga e
di accento appropriato, destinato a grandi cose a condizione di non saltabeccare
da un ruolo all’altro senza un progetto
coerente. Brava caratterista Chiara
Chialli nel ruolo caricaturale della biliosa Contessa d’Arco. Positive le prove
comprimariali di Marco Filippo Romano (Raimondo Lopez) e di Giorgio
Misseri (Egoldo). Per concludere, un
successo strepitoso, per tutti, giusto per
fare piazza pulita di talune osservazioni
controcorrente di chi scrive, perché - si
sa - il pubblico ha sempre ragione!
Terzo titolo “Il signor Bruschino”,
con la regia del Teatro Sotterraneo e
le scene e costumi dell’Accademia di
Belle Arti di Urbino. Suonava – evviva evviva!! – la brava Orchestra
sinfonica G. Rossini, diretta in modo
appropriato dal giovane Daniele Rustioni. La scena si svolgeva in una sorta di rossiniano parco dei divertimenti,
in una zona del quale avevano luogo
i fatti e gli equivoci tipici dell’opera
buffa, di cui il Bruschino è espressione idiomatica. Cantava una compagnia equilibrata che si sorreggeva
sulla voce importante del basso Carlo
Lepore (Gaudenzio), un artista in netta
crescita che dovrebbe cantare al ROF
ruoli di maggiore impegno, peraltro
da lui già eseguiti in numerosi circuiti internazionali di prima grandezza.
Nel ruolo di Sofia cantava il soprano
leggero Maria Aleida, Bruschino padre era l’esperto Roberto De Candia,
Bruschino figlio Francisco Brito, Florville il bravo tenorino David Alegret,
Filiberto Andrea Vincenzo Bonsignore, mentre Chiara Amarù prestava la
propria voce di mezzo-soprano, non
priva di interesse, al ruolo di Marianna.
Infine, il 13 agosto abbiamo assistito
al concerto vivaldiano del mezzosoprano/contralto Sonia Prima: che
classe, che stile, che passo interpretativo! Questi sono gli artisti che vorremmo sempre ascoltare, coloro dai
quali si riesce sempre ad apprendere
qualcosa di nuovo, coloro che davanti a tutto mettono la musica e non se
stessi. Successo trionfale, a ragion
veduta. Italiani in sala, quasi nessuno,
comunque pochi, troppo pochi.
primapagina45
attualità e cultura
di
Tiziana Tobaldi
Sesta edizione del
Premio Vallesina a Villa Salvati
Foto Vincenzoni
L
a raffinata residenza neoclassica di
Villa Salvati a Pianello Vallesina ha
ospitato il 23 giugno la sesta edizione
del Premio Vallesina, dedicata ai figli
illustri che rappresentano in Italia e nel
mondo l’eccellenza di questo territorio
ricco di cultura, lavoro, storia e tradizione. Una festa nel segno della solidarietà
e dell’impegno sociale: come nell’edizione 2010, l’incasso è stato devoluto
al “Progetto Brasile” per il completamento dei lavori del Centro educativo
di don Luigi Carrescia, missionario
originario di Santa Maria Nuova. La
manifestazione ha avuto il patrocinio di
Regione Marche, Provincia di Ancona,
Consolato della Federazione Russa nelle Marche, Ordine dei Giornalisti delle
Marche e il sostegno di molte imprese.
Le note della Banda Musicale ”I due castelli”, diretta da Manolo Rango e l’esibizione delle majorettes hanno aperto la
serata. Un video del giornalista Gianni
Rossetti con le immagini di Enio Tiburzi ha presentato la realtà di Monte
Roberto e di Castelbellino, seguito dal
saluto dei sindaci Olivio Togni e Demetrio Papadopulos. Quest’anno giovani
i premiati, giovanissimi a consegnare
il premio: «un legame ideale che intreccia speranze, aspirazioni, destini,
emozioni.- ha spiegato il conduttore Paolo Notari -Un Premio che costituisce
un’indicazione per il futuro.»
Per le Arti, Premio Vallesina al maestro
Alessandro Fossi, nato a Monteroberto nel 1975, considerato dalla critica il
più grande suonatore di tuba al mondo.
Ha consegnato l’Ulisse in bronzo dello
scultore Floriano Ippoliti, simbolo del
46Primapagina
Premio, il suo allievo Luca Morresi,
musicista diciassettenne.
Premio all’Imprenditoria a Massimo
Stronati, nato a Jesi nel 1962, uomo
dalla spiccata sensibilità sociale, che ha
dato lavoro e futuro a tanti marchigiani
e immigrati. «Lavoro significa costruire
giorno per giorno, mattone su mattone
la fiducia e la speranza.» ha affermato
Stronati, premiato da Elisa Rosolani e
Mario Skoza, figli di due suoi collaboratori.
Premio alla Scienza e all’ingegno messi
a disposizione della ricerca per migliorare la qualità della vita a Ruggero Paraventi, nato a Castelplanio nel 1970,
laureato in chimica, ricercatore. Attualmente si occupa di nuovi strumenti per
completare il sistema di crescita vertebrale. Ha offerto l’Ulisse Andrea Diotallevi, anno 1989, promettente musicoingegnere di Monte Roberto.
Per le attività sociali, il Premio al sottotenente Daniele Riggio, nato a Jesi
nel 1968, responsabile per le relazioni
esterne con Afghanistan, repubbliche
Centro Asiatiche, Iraq e Mongolia presso la divisione della diplomazia pubblica del Segretariato Internazionale
NATO nel quartiere generale di Bruxelles. Ha premiato il ventottenne pakistano Shahid Mohammad Ajmal, in Italia
dal 2000 per studiare, primo consigliere
straniero in Confcooperative Marche.
E quest’anno un omaggio allo sport
con la Targa del Presidente della Repubblica al Club Scherma Jesi, ad oggi
la Società più titolata al mondo di ogni
disciplina, e al suo presidente Alberto
Proietti Mosca. Un’impronta vincente è lasciata da atleti come Giovanna
Foto Ubaldi
Trillini (portabandiera olimpica Atlanta
1996), Elisa Di Francisca, Stefano Cerioni e Valentina Vezzali (portabandiera
olimpica Londra 2012). Ha premiato
la campionessa europea di Twirling
Margherita Rocchetti di Castelbellino
classe 1993, in Nazionale ai prossimi
mondiali di Parigi.
Ospiti della serata Frate Mago, con i
suoi giochi di illusionismo, la cantante
Linda, che ha proposto tre emozionanti brani. E il gruppo jesino Onafifetti:
Giovanni Filosa, Piergiorgio Memè e
Mario Sardella in una satira brillante e
pungente che percorre con ironia, leggerezza e acume temi sociali e di attualità, ottenendo la simpatia del pubblico
da 44 anni. Al gruppo un Premio speciale dal presidente dell’Associazione
Premio Vallesina Gianluca Fioretti per
la lunga e brillante carriera artistica.
Poi il saluto del segretario generale Nicola Di Francesco, ideatore nel 2001
della manifestazione: «Grazie a tutti
coloro che, con il loro impegno, hanno
collaborato all’organizzazione del Premio Vallesina. E un auspicio: spero che
la Regione Marche si accorga di noi e
possa essere presente nelle prossime
edizioni in maniera più significativa di
quanto fatto finora». A chiusura una
suggestiva e poetica coreografia della
Compagnia dei Folli e il buffet di prodotti offerti da aziende locali. Il sindaco
di Maiolati Spontini ha donato un riconoscimento per i sessant’anni di attività
a Pio Porcarelli, titolare della gelateria
Ciro e Pio. «Una serata ricca di contenuti, fiducia, solidarietà.» ha affermato
Fioretti. Valori importanti, di questi
tempi.
attualità e cultura
di
Marta Paraventi
Il Polittico
di San Domenico del Lotto
tornato all’originale splendore
Dopo le lunghe
operazioni di restauro
Particolare del Polittico dopo il restauro
3
00 giorni di cantiere, oltre 6 mq
restaurati ed ora è possibile finalmente ammirare nel museo di Villa
Colloredo Mels il monumentale Polittico di San Domenico (1506-1508), una
delle opere più significative di Lorenzo
Lotto, tornato all’originario splendore
grazie al restauro durato circa un anno
condotto dai laboratori COO.BE.C.
di Spoleto e reso possibile da Enel. Il
restauro rientra tra le attività promosse
dal progetto territoriale Terre di Lotto
ed era stato avviato a seguito di un’accurata campagna di analisi scientifiche
e indagini diagnostiche, finanziata dalla
Regione Marche, che aveva rivelato il
grave stato conservativo in cui versava
l’opera: sollevamenti della pellicola
pittorica, viraggi nel colore, numerosi fori da tarlo che avrebbero potuto
causare la perdita del bene, sovrapposizioni di interventi di restauro con forti
abrasioni e pesanti ritocchi oltre a cadute di colore. “Vasta e complessa l’im-
presa, solenne e impressionante quando la si osserva dal vero: stupefacente
per l’occhio che continua ad esplorare
meravigliato i particolari dettagliatissimi, le minuzie che Lotto dipinge con
assoluta precisione” dichiara Giovanni
C.F. Villa, curatore della mostra lottesca realizzata presso le Scuderie del
Quirinale lo scorso anno, a proposito
del polittico il cui restauro era iniziato
proprio in occasione della mostra romana con un laboratorio aperto dove
i restauratori hanno completamente
restaurato la cimasa e condotto, dal
vivo, operazioni di pulitura della tavola
con i santi Lucia e Vincenzo Ferrer. Le
complesse operazioni di restauro hanno
dato risultati incredibili sotto l’aspetto
cromatico. In particolare, nella tavola
raffigurante Santa Caterina da Siena
e San Sigismondo sono emerse cromie
sorprendenti: dal violetto del drappo
nel fondo, all’abito di San Sigismondo
realizzato mediante il verde resinato
agli splendidi incarnati che si stagliano
nei fondi scuri, creando un forte impatto emotivo. Nel registro inferiore, nella
tavola raffigurante San Vito e San Pietro martire la qualità della mano lottesca ha continuato ad emergere in modo
straordinario man mano che si provvedeva a liberarla dalle sostanze e dalle ridipinture alterate applicate nel tempo: il
risultato è il grande effetto dettato dagli
accostamenti di colori preziosi utilizzati per la veste di San Vito, dalla resa
metallica dell’armatura, dal dettaglio
dei personaggi con le spade e a cavallo,
realizzati con una punta di pennello sottilissima, che si intravedono nel piccolo
brano di paesaggio.
I risultati del restauro saranno oggetto
di un volume finanziato da ENEL che
si integrerà con la serie di pubblicazioni
edite in occasione della mostra romana
dedicata a Lorenzo Lotto. Tra queste,
oltre al catalogo della mostra ricordiamo il volume “Lotto nelle Marche”
edito da Silvana editoriale, promosso
da Regione Marche e curato da G.F.
Villa e V. Garibaldi con il coordinamento scientifico di M. Paraventi, che
costituisce lo strumento più aggiornato
per conoscere la grande opera marchigiana del maestro Lorenzo Lotto.
Particolare del Polittico dopo il restauro
primapagina47
attualità e cultura
di
Pietro Balducci
Pane e tulipani,
quando la realtà non è un film
È
il primo bene confiscato alla criminalità in provincia di Ancona e presto diventerà una comunità residenziale per malati psichiatrici. Si tratta del podere
Tufi a Cupramontana, sequestrato vent’anni fa e poi
confiscato perché di proprietà, tramite un prestanome,
dell’allora tesoriere della banda della Magliana, Enrico
Nicoletti. Dopo averne affidato la gestione ad alcuni
privati, il comune di Cupramontana nel 2009 ha sottoscritto una convenzione con la cooperativa sociale
Vivicare di Jesi con l’obiettivo di costituire nel podere
una comunità psichiatrica. A marzo 2013, terminata la
ristrutturazione del casolare che si trova in mezzo al
podere, prenderà il via la nuova comunità psichiatrica
con 14 ospiti fissi. Non sarà utilizzato solo il casolare,
ma anche tutta il terreno intorno, circa tre ettari, che
sarà coltivato proprio dagli ospiti della comunità. Per
gestire la parte agricola della struttura la Vivicare ha
costituto una cooperativa sociale di tipo B, la Pane e
Tulipani, con l’obiettivo specifico di svolgere l’attività
per l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati
ospiti della comunità.
“Ci occuperemo di coltivare il fondo” - spiega Stefano
Sensoli, presidente di Pane e Tulipani - “puntando ad
inserire gli utenti della comunità nelle fasi della lavorazione ad essi congeniali con il supporto degli educatori.
Il valore educativo e riabilitativo delle attività agricole,
in modo particolare le coltivazioni ortive, è ormai ampiamente riconosciuto”.
48Primapagina
All’aspetto educativo, però, si affianca anche uno pratico. “Nel fondo – continua Sensoli - verrà realizzato un
orto i cui prodotti, rigorosamente biologici e certificati,
saranno venduti nel mercato limitrofo, privilegiando le
esigenze della locale Casa di Riposo presso cui è impiegata una parte del personale infermieristico ed assistenziale della Cooperativa Vivicare, che gestisce anche la
comunità residenziale. Altri canali di vendita saranno
i Gas (gruppi di acquisto solidale), i negozi locali, la
vendita diretta e “la spesa nell’orto” tramite raccolta
diretta da parte del cliente, la vendita on-line, i mercati
locali, le consegne a domicilio”.
Per preparare il terreno, incolto da anni, alle future coltivazioni e “per accrescere il rilievo sociale delle attività,
promuovendo la cultura della legalità, abbiamo pensato
che sarebbe stata una ottima opportunità entrare a far
parte del circuito di “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” organizzando già da quest’estate
un campo di volontariato della durata di una settimana
nell’ambito del progetto Estate Liberi 2012. Durante la
prima settimana di luglio, 15 volontari, scelti da Libera,
con il contributo di BancaMarche, “hanno dato vita a
una sorta di campo sociale, preparando il terreno e le
aiole dell’orto, predisponendo il sistema di irrigazione
e iniziando la lavorazione del terreno”. Non solo lavoro, perché i ragazzi hanno svolto attività formative sui
temi della lotta alla criminalità e la diffusione della cultura della legalità”.
attualità e cultura
di
Talita Frezzi
Idee e proposte
sul mondo, ecco
“l’Effetto Domino”
di Diego Pierini
“D
edicato a chi crede che una
conversazione possa trasformare l’universo”. Non si inizia
un libro dalla dedica, di solito. Ma
in “Effetto Domino” è un passo obbligato.
Un passo imprescindibile perché
quelle dieci parole raccolgono la
sintesi di un’avventura letteraria
incredibilmente originale, affrontata con coraggio da Diego Pierini,
classe ’79 anconetano d’origine ma
romano d’adozione.
Un giovane che con le parole ci lavora, ci scherza, ci riflette e fa riflettere gli altri. Pierini è autore del
programma “Parla con Me” di Rai3
e “The Show must go off” (La7)
condotti da Serena Dandini, collabora con “Voyager” (Rai2), ha scritto di cinema per “Ciak” “34mm” e
“Movie&co”. Giornalista, speaker
radiofonico, autore, scrittore, pensatore in progress. Diego e le sue
parole, che si incontrano, scontrano, generano qualcosa. È tutto qui
“Effetto Domino”, un libro in equilibrio tra filosofia, esistenzialismo e
new age, perché “ogni opinione dà
il via a una cascata di trasformazioni, come un effetto domino - spiega
Diego Pierini - le idee, o meglio i
frammenti di idee, qui disordinatamente archiviate, germogliate
liberamente e poi propagatesi attraverso il web, che spaziano senza
etichette né auctoritas dalla musica alla religione, dalla sociologia
al cinema, hanno l’unico scopo di
essere una leva per accendere curiosità e generare discussioni. E
alimentare così il processo infinito
della loro evoluzione”.
“Effetto Domino” - edito da Tutti
Autori Milano - è un libro ‘on demand’ la cui stampa avviene quantitativamente “su richiesta”, formula nuova per nuovi originali autori.
È un sasso che riesce a muovere un
mare, scatenare curiosità e accendere discussioni.
Dopo l’onirico saggio di filosofia “Noi, robot” sugli ibridi uomo/
macchina, Diego Pierini raccoglie
con “Effetto domino” una serie di
riflessioni filosofiche, pensieri e
opinioni scritti nel corso degli anni
e diffusi attraverso il web (il sito
www.dkp.it è una esperienza multisensoriale più che un banale sito
Internet). “Nessuno di questi miei
“sassi” di pensiero gettati nell’universo ha pretesa di completezza e
di definitività - aggiunge - ma solo
l’ambizione di fornire una prospettiva in grado di innescare critiche,
generare confronto”.
Teoricamente, a voler essere rigidamente coerenti, questo libro non
dovrebbe neppure esistere, perché
la fissità della pagina scritta contraddice l’idea portante del continuo movimento e autogenerazione
progressiva del pensiero: infatti
l’autore annuncia che sul web saranno presto pubblicati degli “aggiornamenti”.
primapagina49
attualità e cultura
Bere con
un occhio
all’etichetta
responsabile
Basta leggere
e puoi stare tranquillo.
Una chiacchierata
sul Verdicchio,
con Andrea Pieralisi,
della Monteschiavo
L
a notizia è curiosa, se volete.
Ti trovi al ristorante, mettiamo la sera, sai quanto sei alto,
quanto pesi, ti fai portare una
bottiglia di vino e, alla perfezione, conosci i limiti della tua
“bevuta”, la cosiddetta corretta
quantità di vino. Senza che poi,
mettendoti in macchina, nessuno ti imputi chissà cosa. Vale
per maschietti e femminucce.
Significa cosa? Non violare la
50Primapagina
di
Giovanni Filosa
legge e bere un prodotto che la
natura, da sempre, ci propina.
Che ti fa, Gennaro Pieralisi,
deus ex machina dell’industria (ma anche dell’agricoltura) mondiale? Quando gli è
venuta l’idea, l’ha brevettata
e ora trovi sulle etichette del
suo vino, di un suo vino, le
Coste del Molino, una tabella. Se sgarri da quella, sei
fuori della normativa.
E ti possono far soffiare e beccare. Si chiama
“etichetta responsabile” e
ne parliamo con Andrea
Pieralisi, amministratore
delegato della ditta “Terre Monteschiavo”. Perché
è nata l’etichetta?
“Gennaro l’ha inventata,
l’ha brevettata, si basa
sulle tabelle ministeriali
che si riferiscono a quanto si può bere in base al
grado alcolico del vino
contenuto in bottiglia.
Vale per l’uomo e per la
donna, direi che il progetto di partenza era ed è tuttora valido.
È un’idea nuova, va calata con giudizio in tutti
i punti vendita. Perché il
vino è un business, ed in
giro c’è scetticismo, come
avviene sempre per le novità
nel vino. Hai presenti le diatribe
circa il tappo in polimeri piuttosto che i tappi di sughero? Non tutti si rendono conto che oggi c’è più il
retrogusto di tappo ma, una volta era da non crederci,
c’è chi propina al mondo anche il tappo a vite, richiestissimo all’estero.
Ma come? Il vino e l’olio, insieme al pane, sono i
frutti della terra più antichi del mondo: pensi che
ci sia qualcuno restio alle novità?
Tu lo berresti un verdicchio classico superiore riserva
col tappo a vite? In realtà, oggi, al di là delle novità,
quel che conta è la produzione, è fondamentale che il
cliente si focalizzi sul prodotto, sul contenuto.
Dicono che il nostro Verdicchio, se si confronta la
scarsa produzione rispetto ad altri vini italiani, sia
attualità e cultura
La prima etichetta
per cONSUmare
cONSapeLvOLmeNte
iL viNO e teNere iL
taSSO aLcOLemicO
SOttO cONtrOLO
FINO QUI PER
di 45kg
L’ ETICHETTA
RESPONSABILE
FINO QUI PER
di 55kg
FINO QUI PER
di 60kg
FINO QUI PER
di 65kg
FINO QUI PER
di 75kg
FINO QUI PER
di 80kg
Questa etichetta
aiuta a conoscere
quanto vino può
bere una sola
persona con lo
STOMACO PIENO
in base al proprio
peso, senza così
rischiare
di
superare il tasso
di alcolemia
consentito dal
codice
della
strada.
FINO QUI PER
LIVELLI CONSENTITI UOMO
Per un consumo
responsabile!
LIVELLI CONSENTITI DONNA
considerato quasi di nicchia. Siamo noi che non
facciamo abbastanza per farci conoscere?
Noi non siamo presenti nei tavoli degli opinion leader
e della stampa specializzata, tutti e ovunque conoscono altre regioni italiane definite più blasonate, le
Marche di meno. Perché? Forse perché c’è un errore
a monte nella programmazione della promozione del
territorio.
Siamo all’inizio ma dobbiamo impegnarci di più, far
conoscere il Verdicchio, ce la potremmo battere alla
pari con altri vini, soprattutto stranieri. I produttori ce
la mettono tutta ma non basta, ci vogliono aiuti istituzionali. Una volta promosso, il nostro vino viaggia
da solo, il prodotto c’è, il blasone pure, il pakaging
anche, sono assolutamente sicuro che il Verdiccio decollerebbe.
Oggi sta acquistando mercato, vedo, soprattutto
con le “riserve”, vini bianchi invecchiati più di
quanto uno possa pensare.
Ho bianchi del 2.000, straordinari, chiedetelo in giro,
c’è solo da spingerli un pochino.
Questa etichetta, dunque, è un prodotto promozionale e sociale, in sintesi?
Perché no? L’anno scorso producemmo il “Vino
dell’Imperatore” e chiamammo la notte in cui avvenne la vendemmia “La notte dell’imperatore”.
La rifaremo a giorni, a settembre, la riproporrà la cantina Montecappone, perché tutti i viticoltori debbono
essere coinvolti, anno dopo anno.
Un format che ormai girerà, nato da noi ma che dovrà
uscire dai nostri confini. La sostanza della “Notte”?
Promuovere e far vedere come si fa un vino eccellente. Adesso a settembre tanti arriveranno come l’anno
scorso, vendemmieranno insieme, ridendo e cantando
produrranno, alla fine, il vino dell’Imperatore. Il mio
sogno?
È che questo format, cioè un gruppo di persone che
giocano, diciamo così, ma in realtà lavorano sulle viti
tutti insieme, sia fatto suo e realizzato dalla Regione
Marche. Perché è nato per promuovere il vino. Obiettivo? L’arrivo di opinion leader e giornalisti italiani
e stranieri che presentino al mondo i nostri prodotti.
Sarà, se accadesse, dirompente. Il nostro fiore all’occhiello? La nostra azienda agricola, terra, vinificazione di qualità, commercializzazione coinvolgente di
prodotti che qui crescono e si sviluppano”.
Lo conferma anche il fondatore, Gennaro Pieralisi,
quando scrive “Con il lavoro ed i prodotti della cantina vorrei trasmettere lo spirito campestre che ancora
vive nelle nostre terre, quello spirito e quella cultura
di mezzadri che tra noi hanno saputo essere anche un
po’ imprenditori”.
Pensata per la ristorazione,
indica la corretta quantità
di vino da consumare
a stomaco pieno e
successivamente potersi
mettere alla guida.
La consultazione è molto
semplice, basterà non
versarsi più da bere
quando il livello del vino
contenuto nella bottiglia
si approssimerà alla tacca
corrispondente al proprio
sesso e peso corporeo.
di 55kg
FINO QUI PER
di 65kg
FINO QUI PER
di 70kg
L’etichetta si basa sulle
tabelle ministeriali e il FINO QUI PER
suo uso non costituisce
di 75kg
prova legale.
FINO QUI PER
di 80kg
Poter gustare dell’ottimo
vino serenamente e senza
trasgredire la legge è un diritto.
L’etichetta resPonsabiLe
per noi della Monte schiavo
è un dovere verso i nostri
estimatori.
primapagina51
attualità e cultura
di
Lorenzo Verdolini
Le vele di Frusaglia
Ludovico Spagnolini (1858-1943),
Vele al sole, 1932 (collezione privata, Roma)
Visita al Museo della Marineria Washington Patrignani di Pesaro
«G
randi vele latine, vele a trapezio, vele quadre, a triangolo,
bianche, scarlatte, arancione, verdi,
azzurre, nere, le vele delle barche, dei
trabaccoli, delle sciabiche, dei velieri, spiccano nell’aria come a giugno
gli ortaggi dietro casa». Sono le vele
Ludovico Spagnolini,
L’arrivo del pesce, 1938
(collezione privata, Roma)
52Primapagina
della pacifica flotta di Frusaglia, ritratte da Fabio Tombari nel romanzo
La vita, del 1930. Viste dall’alto, dal
colle di Babicca «che dà sulla marina
azzurra», nelle limpide giornate estive dovevano apparire come una manciata di coriandoli sparsi sul selciato
lucido. Quelle leggere pennellate di
colore distribuite qua e là sul blu intenso del mare si intersecavano, si sovrapponevano, si mescolavano come
ad una festa di luce e di vento.
«Il sole le infiamma, la pioggia le bagna, il vento le impregna», scriveva
ancora lo scrittore fanese. «Sono le
vele di Frusaglia», e con quel termine
immaginario si potevano racchiudere
le vele di tutte le marinerie dell’Adriatico: da Fano a Pesaro, da Rimini a
San Benedetto del Tronto. Anche se
ognuna aveva una sua specificità, un
elemento identificativo che la distingueva da tutte le altre. Le vele erano
un vessillo di riconoscimento, come
le targhe per le nostre auto. Dal porto, dalla costa, dai promontori affacciati sul mare occhi abili scrutavano
l’orizzonte e individuavano in quelle
macchie di colore lontane quale fosse la barca che stava facendo ritorno,
chi ne era il proprietario o il paròne.
Allora la vedetta avvisava il parcenevole, cioè l’uomo dell’equipaggio
attualità e cultura
rimasto a terra con l’incarico di vendere il pesce.
Quando invece il cielo si caricava di
nubi color della pece e il mare «imbestialito e sconquassato dai venti urlava per la marina come un dannato»,
quei disegni all’orizzonte potevano
significare speranza o dramma per
le famiglie dei pescatori e dei marinai, per le tante donne che dalle mura
della città interrogavano con gli occhi
lucidi il mare arrabbiato e le imbarcazioni che riuscivano a rientrare in
porto, cercandovi i colori e i simboli
familiari. Non sempre tutte rientravano, e allora «la gente non rideva più e
camminava a testa bassa, e le finestre
del porto eran tutte chiuse».
Il mare era vita, ed era morte. Una
morte che poteva presentarsi all’improvviso con le vesti della tempesta
o della tromba marina, lo scione:
fenomeno meteorologico piuttosto
ricorrente a fine estate in Adriatico. Quest’ultimo, in particolare, era
temutissimo dagli uomini di mare,
perché improvviso e terribile. Quasi
a volerne esorcizzare il pericolo ed
allontanarlo, la sua rappresentazione
simbolica era frequente su molte vele
della marineria pesarese, e non solo,
per tutto l’Ottocento.
In tale secolo e nei precedenti, per
tingere le grandi tele di cotone si
impiegavano i pochi, semplici colori
disponibili in natura: le “terre colorate”, cioè il rosso carminio, il rosso
mattone, il giallo ocra e il nero. Le
tinte venivano variamente abbinate
dai maestri velai e formavano disegni ora geometrici, ora più complessi,
evocativi di elementi sacri, mitologici o scaramantici (come appunto lo
scione) scelti per proteggere la barca
contro la cattiva sorte.
Una di queste grandi, bellissime vele
color della terra è esposta al Museo
della Marineria Washington Patrignani, di Pesaro. Accoglie il visitatore all’ingresso della mostra e fa quasi
tenerezza a vederla lì appesa al muro,
consunta e sbiadita, muta testimo-
ne di un mondo scomparso. Perché
uno se la immagina in mare, gonfia
di vento e vibrante d’energia, trattenuta a stento dalle corde dell’albero,
e pensa al veliero panciuto dov’era
issata che rientra in porto fra l’agitazione e il vociare di una folla vivace
e colorata.
Attorno alla marineria ruotava l’economia di tutte le città della costa:
armatori, paròni, pescatori, capitani
marittimi, marinai, portuali, maestri
d’ascia, carpentieri, calafati, segantini, maestri velai, velaie, cordai, vedette, parcenevoli, bottegai, mercanti, locandieri, cuochi lavoravano sul
mare o grazie al mare.
Questo mondo antico, duro e affascinante è scomparso da anni, ma per
fortuna qualche traccia è rimasta, preservata da chi l’ha conosciuto e amato profondamente. Come Washington
Patrignani, studioso di storia e tecniche navali, che già nel 1988 era riuscito a coinvolgere l’amministrazione
comunale nella creazione di un “Museo del Mare”, con sede a Villa Molaroni. Ma il successivo degrado della
villa portò alla chiusura del museo.
Dopo anni di abbandono, il Comune
di Pesaro ha ripreso quell’antica idea
e grazie al finanziamento e alla collaborazione di un importante partner
privato – la Renco spa – ha potuto
restaurare la bella villa della prima
metà del Novecento, e riorganizzare e
rilanciare il museo attraverso l’elaborazione di un progetto che è allo stesso tempo scientifico e di promozione.
«Il lavoro che ci attende – ha spiegato
a tal proposito la professoressa Maria
Lucia De Nicolò, Direttore scientifico della struttura – e che vorrebbe
distinguere il Museo della marineria
di Pesaro dai vari musei del mare
sparsi su tutto il territorio nazionale
è motivato appunto dalla volontà di
superare la valenza di museo etnografico e caricare le esposizioni visive e
documentarie di un valore aggiunto,
quello della ricerca storica sulla scorta dell’utilizzo di fonti e documenta-
Angelo Landi (1879-1944),
Tempesta, 1913-1918 ca.
(collezione privata)
zione altre rispetto a quelle proprie
dell’antropologia, per far sì che la
marineria, la sua gente, le barche passino da “oggetto di folclore a soggetto
di storia”».
Un percorso che procede nel solco
tracciato dal professor Patrignani, e
che a lui è stato giustamente intitolato.
* Le citazioni dell’articolo sono tratte
da: Fabio Tombari, La vita, Mondadori, Milano 1930.
Villa Molaroni, viale Pola, 9 - Pesaro
Info: tel. 0721 35588 / call center 199 151 123
Comune di Pesaro, Assessorato alla Cultura:
tel. 0721 387393
[email protected]
www.museomarineriapesaro.info
www.pesarocultura.it
primapagina53
attualità e cultura
di
Pietro Balducci
La Fondazione Colocci,
per la formazione professionale
E lo sviluppo
della cultura,
partendo
dalla Vallesina
T
ra le tante iniziative di BancaMarche a favore della cultura
spicca l’impegno a favore della fondazione Colocci, istituto per l’istruzione universitaria, la formazione
professionale e la promozione della
cultura nella Vallesina. Fondata nel
2006 con il contributo, fra gli altri,
della Fondazione Cassa di risparmio
di Jesi e BancaMarche, la fondazione Colocci nei suoi primi sei anni di
vita è riuscita a creare un piccolo polo
universitario a Jesi grazie a un accordo con l’Università di Macerata. La
facoltà di giurisprudenza dell’ateneo
maceratese, infatti, proprio nel ’96 ha
trasferito nella sede della fondazione
Colocci il corso di diploma universitario in operatore giuridico d’impresa, a cui sono affiancati i corsi
di laurea di primo e secondo livello
in consulente del lavoro, operatore
giudiziario , operatore del no profit e
consulente giuridico per la finanza e
la previdenza.
L’alleanza universitaria Jesi e Macerata si è rafforzata nel 2008 con
l’istituzione del dipartimento di studi
giuridici ed economici nella sede della fondazione Colocci, unico dipartimento dell’ateneo maceratese presente in una sede distaccata. Ad oggi
54Primapagina
a Jesi sono presenti i corsi di laurea in
consulente del lavoro, consulente per
l’impresa e operatore giudiziario e
criminologico dell’università di Macerata. In sei anni sono stati 4296 gli
studenti iscritti al polo giuridico jesino, con un trend sempre crescente,
dai 40 del 96 al record di 746 dell’anno accademico 2011-12. “Ma il nostro obiettivo è di arrivare a mille”
spiega Gabriele Fava, presidente della Fondazione, durante la conferenza
stampa in cui ha illustrato i risultati
ottenuti negli ultimi tre anni. “Diamo
la possibilità ai ragazzi di frequentare
l’università vicino casa, offrendo loro
un percorso formativo di alto livello a costi contenuti, cosa quanto più
apprezzabile in un momento di crisi
come questo”. Due terzi degli studenti che frequentano l’università a Jesi,
infatti, provengono dalla provincia di
Ancona, mentre solo il 14% arriva
da fuori regione. “Abbiamo già un
accordo con l’università di Macerata per attivare gli attuali corsi anche
in modalità e-learning in modo da
aumentare l’appeal della nostra sede
e ci piacerebbe portare a Jesi anche
una scuola di specializzazione in professioni legali, che troverebbe nella
nostra sede un luogo ideale”.
LIBRANDO
di
Agnese Testadiferro
Il libro “La S.A.F.F.A. di Jesi”
Inediti e testimonianze di una storia da non dimenticare
di Riccardo Ceccarelli e Anna Virginia Vincenzoni
U
na storia da non dimenticare,
per la città di Jesi e per tutte le
famiglie che devono il loro benessere
e una vita dignitosa anche al lavoro
nella fabbrica della Saffa. È vero che
nella seconda metà dell’Ottocento le
condizioni di vita degli operai, tra cui
molti bambini, erano poco invidiabili: ambienti insalubri e tante ore di
lavoro ma è proprio in questi periodi
che prendono il via le prime richieste
di riduzione degli orari e di miglioramento delle condizioni di lavoro
come pure le organizzazioni per il
tempo libero. Un lavoro che oltre ad
essere faticoso era anche pericoloso
per i vapori di zolfo e di fosforo che
provocavano danni alle ossa della
mascella e ai denti. Un lavoro in prevalenza femminile, pagato di meno
rispetto a quello maschile, ma che ha
visto le donne capaci di conquistarsi
un posto e di mantenerlo per offrire
ai figli la possibilità di studiare e di
vivere ancora meglio. Queste sono
alcune delle considerazioni che emergono leggendo il libro “La S.A.F.F.A.
di Jesi. Inediti e testimonianze di una
storia da non dimenticare”. La pubblicazione, a cura di Riccardo Ceccarelli
e di Anna Vincenzoni, è edita dall’associazione culturale Res Humanae di
Jesi con il patrocinio della Regione
Marche, della Provincia di Ancona e
del comune di Jesi e con il contributo
di alcuni sponsor tra cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi e Banca
Marche. Le origini della Saffa risalgono al 1865 quando fu impiantata a Jesi
la prima fabbrica di fiammiferi, nella
zona di via Roma e che rimase attiva
per una decina di anni. Nel 1873 prese
il via un altro opificio, vicino al centro
cittadino, che inizialmente ha 110 dipendenti e che nel 1898 viene rilevato dalla milanese “Società Anonima
Fabbriche Riunite di Fiammiferi”. La
concorrenza era molto agguerrita e la
fabbrica jesina riuscì comunque a garantire il lavoro alle numerose donne:
nel 1928 si contavano 155 operaie e
solo 22 operai. Nel 1937 la società
proprietaria cambiò nome in “Società
per Azioni Fabbriche di Fiammiferi
ed Affini” (Saffa) stabilimento di Jesi.
La storia della Saffa nel periodo della seconda guerra mondiale si è poi
fortemente intrecciata con le vicende
cittadine. Scorrendo i tanti documenti riprodotti nel libro si rimane quasi
commossi dalla premura e dalle intuizioni che i dirigenti dell’azienda
avevano nel proteggere gli operai e
le macchine dalle devastazioni compiute dai tedeschi. Dal diario del 5
luglio 1944 trascritto da Anna Vincenzoni e riprodotto nel manoscritto
si legge alle ultime righe: «Anche il
controllo è passato così felicemente,
senza che la fabbrica sia stata menomata nella sua sostanziale efficienza,
mentre sorte ben più grave è toccata
a tutte le altre industrie jesine, anche
le più piccole e disparate, senza discriminazione alcuna sul loro valore
bellico o meno». I dirigenti erano riusciti a limitare la visita delle squadre
guastatori alla parte dell’officina alla
quale avevano dato una apparente
devastazione, anche grazie all’offerta
del sempre gradito bicchiere di vino e
alla brillante dialettica dell’interprete
capace di distrarre i controllori. Segno
che il legame con il proprio lavoro e
la sensibilità per le persone che da
quel lavoro dipendono sono capaci di
compiere miracoli.
E tutta la storia della Saffa, dalle origini fino ai vari cambi di proprietà e
alla chiusura nel 1988, è intessuta di
eventi che possono essere spiegati ed
inseriti in una storia più grande, quella della industrializzazione dell’Italia, del miglioramento dei processi
lavorativi, nella scomparsa del lavoro minorile, delle tutele sindacali…
«Una storia che la città non deve dimenticare per ritrovare le radici di una
comunità che ha fondato se stessa sul
lavoro, sulla testimonianza, sull’occupazione femminile» ha spiegato Riccardo Ceccarelli.
Anna Vincenzoni ha voluto dedicare
questo lavoro di ricerca a sua madre,
Ester Latini, una delle fiammiferaie
che ha dedicato tanti anni della sua
vita alla fabbrica ma che dalla fabbrica ha saputo anche cogliere la possibilità di un riscatto personale e culturale partecipando alla filodrammatica
aziendale.
Dipendenti S.A.F.F.A.,1941
Festa della madre e del fanciullo, stabilimento S.A.F.F.A. di Jesi,
Epifania 1941
La copertina del libro
primapagina55
LIBRANDO
di
Ilaria Cofanelli
Il buonsenso di
Padre Pino Puglisi
nel libro di Mauro Rocchegiani
T
ra le ultime novità editoriali
è senza dubbio da segnalare
il bel libro di Mauro Rocchegiani, giornalista e direttore artistico
dell’Associazione MonsanoCult,
“Se ognuno di noi… Padre Pino
Puglisi, 9 sentieri di buonsenso”,
incentrato sulla figura di padre
Giuseppe Puglisi, la cui vita è stata
brutalmente spezzata in un attentato mafioso nel settembre del ‘93.
Un libro particolare che non vuole
essere una biografia, quanto piuttosto un manuale di pratiche del buon
senso, cui attingere consigli per la
vita di tutti i giorni. Emblematico,
infatti è il titolo della pubblicazione.
Cosa è, di fatto, il buonsenso?
Sono dodici anni che, a Monsano,
cerchiamo la risposta a questa domanda e lo facciamo proprio tramite la Festa del Buonsenso che si
tiene ogni anno in paese. Ogni festa
è un’occasione in cui, con l’Amministrazione Comunale, cerchiamo
di offrire possibili diverse visioni
del buonsenso. Temi centrali delle passate edizioni sono stati, ad
esempio, il risparmio idrico, il problema dello smaltimento dei rifiuti,
la legalità, l’accoglienza, il risparmio energetico.
Com’è collegata la figura di padre Pino Puglisi con il buonsenso?
In occasione della decima edizione
della Festa del Buonsenso, dal tema
“Il senso della Legalità”, abbiamo
dedicato il nostro piccolo parco
urbano di Monsano alla figura di
padre Puglisi e, cercando di conoscerlo meglio, ne siamo rimasti
affascinati; di lui sono noti solo gli
ultimi tre anni a Brancaccio, in realtà la sua figura è molto più complessa e si snoda nell’arco dell’intera vita in cui egli si dedicò a tutti
quelli che avevano perso la propria
dignità, cercando di ridarla loro.
Cercavamo un eroe e abbiamo scoperto un uomo umile, lontano dai
56Primapagina
riflettori, il cui scopo era quello di
dedicarsi agli altri, senza cercare un
palcoscenico: quanto di più distante
ci viene proposto dai media. Padre
Pino Puglisi era un vero uomo del
buonsenso.
E quindi dall’amore per questa figura è nata l’idea di questo libro,
che però non è una biografia…
No, infatti. Abbiamo deciso di
esplorare la vita di padre Pino Puglisi attraverso la lente delle buone
pratiche. Attraverso, cioè, la sua
biografia, vari documenti, testimonianze e suoi scritti siamo riusciti
a trovare nove lemmi, i sentieri del
titolo, che oltre a esplorare la vita
di Puglisi potessero essere anche
esempi per ciascuno di noi. E non
è un libro che parla di mafia, quantomeno non solo. Il nostro obiettivo
era di trovare concetti realizzabili
da ognuno di noi secondo le proprie
possibilità, attraverso l’esempio
della figura di Puglisi, volutamente non un santo o un supereroe, ma
una persona comune, il cui percorso
fosse possibile seguire. Un po’ sulla
falsa riga delle ‘Lezioni americane’
di Italo Calvino, in cui l’autore analizza la letteratura passata per dare
suggerimenti a quella futura.
Una struttura del libro particolare, diversa dalle classiche biografie, insomma.
Un po’ un manuale, un po’ una biografia. Le voci che abbiamo isolato
(Accoglienza, Dialogo, Normalità,
Impegno, Silenzio, Umiltà, Legalità, Educazione, Ribellione), tra le
infinite possibili legate a Puglisi,
ritraggono quel tale aspetto nella
figura del prete. Ad esempio, nel
capitolo dedicato all’accoglienza,
analizziamo la sua intera figura
attraverso quel tema particolare:
come l’ha vissuta, cosa ha scritto; e
contemporaneamente lasciamo lungo questi sentieri dei suggerimenti
per i lettori.
Non lezioni, quindi, ma interpretazioni. Ogni sentiero è leggibile a sé
e tutti contribuiscono a formare un
mosaico completo della figura di
Pino Puglisi.
All’apparenza un libro complesso, ma invece scopriamo una
semplice lettura. Chi sono, infatti, i destinatari dell’opera?
Tutti! In particolare i giovani, gli
adolescenti. Il nostro scopo è quello
di rendere accessibili questi sentieri
a ognuno di noi. Come diceva spesso padre Pino Puglisi, ‘se ognuno di
noi fa qualcosa, insieme possiamo
fare molto’.
Un libro impreziosito anche da
interventi importanti…
Abbiamo infatti avuto l’onore di
una postfazione ad opera di don
Luigi Ciotti, che ha fatto della lotta
alla mafia una delle sue bandiere.
Quello che, però, ci riempie di orgoglio è la prefazione di suor Carolina Iavazzo, amica di Puglisi e testimone degli eventi di cui parliamo
nel libro. Abbiamo voluto fosse di
buonsenso anche il prezzo, solo 10
euro: il volume, oltre ad avere un
inserto a colori, è realizzato in carta
riciclata.
Per info e prenotazioni:
[email protected]
attualità e TERRITORIO
di
Fernando Pallocchini
Gabriella Zagaglia
e la vibrazione cosmica
G
abriella Zagaglia, artisticamente, vive una continua fase evolutiva da non scambiare per semplice
ricerca di materiali, tecniche espressive e figurazioni da proporre ogni
volta. Il suo è un rinnovamento che
si muove di pari passo con la sua
crescita personale, e le permette una
sempre maggiore incisività nel suo
essere interprete del mondo che la
circonda. Un mondo che lei, più che
osservare, vive profondamente percependone, in essenza, quelle sensazioni che solo gli artisti sanno, se non
sempre capire scientemente, quantomeno intuire: canalizzazione, oggi si
usa dire. Sensazioni riversate su tele
vestite di reminiscenze figurative,
cui le pennellate danno multiple valenze simboliche, fatte di vibrazioni
e di messaggi. Una sorta di ultracognizione che parte dall’oggi oggettivo del mondo reale (non quello “virtuale” troppo spesso impostoci, teso
a mascherare discrepanze e a donare
infelici felicità fittizie) e sconfina in
un tempo senza tempo, dove tutto è
momento.
Le città di Gabriella Zagaglia sono
spesso ritratte nel buio, angosciante
per chi lo vede tale, ma ricco di umanità che genera e narra vicende fatte
di passioni, altalenanti in contrapposizioni continue di bene e male. E
nell’oscurità ammiccano le luci che
raccontano di appartamenti, di stanze, di persone, soprattutto brillano
con la forza di promesse lontane.
La natura è presente, circonda ogni
azione umana, madre attenta, affettuosa e gentile, pur maltrattata. Tutto
è percorso da una vibrazione, che è
superamento del futurismo meccanico intriso di veloci metalli in quanto
va oltre e volge la sua attenzione non
al manufatto dell’uomo ma all’uomo
stesso. L’artista percepisce l’umanità come parte integrante del cosmo, della vibrazione universale che
unisce esseri e cose e la manifesta
nelle sue tele con moti ascensionali
che, partendo dalle città, dai paesini
arroccati, sfumano verso l’alto integrandosi in qualcosa di spiritualmente elevato. È un mostrare, è un
donare, è un estrapolare l’essenza
spirituale dell’uomo per elevarla oltre la materia, per svincolarla dalla
materia .
È una sorta di ricongiunzione. Un
ritorno all’origine. E giù, nei caseggiati simbolo dell’operosità e della
ricerca di sicurezza dell’umanità
legata alla materia, vincolata alla
stessa, ci sono tutte le pulsioni della
nostra società che si dibatte in contrapposizioni fatte di slanci generosi
e abiette manipolazioni, tra il crudo e
insensibile materialismo e la ricerca
spirituale più pura. È l’eterna lotta
che si dipana nel percorso dell’esistenza tra la vita e la morte, entrambe
necessarie l’una all’altra, vincolate e
ineludibili; tra il bene e il male, con
il secondo “male necessario” per la
comprensione del primo. L’artista
sente e vive tutto questo e lo racconta
nei suoi lavori, dove la sintesi poetica va cercata e interpretata perché
la distorta figurazione è parvenza, al
pari delle ombre che, in questo nostro tempo, nascondono e distorcono il reale. Ovunque, immanente, è
l’attesa.
si evince in presenza dei paesi, siano
questi posti in basso o in un angolo
o altrove nella tela. Nelle opere più
recenti, a scapito di una figurazione
decisamente accattivante, c’è una
semplificazione delle masse, una
maggiore capacità di sintesi che, eludendo una forma per così dire “barocca”, rende di più immediata comprensione il messaggio sostanziale.
Addirittura il paesaggio è arrivato a
essere scomposto tanto da fondersi
con l’atmosfera per raggiungere una
vibrante congiunzione dei vari elementi che, inevitabilmente e scientemente, porta a una visione cosmica
del tutto.
Gabriella Zagaglia firma le sue opere
con lo pseudonimo di Zagà. È nata
a Loreto nel 1959 e ha conseguito,
a soli 18 anni, la maturità artistica
presso l’Istituto Statale d’Arte “Cantalamessa” di Macerata con il massimo dei voti. In seguito si è dedicata
ai problemi psicomotori dei bambini,
laureandosi in Fisioterapia e specializzandosi a Parigi in Arteterapia e
sviluppo del disegno nel bambino.
Solamente in quest’ultimo decennio
ha ripreso l’attività artistica personale ottenendo consensi dalla critica e
riconoscimenti dai collezionisti privati, grazie alla sua ricerca espressiva mirata al raggiungimento di un
linguaggio cosmico.
A livello estetico le opere di Gabriella Zagaglia hanno una resa altissima
dovuta al sapiente accostamento dei
toni freddi e caldi che con la loro
alternanza danno un sostanziale
equilibrio alla composizione, anche
quando le masse occupano una sola
sezione del dipinto. Circostanza che
primapagina57
attualità e TERRITORIO
di
Ivana Baldassarri
Vangi
nello stupendo
scenario di Arezzo
N
ella bellissima cattedrale duecentesca dei Santi Piero e Donato di
Arezzo, che evoca nelle sue forme
gotiche i grandi templi del Nord Europa, sono scesi, bellissimi gli angeli
di Giuliano Vangi, pronti ad accogliere le solennità delle celebrazioni dei
riti cristiani.
Nel grande presbiterio dominato dalla
candida arca lapidica di San Donato,
Vangi ha appoggiato, e sembrano veramente scesi dal cielo, l’altare, l’ambone e la sede vescovile: tre oggetti,
tre sculture, tre racconti che attraverso
la creatività dell’arte sanno trasmutare
l’inerzia della materia in catechesi, in
apparizione, in Vangelo.
Vangi non è nuovo agli inserimenti
prodigiosi e spesso scioccanti delle
sue sculture mozza fiato in architettu-
58Primapagina
re che credevamo ormai fissate in un
loro assoluto e fideistico ed estetico.
In Arezzo, forse pensando a tutta la
tradizione storica e artistica toscana
che lo ha sempre nutrito, Vangi si è in-
serito nella grandiosità della Cattedrale con delicata naturalezza concependo accostamenti armoniosissimi che,
complici le materie più strane, e quel
gruppo di artigiani di tipo rinascimentale che ha “tirato su” come si faceva
una volta nelle antiche botteghe, hanno dato vita ad un complesso prezioso
che invita ad una spiritualità alta, che
sa ripercorrere le vie della preghiera
privata e della storia cristiana.
Giuliano Vangi è il gran mago di materie vecchie e nuove che sono il suo
lessico geniale e composito, le sue
parole poetiche per una attenta analisi
esistenziale, per l’identificazione di
un sogno o di un disagio, una sorpresa
e ora per un incantamento celeste. La
materia riceve da lui una sommossa
plastica che sa impaniare la luce nei
volumi e nei contorni come fosse
una “luce zenitale”, un trasalimento,
una rivelazione. Marmo bianco per
la mensa quadrata sorretta e sostenuta dalle ali di un angelo, sceso un
attimo fa, con vaporosi capelli d’oro,
fuso in una lega di bronzo e nichel
in contrasto materico, che ha anco-
attualità e cultura
ra negli occhi lucenti e nel gesto del
corpo l’ebbrezza del grande volo; ha
ancora in mano il ramo d’ulivo della
pace perché sa che quella “Mensa”,
luogo bianco e splendente, si imbandisce ogni volta per invocare la pace
del mondo. Marmo bianco per la
cattedra, solenne nella sua severità di
forma icastica, fregi di piante in bassorilievo, qualche accenno ad episodi
della vita del santo e niente schienale
per non interferire con la splendida e
dominante arca di San Donato che fa
da sfondo.E poi l’ambone, quasi una
culla, quasi un sepolcro dove la vita
e la morte si incontrano nella parola,
nel Verbo dell’officiante. Guardando
l’angelo dell’ambone, bello, biondo, sorridente, con gli occhi azzurri
come tutti gli angeli del Cielo, sfiorato da una ventosità impressa dal
recente volo, che non ha ancora del
tutto toccato la terra, si capisce che
lui non è in attesa di Dio, ma aspet-
ta che l’Uomo vada verso Dio e che
lui è lì, pronto per accompagnarlo
verso la luce di cui è testimonianza;
fa pendant all’angelo meraviglioso,
una composizione di alberi in marmo cipollino, simbolo di quegli alberi
del Golgota che ascoltarono i lamenti
del Morente, appena accennato nel
bassorilievo sulla struttura portante,
come fosse la controfigura dell’angelo. Sorride Vangi quando parla di
questo angelo biondo come se fosse
il superamento di quell’immagine di
Uomo chiuso nel plexiglass, disperato e solo. Questo angelo immagine di
luce, di libertà e d’armonia, è lo stesso
che ha annunciato alle donne la Resurrezione, con la consapevolezza di
proclamare la salvezza e il riscatto.
Il volto dell’angelo esce dal biancore
del marmo come un fiore dalla brattea e con la delicatezza che Vangi vi
prodiga; l’angelo è tutto sotto il segno
della luce, in una forma di luminismo
che è quella degli astri che brillano di
luce propria nel cosmo. Tutta la composizione, è percorsa da un brivido
luminoso che genera un fenomeno di
risonanza rimandato dalle colonne,
dagli archi, dalla antica arca bianca e
dagli affreschi, un fenomeno di armonia istintivamente misurata e prevista
dalla creatività artistica di Vangi e
concentrata in un respiro senza fine,
in un processo di acquisizione e di arricchimento che non può fare a meno
della memoria storica e della Fede.
Lo scultore Vangi diventa così, attraverso le sue opere altissime, testimonianza di storia umana e divina insieme. Con la visita del Papa nel Duomo
di Arezzo sono arrivati tutti i grandi di
oggi; quelli di ieri c’erano già stati, da
Arnolfo di Cambio, Andrea Pisano,
Donatello, Michelangelo, Canova,
Rodin, Wildt, Moore, Martini, Manzù, Giacometti e tanti altri; se non altro per complicità di mestiere!
primapagina59
attualità e TERRITORIO
XII Festival Pergolesi Spontini
e 45^ Stagione Lirica del
Teatro Pergolesi di Jesi
L
a Fondazione Pergolesi Sponti“V. Bellini”. Maria Aleida interpreta
ni, vincitrice nel 2011 del XXXI
Elvira, Luca Tittoto è Sir Giorgio, Yijie
Premio della critica musicale “Franco
Shi è Lord Arturo, Julian Kim è Sir RicAbbiati” per l’integrale delle opere di
cardo Forth, Elide De Matteis Larivera
Pergolesi nell’ambito delle Celebrazioè Enrichetta di Francia, Luciano Leoni
ni Pergolesiane a Jesi, produce nel 2012
è Lord Gualtiero Valton, Dario Di Viequattro titoli d’opera.
tri è Sir Bruno Roberton. “Macbeth” di
La prima esecuzione in epoca moderna
Verdi, in scena da mercoledì 7 novembre
de “La fuga in maschera” di Gaspare
alle ore 21 (repliche venerdì 9 novembre
Spontini, commedia per musica in due
ore 21 e domenica 11 novembre ore 16,
atti su libretto di Giuseppe Palomba,
anteprima giovani il 5 novembre) è un
ritenuta perduta ed il cui manoscritto
nuovo allestimento della Fondazione
autografo è riapparso presso una casa
Pergolesi Spontini in coproduzione con
d’aste londinese, inaugura al Teatro
la Fondazione Teatro Lirico G. Verdi di
Pergolesi di Jesi venerdì 31 agosto alle
Trieste e la Fondazione Teatro Carlo Feore 20 il XII Festival Pergolesi Spontini
lice di Genova.
(replica domenica 2 settembre ore 20)
La direzione è di Giampaolo Maria Biche prosegue fino al 16 settembre con
santi, nella compagnia di canto Macbeth
Foto © Benito Leonori
concerti, spettacoli ed eventi dedicati ai
è Luca Salsi, Lady Macbeth è Tiziana
temi del travestimento e della trasformaCaruso, Banco è Mirco Palazzi, Maczione. L’opera andò in scena solo una volta, al Teatro Nuovo duff è Ji Myung Hoon, Malcolm è Thomas Yun. I costumi
di Napoli in occasione del carnevale del 1800; la partitura, sono di Nanà Cecchi. La “Lucia di Lammermoor” di Doniritenuta scomparsa, è stata ritrovata nel 2007 ed acquistata dal zetti, in scena da venerdì 23 novembre alle ore 21 (repliche
Comune di Maiolati Spontini. Il Festival Pergolesi Spontini sabato 24 ore 21 e domenica 25 novembre ore 16, con anne mette in scena la revisione critica di Federico Agostinel- teprima giovani il 22 novembre), è un nuovo allestimento
li in un nuovo allestimento in coproduzione tra Fondazione della Fondazione Pergolesi Spontini in coproduzione con i
Pergolesi Spontini e il Teatro San Carlo di Napoli, con la re- Teatri del Circuito Lirico Lombardo, il Teatro dell’Aquila di
gia di Leo Muscato, le scene di Benito Leonori, i costumi Fermo, il Teatro Coccia di Novara ed il Teatro Alighieri di
di Giusi Giustino, light designer Alessandro Verazzi. Corrado Ravenna. Direttore è Matteo Beltrami; nel doppio cast in cui
Rovaris dirige I Virtuosi Italiani, una delle formazioni più at- si alternano Julian Kim (Lord Enrico Asthon), Sofia Mchetive e qualificate nel panorama musicale internazionale. Nel dlishvili (Miss Lucia) e Gianluca Terranova (Sir Edgardo di
cast, interpreti di spicco quali Ruth Rosique (Elena), Caterina Ravenswood) con i giovani vincitori del Concorso AsLiCo.
Di Tonno (Olimpia), Alessandra Marianelli (Corallina), Cle- Lord Arturo Bucklaw è Matteo Falcier, Raimondo Bidebent
mente Daliotti (Nardullo), Filippo Morace (Marzucco), Ales- è Giovanni Battista Parodi, Alisa è Cinzia Chiarini. I costumi
sandro Spina (Nastagio), Dionigi D’Ostuni (Doralbo).
sono di Patricia Toffolutti.
La 45^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di
Jesi è dedicata a Josef Svoboda nel decimo anniversario dalla Per info:
sua scomparsa, e di cui verranno riproposti due celebri alle- www.fondazionepergolesispontini.com
stimenti: “Macbeth” e “Lucia di Lammermoor”, ad opera di Biglietteria Teatro Pergolesi: tel. 0731-206888
Henning Brockhaus per la parte registica e di Benito Leonori
(già assistente di Svoboda) per le scene.
L’inaugurazione è mercoledì 3 ottobre con “I Puritani” di
Vincenzo Bellini (repliche venerdì 5 ottobre ore 21 e domenica 7 ottobre ore 16, anteprima giovani lunedì 1 ottobre ore
16) in un allestimento in coproduzione con i Teatri del Circuito Lirico Lombardo. L’opera torna sul palcoscenico del
‘Pergolesi’ dopo 161 anni: vi fu rappresentata per la prima
e unica volta nel 1851. La regia è di Carmelo Rifici, le scene di Guido Buganza, i costumi di Margherita Baldoni. La
direzione d’orchestra è affidata al giovane direttore marchigiano Giacomo Sagripanti sul podio della FORM Orchestra
Filarmonica Marchigiana. Canta il Coro Lirico Marchigiano
60Primapagina
attualità e TERRITORIO
di
Loretta Fabrizi
Simone Massi storie a matita
Come NASCE
UN CORTOMETRAGGIO
D
avid di Donatello 2012 per il miglior cortometraggio
all’intenso e suggestivo disegno animato di Simone
Massi. “Questo premio arriva da lontano – ha dichiarato
l’artista e filmaker marchigiano alla cerimonia di premiazione – , è una piccola storia che parla di colline, di cani,
di animali, di animali ammazzati e che voglio dedicare ai
contadini, agli operai e ai partigiani”.
Nato a Pergola nel 1970 da una famiglia di origini contadine, operai ed emigranti, ex operaio egli stesso, a ventitré anni decide di seguire la sua passione per il disegno e
frequenta il corso di cinema d’animazione presso l’Istituto d’Arte di Urbino diplomandosi con lode nel 1996.
Temperamento schivo e poco incline a farsi avanti, operatore solitario e indipendente, in diciotto anni di attività ha realizzato una quindicina di piccoli film presentati
nelle più prestigiose rassegne internazionali del settore
che hanno raccolto oltre duecento premi. Dell’ammazzare il maiale è l’ultimo lavoro di una serie di microstorie ispirate alla nostra terra marchigiana, il paesaggio,
la campagna, la gente, i ricordi, con racconti che assomigliano a sogni: Tengo la posizione del 2002, Piccola
mare del 2003, con la voce narrante di Marco Paolini,
Io so chi sono del 2004, La memoria dei cani del 2006 e
Nuvole mani del 2009.
Tre anni di lavoro mediamente per otto minuti di animazione di circa millecinquecento disegni, tre tavole al
secondo, per lo più in bianco e nero, rigorosamente fatte
a mane, con la musica di Stefano Sasso, anche lui ormai marchigiano, che disegna con il suono quello che
nell’immagine non c’è, che non si vede, completando il
racconto con i rumori delle cose, gli echi delle notti lunari, il crepitio delle fiamme sul focolare, l’abbaiare lontano dei cani, il verso degli animali, su un tappeto sonoro
di fondo di natura elettronica. Massi disegna con una varietà di strumenti, carboncino, pastelli, grafite, ma da La
memoria dei cani l’utilizzo dei pastelli ad olio stesi sul
foglio e graffiati con gli strumenti da incisione è diventato il suo tratto inconfondibilmente originale. Lo stile di
regia si avvale del piano sequenza, ovvero dell’inquadratura lunga che esalta l’autonomia del segmento narrativo
e rende fluida e senza stacchi la narrazione; a questo si
aggiunge il movimento di camera in avanti, lo zoom, che
si presta a mostrare le cose dentro le cose “perché credo
che da lontano le cose siano un po’ bugiarde e solo av-
vicinandoci scopriamo la realtà; a volte sono sorpreso di
come una forma possa mutare e da vicino mostrare altri
aspetti”. E’così che nasce la fantastica metamorfosi delle
sue immagini che si formano l’una dall’altra, si scompongono, sovrappongono, compenetrano, in un gioco
dello sguardo che insegue un infinito spazio leopardiano,
dall’alto a volo d’uccello si cala sulle cose, le case, i tetti,
le colline, vi si appoggia, si appunta su dettagli significativi penetrandoli e abitandoli da dentro, mescolando
sogno e realtà.
Dell’ammazzare il maiale è un piccolo grande capolavoro ispirato alle ritualità cicliche della vita contadina.
Il soggetto, il maiale, non c’è, evocato da un fil rouge,
letteralmente, che corre lungo i fotogrammi, lega i passaggi di inquadratura, muta in cappio, stringa, fenditura,
lama, ferita per sciogliersi infine nel volo liberatorio di
un fagiano multicolore. Il vero soggetto è la memoria, il
ricordo nostalgico e incantato, filtrato dallo sguardo del
bambino che l’artista stesso è stato, al banco di prova delle prime incomprensibili crudeltà del mondo dei grandi.
“Sono libero – dichiara l’artista – miro ad un punto preciso che ha a che fare con la memoria e con l’anima, animazione viene da anima, soul, che è fatto di silenzi, di
spazi vuoti e di sensazioni difficili da descrivere a parole.
Quello che voglio fare è poesia, o meglio haiku: un piccolo viaggio che ha come meta lo smarrimento e il perdersi”. Ma, il senso profondo di ogni viaggio è il ritorno,
il ritorno a se stessi e alla propria identità:
Io so chi sono / sono mio nonno e mio padre / ogni faccia
che ho visto e incontrato, baciato / io so chi sono / sono
la casa dove sono nato / i posti di cui ho letto, sognato /
le strade, i tetti e la terra / chiusi dentro la valigia mia /
dentro le nuvole della pipa mia / dentro il vino del bicchiere mio / io so chi sono.
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PRODOTTI DI MARCA
Parte la sfida tra
comuni per ridurre
il consumo di
shopper monouso,
ci guadagna la
scuola locale
È
ufficialmente aperto il bando per
la prima edizione di “Sfida all’Ultima Sporta”, l’iniziativa promossa
dall’Associazione dei Comuni Virtuosi, con il patrocinio del ministero
dell’Ambiente e dell’Anci.
Si tratta di una competizione riservata ai comuni che hanno raggiunto il
60% di raccolta differenziata nel 2011
e con una popolazione compresa tra
gli 8000 e i 16000 abitanti. L’iniziativa, promossa all’interno del progetto
di Porta la Sporta, offre l’occasione
per fare riflettere le comunità coinvolte – ma non solo- sulle conseguenze
che gli attuali stili di vita “spreconi”
hanno sull’ambiente e per spingerci ad adottare nuovi comportamenti
consapevoli e più rispettosi del nostro
territorio.
I comuni si sfideranno in una competizione che premierà il migliore risultato ottenuto di “uso consapevole delle
risorse” con la collaborazione di tutta
la comunità. L’indicatore che è stato
scelto per misurare le performances
dei partecipanti è rappresentato e misurato dal consumo di sacchetti monouso, in quanto esempio emblematico di un utilizzo “usa e getta”, che è
necessario ridurre al minimo.
Il premio è destinato
alla scuola locale
Concretamente il comune che, nell’arco di sei mesi, sarà più capace di ridurre il consumo dei sacchetti monouso, a livello pro-capite, otterrà un
premio in denaro pari a 20.000 euro
offerto da tre sponsor da destinare alla
scuola locale. Il sistema di misurazione che verrà applicato si baserà sia sui
dati forniti dai comuni, come numero
di acquisti effettuati in supermercati e
62Primapagina
negozi, sia sugli esiti dei rilevamenti
effettuati dalla segreteria organizzativa e dalle sedi locali delle associazioni nazionali partner della campagna. Punti vendita della GDO e del
piccolo commercio locale verranno
quindi presto interpellati dalle amministrazioni comunali in possesso dei
requisiti perché la loro partecipazione
è indispensabile per rilevare la quantità di sacchetti risparmiati dai clienti
che non prendono sacchetti monouso.
“Questa iniziativa vuole essere portatrice verso l’opinione pubblica di
alcuni messaggi semplici, ma importanti, che possono condurre a una
maggiore sostenibilità ambientale.
Il messaggio chiave è che serve una
presa di responsabilità sia individuale
sia collettiva che possa contrapporsi
alla deresponsabilizzazione attuale,
diffusa a tutti i livelli della società.
Per invertire questa tendenza e cambiare i comportamenti è necessario
dare esempi alternativi coinvolgendo
le persone” spiegano gli organizzatori.
Sei mesi di
sensibilizzazione ambientale
Durante i sei mesi di competizione
le amministrazioni comunali coglieranno l’occasione per sensibilizzare i
cittadini sulle buone pratiche che possono portare ad una riduzione dei rifiuti a cominciare da una loro prevenzione. Bevendo l’acqua del rubinetto,
acquistando detersivi e detergenti alla
spina, sostituendo spazzolini e rasoi
monouso con versioni a testine intercambiabili, evitando le stoviglie usa e
getta e incentivando l’uso tra i nei genitori di pannolini riutilizzabili è possibile ottenere importanti risparmi per
singoli e collettività. Il sito di Porta la
sporta ha un’apposita sezione Entra in
azione (http://www.portalasporta.it/
azione_materiali.htm) con varie sezioni dedicate ai singoli, attività commerciali, amministrazioni comunali
ricche di spunti su come diminuire il
volume della nostra pattumiera.
Gli sponsor
La versione nostrana può essere lanciata grazie al contributo complessivo di 20.000 euro che verrà donato
al comune vincitore da tre sponsor:
BancaMarche, sponsor principale, Frà
Production, con il suo marchio Ecottonbag e Novamont. BancaMarche
è stata l’unica banca ad aver aderito
alla campagna diffondendo attraverso
l’estratto conto un messaggio ad hoc
ai propri correntisti e regalando loro
borse riutilizzabili.
Frà Production come unica azienda
italiana che produce su scala industriale borse a rete realizzate totalmente in Italia è già da tempo partner
tecnico dell’iniziativa Mettila in rete
che propone l’affiancamento di una
soluzione riutilizzabile in tutti i settori
ortofrutta della GDO.
Le buone pratiche
attraversano l’oceano
Sfida all’ultima sporta diventerà la
seconda iniziativa internazionale del
suo genere. Si ispira infatti a “Reusable Bag Challenge” che ha visto
fronteggiarsi nel 2009, in Colorado,
oltre 30 cittadine e un’intera contea in
una gara a quale comunità consumava
meno sacchetti.
Tutti i dettagli sull’iniziativa si trovano sul sito di Porta la Sporta http://
www.portalasporta.it/index.htm
PRODOTTI DI MARCA
di
Marina Argalìa*
BancaMarche per
l’educazione finanziaria dei
giovani
L’
economia non è una materia
facile da affrontare, tanto che
l’Indice di Cultura Finanziaria per
l’Italia, elaborato da PattiChiari, si è
fermato a 4,3 punti – su una scala da
1 a 10 - e la fascia d’età che desta
le maggiori preoccupazioni è proprio
quella dei giovani che registrano mediamente il più basso livello di cultura finanziaria in Italia.
Tale contesto genera nuove opportunità per affrontare una materia che,
sebbene indispensabile per gestire le
complessità economiche quotidiane,
non trova sufficiente spazio nell’offerta formativa attuale. “L’impronta Economica TEENS” di PattiChiari è un programma gratuito di
educazione finanziaria rivolto alle
scuole superiori di II grado italiane
che, nell’anno scolastico 2011-2012,
ha coinvolto circa 12.000 studenti in 32 province, con l’obiettivo di
fornire le conoscenze di base sui
servizi bancari, il sovraindebitamento, l’accesso al credito e il Business
Plan. Nelle scuole delle Marche, attraverso l’intervento formativo degli
esperti di BancaMarche, i ragazzi e i
loro insegnanti, hanno avuto la possibilità di partecipare ad un incontro
preliminare sul tema dell’economia
con l’obiettivo di sviluppare un vero
e proprio Business Plan, ovvero un
progetto di impresa socialmente utile
Il Capo Area Commerciale di BancaMarche premia la classe vincitrice del concorso PattiChiari
e radicato sul territorio da inoltrare
attraverso l’utilizzo di un software
online sviluppato appositamente dal
Consorzio PattiChiari.
Il 31 maggio, presso la direzione Generale di BancaMarche, si è svolto
l’evento di premiazione per le Marche del Concorso “Sviluppa la tua
idea imprenditoriale”, collegato
al modulo didattico “L’impronta
Economica TEENS”, che ha visto
la partecipazione dei ragazzi delle
classi aderenti sapientemente coordinati dal DJ Alvin di Radio Arancia
Network. La classe vincitrice per le
Marche, è la III A programmatori dell’Istituto CUPPARI di Jesi,
guidata da Paola Benigni, con il
progetto “Banca del Tempo” diretto a realizzare un’associazio-
La III A programmatori dell’Istituto Cuppari di Jesi vince il premio per le Marche
*Servizio Marketing
ne di promozione sociale in cui si
possa scambiare tempo invece di
denaro. Sostanzialmente un Istituto
di Credito particolare a cui ricorrere se si ha bisogno di servizi quali
la cura dei bambini o della persona,
l’assistenza degli anziani, il bricolage, i lavori domestici, il disbrigo di
pratiche, l’insegnamento, le consulenze professionali, un supporto per
fare i compiti eccetera. Il valore in
ore di questi servizi verrà pagato con
altrettante ore, dei servizi più disparati, messe a disposizione dell’associazione da chi ne ha usufruito. Il
tutto con un conto corrente in ore e
un regolare estratto conto. La classe
vince un viaggio a Roma di 3 giorni per partecipare alla selezione nazionale del concorso che si terrà il
prossimo 5 ottobre alla presenza di
una prestigiosa giuria composta da
imprenditori, giornalisti, professori
universitari, esponenti della Commissione Europea e delle Istituzioni
italiane, la quale proclamerà il vincitore finale dell’edizione 2011-2012.
E se la classe finalista a livello nazionale fosse anche quest’anno quella
di BancaMarche? Si confermerebbe,
con un risultato tangibile, il valore
del nostro impegno quotidiano a sostegno dei bisogni del territorio.
BancaMarche crede nell’educazione finanziaria perchè i giovani
sono il nostro futuro.
primapagina63
PRODOTTI DI MARCA
di
Marina Argalìa*
Ecco i nuovi testimonial
della Campagna sul
Conto Corrente MY
di BancaMarche
E
ssere “testimonial” di un’azienda
o di un prodotto significa essere
clienti e utilizzatori del prodotto che
testimoniano a favore della marca e
del prodotto. Sostanzialmente i testimonial confermano al mercato di riferimento, con il sorriso, la cordialità,
la competenza e le qualità morali di
cui sono implicitamente portatori, il
valore del brand o del prodotto pubblicizzato. A volte questo termine è
però usato impropriamente per gli
“endorser” ovvero i personaggi famosi che, profumatamente pagati,
pubblicizzano prodotti di cui fanno
uso durante la loro attività sportiva o
artistica.
Già dalla nascita, per l’immagine
pubblicitaria del Conto MY di BancaMarche, è stata adottata l’idea di
fotografare delle persone reali, che
non fossero dei modelli, persone che
potessero essere effettivi portatori dei
vantaggi del prodotto. Nella prima
campagna pubblicitaria è stato dato
risalto alle caratteristiche del conto
senza mostrare i volti dei due personaggi che sarebbero apparsi successivamente. Era quindi già nella genesi
del pacchetto MY, l’evoluzione della
prima campagna in una seconda che
svelasse i volti dei testimonial. Il momento è arrivato!
Con la promozione a premio “Porta un amico e partecipi al casting
del Conto MY di BancaMarche”
diretta a tutti i correntisti del pacchetto giovani, BancaMarche ha
voluto dare seguito al progetto per
scegliere i suoi testimonial. La promozione, pubblicizzata tramite la
MY newsletter che ogni mese propone ai giovani notizie e novità del
mondo BancaMarche, proponeva, a
tutti i correntisti MY che presentavano un amico sottoscrittore del Conto
MY, una ricarica telefonica da €10
e la partecipazione di entrambi al casting fotografico per diventare testimonial della nuova Campagna MY
2012 in cui BancaMarche avrebbe
svelato il volto dei due giovani della campagna attuale. Dall’evento del
20 Aprile scorso organizzato a Jesi,
presso la Direzione Generale di BancaMarche per il casting fotografico,
la giuria ha scelto i due nuovi volti
del Conto MY: si tratta di Erika Bernini, 18 anni, di Pesaro e di Davide
Demontis, 23 anni, di Jesi. Durante
l’evento, sono state scattate le foto e
i partecipanti sono stati coinvolti in
una video intervista, il tutto accompagnato dalla simpatia di DJ Alvin e
da un gustoso aperitivo. Davide ed
Erika sono quindi diventati testimonial ufficiali del conto giovani di
BancaMarche e presto li vedremo
anche in tutte le filiali.
Finalisti e organizzatori all’evento per il casting fotografico del conto MY di BancaMarche
64Primapagina
BancaMarche crede nei giovani
perché sono il nostro futuro.
Seguici sulla MY newsletter, per non
perdere le iniziative BancaMarche
dedicate ai giovani!
*Servizio Marketing
PRODOTTI DI MARCA
di
Carla Branchetti*
Seconda edizione per i
“Gazebo Day” di BancaMarche
Carla Branchetti della Direzione Centrale Rete Distributiva di BancaMarche al XVII Meeting Regionale CNA Pensionati
A
ncora si parla della necessità
per le banche di uscire dalle filiali e coinvolgere le persone
parlando un linguaggio semplice e
diretto.
Per far questo, la politica di marketing territoriale di BancaMarche
ha inaugurato, ormai da due anni,
l’utilizzo di uno stand, utile a presidiare gli eventi organizzati dalla banca e non solo, presso i quali
essere presenti in modo visibile ed
efficace.
I “Gazebo Day 2012” sono stati incentrati in particolare su tre prodotti: ON CARD MY ovvero la nuova
carta prepagata di BancaMarche;
Conto Sconto Plus, il conto sempre
più amato dalle Famiglie e la raccolta amministrata con l’iniziativa
“Sposta il dossier titoli da noi…
una mossa ancor più vincente!”.
I consulenti delle 40 Filiali e delle 15 Zone che hanno presidiato i
principali eventi dell’estate del cen*Direzione Centrale Rete Distributiva
tro Italia, hanno intrattenuto clienti
e potenziali presso gli stand consegnando gadget e raccontando i nostri prodotti cercando di cogliere,
come sempre, le reali esigenze del
pubblico.
Sono occasioni di contatto importanti perché, fuori dall’ambiente
certamente più formale della Filiale, le persone sono più accoglienti
ed aperte, più disposte a raccontarsi
e ad ascoltare.
Il brand della Banca viene rafforzato passando attraverso l’experience
del cliente sviluppata durante un
evento ludico che ha permesso ad
ognuno di conoscere nuove persone o vedere le stesse sotto un’altra
luce.
Eventi e Territorio si confermano
connubio vincente anche per fare
banca e per dare valore a chi,
come BancaMarche, il territorio
lo sostiene da sempre.
Lo scorso 8 Maggio si è svolto presso
il Palaterme di Riccione il XVII Meeting Regionale di CNA Pensionati.
All’iniziativa hanno partecipato oltre
500 ospiti associati a CNA, provenienti da tutte le province dell’Emilia Romagna. L’iniziativa ha trattato il tema
del Turismo Sociale e del Marketing
Territoriale, ampiamente discusso dai
relatori presenti fra i quali ricordiamo
Fabio Giungi Presidente CNA Pensionati Emilia Romagna e il Sindaco del
Comune di Riccione Massimo Pironi.
È anche intervenuta Carla Branchetti,
in rappresentanza di BancaMarche,
che ha parlato dei principali prodotti
dedicati al target dei Pensionati.
L’iniziativa, sponsorizzata dalla banca
e da CNA Unione Artistico Tradizionale, ha coinvolto gli artigiani locali che
hanno esposto i propri prodotti tipici
alimentari ed artistici. Notevole l’afflusso al Gazebo BancaMarche presso
il quale sono stati consegnati vari gadget molto graditi dal pubblico.
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PRODOTTI DI MARCA
di
Filippo Cantarini*
Un prestito per studiare
senza interessi e senza spese
P
er essere ancor più vicina alle
esigenze delle famiglie messe
a dura prova dall’attuale situazione
economica, BancaMarche ha aumentato a €900 l’importo del “prestito personale per fini scolastici”
diretto agli studenti.
Tale iniziativa, che BancaMarche promuove da diversi anni, ha
l’obiettivo di supportare le famiglie
con un reddito ISEE (Indicatore
della Situazione Economica Equivalente) non superiore a €30.000,
che all’inizio di ogni anno scolastico o accademico si trovano ad
affrontare un esborso finanziario
per il pagamento di libri scolastici,
testi universitari, tasse scolastiche
ed universitarie e materiale didattico in genere. Il prestito può essere
concesso anche direttamente allo
studente, se maggiorenne.
Il prestito, senza interessi e senza
spese, prevede un importo fisso
di €900 a studente, da rimborsare
mediante 12 rate mensili di €75
ciascuna, corrispondenti alla sola
quota capitale.
Per richiedere il finanziamento è
necessario presentare in Filiale,
oltre ai documenti di rito, apposita
documentazione attestante il requisito di reddito (attestazione ISEE
del nucleo familiare aggiornata) e
l’iscrizione al corso di studi.
L’iniziativa ha riscontrato negli
anni un interesse crescente perchè
rappresenta un valido strumento
per sostenere le famiglie con figli in
età scolare.
BancaMarche si conferma
punto di riferimento
del territorio, soprattutto
per l’offerta di credito.
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*Servizio Marketing
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