IV CONVEGNO ADOTTA 2013
INTERVISTA A
MARIANGELA GUALTIERI
Per informazioni: www.teatrovaldoca.org
MARIANGELA GUALTIERI (Cesena, 1951) poeta e
drammaturga, comincia a scrivere in seno al Teatro
Valdoca da lei stessa fondato insieme al regista Cesare
Ronconi. Ogni allestimento di Ronconi la vede presente e
partecipe, pronta a captare il giro di forze della scena e a
dare ad esso parola. Fin dall’inizio cura la consegna orale
della poesia - con letture di versi in Italia e in vari paesi del
mondo - dedicando piena attenzione all’apparato di
amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e
musica dal vivo. La sua attività pedagogica è ininterrotta, con laboratori di scrittura
e, attualmente, di lettura di versi al microfono. Tra i testi pubblicati Antenata
(Crocetti, 1992), Sue Dimore (Palazzo delle Esposizioni di Roma, 1996), Nei Leoni
e nei Lupi (I Quaderni del Battello Ebbro, 1996), Parsifal (Teatro Valdoca, 2000),
Chioma (Teatro Valdoca, 2000), Fuoco Centrale (Einaudi, 2003), Donna che non
impara (Galleria Emilio Mazzoli, 2003), Senza polvere senza peso (Einaudi, 2006),
Sermone ai cuccioli della mia specie (L’arboreto Editore, 2006), Paesaggio con
fratello rotto (Luca Sossella, 2007), Bestia di gioia (Einaudi, 2010), Caino (Einaudi,
2011), Sermone ai cuccioli della mia specie in CD audio (Teatro Valdoca, 2012).
MICHELE PASCARELLA INTERVISTA MARIANGELA GUALTIERI
CIÒ CHE CI RENDE UMANI. SECONDO MARIANGELA GUALTIERI.
Un percorso tra poesia, filosofia e arti, ideato e curato dal Teatro Valdoca.
www.artribune.com
Già dal sottotitolo, poesia filosofia arti, questo si connota come un progetto
non esclusivamente teatrale. Quali proposte sono più vicine al teatro, e quali
invece se ne distanziano?
Questo nostro progetto è un tentativo di fecondazione e arricchimento in un tempo
di siccità grave: proprio come in agricoltura, la prima cosa da fare è rendere
fecondo il terreno, così qui partiamo da un punto largo, dove c’è nutrimento per
tutti. Il teatro è un’arte che comprende tutte le altre: qui siamo a monte dell’atto
teatrale, lì dove si affondano le radici e si tentano gli innesti. Direi che l’atto più
teatrale è la parola. È la parola che viene messa al centro e teatralizzata,
soprattutto nell’allestimento di Cesare Ronconi. L’angoscia semantica che stiamo
vivendo impone uno sforzo di attenzione e cura della parola, per un dire che sia
espressivo, approfondito e risvegliante. Fra tutto ciò che ci rende umani la parola,
come dicono i maestri, è l’elemento cardine, il più importante e tragicamente il più
logoro, quello dunque sul quale è urgente raccogliersi e ritrovare una chiarità.
L’incontro con l’altro mi pare essere uno dei grandi temi di Ciò che ci rende
umani. Da quali incontri è nato il programma?
Hai ragione a pormi questa domanda. Nel raccogliere le idee per risponderti mi
rendo conto che questi ultimi anni sono stati per me ricchi di incontri formidabili,
sono apparse nella mia vita persone che mi pare tengano fra le mani doni rari e
preziosi, e non solo per me. Sia persone di chiara fama, come Enzo Bianchi per il
quale provo stima e amicizia, ma anche figure di questo territorio, come Lorella
Barlaam, una intellettuale con uno spessore umano e sapienziale che trovo
straordinario o il giovane Nicola D’Altri, poeta cesenate che è molto più di una
promessa. Milo de Angelis, Franco Arminio e Livia Candiani, tre poeti a me molto
cari, sono amici, certo, ma prima di questo sono tre mondi singolari, tre figure per
motivi diversi fra le più belle e ricche che mi sia capitato di incontrare. E so che
hanno un alto magistero pedagogico, cioè la capacità di comunicare in profondità,
anche nel breve tempo del loro passaggio a Cesena. Luce Irigaray e Francesca
Proia le sento in qualche modo legate: entrambe navigano dentro energie ancora
poco percorse in occidente, sono in modo diverso due ponti verso energie sottili e
un modo di incontro con se stessi e con gli altri che vale la pena attraversare. Con
Melina Mulas e Paola Farneti ci sono state già varie collaborazioni e sono persone
delle quali ho piena stima, affetto e fiducia. Da ultimo Massimo Cacciari è stato mio
professore all’Università e ho sempre avuto attenzione al suo pensiero.
È possibile comunicare in profondità in un breve tempo?
Il comunicare in profondità l’ho riservato ai tre poeti ospiti: credo che la poesia sia
capace di questa vertigine, cioè di toccare in profondità, e di farlo immediatamente.
Anche la musica ha questo potere, ma la poesia ci riesce attivando la
comprensione intellettuale, tenendo insieme significante e significato. C’è una bella
poesia di Szymborska che dice che l’anima non la si ha sempre, anzi, la si ha
raramente, poi scompare, a volte per mesi, per anni, per una vita intera. Io credo
che certe parole possano risvegliarla, noi tutti lo sentiamo e lo sappiamo. E questo
è ciò che chiamo ‘comunicare in profondità’, è il risveglio immediato di ciò che in
noi è congelato e secco. Anche la filosofia è capace a volte di attivare questo
risveglio.
È corretto dire che è implicato un piano politico?
Ho recentemente fatto un viaggio in Brasile e da lì, da quel paese carico di
festosità e dolcezza, l’Italia mi è apparsa piena di cinismo. Non c’è alcuna cura per
l’altro, spesso neppure per chi ci è più vicino. Era mia intenzione portare in questa
città figure pienamente positive, e d’altro canto individuare una comunità di attenti,
di persone desiderose e pronte all’incontro con chi può in qualche modo arricchirle.
Penso che sia importante per una città ritrovarsi spalla a spalla, seduti uno accanto
all’altro ad ascoltare parole chiarificatrici, profonde. Individuare chi è contagiato
dalla stessa fame, dallo stesso bisogno di densità, di un vivere accurato. Per
questo ho citato il verso sorprendente di Adonis nel piccolo libretto che contiene il
programma della rassegna: “che cosa è la città se non la porta dell’amore verso
l’universo?”. Questo modo di pensare la città credo sia altamente politico.
C’è anche il desiderio di ingrandire questa “comunità di attenti”?
Credo che i tempi di questo obiettivo siano lunghi, ben più lunghi di un mandato
politico, e quindi bisogna avere infinita cura, continuità, pazienza e attesa. Sono
grata a Elena Baredi, nostro Assessore alla cultura, perché ha avuto molto
entusiasmo su questo progetto e una cura di gittata più lunga del suo mandato.
Il progetto ospita la mostra di Erich Turroni e gli allestimenti di Cesare
Ronconi. Come le arti visive si integrano nel discorso complessivo?
Penso che le arti visive siano a un punto cruciale: c’è un inquinamento dovuto al
mercato che a volte fa apparire la pittura e la scultura come universi impazziti nei
quali è impossibile riconoscere autenticità, vocazione e talento. Ma come
potremmo vivere senza arte? Come potremmo essere umani senza l’avventura e
la vertigine dell’arte? La mostra di Erich Turroni fa parte di un’attenzione
sottolineata a un artista di questo luogo, al formarsi dei suoi segni, alla gittata del
suo demone. L’allestimento di Cesare per accogliere la parola, oltre appunto a
teatralizzare il dire e l’ascoltare, ci ricorda che l’arte, così come la poesia, dovrebbe
in ogni istante arricchire la nostra vita, il nostro fare e il nostro non fare, tanto più in
questo paese dove tutto è, era intriso d’arte, come se nel passato non si potesse
davvero vivere lontano dalle sue potenze.
Che cosa manca in Ciò che ci rende umani?
Ci sono tanti altri inviti che avremmo voluto fare, ma è già un miracolo in simili
tempi che tutto ciò possa avvenire – debbo dire anche grazie al lavoro generoso di
tutto il Teatro Valdoca e di alcuni ospiti, come Mulas e Farneti che si sono mosse
con una dedizione volontaria. Direi che manca un momento comico – certa
comicità è davvero apotropaica. Tante sono anche le cose incompatibili, che per
nessun motivo potevano stare dentro questo progetto: a esempio tutte le modalità
in cui la parola viene logorata, anziché dinamizzata, e lo sappiamo, sono
appariscenti o subdole, e innumerevoli.
È evidente un grande entusiasmo, parola che nell’etimo significa “dio dentro
di te”. Come le dimensioni dell’umano e del divino si incontrano, qui?
Mi piacerebbe scantonare dalla dualità umano-divino e pensare che tutto è divino.
Forse sarebbe meglio dire che tutto è sacro. E io credo proprio che sia così.
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