ISTITVTO DELLA
ENCICLOPEDIA ITALIANA
FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI
L’UNIFICAZIONE ITALIANA
Volume pubblicato con il contributo di
ASPEN INSTITUTE ITALIA
Capitoli scelti
per il sito di Aspen Institute Italia
SEZIONE V
CULTURA E SOCIETÀ
Capitolo “Musica e teatro” di Carlotta Sorba
Capitolo “La cultura scientifica” di Carlo G. Lacaita
Capitolo “Le città” di Francesco Bartolini
Capitolo “Il patrimonio artistico e culturale” di Simona Troilo
© riproduzione vietata. Tutti i diritti riservati.
Musica e teatro
La sera del 18 febbraio 1861 si festeggiava a Torino, in piazza Castello, l’inaugurazione
del nuovo Parlamento italiano avvenuta quel giorno. Era in programma un concerto del
corpo di musica della Guardia nazionale che, insieme a un centinaio di coristi, affrontava una serie di arie di ispirazione nazional-patriottica. La serata si apriva con un galop intitolato alla battaglia di San Martino e si chiudeva con l’inno di Michele Novaro e Goffredo Mameli, Fratelli d’Italia. Tra questi due pezzi si snodavano una serie di cori e di
sinfonie d’opera in cui primeggiava la produzione verdiana, presente il maestro a Torino
nella inedita veste di deputato a cui era stato convinto dallo stesso Cavour. Erano previsti sia il Giuseppe Verdi degli anni Quaranta, con un coro di Ernani, sia quello più recente di Aroldo, e infine quello più internazionale di Traviata. A completare la serata celebrativa contribuiva un pezzo dalla Gazza ladra di Gioacchino Rossini e uno dagli Orazi
e Curiazi di Saverio Mercadante, anch’essi protagonisti della grande stagione operistica
del primo Ottocento. Se si escludono alcuni inni, la colonna sonora di questa festa inaugurale era costituita essenzialmente da arie tratte da melodrammi e ciò doveva apparire
del tutto ovvio agli ascoltatori, trattandosi della musica italiana per eccellenza, quella che
aveva in vario modo accompagnato gli eventi risorgimentali.
Negli anni che seguirono l’unificazione, e in modo particolare a partire dagli anni Ottanta, l’accostamento tra opera e Risorgimento divenne parte della celebrazione dell’epopea nazionale, insieme all’immagine patriottica del maestro di Busseto come precoce cantore della nazionalità. Ma, al di là della retorica celebrativa postunitaria, quale ruolo sociale
e politico, oltre che ovviamente culturale, il teatro d’opera aveva effettivamente giocato
nei decenni precedenti il raggiungimento dell’Unità? Da questo primo interrogativo è necessario partire per ricostruire i percorsi teatrali e musicali del processo di unificazione
nazionale.
Il paese dei teatri
«La nostra musica – aveva scritto Verdi all’amico Giuseppe Piroli nel 1883 – a differenza
della tedesca che può vivere nelle sale con le sinfonie, negli appartamenti coi Quartetti, la
nostra, dico, ha il suo seggio principale nel teatro» (Verdi 1935, 3° vol., p. 162). Non si
tratta solo di un accenno marginale rintracciato tra le pagine dello sterminato epistolario
verdiano. È una considerazione che va inquadrata nel dibattito sulle «identità nazionali» in
musica, che tanto ampiamente circolava nel mondo musicale degli anni Ottanta, ed esprime con chiarezza il pensiero di un compositore che stava assumendo, ben più consapevolmente che negli anni risorgimentali, il ruolo di riconosciuto portavoce dell’italianità.
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Carlotta Sorba
Cultura e società
Alludendo al fatto che tra le maggiori specificità della tradizione musicale italiana doveva
essere compresa la sua intrinseca teatralità, egli mostrava una chiara percezione del ruolo
che, nella particolare fortuna dell’opera romantica, avevano giocato la diffusione e la vitalità dei luoghi teatrali nella società italiana del periodo.
La funzione culturale e civile svolta dall’opera può essere pienamente compresa solo
considerando la portata della presenza degli spazi teatrali e l’importanza che essi avevano
acquisito nei centri urbani piccoli, medi e grandi degli Stati preunitari. La dimensione
quantitativa della loro diffusione è rintracciabile nel censimento delle sale teatrali che il
ministero di Agricoltura, industria e commercio effettuò alla fine degli anni Sessanta.
Nei primi anni che seguirono l’unificazione, una fitta rete di richieste e di sollecitazioni collegava i ministeri del nuovo Regno alle singole prefetture. In questo quadro anche le strutture teatrali furono oggetto di un’indagine conoscitiva che doveva accompagnare l’operato dei nuovi legislatori, soprattutto in merito al diritto d’autore sul quale era
stata emanata nel 1865 una prima normativa. La finalità dell’inchiesta non era dunque di
inventariazione storico-artistica, ma di ordine fiscale, legata alla necessità di censire tutti
quei luoghi di spettacolo che ricadevano nell’ambito della nuova normativa. Nella primavera del 1866 i prefetti del regno ricevettero una circolare in cui erano pregati di inviare
al ministero un prospetto di tutti i teatri esistenti nella rispettiva provincia, che comprendesse le informazioni necessarie a identificarne lo stato e la tipologia e cioè: la denominazione e l’anno di fondazione della sala; la sua localizzazione e la sua capienza; chi ne avesse la gestione; a quale tipo di spettacoli fosse destinata; se avesse una dote annua; quali
fossero le sue condizioni strutturali.
La documentazione raccolta e inviata a Roma tra il 1868 e il 1869 consente oggi di
cogliere l’immagine d’insieme delle strutture teatrali all’indomani dell’Unità e dell’imponente processo di costruzione avvenuto lungo la penisola a partire dalla fine del XVIII
secolo. Si contavano infatti sul territorio allora italiano (ne erano esclusi il Lazio, il Trentino e la Venezia Giulia che vi sarebbero entrati più tardi) 942 sale teatrali attive, distribuite in 650 comuni. Quasi due terzi di esse erano state costruite o rinnovate dopo il 1815.
In effetti non si può dire che gli edifici teatrali fossero una presenza nuova nelle città italiane. La costruzione dei primi teatri per un pubblico pagante risaliva in Italia al XVII
secolo e quelli che sarebbero rimasti gli elementi principali dell’«armatura» teatrale italiana erano stati edificati nel corso del Settecento. Il cantiere del San Carlo a Napoli era iniziato nel 1735 (anche se il teatro venne poi ricostruito nel 1816 dopo un incendio), quello della Pergola a Firenze nel 1738, il Regio a Torino venne edificato a partire dal 1741,
il Comunale di Bologna dal 1763, la Scala dal 1778, mentre l’inaugurazione della Fenice
veneziana fu nel 1791. Se, dunque, i teatri erano già una presenza importante nelle città
italiane settecentesche, ciò che accadde a partire dalla fine del secolo e per tutta la prima
metà dell’Ottocento fu un fenomeno diverso, che non sembra avere riscontri a quella data in altri paesi europei. Si trattava di una diffusione capillare lungo la penisola, anche nei
centri urbani di piccola o piccolissima dimensione, di sale teatrali che riproducevano esattamente, nelle facciate come nell’architettura e nell’articolazione interna, i maggiori teatri settecenteschi appena citati. Erano in realtà edifici molto diversi, per importanza e capacità: grandi sale come il Carlo Felice di Genova (1825) o il Ducale di Parma (1829), che
riproponevano il tradizionale modello del teatro di corte e potevano contenere più di 2.000
spettatori, fino a piccolissimi teatri per 2-300 persone, disseminati nei comunelli delle
Marche, della Puglia o della Toscana. E poi sale di media dimensione, da 800 a 1.500 posti, costruite in città forse non di primo piano come Cesena, Rovigo o Viterbo, ma che
non rinunciavano a competere con quelle delle città vicine in quanto a magnificenza e importanza. Fu una catena di emulazione tra città, che ben rispecchiava la densità della geografia urbana italiana, a guidare questa moltiplicazione delle sale sul territorio preunitario (Sorba 2001).
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
Ad accomunare le varie realtà, pur nella diversità dei contesti locali, sono l’attribuzione a questi edifici di una sorta di centralità simbolica e rappresentativa all’interno della trama urbana, e l’individuazione di un medesimo meccanismo di finanziamento che faceva del teatro un luogo insieme pubblico e privato. A partire soprattutto dagli anni della
dominazione francese – quando il processo di «laicizzazione» degli spazi urbani aveva conosciuto un’accelerazione importante con la vendita dei beni ecclesiastici e la liberazione
di vaste aree edificabili – il luogo teatro aveva gradualmente assunto il ruolo di un nuovo
polo di gravitazione della vita cittadina, diventando quasi l’edificio simbolo del periodo.
Qualcosa di simile sarebbe avvenuto più tardi, nella seconda metà del secolo, con edifici
come le stazioni ferroviarie, oppure, sul fronte privato, con le imponenti costruzioni delle grandi banche. Gran parte di questi edifici teatrali presentava infatti un carattere monumentale, facciate neoclassiche che rimandavano al modello del teatro-tempio, una posizione prospetticamente felice che fungeva spesso da raccordo tra parti diverse della città.
D’altronde si trattava di una centralità per nulla casuale: era infatti tra le loro mura
che si giocava la parte più importante della vita di società. Tutti i resoconti dei viaggiatori stranieri del periodo, più o meno benevoli che fossero nei confronti delle peculiarità italiane, ci dicono che nelle piccole come nelle grandi città era necessario andare a teatro per
incontrare ogni sera la società locale e coglierne la natura e i rapporti. Qui, nel quadro della struttura a palchetti tipica della sala all’italiana, che nonostante le critiche egualitarie della pubblicistica illuminista aveva trovato piena conferma nella progettazione ottocentesca,
ci si trovava di fronte a una riproduzione quanto mai efficace delle gerarchie sociali. Fin
dalle sue origini, essa comportava l’attribuzione di diverse «dignità» alle sue varie parti: nelle prime due file di palchi, che venivano definite «nobili», sedeva l’aristocrazia o l’alta borghesia del luogo; subito sopra, le file definite «mercantili» ospitavano il notabilato di fortuna più recente; mentre in basso, nel parterre, a lungo dotato di sedili mobili per essere
trasformato all’occorrenza in sala da ballo, si aggirava un pubblico più composito di ufficiali, giovani aristocratici, studenti e anche donne di malaffare. Non poteva mancare infine, almeno nelle sale medie e grandi, la galleria a prezzi popolari, il cosiddetto loggione, situato sopra l’ultima fila di palchi e a cui si accedeva da un ingresso rigorosamente separato.
Quello della sala all’italiana era dunque un modello architettonico che tendeva a neutralizzare i rischi della promiscuità sociale e per di più poteva essere facilmente declinato in varie dimensioni, persino in miniatura. Non è infrequente trovare nella provincia meridionale sale piccolissime, per poche decine di persone, e tuttavia allestite a palchetti, proprio
perché adatte a una perfetta declinazione del gioco della distinzione sociale.
Ma c’era di più. La rinnovata fortuna ottocentesca di un tale modello architettonico
di origine barocca si collegava anche a un ingegnoso meccanismo finanziario che aveva
consentito la sorprendente crescita degli spazi teatrali in un paese povero di capitali, come certamente era l’Italia del primo Ottocento. La costruzione di una sala avveniva infatti attraverso la cosiddetta «privativa dei palchi», che suscitava tanta sorpresa e curiosità negli stranieri, dal momento che prevedeva una singolare dissociazione tra la proprietà
dell’edificio nel suo complesso (che poteva essere dello Stato, del municipio, di un’accademia o di una società di azionisti) e quella dei singoli palchi. Questi ultimi venivano acquistati dai notabili del luogo e divenivano altrettanti salotti privati da cui le famiglie più
in vista della città assistevano agli spettacoli e a propria volta si mostravano, in quel mondano gioco di specchi che era tipico della sala all’italiana. Negli edifici ottocenteschi erano inoltre cresciuti rispetto al passato gli spazi di rappresentanza e di ritrovo, cosicché anche nei centri di poche migliaia di abitanti i nuovi teatri comprendevano spazi per il caffé,
per la conversazione, per il gioco, proponendosi come luoghi autosufficienti per il loisir
cittadino.
Le stesse autorità politiche locali, anche nei territori che dipendevano direttamente
dall’Austria, avevano favorito il diffondersi delle sale, perché considerate luoghi di incontro
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C. SORBA
Cultura e società
meglio controllabili di altre forme di ritrovo come circoli, caffè o salotti, anch’esse in rapido sviluppo. Alla base di questo vivace processo costruttivo stava infine un elemento
peculiare del sistema italiano: l’apertura di un teatro non era sottoposta ad alcuna restrizione da parte delle pubbliche autorità, diversamente da quanto accadeva sia in Francia
che in Inghilterra, dove la piena liberalizzazione del sistema teatrale con l’abolizione dei
cosiddetti «privilegi» ai teatri maggiori avverrà solo molto più tardi nel corso del secolo.
Non esistevano in Italia limitazioni al numero dei teatri, né prescrizioni di sorta relative
ai generi in essi rappresentati. Questo rendeva possibile a chiunque, società o privati, aprire una nuova sala, con il solo benestare delle autorità di pubblica sicurezza che dovevano
garantire l’ordine all’interno delle sale, mentre gli uffici censori avrebbero regolato e controllato quanto accadeva sui palcoscenici.
La forza del melodramma
Oltre che luoghi di incontro e di vita sociale, gli spazi teatrali erano ovviamente luoghi di
spettacolo. A metà secolo ogni centro urbano che si pretendesse tale, nel Centro-Nord e
nel Sud più urbanizzato, possedeva almeno un teatro (il cosiddetto «teatro di città») dove,
finanze permettendo, si rappresentava l’opera in musica – che era il momento alto della
stagione – e molti altri generi, dalla commedia al dramma storico, fino agli spettacoli di
magia e di prestidigitazione. Se escludiamo il caso delle capitali culturali (Milano, Napoli, Roma), dove già esistevano teatri diversi per genere e pubblico, le sale teatrali erano
per lo più spazi polivalenti, contenitori del divertimento cittadino dove si poteva assistere alla rappresentazione di un dramma di Vittorio Alfieri o a spettacoli ottici, come cosmorami e neorami, o ancora partecipare al ballo di carnevale e a tombole di beneficenza.
La programmazione aveva però il suo fulcro nella stagione operistica (nei teatri maggiori più d’una l’anno) eventualmente arricchita dai balli d’entracte. Il teatro di prosa era considerato un momento secondario della vita teatrale, in alcuni casi addirittura un riempitivo tra una stagione d’opera e l’altra. L’altro genere musicale il cui successo stava crescendo
nell’Europa del periodo, cioè la musica strumentale presentata in concerto, in Italia era
ancora oggetto di iniziative episodiche e isolate, mancando di un proprio pubblico e di un
proprio sistema produttivo.
Tutto ciò doveva essere ben chiaro a Giuseppe Mazzini che, in uno scritto del 1836
dedicato alla musica, aveva sostenuto che l’esperienza musicale, ma in senso lato teatrale, dell’italiano ottocentesco si risolveva quasi interamente all’opera. Per tutta la prima
metà del secolo la forza di attrazione del melodramma può dirsi in effetti incontrastata e
sempre crescente, soprattutto perché contava su un sistema produttivo e distributivo ben
articolato e consolidato a scala nazionale. Attraverso uno spoglio sistematico dei periodici musicali dell’epoca e delle cronistorie di vari teatri, si è calcolato che tra il 1825 e il 1846
il numero delle stagioni d’opera sarebbe aumentato da 128 a 270 all’anno, per una crescita totale degli allestimenti da 388 fino a 798 all’anno. Ed è probabilmente una cifra che
potrebbe aumentare se si considerassero le rappresentazioni più occasionali che si producevano nei piccoli teatri.
La diffusione capillare delle sale e il consolidamento dei circuiti impresariali, insieme alla crescita del fenomeno delle società filarmoniche e filodrammatiche, fa sì che quello teatrale divenga uno dei più attivi ed efficaci sistemi culturali funzionanti sul territorio
nazionale anche prima dell’unificazione. Sono i percorsi degli impresari, figure chiave nel
mondo operistico ottocentesco, ad assicurare la circolazione relativamente rapida dei melodrammi (Rosselli 1985). Se dunque i teatri sono spazi voluti e gestiti dalle élites locali, spesso in aperta concorrenza con le città vicine, in essi circola però una produzione melodrammatica che ha precocemente un profilo nazionale. In un territorio diviso da molte
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
frontiere e in cui le comunicazioni erano ancora scarse e disagevoli, le opere sembrano essere il prodotto culturale la cui circolazione è più puntuale sul territorio, oltre che dotato
del pubblico più largo e socialmente variegato. Mentre libri e periodici sottostavano al pagamento di dazi doganali anche pesanti, le opere circolavano più liberamente, fatto salvo
l’intervento degli uffici censori. E anche con una certa rapidità, se si pensa che, pochi mesi dopo la prima a Venezia, un’opera come Rigoletto venne allestita con quasi lo stesso cast
ad Ascoli Piceno, in un angolo appenninico dello Stato pontificio non certo facile da raggiungere. Nel momento in cui ottenevano successo, i melodrammi venivano poi massicciamente replicati, e richiamavano la stessa quantità di pubblico anche per trenta serate
consecutive, riproponendo le gesta delle eroine donizettiane tratte dai romanzi di Walter
Scott o gli intrecci storico-politici delle prime opere verdiane, in molti palcoscenici contemporaneamente. Il Trovatore, opera di grande popolarità, fu allestita nel corso del 1853
in 27 diverse sale italiane.
È allora un quadro articolato e crescente di strutture materiali (spazi, circuiti, contrattazioni tra impresari e notabili locali) a fare da sfondo al grande successo del melodramma di Vincenzo Bellini, di Gaetano Donizetti e infine di Verdi nei decenni centrali
dell’Ottocento. E se non a predisporre, quantomeno a caricare di efficacia l’avvicinamento tra l’opera e le vicende patriottiche risorgimentali.
La capacità di proporsi a un pubblico sempre più ampio e articolato (sia attraverso i
circuiti musicali professionali sia tramite la crescente attività dilettantistica di bande, cori, accademie e orchestrine) fa sì che le musiche e i testi dei melodrammi romantici, che
spopolavano sui palcoscenici, rappresentassero un prodotto culturale unico nel suo genere, la più importante declinazione italiana del romanticismo popolare. Se dunque i teatri
erano considerati dalle autorità luoghi di incontro ben controllabili, essi diventarono anche i conduttori di un flusso di narrazione che metteva in circolazione lungo la penisola,
in versione melodrammatica, molti dei testi della letteratura romantica europea, da Byron a Scott, da Schiller a Victor Hugo. Si trattava per gran parte di intrecci storici di ambientazione medievale o quattro-cinquecentesca, dotati di una carica emotiva e sentimentale che tendeva a infiammare le platee. Le parole più utilizzate dalla stampa del periodo
per descrivere la reazione del pubblico di fronte ai melodrammi di maggiore successo erano brividi, pianto, commozione, lacrime, stordimento, strepiti fino alla fine, tremore di
gioia, il tutto a rimarcare l’alta temperatura emotiva che si respirava nei teatri.
Una specificità forte del sistema operistico italiano consisteva, infine, nella sua struttura policentrica, che si combinava perfettamente con la dimensione internazionale che
era propria dell’opera italiana fin dalle sue origini. Poteva succedere allora, ancora a metà del secolo, che l’organizzazione di una prima verdiana avvenisse in provincia, come fu
per Aroldo nel 1857 in occasione dell’inaugurazione del teatro di Rimini, o davanti a un’illustre platea internazionale come quella dell’Her Majesty’s Theatre londinese, dove nel
1847 il maestro presentò al pubblico per la prima volta I Masnadieri. In entrambi i casi
erano previste compagnie di canto di tutto rispetto.
I circuiti impresariali del periodo, insomma, riuscivano a tenere insieme queste diverse dimensioni geografiche, che finivano per sostenersi reciprocamente. Qualcosa però
nel corso del secolo aveva iniziato a cambiare. Si stava verificando una crescente polarizzazione produttiva intorno a pochi grandi centri – Milano, Roma, in qualche caso Torino – dove si concentravano anche le testate e la critica musicali, oltre che gli editori, mentre Napoli e Venezia perdevano progressivamente di rilievo. All’estero, la commissione
di opere a compositori italiani da parte di grandi teatri, una prassi consueta che aveva trovato piena conferma nell’Ottocento, si concentrava soprattutto su Parigi, vera e propria
capitale culturale del XIX secolo, ma vedeva anche l’emergere di piazze inconsuete, come San Pietroburgo, dove andò in scena la prima de La forza del destino nel 1862, o Il
Cairo per Aida nel 1871.
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C. SORBA
Cultura e società
L’opera e il movimento nazional-patriottico
È noto che alla vigilia dell’unificazione nazionale, nel 1859, sui muri di molte città italiane
i passanti potevano leggere delle scritte a grandi caratteri che, attraverso il nome del maestro di Busseto, inneggiavano in realtà alla prospettiva di un nuovo regno sotto i Savoia.
I muri delle nostre case fanno l’ufficio dei giornali – scriveva da Modena nel gennaio del
1859 un corrispondente dell’«Opinione» di Torino – ed i nomi di Vittorio Emanuele, di Cavour, di La Marmora ecc. vi sono iscritti sopra. La gioventù specialmente ha ora di continuo in bocca il nome di Verdi, poiché questo fortunato nome, colle lettere che lo compongono, forma l’ardente voto di tutti quelli che vogliono Vittorio Emanuele re d’Italia (cit. in
Sawall 2003, p. 125).
Il «Viva V.E.R.D.I!» era conosciuto come acrostico allusivo al nome di colui che si apprestava a divenire il primo re d’Italia già dall’anno precedente, quando se ne hanno testimonianze in Toscana e persino nella Milano austriaca. Sul medesimo giornale si legge che
tali scritte iniziavano a impensierire parecchio la polizia che tutte le notti mandava «intorno una mano d’e’ suoi agenti per cancellarle». Ma il giorno dopo, continuava l’articolista,
«le iscrizioni tornano a farsi a lettere più cubitali» (cit. ivi, p. 126).
Le scene operistiche si erano dunque caricate di tali e tante immagini e suoni patriottici nei decenni precedenti da divenire riconosciuto emblema del discorso risorgimentale? La costruzione dell’icona di Verdi come padre della patria e «vate» del Risorgimento
italiano fu perseguita con indubbia efficacia comunicativa fin dalla prima biografia aneddotica nel 1881 e venne arricchita di varianti prima e durante il fascismo. Ciò ha sedimentato sul personaggio, e più in generale sull’opera lirica, una carica di mitografia dalla quale non è facile districarsi per rintracciare il peso effettivo della dimensione politica nel
teatro musicale del periodo. In effetti non si può sostenere che Verdi o gli altri compositori le cui opere furono oggetto di letture risorgimentali (si pensi alla Norma di Bellini,
oppure alla Donna Caritea di Mercadante) fossero dei patrioti militanti. E d’altronde, se
Rossini dedicò a Carlo X il suo Guglielmo Tell (forse la più profondamente patriottica delle opere di primo Ottocento) e Verdi i Lombardi alla prima crociata a Maria Luigia d’Austria, non si può nemmeno pensare che quei testi portassero in sé una carica sovversiva
così riconoscibile ed evidente. Si trattava nello stesso tempo di prodotti commerciali fatti per il pubblico e di opere prodotte all’interno di un sistema dove i teatri di corte svolgevano un ruolo importante. Ben difficilmente potevano proporre immagini sgradite ai
governanti, cosa che d’altronde il controllo censorio avrebbe impedito, o a una parte del
proprio pubblico.
Se a nessuno dei compositori citati può allora essere attribuita una precisa volontà di
informare la propria produzione a obiettivi politici, è pur vero che nelle loro biografie non
mancano le occasioni di vicinanza agli ambienti e ai temi risorgimentali. Ad esempio, Donizetti e Bellini frequentavano assiduamente a Parigi il salotto di Cristina di Belgioioso e
il gruppo dei fuoriusciti italiani, all’interno del quale individuarono e assoldarono molti
dei propri collaboratori: il mazziniano Agostino Ruffini ebbe il compito di rivedere per
Donizetti il libretto del Marino Faliero; il fratello di questi, Giovanni, egualmente esule,
compose il testo per il Don Pasquale. Da parte sua Bellini aveva chiesto a Carlo Pepoli, il
conte bolognese fuggito a Parigi dopo i moti del 1830, di scrivere per lui il libretto de I
Puritani. Al di là delle intenzioni dei compositori, tali testi nascevano dunque in un contesto imbevuto di temi nazional-patriottici e ne recavano le tracce.
Per quanto riguarda Verdi e le sue propensioni politiche, sappiamo della fascinazione giovanile per la tradizione repubblicana e anticlericale, che lo portò a chiamare i propri figli Virginia e Icilio, personaggi simbolo della tradizione giacobina italiana. Alle posizioni più radicali di gioventù egli aveva sostituito nella maturità un’incondizionata
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
ammirazione per Cavour, che avrebbe eletto a sua stella politica. Sull’intenzionalità verdiana di partecipare e di incidere con la propria musica sulle lotte risorgimentali storici e
musicologi ancora oggi si dividono tra chi tende a negare qualsiasi consistenza all’immagine risorgimentale del maestro e chi invece mette in luce i molti, anche se non sempre
coerenti, fili che legano la sua produzione agli eventi politici del momento.
Se rimaniamo sul piano della biografia del compositore emergono in effetti segnali
contrastanti. Nella sua corrispondenza trapela più volte una sorta di resistenza a occuparsi di politica, un campo del quale sa bene di non intendersi affatto: una consapevolezza
che forse nasconde qualche timore nei confronti di un possibile eccesso di subordinazione della propria produzione agli imperativi politici del momento, che in taluni casi gli viene effettivamente sollecitata. Come ha scritto Giuliano Procacci, il suo fu piuttosto un impegno politico dal carattere intermittente e fortemente emotivo, che tendeva a dispiegarsi
nei momenti di maggiore tensione e comunque mai a divenire una vera priorità nella sua
produzione (Procacci 2003). Tra quei momenti ci fu senza dubbio il Quarantotto, quando il compositore mise in scena un’opera (La Battaglia di Legnano) tratta da una delle vicende storiche più notoriamente imbevuta di risonanze patriottiche che circolava in quel
periodo, cioè la lotta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, un precedente germano invasore. Negli stessi mesi egli musicò inoltre, su diretta sollecitazione di Mazzini,
un testo di Mameli, l’inno patriottico Suona la tromba, che avrebbe dovuto essere cantato nelle pianure lombarde, fra la musica del cannone, come egli stesso scrisse nella lettera che lo accompagnava (Verdi 1913, p. 469).
Se si sposta l’attenzione dal piano biografico a quell’insieme di spazi, circuiti e attori sociali che componevano il mondo teatrale, ci si accorge allora che molti altri elementi
contribuirono a caricare il melodramma di aspettative civili, favorendone l’uso politico.
Già negli anni Trenta, in uno scritto dedicato alla Filosofia della musica, Mazzini aveva
attirato l’attenzione sul fatto che l’opera poteva essere un mezzo importante per sollecitare negli italiani una nuova spinta all’impegno politico (Mazzini 1836). Per questo aveva rivolto un appello accorato al mondo del teatro musicale italiano perché abbandonasse le frivolezze su cui aveva fino ad allora indugiato e desse invece vita a un’opera corale,
capace di dar voce a ciò che aveva definito nei suoi scritti come l’«individuale collettivo».
Mazzini era molto interessato in quegli anni alle potenzialità politiche offerte dai linguaggi artistici, che gli parevano un veicolo particolarmente adatto alla diffusione dei messaggi di una politica nuova, capace di rivolgersi non a pochi ma ad un pubblico ampio e vario. Seguendo la riflessione romantica, egli riteneva che il dramma fosse il punto più alto
nella gerarchia delle arti poiché dotato della capacità «di comunicare direttamente con il
popolo» (Sorba 2008). Ma era anche convinto che, nel caso italiano, quel ruolo doveva essere svolto dall’opera, una combinazione di musica e dramma che intrecciava la più espressiva con la più sociale delle arti e si candidava a divenire la principale speranza di una nuova «arte italiana». Il pamphlet sulla musica, scritto durante l’esilio francese e svizzero, è il
frutto di un contatto stretto con il dibattito romantico europeo e con un denso mondo di
esuli per i quali politica, arte e letteratura si intrecciavano così strettamente che diventava difficile distinguerne i confini. Agli ambienti mazziniani va ricondotta una precoce canonizzazione patriottica di Bellini, morto prematuramente nel 1835, subito dopo il successo internazionale dei Puritani.
Il corto circuito che si creò tra opera e Risorgimento negli anni Quaranta partì, dunque, da un consapevole tentativo mazziniano di inscrivere il teatro nel quadro degli strumenti dell’attivismo patriottico, e si sviluppò ben più tra il pubblico e nei parterre dei teatri che sulle scene stesse. Nonostante il luogo teatrale fosse considerato un luogo d’ordine,
come abbiamo visto incoraggiato e legittimato dalle autorità in quanto spazio facilmente
sorvegliabile, nel periodo 1846-49 molti allestimenti operistici si esposero a letture politiche da parte di un pubblico sensibile a ogni allusione all’attualità politica più stringente.
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Cultura e società
Un caso significativo, proprio perché ben poco patriottico nei suoi intenti originari, fu
quello dell’Ernani verdiana. In occasione dell’elezione nel 1846 di papa Pio IX, evento
carico di promesse per i patrioti italiani, nella provincia pontificia iniziavano ad allentarsi i due principali meccanismi di sorveglianza delle pubbliche autorità sui teatri, cioè la
censura e il controllo poliziesco, tanto che il testo verdiano tratto da Hugo diventò oggetto di numerose «variazioni» orientate politicamente che provenivano dal pubblico e dagli
stessi cantanti. Ritroviamo così vere e proprie accensioni nazionalistiche, difficile dire
quanto improvvise e quanto programmate, di fronte a parole o situazioni che alludessero
a eventi dell’attualità. Nel finale dell’opera l’invocazione alla clemenza di Carlo V si trasformò sui palcoscenici della Romagna in un inno al nuovo Papa che aveva appena concesso l’amnistia per i reati politici; o ancora il grido «Guerra, guerra!» lanciato dai druidi
in Norma divenne un richiamo alla battaglia in corso contro gli austriaci, mentre i pezzi
di Macbeth («O patria oppressa»), o di Attila («Santo di patria indefinito amor») suscitarono esaltazioni collettive in molti teatri.
Le potenzialità di lettura politica del melodramma in musica furono infine legate al fatto che attraverso di esso circolavano alcuni dei discorsi e dei dispositivi narrativi che più profondamente percorrevano il dibattito romantico europeo sull’origine delle nazioni. Il più evidente, almeno prima del Quarantotto, è quello che individuava la matrice delle nazioni in
una originaria contrapposizione tra due popoli, di cui uno oppresso e uno oppressore. Si
prenda un’opera come Attila (Venezia 1846), la cui idea era venuta a Verdi dalla lettura del
De l’Allemagne di Madame de Stael. Già nei primi approcci con il librettista nella primavera del 1844, Verdi aveva esposto una propria idea compositiva che si distaccava parecchio
dal dramma originario di Zacharias Werner da cui era tratta. Si alzerà il sipario su Aquileia
incendiata, aveva scritto, e su due cori di popolo: uno che prega – gli abitanti di Aquileia – e
uno che minaccia – gli unni invasori (Verdi 1913, pp. 432-441). Su questa articolazione narrativa, che ben si prestava a una proiezione sulle vicende del presente, si sarebbe poi sviluppato l’intreccio dell’opera, che prevedeva la trasformazione della protagonista originaria, la
principessa burgunda Ildegonda, nella romana Odabella, l’«intrepida donna italica» che si
oppone con forza all’invasore Attila. La tragedia originaria subiva così una revisione narrativa ben leggibile dal pubblico italiano come allusiva al destino della penisola: un susseguirsi di cicliche invasioni e dominazioni a cui avrebbe fatto seguito un futuro di riscatto.
Le allusioni si fecero più stringenti man mano che ci si avvicinava al Quarantotto e i
riferimenti nel lavoro verdiano a episodi storici, a personaggi e a testi che già facevano
parte dell’immaginario nazional-patriottico canonizzato divennero più numerosi ed evidenti, riflettendo il clima politico del momento. Con il librettista Salvatore Cammarano
il compositore lavorò alla possibilità di mettere in scena l’Ettore Fieramosca, dal noto romanzo di Massimo d’Azeglio, e a Francesco Maria Piave nel luglio del 1848 propose un
soggetto «italiano e libero» quale poteva essere il Ferruccio, «personaggio gigantesco, uno
dei più grandi martiri della libertà italiana», liberamente tratto dall’Assedio di Firenze di
Francesco Domenico Guerrazzi (Verdi 1947, 4° vol., p. 217). Tali idee compositive non
sarebbero andate in porto ma furono il preludio della composizione dell’unico vero testo
patriottico verdiano, la Battaglia di Legnano, messo in scena nella Roma repubblicana del
gennaio 1849. Senza più timori censori l’opera si apriva con il coro maestoso «Viva Italia!
Sacro un patto tutti stringe i figli suoi» e dispiegava molti elementi del repertorio di immagini nazionali ben note: lo scenario comunale della Lega lombarda, il giuramento dei
congiurati, il tradimento del malvagio, il martirio dell’eroe. Anche nel corso della guerra
successiva, tra il 1859 e il 1860, i teatri si riempirono di politica, seppure l’attivismo patriottico parve ora molto più cauto e contenuto. Uno degli episodi più noti riguarda una
rappresentazione di Norma alla Scala nel gennaio del 1859, quando applausi scroscianti e
richieste di bis accompagnarono il coro dei druidi «Guerra, guerra!» di fronte a un parterre
pieno di divise austriache (Notizie politiche, «L’Opinione», 34, 3 febbraio 1859, p. 3).
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
I teatri tra municipi e Stato
Le sale teatrali furono spazi di attivismo patriottico e di unificazione culturale piuttosto
efficaci, nonostante la vita degli edifici teatrali fosse invece il prodotto di vicende, di finanziamenti e di volontà strettamente locali. In questo senso si potrebbe dire che nei teatri dei decenni centrali del secolo si congiungevano magistralmente – e temporaneamente – le aspirazioni di eccellenza municipale dei notabili locali e i percorsi di un processo
di integrazione culturale che nella musica d’opera aveva trovato un veicolo tutt’altro che
secondario. Paradossalmente però, una volta raggiunta l’unificazione nazionale, il mondo della musica e del teatro conobbe una fase di riassestamento e di modernizzazione che
mise in crisi il sistema fino allora consolidato e i suoi meccanismi di funzionamento, creando negli addetti ai lavori una diffusa percezione di disorientamento e di declino.
Non che si affievolisse la centralità e la forza di attrazione dei palcoscenici sia nella
società che nell’immaginario collettivo. Anzi, mai come in questo momento tanto si discusse delle sorti del teatro, sia musicale che di parola, fuori e dentro l’aula parlamentare, sulle riviste culturali dell’epoca e nei congressi musicali e drammatici, o ancora su una
stampa di settore in rapida crescita dove si andava formando una nuova generazione di
critici. Negli ultimi decenni del secolo il numero delle sale in attività era ancora aumentato e il paesaggio teatrale delle città cominciava ad articolarsi e diversificarsi per rispondere a pubblici e domande diverse di intrattenimento. Inoltre, scrivere per il teatro sembrava essere un’attività a cui tutti prima o poi si prestavano, dagli intellettuali più in voga
ai notabili di provincia. Basti pensare a quanti all’interno del Parlamento italiano fossero
quelli che scrivevano per le scene, in modo più o meno professionale: su quegli scranni
sedeva una star internazionale come Verdi, deputato tra il 1861 e il 1865 e poi nominato
senatore nel 1874, ma anche personaggi ben noti e attivi nel mondo teatrale del periodo
come Felice Cavallotti, Vittorio Bersezio o Carlo Righetti.
Se il teatro continuava indubbiamente a giocare un ruolo di primo piano nella società e nella cultura italiana, la transizione al nuovo regime comportò tuttavia una trasformazione del quadro istituzionale e giuridico che finì per mettere in luce per le sale teatrali grandi e piccole gli elementi di fragilità e di arretratezza del sistema, più che per innovarne
seriamente il funzionamento. Ne è un esempio chiaro, pur nella sua tortuosità, la vicenda normativa attraversata dagli ex teatri di corte o governativi, cioè il Regio e il Carignano a Torino, la Scala e la Canobbiana a Milano, il Ducale a Parma, il San Carlo e il Fondo a Napoli, dove la congiunzione temporanea tra eccellenze municipali e nazionalizzazione
culturale che si era prodotta in periodo preunitario trovò una prima smentita. Tra il 1859
e il 1861, seguendo i tempi diversi delle annessioni, quelle strutture erano diventate parte del demanio del nuovo Stato e vennero incluse nelle competenze del ministero dell’Interno. Si trattava di sale diverse che presentavano gradi diversi di criticità. Se per alcune
di queste, come il gran teatro torinese, la situazione non appariva troppo problematica,
per altre, più di tutte il San Carlo, il quadro finanziario era da parecchi anni molto critico e avrebbe richiesto un intervento pubblico consistente. Su tutte le sale delle ex capitali pesavano le condizioni eccezionali del momento: lo smantellamento delle corti, la partenza delle guarnigioni stabili e dei corpi diplomatici significavano una riduzione cospicua
del pubblico e della possibilità di organizzare una programmazione adeguata. Era necessaria dunque una politica di intervento ben mirata, per far fronte a una congiuntura difficile, mentre all’interno del Parlamento prevaleva invece un orientamento opposto, cioè
il favore verso una piena liberalizzazione del sistema che doveva avvenire all’insegna di
uno spirito di decentramento e di una normativa «leggera», già peraltro prevalso nel dibattito apertosi sul teatro negli ultimi anni del Regno di Sardegna. È lo stesso orientamento che ispirava anche la prima riorganizzazione su base locale della censura avvenuta
nel 1864, che tendeva a rimarcare il distacco dalla tradizione preunitaria, vista come un
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C. SORBA
Cultura e società
anacronistico sistema di controlli e di privilegi. In uno stato moderno bisognava che «l’arte facesse da sé», liberandosi sia dalla tutela che dai sussidi governativi. Questo il discorso che appariva più diffuso all’interno dell’aula parlamentare e tra l’opinione pubblica.
Nessuno ignora – aveva dichiarato il ministro Ubaldino Peruzzi nel 1863 – l’importanza dei
regii teatri di Torino, Napoli, Milano e Parma, tanto come istituti artistici nazionali, ricchi
di belle tradizioni, quanto come centri di estese industrie e di gravi interessi privati. Il Governo ha la convinzione che, dicentrata l’amministrazione di questi teatri e trasferita nelle
mani dei municipi, i quali hanno più sicuri criterii per dirigerli secondo le convenienze locali, e più dirette ragioni per considerare come un proprio profitto il loro prosperamento,
non che scapitare si avvantaggeranno le sorti e crescerà il lustro di quegli istituti (cit. in Sorba 2001, p. 237).
Prevaleva cioè a livello governativo l’idea del decentramento delle competenze, anche se
Peruzzi non nascondeva la necessità di prevenire gli effetti traumatici che la cancellazione delle sovvenzioni poteva avere sulle fragili finanze dei grandi teatri. E per questo raccomandava cautela e gradualità, soprattutto in quanto il dibattito sull’ordinamento della
finanza locale era ancora del tutto aperto e incerta era dunque la questione delle risorse
che sarebbero effettivamente spettate ai municipi.
A dare manforte all’idea della cessione dei teatri maggiori alle autorità locali stava
un ampio fronte liberista avverso a ogni forma di intervento statale in un campo che doveva invece essere lasciato all’autonomo dispiegarsi dell’iniziativa privata. A tale fronte si opponevano coloro che ritenevano invece prioritarie le ragioni storico-artistiche di
natura nazionale. Tra questi un personaggio autorevole come Pasquale Stanislao Mancini, il quale sosteneva con forza l’idea che la vita dei grandi teatri riguardava l’intera
nazione e non i singoli comuni, indicando a sostegno del proprio ragionamento l’esperienza delle grandi capitali europee. Una commissione presieduta da Luigi Torrigiani
era stata allora incaricata di studiare da vicino la questione e di rispondere alla domanda se convenisse allo Stato sussidiare alcuni teatri come faceva per alcune università, alcuni collegi e conservatori. Le conclusioni raggiunte avevano finito per appoggiare l’idea
che l’attività dei grandi teatri andasse considerata un servizio pubblico e dunque sovvenzionata, in modo particolare in una situazione di crisi economica che rendeva difficile l’intervento dei municipi e dei privati. Era stato proprio il regime dei sussidi, così
si leggeva nella relazione, a permettere il grande sviluppo dell’arte vocale italiana e la
sua diffusione nel mondo, favorendo una produzione intensa e garantendo allestimenti di qualità (ivi, p. 242).
Si trattava però di una posizione che in quella fase non poteva che apparire di retroguardia, oltre che problematica dal punto di vista economico, cosicché le conclusioni della commissione trovarono ben poco ascolto in un Parlamento dove continuavano a prevalere un’avversione pregiudiziale ai sussidi e l’idea che alle pubbliche autorità spettasse solo
un’azione di stimolo e di regolamentazione, non di protezione e di controllo.
Le emergenze economiche del 1866 avrebbero ulteriormente rafforzato questa posizione: la nuova guerra alle porte, il trasferimento a Firenze della capitale, più costoso del
previsto, gli impegni per l’esercito e per le infrastrutture rendevano indispensabile il taglio delle voci più controverse del bilancio. Superata così ogni considerazione di prudenza e gradualità, la spesa per il teatro finì per scomparire del tutto dal bilancio dello Stato
per il 1867, non senza una vera e propria battaglia in Parlamento che si concluse con 172
voti favorevoli e 90 contrari alla cessione dei teatri regi ai municipi.
Va detto che la soluzione municipale appariva anche come un’opportunità importante di ammodernamento del sistema. L’autorevole critico Francesco D’Arcais sulla
«Nuova Antologia» sosteneva che un’innovazione di quel tipo avrebbe potuto favorire
il superamento del tradizionale sistema impresariale in direzione dell’organizzazione di
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
orchestre, cori e repertori stabili, come già accadeva con ottimo successo in area tedesca (Piazzoni 2001).
Nel frattempo, però, l’intero universo teatrale – e non solo le quattro città interessate dal dibattito citato – si trovava a vivere una vita sempre più stentata e precaria, con il
pubblico che scarseggiava (soprattutto quello degli habitués, i palchisti e i militari, su cui
gli impresari più contavano), e una concorrenza sempre più forte per il moltiplicarsi delle sale, e in generale delle occasioni di intrattenimento. L’imposizione nel 1869 della tassa del 10% sugli introiti lordi teatrali finiva così per incidere pesantemente sul delicato e
sempre precario equilibrio che presiedeva alla programmazione teatrale, cioè la contrattazione tra impresari-capocomici e singole sale. Contro tale tassa si sarebbe per una volta coalizzato, ma con scarso successo, tutto il mondo, per lo più sfrangiato al proprio interno, della produzione teatrale, sia in musica che in prosa, presentando petizioni
parlamentari e ricorsi fin dalla prima applicazione del nuovo tributo.
Un altro fronte di complicati contenziosi tra i municipi e il ministero fu aperto poi dall’applicazione della prima normativa sul diritto d’autore, che inizialmente prevedeva un
intervento diretto dei comuni nel controllo e nella riscossione di quei diritti, previo invio
al ministero di Agricoltura, industria e commercio di rapporti trimestrali dettagliati con il
nome e il titolo di tutte le opere musicali e drammatiche rappresentate nella provincia.
Il nuovo Stato tentava dunque di imporre al settore una sorta di modernizzazione accelerata attraverso l’assunzione di un’ottica di libero mercato. Questa tuttavia non era accompagnata da quel riordinamento organico e coerente del sistema che molti auspicavano, mentre la progettazione di una politica di valorizzazione della produzione teatrale e
musicale veniva rimandata a data da destinarsi. A dibattersi tra le difficoltà di adeguamento a un quadro normativo instabile e in continua evoluzione, da un lato, e alle sempre più precarie condizioni delle economie locali dall’altro, non erano solo i teatri maggiori, ma tutto quel sistema teatrale puntuale e articolato sul territorio che si era consolidato
nei cinquant’anni precedenti e che era stato tenuto insieme dai circuiti impresariali. Gran
parte dei municipi italiani si trovava in quel momento in situazioni finanziarie difficili,
cosicché la medesima questione dei sussidi pubblici che abbiamo visto dibattuta in Parlamento per gli ex teatri di corte si riproponeva per tutti i teatri di città, che conobbero
dopo l’Unità un forte ridimensionamento degli allestimenti.
I decenni postunitari sono quelli in cui si accesero a livello locale, da Reggio Emilia
a Cagliari, da Padova a Foggia, contenziosi senza fine e contrasti roventi tra i notabili locali sull’opportunità di assegnare o meno la «dote» (cioè la sovvenzione municipale) ai teatri, ma anche sulla necessità di aumentare il contributo richiesto annualmente ai proprietari dei palchi. La dote municipale e il canone annuo dei palchisti, ben più degli introiti
serali, erano infatti da sempre le maggiori voci di entrata dei teatri di città, quelle che nella gran maggioranza dei casi ne avevano permesso la costruzione, la gestione e la manutenzione. Esemplare in questo senso il caso di Venezia, dove all’inizio degli anni Settanta il consiglio comunale aveva rifiutato di erogare il contributo annuale che forniva al teatro
La Fenice fin dal 1819, e che veniva ormai definito un’inutile spesa di lusso poiché rivolto a una ristretta fascia di cittadini. A loro volta i palchisti, rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia cittadina, non acconsentirono all’aumento dei canoni annui, ritenuti già troppo elevati. Tutto ciò costrinse il maggior teatro cittadino a una programmazione
più che saltuaria, con la rinuncia a 12 stagioni del Carnevale, le più importanti dell’anno,
tra il 1872 e il 1897. Non molto diversa era la situazione del Carlo Felice di Genova, costretto a chiudere tra il 1879 e il 1882, come il San Carlo a Napoli nella stagione 1875-76,
o la Canobbiana a Milano tra il 1875 e il 1885. La Pergola di Firenze, dopo aver perso la
sovvenzione nel 1877, presentò una programmazione estremamente precaria.
La crisi dei teatri maggiori si rifletteva inevitabilmente sulla vita di quelli minori.
Sale come quelle di Rimini, di Pesaro o di Lucca, un tempo incluse nei maggiori circuiti
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C. SORBA
Cultura e società
impresariali e dove potevano essere allestiti i medesimi spettacoli che erano passati pochi mesi prima a Venezia o a Firenze, si trovavano ora escluse da quella programmazione molto più ristretta anche sul piano temporale.
È in un contesto di questo tipo, dove gli impresari e i teatri reclamavano aiuti e i poteri pubblici paventavano la bancarotta, che Verdi, da Sant’Agata, si lasciava andare a uno
sfogo costernato in una lettera all’amico Opprandino Arrivabene: «Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli stati le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze di una volta?!» (Verdi 1931, p. 78).
Le trasformazioni dell’«industria» dello spettacolo
In realtà, il sistema teatrale italiano manifestava debolezze e fragilità già ben presenti prima dell’unificazione e che il nuovo Regno si trovava semplicemente a ereditare, insieme
a molte aspettative su quanto il nuovo Stato avrebbe potuto fare. Si trattava di organizzare un moderno sistema di istruzione musicale e drammatica; di coltivare, tutelare e valorizzare le professionalità specifiche del settore; di sollecitare la crescita e la diffusione di
un’arte musicale già esportata in tutto il mondo eppure in una fase di scarsa vivacità produttiva; e ancor più di stimolare un teatro di prosa che mancava in Italia di una vera scuola e di un proprio affezionato pubblico.
Piuttosto radicata e diffusa era l’idea che il quadro italiano soffrisse di una specifica
arretratezza rispetto ad altri paesi europei, soprattutto perché caratterizzato da una forte
precarietà della programmazione e da un «nomadismo» delle produzioni che appariva obsoleto rispetto a un quadro di maggiore stabilità, sia dei repertori sia delle compagnie, che
si andava invece consolidando in gran parte d’Europa.
Che il problema fosse sentito anche a livello politico lo prova il fatto che già nel 1861 il
ministro dell’Interno Ricasoli aveva incaricato una commissione di studiare «i mezzi per promuovere l’incremento dell’arte drammatica», sottolineandone la cruciale funzione educativa
e civile. La commissione, composta anche da autorevoli addetti ai lavori (letterati, critici, giornalisti, commediografi, attori, il direttore della regia scuola di declamazione di Firenze) aveva il compito di discutere e proporre soluzioni intorno al problema delicato della riorganizzazione del sistema censorio, ma anche di individuare strategie e mezzi adeguati per una
politica di «incoraggiamento» del teatro. Vennero così subito messe sul tappeto molte delle
idee e delle soluzioni su cui si sarebbe discusso nei vent’anni successivi: l’opportunità di una
Direzione generale dei teatri a cui attribuire l’insieme delle competenze sul settore, sia sul
piano del controllo che su quello della promozione; l’istituzione di una rete qualificata di scuole pubbliche di recitazione; la formazione di alcune compagnie stabili sussidiate che fungessero da traino culturale per il settore; l’ampliamento del sistema dei concorsi annuali per le
opere di maggior valore, già ereditato dallo Stato sabaudo. Il governo, così si legge nei verbali della commissione, non poteva certo svolgere, come accadeva in altri tempi, l’azione di
un mecenate e tuttavia non poteva mancare di fungere da «provvido tutore del patrimonio
nazionale, che agevola il modo pel quale tutte le forze produttive sieno efficacemente unite e
saggiamente dirette» (cit. in Piazzoni 2001, p. 66). Nelle conclusioni dei lavori risultarono
però di fatto prioritari altri temi, cioè l’assetto del sistema censorio, da un lato, e la regolamentazione della proprietà artistica, dall’altro. Dilagavano infatti nei teatri le opere politiche
di soggetto garibaldino, controllate a vista dalle prefetture perché sempre a rischio di disordini, fatto che rendeva urgente la riorganizzazione della censura, alla quale venne data una
prima soluzione «locale» che sarebbe poi stata confermata dalle leggi crispine nel 1889. Il cosiddetto «incoraggiamento» finì per rimanere in secondo piano nei lavori della commissione
e si esaurì per il momento nella riproposta dei concorsi governativi a premi per le produzioni drammatiche, che si sarebbero tenuti annualmente, ma con esiti assai modesti, fino al 1876.
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
Un avvio così esitante della politica per il teatro da parte del nuovo Stato finì per contribuire al consolidarsi nei decenni seguenti di un dibattito fortemente critico sulle sorti
del teatro italiano, sia in musica sia in prosa, che percorse gran parte dei luoghi culturali
e politici deputati, sollevando tra gli addetti ai lavori una sorta di lamento corale che tendeva a tingersi di una vaga nostalgia per una non ben definita età dell’oro del teatro italiano. In effetti, l’universo teatrale postunitario era investito, e parzialmente disarticolato, da una serie di trasformazioni che riguardavano aspetti diversi del suo funzionamento
e che spiegano il diffuso senso di disorientamento: da un lato, la modernizzazione giuridica e soprattutto fiscale, che comprendeva, ad esempio, il riconoscimento del diritto d’autore, e richiedeva delicati aggiustamenti tra i diversi attori della produzione; dall’altro,
l’ampliarsi e l’articolarsi di un mercato culturale che aveva nell’«industria dello spettacolo» uno dei suoi terreni più importanti e anche in Italia cominciava, con estrema gradualità, a moltiplicare e diversificare circuiti e pubblici.
Erano allora tutti gli elementi del quadro produttivo precedente ad apparire inadeguati, non ultimi gli spazi, cioè quei teatri «di città» che con le loro aristocratiche strutture a palchetti si prestavano a divenire il simbolo dell’arretratezza complessiva del sistema.
Come dirà Bersezio, scrittore e giornalista molto attivo nel mondo del teatro, riprendendo una polemica già lanciata negli anni Quaranta dall’attore mazziniano Gustavo Modena, «quei maledetti palchi aristocratizzano gli spettacoli e non li rendono accessibili alle
così dette masse, che pure formano il vero pubblico» (cit. ivi, p. 297). E in effetti in alcune città come Torino, Venezia o Brescia si discusse a lungo in sede di consigli comunali
sull’opportunità di ristrutturare le antiche sale per allargare e «democratizzare» la partecipazione. Dal momento che si doveva comunque procedere a una loro modernizzazione
sul piano della sicurezza, sostenevano in molti, si poteva anche cercare di rispondere alla
loro indubbia crisi rendendoli più accessibili a tutti i cittadini. In modo particolare, come si disse a Brescia, non tanto alle «masse» quanto a quel «ceto medio» a cui ora il teatro
poco si rivolgeva, composto com’era dai palchi per le classi privilegiate e dal loggione per
quelle inferiori. Si trattava, allora, di espropriare le prime file di palchi, e magari il palco
reale, per costituire gallerie o balconate aperte, il che corrispondeva di fatto alla soluzione più frequente nella maggior parte dei teatri europei. Non molto si riuscì a concretizzare in questa direzione, perché si trattava per lo più di operazioni tanto complesse dal
punto di vista strutturale quanto poco incisive sulla capienza finale delle sale, oltre che
suscettibili di conflitti accesi coi palchisti. Il dibattito sugli spazi teatrali ebbe quindi esiti scarsi, se si eccettua qualche caso di trasformazione in loggione delle ultime file di palchi (come avvenne a Venezia nel 1878), ma rimaneva comunque indicativo della persistente centralità degli aspetti architettonici nella crisi dei teatri.
A far concorrenza alle vecchie sale municipali e sociali c’erano inoltre spazi nuovi e
diversi come i politeama e le arene, sempre più numerosi lungo la penisola. Si trattava di
sale fatte per un pubblico vasto e popolare, capaci di contenere anche 4-5.000 spettatori,
costruite e gestite per lo più da nuovi imprenditori dello spettacolo che tendevano a proporre nuovi generi e utilizzavano strategie pubblicitarie più aggressive, come gli enormi
cartelloni-manifesto che iniziavano a tappezzare le strade delle città. Erano il simbolo di
una fase più commerciale della produzione teatrale, che proponeva anche al pubblico italiano forme di spettacolo spesso provenienti dalla Francia, come l’operetta, il vaudeville,
la rivista o il varietà. Già negli anni Sessanta queste nuove programmazioni ottenevano
un sorprendente successo, attirando non solo piccoli negozianti e domestici, come scriveva criticissima la «Gazzetta Musicale di Milano», cioè il giornale dell’editore Ricordi, ma
anche un pubblico più colto e sofisticato che accorreva a Milano al teatro Fossati per vedere le ultime novità degli «spettacoli parigini», simboli di una modernità a cui l’Italia postunitaria fortemente aspirava (Sorba 2006). D’altronde solo molto gradualmente nei decenni di fine secolo si consumerà anche nelle sale teatrali quella distinzione gerarchica tra
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C. SORBA
Cultura e società
forme colte-artistiche e forme popolari-commerciali che doveva caratterizzare il mercato
culturale in una società avviata a divenire di massa.
Sull’interesse carico di aspirazioni di modernità per la musica e il teatro straniero si
misurava ovviamente il mercato. Opere e operette francesi divennero presto oggetto privilegiato dell’attenzione di editori dinamici, come fu ad esempio Sonzogno, che giocò sull’acquisto dei diritti delle operette di Jacques Offenbach o dei lavori di Georges Bizet la
sua concorrenza all’egemonia fino ad allora incontrastata di Ricordi. E le mode artistiche
d’oltralpe non si limitavano certo al teatro leggero. Il Grand-opéra di Jakob Meyerbeer e
di Daniel Auber, l’«opera mastodonte» come si usava chiamarla, continuava a trionfare sui
palcoscenici del periodo e influenzava profondamente anche la produzione nazionale, che
dall’Aida verdiana (1871) fino alla Gioconda di Amilcare Ponchielli (1876) prediligeva scene storiche di grande spettacolarità.
Dall’Europa provenivano poi una serie di altre sollecitazioni che attraversavano il sistema teatrale consolidato e introducevano nuovi terreni di ascolto. All’immediato periodo postunitario si deve un primo sviluppo italiano della musica strumentale, sia orchestrale che cameristica, fino ad allora reso difficile dal dominio sul mercato dell’opera lirica.
Le prime Società del quartetto nacquero nel corso degli anni Sessanta a Firenze, a Milano, a Torino; non erano solo gruppi di amatori e appassionati d’élite, ma attivi organizzatori che iniziarono a diffondere i concerti pubblici in quelle città, con ambizioni di popolarizzazione della musica stessa. Su imitazione di quanto stava avvenendo nelle maggiori
capitali europee, fu inaugurata a Firenze nel 1863 una prima serie di concerti popolari,
pomeridiani e a prezzi molto contenuti. L’esperienza avrebbe poi avuto seguito più solidamente a Torino nel decennio seguente, dove si sarebbero definiti i caratteri fondamentali della forma concerto per il pubblico italiano. In direzione di una popolarizzazione dell’arte musicale si muoveva anche il fenomeno delle Società orfeoniche, consessi dedicati
alla diffusione del canto corale. Fu questo un tema di grande attualità già dal 1862, quando il Consiglio comunale di Milano, facendo riferimento ancora una volta alle pratiche
francesi, belghe e prussiane, aveva aperto la prima Civica scuola popolare di musica e poi
imposto l’insegnamento di canto corale nelle scuole elementari. Sarebbe stato solo il preludio di un’ampia diffusione lungo la penisola delle società, sia maschili che femminili,
dedicate appunto a quella pratica.
Subito dopo l’Unità si profilarono sul terreno della musica e del teatro numerose novità rispetto al periodo precedente. Innanzitutto, lo sviluppo più chiaro e articolato nei
suoi segmenti di un’«industria» dello spettacolo che tendeva a proporre nuovi generi, a costruire nuovi pubblici, a individuare nuove strategie d’azione. Ma anche la sperimentazione di pratiche culturali che avrebbero trovato pieno sviluppo nei decenni di fine secolo, sia sul piano dilettantistico – con una vera e propria esplosione delle società filarmoniche
e filodrammatiche – sia su quello professionale e artistico, un mondo sempre più complesso e diversificato nel quale si imponeva ormai la presenza forte degli agenti, dei critici e delle riviste specializzate.
Per un teatro nazionale?
Eppure i sempre più numerosi periodici del settore esprimevano soprattutto inquietudine e preoccupazione per lo stato di salute della musica e del teatro italiano. E in effetti la
produzione non stava vivendo un periodo particolarmente felice, con una scuola drammaturgica nazionale che stentava a decollare e una scuola lirica tutta monopolizzata dal
genio verdiano. Il fuoco dell’interesse si spostava allora sulla politica, sulla capacità dello
Stato di risollevare le sorti del settore. Dopo le iniziative pur modeste intraprese dalla
commissione Ricasoli, il problema della promozione dell’arte musicale e teatrale nazionale
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Musica e teatro
tornò più volte al centro del dibattito pubblico, nel tentativo di individuarne le strade più
efficaci. Alla definizione di una politica mirata e coerente parevano tuttavia opporsi da un
lato le scarse disponibilità economiche del nuovo Stato, dall’altro divergenze piuttosto
profonde tra gli addetti ai lavori sulle modalità e le strategie da adottare per l’«incoraggiamento», come si usava dire, del settore.
Controversie forti si crearono intorno all’idea lanciata nel 1868 dal ministro dell’Istruzione Emilio Broglio, il quale propose di organizzare forme di promozione dell’arte musicale nazionale attraverso una Società rossiniana che fosse espressione della società civile invece che dei poteri pubblici, un grande consesso di amatori e dilettanti dotati di comitati
in varie città, che sottoscrivessero somme annuali a favore di un’attività di alto profilo artistico (Piazzoni 2001). Oltre a urtare la suscettibilità di qualcuno (in primo luogo di Verdi), la proposta aveva suscitato perplessità soprattutto per quanto riguardava l’eventuale
estensione delle competenze della nuova società sui conservatori e sugli studi musicali in
genere. Si temeva in sostanza che il governo volesse continuare sulla strada delle economie, sbarazzandosi di un’attività educativa sulla quale molto restava da fare. La proposta
dunque cadde abbastanza rapidamente, sotto il peso delle critiche e di una qualche approssimazione progettuale. Ad essa fecero seguito i lavori di due diverse commissioni (una
per la musica e una per il dramma) promosse tra il 1871 e il 1872 dal ministro Cesare Correnti. Le date sono in questo caso significative, visto che corrispondevano al raggiungimento di Roma capitale, evento che aveva caricato di un nuovo peso simbolico l’idea di
promuovere e sostenere un’arte «schiettamente italiana». Le due commissioni posero nuovamente sul tappeto le maggiori questioni che rimanevano aperte: per la musica soprattutto la necessità di un’efficace riorganizzazione dei conservatori che identificasse una
scuola essenzialmente italiana; per il teatro di prosa l’opportunità di una compagnia stabile romana, dotata anche di una propria scuola di recitazione, che fungesse da punto di
riferimento per autori e attori lungo tutta la penisola. Su quest’ultimo terreno la commissione Correnti propendeva dunque per la soluzione già vagheggiata da Gustavo Modena
e da altre personalità del teatro fin dagli anni Quaranta: quella di una compagnia modello, in parte finanziata dallo Stato, che anche in Italia creasse una sorta di virtuoso volano
a uno sviluppo delle arti sceniche non troppo condizionato dalle logiche del mercato.
In realtà, però, come si poteva desumere dal dibattito che si svolgeva nel frattempo
sulle maggiori riviste culturali del periodo, le opinioni in materia erano molto contrastanti, sia nel merito che sulle strategie. Non del tutto condivisa rimaneva l’idea di una compagnia stabile di riferimento in un paese come l’Italia che vantava una pluralità di capitali culturali, e in cui il cosiddetto nomadismo delle compagnie aveva avuto anche effetti
positivi, in primo luogo la creazione di un unico pubblico nazionale, quantomeno per il
teatro lirico. La conformazione della geografia urbana e culturale della penisola rendeva
pericolosa, sostenevano alcuni critici, la scelta di puntare su un unico luogo che divenisse cardine dell’intero sistema, dal momento che nessuna città italiana poteva contare, come accadeva invece a Parigi, su un bacino potenziale di pubblico sufficientemente ampio
e dinamico per sostenere un’operazione di quel tipo.
Intorno a questi stessi contrasti, che riflettevano peraltro uno dei temi chiave dell’intero processo di unificazione (promozione centralistica o valorizzazione a partire dalla ricchezza delle località), si giocò nel corso degli anni Settanta anche la questione, di rilevanza soprattutto mediatica, della creazione di un teatro nazionale, parola d’ordine che portava
con sé almeno due tipologie di problema: da un lato quello più generale del nazionalismo
culturale nelle sue declinazioni musicali e drammatiche; dall’altro quello specifico della
creazione nella nuova capitale di una grande sala teatrale di rilevanza nazionale.
Anche qui i pareri che circolavano nel dibattito pubblico erano diversi, quando non opposti. Si trattava di combattere lo «stranierismo» difendendo la tradizione musicale nazionale dal pericolo di una de-italianizzazione delle arti, come scrivevano in molti, o piuttosto
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Cultura e società
di evitare – come sostenevano altri – l’isolamento culturale che una sorta di protezionismo
musicale poteva produrre? Sono questi gli anni in cui il tema della nazionalità in musica percorre tutti i paesi europei e in Italia si concentra da un lato contro la presenza sempre più
consistente dell’opera francese e dall’altro contro l’impatto dell’opera di Wagner, che aveva trovato nel teatro comunale di Bologna la propria principale sede di adozione a partire
dal 1871. Si trattava di contrasti che finivano per coinvolgere contemporaneamente aspetti
politici, artistici e commerciali, con gli editori musicali in prima linea a sostenere l’una o
l’altra posizione.
Al delicato e controverso intreccio di interessi privati e pubblici si deve anche lo scarso esito di alcune specifiche proposte di riorganizzazione produttiva del teatro in prosa
emerse nel corso degli anni Settanta: così il progetto di Righetti, direttore del teatro milanese e autore di un pamphlet intitolato Facciamo un teatro Nazionale, che proponeva la
costituzione di due compagnie stabili, una a Roma e una a Milano, congiuntamente rivolte a un ripensamento complessivo del repertorio; o quella che giunse nel 1875 al ministero dell’Istruzione prospettando una soluzione basata su quattro compagnie (a Firenze e
Torino oltre che Milano e Roma), che fossero comunque coordinate e sussidiate a livello
centrale (Piazzoni 2001). Tali proposte provenivano dal mondo stesso del teatro e presupponevano un sostanziale accordo sulla protezione statale alle arti, tema che restava invece alquanto controverso, nel mondo politico come in parte della critica. Un analogo insuccesso, frutto insieme di difficoltà economiche e di divergenze strategiche, incontrò
anche il progetto di costituire a Roma un grande teatro d’opera nazionale, che finì per rimanere un’iniziativa privata dell’imprenditore Domenico Costanzi, il quale nel 1880 inaugurò con la Semiramide di Rossini la grande sala che portava il suo nome.
Sul tema della promozione pubblica alle arti sceniche il dibattito politico sarebbe continuato a lungo sui medesimi binari, riproponendo periodicamente la consueta divisione
tra i fautori di un potenziamento del ruolo dello Stato come sostenitore di una cultura veramente nazionale e chi invece temeva gli effetti di tale tutela, e indicava piuttosto la via
del mercato e della libera iniziativa. Ma, al di là di tale impasse, il settore era tutt’altro che
immobile, e anzi manifestava un indubbio dinamismo che all’inizio degli anni Ottanta
raggiunse esiti importanti, sia sul piano dell’organizzazione produttiva che sul fronte normativo e istituzionale.
In primo luogo, l’idea delle compagnie stabili iniziò a concretizzarsi a livello locale,
attraverso forme di accordo tra i municipi e i privati che portarono alla costituzione nel
1877 della Compagnia drammatica della città di Torino. Negli anni seguenti esperienze
analoghe si avviarono a Roma, a Napoli e a Milano. In secondo luogo, giunsero a compimento alcuni cambiamenti sul terreno istituzionale che dovevano meglio definire il profilo del quadro successivo. Del 1882 è il nuovo Testo unico sul diritto d’autore, la cui ridefinizione era stata promossa proprio da un gruppo di deputati che erano anche scrittori
per il teatro. Il testo metteva ordine nella normativa esistente e accordava una maggiore
tutela agli autori di opere destinate alla rappresentazione. Nello stesso anno venne creata, dopo una lunga gestazione e un grave ritardo rispetto alla situazione francese, inglese
e tedesca, la Società italiana degli autori (Sia poi Siae), che doveva vigilare sull’effettivo
rispetto della normativa, ma anche divenire portavoce della produzione intellettuale della nazione.
Infine una svolta importante, nel medesimo anno, si ebbe quando il ministro della
Pubblica istruzione Guido Baccelli creò la prima Giunta permanente per l’arte drammatica e musicale, che doveva metter fine al sistema delle commissioni temporanee invalso
fino a quel momento e riconoscere uno spazio istituzionale permanente di riflessione e di
proposta sui temi chiave della vita musicale e teatrale della nazione. Della Giunta fecero
parte personaggi autorevoli e molto attivi nel dibattito dell’epoca: scrittori per il teatro
come Cavallotti e Giacosa, compositori come Ponchielli e Boito, critici come D’Arcais
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
e Filippo Filippi. Era il meglio del teatro italiano che veniva chiamato a collaborare a una
fase più matura della politica culturale del nuovo Stato. La transizione postunitaria poteva dirsi a quel punto conclusa, con la definizione di un quadro normativo e di attori istituzionali che avrebbero giocato un ruolo decisivo nelle scelte degli anni successivi.
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C. SORBA
La cultura scientifica
Il periodo del Risorgimento e dell’unificazione italiana è anche quello in cui si registrano
grandi incrementi e grandi trasformazioni scientifiche e tecniche. Nuove linee di indagine vanno sempre più differenziandosi all’interno delle principali aree del sapere, acquisendo lo status di discipline autonome e distinte, con esiti capaci di modificare la concezione dell’uomo e dell’universo. A loro volta le contemporanee trasformazioni economiche
ampliano moltissimo il ruolo sociale del lavoro scientifico. Per effetto della rivoluzione
industriale e del commercio internazionale aumentano le richieste rivolte dalla produzione e dalla società alle scienze, così come si estendono le ripercussioni del lavoro scientifico sulla società e sulla produzione. Cresce l’intreccio fra algoritmi e ricerca empirica, fra
teoria e pratica, fra scienza e tecnica, e così pure la collaborazione fra cultori di discipline
diverse lungo traiettorie internazionali.
I maggiori centri di osservazione e di analisi, in cui si conducono le ricerche diventano i principali luoghi della conoscenza e dell’innovazione. Per completare la loro formazione i giovani scienziati frequentano gli osservatori astronomici, le collezioni naturalistiche, i laboratori di Jean-Baptiste-André Dumas, di Joseph-Louis Gay-Lussac, di
Charles-Frédéric Gerhardt, di Pierre-Eugène-Marcellin Berthelot, di Alexander von
Liebig. Qui l’attività scientifica è un lavoro di specialisti impegnati a tempo pieno, la cui
produttività non è più legata solo alle capacità dei singoli ricercatori ma alle condizioni
complessive della ricerca sempre più istituzionalizzata. E se dall’esigenza di ampliare lo
spazio di osservazione, di analisi e di comparazione dei materiali osservati nasce la pratica dei viaggi e delle esplorazioni naturalistiche ad ampio raggio – che tanto contribuisce alle grandi elaborazioni scientifiche di Alexander von Humboldt o di Charles Darwin – dall’altra crescente esigenza di organizzare ricerche generatrici di nuove conoscenze
e insieme di applicazioni tecnico-produttive derivano le numerose nuove istituzioni, fra
cui i politecnici, i musei industriali, le scuole speciali di vario indirizzo e grado, dotate
tutte di strumenti di precisione e di raccolte tecnologiche atte a formare ricercatori, ingegneri, imprenditori.
Per la rilevanza sociale dei suoi esiti e l’entità dei finanziamenti richiesti, l’impresa
scientifica chiama in causa sempre più lo Stato, che in vari modi si trova a promuovere il
progresso scientifico, tecnico e industriale. Già nella Francia rivoluzionaria erano nate,
insieme al nuovo ordinamento politico e al nuovo assetto sociale, diverse grandi istituzioni scientifiche e tecniche: il Museo di storia naturale, la celebre École Polytechnique, le altre grandes écoles, il Conservatoire des Arts et Métiers, tutto un insieme di organismi culturali nuovi che durante il periodo napoleonico influenzarono gli altri paesi europei. Nel
continente, d’altra parte, comincia presto a imporsi anche l’altro grande tema che attraverserà tutto l’Ottocento: l’inseguimento sul piano economico e tecnologico della Gran
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Carlo G. Lacaita
Cultura e società
Bretagna, le cui capacità produttive sollecitano nei paesi inseguitori la nascita di nuove
istituzioni formative a tutti i livelli della scala sociale.
A diffondere le tendenze in crescita contribuiscono gli strumenti più diversi di comunicazione, dalle riviste specializzate alle pubblicazioni divulgative, dalle società promotrici di studi, di esperienze e di riunioni periodiche come la Società Elvetica dei Naturalisti (1815), la Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Aertze (1822), la British Association
for the Advancement of Science (1831), la Association française pour l’avancement des sciences (1833), alle esposizioni di macchine e di prodotti, che a metà del secolo diventano internazionali con la celebre Esposizione di Londra del 1851, da cui ha inizio la serie delle
grandi manifestazioni del secondo Ottocento, destinate a influire sull’orientamento e l’immaginario di grandi masse.
Gli anni trenta e Quaranta
Pur restando ancora alla periferia del movimento tecnico-scientifico, come dei fenomeni socio-economici connessi, anche gli Stati italiani cominciano a essere coinvolti dalle
tendenze testé richiamate. A partire dagli anni trenta specialmente, accanto al fermento dei ceti colti e dinamici, si fa palese la preoccupazione dei governanti più avveduti di
non restare inerti di fronte a cambiamenti capaci di modificare i rapporti di forza sia in
campo economico che in campo militare. I viaggi all’estero di funzionari e di esperti incaricati di aggiornarsi e di riferire, la compilazione di nuovi testi per le scuole, la creazione di gabinetti tecnologici sia pure ridotti, l’organizzazione di esposizioni con premi
d’industria, la nascita di organismi associativi per la diffusione di conoscenze e di innovazioni tecnico-produttive, sono chiari segni di un processo imitativo in atto e della volontà di partecipare alle trasformazioni d’Oltralpe. Altrettanto eloquenti sono i nove congressi degli scienziati italiani che, sull’esempio di altri paesi europei, sono organizzati in
Italia dal 1839 al 1847 in altrettante città della penisola (Pisa, torino, Firenze, Padova,
Lucca, Milano, Napoli, Genova, Venezia), con una partecipazione ampia di «dotti», docenti universitari, professionisti, esponenti di accademie e di varie istituzioni pubbliche,
nonché di apparati tecnici, amministrativi e militari degli Stati ospitanti (Pancaldi 1983;
Levra 1994). Nel corso delle due settimane di incontri i partecipanti, che raggiunsero la
punta massima di 1.613 a Napoli, discussero i problemi più diversi nelle sei, e poi nove,
sezioni dei congressi, dalla legge di Ohm a quella di Avogadro, dalla riforma carceraria
ai miglioramenti agricoli.
Ma ciò che l’opinione pubblica apprese innanzi tutto dalle cronache sulle annuali riunioni furono le nuove dimensioni della ricerca induttiva e sperimentale, il ruolo dell’organizzazione e dei mezzi strumentali, i nessi esistenti fra lo sviluppo scientifico e il progresso economico: tutti aspetti dell’impresa scientifica moderna, che vedeva la penisola
in posizione arretrata. Lo rilevava con forza il fisico Giovanni Alessandro Majocchi, assiduo frequentatore dei congressi, affermando nel 1846 che fra l’Italia e i paesi più sviluppati in campo scientifico, tecnico e industriale, non c’era confronto possibile in merito al «numero di sagaci sperimentatori», ai laboratori adeguatamente attrezzati e alle indagini
sperimentali pubblicate («Annali di fisica, chimica e matematiche», 1846, p. 16).
Durante le riunioni e nelle numerose pubblicazioni collaterali, si parlava non solo di
osservazioni e di esperimenti, ma anche di grandi centri di raccolta di materiali scientifici, di coordinamento fra cultori delle più diverse parti d’Italia, di applicazione ad ampio
raggio del metodo comparativo, di superamento delle aride compilazioni e dei lavori descrittivi limitati a zone troppo circoscritte. E, ovviamente, discutendo di flora italiana, di
carta geologica dell’Italia tutta, con relativa «nomenclatura geologico-mineralogica», di
statistica dei fiumi e dei torrenti italiani, di sistema metrologico «uniforme», di dizionario
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PARtE QuARtA
La cultura scientifica
tecnologico italiano, di osservazioni meteorologiche coordinate, e di altro ancora, si rafforzava la convinzione che, se per sviluppare l’economia occorreva procedere alla creazione di un sistema comune e integrato in materia di pesi e misure, di comunicazioni, di trasporti e di dogane (la Germania insegnava con il suo Zollverein), per realizzare un movimento
scientifico all’altezza dei tempi erano necessarie esplorazioni sistematiche su tutto il territorio della «grande patria» italiana, della «nostra Italia», come sempre più spesso si diceva in pubblico oltre che nelle private conversazioni.
Certo, lo scibile umano è di per sé cosmopolitico, affermava ancora Majocchi, «una
scoperta, un’invenzione, un nuovo metodo, un nuovo processo, frutto di un ingegno di
qualsiasi nazione, diventa patrimonio di tutti i colti popoli». È anche vero, però, aggiungeva, che «un tale cosmopolitismo si compone [...] di parecchie unità, di parecchi carati, di cui ogni civile popolazione vi somministra il suo proprio; più o meno grande, di
maggiore o minor valore» («Annali di fisica, chimica e matematiche», 1843, pp. 3-4).
Dopo aver dato contributi di primo piano con Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Evangelista torricelli, Giambattista Morgagni, Alessandro Volta, l’Italia aveva il dirittodovere di entrare nella gran gara sorta fra le nazioni più evolute sul terreno del progresso scientifico e dell’«umano incivilimento». Ma per poterlo fare doveva raggiungere
i popoli più evoluti nelle «indagini sperimentali» superando la frammentazione che la
danneggiava.
In tal modo le esigenze proprie della ricerca scientifica si univano con quelle dello
sviluppo economico e si intrecciavano con le istanze nazionali nella metafora risorgimentale che le schiere di «patrioti» declinavano in vario modo e sempre più di frequente. Naturalmente di sviluppo scientifico italiano (come di «riforme» comuni alle diverse parti
della penisola) si parlava con maggiore intensità dove i sovrani mostravano di volersi aprire alle istanze degli studiosi e delle forze sociali più dinamiche.
Cultura scientifica e riforme
In testa al movimento scientifico e riformatore fu per molti versi la toscana di Leopoldo II.
Amico di scienziati e appassionato di collezioni scientifiche, il granduca accolse a Pisa
scienziati di valore, come Ottaviano Fabrizio Mossotti, Carlo Matteucci, Raffaele Piria,
Leopoldo Pilla, ammodernò gli ordinamenti universitari, ospitò il primo e il terzo dei congressi e accolse anche l’idea di costituire un Erbario generale italiano avanzata dal botanico siciliano Filippo Parlatore e fatta propria dal congresso di Firenze.
Più oltre però non si poté andare e il caso di Piria è eloquente in tal senso. Calabrese di origine e napoletano di formazione, Piria era giunto in toscana nel 1842 dopo essersi perfezionato a Parigi presso il laboratorio di Dumas, dove aveva realizzato le ricerche sulla salicina, che lo resero subito noto presso la comunità scientifica europea.
Qui a Pisa poté sì disporre «di un discreto anfiteatro per l’insegnamento orale e di camere sufficienti per il lavoro personale del Professore», ma non poté coinvolgere molti
allievi nella realizzazione di progetti organici, come dal 1824 faceva Liebig a Giessen,
disponendo di «larghi mezzi per aiuti governativi e per contribuzioni di allievi» (Piria
1932, pp. 50-51).
Se poi da Pisa volgiamo lo sguardo all’università di Palermo, cogliamo immediatamente la stagnazione che caratterizzava per lo più gli atenei italiani. Per esercitarsi nelle manipolazioni chimiche il giovane Stanislao Cannizzaro doveva arrangiarsi a fare tutto in casa per proprio conto, non avendo l’università un «qualsiasi Laboratorio chimico
per gli allievi e non essendovi altro che l’occorrente per le elementari dimostrazioni» didattiche (Cannizzaro 1992, p. 9). Né diversa era la situazione in fisiologia, mentre in altri settori, come in quello di igiene e farmacologia (lo annotava Parlatore nelle sue memorie)
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C.G. LACAItA
Cultura e società
era possibile anche ascoltare «sciocchezze» ed «errori», tanto scarsa era la preparazione di
chi reggeva l’insegnamento (Parlatore 1992, p. 47).
Nella più grande delle capitali italiane, Napoli, c’erano numerose strutture formative e organismi scientifici, capaci di attrarre dalle province del Regno o da altri Stati uomini di qualità come l’ingegnere Carlo Afan de Rivera, il naturalista Michele tenore,
l’astronomo Carlo Brioschi, il fisico Macedonio Melloni, il geologo Arcangelo Scacchi.
Ma la stasi delle istituzioni e il conformismo imposto con la pressione poliziesca e censoria, erano tali da spingere molti a lasciare il Regno o a vivere isolati (Torrini 1989). una
scienza in rapida evoluzione come la chimica era affidata a docenti che si limitavano a tradurre qualche libro straniero, a compilare testi per studenti e a preparare dimostrazioni
didattiche. Era più che naturale quindi che un giovane di talento come Piria dovesse andare altrove al pari del geologo Pilla e di altri scienziati meridionali. Dopo l’esperienza
parigina e le ricerche presso Dumas, il chimico calabrese rientrò prima a Napoli verso la
fine del 1839 e insieme al pugliese Scacchi, studioso di mineralogia vesuviana, aprì anche
una scuola di scienze sperimentali e avviò una pubblicazione periodica, l’«Antologia di
scienze naturali». Ebbe come allievo Sebastiano De Luca, che seguì le orme del maestro,
partendo dalla Calabria, studiando a Napoli, perfezionandosi a Parigi e approdando a Pisa, dove intanto Piria era giunto nel 1842 con l’aiuto di Melloni, e dove si trovò in buona
compagnia con Mossotti, Matteucci, Enrico Betti e gli altri, che nel 1848 avrebbero preso parte, insieme agli studenti universitari toscani, alla prima guerra d’indipendenza.
Ancora più stagnante era la situazione dello Stato pontificio per la generale subordinazione dei laici al clero e i controlli sull’ortodossia di ogni affermazione. Non solo nessuno dei nove congressi degli scienziati poté essere ospitato, ma anche la partecipazione
alle riunioni organizzate altrove fu vietata ai sudditi dello Stato della Chiesa. Soltanto con
l’elezione di Pio IX e l’avvio delle riforme si sperò in una maggiore disponibilità di libri
e in un ampliamento degli insegnamenti universitari, il cui numero era ancora tanto ristretto da spingere gli studenti romani a presentare nel 1847 una supplica perché i «nuovi saperi» e i più fecondi «metodi scientifici» potessero finalmente entrare anche nel loro
ateneo (Belardinelli 2002, p. 178).
Il conservatorismo di fondo connotava però anche i maggiori atenei settentrionali. Se
a torino, ad esempio, la chimica continuava a essere insegnata da un medico, Gian Lorenzo Cantù, come disciplina ausiliaria della medicina, a Padova, Francesco Ragazzini manteneva in uso un testo di chimica pubblicato nel 1828 da Girolamo Melandri suo maestro.
Qualche novità si registrava a Milano, dove, nella neonata Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, uno studioso di formazione europea, Antonio Kramer, allievo e amico di Arthur-Auguste De La Rive, Alphonse-Louis-Pierre-Pyramus De Candolle, Louis-Jacques thénard, aveva creato con il suo attrezzato laboratorio personale una scuola
di chimica applicata, che divenne presto un centro di attrazione per giovani tecnici, imprenditori e ricercatori, al quale si aggiunsero via via le scuole di fisica tecnica, di geometria e di disegno meccanico, di setificio, istituite dallo stesso sodalizio (Lacaita 1990).
L’idea di un Ateneo politecnico era stata già proposta a Milano subito dopo la Restaurazione dal gruppo di nobili e di borghesi liberali milanesi che si era raccolto attorno
a Federico Confalonieri, ma non si era potuta realizzare per l’opposizione delle autorità
viennesi. Sorte migliore ebbe all’inizio degli anni trenta l’idea di due naturalisti, Giuseppe De Cristoforis, appassionato collezionista, e Giorgio Jan, docente a Parma, che decisero di affidare le loro raccolte alla città perché servissero a costituire un Museo civico
di storia naturale e contribuissero al pubblico «decoro», al progresso degli «studi» e allo
sviluppo dell’«industria patria» anche mediante corsi di lezioni. Intendevano per «industria» (secondo l’accezione allora corrente) ogni genere di attività produttiva, a partire dalle attività agricole, che molti benefici potevano trarre dagli studi naturalistici, riguardanti
la composizione dei terreni, la flora e la fauna dei vari luoghi.
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La cultura scientifica
L’agricoltura, in effetti, dato il ruolo che svolgeva nell’economia del tempo, era al
centro di molti studi naturalistici, variamente ripresi e divulgati dalla stampa coeva, e di
numerosi esperimenti innovativi (si pensi a Cosimo Ridolfi, a Bettino Ricasoli, a Giovanni Battista Jacini, a Camillo Benso di Cavour, per fare solo qualche nome), nonché di ampi dibattiti che si svilupparono nelle sedi più diverse, dalle accademie di più antica origine, come quella dei Georgofili di Firenze, alle più recenti come l’Associazione agraria
subalpina istituita a torino nel 1842, o alla menzionata Società d’incoraggiamento di Milano, che si applicava anche alla promozione dei miglioramenti agricoli, pur dedicandosi
soprattutto alle attività manifatturiere, che stavano aprendo nuove prospettive di sviluppo e sembravano già in fermento in Lombardia e altrove.
Nuove prospettive di sviluppo
Proprio dagli anni trenta la stampa va registrando un sempre maggiore interesse per argomenti non agricoli: la lavorazione dei metalli, i combustibili fossili, l’illuminazione a
gas, le costruzioni ferroviarie, le nuove turbine idrauliche, i sistemi per tingere e imprimere i tessuti, le procedure per costruire candele steariche e altri prodotti di largo consumo. Nascono nuovi periodici per la diffusione delle tecnologie più moderne, si sviluppano le discussioni sulle prospettive economiche, cresce la considerazione del ruolo della
cultura «positiva» nelle trasformazioni del periodo e nel superamento delle distanze fra i
paesi avanzati e quelli in ritardo sulla via dello sviluppo.
È del 1832 il saggio in cui il fisico Majocchi, rivolgendosi ai ceti produttivi italiani, li sollecita ad adeguarsi ai nuovi sistemi, perché soltanto con «l’applicazione delle
scienze alle arti», scriveva, è possibile mettersi «in concorrenza coi popoli più colti» sia
«nella fabbricazione e nell’esportazione dei prodotti e delle manifatture», sia «nel far
prosperare ed estendere il commercio» (Majocchi 1832, pp. xxiv-xxv).
In termini ancora più netti, l’autore di un articolo anonimo (in realtà Carlo Cattaneo) apparso nel 1837 su «L’Eco della Borsa» con il titolo L’industria di Birmingham,
dopo aver illustrato le capacità produttive inglesi, concludeva in questi termini: «Non
si può né gareggiare né resistere a quella forza industriale se non coll’imitarla; il volerle far fronte per altre vie è un prepararsi una sicura ruina» (Cattaneo 1969, p. 72).
Di lì a poco, nel 1839, lo stesso Cattaneo avviava le pubblicazioni della nuova rivista,
«Il Politecnico», col dichiarato proposito di incrementare gli studi applicati in ogni direzione. A sua volta, il docente di meccanica a torino, Carlo Ignazio Giulio, asseriva
nel 1844 che «nelle presenti condizioni della civiltà l’industria di ogni paese non ha altra alternativa che questa: abbracciare i moderni perfezionamenti, oppure languire e
perire» (Giulio 1844, p. 117).
Voci non comuni, certamente, ma non del tutto isolate, come si è più volte affermato. Se a sostenere le iniziative della Società d’incoraggiamento furono oltre 500 soci milanesi, a salutare l’inaugurazione delle nuove Scuole di meccanica e di chimica istituite a
torino e a Genova con l’intervento in qualità di docenti di Carlo Ignazio Giulio e di Ascanio Sobrero (scopritore nel 1846 della nitroglicerina) a torino, e di Giovanni Ansaldo (il
futuro creatore dell’omonima industria meccanica, allora docente di geometria descrittiva all’ateneo ligure) e di Michele Peyrone (formatosi a Giessen con Liebig, come Sobrero) nel capoluogo ligure, furono nutrite rappresentanze di ceti colti, com’ebbe modo di
riferire il giovane Quintino Sella nelle sue lettere ai parenti biellesi. Gli stessi ceti seguivano i nuovi periodici che lavoravano per il «risveglio scientifico italiano» e non diversamente da Antonio Scialoja (proprio allora chiamato a torino a tenere un corso di Economia politica) definivano i «prodigi della meccanica» un «vanto della moderna civiltà» (cit.
in Oldrini 1973, p. 125).
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Cultura e società
Il divario fra aspettative e realtà
Più cresceva il desiderio di cambiamento, più risaltavano però le carenze strutturali esistenti e più si allargava anche il distacco fra i regimi assoluti e i settori più avanzati della
società. Emblematica a riguardo è la sorte del progetto di riforma del pubblico insegnamento predisposto all’inizio del 1848 dall’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti. Elaborato da una speciale commissione sulla base delle riflessioni accumulatesi negli anni
Quaranta, il documento presentò una serie di proposte organiche, che mise in imbarazzo
le autorità di governo con la richiesta di un generale ampliamento degli studi. Per i medici e gli ingegneri in particolare furono sollecitati «studi pratici o di perfezionamento» opportunamente differenziati dopo la preparazione universitaria generale e comune. Il sopraggiungere della tempesta quarantottesca consentì al governo di accantonare il documento,
e anche quando si tornò a pensare a qualche possibile modifica degli studi universitari, si
continuò a ignorare quel progetto organico. I pochi provvedimenti che furono presi nei
secondi anni Cinquanta restarono infatti sempre parziali e isolati, e anche quando si permise la creazione della Società geognostica di Milano (1855), poi denominata Società di
geologia e di altre scienze naturali, la si mise in condizione di funzionare solo alla vigilia
della seconda guerra d’indipendenza.
Anche nel resto della penisola il dopo 1848 fu un periodo di repressione e di disimpegno dalle riforme. Se nello Stato della Chiesa fu ancor più rafforzato il potere di
sorveglianza e di influenza della Compagnia di Gesù, nella toscana leopoldina fu abbandonata l’azione di bonifica che nel ventennio precedente era stata condotta in Maremma, mentre le difficoltà economiche del periodo, aggravate dalla presenza austriaca su suolo toscano, riducevano le risorse destinate alle attività scientifiche. Quanto al
Regno delle Due Sicilie, la persecuzione dell’intellighenzia liberale e l’ormai cronica
debolezza delle istituzioni aggravarono la situazione degli studi insieme a quella dell’economia meridionale.
Diversa l’evoluzione del Piemonte liberale, stimolato dalle riforme cavouriane. Perseguendo lo sviluppo economico accanto alla trasformazione in senso parlamentare e laico dello Stato, Cavour incentivò l’innovazione con una nuova legge sui brevetti e avviò
un audace programma di lavori pubblici, che prevedeva il potenziamento del porto di Genova, la canalizzazione del basso Vercellese e Novarese, la costruzione di importanti linee
ferroviarie e telegrafiche, la realizzazione di collegamenti transalpini e la nascita di officine meccaniche e cantieristiche necessarie alle stesse nuove infrastrutture. Programmi tutti di grande impegno tecnico oltre che economico, perché comprendevano ferrovie con
forti pendenze, lavori idraulici complessi, trafori prima mai tentati come quello alpino del
Fréjus, che nel suo genere di tunnel a foro cieco (privo cioè di pozzi verticali, irrealizzabili nei trafori di montagna) costituiva un primato assoluto. Anche i progetti politico-militari, del resto, non facevano che sollecitare l’ammodernamento delle strutture tecniche
dello Stato, dall’Arsenale alla Fonderia, alla Reale fabbrica d’armi.
Al dinamismo progettuale e realizzativo della politica cavouriana si accompagnarono non a caso esperimenti, invenzioni, studi, a cui parteciparono gli intellettuali provenienti da ogni parte d’Italia. Se un tecnico di lungo corso e di solida fama come Pietro
Paleocapa, giunto dopo il 1849 dal Veneto, fu chiamato a dirigere il ministero dei Lavori pubblici, e un ingegnere come il siciliano Luigi Orlando, che con i suoi tre fratelli aveva impiantato un’officina meccanica presso Genova, poté assumere la direzione
dello stabilimento Ansaldo di Sampierdarena, i cultori di varie discipline come Piria,
Cannizzaro, Genocchi, tardy, Majocchi, tommasi furono tutti accolti e valorizzati in
vario modo.
Al tempo stesso, mentre cresceva fra i ceti colti degli altri Stati l’ammirazione per
il Piemonte liberale e riformatore, furono riprese le iniziative individuali e di gruppo del
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PARtE QuARtA
La cultura scientifica
decennio precedente per la promozione del rinnovamento scientifico italiano. Non solo
aumentarono i soggiorni in Europa per conoscere le realtà più avanzate, ma si intensificarono i rapporti con studiosi stranieri e italiani della medesima disciplina o di discipline affini in vista di programmi comuni. un ruolo significativo in tal senso lo svolsero i
periodici che cercarono anche di favorire il «perfezionamento» mediante una maggiore
specializzazione. Pur mantenendo un sottotitolo molto ampio, «Giornale di Fisica, di
Chimica e delle loro applicazioni alla Medicina, alla Farmacia ed alle Arti Industriali»,
come il mercato imponeva, «Il Nuovo Cimento» dedicò dal 1855 in poi uno spazio sempre maggiore alla fisica e alla chimica, che erano i campi più praticati dai due direttori
Matteucci e Piria. A stimolare le ricerche dei matematici che costituivano una massa più
omogenea di lettori si impegnò l’iniziativa assunta nel 1858 da Betti, professore di algebra superiore a Pisa dopo essere stato allievo di Mossotti, e da Francesco Brioschi, titolare di matematica pratica a Pavia. Rilevati gli «Annali di Scienze matematiche e fisiche», in vita dal 1850 sotto la direzione del romano Barnaba tortolini, li rilanciarono su
nuove basi con il titolo di «Annali di matematica pura e applicata», coinvolgendo nell’impresa altri due valenti matematici, il piacentino Angelo Genocchi e il siciliano Placido tardy, rispettivamente professori a torino e a Genova (Bottazzini 2000). Per stabilire, inoltre, gli opportuni collegamenti con la cultura scientifica europea Betti e Brioschi
compirono nel 1858 un lungo viaggio in compagnia del giovane Felice Casorati. Passando da Zurigo a Berlino, da Karlsruhe a Parigi, per dieci città europee, il gruppo incontrò i maggiori matematici del tempo (fra cui Bernhard Riemann, che stabilì con Betti un
rapporto ricco di stimoli) e conobbe il funzionamento di molte istituzioni, a cui Brioschi si sarebbe ispirato nella sua attività postunitaria in tema di organizzazione degli studi tecnici superiori.
La svolta unitaria
La guerra del 1859 segnò non solo l’accelerazione del movimento unitario, ma anche il
passaggio dai precedenti parziali interventi in materia di pubblico insegnamento alla prima legge quadro, nota come legge Casati, che accolse le esigenze maturate nel corso degli anni Cinquanta, innestandole sul tronco della tradizione piemontese. Continuità e innovazione furono quindi i tratti principali della legge, subito rilevati dai contemporanei.
tra le novità di maggior rilievo la prima è certo la nascita, accanto alla Scuola secondaria classica confermata nel ruolo di scuola preliminare per il «conseguimento dei gradi
accademici nelle università dello Stato» (art. 188), del secondo canale formativo, costituito dalle Scuole tecniche di primo grado e dagli Istituti tecnici secondari, per i cittadini orientati «a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed
alla condotta delle cose agrarie» (art. 272). Nella fascia degli studi superiori, inoltre, mentre già si prospettava una semplificazione del vecchio apparato universitario, annunciando la fine dell’ateneo sassarese a vantaggio degli «stabilimenti inferiori e superiori di istruzione secondaria e tecnica» (art. 177), si dava vita a due scuole politecniche per ingegneri:
la Scuola di applicazione di torino e l’Istituto tecnico superiore di Milano, sull’esempio
di analoghe istituzioni europee.
Iniziava in tal modo con la Casati la serie di interventi istitutivi, che via via si ebbero nelle regioni coinvolte dall’unificazione, diventandone uno degli esiti più rilevanti. È
sufficiente mettere insieme anche solo una parte di tali interventi compiuti dal 1859 in poi
nel campo dell’istruzione per constatare che si trattò di una linea seguita con decisione e
ad ampio raggio. Linea da tempo voluta da Cavour, che ancora poco prima di morire ebbe modo di ribadirla. Scrivendo a Stefano Jacini il 5 gennaio 1861, così si esprimeva in
merito al progetto di una nuova «scuola veramente tecnica»:
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Cultura e società
Glielo raccomando caldamente. Questa scuola sarà il primo passo nella via della riforma dell’insegnamento: prima necessità sociale. Non badi alla burocrazia e ordini che si eseguisca
quanto viene proposto; in quindici giorni sarà aperta. [...] Farò altrettanto all’arsenale di
Genova. Spero che altri mi imiteranno. A poco a poco ritrarremo l’insegnamento del fatale
indirizzo che si dà; e ciò sarà per lei un vero titolo alla benemerenza dell’Italia da rigenerarsi (Cavour 2008, pp. 54-55).
Già nell’agosto del 1859 a Milano si decise di rafforzare la Società d’incoraggiamento
d’arti e mestieri, mettendole a disposizione un ampio edificio demaniale e, mentre a torino e a Milano si lavorava per dare attuazione alle disposizioni della Casati, altrove si
istituivano altre scuole di carattere tecnico, come la Scuola per il corpo del Genio civile
a Ferrara, decisa da Farini nel febbraio del 1860 e poi trasformata in Scuola di applicazione per gli ingegneri idraulici (1863), o come la Scuola per ingegneri di Palermo, istituita appena si ebbe il controllo della Sicilia (ma aperta nel 1866), seguita in varie città
dell’isola da altre strutture «speciali», come l’Istituto d’arti e mestieri creato a Fermo dal
commissario per le Marche Lorenzo Valerio con decreto gennaio 1861. Sempre nel
gennaio del 1861 si dava vita al Reale istituto d’incoraggiamento di agricoltura, arti e manifatture per la Sicilia (presidente Emerico Amari) col compito di promuovere lo sviluppo delle attività produttive.
E non meno significativo è che, quando nella toscana, ormai prossima all’unione col
Piemonte, si pensò di rimarcare il ruolo culturale di Firenze nella nuova compagine statuale, il 22 dicembre 1859 fu deliberata da Ricasoli e Ridolfi la creazione di un Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento (inaugurato all’inizio del 1860) sia per le scienze umane, che per le scienze naturali considerate sotto il duplice riguardo del loro perfezionamento e del loro pratico esercizio.
Di lì a poco, nel 1862, accanto alla Scuola di applicazione di torino, veniva istituito il Museo industriale italiano, sull’esempio del Kensington Museum di Londra e di altre analoghe strutture, come il famoso Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi. E mentre si dava attuazione all’Istituto tecnico superiore di Milano, si provvedeva a riordinare
la Scuola per gli ingegneri di Napoli per adeguarla alle nuove esigenze. Analogamente si
fece con le Scuole d’ingegneria di Padova e di Roma, dopo che furono acquisite nel 1866
e nel 1870.
Contemporaneamente si costruiva la rete di scuole tecniche inferiori previste dalla
Casati, e quella degli istituti tecnici secondari, che a una prima rilevazione statistica effettuata nel 1868, contava già 84 istituti, di cui 45 governativi, 19 pareggiati e 18 liberi.
Si ampliava ulteriormente anche il complesso di istituzioni superiori, che dovevano
completare il nuovo settore dell’istruzione nazionale. Se a Venezia si aprì la Scuola superiore di commercio (1867), a Genova si avviò la Scuola superiore navale (1870) e a Palermo si attivò nel 1872 la scuola postlaurea a indirizzo minerario, per gli studi agrari si crearono le due Scuole superiori di agricoltura di Milano (1870) e di Portici (1872), attorno
alle quali sorsero la Stazione sperimentale di Lodi per il settore lattiero-caseario (1871),
l’Istituto forestale nell’ex Badia di Vallombrosa (1869), e varie stazioni e scuole praticosperimentali finalizzate alla gelsibachicoltura, alla viticoltura, alle attività nautiche e di
pesca, alle miniere – fra cui quelle di Caltanissetta (1862) e Iglesias (1871) – per la preparazione di periti e capi operai minerari.
Si trattò, come si vede, di un intero sistema di scuole a carattere tecnico-scientifico
ed economico, che sorse insieme all’unificazione e nell’ambito dello Stato unitario, sulla
base del convincimento, maturato dagli anni trenta in poi, secondo cui spostando l’asse
culturale in senso tecnico e scientifico si sarebbero irrobustite le forze intellettuali e produttive necessarie alla rigenerazione dell’Italia e alla sua partecipazione piena ai processi
di modernizzazione in atto.
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Scienza, Stato e società
Fu proprio di ritorno dall’Esposizione londinese del 1862 che la delegazione italiana chiese l’istituzione del Museo industriale, dianzi ricordato. A motivare la proposta era la volontà di mettersi al passo per colmare il ritardo tecnologico che si era registrato in occasione della prima Esposizione nazionale organizzata a Firenze all’indomani della
proclamazione del Regno, e che agli esperti non era certo sfuggito.
Nell’illustrare il settore della meccanica, principale indicatore delle produzioni moderne, Giuseppe Colombo affermava sulla «Perseveranza» che, a parte la fabbrica di Pietrarsa e lo stabilimento Ansaldo, sostenuti sin dall’inizio dai rispettivi governi preunitari, l’industria meccanica in Italia era ancora lontana dal poter fornire le locomotive alle
ferrovie nazionali o le macchine operatrici alle nascenti industrie. Ciò che più colpiva era
il fatto che accanto alle poche macchine moderne era stato dato ampio spazio ai «motori
impossibili» presentati da dilettanti e aspiranti inventori, segno evidente della «scarsa ed
imperfetta coltura» degli espositori e degli stessi organizzatori della mostra. Per colmare
le molte carenze, concludeva Colombo, occorreva puntare soprattutto alla diffusione delle conoscenze scientifiche tanto tra «i fabbricanti» quanto tra gli «operai» (Colombo 1985,
pp. 154, 160).
Cattaneo, che già più volte aveva indicato nel sapere uno dei principali fattori dello
sviluppo economico moderno, tornò a porre l’accento sulla preparazione scientifico-tecnica e affermò la centralità dell’intelligenza nella nuova vita economica, sostenendo nel
saggio Del pensiero come principio di economia publica del 1861, che «prima d’ogni lavoro,
prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza» (Cattaneo 1956, p. 341).
Sella, a sua volta, sollecitava il governo a dotare gli organi dello Stato, la classe dirigente e le forze sociali attive, della carta geologica d’Italia, già reclamata nei congressi scientifici preunitari. E si diede anche subito inizio alle operazioni preparatorie di una carta rigorosa a grande scala (1:50.000), quando nel marzo del 1862, «per riguardo alle imperiose
strettezze finanziarie» del paese, lo stesso Sella si trovò a dover sospendere lo stanziamento prima chiesto e ottenuto (Sella 1864, p. 17). Cominciava in tal modo la serie di interruzioni, che avrebbe differito il raggiungimento di questo obiettivo individuato per tempo.
Senza citare Cattaneo, ne utilizzava la prosa il deputato abruzzese Giuseppe De Vincenzi, segretario del comitato dell’Esposizione internazionale del 1862 e tenace promotore del Museo industriale di torino, quando sosteneva che «fra tutti i mezzi della produzione» il primo è «l’uomo, che, colla sua intelligenza, operosità ed energia, ne è la causa
prima, come la condizione essenziale» (De Vincenzi 1878, p. 5). Convergeva su questo
convincimento anche il ministro Filippo Cordova che, in merito all’insegnamento superiore affermava:
Il sapere nel campo economico è il più attivo strumento della produzione, e quindi il primo
fattore della pubblica ricchezza. Nell’assiduo progresso delle scienze, e nello studio delle loro applicazioni alle arti utili, dobbiam cercare le condizioni della prosperità del popolo italiano; e quindi sorge il bisogno di una buona e larga istruzione scientifica ed industriale, che
agevoli i modi di raggiungere quello scopo (ivi, p. 7).
Accenti analoghi si trovano in numerosi altri esponenti dei gruppi dirigenti risorgimentali,
fossero ministri come Gioacchino Pepoli e Matteucci, o deputati e pubblicisti come Gabriele Rosa e Mauro Macchi, che, al di là delle diverse posizioni politiche, convenivano sulla necessità e l’urgenza di potenziare la cultura tecnico-scientifica. Macchi, in particolare, sottolineava sul «Politecnico» di Cattaneo che la legge del 1859 aveva di fatto riservato una posizione
privilegiata all’istruzione classica tradizionale, stabilendo che i ginnasi fossero più numerosi
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Cultura e società
delle scuole tecniche e che i licei fossero «obbligatori» almeno in ogni capoluogo di provincia, mentre gli istituti tecnici erano «permessi» solo nei centri più popolosi.
In sintonia con questo giudizio critico si mostrava sul «Corriere mercantile» di Genova Cannizzaro quando criticava la Casati per la mancanza di chiarezza circa il difficile passaggio dalle scuole tecniche alle facoltà di scienze fisiche e matematiche. «Noi domandiamo – sosteneva il chimico siciliano – che la licenza del corso tecnico valga quanto quella dei
licei ad essere ammessi almeno alla facoltà di scienze fisico-matematiche» (Cannizzaro 1992,
p. 310). E sempre a favore degli studi tecnici si dichiarava anche Gerolamo Boccardo, sia
nel 1860 che dieci anni dopo, quando, a nome di una commissione ministeriale chiamata
nel 1870 a occuparsi delle scuole professionali, ribadiva la necessità di un’«educazione più
direttamente operosa», richiesta dal «moltiplicarsi delle ricchezze mobiliari», dalla crescita dei ceti borghesi «commerciali ed industriali», come dal «possente svolgimento assunto
dalle grandi opere di pubblica utilità» del periodo (Boccardo 1870, p. 5).
Problemi emergenti
Non si coglie il senso delle precedenti prese di posizione se non le si considera in rapporto ai motivi oggettivi che premevano negli anni dell’unificazione sui protagonisti del dibattito culturale e dell’azione di governo. È opportuno perciò richiamare i termini di alcune questioni affrontate dopo il 1861, a partire dalle infrastrutture, necessarie a collegare
una all’altra le diverse parti del paese e a inserirle unite nel circuito degli scambi internazionali. tornato a guidare il ministero dei Lavori pubblici, Stefano Jacini affermava che
per realizzare unità e sviluppo occorreva
aprire nuove vie, escavare o proteggere con nuove opere i porti malsicuri od interrati, estendere e fortificare le difese contro i fiumi, condurre le acque a raddoppiare la fecondità di vasti
terreni, far giungere fino alle più remote parti della penisola quel mirabile istrumento di civiltà, di progresso e di potenza che è la vaporiera, far sparire le distanze congiungendo coi fili telegrafici le mille città d’Italia, perfezionare, ampliare e rendere più rapido e ad un tempo più
semplice il servizio delle poste, creare una marina a vapore nazionale (Jacini 1867, p. 1).
Non è difficile immaginare quanto queste opere pubbliche programmate dopo l’unità
sollecitarono la cultura tecnico-scientifica, le istituzioni formative che si stavano creando
e gli stessi apparati tecnici e gestionali dello Stato. Le esperienze e gli strumenti dei governi preesistenti, anche dei più efficienti (Piemonte, Lombardo-Veneto, toscana), non
erano più adeguati alle esigenze di un grande Stato e alla complessità dei problemi nazionali. La questione transalpina era una di questi ed è opportuno qui richiamarne i termini essenziali e le procedure che si seguirono nella fase conclusiva.
Mentre procedevano i lavori del Fréjus, assunti ormai congiuntamente da Italia e Francia, il dibattito sulla seconda trasversale alpina entrava finalmente nella fase decisiva. I progetti si erano accumulati numerosi da quando nel 1838 era stata avanzata una prima proposta e tutte le soluzioni possibili erano state sostenute nel corso del quarto di secolo
successivo. Dopo tante discussioni e iniziative, all’indomani dell’unità si era ormai fatto
chiaro, per il rifiuto del capitale privato di sottoscrivere impegni giudicati troppo aleatori,
che per un’impresa tanto difficile occorresse l’intervento degli Stati interessati (Italia, Svizzera e Germania), e che per giungere a una scelta conclusiva bisognasse passare a una comparazione rigorosa sia dei dati raccolti sia dei progetti fino allora elaborati.
un decisivo contributo in tal senso fu dato proprio da Jacini, tornato nel 1864 ai
Lavori pubblici, dove Cavour lo aveva voluto nel 1860. Si trattava a suo giudizio di
mettere ormai fine «alle deduzioni precipitate, alle nozioni vaghe e puramente intuitive» che avevano generato «grandissima confusione» ed eccitato «lo spirito di parte», per
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giungere a una scelta finale saldamente ancorata a criteri obiettivi e a dati scientifici
incontrovertibili.
una commissione di tecnici ebbe il compito di studiare i problemi delle tre principali linee concorrenti, Spluga, Lucomagno e San Gottardo, sulla base della letteratura esistente e di oltre trenta progetti, rilevando gli elementi essenziali di ciascuno (chilometraggio, pendenze, punto culminante, gallerie, loro lunghezza e relativo numero di pozzi).
un’altra commissione di esperti si occupò dei sistemi disponibili per vincere le forti pendenze e quindi della possibilità eventuale di adottare gallerie elevate al posto di gallerie di
base. Sempre in merito alla questione delle lunghe gallerie furono interpellati tre dei maggiori geologi del tempo, Angelo Sismonda, Felice Giordano e Antonio Stoppani, che appurarono la fattibilità delle gallerie. Intervenne quindi l’ingegner Severino Grattoni, direttore dei lavori del Fréjus, per dire, alla luce delle esperienze fatte sulle Alpi Cozie, quale
dei tre tunnel poteva considerarsi più agevole. L’ingegnere Giovanni Battista Rombaux
a sua volta si pronunciò in merito al reale obiettivo geografico del commercio estero italiano. tutto il materiale così raccolto e vagliato fu infine affidato a una commissione commerciale di competenti e parlamentari, che, ascoltate ancora le ragioni sostenute dalle parti, concluse il 10 febbraio 1866 con un verdetto finale, che indicava come preferibile il San
Gottardo per collegare l’Italia unita all’Europa del Nord (Caizzi 2007).
Se le opere infrastrutturali furono un volano di cultura tecnico-scientifica per la
quantità di esperti che mobilitarono, i problemi che posero e i nuovi studi che stimolarono (si pensi a quelli di Valentino Cerruti e di Carlo Alberto Castigliano sui sistemi
elastici), lo furono anche per gli strumenti che sollecitarono, come ad esempio la carta
topografica, per la cui realizzazione, che richiedeva lavori sistematici e regolari di inquadramento geometrico e di rilevamento cartografico, si giunse nel 1872 alla nascita
dell’Istituto topografico militare con sede a Firenze, dal 1882 denominato Istituto geografico militare (Igm).
Motivi di riflessione collettiva furono offerti dalla guerra del 1866 contro l’Austria,
che mise in evidenza le insufficienze ereditate e le presenti. La classe dirigente unitaria si
interrogò sulle ragioni della deludente prova militare del neonato Stato italiano, e si convinse ancor più della necessità dei cambiamenti appena avviati. Intervenendo nel dibattito col saggio Di chi la colpa? Pasquale Villari richiamò l’attenzione anche sugli aspetti
tecnici e operativi. Alle masse combattenti – scriveva – gli ordini oggi «si danno col telegrafo e si eseguono colle strade ferrate, il piano di battaglia è diventato un lavoro di scienza, e la direzione di queste grandi masse richiede […] grande impegno e grande coltura in
tutti coloro che comandano». L’approvvigionamento, a sua volta, esige «una grande capacità amministrativa, e i mezzi d’offesa e di difesa sono divenuti così complicati, che tutte
le operazioni militari suppongono nell’esercito e nella flotta una grandissima forza industriale». Occorrevano quindi – concludeva Villari – un apparato organizzativo e una base
produttiva comparabili con quelli degli altri maggiori Stati europei. un paese costretto a
«chiedere allo straniero rotaie, cannoni, fucili, navi e qualche volta anche macchinisti delle navi», non poteva dirsi neppure indipendente, sosteneva l’intellettuale napoletano (Villari 1995, pp. 147-149).
A sua volta Colombo, sottolineando il rapporto fra statualità nazionale moderna e
strutture industriali avanzate, affermava:
Qualunque opinione si porti nelle questioni di libero scambio o di protezionismo, non bisogna dimenticare che ci sono talune industrie che son necessarie allo Stato, che fanno parte
in certa guisa del suo stesso organismo; non bisogna dimenticare che le grandi officine meccaniche e ferroviarie sono altrettanti arsenali in tempo di guerra, e al pari dei grandi cantieri di costruzioni marittime concorrono a formare l’armamento della nazione. Quando il paese fosse chiuso da tutte le parti, deve trovare in sé stesso i mezzi per rifornire le sue ferrovie,
il suo materiale da guerra e riparare la sua marina (Colombo 1985, p. 255).
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Già nel 1862 il tecnologo milanese aveva posto il raggiungimento stabile degli obiettivi
risorgimentali in diretto rapporto con lo sviluppo delle capacità industriali. «La prosperità industriale di un popolo – aveva affermato – è al pari della libertà, che la sviluppa e la
feconda, uno dei primi elementi della sua indipendenza» e della sua stessa coesione nazionale. Ma per realizzarla occorrono lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e la loro diffusione «fra i fabbricanti e gli operaj» (ivi, pp. 154, 160).
Il rinnovamento
Da tutti i punti di vista, quindi, lo sviluppo tecnico-scientifico appariva necessario insieme a ciò che doveva renderlo possibile: lo spostamento del baricentro culturale dai saperi tradizionali verso quelli nuovi, mediante un’ampia trasformazione del sistema formativo esistente. una trasformazione che, come già osservato, fu sì subito avviata con la
creazione delle nuove strutture formative e di ricerca, ma che di fatto si realizzò più lentamente di quanto, nell’entusiasmo iniziale, molti avevano pensato e sperato. Ciò per diverse ragioni, su cui dovremo tornare più oltre, che andavano dalle «imperiose strettezze
finanziarie» del nuovo Stato, gravato dopo l’unità da un deficit di bilancio assai pesante,
alle resistenze delle forze legate ai vecchi assetti culturali e sociali, dalle incertezze derivanti dalla novità stessa dei problemi agli antagonismi interni al mondo accademico e ai
conflitti di competenze fra i ministeri preposti al governo delle vecchie e delle nuove istituzioni culturali e formative.
Per molti modernizzatori la nascita delle nuove scuole tecnico-scientifiche doveva essere accompagnata da una parallela riduzione numerica delle tradizionali, peraltro da modificare sia nei contenuti che nei metodi di insegnamento. E tentativi in tal senso furono
anche fatti, secondo le indicazioni di Matteucci, di Sella e di altri esponenti dei primi governi. La difesa però dell’esistente da parte di numerose ed estese consorterie, fu tale da
impedire anche la soppressione degli organismi più esangui ereditati dal passato.
Né fu possibile seguire (se non in parte) la via indicata da Cattaneo, che, sollecitato
da Matteucci, ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864, prospettò per gli studi
superiori un sistema organico di centri specializzati e saldamente ancorati alle diverse realtà del paese, in una linea di radicale rinnovamento culturale.
Il principio che abbisogna alle facultà italiane – sostenne allora Cattaneo – è adunque ciò che
in economia si chiama divisione del lavoro; è ciò che in psicologia si chiama analisi. La sintesi sarà l’Italia. La sintesi non è la ripetizione, non è l’uniformità; ma è la più semplice espressione della massima varietà (Cattaneo 1963, pp. 207-208).
Ai contrasti emergenti si rispose con una serie di compromessi volti a conciliare e tenere
insieme i gruppi dirigenti nazionali. E ciò non mancò di riflettersi sul cambiamento, che
risultò oscillante, ora accelerato ora frenato, complessivamente inferiore ai propositi e alle aspettative iniziali. Non a caso Brioschi esclamava sin dal 1863:
Possiamo noi dire che una rivoluzione sia avvenuta in Italia in fatto di pubblico insegnamento? troviamo noi in questi anni attuato in Italia un solo di quei grandi concetti, i quali [...]
accompagnano le grandi rivoluzioni politiche, e diedero alla Francia la Scuola politecnica,
la Scuola normale, l’Istituto nazionale, e furono in Germania la principal causa del movimento scientifico delle sue università? (Brioschi 2003, pp. 48-49).
Per anni si proseguì sì in direzione del rinnovamento, ma senza un piano definito. La stessa legge Casati, che era vaga su tanti aspetti, convisse a lungo con i vecchi ordinamenti, e
sull’azione dei governi influirono negativamente i contrasti fra il ministero dell’Istruzione e quello di Agricoltura, industria e commercio, orientati spesso in direzioni diverse.
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La cultura scientifica
La classe dirigente, inoltre, per il suo carattere composito aveva al suo interno diversità
di visioni e di interessi e gran parte delle famiglie che mandavano i figli a scuola restava
legata ai modelli culturali e sociali del passato, rafforzati dalla sovrabbondanza di strutture formative tradizionali.
E tuttavia va riconosciuto che il rinnovamento continuò ad affermarsi per l’intero periodo della Destra e oltre, grazie al progressivo radicamento delle nuove istituzioni, al
cambiamento dei vecchi organismi, al nuovo modo dei docenti sperimentatori di fare scienza e di insegnarla.
Emblematica la trasformazione dell’ateneo napoletano, voluta da Francesco De Sanctis e realizzata con la sostituzione di 34 professori, e la creazione o l’ampliamento di istituti, gabinetti e musei nei settori più diversi, dall’anatomia alla fisiologia comparata, dalla
fisica alla chimica, dalla geologia alla farmacologia. Fra gli uomini di scienza costretti a lasciare Napoli c’era anche Salvatore tommasi che, staccatosi dall’«hegelianismo» iniziale,
dopo l’esperienza pavese e la lettura della Patologia cellulare di Rudolf Virchow, propugnò
quell’indirizzo positivo e sperimentale, da lui considerato ormai superiore non solo in ambito medico, ma in ogni attività conoscitiva e pratica. «L’avvenire del mondo – scriveva nel
1865 – è la scienza» e c’è da sperare «che trionfi da per tutto: nella vita pubblica e nella privata, nell’officina del fabbro come sul letto dell’infermo!» (Tommasi 1883, p. 202).
Inquadrando storicamente il cambiamento avvenuto, tommasi affermava che il nuovo indirizzo della medicina era nato «poco per volta in questi ultimi trent’anni», per opera di medici che, stanchi dei sistemi e delle fantasmagorie, avevano ricominciato a studiare l’anatomia alla luce della fisiologia e in modo sperimentale. «Oggi – aggiungeva nella
celebre prolusione del 1866 Il naturalismo moderno – ci vivifichiamo ogni giorno alla sorgente purissima della realtà studiata con l’osservazione e l’esperienza; e il presente movimento delle scuole e de’ gabinetti, trae origine appunto dai diversi orizzonti scientifici,
che si affacciano e succedonsi a brevi intervalli» (Tommasi 1913, p. 108).
Sostenitori dei nuovi metodi di ricerca fisiologica furono pure Arnaldo Cantani, direttore della seconda clinica medica napoletana dal 1868 e Giuseppe Albini, che nella prolusione Il positivismo nella medicina ribadì la necessità di abbandonare le astratte speculazioni, per sviluppare l’osservazione clinica e sperimentale nell’analisi dei processi morbosi.
Milanese di origine e partecipe delle vicende risorgimentali (combatté nelle Cinque giornate e nella successiva battaglia di Novara) Albini si formò, come quasi tutti i nuovi docenti, in Europa, lavorando con Ernst Wilhelm von Brücke a Vienna e con Émil Du BoisReymond a Berlino, quindi insegnò fisiologia all’università di Cracovia fino al 1859, quando
rientrò in Italia a seguito della mutata situazione italiana. Chiamato a Napoli nel 1861 divenne direttore dell’Istituto di fisiologia nel quale organizzò un moderno laboratorio finalizzato a un ampio programma di ricerche riguardante il diabete e le malattie infettive.
ugualmente incisivo fu il rinnovamento degli altri settori scientifici napoletani. Se
Luigi Palmieri, professore di Fisica terrestre, sviluppò presso l’Osservatorio vesuviano
un’intensa attività con il suo sismografo elettromagnetico che gli procurò numerosi riconoscimenti internazionali, il chimico De Luca (allievo di Piria come sappiamo) portò a
Napoli i moduli appresi dopo il 1848 a Parigi con Dominique-François Arago, AntoineJérôme Balard, théophile-Jules Pelouze e Dumas, e applicati a Pisa, dove, oltre che insegnare, aveva coordinato la redazione del «Nuovo Cimento». Rientrato a Napoli continuò dal 1862 a svolgere accanto all’attività di docente quella di organizzatore culturale,
animando l’Associazione delle conferenze chimiche e pubblicando «L’Incoraggiamento».
Anche per Palermo il dopo-unità fu l’inizio di un cambio di fase per l’arrivo di nuovi ordinamenti, nuovi docenti e nuove attrezzature. Il friulano Pietro Blaserna, giunto in
Sicilia dopo che si era formato a Vienna e perfezionato a Parigi sotto la direzione di Henri-Victor Regnault, provvide a organizzare su nuove basi l’insegnamento e il laboratorio
di Fisica, nel quale poté completare i lavori poi apparsi sotto il titolo Sullo sviluppo e la
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Cultura e società
durata delle correnti di induzione e delle extracorrenti e Sulla polarizzazione della corona
solare. Il toscano Corrado tommasi-Crudeli, a sua volta, portò con sé le idee maturate a
Parigi presso la scuola del fisiologo Claude Bernard e del neurologo Guillaume-Benjamin
Duchènne, nonché a Berlino accanto al patologo Virchow, ma anche un forte impegno civile. E mentre in ambito medico sostenne la correlazione tra l’istopatologia e i reperti macroscopici, non esitò a entrare nella Guardia nazionale di fronte alla rivolta palermitana
del 1866, durante la quale, così come durante il colera scoppiato subito dopo a Palermo,
si espresse pubblicamente sui problemi dell’isola e del nuovo Stato unitario.
Con Cannizzaro, poi, Palermo riacquistò uno dei suoi figli migliori, emigrato per ragioni politiche e giunto alla ribalta mondiale nel 1860 grazie al riconoscimento del primo
Congresso internazionale di chimica, a Karlsruhe, della teoria atomica e molecolare basata sul principio di Avogadro e della regola, detta legge degli atomi, che rendeva possibile la classificazione periodica degli elementi.
Non diversamente da altri scienziati del periodo, Cannizzaro intese esplicitare i cardini del suo magistero. Nell’Orazione inaugurale per l’apertura degli studi dell’anno scolastico
1864 richiamò la linea del pensiero moderno che aveva dimostrato, contro «il principio dell’autorità», l’efficacia del «metodo induttivo coadjuvato dalla deduzione matematica» e che,
in quanto finalmente autonoma dalla teologia, aveva ampliato «il campo della libertà intellettuale». Il metodo scientifico che ormai guida la mente al libero esame delle cose naturali e umane – affermava Cannizzaro – consente di scoprire sempre meglio «il nesso fra tutti
i fenomeni fisici e morali dell’universo» e di realizzare l’integrazione e il reciproco aiuto fra
le varie scienze. Di qui anche la tendenza, sempre più presente nei corpi legislativi e nei
governi, «ad incoraggiare e promuovere egualmente gli studi diversi» e a considerare «la
coltura e lo accrescimento di tutte le scienze come uno dei pubblici doveri da esser soddisfatto, immediatamente dopo quello della difesa nazionale» (Cannizzaro 1995, pp. 22, 34).
Famoso ormai a livello internazionale, Cannizzaro attrasse a Palermo studiosi italiani e stranieri, fra cui l’austriaco Adolf Lieben, il francese Alfred-Joseph Naquet e il tedesco Wilhelm Körner. Proprio a Palermo Körner pubblicò sul «Giornale di scienze naturali ed economiche» il suo contributo maggiore alla fondazione della chimica dei derivati
aromatici. Chiamato poco dopo a Milano, insegnò dal 1870 nella Scuola superiore di agricoltura e dal 1875 anche al Politecnico, contribuendo a formare agronomi, ingegneri, ricercatori e docenti, come il lombardo Angelo Contardi o l’emiliano Angelo Menozzi.
All’inizio degli anni Settanta, Cannizzaro, Blaserna e tommasi-Crudeli passarono a
Roma per contribuire alla costruzione del volto scientifico della nuova e definitiva capitale d’Italia. Subito dopo la breccia di Porta Pia Francesco Brioschi era stato incaricato di
esaminare la situazione degli studi in vista degli interventi riformatori. E il rapporto del
matematico-ingegnere non mancò di evidenziare le maggiori carenze indicate nella diffusa insufficienza delle attrezzature sperimentali e nella generale considerazione delle scienze, che erano insegnate a ogni livello in modo parziale, circoscritto, strumentale, «non come cosa che avesse un valore per sé e potesse dar lume a scientifiche conseguenze e aiuto
al progresso degli studi in generale». Insomma, concludeva Brioschi, «queste scienze, tanto importanti per tutto lo scibile umano, vi erano impartite a spizzico e con tale parsimonia che appare il sospetto col quale si guardavano» (Brioschi 2003, p. 112).
Nella trasformazione di Roma in un centro di alta e libera cultura scientifica doveva
culminare per il ceto dirigente risorgimentale la già avviata «rigenerazione» scientifica italiana. A theodor Mommsen che chiedeva cosa intendessero fare i governanti italiani in
una città così ricca di storia («a Roma non si stà senza avere dei propositi cosmopoliti», diceva), Sella rispondeva risoluto: «Sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo
a Roma: quello della scienza» (Sella 1887, p. 292). Il che voleva dire innanzi tutto introdurre nell’università di Roma «la grande scuola italiana, la scuola galileiana, la scuola degli esperimenti» e quindi realizzare pienamente la libertà di pensiero e di ricerca.
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È importantissimo – affermava Sella in Parlamento – che vi sia qui la discussione delle idee
moderne, anche le più ardite, che avvenga qui il cozzo di teorie, delle opinioni scientifiche,
onde da questo urto emerga la luce. E niuno vorrà negare, io credo, che siano appunto le
scienze sperimentali quelle che danno luogo a criteri scientifici, che meglio giova sviluppare in Roma (ivi, 229).
La riforma degli studi romani passò attraverso l’istituzione del corso di filosofia, la soppressione della facoltà di teologia, la creazione della nuova facoltà fisico-matematica, dal
1874 chiamata facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali, l’attivazione di nuovi insegnamenti e l’inserimento di personalità di spicco. Nel settore dell’ingegneria si passò
dall’esistente Scuola pontificia alla nuova Scuola di applicazione, affidandone la direzione a uno scienziato di valore come Luigi Cremona, già vanto dell’università di Bologna.
un altro matematico eminente, Eugenio Beltrami, formatosi come Cremona alla scuola
pavese di Brioschi, fu chiamato a Roma per insegnare meccanica razionale e analisi superiore e qui sviluppò le ricerche già iniziate a Bologna sulla cinematica dei fluidi e sulla teoria del potenziale, della propagazione del calore, dell’elettricità e del magnetismo.
Per fare di Roma un polo avanzato di ricerche si puntò, ovviamente, alla creazione di
nuove strutture sperimentali e in particolare di tre grandi laboratori, dove, per usare le parole di Giovanni Cantoni, docente di fisica a Pavia e membro del Parlamento nazionale come tanti altri scienziati di quel periodo, «il professore, più che un insegnante cattedratico,
è il direttore di una officina», e «dove ciascuno studente ha i suoi materiali per eseguire esperienze ed osservazioni» (Atti Parlamentari, Camera, sessione del 1871-72, pp. 3014).
Nel laboratorio di chimica, sorto nell’area scientifica di via Panisperna, Cannizzaro
poté dare vita a un centro di eccellenza, a cui si legarono studiosi di ogni parte d’Italia: il
senese Raffaello Nasini, il triestino Giacomo Ciamician, il palermitano Emanuele Paternò, l’alessandrino Gerolamo Vittorio Villavecchia, e altri ancora che divennero protagonisti della ricerca chimica italiana di fine Ottocento e contribuirono allo sviluppo degli
studi lavorando in diversi atenei della penisola (Di Meo 2003).
Blaserna a sua volta poté fondare l’Istituto fisico e organizzare insieme a Filippo Keller (fino al 1870 non inserito nell’organico della «Sapienza» perché protestante) la Scuola
pratica di fisica, destinata a emergere nel panorama italiano, come l’altro centro di ricerche sorto presso il nosocomio di Santo Spirito in Sassia, dove tommasi-Crudeli organizzò l’istituto di anatomia patologica, inizialmente denominato istituto fisiopatologico. In
campo medico-biologico si segnalarono Ettore Marchiafava e Angelo Celli con le loro ricerche sulla malaria e i notevoli contributi che diedero dopo Alphonse Laveran e prima
di Camillo Golgi e di Giovanni Battista Grassi.
A completamento della ristrutturazione universitaria e del riordinamento degli studi superiori si passò anche a fare dell’Accademia dei Lincei la massima istituzione culturale italiana, affidandone la presidenza prima a Sella, poi a Francesco Brioschi, che della
rigenerazione scientifica postunitaria erano stati propugnatori e protagonisti.
Le difficoltà del primo periodo
Dai riferimenti fin qui fatti a titolo esemplificativo, è abbastanza evidente che gli anni dell’unificazione furono di vera svolta per le attività scientifiche perché cambiò il ruolo degli scienziati, cambiò la prospettiva del loro lavoro, cambiarono gli intenti, il metodo, le
condizioni e il modo stesso di fare scienza, secondo i parametri più avanzati e le grandi
priorità del paese. Abbiamo però avuto anche occasione di osservare che, se il rinnovamento fu perseguito su tutto il territorio nazionale, la sua realizzazione fu nondimeno laboriosa e diseguale per numerose ragioni che andavano dalla pesante eredità del passato
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alle difficoltà finanziarie del nuovo Stato, dallo sviluppo limitato delle forze produttive
agli orientamenti culturali dei ceti istruiti e ai contrasti interni alla stessa classe dirigente
(Maiocchi 1980).
Si è già accennato alla carta geologica d’Italia e alle difficoltà che subito incontrò la sua
attuazione. Significativo è anche il ridimensionamento del primo progetto di Museo industriale italiano a torino e ancor più il complicato intreccio di Museo, scuola di applicazione e università nello stesso percorso formativo degli ingegneri torinesi. Non meno eloquenti sono le vicende del Politecnico di Milano (inizialmente Istituto tecnico superiore) che
pure ebbe modo di emergere nel panorama nazionale. Come si è già accennato, per ragioni finanziarie, ma anche per influenza delle facoltà universitarie, la formazione dei nuovi
ingegneri italiani fu affidata sia alle scuole di applicazione (di due o di tre anni: quella milanese era di tre), sia alle facoltà scientifiche, che per l’indirizzo dei loro studi prevedevano un biennio preparatorio non pienamente rispondente al profilo culturale e professionale degli ingegneri. Rifacendosi ai politecnici d’Oltralpe, pienamente autonomi dalle università
e articolati in sezioni specializzate, l’istituzione milanese puntò alla realizzazione di un percorso formativo articolato al proprio interno (con una distinzione finale fra ingegneria civile e ingegneria industriale, una scuola per architetti civili e un corso, attivo solo nel primo periodo, per la preparazione degli insegnanti secondari di materie tecniche) e insieme
dotato del biennio propedeutico interno. Per la resistenza nell’Ateneo pavese e del mondo
universitario in genere, questo secondo obiettivo però non poté essere raggiunto che nel
1875 (primo e unico caso per molto tempo in Italia) grazie al contributo determinante degli enti locali. «Da ogni parte – affermava Brioschi – sentivo intorno a me che una tradizione per quanto nobile mi impediva il passo, [ed] ero pur costretto per non dubitare di me
stesso di ricorrere agli esempi stranieri» (Brioschi 2003, p. 330).
All’esiguità dei finanziamenti, che ostacolava la rapida creazione di strutture tecnologiche avanzate, il Politecnico reagì anche coordinandosi con le altre istituzioni scientifiche milanesi e intensificando i rapporti con la società civile, che nel Politecnico trovò il
perno di una strategia industrialista di largo respiro. Da un lato, infatti, diversi docenti
intervennero nella fondazione di nuove imprese: si pensi alla Filotecnica, industria meccanica di precisione e di strumenti ottici creata nel 1865 da Ignazio Porro titolare di celerimensura, poi affidata ad Angelo Salmoiraghi uno dei primi laureati del Politecnico, oppure alla Pirelli e C. per la lavorazione della guttaperca, avviata nel 1872 con la partecipazione
di Brioschi e di Colombo. Dall’altro lato le forze imprenditoriali emergenti si strinsero
attorno all’istituzione politecnica. Così l’imprenditore tessile Eugenio Cantoni finanziò
nel 1871 un corso di economia industriale volto a integrare la formazione dei nuovi ingegneri, dando un esempio che fu replicato in grande da Carlo Erba, con la donazione a metà degli anni Ottanta di un ampio capitale finalizzato a incrementare gli studi elettrotecnici e a fare di Milano un centro avanzato di ricerca.
Ben più difficile fu la vita dell’Istituto di studi superiori e di perfezionamento di Firenze, una delle istituzioni postunitarie. Concepito inizialmente come istituto postuniversitario sia per le scienze umane che per quelle naturali, esso avrebbe dovuto articolarsi in quattro sezioni. Ma mentre la sezione giuridica cadeva presto del tutto e quella di filosofia e
filologia restava molto debole, priva di sede e di studenti regolarmente iscritti (era seguita
però da un consistente numero di uditori), la sezione di Scienze naturali trovava sede sino
al 1875 presso il Museo di fisica e di storia naturale e quella di medicina e chirurgia, presso
lo Spedale di Santa Maria Nuova, dove già c’erano le cliniche generali e quelle speciali. Per
evitare l’estinzione dell’intero Istituto furono previste borse di studio e fu data l’autorizzazione a conferire l’abilitazione all’insegnamento e soprattutto si procedette alla progressiva
equiparazione alle facoltà universitarie. In discussione era il fine stesso dell’istituzione: se
avesse dovuto puntare al culto della scienza per la scienza, o anche a una cultura finalizzata
alle esigenze pratico-applicative. una questione che si ripresentò più volte dopo l’unità
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nelle strutture formative chiamate in modi diversi a coniugare la duplice esigenza di incrementare il sapere con la ricerca «libera» e fornire, mediante corsi orientati a specifici obiettivi, conoscenze e competenze richieste dalla modernizzazione e dallo sviluppo economico.
A condizionare ogni scelta, in una prima fase, stava soprattutto l’arretratezza complessiva del paese, rispetto alla quale l’insieme delle istituzioni culturali risultò per molti
versi sovradimensionato e pletorico. Gli esiti della specializzazione, inizialmente perseguita, sono al riguardo più che eloquenti. Le nove sezioni, create negli istituti tecnici secondari col proposito di favorire i diversi settori produttivi, risultarono alla prova dei fatti in gran parte prive di allievi. Si dovette perciò riorganizzare l’iter formativo lasciando
solo quattro sezioni: la fisico-matematica, l’industriale, l’agronomica (poi sdoppiatasi in
agronomia e agrimensura) e la commerciale. La formazione degli ingegneri rimase a lungo «generalista» in tutte le scuole di applicazione, e lo stesso Politecnico di Milano, che sin
dall’inizio cercò la differenziazione in sezioni, la realizzò progressivamente e solo nella
parte finale del percorso, seguendo per un verso il progresso tecnico-scientifico e per l’altro l’evoluzione del tessuto produttivo nazionale.
Di fronte alla debolezza istituzionale di tante scuole e alla disparità di livello rispetto a quelle d’Oltralpe, non mancò chi, riprendendo la linea indicata più di dieci anni prima da Matteucci, propose a metà degli anni Settanta una drastica riduzione di numero.
Con riferimento agli studi politecnici in particolare, Dino Padelletti sostenne che le risorse disponibili dovessero concentrarsi sulle tre principali scuole di applicazione (Milano,
torino e Napoli) per poterle portare ai massimi livelli (Padelletti 1874, pp. 679-680).
Parallelamente, in campo universitario, si discusse sulla necessità di contrarre il numero
degli atenei. Ma al punto in cui si era giunti per l’opposizione delle forze locali, la tesi del
taglio drastico risultava più un artificio retorico, per sollecitare i finanziamenti necessari,
che una proposta realmente praticabile. tanto più che ormai, mediante l’istituto dei consorzi, a metà degli anni Settanta fu data la possibilità agli enti locali (comuni, province,
camere di commercio) di intervenire a sostegno degli atenei. Di lì a poco, infatti, nel 187577 veniva aperta un’altra scuola di applicazione per ingegneri, quella richiesta da Bologna, nella linea del policentrismo e della «luce diffusa», anche se tenue, che si era ormai
affermata nel paese delle tante città.
A rendere definitivo il sistema nato con l’unificazione intervenne anche il miglioramento della situazione finanziaria legato alle maggiori entrate e alla congiuntura economica, di cui erano segni la nascita di nuove industrie e di nuove banche, la maggiore quantità di costruzioni e di opere pubbliche, con conseguente aumento della richiesta di personale
tecnico qualificato. Non a caso, mentre attraverso i consorzi gli enti locali cominciarono
a sostenere università e scuole politecniche, il nuovo ordinamento generale degli studi superiori varato nel 1876 aumentava a venticinque le materie obbligatorie e a tre anni l’iter
formativo degli ingegneri, rendendo in tal modo possibile un più elevato livello e una maggiore omogeneità di preparazione su tutto il territorio nazionale.
Editoria e associazionismo
Il notevole aumento delle pubblicazioni a indirizzo tecnico-scientifico registrato dalle statistiche è un’ulteriore testimonianza dei cambiamenti postunitari, essendo il maggior numero di titoli tanto in relazione con quello degli autori quanto con quello dei lettori dei
testi messi in circolazione dagli editori o dagli enti che ne promuovevano la pubblicazione. Con l’unità e la libertà politica sorsero, infatti, accanto a editori di nuovo tipo, numerosi organismi associativi impegnati a dibattere i problemi di determinate categorie professionali e la diffusione di conoscenze specifiche fra gli associati. La Società italiana di
scienze naturali nata nel 1860, l’Associazione medica italiana nel 1862, la Società italiana
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di antropologia ed etnologia nel 1870, ma anche i collegi degli ingegneri, che operavano
nelle principali città italiane (Genova e Firenze già a metà degli anni Cinquanta, Milano
nel 1865, torino nel 1866, Roma nel 1871, Napoli nel 1875, Palermo e Bologna nel 1876,
quindi via via gli altri), sono tutte espressioni di un fenomeno in crescita.
All’aumento progressivo dei lettori è legata anche la vicenda delle riviste di aree disciplinari e professionali diverse, come, per citarne alcune, «Il Morgagni» di tommasi per
le scienze mediche; gli «Annali di matematica pura e applicata» rilanciati dopo l’unità da
Brioschi e da Cremona e il «Giornale di Matematiche» di Giuseppe Battaglini per le varie scienze matematiche; «Il Politecnico» tutto dedito ai problemi degli ingegneri, dal 1869
sotto la direzione dello stesso Brioschi e del suo gruppo; e «Il Nuovo Cimento», che, specializzandosi al pari delle altre testate, si concentrò sulla fisica, seguendo l’indirizzo generale che si stava affermando ovunque. Di questo stesso orientamento erano espressione il «Nuovo Giornale Botanico Italiano», le «Memorie della Società Italiana di Scienze
Naturali», e la «Gazzetta chimica italiana», la cui origine merita un cenno perché mostra
chiaramente, accanto alla volontà di associarsi per meglio incidere collettivamente, le difficoltà che ostacolavano le iniziative dei gruppi più avanzati.
Promotore della riunione che a Firenze varò nel 1870 il progetto della «Gazzetta chimica», fu il giovane Luigi Gabba, garibaldino nel 1866 e frequentatore del laboratorio della Società d’incoraggiamento di Milano. Nelle intenzioni dei partecipanti, la riunione
avrebbe dovuto fondare anche la Società chimica italiana. Ma il numero ridotto dei convenuti consigliò di dar vita solo al nuovo foglio scientifico, che sotto la gestione di Cannizzaro e il coordinamento redazionale di Paternò divenne presto la più autorevole rivista della disciplina.
Nel campo della comunicazione scientifica un ruolo di primo piano fu svolto anche
dall’editoria imprenditoriale, che cercò di utilizzare sia l’unificazione del mercato che
l’evoluzione tecnologica per diffondere la produzione italiana ed estera. Dal 1865 in poi
l’«Annuario scientifico-industriale italiano» di Emilio treves fornì agli interessati un’agile rassegna di ciò che di rilevante e di innovativo andava verificandosi nei settori più diversi. La fortunata iniziativa rafforzò il successo della «Biblioteca utile», della quale faceva parte l’«Annuario» e nella quale comparvero libri come le Conversazioni scientifiche di
Michele Lessona, le Escursioni nel Cielo di Paolo Lioy, Il Regno Animale di Filippo De
Filippi, l’autore della celebre conferenza su «l’uomo e le scimmie» del 1864, che tanto contribuì a far discutere in Italia di Darwin e di evoluzionismo. Sempre treves lanciò un’altra collana di successo, «La Scienza del Popolo», nei cui testi (oltre cento in pochi anni) la
divulgazione scientifica si intrecciò sovente con la diffusione dell’etica borghese, attiva,
razionale, laica, e con i cardini del positivismo pedagogico.
A inaugurare la nuova collana fu la conferenza su La Pila di Volta, tenuta da Carlo
Matteucci al Museo di fisica e storia naturale di Firenze nel 1867, nella quale l’approccio
sperimentale era indicato come il più valido in ogni ambito. Capace di nutrire l’educazione intellettuale e insieme l’educazione morale, il metodo sperimentale – affermava Matteucci – è «scuola perenne di sincerità, di pazienza, di precisione, di amore alla verità»; indispensabile in campo naturale, aggiungeva, esso è scuola di ricerca anche per le verità
«sociali e morali» (Matteucci 1868, p. 7).
In sintonia con i nuovi indirizzi positivi fu anche l’editore Hoepli che, giunto in Italia nel 1870, già nel 1872 firmava la «Guida per le Arti e i Mestieri», quindi le «Pubblicazioni dell’Osservatorio di Brera», e nel 1874, con i Principi fondamentali di una teoria generale delle macchine di Franz Reuleaux, nella traduzione di Colombo, inaugurava la
«Biblioteca tecnica» per i cultori di scienze applicate. L’anno successivo lanciava la più popolare collana di «Manuali», destinata a una diffusione straordinaria. Il solo Manuale dell’ingegnere civile e industriale di Colombo (1877), vademecum dei nuovi ingegneri, in poco più di vent’anni ebbe 14 edizioni con una tiratura complessiva di 30.000 copie.
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Con la «Biblioteca Scientifica Internazionale» dei fratelli Dumolard, inoltre, Milano
divenne la sede italiana della «International Scientific Series», nata per incrementare il «libero scambio intellettuale fra paese e paese» mediante la circolazione dei progressi scientifici. Dalla metà degli anni Settanta, accanto a numerosi libri di autori stranieri, la collana fece circolare quelli di autori italiani: La teoria dei suoni di Blaserna, Le stelle di Angelo
Secchi, La meteorologia endogena di Michele Stefano De Rossi, La legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale di tito Vignoli, cui seguirono altri volumi di Enrico Morselli, Giovanni Canestrini, Lombroso e Stoppani.
Anche torino occupò un posto di rilievo nel panorama postunitario. Non più capitale del regno, ma sempre più decisa a emergere in campo scientifico-tecnico ed economico, torino divenne il secondo polo della produzione libraria, trovando in Pomba (poi
utet) un protagonista impegnato a far conoscere la produzione straniera, fra cui le opere
di Darwin, e a costruire grandi repertori scientifico-tecnici: inizialmente l’Enciclopedia di
chimica scientifica e industriale, realizzata in undici volumi dal 1868 al 1878 sotto la direzione di Francesco Selmi; poi l’Enciclopedia delle arti e delle industrie a cura di Raffaele
Pareto e di Giovanni Girolamo Sacheri; quindi l’Enciclopedia agraria italiana diretta da
Gaetano Cantoni, autore del Trattato completo teorico-pratico di agricoltura. Fautore dell’agricoltura scientifica, razionale e ad alta redditività, Cantoni si rivolse sin dall’inizio ai
ceti borghesi in grado di acquisire i risultati innovativi degli studi e delle sperimentazioni e quindi di applicarli direttamente nella conduzione delle aziende agricole, nonché di
trasmetterli a chi lavorava la terra.
Quello della divulgazione comunque restò un impegno comune a molti uomini di scienza che consideravano l’informazione scientifica un fattore di progresso civile e di amalgamazione nazionale. uno dei più fortunati tentativi di «fare gli Italiani» mediante la diffusione delle conoscenze scientifiche, fu Il bel Paese di Stoppani apparso a Milano nel 1875 e
ripetutamente ristampato, per lo più in forma ridotta per le scuole. Di sentimenti risorgimentali (aveva partecipato da seminarista alle Cinque giornate di Milano) e di idee filo-rosminiane, il geologo e abate lombardo riteneva che l’identità culturale e la coscienza unitaria degli italiani dovessero passare anche attraverso la conoscenza del territorio nazionale,
delle sue caratteristiche geomorfologiche, delle risorse e delle bellezze che dovevano essere
bene utilizzate. Era altresì convinto della conciliabilità di ragione e fede, di sapere scientifico e tradizione religiosa, di analisi della realtà e concezione spiritualistica e provvidenzialistica della vita, sempre più in conflitto con tanta parte della cultura di fine Ottocento.
Non solo il metodo scientifico era praticato in ogni campo, ma lo sviluppo straordinario delle scienze, la crescita autonoma di tante discipline, la comprovata importanza dei
fenomeni fisico-chimici nella materia vivente, la formulazione di teorie nuove, come la
darwiniana, stavano modificando profondamente la tradizionale raffigurazione dell’uomo
e della natura, e quindi anche i rapporti tra le risultanze scientifiche e le credenze religiose, che continuavano però a porsi come dogmi o verità assolute in quanto rivelate (Redondi 1980; Landucci 1987).
Di qui l’asprezza degli scontri postunitari, le cui questioni di fondo (l’autonomia della ricerca e la libertà di pensiero, la laicità del nuovo Stato, il rifiuto di ogni interferenza
diretta delle autorità ecclesiastiche nella sfera politica e civile, la capacità da parte del razionalismo scientifico di conquistare il popolo), si intrecciarono e si combinarono in forme e gradi diversi, allora e in seguito.
L’unificazione politica, colpita dalla condanna papale, fu per molti versi un detonatore delle controversie di fine Ottocento. Molto eloquenti sono le parole usate dal chimico Lieben nella lettera a Cannizzaro in cui si congratulava per il trasferimento della capitale a Roma e per la riforma dell’Ateneo romano: «Sta bene che nella capitale e rimpetto
il papa si trovino riuniti gli scienziati più illustri d’Italia e che brucino colla torcia d’Ercole le teste sempre crescenti dell’idra reazionaria e religiosa» (Cannizzaro 1994, p. 278).
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Ma ciò che qui va specialmente segnalato è il dibattito che si sviluppò oltre che sulla
natura antidogmatica della scienza, sul rapporto tra dati empirici e teoria, sulla distinzione tra la ricerca rigorosa e le affermazioni aprioristiche o le enunciazioni generali non sufficientemente suffragate da prove e verifiche. Accanto allo scontro tra i fautori del «naturalismo moderno», che con Jacob Moleschott o Aleksandr Ivanovič Herzen o Moritz Schiff,
sostenevano una concezione materialista della realtà vivente, e gli spiritualisti come Raffaello Lambruschini che contrapponevano il «santuario della coscienza» quale gabinetto
«di più alta fisica, di più alta chimica e di più alta fisiologia» (Rogari 1991, pp. 117-118),
non tardò a emergere anche quello fra i positivisti che praticavano il «metodo sperimentale» in modo disinvolto su tante questioni, e gli scienziati più rigorosi, che, come Golgi,
contrapponevano la distinzione fra le «ipotesi» legittime, perché fondate su un’adeguata
messe di osservazioni, e quelle prive di solide basi sperimentali (Cimino 1975).
Consolidamento ed esiti
Nonostante la descritta debolezza delle istituzioni nate con l’unità, il sistema di scuole
tecnico-scientifiche continuò nel corso degli anni Settanta a consolidarsi sia pure in modo diseguale nelle diverse aree del paese, e ad arricchirsi anche di nuove strutture formative e di ricerca. tra queste ultime una menzione particolare va dedicata alla Stazione zoologica di Napoli per il carattere e la rilevanza che assunse sin dall’inizio. Voluta e realizzata
dal biologo tedesco Anton Dohrn per lo studio della vita del mare, la Stazione sorse nei
primi anni Settanta col sostegno del municipio di Napoli, del governo italiano e di quello tedesco e funzionò come «un istituto estra-territoriale e internazionale» (Dohrn 1897,
p. 15). Scienziati di vari paesi confluirono a Napoli per le loro ricerche e vari aiuti materiali e morali giunsero a sostegno della nuova struttura (anche Darwin «fu più volte largo
di doni»), al cui regolare mantenimento giovarono però soprattutto i finanziamenti assicurati dall’affitto dei tavoli di ricerca a istituzioni pubbliche e a privati.
Intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della svolta unitaria. Le schiere di allievi che si erano formate nelle nuove scuole di ingegneria, nelle cliniche rinnovate, nelle facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, nei laboratori di nuova concezione e sotto
la guida di docenti collegati con gli ambienti scientifici europei più avanzati, entravano in
azione sviluppando la loro attività nei campi più diversi della ricerca e dell’insegnamento,
delle professioni e della produzione. Dei primi 161 laureati della sezione industriale del
Politecnico di Milano, annotava Colombo nel 1881, gran parte operava nelle industrie o
nel campo ferroviario, mentre 34 erano registrati come direttori, gerenti o fondatori di stabilimenti importanti e si erano distinti, insieme ad altri ex allievi delle scuole politecniche,
nell’Esposizione industriale tenutasi a Milano nel 1881. Il progresso «incontestabile», che
si era potuto registrare a vent’anni dall’unificazione e dalla prima Esposizione di Firenze,
era dovuto, a suo giudizio, alla presenza attiva dei tecnici-imprenditori (da Giovanni Battista Pirelli ad Angelo Salmoiraghi, da Bartolomeo Cabella a Giulio Prinetti, da Ercole Porro a Ernesto Galimberti, da Alberto Riva a Egidio e Pio Gavazzi, da Pio Borghi ad Aristide Rubini e altri protagonisti della nascente industria italiana) capaci di comprendere le
innovazioni tecnologiche e di applicarle nei vari comparti produttivi nazionali. Proprio in
ciò sta «la più sicura garanzia che il progresso è solido, è stabile», concludeva Colombo,
avendo ben presente che poco prima dell’unità, all’inizio del suo percorso di ingegnere industriale, aveva dovuto imparare tutto da solo (Colombo 1985, pp. 256-257).
Brioschi, per parte sua, nel 25° di fondazione dell’Istituto milanese, riferiva compiaciuto che su 1.339 ingegneri censiti, e ormai sparsi in molte province italiane, 123 operavano nelle strutture tecniche dello Stato e nelle istituzioni formative, 67 negli uffici tecnici degli enti locali, 137 nelle società ferroviarie, 154 in società industriali, 60 in imprese
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private di lavori pubblici, 21 in società di assicurazione e in aziende rurali, 208 nella libera professione, 38 attendevano ai propri interessi o alla vita pubblica. Alla fine degli anni
Ottanta, quando Brioschi illustrava questi dati, il numero complessivo degli ingegneri laureatisi presso le sette scuole di applicazione erano già più di 9.000 e costituivano un richiamo per molte famiglie della borghesia italiana che, come annotava Lessona, mandavano i loro figli alle scuole politecniche, come in passato «li destinavano in gran numero
alla chiesa» (Lessona 1884, p. 87).
La rilevanza di questi dati (a cui vanno aggiunti, ovviamente, quelli delle altre scuole speciali a carattere tecnico-scientifico ed economico, sia di grado superiore che di grado medio e inferiore, comprese le scuole professionali d’arti e mestieri e di disegno applicato per operai) risulta evidente quando si considera che proprio allora, con l’avvento
dell’industria elettrica e l’impiego di tecnologie a carattere scientifico sempre più accentuato, si stava entrando nella seconda rivoluzione industriale, e c’era quindi bisogno di un
capitale umano adeguato ai processi in atto, per potervisi inserire come paese, in modo efficace e durevolmente.
Si era appena conclusa nel 1881 l’Esposizione internazionale di Parigi dedicata all’elettricità, che Colombo dava vita a iniziative imprenditoriali e applicative di punta (prima centrale termoelettrica continentale per l’illuminazione urbana e fondazione della Società elettrica Edison a Milano), mentre Galileo Ferraris, docente di fisica tecnica al Museo
industriale di torino, dopo essere stato tra i primi suoi laureati, sviluppava le ricerche che
gli consentirono di scoprire il campo magnetico rotante e di ideare il motore elettrico a
corrente alternata.
È bensì vero, ed è stato più volte sottolineato a riprova dello scarso spirito industriale dell’Italia postunitaria, che anche Ferraris, come già Antonio Pacinotti con la sua «macchinetta elettromagnetica» all’inizio degli anni Sessanta, non trasferì sul piano produttivo e imprenditoriale l’importante acquisizione. È anche vero però che a metà degli anni
Ottanta Ferraris non era più, come Pacinotti vent’anni prima, un isolato, incompreso e
pronto a passare dalla fisica all’astronomia. Né il mancato sfruttamento in campo industriale del motore elettrico da parte sua vuol dire che egli fosse indifferente al nesso sempre più stretto fra scienza, tecnica e industria, e quindi agli aspetti tecnologici e applicativi della ricerca, che invece Ferraris coltivò con impegno sul piano che gli era proprio:
quello della ricerca, della sperimentazione e dell’organizzazione degli studi. Non a caso
fu a torino che nacque la prima Scuola superiore di elettrotecnica italiana, nella quale
sotto la guida del maestro si formarono numerosi ricercatori e docenti, da Pietro Paolo
Morra a Luigi Lombardi, da Ettore Morelli a Riccardo Arnò, destinati a operare anche
in altri atenei italiani, nonché numerosi imprenditori elettrotecnici come Ettore thovez,
Giulio Daina, Antonio tessari, Camillo Olivetti, per citarne solo alcuni (Ferraresi 1995).
ugualmente efficace fu il contributo dell’altra scuola elettrotecnica, che contemporaneamente sorse a Milano, grazie alla già ricordata donazione di Carlo Erba. Dall’istituzione elettrotecnica milanese uscirono sia tecnologi di vaglia, come Giuseppe Sartori, Alberto Dina, Giacinto Motta, Angelo Barbagelata, sia industriali elettrici di successo, come
lo stesso Motta, Carlo Clerici, Giuseppe Gadda, Ettore Conti, Guido Semenza (Regoliosi, Silvestri 1988).
Né meno rilevante fu l’apporto che nei diversi campi della ricerca diedero le schiere
di scienziati (Giulio Bizzozero, Giuseppe Veronese, Augusto Righi, Gregorio Ricci-Curbastro, Camillo Golgi, Giovanni Giorgi, Guglielmo Mengarini, Vito Volterra) che furono allevate dalle altre istituzioni formative e di ricerca postunitarie.
Insomma, se a pochi decenni dal 1861 fu possibile l’inserimento dell’Italia nel processo di modernizzazione e di sviluppo di fine Ottocento, un merito non secondario va riconosciuto alla svolta che fu compiuta negli anni dell’unificazione e alla trasformazione culturale che ne derivò ai diversi livelli della realtà nazionale, nonostante le molte resistenze
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Cultura e società
e i duri ostacoli che continuarono a condizionarla. Di ciò va preso pienamente atto in sede
sia di analisi storica che di memoria pubblica condivisa.
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Francesco Bartolini
Le città
Alla vigilia dell’unificazione il rapporto tra città e nazione si fonda su un evidente paradosso. Da una parte le città, con le loro antiche e gloriose storie, costituiscono un connotato essenziale della nazione italiana, uno dei fondamenti stessi per la legittimazione di un
legame d’appartenenza. Dall’altra, però, rappresentano anche il principale elemento di
divisione e indebolimento della nazione, lo scenario per eccellenza dell’esaltazione delle
differenze locali e della resistenza alle politiche di omogeneizzazione. È un’ambivalenza,
questa, che sembra riflettersi anche nella morfologia dello spazio nazionale: un territorio
punteggiato da numerose città di significative dimensioni che, se consente di riconoscere
l’esistenza di una trama comune nell’intera penisola, ne esalta anche l’articolazione, la
frammentazione, la suddivisione per aree raccolte intorno a centri poco o per nulla comunicanti tra loro.
Non c’è dubbio tuttavia che, al di là di questa ambiguità, ogni possibile rivendicazione di un primato italiano sia inevitabilmente legato alle città e alle loro secolari storie di
egemonia culturale, sociale, economica. Non a caso il nazionalismo italiano si nutre quasi esclusivamente di urbanesimo e non riesce a dar vita a nulla di paragonabile a una saga
rurale, fondata sull’idealizzazione del contadino-patriota, come accade in molti altri paesi europei. Né stupisce che, dalla riflessione politica e storiografica del movimento patriottico, la città non solo emerga come indiscussa protagonista della mobilitazione nazionale, luogo identitario e depositario della tradizione italiana, ma anche come un antico
modello di convivenza civile e di modernizzazione politica, destinato a essere emulato negli altri paesi. Al riguardo, è significativo che Simonde de Sismondi, uno dei più efficaci
narratori della civiltà urbana, esalti i comuni medievali sia come «parcelle» e «primi elementi» della nazione italiana sia come interpreti di «quelle virtù pubbliche di cui offrirono l’esempio all’Europa» (Simonde de Sismondi 1996, p. 7).
A questa lettura, fondata sulla vocazione politico-istituzionale della città italiana, se
ne affianca però anche un’altra, più attenta alla dimensione economico-sociale. Una tendenza, quest’ultima, che scaturisce soprattutto dal riconoscimento dell’importanza del
dominio urbano sul territorio rurale circostante. Ne costituisce un paradigma esemplare
l’analisi di Carlo Cattaneo, che individua proprio in questa egemonia il carattere costitutivo della storia nazionale. La città, «l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua», è il fattore dinamico che trasforma la campagna, la modernizza, ne costruisce un’identità culturale. «La città formò
col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d’altro popolo che prende nome d’altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente» (Cattaneo 1957, pp. 383, 386).
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PARTE QUARTA
Cultura e società
Il sistema urbano
Questo indiscusso prestigio urbano, però, fiorisce in un paese in larghissima parte rurale e che conserva, al momento dell’unificazione, ancora molte caratteristiche sociali ed
economiche proprie dell’antico regime. Non solo, infatti, in molte aree della penisola
non c’è stata una modernizzazione agricola simile a quella avvenuta nelle campagne dell’Europa nord-occidentale, ma lo stesso sistema urbano, modellato da una frammentazione politica di lungo corso, non ha ancora subìto gli effetti dell’industrializzazione, di
cui del resto è possibile cogliere solo qualche traccia in zone molto circoscritte del territorio nazionale.
A differenza dell’Inghilterra, infatti, dove l’avvento della fabbrica ha già stravolto
l’antica rete urbana, l’Italia non ha ancora registrato agli inizi degli anni Sessanta dell’Ottocento una massiccia urbanizzazione, né ha assistito a un’improvvisa espansione di piccoli centri destinati a trasformarsi in grandi metropoli industriali connesse in una rete di
scambi internazionali. Nel corso della prima metà del secolo, alcune città della penisola
hanno significativamente aumentato la loro popolazione residente (in particolare Torino
e Milano), ma non c’è stato nulla di paragonabile a quanto accaduto per esempio a Manchester o Liverpool, piccole cittadine con qualche migliaio di abitanti, trasformate nel giro di pochi decenni in grandi città con oltre mezzo milione di residenti (Hohenberg,
Lees 1992, pp. 221-227; Zucconi 2001, pp. 7-11). Lì, in Inghilterra, alla metà dell’Ottocento le trasformazioni del sistema produttivo hanno già spazzato via antiche gerarchie
urbane consolidate da secoli. Qui, in Italia, alla vigilia dell’unificazione, l’articolazione
medievale delle reti cittadine è ancora perfettamente riconoscibile e conserva una connotazione sociale ed economica in gran parte tradizionale. Nel 1861 la città italiana è soprattutto un centro politico, amministrativo, commerciale e culturale, più che un laboratorio
di innovazioni tecnologiche ed economiche.
Detto questo, però, non è irrilevante notare che l’Italia è comunque da secoli una delle aree europee con il più alto tasso di urbanizzazione. Ancora agli inizi dell’Ottocento,
con circa il 30,5% della popolazione totale che vive in centri di oltre 5.000 abitanti, è al secondo posto nella gerarchia europea, preceduta solo dai Paesi Bassi (34,5%) e ben al di sopra dell’Inghilterra (23%), della Francia (12,5%) e della Germania (10,3%). Persino alla
metà del secolo, quando gli sviluppi dell’industrializzazione hanno già proiettato l’Inghilterra in cima alla classifica (50%), la penisola riesce a conservare la seconda posizione
(41,6%), superando i Paesi Bassi (35,9%) e lasciando a notevole distanza Francia (19,5%)
e Germania (15,5%) (Bairoch 1977, p. 11, tableau 3).
Peculiare del sistema urbano italiano è anche la presenza di un numero significativo
di «grandi» città, quelle con oltre 100.000 abitanti. Sono cinque nel 1808 (al Nord Milano e Venezia, al Centro Roma, al Sud Napoli e Palermo), diventano undici nel 1861 (al
Nord si aggiungono Genova, Torino, Bologna e Trieste, al Centro Firenze, al Sud Messina). Nel corso del secolo, dunque, aumenta la concentrazione di grandi centri nelle regioni settentrionali, un fenomeno che enfatizza le differenze tra i modelli insediativi consolidatisi nelle diverse aree della penisola. Mentre infatti al Nord la quota massima della
popolazione urbana vive appunto nei grandi agglomerati, al Centro e al Sud la distribuzione è invece più omogenea, con percentuali significative di presenze nei centri di piccole e medie dimensioni (Sori 1973, p. 305). È indubbio, tuttavia, che siano ovunque le
«grandi» città a rappresentare l’idea della modernizzazione urbana e a godere in particolar modo del prestigio connesso a una tradizione secolare. Tanto più che, oltre alla forza
dei numeri, possono generalmente contare anche sullo status di capitale.
Quest’ultimo aspetto avrà profonde conseguenze anche sulla configurazione del sistema urbano nazionale all’indomani dell’unificazione. Tante città, di significative dimensioni, ricche di storia e cultura, sono costrette a spogliarsi del ruolo di capitale e a
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F. BARTOLINI
Le città
rinunciare quindi a una radicata ambizione di primato, ritrovandosi a convivere in uno
spazio diversamente delimitato, dominato da un’autorità e da un canone politico e ideologico particolarmente ostili a localismi e municipalismi. Da questo punto di vista il caso italiano appare unico, con effetti più radicali anche rispetto all’esperienza simile della Germania. Nella penisola, infatti, la fusione di nove Stati regionali in uno Stato
nazionale fortemente accentrato travolge ambizioni e sentimenti d’appartenenza che, per
secoli, avevano rappresentato i fondamenti delle rappresentazioni individuali e collettive delle comunità urbane.
L’unificazione politica, dunque, costituisce una netta cesura nello sviluppo urbano
della penisola? Non è facile dare una risposta univoca. Anche perché i tempi di molte trasformazioni sociali, economiche e culturali non corrispondono certo alla cronologia della
vita politica. Appare comunque evidente che la costituzione del Regno d’Italia segni alcuni passaggi decisivi (Gambi 1975, pp. 174-178). Innanzi tutto, come era già accaduto
nell’età napoleonica, la riorganizzazione dell’articolazione amministrativa provoca significativi ribaltamenti nelle gerarchie urbane. Centri periferici, divenuti sedi di prefetture
o di altri importanti uffici pubblici, acquisiscono una nuova centralità a scapito anche delle tradizionali sfere di influenza di «grandi» città spogliate dello status di capitale.
Poi, la costruzione di una rete nazionale di comunicazioni ridisegna i tragitti economici e culturali che attraversano la penisola, valorizzando le città destinate a svolgere una
funzione di snodo. Determinante al riguardo è ovviamente la ferrovia che, dipanandosi in
modo disomogeneo sul territorio nazionale, decreta l’ascesa o il declino di singoli centri e
di interi sistemi urbani regionali. Napoli, per esempio, priva di collegamenti efficienti verso est e sud, perde gran parte della sua forza di attrazione sulle province meridionali, mentre Bologna, trasformata in un centro di raccordo ferroviario tra Nord e Centro, rafforza
la sua posizione nella rete urbana nazionale. Ma è molto significativo anche quello che accade sulla costa adriatica, dove il passaggio dei binari e la costruzione di stazioni a livello
del mare, lontano dagli insediamenti storici disseminati sulle colline, favorisce una nuova espansione urbana destinata a prevalere su quella antica.
Infine la nascita del nuovo Stato nazionale, che ambisce a guadagnarsi una posizione
di rilievo nel consesso internazionale, favorisce un’accelerazione di quei processi di modernizzazione e monumentalizzazione delle città, già avviati nella prima metà dell’Ottocento ma ancora attardati rispetto a quanto compiuto nell’Europa più sviluppata. Ovvero, anche in Italia, la morfologia e l’identità urbana cominciano a subire gli effetti dell’avvento
dell’ideologia nazionale.
Ma, al momento dell’unificazione, come si vive nelle città? La popolazione urbana
gode di una condizione privilegiata rispetto a quella rurale? Se si osservano le zone popolari nelle città del Sud, può sorgere qualche dubbio. Colpisce, ad esempio, il degrado di
alcune aree a Palermo e Napoli. Nel capoluogo siciliano, ancora alla fine del secolo, quasi la metà delle abitazioni è costituita da pianterreni, i cosiddetti «catodi», veri e propri tuguri, senza aria e luce, disseminati tra vicoli e cortili della città vecchia. A Napoli, la città italiana di gran lunga più popolosa, nel 1863 si registrano oltre 60.000 individui che
dormono nei «bassi», spazi minuscoli e sovrappopolati, e almeno altri 30.000 nei «fondaci», cortili luridi e fatiscenti: ovvero, all’indomani dell’Unità, oltre il 10% dei napoletani
continua a vivere in condizioni disumane.
Anche in alcune grandi città settentrionali è possibile raccogliere dati allarmanti sulle condizioni abitative dei ceti popolari. A Torino, tra 1838 e 1858, il numero dei residenti cresce di quasi due terzi mentre quello delle case di poco più un terzo, provocando una
significativa impennata del tasso di affollamento. A Milano, tra gli anni Venti e Cinquanta, un’intensa attività di ristrutturazione e frazionamento degli alloggi nelle aree centrali
determina una progressiva riduzione degli spazi pro capite: non è così raro trovare famiglie costrette a vivere in un unico locale di 20-30 metri quadri, buio e mal aerato.
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PARTE QUARTA
Cultura e società
A questo desolante quadro degli standard residenziali si accompagnano naturalmente le immancabili esplosioni di epidemie infettive che, nel corso dell’Ottocento, continuano a colpire con insistenza le città italiane. Particolarmente virulento si rivela il morbo del
colera nel 1836-37, nel 1867, nel 1884. Nel corso della prima ondata, il tasso di mortalità
raggiunge a Napoli il 39‰ e a Palermo addirittura il 135‰.
Se tutto questo sembra ridimensionare i progressi della vita in città durante la prima
metà dell’Ottocento, è altrettanto vero che le trasformazioni dei centri italiani, avviate già
negli anni del dominio francese, assicurano a chi fa parte di una comunità urbana la possibilità di usufruire di opportunità e servizi pressoché inesistenti nelle campagne. Dall’assistenza alla sanità, dall’approvvigionamento idrico-alimentare alla disponibilità di lavoro, i cittadini godono spesso, anche tra gli strati più poveri, di privilegi e condizioni di vita
migliori rispetto ai contadini.
La città come spazio funzionale
Per comprendere la modernizzazione delle città italiane, accelerata dall’unificazione politica, bisogna risalire al periodo napoleonico. È vero che potrebbero essere individuate
origini ancora più lontane nel tempo, fin nel cuore dell’età moderna, ma appare evidente
che gli anni dell’egemonia francese segnino una svolta nello sviluppo del sistema urbano
nella penisola. Anche perché comincia allora a diffondersi un modo diverso di leggere la
città e di pensarne le trasformazioni.
Tra i princìpi ispiratori della nuova cultura urbana risalta quello della razionalizzazione e misurazione dello spazio. Ovvero la tenace ricerca di un’unità geometrica, di un
criterio formalizzato di analisi per una forma, quella urbana, estremamente complessa e
storicamente stratificata. La città viene scomposta e ricomposta nei suoi elementi rappresentativi e funzionali, al fine di avvicinarne la morfologia a un’ideale organizzazione razionale. È uno sforzo demiurgico, che lascia poche tracce concrete nello spazio costruito, ma
suggerisce idee progettuali e proposte d’intervento spesso riprese nei decenni seguenti.
Non è infatti difficile cogliere, tra periodo napoleonico, età della Restaurazione e primi anni postunitari, una linea di continuità nei programmi edilizi di molte città italiane.
Come se, al di là delle necessità politico-ideologiche di segnare nei paesaggi urbani i cambiamenti di regime, divenisse impossibile non tenere conto delle precedenti esperienze
compiute nella progettazione della città. A Torino, per esempio, negli anni del dominio
francese si pianifica un’espansione edilizia lungo i principali assi di ingresso alla città, disegnando un sistema di piazze che hanno la funzione di costituire i centri di futuri quartieri: un’idea in gran parte ripresa e concretizzata dopo il ritorno dei Savoia, divenendo
poi una sorta di matrice per i successivi ampliamenti della città nel corso dell’Ottocento.
A Milano, agli inizi del secolo, si progetta il Foro Bonaparte, un centro direzionale moderno a ridosso del nucleo antico, che per alcuni aspetti rappresenta una sorta di premessa ideale alla realizzazione postunitaria dell’asse Duomo-Cordusio-Castello-Sempione. A
Bari, durante il governo di Gioacchino Murat, viene posta la prima pietra della Città Nuova, un grande progetto di ampliamento destinato a prender forma alla metà dell’Ottocento. A Firenze, nel primo decennio del secolo, si delineano alcuni importanti interventi di
ristrutturazione delle aree centrali, che saranno realizzati dopo l’Unità.
Alla base di questa intensa attività progettuale è la diffusione di un nuovo metodo di
descrizione e analisi della città. Negli anni dell’egemonia francese, infatti, catasti, censimenti, inchieste divengono strumenti consueti di indagine, così che gli amministratori delle città cominciano ad avere a propria disposizione una messe di dati e notizie utili non solo per l’imposizione fiscale, ma anche per la programmazione di nuovi interventi edilizi.
Nasce allora una conoscenza formalizzata della città, che pone anche le basi per un nuovo
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Le città
sapere urbano. Non a caso, per esempio, le elaborazioni catastali avviate in età napoleonica in alcune città italiane (tra le altre, Napoli, Venezia, Torino) si rivelano strumenti utili anche per l’amministrazione postunitaria, chiamata negli anni Sessanta e Settanta a una
complessa operazione di omogeneizzazione nazionale dei criteri di rilevamento e classificazione delle proprietà immobiliari. Così come le suddivisioni interne delle città elaborate nel periodo francese (Torino è divisa in quattro zone nel 1801, Napoli in dodici nel 1812)
divengono precedenti significativi per tracciare i confini amministrativi nei decenni successivi. O anche i nuovi sistemi razionali di numerazione civica (emblematico il caso di Firenze, dove la progressione dei numeri avanza allontanandosi dal Palazzo dei Priori) vengono ripresi e modificati nel periodo postunitario, con l’identico scopo di migliorare
l’orientamento degli abitanti e il funzionamento dei servizi.
Durante l’età napoleonica questo sforzo di organizzazione della città consegue i risultati più significativi nell’avvio di un nuovo lavoro di pianificazione urbana e nella
costituzione di specifici organismi municipali incaricati di gestire e controllare l’attività edilizia. Su impulso dell’amministrazione francese, infatti, nei primi anni dell’Ottocento si cominciano a elaborare piani di intervento pubblico che hanno l’ambizione
di ridisegnare le strutture complessive delle città. Accade così, per esempio, a Milano,
Torino, Roma, Napoli, Venezia, al centro di ambiziosi programmi di trasformazione,
in gran parte irrealizzati, che segnano però tappe decisive nella costruzione di una moderna cultura urbana in Italia. In alcuni casi questi piani sono accompagnati dall’istituzione di uffici tecnici (per esempio, le Commissioni dell’Ornato a Milano e Venezia,
il Corpo reale di ponti e strade a Napoli) e dall’emanazione di nuove norme per l’edilizia. Non è dunque azzardato individuare in questi avvenimenti l’esordio di un nuovo processo di tecnicizzazione e regolamentazione delle trasformazioni urbane, destinato poi a proseguire negli anni della Restaurazione e a consolidarsi dopo la formazione
dello Stato unitario.
Cosa prevedono, in generale, questi piani? Nelle zone centrali, per lo più allargamenti e allineamenti delle strade principali di attraversamento, aperture di nuove piazze, arginamento dei fiumi nei tratti più esposti. Nelle aree marginali, invece, giardini pubblici
e nuove espansioni urbane localizzate lungo direttrici selezionate. I princìpi guida, dunque, sono il diradamento del tessuto edilizio antico e la costruzione di nuovi nuclei direzionali. All’interno di questo quadro generale, però, l’intenzione progettuale più significativa è senza dubbio l’abbattimento delle mura. Ovvero la liberazione della città dalla sua
cintura perimetrale di contenimento: un atto anche simbolico che vuole segnare la fine
dell’antico regime e l’ingresso nella modernità.
Per gli amministratori francesi, sono numerose le ragioni per compiere questa scelta. Innanzi tutto militari, legate sia all’evoluzione delle tecniche di combattimento sia alla volontà di ridurre il rischio di possibili rivolte e resistenze da parte di città conquistate. Poi economiche, connesse alla necessità di favorire l’espansione edilizia e ridefinire il
perimetro della cinta daziaria. Infine anche sociali, legate alla possibilità di dare lavoro alla manodopera disoccupata. È Napoleone Bonaparte stesso a decretare nel 1800 l’eliminazione delle mura delle città piemontesi annesse all’Impero francese. E nel giro di pochi
anni Torino, Alessandria e Cuneo abbattono le loro cinte. Nello stesso periodo Milano
demolisce le fortificazioni intorno al Castello. Ma gran parte del resto delle città italiane
deve attendere gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento per registrare l’effettiva scomparsa di questo elemento connotativo della tradizione urbana di antico regime (Insolera
1973, pp. 443-450; Calabi 2005, pp. 21-24).
Comunque, al di là della diversità nei tempi di esecuzione, l’abbattimento delle mura ha conseguenze decisive sullo sviluppo delle città. Da una parte, infatti, si dissolve il
confine con il circostante mondo rurale, modificando in profondità la stessa percezione
dell’urbano, una dimensione non più ben circoscritta ma dispersa su un territorio ampio,
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PARTE QUARTA
Cultura e società
con caratteristiche eterogenee. Dall’altra si modifica radicalmente la morfologia complessiva della città che, dopo la liberazione degli spazi prima occupati dalle fortificazioni, comincia progressivamente a espandersi con nuovi edifici, passeggiate, giardini, strade tangenziali. Così accade a Torino agli inizi dell’Ottocento, dove al posto delle mura sono
costruiti viali alberati, piazze, fabbricati residenziali. E così si pianifica in molte altre città della penisola, dove però i lavori di esecuzione decollano solo nel periodo postunitario,
con esiti ovviamente molto diversi rispetto ai progetti originari.
In generale, la crescita edilizia comincia a divenire evidente negli anni Quaranta dell’Ottocento, con il progressivo inglobamento dei sobborghi un tempo dispersi fuori le mura. Allora comincia anche a emergere la necessità di una più razionale distribuzione delle funzioni all’interno della città, ponendo le premesse per quella zonizzazione che diviene
un principio guida della riflessione e della pratica urbanistica nella seconda metà dell’Ottocento. A Milano, per esempio, già negli anni Quaranta si registra un primo allontanamento delle officine dal centro, verso una zona più marginale, tra la cintura dei Navigli e
le mura: alcuni stabilimenti, un decennio più tardi, cominciano poi a spostarsi anche al di
fuori delle stesse mura, dove alla fine del secolo risulta concentrata gran parte delle nuove industrie. A Napoli, intorno alla metà dell’Ottocento, è già riscontrabile una netta divisione socio-economica della città, con il settore occidentale trasformato in un luogo di
residenza per i ceti medi e borghesi e quello orientale in un’area riservata alle abitazioni
popolari e agli stabilimenti produttivi.
Queste tendenze verso una specializzazione delle aree urbane si accentuano nel periodo postunitario, anche in relazione alla crescente complessità delle funzioni urbane. Un
fenomeno, quest’ultimo, che trova conferma anche nello sviluppo delle reti di servizio:
dalle fogne agli acquedotti, dall’illuminazione ai trasporti. Se alcune città settentrionali
registrano significativi progressi già negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento (in
particolare Milano e Torino), gran parte dei centri della penisola riescono ad apprezzare
i vantaggi di una serie di servizi di pubblica utilità solo dopo l’unificazione politica. In
questo ambito la costituzione di uno Stato accentrato, impegnato a investire nella modernizzazione delle infrastrutture, sembra davvero garantire un impulso decisivo. Così come, del resto, nel potenziamento della rete ferroviaria e del suo inserimento all’interno
delle città.
La localizzazione della stazione è uno dei temi centrali dello sviluppo urbano alla
metà del secolo. La scelta del luogo costituisce spesso un fattore determinante per l’espansione e la ridefinizione della morfologia urbana. A Napoli la stazione di piazza Garibaldi (1867) è destinata a trasformarsi in una sorta di cerniera tra l’area residenziale e l’area
produttiva, innescando un’evoluzione complessiva del sistema viario della città. A Roma
la costruzione della stazione Termini (1867) davanti alle Terme di Diocleziano diviene
la condizione preliminare per la successiva espansione urbana sulla direttrice nord-orientale. A Venezia la realizzazione del ponte ferroviario (1846) determina un riorientamento complessivo della città verso la terraferma, a scapito della tradizionale attrazione del
fronte marittimo. Se è vero che la localizzazione della stazione centrale appare spesso
una scelta già compiuta al momento dell’unificazione, negli anni immediatamente successivi si pone il problema del suo collegamento con il centro della città. Una questione strategica, che viene spesso risolta con demolizioni e costruzioni di nuovi assi stradali, capaci di modellare la fisionomia di interi quartieri, condizionandone anche gli
sviluppi futuri. Accade così per esempio a Roma con la realizzazione di via Nazionale,
oppure a Bologna con via Indipendenza, o a Napoli con il Rettifilo. Su scala diversa, un
problema simile si pone anche per i piccoli centri, dove la stazione ferroviaria è spesso
costruita lontano dal nucleo abitato. Anche in questi casi, la realizzazione della strada
che unisce la stazione al centro diviene spesso un’operazione decisiva per la futura espansione urbana.
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F. BARTOLINI
Le città
La città come spazio rappresentativo
Contemporaneamente a questo processo di funzionalizzazione, che prende avvio agli inizi dell’Ottocento e procede ben oltre il periodo postunitario, emerge anche un nuovo modello di rappresentazione urbana del potere, che sembra trovare origine anch’esso negli
anni dell’egemonia francese. Non è affatto sorprendente che anche in questo caso gli eventi rivoluzionari segnino una svolta, perché il rovesciamento improvviso del sistema di valori dell’antico regime non può non innescare uno stravolgimento semantico dei luoghi
deputati dell’identità politica. Lo testimonia, per esempio, l’apparizione degli alberi della libertà, icone della sovranità popolare, che spuntano soprattutto dove il potere dell’antico regime aveva trovato la sua più efficace consacrazione simbolica, come per esempio
in piazza San Pietro a Roma o in piazza San Marco a Venezia.
Più in generale è importante notare come, al di là delle ambizioni razionalizzatrici dei
piani urbani, una parte rilevante di quanto viene effettivamente compiuto nel periodo
francese sia motivato da esigenze rappresentative. A Napoli, per esempio, si apre un grande cantiere per la sistemazione dello spazio davanti al Palazzo Reale, un intervento poi
concluso nel periodo borbonico e di grande importanza per la configurazione della città
capitale, ma di minore rilievo per il funzionamento complessivo del sistema infrastrutturale. E qualcosa di simile accade anche a Roma dove, mentre gran parte dei progetti di
riorganizzazione dei servizi urbani rimangono sulla carta, si lavora alacremente alla realizzazione del complesso monumentale piazza del Popolo-Pincio e allo scavo delle rovine
nell’area archeologica.
In questo sforzo di risemantizzazione del paesaggio urbano un ruolo decisivo spetta
anche alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici che, modificando le destinazioni d’uso
di molti edifici storici, stravolge i punti di riferimento spaziale e favorisce una ridefinizione della mappa mentale delle città. Ancora a Napoli, per esempio, spariscono ben oltre la metà dei monasteri (nel 1786 erano quasi 200, nel 1838 sono 60), requisiti e trasformati in edifici pubblici, manifatture, alloggiamenti militari: un’intera area, quella del
quartiere San Lorenzo, dove da secoli erano concentrate molte proprietà religiose, cambia radicalmente fisionomia e composizione sociale (De Seta 1981, p. 219). Colpisce, tra
l’altro, come queste operazioni di espropriazione e laicizzazione di parti significative delle città divengano talvolta occasioni per costituire poli direzionali all’interno dei tessuti
urbani più antichi. Non è raro, infatti, che emerga un nucleo centrale, una sorta di distretto politico-amministrativo, capace di rappresentare anche visivamente il processo di accentramento delle istituzioni.
È vero, d’altra parte, che con l’avvento della Restaurazione il sacro torna prepotentemente alla ribalta e riesce a riconquistare molti spazi pubblici sottrattigli durante l’età
rivoluzionaria. Ma questo ritorno alla tradizione avviene in un contesto culturale molto
diverso da quello di antico regime. Sopravvive, infatti, l’idea di un nuovo modello di rappresentazione del potere legato anche a una diversa concezione monumentalizzante della
pianificazione urbana. Non si torna dunque solo a una riesposizione dei tradizionali simboli religiosi, ma si aderisce più o meno consapevolmente alla tendenza verso un nuovo
potenziamento della dimensione scenografica della città. A Torino, per esempio, si delibera la costruzione del tempio della Gran Madre di Dio, edificio commemorativo del ritorno dei Savoia, proprio davanti al ponte di pietra realizzato nel periodo napoleonico,
una delle opere più significative dell’amministrazione francese, preservata e risemantizzata dal regime restaurato. A Napoli, il grande complesso progettato nella piazza davanti al Palazzo Reale, pensato da Murat come un tempio civile, non viene eliminato con il
ritorno dei Borbone ma trasformato in una chiesa dedicata a san Francesco di Paola.
Sarebbe però sbagliato pensare che negli anni della Restaurazione il paesaggio urbano muti solo in sintonia col ribaltamento ideologico. Un altro importante fattore di
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PARTE QUARTA
Cultura e società
cambiamento nella dimensione rappresentativa della città è la formazione di nuova cultura borghese. Un fenomeno, quest’ultimo, che comincia a lasciare tracce evidenti nella
fisionomia delle capitali degli Stati preunitari durante gli anni Trenta, per poi raggiungere il suo pieno sviluppo dopo la costituzione del Regno d’Italia. Questo processo, naturalmente, non riguarda solo l’affermazione di un nuovo mercato immobiliare, alimentato da un flusso di investimenti più cospicuo rispetto al passato, ma include anche la
progressiva diffusione di nuovi comportamenti e stili di vita, che contribuiscono anch’essi all’evoluzione della morfologia complessiva delle città.
Nelle aree periferiche dei grandi centri, infatti, cominciano a sorgere nuovi complessi residenziali che testimoniano, oltre alla crescente importanza dell’industria edilizia come strumento di rendita per le élites urbane, anche la profonda evoluzione dei modelli di
vita dei ceti medi e borghesi. Così accade per esempio a Torino, dove negli anni Venti e
Trenta sono costruiti i quartieri intorno al viale del Re e nella zona di Borgo Nuovo, seguiti più tardi da quelli di Porta Nuova, Porta Susa e Vanchiglia. O a Napoli, dove negli
anni Cinquanta comincia la lottizzazione dell’area a ovest di Chiaia e più tardi, nel primo
periodo postunitario, della collina del Vomero. O infine a Firenze, dove alla metà del secolo, ben prima della designazione a capitale nazionale, nascono nuovi insediamenti con
una marcata connotazione sociale, come a Barbano o alle Cascine. Quasi ovunque, inoltre, vengono introdotte tipologie residenziali moderne, come gli appartamenti in condominio, che prevedono una nuova articolazione degli spazi interni, con confini più rigidi
tra una dimensione pubblica e una privata, effetto di una significativa trasformazione dei
codici di comportamento.
Questa città borghese, che cresce rapidamente e che comincia a manifestare con più
nettezza il proprio desiderio di distinzione dalla città popolare, non occupa soltanto le
nuove aree di espansione urbana, ma si impossessa anche di alcune zone centrali, strade
e piazze storiche che, popolate di nuovi luoghi di commercio, di svago, di socializzazione, mutano rapidamente fisionomia, divenendo spazi rappresentativi della cultura delle
nuove élites urbane. È un processo che, per molti aspetti, contribuisce a omologare le città italiane a quelle europee, a ridurne le peculiarità storiche, ad avvicinarle a un modello
di modernizzazione urbana destinato a imporsi come «occidentale».
Tutto questo risulta ancor più evidente dopo la costituzione del Regno d’Italia, quando la consacrazione dell’ideologia nazionale si fonde con la celebrazione della cultura borghese (Socrate 1995, pp. 398-424). Si impone allora un’enfatizzazione della dimensione
rappresentativa e pedagogica della città, chiamata a svolgere una funzione centrale nell’educazione ai valori dello Stato-nazione e ai princìpi del comportamento borghese. Questi obiettivi, tra l’altro, sollecitano la spasmodica ricerca di un comune linguaggio politico-estetico, uno «stile nazionale», capace di imprimere nei paesaggi urbani della penisola
il segno inconfondibile dell’avvento di una nuova epoca, quella unitaria, erede di un passato glorioso, ma soprattutto ansiosa di proiettarsi verso la modernità.
È un’aspirazione, quest’ultima, che fatica però a manifestarsi in un unico e riconosciuto codice architettonico. Anzi, se è possibile classificare con un’etichetta comune la
produzione edilizia nei primi anni postunitari, questa non può essere che «eclettica», ovvero una variegata imitazione di stili storici che, già di per sé, sembra testimoniare l’incapacità di elaborare un nuovo canone davvero moderno e unitario. Spiccano così, nelle più
grandi città italiane, linguaggi molto diversi: dalle suggestioni medievaleggianti a quelle
neorinascimentali (quest’ultime accreditate negli anni Settanta e Ottanta come la scelta
più idonea per la rappresentazione del potere statale), fino alla più tarde riprese di motivi neobarocchi, a loro volta superate da quel gusto liberty che, agli inizi del Novecento,
diviene popolare in molte città anche del Sud, come Palermo e Napoli.
Se è vero che l’architettura sembra stentare in questo compito di rimodellamento in
«stile nazionale» della fisionomia delle città italiane, non appare dubbio che l’unificazione
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F. BARTOLINI
Le città
inneschi un processo di omogeneizzazione dei paesaggi urbani. Basti solo pensare alla realizzazione dei numerosi monumenti dedicati ai protagonisti dell’epopea risorgimentale,
collocati in molte piazze storiche di grandi e piccoli centri. O anche agli effetti della liquidazione dell’asse ecclesiastico che in alcuni casi, come era già accaduto nel periodo napoleonico, trasforma intere aree: a Roma, per citare l’esempio più eclatante, vengono chiuse 134 case religiose su 221 e il demanio si impossessa di una cinquantina di conventi,
trasformati in uffici ministeriali e caserme (Vidotto 2006, pp. 56-63). Ma persino senza
grandi interventi edilizi, nuovi complessi monumentali o massicce espropriazioni immobiliari, lo Stato nazionale riesce a riplasmare il volto delle città. Per esempio, con le rappresentazioni delle nuove ritualità del Regno, in primo luogo la festa dello Statuto, che
impone l’individuazione di percorsi nazionali all’interno di centri ricchi di memorie municipali, modificando il significato di luoghi e spazi pubblici. Oppure attraverso la nuova
toponomastica che, al di là dei diversi connotati politico-ideologici, introduce denominazioni comuni per strade e piazze, destinate a volte anche a trasformarsi in ripetitivi schemi di orientamento spaziale. «Voi passate da una città all’altra» scrive con sarcasmo la «Civiltà Cattolica» nel 1897 «e in tutte sempre, irrevocabilmente, siete costretti a traversare
una via XX settembre che fa capo a una piazza Plebiscito donde voltate in un corso Vittorio Emanuele che sbocca in una piazza dell’Indipendenza dalla quale si svolta in una via
Cavour» (cit. in Porciani 1997, p. 56).
Comincia così un processo di nazionalizzazione dei centri urbani della penisola, che
si manifesta soprattutto nelle tre città destinate a succedersi come capitali del Regno: Torino, Firenze e Roma.
Le tre capitali
Che nell’arco del primo decennio il nuovo Stato nazionale abbia tre diverse capitali, è un’altra dimostrazione dell’impatto delle vicende politiche sulla ridefinizione delle gerarchie urbane nella penisola. È infatti un brusco sconvolgimento degli equilibri internazionali – la
vittoria militare della Prussia sull’Impero francese nel settembre 1870 – a consentire al governo italiano di prender possesso di Roma, la capitale designata. Così come le scelte delle due precedenti capitali, Torino (1861-1865) e Firenze (1865-1871), erano state determinate più da situazioni politiche contingenti che da propositi istituzionali ben definiti.
Non stupisce del resto che, in un paese così connotato da tradizioni municipalistiche,
l’individuazione della capitale si riveli un’operazione dettata da circostanze particolari e susciti aspri contrasti. Già Napoleone Bonaparte, alle prese con la costituzione della Repubblica cisalpina, aveva incontrato significative resistenze alla designazione di Milano, osteggiata allora dai bolognesi. E successivamente, dopo l’avvento della Restaurazione, in un
quadro politico di nuovo frammentato e fitto di città capitali, gli orgogli municipalistici
avevano ripreso vigore tra rivendicazioni di glorie e primati culturali, provocando più di
una disputa su quale fosse il centro urbano più importante della penisola. Nell’immaginario patriottico, però, due città si erano imposte come nuclei guida della futura nazione: da
una parte Torino, per il suo ruolo politico dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionaria quarantottesca, e dall’altra Roma, per la sua funzione ideologica fondata sull’eredità di una civiltà millenaria (Caracciolo 1985, pp. 195-200; Porciani 2002, pp. 45-59). Dei primati
di quest’ultima, in particolare, si era nutrita gran parte dell’opinione pubblica democratica, soprattutto i repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, che intorno alla città e al suo
mito erano riusciti a costruire un discorso nazionale capace di confrontarsi efficacemente
con quello religioso ed ecclesiastico. Così, fin dai primi decenni dell’Ottocento, non esisteva più soltanto la Roma cattolica, ma aveva cominciato ad affiorare lentamente anche una
Roma italiana, la Terza Roma, un’idea inizialmente coltivata da sparute minoranze ma poi
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PARTE QUARTA
Cultura e società
destinata per la sua forza persuasiva a condizionare il dibattito politico e a divenire una sorta di riferimento imprescindibile per ogni professione di fede patriottica.
Quando, nel marzo 1861, il Parlamento italiano proclama la città, ancora sotto la sovranità pontificia, «capitale acclamata dall’opinione nazionale», appare evidente come la
propaganda democratica sia stata capace di imporre una propria parola d’ordine ai moderati. A promuovere l’iniziativa parlamentare è il capo del governo Camillo Benso conte di
Cavour che, sebbene non sia affatto contagiato dall’entusiasmo per la Terza Roma, è consapevole di come questo mito abbia ormai fatto breccia al di là dei confini del campo mazziniano. Non solo, ma ne intuisce anche le straordinarie potenzialità politiche per il consolidamento del neonato Regno d’Italia: secondo Cavour, infatti, la proclamazione di Roma
capitale legittimerebbe davanti all’Europa la richiesta di annessione della città, consentirebbe di azzerare le rivalità municipali («Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali») e, soprattutto, permetterebbe di assecondare il «senso
comune della nazione». Una scelta, dunque, questa del governo, che appare condizionata
più dal particolare contesto storico che da un universale e indiscutibile principio di fede.
Non sorprende, allora, che questo invito al realismo politico contribuisca anche ad
alimentare una nuova ostilità contro l’idea di «Roma capitale». Privato della sua dimensione mitica, infatti, il richiamo dell’Urbe tende a indebolirsi. E non a caso, proprio agli
inizi degli anni Sessanta, prende forma un’ideologia antiromana, fondata sull’assioma che
per fare l’Italia moderna occorra demolire il mito perenne dell’Urbe. Artefice principale
è Massimo d’Azeglio che, in un opuscolo pubblicato proprio nel 1861, rovescia la rappresentazione mazziniana della Terza Roma per enfatizzare la natura nociva della città, la sua
infelice collocazione geografica, la sua carenza di «spirito pubblico», l’insalubrità del suo
ambiente, avvolto dai «miasmi di 2.500 anni di violenze materiali o di pressioni morali».
Tutte caratteristiche incompatibili con la formazione del nuovo Stato nazionale che, a giudizio di d’Azeglio, dovrebbe collocare la sua capitale altrove, magari a Firenze, dove «il
Governo potrebbe trovare quel salubre e sicuro ambiente che dicemmo esser per lui la
più importante delle condizioni» (d’Azeglio 1861, pp. 42, 52).
È significativo, d’altra parte, come pochi, dopo il 1861, pensino che la capitale possa
rimanere per sempre a Torino, dove è stata proclamata la nascita del Regno d’Italia: la
permanenza del governo nazionale nella città piemontese, infatti, rafforzerebbe la percezione di un dominio assoluto della classe dirigente dell’ex Regno di Sardegna sul nuovo
Stato, alimentando malumori e ansie autonomiste nel resto della penisola. Eppure Torino mostra, per molti aspetti, una morfologia simile a quella delle capitali delle monarchie
nazionali europee. Il suo antico ruolo di città capitale, dapprima in uno Stato assolutista
poi in una monarchia costituzionale, ma sempre sotto la stessa dinastia, ne aveva accentuato la continuità nei modelli di sviluppo, favorendo l’integrazione tra il nucleo antico e
le espansioni moderne (Traniello 1988, pp. 68-70). Inoltre, fin dagli anni Trenta, la città era stata oggetto di un significativo processo di monumentalizzazione che, in sintonia
con l’evoluzione politica, aveva modificato la fisionomia e il significato di importanti spazi pubblici. Dalla collocazione della statua di Emanuele Filiberto in piazza San Carlo
(1838) a quella di Carlo Alberto nella piazza omonima (1861), la disseminazione di una
serie di monumenti in luoghi simbolici aveva trasformato l’intero ambiente urbano, ridimensionandone anche quell’effetto metafisico ereditato dall’età barocca.
Appare allora evidente come, all’interno di questa evoluzione, sia troppo breve il periodo in cui la città piemontese è capitale del nuovo Regno per assistere a un’ulteriore riconfigurazione del suo assetto urbano. Tra l’altro, non c’è bisogno di trovare nuove sedi
alle istituzioni nazionali, che ereditano per lo più le strutture del Regno di Sardegna. Così come, ovviamente, non c’è necessità di monumentalizzare il potere dei Savoia, già ampiamente consacrato nel paesaggio cittadino. Il cambio di status politico, tuttavia, innesca significative trasformazioni sociali ed economiche. C’è una forte crescita demografica,
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Le città
che spinge in alto il numero degli abitanti fino a quasi 220.000 nel 1864. E c’è una rapida
espansione delle costruzioni, che dilata l’area urbana di oltre 900.000 ettari tra 1859 e 1864.
Che poi il rendimento del capitale investito nell’edilizia residenziale si aggiri tra 1861 e
1864 intorno al 20% annuo, è sufficiente per intuire quale importanza economica abbia
avuto la designazione a capitale nazionale.
Non stupisce allora che la notizia della stipula della Convenzione di settembre, con
il trasferimento della capitale a Firenze, provochi violente proteste e disordini a Torino.
Gran parte della cittadinanza è timorosa di perdere importanti vantaggi economici, ma è
soprattutto indignata per la fine prematura di una simbiosi, quella tra città, dinastia regnante e Stato, che si sarebbe dovuta concludere soltanto dopo il compimento dell’auspicio di Roma capitale. Così il 21 settembre piazza Castello e il giorno dopo piazza San Carlo si trasformano in scenari di una cruenta battaglia tra esercito e dimostranti: i morti sono
52, i feriti 159 (Castronovo 1987, pp. 5-17; Levra 2001, pp. xix-xxii).
Questo trasferimento della capitale non è indolore nemmeno per Firenze che, improvvisamente, deve innalzarsi al vertice del sistema urbano nazionale senza possedere
molti requisiti giudicati allora indispensabili per interpretare il ruolo. La città è più piccola di Torino, appena 150.000 abitanti, e appare priva di quella fisionomia moderna che
gli interventi ottocenteschi avevano assicurato alla capitale sabauda. Non a caso una parte della classe dirigente locale reagisce alla designazione con preoccupazione, temendo uno
stravolgimento di consuetudini e tradizioni civiche considerate connotati essenziali dell’identità fiorentina. Ma è d’altra parte significativo che, davanti all’impossibilità di insediarsi a Roma e alla contemporanea fioritura di autorevoli candidature alternative (come
quelle di Milano e Napoli), il nuovo Stato scelga la città toscana, sia per assecondare le
preferenze dei Savoia e di una parte significativa della classe dirigente piemontese, sia soprattutto per la forza simbolica associata alla storia di Firenze, al suo passato medievale e
rinascimentale di capitale delle lettere e delle arti, icona perfetta di quel primato umanistico rivendicato dalla nuova cultura nazionale.
L’esperienza di capitale del Regno d’Italia, per quanto breve, segna profondamente
il volto di Firenze. Comincia infatti un processo di modernizzazione accelerata della morfologia urbana, che condizionerà a lungo gli interventi successivi. Se è vero infatti che le
istituzioni statali trovano dimora per lo più in edifici storici, come la Camera dei deputati nel Palazzo Vecchio e il Senato agli Uffizi, oppure in complessi ex ecclesiastici, come il
ministero della Pubblica istruzione nel convento di San Firenze o quello della Marina nel
monastero dei Barbetti, tuttavia la designazione a capitale nazionale diviene anche la premessa per l’elaborazione di un nuovo piano di ampliamento urbano che, redatto da Giuseppe Poggi, modificherà radicalmente l’assetto complessivo della città (Borsi 1970, pp.
67-95; Fanelli 1980, pp. 200-211). Si abbattono le mura, si costruiscono i nuovi quartieri del Maglio e della Mattonaia, si progettano sventramenti nell’area centrale del Mercato Vecchio, si realizzano viali tangenziali, nuove piazze, strade panoramiche e un grande affaccio sulla città, il piazzale Michelangelo, snodo monumentale di una rete viaria che
ingloba le colline circostanti all’interno del sistema urbano. È un modello di capitale influenzato dagli esempi di Parigi e Vienna e fondato su un nuovo ideale di modernità che
si impone non solo nella progettazione dei quartieri periferici, ma anche negli interventi
di restauro o rifacimento delle strutture edilizie nel centro antico. Diviene infatti allora
predominante un gusto di signorilità borghese, che tende a uniformare lo spazio urbano.
Appena Firenze comincia a mostrare questo volto moderno, si concretizza per il Regno d’Italia la possibilità di annettersi Roma. E la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870,
pone automaticamente la questione di un nuovo trasferimento della capitale. Una scelta,
quest’ultima, meno scontata di quello che si potrebbe pensare guardando al voto del marzo 1861 e all’entusiasmo unanime con cui era stato salutato l’ingresso dei bersaglieri in città. All’indomani dell’annessione, infatti, non tardano a manifestarsi perplessità e resistenze,
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PARTE QUARTA
Cultura e società
soprattutto tra i liberal-conservatori settentrionali: il quotidiano «La Perseveranza», per
esempio, organo della consorteria lombarda, invita a riconsiderare la questione e il dibattito parlamentare che si apre nel dicembre 1870 rivela con quanta diffidenza alcuni deputati
accettino la scelta della nuova capitale. Il trasferimento delle istituzioni, comunque, viene
predisposto in tempi brevi e dal luglio 1871 Roma diviene capitale a tutti gli effetti.
È però significativo che questa designazione, nonostante sia definitiva, fatichi a lasciare una traccia visibile sulla città. Anche qui, inizialmente, non vengono costruiti nuovi edifici per ospitare le istituzioni nazionali e metterne in scena i valori politici. Per ragioni di opportunità e bilancio, si sceglie di utilizzare le strutture esistenti. Il re prende
possesso del Quirinale, già residenza papale; la Camera dei deputati è collocata a Montecitorio, ex sede dei tribunali ecclesiastici; il Senato si stabilisce a Palazzo Madama, dove prima si trovava il dicastero finanziario pontificio; il ministero degli Esteri si trasferisce nel Palazzo della Sacra Consulta e quello dell’Interno, insieme alla presidenza del
Consiglio, trasloca a Palazzo Braschi, acquistato proprio per questo scopo. Non può passare inosservato che uno dei luoghi più rappresentativi dello Stato nazionale, l’aula della Camera dei deputati, sia ricavato dalla trasformazione del cortile di Montecitorio. Solo nel 1877 è inaugurato il primo palazzo ministeriale costruito dal Regno d’Italia, quello
delle Finanze.
Questa scelta, motivata dalla necessità di accelerare il trasferimento delle istituzioni
nella nuova capitale, rivela per molti aspetti il disagio con cui il Regno d’Italia fa ingresso nella «città eterna», il timore del confronto con la Roma dei papi, il bisogno di evitare
ulteriori attriti con il mondo cattolico. Un segno evidente della difficoltà a trasformare
una capitale millenaria della civiltà occidentale nella capitale di uno Stato nazionale ancora in cerca di legittimazione.
Risanamenti e speculazioni
Non è allora sorprendente che, sebbene la progettazione della nuova Roma cominci già nel
settembre 1870 (con la nomina di una «commissione per l’ampliazione e l’abbellimento della capitale») e poi prosegua con l’elaborazione di un primo piano regolatore (approvato dal
Consiglio comunale nel 1873, ma mai divenuto legge), all’inizio degli anni Ottanta la Roma italiana non appaia ancora molto diversa da quella pontificia. Dei tanti progetti elaborati, poco viene realizzato nel primo decennio postunitario. Comincia a prendere forma
l’asse direzionale di via XX Settembre con la costruzione delle sedi dei ministeri delle Finanze e della Guerra, è tracciata via Nazionale, l’amministrazione municipale stipula con
privati le convenzioni per l’edificazione di nuovi quartieri sull’Esquilino e al Castro Pretorio, viene approvata una legge per la sistemazione del Tevere. Iniziative importanti, ma
senza dubbio insufficienti per poter celebrare la nascita della nuova capitale nazionale.
Che sia indispensabile un deciso intervento dello Stato per trasformare Roma in una
città moderna è evidente a gran parte della classe dirigente italiana. Ma alcuni leader della Destra, soprattutto settentrionale, si rifiutano di riconoscere il dovere di partecipazione della nazione a un’opera di rinnovamento urbano che vorrebbero interamente a carico della municipalità. L’idea di fondo è che la designazione a capitale sia già di per sé un
enorme privilegio, da saper sfruttare senza chiedere aiuti allo Stato. E non stupisce allora che, solo dopo la caduta della Destra e l’avvento al potere della Sinistra (1876), si concretizzi l’idea di una legge speciale per Roma. Ovvero un finanziamento statale di 50 milioni di lire per la realizzazione di una serie di opere pubbliche connesse all’elaborazione
di un piano regolatore (Vidotto 2006, pp. 74-81).
Questo provvedimento, approvato nel marzo 1881, segna una svolta perché sancisce
il diritto del comune di Roma a fondi statali per poter assolvere ai compiti di capitale
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Le città
nazionale. Ma rappresenta, d’altra parte, anche il sigillo a un rapporto di stretta dipendenza della capitale dallo Stato che condizionerà l’immagine di Roma fino ai nostri giorni: ossia l’idea di una città favorita dai poteri pubblici a scapito del resto del paese. Non
sorprende dunque che, durante la discussione parlamentare, molti deputati si oppongano alla proposta del governo, denunciando il rischio di creare una «capitale assorbente»,
criticando lo sperpero di denaro pubblico per lavori giudicati inutili, protestando contro
la disparità di trattamento tra Roma e quegli altri comuni capaci di realizzare opere pubbliche senza richiedere fondi allo Stato.
La legge prevede la costruzione di un Palazzo di Giustizia, di un Policlinico, di un
Palazzo di Belle Arti, di una sede per l’Accademia delle scienze, di un ospedale militare,
di caserme e una piazza d’armi, oltre a due ponti sul Tevere e a una radicale ristrutturazione del sistema stradale. Un programma ambizioso e dispendioso che, a soli due anni
dalla sua approvazione, richiede un nuovo intervento legislativo per garantire all’amministrazione municipale un prestito di 150 milioni di lire. Nel 1883 è approvato il nuovo
piano regolatore: prefigura l’abbattimento di parti consistenti del centro storico e l’apertura di nuove arterie di scorrimento, come gli assi di via Cavour e corso Vittorio Emanuele II. Stabilisce inoltre il completamento di via Nazionale (congiunta già con piazza Venezia), la realizzazione del Traforo sotto il Quirinale, l’istituzione dei parchi di villa Borghese
e villa Glori. Sono opere, oltre ad altre elencate nella legge speciale, che modificano profondamente la fisionomia di Roma, chiamata ad assumere un aspetto più moderno, da città ottocentesca, con strade rettilinee e fabbricati allineati. Contemporaneamente si avvia
anche l’edificazione del monumento a Vittorio Emanuele II, un’opera imponente destinata a diventare il nucleo di un centro moderno nel cuore dei vecchi rioni, e si costruiscono i muraglioni e i viali alberati lungo il Tevere, che trasformano radicalmente la percezione del fiume all’interno della città.
È un complesso progetto di ristrutturazione, questo di Roma capitale, che riflette anche i princìpi dell’«ingegneria sanitaria»: una nuova specializzazione disciplinare che, alla metà degli anni Ottanta, comincia a rivendicare anche in Italia una supremazia nello
studio dei problemi delle città, da analizzare attraverso l’indagine statistica delle patologie collettive. Sono gli ingegneri sanitari, infatti, a egemonizzare in questi anni il dibattito pubblico sulla «questione urbana», provocando un ribaltamento della rappresentazione delle grandi città: da centri di civilizzazione e modernizzazione sociale, queste ultime
diventano, usando le parole del medico igienista Paolo Mantegazza, «laboratori d’infezione…, carceri per il polmone e stufe per i cervelli» (cit. in Giovannini 1996, p. 9). Ovvero luoghi malsani e nocivi, responsabili non solo del decadimento fisico della popolazione, ma anche della sua degenerazione morale. I nuovi indagatori delle patologie urbane,
infatti, sono convinti che la mancanza di igiene pubblica inquini le coscienze individuali.
Un assioma, quest’ultimo, che inspira anche tutta una coeva produzione letteraria incentrata sui mali delle città: basti pensare alla Milano sconosciuta di Paolo Valera (1879) o al
Ventre di Napoli di Matilde Serao (1884).
Il legame tra salubrità e moralità, tra ordine sanitario e assetto sociale, è uno dei fondamenti epistemologici dell’ingegneria sanitaria che, non a caso, avvalora un’idea organicistica della città, utilizzando come termine chiave quello di «risanamento», associabile a
significati sia materiali sia ideologici. La città ha bisogno di aria, luce, acqua potabile e
scarichi fognari per trasformarsi in uno spazio vivibile, al riparo sia da epidemie infettive
sia da perversioni sociali. Un luogo pulito e pacificato, costruito e governato secondo i
princìpi razionali della scienza e della tecnica, destinate a sostituire l’architettura nella
progettazione edilizia.
Molti di questi precetti dell’igiene sanitaria diventano norme statali con l’approvazione della legge per il risanamento di Napoli nel 1885. Sulla scia dell’allarme provocato
da una violenta epidemia di colera, che un anno prima aveva causato quasi 7.000 morti
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Cultura e società
solo nel capoluogo campano, lo Stato decide di intervenire per eliminare quello che veniva considerato uno dei più pericolosi focolai urbani di infezione nazionale, il centro di Napoli con i suoi quartieri popolari (Petraccone 1978, pp. 185-220). Si riesumano vecchie
idee, risalenti all’amministrazione borbonica o al primo periodo postunitario, per elaborare un piano di intervento che prevede ampie demolizioni nelle zone più basse della città con lo scopo di realizzare, oltre a un’efficiente rete fognaria e a un moderno sistema di
distribuzione dell’acqua potabile, anche un nuovo asse di collegamento tra la stazione e il
centro, il Rettifilo. L’obiettivo principale è quello di diradare il tessuto edilizio e decongestionare i quartieri centrali, spostando gran parte degli abitanti alla periferia orientale,
dove si progetta di costruire nuovi edifici popolari. È un piano grandioso che prevede il
«risanamento» di 550.000 metri quadri, la costruzione di 59 nuove isole di case economiche divise in 7.400 alloggi, la realizzazione di 182 chilometri di condotte fognarie. Con un
costo complessivo intorno ai 75 milioni di lire.
Per facilitare l’esecuzione dei lavori si modifica anche la legge del 1865 sull’esproprio per pubblica utilità, approvata in coincidenza con il piano Poggi per Firenze. La
nuova norma cambia i criteri d’indennizzo, legati non più a valori teorici di mercato ma
a rendite accertate delle proprietà espropriate, e trasforma il piano regolatore da strumento eccezionale a provvedimento amministrativo di uso corrente, estendendone l’applicazione a tutti i comuni dove «le condizioni di salubrità delle abitazioni o della fognatura e delle acque ne facessero manifesto il bisogno» (legge del 1885, n. 2892, art. 18).
A Napoli il municipio stipula una convenzione con una società privata, la Società pel
Risanamento, costituita sotto la regia governativa con l’unione di alcuni grandi istituti
finanziari (Credito mobiliare, Banca generale, Banca subalpina, Società generale immobiliare, Banca di Torino, Impresa Marsaglia). Mentre lo Stato si impegna a versare i tre
quarti della cifra preventivata dalla legge speciale, espropri, sfratti, demolizioni e nuove costruzioni sono a carico della Società pel Risanamento, che in cambio diviene proprietaria degli immobili. Al comune, invece, spettano le aree libere, ovvero strade, piazze e giardini.
Molto si è discusso sul carattere speculativo dell’operazione che, avanzata con estrema lentezza tra numerose difficoltà, avrebbe favorito il sopravvento degli interessi privati su quelli pubblici. Come nel caso di Roma, colpita da una «febbre edilizia» alla metà degli anni Ottanta, anche Napoli diviene scenario di grandi investimenti privati che cercano
di approfittare dei vantaggi assicurati dalla legge speciale. E in modo simile a quanto accade nella capitale, travolta da un crollo improvviso del mercato immobiliare alla fine del
decennio, anche il capoluogo campano subisce gli effetti della crisi finanziaria, che inevitabilmente blocca i lavori nei cantieri e azzera le previsioni di guadagno (Caracciolo 1993,
pp. 193-205; Marmo 1976, pp. 646-683). Una vicenda traumatizzante che, in entrambe
le città, si compie all’ombra di un sistema illegale di collusioni tra mondo politico e mondo economico, rivelato poi con grande scandalo dell’opinione pubblica dalle indagini della magistratura e dalle inchieste delle commissioni parlamentari. E non a caso, già agli inizi degli anni Novanta, «legge speciale» diviene sinonimo di speculazione, corruzione e
sperpero di denaro pubblico.
Eppure, nonostante tutti i limiti, gli interventi statali a Roma e a Napoli segnano una
svolta nelle politiche di modernizzazione urbana. Non solo perché sono comunque raggiunti alcuni importanti miglioramenti nelle condizioni di vita dei ceti popolari: basti pensare che nel capoluogo campano il tasso di mortalità per malattie infettive passa dal 27,1‰
nel 1885 al 9,5‰ nel 1895 (Giovannini 1996, p. 172). Ma anche perché il coinvolgimento diretto dello Stato costituisce da una parte una premessa per l’elaborazione di una nuova regolamentazione edilizia, che in età crispina avvicinerà l’Italia agli standard dei paesi europei più sviluppati, e dall’altra diviene uno stimolo per l’elaborazione di progetti di
ammodernamento in altre città della penisola (Zucconi 1999, pp. 17-18).
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F. BARTOLINI
Le città
A Torino, già nel 1885, si prepara un «piano di risanamento e miglioramento igienico ed edilizio della città», che il Parlamento approva come questione di pubblica utilità:
così il municipio si può avvantaggiare dei benefici previsti dalla legge speciale per Napoli per operare alcuni sventramenti nel centro e tracciare i nuovi assi diagonali di via Pietro Micca e via IV Marzo. A Milano, in sintonia con il piano di Cesare Beruto, un caso
esemplare di applicazione delle tecniche ingegneristiche alla progettazione della città, si
stipula nel 1886 un accordo per il risanamento dell’area compresa tra il Castello sforzesco e il Cordusio che prevede, tra l’altro, un controllo sul decoro e sull’unitarietà delle costruzioni attraverso una serie di disposizioni speciali inserite in un nuovo regolamento
edilizio. A Bologna, nel 1889, entra in vigore un nuovo piano regolatore: si avvia una ristrutturazione di una parte significativa della città attraverso l’allargamento di via Rizzoli e si predispone un piano di ampliamento esterno con la costruzione del quartiere della
Bolognina. A Genova, nel 1890, si approva il progetto per la realizzazione di un grande
asse rappresentativo, via XX Settembre, che da piazza De Ferrari, nuovo centro degli affari, raggiunge la spianata del Bisagno, al di là della quale si costruiscono i nuovi quartieri residenziali della borghesia.
Tutti interventi pensati in sintonia con i precetti dell’ingegneria sanitaria, ma che rivelano anche l’ambizione di rafforzare le vocazioni rappresentative delle città, immaginate come palcoscenici della modernità borghese.
Municipalismi e identità municipali
Anche dopo la costituzione dello Stato unitario, il rapporto tra città e nazione continua a
produrre effetti paradossali. Da una parte, infatti, il consolidamento di un sistema amministrativo centralizzato determina un ridimensionamento della nozione di città, che viene privata della sua valenza giuridico-istituzionale (Rugge 1993, pp. 47-54). È significativo che la stessa parola «città» sia pressoché assente nella nuova legislazione nazionale,
sostituita dal termine più tecnico di «comune» (già presente dal 1847 negli editti sabaudi),
capace di rappresentare meglio l’omogeneizzazione delle articolazioni territoriali e il rapporto di dipendenza delle istituzioni locali da quelle centrali. Che questo invece non accada per esempio nel Regno di Prussia, un altro Stato con radicate tradizioni municipalistiche, ben dimostra quanto l’accentramento abbia avuto in Italia un effetto decisivo
sullo sviluppo urbano.
D’altra parte, è anche vero che l’unità politica contribuisce a un rafforzamento dei
municipalismi, capaci di trovare proprio nella dimensione nazionale un nuovo spazio dove esibirsi e confrontarsi (Romanelli 1991, pp. 711-720). La stessa costruzione di un unico sistema urbano nell’intera penisola, sebbene innervato da molteplici sottosistemi regionali, alimenta una competizione forsennata nella rivendicazione di primati, meriti e
specificità locali, che aspirano a un riconoscimento istituzionale. Dietro la retorica dell’unità, infatti, sono proprio le città a divenire le icone più efficaci degli interessi particolari, delle diffidenze verso le regole uniformanti, dell’attaccamento ad autonomie e privilegi tradizionali. E se questo fenomeno potrebbe apparire come un semplice residuo dell’età
preunitaria, ovvero le vecchie resistenze municipalistiche davanti al rafforzamento delle
monarchie amministrative, tuttavia è evidente come emergano nuove strategie di legittimazione delle identità cittadine, trasformate anch’esse dall’ideologia nazionale.
Del resto, ancor prima del raggiungimento dell’Unità, non è più possibile per liberali
e democratici rivendicare primati cittadini senza legarli a specifici meriti patriottici. Accade così, per esempio, nei rapporti tra torinesi e milanesi che, fin dal 1848, competono per
una supremazia politica e ideologica, che dovrebbe trovare sanzione nel riconoscimento per
la propria città dello status di capitale di un auspicato Regno dell’Alta Italia. È inevitabile
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PARTE QUARTA
Cultura e società
che, in questa prospettiva, le immagini di Torino e Milano comincino ad assumere connotati diversi rispetto al passato, funzionali non più solo a evocare antichi primati culturali,
ma anche a costruire nuove reputazioni politiche, indispensabili per legittimare titoli e ricompense. Le antiche rivalità urbane, infatti, tendono a trasformarsi in dispute ideologiche, che misurano e confrontano le vocazioni patriottiche alla lotta e al sacrificio.
All’interno di questo processo di ridefinizione delle identità cittadine, un ruolo particolare spetta alle esposizioni. Ne erano state organizzate molte fin dall’età napoleonica
ma, dopo la costituzione del Regno d’Italia, acquistano un significato e un rilievo ben
maggiori rispetto al passato. Innanzi tutto perché cominciano a subire gli effetti del più
generale sviluppo internazionale del fenomeno che, soprattutto nei paesi europei più industrializzati, ha ormai assunto dimensioni di massa e valenze politiche di straordinario
impatto: basti pensare all’Esposizione di Londra del 1851, evento-immagine della potenza dell’Impero britannico. Ma anche perché, pur non avvicinandosi alla grandiosità delle coeve manifestazioni inglesi o francesi, le esposizioni italiane riescono comunque a trasformarsi non solo in scenari di celebrazione dei successi nazionali, ma anche in occasioni
di confronto tra i diversi centri urbani della penisola.
Le città che ospitano le esposizioni, infatti, sono chiamate a esaltare sia i valori della
nazione sia il proprio specifico contributo allo sviluppo del paese. E per alcune settimane
divengono mete di gite e pellegrinaggi da parte di migliaia di italiani provenienti dagli altri centri della penisola, curiosi di visitare oltre a gallerie ed edifici appositamente allestiti per le mostre, anche i luoghi urbani più caratteristici, passeggiando tra piazze, monumenti, negozi.
Succede così a Firenze che, in due importanti manifestazioni postunitarie, l’Esposizione nazionale d’arte del 1861 e il Centenario dantesco del 1865, prova a mettere in scena la
sua vocazione di capitale culturale davanti all’opinione pubblica di una nazione che proprio
sul patrimonio storico-artistico fonda gran parte del proprio prestigio (Tobia 1995, pp. 492510). Successivamente, con esiti ancor più significativi, lo stesso accade anche a Milano e
Torino, che ospitano le due principali manifestazioni degli anni Ottanta: rispettivamente
l’Esposizione industriale italiana del 1881 e l’Esposizione generale italiana del 1884.
A Milano si celebrano i progressi economici compiuti dal Regno a un ventennio dall’unificazione, ma si esalta anche il ruolo guida del capoluogo lombardo nella costruzione dell’Italia moderna. Come sottolinea la pubblicistica legata all’evento, Milano è la capitale dell’«Italia che lavora», la metropoli industriale che valorizza le responsabilità
individuali senza trascurare i doveri della solidarietà sociale, il luogo deputato di quella
società civile che difende la propria autonomia e si oppone alle invadenze della burocrazia statale. È un primato economico e sociale, quello rivendicato dal capoluogo lombardo, che richiama anche un profilo morale della città, confinante con la dimensione religiosa. Come scrive Cesare Correnti, «il genio di Milano è il Cristianesimo civile» (Rosa
1982, pp. 9-14; Meriggi 2001, pp. 17-18).
A Torino, invece, si celebra la seconda fase della rivoluzione nazionale, la nuova missione ideologica e culturale dello Stato unificato, ma anche il primato risorgimentale e dinastico del capoluogo piemontese. La città, privata dello status di capitale, può ancora efficacemente rivendicare il proprio passato patriottico, ma è anche chiamata a riformulare
la propria immagine per continuare a legittimare un ruolo d’avanguardia all’interno della
comunità nazionale. Da una parte dunque l’esposizione torinese valorizza il culto del Risorgimento, monumentalizzato attraverso una museificazione della storia nazionale, dall’altra esalta il progresso tecnologico, esemplificato anche da una costruzione grandiosa e
avveniristica come la Mole Antonelliana (Tobia 1991, pp. 68-89; Levra 1992, pp. 81-172).
Se è vero che negli anni Ottanta dell’Ottocento molte città della penisola rivendicano un ruolo da protagonista sul palcoscenico nazionale, è altrettanto vero che soltanto
Roma, Milano e Torino possono credibilmente candidarsi a divenire centri guida della
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F. BARTOLINI
Le città
nazione. La prima soprattutto per essere stata designata capitale del Regno, città-mito
con una storia millenaria incomparabile. Le altre due per le benemerenze patriottiche,
ma anche per la capacità di simboleggiare un’idea di modernità italiana.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, però, Torino cede il passo al capoluogo lombardo come città-icona della «nuova» Italia. Milano, infatti, appare ormai come un centro
molto più ricco, dinamico, proteso verso il futuro. Ma soprattutto comincia a imporsi come un modello di «buona amministrazione», rigorosa ed efficiente, che dovrebbe essere
imitato dal resto della penisola. E non è un caso che proprio allora l’antica rivalità con Roma si trasformi in uno scontro politico. Quella che fino agli anni Ottanta era stata una rivendicazione di primati diviene una vera e propria lotta tra due città capitali, emblemi di
due diverse idee di Italia. L’una, simboleggiata da Roma, ancora legata alla memoria dell’epopea risorgimentale e al culto del rafforzamento dello Stato centralizzato. L’altra, impersonata da Milano, la «capitale morale», attenta alle novità dell’Europa occidentale e alla difesa delle autonomie municipali. In questo scontro, che è destinato negli anni Novanta
a svilupparsi in una feroce contesa tra il governo di Roma e l’opposizione dello «Stato di
Milano», continua tuttavia a echeggiare una ben più antica contrapposizione culturale tra
due tradizioni della penisola: quella statale-universalistica, fondata sull’eredità-mito dell’Impero romano e sull’esperienza politica della Chiesa cattolica, e quella comunale-municipalistica, connotata dalla memoria delle città medievali come modelli di resistenza contro l’espansione del dominio imperiale (Bartolini 2006, pp. 144-169).
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613
Simona Troilo
Il patrimonio artistico e culturale
Nei primi decenni successivi all’unificazione, la costruzione del patrimonio culturale della
nazione fu terreno di incontro e scontro tra progetti, ambizioni e aspirazioni di soggetti istituzionali diversi e per molti versi in competizione. I beni storico-artistici, nella loro complessità ed eterogeneità, furono al centro di tensioni che riguardavano la loro gestione e valorizzazione. A partire dal 1861, e almeno per tutto il decennio successivo, da un lato il
governo centrale, dall’altro quello delle città espressero idee e modelli di tutela differenti e
spesso inconciliabili, rivelando l’esistenza di prospettive diverse su un tema importante come la conservazione delle testimonianze di un passato comune. Questa tensione prese forma sullo sfondo di eventi che segnarono profondamente la vita del paese. La frammentazione politica e sociale della penisola, l’avvio difficoltoso dei processi di nation-building,
l’imminente terza guerra d’indipendenza, la questione impellente di Roma rendevano per
molti marginale il tema della conservazione, apparentemente rimandabile a momenti di maggior chiarezza e di maggior disponibilità di risorse. Questa percezione finì con l’allontanare la prospettiva di un impegno in grado di tracciare linee e indirizzi di intervento coerenti
e articolati. Il settore della tutela soffrì in questo senso di carenze notevoli, sia dal punto di
vista culturale che materiale, finendo con lo scontare difficoltà e incongruenze di vario tipo.
Mentre ostacoli e difficoltà minavano l’azione dello Stato nei confronti del patrimonio della nazione, i decenni Sessanta e Settanta dell’Ottocento videro l’emergere di altri
soggetti in grado di supplire alle carenze esistenti e di promuovere azioni di tutela autonome e specifiche: le istituzioni locali. Il loro protagonismo nel settore si plasmò nel giro
di pochi anni grazie alle conseguenze non scontate di un evento che segnò il destino di numerosi beni storici, artistici, architettonici e librari, vale a dire la liquidazione del patrimonio ecclesiastico. Essa portò all’acquisizione da parte dell’autorità pubblica di materiale tradizionalmente custodito dalla Chiesa, e a un conseguente duro confronto tra governo
centrale e locale sulla sua destinazione e futura gestione. Il tema della tutela divenne così una questione importante del rapporto centro/periferia, un nodo difficile da sciogliere
per le molteplici implicazioni culturali e politiche che sollevava. I risultati che da questo
scambio si ebbero furono però notevoli. Grazie ad esso venne a delinearsi il sistema di tutela policentrico ancor oggi in larga parte esistente. Grazie alla mobilitazione municipale
a difesa della tutela in loco dei manufatti acquisiti dalla Chiesa, le difficoltà e le contraddizioni del governo centrale relativamente alla costruzione di un apparato di tutela adeguato e di un patrimonio fonte di identità comune vennero alla luce, chiarendo il ruolo
che i diversi soggetti interessati alla salvaguardia dei documenti della storia ebbero nel
tempo. In questo senso i primi decenni postunitari costituiscono un momento fondamentale per la definizione di funzioni e competenze e, soprattutto, per il chiarimento del
valore simbolico e identitario di beni patrimonio della collettività.
615
PARTE QUARTA
Cultura e società
Conservare prima e dopo l’Unità
Per comprendere caratteri e significati della tutela all’indomani dell’Unità, è utile soffermarsi brevemente sulle culture e le pratiche della conservazione proprie degli Stati preunitari, facendo emergere continuità e rotture con quanto andò dispiegandosi a partire dal
1861. Nell’eterogeneo panorama della penisola, due erano i contesti istituzionali in cui
leggi e provvedimenti disegnavano una realtà conservativa, innovativa e avanzata: lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. In entrambi, la funzione sociale dei beni d’arte
e di antichità era alla base di una tradizione conservativa che affondava le proprie radici
nell’età moderna e che, a cavallo tra Sette e Ottocento, aveva preso forma in maniera chiara e specifica.
Dopo il «sacco» francese, a Roma si era a lungo dibattuto sulla necessità di salvaguardare e valorizzare un patrimonio immenso, colpito dalle vicende politiche di fine secolo e
frammentato nella sua integrità. L’esigenza di contrastare future dispersioni e di affermare al contempo il valore pubblico di oggetti e manufatti aveva sollecitato la nascita di un
servizio di tutela incentrato su norme e divieti e articolato in organismi ramificati nel territorio. Da Roma a Bologna, passando per Perugia e altri centri minori, le indicazioni contenute nell’editto Doria Pamphilj prima (1802), in quello Pacca poi (1820), avevano limitato le prerogative dell’«utile privato», e al tempo stesso riconosciuto al patrimonio la
capacità di generare crescita culturale e civile nella collettività. Forte del proprio apparato di commissioni e ispettori, la macchina della conservazione allestita nel primo Ottocento dallo Stato aveva quindi assunto una propria autonomia, divenendo modello futuro per il Regno d’Italia e non solo.
Il concetto di tutela come servizio di utilità pubblica autonomamente organizzato era
maturato negli stessi anni anche nel Regno delle Due Sicilie, dove la ricchezza del patrimonio archeologico aveva favorito l’emanazione di importanti provvedimenti di salvaguardia. Gli straordinari ritrovamenti settecenteschi di Ercolano e Pompei e, più in generale, le continue scoperte effettuate in un territorio ricco di testimonianze storiche
avevano sollecitato misure rivolte a contrastare un mercato antiquario che rendeva reperti e rovine oggetto di aperta e frenetica compravendita. Anche in questo caso, limitare la
dispersione e vigilare sul posseduto erano gli obiettivi principali di un’azione che si concretizzava in termini legislativi e nell’istituzione di organismi centrali e periferici specifici. Da Napoli, dove operavano un soprintendente degli Scavi di antichità e, dal 1822,
un’articolata commissione d’Antichità e Belle Arti, la mano dello Stato si allungava nel
territorio, dove ispettori appositamente preposti indirizzavano e sorvegliavano le operazioni di scavo.
Nel panorama composito della penisola, il caso dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie rappresentava una felice eccezione, singolare com’era nell’affermare la centralità dell’arte e della storia nella maturazione di una nuova coscienza civica. Le difficoltà incontrate nella concreta attuazione della tutela furono certo notevoli, a causa della
vastità dei territori controllati e degli scarsi mezzi a disposizione del settore. Gli strumenti disegnati e i princìpi elaborati costituivano tuttavia un importante traguardo nel processo di acquisizione di una nuova consapevolezza circa il significato della conservazione dei beni d’arte e di antichità. Quanto accadeva nei territori dello Stato pontificio e nel
Regno delle Due Sicilie non avveniva però altrove, nel disomogeneo mosaico di entità
statuali che avrebbero composto il futuro Stato nazionale. Nel Lombardo-Veneto, ad
esempio, singole iniziative di tutela erano promosse esclusivamente a livello cittadino.
Nei Ducati dell’Italia centrale, soluzioni generiche producevano esiti limitati ai soli centri urbani. Nel Granducato di Toscana, la conservazione era demandata alle strutture tecnico-amministrative dello Stato, interessato più al risvolto economico che a quello culturale della salvaguardia di oggetti e edifici. In tutte queste realtà, gli organismi di tutela,
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Il patrimonio artistico e culturale
laddove esistevano, avevano una mera funzione consultiva, risultando privi della facoltà
di imporre divieti e limitazioni alla dispersione del materiale e, più in generale, di promuovere iniziative realmente incisive. La situazione era ancora più grave nel Regno di
Sardegna, dove Carlo Alberto solo nel 1832 aveva istituito una Giunta d’Antichità e Belle Arti con sede a Torino e compiti anch’essi puramente consultivi. Né una legislazione
in materia, né una struttura in grado di competere con quelle di altre realtà della penisola erano presenti nello Stato che avrebbe di lì a poco guidato l’unificazione del paese. Questo scarto legittimò la brusca reazione che la periferia del nuovo Regno riservò a partire
dal 1860-61 alle decisioni prese dal governo centrale, percepite come estranee e lesive di
tradizioni locali ormai radicate.
A Unità compiuta, la difficoltà dello Stato di imporre una prassi legislativa nuova,
volta a intraprendere la costruzione di un sistema nazionale di tutela e del patrimonio della nazione, emerse infatti sin da subito. Sin da quando, nel biennio commissariale 18601861, i primi provvedimenti vennero presi dai governatori preposti al comando provvisorio delle varie regioni della penisola. Le nuove misure da questi adottate risultarono
diverse, in linea con le esperienze maturate nel tempo nei singoli contesti territoriali. Nelle province dell’Emilia – che, a partire dal 1859, riunivano le Legazioni pontificie e i territori degli ex Ducati di Parma e Modena –, in Toscana, in Umbria e nelle Marche vennero istituite commissioni volte a vigilare e indirizzare future iniziative di tutela. Questi
organismi furono il più delle volte affiancati dalle Accademie di Belle Arti e da altri istituti ereditati dal passato, provocando scontri e frizioni che di fatto bloccarono l’attività
complessiva delle varie strutture. Nelle province meridionali si provvide a riattivare gli
organismi esistenti, rafforzando il ruolo della Soprintendenza napoletana. Diretta da Giuseppe Fiorelli, essa venne arricchita di nuove competenze, anche se l’ambiguità normativa prodotta dal passaggio di potere dai Borboni al nuovo Stato ne limitò per il momento
l’attività. In Piemonte e nei territori della Lombardia ci si mosse all’insegna della continuità, in attesa di provvedimenti che avrebbero interessato l’intera penisola. Dal punto di
vista amministrativo la spinta a creare nuovi istituti si intrecciò con l’esigenza di non cancellare le esperienze passate e di farle proprie rilanciandole almeno dal punto di vista progettuale. Vennero in questo senso recepiti, almeno formalmente, i mezzi legislativi più
avanzati messi a punto dai cessati governi, nel tentativo di salvare norme e misure utili ad
accompagnare la difficile transizione. Ma la tensione prodotta da esigenze diverse, sommata all’impossibilità di procedere nell’immediato alla definizione di strumenti normativi e burocratici omogenei a livello nazionale, favorì la crescita della confusione, immobilizzando organismi vecchi e nuovi e rendendoli di fatto poco operativi.
In questo panorama di incertezza vide la luce il provvedimento che più di altri segnò
la messa a punto del futuro sistema nazionale, vale a dire la soppressione delle corporazioni religiose, avviata in alcune aree della penisola negli anni 1860-61, estesa a tutto il
territorio nazionale nel 1866. Grazie ad essa lo Stato incamerò un numero notevole di edifici e manufatti storico-artistici tradizionalmente custoditi dagli enti ecclesiastici.
Le prime soppressioni vennero decretate in Umbria, nelle Marche e nelle province
napoletane. Qui lo scioglimento degli ordini religiosi e la conseguente chiusura di monasteri e conventi resero inderogabile affrontare la questione della sorte degli oggetti divenuti di proprietà pubblica. Quale sistemazione dare alle tele, alle sculture, agli arredi sacri, ai manoscritti e ai libri rari passati nelle mani dello Stato? Soprattutto, quali mezzi e
risorse mobilitare? Il problema era serio, data l’instabilità conosciuta da queste regioni a
ridosso dell’Unità. La sua soluzione era urgente, vista la necessità di provvedere immediatamente alla collocazione di un materiale di facile deperimento. Vennero allora identificati tre punti di raccolta verso cui far confluire il materiale da incamerare: l’Accademia di Belle Arti di Perugia, quella di Urbino e il Museo archeologico di Napoli, trasformato
da Garibaldi in Museo nazionale. Il patrimonio librario venne invece destinato alle
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Cultura e società
biblioteche dei singoli comuni, per quanto riguardava l’Umbria e le province napoletane, alle città sedi di università o ai capoluoghi di provincia, per quanto riguardava invece
le Marche. La scelta rispondeva a ovvi criteri di necessità, ma non teneva conto dell’impatto che avrebbe suscitato sulle realtà interessate. Nello specifico, sulle comunità che si
vedevano private di beni tradizionalmente custoditi all’ombra dei propri campanili. La
decisione di accentrare in pochi punti di raccolta un materiale diffuso nel territorio scatenò una reazione fiera e orgogliosa da parte di città che si opposero alla cessione degli oggetti ad altri centri urbani, reclamando a sé il diritto di tutelare le testimonianze della propria storia. Questa reazione, che riguardava i manufatti artistici più che il materiale librario
e documentario, fu talmente aspra da indurre alla sospensione o al ritiro dei tre provvedimenti, in attesa della promulgazione di una normativa nazionale. Essa non si fece attendere: qualche anno dopo, nel 1866, riprendendo la legislazione sarda del 1855, lo Stato
italiano procedette alla soppressione degli enti religiosi in tutto il Regno e alla conseguente liquidazione dell’asse ecclesiastico.
Consapevole della reazione ai decreti del biennio commissariale, il governo centrale
scelse in questo caso una soluzione diversa da quella precedentemente adottata. Rinunciando alle ipotesi centralistiche, la legge del 1866 mirava infatti a redistribuire gli oggetti a livello provinciale e comunale. Essa prevedeva che i libri, i manoscritti, i documenti
scientifici, gli archivi, i monumenti, gli oggetti d’arte o «preziosi per antichità» fossero devoluti a biblioteche o musei pubblici esistenti nelle rispettive province. Si tentava in questo modo di stabilire un criterio di assegnazione più attento alle spinte provenienti dalle
differenti aree del paese. Si mirava inoltre a potenziare gli istituti conservativi preesistenti, garantendo una migliore tutela del materiale incamerato. Neppure questa modifica parve però soddisfare le istanze dei comuni che si mossero compatti nel denunciare il tentativo di accentrare gli oggetti nei capoluoghi di provincia. Era in questi centri infatti che
si concentravano in genere musei e biblioteche in grado di ospitare il materiale. Ed era
qui che, razionalmente, il governo intendeva indirizzare il flusso in entrata dei beni storico-artistici. Le proteste quindi ripresero, ancora all’insegna della rivendicazione del diritto alla tutela in loco, segno di una forte tensione ad affermare la propria appartenenza
e la propria identità.
La questione della tutela tra centro e periferia
La protesta dei municipi sfociò in una mobilitazione fatta di appelli, petizioni, sospensione dei trasferimenti, volta a reclamare il decentramento della tutela in nome di princìpi
evocati in maniera simile in tutta la penisola. Il decoro delle città, il valore del passato, il
desiderio di tramandare le proprie glorie artistiche alle future generazioni, la necessità di
non minare, semmai di alimentare, una memoria comune vennero indifferentemente rivendicati a Pisa come a L’Aquila, a Savona come ad Aversa, in un crescendo di voci articolato ma omogeneo nella sostanza. La richiesta di tutelare i manufatti in loco coincideva
con l’affermazione di un’appartenenza al luogo e alla comunità di cui le istituzioni locali si
candidavano ad essere promotrici principali. Ma in che modo questa rivendicazione identitaria prese forma e in che termini si espresse nei diversi contesti civici? La difesa del valore «locale» della salvaguardia degli oggetti venne forse espressa al meglio dagli amministratori di un comune abruzzese, Sulmona, i quali sostenevano che «alcune cose d’importanza
locale, cui alcune date popolazioni si sono affezionate, concorrono potentemente a formare una patria, la quale si costituisce di omini, di edifizi, di memorie». Questa patria andava protetta nei suoi simboli più importanti dai tentativi «lesivi» di un «amore» e di un attaccamento espressi da una città «che molto t[eneva] alla sua vetustà alla sua storia alle sue
memorie» (Acs 1877). La loro difesa andava tradotta, a Sulmona, nell’opposizione agli
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Il patrimonio artistico e culturale
attacchi «spogliatori» del governo centrale, altrove, ad esempio in alcuni comuni marchigiani, in una «seria e insormontabile resistenza» (Acs 1866) alle mire conquistatrici delle
città privilegiate dalle decisioni prese a livello nazionale. In questo senso bisognava lottare per la difesa del «lustro» di tradizioni che non ammettevano cesure di alcun segno.
Il tema del vincolo del passato fu declinato in vario modo a livello cittadino, soprattutto in termini di rispetto di quei geni artistici che nel tempo avevano reso celebri i diversi luoghi. A Sant’Angelo in Vado, ad esempio, era prioritario difendere la «memoria
imperitura» di quegli «illustri» ai quali la città aveva dato i natali, favorendo la conservazione di oggetti e manufatti che ne ricordassero «il nome immortale» (Acs 1867b). A Monreale, in Sicilia, il «lustro e decoro» civico era espresso da «illustri filosofi e grandi artisti»
di cui era imprescindibile tutelare il ricordo (Atti Parlamentari 1869). Ovunque le glorie patrie divenivano numi tutelari da custodire gelosamente e ammirare, in vista di una
grandezza dimenticata da recuperare. In questo senso il passato spalancava le porte al futuro, nella forma di uno sviluppo economico da potenziare o di una crescita culturale da
incrementare. I «numerosi e distinti forestieri» da attrarre nei propri territori e la «gioventù studiosa» da far crescere e coltivare divenivano i punti di riferimento di un’azione che
mirava a definire vocazioni culturali specifiche per città alla ricerca di un nuovo ruolo. In
questo senso si puntava a sviluppare «l’ammirazione dei passeggeri» e a favorire al contempo il «progresso degli studi e il perfezionamento delle arti». Nelle parole degli amministratori spoletini, era necessario «trar profitto anche dalle più meschine risorse onde migliorare per quanto sia possibile la condizione morale, ed economica della nostra città». Il
patrimonio culturale locale doveva suscitare anche l’interesse dei «forestieri», ed essere esibito «alla studiosa gioventù per esempio del bello», servendo anche «di modello a una scuola di pittura, dove l’arte vecchia fosse lume della nuova» (Acs 1867a).
L’affermazione delle proprie radici e le rivendicazioni che da essa prendevano forma
venivano inquadrate in un discorso a tratti esplicitamente antistatale. Il governo centrale
era infatti accusato di «sovercheria» laddove imponeva le proprie regole, uniformando un
procedere amministrativo ritenuto invasivo e problematico. Questa accusa passava attraverso temi sapientemente coniugati. In alcuni casi, ad esempio, si faceva riferimento ai
beni contesi come a materiale che nel Risorgimento aveva garantito una resistenza morale decisiva in vista della riunificazione nazionale. Simboli di una sofferenza e di un’attesa comunemente vissute, questi beni avevano ispirato la partecipazione collettiva al «destino della nazione» che ora non poteva essere tradita. «Conforto al passato servaggio», si
scriveva da Macerata, gli oggetti appartenevano al luogo e alla comunità a cui erano legati da vincoli sacri e inviolabili (Acs 1862). Vincoli che lo Stato, frutto del processo risorgimentale, non poteva permettersi di indebolire.
Altro tema impiegato nella mobilitazione comunale fu la presunta somiglianza tra l’atteggiamento del neonato governo nazionale e quello dei passati regimi stranieri, impegnati all’inizio del secolo a depredare la penisola delle sue ricchezze. La «rapina» francese sembrava rivivere, nelle parole degli amministratori di Fabriano, nelle azioni dello Stato italiano
il quale riproponeva mezzi e misure che solo le «prepotenze straniere» erano state in grado di infliggere (Acs 1861). Anche in questo caso, combattere contro le decisioni centrali significava affermare un’appartenenza radicata nella storia e nelle forme del mondo locale. Vale la pena notare come in tutti questi passaggi discorsivi, i beni in questione
rappresentavano indistintamente la piccola e la grande patria, visto che l’una era tassello
imprescindibile dell’altra. «Colpire» la prima con provvedimenti ritenuti lesivi della sua
identità significava dunque «colpire» anche la seconda, non cogliendo il legame intrinseco che univa entrambe. In questo discorso, radicato nelle richieste formulate negli anni
1860-70, si verificava un pericoloso cortocircuito sull’idea di appartenenza nazionale, letta nei termini della località e contrapposta a quella di uno Stato accusato di mettere a repentaglio l’integrazione tra i vari elementi che lo componevano.
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Differenti istanze culturali erano dunque sottese a una contestazione che assunse varie forme e che rivelava il forte antagonismo, da un lato, tra le città e il governo centrale,
dall’altro tra i singoli centri urbani impegnati a difendere ad ogni costo la propria identità. La contesa dei beni si dispiegava in questo senso tra centri di diversa dimensione e diverso potere, i più deboli dei quali denunciavano un progetto complessivo di «brutale»
centralizzazione. Di qui la protesta di Alcamo che, insieme ad altri comuni della provincia di Trapani, si rifiutò di consegnare i propri oggetti al capoluogo «non merita[ndo] per
nessuna ragione che venisse spogliata de’ capolavori d’arte de’ quali e[ra] fornita» (Acs
1868). La «cupidigia» dei capoluoghi fu diffusamente condannata, soprattutto laddove
l’unificazione produceva disincanto e delusione. Il «sacrificio» vissuto da comunità poco
avvantaggiate dalla nuova situazione politica indicava allora nella tutela un «discreto compenso», volto a sanare situazioni incresciose e spesso di grande smarrimento. «Questa tendenza di spogliare continuamente i piccoli a favore dei più grandi – scrivevano gli amministratori di Borgo San Donnino schierati contro Parma per la cessione di alcuni oggetti
– aliena fortemente gli animi delle popolazioni e finisce per far credere, che invece di una
libertà vera, si abbia una libertà fittizia, che non giova a tutti, ma che sia anzi il patrimonio di chi ha il privilegio della maggiore importanza e della maggiore influenza» (Acs 1876).
Nella forma del «malumore», del «malcontento», delle «ripulse», la mobilitazione municipale indicava l’esistenza di un attaccamento al luogo, alla sua storia e alla sua cultura profondamente radicata e a tratti radicalmente esacerbata. Ma che cosa celava in fondo questa rivendicazione così esplicitamente espressa?
La tutela locale era reclamata dai municipi come terreno su cui rilanciare un’identità,
utile nel confronto con le trasformazioni dettate dall’unificazione. Il timore di soccombere
a una «piemontesizzazione» lesiva delle diverse appartenenze, a una nazionalizzazione omologante e poco rispettosa delle singole specificità, spingeva a enfatizzare la dimensione locale come spazio di storia e memoria. La piccola patria diveniva un universo simbolico in
cui individuare tradizioni, immagini, narrazioni in grado di valorizzare le peculiarità storiche delle cento città della penisola. Questa enfasi prendeva forma sullo sfondo di processi
che ridefinivano gli assetti amministrativi e politici territoriali. Con la creazione del Regno,
la redistribuzione di mezzi e risorse trasformava il ruolo delle città e delle loro classi dirigenti, ridisegnando le gerarchie esistenti. Il potenziamento di alcuni centri urbani produceva il declassamento di altri; la nascita di nuove province obbligava alla soppressione di antichi capoluoghi; più in generale, la nuova localizzazione di investimenti economici, l’incremento
della rete infrastrutturale, la costruzione di tribunali, ospedali, istituti educativi creavano
disomogeneità, spostando il baricentro politico ed economico di intere aree geografiche.
L’unificazione e la modernizzazione del paese producevano grandi cambiamenti, riconfigurando la natura di istituzioni ed élites dal futuro incerto. La difesa del diritto/dovere alla tutela municipale risultava in questo senso anche funzionale alla riaffermazione del potere delle classi dirigenti locali e alla elaborazione di nuove idee di futuro per universi sociali scossi
dall’unificazione. In ogni caso, la sfaccettata ragione che spingeva le città ad allarmarsi e mobilitarsi per la tutela suscitava anche a livello centrale ansie e timori di non facile soluzione.
Dinanzi alle richieste comunali, lo Stato assunse un atteggiamento di grande prudenza, dovuto all’esigenza di promuovere innanzitutto il consenso del mondo locale alle istituzioni del Regno. Nel momento in cui si tentava di rafforzare un’adesione collettiva ai
valori e all’apparato amministrativo dello Stato, antagonismi e contestazioni andavano arginati, poiché minavano il processo di nation-building, alimentando lo spettro di una disgregazione fatale. Il timore di scontri e fratture portò in breve il governo a dialogare, mediare, negoziare, fino a cedere alle istanze municipali, favorendo la distribuzione del
materiale in base alle rivendicazioni inoltrate.
Questa soluzione, che segnò di fatto la nascita nel nostro paese di un sistema di tutela policentrico, fu del resto caldeggiata da quei rappresentanti dello Stato chiamati ad
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approfondire meccanismi e dinamiche in atto nelle varie aree del paese. Nelle loro riflessioni sulle mobilitazioni in corso, i prefetti ad esempio misero in luce gli interessi ruotanti attorno alla tutela dei beni d’arte e di antichità, restituendo il quadro mosso di una protesta
di cui essi coglievano vari aspetti. Il vincolo emotivo che legava le comunità ai propri manufatti, il desiderio di promuovere iniziative di tutela autonome, il protagonismo di istituzioni culturali antiche e recenti erano elementi di continuo sottolineati, insieme ad altri che
rivelavano l’ampio spettro di motivazioni sottese alle richieste comunali. La rivalità tra città e il personalismo di sindaci ed eruditi impegnati a ridefinire il proprio ruolo nella società venivano ad esempio considerate questioni oltremodo rilevanti nell’attuazione di scelte e
decisioni dagli effetti importanti. La strada della conciliazione era quindi proposta come soluzione in grado di non inimicare allo Stato le comunità locali, evitando al contempo di intralciare la costruzione di un rapporto di per sé non facile da definire. Questo sbocco era sollecitato anche da altri soggetti, patrocinatori a livello centrale delle rivendicazioni locali: dai
rappresentanti dei singoli collegi elettorali, ad esempio, i quali si calavano spesso nel ruolo
di mediatori, facendo proprie e rilanciando le istanze dei propri elettori; dai consigli provinciali, interessati a potenziare le strutture della tutela nei propri territori; da singoli esponenti dell’amministrazione centrale i quali, con il passare del tempo, riconobbero l’utilità di uno
sbocco volto a ricondurre il bene storico-artistico a una dimensione primariamente locale.
Al di là delle motivazioni politiche e culturali sottostanti alla decentralizzazione della tutela, un’altra esigenza spingeva infatti in questa direzione: quella di non appesantire le finanze pubbliche, già gravate dai costi straordinari dell’unificazione.
La necessità di razionalizzare le spese in un momento di grave scompenso per le casse del Regno si imponeva anche per un settore delicato come quello della tutela. Con l’unificazione lo Stato ereditava del resto un patrimonio immenso fatto anche di musei, gallerie, pinacoteche, appartenute a passati governi e sovrani. Questi spazi della conservazione
andavano riorganizzati, amministrati e in gran parte finanziati. Si trattava certo di una sfida, vista la ricchezza e l’eterogeneità di un panorama che andava dalla Galleria degli Uffizi di Firenze al Museo archeologico di Napoli, passando per le ricche collezioni di Palermo. Accanto ad essi, raccolte spesso di grande rilevanza crescevano presso università e
accademie antiche e prestigiose. Trasformate in «regie» o «nazionali», le collezioni di molte città e, dopo il 1870, di Roma necessitavano di nuove risorse per essere valorizzate e
salvaguardate. Stesso impegno esigevano poi le biblioteche nazionali, preesistenti alla nascita del Regno, e quella miriade di raccolte librarie custodite da istituti scolastici ed universitari di varia rilevanza. Lo Stato, infine, si trovava a gestire gli edifici ecclesiastici monumentali sottratti nel 1866 alla gestione municipale e affidati, per il loro valore inestimabile,
direttamente al governo. Tra essi, la Certosa di Pavia, le badie di Montecassino, di Cava
dei Tirreni, di Monreale con le rispettive dotazioni artistiche e librarie. Il settore della tutela era dunque sterminato, laddove la disponibilità economica dello Stato mostrava tutta la propria inadeguatezza.
Decentrare parte della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale alle
istituzioni locali permetteva di risparmiare e al tempo stesso di avviare anche progetti conservativi nuovi, volti a celebrare la nascita del nuovo Stato e a richiamare interessi e valori da esso promossi. Se l’esistenza di antiche, grandiose raccolte consentiva il rafforzamento dell’immagine dell’Italia culla d’arte e civiltà, la loro continuità con il passato, il
loro essere eredità di mondi trascorsi minava l’impegno dello Stato nell’onorare l’unificazione del paese. Nasceva quindi l’esigenza di creare istituzioni ex novo, di fondare musei e biblioteche frutto del nuovo spirito nazionale, al pari di quanto avveniva in altri paesi europei, dove la nascita degli Stati-nazione era salutata da raccolte nazionali di nuovo
conio. Nei due decenni successivi all’Unità, in Italia vennero create alcune istituzioni che
andavano proprio in questa direzione. Nel 1861, ad esempio, alle antiche biblioteche nazionali di Napoli e Palermo venne affiancata la nuova Biblioteca nazionale di Firenze,
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Cultura e società
frutto della fusione di precedenti raccolte. Nel 1875 a Roma, presso il Collegio Romano,
venne istituito un polo conservativo che accoglieva il Museo preistorico ed etnografico
«Luigi Pigorini» e la nuova Biblioteca nazionale «Vittorio Emanuele II», istituti intesi soprattutto a rinnovare il prestigio della nuova capitale. Tre anni dopo, a Torino veniva decretata la nascita del Museo del Risorgimento, volto a celebrare il ruolo della casa regnante nel processo di unificazione nazionale. Si trattava in questi casi di progetti attraverso
cui lo Stato organizzava le proprie istituzioni culturali, sancendo il ruolo di città chiamate a sostenere il confronto con le altre capitali europee. La crescita del numero degli istituti direttamente o in parte finanziati dallo Stato venne nel tempo moltiplicandosi, dando vita a una trama fitta di raccolte ordinate in una scala di rilevanza che distingueva centri
di prima e seconda classe, governativi o misti, nazionali o statali, verso cui indirizzare gli
scarsi investimenti a disposizione. La questione economica rimaneva centrale nella difficile messa a punto di un sistema, per sua natura vitale e bisognoso di continue risorse.
Furono dunque diverse le ragioni che portarono lo Stato ad assecondare le richieste
provenienti dal mondo locale. La scelta decentralizzatrice produsse in ogni caso due conseguenze di grande importanza. In primo luogo, la costruzione di una mappa territoriale
della tutela che rispecchiava la diffusione capillare degli oggetti, affermando l’inviolabilità della gestione pubblica e urbana dei manufatti. In secondo luogo, il monopolio da parte del mondo locale di un discorso della «piccola patria» che si dispiegava nella contrapposizione allo Stato e, nello stesso tempo, nell’adesione a una patria più grande, vale a dire
la nazione. La forza di questo discorso permeava il rapporto centro/periferia, avvantaggiando il mondo locale nella propria rivendicazione d’identità.
L’assenza di coordinate
Il processo finora descritto di assunzione da parte delle istituzioni locali di grandi responsabilità nella conservazione dei documenti della storia fu segnato, oltre che dalle difficoltà di un rapporto centro/periferia complesso e conflittuale, anche dalla percezione generale della tutela quale tema di scarso rilievo nazionale. Numerose emergenze concorrevano
infatti ad assegnare poco risalto al tema, considerato meno importante e più differibile di
altri. Questa percezione contribuì ad allontanare la possibilità di un confronto serio e articolato sul patrimonio culturale, il quale venne definendosi senza princìpi-guida generali che ne regolassero la costruzione: per essere più precisi, in totale assenza di un quadro
legislativo di riferimento. Fu infatti soltanto all’inizio del nuovo secolo che venne promulgata una legge organica di tutela, con l’intento di affermare attraverso un apposito sistema conservativo territoriale i diritti della collettività su beni inalienabili. Fino ad allora ci si limitò ad ereditare norme e leggi dei passati governi, rimandando a tempi futuri la
messa a punto di un provvedimento complessivo. Di fatto deleteria, questa scelta fece sì
che al momento di un passaggio delicato come quello dell’incameramento dei beni di ex
pertinenza religiosa non ci fossero strumenti in grado di regolarne a livello nazionale fasi
e modalità.
A ben guardare, l’assenza di una legislazione o quanto meno di un dibattito in materia di tutela rimandava a una difficoltà di fondo, vale a dire all’incapacità del mondo politico liberale di confrontarsi con la relazione pubblico/privato che la tutela di fatto richiamava. Il timore di ledere il principio cardine del liberalismo, sul quale si fondava la stessa
impalcatura del nuovo Stato, rendeva impensabile la scelta di misure – ad esempio l’esproprio – utili a conservare, accrescere e salvaguardare il patrimonio nazionale. Il riconoscimento del «vantaggio pubblico» e collettivo che sin dal Settecento aveva caratterizzato la
cultura della conservazione italiana lasciava ora spazio al timore di intaccare la proprietà singola e individuale. Questo timore finiva con l’indebolire la stessa azione coercitiva
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delle norme ereditate dagli stati preunitari, e con il consentire la dispersione del materiale attraverso vari canali. I disagi legati alla messa in discussione di un principio insindacabile erano poi accresciuti dalla scarsa consapevolezza del valore culturale di beni dal
grande potenziale evocativo e identitario. Per le classi dirigenti nazionali, almeno nei primi decenni postunitari il patrimonio rimase uno strumento di retorica efficace, ma sterile per celebrare la gloria della nazione. Generiche affermazioni sulla grandezza dell’arte e
del passato italiano alimentarono un discorso nazionalista poco utile a impedire esportazioni e trafugamenti degli oggetti, e scarsamente efficace nel sanzionare manipolazioni e
distruzioni di edifici e rovine.
La scarsa attenzione che i politici ponevano sul tema della conservazione non passò
inosservata, ma venne denunciata da alcuni personaggi che sollecitarono più volte un diverso atteggiamento da parte del governo. Già nel 1862, il deputato Giovanni Morelli tuonava in Parlamento:
A me sembra che torni ad altissima lode del Governo del Re di staccare per qualche istante
lo sguardo dalle strade di ferro, dai porti, dai fari, dalle navi corazzate, dai sali e dai tabacchi, per innalzarlo a quelle arti che sono la maggiore, la meno contrastata gloria della nazione. Un argomento che mi sembra di grandissima importanza, né a voi potrà parere futile, e
del quale pur troppo fino ad oggi i rappresentanti d’Italia, di questa terra consacrata dal cielo alle arti belle, non trovarono mai tempo di occuparsene; intendo dire dello stato di abbandono in cui giacciono i monumenti d’arte della penisola (Atti Parlamentari 1862).
L’appello accorato di Morelli era pienamente condiviso da chi con lui a ridosso dell’Unità aveva compiuto un’importante ricognizione di alcune parti del territorio italiano, mettendo in luce questioni e problemi da affrontare in futuro: Giovanni Battista Cavalcaselle.
Studioso e conoscitore di molte realtà storico-artistiche nazionali, egli richiamava il governo all’immane compito ereditato dalla storia, vale a dire «l’obbligo di mantenere la gloriosa tradizione del paese». Pochi passi vennero però computi in questa direzione soprattutto dal punto di vista della messa a punto di strumenti legislativi adeguati.
Soltanto la discussione sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico introdusse in Parlamento il tema della tutela, imponendo per un attimo la questione della sorte dei beni da
incamerare. In maniera discontinua e spesso superficiale, ci si confrontò agli inizi degli
anni Sessanta dell’Ottocento sulla natura e la legittimità dei provvedimenti da emanare,
soprattutto sull’opportunità di acquisire un patrimonio artistico e librario estremamente
rilevante. Di nuovo la questione della proprietà privata tenne banco, sostenuta da quanti ritenevano la liquidazione dell’asse un attacco diretto a soggetti e proprietà ben identificabili. In questo caso, ragioni economiche e politiche prevalsero, consentendo allo Stato l’acquisizione di vaste proprietà ecclesiastiche e l’immissione di beni in un mercato
faticosamente avviato a trasformarsi in nazionale. Anche le voci di coloro che riconoscevano alla Chiesa una tradizione conservativa di cui far tesoro nella futura conservazione
dei manufatti vennero sopraffatte da quelle di quanti ritenevano inderogabile il passaggio
all’autorità pubblica del materiale acquisito. All’ipotesi di lasciare dipinti, sculture, oggetti, arredi sacri nelle strutture religiose si preferì quella di trasferire tutto nei musei di
nuova e antica costituzione. Su queste decisioni pesò il clima politico arroventato da un
anticlericalismo in parte radicato e da tensioni connesse alla terza guerra di indipendenze alle porte. Pesò inoltre una certa inconsapevolezza della reale articolazione delle strutture conservative disseminate nella penisola e, da ultimo, una scarsa conoscenza della consistenza effettiva del materiale da acquisire. Elementi che svelavano l’approssimazione
con cui il tema della tutela venne nel complesso affrontato nelle aule parlamentari.
All’episodica discussione apertasi nelle più alte sedi rappresentative del paese seguì
però, negli anni successivi, non solo la crescita del ruolo delle istituzioni locali, ma anche
la messa a punto di organismi amministrativi in grado di fornire strumenti utili per far
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Cultura e società
chiarezza nel settore. Ancora una volta, si trattava di provvedimenti che tentavano di colmare un vuoto legislativo pesante e assai significativo. Nuovi organismi e nuovi regolamenti vennero promulgati in relazione sia al patrimonio storico-artistico che a quello librario, riorganizzato, almeno sulla carta, da decreti volti a restringere il numero degli
istituti a carico dello Stato e a regolarne gli organici. Fu però nel 1875, con la creazione
della Direzione generale degli scavi e dei musei del Regno, che lo Stato impresse una vera svolta razionalizzatrice, intesa a ripensare un sistema di tutela dei beni storico-artistici complesso e frammentato.
Questa svolta fu sollecitata da un settore che con l’Unità conobbe un forte incremento soprattutto, di nuovo, a livello cittadino: l’archeologia. L’esplosione della passione per
la storia e la moltiplicazione dei musei locali diedero infatti nuova linfa agli scavi, promossi da gruppi di eruditi impegnati a potenziare l’identità municipale all’ombra dei vari campanili. Il fenomeno si innestava su un tessuto di esperienze relative all’antico decisamente eterogeneo a livello nazionale. Laddove esistevano tradizioni di studio e di scavo
radicate, l’archeologia aveva raggiunto importanti risultati ben prima dell’Unità favorendo, era questo il caso dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, una legislazione in materia, come dicevamo, piuttosto avanzata. In altri contesti, l’esistenza di istituzioni e di
forme di associazionismo dedite allo studio e all’esplorazione del passato aveva arricchito la conoscenza della storia di città e regioni, alimentando un insieme di saperi che travalicava i confini nazionali. Più in generale, l’archeologia era però rimasta terreno di sperimentazione di amatori e cultori dell’antico, impegnati a sviluppare forme di collezionismo
di stampo familiare e antiquario. L’eterogeneità e la frammentarietà di questo panorama
crebbero dopo l’Unità, quando gli organismi ereditati dai passati governi – ad esempio,
la Soprintendenza agli scavi di Napoli – furono affiancati da istituzioni di nuova creazione. Esse operarono il più delle volte in competizione con gli altri, rivendicando un’autonomia di difficile attuazione. Anche a Roma, dopo il 1871, una situazione di grande tensione si sviluppò tra vecchi e nuovi organismi, comunali e statali, interessati a gestire
l’immenso patrimonio ereditato dalla Chiesa. La creazione, nel 1870, di una Soprintendenza per gli Scavi di antichità e per la conservazione dei monumenti nella provincia suscitò una forte reazione da parte del municipio, che vi intravedeva il tentativo di espropriare sue antiche prerogative. Questo conflitto produsse la nascita di organismi contrapposti,
le cui funzioni vennero specificate dal governo solo negli anni successivi, nella speranza
di far cessare i contrasti armonizzando ruoli e competenze.
Se il caso di Roma rappresenta una specificità difficile da negare, è tuttavia evidente
che il sovrapporsi di funzioni e ruoli costitutiva una costante delle molteplici esperienze
avviate a livello centrale e periferico. Fu merito del ministro Ruggiero Bonghi uniformare un sistema soffocato dal conflitto di competenze, paralizzato da rivendicazioni e compromessi, caratterizzato, il più delle volte, da dilettantismo e improvvisazione. Con la istituzione della Direzione generale e delle commissioni provinciali da essa controllate in tutto
il territorio nazionale, la macchina della tutela cominciava a diramarsi capillarmente, imponendo omogeneità e scientificità alle procedure di scavo e di tutela di reperti e rovine.
Una rete di operatori veniva per la prima volta attivata uniformemente, e messa in grado
di interloquire con il centro in maniera diretta.
La svolta imposta da Bonghi fu duramente contestata da quanti vi vedevano un attacco all’attività e alle prerogative locali. Essa in realtà produsse un’ulteriore decentralizzazione del sistema, che inglobava al proprio interno saperi e competenze radicati nello
spazio locale e le valorizzava investendole di nuove responsabilità. Depositari e cultori
delle patrie memorie furono infatti trasformati in commissari e ispettori, investiti di nuovi compiti e resi formalmente partecipi della costruzione del patrimonio della nazione. Il
loro ruolo divenne nel tempo centrale per il raggiungimento di questo scopo: senza essere stipendiati, né tanto meno sostenuti da un sistema ricco di risorse, questi operatori
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Il patrimonio artistico e culturale
dimostrarono il più delle volte zelo, passione e abnegazione nello svolgimento di un lavoro che rafforzava le prerogative locali, potenziando le radici dell’identità. In questo senso la costruzione del sistema, il suo funzionamento, il suo valore politico e culturale divennero adempimento quotidiano di singoli individui pronti a operare gratuitamente in
vista della realizzazione del patrimonio della nazione. Il valore culturale dell’operazione
ricadeva positivamente sulle spalle della periferia, mentre il ruolo dello Stato ne usciva
compromesso, e la tutela si affermava come dovere morale assolto in primo luogo dagli
operatori locali.
Negli anni successivi al 1875, altri provvedimenti mirarono a migliorare il sistema di
tutela, prospettando un ordinamento uniforme e un assetto definitivo per gli istituti conservativi del paese. L’istituzione del ruolo unico per il personale addetto ai musei e alle
biblioteche; la definizione di un regolamento generale per tutte le collezioni pubbliche del
Regno e l’imposizione del catalogo dei materiali posseduti; la separazione tra musei e Accademie di Belle Arti e, conseguentemente, tra ambito della conservazione e ambito dell’istruzione; l’introduzione del biglietto d’accesso ai musei rivelarono un maggior impegno in un settore a lungo considerato ancillare. Ma il riconoscimento, istituzionale e
culturale, del protagonismo locale e l’assenza di una legge organica che fissasse l’orizzonte materiale e simbolico della tutela fecero sì che il patrimonio della nazione fosse innanzitutto costruito e gestito nei singoli mondi urbani.
Conservare in loco
La nascita di un sistema di tutela policentrico avvenne dunque nell’ambito di un rapporto centro/periferia ambiguo e problematico. Al suo interno vennero rapidamente definendosi valori, ruoli e funzioni che potenziarono la dimensione urbana rafforzando l’idea di
una piccola patria coesa e omogenea nella propria rivendicazione identitaria. Questa immagine di coerenza messa a punto soprattutto nel conflitto con il governo centrale risultava in realtà segnata al proprio interno da ulteriori tensioni, che attraversavano la sfera
urbana, producendo effetti duraturi. Nei decenni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, lo
scontro ingaggiato dalle istituzioni locali non si rivolse infatti unicamente contro quelle
governative, ma si estese anche alle ecclesiastiche, private dei beni tradizionalmente custoditi nelle proprie strutture. Il passaggio di questi ultimi dall’autorità religiosa a quella pubblica produsse una forte reazione da parte del clero, il quale condannò l’intera liquidazione come un’ignobile usurpazione. I decenni qui considerati videro in questo senso
altri, specifici interessi in gioco, nonché molteplici livelli di conflitto ruotanti attorno alla questione della tutela dei beni d’arte e di antichità.
Il passaggio di proprietà degli oggetti venne accolto dalla Chiesa in maniera aspra e
polemica. Sabotaggi dei trasferimenti dalle strutture chiuse al culto ai musei si ebbero in
molti centri urbani, dove contestazioni e appelli maturarono nel solco della mobilitazione condotta dai municipi contro il governo nazionale. Suore, monaci, religiosi appartenenti agli ordini soppressi tentarono in molti casi di mettere in salvo i manufatti, nascondendoli, trasferendoli, vendendoli a privati pur di non cederli all’autorità pubblica. In
questo incontravano gli interessi di un mercato antiquario particolarmente ricettivo e interessato a sfruttare a proprio vantaggio la confusione generata dalla chiusura delle strutture e dall’allestimento delle collezioni civiche. A Roma, come denunciavano i commissari per la vigilanza sul patrimonio storico-artistico della città, la situazione appariva
particolarmente grave poiché molti religiosi si disfacevano degli oggetti, spesso distruggendoli, per «preservarli» dall’acquisizione da parte dei musei. La difesa della proprietà
del materiale custodito e gestito spesso per secoli ebbe per la Chiesa un duplice significato. Da un lato servì a contestare l’azione di uno Stato laico, intenzionato a far valere le
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Cultura e società
proprie prerogative nel territorio amministrato. Dall’altro, mirò invece a salvaguardare
quell’insieme di tradizioni e consuetudini sviluppatesi nel tempo negli spazi sacri della
penisola. Il valore di statue, dipinti, argenti, paramenti, arredi risiedeva, infatti, nella dimensione liturgica e devozionale in cui erano impiegati, mentre il loro significato evocava aspetti ed emozioni propri della sfera religiosa. Attorno ad essi memorie, legami, sentimenti si erano sviluppati nel corso del tempo, finendo ora con l’essere messi a repentaglio
dal violento intervento pubblico. Quest’ultimo si traduceva nella rivendicazione da parte dei municipi del diritto a una tutela laica e civica, improntata a una fede nuova, quella
del patriottismo. Una nuova religione civile veniva quindi reclamata, una religione caratterizzata da forme di ritualità pubblica da espletare non più nelle navate di una chiesa, ma
nelle sale di un museo. Dinanzi a questo progetto la Chiesa faceva sentire la propria voce, contestando duramente i provvedimenti attuati.
Essi toccavano del resto non solo la comunità ecclesiastica, ma anche la più ampia comunità urbana composta di fedeli e credenti, e rappresentata dalle istituzioni locali nell’ottica della «piccola patria». Difficile era in questo senso preservare l’equilibrio di contesti
cittadini scossi da numerose tensioni. L’atteggiamento dei comuni nei confronti delle rivendicazioni ecclesiastiche fu in ogni caso disomogeneo, improntato alla duplice esigenza
di non incrinare complessi rapporti sociali e di smascherare al contempo l’opportunismo
di soggetti, spesso disinteressati alla reale conservazione degli oggetti. Alla prudenza e all’attenzione che spesso spinsero alla sospensione o riprogrammazione dei trasferimenti, seguirono quindi la denuncia e l’accusa alle autorità ecclesiastiche di voler disperdere un patrimonio, bene primario dell’intera collettività. A questa accusa se ne aggiungevano altre.
Le commissioni comunali o, più in generale, i soggetti preposti dai municipi all’acquisizione del materiale segnalavano di continuo il cattivo stato di conservazione di beni, che
proprio l’uso liturgico spesso danneggiava. Le relazioni sul patrimonio da incamerare descrivevano la diffusa ignoranza del clero relativa al valore dei manufatti custoditi, la loro
scarsa cura, le manipolazioni subite, l’inesistente manutenzione di arredi e strutture, la disponibilità a vendere manufatti per far fronte alle proprie spese personali e a quelle relative alle proprie strutture. La difesa del patrimonio della nazione era allora enfatizzata come scopo ultimo dell’azione municipale, la quale passava attraverso un’acquisizione volta
a portare gli oggetti nello spazio di istituzioni in grado di conservarli adeguatamente.
Un altro elemento spesso citato nelle relazioni sullo stato dei manufatti di pertinenza religiosa era poi il significato antinazionale della protesta del clero, volta a contrastare
l’autorità pubblica in maniera opportunistica e pretestuosa. A parere di molti, infatti, la
richiesta in essa implicita era quella di ottenere, in cambio dei manufatti, privilegi e concessioni che i pubblici poteri non erano interessati a concedere. La tesi dell’opportunismo
era espressa soprattutto in relazione alle contestazioni sorte nei contesti rurali, in cui più
facilmente si intravedeva la minaccia della reazione clericale. In questo caso, erano disconosciuti i legami culturali esistenti tra le piccole comunità e i loro spazi devozionali, legami etichettati come superstizione, finti vincoli, false consuetudini. Il diritto delle città sedi di musei si imponeva su quello di paesi e villaggi costretti a cedere i loro oggetti e ad
allontanarli dallo spazio sacro della loro conservazione. Anche in questo caso la tutela
emergeva come azione ed esperienza in primo luogo urbana, oltre che pubblica e laica.
Tutti questi aspetti finivano con l’essere determinanti nell’assegnazione di nuovi significati ai manufatti incamerati. La conservazione civica, infatti, era letta come fonte d’orgoglio e fierezza per le città che si vedevano riconoscere un diritto importante: quello alla
tutela di testimonianze della propria storia e della propria cultura. In questa prospettiva,
gli oggetti venivano riletti attraverso una nuova chiave interpretativa: non più quella della fede, appunto, ma quella del valore documentale, artistico e monumentale. Nei loro
confronti, si ergevano non più i diritti della devozione o della liturgia, ma quelli dell’arte e degli studiosi, delle istituzioni locali e di una cittadinanza impegnata a celebrare la
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religione laica della patria. L’insieme di queste istanze rivelava ancora una volta la complessità di un terreno, quello della tutela, in cui interessi, aspirazioni, ambizioni, sensi di
appartenenza si intrecciavano, collidendo e trasformandosi. Ma in che modo si arrivò concretamente alla messa a punto degli spazi della conservazione? Come i municipi si adoperarono per far sì che i loro progetti conservativi divenissero reali?
L’avvio del sistema di tutela qui ripercorso non fu affatto semplice, non solo per le
tensioni provocate, ma anche per le difficoltà logistiche incontrate nella creazione o nel
rinnovamento degli istituti conservativi urbani. Gli scarsi mezzi economici a disposizione di municipi gravati da innumerevoli titoli di spesa e la penuria di locali in cui accogliere il materiale contraddistinsero la vicenda di molti comuni, in cui gli oggetti prelevati
dalle strutture chiuse vennero il più delle volte depositati in magazzini e scantinati, in attesa di soluzioni idonee. Questa scelta non riguardava solo i municipi privi di musei e biblioteche e sollecitati a crearne di nuovi dalla possibilità di vedersi assegnati gli oggetti,
ma anche centri in cui collezioni esistenti anche da lungo tempo risultarono inadeguate a
ospitare il materiale. Il numero delle strutture interessate dalla liquidazione variava del
resto da città a città, raggiungendo un picco elevato nel caso di Roma in cui delle 221 case religiose esistenti, 134 furono quelle soggette a soppressione. La mole di manufatti, libri, documenti incamerati risultò nel complesso davvero ampia rispetto agli spazi a disposizione, motivo per cui ci si attestò su soluzioni transitorie, il più delle volte peraltro
inadatte a impedire la dispersione del materiale.
Mercanti d’arte, italiani e stranieri, collezionisti e semplici rigattieri attesero con una
certa aspettativa il momento caotico del trasferimento, prevedendo spiragli di intervento
che il più delle volte effettivamente si vennero a creare. I municipi tentarono in vario modo di arginare i furti, i trafugamenti e le vendite delle opere d’arte da parte del clero, in
molte occasioni riuscendo a evitarne la perdita o tornandone in possesso in maniera rocambolesca. Ma il flusso in uscita dei manufatti era difficilmente controllabile, anche a
causa di quel vuoto legislativo che impediva un’azione coercitiva seria e diffusa nel territorio. La lentezza con cui si portò a termine la catalogazione del materiale segnò poi un
ulteriore fattore di dispersione. Nel giro di pochi anni non si poté che constatare l’avvenuta scomparsa del San Michele arcangelo del Guercino dalla collegiata di San Nicolò a
Fabriano; dei quindici quadri di vari autori dal convento di San Martino a Firenze; della tela di Paolo Veronese ad Alessandria; dei dipinti di Girolamo Marchesi a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Anche in questo caso, mancando una normativa unificante, i singoli municipi non riuscirono a porre un argine alla dispersione che solo a fatica la
catalogazione cercava di impedire. Nonostante tutto, fu però proprio grazie all’emergenza e alla necessità di confrontarsi rapidamente con la situazione che essi maturarono di
fatto specifiche competenze in materia, riuscendo ad avere un ruolo centrale nella stessa
formazione delle nuove raccolte civiche.
L’opera di conoscenza e catalogazione portata avanti dagli eruditi, dagli esperti d’arte,
dagli artisti, dagli storici locali nell’ambito delle commissioni conservatrici istituite nel 1875
in tutte le province del Regno fu infatti fondamentale per mappare l’esistente e al tempo
stesso per accrescere la funzione di selezione operata dalle istituzioni locali. Laddove il governo centrale, vale a dire il ministero della Pubblica istruzione e per esso la Direzione generale, rinunciava a svolgere un proprio ruolo nel passaggio di proprietà degli oggetti, i municipi e i loro rappresentanti avevano la possibilità non solo di divenire depositari di un
nuovo sapere relativo alle testimonianze storiche e culturali del territorio, ma anche di selezionare cosa conservare e cosa liquidare, definendo in parte la natura delle future collezioni civiche. In questo senso si ampliava il protagonismo di soggetti radicati nella sfera locale e operanti per la crescita di una consapevolezza storica e identitaria di grande rilevanza.
Una volta catalogato, schedato, acquisito dalle istituzioni locali, una volta compiuto il transito presso sedi temporanee, il materiale incamerato oltrepassava la soglia del
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Cultura e società
museo civico dove veniva allestito ed esibito. Stessa destinazione trovava spesso anche
il materiale librario, assegnato alle biblioteche civiche i cui spazi si intrecciavano con
quelli dei musei. Codici antichi, statue, documenti, pitture formavano allora, a Udine
come ad Ancona, un tutt’uno in grado di restituire all’occhio del visitatore la storia e la
memoria della città e del suo territorio. Laddove biblioteche e musei trovavano destinazioni separate, questi ultimi assumevano varie forme in sedi spesso di grande prestigio. Palazzi comunali, edifici monumentali, sedi restaurate accoglievano gli oggetti stabilendo una stretta continuità tra il potere della città e delle sue classi dirigenti e quello
di un passato testimoniato dalla ricchezza del patrimonio custodito. Il Palazzo dei Priori di Perugia, quello dell’Arengo di Ascoli Piceno, l’edificio restaurato da Camillo Boito per il Museo civico di Padova, il Castello Sforzesco per le collezioni milanesi offrirono lo spazio per celebrare un orgoglio civico evocato dai tesori gelosamente conservati.
Un forte simbolismo scaturiva allora dalle collezioni, proposte come templi laici di una
memoria collettiva che oscillava dalla città alla nazione. Il numero di questi templi nei
primi decenni postunitari subì un’esplosione, dovuta proprio all’incameramento dei beni di ex pertinenza religiosa. Che si trattasse del consolidamento di raccolte precedenti, o della formazione di nuove, i musei civici iniziarono ovunque a simboleggiare un’appartenenza profondamente radicata. Da Reggio Emilia a Capua, da Trieste a Lecce, le
collezioni civiche divennero depositarie dei frammenti della storia e del genio locale che,
riproposti nelle sale, «rivivevano» grazie allo sguardo dei visitatori. La traiettoria che esse testimoniavano attraverso i reperti archeologici, i quadri, le sculture, i documenti, i
codici miniati evocava quei valori unitari e di coesione sociale che fondavano l’idea della piccola patria. Gli oggetti nel museo esprimevano l’appartenenza rivendicata dalle
istituzioni locali verso altri soggetti – lo Stato, la Chiesa, le altre città – in competizione per la gestione e valorizzazione delle tracce di una storia comune. Questa storia veniva celebrata nelle collezioni civiche, che offrivano un’immagine ricca e peculiare della vicenda storica locale e una rappresentazione esauriente della sua natura e del suo
essere tassello fondamentale della nazione.
In questo senso le raccolte cittadine svolsero un’imprescindibile funzione dal punto
di vista culturale, esprimendo costantemente la forza di un legame tra piccola e grande
patria che veniva ribadito anche nelle più importanti occasioni di partecipazione collettiva: le festività, in primo luogo la festa dello Statuto, le celebrazioni, le commemorazioni,
le premiazioni scolastiche costituivano infatti momenti in cui le istituzioni culturali sancivano il proprio ruolo di snodi identitari potenti ed efficaci. Il valore della conservazione civica si esprimeva allora pienamente, ripagando l’impegno che i diversi attori della tutela profondevano in un settore dal potenziale unico e straordinario. Un potenziale che,
evocando i fasti e la gloria del passato, fungeva da ammonimento per il presente e il futuro di quella collettività che nelle raccolte si riconosceva e rappresentava. Il significato del
patrimonio si dispiegava in questo caso pienamente, restituendo il senso a una storia e a
una cultura lette attraverso le lenti originarie dell’urbanità e della comunità.
Il patrimonio della nazione
Da quanto detto finora risulta chiaro il significato molteplice che la costruzione del patrimonio culturale della nazione assunse nei difficili anni successivi all’unificazione. La messa a punto dell’apparato amministrativo dello Stato e la contemporanea formulazione di un
senso di appartenenza comune rappresentarono i due poli entro cui la questione del patrimonio si espresse. Percepite come onere da parte del governo, assediato dai costi dei processi di nation-building, le testimonianze della storia e della cultura disseminate nelle varie
aree del paese suscitarono l’attenzione delle amministrazioni locali, in cerca di un sistema
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Il patrimonio artistico e culturale
simbolico nuovo in grado di dar forma al proprio senso di appartenenza. Con la soppressione delle corporazioni religiose e la successiva liquidazione dell’asse ecclesiastico, il patrimonio divenne questione dirompente nell’agenda politica del paese, poiché la sua tutela fu trasformata nell’obiettivo delle rivendicazioni di molti municipi, interessati a gestire oggetti in
grado di evocare memorie e tradizioni radicate nei propri territori. In questo senso il patrimonio culturale già di pertinenza religiosa fu al centro di conflitti vari, tesi ad affermare interessi, valori, progetti, aspirazioni diverse a seconda di chi se ne fece interprete e portavoce. Da questi conflitti emersero nozioni e valori che sopratutto la periferia del Regno seppe
utilizzare, a vantaggio di una cultura della conservazione che faceva della piccola patria l’orizzonte entro cui evocare anche la grande, in una tensione costante con lo Stato.
Fu in questo processo di scambio, rivendicazione e mediazione che nacque e crebbe
un sistema conservativo profondamente radicato nelle singole località, eppure in grado di
evocare un universo simbolico specificamente nazional-patriottico. Nei beni d’arte e d’antichità, nei documenti e monumenti del passato, l’identità molteplice della penisola si
esprimeva richiamando la peculiarità delle singole vicende urbane e al contempo la specificità di un senso d’appartenenza comune e condiviso. Il duplice significato del patrimonio culturale diveniva così una caratteristica che nei decenni successivi sarebbe maturata, finendo con l’accrescere il valore locale di beni inscritti nell’orizzonte ampio di una
patria condivisa.
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