www.diocesidiroma.it/scuola pag. 1 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno DIRE IL SACRO – DIRE IL BELLO TEOLOGIA E LETTERATURA Mons. Pino LORIZIO – 8 ottobre 2008 0. La questione del rapporto fra teologia e letteratura, se da un lato può a giusto titolo essere considerata come un capitolo del più ampio e comprensivo rapporto fra arte e teologia, d’altra parte lascia intravedere una peculiarità e un’affinità radicale, non solo rispetto al modo e al paradigma comunicativo ed espressivo che la letteratura, nelle sue diverse forme, attua, bensì in relazione al contenuto stesso del teologare e all’originario darsi della Rivelazione nella storia. Si tratta, come si può facilmente intuire, del rapporto con il Logos-parola, su cui l’atto di fede (ex auditu) poggia e la teologia riflette, e che rappresenta il legame profondo fra i due ambiti in questione. 1. Siamo così rimandati in primo luogo al Verbo archetipo di ogni umano linguaggio e al problema della sua origine. Una origine perduta o smarrita e che risulta sempre più difficile rintracciare. «Un segno noi siamo, che nulla indica. Senza dolore noi siamo e quasi abbiamo smarrito la lingua in terra straniera» (F. Hölderlin). I versi di Mnemosyne, opportunamente evocati e commentati da Martin Heidegger, ci riguardano e ci interpellano. L’estraneità della terra e la condizione di esilio che sembra sempre più caratterizzarci, con lo smarrimento che essa comporta, richiamano quell’“esilio della parola”, che André Neher ha saputo profondamente riflettere e proporre al nostro tempo disorientato e frammentato. Al di là e oltre le giornalistiche contrapposizioni fra continentali ed analitici, l’evento della parola chiede sempre di nuovo di essere accolto e pensato, perché si possa intravedere un qualche barlume nella notte del mondo. Si tratta di un compito arduo e che va affrontato con umiltà e pazienza, come appunto, nella consapevolezza che uno slancio del pensare richiede una sorta di “passo indietro” (der Schritt zurück) che consente di attingere le radici stesse dell’essere e del dire, attraverso il confronto con coloro che, correndo il rischio che ogni situazione pioneristica comporta, si sono cimentati nell’attuazione di questo compito, non sempre accolti nell’ambito della cultura ufficiale e diffusa, spesso fraintesi, talvolta citati senza essere stati letti e compresi in profondità. E fra costoro senz’altro un posto non marginale è quello occupato da Ferdinand Ebner. Un pensatore (più che un filosofo) non accademico, un uomo e «un personaggio scomodo perché profondamente umano. Chi analizza il suo pensiero ancor più in profondità, riconosce che è una persona che soffre e che ama veramente, che ama anche là dove le sue parole per amore feriscono, che soffre nuovamente per ogni sua parola che ferisce» (F. Seyr). «La parola – scrive Ebner – doveva ricevere la vita da Dio, poiché la vita non sarebbe di per sé in grado di trovare la strada per la parola, che nell’uomo ha creato e risveglia la vita dello spirito. Per capire questo ovviamente l’uomo ha bisogno di credere in Dio; e ciò significa in primo luogo: divenir cosciente nella fede del fondamento spirituale della propria esistenza e del proprio orientamento a un rapporto personale con tale fondamento. Dio è tale fondamento ed egli è anche il vero Tu del vero Io che è l’uomo». 2. In secondo luogo va pensata teologicamente l’espressione letteraria della Parola divina e le sue molteplici forme. A questo proposito ci siano consentite alcune annotazioni: a) «Un tempo viveva nella città egizia di Naucrati un vecchio dio che aveva nome Toth. Egli inventò i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il gioco di dadi e per di più la scrittura. Re dell’Egitto era allora Thamus, che abitava nella grande città di Tebe. Toth venne a trovare il re, gli mostrò tutte le arti che aveva inventato e disse che conveniva farne dono agli altri Egiziani. Il sovrano s’informò dell’utilità di ciascuna di esse e, mentre l’altro gliene faceva l’esposizione, egli approvava ciò che gli pareva ben detto e riprovava ciò che non gli pareva tale. Così Thamus fece a Toth, a proposito di ciascuna invenzione, molte osservazioni che sarebbe troppo lungo ripetere. Ma quando si venne alla scrittura,Toth disse: "Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più atti a ricordare, perché questo ritrovato è un rimedio utile alla memoria e alla dottrina". Il re disse: "o ingegnoso Toth, c’è chi è abile nell’inventare cose nuove e chi sa giudicare quale vantaggio o quale danno può derivarne a chi se ne servirà. E ora tu, come padre della scrittura, spinto dall’entusiasmo per la tua invenzione, hai affermato il contrario di ciò che essa può effettivamente procurare agli uomini. La scrittura, infatti, col dispensare dall’esercizio della memoria, produrrà l’oblio dell’anima di coloro che l’abbiano appresa, i quali, confidando, in essa, ricorderanno per via di questi segni esteriori, non da sé, per un loro sforzo interiore... D’altro lato tu offri a coloro che vogliono imparare, l’apparenza, non la verità –1– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 2 della sapienza, perché quando essi... avranno letto tante cose senz’alcun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur avendo un gran fondo di ignoranza, e saranno insopportabili nei rapporti sociali, perché possiederanno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza" (PLATONE, Fedro). b) «Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza» (Gv 5,39). Fra l’agire e il parlare di Dio nella storia e le Sacre Scritture non si dà originariamente una relazione di totale equivalenza e corrispondenza, in quanto il termine rivelazione sta a designare l’insieme degli eventi e delle parole attraverso cui Dio si manifesta, che vengono come a cristallizzarsi in quel luogo privilegiato che la fede chiama “parola di Dio” e che sono le sacre scritture. Esse dunque non sono la rivelazione, né si può ragionevolmente ritenere che contengano in tutta la sua ricchezza e nel suo svolgersi e fluire l’agire-parlare di Dio, bensì “attestano” – nella maniera più autorevole possibile, grazie al carisma dell’ispirazione – il realizzarsi di tale comunicazione e ce ne offrono testimonianza nostrae salutis causa (per la nostra salvezza), come si esprime il Vaticano II: «i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture» (Dei Verbum, 11). Il dinamismo della cristallizzazione della Parola di Dio in uno scritto, anzi in un insieme di scritti (= ta bibl…a, che è insieme un plurale reale ed un plurale di eccellenza: “i libri” e “il libro” per antonomasia), viene teologicamente indicato col termine “ispirazione”, che peraltro nell’accezione tommasiana è sinonimo di rivelazione. Il termine, che contiene un esplicito riferimento allo Spirito e dunque alla dimensione pneumatologica della rivelazione, sta ad indicare un particolare intervento divino che spinge l’uomo a parlare (profezia), agire (storia), scrivere (scrittura) in favore della comunità. Tale intervento divino obbedisce anch’esso alla legge dell’incarnazione, per cui il testo ispirato è da considerarsi nella sua interezza parola dell’uomo e Parola di Dio, né è consentito attribuire soltanto all’autore umano o a quello divino parti di esso. Né l’autore umano si può considerare mero strumento nelle mani dell’Autore divino, in quanto questi ne rispetta profondamente la cultura, la mentalità, la libertà, il linguaggio. c) Un’annotazione conclusiva riguardo alle Scritture la traiamo dall’opera più nota di Antonio ROSMINI, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, dove, mentre riflette sulla insufficiente educazione del clero, scrive: “la divina Scrittura era l’unico testo dell’istruzione popolare ed ecclesiastica. Questa Scrittura, che è veramente il libro del genere umano, il libro, la scrittura per antonomasia. In un tal codice l’umanità è dipinta dal principio sino alla fine; comincia coll’origine del mondo, e termina colla futura sua distruzione; l’uomo si sente se stesso in tutte le modificazioni di cui è suscettivo, vi trova una risposta precisa, sicura e fino evidente, a tutte le grandi interrogazioni che ha sempre a fare a se stesso; e la mente di lui vi resta appagata colla scienza e col misterio, come il suo cuore vi resta pure appagato colla legge e colla grazia. Egli è quel libro «grande» di cui parla il profeta scritto «collo stilo dell’uomo» [Is 8, 1]; perocché in quel libro l’eterna verità parla in tutti que’ modi, a cui si piega l’umana loquela: ora narra, ora ammaestra, ora sentenzia, ora canta: la memoria vi è pasciuta colla storia; l’immaginazione dilettata colla poesia; l’intelletto illuminato colla sapienza; il sentimento commosso in tutti insieme questi modi: la dottrina vi è così semplice, che l’idiota la crede fatta a posta per sé; e così sublime, che il dotto dispera di trovarci il fondo: il dettato sembra umano, ma è Dio che in esso parla”. Ma forse ancora più interessanti per noi possono essere le annotazioni di Marcel PROUST: «Considerate quale altro gruppo di letteratura storica, didattica, ha una vastità come la Bibbia. Chiedetevi se potete paragonare il suo indice, non dico ad un altro libro, ma neppure a un’altra letteratura. Tentate, per quanto possibile (si difenda o si avversi la fede), di svincolare la vostra intelligenza dall’associazione che l’abitudine ha formato tra essa e il sentimento morale basato sulla Bibbia, e domandatevi quale altra letteratura avrebbe potuto tenere il suo posto o compiuto la sua funzione […]». (Prefazione a J. RUSKIN, La Bibbia di Amiens, Abscondita, Milano 2008). 3. In terzo luogo va pensata teologicamente la fondamentale “sacramentalità” del linguaggio: a) in rapporto al nesso biografia/letteratura e alla loro circolarità; b) in relazione alla tematica dell’accadere del verbo e della visibilità della voce (la parola che tocca – cf A. SKARMETA – La scrittura come kenosi della parola e le Scritture come kenosi del Verbo); c) con la consapevolezza dell’efficacia della parola (G. AGAMBEN) e della sua capacità di orientare (cf M. BLANCHOT); d) nell’orizzonte della dimensione escatologica della letteratura (cf L’addio di F. HÖLDERLIN). Alcuni corollari: a) L’indicibilità del nome e il limite del linguaggio umano (L. WITTGENSTEIN – C. BOLOGNA – P. CITATI); b) Il limite-siepe e il suo rapporto con L’infinito-indefinito (il sacro = etere): HÖLDERLIN e LEOPARDI; c) La metafora come forma metafisica del linguaggio (ed in particolare la metafora sponsale – il Cantico e GIOVANNI DELLA CROCE). –2– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 3 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno I METODI DI INDAGINE LETTERARIA APPLICATI ALLA SCRITTURA: L’ANALISI NARRATIVA don Carlo Broccardo (Facoltà Teologica del Triveneto : www.fttr.it) – 15 ottobre 2008 Introduzione: l’analisi narrativa • premessa: nella storia dell’esegesi troviamo una costante e due variabili: o costante la convinzione che la Bibbia è un testo che va letto/ascoltato/interpretato o variabile il motivo per cui lo si ritiene da leggere: di tipo teologico oppure generale o variabile il contesto culturale entro il quale la Bibbia viene letta/ascoltata/interpretata • i metodi di lettura critica dei Vangeli: 1700-1900 le fonti; 1919-21 le “forme”; 1954-58 la redazione; 1970–: nuovi metodi, prevalentemente sincronici. Tra questi l’analisi narrativa • i pionieri dell’analisi narrativa: 1981 R. Alter, The Art of Biblical Narrative; 1982 Rhoads – Michie, Mark as a Story: “Narrative Criticism”, in italiano “Analisi narrativa” o “Narratologia” • definizione e punto di partenza: o impossibile definire con precisione la nuova sensibilità letteraria: cf. Marchese, L’officina del racconto, ed. 1990, 5-68: “teorie della narratività”; e altre sintesi non concordano del tutto con Marchese (cf. Abrams, A Glossary of Literary Terms, 201-247) o l’analisi narrativa biblica: non prende in toto nessuna delle teorie, prende le cose più comuni dei diversi approcci, segue un paradigma generale condiviso o in genere, il punto di partenza comune è che il testo è una strategia la strategia mira al lettore, lo “costruisce” Un esempio: la chiamata dei primi quattro discepoli (Mc 1,16-20) • per sperimentare la specificità dell’analisi narrativa, confrontiamo tra di loro quattro commentari a Marco, nella spiegazione che danno di Mc 1,16-20 − J. GNILKA, Cittadella, Assisi 1987 – originale tedesco 1979 − S. LÉGASSE, Borla, Roma 2000 – originale francese 1997 − J.R. DONAHUE – D. HARRINGTON, LDC, Leumann TO 2005 – originale inglese 2002 − C. FOCANT, Cerf, Paris 2004 • tutti e quattro hanno molto in comune: quando si tratta di filologia, di paralleli con l’AT o il mondo antico, di annotazioni grammaticali o logiche • dove sta dunque la differenza principale? − talora nella spiegazione di un dettaglio: un esempio: l’espressione “pescatori di uomini” − ma specialmente nel senso globale del brano • per concludere: − se consideriamo i Vangeli solo come un contenitore di affermazioni teologiche, non ci sono differenze tra i commentatori e l’analisi narrativa ha poco o nulla da dire − ma l’analisi narrativa non considera i Vangeli come un contenitore, e neppure come una raccolta di episodi orientata teologicamente. Il contributo che può dare allo studio dei Vangeli è quello di far percepire la dinamica interna al racconto evangelico; Marco non ha raccolto dati, ma scritto le tappe di un itinerario: letterario prima e teologico poi. L’analisi narrativa si chiede come il narratore stia cercando di muovere il suo lettore, di farlo camminare su un determinato percorso –1– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 4 Un esempio: la guarigione-sequela del cieco Bartimeo (Mc 10,46-52) • il contesto letterario: 8,31–10,52: cammino verso Gerusalemme • v. 46: lo sfondo, l’inquadratura o ben definito il luogo = Gerico o i personaggi sono divisi in due gruppi: da una parte Gesù, i discepoli e una folla numerosa: in movimento dall’altra parte Bartimeo, da solo, seduto = fermo • vv. 47-48: Bartimeo e la folla o due titoli diversi per definire Gesù: la gente dice (il soggetto non è specificato) «c’è Gesù il Nazareno»; il cieco dice: «Figlio di Davide» (come fa a saperlo? Mc non lo dice) o la folla fa da ostacolo e in questo modo di fatto pone maggiore enfasi alla proclamazione del cieco, che ripete la sua convinzione (come nel caso del paralitico al cap. 2) • vv. 49-52: Bartimeo e Gesù o il v. 49: inversione del ruolo della folla e del movimento-stasi o v. 50 dà molta enfasi al cammino del cieco: sottolinea il completo cambiamento (come Levi in 2,14); si sbarazza di una cosa vitale come il mantello – cosa che non fa il ricco! o v. 51: la domanda di Gesù di per sé è inutile; ma così si nota il confronto con la domanda uguale posta ai due figli di Zebedeo al v. 36 o v. 52: conclusione: anzitutto Gesù sottolinea la fede; è la prima volta che Gesù non impone il “segreto messianico”; alla fine la guarigione c’è: immediata, perfetta, semplice. Ma la conclusione è strana: non ci sono reazioni nei cf. del miracolo di Gesù, piuttosto Marco ci dice che il cieco ora vedente ha cominciato a seguire il maestro-Messia • in sintesi: o il brano comincia come racconto di guarigione, ma poi sfora e sembra quasi un racconto di chiamata; non lo è in senso tecnico, perché Gesù non rivolge l’invito al cieco. Ma: siamo sulla via verso Gerusalemme = passione, morte, risurrezione (chiarita senza ombra di dubbio dai tre annunci). Quella via che Pietro vuole evitare (8,31-33), che il giovane ricco preferisce non intraprendere nemmeno (10,17-22), che Giacomo e Giovanni fraintendono (10,35-45): questa via il cieco la percorre anche se non invitato esplicitamente o il cieco è dunque un esempio: di come la fede in Gesù che fa miracoli deve essere ampliata fino a comprendere quella in Gesù Messia crocifisso; non è sufficiente seguire Gesù taumaturgo, occorre rimanere con lui (camminare nella sua via) fino alla croce – cosa che purtroppo i discepoli non faranno… (lo stile di Marco: dove dovrebbero esserci i discepoli, ci sono invece personaggi minori: cf. poi anche la croce). L’esempio del cieco è un invito a fare un salto di qualità: dalla speranza del miracolo alla contemplazione della croce – per chi vale? o cf. Mc 1,1: per i personaggi del Vangelo; ma anche per i lettori: tutto il Vangelo è un percorso, che culmina con la morte in croce Nota bibliografica minima • • per il NT: D. MARGUERAT – Y. BOURQUIN, La Bible se raconte. Initiation à l’analyse narrative, Cerf, Paris 1998. Trad. it. Per leggere i racconti biblici. La Bibbia si racconta: iniziazione all’analisi narrativa, Borla, Roma 2001 – con ampia bibliografia per l’AT: J.L. SKA, “Our Fathers Have Told Us”. Introduction to the Analysis of Hebrew Narratives (SubBi 13), Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990 –2– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 5 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno VALORI ESTETICI E TRASMISSIONE DELLA FEDE NELLA LETTERATURA CRISTIANA ANTICA Manlio SIMONETTI – 29 ottobre 2008 La bellezza per i greci era segno di perfezione. Il termine καλός (kalòs) che propriamente significa “bello” significa anche ciò che è bello moralmente, cioè “buono”: Tutto ciò non aveva alcun senso per i primi cristiani, tanto più che le rappresentazioni figurate, sia dipinte che scolpite, per lo più rappresentavano gli dei, e perciò dai cristiani erano considerate manifestazioni idolatriche. Di qui il disprezzo per tutto ciò che era bello materialmente, fino al punto di affermare che il Cristo incarnato era stato di brutto aspetto (TERTULLIANO, De carne Christi IX). CLEMENTE ALESSANDRINO, che ha trattato specificamente della bellezza all’inizio del Pedagogo, oppone alla bellezza corporea quella dello spirito, identificata con il Logos divino, l’unica bellezza da ricercare e apprezzare. GIOVANNI CRISOSTOMO, malgré lui non insensibile, da buon greco, alla bellezza anche esteriore, afferma che essa deve essere apprezzata soltanto in quanto opera di Dio creatore che, sapiente artefice, ha tratto da una materia vile e di poco pregio la bellezza del corpo dell’uomo al fine di mostrare la sua sapienza. In questa ottica va spiegata anche l’esaltazione della “dotta ignoranza” e il ripudio della ricerca del bello nell’espressione letteraria: “il pescatore, illetterato (¢gr£mmatoj) e rozzo („dièthj) figlio di Zebedeo [cioè l’evangelista Giovanni] ha vinto il filosofo e l’oratore” (cfr In Iohannem omil., II: PG 59,31). Ma la condanna, insieme con la filosofia, della retorica non è univoca, per più ragioni. Il letterato cristiano anche nella nuova fede non poteva dismettere da un giorno all’altro il culto per la bella forma istillato in lui dalla preparazione retorica. E per altro l’esigenza di predicare il messaggio cristiano anche a pagani di elevata condizione e perciò culturalmente esigenti imponeva di presentarlo in forma retoricamente adeguata. Se i letterati cristiani di lingua greca fecero propria per lo più la forma semplice e piana degli Øpomn»mata (hypomnèmata, “annotazioni personali”), adeguandosi al modo di scrivere dei filosofi, nell’occidente latino l’esempio di Cicerone e di Seneca ispirò a TERTULLIANO e CIPRIANO la composizione di trattati brevi e formalmente molto elaborati. La tendenza al “bello scrivere” viene esaltata dalla nuova condizione della chiesa conseguente alla svolta costantiniana. Depositaria della religione favorita dal monarca (313 d.C.) e infine della religione di stato (380 d.C.), la gerarchia della chiesa non può trascurare le esigenze culturali delle classi elevate che gradualmente si convertono alla nuova fede: è il caso, ad es., dello spagnolo GIOVENCO con i suoi quattro Libri Evangeliorum, che sono una parafrasi dei vangeli, soprattutto Matteo e Giovanni, in esametri eroici; i numerosissimi codici manoscritti che ci sono pervenuti ne documentano una diffusione amplissima. Altrettanto vale anche per certe cerimonie ufficiali che ormai esigono l’esaltazione dei valori estetici del bello scrivere. Il panegirico in onore del martire cristiano inevitabilmente si ispira al panegirico pagano in onore dell’imperatore, massima espressione d’impegno retorico. Ci fu chi, come BASILIO, avvertì l’esigenza di una retorica nuova, adatta a celebrare i fasti della nuova religione; ma questa impostazione teorica non riuscì mai a tradursi in pratica. E quando AGOSTINO addita in scrittori cristiani i nuovi modelli di un’eloquenza specificamente cristiana, propone Cipriano e Ambrogio, fedeli rappresentati della tradizione retorica di Cicerone e di Quintiliano. Nonostante questo nuovo stato di cose, permane sporadicamente l’antica svalutazione del bello scrivere: GREGORIO MAGNO rimprovera chi vuole sottomettere la schietta semplicità dei Vangeli alle norme grammaticali di Donato, ma anche lui quando scrive non sa sottrarsi al fascino di quelle norme e della tradizione che le veicolava. E del resto proprio le regole di Donato costituirono l’argine più valido contro la dilagante barbarie. [Bibliografia: M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Borla, Roma 1983]. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 6 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno LA METAFORA SPONSALE OVVERO: IL LINGUAGGIO MISTICO COME LETTERATURA Gaetano LETTIERI (La Sapienza) – 12 novembre 2008 1) Il corpo di Dio: perché la mistica cristiana ha un’originaria, costitutiva dimensione erotica? Perché Dio ha un corpo? Perché il desiderio cristiano può essere davvero “rappresentato” e scritto come corporeo? Perché la rappresentazione del desiderio giudaico-cristiano culmina nella figura della donna/sposa (e non solo: madre, prostituta, sposa infedele, etc…)? 2) Metamorfosi dell’epektasis: il desiderio infinito e la letteratura come scrittura infinita dell’inesauribile. Qual è il rapporto storico tra mistica del desiderio infinito (vera e propria catena esegetica: Gregorio di Nissa, Giovanni Scoto Eriugena, Cusano, Bruno, neoplatonici di Cambridge, Leibniz, Lessing, Kant, romanticismo tedesco) e metafora sponsale (a partire dal Commentario al Cantico di Origene)? Quale il rapporto tra Scrittura e scrittura, tra desiderio mistico e poesia, tra tendenziale assolutizzazione dell’altro amante nell’amore e amore dell’Assoluto cristiano? Più che parlare di una modalità letteraria ed erotico/sponsale di dire il cristianesimo (il cristianesimo nella letteratura) non si dovrebbe, forse, parlare di un’origine, di una matrice cristiana di gran parte della letteratura occidentale (moderna, cioè post-cristiana) e della stessa erotica sponsale occidentale (la letteratura nel cristianesimo, l’amore sponsale – nella sua stessa dimensione puramente “laica” e “romantica” – nell’amore cristiano)? 3) Juan de la Cruz (1542-1591). Patire Dio: l’eccedenza del dire mistico (e della poesia) rispetto alla “teologia scolastica” (alla teologia). La lacuna come segreto mistico della scrittura, l’assenza come segreto mistico dell’amore. Vangelo di Giovanni «11 Maria stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. 15Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. 16Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro! 17 Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. 18Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto» (Vangelo di Giovanni 20,11-18). Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici «Non “aspetto”, non “volto”, non “immagine” che riveli la natura di colui che viene cercato, ma “voce”, la quale suscita solamente una congettura piuttosto che una ferma convinzione sull’identità di colui che sta parlando. Che le parole dette assomiglino, infatti, più a una congettura che alla sicura pienezza della comprensione, esente da ogni ambiguità, si deduce dal fatto che il testo non si sofferma su un unico tipo di ragionamento e non considera un genere soltanto, ma si muta volgendosi verso differenti oggetti durante le visioni e crede di vedere ora in un modo ora in un altro, e non indugia sulla medesima immagine dell’oggetto compreso. Il testo così suona, infatti: “Ecco, egli viene” (Ct 2,8). Non sta fermo e non attende, sì da farsi riconoscere, grazie alla sua sosta (...), ma si sottrae sempre alla vista, prima di essere conosciuto perfettamente (...) Così quell’essere che è di volta in volta oggetto di comprensione è sempre una figura diversa… Ogni cosa buona che possa essere pensata relativamente alla natura divina procede verso l’infinito e l’incircoscritto (e„j ¥peirÒn te kaˆ ¢Òriston prÒeisin) (...) Vediamo, dunque, che la sposa è condotta dal Logos attraverso le varie ascese della virtù, come in una salita che si svolge per gradi, verso le maggiori altezze. Ad essa, inizialmente, il Logos fa passare attraverso le finestre dei profeti e le inferriate dei precetti della Legge (cfr. Ct www.diocesidiroma.it/scuola pag. 7 G. LETTIERI – «La bellezza della fede» 12/11/2008 2,9) il suo raggio e la invita ad avvicinarsi alla luce e a diventare bella, conformandosi, nella luce, alla forma della colomba (cfr. Ct 2,10). Dopo che partecipò, per quanto le fu possibile, alle cose buone, di nuovo, da capo, come se non avesse partecipato ancora a tali realtà, è trascinata a partecipare a quel bene che è superiore a tutto, sì che il suo desiderio si accresce in relazione al suo progresso nell’accostarsi a quello che di volta in volta appare. Ma poiché sovrabbondano (di¦ t¾n Øperbol»n) i beni che sempre si trovano riposti nell’essere che tutto sovrasta, essa crede di iniziare allora per la prima volta la sua ascesa. Per questo motivo il Logos dice ancora una volta alla sposa che si era destata: “Sorgi (¢n£sthqi: Ct 2,13)” e, quando essa fu giunta, “Vieni (™lqš: Ct 2,14)”. Colui che sorge in questo modo non cesserà di sorgere sempre e colui che corre verso il Signore avrà da percorrere un ampio spazio nella sua corsa divina! Sempre, infatti, bisogna sorgere e, se ci si avvicina di corsa, non bisogna mai, per questo, smettere, sì che per quante volte dica “Sorgi” e “Vieni”, altrettante volte il Logos dà alla sposa la forza per salire ad una condizione migliore. In questo stesso modo tu devi considerare anche i particolari che seguono nel testo. Colui, infatti, che la esorta ad essere bella, da bella che già era, le suggerisce esplicitamente quelle parole dell’Apostolo, ordinandole di trasformare la sua medesima immagine di gloria in gloria (cfr. 2Cor 3,18), sì che sempre è gloria quello che si riceve e quello che di volta in volta si trova, e per quanto grande e sublime questo sia, si ha fede che sia minore di quanto si è sperato» (Omelie sul Cantico dei Cantici V, tr. it. pp. 128 e 141-2). Giovanni della Croce, Cantico spirituale B – Prologo e Strofa 31 Spiegazione delle strofe che trattano dell’esercizio d’amore tra l’anima e Cristo Sposo; vi si toccano e si spiegano alcuni punti ed effetti della preghiera, su richiesta della madre Anna di Gesù, priora delle Scalze di san Giuseppe a Granada, nell’anno 1584. ni comuni e usuali, si serve di figure e similitudini sorprendenti per parlarci dei misteri. Ne segue che i santi dottori, malgrado quanto abbiano detto e tutto ciò che si potrebbe ancora dire, non sono mai riusciti a chiarirne completamente il senso con le parole, come del resto non è stato possibile spiegarlo con parole umane. Così, ciò che di questo cantico si può spiegare, di solito non è che la minima parte. 2. Ora, poiché queste strofe sono state composte in uno spirito d’amore, pieno di senso mistico, non possono essere spiegate adeguatamente, né questa è la mia intenzione. Voglio solo offrire qualche chiarimento generale, come mi ha chiesto Vostra Reverenza. Credo che sia meglio così, perché è preferibile esporre i detti d’amore nella loro ampiezza affinché ciascuno, a suo modo e secondo le proprie capacità, ne tragga profitto, anziché dar loro un significato univoco, non adattabile a tutti i gusti. Anche se verrà offerta qualche spiegazione, non è il caso di sentirsi legati ad essa, perché la sapienza mistica che si manifesta attraverso l’amore, e di cui parlano le seguenti strofe, non occorre che sia intesa distintamente perché susciti nell’anima amore e affetto. In realtà essa agisce come la fede, mediante la quale amiamo Dio senza comprenderlo. 3. Sarà, quindi, brevissimo, anche se non potrò fare a meno di dilungarmi in alcune parti, quando lo richiederà l’argomento e quando si offrirà l’occasione di trattare e di spiegare alcuni punti ed effetti della preghiera. Poiché nelle strofe se ne toccano molti, non potrò fare a meno di esaminarne alcuni. Lasciando da parte i più comuni, parlerò brevemente di quelli più straordinari che si verificano in coloro che, con l’aiuto di Dio, hanno superato lo stato di principianti. E questo per due motivi: anzitutto perché è già stato scritto molto per i principianti; in secondo luogo perché in questo scritto mi rivolgo a Vostra Reverenza che me ne ha fatto richiesta, a cui nostro Signore ha concesso la grazia di averla tratta da questi stati iniziali per introdurla nel seno del suo amore divino. Spero quindi che, sebbene vengano qui affrontati alcuni aspetti della teologia scolastica sul rapporto interiore dell’anima con il suo Dio, PROLOGO 1. Le seguenti strofe, reverenda Madre, sembra siano state scritte con un certo fervore nato dall’amore di Dio, la cui sapienza e il cui amore sono così immensi, che, come afferma il libro della Sapienza, si estendono da un confine all’altro (Sap 8,1) della terra; l’anima, che da lui è ispirata e mossa, partecipa in certo qual modo della sua abbondanza e del suo impeto nel proprio dire. Per questo, non intendo ora spiegare tutta l’ampiezza e la ricchezza che lo spirito fecondo d’amore ha riversato in queste strofe. Anzi sarebbe un errore credere che le parole d’amore riguardanti l’intelligenza mistica, come quelle delle presenti strofe, possano essere, in qualche modo, spiegate con parole semplici. Difatti, come dice san Paolo, è lo Spirito che viene in aiuto alla nostra debolezza e, abitando in noi, intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8,26) riguardo a ciò che non possiamo penetrare né comprendere bene per renderlo manifesto. Chi può descrivere ciò che egli fa capire alle anime innamorate, nelle quali dimora? E chi potrà esprimere a parole i sentimenti che ispira loro? E chi, infine, quanto fa loro desiderare? Certo, nessuno, nemmeno quelle anime nelle quali si verificano questi favori celesti. Per questo motivo preferiscono far comprendere parte di ciò che sentono e rivelare qualcuno dei tanti misteri di cui conoscono il segreto attraverso figure, similitudini e immagini, anziché darne una spiegazione razionale. Se tali similitudini non vengono lette con la semplicità dello spirito d’amore e dell’intelligenza che contengono, sembrano piuttosto spropositi che discorsi ordinati della ragione, come si può constatare nel divino Cantico dei Cantici di Salomone e in altri libri della sacra Scrittura. Ivi, non potendo lo Spirito Santo far conoscere la profondità del loro significato per mezzo di termi- –2– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 8 G. LETTIERI – «La bellezza della fede» 12/11/2008 non sia inutile averne parlato un po’ allo spirito in un modo puramente teorico. Infatti, anche se a Vostra Reverenza manca l’esercizio della teologia scolastica, tramite la quale si comprendono le verità divine, tuttavia non manca quello della mistica, per cui conosciamo tramite l’amore, nel quale le cose non vengono solo conosciute ma anche gustate. 4. Tutto ciò che mi propongo di dire qui voglio sottoporlo al giudizio di persone competenti in materia e totalmente a quello della santa madre Chiesa. Per dare maggiore credibilità al presente scritto, mi ripropongo di non affermare nulla di mio, né di affidarmi alla mia personale esperienza, né tanto meno a quella conosciuta o udita da altre persone spirituali, benché ritenga di avvalermi di queste due fonti di conoscenza. Io intendo qui proporre un’esposizione che sia confermata e chiarita da citazioni autorevoli della sacra Scrittura, almeno per le cose che appaiono più difficili da capire. Seguirà quindi questo metodo: prima riporterò le frasi in latino e poi ne farò l’applicazione relativamente al soggetto trattato. Proporrò dapprima tutte le strofe insieme e poi, per una maggiore comprensione, nell’ordine le commenterò una per volta; le spiegherò verso per verso, riportando ogni verso prima della relativa spiegazione, ecc. *** 1. NOTA SULLA STROFA SEGUENTE tanta forza penetra le parti che stringe. Perciò nella strofa seguente l’anima dichiara le proprietà di questo suo capello. STROFA 31 Da quel solo capello che ondeggiar sul mio collo tu guardasti, sul mio collo mirasti, preso tu rimanesti, da un occhio mio piagare ti lasciati. SPIEGAZIONE 3. Tre cose l’anima vuole dire nella strofa presente: prima, vuol far capire come l’amore da cui sono legate le virtù deve essere forte, poiché in verità deve essere tale per poterle conservare; seconda, afferma che Dio fu conquistato fortemente da questo suo capello di amore, vedendolo solo e forte; terza, dice che si è innamorato fortemente di lei, vedendo la purezza e l’integrità della sua fede. Perciò dice: Da quel capello che ondeggiar sul mio collo tu guardasti. 4. Il collo è la fortezza su cui, come dice l’anima, volava il capello dell’amore mediante il quale le virtù restano intrecciate. È un amore unito alla fortezza, poiché per conservare le virtù non basta l’amore solo, esso deve essere anche forte, affinché nessun vizio contrario possa spezzare in qualche punto la ghirlanda della perfezione. Infatti queste virtù sono legate dal capello dell’amore dell’anima in maniera tale che, spezzatane una, subito verrebbero meno tutte le altre: esse stanno unite dove se ne trova una, dove manca una mancano tutte. L’anima afferma che il capello volava sul collo. Sulla fortezza dell’anima, che è il collo, l’amore vola verso Dio con grande forza e agilità senza fermarsi in cosa alcuna. Come sul collo l’aria agita il capello facendolo volare,così l’afflato dello Spirito Santo agita grandemente l’amore forte perché spicchi il volo verso Dio. Senza quest’aura divina che spinge le potenze nell’esercizio dell’amore, le virtù, anche se presenti nell’anima, non compiono né producono i loro effetti. Dicendo che l’Amato contempla volare sul collo questo capello, l’anima fa capire quanto Dio ami l’amore vigoroso. Infatti contemplare significa guardare qualcosa con particolare attenzione e stima; l’amore forte spinge Dio a rivolgere verso di esso i suoi occhi per guardarlo. Quindi dice: sul mio collo mirasti. 5. Ella dice ciò per farci capire che Dio non solo ha apprezzato molto il suo amore perché vide che era unico, ma anche che l’amò, vedendolo che era forte: il mirar di Dio è il suo amare, come il suo contemplare è lo stimare ciò che contempla. In questo verso l’anima ripete la parola collo, dicendo del capello sul mio collo mirasti, poiché il vederlo forte fu la causa per cu il Signore l’amò molto. Perciò è come se dicesse: Lo amasti, vedendolo che era forte senza pusillanimità e timore, solo, senz’altro amore, e che volava con leggerezza e con fervore. Credo che sia chiaro come per l’intreccio di queste ghirlande e la loro collocazione nell’anima, la sposa voglia far comprendere il grado dell’unione tra lei e Dio in questo stato. Lo Sposo è i fiori, essendo il fiore del campo e il giglio delle convalli, come Egli dice (Ct 2,1); il capello dell’amore dell’anima, come è stato detto, è quello che lega e unisce con lei questo fiore dei fiori, perché, come dice l’Apostolo, l’amore è vincolo della perfezione (Col 3,14), la quale è l’unione con Dio. L’anima è il cuscino dove si collocano queste ghirlande, poiché è il soggetto di questa gloria, non apparendo più quello che era prima, ma lo stesso fiore perfetto, dotato della perfezione e bellezza di tutti i fiori. Quel filo di amore unisce e stringe Dio e l’anima con tanta forza da trasformarli e renderli una sola cosa per amore. E così, anche se nella sostanza sono differenti, nella gloria e nell’apparenza l’anima sembra Dio e Dio l’anima. 2. Tale è l’unione di cui si parla. È mirabile più di quanto si possa dire. Si fa un po’ capire in ciò che la Sacra Scrittura dice di Gionata e di David nel primo libro dei Re (1Sam 18,1): l’amore del primo per il secondo era così forte da immedesimare l’anima di Gionata con quella di David. Se dunque l’amore di un uomo0 per un altro uomo fu così forte da unire strettamente le anime, che cosa sarà l’unione dell’anima con Dio, suo Sposo, compiuta nell’amore che ella porta a Dio, tanto più che Egli è l’amante principale che, con l’onnipotenza del suo amore abissale, assorbe in sé l’anima con efficacia e forza maggiore di quanto non farebbe un torrente di fuoco con una goccia di rugiada mattutina, che suole disperdersi nell’aria? Pertanto il capello che compie quest’opera di unione indubbiamente deve essere molto forte e sottile, se con –3– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 9 G. LETTIERI – «La bellezza della fede» 12/11/2008 6. Fino a questo momento Dio non aveva mirato questo capello in modo da restare preso, poiché non l’aveva veduto solo e separato dagli altri capelli, cioè da altri amori e appetiti e gusti; esso quindi non volava sul collo della fortezza. Ma, dopo che per mezzo delle mortificazioni e dei travagli, delle tentazioni e della penitenza, è riuscito a staccarsi e a rendersi forte in modo da non spezzarsi in nessuna occasione e per nessuna forza, Dio lo mira, lo prende e vi attacca i fiori delle ghirlande, poiché il capello ha forza sufficiente per tenerli uniti nell’anima. 7. Ma quali e come siano queste tentazioni e travagli, e dove arrivino perché l’anima possa giungere a questa forza di amore, nella quale il Signore si congiunge a lei, viene spiegato nel commento alle quattro strofe che cominciano: O fiamma d’amor viva! L’anima, essendo ormai passata per quelle pene, è giunta a tal grado di amore di Dio, da meritare l’unione con Lui. Perciò dice subito: preso rimanesti. 8. O cosa veramente degna di ogni ammirazione e gioia: Dio resta preso da un capello! La causa di questa cattura tanto preziosa va riposta nel fatto che Egli si è fermato a guardare il volo di questo capello, come si narra nei versetti precedenti: il mirare di Dio è amare, per cui, se Egli, per la sua grande misericordia, non ci avesse prima guardati ed amati, come dice S. Giovanni (1Gv 4,10) e non si fosse abbassato, il volo del capello del nostro vile amore non avrebbe fatto in Lui alcuna presa, non volando tanto in alto da poter prendere questo divino uccello delle vette. Ma poiché Egli si è abbassato a mirarci, a invitarci al volo e a renderlo superiore al nostro amore dandoci valore a tale scopo, Egli stesso ha voluto essere preso in volo dal capello, vale a dire, Egli stesso se ne è invaghito, se ne è compiaciuto e quindi ne è stato preso. Ciò vuol dire: Sul mio collo mirasti, – preso tu rimanesti. È infatti impossibile che un uccello di basso volo prenda un’aquila reale dal volo sublime se questa, desiderando di essere presa, non viene in basso. Da un occhio mio piagare ti lasciasti. 9. Per occhio qui s’intende la fede. L’anima dice che Dio si è lasciato piagare da un occhio solo perché, se la fede dell’anima verso Dio non fosse sola ma mescolata con altri riguardi, non produrrebbe l’effetto di pia- gare Dio di amore. Perciò uno solo deve essere l’occhio da cui lo Sposo è piagato, come uno solo è il capello dal quale è stato preso. Ed è così forte l’amore con cui lo Sposo si affeziona alla sposa per la fedeltà unica che vede in lei, che se si è lasciato prendere dal capello del suo amore, nell’occhio della sua fede è legato da un solo nodo così stretto che amorosamente l’impiaga a causa della grande tenerezza dell’affetto con cui è stretto a lei, immergendola così sempre di più nel suo amore. 10. Intorno al capello e all’occhio vengono dette le stesse cose dallo Sposo nel Cantico allorché parlando con la sposa dice: Tu mi hai ferito il cuore, sorella mia sposa, hai ferito il mio cuore con uno dei tuoi occhi e con un capello del tuo collo (4,9). Ripete due volte che ella gli ha ferito il cuore, cioè con l’occhio e con il capello. Perciò nella strofa suddetta l’anima fa menzione di queste due cose per significare la sua unione con Dio secondo l’intelletto e la volontà, poiché la fede, significata dall’occhio, si soggetta nell’intelletto per fede e nella volontà per amore. L’anima si gloria di questa unione e ringrazia di questa mercede il suo Sposo, perché l’ha ricevuta dalle sue mani, dando grande importanza al fatto che Egli si sia degnato di compiacersi del suo amore e restarne preso. In ciò si può immaginare il gaudio, l’allegrezza e il diletto che l’anima proverà con un tal prigioniero, come colei che da tanto tempo era prigioniera di Lui, essendosene innamorata. 1. NOTA SULLA STROFA SEGUENTE Grande è il potere e la tecnica dell’amore che conquista Dio e lega Dio stesso. Fortunata l’anima che ama, poiché ha il Signore come prigioniero, pronto a fare tutto ciò che essa vuole! Egli infatti ha una natura tale che, se lo prendono per amore e con le buone, gli faranno fare quanto vogliono, mentre, in caso contrario, non vi è parola e potere, per quanto forte, che valgano con Lui. Per amore invece lo legano con un solo capello. L’anima, conoscendo ciò e sapendo che al di sopra dei suoi meriti Egli le ha fatto grazie tanto grandi da elevarla ad un grado di amore così alto con pegni ricchissimi di doni e virtù, attribuisce tutto a Lui nella strofa seguente. Bibliografia H.N. FREY, The Great Code. The Bible and Literature, 1981, tr. it. Il grande codice. Bibbia e letteratura, Einaudi, Torino 1986. M. DE CERTEAU, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI secolo e il XVII secolo, (or. fr. 1982) Jaca Book, Milano 2008. G. STEINER, Real presences, 1989, tr. it. Vere presenze, Garzanti, Milano 1998. G. LETTIERI, Origenismo in Occidente: secc. VII-XVIII, in A. MONACI CASTAGNO (ed.), Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere, Città Nuova, Roma 2000, pp. 307-322. G. LETTIERI, Il corpo di Dio. La mistica erotica del Cantico dei cantici dal Vangelo di Giovanni ad Agostino, di prossima pubblicazione in R. E. GUGLIELMINETTI (ed.), Il Cantico dei Cantici nel Medioevo, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2008. –4– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 10 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno POESIA E LETTERATURA NEL DISCERNIMENTO CULTURALE EVANGELICO Antonio SPADARO sj – 26 novembre 2008 A che cosa «serve» la letteratura? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Due immagini: − L’opera letteraria come «una sorta di strumento ottico», che consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. − Un’altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella «digestiva». Poniamo il caso di un’esperienza concreta: il poeta siciliano Bartolo Cattafi: «Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Poesia è dunque per me tentata decifrazione del mondo, cruento atto esistenziale». Il discernimento culturale ed evangelico 1. Che cos’è il discernimento culturale? Possiamo definirlo come la capacità critica di leggere la realtà (personale e sociale) e la cultura che essa incarna, cogliendo atteggiamenti profondi, significati, tensioni fondamentali. 2. Il discernimento culturale evangelico cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme già piantato… 3. Un semplice criterio di discernimento proviene dalla tradizione ignaziana: la «consolazione» 4. Facciamo un esempio biblico concreto che riguarda la lettura di un testo letterario: Atti degli Apostoli, lì dove si parla della presenza di Paolo all’Areopago (cfr At 17,16-34). La poesia «scopre gli abissi» 1. La poesia «scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli» (Giovanni Paolo II). A questi abissi la letteratura è dunque «via di accesso». 2. Il «lato tombale» delle cose e il loro «vero disegno» 3. L’indole espressiva propria delle arti e della letteratura secondo ciò che ha affermato con forza la Gaudium et spes. Tutta la letteratura degna di questo nome, per la sua propria indole, non «spiega» ma «dispiega» la vita. 4. Il discorso letterario è cristiano in quanto tale in ogni caso: per affermazione o per negazione. Flannery O’Connor ci dà una delle conferme più chiare di questa visione «teologica» della letteratura: «leggendo ciò che scrivo, ho constatato che argomento della mia narrativa è l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». La negazione e l’assurdo: una scossa Ma allora ecco farsi avanti prepotentemente una domanda: e dove invece si avesse una negazione del cristianesimo e della sua visione del mondo, dell’uomo e delle cose? Come intendere queste opere? «Questa radicalità nel porre il problema e nel mettere tutto in dubbio per ciò che riguarda l’uomo, serve a scuotere salutarmente la vita piatta dei borghesi, così numerosi anche tra i cristiani “credenti”? Questa scossa può essere sostituita dalle soluzioni più tranquille e più moderate di un pensiero cristiano?» (K. Rahner). www.diocesidiroma.it/scuola pag. 11 Ecco che si attiva il discernimento cristiano che nulla teme e che mette alla prova i sentimenti suscitati dalla lettura della narrazione e quindi si domanda: dove essi conducono il lettore? Il discernimento aiuta a interrogarsi sugli effetti… Così la lettura di certa «letteratura dell’assurdo» può trasformarsi in un pungolo in grado di scuotere il lettore che non si pone domande. Un più fine discernimento Ma si può andare ancora oltre. Infatti l’opera va ben al di là delle intenzioni di uno scrittore. Le immagini e le storie narrate spesso «con la loro ispirazione veramente poetica superano di gran lunga le intuizioni riflesse dell’autore» (K. Rahner). Il linguaggio poetico si esprime in figure, immagini, storie, cioè non in riflessioni «pure» e astratte. A questo punto cambiano i parametri valutativi della «religiosità» di un’opera letteraria. Non sono i contenuti religiosi che la rendono tale. L’opera è religiosa se essa «stimola» nel lettore l’esperienza religiosa della trascendenza e della salvezza o il suo desiderio. Il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona attivamente coinvolta. Il lettore, leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà vive l’esperienza di «essere letto» dalle parole che legge. Letteratura è fare esperienza del mondo Leggendo, il campo della nostra esperienza si amplia perché «viviamo» cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell’uomo e anche la capacità di discernere le mozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere. Aumenta la capacità di cercare e trovare Dio in tutte le cose, anche nel «territorio del diavolo», come scriveva Flannery O’Connor. Anzi – è sempre la O’Connor a scrivere – «spesso la natura della grazia si può spiegare solo descrivendone l’assenza». E perché questo avvenga è necessario sviluppare una significativa capacità di immaginazione: «un impoverimento dell’immaginazione significa anche un impoverimento della vita religiosa». Bibliografia Contributi personali A. SPADARO, Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Milano Jaca Book, 2008 A. SPADARO, La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia, Milano, Jaca Book, 2006. A. SPADARO, «Attese di salvezza. Forme contemporanee di un interrogativo antico», in La Rivista del Clero Italiano LXXXVI (2005) 685-699. Altra bibliografia citata durante la lezione (in ordine di citazione) Ch. DU BOS, Che cos’è la letteratura? Quattro lezioni americane, Rimini, Panozzo, 1996. J. COCTEAU – J. MARITAIN, Dialogo sulla fede, Firenze, Passigli, 1988. M. DE CERTEAU, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (Secoli XVI e XVII), Firenze, Olschki, 1989. J.-C. RENARD, «Poesia, fede e teologia», in Concilium XII 5 (1976), 36-61. R. LATOURELLE, «Letteratura», in R. LATOURELLE - R. FISICHELLA, Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi (PG), Cittadella, 1990, 631. F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma - Napoli, Theoria, 1993. M. P. GALLAGHER, Clashing Symbols. An Introduction to Faith-and-Culture, London, S. DAGERMAN, Il nostro bisogno di consolazione, Milano, Iperborea, 1991. J.-P. JOSSUA, Pour une histoire religieuse de l’expérience littéraire, vol. III, Paris, Beauchesne, 1994. M. BALDINI, Il linguaggio dei mistici, Brescia, Queriniana, 1990. J.-P. JOSSUA, La condition du témoin, Paris, Cerf, 1984. A. DULLES, Models of Revelation, Dublin, Gill and Macmillan, 1983. K. RAHNER, «Sacerdote e poeta» in La Fede in mezzo al mondo, Alba, Paoline, 1963. J. PUNGENTE – M. WILLIAMS, Finding God in the Dark. Taking the Spiritual Exercises of St. Ignatius to the Movies, Boston (MA)-Ottawa, Paline Books & Media – Novalis, 2004. Flannery O’Connor. Spiritual Writings, edited by R. ELLSBERG, Maryknoll (NY), Orbis, 2003. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 12 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno DANTE FRA TEOLOGIA E POESIA Piero BOITANI (LA SAPIENZA) – 10 dicembre 2008 Schema della lezione Verità e bellezza: primordi del cosmo, amore e cose belle La Creazione − Inferno I, III, XXXIV; − Purgatorio XVI e XXV; − Paradiso VII, X, XIII, XIX, XXIX, XXXII, XXXIII. L’Amore che spira in Purgatorio XXIV. Verità, giustizia e bellezza − Inferno III e Paradiso XVIII-XX: Creazione e creazione. Resurrezione, bellezza e sentimenti umani − Paradiso XIV. Poesia di e in Dio: dicibilità e indicibilità − Paradiso I, X e XIII, XXXIII. Paradiso, XXXIII, 55-145 Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. Qual è colüi che sognando vede, che dopo ’l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria. Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond’ io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ’mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; però che ’l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto. Omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante; ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’ io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ’l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer ‘poco’. O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ’l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’ elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ’l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 13 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno TRA MISERERE E MAGNIFICAT, OVVERO DALL’EFFIMERO ALL’ETERNO. L’ISTANZA VERITATIVA IN CLEMENTE REBORA Traccia della relazione di Mons. Giuseppe LORIZIO – 8 gennaio 2009 0. Premesse metodiche a partire da un sospetto di fondo: − − − − − perpetrazione di un atto di violenza ermeneutica o connaturale legame fra poesia e teologia? Nel tempo della povertà il poeta canta il sacro, traccia degli dei fuggiti… Rimpianto del sacro nell’arte contemporanea (cf Corriere della sera dom. 1 giugno 2008). La poesia secondo Rebora (P. 259-260) + “miele” (P. 265) – Poesia e santità (P. 304). Al riparo dalla deriva estetizzante della fede (P. 443). Musica e verità (P. 38). Il Leopardi mal noto e la musica… “sentimento in persona”. Il senso del titolo nel Curriculum vitae (P. 303). 1. Svolte biografiche: − dicembre 1915: il trauma per un’esplosione – “mania dell’eterno” (D. 44, 46ss). − 1928, Lyceum di Milano, lezione di storia del cristianesimo sui martiri scillitani, silenzio… «Quando comincia la serietà della vita, cessano tutti i sogni e la bellezza diviene indifferente. Dinanzi alla parola di Dio ammutolisce la parola del poeta che ha portato a espressione la bellezza e ha portato a bellezza la lingua» (F. Ebner). − 16 dicembre 1952: l’infermità. 2. Nodi speculativi: − La lettera al padre del 22 ottobre 1909… − La tesi su Romagnosi e la sua confutazione a favore di Rosmini… − Il Rosmini di Rebora: tranquilla armonia, ma con segreti affanni: «vivo una vita afflittissima, ma Dio è l’unico mio conforto…» – ispirata e sofferta esperienza. V massima: «riconoscere intimamente il proprio nulla». 3. Nella modernità, ma con senso di estraneità o spaesamento: − − − − − − il frammento come gemito… un «pesce fuor d’acqua» «mosca che erra» (P. 398ss) la deriva del treno (stazione di Milano… D. 42-43 – P. 31: «o carro vuoto sul binario morto») perenne attesa… (P. 151: «Dall’immagine tesa»). il tempo come effimero e la memoria dell’eterno (P. 149-150). Tempo (P. 218). Ragione e cuore (P. 72-73). 4. La fede non toglie la lacerazione, né l’estraneazione e lo spaesamento. − Una teologia che sopporta la poesia: la fede come salto – logica del paradosso – principio kenotico e fondamento agapico di una teologia agonica: − P. 254-255. − P. 146: se Dio cresce… − - «Il pioppo» (P. 281 - 475). − - «Solo calcai il torchio» (P. 286). − - Una fede che non vede: San Clemente (P. 269) – una esperienza romana (P. 280). Conclusione «In uno degli scritti di Kierkegaard si afferma che l’uomo deve vivere in maniera poetica o religiosa, altrimenti vivrà in maniera stupida. Che però in un’esperienza da poeta non si trovi la dimensione seria della vita spirituale, ciò può essere percepito solo in prospettiva religiosa. Considerato però da un altro punto di vista – quello del borghese ad esempio oppure del politico – non solo non sarebbe vero, bensì sarebbe addirittura un attacco contro lo spirito» (F. Ebner). –1– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 14 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno IL RITO E L’ARCHETIPO TEATRALE Elmar SALMANN osb – 21 gennaio 2009 Premessa metodologica La vita ha bisogno di essere mediata, rappresentata, compresa; il teatro e il rito (gioco, scuola, giustizia, medicina, i gesti ritualizzati quotidiani…) simboleggiano la dimensione simbolica dell’esistenza, cioè l’inesauribilità iniziale e finale dell’esistenza. Il rito riprende in modo stilizzato le forme e dinamiche del vissuto e le raffigura, aliena, riformula e regola, a volte le trasforma e le apre al divino come fonte e orizzonte del mondo. • Johan HUIZINGA, Homo ludens, Einaudi, Torino 2002 (or. 1939) • Eugen FINK, Il gioco come simbolo del mondo, Hopeful Monster, Firenze 1991 (or. 1960); Oasi del gioco, Raffaello Cortina, Milano 2008. • Victor TURNER, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986 (ed. orig. New York 1982) • Jürgen MOLTMANN, Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Queriniana, Brescia 1988. • Aldo Natale TERRIN, Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999 • François EUVÉ, Penser la création comme jeu, Cerf, Paris 2000 Il rapporto tra sacramento-teatro e vita 1. Il sacramento è una forma di teatro → la rappresentazione trasformatrice dei nodi e delle faglie dell’esistenza. E il teatro era una delle prime forme del culto e della teoria, dell’orientamento metamorfotico dell’uomo e del cosmo. 2. Il sacramento/teatro presuppongono, rappresentano e rinnovano/trasformano: − − − − − − − − − − la temporalità la spazialità la comunicazione il processo linguistico vincolante (ethos, diritto, giuramento) l’intercorporeità la dialettica dei sensi e del coinvolgimento tra intimità e distacco il sacrificio e l’abbandono l’incisività della metamorfosi la vita e lo spirito il divino – ma quale? 3. Il rapporto analogico e il divario tra teatro e sacramento – lo strano legame tra segno e realtà. Verso una realizzazione del rapporto tra segno e realtà; parola ed efficacia, corpo e anima; libertà verità e corporeità in rito e mistica. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 15 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno GESÙ E LA MACCHINA DA PRESA Dario Edoardo VIGANÒ (PUL) – 18 febbraio 2009 PRIMA PARTE Introduzione − Cinema e Sacro − Traduzione del Testo Sacro: fedeltà, riscrittura o tradimento. − Traduzione o trasmutazione. Storia del cinema religioso, cristologico • 1895 – 1930: La nascita del cinema, il cinema muto e le prime Passioni cinematografiche • 1930 – 1960: Hollywood e la grande stagione dei kolossal biblici • 1960 – 1970: Il cinema cristologico europeo e italiano • 1970 – 1980: Un cinema cristologico tra “innovazione e provocazione” • 1980 – 2000: Il cinema delle parabole e visioni di nuovo Millennio SECONDA PARTE Tre registi e tre momenti della storia di Gesù al cinema. Analisi dei seguenti film: • Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini. • Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli. • La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson. Modalità d’analisi: • Riferimenti al contesto in cui nasce l’opera. • Costruzione dell’opera e scelte stilistiche, di regia. • Riferimenti religiosi, pittorici e cinematografici. • Analisi di alcune sequenze. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 16 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno CINEMA E SACRO LE TEMATICHE RELIGIOSE NELLA SETTIMA ARTE Emanuela PRINZIVALLI (La Sapienza) – 4 marzo 2009 Il percorso si dividerà in due parti: I. Una volta chiarite, in breve, le definizioni di cinema, sacro e religioso, si mostrerà che la domanda con cui il cinema si confronta, nelle peculiarità del proprio linguaggio artistico rispetto alle altre arti visive, è la stessa che percorre l’arte occidentale: il sacro è rappresentabile? La tesi cui si approda è che i registi che più hanno avvertito la pregnanza teorica del problema della rappresentabilità del sacro lo hanno risolto evitando di farsi sopraffare dalle risorse sempre più ampie della tecnologia, esplorando invece le potenzialità del linguaggio specifico del cinema, quello dei corpi (nel senso lato del termine). II. Nelle differenze degli stili adottati, in termini generalissimi per quanto riguarda i contenuti, e limitandosi al cinema in cui il sacro è declinato all’interno di un orizzonte mentale influenzato comunque dal cristianesimo, l’attuale filmografia, diciamo dagli anni ’80 del secolo scorso in poi, ripropone due motivi ricorrenti: 1. una cristologia della kenosi e della sconfitta; 2. il contrasto fra legge e grazia, anche se non è detto che la prospettiva della grazia risulti sempre quella vincente. Ciò che risulta significativo è che questa proposta contenutistica passa di preferenza attraverso procedimenti simbolici o metaforici. Bibliografia consigliata A. AYFRE, Contributi a una teologia dell’immagine, Edizioni Paoline, Roma 1966 (ed. orig. 1964) A. BAZIN, Che cosa è il cinema, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1991 (1958-1962) P. BERTETTO (a cura di), Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma-Bari 2006 E. CAMPANI, Cinema e sacro, Gremese, Roma 2003 A. CAPPABIANCA, Il cinema e il sacro, Le Mani, Genova 1998 P. SCHRADER, Il trascendente nel cinema, a cura di G. Pedullà, Donzelli, Roma 2002 (ed. orig. 1972) D. E. VIGANÒ (a cura di), Il cinema delle parabole, Effatà, Torino 1999-2000, II voll. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 17 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno STORIA DELLA LAUDE LA MUSICA SACRA A ROMA FINO AL XVI SECOLO Francesco LUISI (Università di Parma e PIMS) – 15 aprile 2009 1) Premessa: poesia devozionale ed espressione musicale. 2) Laude nel Medioevo: mezzo di amplificazione della fede nel concetto di “Ecclesia spiritualis”. Esperienze poetiche, formali e linguistiche; “contrafacta” e “cantasi come”. 3) L’espressione laudistica nella scia delle forme musicali d’arte tra Umanesimo e Rinascimento. 4) La laude della Controriforma nella tradizione filippina e gesuitica. Indicazioni bibliografiche F. LUISI, «L’espressione musicale della devozione popolare», in Enciclopedia della musica, vol. IV, Torino, Einaudi, 2004, pp. 152-176 (con ulteriore bibliografia). www.diocesidiroma.it/scuola pag. 18 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno MUSICA SACRA, LITURGICA, RELIGIOSA: VERSO UNA DEFINIZIONE DEI GENERI Valentino MISERACHS (PIMS) – 29 aprile 2009 Per avere un chiarimento non solo nozionale ma di contenuto sulle caratteristiche della musica sacra, della musica liturgica e religiosa, penso che il miglior metodo sia quello di percorrere “per summa capita” il magistero della Chiesa in materia. A noi preme insistere sulla musica “liturgica”, cioè quella che è inerente alla celebrazione dei sacramenti e, in particolar modo, dell’Eucaristia. Perciò l’argomento della conferenza potrebbe sintetizzarsi così: La musica liturgica prima e dopo il Concilio Vaticano II. Preambolo • • Funzione di supplenza del Pontificio istituto di Musica Sacra (PIMS), vista la scarsità di documenti ecclesiali Distinzione fra musica sacra, liturgica, devozionale Il motu proprio «Inter sollicitudines» di San Pio X • • • Genesi del motu proprio Situazione della musica sacra del secolo XIX Preparazione prossima del documento I principi perenni: • • • “santità” della musica sacra “bontà di forma” “universalità” Lo “spirito” del canto gregoriano negli altri generi di musica sacra • • • Le consuetudini locali Le nuove composizioni La formazione musicale Concilio e postconcilio • • • • Chiarezza della dottrina conciliare (cfr Sacrosanctum Concilium, cap. VI) Scarsa fedeltà alla dottrina nella susseguente prassi Barlumi di speranza Canto gregoriano e inculturazione Conclusione: occorrono serietà e concordia nell’azione Indicazioni bibliografiche V. MISERACHS, Excitabo auroram, LEV – PIMS, Roma, 2.voll. AA. VV., Iucunde laudemus, PIMS, Roma 2005 (raccolta di documenti del Magistero) www.diocesidiroma.it/scuola pag. 19 La bellezza della fede – Corso di aggiornamento – II anno AMORE PROFANO, AMORE SACRO: R. WAGNER FRA TRISTAN UND ISOLDE E PARSIFAL Giovanni CARLI BALLOLA (Università di Lecce) – 13 maggio 2009 I rapporti di Wagner col cristianesimo costituiscono per la loro complessità uno dei temi più sofferti e dibattuti della storia della musica e, più in generale, della cultura tedesca del XIX secolo. È indubbio che senza un’appropriazione profonda e spesso conflittuale del messaggio cristiano (da intendersi comunque al di fuori di una dimensione confessionale) non sarebbe nata una drammaturgia musicale che, fin dal Vascello fantasma per arrivare al supremo Parsifal, appare percorsa dai motivi conduttori di Colpa e di Redenzione. Anche l’Amore, nella sua duplice espressione di Eros e di Agape (si pensi solo a Tannhäuser, al Tristano, all’Anello del Nibelungo, al Parsifal) trova nell’opera wagneriana un accoglimento intimamente sentito e di una novità sconvolgente, che poco o nulla ha a che vedere col melodramma coevo. Qualche suggerimento bibliografico di accertata chiarezza espositiva. Carl DAHLHAUS, I drammi musicali di Wagner, Marsilio, Venezia 1998, pp. 190 Ernest NEWMAN, Le opere di Wagner, Mondadori, Milano 1981, pp. 800 Robert W. GUTMAN, Wagner. L’uomo, il pensiero, la musica, Rusconi, Milano 1983, pp. 700 Teodoro CELLI, L’anello del Nibelungo, Rusconi, Milano 19973, pp. 400 (divulgativo ma d’indubbia serietà). www.rwagner.net Tristan und Isolde Azione in tre atti. Personaggi: Tristan (T), re Marke (B), Isolde (S), Kurwenal (Bar), Melot (T), Brangäne (Ms), un pastore (T), un pilota (Bar), un giovane marinaio (T); marinai, cavalieri, scudieri. Opera in tre atti su libretto proprio (→ Wort-Ton-Drama = «dramma in parola e musica»; Kunst-totalwerk = «opera d’arte totale»). La musica usa dei temi portanti (Grundtheme o Letmotive), e il testo risulta tutto composto dall’inizio alla fine (durchkomponiert) senza ritornelli, tramite la «melodia infinita» (unendliche Melodie). I temi sono brevi e fortemente caratterizzati, costantemente variati a seconda delle situazioni drammatiche. Servono a suscitare i sentimenti corrispondenti e a reggere le trame connettive del tessuto musicale. Il cromatismo del Tristano è universalmente riconosciuto come l’inizio della musica moderna e un anticipo del Novecento. Tema del Dolore (A) e del Desiderio (B) Tema del cofanetto magico «Poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta ; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!». Questo passaggio della lettera scritta da Wagner a Franz Liszt nel dicembre 1854 è insieme premessa ed epigrafe dell’opera teatrale più sconvolgente che sia mai stata composta, erede della tragedia classica e intimamente rivoluzionaria negli accenti, punto di non ritorno nella storia dell’opera romantica e punto di partenza di tutta la musica moderna. www.diocesidiroma.it/scuola pag. 20 Wagner ricavò l’argomento del Tristano da un poema del XIII secolo del Minnesänger tedesco Gottfried von Strassburg, che aveva rielaborato, su fonti disparate del secolo precedente, un’antica leggenda di probabile origine celtica. Nel poema di Wagner, compiuto a Zurigo tra l’aprile e il settembre 1857, gli antefatti, piuttosto complicati e ricchi di digressioni, sono affidati al racconto di Isolde nella scena centrale del primo atto, in forma tanto concisa quanto altamente drammatica: finalizzati già all’erompere dell’azione nel suo nucleo fondamentale. L’idea che Isolde covi, insieme con il desiderio di vendetta per l’uccisione di Morold da parte di Tristan, anche la fiamma di un amore inconscio per colui che l’ha tradita, si fa strada a poco a poco nelle sue terribili e disperate invocazioni: e tuttavia il nodo centrale è rappresentato dal simbolo del filtro magico, su cui si innesta, sul piano del testo poetico, un tratto quanto mai ambiguo di psicologia. Tristan e Isolde bevono la pozione credendo di darsi la morte; in realtà Brangäne ha sostituito a loro insaputa il filtro di morte con quello d’amore: e ciò spiega senza fratture apparenti l’improvviso accendersi della passione. Ma per quanto il tema del filtro magico faccia parte del retroterra più consueto di un poema medioevale, e non solo di quello qui preso a riferimento, Wagner insinua un dubbio che mette in altra luce il destino dei due amanti: Tristan e Isolde possono finalmente abbandonarsi alla passione che già è presente nei loro cuori nel momento in cui sanno di morire. In altre parole, si rivelano l’uno all’altro consapevolmente, per consegnarsi alla morte non prima di aver riconosciuto il loro amore. Parsifal Libretto proprio, da Parzival di Wolfram von Eschenbach – Dramma sacro in tre atti. Personaggi: Amfortas (Bar), Titurel (B), Gurnemanz (B), Parsifal (T), Klingsor (B), Kundry (S); cavalieri del Graal e scudieri, fanciulle incantatrici di Klingsor. L’ultimo dramma musicale di Richard Wagner assume il valore di un’opera davvero summatica, per la ricchezza di simboli e l’intreccio di elementi filosofici, letterari e religiosi di cui si compone, e grazie ai quali si è posto come formidabile monumento per la cultura del decadentismo europeo. Alla base dell’imponente lavoro di Wagner sulle fonti letterarie, rimane il ruolo centrale del mito nella sua concezione estrema del Gesamtkunstwerk: l’assunzione di una simbologia mitica è lo strumento irrinunciabile per l’analisi psicologica di cui si fa portatore il modello di teatro wagneriano. Stando a quanto egli stesso racconta nel Mein Leben, il primo accostamento del musicista alle leggende del Graal (la coppa miracolosa con cui Cristo avrebbe celebrato l’ultima cena e che poi avrebbe raccolto e conservato il suo sangue dalla croce) avvenne nell’estate del 1845: il primo frutto di quell’interessamento ai poemi cavallereschi medioevali si realizzò proprio nella composizione di Lohengrin (1850). Come vedremo, innumerevoli materiali musicali e poetici di questa, che è l’ultima ‘opera lirica’ nel senso tradizionale del termine scritta da Wagner, confluiranno e si svilupperanno nell’estremo Parsifal. Parzival, il poema di circa 25.000 versi, fu scritto da Wolfram von Eschenbach verso il 1210 in medio-alto tedesco; si basa a sua volta sul Perceval di Chrétien de Troyes, del quale risulta tuttavia una versione più spirituale e cristiana. Nel 1854, durante la stesura del poema di Tristan und Isolde, il personaggio di Wolfram si riaffacciò nei progetti di Wagner, che meditò persino di far intervenire il cavaliere del Graal come salvatore nell’ultimo atto del dramma, a conforto di Tristano mortalmente ferito; è d’altronde evidente il rapporto di somiglianza fra la ferita di quest’ultimo e la piaga di Amfortas. L’idea di scrivere un poema drammatico sull’eroe di Wolfram sarebbe maturata infine nel 1857, ed esattamente il giorno del venerdì santo, sempre se si presta fede all’autobiografia del musicista. L’abbozzo fu completato nel 1865, e la stesura definitiva dei versi dovette però aspettare la realizzazione dell’Anello del nibelungo, rappresentato nel 1876; l’anno successivo, in aprile, la poesia di Parsifal era terminata, e in dicembre veniva pubblicata dall’editore Schott. Quanto alla musica, Wagner iniziò la composizione nell’agosto del 1877, e portò a termine la partitura nel gennaio 1882. Per molti anni Bayreuth mantenne l’esclusiva assoluta del Parsifal, riproponendo sempre l’allestimento originale del 1882. Quando infine la partitura, dal 1914, poté circolare anche negli altri teatri di tutto il mondo, iniziarono anche le prime riletture registiche, e si moltiplicarono le interpretazioni musicali a opera dei maggiori direttori d’orchestra. Presentando al re Luigi II di Baviera il preludio del Parsifal, Wagner stese una traccia contenutistica che succintamente riportiamo: «Amore - Fede - Speranza? Primo tema: Amore. ‘Prendete il mio corpo, prendete il mio sangue’. Secondo tema: Fede. Promessa di redenzione per Fede. Salda e risoluta la Fede si manifesta, esaltata, incrollabile anche nella sofferenza. (...) Ma ancora una volta, dall’impaurita solitudine, palpita il lamento della pietà d’amore: il corpo si fa esangue, il sangue sgorga e risplende con celeste benedizione nel Calice, riversando la grazia della redenzione su tutto ciò che vive e soffre. Siamo preparati ad Amfortas, il peccatore custode della santa reliquia, che torturato dal pentimento trema dinanzi al divino castigo che la vista del Graal risplendente porta con sé: potrà trovar redenzione l’angoscia che gli divora l’animo? Ancora una volta udiamo la promessa; e - speriamo!». „Durch Mitleid wissend, / der reine Tor, / harre sein', / den ich erkor“ («per compassione sapiente, il puro folle, attendilo costante, colui che io ho eletto»). www.diocesidiroma.it/scuola pag. 21 PICCOLA STORIA DEL REQUIEM 1. WIPO di Solothurn (ca. 990-1050), Victimae paschali laudes La sequenza riassume mirabilmente tutta la fede cristiana nella vita eterna donata in Cristo risorto. 2. J. OCKHEGEM (ca. 1420-1497) – Requiem 1. Introitus [Ensemble Organum; dir. Marcel Pérès, Harmonia Mundi; 4’35’’] Composto per i funerali di Carlo VII (1463) o – secondo altri – di Luigi XI (1483), è il primo Requiem polifonico che ci è giunto (quello di G. Dufay è andato perduto). Integra mediante contrappunti polifonici la tradizionale Missa pro defunctis gregoriana, mentre altri brani conservano andamento monodico. Rit. Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis. Salmo: Te decet hymnus Deus in Sion / et tibi reddetur votum in Jerusalem. Exaudi orationem meam / ad Te omnis caro veniet (Rit.). 3. J.S. BACH (1685-1750) – Cantata Gottes Zeit ist die allerbeste Zeit BWV 106 («Actus tragicus») [Esecuzione integrale – Dir. Joshua Rifkin, Decca; 18’46’’] Composta nel 1707 da un Bach poco più che ventenne per un funerale (forse di uno zio, Tobias Lämmerhirt, morto il 10 agosto 1707); cantata per soli (contralto e basso [= Cristo]), coro, due flauti, due viole da gamba e basso continuo. Una vera e propria lectio divina sui temi della morte e della resurrezione; si noti la citazione di Sir 14, deuterocanonico (considerato apocrifo da Lutero, ma tradotto ugualmente). Oltre a rivestire di musica i testi, Bach introduce le melodie di corali che fanno venire in mente le parole e al cuore i sentimenti corrispondenti in maniera quasi subliminale (ad es. Ich hab’ mein Sach’ Gott heimgestellt = «ho affidato la mia causa a Dio» sul canto di Ap 22,20. L’esito teologico è chiaro: «se per effetto dell’alte Bund [cioè l’antica alleanza] devo morire, invocando Cristo [entrando quindi nella nuova alleanza] metto la mia causa in buone mani; e la morte perde la sua drammaticità»: G. LONG, J.S. Bach. Il musicista teologo, Claudiana, Torino 19972, p. 285). I. SONATINA Il tempo di Dio è il tempo migliore di tutti. In lui viII. Gottes Zeit ist die allerbeste Zeit. viamo, ci muoviamo e siamo (At 17,28) finché vuole. In ihm leben, weben und sind wir, solange er will. In lui moriamo a suo tempo, quando egli vuole. In ihm sterben wir zur rechten Zeit, wenn er will. Ach, Herr, lehre uns bedenken, dass wir sterben müssen, auf dass wir klug werden O Signore aiutaci a meditare che moriremo, e troveremo la sapienza (Sal 90,12) [Tenore] Bestelle dein Haus; denn du wirst sterben und nicht lebendig bleiben Disponi riguardo alle cose della tua casa, perché morirai e non guarirai (Is 38,1) [Basso] Es ist der alte Bund: Mensch, du musst sterben! Ja, komm, Herr Jesu, komm È la vecchia legge di natura: o uomo, devi morire. (Sir 14,18) [Coro; legge = alleanza (Bund)] Sì, vieni signore Gesù, vieni! (Ap 22,20) [Soprano] III. ARIA: In deine Hände befehl ich meinen Geist; du hast mich erlöset, Herr, du getreuer Gott. Signore, nelle tue mani affido il mio spirito. Tu mi hai redento, Signore, Dio fedele (Sal 31,6) [Alto solo] Heute wirst du mit mir im Paradies sein. Mit Fried’ und Freud’ ich fahr dahin In Gottes Willen, Getrost ist mir mein Herz und Sinn, Sanft und stille. Wie Gott mir verheißen hat: Der Tod ist mein Schlaf geworden. Oggi sarai con me in Paradiso (Lc 23,43) [Basso solo] [corale in contrappunto:] Con pace e gioia vado avanti, nella volontà di Dio, il mio cuore e i miei sensi sono consolati, tranquilli e silenziosi. Come Dio mi ha promesso: la morte è divenuta per me un sonno. testo: Martin Luther 1524 [adattamento del Nunc dimittis] Glorie, Lob, Ehr und Herrlichkeit Sei dir, Gott Vater und Sohn bereit, Gloria, lode, onore e potenza a Te Dio Padre e Figlio (melodia: Ich hab’ mein Sach’ Gott heimgestellt) www.diocesidiroma.it/scuola pag. 22 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem Dem heilgen Geist mit Namen! Die göttlich Kraft Mach uns sieghaft Durch Jesum Christum, Amen. e Spirito Santo, unico Dio. La forza divina ci renda vincitori per mezzo di Gesù Cristo. Amen. testo: Adam Reusner 1533 4. W.A. MOZART (1756-1791) – Requiem K. 626 3. Dies irae – 4. Tuba mirum – 8. Lacrymosa [Dir.: C.M. Giulini, Sony; 10’27’’] Requiem oltremodo famoso in virtù del presunto omicidio di Mozart per gelosia da parte di Salieri; fu scritto integralmente dall’autore solo fino a metà del Lacrymosa, e completato dopo la sua morte da F.X. Süssmayr. 3. Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla. Quantus tremor est futurus, quando judex est venturus, cuncta stricte discussurus. 4. Tuba mirum spargens sonum per sepulchra regionum, coget omnes ante thronum. Mors stupebit et natura, cum resurget creatura, judicanti responsura. Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur, unde mundus judicetur. Judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit, nil inultum remanebit. Quid sum miser tunc dicturus, quem patronum rogaturus, cum vix justus sit securus? 8. Lacrimosa dies illa, qua resurget ex favilla judicandus homo reus. Huic ergo parce, Deus. Pie Jesu Domine, dona eis requiem! Amen. 5. L. CHERUBINI (1760 – 1842), Requiem in do min. 5. Sanctus – 6. Pie Jesu [Dir. G. Rozhdestvensky, Emi; 4’21’’] Composto per Luigi XVI nel 1816, introduce per primo alcune modifiche al testo della liturgia, aggiungendo parti dell’ufficio della sepoltura, tra cui il Pie Jesu. Le musica assume tratti descrittivi solo nell’Offertorio; poche concessioni allo stile teatrale. Molto apprezzato da Beethoven (fu eseguito al suo funerale) e da Berlioz. 5. Sanctus Dominus Deus sabaoth. Pleni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis. 6. Pie Jesu Domine, dona eis requiem sempiternam. 6. H. BERLIOZ (1803-1869), Grande messe des morts, Op. 5 III. Tuba mirum [Dir. E. Imbal, Brilliant Classic; 6’24’’] Scritto per il generale E. Mortier (morto nel 1835), ma eseguito di fatto al funerale del generale Ch.-M. Dénis (1837), con oltre 500 esecutori. Composizione per grande orchestra e di durata eccessiva (quasi un’ora e mezza), segue il testo tradizionale, musicando il testo della messa, compreso il Dies irae, ma ne trasforma il sapore in chiave romantica e drammatica. 3. Tuba mirum spargens sonum, per sepulchra regionum, coget omnes ante thronum. Mors stupebit et natura, cum resurget creatura, Judicanti responsura. Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur, unde mundus judicetur. Judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit, nil inultum remanebit. Mors stupebit et natura, cum resurget cratura, /[sottovoce] Judicanti responsura, mors stupebit et natura. 7. G. VERDI (1813-1901) – Messa da Requiem 3. Tuba mirum – 18. Libera me [Dir. A. Toscanini, Rca; 14’40’’] Composto nel 1874, in memoria di Alessandro Manzoni, eccede ampiamente la misura liturgica per lo stile drammatico-operistico e per il riarrangiamento del testo. Il Dies Irae ed il Tuba mirum sono molto teatrali e operistici; più delicato l’Agnus Dei. Verdi non era un cattolico, ma ha composto brani in cui la sua fede tormentata dal dubbio si esprime al meglio (vedi i Quattro pezzi sacri); il finale in do magg. del Libera me Domine parla – a mio giudizio – più chiaro di tante speculazioni (ma alcuni interpreti sottovalutano questo aspetto: cfr I. Markevitch, che offre una lettura altamente drammatica della pagina verdiana). 3. Tuba mirum spargens sonum, per sepulchra regionum, coget omnes ante thronum. 18. Libera me domine de morte aeterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra, dum veneris judicare saeculum per ignem. Tremens factus sum ego et timeo, dum discussio venerit atque ventura ira. – Dies irae, dies illa calamitatis et miseriae, dies magna et amara valde, dum veneris judicare saeculum per ignem. Dies irae, dies illa… – Requiem aeternam dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis. Requiem… – Libera me Domine de morte aeterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra, dum veneris judicare saeculum per ignem. Libera me… –2– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 23 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem 8. J. BRAHMS (1833-1897) – Ein deutsches Requiem, Op. 45 N. 2: Denn alles Fleisch [Dir. G. Sinopoli, Deutsche Grammophon; 15’41’’] Requiem non liturgico perché protestante; composto in un lungo arco di tempo (1857–68), si basa su testi della scrittura scelti da Brahms stesso. Modello remoto: H. Schütz (Musicalische Exequien op. 7 – 1636). Il secondo dei sette brani è il più lungo e impegnativo: come in Bach, una vera lectio sulla caducità umana, che si trasforma in lode per la fiducia nella Parola di Dio: «…ma la Parola del Signore dura in eterno!». Denn alles Fleisch ist wie Gras und alle Herrlichkeit Ogni carne [= gli uomini mortali] è come l’erba e des Menschen wie des Grases Blumen. Das Gras ist ogni gloria dell’uomo è come fiore d’erba. L’erba inaridisce e i fiori cadono. (Pt 1, 24.) verdorret und die Blume abgefallen. So seid nun geduldig, lieben Brüder, bis auf die Zukunft des Herrn. Siehe, ein Ackermann wartet auf die köstliche Frucht der Erde und is geduldig darüber, bis er empfahe den Morgenregen und Abendregen. Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge del mattino e le piogge della sera (Gc 5, 7.) Aber des Herrn Wort bleibet in Ewigkeit Ma la parola del Signore rimane in eterno. (Pt 1, 25.) Die Erlöseten des Herrn werden wieder kommen, und gen Zion kommen mit Jauchzen; ewige Freude wird über ihrem Haupte sein; Freude und Wonne werden sie ergreifen und Schmerz und Seufzen wird weg müssen. I riscattati dal Signore ritorneranno e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li prenderanno e tristezza e pianto dovranno fuggire. (Is 35, 10.) 9. A. DVOŘÁK (1841-1904) – Requiem op. 89 1. Requiem aeternam [Dir. J. Bulbas; 9’50’’] Se la musica e le dimensioni richiamano lo stile di Brahms o Berlioz, il testo è quello della messa tradizionale, con il Dies irae, ecc. Scritto nel 1890-91 per soli, coro e orchestra, dura oltre 90 minuti. Grande creatività melodica ed armonica. 1. Requiem aeternam dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis. – Te decet hymnus, Deus in Sion, et tibi reddetur votum in Ierusalem .– Exaudi orationem meam; ad te omnis caro veniet. – Requiem aeternam dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis – Kyrie eleison. 10. G. FAURÉ (1845-1924) – Requiem op. 48 4. Pie Jesu – 7. In paradisum [Corydon Singers, dir. M. Best, Hyperion; 7’25’’] 4. Pie Iesu Domine, dona eis requiem. Dona eis requiem sempiternam. 7. In paradisum deducant te angeli, in tuo adventu suscipiant te martyres, et perducant te in civitatem sanctam Jerusalem. Chorus angelorum te suscipiat, et cum Lazaro quondam paupere aeternam habeas requiem. Originariamente in soli cinque movimenti, fu poi rielaborato aggiungendo l’Offertorio e il responsorio, entrambi con baritono solista, e un’orchestra ampliata (legni, ottoni, ecc.). Composto non per una occasione particolare, ma solo «per il piacere di farlo», fu invece eseguito la prima volta per il funerale della madre (1888). Si omette il Dies irae (cioè il testo più drammatico), si aggiungono i testi delicati del “commiato”. Offre una visione della morte serena e rassicurante (la musica, dolcissima, spiega la popolarità dell’opera). 11. K. WEILL (1900-1950) – Das Berliner Requiem 1. Großer Dankchoral [Dir. Ph. Herrewege, Harmonia Mundi; 3’00’’] “Cantata secolare” su testi di B. Brecht, composto nel decennale della Grande Guerra (1928) per la radio, nell’ambito dei progetti sperimentali della Neue Sachlichkeit. Opera anti-tradizionale e dissacrante (nell’organico ci sono banjo e percussioni), cinica e disperata (Berlino come metonimia della secolarizzazione). L’introduttivo Großer Dankchoral (testo tratto dalla raccolta di poesie Die Hauspostille di Brecht, che spesso usa la Bibbia per trasformarla con feroce ironia) ricalca il famoso corale Lobe den Herren di J. Neander: «…Kommet zu Hauf! / Psalter und Harfe, wacht auf, / Lasset den Lobgesang hören!» (in it. –3– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 24 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem è Lodate Dio), invertendone il senso: l’uomo sa di dover morire, ma non c’è nessuna speranza, egli è come un animale, non ha nessuna prospettiva di vita eterna. Il sarcasmo anticristiano è feroce, l’effetto volutamente estraniante. Lobet die Nacht [3 volte] Lodate la notte e le tenebre und die Finsternis, die euch umfangen! che vi circondano! Kommet zuhauf Venite numerosi! Schaut in den Himmel hinauf: Guardate su nel cielo. Schon ist der Tag euch vergangen. Il giorno è già tramontato per voi. Lobet von Herzen [3 volte] Lodate di cuore das schlechte Gedächtnis des Himmels! la cattiva memoria del cielo! Und daß er nicht Ed esso non Weiß euren Nam’ noch Gesicht conosce di voi né il nome né il volto Niemand weiß, daß ihr noch da seid. Nessuno sa che ancora esistete. Lobet das Gras [3 volte] Lodate l’erba e le bestie und die Tiere, die neben euch leben und sterben! che vivono e muoiono accanto a voi! Sehet, wie ihr Guardate, come voi Lebet das Gras und das Tier vive l’erba e la bestia Und es muß auch mit euch sterben. e deve anche con voi morire. Lobet die Kälte [3 volte] Lodate il freddo, die Finsternis und das Verderben! le tenebre e la rovina! Schauet hinan: Guardate in alto: Es kommet nicht auf euch an non ci potete fare niente Und ihr könnt unbesorgt sterben. e non vi rimane che morire tranquilli. 12. M. DURUFLÉ (1902-1986) – Requiem op. 9 4. Sanctus – 9. In paradisum [Dir. M. Piquemal, Naxos; 6’25’’] Scritto nel 1947 per la morte del padre, revisionato nel 1961 (versione ascoltata). Interamente composto su temi gregoriani, con uso frequente della modalità. Nove brani, senza sequenza Dies irae; molto debitore a Fauré. Gli interventi dell’organo – spiega l’autore – vogliono indicare «pace, fede e speranza». Clima di grande pacatezza, fiducia, solarità, in un ritorno all’antico che ripropone il clima mistico della liturgia, appena arricchito di armonie più sofisticate e nuovi timbri. 13. M. CASTELNUOVO-TEDESCO (1895-1968), Memorial service IV. Shiwwiti [tenore: Simon Spiro, Naxos; 3’18’’] L’autore, noto soprattutto per la sua produzione chitarristica, emigrò in America nel 1938, divenendo famoso anche per musiche da film. Questo Ufficio per i defunti, composto nel 1960, nasce per uso liturgico: l’accompagnamento d’organo è consentito in molte sinagoghe americane. Il testo è quello del Sal 16 [15], vv. 8-9. 8 dymi=t; y˝DI∞g“n<˝l] hw:∞hy“ ytiyWI›vi .f/Mêa,AlB' y˝nIfiymiy˝mi⁄? yKi? y˝Bili™ jmæ¢c; @k´¶˝l; y˝dI–/bK] lg< Y:∞˝w" .jf'b≤?˝l; @Koèv]yI y˝rI%c;B]¤A#a' 14. 9 Shiwwìti Adonaj lenegdi tamid: ki mimini, bal emmot. Lakhen samach libbi wajàghel kevodi; af beshari jishkon lavètach. Ho posto il Signore innanzi a me per sempre è alla mia destra, non vacillerò. Perciò gioisce il mio cuore ed esulta la mia gloria [altra vers.: anima], anche la mia carne riposa al sicuro. B. BRITTEN (1913-1976) – War Requiem op. 66 II. Dies irae – III. Offertorium (Domine Jesu Christe – «So Abraham rose, and clave the wood» – Hostias) [Dir. J.E. Gardiner, Deutsche Grammophon; 13’48’’] Eseguito per la prima volta nel 1962 in occasione della ricostruzione della cattedrale di Coventry (città rasa al suolo dai bombardamenti tedeschi nel 1940, da cui il neologismo “coventrizzare”), è composto per combattere “gli orrori di tutte le guerre”; ma in realtà più in relazione alla “guerra fredda” che alla prima o alla seconda guerra mondiale. Dedicato a quattro giovani che combatterono nella marina – Roger Burney, Piers Dunkerley, David Gill, Michael Halliday – tre dei quali caduti nel secondo conlitto mondiale, ed uno, –4– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 25 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem Dunkerley, morto suicida nel 1959, di cui Britten era amico. Il testo latino (sei delle nove parti normali del requiem) è cantato da soprano, coro misto e coro di voci bianche; i testi del poeta anglicano inglese Wilfred Owens (1893-1918) che descrivono gli orrori della Prima guerra mondiale sono cantati dal tenore o baritono accompagnati da un’orchestra da camera. In tal modo si crea un efficacissimo contrasto di stile, venato di amarezza e disincanto. Versi di Owen posti sul frontespizio: «My subject is war, and the pity of war… The poetry is in the pity… All a poet can do today is warn» («Il mio tema è la guerra e la pietà per la guerra. La poesia risiede nella pietà… Tutto ciò che oggi un poeta può fare è ammonire»). III. Domine Jesu Christe rex gloriae, libera animas omium fidelium defunctorum de poenis inferni, et de profondo lacu: libera eos de ore leonis, ne absorbeat eas tartarus, ne cadant in obscurum. Signore Geù Cristo, re di gloria, libera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno, e dal profondo abisso: liberali dalle fauci del leone, non li inghiottisca il Tartaro, non cadano nelle tenebre. Sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam: quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus. Ma san Michele con le sue insegne le riconduca alla luce santa che promettesti un tempo ad Abramo e alla sua discendenza. Parable of the Old Men and the Young Parabola del vecchio e del giovane (W. Owens) So Abram rose, and clave the wood, and went, And took the fire with him, and a knife. And as they sojourned both of them together, Isaac the first-born spake and said, My Father, Behold the preparations, fire and iron, But where the lamb for this burnt-offering? Then Abram bound the youth with belts and straps, And builded parapets and trenches there, And stretched forth the knife to slay his son. When lo! an angel called him out of heaven, Saying, Lay not thy hand upon the lad, Neither do anything to him. Behold, A ram caught in a thicket by its horns; Offer the Ram of Pride instead of him. But the old man would not so, but slew his son, and half the seed of Europe, one by one… Così Abramo si alzò e spaccò la legna e andò, prese con sé il fuoco e un coltello. E come si fermarono uno insieme all’altro, Isacco, il primogenito, disse: Padre mio ecco gli strumenti, fuoco e ferro, ma dov’è l’agnello per questo olocausto? Allora Abramo legò il fanciullo con cinghie, costruì lì stesso un altare con un muretto e stese il coltello per ammazzare il figlio. Ma ecco! Un angelo lo chiamò dal cielo, dicendo: Non stendere la mano sul ragazzo, e non fargli alcun male! Guarda, un ariete impigliato per le corna in un cespuglio; offri l’ariete dell’Orgoglio invece di lui. Ma il vecchio non volle così, e uccise suo figlio. e la metà della stirpe d’Europa, uno per uno… Hostias et preces tibi Domine laudis offerimus; tu suscipe pro animabus illis, quorum hodie memoriam facimus: fac eas, Domine, de morte transire ad vitam. Quam olim Abrahae promisisti et semini ejus. Offerte e preghiere di lode offriamo a te, Signore; accoglile per le anime di coloro di cui oggi facciamo memoria: fa’ che passino – o Signore – dalla morte alla vita. [La vita] che promettesti ad Abramo e alla sua discendenza. 15. I. STRAWINSKY (1882-1971) – Requiem canticles 3. Tuba mirum – 8. Libera me – 9. Postludium [Dir. R. Craft, Sony; 4’05’’] Composto nel 1965/66 in memoria di Helen Buchanan Seeger, è «il primo mini-requiem o “requiem tascabile”» (parole dell’autore); composizione adatta per comprendere l’ultimo periodo di Strawinsky. Nove brani, compresi un preludio per archi, un interludio per fiati, un postludio per percussioni. Tra i linguaggi innovativi c’è il parlato ritmico. 8. Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra, dum veneris judicare saeculum per ignem. Tremens factus sum ego et timeo, dum discussio venerit atque ventura ira, quando coeli movendi sunt et terra. Dies irae, dies illa, calamitatis et miseriae, dies magna et amara valde. Libera me! 16. A. SCHNITTKE (1934-1998) – Requiem 3. Dies irae – 13. Credo – 14. Requiem [Dir. F. Windekilde, Scandinavian Classic; 8’54’’] Schnittke fu battezzato negli anni ’80 e soffrì molto sotto il regime sovietico. Il Requiem è del 1975, composto come musica di scena per il Don Carlos di Schiller (ambientato nella Spagna –5– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 26 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem dell’Inquisizione!) per eludere la sorveglianza del regime sovietico su opere di contenuto religioso, ed è la prima opera in cui l’A. professa appassionatamente la sua fede. Prima esecuzione a Budapest. Sono 14 brani relativamente brevi, con orchestrazione vivace e originale (tromba, chitarra elettrica, celesta, batteria…). 3. Dies irae, dies illa… 13. Credo in unum Deum, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium. Credo! Credo in unum Dominum Iesum Christum Filium Dei unigenitum, et ex Patre natum ante omnia omnia saecula. – Deum de Deo, lumen de lumine… Deum verum de Deo vero, genitum non factum, consubstantialem Patri. Credo in unum Dominum Jesu Christum! Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis… Credo in unum Deum! Osanna! 14. Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis. 17. J. RUTTER (1945 – ) Requiem (versione per orch. da camera) 4. Sanctus – 5. Agnus Dei – 6. The Lord is my shepherd [Dir. T. Brown, Naxos; 12’29’’] Composto nel 1985, con testi latini (liturgia) e inglesi (Bibbia e Book of common prayer del 1662), in memoria del padre, secondo un linguaggio armonico semplice e sereno che – disse l’Autore – «sarebbe piaciuto a mio padre ascoltare». Rutter era uno dei coristi alla registrazione del War requiem del ’63 diretta dall’autore. Mentre il Sanctus è tutto in latino, l’Agnus Dei alterna testo latino e inglese; la melodia del Victimae paschali presentata dal flauto segnala la serena vittoria della vita sulla tragicità dell’esperienza umana. Il Salmo 23 (Il Signore è il mio pastore) è cantato in inglese, con accompagnamento di oboe solista. 5. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis re- Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona loro l’eterno riposo. quiem. Man that is born of a woman hath but a short time L’uomo nato da una donna ha solo breve tempo di to live, and is full of misery. He cometh up, and is vita ed è pieno di miseria. Cresce e viene tagliato cut down like a flower; he fleeth as it were a shadow. come fiore, svanisce come ombra. Agnus Dei… In the midst of life, we are in death: of Nel mezzo della vita ci coglie la morte: chi verrà in whom may we seek for succour? Agnus Dei… I am the resurrection and the life, nostro soccorso? (dal Book of common prayer) saith the Lord: he that believed in me, though he Io sono la risurrezione e la vita, dice il Signore: chi were dead, yet shall he live: and whosoever liveth crede in me, anche se muore vivrà; e chi vive e crede in me non morirà mai (Gv 11,25-26) and believeth in me shall never die. 18. AA. VV., Requiem der Versöhnung G. KURTÁG (1926 – ): Epilog. Inscription on a grave in Cornwall [dir. H. Rilling, Hänssler; 3’15’’] Nel 1995 la Bachakademie di Stoccarda commissionò ad alcuni famosi compositori un Requiem della riconciliazione per commemorare le vittime della II guerra mondiale; i 14 brani sono stati composti rispettivamente da L. Berio, F. Cerha, P.-H. Dietrich, M. Kopelent, J. Harbison, A. Nordheim, B. Rands, A.-A. Dalbavie, J. Weir, K. Penderecki, W. Rihm, A. Schnittke & G. Rozhdestvensky, J. Yuasa, G. Kurtág. L’impianto d’insieme, a partire dalla lingua latina, sembra assolutamente tradizionale (Prologo strumentale, Requiem, Sequenza Dies irae completa suddivisa in sezioni, Interludio, Offertorio, Sanctus, Agnus Dei, Communio, Libera me Domine, Epilogo); ma l’insieme è invece molto post-moderno e di difficilissimo ascolto, con sonorità violente ed ansiogene; nel complesso, un’opera non molto felice, nonostante il nobile progetto. L’ultimo brano, Epilogo, dell’ebreo rumeno-ungherese György Kurtág, è uno dei brani più “orecchiabili” (!); presentata dall’autore come “iscrizione su una pietra tombale”, il brano sfrutta due versetti di 2Cor (5,1 e 3,17) cantati dal coro, seguiti – dopo violenti colpi percussivi di tutta l’orchestra – dall’Ite missa est parlato. We have a building of God an house not made with hands eternal in the heavens. Where the spirit of the Lord is there is liberty. In – missa – est. Abbiamo un edificio di Dio una casa non fatta da mani d’uomo eterna, nei cieli (2Cor 5,1). Dove c’è lo spirito del Signore, c’è libertà (2Cor 3,17). La messa è finita, andate in pace. –6– www.diocesidiroma.it/scuola pag. 27 F. MORLACCHI – Piccola storia del Requiem 19. CONCLUSIONE Al termine della carrellata, mancano all’appello molte figure decisive: Bruckner e Penderecki, Schütz e Schumann, Puccini e Lloyd Weber… Il sito www.requiemsurvey.org, curato dall’olandese Kees van der Vloed, raccoglie ad oggi (maggio 2009) ben 3394 Requiem di oltre 2000 compositori: cioè esprime con chiarezza la parzialità di questo breve profilo. D’altronde non si voleva fare una ricostruzione completa, ma solo presentare alcune tappe significative e utili per un fine didattico. Dall’originario contesto liturgico della prima stagione, totalmente plasmato dalla fede cristiana, si passa attraverso i dubbi e la drammaticità dell’era romantica, all’irrisione e l’avversione del primo Novecento, alla successiva saturazione e crisi dei linguaggi, fino ai tentativi di riscoperta e valorizzazione del passato, in una nuova opzione – fiduciosa o problematica – per la consonanza sofisticata. La morte rimane mistero, ma l’arte ci consente di esplorarne i confini e illuminarne le profondità. Per ripercorrere adeguatamente la storia della concezione della morte nella musica occidentale occorrerebbe però allargare lo sguardo anche ad altri autori, considerando sia i brani strumentali (marce funebri, ecc…), sia la riflessione “laica” sul vivere e morire (nell’Opera, e non solo). Mi limito ad alcuni esempi per la musica strumentale (sarebbero troppi quelli relativi al melodramma e alla musica vocale in genere): Ludwig v. BEETHOVEN Sonata n. 12 op. 26 in La bem. magg.: Marcia funebre sulla morte di un eroe (1801) Sinfonia n. 3 «Eroica» in Mi bem. magg. op. 55 (1802-1804) Frédéric CHOPIN Marcia funebre dalla Sonata n. 2 in si bem. min. op. 35 (1836-39) Richard WAGNER Götterdämmerung, Atto III, scena II: Marcia funebre per la morte di Sigfrido (1874) Maurice RAVEL Pavane pour une enfant défunte (1899) Gustav Mahler Sinfonia n. 5 in do# min.,: Trauermarsch (1903). 20. Indice 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. WIPO di Solothurn (ca. 990-1050), Victimae paschali laudes......................................................1 J. OCKHEGEM (ca. 1420-1497) – Requiem.................................................................................1 J.S. BACH (1685-1750) – Cantata Gottes Zeit ist die allerbeste Zeit BWV 106 («Actus tragicus») 1 W.A. MOZART (1756-1791) – Requiem K. 626 ..........................................................................2 L. CHERUBINI (1760 – 1842), Requiem in do min. ....................................................................2 H. BERLIOZ (1803-1869), Grande messe des morts, Op. 5.........................................................2 G. VERDI (1813-1901) – Messa da Requiem ...............................................................................2 J. BRAHMS (1833-1897) – Ein deutsches Requiem, Op. 45 ........................................................3 A. DVOŘÁK (1841-1904) – Requiem op. 89................................................................................3 G. FAURÉ (1845-1924) – Requiem op. 48....................................................................................3 K. WEILL (1900-1950) – Das Berliner Requiem .........................................................................3 M. DURUFLÉ (1902-1986) – Requiem op. 9................................................................................4 M. CASTELNUOVO-TEDESCO (1895-1968), Memorial service ..............................................4 B. BRITTEN (1913-1976) – War Requiem op. 66 ........................................................................4 I. STRAWINSKY (1882-1971) – Requiem canticles....................................................................5 A. SCHNITTKE (1934-1998) – Requiem .....................................................................................5 J. RUTTER (1945 – ) Requiem (versione per orch. da camera) ............................................................6 AA. VV., Requiem der Versöhnung ..............................................................................................6 CONCLUSIONE ...........................................................................................................................7 Indice..............................................................................................................................................7 –7–