APRILE 2008 LICEO CLASSICO STATALE “V. EMANUELE II” JESI Anno 24 N. 1 • Indirizzi: Classico • Socio Psico Pedagogico • Scienze Sociali LE COLLEZIONI SCIENTIFICHE DEL LICEO CLASSICO D a una pubblicazione del 1909, a cura del Prof. Gaetano Gasperoni, dal titolo “IL GINNASIO – LICEO DI JESI dal 1861 al 1909”, si legge: “…Il prof. Domenico Matteucci, chiamato nell’ottobre del 1887 per concorso ad occupare la cattedra di Storia naturale in questo Ginnasio-Liceo, comprese la necessità…di costituire un Gabinetto. Con la cooperazione dei capi d’istituto e con l’ausilio dell’Amministrazione Comunale riuscì nel suo intento; sì che dobbiamo a lui se oggi l’istituto è fornito di un materiale conveniente per lo studio delle scienze naturali. Il gabinetto consta di collezioni di Botanica, di Zoologia, Mineralogia, Litologia Paleontologia;…Il Liceo ha in comune col R. Istituto tecnico il Gabinetto di Fisica; il valore complessivo del materiale scientifico, come risulta dall’inventario, è di Lire 27769,99… In seguito agli acquisti fatti in questi ultimi anni, massime per consiglio del Prof. Marcucci, attualmente insegnante di Fisica al R. Istituto tecnico e incaricato della medesima materia per il Liceo, il Gabinetto possiede gli apparecchi necessari per ripetere in iscuola molte esperienze relative alle conquiste scientifiche più recenti: come, per esempio, quelle sulle onde elett ro m a g n e t i c h e , s u i r a g g i Röntgen, sulla radioattività, oltre a parecchi buoni strumenti di misura; per dare un’idea dell’importanza del Gabinetto, uno Sferometro, un Catetometro Max Kohl, un Banco Melloni completo per lo studio del calore raggiante, un Polaristrobometro Pfister e Streit, un Termometro a gas Jolly-Pflaunder, un Elettrometro Mascara, un Elemento normale Gouy, un Galvanometro Thomson costruito dal Carpentier, un Voltmetro e un Amperometro di precisione, una Bussola dei seni e delle tangenti, due Ponti di Wheatstone, uno a cassetta, uno a filo teso, 2 2008 un campione di capacità elettrica, una grande Elettro-calamita Faraday per lo studio del Diamagnetismo e dei fenomeni magneto-ottici. V’è inoltre il materiale necessario per eseguire gli esperimenti di Chimica alla prima classe del Liceo. Il valore del materiale del Liceo ascende a Lire 8352,15……”. Sono evidenti, leggendo questa breve testimonianza, il valore e l’importanza quale bene culturale di gran parte del materiale didattico di interesse storico – scientifico presente nei laboratori del Liceo Classico di Jesi e, quindi, l’opportunità di una sua tutela. Generalmente, ma non sempre, questo materiale scolastico viene inventariato, ma non v’è obbligo che esso sia catalogato secondo criteri consolidati come nel caso, ad esempio, dei libri nelle biblioteche di conservazione, oppure dei reperti naturalistici nei musei di scienze naturali. Trattandosi, poi, di materiale d’uso, esso non è soggetto alla tutela vincolante di alcuna amministrazione, né per quanto riguarda la sua conservazione, né per quanto concer- ne l’eventuale restauro, nonostante esso possegga, in alcuni casi, sia per antichità, sia per rarità, tutte le caratteristiche di un bene culturale. Tra l’altro, come documentato nei registri conservati negli archivi della scuola, anche il materiale inventariato negli anni trenta e quaranta ha subito gravi perdite o danneggiamenti a causa dei saccheggi avvenuti “negli infausti anni 1943, ’44, 45 “. Per queste ragioni il primo passo del nostro progetto sarà quello di documentare, con una catalogazione e un rilevamento fotografico, tutto il materiale didattico a disposizione, risalente in gran parte ai primi decenni del ‘900 e per alcuni oggetti anche alla fine del secolo XIX. La mostra “Le tappe della scienza nella storia del Liceo Classico di Jesi”, inaugurata il 10 dicembre 2007 presso i locali del Liceo Classico in occasione della “Giornata delle Marche”, può considerarsi una parziale anticipazione di quello che rappresenta un altro importante obiettivo del nostro progetto, ossia la realizzazione di uno spazio museale permanente aperto a tutti. Nella mostra infatti hanno trovato spazio solo alcuni degli strumenti della collezione del gabinetto di fisica. Una collezione che ha valore non solo per la rarità, la bellezza o l’originalità dei pezzi in essa contenuti, ma anche per il fatto che rispecchia fedelmente la “Fisica” come essa era presentata nelle scuole di questo livello nella seconda metà dell’800. Altro elemento di attenzione è la realizzazione artigianale di alcuni strumenti per motivi sicuramente di risparmio, ma anche, io ritengo, per rendere, con la verifica diretta, più probante la dimostrazione dell’esperienza con gli studenti, “componendo” e “scomponendo” lo strumento. La raccolta naturalistica invece è composta da un centinaio di oggetti, per la maggior parte risalenti anch’essi ai primi decenni del Novecento. Tra questi una collezione di Uccelli montati in pelle, complessivamente in discreto stato di conservazione. Vi sono modelli anatomici in gesso smaltato, modelli micologici preparati con precisione in cartapesta e gesso, riprodotti fedelmente nelle dimensioni, nella morfologia e colorazione, e alcuni modelli di Botanica (fiori, apparati radicali, etc.). Compongono la raccolta, inoltre, preparati in scheletro di Pesci, Anfibi, Rettili e Mammiferi ai quali si aggiunge una serie di preparati in alcool conservati in vasi di vetro, perlopiù in discreto stato di conservazione. Fanno parte, infine, della raccolta di materiale didattico conservata nel Laboratorio di Scienze anche alcune collezioni di mineralogia e paleontologia, che hanno avuto probabilmente origine alla fine dell’ Ottocento, costituite da un gran numero di minerali e fossili, e che da allora sono andate arricchendosi grazie all’opera di alcuni insegnanti. Enrico Baldoni MEGLIO ALTERNARE, NEH?!? L ’alternanza scuolalavoro è un progetto delle scuole che permette agli studenti del quarto anno di fare un’ esperienza lavorativa di un mese presso aziende locali, enti pubblici, onlus, ecc… La scelta del luogo di lavoro non è casuale; la scuola, infatti, oltre ad offrire corsi di formazione teorica sul mondo del lavoro, sottopone gli studenti a dei test, grazie ai quali è possibile mettere in luce le attitudini personali, per poter scegliere così il lavoro che più si addice a ciascuno. Allo studente viene affiancato, nell’azienda, un tutor al quale questi può fare riferimento per qualsiasi motivo. Al termine dell’esperienza, della durata di un minimo di 120 ore, il tutor compila una scheda valutativa riguardo all’operato dello stagista, che è invitato a fare altrettanto; questi moduli vanno poi consegnati alla scuola e, se lo si desidera, il contratto di lavoro può essere prolungato. Nel periodo giugno-luglio 2007 gli studenti del IIC che hanno partecipato all’alternanza scuola-lavoro sono stati: Leonardo Ferazzani, Silvia Morici, Letizia Pasqualini, Silvia Schiavoni, Lucia Scortichini e Clementina Sordoni. Alcuni di loro ci racconteranno la loro esperienza. A cura del prof. Federico Lecchi Leonardo Ferazzani: Ritengo che l’esperienza del progetto scuola-lavoro sia uno strumento molto utile per avvicinare gli studenti al mondo lavorativo. Personalmente il mio stage all’azienda Presscom di Jesi è stata un’ottima occasione, in quanto mi ha permesso di approfondire le mie conoscenze informatiche e di mettere in pratica anche le mie abilità linguistiche. Lo stage mi ha permesso di conoscere persone altamente professionali e allo stesso tempo socievoli. Il lavoro svolto durante il periodo di questo progetto non è stato assolutamente monotono in quanto mi hanno fatto svolgere svariate mansioni: dal computer alla sistemazione dell’archivio, dalla rassegna stampa mattutina al rispondere a chiamate telefoniche. Credo che sia un’esperienza da provare! Silvia Morici: Ho trascorso il mio mese di stage presso l’azienda A.E.A. di Angeli di Rosora, precisamente in S.U.M.M.A., cioè il settore addetto alle pubbliche relazioni. Dopo che mi è stata assegnata una scrivania con un computer, ho avuto il compito di organizzare “l’English Camp”, cioè giornate in cui i figli dei dipendenti potevano migliorare le proprie conoscenze di inglese attraverso esercizi, giochi da tavolo, caccia al tesoro e karaoke. Tuttavia ogni attività doveva essere adatta a bambini dai 2-6 anni, dai 713 anni e dai 14-18, ed erano previste tre giornate di campo scuola. Non è stato un compito facilissimo, però ha fatto emergere le mie capacità organizzative e collaborative in quanto lavoravo abitualmente con un’altra ragazza. A questa attività ho alternato: la selezione degli articoli che dovevano essere inseriti nella rassegna stampa del sito dell’azienda, e compiti di amministrazione aziendale. Devo dire che è stata un’occasione per conoscere il vero mondo del lavoro. Letizia Pasqualini: La mia esperienza lavorativa si è tenuta presso la cooperativa sociale COO.S.S. Marche onlus di Jesi, dove ho svolto mansioni di segreteria al front office. Oltre a ricevere e smi- stare telefonate, fare fotocopie e fax, ho avuto modo di creare una presentazione in power point per una gara d’appalto ed ho ideato un logo per una struttura gestita dalla COO.S.S. Marche. Conoscenze tecniche a parte, il fatto di essermi trovata costantemente a contatto con la gente ha migliorato la mia capacità di relazionarmi con gli altri e di trovare soluzioni efficienti in tempi brevi. Da un punto di vista umano, l’esperienza si è rivelata molto piacevole; le impiegate e gli impiegati dell’ufficio di Jesi sono stati sempre disponibili e gentili, favorendo la presenza di un clima sereno e disteso. Il mio giudizio circa tale esperienza è assolutamente positivo e la consiglio a tutti gli studenti che cerchino un lavoro che comporti una crescita personale, oltre che professionale. Silvia Schiavoni: La mia esperienza lavorativa ha avuto luogo presso TV Centro Marche di Jesi, azienda che fornisce un servizio di informazione radio-televisivo. Qui ho avuto modo di sperimentare come nasce un sevizio tele giornalistico, di vedere tutto l’iter e il lungo lavoro che c’è dietro, di arricchirmi con la conoscenza delle strategie del mestiere e del linguaggio giornalistico. Col supporto di alcuni professionisti ho scritto alcuni articoli per il tg elaborando un sunto chiaro e mirato delle notizie più interessanti riportate sui vari quotidiani locali e regionali. Ho avuto persino l’occasione di realizzare un servizio nel quale il direttore mi ha dato la possibilità di trattare una tematica di mio interesse e da lui pienamente approvata. Come una vera giornalista, con l’aiuto di un cameraman, ho fatto le interviste che mi occorrevano e successivamente ho scritto l’articolo che, poi, nella fase di montaggio, ha accompagnato le immagini. Il tutto è stato registrato e trasmesso in tv, così come uno speciale di 4 minuti sulle università marchigiane che ho invece prodotto con la collaborazione di un’altra stagista e che è stato letto personalmente da noi! Non c’è dubbio che sia stata una bella esperienza, di grande valore formativo e soprattutto un’ottima occasione per mettersi alla prova e muoversi in realtà non conosciute. Lucia Scortichini: Ho partecipato allo stage alternanza scuola-lavoro proposto dalla scuola presso il Comune di Castelplanio. Inizialmente, devo confessare, ero un po’ titubante e preoccupata perché era la mia prima esperienza lavorativa. Invece, ora che tale esperienza è terminata, ritengo che sia stata un’ottima occasione per poter misurare le mie competenze tecniche, organizzative e culturali acquisite in questi anni di studio. In Comune sono stata destinata al settore dei servizi sociali e demografici. Ho potuto conoscere le problematiche sociali del mio paese, imparare ad utilizzare programmi di computer specifici per redigere documenti necessari nelle discussioni del Consiglio Comunale, fare fax e scrivere carte d’identità. L’ambiente lavorativo era molto familiare, gli addetti al settore cordiali e soprattutto disponibili a rendermi partecipe alle loro mansioni. So che sembra una frase fatta, ma dovete assolutamente provare tutti! Articolo di: Leonardo Ferazzani, Silvia Morici, Letizia Pasqualini, Silvia Schiavoni e Lucia Scortichini IIIC 3 2008 M E T RTitolo OPOLIS N ell’ambito della rassegna Cinema – Scuola l’attuale classe IIC ha partecipato agli incontri e ai laboratori di analisi e decodifica del linguaggio cinematografico fin dalla quarta ginnasio in quanto inserita nel Piano Regionale per la didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo nella scuola. I laboratori e gli incontri sono stati guidati dalla Prof.ssa A. Gregorini ( IRRE – Marche) e da S. Gambelli (Centro di didattica cinematografica - Ancona), nonché da docenti presso l’Università di Urbino: essi hanno fornito continui stimoli e strumenti di lavoro a docenti e alunni proponendo nell’anno scolastico 2006-2007 la produzione di Fritz Lang , di cui i ragazzi hanno visionato “M” il mostro di Dusseldorf e Metropolis. Si propone di seguito l’analisi di alcuni aspetti del film Metropolis eseguita dagli studenti per gruppi di studio e su quelle tematiche che più li hanno interessati. Prof. Vera Valletta IL PERSONAGGIO DI MARIA : IL DOPPIO E IL RUOLO DELLA DONNA “Metropolis” è considerato uno dei film più interessanti del regista tedesco Fritz Lang. Girato nel 1927, rappresenta un ipotetico mondo del ventunesimo secolo, dove la società è nettamente divisa in due: la classe dirigente, che abita nella parte superiore della città, e la classe operaia, costretta nel sottosuolo a lavorare in modo disumano per mantenere Metropolis. Quando Fredersen, il padrone della città, si accorge per mezzo del figlio Freder, che l’ordine sociale potrebbe essere sovvertito da Maria, ricor4 2008 re a qualunque mezzo pur di impedirlo. Recatosi nella casa di un suo amico inventore, Rotwang, gli ordina di creare un automa con le sembianze della donna, per poter manovrare il movimento operaio. Rotwang tuttavia comanda a questa nuova Maria di incitare gli operai alla rivolta per via di un antico risentimento verso Fredersen. Perciò all’interno della vicenda, un ruolo chiave è sicuramente rivestito proprio dal personaggio di Maria ( interpretata da Brigitte Helm), la quale riporta su di sé evidenti influenze delle esperienze letterarie precedenti. Infatti due sono i principali modelli di riferimento femminili a cui Lang si ispira: la donna-angelo e la donna-diavolo. La prima è una figura caratterizzata da spiritualità, gentilezza e amabilità, ed è stato il soggetto prediletto dei poeti stilnovisti. Coerentemente con questa visione, Lang ha voluto che la sua Maria fosse il mezzo grazie al quale Freder riuscisse ad aprire gli occhi sulla realtà che lo circondava; Maria diventa così il suo punto di contatto con il mondo, nonché l’elemento che dà il via a tutti gli avvenimenti successivi. Nell’ambito della società sotterranea, Maria rappresenta l’ultima speranza per la classe operaia di migliorare la propria condizione di vita: infatti tiene in gran segreto delle riunioni all’ interno delle catacombe, durante le quali profetizza l’arrivo di un “mediatore” che potrà porre rimedio al disequilibrio tra classi sociali. Dunque il suo è un messaggio di pace e amore, che si riflette anche nell’ambientazione scenografica; infatti nei momenti della predicazione la sua figura è avvolta da un’at- mosfera luminosa che inonda tutto l’ambiente circostante. Invece l’automa rappresenta il lato oscuro della figura femminile, cioè la donna-diavolo. Infatti in contrapposizione alla Maria buona, quella cattiva cerca di esortare alla rivolta gli operai, che così danno libero sfogo al loro lato più violento e irrazionale. Tuttavia essi, quando si rendono conto dell’errore, non esitano a legarla ad un palo e a farla bruciare su di esso come una strega. Caratteristica del robot è quella di essere il simbolo della perdizione, tant’è che la sua prima comparsa avviene in uno spogliarello nel quartiere dei divertimenti di Yoshiwara, durante il quale il pubblico in preda alla lussuria, si scatena in follie senza freno. La donna quindi riveste ora il ruolo di seduttrice e rappresenta l' elemento di trasgressione. Ciò può essere intuito dal particolare dallo sguardo: nella vera Maria, infatti, quest'ultimo è dolce, rassicurante e benevolo. Quello dell' androide invece è ammiccante e pesantemente truccato. Attraverso lo sguardo, la donna diventa simbolo della sensualità, dell'erotismo e della passione che travolge. In definitiva la donna riveste un duplice ruolo: da una parte troviamo la Maria pura, casta, che cerca di alleviare le sofferenze e i dolori degli operai attraverso la predicazione, diventando la portatrice di ideali quali amore e perdono, dall'altra invece possiamo trovare l'androide che è simbolo della trasgressione e della sensualità, intenzionata a portare gli operai alla rivolta e quindi riveste un ruolo decisamente negativo. N.Arena, I. Pistelli A. Valenti, F. Rotoloni I. Dicuonzo, M. Saraceni L’ASPETTO RELIGIOSO In “Metropolis” si possono individuare vari richiami al mondo della religione sia a livelli di contenuto che a livelli di significato. È presente anzitutto un sincretismo di fondo tra idee politiche ed elementi eterogenei provenienti dalla tradizione cristiana, dal paganesimo e dalla superstizione, come la grande macchina che si trasforma in Moloch, la divinità fenicia che divorava gli uomini offertigli in sacrificio, o il mito della torre di Babele, narrato da Maria agli operai nel sottosuolo, con cui si vuole spiegare l’esigenza – più sociale che spirituale – di un mediatore tra la classe dirigente e la classe lavoratrice. Questo sincretismo è uno dei tanti aspetti del cinema espressionista, ma soprattutto una peculiarità della sceneggiatura, a tratti drammatica e a tratti romanzesca, di Thea von Harbou. Inoltre vi è una fitta rete di corrispondenze significative, come le riunioni a scopo religioso nelle catacombe (che ricordano le assemblee paleocristiane di fedeli), la figura del cuore come mediatore, personificata in Freder (ed assimilabile alla figura del Messia ebraico o di Gesù Cristo), o il personaggio di Maria, simbolo della purezza dell’anima e del corpo (collegabile alla Madonna). Forte è la contrapposizione tra l’immagine del futuro, del progresso e della tecnologia prettamente basati sul calcolo e sulla razionalità, con le immagini del rogo della falsa Maria e della cattedrale gotica che rimandano ad un medioevo fatto quasi interamente di credenze e superstizioni. In più il regista ci propone un’immagine del cristianesimo strettamente legata al maligno, alla morte e ai 7 peccati capitali personificati, che sono posti in forte METROPOLIS contrasto con la società di Metropolis altamente tecnologizzata, quasi per giustificarne lo sviluppo. Nonostante ciò, il messaggio che il regista desidera comunicarci è che una società, benché fortemente permeata dal progresso, non è in grado di mantenere la concordia tra le varie classi senza dei valori spirituali. Da questo messaggio si evince il ruolo fondamentale che la religione e la spiritualità svolgono nell’ambito di una società civile e il forte rischio di strumentalizzazione di tale ruolo. S. Santoni, F. Pirani, S. Belogi LA MASSA Il tema della massa assume un’importante caratterizzazione ai fini dell’Espressionismo di Fritz Lang. Una delle prime scene mostra il popolo operaio mentre si accinge ad iniziare la giornata di lavoro: è una massa ordinata, che cammina con lo stesso passo e a testa bassa, come se fosse una schiera di robots, che viene contrapposta alla vivacità delle macchine. Troviamo quindi il paradosso delle meccanicità robotica dell’uomo in opposizione al movimento rapido, quasi umano, delle macchine. Con l’arrivo di Maria-androide, che porta alla ribellione gli operai, notiamo il capovolgimento della situazione: la massa non è più ordinata ma si muove in modo scomposto e sparso, si passa da una società umana che vive in funzione delle macchine ad una realtà in cui l’uomo si ribella alla schiavitù in cui è ridotto a causa dell’industrializzazione in quanto le persone ritrovano la vita togliendola alle macchine. La ribellione degli operai è aizzata dalle parole di Maria, figura dapprima religiosa, vista come una Madonna e quindi adorata dalla massa, in seguito, diabolica (Maria-androide). Si nota in questo senso con quale facilità la folla si faccia influenzare, prima da parole che predicano la pace e che poi inducono alla violenza, non riuscendo ad esprimere una propria volontà e ad agire seguendo la propria testa. La massa si scontra contro le macchine, simbolo del potere di Fredersen, il vero antagonista degli operai, in quanto loro capo. La moltitudine contro il singolo è un elemento che si ritrova in un altro film dello stesso regista, “’M’ il mostro di Dusseldorf”, in cui il popolo si accanisce nei confronti del maniaco, considerato il “diverso” e per questo perseguitato. In “’M’ il mostro di Dusseldorf” emerge l’odio verso il diverso, in “Metropolis” l’ostilità nei confronti del potente; un’ostilità che tuttavia si risolve grazie all’aiuto di un mediatore. Anche in “M” ritroviamo le caratteristiche proprie della massa: la medesima violenza e rapidità nell’agire e nel muoversi, la facilità nel farsi influenzare, nel seguire irrazionalmente i pareri di chiunque senza discernere e ragionare. Il carattere fondamentale della massa è l’incapacità di ragionare autonomamente: la moltitudine non ha intelligenza né volontà propria, ma segue ciò che dice il singolo, senza valutare quello che è giusto e quello che non lo è. M. Sgreccia, M. Campana A. Lombardi, L. Carotti LA FIGURA DELLO SCIENZIATO In Metropolis, lo scienziato Rotwang, distrutto dalla per- dita della moglie Hel, sfida le leggi della natura creando un robot a cui dare le sembianze della donna amata. La figura di Rotwang si caratterizza subito per la sua ambiguità: inventore-scienziato ma anche alchimista-mago che sembra venire da un tempo imprecisato del passato. Al passato fa riferimento anche la casa in cui R. abita, il cui aspetto, almeno all’esterno, allude all’occulto e al mistero più che al futuro e alla scienza. All’interno si rivelano invece gli aspetti più legati all’attività di studiososcienziato : la biblioteca, lo studio, il laboratorio. Ma anche qui non mancano elementi simbolici portatori di ambigue valenze : la scala a chiocciola, le tende atte a svelare e a nascondere nello stesso tempo;e se la scala mette in comunicazione lo studio di R. in basso con le catacombe della città e in alto con la città moderna dei grattacieli, nel laboratorio avviene la trasformazione dell’automa in robot “L’essere macchina Maria”:”Il lavoro più impegnativo di R. è quindi proprio un’esperienza di trasmutazione della materia, di metamorfosi organica in cui le più tradizionali aspirazioni degli alchimisti si fondono con le ricerche più avanzate della scienza o più esattamente , della fantascienza. “ (Paolo Berretto”Fritz Lang Metropolis”ed.lindau cinema) R. si avvicina quindi a Frankstein in letteratura e al mito del rabbino-mago praghese Rabbi low, il creatore del Golem. E qui si innesta il problema morale della sfida di scienza e tecnologia ai limiti imposti all’uomo non solo da un punto di vista tradizionale cristiano, ma anche da uno più umanistico e laico che vede nel futuro un preoccupante predominio delle macchine in una logica tecnologica distruttiva. In Metropolis la scienza viene quindi vista come sfida dell’ intelligenza umana nei confronti di Dio (il grattacielo principale si chiama Torre di Babele), tema molto caro alla letteratura e al cinema, per cui la scienza diventa perno di una società laica dimentica dei valori. Essa è destinata a crollare proprio perché basata esclusivamente su fondamenta fatte di circuiti ed energia elettrica. La scienza è per natura avvicinabile al peccato di hybris perché porta lo scienziato a misurarsi con Dio, gli dà un potere che lo eleva più in alto rispetto agli altri uomini, immenso ma che non può dominare, lo stesso potere di cui si sentiva padrone Frankenstein al momento di dar vita alla sua creatura. Questi “uomini superiori” tuttavia sono dannati e colpevoli, perché non rispettosi dei loro ruoli decisi dal destino e da Dio; e come tale anche R., che diventa “capro espiatorio di una società ipertecnologica ; infatti morto R. e distrutti grattacieli e tecnologie si ritorna ad una serenità e ad una pace antiche con cui si chiude il film, e che non si erano mai respirate prima durante la visione. Raggiunto l’apice e conosciuto lo scibile al punto da infondere vita in latta e metallo si ritorna indietro in un eterno ciclo di distruzione e rinascita. F. Bucci , F. Ciarmatori M. Bakkum 5 2008 IL SAPERE E I SAPERI L a scuola non è onnipotente ma non è neppure impotente: sarebbe distorto pensare che essa debba e possa insegnare fatti senza valori, nozioni senza significati, risposte senza domande e che i docenti siano chiamati in causa solo come professionisti e non anche come cittadini di una città, di una nazione, dell’Europa e del mondo, e come persone umane, interdipendenti e solidali con tutte le altre persone umane a cominciare da quelle con cui si vive ogni giorno” Luciano Corradini Da anni ormai si parla di abilità di studio, di strategie di apprendimento, di autonomia dello studente. Da qualche tempo la categoria concettuale del “saper apprendere” è stata anche riconosciuta in programmi e documenti “ufficiali”, fino ad essere citata espressamente nel Quadro generale di riferimento del Consiglio d’Europa, dove viene associata strettamente ai più classici sapere, saper fare, saper essere. Dunque il saper apprendere è, in un certo senso, l’ultimo nato dei vari saperi, e, in questa proliferazione di categorie, è opportuno chiederci se si tratti di un concetto utile perché indipendente o se, al contrario, si sovrapponga in qualche modo agli altri ad esso associati. In altre parole, quali sono le ragioni che ci spingono ad isolare il saper apprendere e addirittura, a sostenere l’utilità di una sua definizione a livello di curricolo? Il saper apprendere implica, in primo luogo, delle competenze, delle strategie: può trattarsi di strategie cognitive, che ci aiutano a rielaborare le informazioni: parliamo allora, ad esempio, di inferenza, di associazione, di classificazione. Può trattarsi di strategie metacognitive, strategie che ci aiutano ad auto-gestirci nel nostro apprendimento, e allora parliamo, ad esempio, di pianificazio6 2008 ne, di controllo, di autovalutazione. Può anche trattarsi di strategie socioaffettive, con cui cerchiamo di gestire il rapporto con noi stessi e con gli altri. Può infine trattarsi di strategie di comunicazione e di compensazione, con cui cerchiamo di ridurre al minimo gli inconvenienti della nostra limitata competenza linguistica e socioculturale, sfruttando nello stesso tempo al massimo le nostre potenzialità comunicative. In ogni caso abbiamo a che fare con modalità di comportamento concrete e operative – cioè, in definitiva, con un saper fare. Ma tutto questo, come ci dice la nostra esperienza di discenti e di docenti, non basta a definire la persona che sa imparare. Intuiamo che dietro un uso produttivo di strategie c’è ben altro, a cominciare da un insieme di conoscenze. Ognuno possiede delle conoscenze, innanzitutto, sui contenuti della disciplina che sta imparando, per esempio sui concetti di lingua, di comunicazione e di cultura. Ma ognuno possiede anche delle conoscenze sui metodi della disciplina che sta imparando, sui modi di acquisizione e apprendimento di una lingua. Anche in questo caso, può trattarsi di convinzioni più o meno consapevoli su come si impara una lingua, su che cosa può facilitarne o ostacolarne l’apprendimento, su quali caratteristiche personali entrano in gioco. Queste convinzioni di carattere generale sulla lingua e sull’apprendimento sono strettamente associate a parallele convinzioni che ciascuno di noi ha su se stesso in quanto persona e in quanto persona che impara. Se penso ad esempio che una lingua sia innanzitutto un insieme di vocaboli che occorre memorizzare, userò in modo più o meno efficiente delle strategie di memorizzazione, a seconda che ritenga di avere o non avere una buona memoria. Se invece penso che una lingua sia soprattutto un mezzo per comunicare ad ogni costo, anche correndo rischi e facendo magari “brutte figure”, questo mi aiuterà a usare strategie di comunicazione e di compensazione, ma solo se ho di me un’immagine di persona estroversa, che ama correre rischi e non ha paura di commettere errori. Dunque le conoscenze personali sono un fattore essenziale del saper apprendere, esse in quanto convinzioni o “rappresentazioni mentali”, condizionano la percezione che ho delle mie capacità e del mio ruolo come persona che impara: funzionano, insomma, da filtro cognitivo e affettivo. Se penso che sia essenziale che i propri errori siano corretti sempre e subito dall’insegnante, mi aspetterò che l’insegnante svolga questo ruolo, e sarò scarsamente attirato da strategie di automonitoraggio e autovalutazione. Non avrò insomma né la motivazione né la fiducia in me stesso necessarie per usare queste strategie. In definitiva, dunque, saper apprendere implica anche degli atteggiamenti adeguati – in altre parole, un saper essere. Siamo partiti con l’idea che il saper apprendere è l’ultimo nato dei vari saperi, e abbiamo visto che però, in ultima analisi, esso stesso può essere articolato in sapere, saper fare, saper essere. Dunque il saper apprendere è, per così dire, un doppione di altri aspetti di un curricolo di apprendimento? In un certo senso, sì. In un certo senso, il saper apprendere è connaturato agli altri saperi. E d’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Non si può imparare se non, paradossalmente, sapendo imparare. Saper apprendere implica l’uso di strategie. Così, possiamo scegliere di promuovere nei nostri studenti l’uso della deduzione. Ma questo saper apprendere lo insegniamo nel concreto del saper fare, per esempio quando stimoliamo la deduzione del significato di parole sconosciute, o quando facciamo anticipare e prevedere i contenuti di un testo prima della lettura. Oppure, promuoviamo l’uso dell’induzione. Ma lo facciamo nel concreto della riflessione sulla lingua, quando per esempio facciamo ipotizzare delle regole a partire da una serie di esempi. O ancora, stimoliamo gli studenti ad usare strategie di compensazione: come chiedere aiuto all’interlocutore, verificare di aver capito e di essere stati capiti, e così via. Ma in fondo, non sono queste funzioni comunicative, che fanno già parte, in un certo senso, dei nostri sillabi linguistici? A questo punto è necessario porci una serie di domande che sono necessarie per riconoscere l’originalità del concetto “saper apprendere”: - questo “saper apprendere” è poi veramente riconosciuto come tale nel nostro sistema, nei documenti ufficiali come nella pratica quotidiana? - se ne apprezza veramente la natura trasversale? - ne siamo consci noi, e lo sono i nostri studenti? E’ un fatto risaputo, purtroppo, che al giorno d’oggi il valore trasversale di queste strategie, ma anche delle convinzioni e degli atteggiamenti associati, non è spesso riconosciuto; soprattutto, nella tradizione storica del nostro sistema, non è mai stato previsto un programma sistematico esplicito e continuo di sviluppo di questi elementi. Tutto questo giustifica, proprio perché siamo in una fase delicata di ristrutturazione del nostro sistema scolastico, un posto di prim’ordine agli elementi del saper apprendere – un posto che solo un curricolo altrettanto esplicito può garantire. Proviamo allora a definire questo saper apprendere in termini di curricolo. Sappiamo che definire una disciplina o un settore di conoscenze e competenze in tali termini significa in sostanza identificare, selezionare, graduare e organizzare degli obiettivi e dei contenuti nel tempo, nello spazio e rispetto alle risorse umane e materiali. Quali possono essere dunque dei criteri adeguati a definire e organizzare un curricolo di processi di apprendimento più che di contenuti? I cinque criteri di base sono: flessibilità, integrazione, operatività, trasferibilità, ricorsività. Un curricolo per il saper apprendere non può imporre modi di fare, di sapere, di essere; può però fornire occasioni sistematiche di scoperta dei propri modi di imparare. Distinguiamo allora tra obiettivi che riteniamo fondanti e modi individuali di raggiungerli. Tutti noi riteniamo che sia importante stimolare processi di inferenza e di attenzione selettiva come primo approccio allo studio di un testo espositivo. Come questo si realizza in pratica, però, varia da individuo a individuo: qualcuno vorrà fare mente locale sull’argomento ancora prima di leggere una sola riga del testo; qualcun altro, invece, vorrà scorrere rapidamente titoli, sottotitoli e qualche frase chiave; altri privilegeranno gli aspetti grafico-visivi, le illustrazioni e le didascalie; altri ancora utilizzeranno una combinazione di più strategie. Non possiamo certo imporre tutti questi diversi approcci in modo indifferenziato: possiamo però proporli e farli sperimentare, perché a tutti venga data la possibilità di provare e poi di scegliere in base alle pro- IL SAPERE E I SAPERI prie caratteristiche personali. Flessibilità significa dunque creare le condizioni perché ognuno possa scoprire la propria personale “costellazione di strategie”. Il secondo criterio è quello dell’integrazione. Saper apprendere significa attivare contemporaneamente strategie, convinzioni e atteggiamenti. Ormai pochi si illudono sul fatto che basti insegnare delle tecniche per far cambiare dei comportamenti. E allora il nostro sforzo deve andare anche, e forse soprattutto, nella direzione del sapere e del saper essere, e, in particolare, della scoperta e continua rimessa in discussione delle rappresentazioni mentali che i nostri studenti hanno della lingua, dell’apprendimento, e di se stessi. In pratica, possiamo chiederci: in quali modi i nostri studenti concepiscono, ad esempio la lettura? Fino a che punto le loro convinzioni concordano con le nostre? In che misura, sono convinti che lo scopo della lettura e il tipo di testo determinano la scelta delle opportune strategie? Che la comprensione non si identifica con la lettura lineare parola per parola, frase per frase? Che ciò che il lettore porta al testo è altrettanto importante di ciò che il testo offre al lettore? Che rischiare di non capire subito tutto e tollerare l’ansia di questa ambiguità possono essere dei passaggi obbligati di una lettura efficiente? Per cambiare i modi di imparare occorre dunque proporre delle strategie, ma questa è solo la punta dell’iceberg: occorre nello stesso tempo affrontare il sommerso delle convinzioni e degli atteggiamenti. Il terzo criterio si riferisce all’operatività, cioè al legame strettissimo che lo studente deve percepire tra il saper apprendere e il contenuto di ogni curricolo disciplinare. Ciò significa che usare del tempo prezioso per imparare a imparare deve essere percepito come un investimento vantaggioso perché, in concreto, aiuta a vivere meglio lo studio e la vita a scuola, e migliora il proprio rendimento. Insomma, la scelta degli obiettivi e dei contenuti del saper apprendere dipende dalla rilevanza rispetto ai problemi effettivamente vissuti da chi sta imparando. Questo non è solo un criterio di efficienza, per così dire, economica, del tipo “massimo rendimento col minimo sforzo”. C’è una ragione più profonda dietro tutto ciò, e cioè il possibile ruolo moti- vazionale delle strategie. Se imparo ad usare una strategia e ciò migliora il mio rendimento, questo potrà aiutarmi a farmi sentire più capace, più in controllo del mio apprendimento, più responsabile dei miei risultati. L’uso delle strategie, in altre parole, può migliorare il proprio senso di auto-efficacia e di auto-controllo, e dunque la propria motivazione, a condizione che l’uso sia accompagnato da una presa di coscienza delle ragioni per l’uso e dei benefici ottenuti. Operatività significa, dunque, fare esperienze concrete ma, nello stesso tempo, esplicite e trasparenti di modi di imparare. Molti di noi sarebbero pronti a riconoscere che si impara essenzialmente facendo, provando su sé stessi e sperimentando cosa funziona meglio per noi. Così, per fare un esempio, se vorremo aiutare i nostri studenti a fare delle scelte e a prendere delle decisioni, dovremo prevedere, nei nostri materiali e attività, dei momenti in cui effettivamente vengono fornite opportunità di fare scelte e prendere decisioni. Tuttavia, l’esperienza concreta in sé non è sufficiente se non è accompagnata da una riflessione esplicita e trasparente su quanto si è fatto in concreto. Non è così difficile fare una buona esperienza, ma è molto più difficile trarre dall’esperienza un significato che la trascenda e si generalizzi e si trasferisca ad altre esperienze future. Il quarto criterio è quello della trasferibilità, che in un certo senso è un’estensione del precedente. Uno dei criteri per scegliere un obiettivo del saper apprendere piuttosto che un altro, cioè per stabilire delle priorità, è il grado di generalizzabilità dell’obiettivo – o, detto in altri termini, la misura in cui una strategia, una convinzione, un atteggiamento possono trasferirsi ad altri contesti rispetto a quello in cui sono stati inizialmente considerati. E’ ovvio che questi altri contesti possono essere sia nell’ambito della stessa disciplina, sia in discipline diverse. L’utilizzo delle conoscenze e delle competenze pregresse è associato ad un ruolo attivo della mente, e quindi alla convinzione che le risposte ai problemi, in un certo senso, sono già in parte dentro di sé: dunque vi è associato un atteggiamento di disponibilità, cognitiva ma anche affettiva, ad agire responsabilmente, ad essere protagonisti del proprio apprendimento. Il saper apprende- re, in effetti, non può risolversi tutto nella sua natura trasversale: esistono certamente strategie che si possono applicare in tutte le discipline, ma esistono anche strategie che in certe discipline hanno una valenza particolare. L’ultimo criterio è quello della ricorsività. Esso consiste nell’applicare al curricolo del saper apprendere quell’approccio a spirale che spesso caratterizza i curricoli disciplinari, a partire da quelli linguistici. Questo criterio diventa ancora più significativo se pensiamo che molte strategie possono e devono essere sviluppate nell’arco di anni, e quindi, in verticale, attraverso vari cicli o livelli scolastici, in modo da essere progressivamente affinate in base all’età e alla maturazione cognitiva e affettiva degli studenti. A volte ci si chiede quando si possa effettivamente cominciare a insegnare agli studenti ad imparare. Spesso questo imparare a imparare viene identificato con operazioni cognitive complesse, che pertanto sarebbero possibili solo a partire dalla preadolescenza. Il saper apprendere non si risolve solo nell’acquisire strategie, ma comporta un’attenzione parallela alle convinzioni e agli atteggiamenti, cioè a componenti che non sono solo cognitive, ma investono la globalità della persona, e anzi, chiamano in causa in primo luogo fattori sociali e affettivi, che a tutte le età hanno una rilevanza primaria. Ogni curricolo, ma in particolare un curricolo centrato sui processi come quello per il saper apprendere, è solo un punto di partenza, non di arrivo. E’ come una mappa di un territorio: può aiutare a non perdersi, ma non può sostituirsi all’esperienza concreta del vivere quel territorio. In altre parole, un curricolo di processi è il tentativo di prevedere, descrivere, organizzare qualcosa che per tanti versi non è prevedibile, né descrivibile, né organizzabile. Dunque un curricolo può darci qualche certezza, ma non può farci dimenticare la necessità di saper tollerare l’ambiguità e l’incertezza. Nello stesso tempo, però, l’incertezza dei grandi sistemi ci ricorda il valore delle piccole cose, dei gesti quotidiani che, se rivisti fuori dalla “routine”, possono avere una carica quasi rivoluzionaria. In un sistema dove ogni piccolo evento può condizionare i processi globali, una discussione in classe, un questionario, un’attività di riflessione, un’e- sperienza di lavoro di gruppo, possono introdurre un elemento di sana “turbativa” e magari dare l’avvio a cambiamenti piccoli ma che si sviluppano nel tempo. L’autonomia assegna nuovi e più complessi compiti al docente nel governo dei processi di insegnamento/apprendimento e nella gestione della fitta rete di relazioni che la scuola va costruendo. Questo esige una figura di docente inteso come professionista del SAPERE INSEGNATO, responsabile della qualità della prestazione formativa, impegnato in un’attività di ricerca e sperimentazione consapevole. Di Mauro parla di “insegnante che deve sapere come stare nella mediazione pedagogica che deve possedere e controllare pienamente e compiutamente non tanto i contenuti e gli strumenti di conoscenza quanto piuttosto gli atti comunicativi e relazionali necessari per condurre il processo di apprendimento. Comunicare efficacemente con l’alunno significa utilizzare come punto di forza la capacità di ascolto, essere metacognitivo e metacomunicativo, cioè saper fare autoriflessione ma anche autosuggestione per essere capace di influenzare l’universo (allievo) che costruiamo oggi, ma soprattutto per essere capace di influenzare gli universi (uomini) che desideriamo far nascere domani. BIBLIOGRAFIA Mariani L., Lingua e Nuova Didattica, Anno xxix, No. 4, Settembre 2000 Crespi, Manuale di sociologia della cultura, Editori Laterza Mariani L., Stili di apprendimento e strategie di apprendimento e insegnamento, in Moro M.G. Pelliccioli P. (a cura di), 1996 L. Corradini., Essere scuola nel cantiere dell’educazione. LA SCUOLA , BRESCIA 2000 Di Mauro, Comunicare bene per insegnare bene – Istituzioni di psicopedagogia dell’insegnamento Armando 2002 Cesare Cornoldi, Rossana De Beni, Gruppo MT, Imparare a studiare – Editore Erickson 1997 Prof.ssa Giuliana Petta Dirigente scolastico 7 2008 UN POETA DI CUPRAMONTANA: GILBERTO CERIONI Spariamo al sogno troppo alto! Bagniamoci nel suo sangue, amandoci. In mezzo al mare il nostro amore di balena. Ti prendo come l’uccello la ciliegia, ti dai come l’ala al vento. Addormentiamoci nella conchiglia. Paragono l’amore di oggi all’angoscia di sempre. Prendimi tu, ora. Strappami e guarda. Amami, amami, amami; come me, il dolore. (Poesie d’amore, XIV) T rent’anni fa moriva in un incidente stradale, all’età di soli 27 anni, Gilberto Cerioni, giovane poeta di Cupramontana. Poche parole di ricordo sono debite sia perché il nostro Liceo vanta di averlo avuto come studente, sia per la sua pregevole produzione. La sua poetica è caratterizzata da un’impronta essenzialmente autobiografica e testimonia una sensibilità spiccata ed un’osservazione profonda della realtà e delle vicende umane. Cerioni non osserva il mondo con superficialità, tenta di comprenderlo; sente l’esigenza di fissare le sue sensazioni per renderne partecipi gli altri e, probabilmente, anche per chiarirle a se stesso. Ciò che ne deriva è una poesia fatta di immagini vivide e sicure, decise pennellate che nella loro varietà generano complessi accostamenti ed analogie audaci di difficile interpretazione. Ci viene chiesto di visua- Riflessioni Partire, piangendo la sponda volontariamente lasciata Solcare il sale del mare per approdare a nulla. Lasciare ad altri ciò che non si è posseduto mai Affrancare la schiavitù dei sogni Il sole sbatte su un cristallo di lacrime, sulla maschera predestinata. Solcare quest’oceano calmo, esasperante, lasciare indietro il sole, l’onnipotente vento rosso che piangeva sui tuoi piedi scalzi. Addio terra. Solo chi ti lascia ti conquista. Solo chi ti lascia tu ami. Il dolore del singolo turba la felicità altrui. (Canzoni, XVI) lizzare la sua poesia e di lasciar vagare la nostra mente tra idee apparentemente contrastanti, che, unite, portano ad un concetto personale e soggettivo. Ci rimangono di Cerioni quattro raccolte di poesie: XXXV poesie (pubblicate nel 1977), Poesie d’amore, Canzoni, Paesaggi Cuprensi. Evidente nelle prime tre raccolte è lo studio dell’uomo, destinato ad una vita che non può realmente comprendere e che gli si presenta come un’ironica serie di eventi imprevedibili. C’è tra queste poesie l’amara consapevolezza di trovarsi in una realtà inospitale ed impenetrabile. Realtà che, però, nella sua ipocrisia, diventa, con l’abitudine, un’intima amica: come nella raccolta Paesaggi Cuprensi, in cui il poeta descrive i luoghi e le tradizioni del suo paese, mostrando una dolce e quasi paterna affezione. Tutto ciò espresso in uno stile semplice e diretto, frutto più che di una mancata ricerca stilistica, di una volontà di immediatezza del messaggio. Questa poesia esercita un fascino che permane, una suggestione che incanta e rapisce. Tutto è essenziale, breve, ma allo stesso tempo necessario e calcolato. L’invenzione è sapientemente studiata e si rimane un po’ sorpresi nel pensare che un ragazzo di 27 anni possa già essere così abile e versato nella poesia (e viene anche da chiedersi cosa avrebbe potuto fare in età matura!). Noi, tuttavia, possiamo solo apprezzare ciò che il poeta ci ha lasciato e ammirare la sua capacità di trasformare la propria attitudine riflessiva in poesia e, di conseguenza, in arte. “…vorrei vedere ancora il mio nome nel cielo,/ sentire la rugiada di stelle che bagna il cuore a primavera./ Raccontare il giorno alla sera…” Roberto Bramati II A L.C. Bartocci- Mia madre 8 2008 REALITY SHOW: ISTRUZIONI PER L’USO I l reality show (spettacolo della realtà) è un genere di programma televisivo molto apprezzato dal pubblico italiano tanto da essere alimentato da moltissimi ascolti. Nel reality vengono trasmesse situazioni, che possono essere drammatiche, ma anche umoristiche, non dettate da un copione; i protagonisti, insomma, cercano di vivere la loro vita, come se fosse reale. Il meccanismo di questi programmi è molto semplice, giacché alla gente piacciono le cose chiare ed immediate, a cui non occorre prestare troppa attenzione; non è infatti una coincidenza che il reality prevalga, e non di poco per quanto concerne i consensi, su programmi culturali quali Superquark, Voyager, Ulisse,etc. In ogni caso attorno a queste situazioni di “vita reale” si costruisce una struttura di nomination ed eliminazioni, di commento e critica, per cui alla fine tra i protagonisti che hanno partecipato al programma viene eletto, solitamente dal pubblico televisivo, un vincitore, cui spetta un premio molto appetibile (in genere grosse somme di denaro, contratti televisivi, ecc.). Per di più il reality viene, per così dire, sfruttato da persone famose, parzialmente dimenticate dal mondo dello spettacolo, come fosse un nuovo trampolino di lancio per una carriera chiaramente già terminata, ma ancora disperatamente desiderata. Tuttavia non tutti apprezziamo questo genere di programma, soprattutto se analizziamo le conseguenze negative che comporta. Ne è un esempio il parere di un neurologo, membro dell’Accade-mia Americana di Neurologia: “Alcuni reality show tendono a ridurre l'autostima dei giovani e a causare in loro un senso di insicurezza, di improvvisi cambiamenti di umore e disturbi dei comportamenti alimentari. Sono anche capaci di condurre ragazzi e ragazze all'anoressia o alla bulimia aumentando, inoltre, la loro aggressività e spingendoli ad abusare di alcool e droghe”. Un commento duro, ma evidentemente sconcertante. Non bisogna però dimenticare che c’è ben poca verità al di là dello schermo. Eppure molti si chiedono: “Ma come faranno a sopravvivere su quell’isola?! Poverini! Come dimagriscono!”. Ad ogni modo i dati dell’ascolto parlano chiaro, ed è ovvio che la febbre dell’Isola ha conquistato il cuore degli italiani. Proprio per questo motivo la tv statale ha concesso alla trasmissione non solo la prima serata del mercoledì, ma, per gli approfondimenti, anche molti altri appuntamenti pomeridiani. E la Ventura se la ride! Infatti poco tempo fa ha dichiarato, in un’ intervista: “L’Isola mi ha cambiato la vita.” Comprensibile, dato che il programma va “a gonfie vele”. Il reality show, comunque, è “sbarcato” in Italia non più di un decennio fa ed è stata una sorpresa per tutti. Nessuno infatti pensava che avrebbe riscosso un così grande successo televisivo. Le edizioni del “Grande Fratello” sono continuate con gli anni e man mano sono nate, o meglio, sono state importate, da ogni parte del mondo, nuove tipologie di spettacoli. Difatti, accanto al “Grande Fratello” (simulazione di vita reale) si sono affiancate scuole di formazione televisiva come “Amici di Maria De Filippi”, gare di ballo come “Ballando con le Stelle”, simulazioni di vita agricola con “La Fattoria”, di sopravvivenza come “L’Isola dei Famosi”, di esperimenti sociali con “La pupa e il Secchione” e tanti altri. Non mancano, di certo, all’appello programmi di “attualità” come “Uomini e Donne” e “Forum”, che, a mio avviso, di attualità hanno veramente poco confrontati con “Ballarò”, “Annozero” o magari “Report”, trasmissioni che si occupano di problemi sociali e politici. Si potrebbe addirittura dire, che questi ultimi, in cui vengono analizzate tematiche piuttosto scottanti, non facciano poi così tanto scalpore agli occhi del cittadino italiano, abituato oramai a metabolizzare ogni tipo di realtà riproposta nelle varie trasmissioni, credendoli, per assurdo, parte di quella grande famiglia che accoglie ogni tipo di reality show. Inoltre non bisogna soprassedere su quei reality, per così dire, mascherati, o se vogliamo, non apertamente dichiarati; ne è un esempio il programma di Bruno Vespa, “Porta a Porta”, in cui si affrontano tematiche di rilievo, ma in un modo senza dubbio discutibile a mio parere. Ne è un esempio il “Caso Cogne”, ampiamente discusso nel corso di più episodi, – l’ammontare dei quali sembra quasi impossibile da stimare - ma trattato come volessero renderci partecipi delle “news” della vicenda giorno per giorno, minuto per minuto, il che, invero, ricorda molto la metodologia del reality. In ogni caso i reality sono un vero e proprio investimento, giacché se non fruttassero un guadagno considerevole, conformi al precetto americano che “ciò che non funziona si getta via”, certamente nessuno ci investirebbe più. Ad ogni modo questi programmi in poco tempo sono diventati parte di noi e della nostra vita quotidia- na. Infatti, a noi tutti piace essere partecipi della realtà di qualcun altro, entrare nel suo privato, soprattutto nel privato dei VIP; ci piace vedere gente che litiga, che piange, che ride, o magari “scommettere” sulla possibile relazione che potrebbe sbocciare tra due persone. Inoltre se volessimo porre la questione su un piano filosofico, diremmo che il “motore immobile” del reality è proprio la nostra curiosità, senza la quale, questo “castello” di menzogne non si potrebbe reggere. Ma è evidente che nessuno pensa alla finzione che si cela dietro tutto ciò; del resto il programma si chiama giust’appunto “spettacolo della realtà.” In ogni caso, sia che siano VIP o che siano persone comuni, i protagonisti di un reality si divertono nel recitare la “parte” assegnatagli e si sa che quando un attore recita dice sempre ciò che è stato scritto da altri e fa sempre quello che hanno deciso altri. Nulla è spontaneo, ne tanto meno sincero. Se poi consideriamo che questi attori vengono pagati molto lautamente il quadro è completo. Ciononostante la gente non ha ancora smesso di “pensare positivo”, o di vivere la vita di qualcun altro, che in qualche modo le risulta sempre migliore della propria; ma guardar vivere un altro piacevolmente la propria vita, che indubbiamente si è arricchita grazie a me, e dimenticarmi di vivere la mia, che a conti fatti è unica, non è poi un grande affare. Monica Mengoni III C L.C. 9 2008 INCONTRO ALLA MOSCHEA DI ANCONA H anno partecipato all’incontro le classi I A, I B, I C e I D a conclusione dell’argomento “Islam” trattato durante le lezioni di religione. “Un interno di moschea” Arriviamo nel quartiere della città dove risiede la moschea: una zona di Ancona, la Baraccola, tra l'industriale ed il residenziale, dove tra un grigio capannone e un ipermercato, raggiungiamo la palazzina che dovrebbe ospitare la moschea. Il luogo non sembra dei più consoni per un edificio sacro, sul davanti c'è una sorta di negozio, mentre il retro, in cui dovremmo trovare la moschea, è un garage che si affaccia sul traffico cittadino. L'unica cosa che distingue dall'esterno la moschea da un qualsiasi garage è l'insegna in caratteri arabi e latini con il nome della moschea e i vari volantini sugli eventi religiosi affissi all'entrata. Gira voce che forse bisognerà togliersi le scarpe per entrare, per rispettare l'usanza musulmana di non calpestare sul pavimento, qualcuno incomincia a lamentarsi per l' inconveniente. Entriamo. Una ragazza ci distribuisce dei copri-scarpa e ci fa accomodare all'interno della moschea. L'interno non è meno umile dell'esterno. Uno stanzone bianco e piuttosto spoglio, ornato solo con delle foto de La Mecca ai muri e delle piante, che nella tradizione islamica non mancano mai in una moschea. Il pavimento è coperto da un folto tappeto e l'unica struttura che rimanda all'architettura musulmana è il Mihrab, la 10 2008 parte più importante della moschea, posto sulla parete a levante, diretta a La Mecca. Ci sediamo, chi sulle sedie, chi a terra e la ragazza, che all'entrata ci ha distribuito i copriscarpa, incomincia a parlare e a introdurci una spiegazione sulla moschea. La cosa che mi colpisce subito è la composizione del comitato di accoglienza: due donne (una terza, la presidente delle donne islamiche della moschea, ci raggiungerà in seguito, dopo aver chiuso il suo negozio per venire all'incontro) ed un uomo, un ragazzo per la precisione, che durante l'incontro non proferirà parola in italiano. Appare evidente quindi come non ci troviamo in un ambiente sessista e maschilista, come quello che magari ci si poteva aspettare basandosi sulla conoscenza mediatica della realtà musulmana, che spesso costituisce l'unica che abbiamo. Non c'è l’imam e la parte teologica è affidata ad una donna, una studentessa di medicina nata in Italia da genitori siriani, tra i presenti quella che si esprime meglio in italiano e quella meglio preparata. Interessante è anche la varietà etnica di chi ci accoglie: un libanese, una siriana, una tunisina ed una marocchina. Per gli islamici la religione funziona da collante etnico molto più che per un occidentale, causa la secolarizzazione della cultura occidentale. Se per un europeo l'appartenere alla Christianitas è un sentimento relegato ormai nella mentalità medievale, per un musulmano appartenere alla grande “Casa dell'Islam” è ancora molto attuale. Anzi, per gli islamici che vivono fuori dai paesi musulmani la professione di fede all'Islam, oltre che un fattore di coesione con tutti i musulmani di ogni nazione presenti sul suolo straniero, è anche uno stru- mento per preservare la propria identità nazionale ed etnica dalle malie dell'occidente infedele e materialista agli occhi dell'islamico e spesso ostile. Il ragazzo libanese ci mostra le fasi del rito della preghiera, a partire dalle abluzioni, che a differenza di quanto si può pensare sono legate anch’esse ad una rigida procedura che prevede una precisa modalità di lavaggio e un altrettanto preciso ordine con cui le parti del corpo devono essere lavate. Dopo aver simulato le abluzioni si prostra a terra, seguendo sempre una specifica procedura, ed incomincia a recitare alcune sure ( i versetti) del Corano. La preghiera musulmana è caratterizzata dal fatto di non essere propriamente recitata, ma praticamente cantata; il ragazzo inizia a salmodiare in arabo ed in effetti la situazione è un po’ imbarazzante per noi che lo ascoltiamo, non abituati a simili rituali, e forse più imbarazzante per lui che sta per terra da solo in mezzo ad una stanza con quasi cento persone intorno che lo guardano e lo ascoltano. A qualcuno scappa un risolino sommesso, ma alla fine ci lasciamo tutti prendere dalla melodia estremamente bella che il ragazzo recita in una lingua incomprensibile, più simile a dei versi per noi, ma che riesce comunque ad incantarci le orecchie. A questo punto incomincia la parte più interessante della visita, quella dedicata al confronto del dialogo tra diverse culture. Anche se all'inizio un po’ titubanti iniziamo a porre le domande alle tre ragazze presenti. Gli argomenti delle domande sono abbastanza scontati, dato il soggetto della visita ma quello che emerge dalla discussione non è affatto banale; la condizione della donna, il terrorismo islamico e il problema dell'integrazione sono i tre argomenti a cui si possono ricondurre la quasi totalità delle doman- de che formuliamo. Non ci aspettavamo di avere di fronte certamente dei terroristi, ma comunque l'utilizzo della violenza mascherato con fini religiosi è fortemente condannato dalle tre e –ci dicono- da tutte le comunità islamiche italiane. Il dibattito si concentra piuttosto sulla questione della donna ed in particolare modo del velo, in quanto le tre donne si sentono chiamate in causa e possono condividere la loro esperienza personale. Dalle loro risposte emerge come il velo, tranne che nei paesi in cui dittature politiche sono mascherate da una copertura religiosa (l'Afghanistan talebano, l'Iran e l'Arabia Saudita), è un atto di libera adesione a Dio, una sorta di “differenza religiosa” dal maschio. Le tre ragazze ci raccontano che tutte e tre provengono da famiglie che hanno loro lasciato la scelta di indossarlo, senza mettere in atto nessuna forma di costrizione. La decisione di indossarlo avviene per tutte tre in giovinezza o in età adulta dopo una scelta maturata grazie alla lettura del Corano e alla preghiera. L'indossare il velo è un atto di fede, simbolo del rapporto con Dio, che sicuramente ha i suoi inconvenienti di carattere pratico (il caldo d'estate) e che non le ha certamente aiutate ad integrarsi con la società occidentale o a trovare lavoro, ma come già detto per i musulmani il senso di appartenenza all'Islam è molto importante e questo è sicuramente emerso dall'incontro. Finite le domande, ci scambiamo dei doni, un Corano in italiano da parte loro per la scuola e da parte nostra una pianta per la moschea e ci congediamo. Uscendo ripenso ancora quanto sia insolito che abbiamo passato una mattinata a discutere di religione con dei musulmani dentro ad un garage. Francesco Barchi 1C L. C. L’ ANORESSIA L ’anoressia nervosa è il più noto tra i disturbi alimentari e consiste nell’ostinato rifiuto di una regolare assunzione di cibo. Questo disturbo rivela una palese ostilità nei confronti del proprio corpo e una bassa stima di sé. E’ caratterizzato da un forte desiderio di perdere peso e dall’esercizio di una ferrea autodisciplina per raggiungere questo obiettivo. Letteralmente, anoressia significa “perdita dell’appetito”, ma in realtà questo sintomo non si presenta se non in una fase avanzata della malattia. Al contrario, chi ha questo problema non perde affatto l’appetito, ma impara a controllare drasticamente il senso di fame, fino a raggiungere il digiuno. Si tratta dunque di adolescenti che possiedono una straordinaria “forza emotiva”, ovvero una capacità di controllo su di sé fuori dal comune. L’anoressia si può verificare in un arco di età molto ampio, ovvero tra i 10 e i 30 anni (nell’85% dei casi tra i 13 e i 20 anni), anche se si sono osservati rari casi di esordio precoce, intorno ai 78 anni. L’anoressia è più comune tra le femmine: i maschi affetti da anoressia sono circa il 10%. La percentuale di adolescenti coinvolti in questa patologia oscilla dallo 0,5% all’1% sul totale. In Italia esiste una certa differenza nella distribuzione tra le aree geografiche: mentre al nord e al centro l’anoressia tende a colpire 4 adolescenti su 100, al sud tale percentuale si ferma al 2%. Fra i sintomi fisici più evidenti si riscontrano: un’eccessiva perdita di peso (si può parlare di forma clinica della patologia quando la perdita ponderale supera il 20% del peso totale); un calo della temperatura corporea, legato anche alla perdita della massa grassa, nelle ragazze, l’interruzione o la non comparsa delle mestruazioni. E’importante, per parlare di anoressia in senso patologico, e quindi per predisporre gli aiuti psicologici e clinici adeguati, che questi sintomi siano presenti simultaneamente. E’ essenziale, infatti, che sia l’adolescente sia i suoi genitori tengano ben presente la grande differenza che intercorre tra dimagrimento e anoressia, per evitare di “medicalizzare” un semplice tentativo di dieta. I disturbi psicologici connessi all’anoressia possono essere, per l’ambiente circostante, molto meno evidenti ed allarmanti di quelli biologici. Consistono infatti nel rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del minimo normale, nel timore fobico di ingrassare, nel bisogno di esercitare un controllo ossessivo sul cibo e sul corpo , in una nauseante sensazione di sazietà ogni qualvolta si ingerisce una sia pur minima quantità di cibo. E’ interessante che questa sensazione non riguarda però la manipolazione degli alimenti, tanto è vero che spesso le anoressiche sono buone cuoche, e non si rifiutano di stazionare in cucina. Le persone anoressiche, attraverso la privazione del cibo, cercano di controllare la realtà e, con l’esercizio di un’ostinata autodisciplina, di sviluppare un senso di autonomia e di individualità. Alcuni adolescenti, per esempio, non accettando la trasformazione del proprio corpo e sentendosi brutte, ritengono che dimagrendo riusciranno a mantenere le più rassicuranti forme infantili, acquisiranno un aspetto “spirituale” (spesso si riscontra un atteggiamento intriso di una forma un po’ ombrosa di misticismo), privo di richiami ed evocazioni sessuali. Non si tratta affatto di persone apatiche: al contrario l’esercizio fisico, per esempio il frequentare una palestra, trova tra le anoressiche un grande consenso, perché sottolinea l’importanza strategica che il proprio corpo rappresenta per loro e per la loro identità sociale. Gli individui affetti da anoressia, quando assumono alimenti, anche se in misura minima, vengono subito assaliti da sensi di colpa per aver ceduto alla tentazione, tanto da indursi il vomito, usare impropriamente lassativi e diuretici, ricorrere ad estenuanti esercizi fisici per bruciare le calorie assimilate. Nella mente delle persone anoressiche è presente una lotta violenta e costante con il cibo, che è al tempo stesso desiderato e aborrito: un conflitto tra anelito alla perfezione e vissuto d’inadeguatezza. In questo contesto l’eccessiva enfasi posta dalla società contemporanea sulla magrezza, considerata sinonimo di bellezza, e quindi di successo, nonché sull’esercizio e sulla prestanza fisica, può aver riscontri negativi per le ragazze anoressiche, che vi trovano giustificazione e stimoli per proseguire nel loro comportamento autolesionista. Un ambiente familiare iperprotettivo, stressante e percepito come oppressivo sem- bra avere un ruolo importante per lo sviluppo di questa patologia. Spesso queste famiglie sono contraddistinte da un rigido sistema di controllo e da una incapacità comunicativa che non consente il naturale emergere di differenze e disaccordi: è proprio attraverso la negazione del cibo che i soggetti anoressici scelgono, quindi, di manifestare il loro disaccordo e di sviluppare la propria autonomia. Rifiutare il cibo significa essenzialmente rifiutarsi di crescere, di ricevere affetto, di confrontarsi con un mondo adulto, in cui la comunicazione affettiva gioca un ruolo importante quanto l’intelligenza e la bravura professionale, e di assumersi le responsabilità che la vita impone; ma allo stesso tempo è indice di un profondo bisogno di avere una centralità nell’ambiente familiare. Ciò può spiegare come mai le ragazze anoressiche tendano spesso al perfezionismo nello studio e nel lavoro e, pur avendo paura di affrontare il mondo esterno, si prefiggano obiettivi di vita molto alti. Silicati Cristina Rossetti Marta Fava Sara 3F L.S.P.P. 11 2008 Concorso letterario “Le penne dell’Ippogrifo” Giunto ormai alla quarta edizione, quest’anno il concorso letterario “Le penne dell’Ippogrifo”, finora riservato alla narrativa, si è arricchito di una nuova sezione dedicata alla poesia. I temi con cui i nostri allievi si sono cimentati sono stati per il 2008 “QualeAmore” per il miglior racconto e “A me sì cara vieni, o sera” per il miglior testo poetico. Ad aggiudicarsi il primo premio per la narrativa è stato il racconto “Cuore d’avorio” di Sofia Bolognini, della V C del Liceo Classico, che verrà premiata con un buono di 100 euro per l’acquisto di materiale scolastico offerto dalla MATT OFFICE 1 SUPERSTORE di Jesi e con una targa della CASSA DI RISPARMIO DI FABRIANO E CUPRAMONTANA. Seconda si è classificata Chiara Cesaretti, della V C, aggiudicandosi un buono della Matt dello stesso tipo per l’importo di 60 euro, e terza Caterina Pentericci, della II B che ha vinto un buono di 40 euro. Nella sezione Poesia, hanno vinto I e II posto i componimenti di Filippo Pirani, II C del Liceo classico, che verrà premiato con un buono per l’acquisto di libri dell’importo di 100 euro, offerto dalla LIBRERIA INCONTRI di Jesi e con un buono per l’acquisto di dischi per 20 euro offerto dal negozio TRANSYLVANIA, oltre che con una targa offerta dalla CASSA DI RISPARMIO DI FA-BRIANO E CUPRAMONTANA. Terza classificata Caterina Pentericci della II B, cui verrà assegnata una targa offerta dalla Carifac. Ricordiamo inoltre che il concorso per la migliore copertina del nostro giornale “Disegna la copertina 12 2008 dell’Ippogrifo”, è stato vinto da Federica Rotoloni, II C del Liceo classico, cui è stata decretata come premio, oltre alla pubblicazione del suo disegno come copertina di questa edizione del giornale della scuola, anche la consegna di una targa commemorativa offerta dalla Carifac. Pubblichiamo qui il racconto e il componimento la cui vittoria è stata decretata dal verdetto di una giuria composta da docenti e studenti dei due licei, così formata: Docenti: prof. Domenico Ciabò Cipriani, prof.ssa Paola Giombini, prof.ssa Patrizia Vichi, prof.ssa Patricia Zampini. Studenti: Maria Costanza Boldrini, Anna Chiara Boschi. Roberto Bramati, Francesca Giuliani, Riccardo Giustini, Sara Palmolella, Alessia Rocchetti, Ilaria Serpentini, Sara Trillini . CUORE D’AVORIO Il sole pallido gettava un’ombra tra le foglie, disegnando figure contorte e indecise sui tronchi degli alberi ricoperti di muschio, sulle mura possenti del castello cui apparteneva quel giardino. Selvaggio l’odore dei fiori che vi crescevano indomati e fieri, tingeva ogni cosa di fiabesco, di fantastico. Rose v’erano, e viole, e gelsomino, dai petali leggeri e toni soffusi, che racchiudevan ciascuno una bellezza ora trasgressiva, ora delicata o timida. E le rose superbe divoravano le erbacce che s’arrampicavano sulle mura, decise ad eliminarle, con la convinzione di esserne migliori. E i rami si rincorrevano e s’intrecciavano, e si sfidavano, e si combattevano l’un l’altro per il semplice desiderio di graffiare per primi il cielo. Una musica aleggiava, leggera come il vento, posandosi sui rami, accarezzando i fiori, sfiorando il terreno umido. Era un musica così bella che pure le foglie abbandonate per sempre a terra sembravano gioirne, e rianimarsi, e riprender il colore perduto. E protetta dai cespugli e dai fiori che l’avevano cresciuta sedeva una bambina, bellissima, quasi come le note sorgenti dal violino che era intenta a suonare. Era completamente assorta dalla musica, con le palpebre socchiuse, e sembrava non vedere né sentire nient’altro. I suoi capelli di bronzo le scivolavano lungo le spalle, avvolte in un lungo vestito bianco in stoffa preziosa. Sembrava che alla meraviglia immortale di quella musica donasse l’intera anima. La fiamma della sua giovinezza e del suo talento ardeva feroce e pareva sprigionarsi in ogni singola nota. E accanto a lei stava in piedi, fiera e vigorosa, la statua d’avorio di un giovane. Era una statua antica, che pure conservava la sua straordinaria bellezza. L’artefice sembrava aver imprigionato un dio, che dibattendosi tra la fredda roccia preziosa, ne aveva forgiato le fattezze e la perfezione. Così stavano, la bambina e la statua d’avorio, in un trionfo di musica, passione e bellezza, complici di un gioco di solitudine, di un gioco mortale. E ogni giorno la bambina tornava in quel giardino, vigilata dallo sguardo innamorato della statua, che pareva animarsi e prender vita al suono del suo violino. Ogni giorno s’udiva la sua musica, sia che ci fosse la pioggia a gettare sul giardino del castello un manto argentato, sia che ci fosse il sole. Del resto, nessuno badava alla piccola, confinata senza alcun riguardo in uno dei tanti angoli bui di quel castello d’inferno, dove i corridoi si susseguivano ai corridoi, le scale ad altre scale. Dove i servitori tramavano alle spalle del padrone, ed erano forse stati responsabili della morte della moglie. Quel castello dove il padrone stava confinato nella sua stanza, senza fidarsi di nessuno, senza più un interesse, senza più un’anima. L’anima che se n’era andata con la moglie, la donna che tanto aveva amato e che tanto amava. E presto la bambina divenne una ragazza, e i servitori, se pure ne odiavano il padre, non potevano non amarla. I suoi occhi dì cristallo e il suo volto d’angelo erano un idillio di bellezza, e tutti ammiravano di lei la voce melodiosa, la purezza, la timidezza, la modestia, l’intelligenza. Davanti a lei nessuno riusciva a serbar odio o rancore. Sembrava estranea al mondo fatto d’intrighi, di violenza, di bugie. Tuttavia, nessuno, neppure il padre, era a conoscenza delle grandi doti della giovane, compresa la sua passione per il violino. Ella continuava a suonare in segreto, nel suo giardino, accanto alla statua del ragazzo, che con lei aveva vissuto la sua infanzia, che con lei aveva gioito dei progressi della sua musica. Lui non si era mai stancato di ascoltarla, né di guardarla con i suoi occhi d’avorio, né di amarla, profondamente e in silenzio. E spesso lei si era ritrovata con il cuore in gola a sfiorare il suo volto freddo e immobile, persa nella bellezza divina e statuaria del giovane d’avorio. I mesi passarono, rapidi come le foglie che rincorrono il vento, e il padrone del castello, che già da anni progettava il matrimonio della figlia, prese la decisione di darla in sposa a un duca non troppo lontano dal loro piccolo paese. Questi era un giovane uomo di appena trent’anni, gradevole all’aspetto e famoso per intelligenza e astuzia nelle faccende politiche e militari. Non ci fu tempo per discutere. Non ci fu tempo per una lacrima. Le tenebre gettarono un’ombra sugli occhi di lei, sul suo cuore strappato. E fu silenzio. Silenzio, sulle sue labbra. Silenzio, lungo le corde del violino. Silenzio, sul giardino di cristallo. Silenzio. Eterno. Ella osservò i servi cercare disperati in ogni angolo del castello, nelle fauci di quelle stanze buie e remote dove era solita nascondersi da bambina, dove avrebbe voluto che qualcuno la trovasse, ma dove nessuno mai aveva avuto intenzione di farlo. La cercarono nel giardino. La cercarono in paese. Li osservò piangere. Li osservò trovare quella stanza, trovarla a terra. Troppo tardi, li sentì dire, troppo tardi. Osservò suo padre annullare il matrimonio, annullare ogni cosa. È stata colpa dei servi. È stata colpa dei servi. Mi hanno portato via anche l’ultima cosa che amavo. Osservò le tragedie che d’orrore tinsero quelle mura di pietra. Osservò gli anni passare. Osservò la morte, le carestie, le epidemie, le guerre per una religione, per un’idea, per il denaro. Osservò il tempo divorare le mura del castello, che si arrendevano al trascorrere degli anni, e stanche e vecchie s’abbandonavano a terra. Tuttavia, osservò la bellezza trionfante della statua d’avorio, luminosa, eterna, invincibile. Fiera s’ergeva in quel giardino e in quel castello d’inferno, e ad essa ogni forza e ogni bellezza si inchinava e si sottometteva. E se pure d’intorno su tutto o molto regnavano le tenebre, qualcosa, se pur insignificante, poteva risplendere del riflesso di quella luce. Così qualche rosa superba rinunciò alla lotta con le erbacce poiché in fondo, da esse si scoprì non troppo diversa. Qualche ramo s’accorse che dopotutto non v’era bisogno di sfidarsi, poiché tutti fra loro, e senza distinzione, avevano la chiave per la loro parte di cielo. Così stavano, la ragazza e la statua d’avorio, in un trionfo di musica, passione e bellezza, complici di un gioco d’amore, che a ben vedere, mortale non è. Sofia Bolognini V C L.C. SERA Febo Apollo l’astro porta col suo carro all’orizzonte, con quest’ora sembra sorta la minaccia di Caronte. Ma col legno non fende il nocchero dell’Acheronte l’acque eterne, non avviene per mistero quel che ad Atropo concerne. E Morfeo le lunghe braccia stende pure sui mortali, sol Cupido il sonno scaccia e colpisce coi suoi strali. E così l’amore sorge come fa al mattino Aurora e dal ciel Selene scorge come l’uomo lo assapora. Giunge l’ora di sognar e sperare adagiato tra i rami di un melo osservando astri e stelle brillare nel liquido oscuro del cielo. Or del giorno il tempo è perso, solo quiete, tutto tace con quest’ora l’universo ha trovato la sua pace. Filippo Pirani II C L.C. 13 2008 LEGGERE I CLASSICI DELLA FILOSOFIA “Cartesio e il Discorso sul Metodo” uesto progetto nasce dalla collaborazione tra la Società Filosofica Italiana, Q l’ANSAS (ex IRRE Marche), il MIUR e il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Macerata. La finalità è quella di promuovere la lettura diretta dei classici del pensiero filosofico in collaborazione con docenti universitari. Quella della lettura diretta del testo filosofico avrebbe dovuto essere la regola a partire dalla riforma Gentile, ma purtroppo è diventata l’eccezione. Il progetto vede coinvolte la II B e la II C del Liceo classico. Durante lo svolgimento del progetto la lettura viene guidata dai docenti d’aula, Proff. Stefano Sassaroli e Federico Lecchi, e da docenti dell’Università di Macerata, il Prof. Filippo Mignini, storico della filosofia moderna, e il Prof. Marco Buzzoni, filosofo della scienza. Gli alunni sono tenuti a partecipare direttamente in prima persona, con le proprie riflessioni e con i propri lavori al progetto, e sono guidati dai loro docenti d’aula e dalla Prof.ssa Bianca Maria Ventura, ricercatrice ANSAS e docente alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Urbino. Questi incontri con i docenti universitari si svolgono presso l’Aula Magna del Liceo Classico. Il progetto si concluderà con la visita degli alunni al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Macerata dove per partecipare alla lectio magistralis del Prof. Mignini e del Prof. Buzzoni organizzata sulla base dei problemi emersi nel corso delle discussioni e degli approfondimenti. Seguono alcune considerazioni sul significato della lettura di un’opera filosofica originale, che, in estrema sintesi, vorrei qui riproporre. La lettura di un’opera filosofica originale, che va ben oltre la mediazione e le pretese funzioni vicarie troppo spesso lasciate dai docenti in appalto alla manualistica e alle selezioni antologiche spesso discutibili, consente all’alunno – ovviamente per mezzo della necessaria opera di stimolo culturale, di aiuto “tecnico” e mediazione critica del suo docente di classe - di conoscere direttamente il contesto problematico e le tesi del filosofo, di sperimentare la forza e la coerenza logica delle sue argomentazioni, ed anche di constatare in prima perso14 2008 na eventuali aporie ed errori. La lettura diretta del testo filosofico, insomma, rende possibile una serie di operazioni didattiche che normalmente non sono possibili mediante il solo ausilio del manuale di storia della filosofia usualmente adottato. Basti pensare, in breve, alla quantità e qualità dei problemi che possono essere estrapolati dal testo e infine formalmente discussi tra docente e alunni e anche tra alunni, infine senza la mediazione dello stesso docente. Rispetto al solo uso del manuale di Storia della Filosofia, il cui uso sia chiaro deve essere mantenuto come primo approccio alle tematiche filosofiche in una prospettiva storica utile ai principianti della filosofia quali sono i nostri alunni – anche per evitare il grave rischio culturale che attualmente corrono altre discipline e la loro manualistica scolastica spesso del tutto priva di prospettiva storica – la lettura e il commento del testo filosofico in classe presenta una ricchezza incomparabile. Basti pensare ai tanti discorsi manualistici che sono stati fatti per presentare la natura e le origini del pensiero filosofico, un momento didatticamente decisivo per presentare ai principianti la materia che si apprestano a studiare, che usualmente oscillano tra la pura accademia e i discorsi di scarso interesse e anche privi di senso per il non addetto ai lavori. Per contro iniziare gli alunni alla filosofia leggendo loro il primo libro della Metafisica di Aristotele, così immediato, forte e diretto nel suo linguaggio e nelle sue tematiche, è un’esperienza che deve essere assolutamente fatta, e che per esperienza diretta, devo affermare, affascina e interessa gli alunni. Oppure invece dei tanti discorsi manualistici sui concetti di spazio e di tempo, spesso insignificanti, a proposito della filosofia di Kant, si dovrebbe provare a leggere e commentare in classe tutte le pagine dell’Estetica trascendentale – che è impresa fattibile - della Critica della ragion pura, che mostrano con evidenza come quelle problematiche – e ciò è spesso ignorato – scaturiscano dal dibattito fisico-cosmologico, metamatematico e gnoseologico, cioè dall’indagine scientifica concreta nell’età della nuova fisica matematica che poneva nuovi affascinanti problemi sulla natura del cosmo e sul posto in esso occupato dall’uomo. E quei discorsi di Kant ci riportano direttamente alle questioni epistemologiche che riguar- dano la fisica contemporanea, cioè la relatività e i quanti. Il guadagno didattico più importante, che si può ottenere dalla lettura del testo, è sicuramente quello che riguarda la maturazione delle competenze dei nostri alunni, obiettivo che evidentemente non è tanto facilmente conseguibile se ci si attiene alle ricette preconfezionate, spesso con domande e risposte a mo’ di libretto di istruzioni o manuale da scuola guida, del manuale in adozione. Piuttosto il vero sapere e quindi le vere competenze vanno costruite nel rapporto tra il docente e l’alunno; un rapporto culturale che può essere utilmente coltivato attraverso la mediazione del classico del pensiero, la cui lettura, contestualizzazione, interpretazione concettuale, estrapolazione dei problemi e critica razionale materializzano appunto questo obiettivo primario. Certo, si potrà dire che cosa c’è di nuovo sotto il sole? Da un certo punto di vista, in effetti, nulla! Quella della lettura diretta del testo è una tradizione purtroppo andata in gran parte perduta nei tempi odierni. La lettura e il commento del testo filosofico era, come è noto, la parte fondamentale del metodo didattico della cosiddetta scolastica: la lectio, seguita poi dalla quaestio e dalla disputatio, dei filosofi nelle università del Medioevo. Un metodo tutt’altro che barbarico, ripetitivo e privo di originalità, come poi la successiva tradizione umanistica vorrà far credere. Questo metodo, lungi dall’essere “scolastico” nel senso deteriore che usualmente viene attribuito a questo termine, cioè fondato sul puro verbalismo e su ragionamenti circolari privi di contenuto, stimolò la ricerca e lo spirito critico, preparando il terreno per una nuova immagine del mondo, quella che poi sostituì quella degli antichi filosofi greci – ma solamente dopo che fu riscoperto il valore del loro metodo e la qualità dello loro indagini - con la nuova filosofia e la nuova scienza che sarà sviluppata nei secoli successivi; lo spirito e spesso anche i contenuti di questo nuovo sapere sono spesso anticipati nelle parafrasi, nei commentari e nei quodlibeta dei maestri del pensiero medievale. La lectio, infatti, non consiste nella mera lettura e commento del testo al fine di precisarne la littera, cioè la struttura grammaticale e il significato letterale delle frasi, ma nello specificare il sensus del discorso filosofico, cioè il suo significato logico e il suo contenuto scientifico, al fine di individuare delle quaestiones, cioè quei problemi i cui tentativi di soluzione rappresentano la motivazione di fondo del pensiero critico e razionale. La filosofia, infatti, ricordava Popper qualche tempo fa, comincia con problemi e finisce con problemi. Che cosa dunque è cambiato? È noto che il metodo scolastico sia stato messo a punto in una realtà storica e culturale caratterizzata dalla povertà economica e dalla cronica mancanza di libri, cioè dei supporti materiali dove ricercare il sapere tramandato dal passato, attraverso i quali era resa accessibile la tradizione culturale più profonda e significativa. Oggi viviamo in una realtà che da questo punto di vista è radicalmente mutata. Viviamo in una società opulenta e i libri di sicuro non mancano, forse ce ne sono anche troppi. Ma i nostri alunni non li leggono più, forse presi dal divertissement, forse dalla semplice mancanza di interesse per i problemi filosofici e scientifici. Come rimediare, dunque? Anzitutto, perché coinvolgerli nella lettura? E poi, come è possibile farlo, con quali motivazioni e con quali strumenti? Quale senso dare alla lettura, e in particolare alla lettura dei classici del pensiero? Per quanto distratti dalla società dei consumi, i nostri alunni – come tutti gli uomini – sono dotati dalla natura di un senso di curiosità e di meraviglia rispetto al mondo in cui vivono, su cui si può intervenire con successo, proprio perché ancora spontaneo e quasi incorrotto dai bisogni dell’esistenza quotidiana. Si tratta di coltivare questa disposizione naturale guidandoli verso le cose che contano davvero, verso la comprensione del senso della vita, verso l’individuazione dei problemi fondamentali dell’esistenza e del loro essere in un cosmo misterioso, se vogliamo anche terribile ma nel contempo meraviglioso e affascinante. Questa esperienza può essere fatta anche attraverso l’incontro col pensiero dei grandi filosofi della tradizione occidentale, che proprio da questo senso di meraviglia hanno cominciato il loro percorso verso quella mèta, fatta di riflessioni e spiegazioni razionali che costituiscono la vera natura dell’impresa filosofica, che è il sapere o sapienza. Merita allora rileggere, dato l’argomento, il celebre luogo del primo libro della Metafisica di Aristotele dove è trattato il tema della meraviglia e delle origini della filosofia1 : “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia [o stupore, tháuma] : mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere, ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia.” Ci sono però alcune condizioni necessarie che rendono possibile questo percorso intellettuale dei nostri giovani alunni fianco a fianco dei grandi filosofi: che cioè questo loro incontro con la tradizione non sia vissuto come un momento di pura erudizione accademica e storiografica oppure di semplice intrattenimento culturale. Piuttosto bisogna far sì che questo incontro fornisca loro l’occasione per cogliere quelle questioni fondamentali dell’essere nel mondo e riflettere intorno ad esso; questioni che per la loro stessa natura sono anche oggi dibattute, per quanto a volte sulla base di nuovi saperi e nuove prospettive rispetto alla tradizione. E su questa base costruire poi delle competenze specifiche. Qualora siano soddisfatte queste condizioni, gli alunni potranno anche acquisire dall’incontro col testo del filosofo quelle competenze che costituiranno poi gli indispensabili strumenti, non solo strettamente culturali, per orientarsi nella vita. Competenze come l’apprendere a pensare criticamente la realtà e a risolvere problemi, e non già a seguire alla lettera le istruzioni confezionate da altri, come ci insegnava Kant nelle sua celebre risposta alla domanda Che cos’è l’Illuminismo? Se è così, allora la lettura, il commento e la discussione del testo filosofico rappresentano una vecchia, ma rivoluzionaria modalità didattica che si oppone all’ordine attualmente esistente nella scuola italiana e alle mode didattiche vigenti, denunciate con grande efficacia da Lucio Russo2: “Le funzioni tradizionali degli insegnanti tendono a essere svuotate da tecnologie didattiche centralizzate e impersonali, grazie a lezioni televisive, videocassette, “ipertesti interattivi” e altri prodot- ti “multimediali”. Le attuali tecnologie, permettendo sia una percezione più ricca e piacevole di “fatti”, sia una maggiore autorevolezza nell’impartire insegnamenti prescrittivi, sono in effetti insuperabili nella comunicazione unidirezionale e acritica caratteristica della nuova scuola per consumatori […] Alla nuova scuola non occorrono esperti di fisica, letteratura, filosofia o storia dell’arte. Una volta completata la trasformazione, basteranno dei generici “operatori scolastici”, con una preparazione essenzialmente socio-pedagogica, che svolgano la funzione di intrattenitori e animatori, accogliendo gli studenti nelle strutture scolastiche, stimolandone la socializzazione e accompagnandoli e guidandoli nella fruizione dei media.” Ecco che, contro questa tendenza attuale della scuola, contro questo avvelenamento della tradizione culturale dell’Occidente la lettura del classico di filosofia è una potente antitossina. È mediante questa lettura che si possono dibattere veri contenuti, contenuti forti, ed apprendere ad argomentare pro e contro, criticare, indagare, dimostrare; insomma mettere a punto quelle competenze necessarie per costruire il sapere scientifico. Da qui la scelta di un classico come il Discorso sul metodo di Cartesio, come testo da leggere e commentare in classe. Scelta motivata dal fatto che questo testo è sufficientemente ampio, ma non troppo vasto e quindi può essere affrontato in un tempo ragionevole, compatibile con l’orario curricolare e l’attuazione della programmazione di classe. Inoltre, esso è sufficientemente chiaro, non presenta cioè insormontabili difficoltà di interpretazione linguistica, tali da dar luogo a interminabili dispute esegetiche ed ermeneutiche, che sarebbero svianti e fuori luogo per i nostri scopi. Che, per essere chiari, sarebbero poco o per nulla interessanti agli occhi dei nostri alunni. In gran parte delle pagine il Discorso di Cartesio è autobiografico e discorsivo, e le questioni più importanti sono concentrate in alcuni luoghi, concettualmente molto densi, ma di relativamente facile comprensione. Nondimeno le varie questioni affrontate da Cartesio, ad esempio il problema del metodo scientifico e il problema dell’anima e del corpo, possono effettivamente andare a costituire quell’orizzonte problematico che suscita curiosità e meraviglia negli alunni, e si prestano anche ad essere discusse alla luce dell’attuale dibattito filosofico e scientifico. Quest’ultima motivazione mi sembra molto importante. C’è oggi una malaugurata tendenza a tenere distinte le questioni scientifiche da quelle filosofiche. Anzi, influenti filosofi del nostro tempo, che hanno purtroppo un grosso seguito sia nei media che nelle accademie, hanno insegnato che quando nasce la scienza sparisce il pensiero; che la scienza non pensa. In realtà è comune la radice dei problemi della filosofia e della scienza, tale che l’una non può essere senza l’altra. Pochi ricordano, ad esempio, che lo stesso Discorso sul metodo di Cartesio è nato, per così dire, dalla pratica scientifica; esso fu concepito in origine come un’introduzione ad un trattato di geometria analitica, a un trattato di ottica geometrica ed a un trattato di meteorologia, dove ci si occupa ad esempio della natura del sale marino e della formazione della rugiada, come parte di un vasto progetto di riorganizzazione del sapere scientifico; quel sapere dei moderni che nei piani di Cartesio avrebbe dovuto sostituire il sapere degli antichi. Ora la lettura del testo cartesiano ci consente di affrontare questo nodo strutturale del rapporto scienza-filosofia e di stabilire dei contatti con nuove discipline scientifiche come, ad esempio, l’etologia, la scienza cognitiva, la neurofisiologia, la linguistica, la scienza dell’intelligenza artificiale, che potranno eventualmente andare a costituire il futuro approccio di studio, accademico e professionale, dei nostri alunni. Non tutti i nostri alunni potranno diventare “professionalmente” dei filosofi, ma nell’ambito delle scienze e delle discipline che saranno oggetto dei loro futuri studi e professioni sarebbe, invero, molto utile portarsi dietro gli strumenti, o competenze, del filosofo, poiché in ogni caso l’aver affrontato tali questioni dovrebbe promuovere in loro quelle abilità necessarie alla pratica della dimostrazione razionale e all’indagine scientifica, al quel fare scienza e a quel sapere critico che dovrebbe costituire il loro bagaglio comune nella vita e nel sapere. Il valore aggiunto del progetto riguarda, infine, un più intenso rapporto tra gli oggetti culturali proposti in sede didattica e i problemi esistenziali degli alunni, dunque la dilatazione della lezione del passato dall’apprendimento scolastico all’apprendimento per la vita. 1) Aristotele, Metafisica (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano 1993, p. 11. 2) Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano, nuova ed. 2005, p. 23. Stefano Sassaroli PROGETTO CARTESIO CALENDARIO DELLE LEZIONI DEI DOCENTI DELL’UNIVERSITA’ DI MACERATA E URBINO Prof. Filippo MIGNINI - 15 febbraio 2008 ore 11,00-13,00 presso l’ AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Marco BUZZONI - 5 marzo 2008 ore 11,00-13,00 AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Filippo MIGNINI - 7 marzo 2008 ore 11,00-13,00 AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Bianca Maria VENTURA - 14 marzo 2008 ore 11,00-13,00 AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Marco BUZZONI - 2 aprile 2008 ore 11,00-13,00 AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Bianca Maria VENTURA - 18 aprile 2008 ore 11,00-13,00 AULA MAGNA LICEO CLASSICO JESI Prof. Filippo MIGNINI e Prof. Marco BUZZONI 7 maggio 2008 ore 10,00-13,00 presso il DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E SCIENZE UMANE DELL’ UNIVERSITA’ DI MACERATA 15 2008 Alberto Colini: il futurista maiolatese C ondannato dalla sua famiglia, a causa dei suoi eccessi, alla “damnatio memoriae”, Alberto Colini, indicato anche con lo pseudonimo di Fausto Contadino, fu importante scrittore e visse pienamente la sua età a contatto con la cultura decadente-futurista che segnò il primo novecento italiano. Illustriamo brevemente la storia della sua famiglia, i Colini. Alberto era l’erede di una delle famiglie majolatesi più antiche, nobiltà locale, importante anche dal punto di vista economico; infatti, erano proprietari di numerosi immobili e di vasti territori agricoli collocati in vari centri della Vallesina. Pur essendo una famiglia possidente e legata all’oligarchia locale, i Colini si distinsero per apertura mentale e per una certa liberalità. Importanti, fra i Colini, sono state alcune figure: Ruggero, nonno di Alberto, introdusse il calmiere dei cereali a vantaggio della popolazione indigente; Enrico, figlio di Ruggero e padre di Alberto, diffuse le idee socialiste e prospettò nelle Istituzioni locali una prima idea di pensione di vecchiaia per i salariati ed infine Francesco, fratello di Enrico, fu un noto storico locale e partecipò da Garibaldino alle varie campagne fino alla proclamazione di Firenze come, provvisoria, capitale italiana. Anche di Francesco, del quale è disponibile una ricca pubblicistica storica presso la Planettiana, non esistono studi biografici, se non una tesi di laurea nella quale si immaginava come luogo di nascita Jesi, invece di Majolati. Padre di Alberto fu lo studente universitario Enrico Colini che intraprese una relazione con la giovane domestica Maria Fermezza. Alberto, dunque, nacque ad Amelia il 3 Marzo del 1881, per un errore giovanile dei genitori. Maria Teresa Colini, figlia di Alberto, morta a Budapest nel secolo scorso, probabilmente emigrata per la condivisione del progetto di socialismo reale, così 16 2008 illustrava la vicenda paterna: "La madre lo depose appena nato nella ruota di un brefotrofio e ritornò a Roma alla ricerca dello studente dove facendo la domestica presso una famiglia romana lo aveva conosciuto. Lo ritrovò, si fece sposare e poi insegnare a leggere e a scrivere. Dopo la nascita di due bambine, Amelia e Matilde, e conoscendo le intenzioni testamentarie dello zio Giuseppe, cercarono il bambino che trovarono affidato ad una coppia di contadini senza figli. Infatti, nel testamento lo zio Giuseppe lasciava l'usufrutto delle sue proprietà al primo figlio, ipotetico, di Enrico, e la nuda proprietà al più ipotetico figlio del primo...". Quindi grazie al testamento vincolante del Notaio Giuseppe Colini, Alberto ebbe la possibilità di essere reintegrato nella famiglia ed avere dunque modo di studiare e formarsi. Il 27 Maggio 1914, a 55 anni, moriva l'avvocato socialista Enrico, padre di Alberto, che aveva trasportato i suoi ideali politici, sia nei rapporti con i suoi numerosi contadini, sia nell'amministrazione locale. Alberto, che probabilmente in occasione del servizio militare, aveva già conosciuto la sua vicenda, reagì alla morte del genitore iniziando la pubblicazione dei primi testi e avviando una condotta caratterizzata dal lusso più sfrenato, dilapidando il patrimonio familiare. I testi, non solo in lingua italiana, ma scritti anche in francese e spagnolo, furono pubblicati con i cospicui fondi della famiglia Colini. Già nel primo libro edito, "La Paura", un saggio interventista, lo scrittore adottò lo pseudonimo "Fausto Contadino". In questo stesso anno pubblicò "Mangerai. Libro pieno di mare", a seguire "La strada" e "I Calzolari", testi dalla forte caratterizzazione Futuristica. Sorretto dal sostanzioso patrimonio familiare si trasferì dove il dibattito letterario era più vivo. Ecco quindi il soggiorno a Firenze, Fiesole, Settignano, gli incontri con Umberto Boccioni e Gino Severini con i quali, dopo il servizio militare, si recò a Parigi. Nel 1924, con dedica ad Umberto Boccioni, Fausto Contadino pubblicò un testo di 367 pagine di poesie intitolato "Virgia Evangelica. Spirito della follia. Poemi e Canti di Passione". Attratto dalla teosofia si mise in contatto per corrispondenza con Romain Rolland che, conoscendo un poco la lingua italiana, l'apprezzava molto come poeta: "le Dieu de la poesie est en vous. Chantez!". In realtà nel 1925 pubblicava come unico traduttore autorizzato "Romain Rolland: introduzione alla Young India" dove trattava dei temi della non violenza di Gandhi. Nel 1931 uscì il poderoso e fantastico romanzo "Mangerai, Principe della Speranza", una settimana dopo la polizia lo sequestrò, ma non abbastanza in fretta da impedire una recensione favorevole da parte di Giovanni Papini che con il Colini aveva litigato a Firenze, fino ad essere giunti alle mani, dopo la pubblicazione della "Vita di Cristo". Pur possedendo una quarantina di titoli tra drammi, tragedie, romanzi, poesie, teorie filosofiche, in realtà il patrimonio letterario di Alberto Colini, che ci è stato trasmesso, è ridotto ad una manciata di titoli. La "damnatio memoriae" che ha interessato l'opera e il personaggio è stata provocata da una reazione ai suoi eccessi. Colini potrebbe essere definito un uomo dannunziano, un esteta; egli curava qualsiasi particolare della sua vita, dall’abbigliamento costituito da abiti eleganti e lunghi guanti bianchi, ad ogni altro dettaglio della sua immagine; usava, infatti, circondarsi di oggetti lussuosi, grandi e magnifiche automobili e perfino appariscenti cani di grande taglia che esibiva come pericolosi accessori. I pochi interventi a difesa del patrimonio majolatese e della sua cultura, del tutto disinteressati, furono utilizzati contro di lui, per azioni di repressione a suo danno, condotte dalle autorità di governo o di polizia. Confinato politico a Ventotene nel 1942, sembrava interessarsi solo della sua condizione, chiedendo continuamente ai familiari cibo, saponi, vestiti e scarpe eleganti, dimenticandosi che in quel periodo anche i ricchi avevano difficoltà a procurarsi il necessario. Non appena liberato dal Confino, Alberto Colini riprese la sua produzione letteraria, definita, in quel periodo, "arte plurimonista" pubblicando nel 1944, con prefazione di Benedetto Croce, il testo "Il pupazzo macabro o Narciso". Dopo una vita vissuta alla ricerca di continue esperienze, dopo aver dilapidato in pochi anni un patrimonio secolare, dopo aver tentato di far valere la sua arte, il 28 febbraio 1953, moriva a Roma lasciando ai suoi concittadini solo i ricordi di eccessi, stravaganze e divertimenti, non certo la sua produzione letteraria, che attende ancora di essere letta, ordinata e studiata criticamente. Sara Palmolella II A L.C. ERAN TRECENTO, eran giovani e forti... T ra i tanti film sulla storia antica che ultimamente Hollywood ci propina con generosità, l’ultimo nato è “300” di Zack Snyder, eroico fumettone di argomento ellenico che ripropone con enfasi le gesta di Leonida e i suoi nel corso della seconda guerra persiana, con Gerard Butler nei panni (si fa per dire) del valoroso condottiero spartano. Non essendoci sottratti in passato alla coraggiosa visione di “Troy”, non potevamo certo arretrare di fronte alla prova delle Termopili, considerato anche il fatto che il film ha avuto un grande successo di pubblico. E di nuovo non ci siamo potuti esimere, a visione compiuta, dall’esprimere alcune riflessioni, che forse non appariranno fuori posto sul giornalino di un liceo classico. “300”, nel suo genere - cioè la riproposizione cinematografica di un fumetto (l’opera omonima di Frank Miller del 1998) - può anche dirsi un film a suo modo riuscito, per chi non abbia problemi ad accettare che la storia venga ripensata e filtrata attraverso una lettura fumettistica. Ha effetti volutamente antirealistici e pittorici, un ritmo scandito per quadri successivi, una voce narrante da albo eroico, personaggi, atmosfere e dinamismo di forte impatto visivo. Molto bello, per esempio, il rosso dei mantelli dei trecento spartiati di Leonida, che li distinguono da tutti gli altri e hanno realmente il potere di circonfondere di un’aura eroica i protagonisti. Bellissimi i colori desaturati e gli effetti di suono, belle le musiche. Originalissime molte soluzioni visive, per non parlare dei fisici di Leonida e company che indubbiamente sono un gran bel vedere. Insomma, non c’è da stupirsi che, alla sua uscita, il film sia piaciuto a molti e abbia totalizzato incassi ragguardevoli al botteghino. È comprensibile, perché “300” è un lavoro ben confezionato e che rispetta gli obiettivi che si era prefisso. A noi non è piaciuto granché, però, per due ragioni. La prima è legata al gusto personale di chi scrive, e quindi è opinabile, e cioè che non è un film realistico. Opinabile, lo si vede bene, perché fare un film realistico non è mai stato nelle intenzioni degli autori, che si sono scrupolosamente studiati gli albi a fumetti di Frank Miller e non i libri di storia. La cosa è del resto evidente a colpo d’occhio e immediatamente percepibile anche solo osservando la tenuta da combattimento degli Spartani, che per esigenze d’immagine fanno a meno dell’armatura d’ordinanza e combattono in costume da bagno. Si capisce a prima vista, insomma, che si avrà a che fare con una ricostruzione alquanto disinvolta dei fatti. Ora, una scelta del genere, per quanto comprensibile, non ci pare troppo legittima, perché si ha pur sempre a che fare con un fatto storico, per quanto antico, e crea una discreta perplessità la nonchalance con cui il cinema, oggi sempre più, s’impadronisce di storie reali e tradizioni antichissime e le rimescola come le pare e piace. Se uno vuole fare un fantasy ci sono racconti a bizzeffe cui ispirarsi, senza contare che si può benissimo inventare o ambientare la vicenda su Marte e nessuno ci troverebbe niente da ridire. Ma passar sopra deliberatamente a ogni verosimiglianza senza per lo meno porsi il problema di un minimo d’informazione preliminare è cosa piuttosto seccante. Bastava peraltro che gli autori si rileggessero il libro di storia delle medie: poi sarebbero stati padroni di fare quel che volevano, ma almeno lo avrebbero fatto coscientemente. Qui invece è chiarissima un’ignoranza non solo totale delle cose narrate, ma deliberata e contenta di sé, e questo è meno scusabile. Ma ripetiamo, qui si parte da un presupposto opinabile, perché per noi un film del genere avrebbe dovuto essere realistico, e invece l’intenzione degli autori era esattamente opposta. Pertanto criticare “300” dal punto di vista storico sarebbe ridicolo quanto cercare gli archetipi mitici di Topolino. Dunque, l’impressione ricavata da questa visione all’uscita del cinema è stata la seguente: realizzazione graficamente affascinante, contenuti zero. Anzi, meno uno, perché il rischio aggiunto di un’operazione simile è dare una visione distorta delle cose, e che gli spettatori non al corrente si facciano un’idea dei fatti veri basandosi su una rappresentazione inventata. La seconda ragione è più profonda. Perché, a vederlo così, questo film dà un’idea non solo degli Spartani, ma dell’eroismo in genere, che pare totalmente campata in aria, e che può essere benissimo riassunta nell’impagabile conclusione di un’amica che raccontava il film, e cioè che: “Leonida e i suoi muoiono tutti, ma con molta gioia.” Insomma, in questo film i nostri eroi non vedono l’ora di farsi sopprimere, e anzi trovano la cosa assai divertente, e sembra non desiderino altro dalla vita che porvi fine, cosa in cui sono molto cortesemente, sebbene non senza difficoltà, accontentati da Serse e i suoi. Il che non corrisponde affatto al concetto di eroismo, ma di pazzia, ed è erroneo e fuorviante anche in caso di pazzi greci. È il motivo principale per cui questo film ci ha lasciati insoddisfatti, come se tutto questo gran combattere ed affannarsi non fosse riuscito a tramutarsi alla fine nel sapore di un messaggio autentico, per quanto fondato su una rivisitazione di fantasia. Insomma, il senso di un’occasione sprecata. In effetti la cosa che più ci è spiaciuta della visione di “300” è che, nonostante possa sembrare incredibile dopo il gran dispendio di enfasi e “patriottismo” del film, al vero eroismo di Leonida e dei suoi 300 spartiati (perché così si chiamavano i membri dell’aristocrazia dominante a Sparta) poteva essere resa una maggiore giustizia. La loro fu, e tutte le fonti antiche concordano su questo, un’impresa veramente straordinaria e coraggiosa. E allora forse vale la pena di fare un breve riassunto dei fatti storici essenziali: Primo, la guerra fu combattuta dai Greci insieme. Non da tutti, beninteso, perché i Greci erano litigiosi e molte poleis si schierarono subito con Serse: ma fu combattuta insieme da Ateniesi e Spartani, con i loro rispettivi alleati: fu la prima volta che le città della Grecia, sempre così attaccate ai loro particolarismi, decisero di far fronte unite, in nome della libertà, a un nemico comune. “Già nell’autunno del 481 - spiega lo storico Hermann Bengston in uno dei più classici manuali universitari di storia greca -, in una grande riunione degli stati greci che avevano deciso la resistenza ai Persiani e che si erano stretti in una confederazione, fu proclamata una tregua universale nell’Ellade. Tutte le ostilità interne dovevano cessare e gli esiliati far ritorno in patria. I Greci che simpatizzavano per i Persiani furono minacciati di distruzione; e la decima parte dei loro averi sarebbe stata donata ad Apollo delfico. Per la prima volta nella loro storia , i Greci si riunirono in un’alleanza armata (symmachía), con la finalità di raccogliere tutte le forze antipersiane della madrepatria. Fu la gravità del momento a far dimenticare ai Greci ciò che li divideva, e a renderli invece consapevoli di ciò che li univa, la comune origine ed il comune carattere nazionale. Il piano di guerra venne elaborato dallo stratego attico Temistocle insieme con gli efori spartani”. Insomma, non è affatto vero che gli Spartani di Leonida agirono da soli senza nessun progetto (sarebbero stati dei begli stupidi, stupidi eroici ma pur sempre stupidi); non è affatto vero che andarono a farsi una velleitaria “passeggiata alle Termopili” contro il volere di tutti, e tanto meno contro il volere degli efori, che per la cronaca non erano dei verrucosi pervertiti abitanti in cima a una Meteora, ma dei seri e normalissimi magistrati spartani, nelle cui mani si assommava il potere esecutivo, che agivano di concerto con la “gherusía”, il consiglio degli anziani, e con l’“apella”, l’assemblea dei cittadini. Per isolare e rendere individuale ed epico il gesto di Leonida e dei suoi, gli sceneggiatori del film lo fanno diventare sciocco, presuntuoso e scriteriato, originato più dal desiderio impellente di farsi uccidere che da un sensato piano di guerra e da un cosciente sentimento di “patria” (ci si conceda il termine un tantino anacronistico): quel sentimento che, forse allora per la prima volta allora, si fece strada e si affermò, seppure per un breve periodo, negli animi dei Greci. Così gli Ateniesi, che nel film risultano desaparecidos e nella realtà furono artefici alla pari degli Spartani della vittoria nella seconda guerra persiana (ricordiamo la grande battaglia navale di Salamina, peraltro nemmeno nominata dal film), diventano per Leonida un popolo di “filosofi ed effeminati” (en passant, l’omosessualità a Sparta era praticatissima come in tutte le città 17 2008 greche, e perfino istituzionalizzata a livello pubblico dal codice di Licurgo); e gli Efori, benché tra essi e i due re di Sparta (perché Sparta era una diarchia, al contrario di quanto mostra il film) non corresse effettivamente, buon sangue, non erano però, come sostiene Snyder, dei lebbrosi depravati, né tanto meno dei preti corrotti. Erano magistrati di grande lignaggio e dignità, che facevano rispettare la legge, a tutti. La storia delle feste Carnee che ritardarono l’intervento spartano è vera (non bisogna sottovalutare l’importanza dei riti religiosi in una civiltà come quella greca), ma non ebbe affatto il tipo di implicazioni descritto in “300” (Erodoto dice che “tutti gli Spartani contavano, più tardi, celebrate le feste e lasciato a Sparta un presidio, di accorrere in massa e con rapidità"), e soprattutto Leonida e i suoi non stettero certo a combattere tutti soli e abbandonati, di propria iniziativa e violando addirittura le leggi, mentre in patria ci si faceva beffe di loro rubandogli addirittura le mogli. Leonida non partì affatto contro il volere degli efori, ma secondo un preciso piano spartano con gli alleati. Anche in questo caso, per esaltare e rendere grande il coraggioso atto dei nostri 300, li si dipinge nel film come degli eroi incompresi senza macchia e senza paura, che completamente soli e abbandonati mentre tutta la Grecia, ignara, si gira i pollici nell’agorà, muoiono combattendo e rovesciano col loro esempio la situazione, facendo cambiare idea sul da farsi all’intera penisola balcanica. Molto poco credibile, evidentemente, e non ce n’era bisogno: il vero eroismo di Leonida fu un altro, ben più grande. Secondo, tornando a noi. I piani alleati, nella realtà, prevedevano che lo scontro decisivo avesse luogo sul mare: la speranza della Grecia era la nuova flotta ateniese, perché nessuno poteva pensare di sopraffare sulla terraferma l’enorme massa dell’esercito persiano. Compito dell’esercito greco, dunque, doveva essere quello di tener testa all’avanzata persiana fino al momento in cui la flotta, piazzatasi in un punto favorevole, avesse potuto sbaragliare quella nemica. Idea strategica di base che si espresse fin dalle prime mosse, e fu chiara quando i Greci, arretrando dalla valle di Tempe, piazzarono la linea di difesa al passo delle Termopili, le cui strettoie offrivano loro quei vantaggi di cui avevano bisogno contro lo strapotere persiano. Se si poteva rallentare alle Termopili, anche per breve durata, l’avanzata nemica, la flotta, sarebbe forse potuta arrivare nel frattempo a uno scontro decisivo. La battaglia di terra delle Termopili e quella navale dell’Artemisio si svolsero negli stessi giorni. Per due giorni i Persiani, arrivati alle Termopili, condussero un attacco frontale contro lo sbarramento greco. Inutile, per la resistenza dell’esercito schierato al comando del re spartano Leonida, composto da 4000 Peloponnesiaci (di cui 300 Spartiati), 700 Tespiesi, Focesi, Locri Opunzi e 400 Tebani, per un totale di circa 7000 uomini, sufficienti a svolgere un compito limitato nel tempo. Il terzo giorno, con l’aiuto di guide esperte dei luoghi (la leggenda del traditore Efialte), alcuni contingenti persiani aggirarono la postazione meridionale e, dopo aver sopraffatto il distaccamento focese schierato a protezione del passaggio, piombarono alle spalle di Leonida. Nonostante l’accerchiamento, Leonida doveva tentare di tener testa ai Persiani almeno finché l’ultima nave greca, puntando a sud, non avesse doppiato la punta occidentale dell’Eubea, in uno stretto facilmente bloccabile, largo in alcuni punti appena quindici metri: altrimenti la costosissima flotta greca sarebbe stata perduta, e la guerra decisa. Leonida, e qui sta il suo vero, grande eroismo, seppe portare a termine la sua missione in maniera esemplare nonostante tutto quanto aveva ostacolato la sua azione. Congedò la maggior parte del contingente perché raggiungesse il grosso dell’esercito, e rimase a difendere le Termopili coi suoi 300 Spartiati e 700 Focesi, le truppe necessarie a compiere l’impresa in quello spazio angusto, senza sacrificare vite inutili. Essi si batterono come leoni, consapevoli che sarebbero morti e che la loro eroica resistenza avrebbe significato la salvezza per tutta la Grecia. Sospinti su una collinetta, caddero combattendo fino all’ultimo uomo. Un sacrificio enorme, che non fu vano: l’impresa di Leonida diede agli Elleni, nella loro lotta per la libertà, un esempio luminoso di adempimento del proprio dovere. E in concreto, la flotta greca, salvatasi, affrontò nello stretto braccio di mare di Salamina - luogo scelto da Temistocle perché adatto alle agili navi confederate e difficile per le pesanti navi persiane - la flotta dei Persiani che erano dilagati in Grecia. La battaglia durò accanita per dodici ore e si concluse col trionfo delle forze greche. Serse incredulo si ritirò e in tutto il suo impero scoppiarono insurrezioni. La resa dei conti fu nel 479 a Platea, in cui l'esercito alleato guidato dallo spartano Pausania (tutore del giovane re Plistarco, figlio di Leonida) sconfisse una forza di 50mila persiani con 30mila soldati greci confederati. La vendetta definitiva si ebbe a Micale, battaglia navale in cui la flotta greca alleata distrusse quella persiana sul Meandro. Vittoria che spinse gli Ioni alla rivolta. Da quel momento, per 150 anni, nessuna armata straniera entrò più in Grecia. Questi i fatti, un po’in sintesi, certo, e suscettibili indubbiamente di ulteriori letture storiche. Sono di per sé avvincenti e potevano offrire una gran messe di spunti su cui ricamare epicamente. Anche volendo mantenere la focalizzazione su Sparta, si potevano riferire gli eventi esterni indirettamente, approfondendone i contraccolpi sui Trecento e sulle decisioni di Leonida. Sarebbe comunque stato meglio che raccontarci la soap opera della regina Gorgo che per amore di Leonida lo tradisce col consigliere cattivo e corrotto (e poco furbo, visto che se ne va in giro con le monete persiane nella tunica). E poi ci devono spiegare, visto che gli Spartani tenevano tanto all’onore, e soprattutto ci tiene la morale nostrana e moderna che ispira questi film, a che pro tanta generosità cornificatoria nell’altera protagonista? Solo per giustificare l’ammazzamento del traditore malvagio? Ma se gli serviva un malvagio e un motivo per ammazzarlo, troppi se ne trovavano nella storia vera! E figure ben più complesse del mostruoso Efialte (trito stereotipo del “brutto e cattivo”), del gay più alto del mondo Serse (la persona più simpatica di tutto il film) e del lupo di Cappuccetto Rosso che finisce infilzato all’inizio. Invece questo film, per esaltare l'eroismo degli Spartani, lo separa completamente dalla realtà e lo fa diventare un atto incomprensibile, insensato, pochissimo credibile e poco coinvolgente. Che c’è di eroico nell’andare allegramente a farsi ammazzare senza motivo, per il solo gusto di menare le mani e di gridare tutti insieme “AUH!” (che, a proposito, a chi leggeva Tex Willer da bambino, avrà fatto venire ogni santa volta da ridere perché sembrava l’“Augh” indiano di Tiger Jack. A meno che non si tratti di qualche interiezione greca a noi sconosciuta, perché l’unico “au au” paragonabile attestato dal dizionario Rocci è quello corrispondente al verso greco del cane)? È vero che i soldati devono essere tutti un po’ esaltati per combattere, ma c’è modo e modo. Uno si esalterà pure, ma per un buon motivo. Questi pare morissero dalla voglia di andare in guerra per il solo gusto di farlo, e se non ci fossero stati i Persiani se la sarebbero presa col vicino di casa pur di prendersela con qualcuno. Il vero Leonida, invece, diede via libera all'esercito confederato e decise di sacrificarsi coi suoi 300 Spartiati per consentire a tutta la Grecia di riorganizzarsi e salvarsi. Il suo atto non fu l’esibizione di muscoli di un kamikaze anarchico, ma la cosciente ed eroica azione di un soldato in divisa che faceva il proprio dovere, compiuta per il bene della sua patria e obbedendo agli ordini. Infatti l’epigramma che saluta il suo gesto, tuttora scritto sulla pietra del monumento delle Termopili e attribuito al grande poeta Simonide dice: “O straniero, annuncia agli Spartani che qui giacciamo, obbedendo alle loro leggi”. Il re spartano, in effetti, fece solo il proprio dovere, come l’ordinamento statale pretendeva quale cosa ovvia da ogni cittadino. Che poi quella degli Spartani fosse una società militarista, oligarchica, autoritaria e schiavista è un altro discorso, e lasciamo perdere, anche perché non vogliamo correre il rischio che questa passi per una “stroncatura politica”, come spesso se ne sono lette su “300”, che sarebbe la cosa più ridicola e sciocca di questo mondo . In definitiva, quello che ci è spiaciuto di questo film è che aveva tutti i mezzi per essere un gran bel film e per esaltare veramente l’impresa dei Trecento, e non l’ha fatto. Bello sul piano estetico, vuoto di contenuti. Attori bellissimi, tecnica superba, danze spettacolari in acqua, combattimenti e scene d’amore da videogioco di terza generazione. Ma da videogioco anche la profondità della trama, che raramente riesce a strappare qualche sincero brivido. È un bel fumettone in una gran bella confezione, tutto qui. Da godere per quel che è, se possibile, ma senza andarci a cercare vere emozioni, o la storia greca, o una qualche pur lontana verosimiglianza nella rappresentazione di quel mondo perché se ne troverebbe di più in Hercules di Walt Disney (il che è tutto dire). Patricia Zampini 18 2008 DOPING: I l primo caso di morte, ufficialmente, risale al 1886: durante una competizione di ciclismo, in Francia, un atleta morì perché aveva assunto sostanze per drogare il proprio organismo. Allora le più usate erano la cocaina, la nitroglicerina, l’ossigeno, o addirittura zollette di zucchero imbevute di etere. Ma la storia del doping è più antica, e il termine originale dovrebbe derivare dal linguaggio dei kafir, una tribù africana che usava il dop, una sorta di liquore eccitante. Gli antichi greci aumentavano le loro prestazioni con decotti di piante e funghi. I vichinghi usavano il veleno di un fungo, l’amanita muscaria (contenete la bufoteina), che a basse dosi potenziava la loro attività di guerrieri. In Cile e in altri Paesi dell’America latina i contadini masticavano foglie di coca per i loro trasferimenti, percorrendo anche più di 600 chilometri in pochi giorni. Nell’America del Nord, lo stesso effetto veniva raggiunto con il peyotl, una pianta che contiene mescalina. Sostanze dopanti sono state impiegate anche in guerra, ma con risultati contrastanti. Basti ricordare la “pillola di Goering” un preparato tedesco a base di simpamina, sostanza ad azione stimolante. Lo stato di ipereccitazione che causava provocò però un numero elevato di morti in azione e soprattutto la breve emivita della sostanza (cioè la durata dell’effetto) comportava rischi ai piloti in fase di atterraggio. PILLOLE PER VINCERE 1988, Olimpiadi di Seul, finale dei 100 metri. Poco prima di affrontarsi sulla pista, i due rivali si fissano ostili negli occhi. Incontrando le sclere giallissime dell’atleta canadese, il velocista statunitense sposta rabbiosamente lo sguardo e mormora: “ Quel bastardo lo ha fatto di nuovo”. E’ forse una delle tante leggende dello sport, ma pare proprio che Carl Lewis avesse intuito la causa di quel vistoso segno di danno epatico ben prima che il verdetto del controllo antidoping la divulgasse al mondo intero: Ben Johnson, il Big Jim di colore che stava per essere incoronato uomo più veloce della Terra, era imbottito di steroidi. Per il canadese l’episodio segnava la fine di una discutibile carriera; per gli appassionati di sport, che in occasione delle Olimpiadi diventano una discreta popolazione, era la prima vera presa di coscienza di un fenomeno che infestava già da anni l’ambiente: pur di UNA VECCHIA STORIA vincere sempre più atleti non esitavano a fare ricorso a sostanze in grado di potenziarli artificialmente. Con le “bombe chimiche”, Johnson si era lasciato prendere la mano, fino a dotarsi di una muscolatura umanamente impossibile, ma era solo la punta evidente di un immenso, e meglio celato, iceberg. LA LISTA NERA Gli allenamenti sono stressanti, gli incontri sono difficili, il pubblico sempre più esigente… Che fare per migliorare la prestazione? Magari seguire il consiglio dell’amico di un amico che ha provato quel farmaco “magico”… E’ così che può nascere nello sportivo l’idea del doping. Varie categorie di farmaci e pratiche terapeutiche vengono proposte come mezzo per migliorare artificialmente la performance e sarebbe falso, purtroppo, affermare che non funzionino. Il doping causa rapidi guadagni di muscoli e forza, ma i rischi sono troppo grandi per ammetterne l’uso. L’impiego di ormone umano della crescita (hGH), usato nell’atletica pesante e nelle palestre di bodybuilding, può rendervi dei veri mostri. Esiste il pericolo reale che, se si usa l’hGH le dita, il naso, i piedi e l’intero cranio aumentino di dimensione. Questi sintomi si chiamano acromegalia, una malattia che vi consentirebbe di essere ospiti d’onore nel gabinetto degli orrori del Dottor Frankenstein. Tra i rischi d’abuso dell’ormone della crescita ci sono anche il diabete, l’ipertensione, una maggiore incidenza di tumori, il morbo di Creutzfeldt-Jakob. Gli steroidi anabolizzanti (testosterone, diidrotestosterone, nandrolone ecc…) possono avere dei seri effetti dannosi nei confronti del fegato, dei reni, della prostata e del cuore. Il rischio di sviluppare il cancro al fegato, alla prostata e ai reni si innalza e, in confronto agli atleti che non ricorrono al doping, coloro che assumono steroidi mostrano più spesso i sintomi dell’arteriosclerosi, ossia la progressiva occlusione delle arterie che, nei casi più gravi, può causare un infarto o un ictus. Chi usa gli steroidi mostra spesso un elevato livello di aggressività, che può permettere sessioni di allenamento più intense, ma può anche avere effetti disastrosi sulla vita sociale (sindromi psichiatriche). Un effetto collaterale realmente grot- tesco che può verificarsi se vengono presi gli steroidi è nell’uomo la ginecomastia, che fa assomigliare il petto del bodybuilder al seno di una donna, mentre le donne che usano steroidi sviluppano spesso una voce molto bassa e marcato irsutismo (mascolinizzazione nella donna e femminilizzazione nell’uomo). Anche l’acne non è bella da vedersi e certamente non è un segno di atleta sano ma, se si usano gli steroidi, il rischio che vengano i brufoli, specialmente sulla schiena (la cosiddetta acne da steroidi), è reale. Altri effetti collaterali non meno gravi provocati dall’abuso di ormoni anabolizzanti sono: l’atrofia testicolare, la dismenorrea (riduzione o scomparsa del ciclo mestruale), la sterilità, degenerazioni e strappi ai tendini, la calvizie, la dipendenza. Se gli steroidi continuano ad essere il pane dell’atletica e del body building, la droga degli sport di resistenza, come il ciclismo o lo scii di fondo, si chiama EPO. Chi fa uso di EPO, l’eritropoietina di provenienza renale che sollecita il midollo osseo a produrre globuli rossi, aumenta la propria riserva di ossigeno: un evidente vantaggio per uno sport a base aerobica. L’uso di questo ormone però aumenta la viscosità del sangue, e quindi facilita trombosi ed embolie. Può provocare inoltre insufficienza renale cronica e ipertensione. Per contenerne l’abuso (l’eritropoietina è un ormone fisiologico, invisibile ai controlli antidoping), in due sport sono previsti esami del sangue a sorpresa. Nello scii di fondo viene misurata la concentrazione di emoglobina, che non deve superare i 16,6 g/dl per le donne e i 18,5 per gli uomini. Nel ciclismo si misura l’ematocrito: 50% per l’uomo, 48 per la donna. Chi li supera, sta a riposo per 15 giorni, poi si presenta per un nuovo test. Solo se il valore è nei limiti consentiti può riprendere a gareggiare. no verificarsi se vengono usati certi farmaci. I muscoli costruiti attraverso anni di duro allenamento e buona nutrizione, senza pillole magiche, durano più a lungo. Coloro che impiegano i farmaci spesso fanno progressi impressionanti mentre prendono la sostanza, ma perdono gran parte della massa costruita rapidamente grazie alla chimica se viene un’interruzione dell’allenamento anche solo di qualche settimana. Non così per l’atleta “natural” che si allena con intensità. I suoi muscoli non scompariranno così velocemente, poiché egli ha costruito massa di qualità in un lungo periodo di tempo seguendo un metodo naturale. Il doping non è economico. Non ci si mette molto a spendere migliaia di euro per gli ormoni o altri prodotti chimici. E’decisione molto più saggia e salutare investire questo denaro in una buona nutrizione. La decisione di non prendere farmaci è anche una questione di carattere. Se riuscite a resistere alla tentazione di ricorrere al doping anche se intorno a voi ci sono alcuni atleti che usano farmaci e fanno progressi più rapidi nella crescita muscolare, allora potete essere orgogliosi di voi stessi. E’ una sensazione molto bella e soddisfacente sapere che i propri risultati sono stati raggiunti solo grazie alla disciplina osservata nel proprio programma di allenamento e alimentazione e non grazie a sostanze chimiche. Se non si hanno le caratteristiche genetiche per diventare un campione nemmeno tonnellate di pasticche vi faranno vincere le gare. Enrico Baldoni I diuretici fanno perdere al corpo una grossa quantità di acqua. Ma si perdono anche tanti minerali come il potassio, che sono importanti per la normale funzione cardiaca. I farmaci per perdere acqua possono condurre all’aritmia cardiaca e possono finire per determinare un attacco di cuore. PILLOLE PER VINCERE... Gli effetti elencati sono solo una selezione dei sintomi possibili che posso19 2008 I NOSTRI STUDENTI E LO SPORT A nche se dall’esterno può esserci la percezione che gli alunni della nostra Scuola non siano molto dotati sportivamente e per questo non pratichino sport a livello agonistico, la realtà è ben diversa. A livello dilettantistico sono molti i ragazzi che frequentano palestre, piscine e campi da gioco, alcuni di questi partecipano a competizioni d’interesse regionale e nazionale con ottimi risultati. Tra questi, Matteo Francolini, II A, è un velista. Si allena a Civitanova Marche presso il Club Vela. Questa associazione di velisti è di fama internazionale, tanto che è stata premiata nella stagione 2006/07 come circolo più forte d’Italia e con un atleta candidato alle Olimpiadi. Matteo Francolini da ben 7 anni svolge questa attività, resa familiare al grande pubblico dai successi di Luna Rossa. Matteo svolge regate nella categoria laser 4.7. Ha avuto molti riconoscimenti: nel Luglio 2007 si è classificato al ventottesimo posto nel Campionato Europeo disputato in Irlanda; il mese successivo si è classificato quarto al Campionato Italiano disputato a Lignano Sabbiadoro. Recentemente, nel Dicembre 2007, ha disputato i mondiali in Sud Africa, classificandosi al cinquantesimo posto su un totale di oltre cento concorrenti. Congratulazioni a Rachele Butini, III A, tennista di punta della vincente squadra del nostro Liceo. Grazie a lei, nell’aprile 2007, ad Osimo, è stato conquistato il primo posto nella fase provinciale del torneo indetto dal Coni, esteso a tutte le scuole italiane. Rachele, è una campionessa, pratica il tennis con grande passione ed è in grado di trasmettere tecniche, entusiasmo e determinazione. Dopo un’intensa estate di tornei a livello provinciale e regionale, Rachele ha iniziato anche ad allenare le nuove leve; è, infatti, diventata con successo una dei Maestri presso la scuola di tennis di Jesi. Sara Palmolella II A L.C. IN VISITA ALLA BIENNALE I l 18 ottobre, grazie ad un'iniziativa della nostra scuola, noi alunni delle classi terze liceo A, B e C del Liceo Classico, abbiamo avuto l'occasione di visitare la Biennale di Venezia. Sono stata entusiasta all'idea di assistere ad un'esposizione così vasta e ricca di opere varie e diverse tra loro per tematiche, tecniche di realizzazione e per scelta dei materiali. Le espressioni artistiche presenti nella mostra sono, quindi, le più disparate e proprio queste dissonanze incuriosiscono il visitatore e lo stimolano a procedere nella visita, alla ricerca di suggestioni nuove 20 2008 e sollecitazioni emotive eintellettuali sempre maggiori. Infatti ogni opera è a sé stante ed è capace di suggerire in maniera autonoma molteplici emozioni come stupore, meraviglia, dolore... Inoltre, davanti ad ogni oggetto d'arte, ci si trova coinvolti in maniera diversa: a volte il messaggio dell'artista è chiaro, diretto e suscita immediatamente in noi una reazione emotiva o sensoriale; altre volte, invece, il messaggio stesso può essere ricavato solo dalla riflessione alla quale siamo stimolati dall'opera stessa. Nonostante la diversità espressiva di ogni artista, vi è comunque un ele- mento di coesione: l'attualizzazione con il presente. Silvia Vernelli III A L.C. LA VIOLENZA NEGLI STADI C irca un mese fa, è ritornato a far parlare di sé un problema che riguarda la sfera sportiva, soprattutto quella calcistica: la violenza negli stadi. Domenica 11 novembre, quando si sarebbe dovuta svolgere la 12° giornata di Serie A, nei campi sportivi sono avvenuti vari disordini, dallo sfondamento di una vetrata a Bergamo al lancio di sassi all’esterno dello stadio Olimpico di Roma. Tutto questo in seguito all’uccisione di Gabriele Sandri, un noto DJ del litorale tirrenico, da parte di un agente di polizia. Infatti, i gruppi ultrà che popolano le gradinate degli stadi hanno deciso di ribellarsi ai loro più acerrimi nemici, le forze dell’ordine. Muniti di spranghe e molti altri oggetti contundenti hanno cercato di farsi giustizia da soli, quando invece sarebbe stato molto più corretto ricordare la memoria del defunto che è divenuto così, erroneamente, il “simbolo” di tutte quelle persone che ogni domenica provocano risse e scontri e che non hanno niente a che fare con lo sport. Particolare sconvolgente della domenica della follia, come è stata denominata, era vedere bambini, venuti allo stadio con i loro genitori, piangere o provare paura nei confronti dei tifosi fanatici. Dopo l’accaduto tutti i mass media si sono interessati alla questione, dal momento che un anno fa l’ispettore della polizia Raciti perdeva la vita mentre provava a sedare gli scontri tra le tifoserie all’esterno dello stadio Massimino dopo l’incontro Catania - Palermo. Anche il governo sembrava si fosse mosso ma, come capita spesso in Italia, si è aggirato il problema vietando solamente l’ingresso negli stadi ai tifosi avversari e non magari monitorando e usando il pugno di ferro nei confronti dei più agitati. In queste ultime domeniche la situazione sembra essersi ristabilita, ma purtroppo credo che presto si sentirà ancora parlare di questa problematica e saremo sempre al punto di partenza: occorre prevenire i loro disordini e non limitarsi a condannare i colpevoli Inoltre penso che questa situazione sia la conseguenza di una concezione di vita secondo cui ciascuno di noi deve provare a contraddistinguersi, rinnegando a volte anche la propria identità. Molto spesso, infatti lo stadio rappresenta il palcoscenico di comportamenti esagerati dove ognuno può dare libero sfogo alle proprie preoccupazioni. Per finire, vorrei sottolineare il fatto che al giorno d’oggi, lo sport, specialmente il calcio, va di pari passo con la politica, cosa, a mio parere, totalmente estranea a questo tipo di divertimento che dovrebbe servire solamente a trasmettere felicità e valori etici. Luca Brugiaferri IV A INVITO ALLA LETTURA “ALMOST S crittore, conduttore televisivo e giornalista, noto al grande pubblico come autore ma anche per la serie televisiva “Blu notte - Misteri Italiani”, Carlo Lucarelli ha pubblicato una lunga serie di noir a sfondo poliziesco. Tra questi “Almost blue” è forse il più conosciuto. Certo può attrarre gli appassionati del genere, che apprezzano i misteri e tengono sul comodino Dylan Dog (di cui Lucarelli ha firmato in passato alcuni soggetti), ma è un testo capace di farsi apprezzare anche chi non abbia una particolare predisposizione per il noir. Una storia dura, intensa, ma per la quale non è necessario avere lo stomaco forte. Una storia ben scritta, con un avvio folgorante, intriso del sangue dell’immagine d’avvio, che allaga la stanza su cui si apre la vicenda narrata, di fronte ai primi intervenuti, inorriditi. Non viene descritta minimamente la scena del crimine, né la vittima: solo il sangue: e l’orrore che provoca è tutto nella sovrapposizione tra esso e il grottesco caderci sopra del carabiniere che vi scivola dentro una prima volta e poi più volte, nel tentativo disperato di rialzarsi, restando a pancia sopra, alla fine, come un enorme insetto rovesciato. Ma questa scia rossa tiepida e dall’odore dolciastro si allunga nei primi capitoli come un leitmotiv cupo e disturbante. Il malessere e il disagio fisico e psicologico dell’ispettore Grazia Negro ai primordi del caso, la pozza bagnata e fredda da cui si risveglia l’assassino - l’iguana - tornando cosciente dopo l’ultimo dei suoi omicidi, per reincarnarsi nella sua vittima. È un sangue che ha un odore, un’umidità, una temperatura, più che un colore. Non è mai usata la parola rosso per raccontarlo: emerge dai contrasti e dalla sensazione fisica del suo spargersi, che riportano alla dolorosa, viscerale ancestralità della vita e della morte. Sembra quasi una preparazione, questa mancanza di colore del sangue, al mondo del terzo protagonista, Simone, che è cieco dalla nascita e quindi i colori degli altri non li conosce, conosce i suoi. Crea i suoi colori dal suono, dall’odore che hanno: ogni colore per lui ha una storia e significa qualcosa di personale e diverso. Simone passa tutte le sue giornate nella sua stanza, da solo, ad ascoltare conversazioni con lo scanner collegato al pc. Ma è triste e malinconico quando, parlando in prima persona, dice che se avesse avuto degli amici lo avrebbero chiamato Scanner, e che gli sarebbe piaciuto. Amici non ne ha, però, “per colpa mia”. Per colpa sua, perché preferisce restare solo, perché non ha niente in comune coi ragazzi normali con cui il padre, quando era vivo e lui era piccolo, lo costringeva a giocare, anche a pallone, perché socializzasse con gli altri, nel cortile del palazzo. Per questo, per tante cose simili a questa, Simone è solo. Ma non è arrabbiato col mondo, è disperatamente malinconico e rassegnato, e consapevole della sua troppa chiusura. Per questo cerca di sembrare addormentato quando sua madre sale nella sua stanza, rimproverandolo del suo autoisolarsi che non riesce a capire. Per questo cerca nelle voci della notte, coi suoi scanner, un contatto con la vita vera. Le frequenze della polizia, le chat degli altri che converte in suoni con le sue attrezzature elettroniche. È così che una notte sente in una chat la voce dell’iguana, l’assassino, che parla con una ragazza e cerca d’in- BLUE” contrarla. Una voce che non ha calore né umanità, una voce arrotata e fredda e che fa paura, una voce verde. È questo che tocca di più di questo romanzo, come descrive il cuore. Come con brevi accenni nel punto giusto sappia dare una prospettiva, uno spessore alle cose e alle persone. A Simone, ma non solo a lui. L’iguana è un assassino orrendo, un serial killer che uccide gli studenti, in una Bologna non grassa e festosa ma sotterranea e tentacolare, un oscuro labirinto di subaffitti e identità sconosciute e provvisorie. L’iguana è il killer degli studenti, che ruba i pezzi delle loro vite parziali e se ne appropria per non morire, reincarnandosi in loro e assumendone le sembianze con ossessivi e continui travestimenti. L’iguana è un pazzo omicida incapace di fermarsi. Ma l’iguana è stato un bambino tradito, abbandonato da sua madre per sempre in un istituto per volere del patrigno, senza padre, senza radici e senza affetti. Un bambino rifiutato che impazzisce, che sente le campane suonargli costantemente nelle orecchie, col loro rumore aggressivo e violento e continuo che cerca disperatamente di coprire con le cuffie in cui sente musica a tutto volume. Ritratti da dentro, e da fuori. L’ispettrice Negro non parla in prima persona come l’iguana e Simone: lei è descritta in terza persona. Grazia è una donna che fa l’ispettore, figlia di un barista e d’istruzione modesta. Ama il suo lavoro. Ama anche Vittorio, il suo capo, o per lo meno l’ha amato, e lui lo sa. “Prendilo, bambina”, le scrive. È fragile, è triste, un po’ cupa, anche se ha un intuito quasi animale e un istinto forte sul lavoro. Molto più di lui, che non è un poliziotto in fondo, ma uno psichiatra, che l’iguana vuole capirlo, ancora più che prenderlo. E per quelle azioni impulsive e strane che a volte nella vita si compiono, dopo uno degli omicidi di cui ha sentito, dell’assassino con la voce verde, Simone chiama Grazia: un’offerta d’aiuto, o forse una richiesta di aiuto, o forse tutt’e due. Comunicare non è facile e non è immediato, passa attraverso molti ostacoli e remore. Non solo comunicare sul caso, ma comunicare sul piano umano le proprie paure, i propri dolori, mettere in comune il modo di percepire gli odori e i suoni, costruire un alfabeto per parlare e imparare a usarlo. Succede questo. E succede anche che all’improvviso l’assassino scopre di essere stato sentito e capito, per la prima volta, e vuole disperatamente comunicare anche lui, a modo suo, per trovare la pace che inutilmente cerca senza raggiungerla da sempre, anche se comunicare per lui è distruggere, e la sua pace non è pace per coloro da cui la cerca. Caldo, familiare, pesante e secco come l’odore di tabacco, il sapore di whisky, il sudore e il suono delle voci, delle persone, cupo come la notte ma anche come i pomeriggi grigi e piovosi, umido e triste e disincantato come l’obbligo quotidiano di andare avanti, questo libro è anche delicato e dolce come la speranza e l’incontro, come il sesso improvviso e sincero e il bisogno di difendersi e di difendere, come la musica che tocca lentamente le corde più riposte dell’animo e lo rincuora, come una fata sconosciuta che canta una canzone francese coi capelli rosa ed una voce blu. (p.z.) 21 2008 L E LIRICHE DEL CONCORSO LETTERARIO : “A ME SI’ CARA VIENI, O SERA” NELLA FAVOLA LIETA A ME SI CARA VIENI O SERA Ascolta il silenzio... Mite è nell’aria E nessuno lo potrà intaccare, Se non pochi eletti che non riescon a riposare. I grilli cantano Canzoni senza tempo. Armonicamente s’alternano Rane e rospi A iosa a gracidare Verso la luna Iridescente nell’illuminare. E tu che fai? Noti tutto ciò? Inizialmente no, Ora però Sei vigile E allungando 1’orecchio, Rischiarando la mente, pensi Alla magia della sera. MA ALLA FINE SI FA SERA S’erge la voce della notte inquieta in su le pendici del fragile monte plana la luna sulla favola lieta nel sogno inconsueto dell’eterea fonte. Ma spira la favella quando l’aurora la coglie e s’abbandona alla rassegnata novella in su del giorno le spietate soglie. Fabio Cotichelli VC L.C. Filippo Pirani II C L.C. CARA SERA Cara sera, con le tue idee in testa vieni senza mai portar tempesta, Caterina Pentericci II B L.C. solo tu con la tua pace interiore sfiori l’anima di questo cuore. Ma al tuo giunger lieto, tremo perché togli alla mia vita un giorno abbandonandolo là, solo e fermo. STREMATA DAL GIORNO Mi accascio alle viscere della sera stremata dai raggi del sole accarezzata dall’argentea luna m’appiglio alle ombre insicure. Spero che prima o poi farà ritorno, ma dentro di me, la notte lo sa: ora è tardi e mai più tornerà. Caterina Pentericci II B L.C. Giada Pennacchietti V C L.C. ANCHE OGGI MORIRA’ LA GRANDIOSA STELLA La grandiosa Stella di morir si sdegna dopo anni, secoli, millenni ancor non si rassegna. Stende le lunghe braccia luminose, cercando un appiglio tra fronde spinose Ma la notte lambisce la Terra, s’accende la Luna, che ha vinto la guerra, col rosso del sangue la luce è finita, caduto è già l’astro ch’è fonte di vita bisbigliando va il vento che spira di sera: “è giunto il momento dell’uomo che spera” S’imbeve d’oscuro l’affanno e affonda nell’antro d’un pacifico sonno. CUORE SCOSCESO Lenta s’accinge la sera a calare sull’animo mio straziato d’amore mentre rapido il sangue s’appresta a scalare le cime scoscese dell’aspro tuo cuore, ma in vano s’appiglia al tuo ego roccioso e precipita sconfitto nel baratro ansioso così come pugnalato dai raggi velati dell’astro notturno lentamente il sol s’ abbandona al dolore diurno. Caterina Pentericci II B L.C. Filippo Pirani II C L.C. LA SETTIMANA BIANGA - 2007 La settimana bianga de stanno è stada favolosa, di’ fantastiga è pogo, meglio gloriosa sarà stado pe’ i professori divertenti oppure pe’ l’ alunni diligenti fatto sta che non se po’ scordà: c’è stada la Valentini, un po’ de paura, e va co’ la Zannini co’ la Burattini e la Valletta no c’è da di’ niente: sciava perfettamente! Po’ no scordamoce de Brugnoli Righetto Che ce sgaggiava perché no ‘ndavamo a letto Purtroppo pe’ impegni istituzionali non c’ era la dirigente Che ce saluda comunque calorosamente Ma sci fosse stada sui campi da sci C’ avrebbe stupido tutto el dì. ‘ncora sugli alunni non c’è niente da di’ Oltre che faceva un gran casì. Ammò dentro sto pulma mentre sto a scrive, no me ‘rmane altro che metteme a ride; e pensanno a tutto sto divertimento, so’ siguro che dendro el core me rmarrà sto bel momendo! Ragni Fabio V C L.C. 22 2008 SVEGLIARSI VUOTA E SENTIRSI VUOTA Svegliarsi vuota e sentirsi vuota Svegliarsi una notte e sentirsi persa Svegliarsi una notte e sapere di aver perso un amico Parte della propria vita, dei propri rancori …gioia e dolori… Benedetta Fazi 3F L.S.P.P. FARFALLE Un leggero battito d ’ali. Troppi colori. Troppi fruscii. Apparentemente libere. Ormai stanca si posa delicatamente… Troppa fragilità. Chiudo la mano. “Ehi, perché non voli più?” Marta Rosati 3F L. S. P. P. I DISEGNI DEI PARTECIPANTI AL CONCORSO PER LA COPERTINA COPERTINA DELL’IPPOGRIFO Perla Sardella I A L.C. Silvia Ricci III B L.C. Marta Giovannetti I A L.C. Sofia Cartuccia III B L.C. Caterina Pentericci II B L.C. Federica Bini IV F L.S.P.P. 23 2008 O Vincitori del “Piccolo Certamen Taciteum” Alternanza scuola lavoro . . . . . . . . 3 Gara di traduzione latina per gli studenti dell’Istituto Analisi del film Metrolpolis . . . . . . . 4 I EDIZIONE 2008 Le collezioni scientifiche del Liceo Classico . . . . . . . . . . . . . 2 Il sapere e i saperi . . . . . . . . . . . . . 6 1. DI GENNARO DANIELE V B GINNASIO 2. CANDELA CATERINA V B GINNASIO 3. LEONI CATERINA V B GINNASIO R CLASSI SECONDE Reality show: istruzioni per l’uso . . 9 Incontro alla moschea di Ancona . 10 A CLASSI TERZE 1. RICCI MARTINA I A CLASSICO 2. MEDICI GIULIA I C CLASSICO 3. D’ASCANIO LAURA I A CLASSICO Un poeta di Cupramontana: Gilberto Cerioni . . . . . . . . . . . . . . 8 L’anoressia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Concorso letterario . . . . . . . . . . . 12 CLASSI QUARTE Doping. Una vecchia storia . . . . . . 19 I nostri studenti e lo sport . . . . . . 20 In visita alla Biennale . . . . . . . . . . 20 O LICEO CLASSICO STATALE “V. EMANUELE II” JESI Alberto Colini: Eran trecento, eran giovani e forti 17 Disegno di copertina di: Federica Rotoloni II C APRILE 2008 e il Discorso sul metodo . . . . . . . . 14 il futurista majolatese . . . . . . . . . . 16 M 1. TACCALITI CHIARA II B CLASSICO 2. RISTÈ FEDERICA II B CLASSICO 3. ex aequo PESARESI GIULIA II B CLASSICO LOMBARDI ANDREA II C CLASSICO M Leggere i classici: Cartesio La violenza negli stadi . . . . . . . . . 21 Invito alla lettura: ”Almost Blue”... 21 Anno 24 N. 1 • Indirizzi: Classico • Socio Psico Pedagogico • Scienze Sociali Lo spazio della Poesia . . . . . . . . . 22 S I disegni per la copertina . . . . . . . 23 Editore LICEO CLASSICO STATALE Comitato di Redazione Coordinatori: “V. EMANUELE II” Prof.ssa Patricia Zampini C.so Matteotti, 48 - 60035 JESI (An) Prof.ssa Paola Giombini Tel. 0731.57444 - 0731.208151 Prof.ssa Patrizia Leoni Fax 0731.53020 Prof. Paolo Grizi E-mail: [email protected] Studenti: C.F. 82001640422 Anna Chiara Boschi - L.C. III B LICEO CLASSICO Maria Costanza Boldrini - L.C. III B LICEO SOCIO PSICO PEDAGOGICO Riccardo Giustini - L.C. III B LICEO DELLE SCIENZE SOCIALI Roberto Bramati - L.C. II A Dirigente Scolastico: Sara Palmolella - L.C. II A Prof.ssa Giuliana Petta Alessia Rocchetti - L.C. II A Direttore Responsabile: Francesca Giuliani - L.S.S. V L Enrico Filonzi Sara Trillini - L.S.P.P. V E Ilaria Serpentini - L.S.P.P. V E Disegno di copertina: Federica Rotoloni - L.C. II C Stampa: Stampa Nova, Jesi R e g . d e l Tr i b. d i A N n . 2 d e l 2 6 . 0 1 . 8 4 24 2008