numero 15 anno IV - 25 aprile 2012
edizione stampabile
EDIZIONE STRAORDINARIA
CONCORSO PER ASPIRANTI GIORNALISTI UNDER 30
Clara Amodeo - DALLA FILANTROPIA RETRÒ ALLA SOLIDARIETÀ MODER
NA
Vittorio Artoni - QUANDO IL COMUNE SI ASSOCIA ALLA CITTÀ
Alessandro Bongiorni- LA NEBBIA HA CHIESTO IL DIVORZIO
Georgiana Campeanu - NOI SIAMO MILANO
Federico Castagna - METRO’
Paolo Cerruto - A TUTTI I FANTASMI
Virginia Dara - VIAGGIO SUI MEZZI PUBBLICI NELL'ERA DI MR. IPOD
Gabriele Di Terlizzi - LA PARTECIPAZIONE A MILANO: SENTIMENTO VIVO
OPPURE LONTANO RICORDO?
Daniele Ferriero - IL SUD AL NORD, PERCORSI TRA LE PERIFERIE DI MILA
NO
Laura Filios - PROGETTO STANZE 2012. IL TEATRO “FATTO” IN CASA.
Fabio Galvani - ...MILANO INNUMEREVOLI VOLTI RACCHIUSI IN UNA CITTÀ
Andrea Guerra - VIAGGIO NEL(LE AGENZIE DI) VIAGGIO
Roberto Guidoni - MILANO ETNICA
Lorenzo Lanza - LA CITTÀ COME UN SERPENTE CAMBIA LA PELLE
Davide Lessi - LA RIVOLUZIONE ORIENTALE: NELLE SCUOLE DI MILANO SI
STUDIA IL CINESE
Alvise Losi - L’ULTIMA FABBRICA DEL CINEMA
Mattia Lunardi - QUESTIONI MENEGHINE TRA SACRO E PROFANI
Valentina Magri - L’INSOSTENIBILE FRENESIA DELL’ESSERE (MILANESE)
Francesca Masci - I GIOVANI AMANO…
Francesca Musazzi - VIVERE A MILANO PER STUDIARE
Lorenzo Pirovano - CONOSCERE MILANO DALLA METRO
Pietro Pruneddu - INVENZIONI E BREVETTI, MILANO CAPITALE DEI MODER
NI ARCHIMEDE
Sara Santi - SAVIANO ‘MILANESE’: LA DURA LOTTA DI MILANO ALLA
CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
Alessandro Sarcinelli - VIAGGIO NELLE PERIFERIE MILANESI: TRA
APPARTAMENTI VUOTI, SPACCIO E AMIANTO
Luciano Siffredi - MILANO E I SUOI NAVIGLI
Anna Umuemu - MILANO È LA MODA, LA MODA È GAY, MILANO È GAY
Sara Veronesi - IL SUONATORE CHE AUGURAVA “BUONA FORTUNA”
Fabio Zinna - LA MEMORIA TRADITA DI MILANO
VIDEO
LA MILANO DI GIOVANNI SILVERA
COLONNA SONORA
Lucio Dalla
MILANO
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DALLA FILANTROPIA RETRÒ ALLA SOLIDARIETÀ MODERNA
Oggi il futuro dei Rom è in un calice di vino rosso
Clara Amodeo
È il 2010 quando la giunta Moratti
decide di dare il via a una serie sistematica di sgomberi delle famiglie
Rom nell’ex campo informale di via
Rubattino, impedendo di fatto ai ragazzi che lo abitavano di proseguire
il percorso di inserimento scolastico
iniziato nel 2008 attraverso la mediazione culturale della comunità di
Sant’Egidio e il sostegno economico
dell’associazione dei genitori. Ma
diversi abitanti del quartiere non ci
stanno e decidono spontaneamente
di intervenire: dopo aver contattato
Intergas, rete di Gas (Gruppi di acquisto solidale) di Milano e averne
ricevuto la collaborazione, le due
realtà cittadine danno i natali al progetto “I vini R.O.M. – Rossi di Origine Migrante”, un’offerta di tre qualità
di vini rossi toscani provenienti
dall’associazione autogestita di volontariato Fuorimercato che tra il
2010 e il 2011 vende il proprio nettare durante varie kermesse di consumo solidale, tra le quali l’importante fiera meneghina degli stili di
vita sostenibili “Fa’ la cosa giusta!”. I
risultati di tale operazione, conclusasi pochi giorni fa, si materializza-
no nella vendita di circa 2.300 bottiglie di vino per un ricavato totale di
€ 9.500: la cifra è stata divisa in nove borse di lavoro e di studio, tre
delle quali sono state assegnate a
Garofita, mamma Rom che lavora
presso due cascine del Parco Sud,
a Sandu e a Marco, papà Rom che
collaborano al restauro della Cascina Cuccagna a Milano per un totale
di € 3.500, mentre le restanti cinque
hanno dato la possibilità a Cristina e
Florina, entrambe di 10 anni, e a
Geanina, Belmondo, Ovidiu e Marian, adolescenti, di pagare i corsi
scolastici e i mezzi di trasporto per
un totale di € 6.000. Non solo: tanto
per i grandi quanto per i più piccoli è
stato progettato un percorso di accompagnamento psicologico che
prevede colloqui a cadenza bisettimanale con assistenti sociali ed educatori per capire e monitorare la
situazione.
La scena sembra essere quella della Milano anni Cinquanta del film “È
arrivato il cavaliere!” di Mario Monicelli quando, dopo la guerra, alcuni
sfollati si ritrovano senza un tetto
sotto cui vivere e vengono osteggia-
ti da politici che impongono le proprie scelte strategiche per conquistarsi qualche proselito in più; solo
l’intervento di un privato cittadino, il
filantropico cavalier “ghe pensi mi”,
cercherà in tutti i modi di salvare le
vittime innocenti di un sistema corrotto e irrispettoso, senza tuttavia
riuscirci. Sessant’anni dopo la storia
si ripete: non più sfollati ma “extracomunitari”, non più il cavaliere tuttofare ma il Gas e, ci allieta dirlo,
non più la tragica fine della famiglia
cinematografica ma una conclusione che premia i più deboli e chi si è
prodigato per il loro bene. “Nel nostro piccolo – chiosa Francesca Federici, coordinatrice del progetto –
siamo contenti dei risultati ottenuti:
abbiamo voluto denunciare la pratica irregolare degli sgomberi in assenza di alternative praticabili, dimostrando che i percorsi di integrazione sono possibili con pochi mezzi
e poche risorse anche a Milano” città, quest’ultima, che già nelle dichiarazioni del grande regista era (e lo è
ancor di più oggi) “capitale non solo
economica ma anche morale
d’Italia”.
QUANDO IL COMUNE SI ASSOCIA ALLA CITTÀ
Storia di una rete tra associazionismo locale, Giunta e cittadini.
Vittorio Artoni
È trascorso poco meno di un anno
dall’insediamento della Giunta Pisapia a Milano. Tra i protagonisti del
“cambiamento del vento” si colloca
una sostanziosa fetta di associazionismo milanese, talvolta definito il
vero vincitore delle amministrative
2011, più oggettivamente il motore
partecipativo della campagna elettorale prima e degli albori di governo
della città poi. Ma come si colloca il
mondo associazionistico in questa
nuova città? Quale il suo ruolo nella
società meneghina? Proviamo a
tracciare un quadro con chi di associazionismo ci si sporca le mani
quotidianamente e con chi di mestiere osserva il tessuto sociale urbano: Eugenia Montagnini dello
spazio di formazione partecipata
Studio Excursus e docente di Sociologia Urbana presso Politecnico e
Università Cattolica di Milano; Franco Beccari, coordinatore dei Circoli
territoriali di Legambiente Lombar-
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dia e Michele Marzulli, presidente
del CNGEI Milano (l’associazione di
scoutismo laico italiana) oltre che
docente di Sociologia Generale
presso l’Università Cattolica di Brescia. I nostri tre interlocutori smarcano in fretta l’associazionismo locale dall’etichettatura di vincitore
morale delle ultime elezioni, concentrandosi sul riconoscimento
dell’impegno civico di esso come
forza innovativa nel panorama partecipativo milanese. L’adozione di
questa concezione si riscontra non
a caso nella Rete dei Comitati per
Pisapia sopravvissuti al postcampagna elettorale mutando forma
in Comitati per Milano, promotori
della partecipazione e del confronto
prima che nella città, nelle singole
zone, come ci fa notare la professoressa Montagnini. Sia Montagnini
che Marzulli citano il Primo Forum
Cittadino delle Politiche Sociali (tenutosi al Teatro Strehler il 2-3 di-
cembre scorsi) come primo snodo in
cui il welfare istituzionale si è rivolto,
ha consultato e ascoltato associazioni e cooperative che agiscono
nella città. Quest’esempio è rincarato da Beccari, che ricorda come Legambiente sia stata immediatamente interpellata dall’assessore Maran
circa Area C e dall’assessora De
Cesaris a proposito del PGT. Ma
allora davvero l’associazionismo
locale ha svolto un lavoro così importante a Milano da essere innalzato a consulente informale delle
istituzioni? Torna di nuovo, preponderante, la parola partecipazione.
Secondo l’opinione di Beccari le associazioni sono state negli ultimi
anni “il cemento che ha tenuto unita
la città”, da questa forza scaturisce
una nuova concezione di far politica, oltre all’alto gradimento della
funzione svolta dalle stesse associazioni “ma - mette in guardia Beccari - i cittadini hanno saputo distin-
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guere e sostenere quelle associazioni in grado di agire e di contestualizzarsi nel territorio in cui operano rispetto all’associazionismo
delle chiacchiere e dei grandi proclami fini a se stessi”. L’azione e
l’identità associativa non trovano
centralità unicamente nelle dichiarazioni di Beccari. La Montagnini
infatti sostiene che le associazioni e
le cooperative che si occupano di
politiche sociali siano state negli
anni spremute fino all’osso, delegate a braccio operativo di tali politiche
rischiando che ciò sfociasse piuttosto che in una vittoria delle suddette
realtà associative, in una sconfitta
della democrazia e del pubblico, assoggettato all’impostazione identitaria dei singoli operatori. A evitare ciò
si sta contrapponendo una buona
cabina di regia coordinata salda-
mente da questa Giunta, in grado di
attivare bandi e concorsi di idee aperti a tutti ma di marcare chiaramente il campo istituzionale da
quello operativo, equilibrando e regolando questa sinergia tra i due
settori. È proprio su questo punto
che differisce invece il pensiero di
Marzulli, che denuncia la mancanza
di un modello partecipativo definito:
“concorsi di idee e tavoli di confronto sono stati aperti – dice Marzulli Milano però è una città ancora assopita, non abituata alla partecipazione attiva e il rischio d’incomprensione o scarso interesse verso
questa nuova modalità decisionale
è alto. In Francia ad esempio la legislazione obbliga alla consultazione pubblica, la regione Toscana ha
introdotto i Town Meeting, esperimenti di democrazia attiva e delibe-
rativa, criticatissimi, ma ottimi punti
di partenza. Senza una strategia
mirata questo tripudio partecipativo
innalzato dai movimenti e dalla
Giunta sarà un buco nell’acqua, un
autogol, una sconfitta inattesa per i
quattro anni a venire”. Marzulli confida
però
nella
stesura
e
nell’adozione di tale modello strategico, contando sulle competenze e
l’esperienza di assessori interessati
quali Majorino, Granelli e Maran.
Palazzo Marino si gioca una grande
partita sul coinvolgimento attivo dei
propri cittadini, pare che possa trovare una sponda nel mondo delle
associazioni, disposto questo, a
portare in dote pratiche rodate e
credibilità per contribuire nella costruzione di un rinnovato modo di
far politica a Milano.
LA NEBBIA HA CHIESTO IL DIVORZIO
Alessandro Bongiorni
Solitamente l’impatto del forestiero
con Milano tende al bicromatismo: o
bianco, o nero. O la ami, o la odi. Le
sfumature di grigio, infatti, aderiscono meglio ad altre realtà, magari di
dimensioni ridotte e con una natura
intrinsecamente meno complessa. Il
capoluogo lombardo, con i suoi pregi e difetti, non si presta bene alle
vie di mezzo. Per ogni detrattore c’è
uno Stendhal che ne tesse le lodi.
Da cosa dipende tutto questo? Chi
lo sa. Per chi proviene da certe zone d’Italia, in cui i ritmi e lo stile di
vita sono totalmente differenti, non è
facile adattarsi in breve tempo. Gli
autoctoni, al contrario, non capiscono cosa ci sia di strano nel marciare
spediti o nel darsi appuntamento
per cena alle 20.10.
Ciò premesso, quello che mi preme
sottolineare in questa sede è la fine
di un matrimonio. Non si tratta di un
matrimonio normale, come i tanti
che vanno in malora oggigiorno, ma
della storica e indissolubile unione
che ha riempito di aspettative, per
secoli, i viaggiatori in direzione Milano: è ufficiale, Milano e la nebbia
si sono lasciati.
La nebbia, che i milanesi d’importazione non riescono a capire, o tollerare, nemmeno dopo trent’anni,
era la moglie fedele di una metropoli
in piena e costante evoluzione. Milano era la nebbia, e la nebbia era
Milano, inutile negarlo. La nebbia
era la moglie affascinante e inquietante che ben si adattava alla natura
per certi aspetti esoterica di Milano.
I milanesi doc, al contrario, la amano, o per lo meno la rispettano. Tra-
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lasciando le lamentele degli automobilisti relative alla scarsa visibilità, argomenti peraltro molto poco
poetici, vedere comparire dal nulla
una sagoma sfuocata che fende la
coltre bianca e ovattata, per poi
scomparire nuovamente e ricomparire da un'altra parte, era qualcosa
di familiare a cui nessuno faceva
mai molto caso.
A pensarci bene, era un bello spettacolo.
Adesso però che la nebbia se n’è
andata di casa, lasciandosi dietro
solamente capricci, si è creato un
vuoto. Non si tratta di una separazione consensuale, dovuta a un
amore finito, bensì di un divorzio coi
fiocchi, di quelli che fanno felici gli
avvocati. La nebbia se n’è andata
portandosi via tutto, o quasi, quello
che Milano possedeva: dialetto, trattorie con tavolacci in legno, il taleggio che si scioglieva da solo, la fiera
degli “Oh bej Oh bej” attorno a
sant’Ambrogio, l’abito buono per
passeggiare in galleria il sabato
pomeriggio.
La nebbia se n’è andata perché Milano l’ha tradita con una ragazza più
giovane. Gli aperitivi scadenti e i
sushi che sorgono come funghi
hanno soppiantato la tradizione culinaria. La cassoela la sanno fare
solo certe nonne, i risotti buoni sono
cosa per pochi, le persone sono un
po’ meno orgogliose di essere milanesi, “farsi da soli” è diventata soltanto un’espressione suggestiva,
figlia delle eroiche imprese dei nostri avi ricostruttori.
Sarebbe facile dare la colpa alla
classe dirigente, come va di moda
fare adesso, ma la realtà è che la
nebbia se n’è andata perché Milano
ha perso la sua natura.
Ma che cos’è Milano? Beh, siamo
tutti noi, nativi e nuovi venuti. Abbiamo inseguito, e purtroppo stiamo
tuttora inseguendo, il mito della modernità europea: modello londinese,
modello olandese, modello austriaco. La realtà è che quando la nebbia era al suo posto, accanto alla
sua metà naturale, c’era il modello
milanese, e tanto bastava. Milano
non è Londra, qua i milanesi ci sono
ancora, e sono tanti, nonostante
qualcuno sia portato a pensare il
contrario. La nostra colpa, quindi la
colpa di Milano, è avere permesso
che la giusta integrazione e la ricerca di una realtà convulsamente internazionale (che di interessante e
fascinoso ha ben poco) abbia permesso alla nebbia di andarsene,
lasciando la città in mutande. Milano
era moderna anche quando c’era la
nebbia.
Milano dovrebbe fare una cosa:
chiedere scusa in ginocchio e pregare la sua compagna di sempre di
tornare a casa. Piuttosto la implori,
compia un gesto d’amore, faccia
una pazzia.
Se però questo non dovesse bastare, se entrambi si accorgessero che
l’amore non è sufficiente, ci riprovino almeno per il bene dei loro figli.
Si può vivere con un solo genitore,
ma farlo con entrambi è comunque
meglio.
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NOI SIAMO MILANO
Giorgiana Campeanu *
Prossima fermata Duomo. Anche
oggi mi affollava la mente il tono
della voce e questa parola mi ha
fatto vibrare come una corda di violino all’arco raggiunto. Ho salito correndo le scale della Metropolitana.
Tutto sembrava essere tranquillo,
non si udiva alcun rumore, anche il
sole mandava i suoi raggi con gentilezza per non bruciarlo. Il panorama
era fantastico e sono rimasta con la
bocca aperta quando l’ho visto. Un
gigante con il fronte al sole guardando Milano. Aspetto con impazienza di fare la fila e cammino prudentemente e discretamente in
questo tempio della fede per non
disturbare i santi che dormono qui
da secoli. “Lui” mi guarda con il suo
occhio magico della fede e mi sussurra: “Abbi fede”. Guardo con stupore i quadri e penso a quella miscela di fede, divinità e genio che
solo Leonardo da Vinci poteva avere. Faccio un giro in ottanta minuti
avvicinandomi curiosa alle colonne
orgogliose che portano sulle loro
spalle questa corona della fede e
ascolto le loro storie di tutti i miracoli
che sono passate qui da secoli. Mi
inchino e parto con il mio cuore triste perchè non lo vedrò mai ma lo
trovo in settembre 2011 quando
vengo a dirgli le notizie. Mi aspettava come sapeva che tornerò. Gli ho
detto che era studentessa e probabilmente ci vedremo ogni giorno. Un
incontro segreto solo da noi saputo
e una confessione fatta a un caro
amico che sa mantenere un segreto
perchè credo che i veri amici si aiu-
tano volontariamente. A questo
momento su il ponte principale come un capitano avventato guardo
tutto il panorama.
I miei pensieri mi portano fino alla
Galleria Vittorio Emanuele II, che
era aperta ma devo risolvere i miei
problemi al Palazzo Marino dove
incontro Luciano Pavarotti che mi
invita a cantare la famosa Aria di
Verdi del Teatro alla Scala. Il quadrangolo della moda mi chiama a
fare shopping, poi faccio un giro per
respirare l’aria fresca nel Parco Forlanini. I giardini pubblici mi aspettano con le loro terrazze ma devo
pensare come posso investire i miei
pochi soldi al Palazzo Mezzanotte
da dove parto per fare una preghiera al Cimitero Monumentale e alla
Rotonda della Besana. Ho ancora
tempo per prendere l’Ultima Cena
con Santa Maria delle Grazie poi
ballo un valzer meraviglioso con
uno dei principi di Savoia al Castello
Sforzesco. Perchè si fa buio ho paura del diavolo della Porta Romana
ma prendo il cavallo di Leonardo da
Vinci che mi porta al Generale Garibaldi, l’aiuto a conseguire una brillante vittoria poi passo presso Porta
Venezia nel mio cammino verso
l’ippodromo di San Siro dove lascio
il cavallo per riposare. Mi sembra
che sento la voce del Duomo che
ripetutamente mi chiamava per dirmi che lui è molto fiero dei suoi parrocchiani. Gloria a te, Santo Dio,
che hai dato a Milano così tesori.
Duomo sembra essere un saggio
che flussi la saggezza e la fede su
tutti i suoi parrocchiani che sollecita
di conoscerli. Credo che Dio ha creato Duomo per definire la città di
Milano. Ho imparato del Duomo che
chi non ti cerca, non ti manca, e che
chi ti dimentica non ti ama, che lui
non può decidere chi entra per visitarlo ma può piantare il seme della
fede nell’animo di ogni pellegrino.
Ho imparato anche che quelli che
danno non chiedono mai compenso
e non aspettano gratitudine e riconoscenza. Lui, l’anima della città,
perchè tutta la vita di Milano gira
intorno a lui, regna su tutti superiore
e altezzoso e tutti questi tesori della
cultura lasciano le loro teste e ascoltano con religiosità la liturgia
pronunciata solo da loro saputa e
aspettano umili la sua benedizione.
A che serve passare dei giorni se
non hai visto mai Duomo? Per me
un giorno senza Duomo è un giorno
sprecato. I miei occhi non si saturano a guardare queste bellezze che
si trasmette l’una all’altra come un
telefono senza filo fino a che riesco
a prendere al volo un sussurro portato da una brezza e mi alzo a sussurrare all’orecchio del gigante che
sta vicino di me: NOI SIAMO MILANO! Come potresti colpire l’anima di
Milano o calpestare la fede quando
è tutto che rimane di noi e dopo noi!
* “Vengo dalla Romania e sono studentessa a Milano dove adesso
faccio un corso di italiano.”
METRÒ
Federico Castagna
“Primaticcio, fermata Primaticcio!”
salgo sul metrò come ogni giorno.
Le porte si richiudono alle spalle dei
passeggeri appena saliti e il treno si
rimette in moto. L’mp3 è scarico e
non ho nulla da leggere. Inutile
prendersela con le persone che
prelevano una copia di tutti i quotidiani gratuiti che la mattina vengono elargiti davanti alle stazioni: indipendentemente dalle mie sommesse imprecazioni l’indomani sarà
lo stesso. Annoiato e sconsolato di
non poter risolvere il mio sudoku
mattutino, vado a sedermi nel primo
posto libero che rinvengo. Dopo
aver scansato la fulminea corsa di
un uomo sulla cinquantina che vo-
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leva a tutti i costi il mio stesso sedile, riesco finalmente a sedermi accontentandomi di un altro spazio
vuoto nel vagone successivo. Inizio
a guardarmi intorno alla ricerca di
qualcosa da fare per ingannare il
tempo e la mia attenzione viene
catturata da una anziana e distinta
coppia. Colpito dall’eleganza e
dall’abbigliamento dei due, mi rendo conto che i loro discorsi non rispecchiano le apparenze: i coniugi
stavano discutendo di un argomento alquanto leggero… il costo del
caffè. La signora stava dibattendo
sul fatto che non fosse accettabile
che anche un bene di ‘primaria’ necessità come il caffè avesse risenti-
to del rincaro dei prezzi in conseguenza della crisi. Il valore della
bevanda era cresciuto dalla modica
cifra di 0,90 euro fino ad arrivare a
costare ben 1 euro. Per la vecchina
la cosa era incomprensibile, mentre
il marito, che pareva meno disposto
a lasciarsi trasportare dalle lamentele della moglie, si limitò a ricordarle che l’IVA era aumentata su ogni
cosa a causa delle ultime riforme e
che fino a prova contraria, il caffè
non era ancora un bene di ‘primaria’ necessità...
“Gambara, fermata Gambara!” il
sedile affianco al mio si libera e un
viaggiatore da poco entrato si impossessa repentinamente del po-
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sto. Rimango affascinato da come
la gente sembri aver bisogno a tutti
i costi di uno spazio in cui sedersi...
sono rare le occasioni in cui mi è
capitato di vedere persone così sinceramente attratte da qualcosa che
spingesse loro quasi a lottare per
possederla e per la prima volta mi
accorgo che quel singolare spettacolo è costantemente sotto ai miei
occhi ogni volta che entro nel metrò... La voce del nuovo arrivato distrae le mie riflessioni e senza che
me ne accorga mi ritrovo a origliare
la sua conversazione telefonica tenuta con un tono di voce abbastanza sostenuto “Ti pare possibile!?
Sono costretto a prendere i mezzi
perché hanno esteso l’area Ecopass e ne hanno addirittura aumentato la tariffa a 5 euro! Bah... guarda... mi chiedo se pensano veramente in questo modo di ridurre il
traffico e le emissioni nocive o se
semplicemente con questa scusa
vogliono monetizzare il più possibile...”
“Wagner, fermata Wagner!” passeggeri che salgono e passeggeri
che scendono. È incredibile come
tramite la metrò si venga in contatto
con così tanti individui diversi, si
condivida con loro un brevissimo
tratto di vita e poi li si veda uscire
dalla carrozza, per poi probabilmente non rivederli mai più... “Mamma,
mamma! – questa volta è un bambino a interrompere i miei pensieri –
dopo la scuola mi porti al parchetto
che ho voglissima di giocare un po’
a calcio? Eh, mamma!? Daiiii!” “Te
lo ho già detto Filippo: la macchina
è dal meccanico e non posso portarti al parco perché è troppo lontano”. Il ragazzino parve rabbuiarsi in
volto per poi esibire improvvisa-
mente un ampio sorriso “Mamma,
mamma! Sai cosa voglio fare da
grande!? Il costruttore di parchetti!
Sì, sì, così ne metto uno davanti a
casa nostra e vicino alle case di
tutti i bambini che possono andare
a giocare tutti i giorni perché i parchetti non saranno più così lontani!
Eh, mamma!? Eh! È una bella idea!?”
“Conciliazione, fermata Conciliazione!” due uomini in giacca e cravatta
si reggono al corrimano al mio fianco e ancora una volta, mi ritrovo a
origliare conversazioni che non dovrebbero riguardarmi, anche se è
indubbio che stia iniziando a prenderci gusto... “Milano è un crogiolo
di cantieri, stanno edificando ovunque e sta diventando difficoltoso
muoversi... pensa che l’altro giorno...” “Lascia stare, non me ne parlare. È per colpa di questa esposizione, l’EXPO, l’anno prestabilito è
il 2015, ma a quanto pare la città è
indietro con i lavori che avevano
prefissato di realizzare e questi sono i risultati...” “Figurati che ho sentito di recente che dietro al concorso di appalti per l’innalzamento delle nuove strutture potesse esserci
addirittura la malavita...”
“Cairoli, fermata Cairoli!” un gruppetto di ragazzi di età oscillante tra i
15 e i 16 anni sale sul mezzo pubblico. “Zio alla fine come è andata
con la tipa dell’altra volta?” “Bene,
bene. Sono tre giorni che balziamo
scuola e che andiamo in giro...
pensavo di continuare fino alla fine
della settimana” “Mi sa che mercoledì c’è un compito in classe...” “Ma
chi se ne frega. Tanto ho già tutti
due in mate uno più uno meno cosa
cambia?” “Sto giro ci bocciano tutti,
ve lo dico io” “E allora? Tanto l’anno
prossimo vado in un altro istituto
che è più facile e così anche se non
faccio niente riesco a passare lo
stesso” “Sì anche io volevo farlo, un
mio amico mi ha detto che non studia niente e ha la media dell’otto”
“Massì, tanto poi io la voglia di studiare non ce l’ho, voglio far finire le
superiori e smetterla con i libri... un
bel 60 anche copiando alla maturità
e via” “Mio padre ha un azienda,
non c’è bisogno di continuare a farsi questi sbatti e andare a scuola,
alla fine vado nella sua ditta e eredito io tutto quanto” “Sìsì, anche
mio padre possiede un’impresa,
farò così anche io...”
“Duomo, fermata Duomo!” due giovani universitarie dal lato opposto
del convoglio analizzano il problema contrario... “Mi piace studiare e
sono anche contenta della facoltà
che ho scelto, però...” “Però il dottorato e la carriera da ricercatore non
è sufficientemente tutelata, lo so
bene. I docenti decrepiti non vogliono mollare la cattedra, si campa
solo a borse di studio certamente
esigue e si riesce a diventare professori ordinari e di ruolo solo grazie a un'intercessione divina o a un
miracolo... ” “A cosa serve studiare
a fondo e impegnarsi per anni se
tanto poi il lavoro non si trova comunque o se si trova si rischia la
fame per le condizioni precarie a
cui si deve sottostare?” “Non farmici
pensare...”
“Palestro, fermata Palestro!” altri
individui che salgono e altri che
scendono... un momento... Palestro! Maledizione dovevo scendere
in Duomo! Così imparo ad ascoltare
i discorsi della gente... era meglio
se avessi eseguito il solito sudoku...
A TUTTI I FANTASMI
Paolo Cerruto
La sveglia alle sei e mezza, come
sempre. La colazione consiste in
fette biscottate, di quelle croccanti
solo il primo giorno che le apri, e
mini marmellate di dubbia consistenza, rubate all’albergo dove lavorava, in nero, prima di perdere il posto per una sbronza mattutina. Si
era abituato a essere un’ombra: non
puoi essere altrimenti, se sei extracomunitario e non hai il permesso di
soggiorno. Sgomberò il tavolo dalle
heineken sessantasei, vuotandone
una ancora mezza piena con un
gorgogliante sorso; quindi cominciò
a mangiare. Salutò di sfuggita la
moglie che usciva per andare al la-
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voro, a casa di una ricca famiglia
residente in centro, per preparare la
colazione a due bambini non suoi e
portare a pisciare un cane non suo.
I loro bambini, Cristopher e Jenny,
si sarebbero svegliato da soli, lei
per andare a scuola, lui per vedere
gli amici della sua gang e sentirsi
grande, con l’illusione di potere che
un coltello sa regalare.
Finì un altro fondo di bottiglia,
s’impomatò i capelli e scese in strada, direzione Ortomercato, per cercare un lavoretto che alleviasse
quella sensazione di inutilità che
attanaglia un disoccupato, padre di
due figli, cresciuti lontano da dove
avrebbe voluto lui.
Sveglia alle sette, come sempre.
La mamma che apre le persiane e
lascia entrare la timida luce di gennaio, che rivela la camera tappezzata di poster: Rambo troneggia su
tutti, Chuck Norris compreso. Se
non fosse per il letto la camera
sembrerebbe una palestra: bilanciere, pesi e cyclette la riempiono per
tre quarti. Aprendo gli occhi vide il
vuoto lasciato laddove aveva appeso le foto di Marika al mare, Marika
a Gardaland, Marika e lui vestiti eleganti per un matrimonio. L’aveva
lasciato, diceva che era troppo vio-
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lento. Lui le aveva tirato uno schiaffo e se n’era andato. Fece colazione
insieme a mamma, con la compagnia del Tg mattina, indispensabile
per cominciare male la giornata.
Prese dall’armadio l’uniforme e
l’odiato cappello da ghisa e li indossò davanti allo specchio, pensando
a quanto meglio avrebbe calzato sui
suoi muscoli l’uniforme dell’esercito.
Provava da sei anni a entrarci, sperando che prima o poi, esausti,
l’avrebbero arruolato. I due precedenti per aggressione non favorivano i suoi militareschi propositi
Scese in strada, direzione commissariato, pronto per un’altra noiosa
giornata da vigile urbano: si sentiva
inutile, senza donna, residente a
trent’anni dai suoi. La verità è che
nella vita non aveva mai fatto niente.
Aveva passato la mattinata a scaricare cassette, insieme a un marocchino svuotò un container carico
di banane. Non scambiarono una
parola, ognuno impegnato a pensare al sole del proprio paese. Immaginò di chiudersi in uno di quei container diretti in Sud America, e salutare quell’odiata città perennemente
sottozero. Intascò i quindici euro
pattuiti per le cinque ore di lavoro,
ne spese dieci per un pollo a la brasa e qualche heineken sessantasei,
che si accinse a bere su una panchina ghiacciata. Quando vide una
volante della Polizia Locale rallentare il cuore gli salì in gola.
I poliziotti scesero per fare una multa a una macchina in divieto di sosta
e ripartirono.
Non lo degnarono di uno sguardo, e
ne gioì: voleva essere un fantasma,
doveva essere nessuno. Dopo anni
di clandestinità ti abitui a scappare,
a essere trasparente, a trasalire alla
vista di una qualsivoglia uniforme.
Bevve mezza bottiglia in un sorso,
per lo spavento: tremava ancora. Lo
avrebbero rispedito in Cile, il che
non era affatto male: non vedeva la
sua terra da dieci anni, il biglietto
costava troppo. Lo terrorizzava
l’idea di dover abbandonare sua
moglie, sua figlia, così bella, e suo
figlio, che aveva bisogno di controllo: lo aveva visto girare con quei
criminali dei Latin King. Ma cosa
può rimproverare un padre disoccupato e prossimo all’alcolismo a un
figlio di sedici anni?
Una mattinata come le altre, trascorsa girando in volante con quel
rincoglionito di Matarrazzo, uno con
n.15 IV – 25 aprile 2012
la faccia, il pizzetto e la codardia del
vigile urbano. Uno che, quella volta
che aveva steso con un destro un
venditore di borse senegalese, aveva messo a verbale l’aggressione,
ligio alla legge e dimentico del cameratismo tra colleghi. Aveva passato due mesi a far attraversare la
strada ai bambini fuori da scuola e
aveva rischiato di perdere il lavoro e
di finire a fare la guardia giurata, o il
buttafuori, altro non poteva fare. Tra
le due ipotesi non sapeva
cos’avrebbe preferito; il buttafuori fa
a botte quando vuole, ma non ha la
pistola. La accarezzò, metallica e
quieta nella cintura bianca di finto
cuoio. Dalla volante osservava Matarrazzo dirigere il traffico al centro
di un incrocio; sembrava coinvolto e
felice, il coglione. Lui odiava farlo.
Odiava gli sguardi dei passanti,
sguardi che ti trapassano come se
fossi un fantasma, sguardi indifferenti, ingrati e incazzati: preferiscono un semaforo, a un vigile urbano.
Si era addormentato sulla panchina. A svegliarlo fu la chiamata di un
suo amico che proponeva una partita a calcio. Nonostante la pancetta
se la cavava ancora bene: soprattutto era piacevole passare del tempo con i suoi connazionali, condividere gioie e angosce. Lo raggiunse
e salì sulla macchina, volutamente
appariscente, con quell’assetto basso, gli alettoni e l’adesivo enorme
sul lunotto posteriore con scritto
Bandido. Sembrava felice, l’amico:
proprio quel giorno aveva trovato un
lavoro, consegnava pizze in motorino: non male di quei tempi, uno dei
migliori lavori a cui poteva ambire
un irregolare come lui. Parlavano di
questo, quando videro i lampeggianti blu dietro di loro.
La radio della volante aveva gracchiato un ordine: recarsi intorno al
Parco Lambro per sedare una rissa.
Giunti sul posto ovviamente non
trovarono nessuno, pertanto si misero a pattugliare la zona.
Finirono dietro a una macchina, palesemente di un sudamericano,
puzzava: accendi la sirena, va’ Matarrazzo, che vediamo chi cazzo è
‘sto Bandido.
Lo stronzo prese ad accelerare. Vai
Matarrazzo, stagli dietro!
Lo stronzo imboccò contromano
una viuzza perimetrale del parco e li
seminò.
Quando arrivarono all’ingresso del
parco, vide la macchina aperta e
due sudamericani che correvano a
perdifiato. Aprì la portiera, estrasse
il ferro e, tendendolo con due mani,
esplose un colpo.
Era bastato uno sguardo fra i due
amici. Accelera Chico, che qua ci
rovinano.
Scese e si mise a correre. Crollò.
Ebbe qualche secondo per realizzare cos’era successo.
L’ultima immagine fu un pic-nic lì al
Parco Lambro in un giorno di sole,
sua moglie e i bambini con cui giocava a calcio.
Poi la luce.
E poi? Non rimane nulla, solo domande.
Quaranta persone al funerale gentilmente offerto dal Comune; una
poesia di Neruda, la sua preferita,
letta dal prete.
E il viaggio, finalmente, in Cile, per
riposare al sole e nutrire la sua terra.
Un uomo solo, che si credeva uno
sceriffo, in carcere, a chiedersi perché.
Nel parco un mazzo di fiori sulla neve, neve grigia che resiste qualche
giorno.
Oggi è uscito il sole e si è sciolta
anche quella.
Rimangono due fantasmi, una storia.
Nda. Il testo è ispirato a una vicenda
avvenuta nel mese di febbraio a Milano,
nel quartiere dove vivo e cerca di immaginare la vita dei due protagonisti, il 14
febbraio l'agente Amigoni, poi accusato
dalle ricostruzioni balistiche di aver esploso il colpo fatale da distanza ravvicinata, non più di 3 metri, e oltretutto senza una motivazione valida essendo il
cileno
disarmato,
sulla
modifica
dell’iniziale ipotesi di reato di “eccesso
colposo di legittima difesa” avrebbero
pesato anche le testimonianze dei tre
colleghi di Amigoni, sentiti in serata in
questura. L’auto d’istituto dei vigili stava
intervenendo dopo la segnalazione di
una rissa in via Orbetello, quando ha
incrociato
la
Seat.
È
iniziato
l’inseguimento, fino all’ingresso del parco Lambro. La vettura della polizia locale
ha tamponato l’auto in fuga e a quel punto le due persone a bordo della Cordoba
sono scappate a piedi. Gli agenti sono
andati loro dietro di corsa. Poi Amigoni
ha estratto la pistola di ordinanza e ha
fatto fuoco, colpendo a morte Marcelo
Valentino Gomez Cortes
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VIAGGIO SUI MEZZI PUBBLICI NELL'ERA DI MR. IPOD
Virginia Dara
Una volta c'erano solo i giornali e a
leggerli sui mezzi pubblici erano in
pochi: qualcuno costretto a fare
molte fermate, magari da capolinea
a capolinea, che approfittava di quel
tempo per leggiucchiare di cose,
accadute da ormai troppo tempo per
essere notizie, che avrebbe commentato a tavola con i suoi. “Sai che
ho letto mentre tornavo a casa?” e
via a seguire con storie colorate da
due voci, quella del giornalista e
quella sua, che nessuno dei commensali teneva a sentire. Oppure
c'erano gli uomini e le donne in carriera, quelli che del giornale fresco
di stampa, del tipico odore d'inchiostro e di quel tipico imbrattare le
mani, non potevano fare a meno, la
mattina, prima di andare a lavoro.
Rigorosamente in piedi, che sedersi
per rialzarsi solo poche fermate più
in là, era uno spreco di tempo, leggevano i titoli e poi, con lavoro di
gatekeeping, solo le notizie più importanti, di cui avrebbero discusso
con i colleghi nella pausa caffè. Ma
quella sui mezzi pubblici era una
lettura distratta: dai rumori del traffico, da quello che ti chiedeva il permesso di sedere nel posto libero
proprio accanto a te, da chi per la
prima volta prendeva quella linea e
voleva informazioni sulle fermate,
dallo scrupolo di controllare, ogni
tanto, quando toccava a te scendere, nonostante fossero anni che facevi sempre quella stessa strada.
È per questo che in pochissimi riuscivano a leggere libri: significava
riuscire a estraniarsi da tutto. C'era
poi il rituale della lettura del giornale
del vicino. Ci voleva abilità per farlo:
ci si doveva sincronizzare, calcolare
lo scarto con cui l'altro avrebbe finito
la sua di lettura e valutare la capacità di leggere, in quello stesso tempo, una notizia che sarebbe andata
persa una volta girata la pagina.
Non che l'altro non se ne accorgesse e non aspettasse a sua volta
prima di sfogliare: era un gioco di
complicità.
Oggi a leggere sui i mezzi sono in
pochissimi. E menomale che esistono ancora i quotidiani distribuiti
gratuitamente: te li trovi tra le mani
alle fermate della metro e non riesci
a non dare un'occhiata almeno ai
titoli, a leggere l'oroscopo, a scegliere cosa vedere la sera in tv. Poi
magari finiscono abbandonati nei
vagoni, diventano improvvisate liste
della spesa o fogli di un album su
cui si libera la creatività dei bambini.
Alla lettura abbiamo sostituito una
quantità di attività diverse.
In principio fu il walkman che, forse,
non era così pratico da portare in
giro ma ti dava la possibilità di sentire la tua musica, piuttosto che quella robaccia commerciale passata
dalle radio. Antenato di una numerosissima progenie di lettori mp3,
ipod e simili, era destinato a diventare un simbolo generazionale, un
po' come negli anni Settanta le autoradio avevano segnato la rottura
tra il mondo dei grandi e quello dei
giovani, tra la musica di Canzonissima e il rock.
C'è un che di democratico nelle abilità di prosumer che il consumo mediato dalla Rete è riuscito a creare:
a ognuno la sua musica e a ogni
musica il suo pubblico. Se il mercato della musica è storicamente winner-take-all, se pochi e sempre gli
stessi sono gli autori che riescono a
vendere e quindi a essere passati
sulle radio, con la conseguente impressione di sentire sempre la stessa musica, Internet, la possibilità di
scaricare qualsiasi brano più o meno legalmente, con tutta la voragine
riguardo alle questione dei diritti che
ciò apre, sono alla base di quella
che già Anderson definisce long tail.
Una coda lunga di titoli di nicchia,
ascoltati da pochissime persone,
magari dislocate in punti estremamente distanti tra loro, che il tradizionale sistema di distribuzione non
avrebbe fatto circolare mai.
Un potente atto di significazione
sembra stare dietro l'apparente frivolezza dell'indossare un paio di
cuffie: lo spazio dell'esperienza fisica che si separa da quello dell'universo culturale e di investimento di
senso. Il qui e ora dell'esperienza
empirica, del tram che mi porta in
Duomo, si annullano nell'essere
proiettato, con e grazie alla musica
che sto ascoltando, in un universo
di senso completamente altro. Marginale l'intervento della tecnologia:
siamo niente più che davanti al potere di qualsiasi prodotto culturale.
Separazione. Ma anche isolamento
da tutto il resto intorno a sé.
Una volta sui mezzi pubblici si
chiacchierava col vicino, anche solo
per lamentarsi del ritardo accumulato a causa di autobus che non passavano mai, per commentare l'ultima trovata della giunta piuttosto che
l'immancabile rigore sbagliato la sera prima. Oggi ci innervosisce togliere le cuffie per ascoltare il turista
che ci chiede informazione. La cuffia che cade dal nostro orecchio segna un ritorno, sia pure momentaneo, alla realtà che ci infastidisce,
forse perché ci fa paura, perché non
siamo più abituati a un mondo che
ci chiede confidenza e partecipazione quando da sempre ci ha abituato
alla sfiducia. Non una presa di distanza snob, quasi dandy, dal mondo ma un tentativo di difesa da parte di individui fragili davanti a una
realtà che li sovrasta: questo starebbe dietro questa pratica, per certi
versi odiosa.
Almeno un'altra pratica, escludendo
le derive metastatiche dell'uso delle
cuffie (consolle di gioco portatili,
tablet et similia) resta a coprire i
tempi morti dei viaggi sui mezzi: la
telefonata. È niente meno che la
logica, capitalista, del tempo-denaro
da non sprecare, di cui approfittare
per fare quanto più cose possibili.
L'amica, il fidanzato, i genitori, il collega, l'amante (cui più tardi di ritorno
a casa non si potranno dedicare che
veloci sms, per altri ben ovvi motivi),
diventano compagni di viaggio nostri e un po' anche di chi ci sta intono, ché è un po' come sotto l'ombrellone: non si riesce mai a fare a
meno di ascoltare i discorsi degli
altri, anche se monchi perché mediati. Vuol dire tutto questo viaggiare sui mezzi a Milano, cambieranno
le forme d'espressione ma essi rimangono comunque un piccolo
spartito, proteiforme e meraviglioso,
di umanità.
LA PARTECIPAZIONE A MILANO: SENTIMENTO VIVO OPPURE LONTANO RICORDO?
Gabriele Di Terlizzi
Tra le caratteristiche principali della
democrazia, analizzata in chiave
moderna, si colloca la partecipazione politica. E Milano ha assunto un
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ruolo guida sotto questo aspetto.
Non è passato nemmeno un anno
dall'elezione di Giuliano Pisapia a
sindaco del capoluogo lombardo.
Quei giorni furono caratterizzati da
un alto livello di partecipazione da
parte dei milanesi. Si respirava davvero l'aria del cambiamento. Non
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tanto per la figura del candidato sindaco del centrosinistra, quanto per
la voglia di tornare a essere decisivi
e di riappropriarsi del ruolo assegnato ai cittadini dal concetto stesso
di democrazia. Un concetto legato a
un governo soggetto al popolo, responsabile tramite il voto della sua
elezione. Quindi un coinvolgimento
attivo.
Nelle strade milanesi era da tempo
che delle elezioni comunali non destassero tanto interesse. Si discuteva sulla necessità di puntare sulle
energie rinnovabili, anche a livello
nazionale. Si riteneva indispensabile la modifica del Prgc, piano regolatore generale comunale, così da
permettere la costruzione di nuove
pista ciclabili. La riduzione sugli accessi delle auto in centro, checché
se ne dica, era già sulla bocca di
tutti. Quantomeno su coloro che avevano intenzione di votare per Pisapia. Questa "onda arancione" avrebbe cambiato il modo di fare politica, avrebbe imposto un nuovo linguaggio istituzionale. Qualcuno si
spinse oltre, affermando che la vittoria di Pisapia a Milano avrebbe
spianato il terreno per un cambiamento politico a livello nazionale. Le
vittorie del centro sinistra a Torino e
a Napoli avrebbero intensificato
questa spinta riformatrice. Sarebbe
stata la fine del sistema "berlusconiano", colpevole di aver caratterizzato il panorama politico italiano
degli ultimi vent'anni. "Il vento è
cambiato" era la frase più ricorrente.
E qualcuno ci aveva creduto.
A un anno di distanza dalle elezioni
comunali di Milano del 2011, quali
conclusioni possiamo trarre? La
partecipazione politica è davvero un
sentimento che si è diffuso nelle vie
del capoluogo lombardo, impossessandosi del cuore e della testa dei
milanesi? Essi sono davvero passati
da uno stato di sconfortante passività a uno di esaltante attività politica?
La risposta non può essere immediata alla luce del poco tempo trascorso dal momento del voto. Sempre per la stessa motivazione, sarebbe poco proficuo avvalersi dell'operato attuale della nuova giunta.
È utile sottolineare come l'informazione sui provvedimenti attuati da
Pisapia sia decisamente scarsa.
Spesso vengono posti i riflettori sulle decisioni che hanno un impatto
economico negativo sulle persone.
Questa potrebbe essere già una risposta alla domanda posta.
L'informazione locale, spinta da interessi opposti a quelli del primo cittadino milanese e appoggiati da
lobby potenti, tende a esaltare quei
temi che possono delegittimarne la
carica. I cittadini, ritenendo questo
tipo d'informazione l'unica possibile,
non accettano le iniziative della
giunta e protestano il loro contenuto. Un momento. Purtroppo è proprio la protesta che manca.
L'anno scorso i militanti della lista
Pisapia sono stati in grado di scossare Milano. Le loro iniziative sono
state, a livello partecipativo, eccezionali. I concerti organizzati sia in
piazza Duomo sia in piazza Duca
d'Aosta ne sono un esempio. Sono
stati dei grandi eventi anche le biciclettate, specie quella partita sempre sotto lo sguardo della Madonnina e conclusasi all'Arco della Pace.
Per gli amanti della statistica è utile
ricordare come l'affluenza alle urne
è stata superiore rispetto alle elezioni precedenti del 2006, nonostante gli standard troppo bassi. Non
vogliamo dimenticare gli incontri, le
conferenze e le manifestazioni civili.
Tutto ciò culmino con la serata in
cui, dopo il verdetto finale, ci fu una
grande festa in tutta la città. Poi il
silenzio. La partecipazione politica
che caratterizzò uno dei momenti
più importanti della storia milanese
(diciotto anni governati dal centro
destra) scomparve nel nulla. Questa
è l'impressione che la maggior parte
degli abitanti di Milano percepiscono.
In certi momenti lo stimolo a partecipare può essere viziato dall'entusiasmo. Su questo non ci sono dubbi. Non si può pretendere una mobilitazione permanente dei cittadini.
Sarebbe da folli. "Ma vai a lavurà"
risponderebbero in molti. Allora come possiamo concedere la possibilità ai milanesi di tornare a sentirsi al
centro del progetto politico del nuovo sindaco e non solo un mezzo
con cui arrivare alla poltrona più
ambita di palazzo Marino? Considerando che ogni individuo potrebbe
avere la sua proposta, come poterle
accogliere tutte?
Un'idea potrebbe essere la seguente: la creazione di uno "sportello del
cittadino" online. Questo mezzo
permetterebbe ai milanesi di promuovere iniziative, discutere temi
che necessitano l'immediato intervento del Comune e, punto fondamentale, criticare l'operato della
giunta. Solo quando la politica ascolterà il cittadino potremmo finalmente dire che il vento è cambiato.
IL SUD AL NORD, PERCORSI TRA LE PERIFERIE DI MILANO
Daniele Ferriero
La urlano capitale morale d'Italia.
Ne danno conto come se bastasse
a se stessa.
Di Lei ricordiamo la moda, le guglie
del Duomo e i Navigli da cartolina.
Più in fondo, nascosti da qualche
parte tra invidia e lacrime, facciamo
scorrere le traiettorie delle monete
lanciate davanti all'hotel Raphael a
Roma, nascondendoci dietro i fiumi
di denaro, politica, anime scadute
davanti a un aperitivo da bere.
Quanto viene dimenticato, ancora e
ancora, è tuttavia il suono morbido
che la collega al suo trascorso contadino; ne porta i segni, se aguzzi lo
sguardo. Ai fianchi della città, là dove cominciano le sue diversità genuine, corrono ancora i campi, i ca-
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nali d'irrogazione che sono un mondo: un altro.
Crescere qui, come succede ai molti
che s'incanalano poi verso la cartolina del Castello Sforzesco, o piuttosto Piazza Affari, significa vivere
uno spazio liminale ed essere a tutti
gli effetti un confine incarnato.
Difatti impari presto il sapore del
campo aperto, dove il grigiore meneghino si scontra con la risaia, viso
a viso. Al calare dell'estate aumentano i camion, tutti spediti e decisi a
far fagotto dei cereali; e poi industria, mercato, consumo. Lì, ai bordi
dei bordi, si stagliano anime comunque diverse: scorgi aironi che
portano il nome della cenere, creaturine smeraldo a gracidare senza
posa; è tutto un concerto di umori e
anime animali, qualcosa che non
siamo abituati a riconoscere tra i
fiumi di metallo e cemento della città.
Eppure quei limiti vivono con noi, ci
si affiancano senza che ce ne accorgiamo. Vale in misura maggiore
per questi dintorni, appunto, quelli
che chiamiamo comunemente periferia senza conoscerne appieno la
portata. A sud della metropoli portano per esempio i nomi di Barona,
Chiesa Rossa, Ronchetto, Lodovico
il Moro, Tre Castelli, Gratosoglio,
Missaglia... Alcuni, durante l'esplosione architettonica degli anni Settanta tra case popolari e cooperative, sono stati definiti quartieridormitorio. Tutti sono guardati e vissuti come luoghi al margine, per cultura e varia umanità.
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Al contrario, nati e cresciuti da queste parti, se foste tornati dopo anni
d'esilio volontario sareste rimasti
stupiti; stupiti dal cambiamento che
non ha portato alcuna diversità reale, sconcertati da una ventata di freschezza obliqua che li ha resi sempre più simili a centri residenziali
indipendenti.
L'autonomia, è questa la matrice
principale delle terre ospitate dalla
periferia; vivono il loro ruolo, e di
quanti le abitano, come una sorta di
realtà federale. L'immaginario ospitato è poi cannibalizzato dalla città
vera e propria e dal suo centro.
Come vettori dall'andamento inquieto, così si muovono quanti sono entrati a far parte della collettività: un
pugno di giovani rapper (Marracash,
ad esempio), qualche militante ideologicamente armato (Cesare Battisti, il più famoso, controverso, già
nel Collettivo Autonomo della Barona), schiere di manodopera pseudo
- criminale griffata dall'ultima moda
e dallo slang metropolitano.
A sfuggire davvero, però, è la centralità nemmeno troppo metaforica
di questo territorio. Forse è soltanto
una proiezione, o il veicolo di preoccupazioni che hanno a che fare con
la mobilità delle automobili e gli
snodi del traffico pendolare a Famagosta. Non è dato averne certezza.
Fatto sta che, in materia paesaggistica, le periferie a sud di Milano vivono un rapporto controverso tra il
verde e l'eco grigia della città. Controverso per chi non le abita, ovviamente. Viene da ridere a pensare la
faccia degli ospiti in attesa del peggiore cliché meneghino: la vorrebbero tutta un susseguirsi di nebbia,
smog, passi accelerati e sguardi
torvi. Poi, in arrivo al Parco Sud,
trovano ancora le cascine, con le
loro aie, i muggiti decisi che si alzano al cielo; e ancora le schiere di
conigli o lepri che siano, mai così
numerosi quanto negli ultimi anni; il
furgone del latte crudo, i gruppi di
acquisto solidale direttamente dal
campo; i pettirossi, qualche raro ra-
pace, i gufi e le immancabili nutrie. Il
Lambro e l'Olona che sovrintendono
il tutto.
In fondo basta salire su di una bicicletta, seguire un itinerario a caso.
Molto probabilmente vi si spalancheranno davanti a occhi e orecchie
spettacoli inattesi, fugaci visioni di
una Milano che non è più se non da
queste parti; costruita sull'abbondanza delle acque, con un ciclo ben
definito a scandire naturalmente la
vita di chi la abita. Non fatevi ingannare.
Là dove il gallo canta ancora con
l'aurora e, d'estate, il gracidio delle
rane rima con il frinire dei grilli, lì
comincia e termina questa periferia
scapestrata. È un confine, un laboratorio di forme e società; centri sociali, nuovi ritrovi giovanili, atelier e
loft sono le coordinate più fresche.
Il resto è nient'altro che un ricordo
nostalgico da portarti dentro quando
ormai non le appartieni più.
PROGETTO STANZE 2012. IL TEATRO “FATTO” IN CASA.
Laura Filios
L’indirizzo può essere via Eustachi
numero 10, terzo piano. O Corso
San Gottardo 26, secondo piano. O
qualsiasi altro indirizzo che rientri
nella città di Milano. Non si sta andando a una cena, né a una festa.
Non si conosce neppure il proprietario della casa nella quale si sta per
entrare. Giunti all’ingresso, un cartello appeso alla porta recita: “Siete
venuti qui per fare del teatro, ma ora
dovete dirci: a che cosa serve?”
(Bertold Brecht, Discorso agli attorioperai danesi sull’arte dell’osservazione).
Stanze 2012 è il progetto nato grazie all’inventiva di Alberica Archinto
e Rossella Tansini, da tempo impiegate nel settore pubbliche relazioni
dell’Accademia dei filodrammatici.
L’idea, abbozzata durante l’estate
2011, è emersa dal desiderio di
convincere un pubblico sempre più
ampio e omogeneo rispetto ai soliti
habitué, ad avvicinarsi al teatro. La
realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione con la compagnia teatrale Alkaest di Milano e
al sostegno della Fondazione Cariplo.
L’atmosfera domestica, i padroni di
casa che danno il benvenuto e che,
come le maschere, accompagnano
gli spettatori in “sala”, la vicinanza
fisica tra chi assiste e chi recita (ma
chi recita? E chi è lì per assistere?),
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possono produrre forse un’iniziale
sensazione di straniamento. Una
volta assiepati, insieme all’esigua
platea, su sedie casalinghe, divani e
sgabelli, i telefoni cellulari rigorosamente spenti, si abbassano le luci e
lo spettacolo ha inizio.
Diffondere il teatro in modo capillare
attraverso il contatto diretto tra attore e spettatore, farlo in un ambiente
inusuale rispetto alle normali sale
teatrali e a un costo davvero accessibile a tutti (5 euro), è in sintesi
l’idea alla base di Stanze 2012. I
proprietari si improvvisano direttori
di teatro, fornendo di volta in volta il
necessario alla realizzazione della
pièce, da un gambo di sedano a un
cubo nero che funga da palcoscenico. Gli spettatori, che decidono di
mettersi in “gioco”, diventano attori
di una serata che sconfina in una
duplice recita. Gli attori, a loro volta,
possono incrociare gli sguardi di coloro che, normalmente, vedono solo
in controluce.
Le realtà teatrali selezionate per
questa prima rassegna sono cinque.
Il pensiero è volato subito a François Kahn e a Federica Fracassi,
maestri del teatro da camera. Per le
altre compagnie, la proposta di recitare a stretto contatto con il pubblico, “ha rappresentato una sfida, colta però con grande entusiasmo”,
racconta Rossella, “specie per Ric-
cardo Caporossi o i Marcido Marcidorjs, abituati ad agire in spazi ampi
e con imponenti scenografie”. “O
per chi, come Lorenzo Loris, si è
sempre mosso con un numero consistente di attori e allestimenti complessi”. È venuto loro naturale riadattare le proprie usuali proposte,
trasformandole in anteprime, studi,
letture, un antipasto di ciò che il
pubblico potrebbe andare ad assistere, se interessato, nei teatri “veri”.
“Le prime case che hanno ospitato
le recite erano di amici o conoscenti
– prosegue Rossella – ma, in diverse occasioni, è capitato che gli ospiti della serata si facessero avanti
per proporre la propria abitazione
come location per lo spettacolo successivo”. E prosegue: “Abbiamo ricevuto anche diverse telefonate a
riguardo, riscontrando un interesse
inaspettato”. “La scelta della casa è
sempre preceduta da un sopralluogo mio e di Alberica, per verificare
la compatibilità tra gli ambienti e le
esigenze, ogni volta diverse, delle
rispettive compagnie”.
Chi decide di intervenire alla serata
basta che alzi la cornetta del telefono per sapere quale sarà la sua destinazione. La prenotazione è condicio sine qua non per venire a conoscenza del fatidico indirizzo. Chi
sarà il padrone di casa, chi gli altri
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ospiti? Un pizzico di mistero che alimenta una sana curiosità di scoperta, è un ulteriore elemento che
può invogliare a partecipare.
Il termine dello spettacolo non sancisce la fine della serata. Le sedie
fanno posto al tavolo, dove viene
servito il buffet. La frugalità del momento conviviale accorcia ulteriormente la distanza dei ruoli attore/spettatore. Il piacere e la sorpresa di imbattersi nei responsabili de-
gli spettacoli, comprenderne le idee,
le intenzioni, instaurare un dialogo,
di solito impossibile, è un primo
passo oltre la soglia dell’artificio e
ma anche verso i teatri “ufficiali”.
... MILANO INNUMEREVOLI VOLTI RACCHIUSI IN UNA CITTÀ
Fabio Galvani
Milano, calda d'estate e fredda d'inverno, è una metropoli che non
dorme mai. Sempre di corsa con
studenti, impiegati, mamme con i
figli, avvocati, netturbini e artisti.
Dalla movida milanese alle gallerie
d'arte, dalle università alle discoteche più disparate e ancora, dalla
ricchezza di via Montenapoleone ai
senza tetto della stazione Centrale,
dal Duomo ai locali a luci rosse imboscati dietro qualche angolo, dai
mille dialetti alle selezionate lingue
parlate nelle fiere.
Tutti volti che seppure appartengono a Milano, data la quantità, non
riescono ancora a fornire un preciso
identikit.
Una megalopoli indefinita e contrastata, che ogni giorno offre numerose offerte di qualsiasi tipo, dal lavoro alla prestazione sessuale dietro
pagamento, dal divertimento più
sfrenato all'acquisto di una dose, da
una borsa di studio a un bel tramonto sui Navigli che irrompe sull’eterno
grigiore meneghino; questa è Milano.
Provare a definirla è impossibile
causa gli svariati volti e luoghi che
la compongono.
È possibile però individuare alcune
figure chiave che popolano questo
agglomerato, quali i travestiti di viale
Zara, il pensiunat al bar, lo spazzino
per la strada di prima mattina, l'immigrato che fa il parcheggiatore abusivo vicino le discoteche, il bagarino davanti gli ingressi di San Siro,
uno studente del Politecnico, il cumenda arrogante che lascia il macchinone in doppia fila mentre si beve indisturbato il suo bel caffettino al
bar, un rockettaro che suona al bordo della strada, una coppia di fidanzati stesi sul prato davanti al Castello Sforzesco, due ragazze che fanno shopping in centro, i turisti giapponesi in visita nella città, i marocchini che vendono accendini in
cambio di braccialetti, le pattuglie
fisse la sera sul Melchiorre Gioia, gli
studi Mediaset a Cologno Monzese,
la Rai in pieno centro, la propaganda e la pubblicità nelle affissioni
lungo le strade, i McDonald sempre
pieni, i kebab con la maggior parte
dei clienti loro connazionali; tutta
questa è Milano.
C'è chi la odia e chi la ama, vivere
nella Milàn non è cosa per tutti, perchè si deve fare i conti con il parcheggio, il traffico, i prezzi dei negozi, ora anche la crisi, il rumore dei
mezzi, il verde ricoperto dal grigio,
l'ecopass dell'area C, le urla di un
pub sottocasa, la fiera che blocca
tutte le strade, l'expo che avanza, le
fabbriche.... una città che può avere
qualsiasi difetto, ma non per questo
non può essere amata.
Milano insomma, è la città del tutto;
è come un grande specchio, a seconda di quello che chiedi, vedi
quello che sei.
Milano prossimo se non già presente polo mondiale sul quale le altre
civiltà baseranno i loro profitti, è città della moda, del rock, dei parrucchieri, dell'arte, della bella vita, dell'Expo nel 2015; città moderna, con
un ritaglio di storia quali l'Arena, il
Duomo, la casa del poeta meneghino Alessandro Manzoni e le ville
sparse nel territorio della provincia.
Non resta molto da dire, nel bene e
nel male, Milan l'è on gran Milan.
VIAGGIO NEL(LE AGENZIE DI) VIAGGIO
Andrea Guerra
Porta aperta. Il sole, quello primaverile, comincia a scaldare anche le
guglie del Duomo di Milano. L'agenzia di viaggi di piazza Cinque Giornate è il simbolo dei tempi che passano, è il simbolo di un mercato che
ha vissuto la sua età dell'oro e che
ora arranca, boccheggia. Tullio, titolare, anche se definirlo così sarebbe
alquanto sminuente e si farebbe torto alla sua preparazione e alla sua
memoria storica, spiega che qui,
fino a una decina di anni fa, c'era la
coda. La coda? Sì, la coda. Milanesi
in coda al banco di un'agenzia di
viaggio. Roba da non crederci; se lo
si raccontasse a un adolescente
della Milano del 2012 ci sarebbe il
rischio di passare per matti. "Eppure
era così", giuria e stragiura Tullio. Il
suo ufficio è un tributo al mondo dei
viaggi e del turismo; in cima alla minuscola scala, affaccia sul centro
della piazza, in quell'edificio in pietra
n.15 IV – 25 aprile 2012
che profuma di storia meneghina. "I
milanesi, soprattutto quelli del centro città, viaggiavano", racconta Tullio, quasi forzando sull'imperfetto
indicativo del verbo "viaggiare". Per
dipingere ancora una volta uno scenario completamente mutato. "Viaggiavano - ripete -. Entravano, chiedevano, erano curiosi, compravano.
C'era chi chiedeva il biglietto del
treno, e chi invece prenotava il viaggio dell'estate con mesi di anticipo. Ora no". Secco, categorico. Ora
no.
Il mondo della distribuzione turistica
sta passando un periodo duro. Un
passaggio forte, ma interlocutorio.
Se gli agenti di viaggio sapranno
giocarsi bene le loro carte, sapranno correre al ritmo del 2012, se sapranno reinventarsi, allora cadranno
ancora in piedi. Altrimenti no. Secco, categorico. Serve di più, oggi.
Non bastano i cataloghi, non basta-
no le foto "attira mosche". Al banco
dell'agenzia di Tullio, qualche cliente straniero che vuole un biglietto
del treno. Questo non è viaggiare,
come lo intende il buon vecchio Tullio. Questo è spostarsi. Viaggiare è
altra cosa.
Alberto, altro storico agente della
city, prova a dire cosa è cambiato
negli ultimi cinque anni. O meglio,
conferma che l'unica cosa certa è
proprio il cambiamento stesso. Profondo. Secco, categorico. "Non si
può dire se il mercato sia cambiato
in meglio o in peggio; di certo è
cambiato in modo profondo - spiega
-. Si è perso molto il valore della posizione delle agenzie: al giorno
d'oggi il traffico di passaggio non è
più determinante per i volumi. Quello che conta è il portafoglio dei
clienti fidelizzati: con loro non si
comunica nemmeno più faccia a
faccia, ma dal computer o dallo
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smartphone. Oggi i preventivi si
fanno così". La trasformazione ha
investito la piazza turistica milanese
come un treno in corsa investe un'auto in panne sui binari. "Sono
rimasti solo i turisti che fanno i viaggi con la "v" maiuscola. La clientela
di biglietteria è andata persa. Così
come il business travel che è di appannaggio delle agenzie specializzate".
A scombussolare i piani degli operatori del mondo del turismo ci ha
pensato internet, da un lato. E poi ci
ha pensato il mercato stesso, dall'altro lato. Milano, la città dei due aeroporti, ha cambiato faccia come un
teenager cambia voce. Vettori nuovi
a Malpensa, le low cost che spingono a Bergamo. I milanesi hanno capito "come gira il fumo"; ma oggi,
quello che conta, è solo risparmiare.
Che si parli di cittadini che ancora
scelgono l'agenzia di viaggio (perché gli altri, la maggior parte, fanno
tutto da soli, a casa, davanti al pc),
o che si parli di aziende che investono sul business travel, oggi conta
solo lasciare il portafoglio il più pieno possibile.
In questo scenario di passaggio, le
agenzie di viaggio sono delle specie
di cattedrali neomoderne in una città
che passa e guarda distratta. Le foto delle spiagge caraibiche che una
volta creavano l'effetto "Mamma mia
guarda qui" dei passanti, oggi sono
come gli affreschi di una chiesa buia
e nascosta. Da internet, dal divano
di casa, si vede tutto. E la cosa che
è veramente al centro di tutto questo racconto è che nessuno ha ancora capito come fare a cambiare
rotta. Forse i "bei tempi che furono"
non torneranno più; ma come dare
una sistemata a questa cameretta
tutta in disordine. Nessuno lo sa.
Nessuno ha il trucco, l'asso nella
manica, la bacchetta magica tra le
mani. Qualcuno dice che per stare a
galla bisogna specializzarsi. In fondo potrebbe pur essere vero. Continuando il viaggio misuriamo questa
proposta. "Puntiamo tutto solo sul
business travel. Abbiamo un paio di
grossi clienti, e poi ci inventiamo
sempre cose nuove", racconta Luciano, agente di lunga data. Lo conferma anche Ombretta: la sua agenzia ha "virato" sull'incoming e ha
scelto di puntare tutto sulle proposte
per i visitatori che arrivano a Milano
da tutto il mondo. Cristina ha deciso
di dire addio ai cataloghi: "Solo
viaggi su misura, solo per viaggiatori veri". E via così. Di esempi "virtuosi" se ne trovano diversi. Di gente che riesce ancora a cavalcare
l'onda ce n'è.
MILANO ETNICA
Roberto Guidoni
L’immigrazione è il cambiamento
storico della città. Se a Milano ci
sono un milione e trecentomila abitanti, gli stranieri sono circa duecentocinquantamila: poco meno di un
quinto degli abitanti di Milano è
straniera. Le fasce d’età prevalente
sono tra i trenta e i cinquanta anni.
È interessante notare come non ci
sia ancora in città un fenomeno di
“seconde generazioni” rilevante: il
grosso dei giovani cittadini stranieri
è ancora immigrato, cioè non nato
in Italia. Dalle statistiche del comune si rileva un calo di cifre tra i dieci
e i venti anni, i bambini stranieri sono in costante aumento. Nei prossimi dieci anni la questione delle
seconde generazioni, centrale in
Europa oggi, sarà centrale anche da
noi. O meglio, lo è già ma non ancora in modo allarmante come in futuro. Le grandi comunità sono grossomodo sette: filippina, egiziana,
cinese, peruviana, equadorena, cingalese e romena. Tutte sopra le
10.000 unità, tutte ben caratterizzate. Ci sono zone caratteristiche:
Maciachini per i nord africani, Paolo
Sarpi per i Cinesi e porta Venezia
per la comunità eritrea ed etiope.
Ma in generale manca una visione
d’insieme e un piano di gestione del
problema.
Già perché al di là delle retoriche
l’immigrazione è un problema. Avere 250.000 individui che vivono in
mezzo a un altro milione che si
comporta in modo più o meno omogeneo e differente dal loro è un problema. Avere 100.000 islamici che
malgrado il loro sacrosanto diritto di
culto non hanno ancora ottenuto un
luogo per praticarlo è un problema.
Parliamo di una comunità per altro
di cui una parte integralista che mal
tollera i diritti civili e la libertà religiosa dell’occidente, altro problema.
Avere qualche migliaio di cinesi irregolari, che non parlano italiano e
che vivono in scantinati a cucire
borsellini è un problema. La mafia
cinese che li organizza e gestisce è
anch’essa un problema. Lo scontro
di bande avvenuto nell’area Isola
prima della speculazione urbanistica
sul bosco verticale tra senegalesi ed
egiziani per il controllo dello spaccio
è un altro problema. La questione
del Triboniano e della popolazione
nomade che si aggira per una città,
perciò stanziale per definizione, è
un ulteriore problema..
Manca una visione d’insieme che
permetta di risolvere l’impasse. Il
problema è nazionale certo. Europeo anzi. I due modelli storicamente
sono il francese, eguaglianza uniformatrice nella cittadinanza e nella
repubblica, e quello inglese, libertà
totale di differenziarsi in base ai
propri costumi e di regolarsi tramite
le tradizioni della propria comunità.
Il primo ministro Cameron ha dichiarato poco dopo la sua elezione il
fallimento del multiculturalismo inglese. L’avanzata della signora Le
Pen e dei frontisti, l’incendiarsi a
giorni alterni delle periferie di mezza
Francia, ha dichiarato nei fatti il fallimento dell’ipocrisia egualitaria
francese. La domanda allora è: è
possibile una via Italiana all’integrazione? Credo di sì. Non sarà allora
Milano a doversene fare carico?
Non è forse possibile una via
all’integrazione in arancio? La parola al sindaco, a Boeri e all’assessore Majorino. Battete un colpo!
LA CITTÀ COME UN SERPENTE CAMBIA LA PELLE
Lorenzo Lanza
La città come un serpente cambia la
pelle. Sembra così ovvio da dire.
Eppure guardiamoci intorno: in venti
anni Milano ha subito cambiamenti
radicali. Mi ricordo ancora quand’ero piccolo il treno della Pirelli a
n.15 IV – 25 aprile 2012
Greco che attraversava viale Arbe.
Ora c’è la Bicocca. A sud di casa
mia ho visto nascere, giorno dopo
giorno prima comparire tra le case e
poi svettare fino al cielo grigio, il Pirellone due e gli altri grattacieli di
Garibaldi. Una linea di metropolitana a breve arriverà a cinquanta metri da casa mia.
Ma di cambiamenti c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ce ne sono di
sociali: oggi nelle scuole i ragazzini
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ostentano quasi inconsapevolmente
i privilegi del benessere. Quando
andavo a scuola io eravamo di sinistra e se facevi quello che fa vedere
che hai soldi era perché eri ciellino.
Ora mi pare sia nella norma fare la
festona col DJ pagato e i camerieri
in livrea.
Un tempo a Milano l’eroina era quasi scomparsa e si vendevano solo
hashish e marijuana. I ragazzi usavano solo quelle e, i più trasgressivi,
qualche pastiglia. Oggi siamo la
borsa europea della cocaina e, secondo me, se andiamo a vedere
almeno un milanese su tre la usa o
comunque l’ha provata.
A Milano le colonne di San Lorenzo
erano per gli alternativi e i Punk.
C’era il Rattazzo e un po’ di bar.
Ora ci arrivano i tamarri da tutta la
regione e i locali sono diventati tutti
uguali con i divanetti in pelle e i cocktail a 10 euro. Oramai c’è lo stile
Milano dell’aperitivo con la pasta coi
gamberi, le lasagne e l’insalata di
granchio (in scatola) tofu e finocchio: una volta a Tel Aviv mi hanno
detto “cool, i love Milan. Wonderfull
nightlife and expecially aperitivo!” e
io ho riso.
In Colonne di San Lorenzo cento
anni fa c’era la Vetra con le puttane
e i pappa: c’era la mala e la scighera del naviglio che passava li vicino.
Era un quartiere popolare come ci
raccontano, in epoche e modi diversi, Delio Tessa e Scerbanenco. Poi
ci sono state le serate del Movimento studentesco e Avanguardia operaia e negli anni ottanta gli eroinomani. Quando ero piccolo piccolo
che andavo a trovare la nonna mi
ricordo che ce n’era ancora qualcuno.
Oggi c’è un cancello verde che
chiude il parco e i residenti si lamentano per il degrado dovuto alle
birre e ai locali che di notte si popolano di strani individui a bordo di
BMW bianche. I residenti però non
si ricordano mai di aver comprato le
case a prezzi astronomici perché è
diventata una zona fashion e non
pensano mai che un popolo è stato
sfrattato dal centro per fare spazio
alle loro domestiche e ai loro cani
con nomi da bambine anoressiche.
Se giri a Milano di notte c’è sempre
traffico sui bastioni e perfino al semaforo in fondo a viale Arbe tra Sesto e Cinisello: l’amore mio viveva a
Monza, per questo lo so. A qualsiasi
ora le macchine sono tantissime e
gli autobus sono vuoti, tranne quando i pendolari vanno al lavoro e i
ragazzi vanno a scuola. Dieci anni
fa dopo le dieci Milano era vuota.
Ho fatto fatica a capire cosa cambiava, se ero io che cambiavo o era
Milano che stava cambiando. Non
posso certo dire di averlo capito né
di saperlo spiegare. So solo che
dopo vent’anni di una Milano uguale
a marzo 2012 è cambiato qualcosa
e la città ha cambiato colore. E si
vede, ci odiamo di meno e pensiamo un po’ più a come migliorarla. La
città è cambiata in vent’anni e dopo
vent’anni ha chiesto alla politica di
cambiare con lei, perché era troppo
cambiata per gente che la voleva
sempre uguale. Resta da capire,
ora, se questi nuovi, saranno
all’altezza delle aspettative di noi
ragazzi.
Se i cambiamenti saranno tutti positivi, se i sogni promessi diverranno
realtà da ricordare, ma questa è una
storia da raccontare la prossima volta…
LA RIVOLUZIONE ORIENTALE: NELLE SCUOLE DI MILANO SI STUDIA IL CINESE
Davide Lessi
«Omero è l’uomo nero». Una piccola scritta a pennarello sul muro, accanto ai banchi dell’ultima fila. La
classe è al pianterreno del liceo
Berchet di Milano. Da più di
cent’anni, in via della Commenda, si
studiano il greco e il latino. Ma alle
paure per un’interrogazione sull’Iliade, presto potrebbero aggiungersene altre. E l’uomo nero tramutarsi
in Confucio. Perché, da gennaio, la
campanella suona anche per le lezioni di Lingua e Cultura cinese. E
non è escluso che l’insegnamento
diventi obbligatorio. Come già avviene in altri istituti milanesi dove il
cinese fa media in pagella, come
l’inglese. Pioniere della sperimentazione è stato il liceo linguistico comunale Manzoni. A seguire il Galvani, il Cremona e l’istituto tecnico
Zoppa. In tutto, solo a Milano, sono
cinque le scuole superiori in cui si
imparano gli ideogrammi, diciotto in
Lombardia. E ogni giorno circa
1.500 studenti si esercitano con la
lingua del Celeste Impero.
Da Tacito a Confucio? «Sì, e senza paura» Mercoledì, tardo pomeriggio. Ginevra, 14 anni e tanti boccoli biondi, è seduta in prima fila.
Potrebbe essere a spasso con le
amiche per le vie del centro ma preferisce la lezione. «Il cinese mi ri-
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lassa. E poi è l’unica lingua che studio, a parte l’inglese», dice dimenticandosi per un attimo delle versioni
in greco e latino. La sua vicina di
banco, Sara, guarda al futuro spensierata: «Mi potrebbe servire per un
colloquio di lavoro». Non sono solo
gli studenti ad approfittare dell’opportunità. I corsi, nati da una collaborazione con l’Istituto Confucio della Statale, sono aperti a tutti.
Manager, casalinghe, operatori del
no profit: in tanti hanno deciso di
partecipare alla “rivoluzione orientale” del Berchet. «Abbiamo avuto
150 domande a fronte di una disponibilità di una quarantina di posti»,
spiega il preside Innocente Pessina.
Più di cento persone, le ultime per
data d’iscrizione, hanno dovuto rimandare il primo approccio con
questa lingua logografica. Una moda? No, secondo la professoressa
Stefania Enea: «Non può essere
qualcosa di passeggero. Lo studio è
impegnativo e richiede uno sforzo di
memoria importante. Chi si avvicina
lo deve fare con le giuste motivazioni». Certo, prima si comincia meglio è. E ci si può anche divertire. In
una classe vicina Zhu Sha, docente
madrelingua, sta insegnando «Fra
Martino» ai suoi giovani allievi. In
cinese, ovviamente.
Una riforma attesa da cinquant’anni La musica orientale
continua a mescolarsi con quella
classica: dall’aula magna si sentono
le note di un pianoforte. «Non è stato facile aprire alla novità», ammette
il preside Pessina. «Qui, tutto quello
che è esterno al curriculum è percepito come uno snaturamento del
percorso formativo. Ma è giusto stare al passo con i tempi». In realtà,
l’apertura è arrivata tardi. Non solo
per il liceo storicamente considerato
della “buona borghesia”, ma per tutti
gli istituti secondari italiani. «Nel
1991, quando ero una studentessa
universitaria, incontravo a Pechino i
liceali europei», dice l’insegnante
Stefania Enea. In Francia, è dagli
anni Settanta che si studiano le lingue orientali nei licei linguistici. In
Gran Bretagna dal 1952. In Italia
solo grazie alla riforma dal 2010. E i
problemi non mancano. «Non esiste
ancora un concorso nazionale per
l’insegnamento del cinese», spiega
Giorgio Galanti dell’Ufficio scolastico della Lombardia. Mancano le
graduatorie da cui pescare gli insegnanti e così la Regione ha fatto da
sé. «Abbiamo costituito una commissione composta da sinologi delle
Università e dell’Istituto Confucio»,
spiega il dirigente. Spetta a questo
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comitato decidere i criteri e i titoli
necessari per insegnare il cinese
nelle scuole superiori.
Non solo i liceali, anche i ragionieri parlano cinese Ilaria D’Adda,
25 anni, si è laureata alla Statale
nemmeno un anno fa. La sua Facoltà, lingue e culture per la comunicazione internazionale, non sembra
risentire della crisi. Specie se, come
lei, si sceglie il cinese. «Ho cominciato per gioco. All’inizio volevo fare
carriera in un’azienda», dice sorridendo. Da settembre è assunta come insegnante al Galvani e allo
Zappa, due scuole non lontane dalla
Chinatown milanese. Tra interrogazioni e dettati il lavoro non manca:
«Questa esperienza è abbastanza
faticosa per il tipo di classe che devo seguire: ci sono solo due italiani
e una peruviana, per il resto i ragazzi sono cinesi di seconda o terza
generazione. E il livello di partenza
è molto diverso». Una classe variegata e rara: l’unico caso, a Milano,
in cui i futuri ragionieri studiano in
cinese. «Abbiamo deciso di fornire a
questi ragazzi degli strumenti aggiuntivi per confrontarsi col mondo»,
racconta il preside Giorgio Bagnobianchi. La risposta degli oltre 20
mila della comunità cinese a Milano
è stata buona. Per loro studiare gli
ideogrammi vuol dire riscoprire le
origini. Da un banco arriva la voce
squillante di Hu, una ragazzina: «È
vero, non ci avevo mai pensato»,
dice rivolta alla lavagna. L’insegnante Ilaria ha appena disegnato il
carattere che rappresenta l’elettricità. « È un fulmine che attraversa
un campo, vedi?».
L’ULTIMA FABBRICA DEL CINEMA
Alvise Losi
A vederla da fuori non sembra una
fabbrica. Due vetrine senza sfarzo
sulla strada e, di fianco, un cancello
con il cartello di divieto di sosta. Un
condominio in mezzo agli altri su
viale Campania. Anche la scritta
grigia Cinemeccanica non si nota
quasi, confusa in alto sui muri sporchi di smog. Fuori non si sentono
rumori assordanti e chi abita qui accanto non si accorge nemmeno che
i ritmi sono quelli dell’industria. Ma
dentro, ogni giorno, suona la campana che scandisce i turni. Alle otto
si attacca, a mezzogiorno pausa
pranzo di un’ora, alle sei del pomeriggio tutti a casa. Per esportare in
tutto il mondo proiettori per il cinema. L’ultima fabbrica di Milano.
«Forse c’è ancora aperto qualcosa
in via Savona», dicono all’ingresso.
Forse. Tra i loft e le esposizioni di
design.
Entrare qui è come fare un tuffo indietro nel passato. Una fabbrica
moderna, con macchinari avanzati,
in una scatola vecchia di decenni.
Niente capannoni, un unico grande
edificio. «Nel 1920, quando fu fondata Cinemeccanica, qui c’era la
campagna», racconta l’amministratore delegato Massimo Riva, che
lavora qui da oltre trenta anni. «La
fabbrica fu costruita su tre piani, con
logiche che rispondevano all’industria di quegli anni e che ormai sono
obsolete. Per noi è molto difficile
lavorare oggi in queste condizioni».
Sull’altro lato della strada c’è il nuovo Museo del Fumetto. Spazi recuperati e riqualificati dal vecchio stabilimento Motta chiuso ormai da
trent’anni. Eppure Cinemeccanica
continua a produrre proiettori.
Quella del cinema è stata un’industria profondamente conservativa
per oltre un secolo. Fino al 2004 la
pellicola scorreva dentro al proietto-
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re che trasmetteva le immagini sullo
schermo. Ora gli strumenti sono diversi. Per gestire quel fascio di luce
che esce dalla cabina del proiezionista, non basta più una sola macchina. Sono necessari computer,
server e tecnologie d’avanguardia.
«È un momento di profonda trasformazione. Non dobbiamo stare
solo al passo coi tempi, dobbiamo
anticiparli», spiega Riva. «Per sopravvivere siamo noi i primi a dover
sapere quello che succederà domani. Finanziamo la ricerca e lo sviluppo in maniera totalmente autonoma,
per il sette per cento del nostro fatturato». E questa evoluzione costa
cara. La messa in opera di un proiettore digitale, tra macchinario,
schermo e audio, comporta rispetto
al passato un investimento dieci volte superiore. Che si può sopportare
solo aumentando gli incassi. «La
crisi ci colpisce in maniera indiretta,
perché sono i nostri clienti a esserne danneggiati per primi», continua
l’ingegner Riva. E con il prodotto,
anche il lavoro è cambiato. Pochi
decenni fa i forgiatori arrivavano alla
mattina, alimentavano la brace, aspettavano che il metallo diventasse
incandescente e poi iniziavano a
battere con i martelli. Il processo di
produzione era completamente manuale. «Cinemeccanica dal 1920 al
2009 ha costruito solo proiettori
meccanici, mentre negli ultimi tre
anni ha prodotto quasi solo quelli
digitali», spiega Riva. «Sono cambiate le competenze, sta cambiando
lo staff. Trent’anni fa solo io e il direttore generale di allora eravamo
laureati in ingegneria. Gli altri lavoratori erano tutti periti. Avevano bisogno di una sensibilità manuale
che ora non serve più. Oggi assumiamo solo giovani con profonde
conoscenze informatiche. Ingegneri
con almeno la laurea breve».
È la storia dell’industria. Dove prima
erano necessarie cinque persone
per far funzionare una sola macchina, è poi bastata una persona per
gestire cinque macchinari automatizzati. E ora il salto è stato ancora
più grande. Chi lavora in Cinemeccanica deve saper programmare il
lavoro di uno strumento che nemmeno si vede, perché troppo piccolo
o lontano. Il prossimo passo sarà
creare un centro operativo in grado
di collegarsi con tutti i proiettori installati nel mondo e poter fare una
diagnosi di eventuali guasti. Monitorare tutto è l’unico modo per supportare i clienti all’estero e migliorare i
prodotti. Riva lo definisce un «taglio
verticale» nella tipologia di lavoro. E
il problema più grande è come riciclare l’attività umana: un problema
«industriale, generazionale, economico». Finora Cinemeccanica è riuscita a pilotare il calo di personale e
a riutilizzare quei lavoratori che non
sono più al passo coi tempi. Molti
sono andati in pensione, ad altri sono stati affidati nuovi incarichi.
Guardandosi intorno, non si vedono
operai con tute sporche che infilano
le mani in grandi macchine, ma giovani che battono le dita su una tastiera. Nel cuore di Milano. «Siamo
una strana realtà. Abbiamo grossi
problemi di tipo logistico, con
l’edificio disposto su tre piani e gli
accessi limitati in mezzo ai condomini. Non abbiamo spazio per far
parcheggiare i tir. Finora abbiamo
convissuto con questi limiti, ma vogliamo spostarci, anche se non
sappiamo ancora quando». Che sia
presto o tardi, pochi residenti si accorgeranno del trasloco. Niente fumo. Nessun rumore. Solo una campanella per scandire i turni.
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QUESTIONI MENEGHINE TRA SACRO E PROFANI
Mattia Lunardi
Una spalla sulla Repubblica di Milano di qualche tempo fa si intitolava
“Viva la lirica popolare, però la città
merita di più”. L’articoletto in questione è in pratica un mix tra una
stroncatura e un quadretto deamicisiano (metà dell’articolo è costituito
da aneddoti di costume sul pubblico
della maldestra Aida presentata alla
Fabbrica del Vapore nei giorni scorsi) la cui tesi di fondo è: si poteva
fare di meglio, ma è sempre meglio
che niente. Se proprio vi preme leggetelo, ma se ne può fare anche a
meno. La notizia interessante è
semmai che, contro tutti i pronostici,
iniziative come queste siano coronate dal successo. L’anno scorso,
d’estate, la stessa compagnia, con
lo stesso successo di pubblico, tra
l’altro, aveva portato una serie di
opere al Castello Sforzesco. Il regista, intervistato dal TGr, spiega che
il suo obiettivo, con mezzi molto limitati, è quello di portare la grande
opera “fra la gente”, operazione certo non innovativa ma come sempre
degna di merito.
Evitando d’emblée l’interessantissima questione sintetizzabile in
“l’opera è viva, l’opera non è viva”,
(la lascio volentieri ai giornalisti di
Repubblica Milano per riempire la
prima pagina dopo la fine dell’altro
annoso dilemma “via Craxi sì, via
Craxi no”) vorrei fare alcune considerazioni sul tema la lirica e Milano.
Che sia viva o non sia viva l’opera
attrae a Milano persone da tutta Italia (se non da tutto il mondo). A Milano abbiamo la Scala che, ancorché un po’ acciaccata, resta una
delle domus auree della lirica nel
mondo. Probabilmente dopo il Cenacolo e le mutande di Dolce e
Gabbana è anche la fonte di interesse turistico più importante per
Milano.
Prima ideuzza: durante le feste di
Natale, sul Piermarini venivano costantemente proiettate delle orribili
animazioni con sottofondo di musichette new age. Art for art’s sake
ma minga trop insomma. Ci vorrebbe tanto perché al posto della trashata estemporanea di turno (che
proiettata in piazza Scala, sulle villette in Val Brembana o a Manhattan fa lo stesso perchè c’entra con
Milano
quanto
Sant’Ambrogio
c’entra con l’Empire State Building)
pagata migliaia di euro dai cittadini
elettori si ragionasse su una valorizzazione coerente di una delle piazze più famose del mondo? Piccolo
spunto: essendo la piazza antistante a un Teatro in cui si produce mu-
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sica per almeno 5 ore al giorno, 300
giorni l’anno, non si potrebbe proiettare sulla facciata, su un maxischermo, su quel che si vuole, lo
spettacolo che in quel momento si
sta svolgendo dentro? Un piccolo
passo per portare l’opera fra la gente ma, forse, un passo un po’ più
grande per un’installazione artistica
decente.
Seconda ideuzza: considerando
che l’invito alla Scala per giovani e
anziani mediamente è un quartetto
di archi che suona tre pezzi in croce
vagamente orecchiabili, sicuramente poco adatto a un pubblico di giovanissimi e comunque poco consono coll’immaginario di “grande teatro dell’opera” che circonda la Scala
quasi con un alone mistico; considerando il successo enorme della “anteprima per i giovani” di Sant’Ambrogio (grande idea, sinceramente
parlando, e grande merito di Lissner
che, non a caso, sta già soppiantando la Prima ufficiale nel mondo
della melomania e della critica);
considerando che il bilancio della
Scala è in buona parte frutto di contributi di enti terzi (fondazioni bancarie, Enti locali, …) e non è dunque
basato esclusivamente sulla vendita
dei biglietti, cosa che vincolerebbe il
teatro a tenere una strettissima politica di prezzi, sarà mica impossibile
unire queste tre cose e trasformare
quel teatro da luogo dove si va per
dire “sono andato alla Scala, ue, un
lusso che non ti dico” in luogo di fusione tra il mondo reale e il fantastico mondo dell’opera? Insomma anche qua, secondo il detto coranico
della montagna e di Maometto, perché invece di “portare l’opera fra la
gente” non si fa semplicemente in
modo che la gente possa permettersi se ne ha voglia di andare alla
Scala? Nel corso della mia carriera
scolastica di studente (ahimè molto
lunga) sono andato alla Scala “a
vedere un’Opera” parecchie volte.
Di queste parecchie volte una sola è
stata per merito e iniziativa della
mia scuola, per il resto tutta farina
del mio sacco. Ora consideriamo la
nostra semenza di giovani: sarà più
probabile essere attratti da famose
arie di opera (che checché se ne
dica sono nella nostra testa sia musicalmente che come parole: “vendetta, tremenda vendetta” è in un
libretto famosissimo, ma viene usato quotidianamente e inconsciamente per esempio), nell’ambiente un
po’ magico della Scala a tarda sera
o da una pomeridiana piena di studentelli e vecchietti per sentire un
quartetto di flauti che suona la Per
Elisa di Beethoven?
Terza ideuzza, molto connessa colla seconda: L’unica volta (spero che
altri abbiano avuto esperienze migliori delle mie e che mi smentiscano) che sono andato con la scuola a
vedere una bellissima, e oramai
classica, versione della Madama
Butterfly, lo spettacolo era stato
preceduto da un minicorso fatto da
un appassionato. Sembra poco, ma
noi studentelli avevamo avuto la
possibilità di apprezzare, diversamente dal solito, lo spessore di
un’opera che troppo spesso viene
bollata come “sentimentale e sciatta”. A ogni modo si apprezzava la
differenza tra un ascoltatore buttato
a casaccio tra le sedioline di velluto
rosso per la prima volta e uno che
invece sapeva cosa andava ad ascoltare. E per un’opera non è cosa
da poco dato che si tratta di spettacoli incomprensibili (e perciò facilmente bollabili come “nenie romantiche”) se non contestualizzati col
gusto e colla cultura del loro periodo. Dunque oltre a promuovere
“l’opera tra la gente”, bisognerebbe
anche promuoverne la cultura, la
comprensione e l’ascolto.
Finiamo le ideuzze con una considerazione semplice: non si tratta
solamente di facili critiche generalizzanti, ma di un invito a considerare con più ampio respiro le risorse di
Milano: non solo per garantirne una
diversa fruizione e vivibilità da parte
della cittadinanza, ma anche per
ridarle il prestigio che merita sinceramente. Basta con questo navigare
a vista per paura di “dire”, di prendere posizioni chiare. Serve un progetto nuovo che guardi non tanto al
racimolare qualche voterello in più
ma a segnare un campo d’idee e
d’azione; a mettere i paletti; a dire
quello che siamo e quello che vogliamo (perché il politico non può
dire come il poeta “non chiederci la
parola”!). Sarebbe veramente una
rivoluzione per la sinistra milanese.
Sarebbe veramente difficile lo so,
ma sarebbe solo così che il centrosinistra passerebbe, per restare in
ambito teatrale, da comparsa e coro
della giunta Moratti ad alternativa
credibile e, perché no, a futuro diverso per Milano. Perché l’obiettivo
è questo: creare un’alternativa che,
a oggi, non c’è e che se c’è non si
sa che fine abbia fatto.
Post Scriptum: la ex metropolitana
soprelevata di New York è stata trasformata in giardino soprelevato,
opera invidiata e chiacchierata in
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tutto il mondo; le stecche ferroviarie
milanesi versano in uno sfacelo penoso e l’unica prospettiva di “riqualificazione” plausibile è costruiamoci
tante belle casette. Sicuramente
questa operazione garantisce un
guadagno immediato al comune e a
chi
gravita
attorno
all’indotto
dell’edilizia. Ma la città nel suo
complesso ci perde o ci guadagna?
E siamo sicuri che sul lungo periodo
poi non sarebbe più lucrosa (per il
turismo, ma anche per i prezzi degli
immobili circostanti, per le offerte
culturali sulla città, per il prestigio
ecc.) una soluzione di “larghe vedu-
te” piuttosto del solito impalazzinamento? Neanche a farlo apposta è
notizia eterna che nel progetto “city
life” mancano i finanziamenti, guarda caso, proprio per il museo di arte
contemporanea. Solita storia di ordinaria follia milanese.
L’INSOSTENIBILE FRENESIA DELL’ESSERE (MILANESE)
Valentina Magri
Sui vagoni dei treni
sui binari della metro
sulla banchina del tram
io scrivo il tuo nome.
Sugli schermi dello smartphone
Sull’sms che sto inviando
Sulla tastiera del netbook
Io scrivo il tuo nome.
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Frenesia.
È quello che avrebbe scritto Paul
Eluard se si fosse chiamato Paolo
Colombo e fosse vissuto nella Milano contemporanea. Il motivo? Lo
spiegò Benjamin Franklin fin dal
Settecento: “Il tempo è denaro”.
Già, il tempo, artefice di una nuova
“mutazione antropologica”, per dirla
con P. P. Pasolini, che investe ogni
persona che viva (a) Milano, anche
solo come pendolare nelle ore di
studio o di lavoro. Che al posto
dell’angelo custode, ha deciso di
convivere con la dea della modernità: Frenesia, nata a Milano a seguito di uno speed date fra Tempo e
Produzione.
Apri gli occhi. Strade trafficate con
macchine in doppia, se non tripla
fila perché tanto: “Devo solo passare in lavanderia, ci metto un secondo”.
Nelle stazioni del treno e della metropolitana, folle di pendolari corrono instancabilmente. A prescindere
dal fatto che ci sia un mezzo ad attenderli o che siano in ritardo. Corse
lungo le scale per raggiungere il mitico binario della metropolitana. Che
non c’è e neppure sta arrivando.
Follia isolata? E allora perché ti stai
precipitando giù per le scale con gli
loro? Dinamiche di gruppo? Sì: dei
milanesi. Al quale ogni milanese di
nascita o d’adozione finisce prima o
poi per conformarsi irrimediabilmente.
L’impulso irrefrenabile di accalcarsi
sui mezzi pubblici: non sia mai di
prendere il successivo (che magari
è meno pieno): il lavoro chiama. E il
milanese risponde. E una volta
“tranquillo” sui mezzi pubblici, eccolo trafficare con il PC portatile, l’I
Pad e lo smartphone: bisogna essere sempre reperibili, sempre pronti a
scattare ancora, a organizzare, a
pianificare, a decidere…
L’horror vacui: artigiano che tesse
trame a base di agende “bloccate” e
persone stressate, stritolate da impegni organizzati con le loro stesse
mani. Del resto, è Milano la capitale
economica dell’Italia. E perdere
tempo è costoso.
È anche una delle “capitali dei
single”: del resto, dopo giornate così
stressanti, chi ha tempo e voglia di
frequentare continuativamente con
qualcuno, impegnandosi magari a
costruire qualcosa insieme?
La stessa frenesia che investe ogni
relazione in generale. Che non
permette di coltivare appieno neanche quelle con gli amici, visti di
sfuggita tra un appuntamento di lavoro e l’altro. L’uomo blasè simmeliano si è ormai trasferito a Milano.
Mantenendo la sua indifferenza verso le persone e le cose, dovuta a un
eccesso di stimoli: un’iperinflazione
che finisce per svalutarli irrimedia-
bilmente, come prescrivono le ferree leggi economiche.
Emozioni ai minimi sindacali. I mendicanti in piazza Duomo sono ormai
divenuti un naturale complemento
del luogo, che non suscitano più
meraviglia dei piccioni, da ex viaggiatori a novelli mangiatori.
Ed è ancora in piazza Duomo che
svetta l’omonimo simbolo di Milano,
muto portavoce della sua frenesia
produttivistica. Quel Duomo mai
completato, mai fermo: se le costruzioni ex novo sono terminate da anni, i lavori di restauro non sono mai
cessati. Tant’è che un lavoro mai
finito è proverbialmente paragonato
alla Cattedrale, a riprova del suo
essere simbolo della città: un cantiere a cielo aperto, dove i milanesi
corrono per costruirsi una vita, ingaggiando una sempiterna lotta
contro il tempo che non basta mai.
Corsa a ostacoli in cui eccellono le
donne, il cui tacchettio delle decolleté riesce a correre più veloce del
ticchettio degli orologi. Secondo
un’indagine condotta dalla “Camera
di Commercio di Milano” nel luglio
2010, la giornata di una donna dura
ventisette ore: a furia di multitasking, le milanesi riescono infatti a
“guadagnarsi” tre ore di lavoro in più
al giorno rispetto ai colleghi maschi,
e le più “brave” addirittura cinque.
Del resto, lo dice anche il saggio
Qohelet che: “Per tutto c'é un momento e un tempo per ogni azione,
sotto il sole.” Esisterà mica un tempo per fermarsi? “Ma va a ciapà i
ratt, chè l’è mej!”
I GIOVANI AMANO…
Francesca Masci
Si legge spesso sui giornali che i
giovani non amano l’arte, non visitano le mostre, non sanno riconoscere e apprezzare un’opera di valore.
Eppure un paio di settimane fa ho
trascorso il sabato mattina in una
scuola di danza in zona Isola, tra-
n.15 IV – 25 aprile 2012
sformata per un fine settimana da
un gruppo di ragazzi intorno ai
vent’anni, Estroverso, in mostra
d’arte contemporanea. Artisti giovanissimi esponevano i loro quadri e
le loro fotografie. L’inaugurazione
della sera prima è stata un grande
successo, raccontano gli organizzatori.
Giornalisti e operatori culturali allarmati dichiarano che i giovani non
amano la musica classica e non
vanno ai concerti, se non a quelli di
Lady Gaga.
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Ma forse non hanno provato a voltarsi, mentre ascoltano un concerto
all’Auditorium di Milano, come in
qualsiasi altra sala e non hanno visto gli occhi lucidi della maschera
che li ha accolti all’entrata e li ha
accompagnati alla loro poltroncina.
Perché ha vent’anni o poco più e
vuole fare il musicista. Oppure studia architettura, ma il pianoforte è
sempre stata la sua passione.
“L’opera rischia di morire, se i giovani non imparano ad amarla”: anche questo dicono i giornali e gli esperti. Ma forse non sono stati alle
anteprime Under30 della Scala,
quando il biglietto costa solo 12 euro e anche se sei nell’ultimo posto
laterale in galleria, ti senti molto fortunato. Perché un mese prima c’era
la coda fuori dalla biglietteria fin da
mezzanotte e il sito si bloccava continuamente per le troppe richieste.
Ai giovani il teatro non piace. Però
le maschere che non sono nelle sale da concerto, sono nei teatri, e
hanno anche loro vent’anni o poco
più. E a Milano, in ogni cantina riscaldata, sboccia una scuola di teatro, in ogni liceo o università nasce
una compagnia. In ogni gruppo di
amici, se proponi di mangiare una
pizza insieme, qualcuno ti risponde
“non posso, vado a teatro”.
Ho trascorso giornate intere e a volte nottate a montare e smontare le
scenografie di uno spettacolo, a
guardare le prove, ho aspettato amici che dovevano finire il turno in
Auditorium, ho letto le recensioni
che un’amica scrive sugli spettacoli
che vanno in scena a Milano per un
sito internet.
Ho conosciuto in ogni scuola, università e festa ragazzi che organizzavano mostre, che promuovevano
spettacoli, che erano in ritardo per
le prove, che volevano vedere la
mostra a Palazzo Reale prima che
finisse, o che, invece del solito caffè, mi portavano a vedere le Gallerie
d’Italia.
E ogni volta che leggo “ai giovani
non piace” sui giornali, mi chiedo
dove stiate guardando. Perché a noi
piace l’arte, piace il teatro, piace il
cinema e piace la musica in ogni
sua forma.
E tra pochi giorni, quando Milano si
tingerà di design, noi saremo al Salone del mobile, nei capannoni e per
le strade del Fuorisalone. Perché a
noi piace anche il design.
E ci piace Milano, perché offre ogni
giorno musica a chi sa ascoltare,
teatro e arte a chi sa guardare e infinite occasioni a chi le sa sfruttare.
Scrivete questo sui giovani e su Milano, perché anche noi siamo Milano.
VIVERE A MILANO PER STUDIARE
Roberta Musazzi
Milano è di tutti. Milano è per tutti.
Milano è una città che accoglie giovani da tutto il mondo ma, soprattutto grazie alle sue università, ospita
ragazzi provenienti da ogni parte
d’Italia. Sono i cosiddetti “studenti
fuori sede” che decidono di lasciare
le proprie famiglie e le proprie regioni per studiare e abitare in questa città, ormai sempre più cosmopolita ed eclettica. Arrivano ogni anno carichi di sogni e progetti, si ambientano, magari con qualche difficoltà iniziale, si adattano e giorno
dopo giorno acquisiscono le abitudini di una metropoli sempre in movimento, di corsa, con i suoi orari e i
suoi appuntamenti quotidiani.
Milano oltre a essere la città della
moda, dell’arte, del lavoro è anche
la città che offre diverse opportunità
di studio e la possibilità di realizzare
un futuro.
Ogni anno sono circa 175.000 i giovani studenti che si iscrivono negli
atenei milanesi. Secondo diversi
dati solo il 20% risiede nel comune
di Milano, il 55% è pendolare e il
25% sono fuori sede.
Si calcolano più di trentanove centri
universitari, considerando le sedi
statali e non.
Il primo ateneo della città e della
regione Lombardia è l’Università
degli Studi, nota semplicemente
come “la Statale”, con le sue 36 sedi dislocate tra Milano e la regione.
Insieme al Politecnico, considerato il
polo scientifico e tecnologico istituito
nel 1863, l’Università degli Studi ha
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definito e completato il progetto del
quartiere Città Studi, dove molti studenti fuori sede trovano alloggi.
Più recente è la Bicocca, l’università
nata nella periferia della città per
decongestionare il polo Città Studi
ormai troppo affollato. Tra gli atenei
privati sono di prestigio la Bocconi,
centro delle scienze economiche e
la Cattolica, ente istituzionale privato di ispirazione religiosa con 14 facoltà sparse sul territorio italiano.
Legate all’arte sono l’Accademia
delle Belle Arti e le numerose scuole private di design e moda.
I giovani studenti che decidono di
trasferirsi a Milano sono spinti da
diverse motivazioni, molti scelgono
facoltà che nella loro regione non si
trovano, corsi di studi specialistici
con professori internazionali e veri
professionisti del mestiere. Milano
offre laboratori, stages, incontri e
conferenze con personaggi di tutto il
mondo, pronti a insegnare o semplicemente trasmettere le proprie esperienze, i propri percorsi.
Gli studenti, appena arrivano nel
capoluogo lombardo, cercano una
sistemazione; il più delle volte si affidano all’università che offre posti
letto o stanze singole in strutture
apposite, come la Casa dello studente. Altri, grazie annunci in bacheche o su internet, stipulano contratti mensili per appartamenti da
condividere con altri coinquilini. I
prezzi degli alloggi a Milano però
sono troppo alti anche per gli stu-
denti, vanno dai 200 ai 700 euro al
mese.
Christian C. da Verona è venuto a
Milano per studiare Scienze umanistiche per la comunicazione alla
Statale e da quando è qui ha cambiato diverse abitazioni. All’inizio si
è arrangiato presso un ostello in
Porta Romana, condividendo la
stanza con altre dodici persone, poi
è passato a una casa a Piazzale
Lodi, per sei mesi ha preferito tornare nella sua città e sostenere gli esami da non frequentante per poi
trovare un appartamento da condividere con un suo amico in zona
Stazione Centrale.
Andrea P. da Messina ha scelto Milano perché conosceva già la città,
studia Lettere e nello stesso tempo
coltiva la passione per la musica,
seguendo i corsi presso la Civica
Scuola.
Entrambi questi ragazzi hanno trovato una città in grado di offrire cultura attraverso i numerosi teatri, cinema, concerti e le varie iniziative
sociali.
Lorenzo B. invece è un pendolare,
ogni giorno prende il treno da Verdellino, la metropolitana e un tram
per seguire le lezioni di architettura.
Sorridendo mi dice: “a Milano ho
scoperto il divertimento, i locali dove
fare l’happy hour e ho conosciuto
persone con mentalità aperta”.
Chiedendo ai giovani qual è il primo
ricordo che hanno di questa città,
rispondono in diversi modi: molti
hanno l’immagine della Stazione
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Centrale, “così monumentale e ricca
di gente diversa”, altri del centro
storico con le guglie del Duomo che
svettano nel cielo grigio. Andrea ricorda il quartiere di Brera, in particolare una serata dove ha suonato
di fronte alla Chiesa di S. Maria del
Carmine. Serena F. da Matera ha
subito apprezzato l’offerta di mezzi
di trasporto che permettono di muoversi con rapidità in tutta la metropoli.
È così che Milano risulta affascinante, in grado di offrire tanto, nonostante i molti difetti, come lo smog, i
pochi spazi verdi, i continui cantieri
a cielo aperto e il traffico.
Ogni anno riesce a “incantare” molti
giovani che, terminati gli studi, decidono di restare in città; altri invece
considerano Milano il trampolino di
lancio per arrivare a ciò che desiderano.
CONOSCERE MILANO DALLA METRO
Lorenzo Pirovano
Ho desiderato fin dall’adolescenza
di partecipare a uno scambio culturale, di visitare o meglio ancora vivere in luoghi diversi dalla “mia” affascinante ma monotona campagna
mantovana.
Spesso ho sognato un lontano paese africano o dell’America Latina in
cui avrei potuto soddisfare questo
mio desiderio.
In realtà il primo scambio culturale
della mia vita è iniziato alla fermata
Lambrate FS della “verde”, come
sbrigativamente è chiamata qui a
Milano. Nei miei primi sei mesi di
soggiorno nella capitale degli Sforza, è stata la linea metropolitana
che mi ha fatto conoscere meglio i
suoi cittadini.
Lambrate è una stazione che definirei un non luogo, uno spazio o piuttosto uno snodo nel quale ogni giorno migliaia di persone si incrociano
senza incontrarsi, senza stabilire
relazioni.
Quando al mattino vi arrivo, al termine della prima scalinata, mi si
presenta solitamente davanti una
donna non più giovane che tende la
mano e pronunciando qualche parola chiede gli spiccioli per poter far
fronte alla fame. Così il primo impatto con la grande metropoli ne rivela
l’innata capacità di mettere in evidenza e amplificare, davanti agli occhi di tutti i passanti, i problemi della
società e in particolare l’emarginazione.
Poi mi infilo nel corridoio che mi porta alle “obliteratrici” della metro. È
una parte del mio “viaggio” dove
non ho tempo da perdere, perché
qualche secondo di ritardo potrebbe
farmi perdere una metro e aspettare
la successiva. Così mi capita di provare fastidio per gli ambulanti, rigorosamente abusivi, che con i loro
lenzuoli stesi sul pavimento, per disporre secondo un ordine quasi
maniacale la loro merce, mi rallentano nella corsa verso la mia meta.
Ogni mattina alla loro vista mi chiedo come questi ambulanti del sottopasso riescano a fare affari vendendo tutti le stesse borse o le
stesse cuffie uno attaccato all’altro.
Sempre di corsa, mostrando il biglietto del treno, passo di fianco alla
cabina dei controllori ATM che se
non mi aprono subito il cancelletto,
mi costringono a battere un colpo
sulla vetrata per sollecitarli. Ci sono
giorni più fortunati nei quali trovo il
cancelletto già aperto. Comunque
vada non mi controllano mai il biglietto. Sarà che arrivo sempre negli
orari “di punta” o forse per via della
mia strategia espressiva, un misto
tra smorfia, sorrisino e saluto, ma
sto convincendomi che i controllori
abbiano l’impressione che io sia
certamente un bravo ragazzo e
quindi in regola con il biglietto.
Dopo i primi ostacoli superati a
tempo di record, ne devo ancora
affrontare altri prima di fermarmi sulla carrozza. Infatti il mio percorso
prevede la rapida discesa delle scale mobili per arrivare alla banchina,
dove la mia pazienza viene messa a
dura prova. È prevista infatti una
corsia per i sorpassi a sinistra, ma
qui trovo regolarmente gente senza
fretta che mi fa perdere secondi
preziosi. Finalmente raggiungo la
zona attigua ai binari dove sono circondato da una massa di persone
che per la maggior parte stanno
leggendo l’ultima edizione di un piccolo quotidiano distribuito gratuitamente (venti pagine di pubblicità e
tre di notizie), in attesa che arrivi il
primo treno, preceduto da un sibilo
di rumori e d’aria forzata che mi sta
diventando familiare.
È il momento di salire. Mi sento in
coscienza un maleducato perché
“prima di salire bisogna far scende-
re”; per i bambini milanesi è una
delle prime regole da imparare, insieme a non mangiare con la bocca
piena e non fare le linguacce.
A distanza di qualche mese, mi sono costruito mentalmente una sorta
di catalogo dei differenti utenti della
metro. Così passo i cinque minuti
tra Lambrate e Loreto catalogando
ogni persona intorno a me.
C’è la signora distinta che legge un
libro o una rivista di moda o per la
casa, il ragazzo che smanetta col
cellulare, ascolta la musica e/o naviga su Facebook. Ci sono quelli
che già alle 8 di mattina fissano lo
sguardo nel vuoto. Nel catalogo dei
rumori ci sono i ragazzi di origine
africana o asiatica che urlano al cellulare nella propria lingua madre, ci
sono anche le persone di mezza età
che non sanno togliere la suoneria
dal cellulare. Poi vedo altre categorie: i ragazzini pieni di gel che si
scambiano effusioni con le proprie
“morosine”, i musicisti più o meno
bravi, gli intrattenitori che sostengono di “essere migliorati dall’ultima
volta”e per finire i turisti che probabilmente si sono persi e stanno cercando la via per tornare indietro.
Nel momento in cui scendo dalla
metro a San Babila, la velocità degli
altri mi contagia: sono loro a dettare
il ritmo della mia corsa verso
l’uscita. Salgo e raggiungo la strada
provando una certa delusione
quando ai miei occhi compare solo
un paesaggio colorato con diverse
tonalità di grigio. Un grigio che viene
interrotto solo dai cappotti fluorescenti dei passanti (e delle vetrine)
di Corso Vittorio Emanuele II. Un
grigio che si colora di allegria quando finalmente incrocio gli sguardi e i
sorrisi dei miei compagni di università all’ingresso in aula.
INVENZIONI E BREVETTI, MILANO CAPITALE DEI MODERNI ARCHIMEDE
Pietro Pruneddu
Italiani popolo di poeti, santi e navigatori. Milanesi popolo di inventori,
si potrebbe aggiungere. Nel 2010 la
Camera di Commercio di Milano ha
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ricevuto più di 16 mila richieste di
depositi, di cui 2.481 brevetti per
invenzioni. Significa che un’innovazione su quattro in Italia è registrata
nel capoluogo lombardo. La creatività è senza freni, anche se non tutto
può essere brevettato. In media
un’idea su cinquanta viene bocciata
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per mancanza di requisiti perché già
esistente o irrealizzabile. Come la
ruota o il riporto per la calvizie che
qualcuno ha provato a brevettare
negli Stati Uniti.
Alla folgorazione di un’idea geniale
segue spesso un iter burocratico
molto lungo. «I tempi per approvare
ogni singolo progetto si attestano
intorno ai tre anni» spiega Maria
Grazia Testa, responsabile dell’ufficio Proprietà Intellettuale alla Camera di Commercio meneghina. Una
delle ragioni del boom di brevetti a
Milano è che in città operano alcuni
dei maggiori studi legali specializzati
nel campo. I quali, come prima cosa, firmano col cliente un patto di
riservatezza bilaterale. Alcuni inventori, che chiedono di rimanere anonimi, rivelano che la parcella per un
brevetto si aggira intorno ai cinquemila euro. Il cliente ottiene copertura
legale, studi approfonditi per capire
se l’invenzione è originale a livello
nazionale ed europeo. Lo studio si
occupa anche di tutta la parte burocratica. «Scrivere la domanda per
registrare un brevetto non è facile»,
ammette un inventore milanese.
«Ho imparato a farlo da solo dopo
diversi anni e molti depositi, ma ora
presentare una domanda di brevetto
mi costa meno di 100 euro».
Il riserbo caratterizza anche gli inventori. Forse perchè il 90% dei
brevetti ha alle spalle un’azienda e
solo il 10% viene da privati. «Per
ragioni commerciali non possiamo
rivelare nulla del progetto» oppure
«Sono un dipendente, se parlo mi
cacciano» sono alcune delle risposte che si ottengono cercando di
indagare meglio sulle loro invenzio-
ni. Eppure il 60% dei brevetti ha dato vita a una nuova attività commerciale negli anni scorsi, segno che
l’iniziale riservatezza dà i suoi frutti.
«Si evita la contraffazione – spiega
Giorgio Rapari, consigliere della
Camera di Commercio – che per le
industrie milanesi rappresenta un
danno da 4 miliardi di euro all’anno». Il giorno dopo che Berlusconi
utilizzò il termine “bunga bunga” furono depositati 4 diversi marchi con
questa espressione e a oggi sono
saliti a 23. La scintilla di creatività,
insomma, può colpire più persone in
una volta sola. Ecco perché la signora Cristina Chillemi è così spaventata alla sola idea di parlare della sua invenzione. «Ho creato una
ceretta completamente indolore»
dice con orgoglio. Sa di avere tra le
mani una pepita d’oro e non vuole
rivelare dettagli. In fondo è qualcosa
che potrebbe cambiarle il conto in
banca. «Il metodo è stato testato su
alcune clienti, rimaste esterrefatte
per non aver sentito nemmeno un
pizzico. Ciò che ho inventato è rivoluzionario».
Sono due i settori in cui gli inventori
milanesi sono all’avanguardia. La
moda innanzitutto. Dal 1980 sono
state brevettate 1.750 idee in questo campo. La Lombardia risulta la
quarta regione europea per numero
di brevetti modaioli, ma è al primo
posto per quelli riguardanti gioielli e
cappelli. L’altro settore in cui Milano
gode di ottima salute è quello delle
energie, meglio se pulite. Brevetti
che spaziano dallo sfruttamento del
moto ondoso del mare all’uso alternativo di oli e liquami. Dal riciclaggio
dei rifiuti urbani fino alle automobili
di nuova generazione. Risparmio e
basso impatto ambientale sono i
punti in comune di queste innovazioni.
Il dottor Mauro Zaninelli, ricercatore
dell’Università San Raffaele e inventore a sua volta nel campo
dell’ingegneria agraria, spiega il
perché della concentrazione di tante
domande “ecologiche” nel capoluogo lombardo: «Milano ha alcune
delle migliori università italiane.
Questi istituti formano talenti, soprattutto nei settori della creatività e
delle tecnologie. E loro si avvicinano
ai brevetti per avere pubblicazioni e
quindi curriculum. Negli ultimi dieci
anni il peso di un’università si basa
molto sul numero di brevetti arrivati
dai propri ricercatori».
C’è anche chi arriva al brevetto da
una strada opposta. Lorenzo Spagnoli è il proprietario di Biotech Italia, azienda che produce prodotti
innovativi per il benessere animale.
Le sue invenzioni sono frutto
dell’esperienza. Anni di lavoro sul
campo a volte danno l’ispirazione
per qualche nuova idea. «Ho quattro brevetti alle spalle e credo di poter dire che la globalizzazione è
un’alleata degli inventori, non un
rischio. Serve sperimentazione, finanziamenti per produrre l’idea e
strategie di marketing per venderla.
Troppe cose per una persona sola».
La diffusione del brevetto su scala
internazionale è la soluzione. «Abituiamoci al concetto. Un’idea creata
a Milano può trovare il suo naturale
sviluppo in Cina e il suo mercato
migliore in Sudamerica». Creatività
e invenzioni non avranno più confini.
SAVIANO ‘MILANESE’: LA DURA LOTTA DI MILANO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
Sara Santi
Forse, fino a qualche anno fa, parlare di mafia a Milano avrebbe fatto
"scappare a un sorriso o a una risatina" ma oggi non è più così; infatti
la criminalità organizzata si è evoluta e negli ultimi anni ha puntato forte
sul Nord e sulla nostra città, in
quanto capitale economica, capitale
anche dei traffici.
La realtà milanese ha però fortemente negli ultimi anni cercato di
combattere l'incremento della mafia
al nord.
A supporto di questo il Comune di
Milano il 19 gennaio scorso, ha voluto premiare Roberto Saviano, facendolo diventare un cittadino onorario di Milano. L’onorificenza è stata consegnata all’autore di ‘Gomorra’, per riconoscergli l'impegno contro le mafie, un cancro che si è svi-
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luppato in maniera capillare anche
al Nord, a Milano in particolare.
Il gesto da parte della città, che è
avvenuto nel corso di un Consiglio
Comunale al quale non hanno però
presieduto gli esponenti del Pdl e
della Lega, testimonia come le istituzioni politiche milanesi siano in
prima linea nel combattere la criminalità organizzata nel capoluogo
lombardo e che questa battaglia potrà portare a risultati anche nazionali
come dichiarato dallo stesso Saviano: ‘Qui può partire la resistenza
alla mafia più che al Sud. Qui non ci
sono faide, l’omertà si declina in
modo diverso, il riciclaggio ha modalità vincenti con strutture di investimento’.
Una mafia più nascosta quindi, più
addentrata nelle dinamiche sociali,
economiche, finanziarie e politiche
cittadine: non a caso la Lombardia,
essendo la regione più ricca del Bel
Paese è quella in cui le mafie trovano più guadagni e dove possono
fare più investimenti anche perché
Milano, sotto questo punto di vista è
diventata ‘la più grande città del
Mezzogiorno’, come ha dichiarato lo
stesso autore.
La città negli ha negli ultimi tempi
aderito e promosso molteplici iniziative contro le mafie e ha sempre accolto con favore tutte le iniziative
che viaggiavano verso questa direzione: dalla manifestazione del 20
marzo 2010 (giornata della memoria
e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia) in cui per la prima
volta dal palco di piazza Duomo sono stati letti i cinque nomi delle persone uccise in seguito all’attentato
di Cosa Nostra di via Palestro nel
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1993, al patto del 19 ottobre 2011
firmato da 26 comuni della provincia
di Milano e di Monza-Brianza, volto
a rafforzare l’impegno nella lotta alla
criminalità organizzata che opera
nei rispettivi territori.
Un problema così profondo e radicato come la mafia va indubbiamente trattato e combattuto specialmente in una città come Milano, da
sempre esempio di efficienza, produttività e sicurezza per tutto il paese. Combatterlo può significare anche semplicemente farlo con le parole come ha fatto e continua a fare
Saviano, che indica con un segno di
civiltà che Milano deve parlare di
mafia prendendo a cuore questo
problema in un'ottica di cittadinanza
universale.
E questa cittadinanza milanese data
a Saviano è un forte messaggio a
tutti i cittadini milanesi che grazie
anche a queste manifestazioni si
possano rendere conto della gravità
di questa situazione e in particolar
modo i giovani per comprendere i
meccanismi e iniziare ad avere fame di informazione e di legalità.
Lo scorso gennaio, oltre a ‘incoronare’ Saviano, dopo molte vicissitudini è stato finalmente trovato anche
l’accordo per il Comitato Antimafia
milanese, e questo, così come tutte
le altre iniziative che soffiano verso
la stessa direzione di giustizia e di
legalità, non punta a essere solo un
messaggio a cui poi non seguano
fatti concreti che possano far sperimentare come davvero "il vento sia
cambiato" (come recitava lo slogan
di Pisapia in campagna elettorale)
Milano e i milanesi devono dimostrarlo. BENVENUTO ROBERTO,
CITTADINO DEL MONDO, CITTADINO DI MILANO!
VIAGGIO NELLE PERIFERIE MILANESI: TRA APPARTAMENTI VUOTI, SPACCIO E AMIANTO
Alessandro Sarcinelli
M.V. ha 56 anni, vive grazie a un
respiratore per l’ossigeno e dorme
in macchina da un mese. Secondo il
Comune di Milano non ha un reddito
sufficientemente basso per avere
diritto a un alloggio in un quartiere
popolare. In città gli appartamenti
delle case popolari Aler sono 5.000.
Riconoscerli non è difficile: una lastra di acciaio nero alta due metri
fissata davanti alla porta impedisce
l’entrata. Da Quarto Oggiaro a Gratosoglio passando per Calvairate, gli
appartamenti lastrati sono in continuo aumento. La criminalità organizzata però non si fa intimorire da
una lastra di acciaio e negli anni ha
saputo creare un racket sugli appartamenti inutilizzati. I clan palermitani
e napoletani hanno molti informatori
all’interno dei condomini; quando
scoprono un alloggio vuoto, prima
che l’Aler lastri l’appartamento, forzano la porta e cambiano la serratura. Ci sono persone che pagano ai
clan 3.000 euro solo per occupare
abusivamente gli appartamenti. In
alternativa gli alloggi vengono utilizzati dalle famiglie malavitose: tra
queste mura si spaccia, si obbligano
giovane ragazze a prostituirsi e si
smontano pezzi di motorini e macchine rubate per rivenderli. A febbraio la polizia locale, nel quartiere
Niguarda - Cà Granda, ha sgomberato otto appartamenti controllati
dalla malavita. Tuttavia il problema
rimane, così come l’omertà: sono
pochi gli abitanti che trovano il coraggio di denunciare. Molti altri problemi si sovrappongono alla criminalità organizzata nelle periferie milanesi. Nelle cantine fino a trenta
anni fa si faceva il vino e ci lavoravano piccoli artigiani; ora macerie,
vecchie biciclette, tavoli e materassi
rotti accumulatisi nei decenni hanno
n.15 IV – 25 aprile 2012
ridotto a discariche questi spazi comuni. La situazione è peggiorata col
tempo, fino a quando, nell’ottobre
del 2008, in via degli Etruschi il comitato inquilini cominciò a sospettare la presenza di amianto nelle tubazioni del riscaldamento e lo segnalò all’Aler. Passarono 102 giorni
prima che l’Aler controllasse
l’effettivo stato delle tubature e confermasse i sospetti degli abitanti:
tutti i 23 civici del quartiere avevano
le tubazioni delle cantine ricoperte
da fibre di amianto. L’Aler si limitò
ad attaccare sulle tubature del quartiere un adesivo con scritto “ATTENZIONE CONTIENE AMIANTO”.
Dopo tre anni, anche se piuttosto
impolverati, gli adesivi sono ancora
attaccati. I dirigenti Aler non si sono
fatti più vedere. Nei solai, invece, la
gente non entra più da anni perché
macerie e rifiuti ne ostruiscono il
passaggio e sono stati colonizzati
da una sovrappopolazione di piccioni per cui sono stati segnalati casi di pericolose punture di zecche di
piccioni. Oltre agli spazi comuni,
anche gli appartamenti non si possono definire confortevoli: le misure
variano da 20 a 45 metri quadri, le
cucine sono minuscole (80x160cm)
e molti hanno i servizi nella camera
da letto. Spesso il riscaldamento
non funziona per cui lo scorso inverno tutto il quartiere Salomone ha
vissuto a 9 gradi per più due settimane. Chi può si arrangia con le
stufette elettriche, gli altri lasciano il
portellone del forno acceso aperto.
Le condizioni materiali dei quartieri
non favoriscono una vita dignitosa.
Le statistiche descrivono una popolazione che ha parecchie difficoltà a
inserirsi negli ingranaggi della città:
il tasso di analfabetismo è triplo rispetto alla media milanese, mentre
quello di disoccupazione si attesta
al 10% contro il 4,4% cittadino. Ma
se vivere nelle periferie è complicato, crescervi è massacrante. Tutti i
giorni, al carcere giovanile Beccaria
arrivano otto - nove adolescenti da
Quarto Oggiaro. Sono i ragazzi che
seduti sui booster fanno da pali agli
spacciatori e che rubano per mantenere le famiglie. Anche in questo
contesto tutti sanno, compresa la
polizia, ma nulla cambia. “A Quarto i
giovani sono massacrati dal nulla.
Milano sogna i miliardi dell’Expo e
intanto lascia che suoi ragazzi finiscano in galera per comprare la pasta e il pane alle loro famiglie”,
commenta Don Gino Rigoldi; al
momento ospita in casa sua cinque
ragazzi di Quarto Oggiaro. Insieme
alle famiglie in difficoltà e agli anziani, anche malati psichici sono
confinati nelle periferie-ghetto milanesi. Si tratta spesso di persone sole, disoccupate, con problemi di alcool e di droga. Il loro stato di abbandono totale determina comportamenti aggressivi nei confronti di
se stessi e dei vicini di casa. Giuliano B. abitava nel quartiere Calvairate, si metteva a urlare in piena notte, i vicini lo temevano. Il pavimento
della sua casa era interamente ricoperto dai rifiuti, tanto che dalla sua
porta uscivano scarafaggi che entravano nelle case altrui. Nel settembre 2006 l’hanno trovato morto
da una settimana steso in mezzo ai
rifiuti. Oggi molte persone continuano a vivere in condizioni simili.
“Sono trenta anni che chiediamo
cambiamenti” afferma Franca Caffa,
Presidente del comitato inquilini Molise. Ma per ora nulla sembra cambiare.
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"MILANO E I SUOI NAVIGLI"
Luciano Siffredi
Ho una domanda che oramai credo
non si faccia più nessuno per forza
d’abitudine. Ma la darsena quando
la risistemano? Il fallimento del project financing è stato drammatico,
ma i danni chi li paga? Tutti che
rompono i coglioni con Milano capitale della moda e poi ci ritroviamo
nella zona principe per la movida
una specie di palude con tanto di
pescatori e capannucce di rom. E
della serie le “facce come il culo”,
hanno anche il coraggio di mettere
un cartellone gigantesco in mezzo
con le foto d’epoca. Mettete una foto di com’era cinque anni fa prima
che la distruggeste! A ogni modo
questo è solo un piccolo sfogo. Il
problema che questa volta mi preme affrontare è la questione navigli.
I navigli furono chiusi nei primi del
novecento per varie ragioni, sia di
urbanistica modernista, sia perché
erano talmente pieni di topi e schifezze varie da costituire una specie
di fogna a cielo aperto. Non voglio
lanciarmi in considerazioni arcadiche e/o nostalgiche ma fare qualche
piccola considerazione pratica.
La riapertura dei navigli è resa difficile dal fatto che siano stati completamente riempiti di cemento e non
semplicemente “ricoperti”. Il che ne
rende la riapertura fine a se stessa
una grandissima follia. Tuttavia le
necessità di una città cambiano e,
se affrontate con coraggio, possono
tramutarsi nella molla per una vera
rivoluzione. Il concetto è quello usato la volta scorsa per la Scala.
Cambiare prospettiva si può, è diffi-
cile ma si deve fare. Vent’anni dopo
Pillitteri, dopo le scellerate marce
indietro di quel contadino prestato
alla politica che fu Formentini, dopo
la geniale trovata da impiegati della
politica che è l’ecopass e la criminogena legge regionale sul divieto
di circolazione dei diesel vecchi
(con varie eccezioni tra cui: macchina con più di tre persone a bordo,
macchina di prete e auto blu), si ricomincia a parlare finalmente di
chiusura del centro. Allo stesso
tempo è, per poco purtroppo, nata
la questione dei raggi verdi e delle
piste ciclabili: della serie, okay il
bike sharing, ma senza piste ciclabili è inutile e anzi solo pericoloso (per
i ciclisti soprattutto). Si cominciano a
progettare nuove metropolitane e,
se non fosse per l’idea da dementi
del tunnel sotto Milano, ci sarebbe
da stare allegri. Su tutto questo aleggia l’ombra poco rassicurante
delle tangenti per il PGT e della
spartizione equa degli appalti cittadini tra le solite tre aziende. Detto
questo viene da pensare: ma se si
mettessero tutte insieme queste
questioni e si pensasse che a Milano serve un progetto urbanistico
coerente, che siamo nella possibilità
di reinventarci una città e che trasformarla da provincia della provincia a città europea di livello è difficile ma fattibile?
Cosa c’entrano i navigli? Lo dico per
provocazione ma mica tanto.
Nell’ottica di una chiusura alle auto
del centro cittadino, dell’obbligo di
nuovi scavi per la metropolitana,
della chiusura al traffico di alcune
arterie per trasformarle in giardini e
piste ciclabili, insomma nell’ottica di
una rivoluzione urbanistica della città perché non riaprire alcune tratte
di naviglio, senza fermarsi alla semplice pedonalizzazione degli stessi?
Progetto costoso e un po’ folle si
dirà. Ma in termini di turismo, di immagine della città, di rivalutazione di
certe
aree,
di
abbattimento
dell’inquinamento? I navigli potrebbero essere un mezzo alternativo di
trasporto e non solo. Si parla da
sempre negli ultimi tempi di via Padova e del suo dramma perpetuo.
Ma se si usasse il naviglio della
Martesana per trasformarlo da fogna a cielo aperto in centro di divertimento come i suoi fratelli maggiori
nel sud di Milano? Non sarebbe un
utile e meraviglioso strumento di
rivalutazione di una zona altrimenti
destinata al degrado più totale senza alcuno sbocco per la riqualificazione?
Tutto ciò è difficile. Ma possiamo
andare avanti a inventare piste ciclabili finte tanto per dire che le abbiamo? Se non ci credete fatevi
Melchiorre Gioia in bici o via Padova: nel primo caso si va nel controviale, nel secondo sul marciapiede
in mezzo ai pedoni. Possiamo andare avanti a far sì che l’unica progettualità urbanistica della città sia “tu
mi porti la strada e l’allacciamento
ed io ti riempio la zona di casettine
e le tasche di mazzette”? Dovrà ridursi sempre a questa follia il modello urbanistico milanese?
MILANO È LA MODA, LA MODA È GAY, MILANO È GAY.
Anna Umuemu
Milano è la capitale della moda e
migliaia di aspiranti stylist, visual,
coiffeur, make-up artist, provenienti
da tutta Italia si trasferiscono nella
nostra città, con la speranza di vedere i propri sogni avverarsi, allontanandosi dal pregiudizio che attanaglia la provincia italiana. Vanno
via di casa perchè sono gay e nei
loro paesini non è concepibile. La
cultura gay è parte integrante del
tessuto cittadino e non si limita, come è più facile pensare, ai fenomeni
di costume, serate a tema con gogo dancers fisicatissimi e ultra depilati, o alla promiscuità di certe saune e palestre segnalate sulle guide;
il fenomeno è ben più profondo.
Il mondo gay fa parte delle anime di
Milano: a differenza di altre città italiane c’è maggior apertura mentale,
nonostante le prese in giro dai comn.15 IV – 25 aprile 2012
pagni di scuola, la scarsa flessibilità
delle autorità fino ad arrivare agli
eccessi (fortunatamente contenuti)
dei neo-nazisti. La nostra città si è
sempre distinta, in maniera sobria e
concreta per l’attenzione dedicata al
mondo omosessuale.
In viale Regina Giovanna c’è La
Babele, storica libreria che rivende
opere riguardanti la cultura gay, lesbica, bisex e transessuale (GLBT).
Il progetto nacque negli anni Settanta, quando si diffuse il fenomeno
delle librerie di comunità: donne,
operai, alternativi.
La Babele, fu fondata dalla rivista
gay Babilonia, per rispondere alla
difficoltà di trovare, nelle librerie generaliste, libri che trattassero argomenti GLBT, soprattutto perché ai
tempi non era possibile accedere a
Internet.
Il progetto della Libreria si concretizzò nell' ‘87, con sede in via Sammartini, dietro la stazione Centrale;
un laboratorio di idee e pensieri che
offriva saggi, romanzi, volumi fotografici, si parlava di libri ma anche di
se stessi, insomma, un luogo che
“aiutò moltissime persone ad avere
un approccio non traumatico con il
proprio coming out” (cit. Giovanni
Dall’Orto ex direttore di Pride). La
Babele cambiò diversi proprietari e
location, ma nel settembre 2008
chiuse, la notizia passò silenziosa,
quasi nell’indifferenza della comunità GLBT, ma forse, “paradossalmente ... era morta di troppo successo” (cit. Paolo Ferigo, presidente
del Cig Arcigay di Milano), gli omosessuali erano usciti dal ghetto, le
tematiche sdoganate e facilmente
rintracciabili nelle librerie generali20
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ste, “ma le librerie specializzate esistono per qualunque cosa, è giusto
che ce ne sia anche una gay”.
Nel giugno 2009, mese dell’orgoglio
gay proclamato da Barack Obama,
La Babele riapre i battenti.
IL SUONATORE CHE AUGURAVA “BUONA FORTUNA”.
Sara Veronesi
Ho sempre pensato che i mezzi di
trasporto siano un ottimo punto
d’osservazione per indagare il genere umano. Se solo questi potessero
avere occhi e voce, rivelerebbero
tutti i nostri segreti più profondi, saprebbero meglio del più esperto sociologo, esporre i vari tipi di persona
che viaggiano ogni giorno, stilando
così una lista infinita di categorie
umane, nelle quali potremmo più o
meno ritrovarci.
Mi è capitato di ritrovarmi a far parte
di quella categoria di persone che
potremmo definire “gli indecisi”. Gli
indecisi sono coloro che si mostrano
passeggeri navigati, ma che con un
piccolo gesto si tradiscono e rivelano la loro disarmante insicurezza.
Alla fermata, all’arrivo del tram si
sale decisi a bordo, ma al minimo
sbandamento l’equilibrio se ne va, e
barcollando ci si aggrappa al più
vicino palo, controllando con lo
sguardo chi, seduto, è pronto a
schernirti con un sorriso beffardo.
Grazie mille, passeggero, sei seduto, è ovvio che non traballi. Gli Indecisi si manifestano in un altro tipo di
situazione, vale a dire quella in cui
salgono sul loro tram gli artisti di
strada. Suonatori, cantanti, musicisti
che vincono ogni vergogna per
chiedere qualche euro facendo
quello che sanno fare. C’è chi ha
del vero talento tra loro, chi suona
sempre la stessa melodia o canzone, ma tutti salendo augurano buona giornata. Credo che questo sia il
loro aspetto migliore, certo lo faranno di sicuro per questioni di “vendersi meglio”, ma che il loro sia o
meno un augurio sincero è di certo
qualcosa di estremamente sottovalutato. Persone che, come loro, sono disposte a cancellare ogni dignità umana per chiedere elemosina
meriterebbero un’indagine più approfondita. Un’indagine che avrei
sempre voluto fare, ma che, da Indecisa quale sono, non ho mai fatto.
Mi ritrovo a chiedermi che stati
d’animo possono attraversarli nel
momento in cui decidono di farlo,
che antipatia possono provare per
tutti noi passeggeri che fingiamo
indifferenza, che cosa possono
pensare di me mentre mi passano a
fianco e fingo di non vederli.
Tra di loro c’è un signore che suona
la fisarmonica, diverso da tutti gli
altri, lui non augura buona giornata
ma BUONA FORTUNA. Lui crede
nella fortuna, e ce la augura ogni
giorno, cioè ci augura ogni giorno
che la nostra giornata vada come
noi vogliamo, al meglio. Se ci pensiamo un po’ meglio non è di certo
un augurio come tutti gli altri. Chissà
dove sta di casa la fortuna nella sua
vita. Di fronte a lui ci sono sempre
due tipi di atteggiamenti: c’è chi da
qualche moneta, temendo di contrarre qualche infezione al toccare il
bicchiere che le contiene, ma c’è
anche chi dona con un sorriso timido; e poi c’è chi improvvisamente
guarda il cellulare, o scuote la testa,
o finge indifferenza. A questi due
atteggiamenti di solito seguono delle conseguenze ben precise. Nel
primo caso la persona in questione
si sente a posto con la coscienza
ma tendenzialmente è guardato male dai co-passeggeri, ma anche si
sente un po’ stronzo perché sa be-
ne che quell’euro è troppo poco, o
che il tipo di aiuto di cui ha bisogno
il suonatore è di altro tipo. Un euro
al giorno non garantisce nulla. So
bene che molti sostengono che non
tutti i mendicanti sono “buoni”, che
non hanno voglia di trovarsi un lavoro oppure che con quei soldi compreranno droga o berranno. Ma
quanti di loro lo sanno per certo?
Forse è vero, molti suonatori non
useranno in maniera intelligente i
soldi che diamo loro, ma perché negar loro la fiducia a priori.
Chi invece non da soldi o finge indifferenza è più combattuto. Sa di rientrare nella percentuale di persone
che lo fa ogni giorno quindi da un
certo punto di vista sanno di non
aver commesso nulla di così grave.
D’altra parte però, i sensi di colpa li
divorano e guardano con invidia
quei pochi che hanno dato qualche
moneta, invidia che quelle stesse
persone interpreteranno come derisione. È un circolo vizioso dal quale
non c’è uscita apparentemente. Ci
sentiamo in dovere di dare, ma
sappiamo che non è sufficiente.
Certo è che qualcosa va fatto, qualcosa di diverso, e spesso anche solo chiedersi se verrà il giorno in cui
faremo quel qualcosa che cambia la
giornata di qualcun altro è già un
passo in avanti. Questo è il cambiamento, questo è il futuro per una
vita accettabile per tutti anche in
una città come questa. Il suonatore
di fisarmonica ci augura ogni mattina “Buona Fortuna”. Perché non
dovremmo rispondere “Anche a te”?
LA MEMORIA TRADITA DI MILANO
Fabio Zinna
In tempi di dibattito sul diritto
all’oblio negato dalla diffusione
dell’accessibilità web, appare inevitabile che anche la memoria collettiva delle società contemporanee
venga affidata in misura sempre
maggiore a testimonianze immateriali. L’attualizzazione della nota metafora di Victor Hugo, secondo cui il
libro avrebbe soppiantato la cattedrale nel ruolo di custode della memoria storica, determina oggi una
crescente disaffezione verso i luoghi, anche quelli carichi di forti valori
n.15 IV – 25 aprile 2012
identitari, soprattutto in contesti urbani.
Milano vede esasperarsi questa
tendenza, come dimostra il disprezzo con cui nel recente passato sono
stati trattati alcuni luoghi simbolo
della città. Il carattere a tratti patologico del disinteresse dimostrato
dall’opinione pubblica spinge a interrogarsi su quale sia la considerazione che la città ha di se stessa e
della propria storia. Se la forma fisica della città è, nelle parole di un
celebre milanese, il “dato ultimo ve-
rificabile” della sua struttura e quindi
delle forze che si agitano nell’animo
dei suoi cittadini, dovremmo forse
preoccuparci per l’imbarbarimento
di cui siamo quotidianamente testimoni.
Il caso della Stecca degli Artigiani
nel quartiere Isola è in questo senso
esemplificativo. Dopo una brillante
riabilitazione da un passato di abbandono postindustriale, fondata su
associazionismo e partecipazione,
la Stecca visse un repentino declino
causato dall’infiltrazione di gruppi
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malavitosi nella sua struttura, per
natura aperta e permeabile. Si generò col tempo una situazione di
degrado e illegalità diffusa, cresciuta fino a livelli intollerabili, tali da
fornire un pretesto per l’abbattimento e la successiva realizzazione di un imponente comparto residenziale. L’intervento, tardivo e radicale, ben illustra il clima politicoculturale in essere nello scorso decennio, quando la tragica incapacità
degli amministratori sposava gli appetiti suscitati dagli indici di edificabilità, rendendo spesso ancor più
inconsistente il già labile confine tra
incompetenza e malaffare.
Sull’altare della speculazione è stato sacrificato anche il tratto finale di
Largo Corsia dei Servi, oggi inglobato in un negozio di abbigliamento.
Quello spazio aperto, un piano terra
pubblico disegnato dallo studio
BBPR attorno ad una scultorea
doppia rampa di scale, offriva in
primo luogo un esempio dell’alto
livello del professionismo milanese
in architettura. Eppure la sua qualità
principale risiedeva nella forza aggregativa che aveva saputo esercitare su più di una generazione. Era
infatti un luogo mitico per l’unica su-
bcultura italiana con un certo riscontro internazionale, quella dei paninari, a testimonianza di un periodo storico che eleggeva Milano a città
mondiale. A partire dagli anni ’90 un
altro movimento, questa volta
d’importazione, ne aveva fatto il
proprio tempio: “il muretto” era il
principale luogo di ritrovo per la comunità hip-hop della città, offrendo
per altro uno dei più riusciti esempi
di integrazione per i milanesi di una
nuova generazione multietnica. Ma
quando il puntuale inserimento di
borchie metalliche sulla pavimentazione ha reso impossibile la pratica
della breakdance, quel laboratorio
sociale autoistituito ha cessato ogni
attività, condannando uno spazio
vitale al più totale abbandono, fino
alla triste sorte odierna.
In molti casi gli interessi immobiliari
non sono stati la sola driving force
della dubbia gestione del patrimonio, come dimostra il caso del monumento a Pertini di via Croce Rossa. L’opera, già al centro di ampi e
in gran parte sterili dibattiti in merito
alla sua qualità e collocazione, rappresenta pur sempre un opportuno
omaggio della città a un italiano
emerito. Un omaggio rimpacchetta-
to, verrebbe da dire, dato che il monumento giace transennato a causa
di inesistenti lavori in corso e privo
della più ordinaria manutenzione da
più di un anno. Sebbene sembri ormai scongiurata l’ipotesi di sostituire
l’opera con un volume edilizio di dimensioni ben maggiori, come proposto un paio d’anni fa da un gruppo di illuminati imprenditori, il monumento in memoria del presidente
partigiano sembra colpito da una
maledizione dovuta forse al suo essere uno spazio rigorosamente
pubblico nel cuore della Milano più
devota al lusso e al consumo.
A Milano la geografia dell’oblio non
ha confini chiaramente definiti, abbraccia il centro come l’estrema periferia e coinvolge testimonianze di
istanze storiche e culturali assai eterogenee. Benché sia chiaro che una
città assume valore nella stratificazione dei segni e nelle trasformazioni, ciò non può giustificare gli abusi che si sono consumati negli
ultimi anni sull’eredità culturale del
recente passato, perché è proprio
sulla solida base di questa eredità
che la città è tenuta a costruire il
proprio futuro.
GALLERY
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LA MILANO DI GIOVANNI SILVERA
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n.15 IV – 25 aprile 2012
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