La situazione Il combattimento della fede Non è un mistero che, nelle terre d’Occidente, la fede cristiana non sembra più avere quella incidenza e provocatorietà d’un tempo. Papa Francesco, del resto, non fa che mettere in guardia da una Chiesa troppo “autoreferenziale”. Da dove veniamo, quindi, e dove stiamo andando? In terra straniera «C ome cantare in terra straniera?». Così l’an tico salmista, stretto nella morsa angoscio sa dell’esilio in terra di Babilonia, lamen tava l’impossibilità di esprimere la propria fede nel Dio d’Israele e quando il suo silenzio, proprio in ter ra straniera, faceva scaturire dalla sua anima il gri do della fede come lamento, rimpianto, paura di af frontare il domani. Ora, è quasi superfluo osserva re che questa sembra essere anche la condizione del cristiano nei luoghi d’Occidente dove un tempo la sua fede era, per così dire, di casa e il suo lamento, al massimo, era quello di non riuscire a viverla nel la sua pienezza e in tutta la sua carica di “vita nuo va”. Sì, anche il cristiano oggi vive in terra straniera e, nelle profondità del suo cuore, sperimenta – a un diverso livello, certo – quel chiuso dramma di tanti immigrati che battono alle porte dell’Europa alla ri cerca di una nuova speranza di vita con il rischio ter ribile della morte e del definitivo naufragio della loro identità umana. Un dramma che sembra non interes sare nessuno, all’infuori della curiosità dei media che possono darne notizia soprattutto nel caso di disgra zie, ahimé, irreversibili. In effetti, in un pregevole libretto che racco glie due piccoli, ma pregnanti interventi di Arman do Matteo e Timothy Radcliffe (Sguardi sul cristianesimo, Ed. Messaggero, Padova 2013), Ugo Sarto rio giustamente annota nella prefazione: «Che le co se della fede siano diventate estranee al nostro mon do lo si deduce dal fatto che sono uscite dal suo lin guaggio e ancora prima dalla memoria condivisa di gran parte dei contemporanei» (p. 7). La perdi ta della memoria cristiana è, a conti fatti, uno dei nodi della nostra contemporaneità, ma è soprattutto un nodo “culturale” che non può essere sciolto con un “appello all’ordine” o, come vorrebbero in mol ti negli ambienti cristiani, nel ritorno alla sicurezza di un “ovile”, mitizzato e perciò senza un volto de finito, che si difende a oltranza dal “mondo” e riti rando, nei confronti di questo mondo, tanto fram mentato e laicizzato al massimo, il più piccolo cre dito di fiducia. D’altra parte, è anche vero che la fede cristiana è non solo perseguitata in alcuni paesi dell’Africa, Egitto, Pakistan e così via, ma lo è anche in paesi dove in un tempo non troppo lontano essa ha scrit to una delle pagine più vitali e intense del suo intero percorso bimillenario. Come la Francia, allora pri mogenita della Chiesa, che oggi conosce una viru lenza anticristiana, di stampo anche politico, tanto capillare e sistematica quanto assurda e degna del la violenza di regimi morti e sepolti. Siamo davvero, Feeria, settembre 2013 – n. 44 3 Titolo La situazione sezione dunque, gli “ultimi cristiani” di cui diceva J.P. Til lard non molto tempo fa? Di sicuro, siamo in terra straniera e ciò richiede, da parte della fede, un ripen samento e un’intelligenza della fede stessa che sap pia “rivivere” questa fede in modo nuovo e con una testimonianza autenticamente evangelica. In ogni caso, non serve più vivere la fede come un ghetto uniformante e come una Chiesa dal profilo rigido, asettico e soltanto istituzionale. In realtà, sebbene poco conosciuto, c’è un fer mento e un fiorire di “carismi” nella Chiesa che toc ca tanto i paesi di antica cristianità, dall’Europa agli Stati Uniti, quanto quelli più giovani, come il Bra sile, che manifestano una vitalità della Chiesa im pressionante e ben lontana dalle luttuose previsio ni di coloro che ne dichiarano una estinzione a bre ve o a lungo termine. Sono carismi, particolarmen te, di “vita consacrata”, monastica o apostolica, ma che contano al loro interno dinamismo l’aggrega zione di laici e famiglie in un crescendo di volon tà di evangelizzazione e del riscoprire il sentimen to comunitario quale identità forte di vita cristia na. La Chiesa, in tutto il mondo, pare godere di ot tima salute ed è un fenomeno quasi nascosto al mo do di quel piccolo seme che ama crescere in silen zio e che tanto Gesù amava rievocare nel suo mes saggio. Ed ora, a questi carismi, si aggiunge anche quello, inaspettato e consolante, di papa Francesco che sembra lanciare la Chiesa in una nuova avven tura di rinnovamento e di salda spiritualità evange lica che lascia davvero a bocca aperta, tanto appare limpida e sicura al suo inizio, quanto ancora impre vedibile nei suoi sviluppi. il mondo nel tentativo di sentirsi al sicuro, cadendo di fatto in una sorta di autismo e forse di paranoia. Nel suo linguaggio, pittoresco e geniale, papa Fran cesco ha subito invitato la Chiesa a lanciarsi fuori da gli steccati e ad aprire le finestre, come aveva fatto il beato Giovanni XXIII iniziando il concilio Vaticano II. Non è affatto un’operazione di marketing papale, per così dire, ma un orientare la fede verso l’umanità di Gesù che ha manifestato il vero volto di Dio nel la sua vicenda terrena e che ha lasciato il compito al la sua Chiesa di continuare a manifestarla soprattut to nella ricerca dei figli umani feriti dalla vita, disper si nell’anonimato contemporaneo, catturati nella rete di contraddizioni ed evasioni: «Il pastore che si isola – affermava l’allora cardinale Bergoglio – non è un vero pastore di pecore, ma un “parrucchiere” di pe Aprire le finestre A l di là dei suoi gesti dirompenti, come accet tare l’incontro diretto con la gente e discute re con garbo e convinzione le domande po ste alla fede dagli intellettuali come Eugenio Scalfari, papa Francesco – nel suo bel nome che evoca in tut ti noi l’impareggiabile memoria del grande santo di Assisi – è portatore di un carisma che non credeva mo possibile in quel cammino, accidentato e tuttavia profetico, di quel ministero di Pietro che pure, lungo tutto il Novecento e oltre, ha segnato profondamen te la storia. Questo carisma, di fatto, ha individuato il tallone d’Achille della Chiesa contemporanea in una tentazione di stallo che le impedisce di raggiungere Feeria, settembre 2013 – n. 44 4 Titolo La situazione sezione core che passa il suo tempo a mettere loro i bigodi ni, invece di andarne a cercare altre». È la tentazione di sempre. Difendere e coltivare i “recinti” per non pensare agli altri che vivono fuori. Al contrario, il suo accento sulla misericordia e il perdono nelle sue omelie, ma anche le sue sferzate contro il carrierismo e la caccia ai posti di potere, hanno il tono inconfon dibile dell’umanità di Gesù che, ieri e oggi, ripete il suo annuncio: Dio sa solo benedire, non condanna re e disprezzare, come vorrebbe la nostra inguaribi le dialettica umana che introduce in Dio il conflitto tra Giustizia e Misericordia. Questo annuncio, inve ce, occorre ancora ripetere a coloro che vivono una storia senza più utopia, quindi senza un progetto co mune di migliorare se stessi e il mondo. D’altro canto, l’angoscia per i numeri o per quei cristiani che si allontanano dalle chiese, la drastica scarsità di vocazioni, l’ansia di gestire strutture la sciate a se stesse dimostrano che siamo davvero in un tempo di grande povertà e che non abbiamo più le si curezze, anche materiali, di quel passato appena die tro di noi. Eppure, come ha notato Timothy Radcliffe nel suo intervento che fa da eco ad Armando Matteo, anche qui nei cristiani c’è un grande difetto d’imma ginazione. Sì, d’immaginazione. Quell’immaginazio ne umana, frutto di creatività e di ricerca, che s’incon tra con l’immaginazione di Dio che non smette mai di ascoltare quell’anelito del cuore che si spende a favo re degli altri. In realtà, la maggior parte delle persone che hanno abbandonato il rapporto con la fede non l’ha fatto per qualche argomento “intellettuale” con tro la fede: «Si sono allontanate – spiega giustamen te Michael Paul Gallagher – perché la loro immagina zione non è stata toccata e le loro speranze non sono state risvegliate dalla loro esperienza religiosa» (cfr. M.P. Gallagher, La poesia umana della fede, Paoline, Milano 2004, p. 137). Il campo di battaglia per la fe de, quindi, si è spostato più in profondità. È ormai nella cultura in cui è immerso l’uomo contemporaneo. Una cultura che si nutre di incre dulità e di diffidenza nei confronti dell’umano e che non sa più coltivare quelle “utopie minime” di cui parla Luigi Zoja in un suo pregnante libro che discu te, tra l’altro, il vuoto psicologico e morale lasciato a noi in eredità dalla utopie “massimaliste” del No vecento: «L’accumulo di insensibilità e crudeltà ver so il mondo e se stessi – scrive il nostro autore – che gli uomini, se non intenzionalmente programmano, certo tollerano, è il maggior mistero del nuovo seco lo» (L. Zoja, Utopie minimaliste, Chiarelettere, Mi lano 2013, p. 6). Certo è che l’indifferenza religiosa, così marcata ai nostri giorni e soprattutto tra i gio vani, altro non è che una variante di quella cultura, molto più diffusa, dell’indifferenza verso il mondo e verso i desideri più profondi del cuore umano. Non a caso la secolarizzazione agisce più sull’immagina zione e sulla disposizione psicologica che sulla vo lontà di conoscere e di aprire se stessi all’incontro con l’altro da sé. Forse anche i cristiani, al di là del le apparenze, sono toccati profondamente da questa cultura dell’indifferenza e mancano di quel “fuoco” che il monaco di Einsiedeln, Martin Werlen, ha de nunciato di recente: «La chiesa oggi procede con il freno a mano. Questo rende poco attraente ogni im pegno al suo interno. Avrebbe davanti a sé un cam po d’azione immenso, dove sarebbe libera di agire senza mettere a rischio la sua fedeltà al messaggio di Cristo. Anzi, dovrebbe essere tale fedeltà a darle co raggio» (M. Werlen, Fuoco sotto la cenere, San Pao lo, Cinisello Balsamo 2013, p. 25). L’anima della fede, infatti, è la passione per Gesù, la sua umanità e divinità che incontra il nostro trava glio profondo di dubbio e di accensione del cuore, di richiesta di senso e di inconsce paure, di apertu ra e chiusura, il tutto sull’ordito di un alto desiderio di avere nel mondo un compito di amore verso tut ti. Soltanto da Lui è per noi possibile attingere quel “fuoco” che sempre mancherà alla nostra pur buona umanità in un modo o nell’altro. Accresci in noi la fede! «A ccresci in noi la fede!» (Lc 17,6). Co sì i discepoli chiesero un giorno a Ge sù sul mare di Galilea perché sentivano, di fronte al messaggio della sua persona, che la fe de che vivevano fin da piccoli in Israele era per lo ro insufficiente (Lc 17,5-10). Gesù rispose con un detto alquanto enigmatico: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti sul mare” ed esso vi ob bedirebbe». I discepoli gli stanno chiedendo, in ef fetti, una nuova dose di fede, ma non è di questo che hanno bisogno secondo Gesù. Il loro vero pro blema sta nel fatto che la fede autentica che han no nel cuore non arriva a essere neanche come “un granello di senape”. E Gesù lo dice loro chiaramen te: non è decisiva la quantità di fede, ma la qualità. Ossia che coltiviate una fede viva, forte ed efficace, Feeria, settembre 2013 – n. 44 5 Titolo La situazione sezione una fede che, in suo nome, è capace di “sradicare” un albero, simbolo di solidità e stabilità, per “pian tarlo” in mezzo al lago di Galilea! Il fattore decisivo nella fede è, dunque, non tanto accumulare quanto più dottrina è possibile – crede re nelle nostre prospettive o nel nostro intuito –, ma credere in Lui. Ed è per questo motivo che abbiamo bisogno di conoscerlo in modo più vivo e concreto, di comprendere meglio il suo progetto, di coglierne bene l’intenzione di fondo, di entrare seriamente in sintonia con Lui, di ritrovare quel fuoco che egli ha saputo accendere nei suoi primi discepoli, infine di lasciarci contagiare dalla sua passione per Dio e dal la sua compassione per la condizione umana. Se non sarà così, la nostra fede continuerà a essere più pic cola di un “granello di senape”. Non “sradicherà” gli alberi e non “pianterà” nulla di nuovo. Da qui compromessi, scandali e quant’altro mai. Qualche anno fa, l’antropologo Lévi-Strauss fece una dichiarazione che ben riflette la cultura dell’in differenza del nostro tempo: «Non mi sento preoc cupato del problema di Dio; per me è assolutamente tollerabile vivere cosciente che non potrò mai spie garmi la totalità dell’universo». Per questo tipo uma no di agnosticismo, l’universo sta lì come una realtà “inspiegabile”, la cui origine e fondamento risulta no insondabili, e davanti alla quale si prova solo in differenza e mancanza di vero amore. In realtà, noi credenti in Cristo ci distinguiamo da questi agnosti ci non perché cerchiamo di dire “qualcosa” su Dio, mentre loro negano quello che noi confessiamo. Non è qui il nocciolo della questione. Che siamo creden ti o meno, la domanda sul mistero dell’universo e dell’uomo appare inevitabile per tutti. Ciò che carat terizza i credenti, a differenza degli agnostici, è che abbiamo il coraggio, sì il coraggio, di abbandonarci in maniera fiduciosa a questo Mistero che soggiace alla totalità dell’universo e di cui Gesù ci ha mostra to chiaramente «la via, la verità e la vita». Questo “abbandonarsi” proprio della fede, con il desiderio del cuore e lo slancio dell’anima (imma ginazione), lottando senza sosta contro la cultura dell’indifferenza e della diffidenza, è la cosa più co raggiosa dell’uomo, come diceva Karl Rahner. Noi cristiani, oggi più che mai, dobbiamo prendere mag giormente coscienza dell’audacia inaudita presup posta dal fatto di avere il coraggio di confidare nel mistero di Dio. Di fatto, il messaggio più centrale e originale di Gesù è consistito proprio nell’invitare l’essere umano a confidare nel Mistero insondabi le che si trova all’origine di tutto. È ciò che risuona nel suo annuncio: «Non abbiate paura… Confidate in Dio. Chiamatelo Abbà, Padre amato. Lui ha cu ra di voi. Perfino i capelli del vostro capo sono con tati. Abbiate fede in Dio» (cfr. Mt 10,26-31). Questa fede radicale in Dio è alla base di ogni preghiera che è il riconoscere, per prima cosa, la propria finitez za: in fondo, la vita mi sta dicendo in mille modi che io non sono tutto, non posso tutto, non sono la fon te del mio essere né il suo padrone. E la seconda co sa è accettare di provenire da quella realtà che chia miamo “Dio”. Accettare con fiducia questo mistero che fonda il nostro essere e il suo desiderio di vita e di pienezza che chiamiamo felicità. Così il problema contemporaneo è ricostruire l’esperienza religiosa, ma ciò non sarà possibile se non abbiamo il coraggio di combattere e di rifiutare ener gicamente la cultura dell’indifferenza e della diffiden za. Come ha fatto Gesù con la cultura del suo tem po. Certo, questi passi non si fanno con sicurezza as soluta. C’è una certezza di fondo, ma accompagnata dall’oscurità: in Gesù, la persona “sa” di non essere sola e accetta di vivere di questa presenza oscura ma inconfondibile di Dio. Una presenza che dà felicità, come quella provata da Gesù nella sua umanità, poi ché la fiducia nel Mistero di Dio cambia tutto. La felicità di Gesù S embrano pochi i cristiani che, in un tempo di retorica sulla realizzazione di sé, osano doman darsi se Gesù sia stato felice o meno nella sua umanità. Ma, ascoltando attentamente il suo messag gio nei Vangeli, non ci sono dubbi: Gesù è stato un uomo felice! E con Lui tutti coloro che hanno avuto il coraggio di seguirlo. In effetti, non è difficile trac ciare il profilo di una persona felice nella società co nosciuta da Gesù. Si trattava di un uomo adulto e in buona salute, sposato con una donna onesta e fecon da, con figli maschi e in possesso di terre ricche, os servante della religione e rispettato nel suo paese da tutti. Che cosa poteva chiedere di più? Tuttavia, non era questo l’ideale di vita che animava Gesù. Senza sposa né figli, senza terra né beni, impegnato a per correre la Galilea come un vagabondo, la sua vita non rispondeva a nessun tipo di felicità, per così di re, convenzionale. Tutto il suo modo di vivere era a dir poco provocatorio. Se era felice lo era in maniera contraria alla cultura corrente del suo tempo. Feeria, settembre 2013 – n. 44 6 La situazione In verità, Gesù non pensava affatto alla propria felicità. La sua vita ruotava piuttosto intorno a un progetto che lo entusiasmava e che lo faceva vivere intensamente. Lo chiamava “regno di Dio” e sem brava felice soltanto quando poteva rendere felici gli altri, liberandoli dalla loro malattia e indirizzando la loro inquietudine profonda verso il Padre, Creatore e Signore della vita. Da qui, quella sua grande gio ia nell’osservare la bellezza della natura e i rappor ti umani, osservazione così poetica e toccante nel le sue parabole. La sua gioia nel pregare che poteva durare una notte intera e che tanto incuriosiva i suoi discepoli. La gioia di avere dei discepoli e di senti re il calore dell’amicizia e, in genere, nell’accogliere ogni essere umano come fosse il primo e l’ultimo. La sua gioia nel parlare del Padre e nel fare ogni sforzo per comunicarlo. E si potrebbe ancora continuare. Ma, allo stesso tempo, quella paradossale gioia nel fare chiarezza intorno a sé senza mezzi termini, fusti gando menzogne e ipocrisie. Gesù si è sentito felice perfino nel momento più tragico della sua esperien za terrena, quando, tradito e abbandonato da tutti, non muore sentendosi un fallito ma consegnando si al Padre: «nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Felice, in quel supremo momento di an goscia e solitudine, nell’abbandonarsi all’amore del Padre. Così Egli ha aperto un canale indistruttibile tra Dio e la nostra condizione umana. Anche nella fede ci sono molte cose che continu iamo a non capire, per una ragione o per l’altra, ma sappiamo che nella sua persona la parola “Dio” rac chiude un mistero in cui si trova quello che, al di là di tutto, desidera il cuore umano. L’importante è al lora, in questo mistero, “lasciarsi amare” da Dio an che fin dentro le condizioni più difficili e drammati che. Già sant’Ignazio di Loyola diceva che, nella re altà della fede, la cosa decisiva non è il «molto sape re», ma il «gustare e sentire le cose interiormente». Cioè se si ama con tutta la ricchezza e le difficoltà dell’anima. L’amore vero, forte come la morte, con la sua fatica e la sua gioia tutta interiore, è forse tan to diverso dalla fede? Carmelo Mezzasalma Feeria, settembre 2013 – n. 44 7