La diffusione delle idee protestanti
Intorno al 1517, anche in Italia trovavano ampia diffusione tutte le ragioni che provocarono
in Germania e nel resto d’Europa il successo della Riforma. Consapevoli della situazione, e
sicuri del successo della loro opera, fin dal 1524 alcuni intraprendenti e coraggiosi tipografi
veneziani cominciarono a diffondere in traduzione italiana gli scritti di Lutero, che facilmente varcavano i confini della Repubblica approfittando del gran numero di mercanti che
frequentavano il Fondaco dei tedeschi. A volte, tali libri proibiti portavano sul frontespizio il
nome di Erasmo, oppure erano attribuiti ad autori inventati, al fine di aggirare i controlli più
superficiali e grossolani.
La situazione, tuttavia, doveva essere effettivamente abbastanza seria, se un decreto emanato
nel 1538 menzionava bel 42 titoli di libri circolanti clandestinamente all’interno di Milano
e del territorio circostante. Inoltre, le autorità ecclesiastiche mostrarono di essere del tutto impreparate di fronte a un altro fenomeno inedito: la rapidissima diffusione, tra la gente comune, della tendenza a dibattere delicate questioni teologiche. In effetti, come riferisce
sdegnato il vescovo di Verona nel 1553, le «persone basse» avevano preso l’abitudine di discutere di problemi religiosi nelle circostanze e nei luoghi più impensati: «per le piazze, per
le botteghe, per le taverne et insino per li lavatoi delle donne».
In un primo tempo, i timori della Chiesa si concentrarono su Venezia, ove la nuova fede fece diversi proseliti
non solo tra umili arrotini, liutai, pollivendoli e sarte (come
recita un processo del 1533), ma anche tra i rampolli di alcune tra le più prestigiose e nobili famiglie della Repubblica. Peggio ancora, la causa della Riforma trascinò a sé
il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo e il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, mentre città importanti come Vicenza e Padova (sede di una prestigiosa università, e quindi di appassionati dibattiti intellettuali) sono descritte rispettivamente come «molto infetta di queste nove opinioni
contra l’honor de Dio» e «piena di heretici», negli anni Cinquanta.
In questo momento storico, tuttavia, pareva ormai del tutto tramontata non solo l’ipotesi che Venezia aderisse al protestantesimo e si trasformasse nella porta della Riforma in
Italia, ma anche la possibilità che la Repubblica continuasse
la politica di indifferenza, omertà e neutralità, che di fatto la caratterizzò per circa trent’anni. Le autorità veneziane rimasero profondamente colpite dalla disfatta dei principi luterani a Mühlberg, da parte di Carlo V (1547) e dall’inizio degli scontri per motivi religiosi in Francia (1562).
Questi due eventi misero in luce che uno Stato privo di
omogeneità confessionale rischiava la disintegrazione e la guerra civile. Pertanto, 1400 volumi eretici furo-
no dati alle fiamme a Rialto nel 1548, mentre nel 1556 furono autorizzate le prime estradizioni a Roma di individui
accusati di eresia dall’Inquisizione (tali soggetti, tuttavia,
non erano cittadini della Repubblica, bensì stranieri). InF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Diffusione
dei libri proibiti
Frontespizio
della prima edizione
della Bibbia
di Martin Lutero.
UNITÀ 5
PERCORSI
DI STORIA LOCALE
1
La Riforma in Italia e il caso di Modena
La Riforma in Italia
e il caso di Modena
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
LA DIFFUSIONE
DELLA RIFORMA
IN EUROPA ALLA
METÀ DEL XVI SECOLO
Anabattisti
Calvinismo
Luteranesimo
Chiesa anglicana
JOHN KNOX
SCOZIA
NORVEGIA
SVEZIA
DANIMARCA
Cambridge
Konisberg
Londra
Francoforte
LUTERO
Utrecht
Anversa Münster W i t t e n b e r g
Lipsia
Wartburg
Cateau-Cambrèsis
Smalcalda
ENRICO VIII
Gand
Parigi
POLONIA
Worms
Basilea
CALVINO
Zurigo
Berna
FRANCIA
Trento
SVIZZERA
Venezia
Vienna
UNGHERIA
Genova
Modena
UNITÀ 5
SPAGNA
Madrid
L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
2
Ferrara
centro eretico
Firenze
Roma
IMPERO
OTTOMANO
fine, con un decreto del 1564, le autorità veneziane si impegnarono solennemente a ripulire il loro Stato da «quella mala sorte di huomeni che seguono le nuove opinioni in materia
di religione, le quali non possono essere salvo che scandalo delli huomeni catholici christiani et di perturbatione della Signoria nostra».
Nel resto dell’Italia settentrionale, le fonti ricordano la presenza di numerosi eretici a Cremona (vero epicentro del dissenso religioso lombardo), Mantova e soprattutto Ferrara; in quest’ultima città un nutrito gruppo di protestanti trovò a lungo protezione e rifugio grazie alla
presenza della duchessa Renata, francese di origine e calvinista dichiarata. Calvino stesso, nel
1536, per un breve periodo soggiornò a Ferrara, ove il duca Ercole II d’Este non approvava
la «mala religione» della moglie e minacciò di mandarla sotto processo. La duchessa fu rinchiusa nelle proprie stanze, mentre dall’ambiente di corte furono cacciati numerosi dei «lutherani ribaldi che tenevano infestata tutta questa città», come recita un commentatore del tempo. Tuttavia, la situazione tornò alla normalità solo dopo la morte del duca e il ritorno della vedova in Francia, nel 1559.
In Italia centrale, ci viene testimoniata la presenza di numerosi eretici in Romagna (ad esempio a Imola e Faenza) e soprattutto a Siena e a Lucca. Per quanto minacciati dall’espansionismo dei Medici, questi due centri toscani erano ancora città autonome e libere, il che spiega la riluttanza delle magistrature locali ad accettare l’intervento di qualsiasi autorità esterna,
non esclusa l’Inquisizione. Senese fu uno dei più celebri predicatori itineranti della prima metà
del XVI secolo, Bernardino Ochino, che nel 1541, fuggì a Ginevra; lucchese invece fu un altro celebre fuggiasco, rifugiatosi anch’egli nella città riformata svizzera: Giovanni Diodati, noto
per un’eccellente traduzione della Bibbia in volgare italiano, pubblicata nel 1607. Sia a Siena che a Lucca, numerosi giovani delle famiglie più in vista della città, o comunque esponenti
del patriziato locale aderirono alla Riforma, prima che la repressione cattolica colpisse in modo
sempre più pesante e sistematico, a partire dalla fine degli anni Quaranta.
Al Sud e in Sicilia, i gruppi organizzati furono meno numerosi, ma comunque non mancano segnalazioni di libri proibiti a Napoli o a Palermo, insieme a denunce a singoli intellettuali che a titolo personale condivisero uno o più principi del luteranesimo o del calvinismo.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
La novità del Beneficio di Cristo
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 5
Una religiosità
intensa, ma sobria
Sebastiano Luciani,
Ritratto del cardinale
inglese Reginald Pole,
1543-1545
(San Pietroburgo,
Museo dell’Ermitage).
3
La Riforma in Italia e il caso di Modena
Verso la fine del XVI secolo, la maggioranza dei gruppi e degli intellettuali italiani che avevano scelto la Riforma si indirizzarono verso Ginevra e il calvinismo. Nei decenni precedenti,
invece, la teologia dei protestanti italiani fu disponibile ad accogliere e mescolare elementi di
diversa origine e matrice, che nel resto d’Europa erano considerati affatto incompatibili gli
uni con gli altri. Il dato forse più interessante riguarda Erasmo da Rotterdam, che in Italia, a metà Cinquecento, era universalmente considerato luterano sia dagli inquisitori sia dai
dissidenti, malgrado l’aspra polemica sul libero arbitrio che aveva contrapposto l’umanista
olandese al riformatore tedesco. D’altra parte, sia i responsabili della repressione, sia le loro
vittime, nell’Elogio della follia e in altre opere di Erasmo trovavano varie tematiche e questioni
che potevano senza sforzo essere trasformate in strumenti di polemica protestante: l’insistenza
sulla Sacra Scrittura e sui padri della Chiesa, più che sulle dichiarazioni dei papi e delle autorità ecclesiastiche; il ripudio di ogni forma di superstizione e delle pratiche puramente ritualistiche, compiute come se fossero riti magici, efficaci in virtù di una formula misteriosa
pronunciata nel modo corretto; l’attacco frontale contro l’insistenza posta dalla religiosità tardo-medievale sui santi, su Maria, sulle immagini sacre, sul purgatorio e sulle indulgenze. In
generale, quello che veniva cercato era una religiosità intensa, sotto il profilo spirituale, ma
sobria, unita allo sforzo di strappare al clero il monopolio della gestione della vita religiosa, che
lo storico Massimo Firpo ha definito «volontà di riappropriazione del sacro, sottratto al
controllo clericale su una pietà oggettualizzata».
Nel 1543, a Venezia apparve per la prima volta, in forma anonima, un libretto intitolato Il beneficio di Cristo, che negli anni seguenti avrebbe avuto un successo strepitoso. Nel
1549, un vescovo veneto scriveva che, a suo giudizio, nei sei anni precedenti ne erano state vendute 40 000 copie solo a Venezia. Può darsi che tale cifra sia esagerata; resta che tale
volume è regolarmente citato in innumerevoli processi, a testimonianza della sua ampia
diffusione nell’Italia del XVI secolo. Si trattava di un testo molto particolare, sotto il profilo teologico; infatti, da un lato non si lasciava mai andare ad alcuna polemica contro il
papa o contro la Chiesa, ma dall’altro presentava la giustificazione mediante la sola fede
e perfino la predestinazione come gli strumenti privilegiati scelti dalla grazia e dalla misericordia di Dio, al fine di salvare tutti gli uomini. In tal modo, il testo accoglieva il nucleo centrale del messaggio riformato, interpretando l’universale ansia diffusa tra i cristiani comuni per la prospettiva della dannazione eterna,
ma spogliava tale messaggio rassicurante di qualsiasi contenuto anticattolico e antiromano.
Questa ambigua prospettiva teologica si comprende tenendo
conto della genesi dell’opera, che fu composta nel 1540 dal
monaco Benedetto Fontanini da Mantova e completata due
anni più tardi da Marcantonio Flaminio, che viveva a Viterbo, nella casa del cardinale inglese Reginald Pole.
Fu Pole, insieme al cardinale Giovanni Morone, a promuovere la pubblicazione del Beneficio nel 1543. Negli stessi anni, i due cardinali stavano cercando di gestire la faticosa convocazione del Concilio che avrebbe dovuto affrontare tutti i problemi sollevati dalla rivolta di Lutero. Tuttavia, Pole e Morone concepivano
il Concilio come un’importante e significativa opportunità di discussione, non come un’assemblea incaricata solo di condannare gli eretici e di ribadire o al massimo precisare le tradizionali verità cattoliche. Per Morone e per Pole, occorreva dare una risposta credibile alle
diffuse ansie religiose dei credenti e trovare soluzioni dottrinali di compromesso, accettabili da entrambe le parti, per
evitare la definitiva rottura dell’unità cristiana.
A Trento, il loro progetto fu completamente sconfitto; anzi, di lì
a poco il Beneficio fu inserito nell’Indice dei libri proibiti.
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
UNITÀ 5
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
4
Il beneficio di Cristo
DOCUMENTI
I due brevi passi che riportiamo mostrano che gli autori del volumetto Il beneficio di Cristo recepirono l’istanza fondamentale della Riforma, cioè il concetto di giustificazione mediante la sola fede. In
tal modo, Benedetto Fontanini da Mantova, Marcantonio Flaminio e altri intellettuali italiani per un breve momento si illusero di poter ricucire lo strappo portato all’unità della Chiesa dall’appassionata protesta luterana e dalla speculare intransigenza cattolica.
Del peccato originale e della miseria dell’uomo
La Scrittura santa dice che Dio creò l’uomo ad imagine e similitudine sua, facendolo, quanto
al corpo, impassibile [non sottoposto alle sofferenze, n.d.r.], e, quanto all’animo, giusto, verace,
pio, misericordioso e santo. Ma poiché egli, vinto dalla cupidità del sapere, mangiò di quel pomo
proibito da Dio, perdette quella imagine e similitudine divina, e diventò simile alle bestie e al demonio, che l’avea ingannato: perciocché, in quanto all’animo divenne ingiusto, mendace e crudele, impio e inimico di Dio; e, in quanto al corpo, diventò passibile e soggetto a mille incomodi
e infermità, né solamente simile, ma ancora [perfino, n.d.r.] inferiore agli animali bruti. E, sì come,
se gli nostri primi padri fussero stati ubbidienti a Dio, ci averebbero lasciato, come cosa ereditaria, la loro giustizia e santità; così, essendo stati disubbidienti a Dio, ci hanno lasciato per eredità
la ingiustizia, la empietà e l’odio loro verso dio: di modo che è impossibile che con le forze nostre possiamo amar Dio e conformarci con la sua volontà, anzi li siamo inimici, come a quello che,
per esser giusto giudice, punisce li peccati nostri, né ci possiamo mai fidar della sua misericordia. Insomma questa nostra natura per lo peccato di Adamo tutta si corruppe e, sì come prima
era superiore a tutte le creature, così divenne suggetta a tutte, serva del demonio, del peccato
e della morte, e condennata alle miserie dello inferno.
Frontespizio
di un’edizione de
Il beneficio di Cristo.
Due opinioni sulla giustificazione
Ora giudichi il pio cristiano qual di queste due opinioni sia più vera, più santa e più degna di essere predicata: o la nostra, che illustra il beneficio di Cristo e abbassa l’arroganza
umana, che vuole esaltar le sue opere contra la gloria di Cristo; o l’altra, la quale, dicendo
che la fede per se stessa non giustifica, oscura la gloria e il beneficio di Cristo e inalza la superbia umana, la quale non può patire [accettare, sopportare, n.d.r.] di essere giustificata
gratis per Iesù Cristo Signor nostro.
Oh mi diranno: – È pur grande incitamento alle buone opere il dire che l’uomo per esse
si fa giusto appresso Dio –.
Rispondo che ancora noi confessiamo che le buone opere sono grate a Dio e ch’egli per
mera sua liberalità le remunera in paradiso; ma diciamo che quelle sono veramente buone
opere, come dice ancora sant’Agostino, le quali sono fatte da li giustificati per la fede; perché, se l’albero non è buono, non può far frutti buoni. Oltre che, i giustificati per la fede, conoscendosi giusti per la giustizia di Dio, eseguita in Cristo, non fanno marcantanzia [non contrattano, non mercanteggiano, n.d.r.] con Dio delle buone opere, pretendendo con esse di
comprar da lui la giustificazione; ma, infiammati dello amore di Dio e desiderosi di glorificare
Cristo, il qual gli ha giustificati, donandogli tutti i suoi meriti e tutte le sue ricchezze, attendono
con ogni studio a fare la volontà di Dio, e combattono virilmente contro allo amor proprio e
contro al mondo e al diavolo. E, quando cadono per fragilità della carne, risurgono tanto più
disposi [desiderosi, n.d.r.] di bene operare e tanto più inamorati del suo Dio, considerando che
li peccati non gli sono imputati da lui per la loro incorporazione in Cristo, il quale ha soddisfatto
per tutti i membri suoi [per tutti gli uomini, n.d.r.] sul legno della croce e sempre intercede per
Quali sono gli
essi appresso al Padre eterno, il qual, per amor del suo unigenito Figliuolo, gli risguardo sem«incitamenti
pre con volto placidissimo, e li regge e difende come carissimi figliuoli, e alla fine gli donerà la
amorosi […] che
eredità del mondo, facendoli conformi alla gloriosa immagine di Cristo. Questi incitamenti amomuovono i veri
rosi sono quelli che muovono i veri cristiani alle buone opere, i quali, considerando che sono
cristiani alle buone
diventati per la fede figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, sono incitati dallo Spirito santo,
opere»?
che abita in essi, a vivere come si conviene a figliuoli di un tanto Signore, e si vergognano di
Per
quale motivo
non servare il decoro della loro celeste nobiltà, e però mettono ogni studio nella imitazione del
il cristiano
loro primogenito fratello Iesù Cristo, vivendo in somma umiltà e mansuetudine, cercando in
giustificato per fede,
ogni cosa la gloria di Dio, ponendo l’anima per gli fratelli, facendo bene alli nemici, gloriandosi
in caso di ricaduta
nelle ignominie e nella croce del nostro Signore Iesù Cristo.
nel peccato, non
deve disperare della
B. FONTANINI DA MANTOVA, M. FLAMINIO, Il beneficio di Cristo, Claudiana, Torino 2009,
salvezza eterna?
pp. 27-28, 62-64, introduzione e note a cura di S. CAPONNETTO
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
PERCORSO DI STORIA LOCALE
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Un abile
diplomatico
Riferimento
storiografico
1
UNITÀ 5
pag. 8
5
La Riforma in Italia e il caso di Modena
Nato nel 1509, Giovanni Morone era figlio di un alto funzionario del duca di Milano Francesco Sforza; Girolamo Morone, il padre del futuro cardinale, come Francesco Guicciardini e papa Clemente VII era preoccupato dello straordinario potere che Carlo V aveva assunto in Italia, dopo il clamoroso successo di Pavia, nel 1525. Pertanto, appoggiò il
progetto di una lega antimperiale, che tuttavia sfociò nel disastro del sacco di Roma (1527)
e provocò la completa rovina sia del duca di Milano, sia della famiglia Morone.
Pur essendo inizialmente privo di una sincera vocazione religiosa, e persino sfornito
di una specifica formazione teologica, il giovanissimo Giovanni ottenne allora dal papa
la possibilità di diventare vescovo di Modena, a partire dal 1529, e poi una serie di
incarichi diplomatici presso la corte di Vienna, che gli permisero di entrare a diretto
contatto con l’esplosiva situazione tedesca. Mentre altre figure disponibili al dialogo
con i luterani giunsero alle loro posizioni concilianti e dialogiche in virtù di percorsi
spirituali e raffinate meditazioni teologiche, Morone agì quasi sempre da abile politico: aveva toccato con mano che la repressione, da sola, non avrebbe mai ricucito lo
strappo apertosi con le Tesi di Lutero, che per altro toccava una serie di veri problemi, molto sentiti da tutte le coscienze cristiane più sensibili del tempo. Tali questioni erano di tipo morale (si pensi al comportamento scandaloso e mondano di vari papi,
all’inizio del Cinquecento), disciplinare (molti preti erano ignoranti, così come numerosi vescovi non erano all’altezza del loro compito di guide della Chiesa, a livello
locale) e perfino teologico, in quanto il senso del peccato e il timore della punizione eterna generavano angosce e frustrazioni, che trovavano sfogo nel culto mariano o nella venerazione delle reliquie
dei santi.
Morone cercò sempre il dialogo, con i protestanti, seguendo una procedura che – con il passar del tempo –
fu ritenuta sempre più sospetta da Gian Pietro Carafa, il cardinale che sosteneva nel modo più coerente
la necessità della linea dura: «Li heretici si voleno trattare da heretici», soleva dire, insistendo sul fatto che
i dissidenti dovevano sottomettersi, oppure essere
schiacciati. In virtù del suo «heretico spirito di cercar d’accordare fra catholici et heretici», quando
Carafa divenne papa (nel giugno 1555) con il nome
di Paolo IV, il tribunale dell’Inquisizione (o
Sant’Uffizio) aprì formalmente un’inchiesta contro Morone, che fu addirittura arrestato e detenuto a Castel Sant’Angelo dal 1557 al 1559. Solo
la morte di Paolo IV pose fine al procedimento, che
si concluse con una solenne assoluzione proclamata il 13 marzo 1560.
Nell’istruttoria del processo, ebbe un ruolo determinante il domenicano Michele Ghisleri, mentre Morone poté invece sempre contare sul leale appoggio di Carlo V, che condivideva i suoi sforzi di trovare strade di mediazione alternative alla repressione pura, per affrontare la
delicata situazione religiosa tedesca. Nel 1566, Ghisleri fu eletto
papa con il nome di Pio V, e la sua candidatura fu apertamente sostenuta dal nuovo re di Spagna, Filippo II, figlio di Carlo V, che dunque spostò il proprio
sostegno «dal Morone al Ghisleri, dall’inquisito all’inquisitore, dall’imputato al giudice» (M. Firpo). Era segno che non solo la Chiesa, ma anche il più potente dei sovrani
cattolici aveva scelto la via della guerra senza quartiere contro l’eresia, svuotando di qualsiasi significato i progetti di chi ancora sognava una riconciliazione o almeno una convivenza pacifica e una soluzione politica basata sulla tolleranza.
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
Giovanni Morone
Ritratto del cardinale
Giovanni Morone,
dipinto della prima
metà del XVIII secolo di
artista ignoto (Bologna,
Quadreria
dell’Università).
La linea cattolica intransigente
Dio volesse, illustrissimo et reverendissimo monsignore, che le cose concernenti la santa fede
fussero state sempre trattate con quella reverentia di Dio et vive fede che oggi sono trattate da Quale atteggiamento
assumevano «coloro
la Santità di Nostro Signore, et Dio volesse che quello heretico spirito di cercar d’accordare fra
che stanno de
catholici et heretici non avesse regnato, et hoggidì non regnasse in molti: perché di qua stimo
mezzo»? Quale
che sia nato tutto il fondamento del male che hoggidì pate [soffre, n.d.r.] la christiana repubblica,
beneficio hanno
et peggiori sono questi che stanno de mezzo, più dannosi questi mediatori della concordia che
portato, secondo
non sono li manifesti heretici. […] So ben che simil cose non ponno [non possono, n.d.r.] esser
l’autore, agli
ricordate senza lagrime da chi è christiano, et concludo che chi è tale deve più tosto voler mointeressi della
rire che lasciar levar ad istanzia di heretici [per compiacere gli eretici, n.d.r.] un solo iota [la letChiesa di Roma?
tera più piccola dell’alfabeto ebraico, n.d.r.] delle sacre Scritture né alterare la verità della santa Quale accusa viene
fede o vero vendere li santi dogmi di quella per dinari da far guerra al Turcho.
mossa
all’imperatore
M. FIRPO, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo
tedesco?
processo d’eresia, Morcelliana, Brescia 2005, p. 467
Il caso modenese
6
L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
DOCUMENTI
La posizione di Pole, di Morone e degli altri religiosi disponibili a dialogare con i protestanti anche
sul terreno dottrinale emerge con particolare chiarezza se confrontata con l’atteggiamento intransigente
di chi voleva ricorrere solo alla repressione. Il testo seguente si incontra in un lungo memoriale inviato nel gennaio 1559 da Zaccaria Delfino al cardinale Carlo Carafa, a proposito della grave situazione tedesca. «Per la Chiesa di Roma, prima ancora di una lotta dura e difficile contro un nemico esterno, contro le eresie dei riformatori e gli eserciti dei principi tedeschi, questi decenni segnarono anzitutto un
aspro scontro interno per la definizione dei presupposti, delle verità e degli strumenti con cui quei nemici avrebbero dovuto essere combattuti e vinti» (M. Firpo).
UNITÀ 5
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
2
Riferimento
storiografico
pag. 10
Una città “infetta”
Modena, la città di cui Morone fu vescovo nei decenni centrali del XVI secolo, contava 12
268 anime nel 1509, ma poi fu colpita da carestie e pestilenze negli anni 1526-1528. Nei
decenni seguenti, si registrò un significativo processo di spostamento della popolazione dal
contado al capoluogo; pertanto, nel 1549, la città contava circa 20 000 anime, una cifra
che rimase sostanzialmente costante fino al 1581. In questi trent’anni, Modena registra un
discreto e stabile benessere economico, proveniente soprattutto dall’esportazione di tessuti
pregiati in lana, velluto e seta. In quell’ambiente benestante e relativamente colto, il messaggio protestante riuscì a diffondersi e a mettere stabili radici per diverso tempo.
Modena è la città italiana che ha conservato l’archivio dell’Inquisizione più ricco e più
completo. Oltre tutto, questo centro nel cuore dell’Emilia-Romagna registrò nel Cinquecento
un’altissima presenza di eretici, al punto che un principe luterano tedesco, negli anni
Trenta, la definì come la «sola benedica in Italia». I primi segnali di dissenso religioso in
direzione lutherana (il termine, però, è spesso usato dalle fonti in modo alquanto vago e
generico) comparvero nel gruppo dei sacerdoti che prestavano servizio in cattedrale e che
a quell’epoca erano denominati canonici. Inoltre, si fece notare in breve tempo un circolo culturale denominato Accademia e composto da laici, alcuni dei quali erano medici (come
Giovanni Grillenzoni), altri docenti di scuola, altri ancora esponenti di spicco delle più
prestigiose famiglie cittadine (come i Molza e i Rangoni).
Il vicario del vescovo Morone – spesso assente dalla città, per gli incarichi diplomatici ricevuti dal papato, da svolgere in terra tedesca – non riuscì a tenere sotto controllo la situazione. Solo a partire dal 1542 iniziò una lenta controffensiva cattolica, che prima di
tutto ricondusse all’ordine gli accademici, obbligati a sottoscrivere una dichiarazione di
ortodossia. Coloro che non vollero piegarsi si allontanarono dalla città; è possibile, tuttavia, che numerosi degli intellettuali obbligati a conformarsi per evitare un processo lo
abbiano fatto solo in apparenza, conservando in coscienza le proprie convinzioni eretiche. Questa opinione è sostenibile in base al fatto che, negli anni Quaranta, la città era
stata tutt’altro che purgata dall’infezione dell’eresia. Semplicemente, questa modificò i propri connotati e i propri caratteri. Innanzi tutto, registriamo una capillare diffusione di opi-
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 5
7
Un sospetto eretico
viene torturato durante
un interrogatorio
di un tribunale
dell’Inquisizione.
Donne ed eresia nel ducato di Modena
Nei verbali dei processi modenesi, ricorre con notevole frequenza il fatto che gli inquisitori dedicarono un interesse del tutto speciale alle donne delle famiglie in cui uno o più
soggetti fossero stati sospettati di eresia. Innanzi tutto, esse vennero usate come arma
per violare la segretezza di un gruppo ereticale chiuso su se stesso. Infatti, quando la
madre o la sorella di una figura di dubbia fama religiosa si recava in confessionale, d’accordo con l’inquisitore il prete incaricato di amministrarle il sacramento minacciava di
negare l’assoluzione alla devota, se non denunciava i nomi di coloro che sapeva fossero
eretici. In altri casi, spontaneamente, alcune donne denunciavano altre figure femminili; poteva trattarsi di amiche che si erano lasciate andare a discorsi irriverenti nei confronti
della messa o del purgatorio. In almeno un caso (nel 1553) abbiamo invece una serva che
segnala agli inquisitori il comportamento atipico della propria padrona, che non dice mai
le preghiere cattoliche tradizionali, non si fa il segno della croce e non impone a figli e
familiari i divieti alimentari tipici della quaresima.
Un episodio verificatosi a Sassuolo (distante una ventina di chilometri da Modena) ci rivela invece una signora che, con un pretesto, nel 1556 si recò fuori città dal lunedì prima di Pasqua fino al lunedì successivo la festività. Agli occhi degli inquisitori, si trattava
di una chiara strategia per eludere l’obbligo – imposto ai cattolici fin dal 1215 – di conF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Denunciare l’eresia
e i comportamenti
sospetti
La Riforma in Italia e il caso di Modena
nioni protestanti a livello popolare (lutherani mechanici, li chiama il vicario del vescovo nei suoi scritti), mentre la prima ondata, come si è visto, aveva investito in prevalenza elementi del clero, della borghesia
colta o del patriziato. In secondo luogo, il gruppo dei
fratelli si diede una vera struttura ecclesiale, cioè si trasformò in una vera Chiesa alternativa, mentre accentuava lo sforzo di non dare nell’occhio. Se negli
anni Trenta non erano mancate le prediche pubbliche a scopo di provocazione, in chiesa o nelle piazze, dopo il 1542 i protestanti modenesi si riunirono di nascosto, in luoghi segreti e clandestinamente,
sperando di non essere scoperti. Infine, dai fascicoli dell’Inquisizione emerge un progressivo radicalizzarsi delle posizioni teologiche, che tendono ad abbandonare Lutero per avvicinarsi al calvinismo (sul
tema della predestinazione e della negazione del libero arbitrio) o alle dottrine di Zwingli (a proposito dei sacramenti).
L’offensiva nei confronti dei fratelli fu lanciata in grande stile a partire dall’autunno del 1566: nell’arco di
circa un anno, fu celebrata una ventina di processi,
seguiti da altri cinquanta istruiti nel 1568. Un colpo decisivo al movimento fu inferto da un documento
papale del 10 febbraio 1567, che autorizzava il vescovo di Modena ad assolvere e ad ammettere di nuovo all’interno della Chiesa gli eretici della città che
si fossero personalmente rivolti a lui e che, nel momento in cui si impegnavano a cambiare completamente strada, avessero denunciato i propri confratelli.
Si verificò allora, all’inizio degli anni Settanta, un vero esodo di modenesi, diretti innanzi tutto in Svizzera, nel cantone riformato dei Grigioni. Qui poi, a quanto sappiamo, molti di essi non si sarebbero adattati passivamente al calvinismo, ma avrebbero assunto posizioni molto radicali che, a volte, li avrebbero costretti a un ulteriore esilio.
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
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LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
3
Riferimento
storiografico
pag. 11
fessarsi e comunicarsi almeno una volta all’anno, in occasione appunto della Pasqua. Grazie a tale pratica, ciascun parroco aveva la possibilità di tenere sotto stretto controllo tutti i suoi fedeli, minacciandoli della dannazione eterna in caso di confessione fasulla e di
comunione sacrilega. Una decina d’anni più tardi, di propria iniziativa, si presentò invece al vescovo Morone in persona una certa Bartolomea della Porta, la quale – in cambio
dell’impunità da poco riconosciuta ai rei confessi disposti a tornare da penitenti all’interno
della Chiesa cattolica – confessò numerose deviazioni ed errori. La donna, in effetti, riconobbe di aver rifiutato come contrari alla Sacra Scrittura la fede nell’intercessione dei
santi, la pratica devota dei pellegrinaggi e il culto delle immagini. Inoltre, dichiarò di aver
letto con passione Il beneficio di Cristo e di averne condiviso la dottrina fondamentale, cioè
la giustificazione mediante la sola fede.
I processi testimoniano dunque una diffusione capillare dell’eresia luterana tra le donne modenesi, di tutti i ceti sociali, non esclusi quelli alti. Eppure, i verbali conservati nell’archivio dell’Inquisizione mostrano che la comunità protestante modenese non era per
nulla femminista. Nella città emiliana, non si verifica quel fenomeno di promozione ed emancipazione femminile che l’adesione a una setta religiosa dissidente avrebbe svolto, circa un
secolo dopo, nell’Inghilterra sconvolta dalla rivoluzione. Nel Seicento inglese, non è raro
incontrare donne che affermano la propria libertà adottando una religione diversa da quella del padre e del marito; inoltre, nei gruppi inglesi più radicali, l’idea secondo cui lo Spirito santo è concesso in egual misura a tutti i battezzati, senza distinzione tra uomini e donne, fece sì che in alcune comunità la preghiera comune o la predicazione fossero guidate
da soggetti femminili. All’opposto, le donne eretiche di Modena vivono all’ombra di figure maschili che le hanno istruite, o che comunque detengono le leve più importanti
sia della cultura sia della guida della comunità. Anche agli occhi dei giudici dell’Inquisizione, sono sempre mogli o sorelle di qualche imputato, non soggetti dotati di autonomia decisionale e portatori di una personale, sia pur eretica, esperienza spirituale.
L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
8
Riferimenti storiografici
1
Il cardinale Giovanni Morone, tra Modena
e l’Europa
Giovanni Morone fu una delle figure di punta dell’evangelismo italiano, un orientamento che tentò
di trovare un accordo con i protestanti recependone il concetto teologico di base (la giustificazione per
sola fede) e respingendo ogni prospettiva di repressione violenta dell’eresia. I sostenitori della linea dura,
tuttavia, respinsero questa prospettiva e cercarono addirittura di portare Morone davanti all’Inquisizione.
Giovanni Morone era uno dei tanti figli di Girolamo Morone il gran cancelliere di Francesco Sforza duca di Milano, l’artefice primo, insieme con papa Clemente VII, di un tentativo
di coalizione politica che cacciasse fuori i barbari – come aveva voluto Giulio II qualche anno
prima – per contrapporsi al dilagare dello strapotere di Carlo V al di qua delle Alpi. Tentativo miseramente fallito, com’è noto, destinato a concludersi con quella vera e propria tragedia che fu il sacco di Roma del 1527, la cui brutale violenza e il cui epocale significato storico hanno lasciato tracce ancor oggi visibili sugli stessi affreschi di Raffaello nelle stanze
vaticane, dove le alabarde dei lanzi tedeschi incisero la definizione di Roma come Babylon
e il nome provocatorio di Luther su quei capolavori, in cui l’immagine della Chiesa di Roma
come erede del mondo antico e la sintesi tra classicità e cristianità celebravano i loro fasti
supremi. Non stupisce che il fallimento di quell’infausta iniziativa politica e la caduta dello
Stato di Milano comportassero anche il crollo, la fine, l’esaurimento del ruolo politico – e anche delle fonti di sostentamento, della ricchezza, del rango sociale – della famiglia del Morone. Giovane non ancora ventenne, con numerose sorelle da sposare e fratelli di scarso
talento, molto disposti a spendere e poco a guadagnare, per parte sua egli non poté fare
altro che cercare rifugio sotto le protettive ali della Chiesa e precipitarsi nella Roma sconvolta e miserabile all’indomani del sacco, allora definita dall’Aretino non più come caput ma
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
In che modo
Giovanni Morone
si è dedicato alla vita
religiosa? Si può
affermare che vi si
sia dedicato per
autentica vocazione?
Spiega
l’affermazione
secondo cui, a
giudizio di Morone,
ai problemi posti dai
luterani «occorreva
M. FIRPO, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo
dare una risposta
processo d’eresia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 38-40
anche in positivo».
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 5
Fascicolo in cui sono
contenuti gli atti
del procedimento e
la sentenza definitiva
di assoluzione del
cardinal Morone dopo
l’inchiesta aperta su
di lui dal tribunale
dell’Inquisizione.
9
La Riforma in Italia e il caso di Modena
come cauda mundi [non più capo, ma coda del mondo, n.d.r.],
per gettarsi ai piedi di Clemente VII (l’alleato di suo padre) e
chiedergli un qualche decoroso beneficio ecclesiastico che
consentisse a lui e alla sua famiglia di sbarcare il lunario. Fu così,
quasi per caso e controvoglia, che nel 1529 egli divenne vescovo di Modena. Eppure, anche in virtù della straordinaria
esperienza politica da cui proveniva, entro un breve volgere di
tempo il Morone non tardò a rivelarsi come il più abile diplomatico di cui la Chiesa potesse disporre in quegli anni, proprio nel
momento in cui si imponeva con ineludibile urgenza una rinnovata iniziativa politica per affrontare finalmente il problema della
Riforma protestante con la serietà che richiedeva, come la tragedia del ’27 aveva ormai evidenziato agli occhi di tutti.
Pressoché ininterrotto fu l’impegno diplomatico del Morone in
Germania e in Fiandra dalla metà degli anni Trenta fino al 1542 e
costante la sua presenza alle diete imperiali (Hagenau, Worms,
Ratisbona) in cui si svilupparono gli ultimi tentativi di ricomporre
pacificamente sotto l’egida [protezione, direzione, n.d.r.] imperiale
i conflitti religiosi che dilaniavano il mondo tedesco e l’Europa tutta.
A Gand e a Vienna conobbe i grandi e dignitari e intellettuali che
frequentavano la corte imperiale, con alcuni dei quali intrattenne
veri e propri rapporti d’amicizia personale, primo tra tutti Ferdinando d’Asburgo, fratello e poi successore di Carlo V sul trono imperiale. Fu allora che egli venne maturando una concezione politica
fondata sulla moderazione, sull’irenismo [sulla risoluzione pacifica del conflitto, n.d.r.], sulla
volontà di confronto e di mediazione con i protestanti, sempre più convinto che gli strumenti
della repressione fossero del tutto inutili e anzi controproducenti, che anche gli eretici dovessero essere trattati humaniter [con umanità, senza violenza, n.d.r.], che solo con le armi
della persuasione e del dialogo quelle fratture avrebbero potuto essere ricomposte, che a
quella ostilità e a quella rabbia, così come alle esigenze religiose che vi si esprimevano, occorreva dare una risposta anche in positivo, senza limitarsi ad anatemi e condanne. […] La
sua non era soltanto una posizione astratta, di principio: era piuttosto il risultato della consapevolezza di chi vedeva le cose come erano, con grande realismo ma senza rassegnazione, di chi assisteva allo svuotamento dei conventi e dei monasteri, al saccheggio delle
chiese, allo sradicarsi di una millenaria istituzione dal tessuto sociale, di chi quindi si rendeva
conto di quanto fosse del tutto illusorio pensare, come ancora molti facevano a Roma, di
poter affrontare il problema della Riforma protestante e la frattura della respublica Christiana
[l’insieme degli Stati cristiani, in teoria sottoposto alla duplice guida del papa e dell’imperatore, n.d.r.] solo con le armi delle alleanze politiche e degli eserciti mercenari. Di qui la sua
insistente sollecitazione a Roma perché si avviasse finalmente una qualche incisiva riforma,
che consentisse alla Chiesa di recuperare una qualche credibilità religiosa, di presentarsi con
un volto rinnovato ai suoi interlocutori e avversari tedeschi, di rendere possibili le trattative
necessarie all’avvio dell’impresa conciliare. La conoscenza diretta della realtà effettuale delle
cose tedesche, tuttavia, non poteva esaurirsi sul terreno politico, ma imponeva anche l’esigenza di indagare più a fondo sulle motivazioni religiose che da vent’anni turbavano e sconvolgevano quel mondo, per capire le ragioni profonde da cui erano scaturite le radicali istanze
di rinnovamento, e poi di rottura e di lacerazione che avevano innervato la Riforma protestante. […]
Esaurita la stagione dei colloqui di religione, nel 1541, anche il Morone tornò in Italia, dal
momento che a quel punto non restava altra strada da percorrere se non quella del concilio, la definizione della cui sede a Trento fu il frutto di un’altra sua efficace missione diplomatica in Germania l’anno seguente. E fu allora, nell’estate del ‘42, che a soli 33 anni, come
riconoscimento dei suoi meriti e dei risultati da lui conseguiti nel corso del lungo impegno
in Germania, egli venne insignito della porpora cardinalizia e, nell’autunno, inviato a presiedere la prima e presto fallita convocazione del Tridentino insieme con Reginald Pole. Tutto
ciò contribuisce a spiegare la grande autorevolezza di cui per molti anni il Morone godette
ai vertici del potere curiale, in virtù del suo personale prestigio e della stima e della fiducia
nutriti nei suoi confronti da parte dei sovrani asburgici, che in futuro ne appoggeranno più
volte l’elezione alla tiara [ne sosterranno la candidatura a papa; Morone, però, non fu mai
eletto papa, n.d.r.]
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
2
Nel Cinquecento, Modena fu definita nei modi più svariati. Se un principe protestante tedesco la definiva come la «sola benedica in Italia», le autorità cattoliche usano espressioni durissime, come eretica marza (eretica marcia) e infetta del contagio de diverse heresie come Praga. In effetti, insieme a
Lucca, il capoluogo emiliano fu sede di una consistente comunità riformata, dispersa dalla sistematica attività dell’Inquisizione locale.
UNITÀ 5
Assente dalla diocesi a causa di un pressoché ininterrotto impegno nelle nunziature [attività di ambasciatore del papa, n.d.r.] in terra tedesca tra il 1536 e il ’42, il vescovo Giovanni
Morone fu tenuto costantemente informato degli sviluppi della situazione dal suo efficiente
vicario, Giovanni Domenico Sigibaldi, attento a percepire e a denunciare con parole sempre più preoccupate il dilagare di «molti errori in dishonor d’Iddio et roina dell’anime», come
il Morone stesso si premurava di far sapere a Roma nel marzo del ’40. «Per diverse vie sono
avisato da Modenna – scriveva poche settimane più tardi – ch’in quella città vi sono pessimi principii di heresia, et pubblicamente si parla del purgatorio, delle indulgenze, della
messa, della intercessione de santi, dell’autorità del papa, del libero arbitrio et altri articoli
nel modo che si fa appresso a lutherani, et gli seminatori di queste zizanie sono astutissimi
et cauti et dotti, et si trovavano già haver gran piede». Zizanie la cui scoperta si intrecciava,
nelle lettere del Sigibaldi di quei mesi, con la desolata constatazione delle deprimenti condizioni in cui versava un clero cittadino ignorante e indisciplinato, di cui non costituivano certo
eccezione i canonici della cattedrale, veri e propri «asini da bastone», a cominciare dal preposito Bonifacio Valentini, unanimemente «reputato luterano perfetto» e in rapporto con alcuni stranieri sospetti (tra cui Camillo Renato, proprio allora fuggito da Bologna) che andavano in giro per le botteghe «a subornar de queste materie rancide lutherane». […]
«Tutta questa cità (per quanto è la fama, è maculata, infetta del contagio de diverse eresie
come Praga. Per le botege, cantoni, case, etc. ogniuno (intendo che) disputa de fede, de libero
arbitrio, del purgatorio et eucharestia, predestinatione», insisteva nel novembre del ’40 il Sigibaldi,
inducendo il Morone a chiedere a Roma che si mandassero inquisitori «discreti, fideli et dotti»,
capaci di rimediare a quella situazione prima che fosse troppo tardi, «perché se li buoni ingegni
et buone lettere di quella città con qualche adiuto externo si fondassero nel male, come forsi disegnorno, sarebbe danno irrecuperabile, et fra puoco tempo se ne sentirebbe nova per tutto».
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L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
Modena, città heretica marza
Pierre Mortier, Pianta
della città di Modena,
1630 ca.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
3
Donne, eresia e inquisizione a Modena
nella seconda metà del Cinquecento
L’adozione di alcune dottrine protestanti non significò affatto lo scardinamento dell’ordine sociale, e tanto meno comportò significativi mutamenti nelle relazioni di genere. Gli inquisitori erano
perfettamente consapevoli di questo dato, cosicché dedicarono la maggior parte delle loro indagini agli uomini. Per le donne, sarebbe stato il Seicento il tempo della persecuzione, allorché le preoccupazioni per il diffondersi dell’eresia sarebbero state sostituite da quelle nei confronti del reato di
stregoneria.
Ci troviamo dunque a contemplare un affresco in cui, benché alle donne fosse accordata una partecipazione formalmente paritaria alle comunità del dissenso, non era ammessa o riconosciuta la possibilità di un ruolo propositivo e concettualmente attivo delle
stesse. In altri termini, esse potevano discutere, ripensare e raffreddare, come Bartolomea,
le antiche devozioni per far spazio alle consolanti parole della Riforma […], ma, in ultima
istanza, era inconcepibile, tanto per gli inquisitori come per i fratelli, che dalla loro iniziativa potesse germogliare l’adesione agli articoli della fede rivisitata. Sono gli uomini che
diffondono catechismi proibiti; sono ancora loro a evangelizzare le donne – mogli, sorelle,
amiche – e a portarle nei circuiti della protesta; sono sempre gli uomini a guidare le nuove
comunità o i circoli che le componevano. Di questa impostazione al maschile dell’intera
vicenda ereticale sembra rinvenirsi traccia proprio nella conduzione dei processi a donne
accusate di eterodossia, tutte interrogate non già in quanto potenziali soggetti di autonoma
elaborazione teologica e dottrinale, ma in virtù del potere suasorio che gli uomini con cui
erano in contatto (e a cui i giudici miravano) esercitavano su di loro. […]
Anzitutto può costituire un dato su cui riflettere il computo numerico e la distribuzione
tra i sessi dei fascicoli ancor oggi conservati all’interno dei fondi inquisitoriali: tra il 1540 e
il 1570-75, su circa 180 imputati per eresia, solo una decina sono donne, ciò che in termini percentuali sta a indicare come appena il 5-6% degli accusati si possa ricondurre alF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 5
11
La Riforma in Italia e il caso di Modena
Ma per il momento nulla cambiò: «La setta va pur perseverando et moltiplicando, ma nullo [nessuno, n.d.r.] viene a denunciare», tornava a ripetere nel gennaio del ’41 il vicario, che due mesi
dopo, sempre più desolato nel constatare la sua impotenza, si scagliava ancora contro quei «novi
evangelisti smemorati del Christo, non inamorati come se finzeno», tra i quali «moltissimi manzano carne venere, sabbati non fanno oratione né ieiuni etc. Aboninatione grande!». […]
«Sono pegior questi de la setta qua che non è lutherani, perché mi pare di comprehendere
ch’habiano abrazato tutte le eresie germanice», si affannava a comunicare in Germania il povero
Sigibaldi nell’aprile del ’41, ormai convinto che «a raffrenar le vane opinioni de questa setta non
giova prediche né publiche lettioni», bensì severi provvedimenti repressivi concordemente messi
in atto dalle autorità civili e religiose. Lo stesso vescovo suggeriva ormai di venire «alla radice del
male senz’alcun risguardo» per evitare «che tal infirmità… stando nascosta ammorbi tutta
quella Chiesa». Ma anche passare alle maniere forti non era facile, perché «nullo vole essere delatore né a me né all’inquisitore», scriveva il vicario, rivelando la sua amara consapevolezza delle
potenti protezioni sociali che circondavano gli uomini più in vista del movimento eterodosso. Le
notizie sui colloqui religiosi tra cattolici e protestanti tenutisi a margine delle diete di Hagenau,
Worms, Ratisbona circolavano tra gli aderenti alla «setta come se n’havessero lettere ogni giorno,
et de tempo in tempo vano dicendo molte impertinenze contra li dogma approvati, secondo l’openioni ch’egli tengono o vorrebbero». Nel giugno l’asprezza delle discussioni dottrinali era giunta
al punto di far ritenere «un gran pericolo a valenthuomini predicar o leger publicamente in questa cità, dove alchuni vano ad uno estremo, altri da l’altro circa le buone opere, ne le quali alchuni si confidano troppo, altri in tutto le sprezano dicendo essere soverchie». Per poter ristabilire un minimo di disciplina in mezzo a tanta confusione era dunque indispensabile un
Da quale campo
chiarimento dottrinale, in grado di chiudere la bocca a quanti parlavano a vanvera dei più sacri
semantico vengono
misteri della fede, che in passato erano stati di esclusiva pertinenza dei teologi di professione e
tratte le espressioni
ora parevano invadere le case e le piazze di tutta la città. Ognuno si sentiva ormai autorizzato a
usate per definire
discutere di fede e di opere, di predestinazione e libero arbitrio, ponendosi alla scuola di chi non
l’eresia? Quale
nascondeva la «speranza (utinam vana) che l’authorità ecclesiastica vada in fumo et che ne li alrisultato si ottiene
tri articoli li sia licito quel che li piace, secondo la libertà christiana carnale a loro modo intesa».
con tale scelta?
Testimonianza inequivocabile, se ancora ce ne fosse bisogno, degli echi e dei consensi che anQuali difficoltà
che a Modena avevano trovato gli scritti dei grandi maestri della Riforma.
incontrò, in un primo
M. FIRPO, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico,
momento, l’attività
Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 54-58
dell’Inquisizione?
IPERTESTO
LOCALE
PERCORSO DI STORIA
PERCORSO DI STORIA LOCALE
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PERCORSO DI STORIA LOCALE
L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II
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l’universo femminile. Un indice significativo sotto certi aspetti, ma pur sempre riprova di
un coinvolgimento marginale delle donne nel processo di repressione frontale dei fermenti
di dissenso posto in essere dall’Inquisizione Romana. Quanto poi emerge dall’indagine sul
merito dei procedimenti a carico di imputate per eresia è la strategia processuale e le finalità per cui i giudici del Sacro Tribunale intrapresero azioni specifiche nei loro confronti:
le donne – per lo più mogli, frequentatrici assidue o sorelle – finiscono per costituire una
facile via d’accesso al sistema e all’organizzazione della protesta modenese, in grado di
descriverne in maniera precisa i contorni, evitando le reticenze o gli scontri frontali messi
in campo dai capi della contestazione religiosa cittadina. Se dunque, come si è più volte
accennato, il ruolo femminile nell’assetto generale dell’eterodossia locale fu marginale, ciò
fu dovuto non a un’esclusione tout court delle donne dai circuiti del dissenso, quanto piuttosto a una configurazione differente e per molti aspetti complementare della funzione a
esse assegnate: le donne furono essenzialmente discepole, più o meno convinte, dei propri mariti, amici e affini, talora disposte a coprirne segreti e dissimulazioni, altre volte inclini a confessioni e prese di distanza dettate da motivi di opportunità. Eppure fu proprio
questa collateralità a una intellighenzia del tutto maschile a garantire quella diffusione capillare del fenomeno ereticale: assieme ad altri fattori, fu il convincimento e il coinvolgimento
del mondo femminile a portare la protesta nelle case, nei mercati e nelle piazze della piccola città estense e degli altri centri ducali. L’estensione di questo contagio, giunto sino
alle radici del tessuto sociale, fu alimentato in maniera determinante dal contributo di quelle
donne dell’eresia di cui si è cercato di indagare il profilo. Ma molte altre donne furono di
fatto schierate – a diverso titolo – sul fronte opposto, configurandosi come delatrici e accusatrici di eterodosse, coinvolte nel circuito repressivo e di controllo posto in campo dalla
macchina inquisitoriale.
Se si volesse articolare una proposta di lettura della vicenda eterodossa sulla scorta della
distinzione di sesso e nell’ottica offerta dai fondi [dai materiali conservati negli archivi, n.d.r.]
del Sant’Uffizio, si potrebbe concludere che, mentre il dissenso religioso cinquecentesco ebbe
una connotazione spiccatamente (e quasi esclusivamente) maschile, nel secolo successivo
le parti s’invertirono per la rinnovata attenzione dei giudici al mondo della stregoneria gestito
(ancora una volta quasi esclusivamente) da donne. Certo in questo secondo caso non ci si
trova più di fronte a deviazioni dall’ortodossia assimilabili alle idee più o meno radicali di cui
l’Accademia prima e i fratelli poi si erano fatti portatori. Come ricorda Brian Levaci «è vero
che le streghe venivano solitamente considerate eretiche…, ma l’eresia della strega era qualcosa di completamente diverso dall’eresia di un cattolico o di un protestante non ortodosso».
Entrambi però, conclude Levack, «potevano essere perseguiti dalle stesse autorità ed entrambi potevano fungere da capri espiatori dei mali della società». Questo mutamento di prospettiva – a fronte della permanenza dello stesso tribunale – era il prodotto di un cambiamento
nella scelta dell’eresia da perseguitare (in parte conseguente al rientrato allarme per l’ondata
eterodossa cinquecentesca), nelle priorità che le autorità inquisitoriali avevano posto all’ordine del giorno e nel quadro più generale che faceva da sfondo alle vicende considerate.
Senza addentrarsi in una materia di per sé complessa, ciò che si vuole indicare è come il XVI
secolo non fu, negli ipotetici laboratori delle dottrine ereticali diffusesi in Italia, un tempo venato dalle sfumature del mondo femminile. Sarà invece il Seicento a porre al centro della scena
– almeno di quella del tribunale di fede – «migliaia di persone, in maggioranza donne… processate e condannate a morte con l’accusa di aver stretto il patto con il diavolo e/o di aver
praticato malefici mortali (G. Romeo). […]
In questa miscela di innovazione e conservazione si deve concludere, con Susanna
Peyronel Rambaldi, che «le donne del popolo o quelle appartenenti ai ceti borghesi sembrano apparentemente essere state ai margini della discussione religiosa di quei decenni
e sono poche quelle coinvolte nei processi inquisitoriali». Resta dunque condivisibile il giudizio espresso dalla studiosa secondo cui «una storia della Riforma al femminile… è ancora tutta da scrivere, ed è probabilmente assai difficile da farsi e forse ingiustificata».
M. AL KALAK, Gli eretici di Modena. Fede e potere alla metà del Cinquecento, Mursia,
Milano 2008, pp. 74-82
Spiega l’espressione «impostazione al maschile», utilizzata per descrivere la dinamica
di diffusione della protesta religiosa a Modena.
A quale titolo e con quale ruolo varie donne furono coinvolte nel circuito repressivo
e di controllo posto in campo dalla macchina inquisitoriale?
Spiega l’affermazione secondo cui «una storia della Riforma al femminile», non solo
è ancora tutta da scrivere, ma forse è addirittura «ingiustificata».
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
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La Riforma in Italia e il caso di Modena