LA FANCIULLEZZA
Dino nacque il 16 Giugno del 1910, nel rione più alto di Tonara, e venne accolto festosamente. La
sua famiglia era benestante e numerosa, i suoi genitori erano cattolici convinti, e dopo di lui ebbero
altri 6 figli. Il padre era milanese, alto un metro ed ottanta centimetri, la madre era una sarda
geneticamente pura, alta un metro e mezzo. Lui da adulto diventò 1.64, ma si comportò sempre come
se fosse stato 1.85
Tonara è un paesetto alle pendici del Gennargentu, nella Barbagia, a 900 metri di altezza sul
livello del mare. Il paese aveva 4 rioni. Nel 1921 si fece un censimento, e si trovarono 2081 abitanti ad
Arasulè, 792 a Toneri, 294 a Taliseri, per un totale di 3167 anime. Ad Ilalà, un rione di due case, non si
trovò più nessuno.
Tonara, riproduzione di una foto del 1916
Tonara è antichissima. Nella vicina Pedras Lobadas si trovarono vestigia romane del periodo
imperiale. I tonaresi erano una popolazione di pastori bellicosi, famosi per le lotte contro i pastori di
Belvì, un altro paesetto posto a qualche chilometro verso ponente. E bisogna ricordare che Belvi è il
nome che i romani dettero a quella popolazione perchè era particolarmente feroce.
D' altro canto aggressività e forza sono scritte nei nomi e nella storia della Barbagia. Il Re dei
Vandali, Genserico, vi spedì molti ladri mauretani, che dettero ovviamente la loro impronta
caratteriale, ed alla fine gli abitanti, nel 534, vennero chiamati Barbaricini ed quella zona venne
definita Barbagia.
Ma Dino aveva un carattere abbastanza dolce e conciliante per essere figlio di quella terra. I
suoi primi ricordi risalivano a quando la madre, come si usava ai primi del 900 in Sardegna, faceva il
pane per la famiglia all' alba, aiutata dalle cameriere. Appena avevano finito il piccolo Dino era pronto,
prima di tutti gli altri, a far colazione con quel pane fresco fatto a sfoglia, "la carta da musica", che
ricordò con nostalgia per tutta la vita. Ma sopratutto lo attraevano i dolci, e per quelli avrebbe fatto
qualunque cosa. Il massimo in questo campo, lo realizzò il giorno prima del matrimonio della maggiore
delle sue sorelle: "Mia madre aveva preparato tutte le specialità della pasticceria sarda per il giorno
successivo, e le aveva messe sul tavolo della cucina, poi aveva chiuso, per prudenza, la porta a chiave.
Però mi aveva sottovalutato". Pensato e fatto: Dino scoprì che la madre aveva lasciato aperto un
finestrino per arieggiare la stanza, e riuscì da quello ad intrufolarsi di misura nella cucina. Appena
dentro cominciò la festa: "un dolce qua, uno la, uno sopra ed uno sotto", li assaggiò tutti. Però fu
accorto, ne prese uno di ciascun tipo, e prima di andarsene ricostruì tutta la disposizione sulla tavola,
allargando gli spazi tra i dolci per mascherare i vuoti. L' operazione rischiò di fallire perchè con la
pancia piena non riusciva più a passare dal finestrino, ma la fortuna lo aiutò e ce la fece. Pare che
nessuno si fosse accorto di nulla, e Lui lo rivelò solo quando si era ormai fatto vecchio.
Appena fu in età scolare lo inviarono alle elementari, ad alcuni chilometri da casa, ed
ovviamente lui ci andava a piedi tutti i giorni. Quella passeggiata era la parte che lo attraeva di più. La
scuola gli piaceva un pò meno, perchè non sopportava le imposizioni, ma riuscì a fare a modo suo
senza entrare in conflitto. In particolare non sopportava i controlli personali, come quelli sul
"moccichino". In prima elementare la maestra pretendeva di controllare se gli alunni avevano sempre
con se "il moccichino" (=fazzoletto), che dimostrava la loro capacità di essere ordinati. Dino non se lo
portò mai dietro, e per tutto il tempo della scuola infinocchiò la "Signorina Maestra" mostrandole un
lembo della camicia al posto del fazzoletto. Evidentemente riuscì ad infinocchiare anche i suoi
compagni di scuola, perchè altrimenti qualcuno avrebbe fatto la spia. Sapeva mantenere il segreto su di
se, e questo fu determinante per le sue scelte ed il suo destino.
Un aspetto importante della prima parte della sua vita fu il rapporto con i libri . Non aveva
mai studiato a tavolino, salvo che per avversità metereologiche. Altrimenti si arrampicava su
qualunque albero avesse a portata (proprietà di suo padre o di altri, non metteva differenza, almeno dal
suo punto di vista). A tracolla portava una specie di sacca, contenente il pane sardo, la "carta da
musica", fatto a sfoglia sottile, che arrotolava intorno ad un pezzo di formaggio di Tonara, e qualche
libro. Dino non amava il latino, ma lo conosceva bene istintivamente, come accade spesso ai sardi, che
dovettero subire i romani, la loro pax e la loro lex. D' altro canto Tonara viene menzionata per la prima
volta in un documento ufficiale redatto in un latino approssimativo, che sanziona la pace tra il re Don
Giovanni D' Aragona ed Eleonora Giudicessa d' Arborea (24. Gennaio. 1388):<<Item a Bildosino de
Sori Majore villae de Tonara, Arsoco de Lacon et Matthaeo de Querqui juratis ac Francesco Murgia
Petro Marras Juliano Uras et Margiano Siche habitatoribus villae proxime dictae>>. Invece amava
Geografia e storia. Sino agli ultimi momenti della sua vita fu una vera enciclopedia di informazioni in
questo campo. Studiava e sognava paesi lontani, larghi orizzonti, novità impreviste, avventure. La
Sardegna, che amò sempre profondamente, iniziava sin da allora a stargli stretta!
Quando poteva Dino andava a guardare una casa di Arrasulè, dove una notte del 1829 aveva
dormito il principe di Carignano, futuro Re Carlo Alberto. C' era una grande targa a ricordo dell'
evento, ed una vecchia, che aveva quasi 100 anni, raccontava di avere cambiato le lenzuola del letto
del Principe. Raccontava la storia da sempre, ma nessuno si era mai stufato di starla a sentire. Quelle
lenzuola erano diventate, a Tonara, più famose della Sindone.
Lo spirito avventuroso del piccolo Dino non si esauriva nelle fantasie. Ogni tanto, per spezzare la
monotonia della vita del paese, organizzava una spedizione con gli altri monelli, per rubare la frutta
dagli alberi. In Sardegna, terra povera, dalle forti passioni e gelosie, questo gioco può avere
conseguenze pesanti, e Dino portò il segno di una di queste spedizioni per tutta la vita.
Ovviamente il furto della frutta era solo un gioco. La famiglia di Dino era ricca. Il padre era un
grossista proprietario di 5 empori, ed aveva bestiame, ed orti pieni di alberi, ma la frutta del vicino è
sempre più buona. "Una volta andai nel campo di un contadino, che probabilmente aveva già ricevuto
altre visite. Avevo esplorato il territorio, e non avevo visto nessuno, ed iniziai la scalata dell' albero.
Appena iniziato, bum, arrivò una sventagliata di pallini da un fucile da caccia. Il terrore mi mise le ali
ai piedi, e riuscii a fuggire, più veloce di un fulmine". Quando si fermò a constatare i danni scoprì di
avere 2 pallini di piombo nella coscia destra, "ma avevo la coscienza sporca e sopportai in silenzio il
dolore. Coprii le ferite di ingresso dei pallini con delle foglie, e feci finta di nulla." Il grosso problema
fu quello di far scomparire i pantaloni bucati, perchè in quei tempi non si buttava mai nulla, e la madre
contava regolarmente i capi di biancheria. Per fortuna il proprietario del terreno non lo riconobbe, e
nessuno seppe mai nulla, in particolare il padre, di cui aveva un sacro terrore e rispetto. Quella
esperienza evidentemente lo segnò profondamente, e Dino fu di una onestà cristallina per tutta la vita.
Dino comunque cresceva robusto, ed amava la natura. Cavalcava senza sella e spesso si cacciava
nei guai. Una volta volle montare un cavallo selvaggio, ovviamente senza sella. L' animale partì ad alta
velocità, e non si fermava. Dino era attaccato alla criniera,e raccomandava l' anima al Padreterno. Alla
fine il cavallo si bloccò davanti ad un ruscello e Dino ci finì dentro. Girovagò fino a sera per asciugarsi
i vestiti, con le solite foglie appiccicate alle ferite. La notte non dormì per il dolore, e non disse nulla a
nessuno per evitare la punizioni. E' continuò a crescere robusto e sano, e sempre più desideroso di
avventure.
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Nel paese si raccontava sempre della nevicata del Gennaio del 1793, quando la neve era
arrivata a 10 metri di altezza. Dino aspettava tutti gli inverni per poter dimostrare il suo eroismo.
Avrebbe salvato qualcuno in un casolare sperduto. Ma gli riuscì soltanto di aiutare i grandi a spalare la
neve, o, se la nevicata era eccessiva, a scavare e puntellare gallerie di comunicazione tra le porte delle
case, che si affacciavano in vicoli strettissimi.
Lo affascinavano anche le feste del paese, sia perchè si mangiavano i dolci, sia perchè
arrivava da fuori gente nuova. Il 13 ed il 14 Giugno, per la festa di S. Antonio da Padova, il cortile
della chiesa si riempiva di mercanti. A Dino piaceva girovagare, guardare le merci, e domandare. Ogni
tanto qualche pastore compiacente gli raccontava di viaggi, e lui, puntualmente, correva a casa e
trascriveva tutto il racconto su un taccuino.
La Confessione
Dino fu sempre profondamente religioso, anche se viveva la fede in modo non ossessivo, facendola
convivere con la sua concezione divertita della vita. A nove anni si confessò per la prima volta. "Un
giorno venne al mio paese una missione per la predicazione quaresimale. I frati avevano tutti la barba.
Io avevo nove anni, e mi andai a confessare. Il monaco doveva essere un po' sordo, ed avvicinò la
faccia alla grata, ed i peli lunghi e folti si infilarono nei buchi. Doveva anche essere debole di vista,
perchè pensò che fossi più grande della mia età, e cominciò a chiedermi dettagli della mia vita
sentimentale. Io mi emozionai, e mentre cercavo di rispondergli, cominciai nervosamente ad annodare
tra loro i ciuffi della barba che spuntavano dalla grata. Imbarazzatissimo gli dissi che mi ero
innamorato di una compagna di scuola". Il monaco mi disse: "se ardi dal desiderio corri al
matrimonio". "Io mi spaventai, balbettai qualcosa e scappai da mia madre per sapere che dovevo fare,
mentre il prete, che aveva ritirato la faccia indietro, urlava e smoccolava per il dolore. Arrivato a casa
dissi a mia madre che dovevo sposarmi. "Chi te lo ha detto? mi chiese Lei. Il confessore, risposi. Va
bene, però lo farai a tempo e luogo, mi rassicurò la mamma. Ed io mi tranquillizzai".
Nei primi anni della sua vita sopravviveva ancora la moda di pireddare: due uomini, i
pireddadores, si nascondevano, nelle notti di estate, uno tra le rocce di "Su Toni", e l' altro tra i
castagni di "Pizziri-masa", dall' altro lato del paese, ed uno domandava dei vizi delle donne, e l' altro
gli rispondeva. Tutto il paese a tiro di voce stava a sentire. Ma Dino rivelò subito il suo carattere. Dopo
un pò si stufò e non li ascoltò più. Non era pettegolo, e non lo fu mai in tutta la vita. Piuttosto gli
piaceva inventare per gioco, come faceva con sua nonna. Dino amava imbottire la nonna di frottole, ma
in fondo le faceva un gran bene, perchè la povera vecchia aveva 90 anni, non usciva più da casa e si
annoiava da morire. Lui le imbastiva dei romanzi su tutti i personaggi del paese che lei conosceva, e lo
portava avanti a puntate. Le raccontava di fatti misteriosi, di amori segreti, di atti di eroismo, e di gravi
misfatti, facendo diventare buoni i cattivi e viceversa.
La povera vecchia era credulona, si scandalizzava, e si faceva il segno della croce borbottando "mio
Dio, mio Dio, in che mondo siamo ridotti". Il padre, che era un uomo retto, non era d' accordo, ma alla
fine si metteva a ridere quando la vecchia gli riferiva ad esempio di aver saputo da Dino che una zitella
sessantenne illibata era fuggita sui monti con un pastore più giovane di lei. E se qualcuno le diceva che
non era vero rispondeva "voi mi dite così per non farmi addolorare, ma viviamo in tempi brutti".
Per fortuna la nonna non vedeva nessuno al di fuori della sua famiglia, e queste boatte non
superavano le mura domestiche!
Del resto Dino alla fine riequilibrava le cose facendo ritornare buoni i buoni nelle puntate successive,
e dei cattivi non si occupava più. Terminava la storia dicendo che Dio ci aveva messo le mani, e la
nonna si tranquillizzava, tanto più che la sua memoria vacillante non le consentiva di ricordare quasi
nulla.
GLI ANNI DELLA GIOVINEZZA
Dino frequentò il Ginnasio inferiore e superiore a Cagliari. Non spese, ne allora ne mai, nel corso
degli studi successivi, molto tempo sui libri. Anzi, molte pagine dei suoi libri di Legge rimasero
sempre unite, perchè evidentemente non usò mai il tagliacarte. Del resto non aveva molto bisogno di
leggere, perchè capiva al volo e ricordava tutto quello che gli serviva. Di quegli anni ricordava
sopratutto i viaggi in treno. Il treno era a scartamento ridotto, anzi ridottissimo (negli anni 60 la Walt
Disney Production ne fece un documentario televisivo!), ed andava a vapore. Per percorrere un
centinaio di chilometri impiegava 12 ore. Rallentava prima di tutte le stazioni, e cosi i paesani
potevano allontanare le galline dai binari, mentre il capotreno scendeva a prendere il caffè che qualche
amico gli preparava. Quando poi il treno iniziava ad affrontare le pendici del Gennargentu, molti dei
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viaggiatori, Dino in testa, scendevano, ed attraverso una scorciatoia, andavano ad una osteria. Li
ricevevano le informazioni preliminari su quello che era accaduto in paese. Poi raggiungevano il treno
e risalivano per riprendere il lento viaggio. Qualche volta poi il trenino si trovava davanti un gregge di
pecore, e gli uomini scendevano per aiutare il pastore ad allontanare le pecore. Dino in quel periodo
era stato nominato, per riguardo verso il padre, che era Sindaco del paese, Membro del Comitato del
Fiore (che si interessava dei festeggiamenti in onore del Santo Patrono). Questa onorificenza lo
lusingava particolarmente, ed il fatto di tornare dalla città già informato (all' osteria lungo la
scorciatoia) degli avvenimenti dei buoni paesani, lo faceva sentire importante. Anche collaborare ad
allontanare le pecore dai binari era una espressione della sua magnanimità e democrazia, perchè si
sentiva un notabile. Aveva quattordici anni.
Dino visse per tutta la vita il contrasto tra le forti radici sarde ed il profondo rispetto per la cultura
del suo paese, e la sua natura avventurosa, scanzonata, il modo beffardo e disincantato di guardare la
vita, la autoironia. Conservò un ricordo reverenziale dei suoi genitori. Nella madre identificò la carità,
la generosità, e fu tutta la vita generoso. Nel padre identificò la giustizia. "Mio Padre viveva col
codice alla mano, sempre attento a non avere problemi legali. Una volta litigò con un vicino, che
attraversava il suo terreno con il bestiame senza chiedere permesso. La questione fini in tribunale, e
mio padre ebbe ragione. Quando fu letta la sentenza, chiamo la controparte e gli disse: adesso che ho
avuto ragione, puoi passare". Dino raccontava anche che il padre era meticoloso ed ordinatissimo, si
alzava la notte se temeva di aver lasciato una penna fuori posto (un carattere che oggi noi
chiameremmo ossessivo), ma lui ne trasse la parte migliore. Lo emulò perchè fu sempre molto
ordinato, ma non fu ossessivo. Però, forse, il carattere del padre fu un ulteriore motivo per fuggire dalla
Sardegna.
Dino aveva un carattere forte, ma certo non era il più forte della famiglia. Il fratello maggiore ebbe
in donazione da una zia un bosco, ma gli altri parenti diseredati ricorsero, e vinsero la causa. Il fratello
fu costretto ad abbandonare la proprietà, ma la notte prima di consegnarla, con una squadra di operai
raccolta fortunosamente, tagliò e portò via tutti gli alberi. Dino raccontava questa storia con orgoglio,
ma lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Per fortuna non era un uomo di principio sino a quel
punto, e così non rovinò mai la vita a se stesso ed agli altri, e visse, tutto sommato, abbastanza in pace.
LA FUGA
A 17 anni Dino compì la sua grande impresa, che gli fruttò stima ed ammirazione in tutto il paese.
Generalmente, una volta al mese, il padre lo mandava a Cagliari per le operazioni di banca. Durante
uno di questi viaggi Dino venne a sapere che il giorno seguente ci sarebbe stato il volo inaugurale della
linea aerea Cagliari-Roma. Diventò matto: aveva letto di aerei soltanto sui libri, ma non ne aveva mai
visto uno, ne da vicino, ne in volo, nonostante lo avesse cercato spesso nel cielo. Volare era il suo
mito, e spesso sognava di fare l' aviatore. Non perse tempo a riflettere, e prima di sera era riuscito a
rimediare il biglietto di andata e ritorno. Il giorno dopo fece il volo inaugurale. L' aereo era un
idrovolante Savoia-Marchetti, che faceva il volo di sola andata, e tornava il giorno dopo. Il volo
durava tre ore, e si ammarava ad Ostia. Quando finalmente l' aereo arrivò era notte, e Dino trovò un
alberghetto dove non dormi per l' emozione. Fu una lunghissima notte, con la mente fissa al sogno di
fare l' aviatore, con la rivisitazione di ogni minuto di quel volo, ed il sogno di ripeterlo su un aereo dell'
aviazione militare. Dino conservava con devozione i ritagli dei giornali, dei pochi che arrivavano sino
a Tonara, in cui si parlava di aerei. Charles Lindberg, che fu sempre un suo idolo, aveva compiuto nel
maggio di quell' anno, il 1917, il suo grande volo transatlantico solitario, e questa coincidenza per lui
era esaltante. Finalmente venne l' alba, e poi l' ora del ritorno. Furono altre tre ore di volo mozzafiato,
ma l' aereo ammarò a Cagliari senza difficoltà, e Dino rimise piede sul suolo della Sardegna stringendo
il biglietto di andata e ritorno, fondamentale prova di eroismo, che lo avrebbe consegnato agli annali
del paese. Sulla via del ritorno a Tonara lo prese la paura che il padre non sarebbe stato contento della
faccenda, e per tutto il tempo del viaggio sul il trenino che lo riportava a casa fu tormentato dalla
indecisione. Poi vinse la sindrome di Cristoforo Colombo, e passò tutto il mese successivo a raccontare
la sua avventura a tutti. I paesani nella maggioranza lo ammiravano, ma le donne più anziane erano
diffidenti, perchè pensavano che in quell' affare che volava doveva entrarci lo zampino del diavolo. Il
prete non si pronunciò. Il padre rimase inizialmente interdetto, poi gli disse: "In fondo, figlio mio, sai
quello che fai". La madre non disse nulla, ma recitò per molte sere delle novene di ringraziamento. E
tutto sommato la brava donna ebbe più ragione di tutti, perchè quando Dino tornò a Cagliari il mese
seguente, per sistemare i conti in banca, seppe che il volo successivo al suo era caduto in mare.
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Finalmente arrivò il 16 Maggio del 1928, giorno del suo 18o compleanno. Dino studiava a
Cagliari, ma tornò a casa il lunedi, due giorni in anticipo, e passò iml Martedì mattina al Comune, per
avere l’ atto di nascita. Il segretaio comunale, nel momento in cui lo rilasciava, sentì il dovere di
informarsi: <<a che ti serve>> Dino non esitò: <<è per fare gli esami>>. <<Ma non serve!>> <<è un
regolamento nuovo>>, bleffò Dino con assoluta sicurezza. Il segretario si aggiustò gli occhiali, lo
guardò con aria severa, e gli disse: <<non è che ti vuoi sposare?>>. <<Tio (=zio) Giovannino- scoppiò
Dino, chiamando il segretario confidenzialmente al di fuori di tutte le regole della creanza- ma che,
state scherzando?>>. L’ uomo rimase preso in contropiede, e non si sentì più di discutere, borbottò
soltanto: <<mah, questi regolamenti scolastici, li cambiano ogni giorno!>>, poi infilò gli occhiali a
pince-nez, firmò, e battè sopra il foglio un paio di timbri. Il Mercoledì ci fu la grande festa, ma Dino
volle scappare via prima di sera, con la scusa di una interrogazione il giorno successivo, e ripartì con il
trenino ansimante alla volta di Cagliari. La mattina del 17 era già al Comando Militare con il suo bravo
Certificato di nascita, e la domanda redatta in bella calligrafia, per richiedere di essere accettato come
volontario in Aviazione. Aveva a casa una collezione di vecchi giornali che parlavano delle imprese
dei grandi aviatori, del Barone Rosso, ed un libro che mostrava gli schemi di tutti gli aeroplani. Per
uno stridente contrasto, i suoi libri di greco avevano le pagine intonse, neppure toccate dal tagliacarte,
ma quel libro era praticamente “consumato” dal grande sfogliare. Però purtroppo quel giorno ebbe
anche la prima grande delusione della sua vita. L’ aviere che prese la domanda la guardo, la riguardò,
poi gli chiese: <<dov’è la firma di tuo padre?>>. <<che c’ entra, devo volare io>>. L’ uomo non era in
vena di scherzare, e gli disse seccamente: <<qui risulta che sei nato il 16.maggio del 1910, e quindi sei
minorenne, ci vuole la firma di tuo padre!>>. Fu una mazzata: Dino sapeva che forse suo padre gliela
avrebbe messa, ma la madre non lo avrebbe mai accettato, e Raimondo Tatti non era tipo da dare un
dispiacere alla moglie. Dapprima pensò a falsificare la firma, poi ebbe paura e non lo fece. Andò la
domenica successiva a Tonara, e provò a convincere la famiglia riunita, ma non ci fu verso. La madre
era un angelo di donna, ma era sarda, e per smuoverla quando si metteva in testa una idea, non sarebbe
bastato Socrate. Dino tornò a Tonara, ed il suo primo sogno, il più grande, venne miseramente
infranto.
Dino visse, peraltro allegramente, come era nel suo carattere, anche il contrasto tra la rigida
tradizionalità della sua terra, ed una istintiva tendenza alla dissacrazione. Conservò pubblicamente il
rispetto delle regole, anche quando divenne vecchio, ma quando era nella sua intimità i giudizi
divenivano taglienti, e le sue opinioni molto più realistiche e disincantate. Indubbiamente venne
limitato dalla cultura del suo tempo, ma siccome era molto intelligente, riuscì a mantenersi
ideologicamente libero, senza che gli altri lo capissero, e ne fossero disturbati. Lo si sarebbe potuto
definire un conservatore illuminato, con un grande fair play. Ma da giovane si tradì, e questo lo portò
in rotta di collisione con una delle sue sorelle, e purtroppo ne pagò un prezzo moralmente alto. Una
delle sue sorelle maggiori si doveva sposare, ed era rito del paese che la sposa comprasse o facesse
comprare per il futuro marito una camicia nuziale in un paese vicino. Ma questa volta vi era una
opportunità molto migliore di far bella figura. Dino studiava al Liceo a Cagliari, ed i parenti decisero
che la camicia la avrebbe comprata lui. La madre gli mandò 50 lire (una somma esagerata per l'
acquisto di una camicia), con molte raccomandazioni sulla qualità del capo . Dino inizialmente
individuò una camicia da 15 lire, ma poi individuò anche una trattoria molto lussuosa dove i pasti
costavano 10 lire. A questo punto scattò in lui la natura ribelle. "Una camicia non è un talismano che
porta la felicità. Era stupido pensare che la felicità di una coppia dipendesse da una camicia, anzi da
dove si comprava una camicia". Questo fu il background filosofico. Sul piano pratico decise che
doveva investire quei soldi in modo più intelligente, e per 5 volte mangiò da gran signore nella
trattoria di lusso che aveva individuata. Il guaio fu che al paese non capirono la sua motivazione
ideologica, in particolare la sorella, che gli tolse la parola, e non gli volle più parlare per tutta la vita.
Non rispose mai alle sue lettere, neppure a quelle, commoventi, che Lui le scrisse, ormai vecchio, e
conscio che la morte stava per arrivare. Non tutti ovviamente si comportarono come la sorella: la
madre perdonò, anche se non era d' accordo, ed il padre lo rimproverò, ma in fondo gli dette ragione,
perchè probabilmente anche Lui trovava sciocca tutta la questione della camicia. Dino comunque in
quel periodo non se la prese eccessivamente. In realtà quello che aveva fatto gli pareva giusto. Il padre,
quasi per scusarsi dei rimproveri, gli regalò dei soldi, raccomandandogli di non dirlo a nessuno, e lui
partì in vacanza premio per l' Abetone. Li seguì con profitto un corso di sci, e vinse una gara per la
classificazione Nazionale. E questo gli fruttò una grande emozione. Sua Eccellenza Benito Mussolini
5
lo premiò nella Sala Del Mappamondo. Se la eccitazione gli venisse dalla personalità di chi lo
premiava, o dal fatto di essere vincitore, Dino non lo disse esplicitamente a nessuno. E rimase anche
questo un aspetto insoluto della sua personalità. Quel giorno fece anche un incontro che avrebbe
determinato il destino di gran parte della sua vita. Mentre stava per uscire dalla Sala, al termine della
premiazione, un federale lo bloccò, e gli disse, indicando un uomo di circa 40 anni, di altezza media,
che era vicino al Duce: <<aspetta, camerata, il Dottor Marchetti ti vuole parlare>>. Non dovette
attendere molto. Dopo qualche minuto il Dottor Marchetti si allontanò dal tavolo delle premiazioni,
senza preoccuparsi delle formalità, lo raggiunse, e, sorvolando sulla pantomima del saluto al camerata,
lo prese sottobraccio, e lo accompagnò nella sala vicina. Quando furono soli si presentò: <<Sono Luigi
Marchetti, e dirigo la sezione politca del ministero per le Colonie. Ho apprezzato molto la tua
esibizione-si interruppe, guardandosi intorno, poi riprese domandando-s ei sardo vero?>> <<Si,
rispose Dino incuriosito-di Tonara, un paese del Gennargentu>>. <<Hai altri sei fratelli, vero?>>,
domandò Marchetti distrattamente. <<Come lo sapete?>> <<Non è importante, ti lascio il mio
indirizzo, perchè ti potrà servire in futuro-restò un attimo ancora in silenzio, poi riprese-comunque mi
farò vivo io. Ti saluto, camerata>>. Alzò il braccio per fare il saluto romano, e ritornò nella Sala del
Mappamondo, mentre Dino rimaneva perplesso a guardare il biglietto da visita. Poi si stufò di
riflettere, si guardò la medaglia appuntata sulla giacca, e si allontanò pensando: <<boh, chi vivrà
vedrà!>>. Era la sua filosofia, e per tutta la sua vita non fu mai particolarmente ansioso o curioso, ed
amava fare i fatti suoi.
Durante quella permanenza trovò modo di cacciarsi nei guai. Una sera Dino ed un suo amico
fecero il pieno di alcol in un paese vicino. Poi decisero di tornare all' albergo con un Bob. I primi
chilometri andarono bene, poi l' altro cominciò a scherzare, e Dino, al secondo posto prese a ridere. Il
riso è contagioso, ed i due cominciarono a ridere come i matti, ed il Bob finì contro il portone di una
abitazione. "Il padrone saltò fuori con lo schioppo, ed io, che avevo già avuto una esperienza del
genere, anche se ero tramortito, mi misi a correre, anche perchè stavo dietro, e non avevo subito grandi
danni". Al compare andò peggio, ed oltre ad avere il naso rotto, venne anche impallinato. Però anche
lui riuscì a scappare, zoppicante. I due si ritrovarono a circa un chilometro dal luogo dell' incidente, e
Dino dovette incollarsi l' amico e trascinarlo sino all' albergo marciando nella neve. Nonostante
questo incidente tornò a casa felice e soddisfatto, e passò, come al solito, le fredde serate del
Gennargentu, seduto davanti al camino, a mettere al corrente la famiglia e gli amici delle sue prodezze.
Pare però che non avesse insistito gran che sulla storia del Bob!
L' AFRICA
Intanto gli anni passavano inesorabili, e Dino dovette partire per il servizio di leva. Andava a
servire la Patria, ma siccome era lucido, la retorica del regime non lo convinse, e riuscì a farsi infilare
in Sardegna, tra i radiotelegrafisti, che erano un corpo privilegiato .Quando venne il giorno della
prima esercitazione, con due squadre, i Rossi ed i Neri. Dino si infilò a trasmettere in una vigna, e
preso dalla bellezza di quel posto, dalla magia del tramonto, dei raggi del sole che si frangevano in
mille rivoli di luce in mezzo ai filari delle viti, si addormentò, e venne preso prigioniero dalla squadra
rivale che lo tenne rinchiuso per tre giorni in un pagliaio. Il resto del servizio militare fu molto meno
movimentato. Lo passò a Cagliari, più spesso a casa dei parenti od a divertirsi, che in caserma. Poi
venne il congedo, e terminò gli studi.
In quel periodo, tra il 1933 ed il 35, la situazione politica internazionale si stava
aggrovigliando. Il fascismo aveva delle difficoltà anche all' interno del paese. I disoccupati crescevano,
la spinta emozionale sulle generazioni più giovani si stava esaurendo. La teoria del "posto al sole" e
dell' "Impero", era stata ormai pompata, e doveva essere in qualche modo portata avanti. La espansione
coloniale italiana, che il regime fascista presentava come scelta dettata dal "destino glorioso", era in
realtà frutto di queste motivazioni, e veniva preparata proprio in quegli anni sia sui tavoli della
diplomazia, che localmente in Etiopia, da una fitta rete di informatori ed agenti. Alcune agenzie
commerciali italiane vennero trasformate in consolati, che divennero base di una intensa attività
spionistica. Probabilmente la impresa militare contro l' Etiopia, già lungamente pensata dal Duce, slittò
per via dei contrasti che esistevano tra Badoglio e gli altri capi militari, da un lato, ed il Generale De
Bono, che aveva l' appoggio di Mussolini dall' altro. Il duce forse voleva vedere a capo di quell'
impresa un uomo di pura fede fascista, e lo identificava in De Bono. Badoglio invece agiva non tanto
per una visione strategica, quanto per una questione di prestigio personale, perchè era convinto che il
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comando di quella missione andasse attribuito a lui. Stà di fatto che la storia gli dette ragione, perchè
De Bono si rivelò in realtà poco capace. Comunque nessuno ha mai capito bene perchè il fascismo si
fosse gettato in quell' impresa in un momento storico sbagliato, in cui si affermava piuttosto in tutto il
mondo l' idea della indipendenza delle colonie.
Il 22.11.34 accadde il famoso incidente di Ual-Ual. Quel giorno il governatore dell' Ogaden,
regione appartenente all' Etiopia, ma in cui vi era stata una forte penetrazione italiana, tentò di farsi
consegnare appunto il forte di Ual-Ual dai soldati irregolari somali che lo presidiavano. Il forte era
stato eretto dagli italiani, ed aveva importanza strategica perchè permetteva, almeno in parte, il
controllo di 359 pozzi d' acqua. Gli irregolari somali (i dubat) non si arresero, e chiesero aiuto agli
italiani, che accorsero immediatamente. La situazione ristallò per alcuni giorni, durante i quali si
susseguirono trattative e scaramucce tra gli Italo somali e gli Etiopici. Fallì anche il tentativo di
mediazione Britannica, ed invece si ammassarono truppe da entrambe le parti. Il pomeriggio del
5.12.34 ci fù lo scontro, e gli irregolari somali, i dubat, supportati dagli Italiani, misero in fuga gli
Etiopi.
Negli anni precedenti gli italiani avevano giocato con l' Etiopia su due tavoli. Da un lato
avevano tentato di fare una politica amichevole verso il governo di Addis Abeba, mentre con la rete di
agenti fomentavano la tendenza alla ribellione dei capi delle tribù confinanti (la politica "periferica").
Il gioco rischiava però di saltare perchè il Ras Tafari, un progressista abile, riuscì a farsi nominare
imperatore di Etiopia con il nome di Hailè Selassiè, e come prima mossa si riavvicinò, sul piano
politico e militare, ai capi tribali. A quel punto era divenuto necessario uscire allo scoperto, e l'
incidente di Ual-Ual offrì finalmente a Mussolini l' occasione che aspettava. Ignorò Badoglio e gli
altri, e decise di inviare De Bono, il 07.01.1935,in Eritrea, perchè assumesse il comando delle truppe
dell' Africa Orientale.
In quei giorni Dino, terminati i suoi studi, era a casa, e stava pianificando una vacanza. Lo
vennero a snidare i carabinieri, che gli consegnarono l' ordine di partire per l' Africa. Uno dei
Carabinieri, un maresciallo, conobbe in quella occasione sua sorella e la sposò. Dino dovette
rinunciare alla vacanza, e fare in fretta e furia le valigie. L' Italia aveva dichiarato guerra alla'
Abbissinia. Faccetta Nera aspettava. Dino non amava la guerra, ed aveva un forte desiderio di riportare
a casa la pelle. ma amava viaggiare, aveva sete di avventura, e partì senza troppi rimpianti.
Durante la primavera e l' estate si ammassarono truppe in Somalia, e sopratutto in Eritrea.
Alle 5:00 del mattino del 3 Ottobre le truppe italiane traversarono il fiume Mareb, senza dichiarazione
di guerra, ed in sette mesi circa il Negus (Hailè Selassiè) venne sconfitto. Gli Italiani non si
impegnarono gran che, dato che avevano mezzi tradizionali molto superiori, e tecniche più moderne
(come armi chimiche, aviazione), che sembra siano state usate in modo estremamente spregiudicato.
Dopo avere preso Adigrat, Adua, Axum, ed essere penetrati per circa 50 chilometri in territorio
Eritreo, gli Italiani, l' otto Novembre, conquistarono Macallè.
A quel punto Mussolini sostituì il tentennante De Bono con Pietro Badoglio, il mitico
ufficiale che era stato membro del comando supremo durante la guerra vittoriosa del 15-18. Intanto
però il Consiglio Delle Nazioni si era riunito, il 7 e l' 11 Ottobre, ed aveva comminato le Sanzioni
Economiche all' Italia, definito Stato aggressore. Nella seconda fase della guerra si susseguirono i
successi di Graziani, che aveva la sua base in Somalia, e quelli di Badoglio, in Eritrea, ed il 9 Maggio
del 36 Mussolini proclamò la "Rinascita dell' Impero sui Colli Fatali di Roma", e Vittorio Emanuele II
divenne imperatore di Etiopia. Così arrivò un altro colpo di grazia sui traballanti equilibri politici
internazionali, e l' umanità fece un passo avanti verso la seconda guerra mondiale.
Durante quella guerra lampo la fortuna aiutò Dino. Lo lasciarono sempre nelle retrovie, e non
dovette mai combattere. Però l' Africa lasciò anche a Lui, come a molti altri, un segno indelebile.
Raccontò sempre il fascino di quel paese, il sovrapporsi del freddo intenso della notte al caldo
bruciante del giorno. I tramonti e le albe. Dino non si scordò mai di quel periodo: aveva preso il "mal
d' Africa". Alle volte il destino è strano. Dino, e gli altri sardi in Abissinia ritornavano verso le origini.
I semiti, molti secoli prima, avevano invaso la Sardegna, ed avevano lasciato le tracce del loro
passaggio anche nella toponomastica. Ad esempio nell' Abissinia meridionale vi erano paesi come
Allai e Baresa, ed in Sardegna ci sono Allai e Barèssa. In Abissinia c'è la montagna Hobodda, in
Sardegna Ovodda. E come queste vi sono tante altre simiglianze. Dino, che era attento, e profondo
amatore della storia, le annotò tutte in un suo taccuino, con la sua calligrafia piena di svolazzi, e
conservò quei fogli ormai ingialliti tra i suoi ricordi. Scrisse in una nota "sembra di tornare indietro nel
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tempo". Ed in Abissinia si sentì sempre a casa. Quando la guerra finì Dino si rese conto che non aveva
gran voglia di tornare in Sardegna. Un po' perchè l' Africa lo affascinava, un po' perchè il suo paese
natale era divenuto troppo piccolo, ed un po' perchè dove stava viveva benissimo.
Lo scenario politico al termine della guerra era estremamente complesso, ma erano in pochi a
saperlo. Gli italiani che vivevano nelle colonie stavano benissimo. Il Regime tentava di convincere sia
gli Italiani che i governanti stranieri che la conquista era stata una necessità, ma che l' Italia voleva la
pace. Il 24.10.36 il Duce fece a Bologna il famoso discorso dell' "Ulivo e delle baionette", in cui, in
sintesi, diceva che l' Italia voleva la pace, ma che avrebbe difeso l' Impero con "otto milioni di
baionette".
Intanto era aperto il problema della gestione del territorio conquistato, in cui persistevano
focolai di guerriglia autonomista. Il Vicerè, il violento Maresciallo Graziani, optò per la soluzione che
aveva funzionato per millenni, la polizia segreta, e la realizzò con una serie di personaggi, i
commissari ed i residenti, che erano formalmente una sorta di autorità locale di supporto alla
popolazione. I compiti dei residenti erano apparentemente filantropici. Dovevano istruire ed aiutare i
neri, perchè divenissero degni sudditi dell' Impero. Commissari e residenti vennero reclutati tra i
combattenti della guerra d' Africa. Anche Dino venne reclutato, e lo mandarono in Eritrea, ad Asmara.
Il rapporto con la popolazione indigena si presentò dall’ inizio piuttosto facile. Gli indigeni erano ben
disposti, e piuttosto docili. Lui imparò immediatamente la loro lingua, l’ amarico, e si limitò a
controllarli. Ogni due mesi doveva fare un noiosissmo rapporto sulla situazione dell’ ordine pubblico,
che finiva regolarmente nel cassetto del Commissario, tale Regazzoni, un vero animale, rosso come un
pomodoro,e con la camicia nera tesa su una enorme pancia, e costantemente sbrodolata di qualunque
sostanza commestibile o alcolica, fosse in circolazione. Poi dal cassetto di Regazzoni i rapporti
finivano nel cestino. Il lavoro era attraente, anche perchè veniva pagato discretamente e dava diritto ad
entrare gratuitamente n tutti i locali, teatro, cinema, ovviamente per “controllare la situazione”.
Sostanzialmente doveva andare nei villaggi indigeni, comprare qualcosa, e poi parlare con tutti, per
avere notizie. Dopo qualche mese giunse dall’ Italia il suggerimento di andare ad insegnare nei
villaggi indigeni, il che avrebbe facilitato l’ insrimento dei residenti nel tessuto sociale del paese, e lui
andò ad insegnare l’ italiano ai bambini, ed agli adulti che non andavano nei campi a lavorare. Intanto
comprò casa nel quartiere bianco separato dal quartiere nero dalla collina di Adda Sciaul, ed prese due
cameriere, Rahma e Fatima.
In Eritrea gli Italiani vivevano come in una eterna vacanza, senza dubbio meglio che in Italia.
Le colonie, come diceva il Ministro Guarnieri, stavano dissanguando economicamente l' Italia, perchè i
soldi necessari al loro mantenimento ed allo sviluppo, prima che si riuscisse a raggiungere una
autonomia economica, dovevano venire dalla Madrepatria. Bisognava costruire tutto, iniziando dalle
strade, e quindi si crearono enormi opportunità di tangenti e di lucro. Si arricchirono tutti, funzionari
statali che grassavano, imprese edili che distribuivano tangenti. E' rimasto famoso l' arricchimento
selvaggio dei "padroncini", ovvero i proprietari di camion che trasportavano materiale edilizio. La
situazione era meno semplice nelle altre regioni, la Amhara, Galla e Sidama, Harar, e nella Somalia,
dove gli indigeni erano in pessimi rapporti con i conquistatori, e vi era una situazione di continua
rivolta in atto. Inoltre i Commissari ed i Residenti, raccattati in fretta e furia al termine della guerra,
erano talvolta dei veri mascalzoni, esaltati e violenti. Quindi, la guerriglia veniva spesso innescata
anche dalla loro prepotenza, oltre che dalla spinta nazionalistica delle popolazioni indigene. Inoltre, vi
era stato un flusso di emarginati e delinquenti dall' Italia verso le colonie, un prezzo da pagare ogni
volta che si crea una nuova frontiera, e costoro avevano ovviamente portato delinquenza e violenza.
Erano arrivati anche i fascisti, con il mito della superiorità della razza inculcato nel cervello.
Ad Asmara fortunatamente questo clima non si sentiva gran chè, anche perchè gli Eritrei
godevano di uno status ,particolare e si viveva la vita di una ricca cittadina di provincia. La situazioe
era ottimale, ma l’ equilibrio rischiò di interrompersi bruscamente dopo l' attentato a Graziani. Il
Vicerè era sempre stato un uomo violento, rozzo e privo di scrupoli, ma quando, il 19 Febbraio del
1937, ad Addis Abeba, mentre assisteva alla distribuzione dei talleri ai poveri, gli tirarono addosso
delle bombe a mano, e lo spedirono per 78 giorni all' Ospedale dell Italica Gens , diventò una belva.
Quello che seguì fu un periodo di terrore. I servizi segreti scatenarono una repressione violentissima.
Una mattina di Marzo, Dino, rientrò ad Asmara dal solito giro di lezioni, che lo aveva portato sino a
Gondar, trovò una lettera scritta con la caligrafia semi illegibile di Regazzoni, in cui c’ era scritto “
Camerata, in quest’ ora drammatica, il destino ci ha chiamati tutti a raccolta nel nome del Duce e Del
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Re Imperatore, e noi dovessimo essere presenti, quindinpertanto devi venire da me domani mattina alle
oto del mattino”. Dino chiuse il foglio con un gesto di stizza. Anche una cambiale sarebbe stata meglio
di una convocazione di Regazzoni. Si sedette, tirò fuori la matita rossa e blu che usava quando faceva
lezione, e sottolineò gli errori, e decise che la mattina dopo gli avrebbe rimesso la lettera sotto il naso.
Nulla avrebbe potuto far irritare di più il Federale, ma non averebbe potuto obbiettare nulla. La mattina
successiva arrivò ostentatamente alle nove, e vide un altro residente che usciva dalla porta del federale
a testa bassa, e non lo guardò neppure in faccia. Mentre si avvicinava alla porta, sentì arrivare dalla
camera di Regazzoni un rumore protratto, liberatorio, a piccole esplosioni ripetute, una inequivocabile
scorreggia, e d’ altro canto l’ uomo era noto per la sua abitudine di mangiare fagioli, che difficilmente
digeriva. Chi lo conosceva bene sosteneva che iniziava a ruttare già alla fine della cena, e che la moglie
aveva l’ abitudine di dormire nel bagno per non morire asfissiata. Quando entrò, senza sprecarsi a
bussare, Regazzoni stava recuperando la posizione eretta, al termine di un goffo tentativo di imitare le
flessioni del Duce, e stava emettendo un altra formidabile scorreggia. Dino guardò in direzione della
finestra, e si sentì più tranquillo: era aperta. Il federale lo guardò, e diventò ancora più paonazzo del
solito, poi si tirò su la cinghia dei pantaloni, si dette una poderosa grattata sulla zona dove
approssimativamente doveva avere i genitali, e sbottò: <<ti avevo detto di venire alle otto e mezzo, e
quando parlo io, FEDERALE REGAZZONI, bisogna scattareee!>>. Dino lo guardò con aria di sfida e
disse: <<sono venuto quando ho potuto!>>. Regazzoni si gonfiò come un tacchino, e gli scoppiò un
bottone della camicia, ma non se ne accorse neppure, e urlò: <<Tu, camerata, non fai un cazzo!! sei qui
per far arrestare ed impiccare questi fottuti negri!>>.Dino perse le staffe: <<io faccio arrestare la gente
che fa dei reati, non chi fa piacere a te, cappone!>>. Regazzoni portò la mano alla fondina della pistola
per estrarla, ma Dino, che aveva venti anni meno di lui, e quaranta chili di meno, lo precedette, e gli
tirò una violenta pedata sulla mano, prima che potessere arrivarci. La situazione stava diventando
tragica, e Dino era spaventato che potesse entrare qualcuno, che avrebbe potuto prendere le difere del
Federale. Gli tolse la pistola dalla fondina, gliela puntò contro, e gli disse: <<stai zitto, pezzo di maiale,
se no ti faccio saltare il cervello>>. Arretrò e chiuse la porta, senza perdere di vista il Federale, poi girò
la chiave nella toppa. Si rese conto che era andato troppo oltre, se pur era vero che non c’ erano stati
testimoni, la sua parola valeva poco contro quella di Regazzoni. Si calmò, fissò l’ uomo, che era
addossato al muro, ed ancora terrorizzato, e gli disse: <<adesso calmiamoci, se no finisce male. Non ti
permettere mai più di aggredirmi in questo modo.>> Regazzoni fu prudente, recuperò la calma, e disse:
<<va bene, calmiamoci, ridammi la pistola>>. Dino scaricò i proiettili e gliela rese. Regazzoni
recuperò il suo solito colorito da pomodoro marcito, e si scostò dal muro. Dino sentì un odore
nauseabondo, e vide che i pantaloni dell’ uomo, sul davanti, erano bagnati: si era pisciato sotto dalla
paura! Nonostante la serieta della situazione gli venne da ridere. Il federale era incerto sul da farsi, e
cominciò a parlare con tono di voce più calmo: <<da quando sei qui non hai mai dato informazioni che
hanno portato ad una operazione di polizia. Io che dico a Roma, che non ci sono fottuti negri
delinquenti qui?>>. <<i negri delinquenti li deve arrestare la polizia, io mi devo occupare di prevenire
ed insegnare il rispetto per il Re ed il Regime, e lo faccio>>. <<Non fai un cazzo!>> sbraitò
Regazzoni. Dino perse di nuovo la calma: <<prima di tutto tu non sai cosa faccio, perchè non hai mai
letto le mie relazioni, ammesso che tu sia in grado di leggere, almeno a giudicare da come scrivi!>>.
frugò furiosamente nelle tasche, trovò il foglietto che aveva ricevuto la sera prima, e che aveva corretto
con il lapis rosso e blu e glielo gettò sul tavolo, poi fece dietro front ed uscì sbattendo la porta. Appena
sceso in strada, sentì la voce di Regazzoni che si era sporto dal balcone, e strillava: <<comincia a
contare le ore, che sei fottuto!>>. Alzò le spalle e proseguì la sua strada. All’ altezza della caserma
della Milizia Volontaria aveva smaltito a sufficienza la rabbia, e cominciò a ragionare più lucidamente:
certo era un guaio grosso. Regazzoni era un selvaggio molto facinoroso e vendicativo. Non era molto
amato, ma per l’ età e la posizione che rivestiva, aveva un certo potere. Probabilmente avrebbe cercato
di farlo rimpatriare, e magari si sarebbe vendicato su Fatima e Rahma, le cameriere. Bisognava pur
trovare una via d’ uscita. Non aveva voglia di tornare a casa, e siccome quando era agitato gli veniva
sempre fame, andò difilato al Ristorante Italia. Il ristorante era preferito dalla piccola e media
borghesia di funzionari statali, e proprio in quei giorni aveva cambiato gestore. Partito il
simpaticissimo Mario l’ Abbruzzese, un omino piccolo dell’ Aquila, che era tornato in patria per
riprendere possesso dei poderi che gli avevano lasciato i genitori, la gestione era passata da pochi
giorni ad Aldo, un uomo di media statura, molto grasso e laido, con una moglie ugualmente grassa.
Avevano anche una figlia di 16 anni circa, brutta pure quella, e con un sedere ingombrantissimo che le
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creava notevoli difficoltà nel passare tra i tavoli del locale, ed un maschio allampanato, probabilmente
maggiore di età , che guardava con occhi libidinosi tutti i ragazzini che entravano con i genitori nel
locale, e non perdeva occasione per toccarli. Fortunatamente c’ erano il cameriere e la cuoca di colore
lasciati da Mario. Dino pranzò con molta calma, poi tornò a casa a cambiarsi. Le sue cameriere, Fatima
e Rahma videro che il padrone era scuro in volto, ma non dissero nulla. Dino sedette in salotto a bere
un Amaro del Carabiniere, e guardò l’ orologio: erano le diciannove, e decise di uscire a fare due passi.
Arrivò sino al Bar Italia, entrò e chiese uno sciroppo di menta. Mentre aspettava si sentì battere una
mano sulla spalla, e si girò. Rimase per qualche secondo interdetto: un uomo circa della sua età, vestito
con raffinatezza, con i lineamenti marcati, ed una sigaretta accesa nella mano destra, lo guardava
sorridendo, e gli disse, con un marcato accento sardo: << ti ricordi di me, Dino?>>. <<veramente...,
forse ho presente la fisionomia, ma....>>. <<sono Giovannino Sulis, siamo stati insieme al Liceo, a
Cagliari>>. Dino frugò nella memoria, e si ricordò di Giovannino Sulis, un ragazzo estroverso, che
aveva un paio di anni più di lui, e che stava due anni avanti a lui con gli studi. Avevano avuto sempre
una conoscenza molto superficiale. <<Si, mi ricordo, e tu cosa fai qui?>>. <<beh, io sono azionista e
direttore di una impresa commerciale di Importazioni ed Esportazioni, ed ho anche un banco vendite al
mercato, che sta andando bene. E tu, come te la cavi?>>. <<Io sono funzionario governativo, solo che
le cose in questo momento, dopo l’ attentato al Vicerè, sono piuttosto complesse.>> <<Già- osservò
Sulis- hai mai pensato di cambiar lavoro?>>. <<Non so...>>. Sulis lo interruppe: <<tu sei
intraprendente ed in gamba. Sai Asmara è piccola, e mi hanno parlato di te. Se volessi cambiare lavoro,
diciamo fare un lavoro più interessante, io ti potrei aiutare. Tu hai il vantaggio di conoscere molto bene
l’ ambiente>>. Dino si chiese come facesse Sulis a sapere di lui, comunque mandò avanti il discorso:
<<si, possiamo parlarne>>. <<Va bene, ti do l’ indirizzo, e domani mattina, alle nove, vieni da me. Il
mio ufficio è in fondo a Viale De Bono, a sinistra, al numero 133, e lo vedrai perchè c’è un gruppo di
palme intorno alla casa. Sali al secondo piano, e troverai anche un amico comune>>. Poi Sulis troncò
quel discorso, e cominciò a parlare dei ricordi della scuola, dei professori, delle ragazze. Bevvero
anche parecchio, e quando Dino tornò a casa era piuttosto alticcio.
La mattina dopo si alzò presto, ed andò a piedi in centro. Alla fine di vilae Mussolini piegò a
sinistra, davanti all’ Ufficio del Telefono e del Telgrafo, e prese viale De Bono. Camminò per circa 20
minuti, con il suo solito passo da bersagliere, impeccabile nei vestiti coloniali. Non faceva ancora
molto caldo, e la giornata era serena. Ad un certo punto vide il gruppo di palme, ed il palazzetto a due
piani, col numero 133. Entrò, salì al secondo piano, e vide la targa:
UFFICIO DI IMPORTAZIONI ED ESPORTAZIONI DIRIGENTE DR. GIOVANNINO SULIS
Bussò, e gli venne ad aprire una graziosa segretaria, probabilmente di Bologna, a giudicare
dall’ accento, e lo portò subito da Sulis, che stava controllando una montagna di carte. <<Sono
documenti di consegna dei materiali,- spiegò l’ uomo-accomodati, che finisco subito>>. Dopo 2 minuti
Sulis si sbarazzò delle carte, che dette alla segretaria, chiuse la porta del corridoio, ed aprì la porta di
comunicazione tra il suo studio ed un’ altra saletta interna, dove c’ erano tre poltrone ed un tavolino, e
su questo la foto di una donna ed una bambina, presumibilmente moglie e figlia di Sulis. Dino aguzzò
lo sguardo: la donna era una farmacista di Macomer, con cui era stato fidanzato molti anni prima, ma
non battè ciglio. Poi vide una cartella poggiata sul tavolino, con scritto Dino Tatti, ma rimase
ugualmente impassibile. I due uomini si sedettero, e Sulis iniziò a parlare: <<è bene che io sia chiaro
sin dall’ inizio. L’ incontro di ieri sera non è stato casuale, ma è stato preparato da molto tempo. Io
faccio parte di un gruppo di persone che segue la tua attività da molti anni, e ti stima. Il tuo nome ci è
stato fatto, già molti anni fa, da Antonio Piras, il Professore di Storia e Filosofia che avevamo al Liceo,
a Cagliari, lo stesso che ha fatto anche il mio nome. Nel corso di questi anni sei stato seguito con
interesse, ed era previsto che io ti contattassi , per reclutarti. Di recente abbiamo saputo del diverbio
che hai avuto con Regazzoni, ed il contatto è stato anticipato. Ora noi vorremmo aiutarti ad uscire da
quella situazione>>. Dino lo interruppe: <<scusa, Giovannino, non mi hai detto a nome di chi stai
parlando!>> <<hai ragione, devo essere più chiaro: io sono del controspionaggio italiano>>. In quel
momento suonò un campanello, e Sulis si alzò dicendo: <<è arrivato il mio capo, che tu hai conosciuto,
adesso te lo presento, scusami>>. Uscì dalla porta, e rientrò dopo un minuto con un uomo di circa 4550 anni, che Dino identificò quasi subito come la persona che gli aveva parlato il giorno della
premiazione della gara di sci dell’ Abetone. <<Il Dottor Marchetti- annunciò Sulis-, il capo del
Servizio Segreto. Vi lascio soli>>. Mentre l’ uomo usciva Marchetti e Dino si strinsero la mano, e si
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sedettero uno davanti all’ altro. Iniziò Marchetti: <<ti ricordi di me, vero?>>. <<Si>>. <<Come avrai
capito, ti seguiamo da anni. Non ti devi offendere, ma è la nostra prassi per essere certi della serietà e
della affidabilità delle persone che lavorano per noi. In questo fascicolo- indicò la cartellina su tavoloc’è tutto il Know su di te, anche la questione della moglie di Sulis>>. Alzò le spalle come a dire
“fesserie”, poi riprese: <<ti consideriamo la persona adatta a noi, cioè al controspionaggio. Il nostro
lavoro è diviso in due branche, la attività di controllo sulla fuga di informazioni,in cui sono coinvolti
prevalentemente traditori italiani, e quella di penetrazione, sobillazione, ed appoggio ai ribelli neri, che
viene svolta da infiltrati Inglesi e Francesi. Qualche volta questi infiltrati sono italiani al soldo di
potenze nemiche. Io penso che la tua conoscenza dell’ ambiente, ed in particolare dei neri, sviluppata
in anni, può essere estremamente utile alla nostra counterintelligence>>. Dino notò che Marchetti
aveva il vezzo delle parole inglesi. Era strano che potesse permetterselo nel contesto della cultura
fascista. Si ricordò anche che quando lo aveva incontrato la prima volta, aveva notato che nel lasciare
la Sala del Mappamondo per andargli incontro, il Direttore era stato estremamente disinvolto,
addirittura non aveva salutato il Duce. Deve essere un uomo molto potente, pensò. Marchetti intanto,
riprese a parlare: <<so anche che hai litigato con quella testa di rapa di Regazzoni, e che sei
preoccupato per la sua vendetta. Io ti offro la mia protezione, ed un impiego come funzionario
governativo. Sarai Ispettore Capo, e formalmente ti occuperai del controllo delle concessioni edilizie e
del funzionamento degli impianti produttivi. Sul piano pratico dovrai mantenere i contatti che hai con
la popolazione indigena, per controllare la esistenza di eventuali infiltrazioni di sobillatori, o il
passaggio di forniture di armi>>. Dino aveva ascoltato senza parlare, ma capì che era arrivato il suo
momento, ed intervenne: <<e’ una offerta affascinante, ma ho bisogno di sapere alcune cose. Primo, se
rimango in Africa , chi mi salvaguarda dalla rappresaglia di Regazzoni, che è un violento e che
comunque metterebbe a rischio eventuali operazioni fatte per voi solo per il gusto di vendicarsi di me.
Secondo, vorrei sapere i limiti del lavoro che mi chiedete, cioè se....>> Marchetti lo interruppe: <<non
c’è bisogno che tu mi chieda altro. Regazzoni va a farsi fottere, io non devo spiegargli nienete.
Semplicemente domattina lo chiamerò e gli dirò di levarsi dai coglioni. Quell’ essere è un verme
ributtante, e non ne sentirai più parlare. Per il secondo argomento, i limiti che hai, vedrò di essere
molto chiaro. Tu devi occuparti di raccogliere informazioni su quello che accade tra la popolazione
infùdigena, ma non ci saranno rappresaglie su di loro. Il mio e tuo compito è bloccare francesi ed
inglesi che li sobillano, o che danno armi, e di fermare gli italiani che fanno questo lavoro per conto di
potenze straniere. Io non faccio rappresaglie sulla popolazione indigena, non è il mio lavoro>>.
Rimase qualche secondo sopprapensiero, poi disse: <<anzi, secondo me molti di questi neri sono dei
patrioti>>. Poi tornò al filo del discorso: <<tu conosci l’ amarico, e conosci i neri, e puoi sapere
facilmente tutto quello che accade. Se devi comprare qualcuno chiedi i soldi, e ti verranno dati. Se
durante il lavoro scopri qualcosa che eccede i tuoi compiti, dovrai parlarne con me. Io sono tutte le
mattine nel mio ufficio nel Palazzo del Governo, ma in quella sede parleremo solo del tuo lavoro
ufficiale. Quando dovremo parlare di affari del controspionaggio ci vedremo qui o fuori. Se avrai
bisogno di me vieni in Ufficio, e fammi un qualunque segno, senza parlare, e ed io ti ricercherò>>.
Mentre il Direttore parlava, Dino guardava la parete di fronte, rivestita da una carta damascata rossa.
La unica finestra di quella stanza aveva un controvetro e tende di un tessuto molto pesante. A giudicare
dallo spessore delle pareti ci doveva essere un certo isolamento acustico. Davanti a lui c’ era uno
specchio, e fissò a lungo la sua immagine riflessa. Faceva sempre così per concentrarsi, ed anche un
po’ per narcisismo. Quando il Direttore ebbe finito di parlare, gli chiese a bruciapelo: <<ci sono zone
oscure, o personaggi intoccabili?>>. Marchetti ebbe per un attimo una espressione di sorpresa, poi
disse: <<francamente penso di si, ma non ne ho la sicurezza. Comunque ti ho già detto che sarà
necessario che tu mi riferisca su ogin situazione che presenta lati oscuri>>. La conversazione si spostò
successivamente sui dettagli della assunzione di Dino, che si sarebbe fatta il giorno successivo. Verso
le 11:00 si salutarono, e per primo uscì Marchetti, dopo Sulis, e per ultimo Dino.
Durante quel periodo, il Vicerè, ormai ristabilitosi, decise di andare in viaggio attraverso l'
Impero, anche per dimostrare a tutti la sua capacità di recupero. Il 10 Agosto partì per Asmara,
guidandosi da solo la macchina per migliaia di chilometri. E dimostrò ancora una volta la sua
eccezionale intempestività, perchè nella metà di Agosto scoppiò la rivolta di Lasta, che lo bloccò sino a
Settembre ad Asmara.
Nel Dicembre del 37 Graziani finalmente venne rimosso. Quando la notizia venne
ufficializzata per Dino, e non solo per lui, fu un gran giorno. Il 10 Gennaio del 38 graziani partì da
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Addis Abeba. Dietro di se lasciava un vero e proprio genocidio, e gli stessi bianchi più spietati
cominciavano a preoccuparsi della vendetta degli indigeni. Tutti sapevano che doveva essere sostituito
dal Duca D'Aosta , un uomo senza dubbio di altro livello intellettuale e morale. Amedeo D' Aosta
scese dall' incrociatore Zara la mattina del 22 Dicembre 1937, e trovò una situazione di grave
turbolenza. Nel Goggiam la rivolta era assolutamente incontrollabile, e l' Impero non era tranquillo da
nessuna parte. Gli Italiani tenevano in pugno le città, ma i territori extraurbani erano sostanzialmente
in mano ai ribelli. Il Duca comunque non era Graziani! si appoggiò al Generale Nasi, una persona
profondamente corretta, e negli anni che rimase al potere migliorò di molto i rapporti con gli indigeni e
pose fine al genocidio. Purtroppo ci volle molto tempo per normalizzare la situazione, perchè tra
governatori esaltati e funzionari ignoranti, o razzisti ed arroganti, non gli resero la vita facile.
Giovedi dieci Marzo 1938 era una giornata tiepida, c’ erano solo le prime avvisaglie dell’
inverno che stava per cominciare, e, terminato il lavoro di ufficio, alle 14 Dino andò a pranzare, come
faceva molto spesso, al Ristorante Italia. Sedette al tavolo più distante dalla porta per controllare la
sala. Il Ristorante aveva avuto molti proprietari, e l’ ultimo, Aldo, era un vero “zozzone”, un uomo di
circa 60 anni, di media statura, con i capelli perennemente grassi e lo sguardo libidinoso. Di recente
aveva rispedito in Italia la moglie grassa e schifosa come lui insieme ai due petulantissimi figli, ed
aveva preso in casa una giovane nera molto bella. C’ erano mille motivi per rispedirlo in patria, se non
altro perchè i regolamenti non permettevano di convivere con donne di colore, ma veniva lasciato in
pace perchè era un informatore. Venne a prendere l’ ordinazione una ragazza di colore. Era molto
slanciata ed elegante nei movimenti, ed aveva lineamenti delicatissimi. Aldo la raggiunse per dirle
qualcosa, e Dino sentì che si chiamava Zeaidita. Mentre passava controluce la vide bene: era realmente
molto bella, piuttosto alta per la sua razza, e con la sagoma slanciata, ed attraverso i veli si
intravvedevano i seni turgidi. La ragazza si chinò per prendere l’ ordinazione, e Dino notò che aveva
un intenso profumo di fiori selvatici, ed un pensiero divertente gli traversò la mente: “si sarà messa il
profumo per quel maiale di Aldo?”. Zeaidita disse: <<Aldo ti deve parlare>>, e Dino non battè ciglio
ed ordinò il pranzo. Mentre la ragazza si allontanava la seguì con lo sguardo, e notò che era un po’
grossa dalla vita in giù, come moltissime donne di quella razza, ma che era anche molto sensuale nel
muoversi: forse stava con Aldo, per soldi, o perchè qualcuno ce la aveva mandata. La Intelligence
Britannica usava delle ragazze nere che si prestavano ai desideri sessuali di qualche gerarca per spiare,
ma Aldo era un miserabile informatore, che avrebbe parlato per 2 lire. Aldo intanto si era avvicinato al
tavolo, aveva preso una sedia, e ci si era messo a cavalcioni al contrario, con gli avambracci sullo
schienale, domandando ad alta voce: <<come stai, Dino?>>. In realtà Dino stava benissimo, ma a
guardare nel muso quel maiale gli dava il voltastomaco. <<Bene-rispose, poi abbassando il tono di
voce- che sai?>>. <<Ho delle informazioni importanti. Sai, avrei potuto parlare con molta gente, ma
ho aspettato te perchè sei un amico. Però passo un brutto periodo, pare che la gente non abbia più
fame, e con il pericolo della guerra tutto costa più caro. Quei delinquenti degli autotrasportatori,
poi.....>>. Dino lo interruppe, anche perchè non sopportava più l’ alito fetido di quell’ uomo: <<va
bene, smettila di rompere le scatole, ti do 25 rupie, e neanche un soldo di più>>. <<Ma il governo ha
un sacco di soldi!>>. <<Si, ma non ti darà lo stesso più di 25 rupie!, adesso parla>>. L’ uomo era
untuoso, e faceva sempre la stessa solfa: piagnucolava, si lagnava, minacciava, poi alla fine parlava per
una manciata di rupie, e come previsto dal copione Aldo ricominciò: <<io potrei vendere questa
informazione per un prezzo molto maggiore, ma il fatto è che tu sei un amico e ti voglio aiutare nella
carriera. Ho un altro offerente...>>. <<Aldo-Dino lo interruppe nuovamente, un po’ per zittirlo, ed un
po’ per divertirsi a spaventarlo-sai che io ti proteggo come posso, ma in Ufficio hanno un rapporto su
te e la ragazza. Ti potrebbero rimandare a casa da oggi a domani, ma io sino adesso sono riuscito a
proteggerti>>. Aldo si agitò: <<la ragazza per me è una figlia, te lo giuro! La ho sempre aiutata perchè
sono un uomo di cuore!>>. <<Io ti credo-replicò Dino, sforzandosi di non ridere davanti alla faccia
angosciata del pancione-ma non ti credono in ufficio>>. Aldo sbuffò: <<va bene, facciamo 30
rupie>>. Dino annuì, e quello continuò: <<in città è arrivata una macchina grossa, sportiva, una Alfa
Romeo 6 cavalli Super Sport, con due persone che girano per il villaggio Razza>>. <<Chi sono?>>.
<<Non lo so, ma certamente uno è un funzionario del Governo di Addis Abeba, ed un altro è un
militare di alto grado>> <<chi cercano?>>. Aldo guardò verso la cucina, dove si intravedeva la figura
snella di Zeaidita intorno ai fornelli, e disse, comunque questa, tu lo sai, è una informazione che mi
costa cara, tu sai che si rischia..., dammi altre 20 rupie>>. <<Te ne do 10, vai avanti>>. <<Hanno
parlato con un uomo di Ras Tafari, e con un bianco, forse uno straniero, che gira con altri due
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italiani>>. Dino era preoccupato: non era possibile che due ufficiali si permettessero sfacciatamente di
andare a raccogliere informazioni, per di più con una macchina appariscente come la 6 cavalli Alfa
Romeo, carrozzata Pininfarina, senza che l’ Intelligence italiana ne sapesse nulla. Comunque, pensò,
non doveva essere difficile scoprire chi erano, ed i loro contatti. Scoprire invece chi era lo straniero
sarebbe stato più difficile. Nel Servizio Segreto Italiano i rapporti erano rigidi, e Dino si sarebbe
dovuto occupare solo degli affari interni che riguardavano la popolazione indigena, per controllare i
rivoltosi. Se si interessava di altre cose, lo faceva a suo rischio e pericolo, e senza copertura. Finì di
mangiare e pagò il conto, includendo i soldi per la informazione, e se ne andò.
Lunedi quattordici Dino andò al mercato indigeno per raccogliere informazioni: comprò una
pelle, poi andò a bere il thè sotto la tenda di Menelik, un nero che, oltre a vendere bevande, vendeva
sporadicamente informazioni di scarso valore. Scostò la tenda e sbarrò gli occhi: accoccolata in terra c’
era Zeaidita. Quando la ragazza lo vide si alzò e disse: <<sono venuta perchè avevo bisogno di
parlarti. Aldo non sa che sono qui>>. <<Cosa devi dirmi?>> <<Aldo sa delle cose più importanti di
quelle che ti ha detto, ha saputo che un gruppo di Italiani, che ha dei potenti appoggi nelle sfere del
Governatorato di Addis Abeba, stà fingendo di agevolare il passaggio di soldi ed armi provenienti dall’
Inghilterra, alla Resistenza indigena. In realtà il progetto di questi uomini è invece di impadronirsi dei
soldi, e di spingere i miei compatrioti al massacro in qualche imboscata dell’ esercito Italiano. Il mio
popolo deve liberarsi da solo, e pacificamente, magari trovando un modo di convivere con voi con
maggiore dignità, e non deve essere truffato>>. Dino, come era nella sua natura, andò al sodo:<<Chi
sono i traditori italiani?>>. <<non lo so, ma il penultimo giorno di questo mese andranno a casa di
Mohamud Nur, un uomo di cui tu hai sicuramente sentito parlare. Li vedrai arrivare li verso le prime
ombre della sera>>. <<Che macchina hanno?>>. <<una Alfa Romeo, con scritto dietro Pininfarina>>,
rispose la ragazza, con una certa difficoltà per la pronuncia del nome. <<Chi è lo straniero di cui mi ha
parlato Aldo, e che va in gir con i due uomini bianchi?>> <<non so chi è, ma so che è un inglese. Aldo
conosce la storia, ed io l’ ho sentito mentre parlava con uno dei due uomini che accompagnano questo
inglese>>. <<Perchè ci parlava?>>. << perchè l’ uomo è suo fratello. Ti racconto questa storia per
chiederti di tentar di fermarli. Aldo ti ha raccontato una piccola parte di quello che sa perchè è avido e
vuole ottenere dei soldi, ma sa anche che nessuno farà nulla a quegli uomini, perchè sono molto
potenti. - Zeaidita si interruppe fissando a lungo Dino negli occhi, come per sottolineare la sua buona
fede, poi riprese-Io adesso devo andar via e tornare al Ristorante. Sono venuta quì perchè conosco
Menelik, e mi ha detto che vieni spesso da lui per prendere il thè>>. Dino le piantò gli occhi addosso:
<<perchè dici proprio a me queste cose, che c’ entro io?>>. Zeaidita ammiccò e disse: <<io so chi sei e
cosa fai realmente, -poi prevedendo la domanda, chiarì- me lo ha detto Aldo, e non solo lui>>. La
ragazza si alzò in piedi, ed il velo le scivolò via dal viso bellissimo. Dino le domando istintivamente:
<<perchè vivi con quell’ uomo?>> <<e’ schifoso, rispose evasivamente la ragazza rimettendo a posto
il velo, ma è assolutamente innocuo >>. Poi Zeaidita si alzò, sollevò la tenda, e si allontanò
rapidamente, senza girarsi indietro. Dino rimase perplesso a fissare la figura slanciata che si
allontanava, poi si accoccolò sui cuscini. Dopo qualche minuto venne Menelik, che era un omino
canuto e molto ossequiso, che gli servì il thè inchinandosi, e prima di uscire gli disse: <<spero che la
giovane non ti abbia disturbato, padrone, ma ha molto insistito>>. <<No, no, non ti preoccupare,
borbottò Dino>>, e soprappensiero mandò giù il thè bollente che gli fece vedere le stelle.
La mattina dopo Dino fu bloccato per tutto l’ orario di ufficio nella sua stanza da un gruppo
di persone che volevano un permesso edilizio, e non riuscì a muoversi. La mattina successiva,
Mercoledì, andò in ufficio molto presto per cercar di stabilire un contatto con Marchetti, ma il
Direttore non venne. Alle 14 si convense che era inutile aspettare ulteriormente, ed andò a pranzare, al
Ristorante Italia, per cercare almeno di parlare con Zeaidita. Più ci rifletteva e più il comportamento
della ragazza gli sembrava ambiguo: certo non si poteva accettare l’ accaduto acriticamente!
Entrò nel ristorante che era piuttosto affollato di funzionari governativi, e vide Aldo che si
agitava tra i tavoli, ma della ragazza non c’ era traccia. Aguzzò la vista e nel retrobottega vide
distintamente che intorno ai fornelli c’ era una vecchia di colore. Aldo lo servì lentamente,
probabilmente per smaltire gli altri clienti e cercar di parlargli. Puntualmente, quando tutti se ne furono
andati, portò la frutta, e sedette vicino a Dino: <<ti avrei cercato io, sai che ho sempre qualche notizia
per te, e per la tua carriera....>>. Dino lo bloccò:<<quanto vuoi?>> . <<beh, trenta....>>. <<20 rupie,
vanno benissimo, e ti farò passare in commissione edilizia la pratica per costruire nel cortile del tuo
fetente retrobottega>>. <<Non voglio che pensi male, io non sono veniale..>>. <<si, si, sei generoso,
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lo so, ma vai avanti!>> <<c’ è una valigetta di soldi in arrivo per i guerriglieri. Ma sembra che sia
interessato anche qualcun’ altro del controspionaggio, qualcuno che probabilmente si vuole fregare i
soldi>>. <<Tutto quì, non mi dici altro?>>. <<beh, ci sarebbe qualcosa in più, ma sai, io ho delle
spese..>>. <<Parla-disse Dino- sei già strapagato, ricordati sempre del fatto che tolleriamo la presenza
della ragazza nera. A proposito, dov’è?>>. <<mercoledi Zeaidita va sempre al suo villaggio, ad una
decina di chilometri da qui- Aldo fece una breve pausa e continuò, con aria inorgoglita- però la sera
torna, preferisce dormire da me. Io adesso non sono più giovanissimo, ma prima le donne mi
correvano dietro, non faccio per dire ma ne facevo anche sette in un giorno>>. Dino pensò: “se questo
rifiuto umano riesce solo a penetrare la ragazza è un miracolo”,ma non disse nulla, e lo fissò con aria
critica. Aldo, quasi per disperdere i dubbi, proseguì: <<io sono ancora un vero stallone, e Zeaidita è
innamorata cotta, un pesce come il mio non lo trova in tutta Asmara!>>. <<va be- tagliò corto Dino
spazientito- portami la frutta e chiudi la finestra, che c’è un rumore insopportabile>>. Più tardi, al
caffè, tornarono sull’ argomento principale della conversazione, ed Aldo spiegò: <<è venuto da me
Aleardi, quello che lavora nel tuo stesso ufficio. Voleva sapere se c’ erano movimenti di soldi. Stà
cercando informazioni su un tizio che è arrivato in treno da Massaua, e che frequenta un bar dalle parti
della Cattedrale. Voleva anche sapere se tu vieni a pranzare qui il Mercoledi>>.
Dopo il pranzo Dino uscì per andare al mercato indigeno. Aveva deciso di parlare con
Menelik, che forse, sapeva qualcosa di più di quanto volesse far credere. Mentre camminava pensò alla
strana coincidenza. Perchè Aleardi voleva sapere che cosa faceva il Mercoledi ? che c’ era di
particolare il Mercoledì? Marchetti mancava quasi tutti i Mercoledì, e forse Aleardi aveva pensato che
si vedessero da qualche parte per complottare? Anche Zeaidita andava a casa nella stessa giornata.
Probabilmente tutti questi fatti, apparentemente indipendenti, erano collegati tra loro, ed Aleardi stava
cercando il filo comune.
Al mercato Menelik non c’ era, e passò qualche ora a frugare nelle tende per cercare qualcosa
da acquistare. Mentre tornava a casa, verso le 19, vide una automobile, con i fari accesi, che andava
verso il centro, e che rallentò fermandosi vicino a lui. <<Dove stai andando?>> lo salutò Marchetti
sporgendosi dal finestrino, <<sali!>>. fecero un pezzo di strada in silenzio, poi Dino pensò che era il
caso di raccontare le informazioni che aveva avuto su Aleardi, ed accennò anche brevemente alle
domande che l’ uomo aveva fatto su di lui.
Marchetti fermò l’ automobile sul fianco della strada, e si fece ripeteredue volte la storia,
mentre Dino si stava già rimproverando di aver parlato: perchè tutto quell’ interesse? Il direttore però
non fece domande, pareva piuttosto che stesse ricollegando mentalmente qualche fatto, e non fece
neppure apprezzamenti su Aleardi, tranne una smorfia di disprezzo semipercettibile. Verso le 20 e
trenta i due uomini si salutarono. Quando Marchetti ripartì Dino osservò la targa della sua auto, e se la
impresse in mente, poi attraversò il cortile di casa, ed entrò, attirato piacevolmente dall’ odore della
cena che Fatima gli aveva preparato
La settimana passòin fretta ,e venne il Mercoledì successivo. Dino si alzò all’ alba, si preparò
rapidamente, e scese. Sotto casa l’ aspettava il suo ascaro, Gellafos, seduto a cassetta di un carro pieno
di paglia. Parlarono per dieci minuti, poi Dino andò in ufficio ed il carro proseguì in direzione del
Ristorante Italia. Alle sette generalmente Zeaidita partiva da li per andare a casa dei suoi.
Dino passò la mattinata in ufficio, il pomeriggio in casa, a riordinare le sue carte, e verso le
21 andò a cena da Aldo. Qualche minuto dopo che si era seduto al tavolo entrò dalla porta del locale
Zeaidita, con il viso quasi completamente coperto dallo scialle, traversò frettolosamene la sala da
pranzo, lanciando uno sguardo stupito verso Dino, e si infilò nella porta interna, che conduceva alla
abitazione vera e propria. Dino finì di cenare, ed uscì dirigendosi a passo veloce verso l’ incrocio tra
via Locatelli e via Oriani. Ci arrivò verso le 21 e 30, e trovò Gellafos, che si affaccendava intorno alle
ruote del suo carretto. L’ uomo lo salutò con reverenza: <<salve padrone, come stai?>> <<bene, sei
andato a lavorare?>> <<tutto il giorno, come tutti i giorni, prima che il sole sia sorto e sino a quando
non tramonta di nuovo, l’ uomo deve lavorare, padrone, altrimenti non vedrà molte albe>>. Dopo che
Gellafos gli ebbe ripetuto ad alta voce, in modo che i pochi passanti sentissero, queste parole di
saggezza imparate dai suoi avi, entrambi salirono a cassetta, e mentre gli asini trainavano il carro
verso casa di Dino, iniziarono a parlare con tono più basso: <<hai visto dove è andata la ragazza?>>
domandò Dino. <<Si, è andata con un carro che passava sino ad una casa di campagna a qualche
chilometro da qui, e li una vecchia le ha aperto al porta. Dopo quasi un’ ora è arrivata un’ automobile,
guidata da un uomo bianco, una di quelle che voi chiamate Alfa Romeo>>. <<La targa, hai letto la
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targa?>>. <<Non so leggere, disse l’ uomo, ma posso disegnare quello che c’ era sulla piastra dietro la
macchina>>. <<Beh, si, quella è la targa!>>. Fermarono il carro, e Dino gli dette la carta ed una
matita, e Gella fos riprodusse, come meglio poteva, quello che aveva visto. Dino sbarrò gli occhi: era
la targa dell’ auto di Marchetti. <<Com’ era l’ uomo che guidava?>>, chiese ansiosamente. <<Non ho
visto molto bene, ma era più alto di te, un po’ più robusto, e doveva essere della mezza età. Aveva un
vestito color dell’ erba in primavera>>. La descrizione corrispondeva. <<Quanto è rimasto?>> <<da
quando il sole è stato nel centro del cielo a quando è rimasto uno spicchio perchè scomparisse sotto la
terra>>. Dino calcolò che potevano essere circa quattro ore, dalle dodici alle diciotto. Gellafos
proseguì: <<quando è uscito ho visto che si fermava sulla porta con Zeaidita, e si sono baciati a
lungo>>. <<Sei certo di avere visto bene?>> <<sono certo. Non erano distanti più di venti solchi di
aratro da me>>. <<Va bene, grazie Gellafos, riparti adesso>> borbottò Dino. <<Sembri sconvolto
padrone, ti ho dato forse una brutta notizia?- chiese Gellafos, e poi, dopo un attimo prosegui- Zeaidita
è la tua donna?>>. Dino sorrise divertito: <<no Gellafos, il punto è un’ altro: forse uno di loro fa il
doppio gioco>>. <<Chiedimi quello che vuoi padrone, ed io ti aiuterò>>. <<Questo lo so, amico mio,
non ne ho mai dubitato, ma ora riportami a casa>>. Quando furono arrivati si salutarono, e Dino gli
raccomandò il silenzio su tutto quello che aveva visto e fatto quella mattina. Poi entrò in casa molto
perplesso: perchè Zeaidita gli aveva fatto quella soffiata. Era molto più semplice raccontare tutto al suo
amante. E poi quel fatto assurdo: Marchetti che divideva una donna così bella con quel maiale di Aldo!
Boh, era meglio lasciar perdere, ci avrebbe pensato il giorno dopo!
Durante la notte si risvegliò di soprassalto, con le idee molto più chiare. Comunque fosse la
situazione tra Zeaidita e Marchetti, era molto probabile che quest’ ultimo sapesse del colloquio che la
ragazza aveva avuto con Dino. Teoricamente era possibile che fosse stato proprio lui a suggerire quel
contatto, magari per verificare la fedeltà di Dino, o forse.... ma certo! Se l’ informazione fosse venuta
da un agente, Marchetti si sarebbe trovato un rapporto sul tavolo, ed avrebbe potuto agire
immediatamente. Altrimenti avrebbe poi dovuto giustificare da quale fonte aveva avuto l’
informazione, e si sarebbe trovato in imbarazzo. Forse era una interpretazione semplicistica, ma non
aveva scelta. Sedette al tavolo e scrisse una relazione su quanto Zeaidita gli aveva detto sotto la tenda
di Menelik, ma omise il nome della ragazza. Rilesse lo scritto, lo corresse, barrando i passi che non gli
piacevano con una sola riga secca. Lo riscrisse, e lo rilesse ancora, poi rifinì la bella copia
aggiungendo degli svolazzi sulle T e F, sottolineandolo nei punti chiave. Quella calligrafia così
ricercata era una sua caratteristica, sin dai banchi delle elementari. Poi distrusse con cura tutte le brutte
copie, tagliandole a pezzetti, e poi le bruciò nel fuoco. Controllò anche la cenere, per essere sicuro che
non restasse più nulla, poi mise al sicuro la bella copia ed andò a dormire per qualche ora. La mattina
dopo non andò subito da Marchetti, per non farsi vedere eccessivamente interessato. Poco prima di
pranzo andò dal direttore, ed in estremo silenzio gli passò la relazione. Marchetti la lesse, ed il suo
sguardo divenne sempre più attento. Dino notò che le mani gli tremavano leggermente. Quando ebbe
finito di leggere, rilesse, poi gli disse: <<bene, Dino, hai fatto un buon lavoro: oggi pranzeremo
insieme- buttò uno sguardo disinteressato sull’ orologio- anzi è ora, andiamo>>. Dino avrebbe giurato
che non aveva nemmeno visto le lancette. Quando furono per strada Marchetti si guardò intorno, poi
gli piazzò gli occhi addosso, e gli chiese: <<chi ti ha dato queste informazioni?>>. <<Lei conosce le
regole-replicò Dino un po’ seccamente- gli informatori vanno protetti>>. In fondo era Marchetti dalla
parte del torto, era lui che doveva nascondere qualcosa. Il direttore era agitato, e perse la sua sicurezza
abituale: << era un uomo od una donna?>>. <<Perchè dovrebbe essere una donna?>>. Marchetti capì
di aver fatto un passo falso, ma si riprese subito: <<non è mica raro che una donna faccia queste spiate,
e tu sei giovane. Quando hai saputo queste cose?>>. <<Martedi della scorsa settimana>>. <<E me le
dici solo adesso, in fondo ci siamo visti quella sera in macchina?>>. Marchetti aveva ripreso il
controllo di se stesso, e per reazione stava diventando aggressivo, Dino pensò di doverlo calmare con
una nuova frecciata. <<Non c’ era urgenza, l’ incontro deve avvenire alla fine del mese a casa di
questo Mohamid-Nur, e mancano ancora sette giorni. Intanto dovevo verificare la credibilità dell’
informatore>>. <<E la hai verificata?>> domandò Marchetti, con un tono che doveva sembrare
distaccato, ma che tradiva l’ ansia. <<Si- rispose Dino laconicamente- altrimenti non avrei fatto quel
rapporto>>. <<Il rapporto me lo dovevi fare lo stesso!>> <<si, ma in tono molto più dubitativo>>.
Marchetti non disse nulla, ma si mordeva le labbra. Se non avesse saputo nulla della questione
difficilmente avrebbe assunto quell’ atteggiamento. Forse aveva proibito alla ragazza di parlare con
altri della faccenda, ed ora si sentiva tradito dalla sua amante. Ma in questo caso Zeaidita si sarebbe
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raccomandata di mantenere il segreto, e non l’ aveva fatto. Comunque fosse, Dino decise che non
toccava a lui mettere le carte in tavola, ci doveva pensare Marchetti se ne aveva voglia. Ed in effetti il
Direttore sembrava in procinto di dire qualcosa. Esitò a lungo, in silenzio, poi disse: <<senti, devi
saspere qualcosa d più. Io conosco questa storia da qualche tempo, ma è una storia molto brutta, e ci
sono stati dei morti, ed altri ce ne saranno. Qualcuno vuole armare i ribelli, probabilmente gli inglesi, e
quei soldi devono passare attraverso dei canali, tra cui funzionari governativi italiani, che verranno
ricompensati per questo servizio. Sembra che uno di questi abbia preparato un piano sofisticato: poco
prima che i soldi gli vengano consegnati, un terzo uomo li ruberà, e spartira in seguito con lui il
bottino. Così il nostro amico sarà a posto, visto che gli inglesi non potranno incolparlo di aver fatto
sparire dei soldi che non gli sono mai arrivati, e noi non potremmo accusarlo di tradimento, perchè non
potremo dimostrare che ha fatto da tramite.>> <<e noi non possiamo far arrivare la notizia di questo
piano agli inglesi, al traditore ci penserebbero loro?>>, replicò Dino. <<Si, ma così bruceremmo il
traditore, ma non bloccheremmo i soldi, perchè gli inglesi cercherebbero un altro canale>>, replicò
Marchetti. Poi, dopo un profondo sospiro continuò: <<vedi, la mia reazione ansiosa di poco fa dipende
dal fatto che tu probabilmente hai avuto questa notizia da Zeaidita, la ragazza che stà al Ristorante
Italia, che io conosco e che mi è molto cara. Io però le avevo raccomandato di non parlare, per non
mettere a repentaglio la sua vita, e per non rischiare di far saltare tutto il piano. Ma Zeaidita è
impulsiva e generosa, e non si controlla>>. Marchetti non disse altro, e Dino non chiese di più. Per lui
che era un gentiluomo, la partita era chiusa.
Nei giorni successivi tornò spesso con il pensiero alla faccenda, mentre andava con un
geometra a rilevare la pianimetria della zona intorno alla casa di Mohamud-Nur. Aveva studiato la
cartella custodita nell’ Ufficio di Import Export di Viale Mussolini, ed aveva scoperto che questo
Mohamud-Nur era ufficialmente un carrettiere, ma nella realtà era molto legato al Ras Immirù, un capo
della Resistenza che era stato confinato a Ponza. Martedi finirono il lavoro di rilevazione, e mentre
andavano via sulla Fiat dell’ Ufficio, passarono molto vicino alla abitazione, e Dino rilevò la posizione
delle porte e delle finestre.
Il pomeriggio, dopo pranzo, Dino ripassò da casa, e trovò la cameriera, Fatima, molto agitata,
che gli faceva segni strani indicando lo studio. Poi disse a bassa voce: <<c’ è qualcuno che ti vuole
parlare>>, e lo accompagnò nello studio, dove, seduta sulla poltroncina, c’ era Zeaidita. Il sole che
entrava dalla finestra illuminava in pieno il viso bellissimo e sensuale della ragazza, che sorrideva
mostrando i denti bianchissimi e perfetti. Il primo pensiero che gli traverò la mente fu: “ecco perchè
Marchetti ha perso la testa”. Zeaidita aveva una posa strana per una ragazza indigena. Viso eretto,
volto scoperto, le spalle indietro, le gambe accavallate: <<che succede ?>>, domandò Dino. << ho
pensato che fosse necessario darti altre spiegazioni>>. Dino sedette al suo posto, dietro la scrivania, ed
istintivamente controllò che non ci fossero in giro documenti riservati, mentre la giovane proseguiva,
in italiano pressochè perfetto <<dopo averti parlato sotto la tenda di Menelik, ho capito di aver fatto un
errore, come pensavo, tu hai fatto un rapporto a Luigi Marchetti>>. <<Lo dovevo fare>>, interruppe
Dino, <<però non ho fatto il tuo nome>>. <<Lo so, non avevi scelta, e comunque io non ti ho neppure
chiesto di mantenere il riserbo. E’ stata una mia scelta>>. Fece una pausa guardandosi intorno, poi
proseguì: <<ti dirò molte cose, perchè so che sei fedele a Luigi, ma ti prego di non insistere se mi
rifiuterò di rispondere>>. Dino annuì e Zeaidita continuò: <<ho dovuto parlare perchè temo per la vita
di Luigi, che si trova in una situazione molto pericolosa. Un militare di alto grado, un generale, vicino
al Vicerè, è a capo di un complotto per agevolare l’ invio di fondi ed armi ai ribelli, e per facilitare l’
arrivo di sobillatori. Quest’ uomo è pagato da Londra, ed è molto potente. A Roma qualcuno continua
a convincere Mussolini che è un uomo forte, in grado di controllare la politica incerta del Vicerè.
Quest’ Ufficiale sta anche cercando di falsificare i dati sulle forze italiane disponibili, così riuscirà a
mandarvi al macello>>. <<Come sai queste cose?>>, domandò Dino con atteggiamento cauto. <<Ti
posso rispondere solo in parte. Io non sono una cameriera, ma sono stata educata a Londra, e li ho
conosciuto Luigi>>. La ragazza scosse la massa di capelli che le scendevano sulle spalle, e si
accomodò meglio sulla sedia. Doveva avere tra 28 e 30 anni, Marchetti ne aveva cinquanta. <<Quando
sei stata a londra?>>. <<dal ‘30 al ‘34, e Luigi stava all’ Ambasciata Italiana>>, disse Zeaidita, quasi
gli avesse letto nel pensiero. <<Stai dicendo che Marchetti ti da queste informazioni riservate?>>.
<<Assolutamente no, ho le mie fonti>>.
Dino cominciò a temere che la ragazza volesse tendergli una trappola, e si spazientì:
<<insomma, non girare intorno alle cose, dì cosa vuoi, e sii chiara>>. Zeaidita gli lanciò uno sguardo
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sensuale e triste, ed increspò le labbra, come fanno le donne quando vogliono bloccare la aggressività
degli uomini. Dino lo percepì, ma non era tipo da farsi imbrogliare, e sostenne lo sguardo impassibile.
Zeaidita riprese a parlare: << tu devi fermare un funzionario del Governo Italiano che stà cambiando le
carte in tavola. Sta falsificando i dati sulle truppe in campo, e stà agevolando il passaggio dei soldi e
delle armi ai ribelli, che purtroppo è in combutta con il generale di cui ti ho parlato.>>
Dino rimase un secondo a guardarla, poi chiese: << primo, perchè non ne parli direttamente
con Marchetti, secondo, perchè mi dovrei fidare di te, chi sei? >>. Zeaidita lo fissò con lo sguardo
tagliente: << io l’ ho detto e ridetto a Luigi, ma lui, per una serie complessa di ragioni che non ti posso
spiegare, per ora non può agire. In più la sua autonomia di recente è stata molto ridimensionata: per
mettere sotto sorveglianza, o silurare questo personaggio per vie legali, deve essere autorizzato dal
Vicerè, e deve rivelare le sue fonti di informazione, e comunque ad Addis Abeba qualcuno
bloccherebbe la procedura prima che la richiesta arrivi dal vicerè. Alternativamente dovrebbe agire
illegalmente, cioè eliminare o far eliminare fisicamente il traditore, e Luigi non è capace di commettere
azioni illegali>>. Dino annuì, ed osservò: <<per questo non mi hai chiesto di tacere quando ci siamo
incontrati sotto la tenda di Menelik. La mia relazione era un atto ufficiale, e Marchetti avrebbe potuto
iniziare una indagine>>. << Si >> , rispose laconicamente Zeaidita.
Dopo un attimo Dino riprese: << non so ancora chi sei! >>. La giovane gettò indietro i
capelli, sorrise, e lo fissò con uno sguardo furbo << sai abbastanza di me per capire. Luigi, il
Mercoledì, viene all’ appuntamento in macchina, e va veloce. Io viaggio con mezzi più lenti, un carro
di buoi, una bicicletta, a piedi, ed ho tempo di osservare. E poi io sono nata qui, i “musi neri”, come ci
chiamate, per voi sono tutti uguali, per me no. Io ho visto quel vecchio carrettiere, Gellafos, che ci
spiava, e poi ho saputo che era tuo amico. All’ inizio mi ero spaventata, poi ho capito che non
avevamo nulla da temere da te >> . Dino sospirò e domandò: << Marchetti lo sa? >>. << No, non gli
ho detto nulla >>.
<< Chi sei? >>, insistette Dino. << Zeaidita, l’ amante nera di Marchetti, ma non ti dirò di
più, era nei patti >>. << Tu non lavori per noi! >> << no >>. << che c’ entra Aldo in tutto questo?
Marchetti non puo dividerti con quel verme! >>. La ragazza sorrise: << quel fetente raccoglie più
informazioni dell’ MI 5, e mi serve. In quanto a dividermi, lascia perdere, è diabetico ed impotente.
Si eccita a guardarmi, e mi spia dalla porta quando mi spoglio, ma non può andare oltre. E’ un povero
mentecatto, ma è utilissimo, e non si avvicina nemmeno a me. D’ altro canto io posso vivere quì in
città unicamente facendo la cameriera, perchè tu sai che non permetterebbero ad una donna della mia
razza di vivere da sola ad Asmara>>. Dino non insistette più. La spiegazione lo soddisfaceva, e non gli
piaceva ascoltare storie morbose. Provò ancora a chiedere: <<per chi lavori?>> <<Sostanzialmente per
me stessa, ma non posso dirti di più>>. <<Chi è il traditore?>>. <<uno è il Dottor Aleardi, che lavora
nel tuo stesso piano, ma probabilmente è il cretino, quello che sacrificheranno>>. <<Vuoi dire che gli
uomini del Generale lo ammazzeranno?>>. <<penso di si>>. <<E l’ altro?>>. <<Non lo so, ma penso
di poterlo scoprire. Da Aldo arrivano molte notizie. Comunque è un civile che lavora nell’ Ufficio del
Vicerè ad Addis Abeba>>.
Zeaidita assunse un atteggiamento duro, e un lampo di odio le passò negli occhi: <<forse tu
non dovrai fare nulla, potrei bastare io>>.
Si salutarono, e la ragazza si avviò verso la porta posteriore, ma prima di uscire disse: <<fai
pure le ricerche che vuoi su di me, ma non mettere in imbarazzo Luigi, non fargli domande dirette su
di me e lui>>. Dino sorrise, e disse: <<stai tranquilla>>.
Come Zeaidita aveva previsto Dino si presentò la mattina successiva molto presto all’ Ufficio
di Import-Export di Viale Mussolini, e ci trovò Giovanino Sulis. Fece due chiacchere, poi andò nella
stanza degli schedari, sostenendo che aveva bisogno di dati su eventuali contatti di Menelik. Appena
Giovannino fu uscito dalla camera cercò su e giù per lo schedario, ma come prevedeva, non c’ era
nulla su Zeaidita. C’ erano tutti, anche la sua cameriera Fatima, ed un mare di gente, sospetta e non.
Aldo occupava due cartelle, e si menzionavano sia la moglie che lo aveva lasciato, sia la cameriera
nera che Dino aveva visto in cucina il Mercoledì. Alla fine si convinse che non c’ era nulla da fare, ed
andò in ufficio a lavorare.
Quella sera alle sette Gellafoo fermò il carro vicino alla casa di Mohamud-Nur, e dovette
scaricare tutto il carico di fieno, perchè si era rotta una ruota, e non si poteva ripararla facilmente. Poi
si rese conto che non ce la faceva, ed andò a cercare aiuto, mentre il ragazzino che aveva nascosto
sotto le coperte rimaste sul carro, spiava dai buchi del legno. Gellafoo tornò verso Mezzanotte, e
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lavorò alla luce della luna sino alle due, poi ripartì, e, con sei ore di ritardo riuscì a portare il fieno a
destinazione.
Dino invece passò la nottata negli uffici di Viale Mussolini, aiutato da Sulis, alla ricerca di
notizie sui movimenti delle truppe italiane. Già quando era arrivato, verso le 21:00, Giovannino Sulis
gli aveva fatto trovare tutto quello che aveva potuto rimediare dal Comando Generale di Addis Abeba.
Le notizie erano raccolte in un libro verde, che somigliava stranamente ad un volume che Dino aveva
visto qualche tempo prima sulla scrivania di Aleardi. Passò circa un’ ora ad esaminarli, poi si rivolse a
Sulis: <<quante copie esistono di questo registro??>>. Sulis lo prese, lo soppesò, poi disse <<credo
che ce ne siano in giro una decina: una viene inviata a Roma, una al Vicerè, una al Generale
Presenzani, una ovviamente resta al Comando Superiore di Addis Abeba, e probabilmente le altre sei si aiutò nel conto con le dita- vengono inviate agli altri comandi>>. Dino gli riprese il libro dalle mani,
e lo sfogliò commentando: <<esempio mirabile di segretezza!!>>. Giovannino sospirò: <<comunque è
una barzelletta, perchè gli inglesi sanno benissimo quanti aerei abbiamo, e non perchè lo leggono su
questo documento. Loro a questo libro ci credono con il cazzo!!>>. <<anchè tu pensi che questi
numeri non siano veri>> <<ovvio, non coincide nulla. Sui giornali di due giorni fa si diceva che l’
Italia dispone di più di 180 aerei da combattimento pronti a levarsi in volo, ma se ne abbiamo
cinquanta è grasso che cola>> <<e gli altri dove sono finiti?>> <<nei rapporti contano pure gli aerei
del 15-18, che neanche volano più. Noi abbiamo i CR 32, che non volano quasi più, e vengono
normalmente contati>>. <<Marchetti lo sa!>> << credo di si, ma non può provarlo>>. <<Non si può
richiedere una verifica>> <<se vuoi fare un censimento degli aerei a terra non ci riuscirai mai. Lo stato
maggiore non lo consentirà, e neanche Marchetti, con tutto che è un uomo potente, riuscirà mai ad
ottenere una autorizzazione. Considera che comunque un provvedimento del genere deve passare dall’
Ufficio del Generale Pesenzani dove verrebbe bloccato. Un colpo di fortuna sarebbe trovare il cimitero
degli aerei rottamati! A questo punto nessuno potrebbe spiegare perchè sono li, senza la fusoliera o le
eliche, mentre risultano regolarmente registrati ed in volo>>. <<Uhm- annuì Dino- secondo te perchè
li fanno sparire senza denunciare il disarmo?>>. <<boh, Marchetti pensa che sia un sistema dello
spionaggio Inglese per spingerci a scelte tattiche sbagliate, ma probabilmente c’ entra anche il fatto che
si fregano la benzina: in pratica l’ esercito si fa dare benzina per 30 o 40 aerei inesistenti, e poi
qualcuno con una rete clandestina di distribuzione, la riversa sul mercato nero>>. <<Potrebbe esistere
anche un piano per rivenderla agli Inglesi od ai francesi-osservò Dino- sopratutto se ci sarà una
invasione >>. <<È molto probabile, confermò Sulis>>.
Si avviarono verso la porta, e Dino si soffermò soprappensiero. <<Perchè dici che Marchetti
non può ottenere che si faccia un censimento?>>. Sulis accese una delle sue fetenti Nazionali senza
filtro, e disse: <<vedi, la situazione è complessa. Marchetti è tutt’ ora un uomo potente, ma certo ha
perso molto in questi ultimi anni>>. Dino per sua natura non era curioso, ma sentì che era necessario
capirne di più, e proseguì: <<che intendi?>>. sulis osservò l’ orologio: erano le due, ormai la notte era
andata, tanto valeva fermarsi a parlare, e si sedette sulla sedia della segretaria, all’ entrata dell’ Ufficio.
<<Vedi, Marchetti è stato un uomo potentissimo, vicino al Duce. Nel periodo in cui lo hai incontrato,
all’ Abetone, era il vicecapo del servizio segreto, ma praticamente aveva in mano tutto. È sempre
rimasto nell’ ombra, come era opportuno per un capo dei Servizi, e questo gli aveva fatto gioco.
Quando comparve sulla scena il Generale Pesenzani, Marchetti, che non lo sopportava perchè aveva
capito fin dall’ inizio che era un essere spregevole, gli rese la vita difficile, e vinse la partita. Per
qualche motivo che non capisco però Pesenzani rimase sulla scena, anche se con ruoli minori. Ad un
certo punto Marchetti fece uno scivolone>>. <<Quando?>>, incalzò Dino, che aveva capito che la
notte favoriva le confidenze. <<Quando andò a Londra, sotto copertura, come funzionario dell’
ambasciata. In relatà doveva apprestare una rete di spie. Purtroppo però perse la testa per una giovane
eritrea, figlia di un Ras...., però non mi ricordo il nome. La ragazza frequentava l’ Università,
Marchetti la conobbe e per lei lasciò la moglie, che era imparentata con il Duce.>> Dino ovviamente
ricollegò:: “Zeaidita”! Giovannino Sulis proseguì: <<la centralità di Marchetti per il nostro sistema di
intelligence, ed anche la grande stima che il Duce aveva per lui, lo hanno salvato, ma ha dovuto
rinunciare alla ragazza, ed è stato rimpatriato subito. Appena tornato in Italia è ricominciata la storia
con Pesenzani, e siccome non si riusciva a risolvere la questione, li hanno spediti tutti e due qui in
Eritrea. Solo che i rapporti di forze ora sono differenti, e Marchetti ha perso molto potere,e l’ altro lo
ha acquistato, anche perchè lo hanno piazzato vicino al Vicerè>>. <<Da quanti anni conosci
Marchetti?>> domandò Dino<<Credo da 20 anni, e ti posso giurare che è un uomo veramente onesto e
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chiaro.- Sulis abbassò la voce e proseguì- vedi...., la sua fedeltà al Duce è assolutamente fuori
discussione, ma è anche evidente che non condivide certi atteggiamenti del regime, che non gli
piaciono la maggior parte dei grarchi, che non sopportava Graziani, che si sente un uomo libero.
Questi suoi atteggiamenti sono noti pure a Londra. Insomma tutte queste cosei rendono molto difficile
la sua situazione, e sull’ altro piatto della bilancia ci sono soltanto la certezza che nessuna potenza
straniera potrà mai comprarlo, e la sua immensa abilità nei servizi segreti>>. <<Che intendi come
abilità?>> <<voglio dire che conosce i servizi segreti di tutto il mondo, le loro vie di comunicazione, i
loro equilibri di potere. Conosce perfettamente l’ inglese, il francese, il tedesco ed il russo, e la
struttura e gli uomini dei loro servizi segreti, ed è stato per qualche anno in tutte queste nazioni.
Proprio a Londra ha avuto l’ incidente che ti ho detto>>. Dino forzò ancora: <<chi era questa
ragazza?>> <<non so molto, perchè l’ argomento è sempre stato tabu. Si dice che fosse molto bella e
disinibita, ed anche molto ricca, e che si fosse legata a movimenti di Sinistra. Forse è una cattiveria,
ma si dice che avesse dei legami anche con un servizio segreto di un’ altra Nazione>>. Sulis diventava
sempre più sonnolento, e comunque Dino si rese conto che non aveva molto di più da tirargli fuori.
Spostò l’ argomento su qualche cosa meno importante per qualche minuto, poi se ne andarono tutti e
due.
Dormì poche ore quella notte, perchè all’ alba sentì bussare, ed era Gellafoo, che faceva
rapporto su quanto era successo la sera precedente davanti alla casa di Mohamud-Nur: verso le nove
erano arrivati due uomini su una Alfa Romeo 6 cavalli, uno calvo, dell’ età di quasi 30 anni, alto
quanto Dino, e con un incisivo dorato, ed uno dell’ età apparente di 40 anni, più alto, con i baffi ed un
cappello. Alle undici era arrivato un uomo di colore, e dopo circa tre quarti d’ ora i tre erano andati via
in macchina, ad alta velocità, dirigendosi fuori città. Dino domandò: <<sapresti riconoscerli, se teli
facessi vedere in fotografia?>>. <<forse>>, rispose Gellafoo, e rimase in silenzio a guardarlo. Poi
dopo un attimo di esitazione, proseguì: <<l’ uomo di colore aveva la corporatura del Negus, ma io ho
visto Hailè Sellassiè una sola volta>>. Dino non fece commenti, ma lo guardò a lungo perplesso, per
cercar di capire se veramente Gellafoo era incerto, o se non aveva il coraggio di parlare, ma non riuscì
a capirlo. Poi Gellafoo gli fece vedere il disegno dei numeri di targa dell’ automobile che il ragazzino
aveva tracciato come meglio poteva.
Alle nove, praticamente senza aver dormito, ma impeccabile come al solito, con la cravatta
scura, l’ abito grigio, e gli stivali, era nell’ Ufficio di Marchetti. Mentre parlava di pratiche gli fece il
segnale convenuto, e la sera, all’ uscita dal Cinema, dove davano “Scipione L’ Africano”, i due uomini
fecero una passeggiata lungo viale Mussolini. Il direttore era preoccupato, e lo nascondeva a stento,
ma quando Dino gli riferì quello che Gellafoo aveva visto la sera precedente , diventò paonazzo. Dopo
qualche secondo di riflessione, si rivolse a Dino, dicendo: <<hai già una idea su come andare
avanti?>> <<si, io farei vedere a Gellafoo le foto che abbiamo in archivio>>. <<È una buona idea, ma
io credo che sarebbe bene mostrargli le foto dei militari>>. Dino rimase colpito dal fatto che anche
Zeaidita gli aveva parlato di militari coinvolti in faccende poco chiare, e domandò: <<lei pensa che i
militari entrino in questa faccenda?>> <<si, sono potentissimi e venduti. Il problema è che le indagini
su di loro, o semplicemente l’ accesso ai documenti militari, li deve autorizzare il Generale Pesenzani rimase un attimo in silenzio- forse però posso sapere se qualche ufficiale di alto grado si è allontanato
da Addis Abeba in questi giorni>>. <<Perchè dovrebbe essere di Addis Abeba?>> <<perchè è li che
stà lo Stato Maggiore.>>. Dino lo guardò fissamente: <<cioè lei pensa che ci sia un alto grado delle
sfere militari che tradisce>>. <<Si, più di uno. Certo il capo di questa congiura non è un militare che
sta sul campo, è un fottuto furfante che non ha mai visto un fucile dopo la scuola di guerra, ma che stà
inguattato dietro qualche scrivania a fottersi la segretaria ed a vendere segreti al nemico per mantenere
le sue puttane sessantenni>>. Poi si fermò e riprese il controllo di se stesso. <<Tu sei una persona in
gamba, ed io non ti voglio mettere troppi limiti. Se hai delle tue fonti di informazione, vai avanti pure,
ma ti raccomando di essere prudente, e non esporti. Se i militari capiscono che stai indagando su di
loro sei fregato, e freghi tutto il servizio. Io cercherò di procurarmi le foto da mostrare al tuo uomo.
Hai altro da dirmi?>>. <<beh, si. Gellafoo crede di aver letto un numero di targa su quella macchina ,
ma sfortunatamente quel poveraccio non sa ne leggere ne scrivere, ed ha disegnato come poteva quel
che si ricordava>>. Dino estrasse dalla tasca della giacca un foglietto, su cui la mano incerta di
Gellafoo aveva tracciato dei segni. Marchetti lo osservò attentamente, poi disse: <<non è mica facile,
sembra 1104>>. Dino replicò <<gli ho fatto vedere i numeri per farglieli identificare, e credo che sia
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1764>>. <<Va bene, proverò tutto, da 1100 a 1999>> replicò Marchetti. Intanto erano ritornati
davanti all’ Ufficio di poste e telegrafi, si salutarono, e ciascuno riprese la sua strada verso casa.
Passò una settimana senza che ci fossero novità importanti. Della Alfa Romeo non c’ era più
nessuna traccia. Il sabato mattina Marchetti fece il segnale convenuto e si videro al cinema. All’ uscita
Marchetti lo aggiornò: <<la macchina appartiene all’ esercito. Impossibile sapere chi la ha usata, ma
comunque è assegnata all’ autoparco degli ufficiali che lavorano al palazzo del governo>> <<non ci
conviene passare l’ informazione al servizio di sicurezza militare?>>, replicò Dino. <<No, sarebbe un
errore tragico, perchè dovrebbe passare dal tavolo di quel fottuto Pesenzani. No, lascia perdere, tanto
sono sicuro che faranno un passo falso.>>. Dino non disse nulla, sapeva che Marchetti avrebbe dato
qualsiasi cosa per incastrare Pesenzani.
L’ inverno fu molto rigido, ma ricco di eventi importanti sul piano internazionale. La stagione
delle piogge rallentò la attività del gruppo, e Dino si dedicò al lavoro di ufficio. Marchetti era molto
interessato all’ infittirsi dei rapporti tra Italia e Germania. Quando Dino entrava nel suo studio trovava
dapertutto giornali, nei quali il Direttore sottolineava con la matita rossa tutti i passaggi che
riguardavano i contatti tra le due nazioni.
Inizialmente Dino aveva pensato che il direttore apprezzasse queste novità, ma quando la
notizia dell’ annessione dell’ Austria da parte dei tedeschi rimbalzarò in Africa, notò che l’ umore di
Marchetti era divenuto pessimo.
Il Direttore passò tutte le mattine di Aprile e di Maggio a leggere i giornali, ed a guardare una
carta della Mitteleuropa, aperta sul tavolo, in cui piantava e spostava continuamente spille. Poi si
tuffava a scrivere fogli su fogli , che nascondeva gelosamente in una borsa, appena sentiva aprire la
porta del suo studio.
Alla fine Dino pensò di provocarlo, ed un giorno di Agosto, mentre passeggiavano per viale
Mussolini, infagottati nei loro cappotti, provò a provocarlo sull’ argomento:z<< certo, speriamo che i
legami con la Germania si rafforzino>>. Marchetti, che non era allegro, divenna ancora più scuro in
volto, e borbottò: <<certo, così finiamo pure noi a fare la guerra con il mondo!!>>. Dino lo guardò con
aria interrogativa, e Marchetti proseguì: <<io ho passato tutta la vita nei servizi, e conosco la storia di
quel pazzo di Hitler sin da principio. Quell’uomo è figlio di una guardia di confine, uno che si è
chiamato Alois Schicklgruber sino all’ età adulta, quando è riuscito a farsi riconoscere dal padre,
Hitler, ed ha cambiato cognome. Ma tutta questa storia, dicono gli analisti dei servizi segreti britannici,
gli ha sconvolto il cervello, e quando ha avuto un figlio, Adolf, gli ha scaricato addosso tutte le
frustrazioni, ed una violenza morale e fisica veramente indicibile. Io ho tutto il rispetto per le
sofferenze di quel bambino, ma il fatto è che ora Adolf ha in mano i destini del mondo>>. Dino rimase
perplesso, poi osservò: <<non è detto che il figlio di un pazzo sia pazzo pure lui>>. Marchetti alzò le
spalle: <<Quando Alois morì nel 1903, mi pare, Adolf, che allora aveva quattordici anni, impazzì di
gioia. Lui e la madre fecero festa per giorni, ed anzi non si è mai capito bene che razza di rapporti
siano intercorsi tra lui e la madre>> Dino sorvolo, come era suo costume, su queste ultima
affermazione, ed invece ribbattè: <<è più che logico che abbiano festeggiato la morte di un gaglioffo
del genere!>>. <<Certo, è ovvio, ma il problema, come viene visto dagli psichiatri che lavorano per i
servizi segreti, è che Adolf è diventato uno squilibrato, sia perchè era predisposto geneticamente, che
per i fatti che ti ho raccontato. Il suo stato mentale è peggiorato drammaticamente nel 1907, quando
morì anche la madre. Non riuscì negli studi, ed allora lasciò l’ Austria ed andò a Vienna, sperando di
entrare all’ accademia delle belle arti, e falli anche li. Il tipo di vita che condusse fino al 1913 è stato
ricostruito da testimonianze di coetanei, ed è preoccupante: era un miserabile, depresso e pare che
abbia fatto dei tentativi di suicidio. Ho letto un rapporto britannico, che fa drizzare i capelli. Per
superare il suo stato d’ animo depresso torturava gli animali. Man mano si inculcò nella testa l’ idea
che tutto il male del mondo veniva dalla razza ebrea. Io ti ripeto che non ho nulla contro di lui
personalmente, anzi lo considero un povero disgraziato, a cui il mondo ha fatto del male, ma
permetterai che sia terrorizzato al pensiero che questo individuo abbia in mano le sorti del mondo!>>.
Dino era sconcertato. Nessuno gli aveva mai presentato Hitler in quella luce. Marchetti proseguì:
<<Hitler ha trovato finalmente un ruolo nella vita quando è stato nel 16o reggimento Bavarese, nel
1914, ed in effetti si è comportato valorosamente: capisci, era un rifiuto della umanità sino allora, e poi
è divenuto un guerriero vittorioso, ed il fatto di aver potuto finalmente trovare una sua dimensione lo
ha esaltato sino alla follia, ed orae vive nel mito del guerriero, di Odino!>>. Dino non disse nulla, ma
Marchetti percepì il silenzio come una accusa e disse: <<ti chiederai come so queste cose, ma ti ho
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detto che io non ho visto solo l’ Italia. La mia fedeltà al paese è fuori discussione, ma io non sono un
uomo di regime. Ovviamente conosco e stimo Mussolini, ma non stimo tutti quelli che gli ruotano
intorno>>. Dino prese tempo, poi parlò: <<posso capire la sua posizione, comunque ognuno vede il
mondo a modo suo! Alla fine conta solo quello che si è fatto, non quello che si è pensato>>. <<Già borbottò Marchetti- ed io non pretendo assolutamente che tu pensi ciò che penso io, in fondo,
prescindendo dalla amicizia personale, noi due abbiamo in comune l’ interesse della patria>>. Si
strinsero entrambi nei cappotti perchè il vento si era fatto più tagliente, poi gli occhi di entrambi
caddero sulla insegna del bar “tricolore”, si guardarono negli occhi, si capirono al volo, ed entrarono a
bere un bicchiere di Izna. Poi Dino guardò l’ orologio, e commentò: <<sono le 20, andiamo da Aldo, e
ci facciamo preparare gli spaghetti alla bolognese>>. Marchetti sorrise, più disteso dopo lo sfogo che
aveva fatto: <<no, andiamo in un posto che conosco io, e ci facciamo preparare uno Zighinì con
Berberè, come non lo hai mai sentito in vita tua. Passerai la nottata a bere per spegnere il bruciore!>>
Il resto dell’ inverno passò con i suoi rigori, e spuntò finalmente una tiepida primavera, smorzata dai
venti freddi dell’ altipiano. Ai primi di Novembre Dino si spostò a Decamerè, ospite di un costruttore
che aveva una casa in quella zona, sperando di avere notizie dai pastori del luogo su eventuali
movimenti di ribelli, ma non raccolse alcuna informazione, e la sera del 13 ritornò ad Asmara.
Il 14 Novembre, lunedi, andò a cena da Aldo. L’ uomo era piuttoto pallido e malmesso, e
Dino gli domandò cosa avesse. <<Sono preoccupato per l’ aria che tira>>, borbottò l’ uomo. <<Cioè
hai di nuovo giocato e perso >> <<si, ma non tanto, però abbiamo fatto tardi>> <<insomma, che ti è
successo, ti hanno minacciato che ti caricheranno di botte se non paghi?>> <<si, ho giocato tutta la
notte con dei tipacci, e sono anche sicuro che qualcuno ha barato, ma comunque erano dei
malintenzionati, ed ho dovuto pagare subito!!>>. <<ah, ecco perchè sei stravolto>> disse Dino,
cercando di non ridere. Stranamente non si vedeva Zeaidita, eppure non era mercoledì! Dino si
incuriosì: <<dove è Zeaidita>>. Aldo scoppiò: <<quella puttana, se ne è andata, mi ha lasciato, capisci,
e non so più a chi far cucinare. Non solo mi hanno spennato, ma ci mancava pure lei. Era così brava, e
non voleva nenache soldi>>. A Dino scappò da ridere, con soddisfazione, ma Aldo era talmente
sconvolto che non ci fece caso. <<Hai capito-continuò a sbuffare- le donne sono solo delle grandi
zoccole!>>. Mentre parlavano entrò un uomo che Dino riconobbe immediatamente: era un sardo che
aveva conosciuto durante gli anni del Liceo a Cagliari, e che aveva un nome orribile ”Leggittimo
Porcu”, e portava la divisa di sottufficiale dell’ Aviazione. Già mentre si salutavano gli venne in mente
che quella era l’ opportunità che stava cercando. Leggittimo si venne a sedere vicino a lui, ed iniziò a
parlare: <come va, vecchio camerata?>>. <<Io sto bene, lavoro per il governo, anche se sai che il mio
cruccio è rimasto quello di non poter volare>>. <<Già, già, mi ricordo -rispose Porcu- la faccenda di
tuo padre>>. Infatti, quando stavano per finire la scuola, entrambi avevano presentato la domanda per
entrare in aviazione, ma Raimondo Tatti, il padre di Dino, non aveva voluto controfirmarla. Aveva
troppa paura per suo figlio, e suo figlio aveva accettato senza fiatare la volontà paterna, ma gli era
rimasto l’ amaro in bocca. Poi Porcu, che lo era di nome e di fatto, passò il tempo del pranzo a
raccontare spacconate sulle sue prodezze aeree e su quelle sessuali. A sentir lui aveva lasciato il seme
del trasvolatore italico nei grembi femminili di mezzo mondo. Dino gli dette spago, mentre dentro di
se pensava che se avevano preso in aviazione quel fanfarone, tutto sommato non era stato un male per
lui non aver potuto fare la stessa carriera. Passarono insieme quel pomeriggio, ed il successivo, e la
verità venne a galla poco a poco. Porcu era solo un povero diavolo, che pilatava unicamente la
macchina del Comandante di una base militare, ed aveva raggiunto l’ apice della performance quando
aveva accompagnato la famiglia di Italo Balbo all’ areoporto, per vedere il loro grande congiunto che
decollava. Però scoprì anche alcune cose interessanti. Porcu era indebitato sino al collo, perchè
giocava come un matto, e perdeva in continuazione, ed aveva un bisogno disperato di soldi. Dino lo
portò a casa sua, e lo fece bere, e mentre quello era tra i fumi dell’ alcol, ammise di avere amici poco
raccomandabili nell’ areoporto, gente che dava passaggi illeciti su aerei militari per soldi. Dino tentò
anche di sapere qualcosa degli aerei distrutti che venivano spacciati per velivoli efficienti, ma quel
poveraccio non sapeva nulla, al più poteva far da tramite, e Dino ne approfittò: <<senti, Leggittimo, io
devo andare a Cheren, ed ho bisogno di qualcuno che mi porti, ovviamente pagherò>>. <<Va benedisse Porcu, che ormai era divento un tutt’ uno con la bottiglia di liquore- ti metto in contatto io, per
poco, visto che sei un vecchio amico.ovviamente, lo faccio solo per amicizia>>. Dino storse
impercettibilmente la bocca, ma non disse nulla. Vewrso l’ una del mattino, Leggittimo riuscì ad
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arrivare alla porta, e se ne andò piuttosto sbilenco, promettendo di farsi vedere il giorno dopo al
Ristorante Italia.
All’ alba Dino partì, e restò tutto il giorno fuori da Asmara, ma la mattina di giovedi, alle
nove, era nella stanza di Marchetti per concordare il solito incontro. Il Direttore era piuttosto distratto,
aveva la barba mal rasata, e ci mise un pò per capire. Accennò un si piuttosto vago e si rimise subito a
spulciare le sue scartoffie, e mentre Dino usciva si attaccò al telefono chiedendo ansiosamente di
parlare con il Dottor Giovannino Sulis. Questo fatto era contro tutte le regole! Marchetti aveva sempre
insistito che non bisognava assolutamente avere alcun contatto con gli uomini di Viale Mussolini
durante le ore di ufficio, e se adesso violava ogni regola di sicurezza ci doveva essere un motivo molto
grave. Mentre rientrava nella sua sua stanza gli venne in mente che il motivo poteva essere la
scomparsa di Zeaidita. Si rimise a lavorare per il resto della mattinata, poi alle 14:00 andò al Ristorante
Italia, dove Aldo, che stava pulendo nervosamente i tavoli, lo salutò appena. Lo servì un giovane di
colore nuovo del locale, e mentre stava iniziando il primo piatto arrivarono Legittimo Porcu ed un
sottoufficiale di aviazione, sulla trentina. I due si sedettero al suo tavolo, e Leggittimo, a bassa voce,
presentò l’ altro: <<questo è il sottotenente Raimondini. Lui è disposto a portanti sul suo Aereo, un
cargo che deve portare delle casse di vettovaglie sino alla base militare di Cheren. Li farete
rifornimento e tornerete indietro. Ti darà una tuta militare, e passerai inosservato. Avrai 40 minuti di
tempo per vedere quello che ti va, e poi tornerete. Se per un malaugurato motivo ti smascherano
Raimondini non ti conosce. Il tutto ti costerà 100 rupie>>. Dino non resistette: <<certo è impenetrabile
il sistema militare!>>. <<no, che c’ entra, lui lo fa perchè sei amico mio>>. Raimondini, che sino a
quel momento non aveva fiatato, disse, con un marcato accento torinese: <<conto sulla sua parola d’
onore per quanto riguarda la segretezza di questo aiuto che le do>> <<certo, ci conti>>, borbottò Dino,
poi lo fissò e gli chiese: <<quando si parte?>> <<Stanotte verso le due, ci vediamo a casa mia, al 150
di Viale De Bono, ed andiamo via insieme. Lei entra con me nella base, ed alle tre si parte>>. <<D’
accordo- concluse Dino, riponendo le posate nel piatto- a stanotte>>. Poi uscirono tutti dal Ristorante,
e ciascuno andò per la sua strada.
Alle 20 e 30 Dino si incontrò con Marchetti davanti alla chiesa Copta, e gli raccontò l’
accaduto. Il direttore era distratto, ma man mano si interessò alla cosa, ed alla fine del rapporto gli
disse: <<va bene, la cosa migliore veramente sarebbe denunciare questi due mascalzoni con cui hai
parlato, ma mi rendo anche conto che siamo in una situazione difficle e conviene non perdere questa
occasione. Vai con questo delinquente, e cerca di vedere quanti aerei ci sono nel campo, quanti sono
rottamati, insomma quello che puoi sapere. A proposito, se ti scoprono io ti posso coprire ben poco, al
massimo posso riuscire a evitarti la fucilazione. Sappi che vai a tuo rischio e pericolo>>. Dino sapeva
già che gli avrebbe fatto quel discorso, ma francamente aveva sperato in un incoraggiamento
maggiore. Marhetti intuì il suo stato d’ animo e disse: <<ho capito, ti aspettavi di più, ma qui siamo in
una situazione di conflitto, ed io non ho nessuna interazione con i militari, se mai ce l’ ho di segno
contrario. Comunque cercherò di fare il massimo. Io penso che non ti scopriranno. In quel campo di
aviazione devono essere tutti d’ accordo per rubare. In ogni caso per me sei libero, se non ci vuoi
andare non ci andrai>>. Dino non amava fare l’ eroe, ma non era un vigliacco. Ormai era deciso, ci
doveva andare. Mentre stavano per salutarsi Dino affrontò il problema che sentiva nell’ aria, e disse:
<<senta dottore, parliamoci da amici, lei è sconvolto........, insomma, mi dica cosa è successo a
Zeaidita!>>. Marchetti sospirò: <<non lo so, è scomparsa circa una settimana fa, mercoledi nove
novembre. Si sa che è uscita verso le otto del mattino dal ristorante, e si è allontanata in bicicletta. E’
stata vista verso le nove mentre usciva di città, ma da allora si sono perse le sue tracce. I carabinieri
hanno ritrovato la sua bicicletta in mano a due ragazzini indigeni che dicono di averla vista appoggiata
ad un albero ed abbandonata.>>. <<Ha visto il posto?>>, domandò Dino. <<Sono andato con un
nostro uomo che lavora nei Carabinieri, ed abbiamo trovato le tracce della bicicletta, e dei copertoni di
una vettura che probabilmente la ha affiancata. Ci sono anche tracce di scarpe di due uomini. La
ricostruzione più verosimile è che la bicicletta sia stata stretta contro il ciglio della strada, e che due
persone abbiano rapito la ragazza>>. Dino rimase un attimo soprappensiero, poi domandò:
<<ovviamente avrà studiato le tracce delle gomme per sapere che vettura era>>. <<Si- disse
Marchetti- ovviamente sono solo delle gomme pirelli, ma a giudicare dal tipo di battistrada, e dalla
distanza tra loro, il veicolo dei rapitori dovrebbe essere un camion. Anche le tracce delle scarpe, nel
punto in cui sono scesi dal veicolo, sono piuttosto profonde, come se fossero scesi da una certa altezza,
e quindi dal predellino di un camion>>. <<Che vuol dire questo?>> domandò Dino sorpreso. <<Non
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ne ho la minima idea, ma stò facendo controllare alla motorizzazione per avere tutti i nomi dei
proprietari di camion, ma è un’ impresa piuttosto difficle. Io però penso che questo sia un rapimento su
commissione>>. <<ci sono altre ipotesi?>>, domandò Dino. <<Beh, i carabinieri pensano ad un’
aggressione a scopo sessuale, ma in questi casi generalmente il misfatto viene consumato sul posto, ma
sembra che in questo caso non sia accaduto. No, io penso che si tratti di un rapimento su
commissione>>. Nella voce di Marchetti c’ era un tono di disperazione, e Dino sentì un senso di pietà,
ma si rese anche conto che si era fatto tardi, e gettò uno sguardo sfuggente all’ orologio. Marchetti se
ne rese conto, gli battè una mano sulla spalla, e concluse : <<ne riparleremo in seguito, ora vai, e
buona fortuna!>>
Due ore dopo, come previsto si presentò a casa del sottotenente Raimondini, in fondo a Viale
De Bono, con metà della somma pattuita, e quello gli dette una divisa miltare che gli calzava
abbastanza bene. Alle 2:30 partirono su una jeep dell’ aviazione miltare, guidata dal sottotenente, ed
alle tre erano al campo. C’ era una sola sentinella, che non avrebbe bloccato neanche una colonna di
formiche, che stava dormendo. Quando gli arrivò in faccia la luce dei fari, si svegliò di soprassalto, e
puntò il fucile, poi riconobbe Raimondini, scattò sull’ attenti ed aprì il portone. Anche tutto il resto filò
liscio, nella base c’ erano pochissimi soldati, insonnoliti, e nessuno chiese nulla. Salirono sul cargo, un
apparecchio piuttosto malmesso, e con scarsissima autonomia, che comunque era l’ unico presente nel
campo. Due avieri aiutarono per le manovre di avvio, e l’ aereo salì verso il cielo. La luna era ad un
quarto, e durante il decollo Dino vide perfettamente, ai bordi del campo, due aerei in disarmo senza le
ali ed il carrello, probabilmente un Caproni 133 ed un CR 32. Il viaggio durò circa centoquaranta
minuti, atterraggio incluso, e fu angoscioso perchè l’ apparecchio precipitava in continuazione in vuoti
d’ aria mozzafiato. Prima dell’ atterraggio fecero un giro del campo, e Dino vide un Hangar sui bordi
della pista. Poi scersero, dopo che si furono scambiati segnali luminosi con la terra. La comunicazione
via telegrafo non funzionava perchè non c’ era ricezione a terra, gli spiegò Raimondini. Dopo l’
atterraggio vennero 2 uomini che si dettero da fare per rifornire l’ aereo d carburante, mentre altri tre
scaricavano le casse. Dopo avere aspettato qualche minuto, Dino si allontanò in direzione dell’
Hangar, che distava circa 250 metri dal luogo dell’ atterraggio. Lo spiazzo era vuoto, e lo traversò
facilmente, raggiunse l’ Hangar, aprì la porta, ed alla scarsa luce vide le sagome di due aerei: uno era
un trimotore con la caratteristica protuberanza dorsale, dove c’ era la cabina di pilotaggio, ed era di
sicuro un un S.79 dell’ Areonautica Italiana. L’ altro era un aereo da combattimento sconosciuto. Lo
osservò bene: aveva una sagoma snella, l’ elica a quattro pale sulla parte anteriore della fusoliera, la
cabina di pilotaggio tra due serie di pannelli di vetri, le ali inserite in basso sulla fusoliera. Sui fianchi
non c’ era la sigla! rimase bloccato dalla sorpresa, ma si riprese subito, e memorizzò anche le
approssimative misure dell’ aereo, che era più piccolo dell’ S.79. Poi, riscivolò indietro verso la porta,
sgusciò fuori dall’ Hangar, e controllò lo spiazzo: apparentemente nessuno in vista. Riaccostò la porta,
e si riavviò verso il cargo con cui era arrivato. In tutto erano passati quasi 25 minuti dall’ atteraggio, e
Dino raggiunse senza farsi notare i tre uomini che stavano scaricando, e si mise ad aiutarli. Dopo altri
20 minuti circa lo scarico era terminato, e Raimondini, che sino a quel momento si era occupato di
controllare le manovre di rifornimento di carburante, si avviò sulla scaletta dell’ aereo, chiamandolo, e
finalmente, dopo altri venti minuti di preparazione, riuscirono a decollare. Il viaggio di ritorno fu più
tranquillo, anche se Dino era ancora puttosto agitato. Se lo avessero preso avrebbe rischiato la
fucilazione. L’ atterraggio avvenne verso le nove del mattino, e Dino dopo aver fatto tappa a casa di
Raimondini, ed avere ripreso i suoi abiti normali, pagò la seconda metà della somma pattuita, ed andò
subito difilato in Uffcio. Marchetti non era venuto, e si mise ad evadere alcune pratiche. Alle 14,
mentre stava per uscire, arrivò il Direttore, con il viso tirato, e la barba ancora più lunga. Si
scambiarono il solito sguardo di intesa, e poi ognuno proseguì nella sua direzione. Mentre stava
uscendo Dino vide che Aleardi, il tanto discusso Dottor Aleardi, che secondo i maldicenti era solo
ragioniere, si era affacciato dalla porta del suo studio, e guardava nella direzione verso la quale si era
allontanato Marchetti, come se volesse seguirne i movimenti.
Passò il pomeriggio in biblioteca a consultare i testi di areonautica. Era molto difficle trovare
dati sugli aerei stranieri, perchè la cultura del momento era estremamente nazionalista, ma almeno
riuscì ad escludere che si trattasse di un aereo italiano, salvo, ovviamente, che si trattasse di un
prototipo, magari truccato per confondere eventuali spie straniere. Comunque, concluse, era
improbabile che un prototipo venisse provato così lontano dall’ Italia. Non insistette ulteriormente,
tanto si rese conto che era inutile, e tornò a casa.
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Alle 20 si vide con il Direttore. Fecero una lunga passeggiata, parlando di edilizia, e
guardandosi le spalle per essere sicuri che nessuno li seguisse, ed arrivarono sino alla chiesa Copta. Li
si fermarono, e Marchetti fu il primo ad affrontare il discorso: <<come è andata?>> <<bene, è andato
tutto liscio. L’ unico momento difficile è stato a a Cheren, perchè ho dovuto traversare il campo per
raggiungere un Hangar per infilarmici dentro >> << quanti aerei hai visto in tutto? >> << in totale ne
ho visto tre funzionanti, e cioè nella base di partenza solo il cargo con cui abbiamo volato, a Cheren,
dentro l’ Hangar, un S.79, ed un aereo che non conosco>>. <<Come non lo conosci!>> <<non l’ ho
mai visto!>> <<che sigla aveva?>> <<ovviamente non aveva sigle! Io non sono in grado di
identificare quell’ aereo, ma comunque l’ ho visto bene ed ho una memoria fotografica. Oggi
pomeriggio sono stato in biblioteca a consultare dei libri di areonautica, ma non mi pare che
corrisponda ad alcuno dei nostri aereoplani>>. <<Descrivimelo>>, disse Marchetti <<E’ un
monomotore con l’ elica a quattro pale nella parte anteriore, le ali inserite in basso, ed otto cannoncini
sotto le ali>> <<Ti ricordi le dimensioni?>>, chiese ansiosamente Marchetti. <<E’ lungo
approssimativamente una decina di metri, e la apertura alare è sostanzialmente identica>> <<hai notato
la forma della cabina di pilotaggio?>> <<si, a tre serie di pannelli>>, rispose Dino. <<Era molto lungo
nella parte anteriore?>> <<si, molto>>. Marchetti tirò una pedata ad un ciottolo, si guardò intorno, poi
disse a bassa voce: <<so che la RAF stà collaudando un nuovo monomotore, lo Spitfire, con un motore
Rolls Royce. Quello che hai visto potrebbe essere il modello MK.1A, che è il primo della serie.
Comunque dovrò controllare le informazioni. La cosa migliore è rivederci domani sera all’ Ufficio di
Viale Mussolini.
Si rividero la sera successiva, nella saletta interna dell’ Ufficio, e Marchetti mostrò a Dino la
fotografia di un aereo con la sigla della RAF. Dino la osservò a lungo in silenzio, e poi la riguardò con
una lente di ingrandimento che Marchetti gli aveva porto. Alla fine posò tutto sul tavolo, e disse con
sicurezza: <<è sicuramente l’ aereo che ho visto, solo che il mio non aveva la sigla della RAF>>.
Marchetti allungò le gambe in avanti, sprofondò indietro nella poltrona, come per rilassarsi e
concentrarsi meglio, e cominciò a parlare: <<ero sicuro che fosse lo Spitfire. E’ un aereo da
combattimento eccezionale, com motore Rolls Royce, che sviluppa sino a 1030 Cavalli vapore. Porta 8
cannoncini Browning da .303. Ci risulta che può raggiungere circa 600 Km/ora, sicuramente più dell’
altro modello inglese, l’ Hurricane, e più di qualsiasi altro aereo attualmente disponibile>>. Rimase
qualche secondo in silenzio, poi riprese: <<ho avuto notizia di un aereo tedesco, l’ FW, che è in fase
avanzata di progettazione, e che potrebbe superare i 630 chilometri /ora, ma credo che ci vorrà ancora
qualche anno per vederlo volare>>. Dino sbarrò gli occhi: <<ovviamente Lei si rende conto di quello
che sta dicendo! Noi avremmo un ritardo tecnologico spaventoso!>>. <<si -confermò Marchetti- e non
mi risulta che stiamo neppure progettando un aereo di quel livello>>. Dino domandò: <<ma la nostra
intelligence non è riuscita a mettere le mani su questa tecnologia?>. Marchetti sospirò e disse: in parte
la abbiamo ottenuta, ma c’ è una certa avversità ad applicarla da parte delle industrie belliche, che
dovrebbero cambiare le loro tecnologie di produzione. E sopratutto queste resistenze vengono raccolte
nelle alte sfere dei comandi militari. Purtroppo la intelligence può solo passare informazioni e piani ai
militari, ma il compito di agire è loro>>. <<Insomma - sintetizzò Dino- la nostra aviazione è
rappresentata da quattro carrette, e non abbiamo nessun piano per migliorare la situazione. Bisogna
solo sperare che non entriamo mai in guerra>>. <<Si>> confermò Marchetti pensieroso. Dino riprese:
<<c’ è un problema più grave: che ci faceva li lo Spitfire? >>. Marchetti rimase in silenzioper un pò,
poi tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona, disse: <<io per il momento posso solo fare delle
ipotesi: quell’ aereo probabilmente viene dal Sudan e l’ uomo che lo pilotava è venuto per avere un
contatto con qualche militare di alto grado>>. Dino pensò che quella di Marchetti era una vera
ossessione, che lo portava a vedere militari traditori da tutte le parti, ma bisognava ammettere che le
circostanze sembravano dargli ragione, comunque obbiettò: << se questa teoria fosse vera avrebbero
dovuto curare un po’ di più la sorveglianza del campo di atterraggio, invece sono sicuro che li avrebbe
potuto venire in gita indisturbata una intera scolaresca>>. Marchetti alzò le spalle: <<intanto stà di
fatto che quell’ aereo era li, e poi sai quanto gliene frega ai militari! Anche se io facessi un rapporto su
tutta questa storia, andrebbe sempre a finire sul tavolo di uno di loro>> <<e se li saltassimo ed
arrivassimo direttamente al Vicerè?>>. <<bravo, cosi il primo segretario che vede quei fogli informa
tutti, ed entro sera il Generale Pesenzani fa eliminare me, te e pure quel cazzo di Raimondini che hai
corrotto. Ci vorrebbero dei documenti inoppugnabili, come delle foto, ma per ora non le ho. Ci
conviene aspettare e tentar di raccogliere prove consistenti>>. Dino non era del tutto convinto, ed
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insistette: <<è possibiliche quell’ aereo sia penetrato all’ interno del nostro territorio senza essere stato
avvistato?>> <<non è molto difficile -rirspose Marchetti- basta che qualcuno abbia dato al pilota la
mappa dei nostri punti di rilevazione. Noi non abbiamo un sistema Radar>>. Dino si incuriosì: <<ho
sentito parlare di Radar, e credo che serva ad individuare aerei nemici, ma non ne so molto>>.
Marchetti si concentrò: <<il radar, o Radio Detection And Ranging è un sistema elaborato in
Inghilterra per cui una antenna invia onde radio nello spazio. Se un aereo penetra nello spazio
“coperto” da questi segnali, ne respinge indietro una parte, ed il segnale di ritorno viene captato da una
antenna ricevente, e successivamente ampliato e riportato su uno schermo: in pratica tu puoi vedere l’
arrivo di qualunque aereo su di uno schermo, mentre sei seduto su una poltrona.>>. <<e’ una cosa
eccezionale -esclamò Dino- chi possiende questi strumenti può anche eliminare una parte degli aerei
ricognitori, almeno quelli destinati alla difesa del territorio, ed alla copertura delle unità di attacco!>>
<<esattamente, però ci sono dei limiti importanti. Innanzitutto non è facile coprire il territorio con la
rete radar, e dalle mie fonti risulta che si potrà coprire nei prossimi anni solo una parte del territorio
britanico. In secondo luogo, pare che lo strumento sia molto efficiente nel riconoscere l’ altitudine
dell’ aereo, ma non la sua direzione di volo, perchè i raggi vengono emessi dall’ antenna a raggiera,
con una dispersione eccessiva>>. Marchetti, che si era aiutato con le mani per illustrare la tecnologia
di cui parlava, le riposò sui braccioli della poltrona. Dino lo guardò interdetto, poi disse: <<queste non
sono solo fonti dell’ intelligence, Lei ha altri canali>>. Marchetti alzò le spalle: <<ho scritto tutto
questo nei miei rapporti nel periodo che ho trascorso a Londra, ma lo stato maggiore non ha voluto
darmi retta., un po’ per ignoranza, un po’ per pressione delle industrie belliche che producono i
ricognitori. Come tu stesso hai osservato, la introduzione del Radar avrebbe significato dover spostare
le risosrse economiche verso quella tecnologia, a danno delle industrie aeronautiche. E pensare che io
potevo ottenere attraverso le fonti della Intelligence i dati tecnici sull’ 80% della tecnologia necessaria,
e che in Italia esistono fisici in grado di elaborare in tempi brevi il restante 20%. Anche io sono
laureato in fisica, ed anche Zeaidita>>. Quest’ ultima affermazione fu più pesante di una bomba. Dino
lo fissò, e Marchetti riprese a parlare: <<comunque, per tornare all’ argomento principale, ho fatto un
controllo. In quelle basi ci dovevano essere 12 aerei, ed anche ammettendo che tre fossero in volo,
oltre il vostro, al massimo possiamo supporre che tra le due basi ce ne siano in realtà solo 5, di cui uno
di altra nazionalità! Eppure risulta che è stata consumata benzina per 12 aerei>>. <<Ce ne erano altri
due distrutti>> osservò Dino. <<È una situazione estremamente grave-disse Marchetti- e dovrò
provvedere. Il problema è superare lo stato maggiore di Addis Abeba, a cui dovrei passare queste
informazioni, ed arrivare direttamente al Vicerè. Dovrò essere convincente!>>, poi guardò Dino negli
occhi, dicendo: <<io credo che a questo si colleghi un altro fatto grave, la scomparsa di Zeaidita>>.
Dino lo guardò pensieroso e gli disse: <<io ho una traccia, che ho messo a fuoco solo stanotte, mentre
ero in volo. Qualche mese fa, mi sembra a Marzo, Aldo mi ha detto che era venuto da lui Aleardi a
chiedere cosa facevo il mercoledi, e Zeaidita è scomparsa Mercoledidieci >>. Marchetti lo guardò
interdetto, poi si passò una mano sulla fronte, come faceva abitualmente quando voleva prendere
tempo e concentrarsi, e quindi disse:: <<hai ragione tu mi avevi parlato di questo un mercoledì sera in
cui ci siamo incontrati, mentre io tornavo in macchina a casa dopo aver visto Zeaidita. Io ho
effettivamente sottovalutato Aleardi, però anche adesso ti assicuro che non credo che abbia avuto un
ruolo importante>>. Dino rimase un attimo interdetto, perchè non riusciva a capire perchè Marchetti si
ostinasse a voler tenere Aleardi fuori dalla faccenda, ad ignorarlo, e relegarlo ad un ruolo secondario.
Era evidente che quell’ uomo era invischiato sino al collo in tutta la storia. Alla fine decise di ignorare
l’ atteggiamento del direttore, e proseguì: <<io non faccio nulla di particolare il Mercoledì, quindi
cercava di collegarmi a qualcun altro, od a qualche altra cosa>>. Marchetti annuì: <<tu stai pensando
che Aleardi era a conoscenza dei miei incontri con Zeaidita, ed ha deciso di farla rapire?>>. <<si,
rispose Dino, ma probabilmente ha anche saputo che negli ultimi tempi io avevo parlato con Zeaidita,
e questo gli ha complicato i piani. Probabilmente voleva avere la conferma che dopo l’ orario di
ufficio vado a pranzo, e che nel pomeriggio non sono in circolazione ad ostacolare il rapimento della
ragazza>> <<è più logico -ammise Marchetti- ma c’ ero pur sempre io di mezzo>>. <<Può darsi che vi
abbia fatto seguire, e che sapesse quando agire indisturbato. In fondo voi vi incontravate regolarmente,
seguendo certi rituali di segretezza, era tutto molto prevedibile>>. Marchetti rimase un attimo a
riflettere, poi gli domandò: <<tu, come sai tutto questo>>. <<Quando Zeaidita mi ha dato quel
messaggio, mi sono preoccupato e l’ ho fatta seguire.... non sapevo di voi, mi dispiace>>. Il direttore
rimase immobile, perplesso, quasi per digerire il rospo, ma anche se era in difficoltà non fece trasparire
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nulla. Dopo qualche attimo riprese a parlare: <<Non ti deve dispiacere, è colpa mia. Potevo accettare
di arrivare sino in fondo, fregarmene delle convenzioni e del lavoro, ed andare a vivere con lei, e tutto
questo non sarebbe successo. Tu hai fatto solo il tuo dovere, che è quello di sorvegliare gli indigeni>>.
<<Va bene, bando alle ciance-disse Dino- lasciamo perdere e cerchiamo di ritrovarla, anche perchè
forse la sparizione di Zeaidita è collegata a quello che ho visto l’ altra notte. Però bisogna che lei mi
dica chi è Zeaidita>> <<si -sospirò Marchetti- Zeaidita è la figlia di un ricchissimo RAS che adesso è
al confino in Italia, ed io l’ ho conosciuta a Londra dove studiava>>. Il direttore proseguì il racconto
per molto, e Dino lo stette a sentire con attenzione. Alla fine si strinsero la mano, e Dino gli dette la
sua parola d’ onore, che lo avrebbe aiutato lealmente a ritrovare Zeaidita, e decisero di incontrarsi
regolarmente per aggiornarsi sullo stato delle ricerche. Per ottenere la massima segretezza sulle
indagini ognuno avrebbe agito indipendentemente, ma se si fossero trovate delle tracce si sarebbero
incontrati subito, anche al di fuori del giorno convenuto.
Nei mesi successivi, come avevano stabilito, Marchetti riunì tutti i mercoledì, nell’ Ufficio di
Viale Mussolin, gli uomini di cui si fidava, cioè Dino, Giovannino Sulis, ed un giovane sottufficiale
dei carabinieri milanese, che si chiamava Claudio Rossi, per fare insieme il punto della situazione.
Marchetti aveva detto sin dall’ inizio che alle ricerche partecipavano anche due uomini, con il nome in
codice di N2 e Julio, che per regolamento dovevano restare sotto copertura, e potevano avere contatti
solo con il Direttore. Durante la prima riunione Marchetti aveva chiarito che la ricerca di Zeaidita, al di
la dei suoi motivi personali, era un problema di lavoro: <<la ragazza è legata a me, ma ricordatevi che
a parte alcune posizioni ideologiche di sinistra e di un ovvio atteggiamento di simpatia per delle
richieste di autonomia avanzate dalle popolazioni indigene, Zeaidita lavora per noi, e rappresenta un
argine importante contro la penetrazione inglese>>. Sulis intervenne: <<Direttore, noi ci conosciamo
ormai da moltissimi anni, e comunque potrebbe contare su di me anche se dovesse cercare sua nonna
in un ospizio, ma è giusto dire che la posizione della famiglia della ragazza è ambigua, ed il padre è
stato esiliato in Italia!>>. Marchetti scrollò le spalle, e disse: <<io sono vecchio di questo mestiere, e
conosco i retroscena. In realtà la famiglia di Zeaidita è stata deportata per sottrarla alla vendetta di dei
suoi compatrioti, che accusavano il RAS di averli venduti agli Italiani, e questo non è vero! Il padre di
Zeaidita invece era un uomo moderato, e desiderava soltanto mantenere la indipendenza del suo
popolo. Per questo aveva sempre tentato di bloccare la penetrazione inglese ed evitare rappresaglie da
parte nostra. Gli stessi inglesi, ed i suoi nemici interni hanno giostrato su questo, e lo hanno presentato
alla popolazione indigena come un traditore, e gliela hanno rivoltata contro. Per salvargli la pelle e la
faccia davanti ai suoi connazionali, lo abbIamo fatto passare per un elemento non sicuro, e lo abbiamo
spedito in Italia.>>. Rossi domandò: <<come mai la ragazza ha ha un ruolo strategico così importante
nella nostra organizzazione?>>. Marchetti sospirò e rispose: <<Zeaidita ha profonde radici tra la
popolazione indigena, ed il fatto che è stata sempre lontana dalla sua famiglia, non la ha coinvolta nell’
odio che alcuni hanno verso il padre. In più per la sua abilità, è in grado di raccogliere notizie anche
dai bianchi.>>. <<Quindi- osservò Dino- il suo supposto rapimento è sostanzialmente un grave colpo
inflitto alla nostra attività>>. <<Si -ribattè Marchetti riflessivamente- Zeaidita non è una “allineata”,
ma è comunque un nostro agente esterno importante. Ovviamente ho capito quello che vi state
domandando tutti, cioè se il rapimneto, ammesso che si sia trattato di un rapimento e non peggio, sia
stato un colpo indirizzato contro di me, o contro tutta l’ organizzazione di cui facciamo parte. Io
sinceramente propendo per la seconda ipotesi, o per tutte e due insieme>>. Nessuno ribattè, e tutti
uscirono nel massimo silenzio, quasi per rispettare il dolore di Marchetti.Erano passati molti mesi mesi
dalla scomparsa di Zeaidita, e non si erano trovate tracce della ragazza. Ormai erano arrivati i mesi
freddi, e la sera di mercoledì 12 Luglio 1939 Dino andò, come al solito, all’ Ufficio di Import-Export
di viale Mussolini. Rossi arrivò molto eccitato, e riferì di aver letto in un rapporto della stazione dei
carabinieri di Chreren, che durante le indagini sull’ omicidio del proprietario di una piccola impresa di
trasporti, erano stati arrestati due pastori indigeni in possesso di molti soldi, e costoro avevano
confessato di essere stati pagati da un bianco per rapire una ragazza di Asmara, e tenerla prigioniera.
Quattro o cinque giorni prima dell’ arresto, la avevano riconsegnata al commitente, che era venuto a
prenderla con due uomini bianchi. Marchetti si alzò di scatto battendo il pugno sul tavolo, ed
esclamando: <<dobbiamo sapere dove è finita, e dobbiamo raggiungerla prima dei carabinieri, e
sopratutto prima dei miltari>>. Rimase un attimo in piedi, sconvolto, poi recuperò la calma, si sedette
nel silenzio generale, e si rivolse a Dino: <<questi due farabutti che hanno preso Zeaidita devono avere
degli appoggi tra gli indigeni, altrimenti non potrebbero muoversi così facilmente. Chi vuole può
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anche sfuggire a noi, ai carabinieri, a tutti, ma non sfugge alla popolazione indigena! Tu Dino sei
quello che è più introdotto tra gli indigeni, e quello che può fare più di tutti>>. <<Si -disse Dino
pensosamente, preoccupato dalla responsabilità che gli pioveva addosso- io ho molti amici, ma il
problema è che a Cheren non conosco nessuno. Comunque troverò qualche informazione, ma bisogna
che prenda le Ferie in Ufficio>>. Rossi intervenne: <<aspetta due giorni ad iniziare le ricerche, il
tempo che io prenda contatto con i carabinieri di Cheren, che probabilmente sanno molto di più di
quanto hanno scritto nel rapporto. Ci vediamo Venerdì sera>>. <<Si - convenne Marchetti- in una
storia come questa bisogna muoversi con il piede giusto, o si rischia di fare un disastro. Tanto sospirò- se avevano deciso di eliminarla lo hanno già fatto>>. Nessuno raccolse questa tetra
affermazione, e tutti si avviarono verso la porta, riaggiornandosi alla prossima riunione.
La sera del 14 arrivarono tutti all’ orario convenuto. Rossi aveva l’ aria soddisfatta, ed esordi:
<<ho dovuto faticare, ma so quasi tutto. Voi sapete che i Carabinieri hanno dei loro archivi
segretissimi, ed io ci sono arrivato. Ho potuto prendere visione della velina di una lettera che è stata
consegnata a mano al Comandante dell’ Arma. Ho riassunto la parte più importante perchè ovviamente
non ho potuto asportarla, e non ho avuto il tempo di copiarla.>> inforcò gli occhiali, tirò dalla tasca un
foglio e cominciò a leggere: << il giorno 8o del corrente mese sono stati arrestati due pastori indigeni,
tali Tesfazien e Galetà, su segnalazione di un nostro Regio Carabiniere che si occupava delle indagini
sulla uccisione di un autotrasportatore, tale Romano Cesarini, ucciso con due colpi di pistola la sera di
Mercoledì 5 Luglio 1939, a poca distanza dalla sua abitazione. Fu inaspettato il fatto che i due pastori
avessero indosso, cucita negli abiti, una ingentissima somma di denaro, molto di più di quanto ci si
potesse aspettare dal furto perpetrato ai danni del Cesarini, che risulta essere un vero fallito, con scarsa
attività, e dedito piuttosto a trasporti illeciti, dai quali ricavava comunque scarsissimo denaro che
spendeva con le locali sharmutte. I due vennero interrogati dai nostri esperti, e decisero
spontaneamente di collaborare.>> Rossi si interruppe, e gettò un’ occhiata in giro. Tranne Marchetti
che era tesissimo, Dino e Giovannino Sulis avevano abbozzato un sorriso, in proposito alla
“collaborazione spontanea”. Rossi riprese a leggere: << I due pastori erano stati avvicinati verso la
metà di aprile dal Cesarini che aveva offerto loro una buona somma di denaro per rapire una giovane
donna indigena che viveva in Asmara. I tre fecero diverse prove del rapimento, ed il misfatto venne
compiuto la sera del Mercoledì nove novembre 1938, nei pressi di Asmara, mentre la giovane rientrava
in città su una bibicletta.>> Marchetti era impallidito e si mordeva le labbra, e confermò : <<è lei, non
c’ è dubbio>>. Rossi riprese a parlare: <<la giovane, legata ed imbavagliata venne messa sul camion
del Cesarini, e portata in una grotta nelle vicinanze di Cheren, dove rimase a turno a sorvegliarla, uno
dei due pastori. Il Cesarini aveva espresso la volontà di usarle violenza, data la particolare bellezza
della giovane, ma i due Tesfazien e Galetà si opposero con fermezza perchè la donna era della loro
razza>>. Dino notò con la coda dell’ occhio che Marchetti si era rilassato un po’ dopo quella frase.
<<Il Cesarini era tornato spesso all’ attacco, ed aveva preteso di restare solo con la giovane, che
intanto aveva scongiurato i due di non lasciarla mai, ed il fatto che costoro la avessero assecondata,
aveva ingenerato molta tensione nel gruppo. La sera del 3 Luglio il Cesarini aveva annunciato la
venuta del committente del rapimento, e costui si presentò la sera del cinque con altri due uomini
bianchi. L’ uomo che comandava il gruppo, che consideriamo il committente, era grassoccio, di circa
40 anni, altezza intorno al metro e sessanta, ed aveva il viso parzialmente coperto da una sciarpa rossa,
uno era alto come il committente, aveva la stessa taglia, un addome molto protrudente, ed aveva un
dente dorato, ed il terzo era piuttosto tarchiato ed aveva circa 50 anni, baffi ed era calvo quasi
totalmente, ad eccezione di una corona di capelli grigi.>> Dino e Marchetti incrociarono gli sguardi,
poi il Direttore parlò: <<io ho sempre sospettato che questo rapimento sia stato concepito nell’
ambiente dei militari, ed il primo uomo che è stato descritto potrebbe essere benissimo uno dei
tirapiedi del Generale Pesenzani, tu devi averlo visto perchè ogni tanto viene nei nostri uffici con le
scuse più assurde, pur di ficcanasare>>. Dino di rimando sorvolò sull’ argomento e disse a sua volta
con sicurezza: << quello con il dente d’ oro è lo stesso che è andato a casa di Mohamud-Nur, ed è
sicuramente il fratello di Aldo, quello del ristorante Italia. Ne sono sicuro perchè lo ho visto per una
settimana intera duante la quale ha lavorato dal fratello>>. Rossi li guardò con aria soddisfatta, e
riprese a parlare annuendo: << i pastori riferiscono che prima di allontanarsi, l’ uomo che definiamo
committente aveva fatto un cenno all’ uomo che aveva il dente d’ oro, e costui aveva estratto la pistola,
ed ucciso a bruciapelo il Cesarini>>. I due pastori erano fuggiti, e nessuno li aveva inseguiti,
probabilmente perchè considerati poco pericolosi per il gruppo, o semplicemente perchè il gruppo
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aveva fretta. I due erano tornati successivamente sul posto, avevano trovato una parte dei soldi ancora
addosso al cadavere del Cesarini, e li avevano trafugati.>> Marchetti che si stava torcendo le mani
nervosamente, interruppe: <<questa versione non la sapremo mai ufficialmente.Quei due pastori
finiranno sulla forca, e tutta la questione verrà coperta>>. <<Si -disse Rossi- e dovranno coprire molte
altre cose. Ieri sera è stato ritrovato il cadavere di un uomo, che si dice sia morto per incidente di
caccia il giorno cinque, a qualche chilometro dal luogo dove è stato perpetrato l’ omicidio del Cesarini.
Guardate, ho una foto, che mi ha portato stamani un carabiniere in motocicletta da Cheren, e che non
apparirà mai nei documenti ufficiali>>. Tirò fuori la foto di un uomo morto, con in fronte l’ evidente
foro di una pallottola di grosso calibro. Gli altri tre la guardarono attentamente, e Dino riconobbe il
fratello di Aldo, e lo comunicò ad alta voce. Rossi si guardava intorno con aria di soddisfazione, ed in
effetti aveva fatto un ottimo lavoro, ma non aveva finito, e proseguì la sua esposizione dei fatti: <<e
non è finita qui. A circa duecento metri è stato ritrovato un altro cadavere, anche questo con un foro di
proiettile nella fronte. In questo caso la versione ufficale è che l’ uomo aveva la pistola in mano,
perchè temeva di essere attaccato dai ribelli, e che scivolando si è sparato accidentalmente quel
colpo>>. Con calma Rossi tirò fuori una seconda foto, in cui si vedeva un altro uomo, riverso sull’
erba, dell’ apparente età di cinquanta anni, con una accentuata chierica. Marchetti osservò attentamente
la foto, poi commentò: <<per terra ci sono le tracce di trascinamento del cadavere. L’ uomo è un
colonnello dell’ esercito, che si chiama Masselli, ed era un collaboratore del Generale Pesenzani>>.
Rossi confermò con un cenno della testa, ed aggiunse: <<come il dottor Marchetti ha fatto osservare,
ci sono delle tracce di trascinamento vicino al secondo cadavere, ma è importante il fatto che anche
vicino al primo cadavere, per intenderci quello dell’ uomo con il dente d’ oro, ci sono le tracce di un
corpo caduto e successivamente trascinato via. Insomma lo scenario più verosimile è che i due uomini
siano stati uccisi a bruciapelo nello stesso posto, e che poi uno dei due sia stato trascinato a duecento
metri di distanza, nel tentativo piuttosto maldestro di far credere che i due omicidi non fossero
collegati>>. Marchetti aveva seguito tutto il discorso con molta attenzione, ed osservò: <<se avevano
poco tempo a disposizione non potevano fare gran che. Probabilmente l’ assassino era un uomo solo,
se avesse avuto un complice sarebbe stato più logico trasportare il cadavere, invece di trascinarlo>>.
<<Mah- obbiettò Rossi- nel rapporto originale si prende in considerazione l’ ipotesi che vi fossero più
uomini in quel posto , oltre gli assassinati, e si conclude che è la cosa più probabile, perchè sul posto si
sono trovate le tracce di quattro uomini, ed ovviamente dei sandali di una donna. Il fatto poi che il
cadavere sia stato trascinato e non trasportato potrebbe dipendere dalla inefficienza fisica di uno o di
entrambi gli assassini>>. Dino si alzò in piedi: <<è evidente che i due uomini uccisi sono quelli che
accompagnavano colui che chiamiamo “il commitente”, e che dalla descrizione, secondo me, potrebbe
anche essere Aleardi. In effetti Aleardi è un mollacchione e non potrebbe aiutare a trasportare un
cadavere di quella stazza>>. Gli altri annuirono, e Dino proseguì: << secondo me, insisto, abbiamo
sottovalutato il ruolo di Aleardi in tutta questa vicenda. In ogni caso, a questo punto dobbiamo
concludere che sulla scena del delitto è comparso un quarto uomo che ha ucciso il fratello di Aldo ed il
Colonnello Masselli, ed ovviamente questo può solo voler dire che qualcuno voleva levarli di mezzo
perchè li considerava pericolosi, ma è comunque strano che sia rimasto in vita Aleardi. Inoltre dovete
considerare che il fratello di Aldo è un mascalzone, un rifiuto della società, ma il Colonnello era un
intimo di Pesenzani, e questo farebbe escludere che il mandante del duplice assassinio e del rapimento
sia stato proprio il Generale>>. Marchetti rimase un attimo soprappensiero, poi replicò: << si, in un
certo senso è vero che il ruolo di Aleardi è stato sottovalutato, ma io resto del convincimento che
dobbiamo essere prudenti con lui. Sinchè non lo tocchiamo i militari continueranno ad utilizzarlo, ma
se lo smascheriamo i militari lo butteranno a mare, e forse lo uccideranno per eliminare l’ anello
debole della loro catena criminale, e noi perderemo una traccia importante. No, non possiamo
permetterci di smascherarlo ora, vi dirò io quando sarà tempo. Per quanto concerne i rapporti tra
Pesenzani e Masselli non mi meraviglio del fatto che siano stati complici in qualche canagliata, e che
durante un regolamento di conti il Generale abbia fatto eliminare Masselli. E’ un fatto che si verifica
spesso tra delinquenti. Pesenzani è un farabutto capace di tutto, ed il Colonnello Masselli ha tentato
più di una volta di passargli avanti. Io trovo impropria la definizione di fedelissimo di Pesenzani, ma lo
definirei piuttosto un compare >>. Dino obbiettò: << può darsi che dovessero coprire qualcosa di
molto grave che Zeaidita sapeva, ad esempio la questione del passaggio dei soldi -rimase un attimo in
silenzio, poi cercò di sintetizzare, come era sua abitudine- Tutto quello che sappiamo punta alla
riunione avvenuta a casa di quel Mohamud Nur. Di quella riunione mi aveva parlato Zeaidita, ed è
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stata rapita, ed almeno uno degli uomini che andarono all’ appuntamento quella sera è stato ucciso>>.
Marchetti annuì dicendo: <<sono d’ accordo, ma non credo che il rapimento servisse a zittire Zeaidita,
primo perchè in questo caso l’ avrebbero uccisa senza tanti rimorsi, secondo perchè sapeva solo
qualche cosa di tutti gli intrighi dei militari, e quello che sapeva non era poi così preoccupante, almeno
finchè non si fossero trovate le prove. No, sono certo che il motivo del rapimento è un altro, solo che
per ora ci sfugge>>
Quando uscirono dalla riunione in realtà nessuno aveva un piano preciso, ma tutti si sentivano
estremamente responsabilizzati. Dino, appena superata la porta, girò il viso verso il cielo, e vide la
croce del Sud. La nottata era trasparente e freddissima, e si incamminò verso casa stringendosi
addosso l’ impermeabile. Mentre camminava rianalizzò tutta la storia, e provò un senso di angoscia nel
pensare allo strazio di Marchetti, alla povera Zeaidita legata in qualche caverna tra i monti dell’
Eritrea, e per contrasto gli tornarono in mente Tonara, la sua casa natale, i suoi parenti, la mensa
imbandita. Ma era un uomo molto concreto, e per quando arrivò a casa con le mani intirizzite ed il
naso gelato, aveva le idee molto chiare su quello che avrebbe fatto per risolvere la questione.
La mattina successiva andò difilato in ufficio, e corse a firmare l’ entrata. Poi scorse con
attenzione il Registro delle Presenze, e rigirò all’ indietro le pagine sino al giorno cinque del mese.
Come previsto quel giorno Aleardi non era venuto. Il quattro ed il sei c’ era. Richiuse il Registro
mentre entrava Antonio, l’ usciere, che gli disse: <<scusi Dottore, se il Registro non le serve lo prendo
io, me lo ha chiesto con urgenza il Dottor Marchetti>>. Dino sorrise, e tornò nella sua stanza. A
mezzogiorno il Direttore entrò nell’ Ufficio di Dino con delle pratiche, e mentre gliele porgeva, disse:
<<c’ è un sacco di lavoro arretrato, e dobbiamo in qualche modo organizzarci. Oggi andremo a pranzo
insieme e ne parleremo>>. Dino annuì, guardando le sole due pratiche inevase che ancora giacevano
sul suo tavolo, e riprese a scrivere.
All’ ora di pranzo uscirono insieme dall’ Ufficio e mentre camminavano, Marchetti venne al
punto: <<tu sai che io ho un uomo nell’ Alto Comando>>. Dino fece cenno di si, ma precisò: <<lo
sospettavo, ma Lei non me lo ha mai detto>>. <<Si, hai ragione, comunque esiste, ed ha il nome in
codice di Julio. Ieri notte ho saputo da lui che due sottufficiali andranno per una missione in Italia, ma
risulta che siano stati acquistati tre biglietti per via mare. Devi scoprire chi sarà il terzo viaggiatore>>.
<<Come andranno?>>. <<pare con un piroscafo del Lloyd Triestino>>. <<Ci penso io, che ho un
amico carissimo che lavora per quella linea, altro sardo, di Boromini. Ma, non faremmo prima a
prendere Aleardi e farlo parlare con le cattive?>>. << lascialo perdere, quello sa molto poco, e capisce
ancora di meno. Probabilmente ha avuto qualche ruolo in questo rapimento, ma sicuramente è molto
limitato. Vedrai che prima o dopo i suoi complici lo elimineranno, e comunque non arriveremo a
Zeaidita attraverso di lui>>. Dino era estremamente insoddisfatto ed infastidito dall’ atteggiamento di
Marchetti: erano tre volte in poco tempo che il Direttore cercava di allontanare i suoi collaboratori da
Aleardi, con affermazioni piuttosto vaghe. Anche gli altri partecipanti alle riunioni erano piuttosto
interdetti. Evidentemente aveva un suo motivo molto grave per volerlo salvare a tutti i costi, ma era
almeno giusto che lo chiarisse. Comunque disse soltanto, con tono stizzito: <<ci saremmo arrivati se ci
fossimo mossi prima, quando è andato a prenderla nella grotta con Masselli ed il fratello di Aldo>>.
Marchetti non replicò, ma aggiunse soltanto: <<si, ma adesso è tardi>>. Dino decise che quello non
era il momento adatto per insistere e polemizzare, e si mise d’ accordo sui dettagli dell’ operazione.
Il pomeriggio andò nell’ Ufficio del Lloyd Triestino, e domandò del Signor Sau. La segretaria
lo introdusse da Sau, che lavorava al primo piano, e che era un uomo molto gioviale, suo amico sin dai
tempi del servizio militare. Dino gli spiegò che voleva comprare un biglietto per l’ Italia, solo che
voleva vedere la lista dei passeggeri per regolarsi. <<Sai, gli disse, mi piacerebbe viaggiare quando c’
è qualche signorina, o signora sola>>. Sau strizzò l’ occhio, e gli dette la carta delle prenotazioni.
Lunedi 14 Agosto partivano con il Cristoforo Colombo il Tenente Regis, ed il Capitano De Vincentis
con signora. Dino decise di partire con quel viaggio, ma Sau gli fece presente che c’ erano molte più
donne libere nel viaggio successivo. Dino buttò gli occhi sul foglio delle prenotazioni, vide al volo un
nome, e disse sforzandosi di avere un’ aria soddisfatta: <<però c’ è la signorina Angiani, che
conosco>>. Sau sbarrò gli occhi: <<anche io, Elena Angiani, ma ha più di cinquant’ anni, ed è pure
brutta!>>. Dino diventò rosso, ma disse con tono complice: <<sembra, ma per certe cose è un vero
fenomeno>>. Sau lo guardò con aria di compatimento, ma in nome della vecchia amicizia gli assegnò
la cabina a fianco della ultracinquantenne.
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Marchetti conobbe l’ esito delle ricerche soltanto la sera successiva, dopo avere cenato
insieme a Dino al Circolo Ufficiali, mentre passeggiavano verso la periferia di Asmara, stretti nei
cappotti, e concordò sul fatto che in quel viaggio doveva accadere qualcosa di particolare: <<certo è
molto strano che l’ esercito compri il biglietto anche per la moglie di un militare. Se uno va in
missione e si vuol portare la moglie le deve pagare il biglietto di tasca sua. Quindi è molto probabile
che vogliano far passare Zeaidita per la moglie di questo De Vincentis>>- <<ma Zeaidita è di colore,
protestò Dino, mica è facile!>>. << questo è l’ ultimo dei loro problemi. Le metteranno il velo, o la
faranno passare sulla barella, o la faranno passare all’ ultimo per la cameriera nera della signora, un
sistema lo trovano>>. <<Certo, è possibile, replicò Dino, ma comunque è molto strana questa prassi
dei biglietti comprati ufficialmente dall’ esercito. Sarebbe stato molto più semplice dare direttamente i
soldi a questo De Vincentis per comprarsi i biglietti da solo>>. <<Questo è vero, ma anche i piani più
perfetti hanno degli errori. Probabilmente Pesenzani ha solo affidato l’ esecuzione del piano ai suoi
compari, per evitare di sporcarsi le mani, e non ha controllato cosa facevano, e quegli imbecilli hanno
commesso un errore clamoroso.>> Dino osservò: <<secondo me è importante sapere perchè la
vogliono portare su quella nave, anche perchè quando saremo a bordo, la rapidità del nostro intervento
dipenderà da quello che intendono fare>>. Marchetti annuì: <<ho analizzato le varie possibilità con
tutta la freddezza che posso avere: <<non credo che la eliminino prima di arrivare in Italia, perchè la
mancanza di un passeggero si noterebbe, ed allora non restano che due possibilità: o la vogliono
eliminare sul suolo Italiano, dove non risulterebbe mai arrivata, o la vogliono portare in Italia per farla
interrogare da qualcuno che è implicato nel complotto, ed è più potente diPesenzani>>. <<Se la
avessero voluta eliminare, sarebbe stato più semplice farlo qui in Eritrea- osservò Dino - a meno che
non abbiano pensato che prima o poi il cadavere sarebbe saltato fuori, o che qualcuno avrebbe parlato,
e noi avremmo la certezza che Zeaidita è morta.>> Marchetti annuì: <<stai dicendo quello che io
penso da parecchio, che non vogliono ucciderla, ma vogliono tenerla in ostaggio per ricattarmi al
momento giusto>>. <<No -disse Dino- io penso che da molti mesi ormai noi stiamo trascurando tutto
per inseguire Zeaidita, ed è esattamente quello che vogliono, distoglierci dalla nostra attività. Vede
Direttore, se Lei fosse certo che Zeaidita è morta si dedicherebbe alla vendetta, a smascherare il
tradimento dello stato Maggiore. Io sono sicuro che non ci sarà nessun ricatto, cercheranno solo di
tenerci in questo stato di tensione. In un certo senso questo garantisce la incolumità della ragazza>>
Marchetti si fermò a riflettere, poi parlo: <<si, credo proprio che tu abbia ragione. Cerchiamo ditrovare
Zeaidita, e se non ci riusciamo mi dimetterò>>. Dino gli strinse un braccio e gli disse: <<non abbia
paura, la ritroveremo!>>. Poi presero le decisioni. Sulla nave ci sarebbero stati anche Marchetti e
Julius, In particolare Dino e Julius non si dovevano conoscere, per ridurre al minimo i rischi, ma in
caso di emergenza la parola di riconoscimento tra loro sarebbe stata “Orazio”, nome preso a prestito da
Horatio Alger, lo scrittore che usava sempre in tutte le sue novelle lo stereotipo di un giovane povero
che veniva arricchito da un ricco magnate come gratitudine per una operazione di salvataggio.
Ovviamente l’ idea era stata di Marchetti, che neppure nelle situazioni più drammatiche sapeva
rinunciare al vezzo della cultura anglosassone. Comunque almeno il nome era facile da usare in
qualunque contesto per contattare Julius, e Dino non fece obiezioni.
Due giorni dopo Dino stava lavorando in ufficio, quando venne Antonio, il portiere a
chiamarlo: <<la desidera il Dottor Marchetti. Ha detto se può portare la pratica di Buonfiglio>>. Dino
annuì, prese un pratica qualunque, la mise sottobraccio, ed andò dal Direttore. Appena la porta fu
chiusa Marchetti gli mise davanti un giornale aperto alla terza pagina, e gli indicò un trafiletto, dove si
leggeva “Omicidio per vendetta al villaggio Razza: il carrettiere Mohamud-Nur ucciso per un banale
litigio”,poi aggiunse: <era proprio come pensavi tu>>. Dino riprese il fagotto dei documenti e tornò al
suo lavoro, e mentre passava davanti ad uno degli uffici, vide Aleardi seduto alla scrivania, pallido,
che guardava il giornale, asciugandosi il sudore che nonostate il freddo intenso gli imperlava la fronte
Domenica 13 Agosto, ad orari diversi, Marchetti, Dino e Julius, partirono da Asmara con il
treno alla volta di Massaua, ed andarono a dormire in tre Alberghi diversi.
Lunedì 14 Agosto 1939 alle 11:00 del mattino Dino scese dal Taxi, una vecchia berlina
scassata, che lo aveva condotto al porto. Pagò la corsa, recuperò le valigie, strinse la cinghia dell’
impermeabile, e venne immediatamente circondato da alcuni ragazzi neri che volevano portargli le
valigie a bordo. Dette qualche soldo ad uno, quello che gli sembrava meglio in arnese, aprì l’ ombrello
perchè la pioggerella insistente gli dava fastidio, ed aprì il depliant con la lista passeggeri. Sulla prima
pagine c’ era la definizione del viaggio:
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Lloyd Triestino
Piroscafo Colombo
e più sotto:
Linea Celere
Genova-Massaua -Gibuti
Comandante
Cap. Pannocchia Cosimo
Tipografia P.fo “Colombo”
Scorse la lista dei passeggeri: Sig.
e subito sotto la famigerata
Sig.na
Sig.na
Atti Didimo
Alessandrini Ferdinando
Aneli Giorgio
Alexiadu Eufemia
Angiani Cleofe
Tenente
Regis Evaristo
Maggiore
De Vincentis Raffaele
Signora
De Vincentis Elena Maria
Salì sulla scaletta del Piroscafo, mentre il mozzo, imperterrito sotto la pioggia che era
divenuta ormai fitta, annunciava: “Dottor Dino Tatti “. Invece di inoltrarsi dette la mancia ad un altro
mozzo che doveva portargli le valigie in cabina, e rimase con aria noncurante in cima alle scalette per
captare i nomi degli altri viaggiatori che salivano. Nel frattempo vide arrivare il taxi del Direttore, che
spedì su le valigie con un altro negretto, e preferì ciondolare in mezzo alla folla che gremiva la
banchina. Dopo una decina di minuti arrivò un altro taxi, che si fermò verso la estremità destra della
folla che gremiva la banchina di imbarco, e discese Aleardi, con il cappello calato sugli occhi,
probabilmente in parte per non essere visto ed in parte per difendersi dalla pioggia. L’ uomo si guardò
intorno circospetto, poi si mise a girare in tondo alla periferia della folla. Dopo altri cinque minuti
arrivò una camionetta dell’ esercito, e ne scesero tre militari. Dino aggrottò la fronte e riconobbe i
gradi: uno era un tenente, uno un maggiore ed il terzo era un capitano. I due soldati che li
accompagnavano tolsero dalla camionetta due grosse valige ed un baule, e le trasportarono attraverso
la folla. Anche Marchetti vide la scena, e si precipitò a seguirli. Aleardi si era avvicinato, e seguì il
corteo più da lontano, girandosi ogni tanto per controllare dietro di se chissa cosa. Anche l’
osservatore meno scaltro avrebbe notato il suo coinvolgimento in quella scena. I tre soldati arrivarono,
nell’ ordine gerarchico, ai piedi della scaletta, ed capitano si allontanò per seguire con cura l’ imbarco
delle valigie, poi raggiunse i tre, ai quali si era intanto accodato anche Marchetti. Aleardi era piuttosto
indietro rispetto alla base della scaletta di imbarco, e non aveva una buona visuale, ma ad un tratto, ci
fu un ondeggiamento della folla, e riuscì a vedere in avanti i tre militari, e probabilmente riconobbe
anche Marchetti, perchè si mise a correre in avanti. Dino incrociò finalmente lo sguardo di Marchetti e
gli indicò di guardare alle spalle, ma prima che il Direttore riuscisse a voltarsi, un uomo che stava a
metà percorso uscì improvvisamente dalla folla e molto probabilmente fece lo sgambetto ad Aleardi,
che volò in avanti. Dino vide la scena molto chiaramente dall’ alto. L’ uomo fece un apparente
tentativo di salvare Aleardi dalla caduta, tendendo un braccio in avanti, ma invece gli dette un
violentissimo pugno sulla nuca. Poi si chinò su Aleardi svenuto gridando: <<acqua, dategli dell’
acqua>>, e mentre qualcuno interveniva si allontanò raggiungendo anche lui la base della scaletta.
Intanto i tre militari si stavano imbarcando, ed il mozzo li annunciò: <<“Maggiore De Vincentis
Raffaele”, “”Tenente Regis Evaristo”, “Capitano Alna Euristide”, nel posto della “Signora De
Vincentis Elena Maria”>>. Poi prosegui “Dottor Luigi Marchetti”. Il direttore aspettò che i tre
militari scendessero sottocoperta, poi raggiunse Dino: <<qualcosa non quadra>>. <<Mica tanto, c’ era
pure quel cavolo di Aleardi dietro di Lei, e stava cercando di avvisare i militari della nostra presenza,
ma Julius, credo, lo ha preso a pugni>>. Mentre parlava Dino indicò l’ uomo che saliva la scaletta ed
era ormai giunto davanti al mozzo, che annunciò: “Signor Grossi Paolo”. Costui, sbrigate le formalità
li raggiunse, guardò Marchetti che gli fece un segno di assenso, probabilmente per confermare che
poteva parlare, e disse: << secondo me la ragazza è qui, perchè altrimenti non si capisce che facesse
Aleardi in giro>>. Marchetti era sempre molto rapido nelle decisioni, e disse: <<non c’e scelta, per il
momento ci hanno fregati. Io torno a terra, tallono Aleardi, e raduno di nuovo i miei, voi proseguite
C’ erano anche il
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con la nave, e non li mollate. Comunque la nave parte alle diciotto, ed io sarò qui alle quattordici>>. Si
precipitò verso la scaletta, disse due parole al mozzo, e riscese rapidamente. Paolo Grossi, alias Julius,
guardò Dino con aria perplessa, e disse sottovoce: <<non credo che ci abbaino fregato, la ragazza è
quì>>. Dino soprappensiero ripetè una frase che suo padre diceva sempre quando non trovava
qualcosa: “se non trovi qualcosa è perchè non sai vedere”, poi si battè la mano sulla fronte: <<le
valigie, cioè, il baule>>. Paolo Grossi corse alle spalle del mozzo, gli strappò dalle mani le carte con i
nomi dei passeggeri, e noncurante delle proteste scorse tutti i fogli, poi glieli ridette, e tornò di corsa da
Dino. <<Cabine 78, 79,80, ponte C>>. I due uomini fecero di corsa la strada sino al ponte C, poi Paolo
Grossi vide il gruppo delle tre cabine, e fece un cenno a Dino. Proseguirono e si fermarono su uno
slargo, da cui cominciavano le scale che portavano al salone di prima classe. <<Gli oblò delle cabine
sono a livello dell’ acqua, non possiamo vederci dentro>>, disse Paolo Grossi. <<Il mozzo del ponte sa
sicuramente dove hanno messo il baule>>, fece notare Dino. Paolo Grossi disse laconico: <<va bene,
facciamolo cantare>>. Raggiunsero il bugigattolo del mozzo, e Dino gli dette una manciata di rupie:
<<senti figliolo, devo parlare con il proprietario del baule verde, dove lo hai messo>>. Il ragazzetto era
napoletano, e dall’ aria furba, e disse: <<io ve lo dico signori, ma pe piacere, si vulite arrobbà non me
ce mettete po’ miezzo>>. <<Non rubiamo niente, dobbiamo solo parlare con quel militare, che tu ci
andrai a chiamare>>, disse Dino, facendogli vedere altri soldi. Il ragazzo li prese e partì, ed i due nel
corridoio, controllarono dove andava. Cabina 78. La porta si aprì ed uscì il capitano Alna, guardandosi
intorno con aria di estrema preoccupazione, e tenendo la mano sulla fondina della pistola. Dino si
avvicinò: <<scusi Capitano, siamo della Compagnia di Navigazione, abbiamo dovuto fare una rettifica
al biglietto, ecco questo è quello nuovo>>. Prima che il capitano potesse aprire bocca Julius lo aveva
steso con un poderoso cazzotto. Dino saltò immediatamente oltre il corpo del capitano e si appiattì
dietro la porta della cabina 78, mentre Julius spianava la pistola. Passarono due o tre secondi, la porta
si aprì di scatto, e Dino con una violenta pedata la chiuse di nuovo, colpendo in piena faccia l’ uomo
che tentava di uscire. Julius si precipitò verso la cabina con la pistola spianata e spalancò la porta e
Dino lo seguì immediatamente. I due militari erano in terra, sotto tiro di Julius, ed uno perdeva sangue
dal naso. Il baule era in centro alla cabina, con il lucchetto bloccato. Dino corse fuori e trascinò dentro
la cabina il capitano ancora svenuto, poi sbarrò la porta, e tolse le pistole dei due militari, che erano
ancora in terra. Julius puntò la pistola alla tempia di del tenente e gli disse: <<apri il lucchetto, o ti
faccio saltare il cervello>>. L’ uomo ubbidì, ed a un cenno di Julius sollevò il coperchio. Dentro,
legata ed imbavagliata, ed in pessime condizioni, c’ era Zeaidita. Dino la slegò, e silenziosamente, con
le stesse corde, iniziò a legare le mani degli altri due uomini. Il terzo era ancora svenuto. Ad un certo
punto si sentì bussare, ed una voce che diceva: <<sono l’ addetto alle cabine. Mi hanno riferito che ci
sono stati dei rumori sospetti Signor Tenente, va tutto bene?>>. Julius piazzò la pistola alle tempie del
tenente e gli sibilò nell’ orecchio: <<rispondi, stronzo, e non sbagliarti, perchè sei nella merda pure
tu!!>>. <<va tutto bene, grazie>>, rispose il tenente ad alta voce. Rimasero altri venti minuti in
silenzio, mentre Zeaidita si rialzava in piedi. <<Come stai?>> chiese Dino. La ragazza sorrise, e disse:
<<ho molta fame, sono sporca e ferita moralmente, ma in questo momento sono felice. Luigi?>> <<è
tornato a terra ad inseguire un’ altra traccia, perchè non eravamo sicuri che fossi sulla nave. Ci
aspettavamo che ti imbarcassero sotto falso nome, non avevamo pensato al baule>>. Zeaidita sorrise,
indicò il bagno e disse: <<permettete che mi lavi?>>. Dino le indicò con la testa il bagno, ed aggiunse:
<<Marchetti verrà alle tre>>. Poi Julius disse: <<adesso, signori, vi annuncio che la corsa è finita.
Scendete da questa nave ed andate a fare in culo nella vostra fottuta caserma. Prima di levarvi dai
coglioni uno di voi va dal mozzo e lo informa del cambiamento di programma, e gli dice che ha deciso
di cedere la propria cabina, ed il biglietto alla signorina qui presente. Non tentate trucchi perchè non
avete nulla da guadagnare>>. Dino sciolse il capitano, poi disse ai tre: <<scenderete uno per volta, uno
di noi vi accompagnerà, l’ altro resterà in cabina>>. Zeaidita, che intanto si era ripresa e rinfrescata si
fece dare una pistola e si mise anche lei a controllare i tre. Alle 15 Dino accompagnò il Tenente sino
alla scaletta, ed assistette alla discesa dell’ uomo, che si allontanò rapidamente. Dopo qualche minuto
arrivò Marchetti che capì dai cenni di Dino che era accaduto qualcosa di importante, e si precipitò a
bordo. Mentre Dino lo accompagnava al ponte C gli raccontò tutto, ed il Direttore non resse all’
emozione e si mise a piangere. Dino lo fece entrare direttamente nella cabina a fianco, la 79, che
doveva essere quella del Sergente, ed andò a chiamare Zeaidita. Alle 16 Julius buttò fuori il secondo
dei due militari, e quindi si riunirono tutti nella cabina 79 per un aggiornamento. Marchetti iniziò a
parlare: <<siete stati meravigliosi, per me come persona, ma anche per la patria. Adesso siamo tutti di
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nuovo in pista, e romperemo il culo ai traditori. Ma come prima fase bisogna mettere in salvo Zeaidita.
Questa nave è divenuta un fortino. Non ho avuto tempo di informarvi, ma negli ultimi giorni abbiamo
avuto un colpo di fortuna. Rossi ha avuto informazioni precise su tutto l’ equipaggio di questo
piroscafo, che è assolutamente pulito, tranne che per un cameriere che ha fatto arrestare con l’ accusa
di ubriachezza e vilipendio al Duce, e quindi i rapitori non hanno qui dentro, nessun appoggio, quindi
noi quattro partiremo per l’ Italia, e Zeaidita resterà, noi torneremo>>. Marchetti si controllava a
stento, e la gioia gli traspariva dagli occhi. Alle diciassette l’ ultimo dei tre militari discese dal ponte, e
Dino e Julius lo salutarono con la mano. Poi alle 18 la nave salpò le ancore.
Durante il viaggio familiarizzarono e passarono molte ore insieme. La sera che il Piroscafo
raggiunse Porto Said, all’ estremità Nord del Canale di Suez, mentre cenavano nel sontuoso salone di
Prima Classe Marchetti fece portare lo Champagne per brindare, dicendo: <<questa è una delle serate
più belle della mia vita, perchè ho ritrovato la donna che amo, e voglio che tutti ce la ricordiamo>>.
Brindarono tutti, poi Zeaidita raccontò la sua storia e tutte le traversie. Ad un certo punto parlando dei
due pastori che l’ avevano rapita disse: <<mi dispiace, erano due poveracci, ma mi hanno difesa, e
sono triste perchè dovranno morire>>. Marchetti annuì, ed aggiunse: <<quei poveri diavoli
pagheranno per tutti>>. Dino prese al volo l’ argomento per un chiarimento che gli stava a cuore: <<io
ho avuto come primo impulso quello di prendere Aleardi per il bavero ed attaccarlo al muro, poi ho
anche capito che così avremmo messo in pericolo la vita di Zeaidita. Se i rapitori si fossero sentiti
scoperti avrebbero anche potuto eliminarla. Però non capisco ancora come Lei possa tollerare che
Aleardi giri tranquillamente>>. Julius fece notare: <<beh, mica tanto tranqullamente, quando lo ho
fermato sulla banchina gli ho appioppato in testa una mazzata terribile con l’ impugnatura della pistola
a piatto. Si dovrà curare il mal di testa per molti mesi>>. Sul viso di tutti comparve un gigno di
soddisfazione. Marchetti sentì il bisogno di chiarire: <<come hai detto tu stesso, una mossa impropria
avrebbe messo inopportunamente a rischio la vita di Zeaidita. Se non la avevano uccisa subito
sicuramente era perchè gli serviva viva, e l’ avrebbero lasciata in vita finchè non fosse diventata un
pericolo per la loro organizzazione>>. La ragazza intervenne: <<si, nei giorni che sono stata
prigioniera di quegli ufficiali hanno parlato solo di portarmi in un nascondiglio in Italia, non so dove,
ma mai di uccidermi>>. Dino aggiunse: <<si, tutto è giusto, ma quando torniamo dovremo appiccicare
Aleardi al muro. Ed inoltre non capisco perchè non abbiamo interrogato quei tre idioti, Regis, De
Vincentis e quell’ altro di cui non ricordo il nome>>. Marchetti alzò le spalle: <<se anche li avessimo
torchiati non ci avrebbero certamente detto il nome del capo della organizzazione. Al più ci avebbero
detto il nome di qualche colonnello che ha fatto da tramite. Lo stesso vale per Aleardi, che è collegato
ai militari, ma sicuramente non ha contatti in alto. Ricordati, Dino, il capo è molto furbo, non parla mai
con la manovalanza. Se anche avessimo saputo il nome del colonnello X che avemmo ottenuto? Se
anche lo avessimo denunciato per il rapimento, e se fossimo riusciti a sottrarlo alla giustizia militare
per farlo giudicare da un giudice civile, al massimo lo avrebbero rimpatriato.>> si rivolse a Dino:
<<come tu mi hai fatto notare, probabilmente questo rapimento è solo una copertura per altri interessi
che loro hanno. E noi dobbiamo far credere che una volta ripresa Zeaidita abbiamo finito di
interessarci a loro, o perlomeno che non sappiamo molto. Così andranno avanti con il loro piano, e li
prenderemo con le mani nel sacco, se ci riusciamo. A proposito Zea, ti hanno chiesto qualcosa?>>.
tutti sorrisero per quell’ abbreviazione confidenziale, e Zeaidita scosse la testa. Marchetti era molto
allegro, rovesciò maldestramente un bicchiere di Champagne, poi sorrise alla ragazza e disse: <<Zea,
cominciano i balli nell’ altro salone, ci fai ballare, uno per volta, ed io per ultimo, ovviamente>>. Si
alzò, e Dino gli afferrò un braccio appena in tempo per mantenerlo in equilibrio, perchè era un po’
brillo. Poi andarono tutti nell’ altra sala, ed a turno ballarono.
. Marchetti e Zeaidita scesero a Napoli. Anche Dino doveva scendere a Napoli, e prendere la nave per
la Sardegna, ma decise di continuare, pagò il supplemento, e continuò sino a Genova. Si fermò a
Genova due giorni, e prese la motonave di ritorno, e per quella volta in Sardegna lo aspettarono
invano. A Dicembre tornò in Italia, e questa volta scese a Napoli. Appena arrivato gli fregarono le
valigie. Dino ovviamente non si dette per vinto. Si rivolse alla polizia, riempì dei verbali, firmò molte
dichiarazioni, si sorbì la predica di un questurino che biasimava la sua imprudenza, poi, uscito dalla
caserma tornò sul luogo della sparizione, dette qualche soldo ad uno scugnizzo, altri soldi ad un altro
tizio, e ritrovò le valigie, senza le preziose buste di caffè che portava ai suoi dalla periferia dell'
Impero. Durante quel viaggio, il 26 Dicembre, incontrò in un treno quella che sarebbe diventata sua
moglie molti anni dopo, alla fine della guerra che doveva ancora cominciare. Fu un incontro rapido, e
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fecero appena in tempo a scambiarsi gli indirizzi. Poi si scrissero, e si rividero fugacemente un giorno
a Firenze. Poi per molti anni si scrissero e basta.
1940
La situazione si movimentò nel 1940. Mercoledi 20 Marzo 1940 era un giornata tiepida. La
temperatura oscillava intorno ai 18 gradi. Dino si presentò in ufficio alle 8 e cominciò a lavorare. Dopo
20 minuti venne l’ usciere, e lo informò che il Dr Marchetti lo stava aspettando. Se il direttore lo
aveva cercato così presto voleva dire che gli doveva affidare un lavoro, e che c’ era qualche novità
importante Quando Dino entrò nell’ Ufficio Marchetti era seduto su una poltrona rossa, davanti ad un
tavolino a tre gambe, e stava controllando delle carte. Sul tavolo di lavoro, a sinistra vicino alla
finestra, c’ era una montagna di carte topografiche, ed una edizione della Gerusalemme Liberata di
Torquato Tasso. Dino rimase stupito, e ne prese nota mentalmente. Se quel libro era li ci doveva essere
un motivo importante, perchè Marchetti non faceva mai nulla che non avesse uno scopo preciso
tantomeno leggere un libro. Marchetti gli fece cenno di accomodarsi, e gli indicò il tavolo, dove c’ era
un biglietto, con scritto: <<devi partire questa sera in treno per Massaua. Alle 20 del 23 vai alla
banchina dove è ormeggiato l’ incrociatore Trento. DD in uno dei barili messi davanti alla staccionata.
Il 24 ritorno in treno. Frase di pericolo: Camerata Servino fuori stanza>>. DD significava Dead Drop,
cioè un posto defilato in cui qualcuno lasciava un messaggio e qualcun altro lo raccoglieva. Era molto
strano che Marchetti usasse la sigla inglese. Rimase un attimo in silenzio per essere sicuro che Dino
avesse capito bene, poi disse, indicando il tavolo di lavoro: <<Devi andare a Massaua per un controllo
agli Oleodotti che passano vicino alle saline. Il tuo compito consiste nel passare vicino alle saline e
vedere quanti operai ci sono e se lavorano, perchè abbiamo saputo che i registri delle paghe potrebbero
essere gonfiati. Ovviamente non è una cosa facile, e siccome non sei in veste ufficiale, dovrai girare,
chiedere, ed avrai degli elementi di giudizio soltanto parziali, ad esempio il numero di Camion che
entrano ed escono in un’ ora, comunque fai il possibile, questa è solo una indagine preliminare. Il
giorno prima di partire ti presenterai al Camerata Servino, nell’ Ufficio Opere locali del Governo, e gli
chiederai di vedere i registri paga degli operai. Mi rendo conto che questo non è il tuo lavoro, ma lo
devi considerare una missione, ed ovviamente ti metteremo una voce in più sulla paga. Li ci sono i
biglietti del treno, ed una lettera di conferma della prenotazione della tua camera all’ Albergo Littorio.
Ti auguro buon viaggio>>. Fece il cenno consueto con cui indicava che il foglietto doveva essere
distrutto. Dino non discusse, prese il biglietto dal tavolo, e salutò. Mentre faceva questa operazione
osservò meglio la Gerusalemme Liberata: Edizioni <<A. Barion>>. Uscì dallo studio di Marchetti e si
diresse verso le scale. La porta della Segreteria era aperta, e dentro, seduto al tavolo, c’ era il dottor
Aleardi, che si diceva avesse preso di recente la gonorrea. Sul tavolo aveva una scatola di pillole
contro il mal di testa, che prendeva regolarmente dal 14 Agosto del 1939, quando “in mezzo alla folla
del Porto di Massaua, era caduto accidentalmente battendo la testa, mentre andava a salutare un amico
che partiva per l’ Italia con il Piroscafo Colombo. Anzi per quell’ incidente era stato ricoverato all’
Ospedale Umberto Io”. L’ usciere Antonio raccontava che per quel mal di testa era stato anche da uno
stregone, ma senza successo. Dino lo salutò freddamente, ma l’ altro lo chiamò sbracciandosi:
<<Aspetta, Dino, ti devo dare la lettera di incarico per un viaggio a Massaua>>. Gli tese un foglio, poi,
siccome era un gran ruffiano, proseguì: <<Mi sono dato molto da fare per farti ottenere questa
missione. Devi andare ad ispezionare le saline, e farci una relazione. - insistette ancora con aria
compiacente- ovviamente non ti preoccupare se hai delle difficoltà, ti aiuterò io, e comunque parlerò
con il capo per sistemare tutto>>. Dino stava per mandarlo a quel paese, ma gli caddero gli occhi su un
calendario da tavolo: vicino al giorno ventuno c’ era scritto a matita 3. Rialzò gli occhi, e vide che
Aleardi era occupato a sfogliare delle carte e non aveva seguito la scena. Prese il foglio di
autorizzazione, lo infilò in tasca, e disse ad alta voce: <<falla finita di fare il buffone!>>. Aleardi
borbottò qualche cosa tra i denti, ma Dino non riuscì a capire cosa dicesse. Dopo qualche passo nel
corridoio incontrò tre persone. In mezzo c’ era un Generale dell’ Esercito, che Dino non riconobbe, ed
intorno due ufficiali che avevano un atteggiamento di estrema sottomissione. Superarono Dino senza
guardarlo. Dino si girò, e come prevedeva li vide entrare nella stanza di Aleardi. Scese rapidamente le
scale, e si fermò dall’ uscere, Antonio, che era Genovese, ma aveva un nonno Sardo per parte materna,
e per questo si sentiva un compaesano di Dino, e si abbandonava alle confidenze. Dino, come suo
solito prese le cose alla larga: <<Come va in famiglia, Antonio>>. <<Bene Dottore, però mia moglie
ha un po’ di reumatismi, sa con questo tempo!>>. <<Tuo figlio?>>. <<Tutto bene, adesso la maestra
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lo vuole fare capoclasse>>. <<Tuo figlio ti darà molte soddisfazioni! A proposito, vuole sempre
entrare nell’ Esercito da grande?>>. <<Veramente non me lo ha mai detto>>. <<Lo ha detto a me improvvisò Dino - vuole fare il generale dell’ Esercito. Sai se avesse visto quello che è entrato prima,
....come si chiama?>>. <<Ah, il Generale Cormelli. Spero che non diventi mai come lui. Dicono che
sia uno dei consiglieri importanti per il Vicerè, ma pare anche che sia un pessimo soggetto, puttaniere,
e che una delle amanti sia la moglie di quel cornuto che gli stava sulla destra, il Colonnello Garganti.
Poi gioca come un pazzo, e perde una valanga di soldi, ma per motivi che nessuno capisce è un
intoccabile.>> Dino pensò che era incredibile quante cose sapeva Antonio. Le avrebbe verificate al
ritorno nello schedario ben nascosto dell’ Ufficio di Import-Export di Viale De Bono. Continuò con
qualche frase di rito, poi se ne andò, perchè aveva fretta e doveva ancora fare i bagagli.
Il treno per Massaua era una littorina inaugurata qualche mese prima, e partì alle 18:00, in
perfetto orario, sotto una pioggia incessante,e piombò quasi subito nell’ oscurità della sera. Nello
scompartimento c’ erano altre 5 persone, 2 donne, mogli di funzionari, che non stavano mai zitte, i loro
2 figli, ed un uomo sui 40 anni, che lesse avidamente il giornale sinchè non fu buio, e poi rimase
immobile e silenzioso per tutto il resto del viaggio. Arrivarono alle 22 e 30, con quasi un’ ora di
ritardo, perchè il treno aveva percorso molto lentamente il tratto di circa 50 chilometri tra Asmara e
Ghinda, dove la pioggia era incessante. L’ Albergo era in Via Locatelli, ad un paio di chilometri dalla
stazione, ma non sarebbe stato facile farli a piedi sotto la pioggia. Era un posto insolito, perchè in
genere gli alberghi erano nell’ Isola di Taulud, insieme agli edifici pubblici, e vicinissmi alla stazione.
Fortunatamente trovò quasi immediatamente un taxi, e prima di partire notò che le due donne si
incontravano con i mariti, ma non riuscì a vedere dove fosse scomparso il quinto viaggiatore. Durante
il percorso l’ autista gli spiegò che l’ Albergo era a due passi dalla capitaneria di porto, ma gli fece
anche capire che la mattina c’ era una marea di gente che girava. Dino pensò che sarebbe stato meglio
localizzare il punto dell’ incontro portandosi nella zona antistante del porto, che era una insenatura
fatta ad U, lontano dalla folla. In questo modo avrebbe anche potuto vedere le saline, che erano lungo
il percorso. Arrivato in camera guardò la cartina di Massaua:la posizione migliore per osservare il
punto di incontro senza essere visto era la vecchia pescheria. Ci sarebbe andato la mattina successiva.
Alle nove del mattino venne svegliato da qualcuno che bussava alla porta della camera, e
quando si alzò, trovò sotto la porta un biglietto, scritto a stampatello, su cui si
leggeva:<<NECESSARIO ANTICIPARE INCONTRO A QUESTA SERA, ORE 20, STESSO
POSTO>>. Provò a riflettere, ma si rese conto che non c’ era molto da pensare, anche se il fatto era
preoccupante: doveva rischiare ed assecondare lo sconosciuto redattore del biglietto, ed intanto lo
distrusse con estrema cura. Verso le dieci uscì per esplorare la città. Massaua, la Medzamà degli
indigeni, era battuta da una pioggia leggera ed insistente che veniva dal mare. Il suo albergo era alle
spalle del porto, ma lui fece il giro completo delle isole e del tratto di terraferma continentale che
delimitano l’ insenatura del porto, per poter vedere le banchine di fronte e localizzare l’ Incrociatore
Trento. Passò davanti all’ Ospedale Umberto I, in Via Ancona, ed attraverso la diga raggiunse l’ isola
di Taulud, dove c’ era il Palazzo del Governo, e tutti gli edifici pubblici. Sempre costeggiando l’
insenatura di Taulud superò la stazione ferroviaria, dove rivide fermo il taxi che aveva preso la sera
precedente. All’ altezza della scuola bilingue Italo Araba, prima di piegare a destra sulla diga Edugaberni, gli parve di vedere il quinto viaggiatore, ma era troppo lontano per averne la certezza. Intanto la
pioggia era diminuita, ed accelerò il passo. Arrivato sulla terraferma passò nella zona anteriore delle
saline, e si fermò quasi un’ ora per cercar di controllare il numero e la attività degli operai, ma si rese
subito conto che era impossibile. Le saline erano molto grandi, ed in parte la visuale era coperta da una
recintazione e dalle collinette di materiale. Vide una decina di camion fermi, ed abbandonati, vide due
camion che entravano vuoti, e ne vide uscire uno solo carico. Poi tornò verso il mare. Camminò ancora
a lungo, e giunse sino all’ estremità opposta della penisoletta Abd-El-Cadur, davanti alla pescheria, e
di li localizzò il Trento: era ancorato alla banchina Regina Elena, davanti alla capitaneria, e molto
vicino all’ albergo: non sarebbe stato difficle arrivarci, la sera. Tornò indietro rapidamente, ed alle 14 e
40 era in camera.
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Si sedette ed accese la maestosa radio di legno pregiato che era vicino al letto. Trasmettevano
la usuale propaganda di regime. Poi, alle 15 in punto, ci fu una breve discussione sul grado di sviluppo
economico nella piana di Cheren, e sulla importanza della rete ferroviaria. Venne anche letto l’ orario
di viaggio dei treni che arrivavano a Cheren. Dino si ricordava di quel 3 che aveva visto segnato sul
calendario di Aleardi, e prestò particolare attenzione, tentando di individuare le parole che ricorrevano
più di frequente, ma non era facile. Era probabile che il 3 si riferisse proprio all’ orario di quella
trasmissione, perchè spesso le trasmissioni radio venivano utilizzate per passare messaggi, però
bisognava conoscere la chiave. Dino ricordava che qualche volta la chiave era nel numero di volte che
una parola od un nome vengono ripetute, e gli sembrò che Cheren e Treno, o Ferrovia, fossero le più
frequenti, ma nel contesto di quel discorso non c’ era da meravigliarsi. Mentre la trasmissione stava
per terminare notò improvvisamente che alcuni dei rumori di fondo sembravano in codice morse. Dino
era stato radiotelegrafista durante la guerra, e riuscì a captare tre segnali precisi, i, t, o. Al termine della
trasmissione si sforzò di ricordare altri rumori, ma purtroppo se non ci si fa attezione è quasi
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impossibile captare rumori di quel genere. Comunque gli sembrava che ci fossero state due
interferenze molto ravvicinate, che lo avevano colpito all’ inizio della trasmissione, forse s e t.
ST.....ITO, forse STABILITO, ma cosa? Alla fine concluse che pot4eva soltanto incamerare quel dato,
e cercare una soluzione in un altro momento. Spense la radio, e non ci pensò più, ma si tolse gli stivali,
e si mise a riposare per un paio d’ ore sul letto. Alle 20 era al porto, sotto una pioggerella fastidiosa, e
si diresse verso gli ormeggi del Trento. Cercò di arrivare al momento preciso, per non dover
girovagare dando nell’ occhio, anche perchè c’era un intenso chiarore lunare, solo parzialmente
offuscato dalle nubi. Mentre si avvicinava notò la fila di barili, posta dietro una staccionata che la
nascondeva alla vista dell’ equipaggio dell’ incrociatore. All’ improvviso, da sinistra comparve un
uomo, sui 30-40 anni, alto circa un metro e settanta, robusto, con I baffi e l’ impermeabile chiaro, che
camminava a passi veloci lungo la fila dei barili. Ad un tratto l’ uomo rallento, giunto vicino al 6o
barile, guardò verso Dino, e poi riprese a camminare velocemente. In pochi attimi era scomparso Dino
arrivò all’ altezza della fila di barili e girò verso sinistra, rifacendo in senso inverso la strada da cui l’
altro era venuto. Arrivato all’ altezza del 6o barile arraffò con la mano destra un pacchetto di sigarette
accartocciarto, e proseguì, infilandoselo in tasca, bagnato com’ era. Poi tornò immediatamente in
Albergo. Appena fu in camera guardò bene il pacchetto: era accartocciato e bagnato. Con estrema
precauzione estrasse il doppio fondo, e vide che su un lato c’ erano delle macchioline. Guardando
meglio si rese conto che le macchioline erano in realtà un minuscolo scritto. La sua partenza era fissata
per il 24 sera, e quindi avrebbe avuto le giornate del 22 e del 23 per trovare una lente di
ingrandimento. Sbarrò la porta della camera ed andò a dormire. La mattina successiva si mise in
movimento prestissimo, e verso mezzogiorno riuscì a scovare la lente che cercava nella bottega di un
rigattiere che ne era venuto, chissa come in possesso. La acquistò e si diresse verso il suo Albergo.
Mentre passava vicino al mare, in un tratto in cui esisteva una piccola zona sabbiosa, vide un ragazzo
nero disperato perchè la giacca gli era volata in mare, e non aveva il coraggio di andarla a recuperare.
La giacca galleggiava ad una decina di metri dalla riva, e Dino decise, <<Non aver paura, la prendo
io>>. Tolse scarpe e calze, arrotolò i pantaloni, ed entrò in acqua, tanto il fondale era basso, ed era
sicuro di recuperare la giacca senza bagnarsi nemmeno i polpacci. Purtroppo non sapeva che il fondale
in quelle zone è un vero colabrodo, pieno di buche. Fece qualche passo, guardando con attenzione il
fondale, poi si convinse che non c’ era pericolo, e si girò per rassicurare il ragazzo che ce l’ avrebbe
fatta. In quel momento gli mancò il terreno sotto i piedi, e precipitò per molti metri, forse cinque o sei.
Dino era un buon nuotatore, ma la sorpresa fa pessimi scherzi. Passarono secondi drammatici, che a lui
ovviamente sembrarono senza fine, poi si riprese, e riuscì ariemergere. Il ragazzo nero, sulla riva, si
disperava, correva, saltava, chiamava aiuto senza che nessuno lo sentisse, era disperato per la giacca,
ed in più era spaventato perchè credeva che Dino fosse affogato. Quando giunse a riva, Dino si buttò
per terra annaspando, ed il ragazzo, non sapendo che fare, gli fece prima vento, poi gli tirò dell' acqua
in faccia (lo aveva visto fare a Cinema). Ci mancava solo questo. Dino si alzò prima che l'
approssimativo soccorritore gli provocasse altri danni, rincuorò il ragazzo, e gli regalò qualche rupia.
E quella volta il destino aveva deciso di ripagargli la buona azione, come scoprì più tardi. La
temperatura era invernale, anche se temperata dal mare, e Dino si infilò rapidamente in una specie di
mercato, dove vendevano anche abiti, e comprò un vestito coloniale piuttosto dimesso e strapazzato,
ed anche di taglia superiore alla sua, probabilmente di provenienza furtiva. Lo indossò dietro un telo
gettato sopra un filo teso tra due paletti, che fungeva da camerino delle prove, e si guardò nello
specchio ingiallito e graffiato, ovviamente senza cornice, che il proprietario del negozio aveva legato
ad uno dei paletti, e vide che aveva un aspetto goffo. Quando si metteva il casco molto più largo della
testa era veramente irriconoscibile. Siccome comunque non aveva scelta, decise di comprarlo, e
cominciò a preparare un pacco dei suoi vestiti bagnati. Mentre faceva queste operazioni sentiva
crescere un brusio indistinto, come se stesse accadendo qualcosa di insolito tra la folla rappresentata
quasi esclusivamente da persone di colore, che brulicava intorno a lui. Si avvicinò al venditore, che era
accoccolato in terra, e che faceva gesti di appovazione per far capire che il vestito che aveva trovato
era molto elegante. Intanto il brusio andava crescendo, e pian piano si stava formando una colonna di
persone che si dirigeva verso l’ uscita del mercato. Ad un certo punto la folla aumentò la andatura,
quasi stesse correndo, ed alcuni bambini e le donne vennero letteralmente travolti. Dino non vide nulla
di preoccupante intorno, non stavano fuggendo, era solo la irrefrenabile curiosità degli indigeni che li
spingeva ad andare a vedere qualcosa che accadeva fuori del mercato. Improvvisamente anche il
venditore con cui contrattava si alzò di scatto e lo piantò in asso, buttandosi tra la folla. La curiosità era
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stata più forte della sete di guadagno. Dino si mise a ridere, e tentò di uscire senza farsi travolgere.
Sapeva per esperienza che il venditore sarebbe tornato solo tra qualche ora, e la cosa migliore sarebbe
stata raggiungerlo fuori. Mentre era tra la folla, captò una frase in amarico, tra due venditori di pelli,
che erano lì vicino. Uno diceva: <Lo hanno ucciso come uno Zebù>. Dino si informò:<<Chi hanno
ucciso?>>. <<Due uomini bianchi hanno ucciso con il coltello un altro uomo bianco con i baffi>>.
<<Dove è successo?>> <<Qui, dietro il Bazar>>. A Dino parve più prudente controllare la scena senza
esporsi, e si tenne più possibile in disparte. Mentre era ancora sulla porta del Bazar, arrivarono dei
carabinieri che respinsero brutalmente la folla a manganellate, e dopo di loro passarono gli infermieri
che portavano via su una barella l’ uomo ucciso. Si spinse in avanti con prudenza, e guardò meglio:
per quanto si poteva ricordare, l’ uomo ucciso era quello che aveva effettuato il Dead Drop! Dino sentì
il sudore freddo. Ecco perchè l’ uomo aveva voluto anticipare la consegna: qualcuno gli stava dando la
caccia per fermarlo, ed ora probabilmente le stesse persone stavano dando la caccia a lui! Guardò
intorno con preoccupazione, e vide che era circondato da neri vocianti. Apparentemente non c’ erano
in giro bianchi , tranne i carabinieri. La situazione era di altissimo rischio, e la cosa più intelligente per
il momento era prendere il largo. quell’ imprevisto cambio di abito gli aveva dato vantaggio insperato
sugli assassini, ma doveva stare attento a non sprecarlo.. Scivolò via tra la folla, stando attento a non
destare i sospetti del nugolo di carabinieri che giravano li intorno, e si diresse velocemente verso
l’Albergo. Quando fu in vista dell’ Albergo Littorio rallentò il passo, ed iniziò a studiare tutti i
passanti. C’ erano molte persone in giro, ma sembravano tutte indaffarate e frettolose, ed
apparentemente nessuno badava a lui. Dino entrò nell’ atrio, ma non vide nessuno sospetto in gito.
Andò dal portiere, che stava controllando i registri, e gli chiese sforzandosi di sembrare calmo: <<ci
sono novità per me, è venuto qualcuno a cercarmi?>> << dopo ieri mattina no, signore>> <<senta, per
motivi personali che mi sono sopravvenuti stamattina devo partire subito. Mi può preparare il
conto?>> <<senza dubbio signore>>, rispose il portiere. Dino salì al primo piano, ed arrivò alla sua
stanza, la numero 12, ed entrò nella camera con la pistola spianata, e la esplorò palmo a palmo, poi
guardò fuori dalla finestra, sul cornicione. Tutto libero, evidentemente non era stato ancora localizzato.
Lasciò immediatamente l’ Albergo, e si spostò per tutta la giornata. Verso le 15 andò all’ Ufficio del
Telegrafo per inviare un dispaccio urgente al Dottor Giovannino Sulis, viale Mussolini 133:
<<cametara Servino fuori stanza. Necessario anticipare ritorno>>. Pagò, pregando mentalmente che
nessuno intercettasse quel messaggio. Giunse in Stazione appena prima della partenza del treno. Era la
sera del 22, mentre la sua partenza era prevista per il 24. Ora doveva sbrigarsi a consegnare tutto il
materiale a Marchetti, ed a quel punto gli assassini non avrebbero avuto più interesse ad eliminarlo.
Mentre il treno stava per partire, dal finstrino vide arrivare di corsa il 5o passeggero, quello che stava
con lui nello scompartimento all’ andata, ma l’ uomo salì in un altro vagone, e non si fece mai vedere
per tutta la durata del viaggio.
Appena arrivato ad Asmara Dino corse a casa. Era tutto normale, nessuno lo aveva seguito.
Evidentemente gli assassini non sapevano come trovarlo, ed avevano ucciso l’ uomo con I baffi
pensando che non avesse ancora consegnato il pacchetto di sigarette. Ma chi era l’ uomo con I baffi, e
cosa aveva consegnato? era il caso di parlarne con Marchetti? Dino decise di giocare a carte scoperte.
Comunque, siccome la prudenza non è mai troppa tirò fuori il pacchetto di sigarette e la lente di
ingrandimento, e si mise ad esaminarlo. Ci vollero alcune ore, ma riuscì a leggere una serie di numeri:
507384 748185 - 410216 - 6312 7478 7473 6323 7441 6474.
Era chiaro che si trattava di un codice, ma quale? in genere I numeri indicavano le pagine di
un libro, le righe, e la posizione delle parole, ma bisognava avere il libro. Comunque trascrisse i
numeri su un foglio, spostò un divano de salotto, scollò lo zoccolo di marmo della parete, e nascose il
foglio in un tubo vuoto, poi con pazienza, rimise tutto a posto. La mattina dopo si presentò da
Marchetti. Il direttore non si dimostrò sorpreso, ma piuttosto preoccupato per la sua presenza in
anticipo sul previsto. Dino parlò dei Camion che aveva visto, e dei lavoratori indigeni che non aveva
visto al lavoro presso le saline, e concluse dicendo: <<ho provato a fare un lavoro completo, ma il
Camerata Servino era fuori stanza>. Marchetti indicò con il dito le 14 sul quadrante dell’ orologio,
dicendo: <<si, ho avuto il tuo messaggio, ma non fa nulla. Chiederò i registri in via ufficiale>>. Dino
uscì, e rallentò il passo apposta davanti all’ ufficio di Aleardi, ma il mentecatto non era in stanza. Alle
14, come previsto si incontrò con Marchetti dietro la chiesa Copta, ed il direttore fu il primo a parlare:
<<E’ andato tutto bene?>> domandò. <<Per quello che mi rigurda, almeno sino adesso, si. Però ci
sono stati molti inconvenienti.>> Dino raccontò tutta la storia, dall’ incontro anticipato all’ assassinio
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del “Dropper”. Marchetti ascoltò con attenzione, poi rimase per qualche secondo in silenzio. Poi parlò:
<<So tutto, perchè un mio uomo ti ha scortato, ed era con te sul treno per Massaua. Ti ha perso di vista
dopo che sei finito in mare, ma ha ritrovato le tue tracce sul treno di ritorno, anche perchè mi ha
chiamato, ed io gli ho riferito la tua decisione di anticipare il ritorno. Per questo ti ha raggiunto all’
ultimo minuto sul treno>>. “Già, il 5o viaggiatore” pensò Dino, ed aggiunse ad alta voce: <<spero che
non vi siate parlati per telefono>> <<mica siamo scemi>>, borbottò Marchetti, <<abbiamo un codice
per via radio>>. Poi proseguì. <<Si, l’uomo ucciso dovrebbe essere quello che ha deposto il
messaggio, e gli assassini sono due bianchi, secondo le mie fonti è molto probabile che siano due
francesi. Comunque tu sei stato solo un corriere, ed adesso che il messaggio è arrivato, non devi
temere più nulla, specie se non parlerai assolutamente con nessuno di questa storia. Dino non era
molto convinto della pista dei due francesi, ma non insistette, tanto era tempo perso. Era assolutamente
ridicolo pensare che due francesi potessero girare indisturbati per Massaua. Gli informatori di
Marchetti avevano sicuramente sbagliato sulla nazionalità degli assassini. E se invece fossero stati
italiani che collaboravano con il nemico? certo, ormai il messaggio era arrivato a destinazione, e
chiunque fossero, gli assassini non avevano più interesse ad eliminarlo. Comunque sarebbe stato più
attento. Prima di tornare a casa passò in biblioteca e prese in prestito “La Gerusalemme Liberata di
Torquato Tasso”. Tornato a casa mise il libro sul tavolo e lo osservo:
LA GERUSALEMME LIBERATA
di TORQUATO TASSO
Prefazione e note di G. Stiavelli
Edizioni <<A. Barion>> della
CASA PER EDIZIONI POPOLARI S. A.
SESTO S. GIOVANNI - MILANO
Guardò all’ interno della copertina: Stampato XII-1931
Sfogliò il libro in cerca dell’ ultima pagina: era la 543. Spostò di nuovo il divano del salotto, e
recuperò i fogli con i numeri. Quando ebbe tutto davanti, cominciò a fare le prime prove. Il primo
questito da risolvere era se i due segni - avessero significato matematico o servissero solo ad
interrompere le sequenze di numeri. Optò per la seconda soluzioneIniziò dalla prima cifra a sinistra:
507348. Erano 6 numeri, non era difficile! Le prime 3 dovevano essere riferite alla pagina, le ultime
alla riga ed alla posizione della parola. I tre gruppi di cifre di sinistra erano costituite da 6 numeri
ciascuna. Nel libro i versi non avevano mai più di 9 parole, i commenti si, ma in genere nei codici non
si usano i commenti. Quindi in pratica l’ ultimo numero indicava la posizione della parola nel verso, i
due numeri precedenti la posizione della riga nella pagina, ed i primi tre numeri la pagina. Quindi le
prime dua pagine da cercare erano 507 e 748. Il libro aveva in tutto 543 pagine. O quello non era il
libro, o la chiave era diversa. Si ricordò che in genere nei codici si addiziona la ultima pagina con
quella dove è contenuto il messaggio, ma in questo caso non si spiegava il 517 iniziale. Si ricordò
improvvisamente del sistema di Fibonacci (qualcuno lo chiamava anche “sistema Cinese”).Con quel
sistema, se il risultato di una addizione supera il nove, si elimina il riporto. E ‘ anche un sistema per
generare numeri random.
Mise i numeri in colonna
543+
543+
__?__
_?___
507
748
Eliminando i riporti, i due numeri mancanti potevano essere solo 64 e 205.
Controllò subito a pagina 64, riga 38, 4a parola: “Il forte Ardeto, uom già d’ età matura”, ed a pagina
205, riga 18, 5a parola: “quinci Austro in guerra vien, quindi aquiloni”. Uomo viene! Il secondo gruppo
di cifre, isolato tra gli ifeni era molto chiaro, era una data rovesciata: 16.02.41, cioè qualcuno
importante sarebbe arrivato il 16 Febbraio dell’ anno successivo. Ma chi poteva essere ?. Dino rimase
un attimo a riflettere: le due parole erano state prese nel 3o e nel 9o canto, mentre sarebbe stato più
facile trovarle nello stesso canto. Dopodichè passò ad esaminare l’ altro gruppo di numeri
+6312 7478 7473 6323 7441 6474
I due gruppi di numeri avanti al segno - erano di sei cifre, gli altri di 4. Probabilmente
mancava qualche numero di identificazione, oppure il sistema di codifica era differente. Si soffermò
sul primo numero, partendo da destra: 5= posizione della parola nella riga
1=numero della riga
adottando il sistema di Fibonacci: 543 , non si poteva ottenere nulla.
39
__?__
63
tentò di nuovo con la aritmetica convenzionale, ovvsiamente sottraendo il 63, ed ottenne 480,
ma a pagina 480, riga 1, parola 5 non c’ era nulla di logico. Provò a partire di nuovo, considerando le
prime 3 cifre come riferimento alla pagina:
con il sistema di Fibonacci: 543+
198
631
a pagina 198, riga cinque lesse “E ritentato avendo invan la sorte”. Lo colpì il fatto che le pagine
indicate dai sei numeri sembravano essere molto vicine. Con il sistema di Fibonacci le pagine erano
198, 198, 203, 202, 202, 203. Tutte nel 9o canto. Forse questa era la strada giusta. Siccome non era
facile trovare parole con un senso compiuto in sei pagine era possibile che nella codifica non si fosse
fatto alcun riferimento alla posizione della parola, ma semplicemente alla riga. In questo caso
probabilmente le lettere dovevano essere le prime lettere di ciascuna riga. Provò a scrivere le sei righe
una di seguito all’ altra, in una tabella
Cifra del
messaggio
6312
7478
7473
6323
7441
6474
Numero
pagina
calcolato
(Fibonacci)
198
204
204
199
201
203
Numero
riga
2
8
3
3
1
3
Frase
Passar ne l’ Asia l’ armi peregrine
I primi assalti dei nemici affrene
Al nobil Guelfo che sostien sua vice
nè creder mai potrà che gente avvezza
Or quando ei sol ha quasi in fuga volto
A provocare in me la sua fierezza
forse la posizione della parola era stata omessa dal codice perchè era sempre la stessa, ma in
quel modo non veniva fuori nulla. Riguardò il foglio, e lo sguardo gli si soffermò sul margine sinistro.
Le prime lettere di ciscuna riga, dall’ alto verso il basso avevano un significato:PIANO A. Già, ma che
significava?
Il lunedi mattina, in ufficio, chiamò Antonio, l’ usciere, per dargli delle pratiche. Mentre gli
consegnava i fogli ricominciò con la solita storia su come stavano moglie e figlio, un trucco che
funzionava sempre per spillare le informazioni. Ad un certo punto cambiò argomento: <<Sua
Eccellenza come stà? Stamani mi sembrava nervoso>>. <<No, sta bene, ma il fatto è che la prospettiva
della guerra non rende sereno nessuno.>> <<S.E. Barile è una persona di gran valore, ma è mal
circondato. Dicono tutti male di quel puttaniere Genovese...>> <<Aleardi?>> <<Si. Ma è vero che è un
gran lavoratore?>> <<Beh, sta tutto il giorno quì, ma mica vuol dire che lavora: corre dietro alle
segretarie, cosi pare, almeno, o sente la radio>>, <<Gia, l’ altro ieri pure, mi sembra>>. <<Giovedi!?disse pensosamente Antonio- ha passato tutto il pomeriggio attaccato alla radio. Non ha neppure
pranzato!>>.
Ormai la buona stagione stava volgendo al termine, e cominciavano le lunghe giornate fredde
e piovose dell’ altipiano. L’ attenzione di tutti era ormai attratta verso lo scenario di guerra
internazionale che si stava precipitosamente delineando. La mattina del 9 aprile le truppe tedesche
penetrarono oltre il confine Danese, e quasi contemporaneamente invasero il fiordo di Oslo, mentre la
Luftwaffe catturava l’ areoporto. Le notizie rimbalzarono la settimana stessa in Africa Orientale
Italiana, anche se filtrate della stampa del Regime. Marchetti era preoccupatissimo, e continuava a
guardare le sue carte. Una sera, mentre passeggiavano davanti al cinema Impero, dopo cena, sbottò:
<<il guaio è che nessuno capisce che questa guerra non è assolutamente limitata. Coinvolgerà tutto il
mondo!>>. Dino continuava a non condividere il pessimismo del direttore, come nessun altro, e
domandò incuriosito: <<ma perchè vede tutto così nero? Questo sarà un conflitto limitato, in fondo
non conviene a nessuno allargare il campo di battaglia>>. Marchetti alzò le spalle, e conm aria grave
rispose: <<ti ho già detto quello che penso di Hitler: è un pazzo! Venti anni nei servizi segreti mi
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hanno permesso di conoscere ilk dossier personale di moltissima gente, ed anche quello di Adolf
Hitler, e ti ripeto che quell’ uomo è incontrollabile. Sono almeno 15 anni che i servizi segreti britannic
sanno che vuole conquistare il mondo. Nel 1925, quindici anni fa, l’ uomo era in prigione a Landsberg,
dopo il fallimento del Munich Putsch, cioè nel periodo in cui ha scritto Mein Kampf, ed in effetti ha
delineato la sua strategia di creare il Lebensraum, lo spazio vitale, per la Germania nella Mitteleuropa
ed in Russia. Ma quello che è ancora peggio, è quello che non ha scritto in Mein Kampf, ma in alcuni
suoi appunti segreti, che ha mostrato ad un altro detenuto che nel 1934 è divenuto collaboratore dei
servizi segreti britannici, una strategia per conquistare il mondo! Ricordati che il suo fina vero è il
dominio del mondo>>. Dino si ricordò che ai tempi del loro secondo incontro Zeaidita gli aveva detto
che Marchetti era stato all’ Ambasciata italiana di londra dal 30 al 34, ecco come aveva saputo quelle
cose! O le aveva sapute dopo? Respinse il pensiero. Marchetti si strinse nel cappotto, poi sospirò,
guardando il teatro in fondo alla strada, e riprese a parlare: <<purtroppo, quando si conobbe il vero
piano di Hitler, e gli inglesi si resero conto che il reale obbiettivo della politica espansionistica di quel
pazzo erano anche loro, era troppo tardi, già Hitler era stato nominato nominato Cancelliere nel
Gennaio del 1933>>. Dino era interdetto, ma replicò: <<è possibile che ci siano volute le informazioni
di un compagno di cella per capire queste intenzioni. Non è mica facile nascondere dei progetti così
folli, per quanto uno voglia dissimulare>>. <<Beh, le cose non sono mai semplici come appaiono replicò il Direttore- certamente vi erano stati altri segnali che Hitler era psichicamente incontrollabile, e
che aveva dei progetti assurdi, ma nonostante questo sia Churchill prima, che Baldwin poi, lo hanno
sempre ritenuto politicamente utile perchè in grado di controllare lo strapotere economico degli ebrei
nel mondo. Io penso che abbiano sottovalutato i rapporti del servizio segreto di Sua Maestà su quell’
uomo, oppure che abbiano comunque pensato che dopo la sua ascesa al potere, Hitler avrebbe dovuto
scendere a patti con la realtà. Comunque, il fatto è che i servizi segreti britannici, e non solo loro,
hanno indirettamente favorito la ascesa al potere di Hitler>>. Dino non replicò, e disse, stringendosi
anche lui nel cappotto: <<certo, che vista così, la faccenda assume toni tragici>>.
Per quasi tutto Aprile, e sino al 28 di Maggio, Marchetti visse incollato alla radio, e quando le
truppe franco inglesi, dopo un mese di furibonde battaglie, riuscirono solo a liberare Narvik, dimostrò
tutta la sua preoccupazione per l’ esito della guerra. Dino era interdetto, perchè la posizione ideologica
di un direttore dei servizi segreti che si augurava la vittoria degli avversari, non era facile da accettare.
Alla fine risolse il conflitto alla sua maniera, accettando l’ idea che un uomo potesse vivere lealmente il
rapporto con il suo paese, senza per questo dover essere completamente allineato, salvando la sua
autonomia di giudizio e ponendosi super partes. E poi, concluse, qualunque fosse il pensiero di
Marchetti, le cose nel mondo sarebbero andate secondo un destino che nessuno, nell’ Africa orientale
Italiana, poteva influenzare, e così, per il momento, liberò la sua coscienza dalla necessità di
parteggiare per chiunque.
L’ otto Giugno era Sabato sera, e Dino andò come al solito al Teatro, sul Viale Mussolini. C’
era la rappresentazione di una leggenda locale, con attori indigeni, e la sala era molto affollata. La
mattina Antonio gli aveva portato una busta, contenente il biglietto di invito per la serata e gli aveva
annunciato: <<da parte del Dottor Marchetti>>. Dino dette la mancia alla maschera che lo scortò sino
alla seconda poltrona della 3a fila. Mentre si infilava tra i sedili incrociò con lo sguardo quello di Sua
eccellenza Barile, il Segretario Generale del Governo, seduto in prima fila, che si era girato per vedere
arrivare la moglie, e lo salutò con deferenza. Si sedette, ed un uomo di circa trent’ anni, che occupava
la poltrona vicino alla sua, gli domandò: <<sa quando comincia lo spettacolo?>>. <<Penso tra dieci
minuti>>. <<Mentre aspettiamo mi piacerebbe prendere un caffè veramente molto forte e con la
crema>>. Dino rimase impassibile in silenzio, perchè quella era la frase di riconoscimento, e l’ altro
gli porse un programma, fissandolo a lungo e dicendo: <<mi scusi, non l’ avevo notata, ma questo è
suo>>. L’ uomo aveva aperto il programma, alla seconda pagina, e glielo dette insieme ad un foglietto
di carta dello stesso colore, su cui c’ era scritto, in caratteri minuti: “12 Giugno 1940: il treno per
Cheren parte alle 19”. Dino chiuse la locandina, e fece sparire velocemente il biglietto nella tasca,
mentre l’ altro proseguiva con tono di voce molto basso: <<sul treno non ci sarà molta gente, e due
bianchi si incontreranno per scambiarsi una valigetta con dei soldi >>. Poi proseguì ad alta voce: <<mi
scusi, posso vedere il programma?>>. Lo riprese, lo guardò a lungo e lo rimise in tasca. Poi, sia lui che
Dino seguirono lo spettacolo e non si scambiarono più una parola.
Il Lunedi successivo Dino portò delle pratiche nell’ ufficio di Marchetti, e le mise sul tavolo
dicendo: <<dovrebbe firmarle, Dottore>>. Marchetti mise la firma, poi gli rese le carte con un
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laconico: <<fai quel che ti hanno detto>>, e fece il solito segnale per confermare l’appuntamento
serale dopo cena. Dino non replicò, ed uscì senza parlare con le carte sotto il braccio. Subito fuori
della porta c’ erano due ufficiali di alto grado che parlavano tra loro, fissando l’ Ufficio di Marchetti.
Quando Dino li sorpassò ebbe la netta sensazione che si fossero voltati ad osservarlo.
Marchetti arrivò in ritaro all’ appuntamento, verso le 21, a bordo dell’ auto di servizio. Scese
dalla parte opposta della strada, e fece cenno all’ autista di ripartire, poi attese qualche secondo, e
traversò, stringendosi il cappotto addosso per il freddo. Dino prese a camminare lungo viale De Bono,
e dopo che i due uomini si furono riuniti, svoltarono a sinistra, in direzione di Via della Croce del Sud,
dove c’ era un piccolo bar, molto riservato. Dino domandò: <<cosa è questa storia del messaggio?
Perchè non è arrivato per le vie normali?>>. Il Direttore era piuttosto eccitato, e rispose
immediatamente, contrariamente al suo consueto comportamento flemmatico:<<l’ uomo che te lo ha
dato sarà sul treno travestito, e spero che tu lo riconosca, ma era necessario che vi conosceste bene, e
quindi vi ho fatto incontrare. >>. <<Che stà succedendo?>>, domandò Dino, scandendo bene le parole.
<<beh, ti ricordi la storia della famosa valigetta con i soldi che doveva arrivare ai ribelli nazionalisti?
Credo che ci siamo, la trappola è pronta a scattare, e penso che prenderemo il gatto con il topo in
bocca! Noi abbiamo un infiltrato nell’ Ethiopian Intelligence Bureau, a Kartoum, che ci ha informati
che il 12 di questo mese, sul treno per Cheren, due persone, due traditori italiani suppongo, si
scambieranno una grossa somma in talleri di Maria Teresa, destinata ai ribelli. Per me e per tutto il
servizio sarà una giornata importante, sono anni che stò preparando questa trappola>>. Dino,
nonostante la sua origine montanara, e la sua abitudine agli inverni nevosi, sentiva un freddo del
diavolo, e si strinse nel cappotto con un brivido, poi domandò: <<chi porterà questa valigetta? io credo
che sia il momento di mettere in chiaro tutto.>>. <<si, si -ribattè Marchetti in tono molto gioviale,
mentre continuava a guardarsi prudenzialmente intorno- forse mi posso scrollare dalle spalle tutti i
dubbi che ho fatto accumulare su di me. Questa storia dei Talleri risale a più di due anni fa, ed un mio
agente, che adesso lavora a Kartoum, mi ha sempre tenuto informato, anche se, sino adesso, non vi ho
potuto dire nulla. Inizialmente l’ intelligence britannica, stimolata in questo dal Generale Platt, a dall’
ex console di Addis Abeba, Sandiford, aveva pensato di inviare dei soldi ai ribelli indigeni per
fomentare la rivolta antitaliana attraverso il solito percorso, Kartoum, Ermacciò, affidandoli ad un
gruppo di collaboratori costituito da uomini di nazionalità inglese e da indigeni reclutati nel Sudan,
che dovevano viaggiare in incognito per le campagne a dorso di mulo. Poi però i responsabili della
intelligence britannica non hanno più considerato sicuro questo percorso nel quale erano probabili
attacchi di banditi e fuoriusciti, ed hanno preferito far viaggiare i soldi con mezzi più convenzionali,
navi, treni, automobili, attraverso il territorio urbano,sicuramente non controllato da banditi. Questo
significava la necessità di trovare moltissime connivenze, e le hanno trovate, pagando, ricattando, e
così via. Adesso hanno delle protezioni molto in alto, anche nello stato Maggiore dell’ esercito..>>.
Dino lo interruppe: <<cioè Pesenzani!>>. <<si -rispose Marchetti, con un tono di rabbia nella voceproprio lui. Ma ce ne sono anche tanti altri, lui è soltanto il capobanda, ed io li stò aspettando da anni,
so che faranno un passo falso, e loro sanno che li stò aspettando al varco. Hanno tentato di distogliermi
dal mio intento quando hanno rapito Zeaidita, e grazie a te ed agli altri non ci sono riusciti. Adesso
sono alle strette, la guerra stà per cominciare, e debbono far passare quei soldi per preparare la rivolta
in appoggio all’ esercito britannico, e commetteranno il primo errore tra due giorni, e la prima pedina
che giocheranno sarà quel cretino di Aleardi>>. Dino aspettava quel momento, ed intervenne: <<e’
bene essere chiari, che c’ entra Aleardi? Quest’ uomo è stato paradossalmente rispettato e salvato in
ogni circostanza, e Lei in primo luogo lo ha sempre difeso, anche se le ha fatto delle cose
gravissime!>>. Marchetti sospirò: <<è arrivato il momento di farmi giustizia, sia con te che con gli
altri. Nessuno di voi ha capito perchè lo avevo sempre salvato, ma il motivo è proprio quello che io
sapevo da molto tempo che era implicato in questo passaggio di soldi, e ho sempre cercato di non
farlo levare di mezzo, perchè era l’ unico anello della catena che conoscevo. All’ inizio di questa
vicenda, quando tu lavoravi ancora per Regazzoni, mi accorsi che Aleardi, che è sempre stato capo
della mia Segreteria, andava un po’ troppo spesso ad Addis Abeba>>. <<Ma Aleardi non è mai stato
nel servizio segreto>>, osservò Dino. <<No, ovviamente - riprese Marchetti- ma era comunque un
funzionario del governo alle mie dipendenze. Lo ho fatto controllare, e ci siamo accorti che andava
sempre dal colonnello Greganti. Allora ho fatto controllare anche Greganti, ed ho scoperto che aveva
dei contatti con gli inglesi. Ad esempio, ricordi la notte che andasti alla base aerea vicino Cheren e
vedesti lo Spitfire, beh, ho controllato ed ho scoperto che Greganti era arrivato in automobile, in una
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località poco distante dal campo di aviazione tre ore prima che voi atteraste. Tu evidentemente hai
intercettato uno degli appuntamenti tra Greganti ed un emissario inglese, ma successivamente ce ne
sono stati altri. Però di tutta la manovalanza che doveva effettuare questo passaggio di soldi io
conoscevo solo Aleardi, e se lo avessi bruciato la trappola non sarebbe mai scattata, o sarebbe scattata
con maggior difficoltà>>. <<E l’ agente a Kartoum, non bastava a dare informazioni?>> domandò
Dino. <<E’ stato proprio lui ad informarmi già da più di un anno, che Aleardi sarebbe stato attivato per
questo trasferimento di soldi, e che non bisognava assolutamente toccarlo. Ve lo giuro, ed adesso
potete anche capirlo, io ho anteposto gli interessi dello stato ai miei sentimenti personali>>. Marchetti
tirò un profondo respiro, come chi finalmente è riuscito a liberarsi di un grosso peso che lo soffocava.
Ed in realtà era così. Dino ripercorse rapidamente all’ indietro tutta la storia, dal rapimento di Zeaidita
in poi, e si rese conto di quanto quell’ uomo aveva sopportato. Marchetti riprese a parlare:
<<comunque ho sempre avuto ragione, Aleardi è una nullità agli ordini, indiretti, di Pesenzani, che gli
fa arrivare i messaggi attraverso quella testa di cazzo del colonnello Greganti, a cui fotte la moglie>>.
Dino non battè ciglio, un po’ perche era un gentiluomo e non rimarcava mai queste situazioni, un po’
perchè lo aveva già saputo da Antonio, ed invece tornò al piano: <<allora, cosa devo fare?>>. <<il
punto è proprio questo, tu ed un altro uomo che non conosci, oltre quello del teatro, salirete su quel
treno, dove due bianchi si scambieranno una valigetta contenente una grande somma di denaro in
talleri di Maria Teresa. Sicuramente uno dei due sarà Aleardi. Io non sono riuscito a sapere chi sarà l’
altro, l’ agente di Kartoum ha potuto solo intercettare il messaggio con cui si diceva che la consegna
sarebbe stata effettuata sul treno Asmara-Cheren il 12 Gugno. In pratica sul treno ci saranno, oltre te, il
mio uomo che hai conosciuto ieri a teatro, ed un altro che fa parte del personale viaggiante, e si farà
riconoscere al momento opportuno. Quindi voi sarete in tutto tre persone. Gli altri due devono
intervenire sui traditori, e tu devi coprirli. Ovviamente ho predisposto altri appoggi alla operazione,
cioè ho messo altri uomini alle stazioni di arrivo e di partenza, e lungo il tragitto del treno, ma sul treno
voglio che ci siate solo voi per evitare di destare sospetti. In tre dovreste essere più che sufficienti a
controllare la situazione, perchè so che durante il percorso Asmara-Cheren i due uomini che devono
effettuare lo scambio della valigetta non avranno senza appoggi. Eventualmente, in caso di
inconvenienti potete limitarvi a controllare la situazione, e rimandare l’ arresto al momento dell’ arrivo
del treno, quando potrete avere degli appoggi. Ricordati che la parola d’ ordine per identificarvi tra
voi è “il miglior amico di Carolina”, sai è facile da ricordare perchè nel Natale del 1830 una
locomotiva, The best Friend of Charleston fece il primo viaggio della storia con passeggeri a bordo,
nella Carolina del Sud>>. <<Eh, come no -replicò sarcasticamente Dino- è facile! “Il miglior amico di
Carolina”>>, mentre ormai si sentiva pervadere da un inevitabile senso di rassegnazione. A Marchetti
la eccentricità e la mania della cultura anglosassone non sarebbero passate mai, era inutile discutere,
invece domandò: <<Come hanno comunicato il luogo dell’ appuntamento?>>. <<Credo in due modi, il
luogo è stato comunicato nel corso di una trasmissione radio, la data con un corriere, ma non so chi era
il destinatario>>. <<Ah, -disse Dino- forse ho un’ idea>>. Marchetti era soprappensiero, girato a
guardare un indigeno in bicicletta, e non percepì la frase, e Dino pensò che non era il caso di insistere.
Ormai erano in vista del bar, e sarebbe stato pericoloso parlare, ed inoltre poteva essersi sbagliato alle
15:00 del 21 Marzo, quando aveva sentito quella trasmissione Radio a Massaua. Ammettere che quella
trasmissione era un segnale significava ammettere che le complicità ad altissimo livello, addirittura di
chi poteva decidere sulla programmazione delle trasmissioni. Dino fece una ultima osservazione:
<<ma se c’è di mezzo Aleardi non è rischioso che io mi faccia vedere in giro a rischio di far subdorare
la trappola?>> <<si -ammise Marchetti- d’ altro canto è un rischio che dobbiamo correre, perchè tu sei
quello che lo conosce meglio e può individuarlo anche sotto travestimento. Ovviamente stai appartato
e sali sul treno solo al momento della partenza>>. Entrarono nel bar, e chiesero qualcosa di alcolico e
molto caldo. Era domenica sera, ed ovviamente c’ erano pochissimi avventori. Dopo un po’ Dino e
Marchetti si affacciarono nel saloncino posteriore, dove c’ era un tavolo di biliardo, ed il padrone, ,
stava giocando a bocce con ad un altro tizio, piuttosto piazzato di circa 30 anni, in camicia nera,.
Quando entrarono i due stavano discutendo animatamente sulla possibilità che l’ Italia entrasse in
guerra. Il padrone quando li vide entrare si precipitò a presentarli: <<Il Dottor Marchetti, capo dell’
Ufficio Di Programmazione e Sviluppo, il Dottor Tatti, Ispettore Capo, il Federale Francesconi, che ci
porta notizie tranquillizanti da Roma. Sembra che il Duce riuscirà a ristabilire ancora una volta la pace,
con il suo peso personale alla Società delle Nazioni>>. Il Federale annuiva, ed aggiunse: <<e se mai
entreremo in guerra, sarà una guerra lampo, e la gloriosa bandiera d’ italiana svetterà su tutte le terre
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che i figli della Lupa sapranno conquistare>>. Fecero anche una partita a bocce, ed il Fedrale perse.
Verso le 23 tornarono tutti a casa, il Federale in una direzione, Dino e Marchetti nell’ altra. Mentre si
allontanavano Marchetti afferrò Dino sotto il braccio, e gli disse a bassa voce: <<senti, ti sei impresso
bene in mente la fisionomia di quella testa di cazzo>>. <<Si, certo -borbottò Dino- io quello di sicuro
me lo ritrovo il 12 sul treno!>>.
Il 10 Giugno Mussolini dichiarò guerra agli Alleati. Seguirono giorni convulsi, anche se in
verità tutti si aspettavano la notizia. Dino passò la giornata dell’ 11 a fare sopralluoghi per le
concessioni edilizie nel quartiere nero, per cercar di carpire informazioni utili, ed in particolare se
qualcuno aveva visto in giro il Federale, ma non gli riuscì di avere informazioni.
Mercoledì sera, il 12 Giugno 1940, Dino arrivò in stazione alle 18,quando il cielo era ormai
scuro, e tirava un vento gelido che proveniva dall’ Acrocoro, e si sedette su una panchina, leggendo
distrattamente il giornale, mentre studiava i viaggiatori che arrivavano. C’ era una pioggerella sottile
ed insistente che lo costrinse a restare sotto una pensilina. I passeggeri cominciarono ad arrivare alla
rinfusa verso le diciassette e trenta. Arrivarono per primi molti neri carichi di sacchi, che salirono nei
vagoni di coda, e dopo dieci minuti arrivarono le famiglie dei funzionari, che Dino conosceva
perfettamente. I mariti in testa al gruppetto, in mezzo i bambini, ed in fondo le mogli, che chiudevano
il corteo, controllando la prole. Le signore si salutavano tra loro, lanciandosi reciprocamente sguardi di
odio, sopratutto se avevano un cappellino od un vestiro simile. Dino controllava attentamente tutti
quelli che si avvicinavano al treno, ed in particolare ovviamente tutti gli uomini soli. Tenne
mentalmente il conto di coloro che arrivavano, il Ragionier Simonetti del catasto, con famiglia, il
Geometra Callegaris, con la moglie ( non avevano figli anche perchè lui era notoriamente impotente,
un “matrimonio bianco!”), il Dottor Cipollini titolare di una azienda importatrice di frutta dalla
madrepatria, e signora, con due figli, La Signorina Sanguinetti, 52 anni, presumibilmente illibata,
anche perchè molto brutta, il Ragionier Ricciuti, da solo, perchè notoriamente omosessuale, il
Magistrato Secchi con un figlio e la moglie, il Cavalier Aristide Checchi con due figli, e senza la
moglie perchè era scappata con il garzone della pasticceria, un sacerdote sconosciuto, due uomini
bianchi dall’ aspetto dimesso, probabilmente operai, l’ uomo che gli aveva passato il messaggio a
teatro, e come previsto, il Federale Francesconi. Tutti avevano una valigetta sospetta, ed anche i due
operai avevano delle borse che avrebbero potuto contenere soldi. Dino aspettò fin che il capotreno non
si mise in cammino verso la motrice con la paletta verde in mano, ed a sua volta si avviò, cercando di
non farsi notare, per salire sull’ ultima delle sei carrozze. Mentre saliva, vide arrivare trafelato
Aleardi, con una valigetta nera, che si infilò sbuffando nella quarta carrozza, e scomparve
immediatamente alla vista. Il treno si mise lentamente in moto, e Dino riepilogò tra se quelli che aveva
visto salire a bordo. Cinque famiglie (Simonetti, Callegaris, Cipollini, Secchi, Checchi), e due “soli”,
Ricciuti e la Sanguinetti. Esclusi questi, che era improbabile che entrassero nel gioco di spie, restavano
i sospetti, cioè, Aleardi, il Sacerdote, Francesconi, l’ uomo del teatro ed i due operai. Una volta tolto l’
uomo del teatro restavano cinque persone. Aleardi era certamente implicato nel complotto, ma chi era
l’ altro traditoretra i quattro restanti? E se le informazioni di Marchetti fossero state sbagliate, e sul
treno invece di due ci fossero stati più traditori? Dino sedette in uno scompartimento del sesto
vagonedove c’ erano dei notabili neri, e cominciò a parlare con loro in amarico. Dopo pochi chilometri
il treno prese velocità, e contemporaneamente, mentre stava scendendo il buio, iniziò una pioggia fitta.
grosse gocce colpivano il vetro dei finestrini, e scivolavano in rivoli verso l’ angolo inferiore. Non c’
erano stelle, solo un pallido quarto di luna, che metteva in risalto il profilo spettrale delle montagne.
Dino, pur continuando a parlare, non aveva mai perso di vista il corridoio, e non aveva notato alcun
movimento sospetto. Il viaggio doveva durare tre ore, ma era necessario individuare subito Aleardi, ed
il suo contatto, prima che si scambiassero la valigetta, e decise di entrare in azione. Salutò tutti, ed uscì
nel corridoio ingombro di neri e delle loro valigie. Si fece strada verso il quinto vagone, scavalcando
gli ostacoli. Mentre passava controllò l’ interno degli scompartimenti, ma non c’ erano uomini bianchi.
Salì sul predellino di comunicazione, ed entrò nel quinto vagone. Anche lì c’ erano
moltissimi indigeni buttati per terra nel corridoio, e Dino dovette nuovamente scavalcarli, mentre
scrutava all’ interno degli scompartimenti. Vide la famiglia Secchi e la famiglia Cipollini
rispettivamente nel quinto e nel terzo scompartimento. Mentre stava per passare nel quarto vagone
vide arrivare il controllore, che precedeva la Signorina Sanguinetti, agitatissima, perchè secondo Lei
dei neri le avevano occupato il posto. Il bigliettaio squadrò Dino domandando: <<mi scusi signore,
posso chiederle il biglietto>>. Dino lo porse in silenzio, e quello, guardandolo, proseguì: <<scusi, mi
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pare che il suo sia un viso conosciuto, Lei dovrebbe essere il migliore amico di Carolina Saccardi>>.
<<Si, -confermò Dino- sono il miglior amico di Carolina, in quale posto devo andare?>>. <<quarto
vagone, terzo scompartimento, signore, ci sono passato due minuti fa, ed ho visto un altro signore con
una valigetta. Ho avvisato anche l’ altro passeggero>>. Ovviamente l’ altro passeggero era l’ agente
che aveva conosciuto la sera a teatro. Dino proseguì per il quarto vagone. Entrato nel quarto vagone
superò dei bagagli, un bambino nero gettato a terra nel corridoio, ed il padre che beveva il caffè, e
scrutò dentro il settimo scompartimento, dove c’ erano i due operai, o presunti tali, che addentavano
voluminosi panini estratti dalle borse. Proseguì nel corridoio, e nel quinto scompartimento vide la
famiglia Checchi, con i due figli scatenati, che stavano mettendo a soqquadro tutto. Giunse al terzo
scompartimento , ma dentro c’ era soltanto un notabile nero di alto rango. Di Aleardi nessuna traccia.
invece vide una copia del Corriere della Sera del giorno prima, il Martedi 11 Giugno 1940, buttata su
un sedile. Aprì la porta, e chiese al nero seduto vicino al finestrino: <sa di chi è?>. l’ uomo stava
sgranando un rosario, ma rispose prontamente: <<un uomo bianco che era seduto prima qui lo ha
lasciato. Penso che il sedile sia libero>>. Dino sedette, prese il giornale e lesse il titolo della prima
pagina:
Il Sovrano affida al Duce il comando delle operazioni
Nella spalla c’ era il proclama del Re Imperatore: “Soldati di terra, di mare e dell’ aria......”. In centro,
vicino alla foto del Duce che parlava dal balcone di Palazzo Venezia in un riquadro lesse: “La parola
d’ ordine:Vincere”. Qualcosa lo colpì, ed osservò con più attenzione, sotto alcune lettere c’ erano dei
segni particolari, tratti di penna, o forellini piccolissimi fatti probabilmente con la punta di una matita.
Nel secondo capoverso, “Un’ ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria: l’ ora delle
desisioni irrevocabili”, mettendo insieme le lettere segnate si leggeva “secondo”. Più sotto, dove si
leggeva “Bastava rivedere i Trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle Nazioni e
non considerarli intangibili per l’ eternità. Bastava non iniziare la stolta politica delle garanzie che si
è palesata sopratutto micidiale per coloro che le hanno accettate”, mettendo insieme le lettere si
leggeva vagone.<<E’ una cosa piuttosto ingenua, pensò Dino, ma tutto sommato adatta a quell’
imbecille di Aleardi, però è assurdo che abbia lasciato in giro un messaggio così, a meno che non si
senta molto sicuro di non essere seguito>> Continuò a leggere per cercare altre tracce, poi, siccome
non trovava nulla, osservò ad alta voce:<<questo giornale è di ieri, però mi sembra che qui ci fosse
anche un altro signore, con una valigetta ed un altro giornale, forse un giornale di oggi. Hai visto dove
è andato? >>. Il nero annuì, e rispose: <<ho visto un prete, che è andato via con l’ uomo che era seduto
qui, ma non mi sembra che avesse il giornale. Comunque sono andati tutti e due in avanti>>. E puntò
il dito in direzione della motrice. Dino non si trattenne: <<boia!>>. Era chiaro che lo scambio di
valigette era già stato effettuato, e bisognava sbrigarsi a trovare tutti e due ed arrestarli. Salutò il nero
dicendogli <<Buon viaggio, amico mio>> ed uscì rapidamente dal vagone dirigendosi verso le
carrozze di testa. Nel secondo scompartimento c’ era il geometra Calligaris con la moglie, che
guardavano con attenzione un giornale aperto, e negli altri soltanto neri. Passò nel terzo vagone, e nell’
ottavo scompartimento vide la famiglia Simonetti, in conversazione con il Federale Francesconi. A
Dino sembrò che il Federale fosse particolarmente interessato alla Signora Simonetti, ma non perse
altro tempo, e proseguì. Superò il predellino che collegava il terzo al secondo vagone, ed incontrò l’
uomo del teatro che andava nella direzione opposta. <<Dov’ è Aleardi?>>, gli domandò. <<In questa
carrozza, nel secondo scompartimento, ma deve aver dato già la valigetta al federale, perchè non ce l’
ha più>>, disse l’ altro. <<No, lo hanno visto col prete>>, replico Dino>>. <<Io lo ho visto col
federale -sbottò l’ altro- ma a chi cazzo ha dato sta valigetta?>>. <<blocchiamoli tutti e tre, io penso ad
Aleardi>>, disse Dino, che non vedeva l’ ora di mettergli le mani addosso, e scattò velocemente in
avanti. Nel quinto scompartimento vide la famigliaSecchi, completamente addormentata, e nel quarto
Ricciuti, l’ omosessuale, anche lui riverso sul divano a dormire. Oltre il finestrino si vedevano alla
pallida luce lunare le montagne di Ghindae, il che significava che erano quasi a metà strada. Nel terzo
scompartimento c’ erano due Abouna che leggevano, e proseguì. Arrivò all’ altezza del secondo
scompartimento, e lo vide a malapena illuminato dalle luci di cortesia, ma c’ era sicuramente solo un
uomo all’ interno. Il corridoio era deserto. Spalancò la porta dello scompartimento e la richiuse subito
dietro di se mentre impugnava la pistola, e vide Aleardi seduto vicino al finestrino, con il cappello
calato sulla testa, evidentemente addormentato, perchè il libro che stava leggendo gli era caduto sulle
ginocchia. Dino girò rapidamente lo sguardo intorno, ma non vide la famosa valigetta che pure gli
aveva visto in mano quando era salito sul treno, e riportò immediatamente gli occhi sull’ uomo seduto,
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puntò con la mano destra la pistola, e con la sinistra lo colpì ad una spalla per svegliarlo. Aleardi
ruzzolò in avanti, e Dino vide sulla tappezzeria, dal lato del finestrino una grossa chiazza di sangue.
Tolse il cappello all’ uomo e scoprì il pallore estremo del suo viso, una vasta emorragia sulla sinistra
del collo e del torace, e si rese conto che qualcuno lo aveva ucciso tagliandogli i vasi del lato sinistro
del collo. Fece dietro front, vide che il corridoio era libero, ed uscì dallo scompartimento correndo in
avanti verso il vagone di testa, per bloccare il prete. Nel primo scompartimento di quel vagone vide
solo neri addormentati. Giunse alla prima carrozza, ma era la carrozza ristorante, e l’ ingresso era
ancora ermeticamente chiuso. Ma dove era finito il prete? tornò indietro. Nel quarto scompartimento
del secondo vagone Aleardi giaceva ancora piegato su se stesso, a malapena visibile alla fioca luce.
Nessuno se ne era accorto. Proseguì nel corridoio e vide Ricciuti che continuava a dormire,disteso a
faccai in giù sul divano, ma di fronte a lui c’ era l’ agente che aveva conosciuto a teatro. Guardò verso
i due lati del corridoio e non vide nessuno, allora entrò. I due uomini rimasero immobili nella loro
posizione, tranne che per lo sballottolamento del treno, ed in un attimo si rese conto che erano stati
entrambi strangolati. Uscì inorridito dallo scompartimento, stringendo il calcio della pistola, e tornò
indietro sino all’ ultimo vagone, ma del prete non c’ era traccia. Gli altri erano tutti al loro posto,
immobili, per la maggior parte addormentati, tranne qualcuno che giocava a carte, ed il federale che
continuava a fare la corte alla Signora Simonetti. Ispezionò le toilettes, ma anche li non c’ era. Eppure
il prete era salito, e lo aveva visto anche il nero con cui aveva parlato prima. si appoggiò al finestrino e
si mise a riflettere: i preti, finto o no che siano, non svaniscono nell’ aria! O era finito fuori dal treno
in corsa, o accidentalmente o spinto, o era ancora sul treno, ma era irriconoscibile. In teoria poteva
anche essere nascosto, ma dove? Non c’ erano neppure carrozze letto. Il capotreno, che era il terzo
uomo dell’ intelligence, gli venne incontro uscendo da un bugigattolo alla fine del vagone, dicendogli:
<<il prete non si trova, ho chiesto a tutti, ma nessuno sa dove cazzo è finito!>>. Dino lo informò:
<<nel secondo scompartimento c’ è stato un eccidio. Aleardi sgozzato, il nostro agente e Ricciuti,
quell’ omosessuale, sono stati strangolati>>. L’ altro sbarrò gli occhi: <<sei sicuro?>>. <<al cento per
cento, ovviamente>>. <<Salvo che siano stati i neri, può essere stato solo il prete>>. <<Un uomo solo,
non mi pare possibile>>, fece osservare Dino. Il capotreno scrollò le spalle: <<i due uomini con la
sacca del quarto vagone non si sono mai mossi, ne sono certo perchè li ho sorvegliati>>. <<E il
federale? Il nostro agente che è stato ucciso inseguiva lui>>. <<Siamo razionali -disse il capotrenorimangono in circolazione quattro sospetti, i due operai o cosa cazzo sono, ed il Federale, e sopratutto
il prete, ed in più non sappiamo nulla della valigetta. Restiamo insieme, ed andiamo a sigillare il
secondo vagone, così nessuno si accorgarà di nulla, per adesso>>. <<Si, andiamo -confermò Dino.
Ripercorsero velocemente il treno, in cui tutti dormivano o leggevano immobili ai loro posti,
stranamente silenziosi. Anche i bambini non davano fastidio, ma dormivano in braccio ai genitori, o
giocavano quietamente sul sedile. Superarono il bambino del corridoio del quarto vagone, che dormiva
in braccio al padre sdraiato per traverso in terra, e videro nel settimo scompartimento i due presunti
operai che giocavano a carte. Il controllore aprì lo sportello del loro scompartimento, e disse,
indicando Dino: <<avete per caso visto un libro del signore?>> <<nu tenimmo niente accà,
comandante>>, rispose uno dei due. Le borse erano aperte, una in terra ed una sul sedile ed
apparentemente non contenevano soldi, e non c’ era traccia di valigette. Il controllore chiuse la porta
ringraziando e proseguirono.
Nella terza carrozza il Signor Simonetti ronfava sul sedile, con uno dei figli in braccio,
mentre l’ altro ragazzino dormiva disteso per lungo sul sedile. Il federale Francesconi e la Signora
erano spariti.
Corsero avanti, ed alla fine del corridoio, come aveva fatto sino a quel punto, il controllore
spalancò con violenza la porta della toilette. Dentro c’ era la Signora Simonetti in una posa
inequivocabile, mugolava china sul lavabo, con la sottana sollevata sino alla cintola, e le mutandine
alle ginocchia, ed alle spalle aveva il federale, nella posa complementare, che mugolava pure lui. I due
li guardarono terrorizzati, ed il controllore sbuffò <<continua a vomitare, brutta vacca, e tu aiutala!>>,
poi richiuse la porta con violenza. Ripresero a correre, ma fecero in tempo a sentire la voce stridula
della Simonetti, che diceva: <<brutto stronzo, ti sei scordato di chiudere la porta del cesso!>>.
Entrarono nel secondo vagone, e chiusero con la chiave di sicurezza la porta
intercomunicante: era tutto silenzioso e tranquillo,
c’ erano neri addormentati in tuttigli
scompartimenti, e la famiglia Secchi era immersa nel sonno profondo. Entrarono nel quinto
scompartimento. Il controllore si diresse verso l’ agente della intelligence, e Dino girò Ricciuti, e
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rimase esterrefatto <<questò è l’ inpermeabile di Ricciuti, ma il morto è il prete!!>>. <<ecco perchè
non si trovava>>, sbottò il controllore. Uscirono nel corridoio, e Dino disse: <<è chiaro che il prete
aveva ricevuto la valigetta da Aleardi, e probabilmente lo ha anche ammazzato. Poi deve avere avuto
una colluttazione con il nostro agente e lo ha strangolato, ed infine Ricciuti ha ammazzato lui>>. L’
altro scosse la testa: <<non ci sarebbe riuscito da solo, deve avere un altro complice>>. <<Va bene,
ammettiamo che Ricciuti abbia avuto dei complici, ma non possono essere dei bianchi>>, replicò
Dino, poi, dopo un attimo di silenzio lo fissò negli occhi, e tirò fuori l’ idea: <<gli abouna! Marchetti è
stato informato male! >>. Spalancarono la porta del terzo scompartimento, che era in mezzo tra i due
dove eranostati perpetrati gli omicidi. C’ era uno solo dei due preti, e Dino gli puntò la pistola
addosso, mentre il capotreno lo frugava. L’ Abouna aveva indosso una pistola, la corda che
presumibilmente era servita per strangolare i due uomini, ed il pugnale insanguinato con cui
verosimilmente aveva sgozzato Aleardi. <<Dove è andato il tuo compare?>> gli chiese a denti stretti il
capotreno. L’ Abouna inizialmente non rispose, ma quando l’ uomo gli piazzò il coltello insanguinato
sulla gola fu esplicito: <<vagone ristorante. Dino intanto gli aveva legato le mani diertro la schiena, e
gli infilò un fazzoletto in bocca, poi uscì precipitosamente dal vagone insieme con il controllore. Il
secondo Abouna stava rientrando dalla carrozza ristorante, che era collegata al resto del treno con un
pericolosissimo predellino senza barre laterali, con una valigetta in mano. Il controllore gli sparò al
braccio, e l’ uomo la mollò, fece dietrofront e corse sul predellino di comunicazione, verso la carrozza
ristorante, e scomparve nel vuoto con un urlo. Il controllore si gettò sulla valigetta dicendo. <<Quel
testa di cazzo che è cascato dal treno la aveva nascosta nel vagone ristorante, ed adesso che stiamo
arrivando la aveva recuperata>>. La aprì, vide che era piena di soldi, la richiuse, e la dette a Dino
dicendogli <<io adesso aziono il freno di emergenza, tu scappa lungo i binari, tanto siamo ad un due
chilometri dalla stazione>>. Dal quinto scompartimento saltò fuori la famiglia Secchi, dagli altri i neri
che dormivano. Qualcuno aveva tirato l’ allarme, ed il treno si bloccò con un forte stridore. Dino era
ormai sul predellino di comunicazione della carrozza ristorante, e saltò a terra facilmente, e scappò
correndo. La stazione di Cheren era già in vista, a circa centocinquanta metri. Riuscì ad allontanarsi,
mentre arrivava una gran folla di gente, ed alcuni carabinieri, che avevano visto l ‘improvvisa fermata
del convoglio da lontano, e si allontanò verso una strada polverosa che fiancheggiava la stazione.
Mentre camminava ripensò all’ accaduto. Che cosa poteva essere successo su quel treno? Era evidente
che qualcosa era andato storto nel piano dei traditori. Molto probabilmente i due Abouna facevano
parte di una organizzazione nazionalistica destinataria dei soldi, ed erano intervenuti per bloccare il
piano di cui gli aveva parlato molto tempo prima Zeaidita, quando gli aveva riferito che “in realtà il
progetto di questi uomini è di impadronirsi dei soldi”. Dino si ricordava le parole esatte della ragazza.
Riflettendo sull’ accaduto si poteva supporre che i neri avessero saputo del tentativo di far sparire i
soldi prima che arrivassero nelle mani del fronte nazionalista, e fossero intervenuti a riprenderseli. Era
impossibile capire cosa fosse successo, solo interrogando l’ Abouna scampato al massacro, e l’
omosessuale Ricciuti, se si trovava, si poteva risolvere il rebus, e quello era compito di Marchetti. Lui
intanto doveva trovare il modo di tornare ad Asmara con i soldi, senza incappare nelle mani dei
carabinieri, dei banditi o dei rivoltosi. Dopo l’ eccidio sul treno i controlli sarebbero stati certamente
intensificati, e quindi la sola possibilità era percorrere gli ottanta chilometri circa, per la maggior parte
di strada non asfaltata, con qualunque mezzo, partendo immediatamente, prima che si istituisse
qualsiasi posto di blocco. Dino proseguì lungo il viottolo, cercando di allontanarsi dall’ abitato. A
sinistra vide il forte di Cheren illuminato da alcuni fari, e più in basso, illuminata dalla luce lunare, la
muraglia, in parte diroccata. Sotto qualche luce sparsa sulla piana, che indicava il villaggio. Era già
stato a Cheren, e si orizzontò senza grosse difficolà. Proseguendo in quella direzione avrebbe
certamente incontrato qualche capanna di pastori.
Camminò ancora a lungo con la valigetta nella sinistra e la destra sul calcio della pistola,
cercando di non perdere il sentiero scarsamente visibile alla fioca luce che penetrava dai rami degli
alberi. Ogni soffio di vento lo faceva sussultare, ed il freddo era diventato insopportabile. Cominciava
a sentire i piedi e le mani gelate. Guardò l’ orlologio, e tirò un accidenti. Nella trambusto doveva avere
dato un colpo contro qualcosa e si era rotto, perchè continuava a segnare le ventitrè, l’ ora in cui
avevano sorpreso gli abouna. Ormai stava per spuntare l’ alba, e Dino iniziò a domandarsi se per caso
aveva sbagliato direzione. Perdersi poteva significare anche giocarsi la pelle. Poi improvvisamente
intravvide un tucul, davanti al quale finivano di bruciare i resti di un fuoco acceso probabilmente la
sera precedente per allontanare gli animali, e bussò. Gli venne ad apire un indigeno sospettoso, acui
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chiese ospitalità a pagamento. L’ uomo lo squadrò a lungo, probabilmente per capire se aveva soldi,
poi gli disse: <<si, puoi dormire lì, domani ti accompagnerò con la mia moto a prendere il treno>>.
Dino spalancò gli occhi: <<tu hai una moto?>>. <<si>>, disse l’ uomo, e dalla spiegazione che dette a
Dino parve di capire che era un sidecar, e gli propose di acquistarla. L’ indigeno cambiò faccia, perchè
aveva visto l’ affare, e doveva avere capito che Dino non aveva molte scelte. Il mercanteggiamento
durò a lungo, ma alla fine Dino spuntò un prezzo ragionevole, anche se non proprio vantaggioso, per
un residuato bellico che il contadino era riuscito ad occultare, probabilmente durante la guerra di
conquista del 1935. Era un vero ferrovecchio spacaossa, con le gomme piene, ed ovviamente, lisce.
Dino prese la moto, e partì, e pagò profumatamente il pieno, ed una tanica di benzina di scorta.che
probabilmente l’ uomo aveva rubato in qualche magazzino. Aveva molta fretta di allontanarsi da
Cheren, perchè era sicuro che il padrone della moto avrebbe denunciato la sua presenza ai carabinieri,
e non aveva nessun interesse ad essereidentificato. Guidò senza interruzione sino a che comparvero le
luci dell’ alba, fino ai primi tornanti delle catene montuose, e li si fermò, in vista di alcune casupole di
pastori, e bussò alla porta sconquassata di una di queste. Da tempo immemorabile gli abitanti della
zona non vedevano alcun forestiero, ed all’ inizio lo guardarono con sospetto. Però Dino conosceva l’
Amarico, e già questo li tranquillizzò, e dopo qualche ora lo considerarono un amico. Lo fecero
mangiare con loro, e Dino regalò un bel po' di talleri. Poi, dopo aver mangiato, parlarono del tempo e
della pastura, ed alla fine lo misero a dormire su un giaciglio di paglia, che era il luogo più
confortevole di quelle povere abitazioni di fango e pietre. Sempre meglio che dormire all’ aperto!
Dormì li, e si rimise in movimento la mattina dopo. Dovette girare intorno alle catene montuose, ma
non ebbe particolari problemi, e la sera del quarto giorno rientrò ad Asmara. Erano le diciannove
quando entrò in città, facendo un giro largo, attraverso il villaggio Mussolini, dove acquistò un casco
che gli nascondeva gran parte del viso, ed un orologio. Entrare in casa subito poteva essere molto
pericoloso, perchè non sapeva nulla di quanto era accaduto dopo la sua fuga dal treno, ed i congiurati
potevano aver capito che la valigetta con i talleri era nelle sue mani. Andò direttamente alla capanna di
Gellafos, e trovò l’ uomo che stava rientrando in quel momento. Quando lo vide il viso gli si illuminò
dalla gioia: <<padrone, cosa posso fare per te?>>. <<puoi fare molto, amico mio, devi andare a casa
mia con il tuo carro a consegnare del pane, ed io sarò nascosto dietro, dove metti il ragazzino a spiare.
Poi entrerai, parlerai con Rahma, e ti accerterai che non ci sia nessuno ad aspettarmi, e tornerai al carro
a dirmelo>>. <<Hai paura di qualcosa padrone? Posso chiamare altri uomini>>. <<No, Gellafos,
semplice prudenza, ma tu devi aiutarmi. Poi, dopo che mi hai lasciato andrai a casa del Dottor
Marchetti, e porterai anche a lui del pane, e gli dirai che Dino lo sta aspettando a casa sua>>. Gellafos
lo guardò sorpreso e chiese: <<Marchetti è l’ uomo che amava Zeaidita?>> <<si, esattamente lui>>.
<<È un uomo buono, padrone?>>, insistette ancora Gellafos. <<Si, te lo assicuro, e mi fido di lui>>.
<<Allora farò come dici padrone -concluse Gellafos-, ma perchè tutto sia normale porterò il pane la
mattina presto, appena il sole salirà da sotto la terra>>. Dino calcolò che sarebbero state le cinque e
Gellafos ce la avrebbe fatta ad arrivare a casa di Marchetti per le sette, prima che il direttore uscisse
per andare in ufficio.
Tutto andò come previsto, ed alle cinque e quaranta Dino arrivò a casa, senza difficoltà. La
cameriera, Rahma, lo stava aspettando ansiosamente, e da una settimana gli preparava inutilmente la
cena. Nonostante la stanchezza cercò subito, sui giornali che Rahma gli avevaconservato, qualche
notizia sull’ assassinio del treno.
I giornali titolavano drammaticamente “LA STRAGE DEL TRENO PER CHEREN”, ma
non vi era accenno alla valigetta, ne ai soldi. La interpretazione accreditata era che i due abouna erano
probabilmente dei fanatici reliosi con forti sentimenti anti-italiani che avevano assassinato il Ragionier
Aleardi, un integerrimo funzionario statale di Asmara, un tale Signor Altobelli, un uomo di dubbia
reputazione, con all’ attivo alcune condanne per truffa, che girava vestito da sacerdote, ma che si era
riscattato tentando di difendere i suoi compagni di viaggio dalla violenza degli assassini, il Signor
Eleuteri Antimio, funzionario del governo di Addis Abeba, che occupava lo stesso vagone del falso
prete, ed il Sig. Ricciuti, un piccolo impresario edile, che era stato pugnalato e gettato dal treno. Solo l’
intervento del coraggioso capotreno e del federale Francesconi, che viaggiva in un’ altra carrozza
attigua, avevano permesso di fermare gli assassini, uno dei quali era morto cadendo dal treno. Seguiva
una intervista al Federale Francesconi che raccontava il proprio eroico intervento, ed alla signora
Simonetti, che era nel corridoio, perchè si sentiva male per l’ ondeggiamento del treno, ed aveva visto
il federale uscire dal vagone, e correre nel corridoio in soccorso del capotreno. Anche il marioto,
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Signor Simonetti, ricordava e confermava quello che aveva visto la moglie, ed apprezzava il coraggio
del Federale. Il magistrato Secchi non faceva dichiarazioni perchè la fase istruttoria era in corso. In un
altro giornale trovò che le indagini erano state affidate al sottufficiale dei carabinieri Claudio Rossi.
Dino sorrise, Claudio Rossi era l’ uomo di Marchetti, quello che aveva trovato i rapitori di Zeaidita, e
questo significava che il Direttore era riuscito a tamponare i danni di quella operazione parzialmente
fallita. Dino smise di pensare e buttò sul letto a dormire, con i giornali sparsi in terra.
Alle otto e trenta venne risvegliato da Rahma che bussava alla porta della stanza da letto che
Dino aveva prudentemente barricato. La donna lo informò che era arrivato il Direttore, e Marchetti
fece sentire la propria voce, ad ulteriore conferma. Dino, ancora mezzo addormentato tolse i mobili di
mezzo, ed aprì la porta. Marchetti era piuttosto teso, ma molto affabile, ed esordì dicendogli: <<sono
stato molto in pensiero per te, purtroppo c’ è stato un imprevisto su quel treno>>. Dino lo interruppe:
<<prima di tutto pensiamo alla sicurezza, io ho una valigetta piena di soldi, e dobbiamo metterla al
sicuro>>. <<Stai tranquillo -lo rassicurò il Direttore- ci sono sei uomini qua fuori a controllarci, non
succederà nulla>>. Si aggiustò nella poltrona, poi riprese, indicando i giornali buttati in terra: <<come
hai sicuramente letto sono riuscito a far affidare l’ indagine a Claudio Rossi, e quindi a passare alla
stampa una versione di comodo, il passaggio dei soldi per merito tuo è stato bloccato, ma purtroppo
non mi è riuscito di far venire allo scoperto i congiurati>>. Dino lo guardò con interesse: <<cioe?>>.
<<la ricostruzione che Rossi ha fatto dell’ accaduto presenta alcuni punti bui, ma ci sembra nell’
insieme attendibile. Su quel treno è salito Aleardi, che portava la valigetta con i soldi che avrebbe
dovuto consegnare al falso prete, che non era affatto un ladruncolo, come riporta la versione dei
giornali, ma un ex capitano del Genio guastatori, ufficialmente in pensione, ma disponibile per l’ Alto
Comando, ovviamente dietro compensi discreti. L’ uomo aveva in tasca degli indirizzi di banche, e
delle istruzioni ben precise per far sparire i soldi>>. <<Cioè -disse Dino- la soffiata di Zeaidita era
giusta, quei soldi non dovevano andare ai ribelli>>. <<No, io penso che, con un giro piuttosto
complesso, sarebbero finiti nelle tasche di Pesenzani. Tu sai che Zeaidita adesso è in Svizzera, e mi ha
informato di recente sulle possibilità di far sparire quei talleri con operazioni bancarie complesse>>.
Dino incalzò: <<va bene, ma torniamo al treno>>. << l’ Altobelli, che si chiamava in realtà Altimari,
ha probabilmente preso la valigetta con i soldi da Aleardi, e poi lo ha sgozzato, forse per ordine dello
steso Pesenzani, che non lo sopportava più perchè era un buono a nulla, combinaguai>>. Dino lo
interruppe: <<ma sono stati gli Abouna. Il coltello lo avevano loro!>>. <<lo hanno portato via ad
Altimari dopo che lo hanno ammazzato, fammi finire, se no non puoi capire. Dopo avere eliminato
Aleardi, Altimari è tornato nel vagone a fianco, e ci ha trovato Ricciuti, e lo ha accoltellato per
eliminare un incomodo. A quel punto è entrato in scena l’ uomo che hai conosciuto a teatro, ed ha
puntato la pistola su Altimari per bloccarlo. Infatti quando voi siete entrati nello scompartimento avete
trovato i due seduti uno davanti all’ altro.>> <<si, ma erano stati strangolati, non è mica facile
strangolare due uomini grandi e grossi, e per di più uno era armato di pistola!>>. <<Su questo l’
Abouna sopravvissuto è stato preciso. Sono entrati improvvisamente nello scompartimento, mentre il
mio uomo teneva sotto tiro Altimari, ed imprudentemente volgeva le spalle alla porta che non aveva
neppure chiuso, lo hanno colpito alla nuca, e gli hanno tolto la pistola. L’ Altimari all’ inizio ha
creduto che i due volessero aiutarlo, e non ha approfittato del momento favorevole per fuggire, ed ha
sbagliato perchè i due neri hanno strangolato sia lui che il mio uomo>>. <<Si, obiettò Dino, sembra
tutto verosimile, ma ho qualche punto oscuro. Perchè hanno scambiato l’ impermeabile ai cadaveri,
perchè hanno fatto sparire Ricciuti, perchè erano li, e perchè era li Ricciuti.>>. <<in realtà avrebbero
fatto sparire tutti i tre caaveri se avessero avuto tempo, ma voi siete arrivati in quel vagone mentre
erano appena all’ inizio della operazione. In quanto all’ impermeabile la questione è complessa.
Avevano fatto sparire il cadavere di Ricciuti per primo perchè era stato accoltellato, e temevano che gli
uscisse sangue e facesse una chiazza che sarebbe stata facilmente individuabile, quindi lo hanno
trasportato sino al passaggio tra il secondo vagone e la carrozza ristorante, e lo hanno buttato sui
binari, ed in effetti il cadavere maciullato è stato ritrovato a cinque - sei chilometri dal luogo dove si è
fermato il treno. Hanno buttato l’ impermeabile su Altimari per coprirgli la faccia quanto più era
possibile, in modo che ad un osservatore occasionale potesse sembrare addormentato. Avevano anche
girato la faccia del mio uomo verso il finestrino per lo stesso motivo. I due Abouna erano militanti del
fronte patriottico ed erano li per sorvegliare il movimento della valigetta, dato che da Kartoum gli
avevano inviato una precisa soffiata sul pericolo che i soldi potessero essere trafugati. Quando hanno
visto Altimari che sgozzava Aleardi hanno capito che qualcuno voleva fregare il fronte
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indipendentista, e sono entrati in azione>>. Dino si rilassò e domandò: << a titolo di pura curiosità,
resta da chiarire il ruolo di Ricciuti>>. Marchetti alzò le spalle: << non sappiamo bene, perchè i due
protagonisti della vicenda sono morti, ma si conoscevano bene perchè erano due finocchi...>>. <<ma
come.... Aleardi.., il puttaniere?>>, domandò Dino con aria sorpresa. <<Macchè puttaniere, pagava
qualche sharmutta per non fare brutta figura, ma era un finocchio incorregibile, e Ricciuti era un suo
amichetto. Forse avevano deciso di scappare insieme con i soldi e Ricciuti doveva aiutarlo ad uccidere
Altimari, forse Ricciuti lo aveva solo seguito per gelosia, chissà. - Il direttore rimase un attimo in
silenzio, poi proseguì- hai lavorato sodo e sei stanco morto. Io porto via la valigetta, e vedrò il da
farsi, visto che purtroppo abbiamo risolto il problema solo a metà. I soldi sono stati recuperati, ma l’
organizzazione dei traditori è ancora in piedi ed attiva, appena sfiorata dall’ incidente. Tutti quelli che
potevano parlare e smascherare il complotto dei militari sono morti>>. Si alzò, mise il cappello in
testa, e si avviò verso la porta. Dino, che solitamente era molto formale, gli fece un ciao con la mano, e
si addormentò come un macigno nella poltrona.
La mattina del 10 Settembre Dino si svegliò presto e guardò il calendario. Era una mattina
tiepida di primavera, ed era tempo di andare alla Società di Import Export di viale De Bono. Ci arrivò
verso le 10, entrò con il solito rituale, e vanne scortato sino all’ Ufficio con scritto sopra DIREZIONE.
Dentro, oltre un pannello a muro un uomo stava ascoltando con una cuffia da radiotelegrafista. Dalla
capigliatura ormai estremamente diradata Dino riconobbe Foà, un veneziano che lavorava da
moltissimi anni nel controspionaggio. Foà si girò sorridendo, e gli disse: <<quando vieni a darmi il
cambio, tu sei un esperto.>> <<Mi devono autorizzare, mica posso decidere autonomamente; c’è
qualche novità?>> <<No, faccio il rapporto regolarmente, ma non ho nulla da segnalare. Tu che fai
quì, non sapevo che saresti venuto!!>> <<E’ stata una mia iniziativa, ma solo perchè ho bisogno di
vedere il fascicolo di un mio informatore, tale Menelik Azùm>>. <<Lo sai che questa non è la via
regolare. Dovevi chiedere il permesso!>> <<Così i dati li vedevo dopo la fine della guerra. Dai, dà una
mano ad un camerata per sbrogliare prima una matassa. Sono sicuro che Menelik mi stà fregando!>>
<<D’ accordo, aspettami quì, e semmai stà un attimo in cuffia. Va bene che a quest’ ora non ci sono
mai trasmissioni importanti>>. Foà scomparve, e Dino afferrò velocemente il registro delle rilevazioni.
Il 27 Agosto, ed il 3 Settembre, alle 22 c’ erano state due trasmissioni in codice. Sempre di Martedì. Il
rilevatore diceva che i segnali sembravano molto ravvicinati, senza le pause di intervallo necessarie a
staccare le parole. Foà tornò con la scheda di Menelik, e Dino se la dovette leggere tutta, fingendosi
estremamente interessato. Poi salutò ed andò via. La Domenica sera, il 15 settembre, Marchetti e Dino
fecero una lunga passeggiata dopo il Cinema, stretti nei cappotti, perchè c’ era ancora molto freddo, e
Dino raccontò tutto quanto aveva scoperto durante la mattinata passata a Viale Mussolini, e concluse
dicendo: <<quindi la trasmissione che ho sentito mentre ero a Massaua, e nella quale si parlava di
Cheren doveva servire ad indicare il percorso del treno su cui avevano deciso di effettuare lo scambio
della valigetta, ed il messaggio in codice morse che ho captato era probabilmente la conferma. Questa
trasmissione è stata captata ed annotata nei registri di Viale Mussolini, ma paradossalmente questa
notizia lei la ha avuta per altre vie, cioè dall’ Agente che ha piazzato a Kartoum. In altre parole, devo
supporre che le relazioni sulle nostre intercettazioni non le arrivino!>>. Marchetti si fermò di scatto,
stringendo i pugni: <<sei sicuro di quello che dici? Io non ho mai avuto quel rapporto!>>. Dino
continuò: <<quel registro viene portato nel suo ufficio da un corriere che lo lascia sullo scrittoio senza
nessuna particolare precauzione, e chiunque può arrivarci. Ovviamente il rapporto sulla trasmissione
del 20 Marzo lo avrà fatto sparire Aleardi, ma Lei mi stà dicendo che non sa nulla delle trasmissioni
del 27 Agosto e del 3 Settembre, quindi successive al 12 Giugno, quando Aleardi ha fatto una brutta
fine>>. Marchetti era paonazzo, probabilmente più per la rabbia che per il freddo, ma riprese il
controllo e rispose: <<di Aleardi lo sapevo, mi fregava le relazioni dal tavolo, e le portava a Garganti,
e quindi a Pesenzani. Io ne ho approfittato qualche volta per mandare messaggi falsi. Adesso però,
quello che mi dici mi mette in allarme. Non pensavo che qualcuno prendesse il posto di Aleardi>>.
Ripresero a camminare in silenzio, poi dopo un centinaio di metri, Dino si guardò intorno per essere
sicuro che non ci fosse nessuno, e fece osservare: <<in fondo è anche colpa nostra. Quei fogli
andrebbero consegnati personalmente a Lei, non dovrebbero andare in giro senza precauzioni. La cosa
è ancora più ridicola se pensa a tutta la manfrina che facciamo tutte le volte che dobbiamo parlare di
lavoro, gesti per darci appuntamento, passeggiate al buio dietro la chiesa Copta, fogli di carta che
strappiamo in mille pezzi, e poi lasciamo girare quei fogli sul tavolo senza la minima precauzione>>.
Marchetti si fermò di nuovo, si riguardò intorno con estrema attenzione, poi prese Dino sottobraccio, e
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con tono di voce bassissimo gli disse: <<quello che hai detto è giusto, ma il fatto è che io ho usato
questo sistema per far passare informazioni false ed imbrogliare un pò le carte. Ma adesso la situazione
è molto seria, e non ci possiamo permettere più nessuno sbaglio. Noi la guerra la vinciamo con il
cazzo. Non abbiamo nessuna possibilità per due buoni motivi. Primo perchè siamo inferiori sul piano
tecnico e tattico, secondo perchè tra di noi c’ è una marea di traditori, in particolare militari di alto
grado, che si sono già messi d’ accordo con gli inglesi. Se vogliamo tentare di rovesciare la sorte
possiamo fare solo due cose, smacherare i traditori e portare le prove al Vicerè, ed adottare il Piano A.
Ovviamente semprechè facciamo in tempo>>. Dino si ricordava perfettamente del famoso Piano A,
perchè aveva decrittato le informazioni giunte da Massaua, ma non disse niente. Dietro di loro si sentì
del rumore, e passò un carro carico di fieno. Poi i due uomini ripresero a camminare nel gelo dellla
notte, mentre il Direttore parlava fittamente, con voce bassissima.
Dino passò il pomeriggio di Lunedi a scrivere un rapporto dettagliato sulla presenza in città di
un tedesco, che aveva dei caratteri somatici molto simili a quelli dell’ agente Julius, che aveva scattato
moltissime foto di coloro che passavano per piazza Roma, e spiegò dettagliatamente che era arrivato
tre giorni prima e si era installato in un appartamento di via Chiarini, all’ angolo di Via della Croce del
Sud. Il tizio tornava tutte le sere verso le 23 e ripartiva la mattina alle otto. . infine concluse il rapporto
con una frase che riassumeva l’ importanza della osservazione: <<è probabile che si tratti di un agente
dei servizi tedeschi che dovrebbe cercare le tracce di una rete di traditori italiani che ha rapporti con
gli inglesi>>.
La mattina dopo in ufficio, copiò il rapporto con la sua macchian da scrivere Victor, e lo
lasciò sul tavolo di Marchetti, che quella mattina però non venne.
Il giorno venti Dino andò la mattina alle otto all’ Ufficio di Import Export di Viale Mussolini,
e rimase a parlare per una ventina di minuti con Sulis. Prima che se ne andasse la segretaria portò del
caffè caldo, poi Sulis lo accompagnò sulla porta, e lo salutò dicendo: <<secondo me è ancora presto,
ripassa la settimana prossima>>.
Ritornò la settimana successiva, verso le 22, e Sulis lo accolse con un sorriso trionfanta: ci
siamo, la trasmissione che aspettavamo è arrivata quattro giorni or sono, il 24>>, e gli indicò il
registro delle intercettazioni. Dino lo afferrò commentando :<<già , il 24, cioè martedì, come al
solito>>. Il foglio riportava il titolo della trasmissione “Lo Sviluppo Edilizio di Asmara”, e si notava
che Via Chiarini era stata menzionata quattro volte, le altre strade una volta sola. Al termine della
trasmissione c’ erano stati dei segnali Morse di difficile interpretazione, apparentemente lettere senza
significato. Sulis le indicò con il dito: << quei segnali non si possono leggere con il codice che hanno
usato sino adesso,hanno cambiato la chiave, probabilmente temono che questo messaggio venga
intercettato. È strano, perchè in genere non si preoccupano gran che di usare chiavi complesse, ed
adesso abbiamo anche capito perchè! Tanto qualcuno li fa sparire nel percorso tra questo Ufficio e l’
Ufficio di Marchetti. - alzò le spalle con noncuranza- probabilmente questa volta il messaggio è più
importante>>. Dino lo guardò perplesso: <<ma non vi eravate mai accorti che i messaggi
sparivano?>>. Sulis richiuse il registro, e gli disse con aria sorniona: <<abbiamo sempre saputo che c’
era qualcuno che intercettava i messaggi, e ne avevamo approfittato per mandare informazioni false.
Francamente però non pensavamo che addirittura arrivassero a farli sparire, abbiamo sempre pensato
che si limitassero a controllare il passaggio delle informazioni. Fortuna che te ne sei accorto!>>. <<hai
idea di chi sono “loro”>>, domandò Dino. <<Qualcuno dello Stato Maggiore, probabilmente pagato
dagli Inglesi>>. Dino annuì, e si avviò verso la porta, ma si fermò, perplesso, ed insistette: <<come
hanno comunicato il numero civico? >>. <<Hanno detto che alla preparazione della rasmissione hanno
partecipato 26 persone, comuncano sempre i numeri con quel sistema banale>>. <<Hai per caso idea di
cosa vogliono dire quelle lettere in Morse?>>. <<non con sicurezza, ci stiamo ancora lavorando, ma
credo che vogliano dire PEDINARE,abbiamo identificato quasi con certezza la I e le due lettere
finali>>. Quando Dino uscì la temperatuira era abbastanza rigida, ma il cielo era chiaro e pieno di
stelle. Era Sabato 28 Settembre 1940. Nonostante i rumori della guerra fossero ancora lontani sentì un
senso di angoscia, come se il tempo a disposizione sua e dei suoi amici stesse per finire. Tirò su il collo
dell’ impermeabile e si guardò attorno, ma non vide nessuno. Forse erano tutte sciocchezze, l’ Italia
avrebbe vinto la guerra, e lui avrebbe fatto venire Maria, la sua fidanzata, ad Asmara.
Marchetti la Domenica non era rintracciabile, e Dino dovette attendere sino a Lunedì per
prendere contatti con lui.
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Alle otto del mattino di Lunedì andò a prendere il Direttore sotto casa con la sua Fiat 531.
Marchetti inizialmente fu molto sorpreso, ed anche contrariato nel vederlo, perchè teneva molto alla
segretezza, ma dopo che Dino gli ebbe spiegato delle intercettazioni cambiò atteggiamento, e gli disse:
<<metti in moto, ed andiamo subito fuori città, facciamo due passi. Cerca le strade meno frequentate,
e chi se ne frega dell’ Ufficio>>.
Il giro fu piuttosto lungo, sino alle rive del fiume Braka, che in quel momento era in piena, e
si fermarono a parlare, seduti vicino all’ argine.
Marchetti era piuttosto teso, e per tutta la strada aveva parlato della inevitabilità dell’ attacco
Britannico, e non perse altro tempo: <<la situazione stà precipitando ancora, abbiamo solo pochi
giorni. Bisogna trovare le prove del colossale imbroglio messo su dai vertici militari e portarle al
Vicerè>>. Dino, pensieroso, osservò: <<Intanto bisogna pure decrittare il messaggio in codice che
hanno intercettato a Viale Mussolini>>. Marchetti alzò le spalle: <<è tempo perso, se hanno segnalato
la strada dove piazzeremo Julius è per mandarci qualcuno. Non possiamo aspettare di decrittare quella
frase. Da questa sera in poi Julius si installerà, e tu e Sulis lo controllerete da un appartamento di
fronte che vi ho fatto preparare>>. Dino prese un ciottolo e lo tirò nell’ acqua del fiume. Marchetti
seguì la scena e commentò: << quel ciottolo nel torrente è emblematico. Noi stiamo tirando sassi per
fermare il fiume che è la guerra. Non ci riusciremo mai!>>. Dino sorvolò su quel commento filosofico
e domandò: <<se agganciamo un uomo che da la caccia a Julius che facciamo?>>. Marchetti si strinse
nel cappotto co aria preoccupata: <<non è detto che sia un uomo, potrebbe essere una donna che cerca
di portarselo a letto. Se invece è un uomo faremo entrare in scena Claudio Rossi. Una volta individuato
l’ uomo lui troverà un pretesto per arrestarlo, e lo farà parlare>>.
Quando si alzarono il sole tiepido aveva un po’ riscaldato la giornata rigida. Marchetti era
molto preoccupato, e Dino, che per sua natura era molto ottimista, si sentiva piuttosto a disagio.
Risalendo in macchina Marchetti, dopo un lungo silenzio, riprese a parlare: <<vedi,
probabilmente tra qualche mese ci sarà un disastro totale, e ciascuno di noi resterà solo. Se le cose si
metteranno al peggio cercate di mettervi in salvo oltre le lineee nemiche, perchè gli inglesi non sono
teneri con le spie italiane. Noi abbiamo una rete di infiltrati nei conventi, in genere gli economi sono
nostri amici, e ci aiuteranno. La frase di identificazione è la solita, “un caffè molto forte e con la
crema””>>. Dino fece una smorfia e borbottò: <<speriamo che non serva!>>.
Alle sette di quella sera Julius entrò nel palazzetto al 26 di Viale Chairini, e salì al primo
piano, in cui da molto tempo il servizio di controspionaggio aveva affittato una camera. Dino salì al
secondo piano della palazzina di fronte, da cui il Servizio di Controspionaggio aveva evacuato con
molta discrezione gli abitanti, e si piazzò alla finestra, dietro una pesante tenda, tenendo a portata di
mano il binocolo che gli aveva regalato Marchetti al ritorno da un viaggio in Svizzera, e che Zeaidita
aveva comprato a Parigi, alla Maison Du Docteur A. Chevalier, Opticien. Alle otto del mattino
siccessivo gli dette il cambio Giovanniino Sulis.
Quando alle 20 tornò a prendere il suo posto di osservazione trovò la camera immersa in una
puzzolente nuvola di fumo prodotta dal sigaro di Sulis. Nonostante il freddo aprì la finestra per
cambiare l’ aria, e vide Julius che usciva dal portone, ed un uomo, che probabilmente era rimasto sino
a quel momento all’ ombra di un colonnato, che usciva improvvisamente, ed iniziava a seguirlo. Sulis
che usciva anche lui in quel momento dal portone si mise alle calcagna dei due, e Dino, quando si fu
accertato che non c’ era nessun’ altro in coda a quel corteo, si precipitò giù dalle scale, per accodarsi.
Giunse in strada, e si gettò all’ inseguimento degli altri, ma la scena ebbe un epilogo
rapidissimo. Ormai Julius e l’ inseguitore erano vicini all’angolo, nascosti dagli alberi che
fiancheggiavano la strada scarsamente illuminata, Sulis era ancora appiattito contro un albero sulla via
principale, per non farsi notare. Improvvisamente si sentì uno sparo, Sulis che era più avanti estrasse la
pistola e si mise a correre lungo il muro, e svoltò con la pistola spianata. Dino che aveva la visuale
parzialmente coperta dagli alberi, ed era circa centocinquanta metri indietro, estrasse la pistola, si
buttò anche lui contro il muro, e cominciò a correre con tutto il fiato che aveva. Prima dell’ angolo vide
la sagoma di un uomo riverso in terra, la riconobbe, e con il cuore in gola si chinò e girò il corpo.
Julius era morto, con il cranio fracassato da una pallottola. Diono si rialzò, e con estrema precauzione
girò l’ angolo. Sulis era fermo in mezzo alla strada, e puntava la pistola su un uomo che teneva le mani
alzate, e girò un attimo lo sguardo verso Dino, poi lo ripiazzò sull’ uomo dicendo: <<aiutami a fermare
questo maiale che ha sparato a Julius a sangue freddo>>. Dino cominciò: <<lo ha ammazzato....>>. Si
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interrurre, poi riprese: <<aspetta, c’è qualcun altro>>, e cominciò a correre dietro qualcuno che
fuggiva nella direzione del Centro.
Corse a lungo con il fiato grosso, ma il fuggiasco aveva troppo vantaggio, e non riuscì a
raggiungerlo.
Quando tornò indietro trovò Sulis che continuava a tenere l’ uomo sotto tiro, e lo aiutò a
trasportarlo alla macchina che avevano parcheggiato a circa duecento metri, poi ripartirono a tutta
velocità verso il comando dei Carabinieri. Si fermarono circ duecento metri prima di arrivarci, e Dino
proseguì a piedi.
Al piantone domandò del Tenente Rossi, che venne subito, e lo riaccompagnò alla macchina.
Mentre camminavano Dino riferì l’ accaduto a Rossi, che rimase molto contrariato: <<ormai non
possiamo più coprire l’ accaduto, c’è stato il morto, e purtroppo è Julius. Ovviamente adesso arresterò
questo furfante, ma non riuscirò a tenerlo più di dodici ore, poi qualcuno me lo sfilerà di mano, e non
riuscirò a farlo cantare. Dannazione, c’è andata fottutamente storta un’ altra volta!>>. <<dodici ore
sono lunghe - replicò Dino-forse riuscirai a farlo parlare. Comunque è fondamentale identificarlo>>.
Rossi non replicò, estrasse la pistola, e concluse: <<tu sparisci, a me basterà la deposizione di Sulis. Ci
mancherebbe solo che uscisse anche il tuo nome sul giornale di domani, e come agente saresti
bruciato>>.
La mattina successiva Dino andò in ufficio molto presto, e con l’ aria sconvolta, perchè non
aveva chiuso occhi. All’ ora di pranzo andò al Ristorante Italia con Marchetti. I due erano tetri, e
mangiarono senza parlare. Quando uscirono, stretti nei cappotti, Dino disse, guardando dritto in avanti:
<<l’ ha ammazzato come un cane>>. Marchetti lo guardò, poi scoppiò: <<il messaggio è stato
decrittato, la parola in codice era UCCIDERE, non PEDINARE>>. E tirò una bestemmia.
Tutto il mese di ottobre trascorse senza novità. Dino e Marchetti pranzavano e cenavano
insiemequasi tutti i giorni, ma evitavano di parlare di lavoro per non tornare sull’ argomento dell’
assassinio di julius. I giornali ne avevano parlato brevemente “Un Assassinio Per Oscuri Motivi”. Alla
fine di Novembre Marchetti partì per l’ Italia con la nave, e Dino lo accompagnò in macchina a
Massaua, e trovarono finalmente lo spirito adatto per parlare. Mentre superavano il passo Wolchefit
Dino domando: <<cosa ha saputo Rossi?>>. Marchetti tirò su il finestrino perchè cominciava a fare
freddo, e rispose: <<ha torchiato quel delinquente per ore, ed è riuscito a fargli sputare quasi tutto. È
un militare di stanza vicino ad Addis Abeba, ed è stato portato li da Pesaenzani, quando è arrivato in
Africa Orientale. Ovviamente ha negato ogni rapporto con i vertici militari. Ha sostenuto di essere
arrivato qui per trattare l’ acquisto di un terreno, e che quella sera era uscito per fare due passi.
Avrebbe sparato a Julius perchè lo aveva scambiato per un malintenzionato. Poi purtroppo l’ uomo è
stato preso in consegna dalla autorità militare>>. Dino dovette scalare marcia perchè la pendenza era
aumentata, e nel frattempo sbottò sconsolato: <<e così siamo arrivati alla fine della strada!!>>.
Marchetti si aggiustò nel sedile e rispose con una certa soddisfazione: <<al contrario, Rossi ha fatto
fare una ispezione fulminea nella casa dove stava quel delinquente, ed ha trovato molto lateriale: il
codice con cui decrittava i messaggi, ed una valigetta piena di soldi, di cui devo accertare la
provenienza, ed un assegno>>. Estrasse una busta, ed aprì la linguetta facendo vedere un assegno ed
una mazzetta di soldi, poi la richiuse con cura. Dino scalò ancora la marcia, e guardò preoccupato il
cofano dell’ automobile, perchè gli sembrava di vedere del fumo, ed aggiunse: <<pensa che potremo
ritrovare le tracce di quei soldi?>>. <<Spero di si. Ovviamente l’ assegno porta dieci firme di voltura,
incomprensibili, ma con l’ aiuto di Zeaidita spero di risalire al proprietario del conto originario. >>.
Dino sospirò di sollievo perchè avevano ormai raggiunto la cima del passo, e da li cominciava la
discesa, e commentò: <<questo ci mette a rischio grave. Ormai i militari sanno che abbiamo qualcosa
in mano>>. Marchetti riaprì il finestrino, ed osservò: <<è vero, e per questo mi sono fatto
accompagnare da te, che sei meno conosciuto, e parto sotto nome falso. Comunque penso che non
abbaino la sicurezza di quello che noi abbiamo in mano, e sopratutto che non sappiano quante
informazioni posso ottenere attraverso una indagine bancaria>>.
Il viaggio fu ancora lungo, poi Marchetti partì, e stette via tutto il mese di Novembre.
LA GUERRA
Tra la fine del 40 e l' inizio del 41, come tutti sanno, la situazione politica internazionale stava
precipitando. L' Italia era stata sottoposta a sanzioni economiche, e Mussolini si era avvicinato ad
Hitler. La guerra era inevitabile, ma nelle colonie si sperava che restasse limitata al continente
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europeo. Tutti i giorni si parlava del pericolo della guerra, ma in Africa, dove gli Italiani erano
"conquistatores", e dove la retorica fascista era più potente, molti erano convinti che la forza dell' Italia
avrebbe scoraggiato gli avversari. D' altro canto le autorità facevano tutto il possibile per non far
capire nulla a nessuno. I discorsi pubblici erano pieni di metafore, in particolare se rivolti alle
popolazioni nere, che in questo modo venivano, per quanto possibile, tenute all' oscuro di tutto. Venne
un federale da Roma per annunciare che lo scenario politico internazionale si stava complicando, e
rivolto alla popolazione nera disse "dense e scure nubi si stanno addensando all' orizzonte...", e l'
interprete tradusse letteralmente "Il Sig. Federale ha detto che domani pioverà". Alcuni erano
pessimisti, alcuni dubbiosi sul futuro. Dino cominciava a preoccuparsi.
La mattina del 21 Marzo 1941 si svegliò presto. Come ogni giovedi doveva andare in Ufficio,
a Corso del Re. La giornata era fredda e piovigginosa, e la gente camminava in fretta. Era un po' come
se il tempo rispecchiasse la atmosfera politica di preoccupazione di quel periodo. Alle otto e trenta
precise era in ufficio. L' usciere lo salutò: <<Buongiorno dottore, il Dr. Marchetti ha già telefonato per
cercarla. Ha detto che arriverà tra poco.>> Se Marchetti lo stava cercando con tanta fretta voleva dire
che qualcosa di grosso bolliva in pentola. Dino salì al terzo piano, ed entrò difilato nella camera con la
scritta <<DINO TATTI, Ispettore Capo>> sulla porta, ed iniziò subito a lavorare sulle pratiche che
aveva lasciato sul tavolo.
Dopo 10 minuti squillò il telefono posto a sinistra, sulla mensola. Dino andò ad alzare la
cornetta. Dall' altro capo c' era l' usciere:<<dottore, stà salendo il Dr. Marchetti>>. <<Grazie
Antonio>>, borbottò Dino. Quella mattina non era gioviale come al solito, ma si sentiva teso e
preoccupato.
Marchetti entrò dopo qualche secondo, e venne subito al sodo. <<Ti devo mandare in
missione. È qualcosa di molto delicato, si tratta della relazione che abbiamo avuto su possibili
infiltrazioni di sobillatori nelle scuole indigene, e nelle fabbriche>>. Gli porse senza interesse alcuni
fogli, e Dino li prese preoccupato, riflettendo sul fatto che chiunque li stesse acoltando non avrebbe
mai preso perbuone quelle stupidaggini. Mentre stava per cominciare una guerra disastrosa a chi
poteva interessare la presenza di sobillatori nelle scuole?! Si sollevo quando Marchetti, senza alterare
il tono di voce, e guardando verso la porta, proseguì: <<in realtà il vero motivo è che devi consegnare
un rapporto dettagliato sulla attività di alcune spie che sono state individuate qui in città, e che stanno
probabilmente studiando la zona per facilitare l’ arrivo di un personaggio importante, in grado di
attivare i ribelli indigeni>>. Dino lo assecondò: <<chi è questo personaggio?>>. <<Non lo so, forse
un alto dignitario dell’ entourage di Haile Selassiè, però questo on è chiaro. L’ aumento della attività
spionistica è stato segnalato in tutto l’ impero, e quindi il personaggio in questione dovrebbe visitare
più zone. Sappiamo che avrà una serie di incontri, ed il più importante avrà luogo in un villaggio nei
dintorni di Addis Abeba>>. Il Direttore si alzò e si diresse verso la porta, in modo che si sentisse
meglio dal corridoio, e proseguì: <<appena arriverai ad Addis Abeba dovrai prendere contatto con il
Dottor Anelli, che è il capo gabinetto del Vicerè. Gli darai la documentazione che ti ho consegnato,e
lui ti metterà in contatto con altri agenti, in modo che insieme possiate confrontare i dati e preparare un
piano di azione>>. Dino sfogliò perplesso il pacco di carte che Marchetti gli aveva consegnato. Erano
fogli pieni di idiozie:
•
•
“Agente # 5 - segnalato traffico telegrafico da Massaua adAsmara”
“Agente # 6 - rilevato passaggio di un bianco con cravatta a righe, alto 170 centimetri, che si sposta
spesso tra viale De Bono e Viale Mussolini. Mangia regolarmente alle 14 ed alle 21 in ristoranti
diversi. Presente dal 10 Febbraio al primo di Marzo. Attività ignota. Nom dichiarato: Giulio
Tagliarini”
Il rapporto proseguiva con una serie di informazioni analoghe, ed assolutamente irrilevanti.
Guardò l’ ultimo foglio: l’ Agente # 52 segnalava le abitudini alimentari ed alcune anomalie del
comportamento sessuale di un soggetto di presunta origine maltese che abitava nel villaggio De
Cristoforis. Con quelle informazioni non si sarebbe scoperta nemmeno la ubicazione di Palazzo
Venezia a Roma. E poi non esisteva neppure un agente # 52, erano quindici in tutto, anzi 14 dopo la
morte di Julius. In mezzo allo scartafaccio trovò il biglietto che cercava: “stasera, 15o chilometro della
strada per Cheren, ore 22””.
Tornò con l’ attenzione a Marchetti, che stava finendo di parlare: <<.............. devi anche
muoverti per la città, cercare contatti>>. A Dino parve più logico rendere verosimile la convcersazione,
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e fece notare: <<ma io non so dove cominciare, non so neppure chi devo cercare.addis Abeba non è un
mio territorio, io non ho contatti. Mica posso andare cercando Maria per Roma>>. Marchetti rimase
interdetto, poi capì che quella obiezione era parte del gioco e ribattè_ << te la saprai cavare. È bene che
tu parta subito per Addis Abeba. Comunque la parte fondamentale della tua missione
è
portare
questo rapporto ad Anelli, e partecipare alla riunione. Cercare una traccia è più complesso, ma Anelli ti
potrà aiutare>>. Dino sventolò il foglietto per segnalare che aveva capito, e si avviò verso la porta
salutando.
Poi tornò nel suo ufficio, e continuò a lavorare sino alle 14. Prima di lasciare l’ ufficio piantò
una spilla gialla in corrispondenza di Addis Abeba sulla grande carta geografica appesa alle sue spalle.
Alle 21 partì per l’ appuntamento. Partiva sempre con grande anticipo.
La notte era rigida, e la strada in alcuni tratti era gelata. Dino guidava con estrema prudenza,
controllando nello specchietto retrovisore che nessuno lo stesse seguendo. Aveva preso la sua Fiat 531,
vecchia di cinque anni, ma in ottimo stato, con solo una portiera posteriore che cigolava. Spingendola
a tutta velocità la macchina poteva arrivare a circa settanta chilometri orari, e Dino calcolò che
evrebbe fatto più che in tempo ad arrivare all’ appuntamento. Dopo una decina di chilometri cominciò
la pioggia e dovette rallentare. Oltre le spazzole, lentissime, la macchina aveva una specie di visiera
sopra il parabrezza, e la visuale era abbastanza buona. Comunque la pioggia si diradò molto presto, ed
alle 22 e quaranta si fermò nel luogo dell’ appintamento, uno spiazzo a destra sul rettilineo che seguiva
una curva stretta. Dino lasciò il motore acceso ed i fari alti. La alfa Romeo di Marchetti comparve a
velocità piuttosot sostenuta dopo altri venti minuti, in tempo per l’ appuntamento, esi fermò dietro la
macchian di Dino con un forte stridio di freni. Il Direttore scese alla luce dei fari, con il viso tirato e la
barba lunga, e non perse tempo: <<mi hanno seguito, ed ho dovuto faticare per seminarli, ma ce l’ ho
fatta ad arrivare in tempo!>>. <<chi l’ ha seguita?>>. <<non lo so, di sicuro un automobile scura,
doveva essere una Lancia, che mi ha tallonato da casa mia sino a dieci chilometri da qui, dove l’ ho
seminata sotto la pioggia. Adesso veniamo al vero motivo della missione>>. Marchetti accennò al
sedile della sua auto. Dino spense il motore della Fiat, spense le luci, e si sedette a fianco al Direttore
nella Alfa Romeo. Mentre entrava nella macchina vide la pistola che Marchetti aveva lasciato sul
sedile, e la indicò con un dito commentando: <<la sicurezza non è mai troppa!!>>. <<no, specie se
qualcuno ti stà seguendo - disse Marchetti, e proseguì - senti, è ovvio che non ti mando ad Addis
Abeba per quelle fesserie che ti ho detto. Stà effettivamente arrivando da queste parti sotto copertura il
Negus, e questo non lo sa nessuno tranne noi, ed ovviamente gli inglesi. Farà tappa in un villaggio nei
pressi del lago Tana, e li faremo l’ ultimo tentativo>>. Dino tese l’ orecchio perchè gli era sembrato di
sentire il rumore di un automobile in arrivo, ma si rilasso dopo qualche secondo, perchè si rese conto
che era solo il vento: <<cioè, cosa accadrà?>>. <<nel villaggio, durante la notte, verrà rapito, ed un
sosia prenderà il suo posto. Quest’ uomo dovrà costituire un governo fantasma tra le montagne, e dovrà
mantenersi in contatto con gli inglesi, a cui invierà informazioni false. Un’ altra parte del suo compito
sarà di diffondere ai suoi compatrioti notizie allarmistiche sulle reali intenzioni degli inglesi>>. Dino lo
guardò perplesso: <<perchè dovrebbe farlo, e che fine farà il Negua>>. Il Negua lo tratteremo bene, e
lo porteremo a Roma. Il sosia e tutti quelli che collaboreranno saranno ricompensati con molti soldi
che avranno in tempi diversi. Tu gli porterai la chiave di una cassetta di sicurezza della Cassa di
Risparmio, a Massaua, dove è custodita la prima parte del loro compenso>>. Dino sgranò gli occhi:
<<chi sa di questo piano? >>. Marchetti era soddisfatto: <<io, e pochissime altre persone, ed adesso lo
sai anche tu>> - Poi il suo tono divenne più grave - <<senti, gli inglesi non potranno mai vincere la
guerra senza l’ aiuto degli indigeni. D’ altro canto Roma ci ha abbandonato a noi stessi, e noi non
possiamo perdere, o saremo fatti a pezzi>>. Dino si strinse nelle spalle preoccupato, e domandç:
<<come ha fatto a realizzare un piano così ambizioso da solo?>>. <<beh, lo preparo da molti anni, da
quando ho capito che gli inglesi hanno dei servizi segreti molto potenti, e comunque non ti scordare
che mi ha aiutato Zeaidita, anche se......>>. lo sguardo di Marchetti era molto eloquente, e Dino lo fissò
negli occhi: <<sta dicendo che ha usato Zeaidita! La ragazza non sarebbe stata complice di un
tradimento della sua gente>>. Marchetti si strinse nelle spalle: <<si, non sono stato del tutto sincero
con lei, ma io sono una spia! Per essere onesto non sono convinto di stare dalla parte giusta, ma le cose
nell’ Africa Orientale vanno in maniera diversa da quello che stà accadendo nel resto del mondo>>.
Marchetti aveva dei profondi occhi chiari, e leali, e glieli piazzò addosso, quasi per sfida, e proseguì:
<<hai capito bene, se facessi la spia in inghilterra forse avretùi tradito, perchè io non sono un fascista,
e secondo me il Furher è un pazzo furioso, e Mussolini un esaltato! Ma qui siamo in un angolo di
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mondo sperduto, abbandonati a noi stessi, e con la responsabilità di tanti italiani che non devono
cadere in mano agli inglesi. Per questo scopo ho ingannato anche la donna che amo>>. La voce
divenne meno dura, e proseguì: <<tu sei più giovane di me, ed ancora pieno di ideali. Credi nel Duce, e
fai questo lavoro per la patria, io lo faccio per i compatrioti. Un giorno capirai che ci hanno imbottito la
testa di idiozie comunque siamo amici e siamo dallo stesso lato dela barricata. Ricordati che se il mio
piano non funziona le colonie sono perdute, perchè noi siamo spaventosamente inferiori sul piano
militare agli inglesi>>. Dino lo guardò perplesso: <<ma io che dovrò fare ad Addis Abeba?>>. <<devi
andare dal Vicerè a portargli questoorologio, che contiene il microfilm con il dettagio del piano per la
sua liberazione, nel caso malaugurato che dovesse esser fatto prigioniero. Ci sono i nomi di due alti
ufficiali inglesi che dovrebbero essere addetti alla sua sorveglianza, e che sono in realtà due infiltrati
tedeschi. Basterà che Sua Altezza comunichi la sua disponibilità a collaborare al piano con una frase
chiave, che dovrà pronunciare in corso dell’ interrogatorio Nascondilo meglio che puoi, e dovrai
cercarti da solo una occasione per farglielo avere. Io purtroppo non posso indicarti nessun appoggio,
perchè non mi fido di nessumo per una missione di questa importanza. Durante la tua permanenza
verrai contattato in albergo da qualcuno a cui darai la chiave della cassetta di sicurezza dove c’ è la
prima somma in lingotti d’ oro per pagare il falso RAS ed i suoi compari>>. Dino soppesò l’ orologio a
cipollone, lo aprì e vide che funzionava perfettamente, poi lo richiuse, e lo ripose con cura nella tasca.
Quando sarai arrivato ad Addis Abeba dovrai andare dal Dr. Anelli, e gli rifilerai i fogli che ti ho dato
in ufficio. - sospirò, poi aggiunse - Io credo che Anelli sia “pulito”, ma non sono sicuro, e fidarsi
troppo di lui significa rischiare di mandare a monte tutta la missione, ed ovviamente anche farti
rischiare la pelle>>. Tirò fuori dal panciotto una chiave e gliela dette. Rimasero dieci minuti a parlare
dei dettagli, poi uscirono dalla macchina per salutarsi. Dino teste la mano, ma il Direttore lo abbracciò,
dicendogli: <<senti Dino, tu sei stato un vero amico ed un ottimo agente. Io ho il presentimento che
non ci vedremo mai più, che le cose stiano precipitando irrimediabilmente verso una fine. -Sospirò ed
aggiunse- se non ci dovessimo più vedere, sappi che ho avuto una grande stima di te>>. Gli battè una
mano sulla spalla. Dino si allontanò verso la sua macchina, e prima di salire disse: <<grazie Marchetti,
grazie di tutto quello che mi ha dato>>.
Poi entrambi avviarono il motore, e ripartirono in fila verso la città. Dopo una decina di
chilometri raggiunsero quello che era stato l’ epicentro della pioggia. Mentre superavano una curva
improvvisamente una macchina, una Alfa Romeo scura, uscì di fianco e si mise al centro della strada.
La macchina di Marchetti precedeva, e frenò di colpo sbandando. Alla luce dei fari si vedeva un uomo
che usciva dalla macchina pirata brandendo una pistola. La scena che seguì durò qualche secondo.
Marchetti era a pochi metri dalla macchina posta di traverso, e ripartì con tutta la velocità possibile. L’
uomo in piedi sparò alcuni colpi, prima di essere investito e maciullato, e l’ Alfa di Marchetti proseguì
la corsa, passandogli sopra, e speronando l’ altro automezzo. Le due macchine volarono ai lati opposti
della strada. L’ uomo che era alla guida dell’ auto pirata venne sbalzato fuori, e volò contro l’ albero
come un sacco di patate, e rimbalzò contro uma pietra spaccandosi la testa. Dino frenò di colpo
butandosi verso la cunetta, e corse con la pistola spianata verso la macchina di Marchetti. La macchina
era accartocciata contro un albero, ed il Direttore era riverso sul sedile senza vita, con un grosso foro
di proiettile nella testa, ed in mano la pistole che non aveva fatto in tempo ad usare. Aveva pagato caro
il suo coraggio. Non c’ era nulla da fare, e Dino si strinse la testa tra le mani insanguinate e pinse.
Dopo qualche minuto si riprese, ritornò verso la macchina e partì ad alta velocità. Almeno poteva
tentare di portare a termine l’ ultima missione che Marchetti gli aveva affidato, l’ ultimo omaggio al
suo amico.
Alle 6 del mattino successivo caricò la valigia sulla vecchia Alfa Romeo affidatagli per le
trasferte dell’ Ufficio, e si mise in movimento: Guidò ininterrottamente sino a mezzogiorno senza
incontrare nessuno, poi affrontò la parte peggiore della strada, fatta di tornanti e tratti non asfaltati.
Alle 14 trovò un casolare con un cartello decrepito su cui si leggeva a stento "Ostello", e vide
parcheggiate sotto gli alberi due Alfa Romeo, molto più nuove della sua, ed una moto Guzzi:
Parcheggiò ed entrò in quel tugurio: dentro c'erano quattro uomini seduti ad un tavolo, che
mangiavano una minestra fumante. Dino notò che uno di loro era nero, e portava un cappello a falde
larghe che gli copriva gran parte del viso. Si sedette al tavolo vicino, ed ordinò una minestra all' oste,
un emigrato con un marcato accento calabrese. Mangiò rivolto verso la finestra, e da dove era poteva
osservare abbastanza bene, riflessi nel vetro, i quattro uomini: escluso il nero, che era di spalle, uno
era calvo, intorno ai 50 anni, uno aveva i capelli tagliati a spazzola, e poteva avere circa 30 anni, ed il
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quarto, che non parlava mai, aveva i baffi ed un cappello alla Humphrey Bogard. Per quanto si
sforzasse di sentire non ci riusciva. Ad un certo punto il bicchiere dell' uomo coi baffi cadde
spezzandosi in mille pezzi, ed il tizio imprecò in maniera inequivocabile: <<Shit!....Merda>>. Dino si
irrigidì: era un inglese. Che ci faceva li? non battè ciglio, ma finì rapidamente di mangiare, e si girò
verso l' interno della cameretta per chiamare l' oste:<Padrone!!>>. Mentre aspettava che il clabrese
venisse a prendere l' ordinazione squadrò l' inglese con i baffi. Dopo qualche secondo l' uomo si sentì
porbabilmente osservato, ed alzò improvvisamente la testa: i loro sguardi si incontrarono e si
sostennero per qualche frazione di secondo. Dino isitintivamente serrò il braccio per sentire la pistola
nella fondina. Finalmente arrivò l' oste: <<Che vuliti?>>. <<Un bicchiere di vino ed il conto>>, disse
Dino. L' inglese mormorò qualcosa, e gi altri due uomini si voltarono nella direzione di Dino. Il nero
non si mosse.
In quel momento si aprì la porta , ed entrarono quattro tizi con il Fez, le camicie nere, e dei
pistoloni alle fondine: La attenzione dei quattro commensali si spostò sui nuovi arrivati, e Dino
approfittò per pagare ed uscire. Ripartì rapidamente, e dopo alcuni chilometri uscì dalla strada
principale, ed imboccò un sentiero in salita. Appena la sua automobile fu fuori vista dalla camionabile,
si fermò, e scese ad osservare. Dopo 20 minuti di attesa vide una nuvola di polvere, e poi comparvero
le due Alfa Romeo che aveva visto all' osteria: Della moto nessuna traccia, ma probabilmente
apparteneva all' Oste. Bene! Se quegli uomini avevano interesse a toglierlo di mezzo e lo stavano
inseguendo avrebbero corso un bel po' a vuoto. Comunque gli conveniva aspettare: potevano mangiar
la foglia e tendergli un agguato più in la. Respirò a pieni polmoni l' aria frizzante, poi si riposò
leggendo un libro. Ripartì solo al tramonto, e viaggiòfino a mezzanotte, quando vide un altro ostello, e,
dopo essersi accertato che nei dintorni non c'erano le due Alfa Romeo, parcheggiò dietro la casa, ed
affittò una camera per dormire.
Alle sei del mattino era pronto per ripartire, e scese nel ristrettissimo atrio per pagare e fare
colazione. Si sedette ad un microscopico tavolino barcollante, ed il padrone gli portò una tazza di latte
e delle gallette durissime. Mentre mangiavano arrivarono le quattro camicie nere del giorno prima, e si
sedettero ad un tavolo vicino. Uno sbraitò, levandosi il Fez: <<Oste del cazzo, portaci da bere>>, poi
rivolto agli altri:<<quello stronzo baffone io lo spacco in due>>, e giù una sequela di insulti al
baffone, mentre gli altri annuivano e rincaravano al dose. Dino notò che quello che aveva parlato per
primo aveva un occhio nero, ed aguzzando gli occhi nella penombra del mattino, vide che erano tutti e
quattro pesti. Evidentemente avevano avuto una lite, risoltasi a loro danno, con i quattro tizi delle Alfa
Romeo, che probabilmente gli avevano anche tolto le armi, perchè avevano le fondine vuote. Dino
pagò e se ne andò, mentre i quattro continuavano a promettere terrificanti vendette all' indirizzo del
baffone.
Il viaggio proseguì tranquillamente. Dino si fermò a mangiare in un' altra osteria, e
prudentemente si informò sul passaggio dell' inglese e degli altri, ma nessuno li aveva visti. Quando
scese la sera del secondo giorno, ormai mancavano circa seicento chilometri ad Addis Abeba, ed il
percorso peggiore era finito, ma quel viaggio infernale gli aveva rotto le ossa, e si fermò ad un altro
ostello. Girò dietro il misero fabbricato per parcheggiare, ed alla luce dei fari vide una delle due Alfa
Romeo, ed a fianco una Jeep. Della seconda Alfa Romeo nessuna traccia. Rimase alcuni secondi
incerto, poi decise di entrare. Spense il motore ed i fari, poi controllò che la pistola fosse al suo posto,
e spinse la porta dell' Ostello.
La luce era fioca. Il padrone stava servendo da bere a tre persone: uno era l' inglese con i
baffi, uno era quello sui trent' anni con i capelli a spazzola, ed il terzo era un uomo sui 50-60 anni, che
Dino riconobbe per averlo visto una volta in Ufficio e sui giornali: era un generale molto vicino al
Vicerè. Riuscì a controllarsi, ed a non dimostrare la sua sorpresa. Si sedette lentamente al tavolo più
vicino, con gli occhi dei tre addosso. La sua vita era appesa ad un filo. Era chiaro che il Generale si
stava abboccando con un emissario inglese per dare informazioni o per defezionare. Se i tre
sospettavano di essere stati identificati era la fine. Doveva guadagnar tempo, e cercar di scappare.
Disse forte all' Oste: <<Che c'è da mangiare?>>. <<Capretto e montone>>, rispose quello. <<Vada per
il capretto, e del vino buono>>. Gli uomini del tavolo vicino smisero di guardarlo, e cominciarono a
parlare tra loro a voce bassissima.
Dino cenò rapidamente, poi chiese all' Oste:<<Hai una camera?>>. <<Si -rispose quello-, li a
destra>>. Dino annuì, fece per avviarsi, poi disse:<<scordavo di prendere la valigia>>, e fece
rapidamente dietro front, avviandosi in direzione della porta. Mentre usciva vide con la coda dell'
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occhio che i tre si stavano alzando dal tavolo: evidentemente volevano seguirlo per eliminarlo appena
all' aperto. Aveva solo pochi secondi di vantaggio per cercar di sfuggire. Si girò in avanti, e venne
abbagliato dai fari di una macchina che stava arrivando. Il fatto imprevisto bloccò tutti: Dino era sulla
porta, e con sollievo vide che dalla macchina scendevano i quattro in camicia nera che avevano subito
il pestaggio. Erano armati di spranghe. Fece un largo sorriso, si tirò da parte per farli passare, e disse
ad alta voce: <<Viva il Duce, Camerati, benvenuti>>, e mentre quelli entravano schizzò via verso la
sua macchina. Prima di salire estrasse un coltello a serramanico e pugnalò le ruote dell' Alfa e della
jeep. Poi accese il motore della sua macchina, e partì a tutta velocità. Passò il giorno successivo in
viaggio, e la notte si fermò con la macchina un un campo molto distante dalla strada principale. Ormai
non si fidava più degli ostelli, erano troppo individuabili. Dormì qualche ora, forse dalle dieci di sera a
mezzanotte, e poi ripartì. Arrivò cinque ore dopo ad Addis Abeba. Aveva l' indirizzo dell' albergo
Impero, e ci andò direttamente, anche se era notte fonda. Il portiere lo sistemò in una stanzetta
confortevole. Dopo avere disfatto la valigia Dino tornò nell’ atrio, dove il portiere dormiva e lo
svegliò. Il pover’ uomo aprì gli occhi di malumore, e gli consegnò con fare seccato tutti i glirnali della
settimana, che quel rompiballe aveva voluto. Dino tornò in camera, si sedette davanti al tavolino, e li
scrutò attentamente. Non c’ era nessuna notizia importante, tranne un trafiletto nel giornale della
mattina precedente, in cui si diceva che un’ automobile con due ubriachi a bordo aveva avuto un
incidente con quella di un alto funzionario del Governatorato di Asmara. I tre erano morti, ma non
veniva riportato alcun nome. Dino rivide davanti agli occhi la scena terrificante, poi si rilassò sulla
poltrona, bevve un bicchiere di cognac che gli avevano lasciato come cortesia nella camera, e si mise a
dormire sino alle nove. Alle dieci, sbarbato e restaurato era al Palazzo del Governo, a colloquio con il
Dr. Anelli, un uomo pratico, di circa 60 anni, e con le idee molto chiare. Dino gli dette i fogli che
aveva avuto da Marchetti. Il Dr. Anelli sedette dietro la scrivania e lesse tutto con attenzione. Dino lo
osservò, ed ebbe la sensazione di vedergli passare negli occhi un lampo di soddisfazione. Dopo cinque
minuti Anelli ripose i fogli e commentò, fissando Dino: <<un lavoro accurato! In quanti lo hanno
visto?>>. <<credo che lo abbia visto solo il Dr. Marchetti>>, rispose Dino cercando di non sembrare
preoccupato. Anelli proseguì: <<uhm, già, a proposito, come stà il mio amico Marchetti?>>. Dino non
battè ciglio: <<l’ ho visto quattro giorni fa in ufficio, e stava benissimo!>>. quando ebbe finito di
parlare sentì un groppo in gola, ma dopo un attimo di silenzio proseguì: <<il Dr. Marchetti mi ha
chiesto anche di cominciare a muovermi in zona per cercare contatti ed individuare la persona che
cerchiamo, e che Lei mi avrebbe aiutato!>>. Anelli tolse gli occhiali dal naso, e li posò sul tavolo ,
tamburellò un pò con le stanghette, come se stesse riflettendo, poi si alzò, si diresse verso la finestra, e
disse, guardando all’ esterno: <<beh, forse è inopportuno che Lei si muova prima dell’ incontro che
avremo. In queste operazioni il coordinamento è estremamente importante>>. Tornò lentamente al
tavolo , con fare interlocutorio, e riprese a parlare. <<Il punto fondamentale per capire il significato,
ed il pericolo di questa vicenda, stà nei rapporti che intercorrono tra Hailè Selassiè ed il governo
inglese. Ufficialmente gli inglesi ignorano il Ras, ma secondo me lo considerano una pedina
fondamentale per vincere la guerra in Africa Orientale e lo stanno appoggiando. Sicuramente l' uomo
che cerchiamo è un emissario degli inglesi, e non solo del Ras.>>. Dino notò che il Dr Anelli parlava
in maniera molto diversa da tutti gli altri. La sua dialettica non aveva nulla della retorica fascista con
cui si esprimevano tutti gli altri, anche all' interno della Intelligence. A sua volta osservò: <<Se dietro
questo Sig X che sto cercando ci sono gli inglesi o no, non fa molta differenza., Il suo scopo dovrebbe
essere quello di attizzare la rivolta a danno dell' Italia>>. Anelli si sedette di nuovo, prese in mano una
penna e cominciò a giocherellare, poi tornò alla finesta, e guardando fuori, rispose: <<Non è così
semplice. Se dietro ci sono gli inglesi devi renderti conto che c' è dietro anche la loro macchina bellica
ed i loro efficientissimi servizi segreti. Questo significa che non ci troveremo davanti una rivolta di
straccioni, ma un disegno strategico di sabotaggio. I neri saranno armati e sapranno dove e quando
colpire.>>. Poi , dopo un breve periodo di esitazione, come se fosse indeciso se dire tutto, riprese:
<<Vedo anche complicazioni interne. Se la notizia dell' arrivo di questo emissario, e della
preparazione di questo complotto, dovesse trapelare, i pazzi facinorosi, voglio dire -si interruppe di
nuovo per sospirare- le camicie nere più facinorose, si scatenerebbero e farebbero a pezzi i neri per
strada, complicando ancora di più le cose>>. Anelli, pensò Dino, non è un fascista, non parla e non
pensa come un fascista. O comunque era un fascista "progressista". In ogni caso non gli aveva risposto
ancora in maniera esauriente, era come se fosse incerto se dire qualcos' altro, e provò ad incalzarlo:
<<Dottore, non mi ha ancora detto chi stò cercando, i connotati, chi lo circonda>>. Anelli era
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irrequieto, e si rialzò, andando verso la finestra. Dino ebbe la sensazione che cercasse di sfuggire il suo
sguardo. Comunque prudentemente sbirciò la strada per vedere se per caso quei frequenti viaggi verso
la finestra non servissero da segnale a qualcuno che era fuori. Non c' era nessuno sospetto in strada,
solo dei passanti frettolosi. Anche la cornetta del telefono era a posto. Anelli riprese a parlare: <<Non
so chi è il nero che deve prendere questi contatti, come ho detto. Probabilmente non è solo, e potrebbe
essere in compagnia di un inglese. Per quanto la riguarda le devo dire che la missione è molto
pericolosa. Quando uno di noi gli arriverà vicino la sua vita sarà attaccata ad un filo. Io penso che la
rivolta interna che questo tizio deve coordinare sia una pedina importantissima dell' attacco che gli
inglesi ci stanno portando, e non possono permettere che fallisca. Se è come penso, non ci troviamo
davanti ad un nero e qualche accompagnatore, ma ad una rete di complicità, di persone che devono
garantire la sua incolumità ed il successo della missione, anche a costo di eliminare chiunque. E
qualcuno del complotto potrebbe essere anche qui dentro. Per questo è fondamentale che ci muoviamo
in maniera coordinata>>. Anelli gli si avvicinò e gli tese la mano per commiato, dicendo: <<si tenga a
disposizione, perchè devo organizzare la riunione, e Lei ovviamente dovrà parteciparvi. In che
Albergo è sceso?>>. <<Albergo Impero>>, rispose Dino accomiatandosi, ed ebbe la sensazione che
Anelli volesse sfuggire il suo sguardo. Si accomiatò, ed uscì in strada preoccupatissimo. Cominciò a
camminare, come usava fare, con le spalle buttate indietro, ma il passo era meno bersaglieresco del
solito. Perchè Anelli aveva parlato in quel modo? Anelli, lo aveva scoraggiato, ed aveva cercato di
paralizzarlo. Era possibile che Anelli stesse solo recitando, e piuttosto che il suo vero scopo fosse
quello di intralciare il lavoro di Dino, e di proteggere la missione del Sig. X. In fondo il Generale
della sera prima, quello che era a cena con l' inglese coi baffi, lavorava in quell' Ufficio. Poteva essere
collegato con Anelli, e tutti e due potevano essere invischiati nello stesso complotto. Aveva fatto
benissimo a non raccontare nulla della cena, e comunque la missione che Marchetti gli aveva affidato
prima di morire era un’ altra, e doveva portarla a termine. Improvvisamente si ricordò di una frase che
aveva sentito da Zeaidita quando era venuta a casa sua per parlargli, nel 1938, “penso che il traditore
sia uno che lavora nell’ Ufficio del vicerè, ad Addis Abeba”. Zeaidita stava per caso parlando di
Anelli?
Tornò in albergo perplesso e preoccupato, e non riusciva a capire il perchè della condotta
ambigua di Anelli. Appena salito in camera si sedette davanti al tavolino, prese un foglio, e cominciò
a scrivere, e con la sua abituale meticolosità in bella calligrafia, un sommario della situazione.
Riassunto
#21 Marzo Marchetti mi manda ad Addis Abeba.
#22-23 Marzo. Viaggio stranissimo. Incontro (casualmente?) un nero, 2 italiani ed un inglese, che
vogliono restare in incognito. Il nero potrebbe essere l' uomo che cerco. Contattano un generale
(traditore?). Probabilmente vogliono neutralizzarmi.
#24 Marzo. Anelli cerca di scoraggiarmi, poi cambia tono e cerca di rassicurarmi.
Analisi
1-Ho incontrato casualmente (?) l' uomo che cercavo.
2-Un generale traditore è d' accordo con lui, e con gli inglesi, e lo stà proteggendo. Il generale
potrebbe essere d' accordo con Anelli
3-Chi è l' inglese?
4-Chi è il nero?
5- Chi sono gli altri due?
Rimase un po' perplesso a riflettere, poi prese il foglio lo piegò e lo mise in tasca, controllò
che non fossero rimaste tracce dello scritto sui fogli sottostanti, ed uscì per il pranzo. Mentre mangiava
pensò d un sistema per arrivare sino al Vicerè e consegnare il piano di salvezza. Doveva evitar di
passare attraverso i canali tradizionali, ma non era facile avvicinare il Vicerè superando il suo
gabinetto privato. Sopratutto in quel momento di estrema pressione militare e politica, chi non aveva
esitato ad assassinare Marchetti per bloccarlo, certamente non si sarebbe fermato davati a lui. Dino era
ottimista, sopratutto dopo aver mangiato, ma sentì lo stesso dei brividi freddi lungo la schiena.
Il 25 mattina presto uscì per fare colazione. Era martedì e c' era molta gente in giro per il
mercato. Dino andò a curiosare, e contrattò a lungo l' acquisto di una valigetta di pelle. Poi tornò in
Albergo. Il portiere gli dette le chiavi della camera, ed una piccola busta, nella quale trovò un biglietto
da visita con scritto
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Italo Grassi
Docente di Matematica
e sul retro: "La attendo alle 17 al caffè Selassiè per discutere del progetto. Avrò con me la cartella
grigia con i documenti. Spero che porti con se l’ oggetto." Rimise il biglietto nella busta, e conservò
tutto nella tasca dei pantaloni. Era il messaggio che aspettava.
Alle 17 il Caffè Selassiè era pieno di gente, e Dino entrò stringendo un fascicolo di cartacce
inutili. Si fermò qualche secondo sulla porta, e vide arrivare due tizi, uno con un impermeabile bianco
ed una cartella grigia sotto il braccio. Era l' inglese con i baffi, e l' altro era uno dei due uomini bianchi
che lo avevano accompagnato nel viaggio. I due lo videro, e si avvicinarono senza battere ciglio,
mentre Dino si irrigidiva, pronto ad estrarre la pistola. Appena furono vicini, quello senza i baffi disse:
<<non te l' aspettavi, vero? il mondo è piccolo>>. <<Già, rispose Dino, dove ci mettiamo?>>. <<Nella
saletta interna, non ci disturberà nessuno>>. L' uomo si mosse per primo, e Dino seguì,
preoccupandosi di essere l' ultimo del gruppo, e controllando che dietro non ci fossero altri complici.
Giunti nella saletta si sedettero, e l' inglese parlò per primo, con accento straniero appena
percettibile. <<Ci sono delle novità: le cose non dovevano arrivare sino a questo punto, ma il nostro
uomo è riuscito ad arrivare sino a qui >>. <<L' uomo è il nero che era con voi?>>. L' inglese si piegò
in avanti, e disse a voce molto bassa:<<si, è Mr. Strong>>, e si fermò, come per gustare l' effetto delle
sue parole. Dino si sentì improvvisamente molto preoccupato. Mr. Strong era il nome con cui Hailè
Selassiè, l' ex imperatore detronizzato dagli italiani, viaggiava in incognito, altro che fermarlo al lago
Tana, era arrivato sino ad Addis Abeba! <<Chi lo sa?>>, domandò. <<Ovviamente, Anelli, ed io>>.
Fu un’ altra doccia fredda. Anelli aveva parlato di “un alto dignitario dell’ entourage di Hailè Sellassiè.
<<Lui chi è ?>>, chiese Dino indicando il terzo uomo. <<Lui sa tutto>>, rispose laconicamente l'
inglese, >>. Giunse un cameriere, e prese l’ ordinazione. Quando fu andato via l’ uomo riprese a
parlare: <<c’è stato un cambiamento di programma: non abbiamo potuto fermare il Negus al Lago
Tana, e quindi lo scambio con il sosia avverrà qui. Non è colpa mia, ma vostra. I vostri dovevano
portare il sosia per lo scambio, ma non lo hanno fatto. Comunque io sono riuscito ugualmente a
ristabilire i contatti, e d abbiamo programmato un nuovo appuntamento. Ovviamente questo
contrattempo, del quale io non ho colpa, non deve bloccare il pagamento della prima rata dei soldi che
mi dovte>>. Dino rimase a riflettere per qualche attimo, poi decise, e rispose: <<io non ho la chaiave
con me, ovviamente. La porterò al prossimo appuntamento, e te la darò solo se mi porterai le prove
che la sostituzione è avvenuta realmente>>. Fissò l’ inglese negli occhi, e scandì: <<non fare il furbo,
e non cercarmi, tanto non sarò tanto scemo da farmi trovare>>. L’ inglese non insistette, con grande
sorpresa di Dino, ma domandò: che prove vuoi?>>. <<quello che ti pare, basta che sia convincente!>>.
l’ inglese alzò le spalle, ed aggiunse: <<va bene, ci rivedremo qui il 31 del mese>>. Dino lo guardò
con aria ironica: <<ottima idea, così mi aspettate per farmi la pelle. Invece ti cercherò io. Piuttosto
dammi un recapito>>. L’ inglese era evidentemente irritato, ma abbozzò: <<Albergo della grande
Italia. Ci resterò sino al 31 del mese, e non oltre. Se non avrò i soldi per quel periodo, il nostro
accordo sarà annullato. Spero di essere stato chiaro>>. Poi i due si alzarono, ed uscirono, e Dino li
seguì di li a poco.
Tornò in Albergo molto preoccupato, voltandosi ogni tanto indietro per accertarsi di non
essere seguito. Chi era questo inglese che girava indisturbato in territorio nemico portandosi appresso
Strong. Chi era l' altro bianco: un agente italiano che doveva controllare l' inglese? Quando fù in
camera controllò con cura le sue cose, per essere sicuro che nessuno ci avesse frugato, guardò fuori
dalla finestra per accertarsi che nessuno stesse spiando, o potesse tenerlo sotto tiro. Poi sedette,
estrasse di tasca il foglio con il riassunto della situazione, ed aggiunse in fondo altre note:
Il nero è HS. Marchetti aveva ragione, e forse per questo lo hanno ucciso.
L' inglese è un triplo agente
Poi tracciò una linea trasversale, e sotto aggiunse:
A)l' inglese tradisce HS e lo da agli italiani (?); od il contrario?
B)Qualcuno ((il generale) finge di proteggere HS per darlo agli italiani. Oppure lo protegge
sul serio, e vuole depistare gli italiani?
NB: in questo caso mi debbono eliminare.
60
.
finì di scrivere, e sentì un brivido di paura. Non si poteva fidare di nessuno: era finito in una
trappola bizantina di spie. Non era certo il caso di andare a raccontare i suoi dubbi ad Anelli. La sola
speranza era che il Generale stesse cercando di intrappolare HS, ma era poco verosimile. Comunque
ormai probabilmente il generale sapeva che Dino era l' uomo che lo aveva visto a cena, ed aveva tutto
l' interesse di eliminarlo. Insomma, non c' era via di uscita. La sola cosa da fare era attendere gli
eventi, e poi, quando l' inglese si fosse rifatto vivo, con le informazioni, rivolgersi direttamente al
Vicerè. Ovviamente non era certo che l' inglese si sarebbe rifatto vivo. Il 31 poteva anche scattare una
trappola per Dino. Ed ogni giorno che passava potevano cercare di eliminarlo. Si doveva guardare le
spalle con molta attenzione. Concluse che tentar di avvicinare il Vicerè mentre era nel palazzo era un
rischio eccessivo. Bisognava attendere che lasciasse l’ Ufficio e cercare di parlargli durante una
manifestazione ufficiale, ma non gli risultava che ce ne fossero in programma.
Il 26 fu uno dei giorni più stressanti della sua esistenza. Aveva gravi motivi per temere per la
sua vita, e motivi altrettanto seri per non cercare aiuto da nessuno. Si rendeva anche conto di non avere
prove sufficienti per denunciare il complotto che stava intravedendo. Era costretto a prendere tempo,
augurandosi che intanto nessuno riuscisse ad eliminarlo. Uscì per l' ora di pranzo, per arrivare ad un
ristorante nelle vicinanze, e cercò di non restare mai troppo solo, ma neppure di mescolarsi troppo alla
folla, per non essere una preda facile. La notte si barricò in camera, e dormì con la pistola a portata di
mano.
La mattina di Giovedi 27 uscì per fare colazione e comprare un giornale. Appena lo ebbe in
mano sbarrò gli occhi. Nella prima pagina lesse “Il Generale Pesenzani richiamato in Patria per
consultazioni. È partito la mattina del 25 da Massaua, e verrà sostituito dal Generale De Mattheis, che
sbarcherà il 27. Mentre camminava si sentì seguito, e si girò a guardare. Dietro di lui c' era un uomo
bianco, con un vestito color kaki ed un casco coloniale. L' uomo lo fissò dritto neglio occhi, e Dino si
girò verso la vetrina di un ristorante, fingendo di guardare, e pronto a difendersi. Il tizio si fermò a
circa un metro, fingendo anche lui di guardare, e disse, con aria distratta, ed a voce bassa: >>è
piuttosto freddo stamano. Mi piacerebbe prendere un caffè molto forte e con la crema>>. Il
riconoscimento era stato effettuato. L' uomo disse ancora: <<Farò colazione al bar del Balilla tra dieci
minuti>>. Poi si allontanò.
Dino lo raggiunse al Bar del Balilla, dopo circa un quarto d’ ora, e si sedettero a prendere il
caffè. Dopo qualche secondo Dino domandò: <<chi sei, parla chiaro e cerca di essere convincente,! Sai
la frase di riconoscimento, ma io non ti ho mai visto>>. L’ altro alzò le spalle: <<non mi dovevi
conoscere, e se Marchetti non fosse morto non mi avresti conosciuto mai, ma purtroppo le cose sono
precipitate, ed è meglio se collaboriamo, al diavolo la supersegretezza. Io sono N-2, ed il capo ti deve
aver parlato di me>>. Dino annuì, ancora non del tutto convinto. L’ altro riprese: <<sono quì da quasi
un mese. Ho saputo subito dell’ agguato e della morte del capo - sospirò- comunque ero venuto perchè
ci avevano informati che stava per succedere qualcosa di molto grave>>. Si interruppe, guardò di
nuovo in giro, ma il bar era vuoto, tranne che per il barista, che sonnecchiava nell’ angolo opposto
della sala, e riprese <<da quando sono arrivato ho frequentato alcuni locali, ed ho saputo che qualcuno
stà reclutando dei tiratori scelti per un compito delicatissimo>>. <<Di che razza li vuole?>> domandò
Dino. <<Cerca dei neri, e non ho capito perchè. Inizialmente pensavo che volesse far assassinare
qualche notabile>>. <<Poi?>> incalzò Dino. <<Sono riuscito ad identificare questo reclutatore, è un
uomo di circa trent’ anni, un italiano che fino a qualche mese fa era stato mandato al confine per
sospetto di collegamento con organizzazioni mafiose. Quando questo tizio va in giro, c’è sempre
intorno, apparentemente senza alcuna relazione con lui, un maresciallo dell’ esercito, che secondo me
lo sta controllando>>. Dino lo interruppe: <<questo maresciallo è agli ordini di Pesenzani?>>. N-2 si
aggiustò sulla sedia: <<se lo era non ho mai potuto dimostrarlo, perchè non si sono mai incontrati.
Piuttosto lo ho pedinato, ed ho visto che si incontrava con il Colonnello Greganti, e per quanto so
Greganti nell’ ultimo anno non ha mai avuto rapporti con Pesenzani. Piuttosto frequenta molto spesso
il Dr. Anelli>>. Dino rimase fulminato, poi dopo qualche secondo riprese a parlare: <<questo non lo
hai mai detto a Marchetti! Lui era convinto che Anelli fosse pulito!>>. N-2 si strinse nelle spalle:
<<sono addolorato, ma la mia missione era top secret, ed eravamo d’ accordo che avrei parlato solo
direttamente con il capo al mio ritorno, senza telefono, telegrafo, lettere, od altri cazzi. Poi quando ho
saputo che avevano ucciso Marchetti ho pensato che fosse stato per queste indagini. Oppure perchè
temevano che noi riuscissimo ad identificare il bersaglio dell’ attentato>>. Dino a quel punto fu
attraversato dal dubbio: <<tu come sai che Marchetti è stato ucciso?>>. << Sulis mi ha lasciato un
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messaggio cifrato in albergo, ma non so cosa cazzo è successo. Credo che sia lui il funzionario di
Asmara di cui parlano i giornali>>. Dino sospirò, decise di fidarsi e domandò: <<perchè hanno
richiamato in patria Pesenzani?>. N-2 si stropicciò la fronte, e riprese a parlare lentamente:
<<francamente non lo so. Io non sono riuscito a dimostrare nessun rapporto tra Pesenzani e questo
complotto, ma Marchetti, prima di morire aveva raggiunto delle convinzioni, e penso che, nel suo
ultimo viaggio in Italia, abbia convinto qualcuno a Roma dei suoi sospetti. Se questo è vero il suo
assassinio potrebbe essere una vendetta, od un modo per impedirgli di fermare il complotto.
Comunque sia il problema è che mi risulta che pure tu hai preso contatti con Anelli>>. <<Mi ci ha
mandato Marchetti>>, rispose Dino. <<Già, per questo adesso però sei in pericolo, e devi
assolutamente scomparire prima che quello ti faccia eliminare. Io ti ho avvicinato però anche perchè il
trenta di questo mese avrò il piano di cui ti sto parlando, ed avrò bisogno di te per agire. Da solo posso
fare molto poco. Fino al giorno dell' incontro cerca di girare il meno possibile. La protezione che ti
posso dare è molto limitata>>. Il discorso finì li, e Dino uscì dal bar estremamente preoccupato.
Giunti a questo punto era impossibile tornare in albergo. Girovagò per qualche ora, sperando di non
essere riconosciuto, e per accertarsi di non essere seguito. Quando fu a qualche centinaio di metri dall’
Albergo vide un capannello di ragazzi indigeni, chiamò quello che gli sembrva più sveglio, gli parlò a
bassa voce in amarico, e gli dette dei soldi. Il ragazzo partì di corsa in direzione dell’ Albergo, e sparì
nell’ atrio . dopo circa mezz’ ora tornò da una stradina laterale, con due valigie, e le portò a Dino: <<ti
ho preso le valigie e sono uscito dal balcone, signore, ma ho dovuto metterci dentro le cose che erano
sparse in tutta la stanza. Dino, che era ordinatissimo, alzò le spalle. Si aspettava che qualcuno gli
avrebbe frugato tra i bagagli. Si toccò istintivamente la tasca per controllare che la chiave da dare all’
inglese fosse ancora lì, poi dette altri soldi al ragazzo. Mentre stava per allontanarsi gli venne un
dubbio: <<hai visti nessuno nell’ atrio?>>. il ragazzo lo guardò con aria furba: <<c’ erano due uomini
bianchi seduti, ma io ho detto che andavo dal sig. Carini, come mi avevi detto tu, signore>>. Dino
annuì soddisfatto. Il sig. Carini aveva la camera vicino alla sua, lo aveva visto nel registro degli ospiti
la sera prima.
Girovagò per qualche ora, per assicurarsi di non essere seguito, e verso le venti trovò un
alberghetto periferico, piuttosot male in arnese, e ci si infilò dentro. La padrona era palesemente una
tanutaria di bordello, una donna bianca di circa 60 anni, grassa e male in arnese, e gli fece un largo
sorriso con la bocca priva di qualche dente. Mentre gli dava la chiave della camera gli alitò in faccia un
fiato insopportabile di cipolla, e riscì a mettere in mostra una tetta del peso valutabile grossolanamente
intorno ai 3 chilogrammi. Dino non riuscì a nascondere una smorfia di disgusto e orese la chiave.
Quando si fu installato in una ributtante alcova fetida, con specchi da tutte le parti, sentì bussare. Andò
ad aprire con la pistola pronta, ma era soltanto una baldracca indigena, orribile pure lei, che si metteva
a disposizione. Dino la buttò fuori, si scaraventò esausto su una poltrona. Oltretutto aveva temuto che
quella donna fosse stata mandata avanti, e che dietro ci fossero qualcuno che lo voleva assassinare.
Alle 21 uscì, si infilò in un vicolo buio, e da lì tenne sotto osservazione per una mezz’ ora la strada
davanti all’ albergo. Quando fu sicuro che non c’ era nessuno appostato andò a recuperare la sua
macchina. Dopo averla recuperata fece un lungo giro, la lasciò ad un paio di chilometri dal lupanare
dove era riuscito ad installarsi, e tornò a piedi.
La mattina dopo uscì prestissimo e si mescolò alla folla. Girovagò tutto il giorno senza
risultati, e verso sera raggiunse il quartire nero. Una donna discinta lo avvicinò lasciando intravvedere
il seno nudo sotto uno sciallle. <<Vuoi compagnia, signore?>>. Dino scostò la testa per evitare l’
orribile alito di cipolle che sembrava perseguitarlo, e rispose: <<no, sono venuto per parlare con
Riot>>. La donna lo guardò allarmata: <<non lo conosco>>. Dino insistette: <<dimmi dov’è, ti
pagherò bene>>. <<Perchè gli vuoi parlare, ti pace?>> Dino provò un senso di schifo, ma c’ era in
gioco la pelle, ed andò avanti: <<si, portami da lui>. La donna prese i soldi che gli porgeva, e lo scortò
per dei vicoletti sino ad una capanna. Dino la seguiva, stringendo il calcio della pistola. La donna gli
idicò con un gesto una porta, e lui la aprì. Un nero era seduto accoccolato in terra, e gli disse: <<Riot è
con un suo amico, devi attendere>>. Dino fece un segno di assenso con la testa, e sedette nnell’ ombra.
Dopo venti minuti si sollevò il lembo di una tenda, ed uscì un bianco sulla quarantina, assestandosi i
pantaloni, fece un cenno con la testa, ed uscì. Dino lo sqadrò, e se lo impresse in mente. Il nero fece un
cenno con la testa, Dino sollevò la tenda ed entrò. Riot, il nero di cui gli avevano parlato i suoi
informatori ad Asmara, era sdraiato di fianco, nudo e con la schiena rivolta alla porta. Agitò il sedere
dicendo: <<su, vieni, amico mio>>. Dino estrasse la pistola dicendo: <<girati, finocchio, non c’è
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tempo di giocare>>. L’ uomo, o presunto tale, si girò con lo sguardo terrorizzato. Doveva avere sui
trent’ anni. <<Parla, e velocemente-disse Dino, appoggiando la schiena alla parete, un po’ perchè
temeva che qualcuno entrasse dalla porta alle sue spalle, un po’ perchè in quel posto la cosa lo faceva
sentire comunque più sicuro. <<Che vuoi signore, non farmi male>> pigolò Riot. <<Non farmi perdere
tempo, chi è che stà reclutando dei tiratori scelti?>>. <<non lo so! Non lo so!>> squittì Riot. <<Su,
finocchio, parla e ti pagherò bene>>, insistette Dino, mostrandogli delle monete. <<Ti posso dire che
viene dal tuo paese,c che ha molti soldi ed è molto potente>>. Riot era spaventato, e Dino ne
approfittò, puntandogli la pistola minacciosamente, ed incalzandolo: <<dimmi tutto quello che sai, io
non ci perdo nulla ad ammazzarti>>. <<No, ti prego, se parlassi troppo mi potrebbe uccidere>>.
<<Pure io!>> ringhiò Dino, sperando che quello ci credesse, visto che era troppo spaventato per
pensare. Infatti Riot parlò: <<lui mi ha amato, e mi ha confidato che gli danno tanti soldi per far
uccidere un uomo importante. Poi quando la guerra sarà finita mi porterà via con lui>>. <<Insomma,
chi è questo tizio?>> Riot aprì la bocca, ma Dino non seppe mai cosa avrebbe detto. Si sentì un colpo
di pistola esploso da dietro la tenda, il finocchio spalancò gli occhi, e cadde all’ indietro, con un buco
nella fronte. Dino sparò oltre la tenda, e sentì i passi precipitosi di qualcuno che fuggiva. Sollevò la
tenda, e vide che l’ uomo accoccolato in terra era stato strangolato con una corda che ancora gli
pendeva intorno al collo. Non aveva avuto il tempo di cacciare un gemito. Uscì fuori dalla capanna, ma
si rese conto che ormai l’ assassino non si poteva più raggiungere, e si allontanò velocemente anche lui
verso l’ albergo, cercando di passare per i vicoli più nascosti.
Quando rientrò nella stamberga era sconvolto. Si muoveva lasciandosi dietro una scia di
sangue, in caccia di qualcosa di terribile, che gli sfuggiva. Che cosa stava per dire Riot quando lo
avevano ammazzato? Chi lo aveva ammazzato? Chi era l’ alta personalità a cui stavano organizzando
un attentato? Chi era l’ altro omosessuale che era stato da Riot?
A quest’ ultima domanda trovò risposta il mattino successivo. Il giornale annunciava la visita
di alcuni federali giunti da Roma per quella stessa mattina? Il,Vicerè li avrebbe ricevuti sul piazzale
anti stante il palazzo del governo. Non c’ era la possibiltà di parlare con Sua Eccellenza, ma valeva pur
sempre la pena di andare a vedere, se non altro per valutare la situazione. La cerimonia era
programmata per le 11:00, e dino si presentò alle 10:40, mescolato alla piccola folla di curiosi. Il
corteo giunse alle 11 in punto, e dalla prima macchina scese un uomo, che si tolse il casco, e si volse
alla folla raccolta facendo il saluto Romano. Era il finocchio della sera prima! Ed era anche il capo
della delegazione di ospiti, il Federale Sabelli. Dietro di lui venne il già noto federale Francesconi,
quello del treno, e della Signora Simonetti.
Il Vicerè non si fece vedere,. In sua vece si presentò il capo del gabinetto, che chiese scusa da
parte di Sua Eccellenza, impegnato in una riunione importantissima, e liquidò gli ospiti sulla porta,
senza neppure invitarli ad entrare nel Palazzo. La carovana dei federali si rimise in moto per una
destinazione imprecisata. Dino restò perplesso. Il giornale parlava di un gruppo di Federali appena
giunto dall’ Italia per portare la solidarietà del Duce. Si precisava che la legazione metteva piede per la
prima volta sul suolo Eritrea, ma il Federale finocchio Addis Abeba la conosceva, e bene pure! Anche
il Federale Francesconi conosceva bene l’ Eritrea!
Il trenta, alle diciotto e cinquanta giunse in vista del Bar. Prima di entrare vide un giornale in
terra, e si fermò a raccoglierlo. C' erano notizie sui movimenti delle navi italiane nel Mediterraneo.
Mentre leggeva sentì degli spari, e si appiattì contro il muro. Dal Bar del Balilla uscirono di corsa due
uomini, e saltarono su una macchina scura che arrivava a gran velocità. Dino corse nel bar. All' interno
il barista, pallido, era appiattito contro il muro, ed alcuni avventori guardavano terrorizzati verso un
angolo, dove, in un lago di sangue, giacevano due corpi. Dino, inorridito, riconobbe il un uno l' inglese
con i baffi. Si chinò sull' altro corpo, e lo rovesciò. Era N-2, con la testa spaccata, da cui forse usciva
materia cerebrale. Il poveretto stava morendo, ma biascicò ancora con sufficiente chiarezza: <<Ilpiano,
non lo hanno preso. Lo ho io>>. Poi non disse più nulla. Era morto. Dino osservò il corpo dell' uomo,
infilò due dita nel panciotto, gli tolse l' accedisigari, e provò ad aprirlo. Poi lasciò perdere, lo mise in
tasca, e corse verso il bagno, entrò, sfondò la finestra, e fuggì attraverso il cortile. Ormai la sua pelle
non valeva un tallero bucato. Doveva solo tentar di fuggire verso Asmara.
Raggiunse più velocemente possibile l' alberghetto dove si era fermato, recuperò le valigie, le
caricò in macchina, e si spostò in un altro albergo, più periferico. Nessuno lo aveva seguito. Nascose la
macchina dietro una casupola, due isolati più in là, e rimase in camera per tutta la giornata del trenta.
Durante il giorno controllò l'accendisigari, e con pazienza, svitando alcune viti, vide comparire il
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famoso microfilm. Con pazienza, una lente di ingrandimento, ed una luce molto forte, riuscì a leggere:
“LUNEDI 31.03.95 il bersaglio si reca in ufficio tutte le mattine tra le 9:40 e le 10:00”. Dino cominciò
a capire, e si sentì agghiacciare il sangue. Proseguì la lettura: <<sei motociclisti precedono la sua
automobile, e sei la seguono. L’ agguato sarà realizzato nel punto in cui la strada A sbocca nel
piazzale. Nel fotogramma successivo c’ era lo schema.
Auto z
Palazzo X
1o cecchino
giardini
A
Pal del
Governo
P
Auto
vittima
Porticato
2o cecchino
Si capiva chiaramente. Una auto, Z, doveva bloccare il corteo del Vicerè, i cecchini 1o e 2o, appostati
rispettivamente nel portico, e nel portone del palazzo X, , dovevano aprire il fuoco.Ripose l' orologio
nella tasca interna della giacca, e cominciò a riflettere. Chi aveva ucciso N-2 e l' inglese nel Bar, e
perchè? l' intelligence inglese aveva interesse a recuperare il microfilm, ed era molto strano che lo
avessero lasciato sul cadavere. Anche se gli assassini avevano avuto poco tempo, erano certamente
uomini esperti che sapevano dove trovare quello che cercavano. Invece gli uomini del Generale
potevano avere interesse ad uccidere i due per non mettere in pericolo Mr Strong, e non fare saltare la
copertura del complotto, e forse non sapevano nulla del microfilm. Si mise le mani nei capelli! Come li
poteva fermare? Chi poteva aiutarlo ormai? Marchetti era morto , N-2 era morto, Anelli era
probabilmente un traditore! Per la prima volta si rese conto di essere rimaso solo. Di tutti gli uomini
del servizio segreto era rimasto solo Sulis, ma che poteva fare quel poveraccio, ammesso che fosse
facile trovarlo al telefono. C’ era un secondo fotogramma, e Dino riuscì a leggerlo dopo molto tempo,
aiutandosi con la lente di ingrandimento. Era una lista di nomi:
M
K
1) Mr John Harris
1) Dr.Luigi Marchetti
2) Paolo Franceschelli
2) Paolo Grossi
3) Abouna Markos
3) Giovannino Sulis
4) Gustavo Antonini
4) Dino Rossi
5) Rocco Antonelli (N2)
6)Luciano Vittori
Dino Rossi! Ecco perchè si era salvato la pelle. C’ era stata una confusione di nomi tra lui e
Paolo Rossi, il carabiniere. Della lista di sinistra John Harris doveva essere l’ inglese ucciso nel bar, e
Abouna Markos era probabilmente qualcuno che doveva avere i soldi per realizzare il piano di
sostituzione del Negus. La lista a destra era chiarissima, gli uomini del servizio segreto: Marchetti,
ucciso! Paolo Grossi, alias Julius, ucciso! Rocco Antonelli, alias N-2, ucciso! C’ era stata poi la
confusione tra Dino Tatti e Claudio Rossi, che probabilmente aveva salvato la pelle ad entrambi, e poi
c’ era questo Luciano Vittori, che Dino non aveva mai sentito nominare, e che probabilmente non c’
entrava nulla. Trascrisse tutto su un foglio di carta, e lo riguardò a lungo. Il K poteva significare Kill,
uccidi in inglese, ma M che voleva dire? Forse “Money”, la gente che doveva percepire i soldi! Non
riusciva a capire perchè l’ inglese avesse i due piani, uno per uccidere il Vicerè, l’ altro per salvarlo. Ci
potevano essere due spiegazioni, ugualmente valide, una che stesse dando ad N-2 il piano dell’
attentato per sventarlo, e la lista dei nomi per non farli arrivare agli inglesi, oppure che glieli stesse
dando per realizzare l’ assassinio del Vicerè e per bloccare il complotto contro Hailè Selassiè. L’
accaduto si poteva leggere in due modi: i due uomini uccisi comparivano entrambi nella lista.
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Comunque si rese conto che non sarebbe mai riuscito a capire cosa in realtà stavano facendo i due
uomini, ma preferì credere alla prima spiegazione, anche considerando che N-2, ualche attimo prima di
morire, gli aveva indicato il modo di trovare i microfilm. Si alzò, e guardò fuori dalla finestra: non c’
era nessuno, e stavano scendendo le prime ombre della sera. Appoggiò il palmo della mano sui vetri
della finestra, e percepì al contatto il freddo dell’ esterno. Tornò a sedere ad tavolinetto traballante
della stanza, tenedosi la testa tra le mani: non poteva fare altro che tentar di sventare il complotto da
solo. Dino non era nato per fare l’ eroe, non aveva mai pensato di dover fare atti di eroismo. Ma ormai
si trovava in quella situazione, senza neppure rendersi conto di come c’ era finito. E neppure se ne
erano resi conto i suopi amici, che probabilmente non avevano messo in bilancio di poter morire. L’
unico ad aver compreso la gravità della situazione era stato Marchetti, che aveva anche presagito la sua
stessa fine. Dino guardo il soffitto quasi imbambolato, fissando un ragno che si spostava da una parete
a quella di fronte. Perchè il ragno non stava tessendo la tela? Forse perchè non c’ erano mosche da
catturare? Sospirò, e decise che cosa avrebbe fatto.
Passò due ore chino sul tavolino davanti ad una mappa, poi si alzò e bruciò i
due fotogrammi con l’ accendisigari che aveva tolto ad N2 nel bar, e getto i residui accartocciati nello
scarico del bagno. Ormai il piano per fermare il Negus, la grande operazione pianificata da Marchetti,
era finita! Con un sospiro gettò via anche la chive nello scarico del bagno, e la spinse via con lo
spazzolone. Poi si gettò esausto sul letto, senza togliere gli stivali, continuando a pensare fissamente ai
due obbiettivi: fermare gli attentatori, e far arrivare il cipollone con il piano di salvataggio, al Vicerè.
La mattina successiva giunse alle otto davanti al Palazzo del Governo, e sedette in una panca
del girdinetto, fingendo di leggere alcune carte, ma senza perdere d’ occhio la Via di accesso, che nel
piano veniva definita Via A. C’ era un grande viavai di carri e persone a piedi, ma non vide nulla di
sospetto. Alle 8:50 arrivò a piedi il Dr Anelli, e si infilò rapidamente nel portone del Governatorato.
Mentre lo seguiva con la coda dell’ occhio Dino ebbe una intuizione. Se i cecchini fossero stati già
piazzati dalla sera prima. Si alzò ed andò velocemente verso il portico. Camminò due volte avanti ed
indietro, ma non c’ era nessuno fermo o sospetto. Poi traversò la strada ed andò nel palazzo X. Si infilò
nel portone, e dietro vide un cortile. Ci arrivò senza diffcoltà. Il cortile era un giardino, e ci si
affacciava solo il retro della palazzina X. Dino osservò bene l’ architettura del palazzo. L’ unico
accesso agli appartamenti era sul retro, ed era rappresentato da una scala che connetteva il cortile ad un
ballatoio al primo piano, su cui si affacciavano le porte di due appartamenti, e poi al ballatoio del
secondo piano, su cui si affacciavano gli ingressi di altri due appartamenti. In pratica c’ erano quatro
appartamenti, ed un terrazzo, con un unica via di accesso. Dino salì silenziosamente sino al primo
piano, e bussò alla prima porta. Gli aprì una nera, a cui chiase: <<abita quì il Dr. Anelli?>>. <<no,
signore, rispose la donna sorpresa, ci sono solo io, il mio padrone è uscito>>. Dino buttò uno sguardo
nell’ appartamento, e salutò scusandosi. La scena si ripetè per l’ altro appartamento, e per uno di quelli
del piano di sopra. Al quarto appartamento non ebbe risposta. Preoccupato guardò l’ orologio, e vide
che erano le nove e quaranta, tra venti minuti doveva arrivare il corteo Vicereale. Bussò ancora, ma
non ebbe risposta. Era meglio non perdere tempo, ed assicurarsi che non ci fosse un cecchino nel
terrazzo. Salì ci corsa la terza rampa, ed arrivò alla porta del terrazzo, e la ritrovò chiusa. Le 9:50, non
poteva perdere tempo, sfondò la porta con una spallata, e piombò, pistola spianata, nel terrazzo: anche
li nessuno. Fortuna che non c’ eraa biancheria stesa ad occludere la visuale. Raggiunse il parapetto, e
guardò in basso. Il lato del portico era pieno di gente, se il cecchino fosse stato li in mezzo, non
avrebbe mai potuto identificarlo, neppure dall’ alto dove si trovava, perchè le colonne coprivano gra
parte della visuale. In quel momento sentì un rumore sospetto sotto di se: era l’ appartamento in cui
non aveva risposto nessuno. Le 9:55! Il corteo non era ancora comparso, ma nella piazza c’ era una
macchina sospetta, presumibilmente quella che avrebbe dovuto bloccare il corteo. Dino si girò e corse
lungo la scala sino al piano sottostante, con la pistola spianata, e si gettò sulla porta chiusa con tutte le
sue forze. La porta cedette, e lui ruzzolò dentro, e si scaraventò sul pavimento, tenedo la pistola con le
due mani. Ma non c’ era nessuno! La finestra che dava sulla strada era chiusa, ed era l’ unica finestra
dell’ appartamento. Si precipitò sulle imposte aprendole: 3la finestra accanto era aperta, e si vedeva
sporgere la canna di un fucile. Da sinistra stava spuntando il corteo del Vicerè. Dino corse di nuovo sul
ballatoio, e si precipitò sulla porta dell’ appartamento vicino. Quando aveva bussato gli aveva aperto
una donna nera, quindi nell’ appartamento c dovevano essere almeno due persone. Tirò una pedata
violenta alla porta, che si spalancò. L’ uomo appoggiato alla finestra si voltò puntadogli addosso il
fucile, mentre la sagoma nera della donna che gli aveva risposto, compariva di fianco. Dino si buttò per
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terra sparando, mentre la donna ruzzolava in terra con un grido, colpita involontariamente alle spalle
dal suo compagno. Nei secondi che seguirono tutto fu confuso, ma Dino si ricordò di avere sparato
prima che l’ uomo potesse ricaricare il fucile, e di averlo copito alla spalla destra. Si rialzò di scatto, e
vide che l’ uomo cercava di raccogliere il fucile, e gli fu addosso. Si avvinghiarono lottando verso la
finestra, e Dino cercò inutilmente di colpirlo con il calcio della pistola ormai scarica. Poi l’ uomo, che
muoveva male il braccio sinistro insanginato, si svincolò ed afferrò un bastone che era in terra, ma
prima che potesse rialzarsi, Dino, che aveva tirato di boxe, lo colpì con un uppercut violntissimo al
mento. Il nero barcollò, indietreggiò, perse l’ equilibrio, e volò fuori dalla finestra spalancata. Dino si
toccò, non era ferito, si girò e corse fuori. In strada ormai il corteo doveva essere quasi all’ altezza del
porticato, e la macchina degli assassini stava già mettendosi in posizione. 10:04! Dino sbucò dal
portone, e si trovò in mezzo ad una confusione indicibile. La folla si accalcava inorno al corpo dell’
uomo precipitato, e nessuno lo notò uscire. Il corteo vicereale aveva rallentato. Dino traversò la strada,
ma mentre stava per raggiungere il porticato, si sentì un colpo di pistola, ed un motociclista della scorta
del vicerè cadde con il suo mezzo. Il corteo si bloccò, gli altri motociclisti si fermarono e e fecer0o
cerchio intorno alla macchina del Duca. Contemporaneamente una automobile ferma sul piazzale si
mise in moto e si allontanò rapidamente. Dino si fermò, e dopo un secondo si allontanò a passo
normale verso la periferia della città. L’ attentato era fallito, e nella confusione nessuno lo aveva
notato. Ora doveva mettersi in salvo, e cercar di recapitare il piano di salvataggio a Sua Eccellenza.
. Sarebbe partito la sera stessa, ma prima doveva cercar di capire se la strada per Asmara era
ancora libera. I giornali riportavano che le truppe italiane stavano ripiegando disordinatamente verso la
linea dell' Auasc, inseguite dalle truppe del Generale Cunningham. Peraltro l' Alto Comando aveva
diffuso un comunicato tranquillizzante, in cui si parlava di ritirata strategica. La sera del trentuno non
riuscì a partire, perchè c' era troppa animazione in giro, e troppi carabinieri. I quasi 43.000 italiani
residenti ad Asmara dovevano essere evacuati sotto controllo dell' esercito. Il 6 Aprile gli Inglesi
sarebbero entrati in città, scortati dalla polizia Italiana. In quel momento era impossibile uscire dalla
città. Fuori ci potevano essere bande di ribelli, e di sciacalli, anche bianchi. Ad ogni angolo si poteva
trovare un cecchino nero, ansioso di vendicarsi della barbarie che aveva dovuto sopportare, o qualche
sciacallo. E poi era impossibile sapere se scappando verso Asmara non si rischiava piuttosto di finire
dritti nelle braccia degli Inglesi.
Dino aveva preso alloggio in un albergo dove c' era un telefono, e da quello tentò invano di
mettersi in contatto con Giovannino Sulis, ma non ci fu niente da fare. Per tutto il primo aprile il
movimento dei militari fu molto intenso, e Dino non si mosse. Il due aprile, nel pomeriggio, decise di
non perdere più tempo, e di lasciare l' albergo. Preparò le sue cose, ma quando scese in strada per
partire, non trovò più la Alfa Romeo. Inizialmente ebbe paura che fosse stata rubata perchè era la sua,
cioè da qualcuno che voleva bloccarlo li per poterlo eliminare più facilmente, ma poi vide che c' erano
in giro bande di neri che scorrazzavano su macchine rubate, e si tranquillizzò. Probabilmente i ladri
erano dei delinquenti comuni. In quella baraonda era anche verosimile che nessuno avesse più
interesse, e forse neuure la possibilità di eliminarlo. Comunque se ne doveva andare da li al più presto,
e si mise a cercare una via di uscita. Alla fine gli venne in mente che un vecchio usuraio nero avrebbe
potuto aiutarlo, rimediandogli una macchina e documenti "sicuri", ma sapeva anche che era un uomo
infido. Non perse tempo a riflettere, tanto non aveva scelta. Traversò a piedi mezza città, con la mano
sul calcio della pistola, verso la casa dell' usuraio. Se lo avessero preso i neri la pistola lo avrebbe
potuto salvare, ma se lo avessero fermato i carabinieri, o se fossero entrati nel frattempo gli inglesi,
avercela addosso poteva significare la fine. Con quel clima le spiegazioni servivano a poco.
Fortunatamente non accadde nulla. Arrivò al portone dell' usuraio, e trovò un gran movimento. L'
uomo era stato ammazzato, ed il corpo era stato scoperto da poco. Un cordone di carabinieri tratteneva
a stento la folla dei neri, che accusavano gli italiani del delitto. Mentre si allontanava velocemente,
Dino venne raggiunto da un uomo, anche lui sardo, che lo conosceva di vista, e che gli offrì a
pagamento, di portarlo verso l'Amba Alagi, dove pareva che fosse diretto il Vicerè. Dino gli avrebbe
dato subito un quarto della somma pattuita in talleri, che in quel momento valevano molto più delle
lire, ed il resto all' arrivo. Bisognava accettare, non c' era altra via di uscita.
Partirono al tramonto del tre Aprile. La balilla prese la strada per Alomatà, dove contavano di
fare la prima tappa. Dopo 20 Km dovettero fermarsi, in coda ad una lunga fila di veicoli, perchè i
carabinieri avevano sbarrato la strada, e facevano spostare le auto verso il ciglio per tenere libera la
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carreggiata. Verso le 21 e 30 arrivò una squadra di motociclisti, ad alta velocità, con i fari
relativamente bassi. Poi quattro o cinque camionette cariche di soldati con le mitragliatrici spianate,
che precedevano una decina di Alfa Romeo di grossa cilindrata. Il convoglio era chiuso da altrettanti
motociclisti. Amedeo di Savoia Aosta, con il suo seguito, correva ad infilarsi nella trappola dell' Amba
Alagi, con la illusione di bloccare gli inglesi, ed impedire che le truppe del Generale William Platt e
quelle del Generale Cunningham si congiungessero. L' illusione sarebbe finita alle dodici del 17
Maggio, 44 giorni dopo,con la firma della resa, e sarebbe costata un mare di sangue.
Ma torniamo sulla strada per Alomatà alle 22 e 30 di Giovedi tre aprile 1941. La balilla su
cui Dino viaggiava, e tutte le altre auto, dovettero tornare indietro verso Addis Abeba. Dopo il
passaggio del corteo vicereale, i carabinieri avevano bloccato la strada con il filo spinato ed avevano
spianato le armi, impedendo a tutti di proseguire.
Quella notte Dino dormì a casa del compagno di fuga, una modesta casa alla periferia della
zona bianca, tra le proteste della Madama (la negra con cui il sardo conviveva more uxorio), che aveva
capito che stava per essere abbandonata ed era furibonda. Oltretutto era pericolosa, perchè avrebbe
potuto aizzare contro di loro i suoi connazionali, e Dino dovette dormire con un occhio solo. Il giorno
successivo, mentre girovagava per la città alla ricerca di una via di uscita, ebbe una esperienza
allucinante. Per sfuggire alle bombe che cadevano su Asmara si infilò di testa in un tubo di largo
calibro, e ci rimase bloccato all' altezza della cintola. Il tubo oltretutto era in pendenza. Alcuni africani,
cessato il bombardamento, videro le sue gambe che si agitavano e lo tirarono fuori. Uno di questi era il
ragazzo di Massaua, quello che aveva perso la giacca in mare. Il ragazzo era con una banda di
vendicatori, ma riconobbe Dino, calmò i suoi amici, e gli salvò la pelle.
All' alba di Domenica 6 aprile, mentre gli inglesi, scortati dai poliziotti italiani, entravano in
Amba Alagi, provenienti da sud est, Dino ed il suo compagno di viaggio uscivano dalla città in
direzione nord-est, verso Dessiè. Il sardo era riuscito, Dio sa come, a convincere i carabinieri di
guardia al posto di blocco, e li avevano lasciati passare. Dopo molte ore di viaggio e di paura, perchè
temevano una imboscata dei ribelli, o patrioti, a seconda dei punti di vista, giunsero a Combolcià, dove
c' era un modesto campo di atterraggio costruito dagli italiani, e dove era accampata una compagnia
del genio italiano. Vennero accolti dai soldati, e divisero con loro il pasto, a base di gallette e scatolette
di carne. Rimasero nel campo per dodici giorni. Il tempo trascorreva lentamente. Non si riusciva a
capire assolutamente nulla delle sorti della guerra, e le poche notizie che filtravano erano
contraddittorie. Comunque l' ottimismo iniziale si stava stemperando. Il pomeriggio del 19 aprile fu
insopportabile: il caldo era tremendo, e l' ansia cresceva. Dino, verso le 16, finì di scrivere delle lettere
indirizzate ai suoi ed alla fidanzata, le mise sul tavolo, le ricontrollò meticolosamente, come era nel sua
carattere, rifinì il taglio delle t, le piegò, le mise in busta, e poi sospirò pensando che comunque non
sapeva come spedirle. Alla fine si mise in testa il casco coloniale, infilò le lettere in tasca ed uscì. Era
un sabato afoso. Il giorno prima era caduta la pioggia, ed aveva dato un po' di refrigerio, ma adesso era
ripiombata una cappa di caldo. Nell' aria c' era un senso di arsura che bruciava la gola e la sensazione
continua di angoscia per quel che poteva accadere. Improvvisamente da una strada laterale sbucò un'
ambulanza seguita da due macchine sconquassate. I conducenti sventolavano un fazzoletto bianco.
<<Sarà caduta un' altra linea di difesa>>, pensò, e non aveva torto. Poi passarono dei tizi, con il fez e
la camicia nera, che avrebbero dovuto essere al fronte. Dino percepì alcune parole: <<.. che cazzo
stiamo a perdere tempo, lascai che al fronte crepino i regolari>>. Un altro disse: <<Vediamo se c' è
qualche nera da fottere>>. Poi scomparvero cantando canzoni fasciste. Dino si augurò che qualcuni li
mettesse alla forca. Continuò a camminare, cercando di capire se c' era una via di uscita sicura da
Combolcià. Aveva riflettuto a lungo quel pomeriggio, ed il precedente, mentre la pioggia batteva sui
vetri del rifugio, ed aveva deciso di andare all' Amba Alagi. Finisse come diavolo doveva finire!
Mentre rimuginava questi pensieri incontrò dei soldati feriti, uno con una pezza arrotolata intorno ad
una mano, uno con una ferita aperte sulla fronte, con il sangue ormai rappreso. Trascinavano una
barella di legno, coperta con un grosso telo. Da un lato penzolava il braccio esangue del loro
compagno morto. Dino era credente, e si fece il segno della croce. Uno dei feriti disse laconicamente:
<<Stanno sfondando le linee da sud>>. Poi i due continuarono il loro triste cammino, trascinando la
barella.
Erano le 18, il caldo e la arsura erano diventati insopportabili. A Dino venne voglia di bere
del latte, e cominciò a camminare verso il villaggio indigeno, dove sapeva di poterlo trovare. Dopo
aver girovagato un pò vide un ragazzo che pascolava gli zebù, e gli chiese in amarico come doveva
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fare per trovare il latte. Era un ragazzo simpatico, il cui padre una volta era stato a Roma, con una
delegazione di notabili, e si offrì di accompagnarlo. Gli disse che però c' era molta strada da fare.
Dino, quando si trattava di cercare il cibo non conosceva ostacoli, ed insieme i due camminarono, nella
luce rossa del tramonto, e poi nel chiarore della luna di una tiepida notte di mezzo aprile, per molti
chilometri, insieme alla mandria di Zebù. Dino ripensò a Tonara, e per un momento desiderò
ardentemente di essere a casa, gli rivennero in mente i genitori, i fratelli, i compagni di scuola, le serate
che aveva passato a parlare con gli amici, seduto sui gradini della chiesa. Che diavolo ci faceva perso
tra i monti dell' Africa Orientale? Il pensiero durò poco. Dino era un uomo pratico, e quando si trovava
nelle situazioni difficili si concentrava su come uscirne, o per lo meno come uscirne con il minimo
danno e non dava spazio ai sentimentalismi. Adesso voleva solo trovare il latte. Non era solo una
questione di gola. Dino era nato in una terra dura e povera, in cui era necessario lottare per mangiare e
sopravvivere. Aver da mangiare lo rassicurava. Il cibo da forza, è una convinzione atavica!.
Finalmente arrivarono a casa del ragazzo, che era quasi mezzanotte. Era una casupola ai bordi del
villaggio, ed a guardia c' erano due cani. Il padre del ragazzo aprì la tenda che fungeva da porta e li
fece entrare. Si sedettero su delle sedie di paglia, con una intelaiatura mista, perchè oltre al legno era
tenuta insieme da tubi metallici arrugginiti, ed il ragazzo spiegò il motivo della visita al padre. L'
uomo chiamò tutti i suoi familiari, che erano una infinità, perchè facessero compagnia all' ospite, e poi
andò a mungere le capre. Dino cominciò a parlare del tempo, del raccolto, e di tutto quello che poteva
interessare quei contadini. Era abilissimo a parlare, e poi parlare con la gente era stato il suo primo
lavoro, quando era un residente. Dopo un po' l' uomo ritorno con il latte, Dino pagò e si apprestò a
tornare indietro immediatamente, ma i suoi ospiti lo sconsigliarono, perchè avrebbe perduto la strada, e
perchè in giro c' erano animali selvaggi e ribelli, e si offrirono di ospitarlo per quella notte. Non era
una cattiva idea, anche perchè era stanchissimo e così si fermò in quella modesta abitazione a prendere
il thè ed a riposare. Però era destino che non potesse passare tranquillamente neanche quella notte.
Prima che si addormentasse la madre del ragazzo si presentò con un braciere, e gli sparse sul capo
della cenere pronunciando parole incomprensibili. Era il rituale della danza della morte!! Gli si
drizzarono i capelli e gli venne il sudore freddo. Non aveva neppure armi. Per fortuna il pastorello, con
la grande sensibilità che hanno i giovani, capì e lo rassicurò: la pantomima della cenere era un augurio
aspecifico di buon viaggio, e quel rituale era ovviamente identico, sia che il viaggio si facesse via
terra, che per via eterea verso l' Ade. Comunque Dino non rimase del tutto tranquillo, e quella notte
dormì con un occhio solo su un pagliericcio durissimo. Oltretutto per la preoccupazione gli era anche
passata la voglia di bere il latte! La mattina successiva si alzò prestissimo, e si mise immediatamente in
cammino, rattrappito dal dolore per la notte passata sul pagliericcio. Quando finalmente arrivò in vista
dell' accampamento del genio, il sole era già alto, e si rese conto le truppe inglesi avevano sorpassato il
campo di aviazione. Dino non seppe mai se gli inglesi avessero catturato durante la notte l'
accampamento, o se i soldati del genio fossero fuggiti davanti agli invasori, e non seppe mai se la fame
lo aveva salvato o lo aveva perduto. Stà di fatto che indietro non poteva tornare, e se voleva tentar di
proseguire il suo viaggio verso Asmara poteva solo valicare le montagne diagonalmente rispetto al
senso di marcia degli inglesi, puntando sulla cittadina di Dessiè, dove sicuramente vi erano ancora
truppe italiane. Visto che non c' era altro da fare partì immediatamente, e camminò per due giorni da
solo, in una situazione tragica. Poteva incontrare in ogni momento ribelli, animali selvatici, briganti di
qualunque razza, inglesi. Comunque gli andò bene ed incontrò solo alcuni pastori, brava gente, che gli
regalarono un pò di latte. La prima notte di viaggio dormì in un casolare abbandonato, ed il secondo
giorno, al tramonto, e con una fame da lupo, raggiunse finalmente Dessiè. Arrivato alle porte della
cittadina venne preso in consegna dai militari della guarnigione, che lo fecero interrogare per mezz' ora
da un graduato di Bari, un imbecille che voleva farlo arrestare "perchè non collaborava a dare
informazioni strategiche sulla posizione degli inglesi". Alla fine si convinse che Dino non sapeva nulla
e lo lasciò perdere, anche perchè era finito il suo turno di servizio. Dino venne spedito a dormire in un
ricovero di civili, dove rimase, con una angoscia tremenda, per tre giorni. Alle 11 del Venerdi
iniziarono le cannonate anche su Dessiè. I primi colpi arrivarono a segno sul mercato indigeno, e poi
sulle case. Gli abitanti di colore scapparono sulle montagne imprecando contro gli italiani che
portavano sciagura e morte. Le autorità militari fecero trasportare le donne ed i bambini all' Albergo
Ciao, che veniva considerato zona di minor rischio, e per evitare inutili spargimenti di sangue,
consigliarono a tutti gli uomini di consegnarsi spontaneamente agli Inglesi. Dino non ne volle sapere.
Non si fidava degli inglesi, anzi li odiava e non sopportava l' idea di arrendersi, e poi voleva tornare ad
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Asmara, o per lo meno voleva andare all' Amba Alagi. Senza contare che il suo status di civile lo
avrebbe esposto a guai molto grossi se lo fosse finito in mano ai nemici. Doveva trovare il modo di
andarsene da li. Dopo un po', girando per la cittadina riuscì ad infilarsi in un camion, insieme ad alcuni
ufficiali, che volevano andare verso l' Amba Alagi, dove era cominciato l' ultimo atto di quella guerra.
Sul camion avevano caricato una mitragliatrice, la Shwartzlose, un residuato che gli italiani avevano
tolto agli austrici durante la guerra del 15-18, e che comunque rappresentava la parte più consistente
dell' apparato bellico nazionale. D' altro canto per Dino non c' erano altre soluzioni. Si rendeva conto
che l' Amba Alagi sarebbe caduta, ma se lo avessero catturato lì avrebbe potuto passare per militare di
leva, ed avere il trattamento dei prigionieri di guerra, e se fosse morto almeno sarebbe morto
onorevolmente. Il viaggio cominciò sotto pessimi auspici. Appena partiti dovettero cambiare un
pneumatico, e tutte le volte che incontravano una salita il motore cominciava a fumare. Dopo qualche
chilometro vi fu il pericolo di uno scontro a fuoco, perchè il camion venne fermato da un plotone di
Carabinieri, comandato da un maggiore, che pretendeva di mandarli indietro. Dopo i primi minuti di
discussione il maggiore ordinò ai suoi di puntare i fucili, per risposta un ufficiale sul camion fece
armare la mitragliatrice. Era una escalation pericolosissima, ed apparentemente nessuna delle due parti
intendeva cedere. Dino si rese conto che si doveva fare qualcosa di meno idiota di una battaglia
fratricida, e decise di rischiare. Si intrufolò tra i due gruppi: <<Maggiore, devo parlare assolutamente
con Lei privatamente>>. Intanto aveva tirato fuori i suoi documenti di riconoscimento, che teneva ben
nascosti nei vesiti, e glieli mostrò. Il maggiore li verificò con calma. <<Venga!>>. Dino fece lavorare
velocemente il cervello. Disse che era con due colleghi in incognito e che dovevano passare ad ogni
costo con tutto il camion, in modo che se gli Inglesi li avessero intercettati avrebbero avuto una
possibilità di copertura. Il maggiore non era del tutto convinto, ma almeno ora aveva un alibi per
cedere con onore davanti alla mitragliatrice, e li lasciò passare. Il camion ripartì traballando. Per
fortuna a bordo nessuno fece domande sull' accaduto, anche perchè dopo alcuni chilometri finirono in
una imboscata di ribelli indigeni che spararono sul camion mentre affrontava una curva, e due ufficiali
morirono. Uno dei due, quello che aveva ordinato di spianare la mitragliatrice, era in piedi e parlava
con Dino che era seduto di fronte. Il colpo gli trapassò la gola, ed il sangue schizzò in faccia a Dino ed
agli altri. Il guidatore si rese conto di quel che accadeva, ed accelerò la corsa, sbandando. L' altro
ufficiale, che si era alzato in piedi per rispondere al fuoco, cadde fuori dal camion e finì contro una
roccia. La corsa proseguì, e tra i superstiti cadde il silenzio. Quando giunsero finalmente ai piedi dell'
Amba Alagi il camion si fermò per motivi tecnici. Era prevedibile, ed erano tutti convinti che fosse
stato un miracolo arrivare sino lì. Era ormai il crepuscolo. Mentre apettavano che venisse riparato, gli
uomini di sentinella dettero l' allarme. In lontananza avevano avvistato un sidecar con a bordo due
civili. Erano due postini che venivano da Asmara, ed erano in marcia da tre giorni. Portarono la notizia
terribile, anche se attesa: Asmara era caduta, gli Inglesi avanzavano. Dino si sedette su un paracarro
con la testa tra le mani, ad ascoltare il racconto dei fatti. Nell' alba piovigginosa del primo aprile,
martedi, Sua Eccellenza Barile, il Segretario Generale del Governo, si era incontrato con gli Inglesi
sulla strada di Cheren, e li aveva accompagnati al Palazzo del Governatore per la cerimonia della resa.
Poi erano arrivati gli scozzesi con le cornamuse, poi la decima brigata del Brigadiere Generale Rees.
La maggior parte di militari italiani aveva evacuato la città per tempo. Nell' ultimo treno per Massaua,
che era partito la sera precedente si erano intrufolati molti civili, probabilmente anche i colleghi di
lavoro di Dino. Questa certo era una buona notizia, ma per il resto il guaio era molto grosso. Gli
Inglesi avrebbero potuto mettere facilmente le mani su tutti i documenti custoditi nell' ufficio di Viale
De Bono, e peggio ancora su quelli che Dino custodiva in casa. Era chiaro che non poteva più
assolutamente usare la sua identità. Intanto il tempo passava, ed era sempre più evidente che il camion
non si poteva riparare. Tutti i viaggiatori decisero di allontanarsi a piedi da quel camion maledetto, che
oltretutto, poteva richiamare la attenzione di qualche pattuglia aerea nemica. La buona stella di Dino
comunque ricomparve all' orizzonte. Dopo avere girovagato per un paio d' ore senza incontrare
nessuno, vide all' orizzonte delle luci fioche. Si avvivinò con precauzione, e riconobbe la sagoma di un
convento. Quando fu più vicino lesse: "Convento dei buoni Frati di Quoram". Bussò al portone diverse
volte, ma non rispondeva nessuno. Dopo molto tempo si accese la luce di una finestra, e dopo molto
altro tempo si aprì la porta, e comparve un frate insonnolito, con la barba ed una candela in mano.
Dino lo fissò perplesso, colpito dallo strano aspetto familiare dell’ uomo, ma il frate non battè ciglio, e
lo fissò dritto negli occhi con aria interrogatoria. <<Fratello, mi scuso, ma purtroppo mi sono perduto,
ed ho fame. Vengo da Addis Abeba e sono diretto ad Asmara, ma quello che stà accadendo mi ha
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portato fuori strada. Sono un funzionario del governo, mi potete ospitare?>>. il frate lo fece parlare
sino in fondo, senza interromperlo, poi parlò con un forte accento frusinate: "Mbè, Fratello, tenemo da
sentì chello che dice ju Priore, ma mo lu Priore sta a dormì. Puoi tornà dimani?". Dino insistette: <<Io
non so dove dormire, e restare qui fuori è pericoloso. Non puoi farmi parlare con l' economo?>>. <<L'
Iconomo nun ce stà, s' è dato perchè tiè paura dell' inglesi>>. In quel momento il colloquio fu
interrotto dall' arrivo del Priore, che parlottò a lungo con il confratello, poi si avvicinò e fu molto
comprensivo. Fece entrare Dino, e gli dette un saio, ed il nome di Padre Alippio. Poi, prima che
sorgesse l' alba, gli fece nascondere gli abiti ed i documenti nel doppio fondo della pedana del
confessionale. Passarono tre giorni; Padre Alippio pregava, faceva la vita di comunità, e tirava la
cinghia per la sobria alimentazione dei monaci. Ma le notizie dell' avanzata inglese erano sempre più
preoccupanti: gli inglesi si comportavano crudelmente, anche se indubbiamente meno di quel che gli
italiani avevano fatto con i neri. Padre Alippio era furbo, e dagli sguardi preoccupati che gli davano i
confratelli durante l' orario delle preghiere, aveva capito che tirava brutta aria, e quindi cercò di
defilarsi. Stava sempre in camera, e quando usciva teneva sempre gli occhi sul breviario. Parlava
soltanto con il frate di frosinone, fra Adalgiso, quello che gli aveva aperto la porta, e che era tento
ignorante quanto espansivo e disponibile ad insegnargli tutte le regole del convento. Il lunedi mattina il
Priore chiamò Padre Alippio, e venne subito al punto: <<Purtroppo fratello, la situazione è grave. Noi
vogliamo aiutare te ed il nostro paese, tuttavia abbiamo dei doveri da compiere, e non possiamo
comprometterli per nulla al mondo. Oggi un confratello ci ha riferito che gli inglesi sono a pochi
chilometri da qui. Se ti dovessero scoprire potrebbe succedere una tragedia>>. Padre Alippio disse che
capiva la situazione, e non insistette per restare. tanto più che era convinto anche lui che il rischio era
eccessivo. Nel pomeriggio si fece spiegare la topografia della zona, poi si ritirò a riflettere nella cella
di due metri quadri dove lo avevano sistemato. Era poco probabile che la strada sino all' Amba Alagi
fosse sgombra, e le probabilità di finire, in qualunque momento, in mano agli inglesi, era elevatissima.
C' era sopratutto il problema dell' orologio con il microfilm, che a tutti i costi doveva arrivare nelle
mani del Vicerè. Certamente non poteva portarselo dietro. Se gli inglesi lo avessero arrestato, lo
avrebbero anche identificato, e frugato da capo a fondo, e l' orologio non sarebbe certamente passato
inosservato. Poteva cercar di cambiare identità, ma non era facile trovare li per li uno capace di
falsificare i documenti. Comunque era probabile che gli inglesi avessero le foto degli agenti dell'
intelligence italiana. La soluzione migliore era affidare l' orologio ad uno dei frati, perchè lo facesse
arivare nelle mani di , o del Vicerè. Ma a chi dei frati? chiunque di loro poteva essere un infiltrato. L'
Intelligence usava infiltrare degli agenti nei conventi, ed in genere l' infiltrato era l' Economo, che
infatti era scappato, ma ce ne potevano essere altri. Quando arrivò l' ora della sua ultima cena al
convento, guardò a lungo uno ad uno i frati che mangiavano, ma nessuno gli ispirava fiducia. Anche se
avesse tentato di rifilare una storia qualunque per affidare la missione che aveva in mente, nessuno di
quegli uomini era abbastanza ingenuo da cascarci. Forse la scelta migliore era proprio il fraticello
ciociaro che gli aveva aperto la porta la sera del suo arrivo. Quando ebbero finito la povera cena lo
chiamò da parte, cercando di non farsi vedere dagli altri, e gli disse: <Senti fratello, ti devo chiedere un
grande favore, e per me, e per la nostra cara Patria. <<Io devo andare via, ma gli inglesi mi stanno
cercando, e probabilmente mi prenderanno. E' molto importante che questo orologio arrivi nelle mani
del Vicerè, e che gli si dica che glielo manda il Dottor Marchetti, in ricordo >>. <<Ma, do lu trovo lu
Vicerè?>>. <<Il Vicerè è all’ Amba Alagi. Se non riesci a parlare con Lui cerca di parlare direttamente
con capo delle sue Guardie>>. Il fraticello era un uomo semplice e buono, ma non era stupido, e lo
guardò profondamente, poi gli disse: <<Senti, Fratè, io so un servo de DDio, e nun voio servì er
Demonio. Io so' capito che tu devi da portà na cosa 'mportante pe' la guera, e te voio aiutà, ma nun me
fa fa na cosa brutta, che se uccidono li cristiani>>. Dino sospirò, poi disse: <<La guerra è sempre
guerra, però forse questo messaggio potrà salvare qualcuno, e certamente non provocherà più morti>>.
<<Va 'be, Fratè, te voio crede, e poi ce vo' uno che conforta li morti all' Amba Alaggi>>. Guardò l'
orologio, poi disse: <<E' troppo bello pe' nu povero frate, mo lo 'mmacco e lo 'nzozzo nu poco. Fratè,
io nun voio sapè la risposta, ma me sa che l' orologgio nun è il messaggio, ma il messaggio stà n' dell'
orologgio.>> Dino sorrise, e si strinse nelle spalle. Comunque andasse non aveva rimorsi. Non
avrebbe potuto fare altrimenti. Appena scese il buio recuperò i documenti personali che aveva nascosto
in una fessura tra i mattoni della parete interna del pozzo artesiano nel chiostro. Poi il povero Padre
Alippio approfittando delle tenebre, si allontanò per una cerca dalla quale non sarebbe più tornato. All'
alba del giorno seguente incappò nel cadavere di un sergente italiano ucciso con un colpo di fucile ad
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una tempia, probabilmente dai ribelli, gli prese vestiti e i documenti, lo seppellì, mise una croce fatta
con due legni nella terra, e divenne il Sergente Bongiovanni. Per una strana scelta della sorte il morto
gli somigliava abbastanza perchè ad una occhiata superficiale la foto sul documento potesse sembrare
quella di Dino.
A sera tarda, il sergente Bongiovanni buon' anima, salvatore di Dino, fece il suo ingresso ad
Alomatà. Ora si trattava di aspettare l' occasione per raggiungere l' Amba Alagi, dove si sarebbe potuto
spazzare via l' odioso nemico. Almeno tutti fingevano di crederlo! Prese contatto con il comando della
guarnigione locale, e venne ospitato in una specie di fortificazione, una casamatta diroccata e
rinforzata con dei pali di legno. Dino cercò di farsi vedere in giro il meno possibile per non essere
riconosciuto. Se il comando locale avesse scoperto la sua vera identità avrebbe passato dei momenti
molto critici prima di spiegare come e perchè era diventato il Sergente Bongiovanni. Oltretutto aveva
distrutto i suoi veri documenti, che lo avrebbero spedito dritto alla corte marziale se fosse caduto in
mano agli inglesi, ma che potevano chiarire la sua posizione con gli Italiani! Inaspettatamente il giorno
dopo giunse la buona occasione: il comando militare provvisorio di Alomatà informò Dino-Sergente
Bongiovanni- Ex Padre Alippio, che veniva promosso ad ufficiale dei Bersaglieri, e come tale venne
spedito all' Amba Alagi (a 3000 mt), con una camionetta di servizio, insieme a due soldati ed ad un
sottufficiale.
Arrivarono durante un attacco aereo, che iniziò prima che potessero raggiungere il Comando
Centrale. Furono costretti ad infilarsi in un rifugio antiareo,e ci dovettero restare per ore. Quando il
bombardamento finì raggiunsero il Comando, e da lì dovettero proseguire a piedi per la destinazione
finale, Passo Falagà, agli ordini del Colonnello Postiglione. La camionetta con cui erano arrivati era
andata distrutta durante il bombardamento.
Mentre ripartivano incrociarono due Alfa Romeo di grossa cilindrata, scortate da un nugolo di
motociclisti, e dentro la seconda riconobbero il Vicerè. Tutti sapevano lucidamente che l' Amba
sarebbe caduta, eppure l' incontro li rassicurò. Il vicerè era un uomo carismatico, e tutti gli italiani ne
erano affascinati.
Giunto a Passo Falagà Dino trovò un rifugio scavato nella roccia, e ci si sistemò. La
Domenica, dopo una giornata estenuante scandita dalle solite cannonate, appena sceso il tramonto, gli
inglesi scatenarono un attacco violentissimo. Si seppe che il Vicerè sarebbe arrivato per respingere l'
attacco: era chiaro che i nemici si stavano giocando il tutto e per tutto, ed era probabile che quella
battaglia avrebbe deciso le sorti della guerra. Verso le 23 arrivarono le munizioni, e gli ordini. Quelle
che seguirono furono ore tragiche, e gli uomini continuarono a sparare, con le dita rattrappite sulle
mitragliere. La battaglia proseguì senza sosta per tutta la notte, ed il freddo agghiacciante a circa 3000
metri di altezza rendeva tutto molto più difficile. Dino era buttato in terra, davanti alla sua mitragliera,
piazzata all' ingresso del rifugio, con una coperta buttata sulle spalle, e si sforzava di individuare il
punto di partenza dei tiri avversari, per poter rispondere. Verso le sei del mattino, una granata centrò in
pieno il rifugio vicino al suo, dove c' era un capitano di Podigoro, ch saltò in aria a brandelli. La
spoletta della granata cadde nel rifugio di Dino, che la raccolse, e la tenne come con se fino alla fine
dei suoi giorni. La usava come fermacarte, e voleva tenerla in vista "per non scordare mai più quell'
orrore". Ma quella scena tragica lo spinse a sparare con più rabbia, ed ad un certo punto vide che la
postazione nemica satava in aria. Il povero capitano di Podigoro era vendicato, ma in fondo ora c' era
soltanto una famiglia in più che pingeva un morto!. Smise di sparare, esausto, e dormì profondamente
per alcune ore.
Quando si svegliò , intirizzito dal freddo, il sole era alto. C'era silenzio, rotto soltanto da urla
di gioia, e canti di vittoria. La Fletcher force era stata respinta, forse si poteva ancora rovesciare le sorti
della guerra. Il festeggiamento durò per tutto il giorno, ma quando ridiscese la sera arrivò la notizia
ferale. Mentre gli italiani si concentravano su passo Falagà, gli inglesi avevano agevolmente sfondato
le linee a passo Tagora, ed erano ormai vicini al Comando Centrale dell' Amba Alagi. Era stata una
beffa terribile.
Dino rimase altri 11 giorni all' Amba Alagi, sotto un inferno di ferro e fuoco. Le condizioni
degli Italiani erano disperate, ma il Generale Inglese William Platt, che era stato compagno di
Università del Duca di Aosta, non volle calcare la mano. Anzi concesse una pausa nei combattimenti a
fine giornata per permettere di recuperare e curare i feriti. Dino conobbe l' inferno. Non si poteva
cucinare, perchè appena compariva un filo di fumo gli inglesi tiravano cannonate a non finire, e non si
poteva bere perchè cannoneggiavano ad intervalli regolari il viottolo che conduceva all' unica fonte.
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Dino riusciva a raccogliere un po' di acqua nella borraccia sfruttando l' intervallo tra le cannonate per
avanzare. Ci impiegava due ore per fare 200 metri. Una volta sbagliò i calcoli, o gli inglesi cambiarono
l' intervallo di sparo, e la cannonata partì mentre Dino ruzzolava per terra per un provvidenziale sasso.
Sdraiato per terra sentì un oggetto sotto il palmo della mano, ed era una medaglietta di latta con una
madonnina. Dino la conservò tutta la vita, e la volle con se prima di morire. Nel rialzarsi sentì un
lamento flebile. In terra, con il petto squarciato, c' era un giovane, che camminava 4-5 metri avanti a
lui, e che non aveva fatto in tempo a buttarsi in terra all' arrivo della cannonata. Il poveraccio indicava
con la mano il petto. Dino si inginocchiò, gli tolse il portafogli, lo rassicurò che avrebbe avvisato la
famiglia, e tenendogli la mano aspettò che morisse , e le cannonate che arrivavano non lo colpirono.
Quando finalmente tornò dalla prigionia andò in veneto per rintracciare i genitori e la moglie di quel
pover' uomo, e riconsegnò a loro il portafogli, e la medaglietta di riconoscimento. E pianse a lungo.
Quella notte il destino di Dino decise che doveva sopravvivere. Tornando verso la sua buca
trovò una pezza di formaggio di circa 20 Kg, e se la trascinò all' imboccatura del rifugio. La pezza gli
assicurò la sopravvivenza, perchè messa in posizione strategica lo riparava dalle schegge, e
rosicchiandola dalla parte interna con un coltellino riuscì a sopravvivere. La mattina dell' 8, alle prime
ore dell' alba si scatenò di nuovo il finimondo. Dino venne svegliato dal rumore assordante delle
artiglierie, e mise la testa nella stretta fessura tra il bordo del rifugio e la pezza di formaggio. Pian
piano uscì allo scoperto, e vide che giù nella vallata, verso Nord, un' orda di indiani stava ormai
spostandosi in avanti, ed aveva travolto le avanguardie italiane. Era una situazione gravissima, anche
perchè si sapeva bene che, a torto o a ragione, gli indiani non rispettavano nessuna legge, e se
catturavano qualcuno, lo facevano a pezzi. Non c' era altro da fare che cercar di resistere. Tentare di
risalire sul monte durante un attacco voleva dire lasciarci la pelle. Ritornò all' interno del rifugio,
ripiazzò la mitraglietta, e riprese a sparare. La battaglia proseguì per tutta la giornata. Prima che
scendesse la notte, con il binocolo, riuscì a localizzare la posizione degli avversari. Ormai avevano
preso passo falagà, ma ora sembravano bloccati, e non avrebbero potuto proseguire facilmente. Dino
era ai piedi del monte Corarsi, in posizione abbastanza sicura, almeno sino a quel momento. Era
assurdo tentar di spostarsi, tanto era chiaro che la situazione era ormai senza via di uscita. Verso le 23
un soldato che teneva i contatti girando tra i rifugi, arrivò a carponi nel rifugio: <<Siamo fottuti, quei
maledetti indiani hanno preso il passo Falagà, e noi abbiamo perso il contatto col Comando, perchè i
telefoni sono saltati!>>. Dino chiese laconicamente: <<e le munizioni>>. <<Niente da fare, devi
cavartela da solo>>. Poi il pover' uomo, approfittando del momento propizio, sgusciò fuori dal rifugio
e sparì nelle tenebre. Dino si buttò nel fondo del rifugio, e con l' ultima candela che gli era rimasta, si
mise a sfogliare un libretto di appunti che portava sempre con se. Nelle ultima pagine c' era un
calendarietto, su cui lui metodicamente, spuntava i giorni. Spuntò anche Giovedì 8 Maggio 1941, con
un mozzicone di matita che aveva trovato giorni prima sul pavimento. Venerdì 16 era cerchiato: era la
sua festa di compleanno, il trentesimo. A Tonara la madre avrebbe preparato i dolci per festeggiarlo, e
lo avrebbe aspettato seduta sulla porta di casa. Di certo Giovannangela Carboni pensava che suo figlio
avrebbe vinto la guerra. Il marito avrebbe tentato di convincerla ad andare a dormire, ma inutilmente.
Lei sapeva che il figlio sarebbe tornato vincitore, se non proprio il 16, forse il 17. La porta era sempre
aperta. Dino continuò a pensare alla madre, ai suoi, a Tonara, ben sapendo che quei pensieri difendono
dalla disperazione e dalla paure. Pian piano la candela si spense, ma lui continuò a sognare ad occho
aperti. Poi cominciò a piovere, lo scroscio monotono della pioggia gli mise un grande sonno. La
mattina del 13 il solito portaordini gli disse di sgombrare, perchè pareva che fosse pronto un attacco in
piena regola. Dino raccolse le sue cose, e tagliò via un tre chili di formaggio, fece un sacco di tutto, e
si mise in movimento. Appena sgusciato dalla buca venne bloccato da Felzetti, un sergente di
Bergamo, che abitava nel rifugio contiguo: <<Te ne vai?>>. <<Hai sentito il portaordini?-disse Dinoormai questo versante è andato>>. <<Hanno detto pure a me che finirà male, ma io non ho nessuno
che mi aspetta>>. Felzetti era rimasto vedovo perchè la moglie era morta di parto, <<io non sono
fascista, non credo che questa fottuta guerra serva a nessuno, ma non voglio finire prigioniero. La sola
cosa che mi fa rabbia è che quando sarò morto quel testa di cazzo userà il mio sangue per le sue
trombonate. Dirà che sarà vendicato il sangue italiano. Il mio sangue, il sangue di tutti noi servirà per
imbrogliare quei dementi che lo stanno a sentire a bocca aperta. E io creperò per colpa di tutta questa
gente.>>. Dino non commentò. Felzetti gli allungò una foto. C' era lui con la moglie. <<Non la devi
portare a nessuno, tanto non c' è nessuno che deve piangere. Se non la vuoi la butti, se vuoi la tieni per
ricordarti di quello che ti ho detto: sono tutti stronzi, Lui e chi lo sente. E sono tanti!>>. Dino non ebbe
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la forza di replicare. Prese la foto e la mise in tasca, prese il fagotto con la sua roba, e cominciò a salire
lungo i fianchi di Monte Corarsi. Arrivò il giorno dopo oltre la cima si infilò in un nuovo rifugio,
lasciato libero da uno che era morto. Li seppe, due giorni dopo, che Felzetti era stato fatto a pezzi dagli
indiani. Dino conservò la foto, ma la perse molti anni dopo, mentre rientrava in Italia. Annotò questo
fatto con molta cura sul diario. <<Ho perso la foto di Felzetti, e mi dispiace, perchè lo stimavo molto.
Ma non ho perso il ricordo delle sue ultime parole>>. Quella tragedia durò ancora quattro giorni. Gli
Italiani erano stremati, e proseguire in quelle condizioni sarebbe stato una follia. Il giorno 16 si seppe
in via ufficiosa che si stava trattando la resa, e la firma del documento ufficiale avvenne il giorno
successivo, e gli inglesi concessero l' onore delle armi. Il Lunedì successivo, gli Italiani lasciarono l'
Amba Alagi in scaglioni, diretti verso la prigionia. Alle 09:40, Dino, logoro ed emaciato, intruppato
nel quarto scaglione, lasciò forte Toselli. Per tutta la strada gli inglesi mostrarono le armi agli Italiani,
che barcollavano trascinandosi appresso valigie e stracci, tutto quello che avevano potuto raccattare,
e che avrebbe permesso loro di sopravvivere almeno per i primi giorni di quella maledetta prigionia.
Anche Dino trascinava i suoi poveri stracci, e quello che restava della sue pezza di formaggio. Mentre
discendeva venne ripreso nei documenti ufficiali della cinematografia, che negli anni '60 girarono per
i cinema Luce.
LA RESA E LA DEPORTAZIONE
La sera del 21, scortati dai neri, che li insultavano e li spintonavano, i prigionieri raggiunsero
Adigrat. Quando ormai era notte una cinquantina di italiani, tra cui Dino, vennero concentrati in una
scuola, vicino al convento dei Francescani. Un prigioniero, con i gradi di tenente, vicino a Dino, si
presentò, parlando con un accento caratteristico:<< Sono Righini, di Potenza, tu chi sei?>>. Dino
sorriso al pensiero che con quell' accento Righini non poteva essere certo di Bolzano, e rispose
cordialmente. Quella sera parlarono un po', ed il giorno seguente fecero amicizia. La sera del 23
partorirono il piano di fuga. Righini sosteneva che si doveva tentare il tutto e per tutto per tentar di
fuggire, anche se non era chiaro cosa avrebbero fatto dopo la fuga, in un paese quasi totalmente in
mano agli inglesi ed a bande di neri. <<Hai notato che siamo a due passi dal convento??>>, osservò
Dino. <<E allora che facciamo, preghiamo?>>, ribattè Righini. <<Più o meno, anche perchè è un
sistema che ho già sperimentato. Ci facciamo passare da Frati>>. Righini era perplesso: <<E ai frati
chi glielo dice??>>. <<a questo ci penso io-rispose Dino-piuttosto la difficoltà maggiore sarà prendere
contatto senza farci vedere dai neri>>. Righini, dopo un periodo di riflessione si entusiasmò, e mentre
Dino faceva il palo cominciò a richiamare i frati a gesti. Venne prima un fraticello, che li aveva presi
per due peccatori in cerca di un confessore. Quando sentì la proposta obbiettò un po', poi andò a
chiamare il Priore. Il Priore era piccolo, calvo e grasso, ed anche molto deciso, e disse subito di no.
Non se ne parlava neppure. Righini, che aveva condotto tutte le trattative, tornò a riferire che il piano
era fallito. Dino prese atto, ma disse al suo amico di non disperare, c' era ancora uno spazio per la
trattativa, e la avrebbe condotta direttamente. La sera successiva Dino riuscì a contattare i frati, e
chiese di parlare con l' economo. Fissarono l' appuntamento per la sera del 26, subito dopo la
preghiera. Subito dopo Dino si infilò nel bagno, etirò fuori la sua agendina personale. Controllò il
primo giorno di ciascun mese di quell' anno, poi copiò su un pezzetto di carta le prime due lettere del
primo giorno di ogni mese dispari, sino al quinto
1o Gennaio, Mercoledi
Me
1o Febbraio, Sabato
1o Marzo, Sabato
Sa
1o Aprile, Martedi
1o Maggio, Giovedi
Gi
L' economo del Convento venne all' appuntamento, e Dino, mentre Righini faceva il palo, gli
passò senza una parola il foglietto. Dopo che lo ebbe letto il frate rimase immobile a riflettere per una
trentina di secondi, poi, senza dire una parola, andò a chiamare il Priore, che venne quasi
immediatamente, e andò subito al sodo:<<Va bene, potete venire, però se vi prendono diremo che ci
avete costretti, e comunque vi do solo tre giorni di tempo, poi dovete comunque andarvene>>. Dietro
le sue spalle l' Economo, anche lui un infiltrato del controspionaggio, allargò le braccia e disse:<<di
più non possiamo assolutamente fare. A tarda notte Dino ed il tenente Righini saltarono lo steccato, ed
indossarono il saio. Righini divenne Padre Fulgenzio, e Dino divenne di nuovo Pare Alippio. I tre
giorni passarono rapidamente, ed il Priore era estremamente preoccupato, perchè nella scuola c' erano
segni di agitazione, i prigionieri venivano contati e ricontati, la guardia era stata intensificata. Era
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chiaro che qualcuno si era accorto della loro fuga. Il giovedì a cena c' era un' aria pesante. Dino si
trovò seduto a fianco all' economo, che, dopo le preghiere, appena iniziarono a mangiare, fu molto
chiaro: <<Mi dispiace, ma ve lo avevo detto, non potete più restare. Se vi prendono sono dolori, e poi
se scoprono chi sei ci fucilano tutti come spie. Tranne me ed il Priore qui tutti i frati non sanno nulla
del Servizio>>. Dino tirò un sospiro, e decise di non insistere. Tanto non c' era nulla da fare, ed
effettivamente il rischio che avrebbe fatto correre a quei poveracci era inaccettabile. Quella era la sua
"ultima cena". <<Sai se hanno preso qualcuno dei nostri ad Asmara?>>, domandò. <<No, credo che
siano scappati tutti a Massaua. Se torni puoi riprendere il tuo lavoro, non credo che qualcuno ti possa
smascherare. Certo le notizie che abbiamo qui sono scarse, comunque .......-Poi dopo un attimo di
riflessione proseguì- Verso le cinque di domattina esci dal convento, e vai verso la strada per Asmara.
Fermati alla prima locanda che incontri, ed aspetta davanti al portone. Alle sei ed un quarto passerà un
camion carico di sacchi di cemento. Il guidatore è un amico, e ti farà salire a bordo, gli ho già spiegato
tutto>>. Quando ebbero finito Dino chiamò il suo compagno di fuga, e gli spiegò che dovevano
andarsene. Righini, dopo il primo sconcerto, si sedette su una sedia del misero oratorio, e cominciò a
fumare una sigaretta. <<In due potremo fuggire attraverso la boscaglia>>, disse dopo avre riflettuto un
po'. Dino tossì, perchè il fumo gli dava fastidio, e rispose: <<no, converrà che ognuno vada per la sua
strada, è meno pericoloso>>. Righini finì con il convincersi. Verso le undici della sera l' Economo
portò degli abiti civili, e Dino trovò nelle tasche alcune rupie ed il tesserino di un dopolavoro, senza
fotografia, intestato a Vincenzo Allegretti. Quel documento ridicolo non lo avrebbe salvato
certamente, e decise di farlo sparire al più presto. Qualche ora dopo, mentre era ancora notte, Padre
Fulgenzio e Padre Alippio scapparono dal convento, e ciascuno seguì il suo destino. Alle sei del
mattino Dino arrivò alla locanda, ed alle 06:15, puntualmente, arrivò il camion carico di cemento, che
si fermò a raccoglierlo. Il viaggio durò circa 50 ore, perchè il camionista rallentava spesso per farsi
superare da altri veicoli, in modo che fosse possibile vedere se c' erano posti di blocco. La prima notte
dormirono nel camion, la seconda notte si fermarono a dormire in una casupola di contadini, amici
dell' autista, e prima di ripartire, Dino regalò loro qualche rupia. La mattina dopo si rimisero in viaggio
all' alba, e verso le 9:00, quando erano ormai a pochi chilometri dalla città, trovarono improvvisamente
un blocco stradale. Dino sentì il sangue gelarsi, ma non c' era nulla da fare, bisognava rischiare. Gli
inglesi li fecero scendere, ma sembravano interessati sopratutto al carico. Vollero ispezionare tutto il
camion, ed uno si buttò in terra per controllare il motore e la parte meccanica. Poi controllarono i
documenti di circolazione, ed alla fine il capoposto disse in inglese che potevano andarsene. Dino finse
di non capire, e seguì goffamente l' autista, che gli inglesi , stufi di discutere, spingevano verso il
camion. Mentre risaliva nella cabina di guida tirò un profondo respiro di sollievo: era incredibile che
non gli avessero chiesto i documenti personali. <<Meno male che ho trovato questi idioti, pensò>>, ed
il pensiero lo rese allegro. Era come un segnale positivo. Appena furono dentro la città, in un punto
poco trafficato, Dino ringraziò il camionista, scese, e cominciò a camminare rapidamente. Doveva
traversare quasi tutta la città a piedi, passando per le strade meno trafficate, per non rischiare di essere
riconosciuto. Si rese conto che non aveva un piano preciso, e che per prima cosa doveva capire che
cosa stava succedendo. Da quel po' che aveva visto la vita sembrava normale, a parte la presenza di
qualche camionetta carica di militari inglesi. D' altro canto girare per il centro significava rischiar di
finire in qualche posto di controllo. Mentre camminava, riflettendo su queste cose, incontrò un izio,
piuttosto bene in arnese, e provò a chiedere: <<Scusi, devo andare all' Ufficio degli Affari
Governativi, sa se funziona?>>. Il tizio lo guardò a lungo, e Dino si irrigidì. <<Lei non è di Asmara,
vero?>>, disse, poi dopo una pausa che sembrò lunghissima,<<funziona perfettamente, hanno
reintegrato tutti gli impiegati>>. Dino tirò un respiro di sollievo. Al terzo piano dell' Ufficio c' era una
stanza, con la targhetta <<DINO TATTI, Ispettore Capo>>, la sua copertura. A questo punto bastava
ritrovare i documenti di identità che aveva dentro casa, e ripresentarsi in ufficio. Lo avrebbero
reintegrato nel lavoro, e dopo qualche sùmese lo avrebbero reimpatriato. Ringraziò il tizio che gli
aveva dato le informazioni, e proseguì. Mentre camminava cercò di analizzare la situazione. Certo,
bisognava sperare che durante la sua assenza nessuno lo avesse smascherato, e anche che nessuno
avesse trovato i documenti compromettenti che teneva in casa. Era ormai mezzogiorno, ed era anche
molto caldo. Finalmente arrivò al Bar Italia (lo avevano prudentemente ribattezzato "Little Italy"), e si
sedette ad un tavolo vicino al porta di ingresso, guardandosi ansiosamente intorno. Si sentiva molto
teso. Arrivò quasi subito un cameriere nero:<<Il signore desidera?>>. <<Un caffè, veramente molto
forte e con la crema>>: Era una frase chiave. Il cameriere si chinò a pulire il tavolo, e gli chiese a
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bassa voce:<<Che ci fai qui?>>. <<E' una storia lunga, vengo da Amba Alagi, sai se hanno catturato
qualcuno?>>. <<No-rispose il cameriere- sono scappati tutti a Massaua>>. Poi, a voce alta, <<La
servo subito Signore>>. Mentre aspettava il caffè Dino ripensò a quanto gli avevano detto i due postini
che aveva incontrato sulla strada per Amba Alagi: gli Inglesi erano entrati in Asmara dopo una
trattativa. Sino alla 18 del giorno precedente vi era stata una evacuazione verso Massaua. Sicuramente
gli inglesi non avevano catturato alcun agente italiano. <<Stò tranquillo -pensò- sarà tutto facile. Devo
solo essere sicuro che non mi abbiano toccato nulla dentro casa.>> Bevve il caffè, pagò, e si rimise in
cammino. Alle 14 il sole era cocente, e giunse in vista della sua casa. La cameriera lo vide dalla
finestra, e gli andò incontro, ma dall' aspetto non era molto allegra. Gli disse subito <<Padrone, è
successa una cosa brutta. E' venuto Sau con la pistola, ci ha minacciati, e poi si è portato via tutto.
Anche Paolo è fuggito>>. Paolo era un giovane cameriere meticcio, e Sau era un sardo, amico di Dino,
che non era del Servizio, e che lui aveva aiutato ad entrare nell' amministrazione delle ferrovie. Quel
porco gli aveva saccheggiato la casa! Era furente, per l' oltraggio, per la scarsa riconoscenza umana.
Ma sopratutto era preoccupato per i documenti. Se quel maiale li aveva trovati era capace di venderli
agli inglesi. Tranquillizò la cameriera e si precipitò dentro casa. Dappertutto c'era disordine, gli armadi
avevano le ante rotte, da all' interno pendevano solo le grucce vuote. Non c' erano più i vasi pregiati,
ed erano sparite le pelli che aveva comprato nei villaggi vicini. Era inutile fare l' inventario. L
cameriera disse che Sau era venuto con un camion e due uomini che lo avevano aiutato. Prima o poi lo
ritroverò, pensò Dino, ed andò dritto nel salotto. Spostò il divano, e con un coltello, pazientemente,
scollò lo zoccolo di marmo della parete retorstante. Dopo un quarto d' ora di lavoro lo zoccolo venne
via, e comparve un tubo che percorreva la parete. Fece scivolare il dito sulla parte posteriore del tubo,
agganciò una levetta, ed aprì uno sportellino. Nel tubo non passava acqua, ma dentro c' erano i famosi
documenti. Dino li controllò, con la sua solita meticolosità, buttato per terra, e tirò un respiro di
sollievo. C' era tutto. Rimise tutto a posto, prendendo soltanto una specie di Badge con al foto e la
qualifica, ed una carta di identità, richiuse il nascondiglio, chiese alla cameriera di preparargli qualcosa
per cena, e si buttò sul letto a riposare, ancora con gli stivali ai piedi. Tanto il letto era senza lenzuola,
ed il materasso era stato tagliuzzato, perchè avevano cercato anche li dentro qualcosa da rubare. Quella
notte Dormì profondamente. Si svegliò alle prime luci dell' aurora, e riuscì a farsi la barba: i
saccheggiatori gli avavano almeno lasciato il rasoio. La cameriera gli aveva trovato un vestito, discreto
anche se un po' logoro, e lo aveva lavato e stirato, e Dino se lo mise e provò un senso di benessere:
non era il migliore, ma certo era il più pulito che aveva indossato negli ultimi mesi. La cameriera
aveva anche preparato del latte per la colazione, ed aspettò, in piedi, con aria interlocutoria, finchè
Dino non ebbe finito di mangiare. poi disse:<<Padrone, non ti offendere, ma io debbo andare via. Ti
ho aspettato perchè volevo vederti tornare, ma adesso devo tornare al mio paese, e pregherò perchè tu
possa tornare nel tuo.>>. Poi, dopo una breve esitazione, proseguì:<<ormai non potresti neanche
mantenere una cameriera>>. Dino pensò che era vero, anche se sperava di riavere il suo impiego e lo
stipendio. Comunque era inutile obbligare quella poveretta a restare li. <<Vai pure, le disse, e se mi
lasci il tuo indirizzo ti farò avere l' ultima paga>>. La donna lo ringraziò, gli lasciò quel po' di cibo che
aveva racimolato durante quei giorni terribili, e partì. Verso le otto Dino uscì di casa, e si diresse, un
po' preoccupato ed un po' speranzoso, verso l' Ufficio. Corso del Re era ormai popolato di gente che
camminava frettolosamente, e c' erano anche molti inglesi in giro. Ad un certo punto passò una
camionetta dell' esercito inglese, con della gente ammanettata a bordo. Dino non riuscì a vedere di chi
si trattasse, ma la sua angoscia aumentò. Superò un isolato dove c' era un cartello "Dr. Bottini,
dentista", e provò la sgradevole sensazione di essere seguito. Si girò, fingendo di guardare il cartello
alle sue spalle, ma non vide nessuno particolarmente sospetto. Riprese a camminare, ma la sensazione
di pericolo aumentava, e si sentiva un topo in trappola. All' improvviso da un vicolo uscì un gruppo di
soldati inglesi, ed il comandante gli intimò l' ALT. <<Your documents.. documenti, italiano!>>. Dino
estrasse lentamente i documenti, ed aveva le mani ghiacciate nonostante ormai fosse Giugno. Il petty
officer che comandava il gruppo dette un' occhiata sprezzante ai fogli, poi glieli rese con un secco
<<go!>>. Il drappello riprese la sua strada, e Dino rimase un attimo fermo, incerto sul da farsi, poi si
mosse anche lui.
Finalmente arrivò davanti alla porta dell' ufficio. In apparenza tutto era normale, tranne quei
ridicoli scozzesi che montavano la guardia, e le due camionette cariche di soldati inglesi parcheggiate
vicino al portone. Salì lentamente le scale, cercando di non dare nell' occhio, ma il portiere lo vide e lo
salutò: <<Buongiorno dottore, e bentornato. quando non l' ho più visto ho pensato che ce la avesse
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fatta a scappare>>. <<No, è solo che sono stato male, ma adesso è passato tutto. Ci sono novità?>>.
<<No, solo questi fottuti inglesi da tutte le parti. Dice che rimpatrieranno al più presto la metà di
noi>>. <<Controllano gli impiegati?>>. <<certo dottore, ma non si preoccupi, basta fargli vedere i
documenti>>. Dino salì una rampa di scale, ed in fondo trovò due soldati inglesi. Uno di questi, chiese
in italiano approssimativo:<<Chi sei?, who are you?>>. Dino, senza parlare, mostrò i documenti..
<<Devi venire con me>>, disse il più anziano. Prima di muoversi lo perquisirono, e poi lo scortarono
sino alla stanza che era stata di sua Eccellenza Barile. Lì c' era seduto un ufficiale inglese, che andò per
le spicce:<<Chi sei?>>. Dino mostrò di nuovo i documenti, nascondendo a stento la ripugnanza che
provava per quell' animale. L' inglese domandò:<<perchè arrivi solo adesso?tu manchi da molto
giorno!>>. Poi si rese conto di star facendo un polpettone assurdo di parole, e chiese:<<Do you speak
english>>. <<No>>, mentì Dino, e proseguì <<sono stato malato>>. L' inglese fece per prendere il
telefono, poi ci ripensò, si rivolse ai due soldati, e disse nella sua lingua:<<vedete se è capace di
trovare la sua stanza, e restate li con lui. Non si deve muovere se non lo dico io>>. Dino finse di non
capire, e sentì un tremendo senso di freddo in tutto il corpo. Quei delinquenti erano capaci di fucilarlo,
se scoprivano chi era. L' ufficiale disse: <<Vada pure nel suo ufficio>>, e Dino si mosse, seguito dai
suoi angeli custodi. Salì al piano superiore, percorse il corridoio, e raggiunse la penultima stanza a
sinistra. La porta era chiusa, ma non a chiave, e si aprì facilmente. Nell' ufficio non c' era nessuno, ed
apparentemente tutto era rimasto al suo posto: la macchina da scrivere Victor, il tavolo, la cassettiera, il
telefono a muro, la grande carta murale, con delle spille colorate attaccate, che indicavano la presenza
di agenti stranieri in zona. Una spilla gialla piazzata su Addis Abeba, l' ultima attaccata in ordine di
tempo, indicava il passaggio di Mr. Strong. Mancava soltanto il quadro del Duce, ma ovviamente c' era
da aspettarselo. Dino andò alla cassettiera e controllò i documenti che vi erano custoditi. Sembrava che
ci fosse tutto, e questo era rassicurante: nessuno aveva frugato. Adesso era importante cambiare la
posizione delle spille sulla carta. Lo avrebbe fatto appena fosse rimasto solo. Prese un fascio di carte
che riguardavano permessi di attività da concedere ad una ditta di trasporti, e si andò a sedere al
tavolo. Prese la penna, e rialzando lo sguardo, lo incrociò con quello di due tizi in borghese che si
erano affacciati alla porta. Uno, il più basso, lo fissava intensamente, e Dino ebbe la sensazione di
conoscerlo. Chi diavolo era, e che voleva? stava per domandarlo, quando il tizio si rivolse ai due
soldati, e disse in inglese: <<Ho bisogno di tempo. Aspettate quì, sarà un controllo veloce!>>. Non ci
voleva molto a capire: lo avevano riconosciuto. Lo stress gli fece tornare in mente che aveva visto quel
tizio nelle foto segnaletiche. Era una spia Maltese. Ma come poteva conoscere Dino? che cosa era
andato a controllare? il "mug shot", ovviamente, il libro con le foto segnaletiche. Non era il momento
di pensare, era meglio trovare subito una via di uscita. Sicuramente qualche maledetto doppio agente
italiano aveva passato la foto di Dino al Servizio Segreto di Malta. Si girò lentamente, per non
allarmare i due soldati, e guardò la finestra. Era chiusa, e comunque era a 4-5 metri da terra. Non c'
erano altre vie di uscita, tranne la porta, dove erano piazzati i due inglesi, che erano armati sino ai
denti, e non gli toglievano gli occhi di dosso.Forse aveva solo pochi minuti per uscire dalla trappola.
Fece per alzarsi, ma gli inglesi puntarono le armi, e gli imposero, con un cenno, di restare seduto.
Dino si rimise a sedere lentamente, e con la mano cercò un recesso interno che doveva essere
sotto il tavolo. Lo trovò subito, ma era vuoto: avevano tolto il revolver che era nascosto li dentro.
Mentre faceva lavorare il cervello, alla ricerca disperata di una via di salvezza, entrò il tizio basso,
seguito dall' ufficiale inglese. Quest' ultimo ordinò ai due soldati: <<Arrestatelo>>.
Dieci minuti dopo i due militari e l' ufficiale lo scortarono sino al portone, e lo consegnarono
ad altri due soldati, che lo trascinarono su una camionetta che partì a tutta velocità verso Forte
Baldissera.
Appena arrivato a Forte Baldissera Dino venne portato in una cella di isolamento. Mentre lo
spingevano fece in tempo a vedere, nel cortile, un camion sgangherato e sei prigionieri piuttosto male
in arnese, che caricavano sopra dei sacchi. La cella aveva uno spioncino che dava sul cortile, e quando
i neri chiusero la porta, Dino corse a vedere il seguito della scena, e la memorizzò: il numero di uomini
che caricavano, la loro posizione, e la partenza del camion. Poi si sentì molto stanco, e si buttò sul
tavolaccio a dormire.
I giorni seguenti venne ad interrogarlo un ufficiale inglese, che cominciò a fare domande
nella sua madrelingua. Dino si rese subito conto che se dopo le prime parole fingeva di non capire, l'
ufficiale, meccanicamente ripeteva le ultime parole in italiano, e poi gli suggeriva la risposta. A quel
punto Dino diceva di sì, e l' imbecille inglese sorrideva soddisfatto. Il terzo giorno però si presentò ad
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interrogarlo un giovane più intelligente, e Dino dovette far appello a tutte le sue risorse per non dire
più di quello che l' inglese già sapeva. Il non dire era un vecchio gioco al quale lo avevano addestrato,
ma non poteva durare a lungo. Per quanto Dino non capiva bene cosa potessero guadagnare gli Inglesi
dal suo interrogatorio. Ormai gli agenti dell' intelligence italiana erano fuggiti tutti, al più potevano
acchiappare qualche collaboratore di secondo piano, tipo l' economo del convento che lo aveva aiutato
nella fuga da Adigrat. Comunque, prima o poi la situazione poteva mettersi male, e Dino decise che
era ora di scappare. La sorveglianza nel forte era affidata agli indigeni, che erano meno meticolosi
degli inglesi, e valeva la pena di approfittarne. Una mattina chiamò l' uomo che era a guardia della sua
cella, e gli chiese in amarico:<<non mi fai uscire per la passeggiata?>>. L' altro abboccò e domando,
di rimando:<<ma tu hai il permesso di uscire?>>. <<Certo, dentro il forte si>>. Appena fu nel cortile
Dino si aggrgò agli altri prigionieri che passeggiavano, e lentamente scivolò verso gli uomini che
caricavano il camion, e cominciò a caricar pure lui. Dopo dieci minuti il camion era pronto. Era
incredibile, ma nessuno aveva controllato nulla, la scena si era ripetuta proprio come se la ricordava! I
prigionieri salirono sulla parte posteriore del camion. Vicino a loro c' era un capannello di indigeni
armati sino ai denti.Uno di questi si diresse verso la cabina di guida, ed altri due salirono con i
prigionieri, spianando le armi. Il camion si mosse lentamente, e Dino trattenne il fiato per la tensione.
Tutto bene, sino a quel punto, restava solo da superare il portone del forte. Un altro prigioniero, seduto
vicino a lui, lo guardò con aria di commiserazione. Probabilmente era l' unico che aveva capito che c'
era un intruso. Dino tornò con lo sguardo sui due sorveglianti, che intanto avevano ripreso a
chiaccherare tra loro, e prestavano scarsa attenzione ai prigionieri. Al nomento opportuno sarebbe
bastato dare uno spintone al primo, che sarebbe finito addosso al secondo, per farli volare tutti e due
giù. Frattanto il camion si fermò trabballando davanti al portone, ed i due soldati di guardia che lo
sorvegliavano puntarono le armi, poi, dopo aver parlato con l' autista, le riabbassarono. Il camion si
mosse, e Dino respirò forte, ma si fermò nuovamente quasi subito. A bordo salì un quartermaster
inglese, che cominciò a contare i prigionieri:<<One..., two..., three,....four, five..., five..., six..., ....,
seven>>. Ricontò, poi si irritò:<<Who is the seventh guy?......Chi è il settimo?>>. Dino capì che era
inutile insistere, la battaglia era persa, e non poteva coinvolgere gli altri sei poveracci. Alzò le mani,
poi si alzò in piedi lentamente. Il quartermaster sorrise soddisfatto, e gli domandò in italiano stentato
<<pensi che gli inglesi non sanno contare?>>. Dino non rispose. Lui pensava che gli inglesi non
sapessero fare molte altre cose, ma non era il caso di spiegarlo a quel babbeo. Invece aspettò che lo
riportassero in cella senza battere ciglio. Temeva che ci fossero conseguenze gravi per quel tentativo di
fuga, ma al contrario lo tolsero dall' isolamento e lo misero nelle celle comuni.
L’ 11 Giugno, mercoldì, ci fu l’ ultimo interrogatorio. C’ erano 14 gradi, ed almeno per quelle
parti era una giornata molto fredda. L’ ufficiale esordì dicendo: << conto sulla sua disponibilità a
chiarire molte cose. Domani ci sarà il trasferimento nella sede finale, e la destinazione a cui verrà
assegnato dipenderà appunto dal suo comportamento>>. Poi cominciò con la solita sfilza di
affermazioni, a cui era sufficiente rispondere si. Tanto l’ inglese era tronfio di se stesso, e amava
pensare di sorprendere l’ interlocutore con le sue intuizioni. Non faceva mai domande trabocchetto,
come prevedono tutti i manuali sugli interrogatori. Dopo 20 minuti di botta e risposta, prevalentemente
sulla organizzazione interna dei servizi segreti, il quartemaster estrasse dalla tasca l’ orologio, e
controllò l’ orario. Dino sgranò gli occhi. Sembrava proprio il famoso cipollone che aveva dato al frate
Adalgiso. Tra le dita dell’ inglese si vedeva un segno longitudinale inciso sulla cassa, che sarebbe stato
difficle trovare su un altro trabocchetto. Fu un secondo, e riprese immediatamente la sua consueta
fisionomia, sperando che quello dell’ orologio non fosse stato un trabocchetto. L’ inglese peraltro
sembrava interessato unicamente alle lancette. Chiuse il coperchio del cipollone, e disse: <<ora
discuteremo l’ ultimo punto: dove si trovava lei il 29.aprile.1941?>> <<Me lo ha già chiesto: ad Addis
Abeba.>> <<L’ inglese tirò dalle tasche un libricino di appunti, li controllò, e proseguì: <<mi ha detto
che doveva scoprire la stamperia del giornale Bandarachin>>. <<È vero>>. <<Questa operazione
poteva essere affidata tranquillamente ai vostri carabinieri>>. <<Il fatto è che il mio capo, il Dt.
Marchetti, sospettava che delle informazioni stampate dal giornale, venissero dall’ interno del palazzo
governativo. Io dovevo scoprire questo canale, non arrestare il tipografo.>> <<Già, i vostri carabinieri
sono troppo devoti alle Istituzioni per una operazione di questo genere, come dite voi, sono
“istituzionalisti”>>. <<Diciamo qualcosa del genere, ma il mio capo non dubitava della fedeltà dei
carabininieri, ma temeva che ci fosse un traditore nel palazzo del governatore, e che il rapporto dei
Carabinieri sarebbe comunque finito in mano sua>>. <<E lei cosa ha scoperto?>> <<Nulla, perchè non
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ne ho avuto tempo, sono dovuto fuggire prima che arrivassero i vostri soldati>>. <<Quando ha lasciato
Addis Abeba>>. <<Nella tarda serata del 29>>. Il Quartermaster cambiò tono: <<lei ha avuto contatto
con un agente inglese?>> <<no>>, mentì Dino. <<Non ha avuto notizia di un uomo inglese ucciso nel
bar Balilla>>. <<Assolutamente no>>. <<È mai stato al bar Balilla?>> <<si, qualche volta, per
prendere il thè>>. <<Il 29 marzo, nel Bar Balilla, sono stati uccisi due uomini, un inglese ed un
italiano, li conosceva>>. <<Io non so che sono stati uccisi due uomini nel bar Balilla. Se lei mi dice i
nomi, almeno l’ italiano potrei conoscerlo.>> <<il nome dell’italiano non lo conosciamo, e questa è una
notizia che ho ricevuto da poco>>, disse l’ inglese seccamente. Dino pensò “o questo è un imbecille, o
è furbissimo, e riesce a farmi dire tutto. Non ci sono vie di mezzo!”. Il Quartermaster proseguì: <<un
uomo, un agente inglese, viene ucciso in un bar in compagnia di un italiano, e lei che lavora per i
servizi segreti non sa nulla>>. <<Le ho spiegato che noi siamo molto compartimantalizzati, e ci
conosciamo solo in occasione di operazioni che dobbiamo condurre in collaborazione. Solo il Dr.
Marchetti ed i suoi superiori conoscono tutta la situazione degli agenti>>. <<È strano tuttavia, che lei
fosse contemporaneamente ad un altro agente ad Addis Abeba>>. <<È anche strano che chiediate a me
cosa faceva un vostro agente ad Addis Abeba>>. <<Veramente io le ho chiesto cosa faceva con quell’
italiano, non cosa faceva ad Addis Abeba!>>. In quel momento l’ inglese si rese conto di star parlando
troppo, ed aggiustò la mira: <<che ha fatto lei nella giornata del 29?>>. Finalmente il Quartermaster si
era svegliato, e poteva diventare pericoloso. Dino si organizzò velocemente la risposta: <<il 29 avevo
già capito che la situazione per noi stava precipitando, ed ho cercato nel pomeriggio, informazioni sulla
strada adatta per tornare ad Asmara>>. <<Dove le ha cercate?>> <<nel quartiere nero, dove alcuni
informatori erano in contatto con i ribelli, e sapevano quali strade erano libere>>. <<Cosa ha saputo?>>
<<che la strada per Asmara era piena di ribelli, e la sola strada libera era quella per l’ Amba Alagi>>.
<< quando è uscito da Addis Abeba>>. L’ inglese stava provando a farlo cadere in contraddizione!
<<Quella sera stessa, molto tardi, in direzione dell’ Amba>>. <<Quando è arrivato all’ Amba?>> <<il
3 maggio, era giovedì>>. <<Che ha fatto nell’ intervallo tra il 29 aprile ed il 3 maggio?>> <<Ho
girovagato per le campagne>>. <<Stia attento a non mentire! Lei non è mai arrivato all’ Amba Alagi,
non risulta>>. <<Avevo un nome di copertura, Sergente Bongiovanni>>. <<Come si è procurato i
documenti?>> <<li ho avuti ad Addis Abeba, nel quartiere nero. Si rimediano con pochi soldi dai
falsari neri>>. <<È anche possibile che li abbia trovati durante la fuga in qualche convento!>>,
borbottò l’ inglese, comunque, disse guardando Dino fisso negli occhi, chiunque sia stato non farà
certamente più danno agli uomini di Sua Maestà>>. Dino cercò di controllare il suo sgomento. Temeva
che la frase dell’ inglese fosse una allusione ben precisa ai frati collaborazionsti. Comunque il
colloquio era finito: l’ inglese, visibilmente annoiato ed insoddisfatto, racolse le sue carte, e si alzo,
dicendo: <<comunque, Sig. Tatti, non mi ha convinto, ed io non la agevolerò. Seguirà il suo destino>>.
Si alzò, ed uscì seguito dal soldato, rinfilando l’ orologio nel taschino. Mentre lo riportavano in cella
Dino rianalizzò i fatti: molto probabilmente l’ inglese non sapeva nulla di preciso, ed aveva soltanto
provato a ricollegare la sua presenza ad Addis Abeba con il duplice omicidio del Bar Italia. Era strano
che l’ ufficiale avesse alluso a quei fatti solo durante l’ ultimo interrogatorio. Probabilmente in quuei
giorni era stato catturato qualche personaggio implicato nel complotto, ed aveva dato delle
informazioni frammentarie. Appena fu in cella si rilassò e tornò sull’ argomento con più calma. In
fondo quel povero investigatore dell’ esercito non poteva certo essere al corrente di complotti così più
grossi di lui. Il complotto era difficile da interpretare: da una parte l’ inglese ucciso portava
tranquillamente Mr Strong ad eccitare e sobillare le popolazioni indigene contro gli Italiani, dall’ altro
portava i segreti della potentissima macchina bellica tedesca perchè fossero svelati agli Italiani ed ai
tedeschi. Questo gioco era in parte gestito da un Generale traditore, vicinissimo al Vicerè. Tutti
avevano interesse in questo gioco. Gli inglesi, i Tedeschi, il Generale, che probabilmente voleva colpire
il Vicerè, tutti, non si capiva più nulla. Certemente l’ inglese ucciso era un doppio agente. L’ uomo
chiave di tutto era Marchetti, che in effetti aveva avuto l’ informazione sin dall’ Agosto precedente,
quando Dino gli aveva fatto pervenire quel maledetto messaggio, che sino adesso aveva seminato
almeno tre morti. E stranamente non aveva messo in pericolo la vita di Dino. O nessuno era mai
riuscito a collegarlo a tutta quella vicenda, o lo avevano lasciato in vita perchè speravano di sfruttarlo.
Ma come mai l’ inglese aveva quell’ orologio. Era possibile che gli fosse finito tra le mani e non
sapesse che cosa conteneva? Che fine aveva fatto frate Adalgiso? Comunque nella sua attuale
condizione non poteva fare assolutamente nulla. Alla fine il sonno, ed il senso di impotenza lo presero,
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e Dino si addormentò come un macigno. Finalmente venne il giorno del trasferimento per Tessenei. I
prigionieri vennero messi su una tradotta. Il treno partì scricchiolando, con un grappolo umano stipato
nei vagoni passeggeri, nei vagoni merci, brutalmente maltrattato dai neri, che finalmente potevano
vendicarsi di chi gli aveva portato case, scuole, e schiavitù. Molti soldati si piazzarono sulle porte del
treno, attaccati alle maniglie, per sorvegliare che nessuno saltasse dal treno in corsa. Altri si piazzarono
ai finestrini, o sui balconcini che allora erano all' inizio ed alla fine dei vagoni, con fucili e mitragliette.
Dino era in un vagone a tettoia, cioè chiuso sino all' altezza della cintola, con una tettoia sostenuta da
paletti, come si usavano una volta in India. Se si fosse gettato dal treno in una scarpata, in una curva,
quando il convoglio era costretto a rallentare, forse sarebbe potuto sfuggire un' altra volta. In fondo era
saltato tante volte dal trenino del suo paese, per andare all' osteria. Si decise. Il treno stava per iniziare
una curva, ed aveva già rallentato. Tra un paio di minuti sarebbe stato il momento adatto. Dino era
pronto per scattare, ma improvvisamente un altro prigioniero, a pochi metri da lui, si gettò verso il
bordo del treno, e saltò nella scarpata. Prima che il poveraccio avesse raggiunto il terreno, la testa gli
scoppiò, trapassata dai colpi di una mitraglietta. Per Dino fu un segnale inequivocabile che il destino gli
aveva mandato, e proseguì il viaggio verso Tessenei, ormai rassegnato. Avebbe cercato una occasione
migliore
.
A Tessenei i prigionieri rimasero circa 20 gg. Dino, come faceva sempre, forse per rimuovere
l' angoscia, si dedicò alla ricerca del cibo, e se la cavò bene. Ma la situazione stava precipitando. Addio
Eritrea, Tripoli, e tutto quello che la retorica fascista aveva fatto sognare a quegli uomini. Dovettero
partire per il Sudan, e vennero scaricati nel mezzo del deserto, ad Aiaerba. Li i prigionieri vennero
piazzati sotto tende di stuoia a morire di fame. Si sopravviveva con quel poco che era possibile avere:
cipolle e patate secche. Dino era ormai in una situazione critica, ed il suo ottimismo era alle corde:
dovette vendere quel poco che gli era rimasto, due coperte, in cambio di quelle schifezze. Non aveva
scelta! siccome però era un buon affarista (il padre era commerciante, e buon sangue non mente!),
riuscì a farsi dare anche un cono di zucchero ed un cono di thè. L' essere sardo poi lo aiutò. Due suoi
corregionali, ufficili medici, che godevano dei privilegi della categoria, gli volevano bene, e gli
regalarono qualche rupia, con cui comprare qualcosa. Solo che, in quella condizione di oggettivo
disagio, era difficile anche aver da mangiare. Se avesse tentato di cucinare di giorno, gli altri avrebbero
capito l' antifona, e sarebbe stato duro. Dino dovette lottare a lungo contro la paura, il desiderio di
sopravvienza, ed il desiderio di giustizia. Alla fine decise di mettere a parte due amici intimi, e divise il
magro bottino con loro. Questa storia durò sei mesi, di angoscia, paura e complicità. Alla fine fu una
liberazione, quando, dopo 6 mesi, gli inglesi decisero di deportarli a Porto Sudan.
La sera prima di giungere a Porto Sudan si fece una tappa. Era ormai l’ imbrunire e la
carovana stava per fermarsi, quando Dino sentì una voce inconfondibile:<< a frate’, che ssi ttu?>>. Si
girò di scatto, e dietro di lui c’ era il frate, quello a cui aveva dato l’ orologio. L’ uomo aveva un
rosario nelle mani, e dispensava segni di croce. Si avvicinò a Dino, benedicendolo:<<fratè, nun te
pozzo fa gnente>>. <<Che fine ha fatto l’ orologio?>>. L’ uomo estrasse il cipollone, e disse ad alta
voce: <<so le cingue, angora ddu ore de strada e semo rivati>>. Dino respirò di sollievo. <<Non lo hai
consegnato?>>. Era ovviamente una domanda retorica. <<No, ma so’ riuscito a famme mette tra li aiuti
spirituali de li prigionieri. Mo vedemo che pozzo fa>>. Dino pensò al rischio che stava facendo correre
a quel disgraziato, ignaro, e gli disse:<<ridammelo, ci penserò io>>. Il fraticello lo fissò con uno
sguardo intenso, e con un tono di voce totalemente diverso, e senza nessuna inflessione dialettale,
disse:<< non essere precipitoso, farò un ultimo tentativo, e ti farò sapere se ci sono riuscito. Se andrà
male cercherò di darti una possibilità di riprovare>>. E mentre Dino lo fissava esterrefatto, si allontanò
benedicendo.
Quando si fermarono per la notte Dino, che non aveva smesso un secondo di riflettere, rimase
seduto ad aspettare il frate. Dopo mezz’ ora cominciò a venirgli sonno. Mentre stava per chiudere gli
occhi sentì del movimentoe vide passare, alla luce dei fari delle camionette inglesi, Frate Adalgiso,
ammanettato, e scortato da due soldati armati sino ai denti. I tre si infilarono in una tenda, e la luce
rimase accesa a lungo. Quella notte non c’ era tanto freddo, ma Dino era ghiacciato! Il tempo fu
interminabile. Dino era rtassegnato: il povero Adalgiso, o chi diavolo fosse, non avrebbe resistito a
lungo, ed inevitabilmente avrebbe parlato. Era ormai rassegnato a finire di nuovo davanti ad un
Quartermaster, e poi chissà dove, e non vedeva via di uscita. Un uomo, sdraiato in terra vicino a lui gli
domandò:<<che fai, non dormi? Guarda che domani questi fottuti ci faranno schiattare dalla fatrica!
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Hai una sigaretta?>> Dino scrollò le spalle, e l’ altro continuò: <<hai visto quel frate, chissà che cazzo
ha combinato?-poi, dopo una pausa-quello deve essere un collaborazionista od una spia, e se parla
vedrai che casino succede>>. Poi si stirò ed aggiunse: <<Boh, tanto non ci riguarda, abbiamo altri
cazzi da pensare!>>. A Dino, nonostante la gravità del momento, venne da sorridere. Passò ancora del
tempo, ed il tizio cha aveva parlato prima russava come un grammofono con la puntina fuori sede.
Dino iniziò a rianalizzare gli eventi, iniziando dal dead drop a Massaua. Ad un tratto mise a fuoco un
particolare che lo aveva colpito da quando aveva bussato alla porta del convento del Buoni Frati di
Quoram: Frate Adalgiso assomigliava al barista del Bar Balilla, ed aveva la stessa corporatura del
quinto passeggero del treno di Massaua! Ecco chi era il sesto uomo della lista trovata sul corpo di N-2,
Luciano Vittori, l’ agente che non aveva mai conosciuto.
La tenda dove avevano condotto il frate si apri improvvisamente, ed Adalgiso uscì, seguito
dai due soldati che gli tenevano le armi spianate addosso. Dino osservò che gli avevano tolto le
manette. Il trio si diresse verso una delle camionette parcheggiate, dove un altro militare aspettava con
il motore acceso. Mentre camminavano il frate estrasse il famoso cipollone, e lo osservò, poi lo riinfilò
nel saio. Il resto della scena si svolse in una manciata di secondi: Frate Adalgiso si girò di scatto,
strappò il fucile dalle mani di uno dei due soldati, colpì violentemente con il calcio lui ed il suo
collega, e fece fuoco sul soldato vicino alla camionetta, che cadde morto. Poi raggiunse velocissimo la
Jeep, saltò a bordo e partì a tutta velocità. La corsa durò pochissimo, perchè le guardie inglesi si resero
conto dell’ accaduto, ed iniziò un fuoco concentrico sulla jeep in fuga, che sbandò finendo con
violenza su un’ altra, per lo scoppio di una gomma, e le due macchine presero fuoco. Frate Adalgiso
era stato sbalzato in terra prima dell’ impatto, si rialzò, e si buttò senza esitazione tra le fiamme, prima
che potessero colpirlo. La scena si era svolta a circa 300 metri da Dino, ed era stata illuminata dalle
fotocellule. Per tutta la notte vi fu un viavai di soldati per tentar di spegnere l’ incendio. Vi riuscirono
solo al mattino, ma le camionette, e l’ occupante, erano divenute irriconoscibili. Dino era rimaso
impietrito. Ormai tutto era finito, ma se frate Adalgiso aveva parlato prima di morire, il futuro di Dino
non sarebbe stato facile.
Ma la mattina dopo si ripartì normalmente, e nessuno interrogò mai più Dino. Frate Adalgiso
non aveva tradito! Ma chi era Luciano Vittori? Dino, tornato in Italia tentò di scoprirlo invano. Frate
Adalgiso, del Convento dei Buoni Frati di Quoram non era mai esistito, ed il barista del Bar Balilla era
un ragazzo negro di 16 anni! Dopo molte ricerche scoprì un Luciano Vittori, ma era un contadino della
bassa padana, morto a settantanni cadendo da un trattore.
La mattina successiva, al porto, i prigionieri vennero imbarcati sull' incrociatore Charleston,
insieme a 700 funzionari civili, proveneinti dai vari governatorati dell' Africa Orientale. Appena il
Charleston si mise in moto si aggrgarono altri due incrociatori, ed il convoglio si diresse verso una
meta ignota. Quando entrarono nel mar Rosso iniziò la navigazione a Zig-Zag, ovviamente per evitare
di essere localizzati dai sommergibili nemici. Tutti gli uomini erano in una situazione paradossale:
avrebbero voluto vedere le navi inglesi in pezzi, e non potevano permettersi di desiderarlo. Comunque
andò bene ed entrarono nell' Oceano Indiano. La navigazione durò otto giorni, ed i prigionieri rimasero
rinchiusi nella stiva. C' era un caldo infernale, e gli infami inglesi davano soltanto del thè, che i
prigionieri regolarmente disperdevano con il sudore nel giro di mezz' ora. Dino perse 23 chili! Alcuni,
meno robusti morirono, ed altri arrivarono a destinazione moribondi. Oltretutto gli inglesi
costringevano i prigionieri a salire in coperta per far le prove generali di evacuazione della nave in caso
di siluramento. Salire in coperta trafelati, stremati dalla stanchezza, per mettere i giubbotti salvagente
con un caldo infernale, e tenerseli addosso mezz' ora, simulando una evacuazione, era una prova
veramente brutale. Tutti i prigionieri odiavano gli inglesi, e Dino li disprezzò tutta la vita: diceva che
erano disumani. E c'è da credergli. Dino però aveva ritrovato un motivo di speranza. Se il siluramento
fosse avvenuto, i sommergibili avversari si sarebbero poi fermati a raccogliere i superstiti. Una volta a
bordo del sommergibile era fatta. Si rientrava alla base, e si vedeva la fine della guerra dalla parte dei
vincitori. Così Dino trovò un motivo per partecipare alle esercitazioni, ed una buona ragione per
sopravvivere. Tra i priglionieri cominciò a correre la voce che il convoglio fosse diretto verso il porto
di Bombay. Prima dell' arrivo al porto, l' ultimo incrociatore del convoglio venne silurato. I poveracci
chiusi nella stiva, che avevano fatto le esercitazioni, non riuscirono neppure ad uscire alla luce del sole.
Creparono direttamente dentro la stiva, come topi nelle gabbie. Si salvarono solo alcuni ufficiali
inglesi. Dino ed i sui compagni riconsiderarono l' aspetto positivo della vicenda.
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Dino si sarebbe ricordato quel viaggio, oltre che per l' orrore dell' affondamento, in cui
morirono dei sui amici, anche per un' altra vicenda, in cui la gola gli giocò un brutto scherzo. Prima di
attraccare nel porto, gli inglesi dettero del burro ai prigionieri. Dino capì al volo che stava per arrivare
il cibo, con il suo spiccato sesto senso per la sopravvivenza, e saltò come un capriolo, ed arraffò un
grosso pezzo di burro, che trangugiò intero, senza masticare. Poi pagò il prezzo di quella bravata scon
una diarrea terrificante, che durò delle ore, e che lo lasciò completamente distrutto.
Comunque finalmente scesero dalla nave, circondati da due ali di soldati scelti indiani
(Gurgas), truppe di alta montagna. Avevano un pennacchi sul cappello, ma non somigliavano agli
alpini. Scortarono i prigionieri sino alla stazione di Bombay, dove era stata convogliata anche la
popolazione inglese, ed in particolare i notabili, per mostrare quanti selvaggi italiani fossero stati
catturati. Gli italiani furono costretti a sedere in terra. Se qualcuno doveva andare in bagno (e
succedeva spesso, per la faccenda del burro), veniva scortato da tre soldati indiani (quelli con la penna,
la caricatura degli alpini), con la baionetta spianata. Alla fine qualcuno si degnò di avvisare i prigionieri
che dovevano prendere il treno, e gli impose di togliere le scarpe e consegnarle. Dino ricordava con
terrore la puzza. Il treno partì, con un grappolo di poveri diavoli, che avevano il solo torto di essersi
trovati dalla parte sbagliata del tavolo di gioco dei drandi del mondo. Ogni volta che il treno si fermava,
si vedeva un filo di fumo, ed i poveri prigionieri, ormai disidratati, speravano di vedere arrivare del thè.
Ma il thè non arrivò mai, ed i poveracci vennero umanamente lasciati a digiuno per i tre giorni del
viaggio. Solo poco rima dell' arrivo passarono un po' d' acqua, neanche molto pulita. Poi il treno arrivò
sferragliando a quella che si diceva fosse la destinazione definitiva. Quando i prigionieri scesero dai
vagoni arroventati gli inglesi ridistribuirono le scarpe, ed a Dino dettero due sinistre. Scoprì che gli
inglesi non accettavano reclami, e dovette proseguire con la scarpa sinistra infilata, e la pancera
arrotolata sul piede destro. Ovviamente da qualche parte ci doveva essere qualcuno che tentava di
camminare con due scarpe destre, ma non era facile trovarlo, e quindi Dino dovette fare tre chilometri
di marcia con una pancera ed una scarpa.
Era soltanto l' inizio ! i sopravvissuti al caldo, alla diarrea, alla fatica, arrivarono finalmente al
campo di concentramento, che era solo terra nuda, anzi cemento. Per un mese i prigionieri dormirono
sulla terra, senza branda nè materasso, nè cuscino.Gli inglesi dicevano loro di non lamentarsi, perchè
avevano due coperte a testa. Dopo due mesi finalmente vennero distribuite le brande, un pezzo di tela
di 50 x 100 cm, retti da due legni incrociati (Anghereb, in lingua locale), che comunque
rappresentavano per quei poveracci la fine di un incubo. Certamente la situazione era disumana, ma si
trattava di sopportare ancora per poco. Prestissimo la gloriosa armata Italiana sarebbe arrivata a liberare
i prigionieri, e tutti sarebbero andati via. Dovevano solo sopportare un altro po', ed adesso era più facile
con le brande.
La previsione si avverò parzialmente il mese dopo. Andarono via. Gli inglesi, con la solita
delicatezza li intrupparono, li controllarono, e li ritrasferirono in una altra località, Bairagar.
Arrivarono, ancora falcidiati dal caldo, e qualcuno ci lasciò la pelle nel traferimento. Gli inglesi
buttarono semplicemente i cadaveri dal treno. Dino era per natura un ottimista, e credeva in una rapida
soluzione positiva, ma sta di fatto che ogni alba era uguale. Secondo alcuni ben informati tutti gli
spostamenti servivano agli inglesi per sfuggire agli Italiani che stavano inseguendoli. Comunque i
sopravvissuti, con due coperte ed un Anghereb, arrivarono a Deoli, campo di concentramento da cui era
ripartito la settimana prima il Mahatma Ghandi, anch' egli ospitato cordialmente dagli Inglesi. Erano
rimasti però dei tedeschi, che non fraternizzarono gran che con i nuovi arrivati. Dino ebbe fortuna.
Dopo una settimana giunse una commissione della CRI, che in base a documentazioni, probabilmente
fabbricata a scopo umanitario, riconobbe loro la qualifica di civili. Questo significava la libertà di
uscire durante tutto il giorno 15 miglia intorno al campo. Non è che fosse un gran vantaggio. La
temperatura era torrida, e dopo i primi passi la stanchezza li stremava. Comunque aiutava certamente a
sopportare la situazione. Tanto l' armata italiana.......... Ebbero anche in dotazione delle zanzariere, che
non servivano tanto per le zanzare, quanto per i serpenti. Gli inglesi furono chiari sin dall' inizio:
ognuno doveva pensare a se stesso. Loro avrebbero fornito un po' di farina e delle patate secche. Di
carne neppure a parlarne, perchè gli indiani consideravano sacri i bovini, le rane, i colombi, insomma
qualunque animale. L' unico modo per procurare la carne era quello di farla venire da fuori in celle
frigorifere. Però, se gli Indiani l' avessero scoperto sarebbe successa una tragedia. Già in precedenza gli
inglesi avevano avuto una esperienza tragica: il comandante locale aveva fatto ingrassare le armi con
grasso animale, ed era scoppiata una rivolta. Prima che venisse sedata ci erano stati 15 morti, in parte
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inglesi, ed era stato necessario allontanare in gran fretta il comandante colpevole di sacrilegio. No, di
carne non se ne parlava, e chi non era vegetariano era meglio che ci diventasse!
Nel campo c'erano 700 italiani, numerosi tedeschi, provenienti da isole del pacifico, francesi,
russi che erano finiti in cina durante la rivoluzione sovietica, e rappresentanti di molte altre
popolazioni. Dino avrebbe preferito non conoscerli, ovviamente, ma si trattò di una esperienza
importante, che gli permise di comprendere gli uomini delle diverse nazionalità, e le ragioni della loro
storia nazionale. Vi era anche una varietà di livelli culturali: missionari, operai, tecnici, un gruppo di
ingegneri catturati in Persia, e consegnati dai russi agli inglesi. Tutti questi esseri, catapultati in quell'
angolo di terra da un destino assurdo, se volevano sopravvivere dovevano rimboccarsi le maniche. E lo
fecero. La terra a Deoli si prestava molto a fare mattoni (era argillosa). Con del legname costruirono dei
carri, ottennero delle vanghe dagli inglesi, e cominciarono a preparare i mattoni. Poi fecero un forno
per cuocerli. Ormai il sogno della immediata salvezza era finito. Anche i più pervicaci avevano capito
che la prigionia sarebbe stata lunga e dura. Gli inglesi si ammorbidirono, e cominciarono a
familiarizzare con i prigionieri. I mattoni erano riusciti molto bene, e furono la fortuna dei prigionieri.
Piacquero molto agli Inglesi, che come noto amano molto le case in muratura, i cottages, e la voce si
sparse presto. Vi furono delle ordinazioni di mattoni da fuori, e la cooperativa dei prigionieri iniziò ad
incassare delle rupie. La colonia costruì un bar, una mensa, una cappella. Fecero una statua del
Redentore di 2 metri e 50, ed il Vescovo di Ashmer, una cittadina vicina, venne a benedirla. Il dramma
era l' acqua, ma da quella folla eterogenea vennero fuori dei rabdomanti, che per bravura, o per fortuna,
trovarono l' acqua. Ovviamente si dovettero scavare i pozzi a mano nuda, perchè gli inglesi,
familiarizzati o no, non dettero loro materiale esplosivo. Gli inglesi avevano predisposto una area molto
grande a campo sportivo, ma i prigionieri chiesero, ed ottennero, di trasformarlo per metà in orto,
(pomodori, papaie, banane ed altro). Avevano anche poca farina, perchè i mezzi di purificazione del
grano erano molto rudimentali, e la maggior parte diveniva crusca. Allora la Lobby del campo decise di
metterla da parte tutta, per fare invece la pasta la notte di Natale. Doveva essere una sorpresa. Ogni
tanto negli angoli del campo si parlava di questa sorpresa, che ci sarebbe stata la notte di natale. "però
non dirlo a nessuno, mi raccomando, sai non potrei dirtelo" . Alla fine comunque diventò il segreto di
pulcinella, e chiunque ne veniva messo a parte lo sapeva già. A questo punto la faccenda cominciò a
diventare misteriosa. Circolava la voce che ci sarebbe stata la pastasciutta "al verde". Si diceva che
avrebbero mischiato le foglie di patate americane con la farina. La notte di Natale tutti i prigionieri
giravano intorno alla mensa. A mezzanotte del 24 Dicembre del 1943 circa 1200 persone aspettavano
seduti alla mensa la famosa sorpresa. Ma ci si rese conto che le cucine non avrebbero potuto servire
tutti insieme, perchè la legna del fuoco non bastava. Serire solo alcuni avrebbe destato dei malumori.
Insomma la famosa pasta arrivò soltanti alle 13:00 del 25 Dicembre, ed i prigionieri rimasero in piedi,
tutta la notte e la mattina. Moltissimi dormirono sui tavoli, ma nessuno lasciò quella mensa.
La situazione dei prigionieri in generale non era cattiva. I ricchi Marajà locali si
contendevano le capacità dei prigionieri, che erano architetti, ingegneri, operai, pittori. Questi uomini
ingegnosi avevano costruito dei piccoli edifici, molto belli, che adibivano ad esposizione di quadri, e li
inauguravano facendo tagliare il nastro tricolore ai graduati inglesi. Poi ovviamente qualcuno
comprava i quadri, e la comune prosperava.
Ovviamente anche nel campo succedevano storie cupe, ma Dino ne stette sempre fuori con
grande abilità. Il suo tormento, e quello del suo clan, era sopratutto quello di non poter mangiare la
carne. I colombi oscuravano il cielo..., ma erano sacri! era dura rinunciare a quel ben di Dio. Un
sistema per mangiare la carne ci doveva pur essere. Li aiutò l' ingegno. Poichè la siccità estiva in quei
posti era miciadiale, erano stati costruiti moltissimi pozzi artesiani, con l' interno in muratura, ed i
colombi, probabilmente attirati dal fresco, durante le ore più calde vi si posavano e vi nidificavano. Il
Clan di Dino si organizzò. Acquistarono dei sacchi di Iuta. e delle corde robuste. L' operazione
"colombi" era abbastanza semplice in teoria. Uno dei compari si sarebbe fatto legare, a turno, sarebbe
stato calato nel pozzo con un sacco, ed avrebbe prelevato i colombi. Il problema grosso erano gli
indiani. Se avessero scoperto la faccenda li avebbero sgozzzati vivi. Gli uomini della operazione
colomba si divisero in due gruppi. Un gruppo doveva distrarre gli indiani. Scelsero dei napoletani
esperti in contrattazione, che offrivano a prezzi allettanti delle lenzuola. La faccenda funzionò, ed il
gruppo dei razziatori riuscì a riportare alla base molta carne. Durante la notte cucinarono il malloppo, e
poi all' alba digerirono interrando le penne. Ovviamente il primo successo li incoraggiò, ed addio buon
senso e moderazione. Nel giro di pochi mesi i colombi diminuirono sensibilmente, ed esisteva il rischio
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reale che gli indiani se ne accorgessero. I congiurati decisero di iniziare l' operazione "Pavone".
Oltretutto i pavoni, a parere della maggioranza, erano più buoni. Solo che i Pavoni erano il Top per gli
indiani, che li tenevano nelle cappelle, e li adoravano. Non era una faccenda semplice. I congiurati
dovettero moderarsi. Ed oltretutto l' operazione volse rapidamente alla fine, perchè il rischio era
eccessivo. Dovettero dare inizio alla operazione "ranocchie". Il gruppo dei carnivori si nutrì ancora per
molto tempo di ranocchie impanate e fritte.
Nel Marzo del '43 il comandante inglese informò tutti che l' Italia si era arresa senza
condizioni. La botta fu molto dura, ma la vita doveva proseguire, anche se questo metteva i prigionieri
italiani in condizione di indiscutibile debolezza morale ed oggettiva. Per molti di loro fu la fine di un
sogno. Dovevano ricomiciare da capo, con la coscienza di non avere più nulla alle spalle, se non un
sogno finito. Dino insegnava lingue, l' Italiano. Come tutti gli insegnanti aveva dei vantaggi, e
rimediava qualcosa dal cuoco, o un paio di pantaloncini dal sarto. Insomma sopravviveva. Aveva avuto
il permesso di uscire dal campo per qualche chilometro, perchè tanto gli inglesi sapevano benissimo
che i prigionieri non sarebbero andati lontano: i due che ci avevano provato erano finiti male, uno
ucciso dalle guardie indiane, l' altro da un serpente.
Intanto lo squadrone dei carnivori aveva ripreso ad agire, questa volta contro i serpenti.
Oltretutto erano pure pericolosi, ed avevano una carne dal sapore eccellente. Al convivio un giorno
venne servito un coniglio selvatico. Dino non partecipò alla caccia, ma solo alla cena, e lo trovò
gradevolissimo. Secondo lui si doveva iniziare la caccia al coniglio, che decisamente aveva una carne
migliore. Il cuoco però spiegò che era un gatto selvatico, bellissimo, e molto pesante. Intanto nel campo
vennero affissi dei messaggi in inglese. Si offriva una mancia a chi avesse trovato il gatto del
comandante inglese. Era sparito la sera prima della cena col coniglio. Il comandante fece delle riunioni
con i prigionieri, in singoli gruppi, per spiegare come era fatto il gatto scomparso. La moglie, sempre
presente piangeva. Ogni volta c' era un interprete che traduceva nella lingua dei convocati, per essere
sicuri che tutti capissero. Ovviamente il gatto non si trovò mai. Alcuni cercarono di far passare alcuni
gatti selvatici per il megnifico soriano della cena. I congiurati, passato l' iniziale paura di essere scoperti
godettero dell' affronto che avevano fatto all' odiato inglese. E fecero sparire le ossa sbriciolandole,
perchè la rappresaglia poteva essere terribile
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