PASSAVANO I BERSAGLIERI
Il meteorologo era stato chiaro; da domani, aveva detto, scenderanno dal Nord
correnti molto fredde che, in netto contrasto con quelle provenienti dal Sud,
provocheranno dalle Alpi alla Sicilia condizioni di tempo assai perturbato. Vi
saranno frequenti ed abbondanti nevicate persino a quote molto basse.
Francamente io speravo che la nostra zona rimanesse salva da simili
perturbazioni. So bene che la neve è ricchezza, perché rinsangua le varie ed
importanti sorgenti e so pure che con l’Inverno asciutto, anche le suddette sorgenti
soffrono. Le conseguenze si ripercuotono su di noi nei mesi più caldi, quando c’è
davvero bisogno di acqua. E’ stato solo questione di 48 ore, poi, quello che
l’esperto aveva previsto s’è puntualmente avverato.
Stamani, quando, come ogni mattina, ho alzato l’avvolgibile della finestra per
sbirciare le condizioni del cielo, ho avuto la sorpresa. Stava nevicando e uno
strato abbastanza spesso di neve si era già formato ovunque. Il mondo circostante
era piccolo e ammantato di bianco. Anche i pini, che crescono rigogliosi nelle
immediate vicinanze del caseggiato, apparivano ormai sovraccarichi. Non
sarebbe stato consigliabile posteggiarvi le auto in prossimità come nei giorni
precedenti. Ma non poteva succedere perché la circolazione era pressoché assente.
Chi avrebbe azzardato a muoversi mentre nevicava così intensamente? Ed io con
simili condizioni atmosferiche dovevo forzatamente rimanere rincantucciato in
prossimità dei termosifoni.
Cos’altro potevo fare? Essendo impossibile uscire di casa per la consueta
passeggiata o per svolgere quelle poche attività consentitemi ancora dall’età,
venivo assalito dalla malinconia. Ed in tal senso io sono davvero suscettibile. Da
ragazzino, invece, quando nevicava ero felicissimo potevo giocare a volontà con
gli amici sul bianco strato. Adesso mi priva, come ho appena affermato, anche di
muovermi da sotto il tetto. Mentre me ne sto l’intera giornata immerso nella
tristezza, mi si parano dinanzi gli avvenimenti più vari, lieti o tristi che si sono
susseguiti finora durante questo soggiorno terreno. Ma quello su cui vorrei
adesso soffermarmi, e che mi colpì in modo particolare, avvenne quando avevo
appena undici anni, ovvero quando ero ancora un fanciullo piuttosto gracilino e
assai sensibile.
Ricompare sovente nella mia mente quella giornata di Maggio del 1937 trascorsa
a Siena in occasione di una gita scolastica. Non c’ero mai stato. Anche se
qualcosa avevo appreso sui banchi di scuola, non me la immaginavo così bella.
Frequentavo la 5 elementare, quando affrontammo il viaggio per visitare questa
stupenda città. Allora abitavo in campagna. Vedevo ogni giorno il treno da molto
vicino, ma non vi ero mai salito.
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La prima emozione la provai nel vedere la stazione di Siena, lucida e nuova. Seppi
che era stata aperta all’esercizio nell’Autunno del 1935 e inaugurata dal Ministro
delle Comunicazioni giunto da Firenze con apposito treno il 25.11.1935. Appena
discesi, controllati dall’occhio vigile degli insegnanti, ci incamminammo in fila
per due verso il centro. Dopo circa mezz’ora giungemmo alla Lizza e sostammo
presso la splendida statua a G. Garibaldi contornata da molteplici aiuole fiorite.
Visitammo le Mura della Fortezza Medicea ove gli insegnanti ci spiegarono
qualche particolare importante della loro storia. Ci spostammo, poi, per osservare
la Chiesa di San Domenico e la Casa di S. Caterina. Rammento che potemmo
ammirare la bellezza della suddetta chiesa anche da un vicolo che seppi chiamarsi
Ghiacceto.
Ciò avvenne dallo spazio sovrastante la via che dalla Costarella conduce in
Fontebranda. Benché fanciullo mi colpì il maestoso suono delle campane di San
Domenico; più possente ed armonioso dei bronzi della Collegiata del mio paese,
ma molto simile a quello che diffondevano le campane dell’Abbazia di Monte
Oliveto Maggiore. Bramavano farci visitare pure il Duomo, ma le ore
trascorrevano veloci e non fu possibile. Però ci accompagnarono, seppure per soli
5 minuti, in Piazza del Campo ove potemmo ammirare la stupenda “conchiglia” e
l’imponente quanto incantevole Torre del Mangia. Da lì prendemmo la via del
ritorno.
Fu proprio durante quel percorso che provai le emozioni più belle.
Improvvisamente giunse alle nostre orecchie un suono forte ed allegro di ottoni.
Ci fecero fermare ai lati della via dove c’erano pure tante altre persone. Qualcuno
disse: - Arrivano i bersaglieri. Un altro esclamò ancora: - Eccoli, vengono da S.
Prospero.
Dopo neanche un minuto furono di fronte a noi. Passavano inquadrati correndo e
cantando, con le piume dei loro cappelli al vento. In testa la fanfara che, sempre
correndo, suonava cose allegre, da me ovviamente mai sentite prima. Erano tanti e
la gente applaudiva calorosamente al loro passaggio.
Gesticolanti fanciulle inviavano infinità di baci e di belle parole ai fantastici
bersaglieri in grigioverde. Ma chi aveva mai assistito a spettacoli tanto
entusiasmanti? Per noi ragazzini provenienti dal paesello quella era una cosa di
straordinaria bellezza. Sono avvenimenti che suscitano indescrivibili emozioni. E
le emozioni provate nella fanciullezza, non si potranno mai dimenticare.
Mi tornano in mente pure le parole che pronunciò un signore mentre applaudiva
al passaggio di quei militari. Con entusiasmo disse:- E’ proprio vero! I bersaglieri
correrebbero anche da morti. Pensai che quella frase volesse significare che per
far parte di quel corpo bisogna avere le gambe idonee a correre in ogni momento e
tanto entusiasmo per cantare.
Non fui in grado di decifrare in altro modo tali parole. Ci fu spiegato che quei
militari sempre di corsa facevano parte del 5° reggimento di stanza a Siena. La
sera stessa raccontai ai miei tutto ciò che avevo visto e provato quel giorno.
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Mio fratello scherzando, dopo avermi ascoltato, soggiunse:- Oggi hai provato la
bella emozione di salire per la prima volta sul treno, di vedere una piccola parte
di Siena ed i bersaglieri con le piume al vento correre e cantare euforici con la
fanfara in testa, ma ti sei anche risparmiato di passare un pomeriggio a badare i
suini. Era la verità, cosa potevo rispondere? Trascorsero un paio di anni, forse un
po’ di più, con esattezza non ricordo il mese, quando provai un’altra forte
emozione che però mi colpì negativamente. Io abitavo a 100 metri dalla ferrovia,
quindi, seppure fanciullo, avevo imparato a memoria l’orario dei treni, sia
viaggiatori che merci che vi transitavano durante la giornata. Ma quel pomeriggio
verso le tre udii un treno merci, fuori orario, proveniente da Siena che arrancava
nelle curve in salita non lontano dalla mia abitazione e a 500 metri dalla stazione
di Asciano Scalo. Curioso come ero, corsi immediatamente verso la ferrovia per
vedere meglio di che si trattava. Era un convoglio composto da quattro vetture
piene di soldati, qualche vagone chiuso ed altri che trasportavano vari mezzi
militari. Pochi soldati erano affacciati ai finestrini. Erano silenziosi. Portavano in
testa un berretto rosso con la nappa e guardavano fuori, chissà dove… Con il
convoglio che procedeva assai lentamente, potevo scorgere distintamente i loro
volti e le loro bocche silenziose. Dai berretti rossi compresi immediatamente che
si trattava di bersaglieri. Che differenza tra questi e quelli visti correre e cantare
per le vie di Siena qualche anno prima! Pur non essendo le medesime persone, lo
spirito doveva essere ugualmente brillante, ma non era così. Questi erano diretti
verso Chiusi, poi chissà….Per altri due giorni ed alla stessa ora dovetti assistere a
tale mesto e lento transitare. Ero solamente un ragazzo quattordicenne, ma avevo
intuito che quei bersaglieri andavano incontro ad una terribile tempesta. Pensai di
parlarne con mia madre, speranzoso che potesse rassicurarmi dell’infondatezza
delle mie apprensioni. Lei invece mi disse:- Figlio mio, non preoccuparti di ciò
che avviene o avverrà nel mondo. Tu sei giovanissimo ed hai bisogno di vivere
tranquillo. I nuvoloni che tutti vediamo addensarsi all’orizzonte, pian piano si
dissolveranno e tornerà ovunque il sereno. Ma non fu così. Quei bersaglieri che
avevo visto transitare dinanzi alla mia abitazione, con stato d’animo diverso da
quelli visti qualche anno prima, correre per le vie di Siena, furono trasferiti nei
deserti africani e nelle aspre terre balcaniche. Là combatterono valorosamente
innumerevoli battaglie, spesso con forze superiori per numero e per mezzi.
Malgrado ciò si distinsero, insieme a tanti altri, per le loro gesta eroiche. Non tutti,
però, ebbero la fortuna di poter riabbracciare i propri cari. Ecco cosa mi ha fatto
rivivere oggi questo tempo freddo e nevoso! Adesso è quasi sera, e mentre si
accendono le fioche luci dei lampioni posti lungo il viale, odo il rumore un po’
attutito di un motore. Mi affaccio. Sta passando lentamente una macchina
sgombera neve, seguita a pochi metri da un’altra che sparge il sale. Si danno da
fare per riattivare alla meglio il traffico dopo una così intensa nevicata. Mah!
Speriamo che domani possa uscire un po’ di casa, altrimenti chissà quali momenti
mesti si affacceranno ancora alla mia mente. Sprazzi, comunque, di realtà da me
vissuta.
Siena
Anno 2002
A. Leonini
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LA MIA GIOVINEZZA -TANTI SACRIFICI E POCHE SPERANZE
Nessuno può negare che il progresso abbia portato benessere per tutti. Basta
guardare come sono forniti negozi, supermercati e le boutique di cose più
spettacolari per rendercene conto. Notiamo negozi di vestiario o calzature ove per
acquistare un singolo capo è facile consumare il sudato stipendio di un mese.
Nonostante ciò la gente entra e acquista. Altri esempi potremmo citare.
Partecipazione a lunghe crociere, ferie nelle lontane isole orientali, lauti pranzi in
ristoranti di lusso.
E’ certo cosa sacrosanta rivitalizzare le proprie energie dopo stagioni di intensa
attività. Un tempo solo pochi se lo potevano permettere. Il progresso ha compiuto
passi eccezionali nel campo della medicina e della chirurgia, permettendo di
prolungare il soggiorno nel giardino della vita. Non possiamo non citare l’avvento
della TV, della plastica nonché dei computer già alla portata di tutti. Però fu
presto accertato che la distruzione di tale importante materia plastica non era
facilmente realizzabile, specie se abbandonata ovunque. Ma il progresso
cammina a grandi passi, quindi potremmo presto rivedere il mondo che ci
circonda libero dai suoi rifiuti che fanno, oltre tutto, tanta bruttura.
Se raccontassi ai giovani di oggi la vita trascorsa nella tanto lontana giovinezza,
qualcuno potrebbe dire che allora eravamo tutti con scarso comprendonio e che
sopportavamo quei sacrifici perché non sapevamo farci rispettare. Può darsi che
ciò sia vero, e voglio augurarmi che le attuali giovani leve, su cui riponiamo le
nostre speranze, riescano ad utilizzare al meglio ogni minimo particolare della
loro grande emancipazione. E’ molto facile dire che noi, ormai vetusti, temevamo
a manifestare le nostre ragioni. Non era per soddisfazione se facevamo colazione
con una piccolissima aringa in 5 o 6 persone.
Se mia mamma vendeva i polli, le uova, i piccioni per comperare il sale e le sarde,
non lo faceva per divertimento, ma perché non poteva fare di meglio. Se anche da
ragazzini, durante l’Inverno, calzavamo gli zoccoli con la pianta di legno lo
facevamo esclusivamente per risparmiare le scarpe. Pochi avevano la possibilità
di poterle comperare nuove ogni anno. Io le prime scarpe basse per la festa, le
rinnovai a 16 anni.
Fino ad allora avevo calzato quelle che non stavano più a mio fratello o ai miei
cugini. Sembra di raccontare frottole, ma questa era la pura realtà che vivevamo in
quasi tutte le famiglie di campagna.
Ben poche avevano maggiori possibilità. I primi pantaloni lunghi che indossai,
ovviamente con relativa giacca, erano già serviti per circa tre anni ad un mio
cugino di paese. Quando la mia mamma me li mostrò, mi parve di toccare il cielo
dalla felicità. Mi sentii già un giovanotto. Erano di colore grigio e senza il più
piccolo rammendo. Li indossai per ancora due anni, ma solamente nei giorni di
festa. I giovani di oggi, fortunati loro, abbondano di tutto questo e non hanno
bisogno di portare abiti serviti prima ad altre persone. Avevo 18 anni quando mia
madre mi acquistò da un “bottegaio” conoscente, il primo vestito nuovo. Era di
cotone colore marroncino, ma benché leggero lo indossavo pure d’Inverno.
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Fu possibile ciò perché il rivenditore, ce lo dette a pagare in un anno. Non
potevamo fare altrimenti con il medico ed il farmacista da pagare interamente. I
contadini non godevano di agevolazioni. A quei tempi se un indumento si
strappava, veniva subito rammendato. Oggi ciò non accade. Tutto è cambiato. La
moda prevede ben altro. Quindi perché non seguirla? Spesso i pantaloni vengono
strappati volontariamente, anzi vengono venduti già abbondantemente
sbrindellati, magari maggiorati di prezzo. Così è la moda! Vediamo spesso tanta
bella gioventù d’ambo i sessi che oltre ad indossarli strappati li gradisce tanto
lunghi che finiscono per essere pestati continuamente, quindi inevitabilmente
lacerati. Noi vetusti stentiamo non poco a comprendere tale modernità, ma se
quella è la moda , siamo noi a non essere nel giusto.
Quindi nessuna critica alle attualità, quando vogliamo raccontare del nostro
passato, ovvero di quella giovinezza molto più sfortunata ma ugualmente bella.
Mai mi sognai di poter disporre a piacere di un ciclomotore, magari usato, a soli
15 anni. I miei genitori, come tanti altri, non avevano un soldo per far,( come
recita un proverbio) cantare un cieco.
C’erano sempre tanti importanti ed impellenti problemi da risolvere. Io, allora,
avevo agilissime gambe, quindi, potevo anche camminare a piedi. Infatti fin dalla
prima elementare, mi insegnarono a percorrere il tratto di strada (oltre un
chilometro) che mi separava dalla scuola usando le gambe e con qualsiasi
condizione del tempo.
I miei familiari anche se avessero voluto accompagnarmi, non potevano farlo.
C’erano le bestie nella stalla che reclamavano la “governatura” e non andavano
trascurate. Ovviamente erano sempre presenti quando le circostanze lo
richiedevano. Sovente mi tornano in mente le parole che la mia mamma mi diceva
al ritorno da scuola. Su figlio mio- esclamava sorridente- mangia il tuo bel piatto
di minestra poi andrai con tuo fratello a badare i suini, così vedrai anche passare il
treno da vicino.
Quando tra un paio d’ore ritornerai, ti attendono i compiti che ti ha assegnati la
maestra. Io- diceva inoltre- non voglio sentir lamentele perché il mio bambino non
si impegna abbastanza.
Per noi non c’era la palestra o la piscina per allenarsi nei vari sport. Anche per i
figli di operai che abitavano in paese le possibilità non erano grandi. In campagna,
a quei tempi, il lavoro c’era pure per i ragazzini, ma consisteva solo
nell’assistenza ai suini. Quando poi venivano venduti i lattonzoli, talvolta il
guardiano poteva godere della mancia di mezza lira offertagli dal mercante.
Dall’età di 13 anni il mio grande svago fu quello di frequentare la sala di musica
come apprendista di flauto, e dal 1941 ebbi la soddisfazione di suonare nella
banda paesana. Era il 10 Giugno del 1940 quando venne annunciata l’entrata in
guerra, ed io, seppure quattordicenne, mi trovavo nei campi con i miei. Poiché
non troppo distanti dal paese, ci giungevano le grida di assenso e di gioia di certi
illusi sostenitori. Benché fossi un ragazzo capivo benissimo che all’orizzonte si
annunciavano stagioni tristi che avrebbero assai presto sconvolto il mondo intero.
Tutto apparve ancor più lugubre in quei giorni che a cento metri o poco più dalla
mia abitazione vidi transitare diversi treni carichi di soldati e di mezzi militari.
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Erano i bersaglieri del 5° Reggimento di stanza a Siena che, silenziosi e mesti,
venivano trasportati verso l’imbarco per raggiungere i deserti africani o le aspre
terre balcaniche. Non sembravano neppure gli stessi che qualche anno prima
avevo avuto il piacere di veder correre e cantare con le piume al vento e la fanfara
in testa per le vie di Siena. Là nel deserto libico e tra le montagne balcaniche
combatterono valorosamente durissime battaglie, e tanti di loro non ebbero la
fortuna di ritornare tra i propri cari.
Tra le tristi sofferenze provate in gioventù a causa della guerra, ci fu pure la
“Carta Annonaria” le cui conseguenze furono subite in particolar modo dai malati
e dai bambini. Quella la cruda realtà che tutti dovemmo subire per lungo tempo.
Vedere la gente implorare un pezzo di pane o tre patate faceva davvero tanto
male. Mentre mia madre, come tantissime altre madri, stentava a rimediare le cose
più impellenti per sopravvivere a quella disastrosa situazione, c’era chi ne
approfittava arricchendosi con il mercato nero. Come poteva avere le energie per
lavorare chi aveva a disposizione solo 150 grammi di pane e poco più? Noi
eravamo contadini, perciò produttori di cereali ed altro, ma c’era il conferimento
obbligatorio all’ammasso, quindi a rischio di gravi pene a non rispettare tale
imposizione. Mi torna in mente il momento in cui mia madre, pensando alle
possibili sofferenze di mio fratello prigioniero in Germania, offrì un pezzo di pane
ad uno sfollato livornese. Le sue parole mi toccarono a tal punto che le ho sempre
presenti dopo oltre 60 anni. Quando si ha fame- disse piangendo costui- il pane ha
il sapore della carne. Ve ne sarò grato finché vivrò perché oggi, grazie a voi,
rivedrò nel volto dei miei figli il sorriso. Parole da far commuovere anche una
pietra. Questo il clima che vivevamo quando lentamente ci avviavamo a divenire
uomini, col pericolo di essere travolti dal ciclone che imperversava. Oh quante
cose tristi accaddero nelle stagioni che seguirono! A quanti lutti dovemmo
assistere, e quante rovine dovemmo rimuovere per ricostruire ciò che la tempesta
aveva distrutto. Io, come tanti altri, trascorsi diversi anni ancora tra gravi sacrifici
e privazioni, con poche speranze di migliorare appena le mie condizioni di vita.
Poi un filo di luce parve rafforzarsi e intravidi seppure tanto lontana la
realizzazione di un sogno che poté concretizzarsi solamente quando avevo ormai
superato da un po’ la trentina. Dunque posso veramente affermare che trascorsi la
mia giovinezza, seppure ne risentissi la nostalgia, tra tanti stenti e poche speranze.
Ora che sto per finire dico e sostengo ancora ciò che ho sempre affermato. Ogni
conquista deve essere anelata e combattuta per poter godere l’immenso piacere
della vittoria. Mai proverà vere emozioni chi fin da piccolo ha vissuto nuotando
nell’agiatezza, senza conoscere i sacrifici per sbarcare il lunario o per raggiungere
una meta.
A. Leonini
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IL PIANTO DI UNA GIOVANE MADRE
La persona che per disfarsene abbandonò quel cucciolino di neppure un
chilogrammo in una piazzola lungo la strada per Grosseto, compì un gesto
spregevole passibile, ovviamente, di durissima condanna. Ed io che lo raccolsi, lo
curai e lo allevai con la massima attenzione possibile, ricevetti e ricevo da costui
dimostrazione continua di affetto, di intelligenza e di indicibile sensibilità. La più
grande prova di ciò Gabrio ( così lo chiamai)è stata quella, rispondente al vero,
che sto per raccontare nelle righe che seguono. Accadde un sabato pomeriggio di
Agosto, allorché m’ero recato in macchina, naturalmente con l’affezionata
bestiola, lassù verso i castagneti della Montagnola Senese. Sentivo il bisogno di
ossigenarmi e di distendermi all’ombra di quelle rigogliose piante. Nel solleone
non c’è nulla di meglio. Giunto nel luogo da me spesso frequentato (e non da me
soltanto)mi misi a giocherellare con Gabrio che si divertiva a riportare ciò che gli
lanciavo. Mi parve, ad un tratto, di udire una voce disperata provenire dal bosco
vicino. Ascoltai con attenzione. Non mi sbagliavo. Infatti intesi nitidamente il
pianto e insieme una straziante voce femminile che chiamava con insistenza
Mario. Tergiversai due secondi, non di più, poi, com’è dovere di ognuno di noi,
mi precipitai in quella direzione seguito dal mio cane. In meno di un minuto fui
tra i folti cedui, ove una giovane donna sulla trentina, vagava piangendo e
ripetendo quel nome. Vedere il suo volto straziato dalla disperazione mi sconvolse
l’animo ed il ricordo di ciò tuttora mi angustia. Nell’offrirle il mio aiuto, disfatta
dal dolore, ella riuscì solo a dirmi che da un quarto d’ora il suo bimbo era
scomparso nel bosco. Povera madre, quanta sofferenza stava provando in quel
momento! Mi rivelò che, dopo una settimana di duro lavoro in fabbrica, bramava
godersi un’ora di svago col piccolo Mario di appena sei anni. Cercai di
incoraggiarla; non poteva essersi allontanato. In due lo avremmo ritrovato molto
presto.
Ma, a dire il vero, pur ostentando tanta sicurezza, anche io non mi sentivo
abbastanza fiducioso. Cosa poteva essergli accaduto in pochi minuti? La selva è
sempre stupenda, ma sovente nasconde per tutti, e specialmente nei periodi caldi
pericolose insidie. Mai m’era capitato di assistere a tanto doloroso e
comprensibile strazio. Non si placava la giovanissima madre, né riusciva a
capacitarsi del motivo di tanto terrificante silenzio. Si affacciavano, intanto, nella
mia mente idee alquanto strane che molto spesso si concretizzano in amara realtà.
Chi poteva non pensare ad una spregevole persona in agguato per arrecare
molestia a questo o ad altro fanciullo?
Non era ipotesi da trascurare seppure non ne facessi parola con la giovane madre.
E se fosse inciampato e caduto tanto rovinosamente da perdere i sensi? Ma pure
altre cose tra i folti cedui potevano essergli accadute. Non da scartare il pericolo
dell’incontro con qualche viscido molto velenoso come la vipera, che quando
morsica in una parte vitale, dà pochissimo tempo per chiedere aiuto.
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Conseguentemente tutte queste tristi supposizioni avevano provocato anche in me
tanta confusione da non saper da quale parte dirigermi per effettuare le ricerche. E
non c’era da traccheggiare tanto. Mi misi, comunque, a frugare tra i molteplici
cespugli di erica, di ginepri e di cerrattelli che rendevano il bosco piuttosto folto.
Come sua madre chiamavo ad alta voce e senza tregua, quella innocente creatura.
Mario, Mario- urlavo- dove sei? Fatti sentire. Perché fai piangere e disperare così
la tua mamma? Eppure lo sai che ti vuole tanto bene. Per lei non c’è altra cosa più
meravigliosa di te. Ma non udivamo risposta ai nostri ripetuti appelli. Intanto lei,
disfatta dal dolore e dalla fatica,(era ormai più di mezz’ora che vagava impaurita)
s’era accasciata con la testa tra le tremanti mani piangendo convulsamente. Quella
poveretta era esanime e letteralmente distrutta da non poter più invocare il nome
del figlio suo diletto.
Ma io non potevo e non dovevo arrendermi alla disperazione. Dovevo ritrovare
presto quel bimbo e affidarlo sano e salvo alle amorose braccia della mamma.
Non c’era tempo da perdere. Tra la flora così rigogliosa ed esposta al Nord,
incombeva il tetro pericolo e la paura della notte, e, in tale precaria situazione,
ogni ricerca sarebbe per noi divenuta impossibile.
E quel fanciullo, poverino, sarebbe rimasto solo, abbandonato a non so quale
destino.
Avremmo potuto chiedere aiuto al più vicino paese, ma intanto sarebbero
trascorse delle ore prima di poter continuare le adeguate ricerche.
Una cosa devo qui confessare: occorre tanto coraggio in simili frangenti,
specialmente quando è a rischio l’incolumità e la vita di un bambino. No! Non
dovevo anche io arrendermi alla paura e alla disperazione. Dovevo perseverare
altrimenti davvero poteva compromettersi tutto.
Ed ora pure Gabrio era scomparso di vista. Forse s’era allontanato a causa del
nostro concitato vociare. Egli non era abituato a certi spaventi. Per lui, però, non
mi preoccupavo, sentendo la mia voce non si sarebbe disperso.
Ormai conoscevo abbastanza bene la sua intelligenza; l’avevo potuto constatare
più volte. Mentre il tempo trascorreva veloce, io continuavo a scrutare
attentamente tra i cespugli sperando di trovare qualche traccia del bimbo.
Finalmente udii Gabrio abbaiare ripetutamente. Quei latrati provenivano dal
basso, da dove scorre un fosso che nei mesi estivi rimane quasi sempre asciutto.
Non era lontano da noi, ma comunque non meno di trecento metri. In seguito a ciò
dissi alla giovane madre(il cui nome era Marina)di non muoversi dal punto in cui
si trovava, intanto senza indugiare neppure un secondo, mi diressi verso il fosso.
Fu proprio quando giunsi laggiù che potei emettere un lunghissimo sospiro di
sollievo. Non sto a raccontare quanto quegli attimi fossero stai belli.
Seduto su di una pietra vidi il fanciullo intento ad accarezzare un giovanissimo
capriolo che giaceva a terra.
Mi fu subito chiaro il motivo della sua forzata immobilità. Il cane era accanto a
loro ma seguitava ad abbaiare, forse per la felicità di aver fatto qualcosa di molto
importante.
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La povera bestiolina aveva una zampetta rotta e nel vedermi avvicinare,
ovviamente temendomi, si allontanò da quel luogo rinfidandosi faticosamente su
tre gambe. Malgrado quella sua chiarissima sofferenza in breve scomparve tra i
cedui. L’ingenuo bambino mi raccontò subito
di essersi allontanato
involontariamente, poi, imbattutosi nel piccolo animale infortunato, nella foga di
accarezzarlo, non aveva udito la straziante voce della mamma che lo cercava.
Neppure si era accorto che in quel luogo, tra la folta selva, era da un po’
scomparso il sole. Il timore di cui da quasi un’ora ero pervaso si dileguava
immediatamente.
Ormai rasserenato per averlo ritrovato indenne, chiamai
immediatamente la signora Marina per rassicurarla che tra pochi minuti le avrei
riportato il fanciullo sano e salvo.
Mentre quel piccolo capriolo se ne andava verso chissà quale mesto destino, io
risalivo lentamente la china col fanciullo e con Gabrio. Già, proprio grazie
all’aiuto del mio cane, che la sera si meritò una porzione più abbondante di cibo,
fu possibile restituire, prima che giungesse la notte, Mario alla madre.
Così, in quell’attimo, dopo tante lacrime di disperazione, nel suo volto ricomparve
il sorriso. Ed ella, mentre stringeva al petto la sua creatura, ora con qualche
lacrima di felicità, pronunciò queste parole:- Grazie, lei mi ha ridonato la gioia di
vivere.
Io, guardando il bambino ed accarezzando Gabrio, con voce alquanto commossa
risposi:- Se qualcuno merita un elogio ed un ringraziamento, questi è solo la
bestiola che ora con esultanza sto accarezzando e che un giorno ebbi il piacere di
salvare da sicura morte.
Leonini Aldo nato ad Asciano (SI) 4.10.1926
Residente a Siena via Q.Settano 43 tel:0577.50621
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NON E’ MAI TROPPO TARDI
Allorquando decidiamo di aumentare i membri della nostra famiglia acquistando un
cucciolino di “pastore maremmano” o di altra razza, dobbiamo anche pensare che ci
sono degli obblighi ai quali non possiamo per alcun motivo sottrarci.
Non può esserci soltanto la soddisfazione di vederlo crescere sano, robusto e festoso.
Bisogna accudirlo in ogni momento, sia per preparargli la giusta porzione di cibo, come
per la pulizia, per le quotidiane passeggiate, nonché per le indispensabili visite
veterinarie. Dobbiamo sempre, ed in qualsiasi circostanza, saper intuire i bisogni
impellenti degli animali che sovente hanno perspicacia superiore alla nostra.
Pippo, così lo avevamo spontaneamente chiamato, da più di due anni viveva con me e
mia moglie. Era cresciuto sano, tranquillo, giocherellone, robusto e obbediente.
Provavamo davvero immensa soddisfazione averlo accanto. Capiva e obbediva ai nostri
comandi come una persona. Sembrava proprio capire le nostre parole. Io non avrei mai
immaginato comprendesse anche le gioie e le sofferenze di chi gli stava vicino.
Dovetti ricredermi quel giorno della scorsa Primavera, allorché
per il suo
comportamento, intelligenza e prontezza avrebbe davvero meritato un premio.
Fu un pomeriggio prefestivo, quindi anche io libero da ogni impegno di lavoro, che
decisi comprendendo molto bene i suoi bisogni di svago, di fare una lunga passeggiata
con lui. I giorni tra settimana lo portavamo fuori solamente qualche mezz’oretta e
maggiormente nelle ore notturne quando mi ero liberato dagli impegni di lavoro, ma ero
consapevole che Pippo aveva bisogno di ben altro. Avevo già prefissato quale doveva
essere l’itinerario della nostra passeggiata, abbastanza lunga e variegata, ma senza
preoccupazione per la resistenza del mio amico. Lui, conoscendo le sue energie sono
certo, avrebbe percorso anche 50 chilometri senza mai riposarsi. Purtroppo il percorso
stabilito non lo potemmo seguire a puntino, anzi appena fummo in tempo ad iniziarlo.
Passammo nelle immediate vicinanze del campo sportivo, dove squadre di
schiamazzanti giovani stavano disputando una partita a calcetto. Ero anche un po’
irritato con loro per aver posteggiato una cinquantina di auto sul marciapiede
ingombrandolo totalmente e costringendo i pedoni a passare per il campo adiacente.
E’ ovvio che in tal modo potevamo incontrare delle insidie perché ovunque c’era l’erba
alta oltre mezzo metro, che nessuno fino a quel giorno si era interessato di farla tagliare.
Da tempo erano stati posti dei segnali di divieto di sosta, ma non venivano rispettati
specialmente in occasione di quelle partite. I vigili passavano raramente; avevano ben
altro di cui interessarsi. I problemi sono sempre tanti e spesso impellenti.
Anche io, come chi mi precedeva per quella via, ero dovuto uscire dal marciapiede, e
proseguivo il mio cammino con a fianco il fedelissimo Pippo, che aveva gran voglia di
correre e di sbizzarrirsi. Malgrado tutto, strada facendo, provavo piacere nel vedere
quella bestiola gioire mentre cercava di precedermi di un paio di metri.
Conoscevo la sua bonarietà, perciò non lo avevo munito di museruola, però lo tenevo
costantemente a guinzaglio. Non mi sarei mai permesso di lasciarlo libero specialmente
lungo le strade dove, anche non volendo in qualche circostanza avrebbe potuto recare
molestia ai passanti. Quando, invece, ci recavamo nell’aperta campagna, o per i boschi
delle colline circostanti, lo lasciavo andare. Allora era padrone di correre quanto
desiderava, sicurissimo che avrebbe obbedito ad ogni mio richiamo.
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Procedevamo, dunque, al lato del marciapiede quando, avvicinandoci ad una delle
panchine poste all’ombra di certi rigogliosi pini che fiancheggiano la strada, sentii la
voce disperata di una donna che urlava:- Disgraziato… ridammi la borsetta. Compresi
tutto. In un attimo fui lì dove la poveretta, nel tentativo di resistere a quel delinquente
che l’aveva scippata, era caduta per terra. Cosa succede- domandai. Ella piangente
rispose:- Quel poco di buono che corre, laggiù, mi ha strappata la borsetta con le chiavi
di casa, i documenti e cento Euro che mi dovevano bastare per la spesa di dieci giorni.
La poveretta si disperava e non a torto. Troppo facile derubare in tal modo una
settantenne indifesa. Conoscendo le doti e la velocità di Pippo, non stetti a pensare se
potevo o meno, l’istinto mi suggerì di farlo e lo feci. Indicandogli col dito quel tizio che
si stava allontanando correndo, gli tolsi il guinzaglio e gli dissi:- Prendilo…forza. Partì
come un razzo, e prima che il giovane avesse percorso altri cinquanta metri lo aveva già
bloccato per un pantalone. Mai si sarebbe azzardato ad azzannare; era di indole buona.
Lo scippatore tentò di liberarsi ma inutilmente. Il cane, molto intelligente, non lo
avrebbe lasciato scappare. In neppure un minuto anche io fui lì, mentre Pippo teneva
saldamente la presa. Gli occhi di quel giovane mandavano fuoco, ma quando vide che
stavo per telefonare ai carabinieri per chiedere il loro intervento cominciò a
raccomandarsi. Non era un ragazzo del luogo. Il suo modo di esprimersi quasi
incomprensibile me lo raffigurava di nazionalità straniera, ma non di colore. Avrei
bramato veder giungere qualche altra persona, ma purtroppo sentivamo soltanto lo
schiamazzo di coloro che stavano giocando la loro partita di calcetto a qualche
centinaio di metri dal luogo dove ci trovavamo.
Dopo poco, ancora piangente, giunse trafelata nel volto la poveretta che rientrò
immediatamente in possesso di ciò che le apparteneva. Quel giovane con frasi appena
comprensibili si raccomandava di non consegnarlo alla polizia. La donna riavuta tra le
mani la sua borsetta, ancora con le lacrime agli occhi disse:- Ti perdono perché anche
io ho un nipote della tua età, e capisco bene le difficoltà della vostra generazione, però ti
avverto che ti sei messo in una via che prima o poi ti condurrà al carcere, e ciò non ti
aiuterà a risolvere i tuoi innumerevoli problemi. Poi continuo: - Piuttosto, visto che non
ti mancano né forze né energia per aggredire persone inermi e poi scappare, cercati un
lavoro. Anche il più umile- gli disse- ti aiuterà a sortire da codesto vicolo senza uscita.
Visto che l’anziana signora gli aveva parlato in quei termini di comprensione e di
perdono, riposi il mio cellulare in tasca. Pippo, intanto, a cui avevo già rimesso il
guinzaglio, si stava strusciando alle mie gambe come usava fare quando sapeva di
meritarsi un elogio per qualche buona azione compiuta.
Dunque, in seguito al perdono ottenuto da colei che era stata tanto facilmente scippata,
non chiesi l’intervento della polizia, ma la mia mossa aveva ugualmente prodotto
qualcosa di buono. Aveva permesso la restituzione della borsetta alla legittima
proprietaria, ed aveva altresì intimorito assai lo scippatore.
Però anche il mio operato, forse, non fu troppo brillante. Non avrei dovuto farlo
riprendere da Pippo, anche se ero certissimo che non gli avrebbe mai fatto del male.
Agii d’istinto mosso da compassione nel vedere la poveretta nella disperazione. Non è
escluso che se fosse intervenuta la polizia sarei stato accusato di aggressione, e non
mancavano certo i presupposti per essere perseguito penalmente.
11
Comunque la cosa non ebbe alcun seguito. Quel giovane, magari alla sua maniera, per
noi difficilmente accettabile, si scusò ancora facendo capire di aver compiuto quel
gesto perché aveva fame, e che nelle sue tasche non c’era neanche un soldo per un
“morso” di pane. La donna dopo essere ritornata in possesso della borsa, seppure
ancora un po’ stravolta, proseguì per la sua strada. Io mosso a compassione regalai a
quel ragazzo qualche Euro perché potesse mangiare qualcosa, poi continuai per la mia
passeggiata che ormai era stata turbata da quanto accaduto. L’altro ieri dopo l’ennesima
scampagnata con Pippo, lassù nei boschi della “Montagnola Senese”, mentre mi
accingevo a ritornare alla macchina, ho fatto un incontro che mi ha procurato immenso
piacere. Là, in quella via che dirama dalla provinciale, e che io percorro per poche
centinaia di metri, c’erano persone e mezzi che stavano rinnovando la bitumatura del
piano stradale alquanto deteriorato. C’erano pure due grossi trattori che trainavano
pesanti attrezzi per livellare il bitume ancora bollente posato sulla sede stradale. Alla
guida di uno di tali mezzi c’era un giovane, mentre nell’altro una persona più anziana.
Nel passargli vicino quello più giovane mi ha rivolto un cenno di saluto, ed io, nel
rispondere l’ho subito riconosciuto. Era l’autore dello scippo non riuscito grazie alla
velocità ed all’intelligenza del mio cane. Con volto sorridente, tono pacato e non più
con gli occhi che sprizzavano fuoco, mi ha fatto capire che quel giorno ebbe una lezione
destinata a cambiare in senso positivo il suo modo di vivere. Mi ha detto di essere
felice per aver superato il periodo di prova, e che la sua ditta,(manutenzioni stradali) lo
ha assunto a tempo indeterminato.
Nel salutarmi ha concluso:- Questo sarà un lavoro umile e faticoso, ma la sera quando
“stacco”, so di avere guadagnato la mia giornata onestamente senza recare molestia a
persone indifese. In quei pochi istanti ho capito dalla sua espressione quanto era
soddisfatto e devo dire che anche io ho provato la stessa sensazione .
Dunque il gesto di farlo riprendere dal mio affezionatissimo Pippo, sarà stato anche
avventato. Avrò corso il rischio di doverne subire le conseguenze, ma grazie a ciò un
giovane è stato ancora in tempo ad uscire dal tunnel della purtroppo diffusa quotidiana
delinquenza che semina panico nelle persone inermi.
La conclusione? E’ giusto il principio che recita: “Per migliorare non è mai troppo
tardi”
Siena 18. 3. 2003.
A .Leonini
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NULLA IMPORTA SE D’ALTRO COLORE
Mia moglie ed io ci trovavamo ospiti per qualche giorno da una famiglia di vecchi amici
che abitano fuori della nostra dolce Toscana, quando fui costretto ad assistere ad una
scena incresciosa che colpì fortemente la mia sensibilità.
Ad essere sincero, ogni volta ci ripenso, il ricordo purtroppo mi angustia. Eravamo nel
mese di Maggio, ed anche allora, seppure lontano da casa, sentii il bisogno della
consueta passeggiata pomeridiana. Così, dopo avere assistito all’arrivo della tappa del
“Giro d’Italia”, calzai le scarpette, mi munii di un adatto bastoncino, e partii tranquillo
per compiere i tre chilometri che le mie gambe normalmente ben resistevano. La strada
non era deserta, ma neppure eccessivamente trafficata.
Il pedone, comunque, era agevolato in modo particolare dalla presenza di un ampio
marciapiede fiancheggiato da una fila di maestose e floride piante di pino che donavano
refrigerio con la loro fitta ombra. Inoltre nel percorrere l’itinerario da me prescelto si
trovavano aree verdi corredate di diverse panchette poste all’ombra di grossi lecci.
Giunto lì potevo fare un riposino e se del caso scambiare quattro chiacchiere con chi
soleva trascorrervi diverse ore della giornata. Gente pensionata ovviamente. Dunque
partii soletto con l’intento di seguire anche una variante al percorso, ed in tal caso
l’avrei prolungato di circa un chilometro, coprendo pure un tratto di via sterrata
totalmente priva di traffico. Comunque anche in questa evenienza sarei rientrato in
tempo utile per dare una mano a chi mi ospitava, per irrigare il ridente giardino di
proprietà, in detti giorni completamente fiorito. In quel tiepido pomeriggio, con la
brezza da Ponente, sentivo nel camminare le mie gambe sciogliersi e rispondere come
quando avevo vent’anni. Per la sterrata potevo respirare a pieni polmoni. L’aria non era
inquinata dai gas di scarico delle auto o altri mezzi di trasporto in circolazione, proprio
perché non vi potevano transitare. Andavo rilassato per la mia strada, anzi, ero ormai
rientrato nell’asfaltata, a quell’ora più trafficata, e mi stavo avvicinando all’abitazione
dove ero ospitato. Fu proprio da quel momento che la mia serenità venne turbata da
qualcosa che mai e poi mai, finché sarò in grado di comprendere, potrò approvare o
scusare perché, a mio avviso meschina e sconcertante. Ma più che sconcertante tanto
spregevole che fatico persino a raccontare. Già dalla distanza di cento metri, poco più
poco meno, avevo notato la presenza di qualcuno seduto sul muricciolo laterale della
strada, e che i passanti che percorrevano il marciapiede si soffermavano appena e si
allontanavano sveltamente. Pensavo a cosa del tutto normale, anzi, a dire il vero non
pensavo a nulla; non potevo immaginare cosa stava succedendo. Ma giunto a dieci passi
da lì potei chiaramente vedere che la persona seduta era una donna di colore,
dall’apparente età di quaranta anni, che si teneva la pancia con ambo le mani e si
lamentava continuamente.
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Ma perché coloro che mi avevano preceduto per la via erano rimasti così insensibili?
Non persi tempo a spiegarmelo, comunque, tale indifferenza era una cosa deprecabile.
Fin da bambino mi insegnarono che va sempre e comunque prestato aiuto a chi si trova
in difficoltà. Mi avvicinai e le chiesi gentilmente se avesse bisogno di soccorso. La
poveretta, che aveva la faccia stravolta dalla sofferenza, mi disse che da un quarto d’ora
accusava dei dolori fortissimi all’addome.
Tali condizioni non le permettevano di raggiungere l’abitazione dove, secondo quanto
potei capire, prestava la sua opera di collaboratrice domestica presso una famiglia. Mi
premurai immediatamente di fermare altre persone, una delle quali, in possesso del
cellulare, chiamò il 118, poi si allontanò. Io le rimasi accanto; non poteva, in quello
stato di sofferenza rimanere lì sola. Da quel momento anche altre persone cominciarono
a fermarsi ed in pochissimo tempo si formò un nutrito assembramento di curiosi. Prima
di allora, però, nessuno si era degnato di chiedere a costei il motivo del suo disperato
lamento. Cosa davvero incomprensibile e imperdonabile. Nel giro di pochissimi minuti
giunse l’ambulanza corredata di medico a bordo.
Fu fatta con ogni premura sdraiare sulla barella, e dalla prima visita sul posto fu
diagnosticato sospetto attacco di appendicite in stato piuttosto avanzato, per cui venne
immediatamente ricoverata in un ospedale situato a pochi chilometri da quel luogo. La
donna venne sottoposta ad intervento chirurgico d’urgenza e salvata.
C’erano anche parole di ringraziamento, che ella esprimeva, verso chi, in quella
circostanza, le aveva prestato i primissimi aiuti. Ma ciò aveva poca importanza, la cosa
essenziale, a mio modesto avviso, era un’altra.
Ora poteva tornare a vivere la sua vita di collaboratrice domestica. Ben altro, invece, ci
deve far meditare assai e non possiamo esimerci dal farlo. Perché i passanti rimanevano
indifferenti ai lamenti di quella poveretta? Perché volgevano la testa verso quel luogo
per un attimo e poi se ne andavano? Eppure sappiamo che è obbligo prestare aiuto a chi
ne ha bisogno. E se fosse, per caso, dipeso dal colore della sua pelle? Mi auguro che
non sia stato questo il motivo, altrimenti ci sarebbe da vergognarsi di far parte di questa
società che gode ottima stima in tutto il mondo.
L’indifferenza spesso si può tramutare in disdicevole scorrettezza capace di produrre
tanto male. Ella, e come lei tante altre persone, di colore e non, hanno attraversato
l’immensità dei mari per poter lavorare, e quindi procurare un tozzo di pane ai propri
figli. Eppure non sono tanto lontani i tempi che i nostri connazionali partivano con
pochi stracci nel sacco per recarsi in terre lontane e per lo stesso motivo. Io non so se
quella poveretta sia sta sola o abbia avuto anche una famiglia, in ogni modo la sua
situazione non era certamente delle più facili.
Se qualcuno di noi, trovandosi all’estero, fosse colpito da malore e poi trattato con la
medesima indifferenza cosa diremmo? Il primo commento sarebbe quello di trovarsi tra
gente incivile.
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Poiché tutti, indipendentemente dal colore della pelle, abbiamo un cuore e del sangue
che scorre nelle vene e che gli organi dell’uno possono salvare la vita dell’altro,
dobbiamo molto riflettere.
L’ospitalità e l’aiuto sono i simboli più eloquenti della civiltà di un popolo. L’accaduto
provocò in me un senso di disgusto mai provato prima. Nell’udire, talvolta, commenti
su fatti analoghi, stentavo a credere che vi fossero persone da richiamare al doveroso
senso della civile convivenza. Sono però fiducioso che mai più si verificherà tale cosa
tanto incresciosa che a nessuno dona lustro. Bisogna sempre e comunque, nel limite del
possibile, dare aiuto a chi si trova in situazioni disperate; ”nulla importa se di altro
colore”.
A. Leonini
UN AMORE IMPOSSIBILE
Mario, figlio di un mio carissimo amico, aveva superato in modo brillante l’esame di stato
diplomandosi in ragioneria con il massimo dei voti. Non poté iscriversi all’Università per le
precarie condizioni finanziarie della famiglia. Pensò, invece, di anticipare il servizio militare,
per potersi, poi, prima possibile inserire nel mondo del lavoro. A 21 anni aveva già soddisfatto a
tale obbligo, ed ora si trovava a casa e senza una prospettiva favorevole malgrado avesse
domandato a dritta e a manca, anche per i lavori più umili. Ma poteva restare ancora a carico dei
genitori? Il padre era un operaio edile, la mamma che da molti anni lavorava in un ristorante
ora era a casa per curarsi una noiosa forma di pleurite. Una sera un suo amico, già occupato
presso il Comune come netturbino, gli rivelò che secondo delle voci alla Fattoria “I Boschetti”
non tanto distante cercavano un giovane come aiuto nell’amministrazione. Mario vi si recò il dì
successivo, ma il proprietario, persona assai gentile, gli comunicò che aveva già provveduto da
due giorni. Semmai, se gli fosse interessato, poteva assumerlo come aiuto al giardiniere ormai
anziano. Vedi- gli disse costui- questo ampio giardino? Se non trovo un aiuto a Luigi, va alla
malora, e non vorrei che ciò accadesse. Gli arnesi da usare sono più pesanti della penna e del
computer, ma per questi lavori ti potrei assumere, poi, con il tempo chissà... Se ti interessa sono
1000 Euro al mese ed i panni da fatica. Mario non stette a riflettere neppure un istante. Aveva
bisogno di lavorare e di guadagnare qualcosa. Il dì successivo iniziò quel lavoro che nei primi
mesi si rivelò veramente duro. Erano ormai trascorsi due anni, quando una mattina il
proprietario gli chiese se era disposto a recarsi per tre giorni a Genova per visitare la mostra dei
fiori che si teneva ogni anno in quel mese. E’ tutto pagato- gli disse- come è sempre stato per
Luigi, ma adesso lui non se lo può più permettere. Se vuoi puoi partire anche domani. Alle ore
9 del dì successivo, Mario era già a Pisa in attesa del diretto per Genova. Il treno non era
affollato e costui prese posto in uno scompartimento vuoto.
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A Viareggio salì anche una bellissima fanciulla bionda che si accomodò proprio di fronte a lui,
ma senza degnarlo di uno sguardo. Perché tale contegno?
Quando passarono con il caffè, il giovane le chiese gentilmente se gradiva qualcosa di caldo.
Ella accettò. Il ghiaccio tra di loro era rotto. Da quel momento la conversazione divenne facile.
Lui le raccontò del suo mestiere e dove si recava.
Ella gli svelò che da un anno era maestra di ruolo in un paesetto vicino, ma avendo la giornata
libera pure lei si recava alla mostra dei fiori. Durante il viaggio fu un susseguirsi di scambi di
idee e di sguardi, forse più espressivi delle parole. Simpatizzarono, insomma, molto presto.
Lei gli rivelò pure che l’anno prossimo sarebbe stata trasferita in un paese vicino a quello di
Mario ove era stata per mesi supplente. Ora vi tornava di ruolo. Le ore successive le trascorsero
insieme allegramente.
Nell’interno della mostra, osservando le rare bellezze della natura, Mario sfidando la timidezza
le sussurrò:- Sai Luisa (quello era il suo nome)sto guardando estasiato tutti questi maestosi fiori,
ma quello più meraviglioso, che da qualche ora fa sobbalzare il mio cuore porta il tuo nome.
Anche alla fanciulla non doveva essere indifferente quel giovane aiuto giardiniere, perché
accettò tali parole con un lieve sorriso e un po’ di rossore sul volto.
Quando Luisa disse di voler tornare alla stazione per intraprendere il viaggio di ritorno, anche
Mario decise di troncare il suo soggiorno a Genova per stare qualche ora in più insieme alla
bionda fanciulla.
Decisero di fare il cambio di classe e di occupare, ovviamente, uno scompartimento di “prima”.
Erano soli e stava facendosi buio. Quando il personale accese le luci, nel loro ambito decisero di
smorzarle, tanto non avevano da leggere il giornale.
Era evidente tra i due giovani una forte simpatia, e non solo, infatti nel giungere a Viareggio,
non mancò tra costoro un lungo abbraccio ed un tenerissimo bacio.
Forse tra i due era nato l’amore a prima vista. Infatti ogni Domenica o giorno festivo di
quell’Estate si incontrarono a Firenze trascorrendovi ore di indicibile felicità.
Quando Luisa fu trasferita in un paese non lontano da Mario, i loro piacevolissimi incontri
divennero frequenti, come è giusto che sia tra due persone che si amano. Mario le fece
conoscere i suoi genitori che l’accolsero con infinita gentilezza e simpatia
per la sua semplicità e trasparenza. Giunti alle feste di “Tutti i Santi”, Luisa propose a Mario di
fargli conoscere i suoi familiari.
Ormai erano più mesi che era sbocciato quel tenero sentimento d’amore perciò ella aveva
piacere che ciò avvenisse. I genitori della ragazza abitavano in una lussuosa villa di proprietà.
Certo, se la potevano permettere perché il padre era il più conosciuto commerciante di marmi di
Viareggio. Erano dei benestanti, però la cara fanciulla era di una semplicità straordinaria.
Mario a distanza di due anni faceva ancora il giardiniere, ma dato che talvolta veniva utilizzato
in mansioni relative all’amministrazione, gli avevano aumentata la paga mensile a 1200 Euro.
Se Luisa aveva subito conquistato i genitori di Mario, chissà cosa pensavano i familiari della
biondissima ragazza dell’onesto giovane ragioniere addetto alla manutenzione dei giardini della
fattoria “I Boschetti”?
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Comunque partirono felici per Viareggio giungendovi quasi all’ora di pranzo. Il primo incontro
fu freddo, malgrado Luisa non volesse farlo sembrare tale.
Ben presto, come se non lo sapesse, il padre della fanciulla iniziò l’interrogatorio. Chiese al
giovane di cosa si interessasse e quale fosse il suo lavoro. Mario fu sincero e quasi orgoglioso
dell’attività che svolgeva attualmente. Il pranzo fu consumato in clima freddissimo e con scarse
parole. Quando, più tardi, i due giovani si appartarono nel salone, molto sconcertati da tale
atteggiamento, giunse loro la voce del padre che si sfogava in modo cattivo con la moglie.
Quello- diceva ad alta voce- vuole impossessarsi dei nostri beni. Non è la persona che sogno
per la nostra bambina. A Luisa non servono le carezze di “mani rozze” che usano la zappa, la
pala o le forbici per potare le rose avvizzite.
La storia non deve durare un giorno di più. Piangente Luisa intervenne dicendo che lei era
felicissima con Mario, e che dovevano chiedergli scusa per tali meschine affermazioni. In
questo clima sconcertante intrapresero immediatamente il viaggio di ritorno. Lei, poverina, non
fece che piangere, mettendo tutta la sua passione a cercar di convincere Mario che presto i suoi
genitori si sarebbero scusati per le affermazioni offensive pronunciate qualche ora prima. Non
fu così. Continuarono a vedersi. Erano veramente innamorati, ma l’oltraggio subito a casa di
Luisa continuava a bruciare.
Mario era stato malamente offeso nella sua dignità, nell’onestà e per l’attività che svolgeva. E
pensare che le carezze di quelle “rozze mani” erano tutto per Luisa. Egli incoraggiato dalla
fanciulla attendeva le scuse di quei “mal pensanti” genitori. Come si sarebbe potuto ripresentare
al cospetto di chi lo aveva definito un opportunista pronto ad “addentare” la loro ricchezza?
Quando Luisa telefonava ai suoi invocava le loro scuse nei confronti del suo amato Mario, ma
costoro erano sordi a tali suppliche.
Non volevano più vederlo quel giovane ragioniere fallito. Gli incontri, resi sempre più tristi
dalla disperazione di Luisa si fecero col tempo meno frequenti fino a quando, col cuore
piangente, il giovane le disse che non poteva durare più a lungo una storia così contrastata da
chi pensava solo alle proprie ricchezze e non alla felicità della figlia.
Trascorsero ancora due anni, forse nella vana speranza che accadesse qualcosa a riportare il
sereno nella loro storia. Poi Mario conobbe un’altra ragazza e dopo pochi mesi si sposarono.
Luisa che per tutto quel tempo era rimasta là ad insegnare, forse con qualche speranza nel
cuore, fece ritorno dalle sue parti.
Ma il giorno del trasferimento scrisse una lettera a Mario dicendogli, tra l’altro, che mai più
altra persona avrebbe potuto renderla felice.
Ecco cosa può accadere quando i genitori, avidi di ricchezza, si intromettono in quelli che sono i
sentimenti più cari di un figlio! Un genitore deve sempre aiutare, i figli e se necessario può
esprimere dei consigli, ma mai imporre i propri principi. Non sono proprietà dei genitori, ma il
coronamento del loro amore.
Questo quanto accaduto al figlio di un mio amico, ma su ciò sarebbe giusto fare una breve
riflessione. Non può esserci un genitore che non desidera la felicità della prole. Ma non sono
certo le ville e i denari a farla sbocciare, anche se rivestono una certa importanza. La vita
sentimentale, e le persone con cui condividerla, non deve essere imposta o suggerita Semmai
sono coloro che la vivono che devono ben coltivarla.
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Un proverbio dice che “l’amore è come il fuoco se non lo alimenti muore”.
Ma ciò non avveniva tra i due nostri protagonisti. Era sbocciato spontaneamente e repentino, e
con la stessa veemenza lo alimentavano senza pensare alle ricchezze. E’ anche vero che l’amore
e come i fiori di Aprile, i quali sono esposti al tepore della Primavera, che li fa sbocciare, ai
primi temporali che li possono rovinare un po’, ma anche ai possibili geli notturni capaci di….
farli morire. Quei genitori non furono altro che gelo nei confronti della fanciulla. Per la loro
avidità di ricchezza, demolirono completamente la felicità della propria figlia. Chissà se in
seguito provarono rimorso?
Aldo Leonini
OGGI
FAGIOLI - DOMANI PANZANENELLA
O citti, oggi è passato di qui il dottore a farmi visita, disse mia madre a me e mio fratello
quando la sera tornammo stracanati dalle fatiche dei lavori poderali. Sapete che mi ha detto?
Cara massaia, a parte i vostri malanni che si risolveranno col tempo, voi contadini siete
fortunati. E perché, ho chiesto, siamo fortunati? Per spiegarvelo, seguitò, ci vorrebbe un giorno,
ma io ve lo dirò con soli tre esempi. Ma ‘un vi sembra niente questo aroma di fagioli che
stanno…. cuocendosi là nella marmitta, e che avete la possibilità di mangiare ogni giorno? Noi
gente non di campagna si deve ricorrere ogni dì al macellaio ed acquistare braciole, fettine di
carne magra o nel filetto, e poi il colesterolo va alle stelle. Vi sembra cosa da niente poter fare
colazione ogni mattino con delle cipolle fresche sradicate dal vostro orto e mangiate, magari,
con una sarda ben dissalata con acqua e buon aceto? E’ tutta salute rispetto a quel cappuccino
che siamo costretti a consumare noi con un paio di pastine farcite con marmellata o crema. E
quelle belle “piccie” di pomodori attaccati nella vostra loggia, non sono una vera fonte di
salute? Voi potete mangiarne a colazione o a merenda “strofinati” nel pane fresco, poi, magari,
aggiungere un filo di buon olio. Noi, invece, da alternare al cappuccino, non ci resta che
trangugiare qualche panino farcito col prosciutto, e credetemi che tutti giorni carne è cosa assai
gravosa. Ma io sapete cosa gli ho risposto? Anche tanta gente di paese è costretta a mangia’ ciò
che mangiamo noi.
Quelli che vanno alle cave di travertino o sono operai agricoli ‘un la mangiano la braciolina tutti
i giorni. Quei fagioli di cui in questo momento lei sente il profumo ‘un lo so se li mangerebbe
sette giorni alla settimana come siamo costretti a fa’ noi gente dei campi. ‘Un lo so se si
adatterebbe a mangia’ oggi zuppa coi fagioli e domani “panzanella” senza mai altra scelta..
Insomma s’è fatta una lunga chiacchierata, ma poi è rimasto convinto dei sacrifici che fanno
coloro che lavorano tutto il giorno sotto il sole cocente.
Ma ora ‘un vi voglio far perde’ tempo; tra venti minuti si fa cena. Sapete “citti” che vi ho
preparato? Stasera tanto per cambia’ mangeremo la zuppa di pane e fagioli, ma ho preparato
anche un mazzo di cipollotti, quelli ci si abbinano bene. Sentite, dopo cena voi che avete gli
occhi buoni mi potresti aiuta’ in un lavoretto di dieci minuti? Mi dovresti da’ una mano a netta’
i fagioli per cuocerli nuovamente domani.
E domattina, cari ragazzi, visto che nella madia c’è qualche pezzo di pane assai raffermo vi
potrò rimedia’ una bella e buona “panzanella” con l’aggiunta di molta cipolla fresca, e
aromatizzata dal solito ciuffo di basilico.
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In quanto alle cipolle potrete passa’ voi dall’orto e aggiungerne quante vi aggradano tanto il più
‘un fan male, anzi secondo il dottore più se ne mangia e meglio si sta. Va bene mamma,
rispondevamo noi. Lei, puliti a modo i fagioli li poneva in una pentola di coccio, vi aggiungeva
dell’acqua tiepida mormorando:- Ora rimanete costì fino a domattina a riposarvi. Quando si
alzava, dopo aver cambiato l’acqua, poneva quella marmitta di coccio sul trespite
abbondantemente rifornito di tizzoni, sui quali i fagioli si sarebbero lentamente cotti. E tra se
diceva:- Ora bollite e cuocetevi bene perché a questi citti per quando tornano dai campi desidero
far trova’ loro una bella zuppa di fagioli, così dopo la scarna “panzanella” di stamattina
potranno rimettersi lo stomaco a posto. Ma ! Forse ieri il medico ‘un mi consigliava tanto male!
Sarebbe un guaio con tutte le faccende che si devono svolge’, dover casca’ in qualche triste
malattia causata dal mangia’ troppa carne e dall’obesità. ‘Un ci posso neanche pensa’ di vede’ i
mi’ citti con la pancia e non snelli come li ho sempre visti. So’ tanto belli un po’ magri! Ma
intanto, mentre faceva i suoi ragionamenti, si cuocevano i fagioli e lei preparava tutte le verdure
necessarie. Poneva nel capiente catino la bietola, qualche foglia di sedano, del cavolo nero e in
mancanza di ciò della verza. Passava tutto accuratamente sotto all’acqua, versata dal secchio,
(non c’era il rubinetto che ce la forniva dall’acquedotto) poi metteva il tutto a cuocere nella
marmitta aggiungendo, più tardi, dei fagioli ben cotti ed una parte di essi passati al passatutto
per rendere più denso e saporoso il brodo. Era il trucco di ogni buona massaia. Ma non
dimenticava ovviamente di aggiungere qualche pomodoro bombolino delle “piccie” penzolanti
nella loggia, e che avevano attratto l’occhio saggio del nostro bravo medico di famiglia. Senza
aggiungere neppure una cucchiaiata di olio doveva il tutto bollire e cuocere molto lentamente.
Semmai ogni tanto ella assaggiava per sentire se era o non giusto di sale.
Mia madre diceva sempre:- Ma che credete che sia uno scherzo prepara’ una marmitta di questa
“grazia di Dio” per fa’ la zuppa di pane? E’ più facile cucina’ un pollo arrosto. Occorreva molta
attenzione, non poteva lasciare la marmitta sul trespite ed assentarsi per più di pochi minuti.
Quando si avvicinava l’ora che gli uomini tornavano dal lavoro, prendeva il padellino che stava
solitamente attaccato al muro vicino al focolare, vi trinciava, molto fine, una cipolla aggiungeva
qualche cucchiaiata di olio di oliva e faceva il “soffritto” il cui profumo particolare, dalla gente
di oggi non conosciuto, si spandeva tutt’intorno. Fare il soffritto era vera arte. Mia madre lo
faceva rosolare al punto giusto, che lei sapeva ben distinguere. Se lo avesse fatto bruciare come
succedeva talvolta a qualche massaia poco esperta, ovvero brava per stare a far chiacchiere,
avrebbe dovuto farlo di nuovo. Indi lo vuotava nella marmitta contenente il brodo che aveva
bollito lentamente per qualche ora. Quello di versare il soffritto nella marmitta era l’ultimo atto
da compiere, dopo di ciò doveva ancora bollire un quarto d’ora circa per insaporire l’intero
contenuto. Frattanto prendeva un tovagliolo bianco se lo metteva tra la spalla sinistra ed il petto,
e poggiandovi il pane raffermo cominciava ad affettarlo finemente con la coltella grande che
mio padre non mancava di tenerla bene affilata. Riempiva un tegame grande di coccio che aveva
comperato qualche anno prima da “Scansano”, ambulante che vendeva i cocci alle fiere. Per far
questo tipo di minestra usava soltanto pentole e tegami di terra cotta.
Quando le domandavano il perché per far la “Zuppa di pane e fagioli” usasse solo recipienti
simili, ella rispondeva:- La mi’ mamma m’ha sempre detto che nel coccio il brodo viene più
saporito, ed io seguirò sempre gli insegnamenti dei vecchi. Insomma una volta riempiti uno o
due tegami di fette di pane, appena ci sentiva avvicinare prendeva il ramaiolo e con estrema
delicatezza versava quel brodo profumato e bollente sul pane dei tegami. In quel momento
felice di averci procurato qualcosa di caldo e sostanzioso ci diceva:- Sbrigatevi a lavarvi le mani
e a mettervi al tavolino, la minestra fumante vi aspetta. Ma ‘un lo sentite che profumo manda
questa sciccheria? Si mangerebbe con gli occhi da come è invitante. L’avessero quelli che, come
diceva il dottore, so’ costretti a mangia’ la carne tutti i giorni, ci andrebbero a nozze. Lasciamo
perde’ i discorsi, interveniva mio padre, il dottore avrà anche ragione che a mangia’ parecchia
carne ci so’ dei grossi rischi, ma a ‘un mangiarla quasi mai è anche peggio.
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Dopo questi discorsi, che ovviamente si prolungavano per pochi momenti, ci mettevamo a
tavola e ci rimpinzavamo con quella buona minestra. Magari qualche volta ci poteva essere
anche un buon piatto di fagioli conditi, ed allora ci abbuffavamo davvero.
Ma il bello era che la digestione di ciò che avevamo con appetito trangugiato avveniva
facilmente e non faticosamente come a “quei poveri diavoli” costretti ad ingerire carne quasi
tutti i giorni. Sarà dipeso dai nostri cibi sani e dal lavoro che abitualmente svolgevamo, ma dopo
due ore, al massimo tre, la fame tornava a farsi sentire nei nostri stomaci, ed era problematico
giungere alla successiva abbuffata che poi era costituita dalla stessa zuppa di pane e fagioli, o
panzanella.
Ma il saporoso bulbo non doveva mai mancare sulla nostra tavola. Insomma, come diceva un
antico proverbio,” se non era zuppa era pane mollo”. Ma a proposito di cipolla devo riconoscere
che il medico di famiglia che una volta alla settimana veniva a visitare mia mamma aveva
ragione e sapeva consigliare bene i suoi pazienti.
Devo svelare perché dico questo? E’ presto svelato il mistero. Mio padre che ogni mattino
preferiva mangiare la cipolla con la zuppa nel vino anziché la fettuccia del prosciutto da noi
stessi confezionato, visse oltre novanta anni. Ma oggi quando non si fa che consigliare la “dieta
mediterranea” per evitare i rischi causati dal colesterolo alto, dai trigliceridi e dall’obesità, si
dovrebbe riscoprire il vecchio padellino, il “soffritto” con la cipolla la “zuppa di pane e fagioli”
nonché la povera dimenticata “panzanella” come mangiavamo ai miei tempi quasi ogni mattina
a colazione.
Aldo Leonini nato ad Asciano (SI) 4.10.1926
Residente a Siena via Q.Settano 43 Siena
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ALLORA LE CHIAMAVAMO “FESTE DA BALLO”
La curiosità dei bambini è sempre grande e meravigliosa; sentono proprio il bisogno di
sapere ogni particolare di ciò che si presenta a loro di fronte. E’ una cosa affascinante,
ed è allo stesso tempo molto importante che i grandi e specialmente i genitori cerchino,
nel limite del possibile, di soddisfare quei loro innocenti desideri. Una volta la
chiamavano l’età del perché.
Ma cosa ci può essere di più bello che soddisfare quella loro voglia di sapere tutto?
Sono piccole soddisfazioni che li aiutano a crescere in un clima di infinita serenità. Cosa
diversa avviene, invece, quando proprio i genitori, ignorando questi piccoli ma grandi
desideri, discutono tra loro animatamente e spesso litigano, per i più svariati problemi.
Consapevoli o meno che tutto ciò si riflette negativamente in questi loro innocenti
angeli. Ma tralasciamo tale spinoso argomento per raccontare cose assai più liete.
Fin da quando vidi il bambino dei miei vicini di casa, ovvero Gian Franco, muovere i
primi passetti di corsa nel piazzale condominiale, lo soprannominai scherzosamente “il
bersagliere”. Lui (aveva appena 4 anni) volle subito sapere il significato di tale parola.
Io gli detti una risposta un po’ approssimativa, però
mi parve convincente, perché da quel giorno mi sono creato un vero amico. Alla sua
richiesta risposi:- Sai i bersaglieri sono quei soldati che oltre ad essere bravi nel “tiro a
segno” sono speciali nel correre, correre e cantare .Quando tanti anni addietro avevano
in dotazione la bicicletta, pedalavano continuamente anche nelle discese. Gian Franco
mi ascoltava stupito, e da allora quando lo incontro e ci salutiamo, ha sempre da
chiedermi il significato di qualcosa. Qualche giorno addietro, mentre ero intento nei
lavori di manutenzione dell’aiuola di mia proprietà, mi vidi giungere vicino il piccolo
bersagliere che, sorridente come sempre, mi chiese:- Ma cosa sono le feste da ballo? Ieri
sera dopo cena il mio nonno me lo stava raccontando, poi, quasi improvvisamente si
appisolò vicino al focolare, e non riuscii a sapere il significato.
Tu- soggiunse ancora- me lo sapresti spiegare? Sarei molto curioso di saperlo. E mentre
costui attendeva una risposta, le sue parole mi fecero tornare con il pensiero indietro nel
tempo di circa dodici lustri, ovvero ai giorni della giovane età che, seppure squattrinato,
vivevo spensieratamente. Anni indimenticabili anche se, la timidezza imperava in me in
ogni frangente. Già, ero timidissimo. Incontrando molto spesso la fanciulla che
segretamente bramavo, qualcosa sussultava nel mio petto, ma avevo appena il coraggio
di dirle ciao. Eravamo da pochissimo usciti dalla tempesta che aveva sconvolto il
mondo intero, e sentivamo il bisogno di godere quegli aliti di pace e di libertà.
Erano anche i tempi che per dare sfogo alle nostre brame di giovincelli, dopo lunghi
anni di privazioni e di terrore, noi ragazzi di campagna, ballavamo nelle aie poderali,
nei granai e, talvolta, nei corridoi delle stalle, mentre le bestie vaccine in “panciolle” ci
guardavano seguitando a ruminare tranquille il cibo assunto da poche ore. Che
momenti!
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Bastava si avvicinasse l’Inverno e quindi il Carnevale che, spensierati, ci mettevamo in
cerca della famiglia disposta ad ospitarci per qualche ora onde dar sfogo a quelle
nostre brame di ballare. Ma a quei tempi, specialmente nelle campagne, non ballavamo
al suono delle orchestre o di altri complessini moderni più o meno rumorosi. Allora
c’era il vecchio ma fantastico organetto che chiamavano “a semitono” con la tastiera a
bottoni e non a stecche bianche e nere come il pianoforte. Né era munito, ovviamente,
degli accorgimenti di cui dispongono le moderne fisarmoniche. Con la fine del
Carnevale cessava la stagione delle danze. Nessuno durante la Quaresima, avrebbe
concesso una stanza per tali svaghi; sarebbe apparsa come una grave offesa alla
religione. Alle parole del bambino che vuol sapere, riaffiora alla mia mente una sera di
Ottobre tanto, ma tanto lontana. Nell’incertezza ricorro al mio “Foglio di Congedo
Illimitato” ove figura chiaramente quel fatidico giorno: 12 Ottobre 1946.
E’ la data della “Visita di Leva” alla quale fui chiamato con un anno di ritardo per
motivi imprecisati, quando avevo ormai raggiunto la ventina. Di quel dì sono con
immediatezza riapparsi anche alcuni lieti particolari. Quelli sono avvenimenti che nella
vita è assai difficile dimenticare.
Eravamo in tanti quel mattino piovigginoso alle ore 9 laddove s’era insediata la
“Commissione di Leva” per esaminarci. Il personale militare che componeva la suddetta
commissione fu abbastanza sbrigativo perché verso le 14,tutti indipendentemente
dall’esito potemmo godere della libertà. Da quel momento eravamo i “giovani di leva”,
ormai prossimi al servizio militare. Dunque un giorno molto diverso da tutti gli altri. Per
i giovani di leva quello era un giorno durante il quale tante cose erano permesso. Sul
tardi, mentre allegri cantavamo per le strade, ci ricordammo che se volevamo fare
“quattro salti” per festeggiare dovevamo impegnarci immediatamente in tal senso.
Dovevamo invitare le fanciulle della contrada e delle zone limitrofe, e cercare un
suonatore disponibile per l’occasione. Ovviamente non potevamo dormire sugli allori. I
coscritti di altre zone avrebbero cercato di fare come noi. Fummo fortunati poiché
riuscimmo ad organizzare tutto in brevissimo tempo.
Potemmo pure assicurarci la presenza di uno dei più quotati suonatori dei dintorni,
anche perché già in possesso di fisarmonica moderna. Rammento che era reduce da una
noiosa influenza che lo aveva costretto a letto per una settimana. Un amico, anch’egli di
leva, mise a disposizione un ampio granaio a pianterreno, ed in un angolo fece disporre
un vecchio ma robusto tavolo su cui doveva prendere posto il suonatore. Dall’alto di
tale posizione lo scenario delle giovani coppiette che stavano divertendosi, nonché
quello delle madri di dette fanciulle, alle quali non sfuggiva neppure un sospiro o un
sorriso delle proprie figlie. Meglio che in quel modo non poteva capitarci. Chi avrebbe
pensato di essere così fortunati da avere a disposizione una sala da ballo così ampia? Ma
eravamo i ragazzi “della leva” e dovevamo perciò festeggiare. Quella sera io mi
meravigliai di me stesso per la spigliatezza con cui affrontavo i vari argomenti con le
fanciulle presenti. Ho già accennato che ero un ragazzo piuttosto timido e riservato, ma
quel giorno accadde il miracolo.
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Ebbi persino l’ardire di corteggiare assiduamente una di quelle meravigliose fanciulle.
Era la prima volta che provavo simili emozioni. Ci voleva il “ballo della leva” per
destarmi dal letargo. Ma adesso è giusto tornare alla realtà del momento. Il bambino che
mi aveva fatto una domanda, stava ancora attendendo la risposta. Io non lo potevo
deludere. Dovevo spiegargli il significato delle “feste da ballo di un tempo”.
Gli raccontai dell’organetto che veniva suonato da sopra un tavolo per far ballare e
divertire le varie coppie di giovani Quando ciò avveniva nei mesi invernali, non
temevamo il gelo, la tramontana o la pioggia. Un grosso ceppo sul focolare risolveva
tutti i problemi del freddo. Gli descrissi pure le frequenti serate estive in cui al chiaro di
luna ballavamo nelle aie poderali, e ci dissetavamo con del cocomero tenuto al fresco in
fondo al pozzo quasi a contatto con l’acqua.
Quello era il nostro frigorifero. Gli parlai anche dei balli nelle stalle al tepore prodotto
dalle bestie vaccine. Egli, attento e incuriosito mi ascoltava senza batter ciglio. Gli feci
capire che erano svaghi semplici ma bastanti a farci divertire anche perché tra la gente
c’era tanta fratellanza e un clima di serena armonia. Quel bambino, dopo avermi
lungamente ascoltato sorridendo mi disse:- Ecco perché il nonno ieri sera si addormentò
mentre mi raccontava delle “feste da ballo di un tempo”! Forse la nostalgia gli
conciliava il sonno. Ma stasera gli dirò che so già tutto, e mi farò promettere di portarmi
a visitare un’aia poderale dove ballavate ai vostri tempi.
Queste sono, a mio avviso, le storielle vere, semplici e belle che meritano di essere
raccontate ai nipotini da chi le ha vissute. Sono realtà che non turbano i loro innocenti
sonni. Può succedere il contrario con i film del terrore che sovente vengono proiettati.
E poi non vorremmo assistere al dilagare della delinquenza. Devo rivelare che oggi ho
provato una delle più grandi soddisfazioni che può avere una persona della mia età.
Mentre osservavo il saettar nel cielo di una rondinella mi sono sentito chiamare. Era la
deliziosa voce di Gian Franco che tenendo per mano il nonno tornava da scuola.
Frequenta la prima elementare. Signore- mi ha detto- stamani ho raccontato alla mia
maestra la novella delle “feste da ballo di un tempo”. E’ rimasta meravigliata e mi ha
detto pure che è molto bello conoscere le cose del passato ed in particolare la vita dei
nonni. L’entusiasmo che traspariva dalla voce e dal volto del fanciullo mi ha fatto
riflettere a lungo. La conclusione? Se tutti fossimo più disponibili a dialogare su tutto, i
nostri figli potrebbero risolvere più facilmente i loro problemi, e non si troverebbero
(come spesso purtroppo accade) in situazioni difficili e tanto pericolose, talvolta capaci
a far imboccare tunnel senza uscita.
Aldo Leonini
3° Premio AL Concorso “Anni d’Argento”
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QUANDO PASSAVA IL TRECCOLONE
Scorrendo il mio vecchio vocabolario acquistato quando ero ragazzo, vedo che il
rivendugliolo di frutta e verdure di ogni genere veniva definito “treccone”. Nel
linguaggio campagnolo, ai tempi che pure io ero un contadino, ed anche orgoglioso di
esserlo, lo chiamavamo “treccolone”. Però non esercitava solamente il mestiere del
rivendugliolo. Anzi, semmai preferiva acquistare cose varie, percorrendo la campagna e
rivolgendosi a tale scopo ai contadini. Ricordo molto bene taluni di quei personaggi.
Uno, ad esempio, giungeva con un vecchio calesse trainato da un cavallino marrone
chiaro, certamente di non alto valore. Portava nella parte posteriore del suo mezzo
opportunamente legate due o tre ceste, talvolta sovrapposte, nelle quali metteva conigli
e pollame vario che acquistava. Ovviamente costui aveva dei clienti da rifornire, ma
frequentava anche i vari mercati portandovi gli animali per rivenderli. Anch’egli doveva
fare il suo piccolo guadagno. Comunque gli animali non restavano mai più di un giorno
in suo possesso. Ognuno di tali personaggi svolgeva la sua attività in una zona diversa.
Difficilmente si ostacolavano “fregandosi” la clientela. Ma c’erano anche quelli meno
fortunati che non possedevano un cavallo, né calesse e ceste per mettervi gli animali.
Costoro dovevano accontentarsi delle briciole, ovvero di ciò che non interessava al più
fortunato. Alcuni abitavano nel mio paese e passavano a domandare pelli di coniglio,
penna di anatra o di oca, stracci, rottami di ferro. Normalmente le cose leggere le
ponevano in una balla che portavano in spalla. I rottami, quando li trovavano, li
accaparravano anticipando qualche lira, in seguito tornavano a ritirarli con un carretto
da loro stessi spinto o trainato. A quei tempi nelle famiglie contadine raramente
mangiavamo animali da pollaio o conigli. La carne era riservata ai giorni di festa e non
sempre. Venivano invece venduti al treccolone e con quei pochi soldi rimediati si
acquistavano le varie cose di casa. Il companatico, come sarde, aringhe, ed ogni tanto il
baccalà, proveniva dalla vendita degli animali. Quando la massaia dopo tanti sacrifici
poteva vendere al treccolone una covata di conigli o polli, con quei quattro soldi cercava
di acquistare, possibilmente, qualche camicia o pantaloni per i suoi uomini. Almeno per
andare alla Messa non dovevano indossare le toppe.
Ogni 15 giorni, passava per la zona dove io abitavo un treccolone proveniente da luogo
non precisato dell’aretino. Lo chiamavano il ”Rosso del Calcione” per il colore dei
capelli. Con esattezza non saprei dire il nome, né la precisa località di provenienza. Era
un uomo scherzoso che chiamava le massaie cantando loro delle rime:- O donne arriva
il treccolone, viene dalle parti del Calcione… disposto a pagar bene stamattina, nane,
conigli e pur qualche gallina….e poi, per ’un farvi lamentare potrebbe anche i piccioni
ben pagare…..Sapete che vi dice il treccolone che viene dalle parti del Calcione? Se
crescere ‘un vi fa tanto il borsello….vi tiene allegre cantando uno stornello. Talvolta il
“rosso”, a differenza degli altri treccoloni, oltre a comperare gli animali, vendeva delle
chincaglierie che portava in una cassetta custodita in una parte del suo calesse. Ma
vendendo tale merce poteva rendere danno ad altri? Infatti per le campagne passava
anche il “chincagliere”.
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Costui viaggiava a piedi con sulle spalle, a mo’ di zaino una valigia di cartone ed un
leggero cavalletto di legno ove posava il suo fardello per mostrare alle massaie il
contenuto della valigia medesima. Si trattava di spilli, bottoni, aghi, rocchetti e persino
bigiotteria che cercava di vendere alle ragazze. E le madri, ovviamente, nel limite del
possibile accontentavano le figlie. Era un lavoro duro quello del chincagliere, il quale
doveva camminare sempre con quel fardello e magari con scarsi guadagni. Ma torniamo
al ”Rosso del Calcione” che sapeva incantare con le sue rime le varie massaie della mia
zona. Un giorno nel giungere presso casa mia, dove normalmente faceva una non breve
sosta, mio padre vide che il suo cavallo non posava in modo naturale il piede sinistro sul
selciato. Per l’esperienza che aveva, comprese subito che la causa di tutto dipendeva
dalla ferratura. Rivolgendosi al treccolone gli disse:- O Rosso… ma ‘un te ne sei
accorto che il tu’ cavallo accenna a zoppica’? Mah- rispondeva il Rosso- durante il
percorso correva che era un piacere. ‘Un ha mai avuto bisogno del mio incitamento.
M’è persino venuto in mente quel proverbio che dice:- Al cavallo che corre ‘un servono
sproni. Stai attento- gli ripeteva mio padre- il tu’ cavallo difetta da un ferro. Tu mi hai
citato un proverbio, assai eloquente se una bestia ha le gambe a posto.
Ora te ne ricordo uno io, ma cerca di comprende’ subito il concetto e di agire con
immediatezza. Questo il proverbio:” Per un chiodo si perde un ferro, ma per un ferro si
può perde’ un cavallo. Io te l’ho raccontato chiaro, senza aggiungere una parola, ma se
continua a zoppica’ fa molto presto a fermarsi. Sarebbe una bestia perduta per un
pezzo. Ora, caro “Rosso”, siccome il cavallo è tuo, fai come meglio credi, ma se ‘un
pigli rimedio, Giovedì prossimo ‘un verrai con codesta povera bestiola a cantar gli
stornelli alle massaie di questa zona. Ascolta che ti dice questo vecchierello. Se ‘un
passerai te, qualche altro potrebbe approfitta’ della tu’ assenza. Poiché ho descritto
questo particolare del “Rosso” e del suo cavallo, devo riconoscere che, comunque, era
una persona onesta e gli piaceva scherzare con le massaie. Quando acquistava pollame o
conigli, ovviamente pagava quei quattro soldi in contanti, però gli piaceva ricordare due
proverbi, con riferimento, senza alcun dubbio, a tutti quelli che facevano lo stesso suo
mestiere. Diceva sorridente:- Vedete come è bravo il ”Rosso”? Lo sapete come dicono
dalle mi’ parti? “Chi ha debiti e più ne fa, se ‘un è fallito, fallirà”...Ma io ‘un li lascio in
giro per la campagna i debiti, né racconto frottole per mandare a chissà quando il
pagamento di ciò che acquisto. E poi ricordatevi sempre che “i crediti dai bugiardi si
riscuotono assai tardi”. Care massaie, è meglio un tordo in seno che un piccione in
colombaia. Ed ora vi saluto, diceva ancora, e… arrivederci la prossima settimana se la
salute ci assisterà. Salendo sul calesse per continuare il viaggio canterellava un altro
proverbio:” chi è sano e ‘un è in prigione, se si rammarica ‘un ha ragione. Il “Rosso” si
allontanava, ma le donne rimanevano un po’ a parlottare delle vendite o delle compere
fatte poiché fungeva anche da buon “chincagliere”. C’era pure chi diceva:- Ma quanto
chiacchiera il “Rosso”, però vorrei vede’ come si comporta in altri luoghi, perché, come
dice un proverbio conosciuto anche dai bambini: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il
mare”.
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Insomma, ad esser giuste, mormorava un’altra, ci hanno insegnato che: “chi loda se
stesso lascia perplesso. Con questo, convenivano poi, ’un si può dire che ‘un sia una
persona per bene, nei dintorni ‘un ha mai fregato nessuno, e nessuno ha mai detto che il
”Rosso” chiacchiera bene ma razzola male.
Ma ‘un c’è niente da fa’ quello è il suo carattere, ’un è che si lodi, lui è gentile con tutti.
Magari è una sua strategia per accattivarsi la simpatia della gente. Comunque c’è da
dire- continuava la massaia più anziana- lo riconosce anche un proverbio che recita:
“rispetto e villania non fan la stessa via. Lui ama fare il suo lavoro scherzando con la
gente, e tutte noi lo aspettiamo con ansia. Se il “Rosso” svolgeva la sua attività nella
mia zona e dintorni, “Beppe il Lento” mio compaesano, così detto perché claudicante,
frequentava i poderi delle campagne lontane dal paese, condotti da famiglie numerose.
Egli non cantava gli stornelli, ma era comunque bene accolto dalle massaie. Il “Lento”
oltre ad acquistare i loro animali, le riforniva di generi utili per il sostentamento. Nel
suo calesse, oltre alle ceste per mettervi i polli o conigli, aveva dei grossi secchi
contenenti sarde, aringhe, baccalà, nonché una scatola con tanti pezzi di sapone da
bucato che veniva usato pure per le pulizie personali. In campagna a quei tempi non si
usavano le saponette profumate. Con l’approssimarsi delle gravose faccende estive, le
massaie di quelle zone facevano le loro scorte delle cose suddette, pagandole
ovviamente, con la vendita dei polli o conigli. Poi, il “Lento” non si faceva vivo per
oltre un mese, tanto quelle famiglie, impegnate come erano nei loro lavori per assicurare
il raccolto, lo avrebbero ignorato. Ricompariva dopo la trebbiatura, e con poche lire
riempiva grosse balle di piuma di oche, anatre e polli, ricavata dalle povere vittime della
trebbiatura. In detta stagione le fanciulle più ingegnose vendevano al “Lento” le covate
di polli che, stimolate dalle madri, avevano allevato e cresciuto. Il ricavato doveva
servire per fare, un poco alla volta, il corredo per un eventuale futuro matrimonio. Ogni
madre andava orgogliosa del corredo di cui disponeva la propria figlia che andava
sposa. Ora quei grandi poderi, un tempo fucina di ricchezza, non ricevono più le visite
del “treccolone”. Sono vuoti, rovinosi e desolati. Semmai si nota raramente la presenza
di qualche pastore con il suo gregge. Ma nei dintorni delle cascine, dove facevano
sfoggio le aie poderali con diecine di pagliai, si notano soltanto macchie di ogni genere,
erbe infestanti ed ortiche. Il “Lento” stenterebbe a riconoscere quelle campagne e quei
grandi casolari.
A. Leonini
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L’INTELLIGENZA DI UN CANE
Che io fossi un appassionato del bosco in generale, e della ricerca dei funghi in
particolare, è cosa risaputa. Fin dall’età di dieci anni vi andavo in compagnia di mio
padre o di mio fratello. Pure che il cane fosse un animale molto intelligente e
affezionato in modo morboso al proprio padrone è cosa risaputa, ma che l’intelligenza e
l’attaccamento giungessero fino al punto che sto per raccontare, non avrei mai
immaginato. Quando parto per fare una passeggiata per i boschi onde godermi le
bellezze ed i profumi della flora, o per placare un po’ la mia ansietà non vado mai da
solo. Mi accompagna mia moglie perché pure lei è una appassionata della natura, ed
ama molto le fronde dei lecci, dei pini e degli ornielli. Naturalmente alla nostra età non
possiamo, come una volta, spingerci in luoghi aspri e pericolosi. Gironzoliamo sempre
nel solito boschetto, lungo una stradella facile da percorrere. Magari facciamo delle
brevi puntate di un centinaio di metri da ambo i lati, ma senza allontanarci di più. E’ un
boschetto che ci ha dato ogni volta notevoli soddisfazioni. Quel giorno mia moglie non
si sentiva disposta ad accompagnarmi, né aveva piacere che io partissi senza compagnia.
Ella certamente non aveva torto. Anche io ho sempre sostenuto che è indispensabile
essere almeno in due, perché il bosco sovente nasconde delle insidie. Discutemmo un
po’, ma poi mi lasciò libero di andare purché prendessi il cellulare e lo tenessi sempre
acceso e che ogni 15-20 minuti al massimo le comunicassi mie notizie ed il luogo
preciso dove mi trovavo. Sentivo davvero il bisogno di recarmi un’oretta o due tra la
flora per distendermi un attimo. Armatomi, quindi, del “magico” bastoncino e del
panierino, nonché degli scarponi, salii in macchina e mi diressi verso il solito boschetto,
sito ad una diecina di chilometri dalla mia abitazione. Come sempre parcheggiai la mia
“rossina” lungo la via in prossimità di un leccio secolare. Mi munii, ovviamente,
dell’occorrente e mi inoltrai lentamente per la straducola di bosco che potremmo
definire sentiero, ma molto facilmente accessibile anche a noi vecchierelli.
Naturalmente appena giunto tra i cedui effettuai il primo collegamento. Giacché mia
moglie mi aveva lasciato libero di andare non volevo farla soffrire. L’attesa di notizie
poteva metterla in costernazione.
Dunque, percorsa come sempre quella straducola, mi inoltrai per breve tratto tra la selva
in cerca di qualche buon fungo. Nel percorrere in senso inverso quel breve tratto di
cedui per tornare, ovviamente, al punto di partenza, e quindi fare una puntatella in altra
direzione, mi giunse all’orecchio il… latrato di un cane che, proveniente dalla “fondata”
si avvicinava. Insomma abbaiando si avvicinava sempre più a me. Certamente mi mise
un tantino sul “chi va là”. Non esisteva motivo per essere aggredito, però seguitando ad
abbaiare… si avvicinò fino a pochi metri di distanza. Continuò, sempre abbaiando, ad
avvicinarsi, poi ad allontanarsi e ad avvicinarsi di nuovo. Notai che quando si
allontanava, andava ogni volta nella stessa direzione. Vedendolo comportarsi
ripetutamente in tale maniera, e consapevole dell’intelligenza di questi animali,
incominciai a pensare che volesse indicarmi qualcosa.
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Decisi allora di seguirlo, ed il cane smise di abbaiare, ma ogni pochi metri si voltava
indietro per vedere se lo seguivo. Se mi fermavo un attimo riprendeva ad abbaiare.
Proseguimmo con tale andazzo per circa trecento metri fino a raggiungere il borro.
Proprio dove andavano a dissetarsi le pecore, quando potevano pascolare in quel terreno
tra la flora, ove si giungeva per la straducola da me e da mia moglie sovente
frequentata. Il cane aveva ragione. Sentendomi camminare e sfrascare m’era venuto
incontro per poi guidarmi in quel luogo. Della loro intelligenza, come prima accennato,
non avevo mai avuto dubbi, ma ora, una volta di più ne avevo la prova. Mi allarmò il
lamento di qualcuno, e fatti ancora una diecina di passi in quella direzione fu tutto
chiarissimo. Scorsi una persona seduta ed appoggiata ad un querciolo che si
contorceva dal dolore tenendosi una gamba. Naturalmente mi avvicinai, e costui,
piangente, riuscì a dirmi che era inciampato e non era più riuscito a camminare. Per il
dolore che provava, sembrava dovesse perdere i sensi da un momento all’altro.
Compresi subito che si trattava di cosa molto seria e che era mio obbligo, come persona
civile, chiedere immediatamente soccorso. Non c’era tempo da perdere, quell’uomo
dall’apparente età di trent’anni doveva essere trasportato nel più breve tempo possibile
all’ospedale. Con il mio cellulare provai a chiamare il 118, ma da lì non era possibile
comunicare. Mancava il segnale.
Cercai di tranquillizzarlo… che presto sarebbero terminate le sue sofferenze. Risalii il
sentiero fin dove ricomparve il segnale e fu possibile perciò chiedere soccorso.
Da notare, intanto, che l’intelligente quanto affezionato animale era rimasto accanto al
suo padrone. Ora sapeva di aver prestato nel modo migliore il suo aiuto. Frattanto io
detti con scrupolo la posizione precisa dell’accaduto, indi raggiunsi il luogo dove avevo
posteggiato la mia “rossina” in attesa del soccorso.
Dopo appena 20 minuti giunse l’ambulanza con il medico a bordo, che poté subito,
anche prima di effettuare le necessarie radiografie, diagnosticare una probabilissima
frattura. Fu ricoverato e dopo gli approfondimenti indispensabili, gli venne ingessata la
gamba fratturata. Seppi che si trattava di un giovane pastore della zona che non mancò
di ringraziarmi. Non c’era bisogno di ringraziamenti, avevo fatto soltanto il mio dovere.
Anche lui avrebbe fatto la stessa cosa. Non si può non aiutare chi si trova in simili
momenti di sofferenza. Quel giorno che andai a fargli visita, quando ancora non aveva
ripreso la sua attività, mi permisi, scusandomi, di dargli un consiglio. Gli dissi queste
parole:- Vedi giovanotto, il bosco nasconde sempre infinite insidie, tra cui quello che
purtroppo è accaduto pure a te. Quindi- continuai- fai uno sforzo e procurati un
“cellulare” e tienilo sempre appresso, specialmente quando porti il tuo gregge a
pascolare. Ma quello che ancora non ho svelato, adesso lo devo dire. Quando quel triste
giorno raccontai dell’accaduto a mia moglie, costei non a torto mi disse:- Vedi cosa
può succedere a recarsi nel bosco senza nessuna compagnia? Quel pastore, però, non era
solo. Aveva un caro amico sempre vicino, ovvero il suo cane, e se non ci fosse stato
quell’intelligente animale chissà quanto sarebbe rimasto a lamentarsi e a piangere il
malcapitato giovane guardiano del gregge.
Aldo Leonini Siena Via Q. Settano n°43
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COSE D’ALTRI TEMPI
Sono ormai trascorsi oltre 70 anni da quei giorni, ma ricordo come se fosse accaduto la
settimana scorsa il parlare sottovoce di mia madre con mio padre, per non svegliare il
“citto” che dormiva nel lettino accanto. Quella camera grande con pavimento a mattoni
mal cotti, ove spesso si inciampava nelle buche perché molto consumati, era esposta a
“tramontana”. Anche gli infissi erano fatiscenti e nell’Inverno lo spiffero si faceva
davvero sentire.
Qualche volta mia madre aveva trovato l’acqua ghiacciata nella
bottiglia che teneva sopra il canterano. Ma il mesto particolare degli infissi fatiscenti era
comune a tutte le case coloniche. Insomma il mattino prima di alzarsi, o alla sera prima
di addormentarsi, seppur sottovoce, parlavano dei tanti problemi che li assillavano ogni
giorno. Come si fa con questi “citti” -diceva mia madre- Ivo è già grandicello e alla
meglio si è potuto rivesti’ con quei panni che ci hanno regalato le mi’ sorelle, ovvero gli
indumenti dei cugini un po’ più grandi di lui. Aldo- continuava- quest’anno farà la
prima elementare e gli dovremo compera’ il grembiule, la cartella, il sillabario e poi, col
sopraggiungere dell’Inverno ci vorrà pure un cappottino per ripararsi alla meglio dal
gelo e dalla tramontana.
Qui le spese ci so’ tutti i giorni e le entrate ‘un si vedono mai. Io ‘un so più come fa’. Se
‘un ci arrangiassimo col vende’ qualche pollo, qualche “conigliolo” o qualche paio di
piccioni, sarebbero grossi guai per sbarca’ il lunario. E pensa’ che questi “citti”
avrebbero bisogno di tante cose. Noi possiamo calza’ gli zoccoli di legno ogni giorno
fino Primavera inoltrata, ma se li portassero loro, si troverebbero con i piedi rovinati per
sempre. Per noi genitori sarebbe un grave rimorso. Speriamo che quella covata di
“coniglioli” - sussurrava mia madre - vada in porto, che insomma crescano bene così,
vendendoli, qualcosa ci si potrebbe rimedia’. Ieri è passato il “treccolone” e me li ha
chiesti. Saranno pronti tra una quindicina di giorni se ‘un c’entra il “diavolo”.
Almeno per qualche settimana potremo compra’ delle sarde e qualche pezzetto di
baccalà. Ma questi figlioli per anda’ scuola ‘un possono fa’ colazione con detti cibi.
E’ davvero un gran problema. Speriamo che ci assista la salute perché se venisse a
manca’ anche quella ci sarebbe da mettersi le mani tra i capelli dalla disperazione.
Sarebbero guai grossi - assentiva mio padre - ma ‘un ci pensiamo, se no ci sarebbe da
sbatte’ la testa nel muro.
Ora tralasciamo questo triste argomento relativo alla cruda realtà che vissi, purtroppo, in
tenera età. Appena giorno mio padre, precedendo mia madre, si alzava, si vestiva,
calzava gli zoccoli costruiti con tanta passione ed attenzione, indi scendeva alla stalla.
Ma prima di impegnare quei dodici gradini che ci portavano a piano terra, sostava un
attimo nella loggia e dava una sbirciatina al tempo. Questa però era l’abitudine di tutti i
contadini, perché sin dal mattino, secondo la direzione dei venti ed il conseguente
movimento delle nubi programmavano i lavori della giornata che erano sempre molti
ed assillanti in ogni stagione.
29
Neppure quando pioveva o nevicava da non permettere i lavori dei campi potevamo
dire : - Oggi me ne sto tranquillo in “panciolle”. Sarebbe stato bello poter restare
nell’ambito del focolare a sonnecchiare presso il ceppo che ardeva, ma ciò non era
possibile. Tanti lavoretti si potevano eseguire anche al coperto. Eppure qualcuno non di
campagna, sottovoce con certa cattiveria affermava:- Questi contadini nei mesi
invernali si rimpinzano, bevono, dormono come ghiri, poi si lamentano che non ce la
fanno a chiudere in pareggio i conti del libretto colonico.
Certi apprezzamenti talvolta giungevano alle orecchie e facevano davvero tanto male.
Non era proprio così! D’Inverno, come prima accennato, c’erano tante cose da fare
anche col tempaccio. Mio padre, ad esempio, ci procurava sempre il lavoro per tutta la
giornata. Prima di qualsiasi altra cosa c’era da accudire al bestiame della stalla che, è
stato detto più volte, era parte integrante della famiglia. Questo costituiva tutte le nostre
speranze, ma c’era poco da dormire.
Avevamo nella stalla e curavamo solitamente 4-5 bestie vaccine, che, guarda caso,
mangiavano anche con il tempo piovoso o con la neve. Ci chiamavano prima dell’alba
ed erano sempre molto puntuali. Dovevamo preparare loro il cibo, e se era già pronto
dalla sera precedente, dovevamo predisporre per il prossimo pomeriggio, perché il
nostro bestiame, come quello di tutti i contadini, non si cibava una sola volta al giorno.
Se noi quando ci alzavamo dal letto sentivamo il bisogno di lavarci la faccia, anche il
bestiame sentiva il bisogno della pulizia addosso e nella lettiera. Ma il brusca e striglia
del loro pelame veniva un po’ più tardi. Prima di tutto si doveva provvedere a togliere
gli escrementi dalla lettiera, che oltre tutto non procuravano buon odore nell’ambiente.
Usare quella carretta sgangherata e barcollante per effettuare il trasporto del letame
dalla stalla alla concimaia non sempre, per fortuna, troppo vicina era una bella sfaticata.
Ma eravamo solo all’inizio, poiché i lavori alla stalla non potevano durare mai meno di
due o tre ore. Anche in Inverno e con qualsiasi condizione del tempo dovevamo
provvedere a ben rifornirla di paglia e di fieno. Non c’era da derogare a tale regola. Era
faccenda che ci attendeva tutti i giorni. Mio padre ci diceva: - Ragazzi quello è un
lavoro che dovete fare voi che siete giovani ed energici. Io vi aiuterò a lega’ i fastelli
perché per me è pericoloso sali’ sulla scala poggiata al pagliaio. A dire il vero costui e
mia madre non conoscevano tregua.. Lavoravano con tanta volontà per il bene di tutta
la famiglia. Mi sovviene ora il locale non troppo sano ubicato tra la stalla e la cantina,
ovvero quello che chiamavamo “stanza del segato”. Era proprio in quel sito che
preparavamo il cibo per il nostro bestiame. E quella era una faccenda molto fastidiosa e
faticosa .Come dimenticare quell’attrezzo mediante il quale tagliavamo gli strami alla
lunghezza voluta previo l’azione di due pesanti lame? Ma detto “falcione” funzionava
solamente se spinto dalla mano dell’uomo. Far girare quel pesante attrezzo in ghisa
con applicate le due taglienti lame, in mezzo alla polvere che toglieva il respiro, talvolta
anche per trenta minuti consecutivi, non era un ghiotto bocconcino.
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Molto più tardi ci fu concesso di applicarvi un motore elettrico che, mediante una
cinghia, faceva girare velocemente quel volano risparmiandoci almeno, se non dalla
polvere, da tanta stressante fatica. Le spese per la corrente elettrica occorrente, però,
restarono sempre a totale nostro carico, poiché, (si diceva) il padrone non ne traeva
beneficio alcuno. Comunque intanto il contadino (come accennato poco sopra) si
risparmiava finalmente quelle tremende sfaticate per almeno due volte al giorno in ogni
stagione dell’anno. Vorrei ricordare che molto spesso in talune famiglie patriarcali, non
della mia zona, le sfaticate per spingere quel rozzo ma necessario attrezzo le subivano
le donne. Ma non erano costrette soltanto a questo stressante lavoro. Non riesco a
comprendere come l’uomo si permettesse anche di far eseguire a costoro la sbaccinatura
della stalla. Eppure in molte zone accadeva anche questo. Magari il capoccia si recava a
destra e a manca per frequentare le fiere ed i mercati. Tanto a casa tutto proseguiva
normalmente grazie all’opera delle donne. In casa mia mai fu compiuto un simile
abuso. Se pensiamo a quali altre prove durante la giornata le donne erano costrette,
quella di far loro subire anche il peso del “trincia foraggi” e della “ sbaccinatura” era
davvero un triste ed eccessivo sfruttamento non degno di essere perdonato. So di essere
ripetitivo, ma credo meriti ricordare che alla fine della giornata, quando l’uomo poteva
riposarsi, magari incontrando gli amici e scambiare con loro quattro chiacchiere, le
donne avevano il loro bel da fare per rattoppare i pantaloni dei mariti, o per filare la
stoppa se d’Inverno. Ma lasciamo perdere questi atteggiamenti discriminanti venuti
finalmente a cessare grazie anche alle giuste lotte che nel tempo seppero impostare e
combattere con accanimento. Ora ritorniamo alla nostra stalla dove non abbiamo ancora
terminato di accudire il bestiame. Solamente dopo aver lisciato ben bene con brusca e
striglia quelle care amiche, potevamo dire:- Finalmente con voi abbiamo terminato.
Ora loro potevano sdraiarsi e ruminare tranquille fino al pomeriggio, quando cioè si
avvicinava l’ora della “governatura” serale. Ma così non era per noi. Non è vero che
d’Inverno mangiavamo e dormivamo solamente, come qualcuno soleva affermare. Per
noi ragazzi del Colombaiolino, c’era Angiolino che provvedeva a sloggiarci dal
focolare quando vi sostavamo più di qualche momento dopo la consueta colazione o
dopo il parco desinare. O “citti” - ci diceva – con questa stagione che ‘un ci permette di
fare altro bisognerebbe che voi vi dedicaste a lega’ le scope per la stalla e per spazza’
le stanze. La vostra mamma so’ diversi giorni che me lo ricorda, alla fine perderà la
pazienza. Io ho da fabbrica’ gli zoccoli perciò ‘un vi posso aiuta’ ma tanto vi sapete
arrangia’ ugualmente. Anche se piove, là sotto la parata potete lavora’ egregiamente.
Questa era una delle tante faccende che dovevamo fare quando il tempo era inclemente.
Se dovessimo elencarle tutte sarebbero davvero tante. Mi limiterò a dire che Angiolino
desiderava vedere ogni giorno la massa del “concio” ben spianata e l’aia non ingombra
di cose trasportate dal vento. Doveva essere pulita come il piazzale prospiciente
l’abitazione. Ma quello che io ho in queste pagine malamente raccontato era cosa
comune a tante famiglie di contadini della mia zona. Sono comunque cose di altri tempi.
Aldo Leonini - Siena Via Q. Settano n° 43
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QUANDO PASSAVANO I SEGGIOLAI
Ricordando i tempi della mia lontana giovinezza, mi ritornano alla mente pure le varie
stagioni con i molteplici impegni che non davano tregua. Dalla semina del grano alla
cura dei vigneti, dalla falciatura alla vendemmia, tutto si ripresenta come se fosse
accaduto la scorsa settimana. Si riaffacciano pure le colazioni e le merende che
consumavamo nei campi durante la mietitura o la falciatura dei fieni. Mi rammento che
spessissimo la massaia, alla colazione o alla merenda, nel togliere i cibi e le varie
stoviglie dalla paniera di vimini che le conteneva, riferendosi ad un vecchio proverbio ci
diceva:- Avvicinatevi ragazzi,” chi ha culo a seggiola”. Vi potete sedere ovunque, basta
che non vi siano gli spini! Ed era proprio così. Noi non avevamo preoccupazione per
trovare un posto a sedere. Ci interessava mettere cibo nello stomaco onde placare il
languorino sopraggiunto dopo varie ore di intenso lavoro. Chi si sedeva sui covoni, chi
sul ciglio di un solco o addirittura per terra, pronti a trangugiare quello che la massaia
aveva preparato. Tutto ciò, come già detto, accadeva nei campi, ma nelle abitazioni era
cosa diversa. Anche nelle case più povere disperse nelle campagne, quando le persone si
apprestavano al tavolo per consumare il parco desinare o la cena, costituite solitamente
dalla zuppa di pane e fagioli, ovviamente non potevano rimanere in piedi o sedersi sul
pavimento. Spesse volte, se la famiglia era numerosa, ai lati maggiori del tavolo si
usava mettere delle panche. Su queste, costruite normalmente con tavole di pioppo di
spessore non inferiore ai 3 cm e rifinite piuttosto rozzamente si sedevano 3-4 persone.
Ad ogni testata del tavolino invece, veniva posta una sedia. Sovente le panche venivano
realizzate da un componente della famiglia che si adattava, in qualche maniera,
all’opera di falegname. Raramente i contadini potevano disporre di denaro sufficiente
per acquistare da qualche bravo artigiano o presso conosciuti e ricchi negozi di vendita
di tali arredi. Ma come abbiamo prima accennato non c’era bisogno solo di panche per
accomodarsi alla parca mensa.
In casa mia, ad esempio, il tavolino era posizionato in modo che uno dei lati maggiori
aderiva al muro, quindi necessitava solo di una panca per due o tre persone ed una sedia
ad ogni testata. Cinque o sei persone, quindi, vi si potevano sistemare discretamente
bene. Anche nelle camere, nello spazio libero tra il canterano, il baule e l’armadio vi si
poneva una sedia, raramente c’era posto per due.
Su questa difficilmente vi sedevamo, ma se sfortunatamente eravamo costretti a
chiamare il medico di famiglia per visitare un nostro caro ammalato, costui effettuata la
visita vi si accomodava un attimo per scrivere la ricetta e per spiegare la diagnosi e la
cura da seguire.
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Tutto ciò, ovviamente, dopo essersi accuratamente lavato le mani nel caratteristico
lavamano, posto, nel nostro caso, tra il cassettone e la finestra. Nelle campagne ( mi
riferisco tra i contadini) non trovavamo poltroncine imbottite o divani in pregiatissima
pelle dove i componenti della famiglia potevano a proprio agio riposarsi. Le seggiole
delle nostre modeste e rustiche abitazioni campagnole erano costituite da un piano
pressoché quadrato destinato alla seduta, con due gambe anteriori non più alte di 50 cm,
e quelle posteriori, quasi sempre sagomate, che si elevavano dal pavimento per circa un
metro e fungevano pure da ruvida spalliera. Con legni speciali, come prima detto
c’erano artigiani capaci di eseguire capolavori di inestimabile valore, in pregiato
massello di noce o di ciliegio, ma la gente dei campi neppure si fermava ad osservarli.
Scarseggiando i denari dovevamo fare il “passo secondo la gamba”. Questo era il
concetto e la realtà che a nessuno permetteva di derogare., Chi aveva redditi migliori dei
nostri poteva togliersi tutte le soddisfazioni del mondo; noi dovevamo attenerci soltanto
al minimo indispensabile, e mai nulla di più. Nella camera dei miei genitori e in quella
dei “citti” l’arredamento era ordinario, ovvero, le seggiole erano identiche a quelle che
usavamo tenere al tavolo di cucina.
Nessuna differenza le distingueva. Da ragazzino mai avevo visto i miei genitori
acquistare seggiole nei negozi del paese. Se mancavano o si rompevano, aspettavamo
che passasse il “seggiolaio”. Ma chi era costui? E’ presto spiegato.
Era un artigiano che veniva nelle campagne per costruire di nuovo le sedie, o ripararle
se apparivano alquanto usurate. Ogni anno, specialmente nella stagione invernale,
magari in giorni impensati, udivamo l’avvicinarsi di una voce che chiamava:Capoccia… c’è il seggiolaio…Io posso costruire di nuovo o riparare seggiole di
qualsiasi natura… Ve le posso impagliare con disegno a dama o come meglio vi
aggrada…Voleva, ovviamente, far comprendere
che non aveva alcun problema.
Anche in casa mia, dunque, come in ogni altra famiglia occorreva un certo numero di
tali arredi, che, come già detto tenevamo in cucina e nelle camere da letto. Ma c’era
anche una seggiolina con le gambe corte ove si sedeva mia madre quando rassettava i
panni dei suoi uomini, i sacchi per la trebbiatura, e raramente quando doveva pelare
qualche pollo per uso famigliare. Dunque, allorché udivamo la voce del seggiolaio, mio
padre e mia madre facevano un esame circa la disponibilità di denaro poi rispondevano.
Quella era gente che lavorava per vivere e andava pagata appena terminata l’opera. I
miei facevano presto a decidere, era questione di un minuto indi davano il loro assenso.
I seggiolai erano quasi sempre in gruppo di tre, ma uno passava con qualche giorno di
anticipo per prendere le prenotazioni. Mi sembra ancora di vederli arrivare a casa mia,
a piedi, con in groppa un armamentario simile ad una grossa sedia con alta spalliera, su
cui portavano debitamente legata, l’erba palustre, ovviamente secca, utile al loro lavoro.
Appena giunti non stavano a perdere tempo nei discorsi; dovevano lavorare.
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Chiedevano quindi del legname verde, possibilmente di acacia, per ricavarne le quattro
gambe delle sedie, e del legno secco preferibilmente di castagno o di gelso per ricavarne
i pioli e le varie traversine del piano di seduta e della spalliera. Specialmente per il
legname secco non c’erano problemi poiché mio padre, provetto costruttore di zoccoli,
teneva sempre una buona riserva. Egli costruiva anche gioghi per i buoi, doghe per i
bigonci e quant’altro poteva; bastava non sprecare il denaro. I seggiolai erano
velocissimi nel prosieguo del loro lavoro, non perdevano tempo in chiacchiere.
Si comprendevano con i gesti e quando parlavano il puro dialetto, specialmente noi
ragazzi, non capivamo una sola parola. Anche loro erano “poveri diavoli” che
giungevano dal Friuli o zone vicine per guadagnare qualcosa, restando lontani dalle
famiglie per intere invernate.
Non tutti gli anni si presentava il bisogno della loro importante professione, ma nella
vastità delle campagne trovavano sempre da svolgere il lavoro per l’intera stagione.
Talvolta succedeva che l’impagliatura del piano di seduta cedeva improvvisamente, ed
allora avremmo bramato la loro presenza anche in piena Estate. Nell’impossibilità ci
arrangiavamo alla meglio con guancialetti ripieni di foglie di granturco o di altra
materia. Il piano della seggiolina, invece era di tavole, ma mia madre vi teneva un
guanciale riempito con penne d’oca. I seggiolai giungevano muniti di arnesi
adattissimi e taglienti.
In poche ore riuscivano a preparare in maniera perfetta, usando sega, pialluzzo e ascia,
tutti i legni necessari per costruire le strutture ed il piano di seduta delle seggiole.
Difficilmente potevano ultimare l’opera in una sola giornata. Ovviamente dovevamo
fornire loro anche il vitto e l’alloggio, ma per questo non c’era da tormentarsi. Erano
loro stessi a dirci:- Non vi preoccupate per il nostro sostentamento. Preparateci solo il
paiolo con l’acqua bollente e la farina di granoturco, poi al resto provvederemo noi. E
provvedevano davvero loro stessi!
Non avevano bisogno di altro. Quando mancava mezz’ora al desinare, uno di costoro
abbandonava l’opera e saliva educatamente in casa a preparare la polenta. Noi non
dovevamo dare alcun aiuto. Loro la facevano e se la mangiavano con appetito. Non
chiedevano altro, neppure un po’ di ragù per condirla.
Avrebbero preferito inzupparla nel latte come usavano in famiglia, comunque era
bastante così. Ovviamente l’accompagnavano con il vinello che noi fornivamo loro
senza alcuna limitazione. Quel bicchierotto se lo meritavano davvero. Ricordo molto
bene che loro usavano scodellare la polenta quando era molto assodata a differenza di
noi che la preferivamo meno densa..
Ovviamente mia madre, malgrado le scarse possibilità, offriva loro anche altre cose.
Magari carne di maiale come buristo o soppressata. Finché lavoravano per noi
dovevano essere trattati come facenti parte della nostra famiglia. Tali erano i sani
principi dei miei genitori.
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La difficoltà giungeva la sera al momento di coricarsi, ma loro si accontentavano di
poco. Bastava poter assicurare un po’ di paglia asciutta ed un angolino nella stalla.
Dicevano che a quel tepore prodotto dalla presenza delle bestie vaccine riposavano
“come in “Paradiso”. Sarà stato vero? Talvolta dopo la modesta cena rimanevano a far
quattro chiacchiere in cucina con mio padre e mia madre, ma solamente per pochi
momenti. Per noi ragazzi era un problema comprendere ciò che dicevano perché si
esprimevano quasi sempre in dialetto. Comunque una volta ultimata la loro opera, non
stavano a perdere tempo nei discorsi. Facevano le giuste raccomandazioni per come
usare le seggiole nuove, da pochi minuti rivestite, dimostrandoci quanto fosse
importante quel loro metodo di usare legname verde e stagionato contemporaneamente.
Poi, ricevuta la somma precedentemente pattuita, ringraziavano più volte dicendo
infine:- Arrivederci all’anno prossimo se Dio ci conserverà in salute. E se ne andavano;
altri clienti li attendevano.
Aldo Leonini Siena Via Quinto Settano n° 43.
QUANDO AVERE LA BICICLETTA ERA UN LUSSO
Come ogni ragazzo pure io sarei stato felice sentir l’ebbrezza di trovarmi a cavalcioni al
sellino di una bicicletta. Spesso veniva al Colombaiolino, dove abitavo Franchino, il
figlio adottivo di Padron Santi con una Maino Lusso nuova di zecca ed ovviamente una
delle migliori marche dell’epoca. Talvolta mi chiedeva di ascoltare come cantavano i
suoi movimenti al seguito di una pedalata da fermo. Non volli mai provarla, perché
memore di quanto accadutomi nel 1939 quando frequentavo la scuola di Avviamento
allorché accettando di salire su la bici di un compagno caddi. Mio padre dovette pagare
10 lire per una semplice ammaccatura al fanale. Erano anni che togliere anche solo 5
lire da una tasca costituiva pesante onere. A parte ciò, anche io bramavo avere una mia
bicicletta, tanto più che i miei amici della zona ce l’avevano tutti o quasi e li vedevo
ogni giorno scorrazzare per le nostre straducole a scarso traffico. In famiglia una
vecchia bici c’era ma la usava mio fratello più grande di me di sette anni, o mio padre
quando nella stagione invernale si recava al bosco a far fascine. Un giorno che chiesi al
mio babbo se mi poteva comperare una bici anche vecchia, con molta tristezza mi
rispose:- Vedi Aldo ora che tuo fratello è militare, bisogna paga’ pure la ragazza che
abbiamo assunto per darci una mano nei campi e per aiuta’ la tu’ mamma che da un po’
di tempo ‘un si sente bene. Credimi mi dispiace molto ma ‘un te la posso compra’.
Guarda se ti puoi ingegna’ in qualche maniera. Un pomeriggio, dopo la lezione di
musica ( studiavo il flauto) ebbi occasione di passare dinanzi alla bottega di Gigino
biciclettaio e di vedere esposta una bici vecchiotta ma in buone condizioni. Mi venne
voglia di chiedergli il prezzo, ed egli sorridente mi rispose:- Caro giovanotto per
acquista’ questa bicicletta occorrono 20 lirone, ma io te la potrei vende’ anche per 18
compresa la pompa, ma occorrono “soldi sonanti”.
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Ma chi ce l’aveva 18 lire? Mia madre con enorme sacrificio mi faceva la paghetta
domenicale per andare al cinema in Piazza del Grano con gli amici, ma si trattava di
pochi centesimi. Per acquistare quel mezzo avrei dovuto privarmi dell’unico mio
divertimento per almeno due anni .Una sera, mi sembra verso gli ultimi di Maggio del
1942, ( eravamo già in piena stagione bellica) mia madre mi mandò da “Schicchi”
macellaio a comperare tre etti di lesso, e mentre attendevo di essere servito potei
assistere alle lamentele di una cliente. Caro “Schicchi” - ella disse- la finocchiata che mi
vendesti l’altro giorno ‘un sa di niente. Si sente soltanto il sapore di carne salata.
L’aroma del finocchio come aveva in passato ‘un si sente per nulla. Ma che devo fa’rispose il macellaio- quello che ci avevo ce l’ho messo tutto; ora ‘un si trova più chi va
a “coglielo”, neanche a “pagallo” un occhio della testa. Bisognerà “arrangiassi”concluse mentre la cliente insoddisfatta usciva di bottega. Quando giunse il mio turno,
visto che eravamo soli, mi armai di coraggio e gli dissi:- Ma se ve lo procurassi io quel
benedetto finocchio lo compreresti? Anche 10 chili- mi rispose- ma te, continuò, dove
lo trovi? Negli anni scorsi- spiegai- nei greppi di Grottoli abbondava, credo che vi sia
anche quest’anno. Allora se me lo porti e lo cogli in fiore- continuò- te lo posso paga’
anche 8 lire al chilo. Guarda che t’ho fatto una bella offerta però, se lo trovi, me lo devi
porta’ prima di Novembre perché per i Santi si incomincia a macella’ i maiali e dopo
due giorni devo confeziona’ le finocchiate. Anche se è più di 10 chili ‘un ti preoccupa’,
te lo piglio tutto. Prima dei Santi allora, ‘un te ne scorda’. Hai sentito quella donna
come s’è lamentata? Va a fini’ che se un trovo qualche rimedio mi fa perde’ tutti i
clienti. Mah! Speriamo bene. Arrivederci “Schicchi”. Arrivederci, saluta la tu’ mamma.
Piuttosto come va, è tanto che ‘un la vedo. ‘Un c’è male, presenterò. Ma perché tutto
questo? Era la bramosia di avere una bicicletta. M’era balenata l’idea di profferirmi
pensando che in quelle scarpate potessi raccogliere tanto di quel fiore da poter
racimolare la cifra che Gigino mi aveva chiesto della bici esposta. Non ne parlai con
nessuno, perché forse era solo una vaga e inutile speranza. Ma io sognavo quel mezzo
di locomozione e di svago. Un giorno verso la metà di Luglio, dopo il parco desinare,
invece di godere del salutare pisolino ebbi altra idea.
Raggiunsi l’attraversamento e mi diressi verso le scarpate di Bellerino e potei
accertarmi dell’abbondanza del delicato e “benedetto finocchio” ancora non del tutto
pronto come fioritura. Dovevo attendere almeno una settimana e vigilare che nessuno
mi precedesse nella coglitura. Qualche barlume di speranza cominciava ad aleggiare in
me. Anche se prematuramente già mi vedevo a cavallo ad una bicicletta che mi
permetteva di giostrare a mio piacimento per le vie sterrate di Grottoli. Con la settimana
successiva anziché riposarmi presi ad andare per quelle scarpate a cogliere il finocchio,
e dopo averne tagliato un grosso fascio facevo ritorno, felice, a casa.
Lo ammazzettavo prontamente per esporlo al sole per la necessaria essiccatura. Ciò che
non riuscivo a fare il giorno, per le incombenti faccende, lo terminavo la sera dopo
cena. Dovevo con ogni sforzo raggiungere lo scopo prefisso.
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Seguitai con stesso ritmo per tutto il mese di Agosto. M’era accaduto di far ritorno con
le gambe piene di sgraffiature da rovi, ma non provavo alcun dolore. Quando i miei mi
chiedevano cosa m’ero messo in testa di fare, io rispondevo:- Non ho ancora le idee
chiare, vedremo un po’ più in là. Nella vita bisogna “arrangiassi”. Alla metà di
Settembre lo avevo già sistemato tutto. Tra puro fiore e quello un po’ più granito, ma
ugualmente speciale, avevo riempito quattro caraffe della capacità di litri uno e mezzo
ciascuna. Non vedevo l’ora di pesarlo, e quando lo misi sul piatto della stadera seppi di
averne ben nove libbre e mezzo. Ero soddisfattissimo del mio lavoro. La sera stessa mi
recai da “Schicchi” con la sacchetta di quel fiore il cui aroma si sentiva da venti metri
di distanza. Quando mi vide sorrise e disse:- Bravo ragazzo, oltre a “pagatti” ‘un ho
parole sufficienti per ringraziarti. Ero preoccupato per le mi’ finocchiate, ma almeno per
quest’anno ‘un ho problemi. Mi sganciò 26 lire, ed io corsi felice da Gigino, ma la
bicicletta che avevo veduto alcuni mesi prima non era più esposta. Me ne mostrò
un’altra e mi incoraggiò dicendo:- Questa sarebbe da “comprasii”. E’ buona ma devo
fargli qualche riparazione.
Se dici di “piglialla” te la rivernicio del colore che vuoi, e tra una settimana è pronta,
però occorrono 25 lire. Affare fatto Gigino. Io vi posso pagare anche anticipato perché i
soldi l’ho già in mano. Gli raccontai, allora, le imprese del finocchio. Benedetto
ragazzo- mi disse- ci voleva solo la tu’ volontà. Guarda per “ricompensatti” del tu’
sacrificio ti fo lo sconto di una lirona.. Ripassa tra sette giorni e la tu’ bicicletta la
troverai pronta. Io dalla contentezza non toccavo( come suol dirsi) i piedi per terra. Ora,
dopo tanto, potevo finalmente coronare il mio sogno. Ma non ero tranquillo perché non
avevamo parlato di colore né di camere d’aria e di fanale. Specialmente il fanale era
cosa molto importante. La sera mia madre, vedendo le quattro caraffe vuote , incuriosita
mi chiese:- O che ne hai fatto di tutto quel finocchio? ‘Un c’è neanche da pensa’ che tu
l’abbia portato alla fiera perché è ancora lontana. La sorpresa- le risposi- non si farà
attendere molto, comunque è una sorpresa e non ti posso anticipare nulla. Mah!
Benedetto ragazzo- disse Argentina- ‘un so capi’ che ti passa per cotesta testolina.
Il giorno stabilito con Gigino mi recai a ritirare l’oggetto dei miei sogni che, lucido in
ogni sua parte, e con quella verniciatura, sembrava nuova. Non ci furono contestazioni
da fare perché era stata corredata di tutto l’occorrente: fanale con dinamo, borsetta con
ferri, mastice e pompa per gonfiare le camere d’aria. Da quel momento mi sentii un
ragazzo realizzato al pari di tutti gli altri amici grottolesi.
Ma la soddisfazione più grande scaturiva dal fatto che in quei momenti di vacche
magre per tutti, avevo raggiunto una meta senza procurare ulteriori sacrifici ai miei
genitori che già soffrivano abbastanza. Da quel giorno mi sentii davvero felice anche
perché insieme ai coetanei della contrada potevo compiere frequenti “giratelle” di
piacere molto propizie per tutti perciò anche per rinvigorire le energie di noialtri
ragazzacci.
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Essendo ormai in possesso dell’amica, battezzata “la rossina”, non invidiai più
Franchino per la sua Maino Lusso.
Né invidiai gli altri amici che da tempo scorrazzavano a proprio agio. Ora potevo
cavalcare sulla mia “due ruote” del colore che lo stesso Gigino mi aveva consigliato la
settimana precedente. Quella tanto anelata ed unica bicicletta posseduta, fu negli anni
successivi testimone dei miei primi appuntamenti amorosi e delle piuttosto frequenti
delusioni. Ma oltre ad accompagnarmi nei faticosi viaggi ai boschi per procurare legna
da ardere, fu anche testimone degli innumerevoli spostamenti da Grottoli, ove abitavo, a
Serre di Rapolano dove dimorava la fanciulla che doveva essere la donna della mia
vita. Per i ragazzi di oggi tutto è più facile. Non sentiremo mai un genitore dire:- Mi
dispiace ma non posso accontentarti. Ogni richiesta viene esaudita. Non possiamo far
soffrire ai nostri figli quello che noi abbiam sofferto. Però le belle emozioni di un
tempo, adesso sono completamente ignorate
Siena 25.08.2002
A. Leonini
Ha partecipato al Concorso “Terza età anni d’Argento”
del 2005 conquistando il 1° Premio. consegnatomi il
10.Dicembre 2005.
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LO CONVINSI A VISITARE SIENA
In quell’assolato giorno di metà Giugno, mi trovavo occasionalmente sul pullman in
servizio tra Follonica e Siena, quando, ormai nelle tortuose curve tra Frosini e
Montebello, ebbi modo di assistere al brevissimo dialogo tra l’autista ed un viaggiatore .
Quest’ultimo, certamente di origine straniera, chiedeva al conducente quali e quante
cose belle ed interessanti avrebbe potuto ammirare visitando Siena. Il conducente non
potendo conversare a lungo per non distrarsi, dopo avergli indicato le prime cose
venutegli in mente, ovvero il Duomo e la Torre del Mangia, lo in invitava gentilmente a
rivolgersi a qualche viaggiatore ed avrebbe avuto informazioni esaurienti. Io,
trovandomi seduto nei primi posti, ebbi modo di assistere e compresi che se qualcuno
non lo avesse informato in modo convincente, avrebbe proseguito il suo viaggio senza
sostare neppure un’ora nella nostra città. Benché scarseggiassi assai nella conoscenza
delle ricchezze artistiche e storiche di Siena, non potei trattenermi dall’intervenire. Mi
sarebbe dispiaciuto se non avesse sfruttato tale opportunità adesso che stavamo per
giungervi. Dunque, notato il silenzio dei vari presenti, azzardai a parlare. Scusi signoregli dissi- a Siena ci sono tantissime cose belle da visitare e da apprezzare, oltre a quelle
indicategli un attimo prima dall’autista che non poteva più a lungo dialogare per le sue
responsabilità . Mi creda se le dico che c’è da sbizzarrirsi. Ora che stiamo per arrivare,
non perda l’occasione di soddisfare un suo desiderio. Siena- proseguii - sebbene non sia
una grande metropoli, è famosissima per la sua arte e per la sua storia. Anche il vicolo
più recondito può offrire importanti elementi storici ed ammirevoli espressioni
artistiche. Dette i natali a grandi uomini della pittura, della scultura, dell’architettura,
insomma dell’arte in generale. Le antiche origini e la gloriosa sua storia sono note in
tutto il mondo. Se si soffermerà- continuai- avrà l’opportunità di accertarsene di
persona. Sono certo che appena scenderà da questo mezzo, rimarrà soddisfatto della sua
decisione. Percorrevamo un’altura alla periferia della città, quando si stagliò dinanzi la
superba immagine della Torre del Mangia. Ecco, -soggiunsi- è la splendida Torre alta
oltre 100 metri indicatagli dall’autista. E’ la microscopica parte di ciò che si può
rimirare tra le antiche mura di cinta. Il signore, che fino a quel momento aveva
ascoltato in silenzio, mi chiese:- Ma lei potrebbe accompagnarmi per un po’. Io, risposi
confuso, potrei darle soltanto qualche vaga indicazione, però persone competentissime
nella storia dell’arte senese ed anche sui fatti puramente storici ne può trovare
moltissime. Adesso – continuò- ho solo poche ore disponibili per potermi trattenere. La
prego -soggiunse- in arrivo mi descriva a grandi linee le cose più interessanti, perché
potrei tornarvi con la famiglia che in questi giorni si trova a Milano. Compresi che si
trattava di un personaggio dalle risorse ragguardevoli, ma non gli potevo chiedere chi
fosse. Per me era un turista che mi pregava gentilmente di trattenermi un po’ con lui
per parlargli di Siena. Ed io non lo potevo deludere. Siamo spagnoli- rivelò- e
quest’anno vogliamo restare almeno un mese in Italia. Giungemmo in Piazza Gramsci
nel primo pomeriggio. Aveva 3 ore disponibili prima di ripartire per Firenze da dove
avrebbe proseguito per Milano con un Eurostar. Ci dirigemmo verso Piazza del Campo
e sostammo ad un bar per consumare una bibita. Da quel luogo, intanto, si poteva
rimirare la superba Torre del Mangia e la stupenda “conchiglia” a quell’ora frequentata
da diverse persone che stavano sedute o sdraiate nella pavimentazione a spina per
prendere il sole. Sicuramente ne restò estasiato e comprese che le informazioni ricevute
fino a quel momento, seppure scarne, corrispondevano a verità. Gli accennai della
ricchezza artistica del nostro meraviglioso Duomo, della sua grandiosa facciata nonché
dello splendido pulpito.
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Restò colpito positivamente dalla bellezza della “gotica” facciata del Palazzo Pubblico.
Gli rivelai che se si fosse trattenuto avrebbe avuto modo di rimirare ed apprezzare
all’interno gli splendidi e molteplici affreschi di artisti senesi noti in tutto il mondo.
Avrebbe potuto ammirare Piazza S. Giovanni con il Battistero ove sfoggia lo splendido
“fonte battesimale” opera attribuibile in parte a Iacopo Della Quercia, del quale un
prezioso lavoro (La Fonte Gaia) era poche diecine di metri da noi. Ma il tempo correva
veloce, ed io non ero in grado di addentrarmi troppo nei particolari.
In quel momento avrei bramato di cuore fosse stato presente un mio carissimo amico,
omonimo e vecchio compagno di lavoro il quale conosce Siena, i suoi uomini illustri e
le loro opere grandiose, come io conosco la mia modesta dimora. Gli raccontai alcuni
particolari delle antichissime origini della città, come pure di importanti fatti storici di
cui avevo avuto qualche insegnamento dai libri, ovvero della sanguinosa battaglia di
Montaperti contro i Guelfi fiorentini a cui furono inflitte gravissime perdite dai
Ghibellini senesi che ne uscirono vittoriosi. Non tralasciai quella di Camollia contro gli
spagnoli anche questa vinta dai senesi. Egli ascoltava, ed io pensavo di essere poco
esauriente, perché senza alcun dubbio stavo parlando con persona culturalmente molto
evoluta. Non trascurai di parlargli delle 17 contrade che caratterizzano la vita del
popolo senese, e delle due manifestazioni storiche che si celebrano sul tufo di Piazza del
Campo rispettivamente il 2 luglio in onore della Madonna di Provenzano, e del 16
Agosto in onore della Vergine Assunta in Cielo. Non ci fu il tempo per parlare di Santa
Caterina, della peste che imperò mietendo infinità di vittime, delle ricchissime famiglie
Tolomei e Salimbeni acerrime nemiche e dei loro sontuosi palazzi. Non ebbi tempo di
parlare dell’antico ospedale di Santa Maria della Scala, oggi importantissimo museo
dell’arte senese, né della Pinacoteca. Dimenticai i tre grandi uomini: Patrizio Patrizi,
Giovanni Tolomei e Ambrogio Piccolomini che abbandonando gli agi delle loro casate
si ritirarono là nelle crete di Accona per dedicarsi alla preghiera, fondandovi poi il
Monastero di Monte Oliveto. Avrei dovuto citare l’importante rete di canali detti
”bottini”, opera di elevato valore artistico e di ingegneria, costruita sotto la città e non
soltanto, nel lontano Medio Evo per approvvigionare di acqua l’intera popolazione. Ma
se ci fosse stata possibilità avrei potuto accennargli delle importanti opere moderne
quali, ad esempio, il complesso ospedaliero di Santa Maria alle Scotte, dove operano
illustri luminari nei campi della medicina e della chirurgia. Non sarebbe passato
inosservato il colossale “Centro di Ricerche”, sorto da poco in zona Petriccio . Né avrei
potuto tacere la sua antica Banca, il Monte dei Paschi, che contribuisce sovente alla
realizzazione di innumerevoli iniziative anche in campo sociale. Pensavo, come prima
detto, di essere stato davvero poco o nulla esauriente, ma quando ci alzammo, poiché si
avvicinava l’ora della sua partenza per Firenze, mi rivelò di essere convinto che non
sarebbero stati sufficienti 20 giorni per visitare con calma le bellezze artistiche di questa
città da me accennategli. Volle sapere il mio numero telefonico, e mi assicurò che
sarebbe ritornato insieme alla famiglia per almeno 15 giorni, per assistere anche alla
manifestazione del Palio. Desiderava visitare tutto ciò che costituiva storia ed arte che
resero e rendono da tempi remoti la nostra città unica al mondo. E’ stato di parola
perché è tornato con la moglie e i due figli ed ha assistito con entusiasmo al Palio del
02 Luglio 2009. Prima di ripartire non ha mancato di invitarmi telefonicamente al
solito bar di Piazza del Campo per conoscere i suoi familiari e per trascorrere un’ora
insieme. Nel rivedermi ha pronunciato parole che hanno suscitato in me vera emozione:
Ora che ho visitato Siena- ha soggiunto- posso dire di conoscere una delle più
magnifiche culle dell’arte esistenti nel mondo.
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Mi ha confidato anche di avere apprezzato la cucina senese ed in modo particolare le
“pappardelle al sugo di cinghiale”. Mi ha invitato a visitare la sua terra, la terra di
Spagna, ma certi viaggi non sono più possibili per un “giovane ottantenne”. Però sono
ugualmente felice e soddisfatto per aver contribuito, nel limite delle mie modeste
capacità, a far conoscere questa amata città, la sua arte, la sua storia e le terre
circostanti, ad altre 4 persone che, sono certissimo, torneranno ancora. Concludo
convinto sempre più che lo splendore delle opere di illustri artisti senesi, le bellezze e le
ricchezze delle colline adiacenti sono state e saranno sempre una forte attrattiva per i
turisti di ogni parte del mondo.
Aldo Leonini nato ad Asciano il 04.10.1926
residente a Siena Via Q. Settano 43 Tel. 0577.50621
GIOIE E PREOCCUPAZIONI DI UN NONNO.
Da qualche anno conosco Antonio, un coetaneo abitante nella via che corre parallela a
quella dove io dimoro, ma distante da me solo poche centinaia di metri. Ci conoscemmo
un pomeriggio quando spingendo la carrozzina che ospitava un fanciullo di pochissimi
mesi, sostò a riposarsi un attimo alla panchina dove io conversavo con un amico del
mio stesso condominio. Già, ero con Guido, la persona che conosco e apprezzo da oltre
quaranta anni. Ormai vecchierelli, siamo soliti trascorrere su quelle panchine,
ombreggiate da lecci stupendi e poste a non più di 50 metri dal nostro caseggiato,
svariate ore dei lunghi pomeriggi, a rimembrare i lieti giorni della nostra giovinezza e
quelli in cui lavoravamo nella medesima azienda. Durante quel primo incontro in cui
avemmo l’occasione ed il piacere di parlare con Antonio, gli occhi di quest’ultimo
brillavano di gioia nel dirci che quell’angelo che si coccolava stringendo nelle manine
un trastullo, era il suo nipotino. Ci fece capire che era felice anche perché, nel limite del
possibile, si rendeva utile ai suoi giovani sposi. E poi, come ben sappiamo, quando
giungiamo ad una certa età non bisogna fermarsi; l’inattività fa invecchiare più
sveltamente. Nel parlare ci rivelò che era il nonno paterno, che il figlio lavorava in
un’impresa edile e la nuora, terminato il periodo di congedo per maternità, aveva ripreso
in pieno la sua attività quale commessa in un negozio cittadino. Spesso, sorridendo,
diceva che da quando era nato il bimbo, a cui avevano dato il nome di Matteo, si
sentiva ringiovanito di venti anni. Affermava lietamente che nello spingere la carrozzina
col nipotino le sue gambe erano tornate leggere e sciolte quasi come quando, tanti
anni addietro, aveva militato nella fanfara dei bersaglieri. A quel pomeriggio,
specialmente nei mesi primaverili ed estivi, ne seguirono tanti altri. Era ormai una
consuetudine e quando trascorsa l’ora abituale non era giunto, cominciavamo a pensare
a indisposizione sua o del piccolo Matteo. Passarono più stagioni, poi Antonio, riposta
la carrozzina, cominciò a raggiungerci tenendo strettamente per la mano il piccolino.
Ovviamente le sue responsabilità si facevano più pesanti, ma cosa non si farebbe per
dare una mano alla famiglia di un figlio ed in special modo per accudire un nipotino?
Antonio molto saggiamente, durante la sosta a conversare con noi, lo teneva d’occhio
continuamente, non trascurandolo neppure un minuto, anche perché ad una decina di
metri correva e corre una via molto transitata da macchine e da motorini.
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Il bambino però era tranquillo, e mentre noi discorrevamo lui giocherellava lieto con
dei modellini di auto che il nonno stesso gli aveva con molto piacere regalato. Alla
giusta età Matteo fu iscritto all’asilo situato nel nostro quartiere, dove al mattino vi
veniva accompagnato dalla madre prima di iniziare il suo lavoro, ed alla sera lo
riprendeva il nonno dopo essere stato a far due chiacchiere con noi alla solita panchina.
Durante il periodo invernale raramente ci incontravamo, eccettuato qualche volta e di
sfuggita al supermercato. Così trascorsero varie stagioni, con frequenti incontri e
piacevoli chiacchierate nei giorni più miti, ma rari e fuggevoli quando era consigliabile
rimanere al calduccio dei termosifoni. Ma se a noi vecchierelli il tempo corre anche
troppo veloce, costellato purtroppo da frequenti acciacchi, anche a Matteo alcuni anni
sono passati e lo scorso mese di Settembre ha cominciato a frequentare la scuola
primaria. A differenza di tanti bambini che vengono accompagnati ogni giorno con
l’auto, questo fanciullo percorre il chilometro che lo separa dalla scuola a piedi tenendo
per mano nonno Antonio che, per non stancarlo, porta lui la sua cartella. E’ un nonno
davvero eccezionale ed il bambino, intelligentissimo, lo ha compreso e non si
distaccherebbe mai da tale protettiva figura. Puntualmente, ogni mattino, li vedo
passare per la via adiacente con passo svelto e ci salutiamo con un cenno della mano. Al
pomeriggio Antonio, allegro e pimpante con il portamento da anziano bersagliere,
torna a prendere Matteo e sovente, se il tempo è buono, si ferma dieci minuti con noi,
ma non più di tanto perché il piccolo ha altri impegni… Purtroppo quando siamo felici
bisogna tremare perché può sempre capitare l’imprevisto.. Infatti la gioia da me vista
sprizzare dagli occhi di Antonio fin dal giorno che ci conoscemmo, scomparve come un
soffio in un triste frangente, trasformandosi in lunghissimi attimi di terrore che
potevano concludersi in un vero disastro.
Devo affermare, specialmente al lume di quanto accaduto all’amico nello scorso
Ottobre, dopo poche settimane dall’apertura della scuola, che le molteplici
preoccupazioni dei nonni, celate sovente dalla gioia per l’incombenza di accudire un
nipotino, non sono infondate. Approfittando del clima ancora mite, Guido ed io
eravamo come i giorni precedenti a parlottare alla panchina quando, poco prima delle
17, sopraggiunsero Antonio e Matteo. Malgrado l’intera giornata trascorsa a scuola il
ragazzino appariva sereno e tranquillo, però sollecitava il nonno a trattenersi pochi
minuti perché sentiva il bisogno di consumare la sua merendina. Mentre ci stavamo
salutando, dall’altra parte della strada comparve guardinga “Camilla”, l’affettuosa
micia del nostro vicino di casa che, quando ci vede, ama molto farsi coccolare. Matteo
nel notarla si staccò improvvisamente dalla mano del nonno e le corse incontro. Proprio
in quel momento sopraggiungeva a velocità piuttosto moderata un motorino condotto
da un giovane, che per non investire il ragazzino fu costretto a frenare bruscamente,
comunque in modo tale che cadde a terra insieme al suo mezzo. Fortunatamente non
accadde nulla di grave. Il giovane e Matteo rimasero illesi, ed anche il motorino non
riportò danni. Ma quel povero nonno parve svenire dalla disperazione, e sicuramente
nell’attimo della frenata gli si abbuiarono gli occhi. A dire il vero non mi era mai
capitato di vedere una persona tanto terrorizzata da non essere capace a pronunciare
una parola. Visto che non riusciva a riprendersi dallo spavento, gli procurai
tempestivamente e gli feci bere un bicchiere d’acqua. Finalmente, resosi conto che non
era accaduto nulla, e che il piccolo cercava la sua mano, si riebbe e quasi piangente
mormorò:- Se disgraziatamente fosse successo qualcosa a Matteo o al giovane del
motorino, che non finirò mai di ringraziare, come avrei potuto perdonarmelo, anche se
il bimbo mi è sfuggito senza possibilità di trattenerlo?
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E pensare- continuò- quanto ci preoccupiamo mia moglie ed io per accontentarlo e non
farlo soffrire quando i suoi genitori sono assenti per ragioni di lavoro. Data la nostra
vicinanza, prima di iscriverlo all’asilo, nelle ore diurne lo abbiamo seguito noi nonni,
con la volontà e la pazienza che si segue un figlio distinguendo, ovviamente, il nostro
ruolo da quello di genitori. Mai mi sarei creduto di capitare in un caso del genere. Mi
auguro solo- mormorò ancora con fatica- di poter seguitare, ma non so se avrò la forza.
Pian piano le pene dell’uomo si placarono, anche perché Matteo comprese quanta
paura gli aveva arrecato con quel suo gesto e si prodigò ad accarezzarlo,
promettendogli di rimanere sempre al suo fianco. Ecco ora che mi appresto a mettere
fine a questo mio racconto, dove ho narrato, con nomi fittizi, un fatto veramente
accaduto, non posso esimermi dal fare una breve e semplice riflessione. Poiché le
sofferenze dei nipoti si ripercuotono sui nonni non meno di quanto toccano i genitori,
cosa sarebbe accaduto se Matteo fosse rimasto infortunato, e quel giovane avesse avuto
bisogno di cure mediche chiedendo il risarcimento dei danni? E quali sarebbero state
le conseguenze per quel povero nonno, la cui gioia era improvvisamente scomparsa e
nei suoi occhi ora c’era solo tanto terrore? E con quale stato d’animo avrebbe potuto
informare dell’accaduto i genitori del piccolo? Su una cosa dobbiamo quindi molto
riflettere. Sarebbe ingiusto, troppo ingiusto, sottovalutare il ruolo di questi nonni
talvolta definiti, a torto o a ragione, un po’ impiccioni ma sempre gioiosi di svolgere
certe impegnative incombenze. Al contempo, credo sia onesto riconoscere che le loro
paure e le loro preoccupazioni, nell’adempimento di detti delicati compiti non possono
che essere infinite e fondate .
Siena 24.07.09
A. Leonini
FU UN PIRATA DELLA STRADA
1° classificato al Concorso Premio Terza Età Anni d’Argento 2011
Poiché cominciavamo a godere il tepore delle giornate primaverili, mi decisi di fare un
gita in treno da Siena a Pisa per andare a far visita a dei parenti, ma anche per provare
l’emozione di viaggiare sul “Minuetto” quel nuovo convoglio che da qualche tempo
circola sulle nostre ferrovie compartimentali. Verso le ore otto del mattino già mi
trovavo ad Empoli e lì dovetti salire su un “locale” proveniente da Firenze. Notando
uno scompartimento vuoto mi accomodai e aprii il giornale poco prima acquistato
all’edicola di stazione. Qualche minuto dopo la partenza del convoglio in questione, si
accomodò di fronte a me una persona, ma io, preso dalla lettura di un articolo a parer
mio importante, non alzai neppure la testa. Quando ripiegai il quotidiano vidi che era
una giovane donna apparentemente sulla trentina. Una signora dalle chiome scure e
molto bella in volto. Altro particolare che mi colpì, e che avrebbe colpito chiunque, fu
quello molto appariscente del suo stato di gravidanza assai avanzato. Ed allora,
cercando di allontanare la mia titubanza e credendo anche di farle un complimento, non
mi trattenni dal “rompere il ghiaccio” e le dissi:- Buongiorno, a quando il lieto evento?
E forse impicciandomi un po’ troppo seguitai:- E’ un maschietto? Ella gentilmente mi
rispose:- Sì, è un maschietto che dovrebbe nascere tra due settimane e che chiamerò
Luigino, ma purtroppo null’altro mi consola. Nel pronunciare queste poche parole notai
che grosse lacrime inondavano le sue guance, quindi mi scusai per la mia intromissione
in cose private, ma costei rispose:- No!
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Non c’è motivo per cui lei si debba scusare, perché garbatamente mi ha fatto un
complimento. Ma c’è una ragione per cui ho detto:- “Null’altro mi consola”, ed è una
ragione tristissima. Ora, seguitò, vivo solamente per questo bambino che non avrà la
fortuna di vedere e di conoscere il suo padre. E con gli occhi che ancora sgorgavano
lacrime continuò:- Erano due anni e mezzo che c’eravamo sposati e cercavamo
ambedue con tutto il cuore questo nostro primo figlio. Quando annunciai a mio marito,
il cui nome era Luigi, che le analisi avevano confermato il mio stato di gravidanza e che
finalmente avremmo coronato il bel sogno di divenire genitori, ci abbracciammo e
insieme piangemmo lungamente dalla felicità. Il sabato successivo, poiché liberi
ambedue dal lavoro, Luigi progettò di festeggiare l’evento in una maniera tutta speciale,
e mi volle portare a pranzo in un ristorantino alla mano, gestito da un suo conoscente,
dove non affluisce molta gente, ma si mangiano cose genuine cucinate alla vecchia
maniera. Trascorremmo in quel luogo un paio d’ore, ed il nostro pensiero, sono
certissima, era proiettato nel prossimo futuro, chiunque l’avrebbe potuto facilmente
capire dagli sguardi che ci scambiavamo e dalla felicità che ne traspariva. Ciò anche
perché trascorsi due anni e mezzo dal matrimonio, ormai disperavamo, quindi
confermataci la bella notizia non potevamo che essere infinitamente gioiosi. Ma è
proprio vero- continuò- quel proverbio che recita: “quando stai bene e sei felice trema”.
Infatti fu proprio così. Verso le 15 eravamo già di ritorno dal ristorante e ci trovavamo
nei paraggi della nostra dimora. Camminavamo affiancati sul marciapiede, parlando
serenamente delle nostre cose senza preoccupazione alcuna, anche perché di sabato il
traffico era scarsissimo. Mentre attraversavamo la via, ovviamente sulle strisce
pedonali ben visibili perché rifatte da pochissimi giorni, sopraggiungeva a folle velocità
una grossa moto che investì in pieno mio marito scaraventandolo al bordo del
marciapiede, seguitando poi la sua corsa senza rallentare neppure un attimo, proprio
come se nulla fosse accaduto. Luigi fu dunque barbaramente travolto, e forse non si
accorse neppure di essere stato colpito a morte. Io rimasi in piedi, esterrefatta ma
incolume. Qualcuno, non saprei dire chi, –continuò la signora- chiamò il 118 e dopo
neppure dieci minuti giunse a sirene spiegate l’ambulanza, giunsero i carabinieri e la
polizia stradale. Mio marito fu immediatamente portato in ospedale, ma vi giunse senza
vita. Quando fui in grado di parlare fui interrogata, e mi vennero fatte tante domande al
fine di poter rintracciare l’assassino, ma io ricordavo solamente che era stata una grossa
moto rossa. Anche ad altre persone furono fatte domande, ma dell’attimo
dell’investimento nessuno seppe dire qualcosa di importante al fine delle indagini
medesime. A più di otto mesi dal mesto pomeriggio che doveva essere, invece, l’inizio
di tanti altri allietati dall’evento, le ricerche proseguono, così mi è stato anche
recentemente confermato, ma del pirata ancora nessuna traccia, e forse mai si giungerà a
trovare un colpevole.
Ecco- continuò la signora- mi consola solo il pressoché continuo muoversi di questa
creatura, proprio come se avesse fretta di venire alla luce. Sembra davvero interpretare
le mie aspirazioni. Spero tanto che quando nascerà io lo possa allattare ed allevare al
meglio possibile, e educare, anche a costo di innumerevoli sacrifici, come suo padre
avrebbe bramato. Solo questo mi dà la forza ed il coraggio di andare avanti e di vivere
prima di tutto, se Dio vorrà aiutarmi, per questo bambino tanto desiderato.
Ma intanto non faccio che pensare che quel mascalzone che investì e uccise il mio
uomo è ancora in libertà e in grado di uccidere altre persone innocenti. E se un giorno,
voglio sperare molto vicino, - proseguì ancora- quel delinquente verrà scoperto e
arrestato, dovrebbe essere condannato con la pena che merita un assassino.
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Senza applicare delle attenuanti da permettergli di tornare presto in libertà e sulle
strade a seminare di nuovo morte e strazio.
Questo il racconto di quella triste signora durante il breve viaggio da Empoli a
Pontedera. Ed anche io talvolta mi chiedo: ma a quelle persone condannate per omicidi
del genere, una volta scontata la pena viene nuovamente concessa la patente di guida
per veicoli a motore? Ecco, io se devo essere sincero vedrei giusto concedere loro al
massimo l’uso della bicicletta..
Dobbiamo inneggiare al progresso, guai se non lo facessimo, ma dovremmo essere tutti
più accorti e rispettosi del prossimo, specialmente quando ci troviamo alla guida di un
mezzo. Già! Il mio pensiero spesso torna ai tempi che ci spostavamo quasi sempre e
quasi tutti con i mezzi pubblici, con la bicicletta o col calesse trainato dal cavallo,
quando queste tragedie non accadevano o perlomeno si verificavano raramente. Oggi,
ogni giorno, questi crimini riempiono le pagine dei giornali. Secondo il mio modo di
vedere a quei pirati che non osservano le leggi, in questo caso il folle eccesso di
velocità, nonché il mancato rispetto all’obbligo di prestare immediato soccorso, oltre
all’omicidio di persone inermi, si dovrebbero infliggere, torno a ripetermi, pene tanto
severe da non poter essere più in grado di compiere simili scellerati gesti. Nel mettere
fine al mio racconto, devo purtroppo affermare che quel viaggetto, intrapreso anche
(come già detto) per godermi il veloce andar del “Minuetto”, si rivelò invece una triste
vicenda, e quando alla T.V vedo o sento parlare di pirati della strada, immediatamente
mi ricompare dinanzi la penosa figura di quella giovane signora .Ovviamente non
conosco il suo nome né la sua residenza, ma non posso dimenticare quel suo pianto,
quelle guance bagnate da copiose lacrime nel raccontarmi la nefanda tragedia, nonché
l’unica sua speranza nel feto che ancora portava in grembo.
Siena 31 Luglio 2009
A. Leonini
QUELLE DUE PANCHINE NELL’AIUOLA
Erano molti anni che ci pensavo. Spesso percorrendo quel passaggio pedonale,
finalmente con cura asfaltato, per recarmi laggiù dagli amici al circolo del Petriccio,
dentro di me dicevo:- Eppure anche in questo triangolo di terra tra Via Settano e Via
del Petriccio e Belriguardo di fronte al distributore di benzina Tamoil, molto
ombreggiato da pini e da lecci maestosi, ‘un ci starebbero male due o tre panchine.
Ancora ‘un è venuto in mente a nessuno di mettercele, ma ‘un ci sfigurerebbero, anzi
semmai arricchirebbero l’ambiente, oggi che proprio all’ambiente che ci circonda
almeno a parole ci si tiene tanto. Chissà quanta gente, pensavo, si fermerebbe a farvi un
riposino. Contemporaneamente mi rendevo conto che anche io ed i miei amici Antonio
e Guido sovente le avremmo potute frequentare poiché passata l’ottantina può capitare
di non poterci muovere più di tanto. ‘Un c’era volta che passassi da lì e ‘un mi
balenasse in mente tale idea; era quasi divenuta un’ossessione. Ne parlai persino al Prata
ed al Sacconi, i due responsabili del Circolo ARCI del Petriccio, e mi promisero di
interessarsi, ma con il passar dei mesi non riuscivo ad aver notizie incoraggianti in tal
senso.
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Visto che, come si dice, ‘un riuscivo a cavare il ragno da un buco, un giorno, era ormai
primavera avanzata, ne parlai con mio figlio e con Ivana e ambedue sorridenti mi
dissero:- ‘Un sarebbe una cattiva idea, allora muoviti, ‘un aspetta’ che gli altri si
muovano per te! Scrivi quattro righe alla nostra Circoscrizione magari supportata da
alcune fotografie dell’aiuola, qualcuno ti dovrà pur rispondere. La sera stessa Roberto
scattò diverse foto dell’aiuola e delle piante da più posizioni, ed una volta sviluppate ed
entratone in possesso ebbi ancora più coraggio di prende’ una decisione. Mi munii di
carta e penna e scrissi quattro righe al Presidente della Circoscrizione spiegandogli con
semplici parole, e “garbatamente” come solo un vecchio contadino può fare, il succo
del mio scritto. Naturalmente non mancai di arricchirlo di una ventina di firme degli
abitanti del mio condominio e di alcune foto dove spiccavano le grosse e lussureggianti
piante, quindi in data 30.06.2007 glielo inviai. Ma le mie speranze in un positivo
riscontro non erano molte anche perché le esigenze dell’ampia Circoscrizione sono
notevoli e le finanze a disposizione scarseggiano sempre. Dunque alcuni giorni prima
del Palio di Luglio lo imbucai, almeno non ci avrei più rimuginato sopra.
Effettivamente, poiché in stagione di ferie, non
speravo che venisse presa
sollecitamente in considerazione. Chissà quante richieste giungono ogni giorno, pensai,
sul tavolo del Presidente. Comunque m’ero messo l’animo in pace, nessun rimorso
poteva rattristarmi; avevo fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Invece, dopo
una ventina di giorni, verso le ore undici trillò il telefono, ed una voce a me non nota
disse:- Scusi, è lei Aldo Leonini? Con chi ho il piacere di parlare, risposi senza
attendere altro. Sono rientrato ieri dalle ferie e sul tavolo della Circoscrizione, di cui
sono il Presidente, ho trovato una lettera della quale Aldo Leonini è il primo firmatario.
L’ho letta attentamente ed ho guardato la foto allegata. Ho ben compreso la vostra
richiesta, ma avrei piacere poterci incontrare per valutare insieme come poterci
comportare. Alle sue parole risposi che io mi trovavo a non più di 50 metri dal luogo
indicato nella lettera e che sarei stato disposto ad incontrarci in ogni momento. Allora
mi disse di attenderlo che nel breve tempo di un quarto d’ora sarebbe giunto. Infatti
dopo neanche dieci minuti giunse con un motorino. Ci presentammo e ci conoscemmo lì
all’ombra dei pini, e proprio lì mi confermò che avrebbe quanto prima provveduto a far
posizionare nell’aiuola due robuste panchine movibili. Insomma per essere il più
possibile sbrigativi devo dire che nel breve tempo di poco più di un mese dalla mia
dettagliata richiesta, lungo il passaggio pedonale asfaltato di fronte al giardino del
defunto amico Vanni, venivano posizionate le due robuste panchine fatte con altrettanto
robuste tavole e fissate su una intelaiatura metallica.
Se devo essere sincero provai immensa soddisfazione per la tempestività con la quale la
richiesta mia e di altri diciotto firmatari veniva esaudita. Ecco, quando la gente si
lamenta che nessuna istanza viene presa in considerazione, io dico e dirò sempre che tali
affermazioni non corrispondono del tutto a verità perché ovunque ci sono persone
volenterose e talvolta anche scansafatiche. Io nel mio intento posso dire di avere
incontrato molto bene. Ma la soddisfazione più grande l’ebbi lo stesso pomeriggio
mentre con passo svelto mi dirigevo verso il Petriccio dagli amici e coetanei del Circolo
ARCI, dove solitamente vado per scambiare quattro chiacchiere e trascorrere qualche
ora in piacevole compagnia. Nel passare dinanzi alle panchine nuove fiammanti e già
occupate da due signore, ebbi modo di sentirle parlare tra di loro e complimentarsi con
colui che s’era interessato per farle collocare in quel luogo ombreggiato e adatto alle
soste di coloro che ogni giorno effettuano delle salutari passeggiate.
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Una di costoro, più vecchia che giovane, abitante in Via Colombini e che data la
vicinanza conosco da diversi anni ebbe a dire:- Se sapessi e potessi conosce’ chi s’è
interessato a questa cosa ‘un esiterei neanche un istante per dargli un bacio, e l’altra di
rimando :- Se fosse una persona simpatica io potrei dargliene anche mille.. Sì perché
quando arriviamo qui dopo aver fatto quasi a “baruzzoloni” il giro completo del
Petriccio, ‘un pare il vero, prima di continua’ la passeggiata, trova’ dove posa’ un
pochino il culo e fa’ riposa’ queste gambacce provate dalle tante primavere che
abbiamo sulle spalle.
Ovviamente rallentai il passo, e le salutai ma non rivelai nulla, però mi fece piacere
sentire
degli apprezzamenti positivi. Ci saranno stati anche giudizi negativi
specialmente da parte di chi, ogni giorno, era abituato a portarvi i cani, molti cani a
espletare i loro bisogni proprio in detta aiuola e non soltanto, senza alcuna
preoccupazione di sorta. E la mia speranza, riuscendo nell’intento, era anche quella di
mettere una limitazione a tanta sporcizia. Nessuno o quasi, come ogni giorno possiamo
notare, si pregia di rispettare le norme di igiene, che in qualche modo suggeriscono agli
accompagnatori di dette bestiole di provvedere a raccogliere gli escrementi onde evitare
che il luogo frequentato si trasformi in una concimaia. Neanche ti puoi provare a far
loro delle osservazioni perché ti possono trattar male. Vorrei vedere come si
comportano queste persone nell’ambito del condominio, e se in casa loro gli permettono
di fare i bisognini ovunque. Comunque per quanto concerne questo spinoso problema,
nulla da fare, ovvero s’è fatto, come suol dirsi, un bel buco nell’acqua, ma avremo
modo di parlarne ed anche ripetutamente un po’ più avanti. Adesso dedichiamoci anima
e corpo a goderci il fresco seduti nelle suddette panchine poste intelligentemente in
modo da rimirare il passaggio di mezzi talvolta rispettosi dei limiti imposti dai segnali
ben visibili, ma anche di chi fregandosene altamente passa a velocità spericolata. Non
meno spericolati sono quelli che escono dal cancello della ex Sclavo adesso Novatis in
special modo quel giovane in possesso di un motorino a quattro ruote che parte da detto
complesso e transita dinanzi a noi a non meno di 90-100 all’ora, senza pensare quanto
sia pericoloso tale comportamento..
Qui ‘un siamo in un circuito dove ognuno cerca di supera’ l’altro, siamo in un quartiere
residenziale, e assai transitato da pedoni. Se devo di’ la verità mi sembra persino
impossibile che nessuno abbia provveduto a darne avviso a chi di competenza. E poi ci
lamentiamo se succedono tante disgrazie spesso con vittime inermi. Ma oltre a questi
tipi, per i quali si dovrebbe intervenire nella giusta maniera, dalle suddette panchine
possiamo assistere al passaggio di pacifiche persone che dopo una giornata di intenso
lavoro tornano alla dimora dove forse dovranno svolgere altre impellenti faccende
nell’ambito della propria famiglia. Passano persone giovani senza alcun segno di
stanchezza, ma passano anche meno giovani e talune vicino al bramato giorno della
pensione, le quali camminano a passo lento con evidenti segni di affaticamento. Ma io
non posso intrattenermi ancora a descrivere la moltitudine di persone e di mezzi che
transitano dinanzi a chi si trova a godere il fresco sotto ai pini dell’aiuola; ho tante altre
cose di cui parlare e molto interessanti.
Siena Anno 2009
A. Leonini
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UN POMERIGGIO ALLE PANCHINE CON PANTI E BOZZI.
Devo, descrivere con la massima cura i pomeriggi di noi che frequentiamo quelle
panchine quasi ogni giorno, almeno nei periodi meno freddi e col bel tempo, ovvero da
Marzo a Novembre. Intanto dirò subito che ero nel giusto quando pensavo che se fossi
riuscito nel mio intento le panchine sarebbero servite anche al sottoscritto e ai due amici
da oltre 40 anni Guido Panti e Antonio Bozzi. Come ho più volte detto, io amo
frequentare anche il Circolo ARCI del Petriccio, ma non posso non intrattenermi alcune
ore del pomeriggio con questi due ex colleghi di lavoro e condomini a rimembrare i
tempi passati nel servizio che ci accomunava, a ricordare le battaglie combattute
insieme per svariati motivi anche nell’ambito condominiale, e a rivivere le marachelle
delle quali ognuno di noi prima o dopo è stato protagonista. Sono pressoché quotidiani i
nostri incontri a dette panchine, ma se non prendo l’iniziativa di telefonare, Guido resta
a dormire fino le 17 e anche più tardi. Ci vuole soltanto il mio trillo del telefono e
l’incitamento della sua moglie per farlo smuove’. Io da lì, dalle panchine, guardo
continuamente verso la strada per un quarto d’ora ed anche più, poi finalmente vedo
apparir tra il verde della siepe dei coniugi Neri qualcosa di bianco ed allora mi rendo
conto che sta arrivando Guido, da alcuni detto “Taruffi”.
E’ la sua testa piena di capelli canuti che intravedo, ormai non mi posso sbagliare. Egli è
assai previdente perché prima di effettuare l’attraversamento della via guarda bene a
dritta e a manca; sa bene che improvvisamente possono sbucar delle auto o altri mezzi
spesso condotti da gente non rispettosa dei limiti di velocità imposti. Si reca ai
cassonetti a depositare la mondezza poi con in mano una frustina strappata dalla siepe
dei coniugi Neri viene alle panchine. Ma il terzetto non è completo manca Antonio, però
prima che costui arrivi deve passare una mezz’ora e talvolta anche di più. Qualche volta
la sua signora dalla finestra del bagno mi fa cenno che per quel pomeriggio non può
venire, allora il dialogo è limitato tra me e Guido. Poiché a lui piace di raccontar della
sua vita militare io non lo interrompo; se lo facessi non sarei rispettoso. Sovente parla
di quando, affermato spaccista, con il consenso del suo maresciallo annacquava il
vermout alle reclute, e così, il borsellino cresceva. Lui si discolpa dicendo che obbediva
a un ordine, ma io contesto tale affermazione perché la sera d’accordo con il suo
superiore intascava dei soldini. Mi racconta sovente del suo trasferimento da Augusta a
Orbetello e poi a Portorose dove si fece costrui’ la rivoltella di legno per ‘un porta’ il
fucile 91 nel recarsi in libera uscita. ‘Un manca di ripete’ che il suo ufficiale, Bacalà,
gli faceva riceve’ i messaggi cifrati dopo la mezzanotte, ovvero nelle ore che costui
riposava. Sarà vero, o sarà pura fantasia? Ma è vera senza alcun dubbio la notizia della
morte di quel suo ufficiale che “andò in vite”, così racconta, il 07 Agosto 1943 durante
un volo di istruzione. Quel tragico evento lo rammenta con dolore ogni sera, anche
perché se fossero giunti al bramato giorno del congedo, l’ufficiale, che era un esperto
pilota, lo avrebbe accompagnato fino all’aeroporto militare del Pian Del Lago con
l’aereo. Ha bene in mente, e non manca di ripeterlo, di quel pomeriggio che ancora
ragazzino comprò un’aringa da Anselmo, il bottegaio di S. Colomba, per 25 centesimi
(aveva solo quelli) poi la nascose nel cassetto del canterano, sperando di divorarla tutta
da solo, come lui dice, in santa pace.
Invece la sera a cena fu costretto a portarla in tavola, e lui, per lezione, dovette
mangia’ solo il pane senza companatico .
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Quando si compra qualcosa, gli disse il suo babbo, si mangia in tutti, in questa casa ‘un
si nasconde niente, perciò impara per un’altra volta. Se vogliamo stuzzicarlo un pochino
dobbiamo ricordargli il ”Ponte del Prete” dove era solito fermarsi ad amoreggiar con la
sua ragazza di Monte Bono.
Apparentemente arrabbiato ci racconta di quando Gigi del Braccagni faceva un po’ il
guardone dalla capanna con il fastello del fieno in groppa, ed egli alquanto infastidito
da tale atteggiamento gli disse che alla bambina che gli stava accanto ci pensava lui e
‘un aveva bisogno del su’ aiuto. Narra del maggior lavoro compiuto un giorno nel
Monte Maggio insieme allo zio Nello per riuni’ tanti metri di legna di catasta per fa’ di
fondo una carbonaia che doveva rende’ 70 quintali di carbone. Lavorò con infinito
impegno non curante della fatica, allo scopo di ave’ più tardi del tempo libero da
dedica’ all’incontro con la su’ amorosa del momento che abitava a Fungaia. Elia andava
in quel bosco a pascola’ le su’ pecore proprio con la speranza di trascorre’ attimi felici
con l’amato suo Guido. Più tardi, trovandosi militare in aviazione ad Augusta in Sicilia,
rimase molto scottato, (so’ le su’ parole) quando proprio questa ragazza andò ad una
festa danzante a Sovicille e ballò tutta la sera col Franci. Quest’ultimo, anche lui di
Siena o dintorni, era militare nello stesso reparto come lo era Armando Serafini, ed al
rientro da una breve licenza, rivelò con la viva sua voce l’accaduto.
Guido rimase tanto scottato che inviò immediatamente alla ragazza una “missiva” per
comunicarle il suo immediato abbandono. Si scherza, ovviamente, ma il Panti diviene
rosso come un pomodoro a rammentargli ciò che afferma un certo Lavinio Francioni,
che adesso abita al Petriccio ma nacque nei pressi di Santa Colomba.
I fatti risalirebbero ai primi mesi di vita di quest’ultimo, allorché piangeva giorno e
notte perché scarseggiando il latte materno aveva sempre fame. Il babbo di Guido
sentendo il piccolino piangere disperatamente si muoveva a compassione, ed allora
mungeva una vacca e mandava il figlio a portargli una tazza di latte. Sembra, appunto,
che questo “bricconcello” di ragazzino durante il tragitto dal Giardino al Colle ( 300
metri di strada o poco più) lo avesse bevuto quasi metà. Sarà vero o ‘un ‘ sarà vero?
Nessuno lo può conferma’ ma costui ‘un accetta burle, e dice che per nessun motivo
avrebbe fatto ciò perché il latte ‘un gli è mai piaciuto. Quasi ogni sera rammenta delle
pedate nel culo e le frustate nelle gambe ricevute dal suo babbo perché fu visto far le
“biciancole” col cancello del cimitero, e a raccattar le sorbe al sorbo poco lontano da
detto cancello e nasconderle sotto alle foglie per farle matura’. Il su’ babbo gli diceva :Ti conviene non scappa perché se ora te ne potrei da’ solo dieci, se scappi a casa
t’arrivo e te ne do il doppio. Era un ragazzino assai vivace questo mio amico delle
panchine, ma però di voglia di studiare ne aveva davvero poca, tanto è vero, lo racconta
molto spesso, quando il su’ fratello (il defunto Lele) gli diceva :- Studia Guido, allorché
sarai più grande e andrai a fa’ il soldato ti farà comodo. Sapete cosa rispondeva senza
mezzi termini? Studia te che sei ignorante. No questo non l’avrebbe dovuto dire perché
Lele riuscì a fare una brillante carriera sia da militare che da civile. Comunque anche lui
durante la sua vita lavorativa non scherzò. Intanto, da militare riuscì pure a lavare il
cane del comandante col benzolo. La bestiola dopo un’ora ‘un aveva più un pelo
addosso. Dice che rischiò di piglia’ 15 giorni di prigione. Si salvò poiché il comandante
andato quel giorno stesso con l’aereo in missione di guerra ‘un fece più ritorno alla
base. Io conobbi Guido il 12 luglio del 1961, scortando il treno delle 12,55 per
Grosseto. Allora era già aiuto macchinista appartenente al turno senatori, ma vogliono
dire che anche nel servizio ferroviario non scherzasse perché ebbe a guadagnarsi
l’appellativo di “furiere”.
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E se glielo attribuirono ci sarà stato un motivo! Molto spesso ricorda delle abbuffate
fatte con Peragnoli alla mensa di Chiusi dove c’era per cameriera una sua cugina.
Infatti, ebbi modo più volte di constarlo di persona.
In arrivo a Chiusi, mentre il macchinista accompagnava le macchine in deposito lui,
Guido, correva alla mensa e diceva alla cugina:- Marisa tra dieci minuti siamo pronti;
preparaci due pastasciutte al sugo abbondanti e due bistecche a tutto piatto con le
patatine. Per noi del Viaggiante, invece, poteva esserci soltanto spezzatino di bovino
adulto che ‘un si strappava coi denti.
Per quanto riguarda l’appellativo di Furiere è vero, lo conferma, aveva svolto delle
mansioni anche in ufficio, e quando la mattina andava in servizio, acquistava il giornale
che faceva sporgere dalla tasca sinistra (parole del Bozzi) quasi a toccargli l’ascella. Si
arrabbia, dice che ‘un è vero, ma allora a chi si deve crede’? In fondo tutto è possibile
perché allora era a diretto contatto coi capi e gli garbava essere aggiornato sui fatti del
giorno. Gli sono piaciute tanto le donne fino al punto di guardar le gambe ad una
monaca di quasi cento anni che viaggiava in treno. Però si giustifica dicendo che ce lo
mandai io. Adesso bisbiglia spesso :- Ormai per me è tutto finito ‘un funziona più
niente. Ma quando siamo seduti alle panchine, al passaggio di qualche bella signora o
signorina in abiti piuttosto succinti o addirittura con quasi tutto il didietro nudo afferma
:- Ma guarda che grazia di Dio, e pensa’ che quando ero giovane io ‘un facevano vede’
neanche i ginocchi. Allora, gli dico io, ti garbano sempre se sono in carne e ossa. Perché
quelle della TV ti fanno talmente schifo che preferisci vedere i film di guerra? Ma che
vuoi, risponde, che ‘un mi funzionino più neanche gli occhi? A parte tutto, per me è
sempre stato un vero amico anche se il giorno che lo conobbi (12.07.1961) in occasione
del mio primo servizio a Siena almeno dal suo macchinista mi buscai del “prete”. Nel
discutere di questo argomento rivolgo lo sguardo verso la strada ed esclamo:- O
Guido,… ma guarda chi appare finalmente su alla curva! Non mi posso sbagliare perché
viene a passo lento indossando un golf celeste, e fa bene a indossarlo, perché benché sia
il giorno del Palio di Agosto, se s’alza il vento c’è da buscar quel che sta bene e tossire
per un mese. E’ il Bozzi. Porta il sacchetto della monnezza ai contenitori facendo
puntualmente la differenziata, mentre la sua amata signora guarda verso la via dalla
finestra del bagno. Ovviamente abbiamo avuto tutti delle istruzioni in tal senso, ma egli
è puntualissimo nel depositare nei vari cassonetti la mondezza, magari ci fosse il 50%
di abitanti a comportarsi come lui. Invece Antonio è meno puntuale nel venire a farci
compagnia alle panchine. A lui piace dormire almeno fino le 17,30 del pomeriggio, e
quando io e Guido ci alziamo, manca pochissimo alle 19, lui dice:- O che andate già
via? Io ci sto un’altra mezz’ora. Dato che adesso ci so’ queste panchine vanno sfruttate.
E continua, meno male Aldo ce le fece mette’, bisognerebbe fargli un monumento. Se
‘un ci fossero state dove s’andava a passa’ un’ora senza senti’ brontola’? Ma chi è che
brontola, gli dico io, e lui risponde:- E’ quella che ‘un gliene va mai bene una, ma io ‘un
l’ascolto perché ci sarebbe da diventa’ scemi. E’… l’ho detto mille volte e ora te lo
ripeto:- Di Ivana c’era una e quella la chiappasti te. E’ preciso, prima di sedersi mette
sempre una carta sulla panchina per non sporcare i pantaloni, poi rivolgendosi a me
continua :- Che farà questo tempo Aldo? So’ tre mesi che ‘un piove. Almeno se
venisse una bella acquata si mangerebbero due funghi; te so’ sicuro me li faresti
assaggia’ come sempre. Naturalmente, gli rispondo, quello che conta però è la salute. A
questa età non è più come dieci anni fa. Ora quello che facciamo giorno per giorno è
trovato.
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Ma lasciamo perdere questo argomento e speriamo davvero che venga una bella
rinfrescata. Comunque, gli dico, non c’è bisogno soltanto della rinfrescata.
Bisogna che piova tre giorni a Inverno e che poi non venga il freddo altrimenti oltre a
non nascere i funghi, c’è da pigliare quel che sta bene anche noi. Lascio perdere
quell’argomento e gli chiedo:- Ascolta, ma quanti anni ci sei stato in Libia durante la
guerra? Raccontami qualche particolare anche te, perché fino a qualche minuto fa Guido
mi ha descritto tante cosette della sua vita militare . Antonio mi guarda un attimo e poi
incomincia:- A racconta’ quello che ho passato laggiù nel deserto ci sarebbe da scrive’
un romanzo... Intanto prima di esse’ imbarcato per la Libia feci il soldato di leva nel
Pian del Lago dove, tra tante cose , conobbi diverse belle ragazze.
Poi da richiamato stetti un anno a Napoli, dopodiché mi portarono in Libia e feci per tre
volte l’avanzata quasi fino El Alamein e per tre volte la ritirata. Che tragedie!
I camion tedeschi volevano sempre il passaggio libero, e se ‘un gli si dava ci buttavano
fuori carreggiata nella sabbia del deserto. Hai capito Aldo, afferma, anche allora ero
autista, ma andava meglio quando lo ero nel Pian del Lago. Mi rammenta di essere
passato per Misurata, Bengasi, l’Arco di Cirene, Derna, Tobruch e da varie località
dell’Egitto. Insomma, continua, in quei deserti ho rischiato tante volte la vita. La prima
volta fu quando ci imbarcarono a Taranto sulle più grosse navi italiane ovvero il
Vulcania, il Nettunia e l’Oceania, i tre gioielli della nostra flotta e fummo silurati poco
dopo la partenza e affondati. ‘Un posso neanche racconta’ le scene di tanti ragazzi che
stavano per annega’. Meno male io sapevo nota’ e dopo molte ore aggrappato ad un
relitto, un cacciatorpediniere mi trasse in salvo insieme a diversi altri. Questo fu il
primo assaggio, poi due anni con il camion nella sabbia ti puoi immagina’. Anche io ero
in aeronautica, ma guidavo il camion. Viaggiai col Fiat 34 che andava a trenta all’ora e
poi col 66 che era un po’ più veloce. Che tristezza in quel deserto! Quando si avanzava
tutti ci accoglievano e ci acclamavano; quando poi s’era costretti alla ritirata gli arabi ci
pugnalavano alle spalle. Ma lasciamo perde anche questo argomento. A me ‘un andò
tanto male perché quando fui fatto prigioniero finii in Inghilterra, in una mensa ufficiali
e stetti da signore. Figurati che uno di loro voleva che rimanessi lassù, ma io ‘un potevo,
avevo dato la mi’ parola perché m’ero già fidanzato con Lina. Allora ‘un era come ora,
la parola data si rispettava. C’è un attimo di silenzio tra di noi, e mentre Guido armeggia
con quella frustina presa lassù nella siepe, Antonio mi chiede di nuovo:- Ma che dici
Aldo, te che guardi le lune, abbia a cambia’ questo tempo? Almeno se piovesse
nascerebbero i funghi, e so’ sicuro che qualcuno me lo faresti assaggia’, di me ‘un te ne
sei mai scordato. O bello, gli rispondo, oggi è il giorno del Palio, è il 16 di Agosto, e
come vedi nel cielo non c’è nemmeno una nuvolina, e allora sai che ti dico? Campa
cavallo che l’erba cresce, se si vive avremo modo di riparlarne un po’ più in là, verso la
metà di Settembre, per ora è meglio parlar di cavalli da corsa anche se non siamo
contradaioli. E se l’argomento non ci interessa proprio niente, proviamo a rivivere i
giorni che s’era in servizio. Allora s’avevano trenta anni di meno e si portava il
mangiare nella sportina. A proposito, interviene Guido, ‘un mi viene in mente il nome
di quel macchinista che ti fece piglia’ quattro scatti a premio; te Antonio lo dovresti
rammenta’ bene. O ‘un era
quello “scoglionato” dello Scaloncini, risponde
quest’ultimo! Con lui ‘un ci voleva sta nessuno. L’aiuto al massimo ci resisteva quattro
giorni, ‘un c’era uno che l’aveva sopportato una settimana. Io riuscii a starci otto anni
e ci buscai ben quattro scatti a premio.
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Ma con me c’era poco da scherza’. Se di fa’ una cosa ‘un m’andava gli dicevo:- Il
macchinista sei te, e allora se ti pare la fai e se ‘un la fai resta da fa; se poi ti pare di ave’
ragione fammi rapporto, così se ti vo via io un altro bischero come il sottoscritto ‘un lo
ritrovi. Figurati, racconta, era venuta anche la su’ moglie a ringraziarmi perché io ci
resistevo così a lungo. Ma lo sapete che successe un giorno a Grosseto? Mi ricordo era
piovuto, e tra i binari del Deposito c’era sempre l’acqua; mi voleva fa’ distende’ sotto le
macchine per guarda’ se tutto era a posto. A Siena prima della partenza s’era visitato
tutto e allora gli dissi:- Lo sai che devi fa’? Se ci vuoi anda’ ci vai, io le macchine l’ho
guardate prima di partì da Siena, e a bagnammi per soddisfazione tua ‘un ci voglio
anda’. Oh,… distese un giornale e ci andò lui, ma quando scappò di sotto le automotrici
aveva la groppa tutta bagnata e stette in quel modo fino a che ‘un si rientrò a Siena.
Bella soddisfazione, ma con me ‘un c’era niente da fa’. Ora che ha parlato di quei
giorni, guarda verso l’antenna della televisione esistente ancora nel fabbricato di fronte
alle panchine e dice:- Guarda, anche stasera c’è una tortorella lassù, con questa siccità
deve ave’ tanta sete a sentirla tuba’ poverina. Ma te Aldo che ne dici abbia piove?
Almeno se piovesse nascerebbero i funghi e so’ sicuro che me li faresti assaggia’; di me
‘un te ne sei mai scordato! Ci risiamo, dice Guido che se anche “di campane un po’
dure” ha sentito la battuta.
O Antonio, continua Guido, ma anche quando eri aviere nel Pian Del Lago, facevi
l’autista? Se ‘un mi sbaglio eri anche un po’ spericolato. Allora Antonio sorridente
conferma.:- Mi divertivo a fa’ le spolverate, e quando trasportavo il prete da Siena a
Santa Colomba per di’ la Messa, guidavo uno SPA e pigliavo le curve in modo tale da
farlo piscia’ addosso dalla fifa. Invece quando vedevo Armandina facevo il ragazzo
educato. Voi ‘un ci crederete ma l’ho sempre in mente, fu il mio primo amore, però io
con lei feci il ragazzo per bene, ci scappò soltanto qualche bacino. Io avevo 20 anni ed
ero un militare, lei ne aveva 14, quindi era minorenne, ‘un potevo e ‘un dovevo
approfitta’. Poi quando andavo a empi’ la botte dell’acqua fuor di Porta Ovile conobbi
tre o quattro ragazze che si recavano a impara’ di sarta in que’ pressi e nel vedermi
passa’ dicevano:- Ecco il “biondino”. No per niente,… ma allora ero un bel ragazzo, e
fu in quelle occasioni che m’innamorai di Lina. Sapete che facevo? Vuotavo la botte
prima possibile per ritorna’ a riempirla così la rivedevo. Ci facevo anche tre viaggi al
giorno. Che tempi erano quelli, anche se le stagioni tristi e di guerra s’affacciavano
all’orizzonte. In quell’istante vedo affacciarsi alla finestra del suo bagno Lina, la sua
signora, e mi sembra che faccia dei gesti. Allora rivolto a Antonio dico:- Alla finestra
c’è la tu’ moglie, penso che ti voglia di’ qualcosa vedo fa’ dei gesti! E Antonio:- Lo so
che vuole. Vorrebbe che camminassi, e pretenderebbe che facessi i passi lunghi, meno
fitti e stessi diritto, ma a me ‘un mi deve insegna’ a cammina’. Io ho camminato tra i
sassi, tra la sabbia del deserto, nei boschi e in tanti altri posti, mentre lei ha avuto la
fortuna di muove’ i piedi soltanto per le strade asfaltate. E poi, che si può pretende da
uno che è nato il 22 luglio del 1916? A pensarci bene so’ quasi cento anni. Forza e
coraggio, gli dico io, se ti dai un pochino da fare col tuo fisico arrivi a cento e te ne
avanza. E quel giorno, te lo abbiamo promesso e lo manterremo, ti si farà la festa nel
piazzale con l’orchestrina e il ballo liscio. Inviteremo tutto il vicinato nessuno escluso,
deve essere festa grande. Mi guarda un pochino, poi dice:- Ma te c’hai sempre le
trappole, piuttosto che ne dici di questo tempo? So’ tre mesi che ‘un piove. Almeno
venisse una bella acquata nascerebbero i funghi. Te so’ sicuro me li faresti assaggia’. Di
me ‘un te ne sei mai scordato.
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Ci risiamo con questi funghi esclama Guido. E rivolgendosi a me un po’ seccato dice:Insomma so’ giorni e giorni che ogni volta ci sediamo in queste panchine ‘un fai altro
che domanda a me e a lui, ma di te e delle tu’ bravate quando ti decidi a vota’ il sacco?
‘Un mi di’ che te ‘un hai niente da racconta’ perché ‘un ci credo. Di me sapete tutto,
rispondo io, sapete di quando ero giovanotto e suonavo nell’orchestrina, di quando ero
militare e il temporale mi portò via la garitta, sapete bene tutto, e specialmente te caro
Panti che con il tuo macchinista mi bollasti da prete, come se essere prete fosse un
disonore. Di me conoscete vita e miracoli dopo quasi 50 anni vissuti nello stesso
condominio. Chissà quante volte vi ho raccontato delle mie miserie di quando ero
contadino ed ero costretto a bisticciare con quella che era la mia padrona. Poiché suo
contadino, voleva considerarmi un essere inferiore ed io non potevo sottostare a quei
suoi principi, non ero il suo schiavo.. E proprio per tale motivo non riuscivo a
sopportarla. Chissà quante volte, anche prima di incontrarci qui alle panchine vi ho
raccontato che con una piccola aringa ci facevamo colazione in sei e che si mangiava la
minestra di fagioli otto giorni alla settimana. Della mia storia nei riguardi della
“Tranquilla” dove andavo a suonare dopo essere stato dalla mia ragazza, la dolce Ivana,
conoscete ogni minimo particolare. Non vi posso ricordare delle mie tristi vicende di
salute perché anche voi le avete vissute e sofferte insieme a me. Sapete ambedue delle
mie scarpinate nei boschi a cercare i funghi, di quando me li coglievate di sotto i piedi e
poi vi lamentavi che non li trovavi.
Sapete di quella mia fidanzata di sette giorni che abitava nel Sentino, a cui scrissi una
letterina per scusarmi della mia assenza ad una festa da ballo, e lei per licenziarmi mi
rispose : “L’aquila volò senza le penne, la lettera ritornò da dove venne”. ’Un ne voglio
sape’ più niente…Maria. Cosa vi devo dire ancora di più? Io non le posso inventare le
storie per raccontarle. La fantasia benché ultra ottantenne non mi mancherebbe, ma con
le cose serie non ci si possono costruire delle barzellette da raccontare agli amici;
sarebbe da cretini. E allora, mi dicono entrambi quasi in coro:- ‘Un lo nega’ che di
Ivana c’era una sola e quella te la chiappasti te. Non passa giorno che non me lo
ripetano e io rispondo loro per l’ennesima volta:- Feci come facesti voialtri, cioè sposai
quella che ritenni fosse l’anima gemella. Con ciò vi dico che le mie bravate da militare
o da civile non l’ho mai nascoste a nessuno; io sono sincero, piuttosto quando ho messo
il capo avanti sono un po’ “piccoso” assomiglio a un somaro, è difficile persuadermi a
cambiare rotta. Ora vedete qui ci sono queste panchine e siamo tutti contenti, però
mancano due secchi per raccogliere le cartacce. Io sono piccoso ho già telefonato una
volta senza avere riscontro, ma state certi che non m’arrendo. Tra qualche giorno
tornerò all’attacco. O citti, la vedete quella che s’avvicina con quel cagnolino? Lo
sapete che mi fece l’altra sera? Io ero qui seduto, ero da solo, quando fu qui dritto alla
panchina il canino s’avvicinò e mi fece uno schizzo di piscia proprio ai piedi. Io
rivolgendomi alla signora dissi:- Ma perché ‘un mi fa piscia’ nelle gambe? Se lo tenga
un po’ più vicino! E lei mi rispose:- Lui piccinino è come un cristiano, che ci vuole fa’.
Allora, scattai:- Si faccia piscia’ in bocca e se ‘un gli basta ci si faccia anche caca’.
Andò via indispettita e davanti alle panchine ‘un c’è più passata. Ma ‘un basta qui, mi
so’ fatto anche una nemica, una di Via Gallerani, quella morona che anche voi
conoscete bene. S’era seduta sull’altra panchina e pettinava il cagnolino proprio lì sopra.
Io ‘un potei resiste e le dissi:- Guardi che costì la gente ci si siede, o ‘un lo può trova’
un altro posto dove pettina’ il cane’ ?
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Quella borbottò un pezzo, ma io che so’ un po’ sordo un riuscii a capì quello che diceva,
e senza dubbio mi dette del vecchio rimbambito. Sapete? Prima mi salutava sempre ma
da quel giorno passa a diritto come una schioppettata, ma a me ‘un m’importa niente,
quella gente è meglio perderla che trovarla . Ora cari ragazzi vi devo dire che qualche
mattina che mi girano un po’ devo fare un discorsino a quel nostro collega che abita al
Petriccio ed ha un cagnolino che si chiama “Spillo”. Anche lui ha preso il vizio di fare
il riposino seduto sulla panchina e nel contempo far salire sopra anche “Spillo” e
accarezzarlo. Ma se al suo cane gli vuole tanto bene , ed è giusto che glielo voglia, lo
metta sul suo tavolo di cucina o di sala e lo accarezzi quanto gli pare. Insomma, è vero
alle bestioline bisogna volergli bene perché sono meglio di noi, però un po’ di rispetto
per il prossimo ci dovrebbe essere. Comunque, cari ragazzi, cerchiamo di goderci queste
panchine il più a lungo possibile. Già, risponde il Panti, ma quando arriverà l’Inverno
bisognerà resta’ vicino al termosifone e guardarle dalla finestra. E Antonio che fino ad
allora aveva ascoltato dice:- Ma almeno venisse una bella acquata! Così nascerebbero i
funghi, e te Aldo me li faresti assaggia’ sicuramente perché di me ‘un te ne sei mai
scordato. Io so’ contento anche dei leccini, dei giallarelli e degli ordinali. Ma quanto gli
piaceranno, penso io, i funghi per ricordarmeli ogni dieci minuti! Queste so’ le nostre
serate alle panchine, sembra una bischerata, ma però quando uno dei tre manca
all’appuntamento ‘un siamo tranquilli, anche se si ripetono ogni volta le stesse cose
accadute, magari, da oltre 50 anni.
Siena 20 Agosto 2009
A. Leonini
“SERATE A VEGLIA NEI PODERI DELLE CRETE SENESI”
Percorrendo la Via Lauretana, in quel tratto molto panoramico che attraversa le
crete senesi, mi è stato possibile spaziare a destra e a manca a mio piacere.
Sovente ho notato persone intente a immortalare, su tela o con altri sofisticati
mezzi, lo spettacolo offerto dalle biancane, dove vegeta solo l’assenzio nonché,
ovviamente tra maggio e giugno, anche il rosso fiorire della “sulla” nata
spontaneamente nei luoghi meno aridi. Mai sono sfuggiti alla mia attenzione i
rustici casolari sparsi per quella campagna e distanti tra di loro talvolta anche vari
chilometri. Detti poderi non molti decenni addietro erano condotti da famiglie
numerose, c’erano aie pullulanti di pagliai e stalle ricche di bestiame. Ora, alcuni
sono dimora di pastori con le loro gregge, gli altri abbandonati a “triste destino”.
I componenti di dette famiglie, per la distanza che li separava dai centri abitati,
durante le lunghe giornate estive conoscevano solo il duro lavoro dei campi ed il
letto per riposare un po’ nelle brevissime nottate. Ma d’Inverno, specialmente i
giovani, bramavano come tutti, di trascorrere qualche ora con gli amici, per
scambiare quattro chiacchiere, fumare (se c’era) una sigaretta e, magari, giocare
una partita a carte.
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Ciò, ovviamente, solo il sabato sera. Devo aggiungere che nell’osservare quei
casolari ormai cadenti, mi torna spesso in mente il racconto di un mio coetaneo
che da giovane vi dimorò per lunghi anni. Egli narra che chi abitava in
agglomerati di due o più famiglie poteva dirsi fortunato, perché i ritrovi
avvenivano, come è ovvio, nelle loro case. Erano sempre quelli dei poderi isolati
che si dovevano spostare. Ci voleva l’uragano o la malattia per obbligarli a casa,
tanta era la brama di passare qualche ora in compagnia. La tramontana, la
pioggerella, il nevischio o il gelo, non erano sufficienti a scoraggiare quelle
persone. Avevano da percorrere strade sterrate e fangose sia all’andata che al
ritorno. Pazienza! Malgrado ciò il sabato sera, consumata la solita “zuppa coi
fagioli”, alcuni si munivano di lanterna ad olio, (la lampadina tascabile era un
lusso) di bastone per reggersi un po’ meglio, e via per la campagna buia e
desolata. Dovevano prestare attenzione perché calzando gli zoccoli, (così usavano
d’Inverno) era assai difficile rimanere in piedi. Ed anche quel mio amico una sera
era partito, malgrado la pioggerella, per recarsi a veglia in un podere distante
dalla sua casa un paio di chilometri. Non aveva ascoltato i consigli di chi, ormai
anziano, aveva avuto qualche cattiva esperienza proprio per la pioggia. La
campestre che collegava i due poderi scendeva verso la valle, attraversava un
fosso poi risaliva nel poggio opposto. La pioggerella non era sufficiente a
gonfiarlo, ma bastava un acquazzone ad impedire il passaggio da una parte
all’altra per diverse ore. Senza alcun problema, così raccontava, raggiunse il
luogo stabilito, per la consueta partita ai “ quadrigliati”. Parlando, giocando e
scherzando fecero quasi la mezzanotte. Una delle donne che, sonnecchiando, era
stata fino a quel momento a filare la stoppa nel focolare, vedendo gli uomini
apprestarsi ad intraprendere il viaggio di ritorno, si affacciò alla finestra e
richiudendola immediatamente esclamò:- Madonnina che acqua ! Sembra che ‘un
sia mai piovuto da come “scroscia”! Come farà codesta gente a ritorna’ a casa
con questo tempo? Ma dopo un po’, raccontava ancora, credendo che il peggio
fosse passato, ognuno riprese la via del ritorno. Chi abitava nella poggiata, oltre
al fango, non aveva altri problemi, ma chi doveva attraversare il fosso, dopo le
avvertenze avute prima di partire, non poteva essere tranquillo. Durante il
percorso, spiega l’amico, prese nuovamente a piovere, e giunto in prossimità del
fosso in questione, a causa dell’alzato livello dell’acqua non poté proseguire. Era
già passata da un pezzo la mezzanotte. Nella lanterna andava esaurendosi lo
stoppino e tra pochi minuti sarebbe rimasto al buio, mentre la pioggia non calava
d’intensità. Che poteva fare? A quei tempi, racconta ancora, non c’era alcun
mezzo per comunicare, e a casa stavano certamente in forte apprensione. Rimase
lì, solo, al buio, impaziente e infreddolito, ad aspettare di poter proseguire e ciò
avvenne solamente verso le cinque del mattino. Quando, stravolto e tremante,
giunse a casa, trovò i familiari piangenti. Avevano certamente penato quanto lui e
forse ancor più. Tutto si placò quando lo videro arrivare anche se in pessime
condizioni. Ecco cosa poteva accadere alla gente che abitava nei poderi delle
crete. Malgrado tutto non volevano rinunciare, e ne avevano pieno diritto, ad
evadere per qualche ora da quello stato, possiamo ben dire, di isolamento.
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Era cosa molto diversa per chi viveva e lavorava in zone con maggiore densità di
popolazione; dove non imperava la creta i casolari si susseguivano lungo le vie
non fangose talvolta ad “un tiro di schioppo” tra di loro. In quei luoghi gli
incontri a veglia non venivano ostacolati dai rigori invernali. Ma era un privilegio
riservato solo agli uomini. Le donne, salvo rari casi, rimanevano a casa a
rassettare i panni, a filare la stoppa o, per riposarsi, a leggere per l’ennesima volta
quel libro che narrava la storia di Pia de’ Tolomei o altri simili. Anche per costoro
ritrovarsi un paio di volte alla settimana, era uno svago che, semmai, aiutava a
ritemprare le forze tanto necessarie per affrontare con più vigore la durezza della
vita agreste. Nulla importava se c’era il flebile chiarore del lume ad olio.
Bastava incontrarsi e dopo la solita partita scendere nella stalla a far quattro
chiacchiere al tepore prodotto dalle bestie vaccine. Dopodiché tutti a letto. Ma
una riflessione adesso mi sembra doverosa. Se questi ultimi non avevano
difficoltà alcuna ad incontrarsi più volte nella settimana, la povera gente, che da
un anno all’altro lavorava alacremente nei grandi poderi delle crete producendo
ricchezza, avrebbe meritato almeno delle strade non fangose per comunicare con
il paese e con gli abitanti delle zone vicine. In caso di malattia ad un familiare,
specialmente nell’inverno, era problematico farlo visitare dal medico, poiché
questi vi poteva giungere solo se trasbordato con il carro agricolo trainato da
buoi. Questa la cruda realtà della vita di quei contadini che cercando un po’ di
svago nelle “serate a veglia” dovevano, molto spesso, fare i conti anche con le
bizzarrie della stagione. E’ cosa stupenda che riempie il cuore di piacere vedere
sovente tante persone interessate a immortalare le bellezze naturali di quelle
colline; però delle “ serate a veglia”, spesso al fioco lume del “lucignolo”, ma
ugualmente capaci di profondere un po’ di serenità tra la gente che vi abitava e vi
operava, dovremmo parlarne alle giovani e future generazioni. E’ un tassello di
storia delle campagne che non dovrebbe essere dimenticato.
Leonini Aldo nato ad Asciano il 04.10. 1926
Residente a Siena Via Q. Settano n° 43 Tel.0577.50621
56
FU GRAZIE AL TEMPORALE
La crisi nel campo calzaturiero dove ero stato assunto da pochi anni(settore
amministrativo) aveva prodotto il suo effetto. Ero stato licenziato insieme ad altre trenta
persone. Ma a trenta anni e per giunta ancora scapolo avevo avuto l’energia e la forza di
chiedere a dritta e a manca per altra occupazione, e finalmente fui assunto come
rappresentante in un noto mobilificio. Dovevo visitare ogni angolo della regione per
cercar di realizzare, anche nel mio interesse, molti contratti di vendita. Quel giorno
dopo aver compiuto centinaia di chilometri, stavo rientrando in direzione della mia città
percorrendo una via dell’Appennino, quando mi trovai coinvolto in un tremendo
temporale. Avevo notato che il tempo stava peggiorando in fretta, ma non così
celermente. Mi investì impetuosamente, con fulmini, acqua e grandine, mentre mi
accingevo a scendere certi tornanti molto impegnativi anche con normali condizioni
atmosferiche. Il buon senso avrebbe suggerito di fermarsi, ma io, invece, malgrado la
visibilità pressoché nulla, seguitai a scendere a passo d’uomo. Ad un tratto in una curva
molto pericolosa, notai qualcosa che mi fece trasalire. C’era una macchina fuori strada,
in bilico tra un leccio secolare e la sottostante ripida scarpata. Bloccai la mia auto nel
pochissimo spazio a disposizione e bagnandomi come un pesce cercai di accertarmi di
cosa si trattava. Non mi potevo avvicinare più di tanto perché sarei scivolato per l’erta
china, comunque riuscii a intravedere che all’interno c’era una donna immobile con la
testa poggiata sul volante. Se non vi fosse stato quel grosso leccio, avrebbe compiuto
un salto di circa venti metri. La situazione era disperata ed io non potevo fare nulla. In
certi frangenti un minuto può significare la vita di una persona. Ma nel nostro caso
chissà se era ancora in vita quella donna? Il primo impulso, malgrado la tempesta che
ancora imperversava, fu quello di cercar di comunicare con qualcuno. Feci il 118.ed il
113, fornendo la posizione dell’accaduto. Non fu poco, ma feci solamente il mio
dovere. Poi rimasi lì ad aspettare con la speranza di vedere qualche flebile movimento
in quella figura di donna. Ma invece restava lì immobile, mentre l’attesa dei soccorsi
sembrava interminabile. Finalmente, ma saranno trascorsi forse 20 minuti, non potrei
essere più preciso, tra quel mesto fragore dei tuoni mi parve di udire l’ululato di una
sirena. Pochi istanti più tardi giunsero tutti quasi contemporaneamente. Riuscirono con
delle corde a mettere in sicurezza quella “Punto bianca”, dopo di che poterono accedere
all’abitacolo e portar fuori quel corpo che sembrava ormai esanime. Non era così,
respirava ancora. Fu trasportata urgentemente all’ospedale, ed anche io, fornite le
generalità e recatomi a casa per cambiarmi gli abiti, corsi velocemente al Pronto
Soccorso per avere notizie sulle condizioni della poveretta. Era stata ricoverata
prontamente con una gamba fratturata ed un forte trauma . Quando potei accedere alla
sua camera per un solo istante, rimasi fortemente impressionato. Era ancora ad occhi
semichiusi e bisbigliava in modo appena comprensibile le parole: “ Perché Mario mi
hai fatto questo”? I genitori, dai quali mi ero fatto riconoscere, mi fecero capire che era
reduce da una forte delusione. Infatti mi confidarono che era stata abbandonata dal
fidanzato dopo una relazione che durava da oltre tre anni. Tutto ciò per fuggire
all’estero con una donna straniera che si trovava in Italia per ragioni di lavoro.
Dopo avere spiegato ai genitori, comprensibilmente disfatti dal dolore per l’accaduto,
dove tutto quanto era successo, e le probabilissime cause, chiesi loro se potevo tornare
a farle visita appena si fosse ripresa dal forte trauma, anche se rimaneva il problema
dell’arto fratturato. Ovviamente mi risposero positivamente, e, almeno per tale risposta
mi sentii più sereno.
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Quando feci ritorno a casa, ne parlai come ovvio con i miei genitori i quali, come me
rimasero sconcertati e dispiaciuti per l’accaduto. Mi fecero capire chiaramente che
dovevo farmi vedere ancora da quella poveretta, era giusto che le raccontassi tutto,
perché ella in questo momento era completamente al buio. Il giorno successivo volli
ritornare a farle visita per accertarmi delle sue condizioni. I suoi genitori le dovevano
aver detto qualcosa, perché quando m’intravide sulla porta, mi fece un brevissimo cenno
di avvicinarmi, poi quasi piangente mormorò:- Tu sei quello che mi ha salvato la vita,
ma io ricordo solo tanta acqua, fulmini e poi più nulla. I medici mi hanno assicurato che
ce la farò, ma dovrò restare almeno 20 giorni in ospedale a causa della frattura. Non
volli stancarla di più, ma le chiesi se avesse gradito che tornassi ancora a farle un po’ di
compagnia.
Non ero tranquillo finchè non l’avevo veduta e salutata. Il sabato e la domenica mi
assentai dal suo letto solamente per poche ore. Non so cosa mi stava succedendo.
Quella ragazza bionda era sempre nel mio pensiero. E mi ricompariva anche nel sogno,
talvolta con la testa china sul volante proprio come quando accadde l’incidente. Mi ci
stavo affezionando, ed anche lei nei giorni successivi mi parlò della grande delusione
provata, ma non meritata. Ora doveva pensare ad altro. Quell’uomo non la meritava.
Intanto in 20 giorni di degenza mai mancò la mia visita, anzi cercavo di distribuire il
lavoro per potermi recare da lei. Ed ella, mi accorsi ben presto, era serena quando mi
vedeva giungere. Il giorno che fu dimessa le chiesi gentilmente se potevo recarmi a
farle visita a casa, e lei
mi rispose affermativamente con un bel sorriso. In quegli incontri parlavamo di tante
cose compreso il nostro lavoro. Sapevo ormai da tempo che si chiamava Marisa., che
aveva 27 anni e che prima dell’incidente lavorava presso una agenzia di assicurazioni.
Insomma eravamo coetanei ed ambedue liberi sentimentalmente. Quando faticosamente
riprese a camminare, la sorreggevo e in quegli attimi sentivo che qualcosa mi turbava
positivamente. Mi stavo innamorando o forse m’ero già innamorato di Marisa. Dopo un
mese e mezzo di convalescenza, periodo in cui avevo sentito il
bisogno di starle vicino ogni giorno, la convinsi di salire nuovamente in auto.
Ovviamente nella mia, poiché la sua era un rottame. Anzi i suoi avevano già provveduto
segretamente ad acquistarle una nuova macchina che doveva rimanere in officina fino
al giorno che la figlia non si sentiva sicura. Dopo avere chiesto l’assenso dei suoi salì
con me e partimmo. Gironzolammo per tutto il pomeriggio e non mancai di riportarla
nel luogo dell’incidente, senza però sostarvi neanche un attimo.
Ma quella ragazza mi aveva ammaliato, per la sua bellezza, per la sua gentilezza e per i
suoi occhi azzurri e meravigliosi. Ormai ci stavamo avvicinando alla sua abitazione e
non sapevo come dirle ciò che provavo per lei. Ad un certo punto fermai l’auto in una
piazzola e raccogliendo tutte le mie forze le dissi che da quando l’avevo conosciuta
stava occupando interamente ogni parte del mio cuore. Lei non mi rispose, ma il suo
volto divenne improvvisamente privo del sorriso. Pensai di aver fallito, e per il
rimanente percorso non ci furono parole.
Giunti nel piazzale antistante la sua abitazione, quando feci l’atto di salutarla mi disse.Non vieni neppure a salutare i miei? Eppure sai
quanta stima hanno di te. Quando fummo al loro cospetto, la ragazza con un fil di voce
sussurrò:- Guido, ripeti ai miei ciò che poco fa hai detto a me. Anzi, ti toglierò io
dall’imbarazzo, e proseguì: - Papa, mamma, poco fa Guido ha detto di amarmi
perdutamente, ed anche io sento in me di poterlo amare. L’altro non esiste più. Non mi
ha mai meritata. Sento che Guido può farmi felice , non è da oggi che me ne sono
accorta. Il suo interessamento ed i suoi occhi mi dicono di amarmi.
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I giorni, le settimane, ed i mesi successivi furono fantastici. Io ero la sua stampella
preferita, di quelle che le avevano comperato all’uscita dell’ospedale per muovere i
primi passi non aveva abbastanza fiducia. Dovetti impegnarmi ed insistere a lungo per
convincere Marisa a riprendere la guida dell’auto. La dovetti anche convincere che la
causa di tutto ciò che le era accaduto era stata del furioso temporale che quel giorno li
aveva investiti ambedue. Dopo circa tre mesi ritornò al suo lavoro che la appassionava e
che svolgeva con solerzia. Ma la nostra favola di amore era solamente all’inizio. Chi
avrebbe pensato- mi disse un giorno mia madre- che Marisa riuscisse a metterti la testa
a posto. Lei non ci sperava più perché ero giunto a trenta anni e non avevo idee fisse.
Trascorremmo un anno che durante i nostri incontri non mancarono i progetti per il
nostro futuro. Ma io la mia cara fanciulla la desideravo sempre accanto a me. Non mi
bastava qualche ora al giorno e non sempre. Avevamo compreso che il nostro avvenire
sarebbe stato magnifico trascorrerlo insieme. Allora cosa fare? In attesa di avere tanti
soldini per poter acquistare un nido, anche piccolo, solo per noi, i suoi genitori misero a
nostra disposizione due stanzette con relativi servizi igienici e ci sposammo. Ed ora,
dopo sei mesi dal dì del matrimonio, la notizia più bella e sconvolgente per ambedue e
per i relativi suoceri. Una recentissima ecografia ha rivelato che un esserino sta
crescendo nel grembo dell’amata mia signora. Cosa dire di quel furioso temporale?
Dirò solo quattro parole. “Tutto è avvenuto grazie a quel tremendo temporale”.
Altrimenti chissà dove e quando sarei andato a posare
Siena
24.09.2004
A. Leonini
IL GIORNO DELLA “ SPORCELLATA”
Nei frequenti incontri con degli amici coetanei, vecchierelli come me ormai oltre
l’ottantina, non possiamo fare a meno di rimembrare i giorni della spensierata
giovinezza. Sono passati tanti lustri ma nella mente, seppure un po’ stanca , riappaiono
vicende liete come le prime cotterelle amorose, ed anche, purtroppo, certe assai tristi.
Su queste ultime, poiché vissute con indescrivibili sofferenze, non amiamo soffermarci.
Io, come i suddetti amici, eravamo squattrinati ragazzi di campagna, che a rovesciarci le
tasche dei pantaloni raramente cadeva, come suol dirsi, “ il becco di un quattrino”.
Benché giovincelli appena quindicenni, dovevamo lavorare quasi quanto i grandi,
nutrendoci di quel poco che offriva la terra. Talvolta per le feste, ma non per tutte, le
nostre massaie potevano disporre di qualche pollo o di qualche coniglio. Prima, però,
c’erano da acquistare le cose di casa e da pagare i “dazi colonici” al proprietario. Noi
eravamo felici ugualmente, ed in tale clima affrontavamo le faticose faccende poderali.
Viene spontaneo ricordare la trebbiatura alle cui cene potevamo saziarci con saporosi
piatti con carne di “locio”(oca) cucinata in varie maniere. Comunque trascorso tale
periodo tornavamo al vitto consueto consistente in minestrone di fagioli o poco più per
ogni giorno della settimana. Tra le famiglie di campagna non c’era tanta differenza. Il
mio babbo, che amava molto spesso ricordare i vecchi proverbi, ci diceva:- O citti, ‘un
c’è da lamentarsi di quel poco che abbiamo, ricordatevi che tra un contadino e l’altro
‘un ci corre neanche un “aratolo”, quello che conta è la salute e un sacco di fagioli.
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Pure tra gli operai nessuno disponeva di grandi risorse, ma c’era tanta fratellanza e
rispetto reciproco, sia con i vicini di casa che con i parenti stretti o alla lontana. Così
passavano le stagioni ed era sempre il solito parco desco. Se qualche volta la massaia
portava sul tavolo il secondo, poteva essere una frittata di spinaci o di zucchine. Se
bramavamo la frutta c’era quella delle nostre piante ovvero, tre o quattro fichi o qualche
noce. Ma come più volte detto eravamo felici ugualmente. I pensieri li avevano i nostri
genitori per pagare il conto del farmacista, del fabbro, del medico condotto e del
calzolaio. All’avvicinarsi dell’Inverno, contavamo i giorni per poter fare qualche ricca
colazione col buristo o con la soppressata. E’ noto che il padrone, dopo avercelo
addebitato a caro prezzo sul libretto colonico, ci permetteva d’ingrassare a totali nostre
spese un suino per uso familiare. Al giungere dei mesi freddi il povero animale passava
all’altro mondo, ed era un avvenimento non lieto, seguito però, da un altro molto
gioioso ovvero il “giorno della Sporcellata”. Nel libro “Alla ricerca delle parole
perdute” di Alberto Bruttini, si descrive la “sporcellata” come “la macellazione del
suino e la lavorazione delle relative carni.
Per noi, gente di campagna, significava il ritrovarsi tra parenti più stretti almeno una
volta all’anno, allo scopo di trascorrere qualche ora insieme e trangugiare le varie
gustose delizie date dalle carni di suino sapientemente cucinate dalle nostre massaie.
Spesso si percorrevano diecine di chilometri in bicicletta (era l’unico mezzo
disponibile) per partecipare. Ed in quell’occasione, di fronte a tanta grazia di Dio, si
placavano anche gli eventuali dissapori che potevano essere sorti nel tempo. Insomma si
rappacificavano gli animi e si rinsaldavano i rapporti. Nel parlarne risentiamo la
nostalgia. Dunque, benché nelle tasche scarseggiassero i denari era un giorno
particolarmente gioioso e senza rancori. L’unica cosa da tutti anelata era la salute e
l’armonia tra la gente. Quell’occasione lo dimostrava pienamente. Limitate erano le
spese per la “Sporcellata” né c’era la possibilità di farle.
Come carne consumavamo solo quella del maiale messa da parte il giorno della
lavorazione. Si trattava di arista, fegato, polmone, costoleccio per far la ”gustosa
rosticciana” e di sangue con cui le nostre donne sapevano preparare l’eccellente
“migliaccio”. I “maccheroni”, fatti in casa, a base di farina, uova e tanta sapienza per
usare il matterello, costituivano la pasta per l’occasione. Nessuna donna poteva
essere una buona massaia e, ovviamente, una buona cuoca, se non sapeva usare il
matterello con maestria per tirare la sfoglia. Il profumo che esalava dalla carne posta a
crogiolare sui carboni, o dall’arista che cuoceva nel forno appositamente scaldato si
espandeva nell’aria per centinaia di metri.
Ma l’aroma che si sviluppava dalla cottura del “fegatello” era inconfondibile.
Ovviamente per la massaia era una grande responsabilità, ma quando le giungevano i
complimenti degli invitati, per la bontà delle cose preparate con tanta cura, si sentiva
ampiamente appagata. Pure i ragazzi in qualche modo davano un aiuto alla cuoca. Io e
mio fratello, ad esempio, trasportavamo la legna da ardere dalla legnaia alla cucina per
alimentare il fuoco che, specialmente in tale occasione, doveva essere brillante. Quando
giungevano gli invitati non c’era da perdere tanto tempo in chiacchiere; ci mettevamo
quasi subito a tavola, perché alcuni avevano da percorrere lunghi tratti di strada per fare
ritorno alla loro dimora, e nella stagione invernale si faceva, come adesso, buio molto
presto. E per tutti costoro, l’unico mezzo a disposizione era la bicicletta. Mia madre era
molto accorta nel preparare quel pranzo. Non esistevano gli antipasti, si cominciava dal
primo, che quasi sempre, almeno in casa mia, era soltanto uno, ovviamente costituito da
“ maccheroni al sugo”. Seguivano le varie pietanze (rosticciana, arista, fegatello) il
tutto bagnato da buon vino rosso nuovo ancora fragrante.
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Ma dopo questi gustosissimi piatti, costei usava offrire il migliaccio, fatto con pane
bagnato nel latte, strizzato e aromatizzato con dei canditi e spezie, impastato col sangue
del povero suino, miele o zucchero, indi tritati finemente dei cavallucci e un pezzetto
di panforte.
Detto impasto, distribuito su apposita teglia coperta, e crogiolato da ambo le parti sui
tizzoni, donava qualcosa di veramente speciale. Alla fine non poteva mancare il vassoio
dei “cenci”. Per bagnare quest’ultima sciccheria, mio padre al mattino quando si alzava
metteva un bottiglione di vino bianco dolce fuori dalla finestra esposta a “tramontana”
(doveva essere fresco) e vi rimaneva fino al momento dei cenci. Dopo questa ricca
abbuffata, erano d’uso quattro chiacchiere, poi ognuno prendeva la via del ritorno con
un “arrivederci presto in salute”. Nelle campagne il giorno della sporcellata era una
consuetudine rispettata quasi da tutti i contadini come si suol rispettare un rito religioso.
Nella zona dove io abitavo ebbe ragione di esistere fino all’Inverno del 1940, poi con le
tremende stagioni del conflitto, che portò ovunque fame, morte e distruzione fu
dimenticato. Ed anche dopo cessata la guerra, causa i gravi e molteplici problemi
sopraggiunti, quel ritrovo che una volta all’anno ci faceva gioire, purtroppo nessuno, lo
fece rivivere. Oggi a quasi settanta anni di distanza, quando le campagne non sono come
allora popolate dai contadini, raccontare queste storie può far sorridere, è vero, ma è
altrettanto vero che tutto ciò che trovavamo sulla tavola, dal pezzetto di pollo alla
verdura di qualsivoglia specie, profumava di genuinità. Insomma quel giorno, oltre alla
ricca “trangugiata”, voleva esprimere, soprattutto e in modo speciale, la fratellanza e
l’armonia tra la gente, cosa essenziale che ai momenti attuali sembra pressoché
eclissata. Chi al giorno di oggi avesse la possibilità, per una sola volta, di assaporare
quel delizioso “migliaccio” che erano capaci di fare le nostre madri non potrebbero che
dire:- “Ben ritorni la Sporcellata”.
Oggi 22. 01.09
A. Leonini
VORREI POTERTI CREDERE.
Questa non è una storia vera, ed anche i personaggi sono immaginari; tutto, dunque, è
rispondente a pura fantasia. Poiché a qualche attività ci dobbiamo dedicare per non
pensare alle vicissitudini della vita, io preferisco impegnare le mie giornate ad imbrattar
risme di carta. Quando crediamo di essere soddisfatti per aver raggiunto, dopo
incommensurabili sacrifici e delusioni, una meta fortemente anelata, bisogna tremare.
Ciò particolarmente nel campo del lavoro, ma anche, molto spesso, in quello
sentimentale. Quanto di bello siamo riusciti a costruire può in pochi secondi crollare.
Simulo ovviamente una esperienza personale, non augurando neppure al nemico più
acerrimo quello che può succedere in simili frangenti a turbare la serenità e la felicità.
La cosa, come è chiaramente comprensibile, può scavare profonde ferite nel cuore, tanto
profonde da dubitare per lungo tempo di tutto e di tutti. Questi i fatti che cercherò di
esporre come meglio potrò.
Raggiunta la maggiore età e conseguito il diploma di geometra con il massimo dei voti,
presso l’Istituto Tecnico della mia “toscanissima” città, dove vivevo con i miei genitori,
mi misi a cercare un lavoro. Non potevo sfruttare ancora mio padre, modesto artigiano
del legno, e mia madre che per mandare avanti la famiglia lavorava saltuariamente da
certi signorotti come donna di fatica, costretta a compiere i lavori più umilianti.
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Ora queste lavoratrici vengono chiamate “collaboratrici domestiche”, ma allora le
definivano “serve”.
Per più stagioni mi adattai a fare il manovale ad un elettricista pur di portare qualche
soldo a casa. Potete credermi se dico che il lavoro era molto duro. Venivo utilizzato a
battere il mazzuolo per fare le tracce nei muri ove dovevano passare le “forassiti” degli
impianti elettrici. Quando affermo che i primi quindici giorni furono un calvario potete
credermi senza esitazione alcuna. Le mie mani erano divenute quasi una piaga. Lasciare
la penna, che potevo guidare a mio agio con facilità con sole due dita, e sostituirla con
un arnese di quasi un chilo di peso, e batterlo sullo scalpello per otto ore al giorno fu
davvero dura. Mi riposavo solamente quando scoccavano le dodici per ingoiare un
boccone di pane, seduto sul cumulo di materiale edile.
Naturalmente avrei preferito un lavoro più remunerativo, ma al momento mi dovevo
accontentare. La sera, al rincasare, vedevo mio padre e mia madre sofferenti quanto e
più di me. Avrebbero gradito qualcosa di meglio e di meno faticoso per il loro ragazzo.
Ma io, come è facile capire, non ero stato a dormire. Avevo partecipato, seppure con
esito sfavorevole, a diversi concorsi su scala regionale o nazionale. Poiché dell’ultimo
al quale avevo preso parte non mi era ancora giunta risposta, alloggiava in me una
flebile speranza. Si trattava di un concorso presso una Azienda Industriale di Venezia.
Se mi avessero assunto avrei dovuto, magari a malincuore, abbandonare la mia cara
terra toscana e prendere dimora in quella città lagunare.
Comunque il silenzio mi faceva lievemente sperare. Frattanto con il mio principale ed
un altro operaio, più anziano di me di alcuni anni, c’eravamo spostati a fare gli impianti
in quattro villette bifamiliari in stato avanzato di realizzazione alla periferia Sud della
città. Proprio dalla parte opposta a quella dove io abitavo. Poiché nel momento non
avevano istituito dei servizi pubblici, mi recavo nel luogo di lavoro con una vecchia
Lambretta 50 acquistata pressoché inservibile per poche migliaia di lire e, da me stesso,
rimessa in condizioni di poter circolare.
Dovevo accontentarmi, non mi era possibile fare di meglio. Un pomeriggio verso le
sedici, eravamo nel mese di Maggio, comparve nel cantiere un signore di circa 50 anni
accompagnato da una signora molto giovanile e da una signorina. Quest’ultima era
bionda, assai carina e con capelli fluenti sulle spalle alquanto scoperte ed abbronzate.
Non posso nascondere che rimasi positivamente impressionato dalla bellezza di quella
figura femminile apparentemente di qualche anno più giovane di me.
Io seguitai a fare il mio lavoro, mentre quel signore chiedeva al mio principale
informazioni relative alle villette. A quanto potei comprendere era interessato proprio a
quella dove stavamo lavorando. Mi accorsi anche che molto spesso il mio sguardo si
incontrava con quello della bionda fanciulla.. Sarà soltanto una semplice coincidenza,
pensai tra me e me, ma ciò succedeva frequentemente. Quei signori parlottarono ancora
un po’ con il principale, quindi se ne andarono. Ma proprio in quei momenti il mio
sguardo si incontrò nuovamente, pur non distraendomi dal lavoro, con quello della
fanciulla dagli occhi celesti che stava per allontanarsi.
Quel volto tanto carino e quel sorriso smagliante mi apparvero più volte nel pensiero
anche durante la notte. Ma cosa mi stava succedendo? Mai avevo avuto l’occasione di
provare una simile sensazione ed attrazione. Ma che stavo facendoci un pensierino? No,
io non potevo pensare a costei, era tempo sprecato. Io semplice diplomato, figlio di un
modesto falegname e di una povera casalinga che doveva arrabattarsi a fare le faccende
anche nella casa di altre presuntuose persone per mandare avanti la famiglia non avrei
potuto innamorarmi di lei. Ci separava un baratro. Io umilissimo manovale, lei con
agiate condizioni economiche da poter acquistare una villetta di sì elevato valore.
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Finalmente presi sonno e, provato dalla stanchezza, dormii profondamente fino a
quando mia madre mi avverti che era l’ora di alzarsi per tornare al quotidiano duro
lavoro. Poiché avevano acquistato la villetta, le visite di quei signori e della fanciulla,
dopo pochi giorni si fecero più frequenti, e ripetutamente tornarono ad incontrarsi i
nostri sguardi. Soffrivo profondamente nel pensare che dovevo, purtroppo, dimenticare
quegli splendidi occhi. Un mattino, mentre i suoi genitori si consigliavano con il mio
principale circa delle modifiche da apportare nel realizzare l’impianto elettrico, accadde
una cosa straordinaria ed impensata.
La fanciulla si avvicinò e con garbo mi disse:- E’ dura battere l’intera giornata codesto
arnese vero? Certamente erano più leggeri i libri che portavi nel recarti all’Istituto
Tecnico. Alle sue parole pronunciate con una certa spontaneità mi venne istintivo
risponderle:- ma che forse mi conoscevi? Lei sorridendo continuò:- Quando tu
frequentavi la quinta classe io facevo la quarta, quindi non eravamo, poi, tanto lontani.
Avevo avuto modo di vederti diverse volte a parlottare con i tuoi amici. A dire il vero
non ricordavo di averla veduta nei pressi dell’Istituto in cinque anni di frequentazione.
Eppure era un “tipino” che non poteva sfuggire tanto facilmente allo sguardo di noi
studenti. Da quel momento i nostri brevi discorsi nel luogo del mio lavoro, nella sua
proprietà divennero più distesi, ma le feci anche notare che il mio principale non
gradiva vedermi parlottare, seppure non cessassi un solo istante di battere il martello.
Estasiato come ero dalle sue prorompenti bellezze, un pomeriggio le chiesi se potevamo
incontrarci il prossimo sabato in discoteca. Non vi andavo frequentemente per la
scarsità di denaro, ma in tale occasione non avrei potuto rinunciare per nessun motivo.
La sua risposta fu immediata e, purtroppo, negativa. I suoi genitori non le permettevano
di rimanere fuori casa nelle ore tarde della notte. Però ci saremmo potuti incontrare, per
scambiare quattro parole, senza l’ombra del mio datore di lavoro, ai giardini pubblici, il
pomeriggio dello stesso sabato. Io conoscevo bene quel luogo incantevole, frequentato
da persone per bene, ovvero da tante mammine a passeggio con i propri bambini.
- Allora arrivederci sabato sera alle sedici- le dissi sottovoce, mentre i suoi stavano di
nuovo avvicinandosi. – A sabato sera- mi rispose sorridente con un fil di voce. Il
venerdì lei ed i suoi non vennero alle villette, e la giornata fu lunghissima da passare.
Il mio collega che lavorava al piano superiore non s’era accorto dei nostri brevissimi
colloqui, durante i quali raramente interrompevo di battere il mazzuolo. Il nostro
principale era una degnissima persona, ma non voleva sentire chiacchiere nel luogo di
lavoro. Ed era per tale motivo che operavamo in piani diversi. Chiamava ambedue
solamente quando dovevamo passare i cavi per la forassite, ovvero quando uno doveva
tirare i cavi medesimi e l’altro spingerli delicatamente.
In quei momenti sentivamo soltanto la sua voce che con vera professionalità suggeriva i
movimenti da eseguire. La sua esperienza era ben nota nel circondario.
Giungemmo finalmente al tanto sospirato pomeriggio che dovevamo incontrarci ai
lussuosi giardini della mia città. Oserei dire l’orgoglio della mia città. Ero veramente
ansioso di poter scambiare, liberamente, senza l’ossessione del mio capo, qualche parola
in più con la fanciulla che affermava di conoscermi da molto tempo, cosa di cui,
ovviamente, non dubitavo. Se io fui puntuale all’appuntamento, lei fu puntualissima
perché già mi attendeva seduta su di una panchina.
Lì nel pomeriggio si godeva l’ombra di un abete secolare che cresceva florido di fronte
alla zampillante fontana. Raramente quel posto rimaneva libero specialmente nelle ore
assolate. Io, come al solito, vestivo semplici pantaloni jeans, camicia a mezza manica e
scarpette da ginnastica. Ma la fanciulla mi apparve di una eleganza davvero eccezionale,
però di fronte a ciò non mi sentii a disagio.
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Stava, come ho detto, seduta sulla panchina verniciata di verde, e vestiva un abitino
leggerissimo che lasciava intravedere la rotondità delle sue aggraziate forme. Delicata
come era e con quegli occhioni azzurri, rimasi meravigliato e non potei fare a meno di
sussurrarle tre parole.
Quanto sei bella- le dissi- mi sento lusingato di essere al cospetto di una fanciulla tanto
elegante e straordinaria. La sua risposta non si fece attendere. E’ il minimo che potessi
fare- soggiunse- per incontrarmi con lo speciale elettricista che sta lavorando
assiduamente e con vera competenza nella villa dei miei genitori. Quanti se ne trovanocontinuò- che, appena conseguito un diploma, si rimboccano le maniche e, come fai tu,
vanno a lavorare per non rimanere altro tempo a carico di chi si è tanto sacrificato per
far studiare il proprio figlio? Sai- disse ancora – oggi ne parlavo con i miei genitori e
pure loro apprezzano molto le tue doti e la tua volontà. Per me erano parole gratificanti.
Mi accomodai nella panchina accanto a lei, parlammo per quasi un’ora della sua scuola,
del mio diploma, dei concorsi ai quali avevo partecipato negativamente ed anche di
quello del cui esito nutrivo ancora qualche timida speranza. Ma frattanto i nostri sguardi
si incontravano sempre più spesso. Vedevo i suoi occhi rifulgere di una luce misteriosa
ed ero ansioso di capirne i segreti. Francamente speravo tanto che la lucentezza di
quegli sguardi non si prestasse a mesti equivoci. Quando ci avvicinammo all’ora
del…rientro, pronunciando il suo nome dissi:- Luisa, credo di essermi innamorato di te,
dei tuoi modi, dei tuoi sguardi e della tua incomparabile bellezza. Sono molte
settimane, ovvero da quando ti ho conosciuta che provo qualcosa di insolito. Questo
non può essere che amore. Sentimento grande che ognuno di noi bramerebbe veder
ricambiato. So bene che tu mi risponderai negativamente, però ti prego di dirmelo
subito, senza tenermi sulle spine, così mi metterò l’animo in pace. Oh Mario- rispose
costei guardandomi negli occhi- se tu sei innamorato di me da qualche settimana, io lo
sono da mesi e mi ritengo fortunata se ho avuto modo di poterti incontrare e di
svelartelo. La felicità di un giovane che si sente dire simili dolci parole è certamente
comprensibile. Da quell’istante mi parve di vivere nel fantastico mondo dei sogni.
Trascorremmo insieme innumerevoli momenti meravigliosi. Adesso non pensavo più
alle differenti condizioni economiche, e neppure pensavo di poterne trarre qualche
vantaggio. Per me c’era solo il dolcissimo volto e lo sguardo estasiante della fanciulla
dai biondi capelli. I nostri genitori ebbero modo di conoscersi, ed anche loro esultavano
nel vederci così innamorati e felici. Ora era scomparso quel baratro che avevo
immaginato esservi tra di noi quando la conobbi. I lavori alla villa durarono ancora
diversi mesi, e frequenti furono le visite dei miei futuri suoceri e di Luisa. Ciò era giusto
e comprensibile; volevano seguire da vicino l’andamento dell’opera.
Intanto il principale e l’altro operaio seppero della mia relazione amorosa e mi
augurarono tempi felici insieme alla fanciulla. Quando i lavori furono ultimati, Luisa ed
i genitori andarono ad abitarvi. Tutto era stato sistemato in modo signorile. Una siepe
di alloro ormai cresciuto, contornava interamente la villetta. Il terreno tra la siepe ed il
fabbricato era stato predisposto a giardino da persone competenti in tale attività. Come
un miracolo nelle aiuole fiorivano già piante di svariate specie Loro erano divenuti
proprietari di una porzione di villa terra tetto con notevole superficie.
In effetti erano 150 metri di superficie calpestabile. Al piano terreno avevano ricavato
un salone molto ampio, una cucina assai spaziosa, la camera per Luisa, degli utili
ripostigli e dei servizi igienici. Di quel suo nido la mia ragazza era orgogliosa e gelosa,
lo considerava come una cosa sacra. Lo teneva in ordine da sola, non accettava
interferenze di altre persone. Trascorrevamo in quelle stanze innumerevoli momenti di
felicità, immersi nel dolce silenzio della vicina campagna.
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Proprio in quel delizioso ambiente c’eravamo scambiate le nostre prime e sconvolgenti
effusioni amorose. Frattanto i suoi genitori mi consideravano già una persona di
famiglia. Di tale fiducia e considerazione nei miei confronti non potevo che essere
felice. Una sera rincasando dal giornaliero lavoro, che da un po’ di tempo si era spostato
in altra parte della periferia, e che pensavamo durasse una intera annata, trovai una
sorpresa. Qualcosa di cui m’ero quasi dimenticato. Sul tavolo non ancora apparecchiato,
spiccava una lettera giallognola proveniente da Venezia, ovvero dall’Azienda che
appena qualche mese prima era l’unica che mi facesse sperare di cambiare in meglio la
mia vita. Proprio lì avevo concorso per vari posti di tecnico, almeno così dicevano nel
bando. Mi convocavano ad un colloquio nel giorno indicato nella credenziale stessa,
pena la decadenza del diritto al posto. La sera stessa informai telefonicamente la mia
ragazza che apparve felice quanto me e forse anche più. Cinque giorni più tardi già mi
trovavo a Venezia e dopo un certo non facile colloquio, durato un paio d’ore mi
comunicarono che da quel momento potevo considerarmi assunto nell’Azienda.
Concedevano, però, due giorni per riflettere, per organizzarmi e per trovare un alloggio.
Trascorso tale termine dovevo essere presen6e per prendere cognizione del lavoro che
mi attendeva. Lavoro che, ovviamente, dovevo svolgere con serio attaccamento e senso
di responsabilità. La mia vita cambiò come dalla notte al giorno. Ora non battevo più il
pesante martello dalle otto del mattino alle diciassette della sera; ora indossavo un
camice bianco. non calzavo scarponi come prima , ma scarpe basse, nere.
Così al fianco di apposito esperto prendevo pratica per il mio incarico di Tecnico. Dopo
circa un mese di prova, fui definitivamente confermato e mi dettero la possibilità di
cumulare i giorni di riposo. Quindi anziché goderne due allo scadere della settimana,
potevo assentarmi e consumare quattro giorni allo scadere dei quindici lavorativi.
Avevo così la possibilità di trascorrere due volte al mese quasi cento ore meravigliose
insieme alla mia adorata Luisa ed alla famiglia. Ogni momento accanto alla fanciulla
dai biondi capelli, era per me Paradiso. Cosa potevo chiedere di meglio dalla vita oltre a
ciò? Nulla e nessuno avrebbe potuto uguagliare gli abbracci, le parole e la dolcezza di
Luisa. Quando ero assente per lavoro, ovvero a Venezia ci sentivamo telefonicamente
ogni due sere. Udire la sua voce mi faceva sentire più vicino il nostro nuovo incontro e
le sue carezze. Intanto anche lei aveva brillantemente conseguito il diploma e già
lavorava, insieme ad altri due giovani, presso lo studio di geometri molto affermati.
All’inizio chiaramente doveva fare il tirocinio e quello era il luogo giusto, secondo
quanto mi raccontava. Malgrado la distanza che ci separava, la nostra relazione amorosa
si era talmente consolidata che già pensavamo al futuro. Io avevo incominciato a fare
dei risparmi proprio guardando a tale prospettiva. Insieme facevamo le dovute
considerazioni per poterci procurare un alloggio, anche modesto, ove andarci a vivere.
Non so se avremmo trovato delle resistenze, ma per la fiducia che i suoi genitori
nutrivano nei miei confronti, speravamo davvero di riuscire nel nostro intento.
A Luisa sarebbe piaciuto abitare nelle vicinanze di Piazza S. Marco, ed io non avrei mai
posto ostacoli alla sua volontà. Perché non rispettare i desideri della fanciulla che
amavo? Bramavo poter soddisfare le sue aspirazioni. Insomma eravamo sempre
d’accordo su tutto. La sua delicatezza, le sue parole ed il suo grande amore mi davano
ogni giorno di lontananza lo stimolo a bene operare in quell’azienda dove,
modestamente, dal titolare al più modesto operaio tutti apprezzavano il “toscanaccio”.
Mi sentivo davvero lusingato di tanta stima.
Non posso non ricordarmi della gioia provata allorché telefonicamente la fanciulla mi
comunicò che in occasione dei prossimi quattro giorni di libertà si sarebbe pure lei resa
libera per venire a trovarmi. Desiderava trascorrere con me a Venezia dei momenti
meravigliosi.
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Tali furono le sue parole nell’annunciarmi la bella notizia che mandò il mio cuore in
subbuglio. E non rimase delusa, almeno mi parve, perché visitammo i luoghi ed i
monumenti che fanno di Venezia una delle più belle città del nostro paese. Quelle
quattro notti alloggiammo, ovviamente, in un albergo degno della sua straordinaria
bellezza. Poi ognuno ritornò al consueto lavoro giornaliero senza dimenticare i giorni
felici trascorsi insieme.
Passarono molti altri mesi all’insegna della felicità e della gioia per ambedue,
specialmente ogni due settimane, quando trascorrevo quasi cento ore accanto a lei nella
sua villa o nei luoghi più impensati. Sembrava non soffrire per i miei inevitabili turni di
lontananza che, poi, non si sarebbero protratti per molto tempo ancora; così pensavamo
insieme. Ma una sera, rientrando alla dimora sita vicino alla nota stazione F. S. di S.
Lucia, trovai nella cassetta della posta una lettera a me indirizzata e proveniente, ebbi
modo di vedere, dalla mia stessa città toscana. L’indirizzo era scritto a stampatello e non
c’era il nome del mittente. All’interno, ben ripiegato, un foglietto con scritte soltanto
quattro parole dai medesimi caratteri dell’indirizzo. Questo il breve messaggio: Mario,
apri gli occhi. Un amico. Non detti alcuna importanza a quella missiva, anzi considerai
i tutto uno scherzo di pessimo gusto. Talvolta c’è chi si diverte a scrivere certe
pagliacciate. Nel comunicare con Luisa non credetti opportuno informarla, tanto era
evidente che si trattava di una ragazzata e nulla più.
Io non pensavo ad altro. Dopo alcuni giorni giunse il bramato momento di rivederci e
riabbracciarci. Io anelavo soltanto quegli attimi meravigliosi da trascorrere con lei.
Stranamente la trovai triste ed indisposta. Mi disse di non sentirsi troppo bene perché
soffriva di una inconsueta emicrania che la faceva penare immensamente. Di ciò era
infinitamente dispiaciuta e si scusava. Perché doveva scusarsi?
Non c’era motivo; periodi di malessere possono capitare a chiunque anche nei momenti
meno opportuni. Infine, quale colpa aveva se quel giorno non si sentiva troppo bene?
Causa il malessere quei quattro giorni volle rimanere più tempo sola che in mia
compagnia. Io, è ovvio, non pretendevo nulla, quando una persona sta male è sempre
giustificata. Al momento di ripartire per Venezia andai a salutarla. Costei si scusò
nuovamente di tutto ma confermò che ancora non si sentiva completamente ristabilita.
Erano stati quattro giorni sfortunati. Partii un po’ triste per le sue non ottime condizioni,
dopo averla consigliata di farsi visitare persistendo tali disturbi che la debilitavano
fortemente. Pensavo comunque a cose passeggere, perché la sua cera non mi sembrava
di persona ammalata. Dopo qualche settimana, ancor prima potessi godere del
successivo periodo di riposi, mi giunse un’altra lettera, ma questa volta con contenuto
pesante come un macigno.
Non c’erano scritte solo quattro parole, bensì una frase che mi fece precipitare nel più
oscuro tormento. Questa la frase che sconvolse il mio animo: Mario la notte del sabato
che tu rimani a Venezia, qualcuno poco prima dell’una, si introduce silenziosamente,
dalla finestra, lasciata appositamente aperta, nella camera di Luisa. Apri bene gli occhi.
Penso che quel tale non vada da lei a raccontarle favole. Si trattiene lì un paio di ore,
però puoi accertarti di persona. Fidati di ciò che ti dice un amico che ti vuol bene.
Rimasi allibito da quelle parole scritte da mano ignota. Cosa stava succedendo? Oh
quante cose passarono per la mia mente in pochissimi istanti. L’indisposizione causata
dall’emicrania, il distacco di costei trovato in occasione della recente visita mi
tornarono subito attuali. Ero confuso, non capivo più nulla, ed anche nel lavoro mi
sembrava di essere assente. soffrivo immensamente ma tacevo. Non mi potevo sfogare
con altre persone. Potevo dubitare di chi mi aveva sempre dimostrato amore infinito?
Potevo dubitare del suo nobile sentimento se solo una volta s’era dimostrata sofferente e
alquanto distaccata?
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Dovevo ancora pensare ad uno stupido scherzo, o credere a quelle infamanti parole
scritte da mano ignota? Quella situazione non poteva durare a lungo; era a rischio la mia
salute ed anche la mia capacità nel posto di lavoro. Quel lavoro che mi dava molte
soddisfazioni. Non dovevo rimanere intere nottate ad occhi spalancati a pensare a quelle
lettere. Avevo soltanto venti anni, con la vita dinanzi, quindi non dovevo assolutamente
farmi prendere dal terrore. Quelle parole potevano essere frutto della gelosia di chi
avrebbe voluto occupare il mio posto nel cuore di Luisa. Però dovevo una volta per
sempre sincerarmi che si trattava solamente di una pagliacciata. Era una cosa meschina
dubitare di quella fanciulla che mi aveva sempre dimostrato il suo grande amore. Ma
anche rimanere oppresso dal dubbio non avrebbe prodotto nulla di costruttivo. Presi
perciò la mia decisione. Inventata una scusa al mio direttore, il sabato salii in treno e
alle 22,30 giunsi nella mia città. Evitai per la prima volta di far visita ai miei genitori.
Quale scusa avrei addotto? Con un taxi mi diressi ad un paio di chilometri dalla villa poi
proseguii a piedi evitando il più possibile di essere notata strada facendo.
Vergognandomi non poco di me stesso per il senso di sfiducia che stavo dimostrando
con quel gesto nei confronti della donna che amavo, mi nascosi nella siepe di alloro.
Mi trovavo così a non più di quindici metri dalla finestra della sua camera. Quella
stanza dove Luisa dormiva ogni notte, mi sognava o passava con me ore incantevoli.
Stetti un bel pezzo ad attendere e quasi stavo per pentirmi profondamente di ciò che
avevo fatto, quando vidi quello che non avrei mai voluto vedere.
Verso la mezzanotte e quarantacinque, qualcuno giunse a tre passi da me. Non lo potei
riconoscere,
anche perché il luogo a quell’ora era immerso nella più fitta oscurità. Senza dubitare di
essere osservato, si tolse le scarpe e, attraversata la siepe, si diresse senza fare alcun
rumore alla finestra di camera della ragazza che, frattanto, aveva aperto gli scuri, ed
entrò dentro. Poi più nulla.
Io col pianto alla gola e la testa che scoppiava dal dolore mi allontanai da quello che era
stato il mio Paradiso. Vagai fino a quando non giunsi in stazione per prendere il treno
delle 5 che mi avrebbe permesso di arrivare a Venezia in mattinata. Quando scesi dal
treno ero ancora digiuno e senza la volontà di mangiare qualcosa. Mi era caduto il
mondo addosso.
Appena a casa, con il pianto nel cuore, mi attaccai al telefono e chiamai Luisa. Le
raccontai tutto ciò che avevo veduto nella notte ed ella non negò. Piangendo disse che
era stata la sbandata di un momento, e che non si sarebbe più ripetuta una cosa simile
perché il suo cuore palpitava per me.
Ma quelle lettere? Come poteva essere l’unica e ultima volta? Alle sue insistenti
promesse di non cadere mai più in simili errori, ebbi solo la forza di risponderle:Vorrei poterti credere ma…….
Poi piansi a lungo, ero stato ferito nella cosa per me più cara.
Soffrii due anni, fin quando, nell’azienda dove tuttora lavoriamo, conobbi Carla. Le
raccontai le mie trascorse vicende, ed ella mi dette il coraggio di ricominciare a vivere.
Dopo appena 12 mesi ci sposammo in una chiesetta alla periferia di Venezia dove
abitiamo. Occupiamo un modesto appartamento non lontano da quello dei suoceri. La
cerimonia del matrimonio fu semplice perché anche mia moglie è figlia di pensionati
non privilegiati.
Pochi, dunque, gli invitati oltre ai nostri genitori e qualche parente più accostante. Ma
non ha importa tutto ciò, siamo ugualmente due persone felicissime. Sovente scendiamo
in Toscana a far visita a mia madre e mio padre ormai anzianotti, che ringiovaniscono di
venti anni ogni volta ci possono abbracciare. Figli? Ancora nulla, ma siamo giovani e
pieni e pieni di speranza.
67
Di quella fanciulla dai “biondi capelli” che avevo tanto amato e che immensamente mi
fece soffrire, non ho più avuto notizie né le ho cercate. Però, per la fiducia che ebbero in
me i suoi genitori, meritevoli quindi di gratitudine, voglio augurare che la loro figlia
abbia trovato la felicità come, finalmente, ho trovato io grazie alla mia amatissima
Carla.
Siena 03.10.2004
A. Leonini
IO NON POTREI PIU’ CREDERTI
1 In sabbie mobili mi parve sprofondare,
nel legger certe frasi a me dirette,
con fatica riuscivo a respirare,
poi pensai fosser menzogne maledette.
2 Menzogne di chi il suo amor bramava
chissà da quando, però solingamente.
Allor nell’ombra distruggere cercava,
colui che amava sì profondamente.
3 Perché approfittar della mia assenza,
per del fango gettar nel nostro amore?
Ma! Son cose che succedon con frequenza,
pensai mesto, per lenire il mio dolore.
4 Ciò era assurdo, troppo ci amavamo
da più stagioni, ne avevo la certezza;
il nostro futuro già costruivamo,
ebbro di brio, scevro da tristezza.
5 Poi una notte, quella notte nera,
io, vile, nella tua siepe m’inoltrai;
che la missiva non era menzognera,
con la pena nel cuore constatai.
6 Quando la finestra tua vidi varcare,
da una persona nella notte oscura,
parve il cuor mio cessar di palpitare ,
e di non resistere a ciò ebbi paura.
7 Fuggii senza saper dove approdavo,
ferito mi aveva si ferocemente,
quella fanciulla che da tempo amavo,
e nella quale credevo ciecamente.
8 Più tardi dicesti:- Follia …d’un momento
che mai più si sarebbe ripetuto.
Poiché gettasti il cuor mio nel tormento,
ti detesto per aver così….ceduto.
Siena Ottobre 2004
A. Leonini
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ALLA FIERA DEL 12 MAGGIO 1947 A CHIUSURE
Già dall’anno 1946 insieme ad altri amici facevo parte della “prestigiosa” orchestrina
L.U.N.A. (Lieti Uniamoci Nell’Allegria) che aveva il compito di allietare, con il suo
ricco repertorio di vecchi e nuovi ballabili, le feste danzanti nel nostro locale de “La
Tranquilla”. Durante tali trattenimenti non avevo come tanti altri giovani presenti la
possibilità di svagarmi. Non potevo abbandonare lo strumento e scendere nella pista tra
quelle attraenti fanciulle. L’orchestrina doveva far sì che gli intervenuti potessero
divertirsi, ed era anche nostro interesse. Ma durante il prosieguo delle stagioni c’erano
le feste paesane e le fiere, e proprio in tali occasioni cercavo, solo o con gli amici, i bei
momenti di svago, sempre agognati da un ventenne. Se mi dovesse accadere oggi ciò
che mi accadde quel pomeriggio del 12 Maggio del lontano 1947 in occasione della
fiera annuale che si teneva nel paesello di Chiusure, sono sicurissimo che ci lascerei,
come suol, dirsi le penne. Ero riuscito a convincere mio padre e mio fratello di potermi
per un giorno assentare dai lavori che in quel mese incalzavano nella campagna. Non
c’è alcun bisogno di elencarli. Dalla vigna all’uliveto, alle varie sarchiature, era tutto un
susseguirsi di faccende che non lasciavano un attimo di respiro. Insomma togliere due
braccia dal giornaliero ed assillante lavoro, significava sacrificare non poco gli altri
componenti della famiglia. Messa a punto la mia vecchia bicicletta, assicuratomi di
avere nella borsetta posizionata dietro al sellino tutto l’occorrente per intervenire in caso
di foratura alle gomme, partii alla volta di “Fontasciano”. Là mi aspettava Mario,
l’amico carissimo che, come me, faceva parte dell’orchestrina, e con il quale mi sarei
recato a quella fatidica fiera. Partimmo verso le 10 del mattino e fatta a piedi la
straducola che da Capogrottoli conduce ai Molini, ci immettemmo nella strada che
attraverso il “Pecorile” conduce al bivio per San Giovanni d’Asso e prosegue per
Chiusure. Detta via a quei tempi non era asfaltata, quindi anche in pianura spesso la
pedalata era faticosa. Comunque fino al ponticino sul torrente “Bagnaccio”
proseguimmo senza alcuna difficoltà. Da lì fino a Viliano, invece, dovemmo proseguire
quasi sempre a piedi spingendo il nostro modesto mezzo di locomozione. Poi,
pedalando, pedalando, quasi sempre affiancati, senza alcun pericolo di incontrare
camion o altri pesanti mezzi di trasporto, toccammo Montefresco, il bivio prima
accennato, il podere di Giuncarelli, infine giungemmo nella non ampia piazza di
Chiusure, ove già si vedeva qualche bancarella nonché vari gruppetti…di persone
intente a parlottare. Posteggiammo la bicicletta in un angolino ancora libero in
prossimità della bottega del Terzuoli, indi anche noi prendemmo a gironzolare per la
fiera. Il nostro viaggio non effettuato, come si può ben capire, a grande velocità, era
durato circa un’oretta. Insomma verso le 11 o poco più eravamo già tra i fieraioli. A
dire il vero ciò che esponevano al pubblico in quei banchi piazzati dove c’era un po’ di
spazio, a noi non interessava. Eravamo ventenni ed il nostro scopo non era certo quello
di fare acquisti di merce varia o indumenti. Il nostro sguardo si posava altrove. Eravamo
lì per conoscere gente nuova, ma soprattutto nuovi volti femminili. Sapevamo che nel
pomeriggio avrebbero ballato e ci sarebbe stata, sicuramente affluenza di ragazze. La
campagna circostante era vasta e la fiera molto conosciuta, quindi non poteva essere
altrimenti. Verso le 12,30 andammo alla bottega del Terzuoli per mettere qualcosa tra i
denti. A quell’età non potevamo stare con lo stomaco sofferente per la fame. Nelle
nostre tasche non abbondavano i soldi.
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Non potevamo permetterci pranzi lussuosi ma due belle fette di pane di circa mezzo
chilo farcite di mortadella e un buon bicchierotto di vino, erano comunque alla portata
di tutti. Le ore successive passarono piuttosto lentamente, ma finalmente verso le
quattro del pomeriggio misero un tavolo nell’angolo della piazzetta ove salì un
suonatore abbastanza noto anche da noi, (Presentini) che incominciò a smanticiare la
sua fisarmonica. Durante le ore precedenti, gironzolando con Mario, avevamo più volte
intraviste due ragazzine brune molto carine e c’eravamo ripromessi che, se fossero
rimaste al ballo, ci saremmo gettati all’arrembaggio. Erano carine e semplici, come
d’altronde la maggior parte delle fanciulle che, come noi, venivano dalla campagna.
Facili al sorriso, un po’ più rustiche nel parlare. Fummo felici quando vedemmo che
anche costoro erano in mezzo alla piazzetta dove stavano per iniziare le danze. Una
delle due fanciulle aveva certa somiglianza con la fidanzata di un nostro carissimo
amico, un po’ più anziano di noi e che si avvicinava al giorno del fatidico SI. Non
stemmo lì a cincischiare, rischiando che altri giovani del luogo potessero impegnarle.
Chiedemmo loro se ci avessero concesso l’onore del primo ballo. Non rifiutarono, e
quando la fisarmonica intonò la conosciutissima “Rosamunda” ci gettammo con loro
nella mischia. Per dire il vero non era proprio mischia, saremo state 20-25 coppie, la
piazzetta tante di più non ne poteva contenere. Ballammo con le due graziose
ragazzine, vi ballammo ancora più volte, offrimmo loro un gelato anche per restituire la
gentilezza che avevano dimostrato nei nostri confronti. Durante il ballo ci dissero che
abitavano a Neci, podere situato oltre Bollano. Ci fecero capire che verso le 18
avrebbero preso la via del ritorno. Erano a piedi e non volevano rientrare troppo tardi.
Chiedemmo loro se potevamo accompagnarle, (allora era di moda lo “smacchio”) ci
risposero affermativamente. Sembrava molto gradita la nostra compagnia, quindi
reciproca la simpatia. Verso le sei, come ci avevano detto, decisero ambedue di
prendere la via del ritorno, e noi, tenendo fede alle nostre intenzioni, recuperata la
bicicletta, partimmo in loro compagnia. Credo sia molto chiaro il motivo per cui
bramavamo accompagnarle nel tragitto di ritorno alla loro dimora. Cercavamo di gettare
le basi per una possibile futura, ma non troppo, relazione amorosa. Le fanciulle come
già più volte detto, non erano dispiacenti e noi bramavamo avere una fidanzata. Un
passo dietro l’altro, parlando e svelando loro che eravamo Ascianesi della zona di
Grottoli ovvero della Tranquilla, che amavamo la musica ed il ballo, e che ci sarebbe
piaciuto molto intrecciare una relazione amorosa, ci trovammo di fronte ai calanchi,
quindi nei pressi di Monte Oliveto, prima di Cristena e di Bollano. Devo dire che non
m’ero sbagliato, quella che accompagnavo io era la sorella della fidanzata del nostro
amico prossimo a nozze. Nei pressi dell’abitato di Bollano dove c’è il bivio per Neci, ci
salutammo con da parte loro qualche vaga speranza di incontrarci ancora il prossimo
giorno di festa. Ma dato che ci conoscevamo solo da poche ore, di più non potevamo
pretendere. Prendemmo la via del ritorno quando già sentivamo “brontolare” dalle parti
di Buonconvento. Il temporale ci raggiunse velocemente. Giunti tra Monte Oliveto ed il
bivio per Chiusure, proprio laddove siamo lontanissimi da ogni riparo, uno zig- zag, un
tuono ed acqua a catinelle. Sembrava la fine del mondo. Noi ci fermammo ma
inutilmente, non avevamo con che ripararci ed in un attimo fummo bagnati come pesci.
Il temporale non durò più di 15 minuti, però l’avevamo presa proprio tutta. Cos’altro
potevamo fare? Proseguimmo in quelle condizioni per la nostra via. Le persone che
incontravamo ci guardavano stupite.
70
Cosa avranno pensato? La giornata della fiera era incominciata discretamente ed era
proseguita ancor meglio fino al momento del ritorno da Bollano. Poi improvvisamente
quel disastro. Durante il viaggio di ritorno (dopo spiovuto) non accusammo sofferenze
fino a quando la strada ci obbligava a pedalare, ma quando presso Viliano iniziammo la
discesa fino al ponticino del “Bagnaccio”, fummo presi dal tremito.
Non poteva essere diversamente. Tanto Mario che io ci buscammo un forte raffreddore,
ma ci poteva andare anche peggio. Ripensando ai rischi che poteva comportare avere la
fidanzata tanto distante e dovendo coprire detta distanza esclusivamente con la bici,
ritenemmo giusto troncare ogni rapporto con quelle deliziose fanciulle ancor prima che
cominciasse. Ma certamente fummo molto dispiaciuti.
Siena 13. 06. 2002
A. Leonini
DOVE HAI IL CUORE?
1
Dove hai il cuore donna scellerata,
che porti appresso a te ogni mattino
col vento freddo o con la nevicata
il tuo piccino?
2 Lo fai per suscitar la commozione,
mentre stai con mano tesa a mendicare,
due soldi (dici) per la colazione
da consumare.
3 Ma non pensi quanto può costui soffrire?
Quel bimbo, che mamma ancor non sa chiamare,
lo dovresti molto meglio ricoprire,
ed anche amare.
4 Ogni volta che ti do la monetina,
neppur ti guardo, penso al piccolino.
Non so come puoi esser sì meschina,
col tuo bambino.
5 Domani che sarà più grandicello,
qual ricco insegnamento potrai dare?
Insegnerai come fu di suo fratello
a mendicare.
6 Appartieni ad altro mondo( spesso dici)
ma piantasti le tende qui da noi,
e qui da noi hai messo le radici,
mentir non puoi.
7 Devi le nostre leggi rispettare,
che vietan simil tuo comportamento.
Si devono i bambini rispettare,
con sentimento.
Chi mena il suo fanciullo a mendicare,
non può di chiamarlo figlio meritare.
Siena 21. 02. 2002
A. Leonini
71
IL PARCO DESCO DEI TEMPI PASSATI
Dicono spesso, anzi viene ripetuto ogni giorno, che sia colpa del progresso e del
benestare che il nostro organismo , soffre di un metabolismo talvolta alterato, tanto da
destare serie e, purtroppo, giuste preoccupazioni. Io condivido in pieno, secondo il mio
umile pensare, certe preoccupazioni, però devo aggiungere che un po’ di colpa è anche
nostra. Oggi la pubblicità e la concorrenza sono spietate; ci vengono presentati infinità
di prodotti alimentari che sembrano toccasana per la nostra salute, e noi ci lasciamo
ogni volta convincere. E’ pur vero che non esiste più, come una volta, la massaia
indaffarata tutto il giorno intorno ai fornelli per preparare il minestrone di verdura o
altri semplici “mangiarini” a base di prodotti del proprio orto. Adesso la donna,
generalmente, lascia la casa di presto mattino per recarsi a lavorare in fabbrica o in altri
luoghi, ove resta impegnata l’intera giornata. Magari deve percorrere diecine e diecine
di chilometri in macchina o con altri mezzi di trasporto; insomma deve fare la vita del
pendolare con il sacrificio che ciò comporta. Alla sera quando rientra, non sente la
volontà e la forza di dedicarsi alla cucina. Ed allora cosa succede?
Al sostentamento non si può rinunciare, tanto più che il mattino successivo suonerà
ancora la sveglia, e di nuovo dovrà recarsi a lavoro. Nessuna preoccupazione, c’è il
“supermercato” che risolve ogni problema. Lì troviamo di tutto, carne cruda o già cotta
e confezionata, pronta da mangiare, scatolette, formaggi, salumi che provengono da
ogni parte del mondo. Se uno vuole c’è anche la pastasciutta, già condita, e persino
tenuta in caldo. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Comunque la scelta può essere
sbrigativa. Un etto di buon salame o prosciutto, uno spicchio di formaggio, magari
totale assenza di verdure, e la cena ogni sera è presto servita. Ma il mangiare del giorno
quale è stato? Poca scelta come al solito. Un piatto di pasta, un secondo con carne
arrosto o in umido, e se ciò non basta qualche altra cosa non è difficile trovare.
Poi, in seguito ad un più o meno marcato malessere, si ricorre al medico di famiglia che,
come è buona norma, prescrive accertamenti e analisi del sangue. L’esito dopo alcuni
giorni. Alti valori del colesterolo, dei trigliceridi e gli acidi urici oltre il limite della
normalità. Cominciano le preoccupazioni, ed il medico dà i suoi saggi consigli.
Molta verdura, carne pochissima ed una volta alla settimana, scarsi condimenti, niente
insaccati, dolci e zuccheri limitatissimi. Per ora niente farmaci con la speranza che
seguendo le regole suddette possa bastare. insomma si dovrebbe valorizzare al massimo
la cosiddetta “dieta mediterranea”.
Ai tempi della lontana mia giovinezza ed anche un po’ più tardi, in casa di contadini, si
rispettava ogni giorno. La carne che adesso viene consumata da una persona in una
settimana, allora serviva ad una famiglia di quattro persone per alcuni mesi. Ci saranno
state altre gravi malattie provocate da stenti a minare l’esistenza, ma di colesterolo o
trigliceridi elevati, in casa di contadini non sentivamo parlare. Basta guardare un attimo
il vitto giornaliero di quelle famiglie per rendersi conto che non era possibile
sovraccaricare stomaco, fegato, reni o altri organi, di proteine e di grassi.
Se sopraggiungevano dei guai non dipendeva certo dall’eccesso di tali sostanze. Nei
mesi precedenti la macellazione del suino, noi coloni, molto spesso facevamo colazione
con l’aringa. In una di piccole dimensioni e peso, mia mamma ci faceva quattro o
cinque pezzetti, secondo il numero dei presenti, potevano essere 30 grammi per ognuno
compresa la lisca che ovviamente non mangiavamo.
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Detto ciò possiamo ben comprendere quale quantità di grassi venivano ingeriti in tale
occasione. Tengo a precisare che con quel pezzettino di aringa succedeva di mangiare
quasi mezzo chilo di pane. Andava molto meglio quando facevamo la polenta, benché
scarsamente condita, ci dava la possibilità di saziarci, ma data la facilissima digeribilità,
dopo appena due ore si faceva nuovamente sentire il languorino da fame. Mia mamma
diceva:- Ragazzi, finché dura la farina di granturco, e ci sono le patate nel pagliaio,
nessuna preoccupazione. Già le patate le tenevamo nel pagliaio della paglia.
Subito dopo la trebbiatura, ma ancor prima del raccolto dell’importantissima tuberosa,
ci davamo da fare per un’intera giornata onde scavare una profonda buca nel pagliaio
della paglia. All’inizio aveva l’apertura tanto stretta che appena ci passavamo in
posizione sdraiata. Poi ingrandiva tanto che ci potevamo stare anche in piedi.
Complessivamente aveva una superficie di circa tre metri quadrati, ovviamente bene
armata con tavole e altri legni. Insomma era una piccola stanza. L’apertura veniva
richiusa con apposito fastelletto di paglia ben legato. Nessuno, salvo i vicini di casa che
adottavano lo stesso sistema, poteva sapere. Lì dentro le patate visi mantenevano come
appena tolte dal terreno, anche perché al buio e senza variazione di temperatura.
Le patate erano frequentemente il nostro cibo del desinare. Mia madre le cuoceva lesse
nella paiolina. e talvolta le faceva arrostire sotto la brace. Non le condivamo con l’olio,
ma le mangiavamo in quel modo, appena salate e con molto pane. L’olio costava caro e
veniva adoperato per altri usi. Non c’era da fare il passo più lungo della gamba perché i
soldi entravano pochi nelle tasche dei contadini. I fagioli, ad esempio, li mangiavamo
sei giorni alla settimana dal lunedì al sabato compreso. Se non c’erano a mezzogiorno,
li trovavamo sul tavolo la sera a cena, da queste due specie di cibo c’era poco da
allontanarsi. Era roba genuina, nessuno nelle campagne a quei tempi conosceva i
conservanti. Le patate venivano conservate nel modo prima descritto, ed i fagioli o i
ceci in appositi sacchi di tela bene legati. Dopo le patate lesse o il piatto di fagioli,
trovavamo sempre qualche cosetta per terminare il ricco pranzo e poter bere un
bicchierotto di buon vinello. Noi potevamo chiamarci fortunati perché ogni anno, salvo
gelate fuori stagione raccoglievamo un sacco di noci, e con quelle stavamo bene un bel
po’, e poi contenevano sostanze molto nutritive e importanti per il nostro organismo.
Dopo la macellazione del suino le cose cambiavano in meglio, ma non c’era da fare
scorpacciate di salumi. Dovevamo pensare anche al domani, e l’anno era molto lungo.
A colazione una bella fetta di buristo non mancava, ma non ne potevamo pretendere
due, sarebbe finito troppo presto. Qualche volta potevamo permetterci una salsiccia che
facevamo crogiolare sul trespite. Quello era veramente un bocconcino squisito e ci
mangiavamo quasi mezzo pane casareccio. Era il pane che facevamo una volta alla
settimana, lo cuocevamo nel forno poderale e lo mantenevamo in cantina racchiuso in
un “bigoncio”. Quando il medico veniva a visitare mia madre, se gli veniva offerto non
lo rifiutava anzi, stropicciandosi le mai diceva:- Come potrei non accettare questa
“grazia di Dio”? Non potresti offrirmi di meglio, croccante in questo modo non
smetterei mai di mangiarlo. Peccato, continuava, che in un giorno me lo mangio tutto, e
questo è buono pure senza companatico. A dire il vero a noi di campagna capitava
molto spesso di doverci sfamare con solo pane o con l’aggiunta di cipolla. Alla stagione
dei cipollotti, quella era la nostra colazione. Insomma a colazione ed a pranzo noi
lavoratori dei campi ci sostentavamo in quella maniera. Al macello a comprare la carne
bovina, neppure da pensarci. Il pollo oppure il coniglio erano riservati alle giornate di
festa, ma di ciò ne ho già parlato in precedenza. Qualche volta Argentina, mia madre, ci
cuoceva le uova con l’intingolo di pomodoro.
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Con quell’uovo e quattro cucchiai di buon sugo ci facevamo una gustosa mangiatina. Il
bello era che dopo avere ingerito quella grazia di Dio, non stavamo in panciolle, c’era
da lavorare e presto tornava l’appetito. Quando il medico restava qualche minuto a
parlare con mio padre, sorridendo diceva:- Vedete,… voi contadini lavorate e faticate
molto, questo è vero, ma siete anche fortunati perché le vostre arterie non saranno mai
intasate dal colesterolo prodotto dalla carne e dai grassi ingeriti. Questo era pure vero.
La ciccia addosso non pesava, specie d’estate di estate eravamo asciutti come baccalà.
Mi torna in mente un particolare buffo, se vogliamo, ma interessante da citare in queste
pagine .Molto spesso con mio fratello ci trovavamo a lavorare nei campi vicini alla casa
padronale, a circa trecento metri dalla nostra abitazione. Quando si approssimava l’ora
del desinare, cominciavamo a sentire nell’aria un profumo gradevolissimo e invitante.
Mio fratello diceva:- Questo è l’odore della bistecca che sta crogiolando sul fuoco e che
tra una diecina di minuti sarà pronta per essere servita. Ma pensa un po’, proseguiva,
chi la dovrà mangiare la guarderà con disgusto perché alzatosi dal letto appena da
un’ora non ha appetito. Vedi quale vantaggio abbiamo noi, soggiungeva, di fronte a
tanti altri? Almeno il profumo ce lo possiamo gustare ad avere i campi vicini alla
fattoria. Noi a differenza di chi doveva faticare ad ingoiare quella ambita carne
succulenta, eravamo felici e provavamo immensa soddisfazione quando, seppure
raramente, ci capitava di stuzzicare una zampa di “locio” (oca) oppure l’ala della gallina
col cui sugo mia madre condiva i maccheroni tirati da lei stessa col mattarello e poi
tagliati con una tale precisione da sembrare passati dalla macchina. Ma quello era un
avvenimento, e gli avvenimenti di questo genere in casa di contadini non capitavano
spesso. Ogni massaia, ed anche mia madre, cercava di tenere un buon pollaio. Anche se
i polli li doveva vendere per coprire le innumerevoli spese della casa, ambiva tenersi
care almeno le uova, indispensabili per fare la pasta in casa. Nella povera dispensa del
contadino non dovevano mancare. Toglievano alla massaia tante preoccupazioni. La
domenica, ad esempio, anche senza carne, li trovavamo frequentemente sul tavolo. Non
posso a questo punto tralasciare, anzi lo faccio con vera soddisfazione, di descrivere
con che brama e ansia attendevamo il momento di poterci sedere al tavolino per
consumare a famiglia riunita la “lauta” cena. Forse era il momento più bello della
giornata. Almeno una mezz’ora prima di terminare i lavori alla stalla, sentivamo
l’espandersi nell’aria e ovunque del caratteristico profumo del soffritto di cipolla che
rosolava nel “padellino” di rame. Quello costituiva l’ultimo ingrediente che Argentina
( e come lei ogni massaia del vicinato) versava nella marmitta di coccio, dove già da
qualche ora bollivano insieme i fagioli, la bietola, gli spinaci, qualche pomodoro e delle
foglie di cavolo nero. Stavano bollendo insieme tutti gli ingredienti indispensabili per
un buon minestrone. Quando era possibile mia madre ne preparava un tegame in più,
così ne rimaneva per il giorno successivo e ce la potevamo gustare come “ribollita”
La sera ci riempivamo di tale zuppa di pane e fagioli, poi con una trappoletta, poteva
essere una mela dei nostri meli, qualche fico secco o delle noci, eravamo sazi e
tranquilli. Non c’era da sbagliare, le scelte per chi doveva preparare il mangiare per una
famiglia erano davvero poche. Importanza non trascurabile avevano i ceci, che un
giorno alla settimana sostituendo i fagioli erano presenti nel mangiare del contadino.
Devo aggiungere che non tutte le famiglie potevano disporre di fagioli, patate e
ceci causa l’aridità dei loro terreni.
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Ed io rammento con soddisfazione, quanto era delizioso quel piatto di “tagliolini” e ceci
col fragrante aroma di rosmarino che mia madre vi faceva bollire qualche minuto
assieme. Altre cose non ce le potevamo permettere, ma in fondo, noi giovani di allora
nati e cresciuti con tale modo di nutrirsi eravamo contenti. Alla fine, poi, seppur
povero era molto salutare. Adesso tutto è cambiato. Se le bistecche non sono alte più di
tre centimetri, non valgono un gran che. Non passa giorno che sulla tavola non vi sia
abbondanza di carne. C’è l’usanza di andare a mangiare… “fuori”, ovvero al
ristorante, dove la gente si “rimpinza” di carne alla griglia, e poi spesso deve ricorrere a
potenti digestivi. Così non si combattono i malanni che inevitabilmente con tale
comportamento possono sopraggiungere.
Non c’è più un bambino al quale venga fatto mangiare pane, con pomodoro ed olio,
come si usava un tempo. Il medico a mia madre diceva:- Avete un cibo straordinario per
i vostri figlioli e non lo volete capire. Si riferiva proprio al pane e pomodoro. Adesso
molto spesso la nonna sostituisce la madre dei bimbi poiché per lavoro è costretta a
rimanere assente. Ma costei da precise indicazioni su come alimentare il proprio figlio.
Certamente non suggerisce pane e pomodoro, ma merendine preconfezionate o nutella.
Si vorrebbe tornare alla “dieta mediterranea” e per la salute sarebbe un gran bene, ma
non mi sembra questa la via giusta per raggiungere tale obiettivo. Seguitando per
questa via non si combattono i pericoli del grasso eccessivo nel sangue. Dunque
dobbiamo ritornare alle vecchie usanze, meno carne e più verdura. Io provo
soddisfazione quando posso mangiare un bel piatto di “ribollita” e per secondo
null’altro.
Siena 24.05.2002
A Leonini
PER RIMPINZARVI….(Sonetto)
1 Per impinzarvi, amici miei diletti,
or quasi ogni dì a pranzo o cena,
a mangiar carne con voracità e lena,
nel posto che vi convien siete diretti.
2 Trangugiate insieme piatti di spaghetti,
la bistecca che faccia sangue appena,
la parte del suino della schiena,
porzioni di cinghiale e carciofetti.
3 Se poi il colesterolo va alle stelle,
la tremarella vi vien dalla paura,
ma voi mangiate pur le pappardelle.
4 Non è codesta, cari amici, giusta cura;
occorrono cipolle e ravanelle,
ovvero niente carne e più verdura.
Siena 25.05.2002
A. Leonini
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IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
Chi come me ha trascorso tante primavere che da tempo non si possono più contare con
le dita di una sola mano, ricorda e non potrà mai dimenticare la nobiltà del rito di
preparazione e cottura del pane, cibo quotidiano e primario di un’epoca ormai lontana.
E quel rito si ripeteva nella campagna più sperduta, ma anche nella mia contrada
seppure molto vicino al paese, ogni 7-8 dì.
Non usava, e non era possibile, per i lavoratori dei campi, nutrirsi di pane fresco di
giornata. Quella del pane è una storia da me vissuta come tante altre e penso meriti di
essere raccontata a coloro che a quei tempi non c’erano.
Io e la mia famiglia avevamo la fortuna di abitare al podere Colombaiolino, ed alla
distanza di pochi metri da altre due famiglie, un contadino come noi ed un inquilino.
Ci separava solo una strettissima strada che appena consentiva il passaggio della
macchina trebbiatrice. Quelle famiglie erano composte da persone stimatissime e serie,
con le quali avevamo un di sincera amicizia e di reciproca comprensione. Anche noi due
contadini e l’inquilino usavamo, come tutti, procedere alla preparazione ed alla cottura
dell’importante e non sostituibile materia prima ogni sette o otto giorni. Ma questo lo
stabilivano tra loro le donne ovvero le massaie delle due e talvolta tre famiglie.
Non era possibile non trovarsi d’accordo, e poi conveniva perché il forno era grande ,
capiente per una trentina o più pani. Scaldarlo al punto da permettere la cottura del
pane, costava il consumo di oltre dieci fascine di legna, e nella zona c’era purtroppo
carenza. Quel benedetto accessorio dei due poderi veniva così usato insieme ma
riscaldato a turno. Ovviamente all’inquilino ciò non veniva richiesto. Pur di sfruttare
detta possibilità, ci prestavamo il pane l’un l’altro per esaurire la panata nello stesso
giorno. Quando nella madia rimanevano uno o due pani, le massaie si cercavano.
O Argentina- diceva Corallina- moglie del vicino- quanto pane ti resta ancora? Saresti
d’accordo per cuocerlo dopo domani di mattino? Magari se ti resta un pane in più lo
prendo io, mi farebbe comodo per preparare la minestra di fagioli. Va bene dopo
domani, rispondeva Argentina mia madre. Allora quando questi “citti” vanno a scuola
faccio compra’ un soldo di lievito di birra da Faustina, tanto un soldo ci dovrebbe
basta’ . Ma se il tempo cambia e si mette a piove’? Affermava ancora Corallina. A ciò
l’altra rispondeva Bisognerà arrangiarsi. Io dirò a mio marito di mette’ una diecina di
fascine al riparo sotto la parata, così ‘un ci saranno problemi.
Benissimo, allora siamo d’accordo così. Chi si sveglia per prima chiama. Ma quelle
laboriose donne nel corso della giornata si incontravano e si salutavano una cinquantina
di volte. Eravamo tanto vicini che sentivamo friggere le patate nella padella dell’altra
massaia. Dopo essersi trovata d’accordo con Corallina, mia madre diceva:- Ragazzi
stasera quando tornate da scuola, comprate un soldo di lievito, ma ‘un ve ne scordate
perché se no vi ci rimando di corsa.
E così la sera precedente, magari dopo rigovernato la casa, Argentina indossava il suo
grembiule bianco appositamente cucito per tali occasioni, e, munita di staccio si
accostava alla madia. Cominciava a stacciare la farina per liberarla da eventuali grumi, e
continuava fino a raggiungere la quantità giusta che ormai conosceva a memoria.
Dopodiché faceva scaldare un pentolino di acqua , con la quale discioglieva il lievito
naturale preparato con la pasta della precedente panata e poi messo da una parte nella
madia. Vi aggiungeva il lievito di birra acquistato da noi ragazzi e rimenava ben bene.
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Questo era il preliminare senza il quale il mattino successivo non sarebbe stato possibile
procedere alla panificazione, ovvero alla laboriosa preparazione e cottura
dell’importante materia prima di ogni famiglia. Se non ci fosse stata sufficienza di pane
a sopperire alla mancanza di tante altre materie, per la mensa del contadino sarebbero
stati davvero grossi problemi. Ci accorgevamo dell’esistenza della bistecca o di altri
prelibati, saporosi e sostanziosi cibi, solo quando ci trovavamo a passare dinanzi a
qualche ristorante o abitazione di signorotti. Ma lasciamo perdere i “ricchi deschi” e
torniamo al delicato e gradevole profumo del pane.
La mattina stabilita dalle donne, quando ancora non era giorno, sentivo camminare per
casa. Era mia madre che si affaccendava a far scaldare l’acqua per poi procedere ad
impastare la farina preparata la sera precedente con in mezzo il lievito già disciolto.
Appena pronta chiamava la vicina che pure lei doveva compiere lo stesso preparativo.
O Corallina ….- chiamava mia madre- quanto si sta a mette’ mano? Anche subito,
oppure tra due minuti – rispondeva l’altra. Il motivo di ciò appare molto chiaro: i lavori
per la panificazione dovevano procedere per ambedue di pari passo. Appena fatto
l’impasto si chiamavano nuovamente perché anche la fase successiva fino alla
sistemazione dei pani nell’apposita tavola per la lievitazione, doveva rispettare gli stessi
criteri. Quando anche l’inquilino partecipava, procedeva ascoltando le due massaie.
Man mano che un pane veniva confezionato e spianato, veniva delicatamente posato in
detta tavola ben ravvolto con un telo bianco. Intanto mio padre ( se toccava a noi) dava
fuoco al forno, ovvero metteva fuoco alle fascine che dovevano una alla volta, ma senza
interruzione, essere bruciate finché la cupola interna costruita a mattoni refrattari non
assumeva il colore biancastro, ad indicare che l’ambiente era sufficientemente
arroventato e pronto, quindi, a ricevere il pane. Ma le fascine che bruciavamo da dove
provenivano? Noi non avevamo il bosco di nostra proprietà, perciò mio padre con la sua
consueta calma diceva:- Ragazzi, bisogna arrangiarsi, dobbiamo trova’ qualche siepe di
macchia da taglia’; ‘un si possono brucia’ le fascine di viticci per riscalda’ il forno.
Ed allora eravamo costretti specialmente nell’Inverno a cercare dove poter procurare
qualche centinaio di fascine per quell’importante uso.
Dunque riscaldato a modo quel benedetto forno, mio padre metteva “l’abboccareccio”
(coperchio di lamiera pesante con apposito manico, che doveva servire a non far
defluire il calore dal forno) indi saliva a prendere la tavola contenente i pani ormai
lievitati e pronti da infornare. Ovviamente il marito di Corallina faceva altrettanto.
Ma il forno andava “provato”. Poteva accadere di averlo riscaldato eccessivamente con
il rischio di abbrustolire malamente la corteccia che, infine, era la parte migliore del
pane. Nessuna preoccupazione all’accertamento provvedevano le donne.
A tale scopo avevano lasciato dei pezzetti di pasta che ora spianavano sino a portarli
allo spessore di circa mezzo centimetro e li infornavano. Insomma facevano il
prelibato “ciaccino” che, salato, all’uvetta o più raramente con i “ciccioli” del maiale
costituiva la colazione per quella mattina e non soltanto per quella. Quel giorno,
dunque, per colazione, estate o inverno c’era solo il “ciaccino”. Mia madre diceva:‘Un vi lamentate, c’è chi la mangerebbe in capo ai tignosi questa grazia di Dio.
Sinceramente non seppi mai…decifrare il significato di quelle parole né glielo chiesi.
Tolto ben cotto e croccante il ciaccino dal forno, le due donne, con prontezza ed
aiutandosi, provvedevano mediante l’uso di una pala di legno dal manico lungo oltre i
due metri ad infornare le loro tavolate di pane.
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Nessuna, però, dimenticava di fare il segno della croce su ogni pezzo, al momento di
toglierlo dal telo che lo ravvolgeva. Bastavano dieci minuti dal momento che venivano
infornati perché nell’aria circostante cominciasse ad espandersi quel delicato quanto
delizioso profumo del pane in fase di cottura, che metteva appetito anche alla persona
più disgustata o sofferente di disappetenza. Per quasi un’ora, tanto era il tempo per
giunge5re alla cottura, quel profumo seguitava ad esalare.
Ora che ci penso già mi sembra di riprovare certe sensazioni. In due famiglie facevamo
cuocere ogni volta circa venti pani ma potevano essere anche venticinque quando
partecipava pure l’inquilino. Erano pani di circa un chilogrammo, e quando venivano
sfornati colorati e croccanti, era un piacere solamente a guardarli. Ma quel delizioso
profumo che esalava fin dai primi momenti della cottura si manteneva inalterato per più
giorni. Bastava avvicinarsi alla porta della cantina e ricompariva in tutte le sue bontà.
Quei dieci pani che dovevano bastare 7-8 giorni, si mantenevano inalterati perché
racchiusi in apposito contenitore (un bigoncio da vendemmia) e ricoperti da un telo
bianco. Quando mia madre si ammalò da non poter più fare quella faccenda tanto
importante, mio padre Angiolino, per la gente Angiòlo, una sera a tavola ci disse:- Ora
alla meglio “bisogna arrangiarsi”. E mio fratello ormai diciottenne, magari qualche
volta aiutato e consigliato da nostra zia Gesuina che abitava in paese, cominciò a fare
lui il pane ed il bucato. Ma quel pane che era l’unica ricchezza di cui potevamo
disporre, seppure confezionato, poi, da mani meno esperte non cambiò squisitezza,
profumo, sostanza e colore. Fu sempre il medesimo “pane casareccio” che costituì fin
da bambini la prima cosa che imparammo a mangiare dopo succhiato il latte materno.
Io non lo rammento nel mio caso, ma ebbi modo di vedere tante mamme dare ai loro
pargoli appena svezzati il cortecciolino di pane e poi sussurrare con amore:- Succhialo,
tesoro, questo panino di Dio, così ti cresceranno i dentini e ti si rafforzeranno le
gengive. Questo era il nostro pane quotidiano che veniva considerato da tutti come una
cosa sacra. Specialmente nelle campagne vivevamo la sua storia interamente e senza
sosta. Dal momento che consegnavamo, con tanta speranza, il seme alla terra, fino alla
trebbiatura, ai preparativi vari per la macinazione e infine ai preliminari per la
panificazione ed alla cottura.
Cose vissute ed eseguite, tutte, dalle stesse mani ruvide e callose, ma che sapevano in
tal senso bene operare. Non posso, nel rimembrare queste cose che ci riportano tanto
lontano nel tempo, tralasciare il delizioso profumo dei “ciambellini”. Quel dolce che ad
ogni festa pasquale mia mamma con tanta passione si accingeva a preparare per i suoi
ragazzi. E quando per ragioni di salute non poté più dedicarsi a ciò, fu sua brama
insegnare a mio fratello i suoi segreti per confezionarli.. Guardando stupefatta chi in
qualche modo, cercava di apprendere tali sane ricette diceva:- “Ragazzi io non posso,
“bisogna arrangiarsi”.
Siena 15.8. 2002
A. Leonini
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PANE RICCHEZZA IMMENSA
1 Quando giungesti in questa terra amata,
Qualcuno disse:- Mia cara creatura,
stringiti a me e prendi la poppata”,
poi avrai dalla tua mamma baci e cura.
2 Il latte materno ovver dolce alimento,
ti sostenne fin dal primo tuo vagito,
lieto ti renderà ogni momento.
mancandoti crescerai denutrito.
3 Ma nel lesto proseguo del tuo viaggio,
a pochi mesi appena dall’inizio,
altro cibo ti dettero in assaggio,
e le “poppate” divennero uno sfizio.
4 Il pane al posto del latte materno,
sarà poscia importante nella vita,
seppur trattato vien talor con scherno
la sua mancanza sarà presto sentita.
5 Sarà quel cibo che quotidianamente,
ti vorrai con certa premura procurare,
e se la fame punge amaramente,
non potrai tale alimento disdegnare.
6 Alla parca mensa potrai dir:- Pazienza,
non piangendo la mancanza di braciola;
ma fortemente lamenterai l’assenza,
di quel pezzo di pane che consola.
7 Oh che tristezza trovarsi in que’ frangenti,
ove la fame… vedi vittime falciare,
e udire tra tristissimi lamenti
chieder del pane per potersi alimentare.
8 Tornano in mente, con nostalgia persino,
i giorni antichi di mia giovinezza
quando là al mio vecchio poderino,
ardeva il forno e mancava la tristezza.
Ricordi di primavere assai lontane,
allorché gioivamo all’olezzar del pane,
Siena 14.08.2002
A. Leonini
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LE SAPEVANO RACCONTAR BELLE…
Come si può non trovare un senso di distensione e nello stesso tempo, sorridenti,
apprezzare quelle persone che dotate di “spirito burlesco” le sanno inventare e
contemporaneamente raccontare talmente grosse che alla fine anche a costoro sembrano
vere? Tanto tempo addietro si tenevano le fiere paesane dove accorrevano “cantastorie”
e “barzellettai” che di fronte a nutriti assembramenti di persone , pronte ad applaudire ,
raccontavano storie vere gli uni, e macchiette inventate lì per lì gli altri. Tali personaggi
facevano storia ai tempi della lontana mia giovinezza, ma si riscoprono anche oggi
talvolta osservando i programmi T.V. Pure nella mia cara contrada di “Grottoli”
(Asciano) in tempi ormai lontani vivevano due persone che possedevano il dono di
saperle inventare e raccontare belle. Le dicevano tanto grosse che spesso si
allontanavano dalla realtà. Erano due stimatissimi ed impeccabili “padri di famiglia”
che seppero dare ai loro figli sani insegnamenti e giusti consigli da sapersi facilmente
inserire nel mondo del lavoro e della scienza. Uno abitava a cento metri dalla mia
modesta casa colonica, l’altro in “Via Grottoli di Sotto” in un podere di sua proprietà.
Bastava che i due si incontrassero e già alle prime battute, dopo essersi salutati
amichevolmente, prendevano a raccontarsele. Io avrei bramato avere un decimo di
quella fantasia e di quella facilità di espressione al cospetto dell’interlocutore. I nomi
che qui di seguito indicherò, ovvero quelli dei due protagonisti sono fittizi, ma i
fatterelli e le macchiette corrispondono a pura verità. Mi ricordo, e non potrei
dimenticarlo, quel mattino di trebbiatura nell’aia di Gagliano Granai, e ciò accadde al
momento dell’atteso spuntino, per cui la sosta anziché di 15 minuti si protrasse per ben
45. Tutti rimanemmo bloccati ed incantati ad ascoltare quei due personaggi che,
talvolta sorridendo ma anche con parvenza di serietà se le stavano raccontando. Io
naturalmente ero presente e potei quindi assistere all’allegra scenetta. O Gigi,…esclamò
Beppe, ma lo sai che ieri ho scoperto un nido di cardellino? E che c’è di tanto speciale
rispose Gigi. E invece c’è parecchio di speciale continuò il primo. Te ‘un ci crederai ma
ha fatto il nido in una pianta di granturco tanto alta che per saziare la mia curiosità di
vede’ che c’era dentro ho dovuto piglia’ la scala del pagliaio del fieno che ha sette
scalini. Sai Gigi, ce l’ho appoggiata e so’ salito su, ho potuto conta’ diciassette
uccellini nati da appena due giorni. Vorrò vede’ come faranno a entrarci tutti quando
saranno più grossi. Mah…gli toccherà arrangiarsi. E Gigi di rincalzo:- ‘un le racconta’
tanto grosse. Lo sai che m’hai fatto ritorna’ l’arsione? Abbastanza ce l’ho arretrata da
ieri; ora te con le tu’ bugie me l’hai fatta “ rinsilla’ ”.O Gigi ma che ti senti poco bene
per ave’ tanta arsione? Replicò Beppe. Macché – riprese l’altro- ieri andai al mercato a
Siena per vede’ i prezzi dei “lattonzoli” e dopo finito il mercato andai da Caterina
nell’Onda per fa’ colazione e m’ha portato un fegatello. Era talmente buono che n’ho
mangiato un secondo, poi un terzo, insomma lo sai quanti n’ho mangiati? Mi so’
fermato a 13 perché ho visto le acciughe sotto pesto col profumo di aglio e prezzemolo
e ‘un mi so’ potuto trattene’; l’ho mangiate sette o otto, poi ho cominciato a senti’
l’arsione da ‘un campa’. Tra ieri sera e stanotte ho bevuto un secchio d’acqua da 12 litri.
M’era quasi passata, ora te con le tu’ “panzanate” me l’hai fatta ritorna’. Tra una risata
e l’altra riprendemmo il nostro lavoro, e la trebbiatura nell’aia di Gagliano proseguì
fino al termine in clima di allegria. Ogni volta ti trovavi in un luogo e vedevi comparire
quei due amici, persone correttissime, come già detto c’era da aspettarsi che qualche
“bomba” scoppiasse.Una sera si incontrarono in un noto bar del corso centrale di
Asciano, dove gli appassionati di caccia erano soliti incontrarsi e raccontarsi le bravate
della giornata.
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Chi aveva preso due fagiani e una lepre, chi sette starne, chi due lepri e una “padellata”.
Insomma tutti erano tornati ccol carniere strapieno di preda, quando si sapeva che gli
animali erano ovunque più rari delle mosche bianche. Ascoltando quei discorsi Beppe
sbottò :- O te Gigi ‘un lo cavi quest’anno il porto d’arme? E l’altro:- ‘Un so’ stato in
tempo a “cavallo” e allora voglio spera’ che qualche anima buona mi faccia assaggia’
qualcosa. Beppe più che mai divertito dalle parole di Gigi continuò:- Ma lo sai che mi
successe i giorni scorsi laggiù vicino alla vigna del Bari, lì dove ci so’ quei quercioni
secolari? M’ero messo in un angolino ad aspetta’ la beccaccia , e quasi m’ero perso di
coraggio. Ormai pensavo di ritorna’ a casa senza niente, quando te la vedo vola’ distante
da me neanche 50 metri. Il mi’ fucilino a bacchetta l’avevo caricato apposta per
quell’uso, in un attimo piglio la mira… tiro il grilletto…pum…parte la botta e te la vedo
veni’ giù a picco. Sarà stata la combinazione, o la disgrazia per lei, e la fortuna per me,
che col becco andò proprio a casca’ sulla testa di una lepre a covo. Quella bestiola,
poveretta, con la testa bucata dal becco della beccaccia, nel mori’, a forza di stira’ le
zampe e raspa’ la terra, cavò un tartufo di tre etti e mezzo. Insomma – concluse- meglio
di così ‘un mi poteva anda’ ; con una schioppettata portai a casa la beccaccia, la lepre e
un bel tartufo. E ci credo- rispondeva Gigi- te sei sempre il solito fortunello.
E poi dovrei cava’ il porto d’arme, quando s’ha a che fa’ con gente come te? ‘Un si
penso nemmeno. Mi do piuttosto all’agricoltura che mi rende alquanto bene. Ma lo sai
Beppe- continuò – Continuò Gigi- ieri ho cavato tre buche di patate novelle per far la
frittata, m’è toccato piglia’ la carretta per portarle a casa. Ce l’ho trovate lunghe 45
centimetri, e l’ho dovute lega’ a fastellini per caricarle meglio. Una volta a casa l’ho
messe sopra la basculla, pesavano 33 chili. Capito Beppe che roba? Tre buche di patate
33 chili ‘un so’ mica capaci tutti a farle fruttifica’ così. Ma poi ti pare niente averci un
solco di sedani che son talmente cresciuti che ho dovuto mettergli i pali di sostegno? Il
primo che cavai lo vendetti all’ortolano (il Fiorni), lo pesò lui stesso, risultò 11 chili. E
poi dovrei cava’ il porto d’arme? Niente da fa’ , io so’ portato per l’orticoltura. Ma vi
pare che Beppe a questa rivelazione di Gigi potesse stare zitto? Dopo pochi secondi,
parlando con Pietrone delle Panie che era presente chise:- O Pietro, che te ne pare
quest’anno dell’uva, con il solleone che s’è fatto senti’ piuttosto fortemente? Marispose Pietro- se ‘un si mette a piove’ a Inverno come ha fatto tante volte dovrebbe
esse’ un’annata buona. Al che Beppe rispose:- Ma lo sai che nella vigna sotto l’aia, nel
filaio della malvasia ci so’ certe zocche lunghe più di un metro? Toccano in terra e per
‘un farle marci’ ho fatto delle buchette per ‘un farle marci’. Gigi che aveva assistito in
disparte al racconto non poté resistere dall’intervenire. Io vorrei sape’ come fai a
inventarle tanto grosse, e come fanno a star lì ad ascoltarti. E Beppe di rimando:- E io
vorrei sape’ quale concime dai ai tu’ sedani per farli veni’ Tanto grossi e alti da dovergli
mette’ il palo. E non finivano mai di raccontarsele. Gigi possedeva delle galline che
facevano ciascuna due uova al giorno e con due tuorli. L’altro con una fucilata ad un
nugolo di passerotti che s’ingegnavano intorno al pagliaio ne uccise tante da riempire un
“crino” della stalla. Insomma queste due persone, di cui taccio il nome, per tanti anni
con le loro trovate allietarono chi poté assistere ai loro dialoghi. Ora questi due amici
non sono più tra noi, ma non possiamo scordare il loro linguaggio semplice , puro e
traboccante di fantasia. Non so se quella che fu la mia cara contrada di Grottoli, che
manterrà sempre un posticino nel mio cuore, potrà ancora avere personaggi di quel
valore nel “saperle raccontar grosse”
Siena 18.08.2002
A. Leonini
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SAPEVANO DIVERTIRCI
1 Della “Grottoli mia”, sempre cara,
ove vissi, seppur con ristrettezza;
rimembro i lieti suoni di fanfara,
e gli anni dell’antica giovinezza.
2 Scarne avevam le tasche di soldini,
e si soffrivan le pene dell’inferno;
ma cosa fare? Eravamo contadini
e zoccoli calzavam nel duro inverno.
3 Avevam piene di toppe i pantaloni,
nel “solleone o con la tramontana”,
non eccellevan di ognun le condizioni
in detta fiorente oasi nostrana.
4 Ma non mancava gaiezza tuttavia,
quando potevi un poco conversare,
con chi abbondava in “brio e fantasia”.
Intorno pareva ,allor, tutto brillare.
5 Ti facevan sembrar sereno l’orizzonte,
anche quando prendeva a “bubbolare”,
dov’era valle t’appariva il monte,
un laghetto diventar facevan mare.
6 E noialtri gioivamo ad ascoltare,
pur sapendo esser pura fantasia;
ma con tanto buonumore a raccontare,
riuscivan la tristezza a scacciar via.
7 Io m’inchino ripensando ai loro volti,
di contadini, ma pieni d’espressione;
di personaggi puri, alquanto colti,
da saper d’ognun lenire la tensione.
8 Siam sempre “grottolesi”, questo è vero,
ma soggetti di sì alta levatura,
in questa oasi nostra, son sincero,
sembrami ritardar la fioritura.
9 Non avrem più divorator di fegatello,
o cacciatori con armi portentose,
or che trabocca di soldi ogni borsello,
le giornate sembreranno più noiose.
Siena 21.08.2002
A. Leonini
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LA VIA DELLA SPERANZA
Nel ripensare ai lontani giorni della mia gioventù, innumerevoli sono gli episodi belli o
meno belli, lieti o tristi che mi riaffiorano dinanzi. Benché talvolta la patina del tempo
tende ad offuscarne taluni, altri sono rimasti limpidi come se fossero accaduti solo ieri.
Il motivo per cui sono rimasti così presenti nella mente di questa persona vetusta e piena
di malanni, sarà certamente perché segnarono una svolta positiva nel prosieguo della
sua vita. Ed è proprio per cercar di superare, almeno per qualche ora, le conseguenze di
tali molteplici acciacchi che mi affido all’amica penna che, sebbene tra le dita di uno
con cultura mediocre, mi è stata sempre fedele.
Sperando che lo rimanga anche in questo frangente mi accingo a raccontare una delle
epoche più belle da me vissute. Allora c’era, come c’è tuttora, un tratto di strada di
qualche chilometro che congiungeva il podere Colombaiolino, dove io abitavo, con il
caseggiato del “Castellare” . Ubicato in stupenda posizione e ricoperto dal verde, sulla
dritta mano, percorsi almeno trecento metri oltre il torrente Copra, segnava pure l’inizio
dell’erta via che, a chi non era abituato, faceva venire il cuore in gola.
A quel tratto di strada, che percorrevamo a giorni alterni tre volte alla settimana,
avevamo dato un nome diverso dal suo, ma piuttosto appropriato al motivo per cui,
insieme ad un amico, la transitavamo.
Noi la chiamavamo la “Via Della Speranza” ed il percorrerla così frequentemente
infondeva nel nostro animo il coraggio di perseverare, proprio nella speranza di potere
un giorno raggiungere una meta tanto agognata. Seppure animati dalla volontà di
spremerci fino al limite del possibile, talvolta era davvero dura dopo le fatiche dei
campi, armarci del necessario e raggiungere quella località incuranti delle condizioni
del tempo che, nei mesi invernali erano spesso sfavorevoli. Ma sapevamo che, muniti
purtroppo di un titolo di studio equipollente alla terza media, dovevamo confrontarci
con giovani in possesso di diplomi e di lauree, per i quali tutto sarebbe risultato più
facile al momento degli esami previsti. C’era poco da dormire. Marino Tommasi. era la
degnissima persona che ci ospitava nella sua casa per prepararci, cercando di infondere
in noi coraggio e speranza. Aveva preso a cuore la nostra causa e non trascurava nessun
particolare di quello che era il programma stabilito dal concorso al quale ci
accingevamo a partecipare. Per farci meglio comprendere ogni sfumatura, a parer nostro
meno importante, ci teneva al tavolino intere ore. Voleva essere sicuro che non
esistevano in noi dubbi su ciò che ci aveva spiegato.
Consumava molto del suo tempo libero per preparare due giovani lavoratori della terra
che anelavano intraprendere una diversa attività. Costui era insegnante alle suole
elementari di Asciano, e riteneva, la sua, una missione. Sapevamo della sua generosità,
ma lo comprendemmo ancor meglio quando cercammo di stabilire un compenso per le
ore a noi dedicate Cari ragazzi, ci disse la sera che gli chiedemmo il suo avere, vi vedo
così pieni di volontà e ansiosi di apprendere cose nuove e utili, per cui sarei persona
incosciente se non facessi tutto il possibile per aiutarvi.
Se un giorno- proseguiva- riuscirò a prepararvi tanto bene da farvi vincere il concorso,
faremo una cenetta insieme, per adesso cercate di studiare perché il programma e
piuttosto ampio . Quindi forza, coraggio e avanti senza stanchezza. Le conquiste più
meritate sono quelle ottenute con il sacrificio.
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Se io non mi coricavo prima della mezzanotte suonata da un pezzo, l’amico e compagno
nell’ardua impresa Ilvano Caliani, faceva molto più tardi, ma egli era appena diciottenne
quindi sopportava meglio di me tali sacrifici. Mi sembra giusto, però, descrivere con
ordine ciò che avvenne in quegli anni, quando ancora non ero trentenne. Nel Settembre
dell’anno 1956 fu bandito quel concorso nelle F. S, ed il10 di Ottobre scadeva il termine
per la presentazione delle domande di partecipazione. A quel giorno, provveduto ormai
a tale obbligo, già avevamo iniziato a percorrere la via da noi definita “Della Speranza”,
e a Marzo, grazie all’impegno profuso, tutto il programma era stato scorso attentamente.
Visto che non eravamo ancora stai convocati per l’esame scritto, Marino volle spingersi
oltre a ciò che richiedeva il programma. Le prove scritte- diceva costui- sono sempre
incognite, e dovete esserne consapevoli, però – seguitava – a questo punto non dovete
deludermi. Perseverate e vedrete che giungerete a goderne i frutti. A dire il vero
eravamo titubanti perché immaginavamo copiosa la partecipazione di candidati in
possesso di titoli di studio superiori grazie ai quali, come prima detto, sarebbe stato per
loro tutto più facile. Anzi sarebbero state “bazzecole”.
Fummo convocati per il 10 Maggio, Ilvano a Milano ed io a Torino, ed incoraggiati da
Marino giungemmo per tempo, ovvero il dì precedente, in quelle città sedi
compartimentali. Sostenemmo le prove scritte, fiduciosi del nostro operato, poi calò il
silenzio più nero. Quando molti mesi più tardi, tanto Ilvano che io riuscimmo
ufficiosamente a sapere il punteggio ottenuto, riprendemmo a percorrere la “Via della
Speranza”. Dovevamo prepararci il meglio possibile per gli esami orali. Se in noi
aleggiava qualche lieve speranza, Marino esultava. Ragazzi- diceva – ha questo punto
bisogna mettercela tutta. Non ci dobbiamo abbandonare per farci fregare, ora che la
prova più dura è superata. Quando il risultato da voi raggiunto sarà reso ufficiale, se
sarà confermato quello da voi conosciuto, avrete pochi giorni per prepararvi, quindi vi
dico ancora, “forza e coraggio”
Quando non andavamo al Castellare, io passavo ere intere sui libri di matematica, di
Storia e di Geografia Ferroviaria. Mi era accaduto più volte di addormentarmi al
tavolino e svegliarmi quando mia moglie, battendomi la mano sulla spalla, mi riportava
alla realtà. Tutti quei sacrifici non furono vani, ed il primo giorno di Dicembre 1959
fummo ambedue assunti nei compartimenti F. S. per i quali avevamo concorso.
La mia vita cambiò dalla notte al giorno, e tutto ciò lo devo ai suggerimenti ed
all’insegnamento di Marino Tommasi.. Ma un rimorso cova nel mio intimo e quasi mi
vergogno di me stesso. La persona che tanto mi spronò, dopo la mia assunzione fu persa
di vista, e mai più si parlò della cenetta promessagli quando percorrevo insieme a Ilvano
“La via della Speranza”
Siena 22.06.2002
A. Leonini
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DAL PENTAGRAMMA AI CONCERTI
Abitare nella dolce contrada di Grottoli (Asciano) negli anni della mia fanciullezza, lo
devo ritenere un grande privilegio, ed i motivi sono molteplici. Basta citarne alcuni ed
immediatamente appare la realtà di quanto affermato. La vicinanza al paese per
qualsiasi urgente bisogno del medico, la farmacia sempre a disposizione, le botteghe di
cose varie, il Comune per eventuale disbrigo di pratiche, la Chiesa, cosa erano se non un
grande privilegio? C’era poi la maggiore probabilità di accedere agli svaghi quando le
condizioni economiche lo permettevano. Io e diversi altri amici, dopo il bel giorno
della “Prima Comunione”, imparammo a recarci, ogni domenica nei locali annessi alla
Chiesa Collegiata, ove, alla presenza del cappellano trascorrevamo le serate in giochi da
bambini. Dopo le funzioni religiose alle quali partecipavamo rientravo a casa, c’era da
svolgere i compiti perché il lunedì ci attendeva la scuola; non averli fatti poteva
comportare anche una punizione o cattivo voto.
Nel 1938 (avevo solo 12 anni) appena terminate le elementari, io e altri amici di Grottoli
avemmo una splendida idea. Essere ogni giorno a contatto con chi (più grandicelli) già
da alcuni anni suonavano uno strumento, fece scattare in noi la molla di iscriverci alla
scuola di musica. Dunque 5 ragazzi : Mario Benocci, Guido Lorenzoni, Aldo
Grisostomi, Ivo Palazzi e lo scrivente Aldo Leonini, si presentarono al maestro
Fabbrini, per iscriversi alle lezioni. Imparare il valore delle varie figure musicali dalla
“Semibreve alla Semibiscroma”, fu cosa alquanto dura. Ma col tempo e la pazienza del
maestro alla meglio vi riuscimmo. Quando arrivammo a studiare il “Metodo Bona”
ossia a solfeggiare, fu ancora più dura. Però quei cento e più esercizi nel tempo, non
breve di otto mesi li potemmo completare. Non eravamo stati “vere cime” nell’imparare
a leggere la musica, ed il maestro molto spesso ci diceva:- Siete stati un po’ somari, ma
in passato li ho trovati anche peggio di voi. Insomma, in un certo modo ci voleva un
tantino incoraggiare. E venne il giorno che ci disse:- Ora, ragazzi, dovete decidere. Se
mi promettete di impegnarvi, nell’armadio ci sono i 5 strumenti per voi, altrimenti da
questa sera si chiude “l’argomento musica”.
Secondo la mia esperienza- proseguì il maestro- ho già individuato gli strumenti a voi
più confacenti. Allora- seguitò- questo sax contralto è per Mario, il clarino per Ivo, i due
tromboncini uno a Grisostomi e l’altro a Guido. Poi rivolgendosi a me soggiunse:- E
questo vecchio flauto in Do e per te. Non vorrei rimanere deluso- disse ancora- poiché
è molto tempo che aspiro avere un allievo a cui insegnare lo stesso strumento con cui
ho avuto la soddisfazione e l’onore di potermi, molti anni addietro diplomare. Detto ciò
tolse da un armadietto una custodia che conteneva, ravvolto nel velluto rosso il suo
flauto argentato. Non è come il tuo- mi disse- ma il suono e lo stesso. Allora cerca di
seguire i miei insegnamenti e consigli e sarà capace di darti tante soddisfazioni. Poi
rivolgendosi agli altri disse ancora:- Quello che ho appena detto a Aldo vale anche per
tutti voi. Pure i vostri strumenti richiedono tanta volontà di apprendere perciò di studio.
Quella sera quando prendemmo la via del ritorno ognuno di noi portava in mano il suo
strumento musicale con lo stesso riguardo che si può avere per una cosa sacra.
E proprio da quel momento cominciavano per noi le vere difficoltà, e per il nostro
maestro le frequenti arrabbiature. Non c’era lezione che non ci buscassimo dei somari,
ma poi ci sorrideva. Comunque essere in possesso di quegli oggetti ci faceva sentire
orgogliosi e felici. I primi mesi, fino a quando non avemmo fatto “il labbro”, da detti
strumenti non sortivano che suoni sguaiati, certamente lontani dal somigliare a note
musicali.
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Prima di avere imparato a fare le sette note, ovviamente, passarono alcune settimane.
Poi iniziammo a seguire gli studi del metodo con relativi saggi per ogni strumento. Nel
confrontare il mio libro di esercizi con quelli degli altri prendevo paura nel vedere intere
pagine strapiene di “semibiscrome” . Gli altri erano meno oscuri e, francamente, mi
chiedevo come avrei fatto a superare tali difficoltà. Pian piano, con il tempo, molto
tempo, giunsi anche a studiare quelle pagine piene di asperità. Non mancarono le
difficoltà specialmente con le note alte, quelle con “il taglio in testa ed in gola”.
Tante bacchettate sul leggio dovette dare il nostro maestro! Ma mi incoraggiavo perché
anche gli altri ragazzi si buscavano la loro buona dose di rimbrotti. Insomma grosso
modo proseguivamo tutti di pari passo. Egli si sforzava per poterci portare tutti insieme
alla “sortita”. La prima sortita. Passarono gli anni e finalmente vide coronato il suo
desiderio. Vorrei sottolineare che nel 1939, quando con gli altri amici frequentavo la
Scuola di Avviamento a S. Francesco, noi 5 eravamo in possesso del fatidico
strumento. Alcuni di quei compagni di scuola del paese, quali: Sergio Anselmi, Sirio
Mencarelli, Luigi Trapassi (Stoppino) li vedemmo più tardi in sala di musica per il
medesimo nostro scopo. Dopo tante lezioni, rimbrotti e arrabbiature, finalmente il
maestro ci comunicò che presto ci avrebbe permesso di fare la prima sortita.
Nell’occasione ci consegnò il libretto delle marce allegre, religiose e funebri. Dopo
alcuni mesi di studi e di “ripassi”, con la “Banda” ormai ridotta a metà dei suoi effettivi
a causa degli eventi bellici, il 5 Febbraio 1941, ovvero per la festa della Patrona di
Asciano S. Agata, prendemmo parte alla processione.
Suonammo diverse marce religiose tra cui: S. Chiara, Vergine Maria e Fra Terenzio.
Dire che in tutto il percorso dalla Collegiata, a Piazza del Grano, a S. Agostino e ritorno
alla Collegiata, riuscii a fare non più di cento note, ed è la pura verità. Credo che anche
gli altri amici debuttanti si siano trovati nelle stesse mie condizioni.
Io non sapevo tenere il passo, poi, leggere la musica suonando e camminando non era
per un “novellino” cosa facile. Francamente le note scritte sulle pagine del mio
libretto neppure le vedevo. Il vento gelido di tramontana dava poi la sua manina a non
farci capire nulla. Come precedentemente accennato, la sera della nostra prima sortita,
la banda paesana non era quella che si poteva ascoltare ed applaudire negli anni
precedenti durante i concerti in piazza. Adesso era formata da non più di trenta elementi
gran parte dei quali oltre la cinquantina, e da noi ragazzi che, malgrado il nostro
impegno, eravamo capaci di suonare ben poco. Mancavamo di esperienza, e quella si
acquisisce col tempo. Dopo il nostro debutto in banda, solo raramente facemmo delle
sortite in occasione di processioni o di funerali. Concerti in piazza come erano soliti fare
negli anni precedenti non si potevano neanche pensare.
Poi giunse anche il periodo del silenzio assoluto. Gran parte dell’anno 1943 ed anche
del 1944 furono stagioni molto tristi per tutti. Il primo fatto giunse a seminare morte e
terrore quel Lunedì di Pasqua del 1943, quando alcuni aerei mitragliarono, nei pressi
della Pievina, il “bus” strapieno di inermi civili, uccidendo e ferendo diverse persone.
Non soddisfatti seminarono morte anche alla stazione di Asciano.
Non avevamo notizie dei nostri cari, prigionieri o dispersi in ogni parte del mondo.
Erano giunte anche diverse comunicazioni di decessi nei vari fronti di guerra. In
nessuno c’era più la voglia di suonare. La sala di musica ove eravamo soliti ritrovarci
per le lezioni o per le prove, rimase chiusa per lungo tempo.
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Al momento che certe truppe straniere provenienti dal Nord invasero le nostre città,
paesi e campagne, incutendo terrore al loro passaggio, io nascosi il mio flautino.
Fu un mesto susseguirsi di avvenimenti che ebbero il culmine con il passaggio del
fronte:. Asciano fu liberata il 2 Luglio 1944, ed in quei giorni accadde di tutto. Il paese
fu reso irriconoscibile e poteva andare peggio. Fu grazie ad un limitatissimo nucleo di
persone che, con il loro coraggio tagliarono le micce di alcune mine. Questo fatto, però,
merita una pagina particolare.
Un paio di settimane più tardi, era di pomeriggio, sentii una voce che dalla piazza…di
casa chiamava il mio nome. Mi affacciai, era “Tisbe” , l’uomo che seguiva la “Banda”
in ogni suo servizio. Aveva dei foglietti in mano e mi disse:- Allora Aldo, ora che la
bufera s’è un po’ allontanata, ‘un si può resta’ a dormi’. Ho qui l’invito per martedì
prossimo, bisogna mettersi a far qualcosa. Bisogna incomincia’ a ritrovarci in sala di
musica. Se anche siamo rimasti “quattro gatti”, bisogna dimostra’ la nostra volontà.
Io rispolverai il mio flautino che era rimasto a lungo nascosto e la sera alle 21 del giorno
indicato nell’invito, con i miei amici “grottolesi” mi recai alla sala di musica. Avvenne
sicuramente verso i primi giorni di Agosto perché la città di Firenze non era stata ancora
liberata. Comunque, bene o male, dopo tante vicende ci ritrovammo. Saremo stati una
trentina non di più. Ricordo benissimo Beppe d’Argia, Beppe di Pierino, il Cortecci,
Silvano Giannessi e suo fratello, poi qualche altro il cui nome mi sfugge, ed un certo
numero di giovincelli ormai sui 18 anni o quasi. La cosa che quella sera mi colpì in
modo particolare, fu sentir parlare di Inno dei Lavoratori, dell’Internazionale, e
dell’Inno di Garibaldi, di cui “Tisbe” ci consegno la musica.
A dire il vero, noi giovani ci trovammo di fronte a motivi mai uditi fino ad allora. Dai
nostri strumenti sortirono pochissime note, ma c’erano anche dei musicanti che
sapevano leggere e suonare un pezzo anche a prima vista. Quando alla gente che fuori
ascoltava giunsero le note di quegli inni, scoppiarono applausi a non finire. Io
francamente non lo sapevo, ma fino a poco tempo addietro quella musica non si poteva
suonare. La prova quella sera si limitò a ben poco, ma noi giovani portammo a casa i
libretti per prepararci in modo migliore per la prossima volta.
In quell’anno 1944 non avemmo occasione di suonare quegli inni, ci limitammo solo a
provarli, né fu possibile fare dei concerti. La nostra “Banda” era ancora troppo povera;
suonammo soltanto in occasione di qualche processione. Ma l’anno successivo (1945)
anche se non era completamente ed ovunque terminato il conflitto, fu per la prima volta
festeggiato il “ Primo Maggio”, Festa dei Lavoratori. Ci fu il corteo, suonammo quegli
inni prima indicati, e gli applausi che incassammo furono grandi.
Ad Agosto dello stesso anno cominciarono a rientrare i reduci dalla prigionia che si
trovavano in varie parti del mondo. A Settembre rientrarono dalla Germania quei
suonatori ascianesi che avevano suonato nella “Banda Presidiaria” ovvero il Ciapi, mio
fratello, il Leo, il Valori e “Bazzino”. Anche il Pellegrini che aveva schivato in
qualche modo la prigionia ritornò tra i suoi cari. Dopo breve periodo presero tutti quanti
di nuovo ad esercitare. Ora la “Banda” assumeva un aspetto ben diverso. Era stata
arricchita da elementi che sapevano suonare ogni parte senza difficoltà. Così
prendemmo molto presto a provare musica operistica, e verso il Giugno del 1946,
fummo in grado di ripresentarci in “Piazza Garibaldi” per effettuare il primo concerto
post- bellico.
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Il successo ottenuto fu strabiliante. Gli assolo di trombe e flicorni suonati da alcuni di
quei reduci dai noti lager tedeschi, ma che prima di ciò s’erano perfezionati nella
“Banda Presidiaria”, furono splendidi come ai tempi di “Serabille”. Le persone presenti,
ed erano davvero tante, applaudirono a lungo con soddisfazione. In quell’anno 1946
suonammo diverse volte, la “Banda” era ormai al completo, quindi riscuoteva ovunque
meritati consensi. Una sola volta provammo fortissima delusione, malgrado il nostro
impegno fosse stato esemplare. Accadde l’8 Settembre, allorché ci recammo a Torre a
Castello, ove eravamo invitati per la festa religiosa che si teneva in quel luogo.
Era di Domenica, almeno mi sembra, e non più tardi delle due del pomeriggio ci
trovavamo tutti alla sala di musica per recarci a compiere quel servizio. Salimmo su un
camion residuato di guerra di cui era in possesso il Comune di Asciano. Lo guidava un
certo Bernardo, noto autista del Petrioli. Alla guida della “banda” c’era Mario Leonini
detto “Il Leo” che, ormai alle spalle le meste vicende della prigionia, sofferta insieme
agli altri suonatori ascianesi, si prestava al delicato incarico. Da ricordare che,
purtroppo, l’amato maestro Giulio Fabbrini, era deceduto qualche tempo addietro.
All’atto della partenza sapevamo già che avremmo dovuto suonare molto, ma sapevamo
pure che alla fine della serata ci attendeva una ricca cena. Anche per tale motivo
partimmo contenti, e non si ebbero a registrare assenze. Verso le tre, non più tardi,
giungemmo nel luogo della festa religiosa religiosa ed immediatamente ricevemmo
disposizioni circa il percorso che suonando ci attendeva. Poiché, come prima detto, ci
attendeva una festa religiosa, ovviamente non poteva mancare la processione.. Infatti
festeggiavano una piccola statua della Madonna. C’era grandissima affluenza di gente,
dimostrazione che la festa era stata bene pubblicizzata. Partimmo quasi subito in testa a
detto religioso corteo, ovviamente suonando, sortimmo dall’abitato e ci inoltrammo,
sempre suonando, per certe vie campestri che conducevano ai poderi di cui non
conoscevo e tuttora non conosco il nome. Girammo per i poggi di Canapaia e per certe
vallate per diversi chilometri e suonando quando le strade ce lo permettevano, marce
religiose. Rientrammo a Torre a Castello quando stava per tramontare, e malgrado
fossimo già molto stanchi continuammo a suonare ancora per un bel po’. Che fossimo
affaticati è comprensibile poiché avevamo speso il fiato per delle sterrate battute
soltanto, e non in ogni stagione, da mezzi agricoli. Eravamo ansiosi di rifocillarci alla
cena promessaci. Fu proprio allora che dovemmo subire la grande delusione. In un
panino farcito con mortadella e vino a volontà, e solo con ciò andò a finire la bella
cena. Ci dissero che di più non potevano offrici e si scusavano. In solo questo si
risolveva tutto il nostro impegno per fare, come sempre, bella figura. Per la popolazione
locale la festa continuava con il ballo all’aperto. Alcuni di noi per scacciare la rabbia
fecero pure quattro salti, ma certamente con poca soddisfazione. Verso una certa ora
alquanto sconsolati e beffati prendemmo la via per Asciano, toccando ovviamente
Rapolano. Da qualche tempo a sostituire il defunto maestro Fabbrini era giunto,
proveniente dal M. Amiata certo maestro Gino Carli, ma quel giorno non era presente.
Comunque nei mesi successivi la “banda” ascianese, anche col modestissimo aiuto degli
allievi del defunto maestro Fabbrini, si distinse continuamente. Innumerevoli furono i
servizi per le processioni, le feste nazionali e per i concerti in Piazza Garibaldi. Nel
1948 io mi dovetti assentare per assolvere al servizio militare; ma anche senza i modesti
“trilli” di quel poco esperto flautista grottolese, quale io ero, la “banda” paesana andava
a gonfie vele.
Siena 20.02.2003
A. Leonini
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DATE DA NON DIMENTICARE
Anche stamani, come ogni mattina, seppure ancora coricato, alle 6,40 ho acceso la
televisione per sbirciare le previsioni del tempo e per apprendere le primissime notizie
del giorno.. Nella parte superiore del teleschermo mi appariva all’istante la dicitura
10.11. 2006. E nel vedere quel 10 Novembre, si riaffacciava alla mia mente tale
autunnale giorno ormai tanto
lontano del 1949, che doveva segnare l’inizio di
qualcosa di affascinante per la mia vita che, seppure bella per la giovane età,
raramente era costellata, però, da eventi positivi nel campo del lavoro nonché in quello
sentimentale.. Io ero un lavoratore della terra, un modesto contadino, ma orgoglioso di
esserlo anche se i tanti sacrifici sostenuti non erano sufficientemente ripagati e le
tasche dei miei pantaloni molto spesso non abbondavano di denaro. Anzi, a dire il
vero, sovente, come dice un vecchio proverbio, “non contenevano neanche un soldo per
far cantare un cieco”. Ed io potevo dirmi fortunato perché ogni tanto potevo godere
della ripartizione delle 500 lire incassate durante le serate di ballo alla “Tranquilla”
dall’orchestrina di cui facevo parte dal giorno della sua costituzione. Nel campo
sentimentale le cose non andavano meglio. Allora ero un giovane un po’ timido, ma
molto apprezzato da una larga schiera di amici perché non sapevo fingere con nessuno.
Quello che avevo nel cuore non lo potevo nascondere o travisare, bensì lo dovevo
esternare e modestamente mi spiegavo abbastanza bene. Con le ragazzine, invece, tante
“cotterelle” e pochissimi tentativi di “conquiste” andati a buon fine ovvero riusciti.
Come poter dimenticare quei tempi? Allora se mancava il coraggio si facevano
dichiarazioni amorose per lettera; i più spigliati, invece, svelavano con belle parole i
loro sentimenti, magari durante le feste da ballo, sussurrando alle fanciulle che
bramavano di poterle pure accompagnare al termine di dette serate. Sovente venivano
respinti e non riuscivano a farvi insieme neppure un centinaio di metri di strada. Ma
andiamo avanti con ordine perché altrimenti potremmo dimenticare di descrivere
particolari molto interessanti vissuti in quegli anni tanto lontani che mai torneranno.
In tale campo io non avevo avuto fino ad allora troppa fortuna. Eppure di ragazzine che
mi facevano sobbalzare il cuore al solo vederle c’erano diverse. Avevo persino
azzardato a corteggiarne qualcuna perché, come i miei amici, sentivo il bisogno di
avere una fidanzatina. Però avevo ottenuto solo la loro amicizia e velati rifiuti al mio
corteggiamento. Una sera durante il ballo nel nostro locale riuscii a legare
discretamente con una di queste, tanto è vero che costei mi permise persino di
accompagnarla oltre il sobborgo di Camparboli. Prima di salutarci, era da un po’ passata
la mezzanotte ed aveva da percorrere ancora qualche chilometro, stabilimmo un
appuntamento non lontano dalla sua abitazione, per la prossima Domenica. I giorni che
mi separavano dal suddetto incontro furono molto lunghi da trascorrere; malgrado ciò
io esultavo dalla contentezza. Finalmente avevo realizzato il grande sogno cui tutti i
giovincelli anelano. Giunse così l’ora del bramato incontro. Semmai vi arrivai con
qualche minuto di anticipo per la bramosia di rivedere quella fanciulla e di parlarle con
serenità, senza la vicinanza di altre persone come era accaduto qualche sera addietro.
Trascorsi una diecina di minuti nel luogo stabilito per l’incontro, poi, anziché lei giunse
la sorella accampando una scusa qualsiasi. In definitiva mi aveva giocato uno scherzo
di cattivo gusto. Ovviamente mi guardai bene dal raccontare l’accaduto ai miei amici,
anche perché la cosa mi era sembrata alquanto strana. Comunque nel tempo mai
pretesi delle spiegazioni. Dopo pochi mesi giunse anche per me il giorno della partenza
per il servizio militare che mi costrinse ad abbandonare l’orchestrina e gli amici.
89
Ma era un debito che dovevo pagare e non potevo esimermi dal farlo. Quando potei
ottenere un permesso di cinque giorni cercai con tutta la mia volontà di utilizzarli al
meglio, riuscendo a fidanzarmi con una deliziosa ragazza delle campagne circostanti il
mio paese. Costei, una ascianese come me, rispose sempre con perfetta puntualità alle
mie lettere, sfoggiando nei miei confronti dolci aggettivi che lasciavano intravedere
futuri momenti di vera felicità. Ma quattro giorni dopo il tanto atteso congedo, per
motivi che non fui capace di capire, tutto ciò che malgrado la distanza, eravamo riusciti
a costruire svanì nel nulla. Insomma ero nuovamente solo con la speranza di potermi
presto accasare con qualche altra fanciulla. Ormai avevo l’età ed in famiglia c’era tanto
bisogno di presenze femminili. Era dunque il Maggio del 1949, un anno preciso da
quando ero partito per compiere il mio dovere. Finalmente mi ero liberato e potevo
tornare alle mie attività lavorative e dedicarmi nuovamente all’orchestrina. Avevo
ripreso, con Mario, il posto di suonatore di batteria quando conobbi un’altra fanciulla.
Per più mesi, terminato il ballo, cercai di corteggiarla. Era molto carina e dalla parola
assai sciolta. Mi permetteva ogni sera di accompagnarla fino a poche centinaia di metri
dalla sua abitazione e a momenti sembrava attratta dal mio parlare. Però nel separarci
mi faceva capire che non trovava il modo adatto per rifiutare il mio alquanto caloroso
interessamento. Insomma mi tirava per le lunghe senza approdare a nulla di positivo.
Ed io non riuscivo a rendermi conto di ciò, anzi speravo di poterla col tempo
convincere. Per la sua scioltezza nel parlare chiunque ne sarebbe rimasto come me
affascinato. Da Maggio a Settembre ogni volta veniva alle danze, o potevo incontrarla
in altre occasioni, era la stessa lunga chiacchierata con belle parole e nessuna
conclusione. Verso la metà di Settembre seppi che qualcuno cercava di convincerla a
fidanzarsi con un giovane ferroviere. Certamente l’occasione non era da lasciar perdere.
Io potevo prometterle solo lavoro e non vita agiata magari in città. Infatti dopo poco
vedemmo che si erano fidanzati, e qualche anno più tardi si sposarono. Ma io modesto
contadino della zona di Grottoli cosa potevo pretendere? Eppure doveva esserci una
fanciulla più o meno bella disposta ad avermi un tantino di fiducia. Ero ormai un
ventitreenne, alla ricerca dell’anima gemella. Non avevo ricchezze da mostrare o
promettere, ma la mia serietà e sincerità erano fuori discussione. Avevo, come già detto,
molte amiche con le quali mi intrattenevo lungamente a parlare poiché anche a costoro
faceva piacere, non erano in dubbio rapporti di sincera amicizia, ma oltre a ciò non c’era
altro. Chissà forse tutte cercavano di stringere relazioni sentimentali con giovani dalle
mani meno callose delle mie, e che potessero assicurare loro vita più agiata. Nelle mie
condizioni a nessuna avrei potuto promettere ferie al mare o in montagna. Bramavo
comunque di trovare una fanciulla che potesse accontentarsi della mia situazione, del
mio amore e della mia sincerità. Oltre a ciò non potevo offrire altro. Intanto per il
precario stato di salute di mia madre, con il passare degli anni si faceva sempre più
impellente il bisogno di un’altra presenza femminile nella mia famiglia. Capivo
benissimo quanto sarebbe stata felice poter vedere il suo amatissimo figlio con una
ragazza al fianco speranzosi entrambi di costruire un proprio nucleo famigliare. Ed
anch’io ci pensavo, non stavo a dormir sugli allori.
Cercavo comunque in tutte le direzioni ed ogni qualvolta mi era possibile.
Comprendevo perfettamente l’ansia di mia madre che, malgrado le sue condizioni,
sapeva veder molto chiaro. Ed una sera verso gli ultimi di Settembre del 1949 mi disse:Aldo, perché non ti dedichi un po’ meno a far ballare le coppiette? Perché non scendi
più spesso dal palco dell’orchestrina per dedicarti tu stesso alle danze? In tale
occasione potresti conoscere altre fanciulle, fare altre amicizie e tra queste trovare la
ragazza confacente ai tuoi desideri.
90
Non tardò l’occasione perché una Domenica di metà Ottobre conobbi una signorina che
abitava in un podere del Sentino con la quale ballai molto, la accompagnai per un bel
tratto di strada infine, per farla breve, ci fidanzammo. Ci incontrammo qualche altra
volta e tutto sembrava filare nella giusta direzione. Da notare che costei mi aveva
conosciuto durante il ballo e mi aveva visto impegnato con l’orchestrina. Un giovedì
verso il 25 di Ottobre giunse a casa mia un giovane inviato da lei per invitarmi ad una
festa da ballo organizzata dagli “spasimanti” di certe cugine, proprio nella sua
abitazione non lontana dalla ferrovia Siena – Chiusi. Era una famiglia numerosa e
quindi abbondava di gioventù. Lei un giorno mi aveva indicato le due cugine ma non
me le aveva presentate poiché stavano parlando con dei giovani. Non mi sarei mai
permesso di disturbare la loro conversazione. A malincuore non potei accettare
quell’invito perché proprio la stessa sera ero impegnato con l’orchestrina alla
“Tranquilla”. Però le inviai immediatamente una lettera dove mi scusavo per la mia
assenza, e nel contempo speravo che accettasse le scuse. La sua risposta non si fece
attendere molto. Dopo tre giorni mi giunse indietro la missiva che le avevo inviato con
dentro un biglietto dove si leggeva: “L’aquila volò senza le penne, e la lettera ritornò da
dove venne. Di te non voglio saperne più nulla”. Maria. Ovviamente non mi aspettavo,
né mi meritavo di essere trattato in quella maniera. Mi ero giustificato ed avevo chiesto
scusa, ma lei non aveva ascoltato ragione. Chissà cosa le aveva raccontato quel tizio da
costei mandato ad invitarmi? Comunque ancora una volta ero rimasto come suol dirsi “
con un pugno di mosche in mano”. Ero deluso. Sfogandomi con Giocondina, l’amica
più vicina di casa, ella mi aveva detto:- Ma perché ti arrabbi? Si vede che non era
quella che meritavi; vedrai che prima o poi, magari quando meno te lo aspetti sboccerà
un fiorellino anche per te. Sai- concludeva la cara amica- cosa dice un vecchio
proverbio che ripete sovente mio padre? “Tardi è quel che ‘un è mai” Ma io seguitavo
ad essere deluso e sconsolato. Trascorsero i giorni dedicati ai defunti, ovvero i primi di
Novembre senza che alla “Tranquilla “ si organizzassero feste danzanti. Nessuno se lo
sarebbe permesso nei momenti di mestizia. Ma per il giorno 10, ricordo cadeva di
Domenica, fu organizzata una nuova serata. Dal 10 Novembre fino verso il 15 del mese
successivo, ovvero fino a pochi giorni dal Santo Natale, non c’erano divieti. Ma perché
mi torna spesso alla mente quel 10 Novembre del !949? Le righe che seguono lo
riveleranno e dico ancora una volta che per me fu come passare dall’Inferno al
Paradiso. Era- ricordo molto bene- una serata autunnale piuttosto umida, malgrado
fossimo in piena “Estate di San Martino”, ma non minacciava la pioggia, quindi verso
le 20 cominciarono ad affluire giovani e ragazze provenienti oltre che dal vicino paese
anche dalle campagne limitrofe. Noi dell’orchestrina ovviamente prendemmo posizione
e cominciammo a suonare. Non potevamo attendere oltre, c’eravamo assunti un obbligo
e dovevamo rispettarlo. In fin dei conti eravamo tutti soci di quel locale quindi
interessati al buon andamento.
A. Leonini
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AVVENNE IL 10 NOVEMBRE 1949
Sì ! Quella sera avvenne qualcosa che, come ho da poco affermato, fu per me come
passare dall’Inferno al Paradiso. Dall’alto del palco dell’orchestrina, (erano da poco
passate le venti) vidi entrare in sala due signorine di cui una mi era amica da molto
tempo poiché sorella di una signora mia vicina di casa. Era venuta a farle visita insieme
all’altra ragazza di qualche anno più giovane, indi erano entrate nel locale dove già si
stava ballando. Nel vederla giungere, appena mi fu possibile scesi dalla mia postazione
per salutarla, e costei mi presentò l’altra fanciulla dicendomi:- Vedi Aldo questa è
Ivana, una carissima amica che abita al podere “Le Fornaci” a poche centinaia di metri
da casa mia. Di conseguenza ci presentammo, le chiesi se mi concedeva un ballo,
parlammo, poi ballammo ancora, dopo aver chiesto a Mario Benocci se mi poteva
sostituire per l’intera serata.. La voce di quella fanciulla bruna che avevo conosciuto da
pochissimi minuti mi era rimasta tanto impressa per la sua dolcezza nel dialogare che
non mento se dico di esserne rimasto subito estasiato. Mai mi era successo di notare
una simile mancanza di aggressività, tanta grazia nel rispondere e altrettanta attenzione
alle mie parole. Se devo essere sincero, quella sera mi dimenticai persino di far parte del
“complessino”. Finalmente avevo conosciuto una fanciulla che, se avesse valorizzato le
mie parole, le mie intenzioni, il mio corteggiamento, mi avrebbe fatto felice. Mi sembrò
subito di non errare. Anche i suoi sguardi mi sembravano il simbolo delle purezza.
Le stetti vicino per tutta la serata, e le espressi con nitidezza i miei intendimenti. Si era
creato tra noi un clima di vera armonia che mi sembrava persino di vivere un sogno.
Mario, che aveva preso il mio posto alla batteria, mi strizzava l’occhio ogni volta,
ballando, gli passavamo dinanzi. Egli aveva con estrema facilità compreso che stavo
cercando di costruire con lei qualcosa di veramente positivo. Credo che in tutta la serata
pochissimi ebbero la possibilità di ballare con quella fanciulla dai lunghi capelli fluenti
sulle spalle e dalla grazia senza limiti. Quel vestitino dal colore scuro che indossava ed
il profumo di pulito che emanava la facevano apparire ancor più splendida.
Quando si avvicinò la mezzanotte, ovvero l’ora che dovevano cessare le danze, le chiesi
gentilmente se potevo accompagnarla per proseguire il dialogo. Anche allora sapevo
come so adesso, che il ferro va battuto finché è caldo, e quello mi sembrava il giusto
momento. Ella, invece, mi disse che era impossibile poiché trovavasi in compagnia
dell’amica e non poteva ovviamente lasciarla sola. Quindi era del tutto inutile che
insistessi. Se ti fa piacere – soggiunse ancora- di parlare nuovamente con me, potremmo
incontrarci ad Asciano per la fiera del 15 Novembre, sempre che i miei mi lascino libera
perché le faccende nel podere sono tante e non danno tregua. Pensai subito che fosse
una maniera assai cortese e morbida per rifiutarmi. Però in fondo al mio cuore qualcosa
mi sussurrava di attendere fiducioso quel benedetto momento della fiera al paesello.
Il giorno appresso pensai di raccontare quanto accaduto all’amica Giocondina, la quale
essendo presente aveva notato il mio continuo interessamento per la fanciulla. Ne
parlammo a lungo ed ella notò persino il mio entusiasmo nel citarla. Ma io ero davvero
affascinato dalla sua semplicità, dai suoi modi e dalla sua nitidezza. Anche durante
quelle prime ore della giornata rivivevo il nostro pacato dialogare della sera precedente.
Mi sembrava di capire che se lei, col rimandarmi al dì della fiera, avesse cercato
soltanto un pretesto per allontanarmi sarei rimasto davvero tanto male. Seppure la
conoscessi soltanto da poche ore era riuscita a colpire il mio cuore in modo tale come
mai altra fanciulla era riuscita.
92
L’amica Giocondina, a cui avevo raccontato ogni particolare della lieta vicenda, nel
farmi gli auguri per il giorno della fiera, mi suggerì nel contempo di non sperare troppo
per non soffrire poi in caso di eventuale delusione. L’incontro era avvenuto, come già
detto, la Domenica e per giungere al dì anelato della fiera dovevo attendere fino al
Venerdì. Ero agitato, pensavo in ogni momento a quella figurina snella vestita di scuro.
Ma pensavo pure che, benché non mi avesse fatto intravedere lietissimi eventi, un suo
rifiuto mi avrebbe fatto davvero tanto male. Ciò che mi stava accadendo con quella
fanciulla non mi era mai successo nel passato, anche se di delusioni ne avevo avute
diverse. Che mi stesse accadendo qualcosa di inconsueto lo aveva notato anche mia
madre ed una sera con la sua solita serenità mi chiese:- Ma cosa ti sta capitando Aldo?
Mi sembra che da un paio di giorni tu sia molto agitato e cambi umore da un momento
all’altro. Non ti avevo mai visto così. E continuò:- Ieri sei stato più di un’ora a parlare
con Giocondina; vi ho visti quando mi sono affacciata alla finestra di camera. Se hai
qualche problema puoi dirmelo. Se sei preoccupato per la mia salute devi
tranquillizzarti, perché, come vedi, io sono serena. Ma tu non puoi passare le giornate
in codeste condizioni, va a finire che ci rimetti la salute. Visto che stava in forte
apprensione per me le risposi:- Mamma, stai tranquilla, non mi sta accadendo nulla di
anomalo. Anzi, spero di poterti dire molto presto che ciò che noti di strano in me è stata
solo una cosa passeggera. Tu mi dovrai guardare il giorno della fiera al ritorno dal
paese. Il mio atteggiamento di quei momenti potrebbe rivelarti se si sta, o meno,
concretizzando un sogno. Di più non posso aggiungere. Ne riparleremo il pomeriggio
del 15 Novembre. Ora cerca di stare serena perché anche tu ne hai bisogno. Anzi per
facilitare ciò ti voglio anticipare che l’altra sera durante il ballo alla Tranquilla, sono
sceso dal palco, e come mi avevi suggerito tu, mi sono buttato nelle danze. Ho
conosciuto una fanciulla delle Serre con la quale ho ballato fino a mezzanotte.
Per il momento ti basti sapere questo. Quando il mio intimo mi suggeriva di sperare
in quella fanciulla si placavano le mie ansie. Queste si riaccendevano nel pensare a ciò
che mi aveva detto Giocondina da vera amica, cioè non dovevo sperare troppo per non
restare di nuovo deluso da un eventuale ma non augurabile rifiuto. Ma perché a 23 anni
dovevo essere così suscettibile a certe emozioni? Qualcosa avevo provato pure dalle
precedenti delusioni, ma avevo reagito in modo esemplare ed in pochissime ore. Questa
volta non sarebbe stata la stessa cosa. Intanto, mentre navigavo in certi pensieri,
sopraggiungeva a disturbare anche il maltempo con pioggia battente. Ed io pensavo che
se il 15 Novembre fosse stato tempaccio, costei, Ivana, non sarebbe sicuramente venuta
alla fiera. Ed in tale frangente quando l’avrei potuta rivedere? Neppure avrei potuto
inviarle un mio scritto perché sapevo il suo nome, ma ancora non c’eravamo detti il
proprio cognome. Insomma capitavano davvero di tutte per farmi stare in apprensione.
Ma in tal mese autunnale cosa c’era da aspettarsi se non tempo piovoso, tramontana o
banchi di fitta nebbia? Infatti fu pioggia intensa per tutta la giornata di Mercoledì, e fino
al pomeriggio successivo. L’Estate di San Martino non era durata un’ora di più. Le mie
speranze di incontrarci e di parlare nuovamente s’erano alquanto allontanate e già
studiavo come poterla rintracciare. Già pensavo di rivolgermi all’amica che
l’accompagnava la sera del nostro primo incontro, quando accadde l’imprevedibile.
Infatti verso sera cominciò a spirare un venticello dal Nord che allontanò la pioggia e le
nubi. Giovedì 14 Novembre , al tramonto il cielo era tornato sereno, ed anche in me si
dileguavano apparentemente le ansie per il dì successivo. Se ne accorse anche
Giocondina quando la incontrai mentre si recava al pozzo ad attingere l’acqua.
93
Costei, come mi aveva suggerito precedentemente, mi ripeté ancora di essere pronto ad
ogni evenienza. C’è sempre tempo- mi disse- per sognare “giardini fioriti”. Da quel
momento cercai con tutta la mia volontà di attendere il dì successivo come se fosse un
qualsiasi giorno, come se nulla dovesse significare. Ma non fu così perché durante la
notte non feci che sognare il volto gioviale e la voce suadente di quella giovanissima
fanciulla. Il cielo terso del 15 mattino non poteva che presagire una magnifica giornata
assolata, tiepida, e per me scevra da ansie poiché il sole riesce sempre ad allontanare
la malinconia. Io, ben ricordo, dormivo da diversi anni nella stessa camera dei miei
genitori, ovviamente in un lettino ad una piazza, e data la vicinanza mia madre capì che
avevo trascorso una notte molto agitata. Infatti, prima che mi alzassi, costei mi chiese se
mi sentivo bene. Secondo quanto raccontò, mi aveva udito più volte bisbigliare nel
sonno, mai- aggiunse- accaduto fino a quel giorno. Il motivo era sempre il medesimo.
Cercavo di essere sereno e tranquillo e apparentemente sembravo esserlo, ma nel mio
inconscio non era così. Quel mattino del 15 Novembre malgrado fossi impegnato nelle
faccende della stalla e dell’aia insieme ai miei familiari, le ore non trascorrevano mai;
mi sembravano assai più lunghe del solito. Sapevo che fino le 11 non mi sarebbe stato
possibile recarmi al paese, per l’importanza dei lavori da compiere. Normalmente il
giorno della fiera facevamo colazione un po’ più tardi del solito e poi saltavamo il
desinare. Di Novembre le giornate non sono più tanto lunghe da poter trascorrere
un’ora al tavolino. Consumare quel tempo intorno al focolare per un piatto di minestra,
significava giungere nel bel mezzo della fiera quando i venditori stavano per riporre la
merci che avevano esposto al pubblico da diverse ore. Comunque quel mattino verso le
undici abbandonai il lavoro, mi cambiai sveltamente e a passo piuttosto veloce mi
diressi verso il paese. Mia madre, che ormai era al corrente di tutto, quando fui per
partire mi salutò con un lungo e significativo sorriso, come per augurarmi un buon
seguito di giornata. Nel passare dinanzi alla sua casa vidi anche Giocondina che mi
salutò con un gesto della mano. Ma è chiaro il motivo per cui quando avevo da sfogarmi
di qualcosa lo facevo sempre con questa ragazza di tre anni più giovane di me? E’
presto detto. Avevo tanti amici nella “Banda di Grottoli” ma la ragazza abitava nel
quartiere vicino al mio, quindi ci incontravamo anche 50 volte al giorno. Sembra
impossibile, ma ambedue quando avevamo dei problemi trascorrevamo ore intere a
scambiarci idee e consigli. D’altra parte vivevamo vicini e ci conoscevamo fin da
ragazzini. Non più tardi delle 11,45, dunque, ero già in paese ed il borgo centrale era
gremito di gente più o meno giovane. Tante persone erano addossate ai banchi dei
rivenditori intente ai propri acquisti. Ma c’erano anche tante di ambo i sessi che, come
in altre simili occasioni, solevano passeggiare per il corso centrale fino e oltre la Torre
dell’orologio. Io, una volta arrivato, cercai di schivare gli amici che avevo intravisto.
Non potevo soffermarmi a far chiacchiere con loro come eravamo soliti in altre
occasioni. Dovevo cercare in quella fiumana di presenti. Dovevo adesso accertarmi se
c’era quella ragazza che da 5 giorni mi teneva in ansia, malgrado avessi cercato di
restare sereno. Percorsi il “Borgo” centrale dalla “Pianella” alla Torre dell’orologio
senza vederla. Svaniva così ogni speranza. Ma qualcosa mi suggeriva di non darmi per
vinto, di non disperare. Attesi un po’ nella piazzetta della Collegiata, quindi, ormai
alquanto sconsolato, pensai di ripetere il percorso. Ovviamente solo per scrupolo di
coscienza. Se ci fosse stata l’avrei intravista già poco prima. Quando fui in
corrispondenza di Piazza Garibaldi pensai di scrutare bene anche intorno ai banchi posti
in tal luogo. Ed in quell’istante il mio cuore ebbe un sobbalzo.
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Costei, la fanciulla dal bruno capello, si trovava con altre due signore presso quei banchi
ove vendevano “non ricordo cosa”. Pure lei mi vide . Si scostò un momento dalle altre
due donne e con un fil di voce mi disse:- Alle 14 partirò per le Serre. Ho la bicicletta
alla Pergola. Ed io ormai euforico le sussurrai:- Ho capito! Ci vediamo lassù, ed lei
annuì con un lieve cenno della testa ed un sorriso Dopo il brevissimo ma tanto
importante incontro, visto che erano appena le 13, e dovevo attendere almeno un’ora
per incontrarmi di nuovo con Ivana, presi lentamente a passeggiare per il Corso. Ora, ad
essere sincero, non vedevo né bancarelle né chi si trovava intorno a queste. Ad un certo
momento davanti alla fontana della Pianella mi sentii chiamare. Erano tre o quattro
amici della mia “banda” che scherzavano tranquilli.. Uno di loro, se ben ricordo Guido
Lorenzoni detto Ghiandaia, sorridendo mi disse.- Oggi Toscanini (era il mio
soprannome) deve avere qualcosa a “frullare” per la testa, perché è già un’ora che
gironzola in su e in giù solo soletto senza neppure salutare gli amici. Un altro disse
ancora: - Deve essersi innamorato di qualche donzella. Forse sperava di incontrarla
nell’ambito della fiera e invece ‘un è arrivata? E continuò:- Caro Toscanini a noi ‘un lo
puoi nega’ perché si vide tutti come ti “arrabattavi” con quella morettina che era
insieme a Orietta che abita al podere “Le Case” vicino alle Serre. Domenica scorsa
durante il ballo alla Tranquilla, lasciasti suonar la batteria a Nannino fino a mezzanotte
per corteggiarla. Allora ragazzi- risposi loro- avete visto il giusto. Questa volta mi sono
davvero innamorato, ma quella morettina di cui parlate è presente nella fiera, però
ancora non so come andrà a finire, anche se spero di incontrarla molto presto. Se stasera
mi vedrete giungere alla Tranquilla allegro e sveglio come un uccellino e voglioso di
scherzare, vorrà significare che quel mio corteggiamento di Domenica sera potrebbe
avere avuto sbocchi positivi. Ma ora abbiate pazienza, mi avete trattenuto abbastanza.
Per favore lasciatemi andare tranquillo e sereno per i miei “venti”. Non furono
insistenti, mi compresero e capirono pure la delicatezza del momento. Dunque dopo le
quattro chiacchiere con quegli amici mi diressi alla volta del podere “La Pergola”, però
mi fermai oltre detto luogo, verso il cancello di accesso alla vigna di certo “Paparotto”.
Da lì potevo benissimo vedere quando Ivana si recava a prendere la bicicletta. Verso le
due e cinque ( perciò assai puntuale) la vidi apparire laggiù al bivio per “La Torre”
ovvero a circa 200 metri o poco più da dove io da pochissimo ero in attesa. Quando
entrò tra le mura di cinta del podere per prendere il suo mezzo io mi mossi lentamente
verso “La Tranquilla” e fu proprio lì che mi raggiunse. Ovviamente pure costei mi
aveva veduto e quando mi raggiunse scese dalla bicicletta. Ci salutammo con una forte
stretta di mano ed iniziammo insieme il lungo percorso che ci doveva portare ( almeno
speravo) presso la sua abitazione. Nello stringerle la mano il mio cuore prese a
sobbalzare ( seppi più tardi che accadde anche a lei) dall’emozione. Erano giorni che
attendevo quel momento. Le prime parole che mi disse furono:- Sono stata di parola e
puntuale? Non dovrei aver tardato molto –soggiunse ancora- perché sono partita dal
paese qualche minuto prima delle due. Va bene così - le risposi - ma io ti avrei attesa
anche fino al tramonto dal desiderio di averti vicina. La mia paura era quella che tu non
avessi potuto ho voluto rivedermi, per continuare il discorso iniziato durante il ballo di
Domenica alla Tranquilla. Insomma al momento che scese dalla bici le chiesi, e mi
permise, di spingere il suo mezzo. Sarebbe stato ingiusto fare diversamente, visto il
lungo tratto di strada che speravo poter percorrere insieme. Fu così che iniziammo quel
lento ma piacevole incedere che doveva durare fino verso le cinque. Non potrei errare
perché quando ci salutammo nei pressi della sua abitazione, stavano suonando le sirene
delle cave di travertino poco distanti.
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Ma ritornando all’inizio del percorso, mentre pian piano procedevamo, anche la mia
emozione e le mie ansie stavano lasciando spazio ad uno stato di serenità. Ciò,
ovviamente, grazie a quel modo suo dolce di parlare e di guardarmi. Da quel momento
riprendemmo il discorso lasciato in sospeso il giorno 10 Novembre intorno alla
mezzanotte. Le ultime sue parole erano state:- Se tu hai piacere di parlare ancora con
me possiamo rivederci per la fiera. Ed ora ero certo che se non era mancata
all’appuntamento significava che l’interessamento poteva essere reciproco. Ma non
dovevano esserci dubbi circa le mie buone intenzioni. Tutto doveva risultare chiaro e
limpido come una giornata piena di sole. Occorrevano intelligenza, rispetto, diplomazia
ed educazione. Con piacere, dunque, riprendemmo il discorso interrotto la sera del
nostro primo incontro. Allora le parlavo mentre ballavamo e forse non tutte le mie
parole potevano giungerle chiare per il rumore del suono ed il continuo parlare delle
persone presenti nella sala. Ma adesso c’era solo il lieve rumore provocato dal rotolare
sul selciato dei copertoni della sua bicicletta. Ora ciò che dicevamo giungeva nitido alle
nostre orecchie. Le espressi nuovamente i miei intendimenti nei suoi confronti,
ripetendole ancora che ero ormai un ventitreenne con le idee molto chiare.
Ella mi disse che non aveva compiuto i 18 anni, e che non le piaceva e non voleva
iniziare una storia che durasse soltanto qualche settimana. Ci conosceremo meglio- le
sussurrai più volte strada facendo- ma devi credermi se ti dico che sin da quando ti ho
vista insieme ad Orietta e ho notato l’apprezzamento alle mie parole, non ho avuto
dubbi e dentro di me ho detto:- Questa è la fanciulla che ho sempre desiderato. Quanto
appena ti ho con immenso piacere rivelato -continuai- lo pensai allora, lo penso adesso e
lo penserò nel futuro. Ho affermato, e lo ripeto, che se hai fiducia nelle parole appena
dette, esistono tutti i presupposti per iniziare, se anche tu lo vuoi, una storia
meravigliosa. Questo mi suggeriscono i tuoi occhi, la tua nitidezza, la tua gentilezza, il
tuo delicato modo di esprimerti. Non so quante volte le ripetei queste frasi che anche
adesso a tanti anni di lontananza mi viene spontaneo ricordare in queste miei modesti
scritti. Ma è la pura realtà di quanto ci stava accadendo in un indimenticabile
pomeriggio autunnale.. Mentre lentamente ci allontanavamo dalla mia Grottoli, la
bicicletta che volontariamente spingevo mi sembrava leggera come un fuscellino. La
spingevo con una sola mano e l’altra, ovviamente libera, spesso incontrava quella della
fanciulla che camminava al mio fianco. Non potevo astenermi da stringerla e le
sensazioni che provavo erano estasianti. Colei che per diversi giorni aveva suscitato in
me profonda ansietà ora mi guardava intensamente ed ascoltava le parole che
spontaneamente, e non precedentemente costruite, uscivano dal mio cuore.
Dirò pure che quel semplice contatto procurato dallo stringerci la mano mi rivelava
qualcosa mai provato con coloro che avevo conosciuto qualche tempo prima. Quando,
percorrendo la via che da Asciano conduce verso le Serre, fummo oltre il podere “La
Querce”, ci superarono le due signore che avevo notato insieme a Ivana intorno ai
banchi della fiera. Nel sorpassarci ( anche costoro erano in bicicletta) quella un po’ più
anziana rivolgendosi alla fanciulla disse:- Cerca di non far tardi per la strada, sai bene
quante faccende ci attendono a casa! Io, meravigliato, le domandai:- Ma chi sono
costoro? Ti conoscono? La ragazza sorridendo mi rispose:- Quella che mi ha parlato è
mia madre e l’altra la mia zia, ma in famiglia ve ne sono altre due. Sai- disse ancora- la
mia è una famiglia numerosa composta da 26 persone, quindi anche il podere è grande
e le faccende, come ha detto mia madre poco fa, non finiscono mai. Io alquanto turbato
domandai:- Ma adesso se tu te ne vai e mi pianti per la via solo, lasciamo il nostro
dialogo appena incominciato senza una conclusione, e credimi se questo dovesse
accadere rimarrei assai dispiaciuto.
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No- rispose costei- tale cosa non potrà verificarsi. Continueremo il percorso insieme
perché ho piacere pure io di parlare ancora molto con te. Credo di aver compreso continuò- che le tue parole mi ispirano fiducia e simpatia, quindi proseguiremo il
nostro cammino fianco a fianco. Mia madre, che pure ella è stata fanciulla mi
comprenderà, sono certissima. Cosa volevano significare le sue parole, quell’insieme di
parole pronunciate con tanta dolcezza, se non che stava per sbocciare una favolosa
storia di amore tra un ventitreenne, ormai maturo ed una quasi diciottenne che stava
dimostrando di essere saggia e riflessiva quanto e più di me? Questa era la mia grande
speranza. A quel momento, non eravamo ancora giunti al podere Sante Marie, cercai
ancora una volta la sua mano e la strinsi forte, forte, non lasciandola fino a quando ci
dovemmo mettere da una parte ambedue per incrociare un grosso camion carico di
pietre. Ma dopo transitato quell’automezzo le nostre mani si congiunsero ancora e si
strinsero di nuovo a lungo. Io, però, bramavo sentirle pronunciare qualcosa di diverso,
bramavo sentirle dire che pure a costei era accaduto di provare qualcosa di stupendo
verso la persona che le stava accanto. La sua mano che stringeva la mia era indice
significativo di ciò, ma a me non bastava. Eppure io ero stato chiarissimo, ed avevo ben
compreso i suoi sentimenti ma anelavo sentirlo dalla viva e dolce sua voce.
Comprendevo la di lei timidezza, lo notavo anche dal frequente arrossarsi delle sue
guance. Ad una ragazza “navigata” che non avesse provato nei miei confronti
sensazioni profonde, ciò non sarebbe certamente accaduto. Non avevo mai notato una
cosa simile in chi per mesi mi tenne sulle spine, e poi volle respingermi con una scusa.
In questa fanciulla si erano destati sentimenti puri, lo capivo, avrei bramato che me lo
dicesse, ma non volevo forzare troppo, temevo di guastare ciò che di fantastico mi
sembrava di intravedere. Intanto un passo dietro l’altro eravamo già oltre la fermata
ferroviaria di Serre, e purtroppo si avvicinava l’ora di doverci salutare. Rimaneva da
percorrere poco più di un chilometro di strada ovvero quella del piano da dove ormai si
vedeva anche il tetto della sua abitazione. Accadde che proveniente da Serre
incrociammo un altro camion e fummo costretti a stringerci per lasciarlo passare. Mi
trovai così con il volto vicino al suo. Fu proprio allora che senza forzatura ma
istintivamente le nostre bocche si avvicinarono e ci scambiammo il primo bacio.
E dopo ciò ella mi disse:- Ora credo di averti, senza parole, dimostrato che nei tuoi
confronti provo quello che tu, mi hai fatto ben comprendere, provi per me. Quel bacio,
tanto spontaneo e da me altrettanto anelato, seppure durato pochissimi istanti, era stato
il suggello, di una storia di amore appena sbocciata. Intanto giungevamo all’erta salita
che conduce a Serre di Rapolano. Fu proprio allora che Ivana mi disse: Accompagnami fino alla strada che mena al podere “Le Case” da lì si vede molto bene
dove io abito; siamo appena a 200 metri, così saprai pure dove Domenica prossima io
sarò con ansia ad attenderti. Vi giungemmo in 5 minuti, ovvero quando, come ho già
detto più volte, suonavano le sirene delle “cave di travertino”. Erano quindi le 17.
Sostammo non più di due minuti ci scambiammo un altro bacio, ed ella soggiunse
ancora:- Domenica sarò ad attenderti per poterti riabbracciare. Ci salutammo così. Lei
proseguì per la vicina abitazione, mentre io avevo da ritornare in Grottoli. Erano circa 5
chilometri, ma cosa importava ? Le mie gambe erano leggere come piume e la mia
mente finalmente libera da ansie. Ero riuscito con parole semplici ma sincere, e
certamente alquanto significative, a colpire il cuore di una fanciulla che già aveva
colpito il mio dal primo momento che l’avevo conosciuta.
97
In meno di un’ora giunsi a casa, e mia madre nel vedermi comprese subito che avevo
buone “nove” da raccontarle. Comunque anticipandomi mi disse:- Non puoi capire
quanto ho atteso il tuo ritorno, e quanto ho sperato altresì di vederti finalmente come ti
sto vedendo in questo momento. Ma quando avrai un po’ di tempo, non adesso, bramo
assai che tu mi descriva le caratteristiche di quella fanciulla. Per esperienza, vedendo
cambiati in così poche ore i tuoi umori, penso che debba essere davvero un tesoro di
ragazza. Ora – continuò – cerca di comportarti intelligentemente, perché hai appena
gettato le basi di una storia, e le basi devono essere solide per erigere la splendida
struttura dell’amore. Deve resistere a tutte le eventuali calamità che si possono
presentare. Io come madre, ansiosa di vedere il suo figlio felice, ti ho dato questo
suggerimento, ma credo che non vi sia stato bisogno perché non sei un bambino, ma sei
un uomo. Se saprai ricordare tutto ciò, goderai con lei lunghissimi tempi di felicità. La
vostra felicità farà felici i rispettivi genitori.
Quelle dette da mia madre erano parole sante ed io dovevo ricordarle in ogni momento.
Dovevo essere sempre sincero, con la fanciulla che poche ore prima mi aveva fatto
capire quanta fiducia riponeva in me. Non dovevo deluderla anche perché s’era
comportata fin dal primo momento intelligentemente nel valutare tutto ciò che insieme
ci ponevamo. Ovvero come iniziare una storia d’amore senza ombre che potessero
offuscarla. Ed io a tutto questo, ora che avevo individuato la fanciulla giusta, che avevo
provato il suo calore nello stringermi la mano e quello del primo bacio, dovevo
ovviamente molto riflettere. Dovevo dimostrarmi veramente degno dell’amore appena
sbocciato. Ma intanto era trascorso il pomeriggio indimenticabile del 15.Novembre del
1949. Avevo raccontato a mia madre qualche particolare momento della serata trascorsa
con quella bimba bruna e ormai felice e scevro da ansie, sentivo pure il bisogno di
parlare con i miei amici. Bramavo raccontare a coloro che al mattino, dalla fontana
della “Pianella”, avevano constatato il mio stato d’animo, mentre cercavo attentamente
tra i molteplici banchi della fiera la fanciulla da me corteggiata assiduamente qualche
sera prima durante il ballo alla “Tranquilla”. Abbastanza pimpante, benché percorsi
poche ore prima circa 10 chilometri, mi recai nel nostro locale dove ero sicuro di
incontrarli. Non m’ero sbagliato, c’erano proprio tutti quelli incontrati il mattino alla
“Pianella” e con cui m’ero intrattenuto a parlare alcuni minuti con ben altro per la testa.
Non ci fu bisogno che io iniziassi a raccontare. Uno di loro (a quasi 60 anni di distanza
non posso ricordare il nome) mi venne incontro sorridente. Allora Toscanini - mi disse
subito- ti vedo meglio di stamani. Non ti deve essere andato male lo “smacchio” con
quella morettina delle Serre. Raccontaci qualcosa: s’era d’accordo che ce ne avresti
parlato stasera. Insomma- risposi lieto- cosa volete sapere?
‘ Un posso certo raccontarvi i minimi particolari; l’ho accompagnata alle Serre e,
passo dopo passo, sono ritornato a casa. E concludendo aggiunsi anche:- Ci rivedremo
Domenica sera vicino alla sua abitazione. Vi basta così, ho volete sapere altro ancora?
No- esclamarono in coro- ‘un ci basta, ci devi dire la verità anche con una sola parola, ti
ha detto di sì è vero? Va bene m’ha detto di sì. Siete contenti ora? No, ‘un siamo
contenti ci devi paga’ il caffè a tutti. Questo poi- risposi- ‘un ci pensate neppure, ho
appena i soldi per pagare il mio. Ma almeno a Nannino che suonò tutta la sera al posto
tuo, lo vorrai paga’? Con lui, risposi, me la vedo io. Egli non si merita solo un caffè;
per quanto si prestò appena potrò gli pagherò un pranzo. Se Domenica quella morettina
sarà ad attendermi lo devo a lui, e solamente a lui.
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Ma allora abbiamo capito bene, questa volta Toscanini vuol far sul serio, esclamarono
in coro. Insomma bramavano sapere ogni particolare, ma io tagliai corto dicendo loro:Per favore non fatemi l’interrogatorio; avete tutti una fidanzata da molto tempo, e sapete
bene che i segreti dell’amore non si raccontano. Bravo Toscanini, disse un avventore
che si trovava in disparte. Non raccontare niente, perché una parola è poco e due sono
troppe quando si parla di certi argomenti. Tra una chiacchiera e l’altra si fece tardi,
quindi ognuno ritornò alla propria dimora. Io mi coricai sereno con la speranza di fare
un lungo sonno ma non fu subito così. Pensavo a quello stringerci la mano, a quel
primo bacio, ed all’abbraccio al momento di salutarci.
Ricordai le parole di mia madre che mi consigliavano di essere sincero e rispettoso per
voler gettare solide basi al nostro rapporto appena iniziato. Ma io quali particolari le
avevo rivelato della mia famiglia e di me stesso? Ella qualcosa mi aveva detto della sua,
ma io non avevo avuto l’avvertenza, intento come ero a godere gli effetti di quel
continuo tenerci per mano. Cosa potevo avere di grave da nascondere? Certamente
nulla perché si vedeva bene che ero un contadino, e poi chissà quante cose le aveva
raccontato l’amica Orietta. Comunque malgrado questi miei pensieri presi più tardi
sonno e dormii sereno fino al mattino. Al mio risveglio mi apparvero nitide le immagini
di quella fanciulla e pensai che ci separava soltanto un giorno e la mattina del dì
successivo, poi ci saremmo rivisti. Avrei voluto essere un uccellino e volare sulla
finestra della sua casa per poterla vedere di nuovo, per poter percepire i suoi pensieri i
suoi passi leggeri, la sua voce aggraziata. Avrei voluto capire e carpire le parole di sua
madre per averla trattenuta sì tanto per la strada. Ovviamente era solo frutto della
fantasia ciò non si sarebbe mai concretizzato. Ma il tempo è galantuomo e passa
comunque. Avrei desiderato essere già al prossimo incontro, ma dovevo pazientare.
Trascorsi una giornata serena e tranquilla eseguendo i lavori del mio mestiere con lena.
Non ebbi modo di vedere l’amica Giocondina. Certamente sarebbe stata curiosa di
sapere ed io felice di rivelarle l’esito dell’incontro che mi aveva tenuto per 5 lunghi
giorni in ansia. Potei rivederla la Domenica mattina mentre, consumata la colazione,
cercavo con molta attenzione di mettere a punto la vecchia bicicletta di proprietà
acquistata qualche anno prima. Avrei voluto cambiarla ma non era stato possibile per la
scarsità di denari. Avevamo ben altro a cui dare la precedenza.
A. Leonini
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E INIZIO’ LA LIETA AVVENTURA
Eravamo una famigliola di gente onesta, stimata da tutto il vicinato e dagli abitanti
conoscenti del paese. Però era tartassata dal male per la salute da molto tempo precaria
di mia madre. In conseguenza di ciò le nostre risorse erano scarse, ci arrabattavamo per
sbarcare il lunario e per pagare il medico e la farmacia. Ma nessuno avanzava nulla da
noi. Ci limitavamo di tante cose, ma volevamo andare a testa alta. Dunque, tutto ciò
non lo avevo ancora detto a Ivana, m’ero preoccupato di ben altro, ovvero di
conquistare la sua simpatia. Poiché dovevo essere sincero (come suggeriva mia madre)
mi angustiava pensare alla reazione che avrebbe avuto nel conoscere le nostre
condizioni. Ma appena possibile dovevo rivelarle tutto. Ora che avevo avuto la fortuna
di incontrare un tesoro di fanciulla, doverla perdere sarebbe stata per me una pesante
mazzata. Nel vedermi intento alla capillare manutenzione del mio mezzo di
locomozione a pedali, l’amica Giocondina, immaginandosi qualcosa di abbastanza
insolito mi chiese : - Allora, dove ti porterà codesta “carretta” quest’oggi? Io,
gongolante dalla felicità, le raccontai quanto m’era accaduto di bello. Alle 11 passate
non avevo ancora terminato la messa a punto del mezzo. Le quattordici in questa
stagione- pensai dentro di me- giungono presto, quindi mi devo sbrigare. A quell’ora
dovevo partire per recarmi dove Ivana, con maniere dolci e aggraziate, aveva detto di
attendermi.E le quattordici giunsero davvero prestamente. Così, salito in sella alla mia
vecchia “rossina”, mi incamminai per raggiungere quel podere ubicato lungo la salita
che mena a Serre di Rapolano. Sebbene la via fosse sterrata e spirasse un po’ di vento
contrario, non accusavo fatica per spingerla. Pedalavo velocemente da somigliare ad un
corridore dilettante. Guardavo la strada dinanzi, ma non vedevo le persone che
incontravo, tanto ero preso dal timore di ritardare. Mi stava accadendo proprio come il
dì della fiera dopo che ebbi intravisto Ivana intenta, con altre signore, ad effettuare
compere. Non guardai quella specie di orologio che tenevo al polso, ma sono sicuro che
in venti minuti raggiunsi la fermata ferroviaria di Serre. Ora mi stavo avvicinando
sveltamente alla ripida salita che dovevo percorrere a piedi per giungere dove mi
dovevo incontrare con “la fanciulla bruna”. Si trattava però di circa 500 metri. In quegli
istanti tornò a turbarmi l’ansia per quanto costei mi avrebbe risposto a ciò che tra non
molto le avrei rivelato. Comunque non dovevo disperare. Meglio essere sinceri e
vedersi subito respinti, che portare avanti una storia con il dubbio di deludere e di
rimanere delusi. Questo era in quel momento, ed è stato sempre, il mio criterio, grazie
ovviamente agli insegnamenti ricevuti. Speravo anche che la sincerità mi lasciasse
intravedere un flebile spiraglio in mio favore; però c’era poco da cantar vittoria. Quando
si svelano certe circostanze non c’è mai da attendersi, come si dice, “mari e monti”; ed
io non cercavo commiserazione, ma da persona onesta dovevo rispettare i miei principi.
Questi erano i miei pensieri ed anche i mesti presentimenti nel giungere al bivio per “Le
Case”, ovvero nel luogo dove, due giorni addietro, c’eravamo salutati con un forte
abbraccio e un tenerissimo secondo bacio. Da quel luogo, mentre mi accingevo a
percorrere l’ultimo tratto di salita, il mio cuore prese a battere forte, forte. Avevo
intravisto la fanciulla dai bruni capelli ad attendermi in quel breve pezzo di strada che
dalla sua abitazione portava alla via maestra.
Teneva tra le braccia una creatura, ancora non potevo sapere se maschio o femmina.
Indossava il solito abitino scuro che le aveva donato tanto splendore la sera del ballo e
il giorno della fiera. Quindi non mi potevo sbagliare. Era proprio lei Ivana. Ormai
l’avevo ben presente.
100
La vidi sveltamente tornare indietro e scomparire tra le mura di cinta della casa (ebbi
poi modo di vedere che si trattava di una corte) e ricomparire dopo un minuto senza la
creatura. Mi corse incontro sorridente e in quel momento si dileguarono i cattivi
pensieri ed i mesti presentimenti che sovente mi turbavano. Ciao- mi disse- ti ho visto
subito quando sei apparso al bivio per “Le Case”, e proseguì: - Ti va di mettere al sicuro
la bicicletta sotto la parata e poi andare insieme su verso le Serre a far quattro passi
così possiamo parlare liberamente? Stasera- continuò – c’è anche l’inaugurazione del
nuovo molino che si trova cento metri da qui. Lasciata la bici ci dirigemmo verso l’alto,
dove notai l’affluenza di molte persone. Si recavano ovviamente alla festa da poco
indicatami da Ivana. Malgrado il luogo ed il momento poco adatto, stavo per rivelarle i
problemi che mi affliggevano. Volevo togliermi una volta per sempre quel peso, pur
temendo un non favorevole esito, quando incontrammo due sue amiche alle quali mi
presentò come il “suo ragazzo”, non potendo nascondere un leggero rossore delle
guance. Raccontò loro con certo entusiasmo come e quando c’eravamo conosciuti, e che
era la prima sera che la raggiungevo alle Serre. Io naturalmente cercavo di non far
trapelare quello che, purtroppo, mi angustiava. La chiacchierata con le amiche non durò
a lungo e finalmente potemmo rimanere soli e parlare tra noi senza essere disturbati.
Stavamo ritornando dalla suddetta inaugurazione, quando, riunendo tutte le mie forze ed
il ben poco coraggio, finalmente le dissi:- Ivana, ti devo rivelare una cosa molto seria;
non posso per i miei principi di onestà tacertela ancora. Se lo facessi non sarei quella
persona che tu ritieni giusta per edificare una splendida e durevole storia di amore.
Quindi ti prego di ascoltarmi attentamente, dopo di che, senza farmi attendere un
minuto, durante il quale non so quanto potrei soffrire, mi darai la tua risposta. Poiché ti
considero, e non credo di sbagliarmi, una fanciulla deliziosa in tutti i sensi, preferisco
essere respinto immediatamente, perché tu non meriti sofferenze.
Dunque- continuai- sai bene che io sono un modesto contadino e sai pure dove abito,
però non conosci altro di me fino ad oggi. Siamo una famiglia di gente onesta, ma data
la precarietà di salute della mia mamma, che bramerebbe poterti conoscere, non
navighiamo negli agi. Anzi devo confessarti che fatichiamo assai per tirare avanti, ma
nessuno può dire una mezza parola sul nostro comportamento. Barcameniamo con
disagio, ma siamo stimati da tutti coloro che ci conoscono. Insomma, sappi che tu sei il
sole dei miei occhi, però se riterrai di continuare la storia appena sbocciata, io posso
prometterti solo la mia onesta, la mia sincerità sempre, e tutto il mio amore. Dovrai,
purtroppo, seguirmi nel duro lavoro di ogni giorno, senza i conforti, i lussi, gli agi, che
potresti godere in altre occasioni. Insomma se la storia dovesse, e me lo auguro di cuore
continuare, potrai trovare nella famiglia tanto rispetto ma anche tanto lavoro e pane
duro da masticare. Siamo gente onesta seppur povera, ma gli onesti sanno anche amare
intensamente. Ora, Ivana, aspetto un tuo giudizio buono o cattivo, che possa, magari
con il rifiuto, togliermi da questo stato di disagio.
Oh quanto fu lungo quel minuto o due che stetti immobile, col cuore in gola, ad
attendere che dalle sue labbra uscisse una parola.
Magari un insulto per averle taciuto, seppure non volutamente, a quale categoria di
persone o per meglio dire di famiglie apparteneva il suonatore di batteria che l’aveva
tanto a lungo adulata durante il ballo, il giorno della fiera e quel dì medesimo. Quando
dico che quel minuto di attesa mi parve lungo quanto una stagione tempestosa, capace
di distruggere ogni bene della natura, credo di non mentire.
Guardavo il suo volto e la sua bocca che non lasciavano trasparire la volontà di voler
finalmente parlare ed io soffrivo immensamente. Poi le sue labbra sfoggiarono un
sorriso ed anche i suoi occhi parvero sorridermi.
101
Attese ancora un attimo poi sussurrò:- Per favore fammi sentire quanto batte forte il tuo
cuore. Il mio, Aldo caro, sembrava impazzire quando hai detto di dovermi svelare cose
tanto serie da mettere a repentaglio il nostro amore sbocciato da due giorni appena.
Io sono come te una contadinella, e come te orgogliosa di esserlo. Sono costretta come
tutta la gente del mondo agreste ai duri sacrifici del nostro mestiere. Se davvero vuoi
farmi felice, ti supplico con fervore di scacciare dalla mente codesti pensieri.
Adesso ti sussurrerò, con la dolcezza che dici spesso essere per te estasiante, una
piccola frase che deve farti scomparire ogni ansia. “Io dall’uomo che amo bramo
intensamente solo il suo amore e la sua onestà”. Solo questo anelo fortemente ora e in
ogni momento della vita, certissima di poter contraccambiare. Gli sfarzi, gli agi, la
ricchezza, i costosi gioielli, non hanno il valore di una relazione d’amore vissuta con
onestà ed entusiasmo. Solo l’amore reciproco può rendere felici due persone.
Quando ti conobbi- seguitò- ed è appena trascorsa una settimana, ascoltai attentamente
le tue parole adulanti che mi pronunciasti durante il ballo, credimi Aldo, non le ho
dimenticate un solo istante. Io provai subito nei tuoi confronti, quello che tu dicesti di
provare per “la dolce bimba bruna”. Se quella sera ( l’hai detto più volte) vedesti in me
una cosa rara come un “fulmine a ciel sereno” la stessa impressione colpì il mio cuore
e non ho tardato più di 5 giorni a dimostrartelo. Con queste parole voglio sperare di aver
saputo allontanare per sempre i dubbi che ti hanno provocato simili sofferenze. Io sento
di amarti per quello che mi hai dimostrato di essere e di provare per me. Non potrei
mai pretendere da nessuno cose impossibili. Ed ora come facevamo prima di questo
chiarimento prendiamoci per mano e continuiamo la nostra passeggiata. Vedi quanto ci
sorride questo raro sole autunnale che si avvia verso il tramonto? Non credi che sia di
buon auspicio? Abbracciami forte come quando ci salutammo due giorni orsono.
Dimostrami che non hai più dubbi sul nostro amore. Le parole di Ivana dettemi con la
dolcezza che ormai conoscevo essere una sua grandissima dote, e mai conosciuta in
precedenti non proficue esperienze, fecero con immediatezza svanire ogni mia
palpabile ansietà e le conseguenti sofferenze. Ora finalmente mi ero alleggerito di un
fardello che da giorni gravava sulla mia coscienza. Mai mi sarei aspettato sentirmele
pronunciare dopo tali rivelazioni. Mi accorsi in quel preciso momento che quando due
cuori anelano lo stesso amore e quindi si incontrano nessun ostacolo risulta
insormontabile. Da quel momento tornò in ambedue la serenità ed il sorriso.
Ora passeggiare insieme fianco a fianco, mano nella mano senza più ombre ad offuscare
il cammino era divenuta una cosa meravigliosa. Così parlottando felici cominciammo a
discendere verso la sua abitazione. Ma ormai il sole era tramontato e nel cielo
comparivano le prime stelle; si avvicinava però l’ora che ci dovevamo separare per
l’impegno che avevo da soddisfare alla Tranquilla con l’orchestrina.
La serata, come ho appena detto, era stata caratterizzata da momenti di fortissima ansia,
ma poi tornata la calma, allontanato ogni dubbio, la felicità sprizzava nei nostri occhi
dai reciproci sguardi dai reciproci atteggiamenti. Ma cosa potevo pretendere ancora
dalla fanciulla dai bruni capelli. Giunti nei pressi del “fontone poderale”, sito lungo la
via maestra, ci sedemmo per qualche minuto sul muretto di protezione del fontone
medesimo, per scambiarci gli ultimi abbracci della giornata.
102
Se nel cielo brillavano già le prime stelle, a Levante era apparsa la luna piena, il clima,
insomma, era veramente incantevole come confermano queste mie scarne rime:
1 Quando luceva appen la prima stella,
3 Allorchè l’astro, lassù aveva un velo,
la soavità provai del Paradiso,
ed un canto sentivam di capinera,
nel contemplare il mite suo sorriso
noi eravam due rose in uno stelo.
e nello stringere a me tale donzella.
4 L’armonia, finalmente dolce e vera,
2 Soli eravamo al chiaro della luna,
con la luna testimone su dal cielo,
e mentre ci tenevamo stretti, stretti,
faceva sbocciar l’eterna Primavera.
l’estasi avvertii per i bacetti,
scambiati con la dolce “bimba bruna”.
A. Leonini
Cosa dire di più? Erano attimi per me indimenticabili, anche perché ora sapevo quanto
costei fosse innamorata di quel ragazzo piuttosto esile dell’orchestrina della Tranquilla.
Ella, non aveva minimamente tenuto conto delle non brillanti condizioni economiche
della mia famiglia, ma della sincerità e dell’amore che potevo offrirle.
Ecco, malgrado avessimo bramato entrambi di rimanere lì seduti stretti, stretti, giunse
l’ora dell’arrivederci Domenica prossima. Sarebbe stata certamente una settimana
lunga da passare prima di poterci rivedere e riabbracciare. Ed ora che tutte le ansie
s’erano dileguate per non ricomparire mai più, i miei sogni, ovviamente, sarebbero stati
felici. Ancora un forte abbraccio, un altro tenero bacio quindi ripresi la via del ritorno.
Mi fu appena possibile lasciare la bicicletta e salutare con un sorriso i miei. Dovetti
correre immediatamente dove già mi attendevano. Mario, mi aveva momentaneamente
rimpiazzato. Non c’erano quindi problemi, ci saremmo scambiati il turno. Gli feci
subito notare che appena ”divorato” una pasta ed un caffè (non avevo potuto consumare
la cena) gli avrei restituito, con immenso piacere, il favore ricevuto la scorsa Domenica.
Mi aveva dato la possibilità di assentarmi lasciando completamente a lui l’incombenza.
Come potevo non restituire ciò che mi aveva permesso di godermi i lieti eventi poco
prima descritti? Adesso ero felice e non avrei risentito del sacrificio rimanendo fino la
mezzanotte sul palco dell’orchestrina.
Il dì successivo ringraziai mia madre per avermi dato saggi consigli e, in particolar
modo, quello di essere sempre sincero e di non nascondere mai nulla. Ricordai le sue
parole… “E’ con la sincerità e l’onestà che si costruisce la stupenda struttura
dell’amore”. Ed io avevo mantenuto fede agli insegnamenti ricevuti. Grazie a lei ora,
non avevo nulla da temere perché Ivana sapeva proprio tutto di me e della mia famiglia.
Argentina, mia madre, seppure sofferente, con un lievissimo sorriso soggiunse:- E’
sempre un dovere dare consigli ai figli.
La Domeniche e le feste tra settimana che incontrammo successivamente, non fecero
che consolidare il nostro rapporto e amplificare il piacere di stare insieme. Ero divenuto
una persona diversa. La fanciulla dai bruni capelli, con le sue maniere aggraziate mi
aveva ammansito. La patina del tempo non mi ha fatto dimenticare che trascorremmo
un Natale e la festa successiva di S. Stefano con il gelo mordente. Ma io non potevo non
recarmi dalla mia cara fanciulla. Il gelo, la pioggia o le nevicate abbondanti non
potevano fermarmi. Se non era possibile pedalare, c’era comunque il treno delle 15 che
fermava pure a Serre di Rapolano. Però, anche se non avevo impegni con l’orchestrina,
la sera al rabbuiarsi prendevo la via del ritorno; con la bici o col treno per un po’ di
volte mi parve giusto fare in tal modo. Non mi sentivo del tutto pronto a salire le scale
della sua dimora, onde trovarmi di fronte ad una sì numerosa famiglia.
103
Non c’ero abituato, bisognava che ciò avvenisse lentamente; noi eravamo soltanto in
sei. Nel trascorrere insieme a Ivana quei pomeriggi festivi, avevo notato in giro nei
pressi della casa diverse persone affaccendate, ma non avevo avuto l’occasione di
conoscerle. Mi ricordavo un po’ il volto di sua madre, ma non so se l’avrei riconosciuta.
Fu nel pomeriggio di Capodanno 1950 che accadde ciò che segnò il vero importante
cambiamento della nostra storia, rinforzandone assai le già stabili fondamenta. Soffiava
una gelida tramontana quella sera, mentre noi ci trovavamo piuttosto tremanti, dove
giungeva un raggio di sole, ovvero presso il cancello che dava alla corte. Passò in quel
momento un uomo ricurvo sotto al peso di un grosso “fastello” di paglia che portava
nella stalla. Si fermò dinanzi a noi, ci guardò ambedue e soggiunse: - Cosa fate a questo
gelo? Volete vede’ se “buscate” un malanno? Andate in casa al calduccio! ‘Un è
proprio il caso di rischia’ una polmonite. Poi proseguì il breve tragitto che lo separava
(vidi più tardi) dalla stalla. Andiamo- mi disse Ivana- così conoscerai anche mia
mamma, la nonna e le mie tre zie. Gli uomini- proseguì- sono tutti nella stalla o in giro.
Quello che è passato adesso è mio padre. Spero che non ti sia sembrato burbero, egli ha
detto ciò per il nostro bene. Ti accorgerai in seguito che è una persona squisita. Lui mi
vorrebbe sempre vicino. Anche quando va ad arare con due paia di bestie, per guidare il
“trapelo” chiede ogni volta di Ivana. Noi siamo quattro figli, ma tanto per babbo che per
mamma siamo tutti uguali, non sarebbero capaci di fare differenze.
Intanto ci incamminammo verso le scale. Ero in procinto di compiere un passo
importantissimo, da Ivana certamente bramato e da me condiviso. Salimmo dunque quei
ruvidi scalini di travertino e ci trovammo nell’ampia loggia da cui si poteva accedere
alle svariate stanze. Ma in quel momento io pensavo solo a seguire Ivana; con lei mi
sarei recato ovunque perché capivo di farla felice.
Francamente in quell’ampia cucina dove ardeva un focolare di non piccole dimensioni,
tutto apparve diverso. Se fuori, con la tramontana che spirava, tremavamo anche
stringendosi l’uno all’altro, lì, al calore della fascina scoppiettante, potevamo persino
alleggerirci di qualche indumento. La prima persona che ebbi il piacere di salutare e di
conoscere fu la sua mamma, ovvero Angiolina, che si mostrò molto gentile nei miei
confronti, da togliermi subito dal disagio che poteva provocarmi tale primo incontro.
Seppure fosse stato di festa, non lontana dal focolare c’era l’arzilla sua nonna Palmira,
intenta a filare non saprei dire se canapa o lino. Ivana mi disse che lo faceva con tanta
soddisfazione in ogni stagione dell’anno. Dopo pochi minuti, mentre noi ci
riscaldavamo per il freddo sofferto là fuori allo spirare della tramontana, sbucarono da
quelle diverse porte alcuni ragazzini; tra maschietti e femminucce erano senz’altro
cinque o sei. Di alcuni imparai subito il nome anche perché vennero incontro a Ivana.
Compresi facilmente che nutrivano per la fanciulla dal bruno capello certa simpatia. Tra
costoro ricordo Pierino, Brunello, Giancarlo, Achille, Rita, Marisa e Irio. Appena entrai
in quella casa mi rimase impresso il lungo tavolo con due robuste panche laterali e una
seggiola ad ogni testata. Non vorrei errare ma detto tavolo non poteva essere di
lunghezza inferiore ai sette metri. Le due panche erano della stessa misura. Là dovevano
accomodarsi ben 26 persone. Ivana, sorridente come sempre, mi rivelò che la famiglia
era composta dai nonni, dai loro quattro figli tutti sposati e ciascuno con ricca prole.
Infatti complessivamente la casa era allietata in ogni momento del giorno dalla
presenza tra più grandi e più piccoli di 16 figli.
Comunque per noi era una soddisfazione immensa dialogare e raccontarci al tepore del
focolare le vicende della settimana appena trascorsa.
104
Mentre le donne sfaccendavano o accudivano i loro piccoli, Palmira seguitava a tirare il
suo filo e a far trillare il fuso. E’ evidente che siamo ancora al pomeriggio di
Capodanno.
Tutto proseguì magnificamente fino a quando non cominciarono a giungere in quella
grande cucina, per consumare la cena, le varie persone adulte della famiglia. Io non
sapevo chi e dove guardare, tra tutta quella gente mi trovavo chiaramente a disagio.
Tra queste persone vidi giungere anche un giovane alto e magro che non mi sembrò
faccia nuova e mi ricordava qualcosa anche l’abito chiaro che indossava. Mi tornò
subito in mente di averlo visto più volte alla Tranquilla durante le serate di danze. Nel
manifestare la mia sorpresa per tale incontro, Ivana mi disse che trattavasi di suo fratello
Ivo. Insomma erano proprio tanti e tra poco più di mezz’ora si sarebbero disposti
intorno al tavolo per consumare la cena che Angiolina coadiuvata da altre donne stava
già preparando. Anche se tutti entrando in casa mi salutavano con un sorriso, io avrei
preferito in quel momento nascondermi un attimo. Tra me e me dicevo:- Come farò a
liberarmi da questa moltitudine di persone? Ovviamente non era per cattiveria, per
rimanere con la dolce bimba dai bruni capelli avrei fatto qualsiasi cosa, ma per quella
sera dovevo trovare una qualsiasi scusa.
Non potevo neppure tornarmene in Grottoli così presto tanto più che ero libero da
qualsiasi impegno. Sebbene mi avessero pregato di rimanere, preferii uscire, ma mi
recai in paese,( al Cancello dal Martinuzzi) dove consumai un panino.
Quando, secondo il mio pensare, ritenni che quella grande cucina si fosse un po’
alleggerita di presenze, ritornai per qualche ora da Ivana.
Ed ella durante il nostro dialogare mi disse:- Che impressione ti ha fatto trovarti qui
stasera? Doveva accadere; e se mi vuoi davvero bene come dici, ti ci dovrai abituare,
non è giusto che tu te ne vada quando stiamo per metterci a tavola. Anche se dovessimo
offrirti soltanto una “frittata di patate”, nelle serate che sei libero dall’orchestrina devi
rimanere con noi, anzi ti vorrò sempre al mio fianco. Devi crederci se ti dico che tutta la
mia famiglia ne sarà felice. E ciò accadde presto, molto presto.
Sin dalla Domenica successiva (o forse dall’Epifania) non mi feci pregare più di tanto.
Cenai con tutti loro seduto a quel lungo tavolo. Ivana, come mi aveva precedentemente
detto, mi volle al suo fianco, ma costei era al fianco di suo padre. In tale frangente mi
tornarono alla mente le parole sussurratemi una sera…”mio padre mi vorrebbe sempre
accanto anche durante il lavoro”. In questo clima di vera euforia e di immensa felicità
per entrambi, trascorremmo le feste natalizie ed il carnevale con il solito mio impegno
alla Tranquilla. Ma intanto dentro al mio intimo studiavo come poter dimostrare una
volta di più il mio amore per costei. Mi venne in mente di regalarle qualcosa in oro, ma
i soldi, come ho più volte ripetuto scarseggiavano, e gli introiti suonando erano
limitatissimi. Trovai la soluzione mettendomi a legare le granate di saggina. Ne legai
davvero tante. Una parte dovevano servire per l’uso di casa, le altre le vendetti a
Martino il bottegaio di fronte alla Collegiata. Spartii il piccolo ricavato con mio
fratello e, aggiungendo qualche centinaio di lire e diverse rate acquistai due orecchini
d’oro. Il 19 Marzo 1950 in piena Quaresima mi precipitai da lei con i due minuti
gioielli. Non vedevo il momento di donarglieli, e quando li vide non mancò di
abbracciarmi e di baciarmi appassionatamente. Ella dopo pochi istanti con la sua solita
voce suadente e aggraziata mi disse:- Ecco, prendi questa mia foto in segno del nostro
amore; e nel retro scrisse…”Offro a te questa mia come pegno del nostro amore. Tua
per sempre Ivana”. Quel suo volto immortalato in un piccolo pezzetto di carta mi segue
sempre e ovunque.
105
Ma adesso non posso non rivelare un particolare abbastanza curioso. Da quando ci
conoscemmo, mai l’avevo vista indossare degli orecchini, ma quel giorno portava alle
orecchie due gioiellini. Mi assicurò che li aveva acquistati suo padre giorni addietro in
occasione della fiera a Sinalunga. Costei comunque se li cambiò immediatamente. Dalle
sue orecchie fin da quel momento penzolarono le campanelline donate dal suo
“immenso amore”. E quegli orecchini la seguirono per lunghissimi anni nelle nostre più
o meno liete vicende. Poi un giorno si accorse di averne soltanto una, l’altra non seppe
spiegarsi come averla perduta. La “sopravvissuta” vive ancora me l’ha mostrata oggi
stesso mormorando le seguenti parole:- Questo orecchino mi ricorda i giorni più belli
della nostra vita. Era il 19.3.950 quando glieli donai, ed oggi è il 21.11.2006.
Eravamo solo all’inizio della nostra storia, ed io se la mente non mi tradirà vorrei nelle
pagine seguenti continuare a descrivere tutto quanto di strabiliante, di bello, di puro è
stata capace di offrire a me e a tutti i suoi cari questa donna incantevole; “la mia bimba
dai bruni capelli”. Certi miei amici ogni volta ci incontriamo e parliamo mi dicono:- Di
Ivana c’era una sola e quella te la prendesti tu.
Oh quante volte durante la primavera, e nei tempi che seguirono, trascorremmo stretti,
stretti ore intere a pronosticare il nostro futuro. Avevamo tanta voglia di vivere, ma
prima di ogni altra cosa bramavamo che la felicità del momento divenisse duratura. Ciò
che dicevamo e bramavamo risulta evidente dalle seguenti mie rime.
1 Sovente mi sovvengon quelle scale,
che dalla corte portavan nel loggiato,
donde da flora godevasi ammantato,
uno scenario ampio assai speciale.
2 Speciale perché insieme lì stavamo,
stretti, stretti ed a pronosticare,
un lieto futuro, però da conquistare.
Già ore stupende intanto godevamo.
3 A quel vaso di rose ognor fiorito
sul murello di pietre e di mattoni,
il cuor suo sussultare avevo udito.
4 Eran per ambedue belle emozioni,
perché finalmente avevam capito
di vivere le stesse aspirazioni.
A. Leonini
Trascorsi alcuni mesi non accusavo più il disagio delle prime sere nel trovarmi al
cospetto di tutti i componenti di quella famiglia. Devo con soddisfazione riconoscere
che i quattro fratelli parlavano assai volentieri con “il giovanottello” che giungeva
sempre puntuale da Grottoli. Talvolta si intavolavano discussioni sul nostro mestiere,
sulla fioritura poco promettente degli ulivi. Ghigo, il padre di Ivana, mi parlava con
enfasi dei suoi buoi di razza “chianina” che aveva acquistato alla fiera magrissimi e che,
dopo quattro mesi, grazie alle sue cure ed ai cibi serviti loro ogni giorno, erano diventati
grassi e lucidi come degli specchi. Insomma avevo notato che riponevano in me certa
fiducia e simpatia. Quando Giacomo, il terzo dei quattro fratelli venne colpito da una
malattia insolita che gli toglieva la volontà di alzarsi dal letto e di mangiare per intere
giornate, ritrovava la normalità allorchè giungeva da Asciano il ragazzo di sua nipote
Ivana. Io, talvolta, riuscivo a riportarlo al tavolo con tutti gli altri.
Ormai anche io ero considerato un membro della famiglia. Lo notavo pure dal
comportamento delle donne di quella casa e dei loro figli. Con i più grandi, già
giovanotti o signorine, m’intrattenevo spesso a parlare della situazione del momento
certamente difficile per tutti. Con i più piccolini scherzavo o raccontavo loro delle
storielle, così non mancavano mai di gironzolare d’intorno. I suoi cugini maschi o
femmine avevano verso Ivana grande simpatia.
Comunque noi godevamo la nostra prima Primavera di felicità. Dico la nostra prima
Primavera perchè da poco era passata la Pasqua.
106
Ma tra tanti momenti di immensa felicità, proprio allora m’era successo di trovarmi un
paio di volte in situazioni non certo piacevoli.
M’era accaduto di recarmi da costei che mi attendeva per trascorrere pomeriggi
deliziosi, e sapere di non essere del tutto corretto.
Avevo volutamente finto di dimenticare sul canterano il portafoglio. Il motivo di
tuttoquesto? E’ di facile intuizione. Non conteneva il “becco di un quattrino”. Quei
pochi soldi che riuscivo a rimediare con l’orchestrina mi servivano per azzerare il debito
fatto per acquistare gli orecchini per la mia ragazza. Sono consapevole che non avrei
dovuto mentire, ma mi vergognavo a palesare la verità. Comunque nel mese di Giugno
potei saldare, e tutto tornò sereno e tranquillo. Tengo a precisare che appena liberatomi
dal debito narrai la spiacevole storia alla mia fidanzata che naturalmente ne rimase
dispiaciuta. Tutto si risolse con un lungo e tenero bacio. Potei comprendere una volta di
più, e lo affermo con sincera convinzione, che quando due giovani si amano non conta
la consistenza del portafoglio. Ripensando a quei momenti mi vengono spontanee le
seguenti rime:
1 Eravamo ambedue poverelli,
cresciuti là ne’ campi tra i sarmenti,
ove la tramontana ed altri venti,
sibilavan tra i rami degli ornielli.
2 Nulla contavano i soldi nei borselli.
Lo sbocciare di soavi sentimenti,
facevano scordar tanti tormenti.
Eran dolci melodie e non stornelli.
3 Sembra di raccontare una novella,
ma gli occhi ed i suoi bruni capelli,
la facevano apparir sempre più bella.
4 La rimiravo come quella stella,
(e lo facevo al canto degli uccelli)
che spunta nel cielo dopo la procella.
A. Leonini
Naturalmente mai ebbi da pentirmi di ciò che avevo fatto, ovvero, di addossarmi quel
debito. Sapevo che col tempo lo avrei pagato e poi c’era anche la fiducia che aveva in
me e nella mia famiglia il venditore. Ma adesso basta con questa storia, la strada da
percorrere non è breve, si tratta quasi di sessanta anni trascorsi insieme.
L’Estate fu per ambedue caratterizzata da infinite giornate di duro lavoro, ma ci
rifacevamo la Domenica sera. Nulla e nessuno ci poteva privare dei nostri lieti momenti
di felicità. Ivana, rammento, aveva preso una tintarella tale da fare invidia a quelle
fanciulle che avevano trascorso un mese sulla sabbia. Io ero divenuto un bel “magrone”.
Non so se con gli abiti raggiungevo i 60 chili di peso. Ma non mi interessava. Mia
mamma mi diceva sempre:- La gente non si compera a peso.
Terminata la stagione delle faccende pesanti, ripresero le serate di danze alla Tranquilla,
ma sentivo di essere sempre più dispiaciuto dover lasciare la mia ragazza appena si
faceva buio. Provavo davvero il bisogno di averla il più possibile accanto. Ivana con la
sua delicatezza e con i suoi modi gentili mi aveva reso un uomo responsabile e lieto.
A. Leonini
107
DOPO QUEL PRIMO DONO
Trascorremmo l’Estate del 1950 in un vero clima di felicità. Ormai la nostra relazione,
dopo quasi un anno era divenuta alquanto solida. Mi sovvengono quelle Domeniche o
altri pomeriggi festivi, a cercar di convincere suo zio Giacomo ad alzarsi dal letto. I
primi tempi vi rimaneva qualche giorno, poi intere settimane, e per giunta senza voler
mangiare nulla. Dicendo ciò sto certamente ripetendomi, ma questa era la pura realtà.
La sua moglie ed i figli più grandicelli soffrivano assai per tale stato di cose. Durante i
mesi primaverili o estivi quando non andavamo a far delle passeggiate verso il paese
dialogavamo nell’ampio loggiato, o all’ombra delle acacie che crescevano floride vicino
all’abitazione. Li ritenevamo i luoghi ideali per le nostre liete conversazioni, che erano
anche di profonda armonia. Adesso li rivivo in queste mie rime.
1 Che armonia intorno a noi si creava,
quando stavamo insieme a parlottare
sotto l’acacia presso al casolare.
L’olezzo de’ suoi fiori c’inondava.
2 E’ bello quei momenti rimembrare,
senza il canto scordar dell’usignolo,
che spesso ci donava i suoi assolo,
allorquando prendeva rabbuiare.
3 Pur mi sovvengon le dolci paroline
che scambiavamo al rezzo dell’orniello,
ci sembravan poesie e pur divine.
4 Monete non avevamo nel borsello,
ma c’eran le tue labbra porporine,
al cui contatto tutto era un gioiello.
A.. Leonini
Velocemente tra felici serate trascorse con Ivana a pronosticare i nostri giorni futuri e i
vari impegni con l’orchestrina giungevamo all’Inverno, con i suoi rigori e con la salute
di mia madre sempre più precaria. Imperava ovunque l’influenza, ma da questa
fortunatamente mi salvai e si salvò pure Ivana. Poi proprio a Maggio quando meno me
lo aspettavo mi colsero delle febbri altissime con dolore alla gola da non poter ingoiare.
Uno specialista diagnosticò tonsillite e consigliò di operare quanto prima per non
compromettere ulteriormente il mio stato di salute. Intorno al 15 Maggio fui operato
nella Clinica Rugani, e la mia dolce Ivana (malgrado le faccende impellenti della
stagione) non mancò di farmi visita più volte nel breve tempo di degenza.
Quando fui dimesso avevo ancora qualche linea di temperatura, ma la ritenevano una
cosa normale dopo il periodo di febbre elevata e l’intervento di tonsillectomia. Dopo
una quindicina di giorni lo stato febbrile persisteva, perciò il medico di famiglia dott.
Tortelli mi consiglio una visita e i raggi al torace dal dott. Mura, specialista in malattie
polmonari. Eseguita l’accurata visita e raggi al torace diagnosticò “congestione ilare”.
Potevo curarmi anche a casa perché la cosa non era grave, ma occorreva molta
attenzione nello assumere medicine e nel mangiare. Occorreva carne magra abbondante
ogni giorno. La febbre secondo il suo giudizio poteva persistere per diversi mesi.
E così fu. Ogni trenta giorni tornavo al controllo a Siena in Via S. Martino 95
accompagnato da Ivana. Lei doveva essere sempre presente. Ci volevamo bene e non
dovevamo nasconderci nulla, tanto meno quando trattavasi di salute. La situazione era
triste. Io non facevo altro che piangere. Non era giusto che a 25 anni dovessi cadere in
una malattia che mi invalidava per mesi interi. Come avrei fatto a mangiare carne magra
in abbondanza quando i miei faticavano a procurarla per mia madre? Ogni giorno verso
le 15 sentivo calore alla fronte ed il termometro saliva a 37,3 per ridiscendere sotto 37
verso le 21.
108
Come ho detto prima non facevo che piangere, e non potevo darmi pace. Ero
ossessionato dal timore di non essere più in grado di lavorare, e di fare tutto ciò che
avevo fatto fino ad un mese prima. Ma pensavo anche che non avrei potuto seguitare la
deliziosa storia con Ivana se le mie condizioni non fossero tornate alla normalità. Mia
madre cercava di incoraggiarmi, ed io comprendevo che era il sublime istinto di ogni
genitore cercar di lenire le sofferenze di un figlio.
Io ormai venticinquenne avrei dovuto infondere coraggio a lei che soffriva le sue pene
da molti anni, e invece non facevo che versare amare lacrime. Non uscivo neanche di
casa tanto m’ero allarmato, e poi mi sembrava persino di provar vergogna. Tutti
sapevano nel circondario che “Toscanini” era ammalato da tempo. Mi rianimavo un
pochino la Domenica quando vedevo giungere la dolce mia ragazza che sarebbe
rimasta qualche ora a farmi compagnia ed a cercar di consolarmi. Sono certo che se non
fossero state le sue frequenti visite e le sue infinite parole d’incoraggiamento non sarei
riuscito a superare quel triste stato di abbandono. Argentina, mia madre, in quella non
lieta occasione ebbe modo di conoscere Ivana e molto spesso mi diceva: Aldo, reagisci
a codesto stato; vedrai che tra poche settimane ti sentirai molto meglio. Lo devi fare
anche per quella benedetta ragazza. Quella è una “cittina” d’oro e merita tutto l’affetto e
la stima. Cerca di tenertela stretta perché un’altra uguale a lei ‘un la potrai più ritrova’.
Ma io ciò che ora mia madre mi diceva, lo avevo capito fin dal 10 Novembre del 1949.
Avevo ben compreso di che “pasta era fatta”. Come ho già detto prima ogni volta che
mi recavo a Siena al controllo, lei doveva essere presente, doveva sentire con le proprie
orecchie ciò che il medico diceva circa l’andamento della malattia. Con il controllo del
mese di Agosto confermò che ero sulla giusta via, ma dovevo ancora pazientare. Dai
primi di Maggio 1951 soltanto il giorno 8 del mese di Settembre presi il coraggio di
ritornare a farle visita alle Fornaci. Da qualche tempo avevo ripreso ad uscire di casa a
riprendere coraggio. La domenica sera da un po’ andavamo all’ombra della grossa
quercia non lontano dalla mia casa e li trascorrevamo le ore. Ivana, come sempre,
cercava di infondermi coraggio, ed ora avevo compreso quanto le sue parole
significassero per la mia ripresa. Dunque l’8 Settembre salii sul treno delle 15 ad
Asciano M.O.M e discesi a Serre di Rapolano. Quando giunsi al cospetto dei suoi
familiari, questi mi accolsero come un figlio e di ciò non me ne sono più dimenticato.
Avevo il timore che venisse da costoro scoraggiata a proseguire la storia con un ragazzo
che da mesi era febbricitante, e per essere sinceri, anche quella sera m’era salita a 37°.
Quello stato di cose mi fece pensare che non sarei stato più idoneo a sostenere le dure
fatiche del contadino. Però da poco il dott. Mura alla presenza di Ivana mi aveva
assicurato che potevo considerarmi guarito, sebbene fosse stato utile riguardarsi per
qualche mese ancora. Parlando con la mia ragazza mi balenò l’idea di riprendere gli
studi per conseguire la licenza di terza media. Studiai accanitamente con i libri
comperati al mercato a metà prezzo e con quelli prestatimi dal fratello di Ivana. Di
costei non mi mancò mai il supporto morale. Intanto la vita sentimentale aveva preso
nuovamente a far palpitare i nostri cuori. Adesso studiavo, lavoravo quasi come prima
di ammalarmi, ma bramavo anche la sua vicinanza. Nel 1952 causa un “falso allarme”
fummo in procinto di sposarci, poi ritornato il sereno rimandammo tutto. Franchino,
mio padrone di allora, aveva già provveduto a procurare lo spazio per la nostra camera.
La famiglia di lei era ignara di tutto. Ne fu informata solo una ventina di anni più tardi.
Dunque con innumerevoli sacrifici per i miei, tante nottate passate sui libri, e molte ore
rubate all’amore di Ivana, il 13.6.1953 conseguii la licenza di terza media. La mia
“bimba bruna” ne fu felice quanto o più di me.
109
Sovente, una volta completamente ristabilito e sereno, ripensavo alle visite fattemi da
costei e ricordavo vieppiù i pomeriggi trascorsi insieme (ancora febbricitante) all’ombra
della frondosa e ... secolare
quercia grezza, adesso così la ricordo:
1 Trovava serenità l’anima mia,
3 Anche lo stato apprensivo si placava,
all’ombra della quercia invitante,
al rezzo della quercia in sua presenza;
quando a lungo restai febbricitante,
ella mi coccolava e con pazienza,
e visite mi facean di cortesia.
motivo per rinfrancarmi alimentava.
2 Tal cosa era per me incoraggiante,
4 E quando s’approssimava la partenza,
poiché a presta guarigione stimolava,
dentro al cor mio tornava la tristezza;
e pure la fanciulla che mi amava,
ma la fronda carezzata dalla brezza,
la salute mia bramava più brillante.
sembrava confortarmi con fervenza.
Come era giusto che fosse, i tempi volarono velocemente. Causa la recente malattia
avevo persino tralasciato per sempre l’hobby della sala di musica e della banda paesana
che tanto mi aveva appassionato fino a pochi mesi addietro. Anche alla Tranquilla
diradavano le serate di danza. Il Dott. Tortelli che seguiva mia madre era un pò
preoccupato per le sue condizioni. Ella trascorse le feste natalizie a letto febbricitante, e
con il cuore che mostrava segni di cedimento allarmanti. Poi, il 7.2.1954, si spegneva
nel sonno. Il giorno del funerale erano presenti anche Ivana e suo fratello Irio. Mai avrei
immaginato che la “ragazza dal bruno capello”, che mi aveva dato tanto coraggio nei
recenti momenti critici della mia malattia fosse così sensibile, ed attaccata alla madre
del suo fidanzato. La vedo tuttora piangere in modo straziante dinanzi al cereo volto di
colei che aveva tanto amato la sua famiglia e le persone che conosceva. Mia madre mai
aveva espresso odio per nessuno, e durante la sua malattia aveva sempre trovato la
serenità pregando. I molti presenti rimasero stupiti dalla sensibilità e dal rincrescimento
dimostrato dalla giovane ragazza per la scomparsa di Argentina. Ecco, anche in tale
mesta occasione una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, mi dimostrava quello che
provava per me e per i miei familiari. Durante la mia malattia anche Argentina aveva
avuto prova della serietà e della nitidezza di Ivana.
Dopo la perdita della madre, io sentivo ancor più forte l’esigenza di averla vicino. Non
avrei potuto attendere molto per unirci in matrimonio. Infatti ne parlammo qualche
settimana più tardi ed ella fu completamente d’accordo. Il 24 di Aprile del 1954, a poco
più di due mesi dalla tristissima scomparsa, nella chiesa di Serre il parroco Don Giorgi
celebrò il rito che ci doveva unire per sempre. Non fu una grande festa, come anche io
avrei bramato, ma purtroppo dovevamo rispettare la grave assenza.
Ci limitammo al minimo indispensabile; il pranzo nunziale fu consumato alle “Fornaci”
in casa della sposa. D’altra parte non potevamo pretendere di più. Non ci furono “fuochi
artificiali” né il viaggio di nozze. Anche se tutto fosse stato normale, tra i lavoratori
della terra assai pochi se lo potevano permettere. Nel pomeriggio del dì successivo,
tanto per festeggiare, ci recammo insieme a far visita alla tomba di mia madre. Devo
affermare con soddisfazione che dal giorno della nostra unione la mia vita cambiò
completamente. Avevo accanto una giovane donna, mia moglie, sempre conciliante e
pronta al sorriso, disposta a faticare più di quanto avrebbe dovuto per cercar di aiutare
l’uomo che le stava vicino. Aveva sofferto insieme a lui le vicende di quei mesi che era
stato costretto alla disperazione.
110
A me sembrava di aver vinto una fortuna dal valore inestimabile. Ma presto, molto
presto, si affacciò la cruda realtà della nostra situazione economica. Quella particolare
precarietà che le avevo descritto con tanto timore la prima sera che ci incontrammo nei
pressi della sua abitazione. Mancavano i soldi e allora come fare? A turno con mio
fratello ci recavamo a spaccar le pietre alle cave di travertino per guadagnare,(non
sempre) soltanto 1000 lire. Ma se riuscivamo ad intascare detta somma, già potevamo
risolvere qualche piccolo problema. Ivana, la mia cara mogliettina, quando mancavo,
ovviamente aiutava i miei nei lavori della stalla, ed in quelli poderali che non davano
tregua, Angiolino era molto contento e orgoglioso di sua nuora per la sensibilità e per
l’attaccamento al lavoro. In famiglia c’era già una bambina, Loriana, che simpatizzò
presto con Ivana, era figlia di mio fratello e di Alda mia cognata. Più tardi, il 12.
10.1955, la casa fu allietata dalla nascita di un bambino, Roberto, il nostro primo ed
unico figlio. Portò in noi genitori ed in famiglia la gioia. Ma presto purtroppo ci
accorgemmo che c’era qualcosa non del tutto normale. Ivana alle ore giuste per la
poppata l’attaccava alla mammella, ma il bambino dopo un paio di minuti iniziava a
piangere fortemente; ciò ad ogni ora del giorno e della notte. Eravamo disperati, non
sapevamo cosa gli stesse accadendo. Lo facemmo visitare al medico di famiglia Dott.
Burroni il quale constatò che la creatura aveva fame, ovvero Ivana non aveva latte
sufficiente per il suo sostentamento e per la crescita. Dovemmo subito provvedere con il
latte artificiale (Nestogen) ovviamente acquistato a nostre spese, poiché i contadini per
le loro “ricchezze” non avevano diritto ad alcun aiuto. Facevamo parte di una categoria
di privilegiati. Noi lo avevamo constatato anche durante la lunga malattia di mia madre.
E per tirare avanti la baracca continuavamo a fare gli “spaccapietre”. Quando Ivana
“menava” al pascolo i suini là nelle scabrose colline del nostro podere, portava in
braccio anche il figlioletto. Doveva correre dietro il bestiame e prestare la massima
attenzione per il bambino. Era un duro fardello da sopportare, ma costei, non lo
palesava apertamente. Malgrado ciò era felice perché adesso vedeva il fanciullo crescere
sano e robusto, con il latte artificiale, spesso miscelato con quello della mucca del
Querciolo. Il sacrificio che subiva era pesante, come narrano queste mie rime
strampalate, che mettono a nudo la realtà di quei momenti:
1 Dire è difficile con queste rime,
3
qual sacrifici quei dì hai provato,
con forza d’animo alta e sublime,
misto allo spirito mai rassegnato.
2 Portavi stretto al petto quel fanciullo, 4
mal resistendo al pesante fardello,
correvi mesta là nel campo brullo,
“rezzo” mancava d’olmo o di orniello.
Rientravi sfinita al tramontare,
e l’opera però continuava;
il tempo avevi appen per respirare,
ma l’intimo nel cor tuo non barcollava.
Allorché la poppata quel bimbo anelava,
tu dolce madre lo dovevi allattare,
perché quel pianto suo ti rattristava.
Avrò tempo – dicevi poi- per riposare.
Queste erano certamente gravi sofferenze per la mia dolcissima sposa, ma vedendo il
bambino crescere vigoroso e chiamar “mamma” infondeva in lei estasi infinita.
Dunque le spese nella famiglia, come ho appena accennato, prolificavano ogni giorno.
Anche quelle mediche relative alla salvaguardia della salute, e quelle per l’allattamento
del figlio erano a totale nostro carico. Nessun ente ci dava una mano. Mi sono ripetuto,
ma questo particolare lo dovevo mettere in risalto. Io ormai ristabilito dal grave
inciampo del 1951, m’ero gettato a capofitto nel lavoro, non potevo fare altrimenti .
111
C’era un bambino da crescere e questa era la cosa essenziale. Ma talvolta pensavo:
”quanto potrò continuare con queste fatiche?” Per quanto tempo potrò ancora usare
questo pesante arnese (la mazza di 12 Kg) per non meno di otto ore al giorno? Almeno
fosse stato possibile nutrirsi adeguatamente. Con tali fatiche le calorie non erano mai
troppe. Non c’era paura che alzasse il tasso di colesterolo.
Io ben rammento quello che Ivana poteva prepararmi per desinare lassù tra i blocchi di
travertino. Ovviamente la pastasciutta al pomodoro c’era sempre, ma per il necessario
“companatico” c’era poco da pretendere. Quando mi poteva mettere nel tegamino un
uovo affrittellato ed una salsiccia era festa grossa. Il sacrificio, come già detto, per
battere prima il “mazzuolo”(magari nella mano sinistra per la poca esperienza) per far
“pucciotti” e successivamente la mazza, era davvero una faticaccia, specialmente per
me che ero esile e con la salute piuttosto in bilico. Anche le mie seguenti rime, se fosse
necessario lo confermano.
1 Quando il sole scaldava la mia fronte, 3 Quando ancor novizio tra gli affanni,
e addosso colavo ovunque dal sudare,
mi arrabattavo per guadagnar qualcosa,
c’era chi se ne andava verso il monte,
c’era chi sorrideva de’ miei danni,
o a chiappe nude se ne stava al mare.
della mia mano gonfia e dolorosa.
2 Ma invece io poveraccio contadino
4 Era il destino d’un giovin contadino,
con la faccia dal soffrire, certo tetra,
di quella cara terra grottolese,
se volevo rimediar qualche soldino,
recarsi a tribolar su al travertino,
dovevo andare a far lo ”spaccapietra”
ma col suo ingegno sempre si difese.
A risolvere questi problemi fu una “raccomandata” giunta a mio fratello verso i primi di
Settembre del 1956, ove gli comunicavano che, quale vincitore di concorso nelle F.S
avrebbe potuto prendere servizio ad Asciano entro breve tempo.
In seguito a ciò non fu più possibile lasciare mio padre e la mia dolce mogliettina a
svolgere le molteplici faccende poderali. Ma anche nel mestiere del contadino quanto
avrei potuto continuare? Quanto avrei potuto resistere a lungo ad essere considerato,
oltre alle tante fatiche, uno schiavo del padrone? Visto l’esempio di mio fratello pensai,
consigliandomi sempre con Ivana, di partecipare a qualche concorso. Non avevo potuto
fino a quel giorno accedere a quelli di manovale o cantoniere perché richiedevano la
licenza elementare ed io già avevo la terza media. Per quelli di altro livello credevo di
non essere sufficientemente preparato visto che vi partecipavano anche diplomati e
laureati. Qualcuno cercò di convincermi e entro il 10 di Ottobre 1956 spedii la
domanda e relativa documentazione richiesta a Torino per il concorso a 150 posti di
conduttore e a Firenze per altrettanti posti di manovale. Ero stufo di rimanere a ruzzolar
la terra ed essere considerato una persona da nulla perché contadino. Ma quali e quante
possibilità avevo dunque di migliorare la situazione mia e della famiglia?
E qui ha inizio la lunghissima storia vissuta per raggiungere una meta, il cui
protagonista principale, devo con orgoglio dirlo, fu sempre la dolce e tenera Ivana.
Appena fui in possesso del programma per il concorso di Torino, mi resi
immediatamente conto delle difficoltà a cui andavo incontro. Mi occorreva l’aiuto di un
insegnante, che ovviamente non si sarebbe prestato gratuitamente, alcuni libri che
costavano diversi soldi, e tanto tempo a disposizione per la vastità di detto programma.
Le ore da trascorrere sui libri giorno e notte sarebbero state illimitate. La prova sarebbe
invece risultata facilissima per i partecipanti diplomati o addirittura laureati..
112
Dovevo dimostrare di conoscere a perfezione quanto richiesto dal “bando”. Non
dovevano esserci lacune. E per vincere il concorso non sarebbe stato abbastanza
ottenere la sufficienza, bisognava essere tra i primi 150. Poiché ormai trentenne, sapevo
che questa era per me l’ultima occasione. Avrei dovuto combatterla accanitamente.
La notte non mi coricavo mai prima dell’una per studiare, ed anche durante il giorno
quando m’era possibile lasciavo gli arnesi ed aprivo i libri. Era Ivana che al mattino,
quando sentiva mio padre scendere le scale per recarsi alla stalla, si alzava
immediatamente per correre a dargli una mano anche nei lavori più pesanti. Faceva ciò
per farmi riposare una mezz’ora in più. Costei, come ho detto, mi sostituiva in tutte le
faccende. Se mi mostravo un po’ mortificato per i sacrifici a cui era costretta, mi diceva
sorridente :- Non preoccuparti, pensa a prepararti, potrai riuscire. I sacrifici sostenuti da
te, ed in parte anche da me, saranno un giorno ampiamente ripagati, ne sono certa.
Talvolta sussurrava:- Aldo, segui la tua strada per raggiungere la meta che ti sei
prefisso; sai bene che sia i sacrifici che i benefici due persone che si amano li devono
condividere. Ricordi il motto del nostro primo incontro? Tutto quanto qui scritto è la
pura realtà dei lunghi mesi della mia preparazione, dall’Ottobre 1956 al 10 Maggio
1957 quando sostenni gli esami scritti. Devo aggiungere che la partecipazione a detti
esami fu in dubbio fino al mattino del 9 Maggio poiché il bambino era stato colto da dei
disturbi intestinali con altissime febbri che calarono poche ore prima della mia partenza.
Trovarmi di fronte ad un infinità di partecipanti, (solo nell’ampio edificio dove mi
trovavo io eravamo circa 1500) mi tolse ogni speranza, ma forse eravamo tutti nella
stessa condizione; ed allora dovevo tentare di concentrarmi il più possibile.
Ci furono mesi di attesa poi nel Novembre la raccomandata con cui mi convocavano
agli esami orali poiché avevo ottenuto il punteggio di 9,5 a matematica e 8,38 a italiano.
Devo precisare che dopo sostenuto l’esame scritto avevo continuato il ripasso; non
volevo essere preso alla sprovvista, tanto più che nel Luglio avevo saputo
ufficiosamente della mia idoneità senza però conoscere il punteggio.
Da Luglio a Dicembre ovviamente non ebbi un giorno di tregua. Ivana mi aiutava con
tanta volontà, come sempre aveva fatto, ed il mio istruttore (Marino Tommasi) mi
stimolava e mi incoraggiava a perseverare nel ripasso perché- diceva- gli esami sono
sempre degli enigmi, che ci fanno cadere in piccolezze impensate.
Insomma tutto andò per il verso giusto, ma la strada da percorrere era ancora lunga e
tormentosa, c’era da superare una graduatoria. Benché mi avessero comunicato
immediatamente il punteggio ottenuto tal giorno che, modestamente, non era tra i
peggiori, non potevo ancora sentirmi sicuro. Ovviamente nel mio intimo speravo molto,
ma non potevo palesarlo, anzi dovevo compiere tutti i lavori poderali come se in me
non esistessero probabilità di assunzione. Adesso, però, ero tranquillo ed i miei nervi
erano più distesi. La stagione della preparazione mi aveva provato. Ora dovevo
rilassarmi per non cadere in qualche “brutta sorpresa”.
Trascorsero molti mesi, poi nel Luglio del 1959 seppi ufficiosamente di avercela fatta;
ma quale sicurezza poteva darmi una notizia ufficiosa?
Stai tranquillo Aldo- commentava Ivana, forse per incoraggiarmi quando avanzavo dei
dubbi, se dici di impegnarti lo fai veramente e a nulla ti tiri indietro. Francamente non
aveva torto, m’ero ripromesso di cambiare vita e per tale ragione avevo ritenuto giusto
impegnarmi a fondo. Ma dovevo ancora una volta riconoscere che senza costei al mio
fianco non avrei avuto neppure la forza di tentare. Oppure non mi sarei preparato in
modo adeguato e sarei andato agli esami a Torino consapevole di fare un più o meno
piacevole viaggio in treno.
113
Passarono alcuni mesi, poi, verso il 10 di Settembre 1959, al ritorno dal lavoro vidi sul
tavolino una lettera raccomandata. E’ tua – mi disse Ivana- l’ha portata Pietrino
stamattina. Io non l’ho aperta né ho capito chi te la invia, dal bollo non m’è riuscito a
capirci niente. Il cuore mi salì in gola. Chi me la poteva inviare? Guardai attentamente e
riuscii a vedere il timbro della Segreteria Compartimentale di Torino. L’aprii e lessi:
”quale vincitore del concorso per 150 posti di conduttore I . P. 49° in graduatoria, è
invitato a presentarsi all’Ispettorato Sanitario di Firenze il 24 Settembre p.v per essere
sottoposto a visita medica in previsione di una prossima assunzione. Ecco, il mio sogno
stava per realizzarsi. Non so quanto avrei dovuto attendere, ma comunque sapevo di
avercela fatta. C’era da superare soltanto l’ostacolo della visita, che per quanto sapevo,
era sempre molto accurata. Ottenuta l’idoneità non avrei dovuto attendere più di alcuni
mesi. Ora restava da superare solo l’ultimo ostacolo. Incominciavo ad intravedere
l’agognata meta. Mio padre invece era rimasto assai turbato dalla notizia. Pensava che
in quella grande città mi sarei trovato molto a disagio. Non avrei guadagnato tanto da
poter sostentare la mia famigliola. Ovviamente capivo la sua preoccupazione, che poi è
comune in tutti i genitori quando vedono allontanare un figlio. Più tardi restò convinto
che con la volontà nessun ostacolo sarebbe stato insormontabile. Gli dissi di non
allarmarsi perché con la salute mi sarebbe stato possibile migliorare la vita. Non sto a
descrivere la pena provata quando il 20 Settembre, fui punto sulla testa da uno sciame di
vespe “terragnole” che mi ridussero per due giorni con la febbre a 40°. Malgrado ciò il
dì prescritto potei recarmi a Firenze e al termine della visita mi dissero:- Si prepari a
venire a far parte di questa grande famiglia. Li salutai e felice da non “toccare i piedi
per terra” tornai ad Asciano.
Comunicai immediatamente a Franchino, mio padrone del momento, l’esito della visita
annunciandogli pure che tra breve avrei lasciato il podere. Costui mi fece gli auguri e ci
salutammo. Quei giorni autunnali furono molto lunghi da trascorre, ma la mia unica
preoccupazione era soltanto quella di prepararmi adeguatamente all’Inverno torinese.
Adesso non mi interessava più di produrre legna da ardere per il focolare, di potare le
viti, né di affinare il “concio” per le sementi primaverili.
Ma qualcosa però c’era a turbarmi un pochettino, avrei dovuto lasciare la mia cara Ivana
sola col piccolo Roberto. Io per un po’ sarei dovuto rimanere assente. In quei momenti
mi tornavano presenti tutti i sacrifici che ella aveva compiuto perché potessi riuscire nel
mio intento. Ora che c’ero riuscito non mi sarei dovuto preoccupare più di tanto. Non
era sola, c’erano i miei familiari al Colombaiolino ed i suoi genitori alle Serre
Ed allora perché non rilassarsi? Era quello che da tanto tempo sognavo. Anzi per essere
preciso anelavo ciò fin da quando ero bambino e assistevo al passaggio dei treni merci
che faticavano a salire nelle curve di fronte alla mia abitazione.
Il mattino del 20 Novembre mentre ero intento ad effettuare dei lavoretti sentii
chiamarmi, era Pietrino il postino, ed aveva in mano una lettera raccomandata per me, il
mio cuore andò in subbuglio.
A. Leonini
114
E PARTII PER IL SETTENTRIONE…
Già, nel vedere quella lettera raccomandata con relativa ricevuta di ritorno da firmare, il
mio cuore prese a sobbalzare forte, forte. Dovevo, però, conoscere il contenuto…. della
missiva. Ivana che m’era vicina mi disse:- Aprila per favore, dimmi cosa c’è scritto di
bello, non farmi stare un minuto ancora sulle spine. Lo sai da sempre che anche io
anelo che giunga il momento per il quale ti sei tanto sacrificato. Al primo sguardo mi
apparve “il 1° Dicembre p.v.- poi lessi attentamente: il 1° Dicembre p.v. alle ore 8 è
invitato a presentarsi all’U. P. C di Torino P.N per essere assunto in servizio quale
Conduttore i. p. L’assenza non giustificata farà decadere il diritto al posto”. Avevo
pochissimi giorni a disposizione per organizzarmi, e non potevo certamente perderli in
chiacchiere. Mi tornano in mente le ore trascorse da Ivana a cucire le tasche nei miei
giubbini a carne. Nell’eseguire detto lavoro mi diceva:- Ricordati sempre di mettervi il
portafoglio, con i pochi denari che possiedi. Sai meglio di me che andrai in una grande
città dove non conosci nessuno. Tra tanta gente per bene c’è anche qualche borsaiolo in
agguato. Quindi mi raccomando cerca di stare molto “abbottonato”. Non potevo non
rendermi conto delle sue giuste preoccupazioni; era come se vivesse di persona la
prossima mia situazione nella grande metropoli del nord.
Si raccomandava pure che non prendessi troppo freddo poiché, abituato al clima della
Toscana, poteva essere per me pregiudizievole. L’ora della partenza si avvicinava. Il 29
Novembre mi recai a far visita ad un caro amico che soffriva le sue pene all’ospedale di
Siena. Era bello informare gli amici della mia partenza, ma costui aveva altro per la
testa. Però se devo essere sincero c’erano dei momenti che pensando di abbandonare la
mia terra, la mia famiglia ed i miei amici di sempre sentivo prendermi dal magone.
Intanto ora che sarei partito per Torino andammo ad abitare in un appartamentino di
Moscatelli Palmiero. Non aveva più senso restare nel podere dal momento che non vi
lavoravamo. Angiolino, mio padre, data la vicinanza, trascorreva ugualmente lunghe ore
a coccolare il nipotino Roberto.
Pensando al probabile rigido Inverno torinese acqistammo, pagandolo a rate, un pesante
e caldo cappotto da Mario Maffei. Fu la mia salvezza da tanto freddo e dai malanni di
stagione. A 60 anni da quei giorni, lo conservo ancora come un cimelio. Il 29
pomeriggio di ritorno da Siena, ci accingemmo a preparare il valigione di cartone che
riempimmo completamente di indumenti vari. Ma in un angolino, anche se invisibili,
posai col pensiero tutti i bei ricordi dell’età giovanile e i volti delle amicizie più care.
Quell’angolo racchiudeva pure le mie grandi speranze del futuro. Un futuro proficuo….
che potesse finalmente farci dimenticare i sacrifici e le sofferenze degli anni trascorsi.
Le immagini di mio figlio, della cara Ivana e dei miei familiari sarebbero rimaste,
invece, come sempre nel mio cuore.
Ma Ivana devo ancora con forza riaffermarlo era stata quella cara donna che con la sua
inestimabile pazienza e sensibilità, con la sua volontà e con i suoi saggi consigli mi
aveva accompagnato in ogni minuto di quella mia faticosa e affascinante lotta per la
conquista di una meta che sembrava irraggiungibile.
Dopo una notte quasi insonne per il pensiero della partenza, salutati i miei ed
abbracciati forte, forte, il bambino e la moglie, con la pesante valigia ed un cappello in
testa lasciai la mia terra. Rimembrando quei momenti tanto belli e tanto lontani non
posso fare a meno di aggiungere queste mie rime strampalate ma veritiere.
115
1 De’ miei sogni dolce treno lo chiamai, 3 Mai provai opulenza per svernare,
poiché mi trasbordò verso altro lido;
negli anni verdi della giovinezza;
quel felicissimo dì tanto bramai,
ma pane duro assai da masticare,
che rimembrando ancor, lieto sorrido.
col volto smunto ognor dalla stanchezza.
2 Da agricoli calvari allor mi tolsi,
4 Una cosa vorrei or dire con franchezza:
nel recarmi lassù nel Settentrione;
chi suol quel mio binario disprezzare,
l’agognato mio frutto poi raccolsi,
non può da me aspettarsi la carezza.
senza alcun vanto e senza presunzione. L’opera altrui non si può non elogiare.
Erano le ore 8 del 30 Novembre, ed il cielo era piovoso, quando ad Asciano M.O.M
salii su quel treno che mi doveva portare fino ad Empoli. Insieme a me salirono diversi
conoscenti che si recavano a Siena per lavoro. Giunti in quella stazione loro discesero
ed io, invece, rimasi seduto. Ora nello scompartimento mi trovavo insieme a persone
che vedevo per la prima volta, e che sarebbero discese alle stazioni successive.
Il mio pensiero tornò subito sul lungo viaggio appena intrapreso. Anche se appena lo
sapessi leggere, consultai nuovamente l’orario ferroviario da pochi giorni acquistato, per
accertarmi se il treno su cui mi trovavo viaggiava in orario. C’erano delle coincidenze
che se per motivi più vari non fossero state rispettate non sarei potuto giungere a
destinazione alle 17,30 come speravo. Dunque ero partito quando stava per farsi giorno
e sarei giunto a Torino assai dopo il tramonto. Insomma sarei giunto con la città
illuminata. Cambiai ad Empoli e a Pisa. Ero tranquillo perché fino a quel momento
tutto si presentava normale. Qualche giorno prima avevo scritto ad un amico (Mario
Magi) già ferroviere in quella città, informandolo del mio arrivo e pregandolo di
ospitarmi per la prima notte. Ma aveva ricevuto la mia missiva? E poi gli sarebbe stato
possibile ospitarmi? Sarebbe stato libero per venire in stazione ad attendermi? Il cielo
grigio che mi appariva guardando dal finestrino, e la non certezza per quanto prima
accennato, mi fecero tornare col pensiero alla mia terra da poche ore lasciata dietro di
me. Insomma in quel treno affollato, tra gente che stentavo a comprendere, mi sentivo
demoralizzato. Dovevo essere felice perché si stava realizzando il mio sogno, ma non lo
ero. Sapevo che mi attendeva quel lavoro da sempre anelato, ma la malinconia stava
prendendo il sopravvento. Ed in questo stato di non gaiezza il pensiero correva a mio
figlio e a Ivana che per molto tempo (forse un mese) non avrei potuto rivedere e
riabbracciare. Comunque finalmente, ormai era già notte, giunsi a Torino. Le migliaia di
luci illuminavano il cielo plumbeo. Era freddo, ma io ero consapevole di ciò. Mi
rianimai quando intravidi la figura di Mario Magi che mi attendeva in testa al binario n°
10. Per la prima notte mi avrebbe ospitato in casa sua. La stanchezza del viaggio, la
preoccupazione e lo sferragliare dei tram che passavano a poca distanza tra di loro per
Via Genova dove mi trovavo non facilitarono, certo, il mio riposo. Il mattino di
buon’ora salutai, ringraziai e mi scusai per il disturbo dato, indi, col mio valigione
piuttosto pesante, disorientato come “un pesce fuor d’acqua”, mi diressi con il tram
verso la stazione di Torino P.N. Alle 8, come richiesto, mi trovavo puntuale dinanzi
all’U.P.C. dove tanti altri giovani, quasi tutti di età molto inferiore alla mia, (avevo 33
anni) attendevano credenziale alla mano. Notai immediatamente che con il valigione ed
il cappello in testa c’ero soltanto io. Si doveva capir bene che ero un campagnolo
trasferito in città per quell’occasione.
116
Alle undici quando ci lasciarono liberi, scrissi immediatamente a casa, ma Ivana non
avrebbe potuto rispondermi finchè non mi fossi definitivamente sistemato con
l’alloggio. Almeno avessimo potuto comunicare telefonicamente, ma ciò non era
possibile. Il giorno stesso 1° Dicembre, su indicazione di un C.P.V. trovai una cameretta
nella zona di Porta Palazzo. Non mi trovai bene, ero insieme a gente torva, che non mi
lasciava riposare. Dopo tre giorni, demoralizzato e stanco, decisi di telefonare a Magi
che avevo preso la decisione di ritornare da dove ero venuto, ovvero al mio vecchio
lavoro di contadino. Costui mi dissuase dal farlo e mi ospitò in seno alla sua famiglia
per alcuni mesi. Mi aveva salvato e non potevo che dimostrargli la mia gratitudine.
Comunque mi mancavano il pianto del piccolo Roberto per le frequenti bizze, e la
dolce parola di Ivana. Ma cosa fare? Aldo- mi dissi un giorno- cerca di darti una
regolata e una spintina altrimenti finisci male! E me la detti davvero.
Trovai degli amici cari e incominciai a sciogliermi. I giorni così passarono più
sveltamente. Studiammo per intere settimane per l’abilitazione alle manovre ed il giorno
23 Dicembre riscuotemmo il primo stipendio, ovviamente anticipato.
Ed io ogni volta ci penso rivivo quel momento per me davvero straordinariamente bello.
Finalmente provavo ciò che non avevo mai provato, ossia riscuotere un mensile. Era
alquanto basso, ma già mi sembrava di essere un riccone; lo dimostrano anche le rime
che seguono:
1 Parvemi di toccare il Paradiso
3 Pensai ai continui sacrifici,
quel dì che alla cassa di stazione,
sopportati nel contado a lavorare,
potei ricevere con soddisfazione,
mentre avevo questo dì tanto bramato,
qualcosa che alliettar mi fece in viso.
or mi sembrava, credete, di sognare..
2 Altro che lieto fui, scoppiò il sorriso, 4 Giungevan finalmente i benefici,
ma alla gola presemi il magone.
seppure non potevasi scialare.
Lo stipendio assicurai nel pantalone,
Certo non rimpiangevo il mio passato,
poi felice a ripensar rimasi assiso.
trascorso senza mai danar contare.
Dopo una diecina di giorni da quando m’ero stabilito in Via Genova, potei ricevere la
prima lettera dalla cara mogliettina che mi diceva di stare tranquillo, perché lei ed il
bambino lo erano. Dovevo reagire ai momenti di solitudine, perché prima o dopo la
famigliola si sarebbe ricongiunta, e la vita sarebbe di nuovo tornata fantastica. Come
sempre lei era il mio angelo custode. Leggere le sue righe anche se non perfettamente
composte, era come stringerla a me, ovvero averla vicina.
Come potevo resistere ancora senza vedere Ivana e mio figlio? Erano ormai trascorsi
24 giorni da quando li avevo lasciati soli in quella casetta. Dopo riscosso il primo
stipendio, che seppur piccolo mi aveva procurato grandi emozioni, decisi di chiedere il
permesso A.B.( cambio biancheria), e con il treno Torino- Roma delle 17 partii per
Asciano. Giunsi a Siena dopo l’una della notte, quindi non potei essere al mio paese
prima delle 5 ovvero col primo treno per Chiusi. Per 4 giorni potei nuovamente
godere l’intimità della mia famiglia, e scambiare quattro chiacchiere con i tanti miei
amici della Tranquilla. Ma Torino mi attendeva il giorno 29 dicembre, non potevo
perdere le lezioni molto impegnative che concernevano le regolarizzazioni dei biglietti
in treno. C’era poco da scherzare; presto avremmo avuto da sostenere un esame di
abilitazione. Esame che vedevo difficile da superare per la crisi dei primi giorni.
117
Io naturalmente sapevo che la materia era piuttosto scabrosa e richiedeva volontà di
applicazione e molta attenzione alle spiegazioni dell’istruttore; ero pure consapevole
che la crisi da me sofferta nei primi tre giorni, non avrebbe giocato a mio vantaggio.
Infatti quando verso il 15 Gennaio 1960 fummo esaminati per ottenere l’abilitazione alla
“controlleria” sui treni, come diversi altri colleghi, non raggiunsi l’idoneità e fui
costretto a ripetere l’esame due settimane più tardi. In questa seconda sessione non
ebbi alcun appunto, tutto andò per il meglio. Era stata comunque la prima esperienza
negativa della vita di neo ferroviere. Dovevo attribuire tutto ciò alle notti insonni
trascorse a Porta Palazzo. Non posso non ricordare i vecchi colleghi di banco Nebbiai
e Gay che mi aiutarono ad uscire dal periodo buio. Con loro trascorsi anche il primo
periodo di servizio attivo dal Marzo 1960 fino al giorno del trasferimento a Siena.
Dunque ottenuta l’abilitazione era obbligatorio il periodo “ai freni” come previsto dal
bando di concorso. Intanto mentre eravamo alla scuola ci furono prese le necessarie
misure per la divisa. Ognuno di noi nel breve tempo di 15 giorni potè indossarla. Era
confezionata con stoffa nera di lana, un vero gioiello, non paragonabile agli strani
vestimenti degli attuali colleghi in servizio. Indossammo pure il cappello con i due
bordini bianchi. Così realizzavo il sogno anelato fin da bambino, quando dalla mia
abitazione distante poche diecine di metri dal binario assistevo al lento avanzare dei
treni merci. Rivivo quei momenti nelle rime che seguono:
1 Allorchè cessai di udir quel transitare 3 Il sogno s’era ormai realizzato,
rumoroso, che ogni notte mi svegliava,
ed io con volontà e con piacere,
un triste modo di vivere cambiava.
svolgevo l’importante mio mandato,
S’avverava il mio continuo sognare.
con il piccolo attrezzo del mestiere.
2 Il treno non vedevo più arrancare,
quando la sua strada era bagnata
o la nebbia ovunque imperava,
ed io felice stavo lì a guardare.
4
Avevo raggiante di gioia indossato,
la divisa di novello ferroviere,
e tutto dinanzi mi parea dorato,
come la casa di ricco gioielliere.
Benchè avessi ormai raggiunto l’idoneità ( non c’era più il rischio di tornare alla terra) e
fossi ospite di gente onestissima, trascorrevo intere nottate di insonnia. Ero abituato in
quell’ampio lettone con accanto Ivana, ed ora mi mancava. Mi mancava davvero tanto,
forse perché grazie alle sue sagge e dolci parole avevo potuto superare i neri momenti
che mi avevano quasi demolito diversi anni addietro. Senza contare l’aiuto morale e
materiale che per lunghi mesi mi aveva dato allorchè mi preparavo per il concorso. Ma
nel mondo c’è sempre qualche onesto padre di famiglia che comprende la situazione
altrui e sa consigliare. Infatti il Capo Reparto chiamò nel suo ufficio i “due toscani”
Arnaldo Nebbiai e Aldo Leonini, quindi me e Niccolino, per proporci il trasferimento
al D.P.V. di Bussoleno, più confacente alla nostra situazione familiare.
Accettammo ambedue, e insieme all’amico Gay Aldo vi fummo inviati. Non sto a
descrivere la mia gioia quando ci comunicò che se disponevamo di un alloggio ci
poteva trasferire nel giro di 10 giorni. Avuto il suo assenso scrissi immediatamente a
Ivana una lettera raccomandata dove la pregavo di prepararsi perché a giorni sarei
tornato ad Asciano per effettuare il trasloco. A Bussoleno in Via Olmo n° 10 avevo
affittato due stanze più servizi dalla signora Giaccone.
118
Il 10 Marzo di presto mattino, assicurate le nostre poche masserizie in un carro
ferroviario partimmo. Prima di ciò Angiolino mio padre strinse a se e baciò più volte il
suo nipotino, raccomandandoci di tornare presto a far visita.
La sera verso le 18, mentre nevicava intensamente, dopo il lungo viaggio che Ivana e
Roberto facevano per la prima volta, giungemmo a destinazione nel noto centro della
Valle Susa alle falde del “Rocciamelone”. Il fanciullo, che non aveva ancora 5 anni, era
ben coperto e portava in testa un cappellino con la piuma, proprio come fosse un piccolo
alpino. Benchè il carro ferroviario con le nostre masserizie viaggiasse con i treni
diretti giunse solo il mattino successivo. Perciò ci potemmo sistemare nel nostro
alloggio soltanto nel pomeriggio dell’11 Marzo. Per la prima notte che vedeva la
famigliola riunita dovemmo alloggiare all’albergo “I Tre Mori” sito in Via Traforo. Fu
proprio a Bussoleno che feci le prime esperienze del lavoro che avevo tanto bramato.
Fu lì che potei godere dei primi stipendi più favorevoli, grazie ai quali, mi fu possibile
acquistare e regalare un utile mezzo alla cara Ivana. La vedo tuttora salire sulla sua bici
nuova di zecca, una “bianchi lusso,” che le permetteva di giungere in centro in soli due
minuti. Ma cosa non avrei regalato a colei che fino a quel momento mi aveva seguito e
aiutato con forza e volontà in tutte le mie vicende meste o liete? Fu dunque a Bussoleno
che svolsi i primi servizi nelle garette dei carri merci, da e per Modane, durante le
fredde notti. Fu quale trasfertista dal 15 al 30 Gennaio 1960, e poi da fisso in pianta
più tardi. Comunque ero felice perchè tornato a vivere con la mia famiglia, e per aver
trovato amici nel luogo di lavoro con cui poter scambiare le proprie opinioni. Non potrò
mai dimenticare le straordinarie bellezze delle candide cime che sovrastano
l’importante centro di Bussoleno bagnato dalla Dora Riparea.
Col sopraggiungere della Primavera, continuai per qualche mese a viaggiare su detti
abitacoli dei treni merci. Adesso era un piacere osservare il panorama caratteristico e
stupendo che mi offrivano quei monti. Non era così nei mesi precedenti quando il
mondo circostante era fortemente innevato. Allora tremavo e battevo i denti, e mentre il
pesante convoglio scendeva o arrancava a 25 Km all’ora, io pensavo alla mia famiglia,
a Ivana e a Roberto di cui sentivo enormemente la mancanza. Queste mie rime lo
confermano:
1 Non pensavo di soffrire così tanto,
3 Chi dice di non provar tale emozione,
stare lontano dalla donna amata,
vero non parla, ovvero non c’è amore,
mancavami lo sguardo ed il suo canto
per questo ignora ogni sensazione,
diveniva lunga e nera la nottata.
che spesso goder fa o pianger un cuore.
2 Nelle ore che riposar dovevo,
tra quei monti lassù del settentrione,
riflessa la sua immagine vedevo,
e dentro al petto mio c’era il magone.
4 Certe parole in me destan stupore,
ma tanto stupore da dir la mia opinione:
“attente bimbe ci son ladri di cuore”
che cercan di sfruttare l’occasione.
Ma basta col rimembrare i tempi che fui solo, triste e pensoso, anche se i miei amici
fecero tutto il possibile per farmi somigliare a loro, quindi allegro e spensierato. Costoro
erano più giovani, anche se uno era sposato con prole. L’altro il Gay ancora scapolo,
era innamorato di una giovane fanciulla di Ulzio loro paese. Ben sappiamo che alla
persona che ha sofferto rimane difficile gioire prestamente.
119
Consapevole di ripetermi, torno a dire che gli amici di banco, come me poi trasferiti a
Bussoleno, contribuirono in modo essenziale a farmi ritrovare la serenità perduta nel
periodo dei primi giorni di scuola. Ora tutto proseguiva regolarmente, anzi oserei dire in
modo speciale. Io ero con la mia famiglia in Via Olmo, Nebbiai con la sua in Via
Traforo, e lo scapolone di Ulzio (Aldo Gay) già parlava del suo matrimonio, da
celebrare in tempi non troppo prolungati, con la fanciulla presentataci un giorno
durante la scuola. Malgrado abitassi a circa 800 metri dal D.P.V, non provavo alcun
sacrificio a percorrerli a piedi in qualsiasi ora del giorno o della notte. Ivana aveva la
sua bici e si poteva muovere senza difficoltà.
Costei fin dalla prima volta che dovetti alzarmi ad un’ora piccola della notte per recarmi
in servizio, volle ella stessa prepararmi il caffè caldo dicendomi:- Tu parti ed io ritorno
a letto, ed ho tutto il tempo necessario per dormire. Per me -concludeva- è una grossa
soddisfazione farlo e non ho dispendio di energie. Quale altra moglie si sarebbe
comportata in quel modo in qualsiasi stagione dell’anno? Quando qualche amico mi
dice :- “Di Ivana c’è solo una e quella te la sei presa tu”- io sorrido, ma e la pura verità.
Passarono alcuni mesi e giungemmo a Maggio, il mese dei fiori, ed anche i giardini
delle ville circostanti si ammantarono dei colori più vari. Sebbene fossimo alle falde del
Rocciamelone, la primavera giungeva puntualissima. Quando capitava di essere liberi
contemporaneamente ci incontravamo alle “Grange,” splendido parco di Bussoleno,
dove crescevano castagni secolari, un vero Paradiso. Ci recavamo anche all’Argessera
luogo più in alto da dove si dominava la valle o a Susa splendida città a soli 8 Km.
Scenari stupendi si affacciavano ogni volta al nostro sguardo, ed io come posso bramo
descriverli in parte nelle seguenti rime:
1 Sovente m’attardavo a rimirare,
3 Quei ruscelli avrei potuto rimirare
di quelle cime le candida bellezza,
che scendevano a valle numerosi,
godevo della valle la sua brezza,
prima silenti, poscia fragorosi,
l’ultimo raggio di sole al tramontare
mentre la Dora andavan ad ingrossare.
2 Oh, se lassù fossi potuto su arrivare, 4 Quando in Primavera solevan alimentare
senza dover subir troppa stanchezza,
con torbide acque da cime nevose
godere tal scenario in completezza,
nel fiume, certe persone coraggiose,
e poi prima di sera rientrare.
senza timor vi si recavano a pescare.
Adesso, tutto proseguiva per il meglio, anche se molte notti dovevo trascorrerle sulle
garette dei treni merci. Ma nelle giornate di riposo cercavo di procurare svago alla
moglie ed al piccolo Roberto. Mi sovviene quel pomeriggio che decidemmo di recarci a
visitare i “Grandi Magazzini” a Torino presso la stazione di Porta Nuova. Roberto
rimase incantato da una piccola fisarmonica di colore turchino, e poiché la desiderava
tanto decidemmo di acquistarla anche se costava diversi soldini.
Rammento che dopo 6 anni dal matrimonio potei indossare finalmente un abito nuovo
di stoffa discreta, confezionato su misura dal sarto che aveva il laboratorio in prossimità
del passaggio a livello. Certamente mi tolsi una grossa soddisfazione ma non volli in
nessun modo sacrificare la mia famiglia. Infatti dopo pochi giorni acquistammo uno
splendido apparecchio radio ed un divano per la cucina. Questi sono solo dei minimi
particolari che hanno un grosso significato perché con il lavoro della terra mai me li
sarei potuti permettere.
120
All’inizio Primavera del 1960 potei ottenere l’assegnazione di un orticello delle ferrovie
lungo i binari dello scalo merci a non più di 50 metri di distanza dalla mia abitazione.
Mentre io ero in servizio, Ivana provvedeva a curarlo il meglio possibile. C’era abituata
e conosceva tutti i segreti delle seminagioni, delle sarchiature e delle irrigazioni con
l’abbondante acqua che avevamo a disposizione.
Mi attendeva nell’orto da cui si vedeva l’arrivo di tutti i treni merci che si fermavano
proprio di fronte. Con la Signora Giaccone c’era profonda armonia, anche perché non
poteva essere altrimenti, dato che essendosi riservata due stanze e l’uso in comune del
bagno, praticamente vivevamo insieme. Ivana, che non sapeva essere aggressiva
neppure con una mosca, accettava spesso i suoi suggerimenti anche per rispetto
dell’anzianità nonché dell’esperienza. Qualcuno non ce ne aveva parlato in modo
splendido, ma fino a quel momento tutto era filato liscio. Dopo qualche mese che
coabitavamo prese a corteggiare mia moglie perché l’accompagnasse alle riunioni della
sua religione. E qui scoppiò la bomba. Al suo rifiuto ed alle mie lagnanze per tanta
insistenza, dopo appena sette giorni ci giunse una lettera di disdetta.
Nel breve tempo di neppure una settimana, lasciammo il suo appartamento e andammo
ad abitare in Via Traforo n° 20 a 100 metri dalla stazione. Era l’Ottobre del 1960.
Dalla terrazza della nuova dimora, (due grosse stanze, cantina e bagno in comune con
altri) potevo godermi lo scenario che mi offriva il Rocciamelone, al mattino con i primi
raggi del sole che risplendevano nella cima, ed alla sera con gli ultimi riflessi quando a
valle già comparivano le ombre. Ma un altro particolare che destò in me curiosità
immensa e nel contempo notevole interesse, fu ai primi di Giugno dello stesso anno,
quando potei assistere per la prima volta alla partenza della “transumanza”.
Erano centinaia le mucche ed altre bestie vaccine che quella mattina partirono da
Bussoleno e, attraverso le viuzze montane, si dirigevano ai pascoli alpini. Sarebbero
ridiscese a valle verso Settembre con l’approssimarsi della cattiva stagione. Cercherò
di descrivere le mie impressioni con le seguenti rime:
1
Eventi di mattini assai lontani,
3 Bizzarri sonagli ovvero “campanacci,
spesso rimembro nella stanca mente,
cose da sempre di valligiana usanza,
allorchè dei tintinnii alquanto strani,
venivan fissati al collo (con de’ lacci)
m’incuriosirono e pur notevolmente.
delle mucche dirette in “transumanza”.
2 Prima che prendesse ad albeggiare,
4 Emigravan dalla valle in allegria,
nei limpidi giorni di mezza Primavera,
da vocianti margari accompagnate,
a centinaia s’andavan a radunare,
poi, in alto, ognuna prendeva la sua via,
quindi salivan verso l’Argessera.
per raggiunger le “pasture” agognate.
Non potrei non ricordare le scampagnate con Ivana e Roberto verso Meana per
raccogliere le pere e le noci, i pranzi con gli amici toscani di quel luogo (certi Milanesi),
nonché la “bagna cauda” offertaci da Gay dopo il suo matrimonio con Marisa. Per la
prima volta bevvi tanta “barbera” da non vedere neanche la strada per ritornare alla mia
casa lontana non più di cento metri.
Né potrei mai dimenticare il pianto di Ivana durante un mercato del Lunedì quando le
rubarono dalla borsa 6000 lire. Fatto il giusto ragguaglio non potevano essere meno
degli attuali 250 Euro. Pianse lacrime tanto amare perché sapeva con quanto sacrificio
erano stati guadagnati, e poi vederseli prendere da bighelloni senza scrupolo pronti a
tutto ma non a cercarsi un lavoro.
121
Adesso che abitavamo nel centro di Bussoleno, la bicicletta acquistata con tanto
entusiasmo per facilitare gli spostamenti di Ivana, riposava tranquilla in un angolo della
grande camera. Era quella stanzona munita di terrazzino che dava sul corso del paese da
dove rimiravo il Rocciamelone. La nota positiva di quella camera consisteva nell’avere
il pavimento in legno e quindi si riscaldava più facilmente, seppure a quei tempi ed in
quel luogo, non esistesse un impianto di riscaldamento. Il carbone e la legna per noi,
gente proveniente dalla campagna, erano più che sufficienti. Adesso Ivana non aveva
bisogno di usare la bicicletta per recarsi a far la spesa; discese le scale era già in Via
Traforo con le varie botteghe di generi alimentari a meno di dieci passi. Doveva solo
attraversare la strada. Poiché non c’era più l’orticello da assistere, lei poteva dedicare
più tempo a se stessa o passare qualche ora a parlare con Dina la moglie dell’altro
toscano,(Nebbiai). Un pò peggio era andata a Roberto che non poteva giocare a piacere
con il breccino o con il cane della Giaccone come era solito fare nel cortile della casetta
di Via Olmo. Pensammo di iscriverlo ad un asilo a cento metri dall’abitazione, ma con
quei bambini che parlavano un dialetto per lui sconosciuto non riusciva a legare;
insomma non seguitò più di una settimana.
Erano trascorsi sette –otto mesi da quella sera che i miei familiari giunsero a Bussoleno
e tante cose erano cambiate anche nel mio servizio. In tal senso, devo riconoscerlo,
erano state tutte positive. Ora non viaggiavo più nelle angustie e polverose garitte dei
treni merci. Non posso negare che, trovarmi lì dentro solo al freddo, sotto a le lunghe
gallerie che non finivano mai, sempre al buio e spesso con l’acqua che scaturiva
copiosa dal sasso, incuteva in me certo timore. Io speravo solo di poter uscire all’aria
aperta sebbene gli strapiombi lasciassero ben poco da vedere.
Ricordo quei momenti nelle poche rime che seguono:
1 Ero in garitte angustie e polverose,
3 Ma ogni cattiva idea si dileguava,
mentre ovunque fortemente nevicava,
quando la luce giungevami del sole;
ed il convoglio pian piano arrampicava,
all’aperto il timore non più duole
tra le montagne per linee tortuose.
pensavo, poi altro “foro” s’imboccava.
2 Provavo sensazioni tormentose,
quando una galleria s’annunciava,
o ogni ruota in discesa s’incendiava;
pensavo a conseguenze disastrose.
4 Più di così l’animo mio non si turbava,
avrei udito più tardi le parole,
dolci e leggiadre come le viole,
di chi con tanto amore m’aspettava.
Ma ora a diversi mesi di distanza da quel primo gelido Inverno non svolgevo più le
mansioni di “frenatore”, bensì superati i relativi esami per “l’abilitazione a scorta treni”,
svolgevo quelle di capo treno con tutte le responsabilità che comportavano.
Avevo maggiori impegni ed ovviamente ne risentiva qualche beneficio anche il mio
mensile. Ora il mio posto non era come in passato nelle strette e polverose garitte dei
carri francesi che trasportavano in Italia infinità di tonnellate di carbone. Ora il mio
posto era nel locomotore, in uno spazio che non serviva ai macchinisti. Con loro c’erano
naturalmente chiari rapporti di servizio poi null’altro. Finchè furono alimentate con
corrente trifase avevano la macchina assegnata e nessuno poteva metterci il naso dentro.
Io ero un novellino senza esperienza timoroso se vedevo le ruote arrossare come il
fuoco e loro … “vecchi volponi” sbrigavano buoni affari anche dal locomotore.
122
Nella qualifica per cui avevo concorso, effettuato il periodo ai freni, viaggiai solamente
10 giorni, poi fui messo subito in turno con mansioni superiori poiché al D.P.V di
Bussoleno c’era carenza di capotreno e dovevano affluire continuamente i trasfertisti.
Ma se quel luogo mi aveva dato la gioia di sentirmi una persona normale e capace di
offrire alla mia famiglia il necessario per vivere modestamente e nel contempo
dignitosamente, c’era anche qualche nota non troppo felice che mi induceva molto
spesso a riflettere. Era lo stato d’animo burrascoso del figlio, troppo agitato e quasi
mai tranquillo, per cui ci decidemmo di farlo visitare al nostro medico di famiglia il
Dott. Fama. La diagnosi fu immediata e molto chiara.
Costui ci disse:- L’aria di montagna non gli è confacente. Al bimbo occorre di ritornare
prima possibile al clima del luogo natio. Se decidete di chiedere il trasferimento io vi
posso fornire il certificato attestante il suo stato di salute e quanto vi ho appena detto.
Ovviamente fummo molto dispiaciuti perché in Valle Susa noi grandi ci trovavamo
discretamente bene. Avevamo fatto le nostre stupende amicizie, e poi due “toscanacci”
erano stimati sia nell’ambito del lavoro che tra la gente del luogo.
Comunque in brevissimo tempo prendemmo la decisione e chiedemmo il trasferimento
per ragioni di salute del figlio. Questo avvenne nel Febbraio del 1961, poi il silenzio.
Io mi recavo in servizio e parlandone con diversi colleghi tutti esprimevano il loro
dispiacimento per la salute del figlio ed anche per la probabilità che lasciassi quel
deposito. Eravamo circa ottanta e salvo quei tre o quattro “lecca piedi” che si possono
trovare in ogni specie di occupazione ci stimavamo vicendevolmente.
Dietro la mia richiesta di trasferimento, accampando non ricordo quale giustificazione,
anche Nebbiai lo chiese per Pisa. Ivana e Dina incontrandosi, ed avveniva anche più
volte al giorno, non mancavano di entrare in tale delicato e ormai pressante argomento.
Poi ad Aprile Roberto fu chiamato a visita medica all’Ispettorato Sanitario F.S di
Torino. L’incontro del bambino con i medici in camice bianco fu estremamente
negativo. Per il continuo piangere ed il suo agitarsi non riuscirono a visitarlo. Alle mie
preoccupazioni per la sua salute mi confermarono ciò che qualche mese addietro aveva
affermato il Dott. Fama. Cercheremo- mi dissero- di riportarlo prima possibile al clima
natio, questo è tutto ciò che noi possiamo fare.
I primi di Giugno giunse la comunicazione che mi veniva concesso il trasferimento a
Siena con il vincolo della disponibilità di un alloggio. Ciò fu presto possibile e il 5
Luglio, in ansia per la salute del nostro bambino, ed allo stesso tempo dispiaciuti di
abbandonare ciò che vi avevamo trovato, lasciammo la Valle Susa.
1 A Susa un pomeriggio ritornammo,
3 Ed alle “Grange” dovetti ritornare,
prima di ripartir per la Toscana,
tra quei castagni al tempo sempre adorni,
e una volta ancora salutammo,
e lì potei con gioia ricordare,
la bella città con gente artigiana.
le bimbocciate dei trascorsi giorni.
2 Come facevo a non volgere lo sguardo, 4 Avrei voluto salir ma non di sera,
al bel Rocciamelone sovrastante,
coi cari amici del vecchio terzetto,
ch’è dell’intera valle il baluardo,
verso l’alto lassù all’Argessera,
con la sua cima bianca e dominante?
ritenuta l’escursione prediletta.
Il 5 Luglio 1961, come già detto, lasciammo all’alba Via Traforo, ma non lieti come
quando c’eravamo giunti. Abbandonavamo l’amena Val Susa per tornare nelle nostra
cara Toscana, speranzosi per la salute del nostro figlio, ma non sicuri di ciò che mi
attendeva riguardo al mio lavoro. Infatti mi attendeva la linea a Dirigenza Unica.
A. Leonini
123
IL RITORNO AL PAESELLO
Mancavano pochi minuti alle 8,00 quando salimmo nel direttissimo Torino –Roma.
Non ricordo con precisione quale giorno fosse della settimana, ma il convoglio era
affollato e faticammo a trovare uno scompartimento con tre posti liberi. Ovviamente
non volevamo separarci, poiché avevamo due grosse valigie, e anche Ivana aveva
bisogno di aiuto per sistemarla nelle reticelle o per discenderla. A me non sembrava di
vivere la realtà, eppure stavamo compiendo il viaggio in senso inverso a quello
compiuto il 10 Marzo 1960 quando, assai felici, ci dirigevamo verso la Valle Susa.
Ora tornavamo nella nostra cara terra con la speranza che potesse essere benefica alle
condizioni di salute del bambino, come ci aveva detto qualche mese addietro il dott.
Fama. Mi fece una positiva impressione rivedere il mare tranquillo e baciato dal sole di
Luglio, nonché le spiagge di quelle città balneari completamente affollate.
Oh quanto erano diverse da quel dì 30 Novembre del 1959 allorchè con il mio valigione
di cartone mi stavo dirigendo verso Torino per intraprendere il cammino bramato.
Cammino, scabroso all’inizio, ma poi divenuto più agevole proprio grazie al periodo di
tempo trascorso a Bussoleno, il bel paesone alle falde del Rocciamelone.
Ora il bambino dormiva poggiato a sua madre ed io pensavo. Pensavo alle future
coincidenze a Pisa e ad Empoli che, se rispettate in pieno, ci avrebbero permesso di
giungere in Grottoli prima che si facesse buio. Quando, giunti a Pisa, udii l’altoparlante
della stazione annunciare il treno per Empoli fui sicuro che ormai non ci sarebbero stati
inciampi nel prosieguo del viaggio. Consultando l’orario ebbi la certezza che non
portavano neppure un minuto di ritardo.
Rivedere le pensiline della stazione di Siena e successivamente il personale del treno
discendere ad Arbia per effettuare un incrocio, ebbi la sensazione che tra sette giorni,
terminato il congedo per trasloco, tale incarico e le conseguenti responsabilità avrebbero
potuto gravare su di me. Di quel sistema di circolazione avevo appreso qualche cosa dai
libri prima dell’esame di abilitazione a scorta treni, quindi ero digiuno di pratica. Ma
non volli pensare oltre, non dovevo impressionarmi per un incrocio. Mi sarei impegnato
a svolgere il mio servizio come avevo fatto fino a poche ore addietro, ovvero con
responsabilità e possibilmente con tranquillità. Nei prossimi giorni invece di riposare
avrei riletto più volte le Istruzioni sulla Dirigenza Unica. Il caldo che, specialmente
negli scompartimenti, era stato opprimente, ci aveva messi veramente a dura prova.
Non erano bastate a refrigerarci le bibite acquistate in quelle stazioni dove il treno
aveva fatto qualche minuto di sosta. Francamente da qualche tempo non c’eravamo più
abituati perché in Valle Susa, ovvero a Bussoleno, la calura era sopportabile ed alla sera
mai mancava la brezza. Comunque stava per tramontare il sole e tra mezz’ora circa
saremmo giunti ad Asciano M.O.M e poi da qualche parte avremmo potuto distenderci e
rinfrescarci. Ma ovviamente per una notte avremmo dovuto confidare molto
sull’ospitalità di qualcuno. Naturalmente ci avrebbe ospitati mio fratello anche se con
qualche sacrificio. Tre persone contemporaneamente non era facile poterle accomodare.
Avevamo preso in affitto un quartierino nell’abitazione di Cesare Polloni ma non
sarebbe stato possibile poterlo utilizzare. Sapevamo che il carro ferroviario con le nostre
masserizie era partito da Bussoleno qualche ora prima di noi, ma pur viaggiando con i
treni diretti non sarebbe giunto al mio paese prima del mattino successivo. Essendo
questa la situazione, e non poteva essere migliore, fino al pomeriggio del giorno
seguente non sarebbe stato assolutamente possibile effettuare il trasbordo dal carro
all’abitazione.
124
I miei sapevano che avevo ottenuto il trasferimento a Siena? Li avevo informati per
lettera due giorni addietro, quindi era possibile che ancora non fossero a conoscenza
del nostro arrivo. Certi spostamenti compiuti in piena Estate, come ho prima detto,
stancano assai, specialmente quando non ci possiamo alimentare e refrigerare in modo
adeguato. In quel treno era stato possibile consumare solo dei panini acquistati in
stazione di Torino prima di salire sul direttissimo. Ma tutto ciò era rimediabile.
Ora finalmente stavamo giungendo alla fermata di Asciano M.O.M, e tra una quindicina
di minuti Roberto avrebbe potuto riabbracciare gli zii ed il nonno. Durante la nostra
permanenza a Bussoleno eravamo scesi in Toscana più volte per far visita a loro ed ai
nonni di Galciana. Ora eravamo ritornati per sempre sperando anche che le coccole del
nonno e degli altri parenti vicini contribuissero a normalizzare il suo stato di salute.
Il giorno appresso fu molto duro e faticoso per trovare un mezzo ed effettuare il trasloco
dalla stazione alla Palazzina dove dovevamo dimorare. Ma anche se impegnatissimi
ad un certo momento del mattino sentimmo suonare il campanello …..
1 Sempre ricordo babbo Angiolino,
che zoppicante venne a suonare
il campanello, perché il nipotino,
stringer voleva e ancor coccolare.
3 Per altro motivo era contento,
ed anche giustissima la sua ragione,
(lo dimostrava in ogni momento)
aveva i due figli in stesso rione.
2 Felicità sprizzavan i suoi occhi
nel trastullare il roseo bambino,
or lo poggiava sui suoi ginocchi,
accarezzandolo nel fresco visino.
4 Tutti gli amici rividi di ieri,
della trascorsa mia gioventù,
ragazzi allegri, onesti e sinceri,
di quella “ banda” che non c’era più.
Quel giorno non ebbi tempo neppure di recarmi a salutare i vecchi amici che ormai,
terminata la mietitura, avevano certamente ripreso a frequentare La Tranquilla. Avevo
da recuperare per le fatiche sostenute prima di partire dalla Valle Susa. Ed ora per
sistemare alla meglio la camera ed il letto non mi ero certamente riposato. C’era poi nel
mio pensiero l’ansia del ripasso delle norme sulla Dirigenza Unica che tra qualche
giorno mi avrebbero messo a dura prova. Durante il congedo mi recai anche al D.P.V di
Siena. Mi presentai al Titolare e con garbo gli chiesi se avesse potuto concedermi
qualche settimana di rodaggio con un turno di lavoro non troppo impegnativo. Un turno,
cioè, che mi permettesse di fare un po’ di pratica per adattarmi al sistema di
circolazione vigente nelle linee che si diramavano da Siena.
Fu gentilissimo e comprensivo poiché mi concesse di effettuare per un mese il turno
Siena- Grosseto e ritorno via Asciano. Mentre Roberto non faceva altro che godersi le
coccole della famiglia Polloni, del nonno e degli zii, Ivana cercava di riordinare un po’
la casa. Come sempre costei ci metteva l’infinita sua volontà e pazienza per renderla
lucida . D’altra parte si sperava che quella fosse la nostra dimora per lungo tempo.
Dovevamo pure abituarci nuovamente al calore del sole della nostra zona, dove non era
facile goderci la brezza della sera come succedeva nell’amena Valle Susa. Insomma tra
faccende varie, ripassi della Dirigenza Unica, e qualche breve chiacchiera con “questo e
con quello” stavano per terminare i giorni di libertà concessimi per il trasferimento.
Si avvicinava il momento del “battesimo” al D.P.V di Siena, ma non ero abbastanza
sereno, cosa normalissima quando ci troviamo di fronte ad impegni nuovi.
125
Il mattino del 12 Luglio con il treno delle ore dieci proveniente da Chiusi, partii per
recarmi ad espletare il mio primo servizio con l’ AT 815 per Grosseto in partenza da
Siena alle 12,55. Non c’erano servizi più comodi, dovevo in ogni modo utilizzare
quello, dovevo partire dalla mia abitazione circa 3 ore prima di entrare in servizio.
Ivana mi aveva preparato la sportina col desinare che dovevo consumare nel refettorio
annesso all’ufficio del Titolare, verso le 12. Non potevo mangiare con calma perché 20
minuti prima della partenza iniziavano i tempi accessori, quindi mi dovevo trovare al
treno. E’ chiaro che con il convoglio composto da due littorine ed un bagagliaio carico
di collettame dovevo essere molto attento. Devo precisare che a Bussoleno non mi era
mai successo di dover portare la sportina del mangiare. C’erano le mense per coloro
che per ragioni di turno erano costretti a consumare i pasti fuori di casa.
Dunque non sto a raccontare il batticuore nel trovarmi in detto deposito dove non
conoscevo nessuno, e dover salutare gente talvolta anziana che a tutto era interessata
fuor che a restituire il saluto. Sarà stata una mia idea ma a me sembrava così.
Finalmente il fischio del Capostazione richiamò l’attenzione di tutti ed il treno si mosse.
Passai dinanzi alla mia casa in prossimità del segnale di protezione, e salutai Ivana e
Roberto che attendevano di vedermi transitare. La squadra di scorta era costituita da tre
persone io compreso, e a dire il vero per essere il primo viaggio non ci fu difficile
scambiare qualche opinione ovviamente sempre su materia di servizio. Tutto proseguì
normalmente e potemmo giungere a Grosseto in perfetto orario garantendo così la
coincidenza a coloro che dovevano prendere il direttissimo per Genova. e oltre. La metà
del mio servizio l’avevo espletata senza troppe difficoltà, anche perché nessuna
anormalità si era verificata rispetto alla corsa dei treni.
La sera ripartimmo per Siena alle 18,20 con le due automotrici cariche di viaggiatori
che erano diretti, potei constatare, non oltre la stazione di Monte Amiata.
A Sticciano dovetti eseguire uno spostamento di incrocio. L’assuntore mi sollecitò di
recarmi al telefono per ricevere e trasmettere i fonogrammi relativi al caso. Era la prima
volta che comunicavo con un D.U e mi sentivo davvero impacciato. La voce che
ricevevo dall’altro capo del filo mi metteva soggezione ed io sudavo come suol dirsi…..
“sette camicie”. Costui comprese che ero un novellino e abbassando il tono della voce,
in primo tempo piuttosto “ardito”, mi consigliò sul da farsi e come sbrigarmi con i
dispacci che dovevo trasmettergli per perfezionare lo spostamento d’incrocio. Dopo
quell’intoppo, per i capotreno pratici cosa del tutto normale, la corsa proseguì
regolarmente fino a Siena dove giunsi alle 20,18. Alle 20,25 avevo la coincidenza per
ritornare a casa e se l’avessi persa non avrei avuto altro mezzo fino alle 4,13 del
mattino successivo. Insomma quella sera, la prima sera del mio servizio, giunsi ad
Asciano M.O.M alle 21 circa e fino le 21,30 non fui a tavola.
Ma ad essere sincero ero talmente provato che sentii il bisogno di prendere soltanto un
piatto di brodo. Il mattino successivo alle 10 dovevo ripartire per effettuare il medesimo
servizio. Purtroppo ero affaticato, quella mia insicurezza mi provocava molto disagio,
ed io prima di provarlo pensavo fosse un turno leggero per acquisire dimestichezza con
quel regime di circolazione. Naturalmente cercavo di non perdermi di coraggio, il tempo
mi avrebbe aiutato, dovevo farmi le ossa, come dicevano i vecchi volponi oltre la
cinquantina. Seguitai con quel turnetto che mi vedeva lontano da casa per 12 ore al
giorno fino verso il 10 di Agosto. Da allora il Capo mi “piazzò” in una colonna che
prevedeva come primo servizio la scorta del “treno merci raccoglitore” 6624 da Chiusi
a Siena. E qui soffrii davvero le pene dell’Inferno.
126
Non si trattava solamente di avere in consegna cinque carri misti dove c’era da fare lo
scarico o il carico del collettame alle diverse stazioni dello “stradale”. A partire da
Montallese ad ogni fermata c’era da fare la manovra per prendere o lasciare dei carri.
Chi mai aveva visitato i piazzali di quelle stazioni? Come potevo conoscere la
situazione degli scambi e le relative chiavi? Eppure ogni responsabilità gravava sul
capotreno. Il Dirigente Unico mi chiamava per darmi i fonogrammi di spostamento
d’incrocio, l’assuntore per assistere al carico nei vari carri misti, i frenatori chiedevano
le chiavi per effettuare le manovre e volevano essere aggiornati su la marcia dei treni
per regolarsi. Il regolamento prevedeva che dette manovre dovevano cessare un
determinato tempo prima di un incrocio o di una precedenza. Ad un certo momento
della serata mi sentii sopraffatto. Mi sarei messo a piangere dalla disperazione per non
saper dove mettere le mani. Un errore mi sarebbe costato la sospensione, non c’era
tanto da scherzare. Io sudavo freddo ed avevo la testa piena che sembrava scoppiare.
L’esperienza di un frenatore anziano di Chiusi, che faceva parte della squadra di scorta,
fu la mia salvezza. Egli mi suggerì tutto ciò che dovevo fare durante il percorso.
Quando si accorse che navigavo in cattive acque e che era la prima volta che viaggiavo
in quella linea mi disse: - Se hai fiducia in me posso darti una mano. Tu pensa alle
prescrizioni ed ai fonogrammi che ti trasmette il D.U, alle manovre che dovremo
effettuare mi occuperò io. Sono trenta anni che scorto i treni su questa linea e conosco
le chiavi dei vari piazzali, come conosco quelle di casa mia.
Ivana, come ogni giorno, mi aveva preparato la sportina con il necessario per la cena,
ma non ebbi tempo né la volontà di mettere qualcosa tra i denti. La mia preoccupazione
era soltanto quella di poter giungere alla stazione termine di corsa senza che nulla fosse
accaduto. Ero consapevole che stavo combattendo la mia prima durissima battaglia, e
sapevo anche di andare incontro a future contestazioni da parte di chi avrebbe
controllato il mio operato. Dove vigeva la circolazione a Dirigenza Unica venivano
effettuati frequentissimi controlli dagli organi preposti e non sfuggiva loro neppure una
virgola, ed io quella sera chissà quante ne avevo tralasciate.
Tra spostamenti di incroci e di precedenze, qualche inesattezza riscontrata nello scarico
dei colli e relative riserve, giungemmo a Siena verso mezzanotte e trenta. Solamente
allora sentii il bisogno di mangiare ciò che Ivana con tanta passione mi aveva preparato.
Ed a quell’ora dove avrei potevo distendermi un pochino per riposarmi? Ed i panni
fradici dal sudore come li avrei asciugati? Il cibo lo dovetti mangiare freddo, ed i
panni mi si asciugarono addosso col rischio di qualche malanno. Trascorsi, poi, quattro
ore in sala d’aspetto ad attendere il primo treno per Chiusi delle 4,13. Insomma dopo il
pesantissimo pomeriggio potei giungere a casa soltanto dopo le 5 del mattino.
Ero, come si dice, ”più morto che vivo” e chi conosce un tantino i principi della vita
ferroviaria, e delle responsabilità che questa comporta può ben capire.
Comunque dopo essermi alla meglio rinfrescato e asciugato,(non avevamo la doccia
calda come nei moderni appartamenti) mi coricai con la speranza di dormire qualche ora
e poi desinare tranquillamente con i miei, ma non riuscii a chiudere occhio. Quello
stesso pomeriggio mi attendeva un turno che iniziava alle quindici e terminava alle
22,35. In conclusione avrei dovuto passare un’altra lunga insopportabile nottata in sala
d’aspetto. Devo purtroppo aggiungere che la presenza quasi continua di qualche
barbone certamente non mi conciliava il sonno.
In quelle due giornate di servizio ero calato oltre due chili, così non potevo continuare.
127
Ciò che fu per me il primo impatto con i treni merci raccoglitori nelle molteplici
assuntorie della tratta Siena – Chiusi risulta chiarissimo anche delle mie rime che
seguono:
1 Ma in quale mondo stavo vivendo
4 Fu molto il lavoro per tutto il percorso,
nell’espletare la mia mansione?
manovra e carico in ogni stazione;
Ora che i rischi stavan crescendo,
qual novellino subivo il morso.
intorno vedevo sol confusione.
Talor sentivomi vero cafone.
2 Certo, il mio non era un pretesto,
ma solamente tanto sgomento,
da uomo sincero, giusto ed onesto,
lacune avevo in detto momento.
3 Qual pratica avevo di quelle stazioni?
Come potevo conoscer gli scambi?
Avevo infinite preoccupazioni,
e c’eran due treni fermi entrambi.
5 All’una di notte a Siena giungemmo,
ed io mi sentivo talmente provato,
che quando il piede a terra mettemmo,
mi parve il cielo, d’aver conquistato.
6 Non avevo dall’ansia neppure cenato
la tragedia, quindi, finita non era.
Dove mi sarei nella notte sdraiato?
Per me il riposo era solo “chimera”
Ma quanto avrei potuto resistere con tale ritmo di lavoro? Talvolta pensavo molto ai
miei precedenti sofferti per lo stato di salute improvvisamente crollato. Sarebbe stata
cosa grave per me se avesse ceduto nuovamente. Certo è che le sfaticate e le
righiacciature non giocavano a mio favore. Ma dove erano finiti i miei sacrifici per la
preparazione agli esami per la scorta treni? E tutte le speranze ed i pronostici per il
futuro? Quale soddisfazione avrei provato per la maggiorazione delle mie competenze
ottenuta dall’espletare mansioni superiori, se costretto molto spesso a restar fuori casa
anche 24 ore consecutive? Era capitato sovente che dopo aver ricoperto un turno del
genere, giunto a casa sfinito ero dovuto ripartire dopo 7-8 ore. Credo di essermi
ripetuto, ma questa era la realtà di tutti coloro che abitavano fuori della sede di lavoro.
Oh quante volte rimpiansi e ricordai la Valle Susa e Bussoleno con il Rocciamelone!
Rivedevo quelle linee ferrate aggrappate agli scogli, dove non avevo il coraggio di
sporgere la testa fuori dai finestrini per non vedere gli strapiombi, ma i turni di servizio
non erano pesanti come quelli provati a Siena.
Ora che ero ritornato nella mia amata terra di Toscana non era possibile, per il mio
fisico e per il mio carattere continuare a pernottare nella sala di aspetto o sdraiato sul
tavolo della sala riserve. Non era possibile continuare a partire da casa la sera alle 20,
appena consumata la cena. Lasciare la famiglia con la speranza di poter trovare un letto
libero al dormitorio F. S, e poi alzarsi alle quattro per espletare un turno di servizio che
non mi dava la possibilità di tornare a casa prima delle 13. Pur partendo da casa alle 20
era accaduto di non trovarvi posto e dover gioco forza pernottare ugualmente nella sala
d’aspetto. Sarebbe stato più accettabile in tali casi poter usufruire della sala d’aspetto di
prima classe corredata di soffici poltrone, ma ciò era impossibile perché veniva chiusa
al pubblico in prima serata. Questo per evitare che divenisse comodo ritrovo per i vari
barboni. In quella prima settimana ebbi anche la sventura di dover scortare il merci da
Asciano a Grosseto e non fu cosa facile e leggera.
128
Seppure il treno merci per Grosseto partisse da Asciano alle 13,40, anche quel giorno
dovetti presentarmi al distributore, e quindi prendere il treno delle 10 per Siena. Dalla
stazione di origine, cioè Asciano, partimmo pressochè orario. La squadra era composta
da quattro agenti compreso il sottoscritto. Non li conoscevo, non avevo mai avuto
occasione di incontrarli. Anche sulla locomotiva una 735 c’era del personale che vedevo
per la prima volta, ma ciò non aveva significato. Erano ferrovieri con visibile anzianità
di servizio quindi avevano tutto da insegnarmi. Il treno in questione era leggero, oltre al
bagagliaio era composto da 5-6 carri. Qualcuno mi fece capire che presto sarebbe
divenuto più lungo. A Torrenieri iniziammo con le manovre per aggiungere due carri.
Avevo viaggiato per detta linea oltre trenta giorni, ma ovviamente non conoscevo lo
scalo e le chiavi per accedervi. Quei frenatori, però, sapevano come comportarsi, d’altra
parte se c’era qualcuno che aveva bisogno di consigli ero proprio io.
Comunque non mi sentivo un “pesce fuor d’acqua” come con il 6624 da Chiusi scortato
nei precedenti giorni. Qui c’era più tranquillità anche perché, almeno in primo
pomeriggio, vi circolavano pochi treni viaggiatori. Insomma non ci preoccupavano
incroci o precedenze. A Monte Amiata ed a S. Angelo Cinigiano le manovre furono
brevi ed io ebbi modo di effettuare le variazioni sul foglio di corsa con relativa calma.
Anche a Monte Antico e a Civitella Paganico ci sbrigammo. Giungemmo a
Roccastrada pressoché in orario, ma qui le cose si complicarono e non di poco.
C’erano una trentina di carri vuoti da portare al carico di argilla, ed altrettanti da
mettere in composizione ormai già carichi. Le manovre si protrassero per due ore e
partimmo con notevole ritardo perché vincolati a precedenze e spostamenti di incroci.
Ero assai provato, ma non quanto la sera del fatidico 6624.
Speravo che a Sticciano si potesse recuperare un po’ e quindi giungere a termine di
corsa ad un’ora ragionevole per consumare la cena. Mi sbagliavo completamente, ed i
frenatori erano già a conoscenza di ciò che ci attendeva. S’erano interessati in
precedenza, mentre viaggiando fuori servizio si recavano ad Asciano. Uno di loro
disse:- Qui dovremo mettere sotto carico 20 carri vuoti, ma prima di ciò bisogna
mettere in composizione al nostro treno i 20 già carichi. Dovevamo in poche parole
compiere le medesime manovre effettuate poco prima a Roccastrada.
Insomma anche in detta stazione perdemmo un’ora di tempo, ma ormai non avevamo da
dare precedenze o da fare incroci. L’ultimo treno da Siena per Grosseto era ancora un
po’ distante quindi non esisteva preoccupazione. Comunque giungemmo a Grosseto
dopo le ore 21, e dire che ero stanco è dire poco. Erano quasi dieci ore che il mio
stomaco non riceveva cibo e le gambe avevano la tremarella dall’avveligione.
Potei mangiare ciò che Ivana mi aveva posto con tanta passione nella borsa solo verso le
21,30, però a differenza della triste sera del 6624, seppure assai tardi mangiai con
appetito. Sapevo che dovevo mettercela tutta per resistere a questo lungo e triste periodo
di rodaggio. Ma essere arrivato a termine corsa con meno sofferenza della prima volta,
non significava avere completato il turno di servizio. La giornata che adesso volgeva al
termine era stata afosa e lunga, ora mi necessitava di riposare perché il mattino alle 7,30
mi attendeva il treno merci da Grosseto per Asciano.
Malgrado la notte avessi dormito pochissimo per la calura, il mattino successivo con
puntualità mi recai al treno. Nessuno doveva avanzare contestazioni per la mia ritardata
presentazione. Se il convoglio fosse stato pesante avrei avuto il mio bel da fare.
129
Malgrado la mia barba molto allungata per lo strapazzo del giorno precedente, tutto
sarebbe stato più facile se a Monte Amiata non si fossero aggiunti tre carri carichi di
merce che dovevano giungere a Siena in tempo utile per proseguire la sera medesima
col “celerone” ( treno merci diretto) delle 18,20. Quanto detto si ripercuoteva su di me
negativamente ed il motivo è presto spiegato. Anziché terminare il mio turno ad
Asciano alle 11,45, dovevo scortare anche uno straordinario su Siena. Di conseguenza
fino alle 14,30 non giunsi a casa, e fino a quell’ora rimasi col “cappuccino” consumato
il mattino al bar di stazione di Grosseto.
Potrebbero sembrare delle banalità, ma quante ore ero rimasto fuori casa e lontano dalla
famiglia? Chi abitava in sede almeno tre o quattro ore se le poteva certamente
risparmiare. Poi c’era anche chi tali servizi cercava di evitarli, magari arrecando
disturbo ad altri colleghi:
1 Oggi dovevi partir fuori servizio,
3 Se di riserva talora ti trovavi,
verso le tredici per recarti ad Asciano,
quel turno lo vedevi ognor scoperto,
e poi da lì iniziava il tuo supplizio,
farlo per altri certo non bramavi,
fino Grosseto luogo assai lontano.
ma c’era chi per “venderlo” era esperto.
2 Altro merci da laggiù per rientrare,
seppure stanco tu scortar dovevi;
venticinqu’ ore trascorse a tribolare,
mentre la barba crescere vedevi.
4 Tra tutti noi c’eran pur delle persone
con cinquanta Primavere superate,
sentivano già l’odor della pensione,
e cercavan di sfuggir certe tirate.
Dato il permanere di tale situazione io mi sentivo alquanto depresso e desolato, ma
dovevo resistere. Se era possibile per tanti altri, col tempo anche io forse avrei
sopportato con più disinvoltura. Il nostro controllore, una squisita persona di origine
sarda, ci definiva “schiavi della rotaia”. Comunque quello che io avevo creduto
Paradiso, finiva pian piano per rivelarsi vero Inferno.
Più tardi, con il passare dei mesi, si ampliava la mia conoscenza sulla Dirigenza Unica,
anzi il servizio mi sembrava meno duro. Sapere che il Capotreno era in prima persona il
responsabile della corsa di un convoglio, cominciava a darmi qualche soddisfazione.
Però rimanevano immutati e gravosi i sacrifici a cui ero costretto quasi ogni giorno
abitando fuori dalla sede del mio impianto.
Incontrando Farfarini, collega e amico fin dalle scuole elementari e poi ambedue
suonatori nella Banda Paesana fin quando non vinse un concorso a Torino, chiedevo a
lui chiarimenti sulla materia di servizio e, se possibile, anche dei consigli. Era un
capotreno “quadrato”, lui i regolamenti li aveva tutti presenti nella memoria. Insomma
era ferratissimo in tutto, ed io potevo contare su ciò che mi suggeriva. Un giorno mentre
rientravamo ad Asciano mi disse: - Aldo perché non cerchi una cameretta dove poter
riposare tranquillo? Così facendo non potrai durare a lungo.
So bene - mi disse ancora – quanto è penoso terminare il servizio a tarda notte e non
aver dove riposarsi, oppure partire dal paese la sera alle 20 con la speranza di trovare un
letto, e dover rimanere in sala d’aspetto tutta la notte.
Pure io mi trovai, anni addietro- concludeva- in simili condizioni, e non mi pentirò mai
di avere ascoltato chi, allora, mi disse le stesse parole che adesso io sto dicendo a te.
130
Tergiversavo nel cercare una cameretta, intanto non ero più grassottello come quando
giunsi da Bussoleno, avevo perso ben 5 chili. Farfarini, incontrandomi nuovamente, mi
disse ancora:- Se vuoi bene a te stesso e alla tua famiglia, cerca di trovare un rimedio a
codesto tuo continuo stress. Fu allora che mi detti da fare e affittai una cameretta in Via
Magenta. Le cose cambiarono certamente in meglio. Adesso sapevo che a qualsiasi ora
potevo contare in quel piccolo letto ad una piazza, ma ugualmente comodo e riposante.
Rimaneva, però, quella stradaccia attraverso gli orti e tutta in salita che, talvolta, dovevo
percorrere anche alle due di notte. La chiamavano “La Viaccia” ma era un sentiero
completamente al buio e nascosto tra alte le siepi di rovi ed altre macchie. Ogni volta
che vi passavo a tarda notte provavo forte disagio.
Le cose migliorarono molto quando venne a far parte del D.P.V. l’amico ascianese
Mario Tognazzi il quale, in seguito a ciò, prese dimora con i suoi in Via De Bosis a tre
passi dalla stazione. Quella famiglia, la cui onestà era da sempre nota, concesse a me e a
Cesare Benocci una cameretta con due lettini da potervi riposare quando ci avesse fatto
comodo. Per noi la porta sarebbe rimasta sempre aperta.
Ed io tra costoro mi sentivo come a casa mia. Ci legava l’amicizia di una vita. Massimo
era stato con suo fratello un nostro muratore quando, qualche lustro addietro,
costruimmo il locale “La Tranquilla”. C’era Rosina sua moglie sempre affaccendata
ma tanto gentile con noi. Franca moglie di Mario, mia coetanea che conoscevo fin dalle
elementari, non era diversa dalla madre. Poi giunse una bambina, Carla, che allietò
quella famiglia dai sani principi. Entrare nella loro casa fu per me come suol dirsi “la
manna dal cielo”. Ora potevo riposare serenamente. Però continuava a mancarmi la
presenza della mia famiglia e ciò mi provocava tristezza. Le rime seguenti lo possono
in qualche maniera testimoniare:
1 La sera alle 20 i miei cari lasciavo,
per nuovamente riprender quel treno,
ma dentro al cor mio con forza bramavo,
di viver con loro felice e sereno.
3 Ma c’era Mario che mi ospitava,
e lì nella tiepida mia cameretta,
ogni stanchezza si dileguava,
potevo il servizio riprendere in fretta.
2 Soltanto al mattino prendevo il servizio,
e lo dovevo sereno affrontare,
sarebbe stato un vero supplizio,
se mancato avessi di riposare.
4 Però tutto quanto offerto col cuore,
da amici sinceri, ovver brava gente,
sostituir non poteva il diverso calore,
che i miei mi davano ardentemente.
Dunque con il trascorrere del tempo anche con il servizio mi trovavo molto bene perché
avevo fatto uno stuolo di vere amicizie, e nel nostro ambiente di lavoro costituivano
qualcosa di rilevante ovvero l’armonia tra colleghi. Con i treni viaggiatori non avevo di
che lamentarmi, anche se nei convogli del mattino, composti da vetture fatiscenti
dovevamo controllare tutto attentamente per non incorrere in gravi incidenti. Bisognava
avere, come si dice talvolta, “almeno cento occhi e tanto ‘un giova”. Nell’Inverno
sovente dovevamo sorbirci, ed era capitato anche a me, le proteste per il mal
funzionamento del riscaldamento delle vetture, ovviamente a vapore. Ma noi, personale
del treno, non potevamo fare altro che riferire per iscritto le lamentele dei pendolari
che, insomma, non avevano tutti i torti. Altra cosa, che produceva in me certa ansietà,
era il pericolo di ferimenti dei viaggiatori durante la corsa, e purtroppo invece dovetti
trovarmi a cose molto peggiori che per lungo tempo lasciano tracce.
131
Anche con i treni merci adesso mi sentivo più sicuro e tranquillo. Nei primi tempi,
invece, trovandomi al telefono per ricevere o trasmettere i dispacci, avevo una certa
difficoltà a comunicare con chi stava dall’altra parte del filo.
Fu molto peggio alla mia prima esperienza con i “bietolini”, quei treni con le
barbabietole per Granaiolo ma che poi proseguivano su Siena. Partimmo da Empoli con
35 carri carichi per lo zuccherificio ove ne dovevamo ritirare 25 vuoti con destinazione
Colle Val d’Elsa per il carico della pirite. A Granaiolo le manovre mettevano davvero a
dura prova poiché costretti ad effettuare incroci e precedenze con tre treni presenti in
due soli binari. Ed io che ero sempre preoccupato di cadere in errore, e non sarei certo
stato il primo, non vedevo il momento di giungere in stazioni rette da Dirigente
Movimento ove ogni responsabilità ricadeva su di loro.
Devo aggiungere che ero solo un abilitato a Capotreno, quindi una punizione
equivalente a qualche giorno di sospensione, avrebbe significato la revoca dalle
mansioni superiori che ormai svolgevo da quasi due anni. Meno male che portati a
termine corsa quei treni, ed era sempre dopo la mezzanotte, avevo un letto dove
riposarmi fino al mattino. Solo allora potevo rientrare, anche se per poche ore, tra i miei
familiari. Ma malgrado la rispettosissima ospitalità dei Tognazzi- Scarpini, io sentivo
sovente, e sempre più accentuata, la mancanza della mia famiglia, e percepivo che non
avrei potuto seguitare a lungo.
1 Già avevo la nomina da Capotreno,
4
e più di due anni eran trascorsi,
dal dì che giungemmo da Bussoleno,
e ancor delle rinuncie provavo i morsi.
2 Benchè mi sentissi tranquillo e sereno, 5
nel lento proceder del mio servizio,
pur io anelavo al tempo pieno,
con i miei cari e non era uno sfizio.
3 Mi dispiaceva lasciare Asciano,
6
il più che splendido mio paesello;
ero tornato da molto lontano,
ma purtroppo portavo pesante fardello.
Ancora vent’anni da sopportare,
del pendolare la triste vita;
seppure potessi tranquillo alloggiare
in una stanzetta decente e gradita.
Già i quarant’anni vicini vedevo,
età di vigore ancora amena,
e mentre sereno il servizio svolgevo,
la mia famiglia anelavo a Siena.
Ero frequente con colleghi parlare,
che dimoravan vicin la stazione,
ed eran soliti con tatto spronare,
che pur io vi cercassi un’abitazione.
Fu durante una chiacchierata con Michele Secciani, quel giorno mio conduttore con il
treno per Grosseto che cominciai a pensare davvero di venire ad abitare a Siena. Mi
sarei allontanato da mio padre e da mio fratello ma avrei risolto il grave ed annoso
problema del pendolare e delle frequenti nottate trascorse in un letto non coniugale.
Non potevo certo lamentarmi dell’ospitalità offertami in Via De Bosis, ma non ero
insieme alla mia famiglia. Essendo per natura pessimista, pensavo molto spesso ad
eventuali improvvisi bisogni miei o dei miei cari, mentre 20 ore su 24 mi trovavo
assente. Per il carattere piuttosto ansioso e fragile era il momento di prendere una seria
decisione; non potevo tergiversare a lungo negli anni.
Già, fu proprio il mio conduttore Secciani a rivelarmi che stavano costruendo delle
abitazioni a due piani, ovvero dei piccoli condomini, nella zona di Uncinello e che, se
mi fosse interessato, costui mi avrebbe fatto conoscere il costruttore. Nel conversare mi
rivelò che anch’egli vi aveva acquistato un piccolo appartamento in pianta.
132
Ovviamente la cosa poteva essere interessante. Venire ad abitare a Siena ad appena un
chilometro dal D.P.V sarebbe stato un evento meraviglioso. Ne parlammo a lungo e nel
lasciarci promisi che mi sarei consigliato con la moglie. Prima di prendere una decisione
in tal senso avremmo dovuto riflettere sulla consistenza delle nostre risorse.
Ma nel frattempo ad Asciano, ossia alla Palazzina, in seno alla mia famigliola, cosa
succedeva? Tralasciai di parlarne appena giunti da Bussoleno, per raccontare le mie
pene, le mie preoccupazioni, nonché le mie fatiche e le difficili imprese dei primi tempi
sulle linee ove vigeva la Dirigenza Unica.
Giungemmo nel Luglio del 1961 ed ora eravamo all’Ottobre del 1963. Grandi cose non
erano accadute, però non posso non soffermarmi a parlarne un attimo. I componenti la
mia famigliola non possono essere lasciati nel dimenticatoio. Tutto ciò che avveniva
durante le mie assenze per lavoro, mi veniva al ritorno riferito, ed era per me motivo di
soddisfazione, perciò anche io in questi miei scritti non potrei non fare altrettanto.
Nel frattempo Roberto cresceva sano e robusto e stava già frequentando la scuola
elementare. Era il “cocco” del maestro Marignani che scherzosamente lo chiamava
“salcicciolo”. Il motivo di tale nomignolo? E’ presto detto. Sovente amava portare per
colazione due fette di pane col “salcicciolo” ed Ivana non si sarebbe mai rifiutata di
accontentarlo. Anche i coniugi Polloni (i padroni di casa) avevano un debole per
Roberto, gli volevano molto bene e non passava giorno che non lo invitassero in casa
loro per farsi raccontare di macchine di trattori e di trattrici.
Quando sentiva il rombo di un qualsiasi motore che si avvicinava, correva al cancello
e lo seguiva finché non s’era allontanato. Ogni tanto prendeva la piccola fisarmonica
che gli avevamo comperato a Torino e si metteva a strimbellarla.. Ma la soddisfazione
più grande, ovvero l’immensa gioia che gli faceva luccicare gli occhi, la provava
quando Cesare gli mostrava o lo faceva salire sulla sua Fiat Topolino acquistata diversi
lustri addietro, ma ancora apparentemente nuova. Credo che in oltre quindici anni non
abbia superato in totale i 5-6 mila chilometri. Si poteva considerare ancora in fase di
rodaggio. Cesare la usava pochissime volte e soltanto per recarsi al paese. Forse il
percorso più lungo lo coprì quando, con sua moglie, Ivana e Roberto ci recammo nei
boschi del Calcione oltre Modanella, alla ricerca dei funghi. Comunque seppure non la
togliesse quasi mai dal piccolo garage, tutte le settimane la lavava e la lucidava da
sembrare uno specchio. Roberto assisteva soddisfatto a tale consueta manutenzione e lo
riempiva di domande circa il funzionamento del motore, dell’accensione e dei freni.
Ovviamente prendeva anche i suoi svaghi con gli amici del luogo e con Ivonne la
bambina del Colombaiolo di qualche mese più giovane. Ma Ivana in questi anni, che ho
quasi dimenticato di ricordarla, come passava le sue giornate? Dire che non si fermava
mai, è dire poco.
Benché adesso non ci fossero più le incombenti faccende dei campi a non dar tregua,
come avveniva in tempi non troppo distanti, non prendeva un attimo di riposo.
Se eravamo in Estate, ed io mi trovavo assente per lavoro, alle sei del mattino era
sempre in “paletta” per irrigare l’orticello a pochi passi dal fabbricato. Provveduto a ciò
si recava al piccolo pollaio. A lei piaceva fare come quando eravamo contadini, ovvero
comperare i pulcini e farli crescere governandoli con cibi sani, e prevalentemente con
la granella. Ma anche altro lavoro amava svolgere, seguendo l’esempio della padrona di
casa, ed io non riuscivo a capire come potesse assolvere a tanti impegni.
133
Durante la giornata e in vegliatura, fino a quando non le si chiudevano gli occhi per la
stanchezza, non faceva che avvolgere gomitoli di lana dalle matasse e sferruzzare per
fare dei maglioni.
Aveva iniziato per gioco vedendo Maria, la padrona di casa, e poi, sempre stracolma di
volontà, aveva trovato soddisfazione a seguitare. Era un impegno che lasciava appena il
tempo per eseguire le faccende più importanti. Tutto ciò per rimediare neppure e non
sempre 200 lire al giorno. Tale era il compenso per ogni capo finito, e non sempre
riusciva a completarne uno nell’arco della giornata.
Insomma era un continuo sferruzzare, con molta attenzione a non sbagliare con il
rischio di dover guastare il lavoro fatto.
Io le dicevo:- Ivana cerca di darti una calmatina, non ti accorgi a quale sacrificio ti
sottoponi ogni giorno? Ed ella con lo stesso sorriso che mi parlava quando la conobbi
mi rispondeva.:- Aldo, quando andavamo a vangare le viti dal mattino alla sera o a
falciare il fieno nelle piagge dove non c’era neanche una pianta per prendere fiato
all’ombra, mi stancavo molto di più, e non si vedeva mai un soldo. Almeno ora qualche
cosa rimedio e nel contempo mi diverto. Credimi non sento sacrificio, e poi sai che ti
dico? Tutti gli spini fanno siepe. Se un giorno anche noi vorremo acquistare una
casupola, potrebbero essere utili anche questi quattro soldi che rimedio io. Così con un
sorriso ed un abbraccio mi convinceva. Poco dopo, infatti pensammo di acquistare un
piccolo lotto di terreno dal Sig. Latini, lo pagammo e quando andammo a presentare il
disegno per costruire scoprimmo che la zona era vincolata a verde. Insomma non vi
potevamo costruire. Tutto perciò andò in fumo e fummo rimborsati.
A dire il vero fu bene in quel modo. Se la cosa fosse andata in porto mi sarei assunto il
gravoso onere di fare il pendolare a vita. Ma gli anni trascorrevano inesorabili ed io
prima o poi avrei ceduto. Fino ad allora avevo sopportato in qualche maniera i sacrifici
ai quali mi sottoponevo ogni giorno rimanendo lontano dalla famiglia, mentre sentivo
ormai il bisogno impellente di averla vicina. Sono certo di essermi ripetuto, ma quella
era la realtà che stavo vivendo.
Fu allora che, dopo la chiacchierata col conduttore Secciani ne parlai a Ivana. Ed ella
dopo avermi ascoltato attentamente mi disse:- Sarebbe una cosa fantastica ma i soldi
dove li troveremo? Acquistare una casa a Siena non è come acquistare un pezzetto di
terra in campagna. Comunque informati sui costi e dopo faremo un po’ di conti.
Angiolino, mio padre, che spesso veniva a coccolare Roberto, nel sentirci parlare di tale
argomento non brillava di felicità. Ora che ci eravamo ritrovati e con l’abitazione a
neppure 100 metri di distanza giustamente temeva di vederci allontanare di nuovo.
Anche Loriana con cui Roberto legava in modo speciale non sarebbe certo stata felice.
Conosciuto il costruttore e saputi i costi, la cosa non andò in porto. Passammo tre notti
insonni a pensare come rimediare la somma richiesta. Poi viste le difficoltà lasciammo
perdere tutto. Seguitai ancora per qualche tempo la vita del pendolare, ma il mio
malessere per dover dormire 15 notti su trenta in una camera ,decente ma lontano dalla
mia famiglia si faceva sentire sempre di più. Ivana cercava come sempre di
incoraggiarmi dicendo:- Pazientiamo, vedrai che prima o dopo riusciremo a realizzare
anche questo sogno. Per me il bisogno si faceva sempre più forte quindi decisi di
rivedere quel costruttore. C’era rimasto invenduto il quartiere seminterrato quello
ovviamente peggiore e dovevo accettare immediatamente o lasciare. Il giorno
successivo sarebbe stato troppo tardi. Forse era una scusa per non farsi sfuggire il
cliente.
134
Occorrevano, però, 4.500.000 lire così distribuite: 2.000.000 complessive alla consegna
delle chiavi, 500.000 con eventuali cambiali rinnovabili e 2.000.000 con un mutuo
ventennale al tasso dell’4,5%. Ma dovevo accettare tali condizioni in quel preciso
momento. Prendere o lasciare. E qui feci l’errore più grave della mia vita.
Accettai. Non mi fu concesso neanche di parlarne con mia moglie e dargli la conferma
il giorno successivo. Mi mostrò la cartina e mi spiegò che ne sarebbero usciti 82 metri
quadrati calpestabili come appartamento più un sottoscala e la cantina per altri dieci
metri quadrati come accessori. Ovviamente questi ultimi erano costituiti da spazi
completamente o quasi interrati.
Anche una stanza ed il bagno esposte al Nord sarebbero state seminterrate con finestre
assai più piccole del normale. Infatti quel piano, per tali caratteristiche, al Nord non
poteva elevarsi dal terreno per più di un metro.
La sera stessa al ritorno ne parlai subito a Ivana, che nel momento non parve contrariata
da tale mia istintiva decisione senza averla interpellata .
Ma non era stato per mancanza di rispetto, mai mi sarei permesso tale atteggiamento, fu
soltanto per la paura che effettivamente potesse sfuggirmi anche tale occasione. Dopo
qualche settimana quando cioè venimmo insieme nel luogo della costruzione, nel
rendersi conto di ciò che avevo combinato, le cose presero tutt’altra piega..
Osservando quello scarno stanzone quasi sommerso dal fango specialmente nel lato
Nord dove ancora non era stato costruito lo scannafosso, costei scoppiò in lacrime e mi
disse:- Ti rendi conto dove verremo ad abitare? Siamo quasi sotto terra.
Naturalmente l’apparenza lasciava molto a desiderare in quel momento ed anche io me
ne stavo rendendo conto, ma ormai la “frittata” era fatta.
Piuttosto dovevo interessarmi perché noi avevamo soltanto la disponibilità di 650.000
lire, e man mano che i lavori avanzavano c’erano le rate da pagare. Oltre tale
disponibilità ci mancava un milione e mezzo, e alla consegna delle chiavi doveva
essere pagato salvo l’eventualità di alcune cambiali rinnovabili.
Anche in questa occasione per la mia ansia ed emotività trascorsi intere nottate insonni
a pensare sul da farsi, poi, su consiglio di colleghi più anziani chiesi alla mia
Amministrazione il prestito doppio del 5° dello stipendio che si aggirava intorno alle
850.000 lire da rimettere in 10 anni con piccole rate mensili. Ebbi poi l’opportunità di
chiedere un altro prestito di 300.000 lire alla Banca Monte dei Paschi di Asciano, che
mi venne concesso grazie all’interessamento dell’allora Direttore G. Bindi.
Ma fatti e rifatti i conti i soldi non servivano, ed allora ci venne in aiuto mio suocero
con altre 300.000 lire che ci premurammo di restituire prima possibile. Non potevamo a
lungo approfittare dell’aiuto datoci senza interesse alcuno da chi soffriva vedendoci
sommersi dai debiti. Eravamo nell’Ottobre del 1963 quando, in quella stanza scarna e
semibuia di 82 metri che doveva essere il nostro appartamento, concludemmo il
preliminare di acquisto. Il tempo correva veloce come velocemente correvano i prezzi
ed i lavori. C’erano costruttori che chiedevano spesso altro denaro oltre la cifra
stipulata, minacciando in caso di rifiuto il fallimento, e c’erano anche quelli che dopo
averli ricevuti lo dichiaravano ugualmente mettendo in serie difficoltà gli acquirenti.
Per quanto concerneva tale pericolo, avevo avuto seria assicurazione dai costruttori Ivo
e Armido Bechi che a loro non sarebbe potuto accadere. Alle soventi, ed anche giuste
perplessità che manifestavamo in tal senso costoro rispondevano:- Rispetteremo il
concordato in ogni minimo particolare, quindi potete dormire tranquilli. Anzi se ci sarà
possibile cercheremo di dilazionare a vostro favore i pagamenti delle eventuali cambiali
che si dovessero rendere per voi necessarie.
135
I lavori comunque, procedevano speditamente ed io ogni due o tre giorni apparivo a
controllare di persona ciò che combinavano in quello “stanzone” tanto tetro che avevo
avuto la “sventura” di acquistare senza il consiglio della cara mogliettina. Prima di
scendere a lavorare nel seminterrato, comunque, dovevano terminare le opere ai piani
superiori, ed era evidente che così fosse.
E giunse il giorno che iniziarono ad operare nel mio stanzone, e quindi alla costruzione
dei muri divisori per le quattro stanze che, come previsto da disegno dovevano essere
due grandi camere, la cucina, il salottino lato Nord ed il bagno che risultò molto
spazioso. Mi consolava il fatto che la cucina e le due camere erano esposte a pieno sole,
quindi molto confortevoli.
Al ritorno dal servizio, abbastanza duro poiché ancora costretto a fare il pendolare,
cercavo di evitare l’argomento casa per non rinfrescare in mia moglie il dolore per tale
mio “dissennato” acquisto. Ma purtroppo prima o poi anche lei doveva farsene una
ragione. Da parte mia ero consapevole di aver commesso uno sbaglio e non me lo
potevo perdonare. Ma la vita è caratterizzata anche da errori.
Appena costruiti ed intonacati i muri divisori,(eravamo nel Maggio 1964 e gli altri
condomini già vi abitavano) convinsi Ivana di tornare insieme a me nel luogo per
consigliarci sulle mattonelle per i pavimenti.
Questa volta ciò che pochi mesi prima le era apparso un tetra cantina semibuia, le fece
una diversa impressione ed io ne fui felicissimo. Però dentro al mio intimo non si
placava la colpa di aver commesso un simile errore e nel ripensarci mi pervadeva la
tristezza e forse anche il rimorso per aver accettato con troppa immediatezza.
Sostammo lì qualche ora e in presenza dei muratori decidemmo su come pavimentare il
bagno e le altre stanze. Ovviamente scegliemmo su ciò che metteva a disposizione il
compromesso, non potevamo assolutamente apportare migliorie. Il denaro era quello
racimolato dai vari prestiti e quindi da restituire. Ma pazienza sapevamo da sempre che
il passo deve essere fatto secondo la gamba.
Mia moglie nel rientrare al paesello mi parve più serena, ed in seguito potei con vera
soddisfazione constatare che al ritorno dal servizio mi chiedeva spesso se ero stato a
seguire i lavori nell’appartamento. E, ad essere sincero, non perdevo occasione, per fare
a piedi il Viale Sclavo per portarmi nella zona di Uncinello dove doveva essere la
nostra futura dimora.
Non posso nascondere che dall’Ottobre 1963 a tutta l’Estate 1964 facemmo ambedue
dei sacrifici indescrivibili pur di venire a capo di una situazione caratterizzata da debiti.
Ma comunque mai ci trovammo in condizioni di vergognarci. Malgrado l’insistenza di
Amerigo di aspettare ancora del tempo, nel mese di luglio potemmo restituire la somma
che amorevolmente ci aveva prestato. Era rimasta qualche cambiale che il costruttore ci
rinnovò nel tempo. Il mutuo e gli altri prestiti non ci davano preoccupazioni di sorta.
Con un po’ di salute avremmo potuto con gli anni azzerarli.
Insomma mi preme dire che grazie anche a detti sacrifici, il cui peso Ivana ed io
sopportammo insieme, il giorno sette di Agosto del 1964 i costruttori fratelli Bechi,
nonché il sottoscritto si incontrarono in Piazza Indipendenza, ed al cospetto del Notaio
Dott. Nappi firmarono l’atto di compravendita.
Da quel momento ebbi in consegna le chiavi dell’appartamento, che se anche ubicato al
piano seminterrato, poteva permettermi di mettere fine alla onerosa vita del pendolare
ed alle frequenti nottate trascorse a cercare il sonno lontano dalla moglie e dal figlio.
Insomma si stava realizzando un sogno tanto bello quanto sofferto.
A. Leonini
136
E LASCIAMMO IL PAESELLO
Il 23 Settembre del 1964, dopo vari giorni di intensi preparativi, nella Chiesa
Collegiata di Asciano, insieme a tanti altri ragazzini, Roberto e Ivonne Torrini, amici da
sempre, celebravano la loro prima Comunione. Poi tenendosi per mano raggiungevano
Grottoli e, prima di separarsi per il pranzo, nel raggiungere le proprie abitazioni, Maria
Gonzi moglie di Giacinto Della Vedova li impressionava insieme in una foto ricordo.
E’ una foto ancora esistente e custodita insieme a diverse altre in apposito album. Erano
presenti alla cerimonia i cari nonni Amerigo e Angiolina, giunti appositamente da Prato
per l’occasione. Nonno Angiolino (mio padre) che aveva difficoltà nel camminare,
attendeva il ritorno del nipotino in cima a quel tratto di strada che conduce alla sua
abitazione. Un ricco pranzetto preparato con amore e cura da Ivana non poteva mancare,
come non mancarono gli auguri affettuosi di Cesare e Maria nostri padroni di casa,
che volevano bene a Roberto come ad un figlio. Bellissima festa con il cielo sereno ed
il tepore “settembrino” che mi permise di accompagnare il piccolo alle funzioni
religiose del pomeriggio. In casa, invece, Ivana, Amerigo e Angiolina lavoravano
alacremente. Stoviglie varie e biancheria veniva posta con cura in appositi scatoloni di
cartone. Il motivo è presto detto: erano i preparativi per il trasloco nella nostra nuova
dimora ubicata in Via Quinto Settano, ovvero zona di “Uncinello”. Il 24 Settembre
1964, sistemati gli scatoloni, smontati i letti e caricati in un camioncino, verso le ore
9,30 si partiva per Siena. Non ricordo in quanti vi prendemmo posto, ma coloro che
rimasero a terra, poterono raggiungerci con l’ AT 964 treno che arrivava in detta
stazione poco dopo le 10. Poi il tram n° 9 li trasbordò in breve tempo a Uncinello.
1 Con un po’ di emozione nel mio cuore, 3 Per quella via tra la campagna amena,
lasciavo la grottolese mia dimora,
nella dolce settembrina mattinata
era di un cambiamento giunta l’ora,
ci dirigemmo verso la città di Siena.
da me cercata con immenso ardore.
2 La lasciai in silenzio ,senza far clamore, 4 Ci attendeva la “casa” anelata
certo che sarei tornato ancora,
che talor m’aveva dato qualche pena,
nella casetta tra il verde della flora
ma nel momento però s’era placata.
tra le sorgenti e tante siepi in fiore.
Perché comunque abitavamo a Siena.
Alla presenza dei suoceri, Ghigo e Angiolina, la famigliola Leonini gioiosamente si
trasferiva nella nuova dimora. In quell’appartamento che prima di abitarvi era stato
motivo di diverse preoccupazioni e qualche sfogo nel pianto. Ma da quel giorno,
malgrado la sua ubicazione, non poteva più essere (almeno si sperava)causa di
rimpianti. Amerigo e Angiolina, nel vedere l’ambiente dove andava ad abitare la figlia
diletta, avevano dato la loro benedizione a quel nostro importantissimo passo.
Ma specialmente per me terminava fin da quel momento la dura e stressante vita del
pendolare. Riprendeva quel giorno stesso qualcosa di veramente stupendo, che
dall’arrivo al D.P.V. di Siena dalla Valle Susa avevo completamente dimenticato.
Potevo nuovamente trascorrere nell’ambito della famiglia tutto il mio tempo libero dal
servizio; ed anche Roberto poteva riprendere a frequentare la scuola sita al Pietriccio
ovvero a poche centinaia di metri dall’abitazione. Adesso potevo con tutta la mia forza
affermare che simili benefici erano totalmente negati a coloro che abitando fuori sede
erano costretti al tran-tran del pendolare.
137
Come era da prevedere trascorremmo momenti di intenso lavoro per rimettere al giusto
posto tutto ciò che qualche giorno prima era stato sistemato con cura nei vari scatoloni.
Comunque furono anche di gioia immensa per aver concretizzato un sogno tanto
ambito e chiaramente più grande delle nostre possibilità.
Io ero felice anche perché in soli 15 minuti e con qualsiasi condizione atmosferica,
dalla mia abitazione potevo raggiungere il posto di lavoro. Ma doveva essere una cosa
troppo bella per durare a lungo. Infatti, ben presto qualcosa sopraggiunse a turbare la
tranquillità mia e di Ivana. Ci accorgemmo che sui muri maestri ubicati a Sud, (quelli
esposti a pieno sole)dove non era stato costruito lo “scannafosso” stava salendo in modo
preoccupante l’umidità che i mattoni assorbivano dalla terra. Ogni giorno vedevamo
impregnarsi sempre più le pareti della cucina e delle due camere. E come aumentavano
le macchie di umidità nei muri , aumentava in noi l’angoscia ed i rimpianti.
Dovevamo prendere una decisione prima possibile, non potevamo assistere a tanto
danno. Ci consigliammo per intere nottate, quindi la decisione. Contando
esclusivamente sulle mie forze, e sudando sette camicie costruii a mie totali spese un
intercapedine della profondità di un metro e della larghezza di 60-70 centimetri.
Fu un cottimo che mi vide impegnato per una quindicina di giorni senza sosta come se
fossi un condannato. Meno male ebbi la forza di portare a termine tale opera, perché
persistendo tale situazione non sarebbe stato possibile andare lontano. Si sarebbero
deteriorati anche i mobili e ne avrebbe sofferto la salute mia e dei miei.
Durante il proseguo dei lavori ricevetti saltuariamente una mano da Guido Panti e
solamente da lui anche se i muri maestri erano e sono di proprietà condominiale.
Ovviamente lo ringraziai a lungo, poiché giunse proprio nei momenti in cui le mie
energie tendevano a scarseggiare. Quando, più tardi, l’umidità prese a salire anche sul
muro maestro lato corridoio delle cantine dovetti fare altrettanto…nuove fatiche e
nuove spese, ma nessuno ebbe a pronunciare una parola di incoraggiamento e di
sollievo. Eseguiti detti lavori, finalmente le quattro mura della nostra dimora non
davano più segni di umidità eccetto qualche rarissima chiazza immediatamente
eliminata da me medesimo con la sostituzione dell’intonaco deteriorato.
Devo dire, e lo affermo con forza, che non sarei mai riuscito a superare certe situazioni
se non mi avesse supportato Ivana con i suoi saggi consigli. In brevissimo tempo si era
talmente affezionata alla nostra casetta che la teneva sempre lucente come un gioiello
di elevato valore. Io in quel periodo non avevo neanche la macchina perciò anche per il
trasporto dei materiali dovevo aspettare la disponibilità di qualcuno. Però potei dirmi
fortunato perché nel condominio di fronte c’era un pensionato che possedeva “l’ape” e
arrotondava la sua pensione facendo certi piccoli trasporti
1 Avevan preso dei lavori all’osso,
3 Ma io ed Ivana sappiamo qual penare
quei quattro poco esperti muratori,
e quali fatiche dovemmo sostenere,
che per non rimanere debitori,
per delle settimane, lunghe, intere,
costruito non avevan lo “scannafosso”.
per quelle nostre stanze risanare.
2 Ed io lavorar dovetti a più non posso, 4 Bisognerebbe esser tardivi nel pagare,
per rimediar le malefatte de’ signori,
o i debiti nostri a lungo mantenere,
che si facevan chiamare muratori,
onde il giusto recupero ottenere.
e non volevan saper di conti in rosso
La gente non si può così ingannare.
Nella Primavera del 1965, le mura erano di nuovo completamente asciutte quindi
potevamo tirare un grosso sospiro di sollievo.
138
Ora tutto era passato, ed eravamo tranquilli. Però molto spesso riaffioravano nella mia
mente le parole di Ivana pronunciate allorchè vide per la prima volta “il buio e scarno
stanzone”. Poiché ci separava dalla strada di accesso ai garage uno stretto marciapiede
di appena 80 cm. e realizzato con cemento alquanto scadente, pensai di costruire alla
distanza di m. 1,70 circa, un muretto in mattoni con quattro colonnette ed un cancellino.
Insomma avrei voluto edificare una specie di terrazzina per poter godere con la mia
famiglia, e nel limite delle possibilità una certa necessaria indipendenza. Chiesi
l’autorizzazione al condominio con lettera scritta e firmata, e nel giro di qualche mese
con l’aiuto del muratore Bari di Via Gallerani, e del fabbro Montomoli di S. Colomba
che costruì la ringhiera in perfetta sintonia con quelle delle terrazze sovrastanti,
potemmo pure noi godere del nostro spazio.
Era evidente che avevo costruito nel terreno condominiale, quindi non avrei mai potuto
rivendicarne la proprietà, neppure facendo valere l’uso ventennale .(usocapione)
Ora anche il seminterrato aveva il suo terrazzino. Eseguita l’opera il mio appartamento
almeno esternamente cambiò completamente fisionomia. Tutto sarebbe stato bello e
confortevole se non vi fosse stata da eseguire la manutenzione alla fossa biologica che
riceveva i liquami delle sei famiglie dell’allora N° 49, ovvero del portone centrale del
blocco. Poiché mancante della necessaria pendenza dalla fossa biologica alla fognatura,
il deflusso delle acque nere stentava e provocava rischi di intasamenti, tant’è che ogni
15-20 giorni dovevamo intervenire. Naturalmente tale poco igienico lavoro se lo
dovevano sobbarcare i due “somari” del condominio, ovvero lo scrivente e Guido Panti.
Dato che la fossa biologica si trovava a soli due metri dalla mia porta che dava sulla
strada condominiale, io e la mia famiglia eravamo i primi ad avvertire i segni del
cattivo funzionamento. Allora dovevamo intervenire prontamente altrimenti il mio
quartiere ne avrebbe subite le tristi conseguenze. Anche questo era un motivo su cui
avrei dovuto riflettere molto il fatidico giorno che mi impegnai con il costruttore.
Ma ormai era troppo tardi. La cosa peggiore era l’atteggiamento di assoluto
menefreghismo di certi condomini che non avevano braccia per dare una mano al
bisogno ma la lingua biforcuta per biasimare se qualcosa non era di loro piacimento.
Però anche costoro usavano i vari servizi le cui acque confluivano nella comune fossa
biologica. Pure costoro nell’arco della giornata usavano il bagno, per soddisfare le
proprie esigenze fisiologiche, quindi obbligate a dare un aiuto.
Dopo queste esperienze mi appariva lampante che, se con il tempo avessi dovuto
cambiare appartamento, le cose di primaria importanza da osservare attentamente e da
valutare sarebbero state l’ubicazione del piano e quello delle fognature. Ma, come mi
sembra di aver detto in precedenza, il somaro non cadrà mai due volte sullo stesso
ostacolo, e la mancanza di esperienza aveva contato molto. Insomma alla fine superati
tali intoppi, abbastanza gravi se vogliamo, tutto correva speditamente. Adesso eravamo
tranquilli anche perché non esistevano più cambiali da pagare o da rinviare di qualche
mese. I debiti fatti con i vari prestiti o con il mutuo li avremmo ammortizzati con il
passar degli anni. Per quanto concerne il mio lavoro tutto procedeva nel migliore dei
modi. Avevo acquisito una certa dimestichezza con i regolamenti, ed ero contornato da
un folto numero di veri amici tra i colleghi dei vari servizi D.P.V, Personale di Stazione,
nonchè tra il Personale di Macchina con cui lavoravamo fianco a fianco.
Anche Roberto, ormai grandicello, frequentava la scuola Elementare del Pietriccio a
poche centinaia di metri da casa. Tutto insomma andava a gonfie vele. Pure Ivana
faceva qualche ora di lavoro presso una famiglia del vicinato poiché intenzionata a
crearsi una piccola pensione.
139
Ella diceva sempre:- Alla vecchiaia bisogna pensarci quando siamo ancora giovani ;
discorsi assai saggi che le facevano onore. Ma non posso non citare un’altra dote che
aveva la donna che mi stava accanto. Fin dalla prima notte che mi dovetti alzare
prestissimo per prendere servizio alle tre, anche costei balzò dal letto per prepararmi il
caffè e la colazione. Nel dirle che non lo ritenevo giusto ella rispose:- Tu vai a lavorare
ed io ritorno a letto e posso dormire fino alle otto, quindi non provo alcun sacrificio.
Ed allora cosa potevo fare? Le dovevo togliere questa soddisfazione? L’affetto e la
premura verso i componenti della sua famigliola non aveva limiti. Con il passare dei
mesi cercammo insieme di adornare nel migliore dei modi il nostro terrazzino. Come
potrei dimenticare quella splendida pianta di limone che dovemmo regalare perché
divenuta troppo invasiva? E i due vasi di gerani che Ivana aveva posto sul davanzale
esterno della camera perché potessero godere pienamente i raggi del sole? I versi che
seguono lo possono testimoniare.
1 Se m’affaccio alla finestra adesso vedo, 3 Ma al giungere del gelo (triste male),
un gioiello sul mio grezzo davanzale,
nulla più resterà di tal bellezza,
che posso definire un caldo arredo
che adorna questo nostro davanzale,
d’una bellezza oltre al naturale
e gli dona pure un tono di freschezza.
2
Trattasi di geranio penzolante,
che or curato vien da mano esperta,
ed ammirato assai da chi dinante
sosta a guardar la mia finestra aperta.
4 Dovrem purtroppo tutto sopportare,
fin quando con la sua nota mitezza,
il “marinello “ ci potrà accarezzare,
il bacio donando a noi della brezza.
Il nostro piccolo giardino così adornato e pieno di colori attirava lo sguardo dei
molteplici passanti, che talvolta si complimentavano con Ivana per tanta bellezza.
Adesso se c’era qualcosa che in certi momenti mi preoccupava era la consapevolezza
che tutte le tubazioni, in eternit, delle fognature erano state collocate sotto ai pavimenti
del seminterrato. Mi sarei potuto tranquillizzare se vi fosse passata solamente la nostra,
perché sapevo quale era il comportamento che tenevamo. Ma chi abitava ai piani
superiori non aveva nulla da temere anche se si fosse verificato un intasamento.
Comunque, come giustamente soleva dirmi Ivana, non dovevo ”fasciarmi la testa”
prima che si rompesse. Dovevo tranquillizzarmi perché in caso contrario ne avrebbero
risentito negativamente anche i miei cari. Finalmente un fatterello posso dir positivo si
verificava tra i vari condomini del caseggiato; ovvero quattro o cinque uomini, più o
meno anziani, amavano incontrarsi nel garage del Panti per sfidarsi ai “tre sette, a
briscola e a scopa”. Vi passavamo intere serate, ovviamente giocando soltanto l’onore.
Tra noi non dovevano correre denari, giocavamo per passatempo e per sfottere quello
meno capace. Durante tali incontri imperava lo spirito di allegria e di fratellanza. Ma
simile armonioso comportamento sarebbe durato negli anni a venire? Lo speravamo,
però nei condomini è facile trovare anche la “pecora nera”. Intanto passavano i mesi, si
consolidavano le amicizie, e al sopraggiungere del Settembre e delle prime piogge
riponevamo le carte da gioco e pensavamo alla bramata ricerca del gustosissimo
porcino. Corteggiavamo tutti il Bartalozzi, appassionato cercatore che conosceva la
“montagnola senese” come il suo portafoglio.
Potevo nuovamente coltivare quello sport che mi aveva appassionato fin da ragazzino.
Però dovevo contare sul buon cuore degli amici già in possesso di un mezzo
motorizzato, altrimenti avrei dovuto rinunciare.
140
Tutto sembrava funzionare a meraviglia, eccetto la manutenzione alle fogne. Ma non
doveva durare a lungo la quiete e la tranquillità. Infatti qualcosa giunse a turbarci
profondamente nei primi giorni del Novembre 1966. E la cosa rimase impressa
specialmente in me per alcuni anni. Fu la tremenda alluvione che mise sott’acqua mezza
Firenze e gran parte della Toscana a minacciare anche l’integrità delle mura del nostro
appartamento seminterrato.
La fognatura comunale costituita da un tubo con diametro di 20 centimetri, non poteva
ricevere l’afflusso di quattro tubature dello stesso diametro che raccoglievano acque
fino oltre il fabbricato della Polizia. Con le pioggerelle lievi e lente tutto poteva
risolversi senza alcun rischio di allagamento, ma col “diluvio” di quei giorni accadde il
fattaccio. L’acqua invase completamente il piazzale, allagò alcuni garage e riempì
l’intercapedine costruito a salvaguardia del muro maestro delle nostre stanze lato Nord.
Le conseguenze sono facilmente immaginabili. L’acqua cominciò a penetrare dai muri
e la stanza che chiamavamo “salottino” rimase pressoché allagata per un’altezza di
cinque o sei centimetri. Meno male che finalmente la pioggia calò di intensità e l’acqua
poté defluire dallo “scannafosso”. Ma vi rimase tanto fango che dovemmo togliere
qualche giorno più tardi per risanare l’ambiente. L’impresario dietro mia sollecitazione,
cercò in qualche modo di rimediare raddoppiando la tubatura nel piazzale, e chi aveva
costruito la fogna comunale ad ampliarne la capacità con una tubatura di ben 40 cm di
diametro. Da quel momento, ma dovettero passare dei mesi prima della realizzazione,
tutto proseguì normalmente.
1 Quando penso alle tristissime giornate, 3
di quel Novembre lontano ma presente;
rivedo l’ampio piazzale prospiciente,
invaso dall’acqua, e persone disperate.
2 Pur queste mura furon violate,
dal lato “scannafosso” inadeguato,
e quindi il salottino fu allagato;
le scarse nostre difese annientate.
Vedo la mia donna pianger disperata,
e l’acqua invadere il verde pavimento;
mentr’io quanto costei preso da sgomento,
correvo per la casa all’impazzata.
4 No! Non son cose da far ridere la gente.
Quando uno vissuto ha quei momenti,
con la pioggia venire giù a torrenti,
la sua minaccia ognor sente incombente.
Come potevo dopo simili esperienze, dopo aver visto l’acqua invadere la casa, che
c’era costata e ci stava costando ancora sacrifici immensi, non essere ossessionato dai
temporali? Dopo messe in opera le nuove e più capienti fognature, passarono anni,
prima di essere completamente convinto della raggiunta sicurezza.
Ne avevo viste troppe di situazioni allarmanti, per non dire terrorizzanti, (oltre a quelle
vissute tra le mie mura) nell’ambito del mio servizio, specialmente tra Siena e Firenze.
Basta dire che da Siena potemmo raggiungere per ferrovia, e senza effettuare trasbordi,
quella città soltanto intorno al 10 Gennaio 1967. Oltre due mesi di interruzioni causate
dalle furie della natura. Però con tanta soddisfazione devo riconoscere che dopo questo
mestissimo periodo tutto tornò nella perfetta normalità. Ed anche in seno alla mia
famigliola si respirava aria di infinita serenità. Tanta serenità specialmente perché
nostro figlio cresceva sano, robusto e volenteroso, frequentando la scuola ( ormai prima
media) con proficuo profitto. Così, velocemente, trascorrevano gli anni. Quando fu
posto in quiescenza il conduttore Fantozzi, inoltrai domanda al Servizio Lavori per
avere assegnato l’orto che lasciava detto collega. Lì in quei 300 metri di terreno, che
potevo irrigare comodamente, trascorrevo le mie ore libere, coadiuvato assai spesso da
mia moglie.
141
Ella vi operava con entusiasmo e capacità, potrei dire superiore alla mia. Ricordava gli
insegnamenti ricevuti dai suoi zii che consideravano l’orto e i relativi prodotti una
priorità per “sbarcare” il lunario. Ma grande soddisfazione mi davano pure le lunghe
chiacchierate con gli amici e colleghi di lavoro. Quindi la famiglia, il servizio, l’orto e
nel periodo autunnale la ricerca dei funghi costituivano gli unici miei importanti
interessi. Aggiungo, con grande sincerità che appena posavo piede tra la flora, si
placavano come d’incanto gli stati di malinconia dai quali, purtroppo, con tanta facilità
venivo pervaso. Torno a ripetere che, anche se tale stato mi seguiva ovunque, dov’era
profumo di bosco, mi preoccupava molto meno.
1 Cos’è questo stato vorrei pur capire,
3 La tra la selva dei colli vicini,
che quasi ogni giorno piombami addosso?
or m’accompagna e mi guida persino,
Neppur sono in grado poterlo sfuggire,
in tal salutare non raro cammino.
ed esecrarlo al contempo non posso.
tra ‘l soave olezzare dei ciclamini.
2 Mi segue silente se corro alla flora,
per meglio ispirare la mia fantasia,
sembra che abbia in me la dimora,
questa tetra e pur dolce melanconia.
4 Se ad imbrattar carta sosto un mattino
lassù dov’è l’ombra di querce e di pini,
ed il cinguettar gaio degli uccellini,
non penso all’agguato del rio destino.
Anche Ivana era appassionata per la ricerca dei funghi, e non posso non ricordare che
quando non m’era possibile la compagnia degli amici, partivamo a piedi costei ed io e
ci recavamo nei “polloneti” oltre il Cimitero di Casciano delle Masse. Verso l’anno
1970 poiché, come più volte detto, non ero ancora motorizzato, mi venne la splendida
idea di acquistare una Lambretta 50 nuova di zecca. Così avrei potuto fare il mio
comodo e recarmici insieme ad Ivana. L’idea era stata bella, ma il seguito non lo fu
affatto. Il motivo? E’ presto detto: non fui capace di imparare a guidarla tant’è che
decisi di regalarla a Roberto ormai quindicenne. Di quegli anni mi torna in mente anche
un particolare che rattristò molto tutti noi ed in particolar modo provocò estrema
sofferenza a Ivana. Ci volle il suo coraggio e la sua forza di sopportazione per venirne
fuori. Ivana ... quel giorno voleva prepararmi qualcosa di speciale ed allora decise di
friggere i porcini raccolti tra i castagni precedentemente. Non seppe capacitarsi neppure
lei come le scivolò di mano la padella con l’olio bollente, che le versò quasi totalmente
nel braccio sinistro, provocandole ustioni di terzo grado. Corremmo immediatamente al
Pronto Soccorso dell’allora Ospedale di Santa Maria della Scala, ove fu prontamente
medicata e quindi dimessa. Ma le sue sofferenze durarono ben oltre un mese, ovvero
fin quando non si fu rigenerato il tessuto distrutto dall’ustione. Doveva recarsi ogni due
giorni a fare le medicazioni, durante e dopo le quali erano atroci sofferenze.
Adesso, nel raccontarlo, mi tornano presenti i lamenti della poveretta specialmente nelle
ore notturne, ed io ero lì e non la potevo aiutare. Accadeva che giungevamo al mattino
senza aver riposato ed io avevo da recarmi in servizio
Quando più tardi mi decisi di prendere la patente di guida, (eravamo nell’anno 1972)
mi impegnai con tutto me stesso per riuscire. Se guidavano la macchina i miei amici
anche molto più anziani, perché non dovevo essere capace pure io?
Era una scommessa che facevo con me stesso e non dovevo perderla per nessuna
ragione. Le battaglie da me combattute fino a quel giorno, magari a costo di enormi
sacrifici, si erano sempre concluse positivamente.
142
Ora provavo di nuovo. Se mi avessero escluso al primo esame avrei tentato
nuovamente. Se non ero stato capace a guidare la Lambretta, dovevo riuscire ad ogni
costo con una quattro ruote.. Non nascondo che mi sentivo alquanto impacciato alle
prime lezioni di guida. Mi rimaneva difficile cambiare le marce e posteggiare. Quello
che un diciottenne riusciva a fare in una sola lezione a me occorrevano tre, ma dovevo
perseverare. Io avevo oltre quaranta anni quando mi gettai in tale impresa, quindi gli
istruttori dovevano considerare che apprendere mi restava più arduo che ad un giovane.
Comunque con la volontà si riesce sempre a tutto; ed io riuscii anche questa volta.
Qualche settimana prima di sostenere gli esami acquistai una vecchia Fiat 500 da un
collega, e con quella macchinetta celestina, ovviamente sprovvisto di patente di guida,
mi esercitavo intorno al casamento. Un giorno… durante queste mie “prove” feci un
movimento col piede sbagliato, ovvero, anziché frenare pigiai l’acceleratore e finii
nell’orto del vicino di casa. Non accadde nulla e nessuno seppe chi era stato l’autore di
ciò. Qualche giorno più tardi, quando fui in possesso della bramata licenza di guida,
ripresi le mie esercitazioni anche per le vie adiacenti. Avevo acquistato una macchina
sprovvista di cambio marce sincronizzato, quindi dovevo imparare a fare la cosiddetta
“doppietta”. Vi riuscii dopo diverso tempo grazie alla pazienza dell’amico e collega
Antonio Bozzi che mi insegnò per le vie pressoché solitarie di Pian del Lago. Anche se
poco spigliato, ero felice di aver conquistato la mia indipendenza.
1 Or che avevo la mia prima macchinetta, 3 Ma con grandissima mia soddisfazione,
era una piccola 500 celestina,
mi recavo con l’amico più vicino,
adatta più per il pian che per la china,
in cerca del bramatissimo “porcino”
non faticavo come usar la bicicletta.
o di qualche altro fungo di stagione.
2 Però pur l’ampia via mi pareva stretta,
e quand’ero nelle curve di collina,
rischiavo di finir nella “banchina”,
se non imparavo a fare la “doppietta”.
4 Quando l’Inverno ci dava lo strizzone,
e assai rischioso a piedi era il cammino,
specialmente se di prestissimo mattino,
senza soffrire raggiungevo la stazione.
Con la mia piccola “celestina” mi recavo ovunque, ma soltanto per le vie periferiche.
Ovviamente i boschi li raggiungevo con estrema facilità; ma mai mi sarei azzardato ad
inoltrarmi per le trafficate vie della mia o di altre città. La “500” targata SI 57530
rimase di mia proprietà per poco più di un anno, poi la vendetti ad un collega
macchinista ed acquistai la Fiat 127. Quest’ultima era un altro tipo di macchina. Per le
sue comodità poteva permettere di intraprendere anche lunghi viaggi, ma io non ero
certamente il “conduttore” adatto. Ero consapevole dei limiti che avevo per la guida
fuori della mia zona e delle campagne circostanti.
Infatti, quell’anno che decidemmo di recarci a far visita agli amici di Frascati, sia nel
viaggio di andata che in quello di ritorno guidò quasi sempre Roberto anche se solo in
possesso del “foglio rosa” C’era poco da fare, io per il traffico ero totalmente negato.
Mi impappinavo facilmente. Non che ignorassi i molteplici segnali stradali; mi
disturbavano coloro che, seguendomi, suonavano ripetutamente il clacson. Avevo il
timore che si rivolgessero a me. Quella volta che fui costretto a guidare per le vie di
Firenze, sudai sette camice e giurai che mai più l’avrei fatto. Fu per il matrimonio di
mio cognato Irio e di Anna che portai l’auto da Sesto Fiorentino a Vallombrosa, ma la
sofferenza di quel viaggio rimarrà sempre nella mia mente.
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Devo aggiungere che possedere quel gingillo, era come aver da custodire un tesoro di
elevato valore. Io non avevo e non ho mai avuto la disponibilità di un garage ed allora
nei mesi freddi, per paura che al mattino non partisse, riparavo il motore con una
copertina di lana. Ero ormai abituato a farlo e non pensavo di commettere un grave
errore. Ovviamente prima di avviare il motore toglievo la coperta, ma una mattina,
preoccupato di essere in ritardo, me ne dimenticai. Giunto in prossimità del Palazzetto
dello Sport di Via A. Sclavo, fui attratto dal continuo suonare dell’auto che mi seguiva.
Solo allora mi ricordai di essere partito così, alla “carlona”. Seguendomi videro del
fumo uscire dalla parte posteriore dell’auto e cercarono di avvisarmi. Mi fermai
immediatamente e, grazie a delle persone che mi rimasero sconosciute, fui in tempo ad
evitare il disastro. Ma fu una “mano santa” perché da quel giorno la lasciai ai rigori
dell’inverno. Ciò accadde quando ancora ero in possesso della 500, poiché la 127 aveva
il motore ubicato nella parte anteriore. Quell’anno, non sapendo come ringraziare
l’amico Antonio Bozzi per avermi aiutato a risolvere il problema “doppietta”, pensai di
offrirgli una piccola parte del mio orto che egli accettò con entusiasmo. Anche lui, così,
seppure a costo di svariate fatiche, poteva consumare la verdura di propria produzione.
Però, oltre a lavorare alacremente, specialmente da Marzo ad Ottobre, trascorrevamo
insieme qualche ora all’ombra di certi frondosi ornelli intanto ci consigliavamo sulle
varie semine da effettuare sempre secondo l’andamento delle fasi lunari.
1 Al limitare del mio orticello,
vicino alla siepe potata con cura,
che pur faceva da ricca “bordura”,
crescevan tre piante frondose di ornello.
3 Durante il lavoro vi andavo sovente,
e quando Febo faceva sudare,
poteva quel rezzo refrigerare,
non solo il corpo, ma anche la mente.
2 Gli arbusti suddetti col loro ombrello,
a chi vi operava tra “braci” e verdura
donavano spesso, un po’ di frescura,
certo ancor meglio di un largo cappello.
4 Poi, quando l’occaso era imminente,
c’eran fresche verdure da preparare
per la famiglia, nonché da irrigare
zucche, fagioli, sementa nascente.
Insomma, torno a ripetermi, trascorrevo le ore libere dal mio alquanto impegnativo
servizio, in quel pezzetto di terra divisa in due parti da una ampia fossa in muratura,
dove quasi continuamente scorreva dell’acqua che noi non usavamo non conoscendone
le origini. Poteva essere inquinata e rendere le verdure non commestibili. Usavamo,
invece, mediante una tubatura che ce la portava nell’orto quella del condotto
proveniente da Fonterutoli.
Avendone consegnato una bella porzione all’amico Bozzi, ed essendo così diminuito
il lavoro da eseguire, anche Ivana diradò la sua presenza. Ma non mancava, però,
quando dovevamo raccogliere i “fagiolini da frasca” perché secondo il suo modo di
vedere io non ero troppo adatto per eseguire tale delicata faccenda.
A. Leonini
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E GIUNSERO ANCHE I MALANNI
Anche se mai nessuno lo vorrebbe, gli anni scorrevano velocemente, tanto velocemente
che eravamo ormai giunti all’anno 1975. Oh quante cose belle e meno belle erano
accadute in questo decennio dal nostro trasferimento da Asciano a Siena! Intanto tra le
cose belle potevamo annoverare l’andamento proficuo di Roberto nello studio, la sua
volontà di apprendere cose nuove nel campo della meccanica, e del lavoro in generale.
Egli trovava sempre il modo di guadagnare soldini nel periodo delle vacanze. Già, in
tale periodo, quando non andava da un suo amico meccanico, gironzolava nei pressi del
“forno del Caroni” in Via Gallerani. E quel “panettiere” ne approfittava per comandarlo
a consegnare i dolci a destra e a manca, ovviamente offrendogli piccole ricompense.
Roberto era contentissimo anche perché per eseguire tali commissioni si spostava con il
ciclomotore del suddetto fornaio. Ma questo era solo un motivo delle nostre
soddisfazioni; non era da sottovalutare la simpatia dimostratagli dai condomini di
questo caseggiato e non soltanto. Anche nel campo del mio lavoro tutto scorreva nel
modo migliore per i lodevoli rapporti con i colleghi pari grado o subalterni. Un po’
meno allettanti erano quelli con certi superiori, poiché mai fui disponibile a
comportamenti non corretti nei confronti di chi, come me, si sacrificava sui treni. Ero
contrario a sparlare di questo o di quello negli uffici dei Capi. Anzi per essere più
chiaro disprezzavo tali comportamenti. Un altro motivo di soddisfazione era quello di
vedere mia moglie, le cui doti sono state da sempre infinite, affezionarsi in modo quasi
morboso a questa casetta, che ci aveva procurato tanti grattacapi, ma dove ora, dopo
dieci anni da quel lontano 24 Settembre 1964, tutto correva liscio come l’olio. Non
c’interessava nulla se non poteva mostrare pavimenti in “ marmo speciale” che
costavano un “occhio della testa”, o se non era arredata con mobili di lusso. Quello che
contava era l’armonia che esisteva in seno alla famigliola. Armonia arricchita da
qualche bel vaso di geranio ubicato nel terrazzino o sul davanzale delle finestre.
1 Sol noi che vi abitiamo possiam dire,
l’armonia che sprigionan queste mura;
chi al di fuori sta non può capire,
che a nulla vale la loro positura.
3 Cosa importa di ciò che i passanti,
assai curiosi possono pensare.
A noi salute e pace son bastanti,
per ben vivere e meglio riposare.
2 Questa casetta è sol “seminterrato”
esposto con tre stanze a mezzogiorno,
( per il mercato molto deprezzato)
con di fronte un orto, un noce, un orno.
4 Non vale nulla su… in alto dimorare,
per essere felici ed esultanti;
l’ubicazione non tutto può donare,
meglio la pace ed arredi “scricchiolanti”
Già, adesso nella nostra casetta, povera come arredi, ma ricchissima di armonia,
vivevamo tempi belli e felici. Anche Roberto che nel frattempo si era diplomato, ora
era in cerca di lavoro. Non posso non ricordare quei mesi, immediatamente successivi
agli esami di stato, che trascorse a Prato per lavorare insieme a suo zio Irio. Battere il
mazzuolo dal mattino alla sera a far le tracce nei muri per posarvi le forassiti, non era
casa leggera per un ragazzo non abituato. Eppure costui si adattò anche a fare quel
“mestiere”. Lavorare per guadagnare qualcosa era la sua aspirazione. Devo aggiungere
che per acquistare la prima auto non ebbe bisogno del nostro aiuto.
145
Dopo ciò lavorò con la ditta Fabbri Impianti Elettrici di Siena, ma per la scarsa
esperienza vi rimase soltanto pochi mesi. Fece anche diverse stagioni alla fabbrica di
panforti Parenti sita presso “Le Fornacelle”. Ma io comperavo ogni mese la Gazzetta
Ufficiale per scoprire eventuali concorsi nelle F . S . Se devo essere sincero ambivo
poter vedere mio figlio impiegato in un lavoro più sicuro. Ma l’anno 1975 non portava
nella mia famiglia solo armonia e conseguentemente un po’ di benessere. I primi affanni
per la mia salute erano in agguato. Quando non sentendomi troppo bene feci per la
prima volta degli accertamenti, mi furono riscontrate : Iperglicemia (125) e Acidi Urici
(7,3). Dovevo curarmi ed il medico mi prescrisse una dieta abbastanza ristretta per un
lavoratore (1500 KL). Doveva essere prevalentemente vegetariana, povera quindi di
grassi, ma anche di zuccheri, onde migliorare questi eccessi metabolici. Peggio furono i
primi tempi, poiché dovevo alzarmi dal tavolino con lo stomaco(abituato come era) che
ancora reclamava del cibo. Ovviamente tutti i mesi dovevo fare le analisi del sangue per
verificare l’andamento di tali anormalità nel mio metabolismo.
1 Dalle analisi della prima volta,
alcuni valori vedemmo fuori via;
che per farli ritornare in sintonia,
occorreva seria cura a ciò rivolta.
3 Ma per queste anomalie c’è la cura,
quindi non hai nulla da temere;
attenzione nel mangiare dovrai avere,
abbondante dovrà esser la verdura.
2 Il medico mi disse:- Aldo…ascolta,
hai fuori norma un po’ la “glicemia”
ed oltre sette appar “l’uricemia;
prudenza quindi occorre e pure molta.
4 Con la glicemia un po’ fuori misura,
zucchero e dolci lontan dovrai tenere;
se tu ascolterai il mio parere,
scomparirà di tutto ciò ogni bruttura.
Ovviamente con molta fatica ed anche parecchia paura, cercai di adeguarmi a seguire i
consigli del mio medico. Ben sapevo non ascoltandoli cosa sarebbe presto accaduto,
ovvero rischiavo un forte diabete, ed in aggiunta c’era il rischio della gotta.
Ma non bastarono queste batoste poiché già cominciavo a soffrire di artrosi per la cui
presenza mi fu riconosciuta la Malattia Professionale con invalidità del 18% che poteva
permettere assenze giustificate per cura. Mi stavo accorgendo che era finito il tempo in
cui tutto era permesso. Poteva essere negativo per la salute intrattenersi più del
necessario al tavolino, ma anche una “raffreddatura” poteva comprometterla per
un’intera stagione. Adesso mi dovevo cibare con la bilancia alla mano, e nei mesi
invernali aver sempre disponibile la sciarpa, il pastrano o l’impermeabile.
Ed Ivana, con la sua santa pazienza, studiava ogni giorno cosa prepararmi da mangiare,
ossia, qualcosa che non danneggiasse ancor più quel già precario mio stato di salute.
Si doveva attenere a precise regole e non era assolutamente facile. Intanto la pasta ed il
pane non dovevano abbondare ma scarseggiare per tenere sotto controllo la Glicemia.
La carne dovevo mangiarla non più di due volte alla settimana con l’esclusione assoluta
di frattaglie e carni definite “rosse”. Insomma, torno a ripetermi, non si dovevano
superare 1500 calorie. Anche il caffè e gli alcolici erano messi al bando.
Con tale tipo di sostentamento ( specialmente nei primi mesi) le energie non
abbondavano. Ma dovevo perseverare con tale metodo, perché non rispettandolo sarei
precipitato in un baratro. Ero consapevole che l’iperglicemia poteva condurre al diabete
conclamato, e gli acidi urici fuori della norma a quel doloroso tipo di malattia che,
come già accennato, chiamasi “gotta”.
146
Per diverso tempo, ovvero fin quando i valori non apparvero pressoché nella norma,
dovetti recarmi in servizio con la “sportina” contenente il mangiare preparatomi da
Ivana, perché i condimenti spesso piccanti delle mense potevano nuocermi. Come non
ricordare la differenza dai bei tempi passati, quando con i colleghi facevamo colazione
o pranzo fuori sede cercando le cose più saporose? Adesso, ad esempio, quando il
mattino giungevamo a Firenze, Grosseto o a Chiusi, mentre costoro facevano la loro
brava colazione a base di “cappuccino” con una e anche due paste farcite alla
marmellata o alla crema, io ero costretto a sorseggiare un bicchiere di latte caldo senza
zucchero e al massimo con una fetta biscottata integrale (peso 10 grammi) Avrei potuto
sostituire il caffè con l’orzo ma preferivo il latte solamente.
Malgrado tali limitazioni, alle quali poi dovetti abituarmi, svolgevo il mio servizio
regolarmente, e nelle ore libere c’era l’orticello che mi attendeva e che mai avrei potuto
abbandonare. Ma particolare attenzione in quei mesi era diretta all’edicola di Via Q.
Settano dove mi ero abbonato alla Gazzetta Ufficiale.
Finalmente uscì quella in cui si bandivano i concorsi per manovale nelle F. S in più
Compartimenti. Ed allora “mi feci in quattro” per convincere Roberto a parteciparvi.
Contemporaneamente inoltrò la domanda (poiché poteva farlo) per il Compartimento di
Torino e per quello di Bologna. Un mese più tardi bandirono un concorso per Ausiliario
di Stazione a cui partecipò per il compartimento di Firenze.
Ricordo che eravamo verso gli ultimi giorni del 1975 quando inoltrò tali domande,
mentre io ancora mi dibattevo tra l’iper glicemia e l’uricemia. Comunque tutto lasciava
intravedere un netto miglioramento per l’uricemia e situazione stazionaria per la
glicemia che riuscivo a tenere a valori accettabili con una compressa al giorno di un
certo medicamento chiamato Rastinon. Per essere sincero con quella compressa avevo
incominciato ad aumentare un tantino la porzione del pane e quella della pasta.
Insomma adesso con una certa attenzione nella scelta avevo ripreso a frequentare le
mense. Potevo consumare i pasti, anche se leggeri insieme ai colleghi.
Intanto dopo alcuni mesi Roberto fu convocato per gli esami dei vari concorsi, e nel
Settembre del 1976 sapemmo ufficialmente che era risultato vincitore per il concorso di
Torino. Dopo brevissimo tempo fu chiamato all’Ispettorato Sanitario di Firenze per la
visita e per la prova psicotecnica. Dovette affrontare durissime prove ma comunque
superate. Poi l’attesa. Frattanto il mio interessamento era rivolto anche verso altri settori
di lavoro. Avevo domandato al Capo Reparto Movimento se fosse al corrente dei
bisogni di personale nella ditta delle pulizie “Bucalossi”. Io cercavo di sfruttare tutte le
possibilità che mi si presentavano perché potesse assicurarsi un lavoro stabile. Non
potevo fare molto, ma quello che era possibile era mio dovere farlo.
Verso il 25.11.1976, giunse la “raccomandata” che lo convocava presso la stazione di
Luserna S. Giovanni vicino a Torre Pellice per prendere servizio nelle F.S quale
manovale in prova. La data di assunzione risultava essere il 06.12. 1976.
Purtroppo tanto io che Ivana dovemmo assistere ad un brusco cambiamento nei suoi
atteggiamenti. Che differenza da quando tanti anni prima quella anelata lettera era
giunta al sottoscritto ormai trentatreenne, che lo convocava presso l’Ufficio Personale
Compartimentale di Torino per essere assunto quale Conduttore i. p! Era il mese di
Novembre del 1959 ovvero venti anni prima, ma per le mie condizioni famigliari quel
giorno mi parve di aver vinto un terno al lotto.
Ovviamente ora comprendevamo il suo stato d’animo; dover lasciare la famiglia i suoi
amici le sue abitudini per recarsi così lontano non era cosa da non preoccupare.
147
Appena giunta la raccomandata lo convinsi di recarci insieme a visitare quella stazione
pure a me sconosciuta anche se durante il mio “soggiorno” in Valle Susa ebbi occasione
più volte di effettuare viaggi di servizio da quelle parti, ma mai oltre Pinerolo.
Dopo pochi giorni, con le lacrime agli occhi e silenzioso, partì per il Settentrione.
1 Fu per tutti tanto triste quel mattino,
3 Si recava lassù per lavorare,
che accompagnai Roberto alla stazione,
poiché era di un concorso vincitore,
per recarsi lassù nel Settentrione;
e ciò senza dubbi gli faceva onore,
per l’esattezza in provincia di Torino.
potendo il suo futuro disegnare.
2 Certo fu grande il distacco…poverino,
lasciare la sua casa, il suo lettone,
gli amici di questo vasto bel rione,
la sua prima auto Bianchi, il motorino.
4 Io comprendevo quel raro suo parlare,
e la grave malinconia del suo cuore;
e come responsabil genitore,
avrei voluto quello stato almen placare.
Ovviamente vedere la sua tristezza faceva male anche a noi genitori. Veniva in
permesso ogni quindici giorni, e quando ripartiva era come se si recasse alla guerra.
Vederlo in quello stato mi faceva pentire di averlo consigliato, ma tutto ciò che avevo
fatto era stato a fin di bene. A Giugno 1977 giunse la chiamata per il Compartimento di
Bologna e questa volta non fece neppure la visita perché già ferroviere.
Il suo umore cambiò come dalla “oscura notte al pieno giorno” ed anche noi ne fummo
felici. Fu destinato a Bellaria (RA) e mandato in trasferta a Lavezzola, ma dopo un mese
giunse l’assunzione per Ausiliario di Stazione con destinazione La Spezia Migliarina.
Là trascorse il periodo che va dall’Agosto 1977 al Luglio 1982 allorché fu assunto a
Siena quale vincitore del concorso per Conduttore..
Dunque essere a La Spezia, stazione più lontana del Compartimento, gli sembrava
trovarsi a casa in confronto a quando prestava servizio a Luserna. Malgrado il sacrificio
comportato dalle otto ore di manovra ogni turno, era contento. Adesso era tornato il
giovane spensierato che avevo conosciuto prima dell’assunzione in Piemonte. Ogni tre
giorni poteva goderne uno di libertà, cosa non possibile prima di allora. In quegli anni
partecipò a diversi concorsi tra i quali quello per Conduttore a Trieste e a Firenze.
Devo aggiungere che, risultando vincitore in ambedue i Compartimenti, con il rifiuto di
Trieste gli fu possibile ritornare nella nostra amata Siena.
Io frattanto, pure avvicinandomi al pensionamento per raggiunti limiti di età, svolgevo
regolarmente il mio servizio, ma frequenti mesti sintomi facevano capolino ad
insidiarmi. Cominciavo ad accusare strane sensazioni all’atto della minzione, che non
era più spontanea come doveva essere.
Il mio medico Dott. Picchi mi consigliò una visita dallo specialista “urologo” da cui
risultai affetto da “ipertrofia prostatica”. Affezione ovviamente benigna, ma le cure si
dimostrarono molto presto solo palliativi. Provavo noiose sofferenze anche durante
l’orario di servizio tant’è che nel percorso tra una stazione e l’altra non riuscivo quasi
mai a soddisfare quel fisiologico bisogno di urinare. Tergiversai ancora sperando in
cure nuove che potessero evitarmi l’intervento chirurgico, ma poi dovetti decidermi.
Su tale argomento sarò più descrittivo quando arriveremo al Maggio del 1983, mese in
cui fui operato dal Prof. Acconcia, allora luminare in tali interventi.
Ma non può passare inosservata alla mia memoria la fredda sera del 13. 12.1980,
quando dovevo scortare il treno merci delle 18,20 per Empoli.
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Accadde, dunque, la fredda sera del 13 Dicembre 1980, mentre procedevo alla spunta
del materiale in composizione al treno merci in partenza alle 18,20 per Empoli. Nel
mettere nella posizione prescritta una maniglia del peso d’inversione di un carro, questa
scattò bruscamente colpendomi la mano destra e causandomi un fortissimo dolore. Per
poco non caddi per terra. Il collega che era presente mi accompagnò all’Ufficio
Dirigenti, e dopo poco fui trasportato al Pronto Soccorso dell’ospedale “Santa Maria
della Scala” dall’amico Mucciarelli.
Là fecero tutto ciò che potevano, infatti applicarono della pomata, mi fasciarono
strettamente, mi fecero una iniezione per placare il dolore, quindi mi dimisero in attesa
di vedere l’esito di tale medicamento.
Quando durante la nottata terminò l’effetto dell’iniezione antidolorifica, la mano tornò a
dolere aspramente, specialmente in corrispondenza del dito pollice che non riuscivo ad
articolare. Il giorno successivo poco soddisfatto ed anche piuttosto impressionato
dall’immobilità completa del dito, decisi di consultare uno specialista ortopedico a
pagamento. Costui mi ricoverò d’urgenza nel Reparto “Ortopedia” delle “Scotte” per
sospetto sfilacciamento del nervo flessore del pollice in questione. Gli accertamenti
furono molto solleciti e attenti, così dopo due giorni fui sottoposto ad intervento
chirurgico. Dire che nella prima mezz’ora di intervento soffrii le pene dell’Inferno, e dir
poco, ma tutto a causa del tipo di anestesia praticatami e non sufficiente. A quel
punto, resisi conto delle mie sofferenze mi fecero una endovenosa e mi addormentai.
Per ritrovare la parte del nervo flessore sana e non sfilacciata, dovettero intervenire fino
al polso, da dove applicarono un tubicino di silicone che doveva fungere da guaina di
scorrimento per il nuovo nervo.
Non posso dimenticare le prime due notti, allorché mi fecero tenere il braccio alzato per
cercar di placare il dolore, che malgrado le iniezioni continuava a “martellare”. Per
ragioni che ovviamente io non posso conoscere, quell’intervento fu soltanto in
preparazione di un secondo al quale potevano procedere dopo due o tre mesi.
Infatti, trascorsa una settimana di degenza, fui dimesso con già in possesso
dell’impegnativa per il successivo ricovero stabilito per la metà di Marzo. Non credo sia
necessario ricercare le “Cartelle Cliniche” per esaminare tutti i particolari della seconda
operazione effettuata come la prima dal Dott. Lacovara. Dirò soltanto che praticarono il
trapianto di una piccola parte di nervo prelevato dalla gamba destra, e dopo averlo
inserito nella nuova guaina, lo fissarono con appositi chiodi al polso ed alla prima
falange del pollice. Ora, però, doveva attecchire.
Naturalmente ingessarono il dito per un mese, dopo di che iniziai la riabilitazione che fu
assai lunga, ma che purtroppo non portò alla completa mobilità. Eppure m’ero messo
con tanto impegno anche a fare esercizi adeguati appositamente suggeriti.
Non dico nulla di falso se affermo che per circa sei mesi non fui capace neppure ad
alzare una tazzina di caffè. Ho citato questo particolare perché più volte al bar di
stazione con gli amici, non pensando a tale mia inabilità, avevo involontariamente
rovesciato la tazzina sul bancone, dovendomi poi scusare con il barista.
E’ immaginabile il mio disagio quando in presenza della gente mi accadeva ciò.
Ero costretto ad usare il più possibile le altre dita, perché con quello martoriato e con
l’indice non c’era assolutamente da fare forze. Quando mi chiamavano alle visite di
controllo, i medici cercavano di farmi chiudere a cerchio quei due diti ma senza
riuscirvi, e non ci sono più riuscito.
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Dovetti esercitarmi a lungo per poter usare la penna senza tenerla con quelle due dita,
eppure pian piano ci riuscii. Nello svolgere le mie giornaliere mansioni, non era
possibile trascorrere un’ora senza scrivere. Era stato, quindi, gioco forza impegnarmi a
fondo per potervi in qualche modo riuscire.
Come prima accennato la mia assenza dal lavoro si prolungò fino al mese di Giugno,
quando mi rimisero in servizio con esiti di invalidità dell’11 %, vale a dire che mi
riconobbero una piccola rendita. Però tutti gli anni mi sottoponevano a visita per
verificare se sussistevano ancora giustificati motivi per mantenerla.
Devo dire, e lo affermo perché posso affermarlo, che nessuna moneta sarebbe bastata a
ripagare le sofferenze subite quella fredda sera di Dicembre 1980, e poco dopo durante i
due interventi e nei giorni che seguirono.
In certi momenti soltanto la presenza al capezzale dei miei cari mi dava la forza di
sopportazione.
1 Mi lamentavo dal fortissimo dolore,
3 Oh qual sofferenza dovetti sopportare,
provocato da quel brusco strappamento;
per il nullo effetto dell’anestesia,
le pomate non portavan linimento,
ero sveglio, e sveglia pur la mente mia,
altro occorreva per il mio nervo flessore.
sentivo tutto intorno vacillare.
2 Devo ricoverarti - disse quel dottore,
4 Ma al capezzale mai volle mancare
che visita mi fece a pagamento;
ad incoraggiarmi per la sorte ria,
qui… immediato occorre l’intervento,
una signora,… “l’amata donna mia.”
per bloccare il disastrato tuo “flessore”.
Tanto soffrir faceva allontanare.
Mi stavo riprendendo, seppure lentamente, dai grossi guai provocatimi dall’incidente,
quando una notte, mi destai in preda a forti sofferenze, avevo copiosa sudorazione e
non normale battito del mio cuore. Ogni tre o quattro ne mancava qualcuno.
Ero assalito da indescrivibile paura, quindi quasi deciso di chiamare il medico di
guardia. Però non accusavo nessun dolore e perciò riuscii a resistere fino al mattino.
Appena si fece giorno chiamai il mio medico che arrivò immediatamente. Mi fece
l’EGC e mi rassicurò che si trattava solamente di extra sistole sporadiche. Comunque
era un piccolo campanello di allarme da non sottovalutare. Rimasi a riposo per qualche
giorno, poi ripresi il mio servizio regolarmente. Anzi ad essere sincero chiesi se era
possibile poter godere per qualche tempo di un turno di lavoro ridotto, ma mi fu
rifiutato dalla Commissione Interna. Dovetti curarmi per diversi mesi pur rimanendo al
mio posto di lavoro. Ma contemporaneamente si facevano sempre più frequenti e mal
sopportabili i disturbi causati dall’ipertrofia prostatica. Non bastavano i guai causati
dall’incidente che mi avevano costretto a disertare l’orticello e tante altre mie passioni.
Mi controllava e curava l’urologo Dott: Ginanneschi, ma anche costui mi diceva che
potevo cadere in un “blocco urinario” e dover, di conseguenza, intervenire d’urgenza,
con tutti i rischi che comportano tali interventi.
Sapevo, purtroppo, che tornare in sala operatoria era cosa molto triste, ma quando
andare avanti rimane tanto difficile e rischioso, una decisione va presa. Occorre
coraggio, ma se con un intervento si può tornare alla normalità bisogna tentare prima
che sia troppo tardi. Prima che le cose divengano alquanto complicate.
150
Avrei dovuto mettermi in lista ed attendere molti mesi oppure rivolgermi, ovviamente a
pagamento, al “luminare” in tal campo, ed allora la cosa sarebbe stata sbrigativa.
Uno dei primi mattini di Maggio mi recai all’ospedale per parlare con il Prof.
Acconcia, il quale mi fissò un appuntamento nel suo ambulatorio di Vico Alto, per lo
stesso pomeriggio, ed il 10. 5. 83 mi ricoverai. Il dì successivo 11. 5. effettuò
personalmente l’intervento, poi non lo rividi per una settimana. Lo sostituiva il Dott.
Manganelli. Ma quante cose tristi mi dovevano accadere in seguito all’intervento!
Intanto a causa di un mancato lavaggio, (dovevano essere eseguiti giorno e notte, e la
notte non mi venne fatto) buscai una forte infezione alla vescica, che mi procurò febbri
fino ed oltre 39,5. Vedevo i degenti operati dopo di me gironzolare per la sala ed io così
febbricitante dovevo starmene a letto con la paura di non farcela.
La “capo sala” mi diceva:- Perché non ti alzi? Codeste sono febbri d’infezione che
non costringono a restare coricati. Ma a me chi me le dava le forze per gironzolare.
Non avevo energia neppure per recarmi all’unico gabinetto che serviva una trentina di
degenti. Finalmente quando dagli esami riuscirono a scoprire la causa dell’infezione
mi somministrarono gli antibiotici mirati e la febbre scomparve. Mentre di norma
dimettevano dopo complessivi 13 giorni di degenza, io grazie all’operato, non certo da
omaggiare, di chi quella notte mancò di farmi il lavaggio, dovetti rimanere in ospedale
per ben 19 giorni.
Però, dato che c’era stata una infezione, anche a casa dovetti seguitare con gli
antibiotici per ancora una lunga settimana. Non fu certamente un intervento da poco
poiché dal 10 di Maggio, per recuperare in pieno le mie forze, dovetti rimanere assente
dal servizio fino al 13 di Agosto. Se avessi immaginato cosa ci doveva accadere durante
quel mesto turno di servizio, sarei rimasto altri 60 giorni a casa. Ciò che avvenne, e
che lasciò il personale del treno ed i viaggiatori esterrefatti, lo racconterò un po’ più
avanti. Dunque avevo sopportato lo strappo del nervo flessore del pollice destro, le
paure provocate dalle aritmie con extra sistole, l’operazione alla prostata, ed ora ero
felice anche perché Roberto era tornato tra noi, e lavorava con me al D.P.V. di Siena
con la qualifica di conduttore. Grazie a ciò non aveva mancato di dare un aiuto alla mia
cara Ivana durante la degenza per quest’ultima “batosta”.
1 Ero stanco di tal mesta situazione
3
ed allora con tutto il mio coraggio,
eravam col sole tiepido di Maggio,
presi per l’intervento netta decisione.
2 Ma presto si manifestò un’infezione,
4
perché una notte non fecero il “lavaggio”,
e fu verso di me tremendo oltraggio.
Ma chi mancò non subì la punizione.
C’era la cara mia donna al capezzale,
mentr’io colà languivo dal dolore;
ma l’infermiere assente per più ore,
provocò l’aggravarsi del mio male.
Ecco cosa succede in ospedale,
quando non si lavora con il cuore,
e nulla importa di chi vive nel terrore,
ove il “menefreghismo” appar totale.
Di quei lunghi e tristi giorni di degenza nella sala Novaro del vecchio ospedale,
merita di essere citato un particolare. La domenica successiva all’intervento, venne a
farmi visita Roberto e mi mostrò la targa conquistata nella sua prima corsa podistica
dalle parti di Tegoia. Quel giorno stavo male e non ebbi la forza di congratularmi.
Forse nel momento sarà rimasto dispiaciuto ma avrà poi compreso il mio stato d’animo.
151
In seguito, quando mi fui rimesso dalla non piacevole batosta, e le condizioni di salute
me lo consentirono lo seguii in tutte le manifestazioni di corsa podistica a cui partecipò
escluse le maratone di Roma ,di Firenze e di Parma.
Ma non posso non ritornare con il pensiero a quel triste giorno del 13 Agosto 1983,
quando, cioè, ripresi il mio servizio dopo la convalescenza per l’intervento alla prostata.
Quel viaggio, come già accennato in precedenza, mi procurò momenti di indicibile
terrore. Ero partito da Siena con il treno AT 815 per Grosseto, e fu tutto regolare fin
quando giunti in prossimità del segnale di protezione (disposto a via libera) di
quest’ultima stazione, una ragazza sbucò da un casottino sito lungo il binario, e si
lanciò tra le rotaie. Il macchinista, (Giovanni Anselmi) vedendola sbucare a pochissimi
metri di distanza azionò il freno, (la rapida) ma non gli fu possibile evitare
l’investimento. L’urto, quindi, fu violento e impressionante( non auguro a nessuno udire
ciò che si sente tra le ruote che stanno per bloccarsi) l’esito si può ben immaginare. Il
binario per alcune diecine di metri era disseminato dai resti della poveretta. Tutti,
personale di scorta , macchinisti e viaggiatori ne rimanemmo scioccati. Si vede che non
doveva bastare quello occorsomi qualche anno prima poco dopo partiti da Certaldo e
diretti a Siena, quando fu investito ed ucciso un uomo che aveva tentato di attraversare
il binario ad un PL regolarmente chiuso. Anche in questo caso il macchinista Fralassi se
lo trovò a poche diecine di metri e a nulla valse la “rapida frenata”.
Sono casi che mettono a dura prova la resistenza del personale che vi si trova coinvolto,
sia dal lato umano perché uno sa di avere seppure senza colpa alcuna ucciso, ma anche
perché non sembrano finir più gli interrogatori. Comunque, sia il personale di macchina
che quello di scorta in ambedue casi rimase (come era ovvio che fosse) estraneo da ogni
responsabilità. Finalmente dopo tutti questi tristi avvenimenti e questi acciacchi, tutto
sembrava correre liscio. Roberto, se libero dal servizio partecipava alle gare, ed io se
ugualmente libero lo seguivo ovunque, entusiasta dei suoi piazzamenti.
Ivana, con infinito amore ed altrettanta pazienza, si dedicava alla cucina dopo le due
ore di lavoro che sgobbava in casa Fossi di via C. Cittadini. Ciò per pagarsi i contributi
volontari che le avrebbero più tardi consentito di percepire una piccola pensione.
In quella casa si trovava bene perché tutti i componenti la famiglia avevano nei suoi
confronti il massimo rispetto, cosa mancata dove aveva precedentemente lavorato.
Nel pomeriggio non poteva fare a meno di seguirmi nei lavori all’orticello. Non le
sembrava faticoso, anzi lo considerava un utile svago.
Intanto si avvicinava il giorno del mio pensionamento, che avrei potuto ritardare di
diversi anni per raggiungere i massimi di servizio. Ma tale prospettiva a me non
interessava. Con la salute sarebbe stata sufficiente qualsiasi somma, ma con la sfortuna
e con il male a nulla sarebbe valsa la pensione un po’ più alta. Questo era il mio modo
di vedere, in virtù del quale al compimento del 58° anno di età, ovvero il 5 Ottobre
1984, con il treno in arrivo da Buonconvento alle ore 19,30 misi fine al servizio di
Capotreno delle F. S, qualifica che avevo sognato fin da bambino.
Mi piace ricordare che quel pomeriggio durante la sosta in stazione di Buonconvento,
invitai per festeggiare il mio ultimo viaggio il personale di macchina, quello di stazione
ed il collega del personale viaggiante. Cosa semplicissima, offrii loro un caffè ed una
pasta come per fare una piccola merenda. In arrivo a Siena il D.M di servizio per
altoparlante fece gli auguri di felice pensione al C.T Leonini che lasciava il servizio per
raggiunti limiti di età
152
Ma la cosa più bella e, ovviamente, più commovente, fu la torta preparata da Ivana, e gli
auguri che mi fecero i miei famigliari. Era Ottobre, e da quel giorno, senza
rimpiangere nulla, ero libero dal servizio, dagli incroci, dalle precedenze nonché dalle
rimostranze dei viaggiatori in caso di ritardo. Quest’ultime, anche se non avevamo
alcuna responsabilità, erano sempre rivolte al personale del treno.
Ora, dunque potevo, salute permettendo, dare pieno sfogo alle mie passioni, quali
l’orticello e la ricerca dei funghi. Infatti quando il tempo, alla giusta stagione, non era
minaccioso, tutti i giorni erano buoni per partire in direzione dei boschi con Ghino o
con il Bozzi. Più tardi il compagno fisso di tali imprese divenne l’amico ed ex collega di
lavoro Dantino Bianciardi. Indimenticabile fu la ricerca che facemmo con mio nipote
Guido Pierini nei boschi di Gerfalco. In due potemmo riempire il bagagliaio della sua
auto e calcolammo di averci depositato 50 Kg di magnifici esemplari di porcini.
Ma fu fruttuosa anche quella che facemmo con Dantino nei boschi del Bugatto, ovvero
non lontano da quel podere denominato “I Sassi”. In tale fortunata occasione ci
imbattemmo in due fungaie dove raccogliemmo 39 e 37 porcini, bastanti per riempire i
recipienti che avevamo a disposizione.
Mentre io mi godevo in questa maniera la mia pensione, Roberto, ormai fidanzato con
Maura, cominciava ad interessarsi per l’acquisto di un appartamentino, per crearsi
giustamente una sua famigliola. Infatti fallita la contrattazione di un quartiere presso
Uopini, lo acquistò a S. Andrea, ed io quasi ogni giorno mi recavo in quel luogo per
seguire da vicino i vari lavori. Cercavo di rendermi utile poiché lui, era impegnato con il
suo servizio. Una mattina che vi andai per accertarmi della messa in opera dei serbatoi
per l’acqua nel locale “autoclave”, nell’alzare il coperchio di uno di questi feci un
brusco movimento, e subii un danno alla colonna vertebrale. Immediatamente accusai
un doloretto che poi durante la giornata si fece così intenso da rendermi impossibile
abbassarmi e di muovermi secondo i bisogni.
Oltre alla schiena il dolore si irradiava anche alla natica sinistra ed alla gamba fino al
tallone. Il dì successivo mi recai in auto da certo “Dandella”, esperto in tal campo, il
quale accertò immediatamente che si trattava di sciatica.
Mi sottoposi per lungo tempo alle dolorose manipolazioni di Marinella che, a dire il
vero, pian piano mi producevano un po’ di sollievo. Devo aggiungere, però, che tra
massaggi, manipolazioni ed altre cure, dal Febbraio 1992 mi sentii nella normalità solo
nell’Agosto successivo., ma credevo proprio di non venirne fuori.
Prima di procedere oltre negli anni dovrei tornare un attimo indietro nel tempo ovvero al
Dicembre del 1990, quando forti dolori mi colpirono la parte sinistra del basso addome,
con molta difficoltà nelle defecazioni.
Poi una notte vidi del sangue nelle feci ed ebbi tanta paura. Mi venivano in mente alcuni
episodi simili accaduti a persone di mia conoscenza che poi si erano risolti nel peggiore
dei modi. Il mio medico mi prescrisse immediatamente una “colonscopia” da eseguire
nel più breve tempo possibile. Infatti verso il 20 Dicembre mi recai all’ambulatorio del
Dott. Frosini per sottopormi a tale esame. L’intestino era ancora talmente infiammato
che non gli permise di ultimarla. Però mi fece piangere dal dolore e dai modi con cui si
rivolgeva a me. Ma io che colpa avevo se ero in tali condizioni?
Mi prescrisse di ritornarvi dopo un mese con la speranza che l’infiammazione si fosse
almeno un po’ attenuata. Quando vi ritornai gli fu facile constatare che si trattava di
varie formazioni di diverticolosi al sigma, che necessitavano di adeguate cure.
153
Proprio così, mi dovevo curare con certa attenzione e ingerire giornalmente molte fibre.
Insomma, incominciava per me a profilarsi un modo di vivere assai diverso da quello
goduto fino a quel giorno, seppure già vincolato a qualche privazione. Pian piano
rispettando a modo le cure prescrittemi i dolori si placarono ma rimanevano in agguato
le possibili e più pericolose recidive. Ciò, ovviamente, se non mi fossi comportato
come consigliato dai medici.
A dire il vero da quel momento cercai di stare molto attento ai pasti e alle bevande,
poichè la sofferenza e la paura erano state tali da farmi pensare a cose assai difficili da
curare. E con quello stato d’animo mi sentivo davvero una persona diversa e suscettibile
di malinconia e di giornate molto nere. Cosa potevo fare? Ivana mi incoraggiava
dicendo:- Ma perché ti vuoi fasciare così la testa? Con un tantino di attenzione tutto si
rimedia. Ma io come già detto temevo le recidive.
1 Oh quanta e quale fu la mia paura.
3 Pensai di aver preso mesta via,
Era la metà di Dicembre ben rammento,
ed il medico mi mise al corrente
che dal dolore all’addome e dal tormento,
che bisognava agire prontamente,
vedevo in me una grossa fregatura.
perciò mi prescrisse la “colonscopia.
2 Diverse ne subii tra le quattro mura,
e si fecero più gravi nel momento
di una defecazione. E fu sgomento,
con le feci sanguinanti e senza cura.
4
Fu arduo prepararmi e, tuttavia,
pur giunsi a quel momento finalmente;
ma mi fu detto molto aspramente,
che non poteva proseguir... mi mandò via.
Chi ti ha inviato da me, mi disse, in simili condizioni a fare un esame così invasivo?
Non posso proseguire con l’intestino così infiammato e disturbato. Non posso rischiare
di crearti ancora altro male. Devi ritornare tra un mese quando, lo voglio sperare, sarai
un po’ migliorato. Trascorso detto periodo di tempo, pien di paura, ripetei l’esame.
Provai meno dolore, ma mi fu immediatamente diagnosticata una diverticolosi del
sigma e delle emorroidi. Insomma non risultò cosa tanto grave e preoccupante, ma mi
dovevo curare ed evitare che i diverticoli si infiammassero di nuovo.
Ma ritornando all’anno 1992, il 16 di Agosto Roberto e Maura celebrarono il loro
matrimonio nella stupenda chiesa di Ville di Corsano con ricco pranzo al ristorante di
Pulcianese poco distante da detto luogo. La nota dolorosa di quel giorno, fu la forzata
assenza di Amerigo e di mia cognata Ilva. Le condizioni di salute di mio suocero non
gli permettevano di affrontare il viaggio, e solo non poteva rimanere. Per questo motivo
la sua assenza e quella della figlia. Da parte di Maura, invece, era presente anche il suo
nonno che abitava a “Le Capanne” nel comune di Manciano.
Ovviamente fu un po’ dura vedere quel posto vuoto a tavola, ma di fronte alla loro
felicità andava bene così. Ma poi, anche noi avevamo fatto tale passo tanti anni
indietro. Anche io avevo lasciato mio padre per andare lontano in cerca di una vita
migliore, quindi motivo di più per pensare che era una normale conseguenza della vita.
In fin dei conti ci separava una distanza di soli dieci chilometri, e noi genitori,
malgrado i vari acciacchi ci sentivamo ancora giovani, magari con meno energie di un
tempo. Quindi nessun problema sussisteva.
Sapevamo che Roberto ogni giorno nel recarsi in servizio o nel farne ritorno sarebbe
passato a farci una visitina.
154
Intanto, come ho più volte detto, l’orto costituiva una delle mie grandi passioni e vi
trascorrevo intere giornate. Attendevo, però, con ansia che alla giusta stagione piovesse
garbatamente e sufficientemente per donarci un Autunno proficuo nella bramata ricerca
dei funghi. Dopo la scomparsa del carissimo amico Dantino, presi a far coppia fissa con
l’altro amico, quanto me appassionato al bosco, Ademo Benedetti.
Bastava ci vedessimo anche da lontano, per avvicinarci ed intraprendere lunghe
chiacchierate con argomento…il “Bugatto, Celsa, Abbadia a Ombrone, Tegoia, luoghi
da noi preferiti per la ricerca. E con Ademo, come eravamo soliti fare con Dantino,
partivamo al mattino di buon ora e non tornavamo fin quando non era ormai tramontato
il sole. Qualche volta avevamo fatto stare in ansia le persone che ci attendevano a casa.
Quando eravamo nel bosco e vedevamo qualche porcino o qualche cucco, non
pensavamo più che stava per giungere l’ora tarda.
Ma data la mia foga nel raccontare le belle vicende trascorse tra la flora con questi due
amici, e qualche volta anche con Ivana quanto me appassionata, mi sono sfuggiti gli
acciacchi ed i fastidi ( oltre alla prostata di cui ho già raccontato) che purtroppo da un
po’ di anni mi recavano disturbo.
Anche prima che mi decidessi di intervenire sulla prostata mi ara apparsa un ernia
all’inguine sinistro che tendeva ad aumentare di volume costantemente, tanto che nel
1990 dati i continui fastidi, mi decisi di farmi operare presso la clinica del Prof. Carli al
5° piano primo lotto dell’Ospedale S. Maria alle Scotte di Siena.
Tutto sembrava andar bene, ma l’anno successivo dovetti sottopormi ad intervento di
ernia all’inguine destro. Mi ricoverai ugualmente nello stesso reparto, superai con
facilità quei cinque giorni di degenza, ma dopo diversi interventi i miei tessuti non
ressero a lungo. Eravamo al punto di partenza.
Insomma, dopo pochi mesi, ricomparve l’ernia da ambo le parti, e maggiormente
fastidiosa all’inguine sinistro. Indossavo pesanti mutandine elastiche, ma non erano
sufficienti a contenerla. Mi era successo molte volte di dovermi sdraiare sul letto per
cercar di farla rientrare. Mi era accaduto pure di dovermi sdraiare dentro al capanno che
avevo costruito all’orticello per veder di placare il dolore che accusavo quando
disavvedutamente facevo qualche piccolo sforzo. Come se non bastasse anche la
prostata operata nel 1983 da un “luminare” aveva nuovamente preso a crearmi dei
problemi. Così nel 1994 fui costretto a ricoverarmi in “urologia” dove fui operato
nuovamente e contemporaneamente alla prostata e per la terza volta all’ernia
dell’inguine sinistro dal Dott. Manganelli..
Meno male che per la prostata fu possibile la via endoscopica, quindi non ebbi
problemi di infezione.. Ma prima di uscire dall’ospedale mi accorsi che qualcosa non
andava come doveva. Sentivo delle anormalità all’inguine operato. Non sapevo
rendermi conto di cosa si trattasse, comunque accusavo un fastidio, per cui avevo
cattivi presentimenti..
Purtroppo non mi sbagliavo, dopo alcuni mesi riapparve il gonfiore all’inguine stesso.
Come poterono diagnosticare, era una nuova recidiva. Cercai di andare più avanti
possibile, non temevo la sala operatoria, ma le conseguenze per la fragilità dei miei
tessuti tanto provati.
1 Ma perché dovevan martoriare,
2 Mi dovevo, purtroppo accontentare,
tanti acciacchi questo poverello
non poteva esser sempre tempo bello,
anche mentre si trovava all’orticello
e come dice un certo “ritornello”
intento le sue passioni a coltivare.
il peggio ancor mi doveva frastornare.
155
POI GIUNSERO GLI ANNI TRISTISSIMI
C’è un detto che recita: Quando ti sembra di essere felice trema, perché su di te si sta
scatenando una furiosa tempesta. Malgrado gli acciacchi causatimi dal diabete che mi
costringeva ad ingerire ogni giorno che Dio mette in terra una compressa di Rastinon,
malgrado dovessi fare attenzione ai cibi piccanti per non irritare i diverticoli, eravamo
tranquilli. Anche la salute dei ragazzi, (Roberto e Maura) con gli alti e bassi di Maura
per le sue sofferenze, insomma, non andava male. Eravamo lieti anche perché lei, dopo
anni di supplenze finalmente, era riuscita ad ottenere un posto di ruolo come “maestra di
asilo” a Chiusi. Non era vicino ma per il momento era contenta così perché, intanto, si
era assicurata un posto di ruolo.
Ma qualcosa da un po’ di tempo, all’insaputa di noi genitori per non farci soffrire, stava
insidiando la salute di Roberto. Lo sapemmo più tardi, assai più tardi. Ogni tanto il suo
intestino faceva dei capricci, ovvero soffriva di diarrea . Si rivolgeva al Dott. Picchi e
costui dopo averlo visitato prescrivendogli delle cure gli diceva:- Sono i classici
disturbi di tutti coloro che mangiano alle mense. Vedrai- proseguiva- fatta questa cura
tutto si normalizzerà. Sai bene- continuava- che nel vostro lavoro di ferrovieri in special
modo del Personale Viaggiante, frequentate quasi ogni giorno dette mense.
Per oltre due anni portò tali disturbi più o meno consistenti agli intestini. Ma un giorno
si accorse di avere del sangue delle feci e privatamente le fece analizzare ed ebbe esito
positivo ovvero “Presenza di sangue.” Era intorno al 15 Settembre del 1995 quando,
passando per casa nostra a farci una visitina e per salutare sua zia Ilva che era nostra
ospite per qualche giorno, ci informò che il Dott. Picchi gli aveva prescritto una
“colonscopia” per i motivi precedentemente citati.
Quando ci comunicò tale notizia, mi si rizzarono i capelli, e con il mio pessimismo
incarnato da sempre, cominciai a vedere tanto buio intorno a noi. Si accentuò ancora di
più quando ci disse che molto spesso gli prendevano anche dei conati alla parte bassa
dell’addome. Comprendo che tanto pessimismo è nocivo alla salute, ma io non riuscivo
ad essere tranquillo, anche se persino nei periodi dei disturbi costui non aveva mai perso
un giorno di lavoro. Doveva fare quell’esame molto invasivo, se ben ricordo il 10 di
Ottobre, quindi ancora molti giorni di sofferenza per tutti noi prima di vederci chiaro.
Quando durante l’attesa della Colonscopia Roberto ci parlava dei frequenti “conati”,
cercavamo di sminuirne il significato, e di incoraggiarlo, ma il nostro cuore, cuore di
genitori, già piangeva silenziosamente
Finalmente giungemmo a quel giorno e dopo la lunga difficile preparazione del
pomeriggio precedente( 4 litri di acqua e purgante da ingerire in quattro ore) il mattino
alle 11 ci presentammo (poiché lo accompagnavo) all’ambulatorio del Dott: Frosini per
effettuare l’esame che secondo il Dott. Picchi l’avrebbe dovuto rassicurare. che
trattavasi solo di una colite, quindi ben curabile. Devo precisare che quel mattino
Maura era già impegnatissima con l’asilo a Chiusi.
Verso le 11,20 entrò nell’ambulatorio ed io rimasi fuori ad aspettare. L’attesa fu
lunghissima, il tempo trascorreva e Roberto non usciva, ciò mi scoraggiava ancora di
più. Dopo circa 45 minuti uscì sconvolto e con la fretta di recarsi a fare l’autorizzazione
per una Biopsia già eseguita durante l’esame. Al ritorno il medico che gli aveva fatto
l’esame ci accompagnò immediatamente dal Prof. Tanzini (già informato
telefonicamente) e quando vide Roberto affermò:- Se vuoi ricoverarti subito, c’è un
letto disponibile, altrimenti torna domattina prima delle ore 8 digiuno.
156
E’ assai facile comprendere lo stato d’animo suo e nostro che già eravamo turbati da
oltre 20 giorni di attesa. In attesa di quell’esame che avrebbe dovuto un tantino
tranquillizzarci. Ovviamente non fu così. Dopo tali esami e certe rivelazioni,
ritornammo a casa entrambi esausti. Io, che dovevo farmi forte e infondergli coraggio e
speranza, non vedevo neanche dove posavo i piedi. Ivana alla notizia riuscì ad essere
più forte di me, ed in qualche modo a rasserenarlo un pochino. Ma ovviamente come
potevamo non essere tremendamente colpiti dalla diagnosi della “colonscopia” che
evidenziava la presenza di un grosso polipo del diametro di 6 cm, e dall’urgenza con
cui avevano ritenuto di ricoverarlo per intervenire?
Ancora non c’erano, e non ci potevano essere, gli esiti della “biopsia” ma tutti i
presupposti erano poco incoraggianti. La notte che precedeva il ricovero la passammo
tutti in bianco. Roberto preoccupatissimo e sconfortato a preparare il necessario per i
giorni mesti che lo attendevano; Maura che poveretta aveva bisogno di riposare era
rimasta allibita dalla notizia, noi genitori sentivamo il sangue raffreddarsi nelle vene.
Il mattino alle 8 eravamo già al 2° piano del 1° lotto, facile comprendere con quale stato
d’animo dopo una notte insonne, ed era solo la prima di una lunga serie.
Appena presentatosi gli fecero il prelievo del sangue e delle urine e gli assegnarono il
letto N° 18. Trovarsi lì in quella cameretta con tre letti insieme ad altri mi parve
attenuarsi un po’ la sua preoccupazione; ma certamente era solo una mia impressione,
nel suo intimo anche lui tremava come noi. Il mattino stesso fu visitato dal Prof .
Tanzini e dalla Dott: Serenella Civitelli, moglie di Andrea Leonini un coetaneo
Ascianese di Roberto nato, tra l’altro, il medesimo giorno.
Fecero amicizia e costei lo seguì durante tutto il percorso, anche perché quel letto era ad
ella assegnato. Frattanto l’esito delle analisi del sangue giunto il mattino successivo
mostravano una certa anemia, ovvero tassi di emoglobina e di ferro piuttosto bassi.
Insomma i dati non erano per nulla confortanti. Passarono alcuni giorni ed il 15 di
Ottobre lo prepararono per l’intervento che doveva avvenire il dì successivo. Poiché
l’intervento medesimo sarebbe avvenuto molto tardi, la dottoressa lo consigliò di andare
al giorno successivo nel quale lo avrebbero operato per primo. Certamente in quel caso
lo aiutò molto e nel frattempo aiutò tutti noi, perché eseguire una operazione del genere
a fine giornata, chissà quali conseguenze avrebbe potuto avere nella nottata. Io intanto
facendomi coraggio cercai e riuscii a parlare con il prof. Tanzini, il quale con brevi
parole fu molto chiaro e non certo confortante. Vedremo al momento dell’intervento- mi
disse, e non aggiunse altro. Il mattino successivo 17 Ottobre 1995 ancor prima delle 8,
mentre mi trovavo nell’atrio con Aldo Coli che, informato del caso, era accorso per
farmi compagnia, passarono con il lettino sul quale era adagiato mio figlio che a soli 40
anni, andava incontro a chissà qual mesta conclusione. Non potei trattenermi e scoppiai
in un rotto di pianto, malgrado Aldo cercasse di farmi coraggio. Quello che un genitore
prova in quegli attimi e vano raccontarlo. Soltanto chi disgraziatamente ha vissuto tali
esperienze può comprendere. Ho quante notti insieme a mia moglie, avevamo già
trascorso seduti nel letto piangenti e disperati nel vedere quell’unico nostro figlio così
tartassato con un difficilissimo intervento da subire e con prospettive per nulla
rassicuranti poiché nessuno si voleva più di tanto esporre, sebbene per la loro esperienza
tutti sapessero ormai la verità.
157
Comunque procediamo gradatamente, altrimenti possono sfuggirmi particolari tanto
importanti quanto mesti di quelle lontane ma sempre purtroppo vicinissime ore.
L’attesa che lo riportassero dalla sala operatoria si prolungò fino oltre alle tredici ed è
immaginabile a chi ha un po’ di cuore come le avessi trascorse. Ogni pochino
telefonavo a Ivana, quella povera madre disperata che attendeva di sapere l’esito
dell’intervento ed io non potevo dirle nulla.
1 Dalla passione scoppiava il mio cuore,
anche quando, dopo insonne nottata,
tra copiose lacrime e forte tremore,
stava iniziando la mesta giornata.
3 Per quel nostro figlio si disperava,
che forse adesso nel buio dormiva;
dormiva nel buio, qualcuno operava,
qualcuno aspettava ma lui non sentiva.
2 17 Ottobre…95… oh quanto dolore,
4 E quando l’attesa si prolungava,
anche per quella donna mia amata,
chi c’era vicino assai ci capiva;
che mi dava coraggio con tanto ardore,
tornar nostro figlio da un po’ si sperava,
e adesso pur lei tremava accasciata.
ma anche una “nova” non negativa.
Tutti attendevamo con ansia da ormai cinque ore, Ivana da casa, Maura che quel giorno
era riuscita a rendersi libera dal suo lavoro, sua madre che pur lei era giunta molto
presto all’ospedale, i suoi zii e cugini di Asciano e di Prato, e l’attesa si prolungava.
Mi si paravano costantemente le immagini di quel volto che non avevo neanche voluto
salutare per non impressionarlo ancora di più. Poi verso l’una e un quarto apparve un
letto sospinto da due infermieri in camice verde. Era Roberto semi addormentato ancora
sotto l’effetto della non certo lieve anestesia.
Mi precipitai immediatamente per cercare di parlare con il Prof. Tanzini o con la Dott.
Civitelli, poiché loro l’avevano operato. La risposta del Prof. Tanzini fu adesso più
lunga e assai chiara. Abbiamo cercato- mi disse- di fare un buon lavoro. Ora bisognerà
vedere se c’è nulla in circolazione nel sangue. Se così fosse si può sperare. Insomma
anche se non pronunciò il nome fece comprendere la natura del male.
Ed in quel momento a me caddero le braccia e mi sentii una nullità. Una nullità perché
non fui capace di chiederle altre notizie né di ringraziarlo per quanto mi aveva detto.
Compresi che talvolta si impreca verso qualcuno per cose da nulla, si portano rancori
verso le persone, poi quando cadono in testa, ovvero siamo colpiti da tali sciagure, ci
rendiamo conto che questa vita è solo una parentesi ed a questa ci attacchiamo con tutte
le forze. Il giorno stesso ebbi modo di parlare con la Dottoressa Civitelli la quale con
molta educazione, e con i suoi modi sempre garbati, confermò che avevano fatto un
buon lavoro e che quindi salvo eventuali metastasi avremmo potuto sperare. E’ facile
comprendere cosa accadde quando fui costretto( e non potevo non farlo) a riferire a
Ivana quanto poco prima dettomi e quindi anche la natura del male.
Ecco! Anche mentre sto scrivendo, mentre sto raccontando ciò che avvenne quel giorno
allorché le rivelai tutto, mi si bagnano gli occhi di lacrime. Non si può prendere tanto
alla leggera una cosa simile. Quello che si prova in certi momenti, anche se poi, con il
tempo, tutto si risolve positivamente, quelle tristi sensazioni sovente si ripresentano
repentine .Anzi, nell’invecchiare producono impressioni ancor più profonde e difficili
da placare.
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Quando lo ebbero riportato in sala, e dopo aver parlato per almeno tre minuti con il Prof
Tanzini, mi diressi con fretta al suo letto, e nel vederlo con dei tubicini al naso ed alla
bocca, e con gli occhi semichiusi, non potei resistere al pianto. So bene che non l’avrei
dovuto fare ma fu più forte di me. Sapendo che lui poteva vedere mi scostai dal letto
per asciugarmi le lacrime, poi fu gioco forza mostrarmi sorridente.
Giunsi alla sera senza poter mangiare nulla, ero solo con un caffè consumato al mattino
in compagnia di Aldo Coli. Verso le cinque di sera arrivò Ivana per rimanergli accanto
fino al mattino. Io tornai a casa mi sdraiai nel divano, ma quel volto cereo di mio figlio
lo avevo sempre dinanzi e mi impediva di prendere sonno.
Ivana gli volle stare appresso per diverse nottate, ma non mancò la presenza notturna di
Fabio, di Loriana e dell’amico di tante corse podistiche Matera, tutte persone cui
dovremmo essere sempre profondamente grati. Intanto erano già trascorsi dei giorni e,
ovviamente, Roberto ignorava la natura del male, quando uno dei due giovani dottori
che ebbero occasione di soffermarsi al suo letto disse sebbene sottovoce: - Questo è il
paziente operato di neoplasia…. Lo trovai che piangeva disperatamente e mi raccontò il
tutto. Rincorsi i due medici e li trattai come si meritavano, dicendo inoltre che non tutti i
degenti sono stupidi, come loro credono, da non capire.
Dovette intervenire la dottoressa Civitelli per cercare di incoraggiarlo e placare il suo
pianto. Con modi persuasivi e spiegandogli tutto del suo stato e delle possibilità di
guarigione riuscì a placarlo. Ora che sapeva, sarebbe stata determinante anche la sua
volontà per riuscire a superare simile non augurabile prova. Ma io ancora non potevo
credere, non riuscivo a capacitarmi, mi sembrava impossibile che un ragazzo di 40 anni,
uno sportivo che fino a poco tempo addietro aveva partecipato anche alle “maratone”
venisse così presto, così, giovane assalito e colpito da sì tremenda tempesta.
Non dovevo crederci, ed anche Roberto non ci doveva credere. Poi, anche coloro che lo
avevano operato l’avevano detto chiaramente che salvo “sorprese” in circolazione si
poteva sperare.
1 No! Distrugger non poteva la procella,
quel robusto quarantenne ferroviere,
cui, tutti, con delicatissime maniere,
di salvezza gli indicavan la fiammella.
3 come mandati dalla Provvidenza
tolsero il giovane da disperazione.
Oh quanto spietato diviene quel ciclone,
che talora investe con falsa parvenza.
2 E la prodigiosa man (non è novella)
4 Oh quanti ringraziamenti e riverenza
di un “luminare” e quella assai leggera,
merita sempre ed in ogni occasione,
di un’altra esperta affabile e sincera,
chi, agendo con arguzia e decisione,
ovvero il Professore e “Serenella,”
ad altri sa lenir la sofferenza.
Intanto trascorrevano i giorni e pian piano cominciò, seppure a fatica, ad alzarsi per e,…
per qualche istante a camminare tra i lettini della cameretta. Mi sovviene quel bravo
infermiere che aveva preso in simpatia Roberto ed un dì a pranzo gli portò una bella
bistecca e gli disse:- Sforzati, Roberto, guarda se riesci a mangiarla tutta; la carne ti fa
bene perché in questo momento hai bisogno di rifare il sangue. Dopo altri giorni gli
fecero le analisi comprensive dei “marhers” ed io guardai i risultati molto attentamente,
ovviamente con la speranza che fossero tutti nella norma. Allora si accese davvero la
flebile fiammella della speranza.
159
Anche se profano in tal campo, dati i miei molteplici acciacchi, alla meglio a leggere le
analisi mi arrangiavo. Insomma riuscivo a capire se esistevano dei valori sballati. Quelle
invece mi dettero buona speranza. Erano i marhers concernenti la malattia che
contavano. Gli altri dati se non fossero stati nella norma col tempo si sarebbero
normalizzati. Dunque Ivana gli volle fare tre o quattro nottate, poi, come specificato in
precedenza, si offrirono le persone già menzionate. Devo solo aggiungere che gli amici
veri si riconoscono nei momenti difficili.
Particolarmente affezionati, ed interessati all’andamento della sua salute, furono i
colleghi di lavoro. Una sera ne contai dieci che erano venuti a fargli visita. Ovviamente
facevano a turno ad entrare nella cameretta per non disturbare troppo anche gli altri
degenti. Sono particolari che non si possono cancellare dalla mente.
Altro particolare di quella triste degenza, e che mi turbò assai, si manifestò una notte, ed
anche allora Roberto stette molto male. Il mattino quando alle sei giunsi nella cameretta,
(avevano da iniziare le pulizie), mio figlio mi informò che nella nottata avevano
chiamato il medico di guardia a causa di continui capogiri e dolore alle orecchie. Poi,
tutto pian piano si placò ed il giorno 29 di Ottobre, ovvero dopo quasi venti giorni di
degenza, con la soddisfazione di tutti, famigliari, parenti ed amici in generale, venne
dimesso, col vincolo di tornare ad una visita “otorino” il giorno 4.11. Sebbene
esistessero ancora molti dubbi cominciavamo davvero a sperare.
Non erano trascorsi quindici giorni, quando mi cercò la dottoressa Civitelli perché
voleva parlarmi. La sera stessa mi recai a trovarla in Ospedale con mia nipote Loriana, e
durante il colloquio ci spiegò che data la particolarità del caso avrebbe avuto piacere,
anche nell’interesse di Roberto, di avere degli indirizzi precisi dall’Istituto Tumori di
Milano. Si sarebbe occupata lei stessa per metterci in contatto con la persona a cui
consegnare i referti necessari per essere esaminati in consulto
Il 14 Dicembre alle ore 5,40, ricordo c’era la neve alta, io e Loriana partimmo da Siena,
ed alle 11 eravamo già a Milano. Ancor prima delle ore 12 avevamo già consegnato
tutto alla dott.ssa Sala e pagati i relativi ticket. Verso le 15 del pomeriggio ripartimmo
per Siena. Durante il lungo viaggio non trovammo neanche un chilometro di terreno
non innevato, ma quella era altra cosa. Col passare delle settimane Roberto poté
riacquistare un po’ di energie ed anche della fiducia. Il dieci di Gennaio 96 il consulto
all’ I T M era stato eseguito e noi eravamo ansiosi e pronti per ritirare gli esiti.
Saremmo ritornati io e Loriana ma lui volle venire personalmente ed era una plausibile
dimostrazione di volontà e di coraggio.
Quando ci consegnarono gli esiti potemmo avere una ulteriore lieve nota di speranza:
non occorreva alcun trattamento di chemioterapia, quindi altra cosa positiva che si
aggiungeva a rasserenare un tantino il nebuloso “clima” dei giorni e dei mesi precedenti.
Ancor più coraggio lo prese e lo prendemmo tutti allorché, dopo tre mesi
dall’intervento, si recò dalla Dott.ssa Civitelli, che lo seguiva attraverso il C.O.R.D, per
eseguire il primo controllo. Coraggio Roberto- gli disse costei- siamo sulla buona via,
bisogna combattere con tutte le nostre forze e non abbattersi nei momenti di crisi che
possono capitare. Vedrai che ce la faremo. Ora cerca di mangiare e di bere per rimetterti
completamente e sarà pure cosa molto utile che tu torni al tuo lavoro ed alle tue
abitudini. Verso la metà del mese di Marzo, quando ormai era vicina la Primavera,
consigliato anche dal medico di famiglia Dott. Picchi, seppure a fatica riprese il suo
servizio sui treni. A dire il vero ( ce lo disse un giorno) il lavoro gli serviva da
incoraggiamento. Durante il servizio non pensava a ciò che lo angustiava.
160
Dunque i tempi trascorrevano veloci, ogni tre mesi Roberto si recava al C.O.R D per il
controllo. Ogni anno si sottoponeva alla TAC con ansia per tutti durante l’attesa dei
risultati. Poi il sollievo allorché vedevamo che gli esiti si sovrapponevano a quelli
dell’anno precedente. Anche se le speranze si facevano maggiori, è facile capire quale
sia stata la sofferenza nelle recenti, lunghissime stagioni.
Vorrei poter dimenticare, ma non posso, (e forse tornerò a ripetermi) le lunghissime
innumerevoli, insonni nottate trascorse con Ivana seduti nel letto a piangere e disperarci
per la sorte del nostro unico figlio. Ivana, che è sempre stata devota come i suoi
genitori, sperava di trovare qualche attimo di consolazione nella preghiera, ma neanche
ciò serviva a rasserenarla per poter conciliare un po’ di sonno, ed era ogni notte così.
Pregando si raccomandava a Dio perché facesse la grazia, poi si rifugiava nel pianto
Ovviamente anche io soffrivo quanto lei, specialmente con il pessimismo innato in me.
Forse era lei a cercare di infondermi coraggio per affrontare un nuovo giorno. Noi –
diceva- non abbiamo mai fatto del male a nessuno e Lui lo sa, quindi dovrebbe pensarci.
Poi con il passare degli anni dall’intervento, quando ormai i controlli vennero da
trimestrali ad annuali la sua bocca tornò a sorridere, ma purtroppo le sofferenze subite
segnano e segneranno sempre, e profondamente, anche il fisico più forte. Le rime che
seguono evidenziano lo strazio del cuore di una madre quando la sorte colpisce così
duramente un figlio.
1 Erano bruni ed eran fluenti
fin sulle spalle i lunghi capelli,
e le sue labbra ognor sorridenti,
l’arricchivan di spunti assai belli.
5 Mi appaion presenti le insonni nottate,
di quella madre per tanto dolore,
e le calde lacrime allora versate,
che non placavan lo strazio del cuore.
2 Volarono i tempi, volaron veloci
6
come nessuno al mondo mai vuole,
di giovinezza calmaron le voci
ma ad allietare rimase la prole.
E c’era un motivo toccante, diretto,
che la faceva sì tanto soffrire,
il suo grande bene giaceva in un letto,
con grave male tendente ad inasprire.
3 Allorchè un sottile strato di brina,
7
mutò colore alle brune sue chiome,
qualcosa accadde e la poverina,
or mestamente scandiva il suo nome.
Una volta provate tal sofferenze,
allor si sente il valor della vita;
è insano proporsi con false parvenze,
questa parentesi è gioia infinita.
4 Del volto suo dolce più nulla restava, 8 Il figlio guarì dopo triste procella,
ma solo segni di immensa tristezza;
e la sua vita è tornata gaudente;
neppur la preghiera la consolava,
il gaio sorriso ogni traccia cancella
ma salda mostrava la sua tenerezza.
e la grigia chioma è di nuovo splendente.
Solamente la grande volontà di riuscire a superare certe difficoltà, apparentemente
insormontabili, possono essere di aiuto alla medicina ed alla chirurgia che hanno fatto
progressi immensi. Sì! Solo con la voglia di vivere e lottando si può vincere, quando
disgraziatamente si precipita in certi “profondi baratri”. Faticosamente ma bisogna
aggrapparsi a qualsiasi appiglio per cercar di risalire l’asperrima erta.
A. Leonini
161
E LA TRAGEDIA CONTINUA…
Eravamo nell’anno 1996 quando, in seguito a dei progetti di costruzione in stato
avanzato, dovetti lasciare l’orticello. Finirono così anche le ore di svago che vi
trascorrevo, a quel tempo con l’amico Serafino ex C. S in pensione come me da
diversi anni. Egli coltivava quasi interamente la parte del mio orto accanto alla strada,
ma con scarso profitto. Era ammirabile per la sua volontà di fare, ma purtroppo non
aveva esperienza, e di ciò non ne aveva colpa. Facevamo lunghe chiacchierate dei
problemi più vari compreso il modo di alimentarci perché ambedue diabetici. Anche
costui aveva avuto seri problemi per cui recentemente era stato operato alla lingua.
Spesso ne parlavamo, però ormai era tranquillo poiché erano trascorsi diversi anni.
Poi, come ho appena detto, l’ordinanza di lasciare libero il terreno non più di proprietà
F .S ma del Comune che intendeva costruirvi o farvi costruire. Ma se ripenso a quei
momenti devo convenire che fu quasi un bene, perché date le circostanze, smisi di
faticare e di fare eccessive sudate nocive al mio stato di artrosi alla colonna vertebrale.
Effettivamente con la sciatalgia che mi aveva fatto tribolare non poco qualche anno
addietro le sfaticate non erano certo l’ideale. Però uno svago dovevo procurarmelo, non
potevo aspettare da un anno all’altro Settembre, con la speranza che nascessero i boleti.
Ed allora vedendo quali capolavori era capace di realizzare mio fratello con il legno,
cercai di emularlo provandomi a costruire sgabelli, piccoli tavolini, ed anche quelli un
tantino più grandi. Per ovviare alle possibili sfaticate acquistai una seghetta elettrica ed
una levigatrice. Per me era importantissimo uno svago, ma altrettanto necessario per la
mia salute era non affaticarmi troppo e non prendere polvere.
Poiché nel 1995, prima che ammalasse Roberto, avevamo acquistato a Vivo d’Orcia dei
mobili di cucina interamente di massello di castagno, ricordandomi del particolare volli
ritornarvi per munirmi di tavole di castagno onde costruire un mobiletto per la TV.
Speravo che, come cliente che aveva dato loro diversi soldini, mi facessero almeno un
po’ di sconto, ma dovetti pentirmi dell’idea perché semmai mi fecero pagare il doppio
del valore. E’ proprio vero, ‘un c’è nulla da fare, quando arriva un merlo bisogna
spennarlo ben bene. Pazienza! Il tavolino come bramavo fare riuscii a costruirlo ed è
sempre lì e fa la sua bella figura.
Piuttosto non nascondo che anche se non mi stancavo come quando avevo da vangare
l’orticello, con l’avanzare degli anni i miei acciacchi si facevano sentire sempre più, e
purtroppo, anche molto spesso. Infatti m’era riapparsa l’ernia inguinale sinistra che mi
recava dei forti impedimenti, e c’erano i diverticoli che mi davano ancor più dolorosi
fastidi. Non sapevo più come alimentarmi per evitare i rischi che comportavano.
Quando mi accorsi che era impossibile vivere in quel modo decisi di operarmi all’ernia,
quindi interpellai l’urologo e vi presi un appuntamento. Visto che le cose stavano
peggiorando vi ritornai per cercare di sollecitare l’intervento, ma il segretario, certo
Senesi, mi disse chiaramente che dovevo pazientare ed attendere, poiché al momento
non avevano posto neppure per gli ammalati di tumore alla prostata.
Io stavo veramente male. Non sapevo dove “battere la testa”. Mi balenò l’idea di
rivolgermi alla Clinica Chirurgica del Prof. Tanzini, dove potei parlare con il Prof.
Salvestrini che comprese i miei problemi. Mi disse che dalla mezzanotte prossima e per
24 ore quel reparto sarebbe stato di Pronto Soccorso, quindi presentandomi d’urgenza
mi avrebbero senza dubbio alcuno ricoverato proprio in detto Reparto di Chirurgia, lo
stesso dove nel 1995 era stato operato Roberto.
162
La notte medesima, ancora in preda ai dolori addominali, mi feci trasportare al Pronto
Soccorso, dove mi visitarono e mi ricoverarono immediatamente. Quei dolori che si
presumeva dipendessero da “ernia strozzata” erano ben altro; dipendevano dai
diverticoli, poiché l’ernia fu rimandata in alveo. Però era talmente grossa che doveva
essere operata e non era possibile con i diverticoli tanto infiammati.
Prima di intervenire per l’ernia dovevano curare l’altra parte ed a tal fine mi tennero
diversi giorni a strettissima dieta priva di frutta e verdura e con la borsa del ghiaccio a
contatto con l’addome.
Mi fecero persino una ecografia addominale e mi
consigliarono anche una colonscopia o altro esame da eseguire a tempo opportuno.
Trascorsi, come già detto, diverse giornate con la borsa del ghiaccio, e finalmente
decisero di intervenire per eliminare l’ernia.
Fui operato dal Dott. Cappelli, ma sotto la super visione del Prof. Tanzini che apparve
in sala operatoria più volte durante l’intervento. Mi fu applicata la “rete” a più strati e
con quel sistema fu risolto il noioso e doloroso problema dell’ernia inguinale sinistra.
Ovviamente dovevo stare molto attento ai diverticoli, e prima di dimettermi anche la
Dott.ssa Civitelli mi consigliò di fare un esame più approfondito, perché la sola
ecografia non era sufficiente a stabilire ciò che era indispensabile fare. Tergiversai
poiché avevo timore che mi accadesse come nel 1990, fin quando nel 1999 decisi di
sottopormi all’esame di “clisma opaco” che evidenziò grossi e vari diverticoli al sigma.
Rammento che mi fecero soffrire per immettermi nell’intestino la materia di contrasto, e
soffrii anche qualche ora più tardi per evacuarla. Comunque non fu evidenziato altro
oltre ai diverticoli già in stato da doverli operare perché ormai troppo pericolosi.
Ma il timore della sala operatoria me lo impediva. Malgrado tutto la mia vita era
caratterizzata anche da periodi più o meno lunghi di benessere, e per tal motivo cercavo
di tirare avanti. E’ pur vero che ogni volta Roberto aveva occasione di incontrare la
Dott.ssa Civitelli per i suoi controlli, costei gli chiedeva mie notizie e se avessi ancora
fatto gli accertamenti al colon onde escludere gravi complicazioni. Ovviamente temeva
la familiarità di ciò che aveva colpito qualche anno addietro mio figlio.
In quegli ultimi anni dal 1995 al 1999, oltre a tante cose negative che avevano messo a
durissima prova la resistenza di tutti noi, c’era stato anche qualche particolare positivo.
Infatti Maura dopo un anno di sofferenze e di fortissimo disagio per recarsi a Chiusi
ogni mattino per il suo servizio alla Scuola Materna, era riuscita a farsi trasferire a
Chiusdino. Ovviamente non era nei pressi di casa, comunque aveva migliorato di molto
e da lì poteva sperare in un ulteriore trasferimento. In quanto a me, dopo fatta
l’ennesima operazione all’ernia del 1997, avevo diradato i miei lavoretti con il legno
fino a cessare completamente. Un po’ perché mi rimaneva di sacrificio, ma anche
perché qualche condomino s’era lamentato del rumore che gli disturbava il riposo
pomeridiano. Ma uno svago lo dovevo pur trovare. Come avrei trascorso le ore della
giornata senza alcuna occupazione? Con il mio carattere di estremo pessimista, non
potevo star tutto il giorno a “rimuginare” sulle cose tristi della vita. Pensai invece di
riprendere la penna e rimettermi a verseggiare come avevo fatto quando descrissi in
rima il viaggio di piacere effettuato insieme ad Aldo Coli per visitare Gorizia,
Redipuglia e dintorni. In seguito composi diecine e diecine di poesie, ovviamente di
scarsissimo valore, ma un dilettante, quale io ero, non poteva offrire altro.
163
Scrivevo in rima alternata tutto ciò che mi ispirava la fantasia bastava verseggiare. Fu
proprio in quel periodo che ci ritrovammo con l’amica d’infanzia Giocondina e sua
nipote Ivonne, vissute lungamente là dove era nato e divenuto ragazzino Roberto.
Anche in tale occasione tradussi in rima con mia soddisfazione la giornata. Si giungeva
così all’anno 2000, ed all’entrata in circolazione della moneta unica europea ovvero
l’Euro, avvenimento che cantai in poche quartine. Ma la cosa più importante e più bella
stava nel fatto che erano trascorsi ormai 5 anni da quel tristissimo 17 Ottobre 1995. E
adesso, quando la Dott.ssa Serenella incontrava Roberto per i controlli gli diceva.- Stai
tranquillo; sei in una botte di ferro. A Primavera inoltrata del 2000 gli amici de “La
Tranquilla” (Asciano il mio paesello) mi chiesero se potevo scrivere qualcosa sulle
origini del nostro locale. Lo feci con infinito entusiasmo perché, come è noto, quel
luogo occupa un angolino del mio cuore. Sì, lo feci con entusiasmo malgrado accusassi
nel mio intimo forte malinconia.
Pensavo, ero ansioso, forse dipendeva dai miei diverticoli fastidiosi ed infiammati che
iniziavano a fare nuovamente i capricci.
Nel Settembre festeggiammo alla “Tranquilla” e partecipammo anche io ed Ivana con
indicibile soddisfazione. Ritrovarsi con i vecchi amici della giovinezza, non poteva che
essere una cosa meravigliosa. Qualche giorno più tardi ovvero verso il 20 del mese feci
le analisi del sangue, ma non mostrarono dati alquanto sballati. A metà Ottobre venni
colpito da forti febbri che durarono diversi giorni. Il mio medico diagnosticò influenza.
Normalizzatasi la temperatura rimase uno stato di debolezza ed apatia indescrivibile.
Faticavo a camminare, mi rimaneva di enorme sacrificio giungere fino al Pietriccio e
ritornare. Non poteva essere cosa normale per uno abituato a percorrere in lungo ed in
largo i boschi della Montagnola o del Bugatto. Quel dì che con Ivana mi recai verso la
flora del “Cancellino” fatti venti passi tra i cedui dovetti far ritorno alla macchina
perché non ce la facevo a camminare. Ma cosa mi stava succedendo?
1 Cosa accade al fisico “acciaccato”
di questo vetusto e povero vivente,
per esser ridotto così debilitato,
con le energie completamente spente?
4 Il dì rimango tra queste quattro mura,
e non provo l’amata dolce brezza,
che mi potrebbe offrire la natura.
Purtroppo sto provando sol stanchezza.
2 Per giorni son rimasto lì ammalato,
5 Lunga strada così non si può fare,
e il medico mi ha detto.- Non è niente,
si deve trovare quel medicamento,
sei soltanto come tanti influenzato.
che l’energia mi faccia ritornare
Il polmone tuo respira normalmente.
e che possa placar tanto tormento.
3 Adesso ho bassa la temperatura,
ma m’è rimasta tanta debolezza,
ho fatto di iniezioni lunga cura,
ma della salute non sento la carezza.
6 Se mi reco un pochetto a passeggiare,
li faccio cento metri … solo a stento,
devo sedermi e quindi riposare,
cattivo appare in me presentimento.
Feci nuovamente le analisi del sangue, e vari valori risultarono fuori norma compresa
l’emoglobina. Qualcuno mi suggerì di eseguire anche l’esame delle feci ed il dato
risultò positivo. (Quindi presenza in queste di sangue) Conosciuto il risultato il Dott.
Picchi mi prescrisse immediatamente una colonscopia da fare prima possibile. Forse cercò di rassicurarmi- dipenderà dai diverticoli infiammati, ma è bene essere sicuri.
164
Sebbene non accusassi dolori e l’appetito non mancasse, le forze continuavano a calare
ed era per me cosa terrorizzante. Il 20.12.2000 telefonai per la colonscopia, e mi
risposero che c’era posto il 7.3.2001. Non era possibile attendere fino a quel giorno.
L’impiegata mi disse che l’avrei potuta fare privatamente, però avrei dovuto telefonare
al Dott. Vernillo la sera dopo le 21. Infatti quando la sera medesima telefonai, il dottore
in persona mi disse che sarebbe stato possibile solo il 9.1.2001 alle ore 16 nel suo
ambulatorio sito in via Pescaia . Io accettai, cosa dovevo fare? Come avrei potuto
resistere in quelle condizioni per quasi tre mesi ancora? Si scusò persino dicendomi che
dal giorno successivo l’ambulatorio era chiuso per le ferie natalizie. Se avessi telefonato
un giorno o due prima tutto sarebbe stato possibile. Per la gentilezza avuta nei miei
confronti lo ringraziai; non avrei potuto comportarmi diversamente.
Comunque c’erano ancora 20 giorni di supplizio da sopportare, e furono di vera
dannazione per Ivana e per Roberto il quale cominciava a riprendere un po’ di coraggio
proprio adesso. Già, ora c’ero anche io a far tribolare. Nell’attesa trascorrevo notti intere
a pensare a questo o a quel l’acciacco e talvolta anche a piangere in silenzio.
Ricordo molto bene che quella sera che mi recai dal medico con Ivana per fargli vedere
i risultati delle analisi, da piazza Gramsci a via della Sapienza, dove era l’ambulatorio,
fu una continua sofferenza perché non avevo la forza di camminare.
Fatta la visita fu un grosso problema percorrere la breve salita di Via del Paradiso.
Dovetti riposarmi e procedere a braccetto a Ivana. Ecco in quali condizioni ero ridotto.
E non so come faceva mia moglie, poveretta, a non far trasparire le sue sofferenze e a
darmi continuamente coraggio. Volli che la festività del Natale ci ritrovassimo con i
ragazzi e con Erminia, in questa casa come ogni anno. Seppure il mio pensiero fosse
altrove riuscii a dimostrarmi un po’ meno preoccupato. Insomma riuscii a fingere di
essere sereno, ma sono sicuro che anche chi mi stava vicino ostentava la serenità che
non aveva. Non poteva essere altrimenti vedendo un uomo capace di fare appena 50
passi senza riposarsi. Passarono Capodanno e l’Epifania, giungemmo così al mattino
del 9.1.2001. Come mi aveva prescritto il Dott. Vernillo, feci colazione alle 6 ed alle 7
cominciai a bere i 4 litri di acqua e purgante terminando alle 11. Alle 16, ben ripulito,
Roberto mi accompagnò con la sua auto all’ambulatorio di Via di Pescaia dove ebbi
occasione di vedere per la prima volta il medico che gentilmente mi accolse e mi fece
accomodare. Dopo pochi minuti mi fece sdraiare e iniziò l’esame di colonscopia.
Non si prolungò molto, e mentre mi rivestivo egli chiamò Roberto e gli disse qualcosa.
Poi mi accomodai anch’io. Il medico scrisse al computer ancora per tre o quattro
minuti, poi si pronunciò:- C’è un grosso polipo che bisogna togliere prima possibile. Ho
frattanto praticato una biopsia che invierò alle analisi.
L’intervento- continuò- sarà risolutivo e tu tornerai nuovamente a star bene, ma non per
un solo anno bensì per sempre. Io sono a vostra disposizione qualora intendessi
rivolgervi al Reparto Chirurgia dove presto il mio servizio.
Spiegammo che dati i rapporti con il Prof. Tanzini e la Dott. Civitelli avremmo
preferito rivolgerci a loro. Pagammo la cifra dovuta e con la “stupefacente” notizia
prendemmo la via di casa. Ma io, ormai, per il pessimismo che mi accompagnava in
ogni momento del giorno avevo già previsto, lo sentivo da tempo, che sarebbe andata a
concludersi in quel modo. Ancora però non volevo del tutto disperare, ero stato in sala
operatoria per ben 8 volte, avrei cercato di sopravvivere anche alla nona.
165
Malgrado le parole di incoraggiamento di Ivana, durante la notte mi si pararono dinanzi
i più macabri scenari. Insomma giungemmo al mattino e, come da diverso tempo
accadeva, dormii pochissimo, non vi riuscivo.
Erano appena le sette quando giunse Roberto per recarci a parlare con il Prof. Tanzini.
Ci presentammo alla Segreteria ma ci fu detto che il Professore era già in sala
operatoria. Potemmo parlare con il Prof. Salvestrini che comunicò telefonicamente con
Tanzini spiegandogli il caso. Questa la risposta.:- Possiamo ricoverarti anche subito (era
il giorno 11.1.2001) ma fino al 17 prossimo non ti possiamo operare, allora tanto vale
che tu ti ricoveri il 15 mattino digiuno. Questo grazie al loro subitaneo interessamento
che già mi faceva pensare alle tristissime esperienze provate qualche anno addietro.
Non vorrei mai più ricordare le pene provate e fatte provare in quei quattro giorni che
mi separavano dal ricovero.
1 Cos’era rimasto della tanto efficiente,
persona che ogni dì dall’albeggiare,
e con l’ansia di riuscire, ovviamente,
tante cosette amava progettare?
4 Vai tranquillo- mi disse- altrimenti
puoi peggiorare ancor la prospettiva;
Ti cureran dei medici efficienti
e tu ritornerai a vita attiva.
2 E di colui, che sì felicemente,
recavasi su ne’ boschi a scarpinare,
in compagnia dell’amica gente,
cosa ancora rimaneva a vegetare?
5 Le detti un bacio, il mio cuor piangeva,
piangeva perché ormai m’immaginavo,
qual brutto “tarlo” il mio fisico rodeva,
mentre le quattro mura abbandonavo.
3 Ed Ivana non mostrando patimenti,
6 Del tutto, però, ancor non disperavo,
ma nel cor suo chissà quanto soffriva,
in quel 15 Gennaio che nasceva,
la borsa preparò con gli indumenti,
nelle mani miracolose confidavo,
per l’amato suo marito che partiva.
di chi come uccider quel tarlo ben sapeva.
Certamente mi facevo coraggio, cosa avrei dovuto fare nel lasciare a casa sola e
disperata la donna che aveva dato tutto, e stava consumando se stessa prima per il figlio
e adesso per il marito? Partimmo quel 15 Gennaio col cielo grigio che forse
minacciava la neve, ma ancor più grigi erano i miei pensieri. Se avevo ostentato un po’
di serenità nel partire da casa, adesso ero di nuovo caduto nello stato in cui da molto
tempo ero immerso. Andammo con la mia auto che avevo ben rifornito la sera
precedente. M’ero fatto promettere che per tutto il tempo della mia degenza Roberto
facesse conto di non possederne un’altra che, insomma, usasse soltanto quella.
Dunque ci presentammo al 2° piano 1° Lotto verso le 7,30 e dopo effettuato il prelievo
del sangue e delle urine mi assegnarono immediatamente il letto n°18, ovvero proprio
quello che cinque anni addietro era stato assegnato a Roberto. Quindi se nel frattempo
non ci fossero stati cambiamenti ero praticamente assegnato alla Dott.ssa Civitelli.
All’ora della visita, tutta l’equipe si fermò al mio letto, lessero attentamente la lettera
del Dott. Vernillo, mi visitarono parlottarono tra loro il Prof. Tanzini e la Dott/ssa
Civitelli e gli altri, ma io un po’ sordo come sono non riuscii a captare neppure una
parola di ciò che stavano dicendo. Comunque quel parlottare sottovoce non mi piacque
per nulla. Poi si allontanarono e seguitarono il loro percorso di visite.
166
Ma verso le 11, dopo che ebbero finito di fare le visite, ricomparve la Dott. Civitelli,
venne accanto al mio letto e mi chiese di seguirla perché voleva parlarmi. La seguii
quindi dove normalmente fanno le medicazioni o le visite.
La prese piuttosto “larga”, poi mi chiese se da quando ero stato ricoverato in quella
clinica, ovvero dal 1997, avessi mai fatti gli esami che mi erano stati consigliati.
Ovviamente le raccontai di aver fatto il “clisma opaco” l’anno precedente, e le parve
impossibile che non avesse rilevato nulla. Lo volle esaminare dopo di che mi chiamò
nuovamente e mi disse:- Non devi impressionarti, ma anche te hai un tumoretto al
colon. Dopo domani ti opereremo e vedrai che tutto si rimetterà a posto.
Però - disse ancora – sono scettica di fronte a quanto evidenziò a suo tempo l’esame da
te eseguito. Un polipo – continuò- per divenire in queste condizioni dovrebbe
impiegare assai più di un anno. E’ facile immaginare come rimasi a quella triste
rivelazione. Le poche speranze che ancora avevo scomparvero, e lei se ne accorse. Mi
guardò e, come per infondermi coraggio e speranza, mi disse:- Ti prego non
terrorizzarti, io ti sarò vicina, anzi, posso anticiparti che sarò presente quando il Prof.
Tanzini eseguirà l’intervento. Sono sicura che anche tu ce la farai ma devi aiutarci.
1 Non vale nulla aver la ricchezza,
che può far vivere la vita agiata,
senza salute proverai la durezza,
e da mille pene sarà costellata.
4 Che un dì “finirà” ben lo sappiamo,
questa che noi chiamiam vita terrena,
né di schivarla sperare dobbiamo,
nessun può sciogliersi da tale catena.
2 Non t’irritar se scarseggian denari, 5 Una volta del male provata esperienza,
in quella tasca del tuo pantalone,
avrai delle cose un’altra visione,
se vedi felice ognun de’ tuoi cari,
vedrai il presente con quella parvenza
ciò… è la più grande soddisfazione.
e tutto accetti con rassegnazione.
3 Oh qual tristezza trovarsi in un letto, 6 Se senti la voglia di camminare,
di un ospedale per farsi curare,
e la tua gamba può andare snella,
e stare in attesa d’incerto verdetto,
allor puoi sorridere ed anche esultare,
che d’ansia terribile ti fa palpitare.
cantando felice …“La vita è bella”
Le impressioni, l’abbattimento morale, lo sconforto, l’avvicinarsi della fine che
producono in noi tali rivelazioni, risultano chiare dalle rime qui sopra vergate.
Nei due giorni che mi separavano dal complesso intervento, non avevo fermezza, nè la
volontà di parlare con le persone presenti o che erano venute a farmi visita. Avevo ben
altro per la testa. Mi piangeva il cuore nel pensare a quanto soffrivano i miei cari nel
sapermi in quelle condizioni, conoscendo pure le rivelazioni fattemi il giorno
precedente. Una volta di più devo affermare che proprio in quei momenti si sente e si
capisce quanto è bella la vita. Ed in quelle ore dentro di me dicevo:- Oh quale
soddisfazione provavo, quando facevo colazione con del pane e della cipolla ma ero
sfolgorante di salute. Sì, è vero, solo in quei momenti di disperazione e di paura si
capisce il valore della vita. Durante quei due lunghissimi giorni di attesa ritornavo col
pensiero qualche anno addietro, ovvero a quando c’era mio figlio in attesa come lo ero
adesso io, e ripensando alle mie sofferenze di allora, capivo benissimo in quale stato si
trovassero i miei famigliari.
167
Ripensavo anche all’impressione che mi aveva fatto vedere Roberto rientrare in camera
dalla sala operatoria tutto imbrigliato da piccoli cannellini per la gola e per il naso.
Purtroppo, tra quarantotto ore anche io sarei stato nelle medesime condizioni, sempre
che avessi resistito alle eventuali complicazioni dell’intervento.
Dovetti raccomandarmi all’infermiere di turno per avere una compressa di Tavor per
cercare di distendermi un po’ i nervi e per dormire qualche ora se fosse stato possibile.
Niente da fare, i miei occhi rimasero svegli e lucidi, anche se la stanchezza mi
opprimeva fino al punto che faticavo persino a recarmi al bagno. Sarei rimasto tutto
quanto il giorno sdraiato in quel letto n° 18. Non potevo togliere lo sguardo da quel
poveretto che giaceva nel lettino accanto alla porta. I suoi flebili lamenti (stava tanto
male) aumentavano la mia passione e nel contempo la mia paura. Ed ecco che dopo un
leggerissimo pasto serale a base di brodo dal sapore assai diverso da quelli a cui ero
abituato, e dopo aver ingerito 4 litri di acqua e purgante, il mattino del 18 Gennaio, a
seguito di una notte insonne, venne il mio turno.
Ero impaziente e impaurito. Finalmente mi prepararono, mi fecero una iniezione, forse
per calmarmi un po’ e verso le 10,30 mi trasferirono presso la sala operatoria. Indossavo
solamente un camice e quindi mi faceva piuttosto freddo, ma dovevo acclimatarmi
perché sapevo da sempre che in sala operatoria c’è poco calore. La Dott.ssa Civitelli il
giorno precedente mi aveva accennato che sarebbe stato consigliabile, nell’occasione,
intervenire anche in quei diverticoli ormai pericolosi onde evitare in un futuro seri guai.
Io avevo ascoltato ma ero stato evasivo nella risposta. Mentre attendevo di entrare in
sala comparve il Prof: Tanzini già pronto per l’intervento, si avvicinò e mi disse:Allora che facciamo di questi diverticoli? Tra un minuto entrerai in sala operatoria,
quindi devi decidere ora, hai solo qualche istante. A ciò con il fiato che mi rimaneva
risposi: - Professore, sono nelle sue mani, faccia tutto quello che pensa sia necessario e
giusto fare. Dopo pochi secondi mi trasferirono sul duro banco con le luci che mi
accecavano, mi misero alla bocca una terrorizzante mascherina e mi invitarono a
respirare profondamente poi….più nulla. Non sapevo ancora quanto tempo era
trascorso dal momento che mi ero addormentato, quando cominciai a percepire i rumori
delle voci molto lontane, poi compresi che qualcuno disse:- Dai svegliati abbiamo fatto
tutto, abbiamo sistemato anche i diverticoli. Ero nel dormiveglia, ma quella voce non mi
era nuova; anche se ancora faticavo assai a tenere gli occhi aperti, vidi di fronte a me il
Prof. Tanzini e la Dott.ssa Civitelli. Quella voce disse ancora:- Appena sarai un po’ più
sveglio ti riporteranno in camera nel tuo letto. Da quel momento scomparvero ambedue.
Ma io ancora non comprendevo bene ciò che era avvenuto. Poi mi accorsi che il letto
sul quale giacevo stava muovendosi. Infatti mi riportavano in sala. Fu allora che
intravidi Ivana e Roberto che, certo, attendevano da tante ore .
1 Appen ricordo. Ero assai lontano
3 Avevi atteso tante ore con tristezza,
quella notte di Gennaio col pensiero;
per riveder spuntar dall’ascensore,
tanto lontano che vedevo tutto nero,
le verdi tute, sospinger con lentezza,
mentre stringevi, con la tua la mia mano.
quel lettino, e provasti un tuffo al cuore.
2 Mi lamentavo e allor tu piano, piano
4 Volevi farmi al volto una carezza,
mi sussurravi col cuore tuo sincero,
ma io navigavo nel terrore.
parole incoraggianti, a dire il vero,
Ciò si placò, ne avesti la certezza,
dette con grande amor, ma quasi invano.
quando dal volto mio sparì il pallore.
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Pian piano cominciai a riprendere conoscenza e mi accorsi che Ivana e Roberto mi
erano accanto. Mi accorsi anche di avere dei tubicini al naso alla bocca e all’addome.
Ovviamente questi ultimi erano stati posti per l’indispensabile drenaggio della ferita.
Avevano anche piazzato un apparecchio che mi mandava una goccia di liquido, se ben
mi rammento, ogni 15 o 20 secondi.
Intanto dovevo restare totalmente immobile, e poi non avrei avuto neppure la forza per
muovermi. Ero ancora sotto l’effetto dell’anestesia, quindi non sentivo nessun dolore,
ma quando cominciai ad accusarne iniziarono a farmi delle iniezioni per lenire tale
condizione dolorosa. Trascorsi l’intera notte senza dormire in un continuo flebile
lamento; mentre la signora che assisteva il degente vicino alla porta russava
profondamente ed assai forte da far vibrare anche i vetri. Ma questa era realtà di ogni
nottata. Anche Ivana rimase a farmi compagnia, non mi abbandonò neppure un attimo.
Rimase sempre sveglia come me e stringendo la mia mano. In quella mesta condizione
il contatto continuo con lei mi dava un tantino di coraggio, malgrado la situazione
alquanto precaria. Non posso dimenticare che la sera, dopo il rientro dalla sala
operatoria, il Professore apparve accanto al mio letto e disse:- Tutto sotto controllo.
Anche durante la notte l’infermiere di turno appariva ogni mezz’ora per verificare se
tutta l’attrezzatura funzionava regolarmente.
Ivana, poveretta, mi stette accanto fino alle 6 del mattino, seduta su di una sedia e senza
chiudere occhio, poi fu costretta ad uscire perché avevano da fare le pulizie. Rimasto
solo mi riprendeva il terrore di essere vicino alla fine. Sapevo, purtroppo, del mio male
e ciò mi angosciava. Non credo vi siano persone tranquille e felici quando vengono
sottoposte ad interventi simili.
Quando circa mezz’ora più tardi vidi apparire Roberto sulla porta mi rinfrancai.
Ricordo che passarono con il caffè, ma vicino al mio letto non si soffermarono neppure,
poiché c’era il cartello “DIGIUNO”. Ovviamente mi alimentavano attraverso delle flebo
continue. Prima che giungesse l’equipe per la visita, passò, come nei giorni precedenti
la giovane “Dottoressina dagli occhialini” a misurare la pressione. Dopo di lei si
affacciò la Dott.ssa Serenella per domandarmi come andava. Quando con l’equipe
giunse il Prof: Tanzini, questi mi guardò, poi voltandosi verso l’infermiera presente
disse:- Mettetelo un po’ seduto nel letto. Indi la visita continuò con gli altri degenti. Ma
prima dell’ora del pranzo, vennero in due e mi misero seduto con le gambe penzolanti
per circa dieci minuti. Era buon segno, non dovevo rimanere a lungo nell’immobilità.
Le prime tre nottate mi volle far compagnia Ivana, e a dire il vero sentivo il bisogno di
averla accanto, mi infondeva coraggio e sicurezza, ma nello stesso tempo temevo che
crollasse. Il suo dolore per le mie condizioni non era inferiore a quello che angustiava
me. Ben sapevo che era immenso. Cercava di non dimostrarlo ma io la comprendevo.
Malgrado gli impegni di lavoro, per una notte mi stette vicino anche Roberto. La prima
volta che mi recai al bagno nel corridoio,(avevo ancora l’armamentario delle flebo) mi
accompagnò mia nipote Loriana, ciò durante una lunga notte che mi fece compagnia
costei. Erano ormai cinque giorni che mi avevano operato e ancora insistevano con le
flebo. Quando mi tolsero quell’apparecchio mi sentii rinascere, ma seppure in modo
semplice durarono ancora dei giorni.. Rammento che il quarto dì dopo l’intervento
incominciarono a darmi qualche minestrina, e la sera non mancava il “coscio” di pollo
lesso. Pollo di allevamento ovviamente, che a casa non avrei neppure guardato, però in
quel luogo, dopo tanto digiunare, mi sembrava di mangiare i biscotti.
169
Ma sarebbe inutile voler nascondere la realtà. Quando passavano i medici per la visita e
parlottavano tra loro, se non riuscivo a captare il significato, mi prendeva nuovamente
il terrore. Tornavo a pensare, ciò che in certi momenti chi è consapevole della malattia
per cui è stato operato pensa. Se non avessi saputo di cosa si trattava o se fossi stato
tanto ingenuo da ignorare il significato di “tumore” forse sarei stato più tranquillo.
Comunque trascorsi dei giorni mi fecero tutti gli esami del sangue e, ovviamente, il dì
successivo erano stati riportati nella cartella clinica, che ogni mattina, prima della visita,
veniva posta sul tavolino in fondo al letto ove, talvolta, rimaneva per qualche ora.
Appena mi fu possibile, ovvero fui in condizioni di muovermi, assai guardingo cercai di
leggere ciò che vi era stato scritto o riportato. L’istinto mi guidò, ed era naturale, a
cercare gli esiti degli ultimi esami tra i quali figuravano i vari “markers tumorali. Fu
allora che tanto terrore, almeno momentaneamente, si dileguò, e ciò perché potei
accertarmi che quei valori erano giusti. Nulla mi importava se c’erano altri fuori norma
come l’emoglobina o la ves; questi pian piano si sarebbero normalizzati. Dopo un
intervento del genere è cosa normale che qualcosa ci sia da riportare nei giusti valori.
Il giorno appresso chiesi della mia situazione alla Dott.ssa Civitelli e costei gentile
come sempre mi rispose:- Aldo, non tremare, i valori dei markers sono a posto, quindi,
intanto, è sventato il pericolo di metastasi, ed era quello che mi premeva sapere. Ora
pian piano studieremo attentamente ogni particolare, ma tu nel frattempo cerca di stare
tranquillo. Fin da ora ti dico che tra qualche giorno ti dimetteremo. Ci sono tanti altri
che attendono di essere operati del tuo stesso male. Quello che riterremo necessario
fare, qualora ce ne fosse bisogno, lo potrai fare anche da casa.
Ecco, queste affermazioni contribuirono davvero a ridarmi la speranza e la volontà di
lottare, lottare, lottare… L’ho detto tante volte, e lo ripeterò fino alla noia, che quando
ci troviamo in simili condizioni, ci aggrappiamo alla vita con tutte le forze che
rimangono. E’ proprio in quelle circostanze mai augurabili per nessuno, neanche al
nemico più acerrimo, che riconosciamo quanto sia stupenda la vita. Non dobbiamo
credere a chi in momenti di rabbia o di disperazione si augura la morte. No! Non
dobbiamo credere perché il momento del trapasso incute terrore anche ad un animale.
Non posso, a questo punto della descrizione, non citare un particolare che mi mise in
estremo disagio, anche se riconosco che tutto fu fatto a fin di bene.
Avevo detto che nei primi giorni dopo l’intervento, memore di quanto era stato per
Roberto, di non gradire le visite, perché quando siamo immersi nella sofferenza fa
piacere avere vicino solo i famigliari. Ogni voce , ogni presenza giunta, ovviamente, per
portare un messaggio di speranza, arreca solo disturbo.
Invece, la domenica, due giorni dopo l’intervento, vidi giungere dei parenti da Prato ed
altri amici a farmi visita. Insomma in fondo al mio letto c’erano 4 o 5 persone a
parlottare delle cose più varie. Ed io avevo ancora i tubicini e l’apparecchiatura delle
flebo, quindi mi trovavo ancora nel terrore. Quel loro chiacchierare mi dava tanto
fastidio. Avevo solo bisogno di silenzio. Alla fine, con quel poco di fiato che mi
rimaneva, fui costretto ad invitarli a recarsi a discorrere nel corridoio.
Ovviamente qualche mese più tardi, quando ebbi l’opportunità di farlo, mi scusai, ma
quelle persone, molto intelligenti, avevano compreso la precarietà della mia condizione
in quel momento, quindi non occorrevano scuse.
170
Il venerdì 26 gennaio, ad appena 8 giorni dall’intervento, la Dott. Civitelli mi
preannunciò:- Aldo che ne diresti se domani Sabato 27 ti dimettessimo? Rimasi
incredulo e senza parole, pensavo volesse scherzare. Più tardi, vedendola ancora, le
chiesi gentilmente una spiegazione. Non scherzava, ed allora dovetti raccomandarmi per
essere rimandato al Lunedì 29. Come faccio- le dissi- se mi sento male? A chi mi
rivolgo nel giorno di festa quando il mio medico è assente? Che devo chiamare il 118?
Sono operato da appena 8 giorni e fino a ieri ho avuto un po’ di febbre. Siete pure tutti
consapevoli della mia debolezza. Quasi mi venne da piangere, ed allora mi rassicurò.
Guarda di stare tranquillo- soggiunse- cercheremo di trattenerti fino a Lunedì sera; e
infatti così fu. Il pomeriggio del 29 verso le 16 giunse l’ambulanza.
Roberto aveva provveduto a rendersi libero dal lavoro e mi preparò per il “lieto evento”.
Sì, posso davvero dire “lieto evento” perché quando dopo interventi del genere si esce
da quelle camere con un lieve barlume di speranza, anche se assai provvisoria, è sempre
da considerarsi una festa. Io disperavo di potervi giungere.
Dunque arrivai a casa verso le 16,30, e rivedere la mia camera, il mio letto, anche se
l’ambiente non era riscaldato come quello dell’ospedale, mi commosse ed ancor più mi
commossero l’abbraccio e le lacrime di felicità di mia moglie. Anche io piansi a lungo
ma questa volta per la gioia di essere ritornato. A ciò che sarebbe potuto avvenire nel
tempo non ci pensavo. Adesso mi sentivo colmo di volontà, per resistere ad ogni costo
e con tutte le mie forze ad altre eventuali aggressioni. In quel momento mi tornarono
alla mente le parole della Dott. Serenella allorché mi disse:- “Tu ci devi aiutare”. E’
una cosa meravigliosa quando, persa ogni speranza, torniamo a vedere giorno dopo
giorno, seppure appena percettibile, un miglioramento.
Nella lettera di dimissioni che ancora conservo, ed in quella da consegnare al medico di
famiglia c’era specificata la diagnosi, l’intervento subito, il valore dei “markers le cure
da eseguire nel momento e la dicitura: “da rivedere nel mese di Marzo presso il
C.O.R.D previo appuntamento”. Giunto a casa, anche se non mi rimanevano forze ebbi
quella di telefonare al mio medico. Ero tornato ed avevo piacere essere visitato pure da
lui. Ed il Dott. Picchi non tardò perché la sera stessa dopo l’orario di ambulatorio suono
al campanello di casa mia. Lo dovetti ringraziare per la puntualità con la quale aveva
risposto alla mia chiamata, ma egli aveva compreso il mio stato d’animo. Prima di ogni
altra cosa lesse attentamente il foglio di dimissioni sul quale risultava chiaramente la
diagnosi, l’intervento effettuato, il valore dei “markes”. E lesse subito dopo la lettera a
lui indirizzata dove oltre a quanto prima detto consigliavano una cura ricostituente da
effettuare per rimettermi un po’ in sesto.
Ne avevo davvero tanto bisogno. Se quando mi ricoverai faticai molto per effettuare il
percorso dai posteggi agli ascensori, adesso appena ero in grado di muovere le gambe
per recarmi al bagno. Questo mio fisico era duramente provato ed in particolare modo,
come già detto, le gambe che prima erano capaci di camminare lungo i sentieri dei
boschi per intere giornate… Il dott. Picchi non mancò di prescrivermi diverse scatole di
iniezioni, ovviamente dopo, avermi visitato ed effettuato l’ECG.
Quella sera Ivana, tutta felice di riavermi nuovamente vicino, mi preparò una minestrina
nel brodo con “spicchio di petto” di vitellone, assai diverso da quello consumato nei
giorni precedenti e ricavato dal pollo di allevamento.
171
Ma non intendo con ciò biasimare il vitto che viene dato in ospedale ai degenti. Non
me lo permetterei mai, tanto meno dopo la robusta preparazione fatta per l’intervento e
i quattro giorni successivi alimentato solamente da dalle flebo e da qualche sorso di tè
leggero o caffè d’orzo ovviamente senza l’aggiunta di altro. Non esagero se dico che
quando mi dettero la prima minestrina piuttosto lunga ed un coscio di pollo lesso mi
parve di andare a nozze. Però il sapore e la grazia di quello preparato da Ivana era una
cosa diversa, ed io lo sapevo da sempre.
Prima di poter compiere il giro del mio caseggiato dovetti attendere più di una
settimana. Le gambe non “venivano dietro”; ma c’era un’altra cosa che mi angustiava
non poco. Non era colpa mia se mi trovavo in simili condizioni, ero pallidissimo in
volto e con le occhiaie accentuate, ed anche per questo mi vergognavo a farmi vedere
dalla gente. Se passando dinanzi allo specchio di camera guardavo la mia immagine
riflessa non mi riconoscevo. I primi giorni, quando non era troppo freddo, uscivo po’
nel terrazzino, ma se vedevo avvicinarsi delle persone mi ritiravo in casa. Ivana era
preoccupata per questo mio stato, e cercava di stimolarmi a stare il più possibile fuori, a
sforzarmi di parlare con qualcuno ed a trangugiare i buoni cibi che mi preparava ogni
giorno con tanta passione.
Spesso mi diceva:- Se inizi a mangiare con appetito ciò che ti preparo, tra una ventina
di giorni sarai di nuovo in forma, ed in grado di fare le consuete tue passeggiate come
usavi prima di ammalarti. Francamente l’appetito non mi aveva mai abbandonato,
neppure quando il male era davvero nella fase aggressiva. Allora mangiavo, ma le forze
diminuivano poiché c’era il tremendo tarlo che rodeva silenzioso.
Sovente mi prendeva la malinconia e lo scoraggiamento, ma io sapevo che dovevo
lottare per vincere, perché così mi aveva più volte detto la Dott.ssa Serenella. Da questo
male- mi aveva spiegato – si può guarire, ma oltre alla medicina e alla chirurgia,
occorre in particolar modo il contributo del paziente. Verso i primi del mese di Marzo
presi l’appuntamento con il C.O.R.D, e a metà mese passai la prima visita di controllo,
la prima di una serie che non sarebbe più terminata.
Fu in quell’occasione che seppi di dover effettuare detti controlli ogni tre mesi previo
ecografia al fegato, i markers tumorali e altre varie analisi per i primi due anni, dal
terzo al quinto anno ogni sei mesi e dal quinto anno ogni dodici mesi circa, ovviamente
dovevo fare la colonscopia almeno una volta all’anno. E’ chiaro, ed è anche giusto che
quando si viene colpiti da tali mali e poi sottoposti ad interventi del genere non si debba
mai abbassare la guardia. E di ritorno dalla visita vergai le rime che seguono.
1 Sembra finita l’ansia finalmente,
3 Tanto assillo nel petto la bufera,
dopo momenti di costernazione,
mi provocava; or lentamente
puoi riposarti cuor mio tranquillamente,
sembra placarsi sul “ giunger della sera”
onde lenire un po’ questa tensione.
e tutto intorno sembrami splendente.
2 Molto agitato batteva dal terrore,
e non sapevo come un po’ calmarlo,
vivevo (l’ho già detto) nel terrore
ed impossibile m’era allontanarlo.
4 E giunge anche il tepor di Primavera,
a riportar la gioia tra la gente.
Goderò di nuovo il cantar di capinera
che alloggia nella siepe prospiciente.
172
Insomma la prima visita era andata bene ed ora dovevo ripeterla a Giugno. Quindi nei
primi giorni di detto mese feci le analisi indicate compresi i markers . Visto che tutto
proseguiva nel miglior modo, decisi in pieno accordo con Ivana di offrire un pranzetto
a S. Livia in quel di Asciano, alle persone che durante la triste degenza non mi
avevano lasciato solo. Quello era soltanto un doveroso gesto di gratitudine verso costoro
e lo facemmo davvero con tutto il cuore. Se riuscii a prendere la cosa con certa
filosofia, ed è molto difficile, fu grazie alla volontà di vivere ed in modo particolare alla
profonda passione da sempre di scrivere. Dovevo scrivere, scrivere, scrivere per
dimenticare. Si può immaginare quale e quanta sia l’ansia ogni volta ci avviciniamo al
giorno di fare le analisi del sangue, le ecografie al fegato o la TAC in occasione delle
visite di controllo. Credo che non vi sia persona colpita da tale sventura che non sia in
apprensione fino a quando non ha avuto gli esiti o la parola del medico a rasserenare.
E tali controlli, è ovvio, si fanno per prevenire eventuali ricadute.
La prevenzione, anche se nei campi della medicina e della chirurgia si sono fatti passi
giganti grazie alla ricerca, la prevenzione dicevo e importante quanto e più della cura.
Insomma ogni volta si vedono i risultati degli esami nella norma si tira un forte sospiro
di sollievo, e diciamo:- E’ andata bene. Ma comunque resta sempre quel principio e
quella volontà infinita di lottare qualora si verificassero nuove “aggressioni”.
Devo riconoscere che grazie all’aiuto avuto dai medici, dalle persone care che mi stanno
accanto, nonché ( torno a ripetermi) dall’aiuto di questa penna dal nero colore che
tengo tra le dita sono tornato a sorridere come testimonia la poesia che segue:
1 L’amica penna che tieni tra le dita,
a trovar t’aiuterà la giusta via,
per vincere una battaglia dura e triste
che combatter non avresti mai voluto.
6 Or torni ad affacciarti al tuo balcone,
per rimirar la luna che argentata
fa capolino tra la nuvolaglia
lieta della tua speranza ritrovata.
2 Questa è la verità ! Quando addosso,
7 E’ pur gioia infinita d’ogni giorno,
ti cade un macigno che ti fa sembrar vicina se con rinnovato spirito ed ardore
la fine di questa meravigliosa vita,
i rilucenti raggi solar torni a guardare,
solo allora con forza ti ci aggrappi.
al nascere ovvero al suo tramonto.
3 Anche a te non sembravati sì bella.
8
E’ bastato il tremendo scatenarsi
nelle tue viscere della perfida “procella”
per netto farti apparire il suo valore.
Solo con la voglia di vivere
è più facile vincere e scordare
le non augurabili vicende
che nel buio ti fecer precipitare.
4 Cosa valgon gli smeraldi nei confronti,
9
di veder tra le tue labbra rifiorire
lo splendore di quel dolce tuo sorriso,
che completamente, ormai s’era offuscato?
Intanto goditi della natura le bellezze,
che sono tante, e sempre da ammirare.
Rimani se puoi ad ascoltare,
dell’usignol le melodiche dolcezze.
5
Il volto sorridente di colei
10 La luna, le stelle il verde della flora,
che in ogni momento t’è rimasta accanto
possono se tu vuoi stimolarti,
sta sicuramente ad indicare,
a riprendere la penna tra le dita
di aver ritrovato il sentier della speranza.
per scrivere, scrivere e dimenticare.
A. Leonini
173
MA IL SORRISO COMPARE E…SCOMPARE
Come già detto precedentemente al controllo dei primi di Giugno presso il C.O.R.D
tutto risultava regolare, tanto che fui molto incoraggiato anche dalla dott.ssa Civitelli.
Ogni esame compresi i Marchers era nella norma. Mi incoraggiava ancor più la seppur
lenta ripresa delle energie e la volontà di ritornare a camminare come prima che cadessi
in disgrazia. Infatti con la Primavera erano tornate frequenti le passeggiate con gli amici
Guido e Antonio. Date queste favorevoli ed incoraggianti condizioni,(ora torno a
ripetermi) Ivana ed io decidemmo di ritrovarci, con tutti coloro, amici e parenti, che
mi erano stati vicini nei terribili momenti del mio ricovero in ospedale. Pensammo di
invitarli al noto ristorante di Santa Livia nei pressi di Asciano il 24.06.2001 per
trascorrere così una Domenica insieme. Ovviamente voleva essere anche un gesto di
gratitudine. Le persone che ci vogliono bene si riconoscono nei momenti difficili. Ciò
mi fu insegnato nella triste Estate dell’anno 1951 quando stetti ammalato per diversi
mesi, e la cara donna che ho accanto, veniva ogni dì di festa dalle Serre di Rapolano per
infondermi coraggio. Insomma, lasciamo perdere per un po’ i mesti ricordi e torniamo a
quel soleggiato giorno di Giugno del 2001.Il nostro pensiero era stato quello di offrire
loro un discreto pranzetto e non fummo delusi. Da Prato giunsero Ivo e sua moglie Elda,
da Montevarchi la carissima amica d’infanzia Giocondina con Ivonne e suo marito
Marcello. Non potevano mancare Roberto, Maura ed Erminia. Per mio fratello Ivo con
Alda e Fabio con Loriana, il viaggio fu cortissimo perché Santa Livia non è lontana da
casa loro. La puntualità dei convitati fu perfetta, ed alle 12,30, come stabilito, eravamo
a parlottare nel piazzale del ristorante, in attesa di accomodarci ai vari tavoli imbanditi.
Tutto si svolse magnificamente tra le frequentissime risate di Ivonne. Avremmo dovuto
preoccuparci se non ci fossero state, poiché io l’ho sempre conosciuta dalla risata facile.
Le portate, dunque furono diverse ed abbondanti, nessuno ebbe motivo di lamentarsi. A
fine pranzo non poteva mancare un buon dolce fatto in casa ed un bicchiere di spumante
per brindare alla salute di tutti ed al prossimo nuovo incontro. Per l’occasione avevo
composto una poesia che fu letta nei giusti modi da Maura. Ma non potevo dimenticare
la carissima amica d’infanzia Giocondina, con la quale, quando in due non avevamo
trent’anni, ci svelavamo le nostre prime “cotterelle”. Vorrei qui citare alcune quartine
della poesia a lei dedicata.
1 Talvolta mi sovvengon le scalette,
4 Ti dissi un dì:- Io mi rincoro,
della tua rustica casa a tramontana,
nel poterti le mie ansie confidare;
dove spesso facevamo chiaranzana,
e noto che si possono alleviare,
tra allegre risatine e barzellette.
grazie ai consigli che certamente onoro.
2 Tu stavi ritagliando una sottana,
5 Questa eri tu ne’ tempi tanto belli
oppur mettevi in prova un vestitino,
quando trent’anni in due non contavamo,
di un bimbo del vicino contadino,
e per le prime “cotterelle” soffrivamo.
e se d’Inverno…cappottin di lana.
Ma eravamo sol due giovincelli.
3 Ed io ogni dì, sera o mattina,
6 Castelli dorati noi non sognavamo,
quando scansarmi dal lavor potevo,
amica Giocondina, in giovinezza;
qual giovincello tra me e me dicevo:
era bastante goder la forte …ebbrezza,
- Or corro a chiacchierar con la sartina. di que’ balli che nell’aia facevamo.
174
Mai rimpiangerò quella stupenda giornata, che mi dette l’occasione di ringraziare in
qualche modo coloro che mi avevano ricordato in quel mesto frangente.
Anche il tempo, come già detto precedentemente, ci fu favorevole. Ma nel mio intimo
subii un forte turbamento quando, magari ignaro della mia sensibilità e del mio
pessimismo qualcuno disse di vedermi assai pallido in volto. Francamente ancora non
potevo aver riacquistato il colore mio naturale. I pensieri cominciarono ad accavallarsi
nella mia mente, non potevo fare altrimenti, non potevo essere sereno.
Giunti a casa andai a riguardare le analisi fatte appena un mese prima e tutto appariva
nella norma. Il giorno successivo, però, le feci di nuovo privatamente, volevo essere
sicuro che non vi fosse qualche ricaduta. Il sorriso scomparve dal mio volto quando mi
recai a ritirare gli esiti degli esami fatti.
L’emocromo era sballato per diversi dati compresi i Globuli rossi assai carenti e quelli
bianchi più alti della norma. Ovviamente corremmo in cerca della dott.ssa Civitelli alla
quale mostrammo i referti. Ella ci disse che dopo tali interventi certi contraccolpi sono
frequenti, però, per maggiore tranquillità mi consigliò una visita ematologica che feci
dopo una diecina di giorni. Non credo sia necessario raccontare quanto tale stato mi
mettesse in allarme, d’altra parte non potevo credere ad una ricaduta dopo così breve
intervallo di tempo. Effettuai la visita e diagnosticarono uno stato di anemia per cui mi
prescrissero gli adeguati farmaci con la richiesta di rivedermi dopo quaranta giorni con
nuove analisi del sangue relative all’emocromo.
Ricordo molto bene che dovetti fare una trentina di iniezioni di Dobetin 5000 e ingerire
altri farmaci a base di ferro. A dire la verità col passare delle settimane mi sentivo più
energico ed anche il volto che effettivamente era stato un po’ pallido ora cominciava a
ritornare al colorato di una volta. Sebbene sentissi un miglioramento temevo che i valori
dell’emocromo non si fossero ancora normalizzati. Invece con mia grande soddisfazione
potei constatare, anche prima che ne avessi la conferma dal medico, che tutto andava
per il meglio. Ormai per mia disgrazia avevo imparato a capire quando qualcosa non
funzionava. E giunse il giorno della visita ematologica ed in quella sede mi fu
confermato che c’era un miglioramento ma dovevo seguitare con le iniezioni (ora da
fare una alla settimana) per almeno altri tre mesi. Passato quel lasso di tempo dovevo
sottopormi a nuova visita se ce ne fosse stato bisogno.
Insomma ora ero tranquillo e sereno ed anche le mie gambe rispondevano come quando
avevo venti anni di meno. Pure i diverticoli, che avevano provocato tanti guai al mio
intestino, ora tacevano grazie all’intervento deciso all’ultimo momento dai luminari
della chirurgia che mi avevano operato.
Intanto i mesi passavano veloci e giungevamo all’Agosto, periodo durante il quale ogni
anno mia cognata Ilva soleva venire da noi per una diecina di giorni. E non mancò di
venire anche questa volta. Ci portò un po’ di allegria, cosa che non è mai troppa
specialmente dopo subite tante batoste. Decise di rientrare a Treppio, dove ancora
erano i suoi il giorno 13 per trascorrere lassù il Ferragosto. Dato che l’accompagnava
Roberto, prendemmo l’occasione di andarci anche Ivana ed io. Ci godemmo il viaggio
di andata e quelle poche ore che rimanemmo loro ospiti, ma durante il ritorno a Siena
qualcosa sopraggiunse a turbare la colonna vertebrale di Ivana. Speravamo che una
volta giunta a casa e riposata dal viaggio in auto, tutto tornasse alla normalità, ma col
passare dei giorni, invece, il dolore si faceva sempre più forte tanto da non poter restare
neppure sdraiata sul letto.
175
Il giorno 14 Agosto, viste le condizioni che non le permettevano neppure di alzarsi dal
letto, credetti opportuno telefonare alla reumatologa dott.ssa Gonnelli per farle passare
una visita (ovviamente a pagamento) a domicilio. Quando siamo reduci da cattive
esperienze dalle quali non sappiamo ancora se ce ne siamo liberati, si cerca di prendere
i provvedimenti più solleciti. Infatti costei non fece attendere molto. Venne in giornata e
le fece una visita alquanto scrupolosa e la diagnosi fu… “sciatalgia”.
Le prescrisse delle iniezioni di cortisone per cercare di placare il dolore nella fase acuta,
ma avrebbe voluto rivederla per eventuali altre cure e fisioterapia adeguata.
Ivana trascorse cinque o sei giorni di Inferno, durante i quali non riusciva neppure a
camminare per recarsi in bagno. Ed io soffrivo quanto lei nel vederla piangente dal
dolore e non poterla aiutare. E quel dolore era continuo; non c’era un minuto che non si
lamentasse. Anche la notte quando avremmo dovuto riposare, si lamentava
continuamente perché non riusciva a trovare la giusta posizione. Assumeva i sedativi e
gli antinfiammatori, ma ancora non sortivano effetti positivi. Il dolore dalla natica alla
gamba fino al piede era continuo. Talvolta mi provavo a farle dei leggerissimi massaggi
alle parti doloranti con della pomata Voltaren Emulgel ma senza ottenere dei risultati
apprezzabili. Io ero consapevole che tutti i dolori durante la notte si intensificano, ma a
costei non davano tregua.
Finalmente dopo una settimana di forte e continua sofferenza l’afflizione cominciò a
placarsi un pochettino; non che fosse cessato, ma comunque poteva recarsi in bagno e
tornare a letto ovviamente a passi lentissimi e poggiandosi al muro.
Quando poté muoversi alla meglio, fissai un nuovo appuntamento con la dottoressa che
la visitò nell’ambulatorio presso la Kinos Fisioterapia in via Quinto Settano.
Ovviamente l’accompagnai con l’auto; a piedi non sarebbe stato possibile. La visitò
nuovamente e le prescrisse iniezioni di Nicetile ed altri farmaci da assumere per un
mese intero, dopo di che l’avrebbe visitata nuovamente. Verso i primi di Settembre
iniziò a fare la fisioterapia alla Kinos di Marco Signorini e dopo 20 sedute cominciò a
camminare lentamente con l’ausilio del bastone.
Con le sue prime passeggiate giungeva dalla porta di casa alla vicina strada asfaltata e
faceva ritorno; in tutto 50 metri e non di più. Ma il dolore alla gamba ed alla caviglia
seppure non continuo come i primi giorni la martoriava specialmente sul letto. Ed io
vorrei ricordare quelle lunghe notti insonni con queste mie rime
1 La notte non fa che esacerbare,
ed anche sovente le nostre afflizioni,
quando per migliorar le condizioni,
sarebbe utile un poco riposare.
4 Poiché è toccante udir quel triste pianto,
che l’animo più duro ognor tormenta,
ti rivolgi pensoso a qualche Santo,
durante la notte che trascorre lenta.
2 Ci rigiriamo, ci mettiam “bocconi”,
5 Il respirar profondo finalmente,
ma in ogni parte compare del dolore,
di chi ha tanto sofferto lunghe ore,
la nostra fronte gronda di sudore,
mi dice che or riposa dolcemente
occhi aperti e sol de’ sospironi.
certamente s’è placato il suo dolore.
3 E molto triste quando lì accanto
c’è un tuo caro che molto si lamenta,
poi quel lamento sciogliesi nel pianto
sperando certo che nessun lo senta.
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6 La veglia sua è pur stata la mia.
Mai si potrebbe facilmente riposare
quando senti al fianco tuo lamentare,
chi ognora ti seguì per l’erta via.
TORNARE A SORRIDERE
1 Possono essere rime strampalate,
con non perfetta la punteggiatura,
ma è importante concentrarsi a scrivere,
per cercar di lottare e… dimenticare..
2 L’amica penna che tu tieni tra le dita,
a trovare t’aiuterà la giusta via,
per vincere una battaglia,
che combatter non avresti mai voluto.
3 Questa è la verità. Quando, purtroppo,
t’investe un malanno che ti far sembrar vicina
la fine di questa meravigliosa vita,
solo allora con forza ti ci aggrappi.
4 Anche a te non sembravati sì bella.
E’ bastato il tremendo scatenarsi.
nelle tue viscere la perfida procella,
per limpido farti apparire il suo valore.
5 Cosa valgono gli smeraldi ne’ confronti,
di veder tra le tue labbra rifiorire,
lo splendore di quel dolce tuo sorriso
che completamente, ormai, s’era offuscato?
6 Il volto sorridente di colei,
che in ogni momento t’è rimasta accanto,
sta sicuramente ad indicare,
di aver ritrovato il sentier della speranza.
7 Or torni ad affacciarti al tuo balcone,
per rimirar la luna che argentata,
appare e scompare tra la nuvolaglia,
ma sorride alla tua speranza ritrovata.
8 E’ pur gioia infinita d’ogni giorno,
se con rinnovato spirito ed ardore,
i rilucenti raggi del sol torni a godere,
al suo nascere o all’appressarsi dell’occaso.
9 Meraviglie che or devi apprezzare,
onde distrarti, e quindi con l’aiuto
della tua penna e della fantasia,
t’appresti a scriver le tue rime strampalate.
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10 Non pensare che il sontuoso desco,
possa la felicità sempre donarti;
a nulla vale navigar nell’agio,
allorché la “notte infinita”…incombe.
11 Solo con la voglia di vivere e tanta volontà
più facilmente potrai vincere e scordare,
le maligne…e mai augurabili vicende,
che ti fecer nel baratro precipitare.
12 Ti accorgerai allor quant’è speciale
ogni attimo della fantastica parentesi,
che s’apri col primo tuo vagito,
e che si chiuderà, si sa, ma il dì devi ignorare.
13 Goditi, intanto, le bellezze della natura,
che sempre sono infinite da ammirare,
e rimani quando puoi ad ascoltare,
dell’usignolo le melodie e le dolcezze.
14 La luna, le stelle, il verde della flora
possono, se tu vuoi, stimolarti
a prendere la tua penna tra le dita,
per scrivere, scrivere…e dimenticare.
Siena 08.03.2003
A. Leonini
APPEN RICORDO (Sonetto)
1 Appena ricordo. Ero assai lontano
quella notte di Gennaio col pensiero;
tanto lontano da vedere tutto nero,
mentre stringevi, con la tua, la mia mano.
2 Mi lamentavo e allora piano, piano,
mi sussurravi col cuore tuo sincero
parole incoraggianti, a dire il vero,
dette con grande amor…ma quasi invano.
3 Avevi atteso per ore con tristezza,
per rivedere spuntar dall’ascensore,
le verdi tute spinger quel lettino.
4 Volevi farmi al volto una carezza,
ma io navigavo nel terrore,
che si placò vedendoti vicino.
Siena 03.10.2001
A. Leonini
178
DAL GENNAIO 2005 AD OGGI. “LA MIA SCIATALGIA”
L’anno 2005 fu per me caratterizzato da molteplici periodi tristi ma anche da lieti
eventi. Fu proprio all’inizio del mese di Gennaio che m’investì l’influenza, ma in modo
talmente grave che una notte fui costretto a chiamare il medico di guardia perché le mie
condizioni andavano peggiorando con la febbre che superava i 39,5°. Egli accorse con
sollecitudine e, appena entrato in camera, sentendomi tossire, non mi visitò neppure. E
disse:- Qui si tratta certamente di broncopolmonite, quindi è bene ricoverarsi
immediatamente. Mentre Ivana telefonava a Roberto, non erano neppure le 4 del
mattino, il medico chiamava il 118. L’ambulanza giungeva contemporaneamente a
Roberto il quale, si può ben comprendere, era rimasto assai turbato dalla telefonata in
ora tanto insolita. Fui immediatamente ricoverato alla “breve Degenza” 3° lotto 7°
piano. Mi fecero le radiografie al torace ma, seppure ci sia stata una forte bronchite, non
rilevarono segni di focolai. Causa quell’altissima temperatura mi fecero
immediatamente assumere del cortisone. Le flebo furono senza sosta per due giorni, e
la temperatura corporea tornò sui 37°, ma la glicemia con l’assunzione del cortisone
raggiunse 290. Per mia soddisfazione me la feci misurare con il mio apparecchio che
non smentì la prima misurazione perché evidenziò Glicemia 295. Ero impressionato ma
mi assicurarono che nel breve giro di un mese tutto si sarebbe normalizzato. Rimasi in
quel reparto 5 giorni e la sera del 22 gennaio verso le 16 venni dimesso. Chiamai a
visitarmi a casa il medico di famiglia Dott. Picchi che, nell’occasione, mi fece anche
l’E.C.G. e mi prescrisse una cura ricostituente raccomandandomi di non sortire di casa
fin quando il clima non si sarebbe un po’ addolcito. Ricordo bene che dalla prima
decade di Gennaio imperava il gelo sia di notte che di giorno. A rimettermi in sesto
occorse un mesetto, ma verso gli ultimi giorni di febbraio mi sentivo nuovamente Aldo.
Certamente non con le energie dell’autunno precedente, quando dovemmo affrontare il
problema della fogna condominiale situata sotto il pavimento del mio quartiere. Ripresi
normalmente le mie attività anche se per ora in maniera alquanto ridotta poiché bastava
poco per farmi sentire del freddo alle spalle che tendeva a scendere per tutta la colonna
vertebrale. Però camminando non accusavo alcun disturbo. Intanto ci avvicinavamo alla
metà di Marzo e ovviamente all’inizio della Primavera. Un bel pomeriggio mi recai in
centro con Ivana, e sentii che qualcosa non andava alla gamba destra. Avrò fatto
qualche sforzo- pensai tra me e me- però da quel momento le cose andarono sempre
peggio. La sera mi facevo dei massaggi con certe pomate che aveva usato anche Ivana
ma le cose andavano sempre peggio, ed allora mi decisi di chiamare il medico di
famiglia Dott. Picchi per una visita, il cui esito è racchiuso nelle rime che seguono.
TRISTE INVERNO- TREMENDA PRIMAVERA
1 Triste Inverno abbiam passato
che ogni fisico ha fiaccato,
febbre alta e pur bronchite,
talor persino polmonite.
3 Poi un giorno, tristemente,
anche l’arto fu dolente,
tanto forte fu il dolore,
che fui preso dal terrore.
2 Mi credevo ormai guarito,
ma non avevo ben capito;
perché freddo ed anche male
alla colonna vertebrale?
4 A camminar non riuscivo,
e la notte non dormivo.
Quindi allor che cosa fare?
Feci il medico chiamare.
179
5 Visitò la gamba mia,
indi disse:- E’ sciatalgia.
Cosa lunga, e da curare
ma dei mesi hai da penare.
7 Passai giorni lunghi e neri,
quanto e più de’ miei pensieri,
e per potermi rilassare,
mesto presi a verseggiare.
Siena 05.07. 2005
6 E Ivana poveretta ,
con la calma sua perfetta
voleva infondermi coraggio
mentr’io pensavo…ci vuol Maggio.
8 Tutto scritto ho qui accanto
qualche volta pur col pianto.
Se qualcun legger vorrà,
le mie pene capirà.
A. Leonini.
Il medico mi prescrisse immediatamente delle iniezioni di antinfiammatori per una
settimana, poi avrei dovuto contattarlo nuovamente. Non trascorse neanche un’ora che
già Ivana stava facendomi la prima iniezione. Sapendo quanto anche costei aveva per lo
stesso problema sofferto era immediatamente corsa in farmacia. Ormai anche per andare
al bagno dovevo poggiarmi al muro o usare il bastone perché quando toccavo il piede in
terra un dolore tremendo mi colpiva dalla nativa al tallone. Mi sentivo un essere inutile
anche perché non ero in grado di fare nulla da me stesso. Persino per prendere la
bottiglietta dell’acqua da sopra il comodino dovevo chiamare Ivana per la sofferenza nel
muovermi. Intanto si avvicinava il giorno dei festeggiamenti pasquali, ed io quando non
mi prendeva fortemente il dolore da farmi piangere mi confortavo a buttar giù delle rime
stando seduto nel letto senza muovere la gamba.
1 Delle Palme era prossima la festa
e già pensavamo alla benedizione
delle rame di ulivo ma, alquanto lesta,
triste in me s’abbatteva l’alluvione.
3 Ancora una volta a fiaccar la gamba mia,
e ad acuire perciò la sofferenza,
è ricomparsa la tetra sciatalgia?
Disse il medico:- Portar devi pazienza.
2 La cosa già prendeva brutta piega,
ed il dolor facevasi insistente,
tanto insistente da non conceder tregua,
e quasi da bloccarmi totalmente.
4 Oggi è la Pasqua di Resurrezione,
ed io son qui, non posso camminare.
Per far tre passi usar devo il bastone,
senza appoggio di cader potrei rischiare.
Preso dalla disperazione qualche giorno più tardi, visto che le iniezioni non avevano
portato nessun giovamento, telefonai alla Dott.ssa Gonnelli specialista in reumatologia,
la quale accorse al mio letto nella medesima giornata e confermò trattarsi di sciatica.
Mi prescrisse altri farmaci costosi che, ovviamente, me li dovevo pagare. Per il
momento dovevo restare a letto, ma appena fossi stato in grado di recarmici con l’auto
avrei dovuto iniziare una lunga cura di fisioterapia. Ad essere sincero di iniezioni ne
feci ben 70 e tre cicli di fisioterapia (10 ogni ciclo) alternati da una settimana di tregua.
Ripresi a gironzolare nel piazzale verso gli ultimi giorni di Aprile. Il 27 dello stesso
mese Roberto mi accompagnò ad una visita specialistica in Via Mentana, il giorno 11
del mese di Maggio mi accompagnò a Grosseto per fare la risonanza magnetica che
evidenziò ben due ernie al disco. Insomma per farla breve, perché su questa malattia ci
sarebbe molto da scrivere, tornai a camminare con l’amico Beppe Ricci il giorno 26 del
mese di Giugno. Ma adesso bando alle tristezze perché altrimenti c’è da impazzire.
Quando a Settembre cadde la pioggia come suol fare nel mese di Novembre, si crearono
le condizioni per far nascere i funghi, ed io e Beppe, ovviamente con molta attenzione a
non fare sforzi e neppure forti sudate, ci dedicammo alla divertente ricerca del porcino.
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PARTECIPAZIONEI AI CONCORSI DI POESIA E NARRATIVA
E FESTEGGIAMENTI A “LA TRANQUILLA” (Asciano)
Una sera di Marzo dell’anno 2004, mentre aspettavo che giungesse il Dott. Picchi ad
aprire l’ambulatorio ebbi modo di conoscere certo Mario Petri che, come me, aspettava
il medico. Mi vide giungere dalla copisteria “Bella Copia” dove ero stato a ritirare un
mio libro di “Rime Strampalate” fatto colà rilegare. Penso che abbia visto il frontespizio
del libro medesimo perché mi chiese:- Che scrivi poesie? Già, risposi, scarabocchio
tanta carta per distrarmi un po’; non sempre in Via Settano ci sono svaghi per dei
vecchierelli come me. Ma allora siamo vicini perché io abito in Via Colombini.
Sai- soggiunse - anche io ho scritto e scrivo racconti e poesie, e a dirti la verità
modestamente qualche volta i miei lavori hanno ricevuto consensi. Senti- disse ancoraperché non partecipi ai vari concorsi di narrativa e poesia? Guarda che ogni anno a
novembre il Comitato “Terza Età Anni d’Argento” indice un concorso in
collaborazione col Comune di Siena, al quale può partecipare chi ha raggiunto i
cinquantacinque anni, senza distinzione di sesso purché residente nel Comune
medesimo. Almeno provaci, non ci sono spese, basta far pervenire alla sede del
Comitato in via XXIV Maggio 40 gli elaborati prima della scadenza che normalmente
è il 30 Novembre. Mario mi incoraggiò e a Novembre dello stesso 2004 partecipai con
qualche poesia. Non fui tra i vincitori perché mi consegnarono solo l’attestato di
partecipazione, ma ebbi così l’occasione di assistere alla stupenda cerimonia nella Sala
del Concistoro del Palazzo Pubblico dove potei anche ammirare i meravigliosi lavori
(pitture) dei più famosi artisti senesi del lontano Medio Evo, che adornano le pareti di
detta sala. Quando avrei potuto avere tale soddisfazione se non avessi partecipato?
Nel Novembre del 2005 partecipai, come avevo fatto negli anni precedenti al concorso
per “Narrativa e Poesia” indetto dal Comitato “Terza Età Anni d’Argento” in
collaborazione col comune di Siena. Presentai un mio racconto intitolato :” Quando
avere la bicicletta era un lusso”. In questo racconto descrissi tutti i sacrifici sopportati
per acquistarne una assai vecchia bicicletta quando ero un ragazzo sedicenne ovvero nel
1942. Ero quasi sicuro di non avere speranze e, per questo, non andai neppure alla
premiazione programmata per sabato 10.12.2005 nel Palazzo Pubblico e per la
precisione nella Sala del Concistoro. Invece il mio racconto ebbe successo e fu il primo
classificato. Il lunedì successivo fui telefonicamente avvisato ed andai a ritirare il
premio. Le voci corrono ed i miei amici de “La “Tranquilla” vollero anche loro farmi
scrivere qualcosa da presentare alla prossima riunione e convivio dei soci che doveva
avvenire nel Giugno 2006. Era un giorno di Febbraio 2006, quando mi chiamò al
telefono Luciano Tommasi, la degna persona che amministra il “Circolo La Tranquilla”.
Ovviamente avevano saputo del mio successo e mi chiedeva se potevamo incontrarci
qui alla mia dimora in Via Q. Settano. Fissammo un appuntamento e la domenica
successiva venne a trovarmi insieme a Carlo Giuliani figlio di Franchino. Mostrai loro
il mio scritto relativo alla Contrada di Grottoli tutto in rima, un racconto che descriveva
quei tanti proverbi che caratterizzavano la vita agreste e da me uditi nei frequentissimi
dialoghi tra mio padre ed il vicino di casa, certo Carlone Lorenzoni, e diverse altre
poesie. Stabilimmo che il libro doveva essere intitolato “La mia Grottoli di ieri tra
realtà e fantasia” . Dissi loro che i miei scritti non dovevano uscire da quello che era
l’ambito dei vari soci della Tranquilla e rispettivi eredi. I miei grossolani errori non
dovevano andare oltre tali confini. Ne uscì un bel libro che fu fatto stampare in un
centinaio di copie. Rileggendolo mi accorsi in seguito di certi errori di stampa che non
potevano essere a me attribuiti.
181
Ma questa cosa non poteva influire su ciò che io avevo scritto. Al momento che
consegnai loro gli elaborati, dissi chiaramente che lo facevo molto volentieri perché fu
grazie alla volontà ed al sacrificio di tutti i miei amici grottolesi, io compreso, che a 60
anni di distanza si poteva ancora festeggiare “La Tranquilla”. Il giorno 04.06.2006, fu
celebrato il sessantesimo anno di vita del Circolo con la grande festa di presentazione
del mio operato alla videoteca comunale sita nel fabbricato che fu sede delle Suole
Elementari quando io ero ragazzo, alla presenza del Sindaco e dell’Assessore alla
Pubblica istruzione del Comune di Asciano.
Una signorina erudita in materia, di cui non ricordo il nome lesse, come si legge
davvero, alcuni passi della Poesia “La mia Grottoli di un tempo tra realtà e fantasia”
che riscosse infiniti consensi dalle molte persone presenti. In quell’occasione ebbi anche
il piacere di stringere la mano al Primo cittadino di Asciano e all’Assessore prima
citato. Ma la festa non poteva finire alla videoteca. Verso le 13 ci trasferimmo al
ristorante “Le Piramidi” dove incontrammo tutti gli invitati al convivio. Ebbi anche il
piacere di scrivere un numero imprecisato, ma tante, dediche su ogni mio libro offerto a
ciascun socio. Insomma si stava consumando anche quella parte di festa a me dedicata.
C’erano quasi tutti i miei amici più cari della lontana giovinezza. Purtroppo mancavano
Mario Benocci, Giacinto Della Vedova, Pietro Trapassi, Zeppa, deceduti da tempo, e
questo mi rattristava molto. Prima del pranzo il Presidente de ”La Tranquilla” l’amico
Guido Lorenzoni, fece un significativo discorso augurando, nell’occasione, Buon
appetito a tutti i convitati. Per me fu una giornata indimenticabile.
Presi posto a sedere tra mio fratello Ivo e Mazzola, di fronte si sedeva l’amico Ivo
Palazzi, sua moglie e sua figlia Simonetta, insegnante alle scuole di Asciano. Erano
presenti anche Roberto e Maura che si posizionarono allo stesso nostro tavolo ma
qualche posto distanti. Roberto scatto un numero imprecisato di foto che conservo al
computer e nell’album. Tanto era calda e divertente l’atmosfera che le ore passarono
come un soffio e sebbene con un po’ di tristezza dovemmo salutarci con la speranza di
ritrovarci, salute permettendo per tutti, il prossimo anno anche per eleggere il nuovo
consiglio come previsto dallo statuto. Torno a ripetere che fu una giornata
indimenticabile anche per il trattamento che quei soci ed amici mi riservarono.
Vorrei mettere in evidenza che di coloro che con tanto sudore e volontà 60 anni addietro
avevano eretto quelle quattro rustiche mura de “La Tranquilla” eravamo presenti
soltanto: Ivo Palazzi, mio fratello, Giuseppe Ciapi, Mazzola (Alvaro Rubbioli),
Ghiandaia (Guido Lorenzoni) lo scrivente e Franchino Giuliani che aveva dato il
permesso di costruire nella sua proprietà. Tutti gli altri, ed erano davvero molti, ci
avevano lasciati in età prematura.
Restammo lì tra quegli amici fino verso le 18, poi salutati i convitati ripartimmo per
Siena. Ma durante il viaggio di ritorno ci fermammo più volte per scattare delle foto alla
campagna che, in quel pomeriggio assolato, mostrava tutta la sua bellezza. Per diverse
settimane mi trovai a riflettere su quanto era stato fatto sei Giugno anche in mio onore.
Benché mi sia impegnato profondamente per ben figurare, credo di non avere avuto
merito di simile omaggio. Comunque fu uno stimolo in più a perseverare in questa mia
passione, almeno fino a quando le mie dita potranno stringere la penna e la mia vetusta
mente mi aiuterà ad avere ispirazioni da trascrivere nero su bianco. Passarono le
stagioni e giungemmo al Settembre 2006. Era il momento dei funghi, ma avevo già in
mente di partecipare al concorso che mi aveva visto primo classificato il 10.12.2005.
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Ai primi di Novembre incominciai a mettere a punto i miei racconti e le poesie che
avevo in mente di presentare. Per la narrativa presentai: “Quando Passano i
bersaglieri” dove narravo le mie impressioni nel vedere per la prima volta correre quei
baldi giovani al suon della fanfara che ubicata in testa scandiva loro il tempo. Presentai
anche un paio di poesie e attesi il gran giorno della cerimonia consapevole che non
sarebbe stato il successo dell’anno precedente. E fu così ma dovevo partecipare e
partecipai anche alla cerimonia di premiazione. Ebbi il piacere di congratularmi con
Petri che fu classificato secondo. Per me ci fu il solito attestato di partecipazione ma
non potevo pretendere di più. Quando raccontai a Ivana ciò che avevo meritato
esclamò:- Ma non sei contento di essere stato classificato primo lo scorso anno? Non
sempre si può essere vincitori, bisogna sapersi accontentare. Quel quadro con la
pergamena e le due monete in argento dell’era che Siena aveva una “zecca” propria non
poteva rimanere solo, attaccato sulla parete di sala. Doveva avere un suo simile,
ovviamente da me meritato. Così nell’autunno del 2007 allorché fu bandito il concorso
presentai tre poesie tra cui “Siam tre canuti Vecchierelli” ove narro le serate di tre
arzilli vecchietti del mio caseggiato, tra cui ci sono anche io, che si incontrano ogni sera
in casa mia fino alle ore 18, ovvero fin quando uno dei tre deve ritirarsi per assumere la
pasticca per controllare un suo malanno. Nell’occasione narro la loro travagliata vita
militare al tempo del conflitto mondiale 1940-1945. Io non ci pensavo neppure, e
invece riscosse il terzo premio a parità con un secondo concorrente. Queste le prime
rime:
Quando il rigido inverno, giunge sì repentino,
scatenasi l’Inferno, e tutto va in declino.
Non c’è altra soluzione per i poveri anzianotti,
che subir la condizione, di restare al chiuso e “chiotti”.
E per chi è già in declino, (tardi assai tocchi tal sorte),
al calduccio del camino, …ma lontano dalle porte.
Quando lessi la poesia al cospetto della giuria, e di molti partecipanti, come era stato
per i due primi classificati, riscossi molti applausi ed ebbi anche il piacere di stringere la
mano all’assessore ai servizi sociali ed ai componenti il palco della presidenza. Ecco ora
il quadro con il primo premio dell’anno 2005 non era più tanto solo.
Ad essere sincero quei due quadri mi stimolarono a perseverare quindi partecipai al
concorso indetto nel Novembre 2008 con tre poesie e con il racconto “Allora le
chiamavamo Feste da Ballo” , e fu proprio con detto racconto, dove rispondevo alla
domanda fattami da un fanciullo del condominio, che descrivevo i balli nelle aie al
chiaro di luna al suono dell’organino, e che per dissetarci mangiavamo del cocomero
tenuto al fresco nel pozzo. Insomma benché sia stato solamente un terzo premio, per me
fu davvero grande soddisfazione. Ma già nel mese di Ottobre, ovvero in occasione del
“Palio dei ciuchi” al Petriccio, avevo riscosso consensi con una poesia che fu letta
dall’organizzatore Tommaso Vannini poco prima della corsa. Alcuni brani comparvero
il dì successivo in un giornale locale. Insomma per un vetusto campagnolo quale anche
adesso superata l’ottantina io con orgoglio mi sento, sono piccole ma grandi
soddisfazioni. So bene che se i miei scritti li leggesse un vero poeta o un affermato
scrittore verrebbero considerati meno di zero, ma ognuno da’ e fa quello che può. Il mio
grado di istruzione non può permettermi di più. Ma come ho più volte detto, malgrado
ciò, continuerò a scrivere rime finché… la mente mia stanca mi aiuterà.
183
Nelle ore del mattino, e in particolar modo in quelle dei lunghi pomeriggi al fresco nelle
panchine sotto le piante di tiglio insieme agli amici coetanei, e più giovani, i dialoghi
vertevano ogni volta su la prossima apertura della caccia e sui funghi, ma anche sul
ritrovato amore del Pannini. Ed io sfruttavo proprio tali dialoghi più o meno
surriscaldati per buttar giù quattro rime. Nel bel mezzo del solleone dedicai un po’ di
quartine strampalate a Mario Materozzi, lo spergitore di tortorelle e di lepri.
1 Il mio amico Materozzi, che non spara agli strillozzi
lieto aveva al fuciletto, lucidato anche il grilletto.
Eran tutti assai bramosi, e persino fiduciosi,
perché pioggia seppur lieve, c’era stata in tempo breve.
2 Ma quel dì non c’eran voli, dove crescon i girasoli,
i colombi e tortorelle, non gradivan le “schiantelle”.
Come se fossero informati, s’eran tutti dileguati.
Questi piccoli uccelletti, posson far brutti scherzetti.
3 Non dovete disperare, l’Autunno ha da arrivare,
vi rifarete un bel domani con le lepri e coi fagiani.
E chi ha cani assai speciali, se ne andrà per i crinali,
e sparerà colpi mortali verso i poveri cinghiali.
Si giunge all’inverno, diradano le mie passeggiate verso il Circolo del Petriccio dove
nei mesi più tiepidi ci troviamo per trascorrere qualche ora in allegria. Ma come sempre
anche la stagione triste e gelida che ci costringe in casa lascia lo spazio alla primavera.
Ogni pianta inizia a germogliare ed anche io come tutti gli altri torno alle panchine del
Circolo. Sono ogni giorno i soliti rimpianti della lontana trascorsa gioventù. C’è chi
racconta di avere trascorso maggior parte dell’inverno a lucidare il fuciletto in attesa di
giungere, salute permettendo, alla nuova apertura. Il Bechi con la sua voce canora ci
tiene informati dei fatti del giorno, il Pannini ci racconta della sua ritrovata Rosetta. Io,
ovviamente, non sto sempre ad ascoltare, ma racconto le mie storie di quando ero
contadino in quel di Asciano. Insomma ognuno ha le sue bravure da raccontare.
Improvvisamente quando sta per terminare la Primavera succede una cosa tristissima
che lascia un enorme vuoto tra noi frequentatori abituali delle panchine. Renato Bechi
viene colto da un malore e ricoverato in ospedale. E’ rimasto paralizzato da una parte,
non si muove, tartaglia e non si capisce. La famiglia è disperata. Sono stato qualche
volta a fargli visita ma non resisto a simili dispiaceri. Anche mio fratello Ivo non sta
bene e viene ricoverato all’Ospedale “Le Scotte” . Purtroppo dopo qualche tempo di
sofferenze termina la sua parentesi di vita terrena il 09.09.09. Ed è proprio da quel
periodo che anche io incomincio a non sentirmi troppo bene. Mi ha scosso in modo
particolare la sua scomparsa, e penso che il mio stato di depressione e di debolezza
abbia a divenire da ciò. Intanto incomincio a misurarmi la pressione e mi accorgo di
averla molto alterata. Vado dal medico di famiglia Dott. Picchi al quale racconto il mio
stato. Mi prescrive dei farmaci per la pressione e delle analisi del sangue che faccio
normalmente due volte all’anno. I Marckers oncologici e per la prostata vanno
benissimo, ma l’emocromo evidenzia un abbassamento di certi importanti valori per cui
mi prescrive una cura ricostituente per l’anemia. Mi rimetto un po’ in sesto e alla
stagione dei funghi vado più volte al bosco con Beppe Ricci e con Ivana. Ai primi di
Novembre, come ogni anno, invio al Comitato “Terza Età Anni d’Argento” i miei
elaborati per partecipare al VII Premio Narrativa, Poesia e Pittura.
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Ma non durò a lungo quel mio stato di riacquistate forze e volontà, e gli ultimi di
Novembre feci nuovamente le analisi privatamente da cui si evidenziava che non c’era
stato alcun miglioramento nell’emocromo e nell’ematocrito ragion per cui ripresi a fare
iniezioni e compresse di folina oltre a quelle che ormai prendo da tanti anni. Anche la
pressione faceva le bizze. Insomma in quello stato di salute alquanto compromesso si
giunse al giorno della cerimonia di premiazione dei lavori inviati al VII concorso per
poesia, narrativa e pittura, ovvero al 12.12.09. Nelle condizioni in cui mi trovavo non
mi sentivo di percorrere a piedi il tratto di strada che va da S. Domenico al Palazzo
Comunale e ritorno, perciò chiesi a l’amico Mario Petri, anche lui partecipante, che se ci
fosse stato qualcosa per me avrebbe fatto il favore di ritirarlo. Verso le 11,30 sento
suonare il campanello, Ivana va ad aprire ed è Mario che esclama:- Quando prende il
primo premio Aldo ‘un è mai presente. E continua:- Hai preso il primo premio con la
poesia “L’amore non ha età”. Ti sei perso una bella occasione, e così dicendo mi
consegnò la pergamena di premiazione e la scatolina con le due monete d’argento, le
stesse degli altri premi. Queste alcune quartine di detta poesia:
L’AMORE NON HA ETA’
1 Si dice che la stagione dell’amore,
sia già svanita… alle ottanta primavere;
ma sono tesi non sempre veritiere,
e non destinate, certo, a far scalpore.
2 No! Io dico con tutto il mio fervore,
senza ad alcun negare il suo pensiero,
che non può avere età… l’amore vero,
se radicato nel “profondo” del tuo cuore.
3 Ma non è amore quella fervida carezza,
che scambi al mattino con chi ti giace accanto,
senza aver nell’intimo… il rimpianto,
della lontana…. trascorsa giovinezza?
4 Non è amore quel tuo prendere per mano,
e inceder fianco a fianco per la via,
con la persona cara,…. ed in armonia,
pensare al lieto viver…quotidiano?
Ad essere sincero in qualcosa speravo, anche perché avevo inviato tre poesie ed il
racconto “Quando Passava il treccolone”. Qualche tempo prima avevo fatto leggere il
materiale da inviare a Maura e a Pina e non avevano trovato nulla da eccepire, anzi sia
le poesie che il racconto erano piaciuti molto. Un po’ sorpreso per il risultato ma allo
stesso tempo assai soddisfatto ringraziai Mario, ed il Lunedì successivo mi recai dal
vetraio Carlucci per ordinare l’appropriata cornice che mi fu consegnata dopo tre giorni.
Ora in quella parete vi sono due primi premi e due terzi. Ci sarà il tempo per mettercelo
un quinto? Ma seppure soddisfatto per il risultato raggiunto con dette composizioni, il
mio stato di salute non migliorava e trascorremmo così le feste natalizie ed il
Capodanno. Ovviamente ero preoccupato ma ascoltavo anche ciò che mi dicevano
Roberto e Ivana, ossia da anziani la ripresa e sempre molto lenta.
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Da un po’ di tempo avevo tralasciato di recarmi al Circolo, un po’ per la stagionaccia,
ma anche perché le gambe non avevano più l’energia delle stagioni passate. Devo dire
che quando di mia iniziativa feci ancora gli esami il 28.12.09 al Centro Diagnostico
Senese, faticai assai per raggiungere a piedi quel luogo. Ma cosa mi stava succedendo?
La paura di essere ricaduto in qualcosa di estremamente grave prendeva sempre più il
mio pensare. La mattina del 5.01.10 verso le quattro mi alzo per andare in bagno e
mentre torno a coricarmi sento che il mio cuore sembra impazzito 145 battiti. Ivana
chiama immediatamente Roberto che avvisa il 118. Nel giro di un quarto d’ora
giungono l’ambulanza col medico e Roberto. Vengo immediatamente portato al Pronto
Soccorso dove mi fanno delle flebo, e nel giro di un paio d’ore la tachicardia rientra.
Nell’occasione, poiché ero da tempo preso da forte raucedine, vengo anche visitato da
uno specialista Otorino che esclude neoformazioni alla laringe. I medici del P.
Soccorso, nel foglio di dimissioni che avvengono verso le 14 dello stesso giorno
consigliano un controllo alla tiroide, eco cuore ed altre cure.
Il giorno 11 dello stesso mese, ovvero dopo 5 giorni dal fatto di cui sopra mi
sottopongo a ecografia alla tiroide che evidenzia un nodulo centimetrico nel lobo
sinistro. Non bastavano gli scherzetti della glicemia che spesso la notte mi costringe ad
assumere zucchero ed il giorno va alle stelle. Fatto vedere l’esito dell’ecografia al mio
medico Dott. Picchi mi descrive le analisi appropriate che, per non aspettare altro
tempo, faccio il 14.01.10 al Centro Diagnostico. Qui oltre a confermare qualche
anormalità nell’emocromo, vengono, anche evidenziati valori di ipertiroidismo. Riesco
tramite il C.O.R.D ad avere un appuntamento con il reparto di endocrinologia per il
giorno 20.01.10 alle ore 11. Lo stesso giorno 20 avevo l’appuntamento con il Dott.
Lunghetti (Clinica Rugani) per visita cardiologica e ecocuore, ed il 21 una visita
chirurgica con il Dott. Calomino perché da tempo sofferente di emorroidi. Il Mattino del
20.01.10 verso le tre e mezza mi desto ed il mio cuore è di nuovo impazzito. Chiamata a
Roberto ed al 118 il cui medico tenta per un ora (nel mio letto) di far rientrare la
tachicardia, ma inutilmente. Nuova corsa al Pronto Soccorso, nuove flebo, ma alle ore
12 le mie condizioni non sono migliorate, perciò vengo ricoverato al 3° Lotto 7° piano
letto 13 “Breve Degenza”. Roberto disdice i due appuntamenti con il chirurgo e con la
clinica Rugani, il P. Soccorso provvede a farmi vedere dalla Dott.ssa Cioli
endocrinologa, che viene al mio letto nel pomeriggio. Dopo le solite domande mi saluta,
e mi prescrive un farmaco che inizio ad assumerlo la sera stessa. Nell’occasione mi fissa
un appuntamento in Endocrinologia per il giorno 01.02.10. Da notare che appena
ricoverato al 3° Lotto, la tachicardia rientra, ma il mio cuore viene monitorato per 24
ore. Anche qui mi fanno delle flebo, vengo visitato dal Dott. Bruni il quale prescrive dei
farmaci compreso quello prescritto dalla Dott. Cioli ovvero Tapazole mg5 sei cp al dì.
Il giorno successivo 21 Gennaio alla visita del mattino il Dott. Bruni dice che in
giornata sarò dimesso. Reclamo l’ecocuore come consigliato al P. Soccorso il 05.01.10.
Egli dice che insieme agli altri medici è stato accertato che la tachicardia è frutto
dell’ipetiroidismo, quindi non occorre ecocuore. Il pomeriggio verso le quattro, invece,
giungono al mio letto con la macchina e mi fanno il suddetto esame. Dopo appena
un’ora (ancora mezzo rincoglionito ed esausto) già mi trovavo sulla poltrona spinta da
Roberto e diretto all’uscita dall’ospedale “Le Scotte”. Dopo quella batosta le gambe
non mi portavano e per diversi giorni sono stato costretto a non uscir di casa. Un po’ per
la debolezza ma anche per la paura. Quando abbiamo subito tali prove è difficile anche
prendere sonno nella notte. Infatti all’ospedale non sono riuscito a chiudere occhio.
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Una volta a casa ho continuato la cura tralasciata due giorni prima ed anche quella
prescrittami dalla Dott.ssa Cioli per l’ipertiroidismo. Così siamo giunti al 01.02.10 data
della visita Endocrinologica. Peggio è stato per Roberto poiché è dovuto andare a
prendere la cartella medica al terzo Lotto 7° piano e dopo la visita riportarcela
nuovamente. Ho avuto fortuna per la puntualità e per aver trovato una Dott.ssa molto
accorta e interessata. La visita non è durata a lungo, con la promessa che appena avuti
gli esiti delle analisi del sangue toltomi quel mattino stesso mi avrebbe telefonato.
Infatti il mattino del 05.02.010 trilla il telefono e la Dott.ssa Castagna mi annuncia che
le analisi vanno bene e che devo continuare la cura di 6 compresse di Tapazole fino al
12.02.10 e dal giorno successivo diminuire a 4 al dì. Dopo altri cinque giorni mi
giunge la sua lettera per il mio medico di famiglia a cui è allegata l’impegnativa per la
prossima visita il 23.03.10 alle ore 10 e con la raccomandazione di fare nuove analisi
verso il 25.02 e inviare l’esito via fax all’Endocrinologia. Questo fino ad oggi
13.02.2010 l’andamento di quest’ultima batosta. e come se non bastasse anche la
Glicemia sta facendomi degli scherzetti per cui sarò costretto a sottopormi a visita
specialistica. Ma adesso lasciamo perdere per un po’ le mie disavventure e parliamo
d’altro. Ieri di mattino e di pomeriggio sono salito da Guido e abbiamo giocato a carte.
Sono salito anche stamani per un’ora, mi sembra che si distragga un po’ da quel
pensiero fisso sulla sua cara defunta Corella. Ma secondo quanto mi dice Ivana ne provo
giovamento anche io in questo particolare momento.
Domani è S. Valentino ma io, benché sia così acciaccato, non me lo sono dimenticato.
S. VALENTINO 2010 - A IVANA
1 Sebbene sia così…molto acciaccato,
il magnifico giorno di S. Valentino,
non può essersi nel nulla eclissato,
anzi… .lo sento nel mio cuore più vicino.
2 E penso molto come poter gratificare
questa mia donna amata e rispettosa,
che il modo cerca sempre per placare
i miei malanni d’una stagione burrascosa.
3 No! Non ci sono regali più preziosi
di quello che lei sta per me facendo.
Ovver questi miei giorni tormentosi,
più leggeri con amor li sta rendendo.
4 Ed io che faccio per lei, che posso fare?
Almen potessi le sue pene un po’ lenire;
pene che sovente la stanno a disturbare.
Chi provate non l’ha non può capire.
5 Ma con queste scarne rime voglio dire,
che mai e poi mai, nel tempo che ci resta,
le angosce nostre potranno sminuire,
il significato di questa… lieta festa.
6 Ogni mio guaio sento tramontato,
per dedicarti come ognora il mio pensiero.
Ben altro mia donna cara hai meritato
oltre a questo amore…grande e vero
7 Aspetterò il bel tempo per andare
dove espongono fiori appen sbocciati;
un fascio di rose rosse, ti dovrò donare,
sono i fiori che tu mai… hai rifiutati.
S. Valentino
2010
Aldo
Al momento che, dopo averla stampata in carta pergamena con cornice colorata, l’ho
fatta leggere a Ivana, questa si è commossa, ma commosso mi sono pure io.
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i miei racconti 1-187 - Leonini Aldo Racconti e poesie