leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Antidoti Dacia Maraini Simone Moro Andrea Bocconi Roberto Mantovani Alessandro Filippini Maurizio Maggiani Paolo Rumiz Franco Arminio Andrea Gobetti Carlos Solito MONTAGNE Avventura, passione, sfida A cura di Carlos Solito I edizione luglio 2012 © 2012 Lit Edizioni s.r.l. Elliot è un marchio di Lit Edizioni. Sede operativa: Via Isonzo 34 – 00198 Roma [email protected] www.elliotedizioni.com Introduzione I racconti di questa antologia dedicata alle montagne seguono una sequenza ideale che parte dalla vetta, arriva a valle e, poi, sottoterra, nel ventre del pianeta. L’apertura è affidata all’elegantissima penna di Dacia Maraini, che racconta la grande figura del padre Fosco, viaggiatore, alpinista, scrittore, dal quale ha imparato “l’amore per l’altezza”. Da Maraini, in ordine sparso, a Walter Bonatti raccontato da Alessandro Filippini, dove scopriamo le mani del grande alpinista che hanno stretto morse mostruose su graniti e su compagni di spedizione in difficoltà. Gocce di montagna di Simone Moro, tra i più appassionati e capaci alpinisti del nostro tempo, autore di scalate impossibili come alcuni 8000 in inverno. Roberto Mantovani rimane nelle latitudini himalayane raccontando un suo girovagare sul massiccio del Karakorum dominato dal K2, mentre Andrea Bocconi, “di buon passo”, ci fa camminare nel suo stile scansonato dalle Alpi Apuane, in Toscana, fino agli oltre 4000 metri del lago di Gosaikunda, in Nepal. Un viaggio trasversale, come trasversale è il racconto di Maurizio Maggiani sulla sua Garfagnana, “il mio altrove”, come la definisce lui, che “lo è da sempre e da sempre mi chiama” tra canti di storie meravigliose, boschi, cattedrali di marmo, fiumi misteriosi e leggende di pastori erranti. E poi, poi ci sono le montagne mamme d’acqua che ogni gior7 no sgravano milioni di metri cubi del bene più prezioso per l’uomo e che Paolo Rumiz, nel suo inconfondibile stile, racconta nel reportage Acque serve d’Italia, dal Biellese alla Valcamonica fino ai profili delle Serre calabresi, nell’estremo Sud. Continuando la nostra discesa di quota, entriamo nei piccoli borghi dell’Alta Irpinia, in Campania, in bilico tra l’altopiano del Formicoso e la valle del fiume Ofanto, seguendo la prosa poetica del paesologo Franco Arminio. Spalle alla penisola, sul mare, nel mare, Andrea Gobetti impersonifica un aforisma di suo nonno Piero: “Chi sa combattere è degno di libertà”. Speleologo, climber e viaggiatore inguaribile, ha lottato contro freddo e calure a ogni latitudine del mondo, tra abissi e vulcani. In queste pagine ci regala una sua avventura sullo Stromboli, nelle Eolie. Stromboli che, oltre alla sua capricciosa attività eruttiva, ricorda Jules Verne e la fine del suo Viaggio al centro della Terra per grotte, voragini e caverne zeppe di stalattiti e stalagmiti, proprio come l’ultimo racconto, il mio, che s’inabissa dentro le montagne. Mio figlio guarda, ammiro i suoi occhi che scrutano e lo sento, sento che vorrebbe andarci, salire, scoprire. Lo vedo, sta fantasticando, bello! Carlos Solito Grottaglie, 1° giugno 2012 Oggi è il primo giorno di giugno e per scrivere questa introduzione sono tornato a Grottaglie, il posto dove sono nato e dove il paesaggio è terribilmente piatto, le montagne qui sono un miraggio. Sono salito a piedi su quello che qui chiamiamo scherzosamente monte Pizzuto insieme a Christopher, mio figlio. Il muretto a secco sul quale sedevo da bambino c’è ancora. Abbiamo occupato la nostra postazione coi piedi penzoloni nel vuoto. C’è vento, e laggiù, oltre le dita fumanti puntate al cielo del siderurgico, oltre Taranto, oltre il golfo, si staglia il Pollino. Si distinguono i suoi profili, gli stessi che guardavo da bambino quando mi rifugiavo qui a mirare il mondo pulito dalla furia della tramontana per ore. Immaginavo boschi, vette, fiumi, laghi e le persone, immaginavo. 8 9 Mio padre Fosco e la sua montagna DACIA MARAINI Per me la montagna è legata al ricordo di mio padre. Anzi direi che le montagne nel mio pensiero sono il luogo dove si trova ancora oggi, gentile e sapiente, lo spirito di mio padre. Da lui ho imparato l’amore per l’altezza, nonostante le mie vertigini. «Papà, basta, non ce la faccio più». Ma lui, con dolcezza, mi spingeva a continunare. Non ci saremmo fermati né in cima a quella altura, né a quella seguente. «Ma papà, mi hai detto che la cima stava là e invece vedo che si allontana sempre di più». «La cima è là dietro, abbi fede, ci arriveremo». Questa era la sua risposta, un poco sadica a dire il vero, nei riguardi di una bambina di dieci anni che arrancava dietro il suo passo di atleta, con il naso congelato, i piedi indolenziti, la paura di non farcela. Di mio padre conservo dei taccuini minuscoli in cui racconta, in forma concisa, le sue avventure di montagna. Ogni tanto le rileggo ammirando il suo passo (anche sulla carta camminava sicuro) leggero e deciso, il suo respiro regolare, la sua immaginazione lampante. In una pagina datata 31 luglio 1939, leggo: “Notte in treno. Seconda notte di viaggio. Terza classe. Dormito poco. A Matsumoto verso le nove. Paesaggio bello, archi11 tettura montana, alpina. Muri bianchi, legno. Tetti inclinati ecc. Solita montagna uguale dappertutto. In autobus a Kamikochi con Birus e Hallier”. Distretto di Higashichikuma, della prefettura di Nagano. La famiglia Maraini era in Giappone da solo un anno. Mio padre era un giovanotto bello e sportivo. Aveva fatto subito amicizia con gli stranieri che abitavano a Kyoto ma anche con tanti giapponesi dell’università di Nagano. In quel luglio del ’39 decise di lasciare mia madre a casa con “le bambine”, per andare a scalare le montagne con l’amico Hallier, francese, e l’amico Birus, tedesco. I tre giovanotti si dirigono verso le montagne dell’Hodaka. Prendono il treno fino a Matsumoto e poi in autobus fino a Kamikochi. Si fermano nel villaggio montano per un rapido pranzo a base di riso e di sottaceti e pescetti fritti avvolti nelle alghe e quindi prendono ad arrampicarsi sulle rocce per raggiungere la vetta dell’Hodaka, alta 3090 metri. “Bel tempo. Caldo. Salito per ore e ore. Fatto alcuni tratti di roccia (bella!). In vetta dell’Hodaka (3090) alle sette. Si fa buio”. A questo punto i tre amici decidono di prendere la strada della discesa. Cantano, ridono, sono allegri. Ma non si tratta di una strada facile. “La discesa si fa ripida. Lego Hollier per precauzione. A Birus non ci penso, perché è sicuro” scrive Fosco nelle sue paginette lillipuziane. cio tra nevaio e parete rocciosa, ferendosi assai alla testa”, come leggo nel libretto di appunti. Sono le nove di sera. Si vedono le luci in lontananza. Ma dentro il crepaccio è buio. Non si capisce a che punto stia Birus e non si sa come tirarlo fuori. I due amici rimasti incolumi si dividono e mentre uno rimane a guardia del crepaccio, l’altro va a chiamare rinforzi. “Quelli del campo vengono ad aiutarci” scrive Fosco. Ma portare giù un ferito grave sulle rocce scivolose, nel buio della notte che avanza, è una impresa difficile. Ci mettono sei ore, una eternità per il povero Birus che intanto perde sangue dalla testa e trema per il freddo e il dolore. Arrivano al campo che è gia notte. Fosco e Hallier sono sfiniti. “Fortunatamente tutti sono gentilissimi e preparano per Birus una tenda”. Gli tamponano la ferita e cercano di scaldarlo con del tè caldo. Ma lui non riesce a bere e sembra che deliri. Martedì 1° agosto 1939 “Brutta giornata di tempo e di morale” scrive Fosco. “Alzati dopo solo tre ore di sonno. Birus incosciente”. Alle sette arrivano otto portatori che hanno costruito una barella improvvisata. Birus non si riprende. Sembra in coma. Gli amici si allarmano. Cosa fare? Invece sarà proprio Birus, un esperto scalatore, a scivolare su una chiazza di neve, “precipitando in un crepac- Intanto Fosco torna al crepaccio per riprendere la roba che avevano lasciato in altura. “È un posto brutto e triste” commenta. Inoltre ha preso a piovere e le rocce sono diventate ancora più scivolose. C’è nebbia. “Non so dar- 12 13 mi pace di non avere detto a Birus di legarsi. Scendo scivolando. Faccio rotolare il sacco fino in fondo perché troppo pesante”. Ma Fosco è abile come una scimmia. Arriva a valle in un baleno, e si precipita a trovare l’amico. Intanto un medico si è mosso da Kamikochi e li sta raggiungendo per la salita. Appena si incontrano, i portatori e il medico, appoggiano il ferito per terra e il dottore gli fa una prima medicazione. Birus sembra avere ripreso i sensi, ma il sangue non si ferma. Tracce rosse rimangono sul cammino innevato. “Proseguiamo. Piove, poi viene il sole poi piove di nuovo a dirotto” commenta Fosco che doveva essere di umore nero per il senso di colpa che lo ossessionava. Perché aveva pensato che Birus non avesse bisogno di farsi legare come Hallier? Si era comportato con leggerezza? Forse anche con incoscienza? Di chi la colpa? Intanto arrivano a Kamikochi, il villaggio di partenza. Ma qui non ci sono ospedali. “Piccolo albergo. Pioggia. Saette. Le scarpe fanno male, penso però a quanto deve soffrire Birus”. Insieme lo trasportano all’ospedale della vicina Kanokochi. “Medici alla buona” considera Fosco. I due amici trovano una stanza in un alberghetto a poco prezzo. Non dispongono di molti soldi e questa sosta non era prevista. “Sarebbe troppo bello se il povero Birus stesse bene con noi!”. 14 Siamo a mercoledì 2 agosto. La notte Fosco e Hallier rinunciano al sonno per andare a vedere come sta l’amico Birus. “Intanto cominciano ad arrivare i conti” scrive Fosco. “I portatori vogliono 229 yen. Gli incidenti in montagna sono molto cari. E bisogna pagare. Erano in otto e ciascuno ha voluto la sua parte”. Birus sembra stare un poco meglio, riconosce e parla un poco. Lo hanno medicato di nuovo. “Mi pare che questi medici di qui facciano però molto alla dioboia”. Nel pomeriggio vanno alla posta per mandare un telegramma alla famiglia dell’amico ferito. Ma poi, che fare? Andare via e lasciare solo il giovane infortunato? Non sembra il caso. Fosco e Hallier ne discutono concitatamente. Alla fine decidono di rimanere. Ma cosa possono fare se non aspettare? “Parte della mattinata la passo al sole aspettando. Hallier mi fa venire i nervi: è così vago e così stolido nelle cose di ogni giorno, pure mi pare un ragazzo intelligente”. Una cosa è vivere insieme una avventura montanara, ridere, cantare, scalare, mangiare, dormire sulle vette, anche in tende scomode. Altra cosa è affrontare con pazienza una lunga attesa in una piccola città straniera, senza soldi, senza sapere quanto durerà, e senza avere una idea di cosa fare. “Questo ousen (locanda) di Kamikochi è molto pittoresco” scrive Fosco che ha l’occhio sempre attento e si guarda intorno con curiosità. È proprio buffo che in un ousen giapponese si trovino disegni di “costumi tirolesi, immagini di nudisti appese alle pareti”, mentre fuori, sulle strade 15 investite dal vento freddo delle montagne, si incontrano soldati, ragazze dalle gambe nude, “vestitisti, cappellisti, scarponisti, sacchettisti, pittori con tavolozza, scuole, gente che piglia il sole, ghette, scarpe, zoccoli, ciabatte, vestiti di paglia, studenti in uniforme ecc.”, commenta con buffo incanto musicale il giovane Fosco. Birus però continua a stare male e si lamenta. “Ora scenderemo a Matsumoto, per portarlo in un vero ospedale”, si propongono i due amici. Ma trasportare Birus fino all’auto non è facile. “Viene un forte ragazzotto (studente) ad aiutarci, ma poi sparisce. In auto con due, tre futon. Birus vaneggia. Lentamente cala il giorno. Hallier sta a sedere davanti. Alle otto arriviamo all’ospedale di Matsumoto. Infermiera brava ed efficiente. Arriva il giapponese Kawase, direttore dell’ospedale, e visita Birus. Lo trova non grave. Buone speranze”. Giovedì 3 agosto La mattina il professor Kawase scopre che Birus ha una depressione tra il parietale e l’occipitale. “Le cose si fanno bigie” scrive Fosco. Le condizioni di Birus stanno peggiorando. “Polso scende fino a 40 e c’è sempre febbre. Passiamo una brutta mattinata. Il prof. ha visitato di nuovo B. con molta cura. Insieme c’era un assistente e quattro o cinque infermiere. Le medicazioni stavano su un carrello. Un complesso molto sudicio. Però grande uso di disinfettanti”. Curiosamente una delle infermiere si avvicina a Fosco e gli dice in un orecchio che lo “hama”. Dovunque andasse conquistava cuori il mio giovane bellissimo padre. L’infermiera, scrive lui, si chiamava Nakajima-san. Ma non racconta se fra i due ci sia stato un bacio o qualcos’altro. 16 “Hallier è catastrofico. Birus non capisce nulla. Per colazione raggiungiamo tendone in uno yadoya non lontano dall’ospedale. Tempo caldo ma bellissimo. Dopo mangiato si visita il castello di Matsumoto: bellissimo. Enorme struttura in legno”. Intanto arrivano degli amici di Birus dalla città. Forse Hallier e Fosco possono tornare a casa. Infatti: “Alle 3.14 parto col treno per Tokyo. Fo il viaggio con Hiraiwa. Grandi discussioni: H. è simpaticissimo. Sono felice di averlo conosciuto. Uno dei primi giapponesi che pensa con la sua testa. Treno pieno di gente. Vicino a noi due donne con bambini, più uomo socievole e uomo timido. Due studenti di ritorno dai monti. Bella ragazza vestita di rosso. La sera pranzo con Mergè. A letto tardi dopo lunga chiacchierata”. Fosco sembra dimenticarsi di Birus, e correre dietro a Michi di cui si dice innamorato. Ma Michi è la moglie di Mergè, un vecchio amico. Come sopportare il senso di colpa? Ripete a Michi che devono lasciarsi, lei giura che si farà monaca. Lui sembra lacerato. Alla fine lascia casa Mergè e se ne torna da Birus all’ospedale. La giovane moglie Topazia con le bambine sembra completamente dimenticata. Domenica 6 agosto “Birus si è ripreso ma ha una complicazione alla vescica. Lo trovo meglio di quando sono partito. Mi riconosce. C’è l’infermiera Takeshida e un’altra. Arriva poi Takakosan che dice che lo ‘hama’. È molto sweet. Bene per Birus. Dormo all’ospedale”. 17 Lunedì 7 agosto Fosco passa la giornata all’ospedale vicino a Birus. Il quale sta meglio, sebbene rimangano le complicazioni alla vescica. Il professore insiste che non è grave. Ma non si capisce se vuole rassicurarli o dica la verità oppure addirittura non capisca bene di che si tratti. “Ieri sera ha orinato sangue, ma ora non più. Vaneggia ogni tanto. Shakespeare? ‘Where is the ship’ mormora”. Birus, che sembrava stare meglio, improvvisamente peggiora. La febbre sale a 39 gradi. Le ore passano lentamente nella stanza dell’ospedale. “Takako-san lo assiste con molto amore: si vede che è innamorata. È uno spettacolo che fa bene al cuore” commenta Fosco. Certo è strano questo ospedale ai piedi delle montagne, sporco e trasandato, ma pieno di allegria e di infermiere disponibili che si innamorano immediatamente dei giovani stranieri. “Tutti sono gentili qui. Viene alle due il professor Kawase. Iniezioni fruttifere. Iniezioni di qua, iniezioni di là, è una mania. Takeshida e Arima-san sono anche molto buone. Nakajima-san viene ogni tanto. Io passo il tempo leggendo Balzac. Studio un poco di giapponese, scrivo diverse lettere. A mezzogiorno esco con Takenchi per mangiare un tendori allo yadoya. Caldo. Piove. Alla sera torno allo yadoya con Takenchi e mangiamo insieme. Buon pranzo chamanushi: due brodi, gohan, salad e pomodori. Dopo cena facciamo piccola passeggiata con Takenchi e Masouchan, la grinta del padrone”. Martedì 8 agosto “Piove e fa caldo. Oggi operazione di Birus. La matti18 na viene il barbiere a radergli la testa. Dalle dodici alle tredici Takenchi, io e il professor Nishima andiamo a mangiare allo yadoya. Torniamo in tempo per l’operazione. Tutto in questo ospedale mi pare segnatamente sudicio: pareti, pavimenti. Per questo forse si fanno grandi precauzioni, lavaggi, disinfezioni ecc.”. Le descrizioni di un ospedale di campagna sporco e trascurato continuano. Eppure sembra un luogo piacevole, dove vanno e vengono tante infermiere pronte a ridere e amoreggiare, dove i dottori appaiono a due a due per osservare questo fenomeno di un tedesco ferito alla testa. Dove si mangia e si beve e si chiacchiera, nessuno si lava le mani ma si fa grande uso di disinfettanti. “Birus viene steso sul letto operatorio, legato. È sveglio ma rintontito. Takako-san gli tiene le mani. L’operazione comincia alle due e sette minuti, dopo che Kawase ha finito di lavarsi le mani ecc. guanti di gomma, garze alla bocca. Iniezioni locali anestetici. Taglio col bisturi, lungo 8-10 cen. Birus grida. ‘Mensch, sie mussen das nicht!’ (?). Presto viene messo a nudo il cranio. Con delle garze assorbenti. Il sangue non è però abbondantissimo. Le graffe tengono aperta la ferita. Poi entra in azione il trapano. Birus urla. Il foro nell’osso viene ingrandito con delle pinze che fanno rumore come di potatura. Quando il foro è grande abbastanza K. con un ferro cerca di rialzare la volta dov’è depressa. I ferri si piegano. Mi pare che la volta non modifichi la sua forma. B. grida. Ma perche non hanno fatto l’anestesia totale? Tutti sono molto seri. Io sudo. K. suda. Nakajima mi guarda. Takako è da una parte impassibile. Takenchi anche. Nessuno muove un ciglio. B. grida anco19 ra. Io cerco di parlargli in tedesco e in inglese. Non capisce nulla. Alla fine il dolore lo vince e sviene. L’operazione volge alla fine. Sono le 2.25, poi le 2.30, le 2.35, le 2.38 e comincia la ricucitura. Ho visto la ‘dura madre’. K., avanti di richiudere, ha messo nel foro la polvere d’osso del trapano. Mentre si ricuce, B. rinviene e grida ancora. Deve avere sofferto terribilmente. La fasciatura viene fatta in fretta. Tutto finito. B. viene portato fuori. Takako-san ha soltanto gli occhi un po’ lustri. Nishima e Takenchi escono sorridendo”. È davvero una descrizione truculenta. Fosco sembra diviso fra la partecipazione emotiva al dolore dell’amico e il bisogno di farsi testimone imparziale dell’evento. “Tutto il pomeriggio Birus dorme. È l’effetto delle iniezioni. In G. hanno la mania delle iniezioni”. Però è strano che in questa mania delle iniezioni non abbiano pensato a una iniezione di anestesia totale. Fosco non spiega meglio. “Per cena esco dall’ospedale e vo a mangiare allo Yado. Dopo cena esco con Masako-chan e suo fratellino di dodici anni. Andiamo in giro per il paese. C’è molta gente: luci, viavai, radio. C’è un posto dove fanno il Sumo: per ora giocano, i ragazzi, più tardi diverranno i canna locali. In un altro posto fanno lo Judo: tutti in silenzio, incredibile. Prendiamo un gelato. Giochiamo al pachinko. Masakochan è una figuretta deliziosa. Bambina ma con già certe inconsapevoli malizie da donna. Piena di curiosità, vuole sapere tutto dell’Italia. È un peccato che con una intelligenza così viva e pronta sia destinata a restare nei giardini bassi della cultura. Ritornando, trovo il padre di Masako, Endo-san che mi invita a bere con lui un poco di sakè. C’è 20 anche il dottor Kobayashi, una infermiera e una donna ignota. Buffa combinazione. Non riesco a capire le distinzioni di classe. Alle 11 torno all’ospedale per dormire. Birus sempre tranquillo. Takako-san non lo lascia un momento”. Mercoledì 9 agosto Il viavai dall’ospedale continua. I medici dicono che ormai Birus è fuori pericolo. Eppure lui continuna a delirare. “Birus riposa. Vengono prof. Nishima, Takenchi e Okugama. Niente visita del professor Kawase. Dicono che va tutto bene. Birus però vaneggia. Lunghi discorsi sconclusionati. Movimenti lenti. Per orinare grandi sforzi. Takako-san gli prende l’uccello e glielo mette nel pappagallo con grande disinvoltura. Il pudore è molto diverso che da noi. Qui tutto è più naturale. Non ci sono quei complessi dovuti a millenni di educazione cristiana”. Eppure le ragazze giapponesi sono molto pudiche. Di un pudore forse derivante da timidezza, non saprei dire, ma quella disinvoltura non potrebbe essere attribuita alla pratica dell’ospedale? Anche la giocosa pretesa di impossessarsi dei corpi ammalati degli stranieri per farne qualcosa di proprio. “Resto tutto il giorno da Birus. La sera temporale. Esco con Takenchi a fare il bagno. Bagni pubblici, una ragazza (bellina) sta al banco in una stanza piena di uomini nudi (che paese buffo!). Prima di cena visto un ragazzo che è caduto in montagna, casino… solo quattordici anni, una gamba fratturata malissimo. C’è il padre e anche la madre. Dopo cena sto un po’ nello yadoya. Un tale che parla inglese. Ritornando all’ospedale trovo Kawabashi e Nakajima che offrono del cocomero”. 21 Giovedì 10 agosto Le giornate sembrano allungarsi a Matsumoto. Fosco dorme ancora in ospedale. “Birus notevolmente meglio. Dopo mangiato esco in bici con Minagawa. Min. è simpatico. Bellissima la valle di Matsumoto. Tempo ottimo. Somiglia al Piemonte. Case col tetto di paglia. Foto”. Fosco non rinuncia a fotografare, come il suo solito. Il bisogno di testimoniare è fortissimo in lui. Non bastano le parole scritte. Ci vuole anche la pellicola. Non a caso, morendo, ha lasciato migliaia di fotografie che ora fanno parte dell’archivio Alinari. alla cassa. Sera chiacchierata con Wando-san. Ritorno presto all’ospedale. Tutti escono con Takako-san e vanno a prendere gelato. Resto con Birus. Dopo torna Takakosan. Chiacchieriamo. Strana ragazza. Molto salda”. Sabato 12 agosto Infine arriva il giorno della partenza. Non si hanno piu notizie di Hallier. Si può immaginare che sia partito da solo. Fosco è rimasto con l’amico in ospedale per qualche giorno in più. Birus viene accompagnato in treno verso Tokyo. Sta decisamente meglio anche se non si è ripreso del tutto. Venerdì 11 agosto Le giornate si susseguono rapide. Al dramma iniziale è subentrato un tran tran quotidiano. La vita giornaliera di una piccola città della provincia giapponese non è molto dissimile da quella di una cittadina italiana. Tutti si conoscono e si salutano. I pettegolezzi volano di bocca in bocca. Le ragazze si fanno belle per attirare lo sguardo maschile. I giovanotti fanno finta di non vederle ma le tengono d’occhio di sottecchi. I tre stranieri sono venuti a disturbare questa quotidianità prevedibile e prevista. Eppure non c’è ostilità nei loro riguardi, solo curiosità e forse il desiderio di creare degli argomenti per le loro chiacchiere future. “Mattina ospedale. Arriva Grimau, typus internazionalis. Birus notevolmente meglio. Finito rileggere Balzac. Eugenie Grandet. Balzac è bello in grandi dosi. Charles tuttavia non mi piace. È ridicolo e falso. Comincio Père Goriot. Grimau non mi convince. Minagawa invece simpaticissimo. Oggi Nakajima va in vacanza. Colazione allo yadoya insieme agli altri. Dopo mangiato riposo. Poi vo a fare il bagno con Machan alla piscina. Acqua sudicia. Ragazza “Partenza da Matsumoto alle 6.24. Bel tempo. Ci sono Minagawa, Machan e Yamasaki a salutarmi. Machan è triste. Com’è carina! Sono anch’io triste di lasciare Matsumoto con tutta la sua gente semplice e cordiale. Viaggio noioso”. 22 23 Da questo momento non si parlerà piu di Birus. Non sapremo mai com’è finita. Ho chiesto a mia madre se ne sapesse qualcosa, ma non ricorda. E così sono costretta a lasciare il racconto con un finale aperto. Sarà guarito del tutto l’amico Birus? Avrà avuto delle conseguenze la sua ferita alla testa? Avrà sofferto in seguito a quella operazione così crudemente raccontata da Fosco che gli ha aperto la scatola cranica? Avrà ripreso a fare il suo lavoro? Già, ma che lavoro faceva? Mio padre non lo dice. La sola cosa certa è che i tre amici erano giovanissimi, amavano la montagna e non si aspettavano che una gita finisse così male. Per Hallier forse è stato solo un disturbo. Per Fosco, che non rinunciava mai a trarre degli insegnamenti da ciò che gli accadeva, sembra essere stato un modo per conoscere meglio il Giappone, la sua provincia, i suoi costumi. Ma anche una occasione per leggere i libri amati e per corteggiare le ragazze carine. Gocce di montagna SIMONE MORO Nel piccolo cimitero della Garfagnana dove è sepolto sono sicura che continua a sorridere alle sue montagne, ai suoi amici, alle ragazze carine che gli dicono in un orecchio che lo “hamano”. La categoria a cui appartengo non è di certo la più nobile e rispettabile di quelle che circolano attorno e sulle montagne. È forse la più chiacchierata e idealizzata nell’immaginario collettivo, quella che riesce a volte a catturare l’interesse anche dei giornali, della tv e dei non addetti ai lavori. In caso di incidenti, “meglio se mortali”, la cronaca ci dedica decisamente più spazio (l’ultimo per il compianto) sfoderando termini quali killer, assassina e quant’altro rivolti alla montagna e una sfilza di patetici elogi e lodi diretti all’esperienza del defunto. In fondo siamo tutti bravi lavoratori e uomini o donne modello quando si tratta dell’estremo saluto. Ma a parte il lato quasi “folcloristico” o meglio puerile del modo di giudicare e classificare gli avvenimenti che accadono in montagna e gli alpinisti, io ho voluto fare una riflessione su dove stia andando oggi il mondo al quale appartengo, quello delle spedizioni, dei presunti exploit, dei viaggi celebrativi, delle performance che aspirano a uno spazio nella storia. Non si ha più voglia di perdere (in senso sportivo s’intende), di tornare a casa senza il successo, di scoprire che non si è all’altezza o che si è semplicemente e nobilmente normali e che i fuoriclasse del passato e del presente avevano un’altra marcia… Quella del minimo sforzo e massimo rendimento è dunque la direzione dell’alpinismo di oggi. 24 25 Indice Montagne. Avventura, passione, sfida Introduzione 7 Dacia Maraini Mio padre Fosco e la sua montagna 11 Simone Moro Gocce di montagna 25 Andrea Bocconi Montanari di bassa quota 41 Roberto Mantovani K2, sul filo 55 Alessandro Filippini Le mani di Bonatti 67 Maurizio Maggiani La mia Garfagnana 81 Paolo Rumiz Serve acque d’Italia 93 Franco Arminio Chiodi di pane, appunti sul confine 109 Andrea Gobetti Eruzione Stromboliana 117 Carlos Solito Neroabisso 133 Biografie degli autori 147 Ringraziamenti 153