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in copertina:
"Fiorenzo e le sue viti" di Stephan GavI
Narrati da Fiorenzo Freato
Trascritti da Fosca Freato
Editrice Veneta
Vicenza - 2006
Perché questo libro
Alle persone semplici
E SEI MANCATO
TU CONTADINO
MAESTRO
DEI CIELI
IL TUO
TABARRO
TRATTORE
E DOPPIETTA
RESTERANNO
PER SEMPRE
A INDICARCl
LA STRADA
DELLA
SEMPLICITÀ
SERGIO GALLONI
Quinto Vicentino, 13 marzo 2004
Giorno dell' ottantesimo
compleanno di Fiorenzo Freato
~
ando i mezzi di comunicazione riportano notizie su celebrazioni storiche, "memorie" civili, guerre, epoche lontane e diverse, 1 ficilmente ci lasciamo coinvolgere completamente perché fatti
lontani da noi, non direttamente vissuti. Se però la testimonianza viene raccontata da protagonisti conosciuti la partecipazione emotiva ti
prende con un'intensità quasi reale.
Questo è capitato a me grazie alla presenza di un nonno paterno,
Vittorio Freato, e un padre, Fiorenzo Freato, prodighi di loquacità che
hanno attratto la mia curiosità aperta a tutto ciò che riguarda un passato per me ricco di valori umani anche se molto tribolato.
In una precedente ricerca ero riuscita a risalire alla cruda esperienza vissuta da mio nonno e da Antonio Mozzi, nonno paterno di mio
marito, durante la prima guerra mondiale da loro combattuta sul nostro Altipiano di Asiago. Da lì era lentamente nato il desiderio di conoscere con dati precisi le vicende di mio padre durante la seconda
guerra mondiale.
Solo con estranei, a volte, raccontava alcuni episodi che io, distrattamente, avevo solo intuito in parte.
I! problema era quello di trovare il tempo per iniziare un simile lavoro: tempo per me limitato dai miei impegni di famiglia, di lavoro ... ; tempo inesistente per mio padre perché preso da tutte le sue incalcolabili attività.
È per questo che un giorno gli ho proposto di raccontare ciò che
ricordava della sua esperienza in guerra. Lavrebbe potuto fare alla sera, magari spegnendo un po' la televisione, accendendosi il registratore comodamente posizionato a fianco della sua poltrona.
Fu cosÌ che ben presto, nel luglio 2000, esaurì la prima cassetta audio da 45 minuti.
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Curiosa, appena giunta a casa mia, l'ascoltai e lì capii che un semplice lavoro programmato in 2-3 cassette, si prospettava improbo, infatti, alla fine, le cassette registrate sono state 18 da 60 minuti. Non
si sarebbe trattato solo di ascoltare ma mi ero prefissata la trascrizione del contenuto con i necessari tagli e le giuste modifiche. La sorpresa più grande era quella che il narratore aveva cominciato con il
primo ricordo della sua vita (non aveva ancora 3 anni); e così, ricordo dopo ricordo, alla quarta cassetta siamo arrivati alla seconda guerra mondiale.
È impressionante la precisione con cui sono riportati i particolari,
le date, i luoghi attraverso un racconto a getto senza l'ausilio di alcuno scritto. Alla quattordicesima cassetta la guerra è finita, ma poi restava tutta la sua carriera di "maestro", alcuni fatti riguardanti la famiglia e così siamo arrivati alla diciottesima cassetta.
Mio padre non ha mai avuto il tempo per raccontarmi le storie e
vi posso confessare che questa volta ce l'ha fatta!
Mi sono voluti ben quattro anni per terminare il lavoro. Non era mia
intenzione farne un libro da divulgare anche perché, a chi chiedevo consiglio, la cosa sembrava non interessare più di tanto. Mi ha incoraggiato il professar Mario Pavan che ha letto casualmente la parte relativa alla seconda guerra mondiale (una sua studentessa cercava testimonianze dirette e tramite la mia collega gliele ho fatte pervenire). Mi ha infatti scritto: "Faresti bene a pubblicare qualcosa. Si tratta di DOCUMENTI, VOCI VERE di protagonisti concreti della nostra storià'.
Ero poi dubbiosa anche per il fatto che, non essendo preparata né
dal punto di vista storico, né letterario, sarei senz' altro incorsa in er. .
.
ron e ImpreCiSiOnI.
Non ho voluto comunque cambiare o riassumere ciò che usciva
dalle cassette per far sentire presente mio padre con il suo modo di
parlare, con l'uso ripetuto di alcuni vocaboli o aggettivi (stupendo,
meraviglioso ... ), e con la presenza di tante parole ed espressioni in
dialetto veneto, come pure termini e frasi in tedesco che lui ricorda
e pronuncia sicuro. (Non so quanti errori possa avere la mia trascrizione aiutata solo da un vocabolario di italiano-tedesco, questa lingua io non l'ho mai studiata). Il significato è comunque sempre spiegato dal narratore.
Per evitare poi problemi di violazione di privacy ho voluto ri-
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portare solo le iniziali di alcune persone citate, ciò non cambia significato ai fatti.
La parte relativa alla guerra poteva risultare più completa se seguita da tutte le 270 lettere scritte dall'Il marzo 1944 al 25 marzo 1945
e conservate con cura. La maggioranza di queste è stata spedita da Fiorenzo alla famiglia, poche sono le risposte ricevute da Quinto Vicentino che è riuscito a riportare a casa.
E qui mi fermo perché spetterà ai lettori esprimere oggettivamente pareri e suggerimenti sul lavoro.
Una grossa soddisfazione l'ho comunque raggiunta: ho finito il libro e quindi sono riuscita a dare continuità nel tempo ai ricordi.
Ringrazio mio padre Fiorenzo per 1'opportunità che mi ha dato.
Ringrazio tutte le persone che mi hanno sostenuto in questa "impresà': i miei figli Aldo e Pietro per la collaborazione tecnica e di ricerca, lo zio Pietro Freato per una prima semplice correzione letteraria, l'autore del quadro riprodotto in copertina, Stephan Gaiii (figlio
di Otto), la signora Adriana Gori Segato per essersi adoperata con disponibilità, competenza e delicatezza.
Il mio desiderio era quello di poter trovare collaborazione con qualche Ente per la pubblicazione del libro perché qualsiasi libera offerta
raccolta sarà utilizzata per fini caritativi. Il ricavato sarà devoluto al
gruppo Caritas di Quinto Vicentino e agli istituti ANFFAS di Lisiera e di Nove di Bassano.
Ha risposto positivamente la Banca di Credito Cooperativo di
Quinto Vicentino che ha sostenuto tutte le spese di pubblicazione.
Ringrazio per questo il Presidente Franco Forte e tutto il Consiglio
Amministrativo.
Ringrazio infine tutti i lettori che condivideranno con me il gusto
."
diI
e a "memona.
Fosca Freato
-7-
Relazione sul libro "Racconti di una vita"
Narrati da Fiorenzo Freato
e trascritti da Fosca Freato
o avuto l'opportunità di poter conoscere alcuni momenti della
vita di mio nonno materno Fiorenzo attraverso un libro che mia
mamma ha voluto scrivere per riflettere sul passato raccontato in cassette audio dal nonno. Anch'io ho contribuito alla realizzazione di
questo scritto con la copiatura di alcune parti e la rilettura con correzioni tecniche sulla battitura. In occasione dei miei esami, avendo
scelto il periodo della seconda guerra mondiale, nel collegamento fra
le varie discipline scolastiche, ho pensato di inserire anche questo libro poiché gran parte racconta l'esperienza vissuta dal nonno durante il conflitto bellico come internato in Germania dall' 8-3-1944
al 4-5-1945.
Dei suoi ricordi mi ha molto impressionato la precisione nel raccontare nei minimi particolari le date, i nomi e i luoghi dove, nella
sua attività di pompiere, ha passato più di un anno della sua giovinezza. Secondo me ha dimostrato molto coraggio, intraprendenza e
sicurezza nelle diverse situazioni, anche rischiose e con esiti che potevano avere conseguenze tragiche. È grazie a una decisione contro gli
ordini di un superiore tedesco che ha salvato, oltre alla propria vita,
anche quella di altri sette pompieri che erano in servizio con lui. Con
questa decisione si è meritato, come riconoscenza dallo Stato Maggiore dell' esercito tedesco, la Croce di Ferro, equivalente alla medaglia d'oro al valore militare italiana.
Un momento molto difficile sarà stato sicuramente il distacco dalla famiglia 1'8-3-1944 quando si è dovuto presentare presso la caserma di Vicenza. Poi sarà stato preoccupato da tutte le incertezze
dei giorni che hanno preceduto la partenza per la Germania dove,
all' oscuro di come procedesse il conflitto, doveva prestare un incarico senz' altro pericoloso.
Scriveva a casa ogni giorno e spesso gli rispondevano i suoi geni-
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tori, ma la posta arrivava anche con due mesi di ritardo, quindi tutti
sono stati sempre in angoscia per quantò poteva essere accaduto in
quei giornI passati senza notizie.
La guerra non si è mai fermata e i pompieri dovevano spegnere gli
incendi senza sosta. Anche durante la notte del Natale 1944 i bombardamenti non cessavano e mio nonno era entrato in un rifugio che
stava per crollare con lo scopo di cercare eventuali superstiti; ha fatto
appena in tempo a recuperare un neonato che giaceva nella sua carrozzina. Per il nonno è stato come aver trovato e salvato Gesù Bambino. Molti altri sono gli episodi che mi hanno colpito ma ciò che mi
ha tenuto più in suspance è stata la fuga dalla Germania con momenti
di incertezza, fortuna, paura, angoscia, rabbia, impotenza, emozione,
felicità, stupore ...
Questa lettura mi ha fatto riflettere sulla sofferenza che le persone
hanno vissuto e vivono nelle situazioni di guerra. Mi ritengo fortunato perché, malgrado le molte situazioni di conflitto e tensioni che
esistono in varie parti del mondo, nella zona in cui mi trovo si può
ancora vivere in pace nel rispetto dei princìpi umani fondamentali
quali la libertà, il rispetto e la partecipazione. Spero nella mia vita di
sapermi impegnare per sostenere questi valori.
Pietro Mozzi
Quinto Vicentino, primavera 2004
a Banca di Credito Cooperativo di Quinto Vicentino ha accolto
con entusiasmo 1'opportunità offertale dalla famiglia Freato di far
pubblicare questo libro, ricco di testimonianze locali e di frammenti
storici del secolo appena trascorso.
Anche se si dà per scontato che !'Istituto di credito locale, in quanto tale, debba sempre sostenere tutte le iniziative di carattere socioculturale, che prendono forma sul territorio di competenza, in questa specifica occasione, l'intervento è andato ben oltre le finalità virtuose dell' ex Cassa rurale. Il maestro Fiorenzo Freato può essere considerato il vero prototipo della figura del socio della Banca di Credito Cooperativo. Infatti, in Lui traspariva un marcato e pubblicamente esternato "senso di appartenenza" nei confronti della "Sua Cassa
rurale" che aveva contribuito a far nascere e crescere e che aveva vista
realizzarsi concretamente, propria di fronte a casa Sua. Egli condivideva e praticava i valori della solidarietà, della centralità e della promozione della persona, proprio gli stessi principi che, a suo tempo,
ispirarono i "padri fondatori" della Cooperazione sociale. Lo ricordiamo anche come grande sostenitore del Caseificio sociale di Quinto, prima, e di quello di Lanzè in epoca recente.
La sua costante partecipazione allo sviluppo ed alla vita sociale della "Sua banca" e la completa dedizione alla famiglia ed alla comunità,
lo indicano come esempio da proporre alle giovani generazioni.
Con questo libro la Banca di Credito Cooperativo di Quinto Vicentino, ha voluto rendere omaggio ad un suo Socio che, con il Suo
generoso impegno, ha caratterizzato la vita sociale della comunità locale e la cui scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile.
L
Franco Forte
Presidente
Banca di Credito Cooperativo
di Quinto Vicentino
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Prefazione
n
uando mi è mi stato proposto di stendere una breve prefazione
questo "libro", ho provato quasi un senso di smarrimento. Si
trattava di un impegno inusuale per me, anzi del tutto nuovo. Non
me ne sentivo all'altezza. Tuttavia ho accettato volentieri, anche perché mi si offriva l'opportunità di rendere omaggio ad un amico di
Bruno, il mio Bruno che da oltre cinque anni non è più fra noi.
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"Racconti di una vità' non è un libro qualunque, perché non vi si
narra una vita qualunque, né vissuta in un' epoca qualunque. Per questo ha molto da dire e da insegnare a tutti, grandi e piccini.
Non ha presunzioni, né ambizioni letterarie.
Lo stile è discorsivo e lo scenario semplice e scarno: possiamo immaginare una grande cucina che sa d'antico e un uomo che, davanti
al focolare dove arde legna dei suoi campi, racconta ai nipoti la sua
vita che sa di fiaba e d'avventura.
E per questo avvince.
Questo libro non esibisce alcuna ambizione, ho detto. Esso vuole
piuttosto esprimere la volontà più profonda di non lasciare perduta
una fase importantissima della nostra storia più recente. È il desiderio di non dimenticare, né rinnegare la nostra cultura, le nostre radici, anzi di farle entrare, con discrezione ed in punta di piedi, nelle nostre giovani famiglie.
È un racconto che io definirei "plastico", tanto produce un effetto
di particolare espressività e concretezza da coinvolgere intensamente
il lettore.
È impressionante la dovizia e la minuziosità dei particolari di cui
Fiorenzo arricchisce il suo narrare, sempre lucido e chiaro: sia che si
tratti della sua lontana infanzia, sia della guerra che ha drammaticamente vissuto in prima persona nel periodo della sua piena giovinezza, sia dell' età matura.
È come se stesse srotolando un grosso rullino fotografico e ce lo
commentasse.
Il suo passato è un indelebile ricordo.
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Ma, tra queste pagine, ci sono dei passi in cui ~iorenzo sup~ra se
stesso e tocca profondamente il cuore: .sono quelli, e ~ono tantI, c~e
ci rivelano il suo animo quanto mai sensibile alle grand1 come alle piC··
cole cose di questo mondo. Ma sono anche quelli in c~i i~ suo narrare così spontaneo ed istintivo, diverte fino a muovere Il ~lS0, sopra~­
tutto quando egli racconta, tra ironia e facezie, la pur fancosa quondianità contadina.
Ovunque, dalla prima all'ultima pagina di questo libro, e~erge,
comunque, la saggezza dell'Uomo, il suo coraggio, l~ sua mulnform.e
intelligenza, la sua apertura alla vita e al mondo: dotI che sol~ ~n ammo semplice può custodire, doti che, purtropP?' sono ca.re~t: m,questa nostra società fatta, invece, di apparenze, dI superfiClahta, di leggerezze, di fatuità.
Non mi voglio dilungare oltre. Desidero, però, chiudere con
un'ultima riflessione, anzi una speranza: che il lettore capisca che
con Fiorenzo se n'è andato un vero personaggio, un mito quasi leggendario, che ha segnato un periodo non breve della storia di Quinto Vicentino.
La sua, sì, è stata una vita degna di essere vissuta e ... raccontata!
Adriana Goti Segato
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La sorpresa
o?o Fiorenzo Freato e ora comincio a raccontare un po' della mia
v1ta.
Risale al21 febbraio 1927 il ricordo più lontano della mia vita. Ero
bambino e non avevo ancora compiuto i tre anni perché la mia data di
nascita è il 13 marzo 1924. Il21 febbraio 1927 si è sposato mio zio Luigi Freato con Amelia Biasi. Era una giornata per me meravigliosa perché
dal cielo cadeva una nevicata magica con dei fiocchi grandi come mele,
da sempre sono stato entusiasta della neve! lo, nella parte del paggio, ebbi l'onore, assieme ad altri parenti, di salire nel Londò, una carrozza particolare' tutta chiusa condotta dal cocchiere che a cassetta era completamente avvolto da quel turbinio bianco spostato da raffiche gelide e continue. La zia abitava proprio in mezzo ai campi in una casa quasi sperduta in un mare non più verde ma velato di bianco. Per una strada stretta e sassosa dai suoni inusuali perché attutiti da quel tappeto, che riusciva a smorzare ogni rumore ma non l'entusiasmo di quelle ore, siamo
arrivati dalla sposa. (Attualmente quella casa, ristrutturata, è la villa Paganin di due giocatori di serie A, a lato dell' autostrada Valdastico sotto
al cavalcavia di via Quintarello che porta verso Villaggio Montegrappa).
Fra la neve che continuava a cadere sempre più intensa siamo tornati in
corte e io sono sceso dal Londò tutto raggiante seguendo con lo sguardo il pacco ancora chiuso che la zia mi aveva preparato: un regalo tutto
per me da aprire solo dopo la cerimonia già ritardata a causa della neve.
Finalmente, lontano dal frastuono della festa, con la nonna Corona, la
matrigna di mio padre Vittorio e di mio zio Luigi, ho aperto il pacco: dentro c'era un bellissimo cavallino di cartapesta, a quei tempi la plastica
non si conosceva, un carrettino stupendo e con tanti campanellini ai lati delle ruote: quando si camminava, o meglio ancora si correva, tintinnavano e suonavano come una specie di carillon.
Sono entrato in cucina dove c'era una grande tavola molto pesante e massiccia fatta con del legno resistente, robusto, il larice. Quella tavola aveva una storia perché era composta di pezzi di legno recu··
perati da un ponte nella zona di Lupia (ora il ponte c'è: stretto e in
cemento). Con un cordino mi sono messo a tirare il carretto, dapprima camminando e poi correndo attorno alla tavola e mi sentivo
avvolto in un' atmosfera quasi celestiale.
S
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Il pranzo
A quei tempi non si andava nelle trattorie, nei ristoranti, ma, quan.l'\..do c'erano dei matrimoni il pranzo veniva allestito presso la casa
della famiglia dello sposo. Tutti i piatti erano stati preparati nella grande cucina. Il pranzo è stato consumato proprio al piano di sopra, in
uno stanzone grande quanto la cucina sottostante. Sul muro verso nord,
sopra la cappa del camino c'era questa scritta: "Evviva gli sposi".
Non ricordo precisamente il menù, ma in quelle occasioni di solito si preparava un bel minestrone con dentro il riso e dopo capponi,
polli, faraone, cibi sostanziosi e genuini, non come tutti quanti i manicaretti che si usano oggi che sono solo apparenza, si limitano all'assaggio e non soddisfano appieno un appetito robusto.
El pan biscoto
io cugino Arcangelo è nato il 23 febbraio 1928. Attendevo con
entusiasmo il suo arrivo perché pensavo che finalmente avrei avuto qualcuno con cui giocare in corte, un po' isolata dalle altre case dove c'erano tanti ragazzi che sentivo solo come estranei. Non vedevo 1'0ra che Arcangelo crescesse e allora, per contribuire a questo, ogni mattina mi facevo dare dalla nonna Corona "do (2) ciope de pan biscoto" e
le portavo su alla zia Amelia raccomandandomi tanto di farle mangiare al cuginetto che così sarebbe presto diventato grande come me.
M
Il medico
n altro episodio che mi ha colpito particolarmente è avvenuto
nel 1929, avevo circa 5 anni e mi ricordo che mio padre Vittorio, dopo aver mangiato dell' anguria, ha avvertito dei fremiti, dei brividi, seguiti da un febbrone tremendo. Lo zio è andato a chiamare il
dottor Tonino Monico, figura molto importante per il nostro paese.
Oltre ad essere medico generico dimostrava molta preparazione ed in-
U
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tuito a~c~e ~ome ost~tri~o, chiru~go, dentista, sapeva destreggiarsi
per ognI nchlest~ SanIta~Ia. A q~eI t~~pi la gente ricorreva all' ospedale solo ~er caSI es~remI, perc~~ o,gnI mtervento doveva essere pagato d~l pa:,lente o dal SUOI familIan. Accadeva più spesso che qualche
famiglIa se magnava tuto", finiva tutti quanti i suoi averi ed era costretta anche a ve?dere i campi per sopportare le spese ospedaliere.
T~~na?do,~ miO padre, la diagnosi fu: ''avvelenamento di sangue" e
per pm giOrnI e stato fra la vita e la morte. Vedendo che ormai non c'erano più speranze, il medico ha voluto provare un intervento nuovo.
H~ dato ordine a mia madre di prendere un anello di ferro e di metterlo m mez~o alle braci, ''al bronsaro del flgo". Quando l'anello è divex:tato quaSI comRletamente ro~so l:ha preso con la tenaglia e poi è
sal~to v~loc.ement,e m camera. MiO ZiO ha sostenuto mio padre che a
fatica nus~I:,a a nmanere ~eduto; il medico gli ha ordinato di tirargli
su l,a camICIa e per u~ attImo gh ha appoggiato il ferro rovente sulla
schIena dalla parte dI un rene. Il paziente ha avuto solo un sussulto
malgrado si possa immaginare il dolore immenso che può provocare
una .scottatura del genere. Sulla pelle si è subito sollevata una grande
veSCIca. Passate alcune ore, quasi per miracolo, la febbre si è abbassata
e dopo qualche giorno è scomparsa del tutto: mio padre era salvo.
El s-ciopeto
Er~ se~a e stava per di.ventare buio. ''Dove seo finio Fiorenso?" non
nuscl;ano a tr?Var~l da nessuna parte. Mio padre era sempre sta-
to appassiOnato dI caCCIa, aveva costruito il capanno, ''el casoto': in
mez~o al g~anoturco, ''al sorgo': chiamato" bregamascheto':' era un incrociO fra Il granoturco migliore e quello un po' più scadente. Molti
però s~~inavano il "maranello" bianco o giallo che dava una farina
~eravlghosa. Allora x:on si conoscevano i vari tipi di mais, gli ibridi
dI adesso e, ~uando SI pr?ducevano 20-25 quintali di granoturco per
ca~po era gIa.un buon nsult~to, adesso si arriva anche a 80-85 quint~h pe: campo. La Befana ~l aveva portato un piccolo ''s-ciopo'', fuCile, ~ m ~uel tempo non c. erano le capsule ma una specie di polvere
che SI chIamava potassa e lO, trovando mi dentro al capanno, ad un
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certo punto avevo caricato due cartine, una per canna, e avevo tirato
due colpetti provocando due piccoli ''s-ciochi''. Da lontano li hanno
sentiti anche i miei e allora si sono precipitati verso il capanno. lo,
tutto arrabbiato, li ho rimproverati perché ero convinto che mi avessero impaurito e fatto fuggire gli uccelli. E da quel tempo la passione
per la caccia si è radicata in me.
Sguazzare i prà
Il grande gelo
c~~ina è appesa una fotografia relativa al grande gelo
d~11929. ,C e sta~o ver~mente un gelo molto intenso per tutto il
ell' attuale
n:ese .dl.gennalO segUIto pOI da una nevicata abbondante nei primi
?lOrm dI febbraio. Allora c'era la stufa, "la cucina economica", e c'era
Il fo~o1ar~ ~ per far fuoco si usavano in buona parte "le fossine", fasci di
r~ml sottilI recuperati dalla potatura e dalla sramatura triennale delle
pIante, la legna ?r~ssa .veniva consumata con molta parsimonia. In questo odo non ~l nU~Clva a scald~re a .sufficienza l'ambiente e allora per
quasI due meSI abbIamo mangIato m stalla riscaldata dalle bestie: le
vacche e la cavalla. La stalla non era soffittata in cemento, c'erano sol-
n:
el 1922 mio padre e mio zio hanno comprato 38 campi vicentini (un campo vicentino è pari a 3.862 mq). Di questi solo una
parte di circa 4 campi (15.000-16.000 mq circa) era prativa ed era
denominata "pra vecio", definizione usata ancor oggi. Il rimanente
era terra arativa. lo seguivo sempre mio padre nei campi. Erano circa gli anni 30-31, di notte siamo andati ad irrigare, ''sguazzare i prà ".
Allora non c'era la chiusa, la boa grande che attualmente c'è verso
Ramina; c'era soltanto "la boa vecia" che si trova verso levante rispetto
a tutta la campagna, sufficiente per i 4 campi prativi. Lacqua era arrivata di notte e verso le Il del mattino avevamo terminato di sguazzare perché l'acqua aveva raggiunto quel determinato posto per cui
mio padre diceva ''sé finio de sguasare" e si era sicuri che tutto il prato era ben irrigato. Mio padre si era messo cavalcioni per levare la
boa ma tirando ha perso l'equilibrio ed è caduto dentro "el boio", nel
gorgo. lo, atterrito, ho cominciato a chiamare "papà, papà, te te neghi, te te neghi" e lui mi ha gridato ''tui el baile", prendi il badile. Si
era aggrappato ad un cespuglio per non essere trasportato dalla corrente. "Slunga el baile", allungalo, 'è tiente streto con na man a un ramo del platano", e tienti stretto con una mano ad un ramo. ''Mi me
ciapo al baile e così poso tirarme su". Mi sentivo come Ercole e ho tirato con tutte le mie forze perché pensavo che in quel momento solo io potevo salvare mio padre. Quando è salito io ho cominciato a
toccarlo di qua, di là e a dire: "Papà te si vivo, te si vivo vero? Non te
te si negà, te si vivo, te si tuto bagnà, speta, speta che me cavo el giubeto così te poi cambiarte". Avevo 5-6 anni ed ero sicuro che il mio giubbetto avrebbe potuto coprire mio padre.
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Anno 1929. Nevicata dei giorni 24-25-26 gennaio alta circa
50 cm. Fotografia eseguita dal p~nte quando le due macchine col fendineve so~o tornate da QULntarello, la prima di Freato, la
seconda d~ Rossato. La giornata più fredda è stata la mattina
del ~ febbraio con 22 gradi sotto zero come pure l'ultimo
dL Carnevale. Il giorno 12 febbraio vento e nevicata.
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tanto delle travi in legno che sostenevano delle assi, "dee toe': e molto
spesso, fra le toe e il fieno deposto nella soffitta, durante la notte, ma
anche di giorno, nelle ore più silenziose, i topi e i topo lini (sorsi e moreie) si muovevano e allora succedeva che dalle fessure veniva giù una
spruzzata di polvere mista a fieno chiamata "ferume" che a volte cadeva anche dentro la pentola o nel piatto. Per fortuna a quei tempi non
si era tanto delicati e con un po' di buona sorte si riusciva a terminare
la pietanza senza queste improvvise aggiunte.
Il freddo è stato così pungente che la roggia Tergola si è completamente ghiacciata.
Luciano Sandini detto "Ciano el munaro", il nonno dell'ex sindaco
di Quinto Giorgio Sandini, aveva il mulino in via degli Eroi. Per far girare le ruote del mulino doveva esserci un grosso invaso, un deposito
d'acqua abbondante, sicché l'acqua veniva bloccata con le boe, le chiuse. Nel tratto di strada di via Fabio Filzi, vicino a Franzoni, c'era questo invaso, una specie di piccolo lago costeggiato da un viottolo per il
quale si raggiungeva anche la segheria e il maglio di Luigino Paulon. Per
questo l'acqua non scorreva veloce come adesso e con il gran freddo si
è ghiacciata: per molti giorni nel mulino non si è più macinato.
Nella foto, precedentemente menzionata, si vedono due trattori Ford
che stanno trainando lo spartineve, "el traion" (francesismo usato in dialetto), giù dal ponte del Tesina per riuscire ad aprire le strade completamente bloccate dalle abbondanti nevicate. Lo zio Luigi ha scritto, sulla
foto, che nei primi giorni del mese di febbraio la temperatura era scesa
addirittura a 23° sotto zero. Molte viti, chiamate viti nostrane, sono
morte e in primavera una parte non è più vegetata, Solo le viti di Clinto e Clinton sono resistite; queste piante erano state importate in Italia
da emigrati italiani in America successivamente al grande gelo del 1882
che aveva distrutto molti vigneti del nostro Paese (Il nome sembra collegato alle città americane omonime e alla famosa famiglia Clinton).
Le nostre case erano così fredde che la pipì fatta nel vaso da notte,
detto "bocae", il mattino la si trovava ghiacciata anche se riposto dentro al comodino. Era pure ghiacciata l'acqua che si portava in camera nella "zara", una specie di grande caraffa smaltata, e si versava in
un particolare lavandino per lavarsi il mattino. Strati di ghiaccio si
formavano pure all'interno delle camere sui vetri e sui muri che davano verso l'esterno.
La Prima Comunione
N~~~9:~i son~ ~ndat? ~lla prima Comunione. In quegli anni, e
5-6 anni. g anni 60,
CI SI
accostava a questo Sacramento all'età di
Mi ricordo benissimo che il giorno precedente ho l
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samente er
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avorato Intenl) C P l c~apare a. egna (~ldurre 1 peZZI grossi in parti più pic~~: t'rav~ndelalamstlallforzha d~ bambInO ho ridotto in tanti piccoli pezzi
col 's
" "S' a a c" ,e SI erano guastat'I e ch e erano statI" accorcIati
egon. -e/apare e un lavoro che mi è sempre piaciuto fare e un
certo Francesco Zard~, detto, Checo Favaro, perché suo zio faceva il fabbr?, del gruppo .deglI operaI detti obbligati che lavoravano a casa mia
mI avevda cos~rU1~o, adattata alla mia struttura, una piccola mazza di
Iegno, etta ma/a':
's- '
Fiorenzo nel giorno della Prima Comunione (maggio 1930)
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Il giorno della prima Comunione è stata una festa stupenda. Alla
fine della cerimonia c'era l'appuntamento tradizionale nel salone dell'asilo dove si offrivano caffelatte o cioccolata: a quei tempi, gustare
una bevanda simile era una cosa da gran signori.
Era Arciprete don Alberto Go nella, sacerdote stimato anche per la
sua severità e rigidità su ciò che la chiesa stabiliva: guai che uno sbagliasse, era pronto a chiamarlo all' ordine!
.
Sono sempre stato timido e, quando sono andato a confessarmi,
l'unico peccato che mi sembrava di aver commesso era quello di "aver
cuccato lo zucchero alla mammà'. Lui mi ha sorriso e quasi accarezzato per darmi coraggio. Contemporaneamente si è accorto che, all'occhiello del giubbetto alla marinara, cucito da mia madre, era attaccato uno spago, detto "gavettino", che si infilava nel taschino di sinistra e, incuriosito, ha cominciato a tirarlo: sono apparsi due oggetti in ottone, due richiami, ''cio culi " in dialetto, uno per le 'Jìste" e 1'altro per le allodole. Ciò mi ha rammentato che nell' autunno precedente avevo ''coppato'' 2 stellini, 2 scriccioli, e, confessandolo, perché
in quel momento mi sembrava un peccato grosso, mi son messo quasi a piangere. Allora l'Arciprete con fare paterno mi ha accarezzato e
ha soggiunto questa frase che per me è memorabile: "Iddio ha creato
gli animali per metterli a disposizione dell' uomo" .
Don Alberto Gonella era anche Vicario perché Quinto Vicentino
era sede vicariale e comprendeva le parrocchie di Quinto, Lanzè, Valproto, Bolzano Vicentino, Monticello Conte Otto e dei Comuni di
Gazzo Padovano e Fontaniva (benché siano paesi in provincia di Padova, la diocesi non segue i confini provinciali), non ricordo se ci fossero anche Marola e Torri di Quartesolo.
A quei tempi i preti non mettevano mai i pantaloni ma portavano
sempre la tonaca lunga. Don Gonella, a motivo del suo incarico vicariale, metteva anche una specie di mantellina e le scarpe con le fibbie argentate. Ha avuto una lunga esperienza nella nostra parrocchia
e mi ha seguito per tutta la mia giovinezza.
Biasimava molto il ballo, diceva che era: "occasionissima prossimissima (lo pronunciava con molte sss) di peccato mortale".
Durante il periodo carnevalesco e in altre particolari ricorrenze,
nella grande cucina della casa vecchia, si facevano dei festini. C'era
un' orchestrina formata dai fratelli Gheller e da Antonio Gallio (Toni
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Gall~o) al contrabbasso, strumento che si era costruito con le proprie
mar:1 essen~o un fa.legna~e molto preciso, ci teneva moltissimo a costrU1re deglI oggetti partlcolari.
L'~rciprete voleva essere sempre al corrente di queste feste e incaricava Il Cappe!lano di andare a spiare, dalle finestre a nord della casa
pas.sando per 11 grande prato detto ''el brolon': per COntrollare se ci par~
~ec.lpasser~ an~h~ dei giovani iscritti al Circolo Cattolico. Una notte
e. :lm~sto 1.m~lghato con la tunica in un reticolato della recinzione e
CIO spIega Il VIstoso -: (strappo) che si notava fra le pieghe della veste
durante la Messa Pnma delle 5 del mattino.
Don Alberto Gonella è morto nel 1939.
Don Gonella con i giovani del circolo e gli aspiranti (maggio 1932)
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La corte
ella nostra corte sorgeva solo la casa vecchia. La casa, dove abito
attualmente, è stata costruita nel 1951 al posto della concimaia
dove si metteva il letame portato fuori ogni mattina dalla stalla. Allora
non c'erano le indicazioni sanitarie dei nostri giorni: bastava una grande buca, anche senza muretti, e lì si faceva il letamaio, ''elluamaro''.
Quando la parte liquida rischiava di trasbordare veniva raccolta in una
botte, non più utilizzabile per il vino perché vecchia e ammuffita, che,
sistemata su due ruote, serviva per il trasporto delliquame, ''la trina",
nei campi. Durante il periodo invernale, il letame veniva portato tutto
in campagna per cui la buca restava vuota e siccome era nella zona più
bassa della corte, quando pioveva, si riempiva di acqua che diventava
scura per lo sporco di letame rimasto. Quando faceva freddo, gli inverni erano molto più rigidi di adesso, per molti giorni si restava a 7-8 gradi sotto lo zero (la settimana scorsa, fine gennaio 2000, ha registrato
questa temperatura), il liquido nerastro si gelava formando uno strato
di ghiaccio piuttosto spesso. Tutti i ragazzi delle elementari, la mattina
prima di andare a scuola, venivano qua in corte a ''slisegare': scivolare,
e si divertivano un mondo. Anche la zia Amelia ha voluto provare. Purtroppo ha perso l'equilibrio e, cadendo all'indietro, ha battuto la testa
così forte che il ghiaccio si è crepato, per la zia nessuna conseguenza.
Il letame per restare integro non deve essere esposto troppo al sole.
Per ombreggiarlo, erano state piantate, al confine con la scuola elementare, 5 piante di acacia, ''de cassia", Era denominata la pianta del ''spin del
Signore" perché aveva le spine molto lunghe come gli aculei del riccio. Il
suo frutto era la carruba, "la caroba': lunga circa 25 centimetri, All'interno per metà aveva tutti semi, "le megoe" assomiglianti a chicchi di caffè,
dall' altra si formava una specie di polpa che poi diventava liquida ed era
molto dolce. Quando erano mature, siccome non si poteva salire sulla
pianta nemmeno con la scala perché il tronco era pieno di spine, si adoperava la fionda. A quei tempi la fionda era molto usata, c'erano dei ragazzi particolarmente abili, che riuscivano a colpire la carruba spezzandola e, se prendevano il picciolo, questa cadeva intera richiamando l'assalto di tutti. Succedevano delle baruffe che si trasformavano in scenette divertenti. Fra i più abili tiratori di fionda c'era A. P. poi morto fulminato durante un temporale mentre pascolava le mucche nella zona
N
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dei Ponti Novi. lo mi trovavo a scuola, anche lui doveva essere a scuola
ma a .quei temp~ i ragazzi dovevano dedicarsi soprattutto ai lavori dei
campi. Durante Il temporale ha tentato di ripararsi sotto una pianta che
era a so~te~no di, una "pergola de visee". Il fulmine, caduto più lontano,
ha colpito Il fil dI ferro del vigneto e poi si è scaricato su di lui.
I giochi
D
a picc?lo non ,uscivo mai dalla corte ma sentivo molto il bisogno dI poter gIOcare cO,n qualcuno. Nel 1928 è nato mio cugin~ Arca~gelo e nel 1933 mIO fratello Pietro, primi compagni della
Ia fan~1Ullezza. Non c'erano grandi possibilità finanziarie. La manCIa c~e ncevevo da mio padre era di 10 ''schei ", 1Ocentesimi, ogni domell1c~: 5 ~ndavano a favore delle missioni e 5 servivano per compran"?,-l l,a :lramolla o qualche altro dolce, ma preferivo le ''stracaganasse , ClOe le castagne secche.
Si giocava con giochi semplici.
n:
GIOCO ALIA BAETA. Si usavano palline di marmo che si comperavano da Antonio Mozzi o da Rossato o dalla Maria Rovea chiamata
M.ar~a Casoi~a ~he gestiv,a la trattoria e il negozietto nello stabile, ora
ehmmato, del Giacomolll, ad ovest della Chiesa di fronte alI'attuale supermerc~to, A volte le facevamo anche di terra creta e poi le coloravamo con 1 fenn~relli a più tinte ma duravano poco perché facilmente
a~davano I~ mIlI~ frantumi, Si preparava il terreno scegliendo lo possibIlmente, flaneg~l~nte, anche in strada, lo si spazzava bene per eliminare tutti! sassoh:ll. Al.I~ra le str~de in terra battuta venivano inghiaiate, sopr~ttutto nel meSI invernalI, perché tutti i mezzi di trasporto, che
erano d1legno, avevano i cerchioni di ferro, la ghiaia proteggeva il fondo stradale dal ,fango, b~che, "rua,re': Per questo gioco ogni partecipante
metteva 2 palhne e le disponeva m 2 file sul terreno ad una distanza di
circa 4-5 centimetri una dall' altra. La prima pallina di sinistra era chiamata "il caporale" e, se colpita, dava la possibilità di vincere tutte le al~;e, Si ,partiva da circa 10 metri dalle palline e si arrivava al segno detto
bona. A seconda della posizione delle sfere colpite si vincevano più o
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meno palline. Un giorno abbiamo sistemato il punto di gioco proprio
sulla salita che va verso il ponte. Eravamo in 27 ragazzi. lo avevo raggiunto per terzo il segno di partenza e quelli che mi precedevano. avevano sbagliato il bersaglio. La mia pallina, zigzagando di qua e dI là è
andata a colpire in pieno proprio il caporale sicché ~o ".i~to tutte l~ 5~
palline, ma sono riuscito ad intascarne solo una qu~nd~cma perche gh
altri si sono precipitati per prenderle facendole spanre m un baleno.
GIOCO DEL 1\1AGo. Si mettevano in piedi dei mattoni con sopra dei bottoni e ci si costruiva la 'scaia", sca?~ia, as~otti~liand? u~
mattone con un martello. Erano mattoni sottIli usatl fra 1 COppI del
tetti e i murali, (tronchi di abete o pino) formando una specie di soffitto. Da una distanza di circa lO metri si lanciava la scaia colpendo
il mattone. Se questo si spostava, lasciando cadere i bottoni v~cino ~l­
la scaia, il giocatore li aveva vinti tutti. Le regole erano partlcolan a
seconda di come si colpiva, il fatto più chiaro e certo è che qualcuno,
a volte, usava i bottoni che strappava dai vestiti indossati trovandosi
alla fine con "le braghe tegnù su con le man".
gradito nella compagnia, la sua casa, di fronte a via Roma è attualmente
il laboratorio dell' artista Agostino Gallio; Giovanni Meneghini, ora residente a Bolzano Vicentino e suo fratello Ezzelino (nel 1922 si è arruolato nei carabinieri ed è diventato maresciallo di equitazione ed istruttore della squadra italiana che ha partecipato ai Mondiali e alle Olimpiadi con campioni quali Pietro e Raimondo d'Inzeo).
Poco lontano dal bocciodromo citato, qui in corte, ne abbiamo costruito uno piccolo ma funzionale ed usavamo le bocce che Zanini scartava perché scalfite e quindi poco precise. In cambio di una boccia gli
portavo mezzo sacco di 'scataroni", tutoli. Ne sono rimaste ancora alcune qua in cantina. Più tardi le bocce venivano fatte con un tipo particolare di pasta, ed erano molto più pesanti. La "corte dee bae" era coperta
di sabbia, alle due estremità era chiusa da delle "toe': assi, sostenute da
pali, si evitava così che le bocce finissero in strada o verso la casa. A volte si giocava anche a soldi, a 5 centesimi la partita. Si poteva giocare in
due modi. Uno era "la spaneta"; si metteva un boccino piccolo in mezzo e chi lanciava la boccia più vicino prendeva il punto. Chi vinceva prendeva 15 centesimi. Ricordo che ho vinto fino a 80 centesimi.
GIOCO DELLE "BALLE". A Quinto c'era un bocciodromo molto rinomato, era di Zanini che gestiva 1'osteria e la ''casolineria'' già citata. Era uno dei bocciodromi più conosciuto nel Triveneto perché illuminato di sera. Molti erano i giocatori di bocce che si alternavano
.
per tutto il giorno.
Verso i 14-15 anni, avevo degli amici: Michele Cherubzn, attualmente
abita a Cavazzale; Antonio Venturini, soprannominato Toni Tetela di alcuni anni più vecchio di me, figlio del calzolaio Adoifò, sempliciotto ma
ALTRI GIOCHI. Di fronte al cortile dell'attuale scuola materna
c'era un praticello incolto acquistato verso i11934-35 dai Freato. Lì,
con i miei amici, ho organizzato un piccolo parco giochi con l'altalena: ho piantato tre grossi pali, "i puntelli", uno al centro e due ai lati, sopra ho fissato un consistente palo di acacia, ''cassia'', forato in due
punti da dove cadevano le catenelle. Come sedile si prendeva ''la cassea, la mesa", una specie di contenitore di legno lungo un metro, alto
e largo circa 30 centimetri che veniva usata per "le polpe", rifiuti delle barbabietole da zucchero seccati e dati alle mucche per favorire una
maggiore produzione di latte.
Se ci si dondolava troppo forte si rischiava di cadere perché la ''cassea''
poteva scivolare giù dalla catena e i pali laterali si levavano dal terreno.
La giostra consisteva in un grosso palo di acacia al centro con sopra
due pali fissati con un chiodone. Attaccate ai pali c'erano delle catenelle o delle corde che sostenevano sempre le ''cassee''. Uno faceva girare la
giostra a mano tenendosi con la destra sul palo centrale e tirando una
corda o catena, più forza si aveva, più velocemente si girava.
Una volta è successo che si è tolto il chiodo e i pali sono caduti
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GIOCO DEI BOTTONI. Era sempre un gioco legato alla precisione nel saper colpire con dei bottoni degli altri bottoni o raggiun~
gere una determinata meta. Toni Tetela perdev~ se~~re e qua~~o SI
vedevano a terra dei bottoni con della stoffa fra 1 fon SI sapeva gla che
erano suoi perché strappandoli portava via sempre. della tela .. In questi casi usavamo anche del fil di ferro per tenere su 1 pantalOnI. Le nostre mamme erano spesso alla ricerca di bottoni nuovi per rimpiazzare quelli perduti al gioco. Alcuni giocavano anche a soldi (5 o 6 centesimi), io però non l'ho mai fatto.
senza, per fortuna, colpire nessuno.
Si giocava anche a bandiera: si formavano due squadre, a circa 2030 metri c'era una meta da toccare, detta bandiera, e poi si doveva ritornare verso la propria squadra senza essere preso dagli avversari. Non
si conosceva chi fosse il primo a partire, per questo era importante saper fare bene le finte di partenza per guadagnare più spazio possibile.
I soldi
n
icordo che per fare una lir~, '~n franco'~, ci vo1eva~0 l 00 cent,~si­
.I\..mi. Questa moneta aveva lllClsa una spiga ed era di rame. La palanca" aveva raffigurata una vittoria. C'erano poi le 'colombine", 5 lire d'argento e la moneta da 20 lire che aveva molto valore, basti pensare alla canzone "Se potessi avere 1000 lire al mese ... ".
Di soldi ne giravano davvero pochi ma, con la nostra fantasia e
buona volontà, riuscivamo a giocare e a divertirci forse molto di più
dei ragazzi di adesso, apprezzando anche le cose semplici, magari costruite direttamente da noi.
Il tempo per il gioco era limitato perché prima di tutto venivano
la scuola e il lavoro nei campi.
hanno fatto fortuna a causa di terribili grandinate che rovinavano i raccolti, forse il Veneto, dove fiorivano molteplici attività, avrebbe fornito migliori opportunità di lavoro. Francesco è morto dopo alcuni anni, Marcello, che si era sposato prima di partire festeggiando nello stanzone della casa vecchia come la zia Amelia, è poi ritornato a Quinto vicino agli Stella, detti Podere (nei pressi della ferrovia alla fine di via Vittorio Veneto). Gli Zardo erano anche imparentati con i Freato, penso
che la loro zia fosse sorella della mia nonna Benetti.
Tutta la campagna era circondata ed attraversata da filari di viti sostenuti dagli "oppi", aceri, piante più indicate delle "nogare", noci, perché non fanno un grande sviluppo e quindi troppa ombra.
D'inverno andavo a tirare giù i 'cai" (tralci) delle viti per predisporre la potatura che continuava fino all'inizio della primavera .
Quando mio padre e mio zio si sono divisi la proprietà, quest'ul-
I lavori in campagna
I due fratelli Freato avevano 38 campi (3.862 mq: un campo vicentino), 8 dei quali, sotto il comune di Bolzano Vicentino, al di là del fosso a nord, erano lavorati dalla famiglia Zardo in cambio della manodopera gratuita che prestavano nel resto della proprietà. Era~o ~,fr~telli,
il più vecchio Luigi, poi Francesco (del 190 l) e Marcello 11 pm giOvane, chiamati i Marcioro, non so perché, e i Favari perché il loro zio era
un abile fabbro. Francesco, Checo, veniva più degli altri a lavorare a casa nostra, io lo consideravo quasi un secondo padre per il rapporto cordiale che avevamo instaurato e, quando son partiti per Pino, vicino a
Chieri, per dedicarsi alla viticoltura, ho anche pianto. Purtroppo non
"Nei campi" (maggio 1936). Seduti: Adina e Pietro.
In piedi Fiorenzo e, sullo sfondo, Amelia, Caterina e Checo
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timo ha preferito eliminare i filari dai suoi campi facend?li spi~nar~
per coltivarli a prato. Per questo lo stato dava .anche del co~tnbuti
perché, a causa dell'infittirsi delle precipitazio~l, ~ra nec~SSa~l? f~vo­
fire nei terreni degli scoli particolari inesistenti nel terrem a nhevl seminati a frumento o granoturco.
. '
.
Nei nostri campi a terreno arabile si coltivavano 1 frumenti detti Damiano, Villaglorye 113, prima ancora c'erano il Todaro e il ~osso Gentile, due specie di frumento che venivano mol~o alte e c~e SI abb~tt~va­
no a terra in caso di maltempo creando molti problemi per la mlet!tul'a. Quand' ero ragazzo, questa, detta sesola dal nome del fal~etto, SI f~­
ceva a mano. Si lavorava in gruppi di 15-20 persone (adulti e ragazz1)
per campagna e si impiegavano anche 15-20 gi~rni per t~rmin~rla.
Quando si mieteva, verso le 17, ci si fermava per Circa mezz ora e S\ fa~
ceva uno spuntino a base di formaggio e salame con pane e un po d!
vino. Qualche volta veniva anche la voglia di cantare. Spesso succedeva che, essendo la temperatura molto alta, si bevesse t,roppo, e, chi esagerava, veniva colpito da grande debolezza: pe~deva.l app~tito, P?teva
anche essere preso da febbre elevata per 15 giOrm. Il disgraZIato ~OSl no?,
poteva più lavorare, si diceva che quella persona er~ andata al p~? '
Molti attendevano il periodo della sesola per potem guadagnare un
fianco". Per trovare lavoro si doveva andare anche molto lontano e sempre a piedi, avere una bicicletta era un lusso. La donna che restava ~ casa preparava da mangiare e poi partiva con la. gra?d~ sporta dove r~po­
neva fette di polenta, pastasciut:a o una speCi dl m~nest:one con 1 fa~
gioli (il mio maestro Magrin diceva sempre: Il fagiOlo e la carne .del
poveri", la carne, chi la mangiava? Sì e no .qual~he volt~ la domemca,
.",,,
soprattutto nelle case dove si allevavano ammali,da cortll~).
Gli operai, falciato il frumento, lo legavano m covom, detti "flue,
che poi sistemavano in "biche, cape': e lo si lasciava in campagna per
un certo periodo di tempo, circa 20 giorni, affin~hé si seccass~. Poi lo
si portava a casa sotto il portico e sul fienile, o lo SI accatastava m ~ez­
zo alla corte nella ''pigna'' perché con le faie, una ~opra all' alt:a, SI costruiva una specie di grande pigna che aveva quasI la forma dI una d~.­
migiana, ad una certa altezza si chiudeva, la, catasta me~tendo le faie
con le spighe verso 1'esterno dando un po di pende~za m modo che,
se fosse piovuto, l'acqua avrebbe potuto scorr~re gm. ?e fosse penetrata, il frumento avrebbe rischiato di germogliare o dI fermentare.
7,
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La trebbiatura era un momento festoso, un frenetico ed ordin t
,
d'
b
ao
movu~e~to, I P?rsone ,en organizzate fra loro a seconda dei ruoli.
"Nel ~r,~ml, a~?,lla pag~la non si imballa:a ma veniva posta nella "paia-
ra o nel pazarz , Questi erano a forma dI cono costruito attorno ad un
palo ~rosso ~i acacia ben sprofondato nel terreno. È un legno che non
marCisce faCilmente e per tenerlo perpendicolare si piantavano tutto intorno dei pali a mo' di puntello fino all' altezza di 3 metri circa. Di solito il paiaro veniva fatto da due persone che con la forca sistemavano
la paglia alzandosi un po' alla volta e, arrivati ad una certa altezza, si aiutavano con una scala di circa 9-10 metri dove ogni tre scalini si mettev~no altre persone passandosi la paglia sempre più su. Nei vari passaggI con la forca molta paglia veniva dispersa perché, essendo asciutta e
liscia, scivolava via facilmente. Le persone, per proteggersi dalla paglia
che cadeva, avevano un grosso fazzoletto al collo ed un cappello con larghe tese. Molte persone assistevano alla trebbiatura come spettatori e
commentavano la resa e la qualità del raccolto,
La trebbia funzionava per mezzo di un trattore. Ricordo che ho visto ~arla fun~ionare anche con le macchine a vapore a Bolzano Vi~entIn~ dagh Zar~o, padroni di una fonderia, un complesso specialIzzato In meccamca dove venivano costruite diverse trebbie.
I covoni erano legati tutti non con spaghi ma con i "balzi" ( trecce lunghe circa un metro e venti/trenta centimetri e confezionate con
la paglia usata anche per l'impagliatura delle sedie); alle estremità dei
balzi si faceva un nodo. Venivano slegati da due donne che, in cima
alla trebbia, li passavano al "paiarolo", l'imboccatore, che li buttava
de?tro, al, meccanisn:o. Lì c'era un cilindro che serviva per battere i
chICchI guando vortIcosamente e a volte succedeva che qualcuno scivolasse dentro rimanendovi quindi schiacciato. Più tardi le fonderie
Zardo sono riuscite a progettare delle trebbie più automatizzate che
non ~i,chiedeva?o ,le due donne e 1'imboccatore. I balzi recuperati e
legati m gruppI dI 50/60, durante l'inverno, venivano tutti ripassati
e posti in granaio su una 'stanga" per 1'utilizzo nell' anno successivo.
Il giorno ~~na, 'sesol~" si faceva un gra~ pranzo: una minestra parti-colare detta zntzngolo con un pezzo dI lesso dentro, oppure mines~r~ne segui~? da sp,ezzatino con polenta in abbondanza e vino in quanuta. Tutto ciO che SI consumava era frutto del lavoro della famiglia stessa: coltivazione dell'orto e allevamento di animali (vacche per Blatte e
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derivati, maiali per la carne e i salumi, pollame per carne e uova).
A casa mia c'era un grosso allevamento di tacchini e il guadagno della loro vendita veniva diviso fra mia mamma e la zia Amelia. Quando
i tacchini erano ancora piccoli venivano portati, dentro a delle gabbie,
nei campi per razzolare, una volta cresciuti si partiva con ''el s-ciapo" dei
"pai': gruppo di tacchini, e, con una "poIa", un bastone, molto lunga,
si cercava di tenerli un po' uniti per la strada (passavano in media 8-10
auto al giorno, rare volte qualche tacchino spaventato scappava e si perdeva). Si arrivava in campagna, a circa 1 chilometro, e qui liberi andavano a beccare in mezzo al granoturco dove cresceva, perché non c'era
il diserbante, molta erba detta ''el pavio" che faceva dei piccoli granelli
usati anche come becchime per gli uccelli, soprattutto i passeri. Fra i
tacchini c'era quello più debole e scadente e veniva denominato ''teceta", forse perché finiva presto nella nostra mensa che accettava anche le
parti scarne di questi animali che non potevano essere venduti.
Il vecchio Reato, ancor oggi i figli ne continuano l'attività, veniva
a prelevare le uova. La nonna Corona usciva con un cesto di circa 150200 uova delle tacchine, galline e faraone della corte. Ricordo che ne
raccoglievo una quarantina al giorno. Reato comperava anche i tacchini e, quando veniva, io rimanevo lì impiantato con il naso all'insù perché a volte mi faceva la mancia di 5-10 centesimi, con questa
somma la Maria Casolina ti dava 2 biscotti lunghi 8-10 centimetri e
larghi 2, che felicità! Dalla Maria Rodea, moglie di Leonida Zanini,
si andava a fare la spesa e si compravano poche cose, perché in casa si
aveva di tutto (dal cibo al sapone, fatto con il grasso del maiale, al detersivo sostituito dalla cenere con la quale si faceva la lissia, lavaggio
profondo della biancheria in cotone bianco). Ricordo che si comprava soprattutto lo zucchero che era in sacchi e veniva messo in un bel
pezzo di carta molto robusta color viola, se ne prendevano non più di
tre etti alla volta e lo si scambiava con le uova.
Sotto il nostro portico venivano venduti i bozzoli dei bachi da seta allevati con le foglie dei gelsi dei nostri campi. Per quella occasione due dipendenti di Brustolon partivano col triciclo da Vicenza per
venire a vendere i gelati.
Anche se giovane, ho avuto poco tempo per il gioco perché mi sentivo quasi obbligato a dare sempre una mano in casa visto che "da fare " c,era sempre per tuttI..
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I parenti di Vicenza
Mia nonna materna, Maria Marchesini, sposata in Gabrielli, abitava
a Vicenza e mi voleva un bene da morire. La chiamavo "la Pulla". Aveva 4 figli: mia mamma Caterina e gli zii Pietro, Giuseppe e Lu~g~, tutti e
3 morti ancora piuttosto giovani. Lo zio Pietro è morto quasI Improvvisamente nel 1939 colpito da una malattia alla vescica. Per me è stato
un immenso dispiacere perché era anche mio padrino. di Cres.ima .
La nonna viveva, con lo zio Giuseppe detto Bept, e lo ZIO Pietro,
vicino a Piazza Castello, da lì poi si sono trasferiti in via Cà Nove e,
infine, in via Porta Nova.
Nonna Maria, ed è uno dei ricordi più belli, in occasione della festività della Madonna di Monte Berico, 8 settembre, mi accoglieva a
casa sua per una settimana e così potevo gode:mi tutte le attrazio~i
del Campo Marzio, giostre e baracconi dove mI acco.mp.ag~ava lo ZIO
Giuseppe. ['8 settembre si andava anc~e al c~mpo dI .a~1aZIOne per la
manifestazione dei paracadutisti e deglI aereI acrobaticI.
Lo zio Luigi ha sposato la zia Maria e ha avuto tre figliole: una ~
morta in tempo di guerra in seguito ad un'infezione alla lingua che SI
era punta con un osso, poi Carla, mongoloide, cui tutti vol~vano molto bene, soprattutto lo zio Giuseppe, morta abbastanza gIOvan~; e la
primogenita Gabriella, ancora vivente, rimasta presto.vedova, Il ~a­
rito è morto per un malore improvviso durante una gIta a VeneZIa.
Lo zio Luigi faceva il pasticcere, vicino al Tempio di San Lorenzo,
e io gli portavo le uova di casa che raccoglie:o co~ la ~onna ~orona.
Mio padre era un appassionato allevatore dI gallme hvornesi che facevano un uovo quasi ogni giorno.
..,
Quando avevo lezioni di scuola di pomengglo, mI f~rmavo da loro portando del formaggio, burro, vino in contraccambio del pranzo.
Qualche volta veniva a trovarci anche la "Pu~l~', la no~na ~aterna,
che da Vicenza partiva con la corriera fino a LlSlera e pOl arnvava da
noi a piedi. Che festa quando la vedevo arrivare, le volevo tanto bene!
Lo zio Luigi era anche amante della caccia. Quando aveva qualche me~­
za giornata libera, veniva a Quinto e allora dentro a~ casotto d~ caCCIa
era una gran festa. Mia mamma ci portava la colazlOne: .un pl.gnatto
piuttosto voluminoso con il caffelatte e dentro, per d~r~h consIstenza
e non farlo gocciolare, ci metteva già il pane. Ce lo dIvIdevamo nelle
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scodelle e mangiavamo di gusto e in libertà. Scappava anche qualche
pernacchia e una volta lo zio Luigi si stava soffocando con un pezzo di
pane per il troppo ridere e, a forza di tossire e fare sforzi per liberarsene, è riuscito a farlo uscire per il naso e noi giù a ridere ancora di più.
Mio zio Luigi aveva subito un intervento alla gola durante il quale gli era stata recisa 1'aorta. Con una cannuccia di plastica erano riusciti a rimediare al problema e si era ripreso bene. Un mattino, però,
a causa di un colpo di tosse, si è tolta la cannuccia e lui è morto dissanguato in pochi minuti, 1'ambulanza non è arrivata in tempo.
Zia Maria non ce l'ha fatta a portare avanti l'impegno della pasticceria. Il sostentamento della famiglia è passato tutto a carico dello zio Bepi, rappresentante farmaceutico, molto disponibile verso tutti i familiari, soprattutto per Carla.
Ricordo che, quando ho superato gli esami dalla quarta inferiore
alla prima classe superiore, lo zio Bepi mi ha regalato la macchina fotografica che possiedo ancora: è una Kodak. Era considerata una macchina fra le migliori per fare
le fotografie 6x9 ed ogni rullino aveva 8 pose. La ditta che
le sviluppava, Laschi, si trovava vicino al cinema Roma a
Vicenza. Ho scattato centinaia
di fotografie ed ho sempre
conservato i negativi che, però,
una volta portati in granaio,
sono stati rosicchiati dai topi.
Fra le foto rimaste ce n'è una
dell'Imelda con la Edda Rossato sull' argine e con sullo
sfondo il campanile. A quei
tempI, In paese, nessuno possedeva una macchina fotografica sicché io ero quasi considerato il fotografo ufficiale del
paese e tantissima gente veniva a farsi la foto per la carta Foto scattata con macchina Kodak regalatami nel 1941: Imelda con Edda
d'identità.
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La scuola
Lattuale scuola elementare di Quinto è stata costruita nel 1929. Prima, ricordo, si frequentava in Municipio e mio padr~ aveva .~<esso.,~
disposizione anche due stanze della sua casa. I so~fitt1 erano 1 so~at ,
fatti di legno, assi con dei nodi, <gropi" (~unt~ dI attacca~ura del rami). A forza di camminarci sopra, essendo 1 solaI anche pavImento della stanza soprastante, adibita a magazzin? per il mai~, per qual~he c~n~
traccolpo o, togliendoli con la punta dl un coltellInO, questi nodi SI
staccavano lasciando dei forellini di diverse misure a seconda della grossezza del ramo. lo, ancora piccolo, prendevo dei chicchi di granoturco e li facevo cadere attraverso i fori nell' aula sottostante disturbando
le lezioni. La maestra, quando usciva veniva a rimproverarmi.
.
Ho cominciato a frequentare la prima elementare nel nuovo fabbncato nell' anno scolastico 1930/31. Ai lati della scalinata c'erano due meravigliose anfore per i fiori. I banchi erano di legno ~ non av~vano ~ poggia piedi per isolarsi dal pavimento freddo. I ragazzI, per evitare d1 congelarsi i piedi, andavano a scuola con le «s~alm~re", scarpe con ~e suole
di legno. In chiesa invece, poiché non vemva rIScaldata, su~ pav11I~ento
tra un banco e 1'altro venivano poste delle tavole come Isolanti; comunque 1'acqua santa nelle pile ghiacciava. Le aule erano soltanto quattro, al centro, di sopra, c'era una stanza piuttosto piccola per la cl~sse
meno numerosa, massimo 24 alunni, le altre aule potevano accoglIere
fino ad una quarantina di ragazzi. La quinta elementare aveva sempre
molte presenze perché accoglieva anche i ragazzi di :ral~roto e Lanzè,
ed alcuni di Lisiera fra i quali ricordo come compagm Gzuseppe Zara~­
tonello e Anna Busatta. A quel tempo si doveva sostenere un esame In
terza elementare, alla fine del grado inferiore, e poi in quinta elemen~
tare, grado superiore, ottenendo un certificato di completamento d~gh
studi. Di solito i ragazzi delle frazioni, superata la terza elementare, Interrompevano la scuola, soprattutto nelle famiglie più povere, e ar:davano a lavorare nelle fattorie o come apprendisti nelle poche fabbnche
del tempo. Molti venivano bocciati, la p~omozion~ d?veva e~sere. conquistata con impegno, non era automatica come tI glO~no d OggI: ~­
cuni dovevano ripetere la stessa classe anche per tre anm consecutivI.
Durante il primo anno scolastico c'è stato un ricambio di una quindicina circa di maestri, avevamo quindi imparato ben poco. lo ero an-
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che molto timido, ricordo che all' entrata della scuola, non avendo il
coraggio di affrontare la scalinata, avevo detto a mia madre: "Mama,
a go tanta sen, compagname casa che beva un pochetin parchè go na sen
da m~rire". ~io padre ~veva deciso di farmi ripetere la prima per rafforzarml, ho pOI prosegUIto regolarmente fino in quinta elementare.
Nel primo ciclo ho avuto come insegnante la maestra B. detta la
maes~ra "Mora" perché di carnagione molto scura. Era un tipo mingherlIno, fidanzata con il fratello di L. M., detto "c. M". Durante la
ricreazione 9uesto fidanzato veniva a trovare la maestra e la coppia si
appartava dIetro la lavagna. In quarta e quinta ho avuto il maestro
Antonio Magrin, appassionato di caccia e molto preparato per l'insegnamento. L~ .m~estra B., i~vece, era scadente nella didattica in generale ma abIlIssIma nella gmnastica che insegnava in tutte le classi.
I~ qu~g~i ann~, tem~o del fascismo, arrivavano delle disposizioni minlstenah speCIfiche merenti i vari saggi ginnici che si dovevano tenere n~l corso dell' anno; l'impegno era forte perché la ginnastica era
consIderata fra le materie più importanti. Promosso in quinta, nel-
L'inaugurazione delle scuole elementari (anno 1930)
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l'anno scolastico 1935/36, l'ho però dovuta rifrequentare perché mio
padre, d'accordo con il maestro Magrin, pensava che ~osì av~ei ~otu­
to rafforzarmi nelle mie conoscenze per affrontare gli esamI dI ammissione obbligatori per le scuole superiori pubbliche a Vicenza. Lanno successivo sono partito per Piarda Fanton, presso le scuole elementari, tutto tremante per la paura e l'emozione.
Sono stato rimandato a settembre in disegno e in ginnastica, malgrado l'alta preparazione avuta dalla maestra B., perché il pro~essor~
Manni, oltre agli esercizi obbligatori, mi ha chiesto altri mOVImenti
(affondo, contraffondo, posata, protesa... andature varie), sui quali
non ero preparato. Ho dovuto quindi, durante 1'estate, prendere delle lezioni presso il Patronato Leone XIII da dei preti molto in gamba
e a settembre sono stato promosso con 7 in ginnastica e 8 in disegno.
Mio padre ha voluto iscrivermi alle Magistrali con sede principale in
contrà Riale. Il corso degli studi, complessivamente di 7 anni, era suddiviso in prima, seconda, terza e quarta classe inferiore e prima, seconda e terza superiore. Per entrare nel secondo ciclo si doveva superare un esame, altrimenti si ripeteva la quarta. Con due bocciature
consecutive si veniva espulsi dalla scuola e poi si poteva affrontare l'esame soltanto come privatisti.
Il primo di ottobre cominciavano le scuole e mia madre era molto
preoccupata perché l'unico mezzo per raggiungere la città era la bicicletta. Il traffico ere senz' altro limitato e quindi anche i pericoli, ma rimaneva il problema della pioggia, del freddo e delle freque~~i nevic~­
te. Pochi e lenti gli spartineve esistenti, non venivano sparsI 11 sale o Il
ghiaino e sulla statale il ghiaccio poteva rimanere anche per 15-20 gio~­
ni. Per non scivolare mi legavo degli stracci attorno alle scarpe. Ho V1sto migliaia di cadute e di incidenti. Le poche au~o ch: transita.van?
finivano facilmente nel fosso. Conservo ancora del peZZI della mIa bIcicletta che per tanti anni mi è servita per raggiungere Vicenza.
Era in vigore in quel tempo l'ora legale per tutto 1'arco dell' anno.
Le lezioni cominciavano alle 8, e d'inverno partivo da casa che era ancora buio. Non c'erano le dinamo per far funzionare il fanale ma il
carburo, dentro una cassetta che, con del gas, si accendeva producendo una fiammella simile a quella dei fornelli a gas. Il fanale era disposto in modo tale che riusciva ad illuminare bene la strada.
Sotto 1'era fascista, chi frequentava le scuole a Vicenza, doveva pre-
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senziare all' adunata di tutti i giovani presso la Gil, oggi teatro Astra.
Si marciava all' esterno nel campo da calcio. I bambini dai 6 agli 8 anni erano i figli della lupa, gli altri delle elementari erano i balilla, poi
seguivano gli avanguardisti (dai 12 ai 17 anni) e alla fine i giovani foscisti dai 17 anni in su.
Fra i documenti che ho dovuto presentare, per l'iscrizione scolastica a Vicenza, ce n'era uno con la mia foto dove indossavo la divisa
dei balilla. Questo nome ricorda quel ragazzo coraggioso che a Genova nel 1746 aveva scagliato un sasso contro gli Austriaci che pretendevano aiuto dai Genovesi per il trasporto di un mortaio, una specie di cannone con la canna corta, che si era sprofondato nel fango.
Passato negli avanguardisti, ho dovuto presenziare ogni sabato alle
esercitazioni paramilitari alla Gil, gioventù italiana dellittorio. Ci veniva consegnato un fucile modello 91, dalI'anno di fabbricazione 1891,
con canna piuttosto lunga. Alla fine del raduno c'era la proiezione premio all'interno del teatro. Era un' occasione unica per vedere gratuitamente un film, soprattutto per noi che provenivamo dalla provincia.
Ho dovuto acquistare la divisa presso la rivendita sotto la Basilica per
39 fianchi, lire. Mia madre non ne aveva molti di più e ha detto: "Guarda che problemi grossi, quanti soldi devo spendere!". Il rivenditore, per incoraggiarla, aveva detto che con quella divisa il figlio avrebbe senz' altro
intrapreso la strada verso un futuro economicamente più roseo.
Ho frequentato le prime quattro classi negli anni scolastici 1937/38,
1938/39, 1939/40, 1940/41. Sempre promosso, ho incontrato parecchie difficoltà in latino, soprattutto perché in prima magistrale avevamo una professoressa che ha cominciato subito a farci tradurre direttamente dall'italiano al latino senza approfondire la grammatica e
1'analisi logica.
Nel 1941 ho dovuto sostenere gli esami, molto duri, per passare
alla prima superiore frequentata nell' anno scolastico 1941/42; nel
1942/43 ho superato anche la seconda superiore. Nell'anno scolastico 1943/44 ho frequentato solo un mese circa perché, a causa della seconda guerra mondiale, la situazione era molto confusa ed anche il corso degli studi era incerto e spesso sospeso. Mi sono poi diplomato alla fine della guerra nell' ottobre del 1945 iscrivendomi ad
una sessione straordinaria di esami. Potevano accedere solo quei ragazzi che erano stati rimandati alla fine dell' anno scolastico 1944/45
ed eventuali privatisti come me.
Ero rientrato dalla Germania il4 maggio 1945 dopo più di un anno di guerra, (ero partito 1'8 marzo 1944). Durante l'estate non avevo tanta voglia di studiare e con difficoltà sono riuscito a riprendere
tutto il programma dell'ultimo anno. Lesame è stato piuttosto duro,
soprattutto la traduzione dal latino all'italiano ma sono stato fortunato perché il preside, professore Nicoli, che faceva parte della commissione, non ha fatto sorvegliare in modo particolare gli studenti. lo
sono stato aiutato da una ragazza iraniana che da tempo risiedeva in
Italia e conosceva molto bene il latino. La traduzione era intitolata
'Ve Socrate atque Santippe" (Socrate, filosofo antico, aveva sposato
una donna, Santippe, tanto bisbetica. Ogni mattina andava nel Tempio a pregare gli dei perché la facessero diventare ancor più insopportabile così lui, sopportandola, avrebbe acquistato sempre più meriti per una vita più beata nell'aldilà). Molti sono stati gli studenti respinti. lo sono riuscito a diplomarmi con tutte sufficienze ad eccezione di musica dove ho preso 7.
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Fiorenzo vestito da Balilla (1937)
La Seconda Guerra Mondiale
no i punti di contrasto per l'allargamento di confini e poteri e c'era
una propaganda tale che la gente sentiva ormai scontata la necessità
di qualche conflitto che potesse chiarire la situazione.
Nel 1939 è scoppiata la guerra. Hitler, despota in Germania, nazista per e~cellenza, a~eva avanzato il pretesto di voler congiungere la
Germama alla Pruss1a Orientale, che si trova fra la Polonia e il Mar
Balt~co. Poich~ gl~ alleati ~rancesi, .Inglesi, ed Americani si erano oppOSti alla sua nchiesta, HItler ha dichiarato guerra alla Polonia e l'ha
lnvasa conquistandola in pochissimo tempo. Anche la Russia, sua alleat~, ne ha conquistato alcuni territori. Ciò ha inasprito i loro rapp,orti. tanto che la Germania ha dichiarato guerra alla Russia stessa.
LItalIa, alleata della Germania, pensando ormai imminente la vittoria di Hitler, è entrata in guerra ilIO giugno 1940 conquistando al~~ne t~rre ai confini d~lla Francia, nella zona di Nizza, Savoia. Dopo
llnVaSlOne della Poloma automaticamente, al fronte occidentale so.
'
no lntervenute anche le potenze alleate quando Hitler ha attaccato la
F~an~ia. Quest'~ltima aveva costruito a difesa della sua terra, dei grandI tnnceramenti, fra questi le casematte sotterranee in cemento armato: inacces~ibili, che non consentivano assolutamente di poter sfond~re 11 fronte ln q.uesta. direzione. Per ciò la Germania ha dovuto rag~Irare queste fortificaZIoni, la ''Linea Maginot", invadendo il Belgio,
Il Lussemburgo, l'Olanda e arrivando quindi in tutta la Francia. Le
truppe alleate si sono ritirate oltre La Manica in attesa dell' ormai imminente attacco tedesco all'Inghilterra. Nel fronte orientale i Tedeschi erano arrivati a poca distanza da Mosca. In un secondo momen.·
to, ~erò, i ~e.deschi s?no stati accerchiati a Stalingrado resistendo per
meSI e meSI In una sItuazione di profonde sofferenze. Tutto sembrava, c.omu~que, favorire la vittoria delle truppe tedesche e italiane ma,
neglI anllI 1940, 1941, 1942, in Russia la situazione atmosferica è stata fatale per 1'esito della guerra: temperature così rigide, anche 40°
sotto lo zero che hanno stremato i Tedeschi ormai privi di rifornimenti e decimati con migliaia di soldati morti.
La Germania nel frattempo è riuscita ad attaccare la Finlandia e ad
invadere l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria ed infine la Grecia con sacrifici inauditi degli Italiani male equipaggiati e probabilmente disuniti perché da tempo regnava il malumore nei confronti del fascismo.
Truppe italiane parteciparono anche all'invasione della Russia subendo
innumerevoli perdite. Ricordo che alcune si sono trovate nella zona prospiciente l'Ucraina e che lì, nell' ansa del Don, uno dei più grandi fiumi
della Russia, hanno combattuto strenuamente. Le truppe italiane sono
state decimate e migliaia di soldati sono scomparsi, ancor oggi si possono trovare resti di soldati morti. Ricordo il film '1 girasoli" che parlava
della vicenda di un soldato italiano stremato in mezzo alla neve, soccorso da una ragazza russa che poi ha sposato pur essendo già coniugato. È
un film che ti fa riflettere su molte cose per la tragicità della vicenda.
Anche in Africa Settentrionale le cose non andavano meglio, gli
Italiani e i Tedeschi erano stati cacciati. Calarono la stima e la fiducia
verso Mussolini. Nel luglio del 1943, re Vittorio Emanuele III lo destituÌ e lo fece arrestare e incarcerare sul Gran Sasso sostituendolo con
il maresciallo Pietro Badoglio.
r8 settembre 1943 il governo trattò con gli alleati l'armistizio lasciando l'Italia suddivisa in due parti: il sud con gli Americani, il Centro-Nord con i Tedeschi.
Un pilota tedesco riuscì, con un assalto audace, a bordo di un piccolo aereo, ad atterrare e a liberare Mussolini.
In Italia c'era ormai il caos, Vittorio Emanuele III era fuggito nell'Italia del sud e successivamente in Egitto allora alleato degli Americani, Inglesi e Francesi.
Il voltafaccia italiano aveva inasprito l'animo tedesco. Iniziarono i
rallestramenti di soldati italiani e maltrattamenti alla popolazione certamente scontenta della situazione. Gli Americani avevano già conquistato tutta la Sicilia e nella zona di Anzio è iniziata una lunga ed
interminabile guerra di trincea. Gli aerei alleati hanno anche bombardato e distrutto completamente l'Abbazia di Cassino perché pensavano fosse fortezza dei nemici.
Mussolini, nel frattempo, sotto la protezione delle armi tedesche,
creò un nuovo stato fascista: la Repubblica di Salò sul Lago di Garda.
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(cause e vicende secondo il narratore)
Ricordo benissimo che nel 1938/39 la gente diceva: «bisogna che
la se sbroca, bisogna che la se sbroca". A livello internazionale molti era-
Molti soldati italiani, che erano stati internati in Germania, hanno aderito a formare delle divisioni che combattevano a fianco dei tedeschi. Fra gli ufficiali ricordo il professore C. che, una volta rientrato in Italia, si è reso uccel di bosco facendosi partigiano.
Furono molti i gruppi di Italiani che, volendo sconfiggere il fascismo, aderirono al movimento clandestino dei partigiani iniziando la
"Resistenza" con azioni di guerriglia e sabotaggio contro i tedeschi e
i sostenitori di Mussolini.
Lesercito tedesco, le SS e i fascisti delle "brigate nere" reagirono
duramente alla guerriglia partigiana con feroci rappresaglie, dovute
ad imboscate nei confronti di soldati tedeschi.
Gli Alleati riuscirono ad avanzare lentamente verso il centro Italia.
Sentendosi in difficoltà il governo della Repubblica di Salò, verso
la metà del febbraio 1944, emanò un bando che invitava tutti quelli
che avevano compiuto i 18 anni a presentarsi perché richiamati sotto le armi.
lo mi sono presentato a Vicenza, precisamente dove sorgono le Casermette, 1'8 marzo 1944. Appena entrato in quella caserma mi sembrava di essere in una bolgia infernale, simile ad un cerchio dell'inferno dantesco: miliardi e miliardi di bestemmie, gente che spaccava,
distruggeva tutto. Uscire non si poteva più, le guardie erano pronte a
fermare i pochi che cercavano di fuggire saltando la mura di cinta, alcuni sono stati anche feriti, forse ci sono stati anche dei morti. Solo
pochi sono riusciti a fuggire diventando quindi dei disertori. In questi casi potevano essere arrestati dei familiari, in particolare i genitori. Pensando a mio padre, che già aveva fatto 7 anni come soldato,
prima e durante la prima guerra mondiale del 1915/18, non avrei mai
tentato la fuga rischiando così di farlo arrestare e ho deciso di seguire il mio destino. Rimanemmo due giorni dentro alle "Casermette".
Poi ci hanno portati in stazione ferroviaria e fatti salire su di un treno di tipo normale predisposto per il nostro spostamento ad Asti.
Siamo partiti il mattino presto del 1O marzo 1944 e siamo arrivati a
destinazione verso sera. C'era una grandissima caserma, un edificio somigliante alla parte vecchia dell' ospedale di Vicenza che ricordava un
monastero del passato. Siamo arrivati in circa 5000, venivamo addestrati
in appoggio all' aviazione. Il Comandante era un Tenente Colonnello
dell' aviazione. Non c'erano soldati tedeschi ma soldati e ufficiali italiani
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che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Lì la situazione era abbastanza tranquilla. Il 13 marzo, ricorrendo la festa dell' aviazione, ci hanno radunati in un grandissimo cortile con in fondo un altare preparato
per la celebrazione della Santa Messa. Ad un certo punto hanno annunciato che servivano 4 volontari per completare la quarta compagnia.
Nessuno si muoveva, io sono stato il primo ad alzare la mano, mi trovavo fra gli ultimi in fondo, data la mia alta statura, a una cinquantina
di metri dall' altare e il Colonnello ha esclamato: "finalmente ne vedo
uno" . Allora molti hanno alzato la mano ma ne sono stati accettati solo
altri tre che poi ho avuto sempre come compagni per tutto il resto del
mio servizio militare: L.B. e B.S. (il primo lo indicherò sempre con B., il
secondo con 5.) di Rettorgole e un certo G. del Basso Vicentino. Siamo
stati incorporati e destinati al reparto della quarta compagnia. Arrivati
in uno dei saloni adibiti a dormitorio, un ufficiale ci ha chiamati assieme a tutti gli altri soldati già precedentemente incorporati. Ci hanno
consegnato le divise militari, la mia giacca era molto stretta e corta e sembravo quasi una marionetta. Un Maggiore mi si è avvicinato e mi ha subito chiesto se avessi qualche conoscente capace di rimediarmi quella divisa e io, tutto orgoglioso, ho risposto che mia madre e la nonna facevano le sarte. A tutta la quarta compagnia era stata assegnata una licenza premio di 15 giorni. Alla notizia per tutta la serata ci fu gran festa.
Siamo stati accompagnati in formazione alla stazione di Asti e, passando per Mortara, Pavia, siamo arrivati a Milano. A causa di bombardamenti e fermate improvvise del treno, siamo arrivati a Milano verso le
12 del giorno successivo. Il treno per Vicenza e Venezia, via Verona, doveva partire verso le 17,30/18,00 di sera e cosÌ ci siamo fermati alla stazione centrale. Lì giravamo con lo zaino in spalla per ingannare il tempo. Come vitto ci avevano dato del pane, delle gallette, una specie di
cracker molto duro, ma la fame quasi quasi non la si sentiva perché presi dalla gioia per il ritorno a casa. Non mi sembrava vero di essere stato
premiato perché avevo aderito volontariamente alla quarta compagnia.
Il treno tanto atteso è partito verso sera e, funzionando un po' a
singhiozzo, è arrivato a Vicenza verso l'una di notte. "Come fare per
arrivare a Quinto?", non c'erano i telefoni per avvisare qualcuno! Allora son partito a piedi camminando velocemente (altro che Dordoni, famoso maratoneta), penso di aver impiegato meno di un'ora per
arrivare a casa. Fra Anconetta e Ospedaletto non ho incontrato nes-
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suno, proprio nessuno, nemmeno un' automobile. A metà dello stradone, ad un certo punto, alle mie spalle, ho sentito una specie di rumore come di qualcuno che ansimasse, con un respiro piuttosto lungo. Mi sono girato, sempre camminando alacremente e mi sono accorto che mi seguiva, alla distanza di 3-4 metri circa, un grande cane
lupo. Mi si sono rizzati i capelli, forse aveva annusato il profumo di
un po' di pane che tenevo nello zaino. Allora, continuando a camminare con movimenti lenti, lenti, sono riuscito ad aprire lo zaino e a
tirar fuori una pagnotta che ho lanciato verso il cane che si è subito
fermato a mangiare e cosl me ne sono liberato. Il momento più bello è stato quando sono arrivato in corte verso le due. Per svegliare mio
padre ho cominciato a lanciare dei sassetti sul balcone. Mio padre ha
chiesto: ''chi se che ghe sé a sta ora?': "papà, son mi". "Ah! Sito ti, sito
scapà?" ''No, a go na licenza premio!". E stata una festa, una gioia immensa, indescrivibile. Immaginatevi mia mamma: ecco, era venuta
giù di corsa, scamiciata, "Ah! Sito qua". Mia mamma, specialmente in
periodo di guerra, mi voleva un bene da morire. È seguito poi un susseguirsi di domande e risposte su tutto ciò che mi era successo. La
mattina mi sono presentato in Municipio perché dovevo far firmare
il foglio di licenza dai Carabinieri. I 15 giorni sono passati in fretta.
Nel frattempo mia madre aveva sistemato la giacca con la stoffa grigio-verde ricavata dalla divisa che avevo portato come avanguardista.
In stazione mi sono ritrovato con S. B. G. Siamo stati i primi a rientrare in caserma ad Asti ricevendo le congratulazioni del Maresciallo per
la puntualità che dimostrava attaccamento al dovere. Dopo alcuni giorni, il lO aprile, siamo partiti per Mantova con il compito di sistemare
alcune linee telefoniche e telegrafiche che dovevano servire per le comunicazioni militari fra i vari appostamenti. A quel tempo il fronte si
trovava a sud di Napoli sul fiume Volturno. Eravamo alloggiati presso
una scuola elementare requisita. Si dormiva sul pavimento dove erano
sistemati solo i materassi: circa 20 persone per ogni stanza. Per lO giorni siamo rimasti sempre rinchiusi, non si poteva uscire. Per passare il
tempo scrivevo e, non sapendo come fare per spedire le lettere, le lasciavo cadere sulla pubblica via con la speranza che qualcuno me le imbucasse. Sul retro si doveva sempre indicare il mittente. Il militare pagava il 50% del valore del francobollo, circa 25-30 centesimi.
Dopo pochi giorni dal mio arrivo, mi vedo recapitare una lettera spe-
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dita da Mantova, le mittenti erano due ragazze, Maria e Teresa Zaltrini,
abitanti in via 20 settembre, 18, Mantova. Desideravano allacciare con
me della corrispondenza e così, il giorno stesso ho risposto. Non ci siamo mai incontrati perché il giorno dopo siamo stati trasferiti a Mirandola in provincia di Modena. Non eravamo più soldati subordinati all'esercito italiano ma ora dipendevamo direttamente da quello tedesco.
Mantova è circondata da diversi laghi formati dal Mincio, emissario
del Garda che da tempo aveva una portata d'acqua piuttosto ridotta,
poiché il lago si era notevolmente abbassato a causa delle scarse pio.gge:
Ciò aveva favorito la proliferazione di insetti sulle acque stagnanti del
laghi che lasciavano affiorare tutti gli scarichi delle fognature assieme
ad un odore acre e nauseabondo, una puzza quasi insopportabile. Ma
la cosa più grave è stata un' epidemia di malaria fra i soldati. I Tedeschi
ci hanno subito curati con pastiglie gialle di chinino. Quando si mettevano in bocca questa rimaneva impregnata per circa un paio d'ore di
un colore giallastro e di un gusto piuttosto amaro: era una cura molto
seguita in quei tempi anche in caso di febbre alta. Queste pastiglie io le
ho sempre prese e non sono stato colpito da nessuna malattia. Alcuni
soldati, che si credevano superiori alle disposizioni mediche, fingevano
di prenderle e molti sono stati colpiti dalla malaria (febbre che arriva
quasi improvvisamente facendo sbiancare l'ammalato che subito comincia a sudare e a battere i denti, la temperatura corporea arriva anche a 41 gradi; fa perdere completamente l'appetito favorendo l'insorgere della tubercolosi). Di circa 120/130 soldati, di stanza a Mantova,
quasi la metà è stata colpita dalla malattia. I casi gravi sono stati pochi
e si son risolti senza particolari conseguenze.
A Mirandola ero stato ~ssunto nel biiro, in fureria e avevo il compito di tenere aggiornato l'elenco di tutti i soldati italiani scrivendolo
a macchina. Per ogni cambiamento 1'elenco doveva essere ribattuto.
C'erano due tedeschi, il sergente Weber e il tenente Klozbach, amanti della lingua italiana che desideravano impararla. Sapendo che io ero
studente, mi avevano chiesto di dare loro delle lezioni di italiano nelle ore libere. Mi sono offerto immediatamente e fra noi si è instaurato un rapporto cordiale.
A Mirandola sono rimasto per circa 40 giorni cioè fino alla fine di
maggIO.
Ho saputo che le scuole terminavano il 31 maggio e che c'era la
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possibilità, verso la metà di giugno, di sostenere gli esami di abilitazione magistrale da privatista. Mio padre è riuscito a presentare tutta
la documentazione. Grazie alla fiducia che avevo ottenuto dal Sergente e dal Tenente, ho avuto alcuni giorni di licenza per gli esami
che nel complesso sono andati abbastanza bene, sono stato rimandato con un 5 in latino e un 5 in musica. In questa materia avevo avuto sempre degli ottimi voti ma le domande che mi sono state poste
erano veramente difficili, relative a musicisti poco conosciuti. Dovevo, quindi, presentarmi a settembre per riparare le due materie. Tutto comunque dipendeva da come sarebbe andata a finire la guerra.
Gli Americani non riuscivano ad avanzare oltre il territorio di Roma anche perché i Tedeschi nel frattempo si erano rinforzati ed opponevano una strenua difesa che ha decimato 1'esercito degli alleati
con perdite incalcolabili.
Dal primo di giugno ci siamo trasferiti a Dossobuono, un paesino
che si trova ad ovest di Verona, e lì è venuto a trovarmi anche lo zio
Bepi, ho potuto uscire dalla caserma ed intrattenermi un po' con lui.
Con il Tenente andavo a prelevare la frutta nei paesi lì vicini, c'era soprattutto abbondanza di pesche.
A metà giugno ci siamo trasferiti a sud di Bologna, sulla strada che
porta giù verso Firenze e ci siamo accampati a Sasso Marconi, in mezzo alle colline. Non c'erano altre abitazioni e dall' alto si poteva dominare la cittadina di Casalecchio di Reno, fiume che la attraversa.
Sono scoppiati violenti temporali con forte vento che ha anche distrutto alcune tende.
Il 17 giugno 1944 ho assistito all' attacco di alcuni caccia bombardieri americani o inglesi contro alcune postazioni di contraerea che si
trovavano proprio sulla collina opposta alla nostra. Ad un certo punto la contraerea non ha più sparato, probabilmente era stata colpita.
Nello stesso tempo due formazioni di fortezze volanti, di solito 18 e
18, hanno bombardato Casalecchio di Reno distruggendo parecchie
abitazioni ed il panificio. Ci sono stati dei morti fra i quali anche il
fornaio. Noi eravamo rimasti lì inermi, potevamo solo fare da spettatori. Il nostro timore più forte era comunque quello di essere attaccati dai partigiani contrari alla Repubblica di Salò.
La domenica un prete tedesco ha celebrato la Santa Messa tutta in
tedesco.
Dopo alcuni giorni ci hanno trasferiti verso nord a Solferino, a sud
di Desenzano sul Lago di Garda, località famosa per le battaglie del
Risorgimento. Eravamo accampati dove sorge ancor oggi l' ossario dei
soldati francesi caduti a Solferino, circondato da piante sempreverdi,
conifere. C'era una grande torre e da sopra si poteva ammirare tutta la
pianura circostante e quindi anche il Lago di Garda. Da lì, il 25 o 26
giugno, ho assistito al bombardamento, da parte di tre formazioni di
fortezze volanti americane (18X3), sulla linea ferroviaria con la distruzione anche di un viadotto e quindi l'interruzione della ferrovia
stessa. Non c'è stato alcun tentativo di difesa da parte di caccia o di
contraerea e quindi il bombardamento è riuscito senza inconvenienti.
A Solferino per me la vita è stata tranquilla perché continuavo nelle
mie mansioni di ufficio e nelle lezioni di italiano ai due tedeschi. Gli
altri soldati, invece, comandati dai tedeschi, uscivano giornalmente per
allestire o sistemare le linee elettriche, telefoniche e telegrafiche.
Il tenente Klozbach mi ha informato, pregando mi di non dirlo a
nessuno, che presto saremmo stati trasferiti in una caserma vicino a
Mestre, a Carpenedo e che da lì saremmo poi partiti per la Germania. Infatti il giorno successivo sono arrivati alcuni camion e, passando a sud dei colli Euganei, per una strada provinciale non tanto frequentata, siamo arrivati a Carpenedo (fine luglio 1944). La caserma
sorgeva a circa 40-50 metri dalla linea ferroviaria e lì è stato preparato un treno con i vagoni da bestiame. Nessuno avrebbe potuto fuggire perché c'erano decine e decine di soldati tedeschi che ci sorvegliavano tutto il giorno, si rischiava di essere fucilati sul posto.
Siamo saliti sui vagoni, mediamente in uno ci stavano 40 militari
vigilati da 2 soldati tedeschi. Una volta completato il treno, ho saputo più tardi che eravamo circa in 1500, ci siamo avviati verso Udine.
Quella notte c'era la luna piena che illuminava quasi a giorno il
paesaggio che appariva surreale in una situazione di grande .cambiamento ed incertezza per noi abbandonati ad un destino sconosciuto.
Ho cercato di persuadere tutti i soldati del mio carro a non tentare
la fuga. Il portellone scorrevole era stato sigillato. In altri vagoni avevano scardinato 1'abbaino sul soffitto, che serve ad arieggiare, e, salendo
sul tetto, cercavano di scappare tuffandosi nei fìumi che si attraversavano. Molti si sono sfracellati sulla massicciata del treno, difficilmente
qualcuno sarà riuscito a salvarsi. Anche a Udine è stato arrestato un al-
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tro fuggitivo dalle guardie della stazione, non so che fine abbia fatto.
Il treno ha continuato a viaggiare, viaggiare e, verso mezzogiorno,
siamo arrivati al confine tra l'Italia e l'Austria e precisamente a Tarvisio. Lì il treno si è fermato, il grande portellone che ci teneva chiusi è
stato parzialmente aperto. Già a Carpenedo avevo preparato la cartolina che, come concordato con la mia famiglia, avrei spedito nel caso
fossi stato trasferito in Germania: c'erano raffigurati un giovanotto,
che teneva per mano una bicicletta, di fronte a lui una ragazza ed entrambi si fissavano intensamente negli occhi. Come imbucarla? Oltre
ai soldati tedeschi c'erano anche delle ragazze militari dette ausiliarie.
Ad un certo punto, una di queste, era un tenente ausiliario, oberleutnant si dice in tedesco, è passata sorridente davanti al mio carro e gentilmente l'ho pregata di imbucarmi la cartolina. C'era scritto: "Tutto
bene". Le ho consegnato 50 centesimi, non avevo altri spiccioli, per
1'affrancatura. Lei ha rifiutato i soldi e sono sicuro che l'ha spedita perché c'è fra le carte che tengo ancora in granaio. Era arrivata a Quinto
senza francobollo perché quella donna aveva fatto mettere il timbro
feldpost che vuoI dire posta militare. Questa gentilezza mi ha un po' risollevato 1'animo preso da mille pensieri ed angosce.
Passato il confine non c'è più stata una sorveglianza ferrea e il portellone non era più bloccato.
A Villach il treno si è fermato e alcuni soldati tedeschi, che parlavano un italiano stentato, ci hanno fatto prendere con un tela dei viveri
dai 4-5 vagoni che li trasportavano. Ci sarebbero dovuti bastare per tutto il tragitto. Non sapevamo quale fosse la nostra meta e unici punti di
riferimento erano i fiumi che attraversavamo: la Sava e la Drava, affluenti del Danubio. La temperatura era piuttosto bassa, sulle cime più
alte delle Alpi si intravedeva qualche ghiacciaio ed alcune creste ricoperte di neve malgrado fosse piena estate. Il viaggio è continuato.
Per i bisogni fisiologici, quando il treno si fermava, si scendeva e lì
per terra si provvedeva in mezzo a tutti. Se c'era questa esigenza durante il viaggio in 3-4 persone si teneva l'individuo per le braccia e
per la cinghia e, tenendo il sedere all' esterno del vagone, con il portellone semi aperto, questo tentava di evacuare: era una necessità continua visto che in ogni carro si era in 40 e quindi ci si dava il cambio.
Abbiamo viaggiato per tutta la giornata senza particolari soste. Annotavo su un bloc-notes tutte le località che si attraversavano passan-
do nelle varie stazioni anche perché non sono mai riuscito a dormire.
La prima fermata è stata a Norimberga, Nurnberg. Ci hanno ordinato di prendere la gavetta o gamella perché c'era una specie di minestra, una brodaglia giallognola fatta col miglio (el meio che si dà agli uccelli). Labbiamo mangiata volentieri dopo due giorni di alimenti secchi.
Lì ho saputo da un soldato tedesco che la nostra destinazione era
piuttosto lontana: eravamo destinati a Konigsberg (montagna dei re),
capoluogo di regione della Prussia Orientale, che si trova fra la Polonia e il Mar Baltico, il territorio che è stato il motivo iniziale del conflitto mondiale.
Il treno ha continuato a viaggiare a singhiozzo sempre in direzione
nord. Dopo due giorni e due notti, siamo arrivati a Schweinfurt un
centro piuttosto grosso dove sorgeva una grande fabbrica di aerei, gli
esamotori, cioè aerei da 6 motori. Erano aerei da trasporto merci, facevano servizio anche in Italia. Dopo la guerra sono andato a vederne uno
al campo di aviazione a Vicenza. Questo aereo, troppo carico di merci,
non era riuscito a decollare e alla fine della pista era andato a sbattere
contro l'argine del Bacchiglione girando su sé stesso e ponendosi con le
ali come un ponte sul fiume. Certamente il suo carico sarà stato preda
di saccheggio vista la fame sopportata dalla gente in quegli anni.
A Schweinfurt, verso l'una della terza notte, abbiamo fatto una sosta di un paio d'ore. Poi siamo ripartiti. Annotando tutte le località,
mi sono accorto che dopo Schweinfurt si ripeteva una località già scritta, poi una seconda e così via: stavamo tornando indietro. Siamo infatti ritornati a Norimberga. Qualcuno di noi ha cominciato a sperare in un ritorno in Italia. Durante la quarta notte, osservando la stella Polare mi sono accorto che si andava verso ovest, cioè verso la Francia. abbiamo raggiunto Stoccarda e lì ho intravisto alcuni treni carichi di soldati italiani, quelli fatti prigionieri dopo 1'8 settembre ed internati in Germania. Questi, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran
Sasso, ad un certo momento avevano aderito alla Repubblica di Salò,
cosa che avevo fatto anch'io quando mi sono presentato al richiamo
alle armi. Quei soldati facevano parte della Divisione Monte Rosa, ricordo che c'era un' altra Divisione: la Littorio. Più tardi ho saputo che
questi provenivano dalla località dove eravamo destinati noi e precisamente da Rottweil che sorgeva alle propaggini dello Schwarzwald
cioè la Foresta Nera.
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SVIZZERA
Schweinfurt
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Richiamato alle armi Fiorenzo si presenta a Vicenza 1'8 marzo 1944. Località italiane in cui Fiorenzo ha prestato servizio militare dall'8 marzo
1944 al 2 agosto 1944:
A) Vicenza (8/3/1944-10/3/1944)
B) Asti (10/3/1944-10/4/1944)
C) Milano (di passaggio)
D) Mantova (10/4/44-20/4/44)
E) Mirandola (20/4/44-31/5/44)
F) Dossobuono (1/6/1944-15/6/1944)
G) Sasso Marconi (15/6/1944-20/6/1944)
H) Solferino (20/6/1944-1/8/1944)
I) Carpenedo (2/8/1944)
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Località incontrate durante il tragitto per la Germania dal 2/8/1944 al
7/8/1944,.
J) Udine
K) 1àrvisio
L) Villach
M) Norimberga
N) Schweinfurt
M) Norimberga
O) Stoccarda
Località di permanenza in Germania come internato con mansioni di
vigile del fuoco:
P) Rottweil (7/8/1944-18/8/1944)
Q) Bruchsal (19/8/1944-15/4/1944)
R) Knittlingen
(15/10/194427/3/1945)
S) Altheim (28/3/1945-29/3/1945)
T) Leipheim (30/3/1945-2/4/1945)
U) Ulm (2/4/1945: inizio fuga per
l'Italia)
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Lultima parte del viaggio non finiva mai, si viaggiava da 5 giorni. B.
è stato colpito da una grave forma di dissenteria dovuta probabilmente
ai disagi del viaggio ed alle preoccupazioni. Ad un certo punto non ha
più voluto mangiare niente ed ha cominciato a scaricare. Lultimo giorno, pur non avendo mangiato, ha avuto stimoli per ben 52 volte.
Un altro soldato è stato colpito da una forte forma di "mal caduto", una specie di epilessia. Il fatto grave è che in quei momenti si arrotolava per terra anche sopra ai viveri del vagone. Per questo mi sono arrabbiato e, non riuscendo a controllarmi, gli ho dato alcuni pugni e da quel momento non ha più avuto alcun attacco.
Arrivati alla stazione di Rottweil, che sorge a circa 60 chilometri dal
confine con la Svizzera, eravamo come rimbambiti, sfiniti, confusi. lo
non dormivo da 5 giorni. Per raggiungere i baraccamenti si dovevano
fare 8 chilometri di strada a piedi, tutti in salita, con una pendenza piuttosto accentuata. B. era in condizioni disastrose. I tedeschi volevano che
camminasse. Mi sono offerto di portarlo a spalle. Altri gli avrebbero portato lo zaino. A turni di 300-400 metri, io e S. lo abbiamo trasportato
alternandoci anche nel portarci i nostri due zaini e nel tenergli ferme le
mani attorno al collo di chi lo portava perché non aveva neanche la forza di tenersi ben aggrappato. Abbiamo raggiunto i baraccamenti tre ore
dopo gli altri. Ad una distanza di un centinaio di metri, ho appoggiato
B. sul prato e ho cercato di farlo rinvenire perché era come svenuto. Intanto degli ufficiali tedeschi avevano seguito la scena, in particolare uno
che aveva il binocolo. Dopo qualche istante si son sentiti dei fischi (in
Italia si danno i comandi con la tromba, in Germania con un fischietto
che, a seconda di come emette il suono dà dei comandi diversi). Anche
io e S. ci siamo distesi sull' erba. Presto è arrivata una camionetta con tre
ufficiali tedeschi a bordo: un Colonnello, un Capitano e un Tenente. Ci
interrogavano in tedesco ma non comprendevamo. Il Colonnello, che
aveva una fascia al braccio destro con la croce rossa, era un ufficiale medico, ha cominciato a parlare in latino. lo gli ho raccontato: ''B. malatus
est ventrem, hodie quinquaginta stercum focit, etiam fobrem habet". Immediatamente 1'ufficiale ha preso in mano il fischietto e con tre fischi ha
fatto arrivare tre ambulanze, una per ciascuno di noi, per portarci in infermeria. Ci hanno fatto spogliare ed adagiare sui lettini. B. è stato spogliato da due infermiere. Immaginatevi in quale stato fossero i nostri indumenti dopo il lungo e scomodo viaggio. A B. hanno fatto bere un li-
quido nero, circa mezza scodella, a noi una specie di caffè con 1'orzo,
dolce come il miele, molto sostanzioso.
lo e S. ci siamo poi stesi sui lettini e ci hanno consigliato di stare
calmi e di riposare. Il medico tedesco è rimasto seduto a fianco di B.
Dopo circa un' ora gli ha fatto anche due iniezioni e ha ordinato ad
un'infermiera di seguirlo costantemente. Sono rimasto molto impressionato per questa dedizione. Più tardi l'infermiera ci ha fatto portare una specie di minestra calda. A me e a S. è venuto un appetito da
lupi, una fame particolare.
Dopo un' ora B. ha cominciato a muoversi, ad aprire gli occhi: stava
migliorando. Verso le 8 di sera si sentiva già in forze. Siamo rimasti in
infermeria per tutta la notte, il Colonnello è venuto più volte a far visita a B. e diceva: "Gut, gut, gut': E poi in latino: ''Bonus, bonus, bonus': Il
suo viso era sorridente e ci sollevava il morale. lo e S. il mattino successivo, siamo stati dimessi sempre con la nostra divisa grigio-verde italiana, mentre B. è stato trattenuto per altri due giorni. Era dimagrito di circa 15 chili, di questo sono sicuro perché, prima della partenza per la Germania, ci eravamo pesati, io avevo mantenuto il mio peso di 82 chili,
ma B. ora era ben lontano dai suoi precedenti 81 chilogrammi.
In quel posto c'erano tantissimi baraccamenti, vi alloggiavano circa 5.000 soldati. Ci trovavamo sopra una collina tutta ricoperta di pini e abeti in abbondanza, il clima ed il paesaggio erano eccezionali,
simili a quelli di montagna dalle nostre parti, lì si era ad una altezza
di circa 800 metri e quelle piante facevano parte della vegetazione dello Schwarzwald, la Foresta Nera.
Ogni mattina si formavano delle squadre e si andava a marciare su
e giù per i monti tutti ombreggiati da questi alberi altissimi. Il posto
ci aiutava un po' a sopportare la nostra situazione: eravamo internati
in Germania e non sapevamo ancora quale sarebbe stato il nostro preciso impegno. Ci davano da mangiare una specie di brodaglia con le
uova di rana abbastanza saporita. C'erano grandissimi allevamenti di
rane in enormi vasche. Il vitto era sufficiente, non c'era abbondanza
e si notava la forte differenza fra il cibo italiano e quello tedesco. Per
fortuna l'appetito non mancava. Ci veniva servito quel pane nero tedesco, dal sapore un po' amarognolo, spalmato di margarina o burro
e con uno sciroppo, una specie di "mielasso", si dice in dialetto.
Scrivevo a casa per tenere informata la famiglia sulla mia situazione
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ma per più di un mese non ho ricevuto alcuna risposta. La Felposta, la
posta militare, come la mia, era più veloce e l'organizzazione dalla Germania era abbastanza funzionale, invece dall'Italia era tutto rallentato o
bloccato. Nelle scuole elementari attuali di Quinto i Tedeschi avevano
allestito un magazzino. Avevano inoltre instaurato dei buoni rapporti
con mio padre che, abitando Il a lato, ogni giorno conversava con loro.
Alcuni conoscevano bene la nostra lingua e lo tenevano informato sulla
situazione in Germania. Era riuscito, tramite loro, a farmi arrivare abbastanza regolarmente delle lettere. Avevo cosÌ saputo che nelle nostre
zone c'erano stati dei bombardamenti. Il18 novembre del 1944 era stato colpito, da parte degli Americani, il campo di aviazione di Vicenza e
c'erano stati parecchi morti fra i quali 4-5 persone di Quinto.
A Rottweil siamo rimasti per circa 10-12 giorni.
Sono arrivati degli ufficiali e sottufficiali con la divisa dell' aviazione (luftwaJèn). Ognuno portava le mostrine diverse rispetto al gruppo a cui apparteneva. Le loro erano nere e ho pensato che il nero era
il colore dei fascisti o dei reparti di volontari (nella prima guerra mondiale le mostrine nere erano portate dagli arditi). Ci hanno radunati
tutti e l'ufficiale medico, parlandoci in latino, ha chiesto chi voleva
aderire alle richieste di questi ufficiali. Sono stato tra i primi a farsi
avanti, in tutto eravamo in 19.
Siamo partiti in treno rifacendo la strada già percorsa fino a Stoccarda e poi abbiamo proseguito verso nord. Dopo circa 50-60 chilometri siamo arrivati a Bruchsal che significa Ponte sul Sal. Da lì ci
hanno accompagnati in una specie di caserma all' esterno della quale
erano parcheggiate delle autopompe. Ci ha accolti cordialmente un
Maggiore assieme ad un Capitano, un Tenente e alcuni Marescialli.
Ci hanno spiegato il nostro compito: spegnere incendi e tirare fuori
i morti e i feriti dopo i bombardamenti aerei.
Tutto sommato, noi 19 volontari, eravamo stati fortunati perché
gli altri erano stati poi trasferiti nella Prussia Orientale o in altre città
del nord della Germania.
La nostra Compagnia era formata da 110-120 soldati fra i quali alcuni Polacchi, fatti prigionieri all'inizio della guerra che, fermandosi
lì, hanno evitato il campo di concentramento e vecchi Tedeschi, di
circa 60-70 anni, arruolatisi proprio per adempiere questo compito
pietoso.
Già dal secondo giorno abbiamo iniziato le prime esercitazioni con
le autopompe: come allacciare le canne per portare l'acqua alla pompa già inserita all'interno del mezzo; bisognava applicare un tubo piuttosto grosso nella parte inferiore della pompa e, per mezzo di una leva e col motore acceso, la pompa poteva attingere l'acqua dal fosso o
dagli idranti con dei congegni particolari. Ogni autopompa aveva nel
suo cassone tante canne applicabili di 2 dimensioni: una di 7 e l'altra
di lO centimetri circa di diametro. La prima poteva essere tenuta da
una sola persona, non cosÌ la seconda perché lì l'acqua passava con
una pressione di 7 atmosfere non controllabile da un solo soldato.
C'era un altro mezzo meccanico dove si potevano inserire 3 canne
da IO centimetri. Era una particolare apparecchiatura, il getto usciva da
una sola apertura di due centimetri di diametro ed era sistemato su un
carrello. Quel mezzo era chiamato W'tzsser Kanon, cioè cannone d'acqua. Alla distanza di 100 metri con quel getto si poteva ammazzare una
persona, veniva trafitta come da un proiettile. A volte, se non erano in
cemento armato, si potevano anche tagliare i muri delle case: si punta-
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Cattedrale cattolica di Bruchsal (distrutta completamente nel gennaio 1945)
va sul lato di un muro, sugli spigoli e, dall' alto in basso e dal basso in
alto, continuando a puntare col getto d'acqua alla distanza di 25-30
metri, poi, si riusciva a buttarlo giù spingendolo puntando al centro, il
muro cadeva lasciando ti il varco per proseguire nello spegnimento.
Moltissime abitazioni della Germania erano costruite con l'uso di
legno, quindi gli spezzoni incendiari, soprattutto quelli al fosforo, causavano incendi vastissimi. Il fosforo è una sostanza che a contatto con
1'aria brucia e si infiamma. (Lo stesso fenomeno avveniva con le "lumette", i fuochi fatui dei cimiteri, causati dalla fuoriuscita delle sostanze gassose dai corpi in decomposizione, quando ancora non si usavano le casse di zinco. Con il caldo, succedeva soprattutto d'estate,
questo zolfo si incendiava formando una fiammella. Camminando
nei pressi di un cimitero, si provocava una scia d'aria che favoriva il
formarsi di queste fiamme che poi sembravano seguirti, soprattutto
se, spaventato, ti mettevi a correre).
Lunico modo per far fronte agli spezzoni incendiari era quello di
avere un buon getto che riuscisse a spegnerli subito, prima che raggiungessero le case.
Al termine delle esercitazioni abbiamo cominciato i nostri primi
interventi. C'era un servizio segreto di informazioni molto capillare
sicché, quando le formazioni aeree angloamericane e francesi, queste
più rare, venivano a bombardare, si conosceva già la città predestinata e si stava in preallarme. Con un segnale specifico, una specie di sirena con un suono tutto particolare, venivamo informati dell'imminenza dell' attacco e quindi ci dovevamo preparare in attesa della partenza che veniva decisa solo dal Maggiore Weber che aveva il comando della Compagnia. Era una persona di religione cattolica che io stimavo molto per il clima sereno che era riuscito ad instaurare nella
compagnia e per la serietà con cui lavorava.
Le autopompe erano sempre pronte perché al rientro da ogni operazione, tutte le canne venivano stese in un grande salone attrezzato
e, con una specie di grandi phon, ai quali veniva applicato un tubo
speciale, si soffiava dentro alle canne il borotalco che tiene piuttosto
morbida la gomma all'interno; le canne all' esterno erano di tessuto.
In ogni autopompa c'erano 9 persone addette: il responsabile, detto
accompagnatore, l'autista, il krafohren, e 7 addetti allo spegnimento
e all' estrazione di morti e feriti.
- 56-
@l
Mannheim Ludwigshafen
@l N orim berga
@l.Karlsruhe
@l Maulbronn
@lPiorzheim
@l Stoccarda
@lUlm
@l Augusta
Zone di intervento di Fiorenzo, come pompiere,
per spegnere incendi, soccorrere feriti ed estrarre morti
(da metà àgosto 1944 fino al primo aprile 1945)
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Dresda
Il primo intervento è stato nella città di Karlsruhe che è capoluogo di regione del Baden. La città si trova quasi a ridosso dei confini
fra la Germania e la Francia, cioè a poca distanza dalla famosa linea
Sigfrid con grandi fortificazioni sotterranee tedesche (i Francesi avevano invece la linea Maginot).
Quel momento è stato piuttosto emozionante. Siamo partiti incolonnati con le nostre autopompe e, già alla distanza di circa 60 chilometri, abbiamo intravisto i bagliori degli incendi nella città bombardata. Siamo arrivati verso l'imbrunire, verso le 18, a quell'ora da
noi c'è più luce perché questa città è più spostata ad occidente rispetto
alla nostra zona, pur facendo parte dello stesso fuso orario. Come siamo arrivati c'erano già due ufficiali delle SS (Schutz-Staffeln, "squadre di protezione") e uno della polizia segreta della Gestapo (Geheime staatliche Polizei), che hanno indicato al responsabile del gruppo,
l'accompagnatore, la nostra zona di servizio.
C'erano fuochi che divampavano dappertutto e noi abbiamo presto raggiunto un grande albergo che era stato colpito in pieno da bombe dirompenti e poi erano stati lanciati migliaia e migliaia di spezzoni incendiari, sicché questo edificio era diventato come un' enorme
palla di fuoco.
Lì vicino passava un piccolo affluente del Reno che è a pochi chilometri da questa città. Lautopompa è stata sistemata vicino alI'affluente con una portata d'acqua simile alla nostra Tergola. Vi è stato
immerso il tubo che è collegato alla pompa che funziona con il motore del mezzo e abbiamo subito applicato due canne da lO centimetri, poi abbiamo srotolato ed innestato anche le altre, questa operazione era detta Kupplung, per raggiungere la lunghezza del tratto di
circa 350-400 metri. Nell'arco di lO minuti siamo riusciti a preparare tutto. Dopo un segnale particolare, di notte c'era una specie di razzo lanciato in aria con una pistola, il krafahren, 1'autista, faceva partire la pompa ed, entro 15 secondi, 1'acqua era già nel getto. Usavamo getti da lO centimetri e quindi li dovevamo sostenere in due persone perché la potenza dell' acqua era tale che la canna si dimenava
come un'anguilla, la gittata dell'acqua era di circa 75-80 metri.
Bisognava subito capire che materiale stava bruciando. Ad esempio, per il legno, travature, suppellettili andava bene l'acqua, mentre
se si trattava di carbone, carburanti allora si premeva un pulsante nel-
l'autopompa che permetteva la fuoriuscita di una sostanza chimica
che col getto d'acqua formava una specie di schiuma, lo schiumogeno, che soffocava questi tipi di incendi altrimenti l'acqua con le alte
temperature vaporizzava e non serviva.
Quando faceva troppo freddo, siamo arrivati anche a
sotto zero, più sopportabile del freddo delle nostre zone perché asciutto e secco, mentre si spegnevano gli incendi, si formava del vapore che ricadeva ad una certa distanza sotto forma di neve.
In questo albergo ci sono stati molti morti perché la Germania, dopo la sua avanzata in Francia, aveva dovuto ritirarsi, ed ora le formazioni aeree che ci attaccavano erano molto vicine al confine cosicché
il preavviso del bombardamento arrivava quando questo era già quasi in atto. Pochi, quindi, facevano in tempo a fuggire.
Nella mia stessa autopompa c'erano anche B. e S. ed insieme ci sostenevamo nel nostro lavoro e nella nostra situazione di internati.
Sono intervenute anche altre due autopompe a darci una mano.
Dopo 5 ore l'incendio era domato: eravamo così riusciti a circoscriverlo evitando che si propagasse agli altri edifici dal momento che ci
trovavamo proprio nel centro della città (era di circa mezzo milione di
abitanti). Siamo rimasti lì due giorni per spegnere totalmente tutti i
focolai. Non fu in quell' occasione, fra i nostri compiti, quello di estrarre i morti e i feriti dalle macerie. Furono comunque recuperati una settantina di cadaveri e moltissimi feriti fra i quali alcuni gravissimi perché avevano riportato ustioni nel 70/80% del corpo. Le crocerossine
e gli addetti ai servizi di assistenza bagnavano con dei liquidi particolari questi poveri disgraziati per lenire i dolori veramente atroci. La cosa che faceva gran pena era il ritrovamento di bambini morti o feriti,
alcuni ancora in fasce. Poche persone si sono salvate perché si erano riparate in alcuni locali a chiusura stagna e noi eravamo arrivati in tempo per spegnere il fuoco che, se fosse durato di più, sarebbe penetrato
anche in queste stanze. Molti ci ringraziarono, per altri, invece, c'era
lo strazio di vedere morti alcuni loro cari o conoscenti.
Tantissimi sono stati i nostri interventi nelle varie città di Stoccarda, DIm, Augusta, Monaco, Mannheim, Ludwigshafen, Norimberga, Darmstadt, Karlsruhe e nei piccoli paesi intorno a questi grandi centri perché facilmente raggiunti da spezzoni incendiari
lanciati da alcuni caccia bombardieri angloamericani che erano an-
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- 59-
2r
che un nostro particolare pericolo.
Quando, per esempio, si andava a spegnere gli incendi di no~te, ~
fari dovevano essere mascherati, si lasciava solo un piccolo fascIo dI
luce rettangolare delle dimensioni di circa 15 x 3 centimetri necessario solo per vedere la strada.
Da nord, partendo da Amburgo, che si trova sul Mare del Nord,
fino alla nostra città di Bruchsal, c'era già l'autostrada (1' autobahn),
mentre verso sud (Stoccarda, UIm, Augusta, Monaco) era in costruzione, c'erano già predisposti dei viadotti. Tutto il nodo stradale era
continuamente bombardato e quindi anche noi eravamo sempre in
allerta, si doveva prestare la massima attenzione (fare luchi, luchi).
I nostri mezzi avevano il muso piuttosto allungato e io mi sedevo
sempre su una delle due ruote anteriori così ero pronto ad intravedere l'arrivo di eventuali caccia e a saltar giù e scappare lontano dalla
strada. Era un posto un po' insicuro, si poteva cadere ed essere schiacciati dal mezzo ma a me è andata sempre bene. Siamo stati attaccati
decine di volte, io davo subito 1'allarme. Il mezzo faceva in tempo ad
uscire al primo passo lungo la strada evitando le bombe già lanciate
sull' asfalto. Solo una volta 1'autopompa è stata attaccata improvvisamente da 3 aerei inglesi, i leikning doppel-rum! a doppia fusoliera. Ai
lati della strada, ogni 50 metri, erano state scavate delle trincee a forma di L cosicché, a seconda del punto d'arrivo del mitragliamento
uno si nascondeva da una parte o dall' altra. I proiettili, di solito, erano traccianti, la loro traiettoria era visibile grazie ad una scia di fumo
o ad una viva luce ed incendiavano ciò che colpivano. Siamo comunque
riusciti a salvarci, il mezzo ha riportato lievi danni.
Sono stato attaccato anche in un' altra circostanza. lo e B. ci eravamo offerti spesso su richiesta del cuoco, i tedeschi chiedono sempre
chi è disponibile, di andare con un wagen, un carretto porta viveri, a
Maulbron. Da poco ci eravamo spostati a Knittlingen, vicino alla stazione di Bretten. A Maulbron dovevamo prendere i viveri. Dal grande magazzino si prelevavano un paio di quintali di margarina, burro
e honig, il miele. Landata era in salita per 2 chilometri, il ritorno in
discesa e quindi uno si sedeva nella parte posteriore del carretto fungendo da frenatore, 1'altro davanti con le gambe allungate sul timone
per tenere la direzione. Era una cosa spassosa lasciarsi andare, si raggiungeva la velocità di 55/60 chilometri orari perché ci siamo misu-
- 60-
rati con la vettura di un maggiore che, incuriosito dal poco tempo che
impiegavamo in questo nostro compito, un giorno è venuto a controllarci e mi ha fatto i complimenti: "Tu, Fiorenzo essere molto fur.
".
bo, Interessante
Un giorno, mentre si saliva, siamo stati individuati da 3 aerei Leikning e mi sono accorto che puntavano su di noi. Allora ho spiccato
un salto: il carretto è finito in mezzo ad un prato e noi due in una
trincea. Hanno lanciato 6 bombe a grappolo, 2 bombe per aereo, che
sono cadute a 50/60 metri da noi, scavando 3 buche profondissime
perché ogni coppia cadeva sullo stesso punto. Gli aerei sono purtroppo
ritornati indietro perché non erano riusciti a colpirci. Subito ho pensato di rifugiarmi in una delle tre buche perché pensavo che difficilmente le bombe sarebbero cadute nello stesso punto ma, avvertendo
il sibilo della caduta, ho deciso all'ultimo istante di ributtarmi nella
trincea. Fatalità, un grappolo di bombe ha proprio colpito la buca
Knittlingen. Scuole dove eravamo alloggiati (Dicembre 1944)
[Nostra camerata con 19 italiani?
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dov' ero prima. Al momento dell' esplosione bisognava prepararsi fisicamente a contrapporsi alla violenza dell' aria che lo scoppio spostava
e quindi contemporaneamente si doveva fare una specie di lunga soffiata. Noi due siamo stati ricoperti tutti da terra e pietre ma eravamo
salvi senza nessun danno fisico. Per fortuna gli aerei non sono tornati per mitragliarci, le bombe erano finite. Subito ci siamo ripuliti alla meglio, siamo andati a recuperare il carretto fermo sul tronco dell'albero e abbiamo ripreso il nostro giro per i viveri. Si era abituati a
superare nell'immediatezza anche avventure di questo tipo delle quali si faceva subito rapporto all'ufficiale tedesco di turno.
Quando non si era impegnati con gli incendi, davo una mano in
cucina, oppure si era organizzati in gruppi di Sila soldati e si andava a lavorare nei campi o presso qualche fabbrica nel raggio di non
più di 400/500 metri perché si doveva essere pronti a rientrare nel caso di qualche preallarme segnalato con la sirena.
Il tempo trascorreva e noi continuavamo con i nostri interventi
sempre nella zona delle città precedentemente nominate.
A novembre e dicembre cadeva abbondantemente la neve, quell'inverno del 44/45 è stato piuttosto rigido.
I bombardamenti si potevano definire terroristici perché non si limitavano ad obiettivi militari ma le bombe venivano lanciate dappertutto: sul centro storico, in periferia, sulla stazione ferroviaria, su
fabbriche, abitazioni, palazzi, monumenti, una cosa apocalittica, che
per noi era diventata quasi un'abitudine.
Non eravamo sostenuti da iniezioni o farmaci ma prima di partire ci veniva somministrato del caffè, non so se dentro ci mettessero
delle sostanze particolari, il fatto è che non si aveva paura di niente.
Se non si pensava alla devastazione che ogni bombardamento portava, il tutto poteva anche assumere un ruolo di spettacolarità. Se succedeva di notte e la formazione nemica veniva presa proprio nel raggio d'azione delle fotoelettriche non poteva aver scampo perché certamente veniva colpita dalle contraeree. Se le loro ali erano ancora cariche di bombe, queste esplodevano coinvolgendo le 718 fortezze volanti più vicine. Quando ciò avveniva erano oltre i 5.000 metri di altezza. L aereo si frantumava in mille pezzi che si incendiavano e si assisteva, quindi, alla caduta di frammenti incandescenti molto più spettacolari di tanti fuochi d'artificio messi insieme. Un'attrazione che vi-
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vevi comunque con sgomento pensando che anche i piloti facevano
parte di quei bagliori. I più fortunati, al momento dello scoppio, venivano automaticamente scaraventati fuori dalla carlinga e se riuscivano ad atterrare col paracadute venivano fatti subito prigionieri. Se
cadevano in zone isolate, impervie, dovevano raggiungere, prima possibile, i centri abitati e darsi prigionieri. Chi tentava di nascondersi,
una volta catturato, veniva chiuso in campi di concentramento e poi
giudicato dalla Gestapo o dalle SS o dalla Polizia Segreta, tre organizzazioni terribili in concorrenza tra di loro e in continuo attrito con le
forze militari tedesche dell'Aviazione, della Marina e dell'Esercito.
Questo disaccordo esisteva ma non trapelava, tutto era sostenuto dalla ferrea disciplina tedesca che garantiva comunque l'autorità di Hitler. C'era stato il tentativo di eliminarlo il 20 luglio del 1944 conI' attentato a Rastenburg, una località che si trova sui monti dell'Austria,
durante uno degli incontri dello Stato Maggiore Tedesco cui faceva
capo Hitler. Diversi generali superiori tedeschi avevano complottato
per eliminarlo, già pensavano di dar termine alla guerra alleandosi con
i Francesi, Inglesi e Americani contro la Russia. Lattentato comunque non è riuscito. 33 Divisioni Tedesche si sono ammutinate e per
questo sono state decimate: ogni lO soldati, uno veniva fucilato come pure tutti gli ufficiali dopo processi sommari. I militari di queste
Divisioni sono stati destinati in zone del sud che dovevano raggiungere con marce forzate ritrovandosi i piedi gonfi, scalzi, piagati, con
la carne a brandelli, camminavano ormai solo con le ossa. Chi stramazzava a terra veniva ucciso con un colpo di pistola dalle guardie
delle SS o della Gestapo che li seguivano a cavallo. Il cadavere restava impietosamente abbandonato lungo la strada; in questa circostanza furono migliaia i soldati uccisi.
Tornando ai bombardamenti, il 17 dicembre 1944 siamo arrivati
nella cittadina di Ludwigshafen che si trova al di là del Reno mentre
di fronte, sulla riva destra del fiume si trova Mannheim, dove già molte volte eravamo intervenuti per spegnere gli incendi. La nostra autopompa era stata dirottata verso una grande caserma: doveva essere
imponente, ora era un ammasso di macerie perché colpita in pieno
da diversi grappoli di bombe dirompenti fra le quali ce n'erano anche
ad aria liquida. Quando esplodevano alla distanza di 100 metri, se
non ti predisponevi dando un forte contraccolpo nell' attimo in cui
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q~indi ben nascosti in una specie di sacca fra la fodera interna e l'amIa~.to st~sso. Poi ho intravisto anche alcuni timbri, ne ho preso uno
Maulbron: località dove si prelevavano i viveri (Gennaio 1945)
avveniva lo scoppio, sÌ moriva perché il cuore si spaccava a causa del
fortissimo spostamento d'aria causato. Da noi diciamo: "ghe sé un vento che el me toe parfin el fià". Era la caserma di una divisione corazzata. Fungeva da direzione e aveva una presenza minima di soldati: la
Panzerdivision (panzer: carro armato). C'era ben poco da salvare perché era quasi tutto distrutto. Ci siamo diretti verso il punto in cui si
alzavano le fiamme, abbiamo attraversato un grande salone, probabilmente un ufficio (in tedesco si dice baro, un francesismo da burau), già attaccato dal fuoco. Sul pavimento c'erano sparpagliati centinaia e centinaia di fogli, documenti, carte, oggetti vari di cancelleria ... Ad un certo punto, facendomi strada col getto d'acqua per non
essere travolto dalle fiamme, mi sono accorto che c'erano fogli che
forse potevano essere utili, portavano questa scritta: ''urlaub'', foglio
di licenza, o 'ausweis", foglio di trasferimento. Ho cominciato subito
a raccattarne diversi guardandomi intorno per accertarmi che qualcuno non mi vedesse. Ne ho raccolti di entrambi i tipi e li ho infilati in un punto della mia tuta di amianto che si era scucito tenendoli
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e del foglI uguali ai primi già compilati, di questi ne ho raccolti uno
per tipo. In seguito mi furono veramente utili.
Si~mo rimasti ~ Ludwigshafen per parecchi giorni per estrarre i
mortI, spegnere glI ultimi focolai e gli incendi causati da ulteriori attacchi aerei, si doveva continuamente intervenire.
Il bombardamento che più mi ha colpito lasciandomi un ricordo
partic~lare, è ~ta~o 9uello del Natale del 1944 della cittadina di Pforzheim
(a quel tempi dI CIrca 65.000 abitanti). Prima di arrivare alla cittadin~ che sorge ai piedi di alcune colline, dall' alto di una di queste abbIamo potuto constatare la grande devastazione causata dal bombard~mento: ~a ~opra si vedeva come un grandioso braciere di fuoco del
dIametro dl CIrca 2 chilometri, tutto fuoco, fuoco, fuoco, fumo e fuoco e f~oco. Lallarme era arrivato troppo tardi, l'attacco era stato improV:1S0 e .la gent~ non era riuscita a raggiungere i rifugi: le strade erano dIssemInate dI cadaveri, lo spettacolo era veramente allucinante.
Abbiamo subito indossato le maschere antigas a causa dell' acre fumo
che saliva verso il cielo causato dalle carni dilaniate che ancora bruciavan~ colp~te dagli spezzoni incendiari al fosforo: una vera carneficina.
SIamo l~tervenuti i~ pe~iferia. In una zona in leggera salita sorgeva
una pala~zIna centrata In pIeno da spezzoni incendiari. Per poter arrivare,. abbIamo dovuto abbandonare la strada e, per i campi, farci un passag~lO at~raverso la neve caduta abbondantemente in quei giorni. Il vento, Infatti, aveva accumulato sulla strada una muraglia di 3-4 metri di
nev~ e da lì non si poteva proseguire. Per questo motivo siamo arrivati
tardi, verso ~e Il di sera. Abbiamo dovuto unire 3 pompe per raggiungere la presslOne necessaria dovendo sparare l'acqua verso l'alto.
. Una bo~ba era caduta proprio all' entrata del rifugio e 1'aveva parZIalmente dIstrutto. Mi sono accorto che in fondo alle scale del rifugio c'erano. 2 corpi di donne, una era stata completamente decapitata, la t~sta SI tro~ava a circa 3-4 metri, l'altra era stata dilaniata da schegge v.~ne. Le tr~Vl del soffitt,o erano parzialmente crollate e una di quelle pm grosse SI era appoggiata alla finestra. Con la torcia ho illuminato tutto 1'ambiente per cercare qualche ferito. Mi sono accorto che
quasi vicino alla finestra, c'era una carrozzina. Poco lontano avanzav~
il fuoco proveniente dal piano superiore che era crollato fino a quel
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punto. D'istinto ho pensato di controllare all'interno della carrozzina, difficile però da raggiungere. Si doveva camminare carponi perché
lo spazio rimasto fra il solaio crollato e il pavimento era di circa 50/60
centimetri. Una parte della carrozzina era stata compressa dalla trave
e non riuscivo a vedere bene dentro. Ho chiamato B., lavoravamo sempre insieme con grande spirito di collaborazione e di amicizia e ciò ci
dava coraggio. "B., B., vieni che ho l'impressione che ci sia un bambino dentro una carrozzella!". ''Ma assa che i mora tuti quanti anca i
tedeschi, te ghe tanto in mente de salvarli, assa che i mora, assa che i mora!". Allora ho deciso di andare a vedere da solo, come spinto da una
forza superiore. Questo era pericoloso perché la trave poteva cedere
da un momento all' altro se non sostenuta da qualcuno. Mi sono avvicinato, ho tolto un guanto ed ho infilato la mano dentro alla carrozzina. Allungandomi e muovendo a fatica la mano nello stretto passaggio, ho avvertito all'interno un certo tepore, un bel calduccio. Ho
toccato una manina, una gambetta... , sono riuscito a sfilare lentamente
quel corpicino e, presolo in braccio, ho pensato a quel giorno apocalittico, alla data, ho guardato l'ora sul mio orologio della Cresima che
conservo ancora: era mezzanotte, la mezzanotte di Natale!
Il mio pensiero è corso ai ricordi meravigliosi di ogni Natale, un
accavallarsi di momenti belli, felici passati a casa davanti al Presepe, i
canti, le musiche, le armonie ...
lo in quel momento sentivo di tenere in braccio un bambino che
per me era come un Gesù Bambino. Ma io allora ero in mezzo alla
desolazione, a migliaia di morti, ad un fuoco che stava divorando completamente una città fino a poche ore prima piena di vita, in un luogo meraviglioso, circondato da colline imbiancate ... Ora non era altro che un ammasso infuocato, un vulcano in eruzione che fa pensare solo alla paura e alla morte.
Confuso da questo incessante susseguirsi di emozioni, mi sono messo a correre verso l'uscita e lì ho cominciato a gridare: "Hic habe Gesacht, weinacht, weinacht, weinacht!" (lo ho Gesù Bambino, è nato, è
nato, è nato).
Immediatamente nella mia radio trasmittente ho premuto il pulsante per richiamare i soccorsi sanitari. Volevo gridare a tutti che consegnavo un bambino speciale, come un Gesù Bambino. Ero disperato ma contento perché sapevo che in quel momento avevo salvato una
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C1:eatura: Qualche istante dopo, infatti, è avvenuto un fortissimo scoppiO al plano superiore e la villetta è parzialmente crollata dentro ad
un fuoco divoratore che si è innalzato verso il cielo come un grido di
dolore acuto che scaturiva dall'interno di quel palazzo, la voce di chi
non avrebbe più parlato.
La mia mente in quel momento era sconvolta da una lotta terribile di domande che si accavallavano e mi interrogavano sul senso delle guerre e delle loro inutili tragedie.
Dopo un po' mi sono riavuto e lontano ho intravisto la figura di
B. che sghignazzava quasi per prendermi in giro, io, invece ero contento perché avevo salvato Gesù Bambino.
Siamo rimasti lì per circa 3 giorni a scavare, tirar fuori morti, morti bruciati, dappertutto.
Al rientro ho saputo che i morti accertati si aggiravano all'incirca
sui 32/33.000, 15 minuti di bombardamento erano bastati per togliere la vita a metà popolazione e per distruggere tutta la città.
Vicenza ha fatto da alcuni anni il gemellaggio con la cittadina di
pforzheim. Entrambe le città hanno all'incirca lo stesso numero di
abitanti e sorgono vicino alle colline che, però, Vicenza ha solo verso
sud mentre Pforzheim ne è completamente circondata.
L ultimo giorno del 1944 è continuato a nevicare, una vera e propria
bufera, ad intervalli brevi sembrava quasi che il cielo si rasserenasse, ma
poi riprendeva a fioccare in modo così abbondante che non si riusciva
quasi più a vedere le cose poco lontane. I nuvoloni provenivano dal nord
ed avanzavano imponenti, come da noi quando scoppiano certi temporali pieni di nembi che si accumulano e si addensano portando il nero con delle scie grigie di pioggia scrosciante o bianche di grandine distruttiva (da noi questi nuvoloni sono detti seon). Quel giorno son caduti circa 30/40 centimetri di neve e poi, verso le 10-11 di sera, il tempo si è improvvisamente rasserenato ed è apparsa una luna meravigliosa così grande e luminosa che mi sembrava quasi diversa.
Dalla camerata, una stanza piuttosto grande di una scuola, ho sentito delle voci. Fuori c'erano decine e decine di bambini che con i pattini si divertivano un mondo a scendere per quelle strade di collina poco frequentate dalle automobili. La cittadina di Knittlingen sembrava
risvegli arsi con il vociare dei bambini e il loro muoversi sereno e giocoso. Quando è scoccata la mezzanotte c'è stato un gridare: "Neuejahr,
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neuejahr, neuejahr" e tutti ci siamo abbracciati dimenticando per alcuni attimi la guerra e lasciandoci prendere da quel momento in cui sembravano essere scese sulla terra una grande pace e una profonda quiete.
Il giorno successivo c'è stato un pranzo speciale, abbiamo mangiato, dentro la nostra gavetta, un' ottima minestra cui erano stati aggiunti
pezzi di carne: inzuppandovi il pane, serviva da primo e da secondo
completi. Il Maggiore ha offerto dei dolci simili ai nostri panettoni e
sono state stappate alcune bottiglie di spumante italiano proveniente
proprio dalla città di Asti da dove è iniziato il mio servizio militare. Alla fine, come regalo, ha dispensato sigarette e cioccolata a tutti i soldati presenti, eravamo di molte nazionalità, oltre a noi Italiani c'erano
soprattutto prigionieri Polacchi. Noi eravamo tutti sotto i 21 anni, loro avevano circa 45 anni, potevano essere nostri papà. Penso che il popolo polacco sia molto buono, infatti quei prigionieri dimostravano
un grande spirito altruistico e quando non si era in missione, ogni sera si inginocchiavano sui letti e io chiedevo loro se potevo unirmi alle
preghiere: recitavamo il Rosario completo, 150 Ave Maria, perché erano di grande devozione. Quando si andava a prendere il rancio ce ne
offrivano sempre un po' del loro perché dicevano che noi eravamo giovani ed avevamo bisogno di mangiare di più. Non abbiamo mai accettato perché, essendo tutti sotto i 21 anni, avevamo diritto anche al
supplemento viveri e ciò era più che sufficiente. Quando poi andavamo in "missione", cioè a fare dei lavori nella campagna dove erano rimaste solo le donne, i mariti erano in guerra, o nelle fabbriche limitrofe o sistemavamo case e fienili, il pranzo veniva offerto dalle persone che aiutavamo e i viveri che ci consegnavano in caserma erano quasi in più, allora si mangiava anche troppo. Non mi è mai successo di
aver sofferto la fame.
Prima di partire, durante l'adunata, si seguiva la formalità del ftening, cioè del volontariato, e sceglievamo in quale gruppo metterei anche se non sapevamo per quale "missione" saremmo stati destinati.
I giorni passavano anche abbastanza velocemente, di tanto in tanto si doveva partire per qualche servizio di spegnimento.
Il 20 o 21 gennaio 1945, c'è stato un terribile bombardamento a
Mannheim. La maggior parte degli ufficiali tedeschi era ammalata, essendo persone piuttosto anziane si erano influenzati a causa di un' epidemia che, per fortuna, non ha colpito noi giovani. In tutto il periodo
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che ho trascorso in Germania io sono sempre stato bene, non ho preso neanche un raffreddore. Essendo ammalato anche il nostro accompagnatore, sono stato incaricato di dirigere le operazioni di spegnimento,
era una grossa responsabilità, ma ormai avevo accumulato una buona
esperienza. Ero diventato abile soprattutto nell'uso del getto d'acqua e
nel~a dosatura degli ingredienti chimici quando c'era la necessità dello
sch~u~ogeno. ~vevamo l'ordine di intervenire in un grande palazzo di
8 plam lungo CIrca 50-60 metri e largo 30-40 metri. Appena arrivati
mI s~no ,reso conto che era imminente il crollo dell' edificio perché l'incendIO l aveva ~vvolto completamente, era come un gran braciere di
f~oco. In~ervemre sarebbe stato un suicidio ma come giustificare la mia
dIsobbedIenza? Ho pensato ad uno stratagemma: fare in modo che non
arrivasse l'acqua. C'era un getto principale che partiva dall'autopompa,
r~golato da una specie di valvola di sicurezza. Questa, nel caso la presSIOne fosse stata troppo forte con il rischio di far scoppiare le canne, sar~bbe sca~tata ~acendo uscire prima una parte dell' acqua abbassando coSIla preSSIOne mterna. Ho convinto B. a regolare questa valvola in modo che una ~inima quantità d'acqua l'avrebbe fatta scattare. In questo
~odo da nOI, che eravamo a circa 300 metri dall' autopompa, non arnv~va acq.ua ~ questo ci impediva di intervenire. Tutti erano agitati perche n.on,s~ spI.egavano questa mancanza d'acqua, soprattutto i due polacchI Vzszn:kz e Klosbach. lo fingevo di non capire e mi mostravo preoccupato ed mdaf,farato n~l controllare le canne e i loro innesti. A quel
punt? ~edo vemre avantI un generale delle 55, un tipo austero, nervoso, d1 C1rca 35 anni. Chiese: «Wils du comandir?" (dov'è il comandante?). :!I~il1!i:!er!" (E~iv~( Hitler). Ho risposto, come era obbligatorio
fa:e. 'HtC bz,? (Sono lO). wa~ser, wasser, keine wasser, bloss feuer, fleuer,
nzcht wasser (Acqua, acqua, mente acqua, solo fuoco, fuoco, niente acqua). Ho cercato di fargli capire che ormai era tardi intervenire e che
porre ~ repentaglio la vita di 9 soldati, indispensabili per la vittoria finale dI Hitler, sarebbe stata una cosa inutile. Ha tirato fuori la machine-pistole, una pistola automatica che, una volta premuto il grilletto,
spar~va ~na scaric~ simultanea di 25 colpi, era una specie di piccola mitraglIatnce e me l ha puntata alla tempia destra. lo, allora, ho continuato dicendo che ad un superiore si doveva obbedire ma che Hitler
a:ev~ biso~no a,nche di noi per non perdere la guerra, non potevamo
nschIare di monre. Poi ho cominciato a gridare: ((Schnell schnell B., S.,
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Klosbach, Visinscki, wasser meier, schnell wasser holen!". Per fortuna in
il sistema tedesco: non fidarsi di nessuno; tutti mi scrutavano da capo
quel momento il Generale si è allontanato per andare a controllare come procedevano gli interventi un po' più in là. lo continuavo ad incitare gli altri a muoversi, a darsi da fare, ma quando il Generale fu a circa 60 metri da noi, il palazzo è crollato avvolgendoci tutti in una nuvola di polvere e di fumo acre. Solo la maschera antigas ci ha permesso
di respirare, altrimenti saremmo rimasti intossicati. Il vento ci ha aiutati perché spingeva il fumo dalla parte opposta e dopo circa 20 secondi ci siamo trovati tutti allo scoperto, eravamo rimasti illesi ed ho potuto notare come il Generale avesse avuto un attimo di stizza, di rabbia
e di meraviglia. Poi, quasi di corsa, è venuto verso di me dicendomi:
"Gratulirem siebe, gratuliren siebe!" (mi congratulo con lei). ''Bitte soldbuch prego!" (mi dia il libretto personale). I.:ho tirato fuori e lui si è ricopiato nel suo taccuino tutti i miei dati e dopo ha ripetuto: "Gratuliren siebe, dankeschon" (tante grazie), mi ha detto e si è allontanato mentre io gli ho risposto: "Heil Hitler, heil Hitler!" e se ne è andato.
I nostri interventi, dall'inizio del 1945, sono triplicati rispetto al
1944 perché la guerra procedeva in modo sempre più disastroso per
la Germania. C'erano gli ufficiali stessi che, sempre attenti a non farsi sentire dalle SS o dalla Gestapo o dalla Polizia Segreta, dicevano:
''Krieg ist werloren" (la guerra è perduta).
Siamo intervenuti ancora a Mannheim, Stoccarda e Ulm.
Un giorno il mio Maggiore mi ha convocato nel buro, cioè nel suo
ufficio, e come sono entrato ha esclamato: "Gratuliren siebe" e mi ha dato un ausweiss, foglio di trasferimento, per un viaggio a Darmstadt dove dovevo recarmi presso il Comando delle SS. Alla stazione mi attendevano alcuni militari, due ausiliarie, una Tenente e 1'altra Capitano,
anche le donne potevano prestare il loro servizio militare. A quest'ultima ho mostrato il documento consegnatomi dal Maggiore e allora mi
ha fatto strada fino all'uscita della stazione e mi ha fatto salire sulla camionetta con la quale mi ha accompagnato fino al Comando. Lohre,
così si chiamava, mi ha anche chiesto il motivo di questa mia convocazione ma ancora non lo sapevo. Il capo posto di guardia, all' entrata del
cortile, come ha letto il documento ha esclamato: "Gratulirem siebe" (mi
congratulo con lei). La ragazza mi ha salutato dandomi appuntamento dopo un paio d'ore, lei era di servizio presso la stazione. Procedevo
sempre più avanti, avrò passato circa una trentina di controlli, così era
a piedi. Davanti ad ogni ufficiale che incontravo dovevo salutare alzando il braccio e dicendo sempre ''Heil Hitler", l'ho detto così tante
volte che mi era venuta anche sete e avevo il braccio destro ormai stanO"
co a forza di alzarlo per salutare. Dal piano terra al primo piano si doveva salire un' ampia scalinata: questo Comando non era mai stato colpito dai bombardamenti anche se la città ne aveva subiti molti. Proseguendo verso l'ufficio ho passato un'altra decina di controlli e tutti mi
dicevano sempre: "Gratuliren siebe". Sono arrivato alla porta principale accompagnato da un Gefteiten, Caporale Maggiore delle SS, molto
anziano perché tutti i giovani erano al fronte, che ha suonato il campanello. Dal citofono una voce ha risposto: ''Freato Fiorenzo, eingan!"
(entri). Il Generale delle SS come mi ha visto mi ha detto: "Gratuliren
siebe, ser gut dis italien!" (congratulazioni, molto bene questo italiano).
E mi ha stretto la mano e io: ''Heil Hitler, heil General thanchen!" (grazie infinite, signor Generale). Ha poi preso un diploma leggendo ne le
motivazioni. Era riportata la frase che io avevo pronunciato al Generale a Mannheim per giustificare l'inutilità di un intervento per spegnere l'incendio ormai indomabile e veniva sottolineata la mia scelta di
completa obbedienza ai superiori per la vittoria finale di Hitler. Da un
astuccio ha tirato fuori una Croce di Ferro, me l'ha appuntata sul petto
e, mettendosi sull' attenti, ha esclamato: ''Heil Hitler!". Poi ha premuto
un pulsante ed è entrato un unteroffizier, sergente tedesco, che mi ha
messo le mostrine per la mia promozione sul campo a CaporalMaggiore
della Lufiwaffen dellufischutz, Arma dell'Aviazione dei Pompieri. La
Croce di Ferro corrisponde alla Medaglia d'Oro in Italia e viene insignita in seguito a gesti eroici. Ha premuto un altro pulsante ed è entrato un Leutnant, Sottotenente, che mi ha accompagnato in un' altra
sala ed insieme ad altri due Ufficiali delle SS, abbiamo festeggiato con
un piccolo rinfresco a base di pasticcini e vermut italiano Martini. Prima, però, hanno pronunciato questa frase: ''Heil Hitler, dies ist ein sehr
gut italien, heil hitler" (è un italiano molto in gamba).
In quel momento ho ripensato alle parole di mio padre che mi diceva sempre: "Chi salva la propria vita salva anche la Patrià'. Quando ero piccolo mi sedeva sulle sue ginocchia e mi raccontava la storia
della sua prigionia in Germania ad Altengrado durante la guerra del
1915/18. Lui era stato nominato Chefbaracke, capo baracca, ed era
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riuscito a salvarsi cercando di fraternizzare anche con chi era il suo
nemico principale perché, quando sei un prigio~iero, sei solo un numero, non sei niente e allora devi cercarti da solo il modo per venirne fuori e riconquistarti almeno la speranza della vita. La mia soddisfazione è stata grande e pensavo che la cosa più importante era stata
salvare la mia vita e quella degli altri otto miei compagni di squadra.
Durante il rinfresco il Leutnant, credo si chiamasse Alfred Meier, mi
ha raccontato un po' la storia della sua vita e che tre suoi fratelli erano
morti sul Fronte Russo. Poi mi ha accompagnato a visitare tutto il Comando, le varie camerate, tutto era perfettamente in ordine, sembrava
un albergo a 5 stelle. Tramite la radio ricevente siamo stati in~ormat~
che era già arrivata 1'ausiliaria che mi doveva riportare alla staz10ne d1
Darmstadt, da qui sarei partito per Mannheim e prima di Stoccarda dovevo scendere ad una stazione intermedia, si doveva prenotare la fermata tramite un campanello e la richiesta diretta della voce. La ragazza, molto bella e sorridente, portava i gradi di Unteroffizier, sergente,
era abile nella guida in mezzo al traffico caotico di Darmstadt dove c'era un via vai continuo di camionette e mezzi militari, poche erano le
auto che non avevano la targa deli' esercito o dell' aviazione. Durante il
tragitto mi ha chiesto di dove venissi e io le ho spiegato che abitavo vicino alla città di Vicenza, la città del Palladio. Lei lo conosceva benissimo poiché l'architettura era una sua passione. Ad un certo punto sÌ è
fatta seria e mi ha raccontato un po' della sua vita. Era originaria di Konigsberg, capoluogo di regione della Prussia Orientale. Durante la guerra tutti i suoi familiari erano morti, i due fratelli erano stati uccisi durante il combattimento sul fronte orientale in Russia a Stalingrado dove erano stati accerchiati ed assediati per mesi. Pochi si erano salvati perché là c'era il campo di aviazione tedesco e, quindi, una parte delle truppe era stata riportata in Germania, ma gli altri erano morti. I~ padr~, invece, era morto nell' ansa del Don dove avevano combattuto l nostn soldati dell'Armir. Il territorio russo era ormai stato completamente liberato, i Tedeschi si erano già ritirati dentro i confini della Germania. Hitler insisteva nella resistenza e attraverso Goebbels, ministro della propaganda, continuava a parlare di nuove armi, neuewaffin; s~ L?n?:a ed
altre città, avevano infatti fatto cadere bombe VI e V2, del mlss1lI vettori con cariche micidiali. Correva voce che avevano pronta anche la
bomba atomica. Alla fine è stata proprio questa a porre termine alla
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guerra dopo lo sgancio, ordinato però dagli Americani, sulle città di Hiroshima (6-8-1945) e Nagasaki (9-8-1945) in Giappone. I testardi Tedeschi, decisi a continuare il conflitto, erano solo quelli delle SS, della
Gestapo e della Hitlerjungen, cioè i giovani fanatici dei nazisti.
Tornando alla mia accompagnatrice, ha continuato a confidarsi e
mi ha raccontato che anche sua madre era morta durante un bombardamento e lei era rimasta sola. Si chiamava Silvia Hoffinan. Ad un
certo punto si è messa a piangere e mi ha detto: "Fiorenzo, ich will ko-
men in Italien mit dich, ich will komen in Italien mit dich, ich bin alleine, voglio venire in Italia con te, sono sola, Italien sehr gut, l'Italia
è molto bella, Italien schon, ich will Italien fiir mich meine heimat, vorrei che l'Italia fosse in un prossimo futuro la mia nuova patria". Alla
stazione mi ha dato il suo indirizzo presso il Comando delle SS e si è
messa a piangere disperata.
Sono salito appena in tempo sul treno che proveniva da Amburgo.
Dei funzionari della Gestapo mi hanno subito notato per la fascia che
avevo sul braccio destro con scritto italien e per la Croce di Ferro al petto. Mi hanno chiesto, meravigliati, informazioni e io ho spiegato loro
un po' tutta la storia, alla fine anche loro si sono congratulati con me e
non mi hanno nemmeno controllato i documenti. Sul treno c'erano
militari e civili fra i quali molti operai di altre nazioni che andavano a
lavorare nelle fabbriche della zona. Il tratto di strada fra Darmstadt e
Breten era di circa 300 chilometri. Ho conversato con alcuni operai sempre con cautela perché potevano esserci anche degli infiltrati della Gestapo o delle SS e si doveva dare sempre l'impressione di essere certi della vittoria finale del Reich. Dopo circa tre ore e mezza, verso le lOdi sera, sono sceso alla stazione e il capostazione, chefbahnhof, che mi aveva
visto partire al mattino, vedendo mi ora con la Croce di Ferro e con i
gradi di Caporal Maggiore, ha subito voluto sapere cosa fosse successo
e brevemente gliel'ho spiegato. Ho telefonato in caserma e dopo un
quarto d'ora è arrivata una camionetta dal mio Comando guidata personalmente dal Maggiore che mi si era molto affezionato e che già era
stato informato di tutto. Si è congratulato ufficialmente perché mi considerava un grande eroe e mi aveva promesso che presto si sarebbe fatta una festa per questa mia promozione. Certamente non ne sentivo
proprio i meriti. Immaginatevi poi la curiosità dei miei compagni e il
loro stupore per quello che mi era successo.
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Verso la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio i bombardamenti si susseguivano ormai in tutte le ore e noi eravamo continuamente impegnati, non c'era una giornata di respiro.
L8 febbraio siamo dovuti intervenire nello spegnimento di un incendio a Dresda che si trova ai confini con la Cecoslovacchia. Per raggiungere questa città, a circa 400 chilometri, abbiamo viaggiato una
giornata e mezza. C'era un susseguirsi di bombardamenti da parte degli aerei angloamericani e anche di quelli russi poiché la città si trova
verso il fronte orientale. Il nostro servizio era continuo. Il 9 febbraio
ha avuto inizio il bombardamento più drammatico al quale io abbia
assistito. Si diceva che fossero all'incirca 6/7.000 gli aerei che continuavano a bombardare malgrado la contraerea rispondesse molto decisa. Questi attacchi sono continuati ininterrottamente per tre giorni, avrò visto cadere colpiti circa 700 aerei. Se pur terribile, diventava quasi uno spettacolo l'esplosione di un aereo. C'è stato un momento in cui ben 18 aerei della stessa formazione sono esplosi quasi
contemporaneamente perché, volando troppo vicini a quello colpito
dalla contraerea, sono stati raggiunti dai suoi pezzi incendiati che volavano in tutte le direzioni: il cielo ha preso fuoco.
Il nostro intervento sembrava quasi nullo perché non c'era tregua
nei bombardamenti e poi non rimaneva più niente da salvare, la città
era stata completamente distrutta. Per entrare sono intervenuti dei
bulldozer, giunti dalle città vicine, che hanno tracciato delle strade attraverso le macerie, si facevano strada lentamente passando sopra i tetti delle case, era tutto un saliscendi a seconda della grandezza dei palazzi caduti. Si diceva che i morti fossero stati circa 300/400.000, non
è mai stato possibile accertare quanti siano stati perché sepolti sotto
le macerie. Ho saputo che la città è stata poi ricostruita completamente fuori da dove sorgeva precedentemente, sarebbe stato impossibile smuovere tutto 1'ammasso di detriti.
Durante la notte si riusciva a vedere benissimo i bagliori delle granate che scoppiavano sul fronte dell' est. La Cecoslovacchia era già stata completamente occupata dai Russi come pure la Bulgaria, la Romania e in particolare anche le Jugoslavia.
Il 15 febbraio 1945, su uno dei cumuli di macerie più alti, ho incontrato un bambino disperato che continuava a singhiozzare, ''sangiutare", in un pianto che ormai si stava spegnendo come pure le sue
forze, chissà da quanto tempo stava vagando in quella desolazione.
Continuava a dire: ''Mein vater ist tot; mein vater ist tot, wo ist mein
vater?" (mio padre è morto, mio padre è morto, dov'è mio padre?).
Due anni fa, girando i vari canali della televisione, mi sono fermato
ad ascoltare un'intervista all' attore Terence Hill. Raccontava che il 15
febbraio 1945 si trovava sulle macerie di Dresda in cerca del padre dicendo: "Dov'è mio padre, mio padre è morto!". Fatto poi smentito
dagli avvenimenti, infatti suo padre, che lavorava in una filiale della
Mercedes Benz, uno dei pochi edifici che non erano stati colpiti, si è
salvato. Sarebbe bello poter appurare se, alla fine, il bambino che avevo consolato fosse veramente Terence Hill.
Per alcuni giorni abbiamo continuato ad estrarre i morti, trovarli
tutti sarebbe stata un'impresa interminabile.
Siamo poi stati richiamati nella nostra base di partenza perché c'era
la necessità di intervenire nelle città verso il fronte occidentale poiché
Americani ed Inglesi erano arrivati proprio ai confini della Germania.
Ma il 20/21 febbraio è giunto 1'ordine che presto si sarebbe dovuto abbandonare Knittlingen e raggiungere verso sud Ulm o Augusta.
La Francia, intanto, aveva riorganizzato il suo esercito al comando
del quale c'era il Generale De Gaulle. Era riuscito a formare un' armata
di Nord Mricani, gente che era stata imprigionata per reati comuni,
che, piuttosto di restare reclusa aveva preferito arruolarsi nei reparti
dei paracadutisti.
Il 4 o 5 marzo, nella nostra zona, avevamo avuto delle informazioni, attraverso i servizi segreti, di lanci speciali di paracadutisti. Si sono
presentati nel cielo centinaia e centinaia di aerei alleati che trainavano
moltissimi alianti con a bordo un gran numero di paracadutisti. Ad
un certo punto il cielo si è coperto di "ombrelloni". Noi eravamo già
in preallarme. Come arma di difesa avevamo in dotazione un fucile
italiano: il moschetto 91, chiamato cosÌ perché era un' arma fornita in
dotazione all' esercito italiano nel 1891. Questo tipo di fucile, per molti anni e dopo la fine dell'ultima guerra mondiale era in dotazione anche presso i Carabinieri. Differiva dal focile 91 perché aveva la canna
più corta e, quando si sparava, un rinculo maggiore. Come munizioni avevamo lO caricatori, ognuno dei quali conteneva 6 pallottole con
la punta arrotondata. Ne conservo uno trovato da alcuni ragazzi fra il
fango della Tergola nel 1967 depositato, dopo 1'alluvione del 1966, in
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cumuli al lato sud della scuola elementare di Bolzano Vicentino.
Tornando ai paracadutisti, abbiamo saputo che erano tutti volontari, quasi tutti facenti parte dell'Armata di Nord Africani. Da parte
nostra ci conveniva difenderci ed evitare in tutti i modi di essere fatti
prigionieri, in questo caso ci avrebbero sicuramente fucilati perché non
avevano modo di organizzarsi per tenere un gruppo di prigionieri.
Il nostro Maggiore era andato in missione nel sud verso Ulm o ad
Ausburg, da un momento all'altro anche noi lo avremmo raggiunto poiché ormai il fronte stava cedendo e noi ne eravamo a pochi chilometri
di distanza. Ci comandava un Tenente che aveva dato ordine di disloccarci nei vari punti che erano stati predisposti dallo Volksturm, l'esercito
del popolo. La popolazione aveva preparato diverse buche in ciascuna
delle quali poteva entrarci una sola persona, anche gli abitanti della zona erano stati forniti di armi particolari: dei fucili con alla sommità un
proiettile che poteva venire lanciato ad una distanza massima di 70/80
metri. Questo fucile era chiamato Panzerfaust, era così micidiale che, se
colpiva in pieno un carro armato lo mandava in 1000 frantumi.
I paracadutisti lanciati scendevano, scendevano. lo e B: ci siamo appostati alla distanza di una quindicina di metri dentro a due trincee scavate ad L. Quando i paracadutisti sono arrivati a poca distanza dal terreno, in più punti abbiamo sentito degli scoppi causati da bombe a mano lanciate dagli stessi su bersagli già individuati. Era importante non
farsi vedere per non essere colpiti. Verso di noi avanzava una decina di
paracadutisti già atterrati e io ho raccomandato a B. di non sparare perché avevamo poche munizioni, solo 60 colpi. Loro, invece erano equipaggiati con un grande zaino e un fucile mitragliatore detto Parabellum. In lontananza si sentivano diversi spari, segno che c'erano già dei
combattimenti in atto. Un paracadutista era arrivato già ad una quarantina di metri da me. Un solo pensiero mi girava per la mente: "anche lui, pur essendo un pregiudicato, era una persona, aveva una mamma che 1'attendevà' ma in quel momento restava una sola scelta da fare: "o mi o ti, o muoio io o tu" e, chiedendo perdono a Dio, mi sono
detto: "spara!" e l'ho colpito proprio in pieno sulla fronte fracassandogli il cranio e lui è crollato. Subito mi son visto circondato da altri tre a
circa 60/70 metri. Ho mirato al primo sulla destra e ho sparato 2 colpi. Con il primo l'ho colpito al collo, ho visto schizzare molto sangue,
con il secondo in pieno sulla tempia destra ed è stramazzato a terra. Mi
restavano altri 3 colpi ed avevo già preparato lì vicino il secondo caricatore. Ad ogni sparo bisognava caricare il colpo successivo con un movimento veloce e particolare, bastava un attimo. I due soldati rimasti
hanno lanciato due bombe a mano verso di me ma erano ancora troppo lontani e sono scoppiate ad una trentina di metri da noi. Ho detto
a B.: "tu spara a quello più a destra e io all'altro". B. ha sparato successivamente tutti e sei i colpi senza colpire nessuno, forse perché preso dal
panico. lo ho colpito con i restanti 3 colpi quello di sinistra che è caduto a terra ma non era ancora morto perché si muoveva ancora. Caricato velocemente il secondo caricatore anch'io ho cominciato a tremare: ho sparato 5 colpi senza colpire quello di destra, ce l'ho fatta con
il sesto sparo, ne avevo uccisi quattro. Ma in lontananza se ne avvicinavano di corsa altri quattro. "B. spara, spara!". Macché, non sparava
più: che fosse morto? Allora ho caricato il terzo caricatore e con i 6 colpi non ho colpito nessuno. Metto il quarto caricatore e al primo colpo
ne ho preso uno in pieno petto, penso di averlo colpito al cuore, non
si è più mosso. Gli altri tre paracadutisti arrivavano di corsa e io ho finito anche questo caricatore senza colpire nessuno. Metto il quinto, avevo consumato già più della metà delle cartucce. Al secondo sparo ne ho
colpito un altro che, però si muoveva ancora e cercava di spararmi col
suo parabellum. Gli altri due già sparavano ed era una pioggia di proiettili che mi passavano sopra la testa. Da B. proprio nessun segno. Dovevo fare tutto da solo e spara e spara, e metti il sesto caricatore e colpisco il terzo uomo. Lultimo era arrivato a circa 20 metri. Quasi chiudendo gli occhi ho sparato. Quando li ho riaperti ho visto che era stramazzato a terra ma si muoveva ancora, camminando un po' carponi mi
sono avvicinato e ho sparato: era l'ultimo colpo. Erano 8 quelli che erano caduti, 8 mamme che avranno aspettato inutilmente il ritorno del
loro figliolo. Si è saputo che in tutto i paracadutisti erano circa 5.000 e
che più della metà è stata uccisa. Gli altri si son dati prigionieri: erano
stati male addestrati e mandati proprio allo sbaraglio senza nessun appoggio. Tutta la popolazione ormai si era alleata per difendere il proprio paese, la propria patria, non pensava più ad Hitler ma guardava soprattutto a salvarsi la vita. Anch'io mi ero salvato ma avevo ammazzato delle persone: è una cosa inaudita, inaudita! B., preso dalla paura,
dopo aver sparato il primo caricatore non è più riuscito a caricarne altri. rho trovato raggomitolato su se stesso in quella piccola trincea col
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fucile in una mano e con il caricatore nell' altra. Per alcune notti io non
sono più riuscito a dormire. Abbiamo saputo che anche il nostro Maggiore, rientrato per organizzarci la ritirata, era stato ucciso assieme ad
altri due soldati perché colpito da bombe a mano lanciate da alcuni paracadutisti. Il Comando è quindi rimasto nelle mani del Tenente, un
tipo piuttosto scorbutico che, comunque, mi ha elogiato per il mio coraggio. Ai suoi complimenti si sono uniti quelli del Sottotenente, di altri Ufficiali e soprattutto del Feldwebel maresciallo, era un anziano di
circa 50 anni, il clown del circo nazionale tedesco, molto energico anche se avrà pesato meno di 50 chilogrammi. Era una persona retta e
precisa nei comandi e io l'ho sempre molto stimata.
Il 27 marzo è arrivato l'ordine di ritirarci di circa 60/70 chilometri. Siamo arrivati alla cittadina di Altheim dove ci siamo fermati per
due giorni senza una vera e propria sistemazione. Siamo poi ripartiti
per Leipheim e lì siamo rimasti in attesa di ordini e nuove disposi-
Cittadina di Altheim (fine marzo 1945)
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zioni. Questo piccolo paese in zona collinare si trova a circa 60 chilometri da Ulm, fra Stoccarda e Monaco.
Dalle notizie diffuse dalla radio, nachrichten, o dai giornali della
zona, il Deutsche Allgemeine Zeitung era uno dei giornali più in vista
della Germania, leggendo i bollettini di guerra, si capiva che il conflitto volgeva verso la fine. La Germania era ormai annientata, non
c'era più nessuna speranza. Ciò che mi preoccupava è che a questo
punto, avrebbero potuto usare anche i gas tossici. Molto spesso nelle
varie esercitazioni dovevamo usare delle tute speciali ed entrare in certistanzoni dove venivano fatte scoppiare delle bombolette per studiare come ci si dovesse comportare nel caso questi gas permanessero per più tempo nella stessa zona. Era necessario cambiare il filtro
con i gas tossici presenti e quindi si doveva inspirare il più possibile e
dal momento in cui veniva completamente svitato il filtro vecchio ed
applicato quello nuovo, bisognava soffiare con forza davanti alla maschera perché si creasse un vuoto d'aria e quindi anche di gas. Sono
successi più di qualche volta degli inconvenienti dovuti al panico di
qualcuno o alla caduta per terra del filtro nuovo. Per prenderlo si perdeva del tempo, la maschera antigas si saturava e il povero disgraziato restava avvelenato. Lo si doveva immediatamente trasportare all' ospedale dove poteva rimanere anche più di un mese o addirittura morire se l'intossicazione fosse stata forte. La mia preoccupazione cresceva di giorno in giorno, se questi gas fossero stati lanciati sarebbe
morta anche la popolazione; tutti, comunque, erano stati dotati di
maschere antigas. Queste erano proprio sicure, se si usavano nel modo adeguato. Funzionavano sempre molto bene, non si appannavano
mai nemmeno con chi portava gli occhiali a differenza di quelle italiane poco affidabili che si inumidivano facilmente e, quindi, bisognava asciugare con lo straccio la lente per poter vedere fuori.
Siamo rimasti a Leipheim per due giorni in attesa spasmodica di
cosa si dovesse fare, gli stessi Ufficiali tedeschi erano presi da un panico tutto particolare, erano insofferenti. Le ore passavano sempre più
lente e sempre più nell' angoscia.
Fra i miei 19 compagni c'era Bon... , della provincia di Como, che
si era innamorato in modo folle di due tedesche: Ruth e Lore. Entrambe
erano rimaste incinte l'una all'insaputa dell'altra. Lore, secondo Bon ..
era incinta ormai da 7 mesi e i problemi che si presentavano erano
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senz' altro gravosi. Un giorno vedo venire avanti zigzagando sulla strada principale una donna: era Lore. Non so come avesse fatto a sapere
dove ci trovavamo e a raggiungerci in bicicletta perché da Knittlingen,
dove l'avevamo conosciuta, a Leipheim, c'erano circa 120 chilometri
di distanza. Appena mi ha visto mi ha chiesto di Bon ... , per salvare il
mio compagno le ho detto una bugia: "Non lo vedo da 20 giorni".
Questa si è messa a piangere disperata e mi stringeva a sé. lo non sapevo come comportarmi in quella situazione così piuttosto imbarazzante. Temevo che potesse compiere qualche gesto insano, che volesse uccidersi. Il Maggiore con il quale avrei avuto confidenza era morto, il Tenente che ora ci comandava era partito con la sua camionetta.
Mi è venuta un'idea, lì c'era una chiesa protestante dove ho deciso di
accompagnarla. Abbiamo incontrato il vecchio pastore protestante,
avrà avuto più di 80 anni, che ha accolto la ragazza con serenità e disponibilità e ciò mi ha sollevato da quel problema piuttosto complicato. Dell' altra ragazza, Ruth, non ho saputo più niente.
Intanto gli eventi precipitavano, le notizie erano sempre più confuse, contrastanti. Seguivamo la radio, la televisione ancora non c'era, ed annunciava che era imminente l'uso di nuove armi, che la vit-
Leipheim (fine marzo 1945)
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toria sarebbe presto arrivata. Invece la ritirata tedesca era impressionante in entrambi i fronti: orientale ed occidentale. Gli aerei nemici
continuavano a bombardare dappertutto. Si vedeva salire il fumo in
ogni direzione, era una situazione impressionante, apocalittica. Non
sapevo più cosa fare e cominciavo a pensare anche ad un' eventuale fuga. Utilizzando i fogli raccattati nella Panzer Divisionen di Ludwigshafen il 17 dicembre 1944, gli ausweis, ne avevo una decina (fogli di
trasferimento perché gli urlaub, di licenza, li avevo già bruciati, in quel
momento non sarebbero certamente serviti) potevo organizzare un
rientro in Italia seguendo il percorso Ulm - Augusta - Monaco - Brenero - Bolzano - Trento - Verona. Lì si sarebbe deciso poi il da farsi,
l'importante era arrivare in Italia.
In quei giorni c'è stato il grande bombardamento su Norimberga
a circa 120 chilometri da noi. Migliaia di aerei hanno lanciato un numero incredibile di bengala anche nelle nostre zone: razzi luminosi
sostenuti da paracadute che non si incendiavano, probabilmente fatti di amianto. Era quasi mezzanotte e il cielo si era illuminato che sembrava giorno. Nessuno dava ordini, c'era solo confusione, allora io,
avendo i gradi di Caporale Maggiore, ho chiamato l'autista per andare in missione a Ulm a spegnere gli incendi. Nel frattempo avevo
già compilato i documenti ausweis per Verona partendo da Ulm con
il nome di un Major, mi pare Siffer, che avevo conosciuto precedentemente, per firma ho fatto uno scarabocchio. Giunti a Ulm ho fatto deviare l'autista per una strada secondaria e, dopo avergli mostrato i documenti, io, S., B., G., M. e un altro di cui non ricordo il nome, ci siamo avviati a piedi verso la stazione, bahnhof Per evitare contraddizioni avevamo concordato che l'unico a parlare dovevo essere
sempre io, gli altri dovevano sempre rispondere: "Hic weis nichts" (io
non so niente). Se scoperti saremmo stati considerati dei disertori e
fucilati sul posto.
Era la notte del 2 aprile, verso le tre e mezza del mattino, c'era un
treno che partiva per Monaco (nach Miinchen) dove saremmo arrivati verso le 8-9. Appena partiti c'è stato l'allarme aereo e cosÌ il treno si è fermato. In lontananza, verso est, si sentivano gli scoppi delle
bombe, la terra tremava, probabilmente stavano bombardando la città
di Augusta. Si avvertivano anche i motori delle formazioni aeree. Siamo rimasti fermi per un' ora e mezza. Sul treno sono passati molti con-
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troUori, soldati o Sottufficiali delle SS o della Gestapo. Vedendo che
io portavo la Croce di Ferro, mi salutavano e dicevano: "Heil Hitler"
senza neppure chiedermi i documenti. Ripartito il treno, dopo appena 4/5 chilometri, si è risentito l'allarme aereo acuto, segno che l'attacco sarebbe stato imminente e vicino (l'allarme normale fa: Auuuu,
Auuuu, Auuuu, quello acuto: Au, Au, Au, Au, Au, Au). Eravamo
vicini ad una piccola stazione, alla sua destra scorreva il Danubio che
in questo tratto è un fiume molto stretto, incassato fra le colline, senza argini, non ricco d'acqua, anche se eravamo nella stagione in cui si
sciolgono le nevi, penso che una piena avrebbe certamente causato
uno straripamento. Abbiamo avuto 1'ordine di scendere e ognuno doveva cercarsi un riparo. Da sud puntavano verso di noi due formazioni di fortezze volanti composte ognuna da 18 aerei. Avevano già
sganciato le bombe. Ad una quarantina di metri c'era un ponte sul
Danubio. D'istinto ho dato questo ordine gridando: "Via ragazzi, di
corsa, via di corsa, al di là del ponte, le bombe stanno cadendo proprio su di noi, correte, correte, correte!". Si è cominciato ad avvertire il sibilo delle bombe sganciate, se si avverte questo suono significa
che sono a circa un chilometro. Quando me le son sentite quasi addosso ho gridato: ''A terra!" e ho detto: "Soffiate!". Mi son subito sentito un gran calore sulla schiena e nello stesso tempo una gran massa
di terra ci ha parzialmente coperto tutti. Le bombe saranno cadute alla distanza di 50 metri circa. Erano di quelle da 5 quintali l'una. Ogni
aereo della prima formazione ne ha sganciate due, quindi in tutto erano 36. Una decina è scoppiata lì, poco lontano da noi, tutte le altre
sulla stazione. Il treno è stato colpito in pieno e i vagoni sono stati
scaraventati a 70/80/100 metri. Tutto era stato raso al suolo, due bombe hanno colpito il ponte. Stava già arrivando la seconda formazione.
Ho cominciato ad avvertire il sibilo delle bombe che per fortuna son
cadute a più di 100 metri a nord della stessa stazione. Nessuno di noi
era rimasto ferito, avevamo comunque preso una grande paura, anche se allenati ai bombardamenti: quando eravamo a spegnere gli incendi, ci scoppiavano le bombe a poca distanza, ma forse presi dalla
frenesia del nostro lavoro le badavamo meno.
Per noi, ora, non c'era più nessuna possibilità di tornare indietro,
il ponte era sparito. Avevo una carta militare e mi sono accorto che, a
circa 30 chilometri più a sud, c'era una seconda linea ferroviaria che,
partendo da Ulm, attraverso tutta la Baviera, arrivava in Austria, annessa alla Germania nel 1933 con l'Anschluss, Hitler era di origine austriaca. Pensavo che, data la situazione cosÌ incerta, sarebbe convenuto ritardare un po' il rientro in Italia, errore che solo dopo la fine del
conflitto ho potuto appurare. In alcune ore a piedi, potevamo arrivare a Kempten, la prima stazione raggiungibile sulla linea ferroviaria
che probabilmente partiva da Stoccarda o da Rottweil. Ci sembrava
più prudente fermarci alcuni giorni in quella zona collinare, ricca di
boschi. La prima notte ci siamo sistemati proprio all'interno di un bosco. Siccome faceva abbastanza freddo, abbiamo deciso di mettere due
coperte per coprirci tutti e sei. Ben presto, dalla spossatezza, ci siamo
addormentati. Al mattino io mi sono svegliato per primo ed ho avvertito uno strano peso sopra di noi, per il freddo avevamo coperto
completamente anche la testa: erano caduti circa 20 centimetri di neve. La situazione non si presentava per niente felice, per questo abbiamo deciso di raggiungere al più presto Kempten e di richiedere al
Comando tedesco il permesso di proseguire il nostro itinerario. Ci
hanno subito firmato i documenti e ho raccolto delle informazioni su
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Gruppo di soldati italiani ad Altheim. Nel riquadro Fiorenzo
(marzo 1945 pochi giorni prima dellafuga)
GERMANIA
FRANC1A
Kempten"
Garmish - Partenkirche1
\
\D Innsbruck
\
\
renneroE\
FBolzano
I
GTrento
2 aprile 1945. Inizia la fuga di Fiorenzo da Ulm verso l'Italia. Località raggiunte fino al 27 aprile 1945:
A) Ulm (2/4/1945)
B) Kempten (4/4/1945) (dal 5/4/1945 al 22/4/1945 a piedi verso Innsbruck)
C) Garminsch - Partenkirchen (22/1945)
D) Innsbruck (24/4/1945)
E) Brennero (25/4/1945)
F) Bolzano (26/4/1945)
G) Trento (27/7/1945)
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quella linea ferroviaria che era a binario unico e portava direttamente
ad Innsbruck. Essendo una linea secondaria non si poteva prevedere
quanto funzionale fosse in quel particolare momento. Inoltre transitavano solo treni merci. Si era fatto buio e in lontananza si è sentito il
fischio di un treno: era un merci molto lungo e con i carri tutti scoperti ma con le sponde tanto alte. Di nascosto abbiamo raggiunto quello più basso, e ci siamo calati all'interno sopra un gran carico di patate: in caso di fame avremmo potuto rosicchiarcene qualcuna. Ci siamo sdraiati, per non farci vedere, e il treno è subito ripartito, ma solo dopo una ventina di chilometri, quando stava per albeggiare, si è
fermato. Abbiamo così raggiunto la strada statale poco lontana per
proseguire a piedi. C'erano automobili di civili che andavano e venivano. Ognuno aveva il suo zaino e si camminava in fila indiana rifiutando qualche passaggio perché non ci saremmo stati tutti nella stessa auto e per noi l'importante era stare uniti soprattutto perché solo
io sapevo destreggiarmi con la lingua tedesca. Siamo passati per varie
località certamente turistiche prima della guerra. Lì ora erano stati allestiti moltissimi ospedali con ricoverati i più gravi invalidi di guerra:
avevano menomazioni indescrivibili ed erano riusciti a vivere grazie ai
più bravi specialisti tedeschi che li avevano anche aiutati ad accettarsi così, magari senza gambe, braccia, con parti del viso completamente rovinate o mancanti. Ho chiesto loro informazioni sulle cause delle loro ferite. Molti avevano combattuto sul fronte russo ed erano stati colpiti dalle bombe a spillo che provocano terribili infezioni; altri da
bombe dirompenti, da spezzoni incendiari, alcuni avevano il viso irriconoscibile perché il fuoco li aveva sfigurati, riuscivano comunque ancora a sorridere. Erano tutti militari della Wéhrmacht, il loro destino,
dopo la guerra, sarebbe stato quello di invalidi per sempre.
Noi sei abbiamo continuato per diversi giorni il nostro cammino
lungo la statale e dalle pietre miliari e dalla carta militare riuscivo a capire che proseguendo in quella direzione avrei raggiunto Innsbruck.
Dopo tanto camminare, senza esserci mai fermati e senza incontrare
posti di blocco, siamo arrivati a Garmisch-Partenkirchen, cosÌ chiamata perché attraversata da un affluente del fiume Inn (questo fiume,
invece, dà il nome ad Innsbruck) che la divide in due: su una sponda
Garmisch e sull' altra Partenkirchen. Era il 22 aprile e lì ci siamo fermati
un giorno e mezzo. C'era tantissima confusione, profughi di tutte le na-
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zionalità. Ho incontrato anche quattro ex internati politici che erano
riusciti a fuggire dal campo di concentramento di Dachau o Buchenwald,
non sono riuscito bene a capire perché parlavano a stento e in modo
confuso. Penso che fossero stati colpiti tutti dalla tubercolosi poiché
continuavano a tossire: erano come degli scheletri viventi.
Con noi avevamo parecchio cibo, io portavo in una valigetta, che
conservo ancora, alcuni barattoli di miele e dello zucchero. Con la
tessera si prelevavano i viveri e siamo riusciti a farci una bella scorta
nello zaino, almeno per una settimana. Temevamo sempre di essere
fermati e controllati dalle 55 o dalla Gestapo certamente a conoscenza del nostro mancato rientro nella compagnia.
Siamo saliti sul treno per Innsbruck assieme a tanta altra gente, anche Francesi e Polacchi. Poco prima dell' orario di partenza sono arrivati a cavallo diversi poliziotti della Gestapo, della Polizia Segreta e delle 55. Il Colonnello delle 55 ha fatto subito chiudere le porte del treno e ci ha ordinato di scendere tutti, uno alla volta, per controllare i
documenti. lo ho cominciato a temere perché sul mio ausweis c'era un
altro itinerario, ora eravamo fuori della linea di percorso segnata, potevano intuire la nostra fuga. Siamo stati gli ultimi del nostro vagone
a scendere, io davanti agli altri cinque. Ho mostrato il mio documento ma per prima cosa il Capitano tedesco ha preso in mano la Croce di
Ferro appuntata sul petto con accanto il nastrino con la bandiera tedesca sul bordo della giacca. Ha visto i gradi di Caporal Maggiore e poi
ha controllato il mio documento chiedendomi delle spiegazioni. Ho
raccontato del bombardamento sulla linea ferroviaria, ho inventato di
aver usufruito di un passaggio da un mezzo militare della Todt (organizzazione che predisponeva i lavori sulle strade per preparare i "cavalli di Frisia" e le varie opere di difesa e di fortificazione) e che dovevo
portare con me gli altri cinque fino a Verona. Non ha fatto nessun commento e mi ha indicato di risalire sul treno. Tutti gli altri passeggeri,
circa 3000, erano stati sistemati ai lati del treno, risultavano tutti irregolari. Il treno è ripartito e gli unici passeggeri che portava eravamo
noi. Ho ringraziato la Divina Provvidenza di avermi tanto aiutato.
Siamo arrivati ad Innsbruck il 24 aprile, verso sera, e dovevo presentarmi subito al "Paz Commandatur" per uffìcializzare il documento, era d'obbligo. Lufficio si trovava in stazione, ci ha accolti un Unteroffizier, Maresciallo. Grazie alla Croce di Ferro ho subito ottenuto
il permesso di continuare il viaggio, mi ha timbrato il documento e
mi ha consegnato i bollini per la tessera dei viveri che subito abbiamo prelevato presso le rivendite pubbliche perché era importante poter contare su una buona scorta di cibo visto che non si sapeva come
sarebbero potute andare le cose. Abbiamo atteso tutto il giorno 25 e
finalmente il treno è partito per il Brennero. Siamo arrivati verso le
10,30 di sera sotto una vera e propria bufera di neve, a circa 5 chilometri dalla stazione perché un tratto di ferrovia, nel versante austriaco, era stato bombardato interrompendo la linea proprio sul ponte,
ora sostituito da una passerella. La neve aveva già raggiunto i 20 centimetri e, seguendo i binari siamo arrivati alla stazione. Ho cercato di
farmi notare il meno possibile ma siamo stati visti da alcune ausiliarie, fra CJueste un Colonnello sulla quarantina, abbastanza carina e
gentile. E venuta a congratularsi con me, sempre per la Croce di Guerra, e mi ha chiesto informazioni sulla nostra meta. Saputo che era Verona, ci ha accompagnati nel suo ufficio dove c'era il cambiavalute,
wechsler. Ciascuno poteva cambiare fino a 3.000 marchi. I miei compagni ne avevano si e no 200/300, io, invece ero riuscito a racimolare circa 10.000 marchi. Mi sono così arrangiato a fare il cambio anche per gli altri riuscendo quindi a cambiare tutti i miei risparmi. Ci
avevano dato solo biglietti da 100, di circa 15xI O centimetri, che tenevano in grandi rotoli, tipo quelli della carta igienica, e li svolgevano e tagliavano con le forbici fra una cartamoneta e 1'altra. Lì siamo
rimasti fino al mattino, c'era un bar con l'obbligo dell' assistenza ai
militari. Ci hanno tenuto compagnia un paio di ausiliarie abbastanza carine, sui 22-23 anni: una era Maresciallo e l'altra Tenente. Abbiamo mangiato un panino ciascuno, alcuni dolci, bevuto birra e poi
il caffè, un trattamento ottimale.
Il treno per Bolzano partiva verso le 8 del mattino, la linea era abbastanza agibile e siamo arrivati ad un chilometro dalla città perché lì
c'era stato un bombardamento che aveva divelto i binari. Raggiunta
la stazione a piedi, ci siamo avvicinati al Comando con antistante un
grande piazzale circondato da alte mura, prima era una caserma italiana. C'era molta confusione di militari che andavano e venivano.
Ho constatato che c'erano anche dei civili che, prima militari tedeschi, si erano fatti dare dalle famiglie dei vestiti in borghese forse per
cercare di nascondersi. lo, invece, con la mia Croce di Guerra al pet-
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to e i miei gradi di Caporal Maggiore mi sentivo sicuro e sono andato dritto alla caserma. Laddetto al servizio di guardia mi ha salutato:
"Heil Hitler" con la presentazione delle armi, era obbligatorio quando si incontrava qualche militare insignito della Croce di Guerra. Mi
ha accolto nel biiro un Colonnello con un "Gratuliren siebe", però ha
voluto controllare il mio libretto personale perché vi era riportata in
3-4 pagine la motivazione del mio riconoscimento. Il libretto poi l'ho
perduto prima del ritorno a casa, poteva essere un valido documento
anche per un' eventuale pensione di guerra. Ha controllato e poi timbrato anche i documenti dei miei amici e in quel momento è squillato il telefono. Era il Comandante supremo delle forze tedesche in Italia (ho saputo più tardi che si trattava del fèldmarshall Von Kenserin) ,
il quale, non ho capito da quale località chiamasse, ordinava che tutti i soldati non impegnati sul fronte venissero raggruppati e risistemati in battaglioni per difendere i tedeschi in fuga verso la Germania
perché gli Americani erano già arrivati a Riva del Garda. Avevo capito che anche noi saremmo dovuti rimanere per dar man forte alle truppe tedesche. Siccome la telefonata continuava, velocemente ho preso
tutti i documenti e, salutando con "Heil Hitler", mi sono avviato verso l'uscita e ho dato ordine ai miei compagni di marciare come se fossimo un drappello in uscita di missione di servizio, posizionati come
in parata. lo davanti a sinistra davo il tempo: 'eins-zwei-drei-vier. .. " e
così si doveva arrivare al posto di guardia attraversando tutto il cortile: quei 50 metri mi son sembrati un' eternità. Bisognava uscire prima
che il Colonnello terminasse la telefonata ed iniziasse ad attuare gli
ordini ricevuti. Arrivati all' entrata ho dato questo ordine: "Rechts sveltI
Heil Hitler/" (attenti a destra! Evviva Hitler!). Avevo imparato durante il mio servizio in Germania. Poi abbiamo subito proseguito sempre al tempo di eins-zwei-drei-vier... Ora si doveva percorrere tutto il
piazzale antistante la caserma, circa 60170 metri, per raggiungere le
prime abitazioni e la strada dove c'era gran movimento di camionette militari e qualche carro armato che andava verso nord. In quei momenti mi sembrava già di sentire il dolore delle pallottole sulla schiena perché avrebbero anche potuto spararci con i fucili mitragliatori o
le mitragliatrici. Ero madido di un sudore cosÌ gelido che mi trapassava le ossa. Arrivati in fondo abbiamo girato verso destra e, appena
passato 1'angolo, ho avvisato i compagni della situazione. Era indi-
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spensabile trovarsi subito dei vestiti da civili presso qualche famiglia,
SI dovev.a ~erca~e ~ui camp.anelli un cognome italiano ,e fare il più presto possIbIle. Cl SIamo dati appuntamento dopo mezz ora in una viuzza lì vicina dove non c'era movimento. Ho suonato al campanello di
una certa Milan Teresa che mi ha accolto come una mamma ma non
le era rimasto nessun vestito da uomo perché anche molti soldati tedeschi erano già passati in cerca di abiti civili. Mi son girato e ho visto che in un angolo c'era un vecchio impermeabile (la spolverina, detta così perché, quando si viaggiava in carrozza o si andava a cavallo,
veniva indossata sopra i vestiti per ripararli dalla polvere, era di una
stoffa molto leggera). Lho subito infilata sopra la divisa militare ma
non nascondeva i pantaloni. Allora ho preso dallo zaino la tuta da lavoro, una specie di giubbetto e calzoni di tela color paglierino, e l'ho
indossata sopra la divisa e sopra a tutto ho infilato la spolverina. Era
freddo, così sarei stato più riparato in mezzo alla neve, ora caduta abbondante anche vicino a Bolzano.
Sono uscito e nel giro di 5 minuti ci siamo ritrovati tutti al punto
stabilito. Gli altri cinque avevano rimediato dei vestiti più adatti perché più bassi di me.
Per avvicinarci a Trento si poteva prendere la tramvia, la ferrovia
era completamente inagibile a causa dei molti bombardamenti. La
strada era sempre più un formicolio di mezzi meccanici, di soldati tedeschi a piedi e tutti scappavano verso nord. Poco lontano dal capolinea c'era una signorina che ci ha subito chiesto dove fossimo diretti. Aveva bisogno di un grosso piacere: portare un cinghio ne per mietitrebbia, di circa 25 chilogrammi, da casa sua, era lì vicina, fino alla
tramvia e poi, una volta arrivati a destinazione, recapitarlo in una fattoria poco lontana. Lei ci avrebbe accompagnato ed ha insistito per
pagare il biglietto a tutti e sei. Mi pare che le carrozze fossero tre ed
erano zeppe di gente, soprattutto donne che erano andate a far spesa
di vivande. Era verso l'una del 27 aprile 1945. Conversando ho raccontato che eravamo dei lavoratori provenienti dalla Germania e diretti a Trento per dei lavori di difesa della Todt. Le donne hanno cominciato ad offrirci del cibo e io lo infilavo nelle finte tasche della
spolverina così finiva in fondo fra la stoffa e la fodera, alla fine avrò
racimolato 5/6 chili di scorte. Lì non si poteva mangiare, eravamo
troppo stretti e l'aria era quasi irrespirabile, toglieva l'appetito.
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Non ricordo il nome della località dove siamo arrivati, dopo circa
15 chilometri. Ho portato il cinghione in un edificio ad un centinaio
di metri e non sono riuscito a restituire alla signorina i soldi dei biglietti, non li ha voluti perché, vista la nostra situazione voleva aiutarci così. Ci siamo seduti su delle panchine, in disparte, per mangiare parte di quello che ci avevano offerto le donne.
Per la strada principale c'era un susseguirsi continuo di carri armati, autoblindo, carri trainati con ogni mezzo, biciclette, motociclette, tutti diretti verso nord. Rari erano i mezzi militari diretti verso sud, fra questi un camion della Todt guidato da un militare tedesco della Wehrmacht. Ad un certo punto si è fermato e io sono corso
a chiedergli un passaggio verso Trento. Lui faticava a capire il tedesco,
era infatti un siciliano. Non voleva assolutamente farci salire ma, con
1'offerta di alcuni pacchetti di sigarette, l'ho convinto. Quelle sigarette le avevo recuperate durante una nostra missione a Ludwigshafen dove, alla distanza di chilometri avevamo avvertito l'odore del tàbacco che bruciava e lì ci siamo riforniti di pacchetti. Molti soldati
fumavano, io li avrei tenuti per qualche scambio e questa volta mi erano stati davvero utili.
Il cassone scoperto era adibito anche al trasporto di persone perché c'erano delle panchine sistemate all'interno, era pericoloso essere
visti da tutti quelli che provenivano in senso opposto: una colonna
ininterrotta di militari. Ogni tanto ci si doveva fermare per darsi strada. Sembrava quasi una Babele per la confusione. Ma dopo appena
2-3 chilometri ecco un posto di blocco con un Maggiore della Polizia Segreta tedesca che si è diretto subito verso di noi. Ci ha chiesto,
in un italiano stentato, dove stavamo andando e io gli ho risposto che
dovevamo raggiungere Trento per eseguire dei lavori in via Giacomo
Leopardi. Questo mi ha creduto e io ne ho approfittato per chiedergli cosa fosse tutto quel movimento di mezzi. Lui mi ha risposto che
gli Americani erano già arrivati a Mantova. Siamo ripartiti e ad un altro posto di blocco ci hanno gridato: '7mmer gerade rasch, immer gerade rasch, los, los schnellf" (sempre diritto presto, avanti, presto, presto!). Probabilmente perché dalla parte opposta c'era una confusione
tremenda di gente, di militari, tutti armati fino ai denti. Temevo che
qualcuno improvvisamente, preso dal nervosismo, potesse sparare o
lanciare qualche bomba a mano.
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Trento
GERMANIA
G
~VigOIO Vattaro
\
I~Yezzene
Centa San Nicolò
/,J
KLavarone
~
San Pietro di ValdasticoLSettecà di Forni
"'MCastelletto di Rotzo
~Cesuna
Treschè ConcaO/
~ Cogollo del Cengio
'"Q~iovene Rocchette
ThieneR~
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Sandrigo
ST
.
'l LUpla
Bolzano Vicenti~U
I
Quinto VicentinoV
Continua la fuga da Trento (27 aprile 1945) a Quinto Vicentino (4 maggio 1945).
G) Trento (27/4/1945)
H) Vigolo Vattaro (27/4/1945)
I) Centa San Nicolò (27/4/194528/4/1945)
J) Vezzene (28/4/1945)
K) Lavarone (28/4/1945)
L) San Pietro di Valdastico - Settecà
di forni (28/4/1945-30/4/1945)
M) Castelletto di Rotzo (1/5/1945)
N) Cesuna (1/5/1945-3/5/1945)
O) Tresché Conca (4/5/1945)
P) Cogollo del Cengio (4/5/1945)
Q) Piovene Rocchette (4/5/1945)
R) Thiene (4/5/1945)
S) Sandrigo (4/5/1945)
T) Lupia (4/5/1945)
U) Bolzano Vicentino (4/5/1945)
V) Quinto Vicentino (4/5/1945)
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Finalmente, verso le tre e mezza del 27 aprile, siamo arrivati a Trento. Ho cercato di allontanarmi subito dalla periferia troppo caotica e di
inoltrarmi verso il centro della città senza dare nell' occhio, per questo,
noi sei, camminavamo disuniti. Ad un certo punto ho trovato un signore
sulla sessantina che mi ispirava un po' fiducia e gli ho chiesto informazioni per poter raggiungere Vicenza. Mi ha risposto che tutte le strade
erano bloccate, che gli americani erano arrivati a Riva del Garda. Infatti, in lontananza, si sentivano lo scoppio delle granate e il crepitio delle
mitragliatrici proprio in direzione di Rovereto e il Lago di Garda. Verso
Verona non si poteva scendere perché bisognava attraversare il fronte.
Secondo questo signore si poteva fare la Valsugana ma era infestata di
partigiani che riteneva degli sbandati perché avevano abbandonato l'esercito nascondendosi poi in montagna per combattere contro i Tedeschi e le Brigate Nere, non ispiravano certamente fiducia. Per lui, l'unica strada da intraprendere era quella della Val d'Astico, passando per il
Passo della Fricca, proseguendo per Lavarone e poi giù a Lastebasse e
poi Arsiero. Da lì me la sarei cavata perché c'ero già stato alcune volte e
poi, trovandomi fra Italiani non avrei più avuto timori ed incertezze, ci
avrebbero sicuramente aiutati. Ho consultato i miei amici, non potevamo prevedere che Trento non sarebbe stata bombardata, forse ci sarebbe convenuto rimanere lì un po' di giorni. Siamo invece partiti secondo
l'ultimo itinerario suggeritoci. La strada, alla periferia di Trento, saliva,
saliva ed era poco trafficata. Ad un certo punto abbiamo visto avanzare
una colonna interminabile di autoblindo, mezzi di ogni tipo, biciclette,
motociclette, diretta a nord, la strada era completamente invasa. I camion erano stracolmi di militari, moltissimi di questi si erano fatti legare con delle corde ai lati dei cassoni e si tenevano con forza sulle sponde
per non cadere. Tutti erano armati fino ai denti e ci puntavano contro il
mitra mentre salivamo con molta fatica. Arrivati in cima, non ricordo il
nome del posto, potevamo scorgere i laghi di Levico e di Caldonazzo e
giù, verso il piano si intravedevano anche del fuoco e del fumo che salivano dalle case. Potevano essere stati i militari ad incendiare appositamente quelle abitazioni perché non c'erano stati dei combattimenti, non
si erano avvertiti scoppi di bombe o spari di mortaio o di cannone. Il silenzio era rotto solo dal rumore incessante della colonna militare che
scendeva verso Trento. Arrivati a Vigolo Vattaro, io, S. e B., abbiamo deciso di fermarci, la colonna tedesca ci impepsieriva troppo, mentre G.,
M. e l'altro hanno pensato di continuare. Oltrepassato questo paese, ho
visto che in fondo alla strada in discesa sorgeva un campanile e il cartello stradale indicava il paesino di Centa. Sembrava abbandonato, procedendo per le vie chiamavo: "Signori, c'è qualcuno? Siamo dei lavoratori!". Ad un certo punto, da una abitazione è uscito un signore di mezza
età. Con prudenza ci siamo avvicinati e ci siamo presentati come lavoratori provenienti dalla Germania. Abbiamo risposto alle mille domande che ci rivolgeva stupito che fossimo già arrivati fino a lì. Non ho fatto alcun cenno al nostro servizio come pompieri e ho chiesto asilo per
la notte, eravamo infatti all'imbrunire. Lui era l'unico insegnante elementare del luogo, di tutte le cinque classi contava 15 alunni, le lezioni
da tempo erano state sospese a causa della guerra. Assieme alla moglie e
alle sue belle figlie, di circa 17/18 anni, ci ha accolti in casa proprio mentre Radio Londra trasmetteva il messaggio del Colonnello Steven (?) che
in un italiano stentato diceva: " ... adesso ammazzateli e uccideteli, è il
momento di distruggerli, sono in ritirata. La guerra è fìnita, ma ammazzateli, ammazzateli!". Probabilmente si rivolgeva ai partigiani per incitarli contro i tedeschi. È stato in quel momento che ho saputo dell' esistenza di questa emittente radiofonica che forniva informazioni sulla
situazione del conflitto nel mondo.
Il maestro ci ha offerto del caffelatte, aveva un paio di mucche nella stalla, un po' di pane e di prosciutto. Ho pensato che anche per loro la situazione non fosse tanto facile, sicuramente il cibo scarseggiava per tutti. Ci ha accompagnati in un sottoportico per riposare, c'era una certa quantità di foglie secche, forse per la lettiera delle mucche. Per noi era un posto stupendo perché fuori dalle strade percorse
dai Tedeschi in fuga. Si avvertiva solo il rumore dei mezzi meccanici
sulla strada che li riportava a nord verso il loro paese. Spossati, ci siamo subito sistemati con una coperta sotto e una sopra e ben vicini
per farci caldo: era una serata fredda ma nel nostro tepore ci siamo finalmente abbandonati ad un sonno sereno e profondo. Ci siamo svegliati prima ancora dello spuntar del sole nascosto dai monti circostanti, il cielo era limpidissimo, l'aria rigida e sull' erba brillava la brina. Ci siamo preparati per ripartire. Il maestro ci ha indicato di salire verso le Vezzene o Lavarone e da lì scendere verso Lastebasse. Sulla
strada non si sentiva più il rumore dei mezzi meccanici, c'era una quiete assoluta, avremmo cosÌ proseguito con più tranquillità.
~-j
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Raggiunta la strada ho sentito un rumore strano e ci è apparso, da
dietro un cespuglio, quasi un fantasma. Dalla divisa ho capito che era
un militare italiano, sembrava una maschera di sangue, era tutto insanguinato dalla testa ai piedi. I calzoni erano a brandelli e segnati da
rivali di sangue. ''Aiutatemi, aiutatemi, aiutatemi". Ha sussurrato balbettando spaventato, terrorizzato. Cercando di asciugarsi il volto ferito
con le mani continuava a dire: "Datemi una mano perché mi sento morire, datemi una mano". Il maestro l'ha subito accompagnato per lavario e medicarlo. Noi abbiamo atteso fuori. Richiamati in casa l'abbiamo trovato già abbastanza ripreso. Indossava un vestito nuovo del
maestro e con un fazzoletto si tamponava le due scalfitture più vistose
che aveva sul viso, in tutto il corpo saranno state un centinaio e gli procuravano un bruciore insopportabile. Dopo aver bevuto un po' di caffelatte ci ha raccontato di essere stato vittima di un attacco fra partigiani e tedeschi. Era un militare italiano della Decima Mas, un soldato
della Repubblica di Salò che combatteva a fianco dei 1èdeschi. Fuggito, era arrivato ormai al suo paese, abitava a San Pietro di Valdastico
ma, a 100 metri circa da casa sua un gruppo di Tedeschi è stato attaccato dai partigiani. Lui si trovava sulla strada con i partigiani di fronte
e i Tedeschi alle spalle. Riconosciuto dai primi per la divisa, questi 1'avevano preso di mira e i Tedeschi lo avevano catturato e messo davanti a loro come uno scudo. Continuavano tutti a sparare e lui era là davanti, allo scoperto. Improvvisamente un partigiano aveva lanciato una
bomba (tipo Balilla che provoca numerose e dolorosissime scalfitture),
che lo aveva colpito alle gambe. Riuscito, nella confusione, a divincolarsi dai Tedeschi, si era messo a correre all'impazzata fra gli spari e gli
scoppi dei partigiani e dei Tedeschi. Correndo nel bosco e scappando
per tutta la notte, aveva raggiunto quella casa in cerca di aiuto. Temeva che noi fossimo dei partigiani ma io l'ho subito rincuorato spiegando un po' la nostra situazione e chiedendogli di aiutarci per raggiunge-re la pianura, visto che era molto esperto della zona. Secondo lui bisognava abbandonare completamente la strada principale per evitare di
incontrare altri 1èdeschi in fuga e attraversare la piccola valle di Centa,
dal fiume che 1'attraversa. Passando il fiume e risalendo sul versante opposto si raggiungeva una stradina più sicura. Si è offerto di farci da guida e così abbiamo salutato e ringraziato di cuore il maestro e ci siamo
incamminati giù per la discesa, particolarmente impervia e con forte
pendenza, raggiungendo il corso d'acqua dopo circa 45 minuti. Con
facilità 1'abbiamo attraversato saltando da una riva all' altra e ci siamo
inerpicati per la salita molto impegnativa. Il sole si era alzato e la giornata era limpidissima in quella domenica del 29 aprile 1945. Raggiungemmo la strada che portava alle Vezzene, di solito era poco frequentata, quel mattino non passava proprio nessuno. Era stata scavata nella
roccia dai Tedeschi e dagli Austriaci durante la prima guerra mondiale.
Ad una curva sorgeva un capitello della Madonna di Monte Berico. Ho
infilato nella cassettina delle elemosine, dovendola piegare più volte, viste le dimensioni, una banconota da 100 lire, tante per quei tempi e,
dopo aver recitato un'Avemaria, siamo ripartiti.
nostra guida, ad un
certo punto, ci ha portati in mezzo al bosco per un sentiero da tempo
abbandonato diretto verso le Vezzene. Ci raccontava quello che era suc·cesso in Italia, dei combattimenti più impegnativi contro i partigiani
perché improvvisi e perché attaccavano sempre alle spalle anche con
bombe a mano. Era difficile combattere Italiani contro Italiani. Per lui
arruolarsi nella decima Mas era stata una scelta di sicurezza perché i partigiani davano l'impressione di essere degli sbandati senza regole e senza organizzazione. Per noi erano un pericolo continuo perché, se ci avessero trovati, probabilmente ci avrebbero ammazzati. All'uscita del boschetto si doveva attraversare un grande prato al di là del quale passava
una strada che scendeva da ovest verso est, più avanti si innestava con
quella che da Lavarone portava su al Passo della Fricca, passava per Vigolo Vattaro ed arrivava a Trento, quella che avevamo in parte percorso anche noi. Dovevamo attraversare il prato e raggiungere un viottolo
nel bosco di fronte che portava presto a Lavarone. A metà del prato abbiamo sentito improvvisamente il rumore di motori. Dalla curva sono
sbucate due moto con 4 Tedeschi: uno guidava e quello dietro teneva
un fucile mitragliato re. I miei compagni volevano scappare ma io li ho
fermati, sicuramente vedendoci fuggire ci avrebbero sparato. Ho suggerito di procedere normalmente. I Tedeschi hanno subito gridato: "Partigiani, partigiani, partigiani!". lo ho subito risposto: "No, no, i partigiani sono da quella parte, più avanti, noi siamo arbeiter, lavoratori!".
Ho dato loro dei consigli sulla strada per Trento e loro, chiaramente disorientati, hanno ascoltato le mie indicazioni e ci hanno offerto delle
sigarette. lo, per ringraziarli, ho risposto: ''alensgutten!'' ed incuriositi
perché conoscevo la loro lingua ho spiegato che avevamo lavorato nel-
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la todt con i Tedeschi. Ci siamo salutati e abbiamo proseguito ognuno
per la propria direzione. Presto siamo giunti a Lavarone e tutti ci chiedevano informazioni su chi fossimo, da dove provenissimo, su cosa stesse accadendo in giro, perché il nostro amico avesse quelle ferite.
"È scivolato nel bosco" ho risposto io. Alcune donne l'hanno medicato, altre sono corse in casa per portarci del cibo. Ci siamo fermati una ventina di minuti e poi abbiamo proseguito raggiungendo, dopo un' ora, la collina che si affaccia proprio sulla vallata dell' Astico.
Sotto di noi il giovane ci ha indicato il suo paese, la sua casa un po'
in periferia, la strada principale di Lastebasse che aveva abbandonato
per attraversare l'Astico e il punto in cui era stato attaccato dai partigiani. Dovevamo scendere su un terreno coperto da pietrame, era uno
strato morenico, tante piccole pietre portate giù dalla neve scioltasi
per secoli. Lui sarebbe partito per primo e noi l'avremmo seguito uno
alla volta attendendo di partire finché non fosse arrivato chi ci precedeva per non fargli cadere le pietre in testa. Sono sceso per terzo è,
purtroppo, scivolando, col piede destro sono andato a battere contro
uno spuntone di roccia nascosto da alcune pietre. Ho avvertito subito un forte dolore alla caviglia, forse avevo preso una storta, ma il desiderio di arrivare presto a casa mi ha fatto proseguire sopportando
anche quel dolore. Arrivato in fondo ho dato delle indicazioni a S. affinché evitasse lo spuntone di roccia. Proseguendo per una strada secondaria, proveniente da Settecà di Forni, siamo arrivati a San Pietro
di Valdastico. Molte persone del luogo ci venivano ad interrogare su
quello che ci era accaduto e su come fosse la situazione in generale.
Secondo loro i Tedeschi erano già tutti passati ma, pur essendo una
strada secondaria, ogni tanto ne arrivava qualcuno. Fra le donne una
ha esclamato: "Mio figlio è andato in Germania a fare il pompiere e
non ne ho più avuta alcuna notizia!". Senza raccontare niente di noi
ho però voluto avvicinarla visto l'angoscia che dimostrava. Ho saputo che si trattava di V. M., era stato proprio con noi. rho rassicurata
confermandole che, tempo prima, casualmente, l'avevo incontrato e
che stava bene. Voleva che mi fermassi a casa sua ma avevo fretta di
ripartire soprattutto per il timore di trovare Tedeschi e partigiani. La
nostra guida ha finto di essere stato un lavorante c;ome noi, svelare la
sua vera identità sarebbe stato molto pericoloso, poteva anche essere
incriminato o ucciso dai partigiani. Era ormai arrivato a casa ed era
salvo. Ci siamo salutati e noi tre abbiamo preso la strada bianca, quel
giovane ci aveva informati che dopo circa 6/7 chilometri saremmo arrivati a Pedescala passando prima per Settecà di Forni. Lì siamo giunti verso le 5/5,30 del pomeriggio. C'era un mulino azionato dall'acqua di un canale proveniente dal fiume Astico che lì era privo di argini, le sponde erano da una parte i prati e dall' altra la strada, in quella zona 1'acqua si alza proprio di poco e raramente. Ho chiesto subito informazioni sulla strada principale per Pedescala. Si raggiungeva
attraversando un ponte dove la vallata si restringe e diventa quasi una
strettoia. Lì, di guardia, c'erano dei militari delle SS tedesche con delle fisionomie particolari: i tratti erano orientali. Presentandoci come
lavoratori che dovevano raggiungere Arsiero, ho cercato di convincere il Capitano a farci passare ma per lui era troppo pericoloso perché
c'erano ancora dei Tedeschi che dovevano arrivare. Ho saputo, al mio
ritorno a casa, che facevano parte di un'armata di 400.000 soldati russi provenienti dalla Mongolia, la Russia asiatica. Una volta terminata
l'alleanza con i Tedeschi, anziché combatterli, questi Mongoli avevano preferito arrendersi e rimanere alloro fianco perché affermavano
che era meglio andare sotto il Nazismo che sotto il Comunismo. Anche a Quinto, e precisamente dove abitava la famiglia Gheller di Gedeone, durante la guerra si erano sistemati diversi militari mongoli attrezzati di armi e con dei cavalli. I pochi superstiti, dopo la guerra, si
sono ritirati verso l'Istria, la Venezia Giulia, e gli Inglesi, anziché farli prigionieri, assicurando loro i diritti dei prigionieri di guerra, li hanno fatti arrendere alle truppe russe. Sono così stati tutti fucilati perché considerati dei disertori.
Noi, bloccati da questi soldati, abbiamo deciso di tornare, per trascorrere la notte, a Settecà di Forni visto che anche lì avevamo ricevuto un' ottima accoglienza. Ero comunque molto preoccupato da quel
labirinto di montagne che mi ossessionava, quasi mi terrorizzava. Tornati al mulino ci siamo rifocillati e per la notte ci siamo sistemati in un
fienile al di là della strada. Sul fieno si stava bene perché, riparati dalle
coperte, manteneva il calore del corpo. Ci siamo subito addormentati. Verso le due di notte ci ha svegliati uno scoppio improvviso e potente come se fossero esplose simultaneamente decine di bombe. Il frastuono proveniva dal ponte sorvegliato dai soldati mongoli. Era incessante, il terreno e i muri sussultavano, siamo rimasti nel fienile spa-
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ventati e tremanti, uscire sarebbe stata un'imprudenza. All' alba tutto si
è tranquillizzato. Verso le 7 circa si son sentite suonare, senza sosta, le
campane di Forni seguite da quelle di San Pietro di Valdastico e più tenuemente, perché frenate dal monte, quelle di Pedescala. La gente per
le strade inneggiava, gridava: "La guerra è finita, è finita!". I soldati russi si erano ritirati ed erano fuggiti verso nord, cioè verso Lastebasse e
poi Lavarone ... Prima di partire, però, avevano fatto saltare tutte le loro munizioni e i mezzi meccanici in sovrappiù. Ho saputo, poi, da un
tale che a Forni c'erano gli altri tre nostri compagni con i quali ci eravamo separati a Vigolo Vattaro. C'era una passerella più a monte rispetto al ponte di cui ho parlato prima ma da lì non si poteva pro!>eguire perché era tutto bloccato verso Arsiero. Conveniva, quindi, che
loro ci raggiungessero. Mentre studiavamo cosa fare, ho sentito provenire da Arsiero un mezzo meccanico: una motocarrozzetta con i cingoli al posto delle ruote gommate usata per attraversare i terreni impervi. Sulla moto c'erano due tedeschi e uno sulla carrozzella. Improvvisamente, dall' alto dei monti, sia dal versante di Tonezza che da quello sud di Castelletto di Rotzo, è giunto il crepitio delle mitragliatrici e
dei fucili mitragliatori e di fucileria: sparavano ai tre tedeschi. Colpita
la motocarrozzetta, i tre soldati sono fuggiti a piedi verso Arsiero. Probabilmente erano stati mandati in avanguardia perché, subito dopo di
loro, avanzavano delle autoblindo. Gli spari si sono intensificati e i Tedeschi hanno cominciato a rispondere al fuoco. (Ho saputo al mio rientro a casa che quello era l'ultimo reparto delle SS partito dal campo di
aviazione di Vicenza e che, una volta giunti a Piovene Rocchette o Arsiero, avevano informato tutte le autorità di quella zona, i Podestà, gli
attuali Sindaci, i Parroci e i Comandi dei partigiani, che loro sarebbero passati per la ritirata in modo pacifico, si sarebbero, però, difesi e
vendicati qualora fossero stati attaccati). CQn S. e B. ho deciso di risalire la strada percorsa il giorno precedente ~erché mi ero accorto che,
prima di arrivare a Settecà, c'erano delle caverne, scavate nella roccia
durante la prima guerra mondiale, con una profondità di una quindicina di metri, proprio lungo la strada che da San Pietro Valdastico conduce a Settecà e poi prosegue per Pedescala. Gli spari si intensificavano ed ora i Tedeschi sparavano sia verso i partigiani, anche se era impossibile colpirli a quella distanza e in quella posizione, che verso tutti i civili che incontravano. Allora mi son messo a correre chiamando i
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miei amici ma mi son visto raggiungere solo da S. Alcuni Tedeschi, saliti per la strada che porta a Tonezza, trovandosi già più in alto di noi,
dominavano meglio tutta la vallata e, avendoci avvistati, hanno cominciato a spararci. Entrato nella seconda caverna con S, ho visto le
pallottole colpire il terreno come i primi goccioloni di un temporale,
la strada era tempestata di colpi. Altri fuggitivi scappavano per la strada, alcuni, feriti, volevano entrare da noi ma io li ho fatti proseguire:
le loro tracce di sangue avrebbero condotto i Tedeschi dentro il rifugio.
Lì siamo rimasti solo noi due, di B. non sapevamo più niente. Davanti a queste caverne era stato costruito un muro in cemento alto un metro e mezz? ~ a circa 40/50 centimetri dal varco, per passare bisognava metterSI dI fianco. Probabilmente il Genio Militare o la Todt avevano preparato quei muretti per un' eventuale difesa della zona con i fucili militari o con dei panzerfaust, si inseriva la cartuccia nella canna
del fucile, senza la pallottola, così la carica esplosiva poteva lanciare una
specie di bomba a forma ovoidale grossa quasi come un ananas. C'erano dei pertugi sul muro che guardavano verso Lastebasse, Pedescala,
Settecà e Forni. Da Pedescala si levava del fumo e ho pensato che fossero state incendiate delle abitazioni. Si faticava a capire cosa succedesse
a causa di una certa foschia, di tanto in tanto piovigginava. Mi sono
accorto che, alla distanza di 60/70 metri dal mulino, proprio dalla casa dove ci eravamo fermati durante la notte, si levavano delle fiamme
e un forte fumo, mi sembrava di sentire anche delle grida, degli spari:
che fosse un combattimento o una fucilazione? Sono stato preso da
un' angoscia terribile e mi sono rivolto alla Madonna di Monte Berico
e ho fatto un voto che però non svelerò mai.
S. si era rannicchiato in un angolo della caverna e tremava in continuazione. Anche la mia paura era enorme e cercavo di pensare come avrei potuto uscire da quella tragica situazione. Penso di essere stato protetto dalla Madonna di Monte Berico perché i Tedeschi continuavano a passare per la strada davanti a noi e più di qualche volta si
sono fermati a guardare verso il nostro rifugio senza però avvicinarsi;
~e ho contati più di 50. Passavano due o tre Tedeschi alla volta, partIvano da Forni ed arrivavano a Lastebasse anche in bicicletta, forse
in perlustrazione o in ritirata verso nord.
Intanto il fumo si faceva sempre più intenso, 1'aria era quasi irrespirabile e acre mescolata all'umidità di nebbia e pioggia che scende-
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va ad intermittenza. Durante i bombardamenti in Germania non avevo mai provato così tanta apprensione e angoscia. Chiuso in quella
grotta mi sentivo mancare l'aria e in trappola, la notte che si avvicinava mi sembrava ancora più spaventosa e così, al crepuscolo, ho deciso
di uscire. Prima abbiamo mangiato un po' di margarina, burro, zucchero presi dalla mia valigetta, lo zaino, purtroppo, era rimasto sopra
la tavola della cucina del mulino. Sarei partito io per primo, mi ero accordato con S. che, se mi avessero sparato e fossi morto, avrebbe dovuto raccontare a tutti cosa era veramente successo. Il mio compagno
doveva partire quando io fossi stato già ad una trentina di metri, distanziati correvamo minor rischio. Ma, appena sono uscito, lui mi ha
seguito e si è messo a gridare come un pazzo, non riuscivo a farlo smettere, sicuramente avrebbe attirato l'attenzione di tutti i Tedeschi della
zona. Ho perso il ben dell'intelletto e gli ho dato un pugno potente
sulla tempia e lui è stramazzato a terra come se l'avessi ucciso. Per salvarlo non avevo alternative: me lo sono caricato sulle spalle per portarlo verso San Pietro Valdastico ma, trasportare un peso morto di
75/80 chilogrammi per 6/7 chilometri era un'impresa quasi impossibile, inoltre ho preso anche il suo zaino e la mia valigetta per non lasciare tracce. Non ce la facevo a correre ma ho cercato di allungare il
passo per allontanarmi prima possibile da quella zona. Camminando,
sotto una pioggia sottile, sottile, osservavo il paese che bruciava insieme al mulino: c'era fuoco dappertutto. Le tenebre sono scese in fretta
favorite anche dalla nebbia, il fumo, la pioggia e, in breve tempo, non
si è più vista la strada opposta, che da Forni portava a Lastebasse, ci
siamo trovati in mezzo al buio assoluto. S. non dava nessun segno di
vita, respirava debolmente, avevo paura che stesse per morire. Dopo
un' ora circa di cammino, mi sono fermato, ero esausto. Ho sentito il
mormorio di acqua che probabilmente scendeva dal costone. Ho messo giù il mio compagno e, con le mani a scodella, ho preso più acqua
possibile. Giunto da S., me n'era rimasta poca e gliel'ho buttata sul viso. Ha emesso un lamento e mi ricordo di aver detto: "Sia lodato Gesù Cristo!". Si è subito ripreso e ha cominciato a gridare, gridava, gridava. Lo esortavo a far silenzio e un po' alla volta si è quietato. I.:ho
aiutato a rialzarsi e gli ho spiegato tutto quello che era successo. Gli ho
fatto mangiare un po' di miele per rinforzarlo e si è ripreso abbastanza bene. Dopo dieci minuti abbiamo proseguito per San Pietro Val-
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dastico, lui barcollava e io lo sostenevo. Fatti appena 300/400 metri
abbiamo sentito, quasi all'improvviso, un punzecchiare alla schiena. lÌ
buio era pesto e 2-3 torce hanno illuminato la nostra faccia. Sottovoce ci hanno detto: "Essere Tedeschi: vi fuciliamo sul posto, essere Brigate Nere: vi fuciliamo, essere Decima Mas: vi fuciliamo!". "No!" Ho
risposto "Siamo dei lavoratori che tornano dalla Germania, se arriviamo a San Pietro Valdastico potrete pure chiederne conferma alla mamma di V. M.". Ho capito subito che erano dei partigiani. Hanno confa?ulat? ~ra di loro e hanno deciso di portarci fino al paese. D'istinto
mI. sareI rIb.el~ato, avr~i volu~o gridare loro tutta la mia rabbia perché,
se 1 tedeschI ~l erano rIvoltau contro la popolazione, la colpa era totalme~~e ed ull1~amente dei partigiani che li avevano provocati assalendoli ImproVVIsamente e senza motivazioni. Inoltre, da codardi, non
erano inter:e?uti per aiutare la gente del paese ma, vigliaccamente,
avevano aSSIstito al massacro e alla distruzione ben nascosti e sicuri sulla montagna. Ho cercato di controllarmi perché ora io e il mio compagno eravamo in serio pericolo. Verso le Il di sera siamo arrivati e ci
hanno fatto entrare in una vecchia casa e rinchiusi in una stanza con
delle brande senza coperte. Chiudendo la porta hanno esclamato: "Domani mattina ci penseremo noi a farvi fuori!". Immaginatevi il nostro
stato d'animo, non abbiamo dormito per tutta la notte. Siamo riuscit~ a manpia.re solo un po' di pane col burro, miele e zucchero per darc~ un~? d1 forze. Era stata la giornata peggiore della mia vita, avevo
v~sto plU volte la morte in faccia ed eravamo terrorizzati per quello che
Cl s~reb~e .capi~ato il giorno dopo. Di mattina presto ho sentito dei
pass~ avvICmarSi. Sono entrati due partigiani e, con fare brutale ci hanno rIpetuto che presto ci avrebbero uccisi. lo ho chiesto di parlare con
la mamma del M. e poi con il parroco. Ci hanno condotti in chiesa
con modi veramente villani. Noi abbiamo fatto la genuflessione e il
Se~no di Cro~e, loro si son messi a bestemmiare perché il prete non si
sbrIgava a fimre la Messa. Al termine della celebrazione, il sacerdote si
è avvicinato con fare bonario ed io gli ho spiegato tutta la nostra storia, poi è stata chiamata anche la madre di M. che ha testimoniato a
n.ostro fav?re. Dopo aver discusso in disparte col parroco, hanno deCiSO c~e ~l avrebbero portati ad Asiago per essere regolarmente processati e SIcuramente, secondo loro, fucilati. Per il momento eravamo
salvi e potevamo continuare a sperare.
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Per salire sull' altopiano, c'era una strada che partiva da San Pietro
Valdastico e portava su a Castelletto di Rotzo, frazione di Rotzo, piccolo centro che si trova proprio all' estremità nord dell' Altipiano. Da
quel punto si può dominare tutta la Valdastico da Lastebasse fino a
Pedescala.
n tempo era variabile, il cielo da nuvoloso diventava improvvisamente azzurro e lasciava splendere un bel sole ma tirava un :ento mol~
to freddo, quasi gelido, poi improvvisamente tornavano l nuvololll
fitti, fitti che sembrava voler piovere.
Intanto si continuava a salire e si notava sempre più il fumo che
saliva da Pedescala e da Settecà di Forni, sulla sponda opposta dell' Astico appariva tutto tranquillo, non c'era movimento. n campanile si
ergeva fra le case e la calma dominava, il giorno precedente da lì sp~­
ravano in continuazione con due mitragliere contraeree da 20 millimetri. Per raggiungere Tonezza allora c'era soltanto la strada che passava per Forni con ben 33 tornanti, non c' e~a ancor~ quella pr~ve­
niente da Arsiero. Sul terzo e quarto tornante i Tedeschi avevano piazzato dei cannoni con i quali potevano sparare su tutto il costone sud
della vallata e, nello stesso tempo, potevano sparare anche verso l'Al.
.
topiano di Asiago, non so però che gittata avessero.
Quel giorno il silenzio era assoluto, da Pedescala, che s~ poteva mtravedere in parte perché nascosta dal costone del monte, SI v~d~va salire ancora molto fumo, anche da Settecà: sembravano luoghi dI morte. Da Lastebasse, invece, si sentiva di tanto in tanto il rumore di qualche motore. Siamo arrivati ad un punto di strada che per 50/60 metri
era completamente scoperto in direzione del campanile di Forni. Ho
avvisato i partigiani, 7 davanti e 4 dietro a noi, del pericolo della mitragliatrice piazzata dai Tedeschi e ho consigliato di camm~nare com~
pietamente al di là della strada per non farci notare. Loro SI son meSSI
a sghignazzare, facevano i gradassi per farsi vedere superiori anche al pericolo. Improvvisamente ho sentito il sibilo degli spari di mitra che hanno colpito di striscio le giacche di due partigiani. Mi son~ ~ubit~ s'p0~
stato al di là della strada camminando molto curvo. Qm l pamglalll
hanno gridato che ci avrebbero sicuramente fucilati ~erch~ ci ~c~usa­
vano di essere d'accordo con i Tedeschi, erano propno del ven Ignoranti, altro che patrioti! Dal campanile avranno sparato 200/300 colpi
e così tutti hanno fatto come me finché ci siamo trovati fuori dal ber-
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saglio. In silenzio abbi:mo proseguito,fino alle 4/5 del pomeriggio giund! Rotw dove c era un movimento particolare di
p~rt1?lalll e partigiane, anche le donne giravano armatissime con tanto
dI mitra e bombe a mano. Ho cercato di mantenere una certa calma e
prudenza. Lì, con mio grande stupore e gioia, ho ritrovato B. Nel moment~ del fuggi fuggi generale, lui, invece di scappare verso la strada di
San Pi~tro Valdastico, si era inerpicato sulla parete del monte nascondendosi.dentro una cavit.à naturale. Era stato notato e preso di mira dai
~edeschl che dal ~aI?palllle sparavano con la mitragliatrice. Hanno contm~ato per mO,I~lss1mo tempo ma lui era ben riparato perché il suo rifugIO er~ un po mcurvat~ e c?s! le pallottole non potevano colpirlo an~he se gl~ cadevano propno Vlcmo. Durante la notte era riuscito a risalue la. chma del monte e da lì aveva potuto seguire tutto ciò che succedeva .1I~ paese. Dentro la stanza del mulino erano stati rinchiusi molti
uom:lll e fra questi i tre G., M. e l'altro che, scappati con noi dalla Germallla, avevan.o poi preferit? separarsi. Ho saputo in seguito che solo
u~ certo Bordlg~on, che.abitava nella casa dove ora scolpisce Venturilll, e un altro fento da 1m salvato, sono riusciti ad uscirne vivi. Lunica
porta del mulino era stata sbarrata con botti, carri e attrezzi vari, le fìnestr~ erano tutte bloccate dalle inferriate e i Tedeschi avevano appiccato Il fuoco e cominciato a sparare all'interno dalle finestre. Lui si era
addossato allaparet~ e tu~ti gli altri si erano accalcati dalla sua parte ripa:andolo COSi daglI span. Sepolto da tutti quei corpi era riuscito a respIrare e a non essere soffocato dal fumo. Attraverso il mozzo delle ruota del mulin?, p.arzialme~te bruciato ed allargatosi per il surriscaldan:ento, era nuscito ad USCire e a trascinare con sé anche l'unico ferito
SI era tutto ustion.ato e si erano bruciati anche i capelli. Arrivati di not~
te a Castel.letto dI. Rotzo erano stati trasportati all' ospedale di Mezzaselva. n.ml? penSIero andava a tutte quelle persone uccise ed in particolare al ~~el ~re compagni morti cosÌ tragicamente.
.I partIgiam avevano deciso di portarci verso i camion diretti ad
ASIago quando i Tedeschi, piazzati nel terzo e quarto tornante della
strada per Tonezza, hanno cominciato a sparare con i cannoni verso
la zona dell'Altipiano, soprattutto verso il campo di aviazione. Fra la
gente del posto si è creato un panico così forte che si è tramutato in
co~fusione: tutt~ che fuggivano senza meta con grida di terrore perche pensavano di essere presto attaccati da molti Tedeschi. Noi siamo
gen~o. a ~asteH~t~o
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stati spinti sul camion da sette partigiani. Siamo partiti verso Asiago
anche se i Tedeschi continuavano a sparare. Per strada B. ha raccontato anche a loro la sua avventura e ciò che era successo al mulino.
Il tempo era molto perturbato ed incerto: a tratti nevicava abbondantemente con fiocchi grossi e fitti che imbiancavano tutto il paesaggio, poi, improvvisamente, le nuvole si diradavano e spuntava un
sole caldo che scioglieva la neve, questa, poi, ricominciava a cadere e
così è continuato per tutta la mattinata.
Il camion procedeva a passo d'uomo perché le strade erano intasate da mezzi, persone ed animali fatti uscire dalle stalle per non farli
trovare ai Tedeschi. Pensavano che questi stessero arrivando ammazzando tutti e portando via i beni rimasti. Gli animali, siccome c'era
la neve, non sapevano dove andare e, quindi, si fermavano in mezzo
alla strada bloccando tutto il traffico.
Si supponeva che i Tedeschi potessero raggiungere Asiago per la
strada che passa da Pedescala, piena di tornanti scavati nella roccia e
quindi protetti dalla pioggia. Noi tre eravamo preoccupati perché prigionieri di questi boriosi partigiani, o meglio sbandati, che di guerra
non se ne intendevano, erano solo delle pedine inesperte di chissà chi.
Maneggiavano le armi proprio da principianti con il pericolo che potessero lasciarsi fuggire casualmente qualche colpo.
Arrivati ad un bivio, che a sinistra porta ad Asiago, abbiamo girato a destra verso Cesuna e siamo arrivati ad un albergo ben tenuto,
mi sembra fosse dei genitori della Maria Teresa Rossato. Nella sala da
pranzo e in alcune stanze attigue era stato allestito un dormitorio. Siamo stati presi in consegna da alcuni "personaggi", non saprei proprio
come definire quegli individui male organizzati, che hanno cominciato a conversare fra di loro e con noi come se fossimo del gruppo.
lo, cercavo di capire, con molta cautela, come fosse realmente la situazione. Alcuni di loro portavano la divisa delle camicie nere, altri
erano mal vestiti, di sicuro tutti ignoranti, privi di direttive precise.
Alla sera, primo maggio 1945, abbiamo mangiato qualcosa, poi
ognuno ha preso posto nella sua branda e subito ci siamo addormentati. Verso le 2/3 di notte, si è sentito gridare: "Presto, presto, di
corsa, prendere le armi!". Avevano i mitra chiamati Parabellum, bombe a mano, fucili e moschetti modello 91. Improvvisamente è saltata
la luce e io e i miei due amici, B. e S., ne abbiamo approfittato per
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nasconderci e rimanere al sicuro nell' albergo mentre loro sono corsi
in massa verso il Costo da dove sembrava stessero arrivando truppe
tedesche. Non sapevano che il Cardinale di Genova, non ne ricordo
il nome, aveva fatto da paciere tra gli Alleati, i Partigiani e le truppe
tedesche che si erano arrese totalmente promettendo di fuggire senza
vendicarsi se nessuno li avesse attaccati. Verso mattina sono rientrati
perché era stato un falso allarme: non era arrivato nessun tedesco.
Il 2 maggio è stato un giorno particolare, i partigiani raccontavano di aver catturato il boia tedesco che impiccava i partigiani. Era rinchiuso nello scantinato di un palazzo poco lontano ed ogni tanto un
partigiano lo spaventava sparandogli dalle finestre dei colpi di mitra.
Questo, terrorizzato, urlava come un animale al macello. E ha continuato per due giorni interi, poi, non si è sentito più niente.
Noi tre abbiamo cercato di familiarizzare il più possibile con questi
uomini, parlavano di un certo ''Attilà' come comandante dei partigiani
che suscitava loro un certo timore e quindi sottomissione e obbedienza.
Il3 maggio ho dovuto seguire da solo due partigiani. Giunti ad una
villetta, poco lontana dal centro, hanno spalancato la porta e sono entrati con fare violento. Lì c'era una signora tutta tremante per lo spavento (ho saputo, alcuni anni dopo, che quella donna era la madre del
Comandante di un reparto di soldati della Repubblica di Salò accusato di aver partecipato all' eccidio di Pedescala. Dopo la guerra è riuscito a fuggire in Argentina e in questi giorni, - 2000 -, ne hanno dato
notizia televisione e giornali perché indagato quale criminale di guerra). I due partigiani, con modi villani, volevano a tutti i costi farsi riferire dove fosse il figlio ma quella madre si era fatta forza e non lo voleva tradire. (Ricordo un simile comportamento da parte della mamma di Nazario Sauro che negò l'identità del figlio, arrestato dagli Austriaci a Trento durante il processo che 1'avrebbe condannato a morte). Inferociti, i due se ne erano andati sbattendo la porta. Ho cercato
di placarne gli animi ricordando quanto grande ed importante sia l'amore di ogni mamma verso il figlio, anche loro ne avevano una che li
aspettava con apprensione. Questo è servito a calmarli.
Giunti al nostro albergo, abbiamo trovato pronto un pranzo molto
frugale. Verso sera ho avuto notizia che il giorno successivo sarebbe partito un camion per la pianura e che saremmo scesi anche noi ma dovevamo passare per la Tenenza dei carabinieri di Thiene per chiarire la no-
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stra posizione poiché avevano ancora dei sospetti su nostri eventuali legami con i Tedeschi. Se solo mi avessero spogliato. mi avrebb~ro tro;ato
addosso la divisa portata in Germania, erano giorm che non mI spogliavo
e lavavo, pensate in quale stato ci trovavamo io e i miei due co~pagn~.
La notte l'ho passata quasi tutta insonne ripercorrendo gh avvemmenti susseguitisi dopo la nostra fuga dalla Germania iniziata. proprio
un mese prima. Il4 maggio, verso le 9,30, è arrivato un camiOn, con
noi non avevamo niente, io portavo solo la mia valigetta. Assieme a
noi si sono ammassati 30/40 partigiani tutti armati di mitra, bombe
a mano, pistole. Chi rimaneva ci ha salutato ~on un,"u:rà!"; .
La giornata era abbastanza calda, splendeva ti sol.e nepido ~11ll montagna. Ci siamo avviati verso Treschè Conca, tutti dal camiOn sparavano in aria, gridavano. Qualcuno, prendendola per u~~ brav~ta, d~­
po aver tolto la sicura, lanciava delle bombe a mano gm per Il declIvio del monte e le schegge saltavano da ogni parte. Ad un certo punto siamo scesi tutti perché il ponte, che attraversava un piccolo ~orso
d'acqua, ora asciutto, era stato fatto saltare precedentemente dal partigiani per bloccare un eventuale passaggio di Tedeschi. Insieme ~b­
biamo sistemato la carreggiata e così il camion ha potuto proseguIre.
Guardavo in lontananza verso la pianura per cercare, fra la foschia, la
direzione del mio paese, laggiù mi sembrava tutto più calmo. Lì sul camion, invece, continuavano a sparare, cantare, gridare. Finalmente siamo giunti a Cogollo del Cengio tutto in festa, la gente occupava le strade, cantava e gridava: "È finita la guerra, è finità'. Anch'i~ assap?ra:~
questa gioia ma dentro non ero completamente sere~o e C~Sl p~r~ l m~e~
compagni, pensavamo a tutte le persone morte e al nostn a~lcl UC~lS1
nel mulino. Siamo poi proseguiti per Piovene Rocchette e da 11 per ThIene. Due partigiani ci hanno subito accompagnati nell'ufficio del Tenente
dei carabinieri che ci ha inviati alle sedi dei carabinieri delle nostre zone
di residenza: io a Sandrigo e i miei due compagni nelle sedi dalle quali
dipendevano Rettorgole e Lobbia, i paesi in cui abitavano..
.
Sempre accompagnato dai soliti due, sono entrato negli uffiCi del
Maresciallo di Sandrigo il quale mi ha subito abbracciato perché ero
il primo che tornava dalla prigionia. I due partigiani, scoperta la mia
vera provenienza, sono rimasti sorpresi ma ormai no.n ~otevano più
farmi niente: ero libero, avevo già illasciapassare per Il nentro a casa.
Dopo aver brindato con il Maresciallo, al quale ho regalato due pac-
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chetti di sigarette Ibar, che tenevo nella mia valigetta assieme ad un
po' di miele e zucchero, siamo usciti e con molta commozione ho salutato B. e S. Insieme avevamo condiviso tanti problemi, sofferenze,
paure, ora potevamo gustare la gioia del rientro a casa. Ci turbava però
il pensiero su quello che poteva essere successo nei nostri paesi durante la ritirata dei Tedeschi. Secondo i partigiani erano dei selvaggi
che compivano dei massacri indescrivibili fra i civili. Si sa, invece, che
ciò accadeva per colpa dei partigiani poiché attaccavano i Tedeschi
durante la fuga, istigandoli alla vendetta e quindi alle rappresaglie.
Camminavo abbastanza lesto benché avessi la caviglia destra gonfia e dolente, ma la voglia del ritorno cancellava anche quelle fitte.
Appena fuori da Sandrigo mi ha sorpassato un compaesano che, dopo il matrimonio, era andato ad abitare in Carpaneda nella casa ora
di Fabris, allora vecchia e malandata. Era il signor Ciobatta Mottin
che aveva sposato Celestina Guerra, nipote di mia nonna Corona
Guerra. Aveva una bicicletta da uomo col palo. È subito sceso, mi ha
salutato abbracciandomi caldamente e mi ha tempestato di domande. Ha voluto a tutti i costi portarmi sul palo della bicicletta: ci saremmo avvicendati nel pedalare. Era faticoso spingere sui pedali anche perché le ruote non avevano i copertoni normali ma, sopra il cerchione, era stato applicato una specie di cerchione in legno ricoperto
da un listone di copertone fermato da dei chiodini. A quel tempo la
strada era bianca, era asfaltata solo la statale Vicenza-Treviso. C'erano diverse buche, sassi e ci si ammaccava per bene.
Siamo passati per Lupia, poi Poianella e tanta gente usciva dalle case
per chiedermi informazioni: ero il primo a tornare e che poteva raccontare della Germania. Qualcuno ci seguiva anche in corsa chiedendomi
dei parenti, internati o fatti prigionieri dopo 1'8 settembre 1943 e poi
portati in Germania, dei quali non avevano avuto più notizie.
Fra Poianella e Bolzano Vicentino abbiamo rallentato perché stanchi, un gruppo di 6/7 persone ci ha fermati sempre per pormi le stesse domande, c'era anche Galvan che mi ha riconosciuto e riferito che
a Quinto c'erano stati 2-3 scontri con i Tedeschi e due morti sull' argine, Mozzi e Missaggia, un morto in Crosara ma che il paese non era
stato né attaccato né bruciato.
Da lontano potevo intravedere la punta del "mio" campanile, ero
ormai arrivato al "mio" paese.
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Giunto al ''Ba rachin ", al bivio con la statale Vicenza-Treviso, ~b­
biamo incontrato molto traffico di mezzi meccanici inglesi, autoblmdo. Lì ho preferito proseguire a piedi anche perché ~ottin ~oveva girare a sinistra. La statale, a quei tempi, era fiancheggiata. a d1stanza regolare da grossi platani ~no alle sbarre di A~conetta. M~ sono .accorto
che sopra a due piante c erano le carcasse di due vago~'l1 merCI, se.gno
del bombardamento della ferrovia: sembrava una cosa areale. Altri vagoni sventrati sui binari mostravano i loro carichi rovinati.
A poca distanza dal bivio per Quinto, ho notat? che sc:ndeva da~
ponte sul Tesina un militare in grigio-verde. Era PIero Callto, u~o de~
primi che tornava a casa dal fronte. sud, er~ stato sempre a~ segUl.to d~
colonne militari ma non aveva mal partecipato a combattimenti ven
e propri. Giunto fino ad Ospedaletto c.o~ dei mezz~ r.neccanici, .aveva
poi proseguito a piedi. Ci siamo scambiati delle ~ot1Zle s0r.nmane sulla situazione nel Sud e nel Nord, ma ecco provelllre da Qumto una ragazza in bicicletta, era la Ancina B~satta,. sorell~ di Bijo Scarparo, a:eva all'incirca la mia età. Appena mI ha VIsto mI ha fatto. una festa mcredibile, non sapeva più cosa dirmi, cosa domandarmi, vo~eva ~re­
starmi la sua bicicletta perché arrivassi prima a casa. Le ho chiesto Immediatamente notizie sulla mia famiglia. "Tutti sani, a casa tua non sé
successo niente, i sarà tutti contenti, che festa, tò man:a la sé t~~to preo~
cupà... ". Questa preoccupazione era dovuta al pensIero per Cl?, che mI
poteva essere accaduto in Germania, da tempo non aveva pm avuto
mie notizie, e dal fatto che in casa mia c'era un Tedesco che affermava di avermi conosciuto in Germania e che all'improvviso ero scomparso. La sua presenza era un pe~icolo perché .si temevano sem~re 1:
rivendicazioni dei partigiani: tutti erano venuti a cono~c?nz~ del ~att~
avvenuti nella Valdastico dovuti agli interventi dei parnglalll ~ qum~l
alla vendetta tedesca. ''A casa mia un Tedesco?", non potevo immaginare chi fosse. Ancilla ha detto: "Deso parto de corsa e vao a casa tua a
dirghe che te si drio rivare". Ed è partita spingend? velocem~,nte sui p~:
dali mentre io camminavo sempre più lesto. Gmnto sul Pontaron,
dove ora si innesta via Gramsci, ho visto il mio paese. Ho salutato Gallio che doveva girare per via Cesare Battisti, abitava dove attua1I?ente
risiede Segato a fianco del maglio Paulon. Da lì fino a casa ho ViSSUto
un momento quasi irreale, non sapevo se fossi vivo o mo:to, ero frastornato dalla gioia, 1'euforia, l'entusiasmo, la preoccupazIone. Le pa-
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role non possono descrivere ciò che ho provato in quell'ultimo tratto
di strada. rAncina era già passata con la notizia. Arrivato al cancello
di casa, mamma mia, vedo mio padre venire avanti di corsa lanciando
in aria le braccia, gesticolando festoso, e con lui Checo Favaro, Menego Pinton, garzone di casa nostra, i servitori, che festa, che abbracci!
E mia mamma?
Saputo del mio arrivo è uscita di corsa dalla cucina con la nonna
Corona e la zia Amelia ma, a metà della corte, si è sentita venir meno e quando l'ho raggiunta era ancora semisvenuta.
Sono momenti, momenti, momenti che nessuno può spiegare,
emozioni che tolgono il respiro e che ti esplodono dentro fissandosi
nei ricordi per sempre.
Passato questo primo momento di festa, mi sono accorto che mio
padre aveva il naso sanguinante a causa di una ferita profonda nella
parte superiore. Se 1'era procurata perché, alla notizia di Ancina, per
venirmi incontro, aveva lasciato andare la rete che stava tirando nel1'0rto, questa era sobbalzata e uno spuntone l'aveva colpito proprio
sul naso. (Quella rete era stata tolta e nascosta dai miei perché nell'ultimo periodo di guerra venivano requisiti tutti gli oggetti metallici per portarli nelle fonderie. Ora, terminata la guerra, mio padre l'aveva tirata fuori per risistemarla dove l'aveva presa).
Poi, insieme a tutti, chi vedo? Mamma mia! C'era Otto Caul, il nostro interprete in Germania. Nei giorni successivi alla nostra partenza per Ulm, il 2 aprile, tutti i Comandi e la nostra Compagnia si erano sciolti perché sia gli Americani che i Russi avanzavano precipitosamente. Dove abitava Otto erano già arrivati i Russi e così aveva deciso di fuggire verso l'Italia della quale io gli avevo tanto parlato. Riuscito a farsi dei documenti, forse un Ausweis collettivo, mettendo i nomi di tutti gli Italiani della Compagnia, era arrivato in treno direttamente da Altain, Laipain e Ulm fino a Verona.
Gli Americani incalzavano e molti Tedeschi in fuga, nell' attraversare il Po, erano annegati perché, pur di passare il corso, si erano muniti di tini, botti, mastelli, mezzi di ogni tipo che, però, spinti dalla
corrente dell' acqua, si capovolgevano e chi non sapeva nuotare moriva affogato. Inoltre, i partigiani in quel momento si erano moltiplicati, la popolazione, esasperata dalla situazione, ora sosteneva gli Americani e così molti Tedeschi in fuga erano assaliti, maltrattati e uccisi.
- 109-
Vista questa situazione Otto aveva richiesto e ottenuto un trasferimento a Bassano. Prima di arrivarci era stato accolto dalla Contessa Buzzaccherini, di origine austriaca, a Povolaro. Nella sua villa si.erano ~er­
mati molti fuggiaschi perché proprio il giorno precedente glI A~enca.­
ni avevano cominciato a percorrere le nostre strade. Ad Otto SI erano
uniti alcuni Italiani e si erano nascosti nel fienile. Il giorno successivo
gli Americani avevano requisito alcuni loc~i della vil~a per siste~arvi
un piccolo Comando. Otto voleva ad ogm costo arnvar.e a Qu~nto. e
cosÌ, fattosi dare un vestito civile dalla Contessa, era partito per 11 miO
paese portando con sé la sua macchina fotografica ~ tutt? le pellicole
che aveva scattato sui vari fronti. Essendo professore di architettura, aveva fotografato anche monumenti, case, oggetti vari, luoghi bombardati e la nostra Compagnia ad Altain e Laipain. Ad un c~rto ~~m~nto,
nelle vicinanze di Vigardolo era stato fermato da alcum paruglam che
l'avevano subito riconosciuto come tedesco, dai tratti e dali' accento. Vo,levano farlo prigioniero ma lui li aveva convinti a lasciarlo andare perché faceva riferimento alla mia famiglia a Quinto. In cambio di questa
libertà ha donato la sua macchina fotografica, era una Leika, una delle
più rinomate in quei tempi. Non so come sia ~ius~ito ad att.raversare la
statale frequentatissima di soldati anglo-amencam e ad arnvare a casa
mia. Due partigiani, però, uno era A.Z., lo avevano visto entrare e volevano a tutti i costi farlo prigioniero e portarlo via ma mio padre, saputo che aveva mie notizie, si era preso la responsabilità di tenerlo in
casa finché non fossi ritornato io dalla Germania.
Otto era stato ed ha continuato ad essere, fino alla morte, un mio
caro amiCO.
La guerra in Italia era praticamente finita. Già a Centa, verso H27 /2~
aprile, avevo potuto sentire alla radio, in casa di quel maes~ro ~~e rm
aveva ospitato, che, il Generale Eisenhower o CI~r~ (?), .con l a~s.lllo del
Cardinale di Genova, aveva accettato un armiStiZiO mcondlz10nato.
Gli scontri però, fra i Tedeschi in fuga e i Partigiani o gli Alleati, continuavano. Anche nei giorni successivi al mio rientro, la situazione era
molto incerta. Si viveva nel caos, senza direttive e punti di riferimento precisi. Continuavano l'odio e le lotte interne fra partigiani, brigate nere, soldati della Decima Mas della Repubblica di Salò.
Anche da noi, nella zona di via Paradiso, da Perin (ora Cosma),
non so di preciso come, sono stati uccisi quattro Tedeschi poi sepol-
- llO-
ti nel nostro cimitero. Tre sono stati successivamente riesumati e d,"
p~rtati in Germ~nia su richiesta dei familiari mentre un quarto, un
1enente, provemente da Amburgo, è rimasto sepolto qua a Quinto.
L8 maggio 1945, la Germania ha capitolato anche sui fronti est e
ovest sicché la guerra poteva considerarsi finita.
campane hanno
suonato a distesa.
allora Arciprete Monsignor Negdn e Cappel~ano I??n ~-:idl~o: anche lui, per un certo periodo, aveva appoggiato
1 paruglam, pOI, III un secondo momento, si è ravveduto e ha cercato di seguire in modo neutrale le vicende causate
caos politico esistente. Anche le formazioni partigiane si erano divise e sembravano
avere il sopravvento i gruppi rossi che hanno agito
modo violento
e molte volte ingiusto.
Già dal 9 giugno la situazione di Otto si era aggravata e si sospettava
che anch'io fossi dalla parte dei Tedeschi e che avessi direttamente combattuto contro gli Italiani. Il lO giugno alcuni partigiani si sono presentati a casa mia e, malgrado la nostra insistenza nel difendere Otto, certam~:lte. inoff~nsivo, se lo sono preso e portato via.
lui non ho saput0'plU ~lente fmo al 1955 quando mi è arrivata una sua lettera. Nei primI anm del dopoguerra non si poteva neanche parlare di Tedeschi considerati solo dei carnefici e delinquenti. Per loro, venire in Italia, era un
rischio non indifferente. In questa missiva Otto mi scriveva che sarebbe
sceso in Italia con una delle prime comitive, per visitare le nostre bellez-·
ze naturali ed artistiche. Mi dava appuntamento presso un albergo dove avrei potuto riconsegnargli le pellicole, se esistevano ancora. Qua a
casa le avevamo custodite come una reliquia, erano circa una ventina di
rulli, proprio tante. Possedevo la Lambretta e così sono partito per Verona
nella zona del mercato ortofrutticolo dove sorgeva 1'alberçro
,
o dell appuntamento. La comitiva era uscita per visitare la città e io ho aspet""
tato lì alI'entrata ben accolto dal personale dell' albergo. Lincontro è stato meraviglioso, stupendo, cordiale dopo tutti quegli anni in cui non sapevo neppure se fosse ancora vivo. Da allora è venuto in Italia quasi ogni
anno ospite nella mia casa assieme alla sua famiglia, seconda moglie
Ruth, la prima era morta forse sotto un bombardamento, e i figli Thomas, Stephan e Cornelia. Questi dopo la morte dei genitori, mantengono ancora i contatti con la nostra famiglia venendo a Quinto, magari di
passaggio, almeno una volta 1'anno.
Tornando ai giorni successivi al mio rientro in Italia, ho dovuto
- III
I .
più volte chiarire alle autorità costituite quelli che erano stati i miei
compiti in Germania e come ero riuscito a ritornare al mio paese. Girava voce, fra molti in paese, che io avessi aderito alla Repubblica di
Salò. Con pazienza ho dovuto far capire la mia posizione e così ho
potuto riprendere una vita abbastanza tranquilla. Niente, però, nemmeno il tempo, ha potuto cancellare i ricordi, le sensazioni, le brutture, le vicende che la guerra mi ha costretto ad affrontare per più di
un anno della mia gioventù.
Fiorenzo conserva ancora 270 lettere scritte durante il suo periodo di guerra. La maggioranza è stata inviata da Fiorenzo a casa, sono
una trentina le risposte giuntegli da familiari o amici che è riuscito a
riportare in Italia. Alcune hanno la fascetta e il timbro della censura
con poche cancellature della stessa.
Riportano notizie varie sulla salute, il tempo, il territorio, il desiderio di conoscere la situazione e le conseguenze del conflitto nelle
diverse località italiane e tedesche (i soldati italiani internati in Germania erano privati di qualsiasi notizia esterna).
Molto vaghi sono i cenni sulle attività specifiche, i centri abitati, non
sempre nominati, e le persone frequentate. Però traspare chiara la voglia di voler sempre tranquillizzare chi era a casa con parole positive soprattutto sul proprio stato di salute. Poche volte si percepisce lo scoramento causato da un periodo così lungo ed incerto lontano dai propri
affetti. La corrispondenza giungeva anche con due mesi di ritardo.
È interessante leggere questi scritti perché si segue giorno per giorno tutta la vicenda riuscendo quasi a trasferirsi personalmentè nelle
situazioni di quel lungo anno.
L'ultima lettera inviata il 23 marzo 1945
- 112-
Questi sono gli indirizzi riportati sempre nello spazio "mittente":
11-3-1944
12-3-1944
25-3-1944
25-3-1944
dal vagone ferroviario (senza mittente).
da Asti (senza mittente).
da Milano (senza mittente).
da: Aviere Freato Fiorenzo - Caserma aeronautica - Romagnolo - Quarta Compagnia - Posta da campo 745.
13-4-1944 da: Aviere Freato Fiorenzo - Caserma Scalori - via Pietro Frattini, n° 15 - Quinta Compagnia - Mantova.
17-4-1944 da: Av. F. F. - Settima Compagnia - Primo Plotone - Seconda squadra - Fermo Posta n° 7 - Mantova.
24-4-1944 da: Av. F. F. - Mue Secondo - Posta da campo L 10759
P 7 (cancellato in nero la località e con timbro e fascia
rosa per censura).
28-4-1944 da: Av. F. F. - QUERVERBINDUNC FELD POST - Posta da
campo L 10759 - Mue Seconda - P 7 - (da Mirandola).
04-6-1944 da: Av. F. F. - Posta militare 87278 - (da Mirandola).
18-6-1944 da: Av. F. F. - (mittente e località scritte all'interno sono state annullate).
20-6-1944 da: Av. F. F. - Scuole elementari di Dossobuono - Verona - Posta militare 87278.
06-7-1944 da: Av. F. F. - P. M. 87278 - (da Solferino).
02-8-1944 da: Av. F. F. - Via XX Settembre - Mestre - (avverte don
Cirillo della partenza per la Germania).
07-8-1944 da: Av. F. F. - Da Rottweil- (attendere indirizzo).
21-8-1944 da: Av. F. F. - L 60556 C. - L.G.P. - Miinchen.
23-8-1944 da: Av. F. F. - L 60556 C - L.G.P.A. - Miinchen (con
timbro Bruchsal).
(La posta successiva porta la sigla davanti al nome di GEFR, Gefreiten, anziché FLG. Gradi che gli aumentano la paga di 6 marchi in piiI
al mese. La posta giunge poi da Knittlingen fino al 25 marzo 1945.
con indirizzo "GEFR- Freato Fiorenzo - L 60556C - L.G.P.A. MUNCHEN (fino al 7-12-44) sostituito da STUTTGAR dal 15-12-44).
28-3-1945
si trasferisce ad Altheim ( dove rimane per 2 giorni)
30-3-1945
a Leipheim.
Dal 2 aprile 1945 inizia la fuga da Ulm per il ritorno a casa.
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Otto Gaill e Fiorenzo, nei campi di Quinto (Aprile 1960)
lavoratori dei
.
campl
Avevo ripreso ad aiutare in casa nei lavori dei campi. Proprio nel
1945, mio zio Luigi aveva piantato un nuovo filare di viti, quello a
sud della "casetta", sostenute da nuove piante di noci che sostituiva"·
no delle vecchie "nogare", di più di 100 anni, abbattute perché troppo grandi e, quindi non favorevoli all' adeguato sviluppo della vite stessa. Il "Clinto" era un vino richiesto e dava una buona entrata. La piantà
dee nogare era circondata da frumento. La mietitura di quell' anno è
stata indimenticabile perché fra i molti lavoranti che venivano nei nostri campi c'era anche Imelda Giacomoni, "Fassina", mia futura moglie, na bea tosa, la gera come un bocciolo e così la sé restà anca par i an-o
ni successivi, dopo, se sa, tuto cominsia a inrusinirse, così sé la vita.
Allora si era passati all'uso della falciatrice, il resto, però, continuava ad essere fatto a mano: raccolta e legatura dei manevei, due o
tre uniti insieme facevano una foia legata con i balzi e dopo si facevano le piche o le crocette di lO o 13 foie.
Oltre a Ch,!co Favaro, c: erano le Ma~ie. Mio padre per distinguerle le av~va ~~Sl soprannomlllate: la Marta Grassa, la Maria Quartesan,
la Marta Clacola, mamma del segretario Gallio, lei era di cognome
Se~~to, ~oi ~n'al~ra Maria, di cui non ricordo il cognome perché non
onglllana dI QUlllto ma che aveva sposato uno Ziliotto, e la Maria
B~r~che~a, .Tes~ari,. guai a chia.~arla ~arac~eta perché subito replicava. NOI Cl chIamiamo Tessan . Tutti, pero, conoscevano lei e le sue
sorelle come !3a~ac~ete perché dal 1919 abitavano in una baracca giù
dal ponte pOI e~lmlllata quando sono stati allargati gli argini.
I campi venIvano falciati con la falciatrice. Prima era tirata da 4
vacche. con davanti la cavalla e, dopo la guerra, da un trattorino. Lerba venIva comunque allargata, rastrellata, caricata e riposta in tesa sempre a mano, per questo servivano tanti lavoratori. Anche la semina, la
zappatura, la raccolta del granoturco richiedevano molta manodopera. Lo stesso valeva per il frumento, se caduto a causa del vento dov.eva essere falciato a mano con la sesola, sesolarlo. Le stoppie, s;arbe,
nmanevano cosÌ sul terreno per un' altezza di circa 15 centimetri. In
febbraio, si ~appa:,a fra le file di frumento, con una zappetta piccola
e stre~ta, e SI semlllavano l'erba medica e il trifoglio. Dopo la sesola,
quest er~a ~oteva cresc~re e alla fine di luglio, metà agosto, si falciava tutto .1llSleme: S.topple ed erba (streppola) e si davano da mangiare
alle bestie che lascIavano nella gripia solo i residui del frumento usati poi da lettiera.
Dopo la guerra mi ero diplomato maestro durante la sessione straordinari~ di esami .nell'ottobre del 1945. Subito, l'Arciprete di Quinto,
Imelda e la sesola
(1945)
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Monslgnor Negnn, insegnante del Seminario di Vicenza, ha voluto assegnarmi .una dass.e di Avviamento Professionale. Durante la guerra ave:a tr.as~ento a qumto tutti i seminaristi del Seminario Minore perché
lllaglbIl~ dopo 1. bo~bardamenti. Dai Tedeschi aveva ottenuto il permesso dI usufrUlre dI due baracche nelle quali erano state ricavate quattro a~le .che si ~ggiungevano a quelle nelle salette presso le Opere ParrocchialI: la pnma era chiamata sala Pio X Proprio in quella stanza, la
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più grande di tutte, perché gli alunni erano tanti, 37, ho insegnato nel
mio primo anno da maestro. Malgrado l'aula fosse la più spaziosa i
banchi erano comunque ammassati l'uno vicino all' altro e i ragazzi, per
sistemarsi, dovevano camminarci sopra. In inverno ci servivamo di una
stufa che faceva più fumo che caldo
ma si era abituati ai sacrifici; al giorno d'oggi, Rettore ed insegnanti sarebbero stati condannati per ambiente inidoneo.
Fra i ragazzi c'era un gruppo che
abitava a Lisiera e durante l'anno
precedente aveva frequentato solo
pochi giorni (60 circa su 170/180
giorni totali di norma). Dovendo
Fiorenzo e la sua bicicletta
passare la ferrovia, il più delle vol- wl Ponte degli Angeli a Vicenza
te venivano bloccati da bombarda(novembre 1945)
menti e mitragliamenti. La loro preparazione era quindi molto precaria pur avendo il certificato di Sa elementare. Ho dovuto faticare molto per portarli poi a sostenere gli esami di idoneità alla 2 a presso un Istituto Statale di Vicenza, essendo la
nostra una scuola privata. Li ho accompagnati nella scuola vicino al
Tempio di San Lorenzo. Di 37 ragazzi ho avuto un risultato più che
positivo perché 25 sono stati promossi, 6 bocciati definitivamente e
6 poi promossi a settembre. Lunica materia dove tutti sono stati promossi e per la quale ho avuto un riconoscimento particolare, da parte della commissione d'esame, è stata musica. Fra i commissari c'era
anche la mia ex insegnante di musica, signora Villa, delle classi inferiori delle Magistrali. Nelle classi superiori avevo avuto, invece, il professore Visonà, compositore di parecchia musica sacra. Era completamente cieco e si faceva accompagnare dalla moglie che zoppicava:
per noi ragazzi era una coppia veramente buffa. Quando la moglie si
ammalava c'era un mio carissimo compagno di scuola, Dino Marchesin, che la sostituiva.
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Durante i successivi due anni, 46/47 e 47/48, ho insegnato italian~, lat.ino, storia, geografia e musica presso le classi del ginnasio del se-
mmano ancora qui a Quinto. Poi, dopo la sistemazione della sede, i
seminaristi sono rientrati a Vicenza. Ho insegnato anche nel corso accelerato, sempre nel mio paese, per il conseguimento del diploma necessario per poi iscriversi alle scuole superiori statali per le quali si doveva superare un esame di ammissione. Hanno frequentato questo corso anche Arcangelo Freato e Bruno Benetti e tutti ce l'hanno fatta.
Quale reduce dalla Germania, avevo il diritto a una supplenza annu~e, se?z.a. sede fissa presso le scuole elementari statali. Purtroppo le
sedI pOSSIbIlI erano lontane da casa. Ho ottenuto l'assegnazione di una
scuola e~eme~:ltare .statale ~ Villabalzana, sotto il Comune di Arcugnano. Il mIO pnmo gIorno dI scuola è stato 1'8 gennaio 1948. Quella mattina pioveva a dirotto e mia mamma mi ha detto: "Ma sei matto a partire?". A quei tempi erano poche le auto e le moto: bisognava andare su
in bicicletta. Mi ricordo benissimo che mia madre aveva un telo cerato chiamato '11 pissoto", usato nel letto quando eravamo bambini. Con
arte l'ha trasformato in un paio di calzoni e in una specie di giubbotto
che mi riparavano sufficientemente mentre pedalavo. Sono partito molto presto perché dovevo percorrere 22-23 Km dei quali gli ultimi 8, da
Longare a Villabalzana, erano in salita e portavano a 300 m di altitudi~e. Quell.a strada era stata sistemata dai Tedeschi che nelle molte gallene lateralI, avevano nascosto depositi di munizioni e carburanti. A metà
salit~, nella frazione di San Rocco, ho cominciato a vedere qualche fiocco dI neve e, mentre procedevo, la pioggia si era tramutata in vera neve ma ho continuato imperterrito a spingere sui pedali come se fossi
stato un Coppi o un Bartali (quest'ultimo, per me, è stato il campione
pi~ grande ~i tutti i tempi. Gli ho anche scritto una lettera per complImentarmi delle sue molte vittorie. Mi ha risposto inviandomi un biglietto con la sua firma autografa). La strada, prima bagnata, si era fatta bi~nca e il manto nevoso aumentava sempre di più fino a raggiungere I 20 cm nel luogo in cui dovevo insegnare. La burrasca ha continuato per tutto il giorno e anche il giorno successivo cosicché la neve è
arrivata ad un' altezza di circa 40 cm dando al paesaggio 1'aspetto incantevole di un vero altopiano di montagna. Durante i primi giorni ho
pernottato lì presso un' osteria il cui gestore era il padre di una mia alunna, mi sembra si chiamasse Balbi Elpidia. Dopo una settimana, mio pa-
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dre e Checca Favara sono venuti su con la cavalla e il carretto per portarmi il letto, il materasso e tutto l'occorrente per potermi sistemare definitivamente nell' abitazione sopra la scuola da anni non più utilizzata:
c'era una bella stanza che serviva da cucina, un' altra da camera. Ho dovuto pulirmi a fondo l'aula perché, mi avevano detto che, durante gli
anni precedenti, era stata adoperata per fare l'allevamento dei polli: sono stato costretto a lavare anche i banchi e tutti i mobili.
Mi era stato assegnato un gruppetto di 21 ragazzi e ragazze di 4 a e
a
5 elementare che avevano una preparazione molto scarsa. D'accordo
con la Direttrice Didattica, signora C, con la quale si era subito instaurato un rapporto di grande cordialità, ho ottenuto la possibilità
di far scuola mattino e pomeriggio avendo cosÌ liberi 2 giorni: il giovedì e la domenica nei quali ritornavo a Quinto.
Da febbraio mi sono organizzato per tenere a pranzo tutti i miei alunni: a turno, verso le Il e mezza, 2 ragazzi e 2 ragazze salivano a preparare la tavola con piatti, posateria, pentole e viveri, che ciascuno portava da casa e che quotidianamente sistemavamo in una bella credenza.
Anche la Direttrice, più di qualche volta, ha voluto fermarsi a mangiare insieme a noi. Senza tanta burocrazia abbiamo fatto "Il tempo pieno" che non era definito nemmeno negli orari. Al mattino le lezioni dovevano cominciare entro le 8 e mezza. Da quando avevo fatto riparare,
da Galliano Segato, divenuto poi mio cognato, una vecchia radio, trovata abbandonata in ripostiglio, i primi ragazzi arrivavano fin dalle 6 e
mezza, inizio del giornale radio, e alle 8 e mezza si stava già lavorando
seriamente da più di un' ora. Con la bella stagione i ragazzi si fermavano lì a scuola anche fino alle 7 di sera: fra di noi c'era una specie di autogoverno sostenuto da un rapporto di grande simpatia e di cordialità
infinita con i familiari e con 1'altra insegnante, appena rientrata dal congedo per maternità. Aveva sposato un Maresciallo dell' esercito addetto
alla raccolta delle polveri da guerra, in particolare del tritolo a forma di
"bimattoni" di color giallino. Questo incarico lo teneva spesso fuori casa e tornava per brevi periodi. Eravamo solo in due insegnanti, a lei erano state assegnate la prima, la seconda e la terza. Era un tipo mingherlino, bionda, originaria di Arzignano. Non ricordo il nome ma faceva
N di cognome. Più tardi ho saputo della sua parentela con un tiratore
che veniva al campo di tiro di Quinto.
In quegli anni si bocciava molto perché veniva promosso solo chi
se lo meritava completamente. Si dovevano superare gli esami in terza e in quinta elementare. Molti ripetenti erano ormai dei giovanotti belli cresciuti. Ricordo una ragazza, M R., ormai una vera signorinella che, a causa di molte malattie aveva frequentato poco la scuola
e così veniva continuamente bocciata. Avevo un buon rapporto con
il Parroco. Il 1948 era stato l'anno della Madonna Pellegrina e una
sua statua passava ogni sera di abitazione in abitazione. Per questa occasione abbiamo addobbato anche la scuola con delle luminarie e festoni, preparati insieme ai ragazzi, meravigliando tutti. Ero stato nominato dalla Direttrice Didattica anche insegnante fiduciario, pur essendo il più giovane fra gli insegnanti di tutto il Circolo che comprendeva Longara, Pianezze del Lago, Villabalzana, Arcugnano, Longare e, mi sembra, anche Lumignano. Ciò ha fomentato parecchie gelosie soprattutto fra gli insegnanti con maggiore anzianità di servizio.
Fra questi ricordo il maestro M che si vantava tanto di essere un insegnante d'avanguardia, moderno e capace.
La nostra Direttrice amava fare delle belle feste con tutti gli insegnanti del Circolo nella zona di Montegalda, Montegaldella dove conosceva le molte osterie sperdute in mezzo ai campi. Invitava anche
l'Ispettore scolastico, dipendevamo dall'Ispettorato scolastico di San
Francesco, vicino all' ospedale, che comprendeva anche le scuole dei
Comuni di Bassano del Grappa e Schio. L'Ispettore V. era una persona simpatica, meravigliosa, anche se dall' aspetto sembrava un tipo austero e riservato. Si divertiva un mondo a venire a queste feste, alle
nostre grandi mangiate fra i campi. La Direttrice, ad un certo punto,
abbandonava tutti per giocare a bocce insieme ai maschi, molte osterie a quei tempi avevano il campo per questo gioco. Era cordiale e
aperta ma non sopportava, lei sulla sessantina e non sposata, che le
sue insegnanti le chiedessero il congedo per maternità, in questi casi
la sentivi gridare arrabbiatissima dal suo ufficio in direzione.
Mi aveva assegnato anche l'incarico della gestione, nel Circolo, del
Patronato Scolastico con finalità assistenziali per le famiglie più povere. Quando venivo giù il mercoledì pomeriggio, perché il giovedì
era vacanza, il venerdì dovevo trovarmi per tempo, alle 6 del mattino, a Vicenza vicino al Seminario dove abitava la Direttrice, a prelevare quaderni, pennini, inchiostro, gomme, matite che poi smistavo
anche presso le altre scuole.
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Avevo un portapacchi davanti e uno dietro e portavo su tutto con
la mia bicicletta, carico come un mulo. Era un' attività molto stressante ma, essendo a fin di bene, la facevo volentieri. Pedalare in salita era
faticoso, avevo però sistemato la bici con il cambio e, emulando Bartali e Coppi, salivo senza grossi problemi. Ero molto speri colato nella
discesa: guai se per caso si fosse rotto qualche freno (erano i freni a bacchetta). Come fanale ne avevo uno a carburo, accendendo questo gas
si otteneva una fiammella sufficiente per farsi notare. Più di qualche
mattina trovavo dei camion rimorchio fermi provenienti anche da lontano, dall'Italia Meridionale e Centrale o dal Piemonte o dalla Lombardia e mi facevo tirare quando salivano fino a Villabalzana per scaricare il tritolo nelle gallerie mal protette e poco controllate. Avevo una
grande paura di saltare in aria assieme a tutta Vicenza, vista la quantità enorme di esplosivo depositato in quelle colline. In altre zone, sono saltate in aria molte polveriere a causa di atti di sabotaggio. Questi
depositi erano protetti solo da una rete metallica e controllate da civili muniti di fucili da caccia. Quando si notavano dei tipi estranei e sospetti si doveva avvisare telefonicamente il distretto militare di Vicenza e subito salivano per indagare su queste persone.
Una forte siccità in primavera ha causato grossi problemi per la provvista dell' acqua. Durante la guerra i Tedeschi erano riusciti a far arrivare l'acqua potabile dalla pianura fino a Villabalzana con una serie di
tubazioni intervallate da potenti motori. Ma, al momento della "Liberazione" (mamma mia, che brutta parola questa "liberazione", sono
molto perplesso nel pronunciarla) i partigiani e tutta la gentaglia che
li appoggiava hanno portato via la tubazione per riutilizzarne il piombo. La popolazione ha cosÌ dovuto ricorrere ai vecchi sistemi di una
volta: grandissime vasche per raccogliere l'acqua piovana o pozzi. Il sapore di quell' acqua non era piacevole, almeno per me che provenivo
dalla pianura. Mi ero quindi procurato due taniche da lO litri l'una e,
in bicicletta, scendevo per riempirle ad Arcugnano dove acquistavo anche del vino. Per lavarmi utilizzavo l'acqua delle cisterne.
A giugno terminava il mio incarico che mi aveva dato notevoli soddisfazioni per la stima dimostratami dai superiori e per i risultati ot·tenuti con i ragazzi che, partiti da un livello scolastico molto basso,
sono stati promossi tutti perché ben preparati.
Lanno successivo, 49-50, ho insegnato fino alla fine di gennaio ad
Arzignano. Raggiungevo questa sede facilmente con la tramvia della
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linea Vicenza-Recoaro la stessa che, con cambio a San Vitale di Montecchio, portava anche a Chiampo. Da febbraio, per raggiungere Pugnello, dovevo scendere a "La Ghisa", una località subito dopo San Vitale. In una fattoria lì vicino avevo depositato una bicicletta con la
quale proseguivo per Tezze di Arzignano e poi per Restena, una frazione che aveva preso il nome dal torrente che costeggiava la strada.
Nel suo alveo c'erano delle pietre grossissime tutte nere quasi come
una lavagna che l'acqua, nel corso dei secoli, aveva così tanto levigate da trasformarle in palloni grandi e lisci. In questo piccolo paese avevano iniziato la costruzione della chiesa ma dopo parecchio tempo i
lavori erano stati sospesi e i muri erano rimasti incompleti fino all' altezza di tre metri. Oggi mi dicono sia un bellissimo edificio. Poco lontano c'era la villa di un eminente professore medico: il signor Salviati, addetto alle autopsie. Passata questa abitazione, a destra la strada
cominciava a inerpicarsi, le scorciatoie in alcuni tratti raggiungevano
una pendenza così forte che si era costretti a proseguire a piedi. I ragazzi di Restena frequentavano le scuole di Pugnello. Al mattino ci si
dava appuntamento e si saliva insieme. Tante volte mi aiutavano a
spingere la bicicletta.
Insegnavo in una quarta elementare sistemata presso uno stanzone della Canonica parrocchiale. Si saliva al primo piano per una scala in legno. Il servizio di pulizia e 1'accensione delle stufe erano a carico dell'insegnante che, per questo, riceveva dal Comune una ricompensa di lire 500 al mese. Fra gli allievi c'era una ragazza, una certa M., non tanto brava nelle varie materie ma con doti particolari nella recitazione, aveva grazia ed espressività tali che mi commuoveva.
Anche il Direttore Didattico, z., veniva spesso a farci visita per sentirla recitare: era stupenda, meravigliosa, unica.
Lanno scolastico successivo, 50/51, sono stato assegnato a Camisano Vicentino. I ragazzi erano divisi in classi distinte di maschi e femmine. Nei gruppi di soli maschi l'insegnante doveva pure essere un maschio, lo stesso valeva per le femmine. Ho insegnato in una prima elementare di ben 47 ragazzi provenienti anche dalle famiglie più in vista del paese, del segretario scolastico D., del farmacista, di due medici, di alcuni ingegneri e di avvocati, tutti molto esigenti. La mia collega della classe prima femminile era la signora B. A. di circa 60/65 an-
ni, zitella, fiduciaria del Direttore didattico e capogruppo degli insegnanti. C'era molta libertà di insegnamento ed ognuno adottava il metodo che riteneva più adatto alle necessità della classe. Avendo molti
alunni ho preferito seguire lo stesso sistema di quando frequentavo io
le elementari (1930/1931). Il lavoro iniziale era molto complesso, meno della metà aveva frequentato la scuola materna, si dimostravano più
sicuri ma, nello stesso tempo, erano molto vivaci e ciò rovinava il clima sereno e tranquillo necessario in classe. Si cominciava con le aste,
si facevano i puntini, le linee verticali, orizzontali, diagonali e poi ho
proseguito con le vocali fino a Natale. Secondo la capogruppo procedevo troppo lentamente ed era veramente preoccupata dei risultati finali. Si usava il sillabario, lei aveva già fatto buona parte delle consonanti, si sa che a questa età le femmine sono più mature dei maschi e
quindi più veloci ad apprendere. Alla fine dell' anno i miei alunni sapevano leggere e scrivere correttamente frasi semplici, conoscevano e
scrivevano i numeri fino al 1000, riuscivano a fare delle piccole addizioni e sottrazioni. Durante 1'estate ho ricevuto una lettera di elogio
dal Direttore Didattico per i risultati ottenuti. È stata bocciata, per volontà dei genitori ma contro il mio volere, solo una ragazza con gravi
carenze intellettive. Se fossi rimasto in quella sede l'avrei sicuramente
portata in seconda assieme al suo gruppo di amici.
In quell' anno ci sono state le elezioni politiche. Il partito socialista
si era unito a quello comunista (formando il cosiddetto frontismo) e
il nostro Direttore Didattico, E. M si era candidato con questo gruppo per essere eletto deputato. Il suo slogan era: "Genitori, votate per
E. M., ~l Direttore Didattico dei vostri figlioli" e appariva con il simbolo della falce e martello. Era una persona cordiale ed aperta.
Da alcuni anni ero iscritto all'Azione Cattolica con l'incarico di Presidente Parrocchiale e Vicariale. Limpegno era forte. Tutti i tesserati dovevano sostenere degli esami e dai risultati ottenuti venivano stese delle vere e proprie classifiche a punti. LAzione cattolica era suddivisa in
Circolo dei giovani, delle giovani, degli uomini e delle donne. Le ragazze erano chiamate "le figlie di Marià' e, purtroppo, c'era chi, contrario a questi gruppi, formulava delle frasi in rima poco rispettose.
Quando andavo a scuola portavo ali' occhiello della giacca il distintivo
dell'Azione Cattolica e il Direttore Didattico, mio superiore, malgrado
fosse di idee politiche diverse ha sempre rispettato le mie scelte.
L anno scolastico successivo (51-52), ho dovuto scegliere una sede
molto lontana: Altissimo, a 700/800 metri di altitudine. Dopo Chiampo si doveva proseguire per San Pietro Mussolino da dove partiva una
strada con forte pendenza fino ad Altissimo. Per fortuna ho potuto
far cambio di sede con una collega che, per esigenze di salute del figlio, preferiva un posto in montagna. Il Provveditorato mi ha quindi
concesso Mulino di Altissimo che si trova nella vallata. Insegnavo di
pomeriggio e quindi, fino alle IO, andavo a caccia e poi a scuola. Per
raggiungere quella località prendevo la littorina a Lisiera alle II,45 e
subito, verso le 12, a Vicenza, avevo la coincidenza con la tramvia per
Chiampo dove arrivavo poco dopo le 13. Per raggiungere Mulino proseguivo con la bicicletta che parcheggiavo vicino alla forneria di Sante Scortegagna, fratello di Checco, Rosino e Guerrino residenti a Quinto. Da lì in tutto dovevo percorrere 9 chilometri, impiegavo circa 20
minuti, passavo per il paese di San Pietro Mussolino e poi, dopo circa 5 chilometri in salita, arrivavo a Mulino di Altissimo verso le 13,30.
Al ritorno, in discesa raggiungevo una velocità strepitosa, arrivavo a
circa 60 chilometri 1'ora e il Direttore Didattico, P. Z. mi raccomandava sempre di essere prudente ricordandomi che mi ero sposato da
poco e quindi avevo maggiori responsabilità.
Durante quell'inverno è nevicato molto rendendo le strade difficilmente percorribili soprattutto nel tratto che facevo in bicicletta.
Ero un patito della neve e l'affrontavo con spensieratezza ed entusiasmo, per questo mia madre mi rimproverava e si preoccupava. L'Ispettore scolastico di Mulino di Altissimo, il signor E, era dubbioso
che potessi garantire sempre la mia presenza a scuola vista la distanza
dal mio paese e con perplessità mi aveva concesso la deroga all' obbligo di residenza. Per dimostrargli che di me si poteva fidare, ho rinunciato persino ai 15 giorni di licenza matrimoniale sposandomi
proprio nel bel mezzo delle vacanze natalizie: il 29 dicembre 1951.
Per puntualizzare questa mia scelta ho portato i confetti sia all'Ispettore che al Direttore.
Durante 1'anno scolastico si facevano al massimo 3-4 riunioni e si
insegnava tranquillamente senza aver sempre il grattacapo dei molti
incontri e delle incombenze burocratiche che hanno i docenti il giorno d'oggi e che stancano più del far scuola in classe.
Seguivo una terza elementare di 20 alunni, gentili, disciplinati e
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pronti nell' apprendere. Alla fine dell' anno ho potuto promuoverli tutti perché ben preparati. In alcune circostanze il Direttore Didattico è
venuto a visionare la classe per verificare il rendimento dei ragazzi e alla fine della visita rilasciava un verbale che l'insegnante stesso doveva
ricopiare così conosceva da subito il giudizio dato dal suo superiore.
In primavera avevo ormai racimolato circa mezzo milione (i marchi portati dalla Germania e che avevo cambiato al Brennero e i risparmi messi da parte un po' alla volta). Era una cifra considerevole
visto che la casa costruita l'anno precedente era costata f. 4.500.000
e che il mio stipendio mensile con moglie a carico era di f. 28.000.
Mi sono cosÌ comperato per f. 202.000 una Lambretta carenata (cioè
con il motore tutto chiuso), un vero gioiello, come avere una Ferrari
al giorno d'oggi e così l'ultimo periodo di scuola non ho più pedalato, spostarmi era un divertimento.
Nelle vacanze estive mi sono dedicato ai lavori dei campi, durante
l'anno scolastico ero troppo impegnato con la scuola per poterlo fare
ma mio padre e mio zio lavoravano in accordo e con vigore perché
ancora nel pieno delle forze. Anche Imelda, mia moglie, si è subito
data da fare. Inoltre avevamo un garzone, Silvano Dal Bianco, che ci
dava una mano in casa e noi lo trattavamo come uno di famiglia.
In quell'anno sono stati decretati gli esami di concorso per ottenere il ruolo alle elementari. Nel precedente concorso del 1948 mi era
stata riconosciuta solo l'idoneità all'insegnamento, dalla graduatoria
di ruolo ero rimasto fuori per soli 48 centesimi di punto, per questo
non avevo ancora una sede fissa.
Ci siamo presentati agli esami in oltre 2.600, molti provenivano
dal meridione. Ho superato gli esami scritti di novembre e sono stato ammesso agli orali assieme a circa 600 candidati.
Intanto a settembre ero già stato convocato per la scelta della sede
provvisoria per l'anno scolastico 1952/53. Sono stato fortunato perché ho ottenuto Bertesina, ero molto comodo a casa. Avevo una classe quarta di circa 25 alunni molto vivaci.
La sede della Direzione Didattica era Porta Padova presso le elementari, Direttore Didattico era il professor F e la segretaria, una donna di circa 45 anni, molto bella e gentile, era la moglie dell'Ispettore
scolastico E, uomo austero e serio che però ti dava tanta soddisfazione se svolgevi bene il tuo lavoro. Il nostro Direttore Didattico era un
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Casa costruita nel 1953
p.o' s.tran~ e ?onario, durante le riunioni certi insegnanti piuttosto anZlalll, al lImite della loro carriera, si dilettavano anche a prenderlo in
giro perché più di qualche volta non sapeva di cosa parlare e allora, al
suo posto, andava uno di questi docenti, un certo C. dicendogli: "Tu
sta là seduto che ci penso io a dare ottime indicazioni". Si terminava
l'incontro con una certa allegria ed euforia senza farci tanti problemi.
Insegnando di pomeriggio ho potuto seguire il Giro d'Italia con
i ragazzi: M~n.tr~ s~ ascoltava la cronaca alla radio seguivamo gli spostamentl del CiclIstl sulla carta geografica. Fin dall'inizio avevamo disegnato su di un cartellone, grande come tutta una parete dell' aula,
la carta politica dell'Italia con evidenziate le tappe previste e le distanze esatte da percorrere. Veniva di volta in volta aggiornata sui
tempi impiegati dai vincitori. I ragazzi erano molto interessati all'avvenimento e così imparavano anche la geografia. Un giorno, all'arrivo improvviso del Direttore Didattico, la mia collega è venuta
di corsa ~d avvisarmi ma ho continuato tranquillamente a seguire la
corsa, mI sembra fosse Roma-Pescara. Interessato da questa partico-
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lare attività si è fermato con noi anche il Direttore fino alla fine della tappa. I ragazzi si son messi a gridare per il successo di un italiano. Il Direttore Didattico si è congratulato con me per questa proposta didattica così innovativa che non si limitava al puro insegnamento del leggere, scrivere, contare, ma si collegava anche ai fatti della cronaca della vita quotidiana. Ha poi controllato alcuni quaderni,
interrogato i ragazzi, ha fatto recitare loro alcune poesie, molto considerate a quei tempi, e poi ha stilato il verbale della visita che io ho
trascritto e spedito alla Direzione Didattica. Ho terminato con soddisfazione anche quell' anno scolastico perché tutti i ragazzi sono stati promossi, spinti ad impegnarsi dal mio modo positivo di considerarli e rafforzarli anche quando si trovavano in difficoltà. I colleghi
mi chiamavano il maestro del 10+ perché valutavo sempre con generosità i risultati dei miei alunni.
Nel periodo primaverile del 1953, ho sostenuto gli esami orali di
concorso. La commissione era composta da insegnanti provenienti
da altre regioni, l'unico veneto era il professor S. che, non tanti anni prima aveva sposato la mia maestra di prima, seconda e terza elementare, L B., "la maestra Morà', molto preparata in ginnastica.
Questo professore era un tipo un po' particolare. Abitava nel palazzo vicino alla chiesa nuova di Araceli con due scalinate una a destra
e l'altra a sinistra. Era libero docente nel liceo scientifico o classico,
vicino alla Basilica di San Lorenzo, che raggiungeva a piedi camminando in un modo tutto particolare, strisciava le scarpe sul marciapiede con passetti corti e veloci e per arrivare a scuola impiegava moltissimo tempo. Alla ricreazione frequentava il bar vicino, gli piaceva
molto il vino clinto. Sono stato esaminato verso le 10,30, dopo questa sua consueta pausa. Ricordo che mi ha interrogato sul Guinizzelli
dei tempi del Dolce Stil Novo e sono riuscito a cavarmela abbastanza bene. Durante il pomeriggio, mentre stavo in classe con i miei
alunni, è entrata la segretaria, comunicandomi che avevo superato il
concorso e che sicuramente per 1'anno successivo avrei potuto avere
una sede definitiva.
Durante 1'estate ho continuato i miei lavori nei campi. Il frumento
si tagliava con una motofalciatrice Laverda, poi c'era il personale che lo
legava in covoni. Le paghe agli aiutanti erano molto modeste altrimenti
il padrone non avrebbe ricavato nessun guadagno dal raccolto.
A settembre sono andato a scegliere la mia prima sede in ruolo. In
graduatoria ero al 98° posto ed erano rimaste libere solo sedi lontane. Per me, la meno scomoda era Tezze sul Brenta. Per raggiungere
questo paese si doveva attraversare il ponte di Friola, una località a destra del Brenta. Durante e subito dopo la guerra, a seguito delle alluvioni, alcuni piloni si erano piegati così 3-4 campate avevano ceduto
e le travature, che andavano da un pilone all' altro, si erano abbassate
quasi fino all' alveo del fiume. Per questo si raggiungeva l'altra riva per
delle passerelle costruite, lavorando sodo, da alcune persone delluogo che si facevano pagare un pedaggio. lo mi ero fatto un abbona-"
mento mensile e venivo aiutato a spostare la Lambretta nei punti in
pendenza dai due addetti al passaggio: un giovanotto sui vent' anni e
un anziano che io avevo soprannominato "Caron Dimonio". In alternativa per raggiungere Tezze avrei potuto percorrere la statale Vicenza-Treviso fino a Fontaniva dove, prendendo per Stroppari, si proseguiva per una strada parallela al Brenta fino a Tezze, questo itinerario
era molto più lungo.
Una mattina, però, le acque si erano sensibilmente alzate e avevano inondato le passerelle. I due addetti al passaggio avevano quindi
preso un barcone per la ghiaia per traghettare le persone da una riva
all'altra. Il tratto da attraversare era di circa 250-300 m. Malgrado la
paura ci hanno convinti a salire anche se avevo l'impressione che le
acque fossero in crescita e le onde sempre più limacciose. A metà percorso, ci fu un' ondata particolare che cominciò a far girare il barcone
su se stesso come una girandola e con velocità lo spingeva verso la
sponda opposta dove probabilmente si sarebbe fracassato. Mi sono
fatto coraggio e, a pochi metri dalla riva, ho spiccato un salto straordinario riuscendo a toccare terra. Puntando i piedi contro il ceppo di
un albero ho allungato un palo verso gli otto che stavano sul barcone
e, stendendomi per terra, sono riuscito a dirigere la barca in un punto dove l'acqua era meno vorticosa e quindi vicino alla sponda. Ero
impantanato come una bestia ma salvo insieme a tutti gli altri. Sono
arrivato a scuola tutto bagnato fradicio e sporco, quasi irriconoscibile. Grazie ad una collega, che è andata a prendere dei vestiti del marito, ho potuto cambiarmi.
Son passati molti anni prima che il ponte fosse ricostruito. lo ho
dovuto raggiungere Tezze per il percorso più lungo fino a primavera
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perché poi hanno ripreso a far funzionare nuove passerelle.
Il Direttore Didattico di Tezze che con Cartigliano faceva parte del
circolo di Rosà, era A. B., ex capitano degli Alpini, una persona meravigliosa, stupenda. Passava spesso per le sue visite di routine anche
nella nostra scuola. Un giorno di neve e ghiaccio mi ha chiesto di ac-·
compagnarlo in Lambretta a Cartigliano. Era così alla mano che, al
sentire la moto poco stabile e quindi slittare sulle ruote, ha esclamato: "Sinti, sinti Freato, sinti la moto come che la trà el culo ". Bello avere i superiori così spontanei!
Un altro giorno sono arrivato a scuola in Lambretta con la ruota
parzialmente bloccata. Ho promesso ai ragazzi che più tardi sarem·ma andati nel vicino campo da calcio a fare una partita se, mentre
io aggiustavo la ruota, loro avessero svolto con diligenza i compiti assegnati. Mentre con due ragazzi stavo nella piazza antistante la scuola, a riparare la ruota piena di fango e sassi, sono arrivati il Direttore Didattico e l'Ispettore. Non mi hanno visto ma cosa sarebbe successo se fossero entrati in classe scoprendo i ragazzi senza insegnan.te? Ormai la frittata era fatta e ho continuato il mio lavoro per quasi tre quarti d'ora. Rientrato in aula ho trovato i ragazzi ancora intenti ad eseguire bene il loro compito in assoluto silenzio. Non avevano visto né il Direttore né l'Ispettore che stavano ancora al piano
superiore. Probabilmente, passando vicino alla nostra classe, avranno pensato che non ci fosse nessuno per la calma che vi regnava.
vevo scampata bella e così il premio è raddoppiato: a giocare la partita si sarebbe andati per due giorni consecutivi. I ragazzi, raggianti
per la promessa, hanno fatto bella figura verso mezzogiorno, quando sono arrivati il Direttore e l'Ispettore, ci tenevano troppo al calcio, sport molto seguito in quel paese.
Alla fine dell'anno anche tutti questi miei alunni, una trentina, sono stati promossi.
Nel 1955, essendo in ruolo, avevo fatto domanda di avvicinamento
della sede ed ho ottenuto Bolzano Vicentino dove ho lavorato per circa 27 anni.
Lì, già da tanti anni, insegnava la maestra detta la maestra Campanela, molto preparata didatticamente e sotto il profilo religioso: insegnava Catechismo presso la Parrocchia di Quinto Vicentino.
C'erano poi i coniugi c., la signora M M. e il signor A. un po' fis-
sato per la religione: ogni mattina si sintonizzava con la radio colle ..
gata con un altoparlante a tutte le classi che dovevano quindi seguire
una serie di canti, letture e preghiere per una ventina di minuti. Amante della caccia, una volta in pensione, mi raggiungeva nel mio capanno verso le 7,30 e mi dava il cambio perché io dovevo essere a scuola
per le 8,30. Era Presidente del Patronato Scolastico molto meticoloso e preciso, mi ha voluto come segretario. I contributi assegnati al
Patronato Scolastico provenivano dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Ministero degli Interni. Il Comune doveva consegnare al""
l'Amministrazione un contributo di f. 50 per ogni alunno iscritto. I
più bisognosi erano della ti"azione di
alcuni facevano parte della Parrocchia Ospedaletto. Leggendo le domande scoprivi che c'era tanta miseria.
base alla situazione economica di ciascuno stanziavamo dei fondi per acquistare parte del materiale scolastico e cancelleria varia come quaderni, carte assorbenti, pennini, inchiostro (all'uscita della penna biro era passata una circolare che ne proibiva l'uso nelle scuole) e libri scolastici, allora dovevano essere pagati dalle famiglie anche alle elementari.
Dopo circa un anno il maestro
ha abbandonato questo incarico, l'ha continuato per 2-3 anni sua moglie, donna intelligentissima.
Alla loro pensione è stato nominato presidente l'Arciprete della Parrocchia Don Giovanni Erun, ancora vivente. lo ho sempre assunto il
ruolo di segretario e insieme abbiamo superato molti problemi.
Verso la fine degli anni 50 non esistevano ancora le medie e, dopo
le elementari, chi voleva proseguire doveva frequentare a Vicenza, o
nei paesi più grossi, qualche scuola professionale per poi accedere, previo esame, alle Magistrali o ai Licei o ad altre scuole superiori. Da Bolzano Vicentino i ragazzi, finite le scuole elementari, per continuare
gli studi si recavano a Sandrigo, posto più vicino. Si era tentato anche di rinforzarli nelle conoscenze facendoli ripetere per due anni la
quinta elementare o istituendo una classe sesta. A Lisiera, nell'immediato dopoguerra, era iniziata la costruzione di un fabbricato di fronte alla chiesa parrocchiale, grazie al contributo di circa 60 milioni di
lire del Generale Rossi, già sindaco di Bolzano Vicentino. Inizialmente
doveva servire per la scuola materna ma era un progetto per un edificio così grande che la cifra non era bastata ed era rimasto incompiuto. Gli Americani lo avevano poi completato e vi avevano inseri-
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v.,
to le loro scuole trasferite poi nel Villaggio a Vicenza. Rimasto libero
si è pensato di utilizzare il fabbricato per organizzare una scuola di avviamento professionale. Saputo che il Ministero elargiva dei contributi per l'acquisto di uno scuolabus necessario per trasportare i ragazzi da Bolzano Vicentino a Lisiera, mi sono adoperato per inoltrare la domanda con una documentazione così complessa che mi ha richiesto molto tempo ed energie (ad esempio si doveva presentare la
pianta dettagliata dell'itinerario indicando la lunghezza del percorso
per ogni utente). Dopo soltanto qualche mese è arrivato il contributo per un pulmino di appena 15 posti che, quindi, doveva fare più giri per trasportare tutti gli alunni.
Il Patronato scolastico era incaricato anche di programmare eventuali iscrizioni alle colonie marine in Romagna e montane sull'Altopiano. Il medico del paese indicava il nome dei ragazzi più bisognosi
e in condizioni economiche familiari disagiate. Ogni anno c'erano circa ottanta ragazzi che andavano in colonia, alcuni gratuitamente, altri pagavano a seconda delle possibilità finanziarie delle famiglie.
Altre due colleghe di Bolzano Vicentino furono A. e L. B. rispettivamente del 1915 e del 1913, sorelle del geometra che ha disegna·to il progetto della nostra attuale casa e seguito la divisione dei beni,
compresa la proprietà di Camisano Vicentino, fra mio padre Vittorio
e lo zio Luigi.
Sono arrivati anche un insegnante meridionale molto simpatico e
gioviale e W D. B. che per anni ha giocato come terzino destro nella
squadra del Lanerossi Vicenza, in quell'anno militava in serie A.
Altra collega la signora R., meticolosa nel suo impegno. Sposata
con un tecnico del Comune di Vicenza è rimasta presto vedova con
due figli a causa di un incidente sul lavoro del marito presso l'acquedotto di Montegalda. Col nostro aiuto e la sua volontà ferrea è riuscita a superare questa tragedia.
Fino al 1963 le scuole elementari erano in via Roma, nell' edificio
oggi occupato dalle scuole medie, allora era un vecchio fabbricato con
grandi aule, i solai in legno e stufe a legna per riscaldare.
Figura particolare è stata la bidella Ernesta, di una certa età, molto precisa nelle pulizie. Una mattina piuttosto fredda mi è venuta incontro tutta trafelata: non riusciva ad accendere la stufa. Abbiamo
supposto che fosse la canna fumaria probabilmente ostruita da qual-
che oggetto caduto durante 1'estate. Tolti i tubi, dall'interno della canna fumaria è caduta una cinquantina di storni e altrettanti passeri,
uno strato di carogne che dentro avrà raggiunto i 5/6 metri. Molti sono gli uccelli che d'estate fanno questa fine (per evitare questo, a casa nostra abbiamo steso una rete attorno ai camini, prima erano state tante le volte in cui abbiamo dovuto far uscire gli uccelli per i bocchettoni di canne fumarie non usate nelle camere. Ne uscivano parecchi uccelli ancora vivi e, svolazzando per la stanza, sporcavano dappertutto prima di trovare la via della finestra).
Fra docenti abbiamo lavorato con buona intesa e collaborazione.
Prima del 1962 le classi, 2 per ogni annata, erano suddivise in maschili e femminili poi sono diventate miste. Molto discusse erano le
formazioni delle classi prime dove si cercava di equilibrare la distribuzione dei bambini secondo le loro capacità dedotte da prove d'entrata nei primi giorni dell' anno scolastico. Col tempo ci siamo resi
conto di quanto imprecisa fosse questa valutazione fatta dopo pochi
giorni di scuola.
Nel 1963 siamo passati nelle nuove scuole di via Cesare Battisti
confinanti a Nord con la vecchia fattoria di Antonio Bigarella. lo ero
amico dell'impresario costruttore Aldo Traverso e 2-3 volte la settimana andavo con i miei ragazzi, passando per la chiesa e girando a levante, a controllare i lavori nel vecchio campo da calcio. In un primo
momento sono state costruite 6 aule non sufficienti per le lO classi
presenti. Allora sono state ricavate 3 stanze nel piano superiore delimitandole con delle parti in legno e con dei tendaggi così ci si salutava alzando le tende e facendo "bau sette!". La decima classe era stata sistemata presso l'abitazione dell' ex sacrestano, là insegnava la signora F I lavori sono proseguiti e sono stati completati con la costruzione degli uffici per la Direzione Didattica e di una palestra. Questa era sorta al posto della foresteria. Il pavimento di mattonelle è stato poi sostituito dal linoleum e sono stati subito acquistati tutti gli attrezzi necessari fra i quali le funi, le pertiche, la scala svedese, la cavallina, il tappeto, la pedana, il materassone per il salto in alto. Sono
stati installati i canestri e segnato il campo da basket. Tutte le classi
entusiaste svolgevano regolarmente le loro lezioni di ginnastica.
Nell' edificio di via Roma, subito ristrutturato, hanno trovato spazio le scuole medie.
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Dai primi anni del 1960 sono state istituite 3 classi obbligatorie
dopo le scuole elementari. Le scuole medie di Bolzano Vicentino e di
Quinto Vicentino dipendevano dal Preside della Direzione Didattica di Cavazzale, mentre le scuole elementari di Bolzano Vicentino con
Monticello Conte Otto e Sandrigo erano dirette dal Direttore Didattico B. z., molto preparato nella didattica ma un po' ambiguo nei
suoi giudizi. Si dipendeva dall'Ispettorato scolastico di Bassano del
Grappa, presieduto dall'Ispettore E A suo tempo era stato Direttore
Didattico di Dueville e di Quinto Vicentino e mi ricordo che proprio
lui mi aveva interrogato nell' esame di passaggio dalla classe terza elementare alla quarta elementare. Lo ricordavo perché aveva parecchie
cicatrici sul viso in seguito alle ferite riportate nella guerra del 1915/18.
Più tardi è sorta la Direzione Didattica di Bolzano Vicentino con
Quinto Vicentino.
Dopo B. Z., andato in pensione, è subentrato come Direttore reggente un certo G. della Direzione di Rosà.
Già da alcuni anni ero stato nominato insegnante fiduciario o capogruppo e in seguito anche reggente del Direttore Didattico. Di conseguenza lo supplivo quando era assente, potevo emanare delle circolari,
dare delle disposizioni per garantire il buon andamento del Circolo Didattico e dovevo recarmi in Direzione d'estate quando lui era in ferie.
Continuavo anche con 1'attività del Patronato scolastico. Ormai la cifra
annuale da amministrare era arrivata a circa 24/25 milioni di lire.
Ho organizzato anche l'attività di doposcuola per Lisiera e Bolzano Vicentino assumendo a tempo determinato, in base ad una graduatoria a punti, ragazze diplomate all'Istituto Magistrale in cerca di
lavoro. A Bolzano c'erano lO insegnanti, una per ogni classe, con un
orario giornaliero di tre ore. Il Ministero della Pubblica Istruzione e
degli Interni aveva stanziato un contributo individuale per 5 mesi di
lavorojn regola. Ho proposto alle insegnanti di versarmi una quota
mensile, che poi lavorando si sarebbero ripresa, così avrebbero potuto prestare servizio per 6 mesi che, almeno per le supplenti, garantivano il punteggio e gli effetti pensionistici pari ad un anno intero di servizio. Non so, però, se poi questo sia stato valutato, noi il
tentativo 1'abbiamo fatto. Lo stipendio era molto basso ma il punteggio acquisito le ha avvantaggiate nella posizione in graduatoria
una volta entrate in ruolo.
Seguivo anche 1'Economato, ossia una specie di piccolo commercio
di materiale didattico semplice, cancelleria in genere e quaderni, che
si faceva a scuola. Acquistavo presso la ditta di Cittadella di B. P. il
materiale a basso costo e poi lo rivendevo a scuola. Ciò avvantaggiava le famiglie economicamente ed erano comode agli acquisti in quanto a Bolzano Vicentino non esistevano cartolibrerie. Poi, quasi contemporaneamente, due commercianti un certo B. P. con una rivenfruttivendola, si sono muniti
dita di sale e tabacchi, e una certa
della licenza per cartolibreria. La guerra commerciale fra i due fu veramente forte soprattutto per accaparrarsi il maggior numero possibile di cedolini rilasciati dalla scuola per la fornitura dei libri scolastici per le elementari, divenuti gratuiti per le famiglie. Subito abbiamo dovuto rinunciare al nostro piccolo commercio interno per evitare scontri con questi due esercenti e di conseguenza non avevamo
più il piccolo guadagno che questa attività ci garantiva. Sommando
questa cifra con un contributo volontario delle fàmiglie, riuscivamo
a tenere in piedi altre iniziative a favore della scuola: una biblioteca,
uno studio fotografico ...
Un fatto curioso, che succedeva una volta all'anno, era che l'Arciprete o il Cappellano venivano a benedire la scuola. Come offerta era
tradizione che i ragazzi portassero delle uova, immaginatevi quante
volte abbiamo dovuto pulire cartelle, libri, banchi sporcati dalle uova che accidentalmente venivano rotte.
Mi sono, quasi sempre, state assegnate classi quarte e quinte, ho
seguito alcune indicazioni ministeriali su libere attività che si potevano svolgere con gli alunni oltre al programma scolastico specifico.
Avendo i ragazzi già grandicelli ho pensato di coltivare un orto dissodando il terreno a lato della scuola. Seminavamo vari tipi di ortaggi con raccolti soddisfacenti ammirati anche dai Direttori Didattici.
Si sono avvicendati dopo il reggente G., il Direttore L. e poi il dottor G. M. che, pur essendo un anno più giovane di me, si era diplomato alle Magistrali un anno prima perché io avevo perso due anni
avendo ripetuto la quinta elementare ed essendo stato richiamato in
guerra. Le sue idee didattiche erano super moderne. Voleva che abbandonassimo quasi completamente il nostro metodo di insegnamento per seguire a capofitto quei sistemi che personalmente non ho
mai accettato volentieri. Constato poi che i ragazzini attualmente so-
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v.,
no molto meno preparati di quelli che seguivo io un tempo. Provate
a far svolgere in classe quinta, il giorno d'oggi, questi problemi che
ho fatto eseguire nella classe quinta di Pugnello durante gli esami il
20 giugno 1950.
Problema: Un bosco ha la forma trapezoidale con la base maggiore di m. 75, quella minore di dam. 5 e l'altezza di hm.O,6. Quanti
mq. è l'area di quel bosco? Esso viene tagliato e dà in media q. 12 di
legna per ogni ara. Quanti quintali sarà la legna prodotta? Essa viene
venduta secca e si sa che ha subito un calo complessivo di q. 35,15.
Quanti quintali sarà la legna venduta? Quanto si ricaverà se la legna
verrà venduta a f. 5 il Kg.?
Problema: Un contadino ha due appezzamenti di terreno: uno avente la forma esagonale e 1'altro la forma circolare. Quello esagonale ha
il lato di m. 35 e quello circolare ha la circonferenza di m. 314. Quante a. (are) sarà l'area dei due campi insieme? Essi sono seminati a frumento e ne producono Kg. 35 per a., quanti quintali di frumento produrranno quei due appezzamenti?
Alcune insegnanti di Quinto, due in particolare, seguivano entusiaste i nuovi suggerimenti didattici di M., gli altri si adeguavano pur
con poca convinzione. Si è passati dalla valutazione in decimi per ogni
materia ad un unico voto complessivo. Non si doveva più bocciare
nessuno. Precedentemente, pur con mille ripensamenti, chi proprio
non aveva raggiunto gli obiettivi proposti veniva per forza bocciato:
come avrebbe potuto affrontare le difficoltà nuove e maggiori della
classe successiva se mancava di una preparazione adeguata?
Poi M. ha ottenuto il trasferimento nella Direzione Didattica, mi
sembra, di Laghetto a Vicenza e per due anni il nostro Circolo è rimasto con il posto vacante, mi sembra negli anni 76/77 e 77/78. Come Vicario, mi hanno chiesto di sostituire il Direttore con 1'esonero
dall' insegnamen to.
Tutti gli insegnanti hanno collaborato in modo fattivo. Unico problema particolare che ho dovuto affrontare è stato a Valproto con
un'insegnante che ha fatto il pandemonio in quanto le scuole erano
state tinteggiate pochi giorni prima dell' apertura dell' anno scolastico
per cui l'odore interno era quasi insopportabile. Lei si rifiutava di far
lezione per alcuni giorni all' aperto come avevo suggerito, visto anche
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il bel tempo e il buon clima. Chiesto il da farsi in Provveditorato è
stata trasferita.
A quei tempi le classi a Valproto erano cinque con parecchi alunni, ciò era facilitato anche dall' alto numero di bocciature.
Più tardi Quinto Vicentino è passato sotto la Direzione Didattica
di Torri di Quartesolo.
Segretario della Direzione Didattica di Bolzano Vicentino era già
da alcuni anni il maestro A. C. non sempre d'accordo con le disposizioni dei Direttori, soprattutto con M. aveva particolari screzi. Di
buona volontà riusciva da solo a sostenere il lavoro di segreteria. Allora non venivano assunte in ufficio altre persone pur essendoci più
classi, più alunni ma meno insegnanti, ora, invece, le cose si sono invertite: sono fortemente diminuiti gli alunni e le classi ma sono aumentati gli insegnanti.
Mi sembra che gli insegnanti di sostegno siano stati nominati negli anni ottanta quando i ragazzi handicappati con problemi gravi sono stati inseriti nelle scuole normali. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha stabilito delle ore per questo intervento educativo.
La Direzione vacante è stata poi scelta dalla signora C. M. lo l'avevo già conosciuta perché, esonerata dall'insegnamento, si era dedicata al Patronato scolastico fino al 1977, anno in cui è stato tolto definitivamente. Segretario provinciale di questa attività era il mio ex
compagno di scuola E. M con il quale ho sempre mantenuto un ottimo rapporto anche dopo 1'abilitazione. Siamo partiti dalla prima
magistrale e lui è stato fra i migliori della classe. Faceva parte della scolastica e io della patristica, le due correnti delle Magistrali rispettivamente dei ragazzi di città e di campagna. Due gruppi distinti solo dal
nome ma uniti nella quotidianità. Durante la guerra ha avuto dei problemi grossi, è stato anche imprigionato perché sospettato di far parte della Repubblica di Salò o delle Brigate Nere o della Decima Mas.
Comunque non aveva mai compiuto niente di grave. Ancora adesso
con lui mantengo i contatti, di tanto in tanto ci telefoniamo.
Nel periodo della direttrice M. sono stati istituiti gli Organi Collegiali. E stato un momento molto intenso per l'impegno burocratico ed organizzativo che hanno richiesto. Si doveva stilare lo statuto in
una Commissione apposita, di una ventina circa di persone fra insegnanti (4), genitori (4 per ogni Comune) e rappresentanti comunali
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(2). Si lavorava anche oltre la mezzanotte a causa di tensioni particolari causate da due genitori sempre pronti a contestare le proposte altrui. Alle riunioni di routine se ne sono aggiunte molte altre: del Consiglio di Istituto, di Interclasse, di Classe. A parere mio non ho visto
che ciò abbia portato chissà quali innovazioni, senza dubbio maggiore richiesta di tempo sia ai genitori che agli insegnanti.
Dal 1984 la Direzione è passata sotto la signora A.M. C.
Nel corso di questi 27 anni si sono avvicendati molti insegnanti.
C'era forte affiatamento soprattutto fra noi maschi e annualmente si
organizzavano almeno una gita ed un incontro conviviale. Per ricordare alcuni colleghi faccio riferimento ad una lista per la prenotazione ad uno dei tradizionali pranzi: Sasso Maddalena, Bagnara Silvana,
I colleghi, nella dedica in occasione del saluto il 15 giugno 1989,
termine del servizio ufficiale per pensionamento concludono con queste parole:
"40 anni di insegnamento: una vita!!!
Luoghi, fàtti, momenti assieme a tanti colleghi sono indimenticabili. Noi ricordiamo Fiorenzo come un vero maestro,
un degno collega, un autentico amico, alto, aperto, sempre di·sponibile, generoso, bagolone e ligio al massimo nel suo dovere. Di tutto ciò te ne siamo immensamente grati.
Colleghi di ieri e di oggi
Costa Giuliana, Carbognin Maria Grazia, Carrone Filomena, Motterle Annamaria, Vicari Emanuela, Bolzonello Luciana, Pozzi Anna, Zolin Giovanna, Zolin Pierantonio, Sabbadin Luigi, Borgo Rita, Giacomello Elisanna, Gaspari Monica, Grendene Lodovico, Visentin Annalisa, Vagnati Anna, Bertuzzo Giannina, Gamba Francesca.
Ultima esperienza, prima della pensione, dallO settembre 1982 al
1989, è stata la presenza presso l'Istituto ANFFAS di Lisiera che accoglie ragazzi e adulti handicappati. Questo impegno richiede disponibilità, umanità, fermezza e soprattutto umiltà nello sforzo di essere per gli altri come gli altri ti sentono più vicino, con pari dignità.
Ora questa presenza continua ancora anche se con tempi più ridotti.
Ecco quindi "il maestro" pronto a condividere insieme il pasto, a scherzare, ad arrivare in trattore per sistemare 1'esterno, a portare i panettoni a Natale e le uova di Pasqua e a travestirsi in modo ridicolo a Carnevale per far sorridere anche quegli alunni non più bambini fisicamente ma eternamente fanciulli nell' animo. Forse è questo ciò che il
maestro dovrebbe imparare facendo il suo mestiere: la serenità e la capacità di sentirsi qualche volta anche lui ancora bambino per essere
più vicino al bambino.
Fiorenzo e un gruppo di alunni
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Batare la steca
"Istruisciti nel canto a onor dell'Eterno"
D
isalire alle origini della Schola Canto rum di Quinto Vicentino è
.f\...un tentativo arduo e pressoché impossibile. Ma c'è chi ancora sa
cantare a memoria molti spartiti di canti sacri del passato e dai suoi
ricordi si può ricostruire parte di questa esperienza. Sembra sia iniziata come la banda nel 1930 grazie a don Bortolo.
Certamente la prima finalità era dar lode al Signore armonizzando la propria voce con quella di altri per tradurla in preghiera cantata coinvolgendo quindi emotivamente chi ascoltava.
Per raggiungere tali obiettivi era necessario educarsi al canto perchè i traguardi erano ambiziosi. Si richiedevano tanto sacrificio e passione. Non era facile seguire le nozioni di solfeggio di don Piero De
Boni e provare e riprovare quando la stanchezza della sera appesantiva le palpebre.
Restano ricordi di voci lontane nel tempo ... Spigarolo, i Frigo, Zordan, Ometto, Ramina ... Seguiti poi da Giaretta, i Basso, Marcante,
Cosma, Freato, Scortegagna, Baron, Piva, Peruzzo, Battilana, Casarotto ...
Difficile nominare tutti ma doveroso richiamare alla memoria.
Fino ai primi anni del '50 la cantoria poteva contenere tutti i cantori, 5 o 6 elementi per tipo di voce: soprano, contralto, tenore e basso. ~ra il luogo ideale per raggiungere il giusto equilibrio fra voci e
mUSIca.
Lorgano a canne era attivato dall'aria soffiata dal mantice, un grosso recipiente che doveva essere pompato con ritmo costante azionando un manico in su e giù ottenendo cosÌ un suono melodioso e continuo che la manualità arricchiva di variazioni particolari.
Suscita incredulità sapere che un tempo del coro potevano far parte solo gli uomini con la presenza di ragazzini nel ruolo di contralti e
soprani (voci bianche: Bernardino, Peruzzo, Freato, i Benetti, Spigarolo ... ). Contemporaneamente esisteva un coro tutto femminile diretto da suor Gemmangela.
Si ricordano il direttore Andrea Didonè e gli organisti Andrea Pau-
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lon, Vittorio Dal Sasso, Alberto Zordan.
Nel 1954 è arrivato Don Ferruccio Frassetto richiamato quale collaboratore domenicale nella nostra Comunità da don Stefano Ave che
l'aveva conosciuto nella Parrocchia di Novoledo.
Deciso e risoluto ha inserito nel coro le prime due donne (Graziella
Cosma e Mariuccia Ziliotto).
Per evitare commenti sulla loro presenza si cantava in oratorio con
le porte spalancate sentiti ma non visti dall' assemblea. Don Ferruccio,
preparatissimo in campo musicale, in poco tempo ha portato tutti in
coro ampliando il gruppo fino a raggiungere i sessanta elementi.
Accompagnava all' organo Cesare Franzoni e dirigeva Don Ferruccio, sostituito in alcune prove e celebrazioni da Fiorenzo Freato con
il suo particolare agitare ritmico senza sosta di braccia e mani: era impegnativo "batare la steca" con il coro a quattro voci.
Con semplicità i cantori, gente comune con poche conoscenze musicali, sono riusciti ad affrontar anche interpretazioni:
- del Bartolucci:
"Messa in falso bordone" (una frase
in latino e una frase in italiano);
- del Perosi le cinque Messe: a) la Prima Pontificalis;
b) la Seconda Pontificalis;
c) la Benedicamus Dominum;
d) l'Eucaristica;
e) la Messa di Requiem.
Non importa se certe desinenze in latino venissero "aggiustate" per
facilitare la pronuncia, se le "stecche" dell' organista o delle varie voci
si facessero notare, ciò che conta è che sempre si arrivava a dare solennità ai momenti liturgici più importanti.
Con la morte di don Ferruccio (7/3/1981) si è continuato con tenacia grazie a don Lodovico Furian; ma il tempo cambia sempre qualcosa, la liturgia ha suggerito altri tipi di interpretazioni canore.
Ce l'hanno messa tutta anche i coniugi Gastone Zanon e Gemma
Cecchetto, seguiti poi dai fratelli Lago (Alberto come organista e Paolo come direttore).
Purtroppo la passione dei primi tempi se ne è andata assieme alle voci non più limpide, chiare, robuste, piene di volti scolpiti dal tempo.
(Grazie a Ettore Marcante per i suoi ricordi).
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Il tiro a volo
I cantori (fine anni Settanta)
on basterebbe un libro intero per raccontare tutte le vicende legate al tiro a volo del quale Fiorenzo è quasi sempre stato Presidente.
Fiorenzo ci ha messo 1'anima e tutto il tempo libero per mantenere il Tiro. Agli esordi era frequentatissimo, ora è sostenuto da un buon
gruppo di appassionati che il sabato e la domenica pomeriggio si divertono a scommettere e a far gareggiare la loro abilità e precisione
con la velocità del piattello.
Da semplice società partita con umili mezzi, è riuscita ad avere in
proprietà un esteso terreno all'interno dell' argine sinistro del Tesina
ed ora è un campo ben attrezzato con due semplici edifici in cemento dove ha sede l'attività.
Limpegno è gravoso e costante e richiede presenza continua coinvolgendo anche la famiglia.
Fino agli anni '80 c'erano da spedire i programmi delle gare a più
di 300 tiratori così, una sera la settimana, i soci e i loro figli si trovavano per scrivere a mano gli indirizzi, imbustare ed affrancare questi
avvisi. Inoltre c'è sempre stato un giro continuo di telefonate e di persone per 1'organizzazione generale: microfoni, strumentazioni elettriche varie e premi.
Immaginatevi in casa Freato il caos esistente quando, per le feste natalizie, i premi in palio consistevano in montagne di bipedi, ambiti premi per i pranzi di quei giorni. Arrivavano già morti capponi, faraone,
polli, galline, che dovevano poi essere suddivisi nei vari scatoloni premio. Era bello quando Fiorenzo vinceva uno dei primi premi anche se,
per le donne, iniziava un lavoro enorme per spennare, ripulire e preparare questi animali per la cottura: per giorni c'era carne in quantità!
Si è dovuto poi imparare a convivere con il fiume Tesina. Ammirato nel suo normale corso perché al centro di un paesaggio naturale rilassante ed unico, diventa impressionante e spaventoso quando si gonfia e cresce, cresce di acque limacciose e violente. ''La Brentana" è una
minaccia continua per tutto ciò che sta all'interno dei due argini e
quindi anche per il Campo da Tiro. Richiede molto lavoro portare in
salvo più oggetti possibili prima che arrivi la piena ed è improba la fatica poi nel riportare tutto alla normalità: ripulire dal fango e riparare ciò che la violenza dell'acqua ha divelto o ha spaccato.
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Fiorenzo con la forza della passione ce l'ha sempre fatta e ancora
non cede perché alla fine sa che il Tesina riprende tranquillo il suo
scorrere ininterrotto e da lì si torna a rimirare i monti.
Veduta parziale del pubblico che affollava il Miramonti (14febbraio 1961)
Il Miramonti alluvionato (4 novembre 1966, ore 16:00)
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.La famiglia
Il15 dicembre del 1952 Imelda mi ha dato la prima figlia. In quegli anni le donne partorivano a casa. Insegnavo di pomeriggio e Fiorenza è nata alle 9,30 circa del mattino per cui ho potuto anche quel
giorno far scuola regolarmente. Non appena Imelda ha avvertito i sintomi del parto sono andato subito a chiamare la Comare che era la
Maria Magrin, la mamma della Lucia Magrin. Subito mi ha detto:
"Guarda che anche tu devi assistere al parto". lo consiglio a tutti i padri di non presenziare al parto, per me è stata un' esperienza negativa.
Fiorenza è nata sana, Imelda ha avuto latte in abbondanza ed è stata una grande festa per tutti.
Il giorno di Natale sono andato a pagare l'ostetrica, la levatrice detta la comare, ma quel giorno non ha voluto soldi perché festa di Natale. Non c'era la mutua o qualsiasi altra forma di assistenza economica per la salute e ogni famiglia doveva affrontare anche queste spese. Per il parto e per 1'assistenza successiva la Maria Comare ha voluto niente popò di meno che f. 7.000. Era una cifra veramente consistente se si confronta con il mio stipendio di allora di circa f. 30.000
mensili, l'importante comunque è che sia andato tutto bene.
A circa un anno Fiorenza aveva la febbre altissima e una sera, verso le 9, è andata in coma. Allora siamo corsi a chiamare il Dottor
Bassato che ha subito diagnosticato una meningite acuta ormai irrisolvibile. Abbiamo deciso di portada all' ospedale, ma come? A Quinto solo poche persone avevano l'auto. Ci siamo rivolti a Rigon che,
pur essendo ammalato, è partito per andarla a prendere a Lisiera
perché senza garage in casa. In auto sono saliti Imelda con la bambina in braccio e il dottor Bassato. Per strada Imelda ha fatto voto
alla Madonna di Monte Berico di offrire tutto il suo oro se la bimba fosse guarita. Alle sbarre di Anconetta, Fiorenza ha avuto un sussulto e il dottore ha consigliato di tornare indietro, per lui era spirata. Mia moglie, invece, ha insistito per proseguire e ha dato il consenso al professor Toniolo, del reparto pediatrico, di fare una iniezione lombare alla bambina. Poco dopo Fiorenza ha aperto gli occhi e ha detto "mamma", era salva!
Sempre in casa è nata Fosca il 5 aprile 1957 e poi all' ospedale di
Vicenza Flavia i113 giugno 1959 e Fausta il 14 agosto 1963. L8 set-
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tembre 1972 è nato Federico che, però, ci ha lasciati ad appena 5 mesi di vita.
doccia era rilassante. La polvere respirata per il naso lasciava tracce nel
fazzoletto per molte ore, e quella respirata per la bocca? La sera ti riposavi con le solite ''ciacoe'' in corte, pronto per ripartire con illavo-.
ro dei giorni successivi.
Se il tem~o ti ~iutava p.er ?gni taglio, dei circa 15 campi, si impiegavano 15 glOrlll. I meZZI dI allora rallentavano molto il lavoro che
oggigiorno si completa in 3-4 giorni al massimo.
D'inverno, ogni giorno, spettava ai ragazzini salire in tesa par butar so el fon necessario all' alimentazione delle mucche, la fatica veniva ripagata alla fine del lavoro perché ci si divertiva a fare i salti dall'alto della tesa fin giù sul mucchio appena fatto e risalendo per scale di l.egno al:issi~e appena appoggiate al casso de fon. Penso che gli
angelI custodi abbiano avuto 1110ro bel daffare a proteggere tanti ragazzini in questi giochi che, se pur pericolosi erano sani e creativi.
Non è mai successo alcun incidente, nemmeno armeggiando con le
forche belle appuntite.
Molto lavoro ha richiesto la terra de C'arteto, due campi e mezzo di
terra arativa confinante con i nostri prati. Si pagava l'affitto con illatte che la famiglia Scortegagna veniva a prendersi ogni sera. Siccome la
terra doveva essere il più redditizia possibile si lavorava in modo da
ottenere più raccolti: il frumento a giugno e el sorgo sinquantin alla fine di ottobre.
a storia continua caratterizzata da avvenimenti più o meno importanti legati alle esigenze di ciascuno, a seconda delle scelte di
studio o lavorative e condizionati dall' attività agricola che ancor oggi ravviva "la corte". Fin da piccole anche le figlie hanno collaborato
nei lavori dei campi, anni in cui tanto si doveva fare manualmente:
rastrellare drio i fossi e le piantà; slargare il fieno molte volte messo a
mucchio se il cielo minacciava pioggia; cavare l'erba con le mani attorno alle viti, veniva utilizzato tutto, alla fine anca quea faseva mucio
ed inoltre garantiva 1'ordine nei campi.
Ad ogni taglio di fieno si doveva spampanare le visee, le mucche
mangiavano i tralci e tutto faceva latte.
Seccato il fieno, attrezzati con l'auto caricante e lo scaricafieno, la
manodopera era indispensabile per riporlo in tesa: due-tre persone in
corte per gettarlo nello scaricafieno e due persone in tesa per metterlo in ordine, era importante legare bene la tomba con le flrcà di fieno leggermente sporgente sulle precedenti bilanciando così il peso del
fieno sporgente (in questo modo si guadagnava parte dello spazio aereo del portico altrimenti la tesa non sarebbe stata sufficiente a contenere tutto il foraggio. Ogni tanto si spargeva un po' di sale per mantenere più sano il raccolto e per evitarne il surriscaldamento: a volte
il raccolto del giorno precedente scottava e se alzavi un po' lo strato
soprastante usciva anche del vapore. Di sera potevi sentire l'odore del
fieno e si diceva: ''El boie, chissà che noI ciapa flgor, erano le preoccupazioni quotidiane soprattutto se il fieno non era stato perfettamente seccato perché, a causa dell' arrivo improvviso di temporali, si portava a casa prima del tempo dovuto. Compito dei più piccoli era anche quello di portare il fieno il più possibile sotto le travi e di pestarlo per usufruire al massimo dello spazio coperto. Immaginatevi la polvere che si respirava accovacciati sotto al tetto ardente per il solleone
estivo, soprattutto quando si faceva l'ardiva (il secondo taglio fra luglio e agosto). Si scendeva dalla tesa ricoperti di polvere, punti nella
pelle scoperta dai fili rigidi del fieno secco. Dopo un primo risciacquo con l'acqua intiepidita della lunga canna per irrigare 1'orto, una
Il frumento veniva tagliato dalla tajaliga che da sola lo legava in
faie lasciandole sul campo in file ordinate. Per liberare presto il terreno, cosÌ si poteva subito arare e seminare il granoturco, venivano ingaggiati figli e figlie di Pietro e Fiorenzo che dovevano trasportare queste foie sul lato del campo confinante che, per seguire la mentalità di
allora: ''nella vita bisogna anca tribolare", si raggiungeva scendendo e
poi risalendo le due rive del fosso usato durante l'irrigazione. Immaginatevi questi ragazzini, sotto il sole cocente, che trasportavano le
faie a mano strusciandole su cosce, stinchi e braccia nudi (era caldo e
c'erano solo pantaloni e maniche corti). Camminavano in mezzo alle dure stoppie del grano rimaste belle in verticale perché tagliate all'altezza di 10/15 centimetri dalla taglialiga.
Gli adulti, all' ombra dea tirea, erano impegnati a fare le piche o le
cape, pronti a brontolare se le faie non arrivavano velocemente.
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Appena il granoturco spuntava bisognava stare subito allerta per
individuare la sorghea ed andarla a sradicare. Si doveva poi camminare lungo le file per togliere eventuali piantine nate troppo vicine. Quando queste raggiungevano i 20 cm circa di altezza, si doveva "a mano"
mettere "il sale". Ecco, sempre i ragazzini partire con la secieta e porre la manciata dovuta proprio ai piedi della piantina, se il sale toccava le foglie, queste si sarebbero "bruciate". Le mani, sudate per il caldo, si ricoprivano di un impasto appiccicaticcio di sale che penetrava
nella pelle arrossandola e facendola bruciare per più giorni. Di sera la
schiena era veramente dolente e il giorno successivo non si riusciva
nemmeno a camminare per la carne greva nelle gambe.
Non si faceva uso di diserbanti per cui, assieme al granoturco cresceva molta erba, allora, si partiva dall' estremità di una fila e camminando gattoni, si strappava l'erba cercando di sradicarla, perché avrebbe certamente tolto vitalità al prodotto. Cerba ricavata garantiva per
quel giorno parte del pasto alle mucche in stalla: non si buttava proprio
niente! Anche il sorgo veniva sfruttato al massimo: a settembre si facevano le sime, si tagliava la parte alta della gamba, un po' sopra la pannocchia, e si utilizzava come cibo per le mucche. Pensate quanto strisciavano e ferivano le foglie taglienti del sorgo, anche se riparati da braghe e maniche lunghe e fazzoletto al collo, senza dimenticare il caldo
soffocante e umido che c'era là in mezzo. Il lavoro più pesante era comunque quello di trasportare fuori dal campo i fasci di cime tagliate,
appoggiandoli sulle spalle facendosi largo fra le gambe del sorgo. Si la·vorava finché el bareoto non era riempito con il colmo. Per favorire la
maturazione delle pannocchie, si procedeva anche a sfoiare el sorgo, cioè
a togliere tutte le foglie dalle gambe, sempre a mano, anche quelle servivano da alimento alle mucche. Alla fine di ottobre tutto il sorgo veniva tagliato a mano e portato in stalla dove di sera si sunava in compagnia e poi, su, con i sacchi in spalla, si portavano le pannocchie in
granaio. Solo più tardi si è cominciato a scartocciarlo direttamente nel
campo, sempre comunque a mano. In granaio veniva lasciato in pannocchia per un paio di mesi e doveva essere periodicamente smosso con
el flrcon per farlo seccare bene, altrimenti el foseva i buti. Poi, in pieno
inverno, di sera dopo cena, si saliva nel granaio freddo per andare a sgranare le pannocchie: si riempivano le ceste e con la sgranatrice nei primi
tempi a mano e poi con il motore, si sgranavano buttandole dentro ai
Al tempo della vendemmia c'era un gran daffare: la preparazione
del grande tino, di tinozze, ceste e secchi tutti ben lavati e posti sul carro. Il tino, le tinozze e le botti dovevano rimanere più giorni bagnati
con l'acqua affinché le molte fessure fra una doga e l'altra, causate dal
rinsecchimento del legno, potessero chiudersi e garantire la tenuta del
vino nuovo. Non era facile spostare questi grandi contenitori per il peso e le dimensioni e bisognava essere sempre in più persone. Anche el
torcio e la fllatrice, la pigiatrice, riposti sempre in granaio così erano al
sicuro, dovevano essere riportati in corte. Far le scale strette con questi attrezzi pesanti non era certamente semplice. D'altra parte valeva
sempre la mentalità del tribolare che si traduceva anche nel far tutte
queste operazioni di notte, di giorno c'era dell' altro da fare. Lavare e
preparare tutte queste cose era tutto un pasticciamento, non salvavi
niente, conveniva sempre indossare vestiti vecchi, stivali e guanti. Non
era semplice nemmeno la vendemmia con le tiree, i filari, sempre molto alte, così non avrebbero ostacolato la fienagione. El scalo n era di un
peso assurdo così el gera più sicuro. I più piccoli erano addetti alla raccolta degli acini che cadevano a terra: ''xé quei che i gà più vin". Nei
campi il carro rimaneva sempre nella caresà, non si doveva assolutamente pestare il pascolo, ed allora con el bigòlo sulle spalle si facevano
anche 100/200 metri portando più di 50 chili di uva fino al tino dove veniva schiacciata con la fllatrice. Fiorenzo, addetto a questo compito, continuava così avanti e indietro, allora la schiena e le gambe non
si curvavano, nemmeno sotto i grandi pesi. Di sera il mosto sÌ lascia-
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fori nel contenitore in alto: i chicchi uscivano da una parte e i scataroni dalI'altra pronti per essere intervallati con la legna nella stufa. Anche
i chicchi dovevano ogni tanto essere smossi con la pala affinché potessero seccarsi bene. Non si sa come, ma con il granoturco comparivano
in granaio anche le moreie alle quali si faceva una caccia spietata isolandole il più possibile in un mucchio di pannocchie e preparando i sacchi distesi per terra e con la bocca aperta, sostenuta a lato da due pannocchie verticali, pronta ad accogliere l'animaletto in fuga che poi ve-o
niva ucciso sbattendolo sul muro con il sacco. Se questo non fosse funzionato si aspettava ben armati di scope attorno al mucchio di granoturco e, al momento opportuno si cercava di colpire la moreia a suon
di scopate: per i gatti in corte era sempre una bella festa.
va bollire nel grande tino e le vinacce venivano schiacciate nel torchio.
Nei giorni successivi il vino si trabalcava, travasava, con i secchi che,
pesanti, venivano versati nella lora inserita nella botte in cantina. Landirivieni continuava fino a che dalla canna immersa nel tino, tirando
più volte con la bocca, non usciva più il liquido nerastro del quale trovavi macchie e spruzzi dappertutto. La corte, la cantina, la casa restavano per giorni impregnate di un odore aspro e forte. Lodore si diffondeva nuovamente nell'aria quando, successivamente, il vino doveva essere ritravasato in altre botti pulite per depurarlo dal deposito. Non aveva più fine quando poi veniva messo nelle damigiane e nelle bottiglie:
era un'ubriacatura odorosa totale. Sarà per questo che tutte le figlie si
sono sempre dichiarate astemie: il rito del fare il vino le ha nauseate
portandole al rifiuto per tale bevanda, non cosÌ per tutti gli adulti della famiglia e i loro amici che si gustavano beatamente el clinto: per loro era sempre speciale.
una tavoletta speciale incastrata sul telaio di una vecchia bici da donna
dove si appoggiava il bidone tenendo lo in equilibrio con una mano.
A volte succedeva che qualche mucca divincolandosi riusciva a rompere la caena e scappava fuori dalla stalla in giro per la corte: quanta
paura e quanto tribolare per riportarla al suo posto!
M?mento, del tutto particolare era q~e~lo legato alla nascita di qualche Vitello. Lallarme era generale: tuttl SI doveva essere pronti per tirare la corda legata alla zampa del vitello che usciva dal posteriore del-la mucca che era brava se stava sdraiata ma che preoccupava se in piedi sulle quattro zampe: tutto sarebbe stato più complicato, il tirare e
la caduta dall' alto del nascituro. Nel caso poi fossero insorte delle difficoltà maggiori bisognava essere pronti a chiamare altre forze, soprattutto allevatori di grosse stalle ben più esperti perché allenati da
tanti parti. Per ultimo, quando ormai non c'era più niente da fare, si
telefonava al veterinario, d'altra parte quello bisognava pagarlo, per
gli altri bastava una bottiglia di clinto. Alla nonna Caterina, poi, agitata per l' avvenimento , e forse impressionata dal parto, veniva el bati, una particolare tachicardia per cui doveva rientrare in casa e a volte farsi fare un'iniezione dalla Teresina Monticello che si doveva andare a chiamare di corsa: era tutto un chiamare!
Laddetta principale alla stalla era Imelda, quasi sempre di pomeriggio e molte volte di mattina, soprattutto nel periodo della caccia quando Fiorenzo partiva ancora prima dell' alba per tornare di fretta appena
in tempo per cambiarsi e correre a scuola. Quante volte Imelda doveva
far la spola fra la stalla e la casa per svegliare le figlie nei vari orari, a seconda della scuola frequentata. Per alcune un richiamo non era sufficiente e così i passaggi in corte aumentavano di numero comprese le
corse in strada per fermare la corriera quando la pì vecia si prendeva in
ritardo causa il prolungato momento del risveglio. Altre volte riusciva
a far bere un po' di latte, aspettandola in fondo ala stradela con la scudea, alla terza anche lei poco puntuale con il tram forse perché presa un
po' troppo dallo specchio. Questi imprevisti alla fine rallentavano la
mungitura e lei si trovava a volte in ritardo quando arrivava il camion
del latte ed era quindi obbligata ad ulteriori corse in strada con careto e
bidono Un tempo il latte veniva portato direttamente in latteria, sorgeva nell' edificio in via XX Settembre ora adibito a lattoneria. Incaricati
del trasporto erano sempre i ragazzini della corte ed essendo allora in
attività anche la stalla di Luigi Freato (nonno di Luigi, Gianni e Luisa),
con addetta alla mungi tura la signora Saturna, il tardo pomeriggio si
andava col carretto, un bambino per famiglia, tirandolo o spingendo-lo con i due bidoni sopra. La mattina, invece, partivano i nonni con
Portare al pascolo una ventina fra mucche e vitelline era un'impresa ardua perché i campi distanziavano più di un chilometro dalla stalla. Quando ancora non esisteva l'uscita a nord della casa, si partiva dalla corte e, percorrendo via Martiri, via Roma, via Filzi si giungeva alla caresà che da Scortegagna porta fino ai "campi mati". Non era facile tenere radunato tutto il bestiame e farlo procedere sul giusto percorso soprattutto nei primi giorni di pascolo quando gli animali disorientati, proseguivano per altre vie, cortili ed entrate private laterali.
Nonno Vittorio, l'Andamento, seguiva il gruppo sulla sua bicicletta e
impartiva ordini a noi ragazzine impegnate col nostro bastone a deviare tutti i tentativi di fuga delle bestie: era proprio un osamento. Davanti a tutte le vacche per molti anni ci fu la Svita, una mucca mansueta che procedeva con passo regolare evitando le parti asfaltate poiché preferiva il ciglio sterrato così non la se macava le onge. A volte si
doveva procedere a curare le onge proprio perché rovinate per la troppa strada fatta sul suolo duro o per qualche sasso che vi rimaneva
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castrato. Lungo tutto il percorso si preparava una delimitazione con
pali piantati con la maseta e fil di ferro sempre pronto a saltare appena una mucca lo sfiorava perché ormai arrugginito nei molti anni di
uso: non si sostituiva mai, bastava aggiungerne un pezzo per ricollegare le due estremità sul punto della rottura. Più forti erano i reticolati però più costosi, difficili da maneggiare e pericolosi. Se si rompeva
il fil di ferro molte mucche, soprattutto le più giovani e quindi più ribelli, approfittavano per buttarsi nella zona laterale calpestando magari proprietà altrui con corse e bizze a volte indomabili. Che spavento per le giovani sorveglianti quando le bestie avanzavano correndo all'impazzata minacciando di travolgere qualsiasi cosa o persona avessero trovato davanti a loro. Lo spavento più grande avveniva quando, arrivate sulla Botte Alta, il ponte sulla Tergola vicino a Padovan, si trovavano cosÌ accalcate che, toccandosi con la pancia, finivano per far
cadere in acqua quelle che stavano al limite del ponte: come annaspava la mucca per riuscire a raggiungere la riva e non sempre trovava il
modo per riportarsi con il gruppo ma, prendendo il viottolo nel senso opposto, magari al galoppo, si portava in via Eroi correndo all'impazzata dappertutto. Con grande difficoltà e magari con l'aiuto di qualche artista (Lovo spesse volte si trovava con il suo cavalletto a dipingere in quel posto), si riusciva a riorientare la mucca verso il gruppo.
Il caos più completo scoppiava quando le mandrie portate al pascolo, di Freato, Tamiozzo e Franzoni, si trovavano a passare nello stesso tratto di strada. Forse attratte dall' odore diverso o chissà per quale istinto cominciavano ad agitarsi e tentavano in tutti i modi di scappare nei branchi estranei. Per evitare questi incontri si cercava di studiare un orario diverso di tragitto e di mandare sempre qualcuno di
vedetta per capire se si doveva rallentare od accelerare il passo a seconda della posizione degli altri gruppi. In caso di mescolamento di
animali, quelli di Freato erano inconfondibili perché, almeno le mucche e le vitelle più grandi con le corna già sviluppate, avevano i senocei. Erano delle corde speciali fermate sulle corna che, una volta arrivati al pascolo venivano legate intorno alla zampa anteriore della vacca in modo da tenerle la testa sempre piuttosto bassa così da non darle la possibilità di correre o saltare i fili di ferro che delimitavano la
zona in cui tutto il gruppo si doveva fermare a pascolare. Questo spazio era piccolo altrimenti le bestie avrebbero camminato troppo cal-
pestando così l'erba che nessuna avrebbe poi più mangiato. Due, tre
volte il giorno il recinto veniva spostato liberando cosÌ nuova erba da
pascolare. C'erano alcune mucche docili per farsi fare el senoceo, altre
più nervose ed irritabili che con diffìcoltà si lasciavano avvicinare e legare, in questi casi intervenivano solo gli adulti. Il nonno passava ore
a sorvegliare il bestiame e in quel tempo aveva un coltellino col quale intagliava dei bastoni o, tirando fuori dal taschino del gilet il suo
orologio a cipolla insegnava ai nipoti a leggere l'ora.
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Intanto controllava anche la zona del casoto dove per tutto il giorno restavano esposti nelle gabbie gli uccelli da richiamo o attaccati allo spago predisposto i sambei: era periodo di caccia. Con questa si era
più o meno tutti impegnati a portar giù le gabbie dal granaio e a fare
"impissa e smorsa" con la luce della stanza degli uccelli quando questi,
liberi da tanti mesi, dovevano essere presi e messi in gabbia. Questo rito esiste ancora (2002), ora sono i nipoti poco entusiasti addetti al "TI
TUM' della luce. Ogni giorno, al ritorno del cacciatore dai campi si
doveva correre in corte, procedere all' abbeveraggio nelle gabbie che venivano riportate nella stanzetta con grande attenzione ai gatti "se no i
osd se spaura e non i canta più" . Alessandro Gheller era esperto nel preparare gli uccelli per i sambei. Applicava un ago da balia sulla loro schiena, pronti cosÌ ad essere appesi a quel filo che, tirato dalla finestrina
del casoto, li faceva svolazzare e cantare per attirare gli uccelli in volo.
Il rito della preparazione del casoto richiedeva ore di pazienza perché
tutte le pareti dovevano essere ben nascoste da piante, rami, gambe di
granoturco ben potati in modo che la visuale dall'interno fosse perfetta. Per questo motivo anche le piante attorno dove potevano posarsi le
eventuali prede, dovevano essere sfrondate con particolare cura. Non
sempre gli uccelli colpiti venivano ritrovati fra le foglie e l'erba, spettava quindi ai più bassi, le figlie, perlustrare la zona per ritrovare magari
un minuscolo uccellino dopo infiniti passi in su e giù. Questo lo si faceva soprattutto al momento della colazione. Il cacciatore, partito presto perché prima della luce doveva aver posizionato gabbie e sambei nei
punti predisposti, era ancora completamente a digiuno, non esisteva la
mentalità di portarsi qualcosa di commestibile già pronto perché l'unico alimento considerato per la colazione era il latte appena munto e bollito con quantità esagerate di pane o con fette di polenta. Le ragazzine
partivano con la sporta con dentro el pignateo col latte e parecchio pane
già inzuppato, così non se spandeva. Lungo la caresà si doveva fare rumore o cantare perché, circondati da siepi, granoturco o alberi, si po-teva diventare preda dei liberi cacciatori che si spostavano nelle zone
più riparate per non spaventare gli uccelli in arrivo, qualsiasi movimento
per loro si trasformava in cacciagione. Di domenica poi, si portava in
un secondo momento, altrimenti si raffreddava, anche il pranzo cosÌ la
giornata di caccia era completa. Alle donne restava il compito di spennare e preparare gli uccelli che con ordine venivano suddivisi per tipo,
qualità, grandezza e poi infilati, quasi con la precisione di un ricamo,
assieme al lardo e alla salvia in quei bacchetti poi sempre riciclati. Bisognava cuocerli fin dal primo mattino e farli pipare sulla stufa a fuoco
lento per renderli più teneri e gustosi. Per completare la pietanza era indispensabile la poenta onta. Si può quindi immaginare nei dì di festa,
dalle prime ore della giornata quali fossero nella casa gli odori che poi
duravano almeno fino a sera. È diventato così, come per il vino, un cibo poco invitante per le figlie un po' schifate dalla vista di tutti quei cadaveri infilzati, nauseate da quell' odore grasso e dolciastro per ore e ore
e gravate da tutti gli impegni che questa "passione degli uomini" richiedeva a chi viveva insieme.
chiavistello, smosso dall' addossarsi continuo degli animali alla porta,
uscisse dai suoi fermi e così i maiali scappavano in corte spaventando
galli, galline e i bambini che sempre si davano appuntamento per i
tanti giochi che sapevano inventare e costruirsi con le cose semplici
di una fattoria. Tutti gridavano: 'Xé scapà el ma/cio!" e che fatica far
ritornare quei bestioni alloro posto!
Hanno avuto lo stesso esito, per molto tempo, anche la carne e i
derivati dei maiali che venivano allevati nel stalòto del ma/cio e poi uccisi, scorticati, tagliati a pezzi in corte, disossati, macinati ed insaccati in cucina. Nonno Vittorio ne acquistava sempre due da Secondo
Ronco in via Eroi. Partiva in bicicletta e due nipoti col carretto e due
sacchi sopra lo seguivano a piedi. Dopo lunghi accordi per stabilirne
il prezzo, Ronco ne prendeva due dalla decina che seguiva mamma
scrofa: ''Me raccomando i pì bei!" e li metteva nei sacchi legandoli bene. Lungo tutto il tragitto del ritorno dai sacchi uscivano i grugniti e
i lamenti, simili a grida, di questi animali intrappolati e tutti per strada si giravano per seguire con lo sguardo quel carretto e le sue conduttrici un po' imbarazzate per la situazione.
In quel periodo, quando si tornava dalla latteria si portava a casa
el scoro, il siero, scarto liquido del latte che veniva dato ai maiali come nutrimento insieme a tanti avanzi della casa. A volte succedeva
che la porticina del staloto del ma/cio non venisse chiusa bene o che il
El giorno del massolin era tutto particolare. Già dal precedente si dovevano cominciare i preparativi tirando fuori el calieròn, e si continuava riempendolo d'acqua e poi preparando le fassine par scaldarla el giorno dopo, sarebbe servita par broare el ma/cio così si favoriva la raschiatura del pelo dalla bestia. Si doveva poi legare ad una trave robusta una
corda alla quale veniva appeso "il morto" per facilitare el massaIin in tutte le prime operazioni sulla bestia. Si dovevano poi prenotare i buei e il
giorno dopo, a seconda dell' ordine del massolin, che misurava tutto ad
occhio, andavano acquistati per una determinata lunghezza definita in
brassi. Dettava anche i chili di sale e pepe necessari, dopo aver soppesato sempre ad occhio la quantità di carne da lavorare. Ai piccoli della
corte era tacitamente proibito assistere al momento dell'uccisione della bestia che avveniva quasi sempre durante le vacanze di Natale e di
mattino presto presto quando era ancora buio. Ciò spingeva ancor di
più i bambini a curiosare di nascosto dalle strette fessure delle finestre
che ti permettevano di immaginare più che di vedere ciò che stava realmente succedendo. Tutto si svolgeva in una semi oscurità interrotta dalle fiammate e dalle faville che si alzavano attorno al calderone fumante. Le parole si alzavano sommesse, quasi sussurrate, coperte dalle ultime proteste urlate dalla povera bestia spinta e titata fuori dalla stalla.
Da lì usciva il grugnito spaventato del secondo animale rimasto solo in
attesa di essere venduto vivo per poi fare comunque la stessa fine. Come si alzava la luce, si ravvivavano anche le voci di tanti indaffarati nei
vari compiti. Intanto in cucina tutto era pronto per 1'arrivo dei primi
pezzi da lavorare. Era già arrivata la pignata col sangue raccolto da sotto la gola del maiale aperta col coltello dal colpo deciso del massolin, si
mangiava anche quello facendo la sangueta. E poi su tece e pignate par
i sossoli, ellardo, par cusinare i ossi e nei giorni successivi fare el saon con
il grasso del maiale: quanti tipi di odori, o meglio spusse! Tutti gli insaccati venivano appesi sulle stanghe in cucina per un po' di giorni per-
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ché "sudassero", di seguito si portavano in granaio. Per un bel periodo,
camminando in cucina, ricordavi quel giorno sentendo le suole delle
scarpe appiccicate e frenate dal pavimento unto ed umido malgrado venisse più volte lavato e rilavato.
Quella giornata era interminabile perché finiva obbligatoriamente con la sena del ma/cio che in famiglia si prolungava per settimane
dovendo mangiare tutto ciò che non si poteva conservare come gli insaccati. Allora non c'erano i freezer.
on gli anni, con la morte della nonna Caterina il 26 settembre
1971 e del nonno Vittorio il 16 maggio 1977, con l'incalzare di
un ritmo di vita diverso, e una situazione economica più serena, anche se una famiglia con 4 figlie richiedeva delle belle spese, si è via via
rinunciato ad alcune di queste attività.
L'allevamento dei maiali, dei polli e per ultimo (fino al 1988) delle mucche sono stati abbandonati, surrogati però da un cospicuo numero di capre volute probabilmente per mantenere vivo quel ritmo
di dipendenza quotidiana al quale ormai non si riesce più a rinunciare anche se richiede una presenza costante.
Nemmeno il legame stagionale diretto con la terra è stato sostituito, come hanno invece scelto molti proprietari, ora pensionati, che
hanno reso la terra arativa così il lavoro viene commissionato ad altri.
Fiorenzo continua deciso a rincorrere quel ritmo che la natura pretende: la potatura esatta delle viti ormai vecchie e avare di frutto ma
testardamente mantenute nelle datate piantà di nogare sempre più alte, e morari ben tenuti con rami sistemati a cupola legati abilmente
dalle strope. Non servono il freddo, il buio, la nebbia, il ghiaccio, la
pioggia a fermare questo lungo e paziente lavoro. Non si bada se 1'agilità richiesta si sta indurendo e il salire sol scalòn si sta appesantendo.
La fienagione continua con molte meno braccia per la falce, il rastrello, la forca ma con molti più mezzi che si pagano volentieri perché garantiscono il raccolto come un tempo: del masego, dell'ardiva,
della tersarina e, se si vuole, dea quartarina.
Anche per il legname si pagano le persone attrezzate ma i colpi secchi e vigorosi delle braccia ormai ottantenni sramano ancora quelle
lunghe atoe.
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Indice
Perché questo libro
Relazione sul libro "Racconti di una vita"
Presentazione
Prefazione
13
sorpresa
Il pranzo
El pan biscoto
Il medico
15
16
16
16
s-ciopeto
Sguazzare i prà
Il grande gelo
La Prima Comunione
La corte
17
I giochi
I soldi
I lavori in campagna
l parenti di
La scuola
Mondiale
Seconda
I lavoratori dei nostri campi
Il maestro
Batare la steca
Il
a volo
famiglia
5
9
11
18
19
21
28
28
33
35
40
116
H7
140
1
145
77
W
Narrativa 2000
ISBN 88-8449-330-7
978-88-8449-330-9
Prima edizione - Ottobre 2006
e-mail: foscafreato@katamai/.com
FOSCA FREATO MozzI
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36050 Quinto Vicentino
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ISBN 88-8449-330-7
978-88-8449-330-9
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Racconti di una vita