ADRIANO CAPRIOLI
Vescovo di Reggio Emilia - Guastalla
VIGILATE:
ECCO, STO ALLA PORTA E BUSSO
Lettera Pastorale
per il biennio 2010-2012
Reggio Emilia
Ottobre 2010
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Indice
INTRODUZIONE
Perché vigilare?
Annunciare la speranza cristiana
In cammino con il libro dell‘Apocalisse
CAPITOLO I
VIGILARE NELL’ATTESA
Le verità dimenticate della speranza
1. La notte del nostro tempo
2. ―Ecco, sto alla porta e busso‖ (Ap 3,20)
3. La vita eterna. Che cos‘è?
4. La speranza cristiana e il corpo
5. La speranza cristiana e l‘universo
CAPITOLO II
VIGILARE PERSEVERANTI NELLA SPERANZA
I luoghi della speranza
1. ―Verrà l‘ora, ed è questa‖ (cf. Gv 4,23)
2. La preghiera, scuola di speranza
3. Il ―Giorno del Signore‖ o la festa come attesa del Regno
4. Il vivere quotidiano, esercizio della speranza
5. L‘attesa del Giudizio finale, criterio di responsabilità nel presente
CAPITOLO III
VIGILARE DA CRISTIANI NELLA SOCIETÀ
Ambiti del vigilare
1. ―Beato chi è vigilante‖ (Ap 16,15)
2. Vigilare nelle sfide etiche e culturali
3. Vigilare sul modello di sviluppo della città
4. Vigilare nella comunicazione
5. Vigilare nelle situazioni di fragilità e di malattia
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CAPITOLO IV
VIGILARE NELLA FEDELTÀ ALLA PROPRIA VOCAZIONE
Testimoni di vita
1. I Santi che ―seguono l‘Agnello dovunque vada‖ (cf. Ap 14,4)
2. La vita consacrata, attesa del Regno futuro
3. Essere preti nei cambiamenti del ministero
4. Genitori ed educatori, nella sfida educativa
5. Amministratori, responsabili del bene comune
CONCLUSIONE
BEATI I SERVI CHE AL SUO RITORNO TROVERÀ SVEGLI
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INTRODUZIONE
1. Questa lettera pastorale è il frutto di una mia decisione previa: quella di trovare il
tempo, e non solo il tempo, di scriverla. Non solo il tempo, ma prima ancora la volontà e
la ragione. Ricevo anch‘io tante lettere pastorali scritte da vescovi miei amici, che
all‘inizio leggevo per un qualche utile confronto. Confesso che ultimamente finisco per
ringraziarli, senza averle lette. Mancanza di tempo? Disinteresse? Supponenza? Senso di
troppo? No.
È vero, il magistero abbonda di documenti, di messaggi, di lettere che si accumulano
sui tavoli degli uffici pastorali, delle segreterie episcopali, delle canoniche dei parroci…
quando non finiscono perduti. ―Cercala nel cestino!‖, raccomandava un vicario episcopale
di Milano a un parroco, che si scusava di non aver ricevuto una importante lettera.
Le lettere ci vogliono, come i vasi di fiori all‘ingresso di una casa e sui davanzali delle
finestre, per invitare a entrarvi più gioiosamente e serenamente. Sono convinto che le
lettere pastorali non sono testi da leggere, ma ―da fare‖, come gli ―Esercizi‖ di S. Ignazio
di Loyola, scritti per accompagnare il cammino degli esercizi spirituali secondo il noto
metodo del mese ignaziano.
Scritta dal Vescovo durante il suo mese di vacanza estivo — al caldo agostano —,
preparata lungo l‘anno dai vari incontri dei vicari episcopali e foranei e degli Uffici
pastorali, la lettera chiede di essere fatta camminare, non solo letta, sul vasto territorio
della Diocesi, accolta dalle comunità parrocchiali e realtà ecclesiali, accompagnata dai
parroci, preti e diaconi, operatori pastorali, dalle persone di vita consacrata e
ultimamente anche dai laici impegnati nel sociale e nel politico.
Mi auguro che la lettera possa diventare strumento di lavoro per incontri di
progettazione nei consigli pastorali, in assemblee parrocchiali o di associazione. Non solo:
il testo vuole offrire anche spunti di meditazione e catechesi per ritiri spirituali, gruppi di
ascolto, corsi di formazione cristiana, e non mi dispiacerebbe suscitasse un confronto tra
i preti e i diaconi sui nostri temi di predicazione!
Questa è l‘ottava lettera pastorale, dopo le sette che si sono succedute in questi
dodici anni di ministero episcopale nella Chiesa di Reggio Emilia - Guastalla. Posso dire
di non averle scritte dall‘inizio ―di getto‖, ma mosso di volta in volta dalle circostanze
della vita di una Chiesa che ancora dovevo imparare a conoscere e amare, come mi
esprimevo nella omelia di ingresso: ―l‘amare una Chiesa è già principio di conoscenza‖ (S.
Gregorio Magno).
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Un‘immagine di Chiesa mi ha comunque coinvolto già dall‘inizio: la Chiesa di Gesù
Cristo e degli Apostoli, tramandata da S. Prospero e dai successori, la Chiesa rinnovata
dal Concilio e dai Papi che l‘hanno accompagnata: il beato Giovanni XXIII, i servi di Dio
Paolo VI e Giovanni Paolo I, il venerabile Giovanni Paolo II, e ora Benedetto XVI.
A partire dall‘immagine di Chiesa, ispirata alla Parola di Dio e rivisitata dal Concilio,
ho cercato in questi anni di sviluppare gradualmente il cammino della nostra azione
pastorale in due momenti.
In un primo momento, ho preso in considerazione i pilastri che reggono la vita delle
nostre parrocchie: un‘immagine comunitaria di Chiesa a partire dalla grazia dell’evento
giubilare (1999-2000) e dall‘invito a ricominciare dal Vangelo (2000-2001); il compito
dell‘evangelizzazione nelle nostre terre (2001-2002); la centralità dell’Eucaristia per
diventare comunità (2002-2003) e l‘urgenza per la missione (Nota pastorale per il 20032004); l’Iniziazione cristiana, i suoi luoghi e percorsi (2004-2006).
In un secondo momento, ho inteso sollecitare le concrete comunità cristiane con gli
imperativi che si impongono alla nostra azione pastorale in momenti di cambiamento
come quelli che stiamo vivendo e soffrendo: educare e le sue figure di accompagnamento:
famiglie e comunità (2006-2008); comunicare la fede in un contesto di pluralismo
culturale e religioso (2008-2010), e ora, da ultimo, quello del vigilare.
Perché vigilare?
2. “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora…” (Mt 25,13). La
raccomandazione di Gesù allude al giorno e all‘ora del ritorno del Signore alla fine della
storia. Di questo monito a tenere aperto lo sguardo su Gesù Signore della storia, intendo
parlare come Vescovo in questa ultima lettera pastorale alla mia Chiesa di Reggio Emilia
- Guastalla.
È vero, dell‘ultimo avvenimento della storia anch‘io, come ciascuno di voi, non
conosco né il giorno né l‘ora, e quasi mi conforta questa ignoranza, perché, pur atteso
nella fede, viene avvertito ancora lontano nel tempo. Anche noi, come le prime comunità
cristiane, dopo la spasmodica attesa di un immediato ritorno di Cristo, abbiamo
maturato la coscienza che di questo evento definitivo abbiamo bisogno per crescere nel
tempo.
Con atteggiamento di vigilante attesa, pure la nostra Chiesa di Reggio Emilia Guastalla ha bisogno di mettersi in cammino, come verso un appuntamento non solo
dovuto e imprescindibile, ma anche desiderato e cercato. È questione di immagine di
Chiesa, che senza questo desiderio di compiuta salvezza, rischierebbe la paralisi del suo
stesso agire nella storia.
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Non è un caso che Gesù si sia lamentato: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà,
troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). L‘unica spiegazione del ritardo del Signore è la sua
benevolenza verso di noi: attende che anche noi lo attendiamo!
Perché si crede? C‘è chi crede, perché il credere fa bene, pregare fa sentire più
rilassati, partecipare al funerale di un amico morto per incidente fa pensare che certo
anche lui avrà sempre un futuro nei nostri cuori. Ma questa è una fede appiattita sul
presente, senza più una vera attesa, una vera speranza.
Vigilare, più che un‘azione da intraprendere, è un atteggiamento da coltivare. Vigilare
è cercare di capire il lungo periodo, il senso ultimo dell‘esistenza, più che rincorrere la
notizia del giorno. Vigilare è guardare alla Chiesa più come popolo di Dio in cammino,
segno profetico, madre di speranza, piuttosto che come società, organizzazione,
struttura. Vigilare è farsi carico delle attese delle persone, essere accoglienti giustamente
verso i poveri, ma senza dimenticare le inquietudini delle persone normali.
Sono molti che ogni giorno silenziosamente prendono le distanze dalla Chiesa,
passando il confine non tanto tra una parrocchia e l‘altra, ma tra la certezza e il dubbio,
e vivono incerti davanti all‘enigma dell‘esistenza, che a volte sembra splendida e a volte
— come dicono i giovani — ―uno schifo‖; diventano insicuri circa le loro effettive capacità,
per cui un giorno si sentono leoni e il giorno dopo votati all‘insuccesso, dubbiosi e
inquieti di fronte all‘avvenire, che a tratti appare affascinante e a tratti irto di incognite.
D‘altra parte, si incontrano alcuni che non hanno avuto, in famiglia, un‘educazione
cattolica, anzi provengono magari da un ambiente ateo, anticlericale, ma mossi da
spirituale inquietudine hanno fatto un lungo cammino, che li ha riavvicinati a Dio, a
Gesù Cristo, a qualche figura di prete o di laico, di uomini e di donne attente alle
frontiere della fede.
Sui confini tra fede e incredulità c‘è bisogno di trovare anche oggi guide esperte e
amorevoli in questi sconfinamenti dello spirito che si attuano ogni giorno, magari vicino a
noi. Come prevenire i primi, che prendono le distanze dalla Chiesa? E come
accompagnare i secondi, che bussano alla sua porta? Sono questi gli interrogativi che
più mi sollecitano con questa mia ultima lettera a riflettere sulla speranza cristiana.
Annunciare la speranza cristiana
3. Annunciare la speranza è aprire le porte della fede a tutti. Prima della vigilanza a
non lasciarsi sedurre dal mondo, della pazienza nelle prove o di resistenza al male, viene
la speranza di ciò che si attende. Vigila la sposa che attende lo sposo, la madre che
attende il ritorno del figlio lontano, la sentinella che scruta nel cuore della notte l‘arrivo
di un nuovo giorno, il monaco che invoca nella preghiera notturna la benedizione del
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Signore sul mondo. Vigila la comunità dei credenti, quando è rapida nel reagire alla
stanchezza e alla paura, pronta ―a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza
che è in noi‖ (cf. 1 Pt 3,15).
La vigilanza è dunque resa possibile, oltre che preceduta, dalla virtù teologale della
speranza, che è anzitutto grazia, dal momento che abbiamo conosciuto ―una speranza
viva‖ (1 Pt 1,3). Il nostro essere cristiani si misura non solo sulla domanda: ―che cosa
credi?‖, ma anche sulla domanda: ―che cosa speri?‖.
Queste saranno le riflessioni che proporrò nei primi due capitoli, sia facendo
memoria delle verità dimenticate della speranza cristiana: la vita eterna, la risurrezione
della carne, cieli nuovi e terra nuova; sia riscoprendone i luoghi — la preghiera come
scuola di speranza, la festa come attesa del Regno, la fedeltà nel dono di sé nel
quotidiano, l‘attesa del giudizio come criterio di responsabilità delle nostre azioni al
presente.
Poi, negli altri due capitoli, mi fermerò sul vigilare come atteggiamento di risposta e
di custodia attiva del dono della speranza. Chi attende il Signore, non solo lo invoca con
desiderio profondo, ma vive nell‘atteggiamento del servo fedele (cf. Mt 25,14-30) e delle
vergini sagge (cf. Mt 25,1-13), cioè nella vigilanza operosa: nella vita consacrata, nel
ministero sacerdotale, nel compito educativo in famiglia e nella comunità, da cristiani
nella società.
In cammino con il libro dell’Apocalisse
4. A ispirare ogni anno i cammini di fede delle nostre comunità cristiane, già a
partire dall‘indomani dell‘evento giubilare, ha costituito una guida preziosa la scelta di
un libro biblico: il Vangelo secondo Luca (2000-1) e gli Atti degli Apostoli (2001-2), il
Vangelo secondo Marco (2002-3), la Prima lettera di Paolo ai Corinzi (2003-4), la Prima
lettera di Pietro (2004-5), il Vangelo secondo Giovanni (2005-6), l‘Esodo (2006-7), il
Vangelo secondo Matteo (2007-8), le lettere di Paolo ai Filippesi (2008-9) e ai Romani
(2009-10).
Ora è la volta del libro dell‘Apocalisse. Perché l‘Apocalisse? È noto lo scarso interesse
per questo libro persino da parte degli esegeti, mentre da almeno due decenni
l‘attenzione è decisamente cresciuta. Certo, l‘Apocalisse non è un testo facile, e un
approccio troppo precipitato rischia qualche moto di rigetto. E siccome a reagire
potrebbero essere gli stessi lettori delle nostre comunità, conviene subito chiarire chi
sono i destinatari del libro.
Sono stato anch‘io colpito, leggendo nel Tempo pasquale le pagine dell‘Apocalisse
previste dall‘Ufficio delle Letture del giorno, della mia ignoranza e istintiva allergia ai
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simboli, linguaggi e contesti allusivi, a prima vista poco coinvolgenti, di questo libro
biblico. Provocato però dal corso di Esercizi spirituali predicati in giugno a Marola da
padre Serafino Tognetti, della comunità dei ―Figli di Dio‖ di Don Divo Barsotti, l‘autore di
un bel commento all‘Apocalisse, e con l‘aiuto di uno dei maggiori esperti come Ugo
Vanni, gesuita dell‘Istituto Biblico di Roma, mi sono lasciato coinvolgere.
L‘interesse mi è cresciuto per una constatazione semplice: destinatari dell‘Apocalisse
sono le sette Chiese richiamate nei primi capitoli del libro, a cui l‘Autore, ―il presbitero
Giovanni‖ — identificato dalla tradizione con l‘apostolo e autore del IV Vangelo — scrive
le famose sette lettere: ―Io Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno
e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola di Patmos a causa della Parola di Dio e
della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di
me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e
mandalo alle sette Chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a
Laodicea” (Ap 1,9-11).
Per il presbitero Giovanni, vivere autenticamente l‘Eucaristia e il Giorno del Signore
significa vivere collocati dentro la Pasqua, radicati fortemente in Cristo. Giovanni
costruisce l‘architettura del suo testo sull‘asse portante della morte e resurrezione del
Signore: questo è l‘evento chiave che racchiude la forza e il segreto della Vita, il segreto
della Storia, il Regno che già vince, ma che ancora si deve compiere in pienezza.
Su questo tema allora vengono le provocazioni: nella nostra pastorale e nella nostra
predicazione che posto ha l‘esperienza pasquale, di cui la domenica è il memoriale? È il
mistero centrale del nostro essere e del nostro agire e discernimento pastorale? La nostra
fede è centrata sull‘esperienza della Buona Notizia? Per il presbitero Giovanni è così:
tutto per lui è letto a partire dalla sua convinzione della centralità e della forza del
mistero pasquale. La speranza dentro la storia e verso il futuro della comunità, la forza
del suo discernimento profetico e della sua capacità di lettura degli avvenimenti della
storia gli derivano esattamente da questo.
Per questo avrei potuto — un po‘ provocatoriamente — sostituire questa lettera
pastorale con l‘invito alla sola lettura del libro dell‘Apocalisse: ―Quest‘anno la lettera
pastorale è l‘Apocalisse!‖. Mi pare, infatti, che più che un libro da capire — e di cui essere
un po‘ spaventati — l‘Apocalisse sia un testo ―da mangiare‖ (cf. Ap 10,9-10), di cui
cibarsi, da ―masticare lentamente‖ e provare a scoprire il modello di Chiesa che ne esce.
E, se invece di un anno, la nostra Diocesi ce ne mettesse due o tre per ―mangiarla‖ tutta,
non abbiamo fretta!
―Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia‖ (Ap 1,3). ―C‘è
uno che legge e c‘è l‘assemblea che ascolta. Se vogliamo capire come va il mondo, non
basta leggere i giornali e ascoltare la televisione. Dobbiamo ripartire dalla liturgia, dove la
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Parola di Dio viene annunciata e l‘Amore di Dio viene proclamato, perché il senso della
storia è lì‖ (L. MONARI, L’Apocalisse, Esercizi spirituali, Pietravolta 1995).
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CAPITOLO I
VIGILARE NELL’ATTESA
Le verità dimenticate della speranza
5. Permettete una confidenza. Era il 1997, l‘anno centenario della morte di S. Teresa
di Lisieux. Tra i diversi interventi sulla figura di S. Teresa, mi aveva colpito leggere quello
del Card. CARLO M. MARTINI, tenuto qui a Reggio Emilia nella Basilica della Ghiara al
clero, il 13 febbraio. Io neanche sognavo che l‘anno dopo sarei stato inviato come vescovo
a Reggio! Tema della meditazione era ―Maria e la notte della fede nel nostro tempo‖.
1. La notte del nostro tempo
―A mio avviso, la notte del nostro tempo, la crisi di fede nella quale siamo immersi
raggiunge un‘acme dolorosa su un aspetto specifico, che è un po‘ come il nervo scoperto
nel corpo dell‘uomo occidentale: la vita dopo la morte, la vita eterna, i cosiddetti
Novissimi.
È l‘aspetto su cui oggi c‘è maggiore confusione, oscurità, dubbi, reticenze, rimozione
pratica sia fra i non credenti sia fra i credenti praticanti. È davvero impressionante
osservare, nelle inchieste sociologiche sulla religiosità, come l‘incertezza sui fini ultimi
tocchi anche chi afferma di credere in Dio, in Gesù Cristo; chi ascolta la Chiesa…
In ogni caso, la vita dopo la morte è oggetto di pratica messa tra parentesi, quasi che
il limite biologico dell‘esistenza fosse di fatto sufficiente a definire la vita umana, le sue
aspirazioni e i suoi traguardi. In tal modo tutto viene calcolato nell‘ambito terreno; e, se
talora l‘ipotesi di un aldilà non viene respinta, è però ininfluente persino nella vita e nei
comportamenti di molti cristiani.
Pensiamo ad esempio a come gli stessi preti parlano della morte ai moribondi:
preferiscono discorrere sulla sperata guarigione, al massimo sull‘accettazione di una
volontà di Dio, ma hanno paura a spingersi oltre. La realtà della vita eterna non ha
niente a che fare con le buone risoluzioni di questa vita.
Tanta gente, tanti giovani sono pronti a giocarsi sul visibile, sui valori che in qualche
modo hanno riscontro (come solidarietà, pace, giustizia, volontariato), ma ben pochi si
giocano sull‘invisibile, su ciò che non ha riscontro nel tempo‖. Questo diceva il Cardinale.
L‘intento di questa lettera pastorale è anzitutto quello di risvegliare la nostra
coscienza attorno alle verità dimenticate della speranza cristiana, superando quella
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―cortina del silenzio‖ che ha fatto della speranza cristiana il ―pianeta sconosciuto‖ della
nostra pastorale e cultura.
―Sperimentiamo qui la tragica stranezza della condizione dell‘uomo: arriva a dare
risposte a mille interrogativi, che in fondo non toccano veramente la sua esistenza, ed è
sprovveduto di fronte all‘unico interrogativo che conta. E così, agli occhi stupiti degli
angeli, probabilmente appariremo come gente strana e scombinata, che arriva a
conoscere tutto, tranne il significato, il fine e la fine di tutto‖ (G. BIFFI, Linee di
escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984, p. 10).
Se siamo cristiani praticanti, siamo abituati ad andare in chiesa, sappiamo che
Dio ci convoca nella sua casa per pregare, ascoltare la sua Parola, celebrare
l‘Eucaristia. Ma non dobbiamo dimenticare che a sua volta il Signore viene nella sua
casa, viene a bussare alla porta della nostra vita, viene ad incontrarci nei luoghi e nei
tempi della nostra esistenza quotidiana. È la convinzione che troviamo nelle Chiese
dell‘Apocalisse.
2. “Ecco, sto alla porta e busso” (Ap 3,20)
6. La settima e ultima lettera dell‘Apocalisse è indirizzata alla Chiesa di Laodicea,
prospera città a oriente di Efeso, sulla strada dei commerci con i paesi d‘Oriente. Il clima
brillante e gaudente della città — scrive il biblista G. F. RAVASI — aveva contaminato
anche la comunità cristiana che riceve così un violento attacco da parte di Cristo
presentato come l‘Amen, il Testimone fedele e veritiero, il Principio della creazione di Dio.
―Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma
poiché sei tiepido… io sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: sono ricco, mi sono
arricchito e non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un
povero, cieco e nudo‖ (3,15-17).
Con allusione probabile alle acque dell‘antica Gerapoli, l‘odierna Pamukkale, ottime
per il bagno proprio per la loro temperatura tiepida, viene qui rimproverata alla comunità
la sua situazione di stallo nel suo amore. Nella civiltà del benessere Dio non è
combattuto, ma ignorato; il male e il bene si confondono, il peccato non è considerato
nella sua drammaticità ma guardato con superficialità; l‘ottusità rende tiepida e
indifferente la coscienza.
Così la comunità di Laodicea viene ―vomitata‖, respinta, rigettata lontano nel silenzio
e nelle tenebre. Tuttavia Cristo le rivolge un appello, con tutta la forza scottante del suo
amore appassionato e indefettibile: “Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii
dunque zelante e convertiti” (3,19).
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A provocare la conversione non è però una reazione amareggiata, depressa, anche
solo passiva da parte della comunità, ma uno sforzo di tensione per mettersi in grado di
rispondere all‘amore con l‘amore. Il centro di attenzione della comunità si sposta
sull‘Amore di Cristo, il Vivente per eccellenza, che bussa e fa sentire la sua voce, rivolta
non solo alla comunità ma anche a ciascuno, con accenti personalissimi.
“Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io
verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono,
come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che
lo Spirito dice alle Chiese” (3,20-22).
Ecco dei versetti che parlano da sé, tanto il messaggio è chiaro e di una rara bellezza.
Cristo, il Vincitore, bussa alla porta, non la butta giù, non si impone con la violenza, ma
aspetta che gli si apra dal di dentro. L‘apertura della porta viene presentata come la
conseguenza dell‘ascolto della voce di uno che parla, anche se ancora dal di fuori. Infatti,
non appena scatta nella comunità, e in ciascuno, questa volontà di accoglienza, non
appena si schiude la porta dal di dentro, Cristo riprende l‘iniziativa ed entra per sedere a
mensa insieme.
L‘immagine della cena non poteva non richiamare alle Chiese dell‘Apocalisse e alle
comunità che celebravano abitualmente l‘Eucaristia, la ―Cena del Signore‖. L‘immagine
della comunità riunita per la Cena del Signore mi fa pensare alla stupenda icona della
Trinità di Rublev, che ho voluto come icona di questa lettera. Nell‘icona ci sono tre
persone che siedono a mensa nella pace dell‘eternità, mentre sullo sfondo si intravede
una quercia che evoca la quercia di Abramo a Mamre (cf. Gen 18).
Le tre persone hanno i volti distesi, così simili da rendere difficile distinguerli l‘uno
dall‘altro; sono tranquille, quasi avessero null‘altro da fare. Nessun segno della fretta che
agita le nostre assemblee domenicali, quando la Messa si prolunga un po‘ più a lungo del
solito. Ciò che più mi colpisce nell‘icona è che il quarto lato della tavola è libero, come per
dire a noi che dal di fuori la osserviamo: venite, sedetevi al lato libero, sedete alla mensa
dell‘eternità, venite a godere della pace dell‘eternità.
3. La vita eterna, che cos’è?
7. Sorge allora la domanda: la vita eterna, che cos‘è? È la domanda che Benedetto
XVI si pone all‘inizio della sua seconda lettera enciclica Spe salvi, salvati nella speranza:
“Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito
del Battesimo esprimeva l‘accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua
rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano
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scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?»
Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?» «La vita eterna»‖ (n. 10).
Ma quello che una volta veniva richiesto come una certezza di fede per ogni bambino
che nasceva, oggi rischia di restare poco più che una formula rituale: ―Ma allora sorge la
domanda: Vogliamo noi davvero questo — vivere eternamente? Forse oggi molte persone
rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa
desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita
eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno –
senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe
rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo, tutto sommato,
può essere solo noioso e alla fine insopportabile‖ (ivi).
Sembra un atteggiamento contraddittorio, ma è così: da una parte non vogliamo
morire, dall‘altra neppure desideriamo continuare ad esistere illimitatamente. Allora che
cosa vogliamo veramente? Che cosa è la vita eterna? E prima ancora: che cosa è ―vita‖?
La vita eterna è ―la pienezza di Dio‖, la Vita con la V maiuscola. ―È Dio il fine ultimo della
sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l‘inferno per chi lo perde, il giudizio per
chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è Colui per il quale
muore tutto ciò che è mortale e che risuscita per Lui e in Lui‖ (H. U. VON BALTHASAR, I
novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia 1967, p. 44).
C‘è un racconto chassidico, evocato dal filosofo ebreo M. BUBER, che parla di Ebrei, i
quali, dai loro poveri villaggi dell‘Europa orientale, vanno incontro al Messia finalmente
venuto, avanzando a fatica nella neve. Quando il Messia li vede arrivare, chiede a chi li
guida che cosa sono quegli strani oggetti che portano a tracolla: ―Sono fiasche di
acquavite con le quali si sono sostenuti nei terribili inverni del lungo esilio‖. E il Messia
allora li fa entrare nel suo Regno con le loro fiasche di acquavite!
Molti camminano verso il Regno di Dio sostenendosi anche con speranze parziali,
povere, ma ciò non vuol dire che debbano essere ignorate o condannate. Anche queste
saranno capite ed entreranno nel mondo della pienezza e della vita. Gesù non ha
disprezzato i desideri, ma ha dato ascolto alle umili attese della gente. Ha guarito, ha
sfamato, ha rallegrato con il vino nuovo. La speranza di una vita eterna incrocia le
speranze terrene, le assume, le valorizza, le guarda con simpatia. È una speranza
inclusiva, non esclusiva, dialogante, non concorrenziale.
E, tuttavia, bisogna affermare con forza che la speranza cristiana ha come oggetto la
novità assoluta. La parola ―vita eterna‖ cerca di dare un nome a questa novità
sconosciuta. La nostra speranza ha per così dire un nome e cognome: Gesù Cristo
Risorto. In questa prospettiva, il cammino della nostra vita non procede verso il vuoto, il
nulla, il grande grembo della natura dove tutto è oblio e incoscienza, ma verso Qualcuno
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che ci attende per rivelarci pienamente la nostra identità ora ancora velata. ―L‘uomo
converserà con Dio sempre di cose nuove‖ (SANT‘IRENEO, Contro le eresie, V, 36,1)
Significativi al riguardo sono alcuni passi dell‘Apocalisse: “Al vincitore – dice lo Spirito
– darò da mangiare dell’albero della vita (2,7). “Al vincitore darò la manna nascosta e una
pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di
chi lo riceve” (2,17). “Il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome
dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli” (3,5).
“Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre
mio sul suo trono” (3,21).
Non fermiamoci al linguaggio. Sono tante immagini per significare un futuro di vita,
di amore, di dialogo, di beatitudine. Come avverrà questo, non lo sappiamo, ma non
importa nemmeno sapere. Ci basti la certezza che Dio, come ha liberato Gesù dalla
morte, libererà anche noi. Ci basti sapere che Dio si è impegnato. Ed è un Dio fedele.
4. La speranza cristiana e il corpo
8. La speranza cristiana investe anche il corpo. Che sarà di questo nostro corpo?
Sappiamo quanto sia oggi adulato, corteggiato, idealizzato. Forse perché nella crisi dei
valori tradizionali, il corpo rappresenta il valore superstite, il bene ultimo, il ―cordone
ombelicale‖ e la ragione esclusiva del proprio rapporto con la vita. Ma è un bene fragile,
fonte di piacere e insieme dispensatore di sofferenza.
Ebbene, nella speranza cristiana c‘è posto anche per il corpo. La salvezza non
riguarda solo lo spirito, come pensavano i filosofi antichi, ma riguarda tutto l‘uomo. Non
c‘è spazio per una visione spiritualistica della vita. L‘uomo è un‘unità indissolubile.
Nessuna separazione di anima e di corpo. Tutto l‘uomo va salvato: anche il corpo. Il
corpo è la quotidianità, la singolarità dell‘esistenza, la vita familiare, lo studio e il lavoro,
il riposo e la festa.
In questa linea, nella liturgia cristiana il fedele è accompagnato dal battesimo fino
all‘unzione degli infermi con i linguaggi e i contenuti dei segni sacramentali che toccano
non solo l‘anima ma anche la nostra corporeità; nelle esequie, il corpo è ancora onorato
con l‘incenso e con l‘acqua benedetta, segni di onore e di venerazione perché esso è stato
tempio dello Spirito Santo.
Il corpo è la nostra vita. È il nostro limite, ma anche la nostra grandezza. Perché con
il corpo contempliamo, soffriamo e godiamo, entriamo in rapporto con gli altri. Se il corpo
fosse cancellato, che cosa rimarrebbe di noi? Al di là dei limiti e delle paure, al di là della
morte stessa, c‘è questo evento che illumina tutto: il Cristo Risorto. Un corpo come il
nostro gode dopo la morte della bellezza e della libertà che appartengono alla vita di Dio.
— 15 —
Se questo nostro corpo è destinato alla dissoluzione definitiva, non c‘è ragione di dare
molto peso a questa vita. Ma se questo nostro corpo, come quello di Cristo, è destinato
alla risurrezione, tutto acquista valore: le cose belle e buone della vita, le amicizie; tutto è
come un presentimento della creazione nuova.
In un romanzo di Ferruccio Parazzoli compare questa provocazione: ―Perché nessuno
scrive sui muri di tutte le strade che il nostro corpo, proprio questo corpo dalla testa ai
piedi risorgerà?‖. Purtroppo, anche tra gli stessi cristiani sono pochi quelli che credono
nella risurrezione della carne. La nostra è la religione della Parola che si fa carne. È la
religione del corpo di Cristo che è Risorto.
Soltanto il Cristianesimo ha osato collocare il corpo nelle profondità più nascoste di
Dio. Soltanto il Cristianesimo osa parlare di una vita del corpo dopo la morte, che non
sarà la ripetizione di questa vita, non sarà pura sopravvivenza, ma sarà risurrezione,
sarà una nuova creazione dell‘uomo in tutta la sua interezza, anima e corpo.
Per cui ha ragione il teologo valdese Paolo Ricca che dice: ―Custodiamo la parola
‗risurrezione‘! Non scambiamola con nessun‘altra! Non con ‗sopravvivenza‘, non con
‗immortalità‘, non con ‗trasformazione, non
con ‗progresso‘, non con ‗riforma‘.
Custodiamo allora la parola ‗risurrezione, anche se supera, come supera, ogni nostra
capacità di immaginazione e persino le più ardite nostre speranze. Custodiamo la parola
‗risurrezione‘, e il segreto che essa racchiude... Un segreto non da nascondere, certo, ma
neppure da sbandierare come se fosse nostro, anziché di Dio. Piuttosto siamo chiamati a
vivere questo segreto come potenza di cose nuove nella storia‖.
Non posso concludere questo paragrafo, senza accennare al fatto che, in questa
prospettiva, si capisce la preferenza che la tradizione cristiana riserva alla sepoltura dei
corpi (per inumazione o tumulazione), pur sensibilmente attenta ai cambiamenti in atto
anche a livello di costume e di legislazione in caso di cremazione.
Al di là delle ragioni pratiche che presiedono in maniera diversificata nelle varie
regioni alle modalità di sepoltura, preoccupa il venire meno di una antropologia
simbolica del corpo umano come realtà diversa da quella delle altre realtà naturali; si
rischia di indulgere a concezioni panteistiche — quando non sono nichiliste — del corpo
umano deposto, cancellandone ogni traccia come nel caso della dispersione delle ceneri
e, nello stesso tempo, rendendo più difficile il ricordo comunitario dei defunti in un luogo
caro alla tradizione cristiana, quale è il cimitero.
5. La speranza cristiana e l’universo
9. La speranza cristiana non si arresta neppure al nostro corpo. Raggiunge tutto
l‘universo. C‘è una vittoria sulla morte anche delle cose. È questa la visione che Giovanni
— 16 —
prospetta alla fine dell‘Apocalisse: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova... E vidi anche
la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa
adorna per il suo sposo... E Colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io faccio nuove tutte le
cose” (Ap 21,1-2.5).
È da sottolineare l‘uso dell‘aggettivo ―nuovo‖ che, nel linguaggio biblico, non indica
una novità cronologica; è invece espressione di perfezione e di definitività. Non per nulla
parliamo di Novissimi per designare le realtà ultime della storia. Il nuovo cielo e la nuova
terra saranno questo cielo e questa terra trasfigurati, e la nuova città sarà questa città
trasfigurata.
Gesù stesso, istituendo l‘Eucaristia, prese il calice, e dopo aver reso grazie, lo diede
ai suoi discepoli, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza,
versato per molti… Io vi dico che d’ora in poi non berrò più di questo frutto della vite fino al
giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (cf. Mt 26,27-28). Sì, vino
nuovo, ma vino!
Si capisce che un uomo di speranza, come il noto sindaco di Firenze negli anni
Cinquanta-Sessanta, GIORGIO LA PIRA, potesse dire: “Io non riesco a pensare al Paradiso,
senza il mio bel S. Giovanni”, alludendo al famoso battistero e alla Cattedrale di S. Maria
del Fiore. Per questo aveva ragione anche LUTERO quando diceva: “Se anche mi dicessero
che domani sarà la fine del mondo, io non rinuncerei a piantare un melo”. Perché non c‘è
dissociazione tra mondo presente e mondo futuro, ma quel melo è già parte integrante
del mondo futuro.
Come ci richiama il Concilio Vaticano II, ―i beni, quali la dignità dell'uomo, la
fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo
che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li
ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati,
allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale: ‗che è regno di verità
e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace‘. Qui sulla
terra il regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a
perfezione” (Gaudium et spes 39).
L‘identità o la specificità del cristiano è dunque letta a partire dalla domanda: che
cosa speri? Il noto scienziato gesuita TEILHARD DE CHARDIN — morto il giorno di Pasqua
del 1955 — ha scritto che ―il mondo appartiene a chi gli offre la speranza migliore”. La
speranza sta dunque, prima che alla fine, all‘origine dello statuto del credente. La carità
più grande che possiamo fare al nostro mondo è quella di avere sulle labbra, nel cuore, e
soprattutto nella trasparenza di tutta la nostra vita, il grido che conclude il libro
dell‘Apocalisse: “Amen, vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).
— 17 —
In un racconto del Talmud si narra che un giorno un rabbi, volendo prepararsi bene
al giudizio finale, immaginò quali domande il Giudice del mondo avrebbe potuto rivolgere
a un giudeo: ―Hai osservato i comandamenti? Ti sei comportato correttamente negli
affari? Hai cercato la saggezza?‖. Ma, alla fine, pensò che la domanda decisiva poteva
essere un‘altra: ―Hai sperato nel mio Messia?‖.
Per noi cristiani il Messia è venuto e ne aspettiamo il ritorno. E possiamo immaginare
le domande che ci sentiremo rivolgere: hai conservato la speranza? Hai perseverato fino
alla fine? Sono interrogativi che ci tengono continuamente svegli e definiscono le nostre
responsabilità di credenti già nel presente?
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CAPITOLO II
VIGILARE PERSEVERANTI NELLA SPERANZA
I luoghi della speranza
10. Dopo la riflessione sulle verità dimenticate della speranza cristiana, vediamo
ora alcuni tratti della speranza nella vita presente: che cosa significa vivere il tempo
presente con la speranza del Signore che viene? In che maniera lo sguardo rivolto
all‘eternità dà sostanza e vigore agli atteggiamenti e alle scelte che l‘uomo compie nel
tempo presente nella vita delle persone, della Chiesa e della società, senza lasciarsi
distrarre o incantare dalle apparenze?
1. “Verrà l’ora, ed è questa” (cf. Gv 4,23)
Il contesto di queste parole del Signore è quello dell‘incontro con la samaritana al
pozzo di Giacobbe, in cui Gesù presenta alla donna in ricerca dell‘acqua che disseta per
la vita eterna il nuovo rapporto con Dio: “Verrà l’ora, ed è questa” (cf. Gv 4,23, secondo
una possibile interpretazione). Dio, la vita eterna è il futuro che già si realizza nel
presente.
Il messaggio che Gesù presenta alla donna samaritana nel Vangelo di Giovanni viene
confermato nella Apocalisse, rivolto non ad una singola persona, ma alle diverse Chiese
con insistenza lungo tutto il libro, come alla Chiesa di Efeso: ―Ho però da rimproverarti di
avere abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, convèrtiti e
compi le opere di prima. Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro
dal tuo posto” (Ap 2, 4-5).
Il candelabro d‘oro, simbolo della presenza di Cristo nella vita della comunità, se
questa non si convertirà, sarà rimosso e la comunità tagliata fuori dal circolo vitale della
presenza di Cristo. Il Cristo parla di sé al futuro (―verrò‖); già presente e attivo all‘interno
della comunità, mostra la capacità di fare pressione sui fatti della storia, e di modellarli
secondo le sue esigenze di verità e di amore.
La storia, con la sua tensione tra il bene e il male, tra il Cristo e gli anticristi, tra
Babilonia e Gerusalemme, è come il campo dove buon grano e zizzania spuntano e
crescono insieme. Ma qual è, in termini positivi, la piena realizzazione della presenza di
Cristo nell‘ambito della storia? L‘Apocalisse ci dà una risposta in una delle sue pagine
più riuscite, il cap. 21 — ―la sinfonia del nuovo mondo‖, come la definisce lo studioso E.
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A. HAMMAN —, che così inizia: ―Vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di
prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la
Gerusalemme nuova, scendere dal cielo...‖ (Ap 21,1-2).
Cristo e la storia del mondo nel suo svolgimento sono simultanei. La presenza di
Cristo nella storia non sta in una collocazione distaccata, accanto agli eventi degli
uomini. C‘è un Cristo futuro che ―verrà‖, ma la sua venuta non è l‘arrivo di un assente,
quasi il sopraggiungere di un deus ex machina che riordini miracolosamente la storia. È
piuttosto la presenza in crescendo della forza di risurrezione che, già immessa nel campo
della storia, ne saprà concludere positivamente lo sviluppo.
E a questo traguardo anche i cristiani, come singoli e come comunità, sono chiamati
a portare il loro contributo attivo; come Chiesa, che insieme allo Spirito Santo, non
smette di invocare Gesù, il Signore della storia: ―Lo Spirito e la Sposa (Chiesa) dicono:
Vieni! E chi ascolta, ripeta: Vieni!. Chi ha sete, venga! Chi vuole, prenda gratuitamente
l’acqua della vita” (Ap 22,17). Ritroviamo qui l‘eco del ―Maranatha!‖, della preghiera delle
prime comunità cristiane: “Venga la grazia e passi questo mondo” (Didachè 10,6).
Il vigilare diventa particolarmente attuale in tempi di crisi e di smarrimento, quando
cioè la mancanza di prospettive storiche rischia di addormentare la coscienza nel
godimento egoistico di quanto si possiede, dimenticando la gravità dell‘ora e il bisogno di
scelte coraggiose ed austere. Come coltivare il desiderio dell‘incontro con il Signore e
pregustare la gioia dell‘essere con Lui già nella vita terrena, nel tempo presente?
2. La preghiera, scuola di speranza
11. “Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera”,
scrive il Papa (Spe salvi 32). Forse non è così scontato dire che pregare è sperare. Di
solito si prega per avere una grazia e per ringraziare una volta ottenuta la grazia. Si
prega per domandare qualcosa, di cui si ha bisogno subito. La preghiera cristiana è
mossa da tante domande, e il Vangelo stesso invita a domandare con fiducia al Padre, già
nella preghiera del Padre nostro (Lc 11,1-4), con le parabole dell‘amico importuno (Lc
11,5-9) e della vedova importuna (Lc 18,1-8).
Pregare, tuttavia, non è solo domandare nei momenti di bisogno, ma sperare nei
momenti di solitudine della vita. Gesù stesso conosce e pratica la preghiera solitaria,
silenziosa, al mattino e al termine di intense giornate, ritirato solo davanti al Padre. Lo è
soprattutto nei momenti decisivi della vita: prima del Battesimo (Lc 3,21), prima dei
miracoli (Lc 4,42), prima della elezione degli apostoli (Lc 6,12), e soprattutto durante la
sua agonia (Lc 22,39-46), quando si trattava di ritrovare la sua dipendenza da Dio, la
disponibilità alla volontà del Padre.
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Il Papa cita l‘esempio del Card. NGUYEN VAN THUAN nel suo libretto Preghiere di
speranza: “Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione
apparentemente totale, l‘ascolto di Dio, il potergli parlare, divenne per lui una crescente
forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto
il mondo un testimone di speranza”. Scopriamo qui una verità dimenticata della
preghiera cristiana: pregare è lottare con Dio nella prova, perseverare con Lui, come è
stato per Giacobbe, Mosè, Giobbe, per gli autori di tanti Salmi.
Si rivela inoltre quanto superficiale sia l‘accusa di disimpegno, distrazione,
alienazione dalla carità verso il prossimo, rivolta alla preghiera cristiana. Pregare non è
essere meno impegnati verso il prossimo, ma di più, perché impegnati da Dio. Ogni volta
che ci presentiamo di fronte a Dio — sia nei Sacramenti, nella preghiera liturgica sia
nella preghiera silenziosa individuale — può avvenire qualcosa di molto pericoloso
perché, secondo le parole della Scrittura, “Dio è un fuoco” (cf. Ap 1,16; 2,18; 19,12). E il
fuoco brucia, cioè mette alla prova, converte, e nel medesimo tempo appassiona,
infiamma di carità.
Interessante il dialogo — tanto caro al giovane Karol Wojtyla attore nel teatro di
Oscar V. Milosz — tra il giovane Miguel Manara e l‘abate del monastero, dove Miguel
aveva bussato alla porta per esservi accolto: ―Che cosa cerchi?, chiede l‘abate. ―La pace‖,
risponde il giovane. ―Contro quale nemico?‖. ―Contro me stesso‖, confessa il giovane,
consapevole che il primo passo dovesse comportare la lotta a cambiare se stesso, i suoi
comportamenti, le sue scelte, prima che gli altri, nel cammino della conversione.
3. Il “Giorno del Signore” o la festa come attesa del Regno
12. Non è un caso che nella stessa Apocalisse tutto incominci dalla visione di
Giovanni e dalla convocazione della comunità nel “Giorno del Signore” (Ap 1,10).
Generata dalla Risurrezione, evento centrale e definitivo della storia, la festa si colloca
nella prospettiva dell‘ultimo giorno, del ―Giorno del Signore‖ inteso come il giorno
escatologico, il giorno dopo del quale non ci sono altri; il giorno senza tramonto e che non
conosce sera: ―ottavo Giorno‖, nel linguaggio dei Padri.
La festa dunque non è solo memoria del passato, ma anche attesa del futuro. Tutte le
feste, anche quelle semplicemente laiche, sono aperte sul futuro. Sorgono ad esempio
feste civili, della pace, dell‘amicizia, dove, insieme alla propaganda di un movimento e
delle sue attività, si vuole tenere desta la coscienza del modello finale della futura
società.
C‘è nella festa — come osservava il teologo statunitense H. Cox — il segno
dell‘eccesso che è espressione di libertà nei confronti del mondo convenzionale e una
— 21 —
sorta di sconfinamento nel mondo dell‘utopia. Ma la nostra storia attuale, nonostante i
suoi progressi, resta la storia di una liberazione dell‘uomo ancora parziale e limitata, non
piena e definitiva.
Radicalizzando questa posizione, c‘è stata tutta una corrente che riteneva la festa
impossibile da celebrare. La festa può essere solo attesa e, nell‘attesa, preparata
lavorando e impegnandosi per tutte quelle forme di liberazione dell‘uomo che sollecitano
l‘attuale impegno storico (cf. J. MOLTMANN, La festa liberatrice, in: Concilium 2, 1974).
Così sono sorte alcune feste ebraiche: il sabato, la Pasqua, la Pentecoste. Il sabato
ebraico, in alcune tradizioni bibliche (cf. Dt 5,12-15), è celebrato come memoria della
liberazione dall‘Egitto per mano di Mosè, ma insieme diventa speranza e guida ad un
Regno futuro, soprattutto nei momenti di desolazione e di abbandono.
L‘insieme di memoria e di speranza è così evidente nell‘accostamento dei due testi
biblici sul sabato ebraico: ―Ricorda che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il
Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso” (Dt 5,15) e ―quanti
si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio
monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” (Is 56,6-7).
Ma è soprattutto la festa cristiana, generata dall‘Eucaristia, che svolge un‘azione
attualizzante nei confronti della liberazione definitiva. L‘Eucaristia non è solo il ricordo
dell‘Ultima cena, ma è un‘anticipazione del Ritorno finale di Cristo, quando verrà
celebrato il banchetto messianico nella piena riconciliazione e pace.
C‘è da chiedersi se le nostre celebrazioni liturgiche siano segno di questa attesa
attiva e gioiosa; se esse si aprono sull‘avvenire e insieme lo affrettano facendo già
pregustare il vino nuovo del banchetto finale del Regno. Si colloca qui la riscoperta a
livello pastorale della vigilia delle feste (solennità, sagre, la stessa domenica) attraverso la
celebrazione dei primi Vespri o le Veglie comunitarie (vigilare non è forse anche
vegliare?), le liturgie penitenziali o il sacramento della Penitenza (vigilare su se stessi), la
preparazione alle letture della domenica, l‘adorazione eucaristica, affinché nella liturgia
non prevalgano gli aspetti esteriori, organizzativi, ma spirituali.
Anche il pellegrinaggio — che le nostre parrocchie stanno valorizzando e che sarà
uno dei cardini del prossimo Giubileo della nostra Cattedrale — è molto di più di un
semplice viaggio; è un itinerario del cristiano verso le proprie radici spirituali, per potere
continuare con forza e speranza il cammino dell‘esistenza cristiana. La Bibbia, da
Abramo, a Mosé, a Gesù stesso e agli Apostoli, è piena di gente in cammino. Anche noi,
come dice l‘apostolo Pietro, siamo su questa terra come ―stranieri e pellegrini‖ (1Pt 2,11),
perché, afferma la lettera agli Ebrei, “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo
in cerca di quella futura” (Eb 13,14).
— 22 —
Inoltre, celebrare la festa diventa sinonimo di ringraziare, lodare, cantare. Scriveva
ancora H. Cox, in La festa dei folli: ―La festività ci consente di ridimensionare la storia
senza rifiutarla. La festività ha un ruolo indispensabile nel restituire all‘uomo il senso del
paesaggio più ampio entro il quale la storia si muove‖.
A trent‘anni dalla Esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II
sulla famiglia, resta attuale la raccomandazione a ritornare alla festa come a un tempo
della comunità, in particolare della famiglia, già richiamato dalla antica pratica del
sabato ebraico: “Osserva il giorno del sabato per santificarlo… non farai alcun lavoro, né
tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo
asino… né il forestiero che dimora presso di te” (Dt 5,12-14).
È evidente il significato familiare e comunitario del riposo festivo. Esso non è solo
funzionale al lavoro, ma alla crescita della persona, alla sana vita familiare e alla stessa
vita della comunità. In questo senso, il tempo della festa è anche un valore civile e un
bene comune che non può essere privatizzato, né demandato al ―no stop‖ televisivo o di
avvenimenti sportivi né agli stili di vita all‘insegna del consumismo, che crea bisogni
sottraendo tempo alla vita semplice, relazionale, familiare e comunitaria.
Infine, riflettendo in questi anni sulle nostre assemblee domenicali, condivido la
risposta che un confratello Vescovo diede a un giornalista, che gli aveva rivolto questa
domanda: ―Eccellenza, come mai Ella si preoccupa poco delle molte persone battezzate
che non vanno alla Messa domenicale?‖. L‘Eccellentissimo rispose: ―Non è che non mi
preoccupa la cosa: mi chiedo piuttosto come escano dall‘Eucaristia domenicale quelli che
vi hanno partecipato‖.
Come i cristiani escono dall‘Eucaristia domenicale è la domanda che ancora oggi
come Chiesa ci poniamo. Come uscivano dall‘Eucaristia domenicale i cristiani delle prime
comunità dell‘Apocalisse?
4. Il vivere quotidiano, esercizio della speranza
13. Ci muoviamo all‘interno di una cultura che pretende verifiche immediate. Non
accetta messaggi a parole, ma messaggi di vita. Perciò la speranza cristiana deve tradursi
nel vissuto, calarsi nelle ventiquattro ore delle nostre giornate, nel lavoro quotidiano, nei
rapporti con gli altri. La speranza cristiana deve diventare uno stile di vita, una nota
originale, inconfondibile della nostra esistenza quotidiana.
Scrive Benedetto XVI: ―Ogni agire serio e retto dell‘uomo è speranza in atto… È
importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il
momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più da sperare… Solo la grande
speranza-certezza che, nonostante i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo
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insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell‘Amore… solo una tale speranza può
dare ancora il coraggio di operare e di proseguire‖ (Spe salvi 35).
Proviamo a fissare alcune immagini della speranza nel quotidiano. Tento di
configurare questo rapporto con alcuni esempi: non sono storie immaginarie, ma storie
concrete, con nomi e volti segnati nella mia memoria e, soprattutto, nella memoria di
Dio.
* Una donna non più giovane. Già due bambini sui dieci anni. Un terzo si annuncia,
ed è, per tante ragioni, lo sconforto totale. La tentazione è quella della rivolta contro Dio,
di scegliere la soluzione ragionevole, ascoltando le voci che ―ti consigliano bene‖. Ma, alla
fine, prevale un‘altra voce, un‘altra soluzione, sofferta eppure irrinunciabile: ―Ma sì, ci
sarà posto anche per lui!‖.
Ecco il volto della speranza come libertà. Sperare vuol dire acquistare una condizione
di scioltezza, di libertà, di leggerezza di fronte alle cose e agli accadimenti della vita,
anche di fronte alla morte. Se siamo continuamente in ansia, se ci preoccupiamo fino
all‘angoscia di circondare la nostra vita di protezioni e di garanzie, che speranza
possiamo dimostrare?
* Una figlia sposata, da anni accanto al padre infermo, incapace di esprimersi e di
comunicare. Dove nascono quei gesti di delicata premura, quelle parole affettuose, quel
desiderio di ravvivare una coscienza ormai spenta? Non ci sono ragioni umane. Eppure
lei lo fa per anni.
Ecco il volto della speranza come dono: è la capacità di donare, senza attendere nulla,
di donare pienamente, gratuitamente. Vuol dire essere aperti al futuro, fare affidamento
sul futuro di Dio. Chi sceglie di stare con quanti non hanno da ricambiarti, dimostra di
credere veramente che essi sono l‘utopia di Dio in questo mondo, perché, come per Gesù,
“la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo” (cf. 1 Pt 2,7).
* Lui e lei: una convivenza difficile. Lui non la lascia perché ha il suo interesse. Lei
non lo lascia per una ragione che trova difficile spiegare. È vero, la rende infelice, ma è
suo marito. L‘ha sposato per la buona e la cattiva sorte. L‘infelicità non è motivo per
lasciarlo. S‘accorge che è sola a pensarla così, ma non cambia idea. ―Sono fatta così‖, va
dicendo alle amiche che la vorrebbero consigliare diversamente.
Ecco il volto della speranza come fedeltà. La speranza si rivela anche attraverso la
fedeltà, la pazienza. Pazienza non in senso passivo, ma pazienza come perseveranza,
coraggio, volontà di affrontare le resistenze, le durezze, le opacità del presente. In un
mondo che non conosce più tempi lunghi della speranza, la speranza cristiana è un
segno sorprendente e inquietante. Analoghi esempi si potrebbero fare nei riguardi dei
fallimenti in ambito educativo, come vedremo più avanti a proposito di genitori ed
educatori di fronte alla sfida educativa.
— 24 —
5. L’attesa del Giudizio finale, criterio di responsabilità nel presente
14. Scrive il Papa: ―Il grande Credo della Chiesa… si conclude con le parole di nuovo
verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. La prospettiva del Giudizio, già dai
primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin dalla loro vita quotidiana come criterio
secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo,
come speranza nella giustizia di Dio‖ (Spe salvi 41).
L‘immagine del Giudizio universale era abituale per chi frequentava le antiche
basiliche. Il Signore della gloria guardava e accompagnava i fedeli proprio nel cammino
verso la loro quotidianità. Intendeva anzitutto suscitare responsabilità per la vita
presente, dal papa all‘ultimo cristiano, prima che dare risalto all‘aspetto minaccioso e
lugubre del Giudizio, caro e affascinante agli occhi degli artisti.
Del Giudizio finale come immagine di speranza, dice il Papa, si fa paladino il senso di
giustizia innato nell‘uomo di fronte alle ingiustizie del mondo e della storia universale,
quali la sofferenza degli innocenti e delle vittime dei campi di concentramento e delle
guerre. Chi potrebbe loro dare giustizia, che non ci sono più? Gli stessi non credenti
denunciano il male passato e presente, che c‘è stato e c‘è nel mondo, e arrivano a dire
che per rendere giustizia ai morti di tutti i tempi occorrerebbe — il condizionale è per loro
obbligatorio — ―la risurrezione dei morti‖. Diversamente bisognerebbe rassegnarsi a
questa ―storia infame‖, che caratterizza la vicenda dell‘umanità.
―L‘uomo può agire bene o male, può essere generoso o crudele, pietoso o egoista,
rispettoso della verità e della giustizia o cinico e bugiardo; ebbene, non pare che il diverso
comportamento abbia conseguenze apprezzabilmente diverse... Di fronte alla opposta
condotta degli uomini, Dio il più delle volte tace e il suo silenzio, che pare indifferenza
davanti al bene e al male, ci scandalizza: Perché, vedendo i malvagi, taci, mentre l’empio
ingoia il giusto? (Ab 1,13). Anche il dolore, tutto lo sconfinato dolore subìto
incolpevolmente, appare senza scopo e senza ricompensa... Il giudizio sarà dunque un
intervento nella storia del Dio giusto e vindice della giustizia, che così finalmente
romperà il suo silenzio e uscirà dalla sua apparente ma ugualmente sconcertante
neutralità‖ (G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, p. 30).
Il Giudizio finale è l‘incontro con Lui che ci raggiunge con lo sguardo penetrante e
creatore e ci porta alla piena conoscenza della verità e dell‘amore. La sua anticipazione
avviene già nel presente nel confronto della coscienza con la Parola, nella celebrazione
dei sacramenti, in particolare della Penitenza, nell‘incontro con il fratello bisognoso di
aiuto. Non è un caso che criterio decisivo del Signore della storia sia la carità, come ci
richiama Gesù nella pagina sul Giudizio finale (Mt 25,31-46).
— 25 —
Nasce qui, dallo sguardo rivolto verso l‘attesa del Signore, l‘atteggiamento evangelico
della vigilanza e l‘etica della responsabilità rispetto alle cose di questa terra, in
particolare rispetto ai problemi e agli impegni della vita sociale e politica.
— 26 —
CAPITOLO III
VIGILARE DA CRISTIANI NELLA SOCIETÀ
Ambiti del vigilare
15. I cristiani, anche se la loro patria più vera è il Regno, sono veramente cittadini
del mondo e come tali si sentono “solidali con il genere umano e la sua storia” (cf.
Gaudium et spes 1). "Certamente la Chiesa ha come supremo fine il Regno di Dio, del
quale costituisce in terra il germe e l‘inizio ed è quindi totalmente consacrata alla
glorificazione del Padre. Ma il Regno è fonte di liberazione piena e di salvezza totale per
gli uomini: con questi, allora, la Chiesa cammina e vive, realmente e intimamente
solidale con la loro storia‖ (GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici 36).
Per quale motivo la vigilanza, cioè la trepida attesa del Signore che viene, genera
un‘etica della responsabilità rispetto alle cose di questa terra, in particolare rispetto ai
problemi e agli impegni della vita sociale e politica?
1. “Beato chi è vigilante” (Ap 16,15)
Nell‘Apocalisse, assicurata e già presente è la vittoria dell‘Agnello: “Ha vinto il leone
della tribù di Giuda… un Agnello, in piedi, come immolato” (5,5-6: notare il paradosso
dell‘Agnello pasquale: viene annunciato un leone e compare un agnello, per di più
sgozzato). È lui, il Cristo Risorto, l‘Agnello capace di aprire il libro, pronto a spezzarne i
sigilli e a rivelare il senso della vita e della storia: “Tu sei degno di prendere il libro e di
aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue, uomini
di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e hai fatti di loro, per il nostro Dio, un regno e
sacerdoti, e regneranno sopra la terra” (Ap 5, 9-10).
Rimane però la necessità di resistere e di combattere la buona battaglia, che ha un
oggetto molto preciso, nel quale riscontriamo l‘originalità dell‘Apocalisse. Gran parte del
libro è dedicata proprio alla spiegazione della natura di questo conflitto, che accompagna
la vita e la storia, tracciandone quasi la sua ―cronaca profetica‖. Questo vale soprattutto
per la sezione 12-19. La questione decisiva è quella riguardante Dio e il suo vero volto; le
forze infernali vogliono costringere gli uomini all‘idolatria.
Tutti i mezzi sono usati, dalla violenza (la prima bestia) alla propaganda (la seconda
bestia, quella che sale dalla terra), alla coercizione socioeconomica: ―Essa fa sì che tutti,
piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o
sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il
— 27 —
nome della bestia‖ (Ap 13,16-17). Forse si allude al marchio degli schiavi o alle monete
che recavano l‘effigie, il nome e le insegne dell‘imperatore.
Leggere l‘Apocalisse vuol dire dunque anzitutto accettare il carattere conflittuale
della storia umana. Va ricuperata la convinzione dell‘esistenza del demoniaco: l‘analisi
degli eventi umani non può basarsi unicamente su una ―saggezza naturale‖, che di per sé
non ammette né l‘Incarnazione né il demoniaco. Ricordiamo la scena iniziale del ―Prologo
in Cielo‖ (Ap 4-5): il Libro sigillato con i sette sigilli è il significato della storia; esso
rimane inaccessibile a chiunque; solo l‘Agnello sgozzato può aprire i sigilli: in altre
parole, la storia acquista un senso solo a partire dalla morte e risurrezione di Gesù. Di
qui, la necessità di lavare “le proprie vesti… nel sangue dell’Agnello” (cf. Ap 7,14), poiché i
discepoli vincono l‘Accusatore “grazie al sangue dell’Agnello” (Ap 12,11).
―Beato chi è vigilante e custodisce le sue vesti‖ (Ap 16,15): i cristiani che seguono
l‘Agnello, e portano la crocifissione regale di Cristo nella concretezza della vita vissuta,
sono già parte del Regno di Cristo. La vigilanza richiede dunque sia l‘assimilazione piena
e continua del mistero pasquale, sia la capacità di giudicare la storia alla luce di questo
mistero, scoprendo ed evidenziando la presenza dell‘idolatria nelle sue varie forme.
In particolare, ci sono alcuni ambiti nei quali è più facile che l‘idolatria si annidi e
manifesti in alcuni suoi vizi, che non hanno solo una rilevanza etica: essi contengono in
sé una forza idolatrica, e chi cede a essi viene inevitabilmente portato all‘idolatria.
L‘idolo, infatti, qualunque sia la forma che possa assumere (il potere, il denaro, il
piacere...), ha come nota specifica di essere un dio remissivo, a totale disposizione
dell‘uomo, docile alla sua volontà, prodigo di favori.
―Al posto del Dio personale del Cristianesimo, che si rivela nella Bibbia — ha detto
recentemente Benedetto XVI nel discorso al nuovo ambasciatore di Germania presso la
Santa Sede —, subentra un essere supremo, misterioso e indeterminato, che ha solo una
vaga relazione con la vita personale dell‘essere umano… Se però uno abbandona la fede
in un Dio personale, sorge l‘alternativa di un ‗dio‘ che non conosce, non sente e non
parla. E, più che mai, non ha volere. Se Dio non ha una propria volontà, il bene e il male
alla fine non sono più distinguibili… L‘uomo perde così la sua forza morale e spirituale,
necessaria per uno sviluppo complessivo della persona. L‘agire sociale viene dominato
sempre più dall‘interesse privato o dal calcolo del potere‖.
Di qui, la necessità di una vigilanza particolare quando si è costretti a entrare nel
territorio d‘influenza degli idoli. Essi sono elencati in Ap 9,20-21: “Il resto dell’umanità,
che non fu uccisa a causa di questi flagelli, non si convertì dalle opere delle sue mani; non
cessò di prestare culto ai demòni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno,
che non possono né vedere, né udire, né camminare; e non si convertì dagli omicidi, né
dalle stregonerie, né dalla prostituzione, né dalle ruberie”.
— 28 —
Si tratta dunque della violenza, nelle sue forme connesse con il potere; della
sessualità vissuta come ricerca dell‘eccesso, che porta l‘uomo alla cecità spirituale e
distoglie i giovani e i meno giovani da una sincera ricerca di Dio; della seduzione del
denaro e del benessere economico; e, infine, di tutte le forme di propaganda seduttiva,
degli strumenti di manipolazione delle menti e delle coscienze: questo starebbe a indicare
quanta cautela la Chiesa debba avere nei confronti delle ―sirene mediatiche‖, poiché non
sempre i mezzi sono neutrali, e in ogni caso debbono essere poste in atto le dovute
cautele e garanzie.
Le sciagure che l‘Apocalisse elenca (un elenco invero assai completo) indicano
l‘incapacità dell‘uomo a controllare il disordine. I discepoli dovrebbero trarre motivo per
una paradossale consolazione: i tentativi idolatrici mostrano la loro inconsistenza; il
martirio acquista il suo valore letterale di testimonianza, resa al Dio Signore e Salvatore.
Anche se al cristiano non è dato immediato consenso alla sua testimonianza, le sue
opere hanno certamente una rilevanza pubblica ed egli può contribuire a creare spazi di
libertà, giustizia, solidarietà; ma non gli è promesso il successo stabile su questa terra;
anzi, la sua opera sarà tanto più efficace, quanto più egli sarà vigile a non scendere a
compromessi con l‘ideologia idolatrica, che inquina il mondo.
2. Vigilare nelle sfide etiche e culturali
16. È noto che il tema del rapporto tra Chiesa e società civile ha acquistato rilievo
crescente nell‘attenzione pastorale degli ultimi decenni. Ad alimentare tale interesse
crescente è il fenomeno della rapida evoluzione che la società civile sta sperimentando in
tanti suoi aspetti: non solo la questione sociale, la questione femminile, l‘immigrazione,
l‘emergenza educativa... ma, più a fondo, la complessa questione culturale evidente nella
crisi dei costumi di vita.
Le trasformazioni sociali, infatti, non producono soltanto situazioni di bisogno
materiale, alle quali occorre offrire rimedio pratico; producono anche, e soprattutto,
mutamenti nel modo di vivere e di convivere, di sentire e di pensare, di apprezzare e di
desiderare, di disprezzare e di temere, i quali esigono di essere innanzitutto compresi e
quindi eventualmente anche corretti: si pensi ad esempio ai temi del nascere, del morire,
del ―perché soffrire‖ e, in genere, ai temi riguardanti la coscienza etica personale.
A dare un giudizio argomentato di coscienza su questi temi, il cristiano medio non
appare molto preparato, così da attirare ancora oggi il lamento di Gesù nel Vangelo:
“Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete
valutarlo?” (cf. Lc 12,54-56). Nel lamento di Gesù, probabilmente, andrebbe coinvolto
non solo il cristiano medio, ma anche la attuale predicazione ordinaria, le forme correnti
— 29 —
della catechesi e, in generale, la scarsa opera di formazione della coscienza cristiana sui
temi della responsabilità civile del cristiano di oggi: dunque, alla fine, anche le
responsabilità del ministero pastorale.
Come ricordava il monaco Giuseppe Dossetti nella sua prefazione a Le querce di
Montesole, dedicato alla vita e alla morte delle comunità martiri nell‘Emilia Romagna,
tutta la storia della Chiesa, della comunità cristiana, è una storia drammatica, come del
resto della società; una storia conflittuale, non necessariamente come la si descrive ad
esempio fra Chiesa e Stato, o fra i diversi movimenti e tendenze, ma piuttosto una storia
conflittuale tra sviluppo e degrado, sulla quale vigilare.
Vigila una Chiesa pronta a riconoscere le colpe dei propri figli, a rimuoverne gli
scandali, difendendo e sostenendo le vittime. Il vigilare su se stessi, coinvolge in prima
persona la Chiesa, non solo negli interventi del Magistero, ma facendosi prassi
quotidiana delle parrocchie, dei gruppi e dei movimenti. È una tensione che non può in
alcun modo subire allentamenti o scendere a compromessi.
Vigila anche una società civile che coglie prontamente i segni del proprio degrado,
che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la disaffezione nei confronti del
bene comune, che non si rassegna alla deriva delle sue istituzioni, quando la formazione
del consenso è sistematicamente perseguita attraverso la vischiosità di legami clientelari
o pressioni di carattere corporativo, che poi significano sempre il trionfo dei prepotenti e
dei furbi.
Come può la società vigilare di più su se stessa, quali regole e controlli assicurano
quella trasparenza che permette di accorgersi subito del marcio, di smascherarlo e di
eliminarlo? Occorre proporsi di conservare una coscienza non solo lucida, ma vigile,
capace di opporsi a ogni inizio di sistema di male finché ci sia tempo, cioè una storia
critica nel senso di cogliere gli elementi di sviluppo e di degrado e saperli smascherare,
rendendo perciò testimonianza in modo corretto degli eventi.
Non deve venire meno, tuttavia, un altro aspetto della vigilanza. Quando gli umori
della gente inducono a facili generalizzazioni sulla classe politica e sugli amministratori
pubblici — ed è facile calcare la mano e i toni —, è necessario resistere a precipitazioni
nei giudizi, alla tentazione di cavalcare un processo mediatico, parallelo a quello
giudiziario. Bisogna resistere con calma, nella tutela del buon nome di ciascuno, prima
che non sia provata in giudizio la verità dei fatti, nella tutela del segreto che salva la
dignità di ogni persona.
— 30 —
3. Vigilare sul modello di sviluppo della città
17. Davanti ai cambiamenti che intaccano il tessuto della vita di una città, viene
spontanea la domanda: che cosa salva una città? C‘è chi pensa che a difendere la città
sia la legge, la capacità di darsi delle buone leggi. Davanti alla legge tutti siamo uguali.
Per la sua forza intrinseca, la legge sembra capace di mettere ordine, coagulare le singole
libertà, evitare la frammentazione, creare più giustizia.
Ed è vero. Ma anche la legge rivela presto di non essere da sola capace di salvezza. Di
fronte all‘aumento di reati di micro e macro criminalità ci si sente sempre più spiazzati.
Educare alla legalità è il documento che i Vescovi italiani hanno pubblicato nel 1991 in
circostanze drammatiche per la vita del Paese, ma non basta questo per sconfiggere
l‘illegalità. La legalità appartiene a una rete, a un contesto di valori, dai quali non può
essere isolata. Quali? Accenno qui ad alcuni temi più distesamente avviati dal
documento della Commissione diocesana per l‘impegno sociale e politico Ridisegnare il
volto della città dell’uomo: verso quale speranza? (Reggio Emilia, 24 novembre 2009).
C‘è un‘immagine che più di ogni altra mi ha fatto riflettere sul modello di città a cui
possiamo riferirci. Il nostro modello di riferimento non deve essere l‘isola felice, ma la
città descritta dal libro dell‘Apocalisse: una città con alte mura, ma con le porte aperte:
“L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa…
cinta da grandi e alte mura con dodici porte” (Ap 21,10.12).
Mi riferisco al tema del mondo delle immigrazioni e delle possibili cittadinanze. Le
mura indicano l‘identità della città. Il fatto stesso che tanta gente cerchi di venire da noi,
indica che il nostro modo di vita è apprezzato, che i nostri valori sono, anche se
confusamente, condivisi. Dobbiamo chiedere perciò non solo rispetto, ma la conoscenza
delle nostre tradizioni, senza timidezze. Si può essere non praticanti, ma non ignoranti e
non conoscere la nostra storia, la nostra arte, i fondamenti del nostro umanesimo.
Ma le porte dovrebbero essere aperte. Il che vuol dire che gli altri non vanno visti solo
come un pericolo, ma come portatori di un dono. Il dono non è solo il lavoro, ma è la
cultura, le tradizioni, l‘umanità di queste persone. È importante cominciare a pensare in
modo nuovo il rapporto tra accoglienza e sicurezza, due parole che vengono sentite come
contrapposte. Dovremmo piuttosto incominciare
a dire
che solo un‘accoglienza
intelligente può contribuire alla nostra sicurezza.
Altrettanto importante è il tema della sicurezza partecipata, cioè la collaborazione dei
cittadini con le forze dell‘ordine, la segnalazione delle situazioni di illegalità. Teniamo
presente che il cittadino si sente responsabile verso l‘ordine pubblico, soltanto se vede
che i suoi sforzi hanno un senso: avere l‘impressione che nulla cambi, erode gravemente
la motivazione a sentirsi tutti responsabili della sicurezza della città.
— 31 —
In conclusione, il bene comune vero può esistere solo grazie ad una forte coesione tra
le componenti della società: magistrati, avvocati, forze dell‘ordine, amministratori e
politici, e semplici cittadini. La vera sicurezza non la danno i muri, ma la forza spirituale
di una comunità. Come diceva Giovanni Paolo II: ―Abbiamo bisogno di ponti, non di
muri‖. E questo è anche il compito della Chiesa.
Oggi, poi, ci troviamo di fronte a una nuova emergenza: è difficile conservare la
speranza se non c‘è il lavoro. Anche nella nostra realtà locale, si avvertono le pesanti
conseguenze di una crisi, che richiede un pensiero nuovo, una rinnovata coesione
sociale, una riflessione sugli obiettivi e sul senso del nostro vivere comune, e sulla
responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni.
Una persona ha bisogno di riferimenti e di stabilità per costruire il proprio futuro. Se
c‘è un avanzamento nella modernità del lavoro, questo si misura nella tutela che la
società riesce ad offrire ad ogni lavoratore, ivi compresi quelli che sono costretti a
prendere il primo lavoro che capita. Penso anzitutto ai giovani, ma anche alle donne, agli
immigrati o nuovi arrivati.
Per questo, è necessaria una vigilanza operosa, come quella del servo fedele, che
attende il ritorno del padrone, preoccupandosi però che gli altri servi, che gli sono stati
affidati, abbiano il cibo necessario al tempo dovuto (Mt 24,45-47). Senza il lavoro, infatti,
è a rischio la dignità dell‘uomo. Chiedo a tutti di mettere il lavoro al primo posto nel
pensiero e nelle decisioni, con coraggio e generosità.
4. Vigilare nella comunicazione
18. Nel vigilare sono coinvolti pure il modo con cui utilizziamo i mezzi di
comunicazione sociale, i giornali, i servizi informativi delle reti radiotelevisive, internet.
Raccolgo qui alcune riflessioni e indicazioni proposte da alcuni Uffici pastorali. La
possibilità di comunicare anche a distanza è fortemente cresciuta in questi ultimi
decenni. Si sono moltiplicati non solo i percorsi stradali, ma soprattutto le ―rotte
mediatiche‖, tanto che con rapidità si può navigare da un punto all‘altro del nostro
pianeta senza grosse difficoltà e in poco tempo.
Un particolare suono ti avvisa dell‘arrivo di un sms, un altro ti allerta sull‘ennesima
e-mail, un altro ancora ti annuncia che qualcuno è al cellulare per dirti l‘ultima notizia.
Oppure basta un occhio alla scrivania ed ecco che dal computer il semaforo verde del
Facebook ti dice che sono in linea decina di amici pronti a comunicare con te. Siamo
avvolti dalla Rete (web); la rete ti spinge fuori, ti fa approdare in un altro ambiente, e non
solo per qualche momento ma per ventiquattro ore su ventiquattro, scattando foto, ti dà
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la possibilità di inviare messaggi, restare costantemente collegati ai diversi social
network.
È un nuovo mondo che si apre davanti, che tende sempre di più a essere invisibile,
virtuale. Pensare di usarlo come semplice strumento significa sottovalutare la capacità
trasformatrice che ha in sé; considerarlo come una delle tante novità tecnologiche
dell‘attuale progresso vuol dire avere timore di confrontarsi con il nuovo che avanza; è
una sfida invece che va accolta. Come? Con un intelligente atteggiamento di vigilanza,
che si può tradurre in alcune indicazioni.
- Considerare queste nuove ―rotte di comunicazione‖ all‘interno di quel movimento
che percorre tutta la storia della salvezza, dove Dio si è avvicinato in molti modi
all‘umanità; si è avvicinato soprattutto attraverso Gesù e ora Gesù continua ad
avvicinarsi al mondo mediante la sua Chiesa, anche con queste modalità da non
demonizzare, ma da valorizzare.
- Conoscere le ―regole del gioco‖, perché in questione non è soltanto la possibilità del
comunicare, ma lo stesso contenuto della notizia, che può essere condizionato dalla rete
e mai come in questo caso il ―mezzo si fa messaggio‖.
- Accogliere il web e le altre nuove tecnologie come una straordinaria opportunità
pastorale per raggiungere persone che non sono vicine alla Chiesa o si sono da essa
allontanate. È vero che la rete non basta per convertire; solo permette di abbattere
pregiudizi, di aprire un canale di informazione, di risposte, ma prima o poi deve portare
all‘incontro personale.
Senza cadere in un eccessivo ottimismo, bisogna rendersi conto che il web e le altre
nuove tecnologie sono un modo per dare un volto a quel bisogno di relazione, di
condivisione, di raccontarsi che ha sempre fatto parte dell‘uomo, ma nello stesso tempo
bisogna vigilare sul rischio della generalizzazione, semplificazione, massificazione dei
contenuti, sul fatto che il navigare in internet può illudere a facili relazioni, false intimità.
5. Vigilare nelle situazioni di fragilità e di malattia
19. Attorno a noi vanno emergendo ―nuove fragilità‖, legate al mondo dell‘affettività,
che meriterebbero una specifica attenzione. Viviamo ogni giorno fragilità di famiglie
divise, separate, allargate, ricostruite, devastate. In particolare andrebbe tenuta presente
la diffusione in forme non sempre evidenti della ―depressione‖, una specie di male del
nostro tempo, che è segnale non più solo di una patologia individuale, ma di una vera e
propria patologia sociale. E ancora la fragilità delle malattie mentali, dalle più piccole fino
alla devastazione vera e propria della mente.
Il tema della fragilità trova nel nostro tempo una particolare udienza, se si considera
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il fatto che la sensibilità per la fragilità umana ha portato a tante forme di volontariato, e
in particolare i giovani hanno mostrato attenzione per le molteplici e crescenti fragilità
delle persone. Nello stesso tempo, però, sembra essere diffusa una rimozione della stessa
fragilità umana, un‘emarginarla per quanto è possibile.
Pensiamo alla condizione di malattia. Nel contesto del ―vigilare‖, al di là degli aspetti
più ampi considerati dalla pastorale della salute e sanitaria, ci riferiamo ovviamente alla
malattia grave, vuoi per il suo carattere cronico e invalidante, vuoi invece per i rischi di
esito letale che essa presenta. Quando si sta bene, ci si pensa poco, ma la caduta della
salute ridimensiona i progetti a cui induce il benessere e di colpo ci si trova di fronte a
problemi nuovi, spesso angoscianti. Per tanti interrogativi che assillano l‘ammalato
grave, abbiamo risposte adeguate, tempestive e rasserenanti? Il personale ospedaliero è
pronto a farsi carico di un dialogo non solo competente, tecnico, ma anche umano e
spirituale?
Sono noti nell‘attuale cultura il silenzio sulla morte e la censura dello stesso pensiero
della morte. Anche il malato grave non sa della sua morte imminente, anzi non deve
sapere; e se sa, deve fingere di non sapere. Una volta, nelle litanie, si pregava di essere
liberati dalla morte improvvisa, non accompagnata dai sacramenti dell‘unzione e del
viatico. Oggi, al contrario, la si invoca come la migliore uscita da questo mondo, e la si
definisce una ―bella morte‖, un andarsene in punta di piedi, una scomparsa come dal
palcoscenico della vita, possibilmente senza dare disturbo.
L‘uomo d‘oggi, fortemente dipendente dalle strutture tecniche e dalle conseguenze di
un accelerato e incessante progresso, al sopraggiungere della malattia grave prende
improvvisamente coscienza dei suoi limiti e della propria fragilità e precarietà, che gli
erano stati in buona parte alleviati o nascosti dall‘apparato tecnologico. Il sistema sociale
si prenderà cura di lui, della sua infermità e debolezza e, se può, lo guarirà. In ogni caso
lo tratterà meglio che in tempi passati, pur se — questo è il punto — anche in condizioni
che rischiano la sua spersonalizzazione.
La malattia chiede di essere considerata una provocazione alla libertà, alla
consapevolezza dell‘uomo, quindi alle sue scelte. Compito morale più antico e insieme
più duraturo di come togliere la malattia è quello di come vivere la malattia. Un compito
che è del soggetto malato, ma anche di chi lo assiste. Perciò l‘infermiere, il medico e
chiunque ha contatto con il malato, sono chiamati a possedere, ancor prima della
competenza, una motivazione etica. Se la medicina è incapace di affrontare la sofferenza
dell‘uomo, che è un‘esperienza del suo stesso essere uomo, non è veramente umana.
In passato anche motivazioni più deboli erano maggiormente sostenute da una
cultura generale di ―attenzione misericordiosa‖. L‘impegno di misericordia sembra oggi,
forse inconsapevolmente, delegato al potere della scienza, che però è impersonale.
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Eppure, oggi, come ieri, la malattia e la sofferenza chiedono di essere condivise da una
presenza, e chiamano a una rinnovata relazione. Non si tratta solo di vincere la malattia,
bensì di accompagnare l‘uomo nella sua fragilità e sofferenza, coadiuvandolo nel compito
di vivere la malattia con speranza.
Amare la vita e averne pietà anche in condizioni tragiche è dire all‘altro: ―è bene che
tu sia; è prezioso che tu viva, anche se la tua condizione è gravosa, per stare accanto a te
senza chiedere nulla in cambio, se non il silenzio e la libertà di amare e donarmi a chi è
debole, fragile e povero‖. Si apre così un approccio positivo della ―fragilità‖, a partire dalla
visione cristiana della croce gloriosa di Cristo. Si ricorda, infatti, che l‘esperienza
dolorosa della fragilità aiuta ad apprezzare quanto abbiamo, a crescere come persone
mature che accettano anche i propri limiti, e soprattutto a farsi carico della fragilità
altrui.
Vivere la malattia con speranza è anche compito del malato, vigilando nell‘attesa. C‘è
chi guarda alla morte come alla fine di tutto; chi si apre al mistero; chi prega: “non
gettarmi via nella vecchiaia, non abbandonarmi, quando declinano le mie forze” (Sal 71,9).
Dobbiamo pure imparare a guardare in faccia la morte per ciò che sta dietro: l‘essere con
Gesù, quando Egli passerà e dai volti sofferenti “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e
non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono
passate” (Ap 21, 4). È la vigile attesa che la piccola Teresa di Lisieux testimoniava alle
consorelle, quando scriveva: ―Se doveste trovarmi morta un mattino, non inquietatevi:
vuol dire che Dio, come un buon papà, è venuto a cercarmi, solo questo‖.
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CAPITOLO IV
VIGILARE NELLA FEDELTÀ ALLA PROPRIA VOCAZIONE
Testimoni di vita
20. Il quarto e ultimo capitolo di questa lettera vuole offrire alcune figure che
testimoniano cosa comporta la vigilanza cristiana. Camminiamo verso un futuro certo,
grande, che è al di là di quanto vediamo e immaginiamo, un futuro che è Dio stesso, è
Gesù Risorto nella pienezza del suo Corpo, è il Regno e la Gerusalemme nuova. Le figure
della testimonianza non sono però che dei segnali sul cammino verso la città santa, la
nuova Gerusalemme verso cui la Chiesa terrena è in cammino.
1. I Santi che “seguono l’Agnello dovunque vada” (cf. Ap 14,4)
Io amo molto la festa di Tutti i Santi. Mi piace questa festa perché riguarda non un
santo solo, ma tutti. Non c‘è mai un santo separato dagli altri. A volte lo dimentichiamo,
quando abbiamo sulle labbra il nome di quel santo e su quel nome raccogliamo tutta la
nostra devozione e la nostra speranza. In realtà i santi sono uniti in una grande famiglia,
perché vivono dello stesso amore. Mi piace questa festa, perché fa capire che il numero
dei santi è “una moltitudine immensa” (Ap 7,9) che va ben oltre la memoria dei nostri
messali e la memoria degli uomini.
Per questo sono convinto che il 1° novembre sia anche il giorno dell‘immaginazione
per raggiungere i santi nascosti e dimenticati, santi che i cristiani ignorano perché sono
di altre religioni; santi che nessuno prega, santi vissuti nell‘oscurità, i cui nomi però —
stupenda calligrafia di Dio! — sono scritti in cielo, “nel libro della vita dell’Agnello” (Ap
21,27). Mi sono commosso quando ho letto di un confratello nel sacerdozio, il quale, tutte
le volte che entrava in una chiesa, per prima cosa invocava i santi di quella particolare
chiesa, e non solo i santi d‘altare, ma anche quelli che vi sono passati e su quelle panche
hanno pregato, sofferto, gioito, consegnato a Dio il futuro della vita.
A confermarci la presenza di questa santità nascosta, c‘è il testo dell‘Apocalisse,
segnato dalle figure di coloro che seguono l‘Agnello dovunque vada. È come un fascio di
luce nel buio della notte in cui versa la città in rovina, dopo le visioni tragiche
dell‘intronizzazione della bestia, fatta dal drago, e dopo i maneggi del falso profeta del
capitolo 13. Nella visione giovannea del capitolo successivo, Cristo appare in piedi, sul
monte Sion, la meta verso cui Dio conduce il popolo dell‘Esodo. Sta ritto, quale il Risorto,
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ma non è solo: sono con lui i centoquarantaquattromila che portano il suo nome e il
nome del Padre suo sulla fronte.
Chi sono questi centoquarantaquattromila segnati? “Sono coloro che non si sono
contaminati con donne; sono vergini, infatti, e seguono l’Agnello dovunque vada” (Ap 14,4).
L‘espressione ―non contaminati da donne‖ è da prendere in senso spirituale. Il contesto
indica che i centoquarantaquattromila rappresentano tutto il popolo di Dio, uomini e
donne. Per la stessa ragione non si può parlare, almeno direttamente, di un gruppo
esclusivo di asceti che hanno rinunciato al matrimonio. Questa verginità è piuttosto da
capire in senso simbolico, nella prospettiva della ―fedeltà e integrità della Chiesa, che si
guarda da qualsiasi contaminazione con l‘idolatria del mondo‖ ( D. MOLLAT).
Essi ―seguono l‘Agnello dovunque vada‖. È la definizione stessa della Chiesa. Essa è
la comunità dei discepoli. Non si tratta di una passeggiata celeste, ma di una comunione
di destino e di una solidarietà spirituale. È il tema caro già nel Vangelo di Giovanni, a
partire dalla vocazione dei due discepoli al seguito di Gesù, indicato dal Battista come
“l’Agnello di Dio” (Gv 1,29). E, alla fine del Vangelo, sarà Pietro a seguire Cristo fino al
suo mistero di morte e risurrezione (cf. Gv 21,15-18).
Dove ha luogo questa scena? Dov‘è questo monte Sion (Ap 14,1)? È sulla terra o è già
nella Gerusalemme celeste? Sembra difficile affermare che sia già nell‘eternità, nella
Gerusalemme celeste. Diversi esegeti, tra cui D. MOLLAT, sono concordi nell‘affermare che i
centoquarantaquattromila segnati rappresentino in realtà la Chiesa terrestre. Del resto, il
contesto in cui tutto il libro dell‘Apocalisse si colloca è quello della assemblea liturgica
nel Giorno del Signore. C‘è chi lo legge come il gruppo di coloro che precederà il ritorno
definitivo di Cristo nel tempo del ―millennio giovanneo‖ (cf. Ap 20,5-6). Giovanni vede il
mistero della Chiesa che si compie oggi sulla terra come attuazione dell‘eternità, un
vivere già sulla soglia di essa.
Occorre ora guardarci intorno e riconoscere ―i segnali della vigilanza‖ che sono stati
posti sulle vie della Chiesa, perché si ricordi sempre di essere in cammino verso la
pienezza del Regno e la nuova Gerusalemme.
2. La vita consacrata, attesa del Regno futuro
21. Tra i segnali di vigilanza, che il Signore ha dato provvidenzialmente alla nostra
Chiesa per richiamarla al primato della vita eterna, innegabile è il segno della vita
consacrata e la sua molteplice presenza in Diocesi, a partire dalle comunità di vita
contemplativa: i monasteri femminili di Correggio, Montecchio e Sassuolo, che amo
pensare come a lampade ardenti di fede e preghiera per il nostro cammino.
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Non è questo il luogo per dire tutto sulla vita consacrata — ci vorrebbe un‘altra
lettera pastorale! — ma per rileggerla nella prospettiva del suo statuto primario. È noto
che lo stato di vita consacrata, per la sua esteriore e audace rinuncia al matrimonio, a
una
famiglia
propria,
al
possesso
personalizzato
dei
beni
e
a
una
carriera
autonomamente costruita, sia di per sé un segno forte di ciò che sarà la vita eterna. E
poiché la vita consacrata è questo, occorre che lo sia ―davvero‖. Non basterà portare
l‘abito — segno visibile, ma non unico —: occorrerà seriamente testimoniare nella vita il
Risorto. E a questo scopo vigilare.
Di fronte a questa identità ultima della vita consacrata, sorgono qui alcune domande
sulle quali avviare la riflessione, confrontarsi, predisporsi anche a qualche passo
ulteriore: la gente, guardando le persone consacrate, è davvero richiamata all‘apertura
sull‘eternità, al primato di Dio e dei beni eterni che prepara per coloro che lo amano?
All‘interno del tempo della vita quotidiana, del lavoro e del servizio, della partecipazione
alla vita della Chiesa, della parrocchia e del gruppo, sono segno del Signore che viene e
profezia del Regno futuro?
Nella nostra società occidentale, pervasa dalla cultura della fretta, è sempre più
difficile il rapporto con il tempo: quando dico questo non penso solo alla gente che corre
il mattino per prendere il treno e, dopo aver lavorato tutto il giorno, ritorna alla sera
stanca e persino innervosita anche oltre la porta di casa. Penso ad esempio anche alla
giornata di tante religiose a loro volta affannate, ansiose per gli impegni da sbrigare, che
agiscono con nervosismo, per cui la gente, gli altri, le stesse persone della loro comunità
se ne accorgono e faticano a confidarsi.
Certo, c‘è il tempo della preghiera, ma basta avere o è necessario ―dare tempo‖ alla
preghiera? Le scuse per giustificare il poco tempo dato alla preghiera sono tante: il
personale della comunità è sempre meno, mentre il lavoro è sempre lo stesso, se non di
più; e poi avere tempo per pregare ormai stanchi, non è proprio l‘ideale: meglio riposarsi,
leggere qualcosa, guardare la televisione. Diverso è invece dare il tempo alla preghiera, a
Dio che si è dato del tempo per me — nella Parola, nella adorazione, nel silenzio
contemplativo —, lasciando che Lui mi invada, mi penetri, mi guidi, mi conforti, mi dia
pace.
Ho parlato più sopra del vivere quotidiano, apprendimento ed esercizio della
speranza. I consacrati, e le loro comunità, sono chiamati a operare responsabilmente
nella Chiesa e nella società, a vivere tutte quelle azioni che vanno dall‘amministrazione
ordinaria della casa, fino alle opere assunte di carità, di assistenza, di insegnamento e di
servizio di ogni tipo. Certamente le comunità religiose sono cresciute nello spirito di
responsabilità, di competenza, di preparazione anche culturale. Evidentemente bisogna
dare un ordine agli impegni: se, infatti, si mette la competenza al primo posto (titoli di
— 38 —
studio, aggiornamento…) si rischia di trascurare la preghiera. La competenza che si
chiede alla vita consacrata non è il farsi un ideale di sé, ma una competenza vissuta
come testimonianza di dedizione al Signore e alla Chiesa.
Ho parlato nella lettera anche di vigilanza nelle situazioni di fragilità e di malattia, di
cura degli infermi e degli anziani in difficoltà. Si tratta di categorie in crescita con il
prolungamento della vita, che pesantemente avvertono il trascorrere del tempo,
l‘incertezza della malattia e magari l‘angoscia della morte. Le comunità religiose possono
fare molto per queste categorie di persone nelle parrocchie, nelle case di riposo, nelle
stesse loro case con le consorelle malate o anziane. In passato, le suore infermiere hanno
costituito una preziosa risorsa per la presenza della Chiesa negli ospedali. Oggi il
personale religioso è talmente ridotto che bisogna prevedere nuove forme di assistenza:
ad esempio, accanto ai cappellani, anch‘essi in diminuzione, non dovrebbero mancare le
suore — oggi si dice assistenti religiose, ufficialmente riconosciute dagli ospedali.
Crescono anche nella nostra Diocesi le comunità religiose provenienti da altri Paesi e
culture, in particolare dal Kerala (India), a testimonianza di una reciprocità nel modo di
intendere la Chiesa in missione sempre più come scambio di doni tra Chiese sorelle.
Così come non mancano forme di consacrazione secolare con l‘Istituto dei Servi della
Chiesa, le Serve della Chiesa; la consacrazione vissuta nel riserbo dalle Figlie della
Regina degli Apostoli e da coloro che appartengono al ramo dei Secolari nella
Congregazione Mariana delle Case della Carità; la consacrazione femminile nell‘―Ordo
Virginum‖ e, non da ultime, le forme di vita eremitiche.
Ciò che accomuna le persone chiamate a questa scelta di vita è la testimonianza che
il carisma evangelico della verginità è un dono che il Signore Gesù fa alla Chiesa locale,
ne rappresenta la sua ricchezza originaria, se non l‘aspetto più provocatorio della Chiesa
oggi, come già all‘epoca del vescovo Ambrogio nei confronti della società pagana: quello di
vivere la consacrazione lì dove si è, nelle condizioni delle persone che vivono del loro
lavoro; avvicinare la gente là dove vive, opera, lavora, studia, soffre condizioni di
marginalità e solitudine; non avere paura di essere presenti e operanti nelle istituzioni,
dando testimonianza di ―opere buone‖, anzi belle, in quanto apprezzabili anche dal punto
di vista civile quale apporto costruttivo e arricchente la vita e la società umana, come ci
insegna la prima lettera dell‘apostolo Pietro (2,11-12).
Alle claustrali, ai religiosi e alle religiose, a tutti i consacrati e le consacrate, rivolgo il
mio ringraziamento e apprezzamento, con l‘augurio di crescere in quella spiritualità di
chi, credendo alla promessa di Dio, sperimenta la gioia di sapersi amato, amata dal
Signore. L‘unico segreto per attrarre vocazioni è irradiare gioia. Possiamo fare mille
inchieste, cento convegni vocazionali, ma se una comunità religiosa, una persona
consacrata non hanno la gioia, quelle iniziative non servono.
— 39 —
3. Essere preti nei cambiamenti del ministero
22. Il cambiamento non si può negare e interpella il nostro modo di intendere il
ministero pastorale: la maggiore mobilità della gente, ad esempio, chiede alle nostre
parrocchie una più grande comunione di intenti e di risorse; la nuova evangelizzazione
chiede uno stile più missionario per superare la pura prestazione di servizi religiosi
spesso solo formale; il calo dei preti, vistoso sia di numero che di forze, chiede una
maggiore e migliore articolazione del ministero.
La Parola di Dio ci ha educati ad affrontare le difficoltà come occasioni di
maturazione e di grazia: come luogo di speranza e non di rassegnazione. L‘invito è di
sapere fare scelte coraggiose di ridimensionamento o di ripensamento, perché il fare
anche per noi preti non sia a discapito dell‘essere. È lo sforzo di guardare la pastorale
sinteticamente, di cogliere l‘insieme, di non essere soffocati dall‘immediato senza
progettare, senza la pacatezza di pregare, pensare, studiare, formarsi, coltivare qualche
amicizia anche tra sacerdoti. Al Vescovo con il suo presbiterio è chiesta dunque una
vigilanza paziente e oculata nell‘esercizio del ministero per saper discernere quali aspetti
della conversione pastorale siamo oggi chiamati ad attuare.
Aggiungo un‘altra attenzione. Nel momento in cui la pastorale si fa più complessa e
la figura del prete sembra venire meno — alimentando il rammarico dei posti vuoti che
mai il popolo delle parrocchie pensava di vedere sguarniti, come il parroco in ogni
canonica, il prete giovane in ogni oratorio… — proprio in questi anni, la preghiera
accorata al Padre perché ―mandi operai nella sua messe‖ (cf. Lc 10,2) sembra aver
trovato una risposta che tocca a noi accogliere e valorizzare come dono.
La nostra Chiesa ha visto uno sviluppo notevole di nuove ministerialità: il diaconato
permanente, innanzitutto; i ministeri istituiti e di fatto, la schiera di ministri straordinari
della santa Comunione, chiamati a collaborare per la missione: davvero una grazia della
quale prendere coscienza. Certo non dobbiamo smettere di pregare il Signore per ―tante e
sante‖ vocazioni sacerdotali, ma non possiamo sciupare questi doni; comunque utili e
necessari quand‘anche avessimo una ricchezza presbiterale sufficiente!
C‘è infatti una immagine di Chiesa che emerge dal fiorire della ministerialità: una
Chiesa che non si ferma a suscitare volontariato ma spinge a una partecipazione attiva,
stabile, corresponsabile e, in quanto Corpo di Cristo, vive se ogni suo membro è vitale.
Una Chiesa che non intende ―chiudersi attorno all‘altare‖ con chi è rimasto, ma vuole
andare ―oltre la soglia‖ per portare, sulle strade di oggi, la Parola di Dio, la testimonianza
delle fede, la misericordia di Cristo buon samaritano.
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Soprattutto con il ripristino del diaconato permanente questa Chiesa si arricchisce. È
un ministero ordinato per essere complementare al ministero della presidenza: ordinato
per il servizio, accanto al presbitero ordinato per il sacerdozio. In questo modo le nostre
comunità possono integrare il compito della presidenza e della formazione con il
ministero del diacono, quale animatore del servizio e della carità.
È quindi possibile dare ―ossigeno‖ alla vita del prete e al tempo stesso conservare una
presenza capillare della Chiesa tra la gente e una animazione articolata della
evangelizzazione: come un tempo il parroco arrivava di persona a tutti in una comunità a
misura d‘uomo, oggi può essere presente tramite la rete del servizio ministeriale che i
vari ministri tessono sul territorio, anche se ben più ampio e ben più popolato: le stesse
unità pastorali e comunità ministeriali ne sono un segno promettente.
C‘è la fatica della novità, ma l‘amore del Signore e l‘amore per l‘uomo devono aiutarci
a semplificare i problemi. Ovviamente non possiamo dimenticare, e ribadire con forza,
come questa pluralità di ministeri possa diventare una ricchezza se attualizza la
―diaconia‖ della Chiesa. Siamo ministri di Cristo e della Chiesa: non funzionali a un
bisogno o, tanto meno, battitori liberi. Proprio per questo, noi ministri — tutti — dovremo
trovare in Cristo Servo l‘unico modello, la nostra carica spirituale, uno stile di esemplare
dedizione nella gratuità e nella vigilanza.
Se vivremo il nostro ministero — dal Vescovo, al presbitero, al diacono, ai ministri
istituiti o di fatto — come servi fedeli e vigilanti, crescendo ogni giorno nella vita interiore
e diventando sempre più testimonianza di comunione in ciascuna delle nostre comunità,
la nostra Chiesa avrà davvero un segno concreto di speranza perché, anche nel
cambiamento, non avremo smesso di portare agli uomini Cristo e la sua Parola di
salvezza.
4. Genitori ed educatori, nella sfida educativa
23. Siamo di fronte ad un compito che oggi si è fatto sempre più difficile: educare le
nuove generazioni. Le cause si sono in questi tempi moltiplicate e la famiglia, la
comunità cristiana, tutte le agenzie educative si sentono incapaci ad affrontare questa
sfida, che è divenuta una vera emergenza. Però non sono solo in questione il contesto
socio-culturale, che è mutato, e il ruolo educativo della famiglia, che si è attenuato; in
questione è la famiglia stessa, così come oggi si presenta o si vuole far passare come
modello diverso da quello che era all‘origine.
È proprio su questo che occorre vigilare: quale identità è propria dell‘essere famiglia?
C‘è un suo aspetto sorgivo da salvaguardare, che è quello del generare, inteso come dar
vita non solo in senso biologico ma compiutamente in senso umano. Si tratta di vigilare
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su quale ambiente fisico e psicologico può favorire la crescita e l‘educazione di un
bambino o di un adolescente oggi.
Ma dobbiamo anche porci la domanda: che cosa si intende per educazione? Diverse
sono le risposte: istruire, informare, sviluppare, far emergere le qualità già date, ma
anche proporre un progetto di vita da attuare, che richiede dei modelli, degli
accompagnatori, dei testimoni; per cui vigilare implica avere capacità di discernimento,
cogliere la dimensione vocazionale della vita. È un vigilare molto attento, perché
l‘educazione si presenta come un processo umano globale, dove entrano in gioco vari
fattori e da cui dipende il futuro di una persona.
È compito di coloro che si sono assunti la responsabilità di essere genitori, prima che
amici e confidenti dei propri figli, di rendere ragione al figlio della promessa che essi
hanno fatto mettendolo al mondo: la promessa per cui ―c‘è una speranza per la tua vita; e
c‘è anche una legge, cioè un ordine, che tu puoi apprendere: rispettare quest‘ordine ti
consentirà di non avere mai paura, di non temere mai che il mondo precipiti nel caos‖.
E la vocazione non è innata, ma è una chiamata da riconoscere, che esige una
risposta. Non è sufficiente l‘impegno di ben educare, occorre anche che la famiglia e la
comunità siano formate e capaci di discernere, di accompagnare. Ma è difficile avere
l‘uno e l‘altro se non c‘è un patrimonio di valori e di saperi ritenuto degno di essere
tramandato.
Lo stesso cammino di educazione alla fede, offerto dalle parrocchie, deve essere ben
finalizzato. Il suo scopo non è solo trasmettere dei contenuti, delle spiegazioni, ma
educare a una mentalità di fede, a una relazione di amicizia con Gesù, il primo e vero
educatore, e a sentirsi partecipi alla vita ecclesiale.
Avere cura che questi obiettivi siano ben recepiti dice la concretezza dell‘essere
vigilanti, perché molti giovani e adulti, pur non rinnegando Dio, pur rispettando la
Chiesa, danno però poca importanza alla crescita della fede, conservano un‘immagine
infantile di Dio, vivono in maniera individualistica il fatto religioso, il senso di
appartenenza ecclesiale è ridotto a un lumicino. Una comunità che vigila, sa intercettare
queste situazioni e promuovere nuove piste, itinerari particolari per ravvivare ciò che si
stava spegnendo o per ricominciare cammini interrotti o per riaprire porte che erano
state chiuse con giudizi, decreti, divieti.
5. Amministratori, responsabili del bene comune
24. Analoga vigilanza chiede il servizio di chi opera in ambito sociale e politico. Mi ha
sorpreso la lettera, con la quale un sindaco dava il benvenuto al vescovo nella visita
pastorale alla sua città: ―La sua presenza per me, in questi momenti difficili, è motivo di
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conforto e di sostegno per il lavoro quotidiano che gli amministratori si sforzano di
compiere come realtà spirituale e non come semplice offerta di servizio‖. Mi ha colpito
quel riferimento al compito amministrativo come ―realtà spirituale‖.
Certo, il lavoro di un sindaco è compito amministrativo, studio e progettazione dei
punti fattibili del programma, ricerca delle necessarie risorse materiali e umane,
qualificazione delle strutture, opera di mediazione tra le diverse componenti della
compagine amministrativa. La lettera lascia però aperta la domanda sulla ―realtà
spirituale‖ soggiacente al proprio servizio. A quali atteggiamenti, meno di competenza
politica e professionale e più di significato personale e spirituale, intendeva riferirsi la
lettera del sindaco? Se non è provocatoria, la domanda potrebbe essere questa: a quali
condizioni è possibile la santità politica? È la provocazione che Giovanni Paolo II ebbe a
fare in uno dei suoi viaggi apostolici, rispondendo a un giornalista: ―per fare politica ci
vuole la santità‖.
La storia ci parla di diverse figure che hanno amministrato la politica in tempi
difficilissimi: Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Giorgio La Pira, e, ultimamente,
Giuseppe Lazzati, per citare solo alcuni nomi più recenti, di cui si è introdotta la causa di
beatificazione. Per una esposizione più comunicabile a tutti raccolgo le diverse
sollecitazioni, che mi sono state offerte da persone impegnate nel civile, sotto due aspetti:
le condizioni personali della vigilanza spirituale in politica e le sue dimensioni
comunitarie.
Tra le condizioni personali, non è secondaria una certa ascesi, fatta anche di rinunce,
come quella di rinunciare a prendersi un po‘ di riposo quando si vuole; fare dei sacrifici
per avere tempo anche per la vita familiare, per occuparsi dei figli, e non lasciarsi così
prendere la mano dal proprio progetto. Comprendo le difficoltà e il prezzo che la vita
quotidiana comporta per chi esercita una carica. Giustamente il politico fa delle rinunce
spinto dalla volontà di riuscire, dal desiderio di farcela, di mantenere il suo posto. E,
tuttavia, bisogna riconoscere che solo uno sguardo contemplativo, rivolto al futuro di Dio
già presente e operante nella storia, distaccato dal successo e dall‘immediato consenso,
permette un agire libero rispetto ai beni, alle istituzioni, allo stesso consenso sociale.
Così chi ha responsabilità politiche non sarà schiavo del consenso sociale, bensì un
―ministro‖, cioè un saggio servitore, preoccupato del bene di ciascuno e di tutti.
Vigilare spiritualmente chiede pazienza, che qualcuno definisce pazienza ―politica‖. V.
Havel, ex presidente della Cecoslovacchia, in una conferenza all‘Accademia delle Scienze
morali e politiche a Parigi diceva: ―Signore, Signori, vengo tra voi da un Paese che per
molti anni ha vissuto nell‘attesa della libertà, e mi sia permesso in questa occasione di
presentare una breve riflessione sul compito dell‘attesa‖. E distingueva due tipi di attesa:
l‘attesa vaga di chi non può fare niente — ―Aspettando Godot‖, secondo il celebre
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dramma di S. Beckett —, di individui che hanno perso ogni speranza di trovare una via
d‘uscita; e l‘attesa come pazienza, un‘attesa animata dalla speranza che resiste dicendo
verità anche scomode al sistema, senza calcolare se domani o mai tale impegno darà
frutti; è una questione di principio, che va fatta per se stessa. Non si può essere laici
cristiani senza essere considerati un’anomalia scomoda di questo sistema.
Tra le
condizioni comunitarie
è
prioritaria una visione del potere
politico,
dell‘amministrazione civile come responsabilità di cose non tue: ―signoria prestata‖ diceva
S. Caterina da Siena ai governanti, signori della città, ma anche ai vescovi e ai papi nelle
sue famose lettere in una situazione epocale molto grave per la società e la Chiesa. La
―signoria prestata‖, l‘impegno politico e amministrativo riguardo a cose non tue, può
chiedere diversi atteggiamenti di vera spiritualità a chi esercita la politica ispirandosi
cristianamente.
* Il potere, in quanto è affidato e non è quindi possesso proprio, è da conservare e
promuovere come bene altrui, come bene di ciascuno e di tutti. Cosa vuol dire questo di
fronte alla deriva individualistica, alla crescente diseguaglianza sociale, al clientelismo
diffuso, alla corruzione della politica e dell‘economia?
* Il potere politico, l‘amministrazione civile sono ―prestati‖ e a un certo punto le cose
prestate devono essere restituite. Se, da una parte, il politico, l‘amministratore si
impegnano a fare di tutto per riuscire, per arrivare, per operare ciò che ritengono utile
per servire il bene comune, d‘altra parte sanno che un giorno dovranno restituire il
mandato. Per sintetizzare questo atteggiamento, bisogna ―agire come se tutto dipendesse
da noi‖ (con grande scrupolo, con dedizione, formandosi bene, progettando…) e nello
stesso tempo ―sapendo che tutto dipende da Dio‖ (S. Ignazio di Loyola).
* Il potere politico, la signoria della città, sono dunque prestati ―a tempo‖. Credo sia
compito dei politici, degli amministratori formare nuove generazioni, l‘essere contenti che
i giovani vadano avanti, prendano spazio, sostituendo quanti li hanno preceduti. Quindi
chi amministra il bene comune deve essere uno che attende l‘alba (o sta nella notte) e,
come priorità, mette ogni energia a promuovere le nuove generazioni con un investimento
non ―rapace‖, ma liberante sui giovani.
Mi domando se un cambio generazionale degli impegnati in politica, attento alla
necessità di trovare forme per coinvolgere e ascoltare i cittadini, senza manipolazioni
mediatiche, e assecondato da una adeguata legislazione al riguardo, non favorisca
finalmente una maggiore identità e stabilità dei partiti e delle scuole di formazione, al di
là dei facili trasformismi, questi sì funzionali ai personalismi.
Non mancano politici e amministratori che si preoccupano del bene comune,
impegnati in un lavoro di mediazione spesso defatigante.
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Qualcuno, alla fine di queste riflessioni, potrebbe dire: abbiamo ascoltato parole e
principi molto belli, anche difficili, e il Signore ci aiuterà a praticarli. Tuttavia, dopo che
ci saremo impegnati in questa linea, che cosa saremo, se non una “voce che grida nel
deserto” (Gv 1,23), cioè una piccola minoranza che non avrà cambiato niente? Una bella
domanda … che volentieri lascerei aperta per l‘incontro con i politici e amministratori in
occasione di una giornata di spiritualità o della visita pastorale agli ambienti di vita della
città.
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CONCLUSIONE
BEATI I SERVI CHE AL SUO RITORNO TROVERÀ SVEGLI
25. “Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli
che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e
bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora
svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a
servirli” (Lc 12,35-37).
L‘uomo diventa ciò che attende. Chi attende la morte, diventa figlio della morte e
produce morte: ―Il Messia arriverà presto — si legge alla fine di La famiglia Moskat di
Isaac B. Singer —, la morte è il Messia. Questa è la verità‖. No, la verità è un‘altra.
Chi attende il Signore Gesù, ha la sua stessa vita, diventa ―figlio nel Figlio‖.
L‘esistenza cristiana è attesa di colui che deve tornare: lo Sposo. Ma il tempo dell‘attesa
non è vuoto. È il tempo della salvezza, in cui la Chiesa testimonia il suo Signore davanti
a tutto il mondo. La storia diventa il luogo della decisione e della conversione, della
vigilanza e della fedeltà alla Parola.
“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”. Dunque, siate pronti
con la tenuta di lavoro, di servizio, che è anche tenuta di viaggio, secondo la prescrizione
per la cena pasquale (Es 12,11). Il cammino dell‘esodo si attua nel lavoro e nel servizio
quotidiano di chi, celebrando l‘Eucaristia, viene associato al mistero del suo Signore;
quel Signore che, avendo amato i suoi fino alla fine, si fece servo dei fratelli (cf. Gv 13,4).
Questo è l‘atteggiamento corretto per attendere il Signore. Non c‘è da guardare il cielo (cf.
anche At 1,11), ma da testimoniarlo sulla terra.
“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico,
si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. La beatitudine
del Regno è qui detta nei confronti di chi conduce una vita pasquale, la cui sorgente è
l‘Eucaristia. Il Regno viene già adesso, quando il credente vive l‘Eucaristia, culmine e
origine di tutta la vita cristiana. Il Signore che incontriamo nella Parola e nell‘Eucaristia
ogni domenica è lo stesso che verrà a introdurci e servirci alla mensa del Regno.
Questo brano, ricco di termini eucaristici e pasquali, chiama tutti a rispondere alla
domanda con cui abbiamo iniziato questa lettera pastorale: ―Come escono i cristiani dalla
Messa domenicale?‖, specialmente chi nella comunità ha qualche ministero, chiamato a
vivere da amministratore fedele e saggio, libero da ogni egoistico protagonismo, e attento
al servizio, vigilando sulla disponibilità a ripensare il proprio ministero nel cambiamento.
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Come scrivevo nella Lettera al clero consegnata alla Messa crismale del 2006: ―Pur in
un mondo che cambia velocemente, l‘opera dell‘evangelizzazione chiede tempi che non
corrispondono ai pochi decenni di un‘esistenza umana, quale è anche quella della vita
sacerdotale. Solo l‘ingenuità può farci pensare diversamente: illuderci di succedere a noi
stessi. L‘immagine piuttosto è quella della staffetta. Si corre una frazione di percorso, poi
si consegna il testimone nelle mani di chi viene dopo di noi. Bisogna correre con tutto il
fiato che abbiamo, ma occorre poi aprire la mano e lasciare il testimone, perché altri
possano correre dopo di noi‖.
Per quanto mi riguarda, faccio mio l‘invito di Gesù agli apostoli: “Anche voi, quando
avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto
quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). La traduzione ―siamo servi inutili‖, non è del tutto
esatta, perché il servo che fa il suo servizio non è ―inutile‖. In greco, si usa una parola (achreios) che alla lettera significa ―senza utile‖, cioè senza guadagno né tornaconto.
Significa che noi non facciamo il nostro lavoro per guadagno, ma per dovere e
gratuitamente. Siamo ―semplici servi‖, traduce la Bibbia di Gerusalemme, ―abbiamo fatto
quanto dovevamo fare‖.
Ambrogio, vescovo di Milano, spiega questa pagina non solo come invito alla libertà
da riconoscimenti e ricompense per il lavoro svolto, ma come disponibilità ad assumere
altro lavoro. È l‘obbedienza che il signore della parabola chiede al servo di ritorno dal
lavoro nel campo e dal pascolare il gregge: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai
fianchi e servimi” (Lc 17,7).
E Ambrogio così commenta: ―Se tu non dici al servitore addetto all‘aratura oppure a
pascolare le pecore: ‗mettiti a tavola‘, ma richiedi a lui un altro lavoro e neppure lo
ringrazi, così nemmeno in te il Signore permette che vi sia l‘esclusività di una sola
occupazione o di un‘unica fatica, perché, finché viviamo, dobbiamo sempre essere in
attività‖ (Commento a Luca VIII, 31).
S. Agostino, diventato vescovo contro voglia, al di là delle sue previsioni e della sua
iniziale scelta di vita monastica, in una omelia ai suoi fedeli sulla Trasfigurazione,
confidava un giorno di averne già abbastanza di vivere tra la gente preso da un servizio
pastorale troppo oneroso e faticoso, fino a lamentarsi di non avere più neanche il tempo
di pregare.
Commentava a suo favore la confessione dell‘apostolo Pietro sul Tabor: “Rabbì, è bello
per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (cf. Mc
9,5). Ma ecco che Gesù trascina subito Pietro e gli apostoli giù dal monte verso la folla in
attesa. E Agostino, scendendo dal pulpito, come Gesù, non si ritirò a vita privata. Era
vecchio, ma non si sentiva stanco. Affidò ad Eraclio la cura amministrativa della diocesi,
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ma non per riposarsi. ―Finalmente, se Dio mi concederà ancora un po‘ di vita, non
dedicherò quel poco di questa mia vita alla pigrizia né all‘inerzia, ma l‘impiegherò, nella
misura che Dio mi permetterà e concederà, allo studio delle Sacre Scritture‖ (Epistola
213,6).
Eraclio, dopo la designazione parlò al popolo, presente Agostino. Disse tra l‘altro: ―Il
grillo stride, il cigno tace‖. In realtà il cigno non taceva ancora. Al vescovo Agostino non
restarono che quattro anni di vita, ma furono anni di sorprendente attività. Terminò la
Città di Dio, portò avanti le Ritrattazioni, tenne una disputa con il vescovo ariano
Massimino, scrisse lettere ai conti Bonifacio e Dario per mettere pace nella corte
imperiale, e altre per confortare le vittime dell‘invasione vandalica. Quando il mondo
sembrava bruciare, Agostino parla della vecchiaia del mondo; ma se il mondo invecchia,
Cristo è perpetuamente giovane. È il succo della Città di Dio.
L‘otium che Agostino aveva chiesto, divenne veramente, come aveva promesso, un
magnum negotium. E se così facevano Ambrogio e Agostino…
A questi Santi, che sono maestri e compagni di viaggio nel mio cammino, ai patroni
San Prospero e San Francesco, e in particolar modo a Maria, a cui voglio rivolgermi col
dolcissimo nome di Madre della Speranza, affido questa lettera alla mia Chiesa.
+ Adriano VESCOVO
Reggio Emilia, 15 agosto 2010, nella solennità di Maria Assunta in cielo,
patrona della Cattedrale e di tante chiese ad essa intitolate in Diocesi
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vigilate: ecco, sto alla porta e busso