€ 20,00 a cura di P. Gianni e A. Miceli Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento Il Comitato Nazionale Universitario – associazione culturale e sindacale – racconta in questo libro l’evoluzione del sistema universitario nel nostro Paese a partire dagli anni sessanta fino ai giorni nostri. La passione che caratterizzò l’attività politico-sindacale dei docenti e degli studenti progressisti nei primi tre lustri e l’impegno profuso in seguito sono stati messi in evidenza. Appare significativo che lo slogan lanciato dal CNU: “il docente unico a tempo pieno nel dipartimento”, che ancora oggi ha trovato una realizzazione solo parziale, mantenga intatta la sua validità. Questo lavoro, tra l’altro, vorrebbe stimolare un maggiore impegno per il futuro da parte delle giovani generazioni di docenti e studenti. Un racconto diretto di alcuni protagonisti che hanno operato nell’università e nella ricerca, nel CNU e col CNU. ETS Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento Il Comitato Nazionale Universitario (CNU): passione, impegno e futuro a cura di Paolo Gianni e Antonio Miceli Edizioni ETS Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento Il Comitato Nazionale Universitario (CNU): passione, impegno e futuro a cura di Paolo Gianni e Antonio Miceli Edizioni ETS www.edizioniets.com © Copyright 2014 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884674095-3 “Leges sine moribus vanae” motto scelto da Tristano Sapigni per il sito CINECA del CNU Alle nostre due nipotine Viola (2 anni e 8 mesi) e Anna (1 anno e 10 mesi): gran parte del tempo dedicato a questa opera … lo abbiamo rubato a loro! Indice Introduzione a cura della Redazione13 Presentazione di Vincenzo Vecchio (Presidente Nazionale del CNU)15 Parte I L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri. I protagonisti e gli amici del CNU Un aiuto alla lettura – Il CNU e i suoi giornali, a cura di Antonio Miceli 21 – Slalom tra le relazioni, a cura di Paolo Gianni33 1960-1968: le Associazioni protagoniste del dibattito sull’università italiana, di Giunio Luzzatto 1961-1971: verso il CNU – – – Le idee di riforma dall’UNAU al CNU, di Gaetano Crepaldi Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU, di Gaetano Gallinaro Dall’AFDU alla FADRU e al CNU: ricordi indimenticabili a cavallo degli anni ’70, di Piero Manetti 1971-1976: la Presidenza di Giorgio Spini – – – – Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU, di Mario Rinaldi Mio padre Giorgio: il “docente unico”, di Valdo Spini Un pensiero grato al primo fondatore del CNU, di Antonio Miceli La cattedra di Storia alla Saint Angels University, di Gaetano Gallinaro 1976-1979: la Presidenza Battistin – Storia del CNU: seconda metà anni Settanta, di Leontino Battistin 41 49 55 65 71 95 99 101 105 1979-1984: la Presidenza Faranda – Una intervista di Paolo Gianni e Sergio Sergi a Paolo Blasi 129 – Anni di svolta: ricordi di Francesco Faranda, di Enrico Decleva141 – Il ricordo di un protagonista: Ciccio Faranda, di Antonio Miceli151 1984-1988: la Presidenza Cresci – Una intervista di Antonio Miceli a Franco Cresci 157 8 Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento 1988-1993: la Presidenza Pupillo – Una esperienza da presidente del CNU, di Paolo Pupillo163 – Minimemorie da CNU e CUN, 1979-1986, di Paolo Pupillo171 1994-2002: la Presidenza Sergi – Il vuoto del dopo-Ruberti, di Sergio Sergi183 2002-2008: la Presidenza Cordini – Il sistema universitario tra dibattiti e riforme, di Giovanni Cordini203 2008-2011: la Presidenza Indiveri – Il CNU e la Riforma Gelmini: lo scontro con i muri di gomma, di Franco Indiveri219 2012-2013: la Presidenza Simone – Una breve presidenza, di Paolo Simone227 2014- : la Presidenza Vecchio – Linee guida per una politica di rinnovamento e di crescita del sistema universitario italiano: perché un’associazione sindacale universitaria?, di Vincenzo Vecchio237 Parte II Contributi monografici Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio, di Giovanni Cordini247 La legislazione universitaria, di Paolo Gianni267 La Commissione Medicina, di Franco Indiveri301 La Commissione Ricercatori, di Margherita Chang311 Parte III Il CNU sul web Il sito Università e Ricerca del CINECA, di Manlio Fadda319 La lista di discussione UNILEX, di Claudio Della Volpe323 universitaericerca.it, di Antonio Miceli327 Parte IV Testimonianze Alle origini del DPR 382: i rapporti unitari fra confederali e CNU, di Gian Mario Cazzaniga333 La prima Conferenza Nazionale Universitaria del 1976 a Milano. Un ricordo e una prospettiva per la storia del CNU, di Brunello Vigezzi 339 Indice 9 Nascita e contributo del CNU allo sviluppo dell’università e della ricerca in Italia, di Luigi Rossi Bernardi343 Con affetto e stima, di Luciano Modica347 Un indelebile ricordo della mia militanza nel CNU. Un grande apprendimento, di Vittorio Cecconi351 Parte V Ricordi Ci hanno lasciato anzitempo a cura della redazione355 In ricordo di Giorgio Spini, di Giovanni Cordini e Piero Milani357 Il ricordo di amici CNU. In ricordo di “Ciccio” Faranda – Il mio maestro, di Nino Manganaro359 – 8 giugno 2011, si è spento nella sua amata casa di Tortorici (ME), di Antonio Miceli361 – “Ciao indimenticabile Ciccio”, di Luigi Chiofalo361 – “Per noi genovesi esistono tanti motivi per non dimenticarlo”, di Stefano Monti Bragadin362 – “Sempre allegro disponibile con un forte carattere”, di Roberto Gagliano Candela363 – “Ci portò ad una legge (382/80) che ancora oggi conserva grandi motivi di innovazione”, di Carlo Ferraro363 – “Un Presidente del CNU attivissimo, infaticabile, ricco di entusiasmo, passione, idee ed iniziative”, di Alberto Pagliarini363 – “Iò ti canuscia di quannu eri pirara”, di Sergio Sergi364 – Da una intervista di Paolo Gianni e Sergio Sergi a Paolo Blasi 365 Ricordo di Piero Angelo Milani, di Giovanni Cordini367 Ricordi, di Piero Manetti369 Parte VI Note e tabelle informative Note biografiche degli autori e dei curatori 375 Tabelle informative, a cura di Paolo Gianni 1. Congressi e Giunte Nazionali del CNU 379 2. Presidenti di sede del primo CNU (1971) 383 3. I giornali del CNU 384 4. Convegni, Conferenze Nazionali e Seminari organizzati dal CNU 389 5. Le associazioni universitarie di docenti e di studenti 392 6. Governi e Ministri dell’Università nelle diverse legislature della Repubblica 396 Edizione web (DVD allegato) Il DVD allegato contiene tutto il materiale del libro cartaceo (vedi sezione I) e, in aggiunta, tutta una serie di documenti del CNU che i curatori hanno giudicato meritevoli di essere conservati. Questi documenti vanno da Atti e Relazioni dei Congressi a libretti di proposta del CNU, a documenti singoli cui fanno riferimento le relazioni degli ex-Presidenti del CNU e infine a documenti arbitrariamente scelti dai curatori dell’opera. Tutta questa documentazione sarà depositata anche sul sito del CNU “universitaericerca.it”, che resterà “aperto” per eventuali ulteriori contributi e successivi approfondimenti. I Sezione Il contenuto di questa sezione è identico al contenuto complessivo della copia cartacea, al cui indice si rimanda per brevità. II Sezione Atti, o documenti selezionati, dei Congressi Nazionali del CNU (Relazioni dei Presidenti o di altri esponenti, Mozioni Politiche Generali): I, Firenze 1971Relazioni di Spini, Passerini e Saetta vedi libretto “Per l’Università di domani”, sezione IV II, Milano 1973: Mozione Generale e Atti del Congresso III Torino 1974: Mozione Generale e Atti del Congresso+Comm. Medicina IV, Venezia 1976: Mozione Generale e Atti del Congresso V, Taormina 1977 Mozione Generale e Atti del Congresso+Comm. medicina VI, Tirrenia (PI) 1979Relazione Battistin+Mozione Generale+Comm. Medicina VII, Fiuggi 1981 Mozione Generale e Atti del Congresso+Comm. Medicina VIII,Roma 1984 Mozione Generale e Atti del Congresso+Comm. Medicina IX,Roma 1986Relazione Cresci+Mozioni + Comm. Medicina X, Milazzo (ME) 1988Relazione Cresci+Mozione Generale+Comm. Medicina +Relazione Guerrini (vedi Sezione V) XI,Roma 1991Relazione Pupillo+Mozione Generale+Comm. Medicina XII,Roma 1993Relazione Pupillo+Mozione Generale+Comm. Medicina XIII, Viareggio 1998Relazione Sergi+Mozioni+Odg. Comm. Medicina XIV,Roma 2001Relazione Sergi+Mozione Generale XV, Arenzano (GE) 2006Relazione Cordini+Mozione Generale+Comm. Medicina XVI, Parma 2008Relazione Cordini+Mozione Generale+Comm. Medicina XVII, Siena 2011Relazione Indiveri+Mozione Generale XVIII, Firenze 2013 Atti del Congresso 12 Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento III Sezione I giornali UNAU - Bollettino d’informazione ai soci (1957-1958) - Tribuna Universitaria (1961-1968) CNU - Scelte Universitarie (1971) - Università e Società (I Serie 1972-1976; II Serie 1987-1992) - Bollettino Universitario CNU (Notiziario del Coordinamento Regionale Toscano (1979-1988 + 1 numero del 2005) - Università e Ricerca (1989-1994) IV Sezione Atti di Convegni, Libri e Proposte Ufficiali - “Università sotto inchiesta”, Libro bianco a cura dell’AFDU, Cultura Editrice, Firenze (1969) - “Per l’Università di domani”, vedi Sezione II, Congresso di Firenze (1971) - “Università e Ricerca Scientifica: ricerca di base e programmi finalizzati”, Atti del Convegno di Pisa (16-17 Ottobre 1976) - “Proposta per una conferenza nazionale sull’Università” (1976) - “Nuova Università. Riorganizzazione del corpo docente: le proposte del CNU” (1977) - “Quale Università” Atti del Convegno di Firenze, 26 Gennaio (1996) V Sezione Documenti vari CNU - Statuto e programma dell’AFDU (1968) -Riunione preparatoria CNU-Roma (1970) - Documenti pre-CNU (1970) - Primo sciopero CNU (1970) - Statuto del CNU (versione originale, 2001 e attuale) - Congressi Firenze e Venezia sulla stampa (1971-76) - Primo CNU e articolo Spini (1972) - “Università e Società” intervento di Bruno Guerrini al Congresso di Milazzo (1988) - “Il CNU sullo Stato Giuridico” (1997) - Protocollo ateneo di Pisa sulle relazioni sindacali dei docenti (2006) - “La contrattazione dei docenti universitari” (2006) - Comunicato sull’incontro con il Sottosegretario UR L. Modica (2006) - “Sull’età dei docenti universitari” (2007) - “Le retribuzioni dei docenti universitari: un confronto Italia-USA” (2007) - Lettera aperta del Presidente Cordini al Ministro Mussi (2007) - Documento del Presidente Cordini sulla Ricerca (2007) - Documento della Giunta CNU sulla Politica Universitaria del Governo (2007) - Proposta del CNU di una Legge-Quadro (2008) - “Una proposta per lo stato giuridico dei Ricercatori” (2010) - “La riforma dell’Università (legge Gelmini): perché non ci soddisfa” (2010) - Lettera aperta al Ministro Gelmini (Corriere della Sera, 28 Luglio 2010) - Lettera Ministro e commenti nuova progressione economica (DPR 232-2012) - “La pensione dei docenti universitari dopo la Riforma Monti-Fornero” (2012) - Lettera al Ministro UR: “Nuova Abilitazione Nazionale” (2014) - Lettera al Presidente del Consiglio e Ministri: “Blocco scatti carriera dei docenti universitari” (2014) - Accreditamenti ai Congressi CNU Introduzione L’idea originaria di questo libro è nata da un momento di depressione di uno dei curatori. Scriveva infatti Gianni ad alcuni amici del CNU il 15/6/2011: Carissimi, non so se è stata la dipartita prima di Bruno Guerrini e poi di Ciccio Faranda, ma sta di fatto che per diverso tempo il mio umore è stato abbastanza depresso. Poi in questi giorni il mio Direttore mi ha chiesto di liberargli due armadi, che sono ovviamente quelli in cui conservo tutti i documenti CNU: ulteriore depressione, perché dispiace buttare via documenti che testimoniano 40-50 anni di vita universitaria. Mi chiedo: ma non si può provare a fare una (breve) storia del CNU? Siamo abbastanza intelligenti per immaginare un taglio, direi, giornalistico, o comunque di breve cronaca finalizzata a ricordare nel tempo, oltre alle persone che vi si sono dedicate, tutte quelle idee che mantengono la loro attualità, evitando di cadere nella banale nostalgia del passato. Comunque, per reagire alla momentanea depressione, in palese controtendenza con lo stile giornalistico di cui sopra, mi sono trovato come un automa a raccogliere alcuni dati sulle Giunte Nazionali del CNU, nate dai vari Congressi: tanto, pensavo, dei dati oggettivi come questi ci vorranno comunque. Per darvi una idea vi allego la tabella che ho cominciato a fare.1 Perché vi scrivo. La mia idea sarebbe che alcuni di noi potrebbero scrivere poche paginette per ricordare la nostra attività passata, riassumendola in termini di motivazioni, idee, iniziative e contatti con l’establishment politico, risultati. La persona più adatta per scrivere qualcosa del genere è Piero Milani, che comunque mi ha detto di essere impegnatissimo in altre cose. Però, probabilmente per senso di forte amicizia, non mi ha detto categoricamente che non ne vuole sapere2. Al fine di dividerci il compito, ad esempio, potrei suggerire “a spanne” che Milani potrebbe raccontare il decennio iniziale (1968-1976), Paolo Blasi quello del DPR 382 e della nascita dell’autonomia (1977-1990), Paolo Pupillo quello successivo (1990-2000), e Cordini (Giovanni non ti puoi imboscare!), Sergi e Indiveri il resto fino ai tempi nostri. A Miceli lascerei la funzione di “battitore libero” per completare i rapporti con le forze politiche sull’intero arco temporale. Io mi propongo come… Segretario tuttofare (così la paura di non avere nulla da fare come pensionato per un pezzo è scongiurata). Quello che chiedo sin d’ora, a tutti (cioè anche coloro cui questa è rivolta per conoscenza), è di non buttare via subito tutto il materiale che anche voi avete, e semmai di mettere da parte quello che giudicate potrebbe essere utile allo scopo. Chiunque abbia idee me le comunichi. Vi chiedo di pensarci un attimo, e semmai anche qualche giorno in più, e poi dirmi se potreste aiutarmi nell’opera. Nel caso lo giudicaste possibile, varrebbe la pena tra un po’ fare una riunione apposta. Attendo fiducioso Paolo 1 2 Si tratta della tabella 1 della parte VI. Milani ci lascerà purtroppo nel Giugno 2014 14 Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento A parte l’approvazione di pochi amici questa lettera non ebbe risposte entusiastiche. Per diverso tempo nessuno ne parlò finché, circa un anno dopo (autunno 2012), Paolo Pupillo venne a trovare Paolo Gianni a Pisa. Ne parlarono a pranzo e … decisero che fosse il caso di provare! Paolo Gianni pensò anche di parlare con Antonio Miceli che aveva già avuto l’idea (febbraio 2009) di pubblicare i documenti inviati dalla moglie di Tristano Sapigni, creando un archivio nella rivista del CNU: universitaericerca.it. In quella occasione, nella qualità di direttore, Miceli decise di fare un archivio online di documenti e ricordi dell’Associazione. Da quest’ultimo incontro questa idea uscì rafforzata e si consolidò la convinzione che valesse la pena di tentare. L’idea originale era che attraverso il racconto dell’attività della nostra associazione, il Comitato Nazionale Universitario (CNU), di fatto potesse saltare fuori la storia dell’Università italiana. Certamente il progetto era ambizioso e probabilmente sproporzionato rispetto alle caratteristiche dei potenziali relatori, di cui quasi nessuno aveva la mentalità “da storico”. A ciò dobbiamo ovviamente aggiungere il fatto ulteriore che l’affidare ad una pluralità di soggetti il ricordo di periodi separati che coprono un arco temporale complessivo di oltre 40 anni non era certo il modo migliore per dare all’opera le caratteristiche di una visione storica complessiva e coerente. Pur con tutte queste limitazioni, si decise di provare ugualmente e si propose al Consiglio ed al Direttivo Nazionale di valutare questa iniziativa e di supportarla. La proposta fu ampiamente discussa ed approvata. Sarà il lettore che potrà giudicare se la portata del libro vada al di là di un, pur lecito, desiderio di tante persone di lasciare un ricordo scritto di una parte importante di vita, dedicata con convinzione alla istituzione universitaria. Oltre all’edizione a stampa abbiamo raccolto nel DVD allegato tutti i giornali che hanno scandito la vita del CNU (e anche di qualcuna delle associazioni che lo hanno preceduto) e, indirettamente, l’evoluzione dell’istituzione universitaria in questo lungo periodo. Abbiamo anche aggiunto la riproduzione digitale di una serie di pubblicazioni specifiche del CNU, dei suoi documenti più significativi, e anche, in particolare, di quei documenti che sono semplicemente richiamati a supporto delle relazioni principali. Abbiamo deciso infine di inserire una sezione su universitaericerca.it nella quale sarà memorizzato tutto il testo e gli allegati con l’impegno di inserire eventuali nuovi contributi e gli aggiornamenti di quanto già realizzato. Può darsi che tutto ciò interesserà poco il normale lettore. Siamo però convinti che eventuali studiosi di domani, possibilmente meglio “attrezzati” sotto il profilo storico, e/o giovani operatori universitari potrebbero trovare interesse a ricostruire, anche da questo materiale, la storia della nostra università nel periodo repubblicano. Se questo lavoro sarà utile per “ricordare”, o meglio per riaccendere partecipazione e passione ai processi di riforma e rinnovamento dell’Istituzione universitaria saremo completamente soddisfatti per quello che tutti insieme autori, curatori e dirigenti del CNU abbiamo fatto. Paolo Gianni e Antonio Miceli Presentazione L’opera qui presentata, curata dagli amici Paolo Gianni e Antonio Miceli, oltre a contenere idee, riflessioni, racconti di avvenimenti e momenti di vita universitaria, fa il punto sul sistema universitario, vissuto dai docenti e da una associazione sindacale alla quale i propri iscritti hanno dedicato tempo ed energie nell’interesse supremo di una Istituzione Pubblica quale è l’Università Italiana. L’opera si pone altresì come cerniera di collegamento tra un passato e un futuro che dovrà necessariamente essere impostato su basi diverse e coerenti con la realtà in una ottica di crescita, di semplificazione e di rinnovamento. In qualità di Presidente pro tempore del CNU, sono veramente lieto di poter presentare questa opera, che riassume 50 anni di vita della nostra associazione, il Comitato Nazionale Universitario (CNU). E mi auguro davvero che attraverso il racconto delle esperienze di professori, più che di “sindacalisti”, possa emergere anche un pezzo importante di storia della nostra università. Il lavoro svolto dai colleghi con i loro manoscritti o con le loro interviste è interessante, non tanto perché è bello ricordare quanto è stato fatto dai principali attori di questa attività sindacal-culturale, quanto piuttosto per poter mostrare a chi non ne è stato partecipe, e soprattutto alle nuove generazioni, la ricchezza di un percorso verso un ideale di riforma dell’Università che si è trasformato di fatto in una feconda palestra di democrazia e di vita. Ed è bello constatare come al centro della attività di una associazione di carattere allo stesso tempo culturale e sindacale, al di là delle ovvie battaglie per la difesa dei diritti delle categorie rappresentate, c’è sempre stato l’interesse precipuo nella valorizzazione della istituzione come tale, e nel renderla capace, nel modo migliore, di fornire risposte adeguate alle sollecitazioni della società. In sostanza mi auguro che nell’animo dei lettori che non hanno vissuto questa esperienza possa germogliare un minimo di attrazione verso un modo di intendere il ruolo del docente universitario che sia non solo deontologicamente corretto, ma anche pienamente aperto e partecipato. Sottolineo con soddisfazione il contributo, di alto valore, dato all’opera in forme diverse, da ben 3 ex Presidenti della Conferenza dei Rettori (CRUI) e un ex-Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), a dimostrazione della alta qualità e capacità di colleghi che si sono formati nella nostra associazione o, semplicemente, che hanno avuto occasione di collaborare con essa. L’opera raccoglie una interessante e ricca varietà di contributi, che vanno dalle relazioni di chi ha avuto responsabilità dirigenziali ad alcuni contributi di tipo monografico e alle testimonianze e i ricordi di amici, ai quali l’università è stata particolarmente a cuore. Ma impressiona ancora di più la ricchezza del materiale raccolto 16 Cronache di 50 anni di vita universitaria tra conservazione e rinnovamento nel DVD allegato all’opera cartacea, che va dalle relazioni congressuali alla pluralità delle esperienze editoriali e a singoli documenti di denuncia o di proposta. Sarebbe stato veramente un peccato non conservare questa documentazione e sono particolarmente grato a Paolo Gianni che se ne è fatto carico. Mi accodo quindi alla speranza dei curatori che, nell’introduzione, si augurano che un domani tutte queste fonti di informazione possano risultare utili a qualche “vero” storico che voglia affrontare in modo professionale la storia della nostra università dopo la seconda guerra mondiale e al mondo di coloro che operano nell’università per un loro coinvolgimento nell’attività sindacale. L’opera costituisce inoltre un valido supporto di idee e di stimoli a proseguire nell’azione sindacale universitaria, invito soprattutto rivolto ai giovani, perché sono loro che dovranno creare la nuova carta dei diritti e dei doveri del mondo universitario, assieme alla ridefinizione del ruolo che dovrà avere l’università nell’attuale e futura società civile, oggi sotto la tortura della crisi economico-finanziaria che ne sta compromettendo la sussistenza. Un ringraziamento particolare va quindi ai curatori dell’opera per il pesante lavoro svolto. Ci auguriamo infine che la lettura di queste pagine invogli i futuri docenti universitari ad interpretare in modo aperto e completo il loro ruolo, facendo capire la bellezza di una partecipazione attiva ad una vita associativa che valorizzi al massimo le interazioni dirette delle persone, anche a costo di litigare, andando oltre le forme di comunicazione digitale ora in voga che, molto spesso, annullano la ricchezza del rapporto umano diretto e favoriscono una generica e banale superficialità. Vincenzo Vecchio Presidente pro-tempore del CNU Parte I L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri. I protagonisti e gli amici del CNU Un aiuto alla lettura Il CNU e i suoi giornali Antonio Miceli Premessa Quando, alla fine del 2012, si pensò di utilizzare l’importante documentazione (giornali, mozioni congressuali, documenti ecc…) disponibile sull’attività del Comitato Nazionale Universitario e delle associazioni che vollero costituirlo nel dicembre del 1971, io fui tra i primi sostenitori di questa iniziativa. In quella occasione mi venne dato l’incarico di coordinarne la pubblicazione, con la preziosa ed insostituibile collaborazione di Paolo Gianni. Pensammo di costituire un comitato editoriale aperto e di utilizzare i contributi dei Presidenti e dirigenti succedutisi negli ultimi 50 anni. Sin dai primi incontri si decise di chiedere l’aiuto e la “memoria di alcuni protagonisti della storia politico-sindacale dell’Università di quel periodo”. L’obiettivo era quello di non disperdere una parte importante della vita del sindacalismo autonomo universitario e di realizzare un archivio aperto, anche per il futuro, a tutti coloro i quali vorranno accedere ad una documentazione indispensabile per comprendere questa storia, negli ultimi 10 lustri. Una prima singolare e personale impressione è che tale confronto si è realizzato nell’Università tra conservatori e riformatori, trasferendosi poi nei partiti politici, nel Parlamento e nel Paese. Infatti la nutrita presenza di professori universitari tra i Deputati e Senatori – una lobby trasversale, prevalentemente conservatrice – ha segnato il lento, “schizofrenico” e discontinuo procedere della legislazione sull’Università. È difficile che dall’esterno arrivino azioni determinanti per il cambiamento del sistema universitario e per il suo adeguamento alla mutevole realtà sociale, economica e di democrazia della comunità nazionale. Da ciò la necessità di spingere docenti e studenti ad impegnarsi, al di là degli interessi e delle aspettative particolari, a sollecitare il continuo adeguamento del sistema di alta formazione e ricerca che l’Università rappresenta. In mancanza di questo impegno, prevarranno sicuramente la reazione, la conservazione, la difesa di interessi e privilegi costituiti e del potere economico più spregiudicato. La seconda impressione è che una parte di questo duro confronto, che parte soprattutto dall’interno dell’Università, ha contribuito – in larga misura – a svilire e mortificare il ruolo sociale ed economico del sistema universitario e delle sue componenti interne. Paradossalmente soprattutto alcuni docenti, quelli che venivano chiamati “Baroni” e si sono tenacemente impegnati nel contrastare i cambiamenti, hanno sì conservato qualche piccolo privilegio formale, ma di fatto, sono divenuti sempre 22 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri più “subalterni” al potere centrale – ministeriale e di ateneo – ed alla componente amministrativa. Tutto ciò, purtroppo, ha contribuito a determinare un crollo del rapporto fiduciario tra comunità e università, mettendo in essere un attacco continuo al prestigio dei docenti, degli stessi laureati, al riconoscimento del ruolo insostituibile di alta formazione, di professionalità e di avanzamento nella ricerca che sono essenziali alla crescita del Paese. Introduzione Nella seconda metà degli anni ’60, oltre alle organizzazioni sindacali universitarie (docenti e non docenti) aderenti alla CGIL, CISL e UIL, la maggior parte del personale docente aderiva a tre associazioni sindacali autonome. Esse tutelavano gli interessi delle tre principali figure: professori ordinari, professori incaricati, assistenti. Alla prima (ANPUR), ancora esistente (diventata USPUR), aderivano i professori di ruolo; alla seconda (ANPUI) i professori incaricati, soprattutto liberi docenti con insegnamento; alla terza, che era la più numerosa e combattiva, gli assistenti ordinari (UNAU). Allora come ora, la contrapposizione di interessi tra le tre principali figure di docenza veniva utilizzata dai vari governi e dalle forze accademiche e politiche conservatrici per contrastare le richieste di ammodernamento del sistema universitario. Anche la contrapposizione tra organizzazioni sindacali confederali ed “autonome” era un impedimento “strutturale” alla costituzione di un forte e coeso fronte riformatore. Così come, anche in quel periodo, i docenti subalterni ed i ricercatori precari in formazione consideravano la loro posizione “distinta e distante” dagli interessi degli “strutturati”. Il forte vento della contestazione giovanile della fine degli anni ’60 investì anche le università italiane, radicalizzando le richieste di cambiamento dell’istruzione superiore e della scuola. I giovani sollecitavano l’unione del mondo del lavoro, degli operai, dei docenti subalterni ed auspicavano la creazione di un fronte comune per modificare l’organizzazione politica delle istituzioni, partendo dal “sistema dei valori” di riferimento. Questo nuovo scenario socio-politico mise in evidenza l’impreparazione di un mondo universitario diviso e contrapposto in piccole beghe categoriali. L’istituzione accademica era caratterizzata da una gestione oligarchica, autoreferenziale e molto spesso dominata dall’asservimento ad interessi personali, professionali ed – in alcuni casi – familiari. Anche allora si capì che solo un forte scatto di orgoglio e la ricerca di nuovi equilibri ed alleanze avrebbe potuto far proseguire concretamente un percorso di rinnovamento dell’istruzione superiore, della ricerca e del collegamento tra queste ed il mondo della produzione e del lavoro. Mario Rinaldi partecipò nel 1971 al Congresso costitutivo del CNU come responsabile della prestigiosa sede di Bologna e fu eletto segretario nazionale sotto la presidenza dell’indimenticabile Giorgio Spini, le v. presidenze furono affidate a Salvatore Saetta e Piero Milani. Rinaldi mantenne questo ruolo nazionale durante tutta la ge- Il CNU e i suoi giornali 23 stione Spini (novembre 1971/gennaio 1976) e fu testimone diretto di un periodo di grande fermento e cambiamento del Paese e dell’Università. Nel prezioso contributo con cui ha partecipato a questa pubblicazione riesce a tratteggiare lo scenario nel quale si muove il “movimento studentesco” italiano che “spazzò via gli organismi rappresentativi degli studenti universitari”. Con semplicità ed efficacia egli sottolinea il ruolo del “movimento” nella “contestazione globale” contro il sistema di potere (baroni, multinazionali, poteri forti, lo stesso sindacato confederale, ecc…). La lettura del numero unico di “Scelte Universitarie” (1971) e delle edizioni successive di “Università e Società”, allegati alla versione web di questa pubblicazione, fornisce una poderosa documentazione di supporto per conoscere meglio, o ulteriormente approfondire questo periodo storico. Egli mette in evidenza la debolezza della strategia di cambiamento radicale del sistema e riporta le azioni delle forze progressiste del Paese a favore di un cambiamento di tipo riformista. Definito con efficacia questo contesto, descrive lo stato dell’Università, le iniziative riformatrici a livello politico e sindacale, raccontando il ruolo dei protagonisti della costituzione del CNU ed i suoi primi importanti passi. Molto interessante la lettura di alcuni documenti originali dell’epoca! Il suo contributo va oltre il 1976 e riporta una preziosa ricostruzione del ruolo del CNU nel CNR. Molto belle anche le conclusioni del suo interessantissimo contributo. In quel periodo: – l’UNAU (Unione Nazionale Assistenti Universitari) e l’ANPUI (Associazione Nazionale Professori Universitari Incaricati) si fusero nell’ANRIS (Associazione Nazionale di Ricerca ed Insegnamento Superiore); – alcuni assistenti ed incaricati su posizioni politiche di estrema sinistra costituirono l’ANDS (Associazione Nazionale Docenti Subalterni); – si federarono nella FADRU alcune associazioni di “docenti subalterni” e professori progressisti di Firenze e Genova (AGIAU); – l’ANPUR perse i docenti rifornisti che formarono l’ANDU; – l’ANRIS, la FADRU, una parte significativa dell’ANDU ed alcuni docenti dell’ANDS costituirono nel 1971 il Comitato Nazionale Universitario (CNU). Un gruppo di docenti, che sembrarono prediligere gli aspetti politici generali su quelli culturali e sindacali, aderirono ai sindacati universitari confederati1. Il 20 settembre del 1971 una Assemblea Generale delle Sedi – Presidenti e delegati di ben 29 Università – elesse un “Esecutivo Nazionale”, la “Commissione di Medicina” ed un “Consiglio di presidenza” del CNU. Essa indicò anche il “Comitato di Redazione” di “Scelte Universitarie”, organo ufficiale dell’associazione2. 1 Su questo periodo sono illuminanti e preziosi i contributi che Gaetano Crepaldi, Pietro Manetti e Gaetano Gallinaro hanno voluto regalare a queste pubblicazioni. 2 Per maggiori particolari e per una interessante lettura delle posizioni politiche-sindacali del CNU, consultare in archivio “Scelte Universitarie” del 9 ottobre e 6 dicembre 1971. 24 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Il Consiglio di Presidenza era costituito da Pietro Passerini (Firenze), Salvatore Saetta (Palermo) e Giorgio Spini (Firenze). La Commissione di Medicina era presieduta da Gaetano Crepaldi (Padova) e Luigi Amaducci vice presidente (Firenze). I due numeri di “Scelte Universitarie” (ottobre e dicembre 1971) furono diretti da Antonio Barresi (Messina). Tutto ciò in attesa del 1° Congresso Nazionale che si svolse a Firenze nel dicembre del 1971. Nel dicembre del 1972 prese vita il nostro giornale “Università e Società”, periodico mensile del Comitato Nazionale Universitario; Il 12 settembre del 1973 venne stilato un “comunicato congiunto” tra le Federazioni CGIL, CISL, UIL e il CNU per annunciare la creazione di un fronte comune più forte e più visibile al mondo della produzione e del lavoro. 1971 nascita del CNU In quell’anno, come già detto, il congresso di Firenze sancì la costituzione del Comitato Nazionale Universitario (CNU), associazione politico-sindacale e culturale. Essa nacque alla luce del “sistema dei valori progressisti e riformatori” delle organizzazioni che la fondarono e si collocò nello scenario indicato nell’introduzione. Altri scritti approfondiranno ulteriormente la conoscenza di questo periodo, antecedente al 1971, interessandosi anche di momenti ed aspetti particolari della vita del CNU e/o dello scenario in cui esso operò. In questi appunti parziali e personali, mi sono ripromesso di “ricordare” il CNU attraverso i giornali “Scelte Universitarie”, “Università e Società” e “Università e Ricerca”. Ho già detto che queste note vanno considerate come una ricostruzione, anche se solo parziale, di avvenimenti ed emozioni personali che potrebbero stimolare altri a proseguire nel percorso di rivisitazione di oltre 40 anni di vita della nostra associazione e cinquanta di sindacalismo universitario. A mia memoria il CNU ha sempre cercato di mediare tra le molte rivendicazioni categoriali e/o economiche particolari. Obiettivo strategico prevalente è stato quello di sostenere la priorità di un sistema universitario pubblico che non escludesse né mortificasse le università private. In questa visione lo Stato deve essere garante della parità di condizioni di accesso all’alta formazione ed alla ricerca. Deve favorire la “mobilità sociale”, in particolare dei ceti più deboli, garantendo pari opportunità di formazione e crescita culturale e professionale su tutto il territorio nazionale, anche con riferimento alle realtà regionali e, dove necessario, interregionali. Infatti la libertà di insegnamento e di ricerca, costituzionalmente garantita per l’Università, è premessa della libera crescita della cultura, dell’economia, della stessa evoluzione civile della comunità nazionale. Quindi il sistema universitario svolge una funzione insostituibile nel sorgere e consolidarsi di una concezione della libertà attiva e critica dei singoli e delle comunità. Perché ciò si realizzi il sistema universitario deve essere un modello di cooperazione e partecipazione tra pari. Negli atenei non possono esserci gerarchie, se non di tipo funzionale, i moduli organizzativi devono essere basati sulla trasparenza, sull’equità, sulla qualità, sull’effi- Il CNU e i suoi giornali 25 cienza e sull’efficacia. Cooperazione, in una virtuosa competizione di meriti scientifici, libera circolazione delle idee, leale competizione e solidi valori etici devono contraddistinguere l’operare dei singoli e dei gruppi negli atenei e nei rapporti con tutti gli interlocutori esterni. Il CNU per la natura dei suoi associati, per il sistema di valori che hanno illuminato la sua attività è stato e rimane una associazione politico-sindacale prevalentemente di proposta e progressista. Il primo lustro “Scelte Universitarie” e “Università e Società” forniscono una lettura sufficientemente analitica delle posizioni dell’epoca che – in una massima semplificazione e sulla base di quanto detto nei paragrafi precedenti – puntavano: – a una grande unione del CNU con la federazione CGIL, CISL e UIL, unitamente ai sindacati confederali di settore del personale docente e non docente dell’università; – alla costituzione di un fronte di mobilitazione delle forze progressiste del Paese perché la ricerca e la didattica universitaria diventassero strumento prioritario di crescita, sviluppo e cambiamento della società italiana; – alla costruzione di un sistema universitario autonomo, gestito democraticamente da tutte le componenti (docenti, studenti e non docenti) con istituzioni locali e forze sociali. Tutto ciò, eliminando le contrapposizioni tra i docenti (docente unico a tempo pieno) e sottolineando il ruolo e le funzioni sociali dell’istituzione; – a una rinnovata Facoltà di medicina, non distinta dalle altre, orientata a supportare il Sistema Sanitario Nazionale, strutturata in Dipartimenti – anche interdisciplinari – con accessi programmati ed organizzata alla preparazione di tecnici intermedi. Il Direttore Piero Milani, vice presidente nazionale, suggerì la testata “Università e Società”. Al congresso successivo (Milano 1973), sotto la presidenza del mitico Giorgio Spini, oltre a lui fu eletto vice presidente Leontino Battistin (Padova) e confermato segretario Mario Rinaldi (Bologna). Leontino Battistin venne poi eletto presidente a Venezia nel gennaio del 1976, vice presidenti Enrico Decleva (Milano) e Francesco Faranda (Messina), segretario Giampiero Maracchi (Firenze). Mi fu affidata la direzione del giornale. Il CNU affrontò un delicato momento di passaggio: la contestazione del 68/72 aveva lasciato un segno profondo, ma aveva esaurito la sua spinta “rivoluzionaria”. La ricerca di un fronte unitario di lotta di studenti e lavoratori democratici si incanalò, più ragionevolmente, verso un confronto tra forze sociali e partiti democratici, in particolare PSI, DC e PCI. Era largamente condivisa l’urgenza di una riforma profonda del sistema universitario; si comprese come, al di là delle eventuali maggioranze di governo (anche future), per innescare processi riformatori significativi, fosse necessario un ampio schieramento di forze politiche ed una responsabilizzazione delle forze sociali democratiche. 26 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Il nostro giornale “Università e Società” del 15 settembre 1976 dà una rappresentazione molto chiara dello scenario politico in cui il CNU organizzò per il mese successivo di ottobre una “Conferenza sull’Università”3. Per la prima volta le principali forze politiche parlamentari, dopo aver esposto le loro rispettive posizioni sul futuro dell’Università Italiana e sottolineato la centralità di quest’ultima sul divenire della vita civile, economica e culturale del Paese, si erano impegnate a partecipare a quella conferenza per anticipare, in un confronto con i sindacati universitari, il dibattito che nella nuova legislatura si sarebbe svolto nelle Commissioni Parlamentari competenti. Penso sia stato un momento molto alto di responsabilità, che le forze politiche dell’epoca e le forze sociali affidarono al CNU. Il contributo di Brunello Vigezzi pubblicato in questo lavoro consente un approfondimento, supportato da esperienza diretta, di questo importante periodo “storico”. Anche sul piano del metodo, fu un evento eccezionale questa apertura delle forze politiche e dei gruppi parlamentari a confrontarsi con le principali associazioni universitarie, con i sindacati e con eminenti personalità dell’alta formazione e ricerca. La nuova serie di Università e Società Appunto nel 1976, il quarto congresso nazionale del CNU mi affidò il mandato, con i colleghi Crivellaro (Padova) e Zoppi (Torino) di iniziare una nuova serie dell’organo ufficiale di stampa. Nella continuità sostanziale della linea politica, si volle dare una maggiore attenzione all’esterno dell’associazione. Oltre all’aspetto grafico della testata, si pensò ad un giornale che, attraverso maggiori contributi esterni, testimoniasse la necessità di un rapporto dialettico sistemico tra l’università ed il mondo delle forze politiche e sociali. L’università doveva abbandonare la sua tradizionale autoreferenzialità per ricercare sinergie capaci di rinnovarla profondamente, secondo le aspettative e le esigenze della società e delle forze politiche e sociali emergenti. Si rafforzò la convinzione, come più volte detto, che il rinnovamento politico, sociale e civile, oltre che economico, del Paese dovesse passare attraverso una profonda riforma della Scuola e dell’Università. Nell’organizzare la Conferenza sull’Università, il CNU chiese ai rappresentanti delle confederazioni sindacali ed ai sindacati di settore, ai rappresentanti delle forze politiche e sociali, al mondo della cultura di confrontarsi in un dibattito aperto nell’interesse delle nuove generazioni e dell’intero Sistema Italia. Era diffusa l’opinione che le forze emergenti avessero, così come tuttora hanno, l’esigenza di processi di formazione in grado di preparare operatori professionali facilmente inseribili nei cicli della produzione, della ricerca, della formazione e, più in generale, nel mondo del lavoro. Era altresì comune convincimento che l’indissolubile legame tra alta formazione e 3 Si consiglia di visionarlo negli allegati. Particolarmente interessanti le proposte del Partito Comunista Italiano, della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista. Il CNU e i suoi giornali 27 ricerca nell’università fosse per quest’ultima soluzione vincente ed indispensabile. Per quanto riguarda la ricerca, si confermò che essa deve essere certamente “libera”, ma anche “socialmente orientata” e rivolta alla salvaguardia di un mondo e di un’economia sostenibili. L’edizione di “Università e Società” di ottobre 1976 è dedicata interamente alla ricerca scientifica come impegno prioritario del CNU. La lettura di questa importante edizione del nostro giornale è illuminante per comprendere quanto fossero importanti per il Comitato Nazionale Universitario il binomio ricerca-formazione ed il ruolo sociale dell’Università. Pietro Passerini, chiamato al Congresso di fondazione del CNU – Firenze, dicembre 1971 – a preparare il documento di base sulla “Ricerca nell’Università” scrisse in quella edizione un mirabile articolo dal titolo “Ricerca Oggi”. Egli allora denunciò, dopo cinque anni, le gravi carenze del Governo, dei gruppi dirigenti, politici e non, in ordine all’organizzazione, al finanziamento e soprattutto all’indicazione di alcune priorità nel finanziamento della ricerca scientifica. In quella occasione, dopo avere fatto un obiettivo e rigoroso punto della situazione su strutture e risultati conseguenti, richiamò il dovere della comunità scientifica di fare sapere al Paese il rischio concreto di diventare “colonia” di quelle Nazioni che, al contrario, erano disposte a dare adeguata priorità agli investimenti in ricerca, innovazione e formazione! In questo quadro venne auspicato un ulteriore potenziamento del ruolo di servizio dell’Università a favore delle istituzioni pubbliche, centrali e periferiche, delle forze sociali, dalle organizzazioni spontanee di base. Questo aspetto si coniugava con una nuova richiesta di formazione, che la legge Bloise-Codignola, sulla liberalizzazione dei piani di studio, non riusciva a soddisfare (L. 910/1969). Si mise in evidenza l’insufficienza di una definizione di “nuova professionalità”, intesa solamente come specialistica ed aggiornamento. Era importante, infatti, pensare anche a spazi di attività e di lavoro in settori innovativi che avrebbero condizionato il futuro dell’umanità. Si lamentava, anche allora, l’interesse, purtroppo episodico, della più autorevole stampa nazionale e dei media che parlavano di università per evidenziare singoli e deprecabili episodi di malcostume, mettendo in secondo piano il confronto delle idee e le proposte di cambiamento ed il silenzioso e proficuo lavoro svolto. È importante sottolineare in questo periodo, come già detto, il significativo contributo sui temi della riforma dell’università e delle ricerca scientifica da parte degli uffici scuola della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano e del Partito Socialista Italiano (vedi allegato documento DC e PCI4. Altrettanto importante sul piano storico un documento unitario elaborato dai sindacati confederali, dal CNU e dal CISAPUNI5. 4 5 Maggio 1976, Università e Società, n. 1 e seguenti. Maggio 1976, Università e Società, n. 1. 28 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Università e Ricerca Dal ’79 all’84 il presidente fu Francesco Faranda (Messina), i vice presidenti Paolo Blasi (Firenze) e Marco Unguendoli (Bologna), Giuseppe Restuccia (Messina) segretario. Dall’84 all’88 il presidente fu Franco Cresci (Firenze) ed i vice Paolo Pupillo (Bologna) e Giuliano Mussati (Milano), Silvano Bordi (Firenze) segretario. All’inizio del 1989 si definì la cornice di riferimento nella quale si inserirà la presidenza di Paolo Pupillo. Emblematico fu, anche, un documento della Giunta Esecutiva del 25/02/1989. In esso si confermò ulteriormente l’autonomia organizzativa e gestionale dell’università, la conseguente necessità del suo finanziamento da parte dello Stato e l’indispensabile indissolubilità tra ricerca e didattica. Si ribadì, altresì, la necessità di affidare ai dipartimenti la ricerca e la formazione del nuovo personale docente ed alle facoltà l’organizzazione della didattica. Si confermò, anche, l’unicità (ricerca ed insegnamento) della funzione docente articolata in due fasce (professori ordinari ed associati); per la medicina si ribadì l’unicità funzionale tra ricerca, insegnamento ed assistenza. Una parte molto importante del documento fu dedicata ai meccanismi concorsuali, venne sottolineata l’opportunità di distinguere il momento della valutazione idoneativa nazionale (diritto soggettivo) da quello della chiamata dei singoli atenei, che serviva a coprire i posti in organico (autonomia organizzativa e finanziaria delle varie sedi). Sono stati necessari 23 anni perché questo semplice principio si trasformasse in legge dello Stato! Alla fine del 1987 Piero Milani sentì l’esigenza di ridare voce a “Università e Società” come “periodico bimestrale dell’Università di Pavia”. Nel 1989 il giornale venne pubblicato dal Comitato Regionale Lombardo (il direttore fu sempre Piero A. Milani). Nello stesso anno venne registrato a Bologna “Università e Ricerca”, il direttore fu Marco Unguendoli, il Presidente del CNU Paolo Pupillo, la Commissione Medicina venne affidata a Franco Cresci. Mi piace ricordare che, in occasione delle pubblicazioni del secondo numero (giugno 1989) del nuovo giornale, l’indimenticato Tristano Sapigni annunciò la nascita di un “bollettino telematico” e propose un sondaggio su “VS7A@CINECA”. Grazie Tristano È molto difficile riuscire a tratteggiare una figura schiva, semplice, onesta e rigorosa come Tristano Sapigni, la sua scelta di campo iniziò nell’UNAU e dal quel momento ha seguito e partecipato attivamente ed in maniera continua alla “riforma del sistema universitario”. Egli sosteneva che il ritardo nel rinnovamento dell’Università, soprattutto rispetto al suo ruolo sociale, fosse dovuto al sistema di potere economico e culturale che ruotava attorno ad alcuni potentati accademici. La “zuffa tra corporazioni”, rappresentata Il CNU e i suoi giornali 29 da associazioni di categoria interessate prevalentemente alle rivendicazioni economiche e di stato giuridico, era strumentalmente utilizzata dalle forze politiche non progressiste per difendere un sistema di potere conservatore, generalmente asservito ad interessi economici, che preferiva considerare la riforma universitaria – e della scuola in generale – come un fatto “tecnico”. Egli è stato un continuo assertore del sistema dei valori che il CNU raccolse e consolidò al Congresso di Firenze nel 1971. Altri metteranno in evidenza il lavoro importante che egli fece per l’Università e per il CNU con la sua rivista online, io a questi brevi cenni desidero aggiungere, per l’emozione che mi procura e per illuminare la forza e la determinazione della sua “scelta”, la lettera che il 4 giugno del 2008 Maurizia Sapigni inviò al CNU. “Grazie, un particolare grazie a voi tutti del CNU che siete qui ed anche a quelli che non hanno potuto essere presenti ma che sentiamo, tutti, comunque tra noi. Il nostro grazie è particolare perché aggiornando sempre Tristano sulle vostre idee e le vostre problematiche siete riusciti a confermare in lui il senso di una sua idea di appartenenza che gli premeva molto e che, negli ultimissimi anni, gli si era come connaturata. Quando ci siamo fidanzati (parola italiana ora arcaica, che occorre spiegare ai giovani) 51 anni fa, eravamo quindi nel 1957, Tristano era già iscritto ad un’associazione che allora si chiamava UNAU e che con lunghi travagli sarebbe poi diventata il CNU. E proprio in quei giorni attorno al fidanzamento il giovane dott. Sapigni fu mandato a rappresentare la sezione ferrarese UNAU al congresso nazionale in Sicilia. Il mandato era semplice: vai, ascolta, regolati e riferisci. Ma la curiosità innata, l’intuizione di poter dire oltre che ascoltare, la voglia di ampliare le idee e il poterle confrontare, hanno iniziato a prendere spazio e importanza nella sua evoluzione culturale fino a concretizzarsi, più di dieci anni fa, in UNILEX. E la vostra adesione e l’utilizzo della sua idea gli hanno dato la certezza che avrebbe sempre potuto comunicare e confrontarsi con voi. Sì, perché se una cosa Tristano temeva veramente era l’isolamento, il perdere la dimensione di sé perdendo lo scambio con gli altri. E fino a qualche settimana fa, quando ancora le complicazioni delle sue patologie gli lasciavano un po’ di respiro, vederlo al computer era per noi il segnale che non si dava per vinto e che poteva ancora raggiungervi e che la vita aveva ancora un senso. Per cui anziché chiedergli “Come ti senti?” era meglio dire: “Ci sono novità sulla lista?” Mi premeva perciò farvi sapere che così come i miei figli ed io, gli amici, i medici e tutti abbiamo fatto il possibile per accompagnarlo e dargli sollievo, così voi, usando la sua idea avete contribuito a mantenere alta la qualità dei suoi pensieri. Ce lo confermano le vostre e-mail di questi giorni: tutte verissime e una più bella dell’altra. Maurizia Sapigni e famiglia Ferrara, 4-6-2008 1989-1993 Anche per questo periodo il nostro giornale ci consentirà di ricostruire l’impegno del CNU. La presidenza di Paolo Pupillo, la vice presidenza di Paolo Blasi, l’affidamento 30 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri a Franco Cresci della Commissione Medicina e della direzione del nuovo giornale “Università e Ricerca” a Marco Unguendoli colsero l’atmosfera diversa che – a livello di scenario, di relazioni esterne e di confronto interno – si viveva nel CNU. Il ruolo sociale rimase strategico, ma la ricerca e la didattica, in una nuova università autonoma, vennero sempre più considerate indispensabili al conseguimento del benessere da parte dei singoli e della comunità. Per questo motivo si decise di cambiare la testata del giornale. Il sistema nazionale ed europeo non poteva prescindere da una organizzazione della formazione e della ricerca basata su alta qualità e competitività. I processi di riforma, sempre più necessari, si inserirono negli anni ’90 in un quadro politico più avanzato. Essi dovevano “contenere” il ruolo dello sviluppo economico a livello di strumento e non considerarlo come obiettivo fine a se stesso. Nel contempo, gli interessi comuni, pur rimanendo prioritari, non potevano e non dovevano mortificare quelli individuali. Il ruolo e la funzione dei dipartimenti, il dottorato di ricerca, una più attenta definizione del ruolo unico del docente, la necessità di modificare il sistema di gestione dei concorsi (nel 1990 il CNU, come già detto, propose i giudizi idoneativi), la necessità di adeguare il sistema di reclutamento per l’ingresso alla docenza, la preoccupazione di una insostenibile proliferazione e polverizzazione delle sedi universitarie – già paventata nel gennaio del 1991 –, diventarono temi costanti di riflessione interna e di confronto con l’esterno. La centralità del ruolo della ricerca caratterizzò la presenza di Paolo Blasi che sottolineò con rinnovata fermezza l’inscindibilità della libertà di ricerca da quella didattica6. Per il CNU l’autonomia del singolo docente nella ricerca e nella didattica ed “il docente unico a tempo pieno”, sono sempre stati la chiave del successo di una università autonoma e capace di una elaborazione critica del sapere. Forse oggi, per quanto concerne la ricerca, queste affermazioni vanno intese con una maggiore attenzione alla esigenza di non parcellizzare troppo i fondi della ricerca e alla necessità di consentire adeguati finanziamenti ai grandi progetti internazionali. Per la Facoltà di Medicina ed i suoi rapporti con i S.S.N., si sentì la necessità di una riflessione sulla “famosa e famigerata Legge De Maria”7. Infatti la necessaria e difficile convivenza tra organizzazione ospedaliera (primari, aiuti ed assistenti) e quella universitaria, le nuove esigenze didattiche stabilite dalla Legge e la necessità di difendere anche per Medicina “l’autonomia universitaria”, già allora imponevano modifiche significative alla normativa vigente8. 6 Oltre la lettura della bella intervista a Paolo Blasi riportata in questo volume consigliamo di ricercare su www.universitaericerca.it, il video dell’intervento di Paolo Blasi al Convegno “Università di Firenze oggi e domani”, Firenze 15/12/2008. 7 L’espressione “Legge De Maria” è usata per fare riferimento alla normativa che regolamenta l’equiparazione del personale universitario, operante in strutture di assistenza convenzionate con il S.S.N., con il personale ospedaliero. Le norme di riferimento sono: art. 4 della L. 213/71; art. 1 della L. 200/74; art. 31 del D.P.R. 761/79; art. 102 del D.P.R. 382/80; art. 13 Decreto n. 9/82; art. 53 del C.C.N.L. 1994/97; art. 6, comma 6 del Decreto 31 luglio 1997; art. 51, comma 4 del C.C.N.L. 1998/2001; art. 2, comma 2, lettera a) - b) D.L.gs. 517/1999; Comparto Università C.C.N.L. (biennio economico 2002/2003, quadriennio normativo 2002/2005). Fonte: Cenni storici sull’equiparazione del personale universitario, universita.usb.it. 8 Consigliamo la lettura dell’intervista a Franco Cresci riportata in questo volume. Il CNU e i suoi giornali 31 1994 Sotto la presidenza di Sergio Sergi di Messina finì l’edizione cartacea ed iniziò il prezioso impegno di Tristano Sapigni che continuò sul WEB la pubblicazione di Università e Ricerca. Questa presidenza (dicembre 1993) vide il CNU in un contesto socio-politico completamente diverso: l’Università aveva iniziato il suo ulteriore calvario, gli interlocutori politici tradizionali erano scomparsi. Lo sperpero delle risorse per la proliferazione, definita ipocritamente “a costo zero”, delle sedi universitarie, la “licealizzazione”, il pendolarismo “didattico” dei docenti cominciarono a coniugarsi con le accuse di improduttività della spesa universitaria. L’università italiana sembrò popolata solo da “sporchi, brutti e cattivi”. La politica causò i danni peggiori, assecondando le istanze particolaristiche; sperperò le poche risorse di cui disponeva l’università, accusandola, nel contempo, di essere inefficiente ed improduttiva. Ancora una volta lo scenario negativo, la difficoltà di relazioni esterne disponibili al cambiamento, spinsero il confronto interno alla ricerca di un quadro di alleanze utili alla difesa degli interessi dell’Università italiana. Si era determinato, come già detto, un quadro politico profondamente peggiorato che mortificava il ruolo del sindacato universitario ed accentuava, sempre più, una visione aziendalistica degli atenei. In queste ultime fasi della vita del CNU si affievolì la spinta “sistemica” di tipo sociale – ancora presente in alcuni incontri dell’“intersindacale” – e riapparve la volontà di dare voce, come nel 1971, ad una nuova unione di associazioni “autonome” della docenza universitaria (COSAU). Purtroppo già da tempo prevaleva una concezione “pseudo-aziendalistica” dell’università che enfatizzava i processi formali di valutazione e controllo. Questi, seppur necessari, sembravano essere diventati la missione prioritaria del sistema universitario. Si ha, quindi, la netta sensazione che essi abbiano perso la loro importantissima funzione strumentale, per diventare fine ultimo o comunque “condizioni di esistenza” ottusamente invalicabili. Siamo ormai alla storia recentissima i presidenti: Sergi, Cordini, Indiveri e Simone saranno interpreti diretti degli accadimenti di questi anni; anche per loro il nostro giornale cartaceo e le riviste sul WEB saranno utili per rivivere momenti particolari, richiamare documenti ecc…9 Ho voluto, attraverso la rilettura dei giornali, sottolineare alcuni passaggi ed obiettivi strategici che, a mio avviso, hanno caratterizzato la storia del Comitato Nazionale Universitario. L’intento è stato di aiutare a comprendere e ricordare questi circa 50 anni di vita dell’associazione, nell’arco di oltre mezzo secolo di sindacalismo universitario “autonomo”, aiutando nel contempo la lettura di questo lavoro. Se, come spero, ci sarà una partecipazione attiva, nel prossimo futuro, con l’ausilio anche del “materiale” raccolto, per portare avanti la ricostruzione del ruolo svolto dal sindacato universitario e segnatamente dal CNU, questa pubblicazione e la sua 9 Nel 2008, dopo la scomparsa di Tristano Sapigni, decisi di creare sul sito www.universitaericerca.it una seconda rivista, tuttora online, che si chiama «Università e Ricerca - News». 32 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri versione in web non saranno solo di “memoria”, ma anche di “proposta”. Sono convinto che questo atto d’amore per la nostra università, per la nostra associazione e per questa esaltante esperienza, aiuterà chi, dentro o fuori dal CNU, sta operando o vorrà impegnarsi per migliorare il futuro della nostra Università. Questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se perseguito con passione e determinazione dai giovani. Ad essi: precari, docenti in formazione, giovani ricercatori – strutturati e non – la nostra generazione affida il testimone per continuare a difendere una università libera e democratica a servizio della comunità. Uno slalom tra le relazioni Paolo Gianni L’articolo di Antonio Miceli mostra molto bene come la storia e l’attività della nostra associazione emerga dalla lettura dei giornali del CNU. Il sottoscritto si propone invece di sottolineare il filo conduttore che lega tra di loro le relazioni degli ex-Presidenti del CNU. Queste relazioni, che attraverso l’esperienza CNU raccontano la storia della nostra istituzione a partire dagli anni ’60, pur nella loro impostazione ovviamente soggettiva mettono in evidenza come il CNU abbia costantemente perseguito l’obiettivo di una seria riforma dell’Università. Anche se questa veniva riassunta nel semplice slogan “docente unico a tempo pieno nel dipartimento”, di fatto era sempre finalizzata a realizzare un assetto dell’istituzione universitaria capace di rispondere positivamente alle richieste della società. Ricordo che l’amico Bruno Guerrini soleva dire che la nostra associazione aveva come scopo fondamentale la riforma, al punto che una volta che l’avesse ottenuta avrebbe anche potuto sciogliersi. Era ovviamente una boutade: a parte il fatto che per l’università non può esistere una riforma definitiva perché la natura stessa della istituzione comporta una sua continua modifica che accompagna l’evolversi della società (a volte anche lo precede), ma anche una eventuale riforma bellissima avrebbe poi richiesto un successivo puntuale controllo della sua coerente applicazione. E comunque, a scanso di equivoci, una riforma che potesse giustificare un nostro disimpegno la nostra classe politica non ce l’ha mai fatta: ecco perché siamo ancora qua! A causa della forte, ma prevedibile, correlazione tra i racconti dei Presidenti e i contenuti dei giornali dell’associazione, ne è derivata una parziale sovrapposizione tra quanto raccontato da Miceli e quanto dal sottoscritto, in particolare nella prima parte di questa relazione. Naturalmente ne chiedo venia al lettore. All’atto pratico, penso che la lettura del mio scritto possa risultare utile per coloro che desiderano avere una idea generale dell’opera senza soffermarsi sulle relazioni dei singoli periodi. Chi invece fosse interessato a conoscere con un minimo di approfondimento le tematiche che si è trovato ad affrontare il CNU in uno specifico periodo o sotto una specifica Presidenza, tanto vale che vada a leggersi subito la relazione pertinente. Le varie relazioni sull’attività del CNU saranno intercalate dagli affettuosi ricordi che alcuni amici hanno voluto dedicare ai protagonisti che ci hanno lasciato prima del tempo: i Presidenti Spini e Faranda. La prima relazione (Luzzatto) mostra come fin dai primi anni ’60 fosse già evidente una forte discrasia tra le aspettative sociali di allargamento e valorizzazione della istruzione e le fossilizzate strutture, dimensioni e capacità di risposta della nostra università. Mostra come le idee di una riforma universitaria fossero già presenti nelle associazioni UNAU e ANPUI che hanno preceduto la nascita del CNU e racconta di 34 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri come le richieste di queste associazioni non abbiano trovato una risposta legislativa a causa dell’ostruzionismo di molti settori delle forze politiche, anche nella maggioranza governativa, sensibili alle richieste della lobbie dei professori ordinari di allora. Il percorso che ha portato una pluralità di associazioni categoriali di docenti alla costituzione del CNU viene approfondito dalle relazioni di Crepaldi, Gallinaro e Manetti. Gallinaro e Manetti sottolineano la nascita di una coscienza dei propri diritti, sia dei docenti che degli studenti, che chiedevano in primis una maggiore democrazia finalizzata a permettere all’istituzione un più completo e corretto assolvimento delle proprie funzioni. Delle due relazioni è più tecnica la prima, che si preoccupa di ricordare tutti gli attori del processo onde fornire materiale prezioso per futuri approfondimenti storici, più colloquiale la seconda che ricorda come i cosiddetti docenti progressisti avessero già individuato come obiettivo principale la valorizzazione della attività primaria dei docenti universitari: la ricerca scientifica. Interessante il ricordo del “libro bianco” della associazione fiorentina AFDU che per primo denunciò il malcostume allora imperante tra i “baroni” della facoltà di Medicina nella amministrazione dei rispettivi istituti. La relazione di Gaetano Crepaldi, che in qualità di primo Presidente della Commissione Medicina del CNU accenna anche al (già allora) difficile rapporto tra Facoltà di Medicina e Servizio Sanitario Nazionale (SSN), si spinge oltre a commentare il rapporto con le forze politiche nel periodo delle mancate leggi 2314 e 612. È degno di essere evidenziato il suo giudizio negativo su alcuni contenuti troppo demagogici (l’ope-legis) del DdL 612, sostenendo che molti universitari progressisti erano apparentemente contro i “baroni” ma in realtà volevano trasformare in “nuovi baroni” anche gli altri docenti. La relazione di Rinaldi entra nel vivo della storia. All’inizio parte da lontano mostrando come l’organizzazione dell’università del dopoguerra fosse anacronistica rispetto alle aspettative dei giovani. E cerca di collegare le richieste delle associazioni dei docenti di allora con quelle del movimento studentesco. Mostra che anche nel corpo docente non conservatore c’era una divaricazione tra una minoranza estremista, vicina agli studenti, e una maggioranza moderata che cercava il dialogo politico, nella convinzione che fosse questa la strada corretta per arrivare a una riforma dell’istituzione. Furono docenti di quest’ultimo tipo quelli che si aggregarono nel CNU. Rinaldi inquadra la ricerca di buoni rapporti del primo CNU con i sindacati confederali nell’ambito di una visione generale, che considerava la riforma dell’università come un passo cruciale verso una società più aperta e più giusta. Evidenzia i buoni rapporti del CNU con gli uffici scuola dei partiti nei primi anni ’70. E fa capire come il CNU si fosse guadagnato sul campo il rispetto di queste forze politiche per il suo perseguimento primario di obiettivi di interesse generale come l’autonomia di gestione, la democratizzazione degli organi di governo, la creazione delle strutture e dei percorsi formativi (dipartimenti e dottorato di ricerca) necessari per un potenziamento della ricerca scientifica, l’attività primaria che qualifica un docente universitario. E anche proteggendo i diritti dei docenti allora precari dagli eccessi di potere dei professori di ruolo non si fece mai portatore di richieste di ingresso in ruolo “ope legis”. Lamenta comunque l’abbassamento dello slancio propulsivo verificatosi nell’ambiente politico, e anche dentro il CNU, dopo l’affossamento della prima vera riforma universitaria (il DdL 2314). Rinaldi accenna infine ai rapporti dell’Università con gli Enti di Ricerca. A suo pare- Uno slalom tra le relazioni 35 re la vocazione del CNU a porre in primo piano le esigenze della ricerca viene evidenziata dalla forte spinta dei suoi iscritti a partecipare attivamente negli organi di gestione centrale come CUN e CNR. Egli sottolinea in particolare la fecondità dei rapporti tra Università e CNR, dei cui organi ha fatto parte, e stigmatizza le riforme degli Enti di Ricerca degli anni successivi che ne hanno invece sancito una netta separazione. Il periodo successivo (1976-1979), è raccontato da Leontino Battistin. Battistin evidenzia innanzitutto le difficoltà dell’istituzione universitaria a dare adeguate risposte alle nuove missioni cui è chiamata dalla società civile sia in termini di didattica (corsi votati alla ricerca e vocazionali, educazione permanente etc.) sia in termini di ricerca (problematiche applicative di interesse dell’industria e degli enti territoriali). Osserva poi con piacere che si ricomincia a parlare di università in termini positivi: i diversi partiti politici depositano in parlamento i propri progetti di riforma. Il CNU si fa promotore di una Conferenza Nazionale sull’Università che si svolge a Milano in presenza del Ministro dell’Istruzione Malfatti e di tutti i rappresentanti delle maggiori forze politiche. Il generale consenso alle tesi di riforma proposte dal CNU fanno pensare sia la volta buona. Ma non è così. A complicare le cose interviene un accordo separato tra Malfatti e i sindacati confederali che ora avevano proposte diverse dal CNU sullo stato giuridico dei docenti. Si assiste allora ad un lento e faticoso lavoro del parlamento nel tentativo di trovare un compromesso tra tale accordo e i singoli progetti delle diverse forze politiche. Il tutto fallirà. A questo punto il CNU comincia a chiedersi se sia ancora perseguibile l’obiettivo di una riforma complessiva o non sia meglio puntare ad un percorso a tappe che vada nella giusta direzione anche attraverso provvedimenti separati. Battistin al Congresso di Tirrenia proporrà una svolta in tal senso e alla fine il congresso si esprimerà chiaramente a favore di una pluralità di interventi finalizzati ad ottenere, oltre al succitato nuovo stato giuridico della docenza (ruolo unico articolato in fasce), anche le altre idee care al CNU quali il tempo pieno, la soluzione del precariato, il dottorato, la sperimentazione dipartimentale, il rilancio della ricerca, sia di base che finalizzata, e la ridefinizione degli ambiti disciplinari col superamento della rigida titolarità della cattedra. La modifica della strategia riformistica del CNU viene confermata dal racconto di Paolo Blasi relativo al periodo della Presidenza di Ciccio Faranda. Blasi evidenzia il proficuo rapporto con i ministri P.I., con gli uffici scuola dei vari partiti e con gli stessi settori università dei sindacati confederali (favorito dalla carica di umanità e simpatia che tutti hanno riconosciuto a Faranda) che hanno reso possibile, alla fine degli anni ’70, arrivare al DPR 382. E Blasi mette l’accento particolarmente sulla portata di tale legge di riforma che, contrariamente a quanto sostenuto da altri, non è stata solo una legge sullo stato giuridico della docenza. Sostiene Blasi che la 382 ha innescato il processo di sperimentazione di nuove forme di organizzazione della ricerca e della didattica, anche inducendo la parte più responsabile degli attori universitari (personale docente, T-A e studenti) ad incamminarsi verso una gestione più autonoma dei singoli atenei. Lamenta però il chiaro peggioramento dell’atteggiamento della classe politica nei riguardi dell’università negli anni successivi, quando la legislazione universitaria ha perso di vista una visione unitaria e, soprattutto, ha cominciato a imporre vincoli burocratici agli atenei in netto contrasto con le idee autonomistiche che stavano ma- 36 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri turando. Ciò è stato anche il risultato della perdita di personaggi molto competenti nell’ambito della dirigenza del settore Università del MIUR, anche a causa di un cattivo uso dello spoyl-system. Durante la successiva Presidenza Cresci si assiste ancora ad una buona collaborazione con gli uffici scuola dei partiti, che vorrebbero ancora spingere verso l’attuazione di nuovi interventi riformatori, in particolare sulla questione dell’autonomia. Purtroppo però il peso degli uffici scuola ha subito una netta caduta. Essi ormai contano molto poco e non riescono a convincere gli alti esponenti dei rispettivi partiti, e tantomeno i responsabili di governo, i quali sull’università la pensano diversamente. Cade quindi l’attenzione nei riguardi dell’Università e appare ancora più importante il lavoro del CNU (di proposta e di coinvolgimento dei docenti) nello spingere verso una legge sulla autonomia. Cresci evidenzia il lavoro fatto nei singoli atenei nella sperimentazione di una nuova organizzazione didattica, senza nascondere gli effetti negativi della proliferazione dei corsi di insegnamento operata dal corpo docente durante le prime esperienze. Ricorda infine, lui che per tanto tempo ha presieduto la Commissione di Medicina del CNU, le tante iniziative promosse dal CNU per allontanare il pericolo di uno scorporo della facoltà di medicina dal contesto universitario. La relazione di Pupillo, relativa al periodo 1988-1993, mette in rilievo il contrasto tra l’atteggiamento di gran parte dei docenti universitari che pensano che il maggior problema sia ancora la corretta applicazione del DPR 382 e si dedicano alla organizzazione di ricorsi amministrativi su problematiche stipendiali (per inciso molti colleghi ottennero rimborsi di arretrati di decine di milioni di vecchie lire) e i grandi cambiamenti nella società di natura politica (crollo del muro di Berlino e fine della Prima Repubblica a seguito dell’operazione “mani pulite”) ed economica (crisi economica e presa d’atto che il nostro paese aveva fatto troppi debiti ipotecando il futuro). Le riforme di questi anni non sono certo il frutto di una spinta dal basso, ma l’effetto dello spirito di iniziativa e della convinzione di un Ministro come Ruberti. Nell’ambito del CNU c’è però ancora molta spinta verso il nuovo e fervono le discussioni nonostante la difficoltà a far pervenire le nostre idee in alto loco. A testimoniare la vivacità del dibattito interno al CNU in questo periodo, si registra la nascita del giornale del CNU Università e Ricerca, che viene diffuso in tutti gli atenei. Nonostante i buoni rapporti col Ministro Ruberti non si riuscirà ancora a far passare l’idea della trasformazione dei ricercatori in “terza fascia”. Proprio al fine di far contare di più la docenza universitaria nei riguardi delle forze politiche e del parlamento parte il tentativo di creare una federazione fra CNU, CIPUR e USPUR. Questo tentativo continuerà nel periodo successivo della Presidenza Sergi (1994-2002), nella speranza di riuscire a realizzare una “Grande Associazione” che potesse rappresentare tutti i docenti universitari al di là delle singole categorie di appartenenza e delle diverse idee politiche. Lo sforzo del CNU però non riesce ad arrivare in fondo in parte per il prevalere di richieste corporative da parte del CIPUR e, sopratutto, per la grande resistenza “al nuovo” da parte dell’USPUR. Alla fine resterà in piedi soltanto una Federazione parziale che riunisce i soli colleghi delle Facoltà di Medicina di CIPUR, CNU ed USPUR, i cui interessi universitari sono più facilmente identificabili in contrapposizione alle pesanti ingerenze degli organi regionali del SSN. Uno slalom tra le relazioni 37 Sergi ricorda inizialmente l’intero percorso legislativo degli anni ’80 e ’90, evidenziando le poche riforme ottenute da Ruberti nei primissimi anni ’90 e la mancata approvazione della istituzione della “terza fascia” nonostante la sua iniziale approvazione al Senato nel 1999. Sottolinea poi la successiva scarsa fiducia degli universitari in ulteriori e più completi disegni riformatori e la concomitante caduta di attenzione per l’Università da parte della classe politica. Sarà la rinuncia del Parlamento ad affrontare in modo compiuto il problema della autonomia la molla che spinge gli universitari a dare corso alla sperimentazione statutaria prevista, come ripiego, dalla L. 168/1989. Da non perdere le osservazioni conclusive di Sergi al XIV Congresso del CNU del 2002: esse stupiscono per la loro perfetta aderenza anche alla situazione attuale, dando quindi la misura di quanto inutili (quando non peggiorativi) siano stati gli interventi legislativi degli ultimi 15 anni. Il periodo 2002-2008 è raccontato da Cordini. Egli sottolinea la presa di coscienza da parte di molti delle nuove richieste che vengono rivolte all’Università: in primis la necessità del sistema universitario di collegarsi meglio con le istanze del territorio (terza missione) e di occuparsi di educazione permanente. In tutte le occasioni di incontri ufficiali di questo periodo Cordini, a nome del CNU, fa presente che questi nuovi compiti non debbono stravolgere però l’istituzione universitaria, che deve restare fondamentalmente una comunità di docenti e discenti. E mette in evidenza lo stretto rapporto che esiste (e deve continuare ad esistere) tra la autonomia dell’istituzione e la libertà accademica dei docenti che si deve manifestare sia nella organizzazione didattica (pur con le necessità di adattare i curricula alle esigenze del mondo del lavoro) che nella scelta dei temi e nello svolgimento della ricerca scientifica, su tutti i campi dello scibile, cui è riconosciuta una pari dignità. Sottolinea infine che non è stata risolta la dicotomia tra l’autonomia delle università e la centralizzazione di certe decisioni. Nel contempo si allarga il fronte di coloro che attribuiscono tutti i mali dell’università al cattivo governo “dei baroni universitari”, cui si aggregano anche i rappresentanti delle imprese che fingono di ignorare la loro completa assenza nel dibattito passato e, soprattutto, le loro responsabilità nel non aver promosso (e finanziato) il lavoro di ricerca. In questo clima nasce la riforma Moratti (e analogamente, dopo, la legge Gelmini), il cui indirizzo di sottofondo non è tanto quello di aiutare gli universitari nell’attuare gli indirizzi di autonomia ma di tenerli sotto controllo, tagliando i finanziamenti, e infliggendo punizioni a coloro la cui attività venisse giudicata negativamente. Cordini lamenta come non ci sia stato alcun tentativo da parte del Ministro di avere un colloquio con le associazioni rappresentative dei docenti e degli studenti. E rileva che, purtroppo, a fronte di questo attacco concentrico all’università i sindacati universitari sono stati incapaci di coordinarsi e presentarsi come valido interlocutore delle forze politiche. Ciò ha ovviamente accresciuto il ruolo surrettizio della CRUI. A proposito della Legge Moratti, Cordini ricorda la generalità dell’opposizione a tale progetto ed elenca le puntuali critiche espresse in proposto da parte del CNU. Lamenta infine la risposta errata data alla difficile crisi economica del paese da tutti i governi che si sono succeduti, i quali hanno applicato anche all’università dei meccanici tagli “lineari”, a differenza di altri paesi che sull’università hanno invece investito ancora di più, non rendendosi conto (i governi nostri) dello stretto collegamento che 38 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri c’è tra il grado, e la qualità, dell’istruzione e la crescita anche economica del Paese. Nel 2008 si concretizza l’intenzione del governo di predisporre una ulteriore riforma. Il nuovo Presidente Indiveri sottolinea subito, a nome del CNU, come sia già evidente dalle linee di riforma rese note dal Ministro Gelmini e, a maggior ragione, dal testo del successivo DdL proposto dal governo, che questa ennesima riforma non avrebbe risolto i mali dell’università ma anzi peggiorato alcune cose come, ad esempio, il reclutamento dei docenti, allungando il periodo di precariato e posticipando quindi ulteriormente la già alta età di ingresso in ruolo dei docenti universitari. Per bocca di Indiveri il CNU lamenta ancora una volta la assoluta indisponibilità del Ministro ad ascoltare le associazioni dei docenti e decide di mettere per iscritto tutte le proprie critiche e i corrispondenti suggerimenti di modifica e di inviarli al Ministro. La relazione di Indiveri elenca tutti questi documenti, tra cui anche la proposta di una Legge-Quadro e quella di un nuovo stato giuridico dei ricercatori a tempo indeterminato che riconoscesse la funzione docente da loro esercitata. In assenza di alcun riscontro da parte del Ministro il CNU avviò una serie di contatti con diversi esponenti dei partiti politici e anche, informalmente, con il responsabile della stessa segreteria tecnica del Ministro. Ma queste iniziative non ebbero alcun effetto sulla stesura del testo di legge che fu approvato senza accoglimento di alcun suggerimento del CNU, come pure delle altre associazioni della docenza. A legge approvata il CNU inviò una lettera aperta al Ministro Gelmini, pubblicata sul Corriere della Sera, il cui primo effetto fu la chiusura dei rapporti, anche informali, con la segreteria del Ministro. La relazione di Indiveri ricorda infine il nuovo tentativo del CNU di realizzare un Coordinamento dei Sindacati e delle Associazioni Autonome della docenza Universitaria al fine di rendere più forte la rappresentanza dei docenti: è così che nasce il COSAU. Nelle intenzioni del CNU questo coordinamento avrebbe dovuto essere il nucleo di partenza di un nuovo tipo di aggregazione dei docenti universitari che potesse attirare anche le nuove generazioni. Il COSAU purtroppo, specie sotto questo ultimo aspetto, sarà un fallimento, come apparirà evidente quando la guida del coordinamento passerà da Indiveri (CNU) a Incoronato (CIPUR). Il periodo 2012-2013 è stato caratterizzato dalla Presidenza di Paolo Simone. È stata una Presidenza breve perché Simone ha avuto un importante incarico da parte del SSN, incompatibile con il ruolo universitario, e in attesa di un nuovo congresso ha delegato il Vice-Presidente Vicario Gioffrè. Simone proveniva da un ruolo ospedaliero (in cui aveva anche avuto responsabilità sindacali) e racconta come si è avvicinato al CNU quando è diventato ricercatore universitario ed ha anche fatto parte del S.A. di Torino. Quando accettò di essere candidato alla Presidenza del CNU sperava di poter dare un contributo proprio al grosso problema delle convenzioni tra SSN e gli atenei, in funzione della sua passata esperienza in entrambi i settori. Il Vice-Presidente Vicario Gioffrè si è logorato, nel frattempo, nel tentativo inutile di far funzionare il COSAU. E così siamo ai giorni nostri con la nuova Presidenza di Vincenzo Vecchio. Il Congresso di Firenze che lo ha eletto ha anche indicato la nuova via del CNU nella contrarietà a nuovi tentativi (a breve termine) di riforme globali onde permettere finalmente agli atenei di digerire le norme esistenti. Solo così infatti si potrà fare un’accurata valutazione della loro portata che sia in grado si suggerirne possibili motivate modificazioni. 1960-1968 Le Associazioni protagoniste del dibattito sull’università italiana Le Associazioni protagoniste del dibattito sull’università italiana Giunio Luzzatto Il contesto educativo e sociale È impossibile esaminare le azioni, e la stessa natura, delle Associazioni universitarie negli ultimi anni ’50 e nel decennio ’60 del secolo scorso senza partire da una analisi del contesto che le ha profondamente influenzate, cioè delle modifiche che in tale periodo stanno avvenendo nell’intero sistema educativo italiano; tali modifiche, a loro volta, sono una conseguenza della radicale trasformazione del quadro economico e degli assetti sociali del Paese. La Costituzione italiana era stata cauta nel definire, per la Repubblica, le prospettive di una nuova politica scolastica. Essa parla di scuola obbligatoria (e gratuita) “almeno fino ai 14 anni di età”; nulla in più rispetto a una norma (largamente inattuata) già prevista nella normativa del periodo fascista. Per la fase successiva degli studi, vi è solo una indicazione sull’esigenza di consentirne la frequenza ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”. Fino all’inizio degli anni ’50 era però alta la evasione all’obbligo scolastico non solo nella scuola “secondaria di 1° grado” (destinata ai ragazzi dagli 11 ai 14 anni di età e suddivisa in Scuola Media e in Scuola da Avviamento Professionale, spesso non presenti nei Comuni più piccoli), ma addirittura nella scuola elementare (per la quale l’obbligatorietà, e la presenza generalizzata, risalivano all’epoca dello Stato liberale pre-fascista); l’evasione era presente soprattutto nelle aree rurali, ove le famiglie si servivano molto del lavoro infantile. La situazione cambiò quando l’industrializzazione del Paese, avvenuta negli anni ’50 e ’60, e la conseguente urbanizzazione, produssero quasi automaticamente una riduzione dell’evasione; un ulteriore, decisivo, contributo venne dalla diffusione in tutto il territorio nazionale della Scuola Media Unica, introdotta da una legge del 1962. Da tale scuola si poteva accedere a tutte le scuole “secondarie di 2° grado” (Licei, Istituti Tecnici, Istituto Magistrale). Il favorevole ciclo economico (boom) e la crescente convinzione circa il fatto che il lavoro avrebbe richiesto sempre maggiormente una qualificazione elevata determinarono una frequenza elevatissima in tali scuole: dal 1950-51 al 1965-66 gli iscritti si triplicarono. Ciò indusse un analogo aumento nella frequenza universitaria; gli iscritti in corso erano poco oltre 145.000 nel 195051, quasi 298.000 (il doppio) nel 1965-66; nel 1968-69 erano già circa il triplo (oltre 415.000)1. 1 Ciò mostra che il fortissimo incremento degli studenti universitari dipende da quanto è avvenuto nella scuola 42 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Le mancate risposte qualitative al boom quantitativo L’espansione era stata spontanea, non indotta da scelte politiche o amministrative; la politica e l’amministrazione non risposero con le modifiche all’assetto istituzionale che sarebbero state necessarie. Queste modifiche avrebbero dovuto riguardare non solo l’adeguamento delle risorse, sia materiali (edilizia) che umane (docenti), ma anche una trasformazione strutturale: l’università per l’intera popolazione non poteva basarsi sulle strutture progettate per l’università destinata alla formazione (e alla selezione) delle “classi dirigenti” secondo la visione ottocentesca riconfermata e ulteriormente sviluppata negli anni ’20 da Giovanni Gentile (che si era addirittura proposto, senza peraltro riuscirvi, di ridurre il già modesto numero di iscritti e addirittura di chiudere molti Atenei). A tale concezione elitaria si connetteva, coerentemente, un’organizzazione interna fortemente gerarchica, con il potere interamente affidato ai docenti più anziani, i “professori ordinari”, i soli dotati di una posizione di lavoro stabile. Questi si opponevano non solo a sostanziali modifiche nell’assetto universitario, ma anche a un ampliamento dell’organico dei professori stessi (ampliamento che avrebbe ovviamente diminuito il peso individuale di ognuno di loro); per i “giovani” docenti la constatazione dell’anacronismo caratterizzante il mondo in cui essi operavano si coniugava perciò alla consapevolezza di essere dominati nell’oggi, e di avere scarse prospettive per il domani. Per questi docenti le rivendicazioni “categoriali”, per il miglioramento delle condizioni di lavoro, venivano a saldarsi quasi inevitabilmente con richieste molto più generali, indirizzate a una riforma radicale del sistema. Tale doppia valenza caratterizzò pertanto in modo molto forte l’azione delle associazioni cui essi dettero vita: UNAU (Unione Nazionale Assistenti Universitari) e ANPUI (Associazione Nazionale Professori Universitari Incaricati). Un altro elemento centrale di quest’azione, reso possibile proprio dagli obiettivi non corporativi di essa, fu la forte proiezione all’esterno del mondo accademico: le associazioni spesero molte energie nello sforzo teso a convincere l’opinione pubblica, precedentemente non coinvolta, circa il fatto che i problemi dell’università riguardavano l’intero Paese, il cui sviluppo sarebbe stato compromesso da un inadeguato sistema di istruzione superiore e ricerca scientifica. Il disagio, e conseguentemente la volontà di impegnarsi per un cambiamento, erano particolarmente alti tra gli studiosi operanti nelle scienze “dure”, che attraverso lo sviluppo di forti legami internazionali erano state le prime a far uscire il sistema universitario italiano da logiche provinciali2; non a caso, la presenza di docenti di tali aree scientifiche fu particolarmente alta sia tra gli aderenti alle Associazioni, sia negli organismi dirigenti delle stesse. Nel frattempo, il numero degli Incaricati universitari si stava rapidamente incrementando: fatto inevitabile, poiché i poteri dominanti secondaria negli anni precedenti il 1968-69; è quindi del tutto errato attribuire invece l’incremento stesso, come molti hanno fatto, alla “legge di liberalizzazione degli accessi” dell’autunno 1969. Negli anni immediatamente successivi, di fatto, il dato continua ad essere in aumento, ma con velocità molto inferiore. 2 Fin dall’immediato dopoguerra gli articoli pubblicati nella rivista della Società Italiana di Fisica, «Il Nuovo Cimento», erano tutti scritti in inglese; all’opposto, per decenni rimase vietato presentare ai concorsi universitari lavori non redatti in italiano! Le Associazioni protagoniste del dibattito sull’università italiana 43 (accademici oltre che politico-amministrativi) non volevano rispondere all’aumento quantitativo dei corsi di insegnamento, necessario in relazione al boom di studenti, con un corrispondente aumento dei professori di ruolo. Questi ultimi si esprimevano, e pesavano, soprattutto attraverso il loro dominio3 sugli organismi istituzionali che avevano la rappresentanza formale del mondo universitario: il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, la Conferenza dei Rettori. Tali organismi negavano l’esigenza di una “riforma”, limitandosi a chiedere al Governo meri provvedimenti finanziari; sulla stessa linea era l’associazione, ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo), che riuniva i professori ordinari. Quando il dinamismo di UNAU e ANPUI portò il mondo esterno, e in particolare la stampa di informazione, a dedicare un po’ di attenzione alla questione universitaria, l’ANPUR, al fine di non isolarsi, tentò per un breve periodo di collaborare con le altre associazioni; fu lanciato con clamore un documento pubblico, “Per la riforma e il finanziamento dell’università italiana”, nel cui titolo era già evidente, attraverso i due sostantivi in cui si identificavano le richieste, un debole compromesso. Le concezioni erano però, nella sostanza, del tutto alternative, e la collaborazione non poteva durare. Infatti in tutto il periodo successivo, di cui diremo, mentre UNAU e ANPUI realizzarono intese con la rappresentanza degli studenti (UNURI, Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), l’ANPUR non fu più presente; i componenti della categoria si muovevano peraltro efficacemente, fuori dal dibattito pubblico, attraverso gli organismi sopra ricordati, nei cui gangli occupavano posizioni centrali. La Commissione parlamentare di indagine Le associazioni impegnate per il rinnovamento ottengono un successo nel 1963, quando la Commissione parlamentare di Indagine sulla Scuola, nel porre Università e Ricerca Scientifica al primo punto della sua Relazione conclusiva, scrive “le esigenze di espansione quantitativa e quelle di riforme qualitative e strutturali si sono delineate notevolmente impegnative e, in taluni casi, tali da suggerire provvedimenti straordinari di emergenza” e individua dieci “proposte di innovazioni più importanti”; tra queste, sono indicate tutte le questioni che le associazioni avevano evidenziato e che saranno poi all’attenzione negli anni successivi, dai dipartimenti alla flessibilità dei piani di studio4, dal “diploma” al dottorato di ricerca, dalla nuova figura dei professori aggregati all’impegno universitario nella formazione degli insegnanti di tutti i livelli scolastici, dalla presenza di tutte le componenti (anziché dei soli professori ordinari) negli organi di governo universitari alla realizzazione del diritto allo studio attraverso “assegni ed altre provvidenze a favore di tutti gli studenti capaci e meritevoli che ne abbisognino”; si parla anche di “soluzioni per giungere al massimo impegno dei docenti”, ma è il solo punto sul quale la Commissione esplicita la presenza di due diverse 3 È in questo periodo che compare, e si diffonde rapidamente, l’appellativo “baroni delle cattedre”. La flessibilità, viene detto, deve essere “tale da incoraggiare l’iniziativa dello studente”: è già presente, cioè, quella esigenza di curricoli student-centered di cui si parla oggi in tutti i documenti internazionali. 4 44 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri posizioni, l’una tesa a distinguere due figure giuridiche di docenti (“full-time” ovvero “part-time”), l’altra minimalista e orientata a considerare il problema in termini prevalentemente disciplinari “seppure possano essere introdotte forme limitatrici dell’esercizio professionale privato”. Anche su altri punti alla nettezza della diagnosi spesso non segue una indicazione coerente, e sufficientemente coraggiosa, della terapia; la relazione della Commissione rappresenta comunque una pietra miliare nel dibattito, poiché per la prima volta si afferma in una sede istituzionale, e ciò avviene al massimo livello, che l’università italiana deve essere riformata strutturalmente; tra gli obiettivi, viene ivi detto, c’è anche “una migliore produttività nei termini di un migliorato rapporto tra iscritti e laureati, di una minore durata media degli studi e di una minore percentuale di abbandoni”. Il dibattito in Parlamento: il disegno di legge n. 2314 La mancata piena corrispondenza tra diagnosi e terapia nelle conclusioni della Commissione di Indagine non è un incidente occasionale, ma costituisce uno dei numerosi effetti delle spinte contrapposte presenti all’interno della maggioranza politica di centro-sinistra, con il PSI impegnato per caratterizzarla senza ambiguità in senso decisamente riformatore e con la DC spesso operante per edulcorare la sostanza dei provvedimenti innovativi pur formalmente adottati: al riguardo, le vicende connesse all’iter – nella legislatura 1963/68 – del progetto governativo sull’università, il DdL 2314, sono emblematiche. Formalmente presentato, nell’autunno 1963, come attuazione delle proposte della Commissione di Indagine, il progetto ne snatura il significato fin dal titolo, “Modifiche all’ordinamento universitario”, scelto in quanto il Ministro Luigi Gui non vuole scontrarsi con il potere accademico sopra ricordato, che nega l’esigenza di una vera e propria “Riforma”. Lo svolgimento dell’iter parlamentare del DdL 2314 si intreccia strettamente, a partire dal momento della presentazione di esso, con le vicende delle Associazioni universitarie. Queste non sono state molto influenzate, fino a tale fase, dagli schieramenti partitici; l’adesione all’UNAU e all’ANPUI, rispettivamente degli assistenti e degli incaricati universitari, avviene sulla base della propria posizione professionale e di un consenso alle istanze di rinnovamento che costituiscono il programma delle Associazioni stesse; conseguentemente, nei gruppi dirigenti di esse non sono presenti colleghi “conservatori”, ma operano sia docenti che dal punto di vista degli schieramenti politici sono vicini all’area “riformista” del centro-sinistra (socialisti e sinistra democristiana), sia docenti collocati su posizioni prossime all’opposizione comunista. L’azione unitaria, tra gli uni e gli altri, è stata possibile senza problemi fino a che – autonomamente – l’azione stessa rivendicava una necessaria trasformazione delle strutture accademiche e prefigurava elementi dell’auspicato nuovo assetto; le divisioni sono invece pressoché inevitabili nel momento in cui occorre prendere posizione di fronte a un progetto che giunge dall’esterno e che si caratterizza nell’ambito di un preciso contesto politico. Da un lato vi è chi accetta una logica “emendativa”, ritiene cioè che una forte spinta da parte del mondo universitario impegnato per il rinnovamento Le Associazioni protagoniste del dibattito sull’università italiana 45 possa ottenere rilevanti modifiche all’impianto della legge in discussione; dall’altro vi è chi nega tale possibilità. Alla Camera, nel frattempo, l’iter della legge procede a singhiozzo per oltre tre anni, in presenza di una dialettica sempre più vivace all’interno stesso della maggioranza: il Ministro Gui, sempre più condizionato dall’area accademica tradizionalista, resiste infatti, articolo su articolo, comma su comma, ai tentativi che non solo il PSI, ma anche la sinistra democristiana conducono per recuperare la linea più coraggiosa che si era parzialmente imposta nella Commissione di Indagine. È inevitabile, si diceva, che queste esitazioni e questi conflitti influenzino anche il dibattito interno delle Associazioni, in termini non solo di tattica immediata, ma anche di prospettive strategiche. Il movimento studentesco Un ulteriore interlocutore, proprio nell’anno 1968 in cui la Legislatura si deve concludere, fa intanto sentire la sua voce: acquista peso infatti, non solo in Italia, un forte movimento di contestazione da parte degli studenti universitari. Esso si sviluppa in molte parti del mondo, con aspetti particolarmente clamorosi negli Stati Uniti e in Francia ma con qualche significativa presenza perfino nei Paesi dell’Europa dell’est; proprio perché la contestazione è “globale”, ha cioè nel mirino gli assetti complessivi del potere politico ed economico, al centro dell’attenzione non vi è quindi, specificamente, l’assetto organizzativo delle università. Pregi e difetti, successi e fallimenti di tale movimento sono stati ampiamente studiati, e non è questa la sede per approfondire ulteriormente il problema; per ciò che qui ci interessa, giova però cercare di comprendere per quali cause gli Atenei abbiano invece costituito, in Italia, il bersaglio preminente dei contestatori, nonché gli effetti che la loro azione ha comportato. Una causa generale risiede indubbiamente nel carattere del tutto obsoleto del nostro sistema accademico; al passaggio all’università “per tutti”, che era avvenuto in tutto il mondo, si era risposto negli altri Paesi attraverso corrispondenti trasformazioni istituzionali, non sempre del tutto adeguate ma comunque rilevanti e orientate in una direzione corrispondente alle nuove situazioni. Un elemento particolare, che ha avuto peso, riguarda poi la rappresentanza studentesca; ovunque, il movimento studentesco negava il valore di essa, esaltando la “Assemblea” come strumento di democrazia diretta, ma in Italia aveva motivi di critica aggiuntivi. Infatti l’UNURI, organizzazione che abbiamo già ricordato, si era molto allontanata dalla “base” studentesca e – pur prendendo posizione sui temi per essa interessanti – aveva finito col costituire, prevalentemente, una scuola di formazione di quadri per le politiche delle organizzazioni giovanili dei partiti; questa deviazione, determinata almeno in parte dalla partecipazione molto bassa alle elezioni degli organismi studenteschi di Ateneo (i quali, a secondo livello, esprimevano poi le strutture dell’UNURI), finiva con l’essere un ulteriore disincentivo a tale partecipazione. Nel 1968 l’onda assemblearista e le corrispondenti “occupazioni” di molte università (uno tsunami, si direbbe oggi) travolgono e fanno sparire l’UNURI; alle Associazioni dei docenti rinnovatori viene così a mancare un interlocutore che sarebbe indispensabile proprio perché le loro 46 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri piattaforme sono centrate sull’esigenza di dare risposte efficaci alla domanda, da parte degli studenti, di una formazione di qualità. Viene travolto anche il DdL 2314, già in difficoltà per i motivi sopra detti. La nuova situazione, nelle università e in sede politica (con la Legislatura che si chiude senza la riforma), produce inevitabilmente contraccolpi nelle Associazioni, ed è alla base di quella discontinuità di cui si parla in altri contributi al presente volume. 1961-1971 verso il CNU Le idee di riforma dall’UNAU al CNU Gaetano Crepaldi È difficile parlare di CNU senza ricordare le associazioni che lo hanno preceduto e che hanno affrontato il tema della Riforma Universitaria in tutti i suoi aspetti, molti a tutt’oggi non ancora risolti. L’associazione più importante nell’ambito universitario è stata senza dubbio l’UNAU (Unione Nazionale Assistenti Universitari) nata molti anni fa, il cui obiettivo principale era la riforma dell’università, pensata un po’ sul modello anglosassone, strutturata in dipartimenti, con varie categorie di docenti, operanti a tempo pieno e nominati democraticamente. Nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, partecipai al XX Congresso Nazionale che si tenne a Torino e che vide l’elezione alla presidenza di Adriano Vitelli, un assistente della Clinica Medica di Torino, splendida figura di studioso e di medico, che impostò l’azione politica dell’UNAU, fino a quel tempo rimasta ancorata ad un lavoro culturale e vagamente rivendicativo. A Torino io entrai per la prima volta formalmente nel direttivo dell’associazione, eletto come rappresentante degli Assistenti Volontari, figura oggi scomparsa, ma che a quel tempo rappresentava il primo gradino della carriera accademica. Tale figura, credo esistente solo in Italia, era incardinata nella struttura universitaria con apposito decreto, che permetteva la partecipazione a pieno titolo a tutti le attività didattiche, scientifiche ed assistenziali, queste ultime fondamentali per l’inserimento nella Facoltà di Medicina. Permetteva, inoltre, di guadagnare titoli ed anzianità per un’eventuale carriera ospedaliera. Nell’UNAU esistevano numerose commissioni di lavoro ed una delle più importanti, ai cui lavori partecipai, riguardava le riforme universitaria ed ospedaliera. Il problema della riforma universitaria cominciava a maturare anche a livello politico e, per la Facoltà di Medicina si intrecciava con quello della Riforma Ospedaliera. Sotto la presidenza di Giorgio Tecce, fui eletto alla Vice-Presidenza dell’UNAU, con il compito di seguire i problemi della Facoltà di Medicina in quel periodo predominanti, ed in tale posizione partecipai con i rappresentanti delle associazioni ospedaliere alla discussione ed al monitoraggio della legge di riforma ospedaliera che ebbe definizione giuridica con l’approvazione in Parlamento, nel maggio del 1968, della cosiddetta “legge Mariotti”, fortemente voluta dall’allora ministro della Sanità di estrazione socialista. In quegli anni le commissioni di concorso nell’ambito ospedaliero erano presiedute da un professore universitario che praticamente sistemava negli ospedali quegli assistenti che non potevano proseguire, per mancanza di spazio o di titoli, la carriera 50 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri accademica. La legge Mariotti, nonostante i nostri sforzi come sindacato universitario, fu concepita e strutturata in funzione anti-universitaria, con l’eliminazione del controllo universitario sulla scelta dei primari ospedalieri, con l’intento manifesto di togliere potere ai “baroni” della Facoltà di Medicina. Purtroppo questa scelta, dettata dalle rivendicazioni sindacali del personale ospedaliero, portò ad un risultato negativo nella selezione del personale primario ospedaliero, poiché all’influenza universitaria si sostituì pian piano il potere politico che, più o meno direttamente, controlla anche oggi la selezione e la nomina dei vertici ospedalieri. Con la nuova legge i professori della Facoltà di Medicina nelle commissioni selezionatrici del personale sanitario ospedaliero erano scelti per sorteggio nazionale ed erano in assoluta minoranza, per cui al controllo universitario si sostituì quello politico e quindi partitico. Se la riforma ospedaliera ha modificato in senso positivo la struttura dell’ospedale, per quanto riguarda invece il personale, con la sostituzione dei docenti universitari con i politici di turno, la scelta dei dirigenti ospedalieri avveniva in modo assolutamente arbitrario e politico. Con la riforma ospedaliera era operata una ristrutturazione della carriera anche dal punto di vista economico. In quest’ambito l’intervento della commissione di Medicina dell’ANRIS, (associazione che sostituì alla fine degli anni ’60 l’UNAU e l’ANPUI), da me presieduta, affrontò il problema anche con manifestazioni sindacali che arrivarono fino allo sciopero del personale universitario da tutte le attività comprese quelle assistenziali. Lo sciopero assistenziale coinvolse tutte le università italiane e costrinse il Parlamento ad approvare la cosiddetta “Legge De Maria” dal nome dell’Onorevole che presiedeva la Commissione Sanità della Camera. La legge Mariotti aveva attribuito al personale ospedaliero una retribuzione economica particolarmente elevata per quei tempi, quale compenso per l’impegno a tempo pieno. Si veniva a creare pertanto una notevole sperequazione economica nei confronti degli assistenti che operavano nelle cliniche universitarie, la cui retribuzione era pari a quella degli assistenti delle facoltà non mediche, e pertanto notevolmente inferiore alla retribuzione percepita dal personale ospedaliero. L’approvazione della “Legge De Maria” su un disegno di legge presentato dal governo, in particolare dal Ministro dell’Istruzione On. Gui, obbligava le amministrazioni ospedaliere (che gestivano in convenzione la maggior parte delle cliniche delle facoltà mediche) a corrispondere al personale universitario le differenze tra stipendio universitario e retribuzione degli ospedalieri di pari livello ed anzianità. Ricordo a tal proposito un paio di incontri a livello governativo, uno con l’allora presidente del Consiglio On. Andreotti per discutere con i professori di ruolo una leggina che obbligava tutto il personale medico universitario al tempo pieno, tempo pieno che diventava obbligatorio solo per le cliniche universitarie. Tale leggina, che fu poi ritirata, cercava di anticipare alcuni dei punti cardine della legge universitaria, la famosa 2314, presentata al parlamento dall’On. Gui dopo un’intensa e fruttuosa discussione con l’UNAU e con le altre associazioni universitarie (ANPUI dei professori incaricati, ANPUR dei professori ordinari, UNURI degli studenti). Fu in occasione della discussione al Consiglio dei Ministri della legge che doveva Le idee di riforma dall’UNAU al CNU 51 essere approvata prima della sua presentazione in parlamento, che avvenne un episodio assai anomalo e curioso cui riferirò più avanti. La legge 2314 fu elaborata soprattutto a Padova con l’assistenza di molti colleghi universitari che avevano come riferimento la Democrazia Cristiana, cui l’On. Gui apparteneva. Mi ricordo che a quell’epoca il parlamento era eletto con il sistema proporzionale e la scelta dei deputati del Collegio si basava sulle preferenze individuali. Era quindi logico, sia dal punto di vista politico che da quello culturale, ascoltare i membri più autorevoli dell’Università di Padova, che allora era l’unica Università nel Collegio elettorale per la Camera dei Deputati eletti nel Veneto. L’On. Gui fu Ministro della Pubblica Istruzione per un lungo periodo, circa sei anni, dal 1962 al 1968, ed in questo periodo si preparò a una modifica degli ordinamenti universitari mediante l’istituzione per legge della Commissione d’Indagine sulla Scuola, la Relazione Ministeriale sullo stato della scuola in Italia, la presentazione delle linee direttive della Riforma, le due leggi del piano quinquennale per lo sviluppo della scuola e del diritto allo studio e dell’edilizia scolastica e universitaria, e infine con la redazione del disegno di legge “Modifiche degli Ordinamenti Universitari” presentata alla Camera nella primavera del 1965, la cosiddetta legge 2314. Questo disegno di legge si proponeva una trasformazione profonda dell’Università secondo le seguenti direttive: 1) un aumento di autonomia delle Istituzioni Universitarie con la concessione di un più ampio spazio alla determinazione dell’ordinamento didattico e scientifico e con la creazione del Consiglio Nazionale Universitario quale organo di coordinamento nazionale dell’autonomia universitario; 2) la conservazione del collegamento con l’apparato statale sia pur con una riduzione misurata dei poteri dell’Esecutivo a vantaggio dell’autonomia universitaria e con più precise determinazioni da parte del Legislativo dei doveri e dei diritti delle varie categorie universitarie, in particolare incompatibilità, tempo pieno, modalità dei concorsi, creazione dei dipartimenti; 3) l’introduzione della partecipazione ai poteri, delegati dallo stato ai professori di ruolo, anche alle altre componenti del mondo universitario, nei vari organi di governo, in particolare partecipazione dei professori aggregati, degli assistenti, degli incaricati e presenza degli studenti; 4) l’aumento dell’influenza della società civile sulla vita universitaria nelle forme più varie: dalla partecipazione alla programmazione e all’espansione di istituzioni universitarie, alla presenza nei Consigli di Amministrazione, alla creazione di nuove articolazioni delle strutture per rispondere alle sempre più complesse esigenze dello sviluppo scientifico e professionale. In particolare l’allargamento della possibilità di libera scelta delle discipline da parte dello studente nella compilazione dei piani di studio. Quando il disegno di legge fu discusso al Consiglio di Ministri, prima della presentazione in Parlamento, il Ministro Gui sapeva che nel Consiglio stesso i professori universitari erano numerosi e molti contrari alla legge di riforma le cui linee generali ho sopra esposto. Egli pertanto m’invitò a Palazzo Chigi perché consegnassi un documento dell’UNAU di sostegno al disegno di legge (sia pur con numerosi emendamenti). Con un collega di cui oggi non ricordo il nome, feci per la prima volta nella storia sindacale un volantinaggio nell’anticamera del Consiglio dei Ministri! La 2314 fu discussa in Assemblea plenaria alla Camera che ne approvò anche i pri- 52 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri mi otto articoli, ma decadde con la fine della legislatura. Le cause furono molteplici e non conta enumerarle tutte. Bisogna ricordare accanto all’opposizione decisiva dei professori universitari (ma non degli assistenti e dell’UNAU che la sostennero sino alla fine) in specie parlamentari, ostili alla riduzione dei loro privilegi. Vi fu anche una forte opposizione della sinistra, che aveva presentato un suo progetto di riforma in contrapposizione alla 2314. Eravamo nel 1968 e gli studenti attuavano un tipo di contestazione che non esiterei a definire “cinese” o “maoista”. Ma la 2314 non cadde per colpa degli studenti. A questo proposito voglio ricordare un colloquio che ebbi con l’On. Gui durante una sospensione dei lavori legislativi, dopo l’approvazione dei primi articoli della legge. Il ministro mi disse che l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro chiese di esaminare la legge prima di proseguirne l’iter legislativo. Tal esame si prolungò al punto che intervenne la fine della legislatura e la 2314 decadde. Come dicevo poc’anzi, eravamo nel 1968 e la rivolta studentesca, partita da Berkeley in California, si era estesa a tutta Europa. Anche i sindacati universitari, riuniti nel Comitato Nazionale Universitario, iniziarono una battaglia impostata in modo piuttosto populista e che sarcasticamente i professori definirono “per fare tutti baroni”. Il nuovo disegno di legge 612 fu presentato dall’allora Ministro Sullo al Senato, sollevando una serie di contestazioni a livello sindacale: lo slogan di quel tempo era il docente unico, a tempo pieno, nel dipartimento. Si andava profilando un tipo di logica in contrasto con quella della 2314 e che, sia pur approssimativamente, anch’io definirei del “fare tutti baroni”. Di questa impostazione si fecero portatori i comunisti, in particolare l’On. Rosanna Rossanda Banfi, poi passata al Manifesto. Con questi intendimenti non era possibile un’intesa parlamentare e le contestazioni tra le diverse logiche di riforma divennero materia di scontri sindacali. Nella legislatura iniziata nel 1968, il disegno di legge 612 scatenò una miriade di problemi; sostanzialmente si pretendeva autonomia senza responsabilità: si mirava, un po’ a modello della magistratura, a creare un’isola chiusa di potere entro il corpo dello stato. In sostanza la polemica contro il baronato dei professori universitari non mirava a responsabilizzarli verso lo stato e la società civile, ma ad estenderne i privilegi a tutti i soggetti agenti nell’Università: professori incaricati, assistenti, studenti, impiegati, tecnici, bidelli, tutti promossi “baroni”. Ne risultava il quadro complessivo di un ordinamento corporativo, e in realtà antidemocratico, anche se era invocato in nome della democratizzazione degli atenei. In quel periodo fu approvata la legge Codignola, legge che apriva le porte dell’Università a tutti i diplomati delle scuole superiori (ragionieri, geometri, maestri, periti tecnici ed industriali). A quel punto il caos divenne totale: mi basta ricordare che gli iscritti alla Facoltà di Medicina nella mia Università, cui fino allora si poteva accedere soltanto con il diploma di maturità classica o scientifica, da poco più di un centinaio, divennero improvvisamente più di duemila. In quel periodo avevo avuto l’incarico di Professore di Patologia Medica e praticamente il mio tempo era completamente assorbito dall’attività didattica, che si esauriva in giorni e giorni di esami per le migliaia di studenti che, pur non frequentando in gran Le idee di riforma dall’UNAU al CNU 53 parte, si ammassavano per superare quello che consideravano un ostacolo alla loro carriera futura. In alcune facoltà si utilizzò il voto politico, di solito assegnato durante una seduta assembleare. Come si può immaginare, l’Università divenne una specie di rifugio per tutti coloro che volevano una progressione del loro stato sociale e, nella Facoltà di Medicina, nonostante gli sforzi di molti docenti di ruolo ed incaricati, il numero dei laureati aumentò in maniera sproporzionata alle esigenze della società e con una manifesta debolezza culturale e professionale della maggioranza dei medici formatisi in quel periodo. Cominciò allora una battaglia per avere il numero “chiuso” nelle facoltà che preparavano ad una vita professionale, battaglia che si concluse molti anni dopo con l’istituzione del numero programmato, in funzione della capacità delle strutture universitarie (e per la facoltà medica anche delle cliniche) di preparare alla professione un numero limitato di studenti. Per concludere, vorrei ricordare un episodio particolarmente significativo per il clima politico che aleggiava in quei tempi. L’assegnazione di nuovi posti di ruolo alle Università si rese necessaria per cercare di risolvere i problemi provocati dall’apertura dell’università a tutti i diplomati delle scuole superiori. In particolare il problema era drammatico nelle facoltà mediche che in passato operavano grazie al personale volontario. Il Ministro dell’Istruzione assegnava ogni tanto alle facoltà mediche qualche decina di posti di assistente e qualche posto di ruolo superiore. Dopo l’istituzione dei professori aggregati, lo squilibrio con il corpo assistente in gran parte non strutturato, divenne allora drammatico. Il Ministro Misasi, che resse il Ministero dell’Istruzione all’inizio degli anni ’70, decretò per l’ultima volta un’assegnazione di posti di assistenti alla Facoltà Medica, assistenti che nel futuro, per anzianità, divennero tutti professori. Con l’abolizione della libera docenza, il titolo di professore si acquisiva quindi soltanto con la promozione al ruolo universitario specifico (aggregato od ordinario). I posti di quell’assegnazione erano circa 900 e le facoltà scatenarono una feroce battaglia per ottenere quei ruoli. In modo assolutamente arbitrario la stragrande maggioranza di quei ruoli andò alla Facoltà Medica di Roma, Università della Sapienza (Tor Vergata non era ancora nata!). Si mormora, ma credo con probabilità di non sbagliare, che il Ministro avesse concesso ad ogni parlamentare, deputato o senatore, la facoltà di richiedere uno di quei posti di assistente per un loro protetto. Il risultato fu che la Facoltà Medica della Sapienza, con le successive progressioni di carriera e l’allargamento della Facoltà a tutti i docenti, raggiunse il numero di oltre 1500 componenti, diventando la più numerosa facoltà medica del mondo intero. Purtroppo, la stampa elenca quasi ogni giorno i problemi che affliggono le nostre università, dal nepotismo alle carenze tecnologiche e strutturali. Il quadro politico, infine, non ci permette di sperare in importanti riforme, vista anche l’infima percentuale della spesa pubblica dedicata alla ricerca e all’istruzione. Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU Gaetano Gallinaro Gli anni sessanta del secolo scorso sono stati caratterizzati da un grande aumento delle iscrizioni alle università. La percentuale dei diciannovenni immatricolati è passata dal 7,3% del 1960 al 22,8% del 1970. Questo aumento è anche dovuto al clima riformatore del primo centrosinistra ed in particolare alla legge n.1859/1962 che istituiva la scuola media unica ed alla legge n.80/1963 che, attuando il dettato costituzionale, prevedeva il presalario per gli studenti universitari meritevoli e bisognosi. Il presalario era di lire 200000 aumentati a lire 360000 per gli studenti fuori sede. La legge n.685/1961 aveva poi allargato l’accesso alle università ammettendo l’iscrizione dei diplomati degli istituti tecnici a diversi corsi di laurea. Nel 1965 fu presentato dal Ministro Gui il disegno di legge (DdL) n.2314 dal titolo “Modifiche all’ordinamento universitario” che accoglieva alcuni suggerimenti della commissione di indagine sulla scuola, presieduta dal senatore Ermini, che aveva concluso i lavori nel luglio del 1963. Il disegno di legge prevedeva l’istituzione, sia pure facoltativa, dei dipartimenti e un’articolazione dei corsi universitari in tre livelli: diploma, laurea e dottorato di ricerca. Era allargato agli assistenti di ruolo l’elettorato attivo per l’elezione del rettore e si aprivano ai rappresentanti delle imprese i consigli di amministrazione delle università. I contrasti all’interno delle associazioni dei docenti, la contestazione studentesca e soprattutto l’opposizione delle forze conservatrici in università ed in parlamento fecero sì che il disegno di legge non fosse approvato prima del termine della legislatura, nel giugno del 1968. Nell’aprile 1969 fu presentato in Senato dal Ministro Ferrari Aggradi un nuovo disegno di legge dal titolo “Riforma dell’ordinamento universitario” che fu iscritto col numero 612. Mentre si discuteva il disegno di riforma fu approvata la legge n.910/1969 dal titolo “Provvedimenti urgenti per l’università” che incise profondamente sull’assetto delle università. Con la 910 si estese la possibilità di iscrizione a tutti i corsi di laurea per i diplomati di tutti gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado di durata quinquennale (per quelli di durata quadriennale si previde un anno integrativo) e si diede agli studenti la possibilità di presentare per l’anno accademico 1969/1970 piani di studio diversi da quelli previsti dagli ordinamenti didattici; furono inoltre prorogati gli incarichi di insegnamento universitario per l’anno accademico 1970/1971 e si abrogarono alcune norme relative alla decadenza e alla possibilità di proposta di cessazione degli assistenti non liberi docenti. Successivamente la legge 924/1970 prorogò fino all’entrata in vigore della riforma universitaria la liberalizzazione dei piani di studio, abolì gli esami di libera docenza e sospese i bandi dei concorsi a cattedra fino all’emanazione di nuove norme che ne disciplinas- 56 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri sero lo svolgimento. Con la legge n.360/1971 furono poi stabilizzati gli incarichi di insegnamento universitario. A seguito della contestazione studentesca e della non approvazione del DdL. 2314 si sciolsero le associazioni che avevano costituito il comitato per la riforma: ANPUI (Associazione Nazionale Professori Incaricati), UNAU (Unione Nazionale Assistenti Universitari), UNURI (Unione Nazionale Rappresentativa Universitaria Italiana, l’associazione degli studenti). In quasi tutte le sedi continuò ad essere presente l’ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di ruolo). In molti atenei si manifestarono tentativi di affossamento di ogni proposito di riforma e di risposte repressive alla contestazione studentesca. Questi tentativi portarono alla reazione di molti docenti riformatori e si ricrearono nuove associazioni locali generalmente comprensive di più categorie di docenti. In alcune sedi erano presenti più associazioni; a Pavia nel maggio del 1970 si costituì un Comitato permanente di ben quattro associazioni (SIDUP, ADRUP, AMUS, ATLUP). A Genova si costituì l’AGIAU, aperta a tutti coloro che svolgevano attività di ricerca e di insegnamento nell’università. Ci si rese presto conto della necessità di collegamenti interuniversitari e mentre i docenti di molti atenei costituirono l’ANRIS (Associazione Nazionale per la Ricerca e l’Insegnamento Superiore), nata dall’unificazione delle associazioni dei professori incaricati e degli assistenti, docenti di Firenze, Genova, Pavia e Milano diedero vita nell’autunno del 1969 alla FADRU. Nel frattempo alcuni professori di ruolo riformatori fondarono l’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari; nulla a che fare con l’ANDU attuale di Nunzio Miraglia, ndr). L’esigenza di unità di tutte le categorie docenti e di tutte le sedi universitarie portarono prima l’ANRIS e la FADRU a formare un comitato di collegamento e poi a fondare, insieme all’ANDU, il CNU. La storia del CNU è ben documentata dai giornali “Scelte universitarie” e “Università e Società” e dagli atti congressuali, ma per il periodo precedente al congresso di Firenze del dicembre 1971 è ricostruibile solo dai ricordi personali e dai documenti (lettere, ciclostilati, ritagli stampa) conservati dai colleghi. Consultando la ricca documentazione trasmessami dal collega ed amico Piero Manetti ho ritrovato in un documento che l’8 febbraio 1969 si riunirono a Firenze assistenti e professori incaricati di Bologna, Firenze, Genova, Perugia, Pisa e Siena, che presero l’iniziativa per la costituzione di un Comitato di Coordinamento Nazionale. Credo che probabilmente la prima riunione di coordinamento delle sedi che successivamente costituirono la FADRU si tenne a Milano il 21 settembre 1969 con la partecipazione di delegati dell’ADRUP (Pavia), dell’AFDU (Firenze), dell’AGIAU (Genova) e dell’AMPUI (Milano). Così risulta da una lettera di un “Comitato nazionale di collegamento” a firma di Pietro Passerini. Nella lettera si riferiva sulla riunione di Milano e si convocava un convegno che si tenne a Genova il 5 ottobre del 1969 per discutere della situazione nazionale universitaria e delle prospettive di una azione comune per la riforma; era infatti in discussione al Senato il DdL n. 612. Nella riunione del Comitato che alla data del convegno di Genova raggruppava associazioni ed assemblee di oltre 20 sedi universitarie si decise una astensione dalle attività didattiche o di esami nei giorni 29 e 30 ottobre ed una riconvocazione per il giorno 29 ottobre a Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU 57 Roma presso l’Istituto di Fisica; il giorno 30 ottobre presso la stessa sede fu convocata una Conferenza nazionale per la riforma universitaria. Il 23 novembre 1969 fu costituita a Roma la FADRU cui aderivano docenti di Firenze, Genova, Milano, Modena, Pavia e Roma. Il 14 dicembre 1969 si riunì a Roma il Consiglio della FADRU. Il 22 febbraio del 1970 si tenne a Firenze un convegno congiunto ANRIS-FADRU e dopo un ulteriore incontro a Milano l’8 marzo si approvò un documento programmatico e si decise la costituzione di un comitato paritetico ANRIS/FADRU. Successivamente si contattarono l’ANDU, il CITLU (Confederazione Italiana Tecnici Laureati Universitari ) e lo SMU (Sindacato Medici Universitari). Nell’archivio di Piero Manetti ho ritrovato su carta intestata ANRIS a firma di Salvatore Saetta, in data 13 maggio 1970, una convocazione a Roma del “Comitato Universitario” per il giorno 20 maggio. I convocati erano: Giorgio Spini e Camillo Dejak per l’ANDU, Antonio Barresi e Mauro Giusti per l’ANRIS, Paolo Durio e Gaetano Nuovo per la CITLU, Piero Manetti, Luigi Cappugi e Gaetano Gallinaro per la FADRU. Ai primi di maggio del 1970 era quindi già operante il CNU che aveva costituito un comitato di presidenza formato da Spini, Saetta e Manetti. Fu deciso uno sciopero didattico, scientifico ed assistenziale dal 5 al 10 maggio, l’astensione dagli esami di profitto e di laurea a partire dal 22 maggio ed il boicottaggio dell’elezioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione fissate per l’11 giugno. Il motivo della protesta era il grave ritardo della discussione del progetto di legge sulla riforma universitaria. A seguito delle risposte insoddisfacenti date dal Ministro per la Pubblica Istruzione Misasi, succeduto a Ferrari Aggradi nel terzo governo Rumor, le assemblee delle sedi del 31 maggio e del 3 giugno decisero la continuazione dell’astensione dagli esami. Successivi incontri del 3 giugno e del 16 giugno portarono ad un impegno del Ministro per l’iscrizione in aula Senato della 612 e all’accoglimento di alcune richieste del CNU che sospese lo sciopero; il 14 giugno l’assemblea delle sedi aveva preso atto del successo del boicottaggio delle elezioni del Consiglio Superiore della P.I. (aveva votato meno del 4% degli assistenti, dei professori incaricati e dei liberi docenti) e dei progressi della trattativa col Ministro. Si delegò l’esecutivo del CNU, di fatto ormai esistente, a decidere sulla prosecuzione o meno dello sciopero a seguito dell’incontro col Ministro fissato per il 16 giugno. Ricordo che negli incontri furono anche denunciati alcuni episodi di repressione accademica che coinvolsero a Genova un assistente ed un borsista. Anche per evitare il ripetersi di situazioni simili il decreto legge n.580/1973 ha stabilito che le competenze amministrative già spettanti al titolare della disciplina fossero trasferite al consiglio di facoltà facendo così venir meno la totale dipendenza degli assistenti dai titolari di cattedra. Il 6 luglio cadde il governo Rumor ed in agosto fu nominato il governo Colombo di cui Misasi fu ancora Ministro per la Pubblica Istruzione. L’11 e 12 luglio si riunì a Roma l’assemblea delle sedi con la partecipazione di rappresentanti di quasi tutte le università italiane. Si diffuse un comunicato stampa in cui si prospettava la possibilità di un blocco della sessione di esami autunnale se il nuovo governo non avesse dato seguito agli impegni presi per i provvedimenti di riforma. Si costituì un ufficio sindacale composto da Luigi Cappugi, Camillo Dejak, Michele De Franchis e Vincenzo Solinas. 58 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Dopo qualche mese si dimise Luigi Cappugi che divenne stretto collaboratore di Giulio Andreotti, allora capogruppo della DC alla Camera, e fu sostituito da me, che con lui e Piero Manetti eravamo nell’esecutivo in rappresentanza della FADRU. Ho ritrovato copia di una lettera da me inviata per l’ufficio sindacale del CNU in data 27/11/1970 al Presidente del Consiglio Colombo, al Ministro per la riforma burocratica Gaspari, al Ministro del Tesoro Ferrari Aggradi ed al Ministro per la Pubblica Istruzione Misasi. La lettera era già su carta intestata Comitato Nazionale Universitario con le sigle delle associazioni aderenti che a quella data erano, oltre a ANDU, ANRIS, FADRU, anche CITLU e SMU. Nella lettera si chiedeva che in sede di emanazione dei decreti delegati per il riassetto degli statali si stabilisse che l’incarico o la supplenza di insegnamento universitario fosse retribuito secondo le norme generali del pubblico impiego secondo cui il titolare di due rapporti di impiego, anche se non poteva conservare integralmente entrambi gli stipendi qualora questi superassero complessivamente le lire 750000 annue, poteva al più vedersene ridotto di un terzo il minore di essi. La richiesta del CNU era conseguente ad una sentenza della Corte Costituzionale, segnalataci da Camillo Dejak, che aveva dichiarato incostituzionale, per violazione del principio di eguaglianza, la riduzione stipendiale maggiore di un terzo, in casi analoghi per i professori incaricati o supplenti nelle scuole medie. La richiesta non fu accolta ed in conseguenza il CNU promosse ricorsi al Consiglio di Stato perché fosse rimessa alla Corte Costituzionale la questione di incostituzionalità della norma che stabiliva al 31% o al 38% la retribuzione dell’incarico interno (l’incarico di insegnamento aggiuntivo rispetto alla figura principale, ndr). Con sentenza n.11/1973 la Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma. Il 16 novembre 1970 si svolse a Genova un dibattito sui problemi dell’Università che ebbe ampia rilevanza sui quotidiani. Il dibattito, da me moderato, fu aperto e concluso da Pietro Passerini per il CNU. Intervennero, tra gli altri, Silvano Bordi che con altri colleghi fiorentini aveva curato l’edizione di un libro dal titolo “L’università sotto inchiesta”1 e Gabriele Giannantoni già presidente dell’ANPUI ed allora deputato del PCI. Particolarmente interessanti gli interventi di Umberto Bianchi, Antonio Borsellino, Giunio Luzzatto, Corrado Rossi ed Emanuele Salvidio. Il dibattito era stato organizzato a seguito della rivelazione che i nomi dei vincitori designati di diversi concorsi erano stati depositati presso un notaio da Umberto Bianchi, prima della pubblicazione dei bandi; nel libro curato da Bordi era riportata una casistica di lettere elettorali molto interessanti e divertenti. Il 18 novembre 1970 si riunì a Roma l’assemblea delle sedi del CNU che proclamò uno sciopero per il 26 novembre con sospensione di ogni attività per sollecitare l’iter parlamentare della riforma. L’assemblea incoraggiò anche la pubblicizzazione su base locale di ogni episodio del tipo di quelli denunciati a Genova due giorni prima. Venne anche approvato un articolato documento sulle prospettive di azione del CNU. Nell’ottobre e nel novembre del 1971 furono pubblicati due numeri unici di un giornale, “Scelte universitarie”, diretto da Antonio Barresi e tirato in 20000 copie. 1 Vedi il “Libro Bianco” dell’AFDU nella versione digitale (DVD) che accompagna questo volume, ndr. Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU 59 L’editoriale dell’ottobre intitolato “La nostra presenza” così conclude: Oggi, pertanto, il Comitato Nazionale Universitario, forzando i tempi di un sostanziale processo di unificazione delle nuove associazioni (ANDU, ANRIS, FADRU) sorte dalle ceneri delle vecchie e classiste associazioni di categoria, esce definitivamente e decisamente all’aperto per fornire a tutti la riprova della propria unità di azione, già operante da tempo a prescindere dalla sanzione ufficiale, per altro assai prossima, nella competente sede congressuale. Nello stesso numero del giornale sono elencati i nomi dei componenti l’Esecutivo Nazionale, dei responsabili di ben 29 sedi universitarie, del presidente Gaetano Crepaldi di Padova e del vice presidente Luigi Amaducci di Firenze della Commissione Medicina. I componenti dell’Esecutivo Nazionale erano: Antonino Barresi di Messina, Luigi Cappugi di Firenze, Carlo Cipolloni di Pisa, Camillo Dejak di Venezia, Gaetano Gallinaro di Genova, Luigi Macchiarelli di Roma, Piero A. Milani di Pavia, Agostino Parise di Padova, Pietro Passerini di Firenze, Giovanni Pescetti di Torino, Salvatore Saetta di Palermo, Giorgio Spini di Firenze ed Angelo Zauli di Bologna. L’esecutivo del CNU aveva poi costituito al suo interno un Consiglio di Presidenza composto da Passerini (FADRU), Saetta (ANRIS) e Spini (ANDU). Dal 10 al 12 dicembre 1971 si tenne a Firenze il primo congresso nazionale del CNU, a seguito del quale fu eletto presidente Giorgio Spini. Vicepresidenti furono eletti Piero Milani e Salvatore Saetta. Della Giunta esecutiva fecero parte, oltre al presidente ed ai due vicepresidenti, Mario Rinaldi (BO) con funzioni di segretario, Carlo Cipolloni (PI), Francesco Faranda (ME), Carlo Garavelli (BA), Agostino Parise (PD) e Piero Passerini (FI). Furono inoltre costituite la Commissione Sindacale, con presidente Gaetano Gallinaro, la Commissione Medicina, con presidente Gaetano Crepaldi e la Commissione Ricerca Scientifica con presidente Guido Vegni di Milano. I presidenti delle tre commissioni partecipavano alle riunioni di Giunta. Le relazioni al congresso di Giorgio Spini, Piero Passerini e Salvatore Saetta, il documento dell’Assemblea delle sedi del novembre 1970 e la mozione conclusiva del congresso furono pubblicate nell’aprile 1972 da Marsilio editore col titolo “Per l’università di domani”2. Nel frattempo era stato approvato in Senato il DdL. n. 612. Il disegno di legge era profondamente innovativo, prevedeva la istituzione di un Consiglio Nazionale Universitario come organo rappresentativo dell’autonomia universitaria costituzionalmente garantita, la soppressione delle facoltà, l’istituzione dei dipartimenti, dei consigli di corso di laurea e del docente unico; in questo ruolo si prevedeva una progressione di carriera sulla base di valutazioni, e l’accesso solo per concorso e non per “ope legis” generalizzati. Il disegno di legge, iscritto alla Camera col numero 3450, fu approvato con emendamenti in Commissione e trasmesso all’Aula. In Aula furono approvati i primi 30 articoli e la discussione si protrasse fino al 3 dicembre 1971 quando fu interrotta per l’elezione del Presidente della Repubblica. Lo scioglimento anticipato delle camere, il primo nella storia della repubblica, avvenuto il 28 febbraio 1972, fece sì che la legge di riforma non fosse approvata. 2 Questo libretto, ripubblicato nel 2008 a cura della Sig.ra Maurizia Sapigni, moglie di Tristano Sapigni, è riportato nella versione digitale (DVD) che accompagna questo volume, ndr. 60 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Personalmente ritengo un errore delle associazioni dei docenti e di alcune forze politiche l’essersi opposti all’approvazione sia della 2314 che della 612. Mi sembra che all’assemblea dell’ANPUI del giugno 1967 solo le sedi di Firenze e Genova (rappresentate da Meo Zilio e Gallinaro), non approvarono il totale rifiuto della 2314. Ed anche la 612 fu osteggiata dalla maggioranza dei colleghi che chiedevano una ope legis generalizzata. Il collega Piero Milani, vicepresidente e direttore del giornale del CNU “Università e Società” così scriveva nel n. 2 dell’anno 1975: Dopo il tempestoso affossamento della legge n. 612 che noi stessi, unitamente agli amici confederali, commettemmo per spirito ipercritico l’errore di non appoggiare, pur con i suoi limiti e difetti, con sufficiente energia, facilitando così il compito di quelle forze che miravano a sabotare qualsiasi tipo di politica riformatrice, sono venuti i “Provvedimenti urgenti”… Infatti nell’ottobre del 1973 era entrato in vigore, su proposta del Ministro Malfatti, il decreto legge n.580/1973 dal titolo “Misure urgenti per l’università”, poi convertito nella legge n.766/1973. Col decreto legge si istituivano 7500 nuovi posti di professore universitario, si rivedevano le norme concorsuali, si poneva ad esaurimento il ruolo degli assistenti trasferendo alle facoltà le competenze già attribuite al titolare della disciplina, si stabilizzavano gli incarichi di insegnamento e si prevedevano contratti ed assegni di formazione scientifica e didattica. Si allargava la partecipazione ai consigli di facoltà a tutti i professori incaricati ed a rappresentanze delle altre categorie docenti e, con diritto di parola e di proposta ma non di voto, degli studenti; si prevedeva la presenza, pleno iure, nei consigli di amministrazione delle diverse categorie di docenti, degli studenti e di rappresentanze esterne; si stabiliva infine la pubblicità degli atti, non delle sedute, degli organi accademici. Il decreto legge non prevedeva la soppressione delle facoltà con il passaggio delle competenze didattiche ai consigli di corso di laurea e di quelle scientifiche ai dipartimenti. Era poi definitivamente affossata l’idea del docente unico a tempo pieno. Sulla questione del docente unico ho ritrovato alcuni documenti della sezione scuola del PSI. In una convocazione per una riunione da tenersi il 14 gennaio 1976 si riferisce di una riunione del 27 dicembre 1975 alla quale non avevo partecipato. Nella convocazione si legge: … orientamento difforme dalla ipotesi del docente unico per quanto concerne lo stato giuridico ed economico del personale docente, e sostanzialmente favorevole alla istituzione di due grandi fasce. In contrasto con quest’orientamento è la proposta Gallinaro, a favore del docente unico, pervenuta per posta al termine della riunione… Quindi già agli inizi del 1976 anche il partito socialista aveva rinunciato al docente unico. Mi sembra interessante riportare la proposta da me presentata, che accoglieva gli orientamenti del CNU e riprendeva i contenuti del Titolo III della 612. Ipotesi di istituzione di un ruolo unico dei docenti ricercatori. È istituito il ruolo unico dei docenti ricercatori. L’organico è fissato in relazione al numero degli studenti ed alle necessità della ricerca scientifica e può essere variato di anno in anno con la legge di approvazione del bilancio dello Stato. Al ruolo dei docenti ricercatori universitari nazionale si accede per concorso nazionale cui Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU 61 possono partecipare anche i cittadini stranieri. I concorsi sono banditi annualmente per settori di ricerca e di insegnamento indicati dai dipartimenti nell’ambito di un apposito elenco stabilito ed aggiornato dal Consiglio Nazionale Universitario. La carriera è articolata in classi di stipendio di cui l’iniziale è configurata come periodo di prova e si sviluppa nell’arco di 25 anni; sono riconosciuti ai fini della carriera all’atto del superamento del periodo di prova i servizi prestati nelle amministrazioni dello Stato e negli enti pubblici e quelli svolti presso università ed enti di ricerca esteri. Sono periodicamente indetti concorsi per titoli scientifici per l’avanzamento anticipato alle classi di stipendio superiori, in numero pari ad un quinto degli aventi titolo a partecipare per ciascun settore di ricerca ed insegnamento. I docenti ricercatori hanno diritto all’anno sabatico e possono ottenere dal dipartimento di appartenenza il consenso a periodi di congedo per lo svolgimento di attività di ricerca e di insegnamento o di consulenza presso altre università, enti ed amministrazioni, italiane od estere. Tali periodi di congedo non potranno superare i tre anni in un decennio. I docenti ricercatori universitari sono tenuti ad osservare il tempo pieno, non possono esercitare attività professionale o di consulenza professionale al di fuori del dipartimento, partecipano agli utili del dipartimento per attività esterne fino ad un massimo pari allo stipendio base della classe iniziale. I compiti dei docenti ricercatori sono stabiliti dal dipartimento; i docenti ricercatori hanno tuttavia il diritto di svolgere un corso a loro scelta in aggiunta all’attività didattica assegnata dal dipartimento. Mi sembra utile ricordare che l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) prevedeva uno status giuridico dei ricercatori simile a quanto previsto per il docente unico. Sono stato borsista dal novembre 1960 all’ottobre del 1962 e successivamente ricercatore dipendente dell’INFN dal novembre 1962 all’aprile 1979. Quando fui assunto, presidente dell’INFN era il notissimo fisico Edoardo Amaldi. L’articolo 59 del regolamento provvisorio del personale dell’INFN deliberato dal consiglio direttivo dell’istituto nel giugno del 1959 così disponeva: I ricercatori dipendono dal Consiglio direttivo dell’INFN. Non è previsto alcun rapporto gerarchico a priori fra i ricercatori. I direttori delle sezioni erano nominati dal Consiglio direttivo su indicazione degli appartenenti alla sezione. L’elettorato attivo per l’indicazione del direttore era esteso a tutti i dipendenti (ricercatori, tecnici ed amministrativi) e agli assistenti e professori (di ruolo ed incaricati) associati alle attività di ricerca dell’Istituto; nei primi anni sessanta anche le attività di fisica della materia erano inserite nei programmi di ricerca dell’Istituto. L’elettorato passivo era riservato ai ricercatori e ai docenti universitari associati all’ente. Il Consiglio direttivo era costituito in prevalenza dai direttori di sezione e dai direttori dei laboratori nazionali nominati dallo stesso consiglio. Il presidente era nominato dal Ministro per la Pubblica Istruzione su parere del Consiglio. I ricercatori INFN svolgevano attività didattica in università, in particolare svolgendo la funzione di relatori di tesi di laurea ed erano incoraggiati a porsi in aspettativa non retribuita per due anni per ricoprire incarichi esterni in università. Tutti i ricercatori dipendenti, ed i docenti universitari associati, potevano proporre programmi di ricerca che erano esaminati da tutti i colleghi del settore riuniti annualmente in sede 62 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri nazionale. La progressione economica dei ricercatori dipendenti prevedeva idoneità a numero aperto per il passaggio dal grado iniziale R6 al grado successivo R5. Circa un terzo dei candidati non superava l’esame d’idoneità e spesso era riassunto nei ruoli tecnici; molto importante per il conseguimento dell’idoneità era la presentazione di un programma di ricerca da svolgere negli anni successivi; il conseguimento della libera docenza entro un determinato numero di anni comportava il passaggio al grado R4 e la stabilità nel ruolo. La proposta del docente unico della 612 non era quindi irragionevole ma era in linea con quanto già avveniva nell’area di ricerca che probabilmente era la più apprezzata dalla comunità scientifica internazionale. Grande importanza ebbe per il CNU la questione dei rapporti con i sindacati confederali; questi, fino ad allora quasi assenti nella scuola e nell’università, si stavano costituendo proprio in quegli anni. Già nel 1970 in molte sedi gli scioperi erano stati indetti insieme ai sindacati confederali. Molto significativo è il rilievo dato alla questione dal comunicato stampa, di sole due pagine, a conclusione del congresso di Firenze. Nel comunicato si affermava: Il Congresso ritiene che l’unificazione in atto all’interno del CNU deve coerentemente portare ad una volontà unitaria insieme alle altre forze che si propongono le stesse finalità politiche. Ciò richiede un aperto ed immediato confronto con i Sindacati Confederali dell’Università e della Scuola per verificare l’esistenza di convergenze politiche e la possibilità di evoluzioni organizzative. Tale confronto non deve essere limitato alle dirigenze ma deve investire le basi. È ferma intenzione del CNU di costituire un Sindacato unitario capace di raccogliere tutti i Docenti Universitari che si sentano parte del mondo dei lavoratori e in quanto tali impegnati nella lotta non solo per l’Università ma anche per il generale rinnovamento sociale del Paese. Il Congresso dà mandato alla Direzione che risulterà eletta ed alle Sedi di intraprendere tempestivamente ogni azione per confrontare la posizione del CNU con quella delle Confederazioni Sindacali e dei Sindacati Scuola in vista del raggiungimento degli obiettivi prefissati. A seguito delle decisioni del congresso vi furono incontri con i dirigenti dei sindacati confederali di categoria, in particolare con Giampaolo Rossi, segretario generale della CISL Università e con Eugenio Capitani, segretario generale e Gianfranco Rescalli, segretario generale aggiunto della CGIL Scuola. Nel 1975 incontrammo GianMario Cazzaniga, responsabile per l’università della segreteria della CGIL Scuola. Dopo la costituzione, nel luglio del 1972, della Federazione CGIL-CISL-UIL vi furono numerosi incontri nella sede della Federazione in via Sicilia. Ricordo in particolare confronti con Luigi Macario ed Agostino Marianetti che successivamente divennero segretario generale della CISL e segretario generale aggiunto della CGIL. Dopo il secondo congresso del CNU, tenuto a Milano il 4, 5, 6 maggio 1973, incontrammo anche, nella sede di corso Italia, Luciano Lama, segretario generale della Cgil e lo invitammo ad intervenire ad una assemblea delle sedi. Intervenendo all’assemblea delle sedi del 19 giugno 1973 Lama ipotizzò la possibilità di adesione del CNU direttamente alla Federazione unitaria qualora vi fosse l’accordo di CISL e UIL; qualora non fosse stata possibile l’adesione alla Federazione Lama suggerì l’iscrizione ai sindacati confederali Gli anni che hanno segnato la nascita del CNU 63 trasformando il CNU in associazione politico-culturale. D’altronde era già possibile l’adesione al CNU e ad un sindacato confederale; io stesso, che sono ancora iscritto al CNU, ero iscritto dal 1973 al Sindacato Ricerca in quanto dipendente dell’INFN e nel 1976, quando riebbi l’incarico di insegnamento esterno in università, mi iscrissi alla CGIL Scuola; qualche tempo dopo, su invito di GianMario Cazzaniga e Gianfranco Rescalli, entrai a far parte dell’ufficio nazionale che si occupava di università. Successivamente, quando la CGIL costituì lo SNUR (Sindacato Nazionale Università e Ricerca), fui eletto nella segreteria nazionale. Il terzo congresso del CNU si tenne a Torino nel novembre 1974. Al congresso, che ebbe ampia risonanza nella stampa nazionale, intervennero, oltre ai rappresentanti dei partiti, Agostino Marianetti, segretario confederale CGIL, Luigi Macario, segretario generale aggiunto CISL, e Luciano Rufino segretario generale aggiunto UIL. Marianetti ricordò la proposta di adesione diretta alla Federazione ma la giudicò difficilmente attuabile. Propose in alternativa una forma di liberalizzazione della milizia sindacale degli iscritti al CNU in campo confederale, con il mantenimento al CNU delle sue funzioni più peculiari, regolate da un accordo con le Confederazioni. Su questa linea si ritrovò la gran parte della dirigenza nazionale del CNU che nel successivo congresso tenuto a Venezia nel gennaio 1976 propose una mozione (mozione 2) che trasformava il CNU in associazione politico culturale e trasferiva alle confederazioni le istanze sindacali. La mozione era firmata da Cecconi, Cerri, Cicchese, Dejak, De Franchis, Gallinaro, Garavelli, Milani, Passerini, Rinaldi, Rossetti, Saetta, Sapigni, Spini, Unguendoli. La mozione fu respinta in congresso e fu approvata la mozione 3 che manteneva le funzioni sindacali del CNU pur prevedendo una collaborazione con le confederazioni. La mozione 3 era firmata da Battistin, Crivellaro, Decleva, Maracchi, Zoppi. Può essere di qualche interesse ricordare che la posizione della mozione 2 era condivisa da Tristano Codignola, ancora per pochi mesi responsabile della sezione scuola dello PSI, ma non da Bettino Craxi allora vicesegretario del partito. A seguito del congresso di Venezia vi fu un totale rinnovamento del gruppo dirigente del CNU. A differenza di quanto era stato deciso per l’elezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione il 20 aprile del 1972 l’assemblea delle sedi del CNU decise la partecipazione del CNU alle elezioni per i comitati di consulenza del CNR. La lista dei candidati fu approvata dalla assemblea delle sedi del 13 maggio. In “Università e Società” del gennaio-febbraio 1973 è pubblicato un articolo di Luigi Amaducci, eletto nel comitato di scienze biologiche e mediche e coordinatore dei candidati CNU eletti nei comitati; nell’articolo si registra con favore la novità dell’impostazione del bilancio 1973 che prevedeva l’utilizzazione di parte del bilancio per il finanziamento di programmi finalizzati nell’ambito delle indicazioni del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica). Dopo che i provvedimenti urgenti modificarono la composizione dei consigli di amministrazione delle Università e delle Opere universitarie candidati del CNU si candidarono alle elezioni di questi organi con notevole successo. Ebbi la responsabilità della Commissione sindacale fino al congresso di Venezia 64 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri del gennaio 1976. Diedero un grande contributo alla commissione Camillo Dejak fin dall’inizio e successivamente Giorgio Fiori, Roberto Rossetti, Enrico Antonelli, Riccardo Cerri, Lamberto Pansolli e Gaetano Pessina. L’attività sindacale svolta dal CNU è ben documentata nei numeri di “Scelte universitarie” e di “Università e Società”. Di particolare rilievo furono le azioni svolte per le norme di legge riguardanti la stabilizzazione degli incarichi ed il trasferimento ai consigli di facoltà delle competenze amministrative relative agli assistenti di ruolo. Furono anche proposte con successo cause per la rivalutazione degli incarichi interni e per il riconoscimento, ottenuto con sentenza del Consiglio di Stato, dell’equiparazione delle due classi terminali degli assistenti di ruolo all’ex grado VI degli impiegati dello Stato; in conseguenza aumentò da quattro ad otto anni ai fini della carriera il servizio prestato come assistente da parte dei professori di ruolo. Il CNU si occupò anche del problema dei docenti ricercatori non strutturati, sollecitando un censimento degli stessi. A tale scopo fu costituita una commissione composta, oltre che da un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione e ad uno del Ministero del Tesoro, da quattro rappresentanti del CNU (Ancona, Dejak, Gallinaro, Pietropaolo), due dell’ANPUR, uno dell’ANCU, ed uno per ciascuno dei sindacati scuola delle tre confederazioni sindacali. Col congresso di Milano del maggio 1973 fu costituita la commissione per i non strutturati con presidente Giampiero Maracchi di Firenze. Le riunioni dell’Assemblea delle sedi negli anni 1970-1075 erano frequenti e spesso erano convocate per il sabato o la domenica. Le riunioni della Giunta esecutiva erano ancora più frequenti; ci vedevamo quasi tutte le settimane, quasi sempre a Roma, qualche volta a Firenze o a Bologna, dove era il segretario Mario Rinaldi. Negli anni settanta era più facile che adesso andare in treno da Genova a Bologna. Vi era un treno diretto che partiva da Genova nel tardo pomeriggio e arrivava a Bologna verso le 21,30. Di solito appena sceso dal treno andavo al ristorante della stazione, quello che fu distrutto con l’attentato del 2 agosto 1980. Dall’AFDU alla FADRU e al CNU: ricordi indimenticabili a cavallo degli anni Settanta Piero Manetti La storia La storia della FADRU (Federazione delle Associazioni dei Docenti Ricercatori Universitari) comincia probabilmente con una scelta dell’AFDU (Associazione Fiorentina Docenti Universitari) che, dopo una intensa attività svolta localmente, decise di dar vita ad una aggregazione delle associazioni che si erano formate nei diversi atenei dopo le lotte studentesche del 1968-69. Vorrei ricordare che il movimento del ’68 aveva dato una spallata, oltre che alle Università, anche alle associazioni sindacali nelle quali si raccoglievano gli assistenti (UNAU), i professori incaricati (ANPUI) e i professori ordinari (ANPUR), quest’ultima unica associazione sopravvissuta (ora USPUR, ndr). L’AFDU si costituì formalmente con un’assemblea tenutasi il 24 ottobre del 1968 dopo un periodo di attività iniziata qualche mese prima, volta soprattutto ad ottenere la presenza dei professori incaricati e degli assistenti nei consigli di facoltà. Tali richieste incontrarono una seria opposizione da parte degli ordinari, che però alla fine dovettero accettare anche per la decisione del rettore Funaioli, eletto poco prima. La Facoltà di Medicina fu quella che si dimostrò la più refrattaria ad adeguarsi alla novità, temendo i cattedratici un diminuzione del loro potere vuoi sul piano economico che su quello del reclutamento (concorsi). L’AFDU accettò la sfida e cominciò a raccogliere anche una serie di documenti su come si svolgevano i concorsi universitari (che, a dire il vero, non sono molto cambiati nel corso degli anni successivi). Nel 1969 l’AFDU pubblicò, sotto il titolo Università sotto inchiesta1, un libro cui contribuirono vari iscritti all’Associazione (tra gli altri Mario Serio, Roberto Cencioni, Franco Cresci, Gabriele Staderini), nato come risposta al rifiuto da parte della Facoltà di Medicina di approvare (o ratificare) la proposta della commissione d’inchiesta amministrativa sul funzionamento gestionale di Medicina nominata nell’Aprile del 1969 dal Consiglio di Facoltà allargato. La commissione d’inchiesta era composta dal preside prof. Chiodi, dal prof. Lunedei, dai professori incaricati Giusti e Della Corte, oltre che dagli assistenti Staderini e Serio. La facoltà respinse il questionario preparato dalla Commissione, che aveva lo scopo di delineare un quadro amministrativo generale sul funzionamento delle cliniche e degli istituti. In seguito a questa mancata apertura dei direttori delle cliniche universitarie alle richieste dei professori incaricati 1 Università sotto inchiesta, libro bianco a cura dell’AFDU, Cultura Ed., Firenze (1969); vedi la Sez. IV del DVD che accompagna questo volume, ndr. 66 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri e degli assistenti la risposta fu la pubblicazione del libro. Fu un atto di grande coraggio perché, anche se l’Università in parte già si opponeva a quanto stava succedendo cercando di rispondere in maniera prudente all’ondata di richiesta di cambiamento che veniva soprattutto dalla parte studentesca, il potere accademico continuava ad imporre le proprie soluzioni, soprattutto a Medicina. Il presidente dell’AFDU, a quei tempi Silvano Bordi, uomo molto prudente e preoccupato sulle possibili conseguenze giudiziarie che potevano venire all’associazione, chiese garanzie a chi aveva curato la pubblicazione. Mario Serio assicurò che aveva avuto il via libera da un magistrato, Piero Vigna (futuro Procuratore nazionale antimafia, scomparso nel settembre del 2012, ndr), che riteneva che non esistessero conseguenze penali, né per l’AFDU né per le persone coinvolte nell’inchiesta. La pubblicazione dell’Università sotto inchiesta ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica. Il 1 Luglio 1969 la Commissione Pubblica Istruzione della Camera presieduta dall’on. Russo, accompagnata dal Ministro Ferrari Aggradi (che aveva presentato un DDL sulla riforma universitaria appoggiato dal socialista Codignola e dal democristiano Dezan) tiene una audizione a Firenze con la presenza di alcuni giornalisti. Scrive Felice Froio, redattore della “Stampa”, nel suo libro Università: Mafia e Potere2 il momento di maggiore tensione si ha quando interviene un gruppo di assistenti che presenta un libro bianco sulle irregolarità amministrative nell’ateneo fiorentino. Il prof. Serio, con tono severo, afferma che nelle nostre università accadono fatti che non hanno nulla a che vedere con la cultura, la didattica, la ricerca. Il problema del potere dei cattedratici è uno dei mali peggiori degli atenei. Poi cita alcuni esempi di malgoverno dell’Università. Alla fine del suo intervento il Ministro assicura che invierà un ispettore per controllare quanto riferito. All’intervento di Mario Serio, tutto incentrato sulla facoltà di Medicina, segue quello di Luigi Cappugi che indica tutta una serie di irregolarità che coinvolgono altre realtà dell’Ateneo. Termina il suo intervento affermando: abbiamo la sensazione che i parlamentari non conoscano la realtà. Una delle prime iniziative, legate ai problemi locali, riguardava la richiesta della presenza, oltre che dei professori incaricati, anche degli assistenti nei consigli di facoltà e nel Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo, in quest’ultimo caso affiancati anche dal personale tecnicoamministrativo. Tale iniziativa trova riscontro in una mozione approvata all’unanimità da parte dell’assemblea straordinaria dell’AFDU del 19/11/1969. In effetti nel periodo estate-autunno 1969 eravamo stati tutti impegnati, in riunioni interminabili, a preparare una serie di rivendicazioni ed obbiettivi che ritenevamo di grande importanza per il rilancio dell’Università. Per la prima volta si tratteggiava una riforma basata sulla creazione dei dipartimenti, con la conseguente eliminazione delle facoltà e degli istituti, sulla istituzione del dottorato di ricerca, sull’autogoverno dell’Università attraverso la creazione del Consiglio Universitario Nazionale, sulla rappresentatività negli organi di governo dell’università di tutte le categorie che vi operano, sul docente unico e sul tempo pieno. Molti di questi punti elaborati dall’AFDU faranno parte del documento che dette vita al CNU e che ha trovato, a distanza di anni, parziale attuazione nelle varie leggi che hanno interessato l’Università. 2 Felice Froio, Università: Mafia e Potere, Ed. La Nuova Italia, 1973. Dall’AFDU alla FADRU e al CNU 67 La FADRU si costituì a Roma il 23 novembre del 1969 durante un convegno a cui parteciparono i delegati provenienti da Genova (AGIAU), Firenze (AFDU), Milano, Modena, Pavia (ADRUP) e Roma. Pietro Passerini di Firenze ebbe l’incarico di gestire la segreteria. Il 5/12/1969 una mozione dell’AFDU dice esaminato lo Statuto della Federazione delle Sedi autonome e del programma politico che ne è alla base: conferma la propria adesione alla Federazione, invitando i propri rappresentanti nel Consiglio della Federazione a portare avanti un’azione tendente a dare alla Federazione organi direttivi duraturi e efficienti ed a puntualizzare e definire il programma politico sulla base del programma e della linea politica dell’AFDU, dà mandato ai propri rappresentati di chiedere che venga proposto all’ANRIS di creare un Comitato di Coordinamento sulla base dei contenuti di riforma Universitaria dell’ANRIS, della Federazione e dell’AFDU ecc. La prima riunione dei rappresentati della FADRU si svolse a Roma il 14 dicembre del 1969 e nominò Piero Manetti, rappresentante dell’AFDU, presidente della Federazione. I rapporti con l’ANRIS (Associazione Nazionale della Ricerca e dell’Insegnamento Universitario Superiore – già ANPUI – UNAU), di cui era presidente Salvatore Saetta, si rivelarono positivi. Credo di ricordare, anche se non ne sono certo, che la FADRU sia nata perché inizialmente in molti esisteva una certa diffidenza verso l’ANRIS. Il richiamo, nella sigla originale, all’ANPUI e all’UNAU faceva ricordare che le rivolte studentesche erano state la scintilla che aveva fatto crollare un sindacalismo di categoria con cui era difficile continuare a convivere. Il 16/1/1970 il direttivo nazionale dell’ANRIS approvò una mozione in linea con quanto già approvato dalla FADRU che permise un rapido avvicinamento di riunificazione tra le due associazioni. A partire da tale data cominciarono i contatti con tutte le associazioni dei docenti che erano presenti nel panorama universitario. I primi contatti positivi si rivelarono quelli con l’ANDU (da non confondere con l’ANDU di questi giorni, ndr), presieduta da Giorgio Spini, che era riuscito a coagulare intorno alla sua figura un numero abbastanza numeroso di professori ordinari (di sinistra), provenienti principalmente dalle sedi di Firenze, Milano, Bari, Cagliari, Napoli e Siena. Il contatto si estese poi al SMU (Sindacato Medici Universitari), alla CITLU (Confederazione Italiana Tecnici Laureati Universitari) e all’ANDS (Associazione Nazionale Docenti Subalterni). Quest’ultima svolse un convegno a Bologna il 25 ottobre 1969 affrontando varie tematiche, tra cui i rapporti tra ricerca scientifica e imperialismo. I contatti furono sporadici e probabilmente molti membri di questa associazione confluirono poi nella CGIL. Fino alla costituzione del Comitato Nazionale Universitario (CNU) l’attività politica e organizzativa fu gestita da un triunvirato composto da Giorgio Spini (ANDU), Salvatore Saetta (ANRIS) e Piero Manetti (FADRU). Era un periodo frenetico in cui si stavano delineando gli indirizzi di riforma dell’Università, nei quali volevamo inserire le richieste elaborate attraverso discussioni che avevano coinvolto la parte più attiva del mondo universitario. Eravamo convinti di avere capacità di pressione sul Parlamento e su molti partiti politici, anche attraverso astensioni dal lavoro, dagli esami, dalle commissioni di laurea. Fu proclamato uno sciopero didattico, scientifico ed assistenziale dal 5 al 10 maggio 1970 e anche l’astensione dagli esami della sessione estiva. Il 31 Maggio si riunì una assemblea a Roma per fare il punto sui risultati della nostra protesta: vi parteciparono i rappresentanti di ben 25 sedi. In quella occasione 68 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri fu anche fatto un bilancio del boicottaggio delle elezioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione che videro la partecipazione di ricercatori e professori incaricati inferiore al 3%. Il successo delle due iniziative fu valutato positivamente nell’assemblea dell’11 e 12 luglio 1970, cui parteciparono i rappresentanti praticamente di tutte le sedi universitarie. Di quella riunione fu fatta una ampia relazione che costituisce il primo notiziario del CNU. Nella relazione è stata anche riportata la creazione di un ufficio sindacale composto da Cappugi (Firenze), Dejak (Cagliari), De Franchis (Palermo) e Solinas (Cagliari), oltre a un comunicato stampa che riportava le più importanti richieste da inserire nella riforma dell’università. Queste richieste furono poi meglio precisate in un documento che Salvatore Saetta inviò a tutti i presidenti delle associazioni afferenti all’istituendo CNU. Silvano Bordi, presidente dell’AFDU, li trasmise il 30 Agosto 1970 a Cencioni, Manetti, Passerini e Staderini con il seguente commento: non si occupa dei problemi della ricerca. Leggetelo e riprendete rapidamente la vostra bella elasticità mentale e chiosatelo a vostro piacimento. Tenete presente che la Commissione Istruzione riprenderà i lavori il 21 settembre. Il testo fu ampiamente rivisto e presentato all’approvazione dell’assemblea delle sedi tenuta a Roma nel novembre del 1970. Il 13 Febbraio del 1971, preso atto dei congressi di scioglimento di ANDU, ANRIS e FADRU e dell’adesione di CITLU e SMU, l’assemblea delle sedi all’unanimità dei presenti approvò il documento di unificazione e quindi l’atto di fondazione del CNU, stabilendo anche fasi di avvio alla riunificazione da concludersi entro il dicembre 1971. Giorgio Spini fu nominato presidente del CNU e tenne la relazione di apertura del congresso tenuto a Firenze il 10-12 dicembre dello stesso anno. Giorgio Spini nella sua relazione introduttiva delineò con grande chiarezza gli obbiettivi che il CNU doveva realizzare. Pietro Passerini riferì sulle richieste del CNU relativamente alla didattica e alla ricerca, Salvatore Saetta fornì gli elementi necessari perché il CNU divenisse non solo un soggetto sindacale ma anche un punto di riferimento per le forze politiche interessate al rinnovamento dell’Università. Il testo completo delle relazioni è riportato nel libro Per l’Università di domani3 pubblicato nell’aprile 1972. Le date e i ricordi sono ancora conservati in un mio piccolo archivio che ho aperto dopo tanti quando sono stato contattato da Paolo Gianni e dal vecchio amico Gaetano Gallinaro che mi hanno informato della bella iniziativa riguardane la Storia del CNU dalle origini ad oggi. Ho ancora conservato un quaderno in cui annotavo i versamenti delle associazioni aderenti alla FADRU e i costi della nostra attività. La più puntuale era l’AGIAU (di Genova, chi l’avrebbe detto? ndr) che versò nel Febbraio del 1970 lire 637.000 corrispondenti alla quota di 1750 lire per i 347 associati e a cui seguirono quote versate dall’AFDU e ancora dall’AGIAU. Complessivamente furono versati lire 1.523.450 e alla chiusura dell’attività della FADRU rimasero in cassa lire 79.185 che furono versate al CNU. Erano altri tempi, quando non esisteva l’euro e i treni, i ristoranti e gli alberghi avevano costi accessibili. 3 Per l’Università di domani, Marsilio Editori, 1972; questo libretto, ripubblicato nel 2008 a cura della Sig.ra Maurizia Sapigni, moglie di Tristano Sapigni, è riportato nella Sez. IV del DVD che accompagna questo volume, ndr. 1971-1976 La Presidenza di Giorgio Spini Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU Mario Rinaldi Il contesto che precedette la nascita del CNU Il movimento degli studenti della fine degli anni ’60 del secolo scorso ebbe varie motivazioni generali e specifiche che richiederebbero, per essere adeguatamente collocate nella storia, studi e conoscenze al di fuori delle mie competenze: la contestazione era, come allora si diceva, “globale”, e riguardava tutto il cosiddetto “sistema”, non solo il settore dell’istruzione. Tuttavia è innegabile che questo movimento investì tutta la scuola italiana di ogni ordine e grado mettendo in evidenza drammatica la necessità di un adeguamento ai tempi correnti, adeguamento che era mancato. La scuola italiana era ancora, all’inizio degli anni ’60, con non molte modifiche, quella dell’unità di Italia (ministro Casati): modifiche importanti furono l’avere creato il liceo scientifico di durata quinquennale (1923 ministro Gentile e 1940 ministro Bottai) al posto dell’istituto tecnico fisico-matematico e la trasformazione (1933) di alcune Scuole (Ingegneria, Architettura, Agraria) in Facoltà. A quel tempo la didattica universitaria era compito dei (pochi) professori di ruolo vincitori di un concorso nazionale (ciò che conferiva loro il titolo di “straordinari” dopo la chiamata di una Facoltà e “ordinari” solo dopo tre anni di straordinariato ed il giudizio favorevole di una commissione di nomina ministeriale), detentori di cattedra, e dei professori incaricati; gli assistenti furono considerati personale insegnante solo dopo una legge del 1958; accanto ai corsi ufficiali esistevano anche quelli a titolo privato tenuti quasi sempre da un libero docente, ossia da uno studioso non inquadrato nel personale universitario che aveva superato un apposito esame. Il governo delle Facoltà era riservato ai professori di ruolo, cioè ai titolari di cattedra; l’incarico di insegnamento veniva attribuito di anno in anno dal Consiglio predetto di Facoltà, anche agli stessi professori. Questi docenti, a parte il caso dei cattedratici, erano, in sostanza, cultori della materia: potevano essere assistenti o personale esterno alla Università, come, ad esempio, magistrati o dirigenti industriali. Gli assistenti dovevano conseguire la libera docenza entro dieci anni pena la decadenza dalla loro posizione. La libera docenza consentiva di potersi fregiare del titolo di “professore” anche a persone che non erano interessate alla carriera universitaria, ed era ambita in quanto portava notevoli benefici nell’esercizio di una libera professione, in particolare di quella medica. Il potere accademico era completamente nelle mani dei professori di ruolo: essi elaboravano i piani degli studi da sottoporre a Roma per l’approvazione; attribuivano a se stessi o ad altri incarichi di insegnamento (retribuiti) ed eventualmente li rinnovavano; 72 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri chiedevano posti di assistente alla disciplina di cui erano titolari o a disciplina affine e partecipavano alle relative commissioni di concorso; chiedevano posti di professore a Roma nelle discipline da loro scelte. L’attribuzione di incarichi di insegnamento nelle materie di pertinenza, il controllo dei propri assistenti, la disponibilità di una segretaria e di un bidello costituivano la piccola corte di ogni professore, corte che quasi sempre diveniva un formale Istituto di cui il cattedratico diveniva il direttore: in certe discipline si disponeva, inoltre, di una dotazione di bibliotecari e di tecnici anche laureati. Negli anni il numero dei professori incaricati crebbe poi enormemente perché le riforme dei piani di studio inserirono nuove materie. I concorsi per professore venivano banditi, senza particolare regolarità, su una particolare materia in una particolare sede; la commissione giudicatrice, composta da cinque membri eletti, poteva dichiarare fino a tre candidati idonei esponendoli in classifica; il primo otteneva il posto messo a concorso; per gli altri due idonei esisteva la possibilità di creare in altre Università posti da coprire per chiamata. Capitava che dei cinque commissari tre trovassero un opportuno accordo e quindi costituissero maggioranza nella commissione; capitava anche che i tre idonei non fossero proprio i migliori tra i candidati ma corrispondessero a persone care alla predetta maggioranza, magari perché provenienti da sedi ritenute degne di attenzione. Il Consiglio di Facoltà era composto dai (pochi) professori della stessa Facoltà; il Rettore era naturalmente un professore; il Senato Accademico era composto dai Presidi di Facoltà e dal Rettore; il Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo era costituito dal Rettore e da alcune figure istituzionali in genere esterne alla Università. In sostanza il governo della Università era tutto delegato ai professori. Comunque, il sistema, tutto sommato, aveva funzionato: il processo di cooptazione dei professori aveva complessivamente funzionato bene; l’Università italiana era considerata di ottimo livello e così i suoi laureati. Ma i tempi e le esigenze cambiano. Questa gestione del potere accademico nel dopoguerra iniziò ad essere considerata anacronistica: all’Università necessitavano riforme; detta gestione, tra l’altro, aveva portato nel tempo ad episodi discutibili che oramai non potevano più restare riservati. Alcune critiche venivano mosse sempre più spesso: nessuna certezza di carriera per incaricati ed assistenti; estrema precarietà nella attribuzione degli incarichi; possibilità di esercitare, da parte dei professori, pressioni anche indebite sui sottoposti; possibilità di evitare di bandire concorsi nelle materie di propria pertinenza per mantenere una personale supremazia evitando anche di bandire concorsi in materie nuove; limitazione della libertà nell’esercizio della didattica e della attività di ricerca nei sottoposti; assenza di bandi di concorso in una determinata materia nella propria sede di appartenenza così da rimanere l’unico esperto ufficiale del settore ovvero potere scegliere quello cui attribuire il posto di professore operando per chiamata di un idoneo; possibilità di influire pesantemente negli esami di libera docenza con frequenti episodi di simpatia o antipatia nei confronti degli esaminandi e relative conseguenze. È da tenere presente che ad ogni tipo di esame o concorso una lettera di presentazione del professore presso il quale si lavorava era, di fatto, assolutamente necessaria e pertanto condizionante. Non a caso, dunque, si cominciò a parlare correntemente di “potere baronale”. Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 73 Capitava anche che molti “baroni” esercitassero attività professionali esterne e fossero poco disponibili, per questi o altri motivi, a tenere lezioni e ricevere studenti; questo lavoro veniva scaricato sugli assistenti, in particolare quello degli esami; il numero degli studenti era molto aumentato ma non quello dei professori; vi erano lezioni in aule affollatissime, assai precario era il contatto docente-studenti. Certo non in tutte le Facoltà il fenomeno si manifestò nelle stesse modalità, ma comunque era piuttosto diffuso. L’affidamento all’esterno di un incarico di insegnamento era utilizzato frequentemente come contropartita di consulenze, non per assicurarsi competenze “nel superiore interesse degli studi”; e spesso costituiva anche un modo per aumentare il numero dei propri (inevitabilmente devoti) sottoposti. Naturalmente sarebbe ingiusto generalizzare, ma è chiaro che erano molti, anche validissimi professori, a sentire il fascino dell’esercizio del grande potere di cui disponevano; agli assistenti ed ai professori incaricati non erano concessi, in genere, molti gradi di libertà. Nel 1966, nel tentativo di alleggerire la pressione che veniva “dal basso” fu creato il ruolo dei professori aggregati, ai quali non competevano le prerogative dei cattedratici ma erano pur sempre “professori”: questo tentativo tardivo, non risolse i problemi delle carriere dei “subalterni”; fu interpretato in genere come un modo per dare una qualche sistemazione ai più anziani di essi che mai avrebbero potuto divenire cattedratici; è giusto dire che servì anche a promuovere qualcuno dei giovani più in vista. Esisteva un’associazione dei professori di ruolo universitari (ANPUR): ne furono create anche una dei professori incaricati (ANPUI) ed una degli assistenti (UNAU). ANPUI e UNAU costituivano i primi tentativi di sindacalizzazione dei “subalterni” predetti: c’erano sezioni nelle varie sedi universitarie che afferivano a direttivi nazionali. Qualche aggancio politico per ottenere provvedimenti di legge a maggiore tutela delle categorie era stato cercato e qualche risultato era stato ottenuto. Gli ultimi anni 60 del secolo scorso sconvolsero violentemente molte cose in Italia e altrove: in particolare, come si è detto, fu messo in discussione il sistema di tutta la istruzione pubblica. Il movimento degli studenti era nato negli USA per contestare la guerra nel Vietnam; si era poi sviluppato in termini diversi, di contestazione globale al “sistema” in termini duri ma abbastanza confusi; con evidente tentativo di fare trionfare l’ideologia e la demagogia sullo studio secondo anche quanto propugnato dal “gran rifiuto” di un americano, H. Marcuse, in un suo volume di grande notorietà, L’uomo a una dimensione. In Europa, in Germania, Francia e Italia si sviluppò una contestazione basata su interpretazioni del pensiero di Marx, Marcuse, Ho Ci Min, Che Guevara e Mao Tse Tung, il famoso libretto rosso del quale veniva sbandierato con violenta commozione: la cultura era disprezzata, si sottolineava l’inadeguatezza delle istituzioni, si voleva una maggiore partecipazione studentesca alla gestione degli Atenei, ci si ribellava al potere “baronale”. Ma presto le motivazioni politiche ed ideologiche presero il sopravvento; le analisi portavano a considerare lo studente al pari del proletario sfruttato dal grande capitale; alienato, seguiva studi che non lo riguardavano e a fini che gli venivano mistificati. In sintesi, in Francia, in Germania ed in Italia il 74 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri “sessantotto” si sviluppò soprattutto come contestazione “dei padroni”, ossia dello sviluppo economico basato sullo sviluppo delle imprese produttive di beni e servizi secondo la logica capitalistica della iniziativa privata che cercava un profitto a retribuzione del capitale investito. In Italia nel dopoguerra c’era stato uno sviluppo economico assai consistente ma tumultuoso, con conseguenti arricchimenti eccessivi, problemi legati alle retribuzioni dei dipendenti, scarsa attenzione alla salubrità degli ambienti di lavoro. Il benessere era aumentato ma i problemi erano tanti. Nelle scuole medie e in molte Facoltà universitarie la contestazione del sistema capitalistico, cioè dei “padroni”, divenne una regola, con risvolti anche violenti; le gerarchie nelle scuole venivano duramente contestate come asservite al “sistema”; i contenuti della didattica venivano denunciati come inutili per comprendere la evoluzione del mondo ed invece funzionali ad una visione reazionaria e classista della società. La contestazione, come si è detto, era definita “globale” contro il “sistema” nel quale dirigenti industriali, professori, e chiunque (spesso anche i genitori) svolgesse una funzione prestabilita con qualche responsabilità erano considerati colpevolmente “integrati”. Nelle Università gli organismi rappresentativi degli studenti che avevano avuto una storia anche gloriosa furono spazzati via. Le occupazioni delle scuole e delle aule universitarie erano continue: nelle strutture occupate si praticava anche una didattica “alternativa” ed autogestita. Naturalmente non mancarono personaggi, anche all’Università, al di fuori della popolazione studentesca, ad esempio professori e assistenti, che cercarono di approfittare della situazione dichiarando il loro appoggio al movimento ed alle sue rivendicazioni. Nelle scuole divenne pressoché impossibile effettuare valutazioni basate sul merito; anche in molte Facoltà non pochi docenti, dopo corsi tenuti non si sa come, praticarono “esami di gruppo” con distribuzione di trenta e lode a tutti gli esaminandi a prescindere dalla preparazione per evitare di sentirsi “strumenti di una selezione classista”. Ci vollero alcuni anni perché le scuole medie (unificate dal 1962 nei primi tre anni) riassumessero un andamento di accettabile regolarità: ma con molte cose cambiate in termini di disciplina e di severità negli studi. Il movimento degli studenti (in gran parte di origine borghese) aveva cercato anche di mobilitare gli operai delle fabbriche degli interessi dei quali gli stessi studenti si ergevano a portatori. Si legge in un loro documento: Il problema universitario è collocato in una prospettiva di lotta tra capitale e lavoro. L’Università è una struttura dello stato capitalista, anzi è una struttura dell’organizzazione produttiva perché prepara dei tecnici necessari alla produzione moderna, alle sue accresciute esigenze tecnologiche e organizzative. Gli studenti, anche se credono di studiare per diventare dei professionisti o degli intellettuali, sono già inseriti nel processo della produzione in un modo o nell’altro, sono forza-lavoro ed hanno quindi da risolvere i problemi di sfruttamento della forza lavoro nella società capitalistica. Fanno parte, quindi del movimento operaio… Il tentativo di coinvolgere gli operai e le loro organizzazioni ebbe però scarsi risultati. La contestazione generalizzata rientrò ma per alcuni irriducibili arrivò a degenerare in una lotta armata contro lo Stato che proseguì per anni con episodi tragici e sconvolgenti; si voleva sparare a delle idee ma si colpirono delle persone. Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 75 Il Comitato Nazionale Universitario In questo contesto cosa successe nelle Università? A parte le occupazioni di aule ed edifici effettuate dagli studenti, talvolta anche violente, e le difficoltà a tenere corsi regolari con esami altrettanto regolari, apparve ben presto evidente che l’esercizio del tradizionale potere accademico non poteva più avere luogo perché anacronistico e contestato: inoltre la denuncia di abusi piccoli e grandi, conseguenza dell’esercizio pluridecennale di questo potere, ampiamente pubblicizzati, aveva notevolmente screditato la categoria dei professori di ruolo che appariva sempre più una intollerabilmente ristretta oligarchia. Emersero piccinerie e meschinità, ingiustizie e animosità personali nel controllo dello sviluppo della carriera dei sottoposti, nella richiesta di posti di ruolo, nella conduzione degli Istituti: la credibilità complessiva della categoria dei professori si era realmente assai deteriorata; erano iniziate aperte rivendicazioni di assistenti e professori incaricati che si definirono polemicamente “docenti subalterni”. Si sosteneva da molte parti la necessità di creare una Università “nuova” non più funzionale ai tradizionali centri di potere; per molti doveva cessare la Università che trasmetteva un sapere preconfezionato, che era classista e al servizio dei “padroni”. Si subivano anche le conseguenze di tante analisi effettuate dal movimento degli studenti, alcune delle quali erano davvero acute ed alle quali era difficile potere contestare validità e attualità: ci furono certamente momenti nei quali molti adulti si sentirono superati da queste analisi ed incapaci di dare risposte adeguate. Non solo all’Università: certamente anche nel mondo politico e industriale. I professori incaricati dell’ANPUI e gli assistenti dell’UNAU compresero che per creare una Università “nuova” non aveva più senso mantenersi divisi per categorie ma occorreva unificarsi per potere perseguire riforme legislative adeguate in vista di una visione nuova della stessa Università per la quale si cercavano nuove definizioni e compiti; certamente doveva essere non più per le élites candidate a posti dirigenziali ma “di massa” per diffondere la cultura e creare così una società nuova e più giusta. Una legge del 1969 ed altri precedenti provvedimenti avevano aperto gli accessi alle Facoltà universitarie a tutti coloro che avevano frequentato una scuola media superiore di cinque anni, causando un forte aumento della popolazione studentesca. Nelle scuole medie e nelle Università avevano luogo continue riunioni, assemblee di studenti, occupazioni di edifici scolastici e di Facoltà; anche i docenti, in particolare quelli universitari, si riunivano frequentemente, spesso in preda a sgomento per ciò che stava accadendo. Naturalmente tra gli studenti coloro che erano più capaci di tenere il podio e di esprimersi in pubblico condizionavano le assemblee e facevano approvare “mozioni” che avrebbero dovuto rappresentare punti fermi per le discussioni successive: ma nella successiva assemblea i presenti erano in genere in gran parte diversi da quelli della precedente e questo vanificava, di fatto, i lavori assembleari. Tra i docenti, discussioni anche violente si accendevano tra chi appoggiava gli studenti e coloro che volevano ripristinare lo status quo; molti, la maggioranza, erano quelli che tacevano perplessi comprendendo che qualcosa doveva cambiare ma rifiutavano sconvolgimenti che non si sapeva dove avrebbero condotto. In ogni caso il tradizionale esercizio del potere accademico veniva ritenuto inaccettabile anche alla luce delle 76 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri malefatte vere o presunte alle quali veniva data grande pubblicità. Tante convinzioni vacillarono e così nacquero dubbi sulla validità del proprio operato, sulla didattica e sulle finalità della attività di ricerca. Tutte le persone più sensibili ed intelligenti, travolte da questa ondata studentesca, non poterono evitare di mettere in discussione se stesse e la propria attività. Ci volle poi molto tempo per ritrovare un nuovo equilibrio; l’associazionismo, che consentiva esposizioni di idee e confronti delle stesse, fu molto importante a questi fini. Ad ogni modo nell’autunno del 68 ANPUI e UNAU si unificarono: i direttivi nazionali redassero un documento comune nel quale, dopo una analisi della situazione di crisi della Università italiana, si concludeva così: Nella riconferma della validità dei comuni obiettivi di fondo, che le rispettive associazioni hanno finora perseguito, e nella consapevolezza che il raggiungimento integrale di tali obiettivi sia condizione indispensabile – oggi ancor più che nel passato –, come prova il contributo di analisi, di denuncia e di proposte effettuate dal movimento studentesco, per un rinnovamento autentico dell’Università, i professori incaricati e gli assistenti considerano ormai superata la distinzione per categorie della loro azione culturale, politica e sindacale. La creazione di una associazione che riunisca tutti i docenti universitari subalterni è quindi decisa (congresso ANPUI a Roma del 2224 giugno 1968 e dell’UNAU a Palermo il 28-30 giugno 1968) non soltanto per la considerazione meramente tattica della possibile maggior incidenza di un organismo che raccolga più aderenti, ma soprattutto per la constatazione che gli obiettivi perseguiti sono i medesimi; né la nuova associazione nasce in funzione d’un programma angustamente corporativo, come conferma il fatto che essa è aperta a tutti coloro che, sul piano della ricerca o dell’attività didattica, abbiano funzioni subalterne nella Università… Ma nella stesura dei programmi di attività della associazione così creata emersero immediatamente le differenze tra gli obiettivi politici. La minoranza “estremista”, molto vicina alle posizioni più estreme degli studenti, non accettò le conclusioni dalla maggioranza e creò l’ANDS (Associazione Nazionale Docenti Subalterni); la maggioranza “moderata” dette invece origine all’ANRIS (Associazione Nazionale per la Ricerca e l’Insegnamento Superiore). Per quanto mi riguarda, dopo avere seguito con perplessa attenzione il susseguirsi di queste vicende, compresi che non era più il caso di mantenere un ruolo di spettatore, ed aderii all’ANRIS di Bologna costituitasi per particolare iniziativa di Angelo Zauli, Paolo Colliva, Francesco Negrini, Giorgio Folloni, Marco Ungendoli, Vito Monaco, Paolo Pupillo, Antonio Contestabile, Gianni Bertoni, Bruno Barbiroli: il presidente nazionale era Salvatore Saetta. In quel tempo, nella stessa ANPUR ebbe luogo una scissione da parte dei professori di ruolo che non potevano condividere l’atteggiamento della associazione sostanzialmente teso solo a difendere il tradizionale potere accademico: nacque così l’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari) non più riservata ai soli professori di ruolo, ciò che rappresentava una incredibile apertura. Nacquero anche associazioni minori, la FADRU (Federazione Associazioni Docenti Ricercatori Universitari) e il CITLU (Comitato Italiano Tecnici Laureati Universitari). Scriveva l’ANDS nel suo documento costitutivo: Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 77 …rifiuto della scuola di classe; rifiuto della scuola dei padroni, lotta all’autoritarismo dentro e fuori l’Università, lotta all’attuale subordinazione dei ruoli e delle funzioni professionali, rifiuto della parcellizzazione della cultura e della pretesa di una sua neutralità, rifiuto della cogestione … Giudicano contraddittoria con la linea della nuova associazione qualsiasi proposta… che affronti il problema universitario confinandolo entro limiti settoriali efficientistici e razionalizzatori; indicano che questa delimitazione è l’espressione della linea di ristrutturazione neocapitalistica in atto in Italia… Scriveva l’ANRIS: Nella mozione che tende a legittimare la scissione è detto chiaramente che ogni riforma dell’Università anche la più coraggiosa è inutile, anzi dannosa in quanto sarà modificata dal sistema neocapitalista anzi ad esso asservita. Ne deriva che l’unica prospettiva è quella rivoluzionaria che trasformi radicalmente la società e conseguentemente la Università… Allorché si respinge come riformista ogni possibilità di riforma… si chiude ogni colloquio e si respinge ogni alleanza ma si compie una scelta di isolamento velleitario. L’ipotesi culturale che più si avvicina alla nostra sensibilità è quella della Università critica,… la prospettiva della Università critica evita inoltra la fuga in avanti rispetto alla realtà ad imporre scelte coraggiose giorno per giorno che verifichino la corrispondenza dell’azione ai generali principi di scelta. È chiaro che in tale prospettiva cambia radicalmente il contenuto del rapporto didattico così come cambiano i rapporti di potere esistenti… Non possiamo non essere contro l’attuale realtà classista… i rapporti all’interno dell’Università si ispirano ad una logica classista. Ciò non solo perché l’8% degli studenti soltanto proviene da famiglie operaie, ma anche perché i rapporti esistenti all’interno dell’Università si ispirano a una logica classista. L’autoritarismo accademico nei confronti degli studenti è insegnamento nozionistico e nei confronti di assistenti e professori incaricati è, nella migliore delle ipotesi, paternalismo; si fonda su una realtà di potere che si concentra esclusivamente nelle mani dei professori di ruolo. Se si vuole che l’università esca dall’attuale spirale involutiva occorre incidere con coraggio su tale dato nodale… occorre... incidere sull’attuale sistema di potere mediante una decisa posizione su quelli che riteniamo i presupposti caratterizzanti della riforma: diritto allo studio e stato giuridico del personale docente. Giova tenere presente che in quel periodo il potere politico cercava consensi a sue proposte di legge di riforma della Università e cercava, cioè, interlocutori credibili. Tra ANDU, ANRIS e FADRU nacque una collaborazione stretta: si cercava di giocare un ruolo di interlocutori del potere predetto con suggerimenti che, se accolti, avrebbero potuto costituire una buona premessa alla attuazione di una riforma universitaria. Un interlocutore attento e convinto della necessità di attuare con urgenza una riforma universitaria era il senatore Tristano Codignola, del Partito Socialista Italiano (PSI), cui faceva capo la casa editrice Nuova Italia di Firenze, che pubblicava un periodico “Il ponte” su cui era intenso e di alto livello il dibattito sulla riforma di tutta la scuola italiana. Egli fu promotore delle leggi 910 del 1969 (quella già citata che aprì gli ingressi all’Università a tutti gli studenti delle scuole medie), della legge 924 del 1970 (che sopprimeva la libera docenza e sospendeva la attuazione dei tradizionali concorsi a cattedra), e della legge 360 del 1971 (che prorogava automaticamente gli incarichi di insegnamento a chi lo deteneva): il cosiddetto “potere baronale” subiva una dura sconfitta. Queste due ultimi provvedimenti facevano esplicito riferimento ad una successiva legge di riforma dell’ordinamento universitario che quindi veniva ad 78 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri essere formalmente dichiarata come non più differibile. La costituzione del CNU (Comitato Nazionale Universitario) avvenne prima in forma di comitato di collegamento fra ANRIS, ANDU e FADRU (con successiva adesione anche del CITLU) e in questa fase contribuì, come si è detto, alla approvazioni di leggi decisamente orientate a ridurre il potere accademico tradizionale che cercava di difendersi tramite i documenti e la capacità di pressione dell’ANPUR. Il CNU si definì comitato e non sindacato non a caso: non voleva essere considerato una struttura solo rivendicativa di interessi di una categoria, ma una struttura che si proponeva di attuare riforme capaci di creare una Università nuova, libera e democratica. Il congresso di Firenze del 10,11,12 dicembre 1971 stabilì lo scioglimento delle associazioni che avevano aderito al CNU all’interno di esso: il congresso approvò le tesi presentate da Giorgio Spini sulla politica generale della nuova associazione; da Pietro Passerini sulla politica della didattica e della ricerca; da Salvatore Saetta sulla gestione sociale della Università. Queste tesi costituirono la base della mozione conclusiva del congresso di Firenze. Fu eletto un Consiglio Direttivo: Giorgio Spini (ex-ANDU) fu chiamato alla presidenza e Mario Rinaldi (chi scrive, ex-ANRIS) alla segreteria generale. Al CNU aderirono molti docenti di tutte le sedi universitarie. Il Comitato iniziò ad operare attivamente a Roma, prendendo contatto con esponenti politici di livello alto e, in particolare, con gli uffici scuola di tutti i partiti; organizzando anche giornate di studio sui più importanti temi della riforma universitaria alle quali erano invitati i più illustri esperti, politici o non politici, del settore. La riforma universitaria, grazie al CNU, veniva ad essere considerata non più un problema di addetti ai lavori, ma un tema di vitale importanza per il Paese. Naturalmente avevano luogo incontri anche con i Sindacati Confederali per cercare non facili convergenze. L’ANDS aveva poi aderito alla CGIL-Scuola. All’interno del CNU e, in particolare, del suo Consiglio Direttivo, vi era chi spingeva per un rapporto stretto con i Sindacati che fosse il presupposto per un successivo sindacato unico senza alcuna delle correnti etichette confederali e chi invece riteneva che il CNU costituisse qualcosa di diverso che doveva rimanere autonomo fino alla conclusione logica del suo mandato esistenziale. Certo esistevano diversità di fini, di linguaggio e di atteggiamenti tra CNU e Sindacati Confederali di settore; non vi è dubbio che questi ultimi facessero intendere che la pressione che essi potevano esercitare sulle Confederazioni in appoggio alla riforma universitaria era molto funzione del numero degli aderenti che avrebbero potuto annoverare; ma la proposta dell’adesione ai Sindacati non trovò molta accoglienza all’interno del CNU, sia per le diversità predette sia, soprattutto, per la convinzione di avere ereditato una storia, un’elaborazione di idee ed una tradizione di unità di intenti che non erano somatizzabili, almeno in tempi brevi, da altri che non avessero vissuto quella stessa maturazione. Ad ogni modo non ci sarebbero state obiezioni se, individualmente, suoi iscritti avessero voluto contestualmente aderire anche ad uno dei Sindacati Confederali: nulla ostava, poi, a che si tenessero riunioni e si organizzassero manifestazioni in comune. Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 79 Alcune proposizioni riportate nella mozione conclusiva di Firenze consentono di comprendere quali potevano essere le richieste presentate al mondo politico negli incontri che, via via, avevano luogo. … la impotenza delle precedenti associazioni stava nel fatto che esse facevano quasi esclusivamente del sindacalismo economico senza chiarire a se medesime e al paese che la lotta per il rinnovamento dell’università non è che il momento universitario di una lotta globale per il rinnovamento della società italiana. … Al di là delle polemiche – giuste ma ormai scontate – sulla situazione presente di strapotere accademico da parte di una ristretta oligarchia di “baroni della cattedra”, nonché di collusione fra potere politico e potere economico, il CNU individua nell’istituto stesso della cattedra la causa prima della arretratezza delle nostre Università tanto sul piano della ricerca scientifica, quanto su quello dei metodi didattici. Una gestione democratica dell’Università è impossibile senza la creazione di una figura di docente senza differenziazioni di potere e con mansioni non prestabilite e permutabili nel tempo (docente unico). Appare invece inconciliabile con la moderna mobilità della scienza e con la necessità di continuo adeguamento della didattica a nuove esigenze l’attuale prassi che assimila la titolarità di un insegnamento a una sorta di beneficio feudale e si trasforma quindi inevitabilmente in fattore di immobilismo e in remora all’avanzata verso nuovi campi del sapere, non ancora istituzionalizzati. All’attuale struttura fondata sulla cattedra e quindi su una concezione egotistica del sapere e autoritaria dell’insegnamento, il CNU contrappone una struttura fondata sul dipartimento come comunità di lavoro fra docenti e studenti, caratterizzata dalla collegialità delle decisioni e dalla mobilità e temporaneità delle mansioni svolte da ciascun docente e dall’insieme dei docenti che operano in un determinato settore. IL CNU… si oppone… ad ogni tentativo, comunque camuffato, di reintrodurre la presente struttura autoritaria e oligarchica, mediante forme di stratificazione gerarchica tra le mansioni dei docenti. Respinge ogni ipotesi di incentivazione di carriera cui corrispondano diversità di elettorato attivo e passivo ovvero diversità permanenti di funzioni. In particolare respinge l’ipotesi della creazione della figura del ricercatore. Si tratterebbe infatti di un ruolo subalterno… La necessità di eliminare le attuali contaminazioni fra Università e potere politico o economico, l’esigenza di non degradare l’insegnamento universitario a supporto di privato lucro professionale, il bisogno di un rapporto didattico e un’attività scientifica che impegnino tutte le energie del docente, rendono inderogabile il principio del “tempo pieno” per i docenti universitari. La creazione dei Dipartimenti, come cardine della nuova università, comporta necessariamente l’abolizione non solo delle Facoltà ma altresì degli attuali Istituti. L’autogoverno è l’unico strumento attraverso cui l’Università può realizzare veramente i suoi fini sociali. … tutti coloro che svolgono oggi funzioni di attività didattica e di ricerca nell’Università hanno diritto di transitare senza discriminazioni nel ruolo di “docente unico”. 80 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri All’Università di classe, in quanto canale di formazione della classe dominatrice, dovrà subentrare un’Università di classe in quanto canale di formazione di parte sostanziale della classe lavoratrice. … possibilità concrete per i lavoratori di passare dal posto di lavoro all’Università per tornare arricchiti nelle capacità e nell’educazione al mondo del lavoro… Di fatto l’Università di oggi è strumento di diseducazione nella misura in cui avvezza a vivere entro strutture gerarchiche ed autoritarie ed a considerare gli studi stessi come acquisizione dei dati indispensabili per avviarsi ad una professione più o meno lucrosa in termini di competizione. Il CNU… si oppone fermamente alla dissennata e clientelare proliferazione di nuove Università e Facoltà… Lette oggi queste affermazioni appaiono fortemente condizionate dalle spinte emotive di quel periodo burrascoso e, specialmente alla luce del comportamento del grande numero di nuovi professori creato nel frattempo, appaiono utopistiche e velleitarie: ma, in sostanza, fu con queste richieste che il CNU si rivolgeva ai parlamentari che riteneva più sensibili ai problemi dell’Università italiana e agli uffici scuola dei partiti politici. Negli anni ’60 i governanti avevano cercato di affrontare il tema della riforma universitaria preparando proposte di legge che volevano costituissero almeno una utile base di discussione: la consistente presenza di professori di ruolo in Parlamento e, comunque, la capacità lobbistica della categoria, condizionavano pesantemente queste proposte; ma il notevole aumento dei posti di ruolo da mettere a concorso in tempi ristretti (sia pure con le procedure tradizionali), che costituiva un dato costante in tali proposte, testimoniava il fatto che la vigente oligarchia degli stessi professori che, peraltro con lodevoli eccezioni, difendeva strenuamente i piccoli numeri “a tutela della qualità e del merito garantiti dalle scuole” (da loro dirette), non era più ritenuta credibile. La più interessante e completa di queste proposte mi pare fosse quella conosciuta come “ventitrequattordici” (numero protocollare) presentata, credo, dall’allora ministro Gui e prima che fosse costituito il CNU. In essa, naturalmente, non si accettavano i principi del “docente unico” e del passaggio nei ruoli ope legis, ossia senza concorso. Nel contesto di allora questa proposta di legge non poteva essere accettata; mi pare, anzi, che contro di essa si organizzassero scioperi. Di scioperi in quegli anni se ne organizzarono parecchi: ma, al di là, di altisonanti dichiarazioni alla stampa (c’erano anche giornalisti “amici”) e di affissione di manifesti, di fatto, molto spesso si trattava di astensioni dal “lavoro” parziali o mistificate. I “lavoratori” dell’Università intesi come assistenti e professori incaricati, in realtà, in generale, non vivevano personalmente una condizione così vessatoria da avere una “coscienza di classe” marcata: i rapporti con il cattedratico di riferimento, sovente un vero “maestro” (in ogni caso valeva il detto senatores boni viri, senatus mala bestia), erano molto spesso cordiali se non affettuosi; la gratificazione implicita in una lezione rendeva poi doloroso rinunciare al momento della lezione stessa; i rapporti con gli studenti spesso erano tali da creare sensi di colpa se non si consentiva loro di sostenere gli esami o li si obbligava a rinviare gli incontri per la preparazione delle tesi di laurea in previsione di date fissate per la presentazione delle tesi stesse; inoltre, il pericolo di non riuscire a rispettare le scadenze per la presentazione di memorie scientifiche, Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 81 che riguardavano magari un lungo lavoro i cui risultati erano anche l’obiettivo di altri “concorrenti”, non poteva non preoccupare i “lavoratori” predetti, sempre in ritardo sui tempi di realizzazione anche per antica “tradizione”, creando apprensione in caso di sospensione dei lavori stessi. Così, accanto ad alcuni volonterosi che cercavano addirittura di praticare il picchettaggio (in genere con moderata convinzione), considerando che negli Istituti non si doveva timbrare alcun cartellino di presenza e che almeno le attività di studio si potevano svolgere anche a casa propria, è difficile potere dichiarare quali erano in realtà i risultati concreti degli scioperi. Sulla stampa ci sosteneva in particolare un bravo giornalista e caro amico, Felice Froio, che condivideva la necessità di attuare velocemente una riforma dell’Università per tenere il Paese al passo con i tempi. Naturalmente, durante gli scioperi, si ricorreva anche alla convocazione di una assemblea per aumentare la partecipazione. Tra l’altro, la adesione allo sciopero, che avrebbe dovuto comportare una trattenuta sullo stipendio, ai fini della trattenuta stessa doveva essere autocertificata su richiesta dell’ufficio del personale, con lettera personale e senza particolare urgenza. Ad ogni modo, qualche risonanza, grazie agli amici parlamentari e giornalisti, era sempre ottenuta e serviva a tenere viva la attenzione sulla riforma universitaria. In realtà, come sempre succede, nell’ambito dei parlamentari, di governo e di opposizione, vi erano coloro che condividevano la necessità di attuare una vera riforma universitaria, e che costituivano i nostri interlocutori, e coloro che non avevano alcun particolare interesse. Nel mondo dei Sindacati Confederali, con i quali i rapporti non erano facili come si è detto, non tutti ritenevano concretamente prioritario questo problema: in generale, a quei tempi, era la riforma degli studi medi che attirava il loro interesse, anche per il semplice motivo che pochi erano gli universitari iscritti a tali Sindacati e molti invece gli insegnanti di scuola media; solo successivamente tale riforma fu posta tra quegli interventi di cui si chiedeva urgente attuazione. In sostanza, credo si possa dire che l’azione di pressione sul mondo politico in quei primi anni ’70 del secolo scorso fu compito principalmente del CNU, che, naturalmente, a quel tempo, non poteva non presentarsi agli incontri con il mondo predetto non condizionato dalle mozioni congressuali che, rilette oggi, appaiono decisamente radicali e intrise di ideologia, peraltro perfettamente in linea coi tempi: ad esempio, cosa si intendesse, precisamente e in concreto, per “gestione sociale” della Università non appare chiaro. La diplomazia, il prestigio, la fama e lo status di Giorgio Spini obbligavano gli interlocutori all’ascolto, ma, notoriamente, lo slogan più gridato dalla “base” era “docente unico, a tempo pieno, nel dipartimento” e non era agevole presentarsi ai parlamentari (tra i quali, è opportuno ricordarlo, erano molti i professori) in queste condizioni. Naturalmente, poi, nel ruolo del “docente unico” avrebbero dovuto transitare ope legis tutti gli assistenti ed i professori incaricati in servizio; e si sapeva che almeno non proprio tutti erano così attivi e brillanti nello svolgimento di attività di ricerca e di insegnamento da meritare la promozione; le malefatte vere o presunte del potere accademico non erano ritenute motivo sufficiente per un inserimento automatico e generalizzato nel ruolo di professore di tutti coloro che in qualche modo operavano all’interno della 82 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Università. Cioè, per un inserimento “oves et boves”, come qualcuno ebbe a dire, o per nominare “todos caballeros” come ebbero a dire altri ricordando l’imperatore Carlo V. Del mantenimento e dello sviluppo di un ruolo di professori “aggregati” non si parlava neppure. Il “tempo pieno” significava eliminazione di tutti i rapporti (retribuiti) con il mondo delle professioni e della produzione per dedicarsi totalmente alla didattica e, semmai, alla ricerca astratta di nuove conoscenze. Ai professori della Facoltà di Medicina non si poteva certo negare la possibilità e la necessità di svolgere concretamente attività sanitaria assistenziale anche in collegamento con le loro attività di ricerca e di insegnamento, ed appariva difficile che questa assistenza potesse essere svolta gratuitamente: la ipotesi di Mao Tse Tung dei “medici scalzi” non trovò mai molti sostenitori ed alla regolamentazione di questa assistenza provvidero le apposite convenzioni tra le Università e la Sanità. Ai letterati non si potevano certo togliere le attività editoriali e giornalistiche anche come espressioni di libero pensiero. Il “tempo pieno”, in definitiva, riguardava (e concretamente poi riguardò) solo i rapporti con il mondo produttivo: ma collaborare con questo mondo, a quei tempi, significava “assoggettare la cultura al profitto” ed operare come “servi dei padroni”. Solo in tempi assai più recenti molti (non tutti) compresero che la consulenza ed i programmi di ricerca finalizzati costituiscono ovunque il modo con cui si attua il trasferimento delle conoscenze con le quali il mondo produttivo crea quel “valore” che poi si vende ed arricchisce la nazione: si trattava dunque di trovare il modo corretto di esercitare queste attività, non di eliminarle. D’altra parte, a quei tempi, erano quelle esposte le richieste della “base” che le delegazioni del CNU dovevano presentare agli interlocutori. Allargamento degli organici ed istituzione dei dipartimenti per la concentrazione delle risorse umane e la migliore utilizzazione delle attrezzature per il coordinamento ed il potenziamento delle attività di ricerca destavano, in genere, attenzione; ma il “docente unico” e l’ope legis destavano invece forti perplessità negli interlocutori quando non incontravano un deciso rifiuto. Le delegazioni del CNU, naturalmente, non si presentavano agli incontri con atteggiamenti esageratamente rigidi: accettavano, per quanto possibile, la discussione su quanto proponevano e su quanto veniva esposto dalla controparte. Alle periodiche (e frequenti) Assemblee delle Sedi, generalmente a Roma (Hotel Continental, all’inizio di via Cavour, oggi non più esistente), il Consiglio Direttivo riportava i contenuti di questi colloqui e si cercavano i termini di possibili mediazioni in dibattiti anche molto accesi. I delegati di sede, a loro volta, informavano gli iscritti della loro sede di appartenenza in apposite assemblee e ne riportavano le opinioni. L’associazione non era molto ricca ed i rimborsi spese erano assai contenuti: le riunioni a Roma dovevano avvenire, possibilmente, senza pernottamenti; poiché i trasporti di allora non erano efficienti come quelli di oggi, alzarsi alle 4 per essere presenti alla riunione delle 10 della domenica a Roma, come nel mio caso, con rientro dopo la mezzanotte era pressoché la normalità. Certo, si aveva un’altra età: nel treno delle 5,30 da Bologna, incontravo spesso l’amico e collega Antonino Ragni che veniva da Modena e che di lì a poco ci avrebbe prematuramente lasciati. Non si può dire venissero rispettate le “quote rosa” come oggi si intendono, ma le colleghe nelle varie delegazioni non mancavano. Una legge di riforma organica, quella annunciata dai provvedimenti di legge di cui Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 83 si è detto in precedenza, non appariva possibile: era necessario procedere con provvedimenti successivi. Un primo risultato fu la legge del 1973, che la base degli iscritti del CNU ritenne assolutamente insufficiente: con tale legge furono messi a concorso ben 7.500 posti di professore di ruolo tradizionali; la commissione giudicatrice era previsto fosse composta di cinque membri sorteggiati tra dieci professori di ruolo o fuori ruolo delle materie messe a concorso, eletti a tal fine; al termine dei lavori la commissione giudicatrice doveva proporre non più la famigerata terna oggetto di tanti arbitrii, ma indicare i vincitori in numero non superiore ai posti messi a concorso con pubblicazione degli atti, con i nomi dei vincitori esposti in una classifica di merito, e dei pareri di ogni singolo commissario su ognuno dei candidati, ciò che rendeva assai più difficile un confronto non meritocratico tra i candidati stessi e la glorificazione di eventuali prescelti meno meritevoli. Il Consiglio di Facoltà veniva allargato ai professori incaricati stabilizzati ed a rappresentanze elette dei non stabilizzati e degli assistenti; il ruolo degli assistenti diveniva ad esaurimento, quindi, di fatto, abolito. Gli incarichi di insegnamento (retribuiti) dovevano essere accordati rispettando un ordine di precedenza che vedeva al primo posto assistenti o già incaricati e all’ultimo i professori di ruolo. Il Consiglio di Amministrazione della Università veniva allargato a rappresentanze elette delle varie categorie di personale. IL CNU, in sostanza, oggi appare evidente, aveva fatto un buon lavoro ed era riuscito a fare accettare alcuni importanti principi al potere politico. In realtà la base degli iscritti protestò soprattutto perché non era stato accettato il principio del “docente unico” e del passaggio in tale ruolo di incaricati ed assistenti ope legis, ma appare chiaro che con questa legge usciva fortemente ridimensionato il potere “baronale” e si erano fatti notevoli passi avanti nella riforma della Università. Il quantitativo dei posti messo a concorso era ingente; la abolizione della famigerata “terna” con designazione dei vincitori del concorso in numero pari ai posti messi a concorso, con necessità di confronto diretto dei candidati effettuato da membri di commissione sorteggiati e non votati, era una grande ed importante conquista; le modalità di attribuzione degli incarichi di insegnamento, l’allargamento dei Consigli di Facoltà e del Consiglio di Amministrazione costituivano provvedimenti di rottura con il passato. In realtà, come emerse successivamente, si era frantumato il potere baronale, ma si erano create le basi per altre disfunzioni: tanti nuovi professori, ex-assistenti o incaricati, è onesto riconoscerlo, non salutarono la riforma come la premessa per una Università nuova, ma solo come riduzione dei propri vincoli. L’allargamento dei Consigli di Facoltà creò le premesse per continui problemi di numero legale dei presenti alle sedute; il Consiglio di Amministrazione divenne un organo sindacale e non un vero organo di governo; non si fecero sforzi per attuare la auspicata comunità di docenti e studenti. Probabilmente non erano pochi coloro che avevano sostenuto formalmente il movimento riformatore, ma, in realtà, e per usare un eufemismo, non ne condividevano appieno le finalità. La attribuzione degli incarichi di insegnamento era riservata al personale universitario e non prevedeva più, pertanto, la possibilità di conferimento a personale esterno alla Università; quest’ultima limitazione costituì per alcune Facoltà, come Ingegneria, 84 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri causa dell’accentuazione di un dannoso isolamento dalla realtà esterna. Un conto sarebbe stato contrastare la gestione baronale di questi incarichi a proprio uso e consumo, un altro utilizzarli per assicurare competenze e contatti esterni ai corsi di laurea. Ma in quel momento era difficile potere contrapporsi a chi sosteneva che “non bisognava assoggettare la cultura al profitto”. Nella Facoltà di Ingegneria, la presenza di professori incaricati provenienti dal mondo industriale assicurava collegamenti molto importanti con questo mondo in termini di attività di ricerca e di collocamento dei laureati. Solo in tempi recenti, come si è detto in precedenza, si è poi preso coscienza della necessità di un più efficace “trasferimento delle conoscenze” come presupposto indispensabile per l’innovazione produttiva, che era stato fino ad allora estremamente favorito da questi professori incaricati provenienti dalle aziende, e si è cercato di rimediare. Il trasferimento di conoscenze sulla produzione di beni e servizi non costituiva più “assoggettamento della cultura al profitto” effettuato da “servi dei padroni” ma era (ed è) divenuto un obiettivo importante di vitale interesse generale. Le modalità di effettuazione dei concorsi, grande risultato del CNU di quel tempo, sono state poi profondamente modificate, molti anni dopo, negli anni 90, da un governo di centro sinistra come quello che le aveva volute, ripristinando la famigerata terna addirittura con concorsi locali, con un commissario del concorso nominato direttamente dalla sede e gli altri commissari eletti, non più sorteggiati, con pubblicazione del nome dei vincitori non più per classifica di merito ma in ordine alfabetico. Così nei concorsi si sono favoriti nuovamente accordi a priori e posti in condizioni di vantaggio i candidati locali: le università, purtroppo, non sempre ne hanno avuto giovamento. Sorprendentemente il CNU di quel tempo, evidentemente meno portato a ribadire antiche idealità, non effettuò alcuna protesta. Così come non protestò di fronte al pesante ridimensionamento del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) attuato da quello stesso governo. Il CNU della presidenza Spini e della segreteria Rinaldi concluse la sua attività al Congresso di Venezia del gennaio 1976. A onor del vero l’assemblea congressuale fece chiaramente capire che voleva cambiare Consiglio Direttivo: il confronto di opinioni ebbe anche toni assai vivaci. Ricordo che, dopo i risultati delle votazioni, in una sera fredda e nevosa di gennaio, Gaetano Crepaldi, caro amico e medico di fama, padovano, credo piuttosto favorevole al cambiamento predetto, si comportò molto affettuosamente con gli sconfitti: caricò Spini e me su un motoscafo e ci condusse a Piazzale Roma; poi ci portò in auto fino a Padova dove ci offrì la cena; successivamente ci portò alla stazione ferroviaria; io scesi a Bologna e non potei neppure salutare Spini profondamente addormentato. In sede, sia pure senza cariche formali, seguitai ad avere parte attiva nel CNU. Il successivo Consiglio Direttivo, se non ricordo male, vide la presidenza di Leontino Battistin e la segreteria di Giampiero Maracchi; a ricoprire le cariche in Consiglio furono chiamati, negli anni, anche altri colleghi. In ogni caso proseguì la attività di lobbying a Roma per ottenere una riforma dell’Università. La legge del 1980 creava il ruolo dei professori associati (cui potevano accedere assistenti e professori incaricati con esame idoneativo), quello dei ricercatori, la distinzione fra impegno a tempo Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 85 pieno e tempo definito, i dipartimenti, il dottorato di ricerca: questa legge costituiva un fondamentale passo avanti, a mio parere, dopo dieci anni di lavoro, nel progetto di riforma della Università italiana. Al solito i professori fecero poi del loro meglio per vanificarne gli aspetti più positivi, a cominciare dalla trasformazione del ruolo di ricercatore in ulteriore ruolo docente mentre la legge ne voleva esaltare l’impegno per la ricerca, con uno sviluppo di carriera parallelo a quello dei professori, ponendo pertanto precisi limiti orari alla attività didattica. La consapevolezza di fare parte di una comunità dipartimentale non portò a risultati particolarmente significativi nella gestione del rapporto tra i docenti e tra questi e gli studenti. Non ci si sforzò neppure molto per dare contenuto ad espressioni un tempo esaltate come “gestione sociale” della Università. Il problema del numero legale nelle riunioni dei vari Consigli previsti dalla legge è rimasto un dato costante a testimonianza della esistenza di una non particolarmente profonda convinzione quando si invocava, nella auspicata riforma, la collegialità delle decisioni nel governo delle strutture universitarie. Negli anni successivi al 1980 vennero meno le condizioni per il proseguimento della decennale, intensa attività del CNU: gran parte del progetto riformista, sia pure con le inevitabili mediazioni ma, direi, anche con positive maturazioni, era stato compiuto. La spinta riformistica inevitabilmente venne meno mentre era assai diffuso, tra gli iscritti al CNU, il desiderio di tornare a tempo pieno alle proprie attività accademiche. A quanto mi risulta, nessuno degli esponenti dello stesso CNU, impegnato in cariche di rilevanza nazionale, ha utilizzato il sistema di relazioni acquisito nello svolgimento di questa funzione per svolgere attività che non fossero direttamente o indirettamente collegate al proprio ruolo accademico. Della attività svolta dal CNU in questi anni successivi al 1980 ho scarse informazioni perché non militavo più attivamente: le vicissitudini della esistenza mi avevano portato ad occuparmi di altri problemi. Nel 1976 ero stato designato dal CNU come membro del Comitato 07 del CNR, e fui eletto a tale carica dai colleghi del mio settore disciplinare. Affrontai da assistente un concorso ad ordinario nel 1979, risultai tra i vincitori: fui chiamato dalla Facoltà di Ingegneria della Università di Bologna. Successivamente, seguitai a svolgere, ovviamente in aggiunta ai compiti accademici, notevole attività nel CNR; in seguito (1986) fui nominato Pro-Rettore vicario per 11 anni nella Università predetta; divenni, infine, presidente del CINECA fino al pensionamento. Dopo il 1980, comunque, credo si possa affermare che lo slancio propulsivo iniziato nel ’69 per una riforma universitaria organica, come d’altra parte era anche logico accadesse, col tempo e per effetto dei risultati ottenuti, si era esaurito. Certo sarebbero stati opportuni altri provvedimenti di legge, ma la massa dei professori e degli altri operatori universitari non si dimostrava più interessata ad elaborare documenti di inquadramento di questi nuovi possibili provvedimenti; non mi risulta avessero luogo assemblee per dibattere possibili proposte e dare così forza ai propri rappresentanti nazionali; cioè la “base” si dimostrava piuttosto distante e non avvertiva la presenza di obiettivi per i quali fosse necessaria una mobilitazione. Ebbero luogo provvedimenti secondo cammini di cui non so molto, ma certo senza che vi fosse stata per essi una elaborazione partecipata negli Atenei: certo, iniziative saranno state sollecitate in 86 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri qualche modo presso il mondo politico, ma, suppongo, all’associazione come tale non rimaneva, semmai, che giocare di rimessa. Così la eliminazione delle Facoltà, un evento certo non da poco, è passata senza obiezioni, senza un dibattito ed un confronto di opinioni; così come era successo, tempo addietro, per la istituzione della “laurea breve”. Tutto è dunque accaduto in assenza di un interlocutore qualificato, in assenza, cioè, di un movimento di massa quale era stato il CNU dei tempi gloriosi. Altri provvedimenti di legge, anche piuttosto importanti, ci sono stati ma, personalmente, non ne ho ben compreso l’obiettivo, il contesto di riferimento. Non ho avuto l’impressione che avessero luogo approfondimenti sulla stampa o negli Atenei come un tempo avveniva: evidentemente i tempi erano cambiati. Era venuta meno la “passione”: in particolare appariva piuttosto scarso l’impegno dei colleghi più giovani; forse il 68 era troppo lontano. Nel corso degli anni, purtroppo, molti professori si sono alleati spesso, e con successo, con poteri politici di piccole città per creare nuove Università: quelle Università la cui creazione la mozione finale del congresso del CNU del 1971 a Firenze aveva respinto con sdegno; si è quasi sempre trattato di strutture sottodimensionate e precarie, tali però da provocare una grande dispersione delle risorse disponibili. Su come i professori accettarono (vollero) che si modificassero le regole concorsuali si è già detto. La creazione, da loro voluta negli anni, di oltre 3.000 corsi di laurea con le denominazioni più fantasiose si commenta da sé. Il CNU, il CNR, la ricerca scientifica Nei primi anni ’70 il CNU iniziò ad occuparsi più direttamente della politica della ricerca scientifica e tecnologica in Italia. Negli anni ’70 il Coniglio Nazionale delle Ricerche (CNR), costituito nel 1923, dopo una serie di provvedimenti che ne avevano via via definito e precisato le funzioni, era un organo dello Stato con questi compiti (legge n. 82 del 1 marzo 1945): promuove, coordina e disciplina la ricerca scientifica ai fini del progresso scientifico e tecnico; esercita la consulenza per ciò che attiene all’attività scientifico-tecnica dello Stato; provvede alla compilazione di norme tecniche di carattere generale; studia i problemi scientifico-tecnici inerenti alla ricostruzione del Paese. Per il raggiungimento dei fini indicati…il CNR: coordina le attività nazionali nei vari rami della scienza e delle sue applicazioni;…; provvede all’attuazione ed al finanziamento di ricerche di interesse nazionale; concede assistenza e aiuto ad istituti scientifici, a studiosi ed a ricercatori, mediante il conferimento di contributi, borse e premi;…; d’intesa con il Ministero degli Affari Esteri, cura la partecipazione agli organismi scientifici e tecnici di carattere internazionale. Il CNR era posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. I suoi organi operativi erano il Presidente (nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri), il Consiglio di Presidenza e gli undici Comitati di Consulenza i cui Presidenti erano, assieme al Presidente del CNR, e (suppongo) a qualche presenza istituzionale, i membri del Consiglio predetto. Vi era poi la Giunta Amministrativa. Le Scienze erano classificate in modo Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 87 da costituire competenza esclusiva di uno dei dieci Comitati di Consulenza di settore; l’undicesimo Comitato, il “Tecnologico”, aveva competenze miste per valutare iniziative interdisciplinari. I dieci Comitati erano costituiti da rappresentanti eletti su collegio nazionale dalle varie categorie di “ricercatori”; eletti, cioè, rispettivamente, dalle “basi” costituite dai ricercatori universitari (professori di ruolo, assistenti e professori incaricati) e da quelli di altri enti statali tra cui lo stesso CNR. Il Comitato “Tecnologico” era invece composto da membri designati dagli altri Comitati tra i propri membri. In tutti i Comitati erano poi presenti alcuni membri nominati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri tra esperti operanti nei settori dell’agricoltura e dell’industria, spesso professori ordinari universitari; con compiti consultivi era presente anche un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione. La rappresentanza universitaria, decisamente maggioritaria, era eletta tra le varie categorie di personale: ai professori di ruolo competeva un numero più elevato di membri, e a quelli eletti si aggiungevano spesso, come si è detto, i nominati. A titolo di esempio, mi pare di ricordare che nel Comitato 07 delle Scienze dell’Ingegneria e dell’Architettura del quale fui eletto a fare parte, nel 1976, su 18 membri, i professori fossero 11, 4 gli assistenti di ruolo, 3 i rappresentanti dei ricercatori non universitari. Al CNR, dunque, erano attribuiti importanti compiti di promozione e coordinamento della ricerca scientifica ed una attività di generale consulenza per lo Stato italiano. Il CNR svolgeva nel 1970 (e, naturalmente, svolge tuttora) anche attività di ricerca in proprio nei suoi Istituti e nei suoi Laboratori; aveva inoltre creato Centri presso strutture universitarie con l’obiettivo dichiarato di creare unità di ricerca miste Università-CNR, ma anche negli altri organismi la collaborazione con le Università (e non solo con esse) era molto attiva. Si era convinti della importanza di favorire fenomeni di osmosi. Tutte le strutture preposte ad attività di ricerca ricevevano dotazioni per i loro programmi e gestivano tali fondi come meglio ritenevano. Qualcuno, polemico, potrebbe dire “come ritenevano i loro direttori”. Dati i contenuti delle leggi che lo riguardavano, mi pare di potere affermare che i compiti del CNR nel campo della ricerca non potevano che riguardare attività di più ampia dimensione, sia in termini di generale accrescimento delle conoscenze sia in termini di una più precisa finalizzazione delle conoscenze acquisite. Era questa una visione giusta e avanzata dello svolgimento di certe attività di ricerca, quelle con obiettivi importanti e tali da richiedere interventi particolarmente consistenti e coordinati. La gestione dei fondi del CNR non corrispose sempre a questa impostazione: gli organi di governo effettivo, in particolare i Comitati, dove gli universitari avevano la maggioranza, risentirono anch’essi, col tempo, di un fenomeno che, purtroppo, si è via via affermato, non dico come atteggiamento accettato in tutto il Paese, ma certo come prassi, se non ammessa, non più tale da scandalizzare (si pensi alla sostanziale accettazione delle “lottizzazioni”), privilegiando la appartenenza rispetto al dato oggettivo; ciò che nel caso dei finanziamenti per la ricerca, significava privilegiare la appartenenza ad uno specifico settore disciplinare o ad una particolare istituzione piuttosto che la oggettiva validità delle proposte. E questa critica fu poi alla base di quanto accadde in anni seguenti: quando si eliminò la attività di “agenzia” per il finanziamento delle attività di ricerca da parte del CNR 88 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri e i Comitati elettivi scomparvero. Anche i Centri, concreta testimonianza di attività coordinate, furono eliminati; furono create “Aree” del CNR, autonome e autosufficienti, fisicamente distanti dalle Università, comprendenti istituti che, dal punto di vista culturale, assai spesso non avevano alcun legame. Ad onore del vero, dati i numeri delle categorie dei ricercatori nazionali, era ovvio che la maggior parte delle proposte giungessero dal mondo universitario e quindi ad esso andassero gran parte dei fondi: ma questa circostanza generava comunque malumori nel mondo CNR le cui istanze di “autonomia” dal mondo universitario venivano sempre più ribadite ed appoggiate dai sindacati della ricerca, assai forti a Roma. È vero che la presenza universitaria nel CNR avrebbe dovuto essere ridimensionata: ma altro è riformare, come sarebbe stato opportuno, ed altro è attuare profonde separazioni nel mondo della ricerca sulla base dell’appartenenza ed eliminando tout court dal contesto decisionale le rappresentanze dei ricercatori elette da tutta la comunità nazionale. Anche alla luce di quanto si è verificato in seguito e si verifica ancora, non credo abbia corrisposto all’interesse nazionale o del CNR che lo stesso CNR sia stato forzato a chiudersi su se stesso. Ad ogni modo, a quel tempo, anni 70, i Comitati svolgevano attività istruttorie e di consulenza per il Consiglio di Presidenza che era l’organo decisionale del CNR: in altre parole erano essi a dare giudizi circa la validità dei programmi di ricerca che venivano presentati, sia che provenissero dal mondo istituzionale della stessa ricerca sia che provenissero da privati cittadini. Potei constatare che c’era sempre qualcuno che chiedeva finanziamenti per realizzare un suo progetto di moto perpetuo: ma, a parte le battute, anche questa possibilità di chiunque di potere presentare un progetto mi pareva (e mi parrebbe tuttora) opportuna ed importante. Il CNR amministrava consistenti fondi governativi: il suo Presidente, sentiti i competenti organi, e l’Assemblea dei Comitati, presentava (legge n. 283 del 2 marzo 1963) al Comitato dei Ministri [Comitato interministeriale per la ricostruzione integrato dai Ministri per la pubblica istruzione, per la difesa e dal Ministro incaricato del coordinamento della ricerca] entro il 30 giugno di ogni anno una relazione generale sullo stato della ricerca scientifica e tecnologica in Italia, con conseguenti proposte di programmi di ricerca annuali o pluriennali, da attuarsi a cura delle Amministrazioni o degli Enti pubblici interessati, corredati da apposite relazioni, nonché proposte di provvedimenti per attuare detti programmi o per dare comunque incremento alla attività di ricerca nel Paese. La relazione generale, approvata dal Comitato dei Ministri,[veniva] allegata alla relazione economica presentata annualmente dal Ministro per il bilancio. Con l’ultima riforma del CNR, e con la eliminazione della funzione di agenzia, mi pare che di questa relazione non si parli più: ciò che, a mio giudizio, costituisce una deminutio capitis non da poco e il venir meno di una importante comunicazione al Paese. Ricordo che si rivolgevano al CNR per attività di consulenza nel campo delle norme tecniche e per qualunque altra necessità tante strutture nazionali, pubbliche o private che fossero; competeva poi al CNR, come si è detto, anche il mantenimento dei rapporti con analoghi organismi degli altri paesi, cioè le “relazioni internazionali”, per conto di tutti i ricercatori “pubblici” italiani. Nel 1975 il CNR (presidenza Faedo) presentò un programma di 18 “progetti fi- Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 89 nalizzati”. Si trattava di progetti preparati da apposite commissioni in specifici settori della scienza e della tecnologia: erano progetti pluriennali con precisi obiettivi di aumento delle conoscenze teoriche o applicate nei settori interessati. Lo “studio di fattibilità” era presentato al pubblico e qualunque ricercatore “pubblico o privato” poteva tradurre in un preciso programma operativo, di cui si assumeva la responsabilità, il proprio contributo al raggiungimento degli accrescimenti conoscitivi che costituivano gli obiettivi del progetto. Il CNR gli finanziava la attività, sia nel caso di unità operativa “pubblica”, sia di unità operativa privata. Naturalmente la direzione dello stesso progetto ed i responsabili dei sottoprogetti in cui venivano scomposti i progetti stessi dovevano svolgere essenziali ed efficienti attività di coordinamento e sorveglianza: si trattava di coordinare, governare e controllare i lavori di unità operative di varia provenienza. I progetti finalizzati ebbero certamente luci ed ombre: non ebbero tutti analogo successo, ma molti risultati, specie sul piano applicativo, furono davvero brillanti; purtroppo non sempre strutture pubbliche ed aziende credettero in questi risultati (che ad esse erano costati davvero poco), li raccolsero e li tradussero in servizi o prodotti industriali. Chi avesse voglia di farlo, potrebbe verificare dai rapporti finali sui progetti di cui si tratta come non poche iniziative di oggi, presentate come assolute novità, avrebbero potuto essere intraprese venti (o più) anni fa grazie al CNR. A mio avviso quella dei progetti finalizzati fu una iniziativa brillante ed originale, assolutamente coerente con i compiti attribuiti al CNR per legge; iniziativa che testimoniava come l’Ente avesse capacità propositive di assoluta rilevanza. Forse troppo “avanzata” per le intelligenze “convenzionali” (chiamiamole così) di tanti, sia politici sia ricercatori, che non la sostennero adeguatamente. Oggi si parla tanto di necessità di attuare il “trasferimento” delle conoscenze sulla produzione di beni e servizi per il bene del Paese: il CNR, con il coordinamento delle attività delle unità operative, di varia provenienza, che lavoravano per gli stessi obiettivi (individuati con una grande consultazione nazionale) attuava il trasferimento predetto in modo automatico. E in tanti casi non mancarono i risultati. All’interno del CNU il dibattito sulla ricerca scientifica era, naturalmente, sempre stato vivo e partecipato. Vi era un gruppo che trattava specificamente dei relativi problemi: oltre a Pietro Passerini, già menzionato, ricordo Luigi Amaducci, Luigi Rossi Bernardi e Guido Vegni; ma è chiaro che questi problemi non potevano non interessare tutti i ricercatori. Avevano luogo discussioni anche accese che risentivano dell’appartenenza dei ricercatori a diversi gruppi disciplinari. I dibattiti riguardavano la libertà di ricercare, le attività di ricerca su commissione, le attività di consulenza, le attività “professionali”, il “tempo pieno”. Che i ricercatori potessero liberamente decidere cosa ricercare era fuori discussione. Ma la attività di ricerca poteva essere finalizzata a precisi interessi esterni all’Università come quelli delle aziende produttive con relativa retribuzione agli operatori? Fino a che punto la attività di ricerca “esterna” poteva non configurarsi come attività “professionale? Spesso, infatti, si trattava di applicare le conoscenze acquisite a casi reali: ma questo era lecito o costituiva “assoggettamento della cultura al profitto”? La attività “professionale” poi per molti era immorale. Infatti sottraeva tempo a quella 90 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri universitaria, il che non appariva assolutamente lecito: ma, si chiedevano altri, come avrebbero potuto essere ben preparati per le varie professioni studenti i cui insegnanti non avevano una conoscenza reale del mondo delle stesse professioni? Questi erano i temi più discussi. Naturalmente erano più sensibili a questa tematica i ricercatori di Facoltà come Ingegneria e Giurisprudenza: come si è già detto, la Facoltà di Medicina li affrontava nell’ambito delle leggi sulla Sanità, mentre alle Facoltà umanistiche nessuno si azzardava a pensare di limitare attività editoriali e giornalistiche come libera manifestazione del proprio pensiero. Questo argomento della ricerca “esterna” con difficile delimitazione del confine tra ricerca vera e propria ed attività professionale si collegava poi direttamente con il problema del “tempo pieno”. Certo esisteva il problema di porre limiti alla mancata osservanza dei doveri accademici da parte di molti professori troppo impegnati in attività “esterne”, ma negare la possibilità di rapporti con il mondo esterno poneva altri problemi. L’argomento era assai delicato. Infatti se era indubbia l’esistenza di testimonianze insostenibili di ricerca di emolumenti con trascuratezza insopportabile dei doveri accademici, erano però anche noti casi di brillanti risultati di collaborazione Università-Industria di grande importanza per l’Italia del “miracolo economico” del dopoguerra: gli studi del prof. Giulio Natta del Politecnico di Milano condotti in collaborazione con la società Montecatini, ad esempio; o gli studi condotti da ricercatori della Università di Pisa in collaborazione con la società Olivetti. Peraltro, in tutto il mondo le consulenze e le commesse di ricerca erano (e sono) uno dei mezzi più efficaci di “trasferimento” delle conoscenze da chi è istituzionalmente preposto a generarle a chi le deve applicare per lo sviluppo economico (e sociale) del proprio Paese. Anzi, si diceva, in certe Università all’estero venivano guardati con sospetto i ricercatori non “ricercati” per le loro competenze. D’altra parte si trattava di periodi nei quali le espressioni già ricordate, come “servi dei padroni” e “assoggettamento della cultura al profitto”, erano assai condivise dall’opinione pubblica sull’onda delle manifestazioni studentesche (e non solo), per cui certe tesi “liberali” dovevano essere esposte a bassa voce e con scarsa possibilità di essere ascoltate: nel CNU si finì per sostenere che le attività per l’esterno potevano sì essere sviluppate ma solo “dal dipartimento”, cioè non con incarichi individuali retribuiti. Era il dipartimento che doveva amministrare i “profitti”. Questo atteggiamento, largamente condiviso dalla stampa e dal mondo politico, portò a situazioni abbastanza confuse che si tradussero in limiti nelle retribuzioni individuali per queste attività esterne con ripartizioni degli utili in maniere complesse che non risolsero adeguatamente il problema; quando furono creati i dipartimenti (1980) le Università stabilirono percentuali precise di ripartizione tra chi aveva svolto effettivamente la ricerca, il personale del dipartimento e la dotazione del dipartimento stesso. La possibilità per i singoli professori o ricercatori di optare per il regime a tempo pieno o a tempo definito, con diversa retribuzione, aveva messo la soluzione del problema su un binario più corretto. Successivamente, in un regime di maggiore autonomia, i vari Atenei si sono dati regolamenti diversi, più o meno restrittivi, ma sempre osservando la fondamentale distinzione tra il tempo pieno e quello definito. Ricordo che in una discussione a proposito della istituzione dell’assegno di “tempo pieno”, Bruno Guerrini, senese e professore di Ingegneria a Pisa, dove divenne poi Rettore, ebbe causticamente a dire, Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 91 evidentemente con riferimento al settore dell’Ingegneria, che in tal modo, si voleva dare “un assegno di castità agli impotenti”. Ad ogni modo, in ogni congresso del CNU (il pericolo di una esaltazione degli interessi corporativi a discapito di quelli di generale utilità era sempre presente) venivano presentate relazioni e mozioni sui problemi della ricerca scientifica oltreché sulla attività didattica. Il CNU, mi pare nel 1970, aveva deciso di boicottare le elezioni al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione in quanto ne contestava la rappresentatività e gli obiettivi: per ciò che concerne le elezioni del CNR del 1976 decise invece di partecipare alle elezioni dei membri di Comitato presentando proprie candidature. Erano passati alcuni anni, il 68 si allontanava, posizioni più meditate e consapevoli si andavano affermando: la consapevolezza della importanza delle attività di ricerca anche per l’economia del Paese si era imposta all’interno del CNU. Peraltro, nel 1975 si dovette affrontare una delle più forti contestazioni degli studenti: assai violenta anche se non molto partecipata, ma i loro rumorosi slogan non riuscivano più a condizionare chi voleva affrontare questi problemi. Fui eletto, candidato CNU come rappresentante degli assistenti, assieme a Vittorio Cecconi di Palermo, nel Comitato 07 già citato in precedenza; se la memoria non mi inganna, furono eletti, in altri Comitati, Giampiero Maracchi, Luigi Rossi Bernardi, Carlo Cipolloni e Sergio Zoppi. Forse anche qualcun altro. Mi resi conto che il CNR era per me un mondo quasi sconosciuto: i quattro anni di permanenza nel Comitato costituirono invece una esperienza unica ed esaltante. Ricordo coloro che, al pari di me, erano stati eletti (o nominati) membri del Comitato 07 come persone intellettualmente e culturalmente di grande livello: in non pochi casi persone eccezionali. Il mondo dei ricercatori, almeno a quei tempi, era ancora capace di esprimersi ad alto livello. Una di queste persone eccezionali era certamente il professore che eleggemmo come Presidente, cioè Giuseppe Biorci, genovese. Come ricercatore del CNR era presente Lucio Bianco, che più tardi diverrà presidente dello stesso CNR; rappresentava la ricerca industriale Umberto Montalenti del Centro Ricerche FIAT. Con quasi tutte queste persone sono rimasto in rapporti di stima e di affetto: ad esse devo certamente una mia personale maturazione. Lavorammo insieme per quattro anni con grande impegno. In armonia con quella che ritenevamo la missione del CNR, cercammo, nell’interesse generale, di eliminare i cosiddetti “finanziamenti a pioggia”, forzando i ricercatori ad impegnarsi per attività coordinate di ricerca sia in caso di obiettivi più teorici, ossia finalizzati al solo aumento delle conoscenze, sia in caso di obiettivi di ricerca applicata. Credo di potere affermare che il nostro contributo, di Cecconi e mio, fu largamente condizionato dalla nostra “educazione” CNU, sia pure con qualche indispensabile aggiornamento. L’ambiente, non solo quello dei membri del Comitato ma anche quello di tante altre strutture CNR, era estremamente amichevole e stimolante. Ricordo alcune delle periodiche riunioni a Roma quasi con commozione. In particolare ricordo una sera a Villa Grazia di Carini, vicino a Palermo, dove, come Comitato, eravamo ospiti di Vittorio Cecconi in una calda sera di estate siciliana, con particolare emozione: eravamo 92 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri in amichevole colloquio-dibattito al di fuori dei lavori di Comitato; ebbi l’impressione di una conversazione di un livello talmente elevato e coinvolgente da ricordarmene ancora i dettagli pur essendo trascorsi da quella sera quasi quarant’anni. Purtroppo Giuseppe Biorci, Lorenzo Lunelli, Mario Silvestri (una eccezionale figura di ingegnere nucleare e di storico) non ci sono più: non voglio sapere cosa è successo degli altri membri del Comitato; con Vittorio Cecconi mantengo rapporti di stima e di affetto e tuttora ci incontriamo frequentemente. Presidente del CNR nel 1976 era stato nominato Ernesto Quagliariello, professore dell’Università di Bari, anch’egli prematuramente scomparso: grazie alla sua azione costante per lo sviluppo delle attività di ricerca e in base ai risultati ottenuti, ritengo lo si possa definire un grande Presidente. Ad una bonarietà negli atteggiamenti, tipicamente meridionale, univa una capacità progettuale ed una determinazione nel raggiungimento degli obiettivi assolutamente di rilievo: gli ambienti con i quali doveva trattare, quello politico generale, quello ministeriale, quello universitario, quello sindacale erano (e sono) ambienti difficili, ma Quagliariello riuscì a conseguire risultati che costituirono un grande successo del CNR, in termini di fondi ottenuti e di conseguenti iniziative in favore della ricerca. Il “suo” CNR fece davvero molto per promuovere la attività di ricerca in Italia. I progetti finalizzati proseguirono: ne furono approvati altri 11 nel 1978 e altri 15 nel 1987. Un grande convegno a Montecatini nell’inverno (mi pare) del 1978 costituì una specie di loro concreta glorificazione importante: purtroppo, nel nostro Paese, come è piuttosto noto, le vere glorificazioni sono quelle che riguardano i defunti. Anzi, per ciò che riguarda i progetti finalizzati del CNR, più che di glorificazione tardiva si dovrebbe forse parlare di caduta nell’oblio. Nel Comitato 07, per particolare sollecitazione di Giuseppe Biorci, i ricercatori del settore, al fine di evitare finanziamenti “a pioggia” con duplicazioni, furono invitati, come si è detto, a creare gruppi di coordinamento e di autogoverno, così da ottimizzare l’impiego delle risorse sempre inferiori alle richieste. Credo che quasi tutti questi gruppi, ovviamente non più sotto l’egida CNR e con varie denominazioni, siano tuttora operanti. Il Comitato istruiva per il Consiglio di Presidenza, che generalmente le accoglieva, le proposte di finanziamento delle attività di ricerca e nei limiti del possibile ne controllava i risultati. Una iniziativa degna di essere ricordata per la sua validità anche attuale (è da tenere presente che a quel tempo era ancora una accusa infamante “assoggettare la cultura al profitto”) è stata quella di sollecitare dal mondo industriale proposte di ricerche che il Comitato avrebbe fatto sviluppare da unità operative “pubbliche” finanziandole. Le discussioni sulla necessità di mettere a disposizione delle aziende idee e conoscenze per creare maggiore “valore” ai loro prodotti, assimilata in quelle discussioni, non mi ha più abbandonato ed ha costituito per me un impegno costante in tutta la mia vita lavorativa. Credo sia superfluo dichiarare che Cecconi ed io (ce lo siamo detto più volte) abbiamo avuto ed abbiamo sentimenti di profonda riconoscenza per il CNU che ci ha consentito di vivere una esperienza straordinaria nel CNR; ed analoghi sentimenti abbiamo avuto ed abbiamo per gli amici universitari o di altra provenienza con i quali abbiamo operato in questa stessa esperienza. Spero vivamente si possa dire che tutti Ricordi della militanza attiva nel CNU e per il CNU 93 gli eletti nei Comitati provenienti dalle file del CNU abbiano dato buona prova di sé. Il Comitato 07 mi nominò membro della Commissione Relazioni Internazionali, allora presieduta dal professore Nestore Cacciapuoti, pisano. Nei lavori di questa Commissione ebbi modo di contribuire ad attivare accordi bilaterali tra CNR ed analoghe strutture di altri Paesi al fine di arricchire la esperienza dei ricercatori italiani sia con contatti con colleghi all’estero sia con permanenze all’estero. In anni successivi, fui nominato come rappresentante del CNR nella European Science Foundation, che lo stesso CNR di quel tempo aveva contribuito a creare; partecipai, sempre come rappresentante del CNR, a vari altri eventi internazionali sulla politica della ricerca. Nel 1978 l’allora Capo di Gabinetto del Ministero della Ricerca Emidio Valentini mi inviò a Parigi come consulente dell’UNESCO: con Valentini, organizzatore di tante serate romane, ho poi mantenuto una affettuosa amicizia ed ho condiviso la esperienza del CEVAR. Dopo la scadenza del mio mandato nel Comitato 07, cioè nel 1981, lavorai ancora per il CNR nel secondo progetto Finalizzato Energetica (direttore Giacomo Elias): era questo un progetto sviluppato insieme da CNR ed ENEA, a testimonianza ulteriore della volontà di attuare iniziative coordinate. Fui nominato responsabile del sottoprogetto “elettrico” e vi lavorai per quattro anni. In altri progetti (Robotica, Laser di potenza) operai come membro del Consiglio Scientifico. Infine, fui rappresentante dello stesso CNR nel Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI) e nell’Istituto del Marchio di Qualità (IMQ). Eletto nuovamente nel Comitato 07 come rappresentante dei professori ordinari nel 1996, cioè non più come specifico candidato CNU, dovetti assistere con grande tristezza e disappunto alla trasformazione del CNR da grande struttura sovrintendente alle attività di ricerca del Paese a struttura di gestione dei propri organismi operativi, con cessazione della funzione di Agenzia e con eliminazione dei Comitati di Consulenza. Mi spiacque molto (e mi spiace tuttora) dovere riscontrare che su questa vicenda il CNU non prese alcuna posizione significativa anche se riconosco che, probabilmente, ciò non avrebbe avuto alcuna pratica conseguenza. Considerazioni finali sulla militanza CNU Credo proprio sia stato grande, complessivamente, il contributo del CNU all’affermarsi nel Paese di una consapevolezza della importanza di potere contare su una Università moderna ed efficiente sia in termini di didattica sia in quelli di ricerca scientifica: non posso che essere orgoglioso di avere militato attivamente in questa struttura. Con gli anni mi sono convinto che riuscire a mobilitare e per lungo tempo per comuni obiettivi di riforma tanti esponenti di diversi Atenei italiani, come accadde negli anni ’70 del secolo scorso, costituisca una impresa assai difficilmente ripetibile, che fu resa possibile dalle emozioni e dalle riflessioni indotte dai movimenti sessantottini per proseguire poi sulla base delle consapevolezze acquisite; solo così posso spiegare come mai persone di alta cultura e di vasti interessi potessero decidere di sottrarre 94 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri tempo e risorse a questi loro interessi per dedicarli a un fine comune di interesse generale. Credo che almeno gli esponenti più in vista del CNU, con ruoli nazionali o locali, se non altri quelli che io ricordo, avrebbero comunque avuto successo nella carriera universitaria: la esistenza della convinzione di dovere impegnarsi, e certo per non pochi anni, dedicando serate e giornate (molte delle quali domenicali) ad incontri e dibattiti, superando anche momenti di sconforto, per l’approvazione di una riforma universitaria degna di un paese moderno, mi sembra una circostanza straordinaria. Non so ricordare altri esempi di un tale coinvolgimento pluriennale. Nella mia esperienza CNU e CNR ho conosciuto tante persone eccezionali che molto hanno contribuito alla mia personale maturazione: con esse ho mantenuto rapporti di stima ed affetto che non hanno conosciuto declino o logoramento, anche a prescindere dalle convinzioni politiche. Molte non ci sono più. Nel CNU ci univa soprattutto la profonda convinzione che tramite la riforma del sistema universitario si sarebbero create le basi per una società più giusta e più evoluta. E che, con il potenziamento del CNR, si sarebbe potuto promuovere una ricerca di nuove conoscenze capace di portare l’Italia a livelli di presenza internazionale di assoluto rilievo, oltreché di promuovere lo sviluppo economico e sociale. Mi è caro ricordare i nominativi delle persone con le quali ho più frequentemente interagito nella mia qualità di membro del Comitato Direttivo del CNU in quegli anni: a parte Giorgio Spini, con il quale sono rimasto in affettuosi rapporti epistolari fino alla sua scomparsa, ricordo Salvatore Saetta, Piero Milani, Pietro Passerini, Carlo Cipolloni, Gaetano Gallinaro, Gaetano Crepaldi, Michele de Franchis, Vittorio Cecconi, Francesco Faranda, Paolo Blasi, Camillo Dejak, Piero Morelli. Voglio ricordare anche gli esponenti della Commissione Scuola dell’allora PSI Tristano Codignola, Giunio Luzzatto, Vittorio Telmon, Gherardo Gnoli, Nino Dazzi, Giovanni Briganti e Luigi Capogrossi, ai quali il movimento riformatore deve davvero molto. Di altri ho potuto poi seguire la brillante carriera: Luigi Rossi Bernardi, Enrico Decleva, Bruno Guerrini. Ma l’elenco delle persone che ho conosciuto, stimato ed ammirato, in particolare nelle Assemblee delle Sedi e nei congressi, sarebbe molto più lungo: spero vivamente che stiano tutte bene, si godano la pensione e gli eventuali nipoti. Mio padre Giorgio: il “docente unico” Valdo Spini Sono molto contento che si proceda ad una storia del CNU, il Comitato Nazionale Universitario, di cui mio padre, Giorgio Spini, è stato presidente fin dalla sua fondazione a Firenze nel 1971. Era un periodo molto intenso di dibattiti, di iniziative e di battaglie sulla riforma universitaria che mio padre sentiva moltissimo. Naturalmente, noi figli lo prendevamo anche un po’ in giro. Dicevamo che non c’era bisogno di arrivare al “docente unico”, una delle rivendicazioni in campo, perché il docente unico c’era già ed era lui, vista la sua sterminata conoscenza di tutti gli argomenti di storia e la sua disponibilità del tutto particolare a mettere a disposizione di chiunque volesse sapere perché la cioccolata la facevano in origine gli olandesi e gli svizzeri o che cosa pensassero i Padri Pellegrini sbarcati a Plymouth. Giorgio Spini, veniva dall’esperienza dell’ANDU, l’associazione dei docenti universitari nata, come è stato ricordato, da una scissione dell’ANPUR e finalmente aperta anche ai professori non ordinari. Due storici, Mario G. Rossi e Adriana Dadà, hanno recentemente ritrovato un armadio metallico presso la sede della ex facoltà di Magistero di via San Gallo 10 a Firenze (Palazzo Fenzi) dove mio padre insegnava in quegli anni. In questo armadio c’è tutto il preziosissimo archivio dell’ANDU dal 1968 al 1972. Non dubito che il suo riordino potrà gettare nuova luce sui tentativi di riforma universitaria di quegli anni. Da una rapida occhiata che vi ho gettato, contiene documenti e corrispondenze con tutti i docenti impegnati dell’epoca, grandi nomi dell’insegnamento, della ricerca e della politica universitaria, un grande sforzo di elaborazione e di organizzazione. Un nome per tutti: Margherita Hack. Giorgio Spini era compagno di milizia politica e fraterno amico di Tristano Codignola, il responsabile della Sezione Scuola del PSI, che ricoprì questo incarico dal 1958 al 1976, cioè sostanzialmente dall’ingresso nel PSI del suo movimento, Unità Popolare, fino al Comitato Centrale cosiddetto del Midas Hotel che vide l’avvento alla segreteria di Bettino Craxi (Giorgio Spini aveva partecipato alle stesse vicende politiche). In quella veste Tristano Codignola fu protagonista della istituzione della scuola media unica nel 1962 e poi ritenne di affrontare come tema di battaglia successivo quello della riforma universitaria, trattando con il Ministro della P.I. di allora, il democristiano Luigi Gui, una legge, la 2314, che fu travolta dalla rivolta studentesca del ’68. A differenza di quanto era avvenuto in Francia, dove il generale De Gaulle aveva avuto ragione del Maggio studentesco, ma poi aveva effettuato una riforma universitaria realmente incisiva, in Italia un’analoga riforma non era stata fatta. In qualche 96 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri modo lo stesso movimento studentesco, protagonista di una grande mobilitazione e animatore di tante lotte, aveva di fatto creato una situazione avversa alla riforma di cui avevano tratto profitto gli ambienti che la riforma non la volevano, in prima linea i docenti conservatori e più in generale un sistema di potere legato alla vecchia università. I docenti ordinari che volevano la riforma, come Giorgio Spini, e quelli non ordinari che si battevano anche contro i privilegi dei primi, si unirono e per tutta una stagione apparve possibile che i protagonisti della nuova fase della battaglia per la riforma universitaria potessero essere proprio i docenti. Giorgio Spini si buttò, come usava fare, anima e corpo nella battaglia, e come presidente CNU ebbe un ruolo tutto particolare per la sua autorevolezza di studioso di esperienza e di rilevanza internazionale, nonché di militante politico del tutto disinteressato, ma anche per le sue inesauribili capacità organizzative. Dalla sua macchina da scrivere inondava di lettere i suoi colleghi ed amici. Noi, in casa, sentivamo dal suo studio un ticchettio inesauribile, che si applicasse ai libri che continuava a pubblicare o alla vasta corrispondenza che animava. Giorgio Spini riuscì così a “gestire” un’organizzazione composita sia nei suoi riferimenti politici ed ideali sia nelle sue posizioni accademiche. Di questo andava molto fiero. Dal 1958 (Harvard) in poi, Giorgio Spini aveva trascorso negli anni quattro periodi di insegnamento in università Usa. Dopo Harvard, erano venuti i semestri a Madison nel Wisconsin, a Berkeley in California e anche un soggiorno ad Atlanta in Georgia. (Diceva che così aveva conosciuto gli Usa in tutti e quattro i punti cardinali.) Soprattutto aveva insegnato (e ricercato) in università moderne il che aveva accresciuto la sua voglia di battersi contro le resistenze conservatrici ad una vera e profonda riforma delle università italiane, viste non in funzione del potere di chi ci insegnava, ma del servizio che potevano rendere al paese in termini di didattica e di ricerca. Naturalmente si batteva anche contro le incomprensioni di una parte della sinistra. Ricordiamoci la polemica che venne da quel lato contro i Campus e la residenzialità degli studenti, per lui assolutamente incomprensibile. Mio padre considerava giustamente la questione universitaria – e quella connessa della ricerca – come cruciale per l’avvenire dell’Italia, dal punto di vista culturale, economico e sociale. Una concezione che non trovò abbastanza rispondenza nel mondo politico di allora. Ma che animò una bellissima battaglia in cui maturarono tanti giovani docenti, protagonisti delle vicende successive. Ma erano anche gli anni del ’68 operaio e del grande sviluppo del movimento sindacale. Si pensò quindi che anche l’organizzazione sindacale dei professori universitari dovesse essere inquadrata nella Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil, il che non era evidentemente facile, vista la complessità e la peculiarità del mondo universitario. Furono costituiti sindacati delle centrali sindacali anche nell’università. Se non ricordo male questo creò qualche piccolo problema anche a Giorgio, visto che lo statuto del PSI non prevedeva l’iscrizione a sindacati autonomi. In realtà proprio l’esperienza associativa prima dell’ANDU, poi del CNU, costituiva un’esperienza originale e feconda che non si prestava ad essere ridimensionata o assimilata ad altre. Mio padre Giorgio: il “docente unico” 97 Il 1976 è peraltro una data di cesura in questa storia e nella comune battaglia di Giorgio Spini e di Tristano Codignola. Ambedue lasciano: uno il CNU, l’altro la responsabilità della sezione scuola. Ma ricordare queste vicende oggi significa anche indicare al mondo universitario, afflitto e tormentato da tanti problemi, la strada di una assunzione di responsabilità e di mobilitazione, così come fu fatto negli anni settanta dal CNU. Senza una mobilitazione degli uomini e delle donne dell’università non ce la potremo fare a rilanciare né l’università né il paese. È questa le la lezione che possiamo ricavare dallo studio di queste vicende. Un pensiero grato al primo fondatore del CNU Antonio Miceli Questo mio contributo si colloca nello scenario di quegli anni mirabilmente descritto da Mario Rinaldi e segue l’affettuoso e vivo ricordo egregiamente tratteggiato sulla presidenza di Spini da Gaetano Gallinaro nel capitolo precedente. L’avere vissuto direttamente la nascita dell’ANRIS, i primi contatti con l’ANDU, nella quale militava da dirigente Giorgio Spini, l’essere rimasto fortemente influenzato dalla grande cultura e dal carisma di quest’ultimo mi hanno spinto a rivolgere un pensiero al primo fondatore del CNU. In quegli anni la mia posizione politica di cattolico impegnato nella sinistra della Democrazia Cristiana mi faceva osservare Spini, valdese e socialista, come un potenziale avversario politico o comunque come un leader con il quale confrontarsi, in maniera costruttiva certo, ma comunque marcando una diversità ideologica significativa. La scelta di campo progressista e riformatrice, la grande passione per un’università pubblica, socialmente impegnata che ci accumunava e la lucidità politica di Salvatore Saetta, anch’esso cattolico impegnato e mio riferimento nell’ANRIS, mi convinsero, fin da subito, che il progetto culturale, politico e sindacale che Giorgio Spini proponeva poteva essere condiviso e modellato dagli apporti di tutti coloro i quali volevano una nuova università libera, critica, a servizio della crescita culturale e civile delle “classi più deboli”1. Spesso Salvatore Saetta poteva apparire più “integralista” o di “sinistra” di Rinaldi, Passerini, dello stesso Luzzatto e Piero Milani. Ma riuscimmo sempre a trovare un punto di incontro sugli obiettivi intermedi, tra noi e con i colleghi di cultura politica repubblicana e liberale (Camillo Dejak, Francesco Faranda ecc…). La statura di Giorgio Spini primeggiava su tutti, poiché riusciva a conciliare posizioni ideologiche di partenza molto diverse ed, in quel periodo storico, decisamente contrapposte; infatti solamente la “resistenza antifascista” e la costruzione condivisa della Carta Costituzionale erano, in quel tempo, considerate piattaforma comune di riferimento (si usava spesso l’espressione “arco costituzionale”). Per Giorgio Spini la nuova università doveva essere uno strumento di superamento degli squilibri sociali e territoriali. Non mi soffermerò sulla contestazione giovanile, egregiamente richiamata da Mario Rinaldi, Piero Manetti ed altri, ma su alcune posizioni forti che in quel contesto caratterizzarono la guida di Giorgio Spini nel processo di unificazione delle associazioni che costituirono il CNU e che marcarono l’inizio 1 La mia convinta adesione al programma della Presidenza Spini fu anche fortemente influenzata da “cattolici” impegnati come Gaetano Crepaldi – Presidente della Commissione Medicina – Antonio Intrieri di Messina e Marco Unguendoli di Bologna. 100 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri della vita di quest’ultimo. Si trattava innanzitutto di intervenire evitando, per un verso che lo scoramento dei “progressisti riformatori” portasse al disimpegno, mentre, per l’altro, che alcuni accesi sostenitori di un cambiamento radicale dell’intero sistema politico-sociale fossero strumentalizzati dalle posizioni più conservatrici. Queste ultime infatti tendevano a mantenere un sistema di potere, anche universitario, che non trovava più ampi consensi tra la maggioranza delle “classi subalterne” (ceto medio, mondo operaio, studenti, mondo delle professioni, piccoli imprenditori, mondo della cooperazione, ecc…). Nel contempo vi era la necessità di denunciare e contrastare una minaccia di repressione, che la parte più retriva dell’Università voleva perseguire, per far pagare fino in fondo al movimento studentesco ed ai docenti progressisti più attivi il coraggio con cui ci si erano battuti contro le incrostazioni medioevali e la prevaricazione baronale, la pigra inerzia delle forze politiche, il falso perbenismo dentro e fuori le Università2. Nel suo articolo “Dall’Università alla società” – pubblicato dal già citato in nota “Scelte Universitarie” – Giorgio Spini, da storico attento, fece una analisi oggettiva e documentata sul ruolo dell’Università nella “questione meridionale” e, da par suo, sottolineò l’abbandono del Sud del Paese sul piano scolastico e particolarmente delle strutture e sedi universitarie. Anche allora non gli sfuggì che il problema non si risolveva certamente creando nuove Università, ma piuttosto investendo in uomini e risorse per creare delle Università che reggano il confronto, sotto tutti gli aspetti, con quelle delle regioni più favorite. Giacché è prendere in giro il prossimo sostenere che esiste parità tra chi insegna o studia nel Sud o studia al Nord… Ciò implica la visione di una società in cui da una parte le diffusioni dell’istruzione pubblica, compresa quella universitaria, sia enormemente maggiore di oggi, ma dall’altra l’avere o meno compiuto studi universitari… comporti, meno di adesso, una differenza di sorti sul terreno economico e sociale. Del resto, noi possiamo… intravedere un mondo del futuro in cui l’automazione abbia cambiato radicalmente le condizioni di lavoro e di offerta quindi delle basi per rapporti radicalmente diversi dagli attuali. Una visione profetica di un professore ordinario, toscano, storico di valore, di grande integrità morale, di fronte al quale era impossibile sospettare l’ombra di obiettivi e/o interessi non apertamente dichiarati, anche da chi si sentiva ideologicamente diverso. Queste le premesse che conducono alla costituzione del CNU sotto la guida di Spini, con l’ambizione di contribuire, attraverso l’Università, a trasformare la società italiana. Una nuova università, sede principale della ricerca con l’obiettivo di sollevare il nostro Paese dalle condizioni di subordinazione e sottosviluppo. Con una ricerca scientifica fortemente orientata al lavoro, all’occupazione, allo sviluppo economico e sociale. Una ricerca da sostenere con piani pluriennali di investimento! I tempi sono cambiati, molti muri sono caduti altri sono stati costruiti, ma, a mio giudizio, abbiamo ancora oggi da imparare dalla nostra storia e dall’esempio di uomini come Giorgio Spini! 2 Si consiglia la lettura dell’articolo di Salvatore Saetta: “Perché il Congresso” nel giornale «Scelte Universitarie» – Messina 6 dicembre 1971. La cattedra di Storia alla Saint Angels University: un ricordo di Giorgio Spini Gaetano Gallinaro Tra le carte di Piero Manetti ho ritrovato il foglio con le firme dei presenti all’assemblea delle sedi del 31 maggio 1970. A quella assemblea parteciparono alcuni tra i più autorevoli professori universitari iscritti all’ANDU. Oltre allo storico Giorgio Spini ed al chimico-fisico Camillo Dejak erano presenti, tra gli altri, il giurista Paolo Frezza, il pedagogista Antonio Santoni Rugiu, il biologo Gianfranco Ghiara ed il fisico Ettore Pancini. Ettore Pancini, allora professore a Napoli, era stato mio professore a Genova quando ero iscritto al biennio di ingegneria prima che passassi a fisica; a quel tempo gli insegnamenti del biennio erano per la maggior parte frequentati insieme dagli studenti di ingegneria e di scienze matematiche, fisiche e naturali. Pancini aveva dimostrato grandi capacità organizzative rifondando l’istituto di fisica sperimentale che aveva dotato di officine, meccanica ed elettronica, molto attrezzate ed aveva assunto tecnici di ottima qualità. Il potenziamento dell’istituto di fisica sperimentale rese possibile l’associazione all’INFN inizialmente come sottosezione di Torino ed in seguito come sezione autonoma. Le capacità organizzative di Pancini erano già state dimostrate nel periodo della resistenza quando era stato responsabile militare del partito comunista nel Comitato di Liberazione Nazionale del Veneto. Era un ottimo didatta; quanto alla sua statura di scienziato basti ricordare che il premio Nobel Luis Alvarez nella lezione tenuta nel 1968 in occasione della consegna del premio abbia affermato che l’esperimento di Conversi, Pancini e Piccioni diede inizio alla moderna fisica delle particelle. Ho molti ricordi degli amici del CNU ma in particolare ne ho dell’indimenticabile Giorgio Spini. Giorgio era un conversatore affascinante e spesso a cena ricordava le attività svolte come storico e come combattente nella guerra di liberazione alla quale aveva partecipato. Infatti dopo aver raggiunto Bari partendo da Torre Pellice era stato assegnato all’ufficio stampa del comando supremo perché era tra i pochissimi ufficiali che parlavano inglese. Col nome di Valdo Gigli svolse una intensa attività antifascista e di propaganda per il partito di azione parlando da Radio Bari. Per questa attività fu presto congedato come ufficiale sovversivo in quanto propagandista del partito di azione; fu poi riammesso in servizio su pressione degli inglesi ed aggregato come ufficiale di collegamento ad una unità delle forze speciali inglesi. I suoi racconti li ho ritrovati in un bellissimo libro scritto col figlio Valdo pubblicato nel 2002 da Claudiana editrice col titolo La strada della liberazione - Dalla riscoperta di Calvino al fronte dell’ottava armata. Il libro avvince come un romanzo, si scopre che Spini ritrovò la “Primavera” del Botticelli usata come giaciglio dai Kiwi, i maori della divisione neozelandese; fu anche il primo ufficiale alleato ad entrare a Firenze. Ricordo 102 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ancora che ci raccontava che il suo comandante con tipico understatement britannico nel dargli il permesso di lasciare il reparto per andare a combattere con i partigiani fiorentini gli raccomandò: … ricordi tenente che io odio le perdite nel mio reparto… Attento ascoltatore dei discorsi di Spini a Radio Bari fu un giovane ufficiale, Carlo Azeglio Ciampi, che conservò gli appunti manoscritti delle conferenze di Spini e li mostrò a Valdo quando nel 1993 lo scelse come Ministro dell’Ambiente. Nel 2001, in occasione del 2 giugno il Presidente della Repubblica Ciampi insignì Giorgio Spini dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce. Il 25 aprile 2004 Spini tenne al Quirinale una rievocazione storica delle vicende del 1944. Sempre nel 2004, In occasione del sessantesimo anniversario della liberazione di Firenze, 11 agosto 1944, il Comune di Firenze ha consegnato a Giorgio Spini il Premio “Fiorino d’oro”. Sono grato a Giorgio per avermi inviato articoli di giornali che riportavano i discorsi da lui tenuti in quelle occasioni. Una delle caratteristiche di Spini, uomo profondamente religioso e laico convinto, era il suo humour. Mi ha colpito una sua lettera, inviatami nel gennaio 1996 dopo che un ictus gli procuro’ difficoltà di deambulazione. Gaetano carissimo. Scusami del ritardo con cui ti rispondo. Ma proprio per Capodanno è sembrata decisa la mia chiamata a una cattedra di storia della Saint Angels University, a Heavenly City, Blue Sky 7th, in seguito ad un ictus cerebrale. Poi è arrivato un contrordine: forse per uno dei soliti inghippi che capitano in ogni Facoltà. Perciò sono sempre qui in terra anziché nel cielo blu e sto abbastanza bene. Però riprendo solo adesso la penna, si capisce. Tanti, tanti fraterni saluti dal tuo Giorgio Fiesole 15.1.1995 (penso che l’errore di data, 1995 invece che 1996, sia dovuto al fatto che Giorgio Spini aveva da poco ripreso a scrivere e, come capita a molti nei primi giorni del nuovo anno, abbia messo la data con l’anno passato) Natale 1995 Capodanno 1996 Con la calda amicizia di sempre, contraccambio tanti auguri affettuosi. Giorgio Spini Questo era lo stile di Giorgio Spini, l’indimenticabile primo presidente del CNU. 1976-1979 La Presidenza Battistin Storia del CNU: seconda metà anni Settanta Leontino Battistin Premessa Sono stato eletto ai vertici nazionali del CNU al II° Congresso, Milano, maggio 1973, alla carica di Vice-Presidente; l’altro Vice era Piero Milani, e Presidente era Giorgio Spini, al suo secondo mandato. Venni riconfermato alla stessa carica al III° Congresso, Torino, settembre 1974, e lo stesso avvenne per Piero Milani e Giorgio Spini, che era quindi al suo terzo mandato di Presidente nazionale. Al IV° Congresso, Venezia, gennaio 1976, venni eletto Presidente Nazionale, e come Vice-Presidenti Enrico Decleva (Milano) e Francesco Faranda (Messina) e Segretario Giampiero Maracchi (Firenze), Gaetano Crepaldi (Padova) alla Commissione di Medicina e Antonio Miceli (Messina) al Giornale; venni confermato alla Presidenza Nazionale al V° Congresso, a Taormina, maggio 1977, sempre con Enrico Decleva e Francesco Faranda Vice-Presidenti, Segretario Franco Adduci (Bari). La mia esperienza alla dirigenza nazionale del CNU copre quindi gli anni ’70 e in modo particolare la seconda metà di quel periodo in quanto nei due anni di VicePresidenza molto tempo era stato dedicato ad “impadronirsi” di una problematica culturale e politica complessa, che veniva gestita quasi esclusivamente dal tandem Spini-Milani, affini sia per il pensiero culturale e politico che per vicinanza disciplinare in quanto entrambi provenivano dal mondo umanistico. Prima però di percorrere, a grandi linee e per quanto ne sarò capace, le tappe più significative del periodo della mia presidenza, occorre fare una brevissima riflessione sulle problematiche dell’università negli anni sessanta. Occorre dire che negli anni sessanta sono avvenuti almeno tre fatti che hanno pesantemente condizionato il dibattito e le vicende politiche sull’università nei decenni successivi. Il primo, fortemente negativo, è stata la mancata approvazione del disegno di legge di Riforma dell’Università proposto dall’allora Ministro della P.I. Luigi Gui, disegno di legge denominato e conosciuto come 2314; non era di certo un testo “rivoluzionario” però conteneva sicure novità tanto a livello di stato giuridico dei docenti che di struttura e governo dell’università, novità che avrebbero significato un sicuro “cambiamento” in positivo dell’università; la fine della legislatura e soprattutto le fortissime lobbies “accademiche” impedirono l’approvazione finale della 2314 e ciò fu un enorme danno; il Ministro Gui, che è stato uno dei migliori Ministri della P.I. del dopoguerra, e che prima era riuscito a varare la scuola dell’obbligo fino ai 14 anni, una grande riforma democratica, non riuscì a coronare il suo sogno sulla riforma universitaria. 106 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Il secondo fatto importante fu il varo, verso la fine degli anni ’60, del disegno di legge sulla liberalizzazione degli accessi all’università, proposto dal socialista Tristano Codignola. Con tale legge le porte dell’università venivano aperte ai diplomati di ogni tipo di Scuola Superiore, realizzandosi così il passaggio dall’università di élite all’università di massa. Nessun dubbio sul fatto che tale passaggio fosse un fatto molto positivo e altamente democratico; esso però non veniva accompagnato da alcun provvedimento e quindi men che meno da risorse per il problema delle strutture didattiche e scientifiche, largamente insufficienti e quindi impreparate, e per quello del corpo docente, anch’esso largamente inadeguato anche numericamente all’impatto con una popolazione studentesca ingigantita come quantità rispetto al passato. Il terzo fatto ha riguardato per così dire le “voci interne” all’Università, e cioè quella degli studenti e dei docenti. Ebbene, gli anni sessanta hanno registrato un fenomeno strano e forse anche contraddittorio e cioè quello di un andamento opposto delle due rappresentanze, studenti e docenti. Quella degli studenti, molto fiorente e autorevole a livelli locale e nazionale, ricordiamo l’UNURI quale espressione vivace e positiva nello scenario nazionale, verso la metà anni sessanta cominciò ad affievolirsi lentamente per poi spegnersi quasi del tutto dopo le contestazioni studentesche del ’68. Quella dei docenti andò invece, all’opposto, aumentando sempre più in consistenza ed autorevolezza per passare dalle organizzazioni di categoria, UNAU (assistenti), ANPUR (professori ordinari), ecc. fino alla costituzione di formazioni più unitarie e articolate, arrivando quindi alla costituzione del CNU, con il I° Congresso di Firenze nel dicembre 1971. Credo proprio che questi tre fatti occorsi negli anni ’60, mancata approvazione della 2314, passaggio all’università di massa in modo traumatico, decadenza della rappresentanza studentesca con crescita di quella del corpo docente, abbiano inciso profondamente sulle vicende culturali, politiche ed anche sindacali dell’Università italiana. Altri Colleghi illustreranno i primi anni settanta, con la nascita del CNU, i primi Congressi, Firenze, poi Milano, poi Torino, e le vicende politiche significative di quegli anni, e in particolare i “provvedimenti urgenti” del Ministro Malfatti del 1973. 4° Congresso Nazionale, Venezia, gennaio 1976 Si trattò di un Congresso molto animato e con grandi dibattiti; ci si era arrivati dopo un anno, il 1975, di silenzio totale sull’Università da parte della classe politica, e con appena abbozzati i primi passi dei Provvedimenti urgenti del 1973, e quindi con oltre 2 anni di ritardo; tutto ciò in presenza di un’Università che ormai era di “massa” e quindi con una popolazione studentesca enormemente cresciuta, e a fronte di ciò una gravissima carenza tanto di strutture didattiche che di corpo docente. Tutto ciò veniva puntualmente focalizzato da Giorgio Spini nella sua Relazione, che però anche aggiungeva: Allo stesso modo, deve essere chiaro a chiunque che il CNU non farà marcia indietro su nessuno dei suoi punti programmatici. Non lo potrebbe, oltre tutto – per non coprirsi di ridicolo, in Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 107 questo momento in cui esso è in lotta insieme ai Sindacati confederali e alle Confederazioni, in una vertenza la cui piattaforma rispecchia tanta parte di tali suoi punti programmatici. Il Congresso è sovrano e questa Relazione non intende coartarne in alcun modo i dibattiti. Ma troppo evidenti sono la perdurante validità del programma politico del CNU ed il nostro dovere di condurre avanti la battaglia in cui siamo impegnati perché il Congresso abbia bisogno di lunghi dibattiti in merito. Il dibattito congressuale fu molto ricco, toccando sì le problematiche urgenti sull’Università ma altresì anche quella altrettanto rilevante sull’identità del CNU e sul suo ruolo, che era sì anche sindacale per i propri iscritti ma soprattutto di elaboratore culturale e politico sull’Università nel contesto della Società. Su questo tema, Università e Società, io svolsi una relazione ufficiale, di cui riporto qui alcuni passaggi, se non altro perché mi sembrano ancora oggi di grande attualità. È ben noto a tutti, anche ai non addetti ai lavori,lo stato di grande smarrimento e incertezza che regna nel mondo universitario; strutture mastodontiche come certi Consigli di Facoltà, praticamente ingovernabili, carenza estrema di finanziamenti per la ricerca scientifica, Istituti del tutto insufficienti a far fronte alle domande didattiche e di ricerca dell’attuale momento; mondo docente frammentato in varie figure giuridiche, di cui alcune di estrema precarietà; giovani, studenti e neolaureati, desiderosi di accedere alla vita universitaria per crescere a livello scientifico e che non trovano modalità reali ed umane di ingresso all’Università; si potrebbe procedere di questo passo con numerosi altri esempi, però pensiamo che non faremmo altro che ricordare all’uditorio cose fin troppo note. Tutti questi esempi ci esprimono lo stato di disagio e di smarrimento che regnano nel mondo universitario, disagio e smarrimento che certamente vedono una causa di grande importanza nel fatto che i problemi delle strutture e dello stato giuridico del personale non hanno trovato una soluzione propria e al passo con i tempi; non è il caso di entrare nel merito di questa grave carenza politica, né intendiamo fare l’analisi storica dei vari contenuti politici dei diversi progetti di riforma universitaria presentati al Parlamento negli ultimi quindici anni; sarebbe troppo lungo e ci porterebbe certamente lontani dal tema che ci siamo prefissati. Vale piuttosto la pena che ci domandiamo se può dirsi vero che lo stato di disagio e di smarrimento che regnano nel mondo universitario dipendono soltanto dalla carenza di provvedimenti legislativi circa le strutture universitarie e lo stato giuridico del personale, o non abbiano invece anche altre motivazioni. Ebbene, noi pensiamo che esistano certamente altre motivazioni e che esse vadano affrontate e studiate con metodo scientifico, se si vuole che anche i provvedimenti legislativi sulle strutture universitarie e sullo stato giuridico del personale che varie forze politiche si apprestano a presentare, abbiano un contenuto realmente innovativo e soprattutto in sintonia con i tempi, in modo cioè da non prefigurare situazioni statiche e chiuse, ma bensì situazioni aperte e in rapporto costante con la mutevole realtà economica e sociale del nostro Paese. A che cosa ci riferiamo quando parliamo di altre motivazioni di disagio e di smarrimento del mondo universitario nell’attuale momento? È difficile riassumere con poche parole un argomento che necessita di venire approfondito e dibattuto a lungo: possiamo tentare di dire che l’Università si trova oggi ad attraversare una crisi di identità e di ruolo, una crisi del suo modo di essere Università nella società contemporanea. Nella società di ieri l’Università di élite adempiva perfettamente al compito attribuitole in termini culturali e professionali. La crescita sociale del Paese fa sì che oggi l’Università di massa si trovi di fronte al grave pro- 108 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri blema di mantenere il suo ruolo fondamentale di centro didattico e di ricerca scientifica e nel contempo di saper rispondere adeguatamente alle molteplici istanze che la società civile le pone; oggi l’Università deve essere luogo di crescita e di sviluppo civile e sociale della realtà che la circonda e nel contempo deve saper rispondere alla domanda di professionalità, alla domanda di cultura, alla domanda di scienza che le viene dalla Società. Noi abbiamo tutti coscienza di questa grave crisi di identità dell’Università e riteniamo pertanto quanto mai opportuno un dibattito, da indicare anche alle forze politiche e alle forze sindacali, sui problemi del ruolo dell’Università in rapporto alla società degli anni ottanta. La domanda di professionalità che viene dalla società contemporanea è enorme; pur non essendo un metro di giudizio del tutto vero e attendibile sappiamo che il numero di studenti universitari è cresciuto grandemente negli ultimi 10 anni; si sono sviluppate nuove Facoltà, sono nati nuovi corsi di laurea, sono enormemente aumentati i laureati, particolarmente in alcune Facoltà, creando in alcuni casi degli squilibri molto marcati; ma non vogliamo entrare nel merito di questi problemi, del resto ampiamente noti. Quello che desideriamo rimarcare è che questo sviluppo della domanda di professionalità, pur nel suo porsi un po’ tumultuoso e comunque senza programmazione, non ha trovato a tutt’oggi adeguate risposte nel mondo universitario. È ben vero che si potrebbe facilmente rispondere che non dipende dagli “addetti ai lavori” dare una risposta, ma dalla classe politica; sarebbe però una risposta troppo di comodo, che certamente non corrisponde al nostro ruolo di operatori universitari responsabilmente interpreti delle istanze più moderne e innovative della società contemporanea. Noi oggi dobbiamo porci adeguatamente il problema della domanda di professionalità che ci viene dalla realtà sociale, e dobbiamo riflettere a vari livelli su tale domanda. . . . . . . . omissis . ...... ............... Se questo primo aspetto dei rapporti Università-Società nella realtà contemporanea è di estrema importanza, non lo è di meno un secondo aspetto di tali rapporti, che riguarda la domanda di cultura che viene dalla società civile. Noi siamo abituati a pensare all’Università in termini non solo di centro didattico e di ricerca scientifica, ma altresì come elemento fondamentale, nell’ambito dell’architettura pluralistica della società, di crescita civile e sociale del Paese, di patrimonio di libertà e di liberazione, di punto di riferimento nei momenti di difficoltà e di crisi della comunità nazionale, di garanzia di sviluppo non solo economico-sociale ma anche civile e morale della società. Possiamo dire, senza ombra di retorica, che l’Università che vogliamo è sempre stata questa, e quella da cui proveniamo, Padova, ha dato non pochi luminosi esempi della più nobile ispirazione universalistica. A noi sembra che proprio questo modo di essere polo di sviluppo civile e sociale del Paese richieda al mondo universitario di oggi di affrontare e di rispondere in termini reali alla grande domanda di cultura che viene dalla società; noi tutti assistiamo alla grande espansione del fenomeno della cultura degli adulti, a volte dettata da semplici problemi di ordine promozionale, ma il più spesso in rapporto ad un reale desiderio di crescita personale e di maturazione civile; conosciamo tutti l’organizzazione delle 150 ore ed i problemi dell’educazione permanente, ai vari livelli di momento formativo e momento professionale. Pensiamo che non sia necessario dilungarsi oltre su esempi di questo tipo, che sono ampiamente noti a tutti. Tutto ciò richiede dal mondo universitario una risposta, che non può che essere una risposta ampiamente positiva su un fenomeno di così grande rilevanza civile e sociale. Ben sappiamo quale importanza civile e morale ha il problema della crescita culturale dell’adulto, e cosa ciò comporti sia in termini personali e familiari dell’individuo sia nei termini più marcatamente sociali. Ebbene, noi pensiamo che l’Università, in una collocazione di ampio e stretto rapporto con la realtà che la circonda, debba saper rispondere, a vari livelli, a questa profonda domanda di cultura che la società contemporanea le pone. Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 109 Se il problema della cultura degli adulti è di certo quello che appare di maggior rilievo ed evidenza nella pubblica opinione, pensiamo che altre richieste di cultura, forse a livelli più articolati e complessi, siano non di meno importanti; come non vedere, ad esempio, nella richiesta di una urbanizzazione più umana della città, una fondamentale domanda di cultura? Come non vedere nella richiesta della cura e della preservazione di vita dell’ambiente, un momento di crescita civile e sociale? Come non vedere, nella richiesta dell’impiego del tempo libero, un momento importante di domanda culturale? Si potrebbe andare avanti con numerosi altri esempi su questa particolare forma di domanda di cultura che la società contemporanea pone all’Università; in fondo, a ben guardare, sono tutti esempi di quel fondamentale ruolo dell’Università che si concretizza nell’essere elemento portante della crescita civile e morale del Paese; non quindi soltanto centro di didattica e di ricerca scientifica, ma anche centro di elaborazione di cultura, di sviluppo economico, sociale e civile della società contemporanea. Accanto a una domanda di professionalità, a una domanda di cultura, pensiamo vi sia anche una importante domanda di scienza da parte del mondo contemporaneo all’Università. Non è certamente il caso di soffermarsi ulteriormente sulle condizioni della ricerca scientifica in Italia; abbiamo tutti sentito un’approfondita relazione dell’apposita Commissione sull’argomento, e quindi sappiamo tutto sulle gravi carenze finanziarie e strutturali in cui versa la ricerca scientifica del nostro Paese; non entriamo poi nel merito della estrema dispersione del personale e delle attrezzature di ricerca in miriade di Enti, pubblici e privati, con il risultato che il nostro Paese è ai livelli che tutti sappiamo nella scala dei valori scientifici internazionali. Trascurando tutti questi argomenti, peraltro di estrema importanza, ma sui quali molte cose sono state già dette e con molta autorevolezza, a noi preme sottolineare in questa sede un particolare problema, direttamente collegato al tema generale di questo intervento, problema che è quello di un rapporto più intenso tra la ricerca scientifica e la società, a vari livelli, ivi compresi quelli territoriali. Oggi la società contemporanea pone problemi di grande importanza ed urgenza alla ricerca, ed occorre cercare di dare una risposta, mostrare un intenso impegno in questa causa, finalizzare e programmare la ricerca sulle richieste basilari della società contemporanea. È chiaro che una ricerca finalizzata ai bisogni sociali può avere, anzi in certe istanze deve avere, una forte caratterizzazione territoriale; gli esempi citati sopra possono essere illustrativi: è chiaro che un’urbanistica più umana e civile deve avere un riferimento nella città, così come una ecologia di ambiente deve avere un determinato riferimento territoriale che potrà essere ristretto ma anche più ampio, a livello regionale. Una tale aderenza territoriale è richiesta più che mai in un Paese come il nostro, nel quale esistono diversità a volte anche molto marcate tra regione e regione a vari livelli di configurazione del suolo, delle città, delle caratteristiche umane e geografiche dei territori. Riteniamo quindi significativi e positivi quei contatti tra Università e Regioni ed Enti locali, che da qualche parte stanno nascendo anche se ancora molto pochi e spesso con un’ottica parziale; tutto ciò non vuol dare alla ricerca scientifica un aspetto territoriale, o, come si dice, regionalizzare la ricerca; è del tutto pacifico che la scienza ha e avrà sempre una dimensione universale, come è altresì chiaro che accanto alla ricerca finalizzata esiste ed esisterà sempre una ricerca pura, autonoma; purtuttavia, va riconosciuto che la domanda di scienza che viene dalla società contemporanea trova nella finalizzazione una modalità importante di risposta, e che questa modalità può trovare alcune, anche se non tutte certamente, espressioni applicative nella territorialità, sia essa di Ente locale o Regione, o sia invece una diversa articolazione del territorio stesso. Questo esempio di rapporto Università-Società per la domanda di scienza, può valere e concretizzarsi a vari livelli anche per la domanda di professionalità e domanda di cultura che viene dalla società contemporanea; dobbiamo pensare ad un modo di essere diverso del rapporto tra Università ed ambiente, tra Università e tessuto economico e sociale in cui essa si trova ad operare. 110 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri È chiaro che per la Società investire le proprie energie in una Università democratica, ove cultura e ricerca esplicano il proprio potenziale liberatorio è un investimento politico. I frutti che si otterranno saranno cioè di carattere prima democratico e politico che produttivistico. Il problema è contemperare l’esigenza di un aspetto, quello politico, con l’altro aspetto, quello produttivistico, che potrebbe in germe nascondere qualche elemento negativo, come è dimostrato in altri settori della vita civile. Ci si aspetta che le Regioni, espressioni di un potere politico più fresco, giovane ed ambizioso sappiano cogliere il ruolo insostituibile dell’Università nella soluzione del problema sopra citato, che è uno dei punti cruciali nello sviluppo del Paese. È necessario quindi instaurare tra Università e Regioni ed Enti locali un rapporto nuovo e più penetrante di quanto si sia fatto finora, rapporto che, mantenendo una corretta visione dei reciproci compiti istituzionali, sappia affrontare in termini concreti i problemi della professionalità, della cultura e della scienza nella realtà del territorio. Da tutto il dibattito congressuale il tema dell’identità del CNU venne approfondito a più riprese, e direi anche in modo unitario. Nel mio intervento conclusivo lo riassunsi in questo modo: Conseguente a questa problematica è il discorso sulla collocazione del CNU nella realtà universitaria. La tematica tradizionale del CNU, che è stata essenzialmente politica, ha subito, come è intuitivo, l’urto dei provvedimenti urgenti. Essi infatti hanno dimostrato di possedere un potenziale negativo nei riguardi di una visione globale ed unitaria del problema universitario;essi hanno scavato e radicato il solco tra le tante categorie di docenti universitari, a beneficio della visione corporativa del problema universitario, come traspare dal sorgere di alcune singole ed isolate iniziative. È quindi più che mai necessario un rilancio del CNU nel ruolo che esso si è scelto e che ormai da tutti gli è riconosciuto: il ruolo di principale elaboratore culturale e politico della tematica universitaria. Se si crede in tale ruolo è necessario eseguire un salto quantitativo e qualitativo nella nostra vita associativa; noi non possiamo e non dobbiamo arrenderci alla filosofia dei provvedimenti urgenti. Dobbiamo bensì riscoprire la forza unificatrice del discorso sulla funzione sociale dell’Università e su tale discorso dobbiamo confrontare noi stessi e le altre Associazioni universitarie. Alla elaborazione di tale discorso dobbiamo richiamare tutti i colleghi, oggi dispersi tra i problemi, a volte gravi, proposti dai provvedimenti urgenti; alla gestione responsabile di tale discorso dobbiamo chiamare tutte le forze politiche cui compete la corresponsabilità nella gestione universitaria. Il fatto nuovo di questo Congresso può essere rappresentato dalla chiamata a corresponsabili nella gestione universitaria delle Regioni e degli Enti locali. Sono cambiati i tempi da quando le Università medievali avevano come problema esistenziale la salvaguardia della propria autonomia nei riguardi della città ospitante. Oggi Università e ambiente sono così compenetrati che è veramente anacronistico il pensare all’esistenza di due vite parallele che mai si incrociano e si influenzano. La mozione finale del Congresso riprese i temi largamente approfonditi e dibattuti e venne quindi approvata in modo unitario. Mi pare opportuno riportarne alcuni passi significativi: Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 111 Rispetto a tale situazione il 4° Congresso del CNU reputa che ci si debba in ogni modo sforzare affinché (nell’ultimo scorcio di legislatura, ove non si giunga ad elezioni anticipate; nella prima fase della legislatura nuova, ove invece alle elezioni si giunga presto) siano introdotte nelle strutture universitarie le novità ormai più che mature e indifferibili e si affrontino nel contempo una volta per tutte le situazioni abnormi e scandalose e le vere e proprie assurdità che attualmente caratterizzano la vita universitaria. Il 4° Congresso del CNU rileva peraltro che nella situazione attuale dell’Università italiana provvedimenti parziali svincolati da un disegno riformatore risulterebbero del tutto inefficaci e ribadisce la validità dei seguenti punti qualificanti: – il dipartimento, come unità-base per la ricerca e per la didattica; – il dottorato di ricerca, come corretto mezzo di formazione dei ricercatori e dei futuri docenti; – il ruolo unico del docente e una programmazione degli organici sulla base di un corretto rapporto studenti-docenti; – il tempo pieno e le incompatibilità; – la democratizzazione delle strutture universitarie a tutti i livelli. In tale disegno occorre inoltre prevedere: – la riforma del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione; – nuove norme per il diritto allo studio (da affidare alle Regioni); – il blocco alla proliferazione di nuove sedi al di fuori di un quadro organico di programmazione universitaria nazionale e regionale; – la definizione di nuovi, più adeguati rapporti tra Università e Società. Richiamando la validità e il significato complessivo delle elaborazioni e delle prospettive maturate lungo un ormai ampio arco di lavoro, il 4° Congresso del CNU, di fronte alle sollecitazioni venute da più parti a prendere più esplicitamente posizione rispetto al problema dello stato giuridico dei docenti universitari, ritiene anzitutto che vadano una volta di più smentite le interessate e fuorvianti interpretazioni che sono state date della formula del “docente unico” da parte dei difensori dello status quo: quegli stessi che, dopo aver accusato il CNU di essere fautore dell’ope legis a vantaggio dei professori incaricati, l’hanno disinvoltamente applicata ad altre categorie. Il 4° Congresso del CNU ribadisce la validità del principio in base al quale non vi possono essere distinzioni di ruolo quando la funzione è la stessa. Il Congresso ribadisce perciò la forma più idonea a ruoli aperti, in seguito al quale un docente possa essere chiamato a pieno titolo, sulla base di disponibilità annue obbiettive, da definire avendo come punto di riferimento il rapporto studenti-docenti: ciò, facendo salve ovviamente le successive progressioni di carriera e i necessari vagli periodici del lavoro didattico e di ricerca. Il Congresso affrontò anche, in modo acceso ma allo stesso tempo molto democratico, la problematica del rinnovo della dirigenza che, con piccole variazioni, aveva ormai compiuto il terzo mandato. Pertanto la Giunta Esecutiva venne rinnovata al completo e la stessa portò poi alle nuove cariche prima ricordate. Conferenza Nazionale sull’Università, Milano, novembre 1976 Se il 1975 era stato un anno disastroso per l’università, un anno in cui di università non si era neppure parlato, come aveva detto Giorgio Spini nella sua relazione al Congresso di Venezia, non altrettanto si può dire del 1976, anno in cui il tema 112 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri dell’università è stato spesso al centro del dibattito e dell’attenzione del Paese. Nei primi mesi dell’anno venivano presentate le bozze di proposta di riforma dell’università elaborate dal P.C.I. e dalla D.C., seguite dopo pochi mesi da quella del P.S.I.; si trattò di avvenimenti importanti ed altresì densi di contenuti; nella bozza del P.C.I. si affermava il concetto di unitarietà dell’università, quindi con abbandono di ogni idea di “scorporo”, più volte ventilata per la Medicina; nel testo della D.C. si propugnava per la prima volta l’unicità del ruolo docente, articolato in due livelli, e tale idea veniva affermata anche nel testo del P.S.I., unitamente alle proposte sul dottorato di ricerca e sul Dipartimento. Nel giugno il nuovo Governo Andreotti inseriva il tema della riforma universitaria nel programma del Governo. In tale contesto il CNU lanciò la proposta della Conferenza Nazionale sull’Università quale momento di incontro delle forze politiche, sociali ed universitarie per un comune approfondimento e ricerca della convergenza sul tema della riforma dell’università. L’iniziativa della Conferenza Nazionale riscosse indubbiamente un notevole interesse tra le forze politiche, gli operatori universitari e l’opinione pubblica, con un crescendo di adesioni; venne però osteggiata dai Sindacati Scuola e Università delle Confederazioni, in contrasto con l’atteggiamento molto positivo e collaborativo delle massime Segreterie Nazionali Confederali. Nella relazione di apertura della Conferenza ebbi modo di affermare quanto segue: Spesso ci siamo anche chiesti se il tema della riforma dell’Università fosse realmente così cruciale nell’attuale difficile e drammatico momento della vita economica e sociale del Paese. Ebbene, a queste domande abbiamo risposto in senso affermativo, non senza qualche travaglio interiore; abbiamo cioè creduto che fosse compito di una Associazione come la nostra, rappresentativa di tutte le componenti del mondo docente, di ruolo e non di ruolo, di varia provenienza ideologica, che fosse compito della nostra Associazione quello di farsi promotrice di un ampio dibattito culturale e politico sulla riforma universitaria, dibattito che, attraverso il coinvolgimento delle forze politiche e sindacali da un lato, e di quelle del mondo culturale, scientifico ed economico dall’altro, potesse segnare veramente una tappa importante nel cammino della riforma universitaria. Abbiamo fatto ciò nella convinzione che il problema dell’Università non si affronta nella sua articolata complessità se non attraverso il coinvolgimento comune di tutte queste forze, che oggi sono qui presenti, superando quindi un’ottica strettamente “sindacale” o strettamente “politica” o anche strettamente “culturale” del problema; noi crediamo cioè che il problema dell’Università abbia tali e tanti riflessi nella vita del Paese da richiedere, per essere affrontato veramente nella sua interezza, il coinvolgimento di tutte le forze del Paese e degli operatori universitari in primo luogo. Anche alla seconda domanda abbiamo risposto affermativamente, nel senso cioè che nonostante la difficile situazione economica e sociale del Paese si doveva ugualmente affrontare il problema della riforma dell’Università. Dirò anzi che a maggior ragione la questione universitaria è una questione urgente nella situazione di difficoltà in cui ci muoviamo nel Paese e a sostegno di tale tesi vorrei portare, sia pure molto brevemente, almeno tre esempi; in primo luogo io credo che una delle crisi che attanaglia il nostro Paese sia una crisi di classe dirigente, una crisi di capacità direttive e responsabili ai vari livelli dell’iniziativa del Paese; in secondo luogo, penso che un’altra difficoltà in cui ci dibattiamo sia rappresentata dalla crisi delle figure professionali tradizionali e alla conseguente necessità di individuare nuovi modelli di operatore professionale rapportati alla realtà della società contemporanea; infine, credo che un altro elemento di crisi del nostro Paese Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 113 sia dovuto alla grave arretratezza in campo tecnologico e scientifico, arretratezza che paghiamo pesantemente in termini economici verso i Paesi scientificamente più avanzati. Questi tre esempi, ed altri se ne potrebbero fare, stanno ad indicare, sia pure molto schematicamente, quale parte rilevante può svolgere l’Università per aiutare il Paese ad uscire dalla grave crisi economica e sociale che l’attraversa. Nel dire ciò, pensiamo ovviamente all’Università quale centro di alta produzione di cultura e di scienza, oltre che di formazione professionale, alla Università quale centro di crescita civile e sociale del Paese; è pensando a questa Università che noi abbiamo proposto questa Conferenza Nazionale. Abbiamo tutti coscienza della profonda crisi di identità e di ruolo dell’Università nella realtà contemporanea, italiana ed internazionale; il passaggio dall’Università di élite alla cosiddetta università di massa, per non dire altro, ha messo in crisi la struttura universitaria tradizionale e il suo modo di porsi in rapporto alla Società. Questo fatto è sotto gli occhi di tutti e pensiamo che non necessiti di ulteriori specificazioni. Il problema di oggi è di individuare nuovi modi di rapporto tra Università e Società, tali da far sì che da un lato l’università sia realmente riqualificata nel suo ruolo di massimo centro di produzione culturale e scientifica, e dall’altro lato che essa sia concretamente in rapporto con la realtà storico-sociale in cui è inserita e quindi sensibile, attenta, ed in grado di far fronte alla profonda domanda di cultura e di scienza della società, nonché alle numerose istanze di raccordo con la territorialità ed i suoi bisogni, umani e civili. Se ci è concesso di semplificare una realtà così complessa, la nuova università a cui guardiamo e in cui crediamo, deve essere un severo centro di studi e di ricerca, non isolato e chiuso in se stesso ma in continuo dinamico rapporto con la realtà che lo circonda. Ebbene, per far fronte a tutto ciò, noi crediamo che occorra por mano, con fermezza, con rapidità e con chiarezza di idee, alla riforma universitaria, proprio per mettere l’istituzione universitaria in grado di essere quella che deve essere nella società contemporanea. Per parte nostra, volendo dare un iniziale contributo al dibattito, diciamo, scendendo in dettaglio, che almeno tre problemi della questione universitaria vanno affrontati e risolti a breve scadenza, se si vuole davvero un’università rinnovata e riqualificata, al passo con i tempi, e sono i problemi della ricerca scientifica, della nuova struttura dipartimentale, e quello del corpo docente e del reclutamento. Prima di chiudere consentitemi un’ultima riflessione sui nostri intendimenti e sullo scopo finale di questa Conferenza. Vorrei anzitutto dire con estrema franchezza che non vogliamo una generica lamentela sulle cose che vanno male nell’università italiana e nemmeno vogliamo dichiarazioni più o meno accademiche o di generica disponibilità politica; il momento che attraversiamo è troppo grave perché ci sia consentito di restare nell’ambito della buona volontà, o delle vaghe enunciazioni di principio. L’idea di questa Conferenza e lo sforzo per attuarla sono stati costantemente sorretti dalla nostra volontà di arrivare a formulare un discorso concreto e realizzabile di riforma dell’Università; nessuno si illuda di avere la formula magica per rimettere in movimento l’Università italiana; sono però certo che un ampio dibattito culturale e politico tra le forze vive del Paese che hanno a cuore le sorti dell’università italiana possa rappresentare un importante momento di approfondimento del problema, di ricerca di elementi di convergenza, di accelerazione del processo riformistico. Io desidero esprimere al Ministro Malfatti l’apprezzamento del CNU e mio personale per la sua presenza in questa sede, ma soprattutto per aver deciso di aspettare questa Conferenza prima di presentare i progetti del Governo per l’Università; ringrazio i Presidenti delle Commissioni 114 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Istruzione del Senato e della Camera per avere accettato l’invito a parlare in questa sede, portando il loro prezioso contributo per impostare in modo adeguato i nostri lavori; mi auguro veramente che il dibattito che avrà luogo fra le personalità del mondo della cultura, della scienza e dell’economia italiana, le forze politiche, le forze sindacali, rappresenti in primo luogo un fatto di ampia partecipazione della comunità ad un problema di vitale importanza per il Paese, ed in secondo luogo, attraverso specifici approfondimenti e la ricerca di convergenze, possa offrire al Governo e al Parlamento elementi utili al fine di arrivare in tempi brevi alla riforma dell’Università. La Conferenza di Milano è stata indubbiamente un grande avvenimento culturale e politico e su ciò sono stati concordi tutti i partecipanti e gli osservatori; da molti anni non succedeva che oltre 500 persone, esponenti del mondo della cultura, della scienze, dell’arte, della politica, del lavoro, studenti, partecipassero per due intere giornate ad un dibattito acceso e costruttivo sulla riforma dell’Università; da molti anni non succedeva che un coro così importante di voci si levasse a sottolineare il carattere squisitamente culturale e politico del problema dell’Università nella società italiana, del rapporto fra Università e Società, del ruolo dell’Università nella Società. La presenza del Ministro Malfatti, intervenuto a concludere i lavori della Conferenza, sembrò quasi assumere il significato di un sigillo definitivo all’atmosfera altamente costruttiva di Milano, il sigillo cioè che il potere esecutivo, il Governo, recepiva e faceva proprio il motivo di fondo della riforma universitaria, e cioè quel respiro culturale e politico che era circolato nei mesi prima di Milano nell’ambito delle forze politiche e che a Milano aveva ricevuto un consenso pressoché unanime da parte di tutti gli autorevoli intervenuti. Sembrò quindi che la riforma dell’Università fondata sul dibattito culturale e politico, fosse ormai quasi fatta; sembrò che sui contenuti di fondo, struttura dell’Università e stato giuridico dei docenti, ci fosse un sostanziale consenso tra le varie forze politiche e le stesse forze universitarie. Accordo Malfatti-Sindacati Scuola Era però un’illusione, soltanto una brutta illusione. Infatti, dopo Milano inizia una nuova fase caratterizzata dalla ripresa dell’iniziativa del Ministro Malfatti e dei Sindacati di categoria, iniziativa che porterà, come vedremo, alla firma del cosiddetto “accordo”. Vediamone a grandi linee le tappe principali. L’opposizione dei Sindacati di settore delle Confederazioni era spiegata dal fatto che gli stessi stavano conducendo con il Ministro Malfatti una trattativa, che presto diventò “convergenza” su una piattaforma sull’università, fortemente corporativa e per così dire “sindacale” nella logica di una “sistemazione” del personale, non docente e docente. A fronte di ciò il CNU non è stato a guardare ma ha proceduto nei mesi successivi ad un serrato confronto con il Ministro e le forze politiche. Anche se ormai è di moda che tutti si ascrivano i meriti di qualcosa, credo di poter dire onestamente che molti dei temi che da anni portavamo avanti sono stati positivamente recepiti nel confronto con Malfatti; così la caratterizzazione dell’Università come sede centrale della ricerca scientifica, così il dipartimento fondato sulla ricerca, Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 115 con elementi di flessibilità che consentano di recepire la natura fortemente dinamica della scienza moderna e nel contempo particolari esigenze e differenziazioni delle singole sedi universitarie; così il dottorato di ricerca, inteso quale canale formativo altamente qualificato, e via preferenziale di accesso alla carriera universitaria, ma dotata anche di sbocchi collaterali; così un corretto rapporto tra università e società, che, pur garantendo il connotato fondamentale dell’autonomia dell’università sappia individuare tuttavia modalità di rapporti più intensi e fattivi tra mondo universitario e realtà circostante, e territorio; così l’attuazione di una efficace politica del diritto allo studio con passaggio delle relative competenze alle Regioni; così una effettiva garanzia di libertà di insegnamento e di ricerca dei docenti universitari, problema di estrema delicatezza ed importanza nel passaggio all’organizzazione dell’università su base dipartimentale; così una riforma della medicina, che mantenga però questa facoltà nell’università, garantendo quindi connotati universitari alle strutture e allo stato giuridico dei docenti; così una effettiva e rapida soluzione dell’attuale precariato, possibile ad ottenersi solo attraverso la rinuncia al meccanismo della delega al governo per lo stato giuridico del personale docente. Su questi temi dobbiamo riconoscere, e lo faccio con estrema franchezza, un atteggiamento positivo e recettivo da parte del Ministro Malfatti, e se nel testo di riforma essi sono stati di nostro gradimento, non v’è dubbio che i meriti, oltre che alle forze politiche e alla sensibilità di Malfatti, vanno anche al CNU che ha condotto con tenacia questa difficile battaglia. Vi è stata quindi la presentazione al Parlamento del testo di riforma Malfatti, testo nel quale dominava, per la parte riferita al corpo docente, l’impronta dell’accordo Malfatti-Sindacati Scuola, molto di più che non il dibattito culturale e politico svoltosi tra le forze politiche ed il mondo universitario. Il pomo della discordia tra Sindacati Scuola e CNU si chiamava dunque ruolo unico dei docenti sia pure articolato in fasce, come da noi proposto. Conoscete bene la nostra proposta per cui è inutile scendere in dettaglio; finito il dottorato di ricerca, si accede al concorso nazionale a numero chiuso per il ruolo di docente, superato il quale si entra in carriera; ad un certo momento esiste uno sbarramento tra il livello inferiore e quello superiore, che può essere superato o mediante rigoroso giudizio idoneativo, cui il docente ha comunque diritto a sottoporsi o mediante concorso a numero chiuso, che tra l’altro rappresenta anche un meccanismo di accelerazione della carriera o di ingresso dall’esterno. Superato lo sbarramento, per chi desidera farlo, si passa al livello superiore; altrimenti si resta a quello inferiore; entrambe le fasce di docenti hanno però sostanziale parità di diritti e di doveri nell’insegnamento e nella ricerca. Il pomo della discordia era dunque rappresentato dall’affermazione di un diritto soggettivo ad essere valutato, ad essere giudicato sulla propria produzione scientifica e carriera didattica; badate bene, un diritto soggettivo a farsi esaminare, non ad essere promossi. Sembra quasi incredibile, però in ciò stava veramente il nodo politico della discordia, ed è un nodo tra chi pensa ad un’Università burocratica e in fondo liceizzata e chi pensa ad un’Università in cui la sanzione del diritto soggettivo alla valutazione funge da stimolo alla produzione scientifica e alla qualificazione culturale; tra un’U- 116 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri niversità in cui il passaggio da un livello all’altro viene determinato dall’alto secondo norme e procedure varie ed una in cui ognuno è posto in concorrenza con se stesso prima che con gli altri, e quindi con la sua personale attitudine e capacità ad essere uomo di cultura e di scienza; in definitiva tra una concezione moderna, qualificata e valida sul piano internazionale, di un corpo docente scientificamente preparato, e una concezione chiusa, statica, in cui la definizione del cosiddetto ruolo risponde molto di più a preoccupazioni di definire i poteri che non i requisiti scientifici. 5° Congresso Nazionale, Taormina, Aprile 1977 La dialettica fortemente critica nei confronti dei Sindacati Scuola si contrapponeva ad un atteggiamento molto positivo e costruttivo da parte dei massimi responsabili delle Confederazioni, e cioè delle Segreterie Confederali, tant’è che nella Relazione al Congresso di Taormina potevo fare questa riflessione: Penso se non sia giunto il momento di chiedere ai massimi responsabili delle grandi Confederazioni di riconsiderare attentamente, e con quella grande onestà di cui hanno sempre dato prova ed esempio al Paese, alla modalità e al significato della presenza del Sindacato di categoria nel mondo dei docenti universitari. Questa affermazione, che faccio con tutta serenità e con profondo rispetto per le Confederazioni non nasce casualmente dall’aver visto e assistito al cosiddetto accordo, ma da una prolungata osservazione del progressivo snaturamento delle posizioni proprie del Sindacato di categoria nell’Università, che si è tradotto da un lato in una visione nettamente corporativa dei problemi da affrontare e dall’altro nell’assunzione di atteggiamenti mistificatori da salvatori della patria in pericolo, penosi e tristemente evocatori di appiattimento. In fondo, a ben guardare, esistono settori per così dire “atipici” del vivere civile, nei quali le Confederazioni hanno riconosciuto di non dover entrare come categoria; pensiamo al mondo dell’arte, del giornalismo, della magistratura e via dicendo. Credo che il mondo della cultura e della scienza sia uno di questi; credo che le logiche categoriali nulla hanno a che vedere con la produzione di cultura e di scienza; credo che l’Università, quella vera, quella intesa realmente come faro di civiltà e di costume, appartenga a questa sfera di atipia che la colloca su un piano diverso. Nel corso dell’anno il CNU era stato molto attivo; ricordo l’apertura di una Segreteria Organizzativa a Roma, in Via Palestro, punto di riferimento tanto per la Giunta Esecutiva che per gli iscritti; ricordo i Convegni di studio di Torino, sul tema dell’Amministrazione Universitaria, di Pisa, sul tema della ricerca scientifica e quello di Abano Terme sul tema del reclutamento universitario. Altresì è stata molto positiva la partecipazione del CNU e dei suoi iscritti alle elezioni per il rinnovo dei Comitati del CNR e nelle successive cooptazioni. Il Congresso approvava la mozione generale, di cui riporto una parte: Più in generale, a scanso d’ogni equivoco e di possibili interpretazioni fuorvianti, il Congresso del CNU riafferma che disporre o meno di un corpo docente preparato, responsabile, culturalmente e scientificamente attivo, effettivamente impegnato nella ricerca (superando la fittizia separazione tra ricerca di base e ricerca applicata), non sacrificato o distratto da altre preoccupazioni Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 117 ed impegni, garantito pienamente da un’effettiva libertà di insegnamento e di ricerca, in grado di farsi carico delle esigenze di una Università di massa che non sia dequalificata e che al tempo stesso si metta nelle condizioni di assolvere e nuovi possibili compiti legati alle mutazioni in atto nel quadro sociale, rappresenti una delle condizioni di fondo rispetto alle quali misurare il grado stesso di modernità e di maturità politica e civile di un paese. Parallelamente l’esistenza di un corpo docente del tipo accennato, consapevole delle sue responsabilità nella misura stessa in cui si traduce in fattore di effettivo sostegno e sviluppo dell’istituzione universitaria, appare, per il ruolo che queste rivestono, una delle condizioni per lo stesso svolgimento d’un effettivo pluralismo e per la vita democratica del paese. È in simile prospettiva, e non semplicemente in quella della pur legittima difesa dell’una o dell’altra categoria di docenti, che ad avviso del CNU va visto e impostato il problema oggi sul tappeto del nuovo stato giuridico dei docenti stessi. Il V° Congresso nazionale del Comitato Nazionale Universitario afferma una volta di più che un adeguato e crescente sviluppo della ricerca scientifica si presenta come la condizione indispensabile per la crescita civile, sociale ed economica, anche nella prospettiva immediata del superamento della crisi che investe il nostro paese. L’Università occupa in questa prospettiva un ruolo centrale. La progressiva degradazione della istituzione universitaria e il conseguente declassamento della ricerca scientifica rappresentano perciò una delle più gravi ipoteche sul futuro del paese. L’università deve tornare ad essere la sede primaria della ricerca scientifica, prendendo per altro coscienza che la ricerca è un servizio indispensabile per la promozione del paese e che gli operatori della ricerca devono essere impegnati a dare il loro contributo per avviare a soluzione i problemi specifici posti dalla realtà nella quale viviamo, con le priorità che spetta alla classe politica definire, nell’ambito di una corretta programmazione nazionale che tenga nel dovuto conto le esigenze poste dagli organismi regionali e coinvolga congiuntamente le forze sociali e gli stessi operatori della ricerca. In questa ottica sono più che mai urgenti le seguenti necessità: – piena utilizzazione di tutte le competenze disponibili nel Paese, in un quadro di stretto coordinamento tra tutti gli enti che operano nel settore della ricerca e senza la creazione di enti e sfere di ricerca privilegiati. – valorizzazione delle risorse umane dell’Università dove, come è noto, opera una larga parte delle forze-lavoro di ricercatori del Paese. – sostanziale mobilità del personale ricercatore non solo tra i diversi enti di ricerca ma anche tra le attività di ricerca e le attività connesse al trasferimento ed alla utilizzazione delle conoscenze acquisite. – costante partecipazione dei ricercatori alla programmazione delle ricerche in modo da evitare il rischio di gestioni burocratiche, autoritarie e centralizzate. – stretto contatto tra la ricerca finalizzata e quella spontanea e di base, contatto indispensabile per evitare l’isterilimento della prima e le difficoltà di utilizzazione delle seconde. – chiara attribuzione all’Università del compito della formazione dei giovani ricercatori, ai quali dovranno essere forniti gli strumenti necessari alla loro qualificazione culturale e scientifica. In questa prospettiva deve essere vista la istituzione del dottorato di ricerca, che deve costituire non solo la base del reclutamento dei docenti universitari, ma anche il canale di formazione dei ricercatori per soddisfare un più largo spettro di esigenze sociali (enti pubblici di ricerca, etc.). – finanziamento della ricerca adeguato agli obiettivi da raggiungere, e perciò legato al reddito nazionale da un rapporto quanto meno pari a quello medio dei paesi della Comunità europea. 118 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Il CNU, mentre prende atto con soddisfazione che molti universitari hanno acquisito la piena consapevolezza della nuova ottica nella quale deve essere svolta la loro attività, riafferma la indilazionabile necessità di un profondo rinnovamento della struttura universitaria, elemento indispensabile per tradurre in termini concreti l’auspicato apporto che all’università è richiesto. A tale riguardo, è indispensabile prevedere l’istituzione dei Dipartimenti, quali centri primari di formazione culturale e professionale nell’ambito dei quali i docenti-ricercatori, senza artificiose gerarchizzazioni e condizionamenti in termini di progressione di carriera debbono operare con impegno pieno, nel rispetto della libertà di ricerca, ma investiti dei gravi problemi del Paese. Il Congresso, che è stato molto dibattuto, anche in modo “vivace”, si concluse comunque in modo unitario, con il rinnovo della Giunta, confermando il sottoscritto alla Presidenza ed Enrico Decleva e Francesco Faranda alla Vice-Presidenza. Il Decreto Pedini Dal Congresso di Taormina in poi c’è stato un costante e pressoché corale impegno delle forze politiche sul tema dell’università, cui ha fatto riscontro un altrettanto costante impegno del CNU, tanto della Giunta Esecutiva che dell’Assemblea delle Sedi; si è trattato di due anni veramente intensi. La Commissione P.I. del Senato, presieduta dal Sen. Spadolini, doveva esaminare tanto il testo del Governo, risultato dall’accordo Malfatti-Sindacati Scuola, che le proposte di varie forze politiche. Il CNU, siamo nell’autunno ’77, si produsse, tanto con una Conferenza Stampa a Milano che con un Appello per l’università, nello sforzo di provocare una accelerazione dei lavori per una riforma dell’università, e tale impegno del CNU riscosse ampie risposte positive del mondo politico; la Commissione P.I. del Senato affidò al Sen. Cervone il compito di redigere una bozza di raccordo delle varie proposte. Venne però la crisi del Governo Andreotti nel gennaio ’78 e sappiamo che essa durò ben due mesi, quando accadde prima il rapimento e poi l’uccisione dell’On. Aldo Moro. Il nuovo Ministro della P.I., Sen. Pedini, dichiarò subito che era intenzione del Governo procedere rapidamente con l’approvazione della riforma universitaria. Verso la fine di maggio ’77 il Sen. Cervone presentava la bozza di raccordo, nella quale erano presenti sia le convergenze che le divergenze su molti punti qualificanti della riforma; ciò metteva in evidenza il permanere di orientamenti molto diversi tra le forze politiche; la bozza era cioè un tentativo di cucire assieme tesi per molti aspetti contrastanti che non una reale ricerca di concretizzare una vera ipotesi di riforma dell’Università. Vi furono varie Assemblee delle Sedi in quel periodo e si arrivò a proclamare per l’autunno il blocco didattico; vi furono altresì settimane di trattative molto intense, anche d’intesa con i Sindacati confederali, tanto con il Governo che con le forze politiche, che dovevano prendere atto anche dell’unità del mondo universitario su tali problematiche. Si arrivò quindi alla fine dell’ottobre ’77 e venne alla luce il Decreto Pedini sullo stato giuridico dei docenti e su una nuova organizzazione degli organi di governo. Il decreto era certamente migliorato rispetto al testo Cervone però il CNU comunque chiese ed ottenne ulteriori migliorie specie sullo stato giuridico dei docen- Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 119 ti; l’iter parlamentare fu molto travagliato, permanendo il testo ben 45 giorni al Senato e arrivando quindi alla Camera, ove il CNU ottenne ulteriori miglioramenti, sempre sullo stato giuridico. Però a questo punto il Decreto stava diventando troppo vicino alla richieste del CNU e dei Sindacati confederali; il Decreto cadeva negli ultimi giorni utili per la sua conversione in legge, e cadeva nel momento in cui veniva recepito un buon 80% delle istanze del CNU. Va dato atto al Sen. Pedini di grande coraggio ed altresì di grande onestà culturale e politica. Riporto quanto dissi nella Relazione al Congresso di Tirrenia a commento di questa vicenda, purtroppo conclusasi negativamente. Certo è che il mondo polimorfo e contraddittorio dell’Università italiana ha brillato in quella fase soprattutto per posizioni a dir poco di retroguardia con l’unico obiettivo di garantire il mantenimento di un potere baronale ormai chiaramente destinato a ridimensionarsi. Ed in questa fase anche certa stampa nazionale ha purtroppo brillato, forse senza volerlo in realtà, più per un appoggio reale a questo tipo di posizioni equivoche e conservatrici che per lo stimolo a contributi costruttivi all’imponente dibattito che si stava verificando nel Paese sul problema universitario. Molto si potrebbe ancora dire su questa grande messa in scena di una parte del cosiddetto mondo accademico italiano; credo che alla base ci sia stata in realtà una sostanziale povertà della nostra cultura, incapace di cogliere quelle espressioni di novità, certamente suscettibili di successivi miglioramenti, che potevano scaturire da una riorganizzazione del corpo docente, con le conseguenti positive ripercussioni anche a livello della ricerca scientifica; mondo accademico molto più preoccupato della salvaguardia di interessi personali che non del bene generale dell’Università; preoccupato molto più di garantire le proprie prerogative di potere che non di guardare ad un futuro che, rimettendo in movimento una situazione pressoché incancrenita, desse un minimo di speranza e di possibilità ai giovani di ingresso all’Università. Penso di poter dire che questo tipo di presenza del mondo accademico ha in ultima analisi manifestato all’esterno una sostanziale carenza della nostra cultura nei confronti del problema universitario; troppo spesso si sono agitati banali slogans, quali appunto quello del cosiddetto rigore, e troppo poco invece si è posto l’accento sullo stato di enorme degrado in cui versa attualmente l’Università italiana. Il dibattito interno al CNU sulle problematiche universitarie Dopo la caduta del Decreto Pedini, vi fu un dibattito molto intenso all’interno dell’Assemblea delle Sedi tanto sull’associazione che sulle problematiche da portare avanti. Nella Relazione di Tirrenia ho riassunto in questo modo: E vengo così alla terza parte della relazione che vuol essere una riflessione che intendo portare al Congresso anche come contributo personale sullo stato attuale delle nostra iniziativa culturalepolitica e sindacale. Noi siamo nati come un’associazione democratica dei docenti che voleva la riforma dell’Università e condensavamo questa richiesta nello slogan del “docente unico a tempo pieno nel Dipartimento”. Era uno slogan facile, era una affermazione che compendiava in sé stessa tutta 120 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri la nostra filosofia. Ebbene, credo sia giunto il momento di fare una riflessione critica sullo stato generale della nostra filosofia, su come vediamo oggi i punti fondamentali della nostra politica, su quali sono gli strumenti che intendiamo perseguire per ottenere l’attuazione della nostra politica. Dico ciò con animo sereno, senza intenti polemici, ma bensì con una profonda esigenza di chiarezza e di approfondimento che mi viene sia dall’essere un ricercatore che si sforza di affrontare i problemi in termini aderenti alla realtà, sia dall’aver vissuto in questi anni alla Presidenza dell’Associazione e quindi dall’aver toccato con mano, se così posso esprimermi, molti aspetti della realtà politica, economica e sociale inerenti ai problemi dell’Università. Credo quindi che questo Congresso abbia il dovere e verso l’Università italiana e verso i nostri iscritti di fare un esame approfondito dello stato attuale delle nostre richieste, di vederne la loro attualità, di vedere in ultima analisi come, a distanza di dieci anni dalla nostra nascita, ci poniamo oggi di fronte alla realtà universitaria in una situazione del Paese molto diversa, molto cambiata rispetto a dieci anni or sono. Vorrei cominciare anzitutto con le cose pratiche, e cioè con il tipo di strumento legislativo attraverso cui ottenere l’attuazione delle nostro richieste. Ebbene, lasciate che dica che non credo più ad un unico strumento legislativo che definisca la riforma dell’Università. Già durante i mesi passati in varie occasioni abbiamo ventilato l’ipotesi di più strumenti legislativi volti a definire lo stato giuridico, le strutture, i problemi della ricerca e via dicendo. Ebbene, oggi sono fermamente convinto non più dell’opportunità ma della necessità che la problematica dell’Università si affronti con più strumenti legislativi. Io non credo affatto che un testo di riforma qual è quello che attualmente giace in Parlamento abbia alcuna possibilità di arrivare in porto, non credo affatto che un testo organico di riforma universitaria abbia alcuna possibilità di essere approvato nell’attuale situazione di quadro politico e di articolazione del Parlamento. Quindi ritengo sia necessario affrontare i singoli aspetti della riforma con strumenti legislativi il più possibile agili e rispettosi dell’autonomia dell’Università e penso che ciò sia una reale necessità più che una opportunità se vogliamo che si arrivi finalmente ad una riforma dell’Università. E vengo ai singoli punti che abbiamo avuto sul tappeto nei mesi passati e che si rifanno ai concetti espressi nello slogan del docente unico a tempo pieno nel dipartimento. Il primo riguarda la richiesta del docente unico. Ebbene, lasciate che dica con tutta chiarezza che secondo me la richiesta del docente unico, se forse aveva una giustificazione culturale quando è nata, non ha mai avuto in realtà alcuna possibilità di realizzazione a livello politico e questo, più che una mia opinione, è un dato di fatto. La richiesta del docente unico esprimeva essenzialmente l’esigenza di una reale autonomia didattico-scientifica di tutti i docenti in modo che ognuno potesse esprimere al massimo grado le proprie potenzialità culturali e scientifiche; ne derivava come conseguenza il fatto che la progressione di carriera doveva svilupparsi sulla base del merito scientifico e non di altri meccanismi più o meni limpidi di cooptazione che tutti ben conosciamo. Peraltro è noto quanto questa teoria sia stata strumentalizzata da parte di chi non voleva mettere mano al problema dello stato giuridico, ed è noto altresì che a livello delle forze politiche non c’è mai stato uno spazio reale per riuscire ad incidere concretamente su questa strada. Proprio per queste difficoltà oggettive noi abbiamo accettato anni or sono di discutere non più di docente unico ma bensì di unicità della funzione docente, prevedendo una articolazione in fasce; abbiamo però sempre mantenuto fermo un principio, cioè quello che ad ogni docente venisse data una reale possibilità di esprimersi al massimo delle sue potenzialità a livello didatticoscientifico. Sulla base di ciò abbiamo formulato la teoria della progressione di carriera attraverso il duplice meccanismo, concorsuale a numero chiuso e per giudizio di idoneità, affermando il principio che ogni docente avesse il diritto a farsi valutare ad un certo punto della sua carriera Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 121 per il passaggio alla fascia superiore, principio questo di semplice giustizia e largamente applicato nelle Università straniere. Questa linea culturale e politica manteneva quindi fermamente salde le motivazioni di fondo della filosofia del docente unico, cioè quella dell’autonomia didattico-scientifica di ogni docente e quella di dare modo a ciascun docente di sviluppare appieno le proprie potenzialità culturali e scientifiche. Non abbiamo mai fatto una questione di numero di fasce o di livelli, tanto che in più di qualche occasione abbiamo ribadito che si poteva paradossalmente parlare anche di dieci livelli purché fosse fatto salvo il principio che i meccanismi di passaggio dall’uno all’altro salvaguardassero il fondamentale diritto soggettivo di poter procedere nella carriera sulla base del merito scientifico e culturale. Ebbene, come si presenta oggi questa problematica nella realtà politica, quali sono le concrete possibilità, quali le sue prospettive? L’esame delle vicende della politica universitaria di questi due anni, e in particolare di quelle legate all’ampia discussione avvenuta nell’autunno scorso, pone alla nostra considerazione almeno due fatti, entrambi molto importanti a livello politico. Il primo riguarda proprio i meccanismi di passaggio; su questo punto fondamentale della nostra politica, noi possiamo registrare un parziale passo avanti per quanto è avvenuto al Senato a proposito dell’art. 3 del Decreto Pedini; ricorderete che nella stesura finale l’art. 3 accettava il concetto di vincitore soprannumerario, sia pure solo in fase transitoria e con una entità numerica ben definita. Si potrebbe dire che è ben poca cosa rispetto alla globalità della nostra richiesta: se pensiamo però a quante volte abbiamo avuto risposte completamente negative a tale proposito, da parte di tutte le forze politiche e sottolineo di tutte le forze politiche, registrare una parziale schiarita, uno spiraglio che si apre, non mi sembra cosa di poco conto. Il secondo fatto da registrare a livello politico riguarda il numero delle fasce, che da due anni sono ormai diventate tre; è infatti assolutamente impensabile e a mio modo di vedere non sarebbe nemmeno giusto, che per i precari si torni indietro a soluzioni tipo albo speciale o comunque di semplice proroga; siamo quindi di fronte ad un’ipotesi di articolazione del corpo docente in tre livelli, ipotesi che possiamo accettare in tutta tranquillità. D’altronde, chiudere gli occhi di fronte alla realtà dell’Università italiana che è una università di massa nonostante la lieve flessione del numero degli studenti registrata pochi mesi or sono, università di massa in cui bene o male attualmente operano all’incirca 45.000 docenti, non è certamente possibile; credo quindi che in questa realtà non sia fuori luogo prospettare un’articolazione della docenza in tre fasce. Tre livelli dunque, cioè dell’assistente, dell’associato e dell’ordinario; tre livelli con possibilità di passaggio dall’uno all’altro sia per concorso a numero chiuso sia attraverso quel meccanismo idoneativo che abbiamo teorizzato a più riprese nel passaggio da associato ad ordinario e che deve operare anche nel passaggio da assistente ad associato. Tre livelli che andranno definiti anche come organico almeno approssimato perché non è certamente pensabile condurre una trattativa che abbia una qualsivoglia possibilità di arrivare in porto senza una previsione dell’entità organica di ciascuna delle fasce. Se nell’articolazione della docenza vanno ipotizzati tre livelli e non più due, ritengo debba essere invece riaffermato il principio di un adeguato canale di reclutamento dei giovani attraverso il dottorato di ricerca. Penso che su questo punto la nostra linea politica vada ribadita con vigore; si tratta di favorire in ogni modo l’ingresso dei giovani all’Università, e sappiamo bene quanto ciò sia fondamentale per la vita stessa dell’Università; si tratta altresì di prevedere degli adeguati sbocchi culturali per quanti, completato il dottorato, non avessero l’intenzione o la 122 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri capacità di intraprendere la carriera universitaria. Ritengo che sul problema dello stato giuridico la discussione sarà come sempre articolata e complessa; spero vivamente che sia anche realistica, aderente alla situazione dell’Università italiana, che poi è una situazione largamente presente anche nella realtà internazionale. Molto ampio è stato altresì il dibattito su altre problematiche molto rilevanti, quali quelle dei Dipartimenti e della ricerca scientifica, e quella del tempo pieno o della opzionalità tra tempi pieno e tempo definito; però il discorso si farebbe troppo lungo. Ricordo che nella primavera ’79 approdava al Ministero di Viale Trastevere il Sen. Giovanni Spadolini, che già aveva presieduto la Commissione P.I. del Senato, e che il CNU accolse con molto favore tale nomina, in quanto il Sen. Spadolini, pure docente universitario, era un profondo conoscitore delle problematiche dell’Università italiana, oltre che persona di grande cultura. Ricordo altresì che era stato portato a compimento l’importante rapporto con le Confederazioni Sindacali, non più e non solo con i Settori Scuola e Università, ma bensì con le massime espressioni dei Segretari Generali delle Confederazioni, con risultati e ricadute fortemente positive per tutti, compresi i Settori Scuola e Università confederali che hanno compiuto importanti passi avanti. 6° Congresso Nazionale, Tirrenia, Aprile 1979 Sulla Associazione facevo questa riflessione nella relazione introduttiva: E cosa significa una reale maturità politico-sindacale? Cari amici, è bene parlare tra noi molto chiaramente; significa vivere con profonda convinzione il significato di una organizzazione unitaria, anche quando la nostra visione personale delle cose non risulta soddisfatta al 100%, significa quindi avere un profondo rispetto della disciplina organizzativa. So bene che questa affermazione può risultare ostica o di difficile digestione per molti di noi; in fondo una Associazione come la nostra si colloca a metà strada tra la logica del patto d’onore, tuttora funzionante e con buoni risultati, in molta parte del mondo baronale, e la logica dell’organizzazione sindacale confederale, nella quale la tessera rappresenta una specie di delega in bianco alla dirigenza, le cui indicazioni vengono quindi seguite più o meno alla lettera. Noi ci collochiamo a metà strada tra queste due logiche, avendo come bandiera il privilegio che diamo alla cultura e all’intelligenza; sappiamo però che questa è un’arma a doppio taglio il cui risvolto negativo è rappresentato proprio dall’eccessiva tendenza all’individualismo, così tipica del mondo intellettuale. Occorre quindi che riflettiamo sul nostro modo di vivere l’Associazione e che, se siamo convinti che essa debba avere i connotati di una organizzazione politico-sindacale nazionale e non di un movimento d’opinione, cominciamo a metterne in pratica in modo concreto le implicazioni e quindi anche un’effettiva disciplina interna. Mi piace però riportare l’inquadramento generale della problematica universitaria con cui aprivo la Relazione al 6° congresso di Tirrenia: Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 123 Abbiamo vissuto di recente una difficile crisi di Governo e stiamo assistendo ad una profonda crisi morale del Paese che coinvolge anche la fiducia e la credibilità dei cittadini nelle istituzioni della Repubblica; assistiamo a fenomeni molto gravi di distacco del cittadino dai canali normali dell’espressione organizzata della vita democratica quali sono i partiti e le organizzazioni sindacali, distacco alla cui base pensiamo ci sia fondamentalmente una crisi di credibilità in tali espressioni. Non sono fatti da sottovalutare la recente forte espansione di organizzazioni di tipo autonomo a livello locale, così come non sono da sottovalutare le crescenti manifestazioni di tipo spontaneo a livello delle istanze dei lavoratori. Questo fenomeno non è certamente solo italiano; è un fenomeno esteso che però in un Paese come il nostro, nel quale le istituzioni democratiche sono ancora giovani e fragili, merita la più attenta considerazione da parte di chi si occupa dei problemi della crescita culturale, politica e civile del Paese. Crediamo che alla base di tutto ciò, che continuiamo a pensare come un passaggio critico nella crescita della nostra democrazia, stia una progressiva sfiducia del cittadino nelle espressioni organizzative della rappresentanza quali sono venute attuandosi in Italia in questi trent’anni. Che cosa abbia determinato, quali siano state le cause di questa e quali siano le prospettive future è certamente difficile da analizzare, richiederebbe molto tempo e forse non saremmo in grado di farlo. Certo non si tratta soltanto di fenomeni di carattere politico ed alla base di essi stanno anche profondi mutamenti di tipo culturale, economico e sociale; penso che forse al fondo di tutto ci sia ancora una volta una crisi del rapporto fra quella che è l’istituzione culturale e civile per eccellenza in ogni tipo di organizzazione sociale e cioè l’istituzione scolastica con la realtà del Paese. Abbiamo sottolineato a più riprese come ogni crescita culturale e morale di un popolo sia fortemente legata al tipo di rapporto che si instaura fra le istituzioni educative fondamentali della comunità, quali la famiglia e la scuola, con il tessuto sociale della comunità stessa. E constatiamo amaramente che su questa verità, su questo rapporto esiste purtroppo ancora moltissima strada da compiere. È sotto gli occhi di tutti il fenomeno del cosiddetto assenteismo nell’espressione degli organi di partecipazione che sono stati istituiti in ambito scolastico, organi di rappresentanza e di presenza di varie componenti. Ebbene credo sarebbe troppo semplicistico tacciare di scarsa partecipazione quanti ancora non avvertono tali organi come reali motivi di crescita della scuola nel rapporto con la realtà territoriale e sociale. Occorre viceversa domandarci qual è il significato, qual è la funzione della struttura scolastica e quindi anche dell’Università e quali devono essere i suoi caratteri di fondo in una realtà fortemente in movimento a livello economico, sociale e politico quale appunto è la realtà italiana. Crediamo cioè che non sia del tutto rispondente al vero porre una equazione banale per cui quanto più esiste partecipazione, quanto più sono sviluppati ed estesi gli organi collegiali, tanto più il fenomeno scuola, l’istituzione scolastica è motivo di crescita del Paese. Da più parti si invoca invece una maggiore serietà, un maggior approfondimento, in ultima analisi, una maggiore ricerca della verità culturale ed un maggiore rigore morale da parte dell’istituzione scolastica. A conclusione di tre giorni di ampi e vivaci discussioni il Congresso approvava una mozione generale, di cui riporto la parte più significativa: Il Congresso del CNU, alla luce delle esperienze trascorse, del quadro politico complessivo, 124 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri del deterioramento intervenuto nella situazione universitaria, deterioramento che rende improcrastinabili interventi legislativi, reputa che la strada di provvedimenti anche successivi, purché coordinati e finalizzati ad un quadro complessivo di riforma ed alla contestuale riorganizzazione del Ministero per il Coordinamento della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MCRST) possa rappresentare una necessità. Di fronte a tale evenienza il Congresso identifica i seguenti aspetti prioritari: – un nuovo stato giuridico dei docenti imperniato sulla unicità del ruolo articolato in fasce retributive, senza differenze lesive della libertà di ricerca ed insegnamento, garantendo la piena autonomia, i diritti, la dignità di tutti i docenti; – un’immediata ed equa soluzione del problema del personale docente e ricercatore precario che, se lasciato ulteriormente irrisolto, comprometterà qualsiasi riassetto organico della funzione docente nell’Università; – la rivalutazione delle retribuzioni dei docenti senza la quale la funzionalità e la qualificazione stessa della ricerca e della didattica universitarie verrebbero annullate; – la realizzazione del dottorato di ricerca quale canale normale di formazione dei ricercatori e non solamente in funzione del ricambio dei docenti; – l’avvio sperimentale delle strutture dipartimentali, come aggregazione di gruppi e settori di ricerca, corredato dai necessari supporti (laboratori, personale tecnico, ecc.) e con l’indispensabile autonomia di gestione; – l’introduzione del pieno impegno in funzione del rilancio della ricerca scientifica nell’Università, con corrispettivi economici e normativi realmente incentivanti, basati su una efficace documentazione dell’attività scientifica svolta, e prevedendo le più opportune forme di opzionalità; – la riorganizzazione della didattica mediante la ridefinizione degli ambiti disciplinari col superamento della rigida titolarità della cattedra nel rispetto della piena libertà di insegnamento e di ricerca dei singoli docenti, ed il riordinamento dei piani di studio anche nella prospettiva delle nuove professionalità e del graduale superamento dell’attuale Facoltà; – una diversa impostazione dei problemi della ricerca scientifica, sì da non mortificare la ricerca universitaria, come invece sarebbe accaduto approvando il provvedimento relativo, in discussione nel corso della legislatura appena conclusa; – la riorganizzazione delle strutture centrali e periferiche dell’Amministrazione universitaria valutando al caso l’opportunità di istituire un apposito Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica, garantendo comunque gli indispensabili collegamenti con il mondo della scuola; – la realizzazione delle forme più adeguate ad assicurare il trasferimento delle conoscenze alla produzione. A conclusione dei lavori il congresso provvedeva ad eleggere la nuova Giunta Esecutiva, che eleggeva alla carica di Presidente Nazionale il caro e indimenticabile Francesco “Ciccio” Faranda, affiancato dai Vice-Presidenti Paolo Blasi e Marco Unguendoli. Considerazioni conclusive Posso affermare con piena consapevolezza che il CNU è stato negli anni ’70 il vero e principale punto di riferimento per la Società italiana sui temi della riforma dell’Università. È stata una forza culturale-politica ma anche sindacale di grande spessore; Storia del CNU: seconda metà anni Settanta 125 a livello quantitativo gli iscritti erano oltre 7000 docenti, di ogni ruolo o fascia, e a livello qualitativo era certamente il più importante e produttivo elaboratore culturale e politico sulle problematiche dell’università. A distanza di oltre 40 anni come sta oggi la nostra università? Certamente alcuni aspetti positivi vanno segnalati; il corpo docente è articolato in tre fasce però la progressione di carriera non avviene con quel giudizio di idoneità che il CNU propugnava negli anni ’70; ci sono i dipartimenti, sia pure con molti chiaroscuri nella loro tipologia e organizzazione; c’è stato un sicuro potenziamento della ricerca scientifica, pur con una grave carenza di risorse, ed altresì dei meccanismi di valutazione della ricerca e degli stessi ricercatori. (anche se ci sarebbe molto da ridire sui meccanismi ora adottati dall’ANVUR, ndr). A fronte di ciò, non possiamo non rilevare i numerosi fatti negativi occorsi e che stanno pesantemente condizionando il futuro dell’Università italiana. Ne cito solo brevemente alcuni; l’indiscriminata proliferazione delle sedi universitarie, quasi sempre frutto di clientelismi locali; l’introduzione della formula 3+2 che sta portando sempre più l’università ad una licealizzazione di massa; il nullo o comunque precario rapporto tra università e territorio; la completa assenza delle vere “voci” dell’Università, cioè a dire studenti e docenti, essendo quasi inesistenti le rispettive rappresentanze, la mancanza di un serio dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio. Potrei andare ancora avanti; preferisco fermarmi per non incorrere in riflessioni troppo malinconiche. Spero solo in una qualche “resurrezione” e mi auguro che sia una speranza “vera”! L’esperienza fatta ai vertici del CNU mi ha dato anche un arricchimento personale di enorme valore, a livello culturale, morale e umano; ho potuto conoscere numerose persone, a vari livelli della politica e della cultura, universitari e non, ho stretto amicizie molto significative, e molte sono tuttora in atto, ho toccato con mano svariate realtà, di università, di governo, di parlamento, di forze politiche, di Sindacati Confederali. A livello di Giunta Esecutiva, i rapporti sono sempre stati molto intensi e in particolare quelli con i due Vice-Presidenti Enrico Decleva e Francesco “Ciccio” Faranda, le discussioni interminabili, i dibattiti anche accesi ma sempre con grande rispetto e stima reciproca. Ad essi seguivano i momenti di distensione e rilassamento, spesso a tavola, alle cene alla Capricciosa in via del Corso, dove, al tavolo vicino sedevano Jean Paul Belmondo con Laura Antonelli, o al Galeone d’Oro, dirimpettaio alla nostra sede in Via Palestro, o al Pantheon, ove verso le 23, o anche dopo, arrivava Giovanni Spadolini, cui l’appetito non mancava mai. Per non dire dei numerosi incontri con il Ministro Malfatti, anche a casa sua in Via della Scrofa e al Circolo degli Scacchi, mentre con Giovanni Spadolini ci trovavamo al suo Hotel Nazionale, Piazza Montecitorio; lui ci convocava per la mezzanotte e poi arrivava verso l’una, una e trenta, e ci trovava addormentati sui divani! E le discussioni, spesso “animate” ma sempre con grande reciproco rispetto e permeate di spessore culturale e politico, con Domenico Fazio, grande e indimenticabile Direttore Generale dell’Università. E ancora gli “incontri-scontri” con Luigi Frati e Gian Mario Cazzaniga, Responsabili Scuola CISL e CGIL, spesso duri e interminabili, sempre però con grande rispetto e direi anche amicizia; o gli incontri, a volte anche conviviali, e sempre sereni e di alto livello con Luigi Macario, CISL, e Luciano Lama, CGIL. I ricordi sono tanti e certamente molto 126 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri intensi e ricchi di emozioni; tanti sono riferiti ad amici che oggi purtroppo non ci sono più; penso a Giorgio Spini, nel quale la ricchezza intellettuale si accompagnava ad un fermo rigore morale, unito ad un forte senso dello humor, a Marco Unguendoli, impareggiabile artefice di una ospitalità unica per umanità e amicizia nella sua Bologna, e a Ciccio Faranda, persona di una carica umana assolutamente unica, di una intelligenza brillante e di una correttezza e lealtà indimenticabili; cito, e lo ricordo come fosse oggi, quando arrivato a Taormina per il Congresso mi disse che ci sarebbero state delle “turbolenze”, politiche, si intende, anche nei miei confronti, per cui, dopo la Relazione Introduttiva, era meglio se andavo in spiaggia con la mia famiglia, lasciando a lui la gestione del Congresso. Così fu, e dopo due giorni rientrai per la giornata conclusiva e, guarda caso, la conclusione fu assolutamente unitaria! Tutto merito di Ciccio! Ha lasciato un grande vuoto però anche una grande testimonianza di studioso e di uomo. Un grazie di cuore a tutti e al CNU. 1979-1984 La Presidenza Faranda Una intervista a Paolo Blasi, Vice-Presidente CNU nel periodo 1979-1984 intervista di Paolo Gianni e Sergio Sergi [G] Potresti mica partire inquadrando le problematiche cui gli universitari si trovarono di fronte alla fine degli anni ’70? [B] Dopo i “provvedimenti urgenti” di Spadolini c’erano stati vari tentativi di fare una legge organica di riforma dell’università. Nel periodo ’76-’77 i sindacati confederali avevano preso un poco di vigore (mentre prima erano sempre stati assenti sul fronte della riforma universitaria) e tramite il ministro Malfatti avevano cercato di fare una legge organica1: non avevano però avuto successo perché le spinte erano troppe, in ordine sparso e divergenti. Il ministro Pedini con il suo primo decreto cercò di ottenere invece un risultato parziale, peraltro recependo alcune idee del CNU (se ben ricordo aveva un buon rapporto col CNU). Anche questo decreto non verrà convertito, così come finisce male anche un secondo decreto. Alla fine degli anni ’70 non rimane nulla di tutti i tentativi di rinnovare l’università. Si diffonde negli atenei un clima di sfiducia, di amarezza e la convinzione che una riforma organica non si farà mai. Questo era il contesto nel quale si svolse il congresso del CNU a Tirrenia nella primavera del 1979: si comincia a pensare che una legge organica è troppo complessa per poter essere approvata dal parlamento e quindi che forse conviene procedere per piccoli passi, cioè optare per delle leggi che affrontino alcuni punti importanti pur se sempre in una ottica di riforma generale. Non solo, ma sul “docente unico”, tradizionale bandiera del CNU, si fa tatticamente qualche passo indietro dicendo che se esso è articolato in fasce va bene, si accetta cioè una maggiore flessibilità mentre su facoltà e dipartimenti si accetta di partire con una sperimentazione. Quello che mi sembra di ricordare invece è che il CNU mantenne come punto fermo, mai abbandonato, quello che l’università dovesse attrezzarsi per essere il luogo primario della ricerca libera. Il congresso di Tirrenia approvò le nuove linee programmatiche, elesse la nuova dirigenza, il nuovo Presidente nella persona di Ciccio Faranda, molto attivo e stimato nel mondo politico. [S] Ma come sono, nel frattempo, i rapporti con i partiti e i loro uffici scuola? [B] A quell’epoca i partiti funzionavano e avevano una efficiente organizzazione interna. In particolare gli uffici scuola e gli uffici università erano riferimenti attendibili. Tant’è vero che quando si raggiungeva un accordo con partiti diversi era facile che i contenuti degli accordi andassero avanti anche a livello parlamentare. In più, 1 Accordo Malfatti-Sindacati Confederali di settore del Marzo 1977. 130 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri il CNU si aprì anche al dialogo con i confederali con i quali fino ad allora c’era stata quasi una contrapposizione. I confederali infatti avevano attaccato per principio i cosiddetti sindacati autonomi e quindi anche il CNU. Però, falliti i decreti Pedini, e fallita l’operazione con Malfatti, i sindacati capirono che da soli non avrebbero potuto cambiare l’università anche perché si preoccupavano prevalentemente delle carriere del personale e non avevano una cultura adeguata per quanto riguardava la ricerca e i rapporti internazionali. Alla fine degli anni ’70 la situazione è questa: il mondo universitario amareggiato e distratto non crede più nella riforma, il mondo politico è convinto che la riforma dell’Università sia un terreno minato e politicamente pericoloso, quindi se ne sta a latere. In questa situazione è invece il CNU che si muove, che elabora idee e proposte secondo le linee approvate a Tirrenia, guidato da un infaticabile Faranda. L’opportunità di concretizzare nasce quando Ministro della Pubblica Istruzione diventa Valitutti (liberale) che, se ricordo bene, è il primo Ministro dell’Istruzione non democristiano dopo la breve parentesi di Spadolini. Peraltro, c’è un rapporto di grande amicizia fra il Presidente del CNU Ciccio Faranda e Valitutti perché, ricordiamoci, Faranda era stato liberale prima di diventare socialista. Il CNU avvia quindi una serie di colloqui col nuovo ministro Valitutti che, tra l’altro, propone, alla luce degli insuccessi passati, di fare una legge delega. Questa scelta tattica ci trova consenzienti perché nella legge delega si sarebbero potuti mettere alcuni principi per poi dettagliarne l’attuazione in decreti delegati di più facile controllo politico. Per preparare la legge delega Valitutti ci convocava insieme ad altri rappresentanti universitari nel salone accanto al suo studio di ministro. Queste riunioni in genere cominciavano alle nove di sera e si protraevano fino a notte avanzata, tanto è vero che verso mezzanotte venivamo riforniti con vassoi di prosciutto e mozzarella, peraltro serviti dalla segretaria di Valitutti, una stupenda donna eritrea che rendeva piacevole il nostro lavorare fino alle ore piccole. Ricordo che queste riunioni erano molto interessanti perché si affrontavano concretamente i temi più importanti come le strutture e le modalità di finanziamento della ricerca, l’istituzione del Dipartimento e del dottorato, l’internazionalizzazione, l’introduzione del tempo pieno e del tempo parziale, l’articolazione del ruolo docente in due fasce etc., argomenti sui quali si raggiungeva spesso un buon accordo. L’ostacolo grosso fu sulle facoltà perché noi dicevamo che le facoltà dovevano essere eliminate e sostituite dai dipartimenti mentre i medici e i giuristi, spalleggiati dall’ANPUR, difendevano la facoltà a spada tratta. Alla fine su questo punto decidemmo di mollare, prendendo atto dell’insuperabile resistenza, e per non compromettere tutto il resto. Noi infatti avevamo elaborato la figura del ricercatore che doveva sostituire quella dell’assistente, nella convinzione che la formazione del docente universitario dovesse avvenire prevalentemente attraverso l’attività di ricerca. Naturalmente i giuristi e medici non erano capaci di pensare a una formazione solo di ricerca. Di fatto, loro non volevano mollare sulla figura dell’assistente. Però arrivammo ad un buon compromesso e cioè approvammo la fine della figura dell’assistente, l’introduzione di quella del ricercatore al quale però veniva permesso di fare anche una delimitata attività didattica. E così nasce in tempi brevi la legge 28 del febbraio del 1980. È un grosso successo perché la legge delega viene approvata da una larga Una intervista a Paolo Blasi 131 maggioranza, forse perché il clima nelle università era di diffuso disinteresse. Voglio sottolineare che se è stato possibile approvare la legge 28 è proprio perché nell’opinione pubblica e nella classe politica ormai nessuno credeva più alla possibilità di approvare una riforma universitaria e quindi si erano attenuate le spinte corporative contrarie interne ed esterne. Fatta la legge delega si dovevano predisporre i decreti delegati. Nell’aprile del 1980 nel nuovo governo Cossiga diventa ministro Adolfo Sarti, democristiano, piemontese. Allora era presidente della commissione Istruzione della Camera l’onorevole Gian Carlo Tesini democristiano, Luigi Frati era responsabile della CISL università e Gian Mario Cazzaniga della CGIl università. Ricordo queste persone, perché la loro contestuale presenza è stata fondamentale insieme a quella del CNU perché si potesse arrivare in tempi rapidi ad una stesura condivisa del complesso DPR 382. Dopo aver elaborato i cento e passa articoli andammo dal ministro insieme a Gian Mario Cazzaniga e gli consigliammo di non consultare ulteriormente i sindacati confederali ma di portare il DPR all’approvazione delle commissioni competenti cosa che il ministro fece rendendo possibile la rapida approvazione del decreto. Gian Mario Cazzaniga ha poi pagato questa sua presa di posizione, criticata dal sindacato, ma essenziale per l’approvazione del decreto. Come siamo arrivati alla stesura del DPR 382? Alla commissione presieduta da Tesini erano arrivati emendamenti e suggerimenti a migliaia. Tesini ci chiese allora di fare una selezione ragionata e concordata, nella linea della legge 28. Ci riunimmo nell’ufficio del presidente Tesini al settimo piano del palazzo della Camera con Luigi Frati, il sottoscritto e qualcun altro, non mi ricordo con precisione chi, per ottemperare all’ordine di Tesini. Mi ricordo che su un enorme tavolo erano depositati tutti gli emendamenti, li esaminavamo ad uno ad uno e insieme decidevamo quali considerare e quali rigettare. Quando dicevo “OK, questo può andare” Luigi Frati incollava l’emendamento in un foglio dove venivano raccolti quelli che condividevamo. [G] A proposto di Frati, da qualche parte nei miei appunti ho letto che a un certo punto si era auto proposto come ponte di collegamento tra il CNU e i sindacati confederali. [B] In effetti Frati è sempre stato una persona che ha favorito i rapporti tra sindacati senza preclusioni preconcette. Ricordo una primissima riunione con lui alla fine degli anni ’60 nei sottosuoli dell’Hotel Siviglia. Ricordate l’hotel dove andavamo sempre come membri del CNU, in via Gaeta angolo via Palestro? Io tra l’altro ci vado ancora e c’è sempre Domenico. [S] Domenico il giovane portiere del Siviglia? [B] sì, allora era un ragazzo. Recentemente mi ha detto: “professore, noi siamo rimasti gli ultimi!”. Per concludere, Luigi Frati ha sempre dimostrato nei riguardi del CNU una attenzione maggiore di quella della CGIL (a parte Gian Mario Cazzaniga). Ho ricordato in sostanza come è nato il DPR 382. Qualcuno ha pensato che io abbia scritto l’articolo sul Dipartimento. In pratica gli articoli sono stati scritti insieme, certamente sul dipartimento e la ricerca ho dato un contributo sostanziale stante la mia esperienza internazionale. 132 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Il mio contributo è stato unico e decisivo, invece, sui tre articoli degli stipendi. La situazione era difficile. Noi volevamo mantenere l’equiparazione alla Dirigenza dello Stato la quale però aveva uno stipendio base inadeguato, inoltre avendo introdotto il tempo pieno questo doveva essere adeguatamente incentivato. Non riuscendo a trovare una soluzione condivisa Tesini decise di chiudere in una stanza il sottoscritto insieme a Giovanni D’ Addona, capo della ragioneria dirigente del ministero che aveva in mano tutto l’aspetto tecnico delle retribuzioni, dicendo: “voi non uscite di qui finché non avete trovato una soluzione condivisa per gli stipendi dei nuovi professori”. Noi ci abbiamo messo circa sei ore per arrivare a una soluzione che è quella dei tre articoli del DPR 382. Tesini volle che la soluzione fosse condivisa anche dal PCI. Era sera tardi, allora Tesini chiamò un motociclista per portare il testo al PCI per l’approvazione, che arrivò puntuale a notte inoltrata. A quel punto quegli articoli erano definiti e non saranno più messi in discussione. Il DPR 382 viene infine approvato senza grandi cambiamenti rispetto al “collage” di emendamenti da noi fatto. E qui, ripeto, Luigi Frati ma in particolare Gian Mario Cazzaniga hanno svolto un ruolo importante perché, percependo l’opportunità di arrivare all’approvazione rapida del DPR 382, hanno evitato che il sindacato confederale si mettesse di traverso. In sostanza il CNU ha avuto un ruolo determinante sia nella elaborazione della legge 28 sia nella stesura del DPR 382. Questa è storia della riforma universitaria del 1980. Essa contiene i dipartimenti, il dottorato di ricerca, il fondo per la ricerca del 40% e del 60%, i ricercatori, i professori associati e ordinari come fasce di un unico ruolo, i giudizi di idoneità per la fase transitoria etc., molte cioè delle proposte del CNU. Quali errori abbiamo fatto con la 382? A quell’epoca pochi erano professori ordinari, la gran parte dei docenti era o professore incaricato o assistente. Era necessario un meccanismo che permettesse di arrivare rapidamente ad una situazione di regime (un numero uguale di ricercatori, professori associati e professori ordinari). Avevamo perciò previsto nella legge che oltre ai giudizi di idoneità si dovessero tenere concorsi per professore ad anni alterni, uno per associato e uno per ordinario, cosi da raggiungere il regime nel giro di qualche anno. L’ipotesi sbagliata sulla quale noi avevamo basato questo meccanismo era che i ministri rispettassero la legge. Nessun ministro dopo Sarti ha rispettato infatti la legge per cui, se ricordo bene, alla fine degli anni ottanta dei concorsi per associato invece di sei ne erano stati fatti solo due! Questa è la prima osservazione. La seconda osservazione è che, per quanto riguarda i finanziamenti per la ricerca, la legge è dell’80 ma gli effetti concreti sostanziali si sono avuti solo dieci anni dopo. Gli anni ’90, pur con tutte le questioni che riguardano l’entrata in Europa, l’euro ecc. sono gli anni in cui all’università i soldi arrivano. Posso ricordare che a metà degli anni ’90 quando c’era Giarda al Tesoro e si dovevano rispettare certi parametri per entrare nell’euro, come Presidente della Conferenza dei Rettori facevo riferimento a Giarda che doveva rispettare dei precisi obbiettivi, accettando i suoi tagli al fondo per le università col patto che a maggio successivo nell’ambito dell’assestamento di bilancio avrebbe integrato il fondo universitario con un po’ più di ciò che aveva tagliato. Così è stato per qualche anno. Poi è venuto il governo D’Alema che ha tolto l’aggancio Una intervista a Paolo Blasi 133 degli stipendi dei professori alla Dirigenza e ha assegnato al parlamento la definizione degli stipendi. Poiché i contratti dei non docenti erano fatti dal sindacato a livello nazionale era previsto che gli incrementi dovessero essere pagati a livello centrale. D’Alema toglie da questi obblighi di finanziamento gli incrementi stipendiali dei docenti e successivamente vengono tolti anche quelli dei non-docenti, per cui le università a cavallo del 2000 si vengono a trovare nella incresciosa situazione di dover reperire le risorse per pagare incrementi stipendiali decisi da altri. Ogni volta che c’erano delle elezioni, guarda caso, gli incrementi stipendiali erano il doppio dell’aumento del costo della vita mettendo cosi in crisi il sistema universitario. Ma tornando a questioni più generali, negli anni ’70 c’era stata l’apertura dell’università a tutti, quindi c’era stata una grande crescita del numero degli studenti. Però siccome non c’erano le strutture, né era stata fatta ancora la riforma universitaria ecc., il tasso di abbandono soprattutto nei primi due anni era enorme, in particolare per coloro che provenivano dagli istituti tecnici. Questa cosa ha costretto il governo a stanziare soldi per l’edilizia poi, una volta fatte le aule, i rettori hanno cominciato a lavorare sulla questione della frequenza. Quando sono diventato Rettore a Firenze molte lezioni si tenevano nei cinema della città. Quindi l’effetto positivo della 382 si è avuto appieno solo negli anni ’90. Dalla fine degli anni ’90, e qui faccio delle considerazioni personali, siccome alcune università avevano abusato della autonomia, è successo che un po’ per volta questa autonomia è stata ridotta e addirittura è partita una crescente burocratizzazione delle università. Oggi se devi fare un workshop e organizzare un coffee-break, non lo puoi fare da solo: c’è una società che hanno creato apposta, mi pare si chiami Mepa, una società nazionale, e ripeto “nazionale”, alla quale tu devi fare riferimento e ti dicono loro quale è il catering cui rivolgersi. [G] Mi risulta anche che se devi fare un acquisto devi necessariamente rivolgerti a questa società nazionale anche se un fornitore locale ti facesse un prezzo più favorevole. [B] Certamente! tutto ciò sta penalizzando in particolare le attività di ricerca che richiedono velocità e responsabilità dirette nella spesa. [S] Quale è stato l’atteggiamento dei vari partiti durante la preparazione della 382? [B] Come abbiamo visto sopra, gli uffici scuola dei partiti, anzi gli uffici università, insieme ai responsabili università dei sindacati, in quella stagione collaborarono. Ricordo una riunione in un ristorante in piazza del Pantheon in cui si fece una lunghissima discussione con i sindacati per quanto riguardava il ruolo docente dei ricercatori perché i sindacati volevano che i ricercatori rappresentassero la terza fascia docente, mentre noi come CNU eravamo contrari. Il compromesso fu quello di cui abbiamo parlato prima, cioè un compromesso che nacque da un confronto aperto. Nessuno fece poi la guerra, cioè una volta che gli uffici università dei partiti e i sindacati si furono messi d’accordo tutto procedette come concordato. Se si pensa che la legge delega è del febbraio dell’80, ed era partita solo qualche mese prima, e che il decreto delegato (il DPR 382) è del luglio dello stesso anno, ciò indica una velocità di legiferare quasi Renziana (da Matteo Renzi, ndr). Il CNU allora è stato certamente quello che ha fornito l’elaborazione di contenuti più moderna e aggiornata, anche nei dettagli, 134 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ed è stato il catalizzatore per tutte le altre proposte. Sono convinto che se non ci fosse stato il CNU il DPR 382 non ci sarebbe stato. Ciò perché i sindacati confederali avevano una visione molto più strumentale, funzionale agli interessi dei sindacati stessi, mentre il CNU aveva una visione più orientata al vero interesse del paese in un’ottica di competizione internazionale. [G] Da vecchi appunti miei del periodo nel periodo 80-81 risulta che alle riunioni dell’assemblea delle sedi CNU partecipavano anche rappresentanti dei partiti, ricordo i nomi di Stella, Benadusi ecc. [B] Sì, non solo, ma lo stesso Spadolini ha partecipato ad alcuni nostri convegni. Mi ricordo a Padova, in una famosa riunione poco dopo la morte di Ugo La Malfa, Spadolini esordì dicendo: in Italia c’erano tre grandi uomini in questa seconda metà del secolo e due purtroppo ci hanno lasciato (Moro e La Malfa, ndr), sono rimasto solo io! [G] Ti chiedo di fare un passo indietro. Molti commentatori sostengono che il DPR 382 è di portata limitata perché si è preoccupato solo del personale docente. Tu che ne pensi? [B] Non sono d’accordo, Il DPR 382 ha creato una nuova università: basti pensare all’introduzione del Dipartimento, del Dottorato di Ricerca, dei fondi per la ricerca universitaria, dei centri interdipartimentali, dei consorzi di ricerca etc. Tra l’altro ricordo che una persona che ha dato molti contributi positivi al 382 è stato il Dott. Domenico Fazio (Mimì per gli amici) Direttore Generale MURST, soprattutto sugli aspetti internazionali. Fazio teneva molto a collocare l’università italiana nel sistema internazionale. Quindi secondo me c’è stato un cambiamento enorme. [G] Mancava però la riforma didattica, quella dell’autonomia e il nuovo ministero dell’Università e della Ricerca. [B] Sì, anche se quest’ultimo era quasi una conseguenza obbligata della nuova normativa. Quello che intendo dire è che la legge 382 ha costituito un punto di partenza: ha cioè messo in moto tutta una serie di discussioni e di elaborazioni e di iniziative che hanno trovato realizzazione successivamente. In sostanza anche i docenti hanno cominciato a sperimentare. Tra l’altro ho visto il contributo di Paolo Pupillo sul suo lavoro al CUN. Ciò mi permette di sottolineare che noi del CNU, che sognavamo una università nuova ben inserita nel contesto europeo, dopo la 382 abbiamo trovato giusto impegnarci anche nel lavoro organizzativo e gestionale, cioè fare una sperimentazione sul campo. In fondo partecipare ai lavori del CUN, o del CNR, ricoprire cariche all’interno degli Atenei significava cercare sempre tutte le opportunità di sperimentare i nuovi assetti dell’università resi possibili dalle norme della 382 e per i quali ci eravamo a lungo battuti. Io stesso mi sono impegnato nel lavoro di Direttore di Dipartimento perché volevo sperimentare cosa voleva dire operare in quel nuovo tipo di struttura che avevamo ottenuto con tanta fatica. E con lo stesso spirito altri si sono impegnati anche nel lavoro di Presidenti di facoltà e di Corso di Laurea o anche come Rettori. Lo spirito di sperimentazione e di servizio ha caratterizzato sempre il Una intervista a Paolo Blasi 135 comportamento degli amici del CNU. Anche la discussione sull’autonomia dell’Università fu molto contrastata. Cominciò nella seconda metà degli anni ’80, perché a quel punto man mano che si attuava la 382 ci si rendeva conto di avere tra le mani un nuovo e potente strumento, il cui limite però era la mancanza di autonomia (per esempio la famosa impossibilità di spendere sopra i quattro milioni di lire senza l’OK del CdA dell’Ateneo). Eri cioè consapevole di avere grandi opportunità ma non le potevi sfruttare. Solo con l’arrivo del Ministro Ruberti le cose cambiano e gli Atenei ricevono più libertà in particolare nella gestione dei fondi di ricerca. All’inizio degli anni ’90, poi, l’ autonomia budgetaria diventa legge2, ed è un grosso successo. Però non viene data all’Università la possibilità di contrattare gli stipendi che invece rimangono per i docenti di competenza governativa e per i non docenti di competenza sindacale. L’autonomia è quindi parziale. [S] Ma la scelta di lasciare la competenza del Parlamento sugli stipendi dei docenti l’abbiamo condivisa come CNU. [B] Sì, ma pensavamo che quando il parlamento avesse ritoccato le retribuzioni la maggiore spesa ci sarebbe stata aggiunta automaticamente al budget. Purtroppo cosi non è stato e ciò nel tempo ha diminuito le risorse disponibili. La situazione è ulteriormente peggiorata quando gli Atenei hanno dovuto reperire nel loro budget anche gli aumenti retributivi del personale non docente decisi a livello nazionale dai sindacati. Ricordo che il budget di partenza degli atenei fu calcolato partendo dalle situazioni storiche che risentivano di un passato non omogeneo. Ad es. le università più vecchie avevano docenti anziani e quindi un budget grosso, mentre quelle più giovani spendevano meno per i propri docenti e quindi nella quota “storica” erano fortemente penalizzate. Allora la CRUI inventò il cosiddetto riequilibrio. Potei farlo perché l’università di Firenze aveva di più di quello che le spettava e quindi togliendo risorse alla mia università tacitavo gli altri atenei che nel riequilibrio ci perdevano: fu comunque una operazione importante per gli Atenei. Quindi fino alla fine degli anni ’90 l’autonomia, pur con questi limiti, ha dato i suoi frutti. Purtroppo negli ultimi 10 anni l’autonomia è stata sempre più ridotta fino ad una assurda burocratizzazione che penalizza soprattutto la ricerca. [G] Ricordi qualcosa in particolare delle leggi successive, ad esempio di quelle del periodo di Ruberti? [B] Ricordo in particolare la legge sul diritto allo studio, con cui mi sono imbattuto quando ero Rettore. Prima dell’autonomia vi era stata la regionalizzazione del diritto allo studio3, che però non aveva dato grandi risultati tant’è che come CNU avevamo chiesto il ritorno del diritto allo studio sotto la competenza degli atenei, ma senza successo. La legge dava libertà agli atenei di fissare le tasse studentesche, che erano bassissime. Berlinguer, mi pare in una finanziaria, stabilisce che nella autonomia budgetaria le Università hanno sì la libertà di stabilire l’entità delle tasse che gli studenti 2 3 Legge 537/1993, cioè collegato alla finanziaria 1994. DPR 616/1977: trasferimento alle Regioni delle funzioni esercitate dalle Opere Universitarie. 136 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri debbono pagare però (suggerimento mio) entro complessivamente il 20% del fondo di finanziamento ordinario che ricevono dallo Stato4. Naturalmente le tasse andavano modulate secondo il merito e il reddito. All’interno di tale limite le Università potevano esercitare la loro autonomia. Di fatto c’erano già atenei che sforavano questo limite (vedi il Politecnico di Milano) però, ad es. nel mezzogiorno, molte erano sotto. Questa norma doveva essere temporanea, nel senso che secondo Berlinguer successivamente gli atenei avrebbero dovuto avere ancora più flessibilità. Infatti quando è nato il 3 +2 l’accordo era che solo le tasse per la laurea triennale dovevano rientrare nel limite suddetto mentre per la laurea magistrale, i master etc. esse erano libere e gli atenei avrebbero dovuto stare sul mercato ed essere competitivi in qualità. Ma questa tesi non è mai passata in parlamento. [G] Cosa puoi dirci dei rapporti con i Ministri dell’Istruzione e, in genere, con gli Uffici del Ministero? Ricordo che il Ministro inizialmente era Bodrato, che aveva come sottosegretario la Falcucci, diventata Ministro successivamente. [B] La Falcucci a mio avviso è stato uno dei migliori Ministri della P.I. Peraltro Ella aveva uno staff di collaboratori eccezionale: aveva come Direttore Generale Mimì Fazio, aveva all’Ufficio legislativo il Dr. Scarcella, un validissimo consigliere superiore (che aveva come giovane assistente Bruno Civello), e aveva Giovanni D’Addona come responsabile della parte finanziaria etc. Comunque la Falcucci aveva una sua personalità e le sue idee. Quando noi del CNU volevamo ottenere qualcosa attraverso una leggina, andavamo da Civello, buttavamo giù un testo (e in questo Bruno era veramente bravo perché conosceva molto bene tutta la legislazione), poi si decideva a quale forza politica era opportuno attribuire l’iniziativa. Ad esempio trovammo giusto chiedere di appoggiare una norma sul tempo pieno a un parlamentare socialista, mi pare Luigi Covatta, e la cosa andò in porto. In sostanza in quel periodo le leggi erano fatte bene perché la struttura ministeriale funzionava e gli uffici scuola dei partiti erano autorevoli. Quand’è invece che la struttura ministeriale cominciò a funzionare male, a non garantire più la coerenza dei progetti di legge, una compatibilità del nuovo con il vecchio etc.? Purtroppo la prima spinta la diede Ruberti, il quale fondamentalmente riteneva che la burocrazia fosse un ostacolo al rinnovamento. Successivamente cominciò a farsi strada lo spoyl system. Questo purtroppo si è rivelato dannoso perché, mentre ha una sua logica in alcune figure di comando come ad es. il Capo di Gabinetto, non funziona invece con i vari responsabili degli uffici, che sono quelli che garantiscono le competenze e la continuità dell’azione programmatica. Ma la cosa peggiore è che i vari funzionari operano in funzione di chi verrà come successivo ministro. La conseguenza è che oggi le leggi sono fatte male, scarsamente coerenti o malamente collegate con altre norme vigenti. E purtroppo da una tale situazione è molto difficile tornare indietro. [S] L’ultimo funzionario valido è stato Giovanni Criscuoli, mi pare. [B] Sì, Criscuoli era persona vispa, della vecchia scuola. Molto valido era anche 4 DPR 25 Luglio 1997 n. 306. Una intervista a Paolo Blasi 137 Cottini che si occupava di edilizia con cui mi sono trovato molto bene. Cottini è rimasto inflessibile fino alla fine: era molto rigoroso. Sono rimasto in buoni rapporti con diverse di queste persone, con Cottini, con Di Lisio, con la vedova di D’Addona, con il figlio di Mimì Fazio, una persona molto in gamba. [S] E Fabio Matarazzo? [B] Fabio era collaboratore della Falcucci e pupillo di Mimì Fazio. Era, per così dire, l’idealista, l’intellettuale di quel gruppo di persone al Ministero. Dopo la morte di Fazio si è disunito, negli anni ’90, non so perché, ha perso incisività. Non l’ho più incontrato. [G] Come funziona il Ministero attualmente? [B] Negli ultimi anni nel ministero si sono allentati i collegamenti tra ministro ed uffici per cui si è deteriorata la qualità degli interventi, sia legislativi che normativi. In sostanza i Ministri recenti sono passati sopra le teste dei funzionari del Ministero rivolgendosi solo a loro fiduciari, questo a mio avviso è un comportamento sbagliato. Non sono certo io a difendere la burocrazia. Però bisogna riconoscere che la burocrazia è uno strumento necessario per dare continuità e coerenza. Perché questo strumento funzioni bene le leggi debbono essere poche e chiare. Se oggi la burocrazia è diventata un freno e un ostacolo è perché i governi e il parlamento hanno fatto leggi contraddittorie e complicate. Ha prevalso la convinzione che il cittadino sia un bandito salvo prova contraria e che solo con leggi sempre più severe e dettagliate sia possibile costringere i cittadini a comportamenti corretti. Ritengo sbagliato questo approccio anche perché alla fine favorisce i banditi veri. Ho mandati messaggi anche all’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi, affinché inverta questo approccio. [G] Il DPR 382 prevedeva che entro 4 anni si definisse in modo completo lo stato giuridico dei ricercatori. Il CNU si è dato da fare per spingere i governi in questa direzione? [B] Direi che il CNU dopo la 382 ha accettato un po’ alla volta la trasformazione di questo ruolo in terza fascia docente, avvenuta praticamente con la legge che ha concesso ai ricercatori l’affidamento di incarichi di insegnamento (L. 341/1990 sugli ordinamenti didattici, ndr). Di fatto la figura del ricercatore, con le varianti delle leggi successive, aveva sostanzialmente resistito. Ora sono stati introdotti i ricercatori a tempo determinato (3 anni + 3 anni) e dal punto di vista dei compiti si è ritornati in parte alla situazione precedente degli assistenti, anche se l’accento rimane sulla ricerca come formazione necessaria del docente universitario. Il nuovo percorso didattico del 3 + 2 + 3 risponde alle esigenze dell’università di massa, (si iscrivono oggi all’Università più del 50% dei diciannovenni) e il primo triennio è di fatto quasi “scuola dell’obbligo”. Ogni paese ha applicato il processo di Bologna in modo e in tempi diversi e oggi l’architettura della formazione universitaria è praticamente simile in tutto il mondo. Ciò dà enormi vantaggi dal punto di vista della mobilità internazionale degli studenti. [G] Ma come giudichi l’applicazione del 3 + 2 che abbiamo fatto noi? Perché mi pare ovvio che avendo mescolato, e molto in fretta, i due possibili obiettivi (formazione gene- 138 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri rale e professionalizzazione) il risultato non poteva essere soddisfacente. [B] Ricordo che a un certo punto il ministro Berlinguer mi disse: Paolo, se noi ci mettiamo a discutere come e quando far partire il 3 + 2, non si finisce mai. Perché nel nostro paese le cose vanno così. L’unico modo per partire da noi è di decidere dall’oggi al domani. È vero quindi che noi siamo stati i primi a partire, però di fatto alcune delle nostre facoltà si sono comportate in modo gattopardesco, cioè hanno detto in pratica “modifichiamo per non modificare”. A parte il caso della facoltà di giurisprudenza, che del 3 + 2 non voleva sentir parlare (però ora anche lì certi percorsi professionalizzanti ci sono, come ad es. i corsi per cancelliere ecc.), di fatto molte facoltà, come ad es. Ingegneria, hanno ridotto i contenuti di cinque anni in tre anni. È sbagliato, per cui oggi non trovi più un geometra capace. In realtà a ingegneria dovevano fare in tre anni un bravo geometra. Se poi questo voleva diventare ingegnere gli si potevano far fare 2-5 esami integrativi prima di poter proseguire il normale percorso magistrale. In Francia attualmente il sistema è estremamente flessibile: attivano corsi triennali professionalizzanti che possono anche durare pochi anni e poi li chiudono se quella professionalità diventa obsoleta o quando riscontrano che nel mercato c’è una saturazione di quel determinato tipo di figura professionale. Noi non riusciamo a realizzare corsi con questa duttilità, che sarebbe invece necessaria per star dietro alla rapidità con cui oggi si sviluppano nuovi mestieri. In sostanza ci vorrebbe una maggiore autonomia delle sedi anche nell’organizzazione didattica, accompagnata da qualificate procedure di accreditamento. Noi fino ad ora abbiamo avuto una specie di accreditamento automatico (in realtà è partita proprio ora l’operazione AVA, l’accreditamento previsto dall’ANVUR, ndr). In Germania, per es., l’accreditamento è fatto da 5-6 società private, e se tu vuoi un accreditamento buono puoi scegliere la società più severa. Accanto a trienni professionalizzanti debbono esserci trienni di preparazione generale sia nelle discipline scientifiche che in quelle umanistiche. Oggi per esempio una buona preparazione umanistica generale è richiesta in tanti settori. [G] Un altro argomento che mi farebbe piacere tu affrontassi è quello della cosiddetta “contrattazione”, cui noi eravamo contrari mentre i sindacati confederali ne facevano quasi una bandiera. [B] In effetti il CNU ha sempre considerato l’aggancio retributivo alla Dirigenza dello Stato, o comunque la competenza esclusiva del Parlamento sulle questioni di stato giuridico ed economico dei docenti universitari, come un elemento essenziale per garantire l’ autonomia di ricerca e di didattica dei docenti. Mentre abbiamo sempre visto nella contrattazione sindacale il pericolo di venire poi inglobati in un contesto condizionante. I sindacati confederali hanno fatto di tutto per convincerci ad entrare nelle categorie contrattualizzate, sostenendo che avremmo guadagnato di più. [G] E non solo i sindacati. Ricordo di una riunione al MURST in cui l’amico tuo Ministro Berlinguer fece precise promesse di aumenti salariali a patto che accettassimo la contrattazione. [B] A posteriori debbo dire che noi abbiamo fatto bene a comportarci così. Una intervista a Paolo Blasi 139 [G] Ricordo anche che, prima del DPR 382, si presentò il problema di accettare un nuovo contratto per gli assistenti e professori incaricati, non legati economicamente ai professori. E noi, come CNU, accettammo la cosa a patto che il contratto trattasse soltanto la parte economica senza entrare in questioni di diritti e doveri, cioè in questioni di stato giuridico. [B] Esatto. Poi, per fortuna, il DPR 382 ha definito l’aggancio per tutti i professori. L’aggancio dei ricercatori venne invece più tardi (DL 2 Marzo 1987 n. 57, con aggancio economico al 70% dello stipendio dell’associato, ndr). Ovviamente stiamo parlando dei ricercatori a tempo indeterminato (RTI), perché per quelli di tipo nuovo, a tempo determinato, le cose sono diverse. Poi vorrei anche ricordare la introduzione dell’assegno di ricerca, che fu fatta a metà degli anni ’90, quando ero Rettore. Mi ricordo che si trattava di trovare un modo per retribuire i dottori di ricerca in attesa del concorso per diventare ricercatori. Non era opportuno proporre delle borse di studio, perché non avrebbero potuto godere di vantaggi di tipo previdenziale e assistenziale. D’altra parte questa nuova figura non si poteva chiamare ricercatore perché si sarebbe sovrapposta al ricercatore già esistente. Mi ricordo di una lunga telefonata in cui coniai la nuova dizione “assegno di ricerca”. E così fu. Questo strumento si è dimostrato molto flessibile, con remunerazioni che possono aumentare con il rinnovo, ed è stato molto sfruttato da tutti gli atenei anche se oggi sono diventate lunghe le procedure di assegnazione. [G] Mi pare che oggi anche i ricercatori RTD godano di tutte le normali tutele assistenziali e previdenziali. [B] Certamente. Ora però la questione si è spostata all’esterno dei confini nazionali perché esiste il problema della mobilità europea. Sono stato per 5 anni membro di EURAB, una agenzia dell’Unione Europea che raggruppava rappresentanti dell’accademia e dell’industria e ho toccato con mano questi problemi. Se vado a fare ricerca in Germania per 5 anni perché tornando in Italia debbo perdere tutti i contributi di tipo pensionistico, oltre che l’anzianità maturata da ricercatore? Se riusciamo a realizzare un riconoscimento dell’attività svolta a livello europeo, a prescindere dal singolo Paese in cui abbiamo completato la nostra formazione, allora la mobilità internazionale diventerà un fatto normale, non penalizzante. La nostra legislazione riconosce già ora ai fini della carriera di docente gli anni fatti all’estero. Ma non vale per la pensione. In altri campi questo concetto di mettere in comune esperienze in paesi diversi funziona già. Ad es. la tessera sanitaria ti abilita a fruire di certe prestazioni sanitarie anche all’estero, senza dover pagare. Un accordo analogo si sta facendo proprio ora sul roaming dei nostri cellulari. Sono già previste in sostanza della compensazioni tra Paesi esattamente analoghe a quelle che avvengono in Italia nel campo sanitario tra regioni diverse. Comunque tutto questo discorso è finalizzato a mettere in rilievo la necessità di favorire in tutti i modi la mobilità europea, che si dimostra essere importantissima proprio nel campo della formazione superiore. [G] Ricordi qualche altro punto importante del periodo Faranda? [B] Intanto in quel periodo purtroppo morì Pino Tallarida. 140 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri [S] Che è stato Presidente della Commissione Medicina. [B] Sì. A proposito di medicina, voglio evidenziare che un altro argomento che ci ha trovato in posizione diversa rispetto ai confederali è stato proprio l’atteggiamento nei riguardi della Facoltà di Medicina. Mentre per il CNU Medicina doveva a tutti gli effetti rimanere una facoltà universitaria, i sindacati confederali erano più orientati verso Scuole di Medicina o verso l’ospedale o cose simili. La Medicina CNU è sempre stata legata all’università, tramite persone autorevoli come Gaetano Crepaldi, Tino Battistin, Franco Cresci o lo stesso Pino Tallarida. Ma quello che ci tengo particolarmente a sottolineare, per finire, è il clima che si respirava all’interno del CNU. Ricordo ad es. che le riunioni delle assemblee delle sedi sono sempre state occasioni di libero dibattito. Nonostante le discussioni molto accese, in genere alla fine si riusciva a pervenire a qualche forma di accordo condiviso, che prendeva la forma di una mozione conclusiva approvata, se non all’unanimità, certamente a grande maggioranza. E quando queste assemblee corrispondevano a una fase congressuale, alla fine si arrivava anche a concordare in qualche modo una composizione del Consiglio Direttivo e il nome del nuovo Presidente, che rappresentavano correttamente le idee e le forze in campo. Varie volte è stato il sottoscritto che ha dovuto fare l’attuatore di questi accordi. Penso ricordino tutti i famosi “bigliettini” che indicavano a ciascun elettore per quali persone doveva votare. E di fatto lamentele non ne ho mai avute, perché il risultato finale era coerente con il risultato politico del Congresso, ma al tempo stesso dovevo far sì che ciascun elettore votasse per quelle persone per cui votava volentieri. I risultati finali presentavano una giusta differenziazione nel numero dei voti ottenuti dai vari candidati, che cercava di rispettare il peso politico dei candidati stessi e il loro grado di accettazione da parte dell’elettorato. In sostanza credo di aver svolto questo ruolo in modo soddisfacente. [G] Ricordo una sola volta che mi chiedesti di votare candidati che non gradivo e te lo dissi. Tu non facesti una piega, lasciandomi votare i candidati che mi piacevano ma riscrivendo alcuni bigliettini destinati ad altri in modo che il risultato restasse quello programmato. Come in effetti avvenne. [B] In effetti quello che contava era il risultato, il quale doveva rispecchiare l’andamento del congresso e quindi riconosceva un maggior gradimento (come numero di voti) ai candidati riconosciuti da tutti come più significativi, ma non escludeva mai anche candidati che la pensavano diversamente. In conclusione voglio sottolineare che i dibattiti all’interno del CNU sono sempre stati vivacissimi, ma estremamente corretti, e capaci sempre di trovare una sintesi in cui tutti, a vario titolo, si potessero riconoscere. E mi fa piacere ricordare qui alcuni di coloro che più hanno animato quelle discussioni, e che vanno da Piero Milani, Mario Rinaldi e Brunello Vigezzi dei primissimi anni ai vari Marco Unguendoli, Paolo Pupillo, Margherita Chang e al gruppo dei genovesi con Monti, Casanova e la D’Amato e tanti altri, nel periodo successivo alla Presidenza Faranda. Anni di svolta: ricordo di Francesco Faranda Enrico Decleva Il nostro caro collega e amico Francesco Faranda è scomparso, a 79 anni, nel giugno 2011. Paolo Gianni mi ha chiesto di ricordarlo, con particolare riferimento al periodo in cui siamo stati entrambi, per tre anni, vicepresidenti del CNU, dopo il Congresso di Venezia del gennaio 1976. L’avevo conosciuto in precedenza, anche se non saprei dire quando, a qualcuna delle Assemblee delle sedi alle quali avevamo partecipato. L’ho poi rivisto in un’occasione più specifica, in un mese che di nuovo non riesco a ricordare dell’autunno 1975, quando, proprio in vista dell’ormai vicina scadenza congressuale, Faranda, con altri colleghi, era salito al Nord dalla sua Messina per sondare la disponibilità della sede milanese del CNU, allora presieduta da Brunello Vigezzi, a convergere su posizioni comuni. Nel corso del precedente Congresso, che si era tenuto a Torino nel novembre 1974, avevamo assistito agli interventi di alcuni dei maggiori esponenti nazionali dei sindacati confederali (ricordo in particolare quello di Marianetti della CGIL e quello, appassionato e con tratti quasi profetici, di Macario della CISL) e alle loro pressanti avances affinché il CNU stringesse rapporti più stretti con loro in vista della definizione di una piattaforma condivisa e di una convergenza organica. In una parte dei presenti simili profferte avevano suscitato il timore che, accogliendole e applicandole con la decisione e la rapidità che ci veniva richiesta, potesse derivare al CNU – realtà tanto più piccola e fragile, alle prese con interlocutori di quella forza e di quel peso – una sostanziale perdita della sua autonomia, mettendone in crisi proprio la particolare formula, che era insieme associativa – in funzione della riforma universitaria – e sindacale: a tutela, a quel livello (e il cielo sa quanto ce ne fosse bisogno), delle posizioni e degli interessi dei docenti universitari, considerati nella loro specificità e non riducibili, come si temeva che potesse invece accadere, a componenti di uno dei tanti comparti tutelati dai sindacati in questione con i loro criteri, maturati e sperimentati in altri contesti. Mantenere (ma era tutto da vedere come) la prima prerogativa, ma perdere la seconda (di questo in definitiva si sarebbe trattato) a vari di noi non piaceva proprio. Ma la linea restava per il momento quella proposta dalla Giunta uscente, presieduta dallo storico Giorgio Spini, che di quel rapporto vedeva, al contrario, gli aspetti potenzialmente positivi; linea che venne in effetti confermata. A chi scrive, rappresentante di una delle sedi meno persuase della strada che si intendeva prendere, toccò di entrare nella Giunta esecutiva, ma in una posizione decisamente isolata rispetto alle tendenze prevalenti. Le insoddisfazioni e le preoccupazioni, tenute ancora a bada a Torino, erano però cresciute in seguito. Già all’Assemblea delle Sedi di Bologna del febbraio 1975, dopo 142 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ampia e vivace discussione (come si legge in una circolare informativa del segretario nazionale, Mario Rinaldi), si fronteggiarono alla fine due mozioni: una, largamente maggioritaria, favorevole a proseguire senza indugi sulla strada del patto siglato con i sindacati, e un’altra, appoggiata da Milano e da Torino, non contraria sul principio, ma cauta sugli sviluppi. Due altre sedi preferirono astenersi, Pisa e Messina: il delegato di quest’ultima era Faranda. Tra contrari e astenuti (ricordo che il conteggio era fatto sulla base delle scelte dei delegati di sede e che ai fini del computo pesavano i voti corrispondenti agli iscritti accreditati da queste ultime), si registrava a quel punto l’esistenza di un terzo circa di ostili o dubbiosi. La venuta, qualche mese più tardi, di Faranda a Milano, alla quale ho già accennato, indicava che la situazione interna all’Associazione era ulteriormente evoluta, e gli altri contatti presi in quelle settimane, lo confermarono. Sul fronte politico, il PCI dapprima, poi anche altri partiti avevano nel frattempo manifestato l’intenzione di tornare ad affrontare la questione universitaria, tanto più considerato che i “provvedimenti urgenti” del 1973 erano stati presentati come prodromici a più organici interventi successivi, che non avevano però mai preso corpo. Su un altro terreno, era intervenuta una sentenza della Corte costituzionale, seguita da una presa di posizione del Consiglio di Stato, con cui si equiparavano i soli professori ordinari all’alta dirigenza, laddove la condizione retributiva di professori incaricati e assistenti rimaneva assai sacrificata, anche tenuto conto che l’inflazione aveva ampiamente riassorbito i miglioramenti inseriti nei provvedimenti urgenti. È appena il caso di ricordare come l’Università italiana avesse ampiamente raggiunto ormai da qualche anno dimensioni di massa, per numero degli studenti iscritti, senza però che ne fossero state riformate le strutture. Si era rimediato alle esigenze didattiche, enormemente cresciute, semplicemente moltiplicando gli incarichi di insegnamento conferiti agli assistenti ordinari e a studiosi esterni, ai quali tuttavia si continuavano a negare prospettive di carriera e condizioni retributive adeguate. Ed era principalmente composta da assistenti e professori incaricati la base degli iscritti al CNU. Checché se ne sia detto in seguito da chi ha evocato il controverso processo di riforma universitaria in Italia deprecando l’ipoteca sindacale che si sarebbe fatta valere in quegli anni, era del tutto nell’ordine delle cose – in quella situazione lasciata degenerare senza intervenire tempestivamente – che i due temi, riforma e nuovo stato giuridico dei docenti, procedessero di pari passo e si intrecciassero, e che una parte rilevante del primo si giocasse sul terreno del secondo. O che quest’ultimo acquistasse addirittura, a più riprese e in momenti chiave, una valenza prioritaria e determinante, per la rilevanza e le implicazioni che presentava. La fisionomia funzionale dell’università dipendeva, e non poco, dal tipo di compiti e di responsabilità affidati alla docenza, e dunque dalla configurazione che si dava a quest’ultima. Ed era in definitiva su quel terreno che si giocavano, principalmente, i rapporti di potere all’interno degli atenei: com’erano (e come alcuni volevano che restassero) e come avrebbero per contro potuto o dovuto diventare, per rendere operativi i principi costituzionali della libertà di insegnamento e di ricerca e per dare consistenza all’auspicato processo riformatore. Trovando formule che mettessero nel contempo al riparo dalla mitologia assembleari- Anni di svolta: ricordo di Francesco Faranda 143 sta sessantottina. O almeno, per tornare con la memoria a quegli anni, verificando se non era venuto il momento di cercare di farlo, e proprio con riguardo all’ambito che ci riguardava più direttamente. Sul terreno specifico della configurazione da attribuire al corpo docente le posizioni da tempo in campo erano in effetti sostanzialmente due. Da un lato coloro che ritenevano che andasse comunque salvaguardata la posizione tradizionale dei professori di ruolo, cioè dei soli ordinari, risolvendo, se proprio si doveva, il problema dei professori incaricati e degli assistenti mediante la creazione di un altro ruolo, ma ben differenziato dal primo anche per le funzioni, meno qualificanti e, in definitiva, subordinate, che gli si dovevano attribuire. Dall’altro lato i fautori del principio del “docente unico”, e cioè della fine di ogni gerarchia funzionale, di carriera e di retribuzione. Il CNU era tradizionalmente schierato su questo secondo fronte, in grado di alzare la sua barricata ogni volta che si presentava la minaccia di interventi in materia che andassero nella prima direzione di cui si è detto, ma non di far passare una soluzione propria: ottenendo, con questo, che ogni ipotesi di intervento, viste le reazioni, venisse abbandonata, e contribuendo così, di fatto, a perpetuare uno stato di cose che si rivelava sempre meno tollerabile, in primo luogo per i più diretti interessati. Quello del docente unico era d’altra parte uno slogan, seducente e ampiamente condiviso nel clima egualitario ancora largamente diffuso nel periodo, ma quanto mai indeterminato nei suoi termini operativi. Non era detto che, pur restando su quel terreno, ma approfondendone i possibili significati e le valenze rispetto al contesto reale e alle possibilità che quest’ultimo effettivamente offriva, non se ne potessero dare interpretazioni meno rigide. O che non valesse la pena di tentare di cercarle. Sia pure tra dubbi e resistenze, in un testo del maggio 1975 – prudentemente declassato da mozione da far votare dall’Assemblea delle sedi, com’era stato inizialmente concepito, a documento interno di discussione – veniva in effetti ventilata, anche all’interno del CNU, l’ipotesi di riconfigurare le figure esistenti della docenza universitaria entro un’unica carriera anche se articolata lungo due livelli. Si avanzavano beninteso subito ulteriori condizioni, pronunciandosi contro ogni eventualità di carriere chiuse e di verifiche che non fossero giudizi d’idoneità. Ma i rischi che si sarebbero sicuramente corsi, ove la situazione si fosse effettivamente rimessa in movimento, apparivano a vari di noi preferibili alla persistente inerzia normativa e a quella che ci sembrava una sempre meno giustificata assenza di iniziativa da parte nostra. Era d’altra parte un fatto che, sia pure malamente e al di fuori di qualsiasi visione organica e di prospettiva, alcuni elementi di novità erano intervenuti in seguito alle pur deprecate misure del ’73, facendo a maggior ragione avvertire l’urgenza di ulteriori provvedimenti. L’allargamento dei Consigli di amministrazione delle università anche ai rappresentanti dei professori incaricati e degli assistenti di ruolo aveva comportato una crescita del peso di questi ultimi (in molti casi iscritti al CNU) nella gestione degli Atenei, anche se solo per far loro constatare in maniera più diretta la scarsità delle risorse messe a disposizione e l’arretratezza e il bizantinismo inconcludente delle procedure. E quindi, di nuovo, l’indilazionabilità di interventi che vi provvedessero. La stessa prima tornata, ormai in atto, dei concorsi a ordinario prevista dalle misure del ’73 – al di là dei vantaggi personali che stava portando ad alcuni più fortunati, 144 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri anche tra noi – induceva a insistere affinché non si perdesse l’occasione rappresentata dagli altri 5 mila posti, promessi ma non ancora banditi, per usarne le risorse adottando un diverso e meglio garantito sistema di reclutamento. Ma dando in ogni caso uno sbocco di carriera a chi aveva ben lavorato e vi aspirava. E non si poteva più continuare a ignorare il destino dei contrattisti e degli assegnisti, ‘inventati’ nel 1973 e in certo senso beneficati da quelle misure, ma lasciati privi di ogni prospettiva circa il loro possibile futuro, vista la contemporanea messa a esaurimento del ruolo degli assistenti. Novità, in quella fase, sembrava che potessero venire anche dalle Regioni, da poco costituite e desiderose, almeno alcune, di attribuirsi funzioni anche in materia di ricerca e di formazione superiore, in aggiunta a quelle già loro assegnate con riguardo alla sanità (ovvio terreno di interferenza con le Facoltà mediche) e al diritto allo studio. Rispondere a tutto ciò continuando a rimanere trincerati, con intransigenza, come sembrava che si facesse, intorno ai consueti punti programmatici, giudicando di conseguenza, e sempre senza margini di apertura, i pur pochi spunti dinamici offerti dalla situazione, appariva pericolosamente inadeguato, o suscitava comunque motivi crescenti di insofferenza. Di questi umori si erano chiaramente fatti interpreti, con la loro venuta a Milano, Faranda e i suoi colleghi messinesi. E andava vista come un chiaro segnale la decisione, presa in quella circostanza, di far promuovere dalla sede di Messina un Convegno su Università oggi. Due anni di gestione dei provvedimenti urgenti, convocato a poche settimane dal Congresso di Venezia. Che i tempi imponessero ormai, anche all’interno del CNU, e in certo senso, come risultato della lunga militanza precedente, un necessario rinnovamento, era d’altronde la conclusione alla quale giungeva anche Giorgio Spini in una lettera inviata ai responsabili di sede un mese prima del Congresso, in cui annunciava che in ogni caso non sarebbe stato più disponibile a restare presidente del CNU. Ma il problema, a quel punto, andava chiaramente oltre la sua persona, come si sarebbe presto visto. Il Congresso di Venezia registrò una situazione capovolta rispetto all’Assemblea di Bologna di febbraio, alla quale si è accennato. Due terzi a favore della nuova linea di rilancio del CNU, sintetizzata nella mozione approvata; un terzo contrario e schierato a difesa delle vecchie posizioni. La Giunta esecutiva eletta risultò integralmente rinnovata. Tino Battistin, di Padova, diventò presidente, Faranda e il sottoscritto, erano, come accennato, i vicepresidenti, Giampiero Maracchi, di Firenze, il segretario. Le collocazioni partitiche, più o meno formalizzate, dei componenti del nuovo esecutivo, erano bilanciate principalmente tra DC e PSI: il che non impedì che, in un’ottica a tutto campo, mettessimo in calendario, tra i primi, l’incontro con i responsabili del PCI. L’obiettivo era, in ogni caso, quello di sviluppare e far fruttare i rapporti con quelli che, a quel punto, andavano considerati i primi interlocutori sui quali puntare, chiedendo loro una più consapevole assunzione di responsabilità, pur senza interrompere la collaborazione con i sindacati, come prevista dal patto sottoscritto, da attuare peraltro nelle forme concretamente praticabili. Ma tra noi, e in particolare nel trio di Presidenza (Tino Battistin, se mi legge, non se ne abbia a male), fu Faranda a rivelarsi subito come di gran lunga il più esperto, abile e capace di iniziativa. Principalmente per suo impulso, si decise di dotarsi di Anni di svolta: ricordo di Francesco Faranda 145 una sede romana, in via Palestro, presso – se non ricordo male – un’organizzazione studentesca per il turismo universitario. Se il teatro principale delle operazioni alle quali dovevamo dedicarci era Roma, ci occorreva una base, per quanto in subaffitto, e della carta intestata, che ci registrassero come pienamente operanti lì. E a Roma ci si sarebbe recati spesso, per riunioni, incontri, prese di contatto, scendendo tutti all’Albergo Siviglia, a pochi passi dalla sede, dove sempre Faranda aveva provveduto a farci garantire priorità nelle prenotazioni e tariffe scontate. E non sono parte secondaria nel ricordo di tali soggiorni gli interludi o i finali gastronomici, sempre guidati da Faranda, che la capitale la conosceva molto bene anche sotto quel profilo. Non posso dimenticare (e credo non l’abbiano fatto gli altri amici presenti nella circostanza) un suo duetto irresistibile, e che sarebbe stato tutto da registrare, con la mitica Sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, non meno dotata di lui di qualità istrioniche, proprietaria di una allora giustamente famosa trattoria sull’Isola Tiberina. Ricordare il Faranda di allora, a tanti anni di distanza, significa innanzi tutto richiamare alla nostra memoria i suoi tratti più esuberanti e umanamente irresistibili. La fantasiosità spiazzante di cui dava prova e che lo portava spesso a immaginare soluzioni o iniziative alle quali non avremmo pensato: talvolta magari impraticabili, ma spesso efficaci. La capacità affabulatoria, giocata con straordinaria abilità (e sempre senza servirsi di alcuna traccia scritta) su più registri: quello pubblico, in cui ritornavano sicuramente, ma con una carica tutta sua, doti coltivate alla scuola di Marco Pannella e della prima UGI, dove, più anziano di noi, aveva fatto in tempo a militare; quello delle riunioni più ristrette, in cui emergeva il politico abituato a non lasciarsi sorprendere, rapidissimo nel valutare i possibili effetti di scelte e soluzioni; e quello, ancora, degli incontri diretti con i vari interlocutori, nei quali, agendo sulla facilità con cui stabiliva rapporti non formali con le persone, riusciva spesso a smontare difficoltà e a definire lo spazio delle possibili intese. Elemento costante, e vincente, era la straordinaria simpatia che riusciva a suscitare in ogni situazione: e che magari metteva in campo in dosi anche più massicce quando doveva ovviare a imbarazzi che si era egli stesso procurato. Come quando, in occasione del Congresso di Taormina della fine d’aprile del 1977, si dimenticò di mandare in tempo all’aeroporto di Catania l’auto che doveva raccogliere Giovanni Spadolini, allora presidente della Commissione Istruzione del Senato, per portarlo all’albergo e poi al Congresso: con conseguente, comprensibile indignazione e minaccia di andarsene da parte dell’interessato. Faranda ci mise un intero pranzo e ne andarono di mezzo non so quanti datteri di mare (o altra prelibatezza proibitissima), ma alla fine riuscì a farsi perdonare e ottenere che Spadolini rimanesse e parlasse. Tante doti umane, per quanto parte integrante e inscindibile del personaggio, non erano in ogni caso fine a sé stesse. Suscitare fiducia e simpatia serviva anche, e non poco, a superare barriere, a sciogliere diffidenze, a avere ragione di ritrosie e riserve. E a guadagnarsi presso chi di dovere un ruolo di interlocutore credibile, acquisendo qualche margine di influenza in più nell’individuazione delle soluzioni possibili. Ma mettendolo anche nella condizione di potersi con più efficacia irrigidire e mostrare tutt’altro che cedevole, quando occorreva, sui punti in discussione. Ben sapendo che, per quanto importanti, la cordialità e le apparenti buone disposizioni dimostrate 146 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri sul piano personale da ministri, direttori generali, parlamentari nei confronti di quel CNU apparentemente così diverso negli approcci e nello stile rispetto a quello del recente passato, non solo non bastavano, ma potevano risultare, anche al di là delle intenzioni, delle trappole. Tra i modi per evitarlo, e per contare davvero, era perciò indispensabile riuscire a dimostrare che il CNU aveva una sua effettiva forza rappresentativa e che le posizioni che esso sosteneva non rispondevano semplicemente alla logica rivendicativa di alcune categorie di docenti, ma costituivano le soluzioni più ragionevoli e praticabili di problemi di valenza più generale, da accettare, condividere e applicare per la loro efficacia e plausibilità. E occorreva che di questo si accorgessero una buona volta anche gli organi di informazione, dandoci più spazio e più credito. Servivano anche a tale fine i vari convegni a tema promossi in quei primi mesi di attività e in certo senso culminati nella Conferenza nazionale svoltasi nel dicembre 1976 a Milano (cioè nella città dalla quale era più facile avere udienza sulla stampa), preceduta dalla presentazione, in giugno, in vista delle imminenti elezioni politiche, dalle quali si sperava che nascesse una legislatura meno deludente per la questione universitaria, di un opuscolo (Proposta per una Conferenza nazionale sull’Università), presentazione articolata (e, a rileggerla oggi, tutt’altro che obsoleta) delle nostre proposte. Rispetto ai partiti, effettivamente più inclini a occuparsi finalmente di Università, ma in difficoltà nell’elaborare linee di intervento adeguate e nel configurare i rispettivi rapporti (per non dire, in qualche caso, a superare nodi critici in materia al loro stesso interno), il CNU cercava di presentarsi – grazie alla sua particolare natura di associazione politico-culturale con compiti di tutela sindacale dei suoi iscritti – come il soggetto più idoneo a raccordarli e farli convergere intorno a soluzioni praticabili, ma non per questo al ribasso. Muovendo dal presupposto, più volte esplicitato e che si sarebbe voluto più convintamente condiviso, che la questione universitaria doveva essere considerata da tutte le forze dell’arco costituzionale come un grande problema nazionale sul quale attuare un efficace impegno riformatore. Al di fuori dunque, e al di là della consueta dialettica tra maggioranza e opposizione. Salvo beninteso ritrovarsi a più riprese nelle condizioni di dover scoprire a nostre spese che la forza effettiva di cui disponevamo per far davvero muovere governo e partiti nella giusta direzione era in realtà limitata, e che bastavano le fibrillazioni del quadro politico generale, o improvvisi voltafaccia, o ben calibrate interferenze di poteri più forti, a rimettere tutto in discussione. Lo si sarebbe visto nel corso del 1977 e, più ancora, del 1978, tra impegni ministeriali assunti e poi non mantenuti; progetti contraddittori elaborati dai responsabili scuola dei partiti della maggioranza, giocati, contemporaneamente, su ipotesi di leggequadro e su ventilati provvedimenti, da “anticipare”, relativi a punti specifici; nuove ipotesi, come quella di riorganizzazione del Ministero della Ricerca scientifica che sembrava escludere l’Università, mentre da parte del CNU si sosteneva sin d’allora l’esigenza, semmai, di un più diretto collegamento attraverso l’istituzione di un unico ministero per l’università e la ricerca. Nell’ottobre 1978 venne presentato in forma di decreto legge, un “provvedimento di transizione sul personale universitario”, come venne titolato, frutto del lavoro di Anni di svolta: ricordo di Francesco Faranda 147 accorpamento compiuto tra vari progetti sul tappeto, che intendeva dare una risposta immediata ai più pressanti problemi in attesa dell’approvazione della riforma universitaria. L’iter parlamentare che seguì si concluse però abbastanza ignominiosamente alla vigilia di Natale, quando il provvedimento, passato al Senato e in discussione alla Camera, venne ritirato in seguito all’ostruzionismo d’una parte delle estreme. La Presidenza del CNU aveva operato al limite delle sue forze, nelle precedenti settimane, per ottenere modifiche sostanziali al testo. Ricavo quanto segue da una Circolare informativa ai soci della Sede di Milano del gennaio 1979: Tutti gli sforzi della dirigenza nazionale dell’Associazione si sono concentrati nella elaborazione di emendamenti sui punti centrali e nel tentativo di farli accogliere dai partiti. Giorni e giorni sono passati (e sono andati perduti) in attesa che i partiti si accordassero o che il governo sciogliesse questa o quest’altra riserva. Modifiche ragionevoli e dettate dal semplice buon senso hanno incontrato ostacoli assurdi. Contrasti emergevano a ogni passo, spesso per motivi estranei agli specifici problemi in discussione, fra i partiti e all’interno dei singoli partiti, o, nello stesso partito, fra i gruppi parlamentari della Camera e quelli del Senato, per nulla soddisfatti di vedere modificato (e quindi giudicato implicitamente mal fatto) quanto da loro elaborato nella prima fase di discussione del provvedimento. L’ostruzionismo, in tali condizioni, considerata anche la debolezza e la frantumazione con cui le forze di maggioranza arrivavano all’ultimo appuntamento in aula (avendo bruciato gran parte del tempo a disposizione in trattative che avrebbero potuto risolversi molto prima) diventava uno sbocco quasi obbligato. Le reazioni all’ostruzionismo stesso non sono state d’altro canto molto convinte. L’amarezza maggiore, per quanto più direttamente ci concerneva, derivava dalla constatazione dell’inutilità delle numerose modifiche sostanziali che si erano alla fine ottenute, e sia pure non su tutto e non senza aver dovuto assistere, impotenti, a inserimenti molto discutibili. Ma complessivamente, se si fosse arrivati all’approvazione, gli elementi positivi sarebbero stati, secondo noi, superiori a quelli negativi, sui quali si sarebbe comunque potuto ritornare in un secondo tempo. E sarebbe stato in ogni caso il primo provvedimento consistente e minimamente organico in materia universitaria a uscire dal Parlamento dopo cinque lunghi anni. Venuta meno quell’occasione, i lavori parlamentari in realtà riprendevano con riferimento alla legge generale di riforma, ma a partire da un testo sul quale l’Assemblea delle Sedi formulava le più ampie riserve. In realtà era impossibile fare previsioni, a maggior ragione in presenza di una crisi generale in atto dagli effetti dirompenti, segnata com’era da alcune fra le più devastanti azioni terroristiche, dal rapimento e dall’assassinio di Moro alle uccisioni di Guido Rossa e Emilio Alessandrini. Mentre volgeva al termine la breve stagione del compromesso storico, senza però che emergessero chiare linee sul poi. Qual era lo spazio ancora praticabile, in simile contesto, dopo quello che si era appena dovuto registrare, per gli interventi che ci stavano a cuore? Non era certo trionfalistico il clima con il quale si aprì a Tirrenia, nell’aprile 1979, il sesto Congresso nazionale del CNU, e se ne trova un chiaro indizio già nell’esordio della mozione conclusiva, là dove veniva approvata la relazione del Presidente uscente, ma subito rilevando, quasi a correttivo, come da essa fosse emerso attraverso quali difficoltà e gra- 148 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri vi ostacoli si sia svolta l’azione dell’Associazione negli ultimi due anni. Si aggiunga che, alle prime elezioni svoltesi da poco per dare vita al nuovo Consiglio universitario nazionale, i candidati sostenuti dal CNU che avevano avuto successo erano molto meno di quelli auspicati (e di quelli appoggiati dai sindacati confederali). Sempre la mozione finale parlava di limiti e carenze soprattutto d’ordine organizzativo, addirittura di rischi di disarticolazione, ai quali si dichiarava peraltro di voler ovviare, senza rinunciare al ruolo che si era cercato di svolgere e che andava ripreso, al fine di assicurare i necessari collegamenti tra mondo universitario, partiti, organizzazioni confederali sindacali nei confronti delle quali si reputava indispensabile mantenere il rapporto di collaborazione e leale confronto sviluppato sin lì. Per quello che poteva valere – considerati i precedenti – i responsabili-scuola di alcuni partiti, parlando al Congresso, prendevano l’impegno a ripresentare, alla riapertura dei lavori parlamentari, dopo le imminenti elezioni politiche anticipate, un provvedimento che recuperasse le soluzioni positive alle quali si era faticosamente e vanamente pervenuti. Sarebbe toccato a quel punto a Faranda (l’unico del vecchio trio di Presidenza rimasto in pista, e nuovo Presidente di un esecutivo per metà rinnovato) verificare che ciò accadesse veramente. Ho personalmente avuto modo di continuare a seguire la vicenda, cessate le funzioni di vicepresidente del CNU, essendo stato transitoriamente aggregato da Luciano Benadusi (vista anche l’esperienza fatta a scrivere mozioni e testi di possibili emendamenti) al piccolo gruppo dell’Ufficio Scuola del PSI che seguiva più direttamente l’iter parlamentare del provvedimento. A maggior ragione credo di poter dire che furono determinanti, in quella nuova fase, i rapporti proficui e di fiducia che Faranda riuscì, da par suo, a stabilire con il nuovo ministro della Pubblica istruzione nel governo Cossiga costituitosi in agosto, il liberale Salvatore Valitutti. E contò non poco il positivo rapporto con Gian Mario Cazzaniga, responsabile universitario della CGIL. Contro molte previsioni – e concedendo a un ministro per molti versi anomalo com’era Valitutti, quello che né Malfatti, né Pedini, né Spadolini, suoi predecessori e nostri più diretti interlocutori, erano stati in grado di ottenere, posto che l’avessero tutti veramente voluto – un provvedimento sufficientemente organico di riforma, comprensivo di alcuni importanti mutamenti strutturali e di una ridefinizione dello stato giuridico della docenza, poté in effetti essere allestito, e in breve tempo, a partire ovviamente dal lungo lavoro svolto in precedenza (e da molte soluzioni messe a punto con il decisivo contributo del CNU). Non incontrando più, questa volta, gli ostacoli e i trabocchetti parlamentari del recente passato. La legge quadro relativa veniva approvata nel febbraio 1980. Nel luglio successivo veniva varato il DPR n. 382, che fissava le norme per il “riordinamento della docenza universitaria” sulle due fasce entro un unico ruolo degli ordinari e degli associati, per la “relativa fascia di formazione”, con l’istituzione del ruolo dei ricercatori, e per la “sperimentazione organizzativa e didattica”, che comprendeva l’attivazione del dipartimento e del dottorato di ricerca. Non è questa la sede per analizzare i contenuti e i limiti della nuova normativa (con le integrazioni intervenute nel decreto delegato rispetto alla legge-delega), o per interrogarsi in merito ai suoi reali effetti sul sistema universitario nazionale, che andrebbero peraltro considerati tenendo conto anche dei ritardi e delle inadempienze Anni di svolta: ricordo di Francesco Faranda 149 che ne caratterizzarono l’applicazione, non imputabili alla legge in sé. Senza dimenticare responsabilità in negativo, che furono parimenti attribuite alla nuova normativa, quando derivarono semmai dalle interpretazioni furbesche o disinvolte che ne furono date anche all’interno degli atenei. Secondo una consuetudine trasformistica destinata purtroppo a riproporsi – e non so dire se con minore o maggiore improntitudine – anche in situazioni analoghe più recenti. In ogni caso si era arrivati a un risultato. Sarebbe accaduto lo stesso se il CNU non si fosse in certo senso compromesso, accettando di trattare, e quindi, inevitabilmente, di retrocedere almeno di qualche passo, rispetto alla precedente intransigenza? Manca ovviamente ogni possibilità di verifica, ma, avendo seguito quella vicenda con attenzione, avendo conosciuto abbastanza bene i responsabili di governo e di partito, avendone misurato le caratteristiche, le tendenze e il grado effettivo di impegno, di capacità e di competenze, resto convinto del contrario. Meno certamente di quanto ci sarebbe piaciuto che avvenisse, e dovendo sicuramente condividere i meriti (se tali sono stati) con altri, ma un ruolo non trascurabile, in quella fase importante per la vita dell’Università italiana, il CNU l’ha sicuramente avuto. E anche per questo continuo a considerare determinante l’azione svolta da Faranda, prima come vicepresidente con Battistin, poi come Presidente, con Blasi, Pupillo e gli altri. Assunse, in questa prospettiva, il valore di una sorte di sanzione del lavoro svolto e dei risultati comunque conseguiti la Seconda Conferenza nazionale convocata dal CNU a metà marzo – dunque tra l’approvazione della legge delega e l’avvio della predisposizione dei decreti delegati – a Milano. Nella città già meta di quel lontano viaggio di Faranda e dei suoi colleghi, di cui si è detto, e inizio, per alcuni di noi, dell’avventura che ne era seguita; e dove si era sperimentata la medesima formula, quattro anni prima, non immaginando quanto ci sarebbe costato vederne realizzate le premesse. In questa circostanza era Faranda a tenere la relazione di avvio, circondato dai suoi principali interlocutori in quell’ultima fase della vicenda legislativa: il ministro, i presidenti delle Commissioni parlamentari, i responsabili scuola e università dei partiti. Vorrei chiudere questo contributo con qualche elemento più personale. Fa parte dei ricordi più cari che conservo di Faranda e dell’intensità dell’amicizia che si sviluppò in quegli anni tra noi, quello di una visita che, con mia moglie e mia figlia, allora undicenne, gli facemmo, sul finire dell’estate del 1981, allungando il nostro viaggio di ritorno dalle vacanze in Puglia, in direzione della sua casa avita di Tortorici, sui Nebrodi, dove soggiornammo per alcuni giorni, avendo occasione di conoscere quel personaggio straordinario che era sua madre (che ogni sera faceva interminabili patite a canasta con l’anche più anziana consuocera, alle quali mia figlia assisteva affascinata), scoprendo direttamente alcuni modi di vita propri di una buona famiglia siciliana – non ultima la cucina straordinariamente raffinata, ancorché servita ad ore, per noi, gente del Nord, del tutto impossibili. E potendo mettere a fuoco altri aspetti del suo carattere e della sua incapacità di star fermo e di non avere qualcosa di cui occuparsi attivamente. In quel caso la sovrintendenza agli interventi correttivi o a rimedio di qualche inconveniente invernale sulla proprietà, fatti eseguire sotto la sua continua sorveglianza: devo dire, alquanto assillante. 150 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Vederlo e ricordarlo in quel contesto, nel suo ambiente, o sullo sfondo dei monti e dei boschi che ci fece visitare, mi riporta alla mente, per contrasto, una affermazione che gli ho sentito fare più di una volta con riferimento alla sua specializzazione in biologia marina, e cioè al fatto che stare in barca a raccoglier campioni, specie con il mare in bonaccia, lo faceva star male (e nel dirlo accennava a un eloquente movimento del corpo e alla bocca disgustata dalla aspirazione dalla pipetta cui la si costringeva...). Confesso che mi è rimasta la curiosità di sapere se era davvero così o se non era, più semplicemente, un gioco ben riuscito su una situazione paradossale con cui richiamare l’inevitabile sorriso. Probabilmente, entrambe le cose. Allontanandosi nel tempo la nostra comune esperienza e militanza per la riforma universitaria, i nostri rapporti si sono diradati, venendo assorbiti entrambi da ordini diversi di attività e di preoccupazioni. Della parte che continuò a svolgere, con responsabilità crescenti, in ambito universitario e della organizzazione della ricerca, del ruolo giocato in campo scientifico a livello nazionale e internazionale come ecologo del mare, delle tante iniziative da lui assunte, mi è capitato di avere solo informazioni frammentarie e episodiche. Abbiamo ripreso a vederci in forma meno saltuaria negli ultimi anni, quando, presidente della CRUI, l’ho ritrovato, dopo tanto tempo, profondamente segnato dalla tragedia, che l’aveva colpito, della perdita della moglie Gianna, con la quale, lo si può ben dire, faceva tutt’uno. L’operatività era sempre la sua, anche se rivolta, per quanto ne sono stato coinvolto, più a chiudere dignitosamente vecchie pendenze che a avviare nuove iniziative, in ogni caso così poco consone con i tempi. Ma quel che più colpiva, pensando al passato più felice, era lo sguardo. Sempre buono e affettuoso, pronto ancora a ravvivarsi e a animarsi alla prima sollecitazione, ma carico di malinconia, velato da una tristezza infinita. Come non poteva non essere, agli occhi di chi li aveva visti insieme, Gianna e lui, associandoli in unica entità. E così continuando a ricordarli, con molto affetto, e un grande rimpianto. Il ricordo di un protagonista Antonio Miceli Dopo le lucide e sapienti parole di Palo Blasi – eletto vice presidente nazionale al Congresso di Tirrenia (aprile 1979) e confermato al VII Congresso di Fiuggi (1981) – sullo scenario complessivo che segnò l’inizio e l’ottima gestione di Francesco Faranda, ritengo opportuno dedicare alcune ulteriori righe al suo impegno al vertice del CNU. Ciccio nel CNU Negli anni ’70 Egli, proveniente dalla Sapienza di Roma, ritorna nell’Università di Messina, dove aveva fatto politica universitaria, mettendosi in evidenza a livello nazionale nei massimi organismi di rappresentanza degli studenti. In quella sede conobbe molti dei futuri leader politici degli anni 85/95. In quella prima fase il suo impegno fu nel PLI e divenne uno dei principali collaboratori del Rettore e Ministro Gaetano Martino. Quando tornò a Messina era in un periodo di transizione che lo vide avvicinarsi progressivamente al PSI di Bettino Craxi. L’inserimento, nell’ANRIS prima e nel CNU poi, fu immediato. La conoscenza diretta degli uomini della politica dell’Ateneo gli assegnò un ruolo da protagonista che le sue doti carismatiche consolidarono a livello locale e lo misero in evidenza già dal 1971 alla costituzione del CNU nazionale. Nel gennaio del 76 è un riferimento importante nella conduzione del Congresso di Venezia e viene chiamato da Leontino Battistin alla v. presidenza nazionale. Lo stesso Battistin nello scrivere degli avvenimenti salienti della sua gestione (1976/1978) testimonia dell’importante ruolo svolto da Ciccio Faranda. Da protagonista partecipa al Congresso di Tirrenia (aprile 79), all’apertura dei lavori è già indicato come prossimo presidente nazionale. Egli ribadisce alle forze politiche, largamente presenti al VI Congresso del CNU, la necessità che nel confronto sul processo di riforma dell’Università, siano presenti sia le forze di maggioranza che quelle di opposizione. Lo stesso Governo deve svolgere un ruolo propositivo e di supporto lasciando al Parlamento un ampio e partecipato confronto sul ruolo dell’università. In quell’occasione pubblicamente denuncia “con coraggio ed umiltà” la necessità che si faccia autocritica sul “reclutamento” dei docenti evidenziando il malcostume della clientela e del nepotismo. 152 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Così come riconosce le difficoltà all’avvio delle realtà dipartimentali, a causa delle differenti visioni ed esigenze di raggruppamenti disciplinari diversi, ma sostiene nel contempo la necessità di trovare soluzioni idonee e condivise. Anche sul rapporto tra attività professionale e ricerca scientifica, riconosce come sia utopistico pensare ad una autogestione a livello di dipartimento e pone i problemi di una cornice nazionale e di una regolamentazione di Ateneo, in questo aiutato dall’indimenticabile Marco Unguendoli. Si fa fautore di un deciso cambiamento della governance, attaccando l’ipotesi di un Senato Accademico composto dai Presidi di Facoltà. Nel 1981 a Fiuggi inizia il suo secondo mandato di Presidente Nazionale del Comitato Nazionale Universitario. La sede di Fiuggi era stata scelta per cercare di avere il Ministro ed una presenza significativa dei partiti di maggioranza e di minoranza. Ciccio ha tenuto rapporti costanti con il Ministero ed i responsabili dei partiti politici, lo ha fatto senza complessi ed all’inizio della sua relazione al Congresso disse apertamente che, essendo quello il suo ultimo mandato, si “arrogava il diritto” di esporre in piena libertà il suo pensiero per conto del CNU. Sin dalle prime battute denunciò il tentativo, non dichiarato, dell’Accademia e della politica conservatrice di tornare indietro rispetto alla scelta dipartimentale e alla sperimentazione didattica. Così come queste forze tentarono di rallentare tutti i processi che interessvano il personale docente subalterno. La seconda tornata dei concorsi per associato non veniva bandita, mentre dilagavano le critiche per la disparità nella selezione degli idonei, non solo tra settori disciplinari diversi ma anche nell’ambito dello stesso settore. Insieme alle critiche iniziò la stagione dei ricorsi e delle denunce, sembra quasi l’anteprima di quanto si sta verificando nei nostri giorni. Il problema dei concorsi era di grande attualità, come oggi! Sembrava si fosse trovata una soluzione largamente condivisa ma lo scioglimento delle Camere fermò tutto. L’altra questione in primo piano era quella dello stato giuridico dei ricercatori, ma anche per questo aspetto i contrasti interni all’Università, tra settori diversi, tra gruppi di docenti, tra chi riteneva ricorrere a meccanismi oggettivi e chi voleva tenere il “controllo” delle “cooptazioni” sortirono l’effetto di fermare tutto per lungo tempo. La verità è che anche allora si lasciavano marcire i problemi non bandendo nuovi concorsi e comunque, facendo trascorrere un lungo lasso di tempo tra le varie “tornate”. L’avere indicato nella legge che i concorsi dovessero essere biennali, non inserendo però procedure “obbligatorie”, di fatto aveva vanificato tutto. Nel marzo del 1984 a Roma, Ciccio fa una relazione di denuncia e coraggiosa. Egli annuncia un suo nuovo percorso come semplice iscritto, aveva infatti deciso di impegnarsi nell’Università come ricercatore, aprendo, come era nel suo carattere, nuove strade! Cominciò a lavorare su due grandi progetti, costituì un consorzio universitario per le “scienze del mare” e, in maniera sinergica, creò i presupposti per promuovere ed organizzare la partecipazione delle Università italiane a grandi progetti internazionali in campo ambientale, dell’acquacoltura e del sostegno ai paesi emergenti. Il ricordo di un protagonista 153 Dal 1987 al 1993 si impegnò con grande passione ad un programma di cooperazione allo sviluppo in Cile. Questo progetto EULA-CILE portò, tra l’altro, alla nascita della Facoltà di Scienze Ambientali, che gli ha dedicato un’aula, dopo la sua scomparsa. Nel 1994 fondò il CONISMA (Consorzio Nazionale Interuniversitario per la Scienza del Mare). Scopo del consorzio è quello di reclutare e integrare tutte le risorse scientifiche disponibili nelle università italiane… Convinto sostenitore e capace coordinatore di ricerche interdisciplinari, diventò protagonista del “Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA)”, coinvolgendo l’intero sistema italiano della ricerca. 1984-1988 La Presidenza Cresci L’università dopo il DPR 382 una intervista a Franco Cresci Presidente CNU dal 1984 al 1988 intervista di Antonio Miceli [M] Dopo il Congresso di Firenze e la presidenza di Francesco Faranda (siamo quindi nel marzo 1984), manca ancora, secondo te, un quadro di riferimento istituzionale che consenta all’Università di svolgere con pienezza il suo ruolo rispetto alla ricerca scientifica? [C] Anche se i responsabili degli uffici scuola dei partiti politici dell’epoca (Tesini, Stella, Benadusi, Capogrossi, Serravalle, Fasano), il famoso Capo di Gabinetto del Ministro Domenico Fazio, lo stesso Ministro Falcucci erano convinti che fosse necessario discutere ed approvare rapidamente la proposta di riforma “per il coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica”, non si coglieva, a livello di Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei leaders dei maggiori partiti, tale esigenza come prioritaria. Vi era quindi la necessità di impegnare il CNU in una battaglia che rivendicasse il rafforzamento dei legami fra Università e mondo esterno, al fine di sviluppare una strategia autonoma di ricerca. Tutto questo nel quadro di una Università attenta al ricambio generazionale e capace di difendere e rafforzare il suo ruolo di sede primaria della ricerca scientifica. [M] Vi era condivisione tra i sindacati universitari rispetto a questi obiettivi? [C] Il CNU nasce sulla base di una forte spinta politico-culturale che vede nella riforma universitaria un’alternativa alla “contestazione globale” del 1968. Non nasce quindi da un generico e corporativo interesse dei docenti a difendere privilegi di casta, solamente sul piano dello stato giuridico e delle rivendicazioni economiche. La nostra associazione con una precisa “scelta di campo” voleva dare un contributo di rinnovamento della società attraverso una Università autonoma, libera, democratica e fortemente innovativa. L’ambizione era e resta quella di pensare e realizzare un Sistema Universitario che fa alta formazione e ricerca, anche nell’ottica di creare un nuovo rapporto tra Università e Società. Gli atenei, quindi, visti come comunità attiva di studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo. Un sistema fortemente orientato al rinnovamento sociale e civile, basato su: – un’autonomia amministrativa economica e finanziaria, in grado di programmare la dotazione di risorse umane, materiali ed immateriali; – un’organizzazione dipartimentale – intendendo questo istituto come comunità attiva di lavoro, insegnamento e ricerca – una comunità nella quale il confronto delle idee ed un clima di virtuosa collaborazione-concorrenza fosse in grado di determinare e garantire l’autonomia scientifica e di insegnamento di ogni docente. Una comunità senza differenziazione di poteri, con mansioni permutabili sulla 158 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri base delle competenze ed attitudini. Ciò evidentemente in sinergia con il personale non docente e con il pieno coinvolgimento attivo e partecipativo degli studenti. Non è stato quindi e non sarà facile condividere la graduatoria delle priorità con quei sindacati che pongono al primo posto le rivendicazioni economiche e/o di stato giuridico o di interessi corporativi di categoria. [M] Pare un ritorno alle origini, gli anni 70: docente unico, tempo pieno, Dipartimenti al posto delle Facoltà, autonomia ed autoreferenzialità degli Atenei? [C] No! autoreferenzialità no! Oggi è ancora più evidente ma anche negli anni 80 abbiamo sempre difeso l’autonomia – garantita dalla costituzione – della ricerca e dell’insegnamento universitario senza mai cedere alle pericolose deviazioni dell’autoreferenzialità. Dopo il fallimento del DdL. 612 e l’arrivo della 382 abbiamo continuato a difendere l’autonomia dell’Università con realismo, accettando, ove necessario, “compromessi” necessitati dal quadro politico-sindacale contingente. Per fortuna il CNU non ha abbandonato i motivi ideali che hanno contraddistinto la sua nascita. A Venezia nel 1976 nel Congresso che elesse presidente Leontino Battistin, a mio giudizio, si prese maggiore consapevolezza della necessità di verificare costantemente l’agibilità delle proposte, contenendo le spinte ideologiche prive di concrete possibilità di successo. Su questo principio ho speso una parte qualificante del mio operato come Presidente. Il grande rigoroso Giorgio Spini a Firenze nel 1971 ci invitava ad essere fieri di quello che tutti insieme abbiamo fatto, ma altresì di esigere da tutti spirito di servizio disinteressato. Ho cercato di tenere sempre presente questo testamento spirituale nel guidare l’associazione dall’84 all’88. [M] Anche la necessità di intervenire sulla didattica contrassegnò la seconda metà degli anni 80, cosa vuoi ricordare? [C] La 382 aveva trattato ampiamente della utilità di cambiamenti significativi nella didattica. Sulla forte spinta della componente studentesca si cercò di rendere più efficiente ed efficace l’organizzazione della didattica. La semestralizzazione dei corsi ed il loro “compattamento”, la sperimentazione di insegnamenti integrati, la valorizzazione dei corsi di laurea, la verifica dei risultati ottenuti, un maggiore coinvolgimento del “mondo esterno” trovò inizio in quel periodo. Queste novità furono certamente positive, purtroppo la sperimentazione è durata troppo a lungo e in molti casi ha assunto forme degenerative. La proliferazione delle sedi universitarie, l’eccessivo aumento dei corsi di laurea ed il continuo cambiamento dei curricula sono ancora oggi i problemi da affrontare e risolvere! [M] Durante la tua presidenza il Ministero ed il Consiglio Universitario Nazionale (mi riferisco al Piano di Sviluppo dell’Università 1984-86) misero l’attenzione sulla necessità di sciogliere il nodo Dipartimento, Corso di laurea, Facoltà. Quale era la situazione in quel momento? [C] Il CUN – Consiglio Universitario Nazionale – in quella occasione, pur con- Una intervista a Franco Cresci 159 fermando la necessità di ricercare soluzioni unitarie per l’Università, prendeva atto che esistevano esigenze e differenze nei diversi settori scientifico-disciplinari e nella revisione dei curricula per una nuova tipologia dei titoli di studio. Nella sostanza le posizioni dei componenti della Facoltà di Giurisprudenza – per esempio – erano profondamente diverse da quelle dei docenti di Scienze Naturali, di Farmacia e di Medicina e Chirurgia. In quest’ultimo caso i problemi si complicano ulteriormente sul ruolo delle facoltà, dei dipartimenti di ricerca e di quelli assistenziali. Ricordo che nell’agosto del 1976 l’on. Giulio Andreotti (Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca) parlò della necessità di riformare la Facoltà di Medicina. Ricordo che in quella occasione il CNU mi diede l’incarico di preparare un documento sull’argomento, sottolineando come la formazione culturale e professionale di operatori sanitari dovesse essere finalizzata all’erogazione di “servizio di qualità” nell’ambito del S.S.N.. In quell’occasione pubblicai un articolo dal titolo “Riforma della Medicina” su “Università e Società” (n. 5, ottobre 1976). Precisai, già allora, che era necessaria una nuova struttura di tipo interdisciplinare dei dipartimenti e che era necessario prevedere e programmare periodicamente le esigenze dei vari livelli di personale sanitario nei successivi 5 anni, curando di tenere conto delle esigenze anche regionali. Sottolineai l’esigenza di un raccordo tra scuola superiore ed università, ricercando la necessità di formare qualificati operatori in livelli diversi; in particolare di tecnici intermedi specializzati nelle varie professioni sanitarie. La riforma del S.S.N. doveva essere l’occasione per rinnovare profondamente i curricula della Facoltà di Medicina. Tutto ciò escludendo qualsiasi “scorporo” dell’Università della Medicina nella quale immettere forti processi di innovazione nell’insegnamento, curando (oltre l’aspetto diagnostico-curativo) prevenzione, riabilitazione ecc… I nodi allora non furono risolti e si continuò a sperimentare. Mi pare che anche oggi rimangono assetti e rapporti da definire tra “dipartimento” e “scuola”. [M] Sei un medico ed hai diretto la Commissione Medicina del CNU, dopo Gaetano Crepaldi, dal 1976 al 1981, quale era la situazione dall’84 all’88? [C] La legge 833/1978 e il D.M. 9/11/82 risentirono del conflitto tra la competenza delle Regioni sull’assistenza sanitaria e l’insostituibile unitarietà nelle funzioni di docenza, ricerca e assistenza della Medicina Universitaria. Ancora oggi non si tiene in conto che la libertà ed autonomia della ricerca e dell’insegnamento universitario – compresa Medicina – sono garantite dalla Carta Costituzionale. Rivendicammo allora, ma penso che ancora oggi ciò debba essere fatto, che nuovi strumenti legislativi e/o amministrativi strutturino l’assistenza e la medicina universitaria in una visione di inscindibile interconnessione tra didattica, ricerca ed assistenza. Tutto ciò garantendo la libertà ed autonomia dei docenti di Medicina. [M] Le domande che mi verrebbe di farti sono ancora molte, ma penso che sia meglio chiudere. Ci sono argomenti sui quali avresti voluto rispondere? Completa da solo questa nostra breve chiacchierata. [F] Mentre parlavamo mi sono tornati alla mente tanti ricordi, tante emozioni. Di Giorgio Spini ho già detto, una forte emozione mi dà il ricordo di Ciccio Faranda, un 160 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri caro amico un valoroso collega, un uomo di grande generosità ed intelligenza politica, un presidente nazionale che ha fatto molto per l’Università italiana e per il CNU. Mi ha fatto molto piacere leggere il contributo degli amici e colleghi Leontino Battistin e Gaetano Crepaldi, da loro ho tratto ispirazione e conforto per il mio impegno, li abbraccio con grande affetto. Ancora un ringraziamento ed un saluto affettuoso a Paolo Pupillo, Giuliano Mussati, Silvano Bordi e Margherita Chang, che con piacere vedo partecipare a questa bella iniziativa sulla storia del CNU. Ho saputo della morte di Piero Milani, un abbraccio ai suoi familiari e ai compianti Corrado Scaravelli e Giuseppe Restuccia. Un pensiero affettuoso a tutti gli amici con i quali ho condiviso queste mie esaltanti esperienze, con i quali mi scuso per non averli citati tutti. Infine, dispiace constatare la scarsa partecipazione delle università al dibattito sempre attuale sul ruolo strategico del Sistema Universitario Pubblico sulla necessità di forti processi di immissione di giovani al mondo della ricerca e dell’alta formazione. Sono convinto che gli attuali gruppi dirigenti del CNU sapranno tenere alta la bandiera della “mia” Medicina e spero che riusciranno a contrastare il qualunquismo e gli interessi corporativi che come sempre minacciano il sistema dei valori, la scelta di campo che hanno contraddistinto la vita del CNU negli ultimi 50 anni di storia dell’Università Italiana. 1988-1993 La Presidenza Pupillo Una esperienza da presidente del CNU 1989-1993 Paolo Pupillo Questo mio piccolo contributo a una storia del CNU non sarà il solo portato da un ex presidente, ma gli ho voluto dare un taglio particolare. Ho provato a esprimere qualcosa del clima di quegli anni dentro il CNU e anche un po’ fuori, più che tentare una cronaca ragionata di tempi e fatti allineati secondo un criterio veramente storiografico. Ne è venuto fuori un coacervo di pensieri, aneddoti e tendenze, insieme agli eventi di una qualche importanza (non tanti). Voglio subito giustificarmi per questo mio personale approccio alla memoria di un periodo comunque ancora fecondo: penso che nella vita di una Associazione universitaria come il CNU, che mai si è voluta trasformare in un sindacato vero e proprio, i fatti e i successi non siano mai stati altrettanto importanti quanto le idee e le tendenze, specialmente quelle che il CNU seppe meglio interpretare, rappresentare e spesso imporre. E poi non si possono dimenticare alcuni fatti che avvennero all’inizio del periodo di cui mi appresto a parlare e che influenzarono a fondo i tempi successivi fino ad oggi. Cadde fragorosamente il muro di Berlino, crollò l’Unione Sovietica e così si dissolse di colpo la perenne, strisciante contrapposizione ideologica che aveva segnato per anni la vita nazionale e in qualche modo la stessa vita delle università – determinando fra l’altro anche la nascita del CNU –. Ma stava per cadere, sempre in quegli anni, anche il mito della crescita illimitata del benessere sociale e della ricchezza, che in certo senso aveva fiancheggiato e assecondato il boom dell’Università: alla fine del ciclo dei governi di centrosinistra l’Italia scoprì che stava vivendo al di sopra dei propri mezzi. Cominciarono quelle crisi economiche ricorrenti che hanno segnato l’entrata del Paese nella Unione Europea e ne hanno messo in cruda evidenza le debolezze strutturali. Intanto finiva sotto accusa, fino a cadere, l’intera classe politica che avevamo votato e frequentato per anni – io stesso ero iscritto al PSI fin dal 1972. Una serie di crolli imprevedibili solo pochi anni prima: il mondo, fuori, stava davvero cambiando. Non per questo all’interno dell’Università erano obbligati ad accorgersene tutti: business as usual. Fui velocemente eletto presidente del CNU alla fine del 1988 in un congresso, quello di Milazzo, a cui intervenne anche l’amico sen. Gigi Covatta, sottosegretario socialista all’Università, che si precipitò in quel posto un po’ fuori mano pur essendo stato avvertito all’ultimo momento. Dunque Presidente CNU eletto a larga maggioranza: sì, ma per fare che cosa? Domanda legittima. Non c’è dubbio, infatti, che i tempi d’oro del CNU coincisero con la riforma universitaria del 1979-80 e con tutto quello che la precedette, e quindi con le presidenze di Giorgio Spini, Leontino Battistin e Francesco Faranda. Visto che ora la riforma era fatta, almeno sulla carta, molti pensavano che si trattasse adesso di realizzarla nel concreto. Quando al congresso di 164 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Roma del 1984 fu eletto presidente Franco Cresci, che era stato a lungo presidente della Commissione Medicina del CNU (io divenni vice-presidente con Giuliano Mussati: tutti e tre, si noti, facevamo parte del Consiglio Universitario Nazionale), alcuni degli esponenti più in vista dell’Associazione stavano tornando agli studi o attendevano ad altri impegni accademici; facevano un passo indietro coloro che dal CNU più avevano contribuito a forgiare la Riforma: chi si dedicava all’amministrazione del suo Ateneo, chi operava nell’ambito del CNR o dei nuovi comitati “del 40%” (il 40% dei fondi statali per la ricerca universitaria erano assegnati su progetti competitivi nazionali, ed erano tanti soldi). A proposito di impegni propriamente universitari, nello stesso anno 1989 in cui iniziai il percorso di presidente del CNU fui anche eletto preside della mia facoltà a Bologna e restai in tale carica per più mandati, fino al 1998. In ogni caso vivevamo un momento, ci sembrava, unico e addirittura entusiasmante. L’attività nell’Associazione era intesa come un aspetto di un più ampio impegno di costruzione della nuova Università che volevamo: pensavamo che la ricerca italiana divenuta finalmente competitiva potesse aspirare a un ruolo internazionale di primo piano contribuendo così a emendare il Paese di molti dei suoi difetti, inefficienze e debolezze, valorizzandone le intelligenze, la laboriosità, la creatività. Chi si dedicava al CNU avrebbe dunque avuto il privilegio di favorire la crescita e l’affermazione di nuove generazioni di studiosi, avrebbe contribuito a consolidare quel clima fervido in cui la migliore ricerca scientifica si svolge senza affanno nel confronto internazionale e nel rispetto del merito. Un clima operoso fondato sul lavoro responsabile e gratificante di migliaia di persone portate alla ribalta dalle recenti riforme. Un clima che il CNU aveva il dovere di garantire nella propria sfera d’azione, tenendo uniti i cardini di sempre della sua azione: la promozione della ricerca e della didattica, insieme alla piena dignità del personale docente ricercatore in tutti i sensi, in tutti i campi, nelle nuove strutture dipartimentali più libere e uguali. Così, più o meno, la pensavamo, ritenendoci per molto tempo in buona sintonia con la volontà e gli orientamenti del potere politico. Fu dunque questo, più o meno, lo spirito col quale i colleghi della Giunta CNU e io stesso iniziammo il lavoro a livello nazionale. È chiaro che non tutti la vedevano così nell’Università italiana. In primo luogo accanto agli elementi di innovazione sussistevano i difetti tradizionali del sistema, dal radicato familismo allo spirito esclusivo di clan, all’uso personale e a volte improvvido delle risorse momentaneamente accresciute. Quante guerre guerreggiate (o, peggio, pattuite) per imporre il figlio ricercatore, abbiamo visto negli anni successivi, e non solo a Medicina (e non solo fra gli ordinari), fino a toccare gli stessi vertici dell’istituzione; quante affettuose amicizie promosse sul campo. E poi erano nati in quegli anni sindacatini di categoria sia fra i professori di seconda fascia (il CIPUR), sia fra i ricercatori, molti dei quali si riconoscevano in gruppi locali o aderivano alla “Assemblea” di Nunzio Miraglia, un simpatico capopopolo palermitano. Quanto al sindacato di riferimento dei professori ordinari, l’USPUR, esso pur non mancando di personalità aperte era portato a concedere assai poco alle novità, soprattutto in alcune sue frange (fra esse giuristi ed economisti). Nella stretta fra le azioni puramente rivendicative di alcuni e l’azione frenante di altri non era mai facile individuare sintesi razionalmente convincenti e vincenti. Tanto più che pochi fra i nuovi docenti parevano rendersi con- Una esperienza da presidente del CNU 165 to di una circostanza altrove evidente: le riforme degli anni ’80 (nel bene e nel male) erano il massimo a cui si poteva arrivare in fatto di innovazione e in buona sostanza non lasciavano spazio per mutamenti radicali. Sicuramente non per quelle promozioni di massa sul campo che erano l’obiettivo più o meno dichiarato dei sopra citati sindacatini, forse anche di qualcuno dentro il CNU. E tardavano, parecchi fra i nuovi docenti, a riconoscere che nel frattempo le sorti finanziarie del Paese erano assai peggiorate e non erano più pensabili operazioni forti sugli stipendi dei pubblici dipendenti: ci svegliammo un bel giorno con un governo Amato che aveva prelevato nottetempo danaro dai conti correnti bancari e bloccò pure per un po’ il turnover dei professori. Che sorpresa, che scandalo fu quello! Negli anni successivi ci siamo abituati a ben altro che ai blocchi del turnover, e ormai siamo tutti sostanzialmente rassegnati o consenzienti alla diminuzione dei docenti e dei ricercatori (mentre gli altri Stati europei si guardano bene, tuttora, dal prendere simili pericolose misure, nonostante la condizione economica non sempre brillante). Incurante di tutto, il sindacato CIPUR continuava a battersi con ogni mezzo per un solo scopo, la promozione sul campo alla prima fascia. Ad esempio avevano convinto l’ottimo on. Tesini (DC) che il professore associato guadagnava la metà del professore ordinario “a parità di anzianità”: non ci fu verso di spiegare che quella stima era solo un espediente propagandistico (sarebbe occorso leggere tabelle retributive, progressioni di carriera, effetti dell’anzianità reale di servizio, dati previdenziali e pensionistici, l’incidenza della tassazione e altro: tempo perso). Altra era la via maestra per gli avanzamenti del personale, ed era quella dei concorsi, comunque fossero chiamati, ma era una via lenta e criticata. Non restava tanto spazio nemmeno per operazioni a costo zero, anzi sottozero, come il riconoscimento della qualità e funzione docente dei ricercatori di ruolo. Una volta da presidente del CNU andai con Francesco Baldoni a una audizione di non so quale commissione parlamentare e sostenni appunto questa tesi: riconoscere lo status docente dei ricercatori. I rappresentanti del popolo guardavano sorridenti questo bravo giovane (io, allora) che prendevano per ricercatore, e perorava uno stato giuridico pro domo sua: spiegai che ero professore ordinario e dicevo solo cose di cui ero persuaso, ma temo che non capirono nemmeno di cosa si stesse parlando. Successe poi che ai ricercatori fosse aumentato lo stipendio, ora agganciato ai professori, e gli venissero affidati compiti didattici anche impegnativi in misura crescente. Però mai che il Parlamento si sia degnato di dire: ebbene sì, hanno vinto un concorso, insegnano tutti oltre le 60 ore annue di legge perlopiù senza remunerazione aggiuntiva, ormai sono entrati nei consigli di facoltà, il loro stipendio è agganciato a quello dei professori di ruolo, insomma sono docenti “di terza fascia”. Macché: da ultimo hanno preferito abolire la categoria, e intanto hanno abolito anche i finanziamenti alla ricerca. E così i nostri giovani sono tornati a essere tutti precari a vita un’altra volta, e se no all’estero. Ma torniamo al 1989 e vediamo come era composta quella Giunta CNU che presiedetti e chi erano i personaggi che ne facevano parte, alcuni dei quali purtroppo ci hanno lasciato. Vice-presidenti erano Paolo Blasi di Firenze, Giuliano Mussati dell’Università Cattolica di Milano (sede di Piacenza, in seguito a Tor Vergata) e Angelo Gatta di Padova; Paolo Gianni di Pisa; Giovanni Cordini e Piero Milani di Pavia, Sergio Sergi di Messina. E poi i presidenti delle commissioni ad hoc: Franco Cresci per 166 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Medicina, Rossella Rivasi di Modena per i ricercatori, Corrado Scaravelli di Parma per la commissione sindacale, Gian Angelo Vaglio di Torino per la ricerca. Una composizione mista e pesata di professori di prima e seconda fascia con diversi ricercatori. Infine, la Giunta comprendeva anche due amici bolognesi: Marco Unguendoli, già in passato vice-presidente, cooptato col compito di fare il giornale nazionale, e Diego Bruggi segretario-tesoriere, una carica particolarmente importante, anche perché il giornale ci sarebbe costato. Nel 1991 col congresso di Roma entrarono in Giunta Sandro Meloni della sede di Pavia, Francesco Baldoni di Roma Tor Vergata, Alberto Pagliarini di Bari e Gualtiero Casanova di Genova. E dentro il CNU cosa succedeva? Se l’atmosfera interna era pienamente amichevole, le discussioni in Giunta e le periodiche assemblee erano piuttosto vivaci, spesso animate più da posizioni velatamente categoriali che da veri contrasti di visioni di fondo. Professori di prima e seconda fascia e ricercatori discutevano in piena libertà senza remore o soggezioni, ciò che consideravo un esemplare esercizio di democrazia. Se le opinioni spesso non combaciavano, almeno si controbilanciavano. Del resto le persone erano tutte di livello e di buona esperienza politica, a loro modo rappresentative dell’arco costituzionale. Blasi e Cresci rappresentavano in Giunta in versione centrista (ma tutt’altro che conservatrice) l’alta tradizione del CNU di Firenze, che aveva visto fra i suoi fondatori personalità di rilievo come Giorgio Spini e Pietro Passerini, Amaducci e Cappugi. Bravi tecnici come Corrado Scaravelli e Alberto Pagliarini, politicamente moderati, si occupavano in Giunta di stipendi e carriere con perizia e sensibilità. L’amico vice-presidente Giuliano Mussati, fedele al messaggio di Ugo La Malfa, era consigliere esperto e spesso paventava il rovesciarsi delle elargizioni degli anni ’80 sui figli e nipoti, come poi s’è visto (ampiamente). Paolo Gianni, Gualtiero Casanova e Sergio Sergi, altri amici carissimi, rappresentavano al meglio l’ampia base di docenti esperti e naturalmente autorevoli per impegno e saggezza. Giovanni Cordini era stato per un periodo responsabile della Commissione Ricercatori; giurista, pubblicò un testo di diritto ambientale allora insolito ed era ovviamente destinato a rapida e meritata carriera. Ma poi c’erano tanti altri colleghi con cui avevamo rapporti di vera amicizia seppure più saltuari, da Dejak di Venezia, a Bordi di Firenze, Moroni di Parma, Tallarida di Roma, Miceli di Messina, Cecconi di Palermo… Nessuno di essi faceva parte degli “uomini del presidente”. In effetti, a ripensarci, non esistevano “uomini del presidente”: nel CNU tutti dicevano al presidente e si dicevano fra loro quel che pensavano, e stop. Quanto alle “donne del presidente”, le sole (e lodevoli) presenze femminili erano Margherita Chang, in seguito professore a Udine, e Rossella Rivasi. Molti dei menzionati colleghi si sono a lungo distinti nei rispettivi Atenei per capacità e dedizione; Sergi e Cordini in seguito sono divenuti a loro volta presidenti del CNU nazionale. Fare un giornale destinato a tutti gli universitari ci appariva un adempimento primario obbligato, se si voleva che la voce del CNU e dei suoi 4000 iscritti di allora contasse qualcosa sul proscenio nazionale e arrivasse (gratuitamente) a soggetti e sedi che non ci conoscevano. Superato qualche dissenso (sarebbe stato troppo costoso, e poi perché a mandarlo tutti? Non contano di più gli iscritti?), ci procurammo a Roma gli indirizzi di “tutti” i docenti. Ed ecco che il giornale Marco Unguendoli lo realizzò Una esperienza da presidente del CNU 167 per davvero, diventandone direttore responsabile. La Giunta CNU precedente si era a suo tempo assunta l’impegno di fare il giornale ma non l’aveva realizzato; io ero stato fra quelli che pensavano che si potesse partire dal giornale di Pavia, che usciva regolarmente. Ma alla fine Piero Milani, presidente di quella importante sede CNU, che ogni tanto sosteneva che i dirigenti nazionali e locali del CNU lavoravano troppo poco per l’Associazione, non aveva affrontato questo passaggio cruciale. Così creammo in un tempo incredibilmente breve tra Bologna e Modena (la stampa era seguita da Rossella Rivasi) il giornale “Università e Ricerca” che spedimmo in 20000 copie agli universitari. La redazione dei primi numeri del giornale fu concordata in parte con colleghi di sedi anche lontane (arrivavano in aereo) che forse diffidavano di quel manipolo di emiliani come giornalisti, ma presto si convinsero che eravamo abbastanza affidabili. Sul primo numero comparve l’editoriale programmatico del presidente eletto, che rivisto di recente alla luce di un trepido senno di poi sembra resistere ancora: non parolaio né vacuamente didascalico, moderatamente retorico, tutto sommato efficace (mi si passi quest’unico auto-incensamento, e d’altronde come si fa a giudicare in modo obiettivo il proprio passato?). Ci sono dei passi in quell’articolo pieno di buoni propositi che mi esentano oggi dal divagare parlando di argomenti fin troppo eterogenei – rischio sempre immanente in queste memorie remote – e ad esso rimando l’eventuale lettore che voglia immergersi nell’atmosfera di quel tempo. Ma l’articolo conteneva anche un riferimento esplicito a una visione a nostro avviso eccessivamente sindacale del CNU, quella che sosteneva che fosse degno di encomio se un docente riusciva a spillare (al contribuente) 90 milioni di lire di allora su ricorso amministrativo per qualcosa che fino ad allora quel docente aveva fatto gratis, come pure accadde. Decisamente altri tempi, no? Oggi ti consideri fortunato se ti restano stipendio e liquidazione e pensione, pur decurtati da blocchi pluriennali degli scatti e prelievi fiscali a pioggia, da ultimo anche da inevitabili “contributi di solidarietà” che aggiungono un inedito sapore victorughiano al sentire, ancora una volta, le mani dello Stato nella tua tasca. Era dunque importante la ritrovata presenza nazionale del CNU grazie al giornale, ma non esauriva i nostri impegni settimanali. Andavamo qualche volta a Roma soprattutto dal Ministro Ruberti, prima al Ministero sul Tevere e in seguito all’EUR. Il Ministro in quel torno di tempo sosteneva e promuoveva l’opzione dell’allargamento del sistema universitario in senso orizzontale e verticale, con la creazione di nuove sedi in molte Regioni; per quel che riguarda l’Emilia-Romagna si creò l’Ateneo ModenaReggio mentre la rete di Romagna venne assegnata a Bologna. Ma si crearono anche sedi a Nuoro, Pomezia, Rovigo e perfino a Lugo di Romagna. Fu una vera esplosione. Perché non solo ogni città, ma ogni villaggio vide l’occasione per affibbiare all’Università la villa diroccata di qualche antica famiglia o il castello in disuso. Non parlo, stando alla Romagna che conosco meglio, dell’ottimo centro di formazione di Bertinoro e dell’eccellente restauro della sua rocca e dell’ex seminario che avvennero con il contributo e il coinvolgimento dell’Università: parlo di amene località appenniniche come S. Sofia, Cusercoli o Portico di Romagna (solo Premilcuore, nell’alto Appennino forlivese, non propose niente). Sempre con il compianto Ministro Ruberti 168 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri iniziarono i primi tentativi di diplomi universitari online, si fecero riforme di ordinamenti universitari, insomma ferveva il lavoro in tante direzioni. Come preside venni più volte chiamato a Roma per comitati e commissioni che si occupavano di molteplici aspetti del convivere universitario. L’amico Francesco Baldoni era più di me addentro alle cose del Ministero; ma il capo di gabinetto Catricalà fu inesorabile nel negare l’estensione erga omnes dell’esito favorevole di un ricorso amministrativo di ricercatori per accedere all’idoneità alla seconda fascia, come Baldoni e io stesso come presidente del CNU avevamo chiesto. Fin dall’inizio del nostro mandato ci eravamo proposti di tentare una sintesi o mediazione fra le posizioni dei diversi sindacati e raggruppamenti universitari per provare a scrivere qualcosa insieme, qualche bozza d’accordo sul futuro dell’Università. Oltre al CNU e ai sindacati confederali, che avevano logiche differenti ma con i quali intese ragionevoli erano sempre possibili, i principali attori sulla scena erano allora l’USPUR e il CIPUR, interlocutori piuttosto ostici per i motivi già detti, che provammo però a coinvolgere con la benedizione del Ministero. I rapporti erano buoni con esponenti USPUR come Antonino Liberatore e Stefano Marcato e anche con altri dirigenti, sicché fu possibile avviare una discussione, pur con tutti i limiti del caso, su temi di carattere generale compresi i rapporti fra le due fasce della docenza. Tuttavia, dopo un paio di incontri fu chiaro che non si sarebbe potuto agganciare il CIPUR. La condizione preliminare posta da quella parte per proseguire i colloqui era una dichiarazione comune, garantita dal ministro, che al professore di seconda fascia sarebbe stato consentito per legge accedere a tutte le cariche accademiche, rettore compreso. E benché ci si spingesse a ipotizzare una soluzione possibile alla fine del percorso, ogni eventuale accordo saltò subito su quella pregiudiziale, e quindi fu fumata nera su tutto. Del resto, riconosciamolo, il compito di un sindacato di categoria come il CIPUR, impegnato ad esclusivo “beneficio” di quella categoria, non è chiaro né semplice: sia che riesca a spuntare qualcosa (nel qual caso poi non servirebbe più a niente), sia che non ci riesca (più probabile: e allora non è servito a niente). Fu pertanto comprensibile, se non condivisibile, la posizione contraria del CIPUR: ogni intesa eventualmente raggiunta sarebbe andata a suo scapito minandone la ragion d’essere stessa. O per meglio dire avrebbe danneggiato irreversibilmente il suo gruppo dirigente. Non fu quindi possibile raggiungere accordi su questioni universitarie di carattere generale, finché rimase quel governo “amico”, e lo considerai un personale insuccesso. Non che con quel tentativo ambizioso pensassimo di risolvere tutti i problemi, eravamo ben consapevoli che i problemi veri andavano affrontati in Parlamento. Tuttavia nutrivamo la convinzione che una eventuale intesa su alcuni punti avrebbe reso palese l’esistenza di un ampio consenso sociale attorno all’innovazione, e inoltre tolto acqua sia ai demagoghi, sia ai tradizionali risentimenti fra operatori universitari di differenti categorie e fazioni. Benché il CNU avesse ben resistito alla crisi post-riforma e con il giornale avesse anche ripreso una presenza nazionale di prestigio, ogni reale progresso in materia di diritti civili nell’Università si rivelò impossibile. Niente. Restarono per un periodo i migliorati rapporti di vicinato con l’USPUR. E intanto i partiti del centro-sinistra cominciavano a vacillare sotto l’urto dei magistrati e della incombente crisi economica. L’aria cominciò cambiare per davvero Una esperienza da presidente del CNU 169 mentre la seconda Giunta CNU da me presieduta stava avviandosi a concludere il suo mandato che terminò nel 1993 con la nuova presidenza, affidata a Sergio Sergi al congresso di Roma. In quella occasione avemmo ospite Mario Segni, reduce da una vittoria epocale nel referendum istituzionale maggioritario da lui promosso e portato lì, un tantino spaesato, dal collega Corrado Balacco Gabrieli. La prima Repubblica era ormai defunta. Ma anziché sfruttare la vittoria Segni finì con l’aprire involontariamente la strada al ventennio dell’insipienza. E a quel punto terminò anche il mio impegno nella direzione del CNU, anche se accettai per un breve periodo la presidenza della Commissione Ricerca. Ma i tempi, politici e accademici, erano cambiati, e così anche gli umori e le attese. Meglio dedicarsi ad altri impegni, che pure premevano. E tuttora premono, anzi scottano, mentre non si vede ancora vicina l’uscita dal tunnel. Concludo. Sono profondamente grato a tanti amici che ho conosciuto grazie al CNU e che mi hanno permesso di fare questa significativa esperienza di presidente di una Associazione che ha avuto un ruolo nella storia universitaria italiana, e non solo in quella. Amici che ho frequentato per anni e che non ho mai perso di vista del tutto, anche quando ormai mi pareva di non capire più chi stava facendo che cosa e perché. Quelli che sono invecchiati con me, insomma, molti dei quali hanno collaborato a questo libro. E infine voglio rivolgere un ricordo affettuoso e riverente agli amici di un tempo che ci hanno lasciato prematuramente, solo precedendoci: ricordo Ciccio Faranda, Marco Unguendoli, Silvano Bordi, Corrado Scaravelli, Pino Tallarida, in questi giorni Piero Milani, fra quelli più cari e fra quelli che più hanno dato al CNU nei suoi anni migliori. Minimemorie da CNU e CUN 1979-1986 Paolo Pupillo Verso la fine degli anni ’70 l’Università italiana era in grande fermento. Tutti si aspettavano, magari con idee assai differenti, che dopo le timide e affrettate riforme degli anni ’70, fatte per venire incontro ai grandi mutamenti in corso nel mondo e in Italia, le istituzioni affrontassero finalmente la questione della crescita e dell’ammodernamento strutturale del sistema nazionale dell’università e della ricerca. Innumerevoli furono in quegli anni le azioni, le elaborazioni teoriche, i proclami, i pubblici convegni diretti a preparare la grande riforma. Essa doveva fondarsi, come il CNU e altri chiedevano, sull’autonomia delle università secondo il dettato costituzionale, su una democratizzazione del sistema di governo, sulla istituzione dei dipartimenti (ben oltre quindi, gli istituti monocattedra), sul rilancio della ricerca a partire dalla introduzione del dottorato e dai meccanismi di finanziamento e, last but not least, su una dignitosa sistemazione delle numerose categorie di personale con il superamento della figura, subordinata anche nel nome, dell’assistente e delle posizioni precarie. Se tutto questo è noto, è certo meno presente a quanti hanno vissuto quegli anni, per non parlare di coloro che non ebbero quella ventura, che nella legge delega di riforma finalmente varata dal Parlamento nel 1979 (legge 7 febbraio 1979 n. 31) figurasse anche un articolo che istituiva un nuovo organismo consultivo del Ministero della Pubblica Istruzione col compito di occuparsi esclusivamente dell’Università. Fino ad allora, infatti, le questioni universitarie – ordinaria amministrazione: concorsi, passaggi di cattedra, riconoscimenti di servizi, chiamate dall’estero, revisioni ordinamentali, oltre alle questioni di competenza della Corte di disciplina – venivano trattate da una apposita sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e nell’ambito di quello. Il nuovo organo aveva anche, ovviamente, una sua valenza rappresentativa e quindi una certa caratterizzazione politica, destinata a diventare addirittura proverbiale, tant’è vero che fin dall’inizio alcuni temevano che, una volta eletto, il nuovo organo si mettesse a legiferare in proprio sostituendosi alle istituzioni preposte e in particolare al Ministero stesso. Tanto più che in quel torno di tempo si stava organizzando il nuovo Ministero dell’Università e Ricerca, ideato, fra gli altri, dal compianto sen. Giovanni Spadolini, che era stato per breve tempo Ministro della Pubblica Istruzione. Fu Spadolini stesso a proporre il nome del nuovo organismo di consulenza, il Consiglio Universitario Nazionale (CUN), per rispetto, disse scherzando, alla sigla del Comitato Nazionale Universitario (CNU), col quale egli peraltro era in frequente contatto particolarmente a Milano. Per il CUN venne messa a punto una composizione su base di facoltà, le “grandi” facoltà rappresentate da due professori ordinari e due assistenti o professori incaricati, le “piccole” da un professore ordinario e un assistente o inca- 172 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ricato. Quattro erano i rappresentanti dei “precari”, i futuri ricercatori, due quelli del personale tecnico-amministrativo, uno il rappresentante del Consiglio Superiore della P.I., poi c’erano altri membri designati da enti e istituzioni. È chiaro che il CNU e tutti gli altri gruppi presenti nell’Università, dai sindacati CGIL, CISL e UIL fino allo SNALS (il sindacato autonomo della Scuola), cercavano un’affermazione nelle elezioni che si tennero nello stesso anno 1979, i cui risultati potevano riflettersi nei rapporti intersindacali e perfino in qualche misura politici, oltre naturalmente che all’interno del nuovo Consiglio: ciascuno metteva in gioco la propria rappresentatività. Più accademiche e più discrete, meno politicamente caratterizzate, le candidature fra i professori ordinari, pur connotate per differenti espressioni ideologiche e associative. Dentro il CNU si fecero assemblee e furono selezionati i candidati, professori incaricati o assistenti di ruolo, non senza qualche contrasto. Le candidature dovevano essere autorevoli e indiscutibili, così come i confederali selezionavano personalità di peso, molte delle quali destinate a emergere negli anni successivi. Alla prova elettorale il CNU non ebbe un gran successo; furono eletti Franco Cresci a Medicina, Riccardo Cerri a Farmacia, Arrigo Vallatta a Ingegneria, lo scrivente a Scienze, Margherita Chang in rappresentanza degli aspiranti ricercatori. Ci fu una significativa affermazione della CGIL, allora sindacato di riferimento della sinistra; quelli del resto erano gli anni della grande crescita del PCI, che alle elezioni politiche toccò con Berlinguer il suo massimo storico col 35% dei voti. Ma, un po’ a sorpresa, entrarono nel CUN anche diversi colleghi del sindacato cattolico, ben radicato nelle Università del centro-sud e nei settori umanistici (uso il termine in senso ampio), mentre la forza maggiore del CNU si confermava nelle facoltà scientifiche. Alcuni degli eletti nella lista CISL (fra cui Di Orio, Frati, Marinelli) sarebbero in seguito diventati rettori di Università, per quanto non tutti avessero una immagine pubblica del tutto immacolata. E a proposito di rettori, vanno ricordati fra gli eletti nel CUN i rettori di importanti Università: Dianzani a Torino, Lazzati alla Cattolica, Merigliano a Padova, Scaramuzzi a Firenze, e probabilmente altri ancora. Numerosi anche i presidi di facoltà. Tutti questi ebbero nel CUN un ruolo importante: non solo per il loro fattivo contributo, ma anche per quello che rappresentavano a garanzia della comunità universitaria nel suo insieme, parte della quale poteva temere gli eventuali eccessi di zelo del nuovo organo. A questo riguardo si deve ricordare che all’epoca non mancavano autorevolissimi docenti apertamente contrari alle innovazioni in corso, con frequenti interventi sulla stampa; alcuni settori accademici osteggiavano la riforma, fra questi il vertice dei matematici, che avevano parecchio a che fare con la facoltà di Scienze. Con Ottavio Barnabei e Lucilla Salerno formavamo comunque una squadra di rappresentanti di Scienze affiatata, a cui in seguito si aggiunse il fisico Carlo Schaerf subentrando al primo eletto fra i professori ordinari, che si era presto dovuto dimettere dal CUN per gravi problemi di salute. Non mancò infatti nel nuovo Consiglio, da subito, una buona collaborazione fra tutti, benché fossero frequenti gli scontri sia di opinioni generali, sia per concreti interessi accademici o inerenti a settori e professioni. Noi eletti del CNU stabilimmo buone relazioni con diversi indipendenti e con rappresentanti nominati, fra cui Giuliano Mussati che avrebbe in seguito aderito all’Associazione entrando nel suo gruppo Minimemorie da CNU e CUN 173 dirigente. Gian Mario Cazzaniga era un autorevole e a suo modo lungimirante esponente della CGIL, sindacalista esperto. Di rado le votazioni sulle questioni di fondo furono di schieramento, il più delle volte prevalevano le mozioni più “ragionevoli”: un aggettivo, appunto, caro a Gian Mario. Ebbi l’oneroso onore di rappresentare la componente CNU nella giunta del Consiglio, che si riuniva ogni mese a Roma sotto la presidenza dell’ottimo prof. Giorgio Petrocchi per preparare l’agenda del CUN. Petrocchi era un noto italianista, cattolico, un po’ in difficoltà in quei primi tumultuosi anni del CUN; l’altro candidato alla prestigiosa carica era stato il prof. Conso, che per sua fortuna non venne eletto e del resto era anche impegnato nel Consiglio Superiore della Magistratura. Cercai di partecipare a tutte le riunioni di giunta, sobbarcandomi i lunghi viaggi ferroviari di allora in orari non sempre comodi. Noi del CNU dormivamo all’Hotel Siviglia, mangiavamo (troppo) in qualche trattoria e sedevamo per gran parte della giornata nella nobile sala del Consiglio Superiore a Trastevere, dove d’estate l’aria quasi fresca riciclata dall’immensa cantina dell’edificio umbertino era odorosa di gatti. Tornavo stremato dalle sessioni del CUN, che di solito duravano tre giorni. Senza contare le frequenti riunioni delle commissioni ad hoc. Ma si lavorava per la Patria, o molti di noi avevano questa convinzione. Dopo le prime riunioni preliminari, il CUN si dette a discutere aspetti della nuova legge universitaria (poi divenuta celebre come legge 382/1980) in attuazione della delega, soprattutto questioni di stato giuridico. Noi difendemmo il principio delle progressioni retributive nell’ambito delle due fasce collegate e quindi l’affermazione dell’autonomia della docenza, con un gradualissimo “aggancio” del professore di prima fascia al mitico stipendio dell’ambasciatore, a suo tempo conquistato da una cordata di ordinari attraverso un ricorso alla Corte Costituzionale. Sull’altro versante, alcuni colleghi soprattutto della CGIL sostenevano che la contrattazione era meglio; uno, romano, mi disse testualmente “Noi ve damo molto de più” (questi era divenuto assai popolare perché, al portiere del Ministero che ogni giorno quando arrivavamo si rivolgeva a noi, senza manifesta simpatia, con un “diga”, una volta replicò “e chette devo dì, semo sempre qua”). Ma era quel “ve damo”, appunto, che preoccupava. Com’era ovvio e giusto, però, le questioni politicamente più rilevanti non si decidevano da ultimo nel CUN, bensì nell’ambito degli uffici scuola dei partiti (soprattutto DC, PSI, PCI) che allora c’erano e funzionavano, e ovviamente nelle commissioni parlamentari. I dirigenti nazionali del CNU da parte loro avevano ottimi canali di comunicazione e i loro suggerimenti trovavano ascoltatori attenti, anche ai massimi livelli. Battistin, Rossi Bernardi, Blasi, Cresci, Unguendoli, Tallarida nella DC (con l’on. Tesini e il prof. Stella come primi interlocutori), Faranda e altri nel PSI (con Benadusi e Capogrossi), ma ancor prima con Valitutti e Spadolini. Né mancavano colleghi CNU attivi nell’ambito anche di altri partiti, sia di maggioranza che di opposizione. Non è forse del tutto fondata la leggenda che l’amico Paolo Blasi abbia scritto le parti della nuova legge universitaria su dipartimento e dottorato di ricerca, ma è certo che in questi articoli della 382 c’era molto del CNU. Anche dietro il ricercatore universitario di nuova concezione c’era un’idea CNU, mentre ce n’era assai meno nei molti interventi di successiva rifinitura della nuova figura. I ministri in carica erano in 174 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri discreta sintonia con noi, in particolare Franca Falcucci, così come il quasi onnipotente direttore generale del Ministero, dott. Domenico Fazio (Mimì per gli amici), che pure nutriva le sue buone riserve su varie questioni e avvertiva la pressione dell’ala conservatrice dell’accademia. Quell’ala, per intenderci, che di lì a poco riuscì a evitare la messa in soffitta della facoltà universitarie, che rimasero in piedi accanto ai nuovi dipartimenti. Ma le facoltà le volevano mantenere anche quanti temevano lo strapotere dei veri poteri accademici, a fronte di settori più deboli o emergenti. Ad esempio Achille Ardigò, un democristiano non sospetto di conservatorismo, organizzò un convegno a Bologna per “salvare” la sua facoltà di Scienze Politiche da poco istituita. Il direttore generale dott. Fazio frequentava regolarmente i congressi del CNU, che talvolta si svolgevano in concomitanza delle riunioni annuali dei direttori amministrativi delle Università, ma non amava sentir parlare di CUN. Per dare un’idea della temperie e delle relazioni di quegli anni, cito un episodio. Un mattino che eravamo a Roma, Francesco Faranda, allora presidente del CNU, mi chiede di accompagnarlo in qualche visita, tanto per non comparire da solo di fronte ai suoi interlocutori. Saliamo alla segreteria del Ministro dell’Istruzione in carica, che era Guido Bodrato, e Faranda si presenta al commesso dicendo che vorrebbe salutare il ministro; non aveva appuntamento, “solo un minuto”. Dopo un minuto siamo ammessi al cospetto di Bodrato, abbracci e feste, poi Faranda fa “Allora Guido, è tutto a posto?” e il ministro risponde “Certo Ciccio, tutto a posto”. Ciò detto usciamo, e mi azzardo a chiedere di cosa si trattava. Si trattava dei nuovi stipendi dei docenti. Poi partiamo in taxi e ci fermiamo all’entrata del Ministero del Tesoro in via XX Settembre. Faranda si fa ricevere e il Ministro subito ci riceve e conferma: affare fatto. Altro che CUN. Però: il CUN in quelle circostanze agì sempre come stanza di confronto continuato fra le parti e in qualche modo riuscì a rimuovere contrasti, a smussare polarizzate opinioni, a far colloquiare anche nel privato esponenti di aree divergenti. Nel suo piccolo, oso oggi ragionare, il primo CUN fu forse paragonabile a un miniparlamento in cui si facevano prove di grande, ma autentica, coalizione? Quanto ai rapporti addirittura affettuosi fra Bodrato e Faranda (e fra questi e Marco Pannella e Massimo Teodori e Claudio Petruccioli e Nuccio Fava e Brunello Vigezzi e tanti altri), essi in parte si spiegano con la militanza di tutti costoro, a suo tempo, nell’UNURI, la rappresentanza nazionale degli studenti. I raggruppamenti dell’UGI (laici) e dell’Intesa Universitaria (cattolici) avevano ospitato per anni docenti, politici e giornalisti in formazione in una sorta di parlamentino studentesco. Una scuola di politica universitaria che si perse col cosiddetto ’68, così come si squagliarono come nebbia al sole gli organismi rappresentativi studenteschi locali, fucine di gruppi dirigenti. Ahi serva Italia, come sai distruggere tutto ciò che funziona mentre funziona, per poi piagnucolare nel deserto che hai voluto! Fuori, intanto, le Brigate Rosse e altri micidiali gruppi eversivi rossi gareggiavano in orribili e assurdi attentati, che purtroppo colpirono anche docenti universitari, da Bachelet a Tarantelli ad Alessandrini (e in seguito Ruffilli e D’Antona e Marco Biagi e altri ancora). I terroristi “neri” invece ammazzavano in massa come d’abitudine, così alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, o facendo direttamente saltare i treni – tornerò fra poco su questo problema. Ma da qui in avanti è meglio procedere per temi. Minimemorie da CNU e CUN 175 Idoneità e concorsi a professore Una volta varata la legge universitaria bisognava attuarla, e si cominciò subito con la creazione della seconda fascia dei professori. Tutti gli anziani come me ricorderanno quei concorsi di idoneità partiti in fretta e furia nei primi anni ’80, che assorbirono a lungo le fatiche di centinaia di esaminatori per migliaia di candidati, un notevole impegno anche materiale delle commissioni che dovevano lavorare di fotocopie e strumenti elettronici ancora rudimentali (detto col senno di poi: imparai dell’esistenza del fax nel 1979) per numeri inconsueti di esaminandi. Al CUN toccava approvare gli atti ed erano ogni volta grossi fascicoli di incartamenti (in gergo “faldoni”), e guai se si saltava una seduta per meglio valutare un caso più delicato: subito arrivavano pressioni da colleghi per concludere alla svelta. Al contrario, rispedivamo con una certa frequenza gli atti alle commissioni dei vari settori scientifico-disciplinari, indicando gli aspetti da riesaminare e costringendole così a riconvocarsi. Talvolta i metri di giudizio adottati dalle commissioni esaminatrici apparivano troppo severi o arbitrari, perché gli accademici avevano stabilito soglie elevate per il conseguimento dell’idoneità o, senza dirlo esplicitamente, avevano deciso un numero chiuso; ciò andava contro lo spirito e le norme della legge, che era chiaramente diretta ad immettere nei ruoli quanti lavoravano da anni in Università producendo una valida ricerca scientifica. A parziale discarico di queste commissioni bisogna riconoscere che non esiste un limite inferiore definito per le idoneità, o almeno individuarlo è difficile e abbastanza arbitrario. A maggior ragione dovemmo fare in fretta quando si trattò di approvare le chiamate a cattedra dei nuovi professori associati, leggendo al microfono i nomi da lunghe liste comunicate dalle facoltà. A volte queste faticavano a trovare una collocazione adeguata ai tanti nuovi “idonei”: la distribuzione equilibrata del personale è sempre stata un sogno impossibile nei nostri atenei, e in più casi accadde che il numero dei docenti rischiasse di superare quello degli allievi (oggi no, non c’è più niente per nessuno). Sicché quando esageravano nell’inventiva si chiedeva alle facoltà di ripensarci, magari dando qualche suggerimento, che spesso fu quello di inquadrarli tutti sulla materia base del settore scientifico-disciplinare. Creammo così altri malumori fra i presidi, andirivieni continui di carteggi, anche se capivano che da parte nostra c’era impegno e buona fede e si cercava di favorire degli assestamenti più equilibrati. Grazie anche alle impiegate del Ministero, che lavoravano sodo, il grosso dell’enorme malloppo fu disbrigato comunque in tempi relativamente brevi. Fu allora che il ministro Falcucci gridò allo scandalo delle 3000 materie o “discipline” degli inquadramenti, segno a suo dire inequivocabile di sperperi negli atenei. Spesso si trattava di sinonimie, magari con sottili differenze semantiche (classico il caso Chimica fisica alias Fisica chimica, dove il sostantivo – la prima parola – e l’aggettivo – la seconda – tradiscono la provenienza dello specialista). Il CUN stesso venne accusato, in genere a torto, di avere inventato qualche nuovo nome di materie al posto di quelle che andava cassando. 176 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri I ricercatori Anche l’idea del ruolo del ricercatore, secondo una diffusa opinione, risalirebbe a Paolo Blasi e a Francesco Faranda. Blasi aveva ideato per gli enti di ricerca un ruolo unico articolato in tre fasce, e anche per l’Università aveva proposto più fasce di ricerca come carriera autonoma collaterale al ruolo propriamente docente. Ma nell’Università due fasce alte, cioè i professori di prima e seconda fascia, c’erano o si stavano creando e non gradivano averne altre al fianco, e per questa e altre ragioni l’ipotesi originale non aveva avuto seguito. Si voleva tuttavia superare la figura didattica dell’assistente alla cattedra e quindi venne formalmente introdotta la figura del ricercatore senza quasi attività di docenza (da zero a 60 ore all’anno), tutto dedito alla ricerca e in questa ufficialmente autonomo; in pratica tutti si aspettavano, gli interessati compresi, che un po’ di didattica i ricercatori l’avrebbero fatta. Dunque si definirono al CUN i settori scientifico-disciplinari dei ricercatori, che nella maggioranza dei casi ricalcavano quelli dei professori di prima e/o seconda fascia, ma in qualche caso vennero ampliati. Alcuni di noi infatti pensavano che l’assunzione di nuovo personale di ricerca nella specificità dei diversi atenei avrebbe tratto beneficio da un serio confronto fra persone e scuole, in termini sia di merito che di trasparenza. E per un certo periodo così fu per alcuni settori, fino a quando, anni dopo, non prevalse nel CUN il sacro mito dell’eguaglianza delle categorie unitamente alle discrete pressioni delle lobbies professorali, con la conseguenza che tutti i settori divennero “verticali”. Talché ogni professore ordinario divenendo commissario poté nuovamente piazzare chi voleva nella sua sede, senza la noia di concorrenti di altra provenienza e formazione. Ma nella sostanza non cambiava poi molto nel sistema dei concorsi locali a ricercatore di ruolo. Questi concorsi, come tutti gli altri, sono validi e onesti se sono valide e oneste le persone che li gestiscono, e in caso contrario non lo sono: infatti possono essere facilmente manipolati a vantaggio di parenti, amici, amanti, sodali di partito e così via. Un peccatuccio in cui caddero molti professori, notoriamente a Medicina ma spesso anche altrove. In molti casi vigeva la prassi di scoraggiare in vari modi la partecipazione dei candidati, anziché pubblicizzarla al massimo come si fa in tutti i Paesi avanzati. Con i risultati che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi: anche dopo che un governo qualche anno fa decise di abolire, anzi “mettere a esaurimento”, la figura del ricercatore (ma credo per banali motivi di spesa). Adesso i nuovi, giovani ricercatori sono pochissimi e tutti a termine, hanno in media una decina di anni di ricerca alle spalle fra laurea magistrale e dottorato e assegno, e ringraziano pure il Signore di avere almeno questo nel prossimo periodo. Altro che i “poveri” assistenti di ruolo degli anni ’60, che assunti con concorsi locali all’età media di 25 anni venivano trasferiti ad altri ruoli statali dopo altri 10, se nel frattempo non conseguivano la libera docenza! Che poi fu abolita da una delle meno comprensibili riforme del ministro Codignola, stabilizzando in tal modo tutti gli assistenti ordinari nell’Università ma eliminando un forte incentivo alle carriere. Parte della responsabilità indiretta dell’abolizione della libera docenza si attribuiva ai medici (tanto per cambiare), la prassi essendo a quanto pare di non negarla a nessuno, fino al punto di screditarla: e chissà che non valessero anche criteri meno trasparenti, come pure capitava – e forse tuttora capita – per l’am- Minimemorie da CNU e CUN 177 missione ad alcune scuole di specializzazione. Tornando ai primi anni ’80, si espletavano intanto anche le idoneità a ricercatore, con migliaia di idonei. Non tutti i nuovi ricercatori da idoneità naturalmente erano della stessa qualità, perché le provvidenziali norme di legge fatte inserire dai sindacati ammettevano alla ruolizzazione su posti lifelong tutti i borsisti, gli assistenti non di ruolo e perfino gli aiutanti alle esercitazioni. Le selezioni non furono quasi mai tali, perché l’occasione era ghiotta: si apriva la possibilità di ampliare gli organici del proprio gruppo o settore, immettendo senza colpo ferire dei giovani fidati (e grati). Così entrarono in ruolo ricercatori bravissimi e altri mediocri, in una grande abbuffata che non aveva precedenti nella storia dell’Università italiana e certo non giovò nel complesso all’immagine dei ricercatori stessi. Basti pensare che, in seguito al dettato di legge e a ricorsi amministrativi, tutti o quasi i cosiddetti “medici interni”, giovani precari dei policlinici universitari che avevano conosciuto gli atenei essenzialmente frequentandone le lezioni, poterono accedere alle idoneità a ricercatore. Si diceva che fossero 600 solo a Napoli. Nel CUN sedevano quattro rappresentanti eletti dei ricercatori (Bollino, Chang, Miraglia, Vannini), che si sentivano tenuti a spuntare qualcosa per la loro nuova categoria. Per esempio, la legge non diceva che i ricercatori appartenevano a un ruolo docente, definizione che invece si applicava ai vecchi assistenti. L’idea di ricercatori non docenti nell’Università, un po’ a somiglianza dei vecchi tecnici laureati, frattanto passati a professori associati, appariva un tantino bizzarra e alla prova dei fatti si mostrò debole. I ricercatori volevano, eccome, avere un insegnamento, che volentieri i presidi gli assegnavano nel limite delle prescritte 60 ore (e oltre), in misura crescente via via che le risorse finanziarie e il corpo docente stricto sensu si andavano assottigliando. E poi, come negare che tutti coloro che insegnano nelle scuole di ogni ordine e grado, dalle materne in su, sono per definizione docenti? E i ricercatori no? Ma questa nel bene e nel male era la vulgata: i ricercatori universitari non dovevano considerarsi docenti. Nel secondo mandato al CUN (1983-86), di nuovo eletto rappresentante delle facoltà di Scienze quale professore straordinario (vari membri del primo CUN erano risultati vincitori di cattedra nel concorso bandito nel 1979), accettai di presiedere la Commissione Ricercatori, che doveva occuparsi di proposte in materia di stato giuridico. Esaminammo a fondo le questioni connesse e ci impegnammo nella ricerca di soluzioni che, nel rispetto sostanziale della legge approvata pochi anni prima, fossero ad un tempo organiche, innovative (per esempio proposi un periodo di preruolo di 4-5 anni, insomma una tenure track) e migliorative della condizione esistente. In particolare si puntava ad una ridefinizione della figura giuridica nel senso di ammettere i ricercatori ufficialmente al corpo docente. Ma i margini erano stretti, si avvertiva l’isolamento del gruppo dei ricercatori, e nonostante la solidarietà di molti colleghi un compatto schieramento di professori ordinari respinse tutte le proposte. Non se ne fece più niente e fu, credo, una occasione persa per un più razionale approccio alla questione. L’ambiguità di fondo del ruolo dei ricercatori e il diffuso malessere che ne conseguiva diede luogo per molti anni a un sotterraneo contenzioso, spesso orchestrato da persone che sulle contrapposizioni costruivano clan identitari e picco- 178 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri le fortune personali. Il contenzioso non cessò neppure anche dopo che i ricercatori ebbero ottenuto l’aggancio retributivo ai professori (auspice soprattutto l’on. Tesini). Il problema si è trascinato nel tempo, fino alla recente abrogazione del ruolo. Sarebbe stato forse più facile affrontarlo se proprio in quegli anni non si fossero formati gruppi e gruppuscoli sindacali autonomi di professori associati o di ricercatori, estremisti nelle espressioni più che nelle pratiche concrete, ma che per necessità di distinguersi e affermarsi riducevano progressivamente le possibilità di intervento del riformismo tradizionale armato di strumenti tradizionali, e rappresentato fra gli altri dal CNU. Il quale fortunatamente si era dotato per tempo di una Commissione Ricercatori che fu a lungo diretta da Margherita Chang della sede di Pavia, una personalità di spessore. Ma con i presidenti del CNU di quegli anni, da Battistin a Faranda a Cresci, i ricercatori non avevano tanto feeling e in ogni caso le condizioni al contorno stavano già cambiando. Il risultato più importante delle loro rivendicazioni era destinato a restare l’aggancio al trattamento retributivo dei professori. La ricerca scientifica La ricerca era fin dalle origini del nostro Comitato Nazionale Universitario un tema di attenzione e azione fra i principali, un tema sul quale era possibile far convergere tutte le migliori forze universitarie. La legge di riforma del 1979-80 dedicava sue parti importanti al rilancio della ricerca scientifica, con la creazione dei fondi nazionali per la ricerca universitaria (detti del 40% quelli a distribuzione nazionale, del 60% quelli ripartiti dai singoli atenei). Si crearono 14 comitati nazionali del 40% per aree scientifiche e se ne elessero i componenti con voto esteso a tutte le Università. Anche in questo caso il CNU e i sindacati confederali presentarono proprie liste per le elezioni, spesso contrapposte, anche se c’erano frequenti convergenze su nomi di studiosi noti e autorevoli. Spettava al CUN designare propri fiduciari alla presidenza di questi comitati, che di fatto si affiancarono al CNR nella ripartizione di risorse per la ricerca universitaria nazionale. L’assegnazione era effettuata sulla base di progetti competitivi di gruppo o di cordate, e – senza affatto escludere che ci fossero anche clientelismi e favori – tutti i gruppi di buon livello (o almeno discreto) se ne poterono avvantaggiare. Nell’anno o poco più che lo scrivente diresse la Commissione Ricerca del CUN, succedendo a Scaramuzzi dimissionario, la questione era per più aspetti al centro dell’attenzione. Fra l’altro si segnalavano anomalie nell’erogazione dei fondi da parte del Ministero, per quote di finanziamenti anche rilevanti a enti e singoli studiosi, fuori dei canali ufficiali; i quali, ovviamente, non potevano che seguire le linee tracciate nel parere del CUN emanato secondo legge. Ma in buona sostanza resta che lo Stato nel 1985-86 finanziava con 400 miliardi di lire all’anno la ricerca scientifica attraverso il meccanismo del 40/60%; poi c’era il CNR con i suoi programmi ordinari e i programmi speciali, aperti agli universitari, e le fonti locali e regionali ancora ricche. Altri tempi, decisamente. Oggi riandando con la mente a quel periodo sembra incredibile, ma fra progetti CNR e 40%, questi accessibili anche ai ricercatori universitari, la ricerca scientifica poteva disporre di cifre realmente ragguardevoli e di una ampia Minimemorie da CNU e CUN 179 base di personale attivo e motivato. Per fare un confronto, all’inizio del 2013 il CUN (attuale) ha dichiarato con preoccupazione che verranno ripartiti dal Ministero a fini di ricerca (FIRB, ecc.) per tutti i settori scientifici 13 milioni di euro, il costo di un paio di carri armati. Il CNR a fatica pensa a se stesso. Sarebbe come dire, tenuto conto dell’inflazione, che lo Stato spende direttamente per la ricerca meno di 1/20 di quanto faceva allora. Non voglio e non posso qui approfondire le conseguenze sul sistema, che del resto non è difficile immaginare, né i possibili rimedi. Ma queste scarne notizie fanno capire da sole che la politica negli ultimi 15 anni ha decretato la fine della ricerca scientifica, salvo i settori protetti di maggiore impatto mediatico, le ristrette élites che riescono ad accedere a finanziamenti europei e le raccolte private di fondi per la ricerca biomedica. Insomma, la situazione complessiva dell’Italia nella competizione internazionale a livello scientifico e tecnologico non potrà che continuare a declinare. Tutto qua? No, al CUN c’erano anche molte altre cose da fare. Ci si occupava dell’ammodernamento dei corsi di laurea, in particolare delle facoltà scientifiche, spesso con il prolungamento degli studi a 5 anni (la formula 3+2, foriera del futuro doppio livello di laurea). Ci si occupava della conversione dei corsi brevi in diplomi universitari biennali, in seguito purtroppo aboliti o convertiti in lauree brevi, e d’altro ancora. Ci fu poi il caso dell’Università di Trento, sulla cui statizzazione piantammo una grana perché, fra l’altro, si pretendeva che il rettore eletto fosse affiancato (e ampiamente condizionato) da un presidente del consiglio di amministrazione di nomina politica. Ora, se la Provincia di Trento è autonoma, doveva per questo venir meno l’autonomia della locale Università statale? Un caso che poteva minare le basi stesse della natura autonoma degli atenei, espressamente tutelata dalla Costituzione italiana e che di lì a poco sarebbe stata irradiata in tutto il mondo con la Magna Charta Universitatum (che venne redatta dal prof. Caputo e altri in occasione del IX Centenario dell’Università di Bologna, 1988). Naturalmente finì come voleva la politica, con minori correttivi, e Trento fu subito premiata con un centinaio di nuove cattedre. Quelle destinate alla facoltà di Scienze finirono tutte a rimpolpare i preesistenti corsi matematici e fisici, e le nuove lauree previste non furono mai istituite. A proposito, ma i treni? Oggi si viaggia da Milano a Roma in tre ore, ma negli anni ’80 ci voleva di più. C’erano, è vero, i Pendolini e altri treni abbastanza veloci, ma tante volte toccava prendere quel che c’era. Ma poi, gli attentati; si ricorderà quello del 1974 al treno Italicus, che fu fatto esplodere nella lunga galleria della Direttissima presso San Benedetto Val di Sambro; o quello terribile e incredibile alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. In quegli anni si viaggiava sulla linea principale italiana in compagnia 180 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri di poliziotti che passavano per le carrozze, e se restava una valigia incustodita sulla reticella dello scompartimento la si guardava di sottecchi sperando che il proprietario fosse andato al vagone ristorante. Attentati di matrice fascista, si diceva: ci sono state anche delle condanne, ma a cosa veramente quelle bombe dovessero servire non si è mai capito. Ufficialmente. Comunque, i nostri viaggi non tanto comodi erano ancora un po’ temuti nei primi anni ’80; ma gli anni peggiori della “strategia della tensione” erano passati, così come era ormai in calo la forza del terrorismo rosso responsabile, fra l’altro, della morte di Moro e di tanti docenti colpevoli solo di dedicarsi al loro lavoro con passione. Questa è la testimonianza di un docente qualunque, che da giovane poté vivere un periodo in qualche modo eccezionale. Dicevo prima che attraversare quegli anni in quel modo è stata una ventura oltre che un’avventura, e lo penso davvero guardandomi attorno quest’oggi. Credevamo in quello che facevamo ed eravamo fiduciosi di poter cambiare le cose, che in effetti sembravano cambiare rapidamente, e su questo quasi tutti ci riconoscevamo al CUN: questa era una differenza rispetto all’oggi. Ma i problemi e i misteri anche allora non mancavano. E bisogna infine riconoscere che anche il settore universitario non era del tutto immune – un po’ lo si evince anche da questa cronaca universitaria pur circoscritta, aneddotica e lacunosa – da errori, esagerazioni, dissipazioni, egoismi, familismi, furberie, inutili conflitti, e quasi nessuno di coloro che hanno avuto un pur piccolo ruolo in quegli anni può chiamarsene interamente fuori. Purtroppo gli errori del passato li stanno pagando e li pagheranno, duramente, i nostri figli e nipoti. 1994-2002 La Presidenza Sergi Il vuoto del dopo-Ruberti Sergio Sergi Il periodo a cui dovrei far riferimento in questo mio contributo è quello che va dal dicembre 1993 (XII Congresso) al marzo 2002 (XIV Congresso), periodo nel quale ebbi l’onore di ricoprire la carica di Presidente Nazionale del CNU succedendo all’amico Paolo Pupillo, tuttavia per capire ciò che accadde in questi lunghi anni devo fare qualche passo indietro cercando di delineare il quadro generale in cui ci muovevamo. Molte delle cose che scriverò derivano dalla esperienza da me maturata prima come componente del Comitato 03 di Consulenza del CUN, del quale ho fatto parte fin dalla sua costituzione, e quindi dal 1986 al 1997 quale componente del CUN. Inizierò quindi dagli anni ’79 e ’80 nei quali vengono approvate due leggi assai importanti per la vita dell‘Università: – la Legge 31/79 che istituisce il CUN (Consiglio Universitario Nazionale) come organo di consulenza del Ministro, che rappresenta la prima forma elettiva, sia pur abbozzata, di coordinamento del sistema universitario. – la legge delega 28/80 ed il decreto delegato 382/80 che rappresenta, dopo lunghi anni di contestazioni, di discussioni e di attesa, una riforma organica dell’Università. Era il tempo in cui esisteva un proficuo dialogo fra le Organizzazioni della docenza, gli Uffici scuola dei partiti, sia della maggioranza di Governo che dell’opposizione, e i responsabili del Ministero (allora della Pubblica Istruzione). Forse anche per questo alcune delle richieste avanzate dal movimento sindacale erano state accolte: – viene istituito il ruolo unico dei docenti, sia pure suddiviso in 2 fasce, – viene istituito il ruolo dei ricercatori, – vengono istituiti, in via sperimentale e facoltativa, i dipartimenti, – viene finalmente istituito il dottorato di ricerca, – sono fissate norme sugli obblighi dei docenti e sul tempo pieno/definito, – vengono previsti i piani di sviluppo dell’Università, – è dettata una normativa transitoria per l’inquadramento nelle nuove posizioni del personale docente in servizio, – viene istituito, per la prima volta, un fondo per la ricerca scientifica, diviso in due parti: il 60% per finanziare localmente le ricerche anche individuali ed il 40% per i progetti di interesse nazionale. Pur tuttavia dopo il primo entusiasmo, durato per tutta la prima metà degli anni ’80 in cui si sono affrontate e gestite le disposizioni previste dal DPR 382/80, in primis i giudizi di idoneità per prof. associato e per ricercatore, i nodi vengono al pettine: 184 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri – I ricercatori aspettano il loro stato giuridico – i professori associati si rendono conto che la loro non è una fascia del ruolo unico ma un vero e proprio ruolo separato – i concorsi che dovevano essere banditi con cadenza annuale non vengono banditi. Gli anni a seguire sono stati gli anni dei contenziosi in cui vennero avviati numerosi ricorsi in via giurisdizionale che portarono all’estensione dei giudizi di idoneità a professore associato a figure non comprese nell’elenco originario. Fin dall’inizio infatti non si capiva la ratio per cui, ad esempio, si privilegiava la figura del tecnico laureato rispetto a contrattisti ed assegnisti. Su queste basi sono stati accolti numerosi ricorsi e si sono avute ben quattro sentenze della Corte Costituzionale: nel 1986 (medici interni con compiti assistenziali), nel 1989 (contrattisti clinici), nel 1990 (assistenti volontari e contrattisti non clinici) nel 1991 (tecnici laureati). Con la sentenza del 1991 il diritto a partecipare alla terza tornata dei giudizi di idoneità è stato concesso anche ai tecnici laureati in servizio nell’anno 79/80, o comunque assunti entro il 1985 su posti banditi entro l’A.A.79/80. Molti contrattisti clinici sono stati valutati positivamente nel merito scientifico dalle Commissioni senza che sia intervenuto un provvedimento ministeriale. A questa confusione non si è data alcuna risposta per via legislativa, fortemente sollecitata, producendo una ulteriore e irragionevole sperequazione, in quanto solo i ricorrenti hanno potuto accedere ai giudizi. Su questo argomento grande impegno è stato profuso dai nostri ricercatori – Margherita Chang, Francesco Baldoni, Maria Rosa Rivasi, Gianluigi D’Agostino – debbo dire, purtroppo, con scarsi risultati. Negli anni successivi al 1980 sono state emanate una serie di leggi che hanno introdotto sostanziali modificazioni alle indicazioni del DPR 382/80 ed hanno in parte modificato il volto dell’Università (art. 5 L.537/93) o le connotazioni di alcune figure previste dalla Legge 28/80, come ad esempio i ricercatori, i quali, con interventi sporadici e slegati fra loro, hanno avuto, prima, il collegamento stipendiale ai professori e la possibilità di optare per il tempo definito (L.158/87), successivamente quella di ottenere supplenze ed affidamenti (L.341/90), quindi la legge 127/97 (artt. 104 e106) che prevede la paritetica rappresentanza di ordinari, associati e ricercatori nel CUN, poi la Legge 210/98 che prevede per i concorsi di ricercatore una commissione composta da un ordinario, un associato ed un ricercatore e infine la legge 4/99 che estende le mansioni didattiche dei ricercatori confermati ai ricercatori non confermati e abolisce la precedenza di ordinari ed associati rispetto ai ricercatori nell’assegnazione delle supplenze senza che per essi venisse definito lo stato giuridico previsto dall’art. 7, comma 17° della L.28/80 (Dopo quattro anni dall’entrata in vigore della presente legge... un disegno di legge... per definire il carattere permanente o ad esaurimento della fascia dei ricercatori confermati e nella prima ipotesi il relativo stato giuridico...). Sono passati quasi 20 anni e solo alla fine degli anni novanta inizia il travagliato percorso della legge istitutiva della terza fascia della docenza universitaria che dava in qualche modo una risposta alla pressante richiesta dei ricercatori di avere il loro stato giuridico. Il 29 aprile 1999 la Commissione VII del Senato approva in sede deliberante la legge istitutiva della terza fascia dei professori universitari. Riporto quanto scritto nella mia relazione al XIV congresso nel 2001: Il vuoto del dopo-Ruberti 185 La legge istitutiva della terza fascia, nella forma già approvata del Senato della Repubblica prevedeva: “in attesa della riforma organica dello stato giuridico della docenza universitaria”, la trasformazione del ruolo dei ricercatori in terza fascia del ruolo dei professori, la partecipazione dei professori ricercatori agli Organi Accademici responsabili della didattica e della ricerca, l’elettorato attivo per tutte le cariche accademiche, l’elettorato passivo regolato dagli statuti; ed in più attribuiva ai professori associati l’elettorato attivo e passivo per tutte le cariche accademiche, con eccezione di quello passivo per la carica di Rettore, e dettava, anche, norme per la composizione dei senati accademici. Il passaggio alla Camera, rimette in moto le cose, la legge, in seguito all’aumento delle pressioni, viene fortemente rimaneggiata, peggiorandola; viene presentato il ddl Zecchino, sotto forma di collegato alla finanziaria, che blocca definitivamente la legge sulla istituzione della terza fascia, in quanto parte della riforma complessiva dello stato giuridico dei docenti. La presentazione del disegno di legge, collegato alla finanziaria, di revisione dello stato giuridico dei docenti universitari è stato, a mio avviso, il colpo di ingegno del Ministro Zecchino (su commissione!!) per bloccare l’approvazione della legge sulla istituzione della terza fascia dei professori, ipotesi che era stata sempre osteggiata dai vertici del Ministero su mandato di una parte molto influente di docenti universitari, i quali sotto mentite spoglie di difensori dell’università e oppositori di qualsiasi forma di ope legis, nascondevano biechi interessi di bottega. Difendemmo ufficialmente e con forza il progetto della istituzione della terza fascia dei professori, anche se qualcuno di noi aveva qualche perplessità, perché eravamo e siamo ancora convinti che questa, in quel determinato momento, era la scelta migliore per due ordini di motivi: 1)perché ritenevamo che era una follia allungare a dismisura il tempo di permanenza in posizione non stabile all’interno dell’Università – vedi inserimento dei nuovi contrattisti in seconda fascia 2)perché ritenevamo non più procrastinabile la definizione dello stato giuridico dei ricercatori Sono gli anni in cui ricercatori e professori associati non sentendosi più ben rappresentati dalle Organizzazioni intercategoriali danno vita ad associazioni di categoria: l’ANDU e il CIPUR. L’ANDU in difesa dei diritti dei ricercatori che chiede a gran voce la terza fascia, il CIPUR in cui confluisce una parte dei Professori Associati. Nell’estate del 1987 Antonio Ruberti venne nominato Ministro senza portafoglio con delega alla ricerca scientifica e tecnologica, nel Governo presieduto da Giovanni Goria. Il Ministro della Pubblica Istruzione (che comprendeva ancora l’Università ma non la Ricerca) era invece Giovanni Galloni. Il programma di Governo prevedeva l’istituzione di un Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica inizialmente con lo strumento del decreto-legge e successivamente, per alcune forti opposizioni dentro e fuori al Governo, attraverso lo strumento del disegno di legge (DdL) che doveva contenere anche norme sull’autonomia universitaria e degli Enti di ricerca. Il disegno di legge istitutivo del nuovo Ministero iniziò un lungo iter legislativo che si concluse solo alla vigilia della caduta del Governo Goria nella primavera del 1989. Col passare del tempo il DdL si trasformò in un testo confuso e contradditorio che 186 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri comprendeva pochissime norme di immediata applicazione. Mentre il Parlamento discuteva sul DdL, il Ministro Galloni si affrettava a dare fondo, con una serie di decreti, al contingente di cattedre previsto da precedenti norme di legge e ancora non esaurito, ignorando qualsiasi criterio di programmazione, nonché alla distribuzione di un grosso numero di posti di tecnico laureato (mi pare di ricordare 1000!) di cui la maggior parte venne assegnata all’Università “La Sapienza” di Roma per le esigenze del policlinico universitario. La Legge 168 del 1989 istituisce il “Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica”. Caduto il Governo Goria, nel luglio 1989 nasce il Governo Andreotti. Il Ministero di nuova istituzione viene assegnato (come nelle aspettative) ad Antonio Ruberti che si dedicò a promuovere una legislazione per correggere gli errori e risolvere le ambiguità della legge 168/89. Nel dicembre dell’89 gli studenti della Facoltà di lettere di Palermo occupano la Facoltà sia per opporsi alla riforma Ruberti sia per protestare contro le pessime condizioni materiali della Facoltà. Dopo pochi giorni sette facoltà furono occupate: il 20 dicembre si svolse a Palermo una grande manifestazione che coinvolse circa diecimila studenti universitari e medi, che a loro volta occupavano le scuole superiori contro un progetto analogo di riforma portato avanti dall’allora ministro della P.I. Galloni. La mobilitazione palermitana riscosse molto interesse negli altri atenei italiani, a cominciare dalla Sapienza di Roma. Le assemblee che si svolsero in tutti gli Atenei decisero per l’occupazione. La notte del 27 dicembre a Roma in via Nomentana venne avvistata un pantera, è così che due giovani pubblicitari inventano lo slogan “la pantera siamo noi” e lo regalano agli studenti della Sapienza. Il movimento creò per le comunicazioni interne una “retefax” che divenne uno dei segni di riconoscimento degli studenti, precursore delle attuali e diffuse mailing-list, che serviva da aggiornamento continuo sui fatti che accadevano nelle occupazioni. Nel mese di febbraio il movimento vide sorgere delle crepe allorquando il Ministro Ruberti annunciò alcuni emendamenti alla legge. L’ala moderata del movimento, rappresentata da giovani comunisti e socialisti, fu più sensibile a questi emendamenti. Il 1 marzo del ’90, con tutte le facoltà ancora occupate, si svolse a Firenze una nuova assemblea, e il 17 marzo si tenne a Napoli una manifestazione nazionale a cui parteciparono circa 50.000 studenti, per quanto molte facoltà fossero già pronte a smobilitare. L’ala dura del movimento fece passare ancora una volta il rifiuto del progetto Ruberti nella sua interezza, tuttavia Napoli segnò la fine della Pantera come movimento di massa. L’ultima università a smobilitare fu Palermo, e l’ultima facoltà fu Architettura il 9 aprile 1990. In questi anni il Ministro Ruberti predispose 4 disegni di legge, il così detto “Quadrifoglio”, riguardanti: la programmazione, gli ordinamenti didattici, il diritto allo studio e l’autonomia. Di questi 4 disegni di legge solo i primi tre videro la luce, il quarto, quello sull’autonomia, che avrebbe dovuto correggere la 168, non fu approvato. Ci fu una serrata opposizione tendente a far includere norme sullo stato giuridico del personale universitario. Durante il Ministero Ruberti, forse anche a riprova che l’autonomia parcellizzata Il vuoto del dopo-Ruberti 187 che venne fuori non era quella immaginata da Ruberti (ha sempre parlato di autonomia di Sistema), venne valorizzato il ruolo del CUN tanto è vero che su molti argomenti il Ministro doveva decretare su parere conforme del CUN. Nella primavera del 1992 si concluse la X legislatura, nacque un nuovo Governo, presieduto da Giuliano Amato: il dicastero creato da Ruberti venne assegnato ad Alessandro Fontana. A questo punto quando fu chiaro che di norme generali sull’autonomia universitaria non si sarebbe più parlato le Università cominciarono ad applicare le norme previste dall’art.16 della legge 168. Solo norme ad hoc, varate alla fine degli anni novanta, quando era ministro Ortensio Zecchino, riuscirono a fare chiarezza, ad esempio, sulle procedure di elezione dei Rettori legittimando procedure che erano state bocciate dal Giudice amministrativo. Il CNU, nato nei primi anni ’70 dalla confluenza di associazioni di categoria UNAU, ANPUI, ANDU (formatasi per scissione dall’ANPUR, e da non confondersi con l’ANDU dei giorni nostri, ndr) – è la prima Associazione culturale e sindacale intercategoriale che si poneva come obiettivo, oltre alla difesa degli interessi dei propri associati, la realizzazione di un nuovo modello di università più democratica, più libera, meno conflittuale in cui doveva esserci una forte correlazione fra didattica e ricerca per un servizio alle nuove generazioni ed al Paese. Dalle esperienze delle varie associazioni che hanno dato vita al CNU derivava la convinzione che alla lotta per il rinnovamento dell’Università fosse necessario l’apporto di uomini e di forze di diversa estrazione ideologica e politica. La convergenza di forze diverse vuoi per passato politico vuoi per composizione categoriale non è stata un’operazione facile, ma, nel complesso, si è rivelata assai positiva perché sottoposta di continuo ad una serie di verifiche politiche che hanno messo in evidenza una unità sostanziale non solo sul piano tattico ma anche su quello degli obiettivi strategici. Il CNU fin dalla sua costituzione ha sempre considerato un arricchimento il confronto dialettico con i Sindacati Confederali e con le altre organizzazioni della docenza. Nel confronto necessario con i partiti politici ha mantenuto sempre la propria autonomia, individuando di volta in volta alleati ed avversari. La stessa autonomia ha mantenuto nei confronti del Governo facendo ben presente e con forza le proprie istanze. Il progetto elaborato dal CNU, oltre a proporre una nuova organizzazione della docenza, chiedeva una serie di norme che riguardavano il funzionamento complessivo dell’Università: – il dipartimento come comunità di lavoro fra docenti e studenti, in cui programmare la ricerca scientifica, garantendo, comunque, anche la libertà di svolgere la ricerca individuale, – il docente unico, che senza differenziazioni di potere e con mansioni non prestabilite e permutabili nel tempo, era indispensabile per una gestione democratica dell’Università, – un nuovo rapporto tra università e società, – l’attuazione di un vero diritto allo studio, – una politica seria nei confronti della ricerca scientifica partendo dal presupposto 188 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri che l’Università è la sede naturale della ricerca, – l’autonomia universitaria, – il dottorato di ricerca, non solo come strumento per il reclutamento dei docenti universitari ma anche per la formazione di ricercatori per gli Enti di Ricerca e per le Imprese. La “Grande Associazione”: una “affascinante utopia” Sin dalla sua nascita, il CNU, si è posto l’obiettivo ambizioso di dare vita a una “Grande Associazione” che rappresentasse unitariamente tutta la docenza universitaria. Grande impegno in questa direzione hanno profuso i vari amici che hanno guidato il CNU fin dalla sua costituzione – ricordo con affetto quelli che mi hanno preceduto: Faranda, Blasi, Pupillo, Ungendoli, Cresci e quelli che sono venuti dopo di me: Cordini, Indiveri, Simone, Gioffrè e Vecchio. Era il maggio 1998 si teneva il 1° Congresso dell’ADU – Associazione con la quale il CNU aveva avuto la maggiore affinità – che aveva per titolo “Quale futuro per l’Università? Una nuova Associazione unitaria dei docenti per una nuova Università”. Invitato a portare il saluto del CNU, ho ritenuto opportuno fare una valutazione sui primi anni della gestione autonomistica dell’Università. Riporto di seguito quanto ebbi a dire: Ricordiamo tutti come il sottosegretario Guerzoni (il Ministro era Luigi Berlinguer) presentando le linee guida del Governo sull’Università diceva: l’inefficienza presente nell’università italiana non è superabile di per sé, con un nuovo corpus legislativo, ma assumendo fino in fondo l’ordinamento autonomistico. L’inefficienza dell’Università è, quindi, legata alla sua mancanza di autonomia e ciò ha condizionato tutti i provvedimenti sull’Università. Il Ministero Berlinguer ha impresso una forte accelerazione verso questa direzione, con una strategia di riforma non più basata su una legge organica, ma con una “strategia a mosaico”, ritenendo Egli, a mio avviso, pericolosa e di difficile realizzazione una riforma organica dell’Università. Pericolosa, perché avrebbe innescato una reazione a catena nelle Università, di difficile realizzazione, perché sarebbe stato poco probabile trovare una maggioranza in Parlamento. Vi è stato, quindi, un largo ricorso alle deleghe, ai decreti legislativi, alle finanziarie, che sono necessariamente blindate per la rilevanza degli argomenti. Le valutazioni sull’operato di questo Governo, di questo Ministro, su cui molti di noi avevano riposto grandi speranze, sono in larga misura negative, sia in relazione al metodo che ai contenuti. Negativo è il giudizio su provvedimenti slegati fra loro, inseriti in contesti non propri, primo temporalmente fra tutti la riduzione di 2 anni del fuori ruolo, voluta fortemente dalla CRUI per liberare risorse alle università, inserita nella legge di accompagnamento della finanziaria ’95, che ha provocato diverse disparità di trattamento (in alcuni casi sembrano decisamente compromessi dei diritti quesiti) ed ha suscitato un ulteriore contenzioso, non conseguendo le finalità di risparmio che si proponeva. Negativo è il giudizio su come è intesa l’autonomia, sulla riforma dei meccanismi di finanziamento della ricerca, sull’abolizione e/o depotenziamento delle rappresentanze elettive dei docenti, negativo è il giudizio sulle modificazioni dello stato giuridico dei docenti, introdotte Il vuoto del dopo-Ruberti 189 surrettiziamente, e negativo è, infine, il giudizio sul mancato coinvolgimento delle organizzazioni rappresentative della docenza universitaria. A proposito di modifiche striscianti dello stato giuridico, mi sia consentito un accenno a quanto dovrebbe avvenire in seguito alla entrata in vigore del decreto legislativo 31 marzo 1998 n.80. Una prima lettura sembra indicare l’abolizione del meccanismo perequativo delle retribuzioni dei docenti previsto dalla 216/92, ma non solo, i fondi per la perequazione previsti dalla 334/97 vengono assegnati alle Università, che li erogherà “con particolare riferimento al sostegno dell’innovazione didattica, delle attività di orientamento e tutorato, della diversificazione dell’offerta formativa”. Esiste una differenza fra perequazione ed incentivazione? I nostri incrementi salariali, per il futuro, saranno demandati alla contrattazione in sede locale. Con quali regole? L’incentivazione sembra esclusivamente legata al potenziamento dell’attività didattica. Se questo fatto si mette anche in relazione con i nuovi meccanismi di finanziamento della ricerca nonché con gli obiettivi del sistema universitario (decreto MIUR 6 marzo 1998, art.1 comma a) “creazione e sostegno di centri di eccellenza”, compare un quadro che, a mio avviso, è preoccupante. Si delinea, ora chiaramente, un disegno di smantellamento del Sistema Universitario e la creazione di Università di serie diversa, Università in cui si fa solo didattica, ed altre, poche, dove si fa prevalentemente ricerca. Le conseguenze di tutto ciò, chiare a tutti, portano inevitabilmente all’abolizione del valore legale del titolo di studio ed hanno anche una forte influenza sullo stato giuridico del docente universitario, in quanto certamente non potranno essere trattati allo stesso modo soggetti che hanno attribuzioni differenti. Se non ricordo male, in un incontro con il Ministro sul tema della contrattualizzazione tutti avevamo espresso la nostra contrarietà, tanto è vero che il Ministro con una battuta (i docenti sono più attenti al loro status che al vulnus) aveva accantonato questa ipotesi. Finivo il mio intervento dicendo: Sulla base delle considerazioni testé fatte risulta chiara la necessità che coloro che operano nell’università, docenti e ricercatori, possano e debbano esprimere con forza le loro esigenze ed aspettative ed abbiano il dovere e il diritto a contribuire, con le loro proposte, alla costruzione della nuova Università. Finora, come tutti più volte abbiamo lamentato, vi è stata una scarsa attenzione da parte dei colleghi, forse anche per colpa delle Associazioni rappresentative della docenza e dei sindacati, ai problemi di carattere generale che di volta in volta si ponevano sul tappeto, ma più spesso vi è stata una assoluta chiusura al dialogo da parte di chi aveva la capacità decisionale. Le riforme, quelle serie, si fanno attraverso la concertazione, attraverso il coinvolgimento di chi dovrà guidare, gestire o subire il cambiamento; governo, imprenditori, docenti e studenti dovranno sedersi attorno ad un tavolo e discutere, ciascuno dalla propria angolazione, quale deve essere l’Università del futuro e quali sono le misure che vanno adottate per renderla funzionale al Paese. Solo così sarà possibile effettuare un cambiamento razionale e serio, solo così sarà possibile realizzare il cambiamento. Perché si abbia una qualche possibilità di incidere nel processo, a mio avviso, sono necessarie due condizioni fondamentali: 1) che il maggior numero di soggetti voglia convergere in una federazione 2) che ci sia una valutazione comune di tutti i soggetti sui principi ed una convergenza più 190 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ampia possibile sulle soluzioni. Per raggiungere questo scopo sarà necessario promuovere un dibattito serrato fra tutte le associazioni rappresentative della docenza universitaria e i sindacati confederali ed autonomi, incentrandolo sia sui principi che sulle possibili soluzioni. Le prime concrete iniziative in tal senso si sono avute durante la mia presidenza alla fine degli anni ’90. In una serie di CD (il back-up del mio vecchio computer) nei quali è racchiusa la vita del CNU degli anni della mia presidenza (e non solo!) ho trovato un file che ha per oggetto “La Federazione Unitaria dei Docenti Universitari”, i firmatari del documento (era il 27 novembre del 1998) sono Leo Peppe per ADU, Luigia Melillo per APU, Antonino Liberatore per USPUR (la vecchia ANPUR, ndr.) ed il sottoscritto per il CNU. Alla riunione parteciparono come osservatori anche i colleghi Ferraro e Avitto a nome del CIPUR e quest’ultimo anche per conto del CIDUM (Coordinamento Intersedi Docenti Universitari e Medici). È interessante notare come già allora era vivo l’interesse per questo progetto tanto è vero che si prospettavano tempi brevi per la sua realizzazione. Erano previste, infatti, comuni valutazioni sulle varie questioni allo scopo di formulare proposte unitarie, la costituzione di commissioni unitarie per preparare una conferenza nazionale da tenersi nei primi mesi dell’anno successivo. Di particolare rilevanza, nel documento, è la parte propositiva, anche per la sua attualità. Per tale motivo ritengo opportuno riportarla integralmente: le Organizzazioni firmatarie ribadiscono la necessità di approvare una organica e coerente disciplina di stato giuridico che risolva complessivamente un problema oramai aperto da troppo tempo e che sia occasione per un riordino della materia. Come è noto lo stato giuridico del docente universitario deve essere regolato dalla legge, in relazione al principio della libertà scientifica e all’esigenza di assicurare indipendenza alla funzione docente, nell’interesse della comunità nazionale e non per privilegio derivante dalla funzione stessa. Proprio in ragione di tali considerazioni, le Organizzazioni firmatarie, chiedono al legislatore specifica attenzione per la qualità della formazione dei docenti e per la valorizzazione della didattica e della ricerca che, nella qualificazione del docente universitario, sono e devono restare inscindibili . In relazione alle questioni relative allo stato giuridico le Organizzazioni firmatarie sottolineano i seguenti comuni orientamenti che potrebbero essere tradotti in un urgente provvedimento legislativo: a) un reclutamento a termine da riattivare rapidamente, mediante contratti; b) l’adesione ad un modello di docenza che, a regime, sia basato su di un unico ruolo, distinto solo in fasce stipendiali, con passaggi di fascia da conseguire sulla base di valutazioni ad personam dell’attività didattica e scientifica e delle altre funzioni svolte in ambito accademico. I docenti devono avere pari dignità accademica, con eguale riconoscimento degli elettorati attivi e passivi delle rappresentanze, del coordinamento delle ricerche e della direzione di organi di governo (con la sola esclusione dell’elezione a Rettore, per la quale funzione di complessiva rappresentanza e per la responsabilità, anche esterna, dell’Ateneo, compiti resi più delicati dall’autonomia, è bene riservare l’elettorato passivo ai professori che hanno maturato maggiore esperienza); c) la messa ad esaurimento dell’attuale ruolo del ricercatore, riconoscendo ai ricercatori confermati che abbiano acquisito adeguate esperienze didattiche e scientifiche (comprovate per anzianità di servizio e conferimento di insegnamenti per supplenza e per affidamento) l’immissione alla ter- Il vuoto del dopo-Ruberti 191 za fascia del ruolo docente con la presenza negli organi di governo e nelle strutture didattiche, così come l’estensione generalizzata dell’elettorato attivo e passivo, in coerenza con la ricomposizione unitaria della docenza universitaria; d) la valorizzazione del tempo pieno per tutti i docenti, conservando una netta distinzione della rimunerazione e riservando le incentivazioni, la direzione degli organi di governo e il coordinamento didattico e della ricerca esclusivamente a coloro che scelgono il pieno tempo. La promozione del tempo pieno si può sostenere rimunerando adeguatamente l’attività svolta nelle strutture universitarie; e) una riduzione della forbice retributiva tra le fasce della docenza e la concreta definizione della perequazione stipendiale, più volte prevista e sempre rinviata. La perequazione deve essere scissa dall’incentivazione per l’innovazione. Gli incentivi devono essere stabiliti sulla base di criteri determinati dal legislatore. Evidentemente la cosa non ha avuto alcun seguito – non ricordo purtroppo cosa sia successo, tanto è vero che nell’anno 1999 i vertici di CNU, CIPUR e USPUR, ritenendo indispensabile l’unione delle forze sindacali autonome per controbattere l’offensiva che veniva portata all’università pubblica, si incontrano più volte per tentare una unificazione delle tre sigle, nasce FEDERUNI. Tuttavia i rapporti interni a FEDERUNI sono stati sempre irti di difficoltà, in particolare per le posizioni intransigenti assunte dall’USPUR su tematiche non secondarie quali lo stato giuridico dei docenti universitari. Il solco fra CNU e CIPUR da una parte e USPUR dall’altra si è sempre più allargato non consentendo l’elaborazione di una strategia unitaria. Il CNU ha sempre ritenuto necessario affrontare questioni come: la riforma didattica, la riforma delle professioni, il valore dei titoli di studio, la ricerca scientifica, poco dibattute in seno a FEDERUNI a causa dell’assorbente ed eccessivo confronto sui laceranti problemi dello stato giuridico e sulle norme transitorie. L’esperienza FEDERUNI ha avuto vita breve anche per differenti valutazioni su alcuni temi quali ad esempio la collocazione o meno degli attuali ricercatori, terza fascia-sì terza fascia no. L’unica appendice ancora in vita di FEDERUNI è UNIMED, in cui a tutt’oggi, con fasi alterne, convivono i docenti delle Facoltà di Medicina delle tre associazioni. Ricordo con grande sofferenza i problemi su FEDERUNI che sorgevano durante le interminabili riunioni, e fuori da esse, le accuse di voler affossare la sua costituzione che mi venivano mosse da alcuni colleghi del CNU (amici carissimi quali Pagliarini, Mirri, Casanova), il logorio continuo nel doversi giustificare ed il tentativo, spesso inutile, di fare capire quale era il punto: FEDERUNI andava bene ma solo se c’era un minimo comune denominatore! Parlando di FEDERUNI e per meglio chiarire quanto detto non posso non riportare una lettera da me inviata, nel novembre 1999, agli amici del Direttivo ed ai Presidenti di Sede del CNU Colleghi ed amici carissimi, come ormai è a tutti noto la federazione è cosa fatta malgrado le differenze abissali che esistono tra le tradizioni, i programmi, ed i progetti delle tre Associazioni che hanno dato vita alla Federazione medesima. Ha ragione chi ha detto che la “montagna ha partorito il topolino” quando ha letto quel breve documento stilato come programma della Federazione: ma quello era il massimo 192 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri che si potesse ottenere come convergenza fra le diverse posizioni delle tre Associazioni, e sfido chiunque a riuscire a fare di meglio avendo a che fare con i compagni di viaggio che ci siamo trovati e con alcune posizioni interne al CNU che hanno dato man forte agli altri indebolendo le posizioni di chi tentava di far convergere il più possibile gli altri sulle posizioni del CNU. Ricordo a tutti che le contrapposizioni che si sono evidenziate nell’ultimo nostro Congresso erano se fare la Federazione ad ogni costo o se farla concordando un programma, e quest’ultima posizione è stata larghissimamente maggioritaria. I problemi comunque non sono finiti ed ogni volta che ci sarà una riunione del gruppo dirigente della Federazione e si dovrà parlare di cose serie che coinvolgono il destino dell’Università, dei docenti, dei giovani aspiranti e degli studenti e non di aria fritta ci saranno contrapposizioni perché diverso è il modo di intendere l’Università. Il CNU si è sempre distinto per avere una visione globale dei problemi universitari, non ha mai avuto una visione corporativa e si è sempre adoprato per la difesa degli interessi di questa o quella categoria solo se questo non comportava un conflitto con una visione organica dell’Università. Purtroppo la storia dei nostri due partner, CIPUR ed USPUR, è differente e quindi per stare insieme o cambia la nostra visione dell’Università o la loro, o forse possiamo solo sperare che si trovi un “punto alto” di mediazione che ci consenta, senza troppo abdicare al nostro passato, di percorrere questa strada insieme. Il motivo di conflitto dell’ultima riunione del comitato direttivo della FEDERUNI, senza peraltro rallentare il processo – tanto è vero che il Coordinatore pro-tempore, Sorriso, ha avuto mandato di provvedere alla stampa di due manifesti concordati da affiggere nelle varie Sedi – è scaturito dal fatto che una organizzazione ha pensato di lanciare un osso “virtuale” ad un gruppo di docenti, i professori associati anziani, (promozione per anzianità ad ordinario), proposta accettata da un’altra Associazione, (forse perché virtuale!) mentre ha visto contrario il CNU che riteneva che se doveva essere “virtuale”, e cioè se doveva essere un segnale di interessamento da dare ai colleghi per i loro problemi, derivanti dalla cattiva gestione dei concorsi dalla lunghezza delle procedure e dalle poche tornate concorsuali che si erano avute dal 1980 ad oggi, questo segnale doveva essere dato sia ad associati che a ricercatori. Se invece si voleva fare una cosa seria, che avesse la possibilità di essere accettata, bisognava proporre di ampliare, in fase transitoria, il numero degli idonei che le varie commissioni di concorso, sia per associato che per ordinario, avevano il compito di proporre. Ciò avrebbe risposto sia alle esigenze di verifica, da tutti richieste e necessarie per mantenere alto il livello della docenza Universitaria, sia a venire incontro alle richieste di “promozione” di chi meritevole ormai da tanto tempo ha visto frustrate le sue legittime aspettative. Un ultimo accenno alla legge sulla terza fascia della docenza. Il CNU ha accettato obtorto collo la trasformazione del ruolo dei ricercatori in terza fascia della docenza e lo ha fatto perché, pur non essendo la posizione tradizionale, era l’unica allo stato attuale possibile per consentire al ricercatore di uscire dal limbo in assenza di uno stato giuridico mai fatto. È stata accettata anche la creazione della terza fascia dei professori perché idee e soffiate su ipotesi di stato giuridico tendevano verso l’abolizione del ruolo dei ricercatori, la articolazione della docenza in due fasce e al di sotto una lunga fascia di attesa di ingresso alla docenza a contratto. Questo avrebbe significato costringere alla lista di attesa studiosi fino ad una età assolutamente inaccettabile, in quanto l’ingresso alla docenza sarebbe avvenuto alla fascia degli associati e quindi ad una età abbastanza elevata. Discorso diverso sarebbe stato se si fosse giunti a discutere di stato giuridico dopo avere istituito la terza fascia, come fascia di ingresso alla docenza, e quindi ad una età più accettabile. In questo modo il tempo di permanenza “precario” sarebbe stato notevolmente ridotto. Il vuoto del dopo-Ruberti 193 Io credo che sia assolutamente necessario chiarire alcune cose al nostro interno e deliberare con chiarezza sulle cose da fare, dentro e fuori della Federazione, se non si dovesse giungere con chiarezza alla definizione di una linea politica io chiederei che si fissasse la data di un necessario Congresso straordinario. Chiedo pertanto sin da ora la Vostra disponibilità a partecipare ad una riunione della Giunta Esecutiva ed a un successivo Consiglio Generale delle Sedi che si potranno tenere il 5 e 6 Novembre in luogo da concordare (potrebbe essere Firenze o Pisa). In questa riunione della Giunta ci sarà all’ordine del Giorno la voce sulla organizzazione dell’Ufficio di Presidenza del CNU. Un caro abbraccio Sergio Sergi Bisognava spesso ricordare che il CNU, ed io in particolare, sostenevamo la necessità di concludere il processo federativo pur nella convinzione che: non basta la ferma volontà di rimanere uniti ma è indispensabile avere comunione di intenti e di obiettivi; è opportuno privilegiare, all’esterno, le affinità e minimizzare le cose che ci possono dividere e, su queste, incentrare il dibattito interno. È necessario avere la capacità di prevedere quegli avvenimenti che a livello politico e governativo possano avverarsi (in tal senso il CNU in occasione della imminente discussione al Senato della proposta di legge sulla terza fascia docente si era prontamente preparato ed aveva sollecitato posizioni adeguate al tavolo della federazione), evitando l’incresciosa necessità di dovere decidere sotto la pressione di scadenze, magari su proposte da altri predisposte. Scrivevo ai nostri partner: La Federazione deve, per tempo, essere pronta a concordare posizioni unitarie che riescano ad indicare un “punto alto” di equilibrio, rispettando il dovere che tutti abbiamo, di rappresentare efficacemente il mondo della docenza universitaria ed i valori ai quali la stragrande maggioranza di noi aderisce. Non riuscendo a fare ciò, chiudendoci in posizioni elitarie, dividendoci, come è avvenuto in questi giorni, tradiremo di fatto le motivazioni strategiche che ci spingono alla federazione, indebolendo le proposte delle singole parti e – quello che forse è ancora più grave – mostrando una università appesantita da piccole beghe corporative, incapace di proposte adeguate ai rapidi processi innovativi che il progresso scientifico, l’Unione Europea e la globalizzazione dei mercati impongono. Daremmo per molti versi la bruttissima sensazione che siano le carriere, o peggio i privilegi delle varie categorie di docenti, e non gli interessi e le aspettative degli studenti e del Sistema Paese ad essere poste al centro della nostra attenzione. Sappiamo – poiché più volte ci siamo confrontati su queste cose – che quasi tutti i maggiori obiettivi di fondo ci uniscono; sappiamo che l’allargamento dei componenti che partecipano al nostro progetto federativo è importante per raggiungere questi obiettivi. Torniamo quindi sollecitamente al lavoro, superando gli ostacoli che abbiamo di fronte, operiamo con determinazione per rispondere, coerentemente al progetto federativo, al confronto con le forze politiche, con il Governo, con il mondo del lavoro e delle imprese. Concludevo, esprimendo le nostre ferme posizioni: il CNU ed io personalmente non abbiamo preclusioni preconcette nei confronti di chiunque condivida le nostre posizioni, e perciò lavoreremo sempre, all’interno della Federazione, per allargare più che sia possibile la sua base. Ricordo la querelle che era sorta in riferimento alla sottotitolazione di FEDERUNI. Secondo l’USPUR (e forse anche il CIPUR) doveva essere: Federazione Unitaria dei 194 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Professori Universitari, facendo fuori di fatto i ricercatori. Il CNU, in Consiglio delle Sedi, specificava che: Il titolo della federazione dovrà essere coerente con i contenuti per quanto attiene alle categorie di docenti rappresentate nella federazione, onde non sorgano dubbi sul fatto che i ricercatori universitari siano rappresentati a pieno titolo. La titolazione dovrà essere una delle seguenti: “Federazione Italiana della Docenza Universitaria” oppure “Federazione delle Associazioni Sindacali della Docenza Universitaria” oppure “Federazione CIPUR-CNU-USPUR”. Nello stesso consiglio delle sedi (Firenze 18 settembre 1999) veniva criticato fortemente quanto inserito nel documento programmatico di FEDERUNI relativamente alla riduzione del numero dei professori universitari, e alla ipotesi di creazione di una fascia di “eccellenza” per i professori ordinari. In questi stessi anni i vertici del CNU hanno seguito costantemente gli sviluppi del dibattito politico e dell’azione sindacale sulle questioni relative all’Università, promuovendo frequenti incontri e svolgendo una intensa opera di mediazione nei rapporti con i Sindacati Confederali e con le altre Organizzazioni della docenza. Il fine è stato sempre quello di rendere più incisiva la presenza delle Organizzazioni della docenza e di ottenere dagli interlocutori politici un ascolto più attento sulla problematiche che interessano i loro iscritti. Viene quasi istituzionalizzato il tavolo intersindacale al quale siedono i rappresentanti dei sindacati confederali e non, delle associazioni sindacali dei docenti e del personale tecnico e amministrativo, degli studenti, dei dottorandi. Malgrado, sui grandi temi che investono l’università, vi sia una grande assonanza fra i Sindacati Confederali e quelli che per brevità chiamerò autonomi, incombe come un macigno una grossa differenziazione: la contrattualizzazione! Nell’affrontare questo lavoro (sic!!) ho riletto molte delle cose dette e dei documenti prodotti durante la mia presidenza e con grande sbalordimento mi sono accorto che quanto avvenuto e scritto in quegli anni è assolutamente sovrapponibile a quanto avviene in questi anni. Ho tentato di riassumere, estrapolare, virgolettare, inserire in un discorso più omogeneo il tutto ma devo essere assolutamente sincero: non ci sono riuscito. E quindi soprattutto in questa ultima parte mi trovo costretto, anche rischiando di dilungarmi troppo, a riportare integralmente alcuni scritti che ritengo assolutamente indispensabili per una migliore comprensione delle problematiche che ci siamo lasciate alle spalle e che tuttavia ancora sono attuali e incombono sull’Università. Certo che il Lettore saprà cogliere l’essenza del discorso. La prima cosa che pongo all’attenzione del Lettore è la lettera che scrissi al giornale telematico “Università e Ricerca” (anno 1999): A 10 anni dalla prima uscita dell’edizione cartacea, e dopo alcuni anni di silenzio, vede la luce la versione telematica di “Università e Ricerca” che integra ed amplia il bollettino telematico del CNU, curato in tutti questi anni con dedizione dall’amico Sapigni. Il vuoto del dopo-Ruberti 195 Ho ritenuto doveroso, come presidente pro-tempore del CNU, esporre ai lettori, che spero siano molti, “le ragioni di una presenza” così come allora fece l’amico Paolo Pupillo. L’Università, ormai da alcuni anni, sta vivendo un momento particolare di grandi cambiamenti. Questi cambiamenti, purtroppo, non sono stati prodotti da una legge organica di riforma, e quindi immediatamente visibili, ma attraverso una serie di disposizioni legislative, spesso inserite in contesti impropri, la cui combinazione sta stravolgendo completamente il volto dell’Università. Le trasformazioni operate, che ricalcano spesso modelli con storie e culture diverse dalle nostre, non scaturiscono, comunque, da un dibattito interno all’Università ma da scelte politiche promosse dai “Consiglieri del Principe”, forse anch’essi professori ma da troppo tempo “sacrificati” ad altri incarichi e quindi lontani dalla realtà accademica e soggiogati dalla sirena esterofila. Secondo i promotori, queste trasformazioni, che riguardano tutti gli aspetti della vita universitaria (didattica, ricerca, concorsi etc.) hanno lo scopo di “superare l’inefficienza presente nell’università italiana”. Il tutto avviene in un clima di falsa democrazia: le commissioni ministeriali studiano e propongono (spesso ciò che vogliono il Ministro ed i suoi consiglieri), il Ministro, per predisporre la sua proposta “sente” la CRUI, quindi “informa” gli “altri”, e, fornito spesso di ampie deleghe, emana i decreti legislativi. Si è verificato spesso che nostri illustri colleghi, i Rettori, eletti dai docenti per gestire gli atenei e per rappresentarne le esigenze negli opportuni organismi, esprimano, invece, in seno alla CRUI, opinioni, portino posizioni, votino risoluzioni che nulla hanno a che vedere con il loro mandato, senza avere sentito il loro corpo elettorale e spesso in contrasto con l’opinione della maggioranza (ignara) dei colleghi delle loro sedi. Io credo che debba essere espresso un giudizio negativo su ciò che è stato attuato in questi ultimi anni: su come è intesa l’autonomia, sulla riforma dei meccanismi di finanziamento della ricerca, sull’abolizione e/o depotenziamento delle rappresentanze elettive dei docenti, sulla riforma dei meccanismi concorsuali, sulla nuova didattica, sul mancato coinvolgimento degli operatori universitari attraverso le loro rappresentanze. Ma potrei anche sbagliarmi! In questi ultimi anni oltre ad una assoluta chiusura al dialogo da parte delle forze politiche e del Governo, vi è stata, certamente anche per colpa delle Organizzazioni rappresentative della docenza e dei Sindacati, una scarsa attenzione da parte dei Colleghi ai grandi temi di carattere generale. È necessario fare in modo che i nostri Colleghi abbandonino il senso di sfiducia latente, determinata dallo stato di incertezza che ha pervaso l’Università in questi anni. Risvegliare questo interesse è compito delle Organizzazioni della docenza, così come è loro compito assumere tutte le iniziative tendenti alla creazione di un soggetto unitario in grado di rappresentare, con forza, nei confronti del Governo, delle Forze Politiche e degli organi gestionali degli Atenei le istanze dei docenti. Questo ultimo compito sembra essere assolto in quanto abbiamo già concluso un patto federativo con altre due importanti Organizzazioni della docenza universitaria, il CIPUR e l’USPUR. Mi piace ricordare che Il CNU è una libera associazione culturale e sindacale, che ha lo scopo, non solo di rappresentare i docenti-ricercatori dell’Università italiana e di difendere i loro diritti, ma anche di promuovere il dibattito sui temi che coinvolgono la funzione dell’Università e per trovare le misure che vanno adottate per renderla funzionale al Paese. Per dibattere sui dubbi che ci assalgono, per confrontarci con i Colleghi e, se possibile, per trovare insieme le misure che debbono essere adottate per consentire che l’Università continui a svolgere, nel migliore dei modi, quel servizio pubblico che gli è stato affidato dalla Costituzione: 196 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri queste sono “le ragioni della nostra presenza”. Per concludere mi piace ancora riportare quanto scrivevo negli anni della mia Presidenza, toccando credo tutti i temi che coinvolgevano la vita della Università: È doveroso ricordare che il CNU, fin dalla sua nascita, sostenne che il nuovo ordinamento universitario doveva poggiare su principi quali: il dipartimento, il dottorato di ricerca, la figura del ricercatore, il ruolo unico dei docenti, l’aggancio retributivo inteso come affermazione di autonomia del corpo docente; ed alcuni di questi principi furono recepiti nella legge 28/80 e nel DPR 382/80 che segnarono l’inizio del processo riformatore. Le disposizioni legislative degli anni ottanta, che riguardavano tutti gli aspetti della vita universitaria, avevano in sè tutti gli strumenti per consentire uno sviluppo ordinato dell’Università. Le trasformazioni in atto nell’Università riguardanti, ad esempio, la didattica (3+2+3) ricalcano modelli culturali e accademici con altre storie ed altre nature rispetto ai nostri; non provengono da un dibattito interno all’Accademia ma da scelte politiche promosse da consulenti, forse anch’essi professori ma da troppo tempo “sacrificati” ad altri incarichi. Il rischio della non paternità accademica è che, nell’applicazione, si perdano di vista il livello della ricerca e la qualità degli studi. Non è accettabile, invece, un processo condotto dal centro, senza alcun riscontro con le opinioni della maggioranza dei docenti, con l’intervento di un numero ristretto di persone non sempre portatrici di visione d’insieme. Le riforme, quelle serie, si fanno attraverso la concertazione, attraverso il coinvolgimento di chi dovrà guidare, gestire o subire il cambiamento; governo, imprenditori, docenti e studenti dovranno sedersi attorno ad un tavolo e discutere, ciascuno dalla propria angolazione, quale deve essere l’Università del futuro e quali sono le misure che vanno adottate per renderla funzionale al Paese. Solo così sarà possibile effettuare un cambiamento razionale e serio, solo così sarà possibile realizzare il cambiamento. Finora, come tutti più volte abbiamo lamentato, oltre ad una assoluta chiusura al dialogo da parte del Governo e delle Forze politiche, vi è stata una scarsa attenzione da parte dei colleghi – forse anche per colpa delle Associazioni rappresentative della docenza e dei sindacati – ai grandi temi di carattere generale. È necessario fare in modo che i nostri colleghi, alcuni dei quali, avendo perso ogni speranza, trascinano svogliatamente la loro esistenza, interessandosi tutt’al più ad eventuali incrementi stipendiali ed altri, troppo preoccupati per il loro futuro e desiderosi, alle volte, di recuperare opportunità tralasciate, abbandonino l’emergente individualismo e il senso di sfiducia latente, determinato dallo stato di incertezza che ha governato l’Università in questi anni e si interessino alle grandi tematiche generali. Risvegliare questo interesse è compito delle Associazioni rappresentative della docenza e dei Sindacati, come è loro compito assumere tutte le iniziative che portino ad una maggiore unità operativa e strategica, alla creazione di un soggetto unitario in grado di rappresentare le istanze dei docenti nei confronti del Governo e degli organi gestionali degli atenei. Ciò potrebbe essere realizzato attraverso un patto federativo che, comunque, perché abbia una qualche valenza, richiede due condizioni: 1) che il maggior numero di soggetti manifesti la volontà di aderire 2) che vi sia una valutazione comune sui principi ed una convergenza più ampia possibile sulle soluzioni. Per raggiungere questo scopo sarà necessario promuovere un dibattito serrato fra tutte le Asso- Il vuoto del dopo-Ruberti 197 ciazioni rappresentative della docenza universitaria e i sindacati confederali ed autonomi, incentrandolo sia sui principi che sulle possibili soluzioni. I danni prodotti dalle ultime amministrazioni centraliste sono sotto gli occhi di tutti, imputabili a cattiva gestione e gravi inadempienze quali, ad esempio, la mancata istituzione dell’anagrafe delle ricerche, la formalizzazione dello stato giuridico dei ricercatori, il rispetto delle cadenze concorsuali, ma sopratutto alla sottovalutazione del ruolo che l’università può e deve svolgere in un Paese come il nostro, che privo di qualsiasi materia prima, deve basarsi, per il suo sviluppo, sull’unica risorsa disponibile che è quella umana. Le disposizioni legislative degli anni ’80, che riguardavano tutti o quasi gli aspetti della vita universitaria, avevano in sé tutti gli strumenti per consentire uno sviluppo ordinato dell’Università ed avevano acceso grandi speranze che sono andate pian piano spegnendosi. I piani di sviluppo che sarebbero dovuti essere strumento forte di programmazione e di razionalizzazione, approntati sempre con gravi ritardi e soggiacendo a spinte corporative e/o clientelari, hanno portato alla frammentazione del Sistema Universitario ed alla sua dequalificazione. Sono state istituite, spesso in località esotiche, nuove università, nuovi corsi di laurea, diplomi, senza nessuna garanzia che fossero in grado di funzionare, sottraendo una parte consistente delle risorse disponibili al potenziamento delle strutture esistenti. Sono state inventate nuove formule come: gemmazioni, decentramenti e contraddizioni in termine come “costo zero”. Una delle accuse più ricorrenti che viene fatta all’Università è quella di scarsa produttività e per dimostrare ciò e, forse anche, per metterla in relazione allo scarso impegno dei docenti si fa riferimento alla bassa percentuale, circa il 30%, di laureati rispetto agli immatricolati, e questo è certamente vero. Diceva bene l’amico Pupillo nella relazione introduttiva al precedente Congresso: “l’Università, in questi ultimi vent’anni, si è mantenuta nei fatti elitaria nel proprio modo di far formazione, e l’ha fatto attraverso vari strumenti invisibili che comprendono: il prolungamento degli studi, l’irrigidimento e la moltiplicazione delle prove di valutazione, a volte altri deterrenti anche peggiori quali le liste d’attesa nelle tesi di laurea e perfino negli esami nelle Facoltà più affollate”. Pochi, comunque, hanno il coraggio di affermare che questa Università ha prodotto e produce, se non i migliori, certamente fra i migliori laureati rispetto a quelli degli altri Paesi, e che essi sono sempre apprezzati dai nostri colleghi stranieri. Come non è stato mai messo in giusta evidenza che a fronte di un impegno finanziario del Paese nei confronti della ricerca, 1,2-1,3% del PIL, che pone l’Italia al dodicesimo posto nel mondo, la produzione scientifica dei ricercatori italiani si attesta sul 2-2,2% della ricerca mondiale collocando il Paese all’ottavo posto assoluto. Se tutto questo è vero vuol dire che, malgrado tutto, la maggior parte dei docenti-ricercatori italiani, consapevoli della loro alta funzione, fanno il proprio dovere. Non credo che, operando una generalizzazione, sia possibile parlare di ricercatori disimpegnati e scarsamente interessati ai problemi e al futuro della ricerca scientifica. Esisteranno pure delle zone d’ombra; ma il discorso deve allargarsi perché è necessario chiarire che vi sono sì responsabilità del mondo accademico ma anche di chi ha gestito la cosa pubblica. È necessario, poi, che, con coraggio ed umiltà, si faccia autocritica dicendo con chiarezza che lo strumento concorsuale è stato alle volte male usato. Ma è altrettanto vero che l’assenza di uno stato di diritto, il mancato rispetto delle cadenze concorsuali, la cattiva gestione delle leggi e la loro, spesso arbitraria, interpretazione hanno giocato un ruolo determinante nell’aumentare l’entropia del sistema. In conseguenza di ciò tutti questi anni sono stati caratterizzati da un enorme contenzioso, ancora peraltro non risolto, che ha visto legiferare per l’università i TAR, il Consiglio di Stato, la 198 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri Corte Costituzionale con sentenze e risoluzioni spesso di dubbia equità, che comunque venivano incontro alle aspettative di singoli o gruppi, allargando sempre più il contenzioso e modificando, in qualche caso sostanzialmente, le previsioni normative delle leggi esistenti. Un caso emblematico è quello delle vicende degli ex contrattisti medici, che ha creato una prima disparità di trattamento tra i medici stessi e poi fra questi ultimi e quelli delle altre facoltà. Tutti i tentativi esperiti di risolvere questo problema o per via amministrativa o per via legislativa sono miseramente falliti. Ribadiamo che è: “sbagliato e rischioso attaccare l’Università come istituzione e respingiamo con fermezza l’irrazionale ed indiscriminata accusa di inefficienza e malcostume ingiustamente mossa all’istituzione da una parte dell’opinione pubblica e da quella stampa che ha sottolineato soltanto i dati negativi e le proteste”. Queste accuse di inefficienza e di malcostume, alle volte, sono state mosse anche da illustri colleghi, e quello che è peggio i Ministri in carica, spesso anch’essi colleghi, non hanno avuto il coraggio né di confermare né di smentire. Molte critiche, anziché proporre riflessioni obiettive e documentate sullo stato dell’Università italiana, considerando con attenzione le risorse finanziarie assegnate agli Atenei, i compiti espletati, le deficienze strutturali e l’impegno complessivo dei docenti, hanno posto l’accento, soprattutto, sui difetti del sistema concorsuale, che il CNU ha per primo rilevato, formulando proposte di riforma sempre disattese. Si tace sul fatto che la progressione nella carriera è stata fino ad oggi assicurata da regole di cooptazione che coinvolgono e dovrebbero responsabilizzare gli stessi docenti. Questo sistema non ha credibili alternative, ma deve essere profondamente riformato, adattandolo alla nuova realtà autonomistica, affinché l’Università possa recuperare la credibilità perduta. Alcuni sostengono che lo stato giuridico dei docenti è un problema interno all’università, che interessa solo loro e non la collettività. Questa, a mio avviso, è una eresia, perché è indubitabile che le strutture funzionano se gli operatori vengono ad essere messi nelle condizioni di ben operare, se il grado di soddisfazione dei loro bisogni, delle loro aspettative, è tale da motivarli per conseguire gli obiettivi di avanzamento della struttura e per aumentare la produttività del sistema. Oggi, come ho detto prima, una parte, non so quanto consistente, degli universitari è demotivata, e lo è, non solo, e, non tanto, perché la remunerazione è scarsa, ma sopratutto perché sono mancati gli incentivi, sono mancate le motivazioni. Non v’è dubbio che bisogna intervenire sullo stato giuridico dei docenti sopratutto per fare in modo che l’Università che costruiamo non abbia gli stessi problemi dell’Università di oggi. Per fare ciò, a mio avviso, è necessario estraniarsi dall’esistente ed immaginare l’Università del futuro, cercando, quindi, delle norme di raccordo che consentano di traghettare il vecchio nel nuovo. Autonomia per noi ha sempre significato assenza di condizionamenti esterni, che non è un privilegio, ma una prerogativa che discende direttamente dall’art. 33 della Costituzione (“l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”) per cui tutti i tentativi di incidere sull’autonomia del singolo sono anticostituzionali. Questo non significa che ognuno può fare quello che vuole, ma che tutti devono essere liberi di fare il proprio dovere e devono essere messi nelle condizioni di poterlo fare. Mi riferisco in particolare alla necessità di far sopravvivere la ricerca di base, o libera, che è quella che porta allo sviluppo delle conoscenze. Voglio, più esplicitamente di quanto abbia fatto prima, accennare al ridimensionamento del finanziamento statale per la ricerca ed ai nuovi meccanismi di erogazione dei fondi ex 40 %, ed alle conseguenze che ciò può avere sulla ricerca di base, essenzialmente individuale o di piccoli gruppi. Questa ricerca, che è quella che porta allo sviluppo delle conoscenze e che in ogni caso è propedeutica a qualsiasi altro tipo di ricerca (finalizzata o applicata) se non finanziata morirà. La Il vuoto del dopo-Ruberti 199 chiusura di alcune linee di ricerca snaturerebbe la funzione stessa dell’università, caratterizzata dal binomio inscindibile ricerca-didattica, che da luogo di produzione e trasmissione critica di cultura (di tutte le branche della cultura) diverrebbe il luogo in cui si fanno solo alcune ricerche, molte su committenza, e quindi condizionate con un effetto fortemente negativo sulla qualità degli studi. È certamente evidente a tutti che ciò porterebbe ad una concezione di Università-azienda che, per essere produttiva, si finanzia vendendo la sua struttura, la sua organizzazione, il suo “prodotto” e, quindi la sua “produzione” non potrà non essere che fortemente condizionata da chi contribuirebbe a finanziarla. Questo modello sarebbe l’antitesi dell’autonomia. Questa università non sarebbe autonoma ma condizionata nelle scelte dalla ricerca del consenso, ed il condizionamento non sarebbe solo del singolo docente ma anche dall’intera istituzione. Il risultato complessivo sarebbe negativo sia sotto il profilo culturale sia sul piano sociale. Il CNU ha sempre individuato quattro gradi di autonomia: del Sistema, del singolo Ateneo, delle singole strutture, del singolo docente e tutte insieme rispettano il dettato Costituzionale. I necessari provvedimenti volti a rimuovere in via definitiva l’impianto centralistico precedente devono tendere, rispettando le singole autonomie, a potenziare il rendimento dell’Università nel suo complesso, unitamente a quello dei singoli Atenei e, all’interno di questi, delle varie Strutture. Fin qui i miei ricordi e i file del mio PC. Con più tempo e maggiore “voglia” avrei potuto fare di più e di meglio e di ciò me ne scuso. Se ho tralasciato di parlare di qualcosa o dimenticato di citare qualcuno dei colleghi che con affetto mi sono stati vicini negli anni in cui ho avuto l’onore di essere il Presidente della nostra amata Associazione è certamente colpa dell’età ed anche di ciò chiedo perdono. 2002-2008 La Presidenza Cordini Il sistema universitario tra dibattiti e riforme Giovanni Cordini 1. Dal congresso di Parma del 2002 al congresso di Parma del 2008 Sono stato designato alla Presidenza del CNU dal XIV congresso nazionale che si tenne a Parma il 21 e 22 giugno 2002 e ho svolto questo incarico fino al XVI congresso organizzato sempre nella città ducale il 20 e 21 giugno del 2008 nel quale venne designato alla Presidenza l’amico e collega Franco Indiveri. Sono stati sei anni intensi ed importanti per il sistema universitario del nostro Paese. Dopo la storica riforma dei primi anni ’80 e i successivi interventi della “legge Ruberti” sull’autonomia, processo riformatore al quale il CNU aveva portato contributi rilevanti sia in sede di discussione, sia per le proposte e le indicazioni fornite in numerose occasioni di dibattito e nei Congressi, non vi erano più stati interventi riformatori di largo respiro e il sistema universitario aveva trovato un assetto stabile nonostante la riforme avessero lasciato irrisolte varie questioni, in particolare riguardo all’assetto della docenza e all’attuazione concreta e coerente dei principi di autonomia che pure erano bene definiti dal legislatore del 1989. 2. I caratteri originari del sistema universitario, la sua tradizione e le trasformazioni dell’età contemporanea In un importante convegno storico svoltosi in Messina dell’aprile 2004, ponendo l’attenzione sulla formazione storica degli statuti universitari e sulle origini dell’Università in Europa, non venne trascurata la comparazione tra differenti esperienze, mediante il qualificato contributo di molti colleghi stranieri. Un dato comune che si poteva trarre dalle diverse esperienze europee indicava che l’Università si presentò ovunque alla ribalta della storia come originale corporazione “indipendente” di maestri e di studenti. Fin dai primi tempi, e di volta in volta, nel corso storico, si possono trovare tanto condizioni di relativa indipendenza degli Atenei, quanto tentativi di soggezione delle Università al potere dominante. Si nota come l’indipendenza dell’istituzione universitaria sia stata del tutto compromessa solo per le intromissioni di regimi assolutistici, illiberali ed autoritari (BOBBIO). Esempi si possono trarre anche dalle vicende della Germania e dell’Italia durante il nazismo e il fascismo, tra le due guerre mondiali. Libertà dell’insegnamento e autonomia sono principi costitutivi distinti se pure nell’epoca moderna è dato riconoscere una connessione tra i due concetti. La stretta relazione tra autonomia universitaria e libertà accademica è presente nella con- 204 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri siderazione della dottrina e della giurisprudenza costituzionale e ordinaria di molti Paesi tra cui il Belgio, la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Spagna. La tradizione storica plurisecolare delle Università in Europa può fornire utili insegnamenti anche per il tempo presente, pure tenendo nel debito conto le radicali trasformazioni delle istituzioni universitarie nel corso storico. Con il Rinascimento e con il sorgere degli Stati nazionali le Università furono attratte nella sfera pubblica. Da corporazioni garantite da antichi privilegi concessi dall’Imperatore o dal Papa si trasformarono assumendo i caratteri propri delle fondazioni e subirono un duplice effetto: da organismi privati si mutarono in istituzioni pubbliche e da enti sopranazionali si ridussero a corpi nazionali. Nel secolo XIX° cultura, scienza, istruzione superiore erano assunte oramai come nozioni distinte, se pure le competenze potevano essere riunite in un unico Ente, secondo il modello dell’Università tedesca propugnato da Humboldt (DI GENIO) Verso la fine dell’Ottocento le Università persero il “monopolio del sapere”, sorsero le Accademie, le grandi Ecoles, le Technische Hochschulen e le Handelscchochschulen, istituzioni che talora si posero in concorrenza con l’Università tradizionale e che presto acquisirono una propria autonoma configurazione giuridica. La riforma di maggior spessore dell’Università europea è avvenuta in questo secolo XX°, per effetto dell’iscrizione di massa degli studenti, che ha comportato un mutamento del ruolo dell’istruzione superiore. Da “scuola di comando” volta a formare le èlites ed a fornire loro le tecniche e gli strumenti di governo, l’Università tende a trasformarsi in “scuola di mestiere”, intesa come istituzione che deve formare professionisti e stimolare le capacità produttive. Questo cambiamento ha seguito quello che ha visto le grandi corporazioni produttive e finanziarie divenire sempre più protagoniste del nuovo assetto politico della società moderna. La massificazione dell’Università, a giudizio di vari commentatori, sarebbe legata strettamente alla civiltà industriale e alle sue regole. Di conseguenza, nelle società contemporanee, all’Università viene chiesto, con maggiore intensità e più forti vincoli, di dedicare attenzione alla relazione tra cultura e sviluppo, adottando dei programmi intesi a rafforzare la collaborazione con il mondo esterno e facendosi carico delle esigenze dell’istruzione superiore permanente. Durante gli anni della mia Presidenza del CNU questa relazione è stata oggetto di un intenso dibattito. Vennero avviate allora varie iniziative intese a costituire dei “poli scientifici e tecnologici”, nei quali aggregare e rafforzare la cooperazione tra impresa e accademia. Si trattava di un percorso di grande interesse in quanto il Paese era carente in settori vitali, nei quali l’apporto della ricerca universitaria poteva risultare determinante: penso alle energie alternative, alla tutela dell’ambiente, alla difesa del consumatore e ai controlli alimentari sulla qualità dei prodotti, allo sviluppo del turismo e a tutto quanto è legato al design e alle produzioni di elevato valore qualitativo. Sono settori di punta dove riesce difficile conservare il primato se coloro che devono formare delle elevate professionalità non operano in sinergia con quanti lavorano sul terreno produttivo. Nonostante questa consapevolezza sovente le iniziative erano imbriglate da meccanismi burocratici e da un eccesso di regolamentazione. Gran parte di tali iniziative si rivelò di difficile attuazione e non produsse gli effetti auspicati. Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 205 3. Lo svuotamento dell’originaria funzione culturale e del ruolo egemonico degli Atenei e le trasformazioni del sistema universitario Dalle antiche origini e dal successivo svolgimento storico, fino ai tempi recenti si potrebbero trarre considerazioni di qualche interesse, dato che “lo svuotamento della funzione culturale dell’Università e del ruolo egemonico che agli Atenei è a lungo spettato nella formazione dell’opinione delle classi dirigenti” (Miglio) non dipende solo da cause contingenti e superficiali. È il risultato di trasformazioni profonde dei costumi e del mercato e di un lungo percorso nel quale il sistema universitario subisce mutazioni rilevanti, senza che questo cambiamento sia governato in base a programmi e progetti. Da un lato l’Università, come altre istituzioni tradizionali, sconta gli effetti della “crisi dello Stato” e della relativa perdita di sovranità interna a favore della sopranazionalità europea e della globalizzazione internazionale dei mercati. È radicalmente mutato, inoltre, il modello ottocentesco della “Scuola di Stato nazionale” (Bonvecchio). D’altro lato gli Atenei hanno perso il monopolio del sapere a favore di altri poli scientifici e di varie altre istituzioni pubbliche e private. Il processo di specializzazione della scienza e la crisi che ha investito tutto il sapere prodotto nella scuola superiore hanno inciso, non poco, sul ruolo dell’Università. L’Università, tuttavia, ancora oggi può essere considerata una comunità di studi e di ricerca, secondo la sua tradizione storica, anche se i caratteri di questa “comunità scientifica” variano da un Ateneo all’altro, soprattutto in relazione alle dimensioni e al legame che si stabilisce tra Università e territorio. È a questa configurazione di Università pubblica in cui studi e ricerca siano mediamente di buona qualità che io personalmente, ma anche la gran parte dei colleghi che aderiscono all’associazione che ho avuto l’onore di presiedere, siamo affezionati. Sembra destinato al fallimento ogni tentativo di riforma universitaria che non tenga in debito conto le esigenze degli studenti, la realtà in cui operano le strutture universitarie e la valutazione che viene espressa dalla comunità dei docenti. Penso che le punte di eccellenza possono emergere e realizzare ottimi risultati solo laddove la qualità degli studi è di buon livello in tutte le strutture che si denominano “Università”. Per tale ragione ritengo che si debba salvaguardare la relazione tra insegnamento e ricerca scientifica, senza svilire la capacità di premiare gli studenti capaci e meritevoli, consentendo loro di raggiungere i più elevati livelli negli studi. Gli atenei, nell’epoca contemporanea sono, come per il passato, in relazione continua e assai stretta con il mondo circostante e non possono sottrarsi all’influenza dei territori, dei pubblici poteri e delle private corporazioni. Semmai si deve notare la scarsa propensione del mercato e dell’industria privata a finanziare il sistema universitario ed a promuovere la ricerca di base. Chi non tiene conto di questa relazione non conosce la realtà universitaria del nostro Paese e non fotografa alcune delle ragioni di crisi che investono il sistema universitario. 4. Autonomia e libertà accademica L’antico concetto dell’autonomia universitaria, anzitutto, comportava l’indipendenza della corporazione, comprendente, addirittura, forme di iurisdictio. La giurisdizio- 206 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ne sugli studenti, dapprima esercitata dalla corporazione dei maestri, successivamente venne attribuita al Rettore, scelto a turno tra gli studenti delle varie nationes che componevano lo studio medioevale. L’Università determinava liberamente i curricula e si organizzava secondo proprie regole. Autonomia non ha il significato di “originarietà” dato che la gran parte degli Atenei, all’origine, ha derivazione esterna da un atto costitutivo, talvolta rafforzato da un privilegio regio o dell’autorità ecclesiastica, volti a garantire l’indipendenza e l’autodeterminazione della corporazione. Il significato giuridico della nozione di “autonomia” riesce controverso, in quanto può indicare sia forme di autoregolamentazione, proprie degli Enti indipendenti, sia una più o meno ampia libertà del singolo docente, garantita dalla legge e rafforzata da prerogative particolari, come quella che esonera i professori dal prestare il giuramento di fedeltà allo Stato. Si parla di autonomia anche per l’Università moderna per significare che ogni Ateneo può attendere ai propri compiti seguendo procedimenti di autoamministrazione e di autogoverno, esercitati sotto il controllo dello Stato e di altre autorità da esso dipendenti. Una ratio unitaria per l’autonomia dell’Università si potrebbe trovare nell’antica e non sempre rispettata indipendenza dell’istituzione, insita nel concetto originario1. Questo comporta una maggiore responsabilizzazione dei corpi accademici ma non significa disimpegno o disinteresse da parte dei pubblici poteri. Libertà dell’insegnamento e autonomia universitaria sono dei principî costitutivi distinti ed entrambi essenziali per l’Università europea. Un giurista americano ha osservato che lo stesso concetto di libertà accademica accolto negli Stati Uniti affonderebbe le radici nell’amministrazione dell’Università durante i secoli diciannovesimo e ventesimo nei Paesi del continente europeo, rilevando una affinità di principio, attraverso la comparazione di modelli (quello europeo e quello statunitense) che restano distinti e non sono omologabili. La dottrina costituzionale statunitense e quella europea concordano nella considerazione secondo la quale “l’autonomia personale della libertà accademica” può essere condensata nel principio costituzionale sulla libera manifestazione del pensiero, accolto in tutti i testi costituzionali di derivazione liberale. Questo fondamentale diritto alla libertà di espressione trova formale riconoscimento anche nei testi costituzionali e legali contemporanei, se pure con alterne vicende per ciò che concerne il suo svolgimento legislativo ed i profili sostanziali. Negli Stati Uniti la dottrina ha riconosciuto che ai docenti universitari viene assicurato il più ampio spazio di autonomia nell’organizzazione didattica e che è lasciata loro una discrezionalità quasi assoluta nella ricerca. Sembra fondato sostenere la tesi per la quale l’autonomia universitaria dovrebbe comprendere la libertà accademica, proprio per garantire l’autodeterminazione degli Atenei, assicurando la loro “indipendenza istituzionale”. Per aspetti fondamentali come quelli relativi all’organizzazione degli studi, al valore legale dei titoli, all’assegnazione delle risorse gli istituti universitari in Europa negli ultimi due secoli non hanno avuto una vera autonomia e sono dipesi, quasi totalmente, dalla volontà dello Stato. Gli statuti sono stati definiti non solo nel quadro dei principi costituzionali, bensì anche in aderenza a stretti vincoli normativi che hanno assai 1 Per un ulteriore svolgimento di questo profilo rinvio a Cordini G., Università, istituzioni e imprese. Aspetti di diritto comparato, in Il Politico, 1995, pp. 459 e sgg. Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 207 ridotto ogni difformità da un Ateneo all’altro, favorendo una sorta di serialità degli impianti statutari. Un’assoluta autonomia, del resto, non si può trovare neppure nelle istituzioni universitarie totalmente private nei Paesi che non conferiscono ad esse dei contributi pubblici. Gli Atenei che dipendendo, quasi esclusivamente, dal finanziamento dei privati e dalle rette degli iscritti devono tenere nel debito conto i vincoli imposti dai finanziatori e le richieste delle famiglie da cui provengono gli allievi, in particolare indirizzando l’impegno didattico ad una “preparazione professionale” che non induca una troppo marcata selezione e volgendo la ricerca verso modelli applicati. Qualche esempio concreto lo si trova, soprattutto, nell’esperienza del mondo anglosassone. Dove il finanziamento pubblico è determinante per la gestione degli Atenei questi trovano più stretti vincoli legali. L’autonomia universitaria, in un tale contesto, si difende, soprattutto, attraverso il riconoscimento della libertà accademica che trova svolgimento nel potere determinante del corpo accademico nelle decisioni relative all’ordinamento didattico, alla ricerca scientifica, alla selezione dei docenti, aderente, per lo più, al criterio della cooptazione corporativa. Questo metodo può dare dei buoni risultati se è applicato con rigore e senso morale (in Italia la qualità dei professori e il livello di preparazione degli studenti, nel passato, sono sempre stati elevati e tali da reggere molto bene il confronto con gli altri Paesi) e può produrre effetti assai deleteri se viene gestito secondo una visione nepotistica e distorta verso fini poco trasparenti. Riesce difficile immaginare un modello concorsuale che prescinda del tutto dall’uso che ne faranno coloro che sono deputati a governare il turn over dei docenti. Nella sua relazione sull’Università nel Regno Unito il Robins Committee, che pure proponeva tagli consistenti nei fondi destinati all’istruzione superiore e chiedeva l’introduzione di verifiche sulla spesa universitaria più rigorose di quelle vigenti, ebbe ad affermare, in principio, che la libertà delle istituzioni universitarie e la libertà individuale dell’insegnante sono componenti essenziali di una società libera, condizioni necessarie per la massima efficienza e l’adeguato progresso delle Università. Il Tribunale Costituzionale Federale della Germania ha ripetutamente affermato che la garanzia costituzionale della libertà della scienza, pur non imponendo un particolare modello organizzativo dell’Università (veniva riconosciuto che la rappresentanza di tutte le componenti universitarie negli organi di governo era da ritenersi pienamente compatibile con il principio costituzionale sulla libertà della scienza) ha posto una limitazione intesa a «negare legittimità a formule che non consentano ai docenti di esercitare un’influenza determinante e decisiva nelle deliberazioni che direttamente riguardino l’insegnamento e la ricerca» non ammettendo, in questi casi, la cogestione paritaria che veniva rivendicata dai movimenti studenteschi. 5. La ricerca universitaria: libertà delle scelte e indirizzi volti a promuovere aggregazioni ed applicazioni In un importante convegno scientifico promosso a Pavia dall’amico Piero Milani e da altri autorevoli soci in anni oramai lontani (gli Atti sono stati pubblicati nel 1987) il professor Bruno Coppi, del MIT (Massachusetts Institute of Technology) osservava 208 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri che «il requisito più importante di un ambiente universitario è quello di riuscire a creare un’atmosfera di democrazia delle discipline, nel senso che tutte , ricevano o non ricevano grandi stanziamenti, siano o non siano di moda, siano o non siano nella lista per cui sono previsti importanti temi internazionali, vengano comunque considerate parimenti essenziali». Quando dall’astratta indicazione di principio si vuole scendere sul piano dei contenuti da attribuire alla libertà scientifica è bene tenere conto di questa considerazione che riguarda la “ricerca libera”. Quanti svolgono compiti di ricerca nell’Università, infatti, devono poter accedere tutti ad una quota del finanziamento pubblico, senza che siano loro imposte delle aggregazioni per gruppi. Questa distribuzione di una parte delle risorse “a pioggia” è stata spesso oggetto di critiche, senza riflettere sulle garanzie costituzionali di libertà e indipendenza della scienza, che costituiscono la posta in gioco. Coloro che parteciparono ai lavori delle due giornate pavesi hanno fortemente segnalato che il lavoro scientifico individuale, se adeguatamente incoraggiato, può consentire, non meno del coordinamento in grandi gruppi, di approdare a risultati importanti, a volte prendendo avvio da una felice intuizione. Karl Popper, nell’intervento al convegno promosso dall’ADRAT-CNU all’Università di Pavia nel 1986 descriveva il compito arduo del ricercatore con le seguenti parole: it is the situation of a black man who in a black room, without any light, is looking for a black hat which may not be here2. 6. Il primato della ricerca universitaria e l’inscindibile relazione tra ricerca e didattica In varie occasioni il CNU faceva osservare che l’affermazione del “primato della ricerca universitaria”, tanto scontata da essere stata più volte ribadita nella legislazione, rischia di rimanere solo una petizione di principio se non si traduce in un’organizzazione della ricerca intesa a valorizzare l’impegno primario dell’Università. In un documento del 2005 scrivevo che “se si vuole rafforzare la competizione che il Paese deve affrontare nel contesto internazionale è bene confermare, nei fatti, la centralità della ricerca universitaria, posto che l’impegno dei privati, in questo settore, è molto circoscritto e investe risorse modeste. La competizione, che sembra travolgere gli Atenei dell’autonomia, almeno in un primo tempo, non si dovrebbe necessariamente estendere alla ricerca. Il sistema universitario merita di crescere nella qualità complessiva e di migliorare globalmente, in efficienza. In caso contrario, si dovrebbe mettere in discussione l’impianto stesso dell’autonomia, per incidere radicalmente sulle ragioni che comportano gravi inefficiente e sprechi di risorse, che sono già molto scarse”. In quel tempo ritenevamo apprezzabile che il Ministro Mussi, ancora prima di assumere l’incarico di Governo avesse sottolineato l’impegno del nostro Paese in ambito europeo per un consistente riallineamento delle risorse destinate alla ricerca. Si trattava, peraltro di una consapevolezza e di un buon auspicio che negli anni successivi non si materializzò. 2 K. Popper, The Growt of Scientific Knowledge, in P.A. Milani (a cura di), La ricerca scientifica nel contesto nazionale ed internazionale, Logos International, Pavia 1987, p. 23. Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 209 In un dibattito ad ampio raggio promosso dalle organizzazioni universitarie nell’anno 2005 osservavo che riguardo alle dimensioni e ai risultati della ricerca il confronto avrebbe dovuto investire tutto il sistema universitario. L’Italia assegnava alla ricerca mezzi e risorse inferiori rispetto a quelle degli altri Paesi avanzati, con il rischio di essere sempre più dipendente nei confronti dell’esterno. Il recupero di efficienza era assolutamente necessario ma di per se, non poteva consentire di risolvere i problemi strutturali. Per rimuovere tali limiti sarebbe stato necessario disporre di risorse comparabili a quelle dei Paesi concorrenti. L’impegno universitario nel campo della ricerca scientifica postulava la mobilitazione di tutte le forze disponibili, l’aggregazione delle competenze, per affrontare problemi cruciali dello sviluppo, l’estensione dello spettro tematico al quale fare riferimento per la ricerca di base, il rafforzamento dei collegamenti che potevano sostenere e promuovere la ricerca applicata. Coordinamento ed efficienza, in ogni caso, avrebbero dovuto accompagnarsi alla più larga disponibilità di risorse specificamente destinate alla ricerca universitaria. Occorreva anche rimuovere molti adempimenti amministrativi troppo gravosi e poco utili e verificare solo l’uso corretto delle risorse e i risultati conseguiti, senza dover dedicate una parte considerevole del proprio tempo di ricercatori alla risoluzione di nodi burocratici e alla compilazione di moduli e rendiconti ripetitivi. 7. Le relazione tra Enti di ricerca e Università, con specifico riferimento al ruolo affidato al CNR La riforma del CNR voluta dal Ministro Berlinguer ebbe risultati disastrosi e, nel tempo, ha prodotto effetti perversi indebolendo ulteriormente la ricerca scientifica del nostro Paese. Quella riforma soppresse i comitati di area centralizzando le scelte. Un indirizzo altrettanto centralistico governava il sistema che si avvaleva dei fondi ex40%. La comunità universitaria non venne consultata e il sistema universitario fu estraneo alla definizione degli indirizzi della ricerca applicata, così come nell’assegnazione delle risorse per la ricerca di base. Sarebbe utile riflettere su questa assai discutibile scelta “politica” di assegnare un ruolo subalterno alle comunità scientifiche di settore, in favore di “esperti” e “consulenti” nominati dall’amministrazione. La radicale riforma del CNR e il riordino degli Enti di ricerca, contribuì a scindere il virtuoso raccordo tra Enti di ricerca ed Università e diede avvio alla stagione dei tagli ai finanziamenti e della riduzione degli addetti, in contraddizione con le affermazioni di principio secondo le quali il Paese doveva rendere più efficiente il sistema e consolidare le strutture. Il CNU unitamente alle altre associazioni universitarie e della ricerca espresse forti riserve circa l’idea di configurare gli Enti di ricerca quasi esclusivamente come Enti ai quali i soggetti pubblici e privati commettono incarichi finalizzati di studio e ricerca, restringendo, se non annullando del tutto, gli spazi di libertà dei singoli ricercatori e vanificando le possibilità di dar vita a progetti autonomi. Le aree scientifiche d’interesse nazionale che erano collegate al sistema universitario non trovarono più un soggetto coordinatore e promotore quale era stato il CNR. 210 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri 8. Dalle riforme degli anni ’80 alle criticità del sistema universitario Negli anni della mia Presidenza mi sembra si siano accentuate alcune caratteristiche dicotomiche del sistema che si manifestarono già all’indomani delle parziali riforme introdotte negli anni ’80. In particolare non è stato risolto, fino a rivelare contraddizioni e incoerenze, il rapporto tra centralizzazione del sistema e autonomia della comunità accademica. Nella fase di avvio della discussione sulle riforme volute dal Ministro Berlinguer e poi in merito a quella che sarà definita la “riforma Moratti” avevamo fatto presente questa difficoltà elencando puntualmente tutte le criticità del sistema universitario. Avevamo ben presente, in quel difficile frangente, l’addensarsi di nuvole nere che orami minavano la credibilità di tutto il sistema. All’origine di questo inarrestabile processo di delegittimazione e di vero e proprio ludibrio che la stampa nazionale e i media fomentavano vi erano alcune reali insufficienze e molte distorsioni. In effetti il sistema manifestava una sorprendente continuità nella gestione del potere universitario nonostante i cambiamenti epocali che vi erano stati dalla riforma Casati in poi tanto nel regime politico quanto nella società sottostante. Da un lato la componente accademica veniva percepita, per molti dei comportamenti tenuti dai docenti, come corporativa e nepotistica. Gli universitari venivano identificati nei “baroni” che costituivano, a detta dei critici, una casta chiusa e impenetrabile a cui si accedeva solo per cooptazione sulla base di consorterie e consolidati interessi. D’altro lato si tendeva a mettere in luce l’incremento della spesa pubblica dovuto agli sperperi e alle allegre gestioni della finanza universitaria, senza fornire sempre dati attendibili e svolgere studi rigorosi. Lo stesso sistema delle imprese che, fino ad allora, aveva mostrato ben poco interesse nei confronti del sistema universitario e non aveva certo fornito un contributo significativo nel dibattito sulle riforme, aderiva a queste rappresentazioni critiche attraverso gli sporadici interventi dei propri organismi di rappresentanza. 9. La fase di decadenza del sistema e la “riforma Moratti” Il clima che stava montando nel Paese rendeva agevole alla politica fare di ogni erba un fascio per proporre l’immagine di un sistema universitario immobile, decadente e improduttivo, aprendo il varco verso un approccio fortemente critico che proponeva di limitare e condizionare le autonomie, ridurre i finanziamenti correlandoli a sistemi di valutazione, impropriamente utilizzati per contenere la spesa e non già per incentivare e premiare la qualità, bloccare il turn-over del personale per ridimensionare gli atenei, inserire limiti, parametri, meccanismi di referaggio, imbrigliamenti burocratici resi più complessi e invasivi dai sistemi informatici. Tutto questo trovava giustificazione in molti reali difetti emersi nella gestione degli atenei: a) un eccessivo ampliamento dell’offerta didattica, non sempre coerente e giustificato rispetto alle esigenze culturali e scientifiche dei discenti; b) la pronta adesione degli atenei alla richiesta dei territori per una delocalizzazione che fece proliferare le sedi e dilatare la spesa; c) comportamenti concorsuali poco corretti e del tutto carenti nella trasparen- Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 211 za; d) incapacità, contraddizioni, noncuranza e opacità nell’effettiva attuazione della riforma autonomistica che rendeva sospetta la stessa coerenza ed attitudine di questo principio regolatore, che pure il legislatore costituente aveva ritenuto importante per segnare la peculiare posizione giuridica del sistema universitario nazionale. Le riforme introdotte dalle leggi Moratti e Gelmini si possono meglio comprendere in ragione di queste premesse e trovano fondamento nella mutata situazione politica ed economica del Paese. 10. Il ruolo e le difficili convergenze del sindacalismo universitario Negli ultimi decenni, per una serie ampia di ragioni e circostanze che qui sarebbe difficile, per me, riassumere, il sindacalismo universitario, tanto confederale quanto autonomo, è stato impotente e del tutto inascoltato di fronte al riformismo esasperato e confuso che ha contraddistinto l’attività dei governi che si sono succeduti nel tempo. Abbiamo subito critiche spesso ingiuste e poco argomentate e non siamo stati in grado di esporre le nostre ragioni ad un più largo pubblico. La stampa, quasi sempre, ha rivolto attenzione all’Università solo per mettere in luce manchevolezze e comportamenti poco trasparenti, senza un esame approfondito ed obiettivo della situazione. Ciò ha costituito, com’è noto a tutti, la premessa per contrarre sensibilmente le risorse ed introdurre vincoli e limiti che hanno ormai sensibilmente ridotto l’autonomia degli Atenei e spesso umiliato i docenti e il personale che vi lavora (non ultima la discriminazione relativa al blocco degli stipendi a cui abbiamo reagito con l’iniziativa in sede legale, respinta poi dalla Corte Costituzionale). D’altra parte le organizzazioni sindacali della docenza sono state incapaci di realizzare una vera aggregazione operativa (sul modello della Magistratura) per cui si è prodotto un deficit di rappresentanza che ha consentito a tanti improvvisatori d’intervenire nelle questioni universitarie senza competenza e senza una documentata analisi delle diverse condizioni in cui gli atenei si trovavano ad operare, anche in relazione alle dinamiche territoriali. L’affastellarsi delle sigle non ha portato alcun beneficio e non ha certamente contribuito a rafforzare né il sistema universitario né la sua rappresentanza. Alla fine la Conferenza dei rettori ha svolto un ruolo suppletivo ed è stato l’unico debole interlocutore delle forze politiche e dei Ministri. Negli anni della mia Presidenza ho inutilmente tentato, in più occasioni, di avviare un dialogo fruttuoso con tutte le altre organizzazioni rappresentative della docenza. In particolare vi sono stati incontri e convegni nel corso della discussione relativa alla “legge di riforma Moratti”. In tale occasione cercammo, senza successo, una convergenza delle associazioni autonome della docenza. Non fu allora possibile trovare un accordo unitario soprattutto circa l’esigenza di ridimensionare le figure precarie e di offrire una stabilità di rapporto ed una reale possibilità di progressione ai colleghi più giovani. 212 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri 11. La riforma dei concorsi e le modifiche di stato giuridico dei docenti Nonostante il permanere di talune divergenze tra le rappresentanze universitarie circa le soluzioni da adottare si deve pur rilevare che non si era mai vista nelle Università italiane una quasi concorde presa di posizione fortemente critica contro il dissennato progetto di riforma proposto dal Ministro Moratti e volto ad assestare l’ultimo decisivo colpo alla già precaria condizione di disagio in cui versava il nostro sistema universitario. Dall’Assemblea Generale della CRUI alla stragrande maggioranza degli organismi accademici fino alla spontanea adesione di un vasto movimento di opinione, sono stati innumerevoli dentro e al di fuori della comunità universitaria coloro che hanno espresso perplessità e contrarietà, fino allo sconcerto per una legge improvvisata che avrebbe avuto molte negative incidenze sugli studi e sul futuro dei giovani. In particolare allora si osservava che i laureati migliori, in futuro, non avrebbero avuto alcun incentivo a favore della scelta di un percorso già molto impegnativo ed incerto come quello che deve seguire chi vuole dedicarsi alla ricerca e all’insegnamento universitario. La “legge Moratti” accentuò la burocratizzazione dell’Università, non riconobbe l’esigenza di separare nettamente il reclutamento dalla progressione nella carriera docente (secondo la logica del ruolo unico), estese il precariato, fece paventare il ritorno a forme di centralizzazione che, nel passato, diedero pessima prova, impose dei doveri puramente formali e poco efficaci ai nuovi ricercatori e professori, senza stanziare le risorse necessarie per attribuire dei compensi aggiuntivi non figurali e senza incentivazioni, umiliava la categoria dei ricercatori, lasciando nel vago l’assillante questione della valutazione degli Atenei e dei docenti. Il CNU è stato allora a fianco di coloro che erano impegnati attivamente nell’opposizione a questo progetto, senza alcuna preclusione ideologica o di schieramento politico. Ricordiamo di avere proposto, anche nelle sedi parlamentari e in accordo con altre associazioni, con i sindacati, con molti organismi accademici, delle valide soluzioni alternative, più volte enunciate nei nostri programmi, senza mai trovare ascolto. La vasta protesta ingenerata da questa pseudo riforma non è stata inutile. In qualche modo ha circoscritto il danno impedendo l’immediata messa ad esaurimento dei ricercatori (realizzata poi con la riforma Gelmini), la soppressione del tempo pieno, l’imposizione di una didattica squilibrata rispetto alla ricerca. La legge segnava, in effetti il fallimento delle istanze autenticamente riformatrici ed è stata il risultato di una politica sempre più povera di idee e di proposte, avvitata su se stessa e distante dalla realtà sociale e culturale di questo Paese. 12. Il giudizio del CNU sulla legge “Moratti” e le conseguenti proposte In un documento del 7 marzo 2005 osservavamo che mentre i principi enunciati nell’articolo 1 del DDL presentato dal Ministro Moratti erano del tutto condivisibili queste dichiarazioni d’intenti venivano sistematicamente contraddette nelle disposizioni successive. Il CNU si dichiarava favorevole ad avviare una rigorosa e seria valutazione delle singole Università, delle strutture in cui si svolgono le attività didattiche e di ricerca, dei docenti (lungo tutto l’arco della loro carriera). Il programma CIVR poteva Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 213 essere un primo utile passo per introdurre elementi qualitativi nell’assegnazione delle risorse a sostegno della ricerca pubblica. In quel contesto ci si dichiarava del tutto favorevoli nei confronti d’iniziative che potessero servire a garantire delle condizioni di trasparenza e di moralità nella gestione degli Atenei, contrastando ogni tendenza verso degenerazioni corporative che coprissero favoritismi ed intrallazzi. Ricordavamo che il motto che contraddistingue la nostra Associazione Leges sine moribus vanae indica un’aspirazione di fondo del CNU e mette anche in guardia dal facile ottimismo di chi fonda ogni soluzione sulla mera razionalità di un diverso modello concorsuale. Abbiamo sempre manifestato contrarietà nei confronti di un modello di assetto della docenza universitaria che non distinguesse nettamente il reclutamento, per concorso, dei giovani più preparati e motivati verso la ricerca e l’insegnamento universitario dalla progressione nella carriera docente di quanti sono già entrati in ruolo e devono essere valutati per l’idoneità al passaggio di fascia solo sulla base delle proprie qualità didattiche e scientifiche. Questo indirizzo, se pure parzialmente e con molte insufficienze, è stato poi recepito con l’avvio delle abilitazioni nazionali. Già allora, in effetti, giudicavamo utile accedere alla carriera universitaria mediante una selezione idoneativa nazionale seguita dal concorso di sede. La discussione sulla riforma consentì di elaborare proposte che, purtroppo, allora furono ignorate. Ad esempio si riteneva che il tempo pieno dovesse essere la condizione nella quale svolgere, di regola, l’attività universitaria, accentuando la distinzione (remunerativa e giuridica) tra quanti sceglievano di dedicare la gran parte del loro impegno all’università e quanti preferivano accedere ad una professione, ritagliando un tempo residuale per l’attività universitaria, intesa come aggiuntiva e complementare. Per queste figura sembrava opportuno conservare la condizione del tempo definito, consentendo di contrattare con il proprio ateneo il rispettivo impegno universitario. Ci dichiaravamo contrari alla assurda proliferazione di figure docenti (per contratto) e proponevamo di conservare una proporzione tra il corpo docente stabile e le provenienze esterne. Chiedevamo con determinazione di ridurre ad una sola figura contrattuale la fase di preparazione alla docenza, assicurando a quanti vi accedessero un equo trattamento economico e delle condizioni giuridiche pari a quelle presenti negli altri comparti ad elevata professionalità nella fase di formazione (dirigenza pubblica, magistratura). Eravamo contrari alla messa ad esaurimento dei ricercatori, prospettando la possibilità di un inserimento dei ricercatori nella fascia d’ingresso che avrebbe potuto costituire il regolare e stabile accesso al ruolo di professore universitario. Non ritenevamo una soluzione adeguata quella intesa a trasformare il ruolo del professore associato nel canale di reclutamento di una stabile docenza. Eravamo facili profeti, infatti, quanto facevamo osservare che una tale scelta non avrebbe consentito concrete possibilità di promozione ad un’intera generazione di studiosi, accentuando l’invecchiamento del corpo docente. 13. L’inascoltata progettazione proposta dal CNU e da altre componenti dell’associazionismo universitario: l’accentuarsi della crisi di sistema Nei progetti che avevamo presentato e che non posso qui commentare in quanto 214 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri sono bene descritti in numerosi documenti ufficiali (taluni riprodotti in questo volume) inseriti anche nel sito informatico del CNU nazionale3, ponevamo l’accento su due esigenze primarie: a) il riordino della docenza, definendo un ruolo unico, con l’articolazione del reclutamento attraverso un unico canale in cui il rapporto tra esigenze di turn-over e disponibilità finanziarie fosse gestito con criteri di equità ed equilibrio, in un arco programmatico pluriennale e contando su finanziamenti certi, se pure proporzionati secondo le esigenze di contenimento delle spese indicate nelle politiche di bilancio; b) l’impegno a sostenere la formazione universitaria e la ricerca con adeguate risorse assegnate puntualmente secondo una seria programmazione pluriennale, se pure mediante un sistema di qualità nella distribuzione dei fondi e di severo controllo circa la loro destinazione. Queste proposte hanno trovato consenso in molti settori dell’associazionismo universitario e non solo, consentendo di promuovere incontri intersindacali e dibattiti a cui hanno partecipato, in diverse occasioni, esponenti politici, rappresentati delle istituzioni universitarie e responsabili delle varie associazioni dei docenti. Abbiamo segnalato, per tempo, le contraddizioni tra i programmi elettorali che avevano considerato l’Università e la Ricerca come due sistemi strategici per tenere il passo con l’Europa e le opposte scelte di politica finanziaria che non tenevano in nessun conto questi obiettivi. Pensavamo che coloro che avevano coerentemente collegato la formazione e la ricerca allo sviluppo del Paese, prospettando un deciso mutamento d’indirizzo, avrebbero sostenuto i conseguenti impegni, adottando delle misure proporzionate agli obiettivi, ma la prima lettura delle leggi finanziarie e di testi collegati smentiva sistematicamente questa fiducia. Nonostante le dichiarazioni di principio e l’esteso, quanto inconcludente, coro delle buone intenzioni le consistenti riduzioni imposte agli Atenei in tema di spese obbligatorie dette “intermedie” costituirono la prima concreta risposta nel senso esattamente contrario allo sviluppo. Segnalammo subito che queste avventate decisioni rischiavano di compromettere il futuro per varie generazioni di giovani universitari. Ogni successiva manovra finanziaria confermava tali inconsulte decisioni, In esse non trovavano alcun incoraggiamento le scelte virtuose compiute da molti Atenei, nel segno del risparmio e della buona amministrazione e si avvilivano tutte le componenti della comunità universitaria. Le c.d. misure di contenimento della spesa sono state imposte e reiterate senza alcun criterio e non si è avuto il buon senso di contrastarle con efficacia e di porvi rimedio. Le motivate proteste della Conferenza dei Rettori sono state commentate con malcelato senso di fastidio e sono rimaste del tutto insoddisfatte. Stupisce che nel corso di numerosi convulsi dibattiti parlamentari siano state del tutto disattese anche le prese di posizione di numerosi esponenti della maggioranza e dell’opposizione che intervenivano per ricordare gli impegni programmatici e per chiedere ai Governi di non smentirli. Numerosi documenti (che possono essere letti in via telematica)4 attestano le nostre posizioni critiche e danno conto delle proposte che abbiamo avanzato per tentare di correggere i limiti introdotti con le riforme e di favorire un nuovo indirizzo della politica universitaria. 3 http://cnu.cineca.it/ . Si vedano, tra gli altri i doc. citati alla nota 2 seg. http://cnu.cineca.it/ Si possono citare ad esempio la “lettera aperta al Ministro dell’Università” del 18 aprile 2007; “Documento della Presidenza Nazionale del 21 giugno 2007; il doc. della giunta nazionale del 17 novembre 2007;il comunicato sul decreto-legge 180 e le linee guida per l’Università del 12 novembre 2008. 4 Il sistema universitario tra dibattiti e riforme 215 Già allora paventavamo i danni irreversibili e gravi derivanti da scelte d’indirizzo che si rivelavano incoerenti e dannose. Iniziò l’età perversa e deleteria delle improvvisazioni, dell’assenza di programmazione per l’assoluta mancanza di dati certi e di decisioni stabili, di confusione e incertezza nella gestione dei bilanci universitari per cui diversi atenei cumulavano debiti ed evidenziavano situazioni di spreco e dispersione delle risorse. Il sovrapporsi di provvedimenti confusi e contingenti, l’incremento degli obblighi amministrativi e il farraginoso e perverso meccanismo di controllo che sempre più burocratizzava ogni percorso comprimendo del tutto l’autonomia degli Atenei misero in crisi il sistema senza, peraltro, indebolire del tutto la qualità della nostra formazione e senza compromettere gli sforzi per conservare una competitività nella ricerca internazionale. Ciò fu fatto con grande abnegazione di molti e confidando sovente nelle personali qualità dei singoli docenti. Ciò nondimeno si venne profilando in quegli anni il crescente flusso di emigrazione intellettuale che, se da un lato conferma la qualità dei nostri studiosi, dall’altro lato comporta una perniciosa perdita di competenze e di forza intellettuale e costituisce un’ insostenibile costo per l’intero Paese. Sorse allora, in più occasioni, il dubbio che il Paese non fosse interessato a migliorare il suo sistema formativo e a potenziare la ricerca e che le frasi di circostanza, di volta in volta, pronunciate in ambito politico e in molte occasioni di dibattito, non fossero sincere. Si ebbe l’impressione che i veri decisori, nei pur differenti contesti, fossero tutti convinti che la crisi economica che si profilava già all’orizzonte dovesse essere affrontata anche riducendo le spese e gli investimenti per l’istruzione e la ricerca, senza fare leva proprio su questi fattori per impostare una politica di sviluppo. Altri Paesi hanno seguito una via ben diversa e ora sembrano affrontare la crisi con più stabilità e migliori prospettive. Riferimenti bibliorafici Bobbio N., Il futuro della democrazia, Torino 1984. Bonvecchio C. (a cura di), Il mito dell’Università, Bologna 1980. Di Genio G., Università e alta cultura in Germania, Napoli 1994. Miglio G., Scritti scelti, Milano 1988, II, pp. 557 e sgg. 2008-2011 La Presidenza Indiveri Il CNU e la Riforma Gelmini: lo scontro con i muri di gomma Franco Indiveri Nel giungo del 2008 il CNU, che celebrava il suo congresso nazionale presso il rettorato dell’Università di Parma, era costretto a constatare che ancora una volta i propositi governativi di riformare il sistema universitario italiano con una legge organica e foriera di innovazione erano falliti; infatti il CNU doveva confermare il proprio giudizio negativo sulla legge di 230/2005 che non aveva preso in considerazione le vere esigenze della istituzione universitaria, non aveva individuato gli strumenti attuativi per una seria riforma dell’Università, e non era stata resa operativa con la promulgazione dei numerosi decreti attuativi previsti. Partendo da questa considerazione il congresso del CNU aveva esaminato la situazione del sistema universitario italiano ed aveva messo in evidenza alcuni dei problemi che rendevano poco efficiente il suo funzionamento suggerendone le possibili soluzioni. In sintesi appariva chiaro che il sistema era sovradimensionato, frammentato in unità operative molto disomogenee le quali non erano evidentemente in grado di produrre risultati omogenei e governato con criteri sorpassati e poco adatti alle esigenze attuali. Il sistema, nel suo complesso, risultava quindi inadatto a sviluppare le attività per cui era stato pensato: ricerca, formazione di laureati, formazione di nuovi ricercatori, contribuzione allo sviluppo della società. Il congresso si chiudeva con il proposito di sviluppare l’analisi dei problemi dell’università e di promuovere le condizioni ideali in cui i docenti universitari potessero svolgere al meglio il loro compito di promotori della cultura e formatori delle nuove generazioni. Il percorso del CNU sotto la presidenza Indiveri, che si muoveva dalle premesse riassunte qui sopra, si trovò a dover affrontare: 1) il percorso della nuova legge di riforma proposta dal ministro Gelmini che avendo assunto la responsabilità del dicastero decideva di dare avvio ad un nuovo processo di organizzazione dell’Università invece che dare corso alla attuazione della legge 230/2005 promulgata dal suo predecessore On.le Moratti, e non ancora attuata. 2) i rapporti con le altre organizzazioni sindacali della docenza universitaria. 3) il problema della scarsa partecipazione dei giovani alle associazioni di categoria. Di fronte alla prospettiva di un nuovo iter legislativo il CNU elaborava una strategia che consisteva: a) nella elaborazione di una proposta di “Legge Quadro sull’Università” da sottoporre al Ministro e alle forze politiche di maggioranza e di opposizione. b) nel denunciare con la massima energia possibile i provvedimenti del Ministro delle Finanze che riducevano in maniera drammatica la disponibilità di risorse per il 220 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri sistema universitario e punivano in maniera ingiustificata e selettiva il corpo docente. Le proposte del CNU partivano dalla constatazione che il tentativo di rendere le singole università autonome risultava incompiuto dal momento che non erano stati definiti i limiti entro cui tale autonomia dovesse esplicarsi. Prendevano in esame la tipologia ed il numero delle università presenti sul territorio nazionale sottolineando che non sempre in ciascuna di esse si realizzava compiutamente la coniugazione fra ricerca e didattica, tanto che in alcune il rapporto era fortemente sbilanciato sulla didattica in assenza di specificità scientifiche. E proponevano che lo Stato procedesse ad una valutazione dei singoli atenei mantenendo nel novero delle università quelli in cui il rapporto fra ricerca e didattica fosse tale da garantire un insegnamento universitario basato sulla “produzione di cultura”. Per la governance delle università si proponeva un sistema basato su due livelli: quello nazionale incardinato sul CUN, che avesse la funzione di armonizzare le differenze e rendere omogeneo il sistema, e quello locale basato sulla corresponsabilizzazione del corpo docente nella gestione prospettica dell’ateneo. In questo contesto avrebbe dovuto operare un corpo docente inquadrato in un unico ruolo e incardinato nei dipartimenti. L’accesso alla docenza avrebbe dovuto essere canalizzato attraverso il dottorato di ricerca e preceduto da un periodo di “precariato organizzato” con l’inquadramento in una sola categoria funzionale che avrebbe dovuto sostituire la miriade di figure (borse, assegni, contratti etc.) in cui vengono inseriti i giovani precari dopo il dottorato. Il documento strategico fu inviato al Ministro che non diede alcuna risposta o segnale di ricevimento. Nel contempo Ella presentò in un primo momento un documento che discuteva le linee guida della riforma che si accingeva ad emanare e successivamente una bozza di Disegno di Legge. La giunta del CNU esaminò con attenzione le dette linee guida e la bozza del DDL e si espresse denunciando con vigore l’assenza di un confronto con il mondo della docenza universitaria che pure aveva, in più circostanze, espresso la disponibilità a discutere di un rinnovamento dell’ordinamento degli atenei. In particolare il CNU faceva rilevare come il DDL fosse carente di una seria strategia nella definizione di un nuovo assetto funzionale dell’Università Italiana. Infatti le nuove norme lasciavano inalterata la stratificazione della docenza in ruoli separati e soprattutto non riconoscevano un ruolo dignitoso ai ricercatori. Si sottolineava che Il DDL prefigurava una Università fondata sul precariato dal momento che esso dava un grande risalto alla figura del nuovo ricercatore a tempo determinato, a scapito dei professori di ruolo, cosa che avrebbe reso endemica una situazione di sfruttamento a basso costo di molti futuri docenti. Queste osservazioni furono organizzate in una lettera che fu inviata al Ministro con la richiesta di un incontro. La richiesta di incontro rimase inascoltata e l’iter del progetto di legge si sviluppò senza che il Ministro aprisse alcun canale di comunicazione con le rappresentanze del mondo universitario fatta eccezione della CRUI che si arrogava il diritto di rappresentare tutte le istanze universitarie. Alla luce di questa situazione la giunta del CNU procedeva ad un’analisi più articolata del DDL ribadendo il proprio punto di vista ed elaborava una proposta relativa al superamento del problema dei ricercatori in ruolo: per riconoscerne la funzione docente si suggeriva di immettere questo personale in Il CNU e la Riforma Gelmini: lo scontro con i muri di gomma 221 una terza fascia di professori aggregati “ad esaurimento”, programmando al tempo stesso una serie di verifiche per far transitare direttamente i meritevoli nel ruolo del professore associato. Questi documenti vennero inviati al Ministro e a vari esponenti politici della maggioranza e della opposizione. Ma anche questa iniziativa rimase inascoltata. Pertanto la presidenza del CNU decise di cambiare strategia cercando vie collaterali attraverso cui far pervenire, a chi stava lavorando sul testo legislativo, i propri suggerimenti. A questo scopo prese contatto con diversi rappresentanti politici sia dell’area governativa che dell’opposizione. Una delegazione della giunta incontrava in più occasioni il prof. Schiesaro, capo della segreteria tecnica del Ministro, il Senatore Asciutti, il Senatore Valditara del PDL, la Senatrice Bianchi dell’UDC, la Senatrice Garavaglia del PD, l’Onorevole Marino del PD, la relatrice alla Camera dei deputati On.le Frassinetti ed alcuni responsabili dell’Università dei partiti , in particolare la prof. Carrozza ed il dr. Meloni del PD. In ciascuno di questi incontri furono proposti i documenti elaborati con l’intento di illustrare il punto di vista dei docenti universitari sulle esigenze reali del sistema universitario e una serie di possibili emendamenti al testo di legge in discussione. In tutti gli incontri si ebbe la sensazione che gli esponenti con cui si interloquiva fossero sensibili alla esigenze prospettate e aperti a considerare il punto di vista del CNU. Tuttavia alla resa dei conti si dovette constatare che i risultati concreti di questo lavoro erano alquanto deludenti: la legge “Gelmini” fu promulgata nel 2010 (Legge 240) soprattutto per l’esigenza del governo di portare in porto una riforma piuttosto che per l’obbiettiva consapevolezza di migliorare l’organizzazione del sistema universitario. Le opinioni espresse dalla docenza universitaria non furono considerate e si ebbe l’impressione che l’intento del governo fosse quello di “mettere in riga” questo settore popolato da personaggi che avevano la pretesa di conoscere “meglio” cosa servisse al buon funzionamento dell’università. In considerazione di ciò si decise di rivolgersi al Ministro con una lettera aperta che fu pubblicata sul Corriere della Sera del 28 Luglio 2010 (vedi: http://cnu.cineca. it/nazionale06/avviso_cnu.pdf). In questo documento si ribadivano le perplessità sui contenuti della legge 240 e sui contenuti della manovra finanziaria che riservava ai docenti universitari una penalizzazione più marcata rispetto agli altri dipendenti dello Stato. Infatti risultavano bloccati non solo gli adeguamenti all’inflazione ma anche le progressioni di carriera per tutta la vita. In particolare si sottolineava il concetto che i provvedimenti considerati avrebbero svalutato ulteriormente il valore della carriera universitaria e non avrebbero eliminato le consorterie “baronali”. Questa iniziativa portava ad una più marcata chiusura da parte del ministero per cui anche i rapporti indiretti con rappresentanti della segreteria del Ministro venivano bruscamente interrotti. Le legge fu ufficialmente promulgata e imposta al mondo accademico. Nei mesi successivi alla promulgazione della 240 il CNU si attivava per seguire la promulgazione degli innumerevoli decreti attuativi senza dei quali la legge rimaneva priva di significato condannando l’università in una condizione di immobilità simile a quella succeduta alla approvazione della legge Moratti. L’iter per la formulazione e l’approvazione dei decreti risultò essere alquanto farraginoso e lento. La presidenza 222 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri del CNU partecipò ad alcune audizioni delle commissioni parlamentari sui singoli decreti dove sostenne i principi già enunciati. I rapporti con le altre organizzazioni di rappresentanza della docenza erano basati essenzialmente sulla esperienza del “tavolo intersindacale” a cui aderivano sia le associazioni autonome che i sindacati confederali. Si trattava di un organismo poco organico che elaborava documenti poco incisivi e non riusciva ad organizzare una rappresentanza organica del mondo accademico superando le divergenze fra la diverse anime della docenza che, al contrario, si facevano sempre più radicali tanto da portare alla nascita di nuovi organismi dalla scissione dei precedenti (Rete29 aprile per i ricercatori, CoNPAss per i professori associati) . Alla luce di questo stato di cose il CNU ed il CIPUR si facevano promotori di una iniziativa volta a favorire il merging delle associazioni autonome: a tale iniziativa aderivano ADU, CNRU, CISAL – docenti universitari, SNALS – docenti universitari. Gli elementi basilari su cui fu costruito il Coordinamento organizzazioni e sindacati autonomi dell’Università (COSAU) sono: 1-La garanzia della libertà di ricerca e didattica in accordo con il dettato della Costituzione e con il principio che l’istruzione superiore è frutto della coniugazione inscindibile delle due attività 2-La disponibilità di risorse adeguate alle esigenze crescenti di un apparato di ricerca che si deve confrontare, nel mondo, con il progresso delle conoscenze 3-L’autonomia regolamentare, organizzativa, gestionale e finanziaria, nell’ambito della Costituzione e delle leggi la governano, per poter garantire gli interessi pubblici e generali del Paese 4-Un sistema di governo democratico e non gerarchizzato, costituito da organi collegiali e monocratici rappresentativi di ogni componente, che garantisca la libertà di ricerca e didattica, il riconoscimento del merito a tutti i livelli, ed il diritto allo studio. La sperimentazione del coordinamento COSAU veniva approvata prima dalla giunta e dall’assemblea delle sedi con l’astensione della sede di Firenze che esprimeva forti perplessità su questa operazione e, definitivamente, dal seminario del CNU tenutosi a Torino il 17 Marzo 2012 che decideva di dare a questa esperienza una valenza di proiezione futura prospettando la possibilità che il ordinamento costituisse la premessa di una nuova organizzazione di rappresentanza universitaria da raggiungere promuovendo e cercando si suscitare un movimento di opinione all’interno del mondo accademico. La decisione di sperimentare una nuova forma di aggregazione della rappresentanza della docenza universitaria nasceva anche dalla constatazione che le associazioni tradizionali, così come i sindacati confederali, avessero perso la capacità di attrarre le nuove generazioni di operatori universitari. In base a queste considerazioni il CNU organizzava alcune manifestazioni aperte a nuovi aderenti che sarebbero stati reclutati dalle sedi e ospitati dalla giunta nazionale. La prima di queste manifestazioni si tenne a Firenze nel Maggio 2010. A questo seminario, introdotto dall’ex Sottosegretario prof. Modica di Pisa, parteciparono una sessantina di colleghi tra cui una decina di giovani ricercatori precari. La seconda fu Il CNU e la Riforma Gelmini: lo scontro con i muri di gomma 223 organizzata dalla sede di Messina a Castiglione (22-24 Settembre 2010): in questa circostanza veniva discussa la riforma Gelmini e ribadito che il futuro dell’università non poteva prescindere dal riconoscimento di alcune necessità, quali il riconoscimento dello status di professori per i ricercatori; la riduzione significativa del numero e della durata delle figure precarie; la garanzia di non peggiorare il trattamento economico dei professori universitari; il riconoscimento dei diritti/doveri dei professori associati e la garanzia che la governance universitaria sia basata su presupposti di democraticità. In parallelo alle iniziative di cui sopra la giunta del CNU seguiva l’evoluzione della situazione della Facoltà di Medicina. Il CNU constatava che i vari provvedimenti di legge che avevano riordinato il settore sanitario avevano attivato una deriva verso il definitivo svuotamento del ruolo e delle prerogative dalla Facoltà che si avviava a trasformarsi da “fucina di cultura e scienza biomedica” a “bottega” in cui far crescere e formare i futuri medici con lo stesso sistema con cui nel passato si tramandava il mestiere da una generazione all’altra. Un esempio evidente di questo stato di cose era il tentativo di inserire nella Finanziaria 2011 un provvedimento che nella sostanza avrebbe sottratto all’Università la formazione specialistica post-laurea dei medici trasferendola al SSN. Nel tentativo di far sentire la voce dei docenti su questo tema la giunta del CNU contattava e incontrava più volte il presidente del Consiglio Superiore di Sanità prof. Cuccurullo e il presidente del CUN prof. Lenzi ottenendo che i due organismi si attivassero in difesa della scientificità della istituzione universitaria. La presidenza Indiveri si chiudeva con il congresso di Siena (9-10 dicembre 2011) che eleggeva alla presidenza il prof. Paolo Simone di Torino. La prima manifestazione del nuovo corso del CNU fu il seminario organizzato a Torino nel marzo del 2012 in cui si discusse del futuro dell’associazionismo universitario e si definì la posizione del CNU rispetto al progetto COSAU indicando in questo progetto la via prioritaria per lo sviluppo futuro della associazione. In questa circostanza fu invitato il nuovo ministro dell’Università prof. Profumo , già rettore del politecnico di Torino dove si tenne la riunione. Il ministro, nonostante una iniziale promessa, non intervenne. Nei mesi successivi la presidenza del CNU e il coordinamento del COSAU cercarono di aprire una via di comunicazione con il Ministro Profumo, ma egli perseverò sulla linea impostata dal suo predecessore on. Gelmini nel rifiutare ogni contatto con le rappresentanze della docenza. L’attività del CNU nel corso del 2012 rimase incentrata sul tema della evoluzione verso una nuova forma di rappresentanza della docenza e sulla definizione dei termini in cui si sarebbe definita la regolamentazione della integrazione degli aderenti al COSAU. All’inizio del 2013 Indiveri concludeva la sua esperienza di coordinatore del COSAU passando il testimone al prof. Incoronato (presidente CIPUR) di Napoli. Questa circostanza coincideva in pratica con il cambio di guardia ministeriale essendo nel frattempo succeduta la prof. Carrozza di Pisa al prof. Profumo. Questo ricambio ministeriale veniva accolto con un sentimento misto di speranza e di scetticismo, la prima dettata dal fatto che con il nuovo ministro il CNU aveva avuto contatti che lasciavano sperare in un possibile colloquio il secondo dalle esperienze negative del 224 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri recente passato che hanno relegato le associazioni rappresentative della docenza in una sorta di ghetto e le hanno rese incapaci di esercitare la propria funzione che i vari ministri hanno attribuito alla CRUI. Alcune occasioni di incontro Bruno Guerrini, eletto Rettore di Pisa, viene festeggiato in Sapienza dagli amici Pisani. Da sinistra: Mirandola, Ambrogi, Giusti, Guerrini, Morelli, Gianni, Marini, Aquaro, Distante, Barsali. Ottobre 1983: Bruno Guerrini viene eletto Rettore di Pisa ed è festeggiato in Sapienza. Da sinistra: Spremolla, Ipata, Aquaro, Gianni, Guerrini, Morelli. X Congresso Nazionale CNU: Milazzo, Novembre 1988. Giornata inaugurale c/o l’Aula Magna della Università di Messina. Al tavolo della Presidenza. Da sinistra: Gianni Puglisi, Franco Cresci (FI), Rettore di Messina Guglielmo Stagno D’Alcontres, Renato Dulbecco, Presidente CNU di Messina Luigi Chiofalo. X Congresso Nazionale CNU: Milazzo, Novembre 1988. Salgono le scale Rivasi (MO), Cordini (PV), Meloni (PV), Tubertini (BO). X Congresso Nazionale CNU: Milazzo, Novembre 1988. Da sinistra: in prima fila: Chang (PV), Gladiali (SS), Scaravelli (PR); seconda fila: Giovanna Bettoli in Tubertini (BO), Serra (GE); terza fila: sulla destra Gianni (PI) e Di Pietra (BO); quarta fila: Unguendoli e Bruggi (BO). X Congresso Nazionale CNU: Milazzo, Novembre 1988. Da sinistra: in prima fila: Milani (PV), Tubertini (BO), Meloni (PV); in seconda fila: La Saponara (NA), Mignani (BO), Sironi e Vegni (MI); in terza fila: Chang (PV), Gladiali (SS), Scaravelli (PR), Pupillo (BO); in quarta fila: Serra e D’Amato (GE). Riunione della Giunta Esecutiva CNU del 1/6/2002 a Ferrara. Tristano Sapigni (FE) accosciato. In piedi, da sinistra: R. Carretta (TS), S. Meloni, G. Cordini e P. Milani (PV), A. Miceli (ME), C. Laureri (PR), M. Marini (BO), M. Sala Chiri (BG), P. Gianni (PI), M. Vené Michelotti (PR), E. Milanese (FI), S. Sergi (ME). Conferenza di Paolo Blasi su “Quale Università nel XXI secolo?”, Pisa 21 Maggio 2008. Da sinistra: Gianni, Carcassi, Tinè-Modica e Martelli (PI), Vecchio (FI), Modica (PI), Cresci (FI), Miceli (ME), Blasi (FI). XVIII Congresso del CNU: Firenze, Dicembre 2013. Da sinistra a destra; seduti: Di Pietra (BO), Vecchio (FI), Indiveri (GE). Sala-Chiri (BG), Chang (UD); in piedi: Monti (GE), Miceli (ME), Gianni (PI), Mignani (BO), Gallinaro e Casanova (GE), Sergi (ME). Riunione della Giunta Esecutiva del Settembre 2012 a Siena. Da sinistra: Pirni (GE), Panu (PR), Indiveri (GE), Di Pietra (BO). 2012-2013 La Presidenza Simone Una breve presidenza Paolo Simone Pochi mesi prima che si svolgesse il Congresso Nazionale di Siena il Presidente uscente Professor Indiveri, nell’intervallo di una riunione intersindacale svoltasi a Roma, presomi da parte, mi confidò che la maggioranza della Giunta nazionale era d’accordo nel propormi quale suo successore. Confesso che fui sorpreso, anche se lusingato, dalla richiesta. La mia storia di vita professionale e rappresentativa era stata alquanto travagliata. Dopo un anno da Medico interno e Specializzando presso un Istituto universitario torinese vinsi un concorso da assistente chirurgo a Pinerolo e, poi, con un nuovo concorso ottenni il trasferimento nel più grande ospedale torinese. In quel periodo si era abbattuto sui medici ospedalieri l’incubo del “contratto unico” ed il conseguente appiattimento della categoria. In molti ci opponemmo ed il mio impegno fu premiato con la cooptazione in un grande sindacato ospedaliero che prima mi assegnò una prestigiosa carica regionale e, poco dopo, mi cooptò nel Comitato Centrale. Mi battei, allora, con altri Colleghi, per organizzare una grande manifestazione dei medici italiani a Roma. Superate le molte perplessità e resistenze emerse nell’Intersindacale la storica “Marcia dei Camici bianchi” si realizzò e decine di migliaia di Colleghi scesero in piazza per riaffermare la loro dignità ed autonomia. Da quel momento l’etichetta di “sindacalista”, nel bene e nel male, penetrò nel mio DNA. Entrai a far parte del Consiglio dell’Ordine dei Medici di Torino e, con pochi altri colleghi , mi impegnai in un’altra battaglia che avrebbe avuto l’onore delle cronache, quella dei c.d. Medici Interni. La disputa si concluse con una sentenza della Corte Costituzionale. Essa sancì il nostro diritto ad una “mini-sanatoria” che spalancò alla stragrande maggioranza di noi le massicce e, spesso, invalicabili porte della carriera universitaria. Entrammo, così, nel ruolo dei Ricercatori confermati. Si stava concludendo il 1987, ed erano trascorsi più di sette anni. Catapultati in un mondo che, pur avendoci formati, poco gradiva la nostra massiccia invasione, che avrebbe limitato per anni l’accesso ad altri giovani, vuoi meritevoli, vuoi “predestinati”, fummo subito definiti, malevolmente, “cani e porci”. Per difendere il nostro diritto ad esistere e ad essere giudicati per le nostre qualità ed i nostri meriti fummo costretti ad organizzarci ed a lottare, sia in sede locale sia in quella nazionale, perché fosse dato un contenuto al nostro ruolo ed una prospettiva alla nostra carriera, viziata dal “peccato originale”. In virtù del mio passato “sindacale” fui sempre eletto al primo posto come rappresentante dei Ricercatori nella mia Facoltà ed i miei colleghi mi lanciarono in una sfida “eroica” che avrebbe rafforzato la mia fama di “sindacalista”. Il Senato Accademico integrato, di cui avevo fatto parte per gli ultimi due anni dei suoi lavori, stabilì nel nuovo statuto, elaborato in tre faticosissimi anni di riunio- 228 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri ni, che ogni area scientifica avrebbe potuto esprimere un solo Rappresentante. Ciò valeva anche per quella medica che, identificandosi in tutta la Facoltà di Medicina, rappresentava quasi il 25% dell’intero peso accademico elettorale. Si trattò di una palese ingiustizia, frutto della “debolezza” di Medicina che, dopo anni di predominio nell’ateneo, si era spaccata in più fazioni e non contava più su nessun alleato “forte”. Il posto di Rappresentante di area nel S.A. era molto ambito perché sarebbe stato l’unico riservato a Medicina (Scienze poteva contare su ben quattro Rappresentanti d’Area) oltre quello, di diritto, del Preside. I colleghi ricercatori mi spinsero nella “folle impresa”. I numeri erano contro di noi perché rappresentavamo solo il 35% del corpo elettorale. Incredibilmente riuscii a battere ed a staccare di molto, nei voti espressi, gli altri due contendenti , un Ordinario ed un Associato. Nella campagna elettorale ero stato sottoposto a molte pressioni, anche psicologiche, perché rinunciassi. La più subdola fu quella di dire apertis verbis che non possedevo un “peso specifico” sufficiente per affrontare, nel massimo organo accademico, insigni colleghi appartenenti al ruolo superiore! Nei quattro anni del primo mandato conobbi il Professor Vaglio, rappresentante dell’Area Chimica in S.A., il Professor Zoppi, cattedratico di Lingua e letteratura francese e membro del C.d.A,. ed i Professori Antonelli e Ferraro, rispettivamente, il primo, Preside della Facoltà di Ingegneria ed il secondo Professore Ordinario del Politecnico. Formavano lo storico gruppo dei fondatori del CNU negli Atenei torinesi. L’esito della mia elezione in S.A. era stato emblematico del fatto che la suddivisione in ruoli diversi della docenza non incidesse affatto sulla possibilità di avere una “comune visione” degli enormi problemi che affliggevano il mondo universitario. Il fatto che molti associati e non pochi ordinari avessero scritto il mio nome sulla scheda elettorale ne era la chiara dimostrazione. Ero già vaccinato contro le tentazioni “corporative” e, pertanto, avendo conosciuto i padri fondatori del CNU in Piemonte ed essendo stato messo a parte dei loro sogni e dei loro progetti, mi fu facile riconoscermi in questa prestigiosa Associazione di docenti universitari che accoglieva tra i propri iscritti tutte le fasce della docenza, senza distinguo e discriminazioni. Da quel momento il “Ruolo unico dei Docenti” divenne il leitmotiv del mio impegno rappresentativo e sindacale. Dopo quattro anni, alla scadenza del mandato, quasi implorai i miei sostenitori di sostituirmi con un altro candidato. La mia “visibilità” era poco gradita a molti degli Ordinari anziani (soprattutto nel mio Settore) e la definizione di “sindacalista” suonava in senso riduttivo se non addirittura dispregiativo. Oltre tutto i miei impegni di chirurgo erano notevoli. Di fatto stavo rinunciando ad una carriera accademica, ma non potevo permettermi il lusso di trascurare anche la mia crescita professionale. In quel periodo, però, si stava conducendo la battaglia, comune a tutti noi medici universitari, per una corretta applicazione della normativa convenzionale e, a torto o a ragione, ero ritenuto l’unico con buone chance di vittoria, nella contesa elettorale per il S.A., che potesse, in virtù del ruolo nel massimo organo accademico, difendere il diritto dei Ricercatori di percepire la “De Maria”, messa in discussione da una proposta della Commissione Paritetica, assolutamente migliorativa solo per gli ordinari. Tirato per la giacchetta, controvoglia, vinsi per la seconda volta contro l’unico candidato del fronte degli ordinari e degli associati, nonostante si trattasse di persona assolutamente Una breve presidenza 229 competente e corretta. Si rafforzò in me l’idea che fosse necessario giungere ad un ruolo unico ed ebbi la fortuna di dimostrare che, evidentemente, nonostante fossi un “peso leggero”, avevo lavorato bene per l’interesse di tutti i ruoli. Furono anni difficili. Il sogno di molti che si desse un serio contenuto alla fascia dei ricercatori, come promesso dalla stessa legge che aveva istituito il ruolo (382/80), si infranse contro la caparbietà di alcuni gruppi parlamentari, trasversali ai due schieramenti, che bocciarono il progetto di legge che istituiva la “terza fascia”. In sede locale ottenemmo un trattamento soddisfacente sia per i ricercatori sia per i professori di ruolo, salvaguardando, di fatto, per i primi la “De Maria”. Le modifiche apportate allo Statuto di UNITO e, ancor di più, del Politecnico consentirono una sempre maggiore rappresentatività ai Ricercatori nei CdF. Nel caso di UNITO passarono da tre ad oltre cinquanta. Riuscimmo, inoltre, a convincere la maggioranza del Senato Accademico dell’importante ruolo svolto dai ricercatori nella funzione docente (oltre il 40% della didattica frontale) e la necessità che tutti coloro che svolgevano la funzione didattica potessero partecipare ai Consigli di Corso di Laurea. In quelli delle professioni sanitarie i Ricercatori divennero la maggioranza. Terminato il secondo mandato del S.A. si profilò una contesa elettorale, all’ultimo voto, tra due candidati al ruolo di Rettore, uno più progressista, impegnatosi sul rafforzamento della ricerca e sulla necessità di ringiovanire i ranghi dell’Ateneo, l’altro più conservatore e, apparentemente, appiattito sulle posizioni del suo predecessore che proveniva dall’area giuridica, notoriamente conservatrice. La scelta divise pure il CNU locale in quanto entrambi i contendenti erano persone degne e rispettose dell’Istituzione. Nell’area medica circa un terzo dei docenti, tra cui il sottoscritto, aderì alla proposta più innovativa e fu determinante nell’elezione del nuovo Rettore. Mi candidai per il CdA ed ottenni un insperato voto unanime del nuovo Senato Accademico, confermato al successivo rinnovo dopo quattro anni. Il Rettore mi propose di presiedere la Commissione Studenti e Diritto allo Studio e mi designò quale rappresentante di UNITO nel C.U.S. Nel frattempo negli atenei cominciava a crescere un’ondata di protesta che, pur partendo dai Ricercatori più giovani e dai Precari, cominciò a coinvolgere tutti i ruoli della docenza. L’aspirazione ad un’università più democratica e trasparente si infrangeva, però, contro il conservatorismo, dichiarato, dei Ministri avvicendatisi al dicastero dell’Istruzione e/o dell’Università e contro quello, più insidioso e strisciante, delle lobby accademiche e della CRUI. Il dialogo con i “movimentisti” fu per me difficile, perché mi ritenevano, almeno anagraficamente, appartenente e/o succube del vecchio mondo accademico, ma risultò necessario al fine di non disperdere l’unità delle forze innovatrici. Quando Vaglio e Zoppi si congedarono dall’ateneo, per motivi di età, toccò a me, ma soprattutto a Carlo Ferraro e, successivamente, anche a G.B. Ferrero raccoglierne la pesante eredità. Fu un periodo travagliato. Sul piano professionale mi impegnai con un Collega ospedaliero a costituire una Struttura sanitaria di Chirurgia Oncologica avanzata che si insediò nello storico Presidio del San Giovanni Antica Sede, collocato nel centro della città. Avviammo proficue collaborazioni sia con l’Università degli Studi sia con il Politecnico. Il nostro sogno era quello di affiancare medici ed ingegneri 230 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri nella ricerca applicata. Organizzammo anche un grande Convegno sull’affascinante tema dell’“ospedale del futuro” che vide la partecipazione di un folto ed interessato pubblico, oltre a quella dei rettori dei due atenei torinesi. Le nostre suggestioni, anche grafiche, prefiguravano la Città della Salute e della Scienza che di lì a poco si sarebbe insediata nella zona dei grandi ospedali torinesi (Molinette, CTO, S. Anna, Regina Margherita). Sapevamo che la nostra strada era quella giusta, ma il nostro impegno fu letto come protagonismo ed i vertici dell’Azienda O.U. decisero di abbandonare il progetto di un Cancer Comprensive Hospital nel cuore della Città e ci imposero di tornare alle Molinette, chiudendo quasi tutte le attività ospedaliere che si svolgevano nell’Antica Sede. Tornare alla casa madre si trasformò lentamente in un’agonia. Gli spazi erano insufficienti e presto saremmo stati fagocitati dalle altre strutture. A nulla valsero gli ottimi giudizi di performance che avevamo ottenuto. Il mio Collega ospedaliero, dottor Claudio Zanon, decise di mettere a frutto l’esperienza gestionale e progettuale maturata. La nuova Giunta regionale lo nominò Direttore dell’Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari. Dopo pochi mesi, alla fine del 2010, mi propose di distaccarmi parzialmente presso l’Agenzia, in qualità di Esperto nei rapporti convenzionali con l’Università. Tale ruolo, che ricoprii a titolo personale ma con il consenso dell’Ateneo, mi consentì di collaborare sia alla stesura del nuovo Piano socio sanitario regionale (in particolare nella parte che riguarda i rapporti con le Università piemontesi) sia al Masterplan per la costituzione della Città della Salute e della Scienza. Inoltre partecipai a numerosi tavoli dell’Agenzia e di uno fui nominato coordinatore insieme al Professor Silengo, presidente del corso di laurea in Biotecnologie. Spero che mi sarà perdonata questa digressione autobiografica, ma penso che sia utile presentare uno spaccato di vita per comprendere meglio la nostra storia associativa e le conseguenti scelte. Quando mi fu proposta la Presidenza del CNU ero, quindi, una specie di marziano (universitario) che collaborava con gli alieni (regionali ed ospedalieri) per costruire una sanità regionale al passo con i tempi. Non ebbi il coraggio di dire no alla candidatura anche perché pensavo che, sulla scia dell’ottimo lavoro svolto da Franco Indiveri, professore di Medicina interna, avrei potuto dare il mio contributo di esperienza maturata sia nel mondo ospedaliero sia nel mondo universitario. Mi sentivo, forse presuntuosamente, l’esempio vivente di una “convivenza possibile”. Credevo anche che la nomina di un Ricercatore ai vertici del CNU fosse un segnale importante per i tanti Ricercatori allettati in passato dalle sirene corporative, a cui era stato lanciato il bocconcino dell’aleatorio titolo di “professore aggregato”, ora invece attratti dal movimentismo della Rete. Il mio primo impegno, da Presidente eletto, fu quello di presentare una condivisibile e credibile mozione congressuale, riportata in questo volume, che ho voluto al più possibile realistica e lontana dai libri dei sogni, scritti dai demagoghi di ogni epoca, il cui “succo” è riducibile a poche parole, “la quarantennale esperienza del CNU ci fa orgogliosamente dire che le nostre idee innovative sono ancora attuali, che le riforme ‘a costo zero’ sono una colossale presa in giro e che dobbiamo rimboccarci le maniche e stringere alleanze per essere credibili ed autorevoli”. Il secondo impegno fu quello di partecipare ad un’interessante tavola rotonda, Una breve presidenza 231 splendidamente organizzata dal Professor Walter Gioffrè, che dopo pochi mesi mi avrebbe vicariato, in occasione del Congresso di Siena. Come ebbi a dire in quella sede: L’Università e l’Ospedale sono due mondi diversi, apparentemente incompatibili. Utilizzano, infatti, due linguaggi differenti, incomprensibili l’uno per l’altro. Da una parte si innalza il vessillo dell’orgoglio dei “legittimi custodi del sapere universale”, istituzionalmente deputati alla formazione superiore, spesso arroccati sulle istoriate “torri eburnee” della conoscenza, dall’altra si contrappone lo stendardo della fierezza dei medici ospedalieri, consci di svolgere un ruolo di eccellenza non solo nell’assistenza, ma anche nella formazione e nella ricerca, degne, di sovente, di un riconoscimento “accademico”. Sono, infatti, questi ultimi, grandi professionisti che vediamo talvolta isolarsi nei “ridotti” aziendali della rete sanitaria regionale, forti del sostegno delle corporazioni professionali e sindacali. Eppure, sia gli uni sia gli altri, sono costretti a cercare forme condivisibili di convivenza per offrire ai cittadini bisognosi di cure un servizio di elevata qualità. Una convivenza su cui incombono castelli normativi “bizantini”, di difficile lettura e di complessa applicazione. Nessuna delle due parti, nel timore di un “isomorfismo organizzativo su base coercitiva”, vuol sacrificare un briciolo della propria autonomia in nome di un’integrazione poco sentita e molto temuta. Si alzano così le barricate e gli steccati si trasformano in trincee invalicabili. Il dialogo affievolisce in un silenzio assordante. Poi aggiunsi che: Siamo ancora lontani dal modello ideale di “teaching hospital”, ma ci stiamo incamminando sul difficile itinerario dell’“integrazione possibile”. Gli ostacoli sono ancora molti, primo fra tutti il “conservatorismo”, malattia cronica in un Paese che ha paura di crescere e si culla non solo nell’acchetante tepore dei fasti del suo glorioso passato, ma anche nell’accidiosa consapevolezza del suo “appeal” cultural-storico-geografico. Poi c’è il cinismo, nello stesso tempo blasè e provinciale, di chi preferisce le certezze del presente alle sfide del futuro e c’è la constatazione che l’“arrangiarsi”, più che arte estemporanea, è stile di vita consolidato e condiviso, una sorta di individualismo ideologizzato. Il terzo importante impegno fu quello di organizzare, con Carlo Ferraro, a Torino, sabato 17 marzo 2013, un interessante Convegno sul Futuro dell’Università che vide la partecipazione di esperti in materia di livello nazionale ed internazionale. L’eco mediatica fu discreta, un po’ meno la presenza del pubblico, condizionata dalla scelta obbligata del sabato, dal bel tempo e da un concomitante convegno nazionale della “Rete 29 Aprile”. Per la mia persona, in virtù dell’esperienza maturata sul campo, riservai un intervento sul tema del diritto allo studio. In esso trattai anche i temi di attualità relativi alla pesante crisi economica internazionale che purtroppo ancora attanaglia il nostro Paese e che offre giustificazioni a scelte anche sbagliate e improduttive. Denunciai i pericolosi segnali di un inarrestabile declino della formazione, della ricerca e dell’innovazione, caratteristiche peculiari del nostro Paese, come la creatività, la consapevolezza di possedere il più grande patrimonio artistico-culturale del mondo e le virtù inarrivabili della nostra gastronomia. Dissi, anche, che colpire l’Università pubblica ed il diritto allo studio equivaleva a distruggere il sistema Italia. Nella conclusione dichiarai che: Nel nostro continente si sta diffondendo un “pensiero unico” che scaturisce dalla rinuncia ad un sano dibattito democratico per affidarsi alle competenze meramente economistiche di personaggi illuminati e dotti ai quali tutto è consentito pur di rispettare gli indicatori econometrici imposti dai potentati europei. La 232 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri “patria europea” non è madre premurosa che promuove il benessere per i propri figli, ma inflessibile ragioniera che agisce in un mercato stagnante e povero d’idee e prospettive. Un’Italia povera, privata della cultura, della ricerca e dell’innovazione vedrà tarpate le ali della sua innata capacità di competere all’interno del mercato globale. La politica, intesa in senso tradizionale, è oggi alle corde, così come è alle corde un certo tipo di sindacalismo troppo sensibile alle sue lusinghe. La politica “nobile” che nasce dal dibattito, dal confronto delle idee e dal consenso popolare è solo un ricordo sempre più sfumato. Essa, negli ultimi anni, si é impaludata negli egoismi, nei settarismi, negli scandali, in una moralità avvizzita e inaridita, nell’annacquamento dei riferimenti etici, nell’incapacità di selezionare i propri candidati con criteri meritocratici, nello squallore dell’affarismo, nel far prevalere gli interessi particolari su quello generale, nella malcelata aspirazione dei singoli ad essere ammessi nella casta dominante. Di fronte alla “manovra” molti Sindacati hanno rivelato lo stato “preagonico” in cui si trovano, incerti, come sono, nella scelta tra la difesa ad oltranza dei privilegi perduti dalle vecchie generazioni ed il sostegno che sarebbe doveroso offrire alle nuove, alle quali si prospetta un futuro incerto ed avaro di promesse. Tale analisi non equivale ad un atteggiamento di pregiudizievole ostilità nei confronti della manovra economica, peraltro necessaria per risanare i conti, né tanto meno di egoistica chiusura alle problematiche che si prospettano per le giovani generazioni, ma dalla constatazione che si potrebbe fare meglio, guardando innanzi tutto alle prospettive di sviluppo del nostro Paese. Occorre, gradualmente, trasfondere in un’operazione contabile e ragionieristica, nata in un clima d’emergenza, il coraggio che deriva da idee innovative, la forza della ragione che deve vincere la paura, la limitazione degli egoismi, l’abolizione dei privilegi, il cui costo è insopportabile sul piano morale e materiale, la spinta propulsiva della ricerca, con il contributo creativo della cultura, le sfide che scaturiscono dall’applicazione di idee innovative. Il sistema universitario deve uscire dal pantano in cui é stato sommerso, per trasformarlo, di fatto in un “diplomificio”, per tornare ad essere fucina di idee, luogo ideale per preservare e garantire valori universalmente condivisibili, sede primaria di produzione e diffusione culturale, centro propulsivo dell’innovazione, che è il miglior volano per l’economia, ed attrattore di cervelli che non possiamo più permetterci di elargire ad altre nazioni e territorio ideale per “incubare” imprese che trasformino in prodotti, appetibili per il mercato, le applicazioni della ricerca e, infine, garante naturale di democrazia, di stabilità, di pari opportunità e di sostegno alle fasce più fragili e deboli. Chi ci governa ha il dovere di comprendere che una seria riforma del sistema universitario non potrà mai essere a “costo zero” e che le prime risorse “fresche”, che deriveranno dal risanamento dei conti, dovranno essere investite in favore della ricerca e dell’innovazione anche per garantire il diritto allo studio a tutti coloro che meritano di completare tutto il ciclo universitario costituendo un investimento per il futuro. Per il resto dedicai il mio impegno alla routinaria vita associativa con particolare riguardo alle riunioni di Giunta e delle Sedi, avvenute in quel breve periodo, ed al delicato problema del “progetto COSAU”, impaludatosi nelle sabbie mobili degli egoismi e dei protagonismi di alcuni soggetti partecipanti, ma di questo si è occupato il Presidente vicario Walter Gioffrè. A fine aprile 2012 appresi l’intenzione del neonominato Direttore Generale Una breve presidenza 233 dell’ASL To 1 di affidarmi la direzione sanitaria della maggiore Azienda sanitaria torinese, su proposta dell’Assessore alla Sanità, il tecnico ing. Paolo Monferino, già Amministratore delegato dell’IVECO, che aveva avuto modo di conoscermi in Agenzia regionale. Proposta che risultò lusinghiera ed allettante per un medico che aveva da poco superato la boa dei “sessanta”. Mi resi subito conto dell’evidente incompatibilità tra i due ruoli e proposi alla Giunta di sostituirmi con il Vicario Walter Gioffrè fino alla convocazione del Congresso nazionale elettivo. Si è trattato, quindi, di una presidenza breve, anzi brevissima. È durata, di fatto, solo sei mesi. In genere le presidenze “brevi” sono dovute ad eventi spiacevoli. In questo caso fortunatamente no. Quando l’amico Paolo Gianni mi propose di scrivere qualche pagina sulla mia fugace esperienza di Presidente mi sentii come la lumachella de la vanagloria di Trilussa che sale sull’obelisco e lo segna con la sua bava per lasciare un’impronta ne la storia. La traccia che ho lasciato nella storia del CNU è molto piccola, quasi invisibile. Il CNU mi ha dato molto più di quanto abbia ricevuto da me. Pertanto mi sento di concludere queste pagine con un grazie sincero a questa meravigliosa Associazione che non deve scomparire, a tutti i miei Amici e Maestri che hanno creduto in me e che, per un pizzico d’ambizione personale, ho tradito. Sono convinto, però, che il mio attuale successore, da abile e navigato nocchiero, condurrà in acque calme la nostra gloriosa imbarcazione e lascerà il suo testimone ad uno dei non pochi giovani docenti che hanno creduto in noi e condiviso i nostri ideali, grande patrimonio da non disperdere, e le nostre proposte, sempre fresche, attuali ed originali. 2014La Presidenza Vecchio Linee guida per una politica di rinnovamento e di crescita del sistema universitario italiano: perché un’associazione sindacale universitaria? Vincenzo Vecchio 1. Scenario generale Lo scenario politico, economico e finanziario nazionale ed internazionale con il quale convivono oggi le società civili, in particolare quelle dell’area europea, pone una serie di problemi fino a pregiudicare il ruolo e la sopravvivenza di molte istituzioni, sia pubbliche sia private. Tra le istituzioni, in particolare in Italia, quelle universitarie (67 statali, 23 non statali, di cui 11 telematiche) sono penalizzate, oltre che da una significativa riduzione delle risorse, dalla mancanza di una riforma organica seria, i cui principi generali dovrebbero essere: razionalizzazione del sistema universitario (numerosità e integrazione), una strutturazione moderna dello stato giuridico della docenza, adeguamento dei percorsi formativi, su basi competitive, alle necessità di crescita del paese, piano nazionale della ricerca e programmazione di un reclutamento di giovani con modalità trasparente e meritocratiche, seguendo un flusso regolare di ingresso, attraverso modelli di accesso in grado di superare le criticità emerse anche con il percorso previsto dalla Legge 240/2010. Su quest’ultimo aspetto il CNU ha preparato un documento (Nuova Abilitazione Nazionale per una Nuova Docenza Universitaria) che ha inviato alle Forze Governative nel corso del 20141. Dopo il DPR 382 del 1980, che è stata la vera riforma degli ultimi decenni, mai pienamente adottata, molti provvedimenti legislativi che portano il nome di importanti personalità politiche del nostro paese sono stati varati e il fallimento degli obiettivi attesi da queste normative sono a conoscenza di tutti. Hanno burocratizzato e appesantito il sistema amministrativo-gestionale e impegnato il personale universitario, a scapito delle funzioni principali che sono ricerca e formazione. Allo stato attuale il Rapporto OCSE, Education at a Glance 2014, che offre un quadro comparativo sui sistemi educativi dei paesi membri, evidenzia che in Italia: cresce il numero dei laureati, raddoppiato in 10 anni (dall’11 al 22%, collocandosi al trentaquattresimo posto su 37 tra i paesi OCSE), la competenza dei laureati è sotto la media di quella europea, l’accrescimento culturale delle nuove generazioni rispetto a quelle di altri paesi è in calo (questo con ogni probabilità è il primo effetto del taglio delle risorse all’università), la spesa per studente universitario in Italia è pari a 9.990 dollari, 28% in meno rispetto alla media dei paesi industrializzati che si colloca a 13.958, e solo il 47% dei diciottenni si iscrive all’università contro il 51% del 2008. Il rapporto dell’ANVUR 2014 conferma in parte le indicazioni emerse dal rappor1 Vedi DVD allegato, sezione V. 238 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri to OCSE, evidenziando inoltre con pochi numeri lo stato di disagio della popolazione studentesca nei riguardi di un sistema formativo che crea pochi stimoli e molto disinteresse (solo 1/3 degli studenti iscritti all’università si laurea in tempi regolari e il 40% che consegue una laurea triennale non prosegue con gli studi). La carenza di percorsi professionalizzanti è una delle probabili cause di allontanamento di quegli studenti che vedono nel titolo di studio una corsia privilegiata per le occasioni occupazionali. Nel corso degli ultimi anni, a mio parere, anche il ruolo delle Associazioni Sindacali della Docenza Universitaria è stato emarginato sia dalle forze politiche che da quelle governative; le consultazioni e i tavoli tematici di discussione, quando ci sono stati, hanno avuto più un sapore occasionale e mai organico, fino ad arrivare agli ultimi governi dove è stata quasi sempre negata qualsiasi richiesta di incontri. Ho voluto fare questi sintetici riferimenti per cercare di dare alcune risposte, prima a me stesso, sull’opportunità di svolgere la funzione di Presidente protempore della nostra associazione sindacale e, una seconda, più in generale, vista la realtà in cui versa il sistema universitario italiano assieme alla mancanza di canali costanti di incontri con forze politiche (in crisi di identità) e governative, se oggi ha ragione di esistere una associazione sindacale della Docenza Universitaria. La risposta è unica e chiara: un’associazione sindacale come il CNU, che ha avuto un ruolo importante a livello di idee, di proposte e di partecipazione attiva sia a livello nazionale che presso i singoli atenei (particolarmente presente nell’area della medicina) nel corso degli anni, ha proprio in questa fase buia un motivo in più di esistere, con obiettivi di aggregare attorno alle problematiche universitarie la stessa docenza in una ottica non corporativa ma di difesa del sapere e della conoscenza e di coinvolgimento del sistema universitario nei processi di innovazione e di crescita del paese. Per fare questo le associazioni sindacali universitarie esistenti devono fare una verifica e un aggiornamento delle proprie strategie al loro interno, con spirito di condivisione e di aggregazione su aspetti di comune interesse, rivolti a medio termine ad avere nel nostro paese una nuova Università su basi di vera autonomia, democrazia, libertà di ricerca e con ruoli importanti da assumere per il progresso del paese. Bisogna recuperare con le azioni la credibilità di chi opera con grande spirito di sacrificio e con poche risorse nell’università, mantenendo il paese in ottime posizioni internazionali nei riguardi della ricerca. Bisogna riprendersi, come corpo docente, quel tempo sottratto alla ricerca e alla didattica da altre attività, che in una moderna università devono pesare il meno possibile sui docenti; questo potrà avvenire solo attraverso una razionalizzazione e una semplificazione generale dell’attuale modello. 2. Il XVIII Congresso Nazionale del CNU. Riflessioni generali, raccomandazioni e linee guida agli Organi di Governo dell’Associazione È sulla base di quanto sopra indicato e con grande spirito di rinnovamento che si è svolto il XVIII Congresso Nazionale del CNU a Firenze il 6-7 Dicembre 2013, dove Linee guida per una politica di rinnovamento e di crescita 239 il sottoscritto è stato eletto Presidente Nazionale assieme alla Giunta nazionale (Rino Panu, Walter Gioffré, Manlio Fadda, Anna Maria Di Pietra, Alfio Puglisi, Andrea Pirni, Gian Battista Ferrero, Carlo Ferraro, Renzo Carretta e Maurizio Sala Chiri), al Presidente della Commissione Medicina (prof. Vincenzo Violi) e al Responsabile del Giornale Università e Ricerca (prof. Antonio Miceli), che fanno parte di diritto della Giunta. Un forte rinnovamento vi è stato nella composizione della Giunta, con la partecipazione di giovani ricercatori e associati di differenti aree culturali e scientifiche. I rinnovati Organi di Governo del CNU nazionale fanno proprie le indicazioni emerse nel corso dei lavori del Congresso, di cui sono indicate di seguito le parti principali. 2.1. Riflessioni generali del Congresso Le ragioni del perché dell’esistenza dell’associazionismo sindacale universitario e di persone che dedicano parte del proprio tempo alla vita dell’associazione sono espresse anche nella mozione congressuale del CNU. Il Congresso ha discusso al suo interno diversi aspetti, che oggi gravano come un macigno sull’articolato sistema universitario. Riflessioni sono state fatte sul calo importante del numero degli iscritti ai corsi universitari (secondo Alma Laurea solo il 30% dei giovani compresi entro 19 anni si iscrive all’Università), calo che ha raggiunto, rispetto a qualche anno fa, circa 60.000 unità, una emorragia che corrisponde alla popolazione studentesca di un grande ateneo. Il CNU si chiede perché si sia verificata una tale dinamica, e si interroga su alcune cause: (a) è l’effetto della crisi economica che non consente alle famiglie di sostenere i costi per il mantenimento dei propri figli all’Università? (b) è l’incertezza che i giovani e le famiglie oggi riscontrano nella diversificata (dispersiva) offerta didattica? (c) è nello scollamento tra Università e mondo del lavoro? A questi quesiti bisogna dare risposte concrete da parte di chi ne ha la responsabilità. Non è solo il problema della fuga dei cervelli, che certamente è importante, ma qui si tratta di creare le condizioni dove i cervelli si possano esprimere e partecipare al futuro sviluppo del Paese. Vanno pensate e messe in atto politiche di sostegno agli studi universitari, potenziando il piano del diritto allo studio e agevolando la mobilità internazionale degli studenti. Un’altra importante riflessione è stata fatta sul numero della docenza universitaria: dal 2000 al 2012 si è avuto un incremento di circa 3000 unità, che ha interessato solo la categoria dei ricercatori, perché i professori ordinari e associati hanno subìto rispettivamente un calo di 500 e di 1116 unità. Una dinamica che comporta una struttura piramidale del corpo accademico e il ripristino di una Università vecchio stile, che il CNU non sostiene, perché fuori dal contesto attuale. Inoltre, con la dinamica dei concorsi che non è mai stata regolare, si assiste ad un significativo invecchiamento del corpo docente (per l’immissione in ruolo sono mediamente 37, 44 e 51 anni rispettivamente per ricercatori, per professori associati e per ordinari). Non è sfuggita al Congresso l’attuale situazione del precariato che supera le 35.000 unità, situazione che crea incertezza e allontanamento dal lavoro universitario di persone formate per la ricerca e la didattica. La realtà di questo precariato è fuori da qualsiasi etica sociale ed economica. Non poteva altresì il Congresso non denunciare il gioco poco pulito della stampa e di 240 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri alcune organizzazioni a livello nazionale sul fare apparire l’Università italiana come luogo di corruzione e di fannulloni. Se così fosse una rivista prestigiosa come “NATURE” non avrebbe scritto “nonostante il marasma e la carenza di risorse finanziarie la ricerca italiana si colloca in ottima posizione”. In questo contesto il CNU ha sempre sostenuto giusto il processo di valutazione, ma con criteri chiari e trasparenti e con un’analisi di congruità tra quanto lo Stato destina alla ricerca e all’Università e i risultati ottenuti. Il CNU nel denunciare lo stato patologico generale del nostro sistema universitario, innescato ormai da alcuni anni, vuole sottolineare la mancanza di lungimiranza della politica che, nel caos creato dalla crisi economica, non ha voluto arginare gli effetti dirompenti sull’Università, compromettendo il diritto al sapere delle future generazioni, l’innovazione del sistema Paese e penalizzando ingiustamente i docenti, ormai da diversi anni, anche sotto il profilo stipendiale. Il CNU invita con forza chi governa il Paese a procedere speditamente nel portare avanti un piano di riforme rivolto alla razionalizzazione della spesa pubblica improduttiva e di quella che privilegia certe posizioni tra politica e apparato dello Stato. Assieme alla lotta, giusta, all’evasione fiscale si dovrà avere il coraggio di riformare il Paese eliminando enti inutili più volte identificati e dove spesso interessi non comprensibili alla società civile ne hanno garantito la sopravvivenza. Solo così si possono liberare risorse utili alla creazione di nuovi posti di lavoro e ad investire sull’Università, che dovrà svolgere un ruolo, attraverso la formazione, la ricerca e l’innovazione tecnologica, di motore di crescita per il Paese. Il CNU prende atto del fatto che la situazione di crisi attuale abbia causato in tutte le categorie universitarie (docenti, personale tecnico-amministrativo e studenti) demotivazione e smarrimento, che si aggiungono alle criticità dell’associazionismo universitario. Infatti le Associazioni Sindacali della docenza universitaria, incartate nel marasma persistente della frammentazione della loro rappresentanza, di fronte al susseguirsi di norme e di iniziative penalizzanti nei confronti dell’Università e dei suoi docenti non hanno avuto la forza di opporsi e di costituirsi come valido antagonista alle forze che determinano la direzione in cui si muove il mondo dell’istruzione universitaria. Prendere atto non significa subire, ma reagire, rafforzando il senso di appartenenza ad una istituzione che nessuno può calpestare. Bisogna porsi in una logica di diritti e di doveri, difendere il ruolo primario dell’università nella ricerca, nella formazione e ancora più in generale come motore di conoscenza per la crescita e l’innovazione del paese nelle differenti aree culturali, scientifiche e tecnologiche. Nell’ottica, giusta in linea di principio, di arginare gli effetti della frammentazione delle associazioni sindacali, ha avuto purtroppo uno scarsissimo peso anche il tentativo intrapreso dal CNU, e da altre associazioni autonome, di creare una federazione (il COSAU) che fosse capace di dare più forza alle idee che maturano all’interno della categoria dei docenti universitari e di presentarsi quindi come valido interlocutore delle forze politiche e del Parlamento. Le tante energie profuse dal Vice-Presidente Vicario del CNU, Walter Gioffré, per far decollare il COSAU hanno cozzato contro un diverso modo di intendere un moderno associazionismo universitario, portando praticamente ad un lungo blocco della elaborazione di idee e della loro comunicazione all’esterno. Il Congresso nel prendere atto di questa difficile situazione ha indicato le linee da seguire al futuro organo di governo dell’associazione. Linee guida per una politica di rinnovamento e di crescita 241 2.2. Linee guida future del CNU Il Congresso ha ritenuto che l’attività futura del CNU dovrà essere orientata su diversi livelli: (1) interno all’associazione medesima, (2) esterno ad essa e (3) focalizzato sugli orientamenti generali per una nuova università, senza trascurare interventi su aspetti specifici che si renderanno necessari proprio dall’applicazione della Legge Gelmini (L. 240/2010). 2.2.1. Linee guida all’interno del CNU Rivitalizzare l’interesse del corpo docente e ricercatore e di tutto il personale operante nell’Università. Il CNU comprende il costante calo di interesse dei docenti universitari per i problemi della politica universitaria ed è disponibile ad un processo di coinvolgimento in una nuova associazione dei professori, dei ricercatori e del personale tecnico sindacalizzati e non, e in particolare di quelli più giovani. Per avviare un simile processo appare importante attuare l’idea, più volte discussa, di aprire un blog in cui proporre al personale che opera nell’Università di discutere nuove idee per un processo di riforma che affronti in modo complessivo tutti gli aspetti istituzionali e organizzativi dell’istruzione superiore (non solo lo stato giuridico dei docenti) e della ricerca, a partire da una accurata ricognizione delle legittime aspettative della nuova società della globalizzazione, fino a una nuova definizione del ruolo stesso del CUN e dell’ANVUR che permetta agli atenei di dare risposte efficaci e convincenti. In questo contesto si raccomanda l’organizzazione di eventi su tematiche specifiche, allargate al mondo esterno, per terminare in un evento nazionale allo scopo di proporre un piano di riforma universitaria che abbracci gli aspetti fondamentali dall’autonomia, alle risorse finanziarie e umane, al modello didattico, allo stato giuridico, al reclutamento e agli sbocchi professionali, aspetti con i quali una nuova Università dovrà necessariamente misurarsi. Creazione di gruppi di lavoro su aspetti specifici. Diritto allo studio e internazionalizzazione, ricerca, didattica, comunicazione e valutazione. Chiarire la posizione e recuperare Sedi CNU in cui ci sono iscritti ma non esiste un organo di governo operativo. Tenere riunioni di Giunta e di Assemblee delle Sedi sia in ambiti ove già il CNU è attivo che in altri ove l’associazione è meno attiva. 2.2.2. Linee guida all’esterno del CNU Rapporti con le altre associazioni. Con i tentativi fatti negli ultimi anni di creare nuovi soggetti i risultati ottenuti non hanno soddisfatto le attese, e non per causa del CNU. Non si vuole rompere con nessuno ma si vuole costruire con chi ne ha voglia e capacità e soprattutto con chi ha a cuore l’interesse dell’intero sistema universitario. Piena disponibilità a valorizzare obiettivi comuni attraverso iniziative politiche, sindacali e organizzative ritenute utili ad un miglioramento del Paese e, in particolare, dell’Università. L’ottica delle proposte di cambiamento dovrà privilegiare le aspettative delle nuove generazioni attraverso un regolare e necessario ricambio. Rapporti con la CRUI. Il Presidente protempore ha dimostrato disponibilità ad 242 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri avviare un tavolo di incontri per discutere iniziative da portare avanti sia a breve che a medio e lungo termine nell’interesse superiore di una Istituzione Pubblica quale è l’Università. Si ravvisa l’opportunità di aprire un dialogo, manifestando la propria disponibilità a collaborare con trasparenza su aspetti relativi a: autonomia, reclutamento, semplificazione della burocrazia amministrativa, valutazione, risorse, stato giuridico e piani straordinari per abilitati e ricercatori. Rapporti con il Ministro e con i Responsabili Istruzione dei partiti politici. Nella speranza che si possa giungere ad una stabilità politica nel Paese è opportuno avviare incontri al fine di presentare le proposte del CNU, sia quelle a breve che a lungo termine. Rapporti con gli studenti. È intento del CNU di promuovere incontri con le rappresentanze delle organizzazioni studentesche al fine di condividere soprattutto aspetti e proposte legate all’offerta didattica ed ai collegamenti con il mondo del lavoro. 3. Orientamenti generali per una nuova Università e per eventuali interventi parziali, funzionali alla semplificazione delle norme esistenti Quanto di seguito indicato fa parte del patrimonio politico del CNU rivisitato in una ottica moderna dell’associazionismo sindacale universitario e basato su principi di autonomia e di democrazia universitaria. Riforma Universitaria, quali interventi legislativi? Serve una Università in cui regni l’armonia e la serenità, l’entusiasmo per l’attività svolta, la passione e l’attaccamento all’Istituzione, l’amicizia fra colleghi, l’aiuto reciproco, la speranza di continui progressi propri, altrui e dell’Istituzione tutta, di progressi basati solo sul proprio merito. Una Università che veda riconosciuto correttamente il ruolo che svolge, fra mille difficoltà e ristrettezza di risorse altrove impensabili, e non svilita da quelli che spesso sono luoghi comuni e preconcetti. Il CNU, nel lanciare l’allarme EMERGENZA UNIVERSITÀ si impegna a portare avanti iniziative rivolte alla formulazione di un intervento legislativo a carattere generale in materia di Università, con la consapevolezza delle cause che hanno creato la crisi attuale, con la convinzione della sua funzione pubblica e del ruolo primario che è chiamata a svolgere come motore di conoscenze scientifiche, didattiche, culturali e professionali per innovare il Paese. Per entrare nel merito, solo di alcuni aspetti, per i docenti, questa associazione è convinta che è giunto il momento di avviare un processo di semplificazione che preveda una sola abilitazione nazionale con una progressione di carriera, dopo la chiamata da parte delle Università, soggetta a periodiche valutazioni da parte di commissioni, alternativamente nazionali e locali. Questo tipo di semplificazione richiede un atto di coraggio ed un cambiamento profondo della docenza, istituendo un unico ruolo della docenza Universitaria. Parallelamente il CNU crede sia indispensabile un adeguato periodo di formazione pre-ruolo degli aspiranti alla carriera della docenza universitaria. Il preruolo prevede il dottorato di ricerca e un unico contratto di ricerca della durata di 3-5 anni. Il numero dei contratti sarà frutto di una programmazione triennale a livello delle sedi universitarie. Il percorso formativo pre-ruolo a giudizio del CNU, non dovrà, Linee guida per una politica di rinnovamento e di crescita 243 preferibilmente, avvenire nella stessa sede e dovrà essere incentivata la parte che sarà svolta in una Università o struttura equivalente in un paese straniero. I punti di riferimento per una nuova università, a parere del CNU, sono: Assegnazioni delle risorse da parte dello Stato su basi poliennali (almeno triennali), per consentire all’Università tutta la sua programmazione su basi concrete e certe. Finanziamenti coerenti con le funzioni da svolgere da parte di una Università adeguata alle esigenze del Paese. Ruolo unico della docenza articolato in più classi stipendiali, modulate su valutazioni periodiche intermedie sul singolo docente, in concorrenza quindi solo con se stesso, di tutta l’attività svolta, didattica, di ricerca e gestionale. Necessità di profonde trasformazioni nell’assetto gestionale ed organizzativo degli atenei e nel complesso di norme che regolano l’accesso ai ruoli universitari, la valutazione e il finanziamento del sistema universitario. Programmazione pluriennale del numero di docenti, in relazione alle necessità, sulla base di parametri internazionali. Altri aspetti importanti, per una nuova riforma organica dell’università, sono: Autonomia. (i) autonomia del sistema universitario nazionale di cui sia garante un CUN che possa giocare un ruolo che vada oltre quello di mero organismo di consulenza; (ii) autonomia dei singoli atenei, vuoi nella gestione economica (ridare ai dipartimenti autonomia di bilancio) vuoi nella programmazione didattica dei corsi di studio; (iii) libertà accademica dei singoli docenti, a tutti i livelli. Il CNU ritiene che la L.240/2010 abbia introdotto aspetti che non sono in sintonia con una vera autonomia. Valutazione. Vanno chiaramente distinti i processi di valutazione delle strutture da quelli dei singoli. In futuro i criteri bibliometrici di giudizio sull’attività di ricerca dovranno essere riservati alla valutazione delle strutture: quando si tratti di valutare singoli ricercatori tali criteri potranno costituire solo un utile indicatore che supporti un puntuale giudizio di peer-review. E bisogna insistere affinché non vengano confuse la valutazioni di eccellenza, cui far seguire appositi premi, con le normali verifiche del puntuale assolvimento dei doveri, queste sì passibili di sfociare in eventuali blocchi della carriera. Diritto allo studio. È la garanzia per l’accesso allo studio di studenti italiani di famiglie che non dispongono di risorse sufficienti e di studenti stranieri che desiderano studiare in Italia e che saranno in futuro i principali vettori del made in Italy. In questo senso vanno previste risorse adeguate nell’ambito di un piano strategico del Paese, rifuggendo da facili spot che avrebbero scarso significato. Internazionalizzazione. Bisogna privilegiare e riconoscere: (a) periodi di ricerca all’estero per tutti i docenti universitari, non solo nella fase della formazione ma lungo l’intero arco della carriera; (b) favorire l’accesso di ricercatori stranieri alle strutture di ricerca nazionali; (c) creare meccanismi di supporto per facilitare l’accesso a fondi europei e potenziare i rapporti fra ricerca universitaria e apparati produttivi del Paese; (d) allargare l’uso della lingua inglese nei corsi di insegnamento universitari. Premesso che non avrebbe senso una sostituzione generalizzata del nostro idioma con l’inglese, si ritiene che possa essere utile l’istituzione di corsi in lingua inglese paralleli a quelli 244 L’Università italiana ed il CNU dal 1960 ai giorni nostri in italiano al fine di stimolare la presenza di studenti stranieri nei nostri atenei e, per abituare gli studenti italiani al confronto internazionale, impartire in lingua inglese insegnamenti dei corsi di dottorato e specialistici. Il Congresso ha altresì indicato alla nuova Giunta ed al Consiglio delle Sedi a non trascurare eventuali interventi parziali sia a medio che a breve periodo. Su questi aspetti la nuova Giunta nazionale ha formulato documenti, inviandoli ai Ministri interessati (MIUR e MEF) e al Presidente del Consiglio dei Ministri e fatto incontri a livello Ministeriale e di Conferenza dei Rettori, documenti che sono tutti presenti sul sito web del CNU (http://cnu.cineca.it). Azioni a medio periodo. Revisione della figura del Ricercatore a tempo determinato per ridurre il periodo di precariato e semplificazione coerente dell’attuale diversità delle figure di ricercatori in una sola, privilegiando quella di tipo B. Analisi critica e revisione dei meccanismi di valutazione delle Università e dell’abilitazione scientifica nazionale. Il pendolo si é spostato troppo dal giudizio di merito, concettualmente il più valido ma più foriero di abusi, al giudizio “da calcolatore”: almeno in alcuni settori troppo a rischio di valutazioni non realistiche: occorre un equilibrio maggiore. Azioni a breve periodo. Abolizione totale dei limiti del turn-over per l’Università, da utilizzare previa adeguata e razionale analisi delle reali esigenze dei singoli settori. Un nuovo piano straordinario per Ordinari, Associati e Ricercatori. Tutti gli abilitati già in servizio di ruolo siano inquadrati, a domanda, nella fascia per la quale risultino abilitati. La Giunta nel corso dei suoi primi mesi di lavoro ha ritenuto opportuno inserire altri punti quali: Sblocco degli scatti stipendiali della docenza universitaria (documento 30 marzo 2014 inviato a ministri e presidente del Consiglio). Revisione del modello di Abilitazione Scientifica Nazionale (documento giugno 2014 – Nuova Abilitazione nazionale per una Nuova docenza universitaria – inviato a Ministri e presidenza del Consiglio)2. Il CNU è consapevole che il momento attuale non è particolarmente favorevole per avviare, in tempi rapidi, un nuovo processo di riforma universitaria, ma è altrettanto conscio che il perdurare di una tale situazione rischia di traghettare la formazione universitaria verso un punto di degrado di non ritorno e che la sua ripresa, in un paese che si pregia di fare parte dei grandi paesi europei e mondiali, rappresenterebbe un costo molto più oneroso per le casse dello stato e per i cittadini. Per concludere, il CNU vuole altresì raccomandare di non cercare aggiustamenti e/o scorciatoie con interventi normativi a costo zero, che sono stati tra i principali responsabili della situazione attuale. Per quanto sopra detto, il CNU è disponibile a confrontarsi in modo costruttivo con le altre associazioni sindacali universitarie, con i docenti, con il personale tecnico amministrativo e con gli studenti per definire azioni e programmi da portare in ambito politico e governativo. 2 Entrambi questi documenti sono riportati nel DVD allegato, sezione V. Parte II Contributi monografici Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio Giovanni Cordini Alla fine degli anni ’80 prendeva avvio in Italia un processo di radicale riforma dell’ordinamento universitario, all’insegna dell’autonomia degli Atenei, dopo che erano trascorsi quasi dieci anni dall’entrata in vigore delle profonde modificazioni intervenute nello stato giuridico dei docenti con la legge delega del 1980 e il D.P.R. 382/1980. Negli anni successivi con la riforma Berlinguer e con le leggi Moratti e Gelmini venivano introdotte altre importanti novelle incidenti su vari aspetti del sistema universitario. Questo ampio riassetto non ha alterato l’adesione del nostro sistema a quelli che riconoscono il valore legale dei titoli di studio e ne regolano conseguentemente gli effetti sia nell’ambito degli studi, sia in rapporto alle professioni e al pubblico impiego. 1. Origine storica del “valore legale” e ruolo dell’Università Che il valore legale sia strettamente collegato agli svolgimenti storici che hanno contrassegnato il ruolo dell’Università nel nostro Paese è fuori di dubbio. In una riflessione acuta si è osservato: esso nasce con il modello napoleonico di Università, istituzione che viene orientata all’interesse del moderno Principe, lo Stato, il quale ha bisogno di funzionari ben preparati per il proprio apparato amministrativo, di un ceto intellettuale capace di divenire classe di governo, di professionisti in grado di consolidare e perpetuare il sistema socio-politico1. L’interessante convegno storico di Messina dell’aprile 2004, ponendo l’attenzione sulla formazione storica degli statuti universitari e sulle origini dell’Università in Europa, ha presentato i risultati di un’attenta comparazione storica tra differenti esperienze, mediante il qualificato contributo di molti colleghi stranieri. Una prima lettura delle diverse esperienze europee rende manifesto un elemento comune: l’Università si presenta alla ribalta della storia come originale corporazione “indipendente” di maestri e di studenti, come “comunità di studi”. Fin dai primi tempi, e di volta in volta, nel corso storico, si possono trovare tanto condizioni di relativa indipendenza degli Atenei, quanto tentativi di soggezione delle Università al potere dominante. Si nota, poi, che l’indipendenza dell’istituzione universitaria è stata del tutto compromessa solo per le pesanti intromissioni di regimi assolutistici, illiberali ed autoritari. Chiari 1 Cfr. G. Dalla Torre, Autonomia universitaria e nuovi poteri, testo allegato B). 248 Contributi monografici esempi si possono trarre dalle vicende della Germania e dell’Italia durante il nazismo e il fascismo, tra le due guerre mondiali. Libertà dell’insegnamento e autonomia sono dei principi distinti se pure nell’epoca moderna è dato riconoscere una connessione tra i due concetti. La stretta relazione tra autonomia universitaria e libertà accademica è presente nella considerazione della dottrina e della giurisprudenza costituzionale e ordinaria di molti Paesi tra cui il Belgio, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Spagna. La tradizione storica plurisecolare delle Università negli ordinamenti delle democrazie liberali dell’Occidente può fornire degli utili insegnamenti anche per il tempo presente, pur tenendo nel debito conto le radicali trasformazioni delle istituzioni universitarie nel corso storico. Con il Rinascimento e con il sorgere degli Stati nazionali le Università europee furono attratte nella sfera pubblica. Da corporazioni garantite da antichi privilegi concessi dall’Imperatore o dal Papa si trasformarono assumendo i caratteri propri delle fondazioni e subirono un duplice effetto: da organismi privati si mutarono in istituzioni pubbliche e da enti sopranazionali si ridussero a corpi nazionali. Nel secolo XIX° cultura, scienza, istruzione superiore erano assunte, oramai, come delle nozioni distinte, se pure le competenze potevano essere riunite in un unico Ente, secondo il modello dell’Università tedesca propugnato da Humboldt. Verso la fine dell’Ottocento le Università persero il “monopolio del sapere”, sorsero le Accademie, le grandi Ecoles, le Technische Hochschulen e le Handelscchochschulen, istituzioni che talora si posero in concorrenza con l’Università tradizionale e che presto acquisirono una propria autonoma configurazione giuridica. La riforma di maggior spessore dell’Università europea è avvenuta in questo secolo XX°, per effetto dell’iscrizione di massa degli studenti, che ha comportato un mutamento del ruolo dell’istruzione superiore. Da “scuola di comando” volta a formare le élites ed a fornire loro le tecniche e gli strumenti di governo, l’Università si trasforma in “scuola di mestiere”, intesa come istituzione che deve formare professionisti e stimolare le capacità produttive. Questo cambiamento ha seguito quello che ha visto le grandi corporazioni produttive e finanziarie divenire sempre più protagoniste del nuovo assetto politico della società moderna. La massificazione dell’Università, a giudizio di vari commentatori, sarebbe legata strettamente alla civiltà industriale e alle sue regole. Di conseguenza, nelle società contemporanee, all’Università viene chiesto, con maggiore intensità, di dedicare attenzione alla relazione tra cultura e sviluppo, adottando dei programmi intesi a rafforzare la collaborazione con il mondo esterno e facendosi carico delle esigenze dell’istruzione superiore permanente. Per quanto concerne l’Italia si deve notare come le mutate condizioni storiche e sociali del Paese abbiano profondamente inciso sul ruolo affidato agli atenei, pur nel quadro di un sistema che riconosce ancora come preminente l’interesse pubblico dell’istruzione universitaria. Il collegamento degli atenei al territorio e la collaborazione con le diverse componenti della società civile si sono notevolmente ampliati, mentre l’internazionalizzazione degli studi e la mobilità professionale fanno parte del processo di aggiornamento costante che coinvolge tutti gli atenei. Per quanto riguarda il riconoscimento e l’uso dei titoli di studio l’originaria configurazione, tuttavia, non sembra aver subito delle trasformazioni altrettanto radicali. Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 249 L’attribuzione di “valore legale” ai titoli di studio Al momento dell’unificazione nazionale agli Atenei di tutto il Paese fu imposta la legislazione universitaria dello Stato sabaudo (riformata con la legge Casati del 1859). Ruggiero Bonghi, con il Decreto Legge del 30 maggio 1875, e il Ministro Coppino, mediante il Regolamento del 1876 intesero eliminare tutte le differenze tra gli Atenei, riconducendo l’istruzione universitaria all’impianto tracciato con la legge Casati. Lo Stato si faceva carico dell’istruzione superiore, uniformando i percorsi degli studi ed attribuendo valore legale ai titoli rilasciati dagli istituti statali e da quelli riconosciuti e pareggiati. La riforma Gentile del 1923 ha rafforzato questa impostazione. I titoli legali sono rilasciati solo dalla “scuola di stato” e dalle istituzioni scolastiche riconosciute e pareggiate. Il legislatore costituente all’articolo 33, quinto comma, si limitava a prescrivere l’esame di stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole, per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale, senza un diretto riferimento al “valore legale dei titoli di studio”. Il legislatore ordinario, poi, ha stabilito un complesso ordito normativo sia per l’iscrizione agli albi professionali, sia per l’accesso ai pubblici impieghi, conservando, caso per caso, una relazione tra valore legale e accesso al lavoro quando ha ritenuto che questo raccordo fosse importante per garantire competenza e qualità nell’esercizio di professioni e di pubblici uffici. In queste discipline particolari, di regola, sono indicati anche i titoli di studio che consentono di accedere agli esami di stato e, conseguentemente, di esercitare la correlata professione. Nel settore del pubblico impiego la materia ha subito un progressivo processo di delegificazione, sia per la privatizzazione di molti settori che, nel passato, ricadevano nell’ambito del pubblico impiego, sia riservando alla contrattazione la determinazione delle qualifiche e dei livelli di coloro che ancora fanno parte dei pubblici uffici. In vari casi il requisito del titolo di studio non è più essenziale e sia l’accesso sia i passaggi funzionali sono regolati in base a diversi criteri (tra l’altro l’esperienza precedentemente acquisita e l’aver ricoperto, di fatto o per incarico temporaneo, funzioni superiori). Il valore legale del titolo di studio, dunque, non risulta generalmente stabilito per legge ma si evince, caso per caso, in relazione alla situazione concreta che prevede il rilascio e l’uso di un titolo scolastico. 2. Il c.d. “valore legale” del voto di laurea Il voto di laurea sintetizza un giudizio che l’apposita Commissione, sulla base delle valutazioni dei relatori e dei componenti, traduce in un dato numerico che per costante applicazione è stato rappresentato con riferimento a 110 e l’eventuale possibilità di conferire la lode e, sovente, anche la dicitura “con dignità di stampa”. Riesce difficile configurare questo giudizio nell’ambito di una disamina relativa al “valore legale dei titoli” in quanto esso opera in un differente contesto e assume un significato ben diverso rispetto al riconoscimento legale del titolo. Ciò nondimeno in varie circostanze il legislatore ha ritenuto (soprattutto in relazione alla regolamentazione delle modalità concorsuali nel pubblico impiego) di attribuire un valore al voto, richiedendo l’attri- 250 Contributi monografici buzione di un punteggio nella valutazione dei titoli. Quando si contesta il presunto “valore legale” del voto ci si riferisce essenzialmente a questa valorizzazione dell’esito finale di laurea quale elemento da considerare e premiare nell’esame dei titoli ammessi alla valutazione in sede di concorso pubblico. Personalmente ritengo che questa considerazione debba essere conservata per varie ragioni: a) in quanto, sovente, il candidato che si presenta in giovane età al concorso dopo avere concluso il ciclo degli studi universitari, ove sia prevista anche la valutazione di titoli, non ha altro fattore di giudizio che non sia quello relato all’esito finale dei propri studi; b) in quanto il voto di laurea riassume tutto un percorso che, in caso contrario, non potrebbe essere valutato, oppure dovrebbe essere scomposto, richiedendo la considerazione specifica di molti altri fattori (singoli voti, giudizi dei docenti, lettere di presentazione) che possono complicare e burocratizzare ulteriormente le prove concorsuali e risultare anche meno attendibili rispetto al voto finale di laurea; c) per tenere conto di un percorso che ha impegnato il laureato per diversi anni e che merita di essere valutato anche in sede concorsuale. Si deve considerare, inoltre, che questo dato numerico riassuntivo, il più delle volte, è più obiettivo di molte altre valutazioni soggettive. 3. Il quadro normativo – La successione delle norme che confermano il “valore legale” dei titoli di studio Il r.d. 30 settembre 1923, n. 2102, recepito nel testo unico sull’istruzione superiore approvato con il r.d. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 172, stabiliva: i titoli di studio rilasciati dalle università hanno esclusivamente valore di qualifiche accademiche. L’abilitazione all’esercizio professionale è conferita a seguito di esami di Stato, cui sono ammessi soltanto coloro che abbiano conseguito presso università i titoli accademici. L’articolo 178 dello stesso decreto recita: La qualifica di specialista in qualsiasi ramo di esercizio professionale può essere assunta soltanto da coloro che abbiano conseguito il relativo diploma secondo quanto viene stabilito dagli statuti delle Università e degli Istituti superiori. Chi contravvenga alla disposizione, di cui al comma precedente, incorre nella esclusione dall’albo professionale nel quale è iscritto, senza pregiudizio delle altre pene previste per gli esercenti abusivi delle singole professioni. Le disposizioni del presente articolo non si applicano ai professori universitari di ruolo e ai liberi docenti delle materie o parti di materie che sono oggetto delle singole specialità. Il Regolamento studenti (Regio Decreto 4 giugno 1938, n. 1269) all’articolo 48 stabilisce: a coloro che hanno conseguito una laurea, e ad essi soltanto, compete la qualifica accademica di dottore. La Legge 13 marzo 1958, n. 262 in relazione al conferimento e all’uso dei titoli accademici, professionali e simili all’articolo 1 prescrive: Le qualifiche accademiche di dottore, compresa quella honoris causa, le qualifiche di carattere professionale, la qualifica di libero docente possono essere conferite soltanto con le modalità e nei casi indicati dalla legge. L’articolo 2 vieta il conferimento delle qualifiche di cui all’articolo precedente da parte di privati, enti ed istituti, comunque denominati, in contrasto con quanto stabilito nello stesso articolo, prevedendo delle sanzioni penali e pecuniarie. Il Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 251 Codice Penale punisce, se pure con sanzioni alquanto lievi (reclusione fino a sei mesi e multa), l’esercizio abusivo delle professioni e l’usurpazione di titolo professionale. La legge 30 novembre 1973, n. 766 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1 ottobre 1973, n. 580, recente misure urgenti per l’Università), all’articolo 10, prevede che le denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto di istruzione universitaria, possono essere usate soltanto dalle università statali e da quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a norma delle disposizioni di legge. La legge che introdusse criteri per l’autonomia universitaria (legge 9 maggio 1989, n. 168), all’art. 16.4, disponeva che gli statuti universitari dovessero prevedere l’adozione di curricula didattici coerenti ed adeguati al valore legale dei titoli di studio rilasciati dall’università mentre la legge 19 novembre 1990, n. 341, intervenendo sull’ordinamento didattico universitario, ha demandato a successivi decreti interministeriali l’individuazione dei profili professionali per i quali il diploma è titolo valido per l’esercizio delle corrispondenti attività e delle qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali il diploma costituisce titolo per l’accesso (una norma analoga è contenuta nell’art. 4 per i diplomi di specializzazione). Sabino Cassese, al proposito, ha osservato: la vicenda racchiusa nel periodo tra il 1923-33 e il 1989-90 è paradossale. La prima norma è più liberale, sia perché si riferisce solo alle professioni e non anche agli uffici pubblici; sia perché dichiara il titolo di studio qualifica accademica, sia pur necessaria per essere ammessi agli esami di Stato. Le altre due norme, invece, non solo stabiliscono una connessione necessaria tra corsi di studio, titoli di studio e attività professionali o qualifiche funzionali del pubblico impiego, ma prevedono anche la determinazione dei livelli di occupazione successiva, corrispondenti ai titoli di studio. Quest’ultima norma non è stata attuata. Se lo fosse stata, si sarebbe andati ben al di là del riconoscimento del valore legale del titolo di studio, perché si sarebbero stabilite tabelle di corrispondenza tra corsi, titoli e livelli professionali o impiegatizi2. La legge 5 febbraio 1992, n. 175 (Norme in materia di pubblicità sanitaria e di repressione dell’esercizio abusivo delle professioni sanitarie), detta criteri in materia di titoli. L’articolo 1 precisa che la pubblicità esterna delle professioni sanitarie possa contenere titoli di studio, titoli accademici, titoli di specializzazione e di carriera, senza abbreviazione che possano indurre in equivoco. L’uso della qualifica di specialista è consentito soltanto a coloro che abbiano conseguito il relativo diploma ai sensi della normativa in vigore. Gli esercenti le professioni sanitarie che prestano il proprio nome, ovvero la propria attività, allo scopo di permettere o di agevolare l’esercizio abusivo delle professioni medesime sono puniti con l’interdizione dalla professione per un periodo non inferiore ad un anno. La riforma degli ordinamenti didattici universitari (DM 509/1999 e succ. modif. e integrazioni), che ha introdotto i nuovi titoli accademici di “laurea” di primo livello 2 S. Cassese, Il valore legale del titolo di studio, in Annali di storia delle università italiane, n. 6/2002, allegato A). 252 Contributi monografici e di “laurea magistrale” specialistica (il c.d. 3+2), ha ribadito il principio del valore legale: i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale (art. 4.3). Le classi di appartenenza dei titoli di studio sono determinate e modificate in modo uniforme con atti normativi. Il legislatore italiano, dunque, ha fatto riferimento costante al “valore legale” nella definizione dell’assetto della riforma didattica e ha applicato questo criterio anche dopo avere definito e varato nuovi ordinamenti. Nel conferire la delega al Governo con la legge n. 240 del 31 dicembre 2010 (c. d. Gelmini) il legislatore all’articolo 5, primo comma, punto (a) indica come obiettivo la «realizzazione di opportunità uniformi su tutto il territorio nazionale di accesso e scelte dei percorsi formativi». Questa leggedelega ha disposto anche l’introduzione di un sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio universitari; l’introduzione di un sistema di valutazione degli Atenei e il potenziamento dell’autovalutazione. Il Decreto dell’8 febbraio 2013 n. 45 concernente la revisione delle norme sui dottorati all’articolo 8 conferma l’esigenza di possedere un titolo di laurea magistrale per i candidati alla selezione ad evidenza pubblica con la quale sono scelti i dottorandi (con e senza borsa)3. 4. Il significato giuridico del valore legale dei titoli di studio I titoli rilasciati alle autorità scolastiche a conclusione di un ciclo di studi, sotto il profilo giuridico, sono volti a comprovare il compimento del percorso formativo prescritto dalle norme in vigore e sono rilasciati a seguito ad esami o valutazioni finali. Essi producono effetti sia nell’ambito dell’ordinamento scolastico, sia in ambito extrascolastico, sulla base delle prescrizioni di legge che contemplano le modalità di rilascio e di utilizzo e che ne definiscono utilizzazioni ed effetti. In particolare, per quanto concerne l’ambito scolastico il possesso di un titolo riconosciuto è, quasi sempre, la condizione necessaria per il proseguimento degli studi. In ambito extrascolastico il valore legale ha significato principalmente in due direzioni: a) per l’accesso alle professioni liberali (secondo le regole stabilite da ciascun ordinamento professionale), spesso dopo il superamento di un esame di stato (per l’abilitazione professionale), per il quale il titolo specifico è condizione necessaria ma 3 DECRETO 8 febbraio 2013, n. 45. Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato e criteri per la istituzione dei corsi di dottorato da parte degli enti accreditati. Art. 8. Modalità di accesso ai corsi di dottorato e di conseguimento del titolo 1. L’ammissione al dottorato avviene sulla base di una selezione a evidenza pubblica, che deve concludersi entro e non oltre il 30 settembre di ciascun anno, fermo restando quanto previsto dal comma 2. La domanda di partecipazione ai posti con borsa di studio può essere pre- sentata, senza limitazioni di cittadinanza, da coloro che, alla data di scadenza del bando, sono in possesso di laurea magistrale o titolo straniero idoneo ovvero da coloro che conseguano il titolo richiesto per l’ammissione, pena la decadenza dall’ammissione in caso di esito positivo della selezione, entro il termine massimo del 31 ottobre dello stesso anno. L’idoneità del titolo estero viene accertata dalla commissione del dottorato nel rispetto della normativa vigente in materia in Italia e nel Paese dove è stato rilasciato il titolo stesso e dei trattati o accordi internazionali in materia di riconoscimento di titoli per il proseguimento degli studi. – omissis –. Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 253 non esaustiva (l’esame di Stato, infatti, si articola in alcune prove che sono intese ad accertare l’attitudine di ciascun candidato all’esercizio di quella specifica attività professionale per cui è previsto). Le professioni liberali hanno un rilievo pubblico in quanto rivestono interesse per l’intera collettività. In ragione di ciò sono stati istituiti gli Albi professionali e gli Ordini che organizzano e tutelano i professionisti. In questo ambito si sono definite delle Regole deontologiche che vengono deliberate e fatte valere dagli Ordini stessi; b) per accedere ai soli pubblici impieghi che richiedono il possesso di un apposito titolo di istruzione (ad esempio la carriera nelle magistrature, il concorso notarile, il concorso di ricercatore universitario, carriere nella medicina pubblica ecc.). L’articolo 97, terzo comma della Costituzione stabilisce che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Per accedere ai pubblici impieghi il titolo di studio è un requisito quasi sempre richiesto e tuttavia non è quasi mai sufficiente in quanto occorre candidarsi ad un concorso e superare le prove ivi previste, collocandosi in una posizione utile della graduatoria. È stato esattamente rilevato che non esiste un “generale valore legale” dei titoli di studio4. Oltre a tener conto della distinzione tra la spendita del titolo all’interno del sistema dell’istruzione e quella che si ha nella società civile, con l’accesso al lavoro pubblico o privato, si deve sempre avere riguardo agli specifici ambiti nei quali permane l’esigenza di esibire un titolo legalmente riconosciuto. Di conseguenza il titolo legale assume un carattere accessorio. La scelta tra un sistema di verifica della qualità basato su accertamenti legali, ovvero demandato ad altre forme di “qualificazione” come ad esempio gli “accreditamenti”, non trova alcun vincolo nel testo costituzionale ed è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario. Questi, tuttavia, fino ad ora ha sempre confermato l’esigenza di possedere un titolo riconosciuto sia per accedere ai diversi gradi d’istruzione, da ultimo comprendendo anche il dottorato, sia per numerose funzioni pubbliche alle quali il cittadino può concorrere. 5. L’esigenza di contrastare efficacemente gli abusi e le illegalità nel rilascio e nell’uso dei titoli di studio Nel corso del tempo la tendenza del legislatore italiano è stata intesa sia ad estendere regole pubblicistiche a tutte le professioni liberali (assicurazioni obbligatorie, vincoli fiscali, applicazione di norme sulla “privacy”, revisione di prontuari e tariffari), sia a stabilire una correlazione tra i titoli di studio e l’accesso all’esercizio professionale. L’abolizione del valore legale dei titoli di studio rimetterebbe la verifica dei requisiti per l’esercizio professionale al solo esame di stato, ove esso sia previsto (non vincolando l’accesso ad uno specifico titolo di studio), o ad altre condizioni stabilite dal legislatore. Quest’ultimo, con la riforma degli ordinamenti didattici, in alcuni casi ha configurato lo stesso esame di stato come la prova conclusiva di un percorso che coinvolge direttamente le Università (ad esempio con le Scuole professionali in ambi4 Si v. il rigoroso contributo di Sabino Cassese, cit., allegato A). 254 Contributi monografici to legale e per l’insegnamento, o indicando le Università come sede ove sostenere le prove). Questa separazione tra l’acquisizione di un titolo e la “pratica professionale” (da intendere come conoscenza ed esperienza) risponde all’esigenza di superare i modelli burocratici propri di società statiche nei loro rapporti politici economici e sociali, collegando strettamente l’Università alla società civile e alle sue mutevoli necessità di sviluppo. Sia che si richieda un titolo legale per l’accesso alle professioni o all’impiego pubblico, sia che ci si affidi ad altre forme di accertamento delle qualità professionali, si pone sempre da un lato il problema di evitare gli abusi e le trasgressioni e dall’altro lato, per riflesso, quello di garantire il cittadino che si rivolge al professionista circa la legittimità dell’esercizio di quella particolare professione. Gli esercizi illeciti, infatti, possono recare un danno rilevante alla società per il venir meno della “fiducia” nel professionista al quale, sovente, sono affidati beni ed interessi rilevanti (come la salute delle persone e la tutela dei loro diritti) e per gli effetti distorsivi del mercato che conseguono dall’esercizio abusivo di un’attività. A tale riguardo mi sembra utile riportare integralmente le considerazioni riassuntive del direttore del CIMEA, Fondazione RUI (Rivista di cultura universitaria) Carlo Finocchietti: Il caso italiano Istituti e titoli non riconosciuti hanno una particolare diffusione in Italia, secondo quanto attestato dagli indicatori in materia delle organizzazioni internazionali e delle autorità educative nazionali. Si tratta peraltro di un fenomeno complesso, non semplificabile o riducibile ai soli termini giornalistici di scuole fasulle o di titoli bidone. In base all’esperienza italiana del Cimea, possono essere individuate cinque categorie di istituzioni o titoli non riconosciuti. a) Nella prima categoria sono inquadrabili gli istituti superiori privati non riconosciuti ma di buona qualità. Si tratta di istituti italiani e stranieri che operano nel nostro paese con piena legittimità, pur se privi di riconoscimento legale del titolo, e sono talora in possesso delle autorizzazioni a operare previste dalle nostre leggi. Questi istituti, che in alcuni casi godono di un certo prestigio o di buona reputazione formativa, operano spesso in settori educativi-nicchia, offrono qualifiche in settori scoperti o non adeguatamente coperti dall’istruzione pubblica; in altri casi si pongono in competizione con le stesse istituzioni educative pubbliche. Il valore dei titoli rilasciati, ovviamente non certificato dalla legge, ha esclusivo riconoscimento di mercato. b) Nella seconda categoria sono inquadrabili le università americane non accreditate. Come è noto negli Stati Uniti, in assenza di un sistema di valore legale dei titoli, la qualità delle istituzioni e dei titoli accademici è certificata da appositi organismi di accreditamento a carattere territoriale o disciplinare. Accanto agli atenei accreditati, che godono pertanto del prestigio accademico relativo, sono tuttavia presenti atenei di bassa o infima qualità, certamente non competitivi sul piano delle reputazione accademica e scientifica internazionale. Questi atenei propongono talora i loro titoli sul mercato italiano, grazie Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 255 all’intervento di filiali o agenzie di pubbliche relazioni. Grazie al sistema anglosassone dei credits, tali atenei trasformano in crediti accademici gli spezzoni di formazione e le esperienze professionali posseduti dai candidati. Il loro mercato è pertanto costituito da professionisti adulti e uomini di azienda. c) La terza categoria comprende gli istituti non riconosciuti di formazione a distanza. In tali istituti si conseguono titoli a seguito di corsi che non prevedono la frequenza ma solo la certificazione dell’apprendimento, sulla base di una sequenza di moduli didattici autosomministrati. La qualità dei testi e dei sussidi didattici non è verificabile; come pure non valutabili da organismi indipendenti esterni sono le modalità adottate per la certificazione dell’apprendimento e l’accreditamento dei moduli didattici. In alcuni casi tali istituti rilasciano qualifiche per professioni non riconosciute o non ancora regolate da leggi. d) La quarta categoria comprende le agenzie di intermediazione tra studenti italiani e università straniere compiacenti. L’agenzia ottiene la disponibilità di atenei stranieri o di loro docenti ad attivare programmi speciali di formazione, in lingua italiana, con sessioni di studio intensivo e sessioni di esame localizzate in parte in Italia ed in parte all’estero. Il titolo accademico viene formalmente rilasciato dall’ateneo straniero, spesso localizzato in paesi in via di sviluppo. L’agenzia propone tale pacchetto formativo a studenti italiani interessati, dietro versamento alla stessa agenzia di cospicui corrispettivi economici. I corsi proposti sono solitamente quelli orientati a professioni regolate da leggi (odontoiatria, psicologia, economia, ingegneria, ecc.), per i quali è spesso previsto in Italia l’accesso a numero chiuso. Agli studenti sono indicate anche le modalità e le procedure di riconoscimento del titolo finale estero. e) La quinta categoria è costituita dalle istituzioni che operano in franchising f) La sesta categoria comprende i titoli accademici concessi da università straniere ad honorem o honoris causa. Tali titoli non prevedono ovviamente la frequenza di alcun corso ma vengono proposti a professionisti italiani sulla base della valutazione della loro attività professionale. Gli atenei stranieri proponenti sono evidentemente di infima qualità, quando non registrati come mere attività commerciali. Come difendersi Se si pensa che le istituzioni non riconoscibili censite negli elenchi confidenziali del Consiglio d’Europa superano le 900, appare chiaro che una strategia di difesa vada adottata sia sul piano internazionale, sia sul piano nazionale. L’organizzazione internazionale più attiva nello studio del fenomeno e nella elaborazione di strategie di prevenzione e di difesa è il Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo. Le attività del Consiglio d’Europa hanno i seguenti obiettivi: * favorire lo scambio di informazioni sulle istituzioni non riconosciute, con la collaborazione della rete Enic dei centri nazionali di informazione sul riconoscimento dei titoli accademici stranieri; 256 Contributi monografici * pubblicare gli elenchi nazionali, forniti dalle autorità ufficiali, delle università e istituzioni statali e legalmente riconosciute; * verificare la corretta applicazione delle convenzioni internazionali in materia di riconoscimento dei titoli accademici; * proporre eventuali misure legislative di protezione. La testuale citazione dimostra come non sia agevole rinunciare al valore legale dei titoli, senza avere prima indicato e rese praticabili delle soluzioni alternative. Il rischio sarebbe intollerabile in quanto, oltre ad incentivare possibili frodi, si avrebbero possibili palesi ed arbitrarie discriminazioni, elevata disparità di condizioni di ammissione, distorsione delle finalità per le quali le selezioni ad evidenza pubblica sono state disciplinate, conflitti interpretativi e conseguenti distorsioni applicative. Sono difetti che potrebbero produrre effetti assai perniciosi, rendendo ancora più debole il sistema della formazione e dell’accesso agli impieghi. Una puntuale regolamentazione degli accreditamenti e l’acquisizione di un “marchio di qualità” anche per i servizi pubblici erogati ai cittadini e per le prestazioni professionali potrebbe, preliminarmente, riuscire utile al fine di accelerare un processo di liberalizzazione che, da ultimo, possa affidare al solo mercato la selezione delle prestazioni più qualificate. In Italia la forma più efficace di prevenzione del fenomeno abusivo è stata adottata dal Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica mediante la diffusione di circolari periodiche contenenti elenchi di istituzioni non riconosciute. Tali circolari invitano le autorità competenti per il riconoscimento ad adottare le cautele opportune nell’esame dei titoli e a rifiutare il riconoscimento in presenza di titoli non qualificati. Una eccessiva proliferazione di sedi e strutture scolastiche (con particolare riferimento a quelle telematiche che non dimostrino di avere sufficiente stabilità e organizzazione) rende più complessi i controlli e il miglioramento della qualità e dell’efficienza. Controlli e sanzioni sono affidati, poi, agli ordini professionali. Anche in questo caso l’abolizione del valore legale impone una riflessione e un ripensamento radicale circa il ruolo complessivo finora svolto e riguardo alle salvaguardia delle professioni sul piano deontologico, incombenze che, al momento, sono tutte assegnate agli ordini e ai collegi professionali. 6. Il dibattito sull’abolizione del valore legale: conseguenze giuridiche Le considerazioni svolte dal direttore del CIMEA rendono evidente la difficoltà insita nell’abolizione sic et simpliciter del valore legale, aprendo la via all’indiscriminata proliferazione di attestati che il mercato non potrebbe essere in grado di selezionare. Una siffatta attitudine renderebbe difficile l’orientamento da parte di famiglie e discenti e porrebbe seri problemi per la valutazione e il controllo della qualità. Gli ordini professionali lamentano incessantemente abusi e illegalità (si pensi a molte professioni sanitarie) che non si riescono a debellare. Il tema riesce complesso e meritevole Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 257 di approfondimento. Gli stessi ordini professionali, talora, entrano in conflitto come si evince, ad esempio dalla lettura della sentenza del Tribunale di Roma del 7 gennaio 2011, avente ad oggetto le diete, ove ordine dei medici e ordine dei biologi hanno sostenuto tesi ed espresso valutazioni opposte. Il contesto europeo, al quale si deve riferire anche l’impegno assunto dal nostro Paese sembra appropriato per impostare correttamente questi problemi e per rafforza l’esigenza di evitare ogni confusione tra la liberalizzazione delle professioni e l’illegittimo esercizio delle stesse. Gli obblighi assunti dal nostro Paese con la “Convenzione di Lisbona” (ratificata in Italia con la legge n. 148 del 2002) in tema di reciproco riconoscimento dei titoli di studio richiedono una disciplina volta al “riconoscimento” finalizzato di ciascun titolo, in sostituzione dell’equipollenza alla quale si è fatto ricorso fino ad ora. Per converso la legge 240/2010 all’articolo 17 dispone ancora varie equipollenze per i diplomi rilasciati dalle “Scuole dirette a fini speciali” dell’ordinamento previgente. La libera circolazione dei professionisti si fonda sul riconoscimento reciproco della regole interne che governano ciascun modello nazionale e non impone la rinuncia alla verifica delle qualità necessarie per l’esercizio di una professione, cioè un accertamento delle capacità svolto nel pubblico interesse. Devono essere rimossi esclusivamente gli ostacoli frapposti sulla base della nazionalità, così come ogni forma di conseguente discriminazione. Alle Università dovranno essere attribuite le competenze relative all’accreditamento di cicli di studio svolti all’estero e al riconoscimento dei titoli conseguiti. Per tale ragione penso che il venir meno del criterio del valore legale dei titoli attuali possa, eventualmente, essere stabilito solo dopo l’introduzione di un sistema legale alternativo di valutazione e di accreditamento delle istituzioni che rilasciano titoli universitari. In conformità al principio costituzionale posto dall’articolo 33, per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole, così come per la conclusione di essi si richiede il superamento di un “esame di stato”. Da ciò, tuttavia, non si evince la necessità di attribuire o meno un valore legale ai titoli di studio. Per rinunciare al valore attualmente assegnato dalla legge ai titoli di studio è però necessario introdurre una riforma delle disposizioni, con cui si stabilisce, in vari ambiti professionali, una correlazione costante tra il titolo conseguito e l’ammissione al corrispettivo esame di stato. Il venir meno del valore legale, perciò, imporrebbe la revisione di tutti gli ordinamenti professionali che richiedono la produzione di uno specifico titolo per poter conseguire l’abilitazione che consente l’iscrizione agli Albi. Mi sembrano particolarmente meritevoli di attenzione anche le considerazioni svolte dal professor Dalla Torre, con riferimento alle trasformazioni della società italiana ed europea, in generale, per effetto della “globalizzazione” e dell’incidenza dei c. d. “poteri forti” sulla società e sulle istituzioni. In tal senso il ruolo dello Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali, sembra ancora importante per sostenere un efficiente sistema pubblico dell’istruzione e garantire la libertà della scienza e dell’insegnamento, ponendo riparo alle indebite invasioni di campo. Quando Einaudi, in coerenza con un indirizzo ideologico liberale, poneva, con fermezza, la questione dell’abolizione del valore legale del titolo di studio il centralismo statale nell’istruzione poteva sembrare eccessivo e soffocante e il ruolo del mercato era del tutto secondario. Quel- 258 Contributi monografici lo contro il valore legale costituiva il punto di attacco per smantellare un modello statocentrico dell’istruzione che rivelava già eccessi di burocraticismo e manifestava tenenze autoreferenziali. Mi sembra che alcuni di quei limiti siano stati rimossi e che, al contrario, un eccesso di liberalizzazione (presente in altri Paesi, come gli Stati Uniti) manifesta anche taluni difetti, inducendo alla prudenza e alla riflessione quanti hanno precocemente confidato sulla presunta panacea derivante dal libero mercato e dalle “privatizzazioni”. Alcune critiche alle quali, di norma, fa seguito la richiesta di abolire il “valore legale” riprendono l’impostazione liberale di Einaudi, aggiornandola rispetto all’evoluzione della società e del mercato. Si chiede allo Stato di fare un decisivo passo indietro, rinunciando ad un criterio che imporrebbe un livellamento dei sistemi d’istruzione, limitando l’innovazione e la concorrenza, con l’imposizione di schemi rigidi e di regole comuni applicate a tutti gli istituti scolastici operanti sul territorio nazionale. Questo indirizzo critico fa leva sul rafforzato ruolo delle autonomie territoriali, fino al federalismo e sull’esigenza di una concorrenza tra le offerte formative, da cui potrebbe derivare una migliore qualità degli studi e degli stessi titoli rilasciati dalle istituzioni scolastiche, proponendo di lasciare alla sola competizione mercantile il compito di operare una selezione. Per contro si potrebbe far osservare che la riforma didattica universitaria e l’autonomia scolastica hanno già esteso notevolmente le possibilità di sperimentazione di nuovi modelli formativi e consentono di differenziare i corsi, senza rinunciare ad una configurazione giuridica che evita un’eccessiva frammentazione. Il difetto maggiore del ricorrente riformismo universitario che, da qualche tempo, sembra far breccia non solo nella politica ma anche in alcuni strati sociali, è dato dall’assenza di un indirizzo coerente, sostenuto da interventi efficaci e condivisi. Non si può certo dire che l’uniformità contraddistingue gli attuali ordinamenti didattici universitari, semmai si può svolgere una critica in ragione dell’effetto contrario, in quanto, al momento dell’individuazione delle classi di laurea, si è, a giusta ragione, lamentata un’eccessiva proliferazione di proposte formulate dai vari atenei e dei percorsi effettivamente avviati. Una liberalizzazione totale potrebbe essere fonte di confusione, agevolare il malcostume e penalizzare le aree territoriali nelle quali il rapporto con la società è più difficile e non può contare su significative risorse aggiuntive. Per altro la qualità degli studi non è strettamente dipendente dal riconoscimento o meno di un valore legale ai titoli finali, bensì dall’ordinamento scolastico, dall’organizzazione delle istituzioni educative, dalle risorse destinate alla Scuola, dalla formazione degli insegnanti, dal contributo che può venire dall’esterno (in particolare la comunità territoriale circostante). La comparazione con i modelli di altri Paesi (dove il valore legale è stabilito come la Francia e la Germania, o dove vige un sistema di accreditamento delle istituzioni scolastiche, come nei Paesi anglosassoni) dimostra che i buoni risultati sono quasi sempre il frutto di sinergie abilmente integrate (risorse-valutazione-organizzazione-territorio). Quando questi fattori risultano bene combinati si nota che essi contribuiscono decisamente ad elevare il livello degli studi. Un secondo indirizzo critico sottolinea, in generale e astrattamente, la perdita di significato del “titolo di studio” ridotto spesso a pura “certificazione priva di valore”. Anche in questo caso mi sembra che si operi una traslazione indebita, facendo derivare dal valore legale la perdita di qualità del sistema formativo o la crisi Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 259 della “legalizzazione professionale”, senza un esame accurato delle effettive condizioni che conducono alla bassa valorizzazione dei titoli di studio nel mercato del lavoro e delle professioni. Occorre tenere conto della struttura sociale e considerare il grado di efficienza nella gestione degli Albi o nell’impegno degli Ordini professionali per la formazione e per la lotta agli abusi. Ove tali cause non fossero rimosse la semplice rinuncia al valore legale provocherebbe un ulteriore e più diffuso livellamento degli Atenei, dato che la semplice concorrenza si può realizzare anche verso il basso, puntando sulla convenienza e sulla vicinanza territoriale. Nell’approccio alla questione circa il valore legale dei titoli di studio e il suo attuale significato giuridico, dunque, ritengo che sia opportuno procedere con molta cautela, evitando di attribuire al “mito” del “pezzo di carta” un valore improprio, ma anche cercando di non deludere colpevolmente le aspettative dei giovani che si formano nei nostri istituti scolastici e che hanno diritto a conoscere, in anticipo, l’effetto che può derivare dalla riforma del sistema formativo al quale accedono. Né si dovrebbe dimenticare un consiglio di Seneca per cui l’unico studio veramente liberale è quello che rende l’uomo libero. APPENDICE A) Annali di storia delle università italiane 6/2002 IL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO * di SABINO CASSESE 1. La filippica di Einaudi …[L]a verità essenziale qui affermata [è:] non avere il diploma per se medesimo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati elementari e simiglianti indicativi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire l’uomo vergine di bolli. Così terminava, nel 1959, Luigi Einaudi la sua filippica contro il valore legale dei titoli di studio5. La polemica di Einaudi contro i “largitori di titoli” era duplice. Egli, da un lato, osservava che il valore legale era una finzione, essendo il valore del diploma, in sostanza, esclusivamente morale. Per questo motivo – scriveva Einaudi – non c’è bisogno del bollo dello Stato: la fonte dell’idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, o professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Se, da questo lato, il valore legale dei titoli di studio è un “mito”, non lo è l’altro lato, con il quale si accanisce Einaudi: il valore legale dei titoli partorisce uniformità degli ordinamenti scolastici, controllo pubblico su di essi, valore di esclusiva del ti5Ringrazio Tullio De Mauro, Aldo Sandulli e Valerio Talamo per i commenti a una prima versione di questo scritto. Luigi Einaudi, Scuola e libertà, in Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1959, p. 57. 260 Contributi monografici tolo, legittima aspettativa del titolare in certe cariche e certe professioni. Spetta singolarmente alla scuola, ai corpi accademici, all’università di attribuire il merito o il rimprovero. L’arringa einaudiana di mezzo secolo fa mette insieme argomenti maggiori e minori contro il valore legale dei titoli di studio; definisce quest’ultimo un “mito”, ma vi attribuisce molti gravi effetti; ne considera più l’effetto per la società, che quello per la scuola. Sarà bene, dunque, procedere per gradi, partendo dalle leggi, visto che si parla del valore “legale” di titoli. 2. In che cosa consiste il valore legale? Per accertare in che cosa consista il valore legale del titolo di studio, bisogna distinguere il valore scolastico da quello extrascolastico. Il rilascio di titoli di studio può avere il valore di requisito per l’accesso ad altri livelli scolastici oppure acquisire una rilevanza extrascolastica, di carattere sociale. Il primo qui non interessa, perché regola i passaggi tra ordini e gradi scolastici e rimane, quindi, interno alla scuola, anche se produce effetti non indifferenti sull’uniformità degli ordinamenti scolastici. Su questo aspetto vi sono una complessa normativa e una ricca giurisprudenza relative, in particolare, alle equipollenze dei titoli e al riconoscimento dei titoli stranieri. La rilevanza extra-scolastica, invece, è quella che qui interessa (ed è quella che interessava ad Einaudi). Essa, a sua volta, può avere incidenza in campi diversi, che riguardano più tipi di cariche o di lavori. Ad esempio, fino all’introduzione del suffragio universale, un titolo di studio era condizione necessaria per avere la cosiddetta capacità elettorale (cioè, per poter prendere parte alle elezioni e per essere eletti). Il requisito della cultura è stato così importante che fino al 1981 è perdurato il requisito dell’alfabetismo nelle leggi elettorali amministrative, requisito che andava dimostrato con un regolare titolo di studio o, in mancanza, con una dichiarazione scritta e sottoscritta dall’interessato (così l’art. 14 del t.u. 16 maggio 1960, n. 570). Eliminato con la legge 23 aprile 1981 n. 154 questo tipo di valore legale, e rimasto quello riguardante gli uffici pubblici e le professioni. A questo proposito, bisogna distinguere le norme contenute nell’ordinamento universitario da quelle disposte per gli uffici pubblici e le professioni6. La prima delle norme vigenti del primo tipo è quella del r.d. 30 settembre 1923, n. 2102, poi raccolta nel r.d. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 172, per cui i titoli di studio rilasciati dalle università hanno esclusivamente valore di qualifiche accademiche. L’abilitazione all’esercizio professionale è conferita a seguito di esami di Stato, cui sono ammessi soltanto coloro che abbiano conseguito presso università i titoli accademici […]. Questa, che è la norma di base in materia, stabilisce, dunque, una sorta di valore legale indiretto: il titolo di studio non è necessario per l’esercizio della professione, 6 Sulla distinzione e sull’intera materia, Nazareno Saitta, Esame di Stato e titoli di studio e di cultura, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1 (1968), p. 169 ss. e Titoli di studio e di cultura, in «Enciclopedia giuridica», ad vocem, 1994. Sulla validità dei titoli per le diverse professioni e per i diversi gradi, si pronunciano frequentemente i giudici. Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 261 bensì per l’ammissione all’esame di Stato, a sua volta necessario per l’esercizio della professione. Questa norma, però, è stata seguita, nel 1989-90, da due leggi che hanno fatto un passo avanti. La prima è la legge 9 maggio 1989, n. 168, che, all’art. 16.4, dispone che gli statuti universitari devono prevedere l’adozione di curricula didattici coerenti ed adeguati al valore legale dei titoli di studio rilasciati dall’università. La seconda è la legge 19 novembre 1990, n. 341, che, per i diplomi di laurea, prevede (art. 3) decreti interministeriali di individuazione dei profili professionali per i quali il diploma è «titolo valido per l’esercizio delle corrispondenti attività» e le qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali il diploma costituisce titolo per l’accesso (una norma analoga è contenuta nell’art. 4 per i diplomi di specializzazione). La vicenda racchiusa nel periodo tra il 1923-33 e il 1989-90 è paradossale. La prima norma è più liberale, sia perché si riferisce solo alle professioni e non anche agli uffici pubblici; sia perché dichiara il titolo di studio qualifica accademica, sia pur necessaria per essere ammessi agli esami di Stato. Le altre due norme, invece, non solo stabiliscono una connessione necessaria tra corsi di studio, titoli di studio e attività professionali o qualifiche funzionali del pubblico impiego, ma prevedono anche la determinazione dei livelli di occupazione successiva, corrispondenti ai titoli di studio. Quest’ultima norma non è stata attuata. Se lo fosse stata, si sarebbe andati ben al di là del riconoscimento del valore legale del titolo di studi, perché si sarebbero stabilite tabelle di corrispondenza tra corsi, titoli e livelli professionali o impiegatizi. Che tutto ciò sia potuto accadere, sia pure sulla carta, dopo la filippica einaudiana e le tante discussioni successive, non manca di stupire. Sin qui si sono esaminate le norme sull’università. A queste si aggiungono le norme sugli uffici pubblici e quelle sulle professioni. Sugli uffici pubblici è fondamentale l’art. 2 del decreto del presidente della repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, secondo il quale il titolo di studio per l’accesso a ciascuna carriera è stabilito dagli articoli seguenti. La norma dispone il diploma di laurea per la carriera direttiva (art. 161), quello di istituto di istruzione secondaria di secondo grado per la carriera di concetto (art. 173), quello di istituto di istruzione secondaria di primo grado per la carriera esecutiva (art. 182), mentre richiede solo di aver compiuto gli studi di istruzione obbligatoria per il personale ausiliario (art. 190). Questa corrispondenza tra titoli e categorie è ora rotta sia perché le categorie sono cambiate, sia perché, con la disciplina contrattuale del pubblico impiego, per il maggior numero dei dipendenti pubblici, i requisiti di ammissione sono stabiliti dai contratti collettivi, che hanno reso molto meno rigide le corrispondenze e consentono anche l’accesso alla dirigenza per non laureati. Quanto alle professioni, l’art. 33 della Costituzione prescrive l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale. E per accedere alle prove dell’esame di Stato le diverse leggi di settore richiedono il titolo di studi. Riassumo: non esiste un valore legale generale dei titoli di studio; questi hanno solo un valore accademico; comportano, dunque, riconoscimenti all’interno del sistema scolastico, con molti parametri interni di ponderazione per il riconoscimento di titoli 262 Contributi monografici stranieri e le equipollenze. Tuttavia, gli uffici pubblici e le professioni sono ordinati in modo che per accedere ai concorsi pubblici e agli esami di Stato è necessario avere un titolo di studio. Infine, la disciplina universitaria del 1990, peraltro rimasta inapplicata, ha stabilito una corrispondenza corso di studio-titolo-livello burocratico o professionale, portando alle estreme conseguenze il rapporto livello di studio certificato dal titolo-collocazione nella professione. 3. Abolire il valore legale? La situazione normativa è, dunque, confusa. Ed ancora più confusa risulterebbe se non ci si soffermasse – come si è fatto – sul diploma di laurea e si ampliasse l’analisi ai titoli inferiori e a quelli superiori. Esaminiamo i punti critici. Innanzitutto, per i titoli degli studi inferiori vi è corrispondenza tra l’obbligatorietà della frequenza scolastica stabilita dalla Costituzione per un certo numero di anni e il valore legale della certificazione di tale frequenza. In secondo luogo, un riconoscimento della necessità di disporre di un titolo di studio per accedere ad un’attività è previsto solo per gli uffici pubblici e per le professioni. Dunque, non si può parlare di un valore legale generale dei titoli. Una parte cospicua della società e dell’economia (ad esempio, le professioni non protette e le imprese), pur non facendo a meno del titolo di studio (nel senso che lo valuta), non lo considera come requisito indispensabile di ammissione a posti, carriere, professioni, ecc. Sono, invece, i poteri pubblici e le professioni da questi protette o regolamentate che assegnano al possesso di un titolo un valore, nel senso di requisito di ammissione e di graduazione, per cui si è accettati solo se si ha il titolo, e al grado del titolo si fa corrispondere un livello di posizione nella gerarchia. Questo riconoscimento non è, però, meccanico. Per accedere agli uffici pubblici e alle professioni sono sempre necessari, da un lato, concorsi, dall’altro esami di Stato. E per accedere a questi che è necessario il possesso del titolo. Per cui il titolo si presenta come una prima barriera, non è l’esclusivo criterio di selezione. Come si è notato, questa funzione del titolo di studi è, però, erosa dalle norme e dai contratti che consentono l’accesso ai livelli direttivi e dirigenziali anche a chi sia privo di diploma di laurea o le disposizioni che, ponendo su tre fasce i dipendenti pubblici (in luogo delle nove qualifiche funzionali che avevano, a loro volta, soppiantato le quattro carriere), non hanno ripetuto le norme del 1957 sulla stretta corrispondenza titolo di studio-livello della posizione occupata. È comunque, importante riconoscere che non l’intera società, né l’intera economia si appoggiano al valore dei titoli di studio, ma solo lo Stato e le professioni che vivono sotto la sua ala protettrice. Questa circostanza può avere due spiegazioni. La prima è la seguente: con la “conquista” statale delle università (avvenuta nel corso di tre secoli, fino al XIX), e lo sviluppo della scuola statale (prodottosi nel corso del XIX, ma specialmente del XX secolo), l’intero sistema di insegnamento è divenuto pubblico ed è entrato sotto il controllo dello Stato; è, quindi, naturale che, per l’esercizio della funzione pubblica o delle professioni protette, esso richieda titoli che altri rami della sua organizzazione, la scuola e l’università, rilasciano. La seconda spiegazione, invece, è la seguente: concorsi pubblici ed esami di Stato sono strumenti di selezione fragili e ben Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 263 poco perfetti; è, quindi, naturale che lo Stato si appoggi a un sistema di valutazione e di selezione ufficiale ed esterno (ma pur sempre pubblico), per la sfiducia che esso ha nei propri sistemi di reclutamento e di selezione. Se fosse vera questa seconda spiegazione, bisognerebbe ammettere che scuola e università suppliscono carenze dei poteri pubblici, perché operano come ausiliarie per la selezione del personale necessario per i posti pubblici e per le professioni. E che, non richiedendo più il titolo di studio per l’ammissione a concorsi ed esami di Stato, si finirebbe per indebolire ulteriormente la pubblica amministrazione e le professioni, che sono già deboli. D’altro canto, il valore legale del titolo di studio, senza il quale non si possono svolgere talune attività, adempie altre funzioni, non scritte, che vanno considerate: costringe a seguire un corso di studi; assicura l’eguaglianza, sia pur solo formale; consente ai poteri pubblici di controllare i curricula scolastici (come vedremo tra un momento), ecc. Queste considerazioni valgono per l’esterno. Consideriamo, ora, il lato interno, quello della scuola o dell’università. Qual’è l’effetto del cosiddetto valore legale del titolo di studio sugli insegnamenti e sull’ordinamento complessivo della scuola e dell’università? Secondo l’opinione di Einaudi e quella corrente, il valore legale costringe lo Stato a stabilire assetti uniformi ed ha, quindi, l’effetto di centralizzare l’istruzione. Altrimenti, non sarebbe possibile dare lo stesso peso ai titoli di studio. Ma questa opinione non tiene conto del fatto che i titoli di studio, nei due settori dove sono riconosciuti come requisiti necessari di accesso, non lo sono in modo assoluto, bensì relativo: grazie al titolo, non si entra negli uffici pubblici e nelle professioni, si è solo ammessi alle prove (concorso e esame di Stato) che conducono ad essi. Dunque, lo stesso titolo di studio, come le qualità, le attitudini e la preparazione dei candidati, potrebbe essere oggetto di valutazione. Ed allora, che cosa esclude che le scuole e le università possano differenziarsi, considerato che tali differenziazioni potrebbero essere valutate dalle commissioni di concorso e di esame? Quanto evocato da questa domanda è in parte già accaduto, perché gli ordinamenti delle singole università si sono andati differenziando e lo stesso accadrà presto anche nella scuola. Questa differenziazione, peraltro, ha un andamento irregolare, perché dal 1990 è stata maggiore, ma nel 1997-99 (con la legge n. 127/99 e il regolamento n. 509/99) ha subito una battuta d’arresto. La cosa non deve meravigliare se lo stesso ministro che ha introdotto l’autonomia nell’università ha, poi, previsto le tabelle di corrispondenza corsi-titoli-carriere e professioni. È tempo di concludere osservando che il tema del valore legale dei titoli di studio è una nebulosa. Esso non merita filippiche, ma analisi distaccate, che non partano da furori ideologici o da modelli ideali, bensì da una valutazione delle condizioni delle strutture pubbliche e professionali e dei condizionamenti derivanti dal riconoscimento dei titoli di studio sull’assetto della scuola e dell’università. 264 Contributi monografici B) Autonomia universitaria e nuovi poteri (testo tratto da Internet) di Giuseppe Dalla Torre - Rettore della Lumsa - Libera Università Maria SS. Assunta di Roma Il processo di autonomia dell’università italiana, in corso da un quindicennio non senza contraddizioni, momenti di arresto e pericolose tentazioni ad un ritorno al passato, si è sviluppato, come noto, sotto l’esigenza di realizzare finalmente il dettato costituzionale. Difatti a norma dell’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione, le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Si tratta di una disposizione che appare strumentalmente diretta a garantire il principio fondamentale, enunciato nel primo comma dello stesso art. 33, secondo cui l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. A sua volta questo principio, che evidentemente nel testo costituzionale non riguarda solo le istituzioni universitarie, costituisce elemento caratterizzate ed insopprimibile del patrimonio genetico dell’università, la quale nasce nell’età di mezzo, in Europa, proprio con la caratteristica – tra le altre – del primato della ragione e dunque della libertà della ricerca. A ben vedere, nel disposto costituzionale si può agevolmente ravvisare uno dei casi nei quali il costituente italiano ha scritto la Carta fondamentale guardando al passato: in particolare al passato prossimo del fascismo che, nella generale visione ideologica del tutto nello Stato e nulla fuori dello Stato, venne progressivamente a legare le istituzioni universitarie alle ragioni dello Stato etico giungendo alla vessatoria misura del giuramento dei docenti. Misura alla quale, come noto, pochissimi si sottrassero, perdendo l’insegnamento, di contro alla quasi totalità del corpo accademico che piegò la schiena e giurò al fascismo, dando un “esempio” di indipendenza e di libertà intellettuale che dovrebbe essere meditato anche oggi. Ma con gli occhi della storia si deve pur dire che il disposto della Costituzione costituisce una reazione più ampia, una reazione a fenomeni più estesi nel tempo e non soltanto italiani. Il processo di asservimento dell’università viene da più lontano e, da noi, il fascismo lo ha portato alle estreme, ma in fondo logiche, conseguenze. Esso nasce con il modello napoleonico di università, istituzione che viene orientata all’interesse del moderno Principe, lo Stato, il quale ha bisogno di funzionari ben preparati per il proprio apparato amministrativo, di un ceto intellettuale capace di divenire classe di governo, di professionisti in grado di consolidare e perpetuare il sistema socio-politico. La società civile, che tra medioevo ed età moderna aveva in buona parte dato vita e mantenuto istituzioni universitarie, viene sostanzialmente espropriata anche qui dallo Stato. La statalizzazione delle università e il valore legale dei titoli di studio sono tra gli strumenti principali di tale espropriazione. Ma tra gli strumenti è da ricomprendere in qualche modo anche l’esclusivo finanziamento pubblico, che costituisce l’altra faccia di ordinamenti statali – e in questo senso il caso italiano è esemplare – che con le loro disposizioni inaridiscono nella società civile la tradizionale cultura della donazione e, con essa, il sostegno economico a istituzioni che la stessa società civile non avverte più come proprie. In siffatto contesto, non a caso le università “private” sono emarginate e tendono a scomparire dai sistemi universitari nazionali: solo negli anni Novanta del secolo che abbiamo alle spalle in paesi come la Spagna e l’Italia si assiste ad una signi- Aggiornamenti e conferme in tema di valore legale dei titoli di studio 265 ficativa rinascenza di atenei non statali; in Francia dura tuttora un monopolio statale in materia, giacché le università private non sono legittimate a rilasciare titoli di studio con valore legale. Globalizzazione e declino dello Stato Dunque la nostra Costituzione restituisce, tardivamente ma opportunamente, all’università ciò che le è proprio. E tuttavia la restituzione appare, per certi versi, giungere troppo tardi. Il fatto è che il contesto sta rapidamente mutando a causa della globalizzazione: fenomeno dalle molte facce, che non tocca solo il campo economico e finanziario, ma investe la politica, il diritto, la scienza e la tecnologia, i mass-media, l’ecologia, la cultura, e quindi anche la formazione. Tra gli effetti della globalizzazione che in questa sede possono interessare è senz’altro la crisi dello Stato moderno, o Stato nazionale, fondato sul principio di sovranità: quanto più avanza la globalizzazione, tanto più declina lo Stato; quanto più il potere di controllo del reale sul territorio nazionale perde effettività, tanto più lo Stato diviene meno sovrano. Il fenomeno della globalizzazione, con l’altra faccia del declino dello Stato-nazione, presenta ambiguamente un doppio aspetto. Da un lato, infatti, al ridursi progressivo della capacità dello Stato a dominare e disciplinare i fenomeni sociali che si svolgono sul proprio territorio, risponde una ri-espansione della società civile, che tende a recuperare il ruolo suo proprio e che pretende dallo Stato nei propri confronti non più, come in passato, una posizione dominante, ma servente. Non a caso oggi si scopre, o si riscopre, non solo in Italia ma in tutta l’Europa continentale (i paesi anglosassoni hanno, al riguardo, una storia diversa), il principio di sussidiarietà orizzontale. In siffatto contesto si può forse dire, senza azzardare troppo, che il processo di autonomia dell’università italiana risponde al declino dello Stato sovrano (che tra l’altro non riesce neppure più a mantenere completamente la propria università), più che (od oltre che) al doveroso ossequio alla Carta costituzionale. Ma da un altro lato il fenomeno della globalizzazione presenta, anche rispetto al tema che qui interessa, risvolti problematici e tendenzialmente negativi. In effetti grazie alla globalizzazione si deve registrare l’ascesa sullo scenario, interno e internazionale, di nuovi poteri: in particolare il potere economico, il potere tecnologico, il potere mass-mediale. Questi poteri appaiono insofferenti di disciplina eteronoma; tendono ad essere autoreferenziali; sono spesso guidati da logiche illuminate di poche élite, che mirano a governare dall’alto basandosi sul principio dell’affidamento (talora cieco) delle masse e, talvolta, a estendere il proprio potere oltre le loro competenze. E l’umanità, che negli ultimi due secoli ha progressivamente e faticosamente costruito, attraverso le istituzioni della democrazia, sistemi di controllo del potere per eccellenza, e fino a ieri sostanzialmente unico, cioè il potere politico, oggi si trova dinnanzi al concreto rischio di appagarsi nel controllo democratico di un potere vuoto, mentre le vere decisioni vengono prese altrove senza alcun controllo e senza nessuna possibilità di intervento. In questo contesto il pericolo per l’autonomia dell’università è massimo e per certi aspetti subdolo, perché viene da poteri diversi da quelli che, per due secoli, l’hanno minacciata. L’orientamento dei finanziamenti privati in un senso o nell’altro, l’assillante spinta per le applicazioni tecnologiche, i condizionamenti che nascono dal sistema mass-mediale: sono tutti fattori che possono 266 Contributi monografici determinare la ricerca e, conseguentemente, l’insegnamento. Interi settori di saperi che non rientrano negli interessi dei poteri emergenti, o addirittura da essi avversati, rischiano di illanguidire e di scomparire in una università che si lasciasse carpire la propria autonomia. Il pericolo è massimo non solo perché nei confronti dei nuovi poteri non ci sono principi e norme costituzionali che difendano, ma anche perché il mondo universitario è comprensibilmente adusato a guardarsi da una parte soltanto, quella da cui tradizionalmente sono venute le minacce alla propria libertà di ricerca e di insegnamento, e non si accorge che frattanto si sono aperti altri fronti di pericolo, da altre parti quella libertà può essere compromessa. Quali i rimedi? Difficile a dire. Certamente essi vanno individuati, innanzitutto, nella formazione umana ed etica del ricercatore e del docente. Da questo punto di vista il desolante esempio dato, durante il fascismo, da un’intera compagine di universitari assermenté può essere d’attualità, onde evitare che senza neppure l’obbligo di un giuramento ci si leghi al carro del padrone (o dei padroni) di turno. Certo la formazione è il terreno più delicato, laborioso, di lungo periodo; ma è sicuramente quello che consente alla distanza i risultati migliori. Ma occorrono anche rimedi di sistema, interni ed esterni agli atenei. Gli ordinamenti delle singole università infatti, a cominciare dagli statuti, debbono non solo proclamare a parole l’autonomia dell’istituzione e la libertà dai condizionamenti derivanti dai poteri forti, ma trovare strumenti normativi efficaci per la loro salvaguardia. Peraltro lo Stato deve fare la sua parte, per salvaguardare l’effettiva autonomia dell’università. La leva dei finanziamenti pubblici è evidentemente necessaria: di qui l’esigenza di potenziare i trasferimenti di risorse, oggi esigue rispetto a paesi a noi comparabili. Ma è importante anche che si rafforzi quel ruolo di vigilanza effettiva, efficiente, efficace, sulle istituzioni universitarie che, insieme al ruolo di programmazione, costituisce non il residuo ma il proprium dell’intervento statale sul sistema universitario delle autonomie. Un ruolo di vigilanza perché poteri forti, esterni allo Stato e alle università, non abbiano a restringere o condizionare l’autonomia di queste ultime. La legislazione universitaria Paolo Gianni Nella storia dell’università italiana possiamo identificare tre diverse fasi. (1) la nascita del sistema universitario nazionale; (2) il periodo del fascismo; (3) il periodo repubblicano. L’interesse del presente scritto è focalizzato sul periodo repubblicano, quindi dopo la seconda guerra mondiale, e più precisamente sul periodo che va dal 1960 ai giorni nostri (2014). È nel tratto iniziale di tale periodo infatti che si è assistito alla nascita di tanti movimenti di studenti e di docenti che hanno dapprima identificato alcuni obiettivi di riforma dell’istituzione universitaria e si sono poi battuti per una loro realizzazione. È in questa fase che è nato il Comitato Nazionale Universitario (CNU) che ha esercitato il massimo della sua influenza nel percorso che ha portato alla Legge 28/1980 e al conseguente DPR 382 dello stesso anno. Ciò nondimeno riteniamo utile fornire prima alcune notizie sintetiche relative ai due periodi antecedenti, anche allo scopo di evidenziare i tratti caratteristici della Istruzione Superiore del nostro paese, a partire dall’Unità d’Italia, che hanno esercitato una pesante influenza sull’istituzione universitaria fino ai giorni nostri. In questo veloce excursus ci avvarremo di un approfondito studio di Giliberto Capano [1]1 e dei capitoli dedicati all’Università da Giunio Luzzatto in due raccolte più generali sulla Scuola italiana [2,3]. Ci piace comunque segnalare anche un recentissimo volume curato da G. Capano e M. Meloni in cui una serie di interessanti contributi analizzano l’evoluzione dell’istruzione superiore del nostro paese in una prospettiva comparata con gli altri paesi europei [4]. L’università Italiana dall’Unità d’Italia alla fine del periodo fascista La nascita del sistema universitario nazionale coincide praticamente con l’unificazione del Paese. È di questi anni infatti la cosiddetta “Legge Casati” [L1] che ha preso il nome dal Ministro della Pubblica Istruzione che l’ha elaborata. Tale legge fondamentalmente si proponeva di unificare le caratteristiche degli atenei allora esistenti applicando loro le norme vigenti nello Stato Sabaudo. Il tratto caratterizzante in questo primo periodo è la distribuzione squilibrata degli 1 Notare che sono rappresentati con semplici numeri tra parentesi quadra i normali riferimenti bibliografici, mentre nei riferimenti alle leggi il numero tra parentesi è preceduto da una L. 268 Contributi monografici atenei sul territorio nazionale. Delle 20 università esistenti nel 1861, 14 sono collocate nel Centro-Nord (Torino, Genova, Pavia, Bologna, Ferrara, Modena, Parma, Firenze, Pisa, Siena, Perugia, Urbino, Macerata e Camerino), una sola nel Sud (Napoli) e 5 nelle isole (Catania, Messina, Palermo, Cagliari e Sassari). Si tratta di istituzioni con tradizioni estremamente differenziate, che la legge Casati cercava di uniformare. Le stesse norme vennero successivamente estese anche agli atenei dei territori che venivano man mano aggregati nel lento processo di unificazione politica della nostra penisola. Ma le differenziazioni di partenza di fatto sono durate molto a lungo. L’Università disegnata dalla Legge Casati era sostanzialmente una università di èlite. I tratti caratteristici della relativa normativa si possono così riassumere [5]: (a) lo scopo è sostanzialmente la preparazione culturale e professionale della futura classe dirigente; (b) l’accesso all’università è riservato a chi aveva un diploma di scuola superiore di indirizzo classico; (c) l’organizzazione del sistema universitario è esageratamente particolareggiata: è fissato per legge il numero degli atenei, quello delle facoltà, lo stesso numero dei professori a ciascuna attribuiti e le caratteristiche della carriera docente; (d) il finanziamento è completamente statale; (e) le decisioni più importanti sono centralizzate: la nomina dei professori ordinari (PO) è attribuita direttamente al Ministro mentre sono di nomina regia Rettori, Presidi di facoltà, membri del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e addirittura quelli delle commissioni di concorso. Nella sostanza il sistema universitario dell’Italia liberale era caratterizzato da un forte potere centralizzato, una scarsa autonomia del singolo ateneo, un grosso potere locale affidato alle singole cattedre (anche se la libertà accademica dei professori era limitata da una loro possibile sospensione o anche rimozione qualora nella loro attività istituzionale avessero leso i principi religiosi o morali dell’ordinamento dello Stato). L’organizzazione di questo sistema universitario è rimasta praticamente immutata per tutto il periodo liberale. In realtà già a partire dai primi anni dell’Unità d’Italia e fino alla prima guerra mondiale ci fu un acceso dibattito tra le forze politiche e gli addetti ai lavori sulla necessità di apportare sostanziali modifiche all’impalcatura della legge Casati, particolarmente in termini di una maggiore autonomia del sistema. Parecchie proposte furono fatte in Parlamento ma di fatto non si arrivò mai all’approvazione di una vera legge di riforma. Anche l’approvazione della relazione parlamentare della Commissione Ceci (dal nome del suo Presidente), che lavorò nel periodo 19111914, non ebbe esito legislativo. E ciò non solo per la situazione politica, che portò al primo conflitto mondiale, ma anche per la mancanza di consenso sia in parlamento che all’interno della classe accademica. In realtà ciò non ha significato che l’organizzazione delle università sia rimasta fissa durante tutto questo periodo, in quanto molti cambiamenti sono intervenuti non solo attraverso piccole leggine ma anche tramite l’emanazione di regolamenti e circolari ministeriali [6], tanto che nel 1910 si sentì la necessità di condensare tutta la normativa vigente in un Testo Unico [L2]. All’inizio dell’era fascista (1923) viene approvata la seconda legge a carattere strutturale (dopo la legge Casati) del sistema universitario italiano: la Legge Gentile [L3]. La Legge Gentile riflette una concezione culturale elitaria dell’Istruzione Superiore. La missione dell’università viene caratterizzata con un rafforzamento della sua finalità culturale (“promuovere il progresso della scienza”) a scapito della funzione La legislazione universitaria 269 professionalizzante. Si riconosceva al solo percorso secondario dei licei classici la possibilità di iscrizione a tutte le facoltà. Venivano distinte le Università Regie (totalmente a carico dello Stato) dai regi istituti superiori (finanziati principalmente dagli enti locali), cioè le scuole professionalizzanti per ingegneri, farmacisti, veterinari ed agronomi, attribuendo loro di fatto un rango inferiore. Veniva introdotto l’esame di Stato per l’accesso alle professioni, distinguendolo dal diploma di laurea. Veniva infine concessa alle università una grande autonomia didattica e amministrativa e agli studenti una maggiore libertà nella scelta del curriculum degli studi. Restava un forte accentramento politico del potere decisionale confermando la nomina regia dei Rettori e la maggioranza di membri di nomina ministeriale negli organismi collegiali. In sostanza la legge denotava un misto tra impronta autoritaria e autonomia. Per quanto riguarda il corpo docente la Legge Gentile prevedeva professori di ruolo, a carico dello Stato, e professori incaricati, a carico degli atenei. Esisteva anche la figura dell’assistente, ma con durata limitata nel tempo. Particolare importanza veniva data ai “liberi docenti” i cui corsi potevano essere seguiti dagli studenti in sostituzione dei corsi ufficiali e che costituivano lo stadio intermedio necessario nella procedura di reclutamento dei nuovi professori ordinari. La svolta autonomistica e anti-vocazionale dell’università voluta dalla Legge Gentile fu però subito contrastata da una serie di leggi che cominciarono a ripristinare il controllo amministrativo sulle singole università, limitarne l’autonomia nell’organizzazione didattica, ampliare gli accessi all’istruzione superiore e uniformare le caratteristiche di scuole professionali e facoltà [7]. La portata di questi decreti e di tutta una serie di nuove norme regolamentari resero necessaria la redazione di un nuovo Testo Unico [L4]. Ma il colpo di grazia alla Legge Gentile fu sancito dalle Leggi dei Ministri dell’Educazione De Vecchi [L5] e Bottai [L6]. I regi decreti del Ministro De Vecchi praticamente annullarono l’autonomia didattica degli atenei imponendo tabelle omogenee a livello nazionale per quanto riguarda i piani di studio dei Corsi di Laurea, corsi fondamentali e complementari, numero e tipo di esami ecc. I decreti Bottai completarono l’opera modificando i piani di studio, il regolamento degli studenti e gli esami di Stato. Di fatto si assiste ad un completo annullamento della riforma Gentile. Scrive Capano [8]: gli obbiettivi perseguiti dalla Riforma Gentile – creare una differenziazione di qualità tra le istituzioni (separando le università statali da quelle cofinanziate dagli enti locali); distinguere tra istituzioni vocazionali e non vocazionali, assegnare solo allo Stato e non alle Università il compito di sancire l’accesso alle professioni e, in ultimo, restringere gli accessi – non solo non vennero realizzati ma vennero completamente ribaltati attraverso l’opera dei Ministri fascisti di quel periodo. Infatti, il modello di università che viene a delinearsi è caratterizzato da una sostanziale enfasi sulla componente professionale rispetto a quella puramente scientifica. Subito dopo la caduta del governo di Mussolini vennero abolite tramite alcuni decreti [L7] le norme dell’ultimo periodo fascista, riattivando il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, limitando i poteri attribuiti al Ministro a favore degli organi accademici locali, riconoscendo il Corpo Accademico e ripristinando l’elettività delle cariche accademiche (Rettore e Presidi) nei singoli atenei, ed eliminando infine gli effetti delle odiose “leggi razziali” tramite la riassunzione dei docenti destituiti e la ri- 270 Contributi monografici messa in discussione dei concorsi degli anni trenta i cui esiti fossero stati condizionati da motivazioni politiche. Le caratteristiche di centralizzazione delle norme gestionali e amministrative e di omogeneizzazione delle strutture e dei corsi di insegnamento su tutto il territorio nazionale permarranno invece valide per molti anni anche nel corso dell’era repubblicana. Il periodo Repubblicano 1. Il periodo 1945-1958: l’Università grande assente. In tutto questo periodo le problematiche legate all’Istruzione Superiore non ebbero mai una grande attenzione. La stessa Assemblea Costituente dedicò poco spazio ai problemi dell’Istruzione concentrandosi sostanzialmente sulla questione della coesistenza di scuole pubbliche e private. Praticamente nessuna legge importante fu approvata durante le prime due legislature e l’Università ha continuato a funzionare con una regolamentazione che continuava a privilegiare il Ministero a livello nazionale e il potere delle singole cattedre a livello di ateneo. I vari provvedimenti legislativi hanno riguardato praticamente soltanto l’istituzione di nuove Facoltà, la distribuzione di nuove cattedre e alcune norme sul personale. Merita di essere ricordato soltanto il decreto del 1948 [L8] che ha reso stabile il ruolo degli assistenti universitari dandogli però una connotazione nettamente subalterna rispetto ai professori (è il professore ufficiale della materia che fa parte di diritto della Commissione di selezione, che sceglie liberamente il vincitore nell’ambito della terna di candidati idonei, e che può anche proporne la decadenza al Consiglio di Facoltà). La limitazione di tale subalternità sarà una delle richieste dei movimenti degli anni ’60. Il Decreto prevedeva anche le figure degli assistenti incaricati, assistenti straordinari e assistenti volontari, dando quindi un primo impulso alla creazione di figure precarie. Gli unici provvedimenti di rilievo sono stati ancora due leggi sullo stato giuridico del personale [L9], approvate proprio alla fine della seconda legislatura: queste leggi hanno ridefinito lo stato giuridico di professori e assistenti universitari dando a questi ruoli quella connotazione che rimarrà in vigore praticamente fino al 1980. 2. Il periodo 1958-1968: Commissione Ermini e DdL 2314. Nella descrizione di questo periodo alcuni commenti sono stati suggeriti dai lavori già citati di Giliberto Capano [1] e di Giunio Luzzatto [2,3]. Si comincia a prendere coscienza anche nel nostro paese che è l’ora di pensare ad un serio processo riformatore dell’istruzione in genere e anche della formazione universitaria. La partenza ufficiale fu l’elaborazione del Piano decennale della Scuola preparato nel 1958 dal secondo governo Fanfani. Ma se da un lato si comincia a parlare di dipartimenti, di piani di studio flessibili, di Consiglio Universitario Nazionale, di una facoltà di magistero delegata alla formazione degli insegnanti, dall’altro si continua a privilegiare un indirizzo legislativo centralista, in particolare negli articoli che attribuivano al ministro ampia discrezionalità in materia di ripartizione di contributi economici e dei posti di La legislazione universitaria 271 ruolo. Ma il Piano si trasforma ben presto in un progetto assai più limitato, avviato al fallimento. L’unico provvedimento legislativo pertinente sarà la legge 685/1961, che consente l’accesso dei diplomati degli istituti tecnici ad alcune facoltà universitarie. Da segnalare che in questi anni cominciarono a far sentire la propria voce anche le associazioni universitarie dell’epoca (UNURI degli studenti, ANPUR dei professori, UNAU degli assistenti) [9]. Il salto di qualità avviene nel 1962 con la costituzione di una Commissione della Camera dei Deputati (la Commissione Ermini, dal nome del suo Presidente) con il compito di preparare un’indagine generale sullo stato della Pubblica Istruzione con relative proposte di intervento. Il risultato finale fu molto significativo, in particolare per la parte riguardante l’Università: la commissione identificò infatti correttamente tutti gli strumenti che andavano attuati per portare il nostro sistema di istruzione superiore ai livelli degli altri paesi sviluppati. Le principali novità delle proposte finali della Commissione Ermini (luglio 1963) sono state ben evidenziate da altri [9, 10] nella: liberalizzazione degli accessi e dei piani di studio individuali, la tripartizione dei titoli (diploma, laurea, dottorato di ricerca), l’eliminazione degli istituti monocattedra tramite la creazione di istituti policattedra e i dipartimenti, l’istituzione del ruolo dei professori aggregati e l’ introduzione del regime di “pieno impiego” per i docenti e infine l’istituzione del Consiglio Universitario Nazionale quale organo di coordinamento delle autonomie dei singoli atenei. A noi è apparsa molto importante anche la proposta di rafforzamento della ricerca scientifica come compito primario dei docenti. La Commissione infatti a tal fine proponeva di legare uno specifico finanziamento alla creazione di ogni singolo posto di ruolo: è arrivata a specificare che nelle Facoltà a carattere sperimentale ogni docente doveva poter disporre di un budget annuo di 10 milioni di lire che, opportunamente rivalutate, corrispondono a quasi 120000 euro del 2014. E anche se in tale cifra andava incluso lo stipendio di un tecnico risulta evidente la sperequazione rispetto alle magre (e non prevedibili) disponibilità dei docenti attuali. Le proposte della Commissione suscitarono però molte critiche. Una attenta disamina delle forti riserve sulle proposte della Commissione (peraltro da molti considerate “deboli” rispetto alle premesse della stessa relazione Ermini) da parte di Enti quali il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e il CNEL sono ben evidenziate da Luzzatto [10]. Il Ministro della P.I. Gui, per parte sua, non aveva alcuna fretta in quanto era fondamentalmente contrario non solo a concedere autonomia ai singoli atenei ma soprattutto a riconoscere l’autonomia del sistema universitario come tale. Per queste ragioni egli presenterà al Parlamento un apposito disegno di legge (AC 2314) soltanto due anni più tardi. Come osserva Luzzatto [10] l’iter di questo DdL si rivelò fin dall’inizio molto accidentato, trovando una forte opposizione sia in Parlamento, da parte dei liberali e dei comunisti (ma con ostruzionismo anche all’interno della stessa Democrazia Cristiana), sia negli ambienti più conservatori del mondo accademico. Le cose vennero complicate dall’atteggiamento contrario delle associazioni dei docenti progressisti e degli studenti che, dopo una lunga battaglia di tipo propositivo sui contenuti della legge, diventano intransigenti nel pretendere massicci ingressi in ruolo (i primi) e forti impegni per il diritto allo studio e la partecipazione agli organi 272 Contributi monografici di governo (i secondi), non rendendosi conto che in tal modo rischiavano di dare un calcio alle tante proposte positive presenti nel DdL. Particolarmente pesante alla fine fu la contestazione studentesca del ’68 che, nel nostro paese, fu prevalentemente rivolta a realizzare obiettivi politici generali di modifica dell’assetto della società. Fu così che si arrivò alla fine della legislatura (1968) senza alcuna approvazione. Dirà il Prof. Faranda, Presidente del Comitato Nazionale Universitario (l’associazione che nel 1970 raccolse l’eredità dei docenti progressisti), al Congresso CNU di Fiuggi del 1981, Credo sia opportuno, in questa sede, dare il giusto merito alla 2314 e al Ministro Gui che la concepì, e riconoscere che in essa erano contenute alcune linee fondamentali di riforma quanto mai avanzate e determinanti per il dibattito futuro… omissis … Rileggerla, specie nelle parti approvate dal Parlamento, sarebbe educativo per molti di noi. 3. Il periodo 1968-1979. Per un attento esame dei tentativi di produzione legislativa universitaria di questo periodo, alla luce dei nuovi equilibri politici conseguenti alla crisi del centro-sinistra, si rimanda al testo più approfondito di Giunio Luzzatto [11]. Gli anni che vanno dal 1968 al 1973 sono determinanti per gli assetti successivi del sistema universitario. Viene considerata una stagione riformista, nonostante non abbia portato a provvedimenti di rilievo, in quanto ci furono diversi momenti in cui parvero concretizzarsi le opportunità di discontinuità con i fallimenti del passato. Nell’Aprile del 1968 il Ministro Ferrari Aggradi presenta in Senato il DdL 612, che raccoglieva in parte le idee che avevano caratterizzato il DdL 2314. Si assiste ad una completa rielaborazione del testo del Governo da parte della Commissione Istruzione che arriva a definire un disegno notevolmente innovativo. Come riassume più ampiamente Luzzatto [11] esso prevedeva ampia autonomia universitaria, l’Università come sede primaria della ricerca scientifica, l’abolizione delle facoltà e l’attribuzione delle funzioni didattico-scientifiche ai dipartimenti, il ruolo di docente unico con tempo pieno e accelerazioni di carriera basate sul merito, organi di governo non corporativi e, infine, un ruolo estremamente autonomo e autorevole per il Consiglio Nazionale Universitario. Purtroppo tra questa completa ristesura del testo e l’accesa discussione successiva in aula tra le diverse forze politiche (massima spinta del partito socialista per soluzioni avanzate contrapposta ad una azione frenante da parte della Democrazia Cristiana e con contributi positivi da parte degli stessi comunisti nonostante la loro posizione critica generale) trascorrerà un anno e mezzo e il DdL si fermerà alla Camera per la fine anticipata della legislatura. Nel frattempo passano soltanto alcuni provvedimenti parziali su cui si era trovato un accordo durante la discussione del DdL 612. Viene approvata la cosiddetta “Codignola 1” [L10], che apre l’accesso a tutte le facoltà universitarie con qualunque diploma di maturità e permette agli studenti di proporre piani di studi personalizzati difformi dalla normativa nazionale. A questa legge verrà attribuita la responsabilità di aver causato un sovraffollamento delle università e una dequalificazione delle lauree. Ma, come osserva Luzzatto [11], ha causato solo una redistribuzione degli studenti tra le Facoltà e non è colpa sua se, in talune Facoltà, i piani di studio proposti dagli La legislazione universitaria 273 studenti non hanno subito (demagogicamente) il necessario vaglio di coerenza e qualità da parte delle Facoltà. L’anno successivo viene approvata la legge “Codignola 2” [L11]. È anche detta “legge blocco” in quanto blocca a tempo indeterminato i concorsi a cattedra, abolisce la libera docenza e impedisce di fatto la nascita di nuove Università subordinandone la istituzione a norme di legge (prima bastava un provvedimento amministrativo). La caduta del DdL 612 ha reso evidente la difficoltà di arrivare alla definizione di una riforma complessiva dell’Istruzione Superiore. Comincia a farsi strada l’dea che sia meglio procedere per provvedimenti legislativi parziali. La stagione riformista si conclude con un provvedimento d’urgenza, relatore il Ministro Malfatti, denominato “Misure urgenti per l’Università” [L12], il cui contenuto si caratterizza soprattutto per l’attenzione riposta sulla docenza universitaria. Vengono stabilizzati i professori incaricati con 3 anni di anzianità, con annesso diritto a partecipare ai consigli di facoltà; vengono istituiti contratti quadriennali come sbocco per i “precari” di allora e assegni di formazione come nuova forma di reclutamento; vengono infine previste 3 tornate concorsuali di 2500 posti di professore ordinario ciascuna, di cui però in pratica fu bandita solo la prima. Viene infine abolito il ruolo dei “professori aggregati” inquadrando gli stessi a domanda nel ruolo dei professori ordinari: unico caso di vera ope legis. Non si faceva cenno degli altri problemi quali i dipartimenti, la titolarità delle cattedre, il dottorato di ricerca e la sperimentazione didattica. Ma soprattutto non c’era la minima attenzione verso i problemi degli studenti, i grandi assenti del progetto riformista. All’inizio delle nuova legislatura (1976) si riapre la discussione di una possibile riforma, anche sotto la spinta della imminente scadenza dei contratti e degli assegni creati dalle misure urgenti del 1973. Praticamente tutti i partiti si fanno promotori di proposte di legge al riguardo e un comitato ristretto del Senato nell’Aprile 1978 arriva a concordare un nuovo testo (testo “Cervone”). Da notare che poco prima (Marzo 1977) il Ministro dell’Istruzione Malfatti firma un accordo con i Sindacati Confederali in base al quale si dovevano definire due nuovi ruoli, quello dell’ “aggiunto” (una specie di assistente) e quello del “professore associato”, in cui far confluire i precari (nel primo) e gli incaricati e gli assistenti (nel secondo). Ma la discussione parlamentare del nuovo testo andava per le lunghe e quando fu evidente che si avvicinava la fine della legislatura ancora senza alcun risultato positivo il Governo, tramite il nuovo Ministro Pedini, approvò addirittura un Decreto Legge [L13] in cui oltre alle proroghe dei precari si tentava di introdurre gli altri contenuti del testo Cervone, ivi incluso il passaggio automatico di incaricati e assistenti nel nuovo ruolo dell’associato. Ma i tempi non erano favorevoli e da molte parti venne evidenziata la incongruità dell’inserimento ope legis in un ruolo, l’associato, cui si volevano attribuire le stesse funzioni del professore ordinario. E così il decreto (cosiddetto “Pedini 1”) decadde. La sola proroga dei precari fu invece approvata in un decreto successivo [L14], il cosiddetto “Pedini 2”. Anche la VII legislatura si interrompe quindi (1979) senza aver visto alcuna riforma del nostro sistema di Istruzione Superiore. Ancora una volta la questione dello stato giuridico del personale docente ha dominato la discussione sia all’interno del Parlamento che in ambito accademico, accentuando anche all’interno dei docenti progres- 274 Contributi monografici sisti la contrapposizione tra gli irriducibili fautori della ope legis e coloro che invece optavano per meccanismi di ingresso più coerenti con la volontà di conferire al nuovo ruolo una maggiore qualificazione. L’unica innovazione introdotta nell’organizzazione universitaria italiana in questo periodo sarà la costituzione del Consiglio Universitario Nazionale [L15]. Tale CUN viene istituito comunque in forma “provvisoria” e si caratterizza sostanzialmente come mero organo consultivo del Ministro. 4. Gli anni ’80 e ’90. A fine primavera del 1979 ha inizio la VIII legislatura. Il nuovo Ministro dell’Istruzione è il liberale Valitutti. La sensazione generale è che non sono più i tempi per ritentare una riforma complessiva dell’Università ma alcuni problemi, in primis l’assetto della docenza, non sono più dilazionabili. Era anche evidente che il clima non era più favorevole a inserimenti in ruolo ope legis. Un utile punto di partenza fu suggerito dal CUN che, nella sua composizione pluri-categoriale, si prestava ad individuare soluzioni di compromesso praticabili. Il CUN suggerì così di ripescare alcuni contenuti del primo decreto Pedini proponendo il nuovo ruolo docente del professore associato (PA), con le stesse funzioni didattiche e di ricerca del professore ordinario (PO), e una terza fascia come ruolo di formazione alla docenza. Al primo di questi ruoli avrebbero potuto accedere incaricati ed assistenti e al secondo contrattisti ed assegnisti, tutti però a patto di superare un vaglio, a numero aperto. Il Ministro Valitutti colse l’attimo propizio e propose una legge-delega contenente la creazione di queste nuove figure, cui accedere tramite un giudizio di idoneità, e l’introduzione del tempo pieno, seppure opzionale. Si assumeva implicitamente che tutte le altre questioni importanti, da quella degli ordinamenti didattici alle nuove strutture, alla programmazione dello sviluppo e ai problemi del diritto allo studio avrebbero potuto trovare sistemazione in provvedimenti successivi. Nella discussione in Parlamento i partiti socialista e comunista insistono per arricchire il testo di ulteriori contenuti e riescono a far passare l’idea di una sperimentazione di innovazioni strutturali. Per quanto riguarda la terza fascia passa l’idea del ruolo del “ricercatore”, in analogia con i ricercatori degli Enti Pubblici di Ricerca, la cui completa connotazione finale viene però rinviata successivamente ad un periodo di sperimentazione di 4 anni. La leggedelega [L16] viene approvata in Febbraio. Due mesi dopo cambia il governo (dal Cossiga I al Cossiga II) e il nuovo Ministro dell’Istruzione è il democristiano Adolfo Sarti. Sarti non si tira indietro e, con l’aiuto degli Uffici Scuola dei partiti (e delle associazioni sindacali progressiste) che collaborano attivamente con le Commissioni Istruzione del Parlamento riesce a mettere insieme in pochi mesi ben 124 articoli del decreto delegato, il famoso DPR 382 [L17], che viene approvato in Luglio. In questa fase ebbe un notevole peso la collaborazione con i sindacati universitari (il Comitato Nazionale Universitario e i settori Università dei sindacati confederali) come risulta dall’intervista all’ex-Presidente CRUI Paolo Blasi in altra parte di questo volume [12]. Diversi commentatori politici attribuiscono a tale decreto una valenza limitata alla sola normativa sullo stato giuridico della docenza [13]. Che questa costituisca l’ossa- La legislazione universitaria 275 tura della legge è indubitato. E comunque, anche se fosse questo l’unico contenuto, non fu cosa da poco dare una sistemazione alla docenza capace di realizzare una tregua (non certo la fine) delle lotte tra le figure docenti subalterne e la parte più retriva dei professori ordinari che avevano caratterizzato gli ultimi 20 anni. A nostro giudizio ciò costituì un fatto molto positivo perché, sommata alla democratizzazione degli organi di governo, permise un nuovo clima non conflittuale nell’ambito della classe docente, con ciò garantendo un periodo di serena operosità, in particolare sul versante della ricerca scientifica, valorizzata dal regime del pieno tempo. Ma a nostro avviso furono di rilievo anche (1) il capitolo riservato alla Ricerca Scientifica che introduceva (i) il dottorato di ricerca che finalmente rappresentava un canale qualificato di formazione alla ricerca cui attingere non solo per la docenza universitaria ma anche per i ricercatori degli Enti Pubblici e delle imprese, (ii) la predisposizione dei fondi per la ricerca, suddivisi per progetti locali e di interesse nazionale (i famosi 60% e 40%), (iii) l’Anagrafe nazionale delle ricerche, purtroppo mai realizzata, e che sarebbe stata di non poca utilità nei recenti processi di valutazione organizzati dall’ANVUR; (2) la sperimentazione organizzativa e didattica, che andava dalle nuove strutture dipartimentali, più adatte al coordinamento della attività di ricerca, alla previsione di nuove modalità didattiche e a una maggiore flessibilità nell’attribuire incarichi di insegnamento, anche sostitutivi di quello di titolarità. Direi che il pregio è stato quello di cominciare ad abituare gli universitari ai processi di autodeterminazione, un primo allenamento per assaggiare la bellezza (e le difficoltà) dell’esercizio della autonomia. Dirà il Presidente del CNU Francesco Faranda al Congresso di Fiuggi del 1981: La legge 28 e il DPR 382, non mi stanco di ripetere, non rappresentano la riforma, ma piuttosto indicano il percorso per perseguirla nel tempo. Un secondo decreto delegato conseguente alla legge 28/1980 è il DPR 371/1982, relativo alle norme sulla amministrazione e la contabilità degli atenei [L18]. Purtroppo la dettagliata normazione che caratterizza i 104 articoli di questo regolamento fornisce una chiara indicazione di quanto l’idea della autonomia gestionale dell’università fosse ancora lontana nel pensiero dei nostri governanti. Nello stesso anno sono stati emanati altri decreti delegati relativi al riordinamento delle Scuole a fini speciali [L19], istituzione di nuove università [L 20] e alcune modifiche marginali del DPR 382/1980 [L 21]. Non c’è stato invece alcun tentativo di dare una risposta alla richiesta di istruzione universitaria di massa, con una differenziazione dell’offerta didattica che prevedesse l’istituzione di corsi a carattere vocazionale e la creazione di strutture apposite, separate dalle università, più adatte a fornire una istruzione professionalizzante. Con ciò aumentava la differenza rispetto ai sistemi di istruzione superiore di altri paesi dell’Unione Europea che avevano affrontato questo problema già a partire dagli anni ’60 [14]. Nel quadriennio 1981-84 l’attenzione degli universitari si è sostanzialmente focalizzata sulla operazione “giudizi di idoneità”. Detto per inciso, questi hanno avuto una realizzazione abbastanza differenziata nelle diverse aree. Ad esempio la prima tornata di giudizi per professore associato ha visto percentuali di idoneità inferiori al 50% in certi settori di Chimica e di Fisica a fronte di percentuali di successo altissime in 276 Contributi monografici facoltà più retrive, come Medicina, dove i titolari di cattedra hanno optato verso un gonfiamento del ruolo degli associati al fine di accentuarne la minore qualificazione rispetto al ruolo dei professori ordinari. Comunque la preoccupazione per le procedure idoneative ha distolto l’attenzione rispetto all’esigenza di completare il processo riformatore e ha fatto mancare la necessaria spinta nei riguardi del parlamento. Ma anche una volta terminata l’operazione dei giudizi di idoneità non si è assistito ad alcun provvedimento legislativo degno di nota fino alla fine del decennio. Un nuovo impulso riformatore si è avuto soltanto con l’arrivo di Antonio Ruberti, prima Ministro (senza portafoglio) per il coordinamento della Ricerca Scientifica e Tecnologica e poi Ministro della Università dal 1988 al 1992. Egli diede una spinta significativa al proseguimento del processo riformatore dell’Istruzione Superiore. Lo ricordiamo per il suo famoso “quadrifoglio”, cioè le quattro leggi importanti che riuscì a portare in porto: sulla programmazione [L22], gli ordinamenti didattici [L23], il diritto allo studio [L24] e l’istituzione del MURST con avvio dell’autonomia dell’Università e degli Enti di Ricerca[L25]. Il tutto in un periodo in cui non sono mancate le contestazioni sia da parte dei docenti più retrivi, contrari a qualunque riforma, sia da parte degli studenti (vedi il movimento della “pantera”) che con le loro posizioni di rifiuto generalizzato di fatto favorivano lo status quo. La legge 245/1990 sulla programmazione, in realtà, sembra riflettere il pensiero di Ruberti soltanto nella parte generale che riconosceva l’importanza di coordinare a livello centrale l’impegno dello Stato per la istituzione di nuove strutture e nuovi corsi di studi, prevedendo di lì in poi la predisposizione di piani di sviluppo triennali. Di fatto però, nella parte applicativa che completa il piano di sviluppo 1986-1990 [L26], dà il via al riconoscimento di nuovi atenei statali e di molti corsi di laurea o facoltà in sedi universitarie decentrate. Col successivo piano di sviluppo 1991-1993 [L27] si prevedono giustamente dei progetti di snellimento dei megatenei (numero di studenti superiore a 40000) tramite il raddoppio dei relativi atenei nelle grandi metropoli; ma nel contempo si riconoscono nuove università statali e sedi decentrate con cui si arriva praticamente a una ventina di atenei in più. Purtroppo le spinte corporative di alcuni professori tendenti a creare nuove posizioni per la crescita delle proprie scuole si sono spesso sposate con gli interessi di forze politiche locali portando alla creazione di strutture spesso non necessarie. In tal modo si è continuato a suddividere il finanziamento statale in un numero di centri sempre maggiore, con conseguente sottofinanziamento degli atenei storici che quindi trovavano serie difficoltà a mantenere i necessari standard di offerta formativa. L’eccessiva proliferazione di sedi universitarie era stata puntualmente denunciata anche dal CNU: ricordo ancora la cartina d’Italia pubblicata sul giornale del CNU [15] che mostrava la presenza di università statali praticamente in ogni provincia. La legge sulla autonomia (168/1989), scorporando Università e Ricerca dal Ministero dell’Istruzione attraverso l’istituzione del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST), ha finalmente riconosciuto un ruolo particolarmente importante alla ricerca scientifica. Ma il suo merito principale è l’aver iniziato il processo autonomistico, dando agli atenei la facoltà di disegnare le proprie strutture interne e gli stessi organi di governo (entro certi limiti posti dalla legge stessa) tramite La legislazione universitaria 277 una elaborazione personalizzata dei propri statuti. Il Ministro si riserva il potere di mandare indietro lo statuto per una sola volta, con rilievi di legittimità o di merito, ma l’ateneo può confermare le proprie scelte con una maggioranza di tre quinti. La legge già prevede per gli atenei una autonomia finanziaria e contabile, che diventerà effettiva però soltanto più avanti, con la legge finanziaria 1994. La legge 341/1990 attribuisce invece agli atenei una maggiore autonomia in campo didattico, attribuendo ai “regolamenti didattici di ateneo” la responsabilità della organizzazione dei Corsi di Diploma (DU, introdotti per dare una risposta alle richieste di una formazione più vicina al mondo del lavoro), Diploma di Laurea( DL) e Diploma di Specializzazione (DS), pur nel rispetto delle tabelle dei corsi di insegnamento definite a livello nazionale con DPR, su proposta del CUN). Viene mantenuta invece una specifica riserva di legge per i Corsi di Dottorato. Per quanto riguarda l’attività di docenza vengono allargate le competenze dei ricercatori inserendoli nella attività del tutorato (di nuova istituzione), conferendo loro affidamenti didattici e supplenze, oltre alla possibilità di partecipare alle commissioni di esame ed essere relatori di tesi di laurea. I docenti vengono associati non più a singoli corsi di insegnamento ma a settori scientifico-disciplinari (SSD) che raggruppano più materie affini: ciò permetterà una maggiore flessibilità nell’attribuzione dei carichi didattici2. Vengono infine allargate le competenze del CUN e ne viene ridefinita la composizione. La legge 390 sul diritto allo studio [L24], infine, regola le diverse competenze in materia tra Stato, Regioni e Università e, al fine di garantire un trattamento uniforme su tutto il territorio nazionale, prevede la adozione di DPCM per la definizione della tipologia degli interventi e della valutazione del merito e della condizione economica degli studenti. Istituisce infine la Consulta Nazionale per il diritto agli studi universitari, i prestiti d’onore e il fondo di incentivazione alle iscrizioni. Il merito principale del Ministro Ruberti è stato quello di innescare il processo autonomistico, trasferendo dal centro ai singoli atenei poteri decisionali legati alla offerta didattica, alle politiche della ricerca, allo stesso reclutamento dei docenti. Si favoriva così quella positiva differenziazione degli atenei che, oltre alla classiche funzioni di promuovere la ricerca accademica e formare le classi dirigenti, si trovano a dover dare risposte differenziate alle nuove richieste esterne di una più estesa formazione superiore, anche di natura permanente, e di una ricerca più applicata a sostegno delle industrie e delle problematiche sociali sollevate dagli enti territoriali. In realtà la legge 168/1989 non era la vera legge sulla Autonomia dell’Università che aveva in mente il Ministro, il quale avrebbe voluto definire successivamente una legge di attuazione dei principi di autonomia che fissasse con poche e chiare norme i limiti entro i quali si potevano muovere i singoli atenei. E, in attesa di questa legge, la 168 prevedeva che gli atenei dovessero sottoporre i propri statuti alle norme nazionali allora in vigore (art. 16 c. 1). Ma probabilmente Ruberti si rendeva conto delle difficoltà di far approvare una simile legge e così, al comma 2 dello stesso art. 16, si prevedeva che Decorso comunque un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, in mancanza della 2 I professori più conservatori obietteranno che la eliminazione della titolarità degli insegnamenti ha annullato il binomio professore- cattedra, cosa che non era riuscita nemmeno alle leggi fasciste! 278 Contributi monografici legge di attuazione dei principi di autonomia, gli statuti delle università sono emanati con decreto del rettore nel rispetto delle norme che regolano il conferimento del valore legale ai titoli di studio e dei principi di autonomia di cui all’articolo 6, secondo le procedure e le modalità ivi previste. Allo scadere di tale tempo molti atenei hanno cominciato con entusiasmo l’iter della approvazione degli Statuti tramite i famosi “Senati Accademici Integrati” (SAI). La redazione degli statuti ha però richiesto abbastanza tempo: entro il 1995 delle oltre 50 università pubbliche avevano promulgato il proprio statuto meno della metà, tanto da indurre a sostenere che i docenti universitari dimostrassero poco entusiasmo all’esercizio della autonomia3. A volte forse il loro comportamento è stato dettato dalla ragione opposta, cioè dal desiderio di fare le cose per bene. Personalmente ricordo con soddisfazione la partecipazione al SAI di Pisa, il cui statuto ha costituito per lungo tempo un testo di riferimento per molti altri atenei. E in effetti impiegammo molto tempo a scriverlo proprio per senso di responsabilità, non certo per scarsa convinzione: sulla maggior parte delle questioni importanti si discuteva a lungo, cercando sempre una possibile soluzione condivisa, con pochissimi contenuti approvati a colpi di maggioranza. 5. Dopo Ruberti. Nell’ultimo decennio del secolo scorso si assiste ad una generale caduta di attenzione nei riguardi dell’Università. Le forze politiche si sentono paghe delle leggi approvate durante il Ministero di Ruberti e gli attori dell’istituzione universitaria, dai professori al personale tecnico-amministrativo (T-A) e agli studenti, sono impegnati nel realizzare il disegno autonomistico di queste stesse leggi attraverso la definizione degli statuti dei singoli atenei. Non si pensa più ad una vera legge sulla autonomia, cioè una semplice legge-quadro che, senza entrare nei dettagli della organizzazione dei singoli atenei, si limiti a definire il perimetro entro cui si possono muovere i singoli statuti. E di tale quadro di riferimento si sente veramente il bisogno nel momento in cui pullulano i ricorsi alla Giustizia Amministrativa di singoli docenti, o gruppi di potere, che interpretano singole norme sull’elettorato attivo del rettore o degli altri organi di governo come lesivi dello stato giuridico che, vincolato ad una normativa nazionale, non dovrebbe essere toccato da interventi statutari. Si arriva così a situazioni assurde per cui in certi atenei i TAR bocciano alcune norme statutarie mentre in altri atenei, non soggetti ad analoghi ricorsi, le stesse norme si mantengono allegramente operanti. Non c’è più alcun accenno a immaginare qualche disegno riformistico, nonostante alcuni aspetti della formazione superiore siano ancora carenti, come ad esempio la perdurante mancanza di percorsi a carattere vocazionale che da sempre caratterizza l’istruzione superiore del nostro paese. La normativa di interesse per l’università cessa di essere trattata con leggi ad essa esplicitamente dedicate ma comincia a disperdersi in tanti rivoli costituiti da leggi occasionali omnibus o addirittura in singoli decreti legge. La stessa normativa che integra il disegno riformatore della legge 168/1989, attraverso l’attribuzione ai singoli atenei della autonomia finanziaria, viene approvata 3 Vedi Capano, rif. [1], p. 194. La legislazione universitaria 279 nell’ambito di una legge finanziaria [L28], indicando chiaramente che l’interesse del legislatore (o del governo?) non era tanto quello di valorizzare l’autonoma gestione economica degli atenei quanto, piuttosto, quello di imporre dei vincoli di bilancio finalizzati ad un generale risparmio di spesa. Comunque la portata dell’articolo di questa legge dedicato all’Università (art. 5) è veramente di rilievo in quanto di fatto aumenta notevolmente gli spazi di autonoma manovra dei singoli atenei: viene creato il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) in cui rientrano tutti i finanziamenti agli atenei con esclusione di quelli corrispondenti a progetti specifici, nell’ambito del quale gli atenei hanno completa libertà di spostamento di risorse tra i vari capitoli di spesa. Viene anche introdotto il principio che una quota del FFO, crescente nel tempo, verrà distribuita in base a criteri dei “costi standard per studente” e della valutazione della qualità della ricerca scientifica. Parallelamente si dà inizio alle attività di valutazione degli atenei tramite l’istituzione dell’Osservatorio per la Valutazione del Sistema Universitario e dei Nuclei di Valutazione dei singoli atenei. Infine si concede agli atenei di definire i propri organici del personale e, entro certi limiti, anche le tasse studentesche. L’arrivo del governo di centro-destra nel 1994 non muta l’atteggiamento generale nei riguardi dell’Università. Gli esempi di interventi legislativi occasionali e poco coordinati in campo universitario sono molteplici. Dopo le disposizioni urgenti per il funzionamento dell’Università [L29] ricordiamo alcuni decreti legge decaduti per mancata conversione: le disposizioni urgenti sul CUN [L30], ulteriori interventi sulle Università e gli enti di ricerca [L31] e infine le disposizioni urgenti per il settore Ricerca [L32]. Comincia così qu1 modo pasticciato di legiferare che giustamente è stato stigmatizzato dall’ex-Presidente della CRUI, Prof. Blasi, in altra parte del presente volume [12]. Addirittura si cominciano ad applicare “ciecamente” anche all’Università norme generali sulla Pubblica Amministrazione dimenticando il dettato esplicito della legge sull’autonomia [L25], laddove stabilisce esplicitamente che (art. 6, c.2) Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento. È esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare. Altre norme approvate nei primi anni ’90 sono: l’autorizzazione del Ministero alla istituzione dei diplomi universitari [L33], le misure urgenti per Università ed Enti di Ricerca [L34], l’approvazione del piano di sviluppo dell’Università per il triennio 1994-1996 [L35], la conferma della attribuzione agli atenei della competenza sulla pianta organica del personale (docente e T-A) e la riduzione a 3 anni del fuori-ruolo dei professori [L36]. Una ripresa del’attenzione verso una maggiore autonomia universitaria si ha con l’avvento dei Ministri Luigi Berlinguer e Ortensio Zecchino nei governi di centrosinistra di fine anni ’90. Un primo intervento è quello della legge che modifica il reclutamento di professori e ricercatori [L37]. La legge abolisce i concorsi nazionali a professore universitario sostituendoli con concorsi locali. In pratica diventa compito dei singoli atenei di bandire i concorsi per professore suddivisi per SSD. Le commissioni giudicatrici sono costituite da un membro “interno” (nominato dalla Facoltà che 280 Contributi monografici istituisce il posto) e 4 membri “esterni” eletti all’interno del SSD. Esse possono indicare una terna di idonei. Tra questi la facoltà può individuare il vincitore e chiamarlo ad occupare il posto bandito. Gli altri due idonei possono essere chiamati, entro un triennio, da qualunque altro ateneo. Come osserva Marrucci [16] la legge “genera un immediato e forte cambiamento nelle dinamiche di reclutamento e promozione di carriera dei docenti italiani”. Grazie anche alla libertà di gestione dei bilanci degli atenei, nel decennio 1999/2008 il numero dei docenti aumenta del 26%, con un aumento del relativo costo del 63%. Condivisibili osservazioni sugli effetti di questi concorsi locali sul trasferimento di risorse all’organico della docenza da altri capitoli (es. i servizi agli studenti), sul fatto che la composizione delle commissioni giudicanti favorisce accordi tra il membro interno e due membri di altri atenei per spartirsi i tre idonei, e infine che gli atenei hanno quasi sempre promosso per chiamata docenti interni in possesso di idoneità conquistata altrove, facendo calare sensibilmente la mobilità dei docenti con conseguente effetto di impoverimento culturale (l’imbreeding anglosassone), sono reperibili nell’articolo di Marrucci sopra citato [16]. Marrucci non dice, però, che questa infornata di docenti è servita anche a compensare molte delle tornate concorsuali promesse dal DPR 382/1980 e mai bandite dal Ministro UR negli anni successivi. Gli effetti negativi dei concorsi locali spingeranno i nostri governanti a modificare ancora le norme concorsuali dapprima limitando il numero degli idonei e poi, come vedremo, con le nuove modalità di reclutamento della Legge Gelmini che prevedono una fase centralizzata nazionale. Altre norme di legge di minor peso di questo periodo hanno riguardato la riduzione a tre anni del periodo di “fuori-ruolo” e la conferma della gestione della pianta organica del personale (docente e T-A) con le sole regole della L. 537/1993 [L36], i possibili interventi del MURST per risolvere i problemi dei megatenei [L38] e, infine, la marcia indietro del governo sul Ministero della Ricerca che viene riaggregato al Ministero dell’Istruzione (MIUR) [L39]. Nello stesso periodo merita ricordare le cosiddette leggi Bassanini, conosciute come leggi sulla “semplificazione amministrativa”: la legge-delega 59 e la legge 127 (Bassanini bis), entrambe del 1997. La legge 59 [L40] delega il governo a disciplinare la programmazione del sistema universitario e ad attuare una nuova ristrutturazione del sistema della ricerca scientifica, prevedendone anche procedure e strumenti per valutarne i risultati, e comincia a parlare di mobilità interna ed esterna dei ricercatori tra enti di ricerca, università, scuola e imprese; introduce i codici di comportamento dei dipendenti della pubblica amministrazione; istituisce il Consiglio Nazionale degli Studenti e adotta misure per il diritto allo studio; modifica le procedure per il conseguimento del titolo di dottore di ricerca e programma norme di delegificazione funzionali alla compilazione di testi unici legislativi4. La legge 127 [L41], invece, affida la disciplina dei Corsi di Laurea, di Diploma e delle Scuole di Specializzazione ai singoli atenei, nell’ambito di criteri generali stabiliti con decreti del Ministro UR; affida nuove competenze al CUN modificandone altresì la composizione; introduce 4 I governi di centro-sinistra alla fine degli anni ’90 avevano affidato ad una Commissione la stesura di un nuovo testo unico sull’Università. Il testo (http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti/tuniv.pdf) era praticamente completato ma non arrivò alla firma del Presidente della Repubblica prima della fine della legislatura. Il successivo governo Berlusconi preferì lasciar perdere l’iniziativa e dare inizio alla preparazione della futura “Legge Moratti”. La legislazione universitaria 281 il riconoscimento dei nuovi titoli di studio universitari nelle norme che regolano l’accesso al pubblico impiego e affida a decreti del Ministro l’accorpamento e successivo aggiornamento dei settori scientifico-disciplinari (SSD). Con le leggi Bassanini aumenta quindi il decentramento di responsabilità ai singoli atenei, delegificando alcune competenze, ma mantenendo sempre nei poteri del Ministro le competenze di indirizzo generale. L’effetto pratico della legge 127 sugli ordinamenti didattici si ha con alcuni regolamenti di cui il principale è il 509 del 1999 sulla autonomia didattica [L42]. Con questo regolamento vengono finalmente affidati ai regolamenti didattici dei singoli atenei gli ordinamenti dei piani di studio dei Corsi di Laurea, abolendo le vecchie tabelle del CUN. I nuovi Corsi vengono articolati, in ossequio al principi approvati dai Ministri dell’Istruzione della UE a Bologna nel 1999, in un primo ciclo triennale (Laurea, che include anche il vecchio diploma universitario) eventualmente seguito da un ciclo biennale (Laurea Specialistica) e, infine, da tre anni di Dottorato. Mantengono il ciclo unico alcuni corsi professionalizzanti (es. i sei anni della laurea in Medicina). Vengono infine introdotti i crediti didattici (crediti formativi universitari, CFU) come unità di misura del tempo medio necessario ad uno studente per completare i corsi, con la conseguente facilitazione nella mobilità degli studenti da un ateneo ad un altro nell’ambito della UE. Tale riforma ha innescato un forte rinnovamento nella didattica universitaria. E’ vero che da molte parti sono state mosse feroci critiche alla forte moltiplicazione degli insegnamenti avvenuta negli anni successivi. Ma se è vero che gli atenei si sono sbizzarriti molte volte nell’inventare nuovi corsi, anche dai titoli più strani, è anche vero che il semplice sdoppiamento dei vecchi corsi a ciclo unico in due cicli successivi di per sé può già giustificare un raddoppio del numero dei Corsi totale. E comunque quasi tutti gli atenei negli anni più recenti, anche a seguito dei tagli di FFO, hanno significativamente ridotto il numero complessivo dei Corsi di Studio. Una valutazione approssimata dell’efficacia di tale suddivisione in cicli con decentramento di responsabilità didattica si può fare evidenziando l’aumento del numero dei laureati nella fascia di età 25-34 anni, che a partire dal 1999 è raddoppiata raggiungendo il 21% circa (anche se tale livello di istruzione continua a vederci in fondo alla classifica nell’ambito dei paesi OCSE [17]). Più difficile è valutare il miglioramento nella produttività del sistema in termini di diminuzione della mortalità e di rispetto dei tempi di laurea di chi riesce ad arrivare in fondo. Il miglioramento di questi indici, notato nei primi anni successivi alla riforma, pare essersi fermato. Più difficile ancora è verificare l’efficacia della riforma (o meglio di come questa è stata attuata dagli atenei) nel favorire l’ingresso dei laureati nel mondo del lavoro, a causa del concomitante effetto negativo della crisi economica mondiale. Le diverse riforme introdotte negli anni ’90, che tendono ad avvicinare la nostra istituzione universitaria a quella degli altri paesi dell’Europa, facevano sperare che ci fossimo incamminati sulla buona strada. Ciò induceva un osservatore attento come Capano ad osservare che la più recente legislazione rappresenta il vero banco di prova della discontinuità con il passato e proprio i prossimi anni ci diranno se il nostro sistema di istruzione superiore sarà in grado di adeguarsi ai cambiamenti esterni e di svolgere quel ruolo che è necessario allo sviluppo del paese [18]. Purtroppo, come vedremo, le riforme dei primi anni 2000 saranno invece deludenti. 282 Contributi monografici Preoccupa inoltre che la maggior parte degli interventi legislativi intervengano a regolamentare troppi aspetti, anche particolari, della gestione degli atenei, aumentando il potere di intervento del sistema ministeriale centrale, in palese controtendenza con lo spirito autonomistico degli anni ’80, e sempre aumentando oltre misura gli adempimenti burocratici per tutto il personale. Ci piace comunque sottolineare che in questa attitudine a normare sull’università in modo improprio si notano ben poche differenze a seconda che i governanti siano espressione della “destra” o della “sinistra”, come vedremo più avanti con alcuni provvedimenti del governo Prodi. 6. Gli anni 2000. Si arriva così alla XIV Legislatura (2001-2006) con il secondo Governo Berlusconi e il Ministero dell’Università affidato a Letizia Moratti. Inizialmente si assiste ad alcuni provvedimenti ragionevoli, come quello che esclude gli aumenti stipendiali annuali del personale decisi a Roma dal calcolo del 90% del FFO (limite oltre il quale scattano penalizzazioni economiche ai singoli atenei) [L43], il decreto che limita a un solo idoneo la graduatoria nei concorsi a professore di ruolo [L44] e infine il decreto sull’autonomia didattica che modifica il precedente decreto 509/1999 e che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto istituire il famoso percorso triennale a Y per rispondere alla esigenza di fornire sia una formazione professionalizzante che una più rivolta alla ricerca scientifica [L45]. In realtà il decreto si limita a ridefinire i diversi Corsi di Studio (la laurea specialistica diventa “magistrale”), chiarendone gli obiettivi formativi, e a raggrupparli in classi (da definirsi con decreti successivi) quando sono caratterizzati dallo stesso livello e stessi obiettivi qualificanti. Ai Corsi di studio viene associato un predeterminato numero di CFU, 60 per anno, facendo corrispondere un CFU a 25 ore di impegno complessivo per studente. I regolamenti didattici locali sono liberi di determinare gli insegnamenti che concorrono ad ottenere il titolo di studio a patto di rispettare il numero minimo di crediti assegnato, a livello nazionale, alle diverse attività formative di ciascuna classe suddivise in qualificanti (di base e caratterizzanti), autonomamente scelte dallo studente, affini o integrative, utili per l’inserimento nel mondo del lavoro (linguistiche, informatiche ecc.) e infine collegate alla prova finale (tesi). La netta separazione tra i Corsi di primo e di secondo livello si è dimostrata positiva favorendo la mobilità degli studenti: un numero crescente infatti si iscrive ad un Corso di II livello in ateneo diverso da quello in cui ha ottenuto il titolo di I livello. Successivamente viene avviato lo studio di un progetto di riforma dell’Università, scritto sostanzialmente da un gruppo di consulenti di fiducia del Ministro, coordinati dal Prof. Adriano De Maio. La relazione della commissione De Maio suscita subito molte critiche. Da parte dei docenti più responsabili e di molti commentatori esterni si obietta che ancora una volta si affrontano solo i problemi dello stato giuridico del personale senza preoccuparsi della valorizzazione della ricerca scientifica, rischiando così di limitare il ruolo dell’Università ad un trasferimento passivo di una cultura prodotta da altri. Praticamente tutti i docenti giudicano però negativi molti degli interventi sullo stato giuridico, dall’aumento dei compiti didattici a costo zero, alla abolizione del doppio regime tempo pieno-tempo definito e alla messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori negando il riconoscimento delle funzioni didattiche da loro svolte. La legislazione universitaria 283 Il DdL Moratti-De Maio comincia il proprio iter parlamentare nel 2003 ed avrà un corso molto travagliato in quanto fortemente ostacolato dagli studenti e anche dalle principali associazioni dei docenti. Nonostante ciò il Governo insiste fortemente perché arrivi comunque fino in fondo: apparirà evidente, anche alla luce delle successive dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che l’approvazione della legge era importantissima non tanto perché capace di affrontare i mali dell’università, quanto piuttosto come utile bandiera da sventolare a dimostrazione del positivo lavoro del governo. La Legge arriverà in fondo nel 2005 [L46]. I principali contenuti della legge Moratti sono: (1) l’aumento dei doveri didattici dei professori (le famose 120 ore di didattica frontale!) e il pensionamento di tutti (ordinari e associati) a 70 anni con abolizione dell’istituto del fuori-ruolo (2) la possibile opzione per il nuovo regime di diritti-doveri da parte dei professori già in servizio (3) la messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori a partire dal 2013 (4) cambiano le regole dei concorsi istituendo una abilitazione scientifica nazionale a numero programmato e facendo valutazioni comparative locali dei candidati idonei, con procedure definite dai singoli atenei, per la copertura dei posti da questi richiesti (5) sono istituiti contratti di diritto privato a tempo determinato per lo svolgimento di attività di ricerca, riservati a dottori di ricerca. In sostanza la legge Moratti ha modificato ben poco il servizio svolto dall’Università. A dimostrazione della scarsa utilità di questa legge ricordiamo che molte delle sue norme sono rimaste completamente disattese per mancata emissione dei necessari decreti delegati. In particolare nessun concorso per l’accesso alla docenza universitaria è stato bandito secondo le nuove regole. Di fatto la Legge Moratti ha portato come conseguenza soltanto ad una più pesante normativa sugli obblighi didattici dei docenti: l’unico effetto pratico sarà che la maggior parte dei professori associati (PA) eserciterà la famosa “opzione per il regime Moratti” [19] accettando il maggiore impegno didattico a fronte della possibilità di rimanere in servizio fino al settantesimo anno. Si passa alla nuova legislatura (XV) senza ulteriori interventi degni di nota. Il nuovo governo di centro-sinistra (Prodi II) inizia abbastanza male, dimostrando che l’attenzione alle cose universitarie è scarsa in tutto l’arco politico. Con la legge finanziaria 2007 è stato limitato il turn-over al 20% e sono stati posti a carico dei singoli atenei anche gli aumenti stipendiali dei docenti universitari (il cosiddetto adeguamento ISTAT) [L47], oltre a confermare quelli del contratto del personale tecnicoamministrativo già a carico degli atenei dal 2001 [L48]. È così che aumenti stipendiali del personale, pur decisi a Roma, non venivano più pagati direttamente dallo Stato ma dovevano gravare sui bilanci dei singoli atenei. E ciò indipendentemente dall’entità degli aumenti (quando c’erano!) del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Va anche detto, a onor del vero, che durante lo stesso governo Prodi il Ministro della Università Mussi si fece promotore di alcuni interventi positivi: ci riferiamo al blocco della istituzione di nuove università telematiche, ai limiti ai crediti didattici riconoscibili in convenzione e alla istituzione della Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR) [L49], ai limiti posti alla creazione di nuove Facoltà e Corsi di Laurea decentrati [L47] e alla eliminazione del fuori-ruolo per i professori che ancora ne avevano diritto [L50], servizio che veniva a gravare pesantemente sui 284 Contributi monografici bilanci degli atenei senza garantire, a fronte, prestazioni lavorative obbligatorie. Nel 2008 col nuovo governo Berlusconi diventa Ministro del MIUR Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti è Ministro dell’Economia. È importante citare anche il ministro dell’Economia perché sarà questo dicastero a dettare legge sulla maggior parte degli interventi sull’università di questa legislatura. Nonostante il precedente governo di centro-destra avesse partorito le legge Moratti, se ne constata la pratica inapplicabilità e quindi si fanno ripartire i concorsi prorogando le norme della legge 210/1998 con la variante della nomina di un solo idoneo [L51]. Poco dopo il cosiddetto “Decreto Gelmini” [L52] introdurrà penalizzazioni per gli atenei che impegnano per il personale più del 90% del FFO e modificherà ancora le regole concorsuali istituendo commissioni con un membro (PO o PA) nominato dalla Facoltà e sorteggiando gli altri membri (tutti PO); lo stesso decreto istituisce anche l’Anagrafe Nazionale della Ricerca per i professori e i ricercatori. Viene inoltre pubblicato il regolamento di funzionamento dell’ANVUR [L53]. Si decide infine di iniziare il percorso per una nuova riforma dell’Università. Nel frattempo il paese è bloccato da una grave crisi economica che il governo cerca di contrastare con pesanti penalizzazioni in tutto il settore del pubblico impiego. Con un decreto legge [L54] oltre a una serie di limitazioni al turn-over dei dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche vengono introdotte pesanti limitazioni stipendiali per il triennio 2011-2013: viene ritardata l’erogazione del trattamento di fine servizio (TFS o “buonuscita”); vengono bloccati i contratti economici di tutto il personale contrattualizzato e gli adeguamenti stipendiali a questi legati per le categorie pubbliche non soggette a contrattazione (i cosiddetti adeguamenti ISTAT); vengono inoltre bloccati tutti gli aumenti stipendiali automatici legati alla sola anzianità. Sono i docenti universitari a subire il danno maggiore, perché i loro scatti stipendiali biennali (introdotti nel DPR 382/1980 per conciliare bassi stipendi di ingresso con normali stipendi universitari a fine carriera) vengono considerati automatici anche se la legge Gelmini aveva legato la loro concessione ad una valutazione dell’attività svolta5. Addirittura viene negato anche il riconoscimento giuridico della maturazione delle classi stipendiali corrispondenti agli scatti, con la conseguenza di rendere nullo il triennio 2011-2013 anche ai fini della carriera6. Tali pesanti limitazioni non valevano però per la categoria dei magistrati o sono state parzialmente compensate per altre categorie come i militari e i docenti della scuola secondaria7. Il risultato finale è che il blocco della carriera ha colpito di fatto i soli docenti universitari in servizio, i quali avranno una retribuzione più bassa8 per tutto il resto del loro servizio attivo. Addirittura quasi nessuno si è accorto – anche la stessa Corte Costituzionale che ha dichiarato non 5 In realtà gli scatti non erano più automatici già da prima in quanto il DL 180/2008 [L52] aveva stabilito che a partire dal 1/1/2011 sarebbero stati dimezzati gli scatti stipendiali ai docenti con zero pubblicazioni nel biennio precedente. 6 Successivamente con il DL 98/2011 [L55] e il relativo regolamento attuativo [L56], il periodo di blocco è stato esteso a tutto il 2014. 7 A onor del vero la legge Gelmini [L59] all’art. 29, c. 19 ha previsto un premio a parziale compenso del blocco degli scatti. Questo però, previsto solo per la metà dei docenti, si rivelerà una specie di “mancia”. 8 Il blocco per il quadriennio 2011-2014 conduce all’annullamento di 2 scatti biennali del 8%, corrispondenti quindi ad un mancato aumento del 16% circa. La legislazione universitaria 285 anticostituzionale questa norma [20] – che l’alta età media di ingresso in ruolo dei professori universitari di fatto porta all’età della pensione prima ancora di poter raggiungere i livelli retributivi corretti di fine carriera. In tal modo il danno economico risulta purtroppo perenne, riversando i suoi effetti anche sul trattamento di pensione. Chiedendo scusa al lettore per questo sfogo, che potrebbe apparire guidato da motivazioni personali9, riprendiamo il discorso principale. Con il decreto Tremonti [L57] dedicato allo “sviluppo economico… ecc.” si interviene poi ancora sull’università introducendo: – la facoltà di trasformare le università in Fondazioni di diritto privato (detto per inciso, se il fine è di permettere una maggior elasticità di gestione non si capisce perché non concedere direttamente alle università, in ossequio alla loro autonomia sancita dalla Costituzione, caratteristiche gestionali analoghe a quelle delle fondazioni lasciandone intatta la natura, pur se differenziata da quella delle altre amministrazioni pubbliche); – vengono posti limiti al turn-over del personale: max. 20% delle cessazioni nell’anno precedente nel triennio 2009-2011, e 50% nel 2012; – pensionamento coatto con 40 anni di contributi: nell’università ne sono esclusi i professori ma non i ricercatori; – differimento di 1 anno degli scatti stipendiali maturati nel 2009; – il diritto ad ottenere un biennio ulteriore di mantenimento in servizio previsto dall’art. 16, c. 1, del decreto 503/1992 [L58] viene trasformato in facoltà, a discrezione della amministrazione di appartenenza. Il governo Berlusconi decide infine di rinunciare definitivamente ad applicare la legge Moratti e di ripartire con un nuovo progetto di riforma dell’Università. Inizia subito una pesante campagna denigratoria del funzionamento dell’università, enfatizzando il ruolo negativo dei “baroni universitari” e la generale mancata valorizzazione del merito nel reclutamento, e successiva carriera, dei docenti universitari. Le occasioni in cui il Ministro Gelmini “sproloquia” sulle sue intenzioni di contrastare i “baroni” e cominciare a premiare il merito si sprecano. In realtà, come vedremo, i veri baroni avranno ancora più potere di prima ed il vero merito, complice il corto respiro delle norme sulla valutazione stabilite dall’ANVUR, farà fatica ad emergere. La legge Gelmini inizia il suo iter parlamentare nel novembre 2009 e verrà approvata definitivamente nel dicembre 2010 [L59]. I suoi contenuti principali sono: – ridefinisce gli organi di governo degli atenei conferendo praticamente tutti i poteri al Consiglio di Amministrazione (CdA). Il Senato Accademico (SA) fa proposte ed esprime pareri e mantiene la propria competenza esclusiva soltanto sulla organizzazione didattica. Nel CdA entrano obbligatoriamente almeno 3 membri esterni su 11; – il Rettore viene eletto tra i PO, anche di altro ateneo, ed ha un mandato di 6 anni non rinnovabile; aumentano i suoi poteri ed ha un ruolo importante anche nel designare i membri esterni del CdA (rispettando il principio di pari opportunità tra uomini e donne); – la competenza disciplinare sui professori e ricercatori è trasferita dal CUN ai sin9 In realtà il sottoscritto si è salvato da queste vessazioni essendo andato in pensione nel Novembre 2008. 286 Contributi monografici goli atenei, che affidano l’istruttoria e la proposta di eventuali sanzioni superiori alla censura ad un apposito Collegio di Disciplina che riferisce al CdA per la decisione finale; – sostituzione della figura del Direttore Amministrativo con un Direttore Generale, nominato dal CdA su indicazione del Rettore, con contratto di lavoro a tempo determinato di diritto privato; – introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale e analitica e del bilancio unico di ateneo; – possibilità di realizzare federazioni e fusioni di atenei; – riorganizzazione dei dipartimenti, garantendo un numero minimo di membri di 35 unità tra professori e ricercatori, e conferimento ai dipartimenti di tutte le competenze sia scientifiche che didattiche; i dipartimenti sono anche la struttura di incardinamento dei docenti; – cancellazione delle Facoltà e conferimento delle funzioni di coordinamento didattico tra più dipartimenti ad eventuali strutture di raccordo definite dai singoli atenei; riduzione da 60 a 12 dei crediti riconoscibili sulla base delle esperienze di lavoro; – viene introdotta una valutazione degli atenei, sulla base di criteri stabiliti dall’ANVUR, sia in fase di accreditamento iniziale che in itinere, prevedendo che una quota crescente del FFO venga erogata come premio agli atenei virtuosi; – è istituito un “fondo per il merito” finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito tra gli studenti; – viene istituita la Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) a numero aperto, differenziata per PA e PO; il conseguimento della ASN è condizione necessaria per accedere, tramite valutazioni comparative locali regolamentate dai singoli atenei, alle posizioni di ruolo (PA e PO) attivate dagli atenei stessi; – viene messo ad esaurimento (da subito) il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato (RTI); – il reclutamento avviene tramite le figure dei ricercatori a tempo determinato (RTD) con contratti triennali di tipo a e b: i ricercatori di tipo b, che presuppongono una precedente fase a, costituiscono una specie di tenure-track in quanto, se conseguono la ASN, hanno diritto ad essere giudicati (con giudizio non comparativo) dall’ateneo per essere chiamati come professori associati; – ridefinizione delle attività extra-accademiche permesse ai professori a seconda del regime di impegno da loro scelto10; – modifica della carriera dei docenti trasformando le classi e gli scatti stipendiali da biennali a triennali e subordinandone la maturazione a valutazioni positive di tutte le attività svolte. A nostro avviso su questa legge si possono fare i seguenti commenti generali: (1) la legge si configura in pratica come una legge-delega. Infatti la realizzazione dei suddetti obiettivi richiederà la approvazione di almeno 44 decreti delegati, oltre ad alcuni decreti e/o regolamenti di pertinenza dei singoli atenei: la redazione e approvazione di questi decreti richiederà praticamente 4 anni! Addirittura il decreto che 10 Ad avviso di chi scrive questa è la parte migliore della legge. La legislazione universitaria 287 doveva predisporre lo schema-tipo delle convenzioni tra Università e Regioni in materia di attività sanitarie per conto del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che doveva essere redatto entro 120 giorni, a tutt’oggi (Agosto 2014) è ancora in fieri. (2) la legge denuncia un pesante condizionamento da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) che, spesso di concerto con il MIUR, è coinvolto nella definizione di molti dei decreti delegati: per dare una idea del grado di dipendenza nella legge che ha 29 articoli il MEF viene citato ben 24 volte! Di fatto è tutta una riforma a costo zero: per ben 19 volte viene detto espressamente che le varie iniziative possono essere attuate “nell’ambito delle risorse degli atenei” o, ancora più chiaramente, “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. (3) risultano chiaramente velleitarie (per non dire peggio) tutte le dichiarazioni ufficiali del governo circa la capacità delle nuove norme di combattere il potere dei “baroni”. Il rafforzamento dei poteri del Rettore, la composizione degli organi accademici e il fatto che le commissioni per la ASN e per i concorsi locali sono costituite soltanto da PO vanno esattamente nella direzione opposta. E appaiono poco efficaci e inutilmente penalizzanti certe norme sbandierate come moralizzatrici, come quella che per combattere fenomeni di nepotismo impedisce di partecipare alle valutazioni comparative per le chiamate in ruolo a parenti e affini entro il quarto grado di docenti afferenti al dipartimento. Una tale norma lascia ovviamente intatta la possibilità di favorire gli amici (e gli amanti) o di attuare facili favori di scambio, mentre è efficacissima nell’allontanare anche un semplice ricercatore che ha trovato casualmente l’anima gemella nello stesso dipartimento. (4) la legge ha esagerato nel voler codificare con regole nazionali le caratteristiche delle singole strutture di ateneo. Probabilmente non era necessario abolire le Facoltà per poi costringere gli atenei a inventare fantomatiche strutture di coordinamento didattico: forse bastava togliere loro l’incardinamento dei docenti, ora attribuito ai dipartimenti, ed eliminare la presenza di diritto dei Presidi nel SA. (5) è vero che le nuove norme, sulla carta, tendono a valorizzare il merito sia a livello di singoli individui, docenti o studenti che siano, che a livello di atenei. Ma su tutto grava il pesante condizionamento dei tagli economici lineari degli ultimi anni che hanno praticamente annullato la capacità di spesa degli atenei e quindi anche la possibilità di conferire premi a chi merita. Per quanto riguarda il corpo docente, poi, oltre all’incongruenza della norma che ha trasformato in premio al merito gli scatti di carriera che rappresentavano il normale corrispettivo di una maturata esperienza, il tutto è sostanzialmente condizionato dai criteri e dalle procedure di valutazione che adotterà l’ANVUR. E quanto è successo nella gestione della prima tornata di giudizi di idoneità promette poco di buono. (6) molte delle norme di fatto complicano la vita di tutti gli addetti e limitano fortemente l’autonomia degli atenei e delle singole strutture. Per fare un esempio il modo in cui è stato introdotto il “bilancio unico di ateneo” ha condizionato l’autonomia dei singoli dipartimenti costringendoli a far passare dal CdA le singole variazioni di bilancio in corso d’anno. Nel tempo che resta del governo Berlusconi IV non ci sono altri interventi legislativi di rilievo. Ricordiamo solo un decreto-legge che pone limiti al turn-over del personale 288 Contributi monografici per il quadriennio 2011-2015 e, en passant, elimina la concessione dei buoni-pasto a tutto il personale non contrattualizzato [L60], con grave danno economico per i ricercatori più giovani, in posizione precaria. Altri interventi sono soltanto quelli dei decreti delegati di attuazione della L. 240. Per chi fosse interessato riportiamo in una nota quelli che a nostro avviso possono interessare di più docenti e studenti11. Si arriva così alla XVII legislatura, caratterizzata dai governi Letta e Renzi, e i rispettivi Ministri IUR Maria Chiara Carrozza e Stefania Giannini. Gli unici avvenimenti di rilievo durante il ministero Carrozza sono quelli connessi alla polemica sull’uso dei quiz per le prove di accesso alle facoltà a numero chiuso, particolarmente quelle alla Facoltà di Medicina, che per la prima volta si svolgono con un unico test valido per tutti gli atenei e formazione di una graduatoria unica nazionale [L73]. Viene anche messo sotto processo il punteggio attribuito al curriculum scolastico (il voto di diploma) in quanto può ingiustamente favorire quegli studenti che sono stati giudicati da commissari più abituati a concedere votazioni alte. La partenza del Ministro Giannini appare buona nelle intenzioni, in quanto dichiara subito che l’università non ha bisogno di nuove riforme globali ma solo di una semplificazione delle norme esistenti. Dichiara inoltre di condividere parte delle critiche rivolte alla prima procedura di valutazione della ASN e, in attesa di proporre nuove regole, decide di bloccare la partenza di una ulteriore tornata di giudizi [L74]. Ciò che maggiormente resta impresso, alla fine di questo percorso, è il generale senso di frustrazione degli operatori universitari. Gli stessi professori (a differenza dai professori di scuola media) fino a circa vent’anni fa ancora godevano di un riconosciuto prestigio e di retribuzioni adeguate (se non altro a fine carriera). Ora non si può dire neanche questo. Ma non è la cosa peggiore, se confrontata con la grande mole di adempimenti burocratici loro richiesti (per larga parte inutili) che rubano il tempo necessario allo svolgimento della ricerca scientifica, la vera attività che caratterizza un docente universitario e che sta alla base della scelta di questa carriera. Ora purtroppo sia il pensiero della opinione pubblica che della maggior parte della stessa classe politica si soffermano sugli scandali di alcuni concorsi molto amplificati dai media, sottostimando la fatica giornaliera della maggior parte dei docenti che, pur in numero fortemente decrescente a causa dei blocchi del turn-over12, continuano a fatica a mandare avanti la baracca. E ciò ha generato una diffusa delusione che, sono certo, toglierà quell’entusiasmo nella attuazione dei propri doveri professionali in mancanza del 11 Sono riportati sia decreti approvati durante il Ministero Moratti sia quelli dei Ministri successivi: attribuzione agli atenei del “fondo merito” per i docenti e criteri per la sua attribuzione [L61], “bilancio unico” [L62]; nuova progressione economica dei docenti (da biennale a triennale) [L63]; valutazione del reclutamento e delle politiche di bilancio e reclutamento degli atenei [L64, L65]; revisione dei criteri per il Diritto allo Studio [L66]; istituzione della ASN [L67] e relativa definizione dei criteri e parametri di giudizio per la valutazione di candidati e commissari [L68]; nuove regole per il dottorato di ricerca [L69]; determinazione di criteri e parametri per la valutazione preliminare dei Ricercatori RTD [L70], per la proroga biennale dei contratti di tipo a [L71] e, infine, criteri di valutazione dei ricercatori RTD di tipo b per il passaggio a professori associati [L72]. 12 Il totale dei docenti universitari (professori e ricercatori TI) secondo dati MIUR dal 2008 al 2013 è calato del 15%. Una proiezione fatta da Paolo Rossi al 2018 [21], che tiene conto del perdurare dei vincoli al turn-over, prevede una diminuzione rispetto al 2008 che va dal 25% al 23% a seconda che si tenga conto o meno delle progressioni di carriera. La legislazione universitaria 289 quale è difficile non solo fornire contributi scientifici nuovi ma anche essere maestri convincenti nei riguardi dei propri studenti. E ancora più importante appare il pratico blocco del reclutamento che, oltre a non fornire il necessario rinnovamento del corpo docente, rischia anche di lasciare inutilizzate le tantissime competenze, costruite a spese dello Stato, dei molti ricercatori che comunque continuano a frequentare i nostri laboratori in modo precario. A parte la questione, importantissima, di ridare le giuste motivazioni alla classe docente, appare gravissimo il problema generale del sottofinanziamento di tutto il sistema. Di tale sottofinanziamento sono chiara prova tutti i possibili indicatori tenuti sotto osservazione da Enti nazionali ed internazionali, dalla percentuale del prodotto interno lordo (PIL) destinata a all’Istruzione Superiore, al numero di borse di studio destinate agli studenti (con particolare riguardo all’alto numero di coloro che avrebbero i requisiti per la loro fruizione ma ne rimangono esclusi per mera carenza dei fondi), all’entità delle tasse pagate dai nostri studenti che sono di poco inferiori alla media OCSE ma tra le più alte all’interno della UE (alla faccia di quanto sostengono diversi economisti di casa nostra), al numero dei ricercatori per mille abitanti o al numero di studenti per docente, al numero dei laureati che intraprendono il dottorato di ricerca ecc., tutti dati che vedono l’Italia drammaticamente agli ultimi posti delle classifiche internazionali, come si evince facilmente dai rapporti OCSE [17] o quelli nostri del CNVSU [22] e addirittura anche dal recente rilevamento della agenzia di valutazione ANVUR [23]. E stranamente a questo sottodimensionamento delle nostre strutture di didattica e di ricerca corrisponde una produzione scientifica che, stando sempre a quanto rilevato dalle fonti suddette, non ha nulla da invidiare a quella degli altri paesi occidentali dal punto di vista quantitativo e, in particolare, da quello della qualità. Ma i denigratori della nostra istituzione universitaria si rendono conto che la famosa “fuga dei cervelli” è la prova tangibile della buona preparazione dei nostri laureati? Altrimenti chi li prenderebbe? E si rendono conto che alcuni Paesi stranieri (Germania e USA in primis) cominciano a pensare che non ha senso investire fondi consistenti propri per formare un alto numero di “dottori di ricerca” locali quando è molto più conveniente cercare sul mercato quelli preparati da altri (ad es. i nostri) che risultano già pronti all’uso senza che lo loro formazione sia costata un euro (ovviamente a loro!)? Ci piace infine spendere qualche parola sulle classifiche internazionali che molti enti (per lo più università straniere) compilano sulla qualità degli atenei. A parte la considerazione che ciascuna di tali classifiche obbedisce ovviamente ai criteri di giudizio adottati che, a loro volta, condizionano lo scopo per cui esse potrebbero essere correttamente utilizzate, vorremmo sottolineare il fatto che la assenza di atenei italiani nelle posizioni di alta classifica (enfatizzata da molti commentatori) è pienamente compensata dal grande numero dei nostri atenei in posizioni d classifica medio-alta. In sostanza noi non abbiamo atenei singolarmente eccellenti in gran parte delle discipline, ma disponiamo di un buon numero di atenei, distribuiti su tutto il territorio nazionale, che dimostrano una discreta qualità media. È di questi giorni la pubblicazione della classifica della ARWU [24]. Come giustamente osserva il sito telematico ROARS [25] i quotidiani italiani mettono in rilievo che non c’è alcun nostro ateneo fra i primi 290 Contributi monografici 150 del mondo ma non si accorgono che ce ne sono ben 5 tra il 150° e il 200° posto. Anzi, evidenzia lo stesso sito, nella classifica ARWU su un totale di circa 17000 atenei vi sono ben 21 università (nostre, ndr) tra le prime 500 occupando così l’Italia il quinto posto al mondo per numero di università in classifica (a pari merito con Francia e Canada) dopo gli USA, la Cina, la Germania e il Regno Unito. Personalmente siamo convinti che il nostro paese abbia più da guadagnare da una simile buona distribuzione media della qualità anche se non possiede singoli atenei al top. A parte il fatto che abbiamo, se non interi atenei, singole strutture di alta qualità scientifica che nulla hanno da invidiare a quelli stranieri, non possiamo esimerci dall’evidenziare che gli atenei ai primi posti in classifica dispongono sempre di budget economici che non hanno nulla di simile nel nostro paese. Tanto per fare un esempio, l’Università di Harvard (spesso prima in classifica) nel 2009 ha avuto finanziamenti per la ricerca pari a oltre 5 volte quelli che il MIUR ha stanziato per tutta la ricerca universitaria italiana. I ricercatori italiani, con i finanziamenti che ricevono, … fanno anche troppo! Comunque quello che più preoccupa è il futuro, perché è ovvio che il perdurare delle due condizioni sfavorevoli al funzionamento della nostra Istruzione Superiore, il sottofinanziamento e la assenza di motivazione della classe docente, alla lunga porteranno anche le prestazioni di ricerca del nostro paese sulle stesse posizioni di bassa classifica riscontrate per gli altri indicatori sopra menzionati. Quale futuro? Da quanto precede, è evidente che alcuni nodi del Sistema di Istruzione Superiore nel nostro paese rimangono irrisolti e su questi dovrebbe concentrarsi l’attenzione dei nostri governanti. La prima questione che dobbiamo affrontare è in che misura, e con quali interventi, è opportuno intervenire sull’università. L’università italiana negli ultimi 30 anni ha sofferto di troppi interventi legislativi che hanno costretto i propri membri – sia docenti che personale T-A – ad adattarsi a nuove norme prima ancora di aver assimilato quelle immediatamente precedenti. In sostanza ha sofferto di un eccesso di normazione. A ciò si aggiunge che la sommatoria di tutte queste norme complica spesso inutilmente la vita di tutti gli addetti, riducendo gli spazi di autonomia degli atenei e delle stesse strutture in cui questi sono articolate. Quello che sarebbe necessario (ma non subito, per non aggravare ulteriormente l’eccesso di normazione, e nella speranza che nel frattempo il governo Renzi riesca a portare qualche semplificazione nel funzionamento della burocrazia della Pubblica Amministrazione) è una Legge-Quadro del tipo di quella che aveva in mente, ma non è riuscito a varare, il Ministro Ruberti negli anni ’90. Tale legge-quadro13 dovrebbe limitarsi a tracciare i confini tra le materie che è giusto vengano definite a livello centrale (per legge o regolamenti del MIUR) e quelle che invece debbono restare nella discrezione dei singoli atenei. Sarà proprio la scelta delle opportune articolazioni in13 [26]. Un tentativo di abbozzare i contenuti di una possibile legge-quadro si può trovare in un documento del CNU La legislazione universitaria 291 terne, e del modo in cui queste sono regolamentate e coordinate, che permetterà agli atenei di organizzare nel modo migliore l’attività didattica e scientifica, perseguendo in autonomia gli indirizzi specifici individuati dai propri organi di governo. E sarà giusto allora che ci sia una valutazione a posteriori delle loro prestazioni, funzionale anche alla erogazione di eventuali fondi premiali. Ma, non ci stancheremo di ripeterlo, i “fondi premiali” dovrebbero essere aggiuntivi al FFO, onde non continuare la politica in atto che per premiare alcuni toglie il sostegno fisiologico agli altri. Oltre a tracciare la suddetta linea di confine tra le competenze nazionali e locali, una legge quadro potrebbe anche indicare quali sono le problematiche che richiedono un ulteriore intervento legislativo, suggerendo magari anche possibili soluzioni. Le questioni che ci appaiono meritevoli di ulteriori interventi legislativi potrebbero essere14: estensione della formazione superiore: è importante far accedere alla formazione universitaria un più alto numero di giovani. Infatti da noi risulta troppo basso il numero dei laureati nella fascia 25-34 anni (siamo quasi in fondo alla classifica dei paesi OCSE, con un 22% circa rispetto a oltre il 35% della media UE [17]). È vero che questa nostra posizione in classifica probabilmente non rende il giusto merito del grado di acculturamento medio dei nostri ragazzi che, rispetto a quelli di molti altri paesi, hanno frequentato un anno in più di scuola secondaria. Lungi da noi l’idea che un anno di liceo in più possa essere considerato equivalente a 1/3 di una laurea breve: ma che la suddetta classifica sottostimi leggermente la nostra preparazione culturale pensiamo si possa dire. Collegato a questo è il nodo della formazione di quadri intermedi con preparazione di carattere eminentemente tecnico, erogata da istituzioni a carattere vocazionale. A tal fine si spera che vengano rafforzati ed estesi gli istituti professionalizzanti superiori [27]. A questo proposito, anzi, una cosa che dovrebbero fare i docenti delle nostre facoltà di Medicina è quella di rinunciare all’esclusiva nella formazione del personale infermieristico e delle altre figure con compiti più “tecnici” che “medici” che escono dalle loro lauree triennali. Se la gestione di tali corsi di Laurea da parte delle università poteva essere comprensibile (anche se non giustificata) in passato, quando pareva utile a procurare nuove posizioni di docenza di ruolo a carico dello Stato, in tempi di vacche magre si presenta solo come un onere poco qualificante. Sarebbe invece opportuno che l’università si limitasse a partecipare come uno dei partner alla loro organizzazione, fornendo la docenza per i corsi di medicina di base, ma lasciandone la gestione alla competenza delle regioni. sostegno alla ricerca scientifica: è necessario ristabilire un giusto equilibrio nel finanziamento della ricerca libera e di quella applicata e/o indirizzata alla soluzione di problemi di interesse generale per l’umanità e per i paesi europei in particolare. Appare ormai compito delle istituzioni UE di finanziare grandi progetti tesi a dare risposte alle esigenze più generali della moderna società (energia, salute, difesa dell’ambiente 14 Le idee qui esposte sono strettamente personali, anche se ovviamente influenzate dalle lunghe discussioni con gli amici del CNU. 292 Contributi monografici ecc.) ed è invece rinviabile a progetti comuni università-imprese-enti territoriali la soluzione di problematiche di carattere locale, più applicativo. Bisogna allora chiarire a chi compete fornire un adeguato supporto alla ricerca di base, curiosity driven. Se da un lato è accettato da tutti che la ricerca di base rappresenta il necessario punto di partenza per affrontare con la necessaria competenza la stessa ricerca applicata15, da più parti ormai c’è accordo anche sul fatto che tale attività è quella che permette ai docenti universitari di trasferire ai propri studenti le corrette abitudini all’uso critico delle informazioni, alla progettazione coerente di esperimenti, alla adozione di corrette metodologie di studio ecc., tutte qualità che un domani permetteranno di avere cittadini più consapevoli, capaci di capire (e forse controllare) i fenomeni naturali, in grado di valutare tutti gli elementi che permettono di assumere decisioni ponderate quando occupassero posizioni dirigenziali16. Pertanto in primis andrebbero ripristinati i progetti PRIN, con fondi adeguati. la valutazione: contrariamente a quanto sostenuto da molti commentatori la gran parte dei docenti universitari si è convinta della importanza di un processo di valutazione. E’ però viva la preoccupazione che un tale processo venga portato avanti in modo non corretto, senza aver identificato il fine vero cui la valutazione deve essere funzionale, senza tenere ben conto dello stretto rapporto tra intercorre tra il fine e le modalità con cui esso deve essere perseguito17, e senza preoccuparsi infine di verificare quali possono essere le conseguenze della procedura adottata. Lo scopo principale della valutazione non deve essere quello di erogare premi e punizioni, ma quello di fornire a tutta la comunità accademica, e anche ai singoli docenti, tutti gli elementi atti a far capire cosa è che eventualmente non funziona nel modo di fare ricerca e didattica, così fornendo indicazioni atte ad identificare tutte le azioni utili al loro miglioramento. Se poi il risultato della valutazione porta anche a finanziare di più certi atenei e dare premi ai docenti più virtuosi questo deve essere considerato semplicemente un utile sottoprodotto. A parte comunque il grosso problema che i premi non provengono mai da nuovi fondi specificamente a ciò destinati ma vanno sempre a scapito delle quote normali del FFO (la qual cosa potrebbe essere giusta soltanto nel caso che il FFO fosse già dell’ordine di grandezza dei fondi destinati all’università negli altri paesi con cui ci dobbiamo confrontare) dobbiamo purtroppo registrare che tutti stanno adattando i propri comportamenti soltanto in funzione di non perdere i benefici legati alla valutazione, puramente economici per le strutture ed economici e di carriera per i singoli docenti. Ciò può portare purtroppo a conseguenze nettamente negative: dalle strutture didattiche che con leggerezza tendono a far procedere negli studi anche studenti non sufficientemente preparati al solo scopo di alzare la propria “produttività”, ai singoli docenti che impostano la propria attività di ricerca, non tanto ad un fine 15 “La catena che conduce dalle scoperte di base ai prodotti di consumo è lunga, lenta e misteriosa: ma se si distrugge la base, crollerà l’intera catena.” Andrej Gejm, premio Nobel per la Fisica 2010 per il lavoro sul grafene. 16 L’importanza del bene “conoscenza” e del modo positivo in cui questa si riverbera non solo in campo economico ma in tutti gli aspetti del vivere sociale è ben evidenziata in “I nuovi saperi tra scuola università e lavoro” di Mauro Ceruti e Silvano Tagliagambe, in Rif. [4]. 17 Per chi fosse interessato al tema segnaliamo un bell’articolo in materia di Luciano Modica [28]. La legislazione universitaria 293 culturale, quanto piuttosto allo scopo di renderla funzionale ad una carriera più veloce. Purtroppo, ad esempio, non sono stati valutati appieno i feed-back negativi della procedura di valutazione (prevalentemente quantitativa) messa in atto dall’ANVUR: è infatti ormai sotto gli occhi di tutti, ad esempio, il comportamento negativo di molti docenti che invece di approfondire i propri temi di ricerca fino ad arrivare alla pubblicazione di articoli di rilievo, a carattere generale, optano per pubblicare tantissimi articoli brevi, molto parziali, a volte addirittura errati per non aver programmato tutte le verifiche necessarie. Per non parlare poi della abitudine poco seria di molti ricercatori che programmano inutili citazioni incrociate al fine di accrescere in modo fittizio la importanza dei propri contributi. Ma la stessa scelta dei temi di ricerca può venirne influenzata in quanto quasi nessuno sarà invogliato a scegliere temi innovativi, soggetti a maggiore incertezza nel raggiungimento di risultati, preferendo temi standard che garantiscono risultati scuri a breve termine. Gli stessi temi di ricerca interdisciplinari, da molti indicati come i più promettenti perché permettono un proficuo incontro tra competenze diverse, vengono purtroppo trascurati perché di difficile inquadramento nei settori scientifico-disciplinari. In conclusione, quindi, è fondato il timore che alla lunga le conseguenze negative superino i vantaggio della valutazione18. Sarà bene che il Ministro Giannini tenga presente queste cose nel momento in cui si appresta a proporre una modifica delle procedure (e dei criteri?) di valutazione dell’ANVUR. organizzazione didattica: dobbiamo convincerci che la nostra società muta così in fretta che le esigenze della introduzione di nuovi Corsi di Laurea, o la semplice loro modifica, possono risultare incompatibili con le procedure e i tempi del loro accreditamento da parte degli organi nazionali preposti. Bisogna quindi lasciare liberi gli atenei di poter attivare (e disattivare) con la massima flessibilità eventuali nuovi corsi, eventualmente entro una percentuale massima rispetto a quelli accreditati, magari con il vincolo che i finanziamenti all’ateneo si baseranno soltanto su questi ultimi. Sarà la scelta di questi percorsi, possibilmente concordata con le organizzazioni imprenditoriali e/o gli enti locali, che contribuirà ad una positiva differenziazione degli atenei. Parallelamente si sente invece l’esigenza di un maggior coordinamento interno ai Corsi di Studio, ove una malintesa libertà di insegnamento a volte ha fatto sì che i contenuti dei singoli corsi di insegnamento rispecchino più gli interessi del singolo docente piuttosto che le esigenze del percorso formativo. Probabilmente anche il riprendere la sana abitudine di rispettare le commissioni di esame, evitando il semplice colloquio a due nello studio del docente, aiuterebbe ad evidenziare tali storture e porre le basi per il loro superamento. reclutamento e stato giuridico dei docenti: anche se tale argomento può apparire stucchevole agli stessi addetti ai lavori, qualche modifica si rende necessaria al fine di accorciare il periodo che intercorre tra il dottorato di ricerca e l’ingresso nel ruolo 18 Un discorso più approfondito su come le procedure di valutazione possono portare ad effetti indesiderati si può trovare in “La valutazione di sistema in prospettiva comparata” di Matteo Turri, Rif. [4]. 294 Contributi monografici di professore. Tutti lamentano che in Italia abbiamo i docenti universitari più vecchi d’Europa, con una età media complessiva di 52 anni.. E molti individuano nell’alta età di pensionamento (70 anni) la causa principale. Ma pochi si sono preoccupati di analizzare tutti i fattori che influenzano il fenomeno, da cui risulta invece che la causa principale è la troppo alta età di ingresso in ruolo dei nostri docenti [29]: attualmente l’età media di ingresso in ruolo dei ricercatori RTI è arrivata è tra i 37 e i 40 anni (si tratta di concorsi banditi prima della legge Gelmini e completati nel 2011-2013), mentre l’ingresso nelle figure di professore di ruolo, nel 2013, avviene mediamente a 46 anni per il professore associato e a 52 per il professore ordinario [23]. A parte il fatto che una simile età di ingresso fa sì che mediamente solo una parte dei docenti riesce a percorrere l’intera carriera prima della pensione, di fatto ci sembra un controsenso fornire la tranquillità di una posizione a tempo indeterminato a ricercatori che hanno già superato la fase della vita in cui si è più creativi, cioè proprio quella in cui una posizione “garantita” permetterebbe di scegliere liberamente gli indirizzi di ricerca non convenzionali, inseguendo anche i sogni scientifici più coraggiosi. Allo scopo di far entrare nella docenza di ruolo ricercatori di 30-34 anni, come avviene nella maggior parte dei paesi della UE, riteniamo che sarebbe utile inserire una ulteriore fascia di docenti (la cosiddetta “terza fascia”) che preceda il professore associato. A tal fine sarebbe stato meglio non limitarsi a mettere ad esaurimento il ruolo degli attuali ricercatori a tempo indeterminato, che tra l’altro svolgono già in larga parte la funzione di docente, ma trasformare la loro posizione in terza fascia docente (professori aggregati?). Riteniamo infatti che sia difficilmente modificabile l’idea della classe docente attuale che ormai associa la figura del professore associato ad un alto grado di esperienza e di produzione scientifica che difficilmente potrebbero riscontrarsi in ricercatori più giovani. E riteniamo anche che queste tre fasce di professori potrebbero utilmente far parte di un vero ruolo unico, caratterizzato da uguali funzioni didattiche e scientifiche per tutte le fasce, con un meccanismo di valutazione ad personam che permetta, ai docenti con una anzianità minima nella fascia di appartenenza, di essere giudicati in assoluto per il possibile passaggio alla fascia superiore. Tra l’altro, le valutazioni comparative locali attualmente vigenti potrebbero comunque restare operanti al fine di permettere la chiamata di docenti esterni all’ateneo e, al tempo stesso, per fornire meccanismi di abbreviazione della carriera per candidati particolarmente meritevoli. Contemporaneamente andrebbe drasticamente accorciato il periodo che precede l’entrata in ruolo riducendo ad una sola le figure di ricercatore RTD della legge Gelmini e riducendo il tempo massimo trascorribile nelle figure di borsista, assegnista di ricerca e ricercatore RTD a 6 anni rispetto ai 12 anni previsti dalla stessa legge [30]. Una possibile alternativa alla terza fascia docente di ruolo potrebbe anche essere il professore junior a tempo determinato, come proposto dal CUN [31]. E andrebbe infine stabilito, con opportune regole nazionali, che non si può percorrere tutta la carriera (studente → ricercatore → professore) in un unico ateneo, ad evitare il fenomeno di imbreeding lamentato in precedenza. A proposito di stato giuridico dei professori universitari, da più parti si comincia a chiedere se non sia il caso di inserire anche questa categoria tra quelle contrattualiz- La legislazione universitaria 295 zate19 o di trasformare addirittura il loro rapporto pubblico di impiego in un contratto di diritto privato. La gran parte dei docenti universitari ha sempre visto nella “riserva di legge” il mezzo migliore per garantire la libertà didattica e scientifica. D’altra parte è anche vero che in molti altri paesi la predetta libertà è rispettata anche se i professori non sono pubblici dipendenti. Probabilmente quindi non ci si deve meravigliare se la linea di tendenza diventasse questa. Ad avviso di chi scrive, però, il nostro paese non è ancora maturo per una tale transizione ed è forte il rischio di abbandonare i docenti universitari alla mercé dell’accresciuto potere dei Rettori, non ancora ben sperimentato ed assimilato. Negli ultimi tempi non sono mancati esempi di atenei (per fortuna per ora solo atenei telematici) in cui gli organi di governo imponevano ai loro docenti compiti didattici così pesanti che non lasciavano spazio al lavoro di ricerca scientifica. Non sono mancati anche esempi di Rettori che hanno comminato pene severe (negazione temporanea dello stipendio) a ricercatori che si erano permessi di esprimere delle critiche nei riguardi della gestione del loro ateneo20. Il semplice contratto di diritto privato va benissimo in una società in cui i due attori del contratto hanno un potere paragonabile, mentre nel caso in ispecie, e particolarmente in presenza di una grave crisi economica, il potere (anche ricattatorio) è soltanto dalla parte dei Rettori. A nostro avviso una soluzione praticabile potrebbe essere quella di mantenere lo status pubblico al fine di garantire a tutti eguali doveri e diritti di base su tutto il territorio nazionale (obblighi didattici e scientifici minimi cui corrisponde uno stipendio base) cui si accompagna un contrato di diritto privato che regola obblighi e diritti aggiuntivi. Una ultima osservazione riguarda la gestione del reclutamento (abilitazione + concorsi locali) continuando a fare riferimento ai settori scientifico-disciplinari. Anche se questi sono stati opportunamente raggruppati in più larghi settori concorsuali non pare eliminato il rischio che si trasformino in gabbie che scoraggiano gli approcci scientifici interdisciplinari. Una maggiore attenzione alle procedure di reclutamento più flessibili adottate in altri paesi non guasterebbe. Mah… chi vivrà vedrà! Giunti in fondo a questo lungo percorso, in cui abbiamo criticato quasi tutti gli interventi legislativi intervenuti sull’Università negli ultimi 50 anni, potrebbe apparire che tutte le colpe della risposta inadeguata della nostra istituzione universitaria alle attese della società fossero da imputare soltanto alla classe politica che ci ha governato. È doveroso precisare che anche la classe docente ha le sue responsabilità. Ma non mi riferisco affatto alle tanto sbandierate malefatte legate ai concorsi, esageratamente magnificate dalla stampa, che hanno una rilevanza percentuale perfettamente paragonabile, se non minore, rispetto agli altri settori della amministrazione pubblica e di tutte le attività professionali in genere (anche se un difetto di etica è oggettivamente 19 Le ragioni della contrarietà di chi scrive alla contrattazione dei docenti universitari sono riportate nel rif. [32]. Può preoccupare a tale proposito la leggerezza con cui vengono scritti, e poi interpretati, certi “codici etici” nella parte in cui si impegnano i dipendenti a non mettere in cattiva luce l’istituzione di appartenenza e che potrebbe arrivare a negare la libertà di espressione proprio ad una categoria che dell’autonoma manifestazione del pensiero dovrebbe essere l’alfiere. 20 296 Contributi monografici più grave in una categoria che dovrebbe formare i giovani). Mi riferisco invece alla gestione della didattica, spesso trascurata a favore della ricerca, trattata il più delle volte in modo eccessivamente autoreferenziale. In particolare i Corsi di Laurea spesso non sono stati programmati con la necessaria collaborazione con i rappresentanti delle imprese e degli enti locali, portando ad un loro impatto insufficiente sul rapporto formazione-lavoro. Per fortuna la sensibilità dei colleghi sta cambiando, anche se purtroppo sulla spinta della grave crisi economica. Nel nostro piccolo ci sentiamo di fare infine una piccola autocritica aggiuntiva: abbiamo creduto che fosse sempre sufficiente l’esempio del comportamento personale. Purtroppo una più puntuale denuncia di qualche comportamento non corretto sarebbe stata opportuna: l’esempio è il mezzo migliore per educare i bimbi piccoli, ma quando si ha a che fare con bimbi grandi, e un po’ cattivi, un sano scappellotto (in senso lato) ci starebbe proprio bene. Riferimenti bibliografici [1] Giliberto Capano: “La Politica Universitaria” Ed. il Mulino, 1998. [2] Giunio Luzzatto: “L’Università” in “la Scuola Italiana dall’Unità ai nostri giorni”, a cura di Giacomo Cives, Ed. La Nuova Italia, 1990. [3] Giunio Luzzatto: “I problemi universitari nelle prime otto legislature repubblicane” in “La Scuola Italiana dal 1945 al 1983” a cura di M. Gattullo e A. Visalberghi, Ed. La Nuova Italia, 1986. [4] “Il costo dell’ignoranza.” L’Università italiana e la sfida Europa 2020, a cura di G. Capano e M. Meloni, Ed. Il Mulino, AREL, 2013. [5] Rif. 1, cap. 2, sez. 2.1. [6] Rif. 1, pp. 80-81 e Rif. (2), p. 161. [7] Rif. 1, cap. 2, sez. 2.2. [8] Rif. 1, cap. 2, sez. 2.2, p. 94. [9] Rif. 1, cap. 2, sez. 3.2. [10] Rif. 3, pp. 170-174. [11] Rif. 3, pp. 174-186. [12] vedi intervista a Paolo Blasi, Parte I. [13] vedi ad es. G. Fois e G. Melis, “L’Università italiana nei 150 anni. Luci e ombre di un lungo percorso”, in Rif. [4]. [14] vedi ad es. M. Regini e S. Colombo “Differenziazione e diversità in Europa”, in Rif. [4]. [15] “Università e Ricerca” n. 4/5 del Luglio-Ottobre 1991, p. 5. [16] “Eterne riforme? Sull’evoluzione del sistema universitario italiano negli ultimi 20 anni” di Lorenzo Marrucci, rif. [4]. [17] OECD (2014), “Education at a Glance 2014: OECD Indicators”, OECD Publishing, (http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf). [18] vedi rif. [1], pp. 269-270. [19] vedi [L40] art. 1, c. 19. [20] sentenza Corte Costituzionale n. 310 del 2013. [21] “Di male in peggio: nuove proiezioni sul ...” di Paolo Rossi - http://www.roars.it/online/ [22] CNVSU: “Undicesimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario”, Gennaio 2011. La legislazione universitaria 297 [23] ANVUR: “I Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca”, 2013. [24] Academic Ranking of World Universities compilata dalla Jiao Tong University di Shanghai. [25] Return on Academic Research: http://www.roars.it/online/ [26] vedi “Una proposta di legge-quadro”, nella sezione V del DVD allegato. [27] vedi ad es. i corsi IFTS, istituiti con L. 17 Maggio 1999 n. 144. [28] “Passato e Futuro della Valutazione della Ricerca Universitaria: Valutare che cosa? Valutare come? Valutare perché?”, di Luciano Modica in “Valutare la ricerca? Capire, applicare, difendersi” a cura di Paolo Miccoli e Adriano Fabris, Area libri, edizioni ETS Pisa, 2012. [29] “Sull’età dei docenti universitari in Italia” di Paolo Gianni, vedi sezione V del DVD allegato. [30] vedi [L52], art. 22, c. 9. [31] “Ripensare l’assetto della docenza universitaria: I. L’accesso al ruolo.” Documento CUN del 11 Giugno 2014. [32] “La contrattazione dei docenti universitari” vedi sezione V del DVD allegato. Leggi citate (Abbreviazioni: L. = Legge; DL. = Decreto Legge; DdL. = Disegno di Legge; DLgs. = Decreto legislativo; DI = Decreto Interministeriale; DM = Decreto Ministeriale; DPCM = Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; DPR = Decreto del Presidente della Repubblica; DLtz. = Decreto Luogotenenziale; RD. = Regio Decreto). [L1] L. 13 Novembre 1859 n. 3725. [L2] RD. 9 Agosto 1910 n. 795. [L3] RD. 30 Settembre 1923, n. 2102. [L4] RD. 31 Agosto 1933, n. 1592. [L5] RD. 20 Maggio 1935 n. 1071, 28 Novembre 1935 n. 2044 e 7 Maggio 1936, n. 882. [L6] RD. 4 Giugno 1938, n. 1269 e 30 Settembre 1938 n. 1652. [L7] DLtz. 7 Settembre 1944 n. 264, 2 Novembre 1844 n. 272 e 5 Aprile 1945 n. 238. [L8] DLgs 7 Maggio 1948 n. 1172. [L9] L. 18 Marzo 1958 n. 311 e n. 349. [L10]L. 11 Dicembre 1969 n. 910. [L11]L. 30 Novembre 1970 n. 924. [L12]DL. 1 Ottobre 1973 n. 580, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 Novembre 1973 n. 766. [L13]DL. 21 Ottobre 1978 n. 642, decaduto. [L14]DL. 23 Dicembre 1978 n. 817, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 Febbraio 1979 n. 54. [L15]L. 7 Febbraio 1979 n. 31. [L16]L. 21 Febbraio 1980 n. 28. [L17]DPR. 11 Luglio 1980 n. 382. [L18]DPR. 4 Marzo 1982 n. 371. [L19]DPR. 10 Marzo 1982 n. 162. [L20]DPR. 14 Agosto1982 n. 590. [L21]L. 6 Ottobre 1982 n. 724 e 725. 298 Contributi monografici [L22] L. 7 Agosto 1990 n. 245. [L23] L. 19 Novembre 1990 n. 341. [L24] L. 2 Dicembre 1991 n. 390. [L25] L. 9 Maggio 1989 n. 168. [L26] DPCM 12 Maggio 1989. [L27] DPR 28 Ottobre 1991. [L28] L 24 Dicembre 1993 n. 537. [L29] DL 21 Aprile 1995 n. 120, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 Giugno 1995 n. 236. [L30] DL 8 Settembre 1994 n. 532, decaduto. [L31] DL 19 Marzo 1996 n. 128 decaduto. [L32] DL 25 Marzo 1996 n. 159 decaduto. [L33] DM 31 Gennaio 1992. [L34] DL 13 Settembre 1996 n. 475, convertito con modificazioni dalla L. 5 Novembre 1996 n. 573. [L35] DPR 30 Dicembre 1995. [L36] L 28 Dicembre 1995 n. 549. [L37] L. 3 Luglio 1998, n. 210. [L38] L 23 Dicembre 1996 n. 662. [L39] DLgs. 39 Luglio 1999 n. 300. [L40] L. 15 Marzo 1997 n. 59. [L41] L 15 Maggio 1997 n. 127. [L42] DM. 3 Novembre 1999 n. 509. [L43] DL 7 Aprile 2004 n. 97 convertito dalla L. 4 Giugno 2004 n. 143. [L44] DL 31Gennaio 2005 n. 7 convertito, con modificazioni, dalla L. 31 Marzo 2005 n. 43. [L45] D. MIUR 22 Ottobre 2004 n. 270. [L46] L. 4 Novembre 2005 n. 230. [L47] L 27 Dicembre 2006, n. 296. [L48] DLgs 30 Marzo 2001 n. 165, art. 48 c.2. [L49] DL. 3 Ottobre 2006, n. 262 convertito , con modificazioni, dalla L. 24 Novembre 2006, n. 286. [L50] L. 24 Dicembre 2007 n. 244 [L51] DL 3 Giugno 2008 n. 97 convertito, con modificazioni, dalla L. 2 Agosto 2008 n. 129. [L52] DL. 10 Novembre 2008 n. 180 convertito, con modificazioni, dalla L. 9 Gennaio 2009 n. 1. [L53] DPR 1 Febbraio 2010 n. 76. [L54] DL 31 Maggio 2010 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 Luglio 2010 n. 122. [L55] DL 6 Luglio 2011 n. 98 convertito, con modificazioni, nella L. 15 Luglio 2011 n. 111. [L56] DPR 4 Settembre 2013 n. 122. [L57] DL 25 Giugno 2008 n. 112 convertito, con modificazioni, dalla L. 6 Agosto 2008 n. 133. [L58] Dlgs 30 Dicembre 1992 n. 503. [L59] L. 30 Dicembre 2010, n. 240. [L60] DL 6 Luglio 2012, n. 95 convertito, con modificazioni, dalla L.7 Agosto 2012 n. 135. [L61] DI 21 Luglio 2011, n. 314. [L62] DLgs 27 Gennaio 2012, n. 18. [L63] DPR 15 Dicembre 2011 n. 232. [L64] Dlgs. 27 Gennaio 2012 n. 19. [L65] Dlgs. 29 Marzo 2012 n. 49. La legislazione universitaria 299 [L66] Dlgs. 29 Marzo 2012 n. 68. [L67] DPR. 14/ Settembre 2011 n. 222. [L68] DM 7 Giugno 2012 n. 76. [L69] DM 8 Febbraio 2013, n. 45. [L70] DM 25 Maggio 2011 n. 243. [L71] DM 24 Maggio 2011 n. 242. [L72] DM 4 Agosto 2011 n. 344. [L73] DL 12 Settembre 2013 n. 104 convertito dalla L. 8 Novembre 2013 n. 128. [L74] DL 24 Giugno 2014 n. 90 convertito, con modificazioni, dalla L. 11 Agosto 2014 n. 114 (art. 14). La Commissione Medicina del CNU Franco Indiveri La Commissione Nazionale Medicina del CNU (CNMED-CNU) nacque insieme al CNU e si connaturò come una struttura semi-autonoma all’interno della organizzazione associativa tanto che il suo presidente, per statuto, viene eletto direttamente dal Congresso nazionale. La Commissione è stata presieduta da professori medici che hanno avuto un grande rilievo nella comunità accademica e scientifica: Gaetano Crepaldi, Franco Cresci, Angelo Gatta, Giuseppe Tallarida, Francesco Indiveri, Mauro Marchionni, Renzo Carretta, Vincenzo Violi. Nella sua lunga storia la Commissione si è occupata costantemente dei rapporti fra Università e Servizio Sanitario Nazionale (SSN), della strutturazione degli studi medici, delle condizioni lavorative dei docenti medici, dei problemi etici della professione medica, dei rapporti fra organizzazioni rappresentative dei medici universitari e quelle dei medici ospedalieri. Nel testo che segue cercherò di delineare nel tempo le attività della Commissione e descriverò in maniera più dettagliata le attività di cui sono stato testimone diretto. Il razionale della scelta politica di avere una Commissione così strutturata sta nella constatazione che la Facoltà di Medicina, per la sua caratteristica di “facoltà professionalizzante”, presenta problemi diversi dalle altre facoltà e quindi necessita di un approccio particolare. Sin dagli albori della sua esistenza il CNU dovette affrontare il problema dei rapporti fra la Facoltà di Medicina e il Servizio Sanitario Nazionale che veniva programmato in quegli anni. Il progetto di riforma sanitaria che prendeva forma fu visto con molto favore e determinò la speranza che essa potesse innescare un processo di rinnovamento nella Sanità e nella Facoltà Medica. L’interazione Università-Sanità era vista dal mondo accademico che si rispecchiava nel CNU come una occasione storica per rimodernare e aggiornare i rapporti fra Università e Società civile e per dare alla scuola di medicina una connotazione moderna e adeguata ai tempi. Per comprendere le aspettative che la nascente riforma sanitaria suscitava fra i docenti di medicina basta leggere la relazione dell’allora presidente della commissione medicina, prof. Gaetano Crepaldi, al congresso nazionale tenutosi a Torino nel 1974. In questa relazione Crepaldi fa una attenta analisi dei problemi che affliggevano sia la sanità pubblica che la facoltà medica e mette in evidenza quale fosse il contributo che le disfunzioni universitarie riversavano sul SSN. Egli sottolinea come l’alto numero di medici, lo scarso numero di docenti, la scarsità di strutture didattiche in relazione 302 Contributi monografici al numero degli studenti, la scarsità di risorse per la ricerca biomedica, lo scollamento fra insegnamenti di base e insegnamenti clinici, contribuiscano ad una scarsa efficienza sia del SSN che dell’università. Facendo questa analisi Crepaldi rilevava che la riforma sanitaria potesse rappresentare un momento di rivitalizzazione dei due sistemi (sanitario e universitario) e che la facoltà di medicina potesse rappresentare un elemento di traino per tutto il complesso universitario verso una più fattiva integrazione Università-Società. In questa ottica egli si dichiarava fermamente convinto che la Facoltà Medica dovesse rimanere agganciata all’Accademia e non essere scorporata per diventare la sezione didattica della sanità come già allora qualcuno sosteneva. Purtroppo l’ottimismo iniziale cominciò ad essere frustrato dalla evoluzione degli eventi che facevano già presagire come a livello politico non ci fosse alcuna volontà di integrare la facoltà di medicina nel SSN preservandone le peculiarità di struttura di ricerca e didattica, ma si tendeva a “ospedalizzare” la facoltà attribuendo ai docenti carichi assistenziali talmente gravosi da rendere molto difficile lo svolgimento delle funzioni istituzionali, con la giustificazione che per il lavoro assistenziale il SSN contribuiva alla remunerazione dei docenti. Questi concetti furono ribaditi in un convegno che lo stesso Crepaldi organizzò nel marzo del 1977 ad Abano Terme e sono ripresi nella relazione del prof. Franco Cresci, successo a Crepaldi nella presidenza della commissione, al congresso nazionale del CNU del 1977 che si tenne a Taormina. Franco Cresci ha guidato la Commissione Medicina del CNU per quasi dieci anni ed ha dato un contributo fondamentale alla elaborazione delle politica del CNU nel campo medico. Nella sua prima relazione congressuale egli riprende i concetti espressi da Crepaldi e allarga la visuale facendo una ampia e dettagliata analisi dei problemi didattici della medicina universitaria. Egli mette in risalto sia la necessità di una riforma degli ordinamenti didattici parallela e concorde con la riforma sanitaria sia la necessità del superamento del distacco fra Facoltà medica e Società sia, infine, l’esigenza di mantenere la facoltà medica nell’ambito dell’accademia rigettando ogni idea di scorporo che con maggiore veemenza veniva prospettata come possibile soluzione della divaricazione fra Università e Sanità. Due anni più tardi, nel congresso tenutosi a Tirrenia, Cresci riprendeva i temi di cui sopra e li inquadrava nel contesto dell’avvenuta approvazione della riforma sanitaria con l’istituzione formale del nuovo SSN. Egli delineava il ruolo che la facoltà medica doveva ritagliarsi in questa nuova realtà e prospettava l’opportunità di un collegamento operativo con le organizzazioni rappresentative dei medici ospedalieri (ANAO). Inoltre Cresci proponeva che il CNU si facesse parte attiva nel proporre iniziative che favorissero l’internazionalizzazione della formazione medica soprattutto con riguardo alla comunità europea. Infine affrontava il tema delle scuole di specializzazione contestando l’ipotesi di “scuole ospedaliere” prospettata dall’ANAO e asserendo la necessità di definire criteri oggettivi per una fattiva collaborazione fra Università e enti ospedalieri nella formazione post-laurea, tenendo ben fermo il concetto che si tratta comunque di “formazione” e quindi di attività “universitaria”. Questi concetti furono ribaditi nel congresso di Fiuggi del 1981 nel corso del quale Cresci si confrontava con i problemi che emergevano dalla riforma dell’Università che La Commissione Medicina del CNU 303 nel frattempo aveva visto la luce (DPR 382/80). Egli metteva in rilievo come nell’ambito dell’insegnamento della medicina (soprattutto) clinica fosse necessario definire i parametri che permettessero la efficace coesistenza della nuova figura del professore associato con quella del professore ordinario facendo sì che al primo fossero resi disponibili tutti gli strumenti didattico-assistenziali necessari al suo lavoro. Egli sottolineava la necessità della istituzione dei dipartimenti universitari che favorissero il lavoro, didattico e di ricerca, coordinato delle due figure di docente e metteva in guardia contro il sorgere dei dipartimenti ospedalieri o misti che avrebbero potuto mettere in difficoltà la realizzazione dei compiti istituzionali dei docenti. Infine affrontava il tema della coesistenza delle strutture universitarie con gli “istituti di ricerca e cura a carattere scientifico” introdotti dalla riforma sanitaria. In questa circostanza Cresci affronta anche il problema della remunerazione dei medici universitari ponendo la questione della necessità del superamento del criterio di equiparazione stipendiale fra figure ospedaliere e figure universitarie, la cosiddetta “Legge De Maria”1, e chiedendo che venissero identificati criteri diversi per definire il valore stipendiale del lavoro assistenziale dei medici universitari. Nel congresso CNU del 1984 (Roma) Cresci rileva le difficoltà che impedivano la realizzazione dei progetti elaborati dal CNU e richiamava l’attenzione sulla necessità della riforma dei programmi degli studi medici avanzando una serie di proposte organiche che sono dettagliatamente esposte nella relazione. Egli metteva in evidenza come la mancanza di una radicale riforma del curriculum formativo del medico potesse rendere inani sia la riforma sanitaria che quella universitaria. Nella lunga e articolata disamina che Cresci presentava al congresso troviamo alcuni punti essenziali e attuali: la mancata realizzazione delle strutture dipartimentali prevista dalla legge 382/80 con la conseguente minaccia che le strutture universitarie venissero assorbite in dipartimenti ospedalieri, formulati con finalità diverse da quelle di organizzazioni dedicate alla ricerca biomedica; la necessità di superare il concetto di “policlinico autonomo” in considerazione sia della non brillante esperienza di quelli esistenti sia del fatto che la riforma sanitaria aveva già minato alla radice economica la loro autonomia; la necessità di preservare la specificità della ricerca biomedica facendone afferire la responsabilità piena al ministero della ricerca scientifica. La presidenza della Commissione Medicina passava quindi al prof. Tallarida che nel 1986 presentava al congresso CNU una relazione in cui vengono ripresi i concetti espressi in precedenza e viene discusso con particolare evidenza il problema della ricerca biomedica che risultava carente sia di risorse finanziarie che di risorse umane. Tallarida sottolineava la frammentazione del controllo della ricerca biomedica fra ministeri ed enti diversi e auspicava la creazione di un unico centro direzionale che potesse coordinare in maniera organica il settore, inoltre introduceva il concetto della necessità di un meccanismo di valutazione che permettesse di attribuire le risorse esistenti sulla base di dati obbiettivi e documentati. Tallarida riprendeva questi concetti nel 1988 sottolineando la scarsa applicazione della riforma universitaria e ribadendo la necessità di un piano di rilancio della istitu1 DPR 791/1979 e Legge 200/1974. 304 Contributi monografici zione universitaria. Egli metteva in luce le difficoltà della ricerca biomedica, schiacciata fra ospedalizzazione delle strutture universitarie e rigida gerarchizzazione del personale universitario, e proponeva che il CNU si facesse propositivo di queste esigenze. Purtroppo una grave malattia ci privava dell’intelligenza e della forza propositiva di Pino Tallarida. La Commissione tornava sotto il controllo di Franco Cresci che nel 1991 affermava che “le problematiche emergenti nel nostro settore sono sempre le stesse”. Egli faceva una accurata analisi delle motivazioni di questo fatto e, per la prima volta, metteva in evidenza il difficile rapporto della facoltà medica con le altre Facoltà sottolineando il fatto che alcuni docenti “illustri” di altre facoltà su organi di stampa proponessero lo scorporo della Medicina Universitaria. Angelo Gatta, subentrato a Cresci nel 1993, testimonia che l’affermazione di Cresci relativa alla persistenza dei soliti problemi è reale e concreta, infatti la sua relazione congressuale li riesamina dettagliatamente e ripropone le tesi che il CNU ha elaborato nel tempo. Tuttavia Gatta introduce un altro tassello nella storia. Infatti egli fa rilevare che le strutture universitarie si sono abbondantemente “ospedalizzate” e che negli ospedali in cui afferiscono le Facoltà Mediche si è creato uno stato di confusione che non permette di riconoscere le peculiarità e le specificità del lavoro universitario. Alla presidenza Gatta è seguita quella Indiveri. Riporterò quindi con più dettaglio gli eventi che hanno coinvolto la Commissione di qui in avanti. La legge di riforma “Bindi” La Commissione a partire dal 1999 ha dovuto confrontarsi con le innovazioni della legislazione sanitaria introdotte dall’allora Ministro Bindi. L’iniziativa del legislatore partiva dalla constatazione che la legislazione vigente (L. 833/78) non aveva raggiunto gli obbiettivi previsti per cui si poneva la necessità di una riforma radicale del sistema. Nel disegnare il nuovo progetto di Sanità il Ministro introduceva molti elementi che regolamentavano le attività delle strutture universitarie operanti nel SSN e incidevano in maniera sostanziale sulle funzioni dei docenti medici. Le motivazioni da cui si muoveva il ministro includevano le anomalie gestionali dei policlinici universitari a gestione autonoma che spesso non brillavano per correttezza amministrativa la quale, altrettanto spesso, era improntata più al rispetto di esigenze “baronali” e di singoli soggetti che a quelle di una costruttiva e oculata gestione sanitaria. L’esempio più eclatante di questa anomalia veniva indicato nel Policlinico “Umberto 1°” di Roma dove era stata creata una miriade di funzioni dirigenziali mediche che, a parere del Ministro, non rispondevano ad esigenze assistenziali e/o scientifiche. In sostanza la riforma incardinava le strutture universitarie stabilmente e strutturalmente sotto il controllo della direzione delle nuove “Aziende Sanitarie” e toglieva alle Università e alle Facoltà Mediche ogni capacità di incidere sulla programmazione e sulla gestione delle strutture assistenziali. A questa regola facevano eccezione i policlinici a gestione autonoma che venivano trasformati in aziende ma mantenevano la propria configurazione “universitaria” e addirittura si prevedeva un periodo di speri- La Commissione Medicina del CNU 305 mentazione che avrebbe permesso di valutare se fosse più proficuo organizzare aziende miste o aziende universitarie. Inoltre la proposta di legge prevedeva l’abolizione della equiparazione retributiva fra medici del SSN e medici universitari introducendo il concetto che ai medici universitari andasse riconosciuto un trattamento economico aggiuntivo a quello universitario, basato sulle funzioni assistenziali realmente svolte. Questa legge veniva vista dal contesto universitario come un affronto agli interessi dell’università e come un’ingerenza impropria del Ministero della Sanità nelle prerogative specifiche di quello dell’Università. Il CNU si attivò cercando di far giungere ai ministri competenti l’opinione e le richieste dei medici universitari. Questa attività si articolò su petizioni scritte e su incontri diretti con i ministri in questione. Il ministro della sanità ci ascoltò e introdusse nel DDL il disposto per cui nelle aziende miste il direttore generale (DG) dovesse essere affiancato da un comitato esecutivo di cui dovesse essere parte essenziale il preside della Facoltà Medica mentre non accolse la richiesta che la nomina del DG dovesse essere concordata con il rettore dell’ateneo e che lo stesso rettore potesse avere diritto di revoca sullo stesso DG nel caso che la gestione dell’azienda non rispettasse le esigenze funzionali dell’università anche se il rispetto di tali esigenze veniva esplicitamente richiamato nel DdL. L’allora ministro dell’università si mostrò abbastanza attento alle proposte e alle osservazioni da noi avanzate, tuttavia ci fece notare come la sua possibilità di intervento fosse piuttosto limitata soprattutto in relazione al fatto che la legge in discussione riguardava il riordino del SSN e solo marginalmente l’università e che, pertanto, anche il suo ruolo risultava poco incisivo. Limiti applicativi della riforma sanitaria Alla fine la legge fu approvata (DL 229/99) e le strutture cliniche universitarie si trovarono coinvolte nel processo di applicazione senza alcun paracadute che ne garantisse un inserimento razionale. Gli elementi critici che emersero immediatamente si possono così riassumere: a) La riforma dell’articolo 5° della costituzione dava ampia autonomia alle Regioni sulla gestione della sanità pubblica sicché molte regioni ritennero di applicare la legge di riforma adattandola alle proprie esigenze, in particolare non fu realizzato in tutte le sedi l’assetto organizzativo che prevedeva l’affiancamento del DG con un organismo includente il preside della facoltà, il che lasciava la gestione e l’organizzazione delle attività assistenziali universitarie nelle mani della dirigenza ospedaliera che poco o niente era (ed è) interessata a considerare sullo stesso piano l’organizzazione della ricerca e della didattica. b) I protocolli di intesa fra SSN e atenei risultarono molto disomogenei fra regione e regione e, come nel caso della Toscana, fra atenei della stessa regione con la conseguenza che il lavoro del docente medico sottostava a regole diverse a seconda dell’ateneo di appartenenza. 306 Contributi monografici c) Il trattamento economico dei medici universitari soffriva della stessa disomogeneità di applicazione della legge di riforma sicché si ebbe che in alcune sedi fu conferito un’integrazione stipendiale corrispondente a quasi l’intero stipendio ospedaliero e in altre fu mantenuto il criterio “De Maria” vigente prima della emanazione della riforma. Questo fatto diede l’avvio ad una serie di ricorsi a vari tribunali amministrativi regionali che nella maggior parte diedero ragione ai ricorrenti obbligando le relative amministrazioni a rivedere i criteri di calcolo del trattamento integrativo. Tuttavia, stante la scarsa precisione delle indicazioni contenute nella legge di riforma, il problema rimane ancor oggi aperto e ricorsi sono ancora pendenti presso alcuni TAR. d) Il riferimento costante della legge di riforma del SSN era il contratto nazionale del personale dello stesso e prevedeva che nell’applicazione della riforma avessero un ruolo determinante le rappresentanze sindacali dei soggetti contrattualizzati. I docenti universitari, notoriamente, non sono contrattualizzati pertanto vennero a trovarsi nella condizione di dover osservare regole relative ad un contratto sindacale che non faceva riferimento al lavoro per cui erano stati assunti e sulla cui applicazione non avevano alcun modo di intervenire. Facendo leva su queste considerazioni la grande maggioranza delle amministrazioni ospedaliere rifiutava qualsiasi confronto con i rappresentanti dei docenti universitari che, tuttavia, utilizzavano nella gestione del lavoro assistenziale tenendo conto esclusivamente delle esigenze ospedaliere. e) Il proposito di procedere ad una valutazione dei due modelli organizzativi (l’azienda mista ospedale/università e quella fondata sul modello dei policlinici autonomi) non venne rispettato e nessuna scelta venne fatta sicché ancora oggi sono operativi i due modelli organizzativi. Medicina universitaria e Università Il CNU, attraverso la sua commissione nazionale (CNMED-CNU), cercò di sollevare le questioni sovraesposte presso la CRUI ed i singoli Rettori, ma anche qui si trovò di fronte ad un muro di gomma. Ogni interlocutore diceva di condividere le osservazioni e le preoccupazioni proposte ma nei fatti ciascun ateneo rimaneva quasi inerte nei confronti della rispettiva amministrazione regionale con cui aveva (ed ha) da trattare una serie di questioni di fronte alle quali i problemi della facoltà medica diventano meno cogenti. D’altro canto la progressiva restrizione del finanziamento statale all’università rendeva più aspra la competizione fra le diverse facoltà all’interno degli atenei e poneva la Facoltà di Medicina nella condizione del “fratello oneroso” per il quale sembrava più facile scaricare il costo delle esigenze sul partner sanitario. Il risultato di questo stato di cose è quello di una Facoltà Medica impoverita nelle risorse umane, messa nella quasi impossibilità di perseguire le finalità istituzionali della ricerca e didattica, resa succube del SSN e incapace di essere il modello di una sanità moderna fondata sulla cultura biomedica. La Commissione Medicina del CNU 307 La CNMED-CNU e le altre organizzazioni rappresentative della docenza universitaria Nell’affrontare i problemi del rapporto con il SSN la Commissione Medicina si rese conto che la frammentazione della rappresentanza dei docenti universitari costituiva un elemento di debolezza che contribuiva a rendere ancora meno efficace la sua attività come quella delle altre organizzazioni. Questa considerazione suggerì l’opportunità di mantenere in vita, per la parte medica, un tentativo di coordinamento fra CNU, CIPUR e USPUR che era stato esperito con scarsa fortuna a livello delle associazioni fondamentali. Si diede vita quindi ad un organismo che fu denominato “UNIMED” (Pisa 20/5/2002). UNIMED (università medicina) fu concepita come una struttura rappresentativa e di coordinamento in cui far convergere i docenti delle Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane soci di una delle sigle delle Associazioni CIPUR, CNU, USPUR. Essa si costituiva, pertanto, come un’articolazione funzionale delle organizzazioni da cui era generata, con lo scopo di svolgere funzioni consultive, istruttorie, e se del caso operative, su problemi organizzativi, sindacali e culturali della medicina universitaria in un contesto indipendente da qualunque potere o movimento ideologico e politico. Essa si proponeva per finalità principali: A)di rappresentare la sintesi delle piattaforme programmatiche realizzate autonomamente dai direttivi delle varie sigle sul tema della medicina universitaria; B)di trovare una piattaforma condivisa sulla base della quale realizzare un’azione sindacale rappresentativa più forte e incisiva a livello nazionale, parlamentare e ministeriale, potendosi avvalere di volta in volta della condivisione e del sostegno di altre associazioni e sigle rappresentative; C)di realizzare un’informazione tempestiva, con ogni mezzo a disposizione, rivolta sia a tutti i docenti universitari delle Facoltà di Medicina e Chirurgia sia nei riguardi dell’opinione pubblica; D) di disporre di migliori capacità di comunicare, in forma univoca, con opinione pubblica e mass media. UNIMED si dava una strutturazione organizzativa costituita da: Presidente: eletto a maggioranza tra i membri della giunta cercando di rispettare un criterio di rotazione fra i rappresentanti delle tre organizzazioni fondatrici. Giunta: formata di diritto dai delegati nazionali per il settore della Medicina di CIPUR, USPUR e CNU e, pariteticamente, da tre docenti universitari di medicina, iscritti ad una delle tre sigle, proposti e nominati dal Presidente, previa accettazione da parte della Giunta, che, inoltre, potrà cooptare altri (fino a tre) docenti universitari di medicina, iscritti ad una delle tre sigle, tra coloro che abbiano contribuito in modo significativo con qualche iniziativa e documentato impegno agli scopi dell’associazione. I principali organizzatori di UNIMED sono stati Francesco Indiveri (CNU), che assunse la presidenza, e Clemente Crisci (CIPUR), che assunse la vice-presidenza. La Giunta di UNIMED elaborò alcune proposte relative alla applicazione della legge di riforma della Sanità in difesa degli interessi universitari e si correlò con la 308 Contributi monografici presidenza della CRUI nel tentativo di dar forza alla sua azione. Fra gli elementi fondamentali delle proposte in questione fu elaborato un documento che suggeriva la strutturazione di dipartimenti assistenziali che prevedessero l’abolizione delle unità operative (semplici o complesse) con la organizzazione di ampie aree assistenziali tematiche (Medicina, Chirurgia, ecc.) in cui i singoli docenti avrebbero potuto avere accesso ai letti di degenza in funzione della propria specialità e competenza, le funzioni direttive (dirigenza di 2° livello) si suggeriva che fossero assegnate facendo ricorso al “programma” previsto dalla legge di riforma. Per far fronte alle esigenze di legge nei confronti del SSN si proponeva che fra i docenti abilitati ad assumere funzioni di dirigenza sanitaria si studiasse un sistema di rotazione annuale per cui a turno uno di essi svolgesse la funzione di Direttore sanitario dell’area dipartimentale. Questa organizzazione avrebbe permesso di mettere lo studente (ed il paziente) al centro di un contesto multidisciplinare e di superare la situazione vigente in cui (soprattutto nelle materie generaliste) unità operative fornite di pochi letti propongono allo studente casistiche specialistiche e uniformi impedendo un apprendimento ampio ed articolato. Questo tentativo di proposta generò una ampia ed accanita discussione e fece emergere la divergenza di punti di vista fra le singole componenti di UNIMED, in particolare i rappresentanti di USPUR non ritennero di poter accettare la previsione che in una organizzazione dipartimentale i ricercatori universitari potessero avere accesso autonomo alle risorse assistenziali e su questa base decise di rimanere in UNIMED con una posizione più defilata rispetto a CIPUR e CNU. La proposta fu quindi accantonata e si incrementarono i contatti con la CRUI nel tentativo di elaborare con questa organizzazione una piattaforma che permettesse di elaborare una strategia di approccio alla legge di riforma sanitaria uniforme fra i diversi atenei e il più possibile rispettosa delle esigenze universitarie. A questo scopo fu organizzata una conferenza nazionale che si tenne presso il Policlinico Umberto 1° di Roma con la partecipazione dell’allora presidente della CRUI Prof. Tosi. La conferenza fu caratterizzata da una polemica virulenta innescata dai rappresentanti del Policlinico i quali contestavano la legge di riforma nella sua globalità e accusavano la CRUI, e UNIMED, di “connivenza con il nemico” ritenendo che il modello organizzativo del Policlinico stesso non dovesse essere posto in discussione e che le rappresentanze dell’Università (CRUI e Associazioni della docenza) dovessero difenderne la sopravvivenza. Il risultato di questo evento fu che i rapporti con CRUI si raffreddassero e lentamente si esaurissero. Allo scadere dei primi tre anni di vita di UNIMED si poneva il problema del rinnovo della presidenza e sembrava naturale che ci fosse una rotazione fra CNU e CIPUR. Si aspettava che il consiglio nazionale di questa ultima associazione confermasse Crisci quale responsabile di Medicina quando, inaspettatamente, Crisci fu sollevato dall’incarico e sostituito da un altro collega che avanzò la richiesta di ottenere la presidenza di UNIMED per il criterio della rotazione, criterio che non era accettato dalla giunta in quanto non ritenuto determinante. Si creò quindi una situazione di stallo La Commissione Medicina del CNU 309 che durò più un anno nel corso del quale ognuna delle associazioni assunse iniziative autonome finché non si decise di dare la presidenza al nuovo rappresentante CIPUR. Tuttavia la spinta iniziale di UNIMED si era esaurita ed, in pratica, la sua attività cessò di essere visibile. Esaurito il tentativo UNIMED la Commissione Medicina riprese autonomamente ad occuparsi del problema dei rapporti con il SSN. Fra le iniziative più significative vanno ricordati: 1) Una tavola rotonda tenutasi a Siena nel corso del congresso nazionale del 2006 a cui parteciparono, fra gli altri, il presidente del collegio dei professori di Medicina Interna, il Rettore dell’Università di Genova e il vice presidente dell’ANAO e si prospettò la possibilità di proporre l’istituzione di ospedali dedicati all’insegnamento e alla ricerca trovando il consenso del rappresentante dei medici ospedalieri; e 2) un incontro organizzato da Renzo Carretta a Trieste che per la prima volta permise di mettere a confronto le Autorità sanitarie regionali con gli esponenti universitari; la discussione fu esaustiva ma poco conclusiva, ricordo che quando sollevai la questione dell’accesso ai finanziamenti per la ricerca del ministero della Salute, che sono preclusi alle strutture universitarie, mi trovai di fronte ad un silenzio imbarazzato e non ottenni risposte. Al momento la commissione è presieduta da Vincenzo Violi che ha organizzato nel giugno scorso a Parma un seminario sulla medicina universitaria ed avviato una ampia discussione su una proposta di protocollo di convenzione elaborato dalla CRUI, proposta che potrebbe aprire la docenza al personale ospedaliero nell’ottica della costituzione dei così detti “ospedali per la ricerca e l’insegnamento”. La discussione è in corso e all’interno della commissione si registrano posizioni diverse e a volte contrastanti. Il precariato e l’adesione al CNU. La Commissione Ricercatori Margherita Chang Un giorno di tanti anni fa ero precaria nell’Università di Pavia e con altre colleghe stavamo passando nella sede centrale dell’Università quando ci accorgemmo che nell’Aula Volta c’era un’assemblea di precari. Ci siamo guardate e siamo entrate. Alla presidenza c’era un giovane allampanato dall’accento meridionale. Le sue proposte erano buone, ma mancava di energia e di decisione. Chiesi la parola e dissi come a mio avviso bisognasse operare. Di botto mi trovai alla presidenza dell’assemblea e ci rimasi anni e anni. La quasi totalità dei miei colleghi era iscritta alla CGIL, mentre io non avevo la benché minima idea in merito. Un giorno venne a una delle nostre assemblee un professore incaricato di geologia (Roberto Rossetti di Pavia) e buttò lì alcune idee che mi sembrarono veramente sensate: era del CNU. In breve mi trovai nella mia prima assemblea delle sedi del CNU dove trovai un sacco di persone intelligenti, dinamiche e vigorose: non era certo gente che aveva intenzione di starsene con le mani conserte e subire le imposizioni del Ministero dell’allora Pubblica Istruzione. Decisi che mi piaceva far parte di questo gruppo di persone e lottare con loro per l’affermazione dei nostri ideali. Alla presidenza del CNU nazionale troneggiava ai tempi il patavino Leontino Battistin. Più volte mi ripetevo a quei tempi Leontino significa piccolo leone, abbiamo come capo il re della foresta anche se “ino”. A Pavia poi, la mia sede, trovai alla presidenza del CNU una persona di acuta intelligenza e profonda cultura: Piero Milani con il quale si venne subito a instaurare un rapporto di reciproco rispetto e di non ingerenza negli ambiti di influenza rispettivi. Un altro incontro chiave fu con alcuni colleghi di Medicina della sede di Pavia tra cui Gaetano Filice, Jorge Salerno e Gianpiero Carosi che costituivano un gruppo di alto profilo scientifico e forte consapevolezza collettiva con i quali ebbi modo di collaborare veramente per portare avanti gli obiettivi comuni. Ricordo anche con rimpianto Giuliano Gasperi di Scienze naturali e Gianni D’Agostino di Farmacia, oltre che la fattiva Cesi Gregotti. Sul fronte nazionale, la figura di spicco e di riferimento per me fu Paolo Blasi, un vero innovatore pieno di nuove idee trascinanti e di grande entusiasmo. Sovrastante era il nostro grande presidente nazionale Ciccio Faranda (subentrato a Battistin nel 1979, ndr) che aveva il carisma e la capacità di aggregazione necessari al CNU in quei momenti in cui si decideva il destino dell’Università italiana dopo l’abolizione del ruolo dell’assistente. Il CNU aveva la peculiarità del confronto delle idee “tra pari”, indipendentemente dalla posizione ricoperta. Mai una volta ho sentito sottovalutare 312 Contributi monografici o snobbare una problematica da chiunque espressa. Tuttavia esistevano anche momenti di convivialità in cui si aveva modo di conoscere umanamente gli altri. Tra i rappresentanti di sede mi ricordo in particolare alcuni amici già purtroppo scomparsi come Corrado Scaravelli di Parma, Giovanni Grittani di Bari, Silvano Bordi di Firenze con cui avevo molto legato. Ancora ricordo l’aiuto datomi da queste sedi, oltre che da Pavia, nel momento delle votazioni interne per il direttivo nazionale e ringrazio ancora Corrado Balacco di Bari per la pronta disponibilità nel conferirmi la fiducia della sede di Bari, che mi permise di essere nominata responsabile nazionale della Commissione Reclutamento (poi Commissione Ricercatori, ndr) del CNU. Tra le persone che apprezzavo molto c’erano Paolo Gianni della sede pisana e Alberto Pagliarini di Bari, creatore di un famoso Blog molto gettonato anche ora, per la competenza nella creazione delle tabelle stipendiali e nel suggerire raffinate soluzioni per le rivendicazioni salariali e per le innovazioni normative. Mi rimase impresso il fatto che fossimo “agganciati” agli Ambasciatori e ai Giudici, ma ahimè l’illusione durò poco e ci sganciarono. Per loro, i professori universitari erano troppi e ingombranti: o loro sganciavano noi o sganciavano loro dalla dirigenza. Non servì a nulla il tentativo di tutti di “saltare sulla dirigenza”. Tra i colleghi precari mi sono stati di grande aiuto Nicola Surico e Giorgio Gagna di Torino, Roberto Gentili, Dino Aquaro, Alessandro Distante di Pisa (e tanti altri pisani nella cui sede spesso si tenevano le nostre assemblee), Pasquale Novak di Messina, Nicola Sicolo di Padova. L’esperienza del CUN Dopo essere stata eletta come rappresentante dei ricercatori per 2 volte nel Consiglio di amministrazione dell’Università di Pavia, compito assai arduo vista la presenza di contendenti della CGIL molto agguerriti, si poneva nel 1980 il problema dell’elezione dei rappresentanti dei ricercatori al CUN. A livello nazionale i ricercatori del CNU non erano certo la maggioranza: c’erano la CGIL e la CISL che facevano man bassa, oltre che l’Assemblea dei ricercatori di Nunzio Miraglia. Già da subito l’obiettivo appariva pressoché impossibile pur avendo alle spalle una sede forte, sia come CNU sia come miei sostenitori: Pavia. L’idea nacque e si sviluppò soprattutto con il sostegno di Medicina e del gruppo della Clinica delle Malattie infettive del Prof. Rondanelli, allora Presidente dell’Istituto di ricovero e cura San Matteo di Pavia. La persona che più si prese a cuore la questione fu Gianpiero Carosi che mi aiutò nel finanziamento delle spese così come il Presidente del CNU Milani. Contattai quasi tutti i Presidenti e amici del CNU. Ricordo in particolare, ma gli altri non se ne abbiano a male, il purtroppo già scomparso Maggioni di Padova. Iniziai un tour in molte sedi italiane dove i miei colleghi ricercatori del CNU, o anche quelli senza etichetta, mi organizzavano le assemblee. Mi ricordo in particolare quella di Milano Politecnico ove affluirono anche i colleghi di Agraria, poi Napoli II Policlinico. Mi muovevo seguendo gli itinerari delle sedi in cui il CNU esisteva, in particolare le sedi di Medicina. Un episodio mi è rimasto impresso: a Bologna i medici mi avevano organizzato La Commissione Ricercatori 313 un’assemblea. Lì ebbi modo di incontrare De Castro che mi disse di avere un fratello della mia disciplina (Economia Agraria ed Estimo) ad Agraria e di andare a trovarlo a nome suo. Era colui che poi sarebbe diventato Ministro dell’Agricoltura e ora Presidente della Commissione agricoltura dell’UE. Devo dire che mi ha accolto molto bene, dimostrando già d’allora una attitudine politica. Un grande supporto morale me lo diede anche il compianto Prof. Alessandro Castellani (biochimico) che poi aiutai a diventare Rettore dell’Università di Pavia. A un certo momento, venne fuori che le preferenze da manifestare sulla scheda delle elezioni del CUN sarebbero state due. Mi caddero le braccia. Significava mettere tutti i posti in mano ai Sindacati confederali! Recuperai un regolamento e scrissi a Roma un telegramma dicendo che a norma di regolamento la preferenza da esprimere doveva essere di un solo nome. Per fortuna, il Ministero provvide e sistemare la cosa e io potei proseguire nella mia campagna elettorale. Mi sembrava di essere una di quelle cantanti pop che passano da una serata all’altra e devono dare il massimo perché gli spettatori pagano un biglietto. Nel caso mio, era ancora peggio: dovevo conquistare la fiducia degli spettatori, che però erano tutt’altro che silenziosi, ma il biglietto lo avrebbero onorato in seguito. Dopo il faticoso tour in treno – io non avevo né il pullman né il camper – e i concitati giorni delle votazioni, venne il giorno dello spoglio. Mi ricordo di aver fissato una stanza in un hotel vicino a via Barberini. Caso volle che un collega ricercatore mi riconoscesse. Non mi ricordo più il nome, mi disse che era di Messina e che anche lui era candidato e che si trovava a Roma proprio per assistere personalmente allo spoglio. Decidemmo di cenare assieme sulla terrazza all’aperto di un ristorante in zona e durante la cena ci confidammo i reciproci timori e speranze. L’indomani ci recammo assieme al Ministero in Viale Trastevere per lo spoglio. Chi pilotava lo spoglio era Fabio Matarazzo molto vicino al CNU. Incominciarono a portare una serie di scatoloni e, via via che i voti venivano letti, io e il mio occasionale compagno risultavamo tra gli ultimi. Mal comune e mezzo gaudio non mi confortava affatto anche se l’altro era piazzato molto peggio di me. Chiesi in giro in che ordine venivano spogliate le schede: qualcuno diceva per sede, altri rispondevano che non lo sapevano. La cosa non mi tornava perché se avessero spogliato Pavia, io avrei dovuto avere un bel pool di voti. Stavo perdendo ogni speranza quando entrarono nuovi scatoloni e incominciò una sequela continua di Chang, Chang, Chang … Che succede? chiesi, chi state spogliando? Mi fu risposto: Medicina! Allora capii che gli sforzi miei e dei colleghi non erano stati vani in quella direzione e che l’aiuto dei responsabili locali della Commissione di Medicina del CNU era stato forte. Mi sovvennero alla mente Cresci (FI), Balacco(BA), Mignani (BO), Indiveri (GE), Sapigni (FE) etc che tanto mi aiutarono. Fui eletta al CUN, cosa che il CNU riteneva fortemente improbabile, come rappresentante dei ricercatori. Quando arrivai alla sede del CNU di via Palestro, sentii che nello studio in fondo qualcuno parlava. Era il nostro grande, in tutti i sensi, Presidente Francesco Faranda detto Ciccio che mi abbracciò con grande calore e simpatia assieme a Paolo Pupillo (anch’egli neo eletto al CUN in rappresentanza degli incaricati stabilizzati). Tornata a Pavia i miei colleghi ricercatori vennero in massa a farmi i complimenti e anche chi incontravo nelle viuzze della città mi abbracciava con calore. Era come se fossero stati 314 Contributi monografici eletti tutti loro: sentivano che io lì avrei perseguito l’interesse collettivo dei ricercatori. Una constatazione mi sorge spontanea, la modernità dell’approccio del CNU alle questioni sindacali è di tipo interpersonale e ha anticipato pragmaticamente di 30 anni l’attuale potente sistema di comunicazione e di persuasione face-to-face propri dei social network. Per questo motivo ho voluto entrare nei dettagli della mia elezione al CUN in quanto essa è emblematica del modo moderno di procedere politicamente del CNU. Nel CUN, ebbi modo di conoscere svariate personalità di rilievo dell’epoca. Tra gli altri quello che mi è rimasto più impresso è stato l’allora Rettore di Padova Merigliano, un calabrese (io ho una predilezione per questo popolo generoso) con l’accento veneto. Anche Augusto Marinelli che poi divenne Rettore di Firenze era lì al CUN con l’allora Rettore Franco Scaramuzzi. Scoprii che Augusto, allora incaricato stabilizzato, era del mio raggruppamento, ma io non l’avevo mai visto prima anche perché conoscevo poco coloro che un domani sarebbero stati determinanti per la mia evoluzione scientifico-culturale. I lavori del CUN erano formati da pratiche alle quali si dovevano dare pareri, da mozioni (sulle quali mi impegnavo notevolmente) e da nomine, per es. quelle dei componenti delle Commissioni CUN 40%, in cui riuscii a inserire alcuni ricercatori scientificamente bravissimi di Medicina e a influire su altre nomine, munita degli appositi curricula. Fui inserita nel Comitato di Economia. Nei momenti di “morta” dell’attività CUN, giravo per i vari uffici anche per portare avanti pratiche in sospeso che mi arrivavano da tutta Italia. Ho avuto modo di conoscere personaggi che poi sarebbero divenuti di rilievo come Antonello Masia (poi Direttore Generale dell’Università). Mi ricordo che un giorno il Ministro Franca Falcucci telefonò a casa mia per parlare con me: io ovviamente a casa non c’ero mai. Fece felice mia mamma che spesso poi raccontava quell’episodio nelle riunioni con amici o parenti vantandosi di aver risposto lei e di avere detto alla Falcucci che io non c’ero, ma che lei mi avrebbe riferito tutto per filo e per segno. Infatti mia mamma mi faceva da segretaria e io al mio ritorno a casa trovavo l’elenco di coloro che mi avevano chiamato e la spiegazione di ciò che avevano detto. Qualcuno la scambiava per me al telefono e incominciava a raccontare… In verità avrebbe potuto rispondere anche lei, visto che sapeva tutto. Ho scoperto che alcune volte conosceva cose che io non sapevo. Al CUN il rapporto con gli altri rappresentanti dei ricercatori era limitato, tranne che con Miraglia il quale però ha sempre avuto un complesso di superiorità. Aveva l’abitudine di guardarti con cipiglio come se tu fossi sotto giudizio e lui diffidasse di te. Un’oratoria strascicata e analitica punteggiava i suoi interventi, ma la linea guida che li contrassegnava era il conseguimento dell’ope legis a professore per tutti i ricercatori meglio noto come todos caballeros. Gli vanno però riconosciuti la coerenza delle idee, la costanza e la determinazione nel perseguire i risultati. Le cause a favore dei contrattisti medici L’ammissione alla idoneità nazionale a professore associato dei tecnici laureati, con almeno tre anni di attività, aveva suscitato nei contrattisti dell’Università, che avevano La Commissione Ricercatori 315 alle spalle un più lungo precariato sancito dal riconoscimento della contingenza (l’indennità integrativa speciale IIS, ndr.) e dei contributi ENPDEP, la speranza di poter vedere riconosciuto il diritto a partecipare alle tornate idoneative di associato anziché di ricercatore. Nelle riunioni svolte nelle varie assemblee, affollate soprattutto di contrattisti medici, il diritto sembrava derivare da una norma della legge 580/73 secondo la quale la qualifica di contrattista poteva essere assunta anche dai tecnici laureati. Si dedusse quindi che se il tecnico laureato è un prerequisito per diventare contrattista, la qualifica di contrattista è superiore a quella di tecnico laureato. Su questa base giuridica, prendemmo contatto con alcuni avvocati che ci indicarono un giovane professionista avv.to Massimo Colarizi che aveva iniziato la propria attività presso il Tar del Lazio. Dall’incontro, non ne uscimmo molto bene, visto che l’avvocato giudicava la causa persa in partenza. Tuttavia si riservò di studiarla meglio visto che per la prima volta si affacciava al mondo universitario e doveva quindi approfondire alcune questioni di fondo. Alla fine ci disse che si poteva tentare. Da quel momento l’azione venne pubblicizzata e da tutte le università italiane arrivarono adesioni al ricorso non solo da parte dei contrattisti, ma anche da quella degli assegnisti. Vennero raccolte moltissime adesioni e cause autonome diverse da quella originaria furono iniziate davanti al TAR del Lazio. Nel frattempo erano incominciate le tornate di idoneità del DPR 382/80 e l’indicazione che demmo fu quella di chiedere la partecipazione sub condicione avendo in corso una causa al TAR. Mi ricordo che ero in quegli anni al Convegno europeo della nostra società scientifica quando fui avvicinata da un professore della Commissione nazionale che mi fece i complimenti per il superamento dell’idoneità a associato. Poiché ero al CUN indagai un po’ meglio e scoprii che la cosa era vera, ma che il MIUR aveva reinviato alla Commissione gli atti per togliermi dagli idonei, non essendo io tra le categorie ammesse. Nonostante le mie proteste, non potei fare nulla. L’idoneità mi avrebbe abbreviato la carriera di 6-7 anni perché il primo e più volte ritardato concorso nazionale a professore associato terminò nel 1986-87. Sul piano giuridico, la causa legale continuò e sancì il diritto dei soli contrattisti medici a partecipare alle tornate idoneative. Molti dei miei colleghi che avevano partecipato alla causa diventarono professori associati molto prima dei contrattisti delle altre aree scientifiche attraverso questa corsia preferenziale da me inventata, in quanto proprio io avevo trovato l’aggancio di cui sopra nella L. 580/73. Facemmo, mi ricordo, una grande festa a Padova dove fui invitata in pompa magna con l’avvocato Colarizi e mi diedero un dazebao che ancora conservo in cui io svolgo il ruolo della Santa che viene a salvare dall’alto quei poveri derelitti dei contrattisti medici. Il CNU nazionale non gradì molto questa mia azione, che invece avrebbe portato nelle file del CNU tanti di coloro che poi divennero professori associati (grazie all’idoneità) e poi ordinari di Medicina. Mi fu comunicato che nella riunione della Giunta a Roma o assemblea delle sedi avrebbero discusso la mia “destituzione” dalle cariche e chissà quali altri provvedimenti avrebbero preso nei miei confronti. Quello che mi parve strano era che si trattava della stessa Dirigenza composta da Ciccio Faranda, da Paolo Blasi e da Paolo Pupillo che tanto aveva gioito della mia elezione al CUN sotto l’etichetta CNU. Forse non si erano resi conto che tanti voti da Medicina non mi era- 316 Contributi monografici no arrivati a caso, ma proprio in virtù di dibattiti con i contrattisti e assegnisti medici fatti durante il periodo del precariato e tendenti a conseguire ciò che noi pensavamo fosse un nostro diritto. Del resto, la creazione del ruolo del ricercatore portata avanti dal CNU con la 382/80 aveva eclissato la vecchia ma più nobile idea del docente unico che ora viene ripresa. Perché mai mi chiedevo una organizzazione che ha sempre perorato il docente unico ora mi mette sotto inchiesta perché ho avviato una causa tendente a favorire l’attuazione di quel “sogno”?1 In quella occasione, mi venne veramente incontro il compianto Presidente del CNU di Pavia Piero Milani il quale era stato tra i principali sostenitori del docente unico durante la Presidenza Spini (come mi raccontano). Capendo la contraddizione ideologica che si era venuta a creare nel CNU, mi difese a spada tratta con argomentazioni incontrovertibili di stampo storicogiuridico com’era nella sua alta formazione. Di fronte a simili argomentazioni, mi ricordo che la bolla si dissolse in una goccia d’acqua e che tutto finì con una “raccomandazione” a informare la giunta delle mie iniziative che per la verità non erano solo mie e erano incominciate anni e anni prima proprio da parte di noi giovani attratti dall’idea del docente unico. Piero Milani in effetti era abbastanza scocciato di dover difendere me, visto che a Pavia esistevano due gestioni separate: quella dei precari (e poi dei ricercatori) e quella dei docenti. I primi riponevano massima fiducia in me e poca nel CNU (imperava prima del mio avvento tra i giovani la CGIL), mentre i secondi avevano massima fiducia nel CNU, vale a dire in Piero Milani, però guardavano con interesse questo fenomeno di crescente consenso dei giovani, che sarebbe divenuto altamente maggioritario, verso la responsabile dei precari e dei ricercatori nonché membro della Giunta pavese del CNU. Tra le mie “scoperte” tra i precari mi ricordo un assegnista: Giovanni Cordini; feci di tutto per convincerlo a aderire al CNU e il suo equilibrio è stato ampiamente apprezzato e ripagato. Grande soddisfazione la mia nell’apprendere che ora è un membro della Corte Costituzionale dello Stato di S. Marino, dopo essere stato Presidente Nazionale del CNU. 1 La iniziale contrarietà del CNU era motivata dal fatto che le sentenze dei TAR e quella della Corte mettevano su due piani diversi i contrattisti medici e quelli di tutte le altre facoltà, ndr. Parte III Il Cnu sul web Il sito Università e Ricerca del CINECA Manlio Fadda Chiunque “apra” la homepage del sito CNU “Università e Ricerca” (http://cnu. cineca.it) può osservare innanzitutto alcuni elementi importanti. In alto a sinistra la dicitura “Giornale del Comitato Nazionale Universitario fondato da Tristano Sapigni”. La frase “fondato da Tristano Sapigni” venne aggiunta da me come prima azione nell’estate del 2008, dopo la scomparsa di Tristano, quando mi venne affidata la responsabilità del sito da lui voluto, creato e realizzato con l’aiuto tecnico di Matteo Migliorini. Al centro subito sotto la testata il motto latino LEGES SINE MORIBUS VANAE che rappresenta un po’ la filosofia, il punto di vista da cui osservava il comportamento umano Tristano per quel poco che ho potuto conoscere di lui. Ed è un motto che non può non essere condivisibile in particolare se si seguono le cronache quotidiane della corruzione e dell’evasione fiscale del nostro Paese o si osservi il comportamento spicciolo della nostra società. Centralmente ancora ed in basso la data del giorno, quella di avvio del sito (Martedì 1 giugno 1999) ed un contatore dei visitatori del sito il cui numero oggi non è più visibile. Questo avviene perché il sito, che il 1 giugno 2014 ha compiuto 15 anni, e stato fermato. O, meglio, è stato fermato e trasferito su un’altra macchina in attesa di un necessario restyling ed aggiornamento della piattaforma software e del suo layout. Quanti contatti ha avuto il sito prima di essere arrestato? Nessuno forse oltre me ne può avere un’idea, neppure approssimativa. L’ultima lettura disponibile è del 20 maggio 2014: 1.503.560 visite. Alla data del 17 luglio 2008 poco dopo la morte di Tristano erano pari a 1.081.000. Cifre importanti per una comunità limitata come la nostra che danno anche la misura di quanto fosse più “produttiva” la gestione di Tristano rispetto alla mia che pure ho potuto usufruire di una diffusione di internet molto più vasta e capillare. Negli archivi del sito sono contenuti migliaia di documenti, tutti fruibili, che rappresentano la storia dell’università, del CNU, intersindacali, degli ultimi 15 anni e oltre. Dichiarazioni, documenti, proposte, dibattiti, norme, articoli di giornale, contributi individuali, ecc. Uno spaccato del dibattito, delle posizioni e contrapposizioni che si sono succedute, intrecciate, stratificate. E anche del livello di ideologizzazione che ha subito il tema dell’università nel decadere del dibattito politico nostrano. Ovviamente l’andamento del numero delle visite non è mai stato lineare, a seconda dei momenti potevano essere giornalmente pochissimi oppure, nelle fasi di crisi acuta, anche migliaia in un giorno. Cosa è stato il sito del CNU per chi lo ha seguito in questi anni? Sicuramente un organo del CNU che ne ha diffuso proposte ed iniziative ma non solo, e neanche principalmente. È stato fondamentalmente uno strumento di divulgazione e produ- 320 Il CNU sul web zione di informazioni sul tema dell’università e della società aperto innanzitutto alla comunità accademica, ma anche alla società nel suo complesso e perfino alla stampa che ha spesso usufruito del sito per indagare gli umori del mondo universitario non strettamente istituzionale. Ma è stato ugualmente un luogo di dibattito e informazioni di categoria, si pensi alla rubrica sindacale tenuta da Alberto Pagliarini o gli interventi e le “Notizie Sindacali” di Paolo Gianni, raccogliendo sempre i contributi da più parti anche esterne o distanti dal CNU. Nei momenti più “caldi”, in particolare durante quelli difficili delle proposte di legge, poi diventate tali, della Moratti prima e della Gelmini poi e di tante altre norme contingenti, è stato anche uno strumento al servizio della protesta contro gli aspetti più irrazionali, ideologici ed iniqui di tali manovre. Al centro però, come tradizione del CNU, la preminenza dell’istituzione universitaria al servizio del Paese. Non a caso è stata una tribuna importante, spesso citata in altre sedi, per dibattere i temi fondanti dell’università: il valore legale del titolo di studio, la salvaguardia della università pubblica, l’autonomia universitaria, la valutazione, la terza fascia, i concorsi, taglio degli stipendi e i ricorsi fino alla Corte Costituzionale, etc. È stato un sito del CNU o di Tristano Sapigni? A mio parere l’uno e l’altro. Tristano era del CNU e ne rappresentava compiutamente lo spirito preminente fin dalle sue origini, quello di voler essere aperti ed inclusivi, mai discriminando nessuna componente del mondo universitario, in una visione di eguale diritto e responsabilità nei confronti dell’istituzione, sempre disposti al confronto, anzi ricercandolo in ogni sede. Inoltre l’iniziativa partita da Tristano era stata condivisa in tutto il CNU a partire proprio dalle strutture di coordinamento nazionale. Ma Tristano ha saputo infondergli tutta la sua passione, forgiatasi in lunghi anni di attività sindacale quando fin dagli anni ’60 militava nell’UNAU (Unione Nazionale degli Assistenti Universitari) prima della nascita del CNU, con la sua particolare sensibilità. Certo condivideva proposte e posizioni del CNU, in fondo era negli organismi dirigenti, e si intende che il sito era anche organo e portavoce dell’associazione, come detto fin nella sua filosofia ispiratrice. Vi è stato un periodo Tristano ed uno post-Tristano? Certamente. Il sito CNU è stato inizialmente, insieme all’altra impresa avviata da Tristano, la lista di discussione UNILEX, un formidabile strumento di comunicazione e circolazione di idee ed informazioni tra gli atenei e tra i ricercatori/docenti quale mai era successo prima, con i giornali delle associazioni e dei sindacati che ormai divenivano obsoleti. La sua caratteristica principale è stata la politica di coinvolgimento attivo che ne risultava, in questo Tristano era una forza della natura sempre a ricercare cooperazioni, contributi mantenendo alto il livello qualitativo del sito, basti pensare a tutte le rubriche contemporaneamente aperte, compresa una ricca rassegna stampa estera. E la difficoltà di reperire informazioni e renderle disponibili quando le rassegne stampa e gli altri documenti ancora non erano online essendo agli albori del WEB in Italia. È stato talmente innovativo l’approccio di Tristano che ha messo in pratica quello che molto dopo altri avrebbero intrapreso a fare. E sempre, ricordo, evitare di sovraccaricare i documenti di tutto ciò che poteva appesantire i files data l’irrisoria ampiezza di banda allora disponibile. E il pubblico che seguiva il sito condivideva questo approccio e cooperava, segnalando spontaneamente questo o quell’articolo o informazione, Il sito Università e Ricerca del CINECA 321 fornendo contributi, analisi, proposte. In origine UNILEX era stata realizzata per iniziativa di Tristano, non come emanazione del CNU, ma con la nascita del sito web divenne, seppure mantenendo la propria autonomia, componente ed integrazione del “pacchetto” Sapigni: venivi raggiunto da UNILEX, approfondivi sul sito Università e Ricerca, discutevi e formulavi proposte nuovamente su UNILEX. Sempre la massima apertura, non è un caso che contribuisse alla gestione della mail list Claudio Della Volpe, non iscritto al CNU, che ancor oggi ne è il moderatore responsabile e ne garantisce autonomia e pluralismo. Se parte della forza propulsiva del sito, così dirompente al principio, si è attenuata già negli ultimi anni di Tristano, in parte per l’aggravarsi della sua condizione di salute e successivamente fino ad oggi, molto è dovuto alla sua scomparsa ma anche ad un progressivo deteriorarsi e sbiadirsi dell’immagine e del ruolo dell’università e dei suoi attori nell’immaginario del Paese e, conseguentemente, al declinare della passione e della speranza che ancora animavano quegli anni. Il dibattito langue, la situazione è sempre meno fluida, minori appaiono le prospettive. Questa un po’ la situazione da me ereditata nel 2008. Il congresso svolto quell’estate e la giunta mi affidarono la gestione del sito soprattutto perché ero in quel momento, appena entrato in giunta, quello con le maggiori competenze informatiche, da autodidatta ovviamente non rientrando l’informatica e la telematica nella mia formazione specifica. Un po’ di tempo per comprendere come funzionava la piattaforma ed ero “quasi” pronto. Quasi perché il confronto con Tristano mi preoccupava non poco. Tristano è diventato in ambito universitario un’icona dell’impegno e della apertura culturale, con un paragone un po’ irriverente direi una sorta di S. Francesco dell’Università. Chi ero io per sfidare l’immagine di un santo laico? Nessuno. Preso atto di questo ho cercato di gestire il sito seguendo le linee guida di Tristano, senza averne le capacità, ridimensionando in parte l’ampiezza dell’offerta per adattarla alle mie limitate disponibilità di tempo. Solo nelle fasi più gravi o in situazioni particolari ho profuso maggiore impegno. È il motivo per cui i contenuti del sito, così come ovviamente gli accessi, hanno subito un andamento ondulante. Nel frattempo oltretutto è cresciuta l’offerta informativa sull’università, mail lists di altre associazioni, siti e riviste si sono affacciati sulla ribalta della Rete, spesso di ottima qualità. Nondimeno la creatura di Tristano, seppure azzoppata dalla sua scomparsa, credo sia in grado di giocare ancora il suo ruolo di informazione, di approfondimento e conservarne lo spirito inclusivo. Tuttora, anche se meno in questa fase di stanca, continuo a ricevere suggerimenti su materiale da inserire e anche di apprezzamento per l’opera del sito CNU - Università e Ricerca. Probabilmente ho avuto in lascito da Tristano un patrimonio di credibilità ed attaccamento per il sito che va oltre i miei meriti. È bello sperare che l’attuale difficile momento per l’università sia solo un periodo di interludio buio verso un riaffermarsi delle ragioni e del suo ruolo. Sono questi i momenti nei quali è indispensabile mantenere agibili gli spazi di costruzione e proposta per poter cogliere l’onda di un’inversione di tendenza, quando la discesa non può proseguire oltre ed è necessario avviare un percorso di risalita il più veloce possibile ma anche lineare e corretto. Ogni strumento potenzialmente in grado di ridurre la durata di questo interludio e di contribuire allo sviluppo di una nuova Università pubblica più autonoma, responsabile, rispondente 322 Il CNU sul web alle esigenze del Paese deve essere mantenuto in essere e rafforzato. È un impegno per il CNU ma lo è anche per noi tutti che operiamo a diverso titolo negli atenei. Sono convinto che adempiremo a tale impegno. A breve si avvierà la rivisitazione del sito CNU, non sarà un semplice lifting, qualcuno concorderà qualche altro rimarrà deluso. Le cose cambiano, Tristano che era un innovatore son convinto ne sarebbe stato lieto, anzi avrebbe partecipato con entusiasmo. Sarà forse una creatura più modesta, almeno all’inizio, ma con le potenzialità di sviluppo che creatori e fruitori potranno farle dispiegare. Una cosa posso sicuramente garantire: non tradirà lo spirito di unitarietà e cooptazione di tutti nel processo di evoluzione dell’Università pubblica che Tristano ha saputo infondere nel sito originario. Ringraziamenti Cogliamo l’occasione per rivolgere i nostri più sentiti ringraziamenti ai responsabili del CINECA per aver accettato di ospitare sulla loro piattaforma, fin dall’ormai lontano 1995, il sito del CNU, e tutto l’archivio relativo, così permettendo alla nostra associazione di farsi conoscere ben oltre l’ambiente accademico. La lista di discussione UNILEX Claudio Della Volpe UNILEX esiste nella sua forma attuale dal 1995, quindi fra un pò compirà 20 anni; si tratta di una lista di discussione che è stata unica per molti anni nel limitato orizzonte italiano dell’Università, la prima lista di discussione, oggi ci appare quasi un nonnulla, quasi un di più, ma stiamo parlando di un luogo di discussione che non esisteva nel nostro paese fino ad allora. In realtà le origini di UNILEX si perdono nelle origini stesse della rete, era il tempo in cui non “Berta filava” ma Gopher, un programma che stava ai moderni browser tipo Firefox o Chrome come una utilitaria degli anni 50 sta ad una moderna berlina. La lista partì da subito su supporto professionale, il CINECA metteva infatti a disposizione questo servizio di posta elettronica già da allora. La lista fu il risultato del tentativo generoso soprattutto di Tristano Sapigni1, e di pochi altri, di iniziare ad usare i nuovi strumenti di comunicazione che la rete metteva a disposizione per affrontare le tematiche della riforma universitaria, una di quelle riforme pressoché continue che ha modificato negli ultimi 30 anni la forma, ma forse non la sostanza, dell’Università italiana spingendola sempre più verso un limbo in cui al vertiginoso ricambio di norme non ha corrisposto un altrettanto vigoroso cambiamento nei comportamenti degli attori, se non sulla base della forte di riduzione di risorse economiche. Nel corso degli anni il numero di iscritti è cresciuto dai poco più di 400 del 1995 agli oltre 1200 attuali; il numero di mail complessivo si è mantenuto, pur attraverso notevoli variazioni annue, elevato, ma con una tendenza alla riduzione, anche perché si sono sviluppati soprattutto negli ultimi 5 anni dei modi alternativi di comunicazione: Facebook soprattutto, e anche delle nuove organizzazioni “spontanee” di docenti che non sono in tutto paragonabili alle sigle sindacali ed alle loro organizzazioni, ma anzi ne sono relativamente lontane, riproducono più gli aspetti del “movimento” che quelli di un partito, di una organizzazione stabile. Nel corso degli anni UNILEX è stato e rimane un luogo di confronto al di sopra delle posizioni politiche, in cui una discussione a volte vivace a volte meno assicura comunque una perenne sorgente di informazioni al lettore ed uno stimolo critico nei confronti del mondo universitario. Tristano Sapigni ci aveva visto giusto. Dal grafico potete osservare che il picco del 2010, per esempio, ha coinciso con la legge 240/2010 che ha suscitato reazioni estremamente vivaci in tutta la platea universitaria ed ha trovato in UNILEX una cassa di risonanza. 1 Professore associato della Facoltà di Medicina dell’Università di Ferrara, ndr. 324 Il CNU sul web Fin dai primi anni la lista è stata caratterizzata dall’essere una lista libera, non moderata PRIMA dell’invio, ma con una serie di regole condivise, che ciascun iscritto accetta all’atto dell’iscrizione ed alla cui applicazione provvede un coordinatore (assistito all’uopo da un piccolo gruppo di iscritti scelti da Tristano), ma solo DOPO la pubblicazione dei testi, lasciando quindi agli iscritti la libertà di scrivere come vogliono. Questo ha comportato, solo in rari e provati casi di sostanziale boicottaggio del funzionamento, l’espulsione, ma in genere ci si è limitati a momentanee sospensioni. Il funzionamento di UNILEX incuriosì fin dal principio e fu oggetto di studio con una tesi di laurea (Valentina Saccoman, relatore Prof. M. Nicoletti, Università di Padova, A.A. 2001/2002) che ne analizzò il comportamento e i risultati. Nella tesi, intitolata “Mailing list e comunicazione politica” si sottolineava come la lista fosse in realtà una espressione politica vera e propria con tutti i problemi di partecipazione ed espressione tipici: per esempio la maggior parte delle persone non partecipa alla discussione in modo attivo, su migliaia di iscritti solo alcune decine sono attivi nell’esporre idee e fare discussioni; è un meccanismo tipico anche delle grandi organizzazioni politiche e presenta anche problemi di gestione. La regola principe che viene peraltro spesso violata è quella dell’intervento unico giornaliero, una regola che seppure ha forse diminuito la vivacità della lista ne ha però salvato l’unità e aumentato la durata nel tempo. La conseguenza più frequente delle intemperanze, che di solito sono legate all’uso di termini che possono sembrare offensivi o all’insistenza su temi più esplicitamente politici, è la sospensione dalla lista per periodi di tempo limitati; la cosa è mal sopportata, ma relativamente frequente; espulsioni vere e proprie si sono rese necessarie in casi assolutamente isolati e con persone che presentavano un carattere particolarmente “irruento” e “sensibile” al tempo stesso, ma mi sembra che poi su tanti iscritti sia inevitabile trovarne in ogni ambiente. Fra l’altro il numero di iscritti elevato, costantemente sopra il migliaio, corrisponde alla presenza di una nutrita comunità “straniera”, nel senso di italiani che insegnano all’estero in università di altri paesi, fenomeno che ha consentito più volte un appro- La lista di discussione UNILEX 325 fondimento diretto dei meccanismi di funzionamento del resto del mondo universitario, spesso mal mitizzati dalla nostra cultura “provinciale”. Il numero elevato di iscritti non vuol dire (e questo fu scoperto e chiarito dalla tesi cui facevo riferimento prima) che ci siano poi un numero elevato di persone che intervengono; la parte attiva della comunità unilexiana è ridotta; un certo numero di persone che potremmo definire “leader” interviene costantemente e si confronta mentre la gran massa degli iscritti si comportano da lettori; lettori che in alcune occasioni usano poi la lista per porre questioni o problemi specifici, sia pur di interesse a volte generale. La percentuale maggiore degli iscritti è costituita da docenti universitari, ma sono presenti ed attivi: studenti, tecnici, ricercatori dei centri di ricerca pubblici; spesso quindi UNILEX ha assunto il ruolo di un momento di confronto fra TUTTE le componenti dell’Università e della ricerca; non deve quindi meravigliare se in forma più o meno esplicita sia stata segnalata la presenza a fini conoscitivi di persone appartenenti ad istituzioni che hanno un ruolo chiave (come il MIUR) o se giornalisti abbiano chiesto di iscriversi; in pratica UNILEX come una sorta di continuo campionamento degli umori della docenza universitaria e del mondo universitario, come un continuo termometro degli umori e pensieri della comunità accademica. Episodi singoli molto particolari si sono spesso presentati: abbiamo avuto chi ha minacciato il suicidio in diretta in pratica, per protestare contro situazioni personali e ha obbligato a rincorrere la persona che casomai usava uno pseudonimo o comunque non era conosciuta ai più; un paio di volte (Tristano c’era ancora in una occasione) ho passato le giornate a cercare di rintracciare l’iscritto che dimostrava attraverso i suoi interventi una situazione di disagio esistenziale così forte da far temere il peggio; abbiamo avuto chi ha scatenato volutamente o meno con i suoi discorsi sopra le righe reazioni personali e politiche al limite della denuncia, ma a questo, almeno finora, per fortuna non si è mai arrivati. La lista ha più volte riflettuto su se stessa ma alla fine non ne è venuto fuori alcun altro sindacato o iniziativa stabile se non la discussione stessa e quindi UNILEX ha conservato l’idea di base di Tristano: una piazza telematica dove incontrarsi e discutere senza limitazioni che non siano quelle del rispetto reciproco. Non sappiamo per quanto tempo questa struttura continuerà a svolgere il suo ruolo, ma sappiamo che è stata utile e continua ad esserlo. Oggi ci sono numerose altre iniziative che usano anche altri strumenti come Facebook e i blog; e forse nel futuro questa potrebbe essere la strada di una rinnovata ma necessaria opera di confronto nel mondo universitario. universitaericerca.it Antonio Miceli A Parma si svolse il XVI Congresso CNU, venne, con voto unanime, eletto alla presidenza Franco Indiveri di Genova. Giovanni Cordini passa il testimone dopo sette anni di intensa e qualificata attività in uno scenario politico che contrasta le rappresentanze sindacali e privilegia, come interlocutore universitario, la CRUI. Inoltre il secondo e terzo governo Berlusconi ed il Ministro Letizia Moratti non nascondevano le loro attenzioni verso il mondo di confindustria e le università private, solo ad aprile del 2006 i Ministri Fioroni e Mussi (II Governo Prodi) e soprattutto il sottosegretario Luciano Modica riaprirono un confronto costruttivo con le OO.SS. universitarie, purtroppo i tempi sono troppo stretti per una soluzione di tipo legislativo. Per altro, con una “schizofrenia” incomprensibile, l’on. Gelmini invece di dare attuazione alla legge 230 del 2005 voluta dall’onorevole Moratti, preferì iniziare un nuovo percorso legislativo. Eravamo nel giugno del 2008, il Ministro Gelmini con la IV presidenza Berlusconi si era insediata da un mese circa, Franco Indiveri e la sua Giunta si trovarono di fronte, come già detto, ad un percorso molto difficile, caratterizzato anche da una scarsa partecipazione dei giovani docenti ad un impegno sistemico per il necessario rinnovamento dell’istituzione universitaria. Questo disimpegno aveva già afflitto i due mandati delle presidenze Sergi e Cordini. La gestione Indiveri doveva anche trovare soluzioni idonee alla “debolezza” dei rapporti tra OO.SS. universitarie, certamente connessa all’appena citato disimpegno dei giovani ricercatori e docenti universitari. In questo scenario, vengo indicato alla direzione del giornale “Università e Ricerca”, con il mandato di rendere più agevole e semplice l’accesso alle informazioni sulla politica universitaria, utilizzando anche registrazioni e filmati degli eventi più importanti e delle posizioni più qualificate sui vari argomenti in discussione. Si pensò che ciò avrebbe consentito un più facile coinvolgimento di energie lontane dai processi di partecipazione democratica alle scelte culturali, politiche e sindacali. Nel contempo si sentì la necessità di dare direttive più alte al confronto intersindacale, sposando il progetto ambizioso, pur nelle modificate condizioni di contesto, di ripetere l’esperienza che aveva indotto nel 1971 alla costituzione del CNU. Proprio nel giugno del 2008 il CNU perse Tristano Sapigni. Personalmente dovevo dare esecuzione al mandato ricevuto dal Congresso e trovare come superare le enormi difficoltà che la morte di Tristano aveva determinato. Il nostro giornale online veniva pubblicato su dominio CINECA e svolgeva una funzione interna di informazione sull’operato del Direttivo Nazionale, del Consiglio delle Sedi e sull’attività delle 328 Il CNU sul web sezioni CNU negli atenei. Sul fronte esterno esso ospitava una lista di discussione “UNILEX” di grande diffusione e partecipazione. La morte di Tristano, che avrebbe dovuto sinergicamente coniugare queste funzioni tradizionali con gli obiettivi che il congresso mi aveva dato, rendeva tutto più difficile. Pensai quindi, per una serie di motivi, anche di tipo logistico ed organizzativo, che la soluzione migliore fosse quella di creare un nuovo dominio, totalmente indipendente, e continuare in parallelo con il sito ospitato dal CINECA. Quest’ultimo è stato, da quel momento, egregiamente curato dal collega Manlio Fadda dell’Università di Sassari. Il primo evento di grande impatto, seguito dalla nuova rivista da me diretta, fu l’ASSEMBLEA NAZIONALE DELL’UNIVERSITÀ, svoltasi alla Sapienza di Roma il 23 luglio del 2008. Essa coronò una miriade di iniziative e documenti di Organi Istituzionali e di iniziative sindacali d’ateneo contro il D.L. Tremonti convertito dalla legge 133 del 2008. Da Cagliari a Roma, da Torino a Sassari, da Messina a Palermo Consigli di Amministrazione, Senati Accademici, Facoltà, Dipartimenti ed assemblee generali indette dalle OO.SS. denunciarono il gravissimo errore che Governo e forze politiche di maggioranza stavano commettendo contro l’università e il sistema paese. Nell’archivio di Università e Ricerca si può trovare un’ampia documentazione. In questo clima il 2 ottobre 2008 si svolse a Roma un memorabile incontro intersindacale sul D.L. 137/200 (Decreto Tremonti) e la L. 133/2008. Questo importante evento venne filmato con qualificate interviste di tutti i protagonisti. Venne anche pubblicata il 3 ottobre una lettera aperta a tutti i docenti dell’Università Italiana. In quell’occasione il Ministro Tremonti stava proponendo un insostenibile depauperamento delle risorse pubbliche da destinare alle Università pubbliche ed alla ricerca. Una linea assurda che non teneva conto del ruolo strategico dell’Università, dell’alta formazione e dell’innovazione per lo sviluppo economico, sociale e civile del Paese e che in maniera iniqua colpiva i più giovani ed i più deboli. Anche se queste risorse venivano “distratte” per scopi che non condividevamo, sottolineammo che le forze democratiche e progressiste dell’Università non avevano contestato il loro dovere a contribuire ai sacrifici generali richiesti a tutti, ma piuttosto l’ingiustizia palese di penalizzare i docenti universitari – in particolare i più giovani – rispetto al trattamento riservato ad altri dipendenti pubblici. All’iniquità dei provvedimenti si aggiunse la miopia e l’inutilità di provvedimenti che avrebbero reso più difficili l’uscita della crisi economica, minando gravemente il futuro e la capacità competitiva del nostro Paese in una economia sempre più globalizzata. L’Università italiana doveva essere profondamente riformata nella struttura, nelle funzionalità con l’introduzione di sistemi di governo più efficienti ed efficaci. Essa avrebbe dovuto diventare più aperta e disponibile al controllo, trovando anche la forza di espellere i vecchi vizi e privilegi. Tutto ciò però non si poteva ottenere certamente portandola al collasso e privandola delle riserve indispensabili a svolgere il ruolo che la Carta Costituzionale ed il buon senso le affidano. È infatti convincimento diffuso che la formazione professionale, culturale e civile universitaericerca.it 329 delle nuove generazioni dipende dalla Scuola e dall’Università, così come le nuove classi dirigenti saranno frutto della capacità di competere ed eccellere di queste istituzioni. Il “tavolo intersindacale” si fece interprete dell’indignazione del Paese e chiese al Governo ed alle Forze Politiche responsabili di correggere una rotta sbagliata! Nel 2009 il CNU espone con semplicità e chiarezza la sua posizione aggiornata sul “docente unico”. Il 13 febbraio dello stesso anno la Professoressa Maurizia Muratori vedova Sapigni inviò del prezioso materiale, trovato tra le carte di Tristano. Questo avvenimento ed il ricordo della passione del compianto Tristano fecero nascere, come più dettegliatamente descritto nell’introduzione, l’idea di creare un archivio di documenti e ricordi sulla vita del CNU. In definitiva, si dava l’avvio a questa ricerca collettiva di ricordi, di emozioni, di lavoro e passione di quasi 50 anni di CNU. Sempre in quest’anno Università e Ricerca pubblica il ricordo di due amati colleghi Roberto Cencioni e Giuseppina D’Amato. Interessante anche una lettera di luglio inviata al ministro Gelmini. Nel gennaio 2010 un’attenta ed accorata proposta sullo stato giuridico dei ricercatori inviata al ministro Maria Stella Gelmini. Nel marzo, alla chiusura dei lavori della commissione P.I., la grande delusione per il silenzio alle istanze manifestate durante lunghe e partecipate audizioni dei sindacati, spinse a una mobilitazione nazionale. Interessante anche un documento intersindacale unitario sul D.L. 78/2010 ed un filmato su una partecipata assemblea nell’ateneo messinese. Significativo il seminario sul “precariato all’università” tenuto a Firenze il 17 maggio 2010. Il 22 gennaio del 2011 viene istituito il Coordinamento delle Organizzazioni e Sindacati Autonomi Universitari (COSAU) che approva il suo primo documento programmatico il 18 novembre. Ad aprile e marzo interessanti posizioni su: valore legale dei titoli di studio; lavoro delle “commissioni per gli statuti negli atenei”; la “democrazia negli statuti delle università”; “stato di applicazione della 240/2010 – considerazioni critiche dopo 7 mesi dalla promulgazione” –. Nello stesso periodo vengono ripresi i documenti del decimo Congresso Nazionale, tenutosi a Milazzo (ME) nel novembre 1978. Interessante, inoltre, la pubblicazione di una proposta della direzione della rivista su “studenti, precari e fasce più deboli, un piano nazionale di edilizia sociale”. Vengono, infine riportati 2 articoli di Paolo Gianni sullo “stipendio dei nuovi professori universitari” e sullo “stato di attuazione dei decreti attuativi della 240/2010”. Lo stesso autore riprende questo argomento, aggiornandolo nel febbraio del 2012. Sapiente come sempre la posizione del mitico Alberto Pagliarini sul trattamento economico dei professori e ricercatori universitari – DPR 15 dicembre 2011 n. 232 –. Il 23 gennaio viene ripresa una forte posizione dell’Onorevole Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, che ribadisce – così come detto più volte dal nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – la necessità che “la Cultura, la Scuola e l’Università escano finalmente dall’emergenza…”. Nell’aprile, Paolo Gianni parla delle nuove pensioni dopo la “Riforma” e prosegue con un aggiornamento (a partire dal 2004) della legislazione universitaria più significativa, già iniziata nel 2008. 330 Il CNU sul web A ottobre e novembre la ripresa di un documento, ancora molto attuale, pubblicato da Luciano Modica: “Passato e Futuro della valutazione della Ricerca Universitaria” e l’articolo: “contrordine” D.L. 185/2012 si ritorna al TFR. Il blog sull’università nasce nel 2013, anche sulla spinta del D.P.R. 122/2013 che conferma il blocco degli scatti di stipendio biennali. La posizione è molto chiara e fortemente critica: i docenti universitari – come detto nella pagina precedente – non intendono sottrarsi ai sacrifici imposti agli altri cittadini, ma chiedono con forza che i sacrifici loro imposti siano gli stessi di quelli richiesti agli altri dipendenti pubblici! Università e Ricerca pubblica la linea politico-sindacale emersa dal Congresso di Firenze (dicembre 2013), l’elezione all’unanimità del Presidente Vincenzo Vecchio e della nuova dirigenza nazionale. Di quest’anno (giugno) la lettera del CNU al Ministro Giannini per richiedere una revisione del sistema di “Abilitazione Nazionale” e la successiva pubblicazione del D.L. 90/2014, nel quale l’art. 14 stabilisce la conclusione delle procedure in concorso e la sospensione dell’indizione delle procedure di valutazione in attesa di una “revisione della disciplina”. Il Ministro il 10 luglio ha già anticipato di volere presentare, prima delle ferie estive, un D.L. su Scuola ed Università, aprendo alcuni tavoli di confronto. Ci è sembrato utile fare un sintetico rendiconto del lavoro svolto con questa edizione di Università e Ricerca, il lavoro da fare è ancora molto, la mia rielezione di Firenze come direttore del giornale mi spinge, nel ringraziare tutti per la fiducia, a continuare il mio impegno. Stiamo infatti discutendo in Direttivo Nazionale su come stimolare maggiori livelli di partecipazione al dibattito sul rinnovamento dell’Università e della ricerca. Parte IV Testimonianze Alle origini del DPR 382: i rapporti unitari fra confederali e CNU Gian Mario Cazzaniga Accetto volentieri l’invito rivoltomi dagli amici del Comitato Nazionale Universitario e ritorno con la memoria agli anni Settanta ed ai rapporti di collaborazione che ebbi allora, in veste di segretario nazionale della CGIL-Scuola, col gruppo dirigente del CNU. Tuttavia, prima di parlare di sindacalismo universitario del tempo, è opportuno fare un passo indietro per ricordare il rapporto anomalo che, nel secondo dopoguerra, si stabilì fra settore istruzione e sindacalismo confederale. La scelta della CGIL, caldeggiata da Giuseppe Di Vittorio, suo segretario generale, di non organizzare scissioni nei sindacati di categoria dove la CGIL era minoranza, era forse testimonianza di volontà unitaria ma, mantenuta nel tempo, finì per lasciare alla CISL l’istruzione elementare, al sindacalismo autonomo la scuola secondaria, alla debolezza associativa l’università. La questione in verità era anomala da più punti di vista. La divisione tradizionale nelle scuole e nelle università italiane era fra laici e clericali, una divisione figlia dell’unità nazionale in chiave antivaticana, né il fascismo aveva sostanzialmente mutato i due schieramenti, anche se la nascita del Partito Popolare (1919) e la partecipazione cattolica alla Resistenza erano venute mutando e rendendo plurimo il mondo politico cattolico. La presunta egemonia di cattolici e marxisti sulla cultura del secondo dopoguerra, mito al cui riguardo nutro molti dubbi, trovava scarsa eco nelle scuole e nelle università, almeno da tre punti di vista. Sul terreno culturale le correnti laiche (liberale, radicale, repubblicana) erano assai più radicate di quelle marxiste. Ne troviamo conferma nella storia delle organizzazioni studentesche universitarie, dove furono i laici a fondare l’UGI (Unione Goliardica Italiana) nel 1946 con Pannella e a dirigerla, almeno fino alla fine degli anni ’50. Ne troviamo altresì conferma nella scuola elementare, dove l’egemonia indiscussa era del SINASCEL-CISL, grande organizzatore di cooperative edilizie, mentre in ambito laico operava con successo dal 1951 il Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), che si ispirava alla pedagogia dei Freinet, e ne troviamo ugualmente conferma nella scuola secondaria, dove operava la FNISM (Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media) di tradizione laica e repubblicana, fondata nel 1902 da Giuseppe Kirner e Gaetano Salvemini, e dove erano sorti sindacati autonomi, tra cui in particolare il SASMI (Sindacato Autonomo Scuola Media Italiana), al cui interno le tradizioni laiche risorgimentali erano vive, sopratutto nel Meridione. Sul terreno sociale insegnanti e docenti si consideravano affini alle professioni libe- 334 Testimonianze rali, mostrando scarsa attrazione, quando non diffidenza, per le forme di aggregazione dei sindacati confederali. Sul terreno universitario, all’interno di una generale debolezza associativa, prevalevano le divisioni fra non docenti, che avevano propri sindacati, e docenti, a loro volta divisi fra ordinari, incaricati e assistenti, con un sindacato degli ordinari, ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo) di tradizione conservatrice, identità che, dopo aver subìto una scissione nel 1968 con l’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari), che poi confluirà nel CNU, accentuerà nel 1973 trasformandosi nell’USPUR (Unione Sindacale Professori Universitari di Ruolo). L’onda lunga del ’68 mise in discussione queste culture e queste divisioni categoriali. Parlo di onda lunga non solo perché gli effetti si fecero sentire sul piano organizzativo sopratutto a partire dalla seconda metà degli anni ’70, ma perché le premesse di questi movimenti culturali e sociali erano già presenti negli anni ’60. Mutarono infatti le associazioni degli studenti universitari, dove nell’UGI divennero maggioranza socialisti di varia tendenza e comunisti, distinti dall’AGI (Associazione Goliardi Indipendenti) che, separatasi dall’UGI a Siena nel 1958, organizzava liberali e repubblicani, e dove i fermenti di rinnovamento nella FUCI portarono Intesa Universitaria, che organizzava studenti cattolici di varia tendenza, ad aprirsi al dialogo con la nuova UGI. Di questo mutato clima culturale e politico fu testimonianza la giunta dell’UNURI (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana) negli anni 1964-67, presieduta da Antonino Fava, detto Nuccio, fucino di area democristiana, e di cui furono membri Claudio Petruccioli del PCI e Gian Mario Cazzaniga del PSIUP. Ma iniziò anche la crisi degli organismi rappresentativi, con le occupazioni di Architettura a Roma e in altre sedi nel 1962 e della Sapienza a Pisa nel 1964 e nel 1967, dove emergevano forme di lotta e culture politiche che già anticipavano il ’68. Nel sindacalismo della scuola secondaria al SASMI, di tendenza laica, si affiancava il Sindacato Nazionale Scuola Media (SNSM), i cui congressi erano animati da quattro mozioni di diversa identità politica: maggioritaria la 1, cattolico-democristiana, sostenuta dall’UCIIM (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi), liberal-repubblicana la 2, fascista la 3 e socialcomunista la 4. Nella assemblea nazionale della mozione 4 nel 1966 un gruppo di insegnanti presentò una mozione, a firma Cazzaniga Foggi e Revelli, che propugnava l’adesione alla CGIL. L’iniziativa era stata organizzata dall’Ufficio Scuola del PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), allora diretto da Angela Trivulzio, e trovò impreparata la CGIL che prima tesserò gli insegnanti al sindacato degli Statali e poi (1967) istituì il Sindacato Scuola-CGIL, comprensivo di scuola primaria, secondaria e università, essendovi state fatte affluire un po’ di ‘truppe cammellate’ del PCI, mentre nel 1970 aderì anche la corrente socialista. A completamento di questo processo di confederalizzazione del settore istruzione va ricordato che, all’inizio degli anni ’70, la mozione 1 del SNSM aderì al SISM-CISL, e la mozione 2 all’UIL-Scuola. In questo nuovo mondo associativo l’ideologia andava alla grande, i confini fra sindacale e politico oscillavano, ma ciò che va sottolineato è che si trattava di esperienze destinate a crescere e a durare, sia nella spinta antiautoritaria e riformatrice sia nel mutamento delle identità professionali, che ora chiedevano collegamenti col Alle origini del DPR 382: i rapporti unitari fra confederali e CNU 335 mondo generale del lavoro. Nascevano insomma nuove culture a cui corrispondevano nuove identità sociali, un processo operante anche nelle università con le associazioni di categoria degli assistenti (Unione Nazionale Assistenti Universitari) e dei docenti incaricati (Associazione Nazionale Professori Universitari Incaricati), che erano venute radicalizzandosi negli anni ’60. Ricordo a questo riguardo che l’occupazione della Sapienza di Pisa nel gennaio 1964, che durò più di un mese, vide accanto agli studenti che l’avevano promossa la partecipazione delle due associazioni con i loro dirigenti Bruno Guerrini di Ingegneria Nucleare, presidente dell’UNAU, che sarà poi fra i primi dirigenti del CNU e più tardi rettore dell’università di Pisa (1983-89), ed Elio Fabri di Fisica Teorica, presidente dell’ANPUI. La storia dell’UNAU, che era la più numerosa e radicata delle due associazioni, è oggi a torto dimenticata. Una ricerca sui dirigenti nazionali e di sede dell’UNAU negli anni ’50 e ’60, confrontata con i ruoli accademici poi dagli stessi ricoperti, sarebbe a parer nostro di grande interesse. Queste nuove culture, figlie dell’onda lunga del ’68, avevano trovato una prima espressione nella lunga fase di lotte (1965-1968), organizzate unitariamente da UNURI, UNAU e ANPUI, contro il disegno di legge di riforma dell’università 2314 presentato dal ministro Luigi Gui, e di queste nuove culture era espressione il CNU che, sorto nel 1970, cercava di organizzare unitariamente tutte le categorie docenti opponendosi al conservatorismo dell’ANPUR, poi USPUR, privilegiando obiettivi di riforma universitaria e avendo come componenti interne principali la democristiana e la socialista, come si evince anche dal succedersi delle presidenze. Sia sul terreno professionale che su quello politico-culturale prevaleva dunque la volontà di andare oltre vecchi steccati. Già nel 1972-73 vi furono vertenze unitarie nazionali che videro insieme sindacati confederali e CNU, ed è segno di questa unità che Luciano Lama, segretario generale della CGIL, intervenendo all’assemblea generale delle sedi del CNU a Roma il 19 giugno 1973, suggerisse la possibilità di adesione del CNU alla Federazione delle tre confederazioni, CGIL CISL UIL, senza aderire a nessuna di esse. Per quanto mi riguarda, ebbi occasione di incontrare per la prima volta il CNU all’inizio del 1975 quando Giorgio Spini, di cui ricordo la bella intelligenza e la squillante parlata toscana, portò una delegazione del CNU a incontrarsi con la CGIL– Scuola, settore universitario, e in questa occasione ebbi la ventura di fare il padrone di casa a Roma, in via Boncompagni, dove ero membro della segreteria nazionale e responsabile per l’università. Gli obiettivi del CNU erano allora riassunti nella divisa ‘docente unico a tempo pieno in dipartimento’, una visione egalitaria che testimoniava lo spirito un po’ utopico del tempo e che peraltro non disdegnava obiettivi intermedi, quali l’unicità della funzione docente in due fasce a scorrimento idoneativo, e politiche unitarie, per cui la collaborazione con la CGIL e con gli altri sindacati confederali non fu difficile. Si arrivò così ad una piattaforma che intrecciava elementi salariali e normativi del personale con obiettivi di riforma, piattaforma con cui il 27 Marzo 1975 si aprì una vertenza contrattuale per tutto il personale universitario. Questa vertenza durò due lunghi anni (1975-1977), verificando una buona tenuta unitaria di obiettivi e di lotte fra i tre sindacati confederali e il CNU, così come coinvolse nello stesso percorso uni- 336 Testimonianze tario il CISAPUNI per il personale non docente. Credo che gli anni di questa lunga vertenza in un periodo di violente tensioni sociali e politiche siano stati importanti sia per discutere in tutte le sedi con docenti e non docenti le piattaforme rivendicative, sia per costruire una solidarietà di fondo, fatta di rapporti personali amicali, che nasceva anche dalla comune lotta contro le organizzazioni terroristiche. Sia lecito qui passare a ricordi più personalizzati e a episodi oggi forse dimenticati. Fra le questioni del personale, quella del precariato docente era certamente la più esplosiva, anche per il tentativo di gruppi armati dell’autonomia di strumentalizzarla per un più generale disegno eversivo. Ma non fu facile per i sindacati muoversi su questo terreno, anche per l’opposizione, meno rumorosa ma non meno influente, di gruppi accademici conservatori. Il contratto firmato il 23 marzo 1977 con Franco Maria Malfatti, ministro della Pubblica Istruzione nel governo Andreotti III (26 luglio 1976-10 marzo 1978) rimandava a provvedimenti legislativi plurimi, fra cui quello delle norme transitorie per l’immissione nei ruoli. Nell’autunno del 1978 stipulammo un accordo con Mario Pedini, ministro della Pubblica Istruzione nel governo Andreotti IV (11 marzo 1978-20 marzo 1979), accordo che prevedeva l’istituzione di 12.000 nuovi posti di assistente da assegnare attraverso concorsi liberi in tre o quattro tornate concorsuali. Si levò subito violenta la polemica contro l’accordo, accusato di essere una ope legis mascherata, polemica di cui si fecero portatori in particolare alcuni dirigenti del Partito Repubblicano Italiano e del Partito Socialista Italiano. Ne derivò una diversa scelta, poi attuata all’interno del DPR 382 dell’11 luglio 1980, di giudizi idoneativi per le più varie forme di precariato docente, scelta che arrivò a introdurre d’un sol colpo 18-19.000 ricercatori (è significativo che dati ufficiali non siano mai stati resi noti), chiudendo per anni gli accessi alle generazioni successive di studiosi. I conservatori accademici respirarono: il corporativismo dei sindacati era stato sconfitto. Tuttavia, se andiamo a riconsiderare la piattaforma unitaria con cui si aprì la vertenza contrattuale il 27 Marzo 1975, vediamo che molti degli obiettivi in essa presenti finirono per essere realizzati, anche se per alcuni di essi, come l’abolizione della titolarità dell’insegnamento e l’abolizione delle facoltà, riaggregande nei dipartimenti, occorrerà attendere qualche decennio. Le nuove culture, nate negli anni ’60 e sviluppatesi negli anni ’70 con nuove forme associative, avevano prodotto un nuovo comune sentire, di cui si giovarono anche i sindacati universitari, che finì per trovare riconoscimenti anche sul terreno legislativo. Da questo comune laboratorio di elaborazione, di confronto e di lotta, ricordo che per ben tre volte vennero occupate dal personale tutte le università italiane, e dal contratto del 23 marzo 1977 vennero infatti la legge 31 del 7 febbraio 1979, che istituì il Consiglio Universitario Nazionale, e il DPR 382 dell’11 luglio 1980 che istituì i dipartimenti, il dottorato di ricerca, l’allargamento della base elettorale per l’elezione del rettore nonché il passaggio della maggioranza dei docenti da posizioni più o meno precarie ai nuovi ruoli di associato e di ricercatore, con distinzione fra tempo pieno e tempo definito, non senza aumenti retributivi e pur con i limiti di discriminazione generazionale più sopra richiamati. Si concludeva così una faticosa storia ventennale che, iniziatasi con i lavori della Commissione Ermini (1962-63) e passata per i contrastati e non ratificati disegni di legge 2314, presentato da Gui (1964-68), e 612, presentato Alle origini del DPR 382: i rapporti unitari fra confederali e CNU 337 da Ferrari-Aggradi e appoggiato da Codignola (1969-71), approdava infine al DPR 382. Allora questi risultati apparvero limitati e per qualcuno deludenti. A distanza di oltre trent’anni e tenuto conto delle successive mediocri politiche governative, sia di centro-destra che di centro-sinistra, devo dire che oggi mi appaiono tutto sommato il periodo più fruttuoso che le associazioni universitarie abbiano vissuto. Al riguardo credo vada ricordato il ruolo propositivo di sindacati confederali e CNU in quel periodo, sia per questioni di categoria che per obiettivi più generali di riforma delle strutture didattiche e di ricerca, nonché di democratizzazione degli organi di governo, ruolo rafforzato da rapporti di dialogo con uffici scuola e/o università dei partiti presenti in Parlamento, ciò che fece di sindacati e associazioni universitarie i coprotagonisti di una stagione riformatrice, così come fece del Consiglio Universitario Nazionale nella sua prima sessione (1979-83), dove sindacati confederali e CNU erano allora influenti, un efficace organo di elaborazione e di influenza su ministro e Parlamento, si pensi alla istituzione da parte del CUN di quattordici comitati a base elettiva per il finanziamento della ricerca universitaria. In seguito i partiti ripresero ciò che di malavoglia avevano ceduto e in teoria ciò fu giusto, essendo i partiti portatori di una visione generale e le associazioni di categoria di una visione parziale. In pratica ciò ha significato per le attività di ricerca e didattica la fine di una tradizione di autogoverno, sostituita da presidenzialismi di nomina politica (CNR) o di presunta efficienza manageriale (MIUR), vedasi la recente eutanasia del Senato Accademico. Tutto ciò è andato di conserva con l’emarginazione dei problemi della didattica, della formazione professionale, della ricerca scientifica e tecnologica dalle priorità delle politiche parlamentari e governative, con una miopìa strategica bipartisan che è venuta accentuandosi fino ad oggi. È sufficiente paragonare gli investimenti in capitale intellettuale di Cina e India con quelli dei paesi europei, e in particolare dell’Italia, per capire perchè la storia del mondo stia girando rapidamente verso Oriente. Ma non voglio insistere su una polemica anche troppo facile e comunque amara per chi visse un’epoca di grande dibattito collettivo e di speranze riformatrici. Preferisco invece ricordare i rapporti amicali che da queste esperienze derivarono e ricordare in particolare Giorgio Spini, Leontino Battistin, Ciccio Faranda e Paolo Blasi, con cui per quanto mi riguarda il rapporto di collaborazione continuò in altra sede quando ebbi la ventura di essere responsabile nazionale per l’università del Partito Comunista Italiano (1979-80) e poi membro del primo Consiglio Universitario Nazionale (197983), in un periodo in cui le spinte riformatrici e il dialogo fra sindacati universitari e uffici università dei partiti erano ancora vivi. Qui mi fermo. Ma voglio sottolineare che iniziative editoriali come quella ora intrapresa dagli amici del CNU sono opportune e importanti. Se prendiamo in considerazione gli organismi rappresentativi degli studenti universitari fra il ’56 e il ‘67, non possiamo che deplorare la povertà di studi su una esperienza collettiva di formazione politico-culturale da cui è venuta parte non piccola della classe dirigente che ha governato il nostro paese, almeno fino alla crisi di Tangentopoli. Se poi prendiamo in considerazione sindacati e associazioni universitarie degli anni ’70-’80, abbiamo il luogo di formazione di parte non piccola dei membri degli organi di governo dell’università 338 Testimonianze italiana fino ad oggi, non senza una qualche partecipazione alla formazione della classe dirigente tout court, e anche qui rileviamo una assenza di studi. Poiché gli archivi di queste esperienze associative sono pochi e poco frequentati, è bene che i protagonisti di queste passate esperienze le ricordino, finché sono ancora fra noi, in attesa che i colleghi storici si decidano a fare il loro mestiere. La prima Conferenza Nazionale Universitaria del 1976 a Milano Un ricordo e una prospettiva per la storia del CNU Brunello Vigezzi Il CNU, nonostante esista da più di quarant’anni, non ha ancora una sua storia. La documentazione relativa, anzi, è frammentaria, dispersa, credo anche lacunosa – divisa com’è fra i documenti associativi nazionali e locali (riguardanti spesso più di 30 sedi), numeri di giornale, opuscoli, appelli, interviste – e così via. È abbastanza naturale perciò che i primi tentativi – come questo che è in corso – di riordinare tutto il materiale disponibile, in vista d’una ricostruzione della storia del CNU, suscitino intanto molti ricordi sparsi, più o meno vivi e consistenti, più o meno coordinati e attendibili; e il mio è uno di questi ricordi, che s’è venuto consolidando e ha preso la sua forma fra vari dubbi. Quali sono state le vie che hanno portato alla costituzione del CNU? Che carattere specifico, distintivo ha avuto il CNU fra le diverse associazioni, unioni, organizzazioni sindacali universitarie? Qual è stato il ruolo che il CNU ha svolto (o ha tentato di svolgere) nella vita universitaria italiana? La ripresa, la riapparizione dei ricordi fa subito tutt’uno con le domande che, a tanta distanza di tempo, risultano tanto più spontanee; ed è così, credo, che nel mio caso la memoria ha finito con il fissarsi più precisamente su un “evento” (come s’usa dire tra gli storici...); sulla – per riprendere la formula del tempo – “prima conferenza nazionale universitaria”, promossa dal CNU di Milano verso la fine del 1976 – fra un congresso e l’altro dell’associazione – allo scopo di favorire un incontro più esteso e più libero, aperto a iscritti e non iscritti, con la partecipazione delle forze più diverse interessate alla vita universitaria. La conferenza, inoltre, cadeva a ridosso delle elezioni generali, e risentiva quanto mai dell’atmosfera assai tesa del paese; così che, in definitiva, sembrava fatta apposta per venire incontro alla domanda di cui parlavo: ma cos’è stato il CNU? Il CNU è – ne sono convinto – una creatura del ’68. Tra ’68 e ’71 varie associazioni universitarie avvertono una forte spinta unitaria, s’uniscono, si ridividono, si riassestano, tornano a riunirsi; e bene o male danno vita a un Comitato che in breve occupa uno spazio rilevante, s’estende a diverse decine di sedi, con uno slancio che è tipico di quegli anni. Il movimento studentesco, che per antonomasia resta il protagonista del ’68, tuttavia (ma quante verifiche sarebbero da fare!), si mantiene abbastanza lontano dall’esperienza del CNU. Le prospettive sono troppo diverse; e il CNU è tenacemente legato al disegno d’un’università rinnovata come elemento indispensabile se non pregiudiziale per il rinnovamento del paese. Il che comporta comunque il sentimento e la convinzione di partecipare a un periodo di trasformazioni profonde. Il CNU, lungo 340 Testimonianze gli anni ’70, approfondisce le linee d’una nuova politica universitaria. I fallimenti ripetuti dei progetti di legislazione universitaria di carattere generale (dalla “2314” alla “612”..), esasperano semmai la tensione. L’Università di massa, in Italia, d’altra parte nasce allora; e forse quegli anni costituiscono uno dei punti d’osservazione e di riferimento migliori per intendere la storia dell’università italiana dal dopoguerra ad oggi. La conferenza di Milano, del dicembre 1976, s’inserisce lì; dà la conferma dello svolgimento in corso... Ma il ricordo quanto può valere? La memoria, si sa, è insidiosa; spesso sovrappone i problemi, confonde le date, altera le proporzioni, crea prospettive illusorie. Ma, questa volta, rimettendo le mani fra le carte disordinate e lacunose riguardanti più o meno il CNU, ho ritrovato fortunosamente un documento abbastanza singolare, che fa un po’ da tramite fra il ricordo e la vicenda reale: la registrazione dell’intervento che (come presidente del CNU milanese) avevo dovuto preparare a metà conferenza, in vista dell’arrivo del ministro Malfatti. Forse è la prima volta in Italia che da 30 sedi universitarie vengono docenti, studenti, presidi, rettori e parlano insieme senza la minima difficoltà, magari attraverso anche svariati dissensi, con gruppi politici di ogni orientamento, con sindacati, anche se purtroppo c’è da lamentare qualche assenza. Forse per la prima volta una grossa occasione di questo tipo è stata dedicata all’università e ai temi reali dell’università e qui penso si tratti di sottolineare un punto: che cosa ha voluto anzitutto dire per noi del CNU, per noi che siamo un’associazione di docenti, questa conferenza. Ci sono stati in questa sede parecchi discorsi sulla vera autonomia universitaria. Noi crediamo che la vera autonomia universitaria parta da iniziative di questo genere, parta da questa capacità reale, spontanea, con un minimo di organizzazione da parte dei docenti italiani di riacquistare la volontà di discutere della loro riforma, della loro università, del loro destino. Cosa che da tempo invece abbiamo rinunciato a fare. Questo è il senso della conferenza e forse è sfuggito, ma ieri e oggi quanto lavoro è stato compiuto, quanti temi sono stati affrontati, approfonditi, da questi docenti giunti da 30 sedi di tutto il Paese... Come accennavo, nell’intervento cercavo di riprendere le linee principali del lavoro svolto sin lì nella conferenza, in modo da dare pieno rilievo all’incontro con Malfatti, che tra mille polemiche (che ricordo ancora) aveva accettato infine di venire a Milano per una discussione diretta con l’assemblea – che aveva riunito oltre 500 partecipanti con diverse delle figure più rappresentative della vita e della politica universitaria di allora. La conferenza di Milano, in effetti, mostrava bene quante forze fossero coinvolte, quanti legami si fossero venuti formando intorno alla questione universitaria, con un’intensità rimasta, ritengo, eccezionale nelle nostre vicende. Il CNU, prima delle elezioni, aveva pubblicato la sua Proposta per una conferenza nazionale sull’Università (il cosiddetto “libretto giallo”...), che offriva un quadro analitico e d’insieme. Il CNU allora, magari con una certa asprezza, rivendicava anche il suo carattere di associazione universitaria “con competenze sindacali”, mettendo in discussione l’opportunità, nel campo universitario, di sindacati-scuola di settore. La prima Conferenza Nazionale Universitaria del 1976 a Milano 341 Gli interlocutori propri del CNU, del mondo universitario, non erano piuttosto le stesse maggiori confederazioni sindacali, affrontando in modo nuovo, non tentato sin lì, i grandi temi degli ordini professionali, delle stesse professioni, dei rapporti conseguenti fra università e società? I partiti intanto, tutti i partiti – lo si è notato poco – dell’“arco democratico”, dal PCI al PLI, lungo il ’76, affrontavano con impegno inconsueto i temi dell’università e della ricerca, con progetti di legge, congressi ad hoc, riunioni apposite di più giorni dedicate all’università. L’università italiana va assolutamente rinnovata…: questo era il motivo ricorrente; e, fatta salva la parte della propaganda, rispondeva alla convinzione diffusa d’un compito che non si poteva eludere: salvo semmai a notare, con una preoccupazione non priva di una punta di rassegnazione, che il divario fra “la classe politica” e l’università si andava già “pericolosamente diffondendo”. La battaglia in corso, insomma, era rischiosa e difficile. Ma quel che colpisce – ed è forse l’osservazione più importante e riassuntiva – è constatare come i problemi della nuova università di massa che si apriva allora fossero in gran parte già individuati o almeno evocati, con un’evidenza sorprendente. La conferenza di Milano, in particolare, inserita nel contesto del periodo, è indicativa in proposito, e mostra bene quante ricerche potrebbero essere e andrebbero fatte per cogliere e valutare la contrastata nascita in Italia di un “problema universitario”, a partire dal dopoguerra, sino all’acme (se si può dir così) degli anni ’70, con la lentissima, mai dismessa vicenda dei decenni successivi. Ma, per concludere il ricordo con un esempio orientato in questa direzione, mi tornano anzitutto alla mente le discussioni, le polemiche, gli scontri così accesi degli anni ’70 sul corpo docente in via di formazione (o di riformazione), sul famoso “docente unico” e sull’altrettanto famosa (o famigerata) ope legis per la possibile entrata in carriera di quanti – ed erano la maggioranza – svolgevano una funzione docente (con tutti i doveri connessi) senza una sistemazione giuridica adeguata. Le discussioni e le polemiche sono state probabilmente tra le più violente della nostra vita universitaria. La questione era complessa, toccava aspetti molto diversi, si prestava a molti equivoci. La storia del CNU sotto questo profilo è (o, più esattamente sarebbe, visto il lavoro ancora da compiere) di speciale interesse; tenendo naturalmente presenti le posizioni delle altre associazioni, dei partiti e dei sindacati, e la legislazione relativa. La storia sarebbe ricca di contrasti entro lo stesso CNU; ma, a mio avviso, quel che emerge abbastanza presto, e resta uno dei segni del periodo, è l’aspirazione a, forse si potrebbe dire il disegno di, un corpo docente profondamente rinnovato nel suo assetto interno e nelle prospettive avvenire, in grado di affrontare le esigenze, presto incalzanti, di un’università di massa. Il disegno – se possiamo chiamarlo così – lasciate le norme transitorie, fatta la parte che si vuole all’opportunismo o all’utopia – il disegno offriva l’immagine d’un corpo docente preparato da un iter equilibrato; vagliato poi da una selezione scientifica e didattica severa, ma sottratto all’incubo ricorrente ed ossessivo di “concorsi” che mescolavano malamente le esigenze d’una valutazione scientifica e il problema dell’attribuzione dei posti, falsando tutto il corso della vita universitaria, le legittime scelte dei singoli e le mete collettive. 342 Testimonianze Il quadro (come appariva, per citare una fonte, da varie pagine del “libretto giallo”…) diveniva quello d’un corpo docente tutelato nella sua dignità, garantito da una seria programmazione, dedito con serenità a conciliare insegnamento e ricerca, sorretto dal “diritto soggettivo” di chiedere una valutazione didattica e scientifica per lo sviluppo della carriera; profondamente interessato ai rapporti della vita universitaria con la società. Il quadro, piuttosto, giunti sin lì, non restava comunque incompleto, relativamente astratto e in definitiva velleitario? La discussione, a mio avviso, è aperta, ed è parte integrante dell’indagine. Ma non è nemmeno un caso, credo, che i frequenti discorsi sulla ristrutturazione del corpo docente, tipici degli anni ’70, dentro e fuori il CNU, s’unissero – come dicevo prima – alla percezione dei problemi che venivano maturando con le trasformazioni in corso nell’università: si trattasse della condizione degli studenti, del numero chiuso o programmato, del carattere degli esami, della creazione del dottorato, del completo rinnovo delle opere universitarie, dei collegi, dell’importanza (e dei limiti) dei rapporti con gli enti locali; si trattasse dei mutamenti e dell’ampliamento dei Consigli d’amministrazione, della temibile proliferazione delle sedi, delle possibilità e dei pericoli dell’incontro fra università e società; si trattasse, per tornare più direttamente ai docenti, dell’istituzione dei dipartimenti e dei rapporti con le facoltà, delle responsabilità didattiche e degli sviluppi della ricerca: di base o finalizzata, dentro l’università e negli enti di ricerca. Senza perdere, appunto, il nesso fra il carattere del corpo docente e il ruolo dell’università nel paese. L’analisi, badando alle testimonianze del tempo, in effetti, andrebbe assai estesa. La storia del CNU, negli anni ’70, in particolare, potrebbe essere importante per tutto questo. Come se, insomma, già allora, da un buon osservatorio, si cogliessero gli elementi costitutivi della nuova università in via d’espansione; si notasse la spinta inarrestabile in atto; e s’avvertissero al tempo stesso tutte le difficoltà che restavano in sospeso (e tutti gli ostacoli, gravi se non insormontabili, che si frapponevano). Nascita e contributo del CNU allo sviluppo dell’università e della ricerca in Italia Luigi Rossi Bernardi Sono lieto di fornire alcuni ricordi e riflessioni sulla nascita del CNU, una Associazione che ha svolto un ruolo assai significativo per lo sviluppo dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica nel nostro paese. Si tratta di ricordare avvenimenti iniziati circa 50 anni fa per la cui ricostruzione posso affidarmi solamente alla mia memoria, senza alcuna pretesa di sviluppare rigorose ed oggettive analisi concernente fatti e persone. Posso sicuramente affermare, da un punto di vista personale, che l’appartenenza a questa Associazione ha contribuito e profondamente influenzato lo sviluppo della mia carriera di docente e ricercatore. I miei ricordi iniziano intorno al 1966, al momento del mio ritorno in Italia dall’Università di Cambridge (GB) dove avevo conseguito un Dottorato di Ricerca e che, con la collaborazione proseguita successivamente in Italia con eminenti scienziati di quella Università, mi permise di avviare una attività di ricerca e di sviluppare una carriera indipendentemente dall’appartenenza alle note “congregazioni”. A Cambridge mi ero trasferito nel 1960 a seguito di un “esilio” determinato dalla mia non accettazione di storiche e assai poco lodevoli consuetudini vigenti nell’Università italiana, dove dal 1958 al 1960 ho operato in qualità di assistente straordinario presso la Cattedra di Biochimica dell’Università di Milano. Iniziavano nel 1966 le prime contestazioni studentesche che avrebbe determinato con gli avvenimenti del 1968 un profondo cambiamento nell’Università e nella vita politica e sociale italiana. La crescente inadeguatezza della struttura legislativa che governava l’Università italiana si faceva allora sempre più evidente, soprattutto a paragone di quella di altri paesi avanzati. Ciò ha determinato in quei tempi in più sedi universitarie la formazione di associazioni di giovani docenti e ricercatori che non erano più disposti a tollerare una situazione che condizionava spesso in modo irrazionale ed impositivo la loro attività e la loro carriera. Faccio riferimento solamente ai miei ricordi per segnalare tra queste associazioni l’AFDU, l’Associazione Fiorentina Docenti Universitari di cui facevano parte tra gli altri i prof. Passerini, Blasi, Amaducci, Manetti; l’Associazione milanese docenti universitari con i Prof. Vigezzi, Decleva e il sottoscritto, i contributi della sede di Padova con i Prof. Crepaldi e Battistin, della sede di Bologna con il Prof. Rinaldi, della sede di Messina con il Prof. Francesco (Ciccio) Faranda, della sede di Torino con il Prof. Sergio Zoppi, della sede di Palermo con il Prof. Vittorio Cecconi e altre associazioni o gruppi di docenti a carattere informale e spontaneo presenti in altre sedi universitarie. In una storica riunione presso l’Università di Roma tra i rappresentanti di queste associazioni si determinò un primo organico collegamento tra varie sedi e gruppi di 344 Testimonianze docenti, destinato con la confluenza di molti altri gruppi ed associazioni universitarie a costituire il Comitato Nazionale Universitario (CNU). Al CNU afferivano principalmente assistenti, professori incaricati, e altre figure professionali non riconosciute mentre i professori universitari di ruolo erano raggruppati in altre due associazioni: l’ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo) poi trasformata nel 1973 nell’Unione Sindacale dei Professori Universitari di Ruolo (USPUR) e l’ANDU, Associazione Docenti Universitari Italiani in cui il Prof. Valdo Spini ebbe una funzione preminente. È dall’insieme di queste formazioni e principalmente dal CNU che ebbe inizio una lunga attività di analisi, studio e sollecitazione verso partiti ed esponenti politici, sfociata nell’approvazione della legge di delega al Governo 21 febbraio 1980, n. 28 (Ministro della P.I. Pedini) a cui seguì il DPR delegato 11 luglio 1980 n. 382 (124 articoli, Ministro della P.I. Sarti). Con queste leggi promosse con forte determinazione dal CNU il sistema universitario italiano sviluppava un primo significativo adeguamento della struttura dell’Università italiana alle relative legislazioni di altri paesi avanzati. L’approvazione di una organica riforma dell’Università non fu il solo importante risultato conseguito dal CNU. I collegamenti stabilitisi tra docenti di varie sedi e nell’ambito di diversi ambiti disciplinari e l’esperienza da essi maturata nell’interazione con autorevoli rappresentanti politici resero possibile una forte crescita della capacità propositiva di vari appartenenti al CNU nell’ambito degli organi rappresentativi di varie Università e l’attuazione di una pluralità di azioni coordinate per la nomina in vari contesti elettivi di appartenenti a questa Associazione. Ciò non solo si verificò nell’ambito dei vari atenei, ma anche a livello degli Enti Nazionali di Ricerca, tra cui il CNR, l’Enea, l’Istituto Superiore di Sanità ecc. Per quanto mi riguarda ricorderò i successi ottenuti da appartenenti al CNU nelle elezioni del 1972 per i Comitati Nazionali di Consulenza del CNR. Nel settore della Biologia e Medicina ricordo la nomina del Prof. Amaducci e del sottoscritto il che permise a molti validi assistenti e professori incaricati di ottenere per la prima volta contributi e contratti di ricerca da parte di questo Ente. Nella successiva elezione del 1976 l’effetto della collaborazione tra vari docenti e l’esperienza maturata nell’attività dei Comitati permise l’elezione di numerosi appartenenti all’Associazione che occuparono posti di forte rilievo nell’ambito di questo Ente. Ricordo la mia elezione a Presidente del Comitato Nazionale per le Scienze Mediche e Biologiche, ruolo per la prima volta nella storia del CNR ricoperto da un professore incaricato, nonostante la preponderante presenza nello stesso Comitato di professori ordinari di varie discipline. Con la maturazione di vari appartenenti all’Associazione crebbe progressivamente il numero e la rilevanza dei ruoli da essi ricoperti: rettori, presidi di facoltà, presidenti di enti nazionali di ricerca. Io stesso fui nominato dal Governo, anche a seguito di una intensa attività rappresentativa dell’Associazione nell’ambito di questo Ente, Presidente del CNR, ruolo che ricoprii con la valida collaborazione di molti iscritti alla nostra Associazione dal 1984 al 1993, per poi assumere nell’ambito del Ministero Moratti il ruolo di Capo del Dipartimento per l’Università e la Ricerca del MIUR un tempo appartenuto a storici direttori generali quali il Dr. Domenico Fazio (don Mimì) e il Dr. Giovanni D’Addona. Si è trattato di un periodo particolarmente positivo per la ricerca italiana, collegato a una vera e pro- Nascita e contributo del CNU allo sviluppo dell’università e della ricerca in Italia 345 pria rinascita dello spirito di appartenenza all’Università e ai suoi valori a cui il CNU diede un contributo fondamentale. La presente crisi strutturale ed economica dell’Università e degli enti nazionali di ricerca determinata non solo dalla crisi economica ma da provvedimenti legislativi adottati su proposta di persone spesso mancanti della necessaria professionalità ed esperienza, richiederebbe oggi – e qui esprimo un personale auspicio – un forte richiamo al positivo spirito associazionistico che ha ispirato per molti anni la nostra Associazione. Con affetto e stima Luciano Modica Ho accettato volentieri il gentile invito di Paolo Gianni di scrivere qualche rigo per questo libro che racconta la storia del CNU. Non solo perché sono amico di Paolo da una vita, come collega di facoltà e come collega di laboratorio di mia moglie. Ma anche perché la mia vicenda di politico universitario si è incrociata più volte con questa associazione impegnata da decenni sui temi universitari. Quando trent’anni fa fui eletto alla mia prima carica accademica, quella di direttore del mio dipartimento, il rettore dell’Università di Pisa era Bruno Guerrini, recentemente scomparso, figura simbolica del CNU pisano, dove era confluita l’associazione ADRUP che Guerrini aveva fondato a Pisa dopo l’esperienza nazionale nell’UNAU. Guerrini mi prese subito a benvolere nonostante che mordessi alquanto il freno nella mia ansia riformatrice rispetto al suo stile cauto. Così mi affidò di tanto in tanto qualche incarico, soprattutto nel periodo in cui fui eletto nel consiglio di amministrazione dell’università. Ciò mi diede modo di frequentare da vicino il gruppo dei suoi collaboratori più stretti, tra i quali in particolare Giorgio Cavallini, anche lui del CNU, e lo stesso Paolo Gianni. Furono anni molto intensi e, a paragone degli attuali, molto fortunati per l’università italiana, conseguenti alla profonda riforma dettata dal DPR 382/1980 e alle innovazioni introdotte da Antonio Ruberti. A proposito del DPR 382, solo anni dopo avrei appreso dai racconti sempre vivaci e interessanti di Paolo Blasi alla CRUI del ruolo giocato dal CNU nella sua stesura. Dopo la legge 168 del 1989, nell’Università di Pisa come in tutte le università italiane il Senato Accademico Integrato iniziò il lavoro per redigere il primo nuovo statuto dell’autonomia. Facevo parte di quest’organo costituente perché nel frattempo ero divenuto preside di facoltà. Fu una vera scuola di politica universitaria – anzi di politica tout court – per me e per tutti i suoi membri. Non a caso molti di loro, professori o studenti, hanno poi continuato ad impegnarsi in politica, sia nell’università che nella società. Nel Senato Accademico Integrato si confrontarono due componenti accademiche: una, leggermente più conservatrice, guidata appunto dal CNU e da Bruno Guerrini, ormai ex rettore perché alla carica era stato eletto il suo prorettore Gianfranco Elia; l’altra, leggermente più innovativa, legata all’autonomia tematica AURORA del PDS. Le due bozze preparatorie del nuovo statuto furono in gergo denominate rispettivamente “Carta bianca” e “Carta verde”, banalmente a causa del colore della carta su cui erano stampate. 348 Testimonianze Né allora né in seguito ho mai fatto parte di sindacati o associazioni professionali universitarie. La conseguente maggiore libertà d’azione fece sì che, distaccandomi sia dal CNU che da AURORA ma sempre nel massimo rispetto di ambedue le posizioni e con una sincera e duratura amicizia per i loro esponenti, mi schierai con quella maggioranza del Senato Accademico Integrato che propugnò e alla fine fece approvare all’unanimità quello Statuto dell’Università di Pisa che conteneva forti innovazioni – in un quadro di governance riordinata ed equilibrata ma in fondo abbastanza tradizionale – e che era destinato a diventare un esempio molto imitato dalle altre università. Mai avrei pensato che sarebbe toccato proprio a me, eletto rettore dopo le dimissioni di Gianfranco Elia, emanarlo e guidarne la prima applicazione. Nelle elezioni a rettore l’incrocio col CNU si ripeté di nuovo perché il mio avversario più forte, su cui prevalsi solo al ballottaggio, fu proprio Giorgio Cavallini, amico carissimo cui sono rimasto sempre legato. Le nostre differenti visioni politiche non ci hanno mai impedito stima e affetto forti e reciproci: troppo simili erano e sono l’impegno e la passione accademica. Col rettorato cominciava l’avventura nazionale alla CRUI, dove ebbi quasi subito come presidente Paolo Blasi, personalità di spicco del CNU, con cui vissi forse la più entusiasmante avventura della mia “carriera” politica. Il dispiegarsi dell’autonomia, soprattutto dell’autonomia budgetaria, una nuova generazione di rettori intraprendenti, appassionati e dotati di grande leadership, la presenza al Governo di un ex rettore come Luigi Berlinguer e del brillante e infaticabile Sottosegretario Luciano Guerzoni, che coprì il ruolo ininterrottamente dal 1996 al 2001, ebbero come effetto quella che ritengo ancora sia stata l’ultima stagione d’oro dell’università italiana, non tanto dal punto di vista finanziario – l’oro non si riferisce al denaro! Anche se i pesantissimi tagli degli ultimi anni sarebbero allora sembrati fantapolitica – quanto piuttosto per le capacità innovative e auto-riformatrici che furono mostrate dagli atenei italiani. Non è questo il luogo per ricordare tutti gli aspetti e i molti successi di quel periodo. Penso però che la politica universitaria manchi abbastanza frequentemente di storici adeguati quando invece molte questioni meriterebbero di essere documentate, analizzate e storicizzate, anche per evitare una certa coazione a ripetere gli stessi percorsi e gli stessi errori che è tipica dei politici universitari. Avvertenza forse vana visto che viviamo un periodo in cui chi sa è considerato un “gufo”. Negli anni alla CRUI, di cui divenni presidente succedendo a Paolo Blasi, il CNU, come i sindacati e le altre associazioni universitarie, non furono di grande aiuto per le scelte più difficili ma anche più innovative. Intendo come strutture, non come singoli aderenti. Prevaleva a mio giudizio un certo conservatorismo accademico, che peraltro corrispondeva a quello che già si respirava in vasti settori dell’università e che alla fine ha favorito l’evidente ritorno indietro dalla breve stagione dell’autonomia creativa e responsabile al tradizionale e deresponsabilizzante centralismo burocratico-ministeriale. Tanto per fare un esempio, non posso non ricordare la tenace opposizione di sindacati e associazioni alla trasformazione del ruolo dei ricercatori in quello di professori di terza fascia che, se attuata, avrebbe a mio giudizio attenuato e forse evitato alcune delle Con affetto e stima 349 conseguenze negative, tuttora molto attuali, della legge 240/2010 (Legge Gelmini)1. Fu l’argomento di molte, tese e alquanto inutili riunioni con il “Tavolo Intersindacale” cui partecipai da Sottosegretario del Ministro Mussi durante la breve esperienza governativa del 2006-2008 e in cui il CNU era rappresentato da Sergio Sergi il quale, se non ricordo male, era anche il coordinatore del Tavolo. Un aspetto distingueva però il CNU da altre “sigle”: la presenza al suo interno di professori che erano conoscitori esperti e profondi del sistema universitario e che portavano nel dibattito contributi culturalmente ben fondati e pragmaticamente fattivi, consolidati in vere e proprie pubblicazioni, in pieno stile universitario. Tra di loro certamente Sergi ma anche altri aderenti del CNU dai cui apprezzati interventi ho avuto l’occasione di imparare molte cose. Un solo nome per tutti: Giovanni Cordini, che ha tra l’altro magistralmente trattato il tema del valore legale dei titoli di studio, la cui abolizione è una bandierina periodicamente sventolata, ahimè, da frettolosi riformatori. La stagione che l’università italiana vive attualmente è forse, purtroppo, una delle peggiori nella sua antica storia. Altre generazioni verranno e ne risolleveranno, mi auguro, le sorti. Perché nessun Paese in nessun momento e in nessuna parte del mondo può sopravvivere a lungo se non alimenta le fonti della conoscenza con la libera ricerca e non le distribuisce con l’insegnamento. Ma tutti abbiamo un compito essenziale, tipicamente universitario: non disperdere il sapere e la competenza specifici, nella politica universitaria come in ogni altra disciplina, salvandoli da un lento oblio da cui sarebbe poi molto difficile farli riemergere. Senza un solido sapere non c’è un vero futuro. Spero che il CNU continuerà a svolgere la sua parte in questa impresa. 1 In realtà il CNU era a larga maggioranza favorevole alla terza fascia (esclusa, se non erriamo, la sola sede di Genova). Ma il rappresentante del CNU, Sergio Sergi, coordinatore dell’Intersindacale, non poteva in quella sede esprimere idee contrarie a quelle di molte delle altre associazioni, in particolare di quelle dei ricercatori, le quali pretendevano qualcosa di più (anche economicamente) della semplice trasformazione “tout-cours” in terza fascia del loro ruolo. Il favore del CNU alla terza fascia si concretizzò diversi anni dopo in una specifica proposta di riforma: “Una proposta per lo stato giuridico dei Ricercatori”, vedi DVD allegato, Sezione V, ndr. Un indelebile ricordo della mia militanza nel CNU Un grande apprendimento Vittorio Cecconi Anch’io c’ero. Ero uno dei legionari del CNU, così mi piaceva e mi piace chiamarmi. Ero in ciò sostenuto, insieme agli altri, da stimoli concreti, ma anche spinto e affascinato da ideali più grandi di me che avevo l’ardire e l’orgoglio di concorrere a definire. Erano stimoli concreti quelli che mi vedevano partecipe, con la gran parte dei colleghi assistenti universitari, professori incaricati stabilizzati e non, liberi docenti ma anche con professori di ruolo, nella azione rivolta a un cambiamento radicale della struttura docente dell’università italiana che riconoscesse ruoli e diritti paritetici a tutti coloro i quali esercitavano compiti di ugual prestigio e con uguali doveri. Un pizzico di corporativismo non guastava, ma era giustificato dalla ricerca di una adeguata forza di contrapposizione verso la struttura oligarchica dell’assetto universitario vecchio e superato dai tempi. Diversamente gli ideali, dal grande fascino, guardavano all’università come al soggetto collettivo in grado, con il proprio esempio, di trascinare la società verso evoluzioni più giuste, più luminose, più dense di etica, più degne del consorzio umano preso nella sua collettività. Non era l’idea della rivoluzione concepita e portata avanti da una sparuta aggregazione autodefinitasi punta di diamante, ma era il convincimento che l’elaborazione culturale, sostenuta dall’impegno e dalla integrità di un corpo omogeneo con volontà comuni e forti, potesse perseguire e conseguire gli obiettivi sociali, pur ambiziosi, che ci eravamo posti. Era la concezione di dare all’università il ruolo sociale che le doveva essere proprio. La comunione delle volontà rivolte agli obiettivi e la priorità assegnata alla elaborazione culturale nelle scelte da privilegiare contribuirono fortemente a una visione della politica che da allora a oggi non si è più manifestata ai miei occhi, se non in occasioni limitate. È questo l’elemento che ricordo con passione ed emozione e che qui desidero evidenziare ed esaltare. Precisamente eravamo in molti a riconoscere alla politica il nobile ruolo di interpretare le esigenze delle popolazioni e la necessità, anzi la opportunità, di ricorrervi come un impegno sociale. Molti di noi già militavano in partiti politici o vi hanno avuto accesso proprio per aver maturato dentro il CNU detta visione. Ma le differenti ottiche politiche non costituivano baluardi impenetrabili ad altri punti di vista. Piuttosto erano le piattaforme, anche molto solide per il contenuto ideologico che vi attribuivamo, dalle quali ci si proiettava per affrontare il confronto con la diversità, con le altre idee, con altre visioni, certi che dalla dialettica intellettuale che ne sarebbe scaturita 352 Testimonianze derivassero approcci migliori e non incomprensioni o separazioni. Il rapporto con i partiti politici era assiduo e profondo e invece di portarvi dentro rivendicazioni di parti contrapposte vi trasferivamo la stessa tipologia di confronto dialettico interno al CNU che mirava a trovare le migliori possibili soluzioni ai problemi evidenziati. Tutto il cosiddetto arco costituzionale si ritrovava impegnato nel CNU: comunisti, liberali, socialisti, democratici cristiani, repubblicani, socialdemocratici, tanto più vivi nella loro caratterizzazione ideologica quanto più capaci di confrontarsi con la diversità per ricercarne una amalgama o quanto meno una complementarietà come gli inerti e gli elementi attivi in un aggregato più robusto di ciascun componente. Il fatto che tutto questo avvenisse in un momento, vorrei dire in una era anche se breve, dalle grandi tensioni politiche e ideologiche, costituiva un elemento di maggior pregio rispetto ai più recenti tempi in cui la politica ha quasi abbandonato gli ideali, certamente i riferimenti ideologici. Non riscontro oggi nella vita politica attuale un così nobile comportamento al quale sono stato a suo tempo spinto nel CNU per merito di non pochi colleghi. Tutto questo avveniva in un contesto molto nobile e intellettualmente stimolante. Ho avuto la fortuna di trovarmi accanto a intelligenze lucide e ispirate da visioni profondamente etiche. La ricchezza che ne ho ricevuto è stata grande, non solo sul piano puramente intellettuale, ma anche sul piano del comportamento umano nel reciproco rispetto. L’insegnamento avuto è stato indelebile e in tante altre fasi della mia vita, se pur diverse, mi ha sostenuto e mi ha prodotto grandi benefici, morali e non solo. A titolo di esempio non posso sottacere l’emozione provata, quasi ai primi chiarori dell’alba al termine di congressi nazionali del CNU quali quello di Firenze (1971) e quello di Venezia (1976), nel raggiungere con gli altri con sorpresa, pur negli schieramenti dialettici che conservavamo, posizioni di maggioranza e di minoranza, punti di sintesi condivisi dopo confronti anche aspri che partendo da posizioni politiche e personali lontane si proiettavano nel confronto verso la ricerca di questi risultati. In particolare, essendomi sempre impegnato nel CNU molto a livello locale, anche per la definizione delle posizioni che la mia sede avrebbe poi espresso a livello nazionale, desidero utilizzare queste note da poco per riandare con il pensiero alla grandezza intellettuale accoppiata a umanità di Totò Saetta e al limpido rigore e coerenza di Michele De Franchis con i quali costituimmo una solidissima intesa sempre, e di volta in volta trovata, tra un democratico cristiano, un comunista e un socialista. È difficile per me non cedere alla nostalgia e quindi non ripassare in rassegna quella epoca, l’epoca del CNU. A livello nazionale desidero ricordare la ammirazione mista a solidarietà che ho sempre sentito verso Gaetano Crepaldi, Camillo Dejak, Ciccio Faranda, Gaetano Gallinaro, Bruno Guerrini, Giunio Luzzatto, Piero Milani, Paolo Pupillo, Mario Rinaldi, Giorgio Spini, i due suddetti miei concittadini e tanti altri. È una gioia frequentare ancora qualcuno di loro, è un dolore pensare che altri non sono più tra noi. Se qualcuno dovesse ritenere che accomunare tali nomi sia espressione di incoerenza, lo prego di giustificarmi alla luce dell’insegnamento sopra delineato che ho appreso nel CNU. Parte V Ricordi Ci hanno lasciato anzitempo a cura della Redazione Desideriamo rivolgere un affettuoso pensiero ai tanti amici che hanno ricoperto ruoli importanti all’interno del CNU, o nelle istituzioni universitarie e/o di ricerca, e che ci hanno lasciato prima di poter dare il loro contributo a questa opera. Anche la semplice raccolta dei loro nomi ci ha causato uno struggente rimpianto. D’altra parte riconosciamo che è stato un privilegio bellissimo conoscerli, frequentarli, sentirli vicini, e constatare che tutti, dal primo all’ultimo, erano innamorati dell’Università e hanno vissuto l’esperienza CNU con grandissima apertura mentale, con generosità, cercando di anteporre sempre l’interesse della istituzione universitaria. Luigi Amaducci (FI) Presidente della Commissione Ricerca dal 1973 al 1976. Silvano Bordi (FI) Segretario Naz.le dal 1984 al 1988 e Presidente del CNU di Firenze dal 1980 al 1995. Alessandro Castellani Rettore di Pavia dal 1983 al 1988. Roberto Cencioni (FI) Primo Presidente del CNU di Firenze. Carlo Cipolloni (PI) membro di Giunta nel 1971 al 1974 e Presidente CNU di Pisa dal 1970 al 1975. Giuseppina D’Amato (GE) membro di Giunta dal 1986 al 1988, storica “Tesoriera” del CNU di Genova. Francesco Faranda (ME) (per noi “Ciccio”) Presidente Naz.le CNU dal 1979 al 1984 e Vice-Presidente dal 1976 al 1979. Bruno Guerrini (PI) membro Giunta dal 1974 al 1979, Presidente Commissione Ricerca dal 1974 al 1979 e Rettore di Pisa dal 1983 al 1989. Antonino Intrieri, dirigente naz.le ANRIS, Presidente Commissione Sindacale 1977-1979, rappresentante area Economia Aziendale del CNR nel 1974-1980 e del CUN nel 1981-1986. 356 Ricordi Carlo Laureri (PR) membro Giunta dal 2002 al 2008 e Presidente CNU di Parma dal 1993 al 2003. Piero Milani (PV) Vice-Presidente dal 1971 al 1976 e Presidente CNU di Pavia ... da sempre. Giuseppe Restuccia (ME) (per noi “Pino”) Segretario Nazionale dal 1979 al 1984 e membro del CUN dal 1986 al 1997. Pietro Passerini (FI) membro Giunta dal 1971 al 1973. Salvatore Saetta (PA) (per noi “Totò”) Presidente dell’ANRIS nel 1970 e VicePresidente del CNU dal 1971 al 1974. Tristano Sapigni (FE) Promotore e Direttore del giornale WEB “CNU.CINECA.it” dal 1998 al 2008 e inventore della lista di discussione UNILEX. Corrado Scaravelli (PR) membro Giunta dal 1984 al 1991, Presidente Commissione Sindacale dal 1984 al 1991, Presidente del CNU di Parma dal 1979 al 1984 e Pro-Rettore di Parma dal 1989 al 2004. Giorgio Spini (FI) Primo Presidente Nazionale del CNU dal 1971 al 1976. Giuseppe Tallarida (RM) (per noi “Pino”) Presidente Commissione Medicina dal 1984 al 1988. Marco Unguendoli (BO) membro Giunta dal 1977, Vice-Presidente dal 1979 al 1984 e Direttore del giornale (Università e Ricerca) dal 1988 al 1998. In ricordo di Giorgio Spini Giovanni Cordini e Piero Milani Giorgio Spini, Professore Emerito dell’Università di Firenze, tra i soci fondatori del CNU, di cui è stato anche Presidente Nazionale, è mancato il 14 Gennaio 2006. È mancato in questi giorni Giorgio Spini, professore emerito dell’Università di Firenze, studioso insigne, personalità tra le più illustri della Scuola storica nazionale. Giorgio Spini lascia un’impronta davvero indelebile nel mondo della cultura. Nonostante l’elevata statura scientifica e il prestigio internazionale derivante dai Suoi studi Egli è sempre apparso avulso da protagonismi per volgersi, con assoluta dedizione e con grande passione, all’insegnamento e alla ricerca. Il professor Spini è stato tra i fondatori della nostra Associazione, ne ha assunto, all’origine, la Presidenza Nazionale e ha svolto un ruolo rilevante per consolidare l’associazionismo universitario, seguendo, con interesse, il CNU anche quando non fu più in grado di dedicarvi un impegno attivo. Chi scrive sente il rimpianto di non avere avuto, per ragioni anagrafiche, l’opportunità di una personale conoscenza. Ciò nondimeno, attraverso gli scritti e le testimonianze di alcuni amici che hanno collaborato con Lui come Paolo Blasi, Piero Angelo Milani, Tristano Sapigni, ho la fiera consapevolezza di un retaggio tanto prestigioso. Con il rimpianto, a nome dell’Associazione tutta, tengo ad esprimere il nostro sincero cordoglio per la Sua scomparsa e la gratitudine per l’attività generosa e disinteressata che Egli ebbe a dedicare al CNU. Giovanni Cordini Presidente Nazionale CNU Gentili colleghi, come forse avrete appreso dalla TV e dai giornali è mancato Giorgio Spini, professore emerito dell’Università di Firenze. Un grandissimo storico conosciuto nel mondo e, per quanto riguarda l’associazionismo universitario, uno dei fondatori e presidente nazionale per molti anni del CNU. Chi scrive, che è stato con lui co-fondatore e vicepresidente dell’Associazione e che ha avuto il privilegio di godere della sua amicizia e ricchezza culturale ed umana, ritiene doveroso ricordarlo con commosso rimpianto soprattutto ai più giovani colleghi e far pervenire alla famiglia la più commossa partecipazione al lutto. Piero A. Milani Presidente ADRAT-CNU Pavia, Gennaio 2006 In ricordo di “Ciccio” Faranda Il mio Maestro Nino Manganaro Francesco Faranda è sempre stato animato da un forte senso di appartenenza all’Università come luogo di alta formazione culturale e scientifica. Significativo è stato il suo impegno per il riconoscimento di stato giuridico dei docenti e dei ricercatori, per consentire una piena valorizzazione del loro ruolo a livello nazionale e internazionale garantendo alta qualificazione della ricerca scientifica e tecnologica nelle nostre Università. Questo suo impegno si è tradotto nella fondazione dell’ANRIS (Associazione Nazionale Ricerca Scientifica) e poi in un suo decisivo apporto alla costituzione del CNU (Comitato Nazionale Universitario) di cui fu anche Presidente. Ma la sua opera più lungimirante resta la fondazione nel 1994 del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare (CoNISMa), concepito come struttura capace di reclutare e integrare tutte le risorse scientifiche disponibili nelle università italiane nei diversi settori delle scienze ambientali marine. La sua attività di ricerca in campo ambientale si dispiega intensamente all’Università di Messina, in collaborazione con la prestigiosa scuola di oceanografia e microbiologia del Prof. S. Genovese, ed è orientata allo studio degli ambienti salmastri. Le indagini su questi ecosistemi lo sollecitano a interessarsi di acquacoltura, ambito in cui riesce ad aggregare un gruppo di ricerca interdisciplinare con fisiologi, planctologi, oceanografi, chimici e fisici, con i quali affronta, per più di un decennio, varie tematiche di rilevante interesse scientifico e applicativo. Questa esperienza stimola Faranda ad ampliare i suoi orizzonti e a dar corpo a disegni innovativi di promozione e organizzazione della ricerca in campo ambientale. Si occupa di grandi progetti nazionali e internazionali, anzitutto il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) e il Progetto EULA-CILE del Ministero degli Affari Esteri. Oggi il progetto EULA-CILE ha portato alla formazione della Facoltà di Scienze Ambientali, e un’aula della stessa è stata a lui intitolata. In tale contesto mette a frutto la sua straordinaria capacità di aggregare competenze, abilità tecniche diverse. Grazie a Faranda il Piano Nazionale di Ricerca in Antartide acquisisce una dimensione nazionale coinvolgendo l’intero sistema italiano della Ricerca, anche oltre gli ambiti universitari. Faranda ha sempre sostenuto che l’interdisciplinarietà è un traguardo che si può conseguire con l’apertura mentale e la buona volontà. Ed è convinto di potere realisticamente raggiungere questo traguardo, già per altro centrato con il Progetto Antartide, anche in altri contesti territoriali. Dal 1987 al 1993, si dedica a tempo pieno alla progettazione ed esecuzione di un impegnativo programma di cooperazione allo sviluppo in Cile, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri: Gestione delle risorse idriche nel bacino fluviale Biobio e dell’area marina antistante interessata. In questa occasione Faranda dà espressione compiuta alla sua 360 Ricordi visione di una stretta interdipendenza tra alto profilo del curriculum formativo e buona qualità della ricerca. Tutta l’attività svolta, dal coordinamento organizzativo intersettoriale fino al trattamento dei dati raccolti all’insegna di approcci multidisciplinari e interdisciplinari, ha sostanziato un modello di analisi territoriale, il modello EULA, presentato dall’UNESCO a Parigi in un seminario internazionale. Faranda è stato anche responsabile del Progetto Comunitario Alfa “EULA network” a capo di una rete costituita da sei università straniere. Lungo sarebbe l’elenco dei progetti di cui Faranda è stato ideatore, promotore e responsabile scientifico e degli incarichi accademici e istituzionali che ha rivestito. Ci si limita a ricordare che è stato membro del CTS (Comitato Tecnico Scientifico del MIUR) e del CSNT (Consiglio Nazionale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica presso il MURST). L’Università di Palermo gli conferisce la Laurea honoris causa in Risorse Biologiche Marine, facendosi interprete del sentimento di profonda stima e di riconoscenza che gli studiosi del mare hanno nutrito per la sua figura di ricercatore e di innovatore nel settore della Biologia Marina e dell’Oceanografia. MESSINA, 25/05/2014 Il ricordo di amici CNU Antonio Miceli, Luigi Chiofalo, Stefano Monti Bragadin, Roberto Gagliano Candela, Carlo Ferraro, Alberto Pagliarini, Sergio Sergi Antonio Miceli L’8 giugno 2011 si è spento nella sua amata casa di Tortorici (ME) Ciccio Faranda, uno dei fondatori del Comitato Nazionale Universitario. È stato un appassionato ed intelligente docente dell’Università di Messina. Ha sempre difeso con grande amore, intuito e genio politico il ruolo strategico per il Paese dell’Università Pubblica, la sua inalienabile indipendenza e l’insostituibile funzione che essa ha avuto ed ha nella formazione delle nuove classi dirigenti. Questo suo grande amore, così come quello per la sua compianta moglie Gianna ed il culto dell’amicizia di uomo del sud, hanno caratterizzato la sua ricca e feconda vita. Non ha avuto figli, ma l’affetto per i suoi allievi lo ha certamente compensato per questo dolore. Voglio salutarlo ricordando le lunghe ed appassionate discussioni sull’Università, sulla ricerca, sulla didattica, sulla democrazia interna e sull’autonomia che insieme con tanti colleghi, tutti vivi nel nostro cuore, abbiamo intensamente vissuto. Il ricordo del quotidiano Gazzetta del Sud, 9 e 10 giugno 2011, riportati sul sito www.universitaericerca.it: http://www.universitaericerca.it/images/cnu/prof._francesco_faranda.pdf http://www.universitaericerca.it/images/cnu/prof._faranda_100611.pdf Luigi Chiofalo La scomparsa del prof. Francesco (Ciccio) Faranda, a parte lo sgomento, ci riporta ad un periodo per certi versi esaltante della vita e della politica universitaria. Lo rivedo a Messina all’inizio del 1970, alla nascita del Comitato Nazionale Universitario (CNU) nuova e rilevante espressione degli organismi sindacali della docenza universitaria, con una sezione messinese numerosa dove confluivano quasi tutti i docenti e che sarà poi tra le più attive anche a livello nazionale (presenza nella Giunta Esecutiva, Presidenza nazionale, ecc.). Conservo ancora, ero allora responsabile della sezione, qualche estratto di verbale di alcune sedute a Messina. Mi piace in particolare ricordare una seduta del Direttivo con la rappresentanza di tutte le facoltà, che iniziò presso l’istituto di Zootecnia il 2 maggio 1972 alle ore 18.30 e si concluse a Scienze Politiche alle ore 05.00 del 3 maggio 1972. Presenti: Faranda, Chiofalo, Squadrito, Miceli, D’Amoia, Ciraolo, Barresi, Pernice, Vasta, Cuzzocrea D., Collura, Martino, Corigliano ed altri. Si discuteva di 362 Ricordi Università e di assemblee unitarie con CGIL, CISL e altri sindacati. Per non parlare di altre riunioni con la presenza anche di Anastasi, Feliciotto, Giliberto, Tommasini R., Palmieri, Dominici, Gattuso, Catarsini, quando accanto ai problemi universitari nazionali erano trattati problemi locali, come ad es. l’estensione del premio di operosità scientifica a tutti gli assistenti. Ciccio Faranda sempre presente e sempre in prima linea nella discussione e definizione degli argomenti di più immediato interesse. Di Ciccio Faranda si ricorda ancora la presenza dominante e gli interventi seguiti con molta attenzione ai Consigli delle sedi (Firenze, Milano, Bologna, Roma, ecc.), allo stesso congresso di Milano nel 1973 (Presidente G. Spini) quando molto spesso si discuteva sino a tarda notte. In un incontro a Roma, dopo una giornata di Consiglio delle Sedi al Continental, dove il nostro Ciccio giganteggiava da protagonista, non riesco a dimenticare la sosta di fronte alla stazione centrale per rifocillarci con quello che offrivano le bancarelle. Al V Congresso Nazionale di Taormina Ciccio Faranda veniva confermato nella Giunta Nazionale e rieletto Vice Presidente. Negli anni a seguire è stato poi dinamico e puntuale Presidente Nazionale. Se la legislazione universitaria ha fatto qualche passo in avanti (potremmo in qualche modo ricordare la 382/80) molto si deve al CNU e in particolare all’impegno di Ciccio Faranda. Delle sue affermazioni in campo scientifico e organizzativo con riconoscimenti a livello nazionale e internazionale è stato già detto, anche dallo stesso Rettore dell’Università di Messina. Desidero chiudere, scusandomi per l’incompletezza soprattutto con Ciccio, con un ricordo personale che testimonia del suo grande cuore e dell’eccezionale sensibilità. Un incidente d’auto aveva stroncato la vita, in maniera straziante, ad un carissimo amico mio, vicino al CNU, il Prof. Sebastiano Genovese, insigne docente dell’Università di Messina, e al quale Ciccio era molto legato anche per comunanza scientifica. Raccolta e composta la salma in una delle aule dove lavoravano entrambi, io mi presento per l’ultimo saluto. Ciccio Faranda con le lacrime agli occhi, conoscendo il mio affetto per il defunto, mi blocca dicendomi con voce strozzata dal pianto Luigi desidero che tu continui a ricordare il tuo amico com’era prima. Ciao, indimenticabile Ciccio! Stefano Monti Bragadin Quella di Ciccio Faranda è una grande perdita per il CNU, ma il nostro grato ricordo della sua persona è destinato a restare, solido quanto il contributo d’azione da Lui impareggiabilmente dato al nostro sodalizio. Per noi genovesi esistono poi tanti altri motivi per non dimenticarlo, specie grazie ai suoi interventi in talune situazioni particolarmente difficili. Nell’associarmi alla profonda e affettuosa partecipazione di cordoglio, mi sento unito a voi nel fraterno abbraccio ai suoi familiari. Il ricordo di amici CNU 363 Roberto Gagliano Candela Ciccio Faranda. Lo ricordo sempre disponibile, pronto a lottare per i sui ideali, che poi erano gli ideali del CNU. Sempre allegro, disponibile, ma con un forte carattere. La perdita di Ciccio Faranda è una perdita del CNU che ha visto in lui un leader sempre attivo, proprio quando si susseguivano leggi e norme che hanno cambiato il mondo dell’Università. Ciao Ciccio, l’Università ed il CNU ti devono molto. Che il tuo impegno sia di esempio per i giovani. Il CNU di Bari si unisce a voi nel fraterno abbraccio ai familiari. Carlo Ferraro Apprendo con profondo dispiacere e viva commozione che è mancato l’Amico “Ciccio” Faranda. Lo ricordo con affetto durante il decennio che ci portò dal disappunto della mancata approvazione della legge “Pedini” negli anni ’70 al successo dell’approvazione della 382 degli anni 80. Ricordo con vero rimpianto alcune giornate passate insieme a Roma in occasione della discussione in Parlamento della 382 per portare il nostro contributo. Seppe guidare l’Associazione con grandi capacità propositive e di mediazione che ci portò ad una legge che ancora oggi conserva grandi motivi di innovazione. E anche dopo continuò a dare il Suo fattivo contributo al progresso del CNU e dell’Università italiana. A nome mio personale e di tutta la Sede di Torino prego la Presidenza Nazionale del CNU di esprimere alla Famiglia dell’Amico “Ciccio” Faranda le più sentite condoglianze. Alberto Pagliarini “Ciccio” non c’è più! Rimane l’indimenticabile ricordo di un Uomo, un amico di tutti, un Presidente del CNU attivissimo, infaticabile, ricco di entusiasmo, passione, idee e iniziative. Riusciva a organizzare riunioni, incontri, assemblee sempre affollate e partecipate, in un periodo in cui si doveva riorganizzare l’Università per affrontare al meglio il passaggio da università di élite a università di massa. Sotto la Sua guida, l’apporto del CNU alla legge delega 28/80 e al successivo DPR 382/80 fu incisivo e determinante, anche se condizionato da un insieme di inevitabili compromessi politici. Sono commosso per la Sua perdita. Grazie “Ciccio”. Riposa in pace. 364 Ricordi Sergio Sergi Ricordo Ciccio come amico e come collega, ho avuto il piacere e l’onore di averlo come compagno di vita e di battaglie. Siamo stati insieme in Facoltà, lui biologo io chimico, siamo stati insieme in Consiglio di Amministrazione, siamo stati insieme al CUN facendo sempre, battaglie di correttezza e di democrazia. Ricordo, negli anni in cui la nostra Facoltà era nel plesso centrale, le lunghe passeggiate nell’ampio cortile nelle quali Ciccio discuisiva di politica, di Università, di vita. Ricordo la festa da Gianna preparata per festeggiare la cattedra di Ciccio. Ricordo i suoi aneddoti, famoso quello: Io’ ti canusciu di quann’eri pirara. Caro Ciccio sei andato ad incontrare la Tua amata Gianna. Ricordo di Ciccio Faranda da una intervista a Paolo Blasi Paolo Gianni e Sergio Sergi [B] Ho passato 4 anni come vicepresidente di Francesco Faranda (per gli amici Ciccio) Presidente nazionale del CNU insieme all’altro vicepresidente, l’indimenticabile Marco Unguendoli. Sono stati anni ricchissimi di esperienze professionali ed umane e di grandi risultati sul fronte della riforma universitaria. Ciccio era una persona di rara umanità e di grande simpatia. [G] qualche ricordo particolare? [B] Si!! Ciccio aveva un ottimo rapporto di amicizia con un sacerdote di Parma Don Moroni , nonostante ciò un giorno Ciccio mi fa: “senti, Paolo, mi hai fatto pensare a Dio più tu, che non me ne hai mai parlato, di Moroni che me ne parla tutti i giorni!” [S] del rapporto di Ciccio con la religione mi è rimasta impressa una cosa. Diceva sempre che dell’insegnamento di Gesù non accettava il fatto che bisognasse “porgere l’altra guancia”. Lui questo atteggiamento proprio non lo concepiva. [G] come erano i rapporti di Ciccio con le personalità politiche che ha frequentato? Mi risulta che lo ascoltassero tutti con molta attenzione e quasi sempre riuscisse ad ottenere quello che voleva. [B] Sì, perché ispirava subito una grande e spontanea simpatia . Tutti lo apprezzavano sul piano umano e su quello culturale e professionale. Non ho mai visto alcuno negare a Ciccio un incontro perché aveva sempre un rapporto diretto, un grande rispetto per le persone, e mostrava quella sua cultura meridionale così ricca di sfumature e di umanità. Sono stato a trovarlo a Tortorici dove lui era nato, ricordo i noccioleti di Tortorici, e ricordo il grande amore di Ciccio per la sua terra e per il mare, oggetto dei suoi studi. Indimenticabili i suoi racconti sulle spedizioni scientifiche in mare nonché sulle applicazioni pratiche dei suoi studi come la piscicoltura. Ricordo che mi portò a vedere come allevavano i gamberoni lì a Messina. I gamberoni producono le uova quando la temperatura e la trasparenza dell’acqua marina ha certi valori, questo perché i piccoli gamberini appena nati debbono trovare un ambiente giusto per poter crescere. Cioè debbono trovare un plancton finissimo per potersi nutrire e la temperatura giusta per la crescita. I “gamberoni mamma” hanno dei sensori sugli occhi per quanto riguarda la trasparenza e sul naso per la temperatura. In pratica, i gamberoni in cattività vengono immersi in grandi vasche a temperatura controllata e, per farli figliare, gli tolgono gli occhi: senza gli occhi producono uova di continuo, finché non muoiono. È un metodo, lo riconosceva, un po’ truce, però funziona. Per 366 Ricordi quanto riguarda il plancton glielo preparavano dagli scarti della lavorazione del pesce, opportunamente frantumati e macinati fino a dimensioni dell’ordine dei micron. Da lui ho imparato molte cose in particolare l’importanza del disegno nel mondo biologico. Aveva dei tecnici che sapevano disegnare in modo fantastico. Mi fece vedere come un disegno di un pesce fatto da questi tecnici avesse un contenuto di informazione enormemente superiore a quello di una fotografia. Il motivo è semplice: il tecnico che disegna un pesce mette in evidenza nel disegno stesso tutte le caratteristiche specifiche di quella specie mentre nella foto sono rappresentate solo le caratteristiche di quell’esemplare. Nella foto quindi si vede l’individuo, ma non vi si trovano evidenziate tutte le caratteristiche specifiche della specie. Io sono un appassionato di funghi ed ho riscontrato che anche per i funghi vale lo stesso discorso. Ricordo anche che Faranda aveva una magnifica collezione di presepi. Pur non essendo un credente, o comunque un cattolico praticante, forse per il fatto di non aver avuto figli, la sua sensibilità umana si era arricchita anche con i presepi. Quindi è vero che aveva una personalità fuori dal comune, che non posso in alcun modo dimenticare cosi come era grande il suo affetto per la moglie che lo seguiva ovunque prendendosi cura di lui. Sono molto grato a Ciccio perché gli anni di attività CNU, passati vicino a lui, mi hanno veramente arricchito sul piano umano e hanno consolidato un’amicizia che non si dimentica. [S] a proposito del suo rapporto con Dio e la religione ricordo che raccontava spesso di uno scultore di legno Tortoriciano, il quale una volta, vedendo un albero (mi pare un pero) che era seccato, chiese al padrone del terreno il permesso di prelevare il tronco per farne una scultura. Avuto il permesso portò via il tronco e scolpì un bellissimo crocifisso, che poi regalò alla chiesa. Lo stesso scultore ogni tanto si recava in chiesa e diceva, rivolto al Cristo: io ti conosco bene, fin da quando eri un albero di pere. Allora di pere non ne hai mai fatto una: figuriamoci se adesso ti metti a fare i miracoli! [B] vedi, anche questo dimostra il suo “humour” e la sua sensibilità verso ogni aspetto della vita umana: era veramente una persona straordinaria! Ricordo di Piero Angelo Milani (1935-2014) Giovanni Cordini Per ricordare l’amico Piero ho, anzitutto, chiesto agli amici e colleghi del CNU di poter riprodurre, in questa sede, l’intervento da me svolto in occasione della “Commemorazione all’Università degli Studi di Pavia”, il giorno 9 giugno 2014. per Piero è giunto il tempo delle certezze finali e dell’incontro con la Verità. Queste poche parole di testimonianza non intendono essere solo quelle del Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, la sede della Sua diuturna opera di studioso e d’insegnante per una vita intera, ma quelle di un amico legato fraternamente a Lui da comuni intenti ed aspirazioni. Egli ha trascorso una larga parte del Suo tempo terreno in questo Ateneo dove, con encomiabile zelo, ha svolto attività d’insegnamento, di ricerca storica e di alta amministrazione. Come delegato del Rettore, in tempi passati, Piero è stato anche intensamente impegnato ad organizzare, estendere e rendere efficaci le relazioni con la comunità studentesca. Egli ha promosso innumerevoli incontri di studio e di arricchimento culturale e ha dato vita ad un circolo che ha organizzato un’apprezzata e pregevole attività ricreativa che, di volta in volta, ha coinvolto tutta la comunità universitaria. Un amico e già Presidente del CNU, Sergio Sergi, mi ha scritto: Piero era “un acuto conoscitore delle cose umane, punto di riferimento di tanti colleghi, uomo di grande umanità” – non saprei riassumere meglio un ricordo –. Nelle ultime settimane, guardando, con grande tristezza, la porta chiusa e la luce spenta del suo studio in Università, ho provato un sentimento di profonda commozione perché si era interrotta una consuetudine, quella per cui alla fine di una giornata intensa d’impegno universitario mi potevo fermare qualche momento a riflettere con Lui trovando sempre una parola di conforto, un incitamento, un consiglio che era plasmato dall’esperienza ed intriso di buon senso. Mi mancheranno questi colloqui che, se pure meno intensi per non affaticarlo, ho potuto proseguire anche durante la malattia che Egli ha affrontato con grande forza d’animo. Gli uomini passano ma le opere e gli esempi lasciano sempre un segno. Sono certo che Piero potrà ricevere la ricompensa promessa ai buoni servitori. Piero è stato uno dei fondatori del CNU e ha presieduto la sede ADRAT-CNU di Pavia fino all’ultimo giorno vissuto su questa Terra. Lo ha fatto con appassionata competenza e con un’assoluta dedizione. Sarebbe veramente difficile elencare le innumerevoli iniziative culturali, concertistiche, ricreative di cui è stato iniziatore, promotore ed infaticabile organizzatore. Ognuno degli iscritti all’ADRAT-CNU sapeva bene di poter sempre contare sulla Sua esperienza e sulle sue profonde conoscenze riguardo alla complessa macchina universitaria, ma soprattutto poteva affidarsi a Pie- 368 Ricordi ro, con piena fiducia, per un aiuto pratico, un consiglio, talvolta solo per l’ascolto, sempre più prezioso in un Mondo ove ognuno sembra muoversi con frenesia, senza fare tesoro di quelle preziose pause di riflessione che gli amici della tempra di Piero sanno offrire. Quando alle sedi del CNU è giunta notizia della Sua scomparsa sono stati innumerevoli i soci e gli amici, soprattutto quelli della “prima ora”, che mi hanno scritto parole di sincero cordoglio e che hanno reso omaggio alla Sua figura di uomo e d’insegnante. RicordarLo in queste pagine, che riassumono il percorso compiuto, fino ad oggi, dalla nostra Associazione, è sicuramente motivo di tristezza ma è anche una testimonianza preziosa in quanto della “storia del CNU” Piero è stato partecipe e apprezzato protagonista, fin dalle origini. Ricordi Piero Manetti Vorrei ricordare, in ordine alfabetico, tre persone scomparse: Pietro Passerini, Salvatore Saetta e Giorgio Spini. Con essi ho condiviso le vicende che portarono dal 1968 al 1972 alla costituzione del CNU e che ancora ricordo anche se è passato quasi mezzo secolo (per l’esattezza quarantasei anni). Pietro Passerini – Era stato mio professore quando frequentavo il corso di laurea in Scienze Geologiche tra il 1958 e il 1962. Ricordo di avere seguito le sue esercitazioni del corso di Geologia, che superai con una certa difficoltà. Per lunghi anni avevamo avuto contatti sporadici legati alla ricerca. Poi improvvisamente ci siamo trovati insieme a cercare di cambiare quella università che continuava ad essere chiusa alle novità. Le prime lotte studentesche partite dagli Stati Uniti e poi dalla Francia e dall’ Italia fecero aprire gli occhi a molti di noi su quel mondo accademico ormai non più al passo dei tempi nuovi. La prima riunione in cui Pietro ebbe un ruolo attivo, che però non riguardava l’Università ma il CNR , avvenne a Firenze. Era il periodo in cui il CNR aveva lanciato i Progetti Finalizzati, in cui erano previste notevoli risorse finanziarie per quei tempi. In particolare uno di questi , che poi fu chiamato Geodinamica, era stato affidato ad un cattedratico di Catania inviso a quasi tutta la comunità geologica italiana. Alla riunione partecipò anche il professor Felice Ippolito (quello del nucleare italiano) che insieme a Pietro scrisse una mozione, mandata al CNR, che di fatto impedì che il progetto fosse affidato al cattedratico catanese. La mozione Ippolito-Passerini (a quei tempi ci faceva sorridere che Pietro si fosse accordato con Ippolito) fu una delle tante che costellarono l’attività sindacale di Pietro. Il padre di Pietro Passerini era stato professore presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Firenze e il Conte nonno era stato Senatore del Regno (quando il Senato non era elettivo) e professore all’Università Pisa. Poi nel 1968, malgrado o forse perché portava questa eredità, si scatenò in Pietro tutta la sua passione e volontà contro il potere accademico. Era il nostro ideologo, sempre rigido sui principi e sulle decisioni prese democraticamente durante le numerose assemblee, riportava e sosteneva quanto deciso negli incontri con i vari soggetti politici. A quei tempi il principale interlocutore era il Ministro della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi, scomparso nel 2000, succeduto a Ferrari Aggradi e , dopo le sue dimissioni nel 1972, sostituito dalla senatrice Falcucci. Fu col Ministro Misasi che gli incontri tra rappresentanti dell’ANRIS, ANDU, FADRU, CITLU e SMU furono molto intensi, soprattutto dopo la proclamazione dello 370 Ricordi sciopero di maggio del 1970. Misasi dava appuntamento alla nostra delegazione a cui partecipavano, oltre al sottoscritto, Passerini, Saetta, Cappugi, Blasi, Gallinaro ed altri. L’appuntamento era sempre alle 17, ma l’incontro si svolgeva a partire dalle 22 e durava fino alle luci dell’alba. Misasi cercava di stancare gli interlocutori: sedeva su un’ ampia poltrona, data la sua mole, ascoltava tutti con attenzione, fumando in continuazione. Aveva una resistenza straordinaria . Una riunione finì alle sette del mattino e probabilmente il Ministro continuò, sempre su quella poltrona, fumando, la sua attività del giorno successivo. Ricordo che Misasi ponendo la sua robusta e pesante mano sulla spalla del nostro ideologo Pietro (mingherlino per la sua attività di maratoneta, arrivò 11° alla prima corsa del Passatore di 110 km tra Firenze e Faenza), dopo aver illustrato le nostre richieste gli disse lei che è così bravo perché non viene ad insegnare nella istituenda Università della Calabria? Noi tutti guardammo Pietro, che mostrò un piccolo arrossamento sul volto per l’elogio del Ministro. Quella volta uscimmo con un comunicato preparato da Passerini e inviato alla stampa che diceva: L’on. Misasi ha riconfermato l’impegno del governo per il più sollecito avvio in aula della Riforma universitaria confortato dalla sollecitudine con la quale il Presidente del Senato Fanfani ha assicurato di porre nella prima riunione dei Presidenti dei Gruppi parlamentari di Palazzo Madama la questione dell’iscrizione all’odg. del disegno di legge. Inoltre il Ministro ha manifestato l’intenzione di non indire nuovi concorsi con l’attuale sistema fino all’emanazione di una nuova normativa … omissis … I rappresentanti dei sindacati, preso atto delle dichiarazioni del Ministro, hanno deciso di sospendere lo sciopero e conseguentemente gli esami nelle Università si terranno regolarmente. Pietro Passerini fu anche incaricato dal CNU di occuparsi della ricerca. In questa attività che svolse con grande passione fu aiutato soprattutto da Luigi Rossi Bernardi e Luigi Amaducci, che ricoprirono successivamente un ruolo importante nel CNR: Rossi Bernardi divenne presidente dell’Ente e Amaducci, segretario del Comitato di Medicina e direttore del Progetto Finalizzato “Invecchiamento”. Pietro Passerini, fedele ai suoi principi, si rifiutò di presentare domanda per passare da professore incaricato a professore associato tramite i giudizi di idoneità. I colleghi fiorentini, a sua insaputa, presentarono la domanda che gli impedì di finire la sua carriera come assistente nel ruolo ad esaurimento. Pietro è stato, oltre che un bravo interprete dell’esigenza di rinnovamento dell’Università , anche un grande ricercatore che ha avuto numerosi allievi che hanno “fatto carriera”. Salvatore Saetta – Con Salvatore non ho avuto molti contatti se non quelli che ci vedevano insieme nella varie assemblee e durante gli incontri politici. La prima volta che l’ho incontrato, quella faccia rotonda con gli occhiali spessi e un po’ affumicati, mi ha imbarazzato. Era il presidente di una associazione che aveva ereditato le vecchie associazioni dei professori incaricati (ANPUI) e degli assistenti (UNAU). Volevamo un cambiamento dell’Università attraverso il coinvolgimento di tutti, dagli studenti ai docenti, alle varie categorie di lavoratori, e l’ANRIS del presidente Saetta non ci sembrava la migliore alleata. Dopo un iniziale approccio in cui prevaleva la diffidenza, Salvatore si dimostrò una persona affidabile, che rispettava gli impegni presi. Si è sempre dimostrato molto Ricordi 371 bravo durante le estenuanti trattative a livello ministeriale, con una grande capacità di mediazione senza però rinunciare ai principali obbiettivi derivati dalle deleghe avute dalle assemblee. Era spesso accompagnato da Francesco Faranda (detto Ciccio) uomo di peso corporeo che competeva con il ministro Misasi e che ha avuto in seguito un grande ruolo nella ricerca oceanografica italiana. Salvatore era un uomo calmo, ascoltava tutti e rispondeva senza mai avere scatti di nervosismo, anche durante le riunioni più infocate, quando tutti chiedevano il contrario di tutto. Aveva una innata capacità di mediazione, forse derivata dalla sua origine siciliana. Ricordo che solo una volta si arrabbiò quando un collega, mentre si parlava di allargare la presenza delle università anche ad altre realtà territoriali oltre a quelle tradizionali, disse Non vorrete fare l’Università anche a Canicattì. Salvatore era di Canicattì. Giorgio Spini – Quando io e Pietro Passerini lo abbiamo conosciuto Giorgio Spini era già un famoso storico, ordinario di Storia della letteratura inglese presso la Facoltà di Magistero. Ricordavo bene il nome di Spini perché avevo studiato storia al Liceo sul suo libro Disegno Storico della Civiltà, che credo fosse il più adottato negli anni ’50-60 nelle scuole italiane. Un libro esemplare per chiarezza che mi aveva fatto amare la storia. I primi contatti avvennero quando iniziò il tentativo partito dall’AFDU di coagulare le varie associazioni formate durante il 1968. Qualche volta Spini partecipava alle riunioni del direttivo dell’AFDU, dove si delineavano le strategie che hanno portato alla fondazione del CNU. Insieme a Spini tenevamo soprattutto i contatti con il PSI. Il nostro principale interlocutore era il senatore Tristano Codignola, responsabile dell’ufficio scuola. Poi attraverso Giampiero Orsello avevamo un canale privilegiato, essendo amico di Spini, con il PSDI. I rapporti con il PCI sono sempre stati difficili, probabilmente a causa della CGIL che vedeva nel nascente sindacato (CNU) un possibile concorrente a sinistra. Una volta fummo ricevuti a Botteghe Oscure dal senatore Reichlin, forse in presenza di Napolitano. Era comunque attraverso l’on. Giannantoni che potevamo avere contatti abbastanza continui con il PCI. Non ricordo di avere avuto incontri con il PRI che, a causa della presenza dell’on Spadolini, si dimostrò sempre ostile alle richieste e alle rivendicazioni del CNU. In questi incontri Spini dimostrava le sue grandi doti di politico, e a noi sembrava anche di persuasore, con quella logica che veniva dalla sua grande esperienza di insegnante. Qualche volta abbiamo incontrato anche dirigenti della DC anche se erano principalmente Luigi Cappugi, divenuto in seguito anche consigliere economico dell’on. Andreotti, e Paolo Blasi coloro che facevano pervenire le nostre istanze al principale partito dell’epoca. Giorgio Spini aveva 54 anni quando lo abbiamo conosciuto. All’inizio per il suo carattere tranquillo e riflessivo (da studioso) cercava di tirarsi indietro da quei continui appuntamenti con i politici che nell’estate del 1969 erano quasi giornalieri. Alla fine, pur riluttante, ci seguì nelle nostre iniziative. Prese anche passione per questo lavoro tanto che alla fine accettò di divenire il primo presidente del CNU. Parte VI Note e tabelle informative Note biografiche degli autori e dei curatori Leontino Battistin, già professore ordinario di Neurologia all’Università di Padova; Direttore del Dipartimento di Neuroscienze nel 20032009; membro del Senato Accademico integrato che ha redatto lo Statuto dell’Università di Padova, 1991-1995; membro del CdA dell’ateneo di Padova, 2001-2008; Direttore Scientifico dell’IRCCS, Fondazione Ospedale San Camillo, Venezia, 2005-2013. Paolo Blasi, già professore ordinario di Fisica Generale all’Università di Firenze; Direttore del dipartimento di Fisica nel 1983-1988, Rettore dell’Università di Firenze nel 1991-2000; Presidente della CRUI nel 1994-1998. Gian Mario Cazzaniga, già professore ordinario di Filosofia Morale all’università di Pisa; membro del CUN nel 1979-83 e 1986-89, membro del Senato Accademico di Pisa nel 2010-2012. Vittorio Cecconi, già professore ordinario di Macchine Elettriche nell’Università di Palermo. Delegato del Rettore a supportare i rapporti con le università sud-americane. Margherita Chang, professore ordinario di Economia delle risorse e del paesaggio ed Estimo dell’Università di Udine; Coordinatore dal 1998 del Dottorato di Ricerca in Economia Ecologia e Tutela dei Sistemi Agricoli e Paesistico-ambientali e di Ingegneria Civile e Architettura, membro del CdA dell’ateneo di Udine (2003-2011). Membro del CUN nel 1983-86. Giovanni Cordini, professore ordinario di Diritto Pubblico Comparato e Diritto dell’Ambiente; Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Pavia. Membro della Corte Costituzionale dello Stato di S. Marino. 376 Note e tabelle informative Gaetano Crepaldi, professore Emerito di Medicina Interna dell’Università di Padova. Presidente della Commissione Medicina del CNU nel 1971-1976. Presidente della Fondazione Dieta Mediterranea (Ostuni, 2010-) e della Fondazione Museo della Storia della Medicina (Padova, 2014-). Responsabile della Sezione Invecchiamento dell’Istituto di Neuroscienze del C.N.R. (2002-). Presidente della Commissione Medicina del CNU nel 1971-1976. Franco Cresci, già professore associato di Fisiopatologia Respiratoria all’Università di Firenze. Membro del Consiglio di Amministrazione dell’ateneo di Firenze negli anni ’70 e ’80. Presidente della Commissione Medicina del CNU nel 1976-1984 e Presidente del CNU dal 1984 al 1988. Enrico Decleva, già professore ordinario di Storia Contemporanea nell’Università di Milano. Preside della Facoltà di Lettere nel 1986-199, ProRettore nel 1997-2001. Rettore dell’ateneo di Milano nel 2001-2012 e Presidente CRUI nel 2008-2011. Claudio Della Volpe, professore associato di Chimica Fisica Applicata presso l’Università di Trento. Curatore della lista UNILEX e del blog della Società Chimica Italiana. Membro del comitato scientifico di ASPO-Italia. Manlio Fadda, professore associato di Malattie Infettive degli Animali Domestici nell’Università di Sassari; segretario naz.le del CNU e responsabile del sito Web CNU - Università e Ricerca. Gaetano Gallinaro, già professore associato di Laboratorio di fisica della materia nell’università di Genova; membro del senato accademico di Genova nel 1995-1998, delegato del Rettore per i rapporti con gli studenti nel 1996-2008. Paolo Gianni, già professore associato di Chimica Fisica all’università di Pisa; membro del CdA dell’ateneo di Pisa nel 1983-1986, membro del Senato Accademico Integrato che ha redatto il primo statuto dell’ateneo di Pisa (1992-1994). Note biografiche degli autori e dei curatori Franco Indiveri, professore Emerito di Medicina Interna e Direttore del Dipartimento omonimo dell’Università di Genova nel 1999-2002. Membro del Senato Accademico nel 2001-2004. Presidente Commissione Medicina del CNU e Coordinatore di UNIMED nel 1999-2008. Presidente Naz.le del CNU nel 2008-2011. Giunio Luzzatto, già professore ordinario di Analisi Matematica all’Università di Genova; componente (1998-1999) della Commissione Martinotti per la riforma didattica universitaria; Presidente (2003-2008) del Nucleo di Valutazione dell’Università di Bologna; componente (20082014) del gruppo “Bologna Experts” della Commissione Europea Piero Manetti, professore Emerito di Petrografia dell’Università di Firenze; membro del CdA dell’ateneo di Firenze nel 1991-1995; Presidente del Comitato per le Scienze Geologiche e Minerarie del CNR nel 19941999; Grand’ufficiale al merito della Repubblica dal 2002. Antonio Miceli, professore associato di Ragioneria ed Economia Aziendale presso l’Università di Messina. Coordinatore del Corso di Laurea in Economia e Commercio nel 2001-2004. Membro del CdA di Messina nel 1977-1987. Consigliere comunale a Messina nel 1980-1994. Deputato Nazionale nell’XIª legislatura. Paolo Pupillo, già professore ordinario di Fisiologia vegetale all’Università di Bologna, Presidente Naz.le del CNU nel 1988-1993, membro del CUN (1979-1986), preside di Scienze MFN (1989-1998) e prorettore per la Romagna (2000-2005). Mario Rinaldi, già professore ordinario di Misure Elettriche nella Facoltà di Ingegneria della Università di Bologna; Pro-Rettore vicario nella stessa Università nel 1985-1996. Segretario Naz.le del CNU nel 19711976. Luigi Rossi Bernardi, già professore ordinario di Biochimica presso l’Università di Milano; Presidente del CNR negli anni 1984-1993; Direttore del Dipartimento Università e Ricerca del MIUR 2004-2006; Direttore Scientifico dell’IRCCS Multimedica; Medaglia d’oro 2010 al merito della Sanità Pubblica. 377 378 Note e tabelle informative Sergio Sergi, già professore associato di Chimica Generale all’Università di Messina. Presidente del CNU nel 1994-2001. Membro del CUN nel 1986-1997. Paolo Simone, Direttore Sanitario ASL Torino 1, già ricercatore universitario e professore aggregato di Chirurgia all’università di Torino. Membro per due mandati del SA e anche del CdA dello stesso ateneo. Presidente Nazionale del CNU dal 2012 al 2013. Valdo Spini, professore associato di Storia delle relazioni economiche internazionali all’Università di Firenze. Presidente dell’UGI con incarichi nell’UNURI quando era studente. Deputato dal 1979 al 2008. Sottosegretario agli Interni nel 1986-1992. Ministro dell’Ambiente nel 19931994. Presidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati (dal 1996 al 2001). Vincenzo Vecchio, professore ordinario di Coltivazioni Erbacee presso l’Università di Firenze; membro del CdA e del SA per oltre un decennio, e anche del Senato Accademico Integrato che ha redatto il primo statuto dell’ateneo. È stato membro della fondazione Ricerca e Innovazione dell’Università di Firenze. Brunello Vigezzi, già professore ordinario di Storia Moderna all’Università di Milano; fondatore e Direttore del “Centro per gli studi di politica estera e opinione pubblica” della stessa università. Tabella 1. Congressi Nazionali del CNU e composizione delle Giunte Esecutive Nazionali ivi elette Prima del I Congresso 1970-1971 Esecutivo Nazionale: Antonino Barresi (ME), Luigi Cappugi (FI), Carlo Cipolloni(PI), Camillo Dejak (VE), Gaetano Gallinaro (GE), Luigi Macchiarelli (RM), Piero Milani (PV), Agostino Parise (PD), Pietro Passerini (FI), Giovanni Pescetti (TO), Salvatore Saetta (PA), Giorgio Spini (FI), Angelo Zauli (BO) Consiglio di Presidenza: P. Passerini, S. Saetta, G. Spini Commissione Medicina: Gaetano Crepaldi (PD), Luigi Amaducci (FI) I Congresso Firenze 10-12 Dicembre 1971 Giorgio Spini (Presidente, FI), Piero Milani (V.-Pres., PV), Salvatore Saetta (V.-Pres., PA), Mario Rinaldi (Segr., BO), Carlo Cipolloni (PI), Francesco Faranda (ME), Carlo Garavelli (BA), Agostino Parise (PD), Pietro Passerini (FI) Cooptati: Gaetano Gallinaro (Pres. Comm Sindacale, GE), Gaetano Crepaldi (Pres. Comm Medicina, PD), Guido Vegni (Pres. Comm. Ricerca Scientifica, MI) II Congresso Milano 4-6 Maggio 1973 Giorgio Spini (Presidente, FI), Leontino Battistin (V.-Pres., PD), Piero Milani (V.-Pres., PV), Mario Rinaldi (Segr., BO), Carlo Cipolloni (PI), Camillo Dejak (VE), Piero Morelli (TO), Pietro Passerini (FI), Salvatore Saetta (PA) Cooptati: Gaetano Gallinaro (Pres. Comm. Sindacale, GE), Gaetano Crepaldi (Pres. Comm Medicina, PD), Giampiero Maracchi (Pres. Comm. non-strutturati, FI), Luigi Amaducci (Pres. Comm. Ricerca, FI), Antonio Miceli (Pres. Comm. organizzativa per il Mezzogiorno, ME) III Congresso Torino 22-24 Novembre 1974 Giorgio Spini (Presidente, FI), Leontino Battistin (V.-Pres., PD), Piero Milani (V.-Pres, PV), Mario Rinaldi (Segr., BO), Enrico Decleva (MI), Bruno Guerrini (Pres. Comm. Ricerca, PI), Antonio Miceli (ME), Gabriele Staderini (FI) Cooptati: Gaetano Crepaldi (Pres. Comm. Med., PD), Gaetano Gallinaro (Pres. Comm. Sind., GE), Luigi Amaducci (Pres. Comm. Ricerca, FI), Carlo Garavelli (Pres. Comm. Cons. Amm.ne, BA), Piero Morelli (Comm. Stampa e Documentazione, TO) IV Congresso Venezia 23-25 Gennaio 1976 Leontino Battistin (Presidente, PD), Enrico Decleva (V.-Pres., MI), Francesco Faranda (V.-Pres., ME), Giampiero Maracchi (Segr., FI), Antonio Bacarella (PA), Antonio Crivellaro (PD), Roberto Rossetti (PV), Marco Unguendoli (BO), Sergio Zoppi (TO) Cooptati: Franco Cresci (Pres. Comm. Med., FI), Bruno Guerrini (Pres. Comm. Ricerca, PI), Lamberto Pansolli (Pres. Comm. Sind. e Precari, FI), Antonio Miceli (Comitato Direzione del Giornale, ME) 380 Note e tabelle informative V Congresso Taormina 29-30 Aprile, 1 Maggio 1977 Leontino Battistin (Presidente, PD), Enrico Decleva (V.-Pres., MI), Francesco Faranda (V.-Pres., ME), Franco Adduci (Segr. BA), Giuseppe Marzona (TO), Renzo Morchio (GE), Agostino Parise (PD), Giuseppe Tallarida (RM), Marco Unguendoli (BO) Cooptati: Bruno Guerrini (Pres. Comm. Ricerca, PI), Franco Cresci (Pres. Comm. Med., FI), Antonio Intrieri (Pres. Comm. Sindacale, ME), Lamberto Pansolli (Pres. Comm. Legislativa, FI), Giuseppe Restuccia (Pres. Comm. Statuto, ME) VI Congresso Tirrenia 6-8 Aprile 1979 Francesco Faranda (Presidente, ME), Paolo Blasi (V.-Pres., FI), Marco Unguendoli (V.-Pres., BO), Giuseppe Restuccia (Segr., ME), Franco Adduci (BA), Bruno Guerrini (PI), Pier Carlo Muzzio (PD), Paolo Pupillo (BO), Giuseppe Tallarida (RM) I° dei non eletti: Margherita Chang (PV) Cooptati: Franco Cresci (Pres. Comm. Med., FI), Giorgio Lazzaro (Pres. Comm. Sindacale, TO) VII Congresso Fiuggi 8-10 Maggio 1981 Francesco Faranda (Presidente, ME), Paolo Blasi (V.-Pres., FI), Marco Unguendoli (V.-Pres., BO), Giuseppe Restuccia (Segr., ME), Pier Carlo Muzzio (PD), Giuseppe Tallarida (RM), Bruno Guerrini (PI), Franco Adduci (BA), Paolo Pupillo (BO) Cooptati: Franco Cresci (Pres. Comm. Med. FI), Guido Vegni (Pres. Comm Ricerca, MI), Giorgio Lazzaro (Pres. Comm. Sindacale, TO) VIII Congresso Roma 15-17 Marzo 1984 Franco Cresci (Presidente, FI), Giuliano Mussati (V.-Pres., MI), Paolo Pupillo (V.-Pres, BO), Silvano Bordi (Segr.-Tesoriere, FI), Angelo Gatta (PD), Piero Milani (PV), Giuseppe Restuccia (ME), Corrado Scaravelli (Pres. Comm. Sind., PR), Alessandro Viviani (BO) Cooptati: Guido Vegni (Pres. Comm. Ricerca, MI), Giuseppe Tallarida (Pres. Comm. Med., RM) IX Congresso Roma 27-29 Novembre 1986 Franco Cresci (Presidente, FI), Paolo Pupillo (V.-Pres., BO), Giuliano Mussati (V.-Pres, MI), Piero Milani (V.-Pres., PV), Silvano Bordi (Segr.-Tesoriere, FI), Giuseppe Restuccia (ME), Domenico Gatta (PD), Corrado Scaravelli (PR), Giuseppina D’Amato (GE), Francesco Baldoni (RM), Mauro Carretta (PG). Affidati i problemi sindacali a D’Amato, Restuccia e Scaravelli. Cooptati: Giuseppe Tallarida (Pres. Comm. Med, RM), Alessandro Coda (Pres. Comm. Ricerca, PV), Giovanni Cordini (Pres. Comm. Ricercatori, PV) Tabella 1 X Congresso Milazzo 19-21 Novembre 1988 381 Paolo Pupillo (Presidente, BO), Paolo Blasi (V.-Pres., FI), Giuliano Mussati (V.-Pres., MI), Angelo Gatta (V.-Pres., PD), Diego Bruggi (Segr.-Tesoriere, BO), Corrado Scaravelli (Pres. Comm. Sind., PR), Paolo Gianni (PI), Francesco Baldoni (RM), Piero Milani (PV), Giovanni Cordini (PV), Sergio Sergi (ME) Cooptati: Franco Cresci (Pres. Comm. Med., FI), Maria Rosa Rivasi (Pres. Comm. Ricercatori, MO), Marco Unguendoli (Dir. Giornale, BO), Paolo Blasi (Pres. Comm. Ricerca, FI), Corrado Scaravelli (Pres. Comm. Sindacale, PR) XI Congresso Roma (CNR), 22-24 Febbraio 1991 Paolo Pupillo (Presidente, BO), Giovanni Cordini (V.-Pres., PV), Franco Cresci (V.-Pres., FI), Giuliano Mussati (V.-Pres., MI), Diego Bruggi (Segr.-Tesoriere, BO), Francesco Baldoni (RM), Gualtiero Casanova (GE), Alberto Pagliarini (BA), Sergio Sergi (ME), Nicola Sicolo (PD), GianAngelo Vaglio (TO) Cooptati: Angelo Gatta (Pres. Comm. Med, PD), Paolo Blasi (Pres. Comm. Ricerca, FI), Sandro Meloni (Pres. Comm. Diritto Studio, PV), Paolo Gianni (Pres. Comm. Sindacale, PI), Maria Rosa Rivasi (Pres. Comm. Ricercatori, MO), Marco Unguendoli (Direttore Giornale, BO) XII Congresso Roma, 9-11 Dicembre 1993 Sergio Sergi (Presidente, ME), Vice-Presidenti: Paolo Campanaro (TO), Giovanni Cordini (PV), Giuliano Mussati; Francesco Baldoni (Segr.Tesoriere). Consiglieri: Diego Bruggi (BO), Marco Carcassi (PI), Riccardo Cerri (SS), Angelo Gatta (PD), Stefano Monti-Bragadin (GE) Alberto Pagliarini (BA) Cooptati: Corrado Balacco-Gabrieli (Pres. Comm. Medicina, RM), Marco Unguendoli (Direttore del giornale, BO). Paolo Pupillo (Resp. Comm. Ricerca, BO), Paolo Gianni (Resp. Comm. Sindacale, PI), Gianluigi D’Agostino (Resp. Comm. Ricercatori, PV) XIII Congresso Viareggio 18-20 Giugno 1998 Sergio Sergi (Presidente, ME), Giovanni Cordini (V.-Pres., PV), Diego Bruggi (Segr., BO), Antonio Miceli (Tesor., ME), Francesco Baldoni (RM), Gualtiero Casanova (GE), Carlo Vincenzo Ferraro (TO), Paolo Gianni (PI), Cosimo Massafra (SI), Alberto Pagliarini (BA), Vincenzo Vecchio (FI) Cooptati: Franco Indiveri (Pres. Comm. Med., GE), Marco Unguendoli (Pres. Comm. Ricerca, BO), Gianni D’Agostino (Pres. Comm. Ricercatori, PV), Tristano Sapigni (Dir. Giornale, FE) 382 Note e tabelle informative XIV Congresso a) Roma, 4-5 Luglio 2001 b) Parma, 22 Marzo 2002 Giovanni Cordini (Presidente, PV), Sergio Sergi (V.-Pres., ME), Paolo Gianni (Segr., PI), Sandro Meloni (Tesor., PV), Gualtiero Casanova (GE), Carlo Ferraro (TO), Carlo Laureri (PR), Cosimo Massafra (SI), Antonio Miceli (ME), Valentino Petruzzi (SS), Vincenzo Vecchio (FI) Cooptati: Franco Indiveri (Pres. Comm. Med. GE), Tristano Sapigni (Dir. Giornale, FE), Alberto Pagliarini (Pres. Comm. Sind., BA), Diego Bruggi (Pres. Comm. Ricerca, BO), Filippo Cruciani (Pres. Comm. Ricercatori, RM) XV Congresso Arenzano (GE) 2-3 Giugno 2006 Giovanni Cordini (Presidente, PV), Paolo Gianni (Segr., PI), Livio Tronconi (Tesor, PV), Sergio Cirafici (GE), Manlio Fadda (SS), Walter Gioffré (SI), Carlo Laureri (PR), Antonio Miceli (ME), Sergio Sergi (ME), Paolo Simone (TO), Vincenzo Vecchio (FI) Cooptati: Franco Indiveri (Pres. Comm. Med., GE), Tristano Sapigni (Dir. Giornale, FE), Alberto Pagliarini (Pres. Comm. Sind., BA) XVI Congresso Parma 20-21 Giugno 2008 Franco Indiveri (Presidente, GE), Paolo Gianni (Segr., PI), Fabrizio Bolletta (BO; dal 2010 sost da Maurizio Salachiri (BG)), Sergio Cirafici (GE), Giovanni Cordini (PV), Manlio Fadda (SS), Walter Gioffré (SI), Rino Panu (PR), Sergio Sergi (ME), Paolo Simone (TO), Vincenzo Vecchio (FI) Cooptati: Mauro Marchionni (Pres. Comm. Med., FI), Antonio Miceli (Dir. Giornale, ME), Alberto Pagliarini (Pres. Comm. Sind., BA), Antonio Scordamaglia (Tesoriere, GE; dal 2011 sost. da Andrea Pirni) XVII Congresso Siena 9-10 Dicembre 2011 Paolo Simone (Presidente, TO), Walter Gioffré (V.-Pres., SI), Manlio Fadda (Segr., SS), Giovanni Cordini (PV), Paolo Gianni (Pres. Comm. Sind., PI), Franco Indiveri (GE), Rino Panu (PR), Andrea Pirni (GE), Maurizio Sala Chiri (BG), Sergio Sergi (ME), Vincenzo Vecchio (FI) Cooptati: Renzo Carretta (Pres. Comm. Med., TS), Antonio Miceli (Dir. Giornale, ME), GiovanBattista Ferrero (Tesoriere, TO) XVIII Congresso Firenze 6-7 Dicembre 2013 Vincenzo Vecchio (Presidente, FI), Andrea Pirni (V.-Pres., GE), Walter Gioffré (V.-Pres., SI), GiovanBattista Ferrero (V.-Pres., TO), Manlio Fadda (Segr., SS), Rino Panu (PR), Maurizio Sala Chiri (BG), Renzo Carretta (TS), Anna Maria Di Pietra (BO), Alfio Puglisi (ME) Cooptati: Vincenzo Violi (Pres. Comm. Med., PR), Antonio Miceli (Direttore Giornale, ME), Carlo Ferraro (Pres. Comm. Sind., TO), Paolo Gianni (Tesoriere, PI) Tabella 2. I Responsabili delle singole sedi del primo CNU (1971) Sede Responsabile Facoltà Sede Responsabile Facoltà Ancona Antonio Menchetti Ingegneria Palermo Michele De Franchis Scienze MFN Arezzo Remo Gelsomino Magistero Parma Andrea Pochini Scienze MFN Bari Lelio Barbiera Carlo Garavelli Giurisprudenza Scienze MFN Pavia Roberto Rossetti Giuseppe Gerzeli Scienze MFN Scienze MFN Bologna Marco Unguendoli Paolo Pupillo Ingegneria Scienze MFN Perugia Enrico De Grandis Sergio Bertelli Medicina Scienze Politiche Cagliari Maria Teresa Falqui Scienze MFN Pescara Serafino Gatti Giurisprudenza Camerino Fulvio Gualtieri Farmacia Pisa Carlo Cipolloni Medicina Catania Guido Ziccone Giurisprudenza Roma Rosario Nicoletti Scienze MFN Ferrara Tristano Sapigni Virgilio Perri Medicina Scienze MFN Roma Rosario Nicoletti Scienze MFN Firenze Paolo Blasi Paolo Frezza Scienze MFN Giurisprudenza Salerno Gino Kolby Magistero Genova Renzo Morchio Corrado Rossi Scienze MFN Scienze MFN Sassari Giovanni Cordella Riccardo Cerri Farmacia Farmacia L’Aquila Francesco Gaeta Vincenzo Salfi Magistero Scienze MFN Siena Antonio Lettieri Medicina Lecce Orazio Bianco Magistero Torino Piero Morelli Ingegneria, Politecnico Messina Luigi Chiofalo Fulvio D’Amoja Veterinaria Scienze Politiche Trieste Claudio Gelletti Economia Milano Brunello Vigezzi Camillo Bussolati Lettere Scienze Politecn. Urbino Alfeo Bertondini Lettere Modena Antonio Ragni Scienze MFN Venezia Camillo Dejak Scienze MFN Napoli Pietro Corradini Scienze MFN. Ist. Orientale Verona Mario Vincenzi Antonio Lo Cascio Medicina Medicina Padova Agostino Parise Giorgio Crivellaro Gianfranco Folena Scienze MFN Giurisprudenza Lettere Tabella 3. I giornali del CNU (le pagine dei giornali qui elencate sono riprodotte nel DVD) Scelte Universitarie 2 numeri unici pre-congresso istitutivo del CNU Direttore Antonio Barresi Università di Messina anno n. Numeri e periodo 1971 1 I II numero unico, 9 Ottobre numero unico, 6 Dicembre Università e Società (periodico bimestrale del CNU) Direttore Piero Milani Università di Pavia Anno n. Numeri e periodo Prima Serie 1972 I 1, 1973 II 1-2, Gennaio - Febbraio 3, Marzo 4-5-6, Aprile - Maggio - Giugno 1974 III ? 1975 IV 1, 2? 3, Gennaio - Febbraio 0, 1, 2-3-4, 5 Congresso di Venezia Maggio Luglio - Settembre Ottobre 1976 V Dicembre Novembre - Dicembre Seconda Serie 1987 VI 1, 2, 3, Gennaio - Febbraio Marzo - Aprile Novembre - Dicembre 1988 VII 1, ? Gennaio - Febbraio Tabella 3 1989 VIII4 1, ? 2, 1990 IX 1, 2, ? 1991 X 1, ? 2, Novembre - Dicembre 1992 XI 1, Marzo - Aprile 1993 Settembre - Ottobre Gennaio - Febbraio Marzo - Aprile ? Università e Ricerca Direttore Marco Unguendoli Università di Bologna Anno n. Numeri e periodo 1989 1 1, 2, 3, 4, Marzo Giugno Settembre Novembre 1990 2 1, 2, 3, 4,5 Febbraio Aprile Giugno Luglio - Ottobre 1991 3 1, 2, 3, 4,5 Gennaio Marzo Maggio Luglio - Ottobre 1992 4 1, 2, 3,4 5,6 Gennaio - Febbraio Marzo - Aprile Settembre Novembre - Dicembre 1993 5 1, 2,3 4,5 6 Gennaio - Febbraio Marzo - Giugno Luglio - Ottobre Novembre - Dicembre 1994 6 1, 2,3 4,5 Gennaio - Febbraio Marzo - Giugno Settembre - Dicembre 385 386 Note e tabelle informative Bollettino Universitario CNU Notiziario delle Sezioni di Firenze, Pisa e Siena del CNU curato da Silvano Bordi, Università di Firenze Anno n. Numeri e periodo 1978 0 Bollettino sede di Firenze: Febbraio - Giugno 1979 I 1? 2 3 4? Maggio Ottobre 1980 II 1 2 3 4 5 6 Febbraio Maggio Giugno Luglio (ciclostilato) Ottobre Dicembre 1981 III 1? 2 3 4 5? Marzo Giugno Luglio 1982 IV 1 2 3 4 Gennaio Aprile Giugno Novembre 1983 V 1 2 3? Febbraio Maggio 1984 VI 1 2 3 4 Febbraio Aprile Luglio Dicembre 1985 VII 1? 2 3? Aprile 1986 VIII 1 2 3? 4 Febbraio Aprile Novembre 1987 IX 1 2? Febbraio 1988 X 1 2? 3 Gennaio Maggio Tabella 3 387 Nuova Serie: CNU fiorentino News Direttore Vincenzo Vecchio (FI) Direttore Responsabile Paolo Manzelli (FI) 2005 1, Gennaio Giornali dell’UNAU Bollettino d’informazione ai soci Direttore Responsabile Giorgio Segre, Università di Torino (stampato a Torino) Anno n. Presidente UNAU 1957 39 41 Luciano Merigliano (PD) Giugno Ottobre 1958 43 Giorgio Marsili (FI) Maggio Numeri e periodo Tribuna Universitaria Direttore Responsabile Giunio Luzzatto, Università di Genova (stampato a Genova) Presidente UNAU Numeri e periodo II Adriano Vitelli (TO) 2, Marzo - Aprile Settembre, Numero Speciale sul “Pieno impiego” III Luciano Cavalca (MI) 3, 5, Maggio-Giugno Settembre-Ottobre Anno n. 1961 I 1962 1963 Direttore Responsabile Adriano Vitelli, Università di Torino (stampato a Torino) 1964 IV Giorgio Tecce (RM) Numero unico, Luglio-Agosto Nuova Serie 1, Settembre - Ottobre + inserto Documenti di Tribuna Universitaria: “Relazionre sullo stato P.I presentata dal Ministro Gui” 2, Novembre - Dicembre 388 Note e tabelle informative 1965 V 1, Gennaio - Febbraio + inserto Documenti di Tribuna Universitaria: “Relazione sui problemi della Scuola” 2, Marzo - Aprile 3, Maggio - Giugno + inserto Documenti di Tribuna Universitaria (n. 3) con emendamenti UNAU alla Riforma Gui 1966 VI Numero Speciale “Lettera ai Deputati con emendamenti UNAU al DdL 2314” 1, Gennaio - Febbraio 2, Marzo - Aprile 3, Maggio - Giugno Direttore Responsabile: Giuseppe Cetini, Università di Torino (stampato a Torino) Giunio Luzzatto (GE) XXIII Congresso 1967 VII 4, Settembre - Ottobre 5, Novembre - Dicembre + inserto Documenti di Tribuna Universitaria “Emendamenti UNAU alla Legge sugli organici e al DdL 2314” 1, Gennaio - Febbraio + inserto Documenti di Tribuna Universitaria “testo definitivo della Legge sugli organici del Personale Universitario” 2, Marzo - Giugno + inserto Documenti di Tribuna Universitaria “Mozione XXIV Congresso, Convegni Ricerca Scientifica, Legge sull’Edilizia Universitaria e Legge Ospedaliera” 3, Luglio - Agosto + inserto Documenti di Tribuna Universitaria “testo della Legge sulla Riforma Universitaria approvato dalla Comm. P.I. della Camera + Leggi di Riforma Ospedaliera e sulla Edilizia Univ.” 4, Settembre - Ottobre + inserto Documenti di Tribuna Universitaria “testo della Legge sulla Riforma Universitaria (DdL 2314) approvato dalla Comm. P.I. della Camera + emendamenti UNAU” Direttore Responsabile: Giancarlo Giambelli, Università di Milano (stampato a Milano) 1968 VIII 1, 2, 3, Febbraio Marzo, Numero Speciale ANPUIUNAU su “Elezioni CNR del 3-4 Aprile” Maggio Giugno Tabella 4. Convegni, Conferenze Nazionali e Seminari organizzati dal CNU Sede e periodo Promotori Titolo Atti o Relazioni su giornali CNU o nel DVD Firenze Luglio-Ottobre 1975 CNU Incontri sul tema dei rapporti convenzionali tra Università ed Ospedali nella Regione Toscana Atti del CNU di Firenze Milano Giugno 1976 CNU Conferenza Nazionale sull’Università vedi sezione IV del DVD Torino 26-27 Giugno 1976 CNU di Torino Convegno su “Nuova gestione dei Consigli di Amministrazione delle Università e delle Opere Universitarie: risultati e confronti” U.S. Pavia Ottobre 1976 Pisa 16-17 Ott. 1976 CNU di Pisa Convegno Nazionale “Università e Ricerca Scientifica: ricerca di base e programmi finalizzati” Atti vedi sezione IV del DVD Milano 20-21 Dic. 1976 CNU + Reg. Lombardia “Per una nuova Università” Abano Terme (PD) 12-13 Marzo 1977 CNU Convegno Nazionale su “Reclutamento universitario: criteri, stato attuale e prospettive” Sassari 24-26 Novembre 1977 CNU Convegno-dibattito: “Ricerca Scientifica, Università e Territorio: problemi e prospettive” Montecatini 9-11 Gennaio 1978 CNU, CNR I progetti finalizzati e i problemi del paese Firenze 1 Aprile 1978 CNU + ANAO Tavola rotonda: “La formazione del medico” Padova 22-23 Giugno 1979 CNU “Servizio Sanitario Nazionale e Facoltà Mediche” Pavia 29-30 Settembre 1979 ADRAT-CNU “La formazione del docente universitario. Metodi di reclutamento in rapporto al problema del precariato” Atti B.U. CNU (FI) Ottobre 1980 390 Note e tabelle informative Messina 5-6 Ottobre 1979 CNU+Cons Naz.le Opere Universitarie “I poteri delle Regioni a Statuto Speciale per una avanzata politica del Diritto allo Studio” Milano 15 Marzo 1980 CNU II Conferenza Nazionale sull’Università. Problemi economici dei decreti delegati Villa Olmo (Como) 15-17 Gen 1982 CNU + Univ. e Politecnico di Milano “Struttura e Organizzazione della ricerca scientifica in Italia: il ruolo dell’Università” B.U. CNU (FI) Gennaio 1982 Bologna 26-28 Febbraio 1982 CNU “La ricerca nell’Università e negli Enti Pubblici” B.U. CNU (FI) Aprile 1982 Pisa 30 Giugno 1982 ADRUP-CNU Il DPR 382/1980 a due anni dalla sua entrata in vigore: attuazioni, problemi, prospettive Pavia 4 Dicembre 1982 ADRAT-CNU “Politiche della Ricerca Scientifica. Universitaria a livello Nazionale e locale” Potenza 18-20 Mag 1984 MIUR+CNU Univ. della Calabria 3° Convegno Nazionale “La Ricerca Scientifica nell’Università e negli Enti Pubblici di Ricerca” Pisa 29-30 Giugno e 1 Luglio 1984 CNU Seminario sulla Sperimentazione organizzativa nelle università Pavia 15-16 Nov. 1985 CNU+ISU Convegno Nazionale su “Diritto allo Studio Universitario. Problemi e prospettive” Atti Sassari 1986 CNU di Sassari “L’Università negli anni della sperimentazione: esperienze e problemi” Relazione di F. Cresci Pavia 5-7 Giugno 1986 MIUR + Univ. PV + CNU “La ricerca universitaria nel contesto nazionale e internazionale” U.S., Nov-Dic 1987 Pisa 28 Marzo 1988 ADRUP-CNU Futuro del ricercatore Universitario ad otto anni dall’istituzione del ruolo Atti a cura di M. Carcassi ADRUP-CNU Pisa 29 Nov. 1989 CNU Convegno Naz.le sulla “Autonomia dell’Università” Bologna 25 Novembre 1991 CNU Convegno su “Una nuova docenza per l’Università europea” Pisa 9 Nov. 1991 ADRUP-CNU Seminario per gli eletti nei Senati Accademici Integrati B.U. CNU (FI) Luglio 1984 Tabella 4 Roma Tor Vergata 10 Giugno 1993 CNU Convegno Nazionale su “Autonomia, Pubblico Impiego e libertà costituzionali” Ferrara 21 Marzo 1995 CNU di Ferrara “L’Università dell’Autonomia. Effetti della gestione a budget su organico e reclutamento dei docenti” Firenze 26 Genn. 1996 CNU Convegno Nazionale su “Quale Università”? Genova 9 Giugno 1997 CNU “La facoltà di Medicina alle soglie del 2000: tra Accademia e Sanità” Siena 3 Ottobre 1998 CNU ADU, FIRU, APU, USPUR “Il valore legale dei titoli di studio universitari nel processo di riforma in atto” S. Giuliano Terme (PI) 18-19 Giugno 1999 CNU Seminario interno Vulcano Settembre 2000 CNU Seminario interno Roma 4-5 Aprile 2001 CNU Conferenza Nazionale su: “Università al bivio: ricerca, nuova didattica e organizzazione della docenza” Firenze 11 Febbraio 2005 CNU di Firenze “Università: quale futuro? Autonomia, risorse, sviluppo” Pisa 21 Maggio 2008 ADRUP-CNU Conferenza di Paolo Blasi su: “Quale Università nel XXI secolo?” Firenze 15 Dicembre 2008 CNU e USPUR Università di Firenze: Oggi e Domani CastiglioneTaormina 22-24 Sett. 2010 CNU Seminario interno Torino 17 Marzo 2012 COSAU Convegno nazionale su: “Il futuro dell’Università pubblica italiana e il ruolo del sindacalismo autonomo della docenza” Parma 27 Novembre 2013 CNU di Parma (Prof Violi) “La Medicina Universitaria nelle aziende Sanitarie: un peso o una risorsa?” 391 UR, 2-3/1993 vedi sezione IV del DVD Tabella 5. Le associazioni universitarie nell’era Repubblicanaa Sigla Associazione Periodo di attività Primo Presidente (o Segretario) [Dirigenti di rilievo] Associazioni Studentesche Pre-sessantottob Associazione Goliardica Italiana (studenti di ispirazione liberale e socialista; nata per scissione dall’UGI) 1958-1968 FUAN Formazioni Universitarie di Avanguardia Nazionale (poi Fronte universitario d’Azione Nazionale). (studenti di destra) 1950-1996 INTESA Intesa Cattolica (studenti di matrice cattolica, politicamente vicini alla DC) 1948-1968 Unione Goliardica Italiana (studenti di area laica) 1948-1968 AGI UGI UNURI Silvio Vitale [Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia] Unione Nazionale Rappresentativa Universitaria Italiana. (struttura istituzionale il cui Direttivo era 1948-1968 costituito da rappresentanti delle associazioni, eletti dagli studenti) Post-sessantotto LINK (Coordinamento Universitario di associazioni studentesche autonome locali) 2009- UDU Unione Degli Universitari (confederazione di associazioni studentesche di vari atenei che si autodefinisce “sindacato studentesco”) 1994- [Federica Musetta] Associazioni di docentic (o comunque di personale laureato) Associazioni nazionali ADI Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani 1998- ADU Associazione Docenti Universitari 1998- Leo Peppe (RM) Associazione Medici Universitari Subalterni 1964?-1968 G. Guagliano e D. Cerimele AMUS Tabella 5 393 AND Associazione Nazionale Docenti (rappresenta docenti di scuola e università) 1998- [Francesco Greco] ANDS Associazione Nazionale Docenti Subalterni (andava oltre gli steccati categoriali di UNAU e ANPUI, ma era un po’ anti-sistema) 1960?-1968 F. Nicodemi (NA) ANDU Associazione Nazionale Docenti Universitari 1967-1969 Giorgio Spini (FI) ANDU Associazione Nazionale Docenti Universitari (originalmente Assemblea Nazionale dei 1981ricercatori universitari – informale –, formalizzata poi nel 1992 e infine Associazione a partire dal 1998) ANPUI [Guido Barone (NA), Associazione Nazionale Professori Universitari Camillo Dejak (VE), Incaricati (principalmente professori incaricati ~1960-1969 Giovanni Meo Zilio esterni, cioè non aventi rapporto di ruolo con (VE), Gabriele l’ateneo) Giannantoni (RM)] ANPUR Associazione Nazionale Professori Universitari 1952-1973 di Ruolo (dal 1973 USPUR) Prof. Castellani (RM)? ANRIS Associazione Nazionale per la Ricerca e l’Insegnamento Superiore Salvatore Saetta (PA) ANRU Associazione Nazionale Ricercatori Universitari APU 1969-1970 Associazione Professionale Universitaria (ha adepti praticamente solo a Napoli) ARTeD Associazione dei Ricercatori a Tempo Determinato CIDUM Coordinamento Intersedi Docenti Universitari e Medici Nunzio Miraglia (PA) Luigia Melillo (NA) 2013- Salvatore Sorriso (PG) [Vittorio Mangione (PR), Paolo Manzini (PD), Alberto Incoronato (NA)] CIPUR Coordinamento Intersedi Professori Universitari di Ruolo 1989- CITLU Confederazione Italiana Tecnici Laureati Universitari 1962?- CNRU Coordinamento Nazionale Ricercatori Universitari (inizialmente ne facevano parte solo ricercatori, ora anche i professori) 2004- Marco Merafina (RM) CNUd Comitato Nazionale Universitario. – Vi confluirono inizial