il Fatto Quotidiano Venerdì 27 gennaio 2012 VII ARTI Mali culturali OFFICINA ITALIA Siena: assassinio della Cattedrale CREATIVITÀ DA DISCARICA Dal vessillo all’animale Particolari del restauro. Sotto: restauratore al lavoro sul pavimento del Duomo senese di Tomaso Montanari «Q UANTI, COL PIÈ fangoso, nulla curanti calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena? … Egli è tutto a gran lastre di fino marmo bianco istoriate con tratti di scarpello in semplici linee piane che sol descrivono i corpi. Ma l’opera è d’eccellente lavoro». Quando, nel 1660, scriveva Daniello Bartoli, quel famoso pavimento era già antico: se ancora oggi possiamo goderne è merito dell’Opera della Metropolitana di Siena, fossile vivente che da quasi ottocentocinquant’anni tramanda il gran corpo del Duomo, sede dell’arcivescovo metropolita. Oggi, tuttavia, nubi tempestose si affollano sul destino di quella gloriosa istituzione: dove non hanno potuto la Peste Nera, la caduta di Siena e la dominazione medicea potrebbe riuscire il cinico marketing del patrimonio artistico. Una recentissima interrogazione parlamentare della deputata PD Susanna Cenni rivela che l’Opera (una onlus con un volume d’affari annuo di sei milioni di euro) ha ceduto un ramo d’azienda (quello che si occupa di accoglienza, marketing e – tenetevi forte – iniziative culturali), con ben dodici dipendenti (i quali hanno fatto ricorso, impugnando la cessione), ad una società privata con fini di lucro: Opera Laboratori Fiorentini, una controllata di Civita. La cessione è avvenuta per un prezzo incredibilmente esiguo (42.000 euro) e, contemporaneamente, l’Opera Metropolitana ha appaltato ad Opera Laboratori quelle stesse funzioni. L’interrogante chiede al ministro degli Interni (il quale, attraverso il prefetto di Siena, nomina i vertici dell’Opera) se questa singolare operazione non finisca per modificare occultamente la natura dell’ente, da onlus a normale azienda, rischiando inoltre «di mettere in discussione la centralità degli enti cittadini nella gestione del proprio patrimonio culturale, diminuendo attività e prestigio di una delle più antiche istituzioni italiane ed europee». E i dubbi sono più che fondati, visto che Opera Laboratori Fiorentini è uno dei pilastri del discutibile sistema del Polo Museale di Firenze così come è stato costruito da Antonio Paolucci ed ereditato da Cristina Acidini. Basti dire che pochi giorni fa un giornalista del «Giornale della Toscana» ha annunciato di esser stato assunto come addetto stampa dell’Acidini, specificando che il suo stipendio sarà pagato proprio da Opera: così quest’ultima parteciperà a gare (per mostre, gestioni museali e servizi aggiuntivi) in cui dovrà esser selezionata dalla soprintendente a cui paga il portavoce, MOSTRE E MOSTRI • DA VEDERE: Tutte le migliori pubblicazioni di fotografia latinoamericana realizzate tra il 1921 e il 2012 riunite in una mostra, compresi alcuni libri d’artista con dibattiti e performance intorno al tema. Foto/gráfica è di nicchia, ma preziosa e approfondita, perché frutto di una rigorosa ricerca durata tre anni, setacciando biblioteche e archivi di 19 Paesi, da Cuba alla Patagonia. Parigi, Le Bal, fino all’8 aprile. www.le-bal.fr • DA EVITARE: Ai grandi maestri (quasi) tutto è concesso. Ma David Hockney iper tecnologico alle prese con l’iPad non convince. Opere monumentali, sicuramente ad effetto, ma senz’anima. Preferiamo ricordarlo mentre scattava polaroid nella Los Angeles degli anni ‘70. I living room, le piscine nell’assolata California e i ritratti. David Hockney RA: A Bigger Picture. Londra, Royal Academy of Arts, fino al 9 aprile. www.royalacademy.org.uk in un monumentale conflitto di interessi. E colpisce che lo spirito felicemente municipalista di Siena si sia sgretolato fino ad appaltare a maneggi fiorentini nientemeno che il Duomo, monumento civico e identitario non meno che religioso. Sarà il ministro dell’Interno, e poi forse la magistratura, a dirci se è in corso una mutazione genetica dell’Opera del Duomo. Ma anche se – come speriamo – non ci saranno implicazioni fiscali o penali, esiste un colossale problema culturale. L’Opera è un bene comune per eccellenza, chiamato da secoli a fare solo e soltanto gli interessi della collettività, cioè del popolo di Siena: come si concilia con questa storia l’idea di appaltare, e addirittura cedere, le sue iniziative culturali ad una società privata con fini di lucro? Alcune conseguenze di questa mutazione investono già il patrimonio artistico. Da anni, gli interventi di restauro e di manutenzione nella Cattedrale sfuggono sistematicamente al controllo e al vaglio della Soprintendenza (specie da quando questa è retta da Mario Scalini, uscito proprio dal vivaio del Polo museale fiorentino), con la conseguenza che opere di artisti come Nicola Pisano, Michelangelo o Bernini sono oggetto di restauri ispirati più al marketing che non a ragioni di conservazione o conoscenza. Ma il punto più basso si è forse toccato con il restauro del famoso pavimento, dove gli scalpellini vanno manipolando le forme, trasformando arbitrariamente vessilli in teste di giraffa, e serpenti in lombrichi. Così, la metafora barocca del padre Bartoli è ormai realtà: «Quanti, col piè fangoso, calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena?». Possibile che nella colta e orgogliosa Siena nessuno voglia fermare quei piedi fangosi? ON CI CAPACITIAMO che i giovani artisti italiani, rispetto ai loro colleghi stranieri, non riescano a imporN si nel panorama internazionale. Non ci consola neanche constatare che solo in pochi, e nella maggior parte dei casi emigrati all’estero, siano riusciti a farlo. Mancanza di strutture all’avanguardia, accademie da “svecchiare”, gallerie private e istituzioni che non sostengono sufficientemente gli artisti nostrani, critici, collezionisti e curatori affetti da esterofilia? La questione è complicata, ma la mostra Officina Italia 2. Nuova creatività italiana offre una risposta al dilemma. Nessuna scritta o indicazione fuori dallo spazio espositivo, nessun materiale informativo all’interno, opere, per lo più pittura e scultura, affastellate, un allestimento raffazzonato, un’illuminazione da fiera paesana con grossi fari da concerto lasciati a terra e alcuni lavori mai arrivati a destinazione. Dell’opera video di Meris Angioletti, ad esempio, rimangono solo una didascalia appiccicata al muro e un piedistallo vuoto perché del videoproiettore che avrebbe dovuto sostenere non vi è traccia. La Ex Chiesa di San Carpoforo dove ha sede il CRAB-Centro di Ricerca Accademia di Brera e che ospita la mostra, sembra abbandonata a se stessa. Sono due gli aspetti allarmanti su cui riflettere. Il primo: questa mostra ha persino avuto altre tappe prima di arrivare a Milano e alcuni degli artisti, probabilmente delusi, si sono persi per strada. Il secondo: dietro a quest’operazione non c’è qualche giovane studente che si è divertito a organizzare una mostra tra amici, magari dello stesso corso d’Accademia, ma ci sono un comitato scientifico, il supporto di un comitato promotore tra cui gli Assessorati alla Cultura rispettivamente della Regione Emilia Romagna e Lombardia, un catalogo edito da Mazzotta e un curatore non certo alle prime armi come Renato Barilli. Autore di saggi, docente di Storia dell’Arte contemporanea e Fenomenologia degli stili ora in pensione, tanto brillante ai tempi delle sue lezioni al Dams di Bologna, quando paragonava con disinvoltura il Tondo Doni michelangiolesco a una pizza margherita, quanto approssimativo nella regia di questa mostra. Più che un’officina, una discarica dell’arte. A quanto pare il Padiglione Italia versione suk, alla scorsa Biennale di Venezia, ha fatto scuola. Una volta usciti rimane però un quesito. Perché quegli artisti, alcuni di talento come Margherita Moscardini, hanno deciso di partecipare a un simile bazar, di dubbia progettualità? Spinti forse da un periodo di minor visibilità o perché la mostra finisce e a rimanere sono le immagini patinate su un catalogo da aggiungere in bibliografia. Se i nostri giovani artisti faticano a varcare i confini, la colpa, purtroppo, è anche un po’ loro. Officina Italia 2. Nuova creatività italiana, CRAB-Accademia di Brera, Milano, fino al 12 febbraio;www.centroricercabrera.it Anna Galtarossa, “To tem”, 2010. Foto di Michele Sereni. Courtesy Studio La Città, Verona. mentre nel restauro del pavimento le bandiere diventano giraffe Daniele Perra Colorato Bazar Il patrimonio del Duomo rischia d’esser gestito da un cinico marketing, di ERME PERCHÉ LA SISTINA È BELLA di Marco Filoni RENDIAMO UN gruppo di studenti univerP sitari del primo anno a un corso di arte. Domandiamo loro se la Cappella Sistina è bella. Domanda retorica, certo, però è interessante chiedere, subito dopo la loro risposta affermativa, il “perché” è bella. E magari dopo aver ascoltato le motivazioni, si può legger qualche riga, senza svelare l’identità dell’autore, dal quale emerge un’insoddisfazione e un giudizio non troppo lusinghiero su quel lavoro. Soltanto dopo si dirà a quegli studenti che è proprio Michelangelo ad aver giudicato la sua opera con amarezza. Questa sorta di esperimento è l’incipit di uno dei migliori libri usciti di recente sull’arte. Lo ha scritto Serena Giordano, provocatorio e intelligente sin dal titolo: Disimparare l’arte. Manuale di antididattica (il Mulino). E va raccomandato a tutti quelli che, in vario modo, dai curatori ai docenti agli artisti stessi, hanno a che fare con quel mondo. Giordano, che insegna all’Accademia di Belle Arti di Genova, ha potuto sperimentare con i propri studenti una serie di domande affatto banali. L’esempio della Sistina è esemplare: perché la sua bellezza è indiscutibile? Perché di fronte a due opere d’arte, come la Gioconda di Leonardo e la Merda d’artista di Piero Manzoni, gli studenti sono propensi a considerare un capolavoro so- lo la prima perché frutto di una tecnica? Eppure la Merda d’artista, ricorda Giordano, è esposta alla Tate di Londra e in altri musei di prim’ordine, valutata a cifre impensabili, oggetto di desiderio di non pochi collezionisti. Insomma, Giordano ci ricorda che tanto la Gioconda quanto la provocazione di Manzoni «si sono guadagnati lo status di opera d’arte in base a riconoscimenti sociali e non estetici e che quelli sociali, a differenza dei secondi, sono determinanti». Lo stesso vale per il nostro patrimonio artistico: là dove c’è il bollino di “bene culturale”, come nel caso dell’Altare della Patria a Roma, allora è automaticamente bello, va tutelato e conservato. Eppure questa indiscutibilità, questa magnificente espressione artistica, rischia di generare un paradosso: proprio perché indiscussa quest’opera può, e spesso succede nello sguardo delle giovani generazioni, diventare invisibile. E allora converrà riflettere su quanto diceva Andy Warhol: «La cosa più bella di Firenze è il McDonald’s». Ci si può indignare, si potrà dire che è una frase tagliente e, ad arte, irritante. Oppure la si può usare come uno spunto, come viene fatto in questo libro, per liberarsi da una serie di paradigmi. I quali, va detto, sono vivi, verificati, di sicuro utili. Eppure nessuno li mette mai in discussione. Che succede se per un momento proviamo ad astrarci da queste regole universali della storia dell’arte e facciamo un ragionamento differente? C’è forse chi giudicherà irrituale, perciò illegittima, tale messa in discussione. Ma la didattica dell’arte e del nostro straordinario patrimonio può giovarsi di questo approccio. In un paese dove sempre minore è l’interesse per la cultura artistica (per non dire dei tagli o dello stato precario in cui versano i nostri monumenti, da Pompei al Colosseo), riuscire ad appassionare i giovani, interessarli, coinvolgerli, è comunque un’operazione interessante. E se per farlo, fra altre opzioni, è utile mettere a confronto una tela del Tintoretto con una striscia di Superman o di Spiderman, nessuno indignato stupore. Sarà soltanto, come ci insegnano con intelligenza queste pagine, un modo per «far uscire dalla scuola la storia dell’arte e collegarla con gli infiniti spunti che ci circondano». Serena Giordano, Disimparare l’arte, il Mulino, pagg. 211, € 15,00