Illuminante “Poco lontano da qui”
Alessandro Fogli, Corriere di Ravenna, 4 ottobre 2012
Il maggior “pericolo” per Chiara Guidi ed Ermanna Montanari nello stare in scena insieme in uno
spettacolo creato a quattro mani poteva essere solo quello, seppur vago, della reciproca
impenetrabilità. D’altronde, affiancare per la prima volta le fondatrici di Socìetas Raffaello Sanzio e
Teatro delle Albe – ossia due tra le compagnie più importanti della storia del teatro italiano – sulla
carta non si presentava certo come operazione scevra da trappole e dinamiche infide. Timori
infondati. “Poco lontano da qui” – con cui Guidi e Montanari hanno inaugurato martedì al
Comandini il festival Màntica – è lavoro di magnifica coesione e intesa, in cui due personalità forti e
complesse, senza rinunciare ognuna alle proprie marcate caratteristiche, si muovono a servizio di
una creazione olistica che diventa altro, nuovo, diverso da ciò che le singole parti portano in dote.
“Il parlar franco è stato il patto iniziale del nostro incontro” dicono le due attrici e drammaturghe, e
l’affermazione è evidente, palpabile durante tutto lo spettacolo. Spettacolo che, con buona
evidenza, è sicuramente anche un confronto personale, addirittura privato, di modi, espressioni,
linguaggi, tecniche, presenze. Di percorsi e di protagonismi. Un confronto ma non uno scontro.
Una reciproca apertura. Ed è esattamente la messa in campo di se stesse, delle proprie specifiche
modalità di lavoro – nella fattispecie quello di ricerca, trentennale, sulla voce – che vediamo in
scena in “Poco lontano da qui”. Certo, un punto di riferimento, nello spettacolo c’è, una lettera di
Rosa Luxemburg dal carcere e un’altra scritta da una benpensante austriaca a Karl Kraus –
entrambe tratte dal libretto “Un po’ di compassione”, edito da Adelphi -, così come c’è un’origine (il
graphic novel di Igort “Quaderni russi”), ma sono tracce che fanno solo da fiammella pilota a un
apparato drammaturgico ben più stratiforme incentrato sul tema della compassione in cui le due
attrici procedono rendendo di carne silenzi, pause, rumori, echi, frammenti vocali, per dare alle loro
parole, ai monologhi, ancor più potenza, più pathos.
In una scena dominata da contrasti netti tra chiari e scuri ma in cui però si muovono anche separé
velati, mendaci, Montanari e Guidi ci conducono in un volontario disorientamento che induce ad
acuire i sensi, come quando si cammina nell’oscurità. Il loro pensiero creativo procede per salti e
improvvisi spaesamenti che obbliga di volta in volta la narrazione a riorganizzarsi in maniera
nuova. E’ un pensiero-in-vita, non rettilineo, non univoco, in cui la pre-espressività delle
protagoniste ne dilata la presenza fisica rifrangendola nel luogo sonoro assemblato e composto dal
musicista Giuseppe Ielasi, anch’esso fondamentale nella delicata alchimia dello spettacolo. I due
personaggi interagiscono inizialmente quasi con distacco, a squarci, poi i punti di contatto si fanno
sempre più profondi, fisici, il rapporto nasce, in bilico, tra abbracci e ceffoni, il “dialogo” illumina di
dolente corporeità la figura ispiratrice, la rivoluzionaria Luxemburg.
Voce e gesti per Rosa Luxemburg
Paolo Turroni, La voce di Romagna, 4 ottobre 2012
Due donne in un interno, e una lettera misteriosa che deve essere letta: così si potrebbe
sintetizzare Poco lontano da qui, lo spettacolo con Chiara Guidi e Ermanna Montanari che ha
debuttato martedì sera nel raccolto spazio del Teatro Comandini di Cesena, come primo
appuntamento della rassegna “Màntica”, in programma fino al 14 ottobre. La lettera misteriosa è
duplice, come due sono le protagoniste in scena: una lettera di Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria
scomparsa nel 1919, e una lettera scritta da una donna sconosciuta, che critica la precedente.
Tutto nasce dalla difficoltà della narrazione, un esercizio di alta scrittura teatrale e di recitazione
per esprimere la drammaticità dell’esistenza di Rosa Luxemburg, sacrificatasi per un ideale e
sbeffeggiata per quel medesimo sogno. Le due protagoniste interagiscono con grande efficacia e
persino con alcuni inaspettati e piacevoli spunti comici; la voce è principalmente affidata a
Ermanna Montanari, la gestualità a Chiara Guidi, ma entrambe portano avanti tutte le potenzialità
del teatro di ricerca. La scena è spoglia: pochi fogli di carta che diventano finestre o gabbie, tende
tirate per aprire e chiudere scenari. Momento di grande suggestione: un flutto d’inchiostro nero che
macchia indelebilmente Chiara Guidi – voce di Rosa Luxemburg – e che trasforma il suo vestito
bianco nella lettera che non si potrà più dimenticare. La sconosciuta donna che la critica dovrà
quindi fare i conti con la drammatica testimonianza: teatro raffinato per appassionati, certo, però in
grado di suscitare notevoli suggestioni.
Gli occhi feriti del bufalo: la compassione di Albe e Raffaello Sanzio
Massimo Marino, corrieredibologna.corriere.it, 4 ottobre 2012
Come una favola, detta di notte, tra le lenzuola, con la voce che trema dalla paura. La guerra, gli
scontri, il calpestio dei passi della violenza, il frastuono della minaccia, l’esplosione della pietà. Il
ritrarsi della vittima e l’infierire di chi crede di possedere la sola verità. Lo sguardo di un bufalo
percosso, simile a quello di un bambino. La voce che non riesce a uscire dall’emozione.
Chiara Guidi e Ermanna Montanari ci danno con Poco lontano da qui uno spettacolo magico, di
tensioni represse, di scontri implosi, di pesi gravi da sopportare, di parole bloccate nella glottide.
Vuoti in un mondo prigione. Un’estensione nell’intimità personale del dominio della lotta; un grido
soffocato a ridisegnare il mondo concentrando segni dirompenti nel rettangolo limitato della scena,
recinto sacro dove gli archetipi si rivelano e configgono disseminandosi in molteplicità di segni.
È una striscia lunare tra due bianchi sipari illuminati in modo crepuscolare o notturno la scena. Le
due donne si rivelano ombre, aprono prigioni di carta e tende simili a lenzuola, chiedono di narrare
una storia che l’altra non riesce a sentire. Si cercano, si misurano in tensione. Si fronteggiano. Una
schiaffeggia l’altra, per strapparle la proprietà di una bocca di luce proiettata che sia capace di dire,
di parlare. Le due attrici fondatrici di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe si sono
incontrate, ormai molti mesi fa, nello scorso dicembre, con il desiderio di lavorare sulla voce. Ma
quella era ingolata senza sbocco, come l’orrore dell’argomento che volevano affrontare, la guerra,
quella russa in Cecenia narrata a costo della vita da Anna Politkovskaja, disegnata e raccontata da
Igort nel suo Diario russo. Hanno ragionato su altri intellettuali che hanno vissuto in quel paese
povero, immenso, tenuto sotto il tallone di varie dittature, sullo scrittore Cechov e il regista
Mejerchol’d, una delle vittime di Stalin. Poi hanno scoperto un libretto, pubblicato nella Minima
Adelphi, di Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione. Inizia con una lettera in cui la grande
agitatrice dal carcere racconta della violenza cieca di una guardia contro un bufalo, che piange
inconsolabile come un bambino, evocando tutto il dolore per la sofferenza del mondo e il desiderio
di un altrove diverso, le praterie, il sole, il vento. La missiva, pubblicata da Karl Kraus, riceve la
risposta di una borghese benpensante che accusa “l’arruffapopoli” Rosa Luxemburg di essersi
meritata il suo destino mettendosi fuori dalla società costituita. Nasce il dubbio che sia scritta dallo
stesso Kraus, per permettersi una risposta sferzante contro la mancanza di umanità, invocando
una “repubblica bufalina”, luogo di compassione impossibile nell’Europa anni ’20, scossa dai
conflitti e dagli odi. I testi rimangono frasi spezzate nella prima parte dello spettacolo, muti come
una campana che troneggia in scena retta da una porta di ferro mangiato dal verderame. Emerge
invece una corrente tra i due corpi, pronti allo scontro e a ritrarsi, disponibili a favoleggiare parole
smarrite, fantasmi intimi e politici (come l’Internazionale), fino a incarnare un essere destinato al
sacrificio e il suo carnefice. La vittima, una disarmata, stupenda Chiara Guidi, sarà spogliata e
sporcata d’inchiostro. Da prigioni di carta, ridotta a ombra, emergerà per dire, scarnificate,
essenziali, pronte a risuonare nello spettatore, le parole di compassione della prigioniera Rosa
Luxemburg. E per essere abbattuta e trascinata via, come un fagotto, dai tecnici. Ermanna
Montanari si trasforma allora in modo fin troppo trasparente in belva, assumendo, con una regale
pelliccia, l’abito della borghese che critica la Luxemburg, sicura di certezze che reggono il mondo
immutabile. Ritorna il lato nero dell’attrice delle Albe, cristallizzato in personaggi feroci come
l’indimenticabile streghesca kapò Kazzafuoco di Sterminio di Schwab, esposto senza sottigliezze
come abito belluino. Ma nelle due letture, grazie al tappeto sonoro costante di forza suggestiva e di
rara potenza drammaturgica di Giuseppe Ielasi, avviene che la voce della vittima rimbombi prima
esterna, riprodotta, proveniente da un lontano altrove, forse dal pozzo della storia, forse da quelle
praterie scosse dal vento e dalla libertà dei bufali, per poi diventare grana personale, fiato
dell’attrice, minuto smarrito indefettibile dire per affermare la fragilità dell’essere umano contro ogni
soperchieria. Nella borghese troneggiante in piena luce, viceversa, una voce potente, vibrante,
arrochita, portata fuori dall’attrice come arma d’assalto, viene sempre più deformata
elettronicamente, rimbomba, riecheggia, incombe, si sgretola…
Nel finale, in questa lotta continua che è anche confronto/scontro/ricerca di una lingua comune tra
due attrici-creatrici, provenienti da mondi artistici in parte incommensurabili, si torna nel buio. Il
cadavere viene fatto rientrare, come un fantasma di una realtà non ancora rimossa. E arriva con
un sacchetto di pane, col suo vestitino, e si mette in un canto, semplicemente, a mangiare. Offre
un po’ di crosta, magari solo una briciola all’altra, mentre un pezzo del testo di Kraus riattizza il
calore della compassione, della fratellanza, della necessità di cambiare questo mondo di bestie
umane. La lotta si disarma, nell’ombra dei controluce tempestosi di Enrico Isola: le due avversarie
riempiono il centro della scena di coltelli resi inoffensivi, in sogno di pace, fino a stendersi a sentire
la terra, a farsene baciare sotto cullanti, straziati versi di uccelli notturni. Non tutto ancora è
perfetto in questo lavoro alla prima rappresentazione al festival Màntica, ma il tempo e la lunga
tournée colmeranno i vuoti o gli squilibri che ogni tanto si avvertono. Intanto colpisce, anche in certi
momenti ermetici, con quel suo abito guerresco, quel bruciare di conflitti tra corpi e voci, con un
bisogno di abbandono, di debolezza, di pace, di empatia. Con quell’infantile smarrito stupore
senza parole per la violenza del mondo; con quel sogno bambino di emendare l’incomprensibile.
Alla fine torniamo all’inizio. Con certi suoi passaggi più suggestivi che immediatamente
comprensibili questo spettacolo ci lega a sé: è ciò che chiamiamo incanto, magia, fascino del
teatro (affascinare è un risucchiare in un gorgo). È la capacità di operare per sensazioni e segni
non sempre lucidi all’intelletto, dentro, in qualcosa di seppellito, nel più intimo, nel più svanito.
Favola notturna e l’orrore del mondo
Massimo Marino, Corriere della sera – Bologna, 7 ottobre 2012
L’odio che ci contamina, la guerra che ci entra dentro diventano una favola narrata di notte con la
voce che trema dalla paura. In attesa che ci salvi la fata dal nome bello di compassione.
Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio e Ermanna Montanari del Teatro delle Albe si
incontrano in uno spettacolo che percorre l’afasia, il frastuono, l’intima misericordia: ed è subito
magia. Incantesimo di corpi in conflitto trasformati in ombre e poi restituiti alla luce e al peso, di
voci che si spezzano di fronte all’orrore impronunciabile e sgorgano in un’elegia che trasferisce il
dominio della lotta nell’umana, femminile fragilità. Poco lontano da qui, che ha debuttato al festival
Màntica al teatro Comandini di Cesena, inizia con un sussurro, tra due sipari di carta e di lenzuola,
in atmosfera lunare: “Ti leggo una lettera di Rosa Luxemburg?”. Poi, a lungo, la voce non riesce a
uscire, trasformata in scontri, opposizioni, sfide che rievocano per segni sospesi il conflitto che ha
ispirato il lavoro, l’orrore della guerra cecena e il sacrificio di testimonianza di Anna Politkovskaja.
Incombono rumori, suoni, frasi frante nell’aria o intonate come voci infantili (il bel tappeto sonoro è
di Giuseppe Ielasi). Le due contendenti diventano vittima e carnefice, fragile, spogliata figuretta
sporcata di nero inchiostro e signora benpensante, possidente, che minaccia.
Dalla bocca di Chiara Guidi sgorgano disarmate, dolci, le parole di una lettera scritta da Rosa
Luxemburg dal carcere. La rivoluzionaria piange nel vedere un bufalo colpito con un bastone e
scorge nei suoi occhi il dolore del mondo ferito. L’altra, ferina, impellicciata, legge con violenza che
diventa rimbombo elettronico la rampogna di una signora contro l’”arruffapopoli” Luxemburg, che
ben si è meritata la sorte del carcere pensando di cambiare il mondo.
Nel finale la donna spogliata ricompare mangiando pane: sarà ora lei a darne solo una briciola
all’altra, mentre una voce registrata riporta il commento di Karl Kraus alle due lettere, sul bisogno
di un altro mondo, di una “repubblica bufalina” di compassione. Coltelli vengono estratti dalla notte
e deposti in terra in un finale sogno di disarmo. L’indignazione in questo spettacolo diventa
corrente coinvolgente, invenzione di una tensione che non assolve nessuno, seduta spiritica per
sentire la sofferenza del mondo.
Poco lontano da qui
Sara Fulco, flashgiovani.it, 9 ottobre 2012
La trepida attesa per questo incontro memorabile. Due protagoniste della scena teatrale italiana
contemporanea si sono incontrate sotto una impalcatura di ferro, con grandi teli bianchi, una
tendina color panna scorrevole e una campana atona. Si sono incrociate e intrecciate tra le parole
di Rosa Luxemburg. Tra le righe e la sonorità di questa voce rivoluzionaria, che ha fondato nel
1915 il Gruppo Internazionale. Una vita piena di sofferenza, ma anche di grande forza,
poiché...nella vita bisogna avere coraggio. E' proprio questa la frase ricorrente che viene enunciata
all'unisono dalle protagoniste. Una metafora tra i bufali dal cuore puro, massacrati a botte dai
soldati e ridotti in fin di vita, e la prevalenza in questo mondo, in quel mondo, di bestie, che
rappresentano il potere, la cecità e la violenza. Il possesso della forza negativa e l'avarizia
vengono, qui, presentate dalla formidabile Chiara Guidi come voracità, come attaccamento
ossessivo alla cose tangibili e non, che vengono divorate e sbranate con crudeltà. La figura
emblematica della penetrante Ermanna Montanari, che ad un certo punto dello spettacolo
simboleggia la sgradevole ironia del potere borghese e capitalista, crea un composto corale
attorno al quale avviene anche l'irruzione in scena dei tecnici della luce: signori neri che ripuliscono
il palco dalla compassione e dalla morte. Un velo ottuso e un dialogo tra la morte eroica e il
significato della vita stessa. Il thanatos che non incombe, ma è sempre presente in scena come
protagonista invisibile dalla voce miscelata di entrambe le attrici. La personificazione del sonno
eterno, infatti, avverrà proprio nel momento in cui le voci rarefatte di Chiara Guidi ed Ermanna
Montanari verranno mescolate nelle metalliche tonalità sofferte, bisbigliate, afflitte e impaurite. Il
vibrare delle corde vocali e la pulizia dei movimenti, che le attrici attuano in scena, divengono lo
scorrere della storia e della musica di Giuseppe Ielasi. Una cornice che si addentra all'interno del
quadro artistico per riportarci ai tempi lontani della lotta comunista, dell'internazionale e dei conflitti
in Cecenia. Per riportarci ai tempi vicini dell'indifferenza e della lontananza dei cuori puri. La
tendina scorrevole che impacchetta le grandi attrici poco lontane dal pubblico e che
rappresentano, con la loro grandissima tecnica artistica, l'eterna dialettica della vita e della morte
che alberga dentro ciascun essere umano, non distante nei luoghi dell'altrove, ma che risulta
essere compresente dentro ognuno di noi...poco lontano da qui.
Poco lontano da qui
Maria Dolores Pesce, dramma.it, 10 ottobre 2012
Dal 2 all'11 ottobre al teatro Comandini di Cesena, nell'ambito dell'evento “Màntica contro ogni
evidenza”, questo inaspettato, e forse anche non prevedibile, incontro confronto tra Chiara Guidi
ed Ermanna Montanari. Tralasciando il racconto delle storie da cui nascono queste due figure
eccentriche del teatro attoriale italiano contemporaneo, perché certo superfluo, ma non
dimenticandone la diversità se non, talora, la progressiva 'divarificazione', nasce da questo
incontro una bella drammaturgia che definirei delle 'dissonanze', dissonanza tra il fascino della
sottrazione, del vuoto dissodato dalla parola e dal suono lavorato fino all'ossessione, e la gioia
potente della parola come strumento per costruire spazi, riempiendoli, e per raggiungere orizzonti,
ovvero dissonanza, questa indotta da una società brutale, tra la vita e la morte spezzate nel loro
eterno dialogare. In questa trama narrativa delicata, sempre pronta a strapparsi al pari delle
icastiche scenografie bianche come lenzuoli stesi al sole, entra Rosa Luxemburg, quasi
casualmente, ma con una capacità immediatamente percepita di riarticolare, riannodare
armonicamente il dialogo artistico e anche fisico tra le due protagoniste. Rosa Luxemburg, e il suo
straordinario comunismo libertario, irrompono grazie ad un affastellarsi di suggestioni che legano
Rosa Luxemburg ad esempio alla giornalista Politkovskaja e alla sua denuncia del potere, ovvero
alle donne cecene che con forza rivendicano notizie sui loro desaparecidos, in una sorta di filo
rosso sottile ma robusto che lega tra di loro tante esistenze al femminile. Da qui il ringraziamento
ad Igort per i suoi “Quaderni russi”. Ma qui, Rosa, ha spazio non tanto per la sua storia, personale
o civile, che in effetti resta sempre al di fuori della sintassi drammaturgica e testuale, quanto per
una sua formidabile capacità metaforica, tale da riflettere come in uno specchio il percorso
interiore e creativo delle due artiste e da organizzare quel filo rosso in una organica trama di
narrazione, molto personale ma per questo inevitabilmente 'universale'. Pietra di paragone, in
effetti, non soltanto delle singolari storie artistiche delle protagoniste, quanto del confondersi
concreto e quotidiano della vita e della morte, in un confronto che si ripete identico quasi, nella sua
essenza, per ognuna delle nostre esistenze. Un conflitto che contiene in sé e quasi riassume ogni
altro conflitto, come in Rosa donna tanto ricca e feconda di vita che la morte non spezza, ma in cui
la morte, dalla vita, viene quasi scavalcata. L'epistolario dunque non come lascito ma come
esempio, in una didattica dell'amore per la vita che non si placa. Tra gli altri conflitti così riassunti
emerge soprattutto il possesso, o il desiderio di possesso, come sentimento di sopraffazione e di
chiusura che esclude l'altro da sé ma non ne può fare a meno. Poco lontano da qui in effetti è la
nostra interiorità non solo psicologica ma soprattutto esistenziale, impastata dal e nel conflitto con
gli altri, e poco lontano da qui, nello spazio e nel tempo, sono i luoghi evocati in cui i fantasmi della
violenza, interni ed esterni, si sono manifestati rompendo ogni confine psicologico o anche etico.
Tra Ermanna Montanari e Chiara Guidi si sviluppa così un confronto che è come una partita a
scacchi che tende ad occupare spazi sottratti all'avversario, conflitto di cui la voce e le sue
modulazioni, talora così 'diverse' e per questo così armoniche e coerenti nell'amalgama della
musica intensa di Giuseppe Ielasi, ed i movimenti corporei e scenici, compongono il codice
insieme ermetico e straordinariamente evocativo. Così la trama estetica si infittisce fino ad una
divaricazione apparentemente insuperabile e anche 'urtante', quando la morte sembra prevalere
fino a cancellare ogni speranza. Chiara, sopraffatta dallo scuro colore della morte è trascinata
fuori, ed Ermanna si assume l'onere di rivendicare, attraverso le parole della lettera della
possidente bavarese a Karl Kraus, la morte, del cuore e della mente, come destino dei più. È una
vittoria però apparente, come quella su Rosa Luxemburg, e l'arte può, ha il potere di riannodare il
dialogo fino a disarmare il mondo. In scena restano, o meglio ritornano, due donne capaci di
apprendere e per questo capaci di insegnare, capaci di dare e per questo capaci di prendere. Due
sorelle, di nuovo somiglianti, anche nell'abbigliamento, e di nuovo riavvicinate proprio dalle loro
diversità. Uno spettacolo complesso, in cui la forza singolare e singolarmente diversa della
recitazione di Chiara Guidi e di Ermanna Montanari sembra moltiplicarsi, come le onde di uno
stagno in cui Rosa Luxemburg è il sasso lanciato di sorpresa, uno spettacolo anche 'spiazzante' e
distonico che talora prende in contropiede anche lo spirito più 'barricato'. E' in ogni caso un evento
raro, di quelli che spesso non si ripetono perché non possono ripetersi.
Due leonesse sul palco
Montanari e Guidi insieme nella pièce su Rosa Luxemburg
Mattatrici di stile e mondi teatrali diversi si confrontano per la prima volta in scena
mettendo in comune passioni, corpi e parole
Maria Grazia Gregori, L’Unità, 12 ottobre 2012
Sul palcoscenico del Teatro Comandini stipato fino all’inverosimile dove va in scena poco lontano
da qui non ci sono solo due donne, due attrici che si confrontano, ci sono due stili e due mondi di
teatro, due protagoniste assolute della nostra scena sperimentale. Per la prima volta Ermanna
Montanari delle Albe di Ravenna e Chiara Guidi della Raffaello Sanzio di Cesena, all’interno del
Festival Màntica, mettono in comune la loro passione, il loro sapere. Soprattutto mettono in
comune i loro corpi, le loro emozioni, il loro “esserci”: eppure quello che si snoda di fronte a noi
non è una guerra di dame né, tantomeno, di regine quanto un trasmettersi qualcosa una all’altra,
un passaggio di corrente alternata, che non deflagra con un botto e via, ma che si arricchisce a
poco a poco proprio per quel loro essere in scena, insieme. E gli spettatori si rendono conto di
questo, si rendono conto che nell’ora o poco più della durata della performance c’è qualcosa che
passa da Ermanna a Chiara e viceversa, un arricchimento, una sfida spavalda che mette a nudo
queste due attrici che sembrano così lontane e che invece danno prima l’impressione e poi la
certezza di essere così vicine.
Quando si apre il pesante sipario ti aspetti che lì dietro, subito, abbia inizio lo spettacolo introdotto
da suoni simili al brusio, al sospiro di un’elettrizzante attesa. E invece ecco che dietro il sipario
ottocentesco ne appare subito un altro, candido, a mezz’altezza, semplice: il sipario brechtiano che
non vorrebbe lasciare nessuno spazio all’illusione e invece viene coinvolto dai suoni dilatati e
incombenti di Giuseppe Ielasi, scandite dalle belle luci di Enrico Isola in una storia che ci viene
proposta per frammenti, per accensioni fisiche e verbali. All’inizio, la vicenda che si vuole
raccontare, si presenta quasi di sguincio e le voci che la puntellano sembrano provenire da lontano
come se cercassero una loro faticosa identificazione. Sul telo bianco centrale appare a poco a
poco l’immagine confusa di un volto, quasi una sindone del dolore, perché di una donna martire, di
una donna barbaramente torturata e uccisa si comincia a parlare.
È Rosa Luxemburg, la fondatrice della Lega di Spartaco, la ribelle Rosa che non si intimidì
neppure di fronte a Lenin e di una sua lettera scritta dalla prigione berlinese, che ci arriva a
brandelli, dove si stigmatizza qualsiasi violenza a cominciare da quella sugli animali, che rifiuta. Ma
ecco, quasi evocata, apparire un’altra donna con una lunga pelliccia: è l’altra parte dell’universo
femminile questa signora XY che scrive da Innsbruck alla rivista Die Fackel di Karl Kraus (che
aveva pubblicato la lettera della Luxemburg), una vera e propria sequela di insulti, carica di
violenza per arrivare a una conclusione raccapricciante: che la giovane donna sparita nel nulla e il
cui corpo verrà trovato più tardi, la “Rosa rossa” come veniva chiamata, alla quale il giovane
Brecht dedicò una stupenda canzone, era stata una cattiva maestra e si meritava quello che le era
successo. Non vi ricorda tragicamente qualcosa tutto questo? Non vi riporta alla mente repressioni
innominabili, donne uccise per le loro idee “poco lontano da qui” e magari anche qui o appena un
poco più in là? Eccole: una alter ego dell’altra eppure così diverse. Chiara che impone la sua
presenza nella rarefazione della parola, nella gestualità incisiva e poi quasi del tutto assente in
quel corpo restituito dal fango, all’improvviso. Ermanna con una forza che potrebbe smuovere
chiunque, imperiosa e perfino proterva. Tocca a lei chiedere luce in sala (non la chiedeva anche
Brecht ai suoi elettricisti?), rompere un dolore pieno di pudore. Ma che di lontananza non si tratti
ecco che la candida scena prima distrutta viene poi riedificata e il teatro, ancora una volta, vince.
Poco lontano da qui, qui e ora, Ermanna e Chiara entrambe registe l’una dell’altra e di se stesse
l’hanno proprio rotta la quarta parete e sono qui, vicine noi.
A cavalcioni della verità
Renato Palazzi, Il Sole 24 ore, 21 ottobre 2012
Credo che Poco lontano da qui, lo spettacolo che Chiara Guidi ed Ermanna Montanari hanno
presentato al festival “Màntica” di Cesena, sia anche un’esemplare dimostrazione di certe
dinamiche del teatro odierno. Fino a qualche anno fa le due carismatiche esponenti della Socìetas
Raffaello Sanzio e del Teatro delle Albe di Ravenna, nel provare a lavorare insieme, avrebbero
cercato un testo ad hoc, che ne valorizzasse le rispettive personalità e doti tecniche. Ora, invece,
sono partite da se stesse, dalle proprie relazioni reciproche, senza necessità di particolari supporti
drammaturgici. Ciò non significa che nella loro costruzione scenica non entrino dei temi “esterni”,
che riguardano il presente di noi tutti, e che sono anzi forti e incombenti. E non significa che non vi
affiorino dei materiali verbali preesistenti, che le due artiste affrontano ciascuna alla sua maniera.
Ma questi significati “altri”, emblematicamente, sono come un punto d’arrivo cui si approda
partendo da una sfera radicalmente soggettiva, dal combinarsi dei loro caratteri, dei loro punti di
vista, dal diverso modo che hanno di stare alla ribalta. Chi sono quelle due presenze femminili che
hanno entrambe una lunga treccia scura e che paiono indossare dei vestiti d’altri tempi, di foggia
simile ma di colore lievemente differente? Due sorelle che giocano a cercarsi e a respingersi, a
confortarsi e a tormentarsi fisicamente? Due fantasmi di un oscuro passato collettivo? Due
bambine invecchiate senza essere mai cresciute, incarnazioni di un mondo che è stato e che
continua a essere squassato dalle violenze della Storia? Lo stesso impianto scenografico, un
onirico paesaggio di veli bianchi semi-trasparenti, non sembra evocare un ambiente concreto ma
uno spazio interiore, un teatrino mentale ch mostra forse le due facce di uno stesso io scisso, più
che il confronto fra due entità distinte: e quello spazio è attraversato da sussurri, fruscii, echi di
voci, le voci – composte nella raffinata partitura sonora di Giuseppe Ielasi – delle vittime delle
atrocità descritte da Igort nei suoi Quaderni russi, delle sopraffazioni denunciate dalla Politkovskaja
che stanno alla base dell’ispirazione, senza tuttavia mai entrarvi direttamente.
Al centro dell’azione non c’è però la contrapposizione fra due principi metafisici, il Bene e il Male,
ma tra due atteggiamenti per così dire sociali, la ferocia e la compassione: tutto il rapporto fra le
due interpreti, tutto il loro portarsi a cavalcioni l’una con l’altra e poi tirarsi per i capelli non è che un
continuo alternarsi di ferocia e tenerezza reciproca, finché i due poli di questa dialettica si
oggettivano nella straziante lettera dal carcere di Rosa Luxemburg pubblicata nel 20 da Karl Kraus
sul suo “Die Fackel”, e nella perfida risposta di una lettrice.
La lettera della Luxemburg, che la Guidi pronuncia in sottoveste, col corpo coperto da un liquame
scuro, racconta di un bufalo aggiogato a un carro, nel cortile della prigione, bastonato e torturato
fino a farne il simbolo di ogni crudeltà umana. L’ignota signora, evocata dalla Montanari, obietta
spietatamente che chi ha fomentato l’odio deve restare giustamente punito. In queste opposte
visioni si concentra tutto il senso dello spettacolo: e, con una scelta molto indicativa, in sede di
repliche le due pensano di scambiarsi ogni sera le parti.
Battaglia di dame per un bufalo massacrato
Claudia Cannella, Hystrio, Anno XXVI 1/23
Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, gemelle diverse sullo stesso palco. Una sorellanza agli
antipodi che trova la sua vicinanza e lontananza, più che nei due trentennali percorsi di ricerca
vocale, nelle parole di due lettere. La prima, scritta nel 1918 da Rosa Luxemburg dal carcere di
Breslavia, la seconda, del 1920, da una misteriosa Frau von XY da qualche zona rurale
dell’Ungheria. Entrambe destinate a Karl Kraus, arbitro involontario, ma forse no (la seconda
potrebbe essere anche un suo “falso d’autore”), di due diversi modi di vedere la vita, la morte, gli
ideali, le ideologie. Oggetto del contendere: la vicenda di un povero bufalo massacrato di botte dal
conducente del carro. La Luxemburg scrive una lettera accorata a Kraus che la pubblica sulla sua
Fiaccola. Tre anni dopo, la battagliera signora ungherese le risponde per le rime con una folle
missiva (ma quanto metodo c’è in quella follia!), politicamente scorretta e di terragna provocazione,
in cui si ribadisce che quella è la vita dei bufali al servizio degli umani e che, poche storie, ci sono
abituati. Il dogmatismo buonista della comunista Luxemburg , da una parte, la dialettica sarcastica
e beffarda della pragmatica proprietaria terriera dall’altra. In cangiante abito di seta marrone,
niente tacchi, la prima, cucita addosso a Chiara Guidi. In viola, con stivaletti animaleschi, la
seconda, ovviamente Ermanna Montanari. Non sorprende, conoscendole. Nel mezzo Kraus che, in
una terza lettera, chiude la diatriba appellandosi alla compassione e alla fratellanza di un’umanità
allo sbando. Su questo si confrontano le due “sorelle”, quasi personaggi di una fiaba sinistra,
squarciando bianchi velari di sottile carta velina e trovando numerosi coltelli nascosti ovunque che
gettano in terra al centro della scena. Come una resa reciproca, una pace (dis)armata in cui si
trovano a condividere del pane secco. Sono le due facce di una stessa medaglia, in cui il bianco
esiste solo in virtù della presenza del nero, il bene di quella del male. Salutari cortocircuiti per
rigenerare pensieri ed emozioni.
Poco lontano da qui: Rosa Luxemburg tra compassione e politica, secondo Chiara
Guidi e Ermanna Montanari
chiediteatro.it, 26 febbraio 2013
La prima parte del progetto Compagnia di Giro di Anno Solare si conclude con Poco lontano da
qui, creazione che vede fianco a fianco per la prima volta il Teatro delle Albe e la Socìetas
Raffaello Sanzio Compagnia di giro è – del programma Anno Solare del Festival di Santarcangelo
– il segmento che più irradia le attività annuali del festival nell'intero territorio regionale, toccando
città e spazi del teatro e componendo un programma di spettacoli all'interno del quale il pubblico è
invitato a muoversi, su di un pullman e accompagnato dal gruppo di lavoro del Festival, per
avventurarsi in un percorso di visioni e di approfondimento attorno al teatro di oggi. A chiusura di
questa prima parte di programma, la stagione teatrale itinerante di Santarcangelo dei Teatri ritorna
martedì 26 febbraio (anziché lunedì 25 febbraio come programmato inizialmente) al Teatro Rasi di
Ravenna per la nuova produzione “Poco lontano da qui”, nata da un invito reciproco tra Ermanna
Montanari e Chiara Guidi, che hanno condiviso la direzione artistica di Santarcangelo 2009-2011
Festival Internazionale del Teatro in Piazza e sostenuta da Santarcangelo •12 •13 •14. Il palco è il
luogo in cui le due artiste si incontrano e il lungo percorso di ricerca individuale sulla voce dell’una
si apre a quello dell'altra, mettendo alla prova due modalità di lavoro che hanno elaborato nel
corso degli anni all’interno delle loro compagnie, punti di riferimento della scena contemporanea
italiana e internazionale: la Socìetas Raffaello Sanzio diretta da Claudia e Romeo Castellucci e da
Chiara Guidi a Cesena, e il Teatro delle Albe diretto da Marco Martinelli e Ermanna Montanari a
Ravenna. Il punto di partenza di Poco lontano da qui è la suggestione dei Quaderni russi di Igort,
un viaggio per disegni nella “democrazia” dittatoriale di Putin messo in moto dalla reazione
d’indignazione per l’uccisione di Anna Politkovskaja e di altri giornalisti e intellettuali testimoni della
verità. Attraversando Cechov e Mejerchol’d, la ricerca drammaturgica è arrivata a un testo breve
ma di grande incisività di Rosa Luxemburg, una lettera del 1917 scritta dal carcere a un’amica in
cui racconta lo smarrimento per le percosse inflitte da un guardiano a un bufalo che sembrava, alla
donna politica, piangere inconsolabile come un bambino, ferito come il mondo stesso dalla cecità
della violenza. Nello spettacolo quel testo è seguito da un’altra lettera del 1920, indirizzata a Karl
Kraus, in cui una signora benestante e benpensante si lamenta per lo spazio dato dal giornalista a
quell’“arruffapopoli” della Luxemburg, che meglio avrebbe fatto a diventare guardiana di giardino
zoologico o impiegata in un vivaio piuttosto che mettersi nei guai. La replica di Kraus non viene
portata in scena, ma l’indignazione per una voce pronta a giudicare e a condannare chi si pone
fuori dalla “normale” vita borghese è affidata al contrasto con una sensibilità – quella della
Luxemburg appunto – capace di sentire la sofferenza del mondo. Poco lontano da qui è un lavoro
di magnifica coesione e intesa, in cui due personalità forti e complesse, senza rinunciare alle
proprie marcate caratteristiche, si muovono a servizio di una creazione dove la figura storica della
Luxemburg fa da specchio catalizzatore del bisogno profondo di una luce di verità in un dialogo
che diventa la risposta su come restituire attraverso una scrittura scenica il dolore e la
compassione. Chiara Guidi e Ermanna Montanari danno prova di una sorellanza agli antipodi, che
trova la sua vicinanza e lontananza nelle parole di due lettere, e si incontrano nel luogo sonoro
creato e composto da Giuseppe Ielasi, forse l'artista italiano più conosciuto al mondo nel campo
delle composizioni elettroniche. Il 26 febbraio dopo lo spettacolo si svolgerà anche un incontrodialogo con Igort, Chiara Guidi e Ermanna Montanari . Poco lontano da qui è una produzione della
Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe / Ravenna Teatro con la coproduzione di Emilia
Romagna Teatro Fondazione, Comune di Bologna, Fondazione Romaeuropa, Festival delle
Colline Torinesi-Torino Creazione Contemporanea, Ravenna 2019 Città Candidata Capitale
Europea della Cultura, Santarcangelo •12•13•14 Festival Internazionale del Teatro in Piazza.
Posticipata al 22 febbraio la data ultima per acquistare i biglietti per lo spettacolo che, dopo il
debutto a Cesena nell’ambito del festival Màntica, giunge al Teatro Rasi di Ravenna nel
programma di Ravenna-viso-in-aria (partenza dal Parcheggio Francolini di Santarcangelo alle ore
19,30, inizio spettacolo ore 21, durata 60' circa). È possibile acquistare i biglietti, al prezzo di 15
euro comprensivi dello spettacolo e del viaggio, presso: • Santarcangelo dei Teatri, via Andrea
Costa 28, Santarcangelo di Romagna, tel. 0541 626185, dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e
dalle 15 alle 17; • Biblioteca “Antonio Baldini”, via Felice Cavallotti 3, Santarcangelo di Romagna,
tel. 0541 356299, dal lunedì al venerdì dalle 13 alle 19, il giovedì anche dalle 21 alle 23, il sabato
dalle 8.30 alle 19. Il pullman di Compagnia di Giro parte dal Parcheggio Francolini in Via
Montevecchi a Santarcangelo. Il programma di Compagnia di Giro fa parte del progetto Anno
Solare, realizzato da Santarcangelo dei Teatri con la direzione artistica di Silvia Bottiroli e la
condirezione di Rodolfo Sacchettini.
Poco lontano da qui
Rossella Porcheddu, cheteatrochefa-roma.blogautore.repubblica.it, 8 marzo 2013
Agone. Lotta. Tra donne che sembrano gemelle, negli abiti e nelle trecce, e che si scoprono
diverse, nel sentire e nell’agire. Tra bocche che sono zittite, ostruite di verità che faticano a
sgorgare. Tra voci che si inseguono senza prendersi. Tra corpi violati e sporcati, scossi da brividi e
attraversati da suoni. Trascinano sul palco, Ermanna Montanari e Chiara Guidi, l’incontro
combattivo, il processo distruttivo e lo sviluppo costruttivo del lungo periodo di prove. Viaggio in
una terra ferita dalla guerra e solcata dalle dittature, un paese raccontato da Cechov e portato in
scena da Mejerchol’d. Percorso che si è nutrito delle parole dal carcere di Rosa Luxemburg,
rivoluzionaria e teorica marxista uccisa nel 1919, e delle immagini di Igort, che nei Quaderni russi
ha disegnato i drammi ceceni ispirandosi agli scritti di Anna Politkovskaja. Cammino che è ricerca
di un linguaggio comune, offerta e condivisione di fragilità e smarrimenti, scoperta di una
prossimità, di un umano abbandono. Sono bisbigliate le frasi e velate le fisicità nella prima parte di
“Poco lontano da qui”, riecheggiante di registrazioni e di respiri, visitata da ombre e straziata da
urla che implodono in gola. Cornici contengono strati di pagine vuote, teli bianchi si stringono in
nodi di dolore, per poi essere rimossi e rivelare squarci di disperazione. Sale la tensione, le
sagome si fanno carne, le mani fremono di umiliazioni, risuonano nell’aria le violenze e le torture,
una su tutte quella del waterboarding che le due donne hanno voluto provare, forti della capacità di
soffrire, sicure dell’urgenza di possedere angosce e tormenti che appartengono ad altri luoghi e
altre storie. Rintracciate nel libretto “Un po’ di compassione” che raccoglie una lettera della
Luxemburg, pubblicata da Karl Kraus, e la risposta di un’ignota lettrice della rivista Die Fackel, le
parole sono infine espulse, liberate. Macchiata di inchiostro, indifesa, spogliata, Chiara Guidi si fa
attraversare dall’inerme sofferenza dell’agitatrice polacca, che dalla cella invoca pietà per un
bufalo, vittima della crudeltà di una guardia. Il volto contorto in una piega di disgusto, Ermanna
Montanari, brutale, animalesca, ribatte nei panni di X-Y, borghese sgradevolmente gonfia di
convinzioni. Che sia scossa da spasmi di paura, scavata da impeti di violenza, la voce – sostenuta
dall’intensa tessitura sonora di Giuseppe Ielasi – emerge dal profondo, esce roca dalla gola, affiora
sottile sulle labbra, sale irritante nel naso, per essere di nuovo zittita, spegnersi come si
affievoliscono i corpi alla fine di una battaglia. Perché l’orrore, quello che è avvenuto poco lontano
da qui, può generare un terribile fragore, ma può anche evocare un assordante silenzio.
Galleria Toledo: Poco lontano da qui
lostrillo.it, 12 marzo 2013
Il palco e il pubblico diventano il luogo in cui Chiara Guidi e Ermanna Montanari mettono alla prova
due metodi e modi di lavorare con la voce che, nel corso degli anni, il lavoro della Socìetas e delle
Albe ha, ciascuna a suo modo, elaborato.Il lavoro dell’una si apre al lavoro dell’altra per una “resa
dei conti”. E nel dialogo che ne scaturisce ciascuna deve farsi corpo unico alle tecniche che per
anni ha sviluppato, e la voce di ciascuna - in questa sfida individuale - deve essere la stessa
sostanza delle cose che pronuncia.
C’è per entrambe una relazione con la musica che la voce esige.L’attenzione è posta non tanto al
contenuto dei discorsi, quanto alla verità visibile tra ciò che afferma e ciò che, colei che parla, è.
Poco lontano da qui cerca questa verità della voce e si mette a confronto con quanto, non troppo
distante dalle nostre terre, accade ed è accaduto in Cecenia, e che Igort ha raccolto e restituito
con il tratto del suo disegno.
Poco lontano da qui, sperimentazione al femminile al Palladium di Roma
Mariafrancesca Infusino, recensito.net, 12 marzo 2013
Dalla scena emana un pallore lunare e una teoria di pannelli di carta e lenzuola bianche accoglie
due figure gemelle. Due donne che si guardano, si cercano, si respingono. Sono Chiara Guidi ed
Ermanna Montanarini, le signore della sperimentazione teatrale italiana, l’una proveniente dalla
Socìetas Raffaello Sanzio, l’altra dal Teatro delle Albe di Ravenna.
L’occasione dell’incontro è uno spettacolo – Poco lontano da qui – che vive di raddoppiamenti,
opposizioni, inganni. E così ci sono due amiche, due sorelle, due compagne, e subito dopo due
rivali, due modi di interpretare la vita e la sofferenza, due strade da percorrere. I corpi intrecciati,
accucciati l’uno nell’altro, poi lontani, divisi, e di nuovo ritrovati, raccontano un confronto iniziato
riflettendo sul coraggio della verità e la violenza subita da Anna Politkovskaja, proseguito lungo le
suggestioni di Cechov e Mejerchol'd, e intensamente consumato su due lettere pubblicate da Karl
Kraus: la prima di Rosa Luxemburg, la seconda firmata da un’anonima Frau von X-Y.E se all’inizio
viene esplorata la difficoltà di dire, l’inadeguatezza di ogni parola a comunicare la persecuzione e
la censura, e non c’è spazio che per rumori, voci spezzate, sussurri (l’elaborazione dei suoni è di
Giuseppe Ielasi), improvvisamente la significanza linguistica sgorga dai corpi delle due donne.
Colante di inchiostro e in sottoveste bianca, Chiara Guidi interpreta le riflessioni dal carcere della
rivoluzionaria tedesca. Attraverso di sé lascia fluire la compassione accesa in Rosa Luxemburg
dalla sofferenza di un bufalo, picchiato e torturato sotto la sua finestra, e portatore in quell’istante
di un dolore universale e invincibile. In controcanto, protetta da una voluminosa pelliccia verde,
un’agguerrita Ermanna Montanari, nei panni dell’anonima Frau von X-Y, ridicolizza il sentimento
dell’altra donna e ne sintetizza percorso e destino (voleva cambiare il mondo ed è finita in prigione)
con un sarcastico “se l’è cercata”.Resta una danza fra i coltelli, un disarmo del palcoscenico, le
considerazioni di Karl Kraus sulle due lettere, e la lotta, ancor più irrisolta e bruciante, tra la pietà e
la ferocia.
Romaeuropa: Chiara Guidi e Ermanna Montanari, Poco lontano da qui
Paola Pelagalli, pensieridicarta.iobloggo.com,13 marzo 2013
Nel descrivere Poco lontano da qui innanzitutto è necessario anteporre una premessa: per
condividere il frutto del lavoro di Ermanna Montanari e Chiara Guidi è necessario distaccarsi
dall’abitudine – forse malsana? – che l’uomo ha di capire – e sottolineo capire – e non
comprendere. Usualmente ci si approccia a qualsiasi novità con una tendenza alla conquista, già
prefigurandosi il fine ultimo di signoreggiare su quel nuovo territorio e di assoggettarlo al proprio
dominio intellettivo. L’opera Poco lontano da qui è una provocazione a questa tendenza da
moderni conquistadores che dilaga nella società contemporanea: la provocazione sembra voler
distruggere non la comprensione in sé, ma la necessità che identifica il capire con il fine ultimo di
qualsiasi metodo comunicativo. Il tentativo a cui le autrici sottopongono il pubblico è l’intensa
esperienza della distruzione del linguaggio verbale, puntando all’obiettivo profondo del sentire
comune. La collaborazione tra le esponenti di due tradizioni differenti, il Teatro delle Albe e la
Socìetas Raffaello Sanzio, sembra puntare a una ricerca che ritrovi la primitività della nascita della
comunicazione verbale: una situazione originaria che ricordi ancora il valore del significante in
quanto tale, deterioratosi col procedere dei tempi e con la corruzione dei linguaggi socialmente
condivisi. La proposta non vuole essere un annichilimento della funzione comunicativa, quanto più
una sperimentazione di metodi alternativi, nell’obiettivo di stimolare il risveglio di nuovi livelli di
condivisione. Una folgorante frase di Chiara Guidi, tratta dal carteggio mantenuto con la sua
collaboratrice durante la preparazione dell’opera, dichiara: «Penso che il pensiero dovrà scorrerci
nel sangue … non nella testa.» E’ per questo che, più che di dialoghi, il palcoscenico si popola di
immagini e sensazioni: rappresentando un inno alla verità della vista e dell’immediatezza,
sostenute già da Anna Politkovskaja e Karl Kraus. Le scene sono brutalmente dirette e causa della
straniante tensione che percorre la platea.Un tema ricorrente sembra la sporcizia. Il candore della
scena, costruita di tende bianche e cornici di carta opaca, è contaminato da impalcature
arrugginite, si macchia di un denso liquido nero e nasconde lame affilate. Nel corso della
rappresentazione, narrazione degli scontri disarmonici tra due entità che si erano mostrate di una
simpatia gemellare, lo sporco non solo invaderà il palcoscenico, ma distruggerà tutto ciò che da
principio era sembrato intonso e pulito: i bianchi tendaggi saranno prima avvolti in un abbraccio di
due anonimi moncherini e poi scardinati; l’intima veste di Chiara Guidi inquinata del liquido nero;
nell’opacità delle cornici cartacee sarà la corrosione a creare espressività.
La successione di quadri insieme alla dolorosa empatia esposta nelle lettere di Rosa Luxemburg
conduce alla descrizione del percorso che le due autrici hanno compiuto e che incitano il pubblico
a compiere: è la rappresentazione della sofferenza generata dalla messa in discussione di se
stessi e dalla negazione della propria identità per sperimentare l’incontro con l’altro; negazione
necessaria per sentire – non capire! - l’altro, per raggiungere la com-passione di «un abbraccio
amoroso all’intera natura», per raggiungere la Vita, in tutte le sue forme, anche se un poco lontano
da qui.
Poco lontano da qui. Il duetto Guidi Montanari
Segio Lo Gatto, teatroecritica.net, 14 aprile 2013
Innanzitutto un incontro. Quello tra Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, cofondatrici,
rispettivamente, di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, due tra i più importanti gruppi
della ricerca teatrale italiana. Da un lato una tensione dilaniante verso l’immagine come filtro di un
concetto, dall’altro l’incarnazione di echi profondi dentro il profilo spesso della parola parlata;
all’incrocio delle due estetiche un’irrinunciabile poetica del corpo, della presenza, di un’astrazione
totale eppure paradossale che porta con sé la frenesia di un ritorno al presente, al contatto con gli
occhi, a una comunione essenziale con lo spettatore. O quantomeno con i suoi confini intellettuali.
Poco lontano da qui è innanzitutto questo, un incontro fortemente voluto dalle due performer,
anime vibranti di un pensiero-limite che si fa tecnica, tensione e abbandono, abitando
orizzontalmente e osmoticamente un piano espressivo comune. Nebuloso, concavo, gelido, come
coperto di brina appare lo spazio, una foresta di tende bianche che scorrono su carrucole, fogli di
carta appuntati su intelaiature di alluminio ad altezza d’uomo e una grossa campana di ferro che
resterà muta, con la fune lasciata al tentativo di sorreggersi. Insieme al biglietto ci viene
consegnato un fascicoletto che riporta stralci di un carteggio tra Guidi e Montanari, dalla fase
embrionale dell’estate 2011 al debutto nell’autunno 2012; un affascinante documento che fotografa
il passare delle idee insieme alle stagioni, l’affiorare di piccoli concetti, di relazioni fondamentali tra
i due linguaggi e di necessarie distanze nella loro espressione, sempre alla ricerca di un luogo di
sperimentazione; una materia che (complice l’ottimo estro delle due penne e forse una certa
perizia nel montaggio degli scritti in fase editoriale) affiora piano piano e ha il ritmo d’onda di
stagno. Malgrado tutto, questo documento rappresenta il lascito più significativo dell’opera che
accompagna, forse perché quello più sincero, più chiaro e che risolve in sé, con una dialettica
aperta pur nella sua sostanza aurorale, i temi di scontro e di confronto. Il primo movimento sulla
scena è una mano che, da dietro a uno dei fogli, sbrina la visuale, come svegliandosi una mattina
d’inverno che tutto intorno è neve. «Il volo di un falco che attraversa le cose, che le illumina con la
sua evidente eleganza. Questo è per me la pregnanza teorica del fare, dell’essere teatro: alchimia
di astratto e concreto», si legge nel carteggio. Stipati in abiti quasi monacali eppure con stoffe che
rispondono alla carezza delle luci, i due corpi si cercano timidamente, dialogando con i suoni
lancinanti di Giuseppe Ielasi che accerchiano lo spettatore; con i tremori detti da Mejerchol’d nei 33
svenimenti rivive una fragilità totale della quale la posa di spalle, il doppio identico delle due
schiene e delle due chiome brune raccolte in una treccia – quasi un’immagine/eco dell’intero
spettacolo – sono riassunto ultimo. La ricerca della materia si compie in una nebbia emotiva, la
stessa in cui, nel carteggio, prende forma la necessità di richiamare alla memoria la concreta
condizione storico-politica del conflitto, della prigionia, dello strangolamento della voce popolare:
ispirate anche dalle illustrazioni dei Quaderni russi di Igort, prendono allora corpo le figure di Karl
Kraus, di Rosa Luxemburg, di Anna Politkovskaja. «Anna non ha scritto una sola parola senza
prima sentirla e agirla», si legge ancora. E questa urgenza si intuisce, in scena, nel continuo
cercare l’una il corpo dell’altra, una tensione che il più delle volte agli occhi dello spettatore arriverà
già sgonfia, troppo lirica. «Come accosteremo materie così diverse? Ci serve un’idea compositiva
che non risolva le differenze e che tuttavia crei unità, una coesistenza carica di tensioni»: in parte il
problema sta qui; se in più punti affiorano, quelle tensioni sono ancora troppo simili a intuizioni,
sono qualcosa di sotterraneo, come se i due linguaggi che pure hanno diversi punti in comune – il
lavoro radicale sulla voce, lo sguardo magnetico che delimita il campo d’azione di ogni movimento,
l’evocazione – non riuscissero sempre a trovare il modo di risolversi in un verbo scenico concreto.
Eppure i segni visivi e testuali sono molti, tra riferimenti all’opera di Čechov con pose da
“gabbiano” appena ucciso, le ali spezzate; il senso di morte della campana che non suona mai;
una tanica di petrolio rovesciata sul bianco della sottoveste e il suo nero incendiario come quello
dell’inchiostro che macchia e che non si cancella. Tutte punte d’iceberg di realtà “poco lontane da
noi”, sepolte nel nostro immaginario, come sono le lettere di Rosa Luxemburg dal freddo della
prigionia, in cui «un abbraccio amoroso all’intera natura» spia il passaggio dei bufali, simbolo di
forza e mitezza, una condizione alterata del vivere cui fa eco, messa in scena in un ragionamento
analitico, la convivenza sullo stesso palco di due radicali estetiche della ricerca.
Al “verbo sacro” della Politkovskaja risponde un altro documento, la acida lettera anonima che si
lamenta del patetismo e del buonismo della giornalista russa; per dare voce a questa replica
Montanari fa alzare le luci in sala e chiede a due tecnici di sgombrare il palco e di posizionare in
proscenio il leggio, simbolo quasi proverbiale del suo linguaggio performativo, in uno slancio
autoironico comune a quello di Guidi, che in più di una scena prende di mira certa sacralità di
Raffaello Sanzio. Si tratta però di ammiccamenti eccessivamente autoreferenziali, che finiscono
per allontanare la materia critica invece di avvicinarla, disperdendone la pregnanza e la necessità.
Le indicazioni fondamentali ci arrivano forse da quell’epistolario che, nelle parole di Enrico Pitozzi
che lo “introduce” in una nota conclusiva, è «un modo per farsi carico della responsabilità del dire,
del nominare». Ma questo preciso compito non dovrebbe di per sé appartenere all’opera stessa?
Questo dire, questo nominare dovrebbero forse trovare una cassa di risonanza proprio nelle azioni
e nelle parole che i corpi portano sulla scena.
«In fondo la decisione di lavorare insieme non è più forte dell’idea di ciò che vogliamo ottenere?».
Appunto.
«Poco lontano da qui», una infinita serie di domande
Franco Cordelli, Corriere della sera, 14 marzo 2013
«Poco lontano da qui», in scena al Palladium, è uno spettacolo che dispiace recensire. È vero che
si potrebbe tacere. Più vero che si tratta di un manufatto così scadente che il silenzio diventerebbe
un'omissione. Lo dico per due motivi, anzi tre. Il primo è il nome delle loro autrici. Chiara Guidi e
Ermanna Montanari sono le presenze femminili di spicco di due gruppi storici, nell'eccellenza del
nostro teatro di ricerca: Guidi è uno dei fondatori della Raffaello Sanzio, Montanari del Teatro delle
Albe. Il secondo è che «Poco lontano da qui» figura nel cartellone di Romaeuropa. Quando muovo
obiezioni a questa ricca manifestazione è proprio per simili scelte. Il peccato è sempre lo stesso: si
vuole proporre a tutti i costi il sofisticato e il sofisticato a tutti i costi. Chiedo ai dirigenti: che
sofisticato è questo tipo di sofisticato? Quale idea di sofisticato, o di prestigioso, avete in mente? E
chiedo: ma li avete visti prima gli spettacoli che invitate? O vi basta il nome di chi li propone? Il
terzo motivo è la natura (pretenziosa) dello spettacolo di Guidi-Montanari. Queste due persone,
l'ho già detto o è implicito, sono persone eccellenti, cioè eccellenti artisti. Le persone non le
conosco, gli artisti li conosco per ciò che ho visto, per i contributi che hanno offerto alla
realizzazione di un'opera che è comunque di gruppo. Ma un conto è un gruppo, un conto è un
singolo. Quando i singoli stabiliscono di diventare autonomi spesso accade che non funzionino.
Dustin Hoffman è un grande attore. Ma è anche un grande regista? Ne dubito. Non ho dubbi
invece sulla qualità affannosa, impaurita, smarrita della volontà di dire di Guidi-Montanari. Altro
non si vede in «Poco lontano da qui» che la loro ostinazione e il loro girare a vuoto. Perché quei
tendaggi annodati? perché quegli strati di carta bianca? (così chiamano i materiali presenti in
scena nelle lettere che si sono scambiate). Ma anche: perché Rosa Luxemburg? O, al contrario, la
povera, onnipresente, Anna Politkovskaja? e perché Karl Kraus? perché i maiali? perché Chiara e
Ermanna si tolgono le scarpe? perché i coltelli? perché una getta morchia addosso all'altra?
perché la morte? Sì, perché la morte e tutto il resto?
Poco lontano da qui, due voci a confronto
Ermanna Montanari e Chiara Guidi in scena insieme per la prima volta
Alessandra Bernocco, europaquotidiano.it, 15 marzo 2013
«La decisione di lavorare insieme non è più forte dell’idea di ciò che vogliamo ottenere?» Sta qui,
in questa domanda retorica di Chiara Guidi, il senso di un lavoro denso e concettoso, carico di
coltissimi e articolati riferimenti che solo a posteriori siamo riusciti a decodificare
compiutamente. Ma poco importa: quello che conta è la forza eidetica di uno spettacolo che non
smentisce l’urgenza di condividere, di generare un corpo unitario mantenendo ben salde le
differenze, di rinnovare due alterità attraverso un incontro di corpi, di voci, di storie di vita e di
teatro che arrivano da lontano. Sono quelle di Chiara Guidi e di Ermanna Montanari,
rispettivamente anima della Socìetas Raffaello Sanzio e del Teatro delle Albe poi Ravenna Teatro.
Due compagnie nate negli anni Ottanta nel segno della ricerca e della sperimentazione di generi,
che ha portato la prima verso una scrittura scenica decostruttiva, affrancata dalla narrazione, e la
seconda a elaborare un proprio repertorio drammaturgico che rivisitava la tradizione
“accomodandola” sulle corde di attori in carne ed ossa. L’incontro artistico tra Ermanna e Chiara,
fortemente voluto da entrambe, è dunque anche un incontro tra due modi diversi fare teatro, tra
due verità, necessità e disposizioni a mettersi in gioco. Una sfida non indolore che si compie ogni
volta, rigenerata e carica di nuove promesse. Per questo non è forse giusto parlare di risultato, di
prodotto definitivo confezionato una volta per tutte, ma di «intreccio di immagini, idee e concetti
che invitano all’interpretazione e non alla spiegazione». Non c’è nulla di esaustivo in Poco lontano
da qui, che mutua il titolo dalla frase conclusiva di un racconto disegnato da Igort, l’autore dei
Quaderni ucraini, con quelle donne straziate a cui in parte si ispira l’iconografia di questo
spettacolo. C’è un “ritmo lento” che lascia anche a noi il tempo di riflettere, di attendere e
ripercorrere a ritroso un cammino impervio, ellittico, a tratti oscuro, che chiede di essere
reinterpretato. Rimangono impresse alcune immagini nitide e forti come quelle legate a vestizioni e
svestizioni, o come quei movimenti ossessivi che portano l’una a ribadire con forza la propria
fronte sul petto dell’altra; rimangono le loro voci, “polverose” e “petrose”, in scena e fuori campo,
scomposte e ricomposte in un montaggio originale a cura di Giuseppe Ielasi. Rimane la lettera di
Rosa Luxemburg all’amica Sonja Liebknecht dove riferisce dello sfruttamento senza pietà dei
bufali da traino, dei loro grandi, dolci occhi neri, e l’espressione di un bambino duramente punito
senza sapere perché. Una lettera dal carcere, datata 1917. Un «grande documento di umanità e
poesia», come la definì Karl Kraus. «Un abbraccio amoroso all’intera natura», come la definisce
Ermanna, che la lascia volare molto oltre il leggio.
Lo spettacolo è a Napoli, Galleria Toledo, da stasera a domenica, il 27 a Genova al Teatro
dell’Archivolto, al Festival delle Colline Torinesi l’1 e il 2 giugno e quindi al festival di
Santarcangelo, il prossimo luglio.
Il dolore che resta muto in gola
Gianni Manzella, Il Manifesto, 16 marzo 2013
Chiara Guidi e Ermanna Montanari nel loro primo incontro teatrale. Un'idea di fragilità che si ispira
a una lettera scritta nel 1917 da Rosa Luxemburg nel carcere di Breslavia, all'amica Sonja
Liebknecht in cui descrive una scena di insensata violenza compiuta da un soldato.
Dolore e lontananza sono i due poli terminali fra cui Chiara Guidi e Ermanna Montanari hanno teso
il filo del loro primo incontro teatrale, che durante i mesi di preparazione ha dato origine anche a un
lungo carteggio (a Roma lo spettacolo è andato in scena al teatro Palladium, dopo il debutto
domestico, a Ravenna). Il titolo già allude a una distanza. Poco lontano da qui, dice. Qui, è il palco
dove le due artefici hanno voluto mescolare i loro percorsi, finora contigui solo su un piano
geografico - anche se a entrambe era toccato di dirigere in tempi non lontani il festival di
Santarcangelo. Attrice nel senso più pieno della parola è Ermanna Montanari, protagonista a volte
anche solitaria di tutti gli spettacoli delle Albe (è da poco apparso da Titivillus un volume a lei
dedicato da Laura Mariani); più appartato ma non per questo meno significativo è stato negli anni
passati il ruolo di Chiara Guidi all'interno del lavoro collettivo della Societas Raffaello Sanzio, dopo
che i quattro soci fondatori avevano progressivamente abbandonato il ruolo di performer. Una idea
di fragilità viene dalla scena, dove le due interpreti appaiono all'inizio quasi gemellate nell'aspetto
severo. Un sipario bianco a elementi mobili si prolunga ad avvolgere l'intero spazio scenico.
Materia leggera che si strappa facilmente. Stoffe che si annodano a formare un pittorico
panneggio. Pannelli di carta in cui una lama può facilmente ritagliare un'apertura - lo storico del
teatro citerebbe gli screen di Gordon Craig. Un candore che non può resistere all'entropia della
scena, allo scontro che necessariamente vi si produce. E tocca il culmine nel liquido scuro che
scende da una tanica addosso alla più fragile (appunto) delle due. Quasi un correlativo di una
violenza trattenuta e tuttavia percepibile. Il dolore è quello raccontato da Rosa Luxemburg in una
lettera dal carcere di Breslavia dov'è rinchiusa, nel dicembre 1917. Di lì a poco sarà uccisa. Ma lì,
nella lettera all'amica Sonja Liebknecht, ciò che descrive non è la propria sorte di prigioniera ma la
scena di un'insensata violenza compiuta da un soldato nei confronti di un bufalo, la silenziosa
sofferenza dell'animale, gli occhi mansueti di chi non sa come sottrarsi al tormento. Kark Kraus la
pubblica con emozione sulla sua rivista Die Fackel qualche anno dopo - noi la possiamo leggere in
un prezioso piccolo libro pubblicato da Adelphi col titolo Un po' di compassione . Ma quelle parole
stentano ad arrivarci. Stiamo zitte? È meglio, si dicono le due attrici. Sono piuttosto suoni, ronzii,
l'eco di qualcosa che giunge da lontano, forse non tanto lontano da qui. Sul fondo c'è una
campana d'allarme che però non suona. Nel rapporto anche fisico che si stabilisce fra le due
donne è chiaro che a una, Chiara Guidi, tocchi il ruolo della vittima, fino a essere espulsa dalla
scena. Luce in sala, chiede l'altra. E un leggio in proscenio: ricominciamo. Il ricominciare è un
rovesciamento, come un guardarsi in uno specchio che però rivela un'altra deformata realtà. Alla
lettera di Rosa Luxemburg risponde quella che un'anonima lettrice della «Fackel» scrive a Karl
Kraus. Quasi grottesca nella meschina mancanza di pietà che dimostra (di ribrezzo parla Kraus
che tuttavia la pubblica come paradigma di una più ampia classe sociale). Per dire che quella
donna isterica, la rivoluzionaria ebrea tedesca, non avrebbe conosciuto da vicino il calcio dei fucili
se anziché fare l'arruffapopoli e seminare violenza fra gli uomini avesse lavorato in un giardino
zoologico e predicato la rivoluzione ai bufali. Che di tanto in tanto un bel colpo sul groppone lo
meritano, essendo poco accessibili ad argomenti razionali. C'è qualcosa di (forse volutamente)
inconcluso nello spettacolo di Guidi e Montanari, come se nel dolore ci sia qualcosa di indicibile.
Lo aveva sperimentato anche Leo de Berardinis, in altri tempi, quando aveva posto la lettera di
Rosa Luxemburg sullo sfondo del suo Uomo capovolto. Ci si poteva aspettare che il punto di
incontro fra le attrici fosse la vocalità, territorio che entrambe frequentano nel proprio lavoro. Qui, o
poco lontano da qui, qualcosa strozza in gola la parola. E l'immagine finale è un muto moltiplicarsi
di lame che passano di mano in mano. Forse è ancora al lavoro il tempo degli assassini, che
coniuga nella trama dello spettacolo l'uccisione di Mejerchol'd e quella di Anna Politkovskaja.
Come prende forma il teatro
Alessandro Toppi, 16 marzo 2013
Dal carteggio di lettere tra Chiara Guidi ed Ermanna Montanari.
“Vedo il peso di una questione: testimoniare fino alla fine. Sento che, insieme, questo potrà
riguardarci. Non per dare voce a una storia vera, ma per trovare una forma che prima ancora dei
significati possa mettere a nudo la nostra voce quando le parole si accostano al dolore” (Chiara).
“Questo che andremo a fare ha bisogno ora di una fondazione forte, che siamo tu e io. Dobbiamo
avere fede nel combattimento, stanare la ‘timidezza’ delle nostre voci a confronto. Questo esige
coraggio per proteggere e smembrare” (Ermanna). “Ci si deve sporcare! Sarebbe bello se
riuscissimo a sporcarci in un luogo pulito… tutto deve essere perfettamente lindo e netto”
(Chiara). “Cosa abbiamo? La tortura della nostra voce-contafavole; la nostra carne spossata; il
nostro corpo che sviene; il rumore dei massacri; la spudoratezza degli idoletti; e la capacità di
soffrire […]. Insieme e in solitudine: due donne, due artiste torturate dal loro ingombro vocale, che
si sono promesse di saltare il fosso verso l’altra riva, che sono due rive” (Ermanna). “Riusciremo a
trovare un unico punto di vista? Come accosteremo materie così diverse? Ci serve un’idea
compositiva che non risolva le differenze e che tuttavia crei unità, una coesistenza carica di
tensioni… Sarà arduo, forse sarà una lotta corpo a corpo tra noi e l’opera che verrà” (Chiara). “Noi
siamo, facciamo teatro. Qui dobbiamo trovarla, la forma giusta. Ora ci sentiamo abbandonate, il
nostro fare non trova spiragli, siamo in un bozzolo di carta, annichilite… Sono qui a testa bassa,
vari libri sul pavimento, mi sembrano opachi. Una voce dice ‘scappa’, un’altra dice
‘resta’”(Ermanna). “Come se usassimo noi stesse come materia nella materia non per mimare o
recitare, o compiere nuovi movimenti, ma per sperimentare il vivere… E pensare che tutti
attendono da noi prove di recitazione. Li deluderemo!” (Chiara). Poco lontano da qui compone la
sua parte finale incastonando, di seguito, due monologhi: una lettera che Rosa Luxemburg,
ingabbiata a Breslavia, invia all’amica Sonja Liebknecht nel dicembre del 1917 e la missiva che
Die Fackel (la rivista, diretta da Karl Kraus, che pubblica lo scritto nel 1920) riceve da un’anonima
lettrice indignata (“Frau von X-Y”). Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi,
accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il
soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della
frusta in modo così violento… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro
sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere dura e resistente, ma quella era
lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in
silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava avanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi
scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era
davvero l’espressione di un bambino… Gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le
lacrime: erano le sue lacrime” (dalla lettera di Rosa Luxemburg). “Ci sono davvero troppe donne
isteriche che vengono ascoltate dalle masse e che seminano sciagura. Non ci si può stupire che
chi ha predicato tanto la violenza la trova, poi, una morte violenta. Non lo pensa anche lei signor
Kraus?” (dalla lettera anonima). I due monologhi sono l’approdo, sono l’altra riva (le “due rive”, dal
carteggio) ma ciò che davvero si fissa, fermandosi agli occhi e alla mente di chi scrive, è la resa
(teatrale) del salto del fosso: Poco lontano da qui non è l’offerta poetica dei due scritti, distinti e
contrapponibili, ma lo svelamento di tutte le incertezze, le paure, le sconfitte e le perdite che
determinano la fragile conquista possibile, momentanea ed incerta, che poi si offre sul palco. Dal
carteggio: “Sento che tra il suono – o il rumore – della mia voce e le parole si insinua spesso una
grande menzogna”. In scena: un ronzio fastidioso è percepibile, tocca l’orecchio, si rende
assordante, masticando ai suoi lembi le frasi che dovrebbero udirsi pulite. Dal carteggio: “Ricordati
che io devo sempre passare attraverso una disfatta per attendere l’intonazione di una parola e
accogliere la stonatura che mi è propria”. In scena: l’eco alla voce rende la voce medesima un’eco.
Brandelli di pagine stazionano all’aria come pulviscolo sonoro e insistente. Un urlo non è un urlo
ma la sua detonazione sopita e lontana. Farfugliamenti che svolazzano, udibili, tentano di essere
presi e posti in silenzio e in riserbo, nel fondo di una tasca, di lato a una gonna. Dal carteggio:
“Non sono ancora pronta a tutte quelle parole, a quella radicale crudezza”. In scena: la lettura di
Rosa Luxemburg è cercata, ricercata, annunziata, rimandata, cercata e ricercata poi ancora,
desiderata come si desidera l’acqua quando si ha la gola che brucia di secchezza o calore. “Mi
leggi la lettera di Rosa Luxemburg?”. “Quella non è la lettera di Rosa Luxemburg, è una lettera
anonima”. “Avvicinati, guarda, vieni a vedere, avvicinati. È la lettera di Rosa Luxemburg?”. La
storia è già fissa, il nero è stato messo su pagina, il foglio è a disposizione, tangibile, ma come
rendere ciò che sopra vi è scritto? “Quale deve essere la sostanza della nostra voce per poter
cogliere il vivo della sua vibrante scrittura?”. Dal carteggio: “Igort mi ha inviato i suoi Quaderni
russi, in cui sono testimoniati i massacri in Cecenia”. “Stanotte mi sono svegliata di soprassalto e
le parole che avevo in testa erano: ’Passo passo la segui’. Stamattina, quando mi sono
definitivamente alzata, ho cominciato a sfogliare le poesie della Cvetaeva e ho scoperto che quelle
parole non me le ero inventate, sono sue! Sono in C’è una certa ora”. “Ho preso in mano Un
piccolo angolo d’inferno della nostra Politkovskaja”. “Čechov che si interroga sull’arte attraverso un
gabbiano che sono due gabbiani”. “Il gabbiano di Čechov in mano a Nina”. “Le parole sotto tortura
di Mejerchol’d”. “'Che rabbia ho in corpo oggi, che rabbia! Tremo tutto'. Appena ho letto queste
frasi dai 33 svenimenti ho pensato che fossero il suono del nostro orecchio”. In scena: i Quaderni
russi di Igort, le cronache cecene della Politkovskaja, il frammento di una poesia della Cvetaeva; Il
gabbiano di Čechov, Nina ne Il gabbiano di Čechov, Mejerchol’d sul teatro di Čechov. Non sono
persistenze evidenti ma piccoli scorci della durata di un attimo, radi frammenti, minuscole porzioni
a stento visibili. La panca del giardino cechoviano; la ritmicità con cui batte la testa di una sul petto
dell’altra; la reiterazione vocale di una frase. Quest’insieme di lembi drammaturgici emergono
come emergono gli spigoli, gli angoli, i lati che galleggiano al sole dopo un naufragio. “Sembra
quasi che abbiamo scritto cancellando”: perché ciò che compone i primi quaranta minuti di Poco
lontano da qui è l’insieme di tentativi, di prove, di acquisizioni e rinunce, di fraintendimenti, di
risultati ottenuti e poi rifiutati, di risultati imprevisti e poi conservati, di opere lette per intero ma di
cui non resta che una sola parola, una sola immagine, un’ombra sola. A suggello, dal carteggio:
“Anche oggi, dopo otto ore, va ad aggiungersi al copione solo una manciata di pochi minuti che
forse domani metteremo di nuovo in crisi”. A suggello ancora: “In fondo il nostro procedere è un
lavorare per le nuvole, per la sparizione, dove a tratti, per chi è fortunato, si ode un trillo”.
Dal carteggio: “È davvero una lotta! Una davanti all’altra, pronte a scorticare, prima l’una poi l’altra,
le idee che ciascuna propone mentre altre forze si fanno la guerra dentro di noi […]. In realtà non
sono io a fare la guerra a te o tu a me, ma quando tu guardi me e io te qualcosa dentro di noi si
ribella”. In scena: l’una impugna e tira i capelli all’altra. L’una sovrappone il proprio tono al tono
dell’altra. Una s’arrampica sulla schiena dell’altra. Una guarda l’altra ora furtiva, ora infastidita, ora
perplessa. Un testo è conteso: a quali labbra spetta o appartiene? “Questa bocca è mia”. “No, è
mia”. “No, questa bocca è mia”. “Questa bocca è mia”. Il testo (metafora che solo il teatro può
consentirsi) è una piccola tavoletta nera sulla quale salire, imponendo la conquista ottenuta.
Ancora: ultimi istanti, dopo i due monologhi. Le interpreti si aggirano sul palco, setacciando ogni
asse, pilastro o struttura che la scena propone: il retro delle cornici vuotate, il retro della grande
arcata ferrosa; il retro degli angoli in basso, delle pareti di lato, delle quinte inclinate: lì ritrovano,
per adagiarli in accumulo al centro del palco, una trentina di coltelli. Ecco il segno evidente della
“battaglia” intercorsa tra Chiara ed Ermanna. Ecco il segno di questa voluta e complessa
condivisione di uno spazio, di un progetto, di uno spettacolo che ha pure la natura di un campo di
guerra (com’è per ogni spazio condiviso tra due o più esseri umani). Dal carteggio e in scena:
“Insieme alle colonne, ai tendaggi annodati, agli strati di carta bianca, alla ruggine, alle cornici
vuote” ed ai tavolini piccoli, alla panca di legno, alla tanica di plastica quale forma dà forma ai due
monologhi? Nel tenue tepore di luci assai tenui Chiara Guidi, in sottoveste (la nudità abbigliata di
chi oramai è una defunta), è cosparsa di liquido nero. Inchiostro. Un foglio di carta velina,
bianchissimo, le ricopre il volto, le spalle, le braccia ed il seno, il ventre, la schiena. “Cara
Sonicka…”. Su quel foglio quell’inchiostro da quel corpo. La traccia nera è il testo di Rosa
Luxemburg poiché il contenuto del testo di Rosa Luxemburg è avvalorato e onorato dall’offerta in
sacrificio del proprio corpo. Poi Ermanna Montanari. Solleva il foglio di carta, bada all’inchiostro, lo
respinge con astio. “Luce dalla regia; ‘luce’ ho detto. E voi, dalla regia, portate via questi sipari.
Sporcizia… Portami il mio leggio, allontana il corpo… La mia pelliccia. La tanica, via”. Dal
carteggio: “la figura-maschera di X-Y, la sua irritazione, la sua arroganza di possidente, la sua
'stonatura' esposta mi fa venire i brividi: la voce le diventa animalesca, sporca, ambivalente, una
macchia d’inchiostro appena versata sul corpo di Rosa. È una pozza scivolosa, armata di una
vellutata verde pelliccia”. Così la vediamo (la vellutata verde pelliccia), così la sentiamo (la voce
animalesca, sporca, ambivalente): “Caro signor Kraus…”. Le luci sono alte in platea, lo sguardo è
diretto, ogni separazione tra ribalta e poltrone è annullata: solo il leggio separa chi osserva da chi è
osservato (ma chi osserva davvero, chi davvero è osservato?). È l’altra forma con cui rendere una
lettera. Potremmo continuare, preferiamo invece fare ancora un riporto: “Perché non è l’argomento
che ci chiama (Rosa? Karl Kraus?) ma la prova di qualcosa che è avvenuto e che, se riprende,
continua ad avvenire”. Ogni sera di ogni replica Poco lontano da qui continua ad avvenire. A chi vi
assiste potrà sembrare la messa in palco di due monologhi formati da due scritti, distinti e
contrapponibili. A chi firma l’articolo, invece, è parso la confessione e la condivisione (per
allusione, metafora, iconicità distintiva) di come un’idea possa prendere forma.
Di come un incontro possa prendere forma.
Di come possa prendere forma il teatro.
Poco lontano da qui
Un raffinato esercizio di stile
Mariarosaria Mazzone, teatro.org, 16 marzo 2013
La Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro delle Albe sono sinonimo di garanzia per quanto concerne
l'originalità della proposta teatrale, la qualità dello spettacolo medesimo e l'interpretazione attoriale.
Poco lontano da qui è il connubio tra le due esperienze teatrali, connubio che si realizza in scena
nelle figure di Chiara Guidi ed Ermanna Montanari. L'unione delle forze e delle idee dà vita ad un
apparato scenico e quindi estetico perfetto e affascinante: tende, pannelli cancellabili, dei sipari
bianchi e una campana invadono il palco. Le due protagoniste con movimenti sempre misurati e
studiati - che mancano se stessi dalla perfezione - vestite alla stessa maniera ma in tonalità
differenti, animano in modo speculare e complementare la vita della scena. Si rincorrono alla
ricerca di un equilibrio che le dia la possibilità di raccontare le lettere dal carcere di Rosa
Luxemburg, la paladina della rivolta spartachista al termine della rinomata Repubblica di Weimar.
Sussurri, rumori, suoni riprodotti, le loro medesime voci registrate accompagnano questa ricerca, e
un perfetto gioco di luci, che crea immagini poetiche, sottolinea ed esalta lo svolgersi delle azioni.
Ma il tutto sembra sia unicamente un lungo proemio, l'introduzione a qualcosa che non avviene,
che non si vede. Rosa Luxemburg resta sullo sfondo, nella lettura di due lettere una sua del 1917
e un'altra anonima indirizzata a Karl Kraus, direttore della rivista "Die Fackel", del 1920, quando
ormai la rivoluzionaria era già morta; e le due interpreti, famose per la loro trentennale ricerca
vocale, non concedono allo spettatore la possibilità di godere più di tanto della loro maestria. Poco
lontano da qui è un bellissimo esercizio di stile, ma purtroppo fine a se stesso.
Poco lontano da qui
Stefano De Stefano, Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2013
Metti insieme le due signore della post-avanguardia italiana, un testo breve ma forte, e soprattutto
un confronto estremo e poetico fra i linguaggi che le hanno fin qui contraddistinte. Ermanna
Montanari del Teatro delle Albe e Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio sono alla Galleria
Toledo fino alle 18 di oggi con “Poco lontano da qui”, che oltre alla metafora legata all’input dei
“Quaderni russi” di Igort, si fa luogo di un’alchimia, che raggiunge cime di imprevedibile
emozionalità. Nel mortaio delle due donne vengono pestate infatti le forme acustiche care alla
Socìetas, col design sonoro che trasforma i rumori in fluttuanti galleggiamenti cosmici, e il
tagliente, stringentissimo idioma vocale della Montanari. Le sue parole, dure come rocce,
rimbalzano sullo spazio bianco che si modifica con il lacerarsi dei pannelli di carta. Un gesto caro a
Lucio Fontana e al suo bisogno di andare oltre il diaframma della tela. Che qui si fa scatola scenica
ed in cui il rimando finale alla lettera di Rosa Luxemburg, pubblicata da Karl Krauss, riapre gli occhi
sull’utopia rivoluzionaria del Novecento.
Montanari e Guidi, voci di donna tra rivoluzione e disincanto
Anna Bandettini, La Repubblica, 17 marzo 2013
In primo piano sul palcoscenico (il Palladium di Roma dove l’abbiamo visto, ora la Galleria Toledo)
c’è un asettico labirinto di pareti, strutture metalliche avvolte da candidi panneggi che verranno
lacerati o spogliati. Due donne, vestite e pettinate allo stesso modo, si muovono caute, si
scontrano, talvolta dicono poche parole. Poco lontano da qui di e con Chiara Guidi e Ermanna
Montanari è un bel confronto tra le due maggiori attrici del teatro sperimentale italiano. Con la
Raffaello Sanzio una, il Teatro delle Albe l’altra, hanno lavorato sull’espressività dei suoni che qui
dà vita a un montaggio emotivo, attraversato di sensibilità femminile, di parole e respiri sugli anni
frenetici della Rivoluzione ( in Germania, ma non solo) e il tempo del disincanto, su violenza e
libertà, Rosa Luxemburg e Anna Politovskaja. E’ una grande prova di tecnica e di presenza; la
conferma di una maturità artistica delle attrici che emerge nelle differenze, quelle tra loro e quelle
con al propria identità. Il risultato è affascinante e coraggioso nel rifiuto di ogni soluzione
consolatoria.
Guidi-Montanari: l’emozione ricercata e non trovata
Lucio Morsa, campaniasuweb.it, 17 marzo 2013
“Poco lontano da qui” di Chiara Guidi e Ermanna Montanari segna l’incontro di due scuole diverse,
Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, due tra i più importanti gruppi della ricerca teatrale
italiana. In scena fino a 17 marzo a Galleria Toledo
Ispirato ai “Quaderni Russi” di Igort, è protagonista una lettera scritta dal carcere che Rosa
Luxemburg, politica tedesca e teorica del socialismo rivoluzionario, scrisse a Sonja, moglie del suo
compagno di lotta Karl Liebknecht. Insieme al biglietto avrebbero dovuto consegnare un
fascicoletto che riporta stralci di un carteggio tra Guidi e Montanari, dalla fase embrionale
dell’estate 2011 al debutto nell’autunno 2012, che invece era in esposizione e messo in vendita.
EMOZIONE SULLA SCENA – Il primo movimento sulla scena è una mano che, da dietro a uno dei
fogli, sbrina la visuale, come svegliandosi una mattina d’inverno che tutto intorno è neve. Scelte
scenografiche interessanti, semplici nei materiali, ma molto efficaci, rivelando una ricerca nello stile
e nel minimalismo. I suoni diventano subito parte integrante dello spettacolo: una moltitudine di
voci, urla, rumori ottimamente campionati, ma utilizzati in maniera confusa ed eccessiva. Lo
spettacolo sembra mirare a colpire il nucleo emozionale del pubblico, tramite una fotografia spesso
forte ed espressiva, come la scena dei coltelli ad esempio, e i suoni ricorrenti intervallati da lunghi
silenzi.
SPETTACOLO LABORARORIO – Molto brave tecnicamente, a partire dalla perfezione dei
movimenti e l'emotività esteriorizzata con piccoli gesti, alla notevole attenzione per la parte vocale,
curata nei toni e nell'intenzione, la Montanari e la Guidi decidono di seguire una via che porta ad
estraniare il pubblico, alzando un muro talvolta troppo spesso. Gli spettatori infatti vengono lasciati
soli, in balia delle tumultuose e forti scene, senza una traccia guida ad accompagnarli,
dimenticando che, perché l'emozione venga percepita e provochi emozione a sua volta, il pubblico
va condotto per mano. In una situazione di totale spaesamento, l'emozione più comune è la paura,
ma anche quella non vien percepita per l'ovvio distacco tra palcoscenico e sala. Allora sarebbe
meglio incanalare le ottime prestazioni attoriali delle due attrici, e non proporre il lavoro di
laboratorio compiuto, che è stato raffinato solo nei particolari, ma non in una visione generale dello
spettacolo, andando da un'immagine ad un'altra, con la pretesa di lasciare tutto il lavoro di metter
in luce i profondi bui dei due personaggi agli spettatori.
Chiara Guidi ed Ermanna Montanari: stili e mondi teatrali diversi, per la prima volta
sul palco assieme a Galleria Toledo
Rosario Esposito La Rossa, quartaparetepress.it,18 marzo 2013
Chiara Guidi della Societas Raffaello Sanzio ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe: stili,
mondi teatrali diversi insieme sulla scena per la prima volta. I due pilastri delle rispettive
compagnie, in Poco lontano da qui (di cui sono autrici ed interpreti) a Galleria Toledo, condividono
gesti, suoni, corpi, parole, emozioni, passioni. Si confrontano le due protagoniste, grandi artiste,
esponenti e fondatrici di due realtà teatrali tra le più importanti e riconosciute. Non cercano di
valorizzare il loro corrispettivo talento, non cercano di prevaricare l’una sull’altra come in una sfida,
ma sono semplicemente e splendidamente in ascolto l’una dell’altra, senza necessità di altro, di
supporti di vario genere.
Basta la loro relazione, la loro intesa, il loro stare insieme ad emozionare e coinvolgere lo
spettatore. Durante tutta la durata dello spettacolo (circa un’ora) si avverte una crescita, un
arricchimento, uno scambio reciproco, una messa in comune di se stesse, innanzitutto. La Guidi e
la Montanari si mettono a nudo senza risparmiarsi mai. Un grande sipario bianco, semplice, posto
a mezz’altezza, è la prima immagine che accoglie il pubblico appena entra in sala. Un sipario fatto
da lenzuola e carta velina, su cui a poco a poco affiora un’immagine sfocata, un volto, un viso
confuso dalla carta. Un impianto scenografico davvero suggestivo, un’immagine onirica, che
rimanda a tutt’altro che ad uno spazio concreto. È più un sogno, un qualche cosa di intimistico, uno
spazio mentale interiore, onirico appunto. Un confronto di linguaggi, tecniche, espressioni,
percorsi. Un’apertura costante. Scena che diventa gabbia, chiusura, tende che riaprono gli scenari
chiusi, percorsi. Corpi che sono ombre, poi corpi, poi ombre, poi di nuovo corpi. La prima battuta
con cui si apre lo spettacolo è quella su cui poi si impianta la drammaturgia dello spettacolo,
ovvero «Ti leggo una lettera di Rosa Luxemburg?»Ci sono infatti anche Rosa Luxemburg, ovvero
la fondatrice della Lega di Spartaco, e la sua lettera straziante scritta dalla prigione berlinese,
pubblicata da Karl Kraus nel ’20 sul suo “Die Fackel” e la terribile risposta di una sua lettrice. Uno
spettacolo che deve assolutamente essere visto.
Le voci della memoria di Ermanna Montanari e Chiara Guidi
Manuela Rossetti, klpteatro.it, 18 marzo 2013
La memoria ha voci lontane che sussurrano, e ombre che passano rapide davanti ai nostri occhi,
accecati dal biancore di una luce nuova.
Due donne compiono gesti quotidiani e ripetitivi, come il ritirare i panni stesi, aprire le tende,
camminare nervosamente lungo le stanze di una grande casa. Due donne e una grande solitudine
a passeggiare tra loro. Una chiede ripetutamente all'altra: "Mi leggi la lettera di Rosa Luxemburg?".
Sono queste le primissime visioni che ci dona lo spettacolo "Poco lontano da qui", presentato al
Teatro Palladium di Roma e nel fine settimana alla Galleria Toledo di Napoli. Le due donne sono
Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe. Un
incontro nuovo tra due attrici simbolo della ricerca teatrale in Italia. Un incontro quindi fra due
teatri, due diverse modalità di arrivare all'emozione, di sottoporla al cuore degli spettatori.
Un incontro in cui la parola e il corpo si incastonano, in cui due energie opposte si abbracceranno
dopo una lunga battaglia: un combattimento continuo tra l'essere e il non essere, il ricordo e la vita
respirata, una battaglia complessa tra amore e odio, rispetto e disprezzo.
Lo spettacolo avvolge attraverso il susseguirsi di immagini, come quadri in lento e fluente
movimento, e di suoni, rumori, voci. In lotta tra loro ci sono due forze, entrambe femminili come
femminili sono le parole vita e morte, donne che determinano il senso della storia. La scena fisica
sembra assolvere la funzione di mezzo di comunicazione tra le due donne: i passaggi sono segnati
dai movimenti delle quinte bianche o delle tende che scorrono sulle carrucole; ogni parola o gesto
che l'una rivolge all'altra è trasportata assieme alla spinta di una lunga corda che pende da una
campana, eternamente silenziosa; ogni urlo soffocato viene espresso da uno strappo sulla carta
velina delle quinte sul fondale.Trascinare, spostare, strappare, sporcare, stracciare. Ognuna di
queste azioni viene compiuta in scena dalle attrici e può essere metaforicamente affiancata alla
storia di Rosa Luxemburg. Partendo dalle suggestioni dei "Quaderni russi" di Igort, pluripremiato
fumettista e illustratore, le due artiste attraversano Cechov e Mejerchol’d per arrivare alle tre
intense lettere di Rosa Luxemburg, XY e Karl Kraus.
Questi testi, che tanto bene sanno raccontare la violenza del potere, sono base per la costruzione
di un intarsio drammaturgico e di una scrittura scenica metaforica e di forte impatto emotivo.
Un'ombra è sempre presente accanto alle due donne, nascosta tra i sussurri e le grida; la Signora
Morte è lì, ad ogni passaggio drammaturgico e scenico.
"Cosa fai?" chiede Ermanna. "Faccio la morta" risponde Chiara; lo scambio di queste poche parole
velate di ironia e un ronzio di mosche accompagnano il gesto del versare una tanica di petrolio
sulla sottoveste bianca e il corpo inerte della donna. Il nero sul biancore di un corpo emotivamente
ferito è immediata metafora della morte, ma allo stesso tempo della storia. Un gesto evocativo che
anticipa le parole della prima lettera della Luxemburg. Quanto metaforico è l'intenso monologo di
Chiara Guidi, così lo è la lettera: "Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo
qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella
nostalgia…". In questo lungo passaggio, alla mente arrivano immagini di prigionia, violenza e
soffocamento di quella voce popolare che la Luxemburg voleva amplificare.
Di risposta arriva, come uno schiaffo, il monologo della Montanari, che rompe il ritmo aulico del
precedente, distrugge la quarta parete accendendo le luci in platea e chiamando i tecnici a ripulire
la scena. Preludio perfetto alla lettera di XY, ironica e atroce. Lo spettacolo rappresenta il duello
infinito tra guerra e pace, umanità e disumanità. Oscilla e persegue un equilibrio precario
sull'altalena della storia. Emergono le voci di donne e di lotta politica, non solo quelle della
Luxemburg e del suo straordinario comunismo libertario, ma anche quelle della giornalista Anna
Politkovskaja e alla sua denuncia del potere, delle donne cecene che con forza rivendicano notizie
sui loro "desaparecidos", in una sorta di file rouge che lega tra loro tante esistenze al femminile.
A duellare in scena anche le peculiarità della ricerca teatrale che hanno affermato Guidi e
Montanari: si incontrano e scontrano coniugandosi a scenografie che ricordano l'espressionismo
astratto, legandosi ai magnifici paesaggi sonori composti da Giuseppe Ielasi e all'intenso disegno
luci di Enrico Isola. In ogni passaggio scenico si percepiscono le ore in sala prove, la ricerca
umana e personale delle due artiste, lo studio dei testi e la loro scrittura, l'analisi attenta di ogni
movimento. Fino alla fine il lavoro non delude la curiosità dello spettatore, né rende soddisfatte
delle ipotesi, perchè continuamente sorprende con azioni e parole inaspettate.
Un inno contro la guerra e la violenza, suonato da voci di donne soffocate, in passi rapidi tra la
nebbia, fra colpi e schiaffi, tagli e pianti, sussurra e grida, rumori della fame e silenzi assoluti.
Poco lontano da qui
Maria Giacobbe Borelli, alfabeta2.it, 20 marzo 2013
Verrebbe da chiamarle “Ermanna Guidi” e “Chiara Montanari”, per una iniziale tentazione di
confonderne i connotati, per cercare nella loro fortunata compresenza un accordo gemellare,
quando invece, come sempre nei casi di simbiosi, l’energia più forte e vitale che abbiamo visto in
scena rimane quella del conflitto, unica forma di dialogo possibile, che le ha rese ancora più
differenti. Il respingersi e urtarsi delle due (gran) signore, veterane della ricerca teatrale italiana,
attive dai primi anni Ottanta a Cesena e Ravenna – contigue anche geograficamente ma mai
assimilabili – è la caratteristica prima di questo bellissimo spettacolo Poco lontano da qui, che
abbiamo visto al Palladium di Roma nell’ambito di Romaeuropa e che sta girando l’Italia (sarà il 27
marzo a Genova al Teatro dell’Archivolto, al Festival delle Coline Torinesi l’1 e il 2 giugno, e quindi
al festival di Santarcangelo il prossimo luglio).Poco lontano da qui è un esempio di quello che
potremmo chiamare teatro dell’estremo: estremamente antinarrativo, estremamente suggestivo,
estremamente potente, fortemente politico e pieno di silenzi che ci parlano, di immagini che non
pacificano e di voci che ci agitano. Violento anche se non privo di una sua grazia, in fondo
entrambe caratteristiche estremamente femminili. Lo spettacolo si apre mostrando una scena
velata, pareti di schermi bianchi che verranno presto lacerati o denudati, teli bianchi che
inizialmente nascondono i corpi delle due attrici. Quando si svelano, una forte somiglianza di
pettinatura e abbigliamento accomuna i due corpi in scena, che si mostrano di schiena, ognuno
con la sua lunga treccia, vestite come scolarette. I suoni molto espressivi e i gesti che scandiscono
la scena non contribuiscono a chiarire una qualche narrazione se non per frammenti. Le voci che
si sentono sembrano a tratti affiorare dall’acqua, implorano, ricordano la tecnica di tortura del
“waterboarding”, e un certo disagio cresce tra il pubblico. Siamo su un confine, tra gli abbracci e gli
schiaffi, tra le campane mute e un luogo sonoro, dice Ermanna Montanari in una intervista a
Massimo Marino. Si mostrano continui contatti e conflitti tra le due attrici: avvicinamenti, ribellioni,
ripensamenti, ripicche… La tensione cresce fino al denudamento di Chiara, che prima è candida
nella sua sottoveste, poi viene lordata da una vernice nera e buttata a corpo morto fuori dalla
scena dalla sua compagna. Mano mano cresce anche la parola, una parola che è azione che ti
attraversa, come spiega Chiara Guidi nella stessa intervista. Lentamente inizia il racconto, fino ad
arrivare alla bellissima lettura di Ermanna: Rosa Luxemburg, scrivendo dalla prigione all’amica
Sonja Liebknecht, si muove a compassione per una coppia di bufali da traino che ha intravisto in
campagna. Siamo nel 1917 e così entrano in scena le vittime innocenti del potere di allora, ma
anche di oggi. La coincidenza con la ricorrenza dell’8 marzo colora lo spettacolo di una
connotazione di grido potente in difesa delle donne, contro la violenza che da una parte le strazia,
le copre di fango e le getta nei fossi, ancora oggi, come è successo nel secolo scorso a Rosa
Luxemburg gettata in un canale a Berlino, e dall’altra le tiene schiave della bellezza e della buona
educazione, così come si ricorda nella seconda lettura di Ermanna, dove una sconosciuta lettrice
protesta con Kraus contro la veemenza delle parole della Luxemburg, richiamandola ai suoi doveri
femminili ed invocando per lei un futuro da guardiana degli animali. Con semplice e lucida
presenza scenica, con l’espressività di un tessuto sonoro molto presente, elaborato sapientemente
da Giuseppe Ielasi, il teatro ci può parlare di violenza e di resistenza, dell’uccisione di Rosa
Luxemburg nel 1919 come di quella di Anna Politkovskaja nel 2006, può mettere in scena
compassione e indifferenza, indignazione e violenza, narrazione personale e universale, con una
delicatezza estrema, con un ritmo lento, senza mai cadere nella tentazione “muscolare” del teatro
a tesi. La scelta è di partire dalla suggestione dei Quaderni di Igort che raccontano l’holodomor, un
tentativo di genocidio in Ucraina, avvenuto nei primi anni Trenta per mano dell’Unione Sovietica di
Stalin. Per il resto siamo di fronte ad un’esperienza di cui è difficile parlare. Nel 1995 Chiara
scriveva che la scena restituisce il limite del corpo e lo rimanda al suo proprio limite. Si percepisce
la scena come quel luogo – unico al mondo – dove chi parla sottrae, scava e accieca la parola che
ha appena pronunciato. Lo spettacolo è un esempio di sperimentazione di questo difficile percorso:
sta allo spettatore, se interessato, entrare in sintonia per godere della sincerità estrema delle due
bravissime attrici. Il difficile duetto ci viene mostrato così come si è manifestato nel processo di
lavoro, nelle lunghissime prove, con tutte le sue contraddizioni, con i suoi accordi e disaccordi, per
accogliere quelle istanze etiche ed estetiche che sono al centro del percorso trentennale di
entrambe.
Chiara Guidi e Ermanna Montanari insieme sul palco per 'Poco lontano da qui'
Laura Santini, mentelocale.it, 28 marzo 2013
Due. Multiplo di una? Doppia? Fronte e retro? Facce diverse e complementari? In un certo senso
sì, ad ognuna di queste domande. In scena Chiara Guidi di Socìetas Raffaello Sanzio e Ermanna
Montanari di Teatro delle Albe si incontrano e raccontano in Poco lontano da qui, in un'unica
replica, ieri 27 marzo, al Teatro dell'Archivolto.
Stanno in scena ognuna a modo proprio: pronta ad accusare colpi, morbida, già in qualche modo
ferita, ma pronta a una e mille rinascite e riconciliazioni è Chiara Guidi; accanto, Ermanna Montari
è rigida e fiera, sprezzante, maestosa, sempre tesa, in qualche modo crudele, vendicatrice,
violenta, irosa. Manifesto dell'attacco l'una, quanto della difesa e del perdono l'altra. «Il parlar
franco è stato il patto iniziale del nostro incontro - scrivono Guidi e Montanari - La decisione di
lavorare insieme non aveva nulla di concreto su cui misurarsi: potevamo contare unicamente sulla
potenzialità del nostro 'dialogo' e della nostra trentennale ricerca vocale». In scena però le
interpreti sono per lo più impegnate in azioni e i suoni e le parole e il lavoro vocale arrivano in
voice off. Il dialogo non è parola, ma azione, un po' come in una riscrittura al femminile di una
variante di Aspettando Godot, con brandelli di un dialogo antico, tra due donne costrette alla
convivenza (reale o fittizia), che tradisce una narrazione già in atto, quella ineluttabile del vivere:
che non ha più bisogno di parole, che si consuma in rituali intimi tra chi ha un vissuto comune e
indissociabile come per un destino avverso.
"Ti leggo"
"Sì ti ascolto"
- silenzio "Ma come non mi hai sentito?" (…)
"Stiamo zitte? È meglio se stiamo zitte". (…)
"Finirà. Finirà".(…)
"Vestiti! Vestiti!"
Al centro del percorso narrativo proposto, una o meglio due lettere. Quella di Rosa Luxemburg,
una in particolare ma molte come sottotesto: «Finalmente - scrivono sempre Guidi e Montanari attraverso la guida di Karl Kraus abbiamo incontrato le lettere di Rosa Luxemburg che si è posta
come specchio oggettivo e autorevole nel nostro intarsio quotidiano. Quelle lettere dalla prigione
hanno dato coraggio alle scelte dei nostri atti scenici, alla nostra impossibilità iniziale a dire, a
vedere. Ci siamo moltiplicate per diventare ricettacoli di un luogo sonoro che il musicista Giuseppe
Ielasi ha raccolto e composto». E poi quella di un'anonima da Innsbruck (nel 1920) rivolta proprio a
Karl Kraus e a commento della pubblicazione della lettera di Luxemburg e delle parole di Kraus a
celebrazione della figura rivoluzionaria. Lettera aspra, ironica, sagace, tesa a demolire ogni singolo
elemento di forza e di emotività della lettera di Luxemburg con crudele determinazione. Questa
lettera, Montanari la legge a voce 'fastidiosamente' e volutamente alta, a ritmo incalzante, non
prima però di una rottura della quarta parete. Ovvero chiedendo ai tecnici di intervenire, sgombrare
il palco da sporcizia (carta straccia macchiata di inchiostro) e dal corpo esanime di Chiara Guidi.
Il gioco è celebrare e a tratti astratto. Non per questo meno emozionante. Forse l'impianto di teli, di
carta e stoffa bianca, ci si sarebbe aspettati di vederlo trasformato di più: per un teatro delle
ombre, per un gioco di scrittura, per tagli e fessure, arabeschi moltiplicati ancora e ancora... in
quell'intento dichiarato di "non ostacolare la velatura", come Guidi e Montanari hanno dichiarato.
Certo è chiaro che Guidi e Montanari hanno seguito un istinto (artistico e primordiale insieme) che,
evidentemente scarta continuamente proprio le aspettative e lavora, forse in modo a tratti
inevitabilmente un po' ombelicale, a una relazione di forza, di caratteri, di individualità che si
contendono lo spazio con armi disuguali eppure pari, per cui crollano entrambe, ma a momenti
diversi, l'una per i colpi dell'altra.
Entrambe reggono e restano se stesse, eppure insieme si impegnano nel raccolto simbolico della
violenza: i tanti coltelli che fanno emergere dalle strutture esili che tenevano tesi teli e carta. In una
messe della violenza, la successiva caduta dei corpi è un'immagine poetica davvero ben scritta.
Poco lontano da qui (voto 7)
Umberto Rossi, ogginotizie.it, 28 marzo 2013
La Societas Raffaello Sanzio e il Teatro delle Albe sono due fra le realtà di maggior spessore del
teatro d’avanguardia italiano. Da qualche tempo questi due organismi stanno sviluppando un
lavoro originale e approfondito che ha al centro la vocalità e il corpo degli attori. In Poco lontano da
qui hanno unito le loro forze in uno spettacolo che ruota attorno al lavoro di due attrici, Chiara
Guidi ed Ermanna Montanari. Le interpreti si misurano con due lettre: una scritta dalla
rivoluzionaria tedesca d’origini polacche (nasce Rozalia Luksenburg) Rosa Luxemburg (1871 –
1919) a un’amica mentre era reclusa in un carcere berlinese, l’altra – zeppa di livore verso la
fondatrice della Lega di Spartaco - scritta da una signora della buona società di Innsbruck a Karl
Klaus, direttore della rivista Die Facke che aveva pubblicato la lettera della rivoluzionaria. Nella
prima missiva ci sono alcuni dati sorprendenti, come il rifiuto della violenza, compresa quella sugli
animali, elemento abbastanza strano nella penna di una fautrice della lotta di classe. Le due
interpreti si muovono su un palcoscenico costellato di teli e riquadri di carta che sono
progressivamente lacerati a simboleggiare la ricerca di un orizzonte intellettuale ampio che supera
ogni limitazione. Si abbracciano, contrastano, anche fisicamente, restituendo il clima di
un’inquietudine e tensione che in quegli anni attraversava lo stesso movimento antagonista. Non si
deve dimenticare, infatti, il duro scorno che oppose Rosa la Rossa allo stesso leader della
rivoluzione sovietica Vladimir Il'ič Ul'janov, Lenin, (1870 – 1924). Lo spettacolo suggerisce questo
clima in modo indiretto, ricorrendo quasi esclusivamente a frasi smozzicate, modulazioni vocali,
gesti simbolici (il corpo di una delle attrici ricoperto di liquido nero a significare una sorta di bagno
nel sangue) e a movimenti scenici originali sino a un finale in cui le protagoniste estraggono
numerosi coltelli da dietro i praticabili e li gettano a terra. E’ un auspicio di pace che, purtroppo, la
storia si è incaricata di negare crudelmente. Rapita il 15 gennaio 1919 dai cosiddetti Freikorps agli
ordini del governo socialdemocratico di Friedrich Ebert (1871 – 1925) e del ministro degli Interni
Gustav Noske (1868 – 1946) con Karl Liebknecht (1871 – 1919) che aveva avviato con lei il
movimento spartachista, fu uccisa e il suo corpo gettato in un canale. Solo nel 2009 il settimanale
tedesco Der Spiegel ha pubblicato la notizia del ritrovamento del suo cadavere.
Un dialogo di teatro sororale
Katia Ippaso, Quaderni del Teatro di Roma, aprile 2013
Certe sere il respiro si placa e l'occhio si dispone a cercare dentro. Certe sere accade qualcosa
che non è misurabile ed è difficile anche a dirsi. Non perché sia cosa mai vista prima, ma perché è
cosa intima. In quelle ore, che poi sono attimi e mesi, il corpo ti chiede di stare. "Poco lontano da
qui". Né troppo vicino né troppo lontano. Poco lontano. Da qui. Il titolo dell'opera a due voci che
vede l'incontro inedito di Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio) ed Ermanna Montanari (Teatro
delle Albe) si dispone sull'esperienza appena fatta come una stoffa leggera che aderisce senza
coprire, svelando in un abbacinato divenire il processo di una storia che non sarà mai
completamente nostra. "Poco lontano da qui" è uno spettacolo che non si può dire né chiuso né
inconcluso: un frammento di trama rugiadosa e d'atmosfera crudele, dipanato sulle voci di due
attrici/soglia che hanno dimostrato di poter stare vicine, in un camminamento di natura sororale.
Nel bianco. Bianco di tessuto, bianco di carta facile a strapparsi. Nero di inchiostro su un corpo che
vorrebbe ferirsi mentre nomina la tortura, ma non può fino in fondo aderire alla cosa, perché la
morte solo i morti la possono dire. Ogni spettatore vede e sente quello che può. Perché non è
sulla presa di una intelligibilità chiara che lo spettacolo di Guidi/Montanari si staglia. Ma su una
sapiente timidezza, una afasia tempestosa e dolce.
All'inizio c'è un atto di volontà, un desiderio: cosa accadrebbe se due artiste - così segnate dalla
potente ricerca estetica delle reciproche compagnie - si mettessero in relazione nella non
protezione di un luogo che non appartiene a nessuna delle due, nell'aperto di una conoscenza
franca, disarmata? Per prima cosa, arrivano i materiali: le lettere di Rosa Luxemburg e Karl
Kraus, "il Gabbiano" di Cechov, Mejerchol'd, i reportage di Anna Politkovskaja, l'orrore dei
"Quaderni russi" di Igort, la Cecenia. Tutto poco lontano da qui. Ma difficile da mettere a fuoco. Di
questo sentimento sfocato, Chiara Guidi e Ermanna Montanari hanno restituito l'inciampo iniziale,
la tensione, l'estrema cautela, la paura di sbagliare.
Ma è nel farsi stesso dell'opera, nella composizione rigorosa dello spazio e dei corpi terremotati,
abbracciati, interrogati dai suoni originali di Giuseppe Ielasi (letteralmente sconvolgenti), che si
cuce il germe della trasformazione. E tanto più violenta e disumana è la materia trattata, quanto
più la scena cresce su un battito di creazione pura, che trova nella modulazione stessa dei corpi
avvitati alle voci la sua verità. Dal carcere Rosa Luxemburg scrive una lettera che si accende di
tutti i colori: «Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola
dell'oscurità, della noia, della prigionia invernale, e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore
incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito...
E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me.
Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e
soffice come il velluto, a saperci guardare». Nella bestialità annunciata. Tra i coltelli. Poco prima
della battaglia. La notte chiama a raccolta i suoi carnefici e le sue vittime. Ma è anche bella e
soffice come il velluto, la notte. Poco lontana da qui. Qui, proprio qui, nello spazio tra attrice e
attrice, tra attrici e spettatori. Qui. A teatro. A saperci guardare.
Rosa Luxemburg trova pace abbracciata fra i coltelli
Osvaldo Guerrieri, La Stampa, 5 giugno 2013
Le Albe sono presenza assidua al Festival delle Colline. Questa volta lo hanno inaugurato alla
Cavallerizza in modo inatteso, ossia in tandem con un'altra compagnia quasi altrettanto abituale, la
Socìetas Raffaello Sanzio. Chiara Guidi da una parte e Ermanna Montanari dall'altra hanno unito
la diversità dei talenti e degli stili e insieme hanno dato vita a «Poco lontano da qui», uno
spettacolo non si sa se più meditato o più rigoroso. In scena le due autrici-attrici ci parlano di pace
e di fratellanza attraverso due lettere di Rosa Luxemburg. Nella prima, scritta in carcere nel 1917,
Rosa racconta a un'amica lo smarrimento provato nel vedere le percosse che un guardiano
infliggeva a un bufalo e nell'udire il pianto della bestia, il suo gemere come un bambino. Nella
seconda del 1920, la rivoluzionaria pacifista risponde a una donna che sul giornale di Karl Kraus
"Die fackel" aveva pubblicato una lettera contro di lei, "l'arruffapopoli" che, invece di darsi alla
politica, meglio avrebbe fatto a impiegarsi come guardiana in uno zoo. Le due lettere non
costituiscono la sostanza di "Poco lontano da qui". Sono la guida labile di un percorso teatrale il cui
scopo non è raccontare ma rappresentare. Che cosa rappresentano perciò la Montanari e la
Guidi? Potremmo dire l'unione di due creature che, da una astratta consonanza, si legano
attraverso la violenza.Tutto è bianco in questo spettacolo. Bianchi i tendaggi, bianche le carte
traslucide e intelaiate che vengono strappate come per riuscire a vedere al di là. E quel bianco
dopo un po' si sporca, si sporcano le attrici quasi per dirci che al candore delle idee seguono
necessariamente il sangue e il fango di chi passa all'azione. Ci sono tanti coltelli nascosti nei
praticabili. Non servono per uccidere. Vengono buttati a terra e su quel mucchietto potenzialmente
letale le due donne si abbracciano.
Da vicino nessuno è normale
Maddalena Giovannelli, stratagemmi.it,15 luglio 2013
Si è chiusa ieri la diciassettesima edizione di “Da vicino nessuno è normale”, la rassegna curata
dall’associazione Olinda presso l’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini che propone ai milanesi un
mese di spettacoli e appuntamenti da non perdere. Così, proprio mentre i teatri chiudono, le offerte
culturali si diradano, e la città nei fine settimana si svuota, alcune delle più interessanti compagnie
della scena contemporanea italiana approdano nella periferica Affori. Cinque debutti milanesi, tre
prime nazionali, sedici spettacoli: per gli appassionati di teatro non sono mancati i motivi per
spingersi fuori dalle sale più frequentate. L’ostinato lavoro di Olinda sembra aver raccolto i suoi
frutti: i gradoni sempre affollati del Teatro LaCucina offrivano allo spettatore di questa ultima
edizione la più tangibile dimostrazione di come la città abbia accolto il festival. Il programma ha
confermato l’attenzione di Olinda verso temi in senso lato sociali, ma anche per ogni voce fuori dal
coro e da ogni genere di alterità e marginalità. A questa vocazione (che ben si coniuga con l’attività
dell’associazione nel campo della salute mentale) si unisce una particolare sensibilità per le realtà
più sperimentali della scena teatrale: il festival sostiene concretamente il percorso di alcune
compagnie con residenze e rapporti continuativi.
Quale teatro, allora, per questa diciassettesima edizione? A emergere è innanzitutto una
molteplicità di linguaggi e proposte, la scelta di codici espressivi ibridi e contaminati, il rifiuto di
concedere alla parola una preminenza assoluta. Ma se simili ricerche formali corrono talvolta il
rischio dell’autoreferenzialità (come ben sa chi frequenta festival estivi, vetrine delle nuove
proposte performative), le compagnie hanno qui dimostrato la necessità di toccare temi attuali,
politici, urgenti. Così Fanny&Alexander affronta la scottante questione dell’istruzione: con Discorso
Giallo la compagnia prosegue il percorso dedicato ai diversi tipi di oratoria, e alla ricadute della
forma retorica sulla società. Chiara Lagani incarna sulla scena le icone dell’educazione italiana –
dalla Montessori a Sandro Manzi, da Sandra Milo fino a Maria De Filippi – disegnando così il
percorso di implacabile degenerazione che abbiamo davanti agli occhi ma non sappiamo
guardare. Nel vocabolario spezzato e frammentario, nella partitura di gesti nevrotici legati
all’essere maestri o allievi, tornano – come in una sorta di zapping – le voci via via più inquietanti
della nostra diseducativa società: le responsabilità, si intende, sono soprattutto della cattiva
maestra televisione. Ma qual è il nostro ruolo, qual è quello della cultura e del teatro nel
contrastare questa anti-pedagogia? “Non è mai troppo tardi” (come suggeriva il maestro Manzi)
per tornare a dare importanza alla dimensione formativa? Oppure il nostro linguaggio pedagogico
è ormai troppo viziato, inquinato, compromesso? Domande aperte, riflessioni provocatorie,
accostamenti irriverenti: Fanny&Alexander propone – proprio come nel precedente Discorso Grigio
– un affondo sullo stato della polis senza soluzioni né consolazioni possibili. Nel segno di una
parola profondamente politica è avvenuto anche l’incontro tra Ermanna Montanari e Chiara Guidi
con Poco lontano da qui: a guidare la sinergia tra la Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro delle
Albe sono stati i Quaderni Russi di Igort e le lettere di Rosa Luxemburg scritte dal carcere. Le
parole della Luxemburg – che vede negli occhi di un bufalo una sofferenza capace di parlare del
dolore dell’intera umanità – risuonano nei corpi e nelle voci vibranti e misteriose delle due
straordinarie interpreti; ed è proprio nella capacità tutta femminile di compatire, soffrire insieme,
portare su di sé un po’ del dolore del mondo che risiede il cuore dello spettacolo. Alla condivisione
e al rapporto con l’altro sono dedicati anche due importanti prime milanesi, Un bès di Mario
Perrotta e Scena madre con Antonella Bertoni. Perrotta, attraverso la biografia di Antonio Ligabue,
racconta la solitudine, il disperato bisogno di un contatto affettivo (“dam un bès, un bacio”) che
viene costantemente negato da un mondo che non sa accettare l’alterità. Goffo, scapigliato,
dolente, Perrotta-Ligabue si muove nel palco semi-deserto accompagnando al racconto disegni
eseguiti con mano febbrile ma sempre sicura. Gli altri, che sapranno riconoscere il valore del genio
solo post mortem, sono assenza evocata da immagini, sagome, parole: al protagonista non
basterà una vita per rassegnarsi all’impossibilità di provare amore ed essere corrisposto. Un
coinvolgente incontro-scontro generazionale è invece al centro della nuova creazione di
Abbondanza/Bertoni: in scena Antonella e sua madre Paola, a sperimentare il gusto e l’imbarazzo
di condividere un palco, insieme. C’è tutto davanti agli occhi dello spettatore, celato e mostrato allo
stesso tempo: un’Antonella appena adolescente evocata solo da due mollette e un body sul corpo
adulto, mentre non smette mai di danzare, provare, attraversare la spazio. C’è la silente
perplessità materna e poi l’orgoglio (“è mia figlia!” urla, mentre Antonella volteggia bellissima,
portata dalle sue braccia-ali); c’è la complicità ironica e lo scontro sottile; c’è il sostenersi, insieme,
in prese e sospensioni che richiedono una totale fiducia reciproca; c’è l’evocazione di una casa
bianca, sfocata dal ricordo, quotidiana e solida come una lavatrice. Antonella Bertoni e Michele
Abbondanza (che ha curato la regia) affrontano la sfida con la loro ironia minuta e impercettibile,
con il consueto gusto per l’attesa e i silenzi, con l’intensità e il rigore che li contraddistinguono.
Nella radicale diversità di stili e di codici scelti per i sedici spettacoli in programma, gli artisti
chiamati sembrano aver fatto proprio lo spirito della rassegna. “Da vicino nessuno è normale”
ricorda il titolo: un invito ad avventurarsi nelle strade meno battute, attraverso punti di vista extraordinari, verso sguardi sull’uomo obliqui e mai schematici.
Perché non suona la campana. Teli bianchi e brutalità accettata
Tommaso Chimenti, rumorscena.it, 29 aprile 2014
FIRENZE – Così lontane, così vicine. Due figure di riferimento, due modi di stare in scena, di
intendere, di credere, di vedere palco, parola, voce, testo, teatro. Due icone, due bandiere, due
simboli. Due donne: Chiara Guidi, Raffaello Sanzio, Ermanna Montanari, Teatro delle Albe.
Romagna caput mundi. Si incontrano, si scontrano. Unite da Santarcangelo che le ha viste
insieme nel progetto di direzione artistica triennale nel quale si sono confrontate e succedute.
Un posto “Poco lontano da qui” che vuol dire tutto e niente vuol dire, identificando quel quasi,
quella porta semiaperta che lascia intravedere ma che forse blocca prima della soglia. Certamente
un luogo non-luogo dove è difficile stare come sembra impossibile uscirne. Un limbo, un antro, un
anfratto, una parentesi, un sospeso tra le ascisse spazio-tempo, indefinito, intramontabile, eterno
come la punizione di Prometeo, immarcescibile, eterna ed estrema, in decomposizione fino al
limite di massimo sopportazione accettabile.
Una scena dal forte impatto visivo e visionario, una sequenza di teli bianchi che sembrano panni e
lenzuola candide appese a stendere e ad asciugare sopra i tetti napoletani spazzati via da un
vento che qui è soltanto immaginario e mutevole come nuvole bianche gonfie e veloci in un
tappeto sonoro che affligge, scandaglia, sposta, rumore di acque brulicanti, di passi adagi ma non
troppo, di cannoni che reclamano carne e bucce da cremare. Lenzuola che fanno muro e barriera,
senza l’oblò, l’apertura e il taglio di Rezza-Mastrella, grandi tele di carta fontaniane da ospedale e
manicomio, il tutto immerso in una bolla di fondo di voci urticanti e smozzicate.
Dietro i muri fluttuanti e svolazzanti un’impalcatura arrugginita che sostiene e sovrastante una
campana che non riesce a suonare, una chiesa laica di una liturgia che si affievolisce muta e
ritorna battito ancestrale, mugugni, solfeggi, solfati scanditi come briciole in un granaio. In mezzo a
questa già di per sé opera d’arte contemporanea di leggerezza e purezza flebile da una parte, i teli
dove scorgere anche una Sindone sporcata e macchiata indelebile, e di sostanza arcaica e
massacrata dal tempo, il ferro corroso ed imbrunito, due figure si aggirano in questa caverna-casa,
figure labili senza tempo, adesso sorelle o amanti, madre e figlia in un rapporto morboso, di causa
ed effetto, di supremazia e sudditanza, di abominio e schiavitù, di contrizioni e costrizioni, di
punizioni, di contatti fino a soffocare, di ricerca di affetto non soddisfatta. Soprattutto assenze e
dispersione, languore e caducità onirica sbilanciata tra i due bracci della stadera, tra i due rebbi di
questa forchetta sdentata.
Un ammasso caustico, e poco importa che si tiri in ballo Rosa Luxemburg, un’incubatrice di incubi
dove aleggiano e affiorano queste due sorelle Bronte, queste due gemelline di Shining ma senza
triciclo, queste due tratteggiate pennellate come se fossero uscite dalla “Trilogia della città di K”, in
queste quattro mura che sanno di angoscia, arpie animalesche, streghe feroci, solitudine e
disperazione che ricorda la prigionia di Natascha Kampusch, autoreclusione, emarginazione,
sofferenza, patologia, perdita, violenza tremenda, il tragico che si fa autocombustibile di questa
miniera-macchina in moto perpetuo. Sono pesci acidi dentro una bolla di pane raffermo, cumuli di
coltelli insensibili, una magia brutale e crudele in una nebbia materica, claustrofobica, una lite
amorosa tutt’altro che beckettiana, noir come può essere la notte senza alba.
Poco lontano da qui: inizia una nuova storia
Andrea Porcheddu, linkiesta.it, 4 maggio 2014
La meraviglia di uno spettacolo come Poco lontano da qui risiede, misteriosa, proprio nel suo
essere uno "straordinario fallimento”.
Il lavoro – lo sanno bene gli esperti di teatro – è nato dall’incontro di due incredibili donne di teatro:
Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, rispettivamente fondatrici e anime di due compagnie quali
Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, ovvero quanto di meglio emerso – assieme
ovviamente ad altri – dalla scena italiana sul finire degli anni Settanta inizi anni Ottanta. Raffaello
Sanzio e Albe, in mirabili differenze, seguendo rotte a volte parallele altre inverse, hanno segnato
la creazione teatrale internazionale. Più ascetici e visionari i primi; più politici e eloquenti i secondi
(se posso riassumere così grossolanamente) questi due gruppi sono stati alfieri di poetiche ben
connotate, costantemente innovative, mirabilmente sconvolgenti e sorprendentemente divertenti.
All’interno delle reciproche compagnie, le due signore attrici-autrici sono state protagoniste
assolute, conducendo parallelamente indagini sulla phoné, sulla voce – sul souffle artaudiano,
verrebbe da dire – pur approdando a esiti non simili. Allora si immaginerà quanto l’incontro tra
Guidi e Montanari, sostenuto produttivamente da Ert e altri partner, fosse atteso e temuto,
guardato con sorpresa e ammirazione. Complice la “co-direzione” del Festival di Santarcangelo,
quell’incontro è avvenuto due anni fa. E dal confronto tra le artiste è emerso un lavoro fragile e
potentissimo come Poco lontano da qui che ha già fatto repliche di una breve tournée, ricavata in
mezzo agli impegni di Albe e Socìetas.
Perché ne parlo in termini di paradossale fallimento?
Proprio perché l’esito è imprevedibile, una traiettoria esistenziale che disattende tutte le aspettative
dello spettatore. Loro, le due donne di teatro, vanno altrove: si sono lasciate guidare dalla forza
impressionante dello scontro. Hanno così “deluso” chi si attendeva “qualcosa”: ovvero qualsiasi
cosa che attenesse al passato, al percorso fatto nei rispettivi gruppi, alle poetiche espresse, alle
creazioni già realizzate. Assistendo allo spettacolo, nel bel Teatro Cantiere Florida di Firenze,
culmine e fine di una robusta rassegna creata da Murmuris Teatro, mi è sembrato proprio che
l’esito del lavoro fosse non una “sintesi” hegeliana, tanto meno la sommatoria impossibile di due
monadi, quanto una creatura nuova, fragile, che offre il proprio petto sinceramente, anche al
martirio del giudizio. Guidi e Montanari, simili in scena per corporatura e capigliatura grazie a
costumi che le rendono demoniache gemelle, approntano, letteralmente allestiscono, il proprio
difficile incontro. È un confronto fisico, sorprendente per chi si aspettava dunque una raffinata
indagine vocale: è un corporeo inseguirsi, tirarsi i capelli, provare imbarazzati abbracci. È un
approdare all’eco di un mondo altro, cesellato di strutture patibolari di ferro pesante, culminanti in
una campana muta, che sorreggono però eterei veli bianchi, trasparenti pareti di carta dal sapore
zen. È un mondo di ossimori, dove la prima battuta eclatante è “non ti sento”, intesa forse nella
doppia accezione di “ascoltare” e “provare”, quasi a dichiarare apertamente quanto fosse difficile
“avvertire” l’un l’altra della propria presenza. E proprio sul filo disincantato dell’impossibilità, del
fallimento esplicitato, gioca anche la struttura narrativa, che chiama in causa Rosa Luxemburg,
pasionaria della Lega Spartaco dal destino politico incompiuto: donna straordinaria eppure
inesorabilmente sconfitta; oppure un visionario nichilista come Karl Kraus, cinico e graffiante
testimone dello sfacelo mondiale. Il testo, infatti, si dipana su fantasmi in forma di lettere (dal
carcere quella della Luxemburg), missive che arrivano a destinatario ma solo per riaffermarsi come
disperati monologhi o deliranti soliloqui: su queste lettere lavorano le due attrici, interpretandole,
leggendole, sminuzzandole in frammenti di parole che riecheggiano sparse nel tessuto sonoro
dello spettacolo (firmato da Giuseppe Ielasi).
Allora Poco lontano da qui è un’evocazione, è un istante sospeso di una ricerca aperta, di una
parola ancora da dire, di un gesto ancora da fare. Fino al punto di “rompere” la finzione scenica, in
una sbrigativa esplosione brechtiana che fa accendere le luci in sala e chiama in causa i tecnici
(Fagio, Danilo Maniscalco) che intervengono a smontare ulteriormente ogni possibile teatralità.
Non ci sono più mediazioni, non ci sono più finzioni o veli dietro cui nascondersi: le due attrici sono
là, con i loro corpi, con le storie e le parole. Con il loro grande teatro, che non serve più a molto, in
questo caso, come non serviranno più quei coltelli e coltellacci, nascosti in scena e pronti all’uso.
Depongono le armi, rosicchiano assieme pane secco dell’improbabile merenda, si coricano:
domani si ricomincia, forse a cercare, forse a parlare. Ma questa ferita qua, questa delicata nicchia
chiamata Poco lontano da qui rimane a testimoniare un nuovo inizio dopo quasi trenta anni di
teatro ai massimi livelli; rimane a segnare un punto di fragile svolta nella storia della ricerca
teatrale italiana; rimane a dare simbolico conto – di umana consapevolezza – di una storia ormai
passata.
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