Dato Carmine 1882 - 1967
Mimmo Caruso
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Prefazione a cura di Pino Barbara
Mimmo Caruso, amico di sempre, mi ha chiesto di
scrivere la prefazione alla sua raccolta di scritti,
frutto di un attento studio di testi in suo possesso e
d’informazioni tramandate da quella che è definita
la cultura popolare di tradizione orale.
Quest’ultima caratterizzata da due fatti essenziali:
1. l’assenza di documenti scritti;
2. spontaneismo, assenza di accademie che
stabiliscono canoni o codici nelle modalità
creative;
afferma che è sul campo che si creano le realtà,
sono gli attori della vita, che arricchiscono questa
cultura.
In genere è l’autore stesso che scrive l’introduzione
in quanto meglio a conoscenza di ogni altro dei fatti
contenuti nel libro e quindi meglio può spiegare le
sue parti salienti.
In questo caso, suppongo per amicizia, sicuramente
per grande modestia ha voluto che fossi io a
introdurre questo libro.
E’ la prima volta che mi cimento in questo campo
quindi chiedo scusa anticipatamente se per troppa
stima per l’autore o per mia ignoranza non sarò
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all’altezza del compito, che mi è stato
commissionato.
-------------------------------------------------------------Antonio Domenico Caruso conosciuto come
Mimmo Caruso nasce a Bagnara Cal. il 28.08.1952
In giovane età ha dovuto lasciare gli studi per
“andare a mestiere” e così contribuire (lavorando
duramente) all’economia familiare.
Quella che allora è stata una scelta quasi doverosa
(a una certa età si preferirebbe divertirsi liberi e
spensierati) per M.C. si è rivelata poi una decisione
ben fatta in quanto lui stesso è diventato “maestro
pasticciere”, cultore di una tradizione pasticciera
che, come lui scrive in “la dolce Abbazia”, affonda
le radici nei monaci, che vissero nell’Abbazia
Nullius di Santa Maria e i XII Apostoli.
Fu suo maestro, fin quando ancora giovane non
decise di mettersi in proprio, Giannino Morello, che
portò avanti la scuola rinomata dei Frosina. In uno
dei suoi elaborati M.C. traccia per grandi linee la
storia delle famiglie, che resero famoso e rinomato
il prodotto pasticciere bagnarese.
M.C. ama Bagnara e soffre quando, lui custode di
tanta ricchezza acquisita dal suo paese nel corso dei
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secoli, vede la sua antica “Balnearia” spesso non
adeguatamente valorizzata.
Nei suoi scritti, a mio avviso, c’è la volontà di fare
conoscere gli antichi splendori di Bagnara che
ipotesi storiche vogliano di origine Fenicia o
Romana ma, come egli racconta nella: “la gloriosa
storia dell’Abbazia bagnarese”, è sicuramente di
origine Normanna.
Alcuni suoi racconti come “il braciere” “la severa
matriarca” ecc. cercano invece di descriverci una
cultura popolare, che ha una sua dimensione umana
e che alla fine trasmette valori sociali, che
andrebbero meglio scoperti e approfonditi.
Se il nostro tempo, come dicono molti filosofi, è
troppo veloce e finisce per annientare ogni
riflessione sulle cose fondanti la vita di ognuno di
noi attraverso la lettura del libretto di M.C. si può
provare a rallentare questa corsa sfrenata verso un
secolarismo che, come ha detto il Santo Padre,
tende a minimizzare il sacro per esaltare il profano.
Finisco questa breve introduzione affermando,
avendo una continua frequentazione con l’autore di
questo libretto, che non è intenzione di M.C. di
ergersi a uomo di Cultura.
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Anche se la cultura si può intendere, secondo una
delle definizioni che si trovano in Wikipedia, come
quel bagaglio di conoscenze e di pratiche acquisite
ritenute fondamentali e che sono trasmesse di
generazione in generazione.
Pertanto, non necessariamente la cultura si
acquisisce
attraverso
percorsi
prettamente
scolastici.
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Dato Carmine 1882 – 1967
Il mio bisnonno Carmine Dato, padre di mia nonna
materna, nato nel 1882 fu sposato con Spampinato
Natala Francesca classe 1878.
Solamente a nominarlo provo commozione.
Sono cresciuto nella sua casa, essendo mio padre
emigrato in America, e sentendo la mancanza della
figura paterna mi affezionai molto a lui. Nonostante
le tenerezze e l’affetto di mia madre e di tutti gli
altri parenti, il mio bisnonno mi trasmetteva una
sicurezza fuori dal comune.
Persona intelligente sapeva leggere e scrivere
benissimo, cosa molto rara per quei tempi, aveva
viaggiato moltissimo facendo tante esperienze in
giro per il mondo.
Quando l’ho conosciuto era già anziano e
lentamente stava diventando cieco a causa delle
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cataratte che all’epoca non erano curabili.
Nonostante questo mi ha dato tanta di quella
ricchezza umana, di cui ancor oggi faccio tesoro,
per la quale gli serbo immensa riconoscenza.
Seduti al braciere lo ascoltavo per ore, dal suo
scrigno venivano fuori storie e racconti carichi di
emozioni, che considero le vere ricchezze della vita.
Attorno al calore del fuoco si sprigionava un calore
umano oggi impossibile da trovare.
Le sue narrazioni mescolate con gli accadimenti del
quotidiano raccontate da mia nonna sono diventate
le convinzioni, su cui poi ho basato la mia vita. Le
loro esperienze, i sacrifici, le guerre, le emigrazioni,
le grandi difficoltà e gli sforzi per superarle mi
hanno dato sempre la forza di andare avanti
seguendo il loro esempio. Dialogando al tepore
della brace i parenti più grandi capivano come
eravamo fatti noi bambini, il nostro temperamento,
e di conseguenza ci davano consigli utili per
affrontare la vita. Le serate lunghe ma affascinanti,
finivano spesso con le caldarroste messe lì a
cucinare e che accompagnavano con il loro sapore
la vita dei miei avi e il loro smisurato sentimento
umano, che mai nessuna ricchezza materiale potrà
ripagare. Oggi davanti alla televisione, a un
cellulare o a un PC, si è soli, lontani dal contatto
umano e dalla vita reale.
Mi raccontò che un giorno si prese la libertà di non
andare a scuola e suo padre che si chiamava Santo
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ed era un “capo mastro mannisi” dei De Leo, lo
legò quasi per tutta la notte fuori in balcone. Dal
quel momento fu sempre presente e attento a tutte le
lezioni.
Il mio bisnonno emigrò in Argentina all’alba del
1900 e fece ritorno nel 1907 con due bambini
maschi che morirono di infezioni a causa delle
fognature a cielo aperto, che allora erano presenti
nella cittadina, e della mancanza di anticorpi in
questi due ragazzi, abituati a una realtà
completamente diversa e più agiata. Durante il
terremoto del 1908 sua
moglie, che era a fine
gravidanza, restò sotto le
macerie per tre giorni e lui
riuscì a tenerla in vita
dandogli da bere tramite un
buco. Protetta da una trave
riuscì a sopravvivere e lui
stesso riuscì a tirarla fuori,
scavando a mani nude,
grazie alla sua prestanza
fisica e alla sua forza. Dopo
qualche
giorno
nacque
Dato Giovanna 20/02/1909
27/01/1994
quella che poi sarebbe stata
mia nonna.
Partecipò alla prima guerra mondiale nel corpo
degli alpini, al suo ritorno ripartì come pioniere in
Australia per ritornare a Bagnara e fare il suo vero
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mestiere, quello di “mannisi”, come suo padre. Era
sempre tra i boschi per settimane, dove si costruiva
assieme ad altri un pagliericcio di fortuna dove
dormire, cosciente di essere facile preda di attacchi
briganteschi.
Durante i periodi impervi, spesso i briganti stessi di
notte bussavano al loro pagliericcio per chiedere
ospitalità. Loro non si preoccupavano mai delle
intenzioni di questi personaggi. Pertanto chiedevano
solo se erano anime Cristiane di farsi il segno della
croce. Dopo aprivano la porta e li accoglievano.
Quei boscaioli non avevano paura dei fucili dei
briganti ma si preoccupavano, invece, di accogliere
e ospitare anime cristiane. Coscienti, che un’anima
cristiana non avrebbe.
mai fatto loro del male.
Quando il mio bisnonno rimase cieco diventai la
sua guida. Spesso lo accompagnavo alla villa
comunale e seduto con a lui ascoltavo i discorsi che
faceva assieme ai suoi coetanei, restavo affascinato,
mi sentivo partecipe delle loro avventure, dei loro
racconti. Storie e valori che non sono scritte in
nessun libro e che fanno parte di quella tanto amata
e sana cultura popolare della nostra cittadina.
Ero legato al suo sapere, alla sua saggezza, alla sua
esperienza di vita, ai suoi principi. La cosa che oggi
apprezzo molto di lui era il suo adattamento al
nuovo. Praticamente era uno moderno, un
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contemporaneo, uno che viveva il presente con una
mentalità molto aperta.
Amava fumare la pipa di creta, che si consumava
subito dopo poche volte che era usata. Andavo a
Porelli dove c’era l’unico negozio che le vendeva,
per comprargliele. Non voleva fumare altri tipi di
pipe, forse ricordi di gioventù; ne compravo dieci
alla volta perché la strada per arrivare in quella
bottega in località Calvario era lunga a farla a piedi.
Non so che grado si cultura avesse. So che durante
la malattia di sua moglie, costretta a letto, che durò
tre anni, egli rimase quasi sempre seduto con lei a
leggere libri di diversi generi. Inoltre so che
corrispondeva spesso con un suo figlio rimasto in
Argentina. Quando alle due di una notte del 1963
sua moglie morì, per non disturbare nessuno, la
vestì e la preparò, come si usava fare all’epoca, da
solo. Poi, tranquillamente, tornò a dormire accanto
a lei. Solo alle sette e mezzo del mattino venne a
casa nostra a darci la cattiva notizia. Lo fece per
non disturbare durante la notte.
Il primo agosto del 1965, a casa di sua nipote in via
G. Denaro, nel palazzo dei Morello, mentre era lì
seduto gli crollò addosso il cornicione della casa
colpendolo in pieno sulla testa e su una mano.
Quella mattina fu accompagnato di corsa
all’ospedale di Scilla, dove ricevette quarantasette
punti di sutura in testa e sedici su una mano senza
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mai perdere i sensi e senza lamentarsi, il
pomeriggio fece ritorno a casa.
Un’esperienza dove si mette in risalto uno dei valori
dell’epoca, in altre parole il rispetto, la ricordo
come fosse ieri e la voglio raccontare per intero.
Quando lo accompagnavo alla villa comunale,
passando davanti alla casa di suo compare, mi
chiedeva di dirgli quando ci avvicinavano alla sua
porta, e una volta lì vicino, togliendosi il cappello
salutava: “ Bonasira cumpari”, (Buonasera
compare) anche se la porta era chiusa e sull’uscio
non c’era nessuno. Naturalmente io gli dicevo che
non c’era nessuno e che non serviva salutare,
mentre lui continuando rispondeva: “ Quandu a
porta e chiusa, si saluta a porta, è u rispettu chi aju
pè me cumpari.” (Quando la porta è chiusa si saluta
la porta, è così che dimostro il rispetto che ho per
mio compare).
Il mio bisnonno è morto nel 1967 ed io l’ho assistito
fino all’ultimo respiro seduto al suo capezzale. A
quel tempo gli feci una promessa “ Caro nonno il
mio primo figlio maschio porterà il tuo nome”. A
distanza di quaranta anni ho dato a mio figlio il suo
nome, Carmine. Il nome del mio gigante buono.
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-------------------------------------La storia di donna Gaezza.
Vorrei ricordare una “nobil donna”, vissuta nella
nostra città nell’Ottocento, alla quale è stata poi
dedicata Via Gaezza.
Giovanna Gaezza è nata a Bagnara il 18 aprile del
1893 mentre la data di morte è incerta. Si pensa,
possa risalire, presumibilmente, al periodo
compreso fra le due guerre.
Questa donna è ricordata da tutti, soprattutto, per il
suo buon cuore e per la nobiltà d’animo, che l’ha
contraddistinta rendendola grande.
Giovanna Gaezza ha sempre raccolto a casa propria
tutte le persone bisognose ed era molto amata,
soprattutto, dalle giovani che ospitava in casa e, alle
quali insegnava l’arte del ricamo.
Amava circondarsi di giovani bisognose e la sua
casa era sempre “affollata”.
Chi la ricorda parla di Lei come una donna di
“pace”.
Meritano di essere ricordate, anche, la generosità
delle sue donazioni, tra cui le abitazioni adiacenti
all’antico oratorio della Chiesa del Rosario
utilizzate per l’ampliamento della piazza del
Rosario. Le notizie di questo personaggio sono state
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raccolte soltanto oralmente attraverso i racconti di
chi l’ha conosciuta; pare che di scritto avesse
lasciato solo un testamento, in cui manifestava la
volontà di donare tutti i propri beni ai poveri di
Bagnara. Purtroppo il testo non è stato mai
ritrovato.
--------------------------------------------I monaci di Bagnara erano esperti conoscitori
dell’arte dolciaria, genitori di numerosi dolci
locali.
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La “dolce” Abbazia di Bagnara
L’arte dolciaria a Bagnara è strettamente collegata
ai monaci dell’Abbazia, veri esperti in materia,
inventori d’innovative specialità come i “jirita
Apostuli” e “Suspiri i monaca”.
I monaci erano
esperti anche nella
lavorazione
artigianale
del
torrone,
che
producevano anche
in una tipologia
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piuttosto scura, colore manto di Monaco, chiamato
“martiniana” che ancora oggi si può gustare a
Bagnara.
La prima fabbrica di torrone, risalente alla metà
dell’Ottocento, si deve a Francesco Antonio
Cardone, che riprese la vecchia ricetta dei monaci
apportando alcune modifiche. Da adesso in poi
nasce la dedizione dei bagnaresi nei confronti di
questo rinomato dolce natalizio.
Nei primi anni del ‘900 i fratelli Pasquale e Luigi
Frosina, aprirono una fabbrica; nel 1967 è la volta
di Careri a porelli; negli anni ’20 Orazio Borgia,
originario di San Procopio, dopo avere sposato
donna Saruzza di Bagnara, inizia la lavorazione di
questo prelibato dolce e, negli anni ’70, il noto
pasticciere Antonio Minutolo ne rileva la ditta
rilanciando il vecchio marchio.
I fratelli De Forte aprono la loro fabbrica intorno
agli anni ’70 e, il maestro pasticciere Giannino
Morello, affiancato
dal
discepolo
Mimmo
Caruso,
porta avanti la
rinomata
scuola
dolciaria
dei
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Frosina diventando famosi in tutto il mondo. Caruso
decide di mettersi in gioco per realizzare il suo
sogno nel cassetto: una fabbrica tutta sua. Gli
ingredienti principali usati per la lavorazione del
torrone sono rigidamente locali, genuini e senza
nessun prodotto chimico.
Un altro dolce
tipicamente
bagnarese è la
“collura,
che
nel
periodo
Pasquale
era
regalato
dal
fidanzato alla futura moglie: si degustava a
mezzogiorno della domenica di Pasqua, quando
suonava
il
cosiddetto
“Gloria”, che
annunciava la
resurrezione
del Signore.
Questi dolci
sono importantissimi e vanno riscoperti e
valorizzati poiché
testimoniano il
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glorioso passato e l’invidiata tradizione dolciaria di
Bagnara.
---------------------------------------La gloriosa storia dell’Abbazia bagnarese
Il Gran conte Ruggero I d’Altavilla noto per
l’imponente statura, vassallo del fratello Roberto
Guiscardo, devoto alla fede mariana, morì il 22
giugno 1101 a Mileto. Secondo l’Abate Rocco Pirri
(storico della chiesa siciliana di fine 500), egli
fondò nel territorio, dove sarebbe poi sorta
l’Abbazia di Santa Maria e i XII apostoli, a
Bagnara, il monastero di santa Maria della Gloria.
La funzione di questo luogo sacro era quello di
accogliere i pellegrini diretti in terra Santa: alla sua
entrata, infatti, era inciso il motto “In peregrinorum
Domum Hospitium”. Il monastero è stato poi
gestito da diversi ordini religiosi fra cui i
cistercensi, i benedettini, gli agostiniani e, fra il
1582 e il 1789, dai padri domenicani. Accanto al
monastero fu edificata una Chiesa in stile bizantino
dedicata a Maria Santissima delle Grazie, ove nel
1683 il duca di Bagnara, Don Carlo Ruffo, fondò la
nobile confraternita del Santissimo Carmelo: a
quell’epoca era venerata un’icona lignea di fattura
bizantina, che si trova tuttora nell’altare maggiore,
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mentre nel 1956, da Napoli, fu trasportato il
simulacro della Madonna del Carmelo oggigiorno
esposto alla venerazione dei fedeli.
Il monastero per la sua importanza ha avuto
protettori del calibro di Federico II, il quale nel
1219, emanò un decreto, che così recita: chi reca
offesa al monastero pagherà un’ammenda di
cinquanta libri d’oro, dei quali metà andrà alla
Regia Corte e l’altra metà al monastero. Un altro
protettore fu il Pontefice Paolo II: nel 1472 egli
rinnovò la sua protezione, così come scrive l’abate
Pirri. San Merlando nominato vescovo di Agrigento
dal conte Ruggero I nel 1088 (la bolla di conferma
pontificia risale al 1098), fu consacrata a Roma
dallo stesso Papa Urbano II. Nel suo viaggio di
ritorno, passando da Bagnara Calabra, rimase per
un breve periodo al monastero e predisse al priore
Drogone che sarebbe stato suo successore. San
Gerlando morì il 25 febbraio 1100 e divenne
patrono di Agrigento, che all’epoca si chiamava
Girgenti.
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Vincenzo Morello”Rastignac” all’epoca
considerato prima penna d’Italia.
Non si può scrivere di
Vincenzo Morello senza fare
prima un breve tracciato sulla
sua vicenda familiare.
Nato l’11 luglio 1860 a
Bagnara Calabra, terzultimo
della famiglia composta da
quattro figli, Vincenzo Morello a soli sette anni
rimane senza madre, morta giovane all’età di
ventotto anni.
La crescita dei figli è così affidata al padre, che
all’epoca del decesso della moglie aveva trentasette
anni e che si è ritrovato così, da solo, a badare
all’intera famiglia. Il rapporto di Vincenzo Morello
con Bagnara non è mai stato ottimale. Peggiorò di
ancora quando si sentì tradito dalla cittadinanza, che
scelse di votare in maggioranza per il suo
avversario, il Commendatore De Leo. In quelle, che
rimangono nella storia e nella memoria cittadina,
come elezioni politiche ridicole e illegali, per via
delle numerose vicissitudini verificatosi. Per tale
motivi, tanto più la sua fama cresceva, tanto più si
allontanava dai rapporti con la gente di Bagnara. Da
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evidenziare che la sua candidatura fu richiesta da un
gruppo di persone facoltose di Bagnara, che si
recarono a Roma per invitarlo ad accettare la stessa
promettendogli l’appoggio di tutta la popolazione.
Dal canto suo, il Commendatore De Leo, candidato
in contrapposizione allo stesso Morello, pare che
abbia fatto distribuire, qualche giorno prima
dell’elezioni, generi alimentari in abbondanza alla
popolazione “comprandosi” così la simpatia dei
bagnaresi, che lo votarono venendo meno alle
aspettative dello stesso Morello. Tal episodio
rappresentò per Morello una sorta di tradimento. Da
ciò ebbe origine un odio profondo verso la
cittadinanza al punto tale che non volle sapere più
niente dell’intero paese. Pare addirittura che,
quando tornava a Bagnara nella sua casa natale, non
si mostrasse in pubblico e quando qualcuno per sua
volontà si recava a trovarlo, si limitava ad
accoglierlo davanti al portone socchiuso, facendolo
rimanere fuori. In seguito fu nominato Senatore dal
Re Vittorio Emanuele III. Comunque, tra la città di
Bagnara e il Morello s’instaurò un odio profondo
che è durato fino alla sua morte. Ne è prova il fatto
che nonostante le autorità fasciste avessero ordinato
i funerali di stato, la gente fu restia a seguire il
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feretro. In quella circostanza, è ricordato un altro
episodio significativo: durante la notte furono
addirittura recisi gli alberi di cipresso che erano
stati piantati prima all’interno del cimitero, ai lati
del mausoleo. L’avversità reciproca fra Morello e i
bagnaresi trova conferma nella decisione, da parte
dell’illustre giornalista, di donare interamente il
cospicuo patrimonio libraio, di cui disponeva, alla
biblioteca “De Nava” di Reggio Calabria,
ignorando completamente quella della sua città
natale. In quell’occasione, molti beni, tra cui anche
i suoi manoscritti, (soprattutto quelli di un certo
valore), i quadri e le sue sculture furono
“furbescamente” acquistati da notabili Reggini.
Alcuni cittadini ricordano un aneddoto concernente
la sorella Giacoma, che continuò a vivere presso
l’abitazione paterna, sita in via Giacomo Denaro.
La stessa, quando pensava di essere alla fine della
sua vita, avrebbe chiesto alla sua dama di
compagnia tale M.C., di chiamare il notaio perché
voleva fare testamento, poiché era sua intenzione
lasciare tutto all’ordine di San Francesco di Assisi.
Non essendo soddisfatta l‘amica pare che l’abbia
dissuasa a non fare alcun testamento in quanto, a
parere suo, la sua ora non era ancora giunta (ma la
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vera ragione era che la Sig.ra non voleva che i beni
dei Morello andassero a finire fuori Bagnara). Dopo
poco tempo la Sig.ra Giacoma morì senza lasciare
testamento. Era il 1954 e, in virtù di questo
episodio, il Comune di Bagnara divenne
proprietario di casa Morello, che ora è sede del
Liceo Scientifico “E. Fermi”.
Nota:
Le
informazioni sopra
riportate sono di
mia
conoscenza
grazie
alla
governante
della
famiglia
Morello
una certa “Donna Grazia”, della quale nonostante
non ne ricordi il cognome, posso certamente dire
che era originaria di Sant’Eufemia D’Aspromonte.
Inoltre, dato il rapporto di vicinato che donna
Grazia aveva con la mia famiglia, ebbi la fortuna di
essere testimone di molte vicende e racconti della
stessa e, quindi indirettamente della famiglia
Morello, a proposito del primo quinquennio degli
anni 1960-65.
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La severa matriarca
Carissimi amici,
oggi parleremo
della
severa
matriarca.
A
Bagnara
c’è
sempre stato un
matriarcato, non
per una debolezza
dell’uomo ma per
fiducia verso la compagna, alla quale ha lasciato il
compito di occuparsi: delle relazioni, delle decisioni
importanti, di comprare la dote per la figlia, di
combinare i matrimoni e via discorrendo. Il marito,
che era informato dopo trovava anche comoda
questa situazione.
La matriarca, di cui oggi vi racconto la storia,
svoltasi nella prima metà del 900, si chiama donna
Carmela ed è nata nel 1865 ed è morta nel 1949.
Era una grande commerciante e, di conseguenza,
era benestante. Per l’epoca, aveva quattro negozi
nei quattro angoli di piazza Matteotti, dove vendeva
di tutto: dal cemento, al ferro, al rame, al piombo,
alle ceramiche. Oltre a essere cattiva, questa
matriarca era anche superba. Giudicava le persone,
che incontrava o che le passavano vicino, se
gliel’avevano pulite oppure no, dalle scarpe.
Immaginate se in quel periodo la gente, che non
aveva da mangiare, poteva preoccuparsi delle
22
scarpe. Donna Carmela aveva cinque figli, tre
femmine e due maschi. E qui comincia il racconto.
Siamo nel 1925-26. Uno dei figli maschi, il più
piccolo, che era un bravo maestro muratore, si era
innamorato di una ragazza appartenente a una
posizione sociale molto modesta rispetto a lui. La
ragazza, infatti, lavorava nell’edilizia. All’epoca,
oltre a caricare e scaricare i mezzi, le donne
aiutavano i muratori, portando loro il materiale
edilizio, calcinacci e quant’altro. Quando il figlio
comunicò alla madre di essere innamorato di questa
ragazza, donna Carmela, superba come era, non
diede il suo assenso al matrimoni. Il figlio,
innamorato, scappò con l’amata, cioè fece la
cosiddetta fuitina, come si chiamava all’epoca
quando i genitori non erano d’accordo sul
fidanzamento. I due innamorati si rifugiarono in un
rudere situato nella località chiamata volgarmente
“Palumbari”, dove vi erano le baracche risalenti al
terremoto del 1908, alcune delle quali ancora
abitate, e fecero passare alcuni giorni, in modo che
le cose si acquietassero. Quando il figlio tornò dalla
madre, la matriarca lo accolse tutt’altro che
rabbonita. Prima lo afferrò e gli strappò i vestiti di
dosso, lasciandolo in mutande, poi lo buttò fuori, in
mezzo alla strada. Una vicina, impietositasi per quel
che vide, prese una giacca del marito e gliela mise
addosso per coprirlo. Subito dopo uscì donna
Carmela e, rivolgendosi verso la chiesa, si tolse il
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seno di fuori maledicendo il latte che aveva dato al
figlio, perché questi aveva disobbedito al suo
volere, scappando con la sua innamorata di rango
sociale inferiore.
Umiliato in quel modo, il giovane – di seguito il
“figlio rinnegato”, per esigenze narrative – ritornò
alla baracca fatiscente e si diede da fare assieme
all’innamorata, per aggiustarla e vivere, specie nel
momento in cui l’innamorata restò incinta. Quando
nacque la figlia, cui assegnarono il nome della
nonna, dovettero fare grossi sacrifici. Lui lavorava
come muratore, lei andava a fare gli scambi con
altre coetanee ma donna Carmela non si degnò mai
di aiutarli. Addirittura, quando seppe da un’amica
che le era nata una nipotina e che si chiamava come
lei, la matriarca rispose all’amica di andare a
strozzarla. Naturalmente, l’amica le ribatté che
poteva andare lei a fare una cosa così disumana e
indicibile.
Sul finire degli anni ‘20, la compagna del
“rinnegato” restò nuovamente incinta e l’anno
successivo partorì un figlio maschio. Nello stesso
anno, dal momento che la donna aveva raggiunto la
maggiore età, ventuno anni per l’epoca, i due
decisero di disciplinare il loro rapporto con un
modestissimo matrimonio. Essendo in quattro, non
potevano restare nella baraccopoli così, facendo
nuovi sacrifici, si trasferirono in un magazzino in
affitto e condiviso temporaneamente con un’altra
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famiglia, che in seguito si trasferì altrove. Ma il
gioco valeva la candela, perché almeno avevano un
tetto sulla testa. I figli crebbero e ne ebbero degli
altri, nientemeno tredici. Ma i due riuscirono a
sfamarli tutti e, anche, a mettere da parte qualche
lira. Quando il lavoro edilizio scarseggiava, il
marito si dava da fare anche con la pesca, uscendo
di notte con la Palamitara. Ma un giorno evitò di
andarci perché gli accade un episodio strano –
lascio al lettore il giudizio su di esso. La notte
prima di andare a pesca, nella dormiveglia, il figlio
rinnegato sognò il nonno defunto che,
accarezzandolo nel viso, gli raccomandò di non
andare a pesca l’indomani. Quel pomeriggio, infatti,
accadde una catastrofe. Quell’imbarcazione con il
suo equipaggio, assieme a tante altre, ebbe la
sventura di affondare per via delle enormi
mareggiate che dominavano il mare e perirono tutti:
era il 24 maggio 1927. Se il marito si dava da fare
con la pesca, la moglie commerciava e barattava di
tutto, per esempio il sale a Messina con il saio. Una
volta, addirittura, rientrando da un baratto, giunta
all’altezza dell’altare “alle anime del Purgatorio”, la
donna dovette gettare a terra il cesto che pesava
80/90 chili e che teneva sulla testa, perché le stava
nascendo il bambino. Poi arrivata a casa partorì e
dopo due giorni si mise di nuovo a commerciare.
Donna Carmela però non abbassò mai la cresta.
Pensate che non ricevesse nemmeno i nipotini del
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figlio rinnegato. Li lasciava sull’uscio, in strada,
mentre i nipotini delle figlie li lasciava entrare e li
adorava. Nei confronti del figlio minore, che
lavorava, affrontava immense difficoltà con una
famiglia numerosa, la matriarca restò sempre
indifferente giacché le aveva disubbidito, mentre
nei confronti del figlio maggiore, che era un guappo
e un nullafacente, assunse un altro atteggiamento. Il
figlio maggiore di donna Carmela, che si era
trasferito in Argentina nei primi anni del 900, aveva
combinato un grosso guaio e aveva un mandato di
cattura. Ebbene, per salvarlo, la matriarca spese un
patrimonio. Andò a Napoli e si accordò con uno dei
capitani delle navi da carico che trasportavano i
migranti in Argentina, per riportare il figlio
maggiore in Italia. Al momento dell’accordo, che
cosa fece? Tagliò in due i soldi: gliene diede metà
in anticipo e promise che l’altra metà gliel’avrebbe
data quando avrebbe visto il figlio maggiore
sbarcare a Napoli. E così fece: dopo sei mesi,
quando vide il figlio maggiore sbarcare dalla nave,
diede al capitano la parte restante.
Che cosa accadde in seguito? Donna Carmela,
ormai anziana, si ammalò e restò paralizzata. Le
figlie la accudirono per qualche ora al giorno, a
turno, ma una volta impossessatesi dei beni della
madre, la abbandonarono. Nel momento in cui il
figlio rinnegato e la nuora seppero che la matriarca
aveva bisogno di aiuto, andarono a trovarla. Una
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volta giunti, Donna Carmela non aveva la forza per
mandarli via ma tenne fermo il suo orgoglio e la sua
rigidità, guardando verso l’alto per non incontrare i
loro volti. La nuora si accorse che dalla matriarca
proveniva cattivo odore, così, spontaneamente, si
mise a pulirla, a lavarla, a cambiarla ma lei restò
sempre rigida, severa, ammutolita. La nuora
continuò ad accudirla, anche nei giorni successivi,
senza alcun rancore, per senso del dovere o spirito
di umanità. E allora avvenne un miracolo: il male
s’inchina innanzi al bene. Un giorno, sentendosi
umiliata, mentre la nuora la curava, donna Carmela
girò il viso verso di lei, le prese la mano e la baciò,
dicendole: “Benedette le tue mani, i tuoi piedi e la
terra dove appoggiano, per quello che tu mi stai
facendo e per quello che io ti ho fatto”.
La matriarca morì alcuni anni dopo. Il figlio minore
negli anni ‘50 e la nuora nel 1994. Sicuramente
prima di morire, oltre alla presenza dei figli, dei
nipoti e dei pronipoti, c’erano anche gli angeli, che
la aspettavano per accompagnarla nel suo trapasso,
in grazia di Dio. Questa storia ci offre l’occasione
di chiederci: chi è la vera bagnarota? Non è la
matriarca rigida e superba, perché personaggi del
genere sono sporadici a Bagnara, bensì la nuora,
una donna di grande carattere che ha sempre dato
con generosità e senza mai chiedere nulla in
cambio. La nuora con la sua umiltà, infatti, ha fatto
inginocchiare il male e, inconsapevolmente, ha
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osservato molti passaggi del Vangelo, come “ama il
prossimo tuo come te stesso”, “fai del bene a chi ti
fa del male!”, “porgi l’altra guancia” e “dare senza
ricevere”.
Addio, vera bagnarota!
----------------------------------------------Siti di Bagnara
Carissimi amici, oggi parleremo
di alcuni siti di Bagnara alcuni,
dei
quali,
Inter lapides Rufos
poco noti.
Fel de hispèaniae fenix
Dom.eus comerabitur
Per esempio
Tra le pietre sepolcrali dei
avete
mai
Ruffo o marezza del seicento,
fenice di Spagna Domuenico si
sentito
Soffermerà.
parlare
di
Lapide scoperta da Mimmo
Caruso nel 1980
Pietra
Galera?
Quando i Ruffo di Calabria, da Sinopoli, sono scesi
a Bagnara per ampliare i loro poderi, sapete che
cosa dove oggi sorge il Castello Ducale vi era una
fortezza militare, sotto la quale vi erano le carceri. I
Ruffo trasformarono questa fortezza in un Castello
Ducale per abitarvi. Certamente, sotto il letto non
potevano tenersi i carcerati, così decisero di
trasferirli altrove. Una parte fu mandata per i
disboscamenti; un’altra parte per la costruzione di
vari muri, strade e via discorrendo; i più pericolosi,
invece, li mandarono con delle zattere in un tratto
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della costa tra Bagnara e Palmi, che oggi
chiamiamo Pietra Galera, dove vi era una cava di
pietra. Qui estraevano la pietra, la tagliavano, la
caricavano sulle zattere e la spedivano agli abitanti
del paese che la utilizzavano per svariate
costruzioni. Ecco perché questa zona costiera si
chiama Pietra Galera. Sebbene il passare dei secoli,
ancora oggi ci siano tracce di questo
smantellamento della roccia che avveniva anni
orsono.
Sapete qual è il vero nome del Castello di Bagnara?
Tra gli anni ’50 e ‘60, il signor Mazzetti fondò un
albergo ristorante nel Castello di Bagnara, dandogli
il nome di “Castello Emmarita”, in onore della
figlia. All’ingresso del Castello fece collocare delle
piastrelle, tuttora visibili, che riportavano, appunto,
tale dicitura. La gente e soprattutto i giovani che
crebbero in quell’epoca, leggendo la dicitura di
quelle piastrelle, si fecero un’idea sbagliata sul vero
nome del Castello e ancora oggi, che l’albergo
ristorante non è più in funzione, è chiamato con un
nome che non gli appartiene. Nel corso del tempo,
numerose sono state le sollecitazioni al Comune e ai
vari Assessori da parte mia e di altri, per rimuovere
quelle piastrelle e mettere un’iscrizione recante
l’effettivo nome del Castello, ma finora non si è
fatto nulla. Credo sia giunta l’ora per rimuovere la
vecchia iscrizione e collocarne una nuova, recante il
vero nome di quello stabile: Castello Ducale Ruffo.
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Mi appello a chi è di competenza affinché sia
restituito una volta per tutte il vero nome al nostro
bellissimo Castello. Passiamo ora alla Zona del
Leone: perché si chiama così? Alcuni pescatori
dicono che lì c’è una roccia che ha la forma di un
leone, invece, non è così. Seguendo le orme di
Sant’Elia, un monaco siciliano si spostò nella
penisola e, giunto nelle nostre terre, decise di
passare un lungo periodo di eremitaggio proprio in
questa zona, dove vi era una chiesa piccola e
semplice, che ancora oggi è possibile ammirare
passando in barca lungo questo tratto di costa.
Questo monaco vi restò a lungo, o almeno finché
non divenne, il 17 agosto 682, papa, prendendo il
nome di Papa Leone II. Il pontificato di papa
Leone II durò solamente un anno: fu eletto il 17-8682 e morì il 3-7-683. Quando nel paese giunse la
notizia : “È morto il papa Leone! È morto il papa
Leone!” alcuni si chiedevano chi fosse costui, altri
invece rispondevano: “Quello che ha vissuto qui
come eremita!”. Da allora, il tratto di costa dove
ancora sorge la chiesetta, fu denominato ‘A zona ru
Leuni, proprio perché visse da eremita il futuro
papa Leone II. La Torre Aragonese è volgarmente
chiamata “Torre Ruggero” ma se noi facciamo
riferimento a Ruggero I Altavilla , il nome è
sbagliato. Infatti, quando la Torre fu costruita,
Ruggero I era già morto da quattrocento anni.
Quindi, la Torre prende il nome del promontorio
30
dove è stata edificata, vale a dire Torre di Capo
Rocchi, o Torre Cavallara.
Passiamo al Passo del monaco volgarmente
chiamato “palumbari”. Il termine Palumbari è stato
attribuito in seguito a questa zona, perché dopo il
terremoto del 1908 la gente sfollata vi costruì delle
vere e proprie baraccopoli. Guardandole da una
certa distanza, queste baraccopoli sembravano
proprio dei colombari, tutti in lamiera, bassi, uno
sull’altro; per questo motivo, la zona prese il nome
di Palumbari. “Dove abiti?” chiedevano alla gente.
“Nde palumabari!”. Anticamente, però, quella zona
prendeva il nome Passo del monaco, perché vi era
una stradina, ancora oggi esistente, che serviva per
accedere ai giardini sottostanti al monastero. Un po’
più su, infatti, esisteva un monastero dedicato alla
Madonna della Gloria, fatto edificare da Ruggero I
nella seconda metà del XI secolo. Quindi, quella
stradina serviva ad accedere ai giardini sottostanti
ma anche per scendere al mare, ma ai monaci,
naturalmente, non importava del mare bensì di Dio,
delle povere anime e di coltivare i prodotti che
quella terra offriva, utili per il sostentamento
terreno. A quella stradina, che faceva anche da
chiusura per eventuali attacchi saraceni, occorre
dare il nome giusto, quello che aveva anticamente:
il Passo del monaco.
Sulla via che conduceva a questo monastero
dedicato alla Madonna della Gloria, c’era una stele
31
che recitava “in pellegrinorum hospitium”, che
annunciava cioè che il monastero ospitava i
pellegrini che proseguivano il proprio cammino
verso la Terrasanta. Tra i numerosi pellegrini che si
fermarono in questo monastero, vi fu anche San
Gerlando, protettore e patrono di Agrigento,
nominato da Urbano II. Quando San Gerlando
alloggiò nel monastero, vi era Ermete, al quale San
Gerlando disse: “Tu sarai il mio successore”. San
Gerlando morì il 25 febbraio 1100 e così come
aveva predetto, Ermete prese il suo posto.
Accanto al monastero sorgeva la chiesa di stile
bizantino dedicata alla Madonna delle Grazie, i cui
resti – l’altare, le volte e quant’altro – sono ancora
visibili, al di sotto della chiesa del SS. Carmelo. Nel
1683 il duca di Bagnara, don Carlo Ruffo, fondò la
Nobile Congrega del SS. Carmelo e fece costruire
una chiesa, quella del Carmelo, appunto, al di sopra
della chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie.
Qui si venerava un’icona lignea bizantina che
tuttora è esposta sull’altare maggiore, proveniente
dalla chiesa che vi era in precedenza. In un secondo
tempo, nel 1856, proveniente via mare da Napoli,
giunse il simulacro della Madonna del Carmelo, che
adesso veneriamo, incoronata nel 1890.
Il monastero fu conteso nel corso del tempo da
molti ordini religiosi: i cistercensi, l’ordine di San
Bernardo, gli agostiniani e dal 1582 i domenicani,
che qui vi sostarono fino al 1759. La fine del
32
monastero avvenne con il terremoto del 1783. I
domenicani fondarono la Congrega del SS. Rosario:
non a caso i rosariani usano indossare una veste
bianca e nera. La più antica congrega è quella del
Rosario. Quando nacque la congrega del Carmelo,
sorsero in quel periodo delle contese tra congreghe,
per il prevalere dell’una sull’altra. I governanti
dell’epoca furono così stanchi di queste contese che
si rischiò addirittura la chiusura di entrambe.
Le congreghe furono importanti per l’epoca. I
confratelli infatti erano solidali tra loro nei momenti
di bisogno, quando vi era scarso lavoro o qualcuno
era in difficoltà economiche. Vi era, insomma, un
senso di unione e di solidarietà che, purtroppo, oggi
non ci appartiene. Stesso dicasi per la Società
Operaia di Mutuo Soccorso. La collettività di
quest’associazione si faceva carico dei bisogni del
consocio. Per esempio, se questi doveva sposare
una figlia, tutti lo aiutavano nei preparativi,
sostenendolo anche economicamente. Oggi queste
cose sono un lontano ricordo, anche se è mia
speranza che si ritorni a quei valori. Con il passare
del tempo, purtroppo, anche le congreghe si sono
trasformate e hanno mutato il loro ruolo sociale.
Ritengo comunque importante tutelarle per il loro
valore storico e culturale. Esse devono mantenere le
nostre tradizioni, comprese le nostre feste.
Perché si festeggia la Pasqua e la ‘ffruntata in
piazza Morello? Nel 1783, Bagnara, assieme ad
33
altri paesi vicini, fu colpita da un terribile terremoto
che fece numerose vittime. Di fronte a questa
catastrofe, per sopravvivere, i superstiti dovettero
raccogliere i corpi delle vittime, riunirli nell’attuale
piazza e bruciali per evitare lo spargimento di
epidemie, che avrebbero cancellato totalmente la
popolazione bagnarese. Potete immaginare quale
momento di sofferenza vissero i nostri antenati in
quel periodo, non soltanto per la catastrofe ma
soprattutto per vedersi costretti a bruciare i corpi dei
propri cari, essendo impossibilitati a dargli una
degna sepoltura! Ma purtroppo, come spesso
accade, per sopravvivere, occorre anche prendere
decisioni del genere. In ogni caso, per ricordare le
vittime del terremoto, fu deciso di edificare poco
più sopra della piazza e della via Pietraliscia, una
chiesetta, nominata appunto alle anime sante del
Purgatorio. Una volta superato questo momento
difficile e ricostruito il paese, le congreghe decisero
di festeggiare la Pasqua in quella stessa piazza dove
furono bruciati tutti quei corpi, per esorcizzare
l’evento catastrofico passato e per augurare alle
anime in attesa nel Purgatorio, di raggiungere il
Regno di Cieli, al seguito del Cristo Risorto. Tra i
festeggiamenti, infatti, fu introdotta anche una delle
più celebri rappresentazioni religiose che tuttora
continuiamo a svolgere: la ‘ffruntata, vale a dire
l’incontro tra il Cristo Redentore e la madre Maria
dopo la resurrezione. Questa tradizione, che ci
34
rende orgogliosi perché è conosciutissima in tutto il
mondo, è cominciata proprio in quel periodo.
Come nasce la via Pietraliscia? Fin dal ‘700, uno
dei principali sostentamenti di Bagnara era il
commercio del legname. Esistevano infatti
numerose fabbriche per la lavorazione di questo
prodotto che, prelevato direttamente nelle foreste
dell’Aspromonte, era caricato su alcuni carri e
trasportato a Bagnara, fino alla zona della “nchiusa”
(subito dopo l’attuale campo sportivo), dove alcune
golette potevano attraccare per via della maggiore
profondità dei fondali, potevano caricare il legname
ed esportarlo in tutto il Mediterraneo. Agli inizi del
‘900, è stato importato a Bagnara da San Giorgio
Morgeto un nuovo mestiere: quello del cestaio. In
che cosa consisteva? Nell’intrecciare il legname e
fare dei contenitori di diverse dimensioni, a seconda
delle richieste. Quindi non solo si esportava il
legname in modo integro, ma anche questi
contenitori. Il mestiere del cestaio durò fino alla
seconda metà degli anni ’60. Poi l’avvento della
plastica mandò in crisi queste fabbriche che,
oggigiorno, non esistono più.
Nello stesso periodo in cui si diffondeva a Bagnara
il mestiere del cestaio, uno dei produttori del
legname, il commendatore e senatore Antonio De
Leo, con la collaborazione del Comune, decise di
intraprendere a Bagnara, a spese proprie, un
intervento di carattere urbanistico per migliorare il
35
trasporto e, dunque, la commerciabilità del
legname. In breve, volle creare delle strade.
Dall’Aspromonte, infatti, il legname doveva
raggiungere la località della “nchiusa” e poiché le
strade del paese non consentivano il passaggio dei
carri carichi di legname, il commendatore De Leo
decise di crearne delle nuove. All’epoca, tra l’altro,
le strade erano fatte di terra battuta e spesso, per via
dei carichi troppo pesanti che trasportavano, i carri
o affondavano o restavano bloccati per diverse ore,
rallentando l’iter commerciale. Per risolvere questo
problema, il commendatore De Leo stabilì che le
“nuove strade del legname” – cioè dal bivio di
Solano, passando per l’attuale Pietraliscia fino alla
via Garibaldi e alla zona della “nchiusa” – fossero
interamente rivestite di pietra lavica. E così
partirono i lavori per le nuove strade. Che cosa
accadde? Che scendendo dalla via dietro la chiesa
del SS. Rosario, il nuovo percorso del legname
doveva immettersi nella via Garibaldi ma, per
giungervi, si scelse una stradina che, a un certo
punto, era interrotta da un ostacolo: la chiesa
dedicata alle anime sante del Purgatorio, che
ricordava i morti bruciati del terremoto del 1783,
che si trovava al centro della strada, tra l’attuale
Industriale e la roccia. Per completare l’opera
urbanistica, si decise di sacrificare la chiesetta e si
creò, al posto suo, una cappella che tuttora è
possibile ammirare, dedicata appunto alle anime
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sante del Purgatorio. La nuova strada, che
congiungeva la via dietro il SS. Rosario con la via
Garibaldi, interamente rivestita di pietra lavica,
prese il nome di Pietraliscia.
------------------------------------------Personaggi emblematici di Bagnara
Nel 1917 ebbe luogo una sommossa popolare
causata da un rincaro dei prezzi dei beni di prima
necessità (dal 50-60% fino all’80%). Il popolo, non
avendo lavoro e non potendo far fronte a questa
situazione, decise di assaltare il comune,
protestando in modo violento e gettando dalle
finestre mobili e documenti. A capo di questa
protesta c’erano due personaggi nullafacenti,
soprannominati Pisciareja e Cristandeja.
In quel periodo il comune era retto dal commissario
Anastasi, un uomo di origine napoletana,
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caratterizzato da una grande personalità e operosità.
A lui si deve infatti la costruzione dell’Orologio
della Sirena e della Villa del Popolo, due luoghi che
oggi hanno un certo valore storico soprattutto per il
significato sociale che rivestirono quando furono
costruiti. A quei tempi vi erano quattordici
fabbriche di legname e il caporalato usava sfruttare
i lavoratori, facendoli lavorare più del previsto,
perché questi non avevano modo di calcolare la
durata dei propri turni lavorativi. Il commissario
Anastasi decise di intervenire e fece edificare
l’Orologio della Sirena che, scandendo ogni giorno
le principali ore lavorative (le 5:00, le 8:00, le
12:00, le 16:00), permise di porre fine a questo
sfruttamento. Anastasi inoltre fece edificare la Villa
del Popolo per garantire a quest’ultimo, nei
momenti liberi, di raccogliersi e di ricrearsi con la
musica della banda. Ancora oggi dalla “mezzaluna”
della Villa riecheggiano le sinfonie dei passati
concerti.
Ma torniamo a Pisciareja e Cristandeja. I due
furono convocati da Anastasi per spiegargli quali
erano le loro prospettive future. “Commissario”,
risposero, “noi siamo nati per non fare niente,
perché il lavoro ci piace come al cane piace la
cipolla! Ma ci accontentiamo di poco: ci basta poter
fumare e mangiare e ce ne fottiamo della
rivoluzione e di chi la fa!”. Il commissario, resosi
conto di aver di fronte non due rivoltosi ma due
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fannulloni opportunisti, decise di acquietarli dando
loro, di tanto in tanto, dei buoni pasto. Ma la cosa
non poteva andare avanti a lungo. Dal momento che
in quel periodo vi erano delle partenze per
l’Argentina, Anastasi propose loro di partire, a
carico suo, per farsi una nuova vita in un altro
continente. Entusiasti della proposta, i due
partirono. In questo modo il commissario e Bagnara
si liberarono di due fannulloni e rompiscatole e la
rivoluzione si sgonfiò nel nulla. Ce ne vorrebbero di
questi commissari!
Di tanto in tanto giungevano notizie dai bagnaresi
emigranti, i quali raccontavano che Pisciareja e
Cristandeja, nullafacenti a Bagnara, erano
nullafacenti anche in Argentina.
------------------------------------------“La principessa e il suo enigma”
Ogni favola, si sa, comincia con l’espressione
“C’era una volta”. Oggi, cari lettori, voglio
raccontarvene una di Bagnara.
«C’era una volta una giovane principessa al
capezzale del padre morente. Prima di morire,
questi le diede un paio di guanti e le svelò la sua
vera identità. Quando compì il diciottesimo anno e
salì al trono, la principessa indossò i guanti ricevuti
dal padre e indisse un bando che recitava: “Sono
nata e non sono nata, come pure la mia cavalla,
nelle mani tengo mia madre che è la figlia di mio
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padre”. Con queste parole, la principessa invitò tutti
gli uomini giovani e adulti, ricchi e poveri, a
sciogliere il suo enigma e a scoprire la verità sul suo
conto. Chi avrebbe risposto correttamente sarebbe
diventato di diritto il suo sposo, altrimenti gli
sarebbe stata tagliata la testa. Malgrado in gioco ci
fosse la vita, molti accorsero a palazzo per sfidare la
sorte e tutti rimasero senza testa. Nessuno infatti
riuscì a risolvere l’enigma e nemmeno negli anni
successivi; tant’è che la principessa, quando giunse
la sua ora, morì senza che l’enigma le fosse stato
svelato».
Nonostante io conosca la soluzione dell’enigma,
vorrei tenerla un po’ per me e invitare i lettori a
mettersi in gioco. A provare cioè a dire ognuno la
propria, scrivendo al nostro giornale. Certo, non
diventerete principi né rischierete che vi sia tagliata
la testa. Ma il fortunato solutore di questo grazioso
rompicapo medievale, riceverà un encomio
pubblico, perché dimostrerà di esser riuscito
laddove altri, per secoli, hanno fallito.
-------------------------------------------
40
Il braciere
Se vivessimo in modo
solidale così come
avveniva un tempo
nelle congreghe –
abbiamo avuto modo
di
evidenziarlo
quando
abbiamo
parlato dei “Siti di
Bagnara”
–
sicuramente vivremmo in mondo, dove l’uomo: con
i suoi bisogni, le sue debolezze verrebbe prima di
ogni altra cosa.
Una delle questioni che caratterizza il nostro tempo
è la solitudine.
Si può essere soli anche vivendo con gli altri.
In casa, per esempio, abbiamo tre quattro televisori
ma siamo sempre più soli.
Un tempo c’era il braciere che, oltre a riscaldare,
univa e riusciva a portare condivisone, ovvero,
partecipazione a idee e sentimenti degli altri.
La sera ci si metteva tutti attorno al braciere per
riscaldarsi, padri figli nonni bisnonni, e si
raccontavano delle cose che non sono scritte da
nessuna parte.
“Allora, che cosa t’è successo oggi?” si domandava
“Eh papà, nonno, sai oggi m’è successo questo…”.
Il padre, il nonno soprattutto chi, per il proprio
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vissuto aveva più saggezza offriva consigli di vita,
certamente, validi e disinteressati.
Il braciere invece offriva occasione per discutere e
condividere i problemi di ognuno e per rafforzare i
rapporti amicali.
Negli anni ‘60, per esempio, vicino casa nostra
c’era una famiglia di pescatori.
In quel periodo non c’era il motore che tirava le
barche; tirare a mano una “palamitara” non era cosa
facile. Una notte, lo ricordo come fosse oggi
malgrado io avessi otto anni, c’era cattivo tempo. Si
doveva salvare la barca di un pescatore e la moglie
gridava “U leva leva! U leva leeva!”. E allora i miei
zii, mio nonno, i vicini, tutti si alzarono con spirito
solidale e andarono sulla spiaggia per aiutare questi
pescatori a tirare la barca. Se l’avessero perduta,
avrebbero perso tutto.
Cresciuto anche intorno al braciere, ho acquisto
valori, che adesso non ritrovo nelle giovani
generazioni.
Quando ero ancora ragazzino, sotto casa mia vi
erano dei magazzini, dove vivano dei vecchietti
che, privi di pensione, vivevano nella più nera
miseria. Non avevano nemmeno acqua per bere.
Io assieme a un altro mio amico, andavamo alla
fontanella con la “quartara”(un recipiente di creta
per l’acqua), che riempivano e portavano ai meno
fortunati vecchietti.
42
Quando tornavo a casa, ogni tanto, rubavo un po’ di
pasta a mia madre per portarla a queste povere
anime di Dio.
Quando già lavoravo nella pasticceria dei Frosina,
prendevo un po’ di torrone o qualche dolcetto e
glielo portavo.
Facevamo tutto spontaneamente, per un senso di
umano altruismo difficile da trovare oggigiorno.
Ma torniamo al braciere.
Il braciere ci fa pensare a quei valori, che stiamo
perdendo e che occorre recuperare, se vogliamo
salvare qualcosa.
Questo “arnese”, di cui oggi rimangono pochi
esemplari, per il suo valore intrinseco andrebbe
riscoperto e elevato a simbolo dell’unità familiare.
Ho avuto la fortuna di conoscere i miei bisnonni, la
mamma di mia nonna che era nata il 6 agosto 1878
e il mio bisnonno, Carmine, nato il 2 ottobre 1882.
Nel mio piccolo ho contribuito ad accudirli.
Lei è defunta nel ‘63, lui nel ‘67. Quante ricchezze
mi hanno trasmesso nelle ore, che ho passato con
loro intorno al braciere.
Ho assistito il mio bisnonno nell’ora della sua morte
fino al suo ultimo respiro. Gli ho promesso che il
mio primo figlio si sarebbe chiamato come lui, e
così è stato.
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Bagnara- Itenerario turistico
1) Costeggiare tutta la piazza fino alla fine
della Chiesa del SS. Carmelo.
2) Raggiungere l’ entrata del GARGANO
continuando in direzione del convento
dedicato a S. Maria della Gloria (1050).
Il sito serviva ad accogliere i pellegrini
che transitavano per la terra santa.
3) Continuando si incrocia il “PASSO
DEL MONACO” volgarmente chiamato
“Palombari”. Da qui proseguendo fino al
Belvedere, si può raggiungere il Castello
Ducale dei Ruffo.
4) Percorrendo la scalinata panoramica
si evidenzia il bastione rivolto verso il rione
Marinella detto COSTANZELLA e quello
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di SAN SEBASTIANO che è rivolto
verso il centro di Bagnara.
Il Convento di S. Maria della Gloria è stato
conteso da diversi Ordini religiosi: l’Ordine
di S. Bernardo, dai Benedettini, e dagli
Agostiniani, e nel 1582 dall’Ordine dei
Domenicani. La costruzione risale intorno al
1050 per volere del Conte Ruggiero I
D’ Altavilla.
------------------------------------------“MELA RU FASOLU”
Carissimi amici, oggi vi condurrò indietro nel
tempo, negli anni tra la Prima e la Seconda Guerra
Mondiale, per parlarvi di un persona piuttosto
curiosa: “Mela ru fasolu”. Si tratta di una donna
enorme, statuaria. Era alta 1,80 m, un po’ scura di
pelle, camminava sempre scalza, con quei suoi
piedi numero quarantatre, portava sempre il solito
vestito nero nero-grigio legato alla vita con la
cintura dello stesso vestito.
Aveva i capelli neri anche se un po’ spenti, che
portava raccolti a treccia a mo’ di corona con un po’
di erbetta e qualche pagliuzza qua e là.
Una persona sui generis, senza dubbio,così
semplice, ingenua e spontanea che non si curava di
quello che le accadeva attorno; presa come era dal
suo lavoro. La mattina si alzava prestissimo per
curare il suo orto e i suoi armenti. Poi raccoglieva
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tutti gli ortaggi che ne ricavava, li caricava addosso
al suo mulo, che aveva due grandi cesti, uno da una
parte e uno dall’altra, e scendeva dal paesino preaspromontano dove abitava, giungendo a piedi fino
a Bagnara dove, una volta venduti i prodotti del suo
orto, se ne tornava a casa per riprendere la solita
routine. Le è stato attribuito il nome di “Mela ru
fasolu” perché era così sporca e trascurata per via
del suo continuo lavorare, che pare che dietro le
orecchie gli crescessero i fagioli.
Un giorno la madre decise di fidanzarla. In quei
tempi, gli innamorati non avevano modo di
conoscersi prima di fidanzarsi. Occorreva
inizialmente portare l’ambasciata alla donna, poi il
futuro fidanzato andava a casa per terminare il
fidanzamento. Quando si presentò a casa il
giovanotto che desiderava sposarsi con Mela, la
madre lo accolse, lo fece accomodare e andò a
chiamare Mela nell’orto: “Mela Mela! Veni ca’
vinni u’ zitu chi ti voli!” Carmela Carmela! Vieni
perché è il tuo fidanzato che ti desidera sposare!.
Lei prontamente rispose alla madre dall’orto: “Mi
ndi futtu ru’ zitu! M’haiu a’ zappari a’ cipudduzza
jeu!” Me ne frego del fidanzato! Devo badare a
zappare la cipolla!. Pensate quali ragionamenti
faceva Mela a quei tempi, così semplice e umile,
così indaffarata con il lavoro del suo orto. La madre
insistette nel convocarla innanzi al suo futuro
fidanzato e, alla fine, Mela decise di accontentarla.
46
Una volta entrata, la mamma passa subito alle
presentazioni ma lei non mostra alcun interesse per
il fidanzato. Per questo motivo, la madre decise di
andare a preparare il caffè, allo scopo di lasciarli da
soli e far sì che si conoscessero. Quando il caffè fu
pronto, la madre tornò dai due portando su un
vassoio la caffettiera, le tazzine, lo zucchero e dei
biscotti. Una volta appoggiati sul tavolo, si voltò
verso la figlia e le disse: “Mela Mela! Non lo culi lu
café?” Carmela Carmela! Non lo versi il caffè?”.
Mela, che era un tipo che non amava lavarsi, che si
trascurava e che badava soltanto al suo lavoro, e che
tuttavia si era decisa di conoscere il suo futuro
fidanzato, dunque che aveva deciso di sposarsi,
rispose alla madre: “Ma’, prima mi lavu la facci e
dopu lu culu!” (Mamma, prima mi lavo il viso e poi
lo servo il caffè!). di prim’acchito, la sua risposta
dialettale potrebbe essere fraintesa, ma di fatto Mela
si riferiva al caffè.
Insomma, quel giorno i due si conobbero e decisero
di fidanzarsi. In quel periodo, però, fidanzarsi
significava pensare subito al matrimonio e discutere
della dote, senza la quale una donna non poteva
sposarsi. Dal momento che Mela ne era sprovvista,
la mamma e il fidanzato decisero di recarsi a
Messina, un centro commerciale importante dove
era possibile trovare tutto l’occorrente per un
matrimonio, mentre Mela, come al solito, sarebbe
rimasta a lavorare.
47
Il giorno dopo, come d’accordo, la madre e il
fidanzato partirono alla volta di Messina. All’epoca,
si scendeva da questi paesini fino a Bagnara con il
“traìno” (un carro tirato dai buoi) e, giunti a
Bagnara, si prendeva il treno. Raramente passava
qualche pullman ma la gente preferiva il “traìno”,
anche perché le strade non erano ben asfaltate come
oggi. Quando la madre e il fidanzato di Mela
arrivarono a Messina (immaginate, dalle 4:00 del
mattino giunsero alle 11:00!) comprarono tutto quel
che serviva per la dote di Mela e si instradarono per
tornare a casa. Sulla via del ritorno, però,
incontrarono un chiosco che vendeva i primi gelati.
Affascinati da questa palla fredda, domandarono al
gelataio di che cosa si trattava e ne chiesero uno.
Mentre il gelataio lo incartava, il fidanzato spiegò
alla suocera: “Sta Gelatina nc’a portamu a Mela”
(questo gelato lo portiamo a Carmela). La suocera
accondiscese. Quando il gelataio finì di incartarlo, il
fidanzato lo pagò e, preso il gelato, se lo conservò
nella tasca del suo cappotto grigio-verde stile
militare. Dopodiché, felice del pensiero per Mela,
riprese la via del ritorno assieme alla suocera e alla
dote appena acquistata, il che significava affrontare
altre sette ore di viaggio, a ritroso. Insomma,
sarebbero giunti a casa soltanto in tarda serata.
Quando finalmente arrivarono a casa, il fidanzato
disse a Mela tutto sorridente: “Oh Mela Mela! Ti
portai ‘nu regalu speciali!” Oh Carmela Carmela!
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Ti ho portato un regalo meraviglioso!. “Ah sì! E chi
mi portasti?” Ah sì! E che cosa mi hai portato?
rispose Mela. “Ti portai a’ gelatina! ‘Na cosa bella,
frisca, nova!” Ti ho portato il gelato! Una cosa
bella, fresca, nuova!. “E non mi la ru?” (E non me
la dai?). Nel momento in cui si mise le mani in
tasca per prendere il dono, il fidanzato non trovò
nulla, anzi sentendola bagnata esclamò: “Latricei
messinisi! Non sulu ca’ mi futtìru la gelatina, ma mi
pisciaru puru nda sacchetta!” Messinesi ladruncoli!
Non soltanto mi hanno fregato il gelato, ma mi
hanno anche urinato nella tasca!. Insomma, quel
giorno Mela non poté nemmeno assaggiare il
gelato. Ma era una donna buona, semplice, senza
malignità e perdonò il fidanzato per l’accaduto.
Un giorno, il 7 agosto 1943, quando ormai Mela era
sposata, accadde una disgrazia. Come già
accennato, Mela si occupava soltanto del suo lavoro
e non s’interessava di quello che avveniva attorno a
lei. Com’era sua consuetudine, dopo il lavoro
mattutino nell’orto, Mela scendeva verso Bagnara
per vendere i suoi ortaggi ma quel giorno c’erano i
bombardamenti, c’era la guerra. Ebbene, quando
giunse nella località “Laddora”, sotto Pellegrina,
una bomba la colpì in pieno, dilaniando lei e il suo
mulo.
E così giungiamo alla fine della nostra storia. Una
vicenda simpatica che, tuttavia, ci spezza il cuore.
“Mela Ru fasolu” era una donna umile. Passava la
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vita a lavorare, a guadagnarsi da vivere in modo
dignitoso e con il sudore della fronte. Era una donna
che ignorava il male e che mai aveva fatto del male
a qualcuno, eppure morì in questo modo, fece una
fine che non meritava. Oggi, credo che lei si trovi
nell’orto del paradiso, a curare l’orto di Dio e a
deliziare le anime con i suoi ortaggi. Per mezzo di
Mela, abbiamo gettato uno sguardo in un tempo
abitato da gente molto semplice, votata al lavoro e
alla famiglia. Malgrado questo non sia più il loro
tempo, credo sia importante ricordare o conoscere
le persone che hanno vissuto nella stessa terra dove
noi viviamo. Perché avremmo un’occasione per
capire quanto e come siamo cambiati, e per
interrogare il presente con i ricordi sbiaditi, ma
ancora vivi, del nostro passato.
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Indice analitico:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Dato Carmine 1882 – 1967;
Cenni e ricordi su siti di Bagnara;
La storia di donna Gaezza;
La “dolce” Abbazia di Bagnara;
La gloriosa storia dell’Abbazia bagnarese;
Vincenzo Morello”Rastignac” all’epoca
considerato prima penna d’Italia;
7. La severa matriarca;
8. Siti di Bagnara Calabra;
9. Personaggi emblematici di Bagnara;
10.La “Principessa” e il suo enigma;
11.Il braciere;
12.Itinerario turistico;
13.Mel “Ru Fasolu”.
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A futura memoria senza
presunzione di avere scritto
un libretto di valore storico.
Certo, comunque, di avere
reso un atto d’amore verso
il mio amato paese e
sicuro che solo serbando
memoria del nostro
glorioso passato si può
costruire un futuro degno
di essere vissuto.
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