Dato Carmine 1882 - 1967 Mimmo Caruso 1 Prefazione a cura di Pino Barbara Mimmo Caruso, amico di sempre, mi ha chiesto di scrivere la prefazione alla sua raccolta di scritti, frutto di un attento studio di testi in suo possesso e d’informazioni tramandate da quella che è definita la cultura popolare di tradizione orale. Quest’ultima caratterizzata da due fatti essenziali: 1. l’assenza di documenti scritti; 2. spontaneismo, assenza di accademie che stabiliscono canoni o codici nelle modalità creative; afferma che è sul campo che si creano le realtà, sono gli attori della vita, che arricchiscono questa cultura. In genere è l’autore stesso che scrive l’introduzione in quanto meglio a conoscenza di ogni altro dei fatti contenuti nel libro e quindi meglio può spiegare le sue parti salienti. In questo caso, suppongo per amicizia, sicuramente per grande modestia ha voluto che fossi io a introdurre questo libro. E’ la prima volta che mi cimento in questo campo quindi chiedo scusa anticipatamente se per troppa stima per l’autore o per mia ignoranza non sarò 2 all’altezza del compito, che mi è stato commissionato. -------------------------------------------------------------Antonio Domenico Caruso conosciuto come Mimmo Caruso nasce a Bagnara Cal. il 28.08.1952 In giovane età ha dovuto lasciare gli studi per “andare a mestiere” e così contribuire (lavorando duramente) all’economia familiare. Quella che allora è stata una scelta quasi doverosa (a una certa età si preferirebbe divertirsi liberi e spensierati) per M.C. si è rivelata poi una decisione ben fatta in quanto lui stesso è diventato “maestro pasticciere”, cultore di una tradizione pasticciera che, come lui scrive in “la dolce Abbazia”, affonda le radici nei monaci, che vissero nell’Abbazia Nullius di Santa Maria e i XII Apostoli. Fu suo maestro, fin quando ancora giovane non decise di mettersi in proprio, Giannino Morello, che portò avanti la scuola rinomata dei Frosina. In uno dei suoi elaborati M.C. traccia per grandi linee la storia delle famiglie, che resero famoso e rinomato il prodotto pasticciere bagnarese. M.C. ama Bagnara e soffre quando, lui custode di tanta ricchezza acquisita dal suo paese nel corso dei 3 secoli, vede la sua antica “Balnearia” spesso non adeguatamente valorizzata. Nei suoi scritti, a mio avviso, c’è la volontà di fare conoscere gli antichi splendori di Bagnara che ipotesi storiche vogliano di origine Fenicia o Romana ma, come egli racconta nella: “la gloriosa storia dell’Abbazia bagnarese”, è sicuramente di origine Normanna. Alcuni suoi racconti come “il braciere” “la severa matriarca” ecc. cercano invece di descriverci una cultura popolare, che ha una sua dimensione umana e che alla fine trasmette valori sociali, che andrebbero meglio scoperti e approfonditi. Se il nostro tempo, come dicono molti filosofi, è troppo veloce e finisce per annientare ogni riflessione sulle cose fondanti la vita di ognuno di noi attraverso la lettura del libretto di M.C. si può provare a rallentare questa corsa sfrenata verso un secolarismo che, come ha detto il Santo Padre, tende a minimizzare il sacro per esaltare il profano. Finisco questa breve introduzione affermando, avendo una continua frequentazione con l’autore di questo libretto, che non è intenzione di M.C. di ergersi a uomo di Cultura. 4 Anche se la cultura si può intendere, secondo una delle definizioni che si trovano in Wikipedia, come quel bagaglio di conoscenze e di pratiche acquisite ritenute fondamentali e che sono trasmesse di generazione in generazione. Pertanto, non necessariamente la cultura si acquisisce attraverso percorsi prettamente scolastici. ------------------------------------------------ Dato Carmine 1882 – 1967 Il mio bisnonno Carmine Dato, padre di mia nonna materna, nato nel 1882 fu sposato con Spampinato Natala Francesca classe 1878. Solamente a nominarlo provo commozione. Sono cresciuto nella sua casa, essendo mio padre emigrato in America, e sentendo la mancanza della figura paterna mi affezionai molto a lui. Nonostante le tenerezze e l’affetto di mia madre e di tutti gli altri parenti, il mio bisnonno mi trasmetteva una sicurezza fuori dal comune. Persona intelligente sapeva leggere e scrivere benissimo, cosa molto rara per quei tempi, aveva viaggiato moltissimo facendo tante esperienze in giro per il mondo. Quando l’ho conosciuto era già anziano e lentamente stava diventando cieco a causa delle 5 cataratte che all’epoca non erano curabili. Nonostante questo mi ha dato tanta di quella ricchezza umana, di cui ancor oggi faccio tesoro, per la quale gli serbo immensa riconoscenza. Seduti al braciere lo ascoltavo per ore, dal suo scrigno venivano fuori storie e racconti carichi di emozioni, che considero le vere ricchezze della vita. Attorno al calore del fuoco si sprigionava un calore umano oggi impossibile da trovare. Le sue narrazioni mescolate con gli accadimenti del quotidiano raccontate da mia nonna sono diventate le convinzioni, su cui poi ho basato la mia vita. Le loro esperienze, i sacrifici, le guerre, le emigrazioni, le grandi difficoltà e gli sforzi per superarle mi hanno dato sempre la forza di andare avanti seguendo il loro esempio. Dialogando al tepore della brace i parenti più grandi capivano come eravamo fatti noi bambini, il nostro temperamento, e di conseguenza ci davano consigli utili per affrontare la vita. Le serate lunghe ma affascinanti, finivano spesso con le caldarroste messe lì a cucinare e che accompagnavano con il loro sapore la vita dei miei avi e il loro smisurato sentimento umano, che mai nessuna ricchezza materiale potrà ripagare. Oggi davanti alla televisione, a un cellulare o a un PC, si è soli, lontani dal contatto umano e dalla vita reale. Mi raccontò che un giorno si prese la libertà di non andare a scuola e suo padre che si chiamava Santo 6 ed era un “capo mastro mannisi” dei De Leo, lo legò quasi per tutta la notte fuori in balcone. Dal quel momento fu sempre presente e attento a tutte le lezioni. Il mio bisnonno emigrò in Argentina all’alba del 1900 e fece ritorno nel 1907 con due bambini maschi che morirono di infezioni a causa delle fognature a cielo aperto, che allora erano presenti nella cittadina, e della mancanza di anticorpi in questi due ragazzi, abituati a una realtà completamente diversa e più agiata. Durante il terremoto del 1908 sua moglie, che era a fine gravidanza, restò sotto le macerie per tre giorni e lui riuscì a tenerla in vita dandogli da bere tramite un buco. Protetta da una trave riuscì a sopravvivere e lui stesso riuscì a tirarla fuori, scavando a mani nude, grazie alla sua prestanza fisica e alla sua forza. Dopo qualche giorno nacque Dato Giovanna 20/02/1909 27/01/1994 quella che poi sarebbe stata mia nonna. Partecipò alla prima guerra mondiale nel corpo degli alpini, al suo ritorno ripartì come pioniere in Australia per ritornare a Bagnara e fare il suo vero 7 mestiere, quello di “mannisi”, come suo padre. Era sempre tra i boschi per settimane, dove si costruiva assieme ad altri un pagliericcio di fortuna dove dormire, cosciente di essere facile preda di attacchi briganteschi. Durante i periodi impervi, spesso i briganti stessi di notte bussavano al loro pagliericcio per chiedere ospitalità. Loro non si preoccupavano mai delle intenzioni di questi personaggi. Pertanto chiedevano solo se erano anime Cristiane di farsi il segno della croce. Dopo aprivano la porta e li accoglievano. Quei boscaioli non avevano paura dei fucili dei briganti ma si preoccupavano, invece, di accogliere e ospitare anime cristiane. Coscienti, che un’anima cristiana non avrebbe. mai fatto loro del male. Quando il mio bisnonno rimase cieco diventai la sua guida. Spesso lo accompagnavo alla villa comunale e seduto con a lui ascoltavo i discorsi che faceva assieme ai suoi coetanei, restavo affascinato, mi sentivo partecipe delle loro avventure, dei loro racconti. Storie e valori che non sono scritte in nessun libro e che fanno parte di quella tanto amata e sana cultura popolare della nostra cittadina. Ero legato al suo sapere, alla sua saggezza, alla sua esperienza di vita, ai suoi principi. La cosa che oggi apprezzo molto di lui era il suo adattamento al nuovo. Praticamente era uno moderno, un 8 contemporaneo, uno che viveva il presente con una mentalità molto aperta. Amava fumare la pipa di creta, che si consumava subito dopo poche volte che era usata. Andavo a Porelli dove c’era l’unico negozio che le vendeva, per comprargliele. Non voleva fumare altri tipi di pipe, forse ricordi di gioventù; ne compravo dieci alla volta perché la strada per arrivare in quella bottega in località Calvario era lunga a farla a piedi. Non so che grado si cultura avesse. So che durante la malattia di sua moglie, costretta a letto, che durò tre anni, egli rimase quasi sempre seduto con lei a leggere libri di diversi generi. Inoltre so che corrispondeva spesso con un suo figlio rimasto in Argentina. Quando alle due di una notte del 1963 sua moglie morì, per non disturbare nessuno, la vestì e la preparò, come si usava fare all’epoca, da solo. Poi, tranquillamente, tornò a dormire accanto a lei. Solo alle sette e mezzo del mattino venne a casa nostra a darci la cattiva notizia. Lo fece per non disturbare durante la notte. Il primo agosto del 1965, a casa di sua nipote in via G. Denaro, nel palazzo dei Morello, mentre era lì seduto gli crollò addosso il cornicione della casa colpendolo in pieno sulla testa e su una mano. Quella mattina fu accompagnato di corsa all’ospedale di Scilla, dove ricevette quarantasette punti di sutura in testa e sedici su una mano senza 9 mai perdere i sensi e senza lamentarsi, il pomeriggio fece ritorno a casa. Un’esperienza dove si mette in risalto uno dei valori dell’epoca, in altre parole il rispetto, la ricordo come fosse ieri e la voglio raccontare per intero. Quando lo accompagnavo alla villa comunale, passando davanti alla casa di suo compare, mi chiedeva di dirgli quando ci avvicinavano alla sua porta, e una volta lì vicino, togliendosi il cappello salutava: “ Bonasira cumpari”, (Buonasera compare) anche se la porta era chiusa e sull’uscio non c’era nessuno. Naturalmente io gli dicevo che non c’era nessuno e che non serviva salutare, mentre lui continuando rispondeva: “ Quandu a porta e chiusa, si saluta a porta, è u rispettu chi aju pè me cumpari.” (Quando la porta è chiusa si saluta la porta, è così che dimostro il rispetto che ho per mio compare). Il mio bisnonno è morto nel 1967 ed io l’ho assistito fino all’ultimo respiro seduto al suo capezzale. A quel tempo gli feci una promessa “ Caro nonno il mio primo figlio maschio porterà il tuo nome”. A distanza di quaranta anni ho dato a mio figlio il suo nome, Carmine. Il nome del mio gigante buono. --------------------------------------------- 10 11 -------------------------------------La storia di donna Gaezza. Vorrei ricordare una “nobil donna”, vissuta nella nostra città nell’Ottocento, alla quale è stata poi dedicata Via Gaezza. Giovanna Gaezza è nata a Bagnara il 18 aprile del 1893 mentre la data di morte è incerta. Si pensa, possa risalire, presumibilmente, al periodo compreso fra le due guerre. Questa donna è ricordata da tutti, soprattutto, per il suo buon cuore e per la nobiltà d’animo, che l’ha contraddistinta rendendola grande. Giovanna Gaezza ha sempre raccolto a casa propria tutte le persone bisognose ed era molto amata, soprattutto, dalle giovani che ospitava in casa e, alle quali insegnava l’arte del ricamo. Amava circondarsi di giovani bisognose e la sua casa era sempre “affollata”. Chi la ricorda parla di Lei come una donna di “pace”. Meritano di essere ricordate, anche, la generosità delle sue donazioni, tra cui le abitazioni adiacenti all’antico oratorio della Chiesa del Rosario utilizzate per l’ampliamento della piazza del Rosario. Le notizie di questo personaggio sono state 12 raccolte soltanto oralmente attraverso i racconti di chi l’ha conosciuta; pare che di scritto avesse lasciato solo un testamento, in cui manifestava la volontà di donare tutti i propri beni ai poveri di Bagnara. Purtroppo il testo non è stato mai ritrovato. --------------------------------------------I monaci di Bagnara erano esperti conoscitori dell’arte dolciaria, genitori di numerosi dolci locali. --------------------------------------------- La “dolce” Abbazia di Bagnara L’arte dolciaria a Bagnara è strettamente collegata ai monaci dell’Abbazia, veri esperti in materia, inventori d’innovative specialità come i “jirita Apostuli” e “Suspiri i monaca”. I monaci erano esperti anche nella lavorazione artigianale del torrone, che producevano anche in una tipologia 13 piuttosto scura, colore manto di Monaco, chiamato “martiniana” che ancora oggi si può gustare a Bagnara. La prima fabbrica di torrone, risalente alla metà dell’Ottocento, si deve a Francesco Antonio Cardone, che riprese la vecchia ricetta dei monaci apportando alcune modifiche. Da adesso in poi nasce la dedizione dei bagnaresi nei confronti di questo rinomato dolce natalizio. Nei primi anni del ‘900 i fratelli Pasquale e Luigi Frosina, aprirono una fabbrica; nel 1967 è la volta di Careri a porelli; negli anni ’20 Orazio Borgia, originario di San Procopio, dopo avere sposato donna Saruzza di Bagnara, inizia la lavorazione di questo prelibato dolce e, negli anni ’70, il noto pasticciere Antonio Minutolo ne rileva la ditta rilanciando il vecchio marchio. I fratelli De Forte aprono la loro fabbrica intorno agli anni ’70 e, il maestro pasticciere Giannino Morello, affiancato dal discepolo Mimmo Caruso, porta avanti la rinomata scuola dolciaria dei 14 Frosina diventando famosi in tutto il mondo. Caruso decide di mettersi in gioco per realizzare il suo sogno nel cassetto: una fabbrica tutta sua. Gli ingredienti principali usati per la lavorazione del torrone sono rigidamente locali, genuini e senza nessun prodotto chimico. Un altro dolce tipicamente bagnarese è la “collura, che nel periodo Pasquale era regalato dal fidanzato alla futura moglie: si degustava a mezzogiorno della domenica di Pasqua, quando suonava il cosiddetto “Gloria”, che annunciava la resurrezione del Signore. Questi dolci sono importantissimi e vanno riscoperti e valorizzati poiché testimoniano il 15 glorioso passato e l’invidiata tradizione dolciaria di Bagnara. ---------------------------------------La gloriosa storia dell’Abbazia bagnarese Il Gran conte Ruggero I d’Altavilla noto per l’imponente statura, vassallo del fratello Roberto Guiscardo, devoto alla fede mariana, morì il 22 giugno 1101 a Mileto. Secondo l’Abate Rocco Pirri (storico della chiesa siciliana di fine 500), egli fondò nel territorio, dove sarebbe poi sorta l’Abbazia di Santa Maria e i XII apostoli, a Bagnara, il monastero di santa Maria della Gloria. La funzione di questo luogo sacro era quello di accogliere i pellegrini diretti in terra Santa: alla sua entrata, infatti, era inciso il motto “In peregrinorum Domum Hospitium”. Il monastero è stato poi gestito da diversi ordini religiosi fra cui i cistercensi, i benedettini, gli agostiniani e, fra il 1582 e il 1789, dai padri domenicani. Accanto al monastero fu edificata una Chiesa in stile bizantino dedicata a Maria Santissima delle Grazie, ove nel 1683 il duca di Bagnara, Don Carlo Ruffo, fondò la nobile confraternita del Santissimo Carmelo: a quell’epoca era venerata un’icona lignea di fattura bizantina, che si trova tuttora nell’altare maggiore, 16 mentre nel 1956, da Napoli, fu trasportato il simulacro della Madonna del Carmelo oggigiorno esposto alla venerazione dei fedeli. Il monastero per la sua importanza ha avuto protettori del calibro di Federico II, il quale nel 1219, emanò un decreto, che così recita: chi reca offesa al monastero pagherà un’ammenda di cinquanta libri d’oro, dei quali metà andrà alla Regia Corte e l’altra metà al monastero. Un altro protettore fu il Pontefice Paolo II: nel 1472 egli rinnovò la sua protezione, così come scrive l’abate Pirri. San Merlando nominato vescovo di Agrigento dal conte Ruggero I nel 1088 (la bolla di conferma pontificia risale al 1098), fu consacrata a Roma dallo stesso Papa Urbano II. Nel suo viaggio di ritorno, passando da Bagnara Calabra, rimase per un breve periodo al monastero e predisse al priore Drogone che sarebbe stato suo successore. San Gerlando morì il 25 febbraio 1100 e divenne patrono di Agrigento, che all’epoca si chiamava Girgenti. -------------------------------------- 17 Vincenzo Morello”Rastignac” all’epoca considerato prima penna d’Italia. Non si può scrivere di Vincenzo Morello senza fare prima un breve tracciato sulla sua vicenda familiare. Nato l’11 luglio 1860 a Bagnara Calabra, terzultimo della famiglia composta da quattro figli, Vincenzo Morello a soli sette anni rimane senza madre, morta giovane all’età di ventotto anni. La crescita dei figli è così affidata al padre, che all’epoca del decesso della moglie aveva trentasette anni e che si è ritrovato così, da solo, a badare all’intera famiglia. Il rapporto di Vincenzo Morello con Bagnara non è mai stato ottimale. Peggiorò di ancora quando si sentì tradito dalla cittadinanza, che scelse di votare in maggioranza per il suo avversario, il Commendatore De Leo. In quelle, che rimangono nella storia e nella memoria cittadina, come elezioni politiche ridicole e illegali, per via delle numerose vicissitudini verificatosi. Per tale motivi, tanto più la sua fama cresceva, tanto più si allontanava dai rapporti con la gente di Bagnara. Da 18 evidenziare che la sua candidatura fu richiesta da un gruppo di persone facoltose di Bagnara, che si recarono a Roma per invitarlo ad accettare la stessa promettendogli l’appoggio di tutta la popolazione. Dal canto suo, il Commendatore De Leo, candidato in contrapposizione allo stesso Morello, pare che abbia fatto distribuire, qualche giorno prima dell’elezioni, generi alimentari in abbondanza alla popolazione “comprandosi” così la simpatia dei bagnaresi, che lo votarono venendo meno alle aspettative dello stesso Morello. Tal episodio rappresentò per Morello una sorta di tradimento. Da ciò ebbe origine un odio profondo verso la cittadinanza al punto tale che non volle sapere più niente dell’intero paese. Pare addirittura che, quando tornava a Bagnara nella sua casa natale, non si mostrasse in pubblico e quando qualcuno per sua volontà si recava a trovarlo, si limitava ad accoglierlo davanti al portone socchiuso, facendolo rimanere fuori. In seguito fu nominato Senatore dal Re Vittorio Emanuele III. Comunque, tra la città di Bagnara e il Morello s’instaurò un odio profondo che è durato fino alla sua morte. Ne è prova il fatto che nonostante le autorità fasciste avessero ordinato i funerali di stato, la gente fu restia a seguire il 19 feretro. In quella circostanza, è ricordato un altro episodio significativo: durante la notte furono addirittura recisi gli alberi di cipresso che erano stati piantati prima all’interno del cimitero, ai lati del mausoleo. L’avversità reciproca fra Morello e i bagnaresi trova conferma nella decisione, da parte dell’illustre giornalista, di donare interamente il cospicuo patrimonio libraio, di cui disponeva, alla biblioteca “De Nava” di Reggio Calabria, ignorando completamente quella della sua città natale. In quell’occasione, molti beni, tra cui anche i suoi manoscritti, (soprattutto quelli di un certo valore), i quadri e le sue sculture furono “furbescamente” acquistati da notabili Reggini. Alcuni cittadini ricordano un aneddoto concernente la sorella Giacoma, che continuò a vivere presso l’abitazione paterna, sita in via Giacomo Denaro. La stessa, quando pensava di essere alla fine della sua vita, avrebbe chiesto alla sua dama di compagnia tale M.C., di chiamare il notaio perché voleva fare testamento, poiché era sua intenzione lasciare tutto all’ordine di San Francesco di Assisi. Non essendo soddisfatta l‘amica pare che l’abbia dissuasa a non fare alcun testamento in quanto, a parere suo, la sua ora non era ancora giunta (ma la 20 vera ragione era che la Sig.ra non voleva che i beni dei Morello andassero a finire fuori Bagnara). Dopo poco tempo la Sig.ra Giacoma morì senza lasciare testamento. Era il 1954 e, in virtù di questo episodio, il Comune di Bagnara divenne proprietario di casa Morello, che ora è sede del Liceo Scientifico “E. Fermi”. Nota: Le informazioni sopra riportate sono di mia conoscenza grazie alla governante della famiglia Morello una certa “Donna Grazia”, della quale nonostante non ne ricordi il cognome, posso certamente dire che era originaria di Sant’Eufemia D’Aspromonte. Inoltre, dato il rapporto di vicinato che donna Grazia aveva con la mia famiglia, ebbi la fortuna di essere testimone di molte vicende e racconti della stessa e, quindi indirettamente della famiglia Morello, a proposito del primo quinquennio degli anni 1960-65. ----------------------------------------------- 21 La severa matriarca Carissimi amici, oggi parleremo della severa matriarca. A Bagnara c’è sempre stato un matriarcato, non per una debolezza dell’uomo ma per fiducia verso la compagna, alla quale ha lasciato il compito di occuparsi: delle relazioni, delle decisioni importanti, di comprare la dote per la figlia, di combinare i matrimoni e via discorrendo. Il marito, che era informato dopo trovava anche comoda questa situazione. La matriarca, di cui oggi vi racconto la storia, svoltasi nella prima metà del 900, si chiama donna Carmela ed è nata nel 1865 ed è morta nel 1949. Era una grande commerciante e, di conseguenza, era benestante. Per l’epoca, aveva quattro negozi nei quattro angoli di piazza Matteotti, dove vendeva di tutto: dal cemento, al ferro, al rame, al piombo, alle ceramiche. Oltre a essere cattiva, questa matriarca era anche superba. Giudicava le persone, che incontrava o che le passavano vicino, se gliel’avevano pulite oppure no, dalle scarpe. Immaginate se in quel periodo la gente, che non aveva da mangiare, poteva preoccuparsi delle 22 scarpe. Donna Carmela aveva cinque figli, tre femmine e due maschi. E qui comincia il racconto. Siamo nel 1925-26. Uno dei figli maschi, il più piccolo, che era un bravo maestro muratore, si era innamorato di una ragazza appartenente a una posizione sociale molto modesta rispetto a lui. La ragazza, infatti, lavorava nell’edilizia. All’epoca, oltre a caricare e scaricare i mezzi, le donne aiutavano i muratori, portando loro il materiale edilizio, calcinacci e quant’altro. Quando il figlio comunicò alla madre di essere innamorato di questa ragazza, donna Carmela, superba come era, non diede il suo assenso al matrimoni. Il figlio, innamorato, scappò con l’amata, cioè fece la cosiddetta fuitina, come si chiamava all’epoca quando i genitori non erano d’accordo sul fidanzamento. I due innamorati si rifugiarono in un rudere situato nella località chiamata volgarmente “Palumbari”, dove vi erano le baracche risalenti al terremoto del 1908, alcune delle quali ancora abitate, e fecero passare alcuni giorni, in modo che le cose si acquietassero. Quando il figlio tornò dalla madre, la matriarca lo accolse tutt’altro che rabbonita. Prima lo afferrò e gli strappò i vestiti di dosso, lasciandolo in mutande, poi lo buttò fuori, in mezzo alla strada. Una vicina, impietositasi per quel che vide, prese una giacca del marito e gliela mise addosso per coprirlo. Subito dopo uscì donna Carmela e, rivolgendosi verso la chiesa, si tolse il 23 seno di fuori maledicendo il latte che aveva dato al figlio, perché questi aveva disobbedito al suo volere, scappando con la sua innamorata di rango sociale inferiore. Umiliato in quel modo, il giovane – di seguito il “figlio rinnegato”, per esigenze narrative – ritornò alla baracca fatiscente e si diede da fare assieme all’innamorata, per aggiustarla e vivere, specie nel momento in cui l’innamorata restò incinta. Quando nacque la figlia, cui assegnarono il nome della nonna, dovettero fare grossi sacrifici. Lui lavorava come muratore, lei andava a fare gli scambi con altre coetanee ma donna Carmela non si degnò mai di aiutarli. Addirittura, quando seppe da un’amica che le era nata una nipotina e che si chiamava come lei, la matriarca rispose all’amica di andare a strozzarla. Naturalmente, l’amica le ribatté che poteva andare lei a fare una cosa così disumana e indicibile. Sul finire degli anni ‘20, la compagna del “rinnegato” restò nuovamente incinta e l’anno successivo partorì un figlio maschio. Nello stesso anno, dal momento che la donna aveva raggiunto la maggiore età, ventuno anni per l’epoca, i due decisero di disciplinare il loro rapporto con un modestissimo matrimonio. Essendo in quattro, non potevano restare nella baraccopoli così, facendo nuovi sacrifici, si trasferirono in un magazzino in affitto e condiviso temporaneamente con un’altra 24 famiglia, che in seguito si trasferì altrove. Ma il gioco valeva la candela, perché almeno avevano un tetto sulla testa. I figli crebbero e ne ebbero degli altri, nientemeno tredici. Ma i due riuscirono a sfamarli tutti e, anche, a mettere da parte qualche lira. Quando il lavoro edilizio scarseggiava, il marito si dava da fare anche con la pesca, uscendo di notte con la Palamitara. Ma un giorno evitò di andarci perché gli accade un episodio strano – lascio al lettore il giudizio su di esso. La notte prima di andare a pesca, nella dormiveglia, il figlio rinnegato sognò il nonno defunto che, accarezzandolo nel viso, gli raccomandò di non andare a pesca l’indomani. Quel pomeriggio, infatti, accadde una catastrofe. Quell’imbarcazione con il suo equipaggio, assieme a tante altre, ebbe la sventura di affondare per via delle enormi mareggiate che dominavano il mare e perirono tutti: era il 24 maggio 1927. Se il marito si dava da fare con la pesca, la moglie commerciava e barattava di tutto, per esempio il sale a Messina con il saio. Una volta, addirittura, rientrando da un baratto, giunta all’altezza dell’altare “alle anime del Purgatorio”, la donna dovette gettare a terra il cesto che pesava 80/90 chili e che teneva sulla testa, perché le stava nascendo il bambino. Poi arrivata a casa partorì e dopo due giorni si mise di nuovo a commerciare. Donna Carmela però non abbassò mai la cresta. Pensate che non ricevesse nemmeno i nipotini del 25 figlio rinnegato. Li lasciava sull’uscio, in strada, mentre i nipotini delle figlie li lasciava entrare e li adorava. Nei confronti del figlio minore, che lavorava, affrontava immense difficoltà con una famiglia numerosa, la matriarca restò sempre indifferente giacché le aveva disubbidito, mentre nei confronti del figlio maggiore, che era un guappo e un nullafacente, assunse un altro atteggiamento. Il figlio maggiore di donna Carmela, che si era trasferito in Argentina nei primi anni del 900, aveva combinato un grosso guaio e aveva un mandato di cattura. Ebbene, per salvarlo, la matriarca spese un patrimonio. Andò a Napoli e si accordò con uno dei capitani delle navi da carico che trasportavano i migranti in Argentina, per riportare il figlio maggiore in Italia. Al momento dell’accordo, che cosa fece? Tagliò in due i soldi: gliene diede metà in anticipo e promise che l’altra metà gliel’avrebbe data quando avrebbe visto il figlio maggiore sbarcare a Napoli. E così fece: dopo sei mesi, quando vide il figlio maggiore sbarcare dalla nave, diede al capitano la parte restante. Che cosa accadde in seguito? Donna Carmela, ormai anziana, si ammalò e restò paralizzata. Le figlie la accudirono per qualche ora al giorno, a turno, ma una volta impossessatesi dei beni della madre, la abbandonarono. Nel momento in cui il figlio rinnegato e la nuora seppero che la matriarca aveva bisogno di aiuto, andarono a trovarla. Una 26 volta giunti, Donna Carmela non aveva la forza per mandarli via ma tenne fermo il suo orgoglio e la sua rigidità, guardando verso l’alto per non incontrare i loro volti. La nuora si accorse che dalla matriarca proveniva cattivo odore, così, spontaneamente, si mise a pulirla, a lavarla, a cambiarla ma lei restò sempre rigida, severa, ammutolita. La nuora continuò ad accudirla, anche nei giorni successivi, senza alcun rancore, per senso del dovere o spirito di umanità. E allora avvenne un miracolo: il male s’inchina innanzi al bene. Un giorno, sentendosi umiliata, mentre la nuora la curava, donna Carmela girò il viso verso di lei, le prese la mano e la baciò, dicendole: “Benedette le tue mani, i tuoi piedi e la terra dove appoggiano, per quello che tu mi stai facendo e per quello che io ti ho fatto”. La matriarca morì alcuni anni dopo. Il figlio minore negli anni ‘50 e la nuora nel 1994. Sicuramente prima di morire, oltre alla presenza dei figli, dei nipoti e dei pronipoti, c’erano anche gli angeli, che la aspettavano per accompagnarla nel suo trapasso, in grazia di Dio. Questa storia ci offre l’occasione di chiederci: chi è la vera bagnarota? Non è la matriarca rigida e superba, perché personaggi del genere sono sporadici a Bagnara, bensì la nuora, una donna di grande carattere che ha sempre dato con generosità e senza mai chiedere nulla in cambio. La nuora con la sua umiltà, infatti, ha fatto inginocchiare il male e, inconsapevolmente, ha 27 osservato molti passaggi del Vangelo, come “ama il prossimo tuo come te stesso”, “fai del bene a chi ti fa del male!”, “porgi l’altra guancia” e “dare senza ricevere”. Addio, vera bagnarota! ----------------------------------------------Siti di Bagnara Carissimi amici, oggi parleremo di alcuni siti di Bagnara alcuni, dei quali, Inter lapides Rufos poco noti. Fel de hispèaniae fenix Dom.eus comerabitur Per esempio Tra le pietre sepolcrali dei avete mai Ruffo o marezza del seicento, fenice di Spagna Domuenico si sentito Soffermerà. parlare di Lapide scoperta da Mimmo Caruso nel 1980 Pietra Galera? Quando i Ruffo di Calabria, da Sinopoli, sono scesi a Bagnara per ampliare i loro poderi, sapete che cosa dove oggi sorge il Castello Ducale vi era una fortezza militare, sotto la quale vi erano le carceri. I Ruffo trasformarono questa fortezza in un Castello Ducale per abitarvi. Certamente, sotto il letto non potevano tenersi i carcerati, così decisero di trasferirli altrove. Una parte fu mandata per i disboscamenti; un’altra parte per la costruzione di vari muri, strade e via discorrendo; i più pericolosi, invece, li mandarono con delle zattere in un tratto 28 della costa tra Bagnara e Palmi, che oggi chiamiamo Pietra Galera, dove vi era una cava di pietra. Qui estraevano la pietra, la tagliavano, la caricavano sulle zattere e la spedivano agli abitanti del paese che la utilizzavano per svariate costruzioni. Ecco perché questa zona costiera si chiama Pietra Galera. Sebbene il passare dei secoli, ancora oggi ci siano tracce di questo smantellamento della roccia che avveniva anni orsono. Sapete qual è il vero nome del Castello di Bagnara? Tra gli anni ’50 e ‘60, il signor Mazzetti fondò un albergo ristorante nel Castello di Bagnara, dandogli il nome di “Castello Emmarita”, in onore della figlia. All’ingresso del Castello fece collocare delle piastrelle, tuttora visibili, che riportavano, appunto, tale dicitura. La gente e soprattutto i giovani che crebbero in quell’epoca, leggendo la dicitura di quelle piastrelle, si fecero un’idea sbagliata sul vero nome del Castello e ancora oggi, che l’albergo ristorante non è più in funzione, è chiamato con un nome che non gli appartiene. Nel corso del tempo, numerose sono state le sollecitazioni al Comune e ai vari Assessori da parte mia e di altri, per rimuovere quelle piastrelle e mettere un’iscrizione recante l’effettivo nome del Castello, ma finora non si è fatto nulla. Credo sia giunta l’ora per rimuovere la vecchia iscrizione e collocarne una nuova, recante il vero nome di quello stabile: Castello Ducale Ruffo. 29 Mi appello a chi è di competenza affinché sia restituito una volta per tutte il vero nome al nostro bellissimo Castello. Passiamo ora alla Zona del Leone: perché si chiama così? Alcuni pescatori dicono che lì c’è una roccia che ha la forma di un leone, invece, non è così. Seguendo le orme di Sant’Elia, un monaco siciliano si spostò nella penisola e, giunto nelle nostre terre, decise di passare un lungo periodo di eremitaggio proprio in questa zona, dove vi era una chiesa piccola e semplice, che ancora oggi è possibile ammirare passando in barca lungo questo tratto di costa. Questo monaco vi restò a lungo, o almeno finché non divenne, il 17 agosto 682, papa, prendendo il nome di Papa Leone II. Il pontificato di papa Leone II durò solamente un anno: fu eletto il 17-8682 e morì il 3-7-683. Quando nel paese giunse la notizia : “È morto il papa Leone! È morto il papa Leone!” alcuni si chiedevano chi fosse costui, altri invece rispondevano: “Quello che ha vissuto qui come eremita!”. Da allora, il tratto di costa dove ancora sorge la chiesetta, fu denominato ‘A zona ru Leuni, proprio perché visse da eremita il futuro papa Leone II. La Torre Aragonese è volgarmente chiamata “Torre Ruggero” ma se noi facciamo riferimento a Ruggero I Altavilla , il nome è sbagliato. Infatti, quando la Torre fu costruita, Ruggero I era già morto da quattrocento anni. Quindi, la Torre prende il nome del promontorio 30 dove è stata edificata, vale a dire Torre di Capo Rocchi, o Torre Cavallara. Passiamo al Passo del monaco volgarmente chiamato “palumbari”. Il termine Palumbari è stato attribuito in seguito a questa zona, perché dopo il terremoto del 1908 la gente sfollata vi costruì delle vere e proprie baraccopoli. Guardandole da una certa distanza, queste baraccopoli sembravano proprio dei colombari, tutti in lamiera, bassi, uno sull’altro; per questo motivo, la zona prese il nome di Palumbari. “Dove abiti?” chiedevano alla gente. “Nde palumabari!”. Anticamente, però, quella zona prendeva il nome Passo del monaco, perché vi era una stradina, ancora oggi esistente, che serviva per accedere ai giardini sottostanti al monastero. Un po’ più su, infatti, esisteva un monastero dedicato alla Madonna della Gloria, fatto edificare da Ruggero I nella seconda metà del XI secolo. Quindi, quella stradina serviva ad accedere ai giardini sottostanti ma anche per scendere al mare, ma ai monaci, naturalmente, non importava del mare bensì di Dio, delle povere anime e di coltivare i prodotti che quella terra offriva, utili per il sostentamento terreno. A quella stradina, che faceva anche da chiusura per eventuali attacchi saraceni, occorre dare il nome giusto, quello che aveva anticamente: il Passo del monaco. Sulla via che conduceva a questo monastero dedicato alla Madonna della Gloria, c’era una stele 31 che recitava “in pellegrinorum hospitium”, che annunciava cioè che il monastero ospitava i pellegrini che proseguivano il proprio cammino verso la Terrasanta. Tra i numerosi pellegrini che si fermarono in questo monastero, vi fu anche San Gerlando, protettore e patrono di Agrigento, nominato da Urbano II. Quando San Gerlando alloggiò nel monastero, vi era Ermete, al quale San Gerlando disse: “Tu sarai il mio successore”. San Gerlando morì il 25 febbraio 1100 e così come aveva predetto, Ermete prese il suo posto. Accanto al monastero sorgeva la chiesa di stile bizantino dedicata alla Madonna delle Grazie, i cui resti – l’altare, le volte e quant’altro – sono ancora visibili, al di sotto della chiesa del SS. Carmelo. Nel 1683 il duca di Bagnara, don Carlo Ruffo, fondò la Nobile Congrega del SS. Carmelo e fece costruire una chiesa, quella del Carmelo, appunto, al di sopra della chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie. Qui si venerava un’icona lignea bizantina che tuttora è esposta sull’altare maggiore, proveniente dalla chiesa che vi era in precedenza. In un secondo tempo, nel 1856, proveniente via mare da Napoli, giunse il simulacro della Madonna del Carmelo, che adesso veneriamo, incoronata nel 1890. Il monastero fu conteso nel corso del tempo da molti ordini religiosi: i cistercensi, l’ordine di San Bernardo, gli agostiniani e dal 1582 i domenicani, che qui vi sostarono fino al 1759. La fine del 32 monastero avvenne con il terremoto del 1783. I domenicani fondarono la Congrega del SS. Rosario: non a caso i rosariani usano indossare una veste bianca e nera. La più antica congrega è quella del Rosario. Quando nacque la congrega del Carmelo, sorsero in quel periodo delle contese tra congreghe, per il prevalere dell’una sull’altra. I governanti dell’epoca furono così stanchi di queste contese che si rischiò addirittura la chiusura di entrambe. Le congreghe furono importanti per l’epoca. I confratelli infatti erano solidali tra loro nei momenti di bisogno, quando vi era scarso lavoro o qualcuno era in difficoltà economiche. Vi era, insomma, un senso di unione e di solidarietà che, purtroppo, oggi non ci appartiene. Stesso dicasi per la Società Operaia di Mutuo Soccorso. La collettività di quest’associazione si faceva carico dei bisogni del consocio. Per esempio, se questi doveva sposare una figlia, tutti lo aiutavano nei preparativi, sostenendolo anche economicamente. Oggi queste cose sono un lontano ricordo, anche se è mia speranza che si ritorni a quei valori. Con il passare del tempo, purtroppo, anche le congreghe si sono trasformate e hanno mutato il loro ruolo sociale. Ritengo comunque importante tutelarle per il loro valore storico e culturale. Esse devono mantenere le nostre tradizioni, comprese le nostre feste. Perché si festeggia la Pasqua e la ‘ffruntata in piazza Morello? Nel 1783, Bagnara, assieme ad 33 altri paesi vicini, fu colpita da un terribile terremoto che fece numerose vittime. Di fronte a questa catastrofe, per sopravvivere, i superstiti dovettero raccogliere i corpi delle vittime, riunirli nell’attuale piazza e bruciali per evitare lo spargimento di epidemie, che avrebbero cancellato totalmente la popolazione bagnarese. Potete immaginare quale momento di sofferenza vissero i nostri antenati in quel periodo, non soltanto per la catastrofe ma soprattutto per vedersi costretti a bruciare i corpi dei propri cari, essendo impossibilitati a dargli una degna sepoltura! Ma purtroppo, come spesso accade, per sopravvivere, occorre anche prendere decisioni del genere. In ogni caso, per ricordare le vittime del terremoto, fu deciso di edificare poco più sopra della piazza e della via Pietraliscia, una chiesetta, nominata appunto alle anime sante del Purgatorio. Una volta superato questo momento difficile e ricostruito il paese, le congreghe decisero di festeggiare la Pasqua in quella stessa piazza dove furono bruciati tutti quei corpi, per esorcizzare l’evento catastrofico passato e per augurare alle anime in attesa nel Purgatorio, di raggiungere il Regno di Cieli, al seguito del Cristo Risorto. Tra i festeggiamenti, infatti, fu introdotta anche una delle più celebri rappresentazioni religiose che tuttora continuiamo a svolgere: la ‘ffruntata, vale a dire l’incontro tra il Cristo Redentore e la madre Maria dopo la resurrezione. Questa tradizione, che ci 34 rende orgogliosi perché è conosciutissima in tutto il mondo, è cominciata proprio in quel periodo. Come nasce la via Pietraliscia? Fin dal ‘700, uno dei principali sostentamenti di Bagnara era il commercio del legname. Esistevano infatti numerose fabbriche per la lavorazione di questo prodotto che, prelevato direttamente nelle foreste dell’Aspromonte, era caricato su alcuni carri e trasportato a Bagnara, fino alla zona della “nchiusa” (subito dopo l’attuale campo sportivo), dove alcune golette potevano attraccare per via della maggiore profondità dei fondali, potevano caricare il legname ed esportarlo in tutto il Mediterraneo. Agli inizi del ‘900, è stato importato a Bagnara da San Giorgio Morgeto un nuovo mestiere: quello del cestaio. In che cosa consisteva? Nell’intrecciare il legname e fare dei contenitori di diverse dimensioni, a seconda delle richieste. Quindi non solo si esportava il legname in modo integro, ma anche questi contenitori. Il mestiere del cestaio durò fino alla seconda metà degli anni ’60. Poi l’avvento della plastica mandò in crisi queste fabbriche che, oggigiorno, non esistono più. Nello stesso periodo in cui si diffondeva a Bagnara il mestiere del cestaio, uno dei produttori del legname, il commendatore e senatore Antonio De Leo, con la collaborazione del Comune, decise di intraprendere a Bagnara, a spese proprie, un intervento di carattere urbanistico per migliorare il 35 trasporto e, dunque, la commerciabilità del legname. In breve, volle creare delle strade. Dall’Aspromonte, infatti, il legname doveva raggiungere la località della “nchiusa” e poiché le strade del paese non consentivano il passaggio dei carri carichi di legname, il commendatore De Leo decise di crearne delle nuove. All’epoca, tra l’altro, le strade erano fatte di terra battuta e spesso, per via dei carichi troppo pesanti che trasportavano, i carri o affondavano o restavano bloccati per diverse ore, rallentando l’iter commerciale. Per risolvere questo problema, il commendatore De Leo stabilì che le “nuove strade del legname” – cioè dal bivio di Solano, passando per l’attuale Pietraliscia fino alla via Garibaldi e alla zona della “nchiusa” – fossero interamente rivestite di pietra lavica. E così partirono i lavori per le nuove strade. Che cosa accadde? Che scendendo dalla via dietro la chiesa del SS. Rosario, il nuovo percorso del legname doveva immettersi nella via Garibaldi ma, per giungervi, si scelse una stradina che, a un certo punto, era interrotta da un ostacolo: la chiesa dedicata alle anime sante del Purgatorio, che ricordava i morti bruciati del terremoto del 1783, che si trovava al centro della strada, tra l’attuale Industriale e la roccia. Per completare l’opera urbanistica, si decise di sacrificare la chiesetta e si creò, al posto suo, una cappella che tuttora è possibile ammirare, dedicata appunto alle anime 36 sante del Purgatorio. La nuova strada, che congiungeva la via dietro il SS. Rosario con la via Garibaldi, interamente rivestita di pietra lavica, prese il nome di Pietraliscia. ------------------------------------------Personaggi emblematici di Bagnara Nel 1917 ebbe luogo una sommossa popolare causata da un rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità (dal 50-60% fino all’80%). Il popolo, non avendo lavoro e non potendo far fronte a questa situazione, decise di assaltare il comune, protestando in modo violento e gettando dalle finestre mobili e documenti. A capo di questa protesta c’erano due personaggi nullafacenti, soprannominati Pisciareja e Cristandeja. In quel periodo il comune era retto dal commissario Anastasi, un uomo di origine napoletana, 37 caratterizzato da una grande personalità e operosità. A lui si deve infatti la costruzione dell’Orologio della Sirena e della Villa del Popolo, due luoghi che oggi hanno un certo valore storico soprattutto per il significato sociale che rivestirono quando furono costruiti. A quei tempi vi erano quattordici fabbriche di legname e il caporalato usava sfruttare i lavoratori, facendoli lavorare più del previsto, perché questi non avevano modo di calcolare la durata dei propri turni lavorativi. Il commissario Anastasi decise di intervenire e fece edificare l’Orologio della Sirena che, scandendo ogni giorno le principali ore lavorative (le 5:00, le 8:00, le 12:00, le 16:00), permise di porre fine a questo sfruttamento. Anastasi inoltre fece edificare la Villa del Popolo per garantire a quest’ultimo, nei momenti liberi, di raccogliersi e di ricrearsi con la musica della banda. Ancora oggi dalla “mezzaluna” della Villa riecheggiano le sinfonie dei passati concerti. Ma torniamo a Pisciareja e Cristandeja. I due furono convocati da Anastasi per spiegargli quali erano le loro prospettive future. “Commissario”, risposero, “noi siamo nati per non fare niente, perché il lavoro ci piace come al cane piace la cipolla! Ma ci accontentiamo di poco: ci basta poter fumare e mangiare e ce ne fottiamo della rivoluzione e di chi la fa!”. Il commissario, resosi conto di aver di fronte non due rivoltosi ma due 38 fannulloni opportunisti, decise di acquietarli dando loro, di tanto in tanto, dei buoni pasto. Ma la cosa non poteva andare avanti a lungo. Dal momento che in quel periodo vi erano delle partenze per l’Argentina, Anastasi propose loro di partire, a carico suo, per farsi una nuova vita in un altro continente. Entusiasti della proposta, i due partirono. In questo modo il commissario e Bagnara si liberarono di due fannulloni e rompiscatole e la rivoluzione si sgonfiò nel nulla. Ce ne vorrebbero di questi commissari! Di tanto in tanto giungevano notizie dai bagnaresi emigranti, i quali raccontavano che Pisciareja e Cristandeja, nullafacenti a Bagnara, erano nullafacenti anche in Argentina. ------------------------------------------“La principessa e il suo enigma” Ogni favola, si sa, comincia con l’espressione “C’era una volta”. Oggi, cari lettori, voglio raccontarvene una di Bagnara. «C’era una volta una giovane principessa al capezzale del padre morente. Prima di morire, questi le diede un paio di guanti e le svelò la sua vera identità. Quando compì il diciottesimo anno e salì al trono, la principessa indossò i guanti ricevuti dal padre e indisse un bando che recitava: “Sono nata e non sono nata, come pure la mia cavalla, nelle mani tengo mia madre che è la figlia di mio 39 padre”. Con queste parole, la principessa invitò tutti gli uomini giovani e adulti, ricchi e poveri, a sciogliere il suo enigma e a scoprire la verità sul suo conto. Chi avrebbe risposto correttamente sarebbe diventato di diritto il suo sposo, altrimenti gli sarebbe stata tagliata la testa. Malgrado in gioco ci fosse la vita, molti accorsero a palazzo per sfidare la sorte e tutti rimasero senza testa. Nessuno infatti riuscì a risolvere l’enigma e nemmeno negli anni successivi; tant’è che la principessa, quando giunse la sua ora, morì senza che l’enigma le fosse stato svelato». Nonostante io conosca la soluzione dell’enigma, vorrei tenerla un po’ per me e invitare i lettori a mettersi in gioco. A provare cioè a dire ognuno la propria, scrivendo al nostro giornale. Certo, non diventerete principi né rischierete che vi sia tagliata la testa. Ma il fortunato solutore di questo grazioso rompicapo medievale, riceverà un encomio pubblico, perché dimostrerà di esser riuscito laddove altri, per secoli, hanno fallito. ------------------------------------------- 40 Il braciere Se vivessimo in modo solidale così come avveniva un tempo nelle congreghe – abbiamo avuto modo di evidenziarlo quando abbiamo parlato dei “Siti di Bagnara” – sicuramente vivremmo in mondo, dove l’uomo: con i suoi bisogni, le sue debolezze verrebbe prima di ogni altra cosa. Una delle questioni che caratterizza il nostro tempo è la solitudine. Si può essere soli anche vivendo con gli altri. In casa, per esempio, abbiamo tre quattro televisori ma siamo sempre più soli. Un tempo c’era il braciere che, oltre a riscaldare, univa e riusciva a portare condivisone, ovvero, partecipazione a idee e sentimenti degli altri. La sera ci si metteva tutti attorno al braciere per riscaldarsi, padri figli nonni bisnonni, e si raccontavano delle cose che non sono scritte da nessuna parte. “Allora, che cosa t’è successo oggi?” si domandava “Eh papà, nonno, sai oggi m’è successo questo…”. Il padre, il nonno soprattutto chi, per il proprio 41 vissuto aveva più saggezza offriva consigli di vita, certamente, validi e disinteressati. Il braciere invece offriva occasione per discutere e condividere i problemi di ognuno e per rafforzare i rapporti amicali. Negli anni ‘60, per esempio, vicino casa nostra c’era una famiglia di pescatori. In quel periodo non c’era il motore che tirava le barche; tirare a mano una “palamitara” non era cosa facile. Una notte, lo ricordo come fosse oggi malgrado io avessi otto anni, c’era cattivo tempo. Si doveva salvare la barca di un pescatore e la moglie gridava “U leva leva! U leva leeva!”. E allora i miei zii, mio nonno, i vicini, tutti si alzarono con spirito solidale e andarono sulla spiaggia per aiutare questi pescatori a tirare la barca. Se l’avessero perduta, avrebbero perso tutto. Cresciuto anche intorno al braciere, ho acquisto valori, che adesso non ritrovo nelle giovani generazioni. Quando ero ancora ragazzino, sotto casa mia vi erano dei magazzini, dove vivano dei vecchietti che, privi di pensione, vivevano nella più nera miseria. Non avevano nemmeno acqua per bere. Io assieme a un altro mio amico, andavamo alla fontanella con la “quartara”(un recipiente di creta per l’acqua), che riempivano e portavano ai meno fortunati vecchietti. 42 Quando tornavo a casa, ogni tanto, rubavo un po’ di pasta a mia madre per portarla a queste povere anime di Dio. Quando già lavoravo nella pasticceria dei Frosina, prendevo un po’ di torrone o qualche dolcetto e glielo portavo. Facevamo tutto spontaneamente, per un senso di umano altruismo difficile da trovare oggigiorno. Ma torniamo al braciere. Il braciere ci fa pensare a quei valori, che stiamo perdendo e che occorre recuperare, se vogliamo salvare qualcosa. Questo “arnese”, di cui oggi rimangono pochi esemplari, per il suo valore intrinseco andrebbe riscoperto e elevato a simbolo dell’unità familiare. Ho avuto la fortuna di conoscere i miei bisnonni, la mamma di mia nonna che era nata il 6 agosto 1878 e il mio bisnonno, Carmine, nato il 2 ottobre 1882. Nel mio piccolo ho contribuito ad accudirli. Lei è defunta nel ‘63, lui nel ‘67. Quante ricchezze mi hanno trasmesso nelle ore, che ho passato con loro intorno al braciere. Ho assistito il mio bisnonno nell’ora della sua morte fino al suo ultimo respiro. Gli ho promesso che il mio primo figlio si sarebbe chiamato come lui, e così è stato. ------------------------------------------ 43 Bagnara- Itenerario turistico 1) Costeggiare tutta la piazza fino alla fine della Chiesa del SS. Carmelo. 2) Raggiungere l’ entrata del GARGANO continuando in direzione del convento dedicato a S. Maria della Gloria (1050). Il sito serviva ad accogliere i pellegrini che transitavano per la terra santa. 3) Continuando si incrocia il “PASSO DEL MONACO” volgarmente chiamato “Palombari”. Da qui proseguendo fino al Belvedere, si può raggiungere il Castello Ducale dei Ruffo. 4) Percorrendo la scalinata panoramica si evidenzia il bastione rivolto verso il rione Marinella detto COSTANZELLA e quello 44 di SAN SEBASTIANO che è rivolto verso il centro di Bagnara. Il Convento di S. Maria della Gloria è stato conteso da diversi Ordini religiosi: l’Ordine di S. Bernardo, dai Benedettini, e dagli Agostiniani, e nel 1582 dall’Ordine dei Domenicani. La costruzione risale intorno al 1050 per volere del Conte Ruggiero I D’ Altavilla. ------------------------------------------“MELA RU FASOLU” Carissimi amici, oggi vi condurrò indietro nel tempo, negli anni tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, per parlarvi di un persona piuttosto curiosa: “Mela ru fasolu”. Si tratta di una donna enorme, statuaria. Era alta 1,80 m, un po’ scura di pelle, camminava sempre scalza, con quei suoi piedi numero quarantatre, portava sempre il solito vestito nero nero-grigio legato alla vita con la cintura dello stesso vestito. Aveva i capelli neri anche se un po’ spenti, che portava raccolti a treccia a mo’ di corona con un po’ di erbetta e qualche pagliuzza qua e là. Una persona sui generis, senza dubbio,così semplice, ingenua e spontanea che non si curava di quello che le accadeva attorno; presa come era dal suo lavoro. La mattina si alzava prestissimo per curare il suo orto e i suoi armenti. Poi raccoglieva 45 tutti gli ortaggi che ne ricavava, li caricava addosso al suo mulo, che aveva due grandi cesti, uno da una parte e uno dall’altra, e scendeva dal paesino preaspromontano dove abitava, giungendo a piedi fino a Bagnara dove, una volta venduti i prodotti del suo orto, se ne tornava a casa per riprendere la solita routine. Le è stato attribuito il nome di “Mela ru fasolu” perché era così sporca e trascurata per via del suo continuo lavorare, che pare che dietro le orecchie gli crescessero i fagioli. Un giorno la madre decise di fidanzarla. In quei tempi, gli innamorati non avevano modo di conoscersi prima di fidanzarsi. Occorreva inizialmente portare l’ambasciata alla donna, poi il futuro fidanzato andava a casa per terminare il fidanzamento. Quando si presentò a casa il giovanotto che desiderava sposarsi con Mela, la madre lo accolse, lo fece accomodare e andò a chiamare Mela nell’orto: “Mela Mela! Veni ca’ vinni u’ zitu chi ti voli!” Carmela Carmela! Vieni perché è il tuo fidanzato che ti desidera sposare!. Lei prontamente rispose alla madre dall’orto: “Mi ndi futtu ru’ zitu! M’haiu a’ zappari a’ cipudduzza jeu!” Me ne frego del fidanzato! Devo badare a zappare la cipolla!. Pensate quali ragionamenti faceva Mela a quei tempi, così semplice e umile, così indaffarata con il lavoro del suo orto. La madre insistette nel convocarla innanzi al suo futuro fidanzato e, alla fine, Mela decise di accontentarla. 46 Una volta entrata, la mamma passa subito alle presentazioni ma lei non mostra alcun interesse per il fidanzato. Per questo motivo, la madre decise di andare a preparare il caffè, allo scopo di lasciarli da soli e far sì che si conoscessero. Quando il caffè fu pronto, la madre tornò dai due portando su un vassoio la caffettiera, le tazzine, lo zucchero e dei biscotti. Una volta appoggiati sul tavolo, si voltò verso la figlia e le disse: “Mela Mela! Non lo culi lu café?” Carmela Carmela! Non lo versi il caffè?”. Mela, che era un tipo che non amava lavarsi, che si trascurava e che badava soltanto al suo lavoro, e che tuttavia si era decisa di conoscere il suo futuro fidanzato, dunque che aveva deciso di sposarsi, rispose alla madre: “Ma’, prima mi lavu la facci e dopu lu culu!” (Mamma, prima mi lavo il viso e poi lo servo il caffè!). di prim’acchito, la sua risposta dialettale potrebbe essere fraintesa, ma di fatto Mela si riferiva al caffè. Insomma, quel giorno i due si conobbero e decisero di fidanzarsi. In quel periodo, però, fidanzarsi significava pensare subito al matrimonio e discutere della dote, senza la quale una donna non poteva sposarsi. Dal momento che Mela ne era sprovvista, la mamma e il fidanzato decisero di recarsi a Messina, un centro commerciale importante dove era possibile trovare tutto l’occorrente per un matrimonio, mentre Mela, come al solito, sarebbe rimasta a lavorare. 47 Il giorno dopo, come d’accordo, la madre e il fidanzato partirono alla volta di Messina. All’epoca, si scendeva da questi paesini fino a Bagnara con il “traìno” (un carro tirato dai buoi) e, giunti a Bagnara, si prendeva il treno. Raramente passava qualche pullman ma la gente preferiva il “traìno”, anche perché le strade non erano ben asfaltate come oggi. Quando la madre e il fidanzato di Mela arrivarono a Messina (immaginate, dalle 4:00 del mattino giunsero alle 11:00!) comprarono tutto quel che serviva per la dote di Mela e si instradarono per tornare a casa. Sulla via del ritorno, però, incontrarono un chiosco che vendeva i primi gelati. Affascinati da questa palla fredda, domandarono al gelataio di che cosa si trattava e ne chiesero uno. Mentre il gelataio lo incartava, il fidanzato spiegò alla suocera: “Sta Gelatina nc’a portamu a Mela” (questo gelato lo portiamo a Carmela). La suocera accondiscese. Quando il gelataio finì di incartarlo, il fidanzato lo pagò e, preso il gelato, se lo conservò nella tasca del suo cappotto grigio-verde stile militare. Dopodiché, felice del pensiero per Mela, riprese la via del ritorno assieme alla suocera e alla dote appena acquistata, il che significava affrontare altre sette ore di viaggio, a ritroso. Insomma, sarebbero giunti a casa soltanto in tarda serata. Quando finalmente arrivarono a casa, il fidanzato disse a Mela tutto sorridente: “Oh Mela Mela! Ti portai ‘nu regalu speciali!” Oh Carmela Carmela! 48 Ti ho portato un regalo meraviglioso!. “Ah sì! E chi mi portasti?” Ah sì! E che cosa mi hai portato? rispose Mela. “Ti portai a’ gelatina! ‘Na cosa bella, frisca, nova!” Ti ho portato il gelato! Una cosa bella, fresca, nuova!. “E non mi la ru?” (E non me la dai?). Nel momento in cui si mise le mani in tasca per prendere il dono, il fidanzato non trovò nulla, anzi sentendola bagnata esclamò: “Latricei messinisi! Non sulu ca’ mi futtìru la gelatina, ma mi pisciaru puru nda sacchetta!” Messinesi ladruncoli! Non soltanto mi hanno fregato il gelato, ma mi hanno anche urinato nella tasca!. Insomma, quel giorno Mela non poté nemmeno assaggiare il gelato. Ma era una donna buona, semplice, senza malignità e perdonò il fidanzato per l’accaduto. Un giorno, il 7 agosto 1943, quando ormai Mela era sposata, accadde una disgrazia. Come già accennato, Mela si occupava soltanto del suo lavoro e non s’interessava di quello che avveniva attorno a lei. Com’era sua consuetudine, dopo il lavoro mattutino nell’orto, Mela scendeva verso Bagnara per vendere i suoi ortaggi ma quel giorno c’erano i bombardamenti, c’era la guerra. Ebbene, quando giunse nella località “Laddora”, sotto Pellegrina, una bomba la colpì in pieno, dilaniando lei e il suo mulo. E così giungiamo alla fine della nostra storia. Una vicenda simpatica che, tuttavia, ci spezza il cuore. “Mela Ru fasolu” era una donna umile. Passava la 49 vita a lavorare, a guadagnarsi da vivere in modo dignitoso e con il sudore della fronte. Era una donna che ignorava il male e che mai aveva fatto del male a qualcuno, eppure morì in questo modo, fece una fine che non meritava. Oggi, credo che lei si trovi nell’orto del paradiso, a curare l’orto di Dio e a deliziare le anime con i suoi ortaggi. Per mezzo di Mela, abbiamo gettato uno sguardo in un tempo abitato da gente molto semplice, votata al lavoro e alla famiglia. Malgrado questo non sia più il loro tempo, credo sia importante ricordare o conoscere le persone che hanno vissuto nella stessa terra dove noi viviamo. Perché avremmo un’occasione per capire quanto e come siamo cambiati, e per interrogare il presente con i ricordi sbiaditi, ma ancora vivi, del nostro passato. ------------------------------------------- 50 Indice analitico: 1. 2. 3. 4. 5. 6. Dato Carmine 1882 – 1967; Cenni e ricordi su siti di Bagnara; La storia di donna Gaezza; La “dolce” Abbazia di Bagnara; La gloriosa storia dell’Abbazia bagnarese; Vincenzo Morello”Rastignac” all’epoca considerato prima penna d’Italia; 7. La severa matriarca; 8. Siti di Bagnara Calabra; 9. Personaggi emblematici di Bagnara; 10.La “Principessa” e il suo enigma; 11.Il braciere; 12.Itinerario turistico; 13.Mel “Ru Fasolu”. 51 A futura memoria senza presunzione di avere scritto un libretto di valore storico. Certo, comunque, di avere reso un atto d’amore verso il mio amato paese e sicuro che solo serbando memoria del nostro glorioso passato si può costruire un futuro degno di essere vissuto. 52