A

Marco Baldino
Margini e paraggi
La filosofia dell’ultimo Novecento
Prefazione di
Renato Troncon
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 
Indice

Prefazione
di Renato Troncon

Introduzione. Crisi della normatività filosofica
. Università e totalità filosofica,  – . La ricerca di un rapporto
con il “fuori”,  – . L’arcipelago del non–codificato, .

Capitolo I
La provincia heideggeriana

Capitolo II
Deleuze: anarca e geofilosofo

Capitolo III
Heidegger e la meditazione del margine contadino

Capitolo IV
Quinzio e la destituzione del sacro

Capitolo V
Cacciari educatore della nazione
.. Miseria dell’ultimo uomo,  – .. Filosofia e politica, 
– .. La deriva dell’autentico,  – .. L’educatore della nazione, .

Capitolo VI
Foucault: anarchismo e liberalismo


Indice

Capitolo VII
Agamben e il problema della sovranità

Capitolo VIII
Deleuze: Louis Wolfson e il procedimento

Capitolo IX
Nancy, la comunità e l’intruso

Capitolo X
Negri e Foucault: la critica e il sabotaggio

Capitolo XI
Althusser. Universalismo e follia

Capitolo XII
La sofistica di Jacques Derrida

Capitolo XIII
Kojève e Lévinas. Violenza del negativo e asimmetrie etiche
.. Lotta per il riconoscimento,  – .. Violenza e parola,  –
.. L’etica fondamentale di Lévinas,  – .. Una conclusione
non troppo rassicurante, .

Capitolo XIV
Jean Baudrillard e l’implosione dell’universo

Capitolo XV
Foucault e la cosa da pensare

Capitolo XVI
Lacoue–Labarthe e il crollo della filosofia

Bibliografia
Prefazione
di R T
Le pagine che seguono sono tra le migliori che si possano oggi leggere circa la possibilità, assai esile, che la filosofia possa
risorgere così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, ripresentandosi come una sorta di pedagogia della civiltà e sistema
di garanzie e di certezze di una condizione umana in cui le
domande prevalgono di molto sulle risposte. Ciò che di esse
piacerà al lettore è la consistenza con cui vengono presentati i nomi e i numi, le parole chiave, i luoghi comuni filosofici
che ancora occupano la scena culturale italiana degli ultimi tre
decenni, alla ricerca di ciò che in essi è rimasto e rimane in
qualche modo nascosto. Così come egli troverà anche molto
interessante l’idea per la quale il clinamen “minoritario” e “letterario” assunto dalla filosofia tardo-novecentesca in genere non
sarebbe in realtà che il piccolo stratagemma — spesso sofistico
— per sopravvivere a se stessa. Il passaggio all’economia o alla
tecnica di molta filosofia, la sua conversione progressiva a una
idea di scambio e di cambiamento sempre e comunque centrata sulla parola ha sostanzialmente retto fino a oggi la filosofia
ma ne ha, peraltro, sigillato e scatenato la crisi definitiva. Il rimescolamento potrà difficilmente venire da una semplice ripresa
di quanto fin qui fatto. Il lavoro di Marco Baldino è essenziale
per fissare proprio questo punto di non ritorno perché, come
egli rivendica, la pulsione “totalitaria” variamente vestita della
filosofia si è consumata ed è ormai necessario tutt’altro tessere.

Introduzione
Crisi della normatività filosofica
: . Università e totalità filosofica,  – . La ricerca di un
rapporto con il “fuori”,  – . L’arcipelago del non–codificato, .
Il presupposto delle letture contenute in questo volume è che
esisterebbe una crisi normativa della filosofia tale da renderla
inabile a svolgere il proprio ruolo sociale, tale che — per la precisione — questa non riesce più a dirimere la questione se una
determinata frase, più o meno ricca di pensosità, sia filosofica
oppure o no. La filosofia non riesce più a normare e a normalizzare i flussi di pensiero, quei flussi che pure sussistono prima
che qualcosa o qualcuno intervenga a stabilire se appartengono
o no alla filosofia .
. C’è un processo di divorzio e di allontanamento reciproco di quegli elementi il cui concorso ha determinato la forma e l’aspetto del nostro mondo, che
caratterizza il nostro tempo. Tali elementi sono la politica come risposta al problema della componibilità sociale dei differenti, la storia come risposta al problema
dell’impermanenza degli eventi e la filosofia come concettualizzazione veritativa e
totalitaria delle credenze e quindi come risposta al problema dell’incertezza delle
cose credute. Tale processo è indice di una crisi e tuttavia ciò non implica, a quanto
pare, che vi sia fine in senso stretto delle tre istanze – di fatto tutte “fini” di volta
in volta decretate, ma anche, com’è facile verificare, di volta in volta confutate nei
fatti. Ciò che viene senz’altro meno è invece la loro collaborazione, il loro concorso. L’allontanamento reciproco di storia, politica e filosofia implica cioè il declino
di quell’accordo virtuoso che fa la forma di un mondo, e l’esito di tale declino è
che nel momento in cui le forme politiche, storiche e filosofiche cominciano ad
emanciparsi dal loro legame concorsuale, l’intreccio civilitario prende effettivamente un altro orientamento. Tale orientamento è sotto gli occhi di tutti, è qualcosa
come un “passaggio all’economia”, l’imporsi di un predomino dell’economico in
enormi settori della società e della cultura e il fatto che a un certo punto l’economia
prenda apertamente il posto della filosofia. Credo appaia per sé chiaro come ciò


Introduzione
Credo per esempio che l’ermeneutica, cioè la forma della
koinè filosofica nel tardo Novecento, non sia altro che il tentativo della filosofia professionale, universitaria, di rispondere a
questa crisi normativa; crisi che ne indebolisce le intenzioni e
mina le istituzioni per mezzo delle quali — in prima istanza —
esercitava un controllo sulla formazione dei filosofi, cioè sui
professionisti del pensiero e, conseguentemente, sulla formazione dell’autorità in filosofia. Penso che nell’impossibilità di
controllare i “flussi dell’anima”, la filosofia sia venuta trasformandosi in una mera attività di interpretazione interminabile e
di iterato commento dei testi della tradizione. In tal modo essa
si sarebbe sì resa in qualche modo ancora capace di esercitare
un certo controllo sull’autorità, ma non avrebbe potuto evitare
non possa non condurre i sistemi sociali le loro istituzioni a profondi mutamenti. Il
passaggio all’economia è registrato da una grande quantità di studiosi e analizzato
nelle sue relazioni con gli sviluppi della tecnica, oppure con le forme del potere e
con il pensiero politico, vuoi in posizione subordinata o vuoi in posizione paritetica,
comunque posto come dato analitico inaggirabile. Due semplici riferimenti: uno è
Carl Schmitt, per il quale il passaggio all’economia si consuma tra Marx e Proudhon:
la razionalità economica sarebbe stata assunta da Marx come orizzonte insuperabile
dell’organizzazione politica (stato borghese) e del pensiero filosofico (materialismo
storico). L’altro, almeno per quanto mi riguarda, ma ve ne sono molti altri, è Michel
Foucault. Anche Foucault ha visto qualcosa come un passaggio all’economia e lo ha
visto nel sovrapporsi di un nuovo modo di districarsi del potere, come controllo e
normalizzazione dei fenomeni vitali, al paradigma dell’economia politica. Il fatto
da considerare è comunque che l’economia in nessun caso è in grado di sviluppare,
come lo era invece la filosofia, un sistema della certezza: dal regime della verità
filosofica si è passati a quello economico dell’efficienza e dell’efficacia. L’istanza
storico–politico–filosofica deve così adeguarsi alla nuova logica. E se la politica,
posta sotto il segno dell’economia, diventa una pura prassi amministrativa e la storia
si trasforma in uno strumento di lotta politica, la filosofia finisce col frantumarsi
sul muro della propria inefficacia, sul muro della propria ineffettualità. Una filosofia
che si piegasse ai criteri economici cesserebbe infatti subito di essere filosofia per
trasformarsi, poniamo, in marxismo o, ancor meglio, in marxismo–leninismo, ossia
in una prassi teorica avente per obiettivo quello di chiudere la storia e la politica e di
instaurare il regime puro e semplice del governo e dell’amministrazione, ovvero
il puro regime economico, la famosa cuoca di Lenin. Con il che ci si ritroverebbe
al punto in cui già siamo. Quindi la filosofia, che pure ha tentato di risolversi in
marxismo–leninismo, ora si sottrae, diciamo così, necessariamente, a tale riduzione,
ma, così facendo, anche si confina in un’area di esiziale ineffettualità. Ebbene, il
primo aspetto di tale inefficacia è quello che a me pare configurarsi come una crisi
normativa.
Introduzione

che anche la distruzione della tradizione entrasse a far parte dell’attività filosofica in senso professionale; anche la distruzione
della tradizione è cioè ermeneutica.
La filosofia non è un modo tra gli altri di usare la mente, ma
l’attività che riduce i concreti flussi di pensiero entro limiti di
“codice”, “norma” e “protocollo”; la filosofia, per così dire, è
l’ordinamento che unifica i diversi atteggiamenti mentali nel
quadro di una determinata legalità. Meglio: la filosofia fissa la
grammatica generale del pensiero e ne regima i flussi. Questa attività di normalizzazione avviene attraverso l’esercizio di
alcune pratiche di riduzione. Ne indico velocemente tre:
a) l’addomesticamento (ovvero la repressione dell’elemento
feroce e primitivo del pensiero al suo insorgere);
b) l’allevamento (cioè l’inserimento delle concrete manifestazioni di pensiero, preventivamente addomesticate,
entro uno specifico ordine gerarchico);
c) l’esclusione, (ossia la determinazione esatta del discrimine
tra filosofia e non–filosofia: la cattura, l’isolamento e
la costituzione dell’elemento irriducibile in exemplum
negativo).
Se un pensiero non è che un flusso mentale che si determina
nella sua forma in forza di una grammatica sottostante, e a tutta
prima questa è meramente locale, indipendente, persino incommensurabile, il compito della filosofia è di tradurre queste
grammatiche particolari nel quadro di una validità generale,
astratta, sovratemporale, certamente sovra–territoriale, e quindi di tradurle in una specie di campo globale, che potremmo
chiamare scienza, epistéme, o qualcosa del genere. Per riuscire a
svolgere una tale ruolo, la filosofia deve cioè agire come una
sorta di “polizia del pensiero”.
Dal punto di vista filosofico un flusso di pensiero che non
abbia ricevuto un tale battesimo (chiamiamolo flusso di pensiero non codificato) o è immediatamente riducibile al codice
filosofico o è sgrammaticato ma correggibile, oppure è irridu-

Introduzione
cibile alla grammatica generale del pensiero. A prima vista un
flusso di tal genere appare quindi indistinguibile da una pura e
semplice crisi di onirismo.
Nel codice la filosofia determina la riconoscibilità sintattica
di un flusso di pensiero e ne garantisce la trasmissibilità. La sua
storia evolutiva è la seguente: essa si presenta dapprima come
una frase ricevuta (dagli dèi), cioè come una rivelazione, e che
quindi non può mentire (Parmenide); in un secondo momento
si impone come attività pedagogica per eccellenza (Socrate e la
serie ironia–dialettica–non sapere–certezza minima comune)
— qui la filosofia diviene l’attività attraverso la quale si apprende
la via per giungere alle cose certe, e richiede un maestro e un
discepolo. Infine il filosofo storicizza la rivelazione e radicalizza
la propria funzione pedagogica fino a trasformarla in un magistero universale (Platone–Aristotele): la filosofia si attesta allora
come l’attività che insegna universalmente la via per giungere
alla cose certe. Ancora Heidegger riconosce alla filosofia un
ruolo analogo: la frase filosofica ha infatti per Heidegger una
radice greca (presocratica) ed è quindi, in qualche modo, originariamente rivelativa; possiede una intrinseca virtù pedagogica,
nel senso che è il terreno proprio su cui nasce e si sviluppa la
civiltà occidentale; infine, al presente, essa possiede sia un compito di salvezza generale (dell’Occidente minacciato dalla sua
stessa creatura, la tecnica), sia una tecnica generale per svolgere
questo compito: la ri–fondazione filosofica dei diversi saperi
attraverso l’organizzazione filosofica dell’Università. In Heidegger c’è come una relativizzazione continentale del pensiero, che
intende lasciare all’Oriente la sua propria dimensione, ma nel
proprio contesto (l’Occidente) la filosofia ha, in Heidegger, un
ruolo eminentemente universalistico.
Nel protocollo la filosofia determina invece gli standard di
presentabilità sociale del pensiero. Il protocollo è quella parte
della formazione filosofica che trasmette la postura sociale
della filosofia: come si danza in società, come ci si inchina, chi
ha la precedenza, come si appoggia lo sguardo, ecc. ecc.. Il
protocollo è lo speciale galateo del pensiero, ciò che consente
Introduzione

di distinguere, a prima vista, chi è formato, chi è superiore in
questa formazione e chi è semplicemente zo[o]tico. Si direbbe
quasi un piccolo stratagemma per riconoscere d’acchito chi si
intrufola.
All’inizio di un suo famoso libretto Giorgio Colli scriveva:
«quando si vede che sul frontespizio di alcune edizioni cinquecentesche di Niccolò Machiavelli, alla Biblioteca Nazionale di
Firenze, il nome dell’autore è cancellato da mano ignota, con
un frego di penna, per dispregio [. . . ], viene in mente Friedrich
Nietzsche», anche il suo pensiero deve essere apparso ripugnante. Dapprima sia Machiavelli che Nietzsche apparvero semplicemente agrammaticali, bestie feroci da rinchiudere nello zoo
delle mostruosità del pensiero; poi è cominciato un lavoro di
miglioramento della loro immagine nel tentativo di renderli
meno nocivi — in questa fase, svolto a dovere il preventivo lavoro di addomesticamento, i due pensatori iniziano ad apparire
più presentabili, anche se ancora sgrammaticati; infine, quando
la compressione è ultimata, ecco il lento e definitivo lavoro
di assimilazione, lo svezzamento e la presentazione in società:
il giovane ribelle si è trasformato in un pacato dandy: quella
che all’inizio sembrava una burrascosa crisi, ora costituisce la
nota eccentrica di un elegantone, basta non farci troppo caso:
immoralismo, follia, frammentarietà, tutto sembra digeribile,
purché si possa almeno parlare di una metafisica nietzschiana, purché questo pensiero risulti alfine commensurabile con
i concetti che la tradizione ha posto: una metafisica d’artista,
una moralistica alla Montaigne, un monismo alla Spinoza, una
metafisica della volontà e del ritorno, uno sviluppo triadico del
pensiero. Klossowski riporta la questione al suo punto zero:
in fondo si trattava di una vera e propria crisi di onirismo, di un
flusso agrammaticale, incommensurabile, selvatico, sottoposto
a normalizzazione filosofica.
. Cfr. P. K, Nietzsche e il circolo vizioso, trad. di E. Turolla, Adelphi,
Milano .

Introduzione
. Università e totalità filosofica
La riduzione dei concreti flussi di pensiero a una regolarità
grammaticale, a una normalità tematica, a un’agibilità sociale consente di separare analiticamente il “filosofico” dalla sua
de–iezione, consente di separare la parte omogenea del pensiero dal puro residuo senza valore. Ciò avviene mediante un
enorme sforzo organizzativo, mirante a ricondurre ogni flusso all’interno di quel campo globale che abbiamo chiamato
scienza. Tale campo ha poi preso la forma della grande figura
organica dell’albero enciclopedico.
Ora, se l’immagine della filosofia è l’albero dei saperi, la sua
forma organizzativa nel sociale moderno è l’università. In questo senso l’università è il filosofico stesso, la sua manifestazione
effettivamente operativa. Non si tratta affatto di uno spazio in
cui alla filosofia è dato di sopravvivere in forma residuale a
spese delle Stato, si tratta invece di una funzione fondamentale del sistema continentale; non è una questione di facoltà di
filosofia, è l’università in quanto tale a essere filosofica nel suo
dispiegamento effettuale.
Probabilmente è questo il senso della riflessione schellinghiana sul metodo accademico ed è significativo che una tale
impostazione sia ancora del tutto viva in Heidegger il quale
denuncia sì la crisi della filosofia, ma denunciandola ne vuole
anche ristabilire tutto il ruolo: «I campi della scienza — scrive nel ’ — giacciono lontani l’uno dall’altro. [. . . ]. Questa
sparpagliata molteplicità di discipline viene oggi tenuta insieme
soltanto dall’organizzazione tecnica di Università e Facoltà, e
dalla finalità pratica da cui ricevono la loro importanza le discipline particolari. Ma la sorgente comune delle scienze, che ne
dà l’essenza fondamentale, si è inaridita» . E nel ’ spiega: «Per
i Greci la scienza non è un bene culturale, ma il cuore più interno dell’intero esserci del popolo e dello stato»; questa “scienza”
. M. H, Che cos’è la metafisica, a cura di A. Carlini, La Nuova Italia,
Firenze .
Introduzione

è «l’interrogante star–saldi nel cuore della totalità dell’essente
che costantemente si cela» e questo “interrogante star–saldi” è
«l’essenza originaria della scienza», cioè: l’essenza originaria di
ogni sapere è custodita, si trova, è amorosamente conservata,
nel cuore dell’interrogazione filosofica: «Ogni scienza — scrive
infatti Heidegger — è filosofia, che lo sappia e lo voglia, oppure
no» .
Tutto ciò che sul piano del pensiero non si collega in modo
trasparente alla totalità organica del sistema filosofico dei saperi
è, per intima sanzione giuridica, e in prima approssimazione,
pensiero non–filosofico, e siccome, poi, la filosofia intende il
proprio spazio come identico a quella totalità dendroide, niente
che le sia esterno sarà compreso o ammesso come pensiero. In
sostanza: “non–filosofico” è immediatamente “non–pensiero”.
Non–pensiero sono il sogno, la mistica e il delirio della follia, la
lallazione infantile e tutte quelle manifestazioni di vita mentale
che proliferano ai margini del sistema, in connessione con
settori dell’ente come l’inconscio, la violenza, la dismisura, il
degrado, la gloria, la carneficina, la sobillazione, la miseria,
l’erotismo e via dicendo.
Tuttavia, anche il mito e la poesia non sono pensiero e il
fatto che Heidegger abbia indicato questi ultimi come il ricetto
di ogni autentica manifestazione dell’essere, dimostra, appunto,
che essi non sono ancora pensiero, non propriamente, in quanto sono ancora, per così dire, troppo vicini, troppo a contatto
con ciò che in essi si manifesta. In altro modo, non è pensiero
il calcolo strutturale che consente di costruire un ponte o un
aeroplano — e a nulla vale qui nascondersi dietro l’espressione
“pensiero calcolante”, perché questa espressione significa solamente che quel “pensiero” non è pensiero pensante, cioè non
è pensiero a rigor di termini. Mitografia, filologia, letteratura, iconologia, matematiche e via dicendo sono tuttavia saperi
articolabili all’interno del grande quadro organico aperto dal
. Cfr. M. H, L’autoaffermazione dell’università tedesca, a cura di C.
Angelino, Il Melangolo, Genova .

Introduzione
rigore filosofico, sono cioè riconducibili, anche se per la verità
non sempre, non interamente, a quel sostrato che Heidegger
nomina come «la sorgente comune delle scienze». In un certo
senso, e proprio grazie a Heidegger, oggi appare tuttavia sostenibile, sia pure in modo obliquo, che il calcolo strutturale e il
delirio onirico sono in qualche modo correlati nella distanza
dal pensiero, solo che il primo è un’attività utile nel quadro
dei rapporti che appartengono al mondo aperto dalla filosofia,
mentre il secondo non svolge in esso, almeno in apparenza,
alcun lavoro.
Ora, l’esistenza di una crisi normativa della filosofia non è
un’ipotesi da dimostrare, ma il dato diffusamente riconosciuto
e che sta alla base di buona parte della riflessione contemporanea. Vi è una grande crisi della filosofia che determinata la
progressiva inefficacia delle pratiche di normalizzazione con
cui questa teneva ferma la distanza tra pensiero e non–pensiero,
vi è cioè una grande crisi della filosofia professionale. Heidegger
registra questa crisi come una tendenza dei saperi particolari a
evolversi in forme sempre più irrelate.
Deleuze si spinge oltre: la crisi della filosofia professionale
è tale che non vale nemmeno più la pena di parlarne; all’interno della tradizione egli individua delle linee elettive che gli
consentono di opporre al sistema professionale un pensiero
delle determinazioni minori dell’ente; invece di organizzare il
pensiero intorno alle specie e agli universali, all’omogeneità
sistematico–categoriale, all’illusione trascendentale o alla dialettica dell’Aufhebung, Deleuze fa leva sui divenire potenziali di
determinazioni costitutivamente sotto–sistematiche o addirittura extrasistematiche, e quindi senza tradizione — per fare un
esempio: la filosofia si libera della costante universale Uomo e
comincia a farsi attraversare dai divenir–donna, –negro, –ebreo
che sono determinazioni (minori per natura, che non possono
quindi fissarsi in qualcosa di maggiore) della variabile “uomini”
(al plurale).
Introduzione

. La ricerca di un rapporto con il “fuori”
La crisi della filosofia è cioè tale da determinare da un lato
una liberazione dei saperi subalterni — cose come l’ingegneria, la genetica, la statistica si svincolano dal legame organico
con la filosofia per prodursi in flussi autosufficienti; dall’altro
una liberazione dell’eterogeneo rigettato, per cui cose come
le donne, il mondo carcerario, l’omosessualità, cioè tutta una
serie di determinazioni parziali, locali, minori, si producono
sul piano filosofico come flussi “nomadi”, ovvero non radicati
nella grande struttura dendroide della filosofia. Ebbene, nel
momento in cui la filosofia non è più in grado di operare in
modo sistematico la riduzione dei flussi concreti, nasce al suo
interno un problema di rapporto con il non–codificato. La paradossalità di questo problema balza agli occhi se si considera
che si tratta di costruire un rapporto di compossibilità tra ragione filosofica e delirio onirico, tra pensiero e non–pensiero,
tra verità e menzogna. È a causa di questo paradosso che la filosofia intraprende la via dell’indebolimento della propria azione
normalizzatrice e del “dialogo” con il “fuori”: il mito e la poesia, l’inconscio, la letteratura, la storiografia, le scienze sociali,
diventano gli interlocutori privilegiati di un sistema che cerca
ancora una via d’uscita alla propria crisi; ma questo allargamento finisce col portare alla rive della filosofia professionale detriti
inauditi: infamia, simulacri, passaggi al bosco, esperienze–limite. . .
e non determina affatto un recupero del controllo filosofico
sull’uso della mente, ma al contrario, determina un progressivo svuotamento della normatività filosofica. Alla fine non è
nemmeno più possibile distinguere la filosofia da un qualsiasi
genere letterario (Derrida): la filosofia finisce per esercitare
solo una normatività di genere, diventa essa stessa uno di quei
saperi autosufficienti che basano la propria validità sul rigore
delle regole sintattiche delle proprie proposizioni, ma senza più
riuscire a discriminare il non–filosofico come non–pensiero.
Dinanzi alla propria crisi di normatività, la filosofia professionale reagisce cioè in due modi: o attraverso il tentativo di

Introduzione
accogliere nel proprio ambito elementi sì esterni ma il più
possibile trascrivibili nel suo codice, oppure, conducendo al
proprio interno un lavoro silenzioso di destrutturazione dell’insegnamento certificato e di progressiva invalidazione della
normatività filosofica, giunge ad accogliere, nel trattamento
filosofico dei problemi che le sono tipici, l’a–grammaticalità
di flussi liberi. Fin dall’inizio di tale percorso, e proprio grazie
a un tale paradosso, si sono dati tentativi di stabilire rapporti
con il “fuori” della filosofia, con il suo “altro”, nella speranza di
recuperare, almeno in parte, quelle spinte di pensosità senza regole che ne lambivano il dominio. Questo primo allargamento
non ha tuttavia determinato quel recupero di dominio che ci si
aspettava, ma ha invece condotto a un ulteriore indebolimento;
all’ermeneutica si sono aggiunte forme più radicali ed estreme
di distruzione: la grammatologia, il decostruzionismo, l’estetizzazione della verità tipica dell’approccio postmoderno, il che,
infine, ha condotto i professionisti della la filosofia a presentare
la filosofia come una sorta di apparecchiatura liturgica per la
messa in scena del pensiero; si tratta dell’ultimo tentativo di
tracciare delle linee di separazione all’interno di ciò che si avvia
a diventare una sorta di pista da circo del pensiero.
. L’arcipelago del non–codificato
Ebbene, se questi flussi esistono, essi non possono trarre il
proprio orientamento dalla tradizione — solo la filosofia è tale
da orientarsi in questa luce. E poiché non possono orientarsi
in questa luce, i flussi non codificati non possono nemmeno
esercitare qualcosa come un magistero universale o avanzare
l’argomento di una frase rivelata. Tali flussi vanno cioè riguardati come altrettanti tentativi di autoaffermazione condotti sul
filo della propria esteriorità o minorità filosofica.
L’unica possibilità di orientamento a cui questi flussi potrebbero eventualmente accedere è la loro stessa provenienza e cioè
quella regione dell’eterogeneo a cui, per definizione, manca il
Introduzione

comune consenso, a cui tocca semmai il disprezzo per essere
costantemente al di là del codice. Una descrizione minima della
struttura di questa “autoaffermazione” potrebbe essere data nei
termini che seguono: anzitutto un’intima e–sortazione a prendere il cammino derivante dall’indebolimento di ciò che, prima,
li schiacciava nel non–pensiero e nella non–parola. Non si tratta
tuttavia di un richiamo interiore o di un impulso naturale, bensì
di un effetto di attrazione o di aspirazione dovuto alla movimento di svuotamento della filosofia stessa, della risposta che la
filosofia dà alla sua stessa crisi normativa, risposta che la porta
ad aprirsi metodicamente al fuori, producendo quella sorta di
radicalizzazione dialogica che finirà col subordinarla, via via,
alle diverse forme dell’eterogeneo con cui viene allacciando
rapporti.
Per mantenere un certo grado di normatività (di genere) la
filosofia è costretta cioè a rinunciare alla verità (universale); in
tal modo, quando la distinzione filosofico/non–filosofico viene
meno, la coazione a pensare in modo conforme si trasforma
in semplice coazione a pensare, e questo è un elemento disastroso per la filosofia. In secondo luogo, un’intima necessità
a orientarsi sulla provenienza. Ma la provenienza non è una
guida forte e sicura: più ci si allontana dal vincolo dell’appartenenza più l’orientamento si fa incerto; più ci si mantiene nella
sicurezza dell’appartenenza più ci si imbozzola in una piccola
circolazione identitaria.
Tutto ciò non significa una determinazione altra della filosofia, i flussi non codificati non sono un altro modo di filosofare,
non sono un’altra teoria filosofica, ma la deiezione, il residuo
rigettato, difensivamente respinto, talvolta con un esplicito giudizio di condanna morale, che ritorna in seno alla filosofia
come un che di estraneo, di fantasmatico; il flusso non codificato, decistato dal suo reclusorio, ritorna come vampiro, si getta
nel viavai delle frasi filosofiche e succhia loro il sangue–anima,
ossia l’elemento omogeneo e vi introduce, in cambio, qualcosa
come un’infezione, una transpropriazione, la possibilità di una
lettura al di qua del codice, pre–normativa, sottoprotocollare.

Introduzione
In un certo senso, i flussi non codificati è come se attivassero
una sorta di luteranesimo del pensiero. Ora, questo luteranesimo va inteso sia come rottura dell’universalismo normativo
della filosofia professionale, sia come rivendicazione di una praticabilità locale del pensiero, sia, infine, come l’applicazione alla
tradizione professionale di una sorta di “libero esame”, un tipo
di lettura che prescinde dal magistero universale della filosofia
così come metodicamente esercitato nelle sue istituzioni organizzate, l’università in primo luogo. Questo tipo di lettura al di
qua del codice è essenzialmente non formativa, non valutativa,
non giudiziaria, utilizza gli enunciati piegandoli secondo una
certa convenienza, secondo una certa necessità; si tratta di un
tipo di lettura che prende e lascia contemporaneamente un
testo, che cerca di farlo funzionare non secondo una procedura
astratta, il cui coronamento sarebbe la sanzione di una validità
universale a cui ci si deve sottomettere, ma secondo un’esigenza spazialmente circoscritta, temporalmente transitoria e
metodicamente strumentale, in altre parole si tratta di una sorta
di ciceronismo del pensiero.
Il problema di fondo della filosofia nell’epoca della sua
de–professionalizzazione è quindi, bene o male, quello di un allargamento d’orizzonte, di uno spingersi abbastanza avanti fino
ad ammettere la presenza di un pensiero in altri comparti dello
spirito, e, raggiunti certi recessi ai margini della formazione,
della scientificità e persino della Polis (dove tradizionalmente si
vuole non alligni alcun pensiero) di uno scendere a patti con il
bête, con l’asino parlante, con il re–ietto che vi alligna.
Quest’atto contraddittorio non può certo essere compiuto
per mezzo o a partire da un’analisi filosofica di tipo professionale; questo perché la filosofia qui non svolge (perché non
sa o non è più in grado di svolgere) quell’azione normalizzatrice che era in effetti la parte poliziesca del suo compito
civilitario. Si tratterebbe, quindi, o piuttosto, di un lasciare che
il filosofico si allarghi; di togliere i divieti, di abolire il protezionismo monopolistico del pensiero istituzionalizzato, di abolire
il proibizionismo nell’uso della mente. . . Questo solo la filoso-
Introduzione

fia sembra chiamata a fare: fare largo a ciò che il movimento
stesso della modernizzazione, o della globalizzazione, che non
è un movimento filosofico, ma che produce del quasi–filosofico
nelle cricche del sistema, ha emancipato dal dominio del “quasi
nulla”. Ebbene, se questa situazione fosse reale, testimonierebbe, insieme a un’inevitabile aumento dell’entropia civilitaria,
una rara redistribuzione delle libertà dell’anima, la disposizione
di tutto il pensiero su un piano unico, privo o tendenzialmente
privo di gerarchie e libero o, che è lo stesso, incapace, di attivare
procedure d’esclusione.
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A11 695 - Aracne editrice