VOLABO Centro Servizi per il Volontariato della provincia di Bologna TRADIZIONE vs INNOVAZIONE Qual è la via per risolvere i problemi della società del nuovo millennio? Bologna, 6 giugno 2011 Trascrizione dell’audio e editing del dibattito pubblico SECONDA PARTE INNOVAZIONE SOCIALE L’innovazione sociale comporta assumere rischi e mettere in conto perdite. Si può innovare nel sociale mettendo a rischio i beneficiari? Andrea Biondi Invito Filippo Addarii, Executive Director di Euclid network e Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione per il Sud, che saluto. Eccoci qui. Allora, molti temi afferenti questa seconda traccia sono già emersi nel corso della prima discussione però siamo arrivati abbastanza a lambire il punto centrale di questa seconda discussione. E mi rifaccio alla domanda riportata anche qui nella brochure: “L’innovazione sociale comporta assumere rischi e mettere in conto perdite. Si può innovare nel sociale mettendo a rischio i beneficiari?”. Lo chiedo a Carlo Borgomeo. Carlo Borgomeo - Presidente della Fondazione per il Sud Detta così, formulata così la domanda dico subito, no. Se l’innovazione può comportare questi rischi preferisco dire che lasciamo stare. Però la domanda è provocatoria, nel senso che è una domanda che mette un’asticella altissima, mentre invece l’asticella, secondo me, è ragionevolmente abbastanza più bassa. Che cosa voglio dire? È che ci sono degli spazi. Naturalmente faccio una premessa ovvia - per me, insomma, ma non per voi - che io parlo di questi argomenti con grande cautela avendo un’esperienza corta, rispetto a tanti altri che sono qui, un’esperienza di appena due anni e soprattutto perché ho davanti, prevalentemente, l’esperienza del Terzo Settore e del Volontariato nel Mezzogiorno. Fatta questa premessa, io penso che ci sono enormi spazi di innovazione che bisogna affrontare coraggiosamente senza porsi l’interrogativo che è stato qui proposto che altrimenti rischia, appunto, di scoraggiarla, l’innovazione. Faccio, se posso, tre battute su che cosa penso io sia importante, oggi, mettere al centro di percorsi, sperimentazioni, diciamo, approcci innovativi. La prima grande questione che impone un generale sforzo di innovazione è il rapporto con il Pubblico da parte del Terzo Settore e soprattutto del Volontariato. Perché dico questo? Perché è evidente che siamo in una fase di passaggio molto complessa, molto interessante, nella quale però ci sono anche molti spazi di ambiguità, che cosa voglio dire? Voglio dire che è sotto gli occhi di tutti che la crisi della finanza pubblica - le risorse che vengono tagliate, etc. - da una parte, segnala che in molti amministratori, molte forze politiche c’è una specie di “brutta copia” della sussidiarietà. Cioè, ci sono molti casi in cui appare del tutto naturale che, siccome il Pubblico non ce la fa, si chiede necessariamente anche perfino con una certa determinazione - se non arroganza - al Privato Sociale, al Volontariato di svolgere questo ruolo, da ruota di scorta. Questa non è la sussidiarietà come sappiamo, questa è una “brutta copia” della sussidiarietà. E questo è un primo tema. Il secondo grande tema è quello che bisognerebbe incominciare a sperimentare meccanismi diversi di relazione tra Pubblico e Privato. E cioè interrogarsi, sperimentare se ci sono formule più flessibili, appunto, diverse, del rapporto tradizionale per cui si chiedono dei contributi e sulla base di questi contributi si erogano determinati servizi. Questo, infondo, è il nostro sogno, alla Fondazione che adesso si chiama “Con il Sud” e non “Per il Sud”, abbiamo fatto una piccolissima innovazione anche noi. L’obiettivo principale dei progetti che finanziamo, dopo una selezione dolorosa, perché, diciamo, molti progetti restano senza finanziamenti, è quello di immaginare possibile che il progetto sperimenti modalità di relazione con la Pubblica Amministrazione sul territorio capace di resistere quando noi non abbiamo più, evidentemente, la funzione di erogare contribuiti. Questo è importantissimo ed è questa la vera frontiera. Perché l’altro pericolo che si vede - e si vede anche ad una lettura superficiale - è che la crisi della finanza, la crisi del modello di welfare che abbiamo conosciuto per tanti anni, sta inducendo degli atteggiamenti un po’ strani. Qualche volta stupidi, altre volte invece interessati, che suonano così: meno male che c’è la crisi della finanza pubblica, meno male che non ci sono più soldi pubblici così finalmente il privato può esplodere ed espandersi. Tutti questi convegni “Meno Stato, più Società Civile”, tra di noi siamo tutti d’accordo che questa è una sciocchezza, che la grande questione è “Diverso Stato, più Terzo Settore, più Volontariato, più Società, più Comunità”… come volete… Perché questo scambio comincia ad esserci. “Ma come? Non siete contenti? Finalmente!” Finalmente, che cosa? Io ho trovato particolarmente interessante un dato che mi ha sorpreso perché vedete, gli stereotipi culturali poi colpiscono anche noi. Io sono rimasto impressionato dal fatto che c’è una relazione diretta, non inversa, tra intervento Pubblico e presenza del Volontariato, e forza del Volontariato. I paesi del nord Europa in cui ci sono grandi risorse per le attività sociali sono quelli in cui il Volontariato è più forte, non più debole. Quindi non c’è una specie di rapporto biunivoco capovolto, meno/più. No, no, è una stupidaggine. Perciò è importante affrontare in maniera innovativa condizioni che sono sicuramente diverse dal passato. E se posso agganciare a questo primo punto - faccio in fretta però - una riflessione rispetto alla domanda che hai fatto (ci diamo del tu) prima, “Ma perché è così?”. Perché, aggiungo io c’è questa schizofrenia per cui nelle classifiche - che ogni tanto qualche giornale pubblica - delle cose di cui gli italiani hanno più stima, il Volontariato straccia tutti – ma di brutto straccia tutti, perfino i famosi Carabinieri sono più giù! - , il Volontariato è primo di tutti. Poi dopo invece, condivido c’è questo giudizio per cui chi si occupa di questo, poverino, non ha fatto in tempo o non ha le capacità di occuparsi di altro. Io penso che c’è un peso forte derivante dalla dipendenza dal Settore Pubblico. E questa dipendenza, in alcune aree del Paese - e qui torna il meridionale -, si è tramutata in palese pratica assistenziale. Questo fa ritornare un giudizio di marginalità. Naturalmente il ragionamento dovrebbe essere più complesso ma io penso così. Andrea Biondi Certo. Carlo Borgomeo Altre due questioni. Andrea Biondi Vuole farle subito o..? Carlo Borgomeo Ci metto un minuto. Andrea Biondi Prego. Carlo Borgomeo Le due frontiere sulle quali bisogna innovare – oltre questa, diciamo, innovazione con l’approccio generale - per il Volontariato, secondo me, sono la prima, quella di sviluppare di più la cultura e la prassi della rete. Su questo poi dopo trono perché, a uno come me - che non fa né volontariato né Impresa sociale, non fa niente, fa un altro mestiere, di valutazione di queste esperienze - pare importante che si eviti all’interno di questo Terzo Settore, di questa vasta e complessa realtà, una sorta di gerarchia, per cui c’è quello a 18 carati, quello a 14, quello a 13, quello a 7, quello a 6. La forza del Terzo Settore è la capacità di includere diversi modi di declinare la cultura e la prassi del dono. Per fare più rete - qui conta ancora una volta molto la mia esperienza del Mezzogiorno - cioè ci sono delle situazioni in cui grandi Organizzazioni sul territorio si parlano poco, per i motivi più vari, alcuni rispettabili, altri meno. Ma devono parlarsi, coordinarsi, progettare e stare sul territorio insieme e di più. La seconda frontiera è quella che io chiamo della reputazione. La forza del Terzo Settore, secondo me, sta nello stabilire autonomamente dei criteri di autovalutazione. La faccio veloce e provocatoria: le grandi Organizzazioni devono porsi il problema di cacciare i mercanti dal tempio. E non c’è legge che lo può fare, non ci sono autorità terze che lo possono fare. Bisogna che gli stessi protagonisti stabiliscano dei criteri di individuazione dei soggetti che, a pieno titolo, possono stare nella squadra del Terzo Settore. Non per questione di formalismo ma per questione di sostanza. La reputazione è una frontiera. Il lavoro per affermare i criteri di reputazione è una frontiera importantissima di innovazione per il futuro. Andrea Biondi Grazie. Nell’intervento del Dottor Borgomeo c’è un po’ tutto. Prenderei la parte iniziale dell’intervento cioè, ci può essere innovazione in un contesto in cui forse si inizia ad equivocare il ruolo dello Stato, del più o meno Stato, che dovrebbe essere un diverso Stato. È questo il quadro in cui bisogna, in cui occorre che le Imprese sociali si inseriscano per fare vera innovazione. Filippo Addarii Per rispondere alla tua domanda, io partirei dalla domanda iniziale perché è una buona domanda tranello. L’innovazione sociale non contempla il fatto che ci siano dei beneficiari. Così come non contempla che ci sia - come definirlo? - un soggetto, che sia lo Stato o un privato, che risolve i problemi per la comunità. Uno degli elementi fondamentali dell’innovazione sociale è la partecipazione degli stakeholders. Ed è una partecipazione in cui si condividono le differenti responsabilità e capacità. Detta così siamo tutti d’accordo. Il problema è che poi quando la si va a vedere sul territorio diventa molto più complessa. Parto da un fatto che mi ha molto divertito. Sono tornato a Bologna, vivo a Londra. Quando torno a Bologna vado sempre a vistare la libreria di casa, per vedere se c’è qualche vecchio libro, così, da leggere. E faccio una scoperta. Ho trovato questo libretto pubblicato a Bologna, nel 2002, “Innovazione sociale e welfare a Bologna”. E dico “Ma guarda! Allora l’innovazione sociale non l’hanno inventata a Londra, con le prime pubblicazioni, almeno in tempi recenti, nel 2007. Già i bolognesi ne parlavano nel 2002. Andiamo a vedere che cosa c’è scritto dentro”. Vado a vedere dentro e scopro che, sì, il titolo è “Innovazione sociale” ma di innovazione non c’è assolutamente niente. O meglio, di cultura dell’innovazione non c’è niente. C’è il vecchio discorso della spesa pubblica, si parla dei tagli e del bisogno di efficienza, di collegare le reti, dell’inquadramento legale della sussidiarietà, di un cambiamento lento e progressivo. E io, a quel punto, mi sono chiesto “Stiamo usando la stessa terminologia ma parliamo di due mondi completamente diversi”. Attenzione: la cultura dell’innovazione sociale dalla quale io vengo è una cultura che mette in gioco quello che noi conosciamo. Ma mette in gioco la comunità e gli attori che giocano dentro di questo. Il ruolo del Pubblico è fondamentale ma allo stesso tempo cambia profondamente. Spesso, innovazione sociale - e in alcuni governi europei - è un sinonimo di privatizzazioni, privatizzazione del Sociale. Ma in realtà questa è una interpretazione riduttiva. In realtà è una revisione, una ridefinizione del ruolo tra Pubblico e Privato. Però è probabilmente qui che ci scontriamo o dialoghiamo. È, in un certo senso, la fine - permettetemi di essere un po’ filosofico - dello Stato hegeliano, lo Stato come suprema entità etica, lo Stato come attore superiore a tutti. È questo che l’innovazione sociale implica. Non la scomparsa, la sostituzione dello Stato e del Pubblico, come qualcuno ha sostenuto. Ma uno stato che - adesso tradurrò dall’inglese che è Enabling Institution - uno Stato che aiuta le forze della società - quelle private del for profit, quelle non for profit, gli ibridi - a emergere. Non che le dirige, non che le inquadra, non che le controlla. A mio avviso, questo è un cambiamento epocale perché è lo Stato che si mette al servizio della società e in cui partecipa, al rischio e ai successi. Quello che ho anche trovato molto interessante in questa pubblicazione è la totale assenza della dimensione del rischio. E condivido assolutamente quello che diceva Alberto della cultura del fallimento, che - di nuovo - non è esaltazione del fallimento. Io personalmente - ci ho provato tante volte - ho fallito due volte e il successo di oggi di Euclid è basato sui miei fallimenti e quello che ho imparato. Ma in Italia ero uno sfigato, fuori sono un Imprenditore sociale. Andrea Biondi È chiaro che c’è una questione culturale dietro però, mi corregga se sbaglio, l’intervento del Dottor Borgomeo era anche un po’, come dire, una sfida, lanciava la palla un po’ nella vostra metà campo. Come a dire “Bisogna considerare un diverso rapporto con lo Stato ma bisogna anche che si faccia più rete, che si facciano partnership”. Quella è una sfida che, in qualche modo, riguarda proprio l’Impresa sociale e le nuove attività che possono nascere in Italia, no? Al di là del quadro culturale, del contesto magari non favorevole, no? Filippo Addarii Torno alla questione che cos’è la comunità e che cosa sono le reti. I confini nazionali e i confini locali non sono e non possono più essere un limite. Le partnership e le relazioni che si possono lanciare, come adesso stiamo sperimentando a Napoli, sono su tutti i piani. E le sinergie, la condivisione di conoscenze e responsabilità è a livello locale, nazionale, internazionale, globale. Dipende dalle sfide che si presentano. Devo ammettere, nella mia esperienza, il mondo anglosassone è molto più capace, molto più attivo. Sarà perché c’è un maggiore uso delle nuove tecnologie, sarà l’aiuto della lingua inglese. Fortunati loro. Ma, indubbiamente, è un mondo che io vedo oggi muoversi, ovunque. I network nati negli Stati Uniti o in Gran Bretagna hanno invaso il mondo. E questo sicuramente ha delle implicazioni nello sviluppo, nell’efficacia, nella capacità di generare capitali per il Settore. La network society è fondamentale. Andrea Biondi C’è, come diceva lei, che vi opera, il versante della valutazione dei progetti. Lei, dal suo punto di vista, cosa vede mancare dall’altra parte? C’è qualcosa? Carlo Borgomeo Dunque, sul concetto di reti sono totalmente d’accordo come sono d’accordo su che cosa significa Stato, Privato nel welfare. Sul concetto di rete farei una riflessione un po’ più concreta - non che la tua sia astratta ma più riferita all’esperienza. La questione che io pongo è questa: in alcune realtà - penso ad alcune aree metropolitane, ad alcuni quartieri molto difficili di aree metropolitane - esistono importanti presenze di Organizzazioni di Volontariato. Ora, un’Organizzazione di Volontariato, molte volte, ha grandi tradizioni, grandi identità che è una cosa sacrosanta, è una cosa da coltivare, tuttavia, in alcuni casi, si percepisce che la difesa, lo sviluppo della propria identità rischiano di alimentare una dimensione di isolamento. Allora, il grande sforzo è che rispetto ad alcune questioni particolarmente importanti e ad alcuni bisogni particolarmente gravi, ad alcune disgregazioni di tessuto sociale particolarmente violente, occorrerebbe che ci fosse un di più, uno sforzo notevole che io so essere uno sforzo importante -, appunto, di mettere a fattore comune esperienze, proposte e progetti. Quindi parlo di una necessità, diciamo, “incombente” in alcune situazioni, perché altrimenti c’è spreco di risorse. Ultimamente sono stato al famosissimo quartiere di Scampia, a Napoli, dove ho chiesto ad uno dei soggetti locali più forti, che sta lì da sette/otto anni, quante Associazioni ci sono a Scampia. Lui che è, a occhio, quello che ne sa di più mi ha detto 16/18, poi per un’altra strada abbiamo contato che ce ne sono 47. Non funziona così. Ora, una di queste 47, o qualcuna sarà inutile, ma non funziona così. C’è bisogno di una maggiore capacità di fare rete e di non procedere per reti verticali di comunicazione, di rapporti con la Pubblica Amministrazione, e quant’altro. Quello che io vedo per il Volontariato, nell’esperienza della Fondazione con il Sud - e approfitto perché questa è una innovazione interessante nel nostro lavoro. Intanto volevo dire che la Fondazione ha una particolarità che segnalo - che non è merito né mio né di chi ci lavora, ma è merito dell’idea fondante - e cioè che è l’unico posto in cui Fondazioni di origini bancaria e Terzo Settore e Volontariato non è che si incontrano ogni tanto, lavorano insieme. Nella scelta dei progetti, nella definizione dei bandi, nella valutazione dei risultati dei progetti, cioè nel monitoraggio che cerchiamo di fare al meglio possibile. E non è soltanto un rapporto di buon vicinato, una cosa diplomatica. Lavorare insieme sulle scelte da fare scambia cultura, che è una cosa molto importante. Qual è l’innovazione che abbiamo fatto, che ha un po’ a che vedere con la sua domanda? Ci siamo chiesti – prima c’è stato un intervento a riguardo - perché mai il Volontariato nei nostri progetti rischiasse di avere un ruolo marginale. La Fondazione deve erogare a soggetti del Terzo Settore, da soli o con Enti locali in posizione minoritaria, che fanno dei progetti nei vari ambiti (che adesso sarebbe troppo lungo raccontare). Il Volontariato aveva un ruolo tendenzialmente marginale. Ci siamo interrogati, con le Organizzazioni di Volontariato e abbiamo fatto un esperimento, strano, che però ha funzionato (innovazione, rischio, tutte queste cose…). Abbiamo detto perché un’Associazione di Volontariato che chiede di poter continuare a fare il suo lavoro - casomai di aumentare la sua capacità di promozione, di reclutamento - deve fare un “progetto”? Il progetto è un’altra cosa. Progetto in italiano si dice per un’altra cosa. E abbiamo provato a fare un bando intitolato “Bando per programmi e reti di Volontariato”, in cui non bisognava presentare un progetto - che ripeto è una cosa seria, un progetto, non è una domanda di contribuiti, è una cosa un po’ più complessa - in cui la, meglio le, Associazioni in rete presentavano un Piano di attività. Che cosa ha significato questo? Ha significato che la valutazione si è naturalmente spostata più sul soggetto - sulla qualità del soggetto, su quello che ha fatto negli anni precedenti - che sul progetto. Abbiamo affrontato questa operazione, potete capire, con quanta cautela e l’esperimento è andato però. Il primo bando esclusivamente dedicato al Volontariato è stato valutato, abbiamo assegnato le risorse. Sulla base dell’esperienza ne rifaremo un altro con alcune correzioni ma passa la linea secondo cui è possibile sostenere le Associazioni di Volontariato non a prescindere da quello che fanno, al contrario, in ragione di quello che fanno e che hanno fatto. Perché vedete, in alcuni casi - e questo immagino che sarà tema di confronto tra di noi - si ha netta la percezione che qualcuno è costretto, suo malgrado, ad inventarsi un progetto per prendere qualche risorsa. E questo è un disastro, dal punto di vista culturale e pratico, è un disastro, anche perché si allevano una serie di professionalità che io trovo assolutamente abnormi. Ormai purtroppo non solo nel Volontariato: pensiamo ai soldi pubblici per il Sud per lo sviluppo territoriale, ma anche al Nord, tutte queste sigle strane delle Regioni - qual è la professionalità che rischia di vincere? Non quella che c’ha un’idea di sviluppo, in testa, forte e la pone alla Regione o all’Ente erogatore. Ma quello che è capace di rispondere intelligentemente alle questioni poste dall’offerta, cioè dal bando. Una tragedia. Andrea Biondi Ma qual è il correttivo? Cioè, non è il modello stesso che invita a tipi di… Carlo Borgomeo Guardi, qui la questione è lunga, io non posso parlare troppe ore… Andrea Biondi No, purtroppo no. Carlo Borgomeo Però la domanda me l’ha fatta, posso rispondere? Andrea Biondi Un minuto e mezzo. Due minuti. Carlo Borgomeo Allora io, quando sono andato alla Fondazione, ho detto pubblicamente all’Assemblea Nazionale del Volontariato, che i bandi sono un male necessario. Ma sono un male. Perché il bando sancisce che vince l’offerta sulla domanda: decido io quello che serve, decido io come devi fare il progetto. Naturalmente siamo costretti a questo perché noi riusciamo a finanziare - nonostante dei bandi con dei criteri di preselezione - il 6 o 7% dei progetti che ci arrivano. Per darvi un’idea: la Fondazione per il Sud, grazie a questo accordo del quale siamo grati, ha la capacità erogativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (che ha 650.000 abitanti). Siamo condannati ad una selezione ferocissima, però, primo, abbiamo fatto questo esperimento che ha funzionato e che io sono contento che abbia funzionato con il pieno consenso e il lavoro duro con le Organizzazioni di Volontariato (perché sembra facile dire giudico sul curriculum ma non è una cosa semplicissima). Seconda innovazione, ho fatto una prova, abbiamo fatto una prova, terribile. Abbiamo detto: mandateci tre cartelle con un’idea, senza bando, tre cartelle. Noi faremo una prima valutazione e poi vi sfidiamo a fare il progetto. È stata una cosa preziosissima perché finalmente ha vinto la domanda e non l’offerta. Son venute fuori cose alle quali noi non avevamo mai pensato. Il piccolo dettaglio è che sono arrivate 1050 idee. Abbiamo avviato un percorso di selezione durissimo ma queste cose ci serviranno anche ad impostare l’offerta. Cioè la condanna è che - e questo vale molto nel Pubblico quando lei dice “come si fa?”, si fa in modo che l’offerta non dia sempre le carte, ma che abbia delle regole, dei percorsi e dei binari un po’ più flessibili, altrimenti è uno sviluppo, altroché che viene dall’alto, è una tragedia, dal mio punto di vista. Andrea Biondi Qual è il suo punto di vista? Quanto di possibilità di innovazione c’è in un contesto del genere? Filippo Addarii Prima di tutto, sono impressionato da quello che ho appena sentito perché è molto coraggioso. Questa è innovazione sociale da un punto di vista di un donor. Io non lavoro molto in Italia, lavoro soprattutto all’estero, molto con l’Europa. Pochi punti: l’investimento sui network e su quella che è la condivisione, la circolazione di idee e conoscenze grazie ai network è qualcosa ancora di molto raro in Europa. La Commissione europea ha lanciato un programma, qualche anno fa, cominciato come molto piccolo, cresciuto nel tempo per una semplice ragione: non è un vantaggio semplicemente per le Imprese sociali, il Terzo Settore creare network, è, innanzitutto, vantaggioso per le Istituzioni. La Commissione europea ha aumentato progressivamente l’investimento perché i beneficiari di questi grant, di questi fondi, sussidi, sono diventati gli esperti della Commissione europea, esperti che venivano consultati progressivamente. Quindi, anche il rapporto tra donatore e beneficiario, cambia. Perché non è più semplicemente un rapporto commerciale ma di partnership, quindi si crea una relazione di lavoro, grazie alla creazione di questi network. Ovviamente, questo crea dei problemi di competizione quindi i fondamentalisti del mercato hanno dei problemi su questo. Quando si parla di innovazione sociale, comunque, ma soprattutto quando parliamo di fondi per l’innovazione sociale è un campo in cui si sta sperimentando ma relativamente da poco tempo. E l’Europa si è scoperta campione di questo ambito ma per il momento non vediamo le ricadute su poi come l’Europa sborsa i fondi che sono ancora sui bandi, nelle caratteristiche e nei limiti che sono stati ora descritti. Esattamente questo approccio che guarda all’idea - e aggiungerei un altro aspetto: all’impatto - e non tanto ai processi e a quello che il donatore vuole, perché spesso il donatore non sa, sa quello che vuole ottenere, ma non sa come ottenerlo - è la via che oggi consigliamo. La cosa più interessante è che il Commissario francese Barnier, che si occupa delle politiche di liberalizzazione del mercato europeo e della riforma dei servizi finanziari, è il primo che oggi ha proposto la creazione di una Banca Europea Sociale. Che cosa vuol dire? Uno: per finanziare l’Innovazione sociale abbiamo bisogno di logiche diverse che non sono quelle del sussidio ma sono quelle dell’investimento. Due: la legittimazione, oggi, viene dal business. La Commissione, fino a qualche anno fa, vedeva il Sociale come marginale una cosa, prima di tutto, non di competenza della Commissione e, comunque, secondario rispetto agli interessi della Commissione. Oggi, entra a fare parte del cuore del mercato e dello sviluppo del mercato. Io vi parlo della Commissione perché la conosco meglio. Lavoriamo col governo inglese e con quello francese, ugualmente, vedo questo avvicinarsi a posizioni di questo tipo. La domanda è: qual è il Terzo Settore pronto ad abbracciare questo? Voi conoscete tutto il dibattito, in Inghilterra sulla big society. Essenzialmente il Governo che chiede al Terzo Settore di subentrare nell’erogazione dei servizi pubblici - ovviamente, con pesanti tagli al budget - e davanti a questa sfida il settore si divide. Non ci sono risposte al momento, ci sono scelte. Andrea Biondi Certo, è un dibattito che ferve, soprattutto in Gran Bretagna. Allora, lascerei spazio alle vostre domande e riflessioni. Prego. Io ho un debito con lei, non mi sono dimenticato. DIALOGO CON IL PUBBLICO Intervento dal pubblico Luciano Balbo. Ho un mio dubbio, visto che Filippo mi ha invitato alla provocazione: che tu, Filippo, abbia enunciato, nel modo più sofisticato possibile, il bluff che l’altro relatore ha, in qualche modo, diciamo, denunciato ovvero il concetto: “Meno Stato, più Privato, ma come?”. Allora, sul fatto che lo Stato debba essere diverso, debba essere il “direttore del traffico”, sono stati scritti migliaia di libri e non ci tornerei. Ma, se parliamo di macrodecisioni, è un conto; erogare dei servizi costa, ed è chiaro, tutti lo sappiamo, sia che siano dei servizi universali (sanità scuola) sia che siano servizi non universali rivolti ad alcune fasce della popolazione che la politica, i cittadini hanno deciso che a loro bisogna dare qualcosa di più perché sono in difficoltà. Quindi, io credo che qui ci sia davvero il bluff. Tanto è vero che lo dimostra il fatto che l’Economist, un giornale, direi, favorevole a Cameron - non direi di destra ma certamente favorevole alla libera iniziativa - dice: “Cameron sta facendo bene a tagliare i costi, ma il suo più grande bluff è raccontare agli Inglesi che con il Volontariato sostituiremo i tagli pubblici. E su questo” - è arrivato a scrivere - “ci morirà, perché nascerà la delusione”. Io credo che l’approccio è un altro. Noi dobbiamo tentare di sperimentare dei servizi di qualità che costino un po’ meno, meglio erogati. Si può spendere meno e fare meglio, e su questo io credo ci dovrebbe essere un nuovo modo di joint venture Pubblico/Privato. Perché, se parliamo di diritti universali, certamente, il Pubblico deve in qualche modo operare. È una diversa joint venture. Non come quella che c’è adesso nella Sanità dove il Privato lavora in concessione ed essendo un po’ più efficiente del Pubblico riesce a fare un po’ più di margini ma erogando nello stesso modo. Idem per i sistemi scolastici, questa è un’area e dall’altra parte - soprattutto, visto che si è parlato un po’ di Sud - per poter erogare più servizi alla persona bisogna avere più ricavi, bisogna far lavorare la gente di più, bisogna che i capitali tornino ad arrivare lì. Perché sennò non è che dando un contributo sui servizi risolveremo il problema. E all’interno di questo l’unica mia differenziazione rispetto al Dottor Borgomeo è che continuare a pensare che il Volontariato e Non profit possano essere degli attori importanti, addirittura unici, in questo tipo di esperienza - non in quello che già fanno - è un grave errore. Queste strutture sanno fare bene quello che fanno ora. Come tutti noi, se abbiamo fatto una cosa bene per una vita. Chiedergli di fare altro è un errore. E quindi, apprezzo il modo di non fare i bandi ma è ancora un modo di migliorare all’interno di un quadro di riferimento - quello imposto: la Fondazione per il Sud, o altri, devono erogare a Organizzazioni del Terzo Settore - che è sbagliato, che ha un limite. Perché se vogliamo finanziare altre cose di quelle che son state finora finanziate, altri attori devono entrare nella partita. Perché sennò continuiamo a giocare una partita di calcio con i giocatori sbagliati. Andrea Biondi Farei fare un’altra domanda. Facciamo più domande, così… Intervento dal pubblico Riprendo un attimo il tema dell’Impresa sociale per dire che mi interessava sapere - pensavo in realtà al Dottor Pezzana, percependolo bene a conoscenza dello Stato del diritto positivo… Andrea Biondi Si sente poco purtroppo. Intervento dal pubblico (segue) Scusi. Mi interessava sapere se - con riguardo a quanto è stato detto fino ad ora - si ritiene coerente che rimangano all’interno dello stesso settore disciplinare - a partire dalla legge 328 e dunque anche da tutte le leggi regionali che hanno preso il posto - Volontariato e suoi affini con le Imprese sociali di tipo A. Andrea Biondi Altre domande? Intervento dal pubblico Allora mi interessava intervenire anche per una questione personale. Mi chiamo Marco. Il Dottor Borgomeo è stato otto anni il mio capo di Imprenditorialità giovanile e adesso sono nel Consiglio di Amministrazione di Euclid network, e quindi, come dire, c’è la mia storia su quel palco. Andrea Biondi Potrà togliersi qualche sassolino dalle scarpe… Intervento dal pubblico (segue) Esatto. Allora, una cosa che mi interessava evidenziare - però non in modo polemico , ma una puntualizzazione dal mio punto di vista. Il Volontariato con l’Impresa sociale non c’entra niente. Il Volontariato può essere il terreno sul quale le esperienze, magari di giovani, si avvicinano a dei valori, che poi questi giovani, se sono bravi, sono in gamba, sono formati all’interno delle business schools che sono state nominate prima da Alberto portano avanti delle nuove esperienze che sono un'altra cosa rispetto al Volontariato. E poi, magari, se continuano a fare il Volontariato nelle loro Organizzazioni di provenienza e così via, meglio ancora. Ma, diciamo, sono due cose diverse. Anche perché qui c’è stato un intervento prima, anche perché io vedo il rischio che in una situazione al Sud - io sono napoletano - in cui il lavoro non c’è, il Volontariato diventa - così come il Servizio Civile Nazionale, così come tanti strumenti particolari - la speranza per entrare nel mondo del lavoro dalla porta di servizio. E quindi, in questo modo, non può che essere la porta degli sfigati, quelli che non riescono ad entrare dalla porta principale e ci provano per questa strada. E qui, chiaramente, questo con l’innovazione c’entra molto poco. Nel momento in cui al Sud i soldi pubblici non ci sono più - e non illudiamoci che torneranno perché qui l’iter è quello - bisogna trovare delle strade alternative che probabilmente sono strade che finora non abbiamo nemmeno immaginato. Da occasioni come queste magari possono venire delle idee, da qualche giovane che è qua in sala per proporre cose nuove. In questo senso, il Dottor Borgomeo prima ha fatto riferimento un po’ ai criteri che vengono utilizzati nella selezione di Fondazione Sud e tutto quello che diceva è perfettamente vero. Noi siamo stati adesso finanziati. Insomma è stato finanziato…diciamo ha superato la prima fase di selezione un progetto nel quale abbiamo fatto lo sforzo enorme di mettere assieme ACLI e ARCI, Confcooperative e Legacoop, insomma, che sul territorio dialogano poco, a livello locale queste grandi Organizzazioni (e anche le piccole). Poi bisogna vedere cosa succede, noi sia mai che ci danno il finanziamento e poi cominceranno a litigare come dei pazzi! Però è un problema molto interessante questo: perché le grandi Organizzazione faticano - e qui anche forse uno spunto provocatorio, noi abbiamo cercato di lavorare con Euclid con delle grandi Organizzazioni italiane che ci sembrano e ci sono sembrate molto più propense a mantenere le loro posizioni piuttosto che sperimentare cose nuove quindi non è solo il Pubblico che non innova, sono anche le grandi organizzazioni di Terzo Settore che non innovano. E soltanto l’ultimo riferimento sulla finanza. È chiaro che la finanza investe laddove vede almeno una minima possibilità di produrre un vantaggio per chi gli ha dato i soldi da investire. E qui come possiamo creare le condizioni, con strumenti innovativi, per interessare investitori privati? Perché se la Fondazione con il Sud, che è il più grosso investitore del sociale, di tutto il Sud Italia, vale la Cassa di Risparmio di Lucca (con tutto il rispetto per Lucca), è chiaro che i soldi non bastano. Quelli che ci sono adesso e dobbiamo attirarne degli altri. Andrea Biondi Grazie. L’ultima domanda. Intervento dal pubblico Sono Fabio Massimo Addari. Sono estraneo a questo mondo, salvo il fatto che vivo il Volontariato da vent’anni e passa. Il Volontariato spicciolo, anche se appartengo ad un’Istituzione internazionale che ha mille anni di storia in questo settore. La cosa che mi ha colpito di più - io sono venuto un po’ tardi quindi forse ho perso il primo momento, i primi interventi - è che si è parlato molto di concreto, poco di quelli che sono i valori che ci sono dietro, o che dovrebbero esserci. E mi sembra invece che negli ultimi due interventi siano estremamente interessanti alcune osservazioni. Perché, in Italia e nell’Europa continentale, c’è poca attenzione verso questo mondo mentre c’è di più nel mondo anglosassone? Credo che Filippo abbia giustamente detto “è lo Stato hegeliano”, io direi una cosa diversa: è entrata in crisi, finalmente, la Statolatria che deriva dalla Rivoluzione francese e dall’Illuminismo francese che ha - anche se fino ad adesso è stato totalmente esaltato -, in realtà, distrutto il pensiero dell’Europa occidentale, portando a quelle mostruosità che son stati i regimi dittatoriali che hanno rovinato il secolo scorso. Mentre invece sta tornando fuori adesso quello che è il pensiero fondamentale - e voi ne siete la manifestazione - di quello che è la cultura europea, la cultura della sussidiarietà. Cioè a dire, lo Stato deve intervenire solo laddove, effettivamente, i privati o le Organizzazioni private, o comunque, che sono sempre sociali non riescono perché non hanno la struttura e la capacità generale. Perché - diceva, chi è intervenuto prima di me - questi enti litigano fra di loro? Perché hanno una mentalità vecchia, sono ancora legati a delle strutture ottocentesche e novecentesche. Non dimentichiamoci che come ha detto prima, se non sbaglio, Masetti Zannini - in Italia c’è il posto fisso e la ricerca del posto fisso per forza. È stato distrutto lo spirito italiano. Non dimentichiamoci che tutto quello che c’è di moderno nel mondo attuale è nato, prima di tutto, nei nostri Comuni, nelle nostre città e nei nostri conventi. E io credo che, obiettivamente, la riunione di oggi sia estremamente interessante perché dovrebbe anche sviluppare questo dibattito per riesaminare e portare a conoscenza anche del grande pubblico quelli che sono i problemi di base, che se non si affrontano e non si risolvono (parlare di concreti, di finanziamenti, di aiuti - sono cose molto importanti, io poi faccio l’avvocato, e di banche tra l’atro, quindi conosco questi problemi). Ma non si risolve il problema. Cioè la società sta cambiando, grazie al cielo. Andrea Biondi Grazie. Chiaro. A lei Addarii, la possibilità di rispondere. Filippo Addarii Hanno toccato troppo, troppi punti. Cerco di darvi alcuni spot. Subito sui valori, perché almeno è molto chiaro, per me, se esiste un trend, soprattutto tra i giovani quelli che avrebbero dovuto lavorare in banca o nelle industrie - a fare Impresa sociale è perché è Impresa sociale. Ovvero c’è un bisogno, nelle nuove generazioni di trovare una maggiore coerenza tra l’attività professionale e i propri valori. Ve la do come intuizione ma, secondo me, è qui che va cercato il significato di questo boom internazionale insieme agli altri elementi di globalizzazione e di Internet e della network society. Ed è qui, secondo me, che bisogna cercate indubbiamente dei nuovi attori e creare le strutture, le forme, gli investimenti perché questi attori possano emergere. Uno spot sull’Italia, le Fondazioni bancarie: quando io ho avuto a che fare con l’Italia mi ricordo la difficoltà di spiegare alle Fondazioni bancarie - non c’era ancora la Fondazione per il Sud - l’utilità di investire nella creazione di reti, di reti internazionali. Credo che ancora moltissime Fondazioni bancarie non abbiano la possibilità di sostenere un progetto internazionale che collega gli italiani dal locale a dei pari, dei colleghi in altri paesi europei, a meno che non siano paesi in via di sviluppo. Quindi siamo ancora preglobalizzazione. Questo era un po’ di anni fa, non so se sia cambiato. Quindi ci sono, da una parte, i nuovi attori come “The Hub”, che vi dà la dimensione del network - cito “The Hub” perché qui c’è Alberto - “The Hub” è un network internazionale che vive non solo del network locale ma anche del network globale. E se conosco un po’ la storia, il supporto locale - soprattutto dei big players non è stato molto forte. Ma ci sono anche i possibili nuovi attori nelle grandi Organizzazioni che però non trovano lo spazio di agire. Non ho una soluzione. Io, personalmente, ne ho incontrati tanti. Non soni i capi, sono quelli subito sotto, sono dirigenti ma non hanno la capacità, non sono nella possibilità di portare innovazione. Questo è il tema dell’innovazione. Secondo me, si deve fare un lavoro strategico su quelli che sono - credo li chiamereste - “i quadri” nelle grandi Organizzazioni per liberare la loro capacità innovativa e creativa e portare innovazione all’interno dell’Italia. E, ultimo punto, non dimentichiamoci le spin off. Io credo che Volontariato e Impresa Sociale siano due cose diverse ma appartengano allo stesso ecosistema e possono generare delle spin off - è stata chiamata la strategia della fragola - l’una dall’altra. Mi viene in mente una che conosco molto bene BTCV, che è una delle grandissime Organizzazioni di Volontariato per l’ambiente in Gran Bretagna. BTCV non si è mai trasformata in una Impresa sociale, è rimasta un’Organizzazione di Volontari. Ma quello che ha fatto ha creato spin off per lavorare sul mercato in modo commerciale rispetto a dei prodotti e dei servizi. E oggi lavora anche con il Governo in questo modo. Quindi le possibilità sono innumerevoli, le commistioni e gli ibridi. C’è il tema - che è caro ad alcuni qui - se l’Italia abbia bisogno di un migliore quadro giuridico per facilitare l’emergere di queste forze. A mio avviso non è soltanto quello giuridico ma bisogna fare una riflessione molto più radicale sulle fonti di finanziamento. E sul mercato. Quello che sta emergendo, quello che si chiama il mercato degli investimenti sociali. Andrea Biondi A lei. Carlo Borgomeo Due battute veloci e poi una un po’ meno veloce. Il Volontariato al Sud è certamente in forte crescita. Sono d’accordo che bisogna fare la tara che lei suggeriva ma non spiega tutto. Cioè, il flusso positivo di adesioni alle Associazioni di Volontariato è marcato. Naturalmente una parte di questi, non avendo occupazione, dice “Vabè, incominciamo a fare questo giro, poi vediamo cosa succede”. Però sarebbe sbagliato spiegare tutto il fenomeno così. Sulle questioni relative al modello inglese, business, etc. spero che posso intervenire dal pubblico - così guadagno tempo - alla prossima tavola rotonda che parla di questi temi e anche sulla questione posta da Balbo. Noi abbiamo, evidentemente, contezza che le risorse che abbiamo sono poche rispetto alle innovazioni che bisognerebbe fare. dobbiamo trovare però un giusto equilibrio tra tentare qualche innovazione e dar conto ai nostri donatori. Perché noi abbiamo un meccanismo in cui ci sono delle Fondazioni alle quali bisogna raccontare anche dei risultati raggiunti specificamente. Ma sul tema, poi, torno dopo. Dopo, dal pubblico, sennò il moderatore si arrabbia. Il ragionamento che, invece, volevo fare è questo. Esistono diverse, come dicevo prima, modalità con cui si declina la cultura del dono. Io posso donare - donare me stesso e il mio lavoro - perché sono richiamato da una esigenza di giustizia sociale: corro perché nessuno fa quello che bisognerebbe fare. Posso avere una volontà di dono, imbattibile, come dire, naturale: io devo donare sennò sto male. A prescindere anche dalle condizioni esterne. Terzo, io posso immaginare - e questo è importantissimo recuperarlo - di donare in maniera diversa contribuendo ad una operazione che produce ricchezza, lavoro e reddito. Ma con una cultura diversa, con delle finalità, con dei valori diversi. La grande sfida è tenere insieme queste modalità in cui si declina la cultura del dono. Anche perché il modello altro – fatemi fare un piccolo comizio - ha perso. Questo ci manca nella nostra riflessione. Abbiamo ancora tutti - a partire da me, ma temo sia molto diffuso – in testa un meccanismo per cui dobbiamo essere altrettanto bravi del modello vincente in modo da non sentirci più sfigati e marginalizzati. Ma qual è il modello vincente? Quello? Allora ne parliamo dopo, perché un conto è avere una logica di business spietata e un conto è, finalmente, incamerare dei valori come la cultura del risultato, della rendicontazione, della professionalità. Su questo io ragionerei e vorrei aggiungere una cosa - indotto dalla riflessione del suo collaboratore, ex mio collaboratore - e, cioè, questa cultura del dono, non a caso, nel secondo dopoguerra ci fu una corrente di pensiero e anche di azione che sosteneva che il dono aveva anche un’altra funzione decisiva. Era quella di far scattare e rafforzare le relazioni tra persone e quindi diventare il nucleo fondante della comunità. Ci sono degli esempi clamorosi (che dimostrano che questo non è un comizio): quando si va nei quartieri difficili, nelle zone di frontiera e si incomincia a donare, quando si incontrano le vittime, come dire, peggiori dei meccanismi messi in moto dalla criminalità organizzata, e cioè i giovani adolescenti che cominciano a giracchiare attorno alle Organizzazioni, un po’ pagati per stare sul territorio, e quando a questi si propone un intervento di accoglienza e di accompagnamento, che cosa succede? Che quello lì non ci crede. Non ci crede perché è figlio di una cultura dello scambio, da quando è nato, dal primo vagito che ha fatto. E quand’è che scatta un minimo di comunità? Quando, finalmente, ci crede. Scatta la fiducia, e lì si innesta la comunità. Perché faccio questo esempio? Perché lei ha detto “I soldi son finiti”. E sa che le dico io? “Meno male!”. Ma vuoi vedere che lo sviluppo di questo Sud, finalmente, capiamo tutti che non ha la coesione sociale come effetto dello sviluppo economico ma che è finalmente il contrario, che se non c’è un minimo di coesione sociale, di rispetto delle regole, di comunità per quanti soldi ci butti lo sviluppo non lo fai mai. E questo sarebbe bene incominciare a raccontarcelo e anche ad avere atteggiamenti conseguenti. (Così il comizio l’ho fatto del tutto. E finisco così.) Andrea Biondi Bene. Io vi ringrazio. Vi ringrazio, è stato molto interessante. Grazie.