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fondazione venezia 2000
per
fondazione di venezia
almanacco della presenza veneziana nel mondo
almanac of the venetian presence in the world
Marsilio
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a cura di/edited by Fabio Isman
hanno collaborato/texts by Gino Benzoni
Sandro Cappelletto
Giuseppe De Rita
Francesca Del Torre Scheuch
Sylvia Ferino-Pagden
Fabio Isman
Andrea Landolfi
Rosella Lauber
si ringraziano/thanks to Christian Beaufort
Annalisa Bini
Augusto Gentili
Giorgio Manacorda
Stefania Mason
Giorgio Tagliaferro
traduzione inglese Lemuel Caution
English translation
progetto grafico/layout Studio Tapiro, Venezia
© 2009 Marsilio Editori® s.p.a.
in Venezia
isbn 88-317-9916
www.marsilioeditori.it
In copertina: Andrea Appiani, jr., Venezia che spera, particolare, ante 1861,
Milano, Museo del Risorgimento
Front cover: Andrea Appiani Jr, Venice Hoping, detail, before 1861,
Milan, Museo del Risorgimento
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Dalla rimozione e il rancore
alla riscoperta del grande patrimonio comune
From repression and resentment
to the re-discovery of a great common heritage
Giuseppe De Rita
Da Venezia fino a Vienna, andata e ritorno:
per chi suona la campana?
From Venice to Vienna and back again:
for whom does the bell toll?
Gino Benzoni
Tra ambasciatori e spie, artisti e musicisti,
secoli di rapporti in cagnesco
Ambassadors and spies, artist and musicians:
centuries of perilous relations
Fabio Isman
La laguna come un’alterità a portata di mano,
e poi il mito della città morta
The lagoon as proximate alterity.
And the myth of the dead city
Andrea Landolfi
Un acquisto dietro l’altro, nasce la più ricca
e documentata raccolta veneziana all’estero
One purchase after another leads to richest
and most documented venetian collection abroad
Sylvia Ferino Pagden
Dalla laguna fino agli Asburgo: i tanti viaggi
di un ciclo di 12 Bassano (ma uno è sparito)
From Venice to the Habsburgs: the many voyages
of a cycle of 12 Bassanos (but one is missing)
Francesca Del Torre Scheuch
Nello stesso anno, il 1787, due Don Giovanni:
però quanto diversi tra loro
Two Don Giovannis in the same year, but so very different
Sandro Cappelletto
«Vendere a ogni costo»: spariscono 5000 dipinti,
ma tornano cavalli e leone
“Sell, whatever it costs”: 5000 paintings disappear,
while horses and lion return to Venice
Rosella Lauber
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la città dell’imperatore e quella del doge
dalla rimozione e il rancore
alla riscoperta
del grande patrimonio comune
Giuseppe De Rita
1. Andrea Appiani jr.,
Venezia che spera, ante 1861,
Milano, Museo del
Risorgimento.
Andrea Appiani Jr, Venice
Hoping, before 1861,
Milan, Museo del
Risorgimento.
l’editoriale
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Y Noi di «Venezia Altrove» siamo andati un po’ in tutto il
mondo a ricercare le tracce della produzione artistica veneziana.
Ma per anni, ci siamo astenuti di andare a Vienna, pur sapendo
quanto strettamente le due città, le due culture, abbiano vissuto
insieme.
Y I maligni potrebbero dire che l’abbiamo fatto per rimozione. Chiunque senta intensamente Venezia sa infatti che Vienna,
vista dalla laguna, non è un luogo, ma è il simbolo di un dominio. Un dominio che ha azzerato una lunga storia politica e civile, ma ha anche distrutto una costante libertà di espressione e
di produzione culturale. Venezia era in lunga e inarrestabile decadenza quando arrivarono gli austriaci, e quella decadenza connota ancora lo spirito della città; ma la cesura fu troppo traumatica, segnò davvero la fine di un mondo. Ed è comprensibile che
i veneziani, magari coltivando un facile alibi, abbiano vissuto con
silenzioso rancore questi ultimi due secoli di un potere diverso,
divenuti poi con il tempo marginalità storica e civile. Confessiamolo: rimuovere Vienna è stato per i veneziani quasi indispensabile per continuare a vivere, in una mediocrità appena appena
compensata dalle gloriose serenissime memorie.
Y Ma era giusto superare la rimozione e recuperare l’insieme di
tanti rapporti intrattenuti a lungo fra artisti, musici, mercanti,
viaggiatori e letterati di Vienna e di Venezia. Chi leggerà le pagine che seguono sarà, speriamo, portato a superare i rimpianti e
i rancori. E si renderà conto che i tanti rapporti hanno creato un
patrimonio comune: un patrimonio che non è più da leggere
con le lenti del contrasto fra dominanti, ma con la gioia di un
dono misteriosamente consegnato a tutti noi.
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the city of the emperor and the city of the doge
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2. Di artigiano ignoto,
la polena della pirofregata
austriaca La Bellona, varata
a Venezia nel 1827,
e Antonio Canova, Ebe
(1816-1817), Forlì,
Pinacoteca civica.
6
By unknown craftsman,
the figurehead for the
Austrian frigate La Bellona,
launched in Venice in
1827, and Antonio
Canova, Hebe (1816-17),
Forlì, Pinacoteca Civica.
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the city of the emperor and the city of the doge
from repression and resentment
to the re-discovery
of a great common heritage
editorial
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Giuseppe De Rita
Y VeneziAltrove has travelled the world in its search for traces of
Venetian artistic production. But for years we have put off going
to Vienna, even though we knew just how close the two cities and
cultures have been.
Y Those given to maliciousness might say this was due to a case
of Freudian repression. Anyone who feels deeply for Venice, in
fact, knows that Vienna, seen from Venice, is not so much simply a place as the symbol of supremacy and rule. A supremacy that
brought to a close a long period of political and civil history, and
that also brought to a close a long tradition of freedom of expression and cultural production. Venice had for a long while
been inexorably in decline when the Austrians arrived, and that
decadence continues to connote the city’s spirit. But at that time
the caesura was too traumatic, and signalled the veritable end of
a world. It is comprehensible that the Venetians, perhaps latching onto a facile alibi, experienced with silent resentment these
two centuries under a different power, gradually becoming historically and civilly marginal. Let’s admit it: the “repression” of
Vienna, for Venetians, has been virtually indispensable, allowing
them to continue to live in a mediocrity only just compensated
by memories of the glorious Serenissima.
Y But it was important to go beyond this repression and recover that set of myriad relations between Venetian and Viennese
artists, musicians, merchants, travellers and men of letters. Anyone who reads the following pages will, it is to be hoped, be
tempted to leave regret and resentment behind. And they will realise that the many relations have created a common heritage: a
heritage that must no longer be read through lenses highlighting
the conflict between two dominant forces, but the joy of a gift
that has mysteriously been given to us all.
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1. Josef Carl Berthold
Püttner, La fregata austroungarica “Novara” nel bacino di San
Marco, particolare, Vienna,
Heeresgeschichtliches
Museum; il dipinto è
successivo al 1862.
Josef Carl Berthold Püttner,
The Austro-Hungarian Frigate
“Novara” in St Mark’s Basin
(detail), Vienna,
Heeresgeschichtliches
Museum; painting is post1862.
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quattro secoli di rapporti tra confronti, rivalità, sospiri
da venezia fino a vienna
andata e ritorno:
per chi suona la campana?
la storia
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Gino Benzoni
Y «Piacenza non è Singapore»; così, con inoppugnabile inizio, Giorgio Manganelli a connotare da subito la prima città. Venezia non è Vienna, possiamo dire a nostra volta, Vienna non è
Venezia. E potremmo a questo punto fermarci. Se, invece, proseguiamo, soccorrevole al procedere quanto osserva, reduce da
Mosca nella natia Berlino, Walter Benjamin. «È Berlino che si
impara a conoscere attraverso Mosca»; al rientro da questa,
quella gli «si mostra come lavata di fresco». Nel rivederla, gli
par di vederla per la prima volta, come sorpreso dalla ventata di
una novità scompaginante le abitudini del consueto, sommovente le sicurezze dell’assuefazione. «Eppur c’è chi vive e lavora a
Macerata»: così, non senza perfidia, Ennio Flaiano. Ma non è,
tuttavia, da escludere che anche al bancario maceratese sia data –
al rientro, che so?, dalle Maldive – l’esaltante sensazione della
riscoperta con occhi nuovi. Col che è al ritorno che si distruppa
dal torpore generalizzato del turismo organizzato, che si smarca
dal troppo tempo trascorso nell’obbedienza irreggimentata degli
aeroporti dove, nelle ore d’attesa della partenza, la meta perde
ogni sapore di destino.
Y «Andare a Mosca. Vendere tutto qui, casa, tutto, e via, a Mosca!». Questo l’impulso d’Irene. D’accordo sua sorella Olga:
«Sì, a Mosca, via, via!». Soffocante nelle Tre sorelle cechoviane la
provincia. E miraggio calamitante Mosca per chi, in un qualche
remoto governatorato della Russia 1900, si sente in questo avvizzire. Ma miraggio nella società moscovita nel contempo Parigi. È
questa la ville lumière per antonomasia. A Parigi, a Parigi allora. È
dal Settecento che così ci si propone, che, quanto meno, così si
sospira. Ma avvertibili analoghi propositi, analoghi sospiri indirizzati ben prima – già lungo il Quattrocento – alla volta di Venezia. A Venezia, a Venezia! Nel paesaggio mentale europeo
s’impone quale colei che più significa, che più promette, che si
offre quanto ovunque si desidera e però altrove non c’è. Unica e
irriproducibile la sua bellezza urbanistico-architettonica a visua-
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quattro secoli di rapporti tra confronti, rivalità, sospiri
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2. Intagliatore del xvi
secolo, Venezia come Giustizia,
Venezia, Museo storico
navale.
16th-century engraver,
Venice as Justice, Venice,
Museo Storico Navale.
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lizzare l’intima bontà della sua costituzione nell’assurgere – specie cinquecentesco – a «vera immagine» di perfetta repubblica,
di perfetto governo, di perfetta città-stato (fig. 2).
Y È una martellante autodicitura confortata da riconoscimenti
esterni, e, talvolta, sin anticipata. È autoconvinzione della classe
dirigente marciana che a Palazzo Ducale – sede del comando,
centro elaborativo e direttivo della Serenissima – si autogratifica con
l’illustrazione degli episodi più importanti della propria
storia e la rappresentazione allegorica dell’idea di sé nella
storia, per la storia. Rovinosi, per Palazzo Ducale, gli incendi dell’11 maggio 1574 e del 20 dicembre 1577. Ma
subito precettati i migliori pennelli – ossia Veronese, Tintoretto, Palma il Giovane – a dir nuovamente e meglio di quanto del già detto con figure è stato distrutto dalle fiamme che Venezia è
vincente, giusta, elargitrice di felicità ai sudditi e sinanco, con la grandiosa tela del Paradiso tintorettiano (fig. 3), riecheggiamento
del regno celeste, quasi suo anticipante
preannuncio terreno, suo abbozzo preconfigurante: con il piovere su di lei la privilegiante luce dall’alto, la fa lievitare quasi smaterializzandola, quasi alleggerendola dai grevi
condizionamenti terrestri perché, discatenata
dal contingente e dal caduco, proiettata nell’eternità, possa verso questa spiccare il volo.
Y Tra mare e cielo, di quello signora è verso questo protesa. Non «sicut aliae civitates» la città di San Marco, che – effettivo
terminal lungo il medioevo del pio pellegrinaggio al Santo Sepolcro affidato a una vera e propria navigazione di linea che a lei fa capo, da lei organizzata – si trasfigura ad
allusione della Gerusalemme celeste; tant’è che, negli incensamenti turibolanti, il Senato, il Maggior Consiglio diventano angeliche gerarchie d’un governo che – in un mondo squassato dall’ingiustizia, dalla violenza, funestato dal malgoverno – in certo
qual modo, come sintonizzato col regno dei cieli, l’attesta. Unico titolare della pietra filosofale del buon governo il patriziato
lagunare, e come tale quasi delegato in terra a rammentare, aristocratico governo dell’utopia realizzata, anzi dell’attingibile eutopia, la liceità della speranza, a suscitare effettive speranze.
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Y Sin patria dell’anima, nel Cinquecento, la Venezia del mito,
la città mitogena. A encefalogramma piatto, nel confronto, la
coeva Roma dei papi, nei rapporti con la quale la Serenissima, persuasa d’essere l’ottimo e il migliore dei reggimenti terrestri, non
cela sensi di superiorità; donde la fierezza con cui presidia le
proprie prerogative giurisdizionali di contro alle pretese invadenti e ingerenti della città di San Pietro (fig. 4). E quasi oscurata questa da un protagonismo a dir del quale Venezia – al di sopra di «tutte le altre» città passate e presenti, «così antiche come moderne» – «drittamente», a pieno titolo, «può chiamarsi metropoli dell’universo», culmine dell’eccellenza umana.
Y Avvertibile una simile presunzione anche nei diplomatici veneziani: allorché all’estero, ci si sentono rappresentanti d’una
città-stato in cui la mediocritas s’è sublimata ad aurea mediocritas.
Sempre implicitamente e spesso esplicitamente nutriti d’orgoglio civico gli ambasciatori d’una Venezia fatta di splendor civitatis e
sapienza di governo. Se quella, Venezia, è il costante metro di
misura della sua diplomazia, ne consegue che questa – nel caso di
Vienna – al più è disposta a riconoscere che il campanile di Santo Stefano è alto, all’incirca, quanto quello di San Marco. Ma
suscita sorrisi di compatimento l’arsenale, un “luogo” sul Danubio «serrato di legnami», che, anche nei suoi momenti di più
intensa attività, resta irrilevante se considerato con ottica veneziana (fig. 5). Ma non così Vienna, se valutata nella sua storica
funzione di Kaiserstadt che dai 20 mila abitanti del 1500 passa ai
100 mila del 1683 – che, però, sono sempre meno di quelli di
Venezia (demograficamente seconda in Italia, preceduta solo da
Napoli), la quale nel 1500 ha almeno 100 mila abitanti, e nel
1683 almeno 140 mila – per poi svettare coi 325 mila conteggiati nel 1790 (fig. 6). E, a questo punto, di gran lunga distanziata
Venezia, che, quell’anno, non raggiunge i 140 mila abitanti.
Y Certo che Venezia, insulare com’è, più che tanto non può
crescere. Ristretto lo spazio fisico. E dentro questo, costipata la
popolazione. La quale, toccato l’apice dei 170 mila abitanti nel
1575, cala falcidiata dalla peste che proprio quell’anno piomba
sulla città; e cala vieppiù dopo la successiva peste del 1630. Ciò
non toglie che, anche se oggettivamente impossibilitata a competere in termini di crescente sviluppo urbano, la città non possa
aspirare ad altri primati. E con l’impianto cinquecentesco d’una
rete di rappresentanza stabile presso le capitali europee e il Turco, destinata a durare e pure ad allargarsi sino alla caduta della
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3. Il Paradiso di Jacopo
Robusti, detto il
Tintoretto: dopo
l’incendio del 1577,
domina la Sala del
Maggior Consiglio nel
Palazzo Ducale di Venezia.
Jacopo Robusti, known as
Tintoretto, Paradise. After
the fire of 1577, it
dominates the Sala del
Maggior Consiglio,
Venice, Ducal Palace.
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Serenissima, in effetti primeggia quale colei che più sistematicamente e continuatamente osserva. Tant’è che viene definita «occhio del mondo» sia perché questo – il mondo – ha in lei il proprio organo visivo, sia perché quest’ultimo si fa sguardo sul
mondo. Città specola, dunque, Venezia, alla quale arriva il massimo dell’informazione – indicativo che, ancorché non protagonista nell’età delle scoperte, sia quella che più sappia dello scoperto: quella che per prima sia in grado di registrarlo cartograficamente – per poi essere ridistribuito sì che si diffonda. E addetti allo sguardo intendente gli ambasciatori veneti, espressione
dello stato marciano che, per loro tramite, prende le misure degli altri stati, li valuta nel loro peso specifico e in quello relativo,
non senza, implicitamente, autovalutarsi ed autosoppesarsi. Tenuti i rappresentanti della Serenissima a Vienna – o a Praga quando è qui l’imperatore – al profilo della corte e dei suoi protagonisti, al ritratto degli imperatori e dei principali ministri, alla
considerazione, nell’arco di tempo che va dall’assedio del 1529 a
quello del 1683, della tenuta o meno della città quale «bastione» antiottomano, quale «propugnacolo» della cristianità tutta contro l’irrompere del Turco.
Y Gran «machina» l’impero; ma come funziona? Sulla carta,
l’imperatore detiene il «primo posto» nella gerarchia dell’intera umanità. Però tanta primazia è più «apparenza» che «sostanza»: lungi dall’esplicarsi «assolutamente», imperiosamente
l’«autorità imperiale» è condizionata dalle Diete, anche revocata e disdetta, talvolta disobbedita e vilipesa. Una risultanza che la
diplomazia lagunare accentua mano a mano che constata il simultaneo dispiegato e incondizionato comando da Luigi xiv, il
cui spadroneggiare in casa si coniuga con una politica estera
espansiva nel trionfo della quale Venezia è costretta ad avvertire
tutta la precarietà della propria subalternanza. Impotente di
fronte a tanta potenza il vessillo – ormai sgualcito e sdrucito –
del mito del buon governo, che, non a caso, Nicolas Amelot de
la Houssaye, un segretario dell’ambasciata francese a Venezia,
demolisce senza riguardi nell’Histoire du gouvernement de Venise (Paris
1676-1677), un longseller che varrà a screditare la ormai vecchia
Repubblica anche nel secolo successivo.
Y Vanamente Marco Foscarini, doge nel 1762-1763, s’affannerà a riesumare in Della letteratura veneziana (Padova 1752) la cinquecentesca sapienza civile marciana, a rianimare il settecentesco
declino. Più che il recupero del passato glorioso, servirebbero –
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questa la convinzione degli stessi membri più pensosi del governo veneto – delle grandi riforme, un autorinnovamento radicale. Ma questo dovrebbe scalzare lo stesso governo patrizio, lo
stesso sistema Venezia collaudato nei secoli, ma anche logorato
dai secoli. E nemmeno i patrizi più spruzzati di lumi, che a Venezia non mancano, a ciò sono disposti. Intanto, grande l’impressione su Palazzo Ducale del “dispotismo” illuminato di Giuseppe ii (fig. 7), che, a Vienna e da Vienna, d’un tratto, a suon
di perentori decreti, con una
raffica di ingiunzioni su tutto il territorio imperiale,
vorrebbe imporre a questo
l’omologazione di un’uniformante razionalizzazione
per sopprimere specificità e
differenze delle «varie nazioni» costrette a «un sol
corpo ben compatto e solido». Solo che – riferisce
l’ambasciatore a Vienna Daniele Dolfin – siffatto «vasto
edifizio» programmato a tavolino quale geometrica architettura totale, quale disciplinamento globale di una sudditanza tutta allineata, messa al passo, fatta marciare all’unisono,
«crollò» non appena allestito per il dilagare del «malcontento»
nelle periferie, per la riottosa e sin rivoltosa riluttanza delle
«provincie». Nel constatare tale rapido collasso, nel diagnosticare il tracollo della gigantesca riforma c’è, da parte di Palazzo
Ducale, una sorta di brivido di compiacimento. Accusato dalla
cultura illuministica, dai governi riformati, di torpore incapace
di riforme il governo veneto. Ma è una colpa non saper riformare con il piglio decisionistico di Giuseppe ii? Oppure continua a valere la multisecolare saggezza ispirante ancora la classe
dirigente marciana che, fedele a se stessa, ha conservato il sembiante dello stato consegnato dal passato, ha mantenuto le corporazioni, ha rispettato le consuetudini locali, gli statuti locali,
le locali varietà, le locali differenze? Che siffatta conservazione
non sia una valida lezione di ammonente saggezza di contro al
disastro del giuseppinismo omologante, di contro alle furie dell’accentramento giacobino?
la storia
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4. Francesco Guardi, Pio VI
prende congedo dal doge nel
convento di San Zanipolo,
1782, Milano, collezione
privata.
Francesco Guardi,
Pope Pius VI Blessing the People on
Campo Santi Giovanni e Paolo,
1782, Milan, private
collection.
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Y Ma chi è disposto a prestare orecchie ricettive al savio magistero che può provenire da Venezia quando, nel 1797, con la
spallata napoleonica prima crolla la Serenissima e poi sparisce dalla carta geopolitica europea ogni parvenza di stato veneto indipendente (figg. 8, 9)? Città ex, a questo punto, Venezia: ex stato, ex capitale. E solo città sotto, a questo punto, quella marciana, specie sotto l’Austria, specie sotto Vienna e, in via subordinata, sotto Milano. Non più la Dominante ora la città lagunare, ma
città suddita (figg. 1, 10), città per forza di cose soggetta, sottoposta e, in certo qual modo postuma, il cui trascorso protagonismo di secoli è testimoniato dalla sterminata documentazione
serbata nei depositi dell’Archivio dei Frari memorizzanti i tempi del comando statale, del dominio in terra e mare all’insegna
dell’evangelista Marco. Lì, con il costituirsi ottocentesco nella
Venezia dopo di quello, dell’archivio, la ragionata archiviazione
in chilometri e chilometri di scaffalature della carte della Venezia prima. Perseguibili e di fatto perseguiti grazie al salvataggio
archivistico gli studi su questa, quella di prima.
Y Ciò non toglie che, nella percezione della coscienza europea,
quella che vive dopo, non tanto sia intesa come colei che, studiosa nell’Archivio dei
Frari del proprio passato di città-stato, in certo qual modo lo rivive;
ma piuttosto come colei, d’un tratto, ha perso la capacità di dirsi:
s’è fatta afasica, è ammutolita, come morta.
E, nel silenzio della defunta, sono gli altri a
dir di lei, a strattonarla
con lugubri diciture,
quale città necropoli,
quale corpo in decomposizione, quale residuato cimiteriale. Venezia è la città della
morte (fig. 11), dove si viene per morire, come fa il poeta slesiano Moritz von Strachwitz: divorato dalla tisi, nell’agosto-ottobre
del 1847, il morituro si sente – anche se di fatto morrà l’11 di-
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cembre 1847 a Vienna – in piena consonanza col disfarsi dei palazzi corrosi e tarlati che s’affacciano sui canali. E ormai nel primo Novecento, Venezia è la città appestata dove il manniano
Aschenbach giunge sfinito: e s’accascia nella spiaggia lidense,
mentre svanisce il profilo di Tadzio.
Y Ammagati poeti e scrittori dalla Venezia non più – quella di
prima, si capisce – vestita a lutto, vedova in gramaglie, fantasmatica, larvale, adoperabile a mo’ di tastiera docile a funerei martellamenti romantici, annusabile a mo’ di malsana serra marcescente ove localizzare situazioni estreme, decadenti, spasimi orgasmatici e spasimi preagonici. Per vivere, vi si arrabatta il nobiluomo Vidal di Giacinto Gallina. Vi conciona e vi si afferma in
alcova il dannunziano Stelio Effrena. Niente languori romantici, comunque, e niente complicazioni decadenti nelle carte a
Vienna prodotte o arrivate, e a Vienna archiviate dall’amministrazione austriaca. Nell’ottica del governo asburgico, Venezia
non è la città notturna, sfibrata, sfasciume piranesiano galleggiante in acque ormai prossime a inghiottirlo (fig. 12). È viva,
sin vivace, sin temibile per l’attecchirvi d’idealità risorgimentali.
E antiaustriaco, antiviennese il biennio rivoluzionario del 18481849. Spento sì il suo incendio dal governo di Vienna, ma ardua
la ripresa del controllo. Comunque, nelle sue tre fasi con altrettante soluzioni di continuità, la Venezia austriaca non è pendula sull’abisso come vorrebbero i poeti, ma è, invece, attiva, reattiva, operosa. E i suoi problemi sono quelli della vita che, bene
o male, a volte più male che bene, prosegue; non già quelli della fine imminente: interrare i rii? moltiplicare i ponti? aumentare la pedonalizzazione con relativa diminuzione dei traghetti?
Ci pensano gli amministratori locali, vigilati da Milano e da
Vienna. E le decisioni grosse passano da quella e da questa. E i
comandi vengono da entrambe. Marcata e marchiata la Venezia
Ottocento, la Venezia austriaca dalla fine dell’insularità. Ferrovia sì o ferrovia no? Va da sé che, se si opta per il treno, occorre
il ponte ferroviario. È con questo che arriva in treno Strachwitz.
Ma tutto proteso a finire i propri giorni nella città i cui palazzi si
sfarinano sulle acque dei canali che la tramano neri nel nero della notte, è sordo al “ciuff ciuff” della locomotiva, cieco alla folla
che ci cammina e ci lavora. Per carità: non è un rimprovero. Anche se la città nel frattempo è viva e prossima a insorgere, la sua
ispirazione la vuole morta, solfeggia su questo tasto.
Y Annessa, nel 1866, Venezia al Regno d’Italia. E, a questo
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punto, silenti su di lei le carte, i rapporti, i rendiconti, gli atti, i
protocolli, le relazioni, le scritture viennesi. Non più argomento per i ministeri della Kaiserhof. In compenso, sono gli autori
viennesi, o per nascita o, quanto meno, per attività, a guardare a
Venezia e anche a portarvicisi. Il treno – come insegna Carducci
– i monti supera, divora i piani. A portata di mano Venezia per
Vienna. E chiaroscurate entrambe negli accostamenti di Rilke –
praghese di nascita e austriaco di formazione: la scuola militare
di Sankt Pölten; l’accademia di commercio di
Linz; con quella e con
questa, il padre aveva
tentato d’inchiodarlo a
un compito preciso nel
quadro dell’impero austroungarico – laddove,
a partire dal 1897 con
puntate intermittenti, a
Venezia tende ad ambientare la propria sensibilità. In questa –
scrive nel 1907 alla moglie – «diversamente» che a Vienna, «ci si ritrova tra cose indicibili». Rilke sta allora scrivendo I quaderni di Malte Laurids Brigge, il
quale, ancor bambino, intuisce confusamente che «la vita sarebbe stata», per lui, «piena di cose strane» e, appunto, «indicibili», pressoché a tutti precluse e, al più, intendibili da «uno
soltanto». Costui è proprio Malte, che l’indicibile l’incontrerà
a Venezia quando – stralciandosi dal turismo intontito dal dondolio delle gondole che introduce alla fruizione d’una Venezia
«molle e oppiacea» – è come trafitto dalla visione della Venezia
autentica, «vera», non banalizzata dal consumo turistico. Non
dolci baci e languide carezze e belle forme disciolte dai veli al
chiaror di luna e/o in albergo, non notturni roventi amplessi di
coppie legittime in viaggio di nozze, o di amanti più o meno
clandestini, più o meno adulterini. Ma una città «mattutina»,
energica, volitiva, «voluta in mezzo al nulla», «arsenale insonne», che nella storia irrompe come «esempio di volontà austero ed esigente». Fulminato, al pari di Malte, da questa Venezia,
in una lirica del 1907-1908 Rilke l’avverte salire «dal fondo»,
«da antichi scheletri di foreste» con l’indomita volontà leonina
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5. Gianmaria Maffioletti,
L’Arsenale al momento dell’arrivo
delle truppe austriache, datato
1798, Venezia, Museo
storico navale.
Gianmaria Maffioletti,
The Arsenale on the Arrival of the
Austrian Troops, dated 1798,
Venice, Museo Storico
Navale
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impersonata dalla flotta che, con il favor della «brezza», appunto, «mattutina», salpa alla volta del mare aperto.
Y Catturato, irretito, sedotto da Venezia Rilke – che il padre
avrebbe voluto ufficiale dell’imperial esercito; e magari, gli
avesse obbedito, avrebbe fatto carriera di guarnigione in guarnigione, con il miraggio d’un trasferimento al viennese ministero della guerra, in tal caso sospirando a Vienna, a Vienna! –
non per scivolare nel «puro incantamento», ma per afferrarne
«il segreto», per intenderne l’essenza, come dichiara in una
lettera del 1912.
Y E intanto a Vienna il viennese (fino al midollo: l’infantile sua
«camera di Vienna» è, per lui, «il mondo intero») Hugo von
Hofmannsthal continua ad arrovellarsi su argomenti veneziani
come ha già fatto con un frammento teatrale sulla morte di Tiziano, con la tragedia La Venezia salvata, con il racconto La lettera dell’ultimo Contarin. Inizia, all’incirca nel 1912, da parte di Hofmannsthal, la faticata e protratta e non ultimata stesura di un romanzo, il cui titolo iniziale oscillante tra Diario del viaggio veneziano del signor N. e L’avventura veneziana del signor N. troverà alfine la sua sistemazione in quello, più enigmatico ma anche più indicativo del
contenuto – c’è di mezzo la tensione al superamento della lacerazione tra eticità ed esteticità, al ricongiungimento di quanto è
divaricato, alla ricomposizione di ciò che divide –, di Andrea o i ricongiunti, con il quale uscirà postumo quale Fragment, spezzone
d’una narrazione troncata di brutto, non conclusa, sconclusa.
Y D’altronde come chiudere quando le chiusure praticabili virtualmente si moltiplicano? Ad ogni modo, il protagonista è Andrea, che dalla Vienna 1778 – in questa l’imperatrice Maria Teresa (fig. 13) con il suo moderato, ben temperato riformismo,
mentre il figlio Giuseppe, il futuro imperatore, sta scalpitando
bramoso di vieppiù riformare – muove alla volta di Venezia.
«Troppo angusta» per il giovane Andrea, troppo semplice,
troppo univoca la capitale imperiale per rispondere ai propri assillanti interrogativi. Spera che la risposta possa venirgli da e a
Venezia, quasi solo qui sia dato di «cercare» sino «in fondo alle cose». Di fatto, arriva in una città stralunata, notturna, mascherata. La ricerca diventa «avventura»: frastornante, occultante, sviante la ridda delle apparenze, ma anche illuminante, rivelante nella misura in cui non è da escludere la profondità stia
nella superficie, la verità coincida con l’ambiguità della maschera, lo scavo più autentico per ritrovare se stessi, lungi dal risolversi
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nello «scendere nella nostra interiorità», consista, invece, nell’abbandono all’ondivago e contraddittorio gironzolio delle circostanze più dispersive. E, allora, non concentrazione con presunzione di coerenza, ma disponibilità duttile e flessibile. Non
autoauscultazione procedendo dentro, ma errabondo tentativo
di trovarsi fuori. A Venezia, a Venezia, nel fuori più fuori. Solo
che a Venezia Andrea non si ricompatta: si scheggia, si smarrisce.
Se, nell’andarvi, ha incontrato, in una valle, una ragazza dal
cuore intero, ha assaggiato la vita semplice e genuina d’una montana fattoria, ecco che a Venezia Andrea si sdoppia nell’incontro
divaricante con una giovane dama e un’avvenente cortigiana.
Spiritualità rarefatta la prima, sensualità torrida e disinibita la
seconda. Così a tutta prima. Ma sino a un certo punto. C’è un
che di inquietudine repressa nella contegnosità della prima. E
sin inquietante la carnalità della seconda. E torbida la situazione
laddove questa vorrebbe Andrea seduttore della prima. Lasci
perdere – l’esorta scaltra – l’ossessione della «verità»; non è che
una «stupida parola».
Y Certo che, prima o dopo e, ormai più dopo che prima, Andrea dovrebbe tornare a Vienna a far qualcosa di concreto. Ma
come accingersi a «il viaggio del ritorno», quando, con sgomento, avverte di non poter «assolutamente ritornare alla limitata esistenza di Vienna»? Perplesso il giovane sul da farsi; e perplesso anche l’autore sul che fargli fare. Di per sé, appena arrivato a Venezia – in questa sbarcato sul far dell’alba, scaricato di
brutto da un brusco barcaiolo, in una sperduta fondamenta dove non passava «un cane» – il giovane ha avuto la ventura d’essere agevolato ad ambientarsi dalla cortesia soccorrevole d’un
uomo mascherato, sbucato provvidenziale da una calle. A tutta
prima smarrito e incapace d’orientamento nella città deserta ha
nel cavalier Sagramozo, o Sacramozo – questa l’identità della
maschera; epperò l’identità consiste anche nell’automascheramento – un mentore eccezionale, una sorta di Virgilio. È personalità non comune, anzi straordinaria. Se vive a Venezia, «fusione dell’antichità e dell’oriente», è perché v’è impossibile ricadere «nel futile e nel meschino», è perché meglio che altrove
vi si può essere mondani e, insieme, meditabondi, conferire all’esistenza qualche significanza, una marcia in più. Un maestro
per Andrea, ansioso di maturare quest’uomo che aborre l’univocità, padroneggia la complessità e par capace di ricongiungere il
disgiunto. Solo che volontariamente si dà la morte. Un suicidio
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filosofico il suo; ma, per Andrea, un tremendo dolore, una perdita irreparabile; smarrito, si sente orfano.
Y Di poco successivo all’avvio della tormentata e incompiuta
stesura del romanzo di Hofmannsthal l’immergersi, da parte del
viennese Schnitzler, nel novembre 1914-febbraio 1915, nella lettura delle memorie casanoviane. Una lettura operativa esitante,
nell’ottobre del 1917, in una commedia in versi – qui un Casanova a 32 anni tutto voglia di vivere, tutto arraffante energia seduttiva – e in un racconto lungo, o romanzo breve, nel quale
l’avventuriero veneziano è ancora protagonista. Solo che ha perso ogni smalto. Di anni ne ha 53. Non sono pochi. E per di più,
li porta male. Ne mostra di più. È arrugginito, acciaccato, incupito, appesantito; con qualche residua pretesa nel vestire, male
assecondato dall’abito già elegante, ma ora logoro, sdrucito,
rabberciato alla meglio per durare un altro po’. Senza soldi, il
guardaroba non può rinnovarlo. Capitato a Mantova, s’ostina a
frequentare per brillarvi quel po’ di società che in quel centro di
provincia può radunarsi. Sfodera, per far colpo sulla fresca avvenenza di Marcolina, tutti gli artifici della sua conversazione un
tempo efficace, un tempo apprezzata e richiesta. Ma adesso, è
come muffita, rancida e, peggio, noiosa. Infatti Marcolina s’annoia; e, urtata dalla pretesa di sedurla con questa, non cela il suo
disprezzo: gli fa sentire tutto il vecchiume della sua forbita loquela, la sgonfia con pungente sarcasmo.
Y Cocente umiliazione per l’avventuriero in là con gli anni
l’essere costretto alla consapevolezza che, già macchina seduttiva
funzionante a pieno regime nella sinergia di prestanza fisica e
disinvolta parlantina, è ormai un ferro vecchio da rottamare:
anchilosato il corpo, goffo nei movimenti; imbolsito il volto;
polverosa, farraginosa la conversazione. Ha perso ogni fascino.
Non incanta più nessuna. Quanto a Marcolina, egli la disgusta.
Le fa sin ribrezzo. Ma non si rassegna a ritirarsi in buon ordine.
Lo smacco non è un momentaneo incidente; segnala la fine d’ogni velleità di successo per un Casanova che la propria identità
l’ha confezionata in termini di grande seduttore, d’irresistibile
conquistatore. Ebbene: pur sempre animale di rapina, per sempre rapace, Marcolina la conquisterà con l’inganno, il più infame, il più turpe. Essa ha un amante, un giovane avvenente ufficiale. È con costui che Casanova s’accorda. Nella sua incattivita
senescenza, l’avventuriero sa tirar fuori il peggio di sé e il peggio
degli altri. Il vecchiaccio malvissuto e il giovinastro cialtrone
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sembrano fatti per incontrarsi: quasi per valorizzarsi a vicenda
entrambi attestati sulla rapacità che li accomuna. Casanova – che
ha vinto al gioco duemila ducati – li gira al giovane che, invece,
al gioco ha perso. E questi, in cambio, si fa complice del suo
truffaldino intrufolarsi nel letto, altrimenti inaccessibile, di
Marcolina. Gli presta il proprio mantello, avvolto nel quale, col
quale camuffato, nottetempo, nel buio più pesto, Casanova è accolto dalla giovane nella sua stanza. Scambiato per l’amante, ha
modo di scatenarsi con tutta la vigoria superstite dell’instancabile amatore appassionatamente corrisposto da Marcolina. Ma al
primo chiaror dell’alba, costei, con «indicibile orrore», ravvisa
l’identità di Casanova, e dietro a questa, la laida complicità del
giovane da lei amato. S’accorge che non con questo, ma con
quello ha trascorsa focosa la notte.
Y Insopportabile quell’«orrore» per Casanova. Da quello impregnato, con addosso lo schifo che prova per lui Marcolina da
lui insozzata, con addosso il marchio indelebile della sua ripugnanza, Casanova scappa a rotta di collo. Ma gli sbarra la fuga
l’amante di quella; non che si sia di per sé pentito: solo che odia
troppo Casanova e odia se stesso per essersi con lui accordato. I
due sono della «stessa pasta», quasi intercambiabili: Casanova
vede nel rivale se stesso da giovane; questi intuisce in quello ciò
che diventerà invecchiando. Perciò si detestano a vicenda. All’ultimo sangue il duello. È come lo sdoppiarsi nell’odio di un’unica esistenza somma di giovinezza ribalda e senescenza incarognita. Per tal verso la furia omicida che li avventa l’un contro l’altro
ha, in certo qual modo, valenza suicida. Nella distruzione dell’altro, una volontà d’autodistruzione. Casanova ha la meglio:
colpisce al cuore con una stoccata il giovane. E, mentre questi
giace esamine, fugge senza sosta sino a Venezia, a rintanarvisi
impunito. Vi riprende, stanziando al caffè Quadri, lo squallido
lavoro di spione prezzolato dagli inquisitori d’uno stato che, ormai intimamente tarlato, paventa sin le chiacchiere degli avventori dei ritrovi. A notte fonda, il Quadri chiude. Nessun più vi
bisbiglia. E Casanova non ha di che origliare. Anch’egli può andarsene. Attraversa piazza San Marco «deserta», «oppressa»
dall’incombere di un cielo caliginoso, greve senza che traluca
una stella. Per calli e callette, con saliscendi di «ponticelli» sotto i quali scorre una lutulenta acqua nerastra come sospinta al ricongiungimento con stigie «acque eterne», l’avventuriero guadagna il miserando alberguccio ove, in una camera disadorna,
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6. Johan Adam
Denselbach, Veduta di Vienna
dalla Roten Turmtor, 1740,
Vienna, Museum
Karlsplatz.
Johan Adam Denselbach,
Scene of Vienna from the Roten
Turmtor, 1740, Vienna,
Museum Karsplatz
l’attende un «cattivo» letto, sul quale, stremato da una «stanchezza dolorosa», si butta. Pietoso, sull’albeggiare, il «sonno
agognato», «senza sogni», l’inghiotte quasi speranzoso di non
risvegliarsi, di non doversi più guardare allo specchio con il medesimo «orrore» con cui l’ha guardato Marcolina.
Y Una Venezia 1778 quella in cui Andrea s’illude di riannodare l’io scisso, quella in cui l’attempato Casanova s’accuccia come
un animale ferito a morte. Addosso ha l’onore e l’onere d’una
storia più che millenaria della quale appesantita non ce la fa a
star diritta; e procede con passo incerto, quasi barcollante. Non
le resta molto da vivere. Il 12 maggio 1797 s’autodimetterà il
Maggior Consiglio e con lui l’intero regime; subentra la Municipalità provvisoria, spazzata via, il 17 ottobre, a Campoformio.
Complici lì Napoleone e l’imperatore Francesco i nel far fuori
l’autonomia statuale di Venezia, nello spartirsi le spoglie dello
stato cancellato di comune accordo. È la fine. E c’è la data. Fissabile sempre questa per la morte. Senza data precisa, invece, il
posizionarsi di un mondo verso la fine. E magari un mondo può
essere verso la fine e non saperlo, ignorarlo. Ignara la Vienna
1913, che s’accinge ad avviare i preparativi del festeggiamento alla grande dell’ormai non più lontano 1918, quando scade il settantennio del regno del longevo imperatore Francesco Giuseppe. Si forma un comitato per le onoranze; e segretario, si ricorderà, il musiliano uomo senza qualità. Proposito del Comitato
esaltare i pregi di Cacania, valorizzare il senso della sua presenza
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storica. Ma – si sa – la prima guerra mondiale farà crollare Cacania. E Vienna, sua capitale, si ritroverà ad essere come un gran
testone d’un corpo ridotto a moncherino. Finis Austriae. Va da sé
che il tracollo si colloca nel 1918 (fig. 14); ma quando inizia la
percezione che un mondo sta per finire? Nel caso di Hofmannsthal e di Schnitzler vivono quel tanto che basta a conoscere sia la
Vienna della belle époque, sia quella dopo, travolta dalla sconfitta.
E avvertibili nella prima i preannunci di smottamento, di scollamento, di frana. È comunque respirando nella dimensione della fine che i due inventano storie veneziane, ambientate in una
Venezia che – essi, con la scienza del poi, lo sanno bene – ha ancora poco da vivere. Scrivono, a Vienna, nei paraggi d’un collasso del mondo in cui sono nati, cresciuti e maturati, di personaggi che, a loro volta, si muovono sul bordo della imminente finis
Venetiarum. Vien da dire che le finitudini s’annusano, si fiutano,
si cercano, si riconoscono, quasi strofinano l’un l’altra, sin simpatizzano, sin istituiscono affinità elettive.
Y D’altronde, se per la Serenissima è suonata la campana, come
escludere che il funebre rintocco non possa valere – prima o dopo, magari più dopo che prima – anche per altri, anche per tutti? Trionfante e spadroneggiante l’Inghilterra nel 1816, allorché
esce il byroniano Harold’s Pilgrimage. Ma ammonita – un ammonimento rimosso per oltre cento anni, se si considera il tetragono
trionfalismo di un Kipling – la superbia della potenza più potente dall’autore: «Nella caduta di Venezia, pensa alla tua». La
memoria si fa profezia. Almeno, in Byron, il quale così va oltre
la commossa partecipazione al lutto dell’antecedente sonetto di
Wordsworth che – meditando sulla vicenda d’una città già «radiosa» per la quale, sfiorita, debilitata, sfinita, senza più «forze», «or è conclusa la sua lunga vita» – a lei offre il «mesto
omaggio» del pianto condolente.
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four centuries of relationships – conflict, rivality, hope
from venice to vienna
and back again:
for whom does the bell toll?
history
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Gino Benzoni
Y “Piacenza is not Singapore”. Thus, incontrovertibly, does
Giorgio Manganelli immediately connote the former. Venice is
not Vienna, we can say in turn, and Vienna is not Venice. We
could even stop there. If, however, we were to continue, then
Walter Benjamin, having returned to his native Barlin from
Moscow, might come to our assistance. To paraphrase his sentiment, it is through Moscow that one gets to know Berlin; returning from the latter, the former appeared to him anew, as if
freshly laundered. On seeing it again, it seemed to him that he
was seeing it for the first time, as if surprised by a surge of novelty disrupting usual habit, undermining the security of inurement. Not without a touch of perfidy, Ennio Flaiano had the
following to say: “And yet there are people who live and work in
Macerata”. But it should nonetheless not be implausible for a
bank clerk from Macerata, on his return from, say, the Maldives,
to feel the exciting sensation of seeing his city with new eyes. With
which it is on his return that he awakes from the generalised torpor inflicted by organised tourism, frees himself from the inordinate amount of time spent in the regimented obedience of airports where, in the hours spent waiting for take-off, the ultimate
aim loses all sense of destination.
Y “To go away to Moscow. To sell the house, drop everything
here, and go to Moscow...” This is Irina’s impulse. And her sister Olga agrees: “Yes! To Moscow, and as soon as possible.”
The province, in Chekhov’s Three Sisters, is suffocating. And
Moscow is a magnetic mirage for those who, stuck in some remote region in turn-of-the-century Russia, feel stuck in this
withering boredom. But the mirage for Muscovite society is, at
the same time, Paris. This is the ville lumière par excellence. To
Paris, and as soon as possible then. This is the way this has been
put forward, or at least sighed, since the 18th century. But there
were similar, perceptible aims and similar sighs, throughout the
15th century, directed towards Venice. To Venice, to Venice! In
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the European mental landscape, Venice imposes itself as the city
that signifies and promises more than any other, that even offers
what is desired everywhere, but that can be found nowhere else.
Its urban-architectural beauty is unique and un-reproducible,
displaying the profound excellence of its constitution in its
(mainly 16th-century) rise to “real image” of the perfect republic, government and city-state (fig. 2).
Y This is an incessant, selfstyled and, at times, anticipated title, confirmed by nonVenetian acknowledgement.
The Venetian powers that be
convinced themselves that the
Ducal Palace (the Serenissima’s
seat of command, its directional and elaborative centre)
could best be gratified through
illustrations of the most important episodes in its history
and the allegorical representation of its idea of itself in history and for history. The fires
of May 11, 1574, and December
20, 1577, were disastrous for
the Ducal Palace. And the best
artists of the period (i.e.
Veronese, Tintoretto, Palma
the Younger) were brought in
to reiterate, and better elaborate, what had already been said
through images before being
destroyed in the fires, and that
is that Venice is victorious and
just, bestower of happiness on
its subjects and even, via the grandeur of Tintoretto’s Paradise (fig.
3), an imitation of the celestial kingdom, virtually its earthly foretaste, a pre-configuring sketch: with privileging light raining
down from above, it is made to hover, almost immaterial now,
virtually removing from its shoulders those unbearable earthly
conditionings, releasing it from the chains of contingency and the
ephemeral, that it might take flight towards this paradise.
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7. Pompeo Batoni, Ritratto
dei fratelli Giuseppe II d’Austria e
Leopoldo di Toscana, 1770,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Pompeo Batoni, Emperor
Joseph II and His Younger Brother
Grand Duke Leopold of Tuscany,
1770, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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Y Caught between sea and heaven, it is the lord of the former
and reaching forward to the latter. No sicut aliae civitates the city of
St Mark, which, a terminus throughout the Middle Ages for the
pious pilgrimage to the Holy Sepulchre handed over to what could
only be described as a navigational route headed and organised by
the city, is transfigured into an allusion for the celestial
Jerusalem; so much so that, in incense-laden adulation, the Senate and Maggior Consiglio became the angelic hierarchies of a
government that, violently shaken by injustice and violence and
afflicted by misgovernment, in some way, testifies to this very fact.
The only bearer of the philosopher’s stone of good government
in Venice was the patriciate, and as such they were virtually the
earthly reminder, once the aristocratic utopian, or rather the attainable eutopian, government had been realised, of the lawfulness of hope. They inflamed effective hope.
Y Venice, in the 16th century, is virtually the home of the soul,
the land of myth, a myth-generating city. In comparison to which
contemporary papal Rome seemed barely alive. And in Venice’s
relationship to Rome, persuaded as Venice was that it commanded the best of land regiments, it could barely suppress a sense of
superiority. Hence the pride with which Venice guarded its own
jurisdictional prerogatives against the invasive and interfering demands of Rome (fig. 4). Rome is almost obscured by Venice’s desire to be at the centre of attention that made of it – above and beyond “all other cities” past and present, “both ancient and modern” – by rights “the metropolis of the universe”, the apogee of
human excellence. The same presumption could be gleaned in
Venetian diplomats: while abroad they felt they were representing
a city-state where the mediocritas had been sublimated and uplifted
to aurea mediocritas. Always implicitly and often explicitly nourished
by civic pride, these were ambassadors of a Venice made of splendor
civitatis and the wisdom of government. If Venice was the constant
yardstick in terms of diplomacy, then it was equally true that Vienna was at most willing to admit that the bell tower of St
Stephen’s was approximately as tall as that of St Mark’s. But Vienna’s dockyards, situated along the Danube and “hedged in by timbers”, provoked smiles of pity: even at its most productive, Vienna’s dockyards barely made a mark on Venice’s (fig. 5). But Vienna had its own story to tell. As Kaiserstadt, its inhabitants increased
from 20,000 in 1500 to 100,000 in 1683 (the number is still
lower than Venice, which, demographically, was Italy’s second
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8. e 9. Rudolph
Suhrlandt, Ritratto di Antonio
Canova, 1811, e Antonio
Canova, Maria Luigia
d’Asburgo in veste di Concordia
(gesso), 1810, conservati
entrambi a Possagno,
Fondazione Canova: il
marmo finito, ora alla
Galleria nazionale di
Parma, è commissionato
da Napoleone,
all’indomani delle nozze
con la figlia di Francesco i
imperatore d’Austria, che
posa per l’artista il 13
ottobre 1810 a
Fontainebleau.
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most populous city after Naples, and had at least 100,000 inhabitants in 1500 and at least 140,000 in 1683), and then shot to an
incredible 325,000 in 1790 (fig. 6). That same year, Venice
barely had 140,000.
Y Obviously, Venice, insular as it is,
cannot grow beyond a certain level. Physical space is very much limited. And within this limited space, the inhabitants were
crammed as much as they could be.
Venice reached its greatest number of inhabitants (170,000) in 1575, dropping
dramatically after the plague of the same
year; the population was to take another
fall in 1630, after yet another plague.
This by no means meant, however, that
Venice couldn’t aspire to other records.
And with its 16th-century network of stable representation in European capitals
and Constantinople, a network that
would last and even continue to grow until the fall of the Republic, Venice did indeed excel as the city that most systematically and continuously kept a vigilant eye
on all world events. So much so, in fact,
that it was defined “the eye of the world”, both because the world
had Venice as its eye, and because Venice kept its eye on the
world. An observatory-city, therefore, which collected as much
information as was humanly possible (indicative of the fact that,
although it wasn’t a leading player in the world of discoveries, it
certainly was the city that knew most about those discoveries, and
was the first city in the world to represent what had been discovered via cartographic representations) so as to leak as much of it
as possible. And specialists of the gaze incumbent on Venetian
ambassadors, the expression of the Venetian state that, through
them, measured other states, evaluating them in their specific
and relative weight, not without, implicitly, evaluating and
weighing themselves up. The representatives of the Serenissima
were held to stay in Vienna (or Prague when the emperor was in
Prague), in close touch with the court and its protagonists, the
emperor and his main ministers, considering, in the stretch that
goes from the siege of 1529 to that of 1683, whether the city
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8 and 9. Rudolph
Suhrlandt, Portrait of Antonio
Canova, 1811, and Antonio
Canova, Maria Louise as
Concord (plaster), 1810,
both at Possagno,
Fondazione Canova: the
finished work, now at
Parma’s Galleria
Nazionale, was
commissioned by
Napoleon following his
marriage to the daugher of
Emperor Francis i, who
posed for the artist on
October 13, 1810, at
Fontainebleau.
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would hold as anti-Ottoman “bastion”, as the plucky little defender of Christianity against Turkish encroachment. The empire was a huge “machine”, and the question was “How does it
work?” On paper, the emperor held the
highest post in the hierarchy of all humanity.
But all this primacy was more “appearance”
than “substance”: far from finding expression
“absolutely” and imperiously, this “imperial
authority” was conditioned, even revoked or
cancelled, sometimes disobeyed and reviled,
by the “Diets”. An outcome that Venetian
diplomacy accentuated as it gradually observed the simultaneous deployment and unconditional command by Louis xiv, whose
domestic domineering combined with an expansive foreign policy, of which Venice was
forced to feel all the precariousness of its own
inferior status. The (by-now wrinkled and
torn) banner of the myth of good government
was powerless before this clout and sway, and
not unsurprisingly Amelot de la Houssay, a
secretary with the French embassy in Venice,
roundly demolished it in his Histoire du governement de Venise (Paris, 1676-77), a long-term
bestseller of the period that managed to discredit the old Republican dame right into the next century.
Y With his Della letteratura veneziana (Padua, 1752), Marco Foscarini, doge from 1762 to 1763, vainly spent himself in trying to reexhume Venice’s 16th-century civic wisdom in the waning
strength of its 18th-century decline. More than recovering a glorious past, the conviction of the more thoughtful members of the
Veneto government was that what was needed was sweeping reform
and radical self-renewal. But this would mean ousting the patrician government itself and the tried and tested (as well as tired and
sorely tested) Venice system. And not even the most enlightened
of Venetian patricians (of whom there were quite a few) were willing to go this far. In the meanwhile, the Ducal Palace was very impressed with the enlightened “despotism” of Joseph ii (fig. 7)
who, in Vienna and from Vienna, suddenly, peremptory decree
after peremptory decree, through a slew of injunctions throughout the entire imperial realm, imposed on the realm itself a uni-
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form rationalisation whose aim was to suppress specificities and
differences within the “various nations” now forced to become “a
single, perfectly compact and solid body”. Except that (according
to Daniele Dolfin, Venice’s ambassador to Vienna) this carefully
planned “vast edifice”, its overall geometric architecture, its global disciplining of a perfectly aligned submission, its subjection
and unified moves forward, “collapsed” as soon as it was built due
to the “discontent” of the outlying areas of the empire and the
quarrelsome and even rebellious reluctance of the “provinces”.
And the Ducal Palace doubtless felt a sort of shiver of pleasure on
seeing the rapid collapse and diagnosing the disintegration of the
gargantuan reform. Venetian government, after all, had been accused by enlightened culture and reformed governments of a
sluggishness that inhibited any attempt at reform. But was their
inability to usher in reform with the pugnacity of Joseph II really
criticisable? Or wasn’t it more a case of allowing the many centuries of wisdom to continue to inspire Venice’s ruling class who,
loyal to themselves, conserved the appearance of a state consigned
from the past, preserved the corporations, and respected local
custom, local statutes, local variety and local difference? Might
this conservatism not be a valuable lesson in cautionary wisdom
pitted against the disasters of homologising “Josephism” or the
furies of Jacobinist centralisation?
Y But who was willing to listen to the level-headed teachings
that might come from Venice when, in 1797, a final Napoleonic
push brought to an end the life of the Serenissima, and all signs of
an independent Venetian state were removed from the maps of
Europe (figs. 8-9)? Venice had now become an ex-city, an exstate, an ex-capital. It was now simply an “under-city” – especially under Austria, especially under Vienna and, to a lesser extent, under Milan. It was no longer the Dominante, but a subject,
perforce subjected, submissive (figs. 1 and 10) and, to some extent, posthumous city, whose past, centuries-old centrality can
be gleaned from the endless reams of documents deposited in the
Frari archives as a memento of the period of state command, of
domination over land and sea under the aegis of Mark the Evangelist. Hence the 19th-century formation of analytical archives
along endless kilometres of shelved documents pertaining to an
earlier Venice. Thanks to this archival hording, it was now possible to study both past and present Venice. But despite this, according to common European perception the current Venice was
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10. Josef Carl Berthold
Püttner, La fregata austroungarica “Novara” nel bacino di
San Marco, Vienna,
Heeresgeschichtliches
Museum; il dipinto è
successivo al 1862.
Josef Carl Berthold
Püttner, The AustroHungarian Frigate “Novara” in
St Mark’s Basin, Vienna,
Heeresgeschichtliches
Museum; painting is post1862.
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not so much seen as a city that, through close scrutiny in the
Frari archives of its past as city-state, was in some way reliving this
glorious past, but rather a city that had suddenly lost the ability
to recount itself: it had become aphasic, tongue-tied, virtually
lifeless. And, in the silence typical of the deceased, it was others
who spoke of Venice, who pulled and poked at the city with their
mournful comments: Venice had become for them a necropolis,
a decomposing body, a graveyard remnant. Venice had become
the city of death (fig. 11), where people came to die, as did the
Silesian poet Moritz von Strachwitz: in August-October 1847,
devoured by consumption, the dying poet felt, despite the fact
that he would eventually die in December 1847 in Vienna, fully
consonant with the disintegration of the corroded, worm-eaten
palazzi giving onto the canals. By the early 20th century, Venice
had become the plague-ridden city where Mann’s enervated Aschenbach comes to die:
he crumples onto the Lido beach as Tadzio’s profile disappears.
Y Poets and writers under the thrall of a nolonger-existing Venice
(the former Venice, obviously), now dressed in
mourning, a widow in
weeds, phantasmal, larval,
to be used as a soft keyboard for Romantic funereal hammering, and to be sniffed out as the rotting, unhealthy
greenhouse where extreme, decadent situations, orgasmic spasms
and the throes of death can be set. Giacinto Gallina’s nobleman
Vidal goes all out to live. D’Annunzio’s Stelio Effrena does his
haranguing and establishes himself in a Venetian alcove. There
are no such Romantic pangs, however, and no decadent complications in the documents produced or arriving in Vienna, and
that were archived in Vienna by the Austrian administration. For
the Habsburg government, Venice was not the same nocturnal,
worn out city, or Piranesian debris floating in waters about to
swallow it up (fig. 12). It was alive, even vivacious, in truth frightening as the Risorgimento idealism began to take root there. The
revolutionary biennium 1848-49 was anti-Austrian, anti-Vien-
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nese. Vienna did manage, then, to put out the revolutionary fire,
but found it difficult to regain control. However, in its three
phases, with as many breaks in continuity, Austrian Venice was not
suspended over an abyss, as the poets suggest, but was, instead, active, reactive and industrious. And its problems were those associated with the normal ebb and flow, waxing and waning, of life,
not those of an imminent end: should the rii be filled in? Should
more bridges be built? Should more walkways be built at the expense of ferry services across canals and rii? These problems were
dealt with by local administrators, though supervised by Milan and
Vienna. The important decisions were taken by the former and
the latter. Commands arrived from both. 19th-century, Austrian
Venice was marked and characterized by the end of its insularity.
Railway or no railway? Obviously, if they opted for trains, then
they would need a railway bridge. The very railway bridge Strachwitz arrived by. But he was completely concentrated on ending his
days in the city where the palazzi crumbled into the waters of the
canals that weave through the city, as black as the black of night;
he was deaf to the chugging of locomotives, blind to the hordes
who walked and worked in the city. Heaven forbid that this should
be taken as a criticism. Even if the city was alive and on the verge
of revolt, it was often depicted as dead; this was the note cultural
production tended to insist upon most.
Y And in 1866, Venice was annexed to the Kingdom of Italy.
Vienna’s documents, reports, accounts, acts, protocols, statements and entries, however, remain silent on this point. This
was no longer a matter for the ministers of the Kaiserhof. Conversely, it was authors who were either born in Vienna or who
were nonetheless active in Vienna who looked to Venice, and
even moved there. Trains, as Carducci had it, cross mountains
and devour plains. And Venice is very close to hand for Vienna.
Both cities are rendered in chiaroscuro by Rilke (born in Prague,
but educated in Austria – military school at Sankt Pölten, commerce academy in Linz, through which his father had wanted to
force him into a precise role within the Austro-Hungarian empire) when, from 1897, he intermittently began to lay the
groundwork for his sensibility in Venice. It was in Venice, unlike
Vienna, as he wrote to his wife in 1907, that “one finds unspeakable things”. Rilke was then writing The Notebooks of Malte Laurids
Brigge, which character, still a child, vaguely intuits that life
“would be”, for him, “full of strange [and therefore ‘unspeakable’] things”, things that would virtually be precluded to most
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11. Didier Barra (Monsù
Desiderio, prima metà
xvii secolo), Veduta fantastica
di Piazza San Marco, Londra,
collezione privata.
Didier Barra (Monsù
Desiderio, first half of
17th century), View of St
Mark’s Square, London,
private collection.
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people and, at most, would be understood by one person alone.
This one person is Malte, who encounters the unspeakable in
Venice when (tearing himself away from the Venetian tourists
who have been dazed by the swaying and rocking of the gondolas
that introduce them to the vision of a “slack, opiate-like” Venice)
he is pierced by a vision of the authentic, “real” Venice that has
not been trivialised by tourist consumption. There are no sweet
kisses and languid caresses and shapely forms enhanced by soft
veils in the moonlight and/or hotel; there are no hot, nocturnal
embraces between legitimate couples on their honeymoon, or
more or less clandestine lovers, or more or less adulterous paramours. But, rather, a vigorous and energetic “morning” city,
“created in the midst of nothing”, a “sleepless dockyards” that
bursts into the story as “an example of austere, demanding will”.
Just like Malte, Rilke was struck by this Venice. In a poem written between 1907-08, Rilke feels the city rise “from the depths”,
from ancient skeletons of forests with an invincible leonine will
impersonated by a fleet that, being pushed by a “morning
breeze” sets off into the open sea.
Y Captured, ensnared and seduced by Venice, Rilke (whose father wanted him to become an officer in the imperial army; had
he listened to him, he might well have had a brilliant career,
moving from garrison to garrison, awaiting a transfer to the
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12. Richard Parkes
Bonington, Il Canal Grande,
1826/1827, Washington,
National Gallery of Art.
Richard Parkes
Bonington, The Grand Canal,
1826-1827, Washington,
National Gallery of Art.
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Ministry of War in Vienna, whispering “Vienna! Vienna!”) refused to slip into “pure enchantment”, but wanted to grasp the
city’s “secret” and understand its essence, as he wrote in a letter
in 1912. And in the meanwhile, in Vienna Hugo von Hofmannsthal (who was Viennese through and through: his juvenile
“room in Vienna” was his “entire world”) continued to fret over
Venetian themes, just as he had done in a theatrical fragment on
the death of Titian, with the tragedy Das gerettete Venedig and the
short story “Der Brief des letzten Contarin”. In around 1912,
Hofmannsthal began his difficult, protracted and unfinished
draft for a novel, whose original title varied from “Diary of the
Venetian Voyage of Mr N” and “The Venetian Adventure of Mr
N”, ultimately settling on the more enigmatic but also perhaps
more representative title (at least in reference to the contents,
which deal with overcoming the lacerating tension between ethics
and aesthetics, bringing together what has been cut asunder, and
recomposing what has been cleft) of Andreas oder die Vereinigten [Andreas or The Reconjoined], under which title it was eventually
published as a fragment, part of a narrative that was brusquely cut
short and left unfinished.
Y How, after all, can you re-compose when the practicable closures are virtually multiplied? In any case, the protagonist is Andreas, who moves from Vienna in 1778 (as the empress MarieThérèse (fig. 13) is ruling with her moderate, well-tempered reformism, while her son Joseph, the future emperor, is champing
at the bit for even greater reforms) moves to Venice. The imperial capital is “too august”, too simple and too univocal for the
young Andreas to provide answers to his nagging questions. He
hopes the answers might come from and in Venice, that it is only here that he would be permitted to plumb the greatest depths
of things to find his answers. In fact, the city he arrives in is bewildering, nocturnal, masked. His quest becomes an “adventure”: mystifying, concealing, misdirecting the jumble of appearances, but also illuminating, revealing the extent to which
the profundity that can be found in the superficial aspect of
things should not be excluded, the extent to which truth can be
found coincident with the ambiguity of the mask, plumbing the
deepest depths to find oneself, far from being resolved in a “descent into our interior” consists, on the other hand, in giving in
to the oscillating and contradictory prowling of the most dispersive circumstances. Hence, there is no concentrating with the
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presumption of consistency, but ductile, flexible readiness and
willingness. No self-stethoscoping that moves within, but a wandering attempt at finding oneself without. To Venice, to Venice,
in the without-est without. Except that Andreas does not recompose himself in Venice: he is
splintered, he is lost. If, during his
trip to Venice, he met a young, fullhearted girl in a mountain valley
farm, with its genuine and simple
life, then in Venice Andreas splits in
two when he meets a young lady and
an attractive courtesan. The former
represents a rarefied spirituality; the
latter a torrid, uninhibited sensuality. Or so it would appear at first
glance. But only up to a certain
point. There is a touch of repressed disquiet in the former’s demeanour. The latter’s carnality is disturbing. And the situation
becomes morally murky when the courtesan tries to convince
Andreas to seduce the young lady. She slyly urges him to abandon his obsession with “truth”; it is merely a “stupid word”.
Y It is certain that, sooner or later, and now rather obviously
later than sooner, Andreas should return to Vienna and do
something concrete. But how to ready himself for the “return
trip” when, to his dismay, he notes he cannot “at all go back to the
limited existence of Vienna”? The young man is in a quandary,
just as is the author about what to get him to do. As soon as he had
arrived in Venice (at dawn, rudely deposited by a rough boatman
along a remote, deserted fondamenta), Andreas had been lucky
enough to have been helped in finding his bearings by a kind man
wearing a mask who had providentially appeared from a calle. At
first lost and incapable of orienting himself in the deserted city,
he finds in galant Sagramozo, or Sacramozo (this is the masked
man’s name; and yet his identity also consists in self-masking), an
exceptional mentor, a sort of Virgil. He is an uncommon, extraordinary person. If he lives in Venice, “fusion of antiquity and
the east”, it is because it is impossible there to fall into “the futile
and the petty”, it is because, more than elsewhere, you can be
worldly and, at the same time, pensive, give some meaning, an
added layer, to existence. A teacher for Andreas, who is anxious
to help this man who loathes univocality to mature, masters com-
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13. Anton von Maron,
Ritratto di Maria Teresa
d’Austria, 1772, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Anton von Maron, Portrait
of Marie Theresa, Empress of
Austria, 1772, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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plexity and seems able to re-compose the disjointed. Except that
he accidentally kills himself. His is a philosophical suicide, but
for Andreas it constitutes immense grief, an insurmountable
loss. Lost, he feels like an orphan.
Y Just after the first words had been written in the tormented
and unfinished draft of Hofmannsthal’s novel the Viennese
Schnitzler immersed himself in Casanova’s memoirs, between
November 1914 and February 1915. An operative reading that
led, in October 1917, to a verse play (with a 32-year-old Casanova full of joie di vivre, all seductive energy) and a long short story,
or short novel, where Casanova is once again the leading character. Except that, now a poorly 53-year-old, he has lost his sheen,
and seems even older than he is. He is rusty, feeble, morose,
heavy set, with some lingering desire to dress well, except that he
looks awkward in his once elegant suit, which is now worn out,
torn and hastily patched up so that it will last a little longer. Penniless, he cannot buy new clothes. Now in Mantua, he insists on
frequenting the high society that you would expect in a small
provincial town. In an effort to conquer the fresh charms of
Marcolina, he deploys all the artifices of his once efficacious, appreciated and much-requested conversational skills. But now
they are mouldy, rancid and, what’s much worse, boring. And
Marcolina is bored: vexed by his attempts to seduce her using
these old stratagems, she cannot conceal her contempt, and uses
her corrosive sarcasm to dismantle his tired charade and make
him conscious of just how old-fashioned his polished eloquence
is.
Y The elderly adventurer is humiliated by being forced to admit that, once a lean, mean seducing machine perfectly balanced
between physical prowess and verbal dexterity, he is now ready for
the scrapheap: stiff-limbed, awkward in his movements, his face
flabby, his conversation tired and farraginous. He has lost all his
fascination. He can no longer seduce anyone. As for Marcolina,
he disgusts her. She finds him loathsome. But he refuses to bow
out graciously. His humiliation is not a passing incident: it signals the end of the foolish ambitions for a Casanova whose identity was constructed in terms of great seduction and irresistible
conquest. But Casanova is nothing if not a marauding animal, a
predator, and he will conquer Marcolina using the most abominable and contemptible of deceits. She has a lover, a young,
dashing officer. And Casanova will come to an agreement with
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him. In his malevolent senescence, he has learnt to bring out the
worst in himself and others. The dirty old lecher and the young
scoundrel seem made for each other, both of them sharing a taste
for rapacity. Casanova, having won 2,000 ducats, hands the
money over to the young man, who has lost it. In exchange, he
agrees to help Casanova in fraudulently slinking into Marcolina’s
otherwise inaccessible bed. He lends him his cloak, under which,
at night, in the pitchest black, Casanova is greeted by Marcolina
in her bedroom. Having managed to fob himself
off as her lover, he manages to bring to bear all his
old passionate vigour and is requited by Marcolina. As the sun rises, however, she realises, to her
“indescribable horror”, that she has been tricked
not only by Casanova, but also the young man she
thought she loved. She realises that she has spent
the night making love with Casanova, and not her
young lover.
Y Casanova cannot bear the “horror” she communicates. Imbued with this horror, aware of the
revulsion she feels for him after he has soiled her,
wearing the indelible sign of his repulsion,
Casanova flees. He is blocked by her lover, and
not because he has had a change of heart and is
feeling guilty: it is simply that he hates Casanova
too much, and he hates himself for having worked
in cahoots with him. The two are cast in the same
mould, almost interchangeable: Casanova a
young version of himself in his rival; the young
lover sees what he will become as he grows older.
They thus hate each other. The duel is to the
death. It is like a doubling in hatred of a single existence which is the sum of roguish youth and
senescence turned nasty. By this reasoning, the
homicidal fury that has pitted them against each
other also has suicidal valency. In destroying the
other, they are giving vent to a self-destructive desire. Casanova comes out on top: in one fell
swoop, he strikes his sword into the heart of the young officer. As
he lies dying, Casanova flees to Venice, where he will hide out
unpunished. Here he resumes his old job: spending his time at
the Quadri café, he is paid to pick up titbits of information for
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a state that, rotten to its core, dreads even the idle chit-chat of
those who frequent cafés and bars. The Quadri closes in the dead
of night. All whisperers have left, and Casanova has no one to listen in on. He, too, can leave. He crosses St Mark’s, deserted, oppressed by a low, sooty, starless sky. Walking through dark calli, up
and down the little bridges under which flows a blackish, muddy
water as if it were being pushed along to meet up with the “eternal Stygian waters”, Casanova reaches the miserable
little hotel where, in a stark little room, he falls,
exhausted by a “painful tiredness”, onto a
“terrible” bed. Mercifully, around dawn, he
is offered his “much desired sleep”, its
“dreamlessness” swallowing him up and
almost hopefully promising not to wake
him up again so that he no longer has to
look at himself in the mirror with the same
“horror” that was in Marcolina’s gaze as she
looked at him.
Y A 1778 Venice in which Andreas deceives himself into thinking he can reforge his split ego, and in which an elderly Casanova crouches like an animal
that has been dealt a mortal blow. Venice
must bear the honour and responsibility
of a more than millenarian history, so
difficult to bear that it can hardly stand upright; the city lurches forward, almost reeling.
Its life was to be short-lived. On May 12, 1797,
the Maggior Consiglio resigned, and with it
the entire regime. A provisional Municipality was sworn in, only to be swept aside
on October 17, at Campo Formio. There
Napoleon and Francis I worked together in
destroying Venice’s statutory independence;
they doled out the spoils of a state they had agreed
to annul. This was the end. And it has a date. Fixed
forever as the date of death. What has no precise date,
however, is the positioning of a world as it comes to a close.
And perhaps a world might well be close to its own demise and
not know or be aware of it. Vienna in 1913, for example, was
making preparations for a great feast to mark the 70th anniver-
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14. Polena della “Kaiserin
Elisabeth”, incrociatore
varato nel 1854 e
autoaffondato il 2
novembre 1914 nella baia
di Kiaochu, due giorni
prima della resa ai
giapponesi, La Spezia,
Museo Tecnico navale.
La polena raffigura
l’imperatrice Sissi nel
pieno del fulgore,
proviene dal museo della
Marina austro-ungarica di
Pola, dove finì dopo il
disarmo dell’unità che,
nel 1866, aveva
partecipato alla battaglia
di Lissa.
Figurehead of the “Kaiserin
Elisabeth”, battle cruiser
launched in 1854 and
sunk in Jiaozhou Bay in
1914, two days before
Japanese surrender, La
Spezia, Museo Tecnico
Navale. It depicts the
empress Sissy at her most
stunning, and comes from
the Austro-Hungarian
naval museum in Pula,
where it ended up when
the ship, which had
participated in the 1866
Battle of Lissa, was
decommissioned.
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sary of the long-lasting reign of Franz Joseph I in the none too
distant 1918, and had no idea it was living its final years. An honours committee was formed, the general secretary of which, it
should be remembered, was Musil’s man without qualities. The
aim of the committee was to exalt Kakania and underline the
sense of its historical presence. But, as we know, world war one
destroyed Kakania. And Vienna, its capital, would find itself
once more comparable to an enormous head for a very small
body. Finis Austriae. It is obvious that the collapse occurred in 1918
(fig. 14); but when do we begin to perceive that a world is about
to end? Hofmannstahl and Schnitzler lived just long enough to
become familiar with the Vienna of the belle époque as well as the
Vienna that was swept away by defeat. In the former Vienna they
gleaned the subterranean indications of the landslide, detachment and final destruction. It was nonetheless in breathing the
air of the end of the world that the two invented Venetian stories
set in a Venice that (with hindsight they were well aware of this)
had only a few years left to live. They wrote, in Vienna, in the
vicinity of a collapse of the world they were born, grew up and
matured in, of characters who, in their turn, move along the
edges of an imminent finis Venetiarum. One would be tempted to say
that finitudes sniff at each other, look for each other, recognise
each other and almost stroke each other; they even take a liking
to each other and establish elective affinities.
Y On the other hand, if the bell tolled for the Serenissima, how
to exclude that the funereal bell might not also be ringing (sooner or later, perhaps more later than sooner) for others, or for
everyone? England in 1816, when Byron’s Childe Harold’s Pilgrimage
was published, was triumphal if not domineering. But the author
warned (a warning that was ignored for over 100 years, if you
consider Kipling’s triumphalism) against the haughtiness of the
most powerful power: “In the fall of Venice, consider your own”.
Memory is prophetic. At least, in Byron, who thus went beyond
an emotional participation in the mourning of a preceding
Wordsworthian sonnet, memory is offered the melancholy homage of condoling tears.
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uno storico nemico, che priva la serenissima della libertà
tra ambasciatori e spie
artisti e musicisti:
secoli di rapporti in cagnesco
Fabio Isman
1. Sebastiano Ricci, Bacco e
Arianna (particolare),
Pommersfelden, Graf von
Schönborn
Kunstsammlungen.
Sebastiano Ricci, Bacchus
and Ariadne (detail),
Pommersfelden, Graf von
Schönborn
Kunstsammlungen.
Y Leonardo Donà, o Donato (1536-1612), figlio di Giovanni
Battista e di Giovanna Corner, stirpe di commercianti non particolarmente doviziosa, sei fratelli e uno solo sposato, è il novantesimo doge della Repubblica di Venezia dal 1606: il secondo dei
tre del casato, come tanti altri foriero di storie e di leggende (una
riguarda un Ludovico, creato cardinale da Urbano iv Pantaleon
nel 1378, ma poi, sospettato di tradimento e annegato con altri
cinque porporati; ci sono anche un Andrea, «corrotto dal duca
di Milano» e imprigionato nel 1447; un Giuseppe, pubblicamente impiccato nel 1601 perché ritenuto spia spagnola; un Antonio, bandito per peculato nel 1619; e un Paolo, esiliato ma poi
graziato nel 1704, per un omicidio causato dalla «gelosia verso
una monaca»). Leonardo, quello cui Galileo mostra per primo il
suo telescopio nel 1609 sul campanile di San Marco, edifica il palazzo alle Fondamenta Nove, secondo alcuni disegnato, e chissà
perché, da fra’ Paolo Sarpi, ancora abitato, caso più unico che raro, dai discendenti. Succede a Marino Grimani e deve misurarsi
con un problema assai spinoso: l’Interdetto emanato da papa Paolo
v Borghese. Anche su consiglio di Sarpi, 18 giorni dopo l’elezione nominato consultore in jure e teologo della Repubblica, il doge
risponde con un Protesto: ordina al clero veneziano di non tener
conto dell’atto papale ed espelle i Gesuiti che non si piegano.
Y Al dogato, Donà giunge dopo il consueto cursus honorum: podestà a Brescia, savio, ambasciatore in Spagna (a soli 33 anni),
a Vienna, Parigi e Roma, bailo a Costantinopoli, governatore e
procuratore di San Marco (dal 1591: lo celebra con un banchetto da 587 ducati, un terzo dei suoi proventi annuali).
Quando era a Roma, si racconta che Sisto v Peretti gli avesse
offerto il vescovado di Brescia, con la porpora; e anche di uno
scambio di battute, assolutamente premonitore, con Camillo
Borghese, il futuro Paolo v: «Se fossi papa, vi scomunicherei»; e «Se fossi doge, riderei della scomunica». Se non è vera, è ben inventata. Comunque, al ritorno, già da fine Quat-
il contesto
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uno storico nemico, che priva la serenissima della libertà
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2. Paolo Caliari detto il
Veronese, Allegoria della
battaglia di Lepanto, forse
1573, commissionata da
Pietro o Onfrè Giustinian,
Venezia, Gallerie
dell’Accademia, già nella
chiesa di San Pietro
Martire, a Murano.
Paolo Caliari, known as
Veronese, Allegory of the Battle
of Lepanto, perhaps 1573,
commissioned by Pietro
or Onfrè Giustinian,
Venice, Gallerie
dell’Accademia, formerly
in the church of San Pietro
Martire, Murano.
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trocento, i diplomatici veneziani redigevano una relazione per
la Serenissima. Il futuro doge lascia anche un Diario, inedito per
430 anni e pubblicato da Umberto
Chiaromanni, in cui racconta la
Vienna del 1577, all’indomani della riforma protestante e del Concilio di Trento, sei anni dopo la battaglia di Lepanto (fig. 2): quando,
con Giovanni Michiel, già spedito
lì nel 1564 e 1571, va a congratularsi con Rodolfo ii, divenuto erede
del Sacro Romano Impero.
Y «Tutta la città, dentro le mura, è
fabricata di muro assai nobilmente
et comodamente»; «belle strade
tutte saliggiate di mattoni»; Santo
Stefano è paragonabile alle «belle
chiese in altre città d’Italia, per li
ornamenti dei suoi pilastri pieni di
belle figure», e la «torre ovvero
campanile» è di «non minore altezza di quello che è ora il nostro
campanil di San Marco»; sono ricchi di fontane e «artificii» i giardini, splendido «l’edificio di piacere» voluto da Massimiliano i.
Non sono numerose le descrizioni come questa: di solito, gli
ambasciatori veneti si limitano ai problemi (e alle chiacchiere)
della corte; o alle tematiche militari, e legate alla difesa. E tanto
più quelli che devono interessarsi di Vienna: nata relativamente
tardi come potenza, legata a Venezia da scambi più culturali che
commerciali, a lungo quasi un nemico alle porte, finché, e suona come una nemesi, non sarà proprio lei a privare definitivamente la Serenissima dell’indipendenza: a trasformare in suddita
l’ex Dominante. Nel 1564, Giovanni Michiel la racconta già tra le
«principali d’Europa per la ricchezza e la fortificazione»: deve
il suo ruolo al «continuo comertio con le provincie, alle quali è
scalla principale»; ma la prima relazione di cui si sa, risale al
1496: la illustra Zaccaria Contarini il 12 luglio, spiega Marino
Sanuto nel primo dei 52 volumi dei Diarii.
Y All’inizio del secolo in cui Donà e Michiel ci descrivono la
capitale austriaca, Venezia ha toccato i 150 mila abitanti; nello
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3. Tiziano Vecellio, Ritratto
del cardinale Ippolito de’ Medici,
Firenze, Galleria Palatina,
Palazzo Pitti.
Titian, Portrait of Ippolito de’
Medici, Florence, Galleria
Palatina, Palazzo Pitti.
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stesso 1500, invece, Vienna ne totalizza ancora 20 mila. L’Austria come la conosciamo oggi, nasce abbastanza tardi. Prima,
sono tanti feudi; nella Marca orientale (Östmark, poi Österreich,
cioè impero d’oriente), nel 1278 s’insediano gli Asburgo con
Rodolfo i, sostituendo gli estinti Badenberg; dal 1440, sono
eredi del Sacro Romano Impero (tuttavia, nel 1485 Vienna è occupata dall’ungherese Mattia Corvino; e nel 1519 cede a Madrid
il ruolo di capitale imperiale). Nel 1526, unificate le corone di
Boemia, Ungheria e Croazia, nasce una delle maggiori potenze
continentali, anche se trent’anni di guerra, chiusi nel 1648 dalla pace di Westfalia, cancellano ogni speranza di dominare sulla
Germania e sulla stessa Europa.
Y A lungo, gli scambi con l’Italia seguono altri itinerari. Fino a
metà Seicento, il lodigiano Giovanni Pietro Telesphoro de Pomis (1569-1633) e Donato Mascagni di Firenze (1579-1637), dipingono a Graz e Salisburgo,
come il comasco Santino Solari
(1576-1646). Ma ancora più famoso in loco è il ticinese Carpoforo Tencalla (1623-1685), che
si forma tra Milano, Bergamo e
Verona: è pittore di corte di Ferdinando ii, chiamato dalla moglie di questo Eleonora Gonzaga; affresca sale nella Hofburg, il
palazzo imperiale; si esprime
nelle maggiori chiese della capitale e in vari castelli della regione (anche nel palazzo episcopale
di Kromeriz, locali purtroppo
bruciati come quelli di Olomouc; il fratello Giovanni Pietro ne è l’architetto, e il luogo
conserva Il supplizio di Marsia, tra le
ultime opere di Tiziano, comperato a Venezia da Thomas Howard, conte di Arundel, nel
1620). Tencalla lascia il proprio
capolavoro, non finito, nel
Duomo di Passau; e verosimilmente incrocia l’architetto Carlo
Antonio Carlone, s’ignora se di Como o Milano (1634-1708),
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4. Medaglia celebrativa
della fondazione di
Palmanova, 1593, Padova,
Museo Bottacin.
Commemorative
medallion celebrating the
founding of Palmanova,
1953, Padua, Museo
Bottacin.
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che progetta e trasforma numerosi complessi ecclesiastici di
Vienna e dintorni, come la celebre abbazia di Sankt Florian, poi
“regno” del musicista Anton Bruckner (1824-1896). Da Milano
e perfino da Napoli, nel tempo giungono Giuseppe Arcimboldi
(1527-1598) e Martino Altomonte (1657-1745); da Como,
Francesco Martinelli (1651-1708) e Donato Felice d’Allio (16771761); da Trento e Rovereto, Andrea Crivelli (1528-1558) e Gabriele De Gabrieli (1671-1747); da Mantova, invece, Ludovico
Ottavio Burnacini (1636-1707); e altri ancora. Tra le rare eccezioni, Giovanni Giuliani da Venezia (1663-1744), scultore e
stuccatore anche per i Liechtenstein, e lo scultore vicentino Lorenzo Mattielli (1680?-1748), che molto lascia proprio nella capitale, o lo stuccatore padovano del Seicento Ottavio Mosto, attivo a Salisburgo. Tra i precursori veneziani, di cui diremo, anche un breve viaggio di Pietro Liberi, e maggiori impegni di Antonio Bellucci e Sebastiano Ricci all’inizio del xviii secolo.
Y Infatti, i rapporti con Venezia attengono particolarmente alla musica e più limitatamente alla pittura, e si manifestano soprattutto dal Settecento; prima, sono soltanto le relazioni degli
ambasciatori e l’attività delle spie. Perché le due città si guardavano in cagnesco. Gli Asburgo possedevano la Carinzia e il Tirolo già dal Trecento; dal 1366, Duino, vicino a Trieste (dei Turn
und Taxis, divenuti, in loco, Torre e Tasso), e dal 1382 la stessa città giuliana, la cui carriera è così antagonista alla Dominante. Nel
1508, l’imperatore Massimiliano i attacca in terraferma, con
Luigi xii di Francia, fonda la Lega di Cambrai, cui aderiscono il
re di Spagna e i duchi di Ferrara e Mantova: e la Serenissima perde, sia pur provvisoriamente, la Terraferma. Da metà Cinquecento, l’imperatore nutre ancor più cupe mire addirittura sulla
navigazione in Adriatico, “porta” di Venezia sul mondo e chiave
dei suoi commerci: la ostacolano gli Uscochi, profughi albanesi
e serbi fuggiti dall’occupazione islamica, ma insediati in territorio asburgico. Vienna è baluardo contro l’invasione dei Turchi,
che l’assediano nel 1529 e 1683, 200 mila uomini, 25 mila tende; nel 1532, li combatte anche Ippolito Medici, che Tiziano
eterna in abito all’ungherese, per evocarne il comando su 4.000
moschettieri (fig. 3). «Bastione di tutto il resto d’Europa» e
«chiave della Cristianità», chiamano gli ambasciatori la capitale
austriaca; ma chissà se il Senato veneziano, il 17 settembre 1593,
fa edificare la città-fortezza di Palmanova più in chiave antislamica, o – è assai verosimile – quale baluardo contro gli Asburgo,
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5. Gioco del Biribissi, seconda The Game of Biribissi, second
half of 18th century,
metà del xviii secolo,
Venezia, collezione privata. Venice, private collection.
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6. Jacopo Robusti detto il
Tintoretto, Ritratto di
Sebastiano Venier, 1576-1577,
Treviso, collezione
Alessandra.
Tintoretto, Portrain of
Sebastiano Venier with a Page,
1576-7, Treviso,
Collezione Alessandra.
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comprensibilmente preoccupati dai lavori in corso. Del resto,
già nel 1500 Leonardo era stato convocato per progettare una
difesa sulla linea dell’Isonzo, come certifica il Codice Atlantico. Lo
stesso Leonardo Donà (con Marino Grimani, Giacomo Foscarini, Marc’Antonio Barbaro, Zaccaria Contarini) fa parte di una
qualificata commissione per localizzare la nuova città forte, e lascia un Diario dei sopralluoghi nel 1593 (fig. 4).
Y Per cui, ambasciatori e spie: professione assai commendevole fin da quando L’arte della guerra del cinese Sun Tzu, un generale
forse coevo di Confucio, vi secolo a.C., afferma che «andar con
ordine pubblico a spiar ciò che si fa nei Paesi di cui si vive con
sospetto, è cosa da persona molto onorata»; già praticata dal re
Sargon, in Mesopotamia nel 2350 a.C., e non ignota a Mosè,
che invia dodici spie nella terra di Canaan. Però, ai Romani i delatores non sono mai piaciuti; e, per citare un caso, nel 1587, a
Venezia, Tomaso Garzoni li definisce «infami». La parola spia
compare in laguna nel 1264, e almeno da allora, è proverbiale
l’apparato della Serenissima, in patria e all’estero: già al 1226 risale la prima testimonianza di una scrittura cifrata, e numerose sono le successive apparizioni di codici segreti. Né l’Austria è da
meno: celebre il “gabinetto nero”, voluto da Leopoldo i a metà
del Seicento per intercettare la posta recapitata dai Turn und Taxis in tutt’Europa. Nel 1774, il bailo a Costantinopoli giustifica
l’invio di un dispaccio via Cattaro spiegando che a Vienna «tutto si apre»; ma anche in laguna la pratica era consolidata. Dell’apparato veneziano, si sa, fa parte pure Giacomo Casanova, che
trascorrerà nella capitale austriaca un tratto dell’esilio: in un delizioso libro sulle delazioni del Settecento, ad esempio, lo scrittore Giovanni Comisso include una sua maledicenza del 1782,
più che un rapporto, contro Carlo Grimani «del fu N.H. Ser
Michiel», che parla, «senza scrupolo alcuno, col Ministro di
Russia»; ma forse, il primo incarico spionistico è proprio in
chiave antiaustriaca: gli inquisitori lo spediscono a Trieste nel
1773, per convincere al ritorno alcuni monaci armeni emigrati
da San Lazzaro, che avevano aperto una tipografia nella città.
Y Dunque, ambasciatori e spie. Vienna vanta un arsenale, da
cui, 1559, Ferdinando ii progetta di far salpare 400 «nasade»
con 12 mila uomini a bordo, spiega Leonardo Mocenigo: poi,
però, non realizza l’intento; ma nel 1563, sono pronti 12 «legni», «fuste» fabbricate da veneti «banditi» e «bregantini» da
13 a 20 «banchi», si intende di rematori, e 150 «nassate» da 28
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scalmi ciascuna; anche nel 1738 l’ambasciatore Niccolò Erizzo ha
un occhio di riguardo per quattro unità realizzate sul Danubio,
per merito del capo della marina austriaca, il marchese Giovan
Luca Pallavicini. Ma l’ovvia attenzione per l’armamento è del
tutto ricambiata: infatti, mentre si costruisce Palma, i dispacci
parlano ripetutamente di «esploratori» asburgici infiltrati nella manodopera, e un capitano travestito da eremita è segnalato da
un confidente nel 1620. E Vienna, ben prima del Terzo uomo (indimenticabile film di Carol Reed con Orson Welles e Alida Valli, 1949), si dimostra luogo d’intrighi: sempre nel 1620, un
agente vi ottiene i capitoli segreti della Lega contro il Turco; qui,
nel 1628, cade un réseau spagnolo a Venezia (le Istruzioni di Madrid
giungono agli inquisitori lagunari); ed è da qui che, 1698, l’ambasciatore Carlo Ruzzini svela come lo zar Pietro i, in incognito,
compirà un viaggio-lampo nella città dei dogi (si veda «VeneziAltrove» 2008). Anche il segretario di Luigi Pio di Savoia è un
informatore; del resto da Roma, a fine
Seicento, forniscono segreti perfino il
cardinale Pietro Ottoboni, protettore
di Scarlatti, Corelli, Händel, e lo zio,
il futuro papa Alessandro vii Chigi,
come racconta Paolo Preto. A metà
Settecento, l’ambasciatore imperiale a
Venezia riceve 400 zecchini per la
«benevolenza»; a inizio secolo, era a
libro paga un abate, traduttore delle
lettere del governo a Vienna. Se serve,
spuntano addirittura i sicari: Venezia li
sguinzaglia, nel 1640, per un capitano
che ha tradito e lavora per gli Asburgo,
e nel 1662 per un impiegato del Bancogiro in fuga a Vienna con ingente
somma; quattro anni dopo, l’ambasciatore veneziano è incaricato di «levare dal mondo senza pregiudizi all’immagine pubblica» Gabriel Vecchia, reo di «procedure abominevoli»; nel 1754, va avvelenato il
friulano Pietro de Vettor: ha trafugato i segreti dello smalto, e
vive nella città che (Haydn, Mozart, Beethoven, Strauss, Schönberg, Berg, Webern) è capitale anche della musica.
Y Infatti, le spie hanno pure compiti di tutela economica. Nel
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7. Albrecht Dürer, Festa del Rosario,
1506, Praga, Národní Galerie; già a
Venezia, chiesa di San Bartolomeo,
è acquistata nel 1606 da Rodolfo ii
per 900 ducati (per i personaggi
ritratti, si veda la legenda, fig. 8).
Albrecht Dürer, Festival of the Rosary,
1506, Prague, Národní Galerie;
formerly in Venice, church of San
Bartolomeo, it was bought by
Rudolf ii for 900 ducats in 1606
(for people depicted, see key to
photo 8).
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g
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8. Legenda: a. il papa
(forse Giulio ii della
Rovere); b. l’imperatore
Massimiliano i; c. il
patriarca Antonio Surian;
d. il cardinale Domenico
Grimani; e. l’elemosiniere
di San Bartolomeo,
Burkhard von Speyer;
f. il duca Erich di
Brunswick; g. uno dei
Fugger, forse Jörg;
h. Hieronymus
“Thodesco”, di Augsburg,
architetto che ricostruisce
il Fondaco dei Tedeschi
dopo l’incendio del 1505;
i. Albrecht Dürer; j.
Leonhard Wild, fondatore
della Confraternita del
Santo Rosario a Venezia.
Key: a. Pope (perhaps
Julius ii); b. Emperor
Maximillian i; c. Patriarch
Antonio Surian; d.
Cardinal Domenico
Grimani; e. The San
Bartolomeo almoner,
Burkhard von Speyer; f.
Duke Erich of Brunswick;
g. One of the Fuggers,
perhaps Jörg; h.
Hieronymus “Thodesco”,
from Augsburg, an
architect who rebuilt the
Fondaco dei Tedeschi after
the 1505 fire; i. Albrecht
Dürer; l. Leonhard Wild,
founder of the
Confraternita del Santo
Rosario (Confraternity of
the Sacred Rosary) in
Venice.
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1766, i segreti per fabbricare la porcellana giungono dall’ambasciatore di Parigi prima che un certo barone Suter possa trasmetterli all’Austria. Nel 1733, un cavaliere bergamasco informa
da Vienna su cartiere e sali. Nel 1751, una spia va in missione per
mezz’Europa (anche a Graz, Linz e Vienna), per informarsi di
tariffe, fabbriche e traffici. Nel 1761, al diplomatico nella capitale austriaca si chiede di assoldare due operai di una fabbrica di
paste da mortaio. Nel 1774, si tenta di far abortire il progetto di
una strada, via Engadina, da Milano a Vienna; nel 1620, si progetta di catturare un ex corsaro inglese: detiene il privilegio per
«fabricar saponi alla venexiana», ma non rispetta le regole. Nel
1724, il conte Rinaldo Zoppin è “convinto” a non esportare a
Vienna «il Lotto di Genova e il gioco del biribìs» (fig. 5, uno dei
tanti praticati in città, con nomi spesso coloriti: Faraone, amato
pure da Casanova, Zecchinetta, Cressiman, Bazzica, Meneghella, Camuffo, Slipe e slape, Picchetto, Tresette, Gilè alla greca,
Ombre, Tric trac, Bassetta; la parola “loto” è citata da Marin Sanuto per un’estrazione del 1522; quello “di Genova” compare
sotto la Lanterna nel 1576, ma in laguna nel 1734; nel 1752, grazie a italiani, è importato in Austria. Nel 1761, bloccato il progetto di Vettor Erizzo di aprire un banco a Vienna; è protetta, e
non va esportata, perfino l’arte del merletto: nel 1748, un tessitore udinese fonda uno stabilimento a Vienna, con operai sottratti a Venezia; sborsando 3.100 ducati, lo si fa tornare, senza
che istruisca i dipendenti tedeschi. Nel 1777, l’ambasciatore in
Austria aiuta a togliere di mezzo, acquistando sei copie da dei
privati, una Narrazione definita «imprudente e detestabile».
Y Quando non devono occuparsi di sicari, i diplomatici raccontano la città. Ne esaminano le fortificazioni, la macchina statale («un corpo senza organizzazione»: Michiel, 1678), le armi.
Nel 1769, Paolo Renier, futuro doge, riferisce di «canòn di
campagna» da 15 colpi al minuto, e di uno che si carica «a mitraglia», 400 passi di gittata. Ma nel 1793, Daniele Dolfin rende merito a Giuseppe ii per la concessione della libertà di culto
e per l’abolizione della schiavitù (i “servi della gleba”), anche se
permane vivo il «malcontentamento nelle provincie» formate
da etnie eterogenee, e gli sforzi per rendere omogeneo il Paese
sembrano vani. Se, dice il proverbio, l’ambasciatore non porta
pena, spesso deve portare regali; al nostro Donà, l’arciduca Ferdinando chiede, per la sua collezione di armature storiche, quelle indossate a Lepanto dal doge Sebastiano Venier (fig. 6, anco-
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ra esposto nell’Armeria della Hofburg) e dal provveditore generale Agostino Barbarigo, che vi è stato ucciso, e una di Marcantonio Bragadin, scorticato a Famagosta, «et volse che di cio fusse per noi scritto, come facemmo alla Serenissima Vostra». Del
resto, le comunicazioni tra le due città erano già da tempo intense. I collegamenti postali risalgono al 1558, quando il re polacco Sigismondo ii collega i suoi domini con alcune capitali del
sud, tra cui Vienna e Venezia: tra le due città, il quotidiano servizio postale è tra i primi ad essere istituiti.
Y Ma a percorrere quegli itinerari, nei due sensi, non erano
certamente solo ambasciatori e spie. Nessuno quanto i tedeschi,
genericamente intesi, ha forse mai amato e desiderato di più l’Italia; e, particolarmente Venezia, scoperta ben prima di Goethe.
Dal medioevo, in città, i tedeschi avevano il loro fondaco accanto a Rialto (affrescato da Tiziano e da Giorgione); ne erano magna pars i banchieri Fugger, cui si deve il viaggio di Albrecht Dürer per realizzare per la chiesa di San Bartolomeo (1506) la Pala
del Rosario, larga due metri e densa di autentici ritratti: papa e imperatore, lo stesso pittore, l’architetto del fondaco, il committente (figg. 7 e 8): nel 1606, Rodolfo ii la vorrà a Praga. Ma si
trattava ancora di “todeschi”, e non austriaci. Erano di Augusta i
Fugger, mercanti e banchieri dal Quattro e affermati nel Cinquecento (prestano 150 mila fiorini a Massimiliano i; con 500
mila contribuiscono alla elezione di Carlo v, 1519; aprono sede
a Roma); come tedeschi sono i primi artisti “oltremontani” e
“ponentini” a Venezia. Compreso Giovanni d’Alemagna, che nel
1446, con il cognato Antonio Vivarini realizza, nella Sala dell’Albergo di Santa Maria della Carità, il primo dipinto su tela
documentato in laguna (fig. 9): un polittico (su lino) alto tre
metri e mezzo, e lungo quasi cinque; impresa, oltre che da precursori, da veri titani, in cui la lavorazione dei broccati denuncia una tecnica complessa, di sicura importazione. Poi, i viaggi e
i contributi nei due sensi s’infittiscono; e finalmente, riguardano anche l’Austria e Vienna che, del resto, cominciava appena a
diventare una capitale. Vi lavora Pietro Liberi (1605-1687), e
Leopoldo i lo nomina conte; a metà Seicento, Marco Boschini
dedica la Carta del navegar pitoresco all’arciduca Leopoldo Guglielmo; poi, vi operano Giovanni Antonio Pellegrini (1675-1741,
fig. 10), e Sebastiano Ricci (1659-1734, figg. 1 e 11): è a Schönbrunn, accanto a Johann Michael Rottmayr (1654-1730) che
aveva studiato per undici anni a Venezia (come, un secolo prima,
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9. Antonio Vivarini e
Giovanni d’Alemagna,
La Madonna col Bambino in
trono e angeli tra i dottori della
Chiesa, 1446, Venezia,
Gallerie dell’Accademia.
Antonio Vivarini and
Giovanni d’Alemagna,
Four Fathers of the Church
triptych, 1446, Venice,
Gallerie dell’Accademia.
Hans Johann Rottenhammer, di Monaco), da Johann Carl Loth.
Loth nasce a Monaco nel 1652 e nel 1698 muore in laguna, la sua
seconda patria; riceveva commissioni da tutte le corti europee, e
dall’Italia importa la moda del bozzetto.
Y Dopo di allora, è tutto un vai e vieni. Palazzo Liechtenstein
conserva dipinti di Antonio Bellucci (1654-1726), di cui a Venezia resta solo un San Lorenzo Giustiniani (il primo patriarca) in San
Pietro di Castello, fino al 1807 la cattedrale cittadina, e un cui
studio per il Massacro degli Innocenti è andato da poco all’asta da Sotheby’s, stimato 9 mila euro (fig. 12), ma invenduto; e il nipote
di Simon Vouet, Louis Dorigny (1654-1742), un parigino che
adotta Venezia e il Veneto, decora la Rotonda di Vicenza, villa
Manin a Passariano e il Duomo di Udine, e a Vienna affresca il
palazzo di Eugenio di Savoia, allora il più rinomato dei condottieri. Daniele Antonio Bertoli (1677-1743) è disegnatore di camera di Giuseppe i, di Carlo vi e degli inizi di Maria Teresa, di
cui era stato insegnante. La famiglia imperiale e gli aristocratici
viennesi chiederanno poi ritratti a Rosalba Carriera (16751757), cognata di Pellegrini, che v’inizierà anche una serie delle
sue Quattro stagioni eseguite pure per il console inglese Joseph
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10. Giovanni Antonio
Pellegrini, Annunciazione,
modello per la cupola della
Salesianerinnerkirche di
Vienna, Stoccarda,
Staatsgalerie.
Giovanni Antonio
Pellegrini, Annunciation,
model for the cupola of
the Salesianerinnerkirche
in Vienna, Stuttgart,
Staatsgalerie.
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Smith, mentre Bernardo Bellotto (1721-1780) lascerà tante vedute della capitale (figg. 13 e 14) che Maria Teresa gli ha commissionato. Franca Zava Boccazzi racconta la vita singolare di Federico Bencovich (1677?-1756), un dalmata che un parente musico fa venire a Venezia e mette a scuola a Bologna da Carlo Cignani, attivo a Schönbrunn e Würzburg, cui guarderà il giovane
Giambattista Tiepolo dipingendo il ciclo nella Residenz (fig. 15):
quasi nulla di suo resta, la Seconda guerra mondiale distrugge il
poco che sopravviveva. E chiudiamo la carrellata con Giovan Battista Pittoni (1687-1767), attivo a Schönbrunn e altrove, e i tredici Canaletto che i Liechtenstein vogliono per la loro collezione, pochi anni or sono ritornata a Vienna da Vaduz (fig. 16), dov’era stata trasportata alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale.
Y Perfino più intensi sono tuttavia il côté musicale e quello letterario, di cui altri racconterà. Nel Cinquecento le note di Vienna non erano brillanti, né particolarmente memorabili; forse
anche per le nozze di Ferdinando ii con Eleonora Gonzaga, i
primi maestri di cappella vengono da Venezia: Giovanni Priuli
(1575-1629) e Giovanni Valentini (1583-1649) studiano con
Giovanni Gabrieli, e muoiono a Vienna; Ferdinando iii è incoronato al suono del Ballo delle Ingrate di Claudio Monteverdi; muore all’ombra del campanile di Santo Stefano anche Antonio Bertali, di Verona (1605-1669), che insegna musica all’erede al trono; fino agli ultimi giorni, a dirigere la cappella gli succede Giovanni Felice Sances, non molto noto (1600-1679), ma pure lui
passato per le lagune. A Vienna, grandi mediatori culturali del
tempo sono i riformatori del melodramma Apostolo Zeno (nato e morto a Venezia, 1668-1750), autore di 66 libretti e poeta
cesareo per dieci anni dal 1718, e Pietro Metastasio (in realtà
Trapassi: nasce a Roma, 1698, muore a Vienna, 1782), che gli
succede con un salario di tremila fiorini l’anno, ma approda in
Austria, dove vive al quarto piano del numero 12 di Kohlmarkt,
«soltanto dopo la verifica veneziana dei suoi testi» (Giovanni
Morelli). A 12 anni traduceva l’Iliade in ottave, è autore di 27
drammi per musica, 35 azioni teatrali, 8 oratori, serenate, poemi lirici, canzonette. A Venezia ha molte commissioni: dai
Tron, dai Soranzo, dai Gradenigo, dai Tiepolo e mette in scena
numerose prime. Quando lascia l’Italia ha già all’attivo i successi in laguna di Artaserse, Siroe e Didone abbandonata. Artaserse è musicato da Leonardo Vinci e Johann Adolf Hasse (che morrà a Venezia nel 1783): va in scena nel 1730, a Roma e al teatro di San
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Giovanni Crisostomo; lo riprenderanno altri 85 autori, tra cui
Gluck, Scarlatti, Johann Christian Bach, Galuppi, Paisiello e
Cimarosa, per indicarne la popolarità. Siroe è ancora di Vinci,
rappresentato a Venezia nel 1726, e ripreso da altri venti musicisti tra cui Vivaldi, Handel, Scarlatti, Galuppi, Piccinni; mentre
Didone è di Domenico Natale Sarro, che la presenta nella sua Napoli nel 1724, ma ha successo dopo la ripresa veneziana di Tomaso Albinoni,
1725, tanto che lo stesso primo autore provvede a un rifacimento
per la laguna nel 1730; fino al
1823 e a Saverio Mercadante, è adottata da 57 musicisti. In Austria, Metastasio esordisce il 4 novembre 1731, onomastico dell’imperatore
Carlo vi, con Demetrio
di Antonio Caldara
(Venezia,
1670Vienna, 1736); e, secondo il perfido Lorenzo Da Ponte, vi
muore di crepacuore,
dopo la notizia che la
pensione gli era stata
sospesa. Tra le opere dell’ultimo maestro di cappella degli Asburgo venuto
dalle lagune, Antonio Salieri
(Verona, 1750-Vienna, 1825),
curiosamente vi sono Semiramide di
Metastasio, e Il pastor fido, su libretto di da
Ponte, che conduce a Mozart, e lo racconta
Sandro Cappelletto. Salieri giunge a Vienna al seguito del boemo Florian Leopold Gassmann (1729-1774), che dopo la scuola
dal famoso padre Martini a Bologna, è al servizio dei conti Veneri a Venezia, da dove è chiamato a succedere a Gluck al Burgtheater; dopo la morte per un incidente del suo mentore, sarà
Salieri a insegnare musica alle figlie, e a diventare Hofkapellmeister
(fig. 17).
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11. Sebastiano Ricci, Bacco
e Arianna, Pommersfelden,
Graf von Schönborn
Kunstsammlungen.
Sebastiano Ricci, Bacchus
and Ariadne, Pommersfelden,
Graf von Schönborn
Kunstsammlungen.
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Y Fino ad allora, parecchi veneziani impugnano la bacchetta alla corte di Vienna, le cui vie «sono lastricate di cultura, e nelle
altre città d’asfalto» (Karl Kraus). Già dal 1640, vi si rappresenta Francesco Cavalli (in realtà, Pier Francesco Caletti-Bruni,
1602-1676), cremasco ma a 15 anni cantore in San Marco da dove non si muove più: un unico viaggio a Parigi, invitato dal cardinal Mazzarino per un’opera che, nel 1660, rallegri le nozze di
Luigi xiv, il re Sole, con Margherita d’Austria, figlia di Filippo
iv re di Spagna; però il teatro non è pronto, e la pièce va in scena due anni dopo. Poi, tocca a Marc’Antonio Ziani (1653-1715)
e Carlo Agostino Badia (1671-1738), defunti a Vienna come Antonio Draghi (1634-1700), nato a Rimini ma educato a Venezia,
e, dal 1714, Antonio Caldara (3.500 composizioni all’attivo; allora, il vertice della musica austriaca con Antonio Lotti, pure veneziano, 1666-1740, esordio come cantore aggiunto a San Marco; forse, con Caldara termina la supremazia veneta nel teatro
musicale barocco). Ci va anche Antonio Pancotto, dimenticato
perfino dal Deumm, la “Bibbia” dei musicofili.
Y Baldassarre Galuppi è ospite quando si esegue il suo Demetrio,
su testo di Metastasio; e, parlando d’altro, vive lì una grande stagione (un’altra è a San
Pietroburgo) Giovanni
Battista Lampi, trentino formatosi a Verona,
ritrattista ufficiale e
disputato delle maggiori corti dell’epoca (fig.
18). Per Vienna passerà
perfino, chiamato da
Domenico
Barbaja,
impresario del San
Carlo a Napoli, e dell’An der Wien e del
Kätnerthortheater,
Gioachino Rossini, di
cui dieci “prime”, tra il 1810 e 23, sono riservate alla laguna, dal
San Moisè alla Fenice. Una curiosità: nel 1742, dalla capitale austriaca arriva a Venezia Carlo Ginori, creatore della storica manifattura di Doccia, porcellane e maioliche, per chiedere consigli a Giovanni Vezzi, sfortunato pioniere in materia; ma è costretto a una scomoda quarantena al Lazzaretto nuovo. Debutta a
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Venezia, ai Santi Apostoli nel 1649, l’aretino Antonio Cesti
(1623-1669), che farà fortuna a Innsbruck; è tra i massimi autori del tempo, esaltato da Salvator Rosa, 1652 («In Venetia è divenuto immortale e stimato, il primo che oggi componga in musica»). E a Vienna, per finire, passa gli ultimi giorni, abbastanza
misteriosamente e in modo sicuramente disagiato, anche Antonio Vivaldi (1678-1741, fig. 19): vi era già andato, nel 1730 con
il padre, a rappresentarvi Farnace; aveva già composto musiche per
le nozze di Luigi xv e per l’imperatore Carlo vi, che aveva pure
omaggiato a Trieste, ricevendone il cavalierato; forse, lo voleva
incontrare di nuovo. Non più stimato come prima a Venezia, e
osteggiato a Ferrara (il cardinale Fabrizio Ruffo vieta una sua stagione, anche «per l’amicizia con la Girò cantatrice»), nel 1740
se ne va. Ma non butta bene: Carlo vi muore; segue la guerra; lui
svende i manoscritti. Vive presso una vedova, vicino al teatro dove sperava di rappresentare qualcosa: casa distrutta nell’Ottocento, al suo posto c’è l’hotel Sacher; e vi muore la notte tra il 27 e
28 luglio 1741: vicino alla Karlskirche (la cui volta è affrescata da
Rottmayr, quello che studia a Venezia da Loth), una lapide ci ricorda che è sepolto lì, in una fossa comune. E la sua musica, oltre 550 concerti (una volta, dice De Brosses, si vantò d’averne
composto uno più in fretta che il copista a trascriverlo)? Dimenticata fino al xx secolo. In centro, a piazza Roosevelt, per i 260
anni da quel giorno, è stato scoperto un monumento del veneziano Gianni Aricò: tre figure in marmo di Carrara rappresentano le sue “Putte” dell’Ospedaletto.
Y Su tutto il resto (e ce ne sarebbe), passiamo a volo d’uccello.
Grazie a Bernardo Bellotto sappiamo come la città degli Asburgo
era ai suoi giorni. Il nipote di Canaletto esordisce con una veduta commissionata nel 1759 dal principe Wenzel Anton von Kaunitz-Riethberg, noto anche per aver voluto, in quei tempi difficili, una cappella con un pulpito per i cattolici e uno per i protestanti; poi, documenta tre castelli (il terzo è Schönbrunn) di cui
due (Belvedere e Schlosshof) già di Eugenio di Savoia, oltre alle
piazze e ai mercati; e Maria Teresa vuole per sé molte sue tele.
Y Dalle collezioni di Carlo i, decapitato a Londra, giunge a
Vienna parecchio di veneziano: spesso, capolavori assoluti. Nel
1798, mentre nella capitale d’Asburgo sollecita i pagamenti del
vitalizio, Canova è officiato di un monumento funebre per Maria Cristina d’Austria, che dal 1805 è nella Augustinerkirche. E
presto, in Laguna, fa fortuna un ritrattista che viene da Vienna e
il contesto
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uno storico nemico, che priva la serenissima della libertà
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morrà in una calle: Ludwig Passini (1832-1903) vive a Roma, e
lascia una celebre Veduta del Caffè Greco, ma gli ultimi 30 anni li
spende a Venezia. Abitava a Palazzo Vendramin dei Carmini, e
nel 1895, con Alma Tadema, Puvis de Chavanne, Gustave Moreau, Edward Coley Burne-Jones (per dire i nomi) fa parte del
Comitato per la i Biennale (fig. 20); nella ii, esporrà un suo ritratto. Il giovane Gustav Klimt (1862-1918) – che a vent’anni
quasi esordisce decorando a Fiume il teatro comunale con il fratello Ernst di due anni più giovane e il compagno di studi Franz
Matsch – affresca intanto lo scalone del Kunsthistorisches Museum, e, tra l’Arte greca ed Egizia, dipinge il Rinascimento italiano
(1890) in cui inventa anche il
Quattrocento veneziano: ancora
lontana è la Sezession, e ancor
più il tributo della Biennale,
che nel 1910 gli dedica una
mostra, e Venezia ne acquista
la Giuditta (fig. 21)
Y Novecentesche anche le
due ultime notazioni. Lega le
due città perfino Gabriele
D’Annunzio (fig. 22). Il volo
su Vienna il 9 agosto 1918 (11
Ansaldo Sva della 87. squadriglia), avviene nel nome di San
Marco (come si chiamava la
Squadra aerea comandata dal
Vate) e della Serenissima, che
era il titolo dell’87. squadriglia; e il decollo, anche con
l’asso dell’aviazione Arturo
Ferrarin, avviene dal campo di
San Pelagio, alle porte di Padova; degli undici partiti, sette
giungono sulla capitale austriaca e liberano 50 mila copie di un manifestino scritto dallo
stesso D’Annunzio. Infine, durante la belle époque, ponte tra le
due città era anche il mitico Simplon Orient Express: da poco
riesumato, con 12 carrozze-letto blu costruite tra il 1926 e il
1931; ma solo per pochi: negli scompartimenti-suite, il viaggio
costa 1.600 euro a persona.
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ambassadors and spies,
artist and musicians:
centuries of perilous relations
context
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Fabio Isman
12. Antonio Bellucci,
Studio per Il massacro degli
Innocenti, andato all’asta da
Sotheby’s a Londra il 22
aprile 2009, con stima di
9 mila euro.
Antonio Bellucci, Study for
the Massacre of the Innocents,
auctioned at Sotheby’s,
London, on April 22,
2009.
Y Leonardo Donà, or Donato (1536-1612), the son of Giovanni Battista and Giovanna Corner, from a long line of not excessively wealthy merchants, with six brothers (of whom only one
married), was the ninetieth Doge of the Republic of Venice.
Elected in 1606, he was the second of three doges from the same
stock, and like many others a portender of stories and legend (one
such surrounded the figure of Ludovico, made cardinal by Urban
iv in 1378, but then, suspected of treason, was drowned along with
five other cardinals; another was Andrea, “corrupted by the Duke
of Milan” and imprisoned in 1447; and Giuseppe, publicly
hanged in 1601 because he was thought to be a spy for the
Spaniards; yet another was Antonio, banished for embezzlement
in 1619, and, finally, Paolo, exiled and then pardoned in 1704 for
murder, caused by “jealousy towards a nun”). Leonardo (who was
the first person Galileo showed his telescope to on the San Marco
campanile in 1609) had a palazzo built at the Fondamenta Nove
which, some maintain (and who knows why), was designed by Paolo Sarpi, and which is, strangely enough, still occupied by his descendents. He followed Marino Grimani, and had to deal with a
very thorny problem indeed: the “Interdiction” emanated by Pope
Paul v. Following Sarpi’s advice, 18 days after his election and
nominated in jure consultant and theologian of the Republic, the
doge replied with his own “Protest”: he ordered the Venetian clergy to ignore the interdiction, and had all Jesuits who refused to
comply expelled.
Y Donà rose to the position of doge following the usual cursus honorum: podestà at Brescia, savio, ambassador to Spain (at only 33), Vienna, Paris and Rome, bailo at Constantinople, governor and
procurator of St Mark (from 1591, which he celebrates with a banquet that cost 587 ducats, or a third of his annual income). When
he was in Rome, it was said that Sixtus v offered him the episcopal
see of Brescia, and that there had been a premonitory exchange
with Camillo Borghese, the future Pope Paul v: “If I were pope, I
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13. Bernardo Bellotto, La
Freyung di Vienna verso la
facciata della Schottenkirche,
1750-1760, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Bernardo Bellotto, Vienna
Freyung towards the Façade of the
Schottenkirche, 1750-60,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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would excommunicate the Venetians”; and “If I were doge, I’d
laugh off the excommunication”. If it isn’t true, it’s certainly ingenious. However, as early as the late 15th century, Venetian diplomats were putting together a report for the Serenissima. The future
doge also left a Diario, unpublished for 430 years until Umberto
Chiaromanni finally published it, where he tells of the Vienna of
1577, just after the Protestant reform and the Council of Trent, six
years after the Battle of Lepanto (fig. 2): when, with Giovanni
Michiel, who had already been sent there in 1564 and 1571, he went
to congratulate Rudolf ii, the heir to the Holy Roman Empire.
Y “The entire city, within its walls, is rather nobly and richly made
of stone”; “beautiful roads all paved with bricks”; St Stephen’s is
comparable to all the “beautiful churches in other Italian cities because of the ornaments of its pillars full of wonderful figures”, and
the “tower, or rather campanile”, is “as tall as what is currently our
campanile at St Mark’s”; the gardens are replete with fountains and
“playful devices”, and the “pleasure dome” wanted by Maximilian i
is splendid. There are not too many descriptions such as this one;
Veneto ambassadors usually limited themselves to the problems
(and rumours) of court or military themes linked to defence. Even
more so those who had to deal with Vienna. Vienna had come to the
fore relatively late as a power, and was linked with Venice more for
cultural rather than commercial reasons, and was for a long time
seen almost as an enemy at the gate until (and this makes it sound
like a nemesis) it was Vienna itself that definitively deprived the
Serenissima of its independence when the former Dominante was
subjected to Viennese rule. As early as 1564, Giovanni Michiel describes it as one of the “greatest in Europe in terms of wealth and
fortifications”; its importance is due to its “continuous trade with
the provinces, for which it is the main hub”. However, the first description we know about dates from 1496, where it is illustrated by
Zaccaria Contarini on July 12, according to Marino Sanuto, in the
first of the 52 volumes of his Diarii.
Y In 1500, Venice had 150,000 inhabitants; in that same year,
Vienna had 20,000. The Austria we now know came about much
later. It was originally made up of a series of fiefdoms. The eastern March (Ostmarch, later Osterreich, i.e. “eastern empire”) was taken over by the Habsburgs with Rudolf i, replacing the extinct
Badenbergs; they became heirs to the Holy Roman Empire in
1440 (nonetheless, in 1485 Vienna was occupied by the Hungarian Matthias Corvinus, and in 1519 Madrid became the empire’s
official capital). In 1526, after the unification of the crowns of
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Bohemia, Hungary and Croatia, one of the greatest continental
powers was born, even though 30 years of war, which came to a
close in 1648 with the Peace of Westphalia, ruled out any hope of
dominating Germany or Europe.
Y For a long while, relations with Italy followed other itineraries.
Until the mid 17th century, Giovanni Pietro Telesphoro de Pomis
(Lodi, 1569-1633) and Donato Mascagni (Florence, 1579-1637),
were painting in Graz and Salzburg, as was Santino Solari (Como,
1576-1646). But even
more locally famous was
Carpofora
Tencalla
(Ticino, 1623-1685),
who learned his art in
Milan, Bergamo and
Verona. Called by Ferdinand
ii’s
wife,
Eleonora Gonzaga, he
became court painter
and frescoed the halls at
Hofburg, the imperial
residence, and contributed to the greater
churches of the capital
and several castles in
the region (including the episcopal seat of Kromeriz, unfortunately destroyed by fire like that of Olomouc; his brother Giovanni Pietro was the architect, and the building houses The Flaying of
Marsyas, one of Titian’s last works, bought by Thomas Howard,
count of Arundel, in Venice in 1620). Tencalla left his unfinished
masterpiece in the Passau cathedral, where he very likely met the
architect Carlo Antonio Carlone (Como or Milan, 1634-1708),
who designed and transformed various religious complexes in Vienna and surroundings, such as the famous Sankt Florian abbey,
which later became Anton Bruckner’s (1824-96) “reign”. Over
time, Giuseppe Arcimboldi (1527-98) and Martino Altomonte
(1657-1745) arrived from Milan and even Naples; Francesco Martinelli (1651-1708) and Donato Felice d’Allio (1677-1761) arrived
from Como; Andrea Crivelli (1528-58) and Gabriele De Gabrieli
(1671-1747) arrived from Trent and Rovereto; and Ludovico Ottavio Burnacini (1636-1707) arrived from Mantua. There were
many others. Among the rare exceptions there were Giovanni
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14. Bernardo Bellotto,
Vienna dal Belvedere superiore,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Bernardo Bellotto, Vienna
from the Upper Belvedere,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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Giuliani (Venice, 1663-1744), who undertook sculptures and
stuccos for the Liechtensteins’ house, the sculptor Lorenzo Mattielli (Vicenza, 1680?-1748), who worked a great deal in the capital, and the 17th-century Paduan sculptor Ottavio Mosto,
who worked in Salzburg.
Among the Venetian precursors (about whom I will talk in
greater depth later on), there
was a brief trip undertaken by
Pietro Liberi, as well as slightly more important work undertaken by Antonio Bellucci
and Sebastiano Ricci in the
early 18th century.
Y In fact, relations with Venice are more in the musical sphere
than in painting, and can be seen mainly in the 18th century. Before this, relations were mainly those officiated by ambassadors or
undertaken by spies. And that is because the two cities usually
looked daggers at each other. The Habsburgs had possessed
Carinthia and the Tyrol from as early as the 14th century, Duino,
near Trieste (now belonging to the Turn und Taxis, who have become, locally, “Torre e Tasso”), since 1366, and Trieste, whose
own career was often that of antagonist to Venice, since 1382. In
1508, the emperor Maximilian i attacked the mainland, and
Venice counter-charged by conquering Pordenone, Gorizia, Trieste and Fiume. That same year, along with Louis xii of France,
Venice founded the League of Cambrai, joined by the king of
Spain and the dukes of Ferrara and Mantua; yet the Serenissima
loses, albeit only temporarily, control over the mainland. From
the mid 16th century, the emperor had even darker aims to control navigation in the Adriatic, the “doorway” from Venice to the
world and the cornerstone of its commercial success: the Uskoci,
Albanian and Serbian refugees fleeing from Islamic occupation
but within Habsburg territory, constituted an impediment. Vienna was a bulwark against an invasion by the Turks, who had besieged the city in 1529 and 1683, with 200,000 men, and 25,000
tents; in 1532, they were fought off with the help of Ippolito de’
Medici, whom Titian immortalised in Hungarian dress to underline his command of 4,000 musketeers (fig. 3). “Bastion of the
entirety of Europe” and “key to Christianity” are the definitions
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15. Federico Bencovich,
Sacrificio di Ifigenia,
Pommersfelden, Graf von
Schönborn
Kunstsammlungen.
Federico Bencovich,
Iphigenia’s Sacrifice,
Pommersfelden, Graf von
Schönborn
Kunstsammlungen.
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of Vienna given by ambassadors to the capital. But who knows if
the Venetian senate, on September 17, 1593, had the fortress city
of Palmanova built as a defence against Islam or (which is more
likely) as a bluwark against the Habsburgs, understandably worried
by events at hand. Let’s not forget that, in 1500, Da Vinci had
been called upon to plan a defence along the Soca/Isonzo river, as
per the Codex Atlanticus (fig. 4). Leonardo Donà himself (along with
Marino Grimani, Giacomo Foscarini, Marc’Antonio Barbaro and
Zaccaria Contarini) was part of a commission whose brief was to
define the site for a new fortress city; in 1593, he left a diary
chronicling the commission's inspections (fig. 4).
Y Hence, ambassadors and spies: a highly commendable profession from the days of The Art of War by Sun Tzu, a general who probably lived at the same time as Confucius in the 6th century BCE,
affirmed that “going with public order to spy on what is going on
in countries we look on with suspicion is a very honourable
thing”; and practised by King Sargon in Mesopotamia in 2350
BCE, and not unfamiliar to Moses, who sent 12 spies into the land
of the Canaanites. But the Romans were never fond of delatores, or
informers; and Tomaso Garzoni called them “abominable” in
Venice in 1587. The word “spy” is used in Venice for the first time
in 1264, and from that moment on the Serenissima’s secret services apparatus became notorious, both domestically and abroad.
The first talk of an encrypted document dates back to 1226, and
there would be many subsequent uses of secret codes. And Austria
was certainly no different. Just consider its infamous “Black Cabinet”, put together by
Leopold i in the mid 17th
century to intercept mail
sent via the Turn und Taxis
throughout Europe. In
1774, the bailo in Constantinople justified sending a
despatch via Kotor, saying
that anything sent via Vienna would be opened.
The same practice was consolidated in Venice as well.
Giacomo Casanova himself, as we know, was part of the Venetian apparatus. He spent a
part of his exile in Vienna, and in a wonderful book on 18th-cen-
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tury spies, the author Giovanni Comisso writes about one of
Casanova’s backbiting comments on Carlo Grimani, who “talks
without any scruples whatsoever to the Russian Minister”. But
perhaps Casanova’s first real spying commission was against Austria: the Inquisitors sent him to Trieste in 1773 to convince Armenian monks who had left San Lazzaro, where they had established a printing press, to return to Venice.
Y Hence, ambassadors and spies. Vienna boasted a naval dockyard from which, in 1559, Ferdinand ii planned to launch 400
“nasade” with 12,000 men on board, explains Leonardo Mocenigo, even though the plan was never realised. But in 1563, 12 legni
ships are ready, built by Venetian “brigands” and “bandits” with 13
to 20 “benches” (for rowers, obviously), and 150 28-futtock nassate ships. Again in 1738, the ambassador Niccolò Erizzo was particularly struck by four vessels built on the Danube thanks to the
head of the Austrian navy, the marchese Giovan Luca Pallavicini.
This obvious interest in Vienna’s weaponry was utterly reciprocal.
In fact, while Palma was being built, despatches constantly mentioned Habsburg “explorers” who had infiltrated the ranks of the
workers, and a captain disguised as a hermit was pointed out by a
confidant in 1620. And Vienna, well before the Third Man (unforgettable film directed by Carol Reed, with Orson Welles and Alida Valli, 1949), had proven itself to be a city of intrigue. It was
here in 1620 that an agent obtained the secret sections of the
League against the Turks, and in 1628 a Spanish network in
Venice was unmasked (Madrid’s Instructions were communicated to
the Venetian Inquisitors). And it was in Vienna that, in 1698, the
ambassador Carlo Ruzzini discovered that the Russian tsar Pietr i
would travel to Venice incognito (see VeneziAltrove 2008). Even the
secretary of Luigi Pio of Savoy, ambassador to Austria, was an informer, which should surprise no one considering that late-17thcentury Rome was a hive of secret activity, with even the cardinal
Pietro Ottoboni, patron of Scarlatti, Corelli and Händel, and his
uncle, the future Pope Alexander vii, providing confidential information, according to Paolo Preto. In the mid 18th century, the
imperial ambassador to Venice received 400 sequins for his
“benevolence”; at the turn of the century an abbot was also being
paid for his translations of letters by the Viennese government.
When needed, there were also hired killers. Venice unleashed a
few in 1640 against a captain who had betrayed them and was
working for the Habsburgs, and in 1662 against a gentleman who
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16. Giovanni Antonio
Canal, detto Canaletto,
La Piazza di San Marco,
Vaduz-Vienna,
Sammlungen des Fürsten
von und zu Liechtenstein.
Canaletto, St Mark’s Square,
Vaduz-Vienna,
Sammlungen des Fürsten
von und zu Liechtenstein.
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worked for the city bank and had fled to Vienna with a large
amount of money. Four years later, the Venetian ambassador was
ordered to “remove from the world without compromising our
public image” Gabriel Vecchia, guilty of “abominable acts”, and in
1754 Pietro de Vettor, from Friuli, had to be poisoned because he
had stolen the secret formula
for enamel and moved to the
city that (Haydn, Mozart,
Beethoven, Strauss, Schönberg,
Berg, Webern) was the capital of
music.
Y In fact, spies also had to look
after economic interests. In
1766, the secret formula for
producing porcelain arrived
from the ambassador to Paris
before a certain baron Suter was
able to deliver it to Austria. In
1733, a Bergamo knight provided information about paper mills and salt; in 1751, a spy was sent
off throughout Europe (including Graz, Linz and Vienna) to collect information about tariffs, factories and trade; in 1761, the
diplomat working in Vienna was asked to pay two mortar workers
for their information. In 1774, spies were put to work to undermine a plan to build a road that, via Engadina, would go from Milan to Vienna; in 1620, plans were afoot to kidnap a former English corsair, who had been granted permission to “produce Venetian soaps”, but who refused to abide by the rules. In 1724, Count
Rinaldo Zoppin was “persuaded” not to export to Vienna “Lotto
and the game of biribìs” (one of the many games practised in the
city, with very colourful names: Faraone, which was much loved by
Casanova, Zecchinetta, Cressiman, Bazzica, Meneghella and Camuffo, Slipe e Slape, Picchetto, Tresette, Gilè alla Greca, Ombre,
Tric Trac, Bassetta; the world “loto” was cited by Marin Sanuto in
reference to a 1522 extraction; the “Genoa Lotto” first appeared
in its home city in 1576 and in Venice in 1734; thanks to Italians,
it was exported to Austria in 1752). In 1761, Vettor Erizzo’s plans
to open a bank in Vienna were thwarted. And even the art of lace
tatting had to be protected against exportation: in 1748, a lace tatter from Udine founded a plant in Vienna, with workers who had
been lured from Venice. For the princely sum of 3,100 ducats he
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was persuaded to return to Italy before teaching his Austrian
workers the art of tatting. In 1777, the ambassador to Austria
helped suppress a narrative defined “reckless and detestable” by
buying six copies from private sellers.
Y When they weren’t busy with hired killers, diplomats described
the city. They examined their fortifications, the state machine (“a
body without any organisation”, wrote Michiel in 1678) and their
weaponry (in 1769, Paolo Renier, future doge, wrote of “country
canons” able to fire 15 shots per minute, and of one with case shot
able to fire cannon balls to a distance of 400 paces). But in 1793,
Daniele Dolfin paid homage to Joseph ii for his
concession of religious freedom and for abolishing
slavery in the form of serfdom, even if there was still
“dissatisfaction in the provinces” with their disparate ethnicities, and efforts to homogenise the
country seemed vain. Ambassadors, however, were
also expected to give gifts. The ambassador Donà,
for example, was asked by the archduke Ferdinand to
provide, for his own historical armour collection,
the armour worn at Lepanto by Doge Sebastiano Venier, Agostino Barbarigo (who was killed in battle)
and Marcantonio Bragadin (flayed at Famagosta),
“and wanted that we commit this to writing, as we
did to Your Most Serene Highness”. Communication between the two cities had been very intense for
quite some time. Postal services between the two had
begun in 1558, when the Polish king Sigismund ii
linked his dominions with some of his southern
capitals, and the postal service betweenVenice and
Vienna was among the first to be established.
Y But those itineraries were not only being frequented by ambassadors and spies, in either direction. No one perhaps as much
as the Germans (in the term’s broadest sense) has loved or desired
Italy more, and above all Venice, which they discovered well before
Goethe. The Germans had their own Fondaco, next to Rialto and
frescoed by Titian and Giorgione, in Venice from the Middle
Ages. The Fugger bankers were extremely important, and it is
thanks to them that Albrecht Dürer was brought to Venice to create his Festival of the Rosary altarpiece for the church of San Bartolomeo (1506). The altarpiece is two meters wide and is full of
authentic portraits, including those of the current Pope and Em-
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17. Joseph Haunzinger,
L’imperatore Giuseppe II con le
sorelle Anna ed Elisabetta; lo
spartito è di un Duo di
Antonio Salieri.
Joseph Haunzinger, Joseph II
of Habsburg with his Sisters Anna
and Elisabeth; the music is
Antonio Salieri’s Duo.
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peror, the painter himself, the Fondaco architect and the commissioner (figs. 7, 8). In 1606, Rudolf ii demanded it be brought
to Prague. But these were still just generically “todeschi”, or “Teutons”, and not Austrians. The Fuggers were from Augsburg, and
began as merchants and bankers in the 15th century before they
became firmly established in the 16th (they leant Maximilian i
150,000 florins, contributed 500,000 florins for the election of
Charles v in 1519, and had other offices in Rome); as Germans,
they were the first artists from “beyond the alps” and the west in
Venice. Including Giovanni d’Alemagna (literally “from Germany”) who, in 1446, with his brother-in-law Antonio Vivarini,
painted the first painting on canvas ever recorded in Venice for
the Sala dell’Albergo in the church of Santa Maria della Carità
(fig. 9). The painting is a polyptich (on linen), three and a half
metres tall and almost five metres wide, the work of trend-setting
titans, where the delicate brocades indicate a complex technique
that was certainly based on careful observation of foreign artists.
Then trips and contributions in both senses became all the more
common, finally involving Austria and Vienna itself, which was
just beginning to emerge as a capital. Pietro Liberi (1605-87)
worked there, and Leopold i made him count; in the mid 17th
century, Marco Boschini dedicated his Carta del navegar pitoresco to
the archduke Leopold Wilhelm. Others who worked there were
Giovanni Antonio Pellegrini (1675-1741, fig. 10) and Sebastiano
Ricci (1659-1734, figsa. 1, 11), who was in Schönbrunn at Johann
Carl Loth’s along with Johann Michael Rottmayr (1654-1730),
who had studied in Venice for 11 years (as had Hans Johann Rottenhammer, from Munich, a century earlier). Loth himself was
born in Munich in 1652, and died in Venice, his second homeland, in 1698. He received commissions from all the European
courts, and exported the fad for sketches from Italy.
Y After which, there were no limits to the comings and goings.
Palazzo Liechtenstein holds paintings by Antonio Bellucci (16541726), whose only work still in Venice is a San Lorenzo Giustiniani (the
first Patriarch) at the church of San Pietro di Castello (until 1807
the city’s cathedral), and one of whose studies for the Slaughter of
the Innocents was recently put on auction by Sotheby’s for an estimated 9,000 euros, but remained unsold (fig. 12). Simon Vouet’s
nephew, Louis Dorigny (1654-1742), a Parisian who had adopted
Venice and the Veneto, decorated the Rotonda in Vicenza, Villa
Manin in Passariano and the Duomo in Udine; in Vienna he fres-
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18. Giovanni Battista
Lampi, Ritratto del principe
Johannes I von un zu
Liechtenstein, Vaduz,
Kunstsammlungen des
Fürsten von Liechtenstein.
Giovanni Battista Lampi,
Portrait of Prince Johannes I von
un zu Liechtenstein, Vaduz,
Kunstsammlungen des
Fürsten von Liechtenstein.
19. Anonimo, Antonio
Vivaldi, Bologna, Museo
internazionale e Biblioteca
della musica.
Anonymous, Antonio Vivaldi,
Bologna, Museo
Internazionale e Biblioteca
della Musica.
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coed the home of Eugenio of Savoy, who was at the time the most
famous of the condottieri. Daniele Antonio Bertoli (1677-1743) was
chamber decorator to Joseph i, Charles vi and the young MarieThérèse, whose teacher he had been. The imperial family and Viennese aristocrats then asked that their portraits be undertaken by
Rosalba Carriera (1675-1757), Pellegrini’s sister-in-law, who also
began a series of Four Seasons which she also undertook for the English consul Joseph Smith. Bernardo Bellotto (1721-80), on the
other hand, painted countless scenes of the capital (figs. 13, 14)
commissioned by Marie-Thérèse. Franca Zava Boccazzi writes of
the incredible life of Federico Bencovich (?1677-1756), a Dalmatian brought to Venice by a musical relative and sent to study with
Carlo Cignani, active in Schönbrunn and Würburg, who would be
the young Giambattista Tiepolo’s model for the Residenz cycle (fig.
15). Unfortunately, what little remained of his work was destroyed
during world war two. Our overview comes to an end with Giovan
Battista Pittoni (1687-1767), active in Schönbrunn and elsewhere,
and the 13 Canalettos the Liechtenstein’s added to their collection, which returned to Vienna only recently from Vaduz (fig. 16),
where it had been taken on the eve of the last world war.
Y Even more intensive were the musical and literary worlds, that
others will be writing about. In the 16th century, Viennese music
was not brilliant, nor particularly memorable, and it is maintained that for Ferdinand ii’s wedding to Eleonora Gonzaga, the
first chapel maestri were brought in from Venice. Giovanni Priuli
(1575-1629) and Giovanni Valentini (1583-1649) studied with
Giovanni Gabrieli, and died in Vienna; Ferdinand iii was
crowned to the strains of Monteverdi’s Ballo delle ingrate; Antonio
Bertali from Verona (1605-69), who taught music to the heir to
the throne, also died in Vienna; the relatively unknown Giovanni
Felice Sances (1600-79) directed the chapel until his death. Great
cultural mediators in Vienna at that time included the reformers
of the melodrama Apostolo Zen (who was born and died in
Venice, 1668-1750), who wrote 66 libretti and was Caesarean poet for ten years from 1718, and Pietro Metastasio (born Trapassi;
b. Rome 1698 – d. Vienna 1782), who followed Zen with a salary
of 3,000 florins per annum, but who moved to Austria, where he
lived on the 4th floor at 12 Kohlmarkt, “only after the Venetian
verification of his texts” (Giovanni Morelli). At 12 he was translating the Iliad into octaves, and he wrote 27 musical dramas, 35 theatrical pieces, 8 oratorios, serenades, lyrical poems and songs. He
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was commissioned by many in Venice, including the Tron, Soranzo Gradenigo and Tiepolo families, and staged many of his premiers there. When he left Italy, he had already been successful in
Venice with his Artaserse, Siroe and Didone abbandonata.
Artaserse was set to music by Leonardo Vinci and Johann Adolf Hasse (who died in Venice in 1783). It
was first performed in 1730 in Rome, at the San
Giovanni Crisostomo theatre. As a sign of its popularity, it would later be taken up again by 85 other authors, including Gluck, Scarlatti, Johann
Christian Bach, Galuppi, Paisiello and Cimarosa.
Siroe was, once again, set to music by Vinci, was performed in Venice in 1726, and was taken up again
by another 20 musicians, including Vivaldi, Handel, Scarlatti, Galuppi and Piccinni. Didone was set
to music by Domenico Natale Sarro, who presented it in his native Naples in 1724, but it became a
success when it was later performed in Venice by
Tomaso Albinoni in 1725. It was so successful, in
fact, that the original author worked on a remake
for Venice in 1730, and in all 57 musicians adopted it, up to Saverio Mercadante in 1823. Metastasio
debuted in Austria on November 4, 1731, the day of
Charles vi’s name-day, with Demetrio by Antonio
Caldara (Venice 1670-Vienna 1736), and, according to the perfidious Lorenzo Da Ponte, he died
there of a broken heart when he was told that his
pension had been suspended. Among the works by
the last of the Habsburg chapel maestri from
Venice, Antonio Salieri (Verona 1750-Vienna
1825), there are, strangely enough, Metastasio’s
Semiramide and Il pastor fido, based on a libretto by Da
Ponte, and where, according to Sandro Cappelletto, Mozart was conducted. Salieri arrived in Vienna following the Bohemian Florian Leopoldo Gassmann (172974), who, after his father Martini’s famous school in Bologna,
worked for the Veneri counts in Venice, whence he was called to
follow Gluck at the Burgtheater. After the accidental death of his
mentor, Salieri taught his daughters music and replaced him as
Hofkapellmeister (fig. 17).
Y Until then, many Venetians had wielded a conductor’s baton at
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20. Manifesto della prima
Biennale d’Arte, 1895,
Venezia, collezione
Fondazione di Venezia.
Placard for the first
Biennale d’Arte, 1895,
Venice, Collezione
Fondazione di Venezia.
21. Gustav Klimt, Giuditta II
- Salomè, 1909, Venezia,
Galleria internazionale
d’Arte moderna di Ca’
Pesaro.
Gustav Klimt, Judith II
(Salomé), 1909, Venice,
Galleria internazionale
d’Arte moderna
di Ca’ Pesaro.
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the Viennese court, where the streets “are paved with culture, while
in other cities they are asphalt” (Karl Kraus). In 1640, one such
was Francesco Cavalli (originally Pier Francesco Caletti-Bruni,
1602-76) from Crema who at the age of 15 was already a singer at
St Mark’s, where he would remain. He had undertaken only one
trip to Paris, on the invitation of
Cardinal Mazzarino, for an
opera to be performed for the
marriage of Louis xiv, the Sun
King, to Margaret of Austria,
daughter of Philip iv of Spain,
in 1660, but the theatre wasn’t
ready and the play was put on two
years later. He was followed by
Marc’Antonio Ziani (16531715) and Carlo Agostino Badia
(1671-1738), who both died in
Vienna, as did Antonio Draghi
(1634-1700 – Draghi was born in Rimini but educated in Venice),
and, from 1714, by Antonio Caldara (3,500 compositions; at the
time he was considered the best there was in the field of Austrian
music, along with Antonio Lotto, who was also Venetian [16661740] and had debuted as singer at St Mark’s; with Caldara Veneto
supremacy in baroque musical theatre arguably comes to an end).
Yet another is Antonio Pancotto, who was so memorable he was ignored even by Deumm, the music-lovers’ “bible”.
Y Baldassarre Galuppi was a guest when his Demetrio was performed, based on Metastasio. (Giovanni Battista Lampi, originally
from Trent but who had studied in Verona, experienced his greatest fame here and St Petersburg as an official portrait artist, for
which he was much in demand by the most important royalty of the
time, fig. 18). And, finally, Dominco Barbaja (impresario for
Naples’ San Carlo theatre, the An der Wien theatre and the Kätnerthortheater) called to Vienna Gioachino Rossini, who had provided ten works premiered in Venice’s San Moisè theatre between
1810 and 1823. (On a completely unrelated side note, in 1742,
Carlo Ginori, creator of the historic Doccia porcelain and majolica, arrived in Venice to ask Giovanni Vezzi for advice, only to end
up in quarantine on the island of Lazzaretto Nuovo.) Antonio
Cesti (Arezzo 1623-69), who would later make his fame and fortune in Innsbruck, debuted at the Santi Apostoli in 1649. He was
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one of the most prolific authors of the period, and was much admired by Salvatore Rosa in 1652 (“In Venice he has become immortal and admired, the best musical composer at the moment”).
And it was in Vienna that Antonio Vivaldi (1678-1741, fig. 19)
mysteriously spent his last and most certainly poverty-stricken days.
He had gone to Vienna with his father in 1730 for the performance
of Farnace, but had already composed the music for the weddings of
Louis xv and Charles vi, to whom he dedicated a musical homage
in Trieste and who made him a knight of the realm. And perhaps
he wanted to meet him again. No longer as admired as he once was
in Venice, and thwarted in Ferrara (the cardinal Fabrizio Ruffo refused to allow him to perform one season, officially “because of his
friendship with the singer Girò”), he left in 1740. But things
weren’t looking good: Charles vi died, war broke out, and he sold
his manuscripts for as much money as he could muster. He lodged
at a widow’s, near the theatre where he hoped to put on some performance (the home was destroyed in the 19th century, now replaced by the Sacher hotel). It was here that he died on the night of
July 27, 1741. There is now a small plaque near the Karlskirche (the
vault of which is frescoed by Rottmayr, who introduced the Venetian sketch to the rest of Europe) to remind us that he is buried
there, in a common grave. And what became of his music, the more
than 550 concerts (once, according to De Brosses, he boasted he
had composed one faster than the copyist could write it out)? It was
forgotten until the 20th century. In the centre of Vienna, in Rooseveltplatz, for the 260th anniversary of his death, a small monument by the Venetian Gianni Aricò was unveiled: three Carrara
marble figures representing his “Putte”.
Y The rest (and there is tons more) we will have to deal with very
cursorily. Thanks to Bernardo Bellotto, we know what the city of
the Habsburgs was like at the time. Canaletto’s nephew debuts with
a scene commissioned in 1759 by Prince Wenzel Anton von Kaunitz-Riethberg (the prince was also famous for commissioning, in
those difficult times, a chapel with a pulpit for catholics and one
for protestants); he then immortalised three castles (the third is
Schönbrunn), two of which (Belvedere and Schlosshof) formerly
belonged to Eugenio of Savoy, as well as squares and markets;
Marie-Thérèse also bought many of his works.
Y Many of the Venetian masterpieces in Charles i’s collection
found their way to Vienna after he was beheaded. In 1798, while
he was in the Habsburg capital pressing for his annuity, Canova
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22. Romaine Brooks,
Gabriele D’Annunzio, il poeta in
esilio, 1912, Parigi, Musée
National d’Art moderne
(in deposito a Poitiers),
dono dell’artista, 1914.
Romaine Brooks, Gabriele
D’Annunzio, Poet in Exile,
1912, Paris, Musée
National d’Art moderne
(Poitiers deposit), gift of
the artist, 1914.
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was commissioned to provide a funeral monument for Marie
Cristina of Austria, which has been in the Augustinerkirche since
1805. And soon, Venice would be singing the praises of a portrait
artist who arrived from Vienna and died in a Venetian calle: Ludwig Passini (1832-1903) lived in Rome and left behind a splendid
View of the Caffè Greco, but he spent his last 30 years in Venice, living
in Palazzo Vendramin dei Carmini where, in 1895, along with Alma Tadema, Puvis de Chavanne, Gustave Moreau and Edward Coley Burne-Jones, he was part of the Committee for the first Venetian Biennale, fig. 20, (the second Biennale would exhibit one of
his portraits). The young Gustav Klimt (1862-1918), who debuted
at the age of almost 20 when he and his brother Ernst (two years
younger than him!), along with his fellow student Franz Matsch, decorated the municipal
theatre in Fiume, frescoed the stairwell at the
Kunsthistorisches Museum and, between
Greek and Egyptian art, he painted his Italian
Renaissance. The Sezession was still a long way
off, and even further off was the tribute the
Biennale would pay him in 1910 by dedicating
an entire exhibition to him. Venice would also eventually purchase his Judith (fig. 21).
Y Our last two titbits are also from the 20th
century. The two cities are also in some way
linked by Gabriele D’Annunzio. The flight
over Vienna on August 9, 1918 (11 Ansaldo
Svas from the 87th squadron) was under the
aegis of St Mark (the name of the squadron
commanded by D’Annunzio, fig. 22) and the
Serenissima, which was the title of the 87th
squadron. Take off, which included the ace aviator Arturo Ferrarin, took place from Campo San Pelagio, at the doors of Padua.
Of the eleven planes that left, seven arrived at Vienna, dropping
50,000 copies of a manifesto written by D’Annunzio himself onto the city. Finally, during the Belle Époque, the mythical Simplon
Orient Express also provided a bridge between the two cities. The
train has recently been reinstated, with 12 blue wagons-lit built between 1926 and 1931, but it is not for everyone: the Venice-Vienna trip in luxury suite will set you back 1,600 euros per person.
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dal ’700 fin quasi al 2000: l’attrazione e la ripulsa
la laguna come un’alterità
a portata di mano.
e poi, il mito della città morta
Andrea Landolfi
1. August Friedrich Pecht,
Dopo la resa di Venezia nell’anno
1849, 1854 (particolare),
Praga, Národní Galerie.
August Friedrich Pecht,
Following Venice’s Surrender in
1849 (detail), 1854,
Prague, Národní Galerie.
Y «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per
piangere le nostre sciagure e la nostra infamia». Così, nel celeberrimo incipit dell’Ortis, Ugo Foscolo dà voce alla propria disperazione, all’indomani di quell’abominato trattato che, di fatto,
sancisce la fine della gloriosa indipendenza di Venezia, ceduta,
anzi, svenduta da Napoleone agli odiati Austriaci (figg. 1, 13). Il
lettore curioso, che desiderasse mettere accanto a quelle parole e
a quello stato d’animo un prodotto di segno contrario, un inno
celebrativo della nuova Venezia austriaca (fig. 2), se anche cercasse a lungo non troverebbe che trascurabili (letterariamente
parlando) echi di gazzette. È come se quei quasi nove anni di Venezia “austriaca”, e il cinquantennio che di lì a poco seguirà,
mancassero di un connotato; è come se la letteratura avesse rinunciato programmaticamente, in quel caso, alla propria funzione esornativa, a far sentire la propria voce sul dato storico immediato. Perché?
Y Nell’immaginazione poetica e letteraria dell’Europa, Venezia
fa il proprio ingresso nel momento della parabola discendente:
quando, ormai esausta, la Serenissima va inesorabilmente avvicinandosi all’appuntamento con la storia che tanto strazierà Foscolo e la sparuta élite intellettuale in grado di identificarsi nel
suo romanzo (fig. 3). È nel Settecento che al mito della città dei
traffici e delle ricchezze favolose (fig. 4) si sostituisce, a poco a
poco, la presa d’atto di una grandezza ormai trascorsa, icasticamente rappresentata dai grandi palazzi in abbandono, con le assi di legno malamente inchiodate a chiuderne le finestre ormai
prive di vetrate (fig. 5), e ipostatizzata nell’essenza stessa della
città, fluttuante sull’acqua e priva di un solido radicamento nel
suolo. Ed è proprio la mancanza di fondamenta a rendere Venezia unica e straordinaria non solo nel novero delle città del mondo, ma anche, ed è ciò che più conta per noi, nell’immagine
“psicologica”, se si può dir così, che della ex Regina dei Mari si
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2. Vincenzo Chilone,
Regata in Canal Grande per i
sovrani austriaci, Venezia,
collezione Treves Bonfili.
Vincenzo Chilone, Regatta
on the Grand Canal for the
Austrian Sovereigns, Venice,
Collezione Treves Bonfili.
3. Francesco Jacovacci,
L’ultimo Senato della Repubblica
di Venezia, Roma,
Galleria nazionale d’Arte
moderna.
Francesco Jacovacci,
The Last Senate of the Venetian
Republic, Rome,
Galleria Nazionale d’Arte
Moderna.
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sono creati poeti e scrittori. Ciò che da Goethe in poi di Venezia si celebra, ciò che di Venezia irresistibilmente attrae, è la sua
sostanziale inappartenenza alla terraferma della realtà comune, e
quindi alla storia; di questa essenza obliosa due grandi ingredienti mitici si fanno garanti: l’acqua, appunto, e la maschera
(fig. 6).
Y Dai suoi due soggiorni veneziani, l’uno del 1786 e l’altro del
1790, Goethe (fig. 7) trae una doppia immagine della città, che
detterà la norma a tutta la letteratura a venire, specie a quella di
lingua tedesca. L’infinitesimo lasso di tempo tra l’una e l’altra
permanenza spalanca in realtà, per il poeta e dignitario di un
microscopico stato della Germania assolutista, un abisso epocale
tra un prima della sicurezza e dell’ordine del mondo, e un dopo
dell’incertezza e del disordine. Irritato, più che impaurito, da
quella Rivoluzione francese di cui pure, stando a Thomas Mann,
era stato tra i promotori con il suo Werther, Goethe affianca alla
Venezia solare del Viaggio in Italia, perlustrata e descritta con amoroso zelo, quella piovosa, sudicia, corrotta e malfida degli Epigrammi veneziani, stabilendo una volta per tutte, con l’autorevolezza che gli è propria, le due coordinate fondamentali del rapporto della grande letteratura, di lingua tedesca e non solo, con la
città: l’attrazione e la ripulsa. Ciò che nella considerazione di
Venezia è mutato, ancora al di qua degli eventi che condurranno
alla perdita dell’indipendenza, è il dato di atmosfera: gli stessi
veneziani, osservati dal Goethe del 1790 con sguardo disilluso e
profetico, sembrano accompagnare la fine della loro grande storia con torpida indifferenza, contribuendo ad attribuire alla città quello statuto di extraterritorialità ed extratemporalità, di sostanziale, intima estraneità alle vicende non solo della storia, ma
addirittura della vita reale, di cui si diceva. Questa sorta di trasfigurazione onirica, che àncora la città sul fondo melmoso di un
passato dai contorni indistinti, di una grandezza la cui cifra essenziale è nel suo essere irrimediabilmente trascorsa, costituisce
l’elemento caratteristico del rapporto della letteratura europea
con Venezia: nasce da qui, da questa navigazione labirintica attraverso e contro la storia, il mito della Venezia decadente; del simulacro; della città morta.
Y Ma il rapporto degli scrittori e poeti austriaci con Venezia si
arricchisce e si complica di un dato ulteriore, che pur non avendo, come si vedrà, immediata attinenza con le vicende storiche,
tuttavia ne deriva: è il senso profondo di un’intima affinità,
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un’appartenenza nativa, metastorica. Per tutto il Settecento, e fino alla Rivoluzione francese, Venezia rappresenta per l’Austria la
sponda felice di un’alterità a portata di mano: dove gli intensi
rapporti commerciali si nutrono anche dell’atmosfera di libertà
(e libertinaggio) della città del carnevale e del gioco d’azzardo. È
l’altra faccia, appunto quella in maschera, della Venezia degli
Epigrammi di Goethe: è la città dell’edonismo, la città madre di
quel Giacomo Casanova che, non a caso, trova la consacrazione
mitico-letteraria proprio grazie
agli austriaci Hofmannsthal e
Schnitzler, e proprio quando,
sotto i colpi dei diversi nazionalismi, inizia a scricchiolare l’immensa impalcatura dell’impero
austroungarico. Allora, per gli
scrittori diventa ineludibile
proiettare sulla “gaia apocalisse”
veneziana i prodromi e i timori
di quella asburgica (fig. 8).
Y Prima di quei tempi, esattamente come quella degli inglesi,
francesi e tedeschi, la Venezia
degli austriaci è semplicemente
veneziana; e poco importa il sistema che la governa. Che la città in cui Franz Grillparzer soggiorna nel 1819 sia di nuovo, e da
pochi anni, politicamente “austriaca”, è un dato incidentale,
che lo scrittore nemmeno registra nel suo diario; ciò che viceversa annota è l’emozione provata dinanzi a quella che definisce
«storia pietrificata»: la vista del Ponte dei Sospiri gli detta una
pagina commossa sulla turpe, futile e sanguinosa vicenda della
storia umana, scandita da stragi e sopraffazioni che, al di là del
dolore, non lasciano alcuna traccia durevole. Non una parola sul
presente, sul governo della città; in compenso, una colorita annotazione sulla bellezza, e sulla capacità di goderne: «Chi, trovandosi per la prima volta in Piazza San Marco, non si senta balzare il cuore nel petto, corra a farsi scavare la fossa: sarà, infatti,
indubitabilmente morto» (fig. 9).
Y Risale invece ai primi anni Sessanta la novella La casa al Ponte
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4. Gustav Klimt,
Quattrocento romano e
veneziano, 1890-1891,
pennacchi e intercolumni,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, olio su stucco.
Gustav Klimt, Griechische
und römische Antike
Übertragungsskizzen zu den
Zwickel- und
Interkolumnienbildern im großen
Stiegenhaus, 1890-1, oil on
stucco.
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della Verona di Friedrich Halm, quasi dimenticato contemporaneo
e “rivale” di Grillparzer, in cui Venezia fa da fosco scenario a un
dramma d’amore che culmina nel suicidio del protagonista. Di
maniera, anche se non priva di fascino, la Venezia cinquecentesca vi è rappresentata secondo stilemi che oggi definiremmo noir
e che risalgono al romanzo di Schiller Il visionario, capostipite di
un sottogenere che
troverà in Morte a Venezia di Thomas Mann il
proprio capolavoro.
Anche in questo caso
salta all’occhio, considerando oltretutto
l’orientamento legittimista di Halm, la
mancanza di qualsiasi
accenno alla Austriazität di Venezia: d’altra
parte, assente anche
nella novella di Ferdinand von Saar Seligmann Hirsch, del 1880,
in cui la città è vista
come il malinconico
luogo dell’abbandono e della solitudine dove il protagonista, un
ricco ebreo rovinatosi per la passione del gioco, è bandito dai figli e dove troverà la morte. Qui Venezia, ben lungi dall’essere
rappresentata come “austriaca”, è vista addirittura come luogo di
esilio: fatto davvero curioso, se si considera che Saar, il quale
aveva servito da imperialregio ufficiale in uno dei reggimenti misti reclutati nelle Venezie, parlava correntemente l’italiano e dell’Italia, e in particolare della città lagunare, aveva un’approfondita conoscenza (fig. 10).
Y Su un terreno più frivolo e lieve, ma non per questo meno
gravido di conseguenze nella costruzione, ormai non più politica ma decisamente nostalgico-sentimentale, di una Venezia “austriaca”, va ricordata l’operetta di Johann Strauss Una notte a Venezia, del 1883, il cui libretto, opera di Friedrich Zell e Richard
Génée, reinterpreta in chiave moderna il mito settecentesco del
luogo del carnevale e della gioia di vivere, speziandolo con un
esotismo addomesticato e ormai alla portata della borghesia: da
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5. Palazzo Cicogna
all’Angelo Raffaele,
nel 1855, in una fotografia
di Domenico Bresolin,
Venezia,
collezione Zannier.
Palazzo Cicogna
all’Angelo Raffaele, in
1855, in a photograph by
Domenico Bresolin,
Venice, Zannier
collection.
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icona letteraria, la città prende a trasformarsi in destinazione turistica, meta privilegiata del “viaggio di nozze”. È in quell’atmosfera che pochi anni dopo, nel 1895, s’inaugura a Vienna, con
grande clamore, quello che sembra essere stato il primo parco di
divertimenti a tema della storia. Si chiamava Venedig in Wien, ed era
una ricostruzione fedele, con tanto di calli, ponti, canali e facciate di palazzi storici, di una Venezia “pittoresca” a uso delle famiglie.
Ormai a trent’anni dalla fine della
dominazione austriaca, la città, che
nella sensibilità comune era rimasta
sempre e soltanto se stessa, entra
prepotentemente a far parte dei
grandi miti popolari, e proprio a
Vienna sperimenta un assaggio di
quello che sarà il suo destino novecentesco: la banalizzazione, la riduzione a cliché, a simbolo per eccellenza del moderno turismo di massa.
Malinconico e solitario frequentatore di Venezia, quella vera, il grande Peter Altenberg descrive in uno
dei suoi fulminanti Estratti della vita
quel trionfo di moderna inautenticità che sembrava aver stregato i suoi concittadini (anche se per
poco, visto che già cinque anni più tardi l’impianto è smantellato); nella finta Venezia viennese c’è proprio tutto: dai «gondolieri, che nel canale manovrano con destrezza e si comportano in
modo cavalleresco», alle «trentamila persone che vanno su e giù
per le piazze e si assiepano sui ponti», fino alle coppie che si aggirano nella città virtuale fingendo a se stesse emozioni e trasporti, appunto, da “notte a Venezia”…
Y Ma negli stessi anni un’altra Venezia, neppure lontanamente
sfiorata da quel processo di progressiva appropriazione e banalizzazione di cui si è detto, si affaccia nelle pagine di uno scrittore austriaco. Il suo creatore la descrive come «la città più bella
del mondo», e comunica ai lettori l’impressione di una specie
diversa e nuova: non più l’angoscia dell’insidia e della perdizione, e nemmeno l’entusiasmo a buon mercato della gioia di vivere; piuttosto l’emozione della scoperta, lo sgomento gioioso della prima volta. In questo senso si può dire che la Venezia di Hu-
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go von Hofmannsthal è davvero la prima e unica Venezia “austriaca” che possediamo (fig. 11): senza bisogno di alcun processo di appropriazione, Hofmannsthal semplicemente riconosce
nella città una felice patria del cuore, luogo dell’anima e della vita che è suo per una sorta di appartenenza ancestrale, di là da
ogni contingenza storica. Non diversamente da quella di tanti
predecessori e contemporanei, anche la Venezia in cui giunge il
giovane protagonista del romanzo Andrea o i ricongiunti (composto
tra il 1907 e il 1913, incompiuto e pubblicato postumo nel 1930)
è notturna e infida; e anch’egli si imbatte in figure inquietanti,
dall’identità mutevole e dalle intenzioni oscure; solo che, per
lui, l’immersione nel disordine non avviene sotto l’egida di una
tenebrosa istanza di perdizione, come negli stessi anni sarà per
l’Aschenbach di Thomas Mann, bensì nel segno felice di un
cammino verso la luce, la maturità e la ricomposizione. Presenza ricorrente nell’opera del poeta fin dal 1892, l’anno della Morte di Tiziano, la città è per Hofmannsthal luogo privilegiato dove situare avventure il cui esito è una svolta esistenziale positiva, una
scelta per la vita, una tensione verso una possibile felicità, il
punto cruciale dove l’anima sperimenta la massima concentrazione e attinge la verità del proprio destino, il senso della propria vocazione nel mondo. Questo trova la propria celebrazione
in un racconto del 1907 intitolato Ricordo di giorni belli: in esso, l’emozione visiva del rivelarsi della città nello splendore del crepuscolo trapassa in quella della rivelazione della propria creatività
come di un potere immenso, quasi divino, la cui immane empietà può essere emendata soltanto con la devozione assoluta a
un compito umano. Appena accennato nel racconto, tematizzato in pagine indimenticabili nell’Andrea, il luogo di quel compito, di quel servizio d’amore che dà sostanza alla vita, non sarà più
Venezia, città dell’intuizione abissale, ma la stazione intermedia
del viaggio sulla via del ritorno a Vienna: la purezza cristallina
dei monti e delle valli della Carinzia, la limpida superficie in cui,
redenta, può finalmente celarsi la profondità.
Y Tutt’altra Venezia, desolata e oppressa da un cielo fosco e caliginoso, sporca e trasandata, è invece quella che, come uno
specchio impietoso, accoglie il Casanova di Schnitzler (fig. 12).
Nella novella intitolata Il ritorno di Casanova e pubblicata subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, lo scrittore proietta sul
grande personaggio veneziano, già protagonista di due commedie giovanili dell’amico Hofmannsthal, il senso di sgomento e di
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i libri, i poeti
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6. Joseph Mallord William
Turner, Il Canal Grande con
Santa Maria della Salute
dall’Hotel Europa, 1840,
collezione privata.
Joseph Mallord William
Turner, The Grand Canal,
with Santa Maria della Salute
from Hotel Europa, 1840,
private collection.
perdita di fronte all’inarrestabile, e cieco incalzare del tempo e
della storia (figg. 1, 13). Non troppo diversa nelle atmosfere, la
Venezia descritta nel 1928 da Franz Werfel nel romanzo Verdi
emenda in qualche misura questa sua Stimmung cupa e malinconica, facendone il contrassegno del difficile cammino che porterà
il musicista italiano a ritrovare la propria vocazione proprio nell’incontro con la musica “veneziana” (il Tristano) dell’eterno rivale Wagner. Il binomio Venezia-musica, già adombrato dal tedesco Platen e tematizzato in un celebre detto di Nietzsche («Se
cerco un altro termine per “musica” trovo sempre e soltanto
“Venezia”»), è anche la cifra nascosta della laguna di Rainer Maria Rilke: il poeta, che soggiorna a più riprese in città tra il 1897
e il 1920, vi scorge ovunque «sinfonie di colori» che ne sottolineano l’evanescenza, il non essere; «[...] la città che sempre,
ove un barbaglio / di cielo si franga nell’acqua alta, / senza mai
essere, si forma» (Mattino veneziano, 1908). Colori e suoni si sovrappongono e si confondono in un’unica sensazione che, ancora una volta, rimanda a una perdita, a una caduta: «La città più
non fluttua come un’esca / che catturi ogni giorno al suo apparire; / come vetro infranto risuonano i palazzi / al tuo sguardo.
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dal ’700 fin quasi al 2000: l’attrazione e la ripulsa
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7. Karl Bennert (da
Johann Heinrich Wilhelm
Tischbein, 1787), Johann
Wolfgang Goethe nella campagna
romana, Francoforte,
Goethe-Museum.
Kark Bennert (from
Johann Heinrich Wilhelm
Tischbein, 1787), Johann
Wolfgang Goethe in the Roman
Countryside, Frankfurt,
Goethe-Museum.
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E ai giardini l’estate / si appende come una marionetta / a testa
in giù, stremata, uccisa» (Tardo autunno a Venezia, 1908).
Y Un’affinità prossima all’identificazione, per intensità non
diversa da quella vissuta da Hofmannsthal, è invece caratteristica
del rapporto che lega alla città Theodor Däubler, austriaco cresciuto a Trieste. Decisiva nell’adolescenza del poeta, come lui
stesso dice («[...] senza Venezia mi sarei perduto»), l’esperienza in laguna diventa una
sorta di mito personale, il
luogo felice della compiutezza e della rivelazione dell’eros: «Più grave diviene la
sera, più imponente la città.
/ È come se Dioniso aleggiasse su noi. / La laguna ai
suoi piedi, simile a una
pantera» (La luce del nord,
1921).
Y Ma con l’irruzione del
turismo di massa e del consumismo culturale, anche il
mito di Venezia, a partire
dalla seconda metà del Novecento, si appanna e ripiega su se stesso, perdendo inesorabilmente smalto, carattere e originalità. Difficile, se non impossibile, trovare a questo punto testimonianze di un rapporto vivo e
autentico con la città, a meno di non prendere atto coraggiosamente del nuovo stato delle cose. È quello che fa, con un romanzo amaro e provocatorio, Gregor von Rezzori nel 1986: nel
suo Disincantato ritorno, ambienta in una Venezia stravolta da orde
di turisti la vicenda patetica di una coppia di austriaci semi-colti, intenti a “consumare” cultura in una ridda insensata di visite
ai musei cittadini, nel tentativo inane di colmare il vuoto desolato della loro vita. Così, con lo scrittore che Claudio Magris definisce l’ultimo rappresentante del mito asburgico, la città-simbolo di una millenaria tradizione di civiltà si tramuta, come in
uno specchio deformante, nella propria caricatura: nella triste
insegna dell’immedicabile inautenticità del nostro tempo.
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from the 18th to the late 20th centuries: attraction and repulsion
the lagoon as
proximate alterity.
and the myth of the dead city
Andrea Landolfi
Y “The sacrifice of our homeland is complete. All is lost, and
life remains to us – if indeed we are allowed to live – only so that
we may lament our misfortunes and our shame.” In this famous
opening to The Last Letters of Jacopo Ortis, Ugo Foscolo gives voice to
his own desperation the day after the signing of the abominable
treaty that officially sanctioned the end of Venice’s glorious independence – an independence that Napoleon gave (or, actually,
sold on the cheap) to the despised Austrians (figs. 1, 13). The curious reader who might want to compare these words with those
reflecting an opposite state of mind, a celebratory hymn to the
new, Austrian Venice, would be hard pressed to find anything
other than (literarily) minor echoes in a few gazettes. It’s as if
those nine years of “Austrian” Venice (fig. 2), and the fifty years
that were soon to follow, were missing an important element, as
if literature had decided, as a matter of policy, to relinquish its
ornamental function in order to lend its voice to an immediately
pressing historical fact. Why?
Y In Europe’s poetic and literary imagination, Venice made its
entrance at the moment of its waning, when, exhausted, it was
inexorably moving towards that appointment with history that
was to have such a devastating effect on Foscolo and the small coterie of intellectuals who identified with his novel (fig. 3). And it
was in the 18th century that the myth of the busy, fabulously
wealthy city (fig. 4) was slowly substituted by the awareness that its
greatness had already passed, a greatness that was now vividly represented by its magnificent yet nonetheless abandoned palazzi,
with its glassless windows hastily boarded up (fig. 5), the city itself hypostatised in its very essence, and that is by floating on water deprived of a solid earthly rooting. It is this lack of foundation that made Venice unique and extraordinary not only among
world cities, but also (and this is what most matters to us) in the
“psychological” image (for want of a better definition) that poets
and writers had wrought of the former Queen of the Seas. What
books, poets
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from the 18th to the late 20th centuries: attractions and repulsion
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8. Giuseppe Bernardino
Bison, Piazza San Marco
con i soldati austriaci,
collezione privata.
Giuseppe Bernardino
Bison, Austrian Soldiers
in St Mark’s Square,
private collection.
9. John Ruskin, Palazzo
Ducale, capitelli della loggia
(matita e acquerello),
1877, Sheffield, Ruskin
Gallery, The Guild of St.
George Collection.
John Ruskin, Ducal Palace,
Renaissance Capitals of the Loggia
(pencil and watercolour),
1877, Sheffield, Ruskin
Gallery, Guild of St
George Collection.
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authors from Goethe on celebrate about Venice, what is irresistibly attractive about Venice, is its substantial non-affiliation
with the mainland of common reality, and therefore of history;
there are two mythical ingredients to secure this essence – water
and, obviously, the mask (fig. 6).
Y Thanks to his two Venetian sojourns (1786 and 1790), Goethe (fig. 7) formulated a double image of the city, an image
which would set the pace for all ensuing literature, especially
German literature. The infinitesimal lapse of time between his
first and second stays actually opened up, for the poet and dignitary from a microscopic state within absolutist Germany, an
indescribable abyss between a before, with its security and order
within the world, and an after, with its uncertainty and disorder.
Irritated more than frightened by the French revolution that,
according to Thomas Mann, he himself had promoted with his
Werther, Goethe places alogside his radiant Venice in Voyage to Italy
a rain-soaked, filthy, corrupt and treacherous Venice in his Venetian Epigrams, displaying his usual authority in establishing the
two fundamental coordinates of the relationship between great
literature (and not only great German literature) and the city:
attraction and repulsion. What has changed in considerations of
Venice, and before the events that were to lead to the loss of independence, is the atmosphere: Venetians themselves, as the
disenchanted, prophetic Goethe observed them in 1790, seemed
to look on the end of their great history with numb indifference, aiding and abetting those who would attribute to the city its
status as extraterritorial and extra-temporal, substantially and
intimately extraneous to the vicissitudes not only of history, but
of real life, as we said before. This sort of oneiric transfiguration, which anchors the city to the slimy seabed of an indistinctly
defined past, a grandeur whose essential cipher is the fact that it
belongs hopelessly to the past, constitutes the characterising element of the relationship between European literature and Venice: it is from this labyrinthine navigation through and against history
that the myth of a decadent Venice, of the simulacrum and the
dead city, is born.
Y But the relationship between Austrian writers and poets and
Venice is enriched and rendered more complex by another fact
which, even though it does not directly impact on historical events,
as we shall shortly see, nonetheless derives from historical events:
the profound sense of an intimate affinity, a native, metahistorical
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belonging. Throughout the 18th
century, and right up to the
French revolution, Venice was,
for Austria, the happy face of a
proximate alterity, where intense
economic relations are also nourished by the atmosphere of liberty (and libertinage) of the city
of carnivals and gambling. It is the
other face (that of a mask, in
other words) of the Venice of
Goethe’s Epigrams: it is the city of
hedonism, the city that gave birth
to that Casanova who, not surprisingly, was transformed into a literary myth thanks to the Austrians Hofmannsthal and
Schnitzler, and precisely when,
wracked by competing nationalisms, the immense Austro-Hungarian empire began to fall to pieces. It therefore became almost de
rigueur for authors to project the
rumblings of an imminent “gay
apocalypse” of the empire onto
the city of Venice (fig. 8).
Y Before then, just as had happened to the English, French
and Germans, Austria’s Venice
had simply been Venetian, and it
made very little difference under
whose thumb it happened to be.
That the city Franz Grillparzer
stayed in in 1819 was once again
politically “Austrian” is an incidental fact, something the author didn’t consider important
enough to even note in his diary.
What he does note, however, is
the emotion he felt when faced
with what he defined “petrified
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10. Gustave Moreau,
Venezia, acquerello, 18801885, Parigi, Musée
Gustave Moreau.
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Gustave Moreau, Venice
(watercolour), 1880-5,
Paris, Musée Gustave
Moreau.
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history”: the sight of the Bridge of Sighs provoked a literary outburst on the contemptible, futile and bloody vagaries of human
history, marked as it is by massacres and tyrannies that, apart
from pain, leave no lasting trace. Not a word on the present, on
how the city is governed, but, on the other hand, a colourful description of its beauty and how to appreciate it: “If there is anyone who, on seeing St Mark’s Square for the first time, doesn’t
feel their heart skip a beat, then they should run off and dig a
grave because they must, indubitably, be dead” (fig. 9).
Y Friedrich Halm’s Das Haus an der Veronabrücke, however, was published in the early 1860s, and this novel by one of Grillparzer’s
contemporaries and “rivals” offers a darker Venice, where a dramatic love story culminates in the suicide of the main character.
Mannered, though not without a certain fascination, it offers us
a portrait of 16th-century Venice according to stylemes that we
would now define as noir and that hark back to Schiller’s prose
work Der Geisterseher, a progenitor of a genre that would culminate in Thomas Mann’s Death in Venice. Here as well, what is most
striking, considering Halm’s legitimising bent, is the complete
lack of reference to Venice’s Austriazität, which is nonetheless also
lacking in Ferdinand von Saar’s short novel Seligman Hirsch (1880),
where the city is seen as a melancholic place of abandonment and
solitude where the protagonist (a wealthy Jew whose addiction to
gambling has led to his ruin) is banished by his children and
where he eventually dies. Here Venice, far from being represented as “Austrian”, is actually seen as a land of exile, which is rather curious considering that Saar, who had served as an imperial officer in one of the mixed regiments recruited in the Veneto area, spoke fluent Italian and was profoundly familiar with
Italy and Venice in particular (fig. 10).
Y On a lighter and more frivolous note (but not for this any less
laden with consequences in its construction, which is no longer
political but decidedly nostalgic and sentimental, of an “Austrian” Venice), we should mention Johann Strauss’s operetta Eine Nacht in Venedig (1883), whose libretto by Friedrich Zell and Richard Génée is a modern re-interpretation of the 18th-century
myth of the city of the carnival and the pleasures of life, spiced
up with a tamed down exoticism that was just right for the middle classes: originally a literary icon, the city begins to be transformed into a tourist and honeymoon destination. It was in that
atmosphere that, a few years later, in 1895, a great deal was ma-
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de over the inauguration in Vienna of what seems to have been
the first theme park in history. The park was called Venedig in Wien,
and it was a faithful reconstruction of the streets, bridges, canals
and historical façades of a “picturesque” Venice for the whole family. Now thirty years after the end of Austrian domination, the
city (which most people felt had quite simply remained itself) had
powerfully shot into the realm of great popular myths, and Vienna was where we were given our first taste of its 20th-century
apotheosis: its trivialisation and reduction to cliché, the symbol
par excellence of modern mass tourism. Melancholic and solitary
visitor to Venice (the real Venice), the great Peter Altenberg describes, in one of his scathing Märchen des Lebens, that triumph of
modern non-authenticity that seemed to have mesmerised his
fellow countrymen (even though not for long, considering that
it was dismantled only five years later). Nothing at all was missing
in the fake Viennese version of Venice: there were “gondoliers,
who dextrously manoeuvre down the canal with their chivalrous
manners”, “thirty thousand people who walk up and down the
squares and flock the bridges”, and couples wondering through
the virtual city pretending to be transported by the emotion of a
“night in Venice”...
Y But at the same time, another Venice, not even vaguely touched upon by that process of gradual appropriation and trivialisation we’ve just mentioned, began to take shape in the pages of
an Austrian author. Its creator describes it as “the most beautiful
city in the world”, and communicates an entirely new and different impression: gone is the fear of entrapment and perdition,
and gone is the cheap enthusiasm of a simplistic joie de vivre; what
we have is the excitement and boundless surprise of a first discovery. In this sense, we could say that Hugo von Hofmannsthal’s
Venice is truly the first and only “Austrian” Venice we have (fig.
11): without requiring any process of appropriation, Hofmannsthal simply recognises in the city a happy land of the heart, a locus of the heart and life that belongs to the city by virtue of a sort
of ancestral birth right, regardless of any historical contingency.
Not unlike that of many predecessors and contemporaries, the
Venice visited by the young protagonist of the novel Andreas oder die
Vereinigten (written between 1907 and 1913, left unfinished and published posthumously in 1930) is also nocturnal and perfidious,
and he, too, encounters unnerving characters, their identity fickle and their intentions ambiguous. But his immersion in disor-
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11. Antonio Zona, Venezia
afflitta tra le braccia della liberata
Milano, 1861, Genova,
Museo del Risorgimento.
Antonio Zona, Venice
Afflicted in the Arms of Liberated
Milan, 1861, Genoa,
Museo del Risorgimento.
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der does not take place under the dark sign of perdition (as for
Mann’s contemporary Aschenbach), but under the happy sign of
a path leading to light, maturity and recomposition. A recurring
character in his work from 1892, the year of his Der Tod des Tizian,
Venice is, for Hofmannsthal, the privileged site of adventures
whose aftermath is the positing of an existential turning point, the
crucial point where the characters’ soul experiences utmost
concentration and they grasp the
truth of their own destiny, the
sense of their calling in the
world. This can best be seen in
his 1907 Der Dichter und diese Zeit,
where the visual excitement of the
city as it reveals itself in its crepuscular splendour changes into
the revelation of creativity as immense, almost divine, power,
whose imanent impiety can only
be emended through an absolute devoution to human undertaking. Barely touched on in this
work and thematised in the unforgettable Andreas, the site of this
undertaking, this proferring of
love that gifts the substance of life, is no longer Venice, the city
of abysmal intuition, but the intermediary stage of the journey back to Vienna: the crystalline purity of the mountains and valleys of Carinthia, the limpid surface
where a redeemed profundity can finally conceal itself.
Y A completely different Venice, desolated and oppressed under a dark, sooty sky, dirty and shabby, is made to welcome
Schnitzler’s Casanova (fig. 12). In the short novel entitled Casanova’s Homecoming, published just after the first world war, the writer projects onto the great Venetian figure (who had already been
used as a protagonist in two early plays by his freind Hofmannsthal) the sense of anguish and loss at the blind, incessant churning of time and history (figs. 1, 13). Not too different in atmosphere, the Venice described in 1928 by Franz Werfel in his novel Verdi emends, to some extent, his dark and melancholic Stim-
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12. Marcello Mastroianni
è stato un famoso
Casanova nel film Il mondo
nuovo di Ettore Scola,
1982.
Marcello Mastroianni
played Casanova in Ettore
Scola’s The Night of Varennes,
1982.
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mung, turning it into the sign of the difficult path that would lead
the Italian musician to recover his vocation in discovering “Venetian” music in the form of his Tristan by his arch rival Wagner.
The Venice-music pairing,
already adumbrated by the
German Platen and thematised in a famous aphorism by
Nietzsche (according to
which he could find no other
term for music if not Venice), is also the hidden cipher
of Rainer Maria Rilke’s lagoon: the poet, who stayed in
Venice on several occasions
between 1897 and 1920, sees
throughout the city a
“symphony of colours” that
underline its evanescence, its
“non-being”; “... the city
that always, where a flash / of
sky breaks onto high tide, /
without ever being, is formed” (“Venetian Morning”, 1908). Colours and sounds overlap
and combine to form a unique sensation that, once again, harks
back to a loss, a fall: “The city no longer floats like a bait / that
captures each day as it appears; / like broken glass the palazzi echo
/ with your gaze. And, exhausted, killed / summer hangs like a
marionette, / head down, in the gardens” (“Late Autumn in Venice”, 1908).
Y An affinity that is virtually complete identification (no less
intense that Hoffmansthal’s) is characteristic of the relationship
between Theodor Däubler, an Austrian who grew up in Triest,
and Venice. According to the poet himself (“... without Venice I
would have been lost”), his Venetian experience was decisive during his adolescence and became a sort of personal myth, the
happy site of completeness and erotic revelation: “The graver the
evening, the more imposing the city. / It is as if Dionysus were
hovering above us. / The lagoon at his feet, like a panther” (“The
Northern Light”, 1921).
Y But with the explosion of mass tourism and cultural consumerism in the second half of the 20th century, the myth of Ve-
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books, poets
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13. August Friedrich
Pecht, Dopo la resa di Venezia
nell’anno 1849, 1854, Praga,
Národní Galerie.
August Friedrich Pecht,
Following Venice’s Surrender in
1849, 1854, Prague,
Národní Galerie.
nice also began to lose its lustre and become self-referential,
inexorably losing its appeal, character and originality. It is now
difficult if not impossible to find witnesses to a living, authentic
relationship with the city, and we are forced to courageously acknowledge the new state of things. And this is exactly what Gregor
von Rezzori does in his bitter, provocative novel from 1986. In
his Kurze Reise übern langen Weg, set in a Venice all but destroyed by
hordes of tourists, a semi-cultured Austrian couple, are hellbent on “consuming” culture in a senseless litany of visits to city
museums in an inane attempt to fill the desolate void of their life. Thus, with the writer that Claudio Magris defines as the last
representative of the Habsburg myth, the city-symbol of a thousand-year-old civilised tradition is transformed, as if through a
deforming mirror, into a caricature of itself: in the sad sign of
the unforgettable inauthenticity of our times.
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una predilezione che inizia forse nel 1533, con tiziano
un acquisto dietro l’altro,
nasce la più ricca e documentata
raccolta veneziana all’estero
Sylvia Ferino Pagden
«An Bilder schleppt ihr hin und her
Verlornes und Erworbnes;
Und bei dem Senden kreuz und quer
Was bleibt uns denn? – Verdorbnes!»
Johann Wolfgang Goethe
1. Paolo Veronese, Giuditta
con la testa di Oloferne, Vienna
Kunsthistorisches
Museum.
Paolo Veronese, Judith with
the Head of Holofernes,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
il racconto
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«In fatto di quadri, trascinate qua e là
roba perduta e roba acquisita;
e a furia di spedire a destra
e a sinistra, a noi cosa rimane? – Roba
priva di valore!»
Johann Wolfgang Goethe, Tutte le poesie, a
cura di R. Fertonani, Milano 1989
Y Si resta ancora oggi sbalorditi se si pensa a quante famose raccolte d’arte vengono spostate in Europa intorno al 1650, in seguito a eventi spesso drammatici, per ricomporsi poi in luoghi e
proprietà sempre nuovi. Basti pensare alla vendita Gonzaga nel
1627-1629, al saccheggio di Praga e al trasferimento di gran parte
della collezione di Rodolfo ii a Stoccolma nel 1648, e intorno al
1650, alle vendite Commonwealth, ma soprattutto Buckingham e
Hamilton, le cui collezioni costituiscono ancora oggi il nucleo del
Kunsthistorisches Museum di Vienna. Già nel 1952, lo storico
dell’arte e docente a Oxford Sir Ellis Waterhouse considerava la
raccolta di dipinti del Kunsthistorisches come la meglio documentata al mondo. Questo non soltanto perché le liste di vendita, da lui pubblicate, delle collezioni di Bartolomeo della Nave
(fig. 2), dei Priuli e di Nicolas Regnier (o Niccolò Renieri) permettono di rintracciare a Venezia, e in rari casi fino ai committenti stessi, le origini di gran parte delle opere del museo, ma anche perché gli stessi Asburgo – antesignani in questo – fecero realizzare documentazioni visive di grande originalità, come i Galeriebilder e il Theatrum Pictorum. Accanto alle opere di pittori veneziani,
in queste collezioni figuravano anche quelle di autori appartenenti ad altre scuole, poiché a Venezia, durante il Seicento, si era sviluppato un mercato dell’arte assai importante. Il settore più famoso delle collezioni austriache rimane tuttavia quello della pittura veneziana: si pone dunque il problema se questo sia dovuto
solamente al caso, o se invece la casa d’Austria avesse realmente
una netta predilezione per i pittori veneti.
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una predilezione che inizia forse nel 1533, con tiziano
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2. Zorzi da Castelfranco
detto Giorgione, Ritratto di
donna (“Laura”), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, già in collezione
Bartolomeo della Nave nel
1638, nel 1650 circa in
quella dell’arciduca
Leopoldo Guglielmo.
Giorgione, Portrait of a Young
Woman (“Laura”), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, originally in the
Bartolomeo della Nave
collection in 1638,
and in that of the
archduke Leopold
Wilhelm in 1650 circa.
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Y La ricchezza delle raccolte che ancora oggi fanno parte del
Kunsthistorisches Museum – dipinti ed oggetti d’arte, ma anche
armature, antichità greco-romane ed egizie, la collezione numismatica, per non parlare dei famosi manoscritti, disegni e stampe,
le raccolte storico-naturali e altro, che oggi si trovano alla Nationalbibliothek, all’Albertina e al Naturhistorisches Museum - è
dovuta a poche personalità straordinariamente interessanti della
casa austriaca degli Asburgo. A differenza di più recenti istituzioni, come la National Gallery di Londra o la Gemäldegalerie di
Berlino, le cui principali acquisizioni risalgono al xix secolo, già
ai primi dell’Ottocento la collezione imperiale aveva raggiunto
l’aspetto definitivo e del tutto particolare di una raccolta privata
principesca. Ancora oggi riflette le particolarità dei gusti degli
Asburgo: anche se la pittura tedesca e fiamminga ne costituiscono
la parte più consistente, la pittura italiana è considerevole per nomi e scuole. Il Trecento e Quattrocento italiani, che hanno conosciuto grande fortuna solo dal xix secolo in poi e costituiscono il
fiore all’occhiello della National Gallery di Londra e di quella di
Washington, del Metropolitan Museum di New York, della Gemäldegalerie di Berlino, al Kunsthistorisches Museum sono invece quasi assenti. Anche per questo, la raccolta dei dipinti italiani
degli Asburgo, a parte qualche eccezione, inizia proprio con i pittori del xvi secolo. La carenza di opere francesi, inglesi e il numero ridotto di quelle olandesi, riflette inoltre, in modo evidente e oggi ormai irreparabile, i legami politici della dinastia.
Y Il prevalere dei ritratti sulle tematiche narrative, mitologiche,
religiose o allegoriche, in tutte le scuole, si spiega con le esigenze
dinastiche della famiglia, e quindi dei rapporti con i casati con essa imparentati. Già Ferdinando ii, duca del Tirolo dal 1529 al
1595, mette insieme una straordinaria collezione iconografica,
composta da oltre mille ritratti in formato cartolina delle personalità di spicco non solo delle case regnanti d’Europa, ma anche
di papi, di sultani, di personaggi celebri in campo letterario,
scientifico ed altro. Anche se i dogi sono ben pochi, vi figurano
invece alcuni esponenti della famiglia Soranzo. La Portraitgalerie di
Ambras, istituita nel 1976, riunisce ritratti di personaggi famosi
della Venezia del Cinquecento, i dogi Francesco Donato, Girolamo Priuli, Niccola da Ponte e il famoso committente di Palladio
Marcantonio Barbaro, eseguiti da artisti più o meno noti. Un
gruppo di altri ritratti maschili veneziani del Cinquecento di qualità più o meno alta – personaggi e autori tuttora non identificati
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e quindi al cui interno sono forse ancora possibili alcune scoperte – si trovano nella Sekundärgalerie del Kunsthistorisches Museum, istituita nel 1969 da Frederike Klauner e Günther Heintz.
Y Sembra però che la predilezione degli Asburgo per la pittura
veneziana sia iniziata proprio nel 1533, quando l’imperatore Carlo v conferisce a Tiziano l’ordine dello Speron d’oro, per i vari
ritratti da lui eseguiti a Mantova e Bologna. Richiamandosi in un
documento al rapporto di Alessandro Magno con Apelle, unico
artista ammesso a ritrarre il
sovrano, Carlo elegge Tiziano a suo pittore prediletto. Da questo momento,
Tiziano è l’artista preferito
della casa asburgica (fig. 3):
dell’imperatore e di conseguenza dell’entourage della
sua corte. Ma anche dei
suoi parenti, della sorella
Margherita d’Ungheria, e
di suo figlio Filippo, poi re
di Spagna, per il quale Tiziano crea, oltre a molte altre opere, le sue “poesie”
più coinvolgenti. Non
sembra che, nello zelo di
servire gli Asburgo, Tiziano
avesse in mente di indirizzare verso la pittura veneziana il loro gusto per i secoli a venire, anche se in
entrambi i rami del casato, quello spagnolo e quello austriaco,
proprio questo pare essere accaduto.
Y Tenendo conto del fatto che nel Cinquecento la casa d’Austria
disponeva di mezzi finanziari assai più ridotti di quella spagnola,
è probabile che l’incarico a Tiziano di dipingere ben 15 ritratti
della famiglia di Ferdinando i, fratello minore di Carlo v, dei
quali si parla in un documento, non sia mai stato portato a compimento. Compiti ritrattistici di questo tipo li svolgeva, per Ferdinando, il suo pittore di corte, Jacob Seisenegger, che non poteva certo eguagliare la qualità, la fama e i prezzi dell’artista preferito dal fratello. Ciononostante, viene attribuita a Seisenegger l’in-
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tuizione del Ritratto di Carlo V con il suo cane, idea che, secondo alcuni,
Tiziano avrebbe copiato nel proprio dipinto, oggi al Prado. Ma le
radiografie del dipinto spagnolo mostrano diversi cambiamenti
nella stesura della composizione, indizio inequivocabile di originalità. Ironicamente, entrambi gli artisti per anni, se non decenni, hanno lottato presso le corti asburgiche per riscuotere il pagamento loro dovuto.
Y I problemi finanziari, o meglio i prezzi raggiunti dalle opere di
Tiziano, sembrano aver anche condizionato, e infine ridimensionato, il forte interesse di Massimiliano ii, figlio di Ferdinando i. Il
breve periodo di pace nelle guerre contro i Turchi permette d’iniziare la costruzione di una residenza fuori porta, con giardini zoologici e botanici, e di godere del talento di Giuseppe Arcimboldo e
di altri artisti. E spinge inoltre Massimiliano a cercare di acquistare opere di Tiziano. A novembre 1568, si sviluppa una corrispondenza con Veit von Dornberg, ambasciatore imperiale presso la
Repubblica veneziana, che propone all’imperatore l’acquisto di alcune “poesie“ di Tiziano, quali «la fabula de Calisto, scoperta graveda alla fonte, la fabula de Ateone a la fonte, la fabula de’ isteso,
tramutato in cervo et lacerato dai suoi cani, la fabula de Adone andato alla caza contra il volere di Venere fu dal cinghiale ucciso, la
fabula de Andromeda, ligada al sasso et liberata da Perseo, la fabula de Europa portata da Jove converso in tauro. Et tutti detti quadri sono a buonissimo termine et sono un palmo più largi che
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3. Tiziano Vecellio,
Cristo e l’adultera, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Titian, Christ and the
Adulteress, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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quello della religion, che già si mandò a sua maestà cesarea per essere quelli più pieni di figure rispeto alle fabule».
Y Il 25 febbraio 1569, Veit von Dornberg riceve l’incarico di pagare 100 corone a Tiziano per un dipinto che, anche se non è descritto, si potrebbe identificare con Diana e Callisto, ancora oggi
conservato al Kunsthistorisches Museum. Inconsueto che questo
quadro venga raffigurato in grandi dimensioni nel Galeriebild che
Leopold Wilhelm spedisce in Spagna nel 1653 da Bruxelles, e anche nel Theatrum Pictorum di Teniers, che riproduce a stampa i dipinti italiani più importanti, ma non nell’inventario del 1659,
compilato a Vienna. Si potrebbe dunque concludere che egli abbia incluso questo quadro per imporsi alla linea spagnola, che si
vantava di essere proprietaria di numerose opere di Tiziano, anche se in realtà non era di sua proprietà bensì della famiglia? Del
dipinto con la «religion» di cui parla von Dornberg si è invece
perduta ogni traccia.
Y Anche se il fratello minore di Massimiliano ii, l’arciduca del
Tirolo Ferdinando è il primo collezionista veramente importante
della casa d’Asburgo, noto per la sua Wunderkammer e per la raccolta
di armature appartenute agli eroi (l’armamentarium heroicum, di cui fu
pubblicato il primo catalogo illustrato in assoluto, si veda p. 47),
egli, probabilmente anche a causa delle sue ridotte possibilità finanziarie, non si interessava né ai dipinti dei grandi pittori del
passato né ai contemporanei. Suo zio, l’imperatore Rodolfo ii, il
più importante mecenate e collezionista tra gli Asburgo, è invece
un grande amante della pittura. Le sue lunghe trattative con la Spagna, svolte dall’ambasciatore Hans Khevenhüller per acquistare gli
Amori di Giove di Correggio e Amore che forgia l’arco di Parmigianino, sono ormai leggendarie. Raccoglie opere di Dürer e dei suoi seguaci;
commissiona dipinti a Bartolomeus Spranger, Joseph Heintz,
Hans von Achen e ad altri contemporanei. Von Achen si trovava a
Venezia nel 1603 in veste di agente per Rodolfo ii, ma non sappiamo quali opere egli potrebbe aver trattato per l’imperatore. Ridolfi ci informa che Jacopo Bassano avrebbe inviato a Praga una serie
con i dodici mesi, di cui scrive Francesca del Torre in questo stesso «VeneziAltrove». Fra i molti doni che Rodolfo riceveva come
imperatore spicca, oltre all’Autoritratto allo specchio convesso di Parmigianino da parte di Alessandro Vittoria, la Danae di Tiziano inviata da
Roma nel 1600 all’imperatore dal cardinale Montalto. A questo
proposito, che nei Galeriebilder di Leopoldo Guglielmo compaia una
Danae tizianesca crea un po’ di confusione: anche se la vecchia vie-
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ne rappresentata decisamente di profilo e Danae guarda in alto,
verso sinistra. D’altronde ben più di una Danae era elencata negli
inventari antichi.
Y Ma il vero protagonista del collezionismo di dipinti veneziani è
il famoso arciduca Leopoldo Guglielmo, figlio dell’imperatore
Ferdinando ii, il quale, a coronamento di una complessa carriera
ecclesiastica e politico-militare è Governatore dei Paesi Bassi dal
1647 al 1656. Luogo e periodo si mostrano di singolare fortuna per
la sua passione collezionistica. Questa si sarebbe manifestata già
prima della sua partenza, in quanto aveva inviato agenti in cerca di
opere importanti oltre che a Roma, Napoli, Madrid e altri luoghi
anche a Venezia; e secondo Carlo Ridolfi possedeva già una Madonna di Bellini («Il Signor Arciduca Leopoldo vivente, il quale con la
sua Regia munificenza acresce gratie continue alla Pittura, possiede del Bellino una divina imagine della Vergine»). Giunto a Bruxelles si mette subito a caccia di capolavori di artisti fiamminghi e
olandesi, dei quali vuole acquistare due dipinti: uno per il fratello
imperatore, Ferdinando iii, e l’altro per la propria collezione.
Y Quando, fra il 1649 e 1650-1651, a causa della guerra civile in
Inghilterra, le collezioni inglesi Buckingham e Hamilton giungono nei Paesi Bassi per essere vendute ad Amsterdam e ad Anversa,
l’arciduca vi riconosce, a ragione, un’occasione unica, da non perdere. Mentre acquista singoli dipinti dalla vendita Buckingham,
per lo più destinati alla collezione del fratello per compensare le
perdite sofferte da Praga in seguito al saccheggio degli Svedesi del
1648, riserva la collezione Hamilton al proprio personale godimento. La pittura veneta primeggiava in entrambe le raccolte.
Gran parte di questi dipinti costituisce ancora oggi la spina dorsale della collezione del Kunsthistorisches Museum. Fra le opere venete più importanti provenienti dalla vendita Buckingham e destinate alla corte imperiale di Praga, spiccano l’Ecce Homo di Tiziano,
L’unzione di David di Veronese, le tavole con scene dall’Antico Testamento di Tintoretto e Ercole e Onfale di Bassano. Sappiamo oggi che
alcune opere nella collezione dell’arciduca provengono dalla collezione di Carlo i, re d’Inghilterra: ad esempio la Lucrezia, la Ragazza
con pelliccia e forse anche Isabella d’Este di Tiziano, insieme a opere di
altri artisti italiani, fra i quali Parmigianino, Dosso, Caravaggio,
Fetti e altri. Sembra però che l’arciduca, non potendo partecipare
direttamente – in segno di rispetto per una casa regnante caduta in
disgrazia – al “Commonwealth Sale”, abbia acquistato le opere che
gli venivano offerte da vari mercanti e intermediari.
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Y Infinitamente più ricca di pittura veneziana è la vendita Hamilton, che riunisce le collezioni di Bartolomeo della Nave, Priuli e Regnier. È più facile elencare qui i quadri famosi di artisti di
altre scuole, come la Santa Margherita di Raffaello della collezione
Priuli, o opere di Guido Reni, Domenico Fetti e Valentin de Boulogne, piuttosto che i pezzi più forti dei veneziani: troppe sono le
opere di Bellini (figg. 4, 5), Giorgione, Tiziano, Tintoretto (fig.
6), Veronese, Palma (fig. 7), Bordone, Pordenone, Lotto, ma anche Savoldo e tanti altri. Siamo in attesa della pubblicazione di ulteriori liste di vendita di Bartolomeo della Nave, alcune delle quali preannunciate anche in altri numeri di «VeneziAltrove», che
promettono ulteriori informazioni a completamento di quelle già
pubblicate da Waterhouse. Tra gli inventari e le liste della collezione Hamilton pubblicati da Klara Garas, si è mostrato particolarmente interessante l’elenco del 1649, compilato in francese, dal
quale risulta chiaro che molte opere di altri artisti furono attribuite a Tiziano e a Giorgione per rendere la collezione ancora più
attraente, specialmente per un Asburgo. È però lo stesso arciduca
Leopoldo Guglielmo a fornire la documentazione visiva più efficace di tutte. Per soddisfare il suo orgoglio collezionistico, si fa ritrarre più volte nella sua “galleria” con il suo entourage dal pittore di
corte David Teniers il giovane (fig. 8). In ognuno di questi dipinti, i famosi Galeriebilder che egli poi regalava a diverse personalità, fa
riprodurre una scelta di opere mirata a stupire i destinatari: per la
corte viennese, e in particolare per il fratello Ferdinando iii sposato con una Gonzaga, si fa ritrarre con la vasta collezione di pittura italiana; per il cugino spagnolo, il re Filippo iv di Spagna, fa
spiccare provocatoriamente le “poesie” di Tiziano, includendo
possibilmente anche opere già acquisite dai suoi predecessori, come Diana e Callisto. Sono invece in minoranza i Galeriebilder che si
concentrano sulla pittura nordica.
Y Altro strumento di pubblicizzazione è il Theatrum Pictorum del
1660, anch’esso focalizzato sulla pittura italiana, e soprattutto veneziana, eseguito da David Teniers in condizioni non proprio facili, a causa della partenza improvvisa dell’arciduca da Bruxelles
nel 1656 con parte della collezione. Oltre alla complessa procedura di far realizzare le incisioni da artisti vari (fra cui Lucas Vostermann, Nikolaus van Hoy, Jan van Troyen, Peter Lisebetten)
sulla base di copie dipinte in piccolo formato da Teniers stesso,
questa raccolta di incisioni ha ancor oggi un colossale valore documentario, anche perché ci aiuta a identificare opere che in se-
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coli successivi sono state regalate, rimosse e rubate alla collezione
imperiale. E in più, ci offre uno sguardo nel nuovo allestimento
della Stallburg. Dal punto di vista estetico non si può che concordare con il famoso medico e collezionista Charles Patin, che già
nel 1673 criticava fortemente la qualitá di esecuzione delle stampe, considerandole «copie che deformano gli originali e alterano
quanto c’è di più bello al mondo: non vi si vedono che gli errori
dell’esecutore, e nulla dell’eccellenza di queste grandi idee». Lo
strumento non visivo, ma più importante di tutti, è costituito dall’inventario della collezione dell’arciduca, datato 1659, che costituisce tutt’oggi un elemento preziosissimo per la valutazione della storia attribuzionistica. In alcuni casi, esso si differenzia infatti
in modo straordinariamente interessante dalle liste di Bartolomeo
della Nave, dagli Inventari Hamilton e il Theatrum Pictorium che lo
precedono di poco più che un ventennio. Attraverso questi strumenti è, ad esempio, possibile ricostruire la presenza di un capolavoro come la Giuditta di Veronese (fig. 1), documentata da Teniers (fig. 10), e incisa negli inventari successivi (figg. 9, 11). Oltre a circa 517 dipinti italiani, il Theatrum ne comprende 800 tra
olandesi e tedeschi; 542 tra sculture, bronzetti e altri oggetti, e
343 disegni. Altri complessi collezionistici, come la sua famosa
raccolta di arazzi e quella di oggetti di culto, fanno comprendere
come il principio che guidava l’arciduca fosse ancora universale,
anche se non più enciclopedico. Opere italiane entrano nelle collezioni asburgiche anche attraverso la linea tirolese, cioè l’arciduca Ferdinando Carlo, sposato con Anna de’ Medici: non solo la
famosissima Madonna del Prato di Raffaello e il Battesimo di Cristo del
Perugino, ma anche il Ragazzo con la freccia di Giorgione, che Michiel
aveva visto nel 1531 «in casa de M. Zuan Ram».
Y Sembra proprio che, nel secolo successivo, Carlo vi e Maria
Teresa abbiano indirettamente contribuito alla perdita permanente di opere veneziane. Nel 1732, infatti, l’imperatore inviava a
Praga un gruppo considerevole di dipinti – per di più della collezione di Leopoldo Guglielmo – fra i quali spiccano la Resurrezione di
Lazzaro del Pordenone e l’Adultera di Tintoretto, tuttora a Praga. Le
opere di Giorgione o a lui attribuite nella lista di vendita di Bartolomeo della Nave, fra cui La nascita di Paride, Tarquinio e Lucrezia ed
altre, sembrano essere state vittime della necessità di arredare le
residenze di Pressburg e Budapest. Altre ancora, come il Cristo deriso di Tiziano, finivano nella collezione Bruckenthal a Hermannstadt (Sibiu).
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4. Giovanni Bellini,
Presentazione al tempio,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Giovanni Bellini,
Presentation at the Temple,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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Y A fine Settecento è concluso il famoso scambio tra i fratelli
Asburgo. L’imperatore Francesco e Ferdinando iii granduca di Toscana si lasciano ispirare da nuovi criteri “scientifici” per la riorganizzazione delle raccolte asburgiche e medicee; lo scopo principale
era quindi di dare una visione più equilibrata dal punto di vista storico e delle scuole. Anche
se i dipinti giunti da Firenze, fra cui spiccano la
Sacra Famiglia del Bronzino, il Ritorno di Agar di Pietro da Cortona, il Lamento del Cigoli, l’Astrea di
Salvator Rosa, Cristo con
Maria e Marta di Alessandro Allori, costituiscono
un importante arricchimento, va purtroppo segnalata la perdita dell’Allegoria sacra di Giovanni
Bellini, della Flora e della
Madonna delle rose di Tiziano, del cosiddetto Gattamelata, di Adamo ed Eva e dell’Adorazione di Albrecht Dürer, e dobbiamo
ritenerci fortunati se la Ninfa con pastore di Tiziano, l’opera tarda più
importante del maestro nella collezione viennese, fu allora rifiutata
da Firenze. Anche all’era di Napoleone si devono perdite di opere
venete, alcune delle quali si trovano ancora in Francia, come le due
tele di Bassano oggi a Digione.
Y Relativamente poco gloriosa sembra poi la storia ottocentesca
dei trasferimenti da Venezia alla corte di Vienna, uno nel 1816 di
14 opere venete provenienti dai depositi dell’Accademia di Belle
Arti e dal deposito della Commenda di Malta, e nel 1838 un altro
nucleo più consistente di ben 50 dipinti ripartiti in 18 casse, con
dipinti provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi nel periodo napoleonico. Inoltre, sotto la direzione del principe di
Metternich, viene scelto e trasferito un nucleo di opere destinato
all’Accademia delle Belle Arti di Vienna. Come se non bastasse, il
governo austriaco predispone anche la spedizione di un gruppo di
opere venete nella Bucovina, per decorare le chiese di quella poverissima regione. Poco chiara risulta poi la vicenda, a questa connessa, della parziale restituzione nel 1866, che costituisce un ca-
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pitolo nero sia da parte degli Asburgo, sia da parte italiana, in
particolare per gli sgradevoli strascichi databili al 1919, nel primissimo dopoguerra. Anche se non erano dipinti di ottima qualità, riconosciamo ancora, nelle vecchie immagini delle sale del
Kunsthistorisches Museum, opere che oggi si ammirano nella
Quadreria delle Gallerie dell’Accademia a Venezia, nel corridoio
palladiano. Molto più piacevole per il Museo, oramai statale, è
stata invece la possibilità di acquistare, nel periodo fra le due
guerre mondiali, opere importantissime del Settecento veneziano, fra cui due delle famose pitture di Tiepolo di Ca’ Dolfin, o il
Miracolo di un santo domenicano di Francesco Guardi, di cui il museo
possedeva, tra l’altro, La festa della Sensa in piazza San Marco (fig. 12).
Y Di una specifica valutazione dell’importanza della pittura veneta, espressa attraverso il suo allestimento e la sua posizione all’interno della raccolta asburgica, si può parlare solo a partire dal 1780
circa, quando Christian Von Mechel è chiamato a illustrare il suo
progetto storico-artistico nella nuova presentazione della collezione imperiale di dipinti al Palazzo del Belvedere, costruito dal principe Eugenio di Savoia, e poi acquistato da Maria Teresa. Von Mechel aveva appena riorganizzato il Museo di Düsseldorf secondo i
nuovi canoni storico-artistici, presentando le opere secondo criteri cronologici e ordinati per scuole artistiche. Egli faceva infatti
iniziare il percorso con due sale dedicate alla pittura veneziana. E
uno dei miei primi compiti di curatore della pittura italiana del
Kunsthistorisches Museum è stato anche di risistemare le collezioni negli ambienti nuovamente restaurati. Quantunque nel precedente allestimento si iniziasse con Raffaello e il Rinascimento fiorentino, cioè fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto e i capolavori della pittura emiliana di Correggio e Parmigianino, mi è sembrato
giusto, quasi doveroso sottolineare le preferenze e gli interessi più
forti del collezionismo asburgico, cioè la pittura veneziana. Ho
perciò cercato di concentrare in tre grandi sale i “pilastri” della
pittura veneta del Cinquecento, cioè Tiziano, Veronese e Tintoretto, includendo Palma Vecchio e Giovane, Paris Bordone e dei
Bassano, e lasciando le opere meno monumentali di Antonello da
Messina, Bellini, Giorgione e Lorenzo Lotto per le gallerie laterali, che affiancano le grandi sale. Nonostante siano trascorsi ormai
vent’anni, questa sistemazione, già in embrione nell’allestimento
del primo dopoguerra, mi sembra tuttora valida e coerente: specchio rivelatore non soltanto del gusto, ma anche della storia collezionistica della casa degli Asburgo.
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a predilection that perhaps began in 1533, with titian
one purchase after another leads
to richest and most documented
venetian collection abroad
the tale
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Sylvia Ferino Pagden
An Bilder schleppt ihr hin und her
Verlornes und Erworbnes;
Und bei dem Senden kreuz und quer
Was bleibt uns denn? – Verdorbnes!
Johann Wolfgang Goethe
Y We are still now amazed if we think of how many famous art
collections were moved around in Europe around 1650, following
often dramatic events, to then come together again in new places
and with new owners. Take, for example, the Gonzaga sale in
1627-29, the sacking of Prague and the transferring of a large part
of Rudolf ii’s collection to Stockholm in 1648, and, in about
1650, the sale of “Common Wealth”, but above all of Buckingham
and Hamilton, whose collections still now constitute the nucleus
of the Kunsthistorisches Museum. In 1952, the famous art historian and Oxford don Sir Ellis Waterhouse thought the collection
of paintings at the Kunsthistorisches was one of the best documented in the world. This was not only because the sales lists,
which he himself published, for the collections of Bartolomeo
della Nave (fig. 2), the Priulis, and Nicolas Regnier (or Niccolò
Renieri) allow us to trace back to Venice, and in some rare cases
the commissioners themselves, the origins of most of the works in
the museum, but also because the Habsburgs themselves, who were
precursors in this, had very original visual documentation created, such as the Galeriebilder and Theatrum Pictorum. Alongside works by
Venetian painters, these collections also contained works by authors belonging to other schools as a rather important art market
had developed in Venice in the 17th century. The most famous
sector for Austrian collections is still nonetheless that of Venetian
painting: the problem is therefore posed as to whether this is
purely an accidental phenomenon, or rather if the Habsburgs really did have a preference for Veneto painters.
Y The wealth of the collections that are still part of the Kunsthis-
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5. Giovanni Bellini, Donna
che si specchia, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum; da Venezia, nel
1638 passa nella
collezione Hamilton, da
dove l’arciduca Leopoldo
Guglielmo l’acquista
prima del 1659.
Giovanni Bellini, Nude
Woman in Front of Mirror,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum. From Venice,
the painting went to the
Hamilton collection in
1638, whence Leopold
Wilhelm bought it before
1659.
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torisches Museum (paintings and objets d’art, but also armour,
Graeco-Roman and Egyptian antiquities, and the numismatic collection, but also the famous manuscripts, drawings and prints, historical-natural collections and more, which are now at the Nationalbibliothek, the Albertina and the Naturhistorisches Museum) is
due to a few extraordinarily interesting individuals from the Austrian house of the Habsburgs. Unlike more recent institutions such
as London’s National Gallery or Berlin’s Gemäldegalerie, whose
main purchases date from the 19th century, the imperial collection
had attained its definitive, and rather particular, form as a princely private collection as early as the 19th century. It still reflects the
peculiar tastes of the Habsburgs: even if German and Flemish
painting formed the largest part, Italian painting is also extremely
important if we consider the names and schools. The Italian Trecento and Quattrocento, which became vastly popular only from
the 19th century on and occupy pride of place at London’s National Gallery, Washington’s National Gallery, New York’s Metropolitan Museum and Berlin’s Gemäldegalerie, barely register at the
Kunsthistorisches Museum. It is also for this reason that the Habsburgs’ collection of Italian paintings, apart from a few exceptions,
begins with the 16th century painters. The dearth of French and
English works, and the small number of Dutch works, also reflects
the political bonds of the dynasty.
Y The prevalence of portraits as opposed to narrative, mythological, religious or allegorical themes can be explained because of
the dynastic demands of the family, and therefore the relationship
with other, related houses. Ferdinand ii, Duke of Tyrol from 1529
to 1595, had already put together an extraordinary iconographic
collection consisting of more than 1,000 portraits in card format
of the most important figures not only of the reigning houses of
Europe but also of popes, sultans, and famous personalities in the
literary, scientific and other fields. Even though there are few doges, there are nonetheless quite a few exponents of the Soranzo
family. The Ambras “Portraitgalerie”, founded in 1976, brings
together portraits of famous characters from 16th-century Venice,
the doges Francesco Donato, Girolamo Priuli and Niccola da
Ponte as well as the famous patron of Palladio, Marcantonio Barbaro, undertaken by more or less famous artists. Another group of
more or less high-quality portraits of 16th-century Venetian males
(and where the individuals and authors have yet to be determined,
which may lead to some interesting surprises) can be found at the
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Sekundärgalerie of the Kunsthistorisches, founded in 1969 by
Frederike Klauner and Günther Heintz.
Y It would seem, though, that the Habsburgs’ predilection for
Venetian painting began in 1533, when the emperor Charles v
conferred on Titian the Order of the Golden Spur for the portraits he had undertaken of the emperor himself in Mantua and
Bologna. In an official document, Charles v draws a parallel between himself and Alexander the Great’s relationship with
Apelles, the only artist allowed to portray the sovereign, and
chose Titian as his preferred painter. From then on, Titian was
the Habsburgs’ favourite painter (fig. 3) – for the emperor, and
therefore the whole courtly entourage, which also included his
relativessuch as his sister Margaret of Hungary, and his son
Philip, later king of Spain, for whom Titian created his most
engrossing “poems” as well as many other works. It would not
seem that, in his enthusiasm for the Habsburgs, Titian intended to channel their tastes towards Venetian painting for centuries to come, even
though it must be said
that in both branches of
the family, the Spanish
and the Austrian, this
seems to be exactly what
happened.
Y Bearing in mind the
fact that, in the 16th
century, the Austrian
branch had far less
money than the Spanish
branch, it is likely that
Titian’s appointment to
paint 15 portraits of the
family of Ferdinand i,
Charles v’s little brother, as are mentioned in an official document, was never confirmed. Portraiture of this sort was undertaken, for Ferdinand, by his court painter Jacob Seisenegger,
who could obviously not compete with the quality, fame and
prices of his brother’s favourite artist. Despite this, it is to
Seisenegger that the original idea for Portrait of Emperor Charles V with
a Dog is attributed – according to many, Titian copied the painting currently at the Prado. x-rays of the Spanish painting, how-
the tale
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a predilection that perhaps begins in 1533, with titian
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6. Jacopo Tintoretto,
Ritratto di guerriero trentenne
in corazza, Vienna
Kunsthistorisches
Museum.
Jacopo Tintoretto, Portrait
of a Soldier in Armour,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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ever, show several changes to the composition, unequivocal proof
of originality. Ironically, both artists spent years, if not decades,
demanding payment owed them from the Habsburg courts.
Y Economic problems, or rather the prices being demanded for
Titian’s work, seem to have conditioned, and finally cooled, interest on behalf of Maximilian ii, son of Ferdinand i. The brief period of peace in the wars against the Turks allowed the court to begin
building a country residence, with zoological and botanical gardens
and calling upon the talents of Arcimboldo and other artists. This
also allowed Maximilian to try and acquire works by Titian. In November, 1568, there was a series of letters with Veit von Dornberg,
imperial ambassador to the Venetian Republic, who suggested the
emperor buy some of Titian’s “poems”, including “the tale of Callisto, discovered pregnant at the font, the tale of Actaeon and the
font, the tale of the same
changed into a hart and torn
asunder by his dogs, the tale of
Adonis gone hunting against
Venus’ will and killed by the wild
boar, the tale of Andromeda,
tied to a rock and freed by
Perseus, the tale of Europe spirited away by Jove on the back of
a bull. And all these paintings
are in good shape and are a span
larger than those on religious
themes, which are already being
sent to Your Caesarean Majesty
as they have many more figures
compared to the tales”.
Y On February 25, 1569, Veit
von Dornberg was asked to pay
Titian 100 crowns for a painting that, even though it isn’t
described, was probably Diana
and Callisto, which is still at the
Kunsthistorisches Museum. It was unusual that this painting
should be given in large format in the Galeriebild that Leopold Wilhelm sent to Spain in 1653 from Brussels, and also in Teniers’
Theatrum Pictorum, which is a print reproduction of the most important Italian paintings, but not in the 1659 inventory put together
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in Vienna. Might we therefore conclude that he included this
painting to impose on the Spanish line, who boasted that they
were the owners of several works by Titian, even though it was not
his but his family’s? All trace has been lost, though, of the painting on “Religion” mentioned by Dornberg.
Y Even if Maximilian ii’s younger brother, the archduke Ferdinand of Tyrol, was the first truly important Habsburg collector, famous for his Wunderkammer and collection of armoury belonging to
heroes (the so-called armamentarium heroicum, for which the very first
illustrated catalogue ever was printed), he was not interested in the
works by great maestros of the past or present, probably because of
his limited funds. On the contrary, though, his uncle the emperor
Rudolf ii, the most important of the Habsburg patrons and collectors, was a great admirer of painting. His protracted negotiations
with Spain, undertaken by the ambassador Hans Khevenhüller for
the purchse of Correggio’s The Loves of Jupiter and Parmigianino’s Cupid are legendary. He collected works by Dürer and his disciples; he
commissioned paintings from Bartolomeus Spranger, Joseph
Heintz, Hans von Achen and other contemporaries. Hans von
Achen was in Venice in 1603 as an agent for Rudolf ii, but we don’t
know which works he dealt with for the emperor. According to Ridolfi, Jacopo Bassano reportedly sent to Prague a series with the 12
months, about which Francesca del Torre writes in the present volume. Amongst the many gifts that Rudolf received as emperor,
pride of place, along with Parmigianino’s Self-portrait in a Convex Mirror received from Alessandro Vittoria, goes to Titian’s Danae, sent
from Rome by Cardinal Montalto in 1600. That Leopold Wilhelm’s Galeriebilder contains a Danae by Titian might create some
confusion, even though the old woman is decidedly depicted in
profile and Danae is looking upward, to the left. What’s more,
there is more than one Danae listed in the old inventories.
Y But the most important collector of Venetian painting is the
famous archduke Leopold Wilhelm, the son of the emperor Ferdinand ii, who, at the apex of a complex ecclesiastical and political-military career, was Governor of the Lowlands from 1647 to
1656. The time and place of his governorship proved particularly
providential for his bent for collecting. He had already shown interest before this, when he sent agents to scout for important
works in Rome, Naples, Madrid and other places, including
Venice. According to Carlo Ridolfi, in fact, he already had a Bellini Madonna (“The Lord Archduke Leopold living, who in his Regal
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a predilection that perhaps begins in 1533, with titian
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munificence bestows grace on Painting, possesses a Bellini his divine image of the Virgin”). On arriving in Brussels, he soon sets
off after masterpieces by Flemish and Dutch artists, by whom he
wants to buy two paintings – one for his emperor brother, Ferdinand iii, and the other for his own collection.
Y When, between 1649 and 1650-51, because of the civil war in
England, the English Buckingham and Hamilton collections arrive in the Netherlands to be sold in Amsterdam and Antwerp, the
archduke realised this was a once-in-a-lifetime chance. While he
bought individual paintings from the Buckingham sale (mainly for
his brother’s collection, to replace works lost in Prague following
the Swedish sack of 1648), the Hamilton collection was for his
own, personal pleasure. Veneto painting was the backbone of both
collections. Many of these paintings still now are the cornerstone
of the Kunsthistorisches Museum collection. Among the most
important Veneto works from the Buckingham sale destined for
the Prague court there are Titian’s Ecce Homo, Veronese’s Anointing of
David, Tintoretto’s tables with scenes from the Old Testament, and
Bassano’s Hercules and Omphale. We now know that some of the works
in the archduke’s collection come from the collection of Charles i
of England, such as, for example, Titian’s Lucrezia, Woman with Fur
and perhaps even Isabella d’Este, along with works by other Italian
artists, including Parmigianino, Dosso, Caravaggio, Fetti, and
others. It seems, however, that the archduke, not being able to
participate directly (as a sign of respect for a reigning house that
had fallen) in the “Commonwealth Sale”, bought the works that
various merchants and intermediaries offered him.
Y Much richer in Venetian works was the Hamilton collection,
which boasted works by Bartolomeo della Nave, Priuli and Regnier. It is easier to list the famous works by artists from other
schools, such as Raffaello’s St Margaret from the Priuli collection,
or works by Guido Reni, Domenico Fetti and Valentin de
Boulogne, rather than the much greater prices of the Venetians:
there are far too many works by Bellini (figs. 4, 5), Giorgione,
Titian, Tintoretto (fig. 6), Veronese, Palma (fig. 7), Pordenone,
Lotto, and even Savoldo and many others. We are awaiting other
sales lists for Bartolomeo della Nave, some of which have even
been given advance announcement in VeneziAltrove, which promise
further information that would round out what Waterhouse has
already stated. Among the Hamilton inventories and sales lists
published by Klara Garas there is a very interesting 1649 list, com-
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the tale
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7. Jacopo Palma il
Vecchio, Sacra conversazione,
Vienna Kunsthistorisches
Museum. Il dipinto è
rintracciabile (il secondo
da destra nella terza fila
dall’alto) nel quadro di
Teniers a fig. 8.
Jacopo Palma the Elder,
Sacred Conversation, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum. The painting
can be seen (second from
the right, third row from
top) in Teniers’ painting
in fig. 8.
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a predilection that perhaps begins in 1533, with titian
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8. David Teniers il
giovane, La galleria
dell’arciduca Leopoldo
Guglielmo, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
David Teniers the
Younger, The Archduke
Leopold Wilhelm in the
Gallery, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
9. Ferdinand Storffer,
Neu eingerichtetes Inventarium
der Bilder der Kaiserlichen Bilder
Gallerie in der Stallburg,
tavola 43, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Ferdinand Storffer, Neu
eingerichtetes Inventarium der
Bilder der Kaiserlichen Bilder
Gallerie in der Stallburg,
table 43, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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piled in French, from which it is clear that many works by other
artists were attributed to Titian and Giorgione to make the collection even more appealing, especially for a Habsburg. But it is the
archduke Leopold Wilhelm who provides us with the most effective visual documentation. To satisfy his pride as collector, he has
himself portrayed on more than one occasion in his “gallery” with
his entourage by the court painter David Teniers the Younger (fig.
8). In each of these paintings (the famous Galeriebilder that he would
then give to different people) he made sure there was a choice of
works that would surprise those for whom the Galeriebilder was intended: for the Viennese court, and especially his brother Ferdinand iii who had married a Gonzaga, he had himself depicted with
the vast collection of Italian paintings; for his Spanish cousin,
king Philip iv of Spain, he provocatively had Titian’s “poems”
prominently on display, possibly including works already bought
by his predecessors, such as the Diana and Callisto. There are very few
Galeriebilder concentrating on Nordic painting.
Y Another instrument used to publicise art works was the Theatrum Pictorum from 1660, which also focused on Italian, and especially Venetian, painting, undertaken by David Teniers in circumstances that were far from ideal because of the sudden departure
of the archduke from Brussels in 1656 with part of the collection.
Apart from the complex procedure of getting various artists (including Lucas Vostermann, Nikolaus van Hoy, Jan van Troyen,
Peter Lisebetten and others) to make engravings based on very
small copies painted by Teniers himself, this collection of engravings is still of enormous value in documentary terms, and it also
helps us identify works that, over the centuries, have been given
away, removed and stolen from the imperial collection. And it also offers us a glimpse of the new Stallburg layout. In aesthetic
terms, it would be hard not to agree with the famous physician and
collector Charles Patin who, in 1673, criticised the quality of the
prints, considering them “copies that deform the originals and alter the most beautiful things in the world: all one sees are the mistakes of the artist, and none of the excellence of these grand
ideas”. The non-visual tool par excellence, the most important of
all, is the inventory for the archduke’s collection. Dated 1659, it
is still now an important element in evaluating attributions. In
some cases, it is extraordinarily different from Bartolomeo della
Nave’s lists, Hamilton’s Inventories and the Theatrum Pictorum that
had come out little more than 20 years before. Thanks to these, it
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is possible, for example, to reconstruct the presence of masterpieces such as Veronese’s Judith (fig. 1), documented by Teniers
(fig. 10), and engraved in the following inventories (figs. 9, 11).
Along with about 517 Italian paintings, this inventory contains
800 Dutch and German paintings, 542 sculptures, little bronzes
and other objects, and 343 drawings. Other collection complexes, such as the famous collection of tapestries and religious items,
underline just how universal, if not encyclopaedic, were the archduke’s principles. Italian works also
ended up in the Habsburg collections via the Tyrol line, i.e. the archduke Ferdinand Charles, who married Anna de’ Medici: not only the
extraordinarily famous Madonna of the
Meadow by Raphael and Perugino’s
Baptism of Christ, but also Giorgione’s
Boy with an Arrow, which Michiel had
seen in 1531 “at the home of M Zuan
Ram”.
Y It would seem that, in the following century, Charles vi and MarieThérèse indirectly contributed to the
permanent loss of Venetian works. In
1732, in fact, the emperor sent a considerable group of works (mainly
from the Leopold Wilhelm collection) to Prague. These works included
Pordenone’s Resurrection of Lazarus and
Tintoretto’s Christ and the Woman Taken in
Adultery, still now in Prague. Works by
Giorgione, or attributed to him, in
the Bartolomeo della Nave sale list,
including The Birth of Paris, Tarquin and
Lucretia and others, seem to have fallen victim to the need to decorate
the Pressburg and Budapest residences. Yet others, such as Titian’s
Christ Crowned with Thorns, ended up in the Bruckenthal Collection in
Hermannstadt (Sibiu).
Y The famous exchange between the Habsburg brothers took
place in the late 18th century. The emperor Francis and Ferdinand iii the grand-duke of Tuscany were inspired by new “scientific” criteria for the reorganisation of the Habsburg and de’
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10. David Teniers,
Theatrum Pictorium, Vienna
Kunsthistorisches
Museum. La prima figura
a destra, nella terza fila
dall’alto, è la Giuditta di
Veronese (fig. 1).
David Teniers, Theatrum
Pictorium, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum. The first figure
on the right, in the third
row from the top, is
Veronese’s Judith (fig. 1).
11. Frans von Stampart e
Anton von Prenner,
Prodromus, tav. 7.
Frans von Stampart and
Anton von Prenner,
Prodromus, table 7.
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Medici collections; the main aim was therefore to give a more balanced view of the historical aspects of the schools. Even if the
paintings that came from
Florence,
including
Bronzino’s Holy Family,
Pietro da Cortona’s Return of Hagar, Cigoli’s
Lament, Salvator Rosa’s
Astraea, and Allori’s Christ
with the Virgin and St Martha,
certainly enriched the
collections, it must unfortunately be pointed
out that other works
were lost (Giovanni
Bellini’s Holy Allegory, Titian’s Flora and Madonna of the Roses, Dürer’s
so-called Gattamelata, Adam and Eve and Adoration), and we should
consider ourselves very lucky indeed that Titian’s Nymph and Shepherd, a very important late work in the Viennese collection, was refused by Florence at the time. Other Veneto works were “lost”
during the Napoleonic period, some of which are still in France
(including two paintings by Bassano, now in Dijon).
Y An equally inglorious chapter deals with the 19th-century
transfer of works from Venice to the Viennese court. One such
transfer took place in 1816, when 14 Veneto works were transferred from the various Accademia and Commenda di Malta deposits, and another in 1838, when a more consistent group of 50
paintings in 18 crates of paintings from the churches and convents
suppressed in the Napoleonic era was moved to Vienna. What’s
more, under the direction of the prince of Metternich, another
set of works was chosen and sent to the Academy of Fine Arts in
Vienna. As if this weren’t enough, the Austrian government also
organised the expedition of a group of Veneto works to decorate
churches in the impoverished Bukovina region of the empire.
There is also another, murky incident linked with this of a partial
restitution in 1866, which is extremely damaging both for the
Habsburgs and the Italians, especially considering the unpleasant
aftermath in 1919, just after the end of the first world war. Even if
they were not first-rate paintings, we can still see, in the old images of the rooms of the Kunsthistorisches Museum, paintings
that can now be seen in the Quadreria at Venice’s Accademia, in
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12. Francesco Guardi, La
festa della Sensa in piazza San
Marco, Vienna
Kunsthistorisches
Museum.
Francesco Guardi, The Feast
of the Sensa in St Mark’s Square,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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the Palladio corridor. Much more pleasant for the now state-run
Museum was, on the other hand, the possibility of buying, between the two world wars, very important works from the Venetian
18th century, including two famous paintings by Tiepolo for Ca’
Dolfin and Francesco Guardi’s Miracle of a Dominican Saint (the museum also owned his Feast of the Ascension, fig. 12).
Y A specific evaluation of the importance of Veneto painting,
through its organisation and an evaluation of its position within the
Habsburg collection, was undertaken as late as about 1780,
when Christian Von Mechel
was called upon to present a
historical-artistic project for a
new presentation of the imperial collection’s paintings at the
Belvedere, built buy Eugenio
of Savoy and then bought by
Marie-Thérèse. Von Mechel
had just reorganised the Düsseldorf museum according to
new historical-artistic canons, presenting works according to
chronological criteria and ordered according to artistic schools. His
layout, in fact, began with two rooms dedicated to Venetian painting. And one of my first tasks as curator of Italian painting at the
Kunsthistorisches Museum was also to redistribute the collection
throughout the newly refurbished rooms. Anything in the preceding layout that began with Raphael and the Florentine Renaissance,
i.e. Fra Bartolomeo and Andrea Sarto, along with the masterpieces
of the Emilian paintings of Correggio and Parmigianino, I took as
good, almost obligatory to underline the greater and more marked
preferences and interests of the Habsburgs’ collections – that is,
Venetian painting. I therefore tried to concentrate in three large
rooms the “pilasters” of 16th-century Veneto painting, i.e. Titian,
Veronese and Tintoretto, including Palma the Elder and Palma the
Younger, Paris Bordone and the Bassanos; I left the less monumental works by Antonello da Messina, Bellini, Giorgione and Lorenzo
Lotto for the side galleries, which run alongside the large halls. Even
though this layout dates back 20 years, and already in embryonic
form in the post-world war first era, it still seems to me to be valid
and coherent: it is the revealing mirror not only of the tastes, but also of the collecting history, of the Habsburgs.
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compravendite e trasferimenti dei mesi, capolavoro di leandro
dalla laguna fino agli asburgo:
i tanti viaggi di un ciclo
di 12 bassano (ma uno è sparito)
Francesca Del Torre Scheuch
1. Leandro Da Ponte detto
Bassano, Febbraio,
particolare, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, February,
(detail), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Y La Gemäldegalerie del Kunsthistorisches Museum di Vienna
possiede senza dubbio la raccolta più consistente di quadri dei
Bassano fino a oggi nota. Essa testimonia del successo di quei
maestri in tutta Europa non solo presso i contemporanei, ma
anche nei secoli successivi. Sono 86 i lavori riferibili all’operosa
famiglia dei Da Ponte, di cui ben 10, secondo le più recenti ricerche, sono attribuibili con certezza al grande Jacopo (1510 circa-1592). Dalle famose stagioni, alle parabole evangeliche; dai
notturni, agli opulenti mercati: la raccolta offre una rassegna dei
soggetti trattati dalla bottega bassanesca talmente esauriente, da
farne imprescindibile strumento di studio (fig. 2). Tra questi,
merita particolare attenzione una serie quasi completa che raffigura i mesi dell’anno. Raramente accessibile al pubblico del museo, decora una sala destinata abitualmente a conferenze, che da
qualche anno porta il nome di Bassano Saal in omaggio, appunto,
alla ricchezza della raccolta. E come le tele siano giunte a Vienna
è quanto ci proponiamo di raccontare, un po’ immaginando, un
po’ ricostruendo sulla base di notizie a dire il vero piuttosto
frammentarie, specie per quanto riguarda il loro primo ventennio di vita, ma sempre con il sostegno delle Maraviglie dell’arte di
Carlo Ridolfi.
Y I dipinti rappresentano i mesi dell’anno (fig. 3) attraverso la
raffigurazione dei lavori della campagna caratteristici per ognuno di essi; nel caso dei mesi invernali, come gennaio, febbraio e
marzo in cui le opere agricole segnavano una pausa, attraverso il
ritorno dalla caccia, il carnevale con la caccia al toro e una scena
di mercato durante la Quaresima. Ogni tela è contraddistinta dal
segno zodiacale corrispondente, visibile in alto tra le nuvole (fig.
4). La composizione, pervasa da una luce crepuscolare, è organizzata su piani paralleli digradanti verso il paesaggio nello sfondo, concluso all’orizzonte dalla massa azzurrina della montagna,
probabilmente il monte Grappa, su cui l’occhio si sofferma e riposa. Nel primo piano, l’interesse di Leandro (Bassano, 1557-
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compravendite e trasferimenti dei mesi, capolavoro di leandro
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2. Jacopo Da Ponte, detto
Jacopo Bassano, Adorazione
dei Magi, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Jacopo Da Ponte, known
as Jacopo Bassano,
Adoration of the Magi, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
112
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Venezia, 1622) si rivolge alla descrizione, precisa e accurata, delle attività dei contadini, e si sbizzarrisce nella rappresentazione
di frutta e verdura, ma anche delle varietà di pesci e dolciumi,
tutti perfettamente identificabili. Particolare attenzione è inoltre dedicata alla resa, fin nei dettagli minuti, degli attrezzi da lavoro, degli oggetti d’uso comune e dell’abbigliamento, tanto che
i dipinti possiedono un notevole valore documentario. Vienna
custodisce oggi 9 dipinti; la Galleria del Castello di Praga ha i
mesi di settembre e ottobre; dicembre si trovava, negli anni ottanta del Novecento, sul mercato antiquario.
Y Certamente i Mesi di Leandro costituiscono, per lo straordinario valore decorativo, la qualità delle opere e, non da ultimo,
la grandezza del formato (145 × 215 cm) uno tra i cicli più spettacolari di questo tipo, anche perché restano un caso quasi isolato. Le tele sono tutte firmate «Leander Bassanensis faciebat»,
formula abituale della famiglia. Nel caso di Leandro, questo elemento ci dà il termine ante quem per la datazione della serie. Nell’aprile 1595, Marino Grimani, succeduto come doge a Sebastiano Venier, «[…] perché si predicava dall’universale la bellezza
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de’ suoi [eseguiti da Leandro] ritratti volle […] esser da lui ritratto, che fu posto nelle stanze della Procuratoria, del quale così quel Principe si compiacque che lo creò suo cavaliere». Così,
dopo il 1595, Leandro iniziò a firmare le sue opere con il titolo
di “aeques” (fig. 5). E uno vanitoso come lui che, descrive vivacemente il Ridolfi, quando usciva di casa si faceva accompagnare
dagli allievi «un de’ quali gli portava lo stocco dorato, l’altro il
memoriale per ridursi a mente le cose che aveva a fare, dimostrando grandezza e splendore in ogni sua atione», difficilmente avrebbe perso un’ottima occasione per fregiarsi del titolo.
Y I Mesi sono opere certamente concepite per un committente
importante, e riesce difficile pensare che la bottega avesse lavorato ad un’impresa decorativa di così grande rilievo nella speranza di piazzare prima o poi la serie sul mercato, secondo la
pratica seguita spesso da Jacopo per le sue scene pastorali. Alle
spalle doveva esserci un progetto, e forse un committente: e al
proposito, ci vengono in aiuto le parole dello stesso Francesco
Bassano in una sua lettera a Niccolò Gaddi – uno dei collezionisti fiorentini più importanti, soprattutto di disegni, del Cinquecento – datata 25 maggio 1581, sulla cui importanza aveva già
attirato l’attenzione Miguel Falomir Faus. Questa, citatissima
dagli storici dell’arte per l’accenno alla pratica disegnativa di Jacopo e Francesco, è pubblicata nella Raccolta di lettere sulla pittura,
scultura e architettura di Giovanni Bottari, stampata a Roma nel
1759. Era inoltre già nota a Giambattista Verci, biografo settecentesco di Jacopo, che la riassume nelle sue Notizie intorno alla Vita e alle opere de’ Pittori Scultori e Intagliatori della Città di Bassano, uscite a
Venezia nel 1775.
Y Un brano di questa missiva, in particolare, è di grande importanza: «Già buoni giorni fa avvisai a V.S. ill., come ella sa
che desideravo far li dodici mesi dell’anno; e perché vedo in
questi quadri grandi, del palazzo di questi ill. Signori, venir in
modo, che la prego di far ancor di qui qualche cosa, che le figure possan venir grandi, per mostrar l’arte a modo mio; sicché la
prego con qualche occasion di qualche suo amico favorirmi come ho fede, che benché non l’avvisasse, non mancherà sapendo
che V.S. ill. purtroppo è affezionato, a cui si diletta di perficer
in le virtù. Quanto poi al prezzo, farò sempre ogni cortesia,
quando che V.S. mel commetterà. E non essendo con questa da
dir altro a V.S. ill., di cuore la prego a tenermi nel numero de’
suoi servitori». Un committente fiorentino, non meglio speci-
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3. Leandro Da Ponte
detto Bassano, Gennaio,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, January,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
4. Leandro Da Ponte
detto Bassano, Febbraio,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, February,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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ficato, desiderava avere dalla bottega dei Bassano dei quadri
grandi per una sala del proprio palazzo, e Francesco prega dunque Gaddi di farsi tramite presso costui della sua proposta di dipingere i Mesi – un’idea che da qualche tempo coltivava – e con
figure grandi a sufficienza per «mostrar l’arte», secondo il suo
desiderio.
Y Questa descrizione si adatta sia al ciclo viennese di Leandro
sia a una serie non completa dei Mesi, di grandi dimensioni (150
× 245 cm), firmata da Francesco Bassano (Bassano, 1549-Venezia, 1592), di proprietà del Museo del Prado, ma in deposito
presso varie istituzioni madrilene. Le tele spagnole, presentate
da Miguel Falomir Faus in una mostra nel 2001, hanno, non a
caso, una provenienza fiorentina: furono inviate nel settembre
del 1590 alla corte spagnola come dono diplomatico per conto di
Ferdinando de’ Medici; rimaste per circa un decennio all’ambasciata fiorentina a Madrid, furono infine offerte in dono nel
1601 al duca di Lerma. Sembra dunque quasi certo che queste tele siano quelle di cui parla Francesco nella lettera a Gaddi, e non
è escluso che il committente fosse proprio Ferdinando, al quale
Gaddi era molto vicino. D’altronde, il Medici collezionò opere
di Francesco già durante il suo cardinalato a Roma, e nel 1584,
attesta Lorenzo Borghini nel suo Riposo, Francesco era già noto a
Firenze e a Roma. Tra Francesco e Firenze esisteva dunque un legame, che spiega anche i contatti con Niccolò Gaddi che egli doveva aver conosciuto prima del 1581.
Y I Mesi spagnoli e viennesi costituiscono le uniche serie – variamente complete – che siano giunte fino a noi (fig. 6). Nonostante l’inventario della bottega di Jacopo Bassano elenchi cinque tele di grandi dimensioni raffiguranti appunto alcuni mesi dell’anno, non conosciamo finora altre serie prodotte dalla bottega
con le stesse misure. Esistono invece versioni di minori dimensioni, realizzate per lo più in ambito nordico, che testimoniano
la ricezione del tema nel tardo Seicento oltre le Alpi. L’esistenza del secondo ciclo dipinto da Leandro dimostra come i due
fratelli abbiano strettamente collaborato, probabilmente a Venezia, dove Francesco aveva bottega dal 1578. I due giovani Bassano
realizzarono opere che, sotto il profilo tematico e iconografico,
derivano senza dubbio dai modelli di Jacopo; ma, in realtà, sono qualcosa di completamente diverso, costituendo la traduzione in chiave narrativa e decorativa, pre-secentesca, del linguaggio paterno.
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Y Se il ciclo spagnolo è nominato nella corrispondenza Bassano-Gaddi, la serie viennese corrisponde a quella descritta da
Carlo Ridolfi nelle sue Maraviglie dell’arte, che la attribuiva a
Jacopo Bassano. «A Ridolfo
ii imperatore [Jacopo] mandò i dodeci mesi, ne’ quali
erano divisate tutte quelle attioni che occorrono per l’anno; che così piacquero à
quella Maestà, che sempre
mai amò i pittori, e furono
de’ suoi più cari Bartolameo
Spranger e Gioseppe Heintz,
qual creò suo cavaliere, e di
lui vive il figliuolo del medesimo nome in Venetia ingegnoso Pittore, che perciò ne
ricercò Jacopo à suoi servigi;
ma egli non volle cangiare la
picciola sua Casa co’ Palagi
reali; quali si videro per lungo tempo nella Galleria di
Praga» (fig. 7). Le notizie di
Ridolfi su Jacopo si basavano
su informazioni dirette fornitegli probabilmente dagli
eredi del pittore, presenti a
Venezia. Nel caso dei Mesi,
potrebbe aver avuto importanza il pittore Joseph Heintz
il giovane, attivo a Venezia,
figlio di Joseph, già pittore di corte di Rodolfo ii a Praga. Una
frase, in particolare, ci dice che Ridolfi aveva a disposizione informazioni fornite da qualcuno in contatto con la corte praghese, o che addirittura aveva visto la galleria. Che i Mesi «[…] si videro per lungo tempo nella Galleria di Praga» significa sia che i
dipinti erano stati esposti nella Galleria del castello, sia che
quando Ridolfi scrive, le tele non erano più lì. E questo corrisponde alla verità.
Y Non sappiamo quando e come i dipinti siano giunti a Praga,
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né sono state finora rinvenute testimonianze documentarie su
un’eventuale commissione. Ma è certo che il soggetto si addiceva
parecchio al gusto di Rodolfo. In due dispacci del 4 e 12 luglio
1604, l’ambasciatore del duca di Savoia, conte Carlo Francesco
di Lucerna, si riferisce ai due dipinti raffiguranti «mercati della frutta et pescaria», opere di un pittore neerlandese attivo a
Cremona, inviati dal Savoia all’imperatore a Praga. Trasmette
ciò che ha saputo dal «pitore di
S.M. il quale li riferse che hieri
l’imperatore stete due ore e
mesa assentato senza moversi
guardar li quadri delli mercati
di frutta e pescaria mandati da
V. A. […] ha fatto scrivere a
Cremona per sapere se il pittore fusse vivo per tirarlo al suo
servitio...». D’altra parte,
l’imperatore aveva suoi agenti
un po’ in tutta Europa, che a
stento riuscivano a stare al passo con le sue insaziabili brame
collezionistiche. Oltre a dipinti, ricercavano oggetti preziosi
per la Kunstkammer e le più varie
curiosità naturali, animali rari,
piante esotiche. Sappiamo che
Rodolfo invia più volte il pittore di corte Hans von Achen ad
acquistare quadri in Italia, e che
intratteneva rapporti con Hans Rottenhammer a Venezia, il quale acquistava e restaurava dipinti per lui a inizio Seicento. Inoltre, la comunità germanica a Venezia era sicuro punto di riferimento: i Fugger finanziavano gli acquisti del sovrano e i segretari – ad esempio Bernardino Rosso – si occupavano delle spedizioni da Venezia a Praga delle cose più svariate, dalle botti di
malvasia, ai leopardi. Infine, lo stretto rapporto tra Rodolfo e il
gioielliere Jacob König, imparentato con la famiglia degli Ott,
mercanti tedeschi a Venezia, costituiva probabilmente un altro
importante canale per gli acquisti in laguna.
Y Le vicissitudini del ciclo sono ricostruibili dal punto di vista
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5. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Gentiluomo
con scultura, Milano,
collezione Koelliker: il
dipinto è firmato «Leander
a Ponte / Bas. / Aeques/ F».
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, Gentleman with
Sculpture, Milan,
Collezione Koelliker: the
painting is signed “Leander
a Ponte / Bas. / Aeques/ F”.
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documentario solo dal 1617, quando si accenna, per la prima
volta, a una serie dei dodici Mesi conservati nella reggia di Neustadt (fig. 8). In questa cittadina a sud di Vienna, oggi Wiener
Neustadt, la famiglia imperiale trascorreva spesso alcuni periodi,
utilizzandola come residenza estiva, o rifugio dalle pestilenze che
minacciavano la capitale. Qui, nel 1614, nasce l’arciduca Leopoldo Guglielmo, figlio di Ferdinando ii e di Maria di Baviera:
figlio cadetto, è destinato alla vita religiosa, e non sempre segue
la famiglia nei viaggi. A Neustadt lontano dalle tentazioni viennesi, egli riceve dal 1628 la sua educazione. Tale residenza, giardino zoologico compreso – «Schloss und Burg samt dem Tiergarten» – gli è donata dal padre nel marzo 1630. Dei beni custoditi in questo castello tra il 1616 e il 1618 si redige un inventario, in seguito a un incendio scoppiato nell’agosto 1616. Al
numero 170, in una camera vicino alla cucina, figurano «[…]
zwelf stuck gemähl, als die zwelf monat, von Bassan herkomen»,
cioè dodici dipinti con i mesi dell’anno di Bassan[o] (fig. 9).
Y Ecco dunque riemergere con una certa sicurezza il nostro ciclo. Ma i dodici Mesi (fig. 10), come erano arrivati a Neustadt? È
probabile che le tele vi siano state trasportate dopo la morte di
Rodolfo ii (fig. 11). Dal 1612 in poi, succeduto al fratello, l’imperatore Mattia, che intendeva dichiaratamente riportare a
Vienna la sede dell’impero, fa trasportare, provvidenzialmente,
un grande numero di opere d’arte della collezione del fratello da
Praga a Vienna, di cui una parte – che non figura negli inventari storici del 1610-1619 – è forse smistata nelle varie residenze.
Si è detto provvidenzialmente, perché la manovra, organizzata
per quanto possibile di nascosto e soprattutto senza lasciare alcun cenno inventariale ufficiale, salverà alcuni tra i maggiori capolavori delle collezioni imperiali dai saccheggi di Praga, perpetrati dai Sassoni (1632) e poi dagli Svedesi (1648). Tanto che la
regina Cristina, che aveva dato precise istruzioni alle sue truppe
di portare a Stoccolma i capolavori già di Rodolfo ii, non riesce
a celare la delusione e il dispetto quando, esaminato il bottino di
guerra, constata l’assenza, ad esempio, di alcuni Correggio, dei
Parmigianino, e di tanti altri dipinti che, ancor oggi, si ammirano al Kunsthistorisches di Vienna.
Y Non si sa esattamente quando le dodici tele (fig. 12) siano
giunte a Neustadt. È però certo che il 14 luglio 1659 si trovavano invece a Vienna, poiché sono elencate dal famoso inventario
della collezione redatto da Anton Van der Baren. Nella primave-
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compravendite e trasferimenti dei mesi, capolavoro di leandro
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6. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Marzo,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Leandro da Ponte, known
as Bassano, March, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
7. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Aprile,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Leandro da Ponte, known
as Bassano, April, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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ra del 1656, l’arciduca rinuncia al governatorato dei Paesi Bassi:
abbandona Bruxelles con la sua splendida collezione, trasferita a
Vienna in due spedizioni successive che a novembre 1656 si riuniscono a Passau. Nel 1658 iniziano i lavori di ristrutturazione
del piano superiore della Stallburg, e nel 1659 le opere trovano
sistemazione nell’edificio, alle spalle della Hofburg, verso il cuore della città, che al piano terreno ospitava le stalle imperiali.
Non era un caso che ai piani superiori di tali edifici trovassero
collocazione raccolte d’arte: per le stalle era prevista infatti una
sorveglianza costante antincendio, utile per la tutela delle opere.
Del resto, entrambe le strutture richiedevano, dal punto di vista
architettonico, ambienti sviluppati in lunghezza, con superfici
murarie estese. Nell’inventario troviamo ai numeri 370-381 i
nostri Mesi: «Zwelff Landschafften von Öhlfarb auf Leinwath einer Größen, darunder eine etwas kleiner, die zwelff Monath des
Jahrs. In schwartzglatten Ramen, die Höhe 7 Spann 9 finger
vnndt Braidte 11 Spann 1 Finger; eines darunter gar schadhaft.
Alle von dem jungen Bassan Original»[164,32 × 230,88 cm]. E
cioè «12 paesaggi ad olio su tela tutti della stessa grandezza, di cui
uno un po’ più piccolo, i dodici mesi dell’anno. In cornice nera alti 7 spanne e 9 dita e larghi 11 spanne e 1 dito; uno di questi
è piuttosto danneggiato. Tutti originali del giovane Bassano»
(fig. 13). Questo, tra l’altro, è un inventario assai dettagliato e
preciso che, oltre a fornire una corretta attribuzione al giovane
Bassano – cioè Leandro – indica con una certa precisione le misure, anche se comprensive della cornice, e fornisce annotazioni
sullo stato di conservazione. La descrizione, unica stranezza, non
fa cenno dei segni zodiacali, forse ridipinti. Ecco dunque come
Leopold Wilhelm, figura di spicco del collezionismo asburgico –
oltre che vescovo, soldato e politico, con un ruolo fondamentale nella strategia familiare della guerra dei trent’anni – è stato
determinante nei confronti di questo ciclo bassanesco, che ben
conosceva e apprezzava dai tempi della sua giovinezza a Neustadt.
Y Tuttavia, il soggiorno viennese delle tele dura meno di un secolo: infatti, il loro destino itinerante le riporta a Praga. Il Settecento è un secolo di grandi spostamenti e riorganizzazioni nelle raccolte imperiali. Con Carlo vi, la regione boema perde importanza politica e si allentano i legami con la nobiltà locale.
Anche il castello di Praga con le sue collezioni, venuta a cadere o
quasi la funzione di rappresentanza, è non solo trascurato, ma
vittima del nuovo indirizzo autocelebrativo del sovrano. Carlo vi
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inaugura un processo di accentramento, fusione e riorganizzazione delle collezioni imperiali nella capitale, proseguito coerentemente dalla figlia Maria Teresa con l’apertura al pubblico
delle Gallerie imperiali al Belvedere nel 1781. In questo spirito,
a più riprese negli anni, vengono fatti affluire, anche da Praga,
molti dipinti ritenuti adatti ad arricchire e completare la collezione viennese; per risarcire i prelievi e per non lasciare sguarnita la residenza sono inviate opere allora ritenute di minore
importanza. In questo contesto i Mesi, evidentemente non particolarmente apprezzati nella temperie barocca della corte di Carlo vi, vanno a Praga nel 1732, insieme ad altri 32 dipinti.
Y Il processo si protrae anche nel secolo successivo, per concludersi nel 1894, quando avviene l’ultimo trasferimento di dipinti da Praga nel Kunsthistorisches Museum sul Burgring,
inaugurato nel 1891. Al 1894 risale dunque l’ultima spedizione
da Praga, che comprende ben 32 dipinti dei Bassano o ad essi attribuiti: un terzo dunque dell’attuale collezione. Tra questi, nove tele dei Mesi la cui appartenenza al ciclo non era stata riconosciuta, forse perché il segno zodiacale era stato ridipinto su una
parte dei quadri. Tale mancato riconoscimento dell’unità del ciclo è certamente responsabile del fatto che tre dipinti, sparsi nei
vari locali del castello e così sfuggiti agli ispettori, siano rimasti a
Praga.
Y È l’ultimo tra i viaggi dei Mesi di Bassano: partiti da Venezia a
fine Cinquecento, adornano la Galleria di Praga per circa due
decenni. Scampati a guerre e saccheggi, finiscono, forse dimenticati, a Neustadt da dove Leopold Wilhelm li fa rientrare a Vienna collocandoli nella Stallburg. In occasione del riallestimento
in gusto barocco della galleria voluto da Carlo vi, le tele si mettono per la seconda volta in viaggio per Praga, loro destinazione
originaria, da dove ritornano definitivamente a fine Ottocento.
Come dimostra la loro storia, i Mesi furono certamente apprezzati da Rodolfo ii e da Leopoldo Guglielmo, due tra i maggiori
collezionisti della casa d’Austria. Proprio sulla base dei trasferimenti che si è cercato di ricostruire, essi testimoniano le scelte
del grande collezionismo asburgico che è riuscito a consegnarci
intatta e continuamente arricchita da integrazioni e continui
scambi – anche al suo interno – una delle più straordinarie e
complete raccolte al mondo.
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sales and transfers of “months”, leandro’s masterpiece, revealed
from venice to the habsburgs:
the many voyages of a cycle
of 12 bassanos (but one is missing)
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Francesca Del Torre Scheuch
Y The Gemäldegalerie of Vienna’s Kunsthistorisches Museum
has what is without a doubt the greatest collection of Bassanos
ever known. It is a demonstration of the great success of these
maestros throughout Europe, not only among their contemporaries, but also in the ensuing centuries. There are 86 works that
can be traced back to the industrious Da Ponte family, of which
10, according to recent research, can certainly be attributed to
the great Jacopo (c. 1510-1592). The collection offers an
overview of the subjects dealt with by the Bassano workshop (the
famous seasons, the evangelical parables, the nocturnes, the opulent markets) that is so exhaustive that it cannot be ignored (fig.
2). Among these, special mention must be made of an almost
complete series of the months of the year. Rarely accessible to
museum visitors, it decorates a room usually reserved for conferences, and which for a few years now has been called the Bassano Saal in deference to the importance of the collection. How
these paintings came to Vienna is what I aim to relate, using a
touch of imagination and doing some reconstructing based on
hard facts that, to tell the truth, are rather fragmentary, especially in reference to the first two decades; but all of this using
Carlo Ridolfi’s Maraviglie dell’arte.
Y The paintings represent the months of the year (fig. 3)
through a figuration of country jobs characteristic of each, except for the winter months, such as January, February and
March, which depict a test from the rural labours, and which are
represented by a return from a hunting trip, carnival celebrations and bull hunting, and a Lent market scene. Each painting
is characterised by its corresponding astrological sign, which can
be seen in the clouds (fig. 4). The composition, pervaded by a
crepuscular light, is arranged receding into the landscape, parallel to the picture surface: the horizon is formed by the bluish
mass of a mountain (probably Monte Grappa), where the eye
rests. In the foreground, Leandro (Bassano 1557 - Venice 1622)
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8. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Maggio,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
8. Leandro Da Ponte,
known as Bassano, May,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
9. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Giugno,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, June, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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is interested in the precise and accurate description of the peasants’ activities, and he takes pleasure in representing fruit and
vegetables as well as the different varieties of fish and sweets, all
easily identifiable. He also pays particular attention to the
minutely detailed rendering of work tools, commonly used objects and clothing – so much so, that the paintings also have a
marked documentary value. Vienna now possesses 9 paintings;
the Gallery at the Castle in Prague has September and October;
December was last seen on the antiques market in the 1980s.
Y Certainly, Leandro’s Months, because of their extraordinary
decorative value, the quality of execution and their enormous
format (145 × 215 cm), are one of the most spectacular and
unique cycles of their type. The canvases have all been signed
“Leander Bassanensis faciebat”, the family’s habitual formula.
In Leandro’s case, this element provides the ante quem term for
the dating of the series. In April, 1595, the doge Marino Grimani, who followed Sebastiano Venier, “because [Leandro’s]
portraits were universally hailed, he wanted [...] to be painted
by him, and his portrait was placed in the Procuratie, and of this
portrait the Prince was so pleased that he made him a knight”.
Hence, Leandro began signing his works with the title “aeques”,
fig. 5, (i.e. “knight”) after 1595. And, according to Ridolfi’s vivacious description, whenever he went out he made sure he was
accompanied by his students, “one of whom carried his golden
swordstick, another his diary containing a rundown of all the
things he had to do, demonstrating grandeur and splendour in
every single action” – so conceited an individual was hardly likely not to use his title.
Y The Months is a work that was undoubtedly conceived for an
important patron, and it is hardly likely the workshop would have
worked on such an impressive decorative undertaking in hopes of
selling the series sooner or later, according to the practice often
followed by Jacopo for his pastorals. There must have been a prior project, and even a commission, a fact which is corroborated
by something Francesco Bassano wrote in a letter to Niccolò
Gaddi (one of the most important Florentine collectors, especially of 16th-century drawings), dated May 25, 1581, the importance of which has already been underlined by Miguel Falomir
Faus. The letter, often cited by art historians because of the light
it sheds on Jacopo and Francesco’s drawing practice, was published in Giovanni Bottari’s Raccolta di lettere sulla pittura, scultura e ar-
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chitettura, published in Rome in 1759. Giambattista Verci, Jacopo’s 18th-century biographer, was familiar with the letter, and
he sums it up in his Notizie intorno alla Vita e alle opere de’ Pittori Scultori e
Intagliatori della Città di Bassano,
which came out in Venice in
1775.
Y One part of the letter is
particularly important: “A
good number of days ago I advised your Lordship, as you
know, that I desired to make
the twelve months of the year;
and because I see these large
paintings for the residence of
these illustrious sirs to be most
suitable, I pray you to do of
your best so that I can paintfigures in large size to better show
my art; I therefore pray you to
find some occasion where some
friend of yours may favour me
as I have faith, so that if you
should ask this then he will not
deny knowing that your Lordship is devoted [...]. As for the
price, then, I will do of my utmost, when your Lordship do
ask it of me. Having nothing
else to communicate to your
Lordship, I sincerely pray thee
to consider me beholden to
you”. An otherwise anonymous Florentine patron asked the Bassanos’ workshop for large paintings for a room in his house, and
Francesco therefore requested that Gaddi act as intermediary in
communicating his proposal to paint the Months – an idea he had
been mulling over for a while – and large enough for him to be
able to “show his art”, according to his desire.
Y This description is in keeping both with Leandro’s Viennese
cycle and an incomplete series of very large Months (150 × 245
cm) signed by Francesco Bassano (Bassano 1549 - Venice 1592),
owned by the Prado but deposited in various institutions in
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10 e 10a. Leandro Da
Ponte detto Bassano, Luglio
(in due parti), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, July (in two
parts), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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Madrid. The Spanish paintings, presented by Miguel Falomir
Faus in an exhibition in 2001, have, not casually, a Florentine
provenance: they were sent in September, 1590, to the Spanish
court as a diplomatic gift on
behalf of Ferdinando de’
Medici; they spent about a
decade in the Florentine embassy in Madrid, and were finally offered as a gift to the
duke of Lerma in 1601. It
therefore seems almost certain that these paintings are
those mentioned by Francesco in his letter to Gaddi
was very close, and it can not
be excluded that the purchaser was Ferdinando himself,
whom Gaddi. What’s more,
Ferdinando de’ Medici had
already collected works by
Francesco when he was a cardinal in Rome, and in 1584,
as stated by Borghini in his
Riposo, Francesco was already
well known in Florence and
Rome. There was therefore a
link between Francesco and
Florence, which would also
explain contact with Niccolò
Gaddi, whom he must have
met before 1581.
Y The Spanish and Viennese Months are the only (variously completed) series that are still extant (fig. 6). Despite the fact the inventory of Jacopo Bassano’s workshop lists five large paintings
depicting months of the year, we are as yet unfamiliar with other
series produced in the workshop with the same dimensions.
There are, however, smaller versions, painted mainly in Nordic
countries, which prove the theme was taken up north of the Alps
in the late 17th century. The existence of the second cycle painted by Leandro demonstrates how the two brothers collaborated,
probably in Venice, where Francesco had a workshop from 1578.
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The two young Bassanos painted works that, from a thematic and
iconographic point of view, doubtless derive from Jacopo’s models, but that, in fact, are completely different, constituting a
translation of their father’s language into pre-17th century narrative and decorative terms.
Y If the Spanish cycle is mentioned in the Bassano-Gaddi correspondence, the Viennese
series corresponds to the one
described by Carlo Ridolfi in
his Maraviglie dell’arte, where it is
attributed to Jacopo Bassano.
“To Rudolf ii the emperor
[Jacopo] sent the twelve
months, in which were devised all those actions that occur during the year; they were
so appreciated by that Majesty
that he ever after loved artists,
and his closest became [...]
Spranger and [...] Heintz,
whom he made his knight,
and his little son of the same
name lives with him in
Venice; but he did not want to
change his little House with
royal Palaces; which were seen
for much time in the Prague
Gallery” (fig. 7). Ridolfi’s information on Jacopo was
based on direct facts probably
supplied by the painter’s heirs in Venice. As for the Months, an
important role may have been played by the painter Joseph
Heintz the younger, who was active in Venice and was the son of
the former court painter for Rudolf ii in Prague. One reference
in particulars indicates that Ridolfi had information supplied by
someone in contact with the Prague court, and had even seen the
gallery. The statement the Months “were seen for a long time in
the Gallery in Prague” means both that the paintings were exhibited in the castle’s Gallery, and that when Ridolfi wrote the Maraviglie the paintings were no longer there. And this corresponds to
the truth.
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11. Hans von Aachen,
Ritratto dell’imperatore Rodolfo II,
Vienna Kunsthistorisches
Museum.
Hans von Aachen, Portrait of
the Emperor Rudolf II, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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Y We don’t know when or how the paintings got to Prague, nor
has any direct documentary testimony been found regarding a
possible commission. But it is certain that the subject was very
much to Rudolf’s liking. In two despatches, dated July 4 and July
12, 1604 and sent to the emperor in Prague, the ambassador of the
duke of Savoy, the count Carlo Francesco of Lucerne, refers to two
paintings depicting “fruit and fish markets”, works by a Dutch
painter active in Cremona. He transmitted what he had heard
from “HM’s painter, who reported that yesterday the emperor
spent two and a half hours sitting motionless looking at the paintings of the fruit and fish markets sent by Your Highness [...] he
had word sent to Cremona to discover if the painter were alive to
ask him to join his service”. On the other hand, the emperor had
agents here and there throughout all of Europe, who were hardly
able to keep up with his insatiable desire for collecting. Besides
paintings, they also sought precious objects for his Kunstkammer and
the wildest natural curiosities, rare animals and exotic plants. We
know that Rudolf sent the court painter Hans von Achen to Italy
on more than one occasion to buy paintings, and that he maintained relations with Hans Rottenhammer who bought and restored paintings for him in the early 17th century in Venice.
What’s more, the Germanic community in Venice was a sure point
of reference: the Fuggers financed the sovereign’s purchases and
various secretaries (such as Bernardino Rosso) would organise
shipments from Venice to Prague of the most wide-ranging objects
– from malmsey barrels to leopards. Finally, the close relationship
between Rudolf and the jeweller Jacob König, who was related to
the Ott family (German merchants in Venice), probably constituted another important channel for purchases in the city.
Y The vicissitudes of the cycle can be confirmed with documentary evidence only from 1617, when mention is made for the
first time of a series of 12 Months conserved in the Neustadt royal
palace. In this little town south of Vienna, now called Wiener
Neustadt (fig. 8), the imperial family often spent periods of
time, either using it as a summer retreat or as a refuge during the
plagues that beset Vienna. It was here, in 1614, that the archduke
Leopold Wilhelm was born to Ferdinand ii and Maria Anna of
Bavaria, and as the youngest son he was destined for a religious
life and didn’t always accompany his family when they travelled.
Neustadt became his residence, and, cut off from the temptations of Vienna, he received his education here from 1628. The
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residence, zoological gardens included (“Schloß und Burg samt
dem Tiergarten”), was given to him by his father in March, 1630.
Following a fire in 1616, an inventory of all the objects at the residence was drawn up between 1616 and 1618. Listed as numeber
170 in a room near the kitchen, are 12 paintings with the months
of the year by Bassan[o] (“zweff stuck gemähl, als die zwelf
monat, von Bassan herkomen”) (fig. 9).
Y This is a fairly certain reference to our cycle. But how did
these 12 Months (fig. 10) end up in Neustadt? The paintings were
probably taken there after the death of Rudolf ii (fig. 11). From
1612 on, on succeeding his brother, the emperor Matthias, who
declared he wanted to make Vienna the capital of the empire
once more, had a large number of works from his brother’s collection providentially transferred from Prague to Vienna,
whence a part (not included in the historical inventories of
1610-19) was perhaps apportioned to different residences.
“Providentially” because the move, organised as much as possible
on the sly and above all without leaving any official inventory,
would save some of the greatest masterpieces of the imperial collections from the sack of Prague undertaken by the Saxons (1632)
and then the Swedes (1648). And in fact Queen Christina, who
had given her troops precise instructions about the masterpieces
belonging to Rudolph ii they had to bring home to Stockholm,
was unable to hide her displeasure and anger when, on examining the booty, saw that there were no Correggios, Parmigianinos
or many other paintings that we can still admire now at Vienna’s
Kunsthistorisches.
Y We do not know exactly when the 12 paintings (fig. 12) arrived
at Neustadt. What is certain, though, is that on July 14, 1659, they
were in Vienna, as they were listed in the famous inventory of the
collection drawn up by Anton Van der Baren. In the spring of
1656, the archduke gave up the governorship of the Netherlands:
he left Brussels with his magnificent collection, which he transferred to Vienna in two separate shipments that were brought together again in Passau in November. In 1658, work began on restructuring the upper floor of the Stallburg, and in 1659 the collection was dislocated to the building just behind Hofburg, near
the heart of the city, with the imperial stables on the ground floor.
It was not accidental that the upper floors of these buildings
housed art collections, as stables were constantly guarded by firemen, which was also perfect for the protection of the works of art.
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12. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Agosto,
Vienna Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, August, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum.
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What’s more, both structures required long rooms with wide
walls. Our Months are listed in the inventory under numbers 370381: “Zwelff Landschafften von Öhlfarb auf Leinwath einer
Größen, darunder eine etwas kleiner, die zwelff Monath des
Jahrs. In schwartzglatten Ramen, die Höhe 7 Spann 9 finger vnndt Braidte 11 Spann 1 Finger; eines darunter gar schadhaft. Alle
von dem jungen Bassan Original” (164.32 × 230.88 cm). That is,
“12 oil on canvas landscapes all the same size, of which one slightly smaller, the twelve
months of the year.
With black frame, 7
spans and 9 fingers
tall and 11 spans and
1 finger wide; one of
these is rather damaged. All originals by
the young Bassano”
(fig. 13). This is a
rather detailed and
precise inventory
that not only provides a correct attribution to the young
Bassano (i.e. Leandro), but also indicates with some precision the
sizes (albeit including the frame) along with notes on the state of
conservation. The only curious point is that it makes no reference
to the astrological signs, which have perhaps been repainted.
This, then, is how Leopold Wilhelm, a leading figure in the world
of Habsburg collecting (as well as being a bishop, soldier and
politician, with a fundamental role in the family’s post-Thirty
Years War strategy), was a key figure in this Bassano cycle, which he
had been familiar with since his childhood in Neustadt.
Y However, the paintings remained less than a century in Vienna. In fact, their itinerant destiny would eventually lead them
back to Prague. The 18th is a century of great movements and reorganisations within the imperial collections. With Charles vi,
the Bohemian region lost its political importance and ties with
the local nobility were lost. Even the castle in Prague with its collections, once it had all but lost its diplomatic and formal entertainment functions, was not only neglected, but fell victim to the
sovereign’s new self-celebratory bent. Charles vi ushered in a
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13. Leandro Da Ponte,
detto Bassano, Novembre,
Vienna Kunsthistorisches
Museum.
Leandro Da Ponte, known
as Bassano, November,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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process of centralisation, fusion and reorganisation of the imperial collections in the capital, a process that was coherently carried through by his daughter Marie-Thérèse with the opening to
the public of the imperial galleries in the Belvedere in 1781. In
this spirit, and on many occasions over the years, it was from
Prague that many paintings deemed worthy of enriching and
completing the Viennese collection were made to converge; to
help make up for this relentless haemorrhaging, works then considered less important were sent back to Prague so that the residence would not be completely devoid of art work. In this context, the Months, obviously not much admired in the baroque
leanings of Charles vi’s court, were sent to Prague in 1732 along
with another 32 paintings.
Y The same process continued through the following century,
and came to an end in 1894 when the last shipment of paintings
arrived from Prague at the Kunsthistorisches Museum on the
Burgring, which had been inaugurated in 1891. This last shipment from Prague contained a whole 32 paintings by, or attributed to, the Bassanos – i.e. a third of the current collection.
Amongst these were 9 canvases of the Months whose place within
the cycle hadn’t been recognised, perhaps because the astrological signs had been repainted. The fact they weren’t recognised as
belonging to the cycle is certainly why three paintings, in different rooms of the castle and therefore not included in the inspection, remained in Prague.
Y This was the last of the voyages for the Bassano Months: they
left Venice at the close of the 16th century, and adorned the
Gallery in Prague for about 20 years. Escaping wars and marauders, they ended up, perhaps forgotten, in Neustadt, whence
Leopold Wilhelm had them brought back to Vienna’s Stallburg.
When Charles vi wanted the gallery refurbished according to
baroque tastes, the paintings returned to Prague, there original
destination, once more, whence they definitively returned in the
late 19th century. As their history demonstrates, the Months were
certainly appreciated by Rudolf ii and Leopold Wilhelm, two of
Austria’s greatest collectors. On the basis of the transfers that I
have attempted to reconstruct, they bear witness to the choices
made by the great Habsburg collectors who succeeded in consigning to us one of the most extraordinary and complete collections in the world.
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vicende di note (e di gonnelle) tra le due capitali
nello stesso anno, il 1787,
due don giovanni:
ma quanto diversi tra loro
Sandro Cappelletto
1. Wolfgang Amadeus Mozart,
dettaglio di un ritratto
incompiuto eseguito
dal cognato Joseph Lange
verso il 1789: secondo
la moglie Constanze
era quello che gli rendeva
più giustizia.
Wolfgang Amadeus Mozart,
detail of an unfinished
portrait by his brotherin-law Joseph Lange,
1789 circa: according
to his wife Constanze,
it was the most accurate
portrait.
Y Venezia, 5 febbraio 1787. Al Teatro Giustinian di San Moisé,
uno dei tanti luoghi di spettacolo scomparsi dal panorama della
città, debutta Don Giovanni o sia il Convitato di pietra, “dramma giocoso”
in un atto. Musica del veronese Giuseppe Gazzaniga (fig. 2), parole di Giovanni Bertati. Vienna, 1 ottobre 1787, Wolfgang Amadeus Mozart (fig. 1), assieme alla moglie Costanze, lascia la città
dove risiede ormai da sei anni e inizia il viaggio verso Praga. Porta con sé il libretto, concluso, e la partitura, ancora incompleta,
di un “dramma giocoso” scritto per lui da Lorenzo Da Ponte, con
il quale la collaborazione era iniziata l’anno prima, a Vienna, in
occasione delle Nozze di Figaro (fig. 3). E il 28 ottobre, al Nationaltheater di Praga, la nuova opera va in scena; l’argomento è identico: Il dissoluto punito o sia il Don Giovanni (fig. 4). Venezia-Vienna, un
itinerario musicale consueto nel secondo Settecento. Un percorso di andata e ritorno, di idee e di persone, dove il dare e l’avere
formano un equilibrio sempre mobile, vivo. Nel prevalere di una
lingua, quella particolare lingua costituita dall’italiano dei libretti d’opera, che ormai da un secolo è diventata la lingua internazionale del melodramma. Si canta italiano da Pietroburgo a Lisbona, ma anche da Palermo a Torino, prefigurando un’identità
nazionale ancora tutta da venire. E quei due “don Giovanni” di
Venezia e Vienna non solo parleranno la stessa lingua, ma pronunceranno quasi le stesse parole.
Y Tre dei quattro creatori delle due opere – e la seconda è un plagio, un generoso imprestito, o piuttosto una geniale riscrittura? –
sono o sono stati ospiti abituali di Venezia e del suo sistema teatrale. E sono veneti, che in momenti diversi della loro vicenda professionale vivono a lungo a Vienna. Il quarto, Mozart, in laguna è
venuto una sola volta, tra febbraio e marzo 1771, in tempo per vivere e affascinarsi degli ultimi giorni di Carnevale. Leopold e
Wolfgang, padre e figlio, soggiornano a San Fantin, in un appartamento all’altezza del ponte dei Barcaroli o del Cuoridoro, che collega calle del Frutariol alla Frezzaria. Pochi passi da teatri impor-
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2. Ignoto,
Giuseppe Gazzaniga,
Bologna,
Museo internazionale
e Biblioteca della Musica.
Unknown,
Giuseppe Gazzaniga, Bologna,
Museo Internazionale
e Biblioteca della Musica.
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tanti, come il San Benedetto e il San Moisè, dal Ridotto Nuovo
(fig. 5) e dai suoi tavoli da gioco, dalla Fenice che ancora non c’è,
dal San Samuele (fig. 6), dove nel 1655 ha esordito Goldoni. Sono ospiti di Johannes Wider, un conoscente del padre, che aveva un
commercio di seta in Marzaria, e di sua moglie, la veneziana Venturina. Venturina mette al mondo diciannove figli; i sette maschi
muoiono molto precocemente; delle figlie, ne sopravvivono sei:
hanno dai ventotto ai cinque anni. Sei figlie e la madre, che non ha
ancora cinquant’anni e accoglie il ragazzo con affetto, cordialità,
bonomia di carattere. Quelle sette femmine, Mozart le chiama le
«perle Wider». E in quelle quattro settimane veneziane scopre le
maschere, il travestimento, la festa, il ballo. E l’erotismo, come
conviene a un ragazzo che ha appena compiuto quindici anni.
Y Da una lettera – più precisamente una postilla a una lettera inviata dal padre alla madre – alla sorella Nannerl rimasta a Salisburgo, sappiamo che Wolfgang scopre anche un gioco, un rituale, che
lui dice essere tipicamente veneziano: gli amici di Salisburgo devono presto venire in laguna «per farsi dare l’attacca, cioè farsi sbattere col culo per terra per diventare un vero veneziano; anche a me
lo volevano fare, ci si sono messe tutte e sette (le “perle Wider”,
n.d.r.) e però non sono state capaci di buttarmi giù». Quando Mozart quindicenne è a Venezia, Giuseppe Gazzaniga ha ventotto anni. È nato a Verona nel 1743, a Venezia è arrivato ragazzo, per studiare con Niccolò Porpora, e seguirlo quando il maestro ritorna a
Napoli, altra capitale – allora – della produzione e del consumo di
teatro musicale, altro consuetissimo orizzonte per i musicisti veneziani. E per il Teatro Nuovo di Napoli, Gazzaniga compone Il barone di Trocchia, il suo primo intermezzo. Da Napoli a Vienna, dove per
il Teatro di Corte debutta nel genere dell’opera buffa con Il finto cieco, su libretto di Da Ponte. E da Vienna a Venezia, dove nel 1772
compone la sua prima opera seria: Ezio, su libretto di Pietro Metastasio, che da quasi mezzo secolo risiedeva a Vienna con l’incarico
di “poeta cesareo” (figg. 7 e 8). Intermezzi, opere buffe e serie:
versatilità, rapidità, prontezza ad aderire ai diversi generi teatrali
allora prevalenti. Gazzaniga, non ancora trentenne, è già nel pieno di un’attività professionale che lo porta di teatro in teatro, da
Milano, a Novara, a Reggio Emilia, di nuovo a Venezia, ancora a
Vienna, a Monaco, a Dresda, finché, nel 1791, sceglie la Cattedrale di Crema, con l’incarico di maestro di cappella. E a Crema resta
fino alla morte, nel 1818.
Y Il libretto del Don Giovanni veneziano è di Giovanni Bertati. È
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nato 42 anni prima a Martellago; ha studiato nel seminario di
Treviso grazie al mecenatismo di Antonio Grimani; ha debuttato
presto, scrivendo soprattutto opere buffe. Garbo, gusto per la vivacità delle rime, capacità di alternare il comico al patetico. Apprezzato da Baldassare Galuppi, Giovanni Paisiello, Antonio Salieri. Nel 1790, riceve l’incarico di “poeta cesareo”, appartenuto
già al Metastasio, e scrive il libretto per Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, che alla prima viennese riscuote così incredibile successo da essere, subito, interamente
bissato. Un episodio unico. Da Vienna,
Bertati ritorna a Venezia, rallentando una
produzione di libretti che tocca, per restare a quelli conosciuti, circa settanta titoli;
non viaggia più: trova un impiego all’Arsenale, come archivista della Marina, a quel
punto non più veneziana, ma austriaca. Fa
in tempo a vedere ascesa e caduta di Napoleone, non si avvicina troppo ai fuochi delle nuove passioni romantiche, muore ottantenne nel 1815.
Y Emanuele da Conegliano (fig. 9) nasce
a Ceneda – oggi Vittorio Veneto – il 10
marzo 1749. Di famiglia ebrea, diventa cattolico e assume il nome del vescovo di Ceneda, appunto Lorenzo Da Ponte, da cui
viene battezzato. Studia al seminario di
Portogruaro, dove riceve gli ordini minori; insegna retorica, scrive poesie, si trasferisce a Venezia, dove ammira soprattutto le imprese casanoviane. È costretto a lasciare la città, va a Treviso, è
bandito per aver scritto L’uomo per natura libero, trattatello ispirato alle nuove idee di Jean-Jacques Rousseau. Ancora Venezia, poi Gorizia, Dresda, dove inizia a frequentare gli ambienti teatrali e musicali; poi Vienna, dove arriva nel 1781: in quello stesso anno anche Mozart decide di lasciare Salisburgo, la sua città, e la corte
dell’arcivescovo che fino ad allora, e senza scialare, gli aveva dato
uno stipendio, e di tentare la fortuna come libero compositore.
Y Dall’imperatore Giuseppe ii, affascinato dalla sua intraprendenza e versatilità, Da Ponte ottiene l’incarico di “poeta dei teatri
imperiali” e scrive il primo di una serie di libretti: è Il ricco di un
giorno, per la musica di Antonio Salieri, anch’egli veneto, nato a
Legnago nel 1750 e allora massima autorità musicale viennese (fig.
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10). Poi, dopo i tre libretti creati per Mozart – Le nozze di Figaro, Don
Giovanni, Così fan tutte – e la morte del suo imperiale protettore, ancora traslochi, sempre emigrante e sempre intraprendente. Trieste, Londra, infine New York: librettista, droghiere, grossista di
medicinali, editore, libraio, insegnante di italiano, impresario. E
a New York, nel 1825, fa rappresentare Don Giovanni: ovviamente il
suo, il loro. Nel 1833, inaugura un nuovo teatro d’opera con La
gazza ladra di Rossini (fig. 11). Muore a ottantanove anni, nel 1838,
lasciando molti rimpianti.
Y Lorenzo Da Ponte conosceva bene sia Gazzaniga che Bertati.
Per il musicista aveva scritto, a Vienna, il libretto de Il finto cieco.
Lo definisce «compositore di qualche merito, ma d’uno stile
non più moderno», e così racconta il loro primo incontro professionale: «Per isbrigarmi presto scelsi una commedia francese,
intitolata L’aveugle clairvoyant, e ne schiccherai un dramma in pochi
giorni, che piacque poco, tanto per le parole che per la musica.
Una passioncella per una donna di cinquant’anni, che disturbava la mente di quel brav’uomo, gli impedì di finire l’opera al
tempo fissatogli». Cinquant’anni devono certo sembrare troppi
al librettista, che nell’aria del catalogo cantata da Leporello, decide che «passion predominante» del suo cavaliere libertino è la
«giovin principiante». Passione condivisa dall’autore, se si leggono le sue Memorie, narrate in prima persona e in una prospettiva che sempre lo propone come il deus ex machina della vita musicale europea di quegli anni. Tutto ruota intorno a lui, tutto nasce dalle sue idee e relazioni, dal suo talento. La vanità non gli
faceva difetto, come l’estro.
Y E, naturalmente, Da Ponte sostiene di essere stato lui l’ispiratore di Mozart: di aver scelto lui l’argomento e di averlo sviluppato con piena libertà, prendendo così le distanze dal libretto di Bertati, come per preventiva autodifesa da ogni eventuale
accusa di plagio. Dopo i rispettivi Don Giovanni, i due si incontrano di nuovo a Vienna (fig. 12), dove Da Ponte era tornato per un
soggiorno di qualche settimana, provenendo da Trieste. Bertati
ha assunto la carica di “poeta cesareo”, mentre Da Ponte non ha
più nessuna posizione ufficiale ed è in cerca di nuove commissioni. E così scrive del collega: «Io conosceva le sue opere, ma
non lui. Egli n’aveva scritto un numero infinito, e, a forza di
scriverne, aveva imparato un poco l’arte di produr l’effetto teatrale. Ma, per sua disgrazia, non era nato poeta e non sapeva l’italiano. Per conseguenza l’opere sue si potevano piuttosto soffrir
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3. Locandina della prima
de Le nozze di Figaro al
Burgtheater di Vienna,
1 maggio 1786.
Placard for the premiere
of Le nozze di Figaro at the
Burgtheater, Vienna, May
1, 1786.
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sulla scena che leggerle». Poi, continua: «Dopo essere stato altri dieci minuti con lui e aver conosciuto per tutti i versi che il
signor poeta Bertati altro non era che una bòtta gonfia di vento,
mi congedai e andai a dirittura dal guardiano delle logge. Trovai
con altrettanta sorpresa che compiacenza che i libretti di nove
delle mie opere era tutti stati venduti». Da Ponte vende, Bertati
no. Bertati è il poeta ufficiale della corte, l’abate Lorenzo sta sul
mercato e non può essere tenero con i concorrenti. Avranno
parlato anche dei loro simultanei
Don Giovanni?
Y Ma torniamo a quella sera del 5
febbraio 1787. Venezia non era dunque restata insensibile alla passione
per le avventure di don Giovanni,
una vicenda teatrale e musicale che
attraversa l’Europa con la forza di
un’onda incontenibile. È il 1630
quando, a Barcellona, il frate spagnolo Tirso de Molina pubblica, in
veste anonima, la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra. Per la
prima volta assumono forma letteraria compiuta una vicenda, un
mito narrativo, un personaggio che da tempo attraversavano la letteratura popolare, animando le rappresentazioni delle compagnie
dei comici dell’arte. È il debutto letterario di don Juan Tenorio,
libertino e cinico, che prova sommo piacere nel trasgredire ogni
principio morale. Verrà punito, avvolto da fiamme infernali:
l’empio non sfuggirà alla condanna eterna. Ma quanta vitalità,
quanto spasso, prima dell’edificante morale conclusiva.
Y L’intreccio dà vita a una serie infinita di figli, più o meno somiglianti al padre. È il destino dei miti, che affrontano qualsiasi metamorfosi senza mai snaturarsi. Su don Giovanni scrivono parole e
musica, tra gli altri, Giacinto Andrea Cicognini, Jean-Baptiste Poquelin più noto come Molière, Thomas Corneille, Thomas Shadwell, Henry Purcell. Nel 1669, a Roma, a palazzo Colonna in Borgo, a due passi dalla basilica di San Pietro, dal cuore della cristianità, è il compositore Alessandro Melani, su libretto di Giovanni Filippo Apolloni, a rappresentare per la prima volta in Italia un
“dramma musicale” liberamente ispirato alla commedia di Tirso de
Molina. Nel 1734 la compagnia di comici dell’arte guidata da Eustachio Bambini mette in scena a Brno La pravità castigata; due anni do-
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po, il soggetto arriva in laguna, grazie al Don Giovanni Tenorio o il Dissoluto che Carlo Goldoni scrive per il Teatro Grimani. Nel 1761, a
Vienna, Christoph Willibald Gluck, con la coreografia di Gaspare
Angiolini, trasforma la commedia di Molière in un “balletto pantomima”: Don Juan ou Le festin de pierre. Nei due decenni successivi, le rappresentazioni si infittiscono ancora: Vincenzo Righini a Praga; Giacomo Tritto a Napoli; Gioacchino Albertini a Varsavia; Vincenzo
Fabrizi a Roma. E quella sera del 5 febbraio 1787, mentre al San
Moisè si alza il sipario sul “dramma giocoso” di Gazzaniga, al Teatro
San Samuele, Francesco Gardi propone un “dramma tragicomico”
ispirato, ma con lo spirito della farsa, al libretto di Bertati. Questa
era Venezia: due prime la stessa sera, in due teatri diversi.
Y L’intreccio, evidentemente, attrae. Anche perché un “vero” don
Giovanni a Venezia aveva abitato e molto fatto parlare di sé. È la tesi, documentata e sorprendente, di Paolo Cattelan nel libro dedicato al periodo trascorso da Mozart a Venezia e poi Padova (Mozart. Un
mese a Venezia, Venezia 2000). A metà Settecento, nel cuore della città, ha vissuto, peccato, ed è stata condannata una persona i cui tratti
libertini si ritagliano bene sul personaggio di don Giovanni. È il Carnevale 1751, quando dà scandalo il caso del conte Francesco Falletti
di Castelman, un piemontese nobile, così si presenta, che ha preso
casa al ponte dei Barcaroli in rio San Fantin: vent’anni dopo soggiorneranno lì anche i Mozart. Il conte Francesco convive con “Rosa Romana”, al secolo Antonia Fontana. La coppia si prende e si lascia, litigiosa e complice. E molti sono gli eccessi di lui, come si apprende leggendo la decisione del Supremo Tribunale degli Inquisitori di Stato e degli Esecutori alla Bestemmia.
Y «Blasfemo, libertino, celato sotto il manto di nobile condizione e carattere: impenitente e impunito “mai pensando a riforma di sorta [...] lontano dal timor di correzioni”», scrive Cattelan, citando il Tribunale veneziano. Che «de dì 7 gennaro 1751
M. V.» (More Veneto, corrispondente al 1752) lo mette al bando. «Francesco Falletti nativo Piemontese, detto anco conte di
Castelman, solito abitar al Ponte dei Barcaroli in contrada di San
Fantin, absente, ma legittimamente citato, imputato per quello,
che oriundo di alieno stato, occultando la viltà della sua nascita,
fosse anzi solito spacciarsi per Persona di carattere e nobile condizione; sostenendo per altro un contegno di vita reo, turpe, libertino e scandaloso. Correndo la di lui casa per un aperto postribolo, dando in essa ricetto continuo a più donne da Partito,
approfittandosi da ritratti delle Medesme a suo sostentamento,
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4. Lorenzo Da Ponte,
Il dissoluto punito o sia il Don
Giovanni, frontespizio
del libretto, Praga 1787,
Vienna, Bibliothek
der Gesellschaft
der Musikfreunde.
Lorenzo Da Ponte,
Il dissoluto punito o sia il Don
Giovanni, frontispiece to
the libretto, Prague, 1787,
Vienna, Bibliothek
der Gesellschaft der
Musikfreunde.
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senza riserve alcune di impiegarsi a loro fortuna, di commettere
laidezze e disonestà, anco a pubblica vista [...] alieno dal contrassegnare qualunque professione e esercizio di Cristiana Cattolica
Religione [...]. Sia e si intenda bandito da questa città di Venezia,
e Dogado, e da tutte le altre città e venendo preso e ricondotto in
questa città ed all’ora solita fra le due colonne di San Marco, sopra un palco d’eminenti forche sia per il ministro di Giustizia impiccato per le canne della gola sicché muoia».
Y Bandito il falso conte Falletti, come verrà condannato alla detenzione perpetua nel manicomio di Charenton il vero marchese
de Sade: inevitabile, dopo aver letto questa sentenza, pensare a Justine, o le disavventure della virtù, a Le 120 giornate di Sodoma. Ambedue i
Gentiluomini prediligevano «commettere laidezze e disonestà»
con le «donne da Partito», le ragazzine. E, sulle scene d’Europa,
in quegli anni mille volte muore don Giovanni, appassionato di
adolescenti e giovani donne sposate, irridente a ogni principio di
«Cristiana Cattolica Religione», a ogni vincolo di affetti e familiare. Chissà se in quel mese veneziano, alle orecchie del giovane
Wolfgang, magari raccontati dalle «sette perle» che lo circondavano, saranno arrivati echi, imprese e prodigi del «conte di Castelman», un ex vicino di casa. E come escludere che ne abbia
sentito parlare Da Ponte, quando, poco più di due anni dopo la
presenza veneziana dei Mozart, arriva anche lui in laguna, da dove sarà presto bandito per aver commesso adulterio, mettendo al
mondo tre figli? Dalla vita di Falletti al libretto di Da Ponte e da
quelle parole alla musica di Mozart?
Y L’aspetto demoniaco è certo presente nella partitura mozartiana:
dagli accordi iniziali dell’ouverture, alla forza altera con cui il protagonista, dopo aver superato lo smarrimento, perfino il tremore suscitato dall’inattesa apparizione della statua del Commendatore («Non
l’avrei giammai creduto / ma farò quel che potrò») ritorna baldanzoso padrone di sé: «Leporello un’altra cena fa che subito si porti».
Comunque splendido paron de casa. Ed è questo sguardo all’abisso,
questo splendore della dissolutezza, questo incalzare dell’eccesso che
segna la differenza netta tra i nostri due Don Giovanni. Non sono poche le metamorfosi che i personaggi conoscono nelle stesure di Bertati e Da Ponte. Don Giovanni (fig. 13), donna Elvira (fig. 14), donna Anna (fig. 15) e il suo promesso, il duca Ottavio, non cambiano
nome. E simile rimane la loro funzione drammaturgica: due donne
sfidate, lasciate, diversamente tradite dal libertino e l’incerto, troppo amoroso, poco propositivo, ancor meno seduttivo, spasimante di
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donna Anna. Biagio e Maturina sono ribattezzati, nella versione Da
Ponte, Masetto e Zerlina: non è differenza da poco, se la coppia
contadina appare così più giovane, ardente, desiderabile. Biagio va
adagio, non Masetto.
Y Bertati introduce un quarto personaggio femminile, la nobile
donna Ximena, evidente richiamo all’originale ambientazione spagnola; Da Ponte lo elimina. Pasquariello diventa Leporello, mantenendo il ruolo del servo (fig. 16). Scompare il ruolo di Lanterna, cameriere di don Giovanni. Cambiano i nomi, il numero dei personaggi diminuisce. Ma soprattutto si trasformano il lessico, il senso,
la forza dei versi. Così racconta Pasquariello nell’aria del catalogo:
Dell’Italia, ed Alemagna
Ve n’ho scritte cento, e tante.
Della Francia, e della Spagna
Ve ne sono non so quante:
Fra madame, cittadine,
Cameriere, cuoche e sguattere;
Perché basta che sian femmine
Per doverle amoreggiar.
Vi dirò ch’è un uomo tale,
Se attendesse alle promesse,
Che il marito universale
Un dì avrebbe a diventar.
Vi dirò ch’egli ama tutte
Che sian belle, che sian brutte:
Delle vecchie solamente
Non si sente ad infiammar.
E così invece Leporello:
Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
Un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
Nella bionda egli ha l’usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
Vuol d’estate la magrotta;
È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca - se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.
Y L’invenzione dei numeri, la dilatazione della sequenza dei
luoghi, delle età, delle immagini, delle perversioni, l’infittirsi
dei richiami metrici, delle rime. Un elenco, nient’altro che un
elenco, ma quanto più incalzante – e disperante per donna Elvira che lo ascolta – quello creato da Da Ponte. La festa paesana che
accompagna il matrimonio tra Biagio e Maturina è interrotta
dall’ingresso di Pasquariello e don Giovanni, subito attratto dalle bellezze della contadina. Per corteggiarla, deve liquidare Biagio: lo prende a schiaffi, lo minaccia e lui, privo di diritti, non
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5. Francesco Guardi,
Il Ridotto Nuovo in San Moisè a
Venezia, Venezia,
Museo del Settecento
veneziano, Ca’ Rezzonico.
Francesco Guardi,
The Ridotto Nuovo Theatre,
San Moisè, Venice, Venice,
Museo del Settecento
Veneziano,
Ca’ Rezzonico.
può che imprecare alla propria condizione e maledire il tradimento di lei.
A me schiaffi sul mio viso!
A me far un tal affronto!...
(a Maturina)
Ma gli schiaffi non li conto,
Quanto conto, fraschettaccia,
Che tu stai con quella faccia,
A vedermi maltrattar.
(a Don Giovanni)
Ma aspettate. Ma lasciate.
Ch’io mi possa almen sfogar.
Da tua madre, da tua zia,
Da tua nonna adesso io vado,
Vo’ da tutto il parentado
La faccenda a raccontar.
Y La medesima situazione è così vissuta da Masetto:
Ho capito, signor sì!
Chino il capo e me ne vo.
Giacché piace a voi così,
Altre repliche non fo.
Cavalier voi siete già.
Dubitar non posso affé;
Me lo dice la bontà
Che volete aver per me.
(a Zerlina, a parte)
Bricconaccia, malandrina!
Fosti ognor la mia ruina!
(a Leporello, che lo vuol condur seco)
Vengo, vengo!
(a Zerlina)
Resta, resta.
È una cosa molto onesta!
Faccia il nostro cavaliere
Cavaliera ancora te.
Y Niente «fraschettacce», niente «nonne», e quanto più dolore nel constatare, da parte di Masetto, l’irrimediabilità della sua
condizione di servo, impotente a fermare il progetto erotico del
Don, perfino nel giorno delle sue nozze. Infine, l’incontro, l’ul-
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timo, tra don Giovanni e il Commendatore, venuto a prenderlo,
a dannarlo. Così Giovanni Bertati:
Don Giovanni
Siedi Commendator. Mai fin’ ad ora
Credere non potei, che dal profondo
Tornasser l’ombre ad apparir
nel mondo.
Se creduto l’avessi,
Troveresti altra cena,
Pure se di mangiar voglia ti senti,
Y Così Da Ponte:
La statua
Don Giovanni, a cenar teco
M’invitasti e son venuto!
Don Giovanni
Non l’avrei giammai creduto;
Ma farò quel che potrò.
Leporello, un’altra cena
Fa che subito si porti!
Leporello (facendo capolino di sotto alla tavola)
Ah padron! Siam tutti morti.
Don Giovanni (tirandolo fuori)
Vanne dico!
La statua (a Leporello che è in atto di parlare)
Ferma un po’!
Non si pasce di cibo mortale
Chi si pasce di cibo celeste;
Altre cure più gravi di queste,
Altra brama quaggiù mi guidò!
Leporello
(La terzana d’avere mi sembra
E le membra fermar più non so.)
Don Giovanni
Parla dunque! Che chiedi! Che vuoi?
La statua
Parlo; ascolta! Più tempo non ho!
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Mangia; che quel che c’è
t’offro di core;
E teco mangerò senza timore.
Commendatore
Di vil cibo non si pasce
Chi lasciò l’umana spoglia.
A te guidami altra voglia,
Ch’è diversa dal mangiar
Don Giovanni
Parla, parla, ascoltandoti sto.
La statua
Tu m’invitasti a cena,
Il tuo dover or sai.
Rispondimi: verrai
Tu a cenar meco?
Leporello (da lontano, sempre tremando)
Oibò;
Tempo non ha, scusate.
Don Giovanni
A torto di viltate
Tacciato mai sarò.
La statua
Risolvi!
Don Giovanni
Ho già risolto!
La statua
Verrai?
Leporello (a Don Giovanni)
Dite di no!
Don Giovanni
Ho fermo il cuore in petto:
Non ho timor: verrò!
Y In questa scena, il don Giovanni “mozartdapontiano” deve essere grande quanto il momento richiede: se Leporello trema, lui
si preoccupa di non venire accusato di «viltate». Ma le differenze non sono soltanto lessicali. «Pur coetaneo, il Don Giovanni di Da
Ponte-Mozart sembra appartenere ad un’altra cultura musicale e
letteraria», scrive Daniela Goldin Folena. Più tesa, inquieta, lontana dalle «regolari strofette, a ritmo altrettanto regolare, senza
sorprese nella dinamica e con le prevedibili piccole melodie dell’omonima operina di Bertati-Gazzaniga». La diversità, infatti,
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6. Gabriele Bella,
Il teatro di San Samuele,
Venezia,
Fondazione QueriniStampalia.
Gabriele Bella,
The San Samuele Theatre,
Venice, Fondazione
Querini-Stampalia.
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riguarda soprattutto la musica: «Certamente Gazzaniga non andò
oltre alle limitazioni e al linguaggio dell’opera buffa», riflette
Stephen Kunze, che al Don Giovanni veneziano ha dedicato un ampio studio. Ma la riflessione più esplicita sulle potenzialità del
soggetto appartiene allo stesso Mozart, che così racconta la prima
reazione all’idea: «Il mio cervello si infiamma, il soggetto si crea
davanti a me tutto intero. Io non sento una dopo l’altra tutte le
parti dell’orchestra, ma tutte insieme. Con quale gioia non posso
esprimerlo».
Y Anche la scelta della voce del protagonista è indicativa: il compositore veronese predilige la vocalità tenorile,
non gli offre quella possibilità di scendere nel grave, nel cupo, nel torbido
che non possiamo disgiungere dalla voce di basso del personaggio mozartiano.
Gazzaniga non guarda in faccia il demoniaco: se ne tiene lontano, graziosamente. E il finale è scritto in forma di
tarantella: scomparso don Giovanni,
precipitato nelle fiamme infernali, tutti gli altri personaggi ballano e invitano
a unirsi a loro. Nessuno si dichiara orfano degli eccessi perduti, e
la musica non ne evoca l’assenza. «Uno stile non più moderno»:
la sintesi di Da Ponte appare perfetta, ribadendo che ogni epoca
ha la propria idea di modernità. Ma nello stesso tempo è evidente, anche dai tre momenti citati, che la fonte principale del suo testo è proprio Bertati. Da Ponte, in quei mesi del 1787, aveva molta fretta e un Don Giovanni già “schiccherato” gli tornava comodo:
mentre lavorava per Mozart, stava infatti scrivendo altri due libretti, Axur, re di Ormuz per Antonio Salieri e L’arbore di Diana per
Martin y Soler. E riuscì a soddisfare tutti e tre i clienti.
Y A differenza del suo più celebre fratello minore (sia pure di
soli otto mesi), il “dramma giocoso” di Bertati-Gazzaniga è anche
un esplicito atto d’amore per la città che ne ospita la prima rappresentazione. In scena si brinda alla regalità dei patrizi veneziani: «Faccio un brindisi di gusto / a Venezia singolar. / Nei Signori il cor d’Augusto / si va proprio a ritrovar». Alla delizia delle
femmine: «Alle donne veneziane / questo brindisi or presento, /
che son piene di talento, / di bellezza e d’onestà. / Son tanto leggiadre / con quei zendaletti, / che solo a guardarle / vi muovon gli
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vicende di note (e di gonnelle) tra le due capitali
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7. Pietro Metastasio,
poeta cesareo, incisione,
Milano,
Civica raccolta delle
Stampe Achille Bertarelli.
Pietr Metastasio,
Caesarean poet, engraving,
Milan, Civica Raccolta
delle Stampe Achille
Bertarelli.
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affetti». I nobili, le donne, la città tutta: «Far devi un brindisi alla città, / che noi viaggiando di qua e di là, / abbiam trovato ch’è
la miglior». E la musica accompagna questo laico inno alla dolce
vita veneziana con quella galanteria cortese che ritroviamo in certi sguardi, in certi interni di Pietro Longhi, con l’aura festosa che
anima il gran passaggio sul Canalazzo nei dipinti, nei colori di
Canaletto. Le passioni di don Giovanni sono più ardenti e spietate; troppo, per avere diritto di cittadinanza in qualunque società urbana. Se a Venezia, i veri conti Falletti si mandavano alla forca, «sicché muoia» e il Don Giovanni di Gazzaniga e Bertati finisce
in un rassicurante brindisi, a Vienna – dove il “dramma giocoso”
di Mozart e Da Ponte debutta al Burgtheater il 5 maggio 1788, con
alcune modifiche dovute alle richieste dei cantanti e a nuove intuizioni degli autori – la ricezione non è favorevole.
Y «È universalmente noto l’insuccesso cui Mozart andò incontro
con queste opere presso il pubblico viennese; dopo le prime recite,
il Don Giovanni non fu più eseguito per quattro anni», scrive Gernot
Gruber in La fortuna di Mozart, il più documentato studio sulla ricezione della sua produzione, riferendosi al trittico composto sui libretti italiani di Lorenzo Da Ponte: Nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), Così fan tutte, che nel 1790 conclude la loro collaborazione.
«Cucina troppo condita», «musica non per tutti i palati», «ha
l’orecchio guasto»: sono questi i motivi ricorrenti delle critiche ai
suoi lavori, soprattutto cameristici e operistici. Ai viennesi Mozart
piace quando esegue le proprie musiche al pianoforte, quando improvvisa: «Non aveva rivali nel phantasieren», scrivono i contemporanei. Non quando pretende di andare oltre le convenzioni drammaturgiche ed espressive del tempo. Se perfino i musicisti di professione credono di vedere degli errori nelle più ardite invenzioni armoniche dei suoi quartetti, al pubblico dei teatri di corte piacciono
poco gli esperimenti che quel librettista e quel compositore portano avanti, con la decisiva complicità e sostegno di Giuseppe ii.
Y Era stato l’imperatore a permettere l’allestimento dell’opera tratta da Le mariage de Figaro, l’eversiva commedia di Beaumarchais, che la
censura austriaca aveva invece impedito di rappresentare a teatro in
lingua tedesca. Lui aveva agevolato la prima viennese del Don Giovanni
dopo il successo di Praga; lui stesso stimolerà la nascita dell’intreccio,
allora giudicato scandaloso, di Così fan tutte, dove due coppie di giovani amanti si tradiscono e si perdonano, senza drammi, governati nei
loro girotondi sentimentali dal timone di un filosofo cinico, don Alfonso, per il quale fedeltà, doveri coniugali, sacralità della famiglia
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sono gusci vuoti. Tre opere arditissime, per i tempi. Come interpretare il protagonismo anche intellettuale del servo Figaro, tanto più
inventivo e accattivante rispetto al personaggio del conte, ancora
contraddittorio verso il feudale ius primae noctis, da lui abolito però con
mille ripensamenti, e ossessionato da Susanna, promessa di Figaro e
bella cameriera della contessa, moglie molto tradita?
Y E mentre gli ambasciatori a Parigi iniziano a inviare preoccupati dispacci sulla
temperatura politica francese, doveva risuonare inaccettabile quell’invito che l’aristocratico don Giovanni, prima da solo
e a piena voce, poi assieme al coro dei
contadini, solennemente, rivolge alle tre
maschere che chiedono di essere ammesse
alla festa nel suo palazzo: «È aperto a tutti quanti – Viva la libertà». «Mozart ha
realizzato quanto gli imponeva lo spirito
demoniaco del proprio genio, dal quale
era posseduto», scrive Goethe a proposito di Don Giovanni, intuendone perfettamente le tinte nere e preromantiche. Se a
Praga la borghesia applaude a tali arditezze, come può la “classica” e devota nobiltà
viennese accogliere, approvare argomenti
così scabrosi? La morte di Giuseppe ii,
ne1 1790, significa per Mozart l’inizio del
periodo più disperato della propria esistenza privata e professionale; scomparso
il suo illuminato protettore, si risolleverà
soltanto negli ultimi mesi di vita, in quel
1791 segnato da una incredibile pulsione
creativa. Ma allora, per restare alle opere,
altri saranno i soggetti: La clemenza di Tito, dedicata all’incoronazione di
Leopoldo ii a re di Boemia, e Il flauto magico: un titolo “istituzionale”
in italiano e una favola filosofica destinata al più popolare teatro e
pubblico di Vienna. Due successi, alla fine di un percorso artistico
verso il quale la capitale dell’impero aveva manifestato brevi entusiasmi e assai più lunghi periodi di disinteresse, quando non di distacco.
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8. Jacopo Amigoni, Ritratto
di gruppo, Melbourne,
National Gallery of
Victoria; il primo
a sinistra è Pietro
Metastasio, al centro il
celebre castrato Carlo
Broschi
detto Farinelli.
Jacopo Amigoni, Portrait
group: The singer Farinelli
and friends, Melbourne,
National Gallery
of Victoria. The first
on the left is Metastasio;
in the middle, beside
Teresa Castellini is the
famous castrato Farinelli.
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on notes (and skirts) between the two capitals
two don giovannis
in the same year,
but so very different
music
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Sandro Cappelletto
Y Venice, February 5, 1787. Don Giovanni o sia il Convitato di pietra (literally, Don Giovanni or The Stone Guest) debuted at the Giustinian theatre at San Moisè, one of the many theatres in Venice to have
subsequently disappeared. The libretto was by Giovanni Bertati,
and the music by Giuseppe Gazzaniga (fig. 2), from Verona. Vienna, October 1, 1787. Wolfgang Amadeus Mozart (fig. 1), along with
his wife Costanze, left the city where he had been residing for six
years and set off for Prague. He took with him the finished libretto and the as-yet unfinished score for a “playful drama” written for
him by Lorenzo Da Ponte, with whom he had started collaborating
with The Marriage of Figaro (fig. 3) the year before in Vienna. This new
opera went on stage at the Nationaltheater in Prague on October
28, with exactly the same theme: Il dissoluto punito o sia il Don Giovanni
(fig. 4, literally The Rake Punished, or Don Giovanni). Venice-Vienna, a
rather commonplace musical itinerary in the second half of the
18th century. A two-way journey, of ideas and people, where giving
and receiving formed a mobile, living equilibrium. And one language prevailed above all others: Italian, used for opera for a century already, was the international language used for melodrama.
Italian was used for singing from St Petersburg to Lisbon, but also
from Palermo to Turin, prefiguring a national identity that had yet
to become concrete reality. And those two Don Giovannis, one in
Venice and the other in Vienna, not only speak the same language,
but have almost the same words.
Y Three of the four creators of the two operas – and is the second plagiarism, a generous borrowing, or a very clever rewriting?
– were or had been habitual guests in Venice and its theatrical system. And they were from the Veneto, and in different periods in
their professional life they spent quite some time in Vienna. The
fourth, Mozart, had come to Venice only once, in February and
March 1771, just in time to be fascinated by the closing days of the
Carnival. Leopold and Wolfgang, father and son, stayed at San
Fantin, in an apartment near the Ponte dei Barcaroli or del
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9. Nathaniel Rogers,
Ritratto di Lorenzo Da Ponte,
Vittorio Veneto,
Museo del Cenedese.
Nathaniel Rogers,
Portrait of Lorenzo Da Ponte,
Vittorio Veneto,
Museo del Cenedese.
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Cuoridoro, which links Calle del Frutariol and the Frezzaria. In
other words, they were a stone’s throw from important theatres
like the San Benedetto, the San Moisè, the Ridotto Nuovo (fig. 5)
with its gambling facilities, the Fenice (which had yet to be built)
and the San Samuele (fig. 6), where Goldoni debuted in 1655.
They were the guests of Johannes Wider (one of Mozart’s father’s
acquaintances, who had a silk shop in Marzaria) and his Venetian
wife, Venturina. Venturina had 19 children in all – all seven boys
had died early, and the surviving six girls were aged between 28
and 5. The six girls and the mother (who had not turned fifty yet)
welcomed the young Mozart with affection, cordiality and affability. Mozart called these seven women the “Wider pearls”. In that
four-week stay in Venice, he discovered masks, transvestism, feasts
and balls. Not to mention eroticism, which would be rather unsurprising for a boy who has just turned fifteen.
Y From a letter (or, more precisely, from a post script to a letter
his father sent to his mother) to his sister Nannerl, who had remained in Salzburg, we know that Wolfgang also discovered a game,
a ritual, that he says is typically Venetian: his Salzburg friends have
to come to Venice “to play attacca, i.e. be forced to fall flat on your
bum, if you want to be a real Venetian; all seven [of the Wider
pearls] tried, but they couldn’t do it”. When the 15-year-old
Mozart was in Venice, Giuseppe Gazzaniga was twenty-eight. He
was born in Verona in 1743, and came to Venice when he was very
young to study under Niccolò Porpora. He followed him when the
maestro returned to Naples, which at that time was another capital
of musical production and consumption, another habitual port of
call for Venetian musicians. For Naples’ Teatro Nuovo, Gazzaniga
composed Il barone di Trocchia, his first intermezzo. From Naples to
Vienna, where he debuted in the opera buffa genre with his Il finto
cieco (libretto by Da Ponte) for the court theatre. And from Vienna
he returned to Venice, where, in 1772, he composed his first serious opera, Ezio, with a libretto by Pietro Metastasio, who had been
living in Vienna for almost 50 years as “Caesarean poet” (figs. 7,
8). Intermezzos, opera buffa and serious works: versatility, speed
and readiness to conform to the different theatrical genres that
were prevalent at the time. Gazzaniga, who had not yet turned 30,
was already in the full swing of his professional activity, which would
take him from theatre to theatre – Milan, Novara, Reggio Emilia,
Venice once more, Vienna yet again, Munich and Dresden until, in
1791, he opted for the cathedral in Crema, where he was chapel
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master. And he stayed in Crema until his death in 1818. The libretto for the Venetian Don Giovanni was by Giovanni Bertati. He
was born 42 years earlier in Martellago, then studied at the Treviso seminary thanks to Antonio Grimani’s patronage. He made his
debut while still young, and wrote opere buffe above all. Graceful,
with a taste for the vivacity of rhyme and an ability to alternate
comedy and pathos. Appreciated by Baldassare Galuppi, Giovanni Paisiello, Antonio Salieri. In 1790, he was nominated “Caesarean poet” (as had Metastasio before him) and wrote the
libretto for Domenico Cimarosa’s Il matrimonio segreto,
which was such a triumphal success on opening night
in Vienna that it was encored from beginning to
end. Something that would never happen again.
Bertati then returned to Venice, writing fewer libretti (though he would eventually tally about 70
that we know of) and no longer travelling. He
found a job at the Arsenale as an archivist for the
Navy, which at that time was no longer Venetian
but Austrian. He managed to see the rise and fall
of Napoleon, was barely moved by new Romantic
passions, and died in 1815 at the age of 80.
Y Emanuele da Conegliano (fig. 9) was born in
Ceneda (now Vittorio Veneto) on March 10, 1749.
Born to a Jewish family, he converted to Catholicism and
took the name of the bishop of Ceneda (Lorenzo Da Ponte) on
being baptised. He studied at the Portogruaro seminary, where he
received his minor orders. He taught rhetoric, wrote poetry and
moved to Venice, where he above all admired Casanova’s feats. He
was forced to leave the city, went to Treviso, whence he was banished for having written L’uomo per natura libero (lit. tr. “Man is free
by nature”), a little tract inspired by the new ideas of Jean-Jacques
Rousseau. He returned to Venice, then moved to Gorizia and
Dresden, where he began to frequent theatrical and musical circles. He then moved to Vienna in 1781, the same year Mozart decided to leave Salzburg, his native city, and the court of the archbishop who had up to then paid his very generous stipend, to try
his luck as a freelance composer.
Y The emperor Joseph ii, fascinated by his enterprise and versatility, nominated Da Ponte “poet of the imperial theatres”, after
which Da Ponte wrote the first of a series of libretti – Il ricco di un
giorno, with music by Antonio Salieri, who was also from the Vene-
music
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10. Antonio Salieri,
Kappellmeister di corte a Vienna,
in un ritratto anonimo.
Antonio Salieri, Court
Kappellmeister in Vienna, an
anonymous portrait.
11. Vincenzo Camuccini,
Ritratto di Gioachino Rossini,
Milano, Museo teatrale
alla Scala.
Vincenzo Camuccini,
Portrait of Gioachino Rossini,
Milan, Museo Teatrate
alla Scala.
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to (b. Legnago, 1750) and was considered the greatest musical authority in Vienna (fig. 10). Then, after the three libretti written
for Mozart (Le nozze di Figaro, Dion Giovanni and Così fan tutte) and the
death of his imperial protector, there were more moves, further
migrations and even greater enterprise. Trieste, London, and finally New York: libretto writer, grocer, wholesaler of medicinal
products, Italian teacher and impresario. And he had Don Giovanni
performed in New York in 1825 – obviously his own, their own
version. In 1833, he inaugurated a new opera theatre with a performance of Rossini’s La gazza ladra (fig. 11). He died at the age of
89, in 1838, leaving behind many regrets.
Y Da Ponte knew Gazzaniga and Bertati very well. In Vienna, he
had written the libretto for Il finto cieco for the musician. He defined
him a “composer of some merit, but a style that is no longer modern”, and had the following to say about their first professional
meeting: “To speed things up I chose a French comedy entitled
L’aveugle clairvoyant, and I fashioned a drama in a few days, which was
much liked, both for the words and the music. A little passion for
a 50-year-old woman, which disturbed the mind of that good man,
stopped him from finishing the opera by the established deadline”.
Fifty must certainly have seemed too old for the librettist, who in
the Leporello aria decides that the “predominant passion” of his
libertine knight is the “young ingenue”. A passion shared by the
author if we are to believe his Memorie, written in the first person
and point of view that seems to promote himself as the deus ex machina of the European musical world of the times. Everything revolved
around him, everything came about because of his ideas and relations, and his talent. He was as vain as he was inspired.
Y And naturally Da Ponte maintained that he had inspired
Mozart, that he had chosen the theme and developed it in full
freedom, thus moving away from Bertati’s libretto – a sort of a priori self-defence, should anyone accuse him of plagiarism. After
their respective Don Giovannis, the two met again in Vienna (fig. 12),
where Da Ponte had returned, coming from Trieste, for a short
stay of a few weeks. Bertati accepted the position of “Caesarean
poet”, while Da Ponte no longer had an official position and was
looking for new commissions. This is what he wrote to a colleague:
“I knew his operas, but not him. He had written an infinite number of operas and, having written so many, had somewhat learned
the art of producing theatrical effect. But, alas!, he was not born
a poet nor did he know Italian. Consequently, his operas could be
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suffered on stage but not read...” He then goes on: “After having
spent another ten minutes with him and thoroughly understood
that the lord poet Bertati is nothing other
than a hot-air balloon, I took my leave and
went straight to the caretaker of the loggias.
I was as surprised as pleased to see that the libretti for nine of my operas had all been
sold...” Da Ponte sold, Bertati didn’t.
Bertati was official court poet, while the abbot Lorenzo is part of the market and can
not be nice about his competitors. Might
they also have spoken about their respective
Don Giovannis?
Y But let’s go back to the evening of February 5, 1787. Venice had remained indifferent, therefore, to Don Giovanni’s passions
for adventure, a theatrical and musical event
that swept through Europe like a violent
wave. It was 1630 when, in Barcelona, the
Spanish monk Tirso de Molina anonymously published the play El burlador de Sevilla y convidado de piedra. For the first time the narrative
myth and character that had for a long time
been part of popular literature coalesced into a fully-fledged literary form that animated
the performances of the commedia dell’arte
performers. It was the official literary debut
of Don Juan Tenorio, a libertine and cynic,
who derives great pleasure from breaking
every moral principal. He will be punished,
obviously, engulfed in infernal flame: the
wicked can never escape eternal condemnation. But what vitality, what enjoyment, before the edifying moral conclusion!
Y The plot was to engender an infinite
number of children, all more or less similar
to their father. Such is the destiny of myths – they are forced to deal
with all sorts of metamorphoses without ever losing their nature.
Musical and literary authors who worked on Don Giovanni included Giacinto Andrea Cicognini, Jean-Baptiste Poquelin better
known as Molière, Thomas Corneille, Thomas Shadwell and Hen-
music
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ry Purcell. In 1669, at Palazzo Colonna in Borgo in Rome, a
stone’s throw from St Peter’s, the heart of Christianity, it was the
composer Alessandro Melani, with a libretto by Giovanni Filippo
Apolloni, who put on a “musical drama” loosely based on Tirso de
Molina’s play, the first of its kind in Italy. In 1734, a commedia
dell’arte company under the leadership of Eustachio Bambini
staged La pravità castigata in Brno; two years later, the subject arrived
in Venice in the form of Don Giovanni Tenorio o il Dissoluto, written by
Goldoni for the Teatro Grimani. In 1761, in Vienna, Christoph
Willibald Gluck, with choreography by Gaspare Angiolini, transformed Molière’s play into a “pantomime ballet”: Don Juan ou Le festin de pierre. There were even more performances in the following
two years: Vincenzo Righini in Prague; Giacomo Tritto in Naples;
Gioacchino Albertini in Warsaw; Vincenzo Fabrizi in Rome. And
on the evening of February 5, 1787, as the curtain went up on Gazzaniga’s “playful drama” at San Moisè, Francesco Gardi was putting
on a “tragicomic drama” at the San Samuele theatre, a play inspired
by Bertati’s libretto, though imbued with a sense of farce. This was
Venice: two premieres on the same night, at two different theatres.
Y The story, obviously, was a favourite. And a possible explanation
is that there had been a real Don Giovanni in Venice, and he had
made many a tongue wag. Or at least this is a well-documented hypothesis put forward by Paolo Cattelan in his book on the period
Mozart spent in Venice and Padua (Mozart – un mese a Venezia, Venice
2000). In the mid 18th century, in the heart of the city, a person
whose libertinage fits perfectly with the character of Don Giovanni
actually lived, sinned and was condemned in Venice. During the
Carnival of 1751, there was the scandalous case of Francesco Falletti
di Castelman, a count from Piedmont (or so he introduced himself)
who rented a house at the Ponte dei Barcaroli in Rio San Fantin (the
same house Mozart would stay in 20 years later). The count lived
with “Rosa Romana”, whose real name was Antonia Fontana. They
were constantly bickering and making up again. He was given to excess, as is clear in the sentence of the Supreme Tribunal of the State
Inquisitors and Punishers of Blasphemy.
Y “Blasphemous, a libertine, hidden beneath the cloak of noble
condition and character: impenitent and unpunished, he has never thought of reforming himself in any way... far from fearing correction”, writes Cattelan, citing the Venetian tribunal. On January
7, 1751 MV (“More Veneto”, which corresponds to 1752), the same
tribunal banished the count. “Francesco Falletti, a native of Pied-
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12. Carl Schütz,
La cattedrale di Santo Stefano
a Vienna, in un’incisione
del 1792: Mozart vi si
sposò e, a dicembre 1791,
vi ebbe il funerale.
Carl Schütz, St Stephen’s
Cathedral, Vienna, in an
engraving of 1792.
This is the cathedral
Mozart was married in,
and where his funeral was
held in December, 1791.
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mont, also known as Count di Castelman, usually resident at the
Ponte dei Barcaroli in Contrada di San Fantin, absent, but legitimately cited, charged with, coming from an alien state, hiding the
baseness of his birth, and would in fact fob himself off as Person of
character and noble condition; and leading, what is more, an obscene, libertine and contemptible life. Running his home as an
open brothel, continually putting up there within several Eligible
women, making use of portraits of these Same women for his sustenance, without any reservations whatsoever in making use of their
fortune, in committing all sort of foul offence and dishonesty,
even in public view... without manifesting any profession or exercise of the Catholic Christian Religion... May he be banished from
this city of Venice, and its Dogado, and from all other cities;
should he be caught there within,
he shall be led back in to the city
and at the usual hour between the
two columns of St Mark, upon a
firm gallows, he shall by the Minister of Justice be hanged by the
neck until he be dead”.
Y The fake count was to be put
to death, just as the real Marquis
de Sad was detained in the Charenton asylum: our mind automatically goes from the “count”
to Justine or The 120 Days of Sodom.
Both Gentlemen enjoyed “committing all sort of foul offence
and dishonesty” with “Eligible
women”, i.e. young girls. On the
stages of Europe in those years,
thousands of Don Giovannis were
put to death for their passion for
adolescent girls and young married women, for their derision of the principles of the “Catholic
Christian Religion” and the bonds of affection and family. Who
knows if, during his sojourn in Venice, the young Mozart heard
stories, perhaps from the lips of the “seven pearls”, about the feats
and exploits of the “count di Castelman”, a “neighbour” to some
music
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extent. And how can we exclude that Da Ponte heard the same stories when, little more than two years after Mozart’s stay in Venice,
he also arrived in the city, from which he would soon be banned
for having committed adultery and fathered three children? From
the life of Falletti to the libretto by Da Ponte and from these words
to the music of Mozart?
Y The demonic aspect is certainly present in Mozart’s score: from
the opening chords of the overture to the haughty force with which
the protagonist, after having got over his confusion, or even his
fear, at the unexpected sight of the statue of the Commendatore,
regains supreme command of himself: “Leporello another dinner
make that soon he be gone”. A nonetheless splendid host, or paron
de casa. And it is this looking into the abyss, this splendorous dissolution, this relentless excess that marks the clear distinction between our two Don Giovannis. There are quite a few metamorphoses
that the characters undergo in Bertati’s and Da Ponte’s works. Don
Giovanni, Donna Elvira, Donna Anna (figs. 13, 14, 15) and her
betrothed, Duke Ottavio, all have the same names. Just as their
dramatic function is the same: two women who are challenged,
abandoned and betrayed by the libertine, and Donna Anna’s uncertain, overly loving, inconsequential, and by no means seductive
suitor. Biagio and Maturina have, in Da Ponte’s version, become
Masetto and Zerlina: the difference is significant, and the rustic
couple therefore appear younger, keener, more desirable. Biagio
implies caution; Masetto most certainly does not.
Y Bertati introduces a fourth female character, the noblewoman Donna Ximena, an obvious referencing of the original
Spanish setting; Da Ponte does not. Pasquariello becomes Leporello, and maintains his role as servant (fig. 16). Lanterna,
Don Giovanni’s chamber maid, disappears. Names are changed,
and characters are dropped. But above all, it is the words, the
meaning and the force of the poetry that is transformed. This is
Pasquariello in the “Catalogue Aria”:
Dell’Italia, ed Alemagna
Ve n’ho scritte cento, e tante.
Della Francia, e della Spagna
Ve ne sono non so quante:
Fra madame, cittadine,
Cameriere, cuoche e sguattere;
Perché basta che sian femmine
Per doverle amoreggiar.
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Vi dirò ch’è un uomo tale,
Se attendesse alle promesse,
Che il marito universale
Un dì avrebbe a diventar.
Vi dirò ch’egli ama tutte
Che sian belle, che sian brutte:
Delle vecchie solamente
Non si sente ad infiammar.
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And this is Leporello:
Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
Un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
Nella bionda egli ha l’usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
Vuol d’estate la magrotta;
È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca - se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.
music
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Y The invention of the numbers, the dilating of the sequence of
places, ages, images, perversions, the wealth of metrical echoes
and rhymes. A list, nothing other than a list, but how much more
pressing (and agonising for Donna Elvira as she listens) in the version created by Da Ponte. The country feast for the marriage of
Biagio and Maturina is interrupted by the arrival of Pasquariello
and Don Giovanni, who is instantly attracted by the young
woman’s beauty. To woo her, he has to get rid of Biagio: he slaps
him, he threatens him and, without any rights, all he can do is rue
his station in life and curse her for betraying him.
A me schiaffi sul mio viso!
A me far un tal affronto!...
(to Maturina)
Ma gli schiaffi non li conto,
Quanto conto, fraschettaccia,
Che tu stai con quella faccia,
A vedermi maltrattar.
(to Don Giovanni)
Ma aspettate. Ma lasciate.
Ch’io mi possa almen sfogar.
Da tua madre, da tua zia,
Da tua nonna adesso io vado,
Vo’ da tutto il parentado
La faccenda a raccontar.
Y The same situation is experienced as follows by Masetto:
Ho capito, signor sì!
Chino il capo e me ne vo.
Giacché piace a voi così,
Altre repliche non fo.
Cavalier voi siete già.
Dubitar non posso affé;
Me lo dice la bontà
Che volete aver per me.
(to Zerlina, apart)
Bricconaccia, malandrina!
Fosti ognor la mia ruina!
(to Leporello, who wants to knock him down)
Vengo, vengo!
(to Zerlina)
Resta, resta.
È una cosa molto onesta!
Faccia il nostro cavaliere
Cavaliera ancora te.
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13. Ruggero Raimondi,
il celebre Don Giovanni
nell’omonimo film
di Joseph Losey (1979).
Ruggero Raimondi,
the famous Don Giovanni
in Joseph Losey’s film
of the same name (1979).
14. Kiri Te Kanawa,
la Donna Elvira di Losey.
Kiri Te Kanawa, Losey’s
Donna Elvira.
15. Per Donna Anna, Losey
sceglie Edda Moser.
Losey chose Edda Moser
for the role of Donna
Anna.
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Y No “fraschettacce”, no “nonne”, and how much more pain in
Masetto’s realisation of the irremediable nature of his station in
life, his inability to thwart Don Giovanni’s erotic plans on the very
day of his wedding. Finally, the last meeting between Don Giovanni and the Commendatore, who has come to take and damn
him. Giovanni Bertati’s version:
Don Giovanni
Siedi Commendator. Mai fin’ ad ora
Credere non potei, che dal profondo
Tornasser l’ombre ad apparir
nel mondo.
Se creduto l’avessi,
Troveresti altra cena,
Pure se di mangiar voglia ti senti,
Mangia; che quel che c’è t’offro
di core;
E teco mangerò senza timore.
Commendatore
Di vil cibo non si pasce
Chi lasciò l’umana spoglia.
A te guidami altra voglia,
Ch’è diversa dal mangiar.
Y Da Ponte:
The statue
Don Giovanni, a cenar teco
M’invitasti e son venuto!
Don Giovanni
Non l’avrei giammai creduto;
Ma farò quel che potrò.
Leporello, un’altra cena
Fa che subito si porti!
Leporello (appearing from under the table)
Ah padron! Siam tutti morti.
Don Giovanni (dragging him out)
Vanne dico!
The statue (to Leporello, who is speaking)
Ferma un po’!
Non si pasce di cibo mortale
Chi si pasce di cibo celeste;
Altre cure più gravi di queste,
Altra brama quaggiù mi guidò!
Leporello
(La terzana d’avere mi sembra
E le membra fermar più non so.)
Don Giovanni
Parla, parla, ascoltandoti sto.
The statue
Tu m’invitasti a cena,
Il tuo dover or sai.
Rispondimi: verrai
Tu a cenar meco?
Leporello (from afar, still trembling)
Oibò;
Tempo non ha, scusate.
Don Giovanni
A torto di viltate
Tacciato mai sarò.
The statue
Risolvi!
Don Giovanni
Ho già risolto!
The statue
Verrai?
Leporello (to Don Giovanni)
Dite di no!
Don Giovanni
Parla dunque! Che chiedi! Che Don Giovanni
vuoi?
Ho fermo il cuore in petto:
Non ho timor: verrò!
The statue
Parlo; ascolta! Più tempo non ho!
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Y In this scene, the Mozart-DaPontian Don Giovanni must be as
grand as is required by the moment at hand: if Leporello is trembling, he is worried about being accused of “viltate”, or cowardice.
But the differences are not merely lexical. “Even though he is co-
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eval, Da Ponte-Mozart’s Don Giovanni seems to belong to another
musical and literary culture”, writes Daniela Goldin Folena. It is
more tense and more restless that Bertati-Gazzaniga’s opera of the
same name, eschewing its “regular little stanzas, [...] equally
regular rhythm, unsurprising dynamics and predictable little
melodies”. The differences, however, are mainly in the music: “Certainly, Gazzaniga didn’t go beyond the limits and
language of opera buffa”, reflects Stephen Kunze, who has
published an exhaustive work on the Venetian Don Giovanni.
But the most explicit reflection on the potentiality of the
subject is Mozart’s, who has the following to say about his
first reaction to the idea: “My brain is afire; the subject
comes to life before me all in one fell swoop. I do not hear
the different parts of the orchestra separately, but all together. I can not say with what joy”.
Y The choice of the protagonist’s voice is equally indicative:
Gazzaniga opted for a tenor, which does not allow him to
plumb sombre, dark or murky depths, all of which are explored with the bass voice chosen by Mozart for his Don Giovanni. Gazzaniga refuses to look the demonic in the eye, graciously keeping his distance. And the finale is written in the
form of a tarantella: when Don Giovanni descends into the
flames of hell, all the characters dance and invite everyone
else to join them. No one declares they miss the lost excess;
the music refuses to evoke its essence. “A style that is no
longer modern”: Da Ponte’s pithy point can not be faulted,
underlining as it does that each era has its own idea of
modernity. But at the same time it is obvious, even from the
three moments cited, that the main source for his text is
Bertati. Da Ponte, in those months of 1787, was very much in
a hurry, and an off-the-peg Don Giovanni suited him to the ground:
while he was working for Mozart, he was also writing another two
libretti, Axur, re di Ormuz for Antonio Salieri, and L’arbore di Diana for
Martin y Soler. He made all three clients very happy.
Y Unlike his more famous younger sibling (barely eight months
younger, in fact), Bertati-Gazzaniga’s “playful drama” is also a
declaration of love for the city that premiered the opera. The regality of the Venetian patriciate is toasted on stage: “Faccio un
brindisi di gusto / a Venezia singolar. / Nei Signori il cor d’Augusto / si va proprio a ritrovar”. To the delights of Venetian
women: “Alle donne veneziane / questo brindisi or presento, /
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che son piene di talento, / di bellezza e d’onestà. / Son tanto leggiadre / con quei zendaletti, / che solo a guardarle / vi muovon gli
affetti”. To the nobility, women, the entire city: “Far devi un
brindisi alla città, / che noi viaggiando di qua e di là, / abbiam
trovato ch’è la miglior”. And the music accompanies this lay hymn
to the Venetian dolce vita with a chivalry that can be gleaned in the
glances, Pietro Longhi’s interiors and the festive aura that enlivens
the passage through the Canalazzo in the paintings and colours of
Canaletto. Don Giovanni’s passions are more insatiable and ruthless; too much so to be openly welcome in urban society. If in
Venice the real Fallettis were sent to the gallows “that they may die”
and Gazzaniga-Bertati’s Don Giovanni ends on a reassuring toast, in
Vienna (where Mozart and Da Ponte’s “playful drama” debuted at
the Burgtheater on May 5, 1788, with a few changes following requests from the singers and new insights from the authors) the reception is not favourable.
Y “It is universally known that Mozart did not find the favour of
success in Venice with these operas; after the first few performances, Don Giovanni was no longer performed for four years”, according to Gernot Gruber in his La fortuna di Mozart, the most exhaustive study of the reception of his production, and in this case
referring to the triptych based on Lorenzo Da Ponte’s Italian libretti: The Marriage of Figaro (1786), Don Giovanni (1787), and Così fan
tutte, which sanctioned the end of their collaboration in 1790. His
chamber and opera works were repeatedly critically referred to as
“overly spiced food”, “music which is not for all tastes” and “there
is something wrong with his ear”. Vienna loved Mozart when he
played his own music at the piano, when he improvised: “He had
no rivals in phantasieren”, wrote his contemporaries. But not when
he demanded to go beyond the dramatic and expressive conventions of the times. If even professional musicians thought they saw
mistakes in the bolder harmonic inventions of his quartets, the
people who flocked to the court theatres did not much care for the
experiments that the librettist and composer were undertaking,
with Joseph ii’s decisive complicity and support.
Y It was the emperor, after all, who had allowed the production
of the opera based on Beaumarchais’ subversive play, which Austria’s censors had refused to allow onto the stages in German. He
had facilitated Don Giovanni’s premiere in Vienna after its successful stint in Prague; he himself had encouraged the genesis of the
story, which was then considered scandalous, of Così fan tutte, where
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16. Giacomo Casanova,
Autografo con l’Aria di Leporello,
aggiunto al libretto
di Da Ponte
per il Don Giovanni
di Mozart, Praga,
Státni Archiv.
Giacomo Casanova,
Autograph with Leporello’s Aria,
added to the libretto
by Da Ponte for Mozart’s
Don Giovanni, Prague,
Státni Archiv.
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two pairs of young lovers betray then forgive each other, without
any drama, governed in their sentimental musical chairs by a cynical philosopher, Don Alfonso, for whom fidelity, conjugal duty
and the sacrality of the family are empty husks. These were three
very bold works for that period. How to interpret the desire to be
the centre of attention demonstrated by the servant Figaro, who is
much more inventive and enchanting than the Count, who is still
in two minds about the feudal ius primae noctis he had abolished after endless second thoughts, and who is obsessed with
Susanna, the beautiful chambermaid who, betrothed
to Figaro, works for the much-betrayed Countess.
Y And, as the ambassadors to Paris were beginning
to send worried despatches regarding the political climate in France, the aristocrat Don Giovanni’s solemn
invitation, delivered at first when he is alone and in
full voice then along with the chorus of peasants, to
the three masked men who ask to be allowed into his
party, must have sounded appalling: “È aperto a tutti
quanti – Viva la libertà” (lit. “It is open to all – Long
live liberty!”). “Mozart realised what had been imposed by the demonic spirit of his own genius, by
which he was possessed”, wrote Goethe when talking
about Don Giovanni, perfectly intuiting its dark, pre-Romantic
hues. If Prague’s bourgeoisie applauded this daring, how could
the “classical” and devoted nobility of Vienna welcome or approve
these scandalous themes? The death of Joseph ii in 1790 ushered
in, for Mozart, the most desperate phase of his private and professional existence. Following the loss of his most enlightened patron, he would not bounce back until 1791, that is virtually the final, and most incredibly productive, months of his life. But his
operas in that phase dealt with very different themes: La clemenza di
Tito, dedicated to Leopold ii when he was crowned king of Bohemia, and The Magic Flute, which were, respectively, an “institutional” work in Italian and a philosophical fable for the more
popular theatres and general public in Vienna. These were both
successful, and came at the end of an artistic career that the capital of the empire had, on brief occasions, embraced with enthusiasm, and on other, decidedly longer, occasions looked on with indifference if not outright aloofness.
music
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1. Giovanni Antonio
Canal detto Canaletto,
Capriccio con i cavalli
della Basilica di San Marco posti
sulla piazzetta, Windsor
Castle, Royal Collection;
potrebbe aver ispirato
Antonio Canova
per un progetto
di ripristino della quadriga
dopo il rientro da Parigi.
Giovanni Antonio Canal,
known as Canaletto,
Capriccio with The Horses
of St Mark’s Basilica,
Windsor Castle,
Royal Collection.
This might have inspired
Canova’s project for a
restoration of the
quadriga on its return
from Paris.
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sotto la dominazione austriaca esiste già una “banda del buco”
«vendere a ogni costo»:
spariscono 5000 dipinti,
ma tornano cavalli e leone
Rosella Lauber
Y Che cosa sarebbe successo se, per il rifiuto della giuria del Salon parigino, fossero stati ridotti in stracci, o in legna, quadri di
Cézanne, Pissarro e Courbet, o dipinti quali la Ragazza in bianco di
Whistler, o Le déjeuner sur l’herbe di Manet? Fortunatamente, quando
nel 1863, a Parigi, la commissione esclude 3.000 opere su 5.000,
Napoleone iii ordina di aprire il Salon des Refusés; qui, fra l’ammirazione di Zola e le critiche ilari del pubblico, si creano le premesse per la prima mostra dell’impressionismo del 1874, dove
Monet espone il suo Impression, soleil levant, che segna una svolta epocale. Invece, eventi tali da condurre alla distruzione di migliaia di
«dipinti rifiutati», convertiti in pura tela, o in legname «da fuoco», sono testimoniati a Venezia alcuni decenni prima, sotto la
seconda dominazione austriaca, e in particolare nel 1821. Una vicenda significativa, che ricostruiamo anche attraverso documenti
e nuovi riscontri archivistici appena rintracciati.
Y Nessun Salon des Refusés è sollecitato fra le lagune da Francesco i
d’Austria (fig. 2) per oltre 3.000 quadri valutati di «assoluto
scarto» da una commissione che vaglia circa 5.000 opere, concentrate da Venezia e dal Veneto e incamerate dal Demanio dopo
le soppressioni napoleoniche. La speciale giuria è riunita su istanza del presidente dell’Accademia di Belle Arti, Leopoldo Cicognara (fig. 3), ed è composta dai pittori e professori «Liberal
Cozza, Lattanzio Querena, Antonio [sic] Borsato», diretti dal segretario Antonio Diedo, architetto. Dal 29 maggio al 18 luglio
1817 vengono esaminate le opere, il cui destino è già stabilito dai
decreti governativi del 21 marzo e del 29 aprile 1817, con cui si
prevede «di alienare mediante pubblica asta» i dipinti demaniali
di «assoluto scarto» e anzi «di lavarli tutti per poi venderli, anche col riflesso che dalla vendita di quelli quadri come tele si potrà forse ottenere un ugual vantaggio che dalla loro vendita come
pitture»; si ritiene inoltre «conveniente di ricercare prima il voto» del presidente dell’Accademia, in quanto l’argomento «oltre
l’interesse del Demanio riguarda anche la vista d’impedire il dete-
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sotto la dominazione austriaca esiste già una “banda del buco”
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2. Antonio Canova,
Busto di Francesco I d’Austria,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Antonio Canova,
Bust of Francis I of Austria,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
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rioramento delle Belle Arti». Oltre a 200 quadri demaniali
«meritevoli» di conservazione, selezionati in precedenza dal professore Baldissini e di cui si approva il trasporto a Sant’Apollinare «per poi disporli in uso pubblico o privato», si salvano 500
opere giudicate «degne» dalla commissione;
l’alienazione «col massimo vantaggio» attende invece «la massa degli scarti […] pressoché
infinita». I dipinti di «scelta riserva» si distinguono in tre categorie: quadri per l’Accademia (i rari di «antico penello»); da destinarsi alle chiese (grandi e medi, ben conservati, di «buon penello» e qualità); da vendere (grandi e piccoli, «di buon penello, di lodevole maniera» e se restaurati riconducibili
a superiore pregio, per trovare «un più felice ed utile esito nel commercio, aspirando il
dilettante e speculatore»). Il 18 maggio 1817,
previo parere accademico e per evitare il «rischio d’infettare il commercio di cattive pitture a disonore dell’arte pittorica», si delibera di lavare i dipinti scartati, «per poi verificarne l’asta come tela», con il «possibile
maggiore interesse dell’Erario».
Y Invece del lavaggio delle tele, «lavoro immenso e dispendioso», sarà approvato infine, come «il più conveniente», un «progetto di distruzione della pittura delli quadri di scarto, e vendita
delle tele e legname», presentato dall’economo Antonio Pasquali
il 9 agosto 1817. Prevede «la contorciatura del dipinto, cancellatura del figurato con una liscia ben forte, e densa mesta [...], o
spezzatura del dipinto nel luogo che più lo deformi. Ognuno di
questi espedienti da usarsi secondo la qualità del dipinto, staccato
prima dal telaio o soaza, viene a distruggere la pittura, e conserva
in miglior preggio la tela», asciutta, e dalla quale è ricavabile un
profitto, cui si aggiunge «l’altra utilità ritraibile dal legname. In
quanto al quadro in legno si distruggerà il figurato e dipinto spezzandolo, riducendolo ad uso di legna da fuoco». Pasquali dettaglia la procedura: «Prima separare il legname tutto dalla tela» e
«cancellare poi in quella tela qualunque rilevante segnale di Pittura nelle maniere sopra espresse, e distruggere finalmente il quadro in legno riducendolo a pezzi da fuoco». L’economo propone: «Questa Superiorità avrà la compiacenza di decidere se della
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3. Francesco Hayez, Ritratto
della famiglia Cicognara, con il
busto colossale di Antonio
Canova, Venezia, collezione
privata. Leopoldo
Cicognara è seduto
accanto alla seconda
moglie, Lucia Fantinati, e
al figlio di lei Francesco.
Francesco Hayez, Portrait of
the Cicognara Family, with large
bust of Antonio Canova,
Venice, private collection.
Leopoldo Cicognara is
seated next to his second
wife, Lucia Fantinati, and
her son Francesco.
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massa di quadri di scarto sarà da tenersi un elenco soltanto numerico, o distintivo colle corporazioni e marche, operazione da
eseguirsi all’atto di separare il legname dalla tela». Le autorità appoggiano «l’esecuzione del piano», ma rispondono che «si crede inutile poi il tenere un elenco dei quadri da distruggersi».
Inoltre, si vieta la vendita a privati delle opere scartate, non consentendone la “ridipintura” «ad altro uso», quali addobbi per le
camere, difficilmente sorvegliabile, affinché «non se ne spargesse in commercio».
Y Il governo conferma l’asta pubblica, successiva alla «distruzione» di ogni segno figurativo nelle opere «di nessun valore di penello», da trasformare in stoffa e in ciocchi di legno. Il 22 novembre 1817, Pasquali presenta il capitolato d’asta in nove punti,
dove informa che «tela e legname sono ostensibili agl’aspiranti
nel locale già Scuola di San Giovanni Evangelista», e la trattativa
si aprirà dopo «perizia del valore degli effetti». Il 10 gennaio
1818, la stima indica «che si potrebbe aprire l’asta al valore di lire mille e duecento», anche se l’ingegnere e l’economo incaricati confessano che la «non perfetta cognizione [...] sopra tali generi potrebbe forse aver preso qualche equivoco».
Y Nell’ex Scuola di San Giovanni Evangelista, l’asta è bandita il
29 novembre 1821. Nel frattempo, in esecuzione all’atto del 26
maggio 1820, si staccano dalle pareti «quadri di scelto penello e ricordanti fatti patri», cioè i dipinti di Bellini, Mansueti, Carpaccio, Bastiani, Diana, da consegnare all’Accademia (fig. 4). In un
sol giorno, l’ambiente è svuotato
da quelle migliaia di «tele, cornici e legnami di scarto» alienate nel 1821, per la modica somma
di 1.031 lire, come certifica ora
un «processo verbale» del 28
gennaio 1822, sottoscritto da
Pasquali e dal vincitore della
trattativa. Costui era stato invitato a versare «l’offerto prezzo di
L. 1.031» e a procedere con lo
«sgombro del locale» senza
danneggiarlo, come specifica
l’atto dell’11 gennaio 1822, che fa
seguito alla ricevuta di «superiore approvazione» dell’esito del 29
novembre 1821, e inviata con dispaccio del 27 dicembre. Il com-
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4. Vittore Carpaccio,
Miracolo della reliquia della
Croce al ponte di Rialto,
Venezia, Gallerie
dell’Accademia;
appartiene al ciclo che
decorava le pareti della
Sala dell’Albergo o della
Croce, nella Scuola
Grande di San Giovanni
Evangelista: in seguito alle
soppressioni, i dipinti
furono consegnati alle
Gallerie nel 1820.
Vittore Carpaccio, Miracle
of the Relic of the Cross on the
Rialto, Venice, Gallerie
dell’Accademia. The
painting belongs to a cycle
decorating the walls of the
Sala dell’Albergo o della
Croce, Scuola Grande di
San Giovanni Evangelista.
Following religious
suppression under
Napoleon, the paintings
were consigned to the
Gallerie in 1820.
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pratore si presenta il 17 gennaio per ottenere il permesso all’asporto degli oggetti, concesso dopo il versamento in cassa, previa restituzione dei «venti talleri» di cauzione. In calce al documento si
distingue la sua firma: «Nicholò Brazzoduro».
Y Rintracciamo lo stesso nome in alcuni preziosi registri, sinora
ritenuti perduti, che certificano gli «Acquirenti di effetti mobili,
e quadri avocati dalle soppresse corporazioni religiose». Qui troviamo anche alcune partite di dare e avere riferite a Niccolò Brazzoduro nel 1811, per un totale di 1.021 lire: il 18 febbraio è registrata la spesa di 550 lire «per l’acquisto di alcuni effetti del soppresso Monastero di Santa Giustina»; e il 29 giugno è segnata
quella di 471 lire «per simile, erano del soppresso Monastero di
San Mattia di Murano». Tali nuove attestazioni d’archivio integrano il profilo di Brazzoduro, già in parte delineato. Rigattiere e
imprenditore edile, si assicura la chiesa dei Servi, ma per ricavarne materiale da costruzione: tanto che nel 1821 era «quasi del tutto atterrata». Nel 1807, il 20 aprile si aggiudica all’asta, per 364
lire, 20 parapetti dell’altare di Santa Croce della Giudecca; e il 31
dicembre rileva libri dalla biblioteca di San Giorgio. Nel 1809, il
12 marzo, compra l’organo di San Giovanni di Malta; e acquista la
grata del coro dei Santi Marco e Andrea di Murano, «con oro
consunto [...] del peso di 426 libbre a lire it. 76,291».
Y Le alienazioni, compresa quella clamorosa del 1821, già nel
1830 suscitano interrogativi. Scopriamo infatti utili registrazioni
in un fascicolo di documenti non noti, dedicati alla ricerca del
«destino dei due quadri del Tiziano e del Cima, esistenti in mano di privati», sfuggiti all’Accademia e invece individuati «il primo presso la vedova del negoziante pittore Baldissini, ed il secondo presso certo Bortolo Giraldon» (ovvero il Compianto, Mosca,
Museo Pushkin). Un atto d’inizio febbraio 1830 informa che il
dipinto tizianesco era passato «da Baldissini a Bortolo Adami, che
tuttora lo possede e che dichiara di averlo acquistato da quella famiglia, come dalla detta deposizione fatta per effetto “di invito” al
commissario di Polizia di Canaregio»; s’incrociano così nomi di
pittori e/o compratori (e quello di Adami compare anche nel ritrovato registro degli Acquirenti). Soprattutto rileviamo, nello
stesso incartamento, un’interrogazione del 19 aprile 1830: «Se
sotto il cessato regime italico ed in quale altra epoca sieno stati distrutti con o senza il giudizio accademico alcuni dipinti». Un dirigente dell’Ispettorato Demaniale, infatti, così chiede a Pasquali,
come persona informata sui fatti e «per l’ingerenza avutane». Si
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esigono notizie «sull’epoca in cui si propose, e su chi propose la
distruzione dei quadri di rifiuto adottata dal Governo attuale, e
compiuta poi colla vendita delle tele risultanti nell’anno 1821»;
tanto più che non si conosce «veramente che durante il cessato
Governo sia nata alcuna distruzione di quadri, mentre gli atti [...]
indicano soltanto che dopo la scelta fatta da Edwards, e dai Professori Appiani, e Fumagalli sia stata soltanto ordinata, o sollecitata sempre la vendita ad ogni costo». La risposta di Pasquali
giunge il 30 aprile: «La vera distruzione delli dipinti e vendita delle tele e legnami si verificò precisamente sotto
l’attuale Governo»; ne dettaglia le modalità, con la conferma che mai s’era
verificata «distruzione di Pitture sotto
il cessato Regime», anche perché era
«ben lontano [...] di non infettare il
commercio con pitture di scarto», preferendo anzi vendere pure i «più infimi rifiuti. Vedasi l’esito fatto più volte
per aste di quadri».
Y Intanto, nei depositori demaniali
continuano a confluire beni; a volte ne
fuoriescono, ma non per volere delle
autorità. È il caso di alcuni “furti d’arte”, i cui fascicoli processuali svelano ora dinamiche sorprendenti. Il 4 maggio 1827, si comunica al Presidio di Governo la convocazione d’urgenza di Pasquali, «dietro avviso del Commissario Superiore di Polizia del sestier di San Polo», presso il «deposito di quadri ed altri oggetti
Demaniali» di San Giovanni Evangelista. L’economo è chiamato
«ad eseguire una visita per verificare un sospetto di furto». Era
stato infatti notato che «da una finestra respiciente sopra un orticello privato s’erano introdotti de’ mal intenzionati sollevando
una grossa ferriata da cui era difesa, ed asportando ramate, ed invetriate, ed alquanta ferramenta infissa nel locale». Il 5 maggio,
una commissione si reca a «eseguire cogli inventari alla mano
l’incontro dei quadri, ed effetti del depositorio»: risultano sottratti dieci dipinti, oltre a «sei mascheroni di bronzo levati dalle
porte interne del locale». Il tribunale criminale procede «all’Inquisizione, ma è privo di dati o sospetti sopra le persone del delitto», e dalle deposizioni emerge solo «un ferro detto leva rinvenuto ed abbandonato dai delinquenti». Fra i documenti ritrovia-
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mo l’elenco delle opere trafugate, incluse le provenienze: Santi
Giovanni e Paolo, San Giorgio Maggiore, Santa Lucia, la Scuola
dei Mercanti dell’Orto, il Monastero delle Dimesse di Veronica;
dalla Commissaria Sagredo, oltre a una Veronica e a una Santa con angioletti, manca una tavola del Redentore, di cui «è rimasta la cornice»; mentre della tela con Gesù adorato dalla Madre, e da altri divoti, già
agli Incurabili, resta il telaio.
Y Il 15 settembre 1827, si comunica al Presidio di Governo un
altro furto a San Giovanni Evangelista, che ha eluso sia le misure
di sicurezza adottate, sia la vigilanza delle «notturne pattuglie»
nonché del «numeroso satellizio», ovvero agenti “in borghese”
dei “satelliti”, cioè guardie civili di polizia (che in quell’anno, secondo le statistiche, sono 183). Il rapporto dell’economo Pasquali dettaglia la «perlustrazione del locale alle ore cinque pomeridiane» conseguente a sospetti di «nuovi derubamenti». Una prima ispezione non rivela alcun indizio, neppure raggiunta la sala
superiore attraverso lo scalone codussiano (fig. 5); «ma volendo esaminare se mai fosse stato aperto
l’ingresso che conduce al tetto mediante scala segreta entro il muro
maestro della sala, la di cui porta
nella parete era coperta di quadri,
nell’uno di questi si venne a riconoscere una cornice dalla quale
venne effettivamente levata la tela
dipinta. Da questo nacque la certezza dell’introduzione de’ malintenzionati». Le ricerche si replicano
serrate, e «si venne a ritrovare
aperta la porta che dalla grande sala
conduce alle due stanze ove ritrovasi l’altare detto della Croce, la qual
porta veniva fermata con catenaccio
al di dentro». Raggiunta la seconda
stanza dietro l’altare, si appura «il
trasporto di un grande quadro in
tavola dal luogo dove prima rimaneva, e levato il medesimo si ebbe tosto con sorpresa a riconoscere l’apertura di un foro nel muro che veniva tolto alla vista colla
posizione del quadro. Questo foro è quell’istesso fatto altra volta,
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5. Mauro Codussi, Scalone,
Venezia, Scuola Grande di
San Giovanni Evangelista;
dà accesso al piano nobile,
dove furono scoperti i
furti d’arte del 1827, ed è
citato nei verbali.
Mauro Codussi, Staircase,
Venice, Scuola Grande di
San Giovanni Evangelista.
The staircase leads to the
piano nobile, where the art
thefts were discovered in
1827.
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e rilevato nel processo del giorno 5 maggio, il quale allora servì
d’introduzione alle due stanze susseguenti e alle soffitte». Smascherato così l’espediente dell’antesignana “banda del buco”, s’individuano infine, «nella soffitta superiore alla stanza dell’altare
della chiesa, indizi sospetti da un basso luminare», riconosciuto
come «il luogo dell’introduzione, essendosi trovati manomessi
dei coppi, e rinvenuto giacente un cosiddetto sgaruccio a manico
serrato». L’indagine prosegue per comprendere «da qual parte se
da terra o per acqua facevano scesa ai tetti per introdursi nella soffitta». Gli interrogatori anche del vicinato rievocano movimenti
sospetti all’imbrunire, rumori e persino «persone che caddero
nell’acqua» «nel rivo locale», oltre a battelli in avvicinamento
recanti scale. Gli stessi «malintenzionati» di primavera, «conoscitori del locale», erano dunque tornati ad agire, raddoppiando
il bottino. Fra i documenti rintracciamo il «prospetto dei quadri
ritrovati mancanti» nei sopralluoghi del 17-19 settembre 1827:
elenca 21 opere trafugate, compresa «La Presentazione al tempio di Maria opera del Peranda», ovvero Sante Peranda. Restano frammenti di legname, o il «telaio intero», e «due quadri degli esistenti
vennero spogliati delle rispettive cornici dorate».
Y Oltre a polizia e a centralizzazione burocratica, il governo
asburgico a Venezia dirige a lungo una complessa politica culturale
nella seconda dominazione austriaca (1814-1848) e nella terza
(1849-1866), intervallate dai fatti del 1848-1849 e succedutesi al
primo Governo austriaco (1798-1805), dopo il trattato di Campoformio. Intercorrono altri otto anni, quelli “francesi” sotto il Regno Italico (1806-1814), avviati con le soppressioni napoleoniche di
corporazioni religiose, monasteri e chiese, confraternite e scuole,
decretate dal 1806 al 1810, e l’avocazione al Demanio dei rispettivi
patrimoni. Capolavori artistici sono concentrati e inventariati in
depositori quali l’ex Scuola di San Giovanni Evangelista e l’ex Commenda di Malta. Si spediscono in Francia o in Lombardia i migliori quadri, e centinaia si assegnano alle nuove pinacoteche delle Accademie di Belle Arti, sia a Venezia, nella riadattata Carità, sia a Milano, selezionate per Brera dai commissari Appiani e Fumagalli.
Opere «non prescelte per la Corona» si destinano alla vendita;
s’indicono ripetute aste pubbliche, deprezzate o deserte per l’inflazione e il crollo economico.
Y La trasformazione dello status di opere d’arte imposta dall’alto
s’innesta tuttavia in un latente movimento progressivo di passaggi
di proprietà, oltre a scalarsi dopo provvedimenti quali la raziona-
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6. Vittore Carpaccio,
Disputa di santo Stefano tra i
dottori nel Sinedrio, Milano,
Pinacoteca di Brera;
apparteneva a un ciclo
con le Storie di santo Stefano,
per l’omonima Scuola
a Venezia, disperso
nel 1806 in seguito
alle soppressioni
napoleoniche.
Vittore Carpaccio,
The Disputation of St Stephen,
Milan, Pinacoteca di
Brera. The painting
belonged to a cycle of the
Stories of the Life of St Stephen,
for the Scuola of Santo
Stefano in Venice;
the cycle was lost in 1806
following the Napoleonic
suppression.
168
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lizzazione della finanza pubblica e la riduzione della manomorta: già
deliberati dal Senato veneziano sin dal 1768 e tali da determinare
un’imponente circolazione di oggetti d’arte, pure fra mercanti e
collezionisti. Gli interventi tra Sette e Ottocento sul patrimonio
artistico e demaniale veneto – approfonditi dai fondamentali studi di
Spiazzi e Schiavon, Zorzi, Olivato,
Pavanello e Romanelli – manifestano
aspetti in bilico fra continuità e innovazione. Gli austriaci a Venezia si
dimostrano sensibili verso opere emblematiche. In seguito alla caduta di
Napoleone e al Congresso di Vienna,
si restituiscono all’ex Dominante codici
e oggetti d’arte, in particolare dai
francesi; non invece da Brera (fig.
6), né dalle chiese lombarde. All’avvio del secondo Governo austriaco, e
dopo l’istituzione del Lombardo-Veneto il 7 aprile 1815, si verifica un trionfale segno di restaurazione, fra le gondole e le “pietre di Venezia”: l’aquila asburgica ritorna, accompagnata dai cavalli e dal leone di San Marco.
Y Infatti, 18 anni prima, nel dicembre 1797, i francesi avevano
sottratto anche la quadriga bronzea marciana (fig. 7), poi collocata
da Napoleone sull’Arc du Carrousel. Quando saranno i vincitori
austriaci a staccare i cavalli dal carro di trionfo svettante fra il Louvre e le Tuileries, per evitare sommosse dei parigini agiranno di
notte e con il presidio di militari, che scortano pure il convoglio
partito da Parigi il 17 ottobre 1815 con le opere restituite all’Italia e
al Vaticano, soprattutto per merito di Canova (fig. 8). Grazie all’artista e a Schwarzenberg, e per volontà dell’imperatore, il 13 dicembre 1815 i quattro cavalli, simbolo dell’identità veneziana, approdano nel bacino di San Marco (fig. 15), salutati dal riecheggiare di un
«universale urrà».
Y I destrieri sono restituiti al cospetto di Francesco i, del principe di Metternich e di alti dignitari. Vincenzo Chilone eterna il
momento nella tela ora in collezione Treves de’ Bonfili (fig. 9); un
capriccio di Canaletto (fig. 1) sembra evocato dal progetto di Canova di collocare i cavalli su alti basamenti dinanzi a Palazzo Ducale. Cicognara dedica all’evento una narrazione storica e in una
prolusione celebra il ritorno, con gli austriaci, di opere «reduci
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7. Jean Duplessi-Bertaux,
La conquista di Venezia,
incisione; ritrae il
momento in cui i quattro
cavalli marciani sono
prelevati dai francesi quale
bottino di guerra, per
essere trasportati a Parigi.
Jean Duplessi-Bertaux,
Enlèvement des chevaux de la
basilique Saint-Marc de Venise,
engraving. The work
depicts the removal
of the four horses of St
Mark’s Basilica by the
French as war booty.
The horses were then
transported to Paris.
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dalla Senna», compresi il leone marciano (fig. 10) e il Giove Egioco
(fig. 11). Nel 1817, lo stesso Cicognara tramuta in commissioni ad
artisti locali la richiesta di un tributo di 10.000 zecchini, imposto
per le quarte nozze di Francesco i con Carolina Augusta di Baviera; giunge così a Vienna l’Omaggio delle Provincie venete (fig. 12): mobili, tele, sculture, guidati dalla Polymnia di Canova, esposta poco prima in Accademia, accanto all’Assunta di Tiziano, definita il «più bel
quadro del mondo».
Y Nel frattempo, edifici privati e religiosi sono demoliti o diventano osterie, mulini, magazzini, caserme e «bagni penali»;
chiudono teatri (nel 1824 quello di San Moisè è trasformato in falegnameria); monumenti e altari si smantellano in materiali di
recupero e pietre da costruzione, specie tra il 1813 e il 1820. Venezia resta sempre «una città delle Mille e una notte», come il principe Clemente di Metternich scrive alla moglie il 10 luglio 1817,
con il canale della Giudecca e il Canal Grande «letteralmente ricoperti di gondole» (fig. 13), i caffè aperti e il popolo sveglio fino all’alba; ma, annota nel diario la principessa Mélanie di Metternich quando arriva da Fusina nel settembre 1838, lo «spettacolo grandioso» offerto a chi approda (fig. 14) si alterna nei canali alla tristezza delle dimore in rovina. Dagli anni venti dell’Ottocento
si avviano interventi edilizi per case e
ponti. Dal ghetto, le cui cancellate
furono distrutte nel 1797, prosegue
la “fuoriuscita” anche dei non più
interdetti investimenti immobiliari,
da parte di famiglie ebraiche con forte potere d’acquisto. Dapprima, si
estendono nelle adiacenze; poi,
giungono sino a Rialto, a San Marco
e lungo il Canal Grande; così, la Ca’
d’Oro, già «bene rovinoso», sarà acquisita da Moisè Conegliano,
per passare nel 1846 al principe Trubetzkoi, che ne fa dono alla
ballerina Maria Taglioni. Nel 1827, Isacco e Jacopo Treves de’
Bonfili, banchieri, acquistano palazzo Barozzi Emo sul rio di San
Moisè; dove si crea uno scenografico ambiente per accogliere dallo studio romano di Canova i suoi Ettore e Aiace, acquistati per
55.000 lire (fig. 16).
Y Vendite massicce di beni a Venezia erano da tempo incrementate dalle difficoltà finanziarie, acuitesi dopo le requisizioni na-
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8. Giovan Battista Lampi,
Ritratto di Antonio Canova,
Vienna, Österreichische
Galerie.
Giovan Battista Lampi,
Portrait of Antonio Canova,
Vienna, Österreichische
Galerie.
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poleoniche, nonché dal blocco del 1813-1814, con la successiva
crisi, tra epidemie, inondazioni, carestie. La contingenza grava a
lungo e, nel 1825, giunge a Francesco i una relazione, comprensiva di confronti con il 1797 e rimbalzata sul «Times» e sul
«Journal des Débats», redatta dal patriarca Pyrker (mecenate di
artisti viennesi a Venezia, ma anche promotore, fortunamente
inascoltato, dell’abbattimento dell’iconòstasi marciana). Le statistiche confermano la situazione nel 1827: i commercianti calano
da 10.884 a 3.628; gli artigiani da 6.200 a 2.442; i lavoratori
dell’Arsenale da 3.302 a 773; mentre scendono da 1.088 a 607 i
gondolieri ai traghetti, e da 2.854 a 297 quelli «da casada»; su
una popolazione ridotta da 136.000 abitanti a 100.556, 40.764
sono i bisognosi di sussidi. L’imperatore, «per aiutare i buoni
Veneziani», che gli tributano consensi (fig. 17), sollecita risoluzioni: e Pyrker invoca l’estensione del Porto Franco, concesso il
20 febbraio 1829 (fig. 18). Intanto, i privati cedono monete, medaglie, dipinti e sculture, nonché collezioni e biblioteche, spesso
a stranieri, anche austriaci.
Y Le premesse del fenomeno s’individuano, sin dagli ultimi decenni della Serenissima, pure leggendo l’epistolario di Apostolo Zeno, tra i fondatori del «Giornale de’ letterati d’Italia» e poeta cesareo alla corte di Vienna: se da un lato il veneziano denuncia come «a poco a poco l’Italia va perdendo il meglio [...]; ma non è
da stupirsene, perché vi va mancando il denaro, il gusto e lo studio», egli stesso nel 1748 vende a «un tedesco» la propria raccolta di monete, poi passata in Austria, a San Floriano. Anton
Maria Zanetti riceve invece pietre e cammei antichi, a Vienna, in
cambio di consigli per la collezione del principe del Liechtenstein: dove sarebbero poi confluiti, attraverso l’antiquario Guggenheim, anche i due rilievi da Palestrina ora al Kunsthistorisches
Museum (fig. 19) e sino al secolo xix posseduti dai Grimani. Altri marmi di questa raccolta, ancora ammirata nel 1822 da visitatori come Thiersch, risultano in vendita nel 1831 presso l’antiquario Sanquirico, mentre diversi pezzi, offerti invano da Michele Grimani a Francesco i, passano attraverso mercanti quali Weber, Richetti, Pagliaro, sino a raggiungere grandi clienti tedeschi
e austriaci.
Y Si può ripercorrere un flusso progressivo dalle raccolte lagunari a quelle viennesi, come nel caso di lastre a rilievo attiche, passate dal Museo Trevisan-Suarez alla grandiosa collezione Obizzi al
Catajo (Battaglia Terme) e quindi insieme a questa giunte a Vien-
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na. Qui, a inizio Ottocento, si ritrova anche parte della raccolta
Garzoni, divisa fra Austria e Costantinopoli. Intorno al 1820,
Girolamo Silvio Martinengo propone il suo museo al governo austriaco che, ottenuta la stima, declina l’offerta del conte, rinnovata invano dalla vedova Elisabetta Michiel: tanto che la collezione
sarà rilevata nel 1836 anche dal mercante Fontana di Trieste, prima di venire dispersa in tutta Europa. Nel 1821, pezzi del medagliere di Domenico Almorò Tiepolo si vendono a Francesco i.
Y L’imperatore, nel 1805, aveva acquistato, ma per l’Accademia
di Venezia, alcuni calchi e gessi dalla raccolta Farsetti, compresi
modelli in terracotta di Bernini. Emblematico un annuncio di Cicogna nei suoi Diari
inediti, il 3 febbraio 1817, allorché Antonio
di Giacomo Nani sigla la vendita en bloc a
Francesco i della collezione di San Trovaso,
«uno de’ nostri più belli musei, che partir
deve per Vienna», in cambio di «90.000
ongari d’oro» pagati a rate, «perché il Nani rifiutò l’offerta di beni demaniali, e di
fondi nel territorio austriaco. È manco male che vada via di qua tutto intero». Cicogna
rettifica, il 7 aprile 1817: «Non va più venduto il Museo Naniano, e resterà qui, se pure non verrà squartato dai creditori», minacciosi «di portargli via il meglio e il buono». La notizia torna nelle note di Fapanni
(vedi «VeneziAltrove» 2005), critico contro i «Reverendi Antiquarii» e «gli onorevoli Sensali e faccendieri», che «venderebbero anche la chiesa di
San Marco, se potessero, agli stranieri». Francesco i si dimostra
restio a fuoriuscite di oggetti d’arte dalle lagune, nonostante le
continue offerte dei collezionisti: spesso, gli stessi discendenti di
casate descritte negli Arbori di Barbaro, il cui codice più attendibile si trova a Vienna fra i volumi già Foscarini, sequestrati dal fisco
a Giacomo, pronipote del doge Marco.
Y I provvedimenti austriaci verso l’arte a Venezia sono articolati
rispetto ai principi della tutela del patrimonio e del controllo del
mercato artistico. Sin dal 1816, 14 pezzi fra i migliori partono per
Vienna. Qui, nel giugno 1838, il principe di Czernin riceve 18 casse, con 76 dipinti per il Belvedere; in agosto, tramite Metternich,
arrivano altri 26 colli con 85 quadri diretti all’Akademie der Bil-
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9. Vincenzo Chilone, La
cerimonia del ricollocamento dei
cavalli bronzei sul pronao della
Basilica di San Marco,
Venezia, collezione Treves
de’ Bonfili.
Vincenzo Chilone,
Replacing the bronze horses on the
pronaos of St Mark’s Basilica,
Venice, Treves de’ Bonfili
collection.
10. Richard Parkes
Bonington, La colonna
di San Marco, Londra,
Tate Gallery; ritrae il
Leone marciano, una delle
opere già sottratte da
Napoleone che tornano
dopo il Congresso di
Vienna.
Richard Parkes Bonington,
St Mark’s Column, London,
Tate Gallery. The work
depicts one of the works
removed under Napoleon
and brought back to
Venice after the Congress
of Vienna.
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denden Künste (restituiti dopo il 1919). A Venezia riprendono aste
e vendite, spesso previo parere di rappresentanti dell’Accademia,
contro cui il pittore Odorico Politi sferra un’accusa, riportata da
Cicogna nei Diari il 19 marzo 1819, di monopolio «sopra i quadri
di ragion pubblica che stanno nella Commenda di Malta, e che si
vendono sotto mano e si cambiano, senza che lo acconsenti il Governo, con danno delle nostre rarità, e con guadagno illecito di chi
vi ha parte». Che qualche professore sia coinvolto nel mercato,
anche onesto, trova conferma in epistolari coevi. Così, il 3 luglio
1802 Ferdinando Tonioli già consiglia a Canova il nome di «Baldicini», cioè Giuseppe Baldissini, figlio d’arte dell’accademico
Nicolò, tra i «Negozianti di Quadri» dotati di «cognizione unita
ad una certa probità».
Y Per l’Accademia veneziana l’imperatore acquista pure opere,
quali i disegni della raccolta Quarenghi nel 1824 (vedi «VeneziAltrove» 2004), preceduti nel 1822 da quelli della collezione
Bossi, incluso l’uomo vitruviano di Leonardo (fig. 20), su sollecitazione di Cicognara. Le ripristinate Fabbriche di Rialto accolgono gli uffici giudiziari, rimossi da Palazzo Ducale per scongiurarne l’incendio anche dopo quello della Ca’ Grande dei Corner
del 1817, e soprattutto in seguito al focolaio che, nel 1821, aveva
minacciato la sala del Maggior Consiglio (poi il 13 dicembre 1836,
brucerà la Fenice, subito ricostruita e riaperta il 26 dicembre
1837). Dopo il 1822, come riscontriamo in una Memoria del conservatore Corniani degli Algarotti datata 7 marzo 1827 nel fondo
del Magistrato Camerale, arrivano nel depositorio dell’ex Commenda
di Malta «molti pezzi dal Palazzo Grimani ora Ufficio Generale
delle Poste, altri del Palazzo Corner presentemente Ufficio dell’Imperiale Regia Delegazione». Dal 1817, l’Archivio di Stato è
concentrato nel convento dei Frari. Nell’adiacente chiesa, prima
del monumento a Tiziano sovvenzionato dall’imperatore, s’inaugura nel 1827 quello a Canova (morto cinque anni prima in casa
del proprietario del Caffè Florian). Tra i finanziatori della sottoscrizione per il cenotafio, promossa da Cicognara (fig. 21), spiccano Francesco i e la moglie, oltre al primo ministro britannico,
seguiti da re, banchieri, uomini di cultura quali Byron, Quatremère de Quincy, Alessandro Volta. Intanto, a chiese e a fabbricerie che li richiedano, si distribuiscono beni concessi per la «pietà del Governo a semplice uso e a titolo di custodia».
Y Nel 1817, si avverte l’urgenza d’inventariare il patrimonio artistico e le proprietà ancora a disposizione del Demanio. La com-
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11. Cammeo con Giove Egioco,
detto Cammeo Zulian,
Venezia, Museo
Archeologico Nazionale;
già nella collezione di
Girolamo Zulian, è
trafugato dai francesi nel
1799 e restituito nel 1815.
Cameo with Zeus Aegiochus,
also known as the Zulian
Cameo, Venice, Museo
Archeologico Nazionale.
Originally in the Zulian
collection, it was taken by
the French in 1799 and
returned in 1815.
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plessa operazione culmina nella «Statistica demaniale», in virtù
della quale le direzioni provinciali compilano oltre 150 volumi.
Sembrano pertinenti le parole delle Confessioni di Nievo: «Prima
che la statistica aprisse i suoi registri, ciascun paese credeva d’essere quello che avrebbe voluto essere». Alla ricognizione farà
seguito, dalla fine del terzo decennio, un’altra ondata di
concessioni in deposito, aste e trasferimenti a titolo oneroso. In fondi del Governo o della Direzione del Demanio, possiamo tuttora individuare i relativi atti e «processi verbali», oltre a rintracciare qualche “sospensiva”
giunta in extremis a salvare da imminenti vendite: come
quella presentata il 20 novembre 1822 dalla Presidenza dell’Accademia e dal segretario Diedo, allorché,
«col rossore di parer tarda, ma non col rimorso
di esserlo, accompagna [...] la statistica dei capi
d’arte, che in seguito ai più accurati riconoscimenti crederebbe di eccepire pel loro merito dalle vendite», a seguito di ulteriori ispezioni e «nuove scoperte», tanto che «ove per avventura fosse stato concepito qualche progetto di vendita, che ferisse le cose enunziate e
descritte come rare», si chiede di «sospendere o rievocare le incamminate disposizioni».
Y Le alienazioni aumentano nel 1833-1837, e nel successivo
biennio l’Intendenza di Finanza e il Magistrato Camerale sollecitano una campagna per «l’apprezzamento dei quadri esistenti nei
depositi demaniali», tale da fornire un nuovo elenco e aggiornare il «prospetto generale» di tutte le province; mentre si moltiplicano le concessioni in deposito dal 1838, allorché l’imperatore
Ferdinando cinge la Corona ferrea a Milano (all’indomani dell’autorizzazione del 25 febbraio 1837 alla società per la ferrovia
Venezia-Milano, la “Ferdinandea”). Tra gli Allegati governativi, si
conserva anche la «sovrana risoluzione» dell’agosto 1838, secondo cui «meno che i quadri di questo deposito demaniali designati per le Gallerie di Vienna, gli altri di prima categoria sien distribuiti a chiese e pubblici istituti, quelli poi della seconda sien venduti». Una commissione stila due liste: una per le opere «di pregio» da conservare, l’altra relativa a quelle vendibili; in rosso,
enumera i dipinti alienabili e senza valore, in nero i «disponibili». Nel 1847, l’Intendenza di Finanza elenca nei depositi 504 dipinti in 10 lotti destinati all’asta, per far spazio al “Congresso dei
Dotti” (e poco prima, 15 gennaio 1846, si inaugura il ponte fer-
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12. Leopoldo Cicognara e
Bartolomeo Gamba,
Omaggio delle Provincie venete
alla Maestà di Carolina Augusta
Imperatrice d’Austria, Venezia,
dalla Tipografia di
Alvisopoli, 1818;
frontespizio e particolare
del testo, con l’incisione
della Polymnia di Canova.
Leopoldo Cicognara and
Bartolomeo Gamba, Tribute
by the Venetian Provinces to Her
Majesty Caroline Augusta,
Empress of Austria, Venice,
from the Alvisopoli print
shop, 1818; frontispiece
and detail of text, with
engraving showing
Canova’s Polymnia.
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roviario sulla laguna). Nel 1851, un dispaccio da Vienna notifica
la richiesta dell’arcivescovo di Leopoli di quadri da inviare da Venezia alle chiese della Bucovina: opere di Palma, Tintoretto, Ricci e Tiepolo partono così per i confini dell’impero.
Y La macchina burocratica austriaca (che a Venezia nel 1827
conta 3.306 impiegati) rivela singolari “sfasature”. Le riscontriamo pure nei documenti archivistici relativi al trasporto a San
Giovanni Evangelista dei circa 5.000 o 6.000 quadri demaniali
esistenti nel locale della Salute, «onde sgombrarlo ad uso militare». L’operazione risponde alle ordinanze della Direzione del
Demanio del 19 e 24 ottobre 1815. Il 14 dicembre, si presenta la
«specifica del travaglio fatto e della spesa» di 362.744 lire,
«compresa la mezza diaria di L. 3.07» (per 7 giorni di straordinario) richiesta dall’incaricato Pasquali, che si avvale della consulenza di Baldissini e dell’impiego di operai alla giornata «capaci nel maneggio dei quadri». Pasquali dettaglia il trasporto,
dal 16 novembre al 9 dicembre, e ne commenta l’«economia»
nonostante le avversità: «In particolare il longo viaggio dalle camere di deposito del locale della Salute a quelle dell’altro di San
Giovanni Evangelista, la difficoltà dei ponti, che o per la sua naturale bassezza o per l’escrescenza dell’acqua obbligò a tenere
bassi i carichi, ed infine la brevità delle giornate nella presente
stagione, e la sua incostanza», fra i «tanti motivi, che produsse
anco la molteplicità della manodopera»; e si richiede il pagamento per i «tanti mercenari». Intercettiamo però un documento datato l’indomani, 15 dicembre 1815, con le conclusioni
di un consigliere, che, visitati «i locali riservienti per le caserme
militari» giudica «non essere stato trovato necessario a tale oggetto quello della Salute. Perciò cessa il motivo del trasporto di
quadri ivi esistenti». Il 19 dicembre 1815, le autorità annotano:
«Prima che giungesse il dispaccio 15 corrente [...] sospensivo del
trasporto dei quadri demaniali dal locale della Salute, era giunto
al protocollo di questa direzione il rapporto di codesto economo
Pasquali 14 detto [...] con cui perveniva che il trasporto medesimo era già compiuto». L’organizzazione veneziana si era dimostrata più efficiente di quella austriaca.
l’indagine
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a “hole-in-the-wall gang” under austrian domination
“sell, whatever it costs”:
5000 paintings disappear,
horses and lion return to venice
research
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Rosella Lauber
13. Joseph Mallord
William Turner,
Il Canal Grande, Venezia,
1835, New York, The
Metropolitan Museum of
Art.
Joseph Mallord William
Turner, The Grand Canal,
Venice, 1835, New York,
The Metropolitan
Museum of Art.
14. Joseph Mallord
William Turner, Approdo a
Venezia, 1844, Washington,
National Gallery of Art,
Andrew W. Mellon
Collection.
Joseph Mallord William
Turner, Approach to Venice,
1844, Washington,
National Gallery of Art,
Andrew W Mellon
Collection.
Y What would have happened if the Parisian Salon had refused to
accept the works it did and the works by Cézanne, Pissarro and
Courbet, or works such as Whistler’s Symphony in White, No. 1: The
White Girl or Manet’s Le Déjeuner sur l’herbe, had been cut up into canvas rags or firewood? Fortunately, when in 1863 the Paris commission excluded 3,000 of the 5,000 works submitted,
Napoleon iii ordered that the Salon des Refusés be opened. And it was
here that, amidst Zola’s admiration and a ridiculing general public, the ground was laid for the first Impressionist exhibition of
1874, where Monet presented his epoch-defining Impression, soleil
levant. What had happened in Venice a few decades earlier, under
the “second Austrian domination”, and specifically in 1821, however, was that thousands of “rejected paintings” were converted
into canvas and firewood. An important event that we will be reconstructing through documents and new archival discoveries.
Y Francis i of Austria (fig. 2) urged no such Salon des Refusés in
Venice for the more than 3,000 paintings deemed to be “absolute rejects” by a commission asked to examine about 5,000
paintings from Venice and the Veneto and held in the government’s deposits after the Napoleonic suppression. The special
jury was convoked by the president of the Accademia delle Belle
Arti, Leopoldo Cicognara (fig. 3), included the painters and
professors “Liberal Cozza, Lattanzio Querena, Antonio [sic]
Borsato”, and was directed by the acting secretary, the architect
Antonio Diedo. The paintings were examined between May 29
and July 18, 1817, and their fate was determined by government
decrees dated March 21 and April 29, 1817, according to which
paintings deemed to be “absolute rejects” would be “sold in public auction”. In point of actual fact, they would “all be washed
clean before being sold, considering that selling those paintings
as plain canvases will perhaps be of as much advantage as selling
them as pictures”. It was also thought “beseeming that this should
be put to the vote” of the President of the Accademia, in that the
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whole affair “besides being of interest to the [state coffers] is also important in preventing the deterioration of the Fine Arts”.
Along with 200 publicly owned paintings considered “worthy” of
conservation, selected by Professor Baldissini and approved for
removal to Sant’Apollinare so that they could be “arranged for
public or private use”, 500 other works were considered “commendable” by the commission. The “almost infinite mass of discarded works” were set aside for alienation “to our utmost advantage”. The “reserve choice” paintings were placed in three
categories: paintings for the Accademia (rarities by “historical
brushes”); those destined for churches (large and mediumsized, well preserved, of “good brush” and quality); those for sale
(large and small, “of good brush and praiseworthy method”,
which, if restored, might be considered of greater value, in order to find “a happier and more useful outcome in the commercial sphere, inspiring both the amateur collector and speculator”). On May 18, 1817, following academic evaluation and in
order to avoid the “risk of infecting the market with bad paintings dishonouring the pictorial arts”, it was deliberated that the
discarded paintings would be washed clean “and then put to auction as plain canvas”, to the “possible greater advantage of the
state coffers”.
Y Instead of washing the paintings clean, considered “an immensely demanding and costly undertaking”, what was finally approved as more “convenient” was a project presented by the administrator Antonio Pasquali on August 9, 1817, “whereby the
depicted elements of the discarded pieces will be destroyed and
the canvases and wooden frames sold”. This entailed “cancelling
the depicted scene with a strong slicker..., or breaking the painting along its most deformed parts. Each of these expedients to be
deployed according to the quality of the painting, which shall
firstly be removed from its frame or soaza, will destroy the depiction and conserve the canvas in its best state”, which, once dried,
could be sold for a profit, to which must be added “the other
profits that can be extracted from the wood. As for paintings on
wood, the depicted element shall be removed through scrubbing,
making it suitable for firewood”. Pasquali gives a detailed rundown of the procedure: “Firstly completely separate the wood
from the canvas” and “then cancel from that canvas all relevant
signs of Painting in the manner described above, and finally destroy the wooden frame by cutting it into pieces for burning”.
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15a e 15b. La partenza dei
cavalli nel 1797 e il loro
ritorno nel 1815,
incisioni.
The quadriga leaving
in 1797, and brought back
in 1815, engravings.
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Pasquali proposed the following: “This Superior shall have the
complaisance to decide if the mass of rejected paintings shall be
identified in a solely numerical list or distinctly indicating corporation and provenance, which procedure shall be carried out
at the moment when the wood shall be removed from the canvas”. The authorities back the “execution of the plan”, adding
that “it is felt that it may be useless to keep a list of the paintings
to be destroyed”. What’s more, it is rendered illegal to sell the
rejected paintings to private subjects or to ‘repaint’ these “for
other uses”, such as decorations for rooms (which would have
been very difficult to enforce), in order to stop these paintings
from being put back on the market.
Y The government confirmed the public auction, which was to
follow the “destruction” of all figurative signs in the works considered to be “of no painterly worth” so that they could be transformed into fabric and wood. On November 22, 1817, Pasquali
presented the list of goods to be auctioned in nine points, where
he informed the public that “canvas and wood are visible for aspiring purchasers at the former Scuola di San Giovanni Evangelista”, and that the dealing would begin after “a survey of the value of the effects”. On January 10, 1818, it was indicated that “the
auction shall open at the value of one thousand two hundred
lire”, even if Pasquali confessed that the “not perfect analysis...
of the goods may perhaps have led to some doubts”.
Y The auction was set for November 29, 1821, in the former
Scuola di San Giovanni Evangelista. In the meanwhile, in compliance with the act dated May 26, 1820, “paintings of superior
artistry and commemorating events of the homeland” (i.e. the
paintings by Bellini, Mansueti, Carpaccio, Bastiani and Diana)
were to be removed from the walls and consigned to the Accademia (fig. 4). In only one day, the venue was emptied of those thousand odd “canvases, frames and discarded pieces of wood” alienated in 1821 for the modest sum of 1,031 lire, as certified now by
“verbal minutes” dated January 28, 1822, and undersigned by
Pasquali and the winner of the auction. The winning bidder was
invited to deposit “the offered price of 1,031 lire” and to proceed
with “clearing of the premises” without in any way damaging them,
as specified in the act dated January 11, 1822, which followed the
“superior approval” which had been issued via a despatch dated
December 27. The buyer arrived on January 17 so that he could be
issued his permission to remove the objects in question, which was
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16. Giuseppe Borsato,
L’imperatore e l’imperatrice
d’Austria in visita alla sala
canoviana di palazzo Treves,
Venezia, collezione Treves
de’ Bonfili.
Giuseppe Borsato,
The Emperor and Empress of
Austria visiting the Canova room
at Palazzo Treves, Venice,
Treves de’ Bonfili
collection.
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granted when he paid all sums due, minus the “twenty thalers” he
had originally given as a deposit. His signature can be made out at
the bottom of the document: “Nicholò Brazzoduro”.
Y The same name can be found in other rare registers (up to
now thought to be lost) that certify “Buyers of movable property, and paintings confiscated from the suppressed religious corporations”. There are also balance sheets from 1811 referring to
Niccolò Brazzoduro for a total of 1,021 lire: on February 18,
there is a ledger entry for the outlay of 550 lire “for the purchase
of effects from the suppressed monastery of Santa Giustina”; on
June 29, there is another entry for 471 lire “for similar, from the
suppressed monastery of San Mattia on Murano”. These new
archival sources add to the profile of Brazzoduro that we have already in part delineated. Second-hand dealer and building contractor, Brazzoduro bought the church of the Servi, but for its
building material (and, in fact, by 1821 “it had all but been razed
to the ground”). On April 20, 1807, he won a bid (for 364 lire)
for 20 rails from the Santa Croce altar on the Giudecca; on December 31, he purchased books from the San Giorgio library.
And again, on March 12, 1809, he bought the organ from the
church of San Giovanni di Malta and the screen from the choir
in the church of Santi Marco e
Andrea on Murano, “with
worn-out gold... weighing 426
pounds for 76,291 Italian lire”.
Y As early as 1830, the alienations, including the sensational 1821 alienation, were raising
quite a few questions. There
are, in fact, very interesting
records in a set of hitherto unknown documents dedicated to
finding out “what happened to
two paintings by Titian and Cima, once belonging to private
owners” which left the Accademia and were later found, “the former at the home of the widow of the merchant and painter Baldissini, and the latter at the home of a certain Bortolo Giraldon”
(that is the Deposition, Moscow, Pushkin Museum). An act from
early February 1830 informs us that the Titian painting had gone
“from Baldissini to Bortolo Adami, who currently owns it and
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who declares that he bought it from that family, as per the said
testimony made following an ‘invitation’ to the Police commissioner at Cannaregio”. Names of painters and/or buyers are thus
intertwined (and that of Adami also appears in the rediscovered
Buyers Register). One of the most important finds in the same
batch of documents is a police interrogation dated April 19,
1830, aiming to establish “if under the now defunct Italic regime
and at other times paintings were destroyed, with or without academic evaluation...” This was the question the Inspector for
state property asked Pasquali, who had been identified as a person apprised of relevant information and “because of his role in
the matter”. Information is demanded “regarding the period in
which it was proposed, and regarding persons to whom it was
proposed, that rejected paintings be destroyed, as was proposed
by the current Government, and later undertaken through the
sale of resulting canvases in the year 1821”; all the more so considering that nobody truly knew “that under the former Government there had been any destruction of paintings, while the
acts... only indicate that after the choices made by Edwards and
Professors Appiani and Fumagalli the only order given or
pressed upon others was to sell at any cost”. Pasquali replied on
April 30: “The real destruction of the paintings and the sale of
canvases and wood took place under the current Government”.
He then goes on to give details on how it was undertaken, confirming once more that never had any “destruction of Paintings
taken place under the former Regime”, mainly but not only because it was “far from... not infecting the market with rejected
paintings”, rather preferring to sell even the most “revolting rejects. See what has happened on several occasions during auctions of paintings”.
Y In the meanwhile, goods continued to be sent to the state
storehouses. Whence they sometimes also disappeared, it must be
said, but not because the authorities had ordered it. Sometimes
there were “art thefts”, the trial transcripts for which point now
to fascinating dynamics. On May 4, 1827, the Government Presiding Committee received an urgent convocation for Pasquali,
“following notification from the Head Police Commissioner of
San Polo”, at the “deposit for paintings and other objects belonging to the state” at San Giovanni Evangelista. Pasquali had
been called “to undertake an inspection following the report of
a theft”. It had in fact been noted that “from a window just above
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a small private vegetable garden scoundrels had entered the
building by lifting a large iron grille over said window, and then
removed copperware, glassware and quite a bit of hardware from
the premises”. On May 5, a commission arrived “to carry out,
inventory at the ready, a tally of the paintings and effects in the
depot”: according to their reckoning, 10 paintings were missing,
along with “six bronze mascarons taken from the internal doors
of the premises”. The criminal tribunal then proceeded with “its
Inquiry, but without hard proof or suspects regarding the
crime”; from the testimony given, the only thing that emerged
was “a large iron object known as a leva left behind by the criminals”. The documents contain a list of the stolen works, including their provenance: the churches of Santi Giovanni e Paolo,
San Giorgio Maggiore and Santa Lucia, the Scuola dei Mercanti
dell’Orto, the monastery of the Dimesse di Veronica; Sagredo
“Commissaria” was missing not only a Veronica, but also a Saint with
Little Angels; an oil on wood depicting a Redeemer was also missing,
but not the frame; and the only thing left of a canvas depicting
Jesus Adored by His Mother and Other Pious Followers was its stretcher
frame.
Y On September 15, 1827, the Government Presiding Committee was informed of another theft at San Giovanni Evangelista, where all the security measures had been thwarted, including the “night patrols” and the “numerous satellizio”, i.e. plain
clothes agents from the “satellites” or civil police guard (according to statistics, there were 183 of these that year). Pasquali’s report provides details about the “patrolling of the premises at 5
o’clock in the afternoon” due to suspicions that there might be
“new thefts”. An initial inspection revealed no signs of entry, not
even on reaching the upstairs hall via the Codussi staircase (fig.
5). However, “wanting to ascertain whether the entrance that
leads to the roof via a secret staircase within the main wall of the
hall had ever been opened, and the door to which was hidden by
paintings hanging on the wall, it was noticed that one of these
paintings was missing, and all that remained was the frame.
Hence the conviction that the ill-intentioned had in fact broken
in”. The inspection was repeated, and “the door was open which
from the large hall leads to the two rooms where the altar known
as the Cross altar can be found, which door was closed via a chain
from within”. On entering the second room behind the altar,
they found that “a large painting on wood had been removed
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17. Festa notturna sulla Piazzetta
in onore di Francesco I d’Austria,
Venezia, collezione
privata.
Night Feast in the Piazzetta in
Honour of Francis I of Austria,
Venice, private collection.
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from its original lodging, and missing which painting we were
much surprised to find an opening in the wall which could not
be seen if the painting were hanging where it should. This hole
is the same as the one that had been made the other time, and
found during an inspection undertaken on May 5, which hole on
that occasion had served to allow entrance into the two following
rooms and the attic”. Once they discovered the modus operandi used
by the forebears of the “hole-in-the-wall gang”, they finally
found, “in the attic above the room with the church altar, suspicious evidence from a low light fixture”, recognised as the “place
of entry, as the roof tiles had evidently been tampered with, and
were discovered lying next
to a so-called sgaruccio with a
serried handle”. They also
tried
to
understand
“whether they had come
from land or water to climb
onto the roof to get into the
attic”. Interrogations in the
neighbourhood revealed
suspicious
movement
around sunset, noises and
even “persons who fell into
the water” “in the local rio”
as well as approaching boats with ladders. The same “scoundrels”
who had come in spring, “familiar with the premises”, had
therefore returned, doubling their booty. Amongst the documents we discover also a “list of the found paintings missing” in
the inspections of September 17-19, 1827: it contains 21 stolen
works, including “The Presentation of Mary at the Temple by Peranda”,
i.e. Sante Peranda. There were fragments of wood, or the “entire frame”, and “two of the existing paintings were stripped of
their respective gold frames”.
Y Besides the police force and bureaucratic centralisation, the
Habsburg government in Venice also put into place a complex
and long term cultural policy during the “second Austrian domination” (1814-48) and the third (1849-66), interrupted by the
events of 1848-49, both of which followed the first Austrian government (1798-1805) following the Treaty of Campoformio.
This was followed by a further 8 years of French rule under the
Napoleonic Kingdom of Italy (1806-14), initiated by
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Napoleon’s suppression of religious corporations, monasteries,
churches, confraternities and schools between 1806 and 1810,
and the ensuing confiscation of their property. Artistic masterpieces were hoarded and catalogued in deposits such as the former Scuola di San Giovanni Evangelista and the former Commenda di Malta. The better works were sent to France or Lombardy, and hundreds were given to the new art collections at the
fine arts academies, including Venice (in the refurbished Carità)
and Milan (selected for Brera by the commissioners Appiani and
Fumagalli). Works “not singled out for the Crown” were marked
for sale; there were endless public auctions, devalued or deserted because of rampant inflation and the economic crisis.
Y The transformation of the status of works of art imposed
from above nonetheless merged with a latent progressive movement of changes in ownership, and was further scaled down after
measures such as the rationalisation of public finances and the
reduction of manomorta, or mortmain: deliberated as early as 1768
by the Venetian Senate and so far-reaching they determined a
massive circulation of art works, including amongst merchants
and collectors. 18th- and 19th-century interventions in the
Veneto’s artistic heritage and state-owned properties (see indepth studies by Spiazzi and Schiavon, Zorzi, Olivato, Pavanello
and Romanelli) show just how poised things were between continuity and innovation. Austrians in Venice were sensitive towards
emblematic works. After the fall of Napoleon at the Congress of
Vienna, the ex Dominante was given back codices and art works,
particularly from the French, but certainly not from Brera (fig.
6) or the Lombardy churches. On the inauguration of the second Austrian government, and after the institution of the Kingdom of Lombardy-Venetia on April 7, 1815, there was a triumphal sign of restoration amongst the gondolas and “stones of
Venice”: the Habsburg eagle returned to Venice, accompanied by
the horses and lion of St Mark.
Y In fact, 18 years previously, in December 1797, the French
had also removed the bronze quadriga from St Mark’s (fig. 7),
which was then placed at the Arc du Triomphe du Carrousel by
Napoleon. When the Austrian victors decided to remove the
horses from the triumphal quadriga towering between the Louvre and the Tuileries, they decided to do so under cover of darkness and protected by the military for fear of revolts. And the
military was also used to escort the convoy when it left Paris on
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18. Eugenio Bosa e
Andrea Tosini, Allegoria
in occasione della concessione
a Venezia dell’estensione del Porto
Franco, incisione.
Eugenio Bosa and Andrea
Tosini, Allegory on the
Occasion of the Concession
of an Extension of the Free Port
to Venice, engraving.
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October 17, 1815, laden with works on their way back to Italy and
the Vatican, above all thanks to Canova (fig. 8). Thanks to the
artist and to Schwarzenberg, and as decided by the emperor, on
December 13, 1815, the four horses, the symbolic identity of
Venice, arrived in St Mark’s basin (fig. 15), greeted by the deafening roar of a “universal hurray”.
Y The horses were returned in the presence of Francis i, Prince
Metternich and other dignitaries. Vincenzo Chilone immortalised the moment in the painting now in the Treves de’ Bonfili
collection (fig. 9); a capriccio by Canaletto (fig. 1) seems to be
based on Canova’s project to place the horses on tall plinths in
front of the Ducal Palace. Cicognara dedicated a historical narrative to the event, and in a public lecture he celebrated the return, thanks to the Austrians, of works “held by the Seine”, including St Mark’s lion (fig. 10) and the Jove (fig. 11). In 1817, Cicognara used the 10,000 sequin tribute imposed by the government for Francis i’s fourth marriage to Caroline Augusta of
Bavaria to commission works from local
artists. The so-called Homage of the Veneto
Provinces (fig. 12) thus made its way to Vienna:
furniture, paintings, sculptures (foremost of
which was Canova’s Polymnia, which had been
exhibited at the Accademia alongside Titian’s
Assumption of the Virgin, defined “the most beautiful painting in the world”).
Y In the meanwhile, private and religious
buildings were being demolished or converted into taverns, mills, warehouses, barracks
and “penal baths”; theatres were shut down
(in 1824, the theatre of San Moisè was transformed into a carpentry workshop); monuments and altars were being dismantled for
building materials and stone, especially between 1813 and 1820. Venice was still “a city
from the Thousand and One Nights”, as Prince
Metternich wrote to his wife on July 10, 1817,
with the Giudecca and Grand Canals “literally covered with gondolas” (fig. 13), cafés open
and people up and about till dawn; but, notes the princess
Mélanie Metternich in her diary when she arrived from Fusina in
September, 1838, the “magnificent spectacle” offered to those
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arriving in the city (fig. 14) is offset by the sadness of buildings
falling to pieces. Public works for the restoration of buildings
and bridges would start in the 1820s. From the Ghetto, whose
gates had been removed in 1797, Jewish families with a great deal
of economic clout began to purchase real estate, especially considering there were no more limitations on property ownership.
They initially extended to the immediate neighbourhood, then
the Rialto, St Mark’s and along the Grand Canal. Ca’ d’Oro, a
“building in parlous state”, was bought by Moisè Conegliano,
then passed on to Prince Trubetzkoi, who in turn gave it to the
ballerina Maria Taglioni. In 1827, Isacco and Jacopo Treves de’
Bonfili, both bankers, bought Palazzo Barozzi Emo on the rio di
San Moisè, where a scenographic venue was created for Canova’s
Hector and Ajax, bought for 55,000 lire (fig. 16).
Y Massive sell-offs of real estate and other goods had for some
time been more common thanks to economic problems aggravated by Napoleonic requisitions and the 1813-1814 blockade,
and the subsequent crisis, with its epidemics, floods and famine.
The situation remained critical for quite some time, and in 1825
Francis i received a report by the patriarch Pyrker (a patron of
Viennese artists in Venice, but also the promoter, fortunately ignored, of a movement for the destruction of the St Mark iconostasis) which contained comparisons with 1797 and was considered so alarming it was reported in the Times and Journal des Débats.
The 1827 numbers provided further confirmation of the gravity
of the situation: the number of shopkeepers had dropped from
10,884 to 3,628; artisans from 6,200 to 2,442; Arsenale workers from 3,302 to 773; traghetto gondoliers (those who ferried
people across canals) from 1,088 to 607, and other gondoliers
from 2,854 to 297; the number of inhabitants had dropped
from 136,000 to 100,556 (40,764 of whom required welfare
benefits of some kind). The emperor, “to help the good Venetians” who demonstrated great support for him (fig. 17), pressed
for a solution; Pyrker invoked an extension of the Free Port,
which was conceded on February 20, 1829 (fig. 18). In the
meanwhile, private owners continued to sell coins, medals,
paintings and sculptures, along with entire collections and libraries, often to foreigners, and even Austrians.
Y The reasons for this state of affairs can be found as early as the
closing decades of the Serenissima, and are clearly laid out in the
letters of Apostolo Zen, one of the founders of the Giornale de’ let-
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19. Rilievo con leonessa che
allatta i cuccioli, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum; già a Venezia,
collezione Grimani.
Relief with Lioness Suckling Her
Cubs, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, originally in
Venice, Grimani
collection.
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terati d’Italia and Caesarean poet to the Viennese court: if on the
one hand Zeno decries that “bit by bit Italy is losing its best...; but
this is not surprising, because money, taste and study are lacking”,
he nonetheless sold his own impressive coin collection to “a German” in 1748. Anton Maria Zanetti, however, received gems and
old cameos in Vienna in exchange for advice about the prince of
Liechtenstein’s collection, which would eventually contain, via the
antiques dealer Guggenheim, the two reliefs by Palestrina now at
the Kunsthistorisches Museum
(fig. 19) and owned by the Grimanis until the 19th century. Other
marbles from this collection (admired as late as 1822 by visitors
such as Thiersch) were put on sale
in 1831 by the antiques dealer Sanquirico, and other pieces, offered
in vain by Michele Grimani to
Francis i, were bought by merchants such as Weber, Richetti and
Pagliaro and eventually reached
important German and Austrian
clients.
Y We can trace a progressively
larger flow of works from Venetian
collections to those in Vienna, as
in the case of the Attic reliefs,
which went from the TrevisanSuarez museum to the magnificent Obizzi al Catajo (Battaglia
Terme, not far from Padua) collection, which then went in its
entirety to Vienna. And it was here, in the early 19th century,
that part of the Garzoni collection ended up (other elements
ended up in Constantinople). In about 1820, Girolamo Silvio
Martinengo offered his museum to the Austrian government
which, having received the estimate, declined the count’s offer,
which the widow Elisabetta Michiel then made, again in vain.
The collection was finally bought in 1836 also by the merchant
Fontana from Trieste before the contents were sold off throughout Europe. In 1821, pieces from Domenico Almorò Tiepolo’s
collection of medals and coins were sold to Francis i. In 1805,
the emperor had bought, for Venice’s Accademia, plaster casts
and models from the Farsetti collection, including terracotta
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models by Bernini. There is an emblematic entry in Cicogna’s
unpublished Diari dated February 3, 1817, when Antonio di Giacomo Nani undersigned the sale to Francis i of the entire collection at San Trovaso, “one of our most beautiful museums, which
must now leave for Vienna”, for “90,000 gold ongari”, to be paid
in instalments “because Nani refused to accept state-owned land
or allotments in Austria. Thank goodness the collection is leaving in its entirety”. Cicogna then emended this on April 7, 1817:
“Nani’s museum is not going to be sold any
more, and will remain here, if it is not devoured by his creditors”, who were threatening “to divest him of the best and the
good”. The news is also given in Fapanni’s
annotations (see VeneziAltrove 2005), who
was very critical of the “Reverend Antiques
Dealers” and “honourable Brokers and
wheeler dealers”, who “would even sell St
Mark’s basilica, if they could, to foreigners”. Francis i was not in favour of exporting art objects from Venice, despite the
constant offers from collectors: often, the
very descendents of the important houses
described in Barbaro’s Arbori, the most
trustworthy codex of which is now in Vienna among the volumes that were once Foscarini’s and were confiscated by tax inspectors from Giacomo Foscarini, greatgrandson of the doge Marco Foscarini.
Y Austrian measures regarding art in Venice were articulated
according to the principles of safeguarding the city’s heritage and
keeping checks on the art market. From 1816, 14 of the best
pieces were sent to Vienna. In Vienna in June 1838, the prince
of Czernin received 18 cases, with 76 paintings for the Belvedere;
in August, via Metternich, a further 26 packages arrived containing 85 paintings for the Akademie der Bildenden Künste
(given back after 1919). Auctions and sales became more common in Venice once more, often overseen by representatives of
the Accademia, whom the painter Odorico Politi, according to
Cicogna’s Diari on March 19, 1819, accused of monopolising
“paintings from the public domain that are at the Commenda di
Malta, and that are being sold underhandedly and exchanged
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20. Leonardo da Vinci,
Le proporzioni umane secondo
Vitruvio, Venezia, Gallerie
dell’Accademia, Gabinetto
dei Disegni e Stampe;
già in collezione Bossi,
a Milano, e venduto
a Luigi Celotti, nel 1822
è acquistato
per le Gallerie
da Francesco i,
su sollecitazione
di Leopoldo Cicognara.
Leonardo da Vinci,
Vitruvian Man, Venice,
Gallerie dell’Accademia,
Gabinetto dei Disegni
e Stampe. The work was
originally in the Bossi
collection, Milan, and was
sold to Luigi Celotti;
in 1822, it was bought
for Francis i’s Galleries,
on the suggestion
of Leopoldo Cicognara.
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without government permission, damaging our rarities and
guaranteeing great wealth to those involved”. That professors
were involved in the market, even the legitimate market, is borne
out by other, contemporary collections of letters. Thus on July
3, 1802, Ferdinando Tonioli suggested to Canova the name of
“Baldicini”, i.e. Giuseppe Baldissini, son of the academic Nicolò
Baldissini, as one of the “Painting Merchants” gifted with “exhaustive knowledge and a certain amount of probity”.
Y The emperor also bought works for the Venetian Accademia,
amongst which drawings from the Quarenghi collection in 1824
(see VeneziAltrove 2004), and others from the Bossi collection in
1822 (including Da Vinci’s Vitruvian Man, fig. 20) on the advice of
Cicognara. The refurbished Rialto Fabbriche housed the new legal
courts, moved from the Ducal Palace in a bid to avoid another
fire like the one that had destroyed Ca’ Grande dei Corner in
1817, and especially after the outbreak of a fire that had threatened to burn down the hall of the Maggior Consiglio in 1821
(about 20 years later, on December 13, 1836, La Fenice would be
destroyed by fire only to be immediately rebuilt and reopened on
December 26, 1837). After 1822, as can be seen from a Memoria
by Corniani degli Algarotti dated March 7, 1827, “many pieces
have arrived [at the depot of the former Commenda di Malta]
from Palazzo Grimani now the General Post Office, and others
from Palazzo Corner, currently the Offices of the Royal Imperial Delegation”. Since 1817, the State Archives had been housed
in the Frari convent. In the adjacent church, before the monument to Titian paid for by the emperor, the monument to
Canova had been inaugurated in 1827 (he had died five years before at the home of the owner of the Caffè Florian). Among the
financial backers for the cenotaph, promoted by Cicognara (fig.
21), pride of place was occupied by Francis i and his wife, along
with the prime minister of England, kings, bankers and men of
culture such as Byron, Quatremère de Quincy and Alessandro
Volta. And any church or vestry that asked was granted goods
conceded by the “goodness of the Government for simple use
and in order to be well looked after”.
Y In 1817, it was deemed urgent to draw up a catalogue of the
artistic heritage and properties that still belonged to the state.
The complex operation culminated in the “public statistics”, for
which the provincial directorships compiled more than 150 volumes. As Nievo wrote in his Confessioni: “Before statistics opened
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a “hole-in-the-wall gang” under austrian domination
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21. Giuseppe Borsato,
Leopoldo Cicognara illustra
il monumento di Canova ai Frari,
Parigi, Musée Marmottan.
Giuseppe Borsato,
Leopoldo Cicognara Explaining
the Monument to Canova
at the Frari, Paris,
Musée Marmottan.
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her books, each country thought it was what it wanted to be”.
This census was followed, in the late 1830s, by another wave of
concessions, auctions and onerous transfers. In government or
Demanio deposits, we can still find the acts and minutes, as well
as retrace the odd “adjournment” that arrived at the last minute
to save pieces from imminent sale. One such “adjournment” was
presented on November 20, 1822, by the Accademia presidency
and the secretary Diedo, when, following another cataloguing of
art works, “new discoveries” led to the conclusion that “should,
peradventure, any sale project be devised that may harm the
things listed and described as rare” then any standing disposition
to sell these objects should be “suspended or revoked”.
Y Alienations increased in 1833-37, and in the following two
years the revenue offices and the chamber magistrature pressed
for a campaign for the “appraisal of paintings currently held in
the state deposits” so as to provide a new list and up-date the
“general prospectus” for all the provinces. And deposit concessions also increased from 1838, when the emperor Ferdinand i
of Austria received the Iron Crown in Milan (after the authorisation for the construction of the Milan-Venice railway line,
known as the “Ferdinandea”, which was granted on February 23,
1837). Amongst these governmental Annexes, there is also the
“sovereign resolution” from August 1838 that states that, “except
for the paintings in this state deposit set aside for the Viennese
galleries, the other first-class paintings shall be distributed to
churches and public institutions; those which are deemed second-class shall be sold”. A special commission compiles two lists:
one of the “valuable” works to be conserved, the other listing
those works that were to be sold; those listed in red were considered worthless and could be alienated, while those in black were
“available”. In 1847, the internal revenue offices listed 504
paintings in the various deposits, collated in 10 lots destined for
auction and to make room for the “Congress of the Learned”
(just after which, on January 15, 1846, the railway bridge over the
lagoon was inaugurated). In 1851, a despatch from Vienna informed local government that the Archbishop of Lvov had requested that paintings be sent from Venice for the churches of
the Bukovina district: works by Palma, Tintoretto, Ricci and
Tiepolo were thus sent off to the very periphery of the empire.
Y The Austrian bureaucratic machine (with its 3,306 employees
in Venice alone in 1827), however, was not always perfectly con-
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sistent. There are inconsistencies, for example, in the archival
documents pertaining to the removal to San Giovanni Evangelista
of about 5 or 6,000 government-owned paintings in the Salute,
“so that it can be cleared for military use”. The operation was a
direct consequence of the ordinance issued by the directorship of
the Demanio, dated October 19 and 24, 1815. On December 14,
Pasquali presented, via his representative, his “specifications of
the work undertaken and the costs incurred” of 362,744 lire,
“including the half travel allowance of 3.07 lire” (for 7 days’ overtime); Pasquali had availed himself of the consultancy of Baldissini and a host of day labourers “able to manage paintings”.
Pasquali provides details of the transport, from November 16 to
December 9, and comments on how expenditure had been kept
down despite the adversities: “In particular, the long voyage from
the deposit at the Salute to the other at San Giovanni Evangelista,
the difficulty of negotiating the bridges which, either because they
were naturally low-slung or because the tides were particularly
high, forced us to keep our loads rather small, and finally the
scant hours of sunlight in the current season and the inclemency
of the weather”, one of the “many reasons that also led to the large
numbers of workers”, and payment is also requested for the
“many mercenaries”. But we found out also another document,
dated December 15, 1815, detailing
the conclusions of a counsellor
who, having visited “the premises
reserved for the military barracks”,
considers that “the premises at the
Salute are not appropriate for this
purpose. The reasons, therefore,
for the transport of the painting
herein contained are no longer viable”. On December 19, 1815, the
authorities noted: “Before the arrival of the despatch dated December 15... suspending the transport
of state-owned paintings from the premises of the Salute, our
registry offices had received a report from the administrator
Pasquali dated the 14th... in which he informed us that the transport of said paintings had already been undertaken”. Venetian organisation had shown itself to be more efficient than Austrian bureaucracy.
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