DEL POPOLO
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musica
De potentes musicalis
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IV
• n. 7
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200
• Mercoledì, 30 luglio
di Patrizia Venucci Merdžo
Gentilissimi,
ho deciso di concludere i nostri appuntamenti salottieri di questa “stagione” chiacchierando amabilmente ed amenamente
del rapporto tra musica e uomini di potere, dopo aver accennato nell’ultimo numero alla relazione intercorrente tra musica
e uomini di scienza. Intanto dovete sapere
che i sapientoni, i biomusicologi, non fanno che chiedersi: in che modo una facoltà
come la musica, che manca di “uso diretto”,
sia sfuggita all’implacabile e forte azione selettiva della Natura. Cioè: la musica, apparentemente senza scopo, a che cosa è utile?
Lo dicono loro che non serve a nulla mentre in realtà ne siamo tutti impregnati. Lo
sappiamo benissimo che la musica sin dalle
culture umane più remote ha avuto una parte fondamentale nella sfera del potere, della
religione, della guerra, nell’intrattenimento, nel lavoro pratico. Altro che mancanza
di uso diretto.
Ma ora passiamo agli “spetteguleeesss”!
Intanto, dovete sapere che la signorina Condoleeze Rice suona il pianoforte in
maniera più che discreta ed ama fare musica da camera (Non abbiamo notizia che
il caro George suoni alcunché. Lui, caso
mai,”le suona”). Ha una spiccata predilezione per il trio pianistico. Sarà l’inconscio
desiderio di dialogo… musicale? Ad ogni
modo le auguriamo di incappare in un bel
violoncellista che la faccia convolare a giuste nozze, dal momento che la lady aveva
lamentato un diffuso senso di solitudine ed
il desiderio d’ incontrare l’anima gemella.
Tanti auguri e tanti piccoli musicisti. Oh!,
ma sto peccando d’incoerenza. Bisogna
iniziare dall’inizio, forse dal quel briccone
di re David (ne fece di strada, da pastorello
a monarca) che si dilettava a suonare alle
sue caprette la cetra invece del solito piffero
(è sempre stato un ‘originale) e quando “lo
spirito (cattivo) mandato da Dio invadeva
Saul, Davide prendeva la cetra e cantava,
accompagnandosi di propria mano; allora
Saul si calmava, si sentiva più sollevato, e
lo spirito cattivo si allontanava da lui”. E
suona oggi e canta domani il piccolo pastore fu nominato scudiero e alla fine gli
soffiò il trono, a Saul. Potere della musicoterapia! Montato sullo “scagno” re David
compose settantatrè splendidi Salmi (“mizmòr”, canto da eseguirsi sopra strumenti a
corda) dei complessivi centocinquanta che
da secoli seculorum pervadono la liturgia
ebraica e cristiana. C’è poco da dire, re
David è il monarca musicista dell’antichità per eccellenza! Suo figlio Re Salomone
il Saggio (mica tanto, dal momento che si
diede all’idolatria) con il pregiatissimo legno di sandalo donatogli dalla regina di
Saba fece costruire tante cetre e lire per i
suoi cantori.
Forse non lo crederete, ma Elisabetta
I d’Inghilterra, la Rregina Vergine, ritenuta fredda e rigida, amava molto suonare la spinetta inglese, strumento caratteristico del rinascimento in Inghilterra, che,
secondo alcuni fù chiamato “virginel” in
omaggio all’illibata sovrana. Ma il monarca europeo musicista per eccellenza fu … il
temibile Federico il Grande. Monarca illuminato – abolì la pena capitale, promosse
le scienze e le arti, la tolleranza religiosa –
fu un eccellente flautista e perfino compositore, oltre che elegante letterato.
La sua Cappella privata divenne un
importante centro musicale e fece costruire l’Opera di Berlino; compose 4
concerti per flauto e archi, 4 sinfonie, 3
marce, 3 cantate profane, 121sonate per
flauto e clavicembalo. Scrisse alcuni libretti d’opera per Graun. “Un guerriero di casa Hohennzollern che suona il
flauto, che legge poesie!” esclamava disperato il padre, che arrivò a segregare il principe nella fortezza di Kustrin. È
noto il suo incontro con Johann Sebastian Bach nel castello di Sanssouci nel
1747, dove quest’ultimo, su commissione
del re, scrisse la sua famosa “Offerta musicale”, basandosi su un’improvvisazione
a lui affidata dal monarca. La regina Elisabetta del Belgio era un’appassionata di
musica tanto da istituire uno dei concor-
si internazionali di musica ancor oggi tra
i più prestigiosi.
Il Duce suonava il violino. (Sarà per
questo che accusava disturbi della personalità). Papa Pacelli suonava il violino. (Ecco perché aveva sempre quell’aria
così tragica e sofferente!). Benedetto XVI
quando ascolta la musica (e non solo) è
uno spettacolo. Sembra andare in lievitazione, o, che stia per ricevere un’ illuminazione dall’Alto. Lui non diletta i timpani,
o i sensi. Lui “vede” la musica “ai raggi
Röntgen”. L’andamento e gli sviluppi delle singole voci distintamente e contemporaneamente, l’ architettura complessiva, il
movimento armonico, la natura espressiva
del brano, il significato teologico di essa, e
chi più ne ha più ne metta. Insomma sembra pregustare il Paradiso.
Cari lettori, mi sono permessa questa
carrellata minima di potenti-musicisti per
dire che la musica alberga negli animi più
vari e che spesso i sovrani e potenti, amanti delle arti e della musica in particolare,
hanno dimostrato lungimiranza e creatività forse superiori a tanti altri.
Ma quanto siamo seri, per tutte le cetre
di re Salomone! Buone vacanze e, mi raccomando non prendete per musica ogni
rumoraccio! Contestate, fischiate, sputate, ma non fatevi abbindolare!
Musicalregalmente Vostra
2 musica
Mercoledì, 30 luglio 2008
TEATRANDO Presentato il calendario della stagione 2008/2009 del Verdi. Nutrito,
Tra preferenze ed esclusioni sinfo
di Fabio Vidali
TRIESTE – Mentre impazziva l’Operetta, la calura fiacca e
s’approssimano le sospirate ferie, il pensiero corre alla ventura
Stagione Musicale che, da metà
Settembre, allineerà Concerti e,
dal 18 Novembre, alzerà il sipa-
dei Concerti e poi alle rappresentazioni.
Ben otto i repertori concertistici e nove i titoli d’Opera e Balletto che verranno prodotti: indubbiamente un bell’impegno,
al quale s’aggiungerà, in ottobre,
un’adattamento del mozartiano
“Così fan tutte” dedicato ai gio-
L’importanza di Mahler - molto
presente nel repertorio degli
ultimi anni - non è certo in
discussione, ma qui sembra stia
diventando un “chiodo fisso”
sproporzionato ad una corretta
informazione del divenire
musicale fra Otto e Novecento
rio sulla Stagione Lirica e di Balletto, in un arco ininterrotto fino
alla prima decade di Giugno. Una
bella “tirata”, quella programmata dal Teatro Verdi di Trieste, per
l’attività 2008-9.
Così, quest’ultimo servizio
preferiale del nostro Supplemento Musicale, è un po’ come il leopardiano “Sabato del villaggio”,
però con una fondamentale dif-
vanissimi, nel quadro del benemerito “Progetto Opera Domani”
prodotto dall’As.Li.Co.
Solo i più
“grandi”?
I numeri ci sono tutti e (nelle intenzioni di chi li ha programmati nel dettaglio) dovrebbero,
per i Concerti, “spaziare fra i più
June Anderson interpreterà
la “Norma”
ferenza: sappiamo già, titolo per
titolo, ciò che ci aspetterà quando si farà ritorno al “travaglio
usato”.
grandi compositori del repertorio
sinfonico fra Otto e Novecento”.
Assunto degno di lode, ma altrettanto irto di pericoli. Soppesare la
“lana caprina”, comunque strettamente dipendente dal punto di
vista personale di chi effettua le
scelte, e quindi espressione delle
sue private convinzioni più che
di valutazioni imparziali e storicamente motivate. Lo si constata
subito dalla massiccia presenza di
Mahler (già ampiamente presente negli anni precedenti) stavolta
spalmato in ben tre appuntamenti e del quale addirittura si preannuncia, per gli anni venturi, il
completamento dell’intero repertorio sinfonico. L’importanza di
“grandezza” di grandi Maestri,
con la derivante necessità d’esercitare “preferenze” ed “esclusioni”, appare subito un problema di
vembre. Opera inaugurale “Francesca da Rimini” di Riccardo
Zandonai su testo di Tito II. Ricordi, tratto dalla tragedia omonima di Gabriele d’Annunzio. E’ la
seconda volta che, in breve volgere di jktempo, l’apertura del
Cartellone è riservata a Zandonai.
In questo caso proprio con l’Opera che innescò la crisi nei rapporti
fra Puccini e Tito Ricordi il quale aveva scelto Zandonai quale
“successore designato” di Puccini, nell’intento d’imporre al
Melodramma italiano un nuovo
Per i compositori locali, trapassati o viventi e operanti
nel periodo preso in esame, la disaffezione dei
programmatori del Teatro Verdi ora non conosce
limiti. Dallapiccola e Bibalo compresi Colpo grosso
con “Evgenij Onegin” di Ciajkovskij, per il quale si
trasferirà a Trieste quasi tutto il Teatro Stanislavskij di
Mosca (direttore cantanti, regista e Coro)
Mahler non è certo in discussione, ma qui sembra stia diventando un “chiodo fisso” sproporzionato ad una corretta informazione
del divenire musicale fra Otto e
Novecento.
Altra insistenza, spiegabile
solo con una predilezione personale, riguarda Brahms (immancabile anche nelle passate stagioni)
protagonista di ben due appuntamenti (Concerto per piano e orchestra e l’abusato “Deutsches
Requiem”).
Se è da salutarsi con soddisfazione la “prima” triestina de
“Un sopravvissuto di Varsavia”
di Schonberg, del tutto ripetitivo
appare il resto del menù (il citato
Concerto di Brahms e la Suite del
“Rosenkavalier” di R. Strauss).
Anagraficamente tutto dedicato al Novecento il quinto Concerto, con musiche di Britten, Elar,
Gerald Joseph Mulligan (detto
“Gerry”, sassofonista ed esponente del “jazz californiano”) e
di un non meglio conosciuto contemporaneo spagnolo, Pedro Iturralde per sassofono e orchestra.
Britten e Elgar a parte, non risulta che Mulligan ed Iturralde risultino fra “i maggiori compositori
del Novecento”.
Seguirà la serata “Crossover”
(“incroci provocatori”), sperimentata l’anno scorso, dedicata
all’improvvisazione jazz, per accontentare li insaziabili d’un genere che deborda quotidianamente sulle piazza estive e nelle radio
e televisioni.
Ancora Brahms nel settimo
Concerto (“Requiem tedesco”)
ed, in chiusa, per l’ottavo appuntamento, il Mahler della Sinfonia
n.3. col gradito ritorno di Pinchas
Steinberg, direttore illustre, un
tempo “di casa” al Teatro Verdi.
Accanto alle composizioni ci-
Il programma concertistico è in realtà un colabrodo
di “buchi” che, se da una parte include anche il jazz e
qualche sconosciuto contemporaneo, oltre a dimenticare
l’intera generazione italiana dell’Ottanta, glissa su
identità piuttosto significative quali Stravinsi, Bartok,
Webern, Berg, Busoni
Pare opportuno, in attesa dell’auspicabile frescura settembrina, dare un’occhiata a ciò che
bolle in pentola: prima alla serie
anche con la meno frequentata
Sinfonia n.3).
Questo l’itinerario proposto
“dei più grandi fra Otto e Novecento”. In realtà un colabrodo di
“buchi” che, se da una parte include anche il jazz e qualche sconosciuto contemporaneo, oltre a
dimenticare l’intera generazione italiana dell’Ottanta, glissa
su identità piuttosto significative
quali Stravinsi, Bartok, Webern,
Berg, Busoni. Già, ma quest’ultimo era “mezzo triestino”. E per i
locali, trapassati o viventi e ope-
tate, si potranno riascoltare il frequentatissimo Concerto per violino e orchestra di Ciajkovskij, e il
n.3. di Rachmaninov (presente
ranti nel periodo preso in esame,
la disaffezione dei programmatori del Teatro Verdi ora non conosce limiti. Dallapiccola e Bibalo
compresi.
Opera e Ballo
La Stagione d’Opera e Balletto s’aprirà con “Gala” il 18 No-
“nume” più “moderno” ed in linea con le velleità magniloquenti
dell’abruzzese che ispirò i riti coreografico-propagandistici mussoliniani. In breve, Tito Ricordi
fu cacciato dai suoi stessi azionisti. Ma il fatto resta. Ed in pieno
“Anno Pucciniano” sembra quasi una premeditata scortesia per il
genio di Lucca, liquidato mentre
musica 3
Mercoledì, 30 luglio 2008
niche ed allestimenti lirici simbolici
tutti ancora lo celebrano. Il “ponte
Trento-Trieste” colpisce ancora.
Lo spettacolo è in coproduzione
con l’Opernhaus di Zurigo.
Seguirà il ritorno dell’Eifman
Ballet di Pietroburgo, già presente nella passata stagione con
un’”Anna Karenina” piuttosto
discussa. Questa volta si danzerà una novità: “Red Giselle”. La
“Giselle” di Adolf Adam non
c’entra affatto. E’ invece l’allucinante vicenda della danzatrice
russa Olga Spessivsteva portata
alla pazzia proprio dalle interpretazioni della “Giselle” di Adam. Il
tutto su un minestrone di musiche
di Ciajkovskij, Schnittke e Bizet
dove il “corpo del reato”, ovvero
le musiche di Adam, non fanno
nemmeno capolino.
Titolone areniano per lo spettacolo successivo: “Aida” di Verdi, nel nuovo allestimento della Fondazione Verdi, per la regìa
del giovane veneziano Damiano
Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin, le scene ed i costumi di
Carla Teti. La lettura interpretativa è presentata come “atemporale,
innovativa e simbolica” e si basa
su sabbia, acqua e fuoco. Tutta da
scoprire quando s’alzerà il sipario
(ammesso che il sipario ci sia).
Quarto titolo “Norma” di Bellini (da molto assente da Trieste).
Ancora un nuovo allestimento
della Fondazione Verdi, in coproduzione col Comunale di Bologna
(dove ha già debuttato lo scorso
aprile) e la Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari. Largo anche
qui alla simbologia, per la regìa di
Federico Tiezzi. Scene di Pierpaolo Bisleri e costumi di Giovanne
Buzzi, sipari e fondali su bozzetti
di Mario Schifano, per adombrare il conflitto fra Natura e Storia.
Romani (Felice lui) e Bellini, probabilmente non ci avevano pensato a tali implicazioni ed i triestini,
nel 1953, si erano accontentati del
binomio Callas-Corelli per il quale si erano spellati le mani. Com’erano ingenui, allora.
Altra nuova produzione (ma
questa volta della Scala, dove vi
apparve lo scorso Febbraio) per
il successivo balletto: “Coppelia”
di Leo Delibes, dal racconto “Del
Sandmann” di Hoffmann, con coreografie di Derek Deane, scene e
costumi di Luisa Spinatelli e Corpo di Ballo della Scala. Impianto
coreografico “English Style”. Per
chi non l’ha già visto a Milano,
sarà una gradita novità.
Intesa sottesa
Colpo grosso con “Evgenij
Onegin” di Ciajkovskij, per il
quale si trasferirà a Trieste quasi tutto il Teatro Stanislavskij di
Mosca (direttore cantanti, regista
e Coro). Solo la nostra Orchestra
sarà operativa. Ciò grazie alla collaborazione dei Teatri dell’Emilia
Romagna. Si canterà ovviamente,
in russo, con sopratitoli in italiano. Occasione da non perdere per
evitare un costoso viaggio a Mosca. Più modestamente, molti anni
fa’, Trieste applaudì una splendida edizione di”Onieghin” in italiano, su versione apprestata da
tempo di peste” di Puskin. Cinque allegri banchettanti sono disturbati dal passaggio di un carro carico di cadaveri d’appestati. Buon prò gli faccia. Prosit da
estendersi al pubblico. A completare l’allegra serata ci penserà “BB & BB” (Bach, Berio &
Break Beats) del Maggio Fiorentino “Maggio Danza” su musiche
di Berio, Chopin e dell’ignoto
Alva Noto. Anche in questi due
casi, si tratta di nuovi allestimenti della Fondazione Verdi.
Ecco rispuntare Donizetti, per
il penultimo allestimento... quando si dice il caso! Ma si tratta,
stavolta, d’una “novità”. “La figlia del reggimento” è ben nota;
non altrettanto il suo originale in
lingua francese (“La fille du régiment”) con sopratitoli in italiano (altro nuovo allestimento della nostra Fondazione) in coproduzione col Teatro Donizetti di
Bergamo che sembra aver trovato a Trieste il suo santo protettore. Apprendiamo, nell’occasione,
che “La fille du régiment” anticiperebbe il “filone viennese-danubiano dell’Operetta”. A quando
la sua inclusione nel Festival dell’Operetta?
Ultimo spettacolo della Stagione “L’italiana in Algeri” di
Rossini, nella revisione di Azio
Corghi. Allestimento del Teatro
Sociale di Como-As.Li.Co. Regìa
di Pier Luigi Pizzi, ripresa da Paolo Panizza.
Interpreti principali
In “Francesca” canteranno,
nella prima compagnia, Daniela
Dessì e Fabio Armiliato (Paolo),
accanto a Juan Pons (Gianciot-
Daniela Dessì e Fabio Armiliato
interpreti di “Francesca da Rimini” di Zandonai
In “Aida” equivale ad una garanzia la presenza direttoriale di
Nello Santi, già acclamatissimo
l’anno scorso in “Iris”. Avrà al suo
fianco (come in “Iris”) nel ruolo
C’è una larga porzione del Teatro Musicale italiano,
non certo “minore”, che sembra non aver più diritto
di cittadinanza sui nostri palcoscenici: Cilea, Catalani,
Leoncavallo (che non scrisse solo “I Pagliacci”),
Alfano, Respighi, Montomezzi, Malipiero, Petrassi,
Dallapiccola e, nella nostra area, Smareglia,
Illersberg, Bugamelli, Viozzi, de Banfield
Il “Giuseppe Verdi” di Trieste
Vito Levi per la Casa Musicale
Giuliana. Già, ma allora, i sopratitoli non erano stati inventati e gli
italianofoni si godettero lo
spettacolo parola per parola. In
“rispondenza” a questa trasferta
moscovita il Teatro triestino sarà
allo Stanislavskij di Mosca, nel
2009, con l’”Anna Bolena” di Donizetti che naturalmente sarà rappresentata nel Novembre 200 anche a Trieste, nel quadro dell’operazione “tre regine” che, dopo
l’Elisabetta del “Devereux” della
scorsa Stagione, ha in programma anche la donizettiana “Maria
Stuarda”. I nostri programmatori
non stravedono solo per Mahler e
Brahms: anche Donizetti non potrebbe lamentarsi.
L’esigenza di rapportarsi anche alla produzione operistica
contemporanea italiana (con la
rituale esclusione degli autori
della nostra area) sarà soddisfatta
con l’opera in un atto “Il carro e i
canti” espressamente commissionata dal Teatro triestino al compositore di Busto Arsizio Alessandro Solbiati, già recentemente
presente in un concerto sinfonico
e da noi allora positivamente recensito. Trattasi di una “sinfonia
scenica” ispirata dal “Festino in
to). Dirigerà Donato Renzetti che
ritorna in Regione dopo sei anni
d’assenza.
Pinchas Steinberg dirigerà
il Requiem tedesco di Brahms
del titolo, la figlia Adriana Marfisi e, nei ruoli principali, Maria
Pentcheva, Walter Fraccaro (Radames), Juan Pons (Amonasro) e
Nikolaj Didenko (Ramfis).
“Norma” sarà diretta da Julien Kovatchev, con June Anderson nel ruolo del titolo, Roberto
Aronica (Pollione), Giacomo Prestia (Oroveso) e Laura Polverelli
(Adalgisa). “Coppelia” si gioverà della bacchetta di David Coleman. L’Operina di Solbiati ed
il balletto “BB & BB” vedranno
sul podio il maestro concittadino
Paolo Longo. “La fille” sarà diretta da Gerard Korsten con le voci
di Eva Mei e Antonino Siragusa.
“L’italiana” vedrà protagonista
la triestina Daniela Barcellona,
Lawrence Brownlee (Lindoro),
Michele Pertusi (Mustafà) per la
bacchetta di Bruno Campanella.
Come per la Stagione Sinfonica, anche la rassegna lirico-ballettistica (pur tenuto conto che,
con i difficili tempi che corrono, riuscire a varare un cartellone
con tanti titoli è già un risultato
da non sottovalutre) non tutte le
scelte effettuate appaiono condivisibili, anche se certamente, in
parte, dettate dall’esigenza ineludibile del contenimento della spe-
sa. Fra i fini d’istituto delle Fondazioni Liriche, prevalentemente
tenute in vita dalle sovvenzioni
statali e locali (anche private),
quello caratterizzante dovrebbe
essere l’equilibrio delle scelte,
finalizzato all’imparzialità dell’informazione, programmata a
coprire, quanto più possibile, stagione dopo stagione, un percorso
logico che indirizzi la conoscenza del Teatro Musicale nelle sue
espressioni più caratterizzanti
d’ogni epoca e d’ogni stile, senza personali strabiche “tifoserie”,
pur legittime a livello di personali predilezioni nella sfera del
gusto individuale. C’è una larga porzione del Teatro Musicale
italiano, non certo “minore”, che
sembra non aver più diritto di cittadinanza sui nostri palcoscenici:
Cilea, Catalani, Leoncavallo (che
non scrisse solo “I Pagliacci”),
Alfano, Respighi, Montomezzi,
Malipiero, Petrassi, Dallapiccola e, nella nostra area, Smareglia,
Illersberg, Bugamelli, Viozzi, de
Banfield. Per citarne solo alcuni
fra i più significativi ed ignorati, o a lungo trascurati. Riportarli
alle luci della ribalta non sarebbe “campanilismo” né “nazionalismo”, ma arricchimento per
tutti, preziosa caratterizzazione
delle nostre stagioni, corroborante all’autostima autoctona d’un
bacino che non merita d’essere
trattato come una colonia culturale. E ciò senza sforare nei costi,
ma anzi attirando sul nostro Teatro nuovi interessi ed opportunità d’impresa. Basterebbe cominciare. Con la necessaria prudenza
e l’indispensabile coraggio della
convinzione che solo la profonda conoscenza dei nostri “giacimenti culturali ed artistici” ancora “sepolti” può suggerire ed
alimentare. Ne verrebbe solo del
bene per il nostro amato Teatro
e la nostra comunità, da troppo
adusa al “signorsì”.
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musica
Mercoledì, 30 luglio 2008
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Mercoledì, 30 luglio 2008
IL PERSONAGGIO Antonio Mosina, degno continuatore della tradizione lirica fiumana. Ha interpretato il conte di Almaviva un centinaio di volte
Tanta passione, lavoro e umiltà, la ricetta che porta al vero successo
“T
enore
dall’accentuato timbro lirico, dalla
distinta musicalità naturale e maturità tecnica, con una
particolare attitudine alla recitazione. Si distingue soprattutto nei ruoli
belcantistici. È un valido interprete
sia delle parti liriche che in quelle drammatiche. I suoi ruoli principali e da comprimario sono delle
creazioni complete, in particolare
nel campo della recitazione, che lo
collocano tra i migliori solisti lirici della Jugoslavia”. Il testo, tratto dal Dizionario della musica jugoslava, parla di Antonio Mosina,
Nel 1949, assieme a due amici
decisi di presentarmi all’audizione
per il coro maschile della “Fratellanza”. All’epoca, a dirigere il coro era
il maestro Igo Drucker, primo violinista dell’Orchestra del Teatro “Ivan de
Zajc”. Tutti e tre riuscimmo a entrare
nel coro e questi furono i miei primi
passi nel mondo della musica. Dopo
il maestro Drucker, a dirigere la “Fratellanza” fu il maestro Vinko Kalačić,
il quale lavorando con il nostro coro
notò alcune voci che spiccavano per
forza e timbro ed ebbe l’idea di formare un gruppo di solisti, tra i quali mi trovai anch’io. Tra i “prescelti”
c’era pure Marino Sfiligoi, un autentico mito della nostra società artisti-
Nel ruolo di Duca
di Mantova in “Rigoletto”
uno dei più distinti solisti del coro
maschile e misto della SAC “Fratellanza” e del coro “Fedeli fiumani”,
come pure del complesso “Virtuosi
fiumani”, ma innanzitutto un can-
co-culturale. A quell’epoca cominciai
a sviluppare delle ambizioni legate al
canto, per cui iniziai a frequentare lezioni private dalla nota soprano Karmen Vilović. A quei tempi, la decisio-
tempo bruttissimo – bussai alla porta
dell’allora direttore dell’Opera di Sarajevo, Mladen Pozajić, e gli chiesi se
sarebbe stato tanto gentile da ascoltarmi e darmi un suo giudizio e consiglio. Volevo, infatti, sapere se valesse la pena di continuare a studiare e
a occuparmi di canto, oppure sarebbe
stato meglio lasciar perdere. Gli cantai alcune arie del Cilea, della “Traviata” e del “Rigoletto”. Vorrei puntualizzare che allora i direttori si dedicavano molto di più ai nuovi talenti
perché sapevano che il successo dei
cantanti sarebbe stato anche un loro
“Per fare bene un lavoro
bisogna innanzitutto essere umile,
perseverante e studiare sodo.
Soltanto in questo modo, dopo
tanti sacrifici, uno può ottenere dei
risultati e raggiungere il successo”
successo. Insomma, la mia interpretazione gli piacque e dopo tre giorni
ricevetti l’invito di venire a Sarajevo
per un’audizione. Dovevo preparare
la parte di Pinkerton nella “Madame
Butterfly”, che fu il ruolo nel quale
debuttai da tenore all’opera. Dovetti preparare la parte in croato e lavorai intensamente con la prof.ssa Nada
Auer. Arrivai a Sarajevo, mi ascoltarono e mi offrirono un contratto. Iniziò così una grande avventura per me.
Mi trasferìi a Sarajevo con la famiglia
e vi rimasi per venti anni, dal 1960 al
1980, lavorando all’Opera come primo tenore. All’inizio degli Anni ‘80
ritornai a Fiume e lavorai nel nostro
Teatro fino al pensionamento.
Perché decise di ritornare a Fiume?
Sentivo tanta nostalgia per la mia
città. Ogni volta che finivano le ferie
e dovevo tornare a Sarajevo con la famiglia – all’epoca mia madre era ancora viva e la nostra casa era in Piazza Dante (oggi Piazza della Repubblica di Croazia, nda), proprio di fronte
all’ex “Slavica” (l’attuale “Brasserie
As”, nda) – ricordo che arrivavamo
già a Piazza Žabica e mia madre ci
“Matačić considerava e apprezzava
il nostro coro. Ritengo che all’epoca
la ‘Fratellanza’ fosse la migliore
corale di Fiume, con la quale poteva
forse concorrere soltanto
lo ‘Jedinstvo’, diventato più tardi
‘Jeka Primorja’”
tante lirico che ha trascorso gran
parte della sua carriera come solista dell’Opera di Sarajevo, offrendo
valide interpretazioni di ruoli come
il conte d’Almaviva ne “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini, di Alfredo, del Duca di Mantova e di Cassio rispettivamente nelle opere “La
Traviata”, “Rigoletto” e “Otello” di
Verdi; oppure di ruoli come Rodolfo
e Pinkerton ne “La Bohème” e “Madame Butterfly”, per nominarne soltanto alcuni. Sempre attivo nel campo della musica, Mosina testimonia
una passione e un amore verso l’arte
del canto che lo porta a occuparsene con entusiasmo anche dopo sessant’anni di ininterrotta attività.
Cominciamo dai suoi inizi musicali. Quando si avvicinò alla musica
e decise di volersi dedicare a quest’arte in maniera professionale?
ne di studiare comportava numerosi
sacrifici, in quanto non c’erano le borse studio e si viveva in maniera molto modesta. Lavoravo come tornitore
alla Fabbrica Torpedo, poi alla Voplin, dove trascorrevo anche dieci ore
al giorno, al termine delle quali frequentavo puntuale le lezioni di canto. Dopo lo studio con la Vilović, iniziai a frequentare la Scuola di musica
“Ivan Matetić-Ronjgov” dove ebbi
come maestra di canto la signora Zlatka Butković, all’epoca una bravissima Madame Butterfly nel nostro Teatro. Passai poi a perfezionarmi con la
rinomata mezzosoprano Nada Auer.
Il mio percorso formativo nel canto
durò in tutto otto anni. La prima occasione per farne una professione si presentò con l’arrivo a Fiume dell’Opera
di Sarajevo con “Il Trovatore” di Verdi. Ricordo che un 18 aprile – c’era un
salutava ancora dalla finestra. Questa
scena mi è rimasta talmente impressa che ancora oggi quando passo di
là mi sembra di vederla. Sono molto
sentimentale di natura e credo che per
questo motivo ho anche perso molte
occasioni nella mia carriera. Infatti, a
un certo punto avevo l’opportunità di
andarmene in Germania, avrei avuto
anche un ottimo onorario, ma non lo
volevo fare. Nel 1980 decisi di ritornare a Fiume. Al ritorno mi unìi nuovamente alla ‘Fratellanza’, nell’ambito della quale tornò a formarsi il gruppo di solisti e da qui i ‘Virtuosi fiuma-
Con Ljiljana Molnar-Talajić
in “Madame Butterfly”
ni’, con il quale abbiamo finora avuto
molti concerti di successo.
Ci può raccontare la sua esperienza dei grandi personaggi che
ha conosciuto nel corso della sua
carriera?
Ricordo il Maestro Boris Papandopulo, un grande artista e un grande uomo. Aveva un enorme sapere e
una profonda conoscenza della musica, ma allo stesso tempo era una
persona modesta e democratica. Ed
è questo ciò che distingue i grandi
personaggi dagli altri. Un altro grande uomo e artista al quale devo molto è stato Mladen Pozajić, che all’epoca in cui lavoravo a Sarajevo
era direttore d’orchestra e professore al Conservatorio. Ricordo che nel
primo anno del mio soggiorno nella capitale bosniaca vivevo separato
dalla famiglia che era ancora a Fiume e la vita era piuttosto difficile e
segnata da ristrettezze economiche.
Un giorno, vedendo la mia situazione, Pozajić mi portò a mangiare in
un ristorante in centro, il che fu soltanto uno degli episodi in cui si dimostrò come uomo dal cuore grande
e generoso, amabile ma soprattutto
modesto e semplice. Gli sarò grato
per tutta la vita per quanto ha fatto per me. Devo dire che nel corso
della mia vita a Sarajevo ho avuto
la fortuna di incontrare e di frequentare persone meravigliose. Non dimenticherò mai un colonnello dell’Esercito jugoslavo che, venuto a
sapere che ero fiumano e conoscendo la mia difficile situazione materiale, aveva invitato me e la mia famiglia per due settimane a casa sua,
il tempo necessario per trovare una
sistemazione. La sua ospitalità era
tale che ci offrì la propria camera da
letto, mentre lui e sua moglie dormivano sui materassi in un altra stanza. Queste persone si sono dimostrate molto aperte e cordiali e con loro
mi sono sempre sentito benissimo.
Ovviamente, non sono mancate le
esperienze negative, ma queste per
fortuna sono state molto più rare.
Ha avuto l’occasione di cantare
pure con la rinomata soprano Ljiljana Molnar Talajić, scomparsa da
poco. Ricorda qualche aneddoto legato a lei?
Fu una grande artista che sulla
scena dava tutto, anima e corpo. Cantava con il cuore e poteva far piangere
anche i sassi. Davvero un’eccezionale
interprete che ha raggiunto il successo con grandi sacrifici, in quanto proveniva da una famiglia povera. La sua
“Ascoltavo sempre con somma
ammirazione il grande Gino Bonelli,
autodidatta, ma grande lavoratore.
Credo che ai miei tempi ci fosse
molto più rispetto; oggi invece
il materialismo regna ovunque”
vita di studentessa di canto fu molto
difficile e forse proprio le privazioni alle quali era sottoposta furono la
causa della sua malattia più tardi nella vita. Ljljana era una persona molto
estroversa, amabile e immediata che,
una volta entrata come professore di
canto all’Accademia di Musica di Zagabria, non fu purtroppo ben accetta
da tutti i colleghi.
Ha dei ricordi legati al Maestro Lovro
Matačić?
Personalmente ho
avuto pochi
contatti con
il Maestro,
ma ricordo
che una volta
giunse a Sarajevo per dirigere l’opera
“Fidelio” di
Beethoven,
nella quale avevo una
piccola parte. Anche lui
una persona meravigliosa e
semplice, come tutti i grandi artisti.
Una volta abbiamo anche ‘festeggiato’ dopo un allestimento dell’‘Aida’ di
Verdi qui a Fiume, esagerando un po’
con il vino
le della ‘Fratellanza’ era molto bravo
e spesso veniva ingaggiato negli allestimenti di opere liriche, tra cui anche
nell’‘Aida’. Parlo della fine degli Anni
‘40, quando il coro era all’apice della
sua qualità. Matačić vedeva sempre di
buon occhio il nostro coro e lo sapeva
apprezzare. Ritengo che all’epoca la
‘Fratellanza’ fosse il miglior coro di
Fiume, al quale poteva forse concor-
tuali delle opere liriche al nostro
Teatro?
Devo dire che non ne sono entusiasta. Ritengo che spesso nè i
costumi, nè la regia rispettino il
libretto dell’opera e il suo senso.
“I registi si prendono troppe libertà
senza alcuna giustificazione.
Invece, il libretto dovrebbe essere
la base della regia”
rere soltanto lo ‘Jedinstvo’, diventato
più tardi ‘Jeka Primorja’.
Quali sono i ruoli nei quali si è
trovato meglio, le parti liriche o le
opere che preferisce?
Come tenore lirico, per me la prima in scaletta è ‘La Bohème’ di Puccini, che è sempre nel mio cuore. Ricordo di aver visto uno spezzone dell’opera al Teatro Fenice negli Anni
‘40, durante la proiezione di un film, e
di esser rimasto affascinato dalla bellezza della musica. Poi ‘Elisir d’amore’ di Donizetti. Insomma, nelle parti
romantiche mi sono trovato sempre a
mio agio. Comunque, è sempre difficile fare una distinzione perché ogni
ruolo ha le proprie particolarità.
Quali sono le doti e le qualità
che un cantante lirico deve avere?
Innanzitutto, una bella voce, che è
ovviamente la base sulla quale poi si
costruisce. Poi, l’intelligenza e l’umiltà. Per fare bene un lavoro bisogna innanzitutto essere umile e perseverante e lavorare sodo. Soltanto in questo
modo, dopo tanti sacrifici, uno può
ottenere dei risultati e raggiungere
il successo. Spesso per raggiungerli bisogna attendere a lungo, ma prima o poi si arriva. La presunzione e
la prepotenza non aiutano, e nemmeno la superficialità e la fretta di riuscire. Inoltre, bisogna rispettare il lavoro altrui e cercare sempre di imparare, anche a carriera fatta. Ricordo che
ascoltavo sempre con grande rispetto
e ammirazione il grande Gino Bonelli, autodidatta, ma grande lavoratore.
Credo che ai miei tempi c’era molto
più rispetto, oggi invece ovunque regna il materialismo. Umiltà e lavoro
sono le due cose che portano al successo. E io le tenevo sempre di conto, tanto che nel corso della mia carriera ho cantato la ‘Traviata’ 45 volte,
mentre nel ‘Barbiere di Siviglia’ mi
sono esibito quasi cento volte, senza
contare altri ruoli che ho interpretato. All’inizio della carriera mi hanno
aiutato molto i piccoli ruoli, grazie
ai quali sono diventato padrone della scena. Essere un cantante d’opera significa anche
saper recitare e
ciò si nota fin dai
primi passi che uno
fa sul palcoscenico.
Sono grato alla vita
per avermi concesso
una bella carriera per
la quale devo molto
anche a mia madre
che mi aiutava come
poteva.
Come giudica
gli allestimenti at-
Di recente ho visto il ‘Barbiere di
Siviglia’, che ho cantato moltissime volte, e l’ho vissuto come una
‘pagliacciata’. Il conte (d’Almaviva, nda), anche se lo troviamo in
un’opera comica, è pur sempre un
conte e non è adeguato alla concezione dell’opera metterlo alla pari
con Figaro, che è un uomo del popolo. Credo che, a vedere cosa si fa
adesso delle loro opere, molti compositori piangerebbero di disperazione. I registi si prendono troppe libertà senza alcuna
giustificazione. Invece, il libretto dovrebbe essere la
base della regia.
C’è qualche differenza tra il pubblico di un tempo
e quello di oggi?
Con tutto rispetto verso gli
odierni appassionati di opera, credo che comunque
il pubblico di un
tempo era composto innanzitutto
da conoscitori che
amavano e conoscevano il teatro lirico, mentre oggi,
mi sembra, venire
al Teatro per la prima vuol dire sfoggiare abiti costosi e fare
pettegolezzi. Il pubblico di una volta se
ne intendeva e se uno
non era all’altezza veniva fischiato. Oggi invece
applaudono a tutti.
Le è mai successo di venir fischiato?
Per fortuna, non mi è
mai successo.
O di dimenticare il
testo?
Mi è capitato durante un allestimento de ‘Il Barbiere di Siviglia’ nel ruolo del conte d’Almaviva dove, invece di pronunciare
la frase ‘A šta vidim?’ (all’epoca,
le opere venivano tradotte in croato), ho borbottato “biri-biri”... Per
un mese i miei colleghi mi chiamavano scherzosamente proprio ‘biribiri’. È accaduto diverse volte, ma
sono cose che capitano a tutti...
Quali sono, secondo lei, i cantanti lirici di Fiume che si distinguono per qualità? E quale è il
cantante lirico che ammira di
più?
Devo lodare le colleghe Olga
Šober e Mirella Toić, delle bravissime cantanti. Per me, il miglior tenore di tutti i tempi è stato il grande Beniamino Gigli, che ascoltavo
cantare l’Ave Maria ogni domenica alla radio quand’ ero bambino.
Lui cantava con il cuore, e ciò si
sentiva.
Come Alfredo ne
“La Traviata”
“Il pubblico di un tempo era
composto innanzitutto da
conoscitori che amavano e
conoscevano il teatro lirico,
mentre oggi, mi sembra, venire
a Teatro per la prima significa
sfoggiare abiti costosi e fare
pettegolezzi”
GRAZIELLA TATALOVIĆ
di Helena Labus
6 musica
Mercoledì, 30 luglio 2008
MUSICA ETNICA Uno strumento degli aborigeni australiani suonato da uno zagabrese
Dalla matematica al didgeridoo:
un viaggio verso la libertà
di Lucio Vidotto
C
i sono tanti artisti nella storia ad aver scelto
l’incertezza,
rinnegando ciò che il destino aveva loro
riservato in chiave di esistenza,
di lavoro. Molti hanno capito
di aver sbagliato, magari troppo tardi e altri, più bravi e fortunati, ne sono usciti vincitori.
C’è qualcosa di ben diverso nel
personaggio che abbiamo conosciuto e che vi presentiamo in
quest’occasione, che va oltre a
quella che può essere la smania di un adolescente che invece di studiare vorrebbe sposare
una carriera di musicista rock o
di attore.
Dubravko Lapaine ha studiato matematica fino a diventare
assistente all’Università zagabrese. Contemporaneamente al
successo professionale si svegliava in lui una passione inconsueta, ma solo per chi non ha
mai avuto una grande passione.
Si chiama didgeridoo (si pronuncia didjeridù) ed è un tubo di
legno cavo, strumento tradizionale degli aborigeni australiani. Quando uno decide di voler
vivere di musica, ammesso che
abbia talento e una certa istruzione, può anche avere la fortuna di essere scoperto e quindi
di affermarsi. Per uno che molla
un lavoro all’università per costruire e suonare degli spartani
strumenti ci deve essere per forza qualcos’altro.
Siamo andati a conoscere
Lapaine dopo esserci documentati su di lui e sul didgeridoo,
incontrandolo a Visignano, all’Astrofest, una manifestazione
che da qualche anno viene organizzata nei pressi dell’Osservatorio astronomico nella notte
più breve dell’anno, il solstizio,
tra il 21 e 22 giugno.
stico. Si può vivere con il didgeridoo? La risposta è stata quella
che un po’ ci aspettavamo, anche senza conoscere il nostro
interlocutore: “Evidentemente,
vivo di questo, ma in un senso
che va oltre l’aspetto pecuniario”. Inserendo il suo nome nella casella per la ricerca su You
Tube abbiamo scoperto numerosi filmati, con numerose esibizioni, ma anche con qualche
pensiero del singolare musicista che ci ha ulteriormente incuriosito. Non sembra in grado di
esprimere con le parole la propria felicità per la scelta fatta.
“La mia non è una carriera,
o meglio, non la considero in
questo senso. Ho inciso un cd e
ho partecipato a numerosi festival”; anche se si è esibito in numerose rassegne importanti, con
molte richieste che non riesce a
soddisfare, Lapaine è fedele alla
sua felicità e sembra non scomporsi anche quando una certa
no gli strumenti. Ha poco tempo per occuparsi d’altro e men
che meno per ascoltare musica.
Quando può non disdegna Balanescu, Stefano Scodanibbio,
Igor Ratković, Hadouk trio,
Calexico, mentre tra i più commerciali, per modo di dire, apprezza i Beirut, Serj Tankiana,
Arcade fire e gli A Hawk and a
Hacksaw.
L’amore
in un etno shop
L’amore è sbocciato all’interno di un etno-shop di Zagabria dove Dubravko Lapaine è
rimasto incantato da questo strumento, allo stesso tempo semplice e complesso. Gli aborigeni
australiani li creano da pezzi di
legno scavati dalle termiti. Nella versione “occidentale” viene
accelerato il processo, come ci
spiega Lapaine, utilizzando due
metodi. Uno consiste nello sca-
Una scelta di vita
La nostra prima domanda,
fatta prima dell’incontro diretto,
tramite posta elettronica, voleva
essere più che altro una provocazione per accendere immediatamente il dibattito. Uno che
lascia un lavoro può sperare di
poter vivere suonando uno strumento che definire poco commerciale è quantomeno eufemi-
fama rischia di coinvolgerlo. Ha
29 anni da compiere a ottobre,
1,70 di altezza e 67 chili di energia che sprigiona quando serve,
ai concerti o in qualche piazza
della capitale, oppure in officina, nel laboratorio in cui nasco-
vare il legno dall’interno e l’altro nel tagliare longitudinalmente il tronco o il ramo, lavorando
di scalpello, per poi incollare le
due parti. “Tutto inizia con la
scelta del legno che viene lasciato a seccare per due anni. Si
inizia a lavorarlo all’esterno con
un primo strato protettivo. C’è il
taglio longitudinale, poi l’incollatura, l’immersione, la lavorazione del bocchino o imboccatura, altri strati di protezione,
per cinque giorni consecutivi
di lavoro. Naturalmente – precisa Lapaine – ho cercato di semplificare la spiegazione. Ne ho
costruiti 35. Per quello di dieci
metri ho impiegato tanto tempo
in più. Avrei potuto creare una
ventina di didgeridoo normali”.
Nasce prima l’idea del suono che si vuole ottenere oppure è lo strumento a decidere?
“Succedono entrambe le
cose. Abitualmente, costruendo
uno strumento, parto da un suono particolare che vorrei produrre. Molto spesso è il materiale a
darmi l’ispirazione. Ogni didgeridoo è un esperimento perché
ogni strumento è diverso dagli
altri per forma e metodo di lavorazione. Può essere minore o
maggiore il fattore dell’imprevedibilità, ma è sempre un esperimento. È così che ho imparato tutto quello che so. Quando
ho incontrato per la prima volta
questo strano tubo di legno non
immaginavo cosa sarebbe divenuto per me”.
Tutto ciò sembra un po’
fuori dal comune. Come si arriva a cambiare in modo così
drastico la propria vita?
“È avvenuto gradualmente.
Io dovevo trovare il didgeridoo
o forse è lui che ha trovato me.
Da allor fino a oggi è un susseguirsi di cause e conseguenze che si basano sul suonare e
sul pensiero mentre si suona e
quando non si suona. Il legame
è nato gradualmente e le cose
che un tempo mi attiravano una
volta hanno smesso di interessarmi. Non le ho abbandonate.
Semplicemente vi ho trovato un
senso più profondo e sfide più
interessanti. Non so spiegarne
il perché, ma lo vivo come una
cosa molto naturale, così come
il mare è azzurro o verde, come
il sole è giallo o rosso. Io suono
il didgeridoo”.
Un calcio
alla carriera
universitaria
Com’è arrivata la decisione, a un certo punto, di cambiare... mestiere?
“Descrivere questa fase mi
riesce difficile. A spingermi
sono stati stimoli e sensazioni interne. Da un punto di vista può sembrare una decisione
drastica quella di gettare all’aria
vent’anni di studio, lasciando
volontariamente un impiego che
non potrò mai riavere, abbandonando gli studi post laurea che
difficilmente potrò recuperare.
In altre parole, ho caricato tutta
la mia ‘carriera matematica’ su
un treno che viaggiava nella direzione opposta alla mia, verso
lo spazio. Per me non è stata una
decisione difficile. Non mi è servito coraggio o una grande forza d’animo per compiere questo
passo. Ero consapevole di tutto,
di andare là dove sento di appartenere. Immaginando una lista
con tutti i mestieri del mondo,
usando le fantasie più audaci e
perverse, arriverei sempre a fare
la stessa scelta”.
Quando parliamo di questo
strumento sappiamo di trovarci a grande distanza da quelli
che sono i canoni della musica,
classica o moderna che sia, imprigionata comunque da regole,
più o meno rigorose. Dubravko
Lapaine non ha titoli accademici per quanto riguarda la musica,
anche se nella sua famiglia, oltre alla matematica, in tanti hanno suonato uno strumento.
Assoluta libertà
di espressione
“Non ho mai imparato a suonare uno strumento. Il didgeridoo ti dà una libertà assoluta di
espressione, non deve sottostare
ad alcun canone. Tutte le volte
che comincio a suonare per me
inizia un viaggio che termina
alla fine del brano. Mi assento
completamente dal luogo fisico in cui mi trovo. Tutte le volte è una sensazione stupenda e
a livello fisico è un piacere immenso. Immensa è la mia felicità che provo facendo questo
lavoro. È una cosa che mi sono
creato io e che tutti possono fare
lo stesso. Ci viene insegnato ciò
che è buono, ma non credo che
sia giusto così. A me hanno insegnato che dovevo imparare.
Oggi mi considero estremamente fortunato perché faccio due
cose che mi rendono felice, costruire e suonare il didgeridoo.
Mentre faccio uno strumento
sogno il momento in cui potrò
suonarlo”.
C’è una componente che
possiamo definire mistica in
quello di cui stiamo parlando,
sicuramente per il nostro protagonista, ma anche per chi ascolta e cerca di afferrare il senso di
suoni che simulano le forze della natura, dove un soffio si può
trasformare in un boato. Si tratta
di un piacere condivisibile con
l’esecutore che il fascino misterioso del didgeridoo è riuscito a
farlo percepire a molti. Dal vivo
è assolutamente qualcosa di diverso, forse psichedelico, però
profondamente suggestivo. Farsene un’idea è piuttosto semplice. Un qualsiasi motore di ricerca su Internet vi condurrà, con il
suo nome nell’apposita casella,
a scoprire qualcosa di nuovo.
musica 7
Mercoledì, 30 luglio 2008
Giro giro tondo quanto canta il mondo Giro giro tondo quanto canta il mondo
Rossini Opera Festival: connubio
tra spettacolo e recupero musicologico
PESARO - Il Rossini Opera
Festival è un ente autonomo che
promuove l’omonima manifestazione lirica internazionale interamente dedicata a Gioachino Rossini. Suo scopo è il recupero, la
restituzione teatrale e lo studio
del patrimonio musicale legato
al nome del Compositore, che lasciando erede universale di tutta
la sua cospicua fortuna il Comune di Pesaro, consentì la nascita
dell’attuale Conservatorio di musica e della Fondazione Rossini.
Il Rossini Opera Festival è
stato istituito nel 1980, sempre
ad opera del Comune di Pesaro,
con l’intento di affiancare e proseguire in campo teatrale l’attività scientifica della Fondazione
Rossini: è nato così un originale
laboratorio interattivo di musicologia applicata, finalizzato al recupero musicologico, teatrale ed
editoriale di tutto il sommerso
rossiniano.
Formula e metodo
Alle vicende istituzionali si
affianca la ventennale sperimentazione della formula “musicologia più teatro”: essa è in pratica la
storia di un autentico viaggio collettivo alla riscoperta dei capola-
vori rossiniani dimenticati, intrapreso assieme al pubblico degli
appassionati.
Caratteristica del Festival è diventata infatti una speciale atmosfera che, oltre a stimolare il lavoro sul palco e dietro le quinte,
finisce per coinvolgere gli stessi
spettatori nel clima di tesa solida-
Rossini giovane
rietà che lega fra loro artisti, musicologi, maestranze, organizzatori e tecnici, ciascuno dei quali
si sente protagonista di una singolare, rara avventura culturale.
In questo clima si è affermato
un metodo di lavoro basato sull’attività parallela di musicisti,
musicologi e operatori teatrali:
i problemi di palcoscenico vengono affrontati contestualmente a quelli specifici della partitura, mentre gli studiosi mettono a
punto le soluzioni musicologiche partecipando attivamente alle
prove in sala. Fondamentale è il
contributo dell’Accademia Rossiniana, seminario permanente di
studio sui problemi dell’interpretazione rivolto ai professionisti
dello spettacolo.
Anno dopo anno, è apparso
evidente che via via che procede
il recupero teatrale delle partiture
dimenticate, i problemi della loro
esecuzione musicale e messinscena moderne diventano sempre più
numerosi e complessi. Per questo
la strategia del Festival prevede,
accanto alla riscoperta del repertorio operistico sconosciuto di
Rossini - cui è venuta ad aggiungersi, dal 1990, l’esplorazione di
tutta la produzione cameristica lo studio sistematico dei problemi legati alla restituzione ad un
pubblico contemporaneo di un
teatro basato su un codice espressivo così antico e apparentemente
inattuale. Tutto ciò ha consentito
Il Teatro Rossini di Pesaro
il progressivo superamento della
falsa immagine legata a un’idea
di ortodossia rossiniana rigida e
museale, e favorito invece la nascita di un luogo di discussione e
ricerca, oltre che di incontro di
idee e progetti.
Titoli e artisti
Accanto a partiture classiche del catalogo rossiniano, ricondotte alla lezione autentica
(come L’Italiana in Algeri, Semiramide, Tancredi, Guillaume
Tell, La Cenerentola e altre) il
Festival vanta anche un lungo
elenco di titoli sconosciuti, restituiti in allestimenti importanti, accolti ogni volta da critica e
pubblico come autentici eventi
della cultura.
Si possono citare fra questi
Il viaggio a Reims, Maometto
II, La donna del lago, Mosè in
Egitto, Edipo a Colono, Ermione, Bianca e Falliero, Armida,
Ricciardo e Zoraide, Adina, Zelmira, Matilde di Shabran, capolavori dimenticati, che da Pesaro hanno ripreso il volo per i
teatri di tutto il mondo. Culmine
di questa esplorazione sistematica del “sommerso” rossiniano è
stato il recupero de Il viaggio a
Reims, la leggendaria partitura
svanita nel nulla dopo la prima
rappresentazione del 1825, senza
neppure la traccia di copie manoscritte. Il fortunoso ritrovamento
e la sua restituzione a Pesaro nel
1984 con la direzione di Claudio
Abbado vengono considerati uno
degli eventi musicali più importanti del secolo. La sempre maggiore presenza di opere rossiniane nei cartelloni internazionali è
la miglior testimonianza del decisivo contributo dato dal Festival pesarese alla Rossini-renaissance.
Programma del Rossini Opera Festival
Programma Rossini Opera
Festival 2008
XXIX Edizione Pesaro, 9-23 agosto 2008
Teatro Rossini - 9 agosto,
ore 21.00
IL PRESAGIO ROMANTICO
Tenore
Juan Diego Flórez
Con la partecipazione del
soprano JULIA LEZHNEVA
Direttore ALBERTO ZEDDA
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
ORQUESTRA DE LA
COMUNITAT VALENCIANA
(Dir. musicale Lorin Maazel)
Pagine da La donna del lago e
Guillaume Tell
ERMIONE
Azione tragica in due atti di
Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della
Fondazione Rossini, in
collaborazione con Universal
Music Publishing Ricordi, a
cura di Patricia B. Brauner e
Philip Gossett
Direttore ROBERTO
ABBADO
Regia DANIELE ABBADO
Scene GRAZIANO GREGORI
Costumi CARLA TETI
Progetto luci GUIDO LEVI
Personaggi e Interpreti
Ermione SONIA GANASSI
Andromaca MARIANNA
PIZZOLATO
Pirro GREGORY KUNDE
Oreste ANTONINO
SIRAGUSA
Pilade FERDINAND VON
BOTHMER
Fenicio NICOLA ULIVIERI
Cleone IRINA SAMOYLOVA
Cefisa CRISTINA FAUS
Attalo RICCARDO BOTTA
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
Maestro del Coro Jaroslav
Brych
ORCHESTRA DEL TEATRO
COMUNALE DI BOLOGNA
Nuova coproduzione con la
Fondazione Lirico Sinfonica
Petruzzelli e Teatri di Bari
L’EQUIVOCO
STRAVAGANTE
Dramma giocoso per musica in
due atti di Gaetano Gasbarri
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della
Fondazione Rossini, in
collaborazione con Universal
Music Publishing Ricordi,
a cura di Marco Beghelli e
Stefano Piana
Direttore UMBERTO
BENEDETTI
MICHELANGELI
Regia EMILIO SAGI
Scene FRANCESCO
CALCAGNINI
Costumi PEPA OJANGUREN
Progetto luci GUIDO LEVI
Marina Prudenskaja sarà
Ernestina ne “L’equivoco
stravagante”
Personaggi e Interpreti
Ernestina MARINA
PRUDENSKAJA
Gamberotto BRUNO DE
SIMONE
Buralicchio MARCO VINCO
Ermanno DMITRY
KORCHAK
Rosalia AMANDA FORSYTHE
Frontino RICARDO
MIRABELLI
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
Maestro del Coro Pavel Vanek
ORCHESTRA HAYDN DI
BOLZANO E TRENTO
MAOMETTO II
Dramma per musica in due atti
di Cesare Della Valle
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della
Fondazione Rossini, in
collaborazione con Universal
Music Publishing Ricordi, a
cura di Claudio Scimone
Direttore GUSTAV KUHN
Regia MICHAEL HAMPE
Scene ALBERTO ANDREIS
Costumi CHIARA DONATO
Progetto luci FRANCO
MARRI
Personaggi e Interpreti
Paolo Erisso FRANCESCO
MELI
Anna MARINA REBEKA
Calbo DANIELA
BARCELLONA / HADAR
HALEVY (20.VIII)
Condulmiero ENRICO
IVIGLIA
Maometto II MICHELE
PERTUSI
Selimo COSIMO PANOZZO
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
Maestro del Coro Lubomír
Mátl
ORCHESTRA HAYDN DI
BOLZANO E TRENTO
Nuova coproduzione con
TheaterBremen
Teatro Rossini
Martedì 19 agosto, ore 17.00
Malibran
Per il bicentenario della nascita
di Maria Malibran
Mezzosoprano
Joyce DiDonato
Con la partecipazione
del soprano AMANDA
FORSYTHE
Direttore LEONARDO
VORDONI
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
ORCHESTRA HAYDN DI
BOLZANO E TRENTO
Musiche di W.A. Mozart, G.
Rossini, V. Bellini
Teatro Rossini
Mercoledì 20 agosto, ore 17.00
STABAT MATER
per soli, coro e orchestra
Edizione Casa Ricordi
Direttore ALBERTO ZEDDA
Interpreti
JULIA LEZHNEVA, soprano
DANIELA BARCELLONA,
mezzosoprano
LORENZO REGAZZO, tenore
CELSO ALBELO, basso
CORO DA CAMERA DI
PRAGA
Maestro del Coro Lubomír
Mátl
ORCHESTRA DEL TEATRO
COMUNALE DI BOLOGNA
Teatro Sperimentale
Lunedì 28 luglio, ore 20.00
FESTIVAL GIOVANE
Accademia Rossiniana
Concerto degli allievi
Pianoforte ANNA BIGLIARDI
Teatro Rossini
Venerdì 15 agosto, ore 11.00
Michele Pertusi sarà
Maometto II
Lunedì 18 agosto, ore 11.00
IL VIAGGIO a REIMS
Cantata scenica - Libretto di
Luigi Balocchi
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della
Fondazione Rossini, in
collaborazione con Universal
Music Publishing Ricordi, a
cura di Janet Johnson
Direttore DENIS VLASENKO
Elementi scenici e Regia
EMILIO SAGI
Regista collaboratore
ELISABETTA COURIR
Costumi PEPA OJANGUREN
Interpreti scelti dell’Accademia
Rossiniana
ORCHESTRA DEL TEATRO
COMUNALE DI BOLOGNA
CONCERTI DI BELCANTO
Mercoledì 13 agosto
CARMELA REMIGIO
Leone Magiera, pianoforte
Domenica 17 agosto
LAWRENCE BROWNLEE
Rosetta Cucchi, pianoforte
Venerdì 22 agosto
PATRIZIA CIOFI
Carmen Santoro, pianoforte
8 musica
Mercoledì, 30 luglio 2008
anno pucciniano anno pucciniano anno pucciniano anno pucciniano.....
Musica, donne, motori
le passioni di Puccini
P
ochi sanno che a Giacomo Antonio, Domenico,
Michele (sono i nomi dei
suoi antenati, in ordine cronologico dal trisnonno al papà) Puccini si deve la costruzione del
primo fuoristrada italiano.
Appassionato di motori, il
maestro iniziò la sua carriera automobilistica acquistando,
nel 1901, una De Dion-Bouton
5 CV, vista all’Esposizione di
Milano di quell’anno e presto
sostituita (1903) con una Clément-Bayard.
Con quelle vetture, percorrendo l’Aurelia, dal suo “rifugio” di Torre del Lago raggiun-
Isotta Fraschini del tipo “AN
20/30 HP” e alcune FIAT, tra cui
una “40/60 HP” nel 1909 ed una
“501” nel 1919. Tutte automobili che ben si prestavano alle gite
con famiglia e amici, ma inadatte da utilizzare nelle sua amate
battute di caccia.
Per questo motivo, Puccini chiese a Vincenzo Lancia la
realizzazione di vettura capace di muoversi anche su terreni difficili. Dopo pochi mesi,
gli venne consegnata quella che
possiamo considerare la prima
“fuoristrada” costruita in Italia,
con tanto di telaio rinforzato e
ruote artigliate. Il prezzo della
golstadt, Norimberga, Francoforte, Bonn, Colonia, Amsterdam,
L’Aja, Costanza (e poi il ritorno
in Italia).
La “Lambda”, consegnatagli
nella primavera del 1924, fu l’ultima vettura posseduta da Puccini; quella con la quale compì il
suo ultimo viaggio, il 4 novembre 1924, fino alla stazione di
Pisa e, da lì, in treno per Bruxelles, dove subì la fatale operazione alla gola.
Puccini
e le donne
Si è discusso molto sul rapporto tra Puccini e l’universo
femminile, sia con riferimento
ai personaggi delle sue opere, sia
in rapporto alle donne incontrate
nella sua vita.
Frequente ed ormai leggendaria è l’immagine di Puccini come
impenitente donnaiolo, alimentata da diverse vicende biografiche
e dalle stesse sue parole con cui
amò definirsi “un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti
d’opera e belle donne”.
In realtà Puccini non fu il clasvettura era, per il tempo, astro- sico dongiovanni: il suo temperanomico: 35 000 lire. Ma Puc- mento era cordiale ma timido e la
cini ne fu talmente soddisfatto sua natura ipersensibile lo portada acquistare, successivamen- va a non vivere con troppa leggete, anche una “Trikappa” e una rezza i rapporti con le donne. Era
stato d’altronde circondato dal
“Lambda”.
Con la prima, nell’agosto del gentil sesso sin da bambino, cre1922, il maestro organizzò un sciuto dalla madre e con cinque
lunghissimo viaggio in automo- sorelle (senza contare Macrina,
bile attraverso l’Europa. La “co- morta piccolissima) ed un solo
mitiva” di amici prese posto su fratello più piccolo.
Puccini fumatoreIl suo primo
due vetture, la Lancia Trikappa
di Puccini e la FIAT 501 di un grande amore fu Elvira Bontusuo amico, tale Angelo Magrini. ri (Lucca, 13 giugno 1860 - MiQuesto l’itinerario: Cutigliano, lano, 9 luglio 1930), moglie del
Verona, Trento, Bolzano, Inn- commerciante lucchese Narcisbruck, Monaco di Baviera, In- so Geminiani, dal quale aveva
avuto due figli, Fosca e Renato.
La fuga d’amore di Giacomo ed
Elvira, nel 1886, fece scandalo
a Lucca. I due si trasferirono al
Nord insieme a Fosca ed ebbero
un figlio, Antonio (Monza, 23 dicembre 1886 - Viareggio, 21 febbraio 1946). Si sposarono solo il
3 febbraio 1904, dopo la morte di
Gemignani.
Secondo Giampaolo Rugarli (autore del volume La divina
Elvira, edito da Marsilio) tutte
le protagoniste delle opere pucciniane si riassumono e si rispecchiano sempre e solo nella
moglie, Elvira Bonturi, che sarebbe stata l’unica figura femminile capace di dargli ispirazione,
nonostante il suo difficile carattere e l’incomprensione che portava verso l’estro del compositore
(“Tu metti dello scherno quando
si pronuncia la parola arte. È questo che mi ha sempre offeso e che
mi offende”, da una lettera scritta
alla moglie nel 1915).
Comunque sia, Puccini ebbe
verso Elvira un rapporto ambivalente: da una parte la tradì ben
A Puccini si deve la costruzione
del primo fuoristrada italiano.
Il prezzo della vettura era, per
il tempo, astronomico: 35.000
lire. Ma Puccini ne fu talmente
soddisfatto da acquistare,
successivamente, anche una
“Trikappa” e una “Lambda”
geva velocemente Viareggio o
Forte dei Marmi, ove villeggiava. Forse, troppo velocemente,
secondo la pretura di Livorno,
che multò Puccini per eccesso
di velocità, nel dicembre del
1902. Una sera di due mesi più
tardi, nei pressi di Vignola (LU),
sulla Statale Sarzanese-Valdera,
la Clement usciva di strada, rovesciandosi nel fossato “la Contessora”, con a bordo anche la
moglie, il figlio ed il meccanico;
tutti incolumi, tranne il musicista che si fratturò una gamba.
Nel 1905, acquistò una Sizaire-Naudin, cui seguì una
presto, cercando relazioni con
donne di diverso temperamento,
dall’altro rimase legato a lei, nonostante le crisi violente e il suo
carattere drammatico e possessivo, fino alla fine.
La prima relazione extraconiugale nota fu con Cesira Ferrani, prima interprete di Manon Lescaut. Cui seguì quella, più importante, con il soprano romena
Hariclea Darclée, che cantò Manon Lescaut alla Scala nel 1894 e
Il soprano Rose Ader. Pensando
alla sua voce, Puccini scrisse la
parte di Liù, in Turandot
che secondo Giorgio Magri ebbe
un ruolo importante nell’ispirare Tosca.
Fu poi la volta di una giovane
torinese nota come Corinna, conosciuta nel 1900, pare sul treno
Milano-Torino, che Puccini aveva preso per assistere alla prima rappresentazione di Tosca al
Regio di Torino, dopo il debutto
romano. Per un caso Elvira venne a sapere degli incontri di Giacomo con questa donna. Dello
scandalo che nacque si lamentò
anche il suo editore-padre, Giulio Ricordi, che scrisse a Puccini una lettera di fuoco invitandolo a concentrarsi sull’attività artistica. La relazione con “Cori”
- come la chiamava il musicista
- durò fino all’incidente automobilistico che coinvolse il maestro
il 25 febbraio 1903, la cui lunga convalescenza gli impedì di
incontrare l’amante. L’identità
di questa ragazza è stata svelata
nel 2007 dallo scrittore tedesco
Helmut Krausser: si trattava della sarta torinese Maria Anna Coriasco (1882-1961) e “Corinna”
era l’anagramma di parte del suo
nome: Maria Anna Coriasco. In
precedenza Massimo Mila l’ave-
va identificata con una compagna
di scuola di sua mamma, una studentessa di magistero a Torino.
All’ottobre 1904 risale l’incontro con Sybil Beddington,
sposata Seligman (23 febbraio
1868 - 9 gennaio 1936), una signora londinese, ebrea, allieva
di musica e canto di Francesco
Paolo Tosti, con la quale ebbe
inizialmente una storia d’amore
che si convertì poi in una solida e
profonda amicizia, cementata dal
britannico equilibrio della signora. Tant’è che nell’estate 1906 e
1907 i coniugi Seligman furono
ospitati a Boscolungo Abetone da
Giacomo ed Elvira.
Nell’estate del 1911, a Viareggio, Puccini conobbe la baronessa Josephine von Stengel (nome
riportato spesso, erroneamente,
con la grafia Stängel), di Monaco
di Baviera, allora trentaduenne e
madre di due bambine. L’amore
per la baronessa - che nelle lettere Giacomo chiamava “Josy” o
“Busci”, e dalla quale era chiamato “Giacomucci” - accompagnò in particolare la composizione della Rondine, nella quale
Giorgio Magri vede il riflesso di
questa relazione mitteleuropea e
aristocratica. La loro storia durò
fino al 1917.
L’ultimo amore di Puccini fu
Rose Ader, soprano di Odenberg.
Un collezionista austriaco possiede 150 lettere inedite che testimoniano questa relazione, della quale sappiamo ben poco. La
storia iniziò nella primavera del
1921, quando la Ader cantò Suor
Angelica all’Opera di Amburgo,
e terminò nell’autunno del 1923.
Pensando alla sua voce, Puccini scrisse la parte di Liù, in Turandot.
Meno importanti sono considerate le relazioni con i soprani
Emma Destinn e Maria Jeritza.
Nell’agosto 2007 è stata avanzata l’ipotesi, tuttora da verificare, secondo la quale nel 1923
Puccini avrebbe avuto un secondo figlio, battezzato col nome
di Antonio come il primo, dalla
relazione - nota da tempo - con
Giulia Manfredi, cugina di Doria
Manfredi, la domestica che nel
1909 si era tolta la vita in seguito
alle accuse di adulterio avanzate
nei suoi confronti da Elvira Puccini. La notizia sarebbe emersa
durante la preparazione del film
La fanciulla del lago per la regia di Paolo Benvenuti, in particolare da alcune lettere e da un
filmato inedito del 1914, conservati da Nadia Manfredi, figlia di
Antonio.
Anno VI / n. 7 30 luglio 2008
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
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Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MUSICA
Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Andrea Malnig
Collaboratori: Helena Labus, Fabio Vidali e Lucio Vidotto
Foto: Lucio Vidotto
Puccini e la Ader
La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano
con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004
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30. 7.2008 - EDIT Edizioni italiane