DEL POPOLO il pentagramma ce vo /la .hr dit w.e ww & musica De potentes musicalis An no IV • n. 7 8 200 • Mercoledì, 30 luglio di Patrizia Venucci Merdžo Gentilissimi, ho deciso di concludere i nostri appuntamenti salottieri di questa “stagione” chiacchierando amabilmente ed amenamente del rapporto tra musica e uomini di potere, dopo aver accennato nell’ultimo numero alla relazione intercorrente tra musica e uomini di scienza. Intanto dovete sapere che i sapientoni, i biomusicologi, non fanno che chiedersi: in che modo una facoltà come la musica, che manca di “uso diretto”, sia sfuggita all’implacabile e forte azione selettiva della Natura. Cioè: la musica, apparentemente senza scopo, a che cosa è utile? Lo dicono loro che non serve a nulla mentre in realtà ne siamo tutti impregnati. Lo sappiamo benissimo che la musica sin dalle culture umane più remote ha avuto una parte fondamentale nella sfera del potere, della religione, della guerra, nell’intrattenimento, nel lavoro pratico. Altro che mancanza di uso diretto. Ma ora passiamo agli “spetteguleeesss”! Intanto, dovete sapere che la signorina Condoleeze Rice suona il pianoforte in maniera più che discreta ed ama fare musica da camera (Non abbiamo notizia che il caro George suoni alcunché. Lui, caso mai,”le suona”). Ha una spiccata predilezione per il trio pianistico. Sarà l’inconscio desiderio di dialogo… musicale? Ad ogni modo le auguriamo di incappare in un bel violoncellista che la faccia convolare a giuste nozze, dal momento che la lady aveva lamentato un diffuso senso di solitudine ed il desiderio d’ incontrare l’anima gemella. Tanti auguri e tanti piccoli musicisti. Oh!, ma sto peccando d’incoerenza. Bisogna iniziare dall’inizio, forse dal quel briccone di re David (ne fece di strada, da pastorello a monarca) che si dilettava a suonare alle sue caprette la cetra invece del solito piffero (è sempre stato un ‘originale) e quando “lo spirito (cattivo) mandato da Dio invadeva Saul, Davide prendeva la cetra e cantava, accompagnandosi di propria mano; allora Saul si calmava, si sentiva più sollevato, e lo spirito cattivo si allontanava da lui”. E suona oggi e canta domani il piccolo pastore fu nominato scudiero e alla fine gli soffiò il trono, a Saul. Potere della musicoterapia! Montato sullo “scagno” re David compose settantatrè splendidi Salmi (“mizmòr”, canto da eseguirsi sopra strumenti a corda) dei complessivi centocinquanta che da secoli seculorum pervadono la liturgia ebraica e cristiana. C’è poco da dire, re David è il monarca musicista dell’antichità per eccellenza! Suo figlio Re Salomone il Saggio (mica tanto, dal momento che si diede all’idolatria) con il pregiatissimo legno di sandalo donatogli dalla regina di Saba fece costruire tante cetre e lire per i suoi cantori. Forse non lo crederete, ma Elisabetta I d’Inghilterra, la Rregina Vergine, ritenuta fredda e rigida, amava molto suonare la spinetta inglese, strumento caratteristico del rinascimento in Inghilterra, che, secondo alcuni fù chiamato “virginel” in omaggio all’illibata sovrana. Ma il monarca europeo musicista per eccellenza fu … il temibile Federico il Grande. Monarca illuminato – abolì la pena capitale, promosse le scienze e le arti, la tolleranza religiosa – fu un eccellente flautista e perfino compositore, oltre che elegante letterato. La sua Cappella privata divenne un importante centro musicale e fece costruire l’Opera di Berlino; compose 4 concerti per flauto e archi, 4 sinfonie, 3 marce, 3 cantate profane, 121sonate per flauto e clavicembalo. Scrisse alcuni libretti d’opera per Graun. “Un guerriero di casa Hohennzollern che suona il flauto, che legge poesie!” esclamava disperato il padre, che arrivò a segregare il principe nella fortezza di Kustrin. È noto il suo incontro con Johann Sebastian Bach nel castello di Sanssouci nel 1747, dove quest’ultimo, su commissione del re, scrisse la sua famosa “Offerta musicale”, basandosi su un’improvvisazione a lui affidata dal monarca. La regina Elisabetta del Belgio era un’appassionata di musica tanto da istituire uno dei concor- si internazionali di musica ancor oggi tra i più prestigiosi. Il Duce suonava il violino. (Sarà per questo che accusava disturbi della personalità). Papa Pacelli suonava il violino. (Ecco perché aveva sempre quell’aria così tragica e sofferente!). Benedetto XVI quando ascolta la musica (e non solo) è uno spettacolo. Sembra andare in lievitazione, o, che stia per ricevere un’ illuminazione dall’Alto. Lui non diletta i timpani, o i sensi. Lui “vede” la musica “ai raggi Röntgen”. L’andamento e gli sviluppi delle singole voci distintamente e contemporaneamente, l’ architettura complessiva, il movimento armonico, la natura espressiva del brano, il significato teologico di essa, e chi più ne ha più ne metta. Insomma sembra pregustare il Paradiso. Cari lettori, mi sono permessa questa carrellata minima di potenti-musicisti per dire che la musica alberga negli animi più vari e che spesso i sovrani e potenti, amanti delle arti e della musica in particolare, hanno dimostrato lungimiranza e creatività forse superiori a tanti altri. Ma quanto siamo seri, per tutte le cetre di re Salomone! Buone vacanze e, mi raccomando non prendete per musica ogni rumoraccio! Contestate, fischiate, sputate, ma non fatevi abbindolare! Musicalregalmente Vostra 2 musica Mercoledì, 30 luglio 2008 TEATRANDO Presentato il calendario della stagione 2008/2009 del Verdi. Nutrito, Tra preferenze ed esclusioni sinfo di Fabio Vidali TRIESTE – Mentre impazziva l’Operetta, la calura fiacca e s’approssimano le sospirate ferie, il pensiero corre alla ventura Stagione Musicale che, da metà Settembre, allineerà Concerti e, dal 18 Novembre, alzerà il sipa- dei Concerti e poi alle rappresentazioni. Ben otto i repertori concertistici e nove i titoli d’Opera e Balletto che verranno prodotti: indubbiamente un bell’impegno, al quale s’aggiungerà, in ottobre, un’adattamento del mozartiano “Così fan tutte” dedicato ai gio- L’importanza di Mahler - molto presente nel repertorio degli ultimi anni - non è certo in discussione, ma qui sembra stia diventando un “chiodo fisso” sproporzionato ad una corretta informazione del divenire musicale fra Otto e Novecento rio sulla Stagione Lirica e di Balletto, in un arco ininterrotto fino alla prima decade di Giugno. Una bella “tirata”, quella programmata dal Teatro Verdi di Trieste, per l’attività 2008-9. Così, quest’ultimo servizio preferiale del nostro Supplemento Musicale, è un po’ come il leopardiano “Sabato del villaggio”, però con una fondamentale dif- vanissimi, nel quadro del benemerito “Progetto Opera Domani” prodotto dall’As.Li.Co. Solo i più “grandi”? I numeri ci sono tutti e (nelle intenzioni di chi li ha programmati nel dettaglio) dovrebbero, per i Concerti, “spaziare fra i più June Anderson interpreterà la “Norma” ferenza: sappiamo già, titolo per titolo, ciò che ci aspetterà quando si farà ritorno al “travaglio usato”. grandi compositori del repertorio sinfonico fra Otto e Novecento”. Assunto degno di lode, ma altrettanto irto di pericoli. Soppesare la “lana caprina”, comunque strettamente dipendente dal punto di vista personale di chi effettua le scelte, e quindi espressione delle sue private convinzioni più che di valutazioni imparziali e storicamente motivate. Lo si constata subito dalla massiccia presenza di Mahler (già ampiamente presente negli anni precedenti) stavolta spalmato in ben tre appuntamenti e del quale addirittura si preannuncia, per gli anni venturi, il completamento dell’intero repertorio sinfonico. L’importanza di “grandezza” di grandi Maestri, con la derivante necessità d’esercitare “preferenze” ed “esclusioni”, appare subito un problema di vembre. Opera inaugurale “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai su testo di Tito II. Ricordi, tratto dalla tragedia omonima di Gabriele d’Annunzio. E’ la seconda volta che, in breve volgere di jktempo, l’apertura del Cartellone è riservata a Zandonai. In questo caso proprio con l’Opera che innescò la crisi nei rapporti fra Puccini e Tito Ricordi il quale aveva scelto Zandonai quale “successore designato” di Puccini, nell’intento d’imporre al Melodramma italiano un nuovo Per i compositori locali, trapassati o viventi e operanti nel periodo preso in esame, la disaffezione dei programmatori del Teatro Verdi ora non conosce limiti. Dallapiccola e Bibalo compresi Colpo grosso con “Evgenij Onegin” di Ciajkovskij, per il quale si trasferirà a Trieste quasi tutto il Teatro Stanislavskij di Mosca (direttore cantanti, regista e Coro) Mahler non è certo in discussione, ma qui sembra stia diventando un “chiodo fisso” sproporzionato ad una corretta informazione del divenire musicale fra Otto e Novecento. Altra insistenza, spiegabile solo con una predilezione personale, riguarda Brahms (immancabile anche nelle passate stagioni) protagonista di ben due appuntamenti (Concerto per piano e orchestra e l’abusato “Deutsches Requiem”). Se è da salutarsi con soddisfazione la “prima” triestina de “Un sopravvissuto di Varsavia” di Schonberg, del tutto ripetitivo appare il resto del menù (il citato Concerto di Brahms e la Suite del “Rosenkavalier” di R. Strauss). Anagraficamente tutto dedicato al Novecento il quinto Concerto, con musiche di Britten, Elar, Gerald Joseph Mulligan (detto “Gerry”, sassofonista ed esponente del “jazz californiano”) e di un non meglio conosciuto contemporaneo spagnolo, Pedro Iturralde per sassofono e orchestra. Britten e Elgar a parte, non risulta che Mulligan ed Iturralde risultino fra “i maggiori compositori del Novecento”. Seguirà la serata “Crossover” (“incroci provocatori”), sperimentata l’anno scorso, dedicata all’improvvisazione jazz, per accontentare li insaziabili d’un genere che deborda quotidianamente sulle piazza estive e nelle radio e televisioni. Ancora Brahms nel settimo Concerto (“Requiem tedesco”) ed, in chiusa, per l’ottavo appuntamento, il Mahler della Sinfonia n.3. col gradito ritorno di Pinchas Steinberg, direttore illustre, un tempo “di casa” al Teatro Verdi. Accanto alle composizioni ci- Il programma concertistico è in realtà un colabrodo di “buchi” che, se da una parte include anche il jazz e qualche sconosciuto contemporaneo, oltre a dimenticare l’intera generazione italiana dell’Ottanta, glissa su identità piuttosto significative quali Stravinsi, Bartok, Webern, Berg, Busoni Pare opportuno, in attesa dell’auspicabile frescura settembrina, dare un’occhiata a ciò che bolle in pentola: prima alla serie anche con la meno frequentata Sinfonia n.3). Questo l’itinerario proposto “dei più grandi fra Otto e Novecento”. In realtà un colabrodo di “buchi” che, se da una parte include anche il jazz e qualche sconosciuto contemporaneo, oltre a dimenticare l’intera generazione italiana dell’Ottanta, glissa su identità piuttosto significative quali Stravinsi, Bartok, Webern, Berg, Busoni. Già, ma quest’ultimo era “mezzo triestino”. E per i locali, trapassati o viventi e ope- tate, si potranno riascoltare il frequentatissimo Concerto per violino e orchestra di Ciajkovskij, e il n.3. di Rachmaninov (presente ranti nel periodo preso in esame, la disaffezione dei programmatori del Teatro Verdi ora non conosce limiti. Dallapiccola e Bibalo compresi. Opera e Ballo La Stagione d’Opera e Balletto s’aprirà con “Gala” il 18 No- “nume” più “moderno” ed in linea con le velleità magniloquenti dell’abruzzese che ispirò i riti coreografico-propagandistici mussoliniani. In breve, Tito Ricordi fu cacciato dai suoi stessi azionisti. Ma il fatto resta. Ed in pieno “Anno Pucciniano” sembra quasi una premeditata scortesia per il genio di Lucca, liquidato mentre musica 3 Mercoledì, 30 luglio 2008 niche ed allestimenti lirici simbolici tutti ancora lo celebrano. Il “ponte Trento-Trieste” colpisce ancora. Lo spettacolo è in coproduzione con l’Opernhaus di Zurigo. Seguirà il ritorno dell’Eifman Ballet di Pietroburgo, già presente nella passata stagione con un’”Anna Karenina” piuttosto discussa. Questa volta si danzerà una novità: “Red Giselle”. La “Giselle” di Adolf Adam non c’entra affatto. E’ invece l’allucinante vicenda della danzatrice russa Olga Spessivsteva portata alla pazzia proprio dalle interpretazioni della “Giselle” di Adam. Il tutto su un minestrone di musiche di Ciajkovskij, Schnittke e Bizet dove il “corpo del reato”, ovvero le musiche di Adam, non fanno nemmeno capolino. Titolone areniano per lo spettacolo successivo: “Aida” di Verdi, nel nuovo allestimento della Fondazione Verdi, per la regìa del giovane veneziano Damiano Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin, le scene ed i costumi di Carla Teti. La lettura interpretativa è presentata come “atemporale, innovativa e simbolica” e si basa su sabbia, acqua e fuoco. Tutta da scoprire quando s’alzerà il sipario (ammesso che il sipario ci sia). Quarto titolo “Norma” di Bellini (da molto assente da Trieste). Ancora un nuovo allestimento della Fondazione Verdi, in coproduzione col Comunale di Bologna (dove ha già debuttato lo scorso aprile) e la Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari. Largo anche qui alla simbologia, per la regìa di Federico Tiezzi. Scene di Pierpaolo Bisleri e costumi di Giovanne Buzzi, sipari e fondali su bozzetti di Mario Schifano, per adombrare il conflitto fra Natura e Storia. Romani (Felice lui) e Bellini, probabilmente non ci avevano pensato a tali implicazioni ed i triestini, nel 1953, si erano accontentati del binomio Callas-Corelli per il quale si erano spellati le mani. Com’erano ingenui, allora. Altra nuova produzione (ma questa volta della Scala, dove vi apparve lo scorso Febbraio) per il successivo balletto: “Coppelia” di Leo Delibes, dal racconto “Del Sandmann” di Hoffmann, con coreografie di Derek Deane, scene e costumi di Luisa Spinatelli e Corpo di Ballo della Scala. Impianto coreografico “English Style”. Per chi non l’ha già visto a Milano, sarà una gradita novità. Intesa sottesa Colpo grosso con “Evgenij Onegin” di Ciajkovskij, per il quale si trasferirà a Trieste quasi tutto il Teatro Stanislavskij di Mosca (direttore cantanti, regista e Coro). Solo la nostra Orchestra sarà operativa. Ciò grazie alla collaborazione dei Teatri dell’Emilia Romagna. Si canterà ovviamente, in russo, con sopratitoli in italiano. Occasione da non perdere per evitare un costoso viaggio a Mosca. Più modestamente, molti anni fa’, Trieste applaudì una splendida edizione di”Onieghin” in italiano, su versione apprestata da tempo di peste” di Puskin. Cinque allegri banchettanti sono disturbati dal passaggio di un carro carico di cadaveri d’appestati. Buon prò gli faccia. Prosit da estendersi al pubblico. A completare l’allegra serata ci penserà “BB & BB” (Bach, Berio & Break Beats) del Maggio Fiorentino “Maggio Danza” su musiche di Berio, Chopin e dell’ignoto Alva Noto. Anche in questi due casi, si tratta di nuovi allestimenti della Fondazione Verdi. Ecco rispuntare Donizetti, per il penultimo allestimento... quando si dice il caso! Ma si tratta, stavolta, d’una “novità”. “La figlia del reggimento” è ben nota; non altrettanto il suo originale in lingua francese (“La fille du régiment”) con sopratitoli in italiano (altro nuovo allestimento della nostra Fondazione) in coproduzione col Teatro Donizetti di Bergamo che sembra aver trovato a Trieste il suo santo protettore. Apprendiamo, nell’occasione, che “La fille du régiment” anticiperebbe il “filone viennese-danubiano dell’Operetta”. A quando la sua inclusione nel Festival dell’Operetta? Ultimo spettacolo della Stagione “L’italiana in Algeri” di Rossini, nella revisione di Azio Corghi. Allestimento del Teatro Sociale di Como-As.Li.Co. Regìa di Pier Luigi Pizzi, ripresa da Paolo Panizza. Interpreti principali In “Francesca” canteranno, nella prima compagnia, Daniela Dessì e Fabio Armiliato (Paolo), accanto a Juan Pons (Gianciot- Daniela Dessì e Fabio Armiliato interpreti di “Francesca da Rimini” di Zandonai In “Aida” equivale ad una garanzia la presenza direttoriale di Nello Santi, già acclamatissimo l’anno scorso in “Iris”. Avrà al suo fianco (come in “Iris”) nel ruolo C’è una larga porzione del Teatro Musicale italiano, non certo “minore”, che sembra non aver più diritto di cittadinanza sui nostri palcoscenici: Cilea, Catalani, Leoncavallo (che non scrisse solo “I Pagliacci”), Alfano, Respighi, Montomezzi, Malipiero, Petrassi, Dallapiccola e, nella nostra area, Smareglia, Illersberg, Bugamelli, Viozzi, de Banfield Il “Giuseppe Verdi” di Trieste Vito Levi per la Casa Musicale Giuliana. Già, ma allora, i sopratitoli non erano stati inventati e gli italianofoni si godettero lo spettacolo parola per parola. In “rispondenza” a questa trasferta moscovita il Teatro triestino sarà allo Stanislavskij di Mosca, nel 2009, con l’”Anna Bolena” di Donizetti che naturalmente sarà rappresentata nel Novembre 200 anche a Trieste, nel quadro dell’operazione “tre regine” che, dopo l’Elisabetta del “Devereux” della scorsa Stagione, ha in programma anche la donizettiana “Maria Stuarda”. I nostri programmatori non stravedono solo per Mahler e Brahms: anche Donizetti non potrebbe lamentarsi. L’esigenza di rapportarsi anche alla produzione operistica contemporanea italiana (con la rituale esclusione degli autori della nostra area) sarà soddisfatta con l’opera in un atto “Il carro e i canti” espressamente commissionata dal Teatro triestino al compositore di Busto Arsizio Alessandro Solbiati, già recentemente presente in un concerto sinfonico e da noi allora positivamente recensito. Trattasi di una “sinfonia scenica” ispirata dal “Festino in to). Dirigerà Donato Renzetti che ritorna in Regione dopo sei anni d’assenza. Pinchas Steinberg dirigerà il Requiem tedesco di Brahms del titolo, la figlia Adriana Marfisi e, nei ruoli principali, Maria Pentcheva, Walter Fraccaro (Radames), Juan Pons (Amonasro) e Nikolaj Didenko (Ramfis). “Norma” sarà diretta da Julien Kovatchev, con June Anderson nel ruolo del titolo, Roberto Aronica (Pollione), Giacomo Prestia (Oroveso) e Laura Polverelli (Adalgisa). “Coppelia” si gioverà della bacchetta di David Coleman. L’Operina di Solbiati ed il balletto “BB & BB” vedranno sul podio il maestro concittadino Paolo Longo. “La fille” sarà diretta da Gerard Korsten con le voci di Eva Mei e Antonino Siragusa. “L’italiana” vedrà protagonista la triestina Daniela Barcellona, Lawrence Brownlee (Lindoro), Michele Pertusi (Mustafà) per la bacchetta di Bruno Campanella. Come per la Stagione Sinfonica, anche la rassegna lirico-ballettistica (pur tenuto conto che, con i difficili tempi che corrono, riuscire a varare un cartellone con tanti titoli è già un risultato da non sottovalutre) non tutte le scelte effettuate appaiono condivisibili, anche se certamente, in parte, dettate dall’esigenza ineludibile del contenimento della spe- sa. Fra i fini d’istituto delle Fondazioni Liriche, prevalentemente tenute in vita dalle sovvenzioni statali e locali (anche private), quello caratterizzante dovrebbe essere l’equilibrio delle scelte, finalizzato all’imparzialità dell’informazione, programmata a coprire, quanto più possibile, stagione dopo stagione, un percorso logico che indirizzi la conoscenza del Teatro Musicale nelle sue espressioni più caratterizzanti d’ogni epoca e d’ogni stile, senza personali strabiche “tifoserie”, pur legittime a livello di personali predilezioni nella sfera del gusto individuale. C’è una larga porzione del Teatro Musicale italiano, non certo “minore”, che sembra non aver più diritto di cittadinanza sui nostri palcoscenici: Cilea, Catalani, Leoncavallo (che non scrisse solo “I Pagliacci”), Alfano, Respighi, Montomezzi, Malipiero, Petrassi, Dallapiccola e, nella nostra area, Smareglia, Illersberg, Bugamelli, Viozzi, de Banfield. Per citarne solo alcuni fra i più significativi ed ignorati, o a lungo trascurati. Riportarli alle luci della ribalta non sarebbe “campanilismo” né “nazionalismo”, ma arricchimento per tutti, preziosa caratterizzazione delle nostre stagioni, corroborante all’autostima autoctona d’un bacino che non merita d’essere trattato come una colonia culturale. E ciò senza sforare nei costi, ma anzi attirando sul nostro Teatro nuovi interessi ed opportunità d’impresa. Basterebbe cominciare. Con la necessaria prudenza e l’indispensabile coraggio della convinzione che solo la profonda conoscenza dei nostri “giacimenti culturali ed artistici” ancora “sepolti” può suggerire ed alimentare. Ne verrebbe solo del bene per il nostro amato Teatro e la nostra comunità, da troppo adusa al “signorsì”. 4 musica Mercoledì, 30 luglio 2008 5 Mercoledì, 30 luglio 2008 IL PERSONAGGIO Antonio Mosina, degno continuatore della tradizione lirica fiumana. Ha interpretato il conte di Almaviva un centinaio di volte Tanta passione, lavoro e umiltà, la ricetta che porta al vero successo “T enore dall’accentuato timbro lirico, dalla distinta musicalità naturale e maturità tecnica, con una particolare attitudine alla recitazione. Si distingue soprattutto nei ruoli belcantistici. È un valido interprete sia delle parti liriche che in quelle drammatiche. I suoi ruoli principali e da comprimario sono delle creazioni complete, in particolare nel campo della recitazione, che lo collocano tra i migliori solisti lirici della Jugoslavia”. Il testo, tratto dal Dizionario della musica jugoslava, parla di Antonio Mosina, Nel 1949, assieme a due amici decisi di presentarmi all’audizione per il coro maschile della “Fratellanza”. All’epoca, a dirigere il coro era il maestro Igo Drucker, primo violinista dell’Orchestra del Teatro “Ivan de Zajc”. Tutti e tre riuscimmo a entrare nel coro e questi furono i miei primi passi nel mondo della musica. Dopo il maestro Drucker, a dirigere la “Fratellanza” fu il maestro Vinko Kalačić, il quale lavorando con il nostro coro notò alcune voci che spiccavano per forza e timbro ed ebbe l’idea di formare un gruppo di solisti, tra i quali mi trovai anch’io. Tra i “prescelti” c’era pure Marino Sfiligoi, un autentico mito della nostra società artisti- Nel ruolo di Duca di Mantova in “Rigoletto” uno dei più distinti solisti del coro maschile e misto della SAC “Fratellanza” e del coro “Fedeli fiumani”, come pure del complesso “Virtuosi fiumani”, ma innanzitutto un can- co-culturale. A quell’epoca cominciai a sviluppare delle ambizioni legate al canto, per cui iniziai a frequentare lezioni private dalla nota soprano Karmen Vilović. A quei tempi, la decisio- tempo bruttissimo – bussai alla porta dell’allora direttore dell’Opera di Sarajevo, Mladen Pozajić, e gli chiesi se sarebbe stato tanto gentile da ascoltarmi e darmi un suo giudizio e consiglio. Volevo, infatti, sapere se valesse la pena di continuare a studiare e a occuparmi di canto, oppure sarebbe stato meglio lasciar perdere. Gli cantai alcune arie del Cilea, della “Traviata” e del “Rigoletto”. Vorrei puntualizzare che allora i direttori si dedicavano molto di più ai nuovi talenti perché sapevano che il successo dei cantanti sarebbe stato anche un loro “Per fare bene un lavoro bisogna innanzitutto essere umile, perseverante e studiare sodo. Soltanto in questo modo, dopo tanti sacrifici, uno può ottenere dei risultati e raggiungere il successo” successo. Insomma, la mia interpretazione gli piacque e dopo tre giorni ricevetti l’invito di venire a Sarajevo per un’audizione. Dovevo preparare la parte di Pinkerton nella “Madame Butterfly”, che fu il ruolo nel quale debuttai da tenore all’opera. Dovetti preparare la parte in croato e lavorai intensamente con la prof.ssa Nada Auer. Arrivai a Sarajevo, mi ascoltarono e mi offrirono un contratto. Iniziò così una grande avventura per me. Mi trasferìi a Sarajevo con la famiglia e vi rimasi per venti anni, dal 1960 al 1980, lavorando all’Opera come primo tenore. All’inizio degli Anni ‘80 ritornai a Fiume e lavorai nel nostro Teatro fino al pensionamento. Perché decise di ritornare a Fiume? Sentivo tanta nostalgia per la mia città. Ogni volta che finivano le ferie e dovevo tornare a Sarajevo con la famiglia – all’epoca mia madre era ancora viva e la nostra casa era in Piazza Dante (oggi Piazza della Repubblica di Croazia, nda), proprio di fronte all’ex “Slavica” (l’attuale “Brasserie As”, nda) – ricordo che arrivavamo già a Piazza Žabica e mia madre ci “Matačić considerava e apprezzava il nostro coro. Ritengo che all’epoca la ‘Fratellanza’ fosse la migliore corale di Fiume, con la quale poteva forse concorrere soltanto lo ‘Jedinstvo’, diventato più tardi ‘Jeka Primorja’” tante lirico che ha trascorso gran parte della sua carriera come solista dell’Opera di Sarajevo, offrendo valide interpretazioni di ruoli come il conte d’Almaviva ne “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini, di Alfredo, del Duca di Mantova e di Cassio rispettivamente nelle opere “La Traviata”, “Rigoletto” e “Otello” di Verdi; oppure di ruoli come Rodolfo e Pinkerton ne “La Bohème” e “Madame Butterfly”, per nominarne soltanto alcuni. Sempre attivo nel campo della musica, Mosina testimonia una passione e un amore verso l’arte del canto che lo porta a occuparsene con entusiasmo anche dopo sessant’anni di ininterrotta attività. Cominciamo dai suoi inizi musicali. Quando si avvicinò alla musica e decise di volersi dedicare a quest’arte in maniera professionale? ne di studiare comportava numerosi sacrifici, in quanto non c’erano le borse studio e si viveva in maniera molto modesta. Lavoravo come tornitore alla Fabbrica Torpedo, poi alla Voplin, dove trascorrevo anche dieci ore al giorno, al termine delle quali frequentavo puntuale le lezioni di canto. Dopo lo studio con la Vilović, iniziai a frequentare la Scuola di musica “Ivan Matetić-Ronjgov” dove ebbi come maestra di canto la signora Zlatka Butković, all’epoca una bravissima Madame Butterfly nel nostro Teatro. Passai poi a perfezionarmi con la rinomata mezzosoprano Nada Auer. Il mio percorso formativo nel canto durò in tutto otto anni. La prima occasione per farne una professione si presentò con l’arrivo a Fiume dell’Opera di Sarajevo con “Il Trovatore” di Verdi. Ricordo che un 18 aprile – c’era un salutava ancora dalla finestra. Questa scena mi è rimasta talmente impressa che ancora oggi quando passo di là mi sembra di vederla. Sono molto sentimentale di natura e credo che per questo motivo ho anche perso molte occasioni nella mia carriera. Infatti, a un certo punto avevo l’opportunità di andarmene in Germania, avrei avuto anche un ottimo onorario, ma non lo volevo fare. Nel 1980 decisi di ritornare a Fiume. Al ritorno mi unìi nuovamente alla ‘Fratellanza’, nell’ambito della quale tornò a formarsi il gruppo di solisti e da qui i ‘Virtuosi fiuma- Con Ljiljana Molnar-Talajić in “Madame Butterfly” ni’, con il quale abbiamo finora avuto molti concerti di successo. Ci può raccontare la sua esperienza dei grandi personaggi che ha conosciuto nel corso della sua carriera? Ricordo il Maestro Boris Papandopulo, un grande artista e un grande uomo. Aveva un enorme sapere e una profonda conoscenza della musica, ma allo stesso tempo era una persona modesta e democratica. Ed è questo ciò che distingue i grandi personaggi dagli altri. Un altro grande uomo e artista al quale devo molto è stato Mladen Pozajić, che all’epoca in cui lavoravo a Sarajevo era direttore d’orchestra e professore al Conservatorio. Ricordo che nel primo anno del mio soggiorno nella capitale bosniaca vivevo separato dalla famiglia che era ancora a Fiume e la vita era piuttosto difficile e segnata da ristrettezze economiche. Un giorno, vedendo la mia situazione, Pozajić mi portò a mangiare in un ristorante in centro, il che fu soltanto uno degli episodi in cui si dimostrò come uomo dal cuore grande e generoso, amabile ma soprattutto modesto e semplice. Gli sarò grato per tutta la vita per quanto ha fatto per me. Devo dire che nel corso della mia vita a Sarajevo ho avuto la fortuna di incontrare e di frequentare persone meravigliose. Non dimenticherò mai un colonnello dell’Esercito jugoslavo che, venuto a sapere che ero fiumano e conoscendo la mia difficile situazione materiale, aveva invitato me e la mia famiglia per due settimane a casa sua, il tempo necessario per trovare una sistemazione. La sua ospitalità era tale che ci offrì la propria camera da letto, mentre lui e sua moglie dormivano sui materassi in un altra stanza. Queste persone si sono dimostrate molto aperte e cordiali e con loro mi sono sempre sentito benissimo. Ovviamente, non sono mancate le esperienze negative, ma queste per fortuna sono state molto più rare. Ha avuto l’occasione di cantare pure con la rinomata soprano Ljiljana Molnar Talajić, scomparsa da poco. Ricorda qualche aneddoto legato a lei? Fu una grande artista che sulla scena dava tutto, anima e corpo. Cantava con il cuore e poteva far piangere anche i sassi. Davvero un’eccezionale interprete che ha raggiunto il successo con grandi sacrifici, in quanto proveniva da una famiglia povera. La sua “Ascoltavo sempre con somma ammirazione il grande Gino Bonelli, autodidatta, ma grande lavoratore. Credo che ai miei tempi ci fosse molto più rispetto; oggi invece il materialismo regna ovunque” vita di studentessa di canto fu molto difficile e forse proprio le privazioni alle quali era sottoposta furono la causa della sua malattia più tardi nella vita. Ljljana era una persona molto estroversa, amabile e immediata che, una volta entrata come professore di canto all’Accademia di Musica di Zagabria, non fu purtroppo ben accetta da tutti i colleghi. Ha dei ricordi legati al Maestro Lovro Matačić? Personalmente ho avuto pochi contatti con il Maestro, ma ricordo che una volta giunse a Sarajevo per dirigere l’opera “Fidelio” di Beethoven, nella quale avevo una piccola parte. Anche lui una persona meravigliosa e semplice, come tutti i grandi artisti. Una volta abbiamo anche ‘festeggiato’ dopo un allestimento dell’‘Aida’ di Verdi qui a Fiume, esagerando un po’ con il vino le della ‘Fratellanza’ era molto bravo e spesso veniva ingaggiato negli allestimenti di opere liriche, tra cui anche nell’‘Aida’. Parlo della fine degli Anni ‘40, quando il coro era all’apice della sua qualità. Matačić vedeva sempre di buon occhio il nostro coro e lo sapeva apprezzare. Ritengo che all’epoca la ‘Fratellanza’ fosse il miglior coro di Fiume, al quale poteva forse concor- tuali delle opere liriche al nostro Teatro? Devo dire che non ne sono entusiasta. Ritengo che spesso nè i costumi, nè la regia rispettino il libretto dell’opera e il suo senso. “I registi si prendono troppe libertà senza alcuna giustificazione. Invece, il libretto dovrebbe essere la base della regia” rere soltanto lo ‘Jedinstvo’, diventato più tardi ‘Jeka Primorja’. Quali sono i ruoli nei quali si è trovato meglio, le parti liriche o le opere che preferisce? Come tenore lirico, per me la prima in scaletta è ‘La Bohème’ di Puccini, che è sempre nel mio cuore. Ricordo di aver visto uno spezzone dell’opera al Teatro Fenice negli Anni ‘40, durante la proiezione di un film, e di esser rimasto affascinato dalla bellezza della musica. Poi ‘Elisir d’amore’ di Donizetti. Insomma, nelle parti romantiche mi sono trovato sempre a mio agio. Comunque, è sempre difficile fare una distinzione perché ogni ruolo ha le proprie particolarità. Quali sono le doti e le qualità che un cantante lirico deve avere? Innanzitutto, una bella voce, che è ovviamente la base sulla quale poi si costruisce. Poi, l’intelligenza e l’umiltà. Per fare bene un lavoro bisogna innanzitutto essere umile e perseverante e lavorare sodo. Soltanto in questo modo, dopo tanti sacrifici, uno può ottenere dei risultati e raggiungere il successo. Spesso per raggiungerli bisogna attendere a lungo, ma prima o poi si arriva. La presunzione e la prepotenza non aiutano, e nemmeno la superficialità e la fretta di riuscire. Inoltre, bisogna rispettare il lavoro altrui e cercare sempre di imparare, anche a carriera fatta. Ricordo che ascoltavo sempre con grande rispetto e ammirazione il grande Gino Bonelli, autodidatta, ma grande lavoratore. Credo che ai miei tempi c’era molto più rispetto, oggi invece ovunque regna il materialismo. Umiltà e lavoro sono le due cose che portano al successo. E io le tenevo sempre di conto, tanto che nel corso della mia carriera ho cantato la ‘Traviata’ 45 volte, mentre nel ‘Barbiere di Siviglia’ mi sono esibito quasi cento volte, senza contare altri ruoli che ho interpretato. All’inizio della carriera mi hanno aiutato molto i piccoli ruoli, grazie ai quali sono diventato padrone della scena. Essere un cantante d’opera significa anche saper recitare e ciò si nota fin dai primi passi che uno fa sul palcoscenico. Sono grato alla vita per avermi concesso una bella carriera per la quale devo molto anche a mia madre che mi aiutava come poteva. Come giudica gli allestimenti at- Di recente ho visto il ‘Barbiere di Siviglia’, che ho cantato moltissime volte, e l’ho vissuto come una ‘pagliacciata’. Il conte (d’Almaviva, nda), anche se lo troviamo in un’opera comica, è pur sempre un conte e non è adeguato alla concezione dell’opera metterlo alla pari con Figaro, che è un uomo del popolo. Credo che, a vedere cosa si fa adesso delle loro opere, molti compositori piangerebbero di disperazione. I registi si prendono troppe libertà senza alcuna giustificazione. Invece, il libretto dovrebbe essere la base della regia. C’è qualche differenza tra il pubblico di un tempo e quello di oggi? Con tutto rispetto verso gli odierni appassionati di opera, credo che comunque il pubblico di un tempo era composto innanzitutto da conoscitori che amavano e conoscevano il teatro lirico, mentre oggi, mi sembra, venire al Teatro per la prima vuol dire sfoggiare abiti costosi e fare pettegolezzi. Il pubblico di una volta se ne intendeva e se uno non era all’altezza veniva fischiato. Oggi invece applaudono a tutti. Le è mai successo di venir fischiato? Per fortuna, non mi è mai successo. O di dimenticare il testo? Mi è capitato durante un allestimento de ‘Il Barbiere di Siviglia’ nel ruolo del conte d’Almaviva dove, invece di pronunciare la frase ‘A šta vidim?’ (all’epoca, le opere venivano tradotte in croato), ho borbottato “biri-biri”... Per un mese i miei colleghi mi chiamavano scherzosamente proprio ‘biribiri’. È accaduto diverse volte, ma sono cose che capitano a tutti... Quali sono, secondo lei, i cantanti lirici di Fiume che si distinguono per qualità? E quale è il cantante lirico che ammira di più? Devo lodare le colleghe Olga Šober e Mirella Toić, delle bravissime cantanti. Per me, il miglior tenore di tutti i tempi è stato il grande Beniamino Gigli, che ascoltavo cantare l’Ave Maria ogni domenica alla radio quand’ ero bambino. Lui cantava con il cuore, e ciò si sentiva. Come Alfredo ne “La Traviata” “Il pubblico di un tempo era composto innanzitutto da conoscitori che amavano e conoscevano il teatro lirico, mentre oggi, mi sembra, venire a Teatro per la prima significa sfoggiare abiti costosi e fare pettegolezzi” GRAZIELLA TATALOVIĆ di Helena Labus 6 musica Mercoledì, 30 luglio 2008 MUSICA ETNICA Uno strumento degli aborigeni australiani suonato da uno zagabrese Dalla matematica al didgeridoo: un viaggio verso la libertà di Lucio Vidotto C i sono tanti artisti nella storia ad aver scelto l’incertezza, rinnegando ciò che il destino aveva loro riservato in chiave di esistenza, di lavoro. Molti hanno capito di aver sbagliato, magari troppo tardi e altri, più bravi e fortunati, ne sono usciti vincitori. C’è qualcosa di ben diverso nel personaggio che abbiamo conosciuto e che vi presentiamo in quest’occasione, che va oltre a quella che può essere la smania di un adolescente che invece di studiare vorrebbe sposare una carriera di musicista rock o di attore. Dubravko Lapaine ha studiato matematica fino a diventare assistente all’Università zagabrese. Contemporaneamente al successo professionale si svegliava in lui una passione inconsueta, ma solo per chi non ha mai avuto una grande passione. Si chiama didgeridoo (si pronuncia didjeridù) ed è un tubo di legno cavo, strumento tradizionale degli aborigeni australiani. Quando uno decide di voler vivere di musica, ammesso che abbia talento e una certa istruzione, può anche avere la fortuna di essere scoperto e quindi di affermarsi. Per uno che molla un lavoro all’università per costruire e suonare degli spartani strumenti ci deve essere per forza qualcos’altro. Siamo andati a conoscere Lapaine dopo esserci documentati su di lui e sul didgeridoo, incontrandolo a Visignano, all’Astrofest, una manifestazione che da qualche anno viene organizzata nei pressi dell’Osservatorio astronomico nella notte più breve dell’anno, il solstizio, tra il 21 e 22 giugno. stico. Si può vivere con il didgeridoo? La risposta è stata quella che un po’ ci aspettavamo, anche senza conoscere il nostro interlocutore: “Evidentemente, vivo di questo, ma in un senso che va oltre l’aspetto pecuniario”. Inserendo il suo nome nella casella per la ricerca su You Tube abbiamo scoperto numerosi filmati, con numerose esibizioni, ma anche con qualche pensiero del singolare musicista che ci ha ulteriormente incuriosito. Non sembra in grado di esprimere con le parole la propria felicità per la scelta fatta. “La mia non è una carriera, o meglio, non la considero in questo senso. Ho inciso un cd e ho partecipato a numerosi festival”; anche se si è esibito in numerose rassegne importanti, con molte richieste che non riesce a soddisfare, Lapaine è fedele alla sua felicità e sembra non scomporsi anche quando una certa no gli strumenti. Ha poco tempo per occuparsi d’altro e men che meno per ascoltare musica. Quando può non disdegna Balanescu, Stefano Scodanibbio, Igor Ratković, Hadouk trio, Calexico, mentre tra i più commerciali, per modo di dire, apprezza i Beirut, Serj Tankiana, Arcade fire e gli A Hawk and a Hacksaw. L’amore in un etno shop L’amore è sbocciato all’interno di un etno-shop di Zagabria dove Dubravko Lapaine è rimasto incantato da questo strumento, allo stesso tempo semplice e complesso. Gli aborigeni australiani li creano da pezzi di legno scavati dalle termiti. Nella versione “occidentale” viene accelerato il processo, come ci spiega Lapaine, utilizzando due metodi. Uno consiste nello sca- Una scelta di vita La nostra prima domanda, fatta prima dell’incontro diretto, tramite posta elettronica, voleva essere più che altro una provocazione per accendere immediatamente il dibattito. Uno che lascia un lavoro può sperare di poter vivere suonando uno strumento che definire poco commerciale è quantomeno eufemi- fama rischia di coinvolgerlo. Ha 29 anni da compiere a ottobre, 1,70 di altezza e 67 chili di energia che sprigiona quando serve, ai concerti o in qualche piazza della capitale, oppure in officina, nel laboratorio in cui nasco- vare il legno dall’interno e l’altro nel tagliare longitudinalmente il tronco o il ramo, lavorando di scalpello, per poi incollare le due parti. “Tutto inizia con la scelta del legno che viene lasciato a seccare per due anni. Si inizia a lavorarlo all’esterno con un primo strato protettivo. C’è il taglio longitudinale, poi l’incollatura, l’immersione, la lavorazione del bocchino o imboccatura, altri strati di protezione, per cinque giorni consecutivi di lavoro. Naturalmente – precisa Lapaine – ho cercato di semplificare la spiegazione. Ne ho costruiti 35. Per quello di dieci metri ho impiegato tanto tempo in più. Avrei potuto creare una ventina di didgeridoo normali”. Nasce prima l’idea del suono che si vuole ottenere oppure è lo strumento a decidere? “Succedono entrambe le cose. Abitualmente, costruendo uno strumento, parto da un suono particolare che vorrei produrre. Molto spesso è il materiale a darmi l’ispirazione. Ogni didgeridoo è un esperimento perché ogni strumento è diverso dagli altri per forma e metodo di lavorazione. Può essere minore o maggiore il fattore dell’imprevedibilità, ma è sempre un esperimento. È così che ho imparato tutto quello che so. Quando ho incontrato per la prima volta questo strano tubo di legno non immaginavo cosa sarebbe divenuto per me”. Tutto ciò sembra un po’ fuori dal comune. Come si arriva a cambiare in modo così drastico la propria vita? “È avvenuto gradualmente. Io dovevo trovare il didgeridoo o forse è lui che ha trovato me. Da allor fino a oggi è un susseguirsi di cause e conseguenze che si basano sul suonare e sul pensiero mentre si suona e quando non si suona. Il legame è nato gradualmente e le cose che un tempo mi attiravano una volta hanno smesso di interessarmi. Non le ho abbandonate. Semplicemente vi ho trovato un senso più profondo e sfide più interessanti. Non so spiegarne il perché, ma lo vivo come una cosa molto naturale, così come il mare è azzurro o verde, come il sole è giallo o rosso. Io suono il didgeridoo”. Un calcio alla carriera universitaria Com’è arrivata la decisione, a un certo punto, di cambiare... mestiere? “Descrivere questa fase mi riesce difficile. A spingermi sono stati stimoli e sensazioni interne. Da un punto di vista può sembrare una decisione drastica quella di gettare all’aria vent’anni di studio, lasciando volontariamente un impiego che non potrò mai riavere, abbandonando gli studi post laurea che difficilmente potrò recuperare. In altre parole, ho caricato tutta la mia ‘carriera matematica’ su un treno che viaggiava nella direzione opposta alla mia, verso lo spazio. Per me non è stata una decisione difficile. Non mi è servito coraggio o una grande forza d’animo per compiere questo passo. Ero consapevole di tutto, di andare là dove sento di appartenere. Immaginando una lista con tutti i mestieri del mondo, usando le fantasie più audaci e perverse, arriverei sempre a fare la stessa scelta”. Quando parliamo di questo strumento sappiamo di trovarci a grande distanza da quelli che sono i canoni della musica, classica o moderna che sia, imprigionata comunque da regole, più o meno rigorose. Dubravko Lapaine non ha titoli accademici per quanto riguarda la musica, anche se nella sua famiglia, oltre alla matematica, in tanti hanno suonato uno strumento. Assoluta libertà di espressione “Non ho mai imparato a suonare uno strumento. Il didgeridoo ti dà una libertà assoluta di espressione, non deve sottostare ad alcun canone. Tutte le volte che comincio a suonare per me inizia un viaggio che termina alla fine del brano. Mi assento completamente dal luogo fisico in cui mi trovo. Tutte le volte è una sensazione stupenda e a livello fisico è un piacere immenso. Immensa è la mia felicità che provo facendo questo lavoro. È una cosa che mi sono creato io e che tutti possono fare lo stesso. Ci viene insegnato ciò che è buono, ma non credo che sia giusto così. A me hanno insegnato che dovevo imparare. Oggi mi considero estremamente fortunato perché faccio due cose che mi rendono felice, costruire e suonare il didgeridoo. Mentre faccio uno strumento sogno il momento in cui potrò suonarlo”. C’è una componente che possiamo definire mistica in quello di cui stiamo parlando, sicuramente per il nostro protagonista, ma anche per chi ascolta e cerca di afferrare il senso di suoni che simulano le forze della natura, dove un soffio si può trasformare in un boato. Si tratta di un piacere condivisibile con l’esecutore che il fascino misterioso del didgeridoo è riuscito a farlo percepire a molti. Dal vivo è assolutamente qualcosa di diverso, forse psichedelico, però profondamente suggestivo. Farsene un’idea è piuttosto semplice. Un qualsiasi motore di ricerca su Internet vi condurrà, con il suo nome nell’apposita casella, a scoprire qualcosa di nuovo. musica 7 Mercoledì, 30 luglio 2008 Giro giro tondo quanto canta il mondo Giro giro tondo quanto canta il mondo Rossini Opera Festival: connubio tra spettacolo e recupero musicologico PESARO - Il Rossini Opera Festival è un ente autonomo che promuove l’omonima manifestazione lirica internazionale interamente dedicata a Gioachino Rossini. Suo scopo è il recupero, la restituzione teatrale e lo studio del patrimonio musicale legato al nome del Compositore, che lasciando erede universale di tutta la sua cospicua fortuna il Comune di Pesaro, consentì la nascita dell’attuale Conservatorio di musica e della Fondazione Rossini. Il Rossini Opera Festival è stato istituito nel 1980, sempre ad opera del Comune di Pesaro, con l’intento di affiancare e proseguire in campo teatrale l’attività scientifica della Fondazione Rossini: è nato così un originale laboratorio interattivo di musicologia applicata, finalizzato al recupero musicologico, teatrale ed editoriale di tutto il sommerso rossiniano. Formula e metodo Alle vicende istituzionali si affianca la ventennale sperimentazione della formula “musicologia più teatro”: essa è in pratica la storia di un autentico viaggio collettivo alla riscoperta dei capola- vori rossiniani dimenticati, intrapreso assieme al pubblico degli appassionati. Caratteristica del Festival è diventata infatti una speciale atmosfera che, oltre a stimolare il lavoro sul palco e dietro le quinte, finisce per coinvolgere gli stessi spettatori nel clima di tesa solida- Rossini giovane rietà che lega fra loro artisti, musicologi, maestranze, organizzatori e tecnici, ciascuno dei quali si sente protagonista di una singolare, rara avventura culturale. In questo clima si è affermato un metodo di lavoro basato sull’attività parallela di musicisti, musicologi e operatori teatrali: i problemi di palcoscenico vengono affrontati contestualmente a quelli specifici della partitura, mentre gli studiosi mettono a punto le soluzioni musicologiche partecipando attivamente alle prove in sala. Fondamentale è il contributo dell’Accademia Rossiniana, seminario permanente di studio sui problemi dell’interpretazione rivolto ai professionisti dello spettacolo. Anno dopo anno, è apparso evidente che via via che procede il recupero teatrale delle partiture dimenticate, i problemi della loro esecuzione musicale e messinscena moderne diventano sempre più numerosi e complessi. Per questo la strategia del Festival prevede, accanto alla riscoperta del repertorio operistico sconosciuto di Rossini - cui è venuta ad aggiungersi, dal 1990, l’esplorazione di tutta la produzione cameristica lo studio sistematico dei problemi legati alla restituzione ad un pubblico contemporaneo di un teatro basato su un codice espressivo così antico e apparentemente inattuale. Tutto ciò ha consentito Il Teatro Rossini di Pesaro il progressivo superamento della falsa immagine legata a un’idea di ortodossia rossiniana rigida e museale, e favorito invece la nascita di un luogo di discussione e ricerca, oltre che di incontro di idee e progetti. Titoli e artisti Accanto a partiture classiche del catalogo rossiniano, ricondotte alla lezione autentica (come L’Italiana in Algeri, Semiramide, Tancredi, Guillaume Tell, La Cenerentola e altre) il Festival vanta anche un lungo elenco di titoli sconosciuti, restituiti in allestimenti importanti, accolti ogni volta da critica e pubblico come autentici eventi della cultura. Si possono citare fra questi Il viaggio a Reims, Maometto II, La donna del lago, Mosè in Egitto, Edipo a Colono, Ermione, Bianca e Falliero, Armida, Ricciardo e Zoraide, Adina, Zelmira, Matilde di Shabran, capolavori dimenticati, che da Pesaro hanno ripreso il volo per i teatri di tutto il mondo. Culmine di questa esplorazione sistematica del “sommerso” rossiniano è stato il recupero de Il viaggio a Reims, la leggendaria partitura svanita nel nulla dopo la prima rappresentazione del 1825, senza neppure la traccia di copie manoscritte. Il fortunoso ritrovamento e la sua restituzione a Pesaro nel 1984 con la direzione di Claudio Abbado vengono considerati uno degli eventi musicali più importanti del secolo. La sempre maggiore presenza di opere rossiniane nei cartelloni internazionali è la miglior testimonianza del decisivo contributo dato dal Festival pesarese alla Rossini-renaissance. Programma del Rossini Opera Festival Programma Rossini Opera Festival 2008 XXIX Edizione Pesaro, 9-23 agosto 2008 Teatro Rossini - 9 agosto, ore 21.00 IL PRESAGIO ROMANTICO Tenore Juan Diego Flórez Con la partecipazione del soprano JULIA LEZHNEVA Direttore ALBERTO ZEDDA CORO DA CAMERA DI PRAGA ORQUESTRA DE LA COMUNITAT VALENCIANA (Dir. musicale Lorin Maazel) Pagine da La donna del lago e Guillaume Tell ERMIONE Azione tragica in due atti di Andrea Leone Tottola Musica di Gioachino Rossini Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Universal Music Publishing Ricordi, a cura di Patricia B. Brauner e Philip Gossett Direttore ROBERTO ABBADO Regia DANIELE ABBADO Scene GRAZIANO GREGORI Costumi CARLA TETI Progetto luci GUIDO LEVI Personaggi e Interpreti Ermione SONIA GANASSI Andromaca MARIANNA PIZZOLATO Pirro GREGORY KUNDE Oreste ANTONINO SIRAGUSA Pilade FERDINAND VON BOTHMER Fenicio NICOLA ULIVIERI Cleone IRINA SAMOYLOVA Cefisa CRISTINA FAUS Attalo RICCARDO BOTTA CORO DA CAMERA DI PRAGA Maestro del Coro Jaroslav Brych ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA Nuova coproduzione con la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari L’EQUIVOCO STRAVAGANTE Dramma giocoso per musica in due atti di Gaetano Gasbarri Musica di Gioachino Rossini Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Universal Music Publishing Ricordi, a cura di Marco Beghelli e Stefano Piana Direttore UMBERTO BENEDETTI MICHELANGELI Regia EMILIO SAGI Scene FRANCESCO CALCAGNINI Costumi PEPA OJANGUREN Progetto luci GUIDO LEVI Marina Prudenskaja sarà Ernestina ne “L’equivoco stravagante” Personaggi e Interpreti Ernestina MARINA PRUDENSKAJA Gamberotto BRUNO DE SIMONE Buralicchio MARCO VINCO Ermanno DMITRY KORCHAK Rosalia AMANDA FORSYTHE Frontino RICARDO MIRABELLI CORO DA CAMERA DI PRAGA Maestro del Coro Pavel Vanek ORCHESTRA HAYDN DI BOLZANO E TRENTO MAOMETTO II Dramma per musica in due atti di Cesare Della Valle Musica di Gioachino Rossini Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Universal Music Publishing Ricordi, a cura di Claudio Scimone Direttore GUSTAV KUHN Regia MICHAEL HAMPE Scene ALBERTO ANDREIS Costumi CHIARA DONATO Progetto luci FRANCO MARRI Personaggi e Interpreti Paolo Erisso FRANCESCO MELI Anna MARINA REBEKA Calbo DANIELA BARCELLONA / HADAR HALEVY (20.VIII) Condulmiero ENRICO IVIGLIA Maometto II MICHELE PERTUSI Selimo COSIMO PANOZZO CORO DA CAMERA DI PRAGA Maestro del Coro Lubomír Mátl ORCHESTRA HAYDN DI BOLZANO E TRENTO Nuova coproduzione con TheaterBremen Teatro Rossini Martedì 19 agosto, ore 17.00 Malibran Per il bicentenario della nascita di Maria Malibran Mezzosoprano Joyce DiDonato Con la partecipazione del soprano AMANDA FORSYTHE Direttore LEONARDO VORDONI CORO DA CAMERA DI PRAGA ORCHESTRA HAYDN DI BOLZANO E TRENTO Musiche di W.A. Mozart, G. Rossini, V. Bellini Teatro Rossini Mercoledì 20 agosto, ore 17.00 STABAT MATER per soli, coro e orchestra Edizione Casa Ricordi Direttore ALBERTO ZEDDA Interpreti JULIA LEZHNEVA, soprano DANIELA BARCELLONA, mezzosoprano LORENZO REGAZZO, tenore CELSO ALBELO, basso CORO DA CAMERA DI PRAGA Maestro del Coro Lubomír Mátl ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA Teatro Sperimentale Lunedì 28 luglio, ore 20.00 FESTIVAL GIOVANE Accademia Rossiniana Concerto degli allievi Pianoforte ANNA BIGLIARDI Teatro Rossini Venerdì 15 agosto, ore 11.00 Michele Pertusi sarà Maometto II Lunedì 18 agosto, ore 11.00 IL VIAGGIO a REIMS Cantata scenica - Libretto di Luigi Balocchi Musica di Gioachino Rossini Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Universal Music Publishing Ricordi, a cura di Janet Johnson Direttore DENIS VLASENKO Elementi scenici e Regia EMILIO SAGI Regista collaboratore ELISABETTA COURIR Costumi PEPA OJANGUREN Interpreti scelti dell’Accademia Rossiniana ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA CONCERTI DI BELCANTO Mercoledì 13 agosto CARMELA REMIGIO Leone Magiera, pianoforte Domenica 17 agosto LAWRENCE BROWNLEE Rosetta Cucchi, pianoforte Venerdì 22 agosto PATRIZIA CIOFI Carmen Santoro, pianoforte 8 musica Mercoledì, 30 luglio 2008 anno pucciniano anno pucciniano anno pucciniano anno pucciniano..... Musica, donne, motori le passioni di Puccini P ochi sanno che a Giacomo Antonio, Domenico, Michele (sono i nomi dei suoi antenati, in ordine cronologico dal trisnonno al papà) Puccini si deve la costruzione del primo fuoristrada italiano. Appassionato di motori, il maestro iniziò la sua carriera automobilistica acquistando, nel 1901, una De Dion-Bouton 5 CV, vista all’Esposizione di Milano di quell’anno e presto sostituita (1903) con una Clément-Bayard. Con quelle vetture, percorrendo l’Aurelia, dal suo “rifugio” di Torre del Lago raggiun- Isotta Fraschini del tipo “AN 20/30 HP” e alcune FIAT, tra cui una “40/60 HP” nel 1909 ed una “501” nel 1919. Tutte automobili che ben si prestavano alle gite con famiglia e amici, ma inadatte da utilizzare nelle sua amate battute di caccia. Per questo motivo, Puccini chiese a Vincenzo Lancia la realizzazione di vettura capace di muoversi anche su terreni difficili. Dopo pochi mesi, gli venne consegnata quella che possiamo considerare la prima “fuoristrada” costruita in Italia, con tanto di telaio rinforzato e ruote artigliate. Il prezzo della golstadt, Norimberga, Francoforte, Bonn, Colonia, Amsterdam, L’Aja, Costanza (e poi il ritorno in Italia). La “Lambda”, consegnatagli nella primavera del 1924, fu l’ultima vettura posseduta da Puccini; quella con la quale compì il suo ultimo viaggio, il 4 novembre 1924, fino alla stazione di Pisa e, da lì, in treno per Bruxelles, dove subì la fatale operazione alla gola. Puccini e le donne Si è discusso molto sul rapporto tra Puccini e l’universo femminile, sia con riferimento ai personaggi delle sue opere, sia in rapporto alle donne incontrate nella sua vita. Frequente ed ormai leggendaria è l’immagine di Puccini come impenitente donnaiolo, alimentata da diverse vicende biografiche e dalle stesse sue parole con cui amò definirsi “un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne”. In realtà Puccini non fu il clasvettura era, per il tempo, astro- sico dongiovanni: il suo temperanomico: 35 000 lire. Ma Puc- mento era cordiale ma timido e la cini ne fu talmente soddisfatto sua natura ipersensibile lo portada acquistare, successivamen- va a non vivere con troppa leggete, anche una “Trikappa” e una rezza i rapporti con le donne. Era stato d’altronde circondato dal “Lambda”. Con la prima, nell’agosto del gentil sesso sin da bambino, cre1922, il maestro organizzò un sciuto dalla madre e con cinque lunghissimo viaggio in automo- sorelle (senza contare Macrina, bile attraverso l’Europa. La “co- morta piccolissima) ed un solo mitiva” di amici prese posto su fratello più piccolo. Puccini fumatoreIl suo primo due vetture, la Lancia Trikappa di Puccini e la FIAT 501 di un grande amore fu Elvira Bontusuo amico, tale Angelo Magrini. ri (Lucca, 13 giugno 1860 - MiQuesto l’itinerario: Cutigliano, lano, 9 luglio 1930), moglie del Verona, Trento, Bolzano, Inn- commerciante lucchese Narcisbruck, Monaco di Baviera, In- so Geminiani, dal quale aveva avuto due figli, Fosca e Renato. La fuga d’amore di Giacomo ed Elvira, nel 1886, fece scandalo a Lucca. I due si trasferirono al Nord insieme a Fosca ed ebbero un figlio, Antonio (Monza, 23 dicembre 1886 - Viareggio, 21 febbraio 1946). Si sposarono solo il 3 febbraio 1904, dopo la morte di Gemignani. Secondo Giampaolo Rugarli (autore del volume La divina Elvira, edito da Marsilio) tutte le protagoniste delle opere pucciniane si riassumono e si rispecchiano sempre e solo nella moglie, Elvira Bonturi, che sarebbe stata l’unica figura femminile capace di dargli ispirazione, nonostante il suo difficile carattere e l’incomprensione che portava verso l’estro del compositore (“Tu metti dello scherno quando si pronuncia la parola arte. È questo che mi ha sempre offeso e che mi offende”, da una lettera scritta alla moglie nel 1915). Comunque sia, Puccini ebbe verso Elvira un rapporto ambivalente: da una parte la tradì ben A Puccini si deve la costruzione del primo fuoristrada italiano. Il prezzo della vettura era, per il tempo, astronomico: 35.000 lire. Ma Puccini ne fu talmente soddisfatto da acquistare, successivamente, anche una “Trikappa” e una “Lambda” geva velocemente Viareggio o Forte dei Marmi, ove villeggiava. Forse, troppo velocemente, secondo la pretura di Livorno, che multò Puccini per eccesso di velocità, nel dicembre del 1902. Una sera di due mesi più tardi, nei pressi di Vignola (LU), sulla Statale Sarzanese-Valdera, la Clement usciva di strada, rovesciandosi nel fossato “la Contessora”, con a bordo anche la moglie, il figlio ed il meccanico; tutti incolumi, tranne il musicista che si fratturò una gamba. Nel 1905, acquistò una Sizaire-Naudin, cui seguì una presto, cercando relazioni con donne di diverso temperamento, dall’altro rimase legato a lei, nonostante le crisi violente e il suo carattere drammatico e possessivo, fino alla fine. La prima relazione extraconiugale nota fu con Cesira Ferrani, prima interprete di Manon Lescaut. Cui seguì quella, più importante, con il soprano romena Hariclea Darclée, che cantò Manon Lescaut alla Scala nel 1894 e Il soprano Rose Ader. Pensando alla sua voce, Puccini scrisse la parte di Liù, in Turandot che secondo Giorgio Magri ebbe un ruolo importante nell’ispirare Tosca. Fu poi la volta di una giovane torinese nota come Corinna, conosciuta nel 1900, pare sul treno Milano-Torino, che Puccini aveva preso per assistere alla prima rappresentazione di Tosca al Regio di Torino, dopo il debutto romano. Per un caso Elvira venne a sapere degli incontri di Giacomo con questa donna. Dello scandalo che nacque si lamentò anche il suo editore-padre, Giulio Ricordi, che scrisse a Puccini una lettera di fuoco invitandolo a concentrarsi sull’attività artistica. La relazione con “Cori” - come la chiamava il musicista - durò fino all’incidente automobilistico che coinvolse il maestro il 25 febbraio 1903, la cui lunga convalescenza gli impedì di incontrare l’amante. L’identità di questa ragazza è stata svelata nel 2007 dallo scrittore tedesco Helmut Krausser: si trattava della sarta torinese Maria Anna Coriasco (1882-1961) e “Corinna” era l’anagramma di parte del suo nome: Maria Anna Coriasco. In precedenza Massimo Mila l’ave- va identificata con una compagna di scuola di sua mamma, una studentessa di magistero a Torino. All’ottobre 1904 risale l’incontro con Sybil Beddington, sposata Seligman (23 febbraio 1868 - 9 gennaio 1936), una signora londinese, ebrea, allieva di musica e canto di Francesco Paolo Tosti, con la quale ebbe inizialmente una storia d’amore che si convertì poi in una solida e profonda amicizia, cementata dal britannico equilibrio della signora. Tant’è che nell’estate 1906 e 1907 i coniugi Seligman furono ospitati a Boscolungo Abetone da Giacomo ed Elvira. Nell’estate del 1911, a Viareggio, Puccini conobbe la baronessa Josephine von Stengel (nome riportato spesso, erroneamente, con la grafia Stängel), di Monaco di Baviera, allora trentaduenne e madre di due bambine. L’amore per la baronessa - che nelle lettere Giacomo chiamava “Josy” o “Busci”, e dalla quale era chiamato “Giacomucci” - accompagnò in particolare la composizione della Rondine, nella quale Giorgio Magri vede il riflesso di questa relazione mitteleuropea e aristocratica. La loro storia durò fino al 1917. L’ultimo amore di Puccini fu Rose Ader, soprano di Odenberg. Un collezionista austriaco possiede 150 lettere inedite che testimoniano questa relazione, della quale sappiamo ben poco. La storia iniziò nella primavera del 1921, quando la Ader cantò Suor Angelica all’Opera di Amburgo, e terminò nell’autunno del 1923. Pensando alla sua voce, Puccini scrisse la parte di Liù, in Turandot. Meno importanti sono considerate le relazioni con i soprani Emma Destinn e Maria Jeritza. Nell’agosto 2007 è stata avanzata l’ipotesi, tuttora da verificare, secondo la quale nel 1923 Puccini avrebbe avuto un secondo figlio, battezzato col nome di Antonio come il primo, dalla relazione - nota da tempo - con Giulia Manfredi, cugina di Doria Manfredi, la domestica che nel 1909 si era tolta la vita in seguito alle accuse di adulterio avanzate nei suoi confronti da Elvira Puccini. La notizia sarebbe emersa durante la preparazione del film La fanciulla del lago per la regia di Paolo Benvenuti, in particolare da alcune lettere e da un filmato inedito del 1914, conservati da Nadia Manfredi, figlia di Antonio. Anno VI / n. 7 30 luglio 2008 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: MUSICA Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Andrea Malnig Collaboratori: Helena Labus, Fabio Vidali e Lucio Vidotto Foto: Lucio Vidotto Puccini e la Ader La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004