Domenica La di DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 / Numero 302 Repubblica l’attualità La setta svelata dei potenti d’America FEDERICO RAMPINI cultura Mosé, ritratti per il profeta dell’Esodo RICCARDO MUTI e GIANFRANCO RAVASI cara Clara Ben tuo L’amante devota e il dittatore decaduto Ecco le ultime lettere inedite del Duce FOTO FARABOLAFOTO che riscrivono i seicento giorni di Salò BARBARA RAGGI T recasse di legno incatramate dormono per cinque anni sotto terra. Dalla notte del 18 aprile 1945 alla mattina del 9 febbraio 1950, quando Augusto Isgrò e Romeo Ferrara, funzionari di Pubblica sicurezza, le dissotterrano dal garage di Villa Mirabella dei conti Cervis a Gardone e scoprono 68 pacchetti impilati. Sono le carte di Clara Petacci. Dopo una storia dai tratti romanzeschi finiranno nella cassaforte dell’Archivio centrale dello Stato di Roma dove il Fondo Petacci è ancora conservato. Architetto della propria esistenza, Clara ha organizzato le carte come un archivio, dai primi diari agli ultimi appunti: dalle lettere inviatele dagli italiani alla corrispondenza con Nicolò De Cesare, segretario personale del Duce fino all’arresto del 25 luglio. Dai documenti di Stato inviati da Mussolini alle copie della corrispondenza con i familiari. Con un’attenzione particolare per le 318 lettere che le scrisse il Duce dal 10 ottobre 1943 al 18 aprile 1945, lungo i 600 giorni della Repubblica di Salò. Sono queste missive il tracciato della ricostruzione storica contenuta nel libro L’ultima lettera di Benito, in uscita per Mondadori. (segue nelle pagine successive) spettacoli BENITO MUSSOLINI M 20 FEBBRAIO 1944 ia piccola tempestosa e tuttavia adorabile tigretta voglio dire che ti sbagli ad attribuirmi tanti reconditi e obliqui pensieri. Non oggi, ma domani o dopo — certo fra pochi giorni — ci rivedremo. Perché, piccola belva innocente, io lo desidero. E poiché tale desiderio sommuove anche la tua anima, io ti perdono i tuoi scatti tanto più che l’unica partenza della quale sei capace, non può avere che una meta: la mia. Hai letto il discorso di Pavolini? Sono d’accordo che prima me ne andrò io, poi tu. Se non ti piace il luogo prescelto, non sarà impossibile trovarne un altro. Adesso ti dico un’altra cosa; le difficoltà nostre nelle quali siamo implicati, costruiscono un grande incendio amoroso. Se tutto fosse liscio, normale, ordinario, forse… Ma tu respingi — lo so — sdegnosamente questo ragionamento. Tu vorresti “sequestrarmi” perché mi consideri cosa “tua”, proprietà tua. In fondo lo sono. Sono ormai dodici anni trascorsi da quel giorno del 24 aprile che decise il corso della tua vita. Questo corso ormai non lo puoi più cambiare: né io, lo voglio. (segue nelle pagine successive) Risate napoletane, canzoni e doppi sensi RENZO ARBORE e MARINO NIOLA i sapori Il tacchino del Ringraziamento LICIA GRANELLO e VITTORIO ZUCCONI le tendenze Felpa e touchscreen, il geek ora è chic JAIME D’ALESSANDRO e SIMONE MARCHETTI l’incontro Gigi Riva: “Sono un hombre vertical” GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 la copertina Clara e Ben Trovato in tre casse di legno, rinchiuso nell’Archivio di Stato, negato agli storici per settant’anni. Ora il Fondo Petacci è raccolto in un libro È il carteggio dei seicento giorni di Salò tra un dittatore decaduto che pensa alla fuga e la donna che non fu solo amante, ma consigliere politico e militante devota. E che anche per questo si firmava “Clara”, mai “Claretta” VITA PRIVATA In queste pagine foto di Benito Mussolini e Clara Petacci ritratti al mare e in momenti di relax BARBARA RAGGI (segue dalla copertina) l Fondo Petacci ha una storia complessa. Per due volte Renzo De Felice chiese di poterlo consultare, ma si trovò di fronte a un irremovibile rifiuto. Le carte di Clara sono state protette dalla legge sulla privacy per settant’anni, e sono state oggetto di una lunga controversia giudiziaria. Finché, il 16 marzo 2010, un decreto ministeriale ha consentito di prenderne visione. Lettere inviate a Buffarini Guidi, potente ministro dell’Interno, carte di Stato, appunti, e il carteggio con il Duce: inedite le lettere di lui, inedite quelle di lei. Tuttavia l’epistolario non esiste schedato come tale: per ricostruirlo si sono incrociate le lettere di Mussolini cercando riscontri di date e argomenti tra le migliaia di lettere di Clara. Nella sua ultima lettera, datata 18 aprile 1945, Mussolini informa Clara che la via di fuga verso la Spagna è chiusa. Si tratta di un progetto politico che percorre i quasi due anni della vita di Salò, legato alla privatissima decisione del Duce di scegliere definitivamente Clara e di tentare, sul finale di partita, di inserirsi nei contrasti tra gli Alleati e di trattare da una posizione di forza, sotto la protezione di un governo formalmente neutrale, la propria sorte. Lo blocca Francisco Franco con un secco no. «Riconoscenza della Spagna!», chiosa il Duce. Così Benito e Clara partono insieme per Milano. Su macchine separate e con orari sfalsati per non destare sospetti o un ennesimo scandalo in quanti vedono nella loro relazione la causa di tutti i fallimenti del fascismo repubblicano. Così come aveva constatato Mussolini in una delle prime lettere: «Della tua rigorosa clausura — tanto rigorosa che per oltre 40 giorni fu inosservata — si vorrebbe fare un evento capace di influire sui destini del mondo!!! Se ti dico che la follia stupida — forma particolare di follia — ha invaso i cervelli te lo dico in base a questi discorsi senza capo né coda». Ma la vera novità è proprio lei, Clara. Non viene mai chiamata Claretta, ché l’uso pubblico di quel vezzeggiativo è parte di una strategia di delegittimazione messa in atto nel periodo badogliano, quando fu arrestata con tutta la famiglia. Dalle lettere di Mussolini emerge una donna inedita: non solo confidente sentimentale ma anche primo consigliere per gli affari di Stato, non solo prima amante in carica ma interprete del suo pensiero politico. Clara si dimostra fascista fervente. Il carcere l’ha indurita. L’8 settembre l’ha lasciata attonita: come si può tradire l’alleato e l’idea? Non ama solo Benito, segue il capo. Il loro è quasi un incesto spirituale: tra l’inventore del fascismo e la figlia della sua ideologia. L’italiano nuovo vagheggiato dal regime esiste. È una donna. È Clara. Lui stesso lo riconosce quando le scrive in due lettere databili 1944: «Io non permetterò a nessuno, intendi a nessuno, di elevare il nemmeno indirettissimo dubbio sulla tua cristallina fede di fascista e di italiana. Di coraggiosa fascista — sino ai tempi della tua adolescenza». Altro che vestaglie e attese di ore nell’appartamento di Palazzo Venezia. A Gargnano la signora dimostra un fine intuito tattico. La politica è il centro della loro relazione. Sono illuminanti le lettere di lei in occasione del viaggio del Duce a Klessheim, dove va a incontrare Hitler, e sono da leggersi come un promemoria per cercare di restituire all’Italia della Repubblica Sociale e quindi a Mussolini la dignità perduta. Nello stesso modo, prima e durante il processo di Verona, è ferma la volontà di lei per la condanna a morte dei traditori, Ciano in testa. Mussolini approva. Dalle lettere di lei emerge con chiarezza l’idea che Mussolini debba rafforzare il suo potere sul Garda facendo leva sul mandato ricevu- I Le lettere d’amore del Duce IL LIBRO Uscirà il 23 novembre L’ultima lettera di Benito: Mussolini e Petacci Amore e politica a Salò 1943-1945 di Pasquale Chessa e Barbara Raggi (Mondadori, 240 pagine, 19,50 euro) to a Monaco da Hitler stesso. Per questo muore Ciano, per rendere credibile Mussolini agli occhi dei nazisti. Tutto l’epistolario è attraversato dall’incomprensione di Mussolini per il popolo italiano, soprattutto per chi lo combatte, armi alla mano. «Ribelli», «Pistoleros», «Terroristi» e una volta persino «Partigiani»: gli uomini e le donne della Resistenza visti dal Duce sono dei traditori. Per chi ha sedotto le masse per un in- tero ventennio è dura essere ridotti a comparsa: «Oggi sono niente. Dopo quattro mesi non c’è ancora un soldato italiano che combatta. È questa la suprema delle mie umiliazioni». Il Duce rimpiange di non «essere morto in tempo», tuttavia non è capace di togliersi la vita ma solo di progettare una fuga. Di fronte al fallimento, non accetta la sconfitta ma sogna un nuovo inizio. Clara lo incoraggia: fuggire non è un tradimento ma una possibilità per traghettare il capo e l’idea nel dopoguerra. In chiave antisovietica. L’anticomunismo li unisce tanto quanto l’odio verso gli angloamericani. E l’antisemitismo, che lui dichiara con orgoglio: «Sono antisemita per istinto razziale». Ciononostante, fin da quando arriva a Salò, Clara si trova sotto il fuoco amico del fascismo intransigente e del clan Mussolini. Fino al punto che è in pericolo la sua stessa vita. Le carte danno per certi almeno due attentati. È un bersaglio per tutte le trame, obiettivo di spie e sicari che costringono Mussolini a farle scudo. In una lettera del 4 aprile 1944, nei giorni del primo attentato, il Duce rivendica il diritto di Clara a stargli accanto, misura del suo potere a Salò, e spiega ad Alessandro Pavolini — e a lui per tutti — che Clara «durante i famosi giorni ha avuto molto più coraggio di tanti uomini, anche gerarchi del partito, i quali sono stati dei grandissimi vigliacchi». Queste carte sono importanti e non si può non tenerne conto nello scrivere la storia di Salò. Per di più non contengono nulla di privato nel senso comune del termine, tranne le frasi affettuose di due amanti non più giovani. E ciò che non è detto pesa quanto ciò che è scritto. Manca ogni accenno al fatto che Mussolini stia “riscrivendo” di Mussolini mentre c’è una minuziosa disamina degli articoli giornalistici che va stilando ogni giorno. Niente su misteriose lettere a Churchill e nessun desiderio di arren- Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 “Arrivederci a Milano mia piccola tigretta” BENITO MUSSOLINI (segue dalla copertina) M 25 marzo 1944 ia cara piccola, sono le 20 e sono stanco. Le mie giornate sono più faticose di quelle di un tempo perché non posso regolare il mio lavoro. Anche domani si annunciano molte udienze, ma avrò il tempo che desidero. Adesso che ti ho spiegato il motivo del mio imbarazzo di ieri sera, sono lieto di constatare che tu telepaticamente lo avevi intuito. Stasera c’è una mia nota della C.[ronaca] Repubblicana e altre due sono in preparazione nel mio cantiere centrale. Una avrà questo titolo “Dialogo quasi socratico”. Ti ricordi i miei “Colloqui sul Tamigi”. Ho ricevuto le tue carte, quelle dell’arresto (…). Ti abbraccia ben. 1 maggio 1944 Mia cara piccola, oggi vi erano molte nuvole di carattere grande sul mio domestico cielo, specie tra le 16 e le 17 con bellicosi propositi che sono sfumati. […] La giornata di oggi è una vittoria per la Repubblica, una vittoria sul fronte interno: penso a Imola dove per un penoso incidente è stata uccisa una donna madre di sette figli e dove si è scioperato per un’ora. Nessuno, dico nessuno, ha abbandonato il lavoro. Farò una nota in merito. Così il buono si alterna col cattivo. Ancora e sempre pazienza. Molta pazienza nel generale e nel particolare. Anche nel nostro caso. Anche nel nostro amore, se mi è ancora permesso di così parlare. Tuttavia queste tensioni nervose — varie — mi stancano. Ti abbraccio con la tenerezza che desideri, vuoi, meriti dal tuo ben. 25 agosto 1944 Mia cara, ho ricevuto la tua lettera e l’altra che ti restituisco. La crisi è giunta ormai al suo stadio estremo. Parlo della crisi italiana, di quel tratto d’Italia che è Repubblica, la quale è ormai alla fine. Prima del luglio ’43, io ero odiato, ma rispettato. Oggi sono un personaggio assolutamente ridicolo. Sono stanco di fare il burattino (?). Poiché io non sono altro. Oggi ad esempio hanno circondato tutti i campi d’aviazione, senza dirmi nulla. E posto a ufficiali, sottufficiali e soldati un ultimatum che io solo avevo il diritto di porre (interrompo perché mi annunciano una visita sulla questione). Nessuno sapeva nulla. Si cercherà di rimediare. Dalla finestra osservo il tramonto. Imbruna alle sette. Ti amo. Domani o io vengo da te o tu vieni da me. 22 settembre 1944 Mia cara, ti rispondo. Al tuo dilemma rispondo: te. E basta. Oggi è un altro venerdì nero, anzi nerissimo. Che giorno infame il venerdì, da quello della Cirenaica ad oggi. Oggi, o domani, addio mia terra natale! Anche i greci si vendicheranno occupando la Rocca delle C. e risedendoci. Oppure sarà saccheggiata e devasta da partigiani o ribelli o ladri. Ti confesso che sono umiliato. A difendere la Valle del Po, ultimo lembo di terra nostra, non c’era un soldato italiano. Né ci sarà. Non avrei mai creduto che l’Appennino sarebbe stato liquidato in meno di trenta giorni. Il “tempo” degli avvenimenti diventa veramente vertiginoso. E noi non proponiamo nulla. Dove andrò? Dove dovrò andare? Perché in queste faccende la mia volontà è nulla. Volevo vedere tuo fratello per esaminare i vostri casi, domani o al più tardi, domenica, bisogna vederci, bisogna. Nella mia casa c’è l’aria triste delle necessarie prossime separazioni: Hai inteso? Tu soltanto. Addio, cara. E maledizione ai venerdì Jellati. Ti abbraccio. dersi agli angloamericani. Mussolini non vuole né morire né organizzare l’ultima battaglia. L’appello alla resistenza fino all’ultimo uomo è una maschera pubblica: il capo ha le valigie in mano. È pronto a spiccare il volo per la Spagna. Clara e Ben, come nel loro carteggio sempre si firmano, muoiono dieci giorni dopo l’ultima lettera. Insieme. Entrambi subiranno una trasfigurazione: per molti nostalgici lui è la vittima di qualche gioco oscuro di spie, determinato a impedirgli di raccontare la verità in un tribunale. Lei diventa Claretta, la martire dell’amore. O, più di recente, spia degli inglesi o dei tedeschi — ce n’è per tutti i gusti. Li lasciamo là dove si fermano le carte, forse gli ultimi inediti del fascismo, nella notte del 18 aprile 1945. Persuasi che il Duce «al naturale», secondo una brillante definizione di Emilio Re, così come si rivela a Clara, sia impossibile da mitizzare e bandisca ogni possibile nostalgia, ogni tentativo di riabilitazione postumo. La Storia ha le sue beffarde vie per saldare i conti. E chiudere le polemiche. 18 aprile 1945 Clara, ciò che io presentivo e temevo date le inevitabili lungaggini, s’è verificato. Stamani l’ambasciatore Rahn è venuto a dirmi che la Spagna proibisce ogni volo sul suo territorio. Ed era veramente turbato ciò dicendomi ..... ora si potrebbe tentare il volo clandestino, ma i passeggeri all’arrivo sarebbero internati e l’apparecchio sequestrato. Riconoscenza della Spagna! Questa ingratissima notizia aggiunge un altro motivo a quelli che mi sollecitano per andare a Milano per agire sul piano politico. Come al solito tu vedi questo mio viaggio da un solo punto di vista: quello femminile con relativi incontri non pensi ad altro. È questo uno dei motivi che ti spingono a venire a Milano. Ti accompagnerà Cas. [Casalinuovo ] ma domattina, non stasera, perché la tua partenza farebbe clamore immediatamente dopo la mia. ..... arrivederci in qualche modo a Milano. Spero di poter tornare qui. Ti abbraccio. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 l’attualità È in questa strada, nella capitale degli Stati Uniti, che ha sede “The Fellowship”, una misteriosa organizzazione di matrice religiosa che dagli anni Trenta influenza la politica Usa in senso ultrareazionario. Ora, per la prima volta, Teo Party un reporter è riuscito a svelare chi sono, cosa pensano e cosa fanno i membri della “Famiglia” più potente d’America C Street Washington FEDERICO RAMPINI aprima regola di C Street — spiega Bart Stupak — è che non devi parlare di C Street». Stupak è il deputato democratico del Micihgan celebre per aver tenuto in ostaggio al Congresso la riforma sanitaria di Barack Obama, finché non strappò l’emendamento che proibisce i finanziamenti federali agli ospedali che praticano l’aborto. «È «L Il regno “Gesù ci insegna che dobbiamo mettere il nuovo regno al di sopra di nostra madre e di nostro fratello Ed è quello che Hitler, Lenin, Mao insegnarono ai ragazzi” divina ma sa essere a suo modo ecumenica: accoglie membri delle più diverse chiese protestanti. Ha una forte impronta di destra eppure include repubblicani e democratici. Ha frequentato le sue Preghiere del Mattino perfino la democratica Hillary Clinton, segretario di Stato. Il proselitismo della Compagnia permea le forze armate, influenza il generale David Petraeus comandante capo in Afghanistan. La tutela che offre è preziosa. Due suoi membri, ultraconservatori, moralisti e bigotti, di recente sono stati al centro di scandali sessuali che avrebbero distrutto qualsiasi politico americano. Mark Sanford, governatore della South Carolina, sparito ufficialmente «per un pellegrinaggio di meditazione spirituale sui monti Appalachi», era in realtà con la sua amante clandestina a Buenos Aires. John Ensign, senatore repubblicano del Le relazioni “Lavoriamo non per risvegliare le masse ma attraverso relazioni private con i re, i leader del nostro mondo” una questione di efficienza — spiega il grande maestro di C Street, Doug Coe — più l’organizzazione è invisibile, più forte è la sua influenza». C Street è il nome della via di Washington che ospita The Fellowship. La Compagnia. La misteriosa organizzazione, di matrice religiosa, influenza i vertici degli Stati Uniti per imporre la sua visione reazionaria. Nella sede sulla C Street la Compagnia gestisce un “ostello”. È il pensionato riservato ad una élite molto selezionata di senatori e deputati. Per poche centinaia di dollari al mese hanno diritto a vitto e alloggio, corsi di formazione, sedute di preghiera, assistenza spirituale. E protezione contro gli avversari. I suoi segreti sono stati svelati per la prima volta da un reporter del New York Times, Jeff Sharlet, esperto di sette fondamentaliste. Unico “infiltrato” esterno, Sharlet racconta il più esclusivo club della capitale. Il suo viaggio in quel mondo è al centro del libro-inchiesta C Street (Little, Brown and Company), appena uscito negli Stati Uniti. Svela una realtà stupefacente, che supera le più paranoiche “teorie del complotto”. Il sistema messo in piedi dalla Fellowship non s’identifica con fenomeni come il fondamentalismo religioso predicato alle masse. Lei vola molto più in alto. Semmai cerca di pilotare gli integralismi di popolo verso i propri fini. La sua storia ha origini anteriori rispetto ai neocon, ai teocon, al Tea Party. I suoi affiliati sono ovunque, in posti di comando. La Compagnia ha una missione Nevada, aveva una relazione extraconiugale con la moglie del suo più fidato assistente. Per loro è scattata la rete di difesa della Fellowship: Ensign e Sanford sono ancora ai loro posti. Per gli ospiti della C Street non valgono le regole normali. «Anche Re Davide nella Bibbia è un grande peccatore — spiega Doug Coe — ma è un eletto del Signore. La volontà di Dio va oltre la morale». Jeff Sharlet si imbatte nella Compagnia quasi per caso. Già autore nel 2004 di Killing the Buddha, un viaggio tra le sette più eccentriche degli Stati Uniti, il reporter del New York Times riesce a penetrare in una comunità cristiana chiamata Ivanwald, un convento laico in un sobborgo di Washington. Partecipando agli esercizi spirituali, scopre che dietro Ivanwald c’è un’altra organizzazione. Gli adepti la chiamano The Family. Ivanwald è uno dei tanti centri-satellite che servono per selezionare nuove reclute, da inserire nella «più segreta struttura del potere conservatore americano». Solo i migliori, avviati alla carriera politica, entrano nella sede centrale a C Street. La Compagnia «li assiste e li aiuta a capire meglio gli insegnamenti di Cristo, La morale “Anche Re Davide è un peccatore, ma è un eletto del Signore La volontà di Dio va oltre la morale” Le regole “La prima regola di C Street è che non devi parlare di C Street” Il motto “Jesus over you” IL FONDATORE Abraham Vereide, nella foto il primo da sinistra, fondò The Fellowship negli anni Trenta Qui è nel 1953 con il presidente Eisenhower (il terzo da sinistra) Nell’altra pagina, in alto a destra, la sede di The Fellowship al 133 di C Street, Washington Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 ? O D S U S E J N A C I L B U P E R D L U O W T A H W Nella casa segreta dell’esercito di Dio perché li applichino nel loro lavoro». Nel pensionato di C Street alloggiano regolarmente, durante le sedute del Congresso, pezzi da novanta del partito repubblicano come i senatori Tom Coburn e Jim Inhofe dell’Oklahoma. «Fanno a gara — scrive Sharlet — a chi sorpassa l’altro sull’estrema destra dello spettro politico. Coburn ha proposto la pena di morte per i medici che praticano l’aborto. Inhofe ha difeso i torturatori del carcere di Abu Ghraib». Ambedue militano nell’esercito dei “negazionisti” che contestano ogni effetto delle emissioni carboniche sull’ambiente. Nello stesso club vive Jim De Mint, il senatore repubblicano della South Carolina secondo il quale «la Bibbia ci insegna che non possiamo servire sia Dio che lo Stato». The Fellowship fornisce una formazione che va oltre le questioni etico-religiose. Nella sede sulla C Street si tengono seminari che preparano la legislazione in campo energetico, le votazioni al Congresso sulla politica estera, le strategie da applicare a livello mondiale nel «conflitto di civiltà» contro l’Islam. Viene ad abbeverarsi a queste dottrine il giudice più reazionario della Corte suprema, Clarence Thomas — anche lui miracolosamente scampato alle denunce di abusi sessuali della sua assistente Anita Hill. Nell’esercito l’organizzazione gemella si chiama Officers’ Christian Fellowship, il cui scopo secondo il colonnello Dick Kail è «conquistare a Gesù Cristo un territorio dentro le forze armate». Ha un manuale di campo, giustamente intitolato “Sotto gli ordini” (Under Orders: A Spiritual Handbook for Military Personnel). Scritto dal colonnello William McCoy, teorizza che «la fede religiosa è essenziale per l’efficienza bellica». Quel manuale reca in copertina un elogio autorevole: «Under Ordersdovrebbe essere nello zaino di ogni soldato, per i momenti in cui ha bisogno di energia spirituale». Firmato: generale David Petraeus. The Fellowship ha caratteri che la distinguono da altre congregazioni di potenti. Non riconosce autorità religiose a lei superiori (a differenza dell’Opus Dei verso il papa). Non pretende la segretezza totale di certe logge massoniche, più che clandestina preferisce essere «discreta». Nel suo documento più recente, intitolato Otto aspetti fondamentali di visione e di metodo, è citato un passaggio degli Atti degli Apostoli: «Quest’uomo è lo strumento che ho prescelto per difendere il mio nome presso i Gentili e i loro re». La Famiglia lo interpreta così: «Lavoriamo non per risvegliare le masse ma attraverso relazioni private con i re, i leader del nostro mondo». Di un eclettismo sorprendente, il capo della Fellowship Doug Coe cita fra i suoi modelli Adolf Hitler e Mao Zedong. «Gesù ci insegna che dobbiamo metterlo al di sopra di nostra madre e di nostro fratello — dice Coe — ed è quello che Hitler, Lenin, Mao insegnarono ai ragazzi. Mao riuscì a convincere delle giovani Guardie rosse a giustiziare i loro genitori. Non era assassinio, era la costruzione di una nuova nazione. Il nuovo regno». Ciò che Sharlet trova sconcertante, è che nessun giornalista prima di lui abbia indagato fino in fondo su questa organizzazione, la cui storia è tutt’altro che recente. La genesi della Fellowship risale addirittura agli anni Trenta. La fonda Abraham Vereide, che teorizza un «capitalismo biblico» intriso di simpatie per il fascismo. Tra i suoi adepti c’è Henry Ford, che dalla Fellowship viene incoraggiato a reprimere le lotte operaie. Nel dopoguerra, aiutato IL GENERALE David dal tele-evangelista Billy Graham, Petraeus Vereide crea il National Prayer Breakè un fan fast. A quella Preghiera del Mattino di The aderiscono presidenti repubblicani Fellowship come Gerald Ford, Ronald Reagan, George W. Bush, spesso con l’esecutivo al gran completo. Occasionalmente, brandelli di verità appaiono sui giornali. Nel 1952 il Washington Postrivela che il ministro della Difesa mette a disposizione aerei militari per gli spostamenti della Famiglia. Dopo lo scandalo del Watergate il New York Times cita una Preghiera del Mattino tenuta da Gerald Ford alIL MINISTRO Anche la Casa Bianca per decidere il perdola Clinton ha no presidenziale a Richard Nixon. frequentato Nel 1975 Playboy pubblica un reporle “Preghiere tage che descrive The Fellowship codel Mattino” me una banca-ombra che eroga prestiti a parlamentari amici. Il ruolo della Compagnia affiora dietro l’aiuto fornito ad alcuni «fratelli stranieri» come il dittatore Suharto in Indonesia, Ferdinando Marcos nelle Filippine, la legge anti-gay in Uganda. Ma nessuno prima di ora aveva messo insieme i tasselli del mosaico. La curiosità dei mass media non aveva varcaIL GIUDICE to il portone sulla C Street. Ora che il Clarence velo è stato rotto da Sharlet, altri hanThomas no deciso di muoversi. L’Unione delsi abbevera le Chiese metodiste ha presentato alle dottrine una denuncia. «Nel cuore della capidi “C Street” tale — si legge nell’esposto — un residence per politici potenti si spaccia per una chiesa, e usufruisce abusivamente di esenzioni fiscali riservate ai veri luoghi di culto». L’Internal Revenue Service, l’agenzia federale dell’entrate, ha aperto un’inchiesta. Dopo settant’anni di congiure indisturbate, questa venerabile rete di potere può davvero scivolare sul banale reato di evasione fiscale? Col vento politico che soffia di nuovo a destra, e il Tea Party in guerra contro tutto ciò che sa di tasse, c’è da scommettere che The Fellowship ha ancora un futuro davanti a sé. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA CULTURA* DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 Il due dicembre l’Opera di Roma inaugura la stagione con il capolavoro rossiniano Ecco il ritratto a tre voci di una figura biblica divenuta universale: il neocardinale Gianfranco Ravasi, il fotografo Mimmo Jodice e il maestro Riccardo Muti raccontano la condizione umana sempre sospesa tra esilio e Terra Promessa LE IMMAGINI L’intervento di Gianfranco Ravasi che pubblichiamo e le foto di Mimmo Jodice del Mosé di Michelangelo che illustrano queste pagine sono contenute, insieme a uno scritto del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, nel libretto dell’opera Mosè Il profeta mansueto dell’Esodo infinito GIANFRANCO RAVASI erto, come spesso accade alla libera creatività degli artisti, anche Rossini aggiunge alla fisionomia del suo Mosè una serie di lineamenti apocrifi, ora attingendo agli stereotipi dell’onomastica egizia e orientale, ora attribuendo nuovi tratti ai personaggi biblici, ora semplificando il racconto originario oppure infittendolo di altre vicende ed emozioni. Così, ad esempio, il notissimo fratello di Mosè, il sacerdote Aronne, capostipite del sacerdozio ebraico, diventa Éliézer-Eleazaro, un nome che echeggia quello del secondogenito di Mosè, Eliezer appunto. Entra in scena un’inedita nipote Anaï-Anaide, figlia della sorella Maria, accanto alla quale si presenta Aménophis-Amenofi, uno storicamente ignoto figlio del faraone che, probabilmente, era allora il celebre Ramses II, colui che ancor oggi impressiona con la sua grandeur architettonica, statuaria ed epigrafica i visitatori dell’Egitto. Inedita è, per il testo biblico, pure la moglie del faraone, Sinaïde. Sorprendente è anche una sorta di libera trasposizione del Sinai e della rivelazione della legge divina all’interno dello spazio geografico egiziano, come l’arcobaleno che svetta nel cielo altro non è che l’evocazione di un’altra alleanza e di un’altra legge, quella donata a Noè dopo la catastrofe del diluvio e, quindi, in epoca remota e quasi mitica, ben lontana da quella mosaica, riferibile forse al Tredicesimo secolo avanti Cristo. Inattesa è la riduzione delle dieci piaghe alla trilogia della grandine, del fuoco e delle tenebre, come libero è l’accostamento dei madianiti, il gruppo etnico della moglie di Mosè, Zipporah, agli ebrei oppressi. Suggestivo ma extrabiblico è ovviamente anche il tormentato contrasto tra amore e fede che lacera i due personaggi “apocrifi” di Anaide e Amenofi. Il nostro scopo, però, è ora quello di ricreare in C modo molto essenziale — districandoci in mezzo al groviglio molto complesso delle questioni storicocritiche, esegetiche ed ermeneutiche — un ritratto della grande guida della liberazione di Israele dall’oppressione faraonica, la cui figura campeggia soprattutto nel libro biblico dell’Esodo. Un termine che rimanda il lettore contemporaneo al nome Exodus della nave che conduceva alcuni ebrei fortunosamente scampati ai lager nazisti verso la terra dei padri, nome divenuto anche il titolo del film che Otto Preminger girò su quella vicenda nel 1960 con la presenza efficace di Paul Newman. L’esodo di Israele dall’Egitto era, però, già diventato — all’interno della stessa Bibbiae della successiva tradizione giudaica, cristiana e persino islamica — un archetipo che ben presto sarebbe stato assunto dall’intero Occidente che nelle Sacre Scritture aveva sempre trovato il «grande codice» di riferimento simbolico, spirituale e culturale. Caro alla teologia cristiana, ma importante anche per la filosofia (L’ateismo nel Cristianesimodel filosofo marxista Ernst Bloch reca il sottotitolo Per una religione dell’esodo e del regno) e per la psicanalisi (si pensi ai tre saggi su Mosè di Sigmund Freud, raccolti nel 1939 nell’opera L’uomo Mosè e la religione monoteista), decisivo per la società ebraica moderna col sionismo (che ne ha ripreso l’ideale in chiave laica), e in genere per il riscatto dei popoli oppressi, l’esodo è divenuto un vero e proprio emblema ideale, talora staccato alla sua stessa realtà storica originaria. Nell’Ottocento, ad esempio, Marcus Garvey, propugnatore dell’esodo in Africa dei neri americani, si era fatto chiamare Black Moses, «Mosè Nero», e aveva lasciato dietro di sé una scia di martiri, di speranze, di racconti, e persino un dramma e un film sulle Green pastures, le verdi praterie dell’Africa sognata come terra promessa. Aveva ragione il trattato talmudico sulla Pasqua quando affermava che «ogni generazione deve Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Quella bellezza antica che continua a sorprenderci RICCARDO MUTI oïse et Pharaon è un’opera grandiosa: per dimensioni, respiro, potenza vocale e strumentale. Vasta nel disegno e moderna nella scrittura contrappuntistica e nell’intreccio delle parti. Rossini vi ha usato tutte le possibili tecniche compositive, sia nella scrittura vocale che nella strumentazione. Porta d’accesso al Nabucco di Verdi (nell’impaginazione corale dell’inizio e nel succedersi di affreschi), è una sorta di immenso oratorio che attribuisce un’importanza fondamentale al coro, fermo restando l’eccezionale impegno dei solisti. Notevole la scrittura orchestrale, con pagine di virtuosismo estremo, e di straordinaria sostanza i recitativi, sorretti da una potenza drammatica che ritroveremo nel Guglielmo Tell. Non sono mai accademici: non servono a portare avanti M considerare se stessa come uscita dall’esodo». Per certi versi il detto vale pure per le generazioni non ebraiche; se riesumiamo il simbolo del «filo rosso» (usato dal citato filosofo Bloch), possiamo inseguire la corsa serpeggiante dell’esodo nella storia della cultura e della spiritualità religiosa dell’intero Occidente. Lo facciamo ora solo evocativamente e non rigorosamente perché altrimenti ci troveremmo subito immersi in un labirinto iconografico, musicale e letterario. Basterebbe solo parlare, anche a un “profano”, di Mosè salvato dalle acque, del roveto Antonio Ingroia Nel labirinto degli dèi Storie di mafia e di antimafia l’opera. Più che ponti sono pilastri, scolpiti con forza michelangiolesca. La conclusione dell’opera, che evoca il placarsi delle acque, spinge il discorso musicale verso nuovi orizzonti pressoché mendelssohniani. La storia si basa sul parallelismo tra la lotta tra ebrei ed egiziani e l’amore impossibile tra il principe Aménophis e l’ebrea Anai, fedele al dio Jeova, e capace, in suo nome, di rinunciare all’amore terreno. Il tutto scorre nel riflesso della vicenda di un popolo in lotta per la libertà, pronto a partire, guidato da Mosè, per la Terra Promessa. Rossini, su questa trama, costruisce un capolavoro di quattro ore fortemente impregnato di senso religioso, e di una bellezza che continua a sorprenderci. © RIPRODUZIONE RISERVATA ardente, delle piaghe d’Egitto, del passaggio del Mar Rosso, del deserto del Sinai, della manna, dell’acqua dalla roccia, delle tavole del Sinai, del vitello d’oro per immaginare una mente popolata di scene familiari e persino di frasi fatte (le «piaghe» oppure le «cipolle d’Egitto!»). E se volessimo ricorrere alla musica? Lasciando da parte il Mosè rossiniano, penseremmo al Mosè liberatoredi Max Bruch (1894) e di Perosi (1901), all’affascinante e incompiuto Mosè e Aronne di Schönberg, allo splendido Israele in Egitto di Haendel (1739), il cui vero spartito spirituale è proprio il libro dell’Esodo. Il filo rosso s’annoda soprattutto attorno alla grande guida dell’esodo, Mosè, un nome spiegato liberamente dalla Bibbia come «estratto dalle acque» (Esodo 7, 10), in realtà da ricondurre al più modesto mose, «figlio», termine egizio che troviamo nei nomi teoforici ben noti come Tut-mose, Ahmose, Ra-mose/messe («figlio del dio Tot, Ah e Ra»). Israele per secoli, almeno fino al Nono dopo Cristo quando appare uno studioso della Bibbia di nome Moshe Ben Asher, si rifiuterà di imporre quel nome così venerato a un figlio. Egli resterà per eccellenza il Môrenû, «il nostro Maestro», amato e rispettato. La sua epigrafe di santità era già stata scritta dalla stessa Bibbia: «Mosè era il più mansueto di tutti gli uomini apparsi sulla terra… Egli è il mio servo, l’uomo di fiducia di tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui; in visione diretta e non per enigmi egli contempla l’immagine del Signore» (Numeri 12, 3.7-8). E dopo la morte sarà ancora la Bibbia a “canonizzarlo”: «Non è sorto più in Israele un profeta come Mosè, lui col quale il Signore parlava faccia a faccia… Uomo di pietà, universalmente stimato, amato da Dio e dagli uomini, il cui ricordo è in benedizione, glorioso tra i santi, potente contro i nemici» (Deuteronomio 34, 10; Siracide 45, 1-2). Il filosofo e teologo ebreo alessandrino Filone (Primo secolo dopo Cristo) gli dedicherà una biografia romanzata sul modello delle Vite paralleledi L’EVENTO Giovedì 2 dicembre si apre la nuova stagione dell’Opera di Roma con Moïse et Pharaon di Rossini diretto dal maestro Riccardo Muti Martedì 30 novembre alle 19, anteprima per beneficenza per la Comunità di Sant’Egidio La regia è di Pier’Alli, coreografo Shen Wei, coro guidato da Roberto Gabbiani Il cast: Ildar Abdrazakov (Moïse), Nicola Alaimo (Pharaon), Eric Cutler (Aménophis), Juan Francisco Gatell (Eliézer) Plutarco; il Padre della Chiesa cappadoce san Gregorio Nisseno (Quarto secolo) comporrà una Vita di Mosè il legislatore, dove la storia della celebre guida dell’esodo viene vista come un itinerario di perfezione morale e di contemplazione mistica. Storia che verrà recuperata nella biografia teologica Mosè (1946) del filosofo tedesco ebreo personalista Martin Buber. «Uomo eccellente, non nato per pensare o per riflettere, tutto proteso all’azione… una figura che, dal primo gesto [cioè l’assassinio di un aguzzino che infieriva su gli ebrei oppressi] fino alla scomparsa, fornisce un’immagine significativa e degna di un uomo che dalla natura è sospinto a cose eccelse», scriverà Goethe in alcune sue note di taglio biblico (Israele nel deserto, 1797). Ma c’è anche il Mosè romantico dell’omonimo poema di Alfred de Vigny (1837) con la sua umanissima solitudine dell’eletto, affranto per una missione che vanamente aveva tentato di rifiutare, deciso a non scendere più dal Sinai. Si può ricorrere, allora, al Scendi, Mosè di Faulkner (1942), in cui l’eroe ebreo diventa una figura necessaria perché siano liberate tutte le deboli vittime di ogni faraone della storia, o al Mosè, serie di ventitré poemi riuniti dal poeta francese Pierre Emmanuel nell’opera più vasta Tu (1962). Thomas S. Eliot, invece, nella sua Morte di Mosè presenta un uomo attaccato alla sua vita gloriosa, che non si rassegna a morire sulla vetta del Nebo davanti a quella terra promessa, tanto sognata e a lui proibita, e che gli stessi angeli rifiutano di accompagnare in cielo, non avendo il coraggio di strappargli l’anima. C’è in questa lirica l’eco di uno stupendo commento narrativo giudaico sulla morte di Mosè descritta nel capitolo 34 del libro del Deuteronomio (Devarîm Rabbah). Leggiamone le battute principali: «Si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: Mosè è la fine, il tempo della tua morte è venuto! Mosè disse a Dio: Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell’angelo della morte!… Ma Dio scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli disse: Mosè, chiudi gli occhi! E Mosè li chiuse. Poi Dio disse: Posa le mani sul petto! E così fece. Poi disse: Adesso accosta i piedi! E Mosè li accostò. Allora Dio chiamò l’anima di Mosè dicendole: Figlia mia, ho fissato un tempo di centoventi anni durante il quale tu abitassi nel corpo di Mosè. Ora è giunta la tua fine. Parti! Allora Dio baciò Mosè e prese la sua anima con un bacio della sua bocca». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 SPETTACOLI Il frizzo e il lazzo, il doppio senso e l’allusione, ingredienti fondamentali di un genere nato tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nei cafè chantant della capitale del Mezzogiorno. Canzoni umoristiche che anche i grandi autori componevano per tenerle in archivi semiclandestini riservati alle serate con gli amici. Un tesoro prezioso, ora narrato e cantato in un libro e in un cd perché non venga perduto Tra miseria e nobiltà così sirideva a Napoli I MANIFESTI Locandine in stile liberty del Salone Margherita e, nella pagina accanto, la locandina del film Cafè chantant (1953) con Nino Taranto, Ugo Tognazzi, Corrado e il Quartetto Cetra RENZO ARBORE on è affatto casuale che sia stata proprio una canzone umoristica a inaugurare la storia della discografia italiana. È vero infatti che la prima canzone italiana documentata, incisa su un supporto di vinile, vada attribuita a tale Bernardo (o Berardo, secondo alcuni) Cantalamessa. La sua incisione fu la famosa ‘A risa, ma questo Cantalamessa, piuttosto celebre ai suoi tempi, va anche considerato uno tra i primi macchiettisti di grande talento e grande fantasia. È chiaro che la Macchietta si è rivolta a tutti i tipi di umorismo e di comicità ai quali, con ogni sistema, era possibile attingere. Qui ci sono il frizzo, il lazzo, il doppio senso, il senso unico, l’allusione. Ma ci sono anche il racconto, il risvolto, la trovata, e spesso una vera e propria sceneggiatura, costruita addirittura come se ci si trovasse di fronte a un piccolo film. Tut- N ’A macchietta IL LIBRO Esce martedì il libro + dvd Come si ride a Napoli! di Vittorio Marsiglia e Carlo Missaglia con prefazione di Renzo Arbore (B. C. Dalai editore, 208 pagine, 20 euro): una piccola antologia che raccoglie la storia e i testi della canzone umoristica e della macchietta dalle origini a oggi. Accanto ai testi, note e spiegazioni per comprendere i doppi sensi e le arditezze che alcuni pezzi contengono te le risorse dell’umorismo italiano, napoletano specialmente, hanno contribuito a creare la canzone umoristica. Anche gli spunti dell’avanspettacolo e le trovate di quell’umorismo che normalmente viene definito «basso», miscelato all’umorismo più alto, anche la tradizione goliardica, anche la sofisticazione. Tutto è stato filtrato ed è poi giunto alla canzone umoristica e alla Macchietta. Del resto l’ambiente era eccezionalmente favorevole. Pensiamo all’atmosfera dei Cafè Chantant e dei Bar Tabarin, nati con le suggestioni che provenivano dalla licenziosa Parigi. Napoli inaugurò sul finire dell’Ottocento il suo Salone Margherita nella Galleria Umberto I. È qui che il sapore della canzone umoristica e della Macchietta viene fuori genuino e pieno della sua impertinente e incontenibile genialità. È qui che esplode il fenomeno delle soubrette e delle sciantose. Erano questi i covi in cui allignava la canzone umoristica, e dove dunque razzolavano anche i grandi autori, accanto a eccentriche figure alla Ninì Tirabusciò. Il primo Novecento è stato sicuramente un periodo fervidissimo per la creatività degli autori napoletani. Spesso le grandi firme delle più celebri canzoni napoletane, proprio accanto alle loro composizioni importanti avevano un loro repertorio irriverente, semiclandestino, pressoché segreto. Era fatto di poesie e di canzoni umoristiche che questi autori avevano il vezzo di riservare ai soli amici. Un repertorio che restava tuttavia di elevatissima qualità, e che quindi pian piano diventava inevitabilmente di pubblico dominio. C’è sempre stato il gusto, il piacere di spingersi in questo piccolo gioco che consisteva nel coprire musiche di un certo tipo con parole che erano addirittura parodistiche rispetto alla canzone seria e importante. Tra gli autori citerò soprattutto Cioffi e Pisano perché non si può parlare della Macchietta e della canzone umoristica senza ricordare quelli che ne restano probabilmente i massimi esponenti, certamente i più prolifici. Hanno scritto canzoni bellissime anche dal punto di vista della musica, rivestendole spesso con parole umoristiche. È a loro che si devono successi strepitosi come Dove sta Zazà?, Ciccio formaggio e tantissimi altri di popolarità sconfinata. Qui di «minore» non c’è davvero nulla. Anzi, ogni volta ci si imbatte in tesori di creatività e ispirazione straordinarie. Uno degli esempi illuminanti è nella famosa Agata. Nel testo, «lui» ricorda vecchie partite di carte giocate insieme a «lei», che però lo ha lasciato e che adesso è andata via. Da lì nasce il verso sublime: «Mo mme faccio ’o sulitario. Guardo in cielo e penzo a te!». Più creativo ed elegante di così… (Dalla prefazione a Come si ride a Napoli!, B.C. Dalai editore 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 INDIMENTICABILI In queste pagine, alcuni protagonisti della canzone umoristica italiana: da Totò a Eduardo, da Macario a Nino Taranto. Qui sopra, Renato Carosone e la sua band nel 1957 Uno scarabocchio vivente contro la doppia morale dell’homo italicus MARINO NIOLA eformarela realtà per smascherarla, mostrandone la faccia nascosta. È il denominatore comune a tutte le forme di teatro. Ed è la ragion d’essere profonda di un genere assolutamente italiano come la macchietta. Figlia solo apparentemente minore di una tradizione millenaria che affonda le sue radici nella viscerale comicità delle farse atellane e continua con la Commedia dell’arte. In ogni caso si tratta di un comico consegnato innanzitutto al corpo stralunato e alla voce artefatta dell’attore. Che diventa uno scarabocchio vivente. È proprio questo il significato originario della parola macchietta, un piccolo schizzo, un ghirigoro alquanto informe ma in compenso molto colorato. Come quelle figurine di sfondo di un quadro che spesso però danno il senso d’insieme e che si chiamano appunto macchiette. Del resto Nicola Maldacea, il vero padre di quest’arte, diceva di usare la musica al posto del colore per schizzare in poche pennellate canore i tratti essenziali di un tipo umano trasformandoli in caricatura. Facendone cioè una maschera. E proprio maschere sociali sono i protagonisti di quelle canzoni, dal Cavaliere del lavorodello stesso Maldacea al Ciccio Formaggio di Nino Taranto, dal Bel Ciccillo di Totò al Gastone di Ettore Petrolini. Il risultato è un teatralissimo spaccato delle vicende della società italiana fra Otto e Novecento e della sua umanissima fiera delle vanità. Nobili decaduti, banchieri avidi, comunisti a parole, femministe arrembanti, preti boccacceschi, politici senza scrupoli. Nulla sfugge al mimetismo rabdomantico dei macchiettisti, l’intera realtà viene messa a D nudo attraverso l’esagerazione fedele della caricatura. E la doppia morale della borghesia nazionale viene fatta letteralmente implodere attraverso il gioco del doppio senso, del lazzo irridente, dell’allusione, del qui pro quo. Che sono poi gli ingredienti di sempre della commedia nazionale, sulla scena e fuori. Nel funambolismo sbilenco di Totò, nello straniamento lunare di Petrolini, nel manieristico trasformismo di Peppino Villani il corpo e la voce diventano l’iperbole contraffatta di chi in realtà non è se stesso. Un asincrono in carne e ossa. Come il principe de Curtis quando disarticola insieme il corpo e il linguaggio facendo apparire la marionetta che ci abita a nostra insaputa. A prescindere! Mentre nell’abissale nonsense di Ettore Petrolini affiora, in un presentimento del miracolo economico, l’immagine anticipatrice del borghese piccolo piccolo, quello che ha comprato i salamini e se ne vanta. E persino in tempi più recenti il volto caricaturale dell’homo italicus affiora in quella macchietta da prima società dei consumi che viene riproposta nel 1956 da Renato Carosone in Tu vuò fa’ ll’americano. Whisky e soda e rock and roll. È il controcanto partenopeo di Nando Mericoni, l’immortale americano di Trastevere cui Alberto Sordi dà volto in quegli stessi anni. Se la nostra arte scenica nasce dal ghigno delle antiche maschere italiche, allora la macchietta è da sempre la sua doppia anima, irriverente e pedagogica. Quella che ridendo castigat mores. O meglio, ridendo, castiga i mori. Parola di Totò. © RIPRODUZIONE RISERVATA S c uo la & E c c e l le n za LEZIONI SULLE SCUOLE DI SCIENZA DEL NOVECENTO ITALIANO “SEDOTTA E ABBANDONATA” LA CHIMICA ITALIANA DA AVOGADRO ALL’ENERGIA SOLARE MARCO CIARDI Professore Associato in Storia della Scienza e delle Tecniche, Università di Bologna con il coordinamento di GILBERTO CORBELLINI Ordinario di Storia della Medicina, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ROMA 22 NOVEMBRE 2010 - ORE 11.00 TEATRO STUDIO AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA in coproduzione con PER INFORMAZIONI: FONDAZIONE SIGMA-TAU - L.go Arenula, 26 – 00186 Roma Tel. : +3906-95942405 - fax: +3906-5913047 www.fondazionesigmatau.it BIGLIETTO POSTO UNICO 2 EURO Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 i sapori Piatto simbolo nel Giorno del Ringraziamento americano, il gallinaceo dalle grandi dimensioni finisce nelle cucine italiane sotto forma di cotoletta o associato a imponenti ripieni che esaltano la sua carne bianchissima. Elogiato Tradizionali dai dietologi e (un po’) snobbato dagli chef, ora promette ricette che vi faranno dimenticare la fettina di fesa impanata Fesa Sovracosce Fusi Ali Il petto, la parte più magra e ricca di proteine, può essere tagliato in bocconcini, o a fettine più o meno spesse, per farne paillarde o tagliata Classica la cottura del pezzo intero arrosto, al forno o in pentola Come per il pollo, la carne che sormonta le cosce è la più saporita e succosa: ideale per umidi, spezzatini e farciture, ma anche per le preparazioni etniche, che prevedono marinature e condimenti speziati Le cosce, umide e polpose, si prestano a preparazioni diverse: disossate e imbottite, fritte o arrostite intere, oppure tagliate in tranci a mo’ di ossobuchi, da cucinare in modo simile a quelli di vitello Polpa gustosa per la parte più ambita e trascurata delle carni avicole, promossa ora da una campagna, “Sapori con le ali”, a cura dei Jeunes restaurateurs d’Europe, con ricette nuove, che superano i classici Tacchino Il più sano che sa essere buono LICIA GRANELLO ronfio come un tacchino. ta (a patto di non mangiare la pelle!), per Per via di quel petto all’in- di più costituita per gran parte di grassi fuori, alto e possente, spro- moninsaturi e polinsaturi, simili a quelpositato in confronto alle li di origine vegetale. zampe esili e lunghe. Il polEssere apprezzata e proposta dalla lo è buono, per carità: però dietologia moderna, però, ha avuto un nel confronto, quantitativo in primis, effetto nefasto sulla capacità della carne non regge. Vuoi mettere il petto di tac- di tacchino di far titillare le papille dei chino? grandi chef. Troppo delicata, troppo tiIl meleagris gallopavo va raccontato mida, troppo accondiscendente nei anche fisicamente, per evidenziarne l’u- confronti di sughi e cotture, tagli e contilità alimentare. Intanto, grazie al suo torni. Per assurdo, solo l’alta cucina bormetro, e oltre, di lunghezza, un’apertu- ghese di Francia l’ha glorificata, utilizra alare che arriva al metro e mezzo e un zando l’animale intero, grazie alle ricetpeso per i maschi tra i dieci e i dodici chi- te di Escoffier, capace di codificare preli, è indubitabilparazioni sontuomente il più grosso se che soppiantagallinaceo da cortirono il pavone, con le (le femmine hanfarciture a base di no stazza quasi diostriche e marroni, mezzata, ma in porcini e tartufi, su Da quando nel 1863 compenso le uova su fino al foie gras. il presidente Lincoln scelse sono a dir poco poUna ricerca reil quarto giovedì di novembre derose, con i loro centissima conper celebrare la Festa settanta grammi). dotta da Demoskodel Ringraziamento A memoria imperipea per Aia testiin memoria dei “Padri tura di un tempo in monia come la perpellegrini” arrivati in America cui questi pennuti cezione delle carni a bordo della Mayflower non conoscevano bianche — e di nel 1620, il Thanksgiving la costrizione delle quella del tacchino è diventato una delle feste gabbie, al di là dei nello specifico — immancabili del calendario milioni di allevasia legata più ai culturale e gastronomico menti sparsi in tutprincipi della nunazionale. Assemblati in mille to il globo, resiste trizione consapevarianti, gli ingredienti base comunque una vole che alla godudel menù sono gli stessi piccola, ma consiriosità gastronoda secoli: zucche, mirtilli, stente quota di rumica, a maggior racastagne e mais vidi cugini amerigione quando si fanno da contorno cani, che vivono alesce dal consumo alla carne di tacchino lo stato brado — dei pennuti ripieni, scampando allo con cui si celebra la sterminio pretavola nelle feste di Thanksgiving — fine anno. Così, sul nei boschi tra Ohio e Alabama. nuovo sito www.oggiscelgotacchino.it i Difficile trovare una carne altrettanto produttori hanno chiesto a chef bravi e presente nelle prescrizioni mediche, bravissimi di misurarsi con le carni facigrazie al magico trittico composto da li e sane del tacchino. proteine nobili (tante), grassi & calorie Leggendo le ricette, scoprirete che (pochi). Merito per buona parte del co- uscire dalla logica della fettina di fesa imlore bianco, associato alle fibre animali panata è meno difficile di quanto sembri caratterizzate da scarsa concentrazione e anche più goloso, a maggior ragione se di mioglobina, il pigmento che con l’os- trovate in commercio carni di animali sigeno ne determina la colorazione. allevati naturalmente. Un goglottio di Ma più del pollo e del coniglio, il tac- piacere — avete presente il verso del tacchino supera il vitello per quota proteica chino? — sarà il giusto contrappunto ale quantità di ferro biodisponibile, a fron- la degustazione. te di una percentuale di grassi dimezza© RIPRODUZIONE RISERVATA T l’appuntamento 107 le calorie per cento grammi di fesa di tacchino 4,5 kg il consumo pro capite annuo 200 a.C. le prime testimonianze di allevamento: in Messico Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Asti itinerari Americano di genitori portoghesi, George Mendes è uno degli chef più interessanti di New York Nel menù di Thanksgiving del suo ristorante, “Aldea”, spicca il tacchino di fattoria farcito con brioche alla salsiccia, salsa di mirtilli e arancia Rovigo Giulianuova (Te) Tra i prodotti tipici della campagna astigiana, spicca un originale salame di fattura artigiana, impastato con poca carne di maiale, sale, pepe, noce moscata, insaccato nel budello naturale e stagionato per tre mesi Carni sode e gustose per il tacchino ermellinato, dal bel piumaggio bianco striato, allevato nella campagna del Polesine da mezzo secolo e iscritto nell’elenco delle razze a rischio di estinzione Tra la bella cittadina costiera e la campagna teramana, si possono gustare ricette come il coscio farcito con pancetta e finocchietto della Val Vomano e quello intero disossato in gelatina alla canzanese DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE REALE (con cucina) Piazza Vittorio Alfieri 6 Tel. 0141-530240 Camera doppia da 100 euro colazione inclusa HOTEL CORONA FERREA Viale Trieste 3 Tel. 0425-422433 Camera doppia da 75 euro colazione inclusa VILLA FIORITA Via Ripoli Tel. 085-8071902 Camera doppia da 60 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE AI BINARI Frazione Mombarone 145 Tel. 0141-294228 Chiuso lunedì, menù da 40 euro TRATTORIA AL PONTE Via Bertolda 27 Località Bornio Tel. 0425-669890 Chiuso lunedì, menù da 25 euro BECCACECI Via Zola 18 Località Lido Chiuso domenica sera e lunedì menù da 45 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE BRUNO CARNI Via Conte Verde 78 Tel. 0141-211725 GASTRONOMIA FRATELLI PIVA Piazza Giuseppe Garibaldi 15 Tel. 0425-24845 AZIENDA AGRICOLA DI BATTISTA Contrada San Martino a Canzano Tel. 340-3668339 le ricette Prove tecniche per un Thanksgiving Ripieno VITTORIO ZUCCONI gnianno nel giorno dell’ultimo giovedì di novembre, chiamato giorno del Ringraziamento, la mostruosa e sfortunata creatura che troneggia al centro della tavola mi mette di fronte alla insostenibile eresia della “doppia fedeltà”. Anni or sono, giurai davanti al giudice di rinunciare a principati e potestà straniere in favore della fedeltà alla Costituzione americana, ma questa è soltanto una formula. La vera prova, il test decisivo della propria conversione alla “Religione America” e della appartenenza alla tribù yankee avviene l’ultimo giovedì di novembre, davanti al terrificante pollastrone arrostito che offre, come un animale sacrificale, il proprio colossale petto alla lama del celebrante. Sotto lo sguardo scettico e ansioso di parenti, affini, nipoti, spiriti di Indiani nativi e di Padri pellegrini che mi osservano corrucciati dalla profondità del tempo, il celebrante — sempre il patriarca o pater della familias — deve dimostrare di saper tagliare il tacchino. E, ogni anno, fallisco miserevolmente l’esame. Mentre i veri americani affondano il coltello con perizia e precisione neurochirurgica nelle carni bianche della vittima ricavandone fettine perfette e di diametro progressivo, io sbrano, mutilo, strazio, dissacro la povera creatura. Produco brandelli di carne sfrangiati, porzioni informi, grumi confusi di polpa bianca e scura, lasciando carcasse raccapriccianti. Ho provato con lame affilatissime da samurai, coltelli da macellaio, arnesi elettrici e il risultato è sempre deplorevolmente simile. Non sono capace di tagliare il tacchino sacrificale. Non sono un vero americano. Per sfuggire all’annuale disfatta ormai anche sotto lo sguardo inorridito di nuove generazioni in pannolino, mi rifugio nel più ignobile sincretismo religioso, nella confusione e nella contaminazione dei riti e delle fedi, un po’ come i cubani o brasiliani del vudù che fingono di adorare Da Il contadino astrologo la Madonna mentre in realtà pregano il Serpente di Mare. Approfitto del legame fra il pollastrone arrostito e la zucca, la cucurbitacea di famiglia che appena un mese prima del Thanksgiving ha dominato la giornata di Halloween e che allunga la propria ombra anche sul pranzo del Ringraziamento attraverso torte e contorni, per chiedere alla sventurata moglie di preparare tortelli di zucca (tendenza mantovana) al burro. La zucca è considerata parte accettabile del rito e i tortelli non devono neppure essere affettati. Bofonchio una giaculatoria di gratitudine (obbligatoria) utilizzando il mio peggiore accento broccolinese affinché nessuno la capisca, né la parte italiana né quella americana della famiglia. Approfitto del senso di soddisfazione e di sazietà prodotto nei commensali dai tortelli di zucca, ai quali ho convertito molti selvaggi nativi, e quindi mi lancio barbaramente sul tacchino, sicuro che la fame, calmata dal tortello, sarà meno acuta e l’attesa della porzione più benevola. E tra volatili mutilati, tortelli di zucca alla mantovana, qualche occasionale salsiccia modenese contrabbandata e mescolata nella farcia del tacchino, m’illudo di celebrare la vera essenza di questa festa americana. Ex pluribus unum. Dai molti un solo popolo, un solo tacchino. O ‘‘ Calvino Gambara si presentò al re e gli disse che dopo lunghi studi era riuscito a sapere dov’era l’anello “E dov’è?” chiese il re “L’ha inghiottito un tacchino” Fu sventrato il tacchino e si trovò l’anello © RIPRODUZIONE RISERVATA La ricetta tradizionale che celebra il giorno del Ringraziamento prevede un ripieno a base di castagne bollite, pane raffermo e odori dell’orto Nella versione più golosa, anche salsiccia, formaggi e frutta secca Spezzatino I bocconi ricavati da fesa & fusi sono la base ideale per le interpretazioni culinarie più svariate, a partire dalla classica infarinatura e rosolatura con cipolla, e a seguire vino bianco, salsa di pomodori, funghi e curry Rollè Risolvono i pranzi freddi estivi ma anche le cene invernali, le fette rotonde, tagliate a partire da un rotolo farcito con spinaci, uova, ricotta, prosciutto, cotto in forno con poco olio o salsato a caldo con marsala Al forno Cottura multiuso per fusi, sovracosce e petto A piacere: patate o funghi, d’obbligo il rosmarino Per evitare che la carne si asciughi, lardellatura con pancetta e un vasetto di coccio pieno d’acqua sulla base del forno Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Social network DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 Emarginati, introversi, persi in mondi high-tech o fantasy. Eppure ogni tanto uno di loro cambia il mondo: prima vennero Bill Gates e Steve Jobs, poi la coppia Page-Brin di Google, ora Mark Zuckerberg inventore di Facebook. Consacrati da Hollywood, ora a corteggiarli sono gli stilisti JAIME D’ALESSANDRO marginati, guardati con sospetto, socialmente impresentabili. I geek, quelli che alla tecnologia dedicano anima e corpo, in passato hanno sempre avuto vita dura. Oggi invece dominano il mondo, almeno quello che conta: web, telefonia, musica, nuove televisioni e, ovviamente, computer. Ma soprattutto sono al centro dell’attenzione. Prendete Mark Elliott Zuckerberg, classe 1984, il cofondatore di Facebook. Nominato da Forbes nel 2008 come il più giovane miliardario in circolazione, è ormai protagonista, involontario, del mondo dello spettacolo. Dalla biografia non autorizzata Miliardari per caso: l’invenzione di Facebook, una storia di soldi, sesso, genio e tradimento di Ben Mezrich, il regista David Fincher ha tratto The Social Network, film arrivato nelle sale in questi giorni. Una rivincita per Zuckerberg, che rappresenta la terza generazione di geek, dopo quella di Larry Page e Sergey Brin di Google, vicini ai quarant’anni e la prima di Steve Jobs, Mr Apple, e Bill Gates di Microsoft, nati entrambi nel 1955. Originariamente sinonimo di “sciocco”, geek è recentemente diventato simile a nerd o al giapponese otaku. Altri due termini legati alla passione per la tecnologia, per i manga (fumetti), i videogame, e all’impresentabilità sociale. Fra i tre ci sono differenze sottili ma sostanziali, sulle quali c’è chi ama ancora dibattere. Quel che qui conta però è che ormai rappresentano una cultura sfoggiata con orgoglio a Tokyo, New York o Londra. Con eventi che si propagano fra Oriente e Occidente, dal Geek Pride Day al Blip Festival, dove musicisti europei, giapponesi e americani si alternano sul E AGGIORNATO Perfetto per chi è a caccia di notizie, lo smartphone LG ha tutti i servizi Google e le applicazioni per i social network PRECISO ESTREMO Quadrante, cinturino, cassa e fibbia tutto in un elegante verde oliva pensato apposta per le occasioni più importanti: è il nuovo modello Gent della Swatch Design innovativo, qualità d’immagine straordinaria: incarna lo spirito estremo di tutto ciò che va oltre le aspettative l’Acer Aspire 8943G Geekchic Tecno-secchioni la sottile vendetta TOUCHER Schermo tattile, ultrasottile e leggerissimo, ideale per chi ama leggere ovunque l’ebook Reader di Sony contiene fino a 1.200 libri da portare con sé palco suonando console d’epoca. Cultura di massa perfino in Italia. Secondo l’ultima ricerca condotta dalla Nielsen per conto di Confindustria, i geek sarebbero quasi quindici milioni. La Nielsen li chiama “technofan”, ma poco cambia, perché sono persone che vivono in simbiosi con computer portatile e con Internet, hanno sempre uno smartphone, giocano con i videogame e fissano uno schermo televisivo d’ultima generazione. Grandi consumatori di contenuti digitali, e allergici alla carta stampata in ogni sua forma, nel settantuno per cento dei casi hanno fra i quattordici e i quarantaquattro anni. Corteggiati quindi dalle aziende perché disposti a spendere, almeno per quel che riguarda la dotazione di gadget hi-tech, dall’iPad ai nuovi ebook reader, ai capi di abbigliamento sdoganati da Zuckerberg e compagni: felpe, sneakers, Swatch, jeans. Indumenti da nerd, fino all’altro ieri, finiti ora sulle passerelle della moda. Del resto la rima fra geeke chicviene facile. E sono sempre loro, conferma un’altra ricerca del Politecnico di Milano sul commercio elettronico, a formare lo zoccolo duro degli italiani che acquistano online. Quelli che si trastullano fra siti di gadget tecnologici come ThinkGeek, con il suo giro d’affari da cinquanta milioni di dollari, fino al più comune Amazon, che non a caso apre ora anche da noi. CASUAL Informali e adatti al tempo libero i pantaloni Incotex Dallo stile spontaneo e sportivo TRADIZIONALE Sono un classico le scarpe Adidas: colore ovviamente nero, con le tre strisce bianche, i lacci e la suola in gomma NOTTURNO Sceglie il giallo acceso Freddy per questa felpa con la zip e senza cappuccio © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 STUDIOSO Un occhiale dall’ampia sagoma quadrata per chi ama distinguersi Il frontale è in acciaio leggero. Di Armani RILASSATO Capo d’abbigliamento irrinunciabile per un look rilassato, comodo e grintoso: è la felpa Virtus COOL Amate dai giovanissimi e sempre attuali, le sneakers Converse All Star che piacciono tanto alle stelle di Hollywood e fanno tendenza Intervista / Tommy Hilfiger “Avevano ragione loro hanno stravolto la moda” SIMONE MARCHETTI l sole splende. L’erba è verde. I sorrisi sono bianchi come la neve. Benvenuti nel nuovo spot di Tommy Hilfiger, lo stilista americano che ha voluto il ritratto di una famiglia perfetta come campagna pubblicitaria delle sue collezioni invernali. A guardare bene lo scatto, però, dietro la facciata perbene ci sono alcuni “errori”. Occhiali da miope indossati come fossero il massimo dello chic. Maglioni infeltriti che sono più lussuosi di un mille fili di cashmere. O pantaloni sopra le caviglie che mandano in pensione la più perfetta delle pieghe stirate. Sono le tracce della cultura geek, quella del secchione emarginato, trasformate in dettami di stile. Come è possibile — abbiamo chiesto a Hilfiger — che i geek siano arrivati in passerella? «Come sempre succede nella moda, la risposta non va cercata negli abiti, ma nella realtà. Per la precisione, nelle imprese come quelle di Bill Gates e di Steve Jobs, due nomi illustri di nerd che hanno cambiato il corso della storia. Il loro look è passato dal ridicolo al sacro, dall’ultimo banco alla passerella più importante. La stessa cosa si può notare guardando il film The Social Network: le mise trasandate di Mark Zuckerberg sono la cosa più trendy che ci sia. Perché il potere di un abito arriva spesso dalla storia di successo di chi l’indossa». Ma come si può conciliare il guardaroba di lusso con quello di questi “secchioni”? «Con l’umorismo. Con la leggerezza. Una delle lezioni più importanti dell’estetica nerd è la possibilità di mischiare tutto senza troppi pensieri. Vintage e sport. Scarpe del nonno e pantaloni della tuta. Quest’attitudine contemporanea a cancellare le regole è anche una prerogativa della mia linea. Il discorso, però, è più ampio e abbraccia le nuove tecnologie, Internet in primis. Il web, infatti, ha azzerato le distanze. Oggi non ha più senso parlare di come si vestono gli italiani, i francesi o i giapponesi. La rete rende tutto globale, identico, raggiungibile. Ma, proprio per questo, più personalizzabile. I geek, forse, hanno spinto l’acceleratore sulla possibilità di essere se stessi senza barriere. Senza paura di non essere maggioranza». Cosa pensa degli accessori tecnologici e dei social network, due ossessioni geekoggi diventate la nuova mania del Fashion System? «Cellulari, computer, iPhone hanno trasformato profondamente la nostra vita, modellando anche la nostra immaginazione e il nostro modo di lavorare. Oggi, per esempio, posso essere a Londra e controllare in diretta uno shooting in California, guardare i preparativi di una sfilata a Parigi e scegliere un tessuto da un fornitore in India. Tutto sul mio iPad. Questo, ovviamente, condiziona la nostra estetica e quindi il nostro modo di pensare e di indossare gli abiti. Per quanto riguarda i social network, invece, ritengo siano diventati imprescindibili per la nostra attività di stilisti. Io non uso Facebook per scopi privati. Ma non potrei immaginare il mio business senza questo strumento. Ancora una volta, l’idea di un geekè diventata un mezzo irrinunciabile, quasi naturale». I * IL FILM È nelle sale in questi giorni il film di David Fincher The Social Network che racconta la nascita di Facebook. Qui sopra, alcune immagini del film BRITISH Dal mondo della nautica al guardaroba dei più giovani: Henry Lloyd conserva il suo tocco decisamente british COUNTRY Pensati in origine per un look da rodeo, i jeans Wrangler non possono mancare oggi tra gli abiti cult per i più giovani © RIPRODUZIONE RISERVATA COLORATO QUADRATO Dalla camicia alla sciarpa, fino al risvolto dei jeans: un look tutto a quadretti per il giovane vestito Gas Fa tendenza la camicia indossata sopra la felpa Rivisitazione delle classiche Lacoste: ispirato al coccodrillo anche il motivo a scaglie in rilievo su pelle La tomaia verde intenso fa contrasto con la suola bianca VINTAGE INTUITIVO Da semplici scarabocchi a opere più complesse: la nuova e intuitiva uDraw Game Tablet di Nintendo per imparare a disegnare, dipingere e colorare Old style e sport: mischia tutto con leggerezza e senza troppi pensieri la linea di Tommy Hilfiger pensata per giovanissimi Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 l’incontro Hombre vertical Orfano di padre a nove anni, di madre a sedici. Finito a Cagliari “perché offrivano di più della mia Inter” Un esilio divenuto casa, una squadra diventata leggenda grazie a lui, “Rombo di tuono” Che oggi dice: “Faccio ancora il bilancio della giornata, come allora Cosa mi manca? Avrei voluto che i miei vedessero che mi sono difeso, che nonostante le avversità ho avuto una vita piena di soddisfazioni” Gigi Riva a le labbra incollate. La bocca scolpita sul volto pieno di asperità e di tenerezze. Il tempo l’ha trattato bene, regge il confronto con la foto di «rombo di tuono» in bianco e nero nascosta per eccesso di pudore dietro la porta dell’ufficio. Se lo avesse conosciuto, Morrissey avrebbe voluto quell’immagine di Gigi Riva scattata nel ’69 sulla copertina di un suo disco. Ma all’epoca degli Smiths il fuoriclasse del Cagliari aveva chiuso da un pezzo con il calcio e sigillato le glorie di campione in un album che sfoglia in solitudine di sera, nell’ora del bilancio, che scatta ogni santo giorno da quando la vita lo inchiodò adolescente alle responsabilità di uomo. «Quando sei così giovane e rimani senza famiglia, non hai che te stesso», mormora Riva, gli occhi inquieti dietro le lenti affumicate, le labbra incollate che si schiudono appena per raccontarsi. «È vero, ancora oggi faccio il bilancio della giornata, proprio come allora, quando i punti di riferimento me li dovevo inventare prima di scivolare nel sonno. Lo facevo anche nei primi mesi a Cagliari, divorato dalla nostalgia, mille chilometri lontano dal paese, dagli amici; in tutti quei Natali trascorsi in solitudine. Non avrei mai immaginato che sarei rimasto qui tutta la vita». Sulla porta dell’ufficio, un primo piano nel centro di Cagliari, c’è scritto “Scuola di calcio Gigi Riva”. Ma non ci sono allievi che bussano per imparare i segreti delle rovesciate e dei gol di testa. È solo il nome di un’associazione fondata tanti anni fa e rimasta lì per pigrizia, o forse perché uno studio da commenda lo avrebbe messo in imbarazzo, o semplicemente perché uno che la a tutti, per riscattare l’immagine dell’orfano scontroso e solitario che ero». Su una parete dell’ufficio c’è la foto della sua camera di scapolo anni Sessanta con un manifesto di De André. «Ho tutti i suoi primi 33 giri», confessa. «C’incontrammo a Genova una volta, era molto introverso. Già, anche lui. Cominciammo con un paio di bicchieri di whisky, sennò nessuno parlava. Io ero intimidito dal personaggio. Una passione che mi è restata per tutta la vita. De André mi ha fatto molta compagnia. Certe cose che lui cantava o diceva diventavano per me regole di vita. Non avevo grandi idoli, anche se da buon interista adoravo Lennart Skoglund. Quante lettere scrivevo da ragazzino ai giocatori della squadra. Ce ne fosse stato uno che mi avesse risposto. Che delusione. Ogni mattina scrutavo il postino e quello con un cenno del capo mi faceva capire che non c’era nulla. Oggi è cambiato tutto. Anche il rapporto tra noi e i tifosi. La televisione ha preso il controllo». I giovani d’oggi non gli assomigliano. «Sono viziati. Hanno la moto, la discoteca fino all’alba… Noi tornavamo dal lago in bicicletta, ci fermavamo nel so- Quante lettere scrivevo da ragazzino ai calciatori Mai nessuna risposta Ogni mattina scrutavo il postino e lui con un cenno del capo mi faceva capire che non c’era nulla FOTO A3 H CAGLIARI gente si ostina a non voler dimenticare, nonostante la sua vocazione all’invisibilità, ha pur sempre bisogno di un luogo dove qualcuno apra la porta in rappresentanza del mito. È diventato sardo d’adozione, ma l’accento lombardo gli è rimasto. Carriera fulminante in una sola squadra, il Cagliari, che nel 1964 fece volare in serie A e nel 1970 trasformò in campione d’Italia. La città dove approdò per disperazione e per bisogno è diventata la sua culla, il suo nascondiglio, il teatro di una irrinunciabile routine: il decaffeinato al bar, un salto in ufficio, quattro chiacchiere con gli amici che passano a trovarlo, il riposino pomeridiano, le serate solitarie o a ristorante con il vecchio compagno Poli, anche lui arrivato dal Nord e rimasto in Sardegna. «A Cagliari arrivai da ragazzino. Spaventato dalla vita. Avevo avuto un’infanzia tragica. Persi mio padre a nove anni e mia madre a sedici», ricorda. «Dovevo badare a me stesso e il calcio era l’unica seduzione. Erano interessate anche l’Inter e il Bologna, ma il Cagliari offriva di più. Un sacrificio inevitabile per un interista poverissimo che nello stesso tempo lavorava, perché uno stipendio qualcuno doveva pur tirarlo fuori. Facevo il meccanico in paese e giocavo nel Laveno, sul Lago Maggiore». L’isola lo spiazzò, non sapeva neanche in che punto del mare fosse piantata, di sicuro in un posto che non si poteva raggiungere in automobile, e questo già gli dava le vertigini. La prima volta che spaziò con gli occhi oltre il mare, pensò che quegli scogli in lontananza fossero l’Africa. In realtà era solo l’altra costa del Golfo degli Angeli. «Mi prese lo sconforto: io da qui devo fuggire al più presto, mi dissi. E poi la malinconia di essere in una squadra di serie B, mentre Inter e Bologna erano in serie A... Ma quando mi resi conto che per giocare mi pagavano, mi convinsi che Cagliari non era poi tanto male». Due figli, nessuna moglie, tre nipotine che adora, ma ancora oggi, a sessantasei anni, la sera, ha bisogno di tirare le somme della giornata. In solitudine. «Non ho mai metabolizzato l’infanzia negata», ammette. «Ci combatto ancora. La mia più grande soddisfazione sarebbe stata farmi vedere realizzato dai miei, da mia madre soprattutto, che per noi figli si è rotta le ossa in fabbrica. Avrei voluto farle vedere che mi son difeso, che nonostante le mille avversità ho avuto una vita piena di soddisfazioni. Ricordo ancora quella volta che La Prealpina di Varese — dopo che avevamo vinto un torneo notturno con la squadra del paese — scrisse: “Questo Luigi Riva è una futura promessa per il calcio italiano”. Mia madre quel pezzettino di giornale lo mostrò lito campo, mettevamo un sasso di qui e uno di là per delimitare la porta e si giocava finché non faceva buio. A ben guardare, anche con tutte le nostre carenze, eravamo più sereni». Chi, oggi a ventisei anni, con la smania di apparire che divora il mondo, rifiuterebbe la parte di protagonista in un film? «Vaglielo a dire che dissi di no a Zeffirelli», borbotta. «Mi offrì quattrocento milioni per fare San Francesco. Io rifiutai senza esitazione, mi vergognavo. In quel periodo avevo visto un tremendo spaghetti western con Benvenuti e Giuliano Gemma e non capivo perché un campione come Nino lo avesse fatto. Ovvio che il San Francesco era di un altro spessore, e mi piacque molto quando lo vidi al cinema. Ma io sarei stato imbranatissimo in quella parte». La proposta di Zeffirelli arrivò nell’epoca delle grandi lusinghe, dopo lo scudetto del ’70 di cui ancora si parla. «Avremmo potuto vincerne anche uno all’anno di scudetti se non ci fossero state le dittature di Milano e Torino. La vittoria fece scalpore come se fossimo stati una squadra di extracomunitari. Protestai pubblicamente: “Noi per avere un rigore dobbiamo presentare un certificato medico”. L’unico arbitro integro era Lobello». Uno come lui, di un’altra pasta, hombre vertical, come Gianni Mura ha battezzato Riva. «Una definizione che mi lusinga perché è quello che volevo essere nella vita. Vuol dire: nonostante le difficoltà, nonostante i trionfi, prima di tutto sei un uomo, coerente con te stesso. Non ho mai approfittato di niente io, tantomeno del potere che il ruolo mi conferiva. Me ne sarei vergognato. Non mi sono mai presentato dicendo: “Sono Gigi Riva”. Se lo facessi, ancora oggi, faticherei ad addormentarmi. Volevo un posto nel mondo del calcio e basta, tutto il resto non m’interessava. Mi han fatto offerte pubblicitarie, proposte politiche, ancora me ne fanno. Mi ha telefonato Berlusconi. Voleva che mi candidassi. Per non essere scortese gli ho detto che volevo rifletterci. Ma ho anche aggiunto: “Guardi, io sono rimasto uno di paese, non ho mai messo piede in Costa Smeralda, sto dalla parte dei pastori del nuorese”. A quelle lusinghe lì preferisco il complimento che mi fece un allenatore della nazionale juniores: “Riva mette la testa dove gli altri fanno fatica a mettere i piedi”. Vede, io non ho mai avuto grandi ambizioni, mi sono scelto una strada e su quella ho corso. Quando le situazioni escono dai binari non piacciono. Non mi vedo neanche fuori dal giornale sportivo, soprattutto in quest’epoca di grandi scoop (inventati) e vip (squallidi) che vengono mitizzati. È talmente triste vedere personaggi che cambiano sei cra- vatte al giorno per raccontar bugie in sei programmi diversi… Eccoli i nostri maestri di vita. Tutto un bluff. Il calcio? Solo business, potere. Vincere un mondiale ci ha fatto dimenticare gli scandali, ma i problemi tornano a galla». Riva ci diede un taglio precocemente. Decisione irrevocabile, nel cuore degli anni Settanta quando per i sardi era più che mai arrogadottu, il rompitutto. Nessuno credette che a trentadue anni un mito del calcio potesse sparire così. «Ero reduce da un infortunio al tendine, fui operato… convalescenza… la società andò in crisi a causa del fallimento dei nostri finanziatori. L’allenatore era un tipo duro, un giorno aggredì a parole un giovane, io intervenni, così lui venne in società a lamentarsi, disse che io lo condizionavo. Non proferii parola, presi la mia borsa e dissi: “Ok, vi saluto, non gioco più”. E loro: “Tornerà, tornerà”. Stanno ancora aspettando. Lì dentro non ci ho più messo piede. Rimpianti? Nessuno. Solo che la sera, al solito momento della resa dei conti, non mi sentivo soddisfatto, mancava qualcosa. E non erano né la partita né i gol né Bernardini che mi rivoleva in Nazionale, ma l’allenamento pomeridiano. Così cominciai col tennis, pomeriggi interi con la racchetta in mano. Però sono rimasto a Cagliari. Non sarebbe stato bello andarsene: sono arrivato da ragazzo che non ero nessuno, hanno fatto di me un eroe, mi hanno invitato a casa dopo i gol, mi hanno aiutato nei momenti difficili… non potevo tradire», conclude Riva, che fino al 2014 ha un contratto come team manager della Nazionale. «Grazie a loro ho fatto un lavoro gratificante e se dovessi tornare indietro rivorrei la stessa vita. Al Padreterno chiederei solo una piccola variante: di lasciarmi un po’ più a lungo i genitori e far partecipare anche loro alla festa». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale