Presentazione
DOPO «CERCANDO TE» E «SOGNANDO
TE», IL TERZO VOLUME DELLA NUOVA
SERIE CALDISSIMA DELL’AUTRICE DI
«CONTRATTO INDECENTE».
Genevieve MacKenzie, giovane chirurgo
in carriera, sta per sposare il primario
del reparto: un matrimonio fantastico
che corona i suoi sogni. D’altronde
Genevieve sa perfettamente quel che
vuole dalla vita, almeno fino a quando
un impulso improvviso la costringe a
una fuga precipitosa attraverso una
finestra della chiesa proprio il giorno
delle nozze. E quando Wolfe si ritrova
fra le braccia la promessa sposa del suo
migliore amico scappata da una finestra,
non si pone troppe domande e la porta
via con sé determinato a proteggerla e a
scoprire la verità dietro il gesto
disperato di lei. Il problema è che i
sentimenti di Wolfe e Genevieve si
rivelano ben presto assai più che
platonici, minacciando di distruggere
tutto quel che entrambi avevano
costruito fino a quel momento...
Jennifer Probst è autrice di numerosi
libri di Romance fiction Sexy&Erotic.
Ha scritto romanzi per Red Sage,
celebre casa editrice americana di
romanzi erotici, fra cui The Tantric
Principles, Sex Lies and Contracts e
Secrets. Ma è con la serie iniziata con
Contratto indecente che ha raggiunto il
successo: negli Stati Uniti, Contratto
indecente è uscito prima in ebook,
proprio come Cinquanta sfumature di
grigio, ottenendo uno straordinario
successo – 500.000 copie vendute in 5
mesi – risultato che ha convinto la
prestigiosa Simon & Schuster ad
acquisire i diritti dell’edizione a stampa
della serie che comprende oltre a
Contratto indecente, Contratto fatale,
Contratto di passione e Contratto
finale. Oltre a questa serie, Corbaccio
ha pubblicato anche Vendetta piccante,
Fire e Cercando te e Sognando te, i
primi due volumi della nuova serie di
cui Trovando te è il terzo libro, e
un’appendice alla serie dei contratti Il
libro degli incantesimi, disponibile solo
in ebook. Jennifer Probst vive a New
York con il marito e i figli.
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Titolo originale: Searching for Beautiful
Traduzione dall’originale americano
di Elisabetta De Medio
In copertina: © Photonica / Getty Images
Grafica Linda Ronzoni / Meccano Floreal
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright © 2015 by Jennifer Probst
All rights reserved
Originally published by Gallery Books, a
Division of Simon & Schuster Inc.
Casa Editrice Corbaccio è un marchio di
Garzanti S.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
© 2015 Garzanti S.r.l., Milano
ISBN 978-88-6700-058-6
Prima edizione digitale 2015
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto
d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non
autorizzata.
Capitolo 1
Doveva squagliarsela.
Genevieve MacKenzie si piegò in
avanti e cercò di respirare normalmente.
Il velo leggero le sfiorò il volto come
tante piccole dita che le facevano il
solletico. Il panico le attanagliava lo
stomaco; si strappò il pizzo decorato di
perle dalla testa, appoggiò le mani alle
ginocchia e invocò il buon senso.
Stava per sposarsi. Adesso. Tra
cinque minuti. I suoi cari erano fuori
dalla porta e chiacchieravano eccitati in
attesa che lei facesse la sua comparsa in
tutto il suo bianco e immacolato
splendore. David l’aspettava in smoking
all’ingresso della chiesa con il
sacerdote e il testimone al suo fianco.
Immaginò i suoi splendidi capelli biondi
dal look finto spettinato, il suo sorriso
assassino e gli occhi di un azzurro
brillantissimo. Perfetto, come sempre.
Mentre si vestiva, le aveva fatto
recapitare da un fattorino due dozzine di
rose bianche con appena un accenno di
rosa al centro. Sul biglietto c’era scritto:
‘Non vedo l’ora che tu sia finalmente
mia’.
Le ragazze avevano fatto un sospiro
soddisfatto. La sorella gemella, Isabella,
aveva alzato gli occhi al cielo e portato
le mani al collo mimando un
soffocamento. Si sperava che restasse
gestibile almeno fino alla fine della
cerimonia. Non avevano un buon
rapporto e già che Izzy si fosse presa il
disturbo d’indossare il vestito da
damigella era un miracolo. La sua
migliore amica, Kate, si era affrettata a
mettere le rose nell’acqua e a sistemarle
nel vaso al centro del tavolo da pranzo
circondato da chiacchiere e risatine
femminili. La sorella Alexa aveva
rimproverato scherzosamente il marito
per non averle regalato nulla il suo
grande giorno, scatenando una filippica
da parte di Nick e di suo padre su come
i reality in tv fornissero una visione
distorta del vero amore.
Gen aveva continuato a sorridere e
mormorato le risposte giuste, col
biglietto stretto in mano. Poi era corsa in
bagno cercando disperatamente di non
vomitare.
Non la reazione più auspicabile per
una futura sposa.
Ovviamente aveva dato la colpa ai
nervi, aveva ignorato la nausea e si era
trascinata
sulla
limousine
dalla
carrozzeria allungata. Mentre l’auto
sfrecciava verso la chiesa, divorando un
miglio dopo l’altro, aveva ripercorso a
mente gli ultimi dettagli per scongiurare
eventuali dimenticanze. David odiava le
cose fatte in modo approssimativo e, con
quasi trecento invitati, il loro
matrimonio
era
un
evento
sufficientemente prestigioso da attirare
la stampa e qualche personaggio in
vista. Avrebbe voluto un wedding
planner, ma David aveva insistito per
fare tutto da soli. Lei naturalmente aveva
acconsentito, anche perché sarebbe stato
carino dire che avevano organizzato
tutto loro invece che affidarsi a un
estraneo. Ma ora era esausta. Aveva
fatto tutto lei, assolutamente ogni cosa,
dedicando gli ultimi giorni a
ricontrollare tre volte ogni dettaglio.
Dagli abiti color albicocca delle
damigelle, di una seta così leggera che
luccicava, alle splendide orchidee
avvolte dai nastri, il seguito della sposa
mozzava il fiato. Senza i contatti giusti
sarebbe stato impossibile prenotare il
posto con soltanto un anno di anticipo. Il
castello di Tarrytown vantava giardini
spettacolari, un’architettura sublime con
soffitti a volta e una sala da pranzo
degna di un re con cucina francese.
Certo, lei avrebbe preferito sposarsi
alla Mohonk Mountain House, vicino ai
suoi genitori, in un’atmosfera più
rilassata e divertente, ma almeno David
aveva acconsentito alla cerimonia in
chiesa. E anche riguardo a invitare Izzy
l’aveva spuntata lei. A David non era
simpatica, ma Gen aveva tenuto duro e
ora aveva intorno la famiglia al
completo.
La limousine si era fermata. Lei era
scesa a capo chino per proteggersi dai
flash dei fotografi e Kate l’aveva aiutata
con il lungo strascico decorato di perle.
L’abito di Vera Wang era costato una
cifra spropositata e non se lo sentiva per
niente bene addosso. D’altra parte
l’abito delle spose e delle principesse
doveva essere così. Pizzo, tulle, perle e
diamanti. Peccato che non riuscisse a
respirare.
Nella saletta interna della chiesa era
riuscita a controllarsi mentre la madre
piangeva, le raddrizzava il velo e le
diceva quanto fosse incredibilmente
orgogliosa di lei. Alexa sprizzava gioia
da tutti i pori e la bellissima nipote Lily
sembrava una principessa delle fiabe
col cesto di petali e l’abito lungo
intonato a quello della sposa. L’altra
nipote, Taylor, era un vero splendore col
suo abitino dello stesso rosa pallido e
delicato di quello al centro delle rose. A
un certo punto Gina, la cognata, le aveva
strizzato l’occhio e aveva annunciato
che la sposa aveva bisogno di un attimo
di raccoglimento prima di percorrere la
navata. Gen si era sentita sollevata, e
finalmente la porta si era chiusa. Un
benedetto silenzio aveva riempito la
stanza.
Era tutto perfetto, proprio come
avrebbe dovuto essere.
Perfetto. Come David aveva sempre
voluto.
Gen cercò di calmarsi. Il mormorio di
voci e la musica organistica filtravano
attraverso
la
porta.
Raggiunse
boccheggiando la magnifica finestra
raffigurante la Madonna col bambino e
strattonò la maniglia. Bloccata. Stava
per avere un capogiro. Cavolo, aveva
bisogno d’aria, subito. Strinse le dita
abbellite dalla French manicure intorno
alla vecchia manovella e tirò con forza.
Finalmente la finestra si scostò un poco
e avvicinò la bocca allo spiraglio,
inspirando l’aria calda. Perché crollare
proprio
adesso?
Probabilmente
cominciava a risentire di tutto lo stress
del matrimonio. Ora sarebbe uscita da
quella stanza, avrebbe percorso la
navata fino all’altare a testa alta e
avrebbe fatto le sue promesse. Amava
David. Chi non l’avrebbe amato? La
trattava come una regina, le ripeteva
ogni giorno quando lei fosse importante
per lui e la spingeva a essere una
persona migliore. Sempre di più.
Sarebbero stati la coppia che tutti
invidiavano: chirurghi che salvavano
vite, partecipavano a eventi di
beneficenza e cambiavano il mondo.
Erano follemente innamorati.
Non vedo l’ora che tu sia finalmente
mia.
Sentì un brivido lungo la schiena.
Abbassò lo sguardo sul diamante
purissimo da tre carati che le brillava al
dito. Un simbolo di proprietà. Una volta
preso l’impegno, sarebbe stato davvero
per sempre. Non l’avrebbe mai lasciata
andare.
Scappa.
La voce interiore che aveva sempre
messo a tacere per paura di rappresaglie
le salì dal profondo e urlò un’ultima
parola. Gen si aggrappò al davanzale.
Ridicolo. Non poteva scappare, giusto?
Lo facevano solo nei film. E poi non
poteva fare una cosa del genere a David.
Scappa.
Negli ultimi due anni con David
aveva imparato a tenere a bada le
emozioni che si scatenavano in lei e ad
affidarsi esclusivamente alla ragione. Il
suo fidanzato disprezzava il caos, le
decisioni prese sulla base dell’istinto e
dell’emotività. A furia di sentirgli citare
le tragiche conseguenze di quel tipo di
approccio, si era convinta a quietare
quella voce pazza che una volta cantava
libera dentro di lei, forse un po’ stonata
ma sempre gioiosa. E l’aveva fatto con
tale forza e convinzione che era sicura
che non l’avrebbe più sentita. Ma
ovviamente, con la sua sfortuna, di tutti i
momenti possibili aveva scelto proprio
questo per riaffermare la sua esistenza.
Scappa prima che sia troppo tardi.
Un turbinio di pensieri frenetici. Non
restava molto tempo. I suoi stavano per
rientrare e sarebbe finita. L’avrebbero
fatta calmare, avrebbero scambiato il
suo malessere per nervosismo della
sposa e l’avrebbero accompagnata
all’altare. Dove avrebbe sposato David.
E non sarebbe più stata la stessa.
Il che era un bene, giusto? Lei voleva
il matrimonio. Un compagno per tutta la
vita. David.
Gen guardò la porta chiusa. I prossimi
secondi avrebbero cambiato il corso
della sua vita. Non aveva tempo di
soppesare i pro e i contro e di valutare i
vantaggi e gli svantaggi per poi
scegliere in base a un preciso quadro
statistico. Quindi si affidò al suo istinto,
come faceva ogni volta che aveva un
bambino ferito sulla barella e doveva
prendere
decisioni
di
capitale
importanza. Neppure David era riuscito
a cambiare questa parte di lei perché era
l’essenza della sua anima. Un chirurgo.
Una donna. Una sopravvissuta.
Scappa.
Gen non perse un altro momento.
Col respiro corto e il cuore che
batteva all’impazzata, girò la manovella
con tutta la forza che aveva in corpo,
finché non si spostò più di un solo
millimetro. La finestra era aperta a metà.
Lo sguardo giudice del Bambin Gesù
splendeva su di lei. Ce la poteva fare.
Per la prima volta nella sua vita, essere
minuta era un vantaggio. Infilò la testa e
il dorso nella finestra e si spinse fuori,
verso la liberà.
Capitolo 2
Wolfe accese la sigaretta e si guardò
intorno con aria colpevole. Diavolo,
questo maledetto vizio lo fregava
sempre. I suoi genitori adottivi, Sawyer
e Julietta, si sarebbero arrabbiati
tantissimo, e lei avrebbe fatto quella
faccia delusa che le riusciva così bene.
Ma loro erano ancora in Italia, a miglia
e miglia di distanza, e non l’avrebbero
mai saputo. Solo una, poi avrebbe
buttato via il pacchetto.
Il fumo gli riempì i polmoni e gli
calmò immediatamente i nervi. Tanto
nessuno l’avrebbe visto, la cerimonia
stava per cominciare. A quest’ora
avrebbe dovuto essere nelle prime file
coi parenti di Gen, a guardare con un bel
sorriso la sua migliore amica che si
sposava un coglione. Stava per andarci,
infatti. A momenti. Adesso aveva solo
bisogno di un attimo di silenzio e di
qualche boccata di fumo prima di
affrontare il resto della serata fingendosi
contentissimo.
Si sentì in colpa. Era proprio uno
stronzo. Dopotutto David era perfetto
per Gen, e meritava di sposarla. Magari
non era degno di lei al cento per cento,
ma quasi. Certo non era colpa sua se
Wolfe non riusciva a liberarsi dalla netta
sensazione che c’era qualcosa che non
andava. Forse perché l’aveva sorpreso a
guardare Gen con un tale orgoglio di
possederla che sembrava si trovasse
davanti a un cavallo da corsa invece che
a una donna in gamba e indipendente. E
trovava seccante anche quel suo modo di
darle ordini. Gen tuttavia non aveva mai
mostrato alcun fastidio in proposito, e
diceva solo meraviglie di lui. Diavolo,
lo amava abbastanza da sposarlo, quindi
chi era lui per giudicare? Wolfe non
sapeva niente di relazioni.
Se avesse scavato a fondo dentro di
sé, probabilmente avrebbe scoperto che
gli seccava che Gen l’avesse
rimpiazzato. Prima uscivano sempre
insieme. Andavano al bar, al cinema,
facevano quello che fanno i migliori
amici. Le donne volevano tutte qualcosa
da lui, soldi, favori, sesso. Tranne Gen.
Lei era autentica e genuina come Julietta
e le altre donne della sua famiglia
adottiva. Diavolo, tra loro c’era stata
un’intesa immediata. Si erano piaciuti
subito, dal momento in cui si erano
conosciuti, sei anni prima. E quando mai
capitava?
Ovviamente David non vedeva di
buon occhio la loro amicizia e aveva
cominciato a mettersi contro dal primo
giorno. Da un anno ormai Gen trovava
sempre più scuse per non vederlo in
modo da tenere buono il fidanzato.
Comunque. Era un calice amaro che
doveva bere.
Wolfe trattenne un lamento. Le
campane suonarono una volta. Due. Le
limousine erano parcheggiate lungo il
marciapiede, e c’erano dei giornalisti in
attesa sulla gradinata. Evidentemente il
chirurgo faceva notizia, perché nessun
altro attirava una folla simile. Arretrò di
qualche passo, non dell’umore di
salutare gli ultimi arrivati. Finì in pace
la sua sigaretta, si sistemò lo smoking e
cercò di non graffiare la suola lucida
delle sue scarpe eleganti. Nonostante la
posizione prestigiosa sul lavoro e il
passato da indossatore, fosse stato per
lui avrebbe indossato solamente tute da
ginnastica. Gli abiti lo mettevano ancora
a disagio. E anche la biancheria intima
che costava più di quanto guadagnasse
certa gente in un anno. Chi l’avrebbe
mai detto? Arrabattarsi per vitto e
alloggio un giorno, e trovarsi tra i
milionari in ascesa di Fortune il giorno
dopo, e tutto a ventisei anni, per la
miseria.
Respinse i brutti pensieri che
minacciavano di travolgerlo e si
concentrò sul presente. Era il giorno del
matrimonio di Gen e doveva starle
vicino. Non fumare come un idiota e
autocommiserarsi.
Schiacciò
il
mozzicone sotto i tacchi, si sistemò i
polsini e si voltò.
«Porca troia.»
Guardò scioccato l’immagine davanti
a lui.
La sposa era stesa a gambe all’aria
sul selciato, circondata da una nuvola
bianca di pizzo e perle. Il suo cuore si
fermò, poi ripartì a singhiozzo. Cristo,
era fantastica. Gen era sempre stata una
donna obiettivamente attraente, ma
adesso sembrava la fragile bambolina
sulla torta nuziale. Doveva essersi tolta
il velo perché la sua complicata
crocchia era crollata da un lato e
spuntavano forcine da ogni ciocca.
L’umidità le aveva arricciato i capelli,
che sparavano da tutte le parti,
rifiutandosi di stare a posto. Due occhi
azzurri incorniciati dalla matita nera e
da un ombretto brillante lo guardarono
di traverso. Non si truccava mai. Ma
oggi quei magnifici occhi azzurri
dominavano il suo volto a cuore dandole
un’aria sexy e sensuale che non le aveva
mai visto. Le scarpe col tacco dieci a
spillo rivestite di diamanti spuntavano
dalla sottogonna. Wolfe vide di sfuggita
la giarrettiera di pizzo bianco e le cosce
muscolose prima che lei si ricoprisse le
gambe con la gonna, ansimando. «Fumi
il giorno del mio matrimonio? Avevi
detto che avevi smesso. Julietta ti
ucciderà.»
Era senza parole ma cercò di
riprendersi. Forse stava avendo
un’allucinazione. «Non se non glielo
dici.»
Sbuffò dal naso. «Ti piacerebbe. Non
voglio che tu muoia di cancro ai
polmoni. Non stare lì a bocca aperta.
Aiutami ad alzarmi, non riesco neanche
a muovermi con quest’affare addosso.»
E in quel momento fu di nuovo
soltanto Gen. La sua migliore amica, una
gran rompipalle, e la persona più
preziosa e più cara che aveva.
Si affrettò a rimetterla in piedi. «Stai
bene? Sei caduta dalla finestra?»
Ritrovò l’equilibrio sui ridicoli tacchi
e fece un gesto con la mano. «Sì, sto
bene. Ero rimasta incastrata coi fianchi
ma alla fine ce l’ho fatta.»
Si spolverò l’abito bianco come se
saltare fuori dalla finestra della chiesa
fosse la cosa più normale del mondo.
Accidenti, era una donna coi fiocchi.
«Ehm, piccola? Stai cercando di dartela
a gambe? O volevi solo controllare che
l’uscita antincendio funzionasse?»
La grinta le scomparve dal volto.
Alzò il mento col labbro inferiore che
tremava. «Sono nei guai. Mi aiuti?»
Lui rimase calmo, anche se gli
sudavano le mani. Era successo
qualcosa, ma adesso doveva solo starle
accanto. «A mollare lo sposo?»
«Sì.»
Wolfe decise di considerarla una
grande avventura. «Fico. Ci penso io.
Togliti le scarpe.»
Si sfilò gli infernali tacchi a spillo.
«Ci sono i giornalisti?»
«Non preoccuparti, sarà un gioco da
ragazzi. Ma dobbiamo sbrigarci. Dammi
la mano.»
Mise la sua mano piccola in quella di
lui e la strinse. Wolfe giurò che
l’avrebbe portata via da lì e condotta in
un posto sicuro, avesse dovuto
combattere contro tutti i talebani. Le
discussioni le avrebbero fatte dopo. «Ho
l’auto parcheggiata in fondo alla strada
quindi siamo a posto. Seguimi.»
La condusse giù dalla scalinata
posteriore, dietro il presbiterio, e
avanzarono lungo una fila di cespugli
fioriti e curatissimi. Lei si fermò un
attimo durante la corsa, facendo una
smorfia di dolore per il terriccio e la
ghiaia sotto i piedi nudi. «Ohi.»
«Che femminuccia. Dai, ti porto io,
sei troppo lenta.» La sollevò tra le
braccia in uno sbuffo di raso e pizzo e
tagliò il percorso attraverso dei salici
piangenti.
«Non posso credere che hai
parcheggiato così lontano, vuol dire che
eri in ritardo. Bel migliore amico che
sei.»
«Ringrazia il cielo che ero in ritardo,
visto che adesso ti sto parando il culo.»
Lei fece una smorfia come a dire
‘figuriamoci’. Lui accelerò il passo, con
la netta sensazione che di lì a poco
sarebbe scoppiato il caos. Se non
l’avesse portata via in tempo e qualcuno
li avesse visti allontanarsi sarebbe stato
un bel casino. Si chinò per passare sotto
un ramo basso, attraversò il giardino sul
retro di una casetta stile Cape Cod
dietro la chiesa e voltò a destra. Lei
rimase in silenzio, e Wolfe era pronto a
scommettere che tra due minuti si
sarebbe resa conto della decisione
impulsiva che aveva preso e gli avrebbe
chiesto di riportarla indietro.
Se era scappata, però, qualcosa di
grosso doveva averla spinta a farlo, e
non era un particolare che si poteva
ignorare. Col cavolo che l’avrebbe
riportata indietro.
Finalmente vide la sua Mercedes
cabriolet. Pescò le chiavi in tasca,
disattivò l’antifurto e aprì la portiera.
«Sali.»
Un altro tremolio del labbro inferiore.
«Wolfe, forse sto sbagliando. Forse
dovrei tornare indietro.»
«Vuoi sposarlo, Gen? Nel profondo,
dentro di te, con tutta la tua anima?»
Si morse il labbro. Vergogna, paura e
umiliazione distorsero i contorni del suo
volto. Le uscì una sola sillaba. «No.»
Lui annuì e la aiutò a salire in
macchina. «Allora stai facendo la cosa
giusta e sistemeremo tutto. Promesso.»
Lei inghiottì a vuoto. Annuì a sua
volta. E si accomodò sul sedile
anteriore dell’auto.
Wolfe non perdette tempo. Mise in
moto e fece inversione di marcia in tre
manovre,
uscendo
dalla
strada
secondaria e allontanandosi di corsa
dalla chiesa neanche fosse il tempio del
diavolo e le loro anime fossero a
rischio.
Quando giunsero sulla strada
principale e nessuno sembrava seguirli,
si girò a guardare Gen. Era accasciata
sul sedile coi capelli mezzi sciolti che le
sfioravano il collo. Il suo grazioso
profilo sembrava scolpito nella pietra.
Guardava fuori dal finestrino come se
stesse guardando la sua vita disperdersi
dietro di lei. E in un certo senso era
così. L’aveva già aiutata altre volte a
superare dei momenti difficili e giurò
che l’avrebbe fatto anche stavolta.
Sapendo di cosa aveva più bisogno in
questo frangente, Wolfe accese lo stereo
e la musica dei Guns n’ Roses esplose,
potente e ad alto volume. Non disse
nulla.
Guidò e basta.
Capitolo 3
Wolfe si fermò nel parcheggio e spense
il motore. Sentì i suoi occhi sondarle il
volto ma era troppo stanca per provare a
sorridere. Dopotutto con lui non aveva
mai dovuto nascondere i suoi stati
d’animo. E al momento rischiava un
attacco isterico con tutti i crismi se non
si toglieva l’abito da sposa.
«Resta qui. Torno subito. Vuoi una
bibita? Acqua?»
Gen annuì. «Va benissimo l’acqua.»
«Tieni chiuse le portiere. I finestrini
sono oscurati, non ti vede nessuno.»
Sbatté le palpebre, provando a
concentrarsi sui resti carbonizzati della
sua vita. «Ho lasciato là il telefono.
Devo almeno dire che non mi è successo
niente.»
«Adesso glielo diciamo. Stai qui
buona un attimo. Okay?»
Annuì di nuovo e lo guardò entrare da
Walmart, seguito dalle occhiate dei
gruppetti
di
adolescenti
che
gironzolavano nel parcheggio. Lo
guardavano sempre tutti, ma in smoking
era irresistibile. Con quel fisico alto e
muscoloso e quel fantastico tatuaggio,
aveva scritto ‘cattivo ragazzo da
addomesticare’
dappertutto.
Così
diverso dal fascino angelico e mellifluo
di David.
David.
D’un tratto si rese conto con orrore di
quello che aveva fatto. L’aveva
abbandonato all’altare. L’uomo che
sosteneva di amare. Un suo superiore
nell’ospedale in cui stava costruendo la
sua carriera, il suo capo. Aveva
trasferito
tutte
le
sue
cose
nell’appartamento di lui e aveva affittato
il suo. Avevano due biglietti per la luna
di miele alle Bermuda. I suoi genitori
erano probabilmente in lacrime, umiliati
e in collera. Era Izzy quella difficile,
non lei. Gen era quella brava. Quella in
gamba. Quella che non aveva mai creato
problemi.
E adesso? Come avrebbe fatto a
tornare alla sua vita?
Pensieri e immagini le ronzavano in
testa come uno sciame d’api imbestialite
e pronte ad attaccarla. Si strinse la mano
sulle tempie sperando che non le
esplodesse il cervello.
La portiera si aprì. Wolfe le passò
due sacchetti di plastica e una bottiglia
di Poland Springs. «Ecco. Prima bevi,
hai l’aria di essere sul punto di
sbarellare.»
Ingoiò qualche sorso d’acqua. Poi lo
guardò in attesa di ulteriori istruzioni.
Come se avesse capito che era senza
forze, le sorrise con tenerezza e
s’inginocchiò accanto all’auto. Senza
parlare, le passò le mani tra i riccioli
sciogliendole i capelli e togliendole le
forcine una per una. Poi le massaggiò la
cute, facendo scorrere le dita tra le
ciocche finché non rimasero più nodi.
Mentre si prendeva cura di lei, Gen
osservò il suo volto familiare. Mascella
forte e squadrata. Un velo di barba sul
labbro superiore e sul mento, a
disegnare un seducente pizzetto. Occhi
azzurri e penetranti e sguardo tagliente.
Di solito portava i capelli rasati, ma li
stava facendo crescere e i ricci scuri che
cominciavano
a
spuntare
gli
addolcivano leggermente il volto. Il
serpente monocromo gli s’avvolgeva
intorno al collo come per strozzarlo.
Quel
tatuaggio
l’aveva
sempre
affascinata.
Raffigurava
un
impressionante rettile nero che dal petto
saliva per un braccio e una spalla fin
sotto l’orecchio. Come se gli stesse
sempre sussurrando qualcosa. Wolfe era
un patito della palestra, quindi aveva
muscoli che non perdonavano ben
visibili sotto gli indumenti, dagli
addominali a tartaruga ai possenti
bicipiti. Abbassò lo sguardò sui suoi
polsi e sui bracciali di cuoio a fascia
lasciati
scoperti
dalle
maniche
arrotolate della camicia. Non l’aveva
mai visto senza. Li aveva resi famosi in
tutto il mondo con la pubblicità di
biancheria intima. Molti giovani
avevano seguito il suo esempio finché
quei bracciali avevano fatto tendenza.
Buffo, Gen e Wolfe erano destinati a
diventare amici dal momento in cui si
erano conosciuti. Le loro conversazioni
profonde avevano aperto la strada a
un’amicizia sincera mai disturbata dalla
tensione sessuale. Non avevano mai
flirtato. Wolfe era soltanto un amico che
contava tantissimo per lei. Kate era la
sua migliore amica femmina, e lui il suo
corrispettivo al maschile.
Le sbottonò la fila di bottoni di perle
lungo la schiena. «Mettiti questi.» Lei
tirò fuori dal sacchetto dei calzoncini di
jeans, una maglietta e un paio
d’infradito. «Sto malissimo con
l’arancione.»
«Non c’era molta scelta in saldo.
Tutto il resto era extra large.»
«Scusa. Essere una sposa in fuga mi
rende un po’ stronza.» Gen si spostò sul
sedile posteriore e si sfilò l’abito. Sentì
subito l’aria pura e dolce che le
riempiva i polmoni e si tolse in fretta
anche calze e giarrettiere, infilandosi gli
indumenti comodi e strappando via il
cartellino col prezzo. Nel sacchetto
c’erano anche dei fermagli per capelli;
ne prese uno e raccolse velocemente i
ricci in una coda corta. Poi uscì
dall’auto.
Wolfe annuì. «Bene. Ho preso
qualcosa da sgranocchiare durante il
viaggio,
quindi
quando
vuoi
approfittane.»
Gen diede un’occhiata: barrette di
cioccolato, Ritz, patatine, Togo...
«Questi sono i dolcetti natalizi alle
noci? Non pensavo li facessero ancora.»
«Nemmeno io. Colpo di fortuna.»
«Dove andiamo?»
«Stiamo qualche giorno allo chalet di
Sawyer sul lago. Giusto il tempo di far
calmare le acque e riunire le idee.»
Di nuovo la paura a pizzicarle i nervi.
«Devo chiamare i miei.»
«Già fatto. Ho mandato un messaggio
ad Alexa e uno a Kate. Sono loro quelle
che volevi contattare, giusto?»
Si strinse nelle braccia. «Sì. Cos’hai
scritto?»
«Che ti dispiaceva di essere scappata
ma che non potevi sposare David. Che
avevi bisogno di pensare e che ti saresti
fatta sentire presto. Che stavi bene e di
non chiamarti per un po’.»
«E il ricevimento? Dove vanno tutti,
adesso? E la stampa?»
Il suo tono era quello di chi ha il
pieno controllo della situazione. «Alexa
e Kate sono un’ottima squadra. Ci
penseranno loro. Adesso lascia fare a
me.»
Si sentì sciogliere dal sollievo. Sì.
Per un po’, Wolfe si sarebbe occupato di
tutto, e lei avrebbe riflettuto, preso delle
decisioni e fatto ordine nel pasticcio che
aveva combinato. Ma non ora. «Grazie.»
«Nessun problema. Andiamo.»
Rimontarono in auto e partirono. La
Mercedes macinò i chilometri da Verily
verso nord. La musica era alta, il vento
le frustava i capelli, e il paesaggio che
scorreva veloce era un’immagine
confusa e rilassante. Diede un morso a
una barretta di cioccolato mentre Wolfe
sgranocchiava le patatine e sorseggiava
una bibita.
Chiuse gli occhi e finse di essere in
partenza per il weekend. Nell’ultimo
anno, ogni volta che cercava di vedere
Wolfe, David sollevava il problema di
quanto poco tempo passassero insieme a
causa dei loro impegni di lavoro,
facendola sentire in colpa.
Gen si considerava una donna forte.
Grintosa. Caparbia. Eppure quando
David cercava d’imporle il suo punto di
vista, lei ne usciva sempre come i
sudisti a Gettysburg: sconfitta. Così
aveva cominciato a trovare delle scuse.
Odiava mentire, ma David la
ricompensava aumentando la dose di
attenzioni e tenerezze e ripetendole che
stavano così bene insieme, quando lei ce
la metteva tutta. Aveva dimenticato
com’era bello non doversi preoccupare
di dire qualcosa di stupido o di non
essere abbastanza arguta o sexy. Con
Wolfe il silenzio era piacevole e non
c’era alcun bisogno di riempirlo con
conversazioni intelligenti.
Dopo l’uscita per Saratoga Springs la
vegetazione si fece più fitta e il
paesaggio più selvatico. Attraversarono
la pittoresca cittadina col verde e i
negozi che ricordavano Verily e
proseguirono. I Nine Inch Nails
rimbombavano dall’impianto stereo in
totale contraddizione col silenzio delle
strade in mezzo agli alberi che stavano
percorrendo. Wolfe girò a destra in un
ripido sentiero in salita e dopo una serie
di tornanti spense il motore.
«Eccoci.»
Gen restò a bocca aperta. Il calore di
quella baita di tronchi la fece sentire
subito la benvenuta. La costruzione era
circondata da siepi e aveva un’ampia
veranda con due sedie a dondolo. A
entrambi i lati si aprivano ampie
finestre, e un vialetto di ciottoli
conduceva a un lussureggiante giardino
sul retro biforcandosi: da una parte
conduceva a un pozzo del fuoco in pietra
e dall’altra a un piccolo gazebo. Il suono
degli uccelli, delle cavallette e delle api
sostituì la musica. L’aria del caldo
pomeriggio era densa e odorava di
muschio. Una gran varietà di profumi di
fiori le riempì le narici.
Sì. Sarebbe stato bello lì. Poteva
riflettere e rimettere le cose a posto.
«È fantastico», disse a bassa voce.
«Come mai Sawyer non l’affitta per
l’estate?»
«Di solito lo fa, ma questo mese me
l’ha lasciata a disposizione. Lo chalet è
isolato ma è vicino a Fish Creek. Ha
detto che se volevo prendermi un po’ di
tempo libero andando a pesca potevo
usarlo.»
«Chi avrebbe mai immaginato che ci
avresti dovuto nascondere una sposa
fuggitiva?»
Lui non sorrise. Per la prima volta da
quando erano scappati, i suoi occhi
mostrarono preoccupazione. Aveva
l’aria di voler dire qualcosa ma lei non
voleva sentirlo e scese dall’auto prima
di essere costretta a fare i conti con la
realtà. Lui attese un momento poi la
seguì.
Gen entrò nello chalet. Una luce
magnifica splendeva sul pavimento di
pino e sui soffitti alti con le travi a vista.
Un camino di pietra con un grande
tappeto rosso davanti occupava la parete
più lunga della stanza. Si guardò intorno,
osservando l’attrezzatura da pesca, le
fotografie della natura e l’atmosfera
calda e rustica. La cucina era di quelle
sognate da ogni cuoco, con gli
elettrodomestici di ultima generazione in
acciaio inossidabile, il lavello a due
vasche e i piani di lavoro in granito
marrone scuro. «Non sapevo che
Sawyer fosse un amante della pesca»,
commentò.
Wolfe ridacchiò. «Non lo è infatti.
L’anno scorso ci ha trascinati qui per
mostrare a Julietta i benefici della vita
di campagna. Ha detto che le avrebbe
riportato una tonnellata di pesce da
cucinare la sera stessa. Diciamo che è
un buon affare per quelli che consegnano
la pizza a domicilio.»
Lei rise. «Be’, è un miliardario che
gestisce una catena alberghiera. Non può
essere bravo in tutto.»
«Dillo a lui. Da allora guarda quei
dannati programmi sulla pesca su
Discovery Channel pensando di
riscattarsi. Peccato che Julietta non
voglia saperne di tornare. È decisamente
una donna di città.»
Gen aveva conosciuto Julietta e
Sawyer. Vivevano a Milano e avevano
accolto un Wolfe diciannovenne e senza
tetto nella loro famiglia. Erano la coppia
che Gen aveva sempre invidiato.
Gestivano una fra le più famose catene
di panifici e alberghi del mondo,
stavano benissimo insieme ed erano
pazzamente innamorati. Proprio come
sperava fosse con David.
Allontanò con decisione quel
pensiero.
«Le camere sono di sopra», disse
Wolfe. «Faccio un salto in paese a fare
un po’ di provviste e a prenderti dei
vestiti.»
«Quanto tempo restiamo qui?»
La guardò. Strano, aveva un viso
severo, dai lineamenti duri e marcati e
le labbra lievemente piegate in un
ghigno come se non si fosse mai liberato
del ragazzo stizzoso che era in lui,
eppure esprimeva una dolcezza che
l’aveva sempre incuriosita. «Quando
devi tornare in ospedale?»
Ripensare alla vita reale la fece
sobbalzare. «Tra una settimana. Ci
siamo presi sette giorni per la luna di
miele.» Quell’espressione le procurò
una leggera nausea.
«Allora c’è tempo. Decideremo il da
farsi giorno per giorno. Ti serve
qualcosa in particolare?»
Lei scosse la testa. «No, fai tu, mi
fido di te.»
Le parole lo colpirono nel profondo;
Wolfe fece un passo verso di lei. «Vuoi
venire con me?»
Gen si sforzò di sorridere. «No,
riposo un po’. È stata una giornata lunga.
Ci vediamo dopo.»
Lui s’accigliò un poco e la sua
espressione da papà orso quasi la fece
ridere. Poi annuì e uscì. Le tremarono
improvvisamente le gambe al pensiero
di essere sola. Patetica. Non ricordava
l’ultima volta che non aveva avuto
qualcuno intorno o qualcosa da fare o
una scadenza da rispettare. L’ultimo
anno l’aveva praticamente trascorso
nella ruota del criceto. Persino il sonno
per lei non durava mai più di qualche
ora ed era interrotto da incubi
sull’infinità di cose da fare. Non era più
padrona della sua mente. E neppure
della sua anima.
Percorse il corridoio per andare in
bagno. Accese la luce. E si guardò allo
specchio.
La donna che vide era quasi
irriconoscibile. Capelli castani raccolti.
Trucco rovinato. Occhiaie profonde.
Labbra piene e zigomi alti. Aveva perso
altro peso, e la maglietta arancione le
era larga di spalle.
Si guardò meglio. I suoi occhi
solitamente vivaci erano... vuoti. Lo
scintillio era scomparso e lo sguardo era
spento. Quand’era successo? Era sempre
stata ambiziosa, e sostanzialmente
felice. Certo, si caricava di troppe
responsabilità, ma il mondo era così
grande e c’erano così tante cose da fare.
I chirurghi avevano un po’ tutti il
complesso di Dio. Voleva aiutare,
guarire, dare. Amava conoscere, fare
nuove
esperienze,
meravigliarsi.
Nell’ultimo anno, tuttavia, tutto ciò che
ne aveva ricavato era stato un
invalidante senso di inadeguatezza. Le
sembrava di non valere abbastanza per
nessuno. Né per il mondo né per David
né per se stessa.
Gen distolse lo sguardo dallo
specchio.
Wolfe guidava veloce, deciso a tornare
presto allo chalet. Non avrebbe voluto
lasciarla sola, ma sapeva che Gen aveva
bisogno di elaborare l’accaduto. Finora
aveva fatto come se niente fosse
successo, ma era pronto a scommettere
che quando se ne fosse resa conto
sarebbe esplosa in un delirio.
Era preoccupato. Maledizione, non
l’aveva mai vista così. Quando le aveva
chiesto se voleva sposare David, aveva
letto la paura sul suo volto. Cosa le
aveva fatto quel coglione? Questa storia
avrebbe avuto conseguenze enormi. La
sua famiglia, molto unita, adorava il suo
fidanzato; e a parte questo, si era pure
rovinata la carriera, visto che David era
il suo capo. Gen non amava mettersi
contro il sistema, specialmente contro la
famiglia. Ma lui l’avrebbe aiutata. Se
c’era una lezione che aveva imparato,
era che la sola cosa che conta è
proteggere la propria anima. Dio sapeva
se non ci era passato anche lui. Aveva
mollato tutto e aveva conosciuto
l’inferno. Ma ne era valsa la pena.
Il passato cercò di affacciarsi in
superficie ma lui lo ricacciò indietro.
Doveva concentrarsi su Gen e su ciò di
cui aveva bisogno. Le prese un paio di
cambi, biancheria intima, un costume,
una confezione di bottiglie d’acqua e
fece la spesa. Non c’era molta scelta in
paese, ma era un posto perfetto per
nascondersi qualche giorno. La gente ci
veniva per le attività ricreative che la
zona offriva, o per visitare il famoso
ippodromo e il National Baseball Hall
of Fame, il museo di baseball di
Cooperstown.
Buttò i sacchetti in macchina e prese
il telefono. Sì, la situazione era grave.
Alexa, Kate, Izzy e la madre di Gen gli
avevano lasciato dei messaggi vocali.
Pensò se dirlo a Gen, ma decise di no.
Non era ancora pronta ad affrontare le
conseguenze.
Lasciare
lo
sposo
all’altare sollevava una serie di
complicazioni. Meglio darle tempo.
Ascoltò e lesse i messaggi e rispose
velocemente a ognuno senza svelare
nulla. Izzy era stata bisbetica come al
solito. La gemella di Gen stava
passando un brutto periodo ed era
soggetta a violenti e improvvisi scoppi
di rabbia, quindi la sua reazione non lo
sorprese. Alexa si dichiarava pronta a
sostenere la sorella e Wolfe sapeva che
poteva contare su di lei per calmare la
famiglia. Da David ancora nulla. Cosa
stava succedendo realmente tra loro?
Stava facendo del male a Gen? Perché
lei aveva tanta paura dell’uomo che
stava per sposare? O temeva solo di
ferirlo?
Passò al messaggio successivo e
scosse la testa. Kate era la peggiore.
Quando si trattava di Gen entrava in
modalità protezione estrema.
Se non mi dici dove la nascondi sei
fottuto. Ha bisogno di me.
Wolfe digitò la risposta. Ha bisogno
di tempo, poi puoi fottermi quanto vuoi.
Dalle un giorno. Mi occupo io di lei.
Il telefono suonò. Ah, merda. Stette un
attimo a guardarlo, ma le migliori
amiche erano tremende. Pensò che ora di
sera Kate sarebbe riuscita a localizzarli
col GPS, se avesse voluto, quindi
rispose. «Come sta? Sto venendo a
prenderla.»
Wolfe mantenne un tono gentile ma
deciso. «Aspetta. Lasciami un po’ di
spazio. Ha mandato all’aria il suo
matrimonio e ha bisogno di riordinare le
idee. Ti sto chiedendo una mano, Kate.
Aiutami a darle un po’ di tempo.»
Un silenzio furioso all’altro capo del
telefono. «Cosa sta succedendo? Non
immaginavo che avesse in mente una
cosa simile. Voglio dire, ero
preoccupata per lei, sapevo che era
stressata, ma questo non è da lei. Ti ha
detto perché?»
«No. Ma lo scoprirò. È brutta la
situazione lì?»
Uno sbuffo. «Non hai idea. È un
pandemonio e io sto cercando di fare in
modo che nessuno perda la testa. David
ha il cuore spezzato e si è chiuso in
camera col padre di Gen e col suo
testimone. La stampa ha fiutato l’odore
del sangue e ha preso d’assalto la
chiesa. La madre di Gen pensava che la
figlia fosse stata rapita perché era sicura
che non sarebbe mai scappata. Come
diavolo ci è finita con te?»
Wolfe tirò un sospiro. «È uscita dalla
finestra e io ero lì. Senti, Kate, qui c’è
qualcosa sotto, non è solo tremarella o
nervosismo della sposa. Penso che Gen
abbia paura di quel figlio di puttana.»
«Cosa? Oh mio Dio, l’ha picchiata o
qualcosa del genere?»
«Non lo so. Dammi qualche giorno
per scoprirlo e rimetterla in piedi. Per
favore.»
Aspettò la sua risposta. Sapeva che
Kate era testarda, leale e che amava Gen
come una sorella. Sapeva anche che era
dotata di un intuito straordinario. «Okay.
Scrivimi le novità. Parlerò coi suoi e gli
dirò che si è nascosta e che poi
spiegherà tutto. E terrò d’occhio David.
Forse riesco a capire qual è il vero
problema.»
«Grazie.»
Ripose il cellulare in tasca e salì in
macchina. Qualcosa non quadrava, ma
avrebbe scoperto di cosa si trattava. Nel
frattempo, sarebbe stato accanto a Gen
per qualche giorno. Il Purity andava
bene, quindi bastava chiamare uno dei
suoi assistenti chiedendo di tenerlo
informato. Non ricordava l’ultima volta
che si era preso un giorno di libertà, per
non parlare di un intero fine settimana.
Avrebbe fatto bene a entrambi. Un po’
d’aria fresca e il tempo di ricaricare le
batterie per poi rientrare nel mondo
reale.
Wolfe fece ritorno allo chalet.
Capitolo 4
Genevieve alzò lo sguardo all’arrivo
dell’auto. Una nebbiolina spettrale la
circondava, quasi fosse bloccata a metà
strada tra la terra e un piano più alto.
Molto più alto, sperava, visto il senso di
colpa ereditato dalla madre cattolica che
le impregnava l’anima. Sentirsi stordita
non le dispiaceva, invece. Meglio degli
attacchi di panico che minacciavano la
sua sanità mentale.
Niente più specchi. Tenersi occupata.
Non pensare.
Le tre nuove regole di sopravvivenza.
Gli andò incontro e lo aiutò a
scaricare le provviste. «Stai bene?» Il
suo sguardo la percorse da capo a piedi,
come se nell’ora in cui l’aveva lasciata
sola fosse cresciuta di qualche
centimetro, superando la sua statura da
Hobbit. Le fece segno di spostarsi e
prese il resto dei sacchetti, lasciandole
soltanto il pane.
«Tu sai che sono in grado di sollevare
un paziente di centotrenta chili, vero?»
«Allora prendi questo.» Le passò il
cartone delle uova. «Così ti mantieni in
forma.»
La battutina le calmò i nervi, perché
le diede l’impressione che fosse tutto
come sempre. Lo seguì in casa e
posarono i sacchetti sul banco della
cucina. «Preparo qualcosa per cena?»
gli domandò.
Lui sollevò un sopracciglio. «Hai
fame?»
Tra il pieno di dolciumi e il
nervosismo, dubitava di riuscire a
mettere un boccone nello stomaco. «No.
Ma posso cucinarti qualcosa.»
Lui sorrise e prese due confezioni da
sei di Sam Adams Summer Ale da un
sacchetto. «Perché invece non ci
ubriachiamo?»
Gli si gettò tra le braccia, d’istinto.
David avrebbe insistito perché badasse
alla sua salute. Era contrario a tutti i tipi
di alcolici e controllava minuziosamente
quello che mangiava. Le mancava il non
avere più regole. Le mancava Wolfe.
Si sentì circondata da muscoli duri
come il marmo che esprimevano forza
allo stato puro. Con la testa gli arrivava
al petto, ma la tenerezza con cui la
stringeva le fece provare una strana
nostalgia e sentì un nodo in gola. Amata,
ma non posseduta. Com’è che non aveva
notato la differenza? L’odore pulito di
cotone e sapone le riempì le narici.
Inspirò profondamente per gustarsi il
momento, poi si staccò.
«Ehi.» Le toccò i capelli. «Se avessi
saputo che saresti stata così carina con
me, ti avrei proposto di ubriacarci ogni
volta.»
Fece una smorfia. «Sono sempre
carina con te.»
Wolfe stappò una bottiglia e gliela
passò. La birra ghiacciata le scese in
gola e le scaldò lo stomaco. Il retrogusto
di limone indugiò sulla lingua. «Non è
vero. Hai un discutibile senso
dell’umorismo. E ti diverti a torturarmi.
Tipo quella volta in cui mi hai fatto
uscire con la tua amica Molly.»
Stava per ridere ma si trattenne
quando vide lo sguardo accusatorio di
Gen. «Cercavo solo di trovarti una
brava ragazza.»
«Dominatrice mi sembra un termine
più adatto. Ha portato una frusta. E
qualche altro spaventoso aggeggio che
mi ha fatto rinunciare al dessert. E io
non rinuncio mai al dessert.»
Gen si morse la lingua cercando di
restare seria. «Non sapevo che avesse
certi gusti, giuro. È un’infermiera
specializzata e si lamentava di non
riuscire a conoscere un tizio decente. Mi
aveva detto che le piaceva il sesso con
un po’ di pepe, ma non il sadomaso.»
Lui prese una birra e aprì un
pacchetto di salatini. «Ti sembro il tipo
a cui piace essere sottomesso? O uno
che si eccita a stare legato a un letto con
una tenaglia alle palle? Non fa ridere,
Gen.»
Lei fece un altro sorso. «Mi avevi
detto che ti piaceva il sesso
trasgressivo. Volevo solo farti un
favore.»
«Trasgressivo, non pericoloso. Come
ti sentiresti se ti facessi uscire con uno
che ti ordina di metterti in ginocchio e di
servirlo?»
Il ricordo la colpì come un pugno.
Un’altra
discussione.
David
si
lamentava perché lei non era abbastanza
attenta ai suoi bisogni ed era diventata
pigra a letto. Così l’aveva afferrata per i
capelli.
L’aveva
costretta
a
inginocchiarsi. Si era slacciato i
pantaloni. E aveva aspettato.
Qualcuno diceva che certi giochetti
rendevano il sesso piccante. Ma lei si
era sentita solo umiliata e usata. Il modo
in cui aveva valutato la sua abilità,
rimproverandola perché non lo faceva
bene. Alla fine si era girata dall’altra
parte cercando di non vomitare e lui
l’aveva lodata, accarezzandole i capelli
come fosse un animale che aveva
finalmente imparato a eseguire un
comando. Le aveva detto che l’amava,
che l’adorava e voleva che fossero
perfetti.
Gen si girò di scatto, chiudendo gli
occhi e scacciando quelle immagini
dalla mente. No, non ora. Perché non
l’aveva mandato a fare in culo e non
l’aveva cacciato di casa? Cos’aveva che
non andava?
«Gen?»
Lei rabbrividì e rispose usando un
tono leggero. «Scusa. Come direbbe
Dug, il cane parlante di Up,
‘Scoiattolo!’. Ho perso il filo.
Ultimamente sembra il mio nuovo
motto.»
La osservò in silenzio, poi annuì.
«Preferisco il mio, da Nemo.»
«Com’è?»
La guardò negli occhi per dare un
significato più profondo alle sue parole.
«Continua a nuotare.»
Lei si rilassò e riuscì a fare un
sorriso. «È il film preferito di Lily.»
«Anche il mio. Il secondo è The
Avengers.»
Arricciò il naso. «Non ci credo. Ho
sempre pensato che ti piacessero i film
di gangster. Non sembravi tipo da
supereroi.»
Un’alzata di spalle possenti. «Non c’è
niente di male a sperare che i buoni le
suonino ai cattivi.» L’ombra di un
pensiero gli attraversò il volto, forse un
ricordo.
Gen
avrebbe
voluto
chiederglielo, ma lui sparì subito.
«Mangia qualche salatino, ti riempie lo
stomaco. Vado a cambiarmi un attimo,
torno subito.»
Gen ne masticò qualcuno e lo aspettò
seduta sul divano soffice con la sua
birra. Wolfe tornò con addosso solo un
costume blu, maglietta e sandali, e si
accomodò sulla poltrona di fronte a lei.
La scena le ricordò una semplice
riunione tra buoni amici. Purtroppo era
molto di più. Strinse la mano intorno al
collo della bottiglia. «Hai parlato con i
miei?»
La guardò da sotto le palpebre
pesanti, ma il tono era rilassato. «Ho
parlato con Kate. Le ho detto che
saremmo rimasti nascosti per qualche
giorno. Penserà a tutto lei finché non
sarai pronta.»
«David ti ha cercato?»
«Non ancora.»
Rifletté su quella risposta e si morse
il labbro. Era spaventata e confusa come
se fosse finita nel paese di Oz e non
sapesse ancora come interpretare le
cose. «Non mi hai chiesto il perché.»
«Non c’è bisogno.»
Lo osservò, cercando di vedere oltre
la sua calma apparente. Sicuramente
moriva dalla curiosità, eppure non glielo
chiedeva. «Non vuoi saperlo?»
La sorprese con un mezzo sorriso.
«Diavolo, certo che voglio saperlo. Sei
la mia migliore amica e non avevo idea
che avessi dei problemi. Ma non sei
pronta. Quando vorrai parlarne io sono
qui. Per adesso hai solo bisogno di un
po’ d’alcol e di distrarti. Vieni,
usciamo.»
Le prese la mano e la fece alzare.
«Dove? Non possiamo bere mentre
guidiamo.»
«C’è un sentiero dietro lo chalet che
porta al lago.» Prese le birre e due
asciugamani e uscì. Il sole le scottava
sulla pelle ma appena presero il sentiero
all’ombra degli alberi il bruciore passò.
L’odore di muschio della terra e del
legno marcio le salì alle narici, e
proseguì con cautela con le infradito,
finché il sentiero si aprì.
Camminarono in silenzio. Gli uccelli
cantavano, gli alberi osservavano, i
legnetti calpestati si spezzavano e gli
insetti svolazzavano, tentando di quando
in quando una rapida incursione. Si sentì
stranamente leggera. Com’era possibile,
quando solo qualche ora prima si
trovava in chiesa sul punto di sposare
David? Come mai questo momento le
sembrava più reale degli ultimi sei
mesi? Doveva impegnarsi a capirlo,
perché la risposta stava nella ragione
per cui era fuggita.
Sfortunatamente, al momento negare
tutto sembrava meno pericoloso della
verità.
«Eccolo.»
Più che un lago, era uno stagno
circondato da erbe palustri con un
ponticello sbilenco quasi ridotto in
pezzi. Gen lo guardò e si chiese se
bastasse mettere un piede in acqua per
essere agguantati da un gigantesco
alligatore come in Lake Placid – Il
terrore corre sul lago. Mise le mani sui
fianchi. «Vuoi farmi fuori o cosa? Non
ci entro neanche se mi paghi.»
«Fifona. Non è pericoloso. Ci ho
sorpreso Sawyer e Julietta a fare il
bagno nudi. Mi è venuto un colpo.»
Lei rise. «Una volta ho beccato Nick
e Alexa che facevano gli stupidi nel
guardaroba a casa dei miei. Non
riuscivo
neanche
a
guardarli,
figuriamoci a mangiare. Mi hanno
rovinato l’appetito.»
Wolfe posò la birra, si sfilò i sandali
e raggiunse il ponticello traballante. «Il
lago di Saratoga è a circa otto miglia da
qui ma l’uscita è Fish Creek. Noi siamo
proprio alla fine. A Sawyer interessava
la privacy più che lo svago. Siamo in un
paradiso isolato e ti lamenti. Molto
meglio di un’elegante piscina piena di
cloro.»
«Parla per te.»
Si tolse la maglietta scoprendo
pettorali perfettamente definiti e
addominali d’acciaio. L’impressionante
tatuaggio spiraleggiava come fumo
partendo alla destra dell’addome e
proseguendo sul petto e intorno al
braccio per giungere fin sotto
l’orecchio. Lo vedeva di rado svestito,
se non sui cartelloni pubblicitari degli
stilisti per cui aveva posato, e solo ora
si accorgeva che le dimensioni e i
particolari di quel serpente lo facevano
sembrare vivo. Portava gli stessi
bracciali a fascia che erano diventati un
segno distintivo tra i modelli. Gen
sapeva che non li toglieva mai. Mai. Li
indossava sempre, quando era in
mutande, quando nuotava, col caldo e
col freddo. Era sicura che li tenesse
pure sotto la doccia e che ci dormisse
anche. All’inizio li aveva giudicati
soltanto un vezzo, poi però negli anni
aveva cominciato a considerarli una
parte del suo corpo. E non gli aveva mai
fatto domande.
Ripensò alla prima volta che l’aveva
visto a una cena a casa di Alexa.
L’avevano portato Max e Michael, i
mariti delle migliori amiche di Alexa, e
l’avevano presentato a tutti.
Gen ne era rimasta subito affascinata.
Dal tatuaggio alla testa rasata, dai vari
piercing ai muscoli possenti, non era un
tipo che poteva passare inosservato. Era
chiaramente a disagio e aveva le labbra
piegate in un ghigno come se stesse per
mandare tutti quanti a fare in culo.
Ciononostante era rimasto educatamente
in silenzio osservando i presenti finché i
loro sguardi si erano incrociati.
Era subito scattato qualcosa tra loro.
Come se si fossero già incontrati da
qualche
altra
parte.
Si
erano
riconosciuti. Ed erano stati presentati di
nuovo.
Non sapeva perché fosse tanto attratta
da Wolfe. Era un tipo che poteva piacere
a Izzy, non a lei. Era sua sorella la
ragazzaccia. E infatti se l’era mangiato
con gli occhi. Suo padre aveva fatto la
faccia scura e sembrava pronto ad
azzannarlo. Alexa si era messa a
cianciare senza sosta cercando di
allentare la tensione e Maggie, la
migliore amica di Alexa nonché sua zia
onoraria, aveva parlato con orgoglio
della sua carriera di modello e lodato la
sua intelligenza.
Gen si era avvicinata e aveva
allungato la mano con un sorriso.
«Benvenuto in famiglia, Wolfe. Sono
Gen.»
Lui era rimasto un attimo immobile.
Per un lunghissimo secondo, aveva
temuto che l’avrebbe insultata. Invece le
aveva dato una stretta di mano calda e
decisa. «Piacere di conoscerti.»
Di lui, Gen sapeva soltanto che un
tempo era stato un senzatetto, ma che ora
viveva con Sawyer, il marito della
sorella di Michael. E che si era iscritto
a ingegneria gestionale alla New York
University. Dal momento che lui e Gen
frequentavano la stessa università, a
cena erano stati messi a sedere vicini.
Avevano conversato piacevolmente.
Lei aveva intuito che lui custodiva
segreti profondi e oscuri che nessuno
probabilmente avrebbe mai scoperto, ma
non le importava. Il suo istinto le diceva
che quel ragazzo aveva più dignità di
molti altri della sua età.
Dopo cena avevano chiacchierato
fuori, da soli. Gen gli aveva fatto
qualche domanda per conoscerlo
meglio, ma lui aveva risposto a
monosillabi, col volto teso, e si era
accorta di averlo allontanato. Tornò con
la mente a un frammento di quella
conversazione.
Non ti piace parlare di te? chiese,
curiosa. Questo ragazzo, che la sorella
gemella aveva definito molto scopabile,
sembrava avere molto più che la testa
rasata, il tatuaggio e i bracciali di
cuoio. Nascondeva dei segreti. E
sentiva che erano segreti brutti. Era
questo il motivo per cui non gli piaceva
parlare?
«No», rispose. «Non parlo del
passato. Solo del presente.»
La risposta la colpì. Percepì un
legame tra loro, come se si fossero
incontrati in un’altra vita e stessero
riprendendo da dove s’erano interrotti.
«Allora non ti faccio altre domande.
Saremo solo amici.»
I suoi splendidi occhi azzurri
tradirono un bisogno misto a sospetto.
«Amici? Scommetto che un giorno mi
farai un sacco di domande. E ti
arrabbierai con me perché non mi
confido. Le ragazze fanno così.»
Lei sorrise. Sapeva di non essere
come le altre. «Facciamo giurin
giuretta, allora. Non parleremo mai del
nostro passato, a meno che non lo
voglia tu. Niente domande.» Le piaceva
l’idea di cominciare da zero con lui.
Con una persona che non la giudicava
per quello che aveva fatto in passato
ma che l’accettava per quella che era
in quel momento.
Lui aggrottò la fronte. «Giurin
giuretta?»
Lei sospirò con impazienza. «C’è un
modo migliore? Un giuramento è un
giuramento.»
Lui allungò la mano, esitante. I loro
indici si accavallarono. Avvertì un
soffio di energia pura e inebriante che
la fece sentire bene. «Giurin giuretta»,
disse lui in tono burbero.
E poi accadde la cosa più bella. Per
la prima volta da quando si erano
presentati, le sorrise. Le si riempì il
cuore e capì che quel sorriso l’avrebbe
sempre resa felice. Finalmente aveva
un ragazzo con cui si sentiva al sicuro,
con cui poteva ridere e divertirsi e a
cui poteva raccontare i propri segreti.
Anni dopo, Izzy ancora la faceva
impazzire pretendendo di sapere perché
non se lo scopava. Persino le sue
migliori amiche, Kate, Kennedy e
Arylin, si erano sempre chieste come
mai lei e Wolfe non si fossero messi
insieme. Gen era attratta da lui, ma
vedeva anche oltre. Wolfe non era in
grado di gestire una relazione. Gli
piaceva il sesso e la stuzzicava
raccontandole le sue imprese a letto
mentre lei si copriva il volto
protestando e dicendo di non voler
sentire altro. Ma non andava oltre il
livello puramente fisico. Quando
entravano in gioco i sentimenti lui
scompariva... Gen aveva capito che il
rapporto tra loro due era molto più
profondo e significativo delle sue
storielle toccata e fuga.
Lo osservò con addosso nient’altro
che il costume e si chiese come mai si
trovassero così a loro agio insieme.
Forse perché non avevano il pensiero di
dover rispondere prima o poi a delle
domande. Forse perché si accettavano
com’erano, accontentandosi di ciò che
ognuno voleva mostrare di sé, senza
chiedersi come fosse prima o
cos’avesse fatto in passato. E
scommetteva che lui ne aveva combinate
delle belle.
Si fermò in equilibrio sul bordo del
ponticello in tutto il suo splendore
maschio e alzò un sopracciglio. Lei sentì
un languore simile alla fame, ma le
passò subito. Era abituata a quella
sensazione e non si stupiva di provarla.
Wolfe era super sexy e solo un cadavere
non avrebbe avuto alcuna reazione fisica
in quella situazione. E comunque
bastava il pensiero di perdere la sua
amicizia per farle ignorare l’attrazione
fisica.
«Vieni?»
«No.»
«Non sei cresciuta in campagna? Dai,
Gen. Odio quando ti comporti da
femminuccia.»
Gli fece la linguaccia e prese un’altra
birra. Poi posò il sedere su un grosso
sasso e allungò le gambe. «Sono una
femmina, idiota. È pieno di insetti, pesci
e animalacci vari lì dentro. Non ci penso
proprio.»
«Mi deludi.»
Si preparò a un bel tuffo e il
diavoletto dentro di lei si rifece vivo,
dopo tanti mesi di vacanza. «Attento, hai
un ragno sulla gamba.»
«Cosa?» Saltellò sui piedi per
liberarsi dal ragno e quando si piegò per
passarsi le mani sulle gambe cadde in
acqua.
Lei rise così tanto che ebbe paura di
rompersi una costola, specialmente
quando lui riemerse sputando acqua
dalla bocca. «Ah ah, che scena
impagabile», riuscì a dire tra le risa. Il
suo terrore dei ragni l’aveva sempre
incuriosita. Era grande e grosso e nulla
lo spaventava, a parte quelle piccole
creature a otto zampe. Come Indiana
Jones coi serpenti. «Scusa, non sono
riuscita a trattenermi.»
I suoi occhi si ridussero a una fessura.
«Sai che la vendetta è una brutta bestia,
vero?»
Gen cercò di respirare. «Ho lasciato
lo sposo all’altare. Dovrebbe essere
abbastanza per oggi.»
Lui grugnì. «Forse. O forse no.»
S’immerse con un unico grazioso
movimento e fece qualche capriola. Lei
restò a guardarlo senza sensi di colpa. I
suoi muscoli asciutti fendevano l’acqua
con movimenti veloci e armoniosi. Il
cielo era di un azzurro intenso come i
suoi occhi.
«Come va in ospedale?»
«Bene.» Prese un altro sorso di birra
e pensò a David. Qualunque discorso
sembrava portare al suo fidanzato. Ex
fidanzato. Dal momento che dirigeva
tutto il reparto e lei era una sua
sottoposta, probabilmente anche la sua
carriera era a rischio. «Un sacco da
fare.»
«È un po’ che non ti piace più il tuo
lavoro, vero?»
Girò la testa di scatto, con rabbia.
«Non è solo un lavoro. È la mia vita. Il
college, la scuola di medicina,
l’internato. Giorni, notti, fine settimana.
Non ho mai perso colpi, mai avuto dubbi
e mai allentato la concentrazione. Ho
smesso molto tempo fa di chiedermi se
mi piace. Lo faccio e basta.»
Lui nuotava avanti e indietro come se
non avesse un solo pensiero al mondo. E
non l’aveva. Era lei che aveva mandato
all’aria la propria vita scappando.
«Perché?» chiese lui.
Batté le palpebre. «Che domanda è?
Perché se vuoi farti apprezzare come
chirurgo devi dare tutto, e di te rimane
ben poco. Poi piano piano puoi cercare
di rimettere insieme quello che rimane.»
Lui faceva il morto in acqua, in
assoluta beatitudine. «È solo che non
capisco. Se non mi piacesse lavorare al
Purity,
me
ne
andrei.
Farei
qualcos’altro. Non posso credere che tu
sia così ossessionata da questo lavoro
da non esserti mai fermata a chiederti se
ti piace.»
Le andò la birra di traverso per
l’indignazione. Come osava mettere in
dubbio le sue motivazioni? Lottava per
riuscire nel campo della medicina da
quando giocava con le bambole
prestando loro il primo soccorso.
Quando suo fratello Lance aveva
dichiarato di voler studiare medicina,
lei se l’era presa perché le aveva
copiato l’idea. L’ambizione, la carriera
e il raggiungimento di determinati
obiettivi erano cose che capiva. Salvare
vite umane e sforzarsi di raggiungere
l’eccellenza la facevano sentire speciale
e meritevole. Eppure il suo migliore
amico la considerava un’occupazione
come tante, scelta a casaccio tra un
mucchio di altri mestieri insignificanti.
«Io curo persone, salvo vite. Tu offri
piacevoli notti fuori casa.»
Le dispiaceva essere così acida, ma
lui continuava a nuotare beatamente.
«Be’, abbiamo una spa e una cappella.
Ci prendiamo cura anche dell’anima.»
«Perché vuoi farmi imbestialire? È il
lavoro della mia vita. Non mollo una
cosa solo perché è difficile o perché non
mi diverte più.»
«Hai mai mollato una cosa che non ti
piaceva?»
La domanda la prese alla sprovvista.
Trangugiò la restante metà della birra,
ne prese un’altra e la stappò. «Sì, la
ginnastica. Non ero coordinata. Mia
madre sognava le olimpiadi. Una volta
sono caduta dall’asse di equilibrio e ho
pianto per un’ora. Così ho smesso.»
«Quante lezioni hai resistito?»
Gen si accigliò. «Be’, ho finito il
corso. Poi però l’anno successivo non
mi sono riscritta.»
«Hai mai lasciato un libro a metà?»
Inorridì. «Stai scherzando? Se lo
comincio, lo finisco. Non so come
faccia la gente a dormire senza sapere
come va a finire.»
«E se ordini una cosa che non ti piace
al ristorante? La mandi indietro?»
«Se è cucinata bene e non mi piace il
sapore? Certo che no. È colpa mia se
l’ho ordinata.»
«Mmm, interessante.»
Lo guardò di traverso mentre
cominciava a nuotare sul dorso.
«Interessante cosa? E perché tutte queste
domande stupide?»
«Prendi le tue scelte molto
seriamente.»
Lei alzò il mento. «Certo. Le scelte
hanno
delle
conseguenze.
Non
assumersene la responsabilità è un
fallimento.»
«O forse è solo un errore da
correggere. Non tutte le strade vanno
percorse. A volte è meglio tornare
indietro.»
Le sue parole le scatenarono
un’esplosione di frustrazione e rabbia
repressa. «Tornare indietro significa
fallire.»
«No. Significa solo che hai sbagliato
strada.»
Lui lo disse con un tono dolce, eppure
si sentì graffiata come se le avesse
sputato la ghiaia addosso. Tremava dalla
collera. Quando il padre li aveva
abbandonati, aveva deciso di fare le
cose per bene senza mai creare
problemi. L’aveva fatto, e suo padre era
tornato. La sua famiglia era guarita.
Comportarsi bene conveniva. Seguire le
regole ricompensava. Wolfe non sapeva
di cosa parlava. Si alzò, posò la birra a
terra e andò sul bordo del ponticello.
«Chi sei tu per propinarmi tutte queste
psicocazzate? Sul lavoro sei ambizioso
quanto me. E detesti il fallimento, la
pigrizia e la mediocrità.»
La sua risata ruppe il silenzio del
bosco. Il sole cominciava a calare dietro
la collina. Le ombre degli alberi
ondeggianti danzavano. «Sì, infatti.
Sembri arrabbiata.»
«Lo sono!»
Nuotò verso di lei. «Quanto?»
«Tanto», ringhiò lei.
«È quello che pensavo. Meglio farti
sbollire.»
Non fece in tempo a reagire. Wolfe
schizzò fuori dall’acqua come un mostro
marino, l’afferrò e la trascinò nel lago.
Le sue urla furono interrotte dall’acqua
che le si chiudeva sopra la testa. Toccò
il fondo coi piedi, poi tornò scalciando
in superficie. Il gran sorriso sul suo
volto le fece venire una sola idea.
Vendetta.
Oh, sarebbe stata dolce.
«Contento?» biascicò scuotendo la
testa come un cane bagnato per togliersi
i capelli dal volto.
«Abbastanza.
Stavamo
facendo
discorsi troppo seri.»
La sfacciataggine della risposta la
fece ridere. Non le permetteva d’essere
di cattivo umore nemmeno il giorno del
suo matrimonio mancato. Wolfe capiva
quando era meglio lasciarla cuocere nel
suo brodo e quando invece aveva
bisogno di essere tirata su. Al momento
le emozioni che si agitavano dentro di
lei erano così tante che non sapeva su
quale concentrarsi. L’acqua l’aiutò a
schiarirsi la mente.
Si tenne a galla agitando le gambe.
«Bleah, è tutto molle e melmoso sul
fondo, Dio sa cosa c’è lì sotto.»
«Hai paura di qualche pesciolino?»
Gen torse le labbra. «Non correre a
rifugiarti in camera mia stanotte.»
Lui alzò un sopracciglio e le nuotò
intorno come uno squalo che circonda la
preda. «È una proposta? Non sapevo che
desiderassi il mio corpo.»
Sbuffò dal naso. «Oh, sì, sarà molto
romantico. Io, te e il grosso ragno
peloso che t’infilerò nel letto.»
Smise
di
scherzare.
«Non
provocarmi.»
Lei rise e tirò fuori la lingua.
«Scommetto che è pieno, qui intorno.
Hai mai visto i ragni dei boschi?» Una
smorfia di disgusto. «Pelosi, con le
zampe grosse e così veloci che non
riesci a prenderli.»
Cercava di stare allo scherzo ma era
pallido.
Accidenti,
era
troppo
divertente.
«Sai cosa si trova qui intorno oltre ai
ragni?» chiese lui.
«Cosa?»
«Le rane. Un sacco di rane verdi.
Come Kermit.»
Rabbrividì per l’orrore. «Te l’ho
detto in confidenza», sussurrò. «Sei una
persona orribile e cattiva.»
«Fammi trovare un ragno nel letto e ti
sveglierò con un ritratto di Kermit.»
«Stronzo. Ero ubriaca quando te l’ho
confessato. Le confidenze fatte sotto
l’effetto dell’alcol sono sacre. Hai
infranto la regola fondamentale.» Aveva
avuto un incubo che ancora oggi la
perseguitava, ed era stata così stupida
da raccontarlo a Wolfe dopo un numero
eccessivo di birre. Aveva sognato di
essere aggredita da un mare di volti
come quello di Kermit la rana, solo che
invece del sorriso dolce avevano i denti
insanguinati e la inseguivano come un
banco di piranha. Da allora non era più
riuscita a guardare un film dei Muppets.
«Occhio per occhio», disse lui. Poi
s’immerse.
Lo guardò nuotare, ammirando la
grazia e la potenza del suo corpo e dei
muscoli che si flettevano. Era attratta da
lui, ma era brava a ignorarlo.
Wolfe aveva bisogno di ben altro che
di una scopata veloce o un’altra
storiella. Aveva bisogno di un’amica.
Gen lo conosceva meglio di chiunque
altro e lui le aveva fatto il dono di
mostrarle la sua vera anima. Il sesso
avrebbe rovinato tutto e le avrebbe fatto
perdere uno dei rapporti umani più
importanti della sua vita.
No, grazie.
Le bastava quello che le dava. Zero
aspettative, solo accettazione, rispetto e
affetto.
Molto diverso da David.
Il pensiero la colpì come un montante
e per un attimo faticò a respirare. Aveva
fatto una cosa terribile, e l’avrebbe
pagata cara. Wolfe si sbagliava. Gli
errori rovinano la vita, e lei, non
andando fino in fondo, aveva deluso
tutti.
No. Hai salvato te stessa. Tu sai
perché.
Ebbe l’impressione che la sua voce
interiore sapesse molte altre cose e non
vedesse l’ora di rivelarle. Ma non
voleva ascoltarla, adesso.
Tornò a nuoto al ponticello e uscì
dall’acqua, andando a riprendersi la
birra. Il proposito di ubriacarsi per non
pensare era l’unica cosa che la
sosteneva, al momento. Dio fosse lodato
per il signor Sam Adams.
Wolfe riemerse, uscì dall’acqua e si
prese una birra. Stese gli asciugamani
sul ponticello malconcio, si sdraiò sulla
schiena appoggiandosi la bottiglia sulla
pancia e guardò il cielo. Lei sospirò e
fece lo stesso. Erano stesi ad asciugarsi
alla brezza calda, spalla contro spalla,
guardando le stelle che cominciavano a
spuntare dalle nuvole. L’alcol rendeva la
scena piacevolmente sfocata, smussando
i contorni.
«Dovrei essere su un aereo per le
Bermuda», disse lei.
«Qui è meglio. La sabbia rosa è
sopravvalutata.»
«La torta era di cocco e cioccolato.
Cinque piani.»
«Ti ho preso i dolcetti natalizi. C’è
anche il cocco, sopra.»
Un sorriso le sfiorò le labbra. «Vero.
Avevo un négligé di seta da cinquecento
dollari. Me l’ha preso Maggie in
Europa.»
«Be’ è proprio una sciocchezza. Lo
tieni due minuti e poi te lo strappano di
dosso. Non ho mai capito la mania della
biancheria intima costosa.»
«Gli hai anche fatto pubblicità
guadagnandoci un milione di dollari.»
Maggie l’aveva fatto diventare una star
dei boxer firmati. Al posto delle solite
mutande bianche aderenti, le foto sui
tabelloni e sulle riviste avevano
proposto i boxer come nuova tendenza.
Wolfe posava girato leggermente di
fianco con un paio di semplici boxer
neri, le braccia incrociate sul petto e
l’espressione imbronciata. Un ribelle.
Assolutamente irresistibile. Lo slogan
diceva: ‘’Fanculo le mutande. Indossa
quello che ti fa stare bene’.
Negli Stati Uniti la parolaccia non era
piaciuta. In Europa l’avevano adorata.
Wolfe era diventato ricco e famoso,
nonché uno dei modelli più richiesti.
Aveva smesso dopo un anno per
laurearsi e gestire il Purity. Le donne gli
davano ancora la caccia, ma lui non
parlava mai della sua carriera di
modello, e poiché si stava facendo
crescere i capelli e nascondeva il
tatuaggio con le maniche lunghe, molte
non lo riconoscevano e neppure
sapevano che fosse il ragazzo della
pubblicità.
«È stato divertente, per un po’, ma
non comprerei mai boxer che costano un
patrimonio. Tanto chi li vede?»
Le sfuggì una sincera risata. Era così
diverso da David. Il suo ex amava le
griffe, l’etichetta giusta, e sparava
sempre a zero sul suo guardaroba e sulla
sua
noiosa
biancheria
intima.
«Concordo. Ma il sesso? In luna di
miele si prende il sole, si beve e si fa
sesso. Potrebbe passare un anno prima
di farlo di nuovo. Forse di più.»
«La birra ce l’hai, il sole è appena
calato, siamo sul lago, e ci sono io. Se
proprio non resisti posso fare io sesso
con te.»
Gli diede un pugno che fece più male
a lei che a lui. «Wow, grazie. Sei
proprio un amico.»
«Li chiamano ‘scopamico’. Sai, gli
amici che non vogliono impegni
sentimentali e quindi fanno solo sesso
occasionale.»
«Odio quel termine, è così volgare.
Ho fatto il pieno di film sull’argomento
e finiscono tutti nello stesso modo. Uno
dei due s’innamora, l’amicizia finisce,
poi anche il secondo confessa di essere
sempre stato innamorato dell’altro e si
mettono insieme.»
«Da cui la parola ‘film’, Gen. Opera
di fantasia.»
«Certi film sono basati sulla realtà.
Magari anche quelli romantici.»
Percepì, più che vedere, che stava
alzando gli occhi al cielo. «Forse
qualche film di guerra, ma nessuna storia
d’amore è basata sulla realtà.»
Gen si girò sul fianco, si appoggiò a
un gomito e lo guardò. Era una sfida, e
lei era un tipo competitivo. Avevano
entrambi un inspiegabile bisogno di
vincere, e potevano passare ore immersi
in discussioni senza senso. «Io e
Marley.»
«Oh,
Dio
santissimo.
Okay,
escludiamo i film di guerra, i
documentari sugli animali e quelli
storici.»
«Quanti te ne devo dire?»
«Ne bastano due.»
«In cambio?»
«Ti proteggo da Kermit.»
«Ah ah, che ridere. Devi dirmi un
segreto che non hai mai detto a nessuno.
Non importa quale.»
Non sapeva come le fosse uscito. Si
aspettava un rifiuto e stava per ritrattare
ma qualcosa la fece restare in silenzio.
Forse perché dopo che la sua vita era
andata a rotoli non aveva nulla a cui
aggrapparsi. Un segreto in cambio di un
segreto. Qualcosa che la facesse sentire
meno sola. Meno... disperata.
Arylin sarebbe stata orgogliosa della
sua capacità di autoanalisi. Era la
psicoterapeuta
dell’agenzia
matrimoniale Kinnections e aiutava i
clienti ad acquisire consapevolezza
delle proprie relazioni e a superare le
barriere che impedivano loro di
raggiungere la felicità. Certo, aver
capito di avere qualche problema di
testa perché il giorno del suo
matrimonio si era data alla fuga non era
esattamente un’intuizione geniale.
«Wolfe, lascia stare, io...»
«D’accordo.»
Wow. Questa non se l’aspettava.
Certo, adesso doveva trovare due film
basati sulla vita reale che avessero
qualcosa di romantico dentro. Non
stupiva che avesse accettato. «Dammi un
minuto per pensarci.»
Lui incrociò le braccia sotto la testa e
fece un sorriso impertinente. «Prenditi
tutto il tempo che ti occorre.»
Le si accese la lampadina. «Titanic!»
Era raggiante d’orgoglio.
«Basato su un evento storico.
Escluso.»
«Oh, andiamo! La storia d’amore non
c’entra con la nave che affonda!»
«Le regole le abbiamo dette. Niente
fatti storici. Trovane un altro.»
Finì la birra brontolando e ne prese
un’altra, lambiccandosi il cervello. Le
venne in mente Shakespeare in Love.
Merda, non ce n’era uno che non fosse
basato sulla storia? «A Beautiful Mind!
E non provare a dirmi che questo non
vale.»
Non rispose per un attimo. Sapeva
che stava cercando l’appiglio per
squalificarlo ed era già pronta a
protestare. «Okay, questo te lo concedo.
Non male come film.»
Sì! Ne mancava un altro. «Tutti
insieme appassionatamente!»
«No.»
«È vero ed è una storia d’amore!»
«Mmm, fammi pensare. Seconda
guerra mondiale. Invasione tedesca.
Fuga sui monti per sfuggire al regime di
Hitler. Storia, cara. Escluso.»
«Sapevo che mentivi quando hai detto
di non averlo visto.»
«Mi ha costretto Julietta a vederlo e
ho avuto conati di vomito per tutto il
tempo.»
Mise il broncio, bevve dell’altra
birra e si rese conto di non conoscere
molti film a lieto fine. Per forza. I finali
rosa erano tutti finti.
«Ti arrendi?»
«No.»
Lui rise. «Deprimente, vero?»
Qualche minuto dopo capì di aver
vinto. «Preparati a confessare.»
«Cos’hai trovato?»
«La memoria del cuore.» Gen fece
una piccola danza della vittoria da
sdraiata. Era un po’ che non si sentiva
così soddisfatta. «Ho vinto, ho vinto, ho
vinto.»
Lui s’accigliò. «Che diavolo è La
memoria del cuore?»
«Non lo conosci? Con Channing
Tatum. Lei perde la memoria in un
incidente e non riconosce più il marito e
lui deve farla innamorare di lui di nuovo
come se fosse un estraneo. Bellissimo.»
«Non può essere basato sulla realtà.
Escluso.»
Si alzò a sedere. «No, no. Controlla
sul telefono, l’hai portato?»
Lui prese il cellulare e avviò la
ricerca. Capì dalla sua espressione
disgustata che l’aveva trovato. «È la
cosa più idiota che abbia mai letto. Una
storia d’amore nata da un’amnesia?»
Sbuffò dal naso. «È molto romantico e
credibile.»
«Tatum è veramente sopravvalutato.»
«Geloso?» Lui tornò a stendersi e
inghiottì a vuoto. Per quanto la
riguardava, Wolfe batteva Tatum tutta la
vita, ma neanche morta l’avrebbe
ammesso.
Era
già
abbastanza
presuntuoso. Accidenti, aveva un
buonissimo odore. Di pulito. Pino,
acqua e cotone, con giusto un pizzico di
sudore maschile per captare l’attenzione
di una donna. Grazie a Dio non era
attratta da lui in quel senso. Le aveva
sempre ricordato un po’ Adam Levine.
Tatuaggi, inquietudine da ragazzaccio e
un’anima
meravigliosa
erano
un’affascinante combinazione.
«È a malapena in grado di recitare
quindi si spoglia per compensare.»
Gen rise a crepapelle. «Lo dici tu.»
La sua immagine si divise in due. I grilli
frinivano e tutto, intorno a lei, sembrò
più vivo. Oh sì. Quattro birre ed era
bella che andata. Anzi, era la quinta,
giusto? Si sentiva finalmente calma e
d’un tratto non aveva più paura. Era una
sposa fuggitiva, e con questo? Aveva
abbandonato all’altare la cosa migliore
che le era mai capitata. Quindi? Aveva
spezzato il cuore a David, e l’aveva
umiliato. E allora?
Sai che tragedia.
«Stai meglio?» La guardò stappare
un’altra birra e ricadere sulla schiena. Il
cielo girava tutto.
«Sì. Me le sto bevendo tutte io, le
birre.»
«Ti ci volevano. Ma non voglio che tu
stia male.»
Ridacchiò. «Ti ricordi quella volta da
Mugs quando hanno cercato di
introdurre il karaoke e dopo aver bevuto
troppo ci siamo messi a cantare I Got
You Babe?»
La sua risata contagiosa era come una
carezza per le orecchie di Gen. «Brutta
faccenda. Se qualcuno ci avesse messi
su YouTube il filmato sarebbe diventato
virale. Addio rispettabile carriera nel
mondo della ristorazione. Addio
brillante futuro da chirurgo.»
«David non sopportava che bevessi.
Diceva che la cosa avrebbe avuto
ripercussioni su di lui in ospedale. E che
sarei diventata un’alcolizzata come mio
padre.»
Lui s’irrigidì, poi lentamente si
rilassò. «Non sei una forte bevitrice,
Gen. Credimi, io li ho visti quelli che
bevono. Ti sei divertita un po’ prima di
diventare medico interno. Eri più
giovane. Non faresti mai nulla che
potrebbe mettere in pericolo la tua
reputazione o la tua carriera.»
«Può darsi. Ma a volte...»
s’interruppe, inorridita al pensiero di
proseguire. Mettere i pensieri in parole
li rendeva reali.
«A volte cosa?»
Non avrebbe voluto dirlo, ma con lui
era al sicuro. «A volte speravo che mi
beccassero. Che David mi lasciasse e
che mi buttassero fuori dalla scuola di
medicina. Sognavo un enorme scandalo
che m’impedisse di tener fede alle scelte
che avevo fatto.» Un nodo in gola. «Ora
ho avuto quello che volevo. E mi odio
per questo.» La vergogna di non essere
forte e grintosa come aveva sempre
creduto la nauseava. David aveva
ragione. Diceva che era debole e
disprezzava la sua incapacità di
comunicare e di fare quello che andava
fatto. La spingeva ogni giorno a essere
migliore, ma lei lo deludeva ogni volta,
fino alla vigliaccata della fuga dalla
chiesa.
«Mia madre era tossicodipendente.»
Gen tirò dentro il fiato. Aveva parlato
a bassa voce, guardando il cielo, come
se sperasse che affidando le parole alla
notte sarebbero finite in un luogo magico
da cui non gli avrebbero più fatto male.
Lei restò in silenzio, in attesa che
proseguisse.
«Si piegava a tutto per farsi. Il che in
genere voleva dire farci morire tutti e
due di fame o prostituirsi per una
sniffata. Ricordo una volta, avevo sette
anni... Sono tornato a casa da scuola e
l’ho sentita fare sesso in camera. Ci ero
abituato, e mi sono messo a cercare
qualcosa da mangiare. Ho trovato dei
cereali nella credenza. Prendendo una
tazza ho scoperto una bustina di polvere
bianca. Ero incantato, voglio dire, ero
abituato a vedere mia madre sotto
l’effetto della coca, ma lei nascondeva
sempre bene la sua roba. Sembrava
proprio zucchero, come quello che avrei
messo sui waffle, se li avessi avuti.»
A Gen batteva così forte il cuore che
quasi non sentiva quello che lui diceva.
«L’ho presa, l’ho aperta, e ho pensato
che potevo drogarmi anch’io. Così sarei
stato più contento. Le sarei stato più
vicino. Lei era felice quando si faceva,
mi abbracciava, a volte cantava e
ballava, e ho pensato che poteva essere
sempre così. Me ne sono messa un po’
sul dito e l’ho avvicinato al naso.
Volevo andare lontano come lei,
smettere di avere sempre paura e di
avere sempre bisogno di tutto.»
Sospirò. Gen non disse nulla. Aspettò.
«Non ho fatto in tempo a sniffarla.
Sono usciti dalla camera e appena mi
hanno visto con la bustina in mano il suo
cliente mi ha riempito di botte. Non ho
più trovato la sua coca. Credo avesse
paura che ne avrebbe avuta meno per lei
se mi fossi fatto anch’io.»
Le si strinse il cuore e si vergognò.
Nonostante il suo passato, i suoi genitori
la amavano ed erano uniti. La sua
famiglia era la cosa più importante della
sua vita. Che persona sarebbe diventata
se non avesse avuto quella rete di
sicurezza? Senza nessuno di cui fidarsi e
a cui affidarsi che la amasse
incondizionatamente?
Gen sapeva che Wolfe non voleva
pietà. E non la meritava, comunque. Era
troppo forte per essere compatito. Fece
il possibile per non parlare con la voce
tremolante. «Figlia di puttana. Scusa, ma
odio tua madre.»
Gli sfuggì una risatina sorpresa. «Già,
anch’io.»
«Almeno non hai sniffato.»
«Credo che l’avrei fatto. Ed è una
cosa che non dimenticherò mai. Non è
stata la forza di volontà a salvarmi. È
stato un caso.»
Avrebbe voluto dirgli di non sparare
cazzate, ma non voleva innescare una
discussione. Non era pronto per una
conversazione a cuore aperto, ma era la
prima volta che le raccontava del suo
passato. E se quella era solo una piccola
parte, non era certa di poter sentire tutta
la storia.
«Uffa. Speravo in qualche clamorosa
rivelazione a sfondo sessuale, tipo che ti
piace davvero il sadomaso.»
«Di nuovo il sesso, eh?»
«Dev’essere l’alcol.» Finì la quinta o
la sesta birra, e si godette il calore che
si spandeva nelle vene. La finta
contentezza sarebbe presto diventata
depressione ma al momento non le
importava. Era una vita che non si
lasciava andare a fare qualcosa di
sconsiderato. «David diceva che
sessualmente ero un disastro.»
Questa volta si girò. Le puntò gli
occhi negli occhi e strinse la mascella.
«David è un coglione ed è per questo
che sei scappata. Non sei un disastro.»
Rise. «Tu come lo sai? Non abbiamo
mai fatto sesso. Probabilmente lo sono,
invece. Sono troppo cerebrale, sto
sempre lì a chiedermi se sono
abbastanza brava, e a un certo punto
fingere l’orgasmo è diventata la mia
arte.»
«Te lo ripeto», disse con rabbia. «È
un coglione e pure scarso a letto se ti
toccava fingere l’orgasmo. Ti ha
riempito la testa di stupidaggini,
piccola. Non farti influenzare.»
Fece un gesto con la mano cercando
di non ridere. Oh sì, era ubriaca. Non
era così divertente, prima, ma adesso le
sembrava patetico non riuscire a
spassarsela a letto col proprio fidanzato.
«Non fa niente. Non sono portata per il
sesso. Mi piace quello tradizionale.
Noioso. Ha anche detto che i miei baci
erano come fare sesso alla missionaria
ogni sera. Ma so che non lo diceva per
ferirmi. Cercava di farmi migliorare,
infatti ho anche letto dei libri ma non ha
funzionato gran che.»
Lui strinse i denti. Era affascinata
dalla rabbia pura che gli balenava sul
volto e dal modo in cui teneva tutti i
muscoli tesi come un supereroe che
stesse per esplodere. «Io lo ammazzo.»
Voleva ridere ma Wolfe era un po’
troppo serio. Aggrottò la fronte e
allungò la mano verso di lui. Fu
fortunata perché centrò proprio lui,
quello vero, non il suo doppio che gli
vedeva di fianco. Gli accarezzò la
mascella per calmarlo. Caspita, una
volta reggeva cinque birre a sera. Forse
perché oggi era a stomaco vuoto ed era
stata una giornata infernale. Come mai
era di nuovo così arrabbiato? Ah sì,
perché lei baciava da schifo e lui voleva
ammazzare David. «Non è colpa sua.
Non voleva offendermi, me lo ripeteva
sempre. Lo costringevo io a farlo perché
non lo ascoltavo.»
«Credi davvero nelle cazzate che stai
dicendo, Gen?»
«Non è una tragedia. Mi comprerò un
vibratore o qualcosa del genere, magari
prenderò delle lezioni. La mamma di
Kate è una sessuologa. Potrebbe
aiutarmi.»
Le afferrò la mano e gliela strinse.
«Lo faccio a pezzi quello stronzo. Non è
vero che non sai baciare, sei brava
invece. Hai capito?»
Annuì con convinzione. Oooh, bello.
Tre facce, adesso. Era così carino da
guardare, avrebbe potuto guardarlo tutto
il giorno. Molto meglio dei Kermit
cattivi. «Ah-ha. Sei un amico, ma sono
io che non so proprio fare certe cose.»
«Cazzo.» La sua bocca sexy lanciò
nell’aria una parolaccia. Il suo alito
caldo le sfiorò la guancia. Odiava
quando si arrabbiava. «Sarà meglio che
te lo ricordi, domani.»
«Che?»
D’un tratto era sopra di lei, coi
fianchi premuti sui suoi. Oh. Wow. Sentì
il calore del suo corpo attraverso i
vestiti bagnati e automaticamente aprì le
gambe nude, in un primitivo impulso alla
resa. Le mise le mani ai lati della testa e
avvicinò le labbra alle sue. Cosa stava
facendo? Il suo profumo delizioso le
entrò nelle narici e lei gli si aggrappò ai
fianchi con le mani. Aveva la pelle
umida e liscia.
Volò un’altra parolaccia. Sembrava
dibattuto mentre la guardava con la
bocca a pochi centimetri dalla sua, e
Gen batté le palpebre perché vedeva la
sua testa fluttuare e voleva sentire di più
il suo corpo, giusto un altro po’... Poi lui
bisbigliò: «Ti dimostro che sei brava a
baciare, okay?» e la baciò.
La sensazione meravigliosa di quelle
labbra morbide e lisce sulle sue la fece
piagnucolare, nel vero senso della
parola. Ah, che fantastiche visioni
regalava l’alcol! Wolfe, il suo migliore
amico, la stava baciando, ed era troppo
bello per essere vero, quindi doveva per
forza essere una specie di miraggio
psichedelico dovuto alle troppe Sam
Adams.
La mente cercò di capire quello che
stava succedendo, ma ci rinunciò.
Il corpo si fece avanti e prese il
controllo.
Inarcò la schiena, gli affondò le
unghie nei fianchi e si arrese a quelle
sensazioni che si spargevano come un
fuoco nelle vene. Wolfe la baciò per un
po’, fino a quando la sentì abbandonata
e sciolta sotto di lui, poi le infilò la
lingua tra le labbra.
Lei aprì la bocca e gli andò incontro,
inebriata dal suo sapore. La lingua di lui
spingeva, accarezzava, esplorava a
fondo. Gemette e ne volle ancora. Dio se
ne voleva ancora. Era inebriata dal suo
odore di limone e dal desiderio che
avvertiva in lui. Lo sentì duro tra le
cosce e gli mordicchiò il labbro
inferiore, succhiando leggermente. Lui
mormorò qualcosa di sconcio e continuò
a deflorarle la bocca come se fosse una
vergine che voleva essere violentata,
presa e scopata.
Il tempo si fermò. Fu troppo breve, fu
interminabile, fu tutto. Le girava la testa,
i seni erano tesi e dolenti, ed era così
bagnata che avrebbe potuto scivolarle
dentro
senza
incontrare
alcuna
resistenza. Si staccò pian piano,
concedendole un ultimo assaggio della
sua lingua.
Lei batté le palpebre. Calore
soffocante, rabbia e desiderio nei suoi
occhi azzurri. Era come se la stesse
mangiando viva, e si sentì mancare la
terra sotto i piedi.
«Mi ascolti, Gen?»
Non riusciva a parlare, ma annuì.
«Baci meravigliosamente. Se adesso
ti avessi scopato sarei l’uomo più felice
del mondo. Bisogna essere morti per non
volerti. David è un pezzo di merda. Hai
capito?»
Lei inghiottì a vuoto e annuì di nuovo.
«Bene.» E rotolò via. Gen quasi gridò
quando non sentì più il suo calore e il
suo peso addosso. D’un tratto avvertì
una profonda stanchezza. Era eccitata,
sfinita, emotivamente provata, e gli
prese la mano per non perdere il
contatto fisico. Restarono stesi l’uno
accanto all’altra sul ponticello, con le
dita intrecciate. Pian piano si rilassò. La
sua presenza era un grande conforto per
lei e anche qualcos’altro, qualcosa che
rifiutava di analizzare.
Gen si arrese e il buio la prese. Ma
prima glielo disse.
«Ti voglio bene, Wolfe.»
Poi scivolò nel sonno. La risposta di
Wolfe si perse nell’aria umida tra il
frinire dei grilli.
«Ti voglio bene anch’io, piccola.»
Capitolo 5
Aveva fatto uno sbaglio clamoroso.
Wolfe le teneva stretta la mano mentre
dormiva. Le sue parole gli s’insinuarono
sotto la pelle e gli entrarono nei
muscoli, nelle vene, nel cuore. Certo,
sapeva bene cosa intendeva dire. Gli
voleva bene come amico, protettore,
come colui che l’aveva salvata da una
scelta rovinosa. Ma lui aveva risposto in
quel modo soltanto due volte, nella sua
vita. Una volta a Sawyer. Una a Julietta.
Solo familiari.
Mai a una donna.
Eppure lo pensava. Le voleva bene
davvero. La loro amicizia era la cosa
più preziosa che aveva, e sperava di non
averla rovinata con quel colpo di testa.
L’affetto che nutriva per lei era più
profondo e puro di tutto ciò che aveva
sperimentato in passato. In tante gli
avevano detto di amarlo. Ma erano stati
solo il sesso, il potere e l’eccitazione a
farle parlare così. Non sapevano nulla
di lui, benché non per colpa loro. Era
sempre stato chiuso e gli erano sempre
andati bene rapporti che non andavano
oltre l’attrazione fisica, con l’aggiunta
della compagnia e, nel migliore dei casi,
di qualche risata.
Wolfe inspirò tutta l’aria che poté e
cercò di schiarirsi la mente. Quand’era
stata l’ultima volta che si era lasciato
guidare dall’impulso? Mai. Non c’era
spazio per seguire gli impulsi nel suo
lavoro, e neppure nella sua vita privata.
Forse s’illudeva soltanto di avere
sempre il controllo, però funzionava.
Aveva
frequentato
abbastanza
psicanalisti da sapere che certi bisogni e
certi blocchi mentali erano solo un modo
per difendersi dalle sofferenze del
passato. Odiava andare in analisi ma
l’aveva fatto per il padre adottivo,
perché non voleva che si chiedesse mai
se avrebbe potuto fare di più per lui.
Sawyer l’aveva salvato, in senso
letterale e figurato. Se oggi Wolfe aveva
una vita che era felice di vivere, era
soltanto perché l’uomo che un giorno
aveva borseggiato aveva preso a cuore
la sua situazione.
Scosse la testa mentre il passato
riaffiorava. Era in mezzo a una strada, e
aveva cominciato a tenere d’occhio
alberghi di lusso come il Waldorf per
trovare qualche pollo da derubare.
Sottrarre un’uniforme e fingersi un
dipendente era facile, ma aveva scelto il
pollo sbagliato. Sawyer era un tipo
sgamato oltre che ricco sfondato, e
l’aveva trascinato in direzione.
Wolfe ricordava la paura che aveva
provato nel momento in cui si era reso
conto che stava per finire in prigione.
Ma Sawyer gli aveva offerto una
scappatoia: se avesse accettato di
lavorare per lui si sarebbe evitato la
galera. Il giudice aveva dato il
consenso. La sera prima del fatidico
giorno in cui Sawyer sarebbe dovuto
andare a prenderlo il terrore si era
impadronito di lui. Aveva l’occasione di
cominciare una vita normale, e
l’avrebbe sicuramente mancata. E poi
non si fidava più di nessuno. Così era
corso a riempirsi la faccia di piercing,
si era fatto tatuare e si era rasato la testa
scimmiottando Johnny Depp.
Quando Sawyer era andato a
prenderlo il ragazzo s’aspettava che
l’accordo sarebbe saltato.
Invece no. L’aveva portato in Italia e
gli aveva dato l’opportunità di imparare
a gestire un albergo. Aveva creato una
catena di alberghi di lusso di nome
Purity, il primo dei quali a Milano, e
Wolfe aveva imparato tutto ciò che c’era
da imparare. Ma quell’uomo non gli
aveva dato soltanto un lavoro e la
sicurezza. L’aveva anche accolto nella
sua vita, nel suo cuore. Quando si era
innamorato di Julietta, entrambi avevano
accolto Wolfe in casa loro e insieme
avevano formato una famiglia.
E quando Sawyer gli aveva chiesto di
laurearsi per poter gestire i Purity di
New York, Wolfe aveva acconsentito, ed
era stato il resto della famiglia Conte a
occuparsi di lui durante gli anni di
studio. Chi avrebbe mai detto che
avrebbe incontrato la terza persona più
importante della sua vita a una cena in
famiglia? Gen l’aveva trattato da pari a
pari dal primo momento. Era interessata
all’uomo che stava diventando, non a
quello che era stato. La loro amicizia
era
fiorita
durante
gli
anni
dell’università ed era diventata sempre
più solida.
Gen emise un lamento rauco che lo
fece ripensare al bacio. Voleva solo
dimostrarle che l’ex fidanzato si
sbagliava prima di andare da lui a fargli
sputare tutti i denti. Purtroppo si era
fatto prendere la mano, dimenticando
che era solo una dimostrazione. L’istinto
e il testosterone avevano preso il
sopravvento e a quel punto non era più
riuscito a pensare ad altro se non alla
morbidezza del suo corpo e a quel suo
delizioso profumo che quasi lo
ubriacava ogni volta. Chi altra
profumava di fiori di campo e saponette.
Dove? Era abituato a profumi esotici
creati per sedurre, ma la semplicità di
Gen lo eccitava più di quanto qualunque
coniglietta di Playboy o supermodella
avrebbero mai fatto. Il suo respiro
ansimante, la pienezza dei suoi seni, la
facilità con cui aveva allargato le gambe
per accoglierlo come se il suo posto
fosse dentro di lei.
Wolfe strinse i denti e cercò di
ragionare. Non sarebbe più successo.
Erano
entrambi
ubriachi
ed
emotivamente vulnerabili e avevano
agito impulsivamente. Questo avrebbe
detto. Anzi non ne avrebbe proprio più
parlato. Magari lei non se lo ricordava
nemmeno. Se tra loro fosse cambiato
qualcosa per colpa di quel bacio, non se
lo sarebbe mai perdonato.
Si passò la lingua sul labbro inferiore
e sentì il suo sapore. Chiuse gli occhi e
cercò d’imprimere quel ricordo nella
memoria, dove l’avrebbe custodito a
lungo per recuperarlo in quelle notti
orribili e solitarie in cui avrebbe
desiderato qualcosa di bello che lo
aiutasse a superare le ore di oscurità.
Quando il respiro divenne regolare,
staccò la mano da quella di lei e si alzò.
Gen fece una smorfia nel sonno e si girò
leggermente verso di lui, come se lo
cercasse. Lasciò le bottiglie all’aperto
con l’intenzione di tornare a pulire il
giorno dopo e la prese in braccio senza
fatica. Un perfetto fagottino di
morbidezza femminile con la testa
appoggiata al suo petto in totale
abbandono e fiducia.
Riuscì a portarla a casa, metterla a
letto e tirarle su le coperte. Le diede un
bacio casto sulla fronte. Le sue labbra
rosa pallido si piegarono in un mezzo
sorriso addormentato.
Non riusciva a concepire come
qualcuno potesse farle del male. Giurò
di andare a fondo di quel pasticcio e di
scoprire cosa fosse accaduto realmente:
sicuramente c’era stata una violenza di
qualche genere. Era brava a nascondere
i suoi segreti. Quasi quanto lui.
Chiuse la porta, si spogliò e si stese
sul letto. Il corpo ancora fremeva di
energia residua ed eccitazione sessuale,
ma alla fine le conseguenze degli
avvenimenti della giornata si fecero
sentire.
Cadde nel sonno, un amico inquieto e
incostante di cui non si fidava.
Vincent Soldano odiava sua madre.
Sfortunatamente la amava anche, la
temeva, e avrebbe fatto qualunque cosa
per un suo sorriso o una sua parola
gentile. Aveva imparato presto quando
poteva disturbarla e quando invece
doveva starle lontano. La polvere
bianca era sacra, ma non era la
sostanza simile allo zucchero a fargli
paura. E nemmeno gli aghi, gli
sporadici ceffoni e le urla.
Erano gli uomini a fargli paura.
Strisciò i piedi fuori dalla porta, il
palmo già sudato sulla maniglia rotta.
La casa era a malapena un rifugio,
giusto qualche parete, il tetto che
perdeva e le erbacce che infestavano il
perimetro. Due finestre erano chiuse
col nastro isolante. Abitavano in fondo
a Happy Street, che era una strada
chiusa. Quando stava imparando a
leggere aveva pensato che quel nome
portasse fortuna. Aveva scoperto presto
che era solo il primo degli scherzi
crudeli che Dio aveva in serbo per lui.
Vincent entrò in casa. Non c’era
nessuno. Si sentì sollevato e si diede
subito da fare. Non sapeva quanto
sarebbe passato prima che arrivasse
qualcuno e cominciassero i rumori.
Posò il suo unico libro sul tavolo
pieghevole e cominciò a curiosare nel
frigo e negli armadietti in cerca di
qualcosa da mangiare. La porta della
camera della mamma restò chiusa.
Scacciò
gli
scarafaggi
dal
lavandino, riempì un bicchiere di
acqua e trovò un vecchio biscotto di
muesli con pepite di cioccolato. Che
fortuna. Lo mangiò lentamente,
assaporandone ogni morso mentre
sfogliava il libro di matematica.
Mancava spesso da scuola, ma quando
riusciva ad andarci la trovava
semplice. Specialmente le materie coi
numeri. Gli bastava guardare una
pagina e chiudere gli occhi per
ricordare tutto quello che c’era scritto
a memoria. Dondolò le gambe sottili,
pensando che quella sera avrebbe
dovuto cercare di lavarsi, poi sentì il
cigolio.
Si bloccò. Alzò lo sguardo.
L’uomo lo guardò con uno strano
sorriso sul volto. «Ehi piccolo. Non ti
ho sentito entrare.»
Era paralizzato dalla paura. Non
sapeva perché. Aveva semplicemente
scoperto da qualche anno che gli
uomini erano cattivi e che volevano
fare cose che gli facevano venire la
nausea. Provò a fare la faccia cattiva
ma non dovette riuscirci molto bene
perché l’uomo sorrise ancora di più e
si avvicinò.
«La mamma dov’è?»
L’uomo aveva i capelli lisci tirati
indietro e alla luce del sole che filtrava
dalla finestra rotta sembravano unti.
Era alto, portava dei jeans e una
maglietta e i suoi occhi ricordavano
quelli di uno squalo. Grigiastri, spenti
e crudeli.
«È andata a fare un salto alla
bottega. Tra poco torna.»
«Ti piace la scuola?» gli chiese.
Vincent s’irrigidì ma cercò di
nascondere la paura. «È okay.»
«Hai l’aria di essere un ragazzino
sveglio. Ma c’è un modo migliore per
tirar su qualche soldino. Scommetto
che ti farebbe comodo.»
Gli suonò un campanello d’allarme
in testa. Calcolò la distanza dal tavolo
alla porta. «Non mi servono i soldi.»
L’uomo rise, ma non era affatto
divertito. «Vuoi che ci pensi la tua
povera mamma a te, vero? Non è molto
da uomo. Sarebbe ora che cominciassi
a darle una mano.» Si leccò le labbra e
fece un altro passo verso di lui. «Posso
aiutarti io.»
Si preparò a fuggire. Per fortuna era
veloce. E sapeva dove andare. Aveva un
nascondiglio nel bosco in cui rifugiarsi
in caso di bisogno. Ci teneva una
coperta e dell’acqua. La porta dello
stanzino si chiudeva e molti non
avevano voglia di sbattersi a sfondare
la porta.
Strinse i pugni, si alzò e si preparò.
La porta di casa si aprì. La madre
entrò con un sorriso allegro. Aveva
ancora il naso infiammato dall’ultima
volta che le era sanguinato. Portava
una canotta e una gonna rosa e quando
si muoveva le spuntavano le ossa
dappertutto. Ripensò a quanto amava i
suoi capelli, da piccolo. Lunghi, scuri e
setosi. Ci seppelliva il viso in mezzo e
li annusava, e lei rideva e gli diceva
che lui era la sua fulgida stella. Adesso
erano tagliati tutti storti e irregolari.
«Ehi, piccolo.»
Vincent si rilassò. Oggi la mamma
era normale. Per un po’. «Ciao
mamma.»
«Stai facendo conoscenza con
Johnny?»
Lui annuì. L’uomo di nome Johnny
fece un sorriso forzato e le prese la
busta della spesa, appoggiandola sul
piccolo piano in linoleum della cucina.
«Già,
stiamo
facendo
una
chiacchierata da uomo a uomo.»
«Bello. Ho trovato del pollo in
offerta, tesoro. Lo cucinerò come piace
a te.»
Vincent si alzò. «Grazie. Vado a
studiare un po’.»
«Okay ma non allontanarti, tra poco
è pronto.»
Si chiuse nello stanzino che usava
come camera da letto e sperò, non per
la prima volta, di diventare come quel
cazzo di Harry Potter per poter fuggire
dalla sua vita d’inferno e sentirsi al
sicuro. Solo per un po’. Cercò di non
pensare al volto dell’uomo e alla
sensazione che la sua fortuna stesse
per finire.
Aveva dieci anni.
Capitolo 6
Genevieve aprì gli occhi.
Puah. Sbatté gli occhi incrostati e si
girò con un lamento. Le brontolava lo
stomaco per la fame e al posto della
testa le sembrava di avere una palla da
bowling che avesse atterrato centinaia di
birilli. Cos’era successo? Dov’era
David?
Il ricordo le fece alzare la testa di
scatto. Non era un incubo. Era successo
davvero. Aveva abbandonato David
all’altare il giorno del matrimonio,
davanti a centinaia di persone. Era
rovinata. La sua vita era finita. Sarebbe
morta.
Le sembrava di avere l’influenza tanto
si sentiva sfinita, per non parlare dei
brividi e delle convulsioni. Perché
alzarsi? Sarebbe rimasta qui sotto le
coperte finché avessero scoperto il suo
cadavere in decomposizione. Allora tutti
avrebbero detto che in effetti era
mentalmente instabile e che David si era
risparmiato una vita di pene. Nessuno si
sarebbe ricordato di lei. A parte le sue
sorelle. E i genitori. Ah, e gli amici. Ma
nessun altro.
La porta cigolò. Gen non alzò lo
sguardo. Era inutile farlo, tanto non
aveva nessuna intenzione di alzarsi
perché voleva morire a letto. E poi le
faceva male la testa.
«Piccola? Sono quasi le undici. Devi
mangiare qualcosa.»
Bofonchiò contro il cuscino. «Vai
via.»
Passi. Sentì il suo odore, un misto di
sapone, caffè e sole. «Non me ne vado.
E non ti lascio dormire tutto il giorno.
Avanti, ho organizzato una cosa ma
prima devi mangiare del cibo vero e non
dolcetti alle noci. Ed è d’obbligo una
doccia.»
«Lassami impace» bofonchiò.
Il materasso sprofondò un po’. Aprì
un occhio.
Wolfe aveva un’espressione seria e
risoluta. Non era come le sue amiche,
che la lasciavano tutto il giorno a letto
con un pacco di fazzoletti a lamentarsi.
Gli uomini rompevano. Dovevano fare
qualcosa, come se fare qualcosa
servisse davvero a qualcosa. Non
serviva a niente. Quello era caffè?
Rispose come se le avesse letto nel
pensiero. «Ecco la tua tazza e due
aspirine per il mal di testa. So che sei in
paranoia ma questa è anche la mia
vacanza e non voglio passarla chiusi in
casa a piangere sulla nostra disgraziata
vita sentimentale.»
Gen sbuffò e si tirò un po’ su a sedere.
«Tu non hai una vita sentimentale.»
«Giusto. Be’, è mio compito distrarti
per almeno altre ventiquattr’ore prima
di occuparci del casino che abbiamo
lasciato. D’accordo?»
Ogni volta che pensava al da farsi
sentiva un dolore lancinante come se
delle lame affilate le pugnalassero il
cervello. La prospettiva di negare la
realtà ancora per un giorno era
allettante. Domani avrebbe dovuto
chiamare tutti e iniziare a rimettere
insieme i pezzi. Il problema era che non
sapeva neppure da che parte cominciare.
Magari una giornata con Wolfe le
avrebbe dato qualche spunto.
«Sono contento che tu sia d’accordo.
Adesso siediti dritta, prendi le
compresse e vieni a mangiare.»
Buttò giù un sorso di caffè. Era caldo
e forte. «Cosa c’è per colazione?
Pancake? Frittata? French toast?»
Ruotò gli occhi. «Cereali, Gen.»
«Ma hai comprato le uova!»
«Per farle sode. In caso. Sai che non
so cucinare.»
«Hai vissuto con Julietta che faceva
la pasta in casa e il sugo e quelle
deliziose salsicce e polpette. Hai detto
che stavi cercando di imparare i segreti
del mestiere.»
«Ho mentito, sono ricco abbastanza
da ordinare cibo già pronto.»
Fece un sospiro. «Che delusione.
Giuro che se ti vedo ancora fumare la
chiamo.»
La guardò con occhi torvi.
«Bell’amica che sei. Smetto, okay? È
stato giusto uno scivolone.»
Gen mise le compresse in bocca e le
ingoiò. «Certo. Sai quanti casi di cancro
ai polmoni vediamo in ospedale? O di
cancro alla gola? Sai che significa
vivere senza lingua o con una laringe
artificiale?»
Impallidì leggermente. «Sai che odio
sentire queste cose, dacci un taglio.»
Gonfiò il petto. «È mio compito
informarti circa le conseguenze delle
scelte sbagliate.»
«Sei proprio come Debbie Downer.»
Reagì imitando la vecchia parodia del
Saturday Night Live. «Ueeh, ueeh,
ueeh.»
Scoppiarono entrambi a ridere. «Ci
vediamo in cucina. Rice Krispies o
Frosted Flakes?»
«Tony la tigre, grazie.»
«Perfetto. Non metterci troppo.
Abbiamo una giornata piena.»
Uscì dalla stanza. Gen brontolò
sottovoce ma mentre sorseggiava il caffè
si accorse che quando parlava con
Wolfe non aveva brutti pensieri. Lui
aveva questa straordinaria capacità di
essere sincero con lei, e di non lasciarla
crogiolarsi nel dolore. La ascoltava ma
non la giudicava. La incitava ma non la
insultava. E accidenti, baciava meglio di
chiunque...
Il pensiero affiorò. Oh no. Aveva
baciato il suo migliore amico, ieri sera.
O lui aveva baciato lei. Il ricordo era un
po’ confuso, ma rammentava il tocco di
quelle labbra sulle sue, il fremito del
suo corpo, il desiderio, la meravigliosa
pressione dei fianchi e dell’erezione di
lui.
Si coprì il volto con le mani,
inorridita. Brutta faccenda. Molto brutta.
Cos’aveva detto dopo? Era svenuta
prima di
tirare fuori
qualche
stupidaggine?
Ci
sarebbe
stato
imbarazzo tra loro, adesso? Come
poteva essere stata così zoccola dopo
aver appena mollato il fidanzato
all’altare?
Si aprì la porta. Wolfe fece capolino.
«Ah, a proposito, non preoccuparti
per il bacio. Sarai già in paranoia, ma
non
roviniamoci
la
giornata,
d’accordo?»
Restò a bocca aperta. «G-g-giusto.
Scusa, Wolfe. Mi dispiace un sacco.
Non so cosa m’è preso.» Una pausa.
«Ma... andava bene, almeno?»
Un sorriso malizioso gli distese le
labbra carnose. Fu colpita ancora una
volta dalla sua aria da ragazzaccio, coi
bracciali di cuoio, il tatuaggio, il
piercing al sopracciglio, e quei
penetranti occhi azzurri che gli
accendevano il volto e gli davano l’aria
di uno che conosceva tutte le brutte cose
da fare alle donne, e che le faceva tutte,
fino all’ultima.
«Diavolo, sì, andava benissimo. Ma
eravamo tristi e ubriachi e ne avevamo
bisogno. Non facciamoci mettere in
imbarazzo. E poi ti ho baciato io quindi
non sentirti in colpa.»
«Mmm, okay.»
«Gen?»
«Sì?»
Le
strizzò
l’occhio.
«Baci
divinamente. Se non fossi stata la mia
migliore amica ti avrei scopato senza
ritegno e non avresti potuto sfuggirmi.»
Un tuffo al cuore e un desiderio
improvviso. Piegò le labbra in un
sorriso. «Grazie. Suppongo.»
Lui rise e chiuse la porta. Accidenti a
lui. Aveva il talento di uno Jedi a entrare
nella sua mente, a indovinare sempre la
cosa giusta da fare o da dire. D’accordo.
Se lui non pensava al bacio, allora
neanche lei. Riuscì a farsi una doccia e a
indossare un paio di calzoncini corti di
jeans, una canotta gialla e le infradito.
Lasciando il viso struccato, raccolse
velocemente i capelli in una coda e andò
in cucina.
Si sedette sullo sgabello e si buttò sui
cereali. Ci trovò dentro una banana e gli
diede un’occhiataccia. «Anche la frutta?
Diventerai un vero intenditore.»
«Aspetta a vedere cosa c’è sulla pizza
a cena.»
«Che facciamo oggi?»
«Pensa a Hemingway.»
Alzò un sopracciglio. Caspita, aveva
dimenticato quanto potessero essere
buoni i fiocchi di mais glassati al
mattino. Tutta quella crusca e quel
muesli le stavano davvero togliendo
ogni piacere. «Stai scherzando? Devo
ancora riprendermi dalla sbronza. E
com’è che sei così in forma? Quelle
birre ieri mi hanno ucciso.»
Sorseggiò il caffè appoggiandosi al
banco della cucina. «Hai perso lo
smalto, fanciulla. Una volta mi tenevi
testa.»
«Sono rammollita. E poi adesso bevo
la Michelob Ultra. Non ero più
abituata.»
Wolfe sorrise. Era vestito alla buona
anche lui, calzoncini di jeans tagliati
sopra il ginocchio, maglietta blu e
sandali di cuoio. I capelli appena lavati
gli ricadevano a ciocche umide sulla
fronte. L’anellino al sopracciglio
ammiccava con allegria e tra le fessure
della camicia s’intravedeva l’inchiostro
nero del tatuaggio che si arrampicava
sul collo. Si era sempre chiesta perché
avesse scelto un serpente. Non
gliel’aveva mai domandato.
«Hai intenzione di dirmelo o
dobbiamo giocare agli indovinelli?»
«Io, te e i pesci, piccola.»
Batté le palpebre. «Sei fuori? Che
divertimento è? Stare seduti su un
ponticello pericolante a pescare pesci
puzzolenti che si dimenano cercando di
sfuggire a una morte atroce... Torno a
letto.»
«Non durante le mie vacanze. Non
stiamo seduti sul ponticello. Molto
meglio.»
«Cioè?»
«Prendiamo una barca.»
Si alzò, mise tazza e cucchiaio nel
lavandino e fece per tornare in camera.
«Buona fortuna. ’Notte.»
L’afferrò per la vita e la girò verso di
sé. «Non hai scelta. Sarà fantastico.
Solchiamo le acque, peschiamo del
pesce fresco e stasera ce lo cuciniamo
per cena, in comunione con la natura.»
«Io non cucino nessun pesce.»
«Non è un problema, lo faccio io.»
Rise. Solo l’idea valeva quasi
l’avventura. Quasi. «Ma io mi annoio»,
si lagnò.
«Non con me. Dai, preparati che
andiamo. Le canne da pesca sono fuori.»
Brontolò ma fece come le era stato
detto. Purtroppo non era in grado di
prendere decisioni al momento, quindi
le toccava dipendere da quelle di lui. Lo
vide uscire con una borsa porta esche, le
canne da pesca, una cassa d’acqua e
qualche stuzzichino e dirigersi verso il
bosco.
Gen lo seguì trascinando i piedi e
brontolando.
Lui
camminava
fischiettando, ignorando le sue lamentele
e senza rallentare il passo nonostante le
sue gambe fossero lunghe il doppio.
Dopo venti minuti buoni di camminata,
punture di zanzare e respiro ansimante,
quando stava per dire che non sarebbe
andata oltre, Wolfe si fermò di colpo.
«Era ora! Perché non siamo venuti in
auto? Odio camminare nel bosco. Sono
stanca. Mi dai un po’ d’acqua? La barca
dov’è?»
«Dovrebbe essere qui da qualche
parte.» Posò la roba a terra e cominciò a
cercare tra i salici e le sterpaglie. «Ah,
eccola.» Sparì nel terreno, poi riemerse
con una barca accanto.
Gen spalancò gli occhi.
S’aspettava un bel motoscafo con la
musica e tutto quanto. Magari un bel giro
veloce intorno al lago mentre lei
prendeva il sole.
Con quell’affare era già tanto se
restavano a galla.
Era una vecchia barca a remi di legno
che scricchiolava in modo inquietante.
Stretta e decisamente sbilanciata,
ondeggiava di qui e di là come se
aspettasse solo di scaricarli in
quell’acqua verdastra e piena di alghe
che
percorrevano
in superficie.
Rabbrividì all’idea. Lui caricò la roba
sulla barca e le tese una mano.
«Non ci penso neanche.»
Wolfe ebbe la sfacciataggine di
passare per uno che stava avendo molta
pazienza. «Qual è il problema adesso,
principessa?»
Sbottò, furente. «Sei impazzito? Dove
sono i giubbotti di salvataggio? La barca
che non affonda? Il contratto sulle
responsabilità da firmare e l’omino che
prima di affidarti la barca t’insegna a
manovrarla?»
«È questo il bello, che non c’è nulla
di tutto ciò. Siamo noi e la natura, in un
posto bellissimo che non conosce
nessuno. Senza regole, contratti e
persone estranee. Solo io, te e i pesci.»
«Ma è peggio che non sposarsi!»
«Non puoi fidarti e basta? Sarà
bellissimo. Ti piacerà.»
Lo guardò di traverso. Accidenti, che
alternativa aveva? Non voleva stare
chiusa in casa tutto il giorno a pensare a
David, agli sbagli che aveva commesso,
al pasticcio in cui si trovava. Magari
questo l’avrebbe aiutata. Aveva letto
Hemingway. Aveva visto quel vecchio
film con Fonda, Sul lago dorato. Da
quando era diventata così rigida da
rifiutarsi di agire impulsivamente?
Da quando si era fidanzata.
A David non piaceva deviare dalla
rotta col rischio che qualcosa non
funzionasse. Lui avrebbe prenotato una
battuta di pesca in un bel porticciolo
turistico con servizio incluso, un
pescatore professionista e una bussola.
Stare ore su una barca a remi in mezzo a
un lago pieno di alghe senza tappe
organizzate sarebbe stato inconcepibile,
per lui.
All’inizio lo trovava affascinante.
Preferiva gli uomini ben organizzati, che
prendevano le cose sul serio. Finché si
era accorta che non le concedeva
nemmeno lo spazio per respirare.
Quando lei provava ad abbracciare una
prospettiva più ampia, il suo disprezzo e
le piccole punizioni le toglievano ogni
entusiasmo, finché era diventato più
facile fare come diceva lui.
Ma la colpa era davvero sua? O era
lei che avrebbe dovuto lottare per
difendere il suo punto di vista?
Scacciò il pensiero e serrò la
mascella. «Okay. Facciamolo.» Salì
sulla barca con cautela e si sedette
dietro, attaccandosi ai bordi. Wolfe
sciolse le corde e diede una spinta alla
barca, posizionandosi ai remi. Dopo
qualche minuto di puro terrore,
costatando che il trabiccolo stava a galla
e che Wolfe era in grado di governarlo,
Gen si rilassò. Okay, magari sarebbe
stato carino. Era una giornata calda e
soleggiata, gli uccelli cantavano, il
bosco abbracciava il lago con panorami
mozzafiato
e
lei
non doveva
preoccuparsi che qualcuno li scovasse.
«Va meglio?»
Gen annuì. «Sì. Pare che tu sappia
quello che fai.»
«Non è ingegneria aerospaziale, basta
remare.»
Gen gli fece la linguaccia.
Remarono in silenzio. La sua mente si
quietò, godendosi il momento. I piccoli
saltelli e le increspature sulla superficie
dell’acqua promettevano un’ampia
varietà di animali. Pregò che fossero
solo pesciolini e non qualche orribile
creatura marina pronta ad affondare la
barca.
«Perché guardi in basso come se
dovesse spuntare Jason fuori dall’acqua
con la sua maschera da hockey?»
«Non dire queste cose! Bleah, questo
lago fa schifo. Non posso credere di
averci fatto il bagno ieri sera.»
«Lo dici solo perché siamo abituati
all’acqua disinfettata delle piscine. Ci
vorrebbero più germi. Sarebbe più
sano.»
Scosse la testa. «Grazie, dottor
Wolfe.»
«Suona bene.»
«Ricordi quando mio padre ha
scoperto che hai un nome solo?»
Alzò gli occhi al cielo. «Tuo padre mi
ha odiato dal primo momento.»
Rise. «Aveva detto: ‘Wolfe, come
Prince?’ E tu: ‘Non proprio’.»
«E lui mi aveva guardato come se
fossi un insetto che avrebbe voluto
schiacciare.»
«Non ti odia, non so più come dirtelo.
È solo diffidente. Izzy continuava a
guardarti, sembrava assatanata, e lui è
un uomo all’antica. Ci diceva sempre
che se ci fossimo fatte il piercing o un
tatuaggio sarebbero stati guai.»
«Mmm, minaccia che non ha
funzionato gran che, con Izzy.»
«Con lei non ha funzionato quasi
niente.» Era un sacco di tempo che
moriva dalla voglia di chiederglielo. In
barca, da sola coi suoi pensieri, la
domanda le scappò di bocca. «Sei mai
andato a letto con Izzy?»
Quasi gli sfuggì un remo e la barca
s’inclinò di colpo. Gen s’aggrappò ai
bordi finché quella si raddrizzò. «Vuoi
scherzare? Certo che no! Perché me lo
chiedi?»
Si sentì sollevata. Fece spallucce.
«Le sei sempre piaciuto. Credo sia
gelosa della nostra amicizia, e poi
sarebbe stato un ottimo sistema per
vendicarsi di me. Io ero quella buona, la
cocca di mamma e papà. Lei era quella
che combinava guai. Ci hanno sempre
viste così, da quando eravamo piccole.
E noi abbiamo fatto esattamente come
tutti si aspettavano. Io ho seguito la
giusta via e lei ha fatto il diavolo a
quattro.»
Sembrò scegliere le parole con
attenzione. «Ci ha provato un paio di
volte, ma ho sempre saputo che non
voleva me. Era confusa, sofferente. Non
capivo che problemi avesse.»
«Nemmeno io. Quando è entrata nel
tunnel della droga è stato uno shock per
tutti. Papà non riusciva a farsene una
ragione, pensava di aver fallito come
genitore e quasi non le rivolgeva più la
parola. È stata isolata. Non ti biasimerei
se ci fossi andato a letto, Wolfe. Giuro.»
Le mancò il respiro quando lui la
guardò. La fermezza che lesse in quegli
occhi azzurri e penetranti valeva più di
mille discorsi. «Non siamo andati a letto
insieme. Non ho mai desiderato Izzy.
Hai capito?» Le si era chiusa la gola
quindi si limitò ad annuire. «Bene.
Siamo arrivati. Prendiamo qualche
pesce.»
L’insenatura deserta non sembrava la
capitale della pesca di Saratoga, ma a
Gen non importava. Le insegnò a mettere
l’esca all’amo e le mostrò velocemente
l’attrezzatura e come lanciare la canna.
Gen si risedette in attesa di uno
strattone. Ora che ci si trovava in mezzo,
voleva prendere un pesce, e lo voleva
più grosso di quello di Wolfe, così
avrebbe potuto vantarsene in eterno.
«Non voglio nemmeno sapere cosa
stai pensando con quel sorrisetto»,
commentò lui.
«Meno male perché non te lo dico.
Posso farti una domanda un po’ fuori
dalle righe?»
«Certo.»
«Perché hai un nome solo?»
Lo vide irrigidire le spalle e si pentì
d’averglielo chiesto. Da quando era
scappata dalla chiesa, la curiosità
riguardo al suo passato era peggiorata.
Aspettò che s’appellasse alla promessa
di non parlare del passato, ma la
sorprese un’altra volta.
«Ero un’altra persona, molto tempo
fa. Me la passavo male, mi sono
successe delle cose. Quando Sawyer mi
ha preso con lui ero così confuso e
insoddisfatto che ho pensato che
cambiare nome mi avrebbe aiutato a
cambiare anche me stesso.»
«Non fa una piega. Tabula rasa. Come
mai hai scelto Wolfe? Perché non Serpe
come il tuo tatuaggio?»
Fece un mezzo sorriso. «Quello
sarebbe solo stato stupido.»
Sorrise anche lei. «Suppongo di sì.»
Lui guardò la sua canna. «Ho scelto
Wolfe perché mi fa pensare a un grande
cacciatore. Volevo sentire quel tipo di
potere, per una volta. Volevo essere
quello che cacciava, non quello che
veniva cacciato. Il predatore, non la
preda.»
Fu profondamente colpita dalle sue
parole. Le aveva dato un altro tassello
del puzzle, ma ne mancavano ancora
molti. Il colpo secco della canna
l’interruppe, e d’un tratto stava tirando
su un pesce col mulinello. Gen si fece
prendere dall’entusiasmo e si mise a
urlare.
«Tira più forte, a sinistra, così lo
perdi, ne hai preso uno!»
«Ssst, lo stai facendo scappare. Mi sa
che è grosso.»
La canna diede uno strattone e
comparve il pesce. Si dimenava
forsennatamente
schizzando
acqua
dappertutto. Wolfe lo trascinò sulla
barca riavvolgendo la lenza, lo staccò
dall’amo e lo guardò con grande fierezza
e soddisfazione.
Anche Gen lo guardò. Era argenteo, di
media grandezza, e strabuzzava gli occhi
come se si stesse rendendo conto che la
sua vita era ufficialmente finita e che
presto sarebbe stato arso vivo, o
comunque avrebbe avuto una morte lenta
e dolorosa.
«Porca vacca, ne ho preso uno!
Dunque, mi pare che Sawyer abbia detto
di tramortirlo con quella specie di
martello che c’è lì nella borsa, mi pare
almeno, Gen, cosa stai facendo? Gen?
Ehi!»
Gen si lanciò all’altro estremo della
barca, afferrò il pesce viscido e
scivoloso e riuscendo a stento a tenerlo
in mano lo ributtò in acqua.
La superficie s’increspò, poi tornò
liscia, e lei fece un sospiro di sollievo.
Grazie a Dio. Non era ipersensibile, ma
non se ne parlava proprio di stare a
guardare una povera bestiola mentre
veniva torturata e uccisa. Quel pesce ora
sarebbe tornato nuotando dalla sua
famiglia di pesci e in futuro avrebbe
evitato esperienze simili. Così almeno
sperava.
Probabilmente somigliava a sua
sorella Alexa più di quanto pensasse.
Si girò verso di lui sorridendo e
rimase di sasso.
Oh oh.
«Hai ributtato in acqua il mio pesce?»
Non aveva mai sentito picchi tanto acuti
nella sua voce. Come se fosse veramente
seccato. Così seccato da non riuscire a
controllare il tono.
Fece una smorfia. «Mi dispiace. Non
ce la potevo fare. Non posso rendermi
complice di un omicidio.»
Strinse gli occhi, imbufalito. «Mi
prendi in giro? È un pesce. Hai sempre
mangiato pesce e non ti sei mai fatta
problemi. Adesso me lo paragoni a un
omicidio?»
Alzò il mento. «Lo è. Volevi
sfondargli il cranio. Fa male.
Prendiamoli per divertimento e poi
restituiamoli al lago.»
Lui grugnì, le si avvicinò e afferrò la
canna stringendola come fosse il suo
collo. «I pesci non hanno terminazioni
nervose. E perdonami ma non trovo
divertente restituire un pesce che mi
sono guadagnato. È stupido.»
Lo guardò con odio. «Che ne sai tu se
i pesci hanno i nervi o no? Sei un pesce
reincarnato? E non è stupido, è umano.»
«Tocca ancora un mio pesce e sarà
peggio per te.»
Come aprì la bocca per rispondergli
male vide con la coda dell’occhio una
cosa nera che si muoveva veloce.
Quando capì cosa fosse gli diede una
rispostaccia e alzò le spalle. Voleva
comportarsi come un assassino senza
coscienza? Bene. Sarebbe stato punito.
Era il karma.
«Sono contento che tu abbia capito.»
Avvertì un fastidio sulla parte inferiore
della gamba e si diede una pacca, ma
l’animaletto evitò le sue cinque dita e
salì più in alto. Ci sarebbe stato da
ridere. «Adesso taci che provo a
prenderne un altro.»
«Non una parola?» domandò lei
mielosa.
«Non una sillaba.» Provò a scacciare
di nuovo la bestiola che tuttavia arrivò
sana e salva al bordo dei pantaloni e si
fermò. E se s’infilava sotto? Gen si
morse
il
labbro
inferiore,
improvvisamente preoccupata. Un uomo
giovane e sano poteva rischiare un
attacco di cuore se la sua fobia si
risvegliava? O era meglio avvertirlo,
anche se si stava comportando da
stronzo?
«Ehm, Wolfe, dovrei dirti una cosa.»
«Hai già fatto abbastanza. Voglio
mangiare il pesce stasera, e ho
intenzione di pescarlo.»
«Forse invece di darti tanto da fare
per uccidere un pesce dovresti uccidere
qualcos’altro.»
«Ah sì? Tipo?»
Lei indicò il ragno sulla sua coscia
nuda. «Tipo quel ragno.»
«Porca troia!»
Successe così in fretta che non ebbe
tempo di rendersene conto.
Wolfe
saltò
sull’altra
gamba
battendosi forte le mani sui calzoncini e
perse l’equilibrio. La barca s’inclinò a
destra e caddero entrambi in acqua.
Gen boccheggiò e cercò di tenere la
bocca chiusa. L’acqua fredda che le
impregnò i vestiti la colpì come un’onda
d’urto. Coi capelli appiccicati in faccia,
sputò con violenza temendo d’aver
ingoiato le alghe. L’idea di trovarsi
nello stesso regno degli alligatori e dei
mostri marini la fece sbarellare.
«Tirami fuori da qui!» gridò. «Non
farmi morire qui!»
Due braccia forti la afferrarono per la
vita, tenendola a galla. «Che hai da
urlare come un’indemoniata? Sai
nuotare.»
Gen strillò e gli si aggrappò con le
gambe e con le braccia. «Ci sono degli
animalacci qui dentro, cose che
strisciano e che nuotano. Riportami
subito sulla barca!»
La sua risata le vibrò nelle orecchie.
Le venne la pelle d’oca e sentì un
fremito al basso ventre. La coscia di lui,
resa ruvida dai peli, le sfregava contro,
toccando il suo punto più delicato.
«Avevo addosso un ragno. Un ragno
gigantesco. Lo sapevi?»
Scosse la testa con forza e
piagnucolò. «No, giuro, ti prego
torniamo sulla barca.»
«Okay. Ma non devi più impicciarti di
quello che pesco. Adesso prendo la
barca e... che diavolo era quello?»
«Cosa? Cosa?»
«Non lo so, qualcosa mi ha toccato la
gamba. Sembravano delle dita, come se
fosse una mano.»
Gen spalancò la bocca e gridò.
Neppure sentì la sua risata mentre
annaspava cercando di scappare a nuoto
verso la barca. Quando la raggiunse,
sentì due mani forti spingerla da sotto il
sedere e sollevarla in alto finché non ci
rotolò dentro, in salvo. Si alzò subito in
piedi e si sfregò le gambe per togliersi
le alghe di dosso. Wolfe salì a sua volta,
si sedette e ridacchiò.
«Ragazzi, avresti dovuto vedere la tua
faccia. Impagabile.»
«Sei uno stronzo! Non c’era nessuna
mano, bugiardo.»
«Scusa, cara, non ho potuto farne a
meno.»
«Odio pescare. Questa giornata è uno
schifo. Sono bagnata, stanca e
appiccicosa.»
«È stata dura ma andrà meglio,
vedrai. Che altro può succedere? È una
bella giornata. Potremmo tornare al
ponticello e andare a fare una
passeggiata.»
Il diavolo ci mise nuovamente lo
zampino.
Il sole s’allontanò e dal cielo scesero
alcune gocce di pioggia. Gen batté le
palpebre e guardò in su. Non era
possibile. O sì?
«Sta piovendo?» domandò.
Wolfe alzò la testa. Le gocce
aumentarono. «Sì, meglio tornare
indietro. Dove sono i remi?»
«Di che remi parli? Non sono
attaccati a quelle specie di ferri di
cavallo?»
Guardarono entrambi le scalmiere.
Erano vuote. Si girò a destra e vide i
remi galleggiare in lontananza. Il cuore
prese a batterle forte. Erano distanti
dallo chalet e anche da un punto in cui
poter scendere a terra. «Wolfe? Cosa
facciamo?»
Lui si sfregò la testa come se nel suo
mondo le catastrofi fossero ordinaria
amministrazione.
«Mmm.
Questo
potrebbe essere un problema. Dovremo
tornare a nuoto.»
Gen spalancò la bocca. «Non ho
nessuna intenzione di nuotare in
quell’acqua piena di animalacci che mi
aggrediscono! Ho visto Scooby Doo e la
maledizione del mostro del lago con
Lily! Mai nella vita!»
«Okay, allora ti porto io sulla schiena
così ti proteggo dai mostri.»
Le gocce di pioggia si fecero più
fredde e pesanti. Gemette disperata e
guardò l’acqua. «Non posso farlo.»
«Lo stai facendo.» Saltò in acqua e si
tenne a galla ad aspettare.
«E le provviste?»
«È un’emergenza. Direi che possiamo
sacrificare una cassa d’acqua e due
canne da pesca. Forza, Gen. Salta.»
«Non ce la faccio.»
Rabbrividì, sempre più infreddolita.
La sua voce le fece l’effetto di un colpo
di frusta.
«Te lo dico per l’ultima volta. Entra
in acqua. Ti prometto che non ti
succederà niente.»
Inghiottì a vuoto. «Promettimelo.»
«Promesso.»
E lei saltò.
Il fuoco crepitava.
La pioggia batteva incessante contro
le finestre e i ceppi scoppiettavano nel
camino riempiendo l’aria col profumo
del legno bruciato e della pizza. Avvolta
in una coperta calda Gen prese un pezzo
di formaggio filante ed emise un sospiro
di piacere. «Mmm, buonissima.»
Wolfe annuì masticando. Stava
mangiando prima la crosta poi l’interno,
come piaceva a lui. «Meglio del pesce.»
«Te l’avevo detto.» Si leccò le dita e
si appoggiò soddisfatta allo schienale
del divano. Guardò fuori, dove il vento
strepitava e furoreggiava un temporale
estivo. «Chissà che fine ha fatto la
barca. Spero non fosse molto costosa.»
Lui rise e si pulì le mani. «L’ho
trovata nel bosco durante la mia
passeggiata mattutina.»
«Cosa? Non sapevi nemmeno se era
sicura? Ci potevamo rimettere le
penne.»
Wolfe soffiò l’aria dal naso,
appoggiando la schiena al divano e
allungando le gambe sul tavolino. «Ti ho
protetta dalla creatura della laguna nera
o sbaglio? Quasi mi uccidevi. Mi
stringevi il collo così forte che non
riuscivo a respirare.»
Cercò di mostrarsi arrabbiata ma le
labbra sorridevano. Era stato fortunato.
Lei non aveva mai allentato la presa e il
rientro a nuoto era stato faticosissimo.
«Giusto. Siamo pari.»
Restarono piacevolmente in silenzio.
Gen sorseggiava un bicchiere di
Chardonnay lasciandosi avvolgere dal
calore della serata. Che meraviglia.
Adorava stare così con David, seduta a
far niente, solo a godersi la sua
compagnia e la sua mente brillante.
Purtroppo, man mano che la storia era
andata avanti, quei momenti erano
diventati sempre più rari. Lui era
sempre occupato a fare qualcosa o a
dire a lei di fare qualcos’altro. L’ozio è
il padre dei vizi e roba simile. E lei
aveva dimenticato come fosse stare
seduta tranquilla con un uomo a fare due
chiacchiere, gustandosi il momento. Era
così immorale? Davvero ogni secondo
della vita doveva essere produttivo?
Ripensò a come avesse cercato di
ribellarsi, di dire la sua, e a quando lui
crollava ai suoi piedi, emotivamente a
pezzi. David aveva il complesso di non
essere stato amato. I genitori avevano
divorziato quando era piccolo e la
madre era stata assente, non sembrava
essergliene mai importato molto di
quell’unico figlio. Lui si era consacrato
alla medicina e al successo, per provare
il proprio valore. E ci era riuscito. Ma
Gen vedeva una luce fredda negli occhi
di David, come se il suo scopo fosse
soltanto eliminare il passato con un
bisturi. Quando lei lo deludeva, lui
tornava ai suoi trascorsi. All’inizio la
disponibilità a parlare del suo vissuto e
ad ammettere i suoi limiti e debolezze la
stupiva. Le ripeteva continuamente che
era stata lei a salvarlo.
Ci aveva provato. O no?
Ma non era stata abbastanza forte. Il
continuo altalenarsi tra disprezzo e
atteggiamenti dittatori da una parte e il
compagno bisognoso e innamorato
dall’altra
aveva
cominciato
a
distruggerla. Quante volte l’aveva ferita
e lei l’aveva perdonato perché la
amava? Ma era vero amore?
Non lo sapeva più.
A poco a poco, la tristezza cominciò a
toglierle il senso di pace che stava
provando. Ricacciò indietro le lacrime.
Si sentiva in colpa per aver cercato di
salvarsi, per essere stata tanto egoista da
fuggire, rovinando la vita ad altre
persone. Vigliacca. Vigliacca...
«Cara? Sei pronta?»
Scosse la testa per ritrovare la
concentrazione. Wolfe s’inginocchiò
dietro il tavolino con una scatola davanti
a sé. «Per cosa?»
«Scarabeo. Aiutami a preparare.» Le
passò la sua bustina con le lettere e lei
cominciò automaticamente a disporre le
tesserine di legno sul portalettere.
«Wolfe, sono stanca. Forse mi
conviene andare a letto.» L’idea di
pensare alle parole per vincere a
Scarabeo era più di quanto potesse
concepire. Aspettò il suo consenso,
convinta che le avrebbe dato una carezza
e l’avrebbe lasciata andare.
«Non credo proprio. Mi sto
annoiando, quindi tu ora giochi. Non
dimenticare le regole. E non puoi usare
tutti termini medici, non è giusto.»
Scosse la bustina con indignazione.
«Sei crudele ed egoista. Sono stanca e tu
mi costringi a giocare.»
«Ti fa bene.» Si riempì il bicchiere di
vino e tornò con una penna e un
blocchetto. «Cosa ci giochiamo?»
Sbuffò. «Non saprei. Sono una
studentessa di medicina che lavora e tu
sei un milionario. Se scommettessimo
dei soldi?»
«Spiritosa. Ci giocheremo dei
segreti.»
Restò di sasso. Lo osservò
attentamente mentre tirava fuori la prima
lettera dalla bustina. Sembrava dicesse
sul serio. «Che tipo di segreti?»
Wolfe fece spallucce. «Se vinci tu
puoi chiedermi quello che vuoi e io te lo
dico. E viceversa. Ci stai?»
Non aveva niente da perdere. Si
rianimò e pescò la lettera S. Non male.
Lui pescò una A. Il solito culo.
«Comincia tu.»
Gen aveva dimenticato quanto fosse
divertente giocare a Scarabeo. In
famiglia si sfidavano con tornei
combattutissimi e infatti il dizionario era
logoro. L’innocua complessità del gioco
la distrasse e d’un tratto si ritrovò
impegnata in un’accesa competizione
con uno degli uomini più brillanti che
conosceva. E il bello era che non lo
dava a vedere. Da come si vestiva e da
come
parlava,
nessuno
avrebbe
indovinato che fosse tanto intelligente e
colto. A Scarabeo, poi, era micidiale.
Gen era avanti di venti punti buoni,
aveva ancora una Z e nessuna intenzione
di perdere. Ah, la bellezza di avere una
P.
ZIP.
«Brava», commentò lui con un
fischio.
L’adrenalina le fece fare un saltino sul
divano. Rovesciò la bustina delle
lettere. «Finite!» disse compiaciuta.
Stava proprio per vincere.
Lo guardò masticare l’estremità della
matita, concentrato sulla scacchiera.
«Mmm, lo spazio si sta restringendo.
Non sarà facile.» Lei bevve il vino, in
giubilante attesa della parolina che
s’aspettava, e giurò a se stessa che non
gli avrebbe fatto pesare troppo la
vittoria. Be’, ci avrebbe provato,
almeno. Aveva solo una A da giostrarsi
e non è che potesse farci molto.
«Trovato.» Cominciò a disporre le
lettere una a una sulla griglia.
ANESTRO.
Eh? Gen si chinò in avanti per leggere
meglio. Un momento, aveva finito le
lettere? Guardò incredula il suo
portalettere vuoto. Aveva appena
guadagnato altri trenta punti bonus.
«Aspetta un attimo. Che diavolo è
anestro? Non è una parola. E come hai
fatto a tenermi nascosta una S?»
Lui fece spallucce sminuendo
l’importanza della cosa. «Volevo tenerla
per una buona occasione. Non sai cosa
significa? È una parola eccome.»
«Chiedo la verifica!»
Tirò indietro la testa. «Sei un medico,
la biologia dovresti conoscerla. Vuoi
dire che non hai mai sentito questa
parola?»
«Certo che no, perché non esiste. Che
cosa significherebbe, sapientone?»
«È il periodo d’inattività sessuale dei
mammiferi.»
Batté le palpebre. «Mi stai prendendo
in giro.»
«No. Cercala. Così tu perdi e io
vinco.»
«Okay, verifico lo stesso.» Aprì
brontolando il dizionario e trovò la
parola... anestro: periodo d’inattività
sessuale dei mammiferi.
Bastardo.
Chiuse il libro in malo modo. Lui fece
un sorriso soddisfatto. «Mi credi
adesso, dottoressa?»
Oh, che voglia di urlargli che era un
baro, ma non poteva. Era solo più bravo
di lei, il che le rugava parecchio. Era
un’altra cosa che aveva preso da sua
sorella. La smania di vincere a tutti i
giochi di società.
Lo guardò liberare la scacchiera,
rilassato, col sorriso ancora stampato in
volto. Si era cambiato e portava dei
calzoncini corti da corsa e una canotta
che metteva in evidenza le braccia e le
spalle scolpite. Aveva la pelle
gradevolmente abbronzata dal sole.
Buffo, un’altra donna sarebbe impazzita
a trovarsi sola con lui davanti al camino
in uno chalet deserto. Era un Dio del
sesso ambulante, e lei ci stava giocando
a Scarabeo con addosso due stracci di
Walmart, senza trucco e coi capelli per
aria.
Da non credere.
Fu
nuovamente
presa
dalla
sonnolenza. Appoggiò la testa al
bracciolo del divano e sbadigliò. «Odio
perdere.»
«Lo so.»
«Hai vinto onestamente. Sono a tua
disposizione.» Lui alzò il sopracciglio.
«Per un segreto, intendo.»
«Ero solo preoccupato che volessi
mettere fine al tuo anestro.»
Non poté evitarlo. Buttò la testa
indietro e rise. «Un giorno. Non
stasera.»
«Buono a sapersi.»
Aspettò la domanda, sapendo che
avrebbe riguardato David. Che tristezza
il modo in cui aveva evitato Wolfe per
assecondare i capricci del fidanzato.
Presto avrebbe dovuto scusarsi e
sperare che Wolfe la perdonasse.
Adesso almeno poteva dirgli la verità,
qualunque cosa fosse quella che voleva
sapere. «Qual è il pensiero che ti ha
attraversato la mente l’attimo prima di
decidere di saltare fuori dalla finestra?»
La domanda la sorprese. Torcendosi
le mani, tornò con la memoria al preciso
momento in cui aveva deciso di mandare
all’aria la sua vita perfetta e controllata.
E disse la verità.
«Ho sempre avuto una voce interiore
che mi parlava. Mi diceva delle cose.
Non so se fosse l’istinto o il subconscio,
ma mi fidavo di lei e l’ascoltavo. Dopo
qualche mese con David, tuttavia, ha
smesso di parlarmi. All’inizio pensavo
fosse perché non ne avevo più bisogno.
Avevo l’uomo che amavo. Poi mi sono
accorta che avevo solo paura di darle
retta. La voce era morta.» Inspirò,
tremante. «Appena prima di sposarmi
l’ho sentita di nuovo. Continuava a
ripetermi una cosa.»
«Cosa?»
«Scappa», disse semplicemente. «E
io sono scappata.»
L’emozione la travolse. Stremata,
triste, confusa, si stese sul divano,
abbandonando le sue difese. Wolfe si
alzò in silenzio e sparì. Tornò con un
cuscino. Glielo mise delicatamente sotto
la testa, le sistemò le coperte intorno e
le spostò i capelli dal viso. Lei fece un
verso simile alle fusa per la tenerezza di
quel gesto. Chiuse gli occhi e si lasciò
avvolgere dalle tenebre, dove nulla
importava e non c’era bisogno di
pensare.
«La voce aveva ragione, piccola. Ha
sempre ragione. E grazie a Dio l’hai
ascoltata.»
Le diede un bacio sulla fronte, ma lei
stava già scivolando nel sonno.
Capitolo 7
«Dove andiamo?»
Wolfe l’aveva tirata giù dal letto alle
dieci, rifiutandosi di lasciarla dormire
più a lungo. Dopo altri cereali e altre
lamentele, le aveva detto che andavano a
fare una gita e l’aveva fatta salire in
auto.
«In un posto dove i sogni diventano
realtà.»
«In una cittadina dell’interno?
Aspetta... è una spa? Bello! Possiamo
fare i massaggi e i bagni di fango per
eliminare le tossine. Arylin mi
supplicava sempre di farne uno ma non
avevo mai tempo.»
«Non è una spa. Non mi farei mettere
del fango addosso nemmeno a
pagamento. Le mie tossine me le voglio
tenere.»
«Oh.» Si allacciò la cintura e pensò
alla possibile alternativa. «Shopping?
Le donne amano fare shopping quando
sono depresse. A me non piace molto ma
d’accordo, ci provo. Adoro le scarpe.»
«Io no. Voglio divertirmi anch’io, non
farmi torturare da queste stronzate da
donna. Questo posto andrà bene a tutti e
due.»
«D’accordo. Pensi di dirmi che posto
è?»
«No. Prima regola della strada: vai
avanti e non voltarti mai indietro.»
L’ombra sul suo volto parlava di
sofferenze che lei non poteva neppure
immaginare. E non voleva farlo. Si
fidava ciecamente di Wolfe e sapeva che
avrebbe fatto la cosa giusta. Ma se
gliel’avesse detto l’avrebbe soltanto
messo in imbarazzo. Quindi accettò di
seguirlo per il secondo giorno e annuì.
«Allora sono pronta a scoprirlo.»
Aveva smesso di piovere a metà della
notte. Era una giornata calda e
viaggiavano con la capote abbassata.
Gen si godette la sensazione del vento
tra i capelli. Neppure stavolta parlarono
molto. Wolfe alzò il volume della radio
che trasmetteva gli Imagine Dragons e
guidò verso la città.
Il ricordo la colpì con forza. David
che guidava verso Newport in fuga
romantica per il fine settimana.
L’eccitazione al pensiero di essere
finalmente soli, senza occhi indiscreti e
cercapersone che suonavano. Guardava
il suo profilo da dio greco e si
meravigliava di quanto fosse stata
fortunata a essere notata da lui.
Poi l’auto aveva urtato qualcosa per
strada. Era scoppiata una gomma.
Avevano passato ore sul ciglio della
strada, il weekend del Memorial Day, in
attesa dell’assistenza stradale. Gen era
abituata agli imprevisti e li prendeva
bene. Lui no. Col passare delle ore era
diventato sempre più scontroso, e il suo
nodo allo stomaco sempre più stretto.
Una volta sistemata l’auto, l’aveva
accusata di flirtare col meccanico. E le
aveva detto che se lei non l’avesse
distratto avrebbe visto il rottame sulla
strada. Era un’accusa velata, lanciata
con un sorriso e un sottile sarcasmo. E
la sera si era ritrovata a scusarsi senza
neppure capire per cosa.
Era solo l’inizio.
Le venne la pelle d’oca e si sfregò le
braccia. Come mai non si era accorta
prima che la stava manipolando?
L’aveva sempre fatto? Il loro rapporto
era cresciuto così in fretta che era
difficile tenere il passo, ma David le
diceva
sempre
che
la
amava
immensamente, che voleva proteggerla.
Che desiderava che riuscisse nel lavoro
e come sua compagna. Cosa c’era di
male?
Abbastanza da farti scappare dalla
finestra della chiesa, le rispose la sua
voce interiore. Abbastanza da farti
sentire nervosa e agitata ogni sera
quando tornavi a casa per la paura che
non fosse tutto perfetto.
Adesso no, rispose lei. Non sono
pronta.
Benissimo. Ma quando lo sarai,
preparati a qualche dura verità.
«Hai freddo? Posso chiudere la
capote.»
Gen si voltò. Lui la stava guardando
con attenzione. «No, mi piace. Sono solo
le voci che mi danno fastidio. Niente di
grave.»
Lui annuì. «Io le sento sempre.»
«E come fai a farle smettere?»
Wolfe guardava la strada ma lei
sapeva che vedeva molto altro. «Alzo il
volume della musica.»
Gen sorrise. E alzò il volume.
Quando giunsero a destinazione,
Wolfe
rallentò
avvicinandosi
all’ippodromo. Corse dei cavalli? Oh.
Com’è che non aveva indovinato? Lei
odiava il gioco d’azzardo, perdeva
sempre.
«Fai sul serio? Prima perdo il
fidanzato, poi tutti i miei soldi? Non è
divertente», commentò delusa.
La guardò di traverso. «Qualcuno ti
ha mai mostrato la bellezza dell’ippica?
L’adrenalina. Lo scalpitio degli zoccoli
quando i cavalli escono dalle gabbie. Le
urla della folla. Il Saratoga Race Course
è l’ippodromo più antico degli Stati
Uniti ed è qui che si svolge la famosa
corsa Travers Stakes. I campioni
corrono qui, e la gente viene da tutto il
mondo
per
assistere...
stai
sbadigliando?»
Si diede un colpetto delicato sulla
bocca. «Sono andata a cavallo una volta
e non mi è piaciuto.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Non ci
vai tu a cavallo, tu devi solo
scommettere su chi vince. Anche se la
taglia del fantino ce l’hai.»
Gen sbuffò. «Battuta di cattivo gusto.
Pensavo ti piacesse farli, i soldi, non
perderli.»
«Non perdo mai alle corse.»
«Mi annoierò. Sarà una giornata
disastrosa come quella al lago.»
«Muoviti, Gen.»
Obbedì, sospirando e trascinando i
piedi come una bambina capricciosa.
Una folla entusiasta occupava tutto il
marciapiede. Tutti avevano in mano un
libricino e puntavano piccole matite
sulle pagine, parlando di probabilità,
allevamenti e allenatori. Dopo aver
pagato, mentre attraversavano i cancelli
in ferro battuto, le sue narici furono
invase dal profumo pungente della terra
e del letame.
La scena che si trovò davanti la
sorprese. S’aspettava un gruppo di
uomini che fumavano intorno a una
piccola pista, invece sembrava di fare
un passo indietro nella Old America.
Chioschi che vendevano limonata,
ciambelline calde e snack vari,
un’allegra banda all’ingresso che
suonava e bambini sorridenti che
ballavano al suo ritmo. Le aree picnic si
trovavano all’ombra di grandi alberi e
c’erano monitor dappertutto. L’aria
sfrigolava
di
energia,
mentre
l’annunciatore parlava dei concorrenti
che si erano ritirati ed elencava i cavalli
in gara nominandone vantaggi e
svantaggi. Donne in abiti splendidi e
cappelli elaborati le passavano accanto
muovendosi con eleganza. Strano,
sembrava più una colazione all’aperto
che una pista per le corse.
«Com’è possibile che le scommesse
attirino così tante famiglie per bene?»
domandò trottandogli dietro. Comprò
due programmi, delle matite e un grosso
bicchiere di limonata. Poi si diresse a
una panchina.
«Perché l’ippica è uno sport
rispettato. L’ippodromo è aperto solo ad
agosto e molti sono in vacanza e si
fermano qui sulla strada per Lake
George. È uno dei pochi ippodromi
dove puoi vedere i fantini e i cavalli da
vicino e dove puoi stare accanto alle
gabbie a seguire la gara.»
Si sedette di fianco a lui e prese un
sorso di limonata. Aspra e dolce allo
stesso tempo. Si leccò le labbra con
piacere. Almeno qui avrebbe mangiato
bene. «Okay, quindi cosa facciamo?»
Lui studiò il programma per qualche
minuto picchiettando la matita sulle
pagine. Lei rimase in silenzio e aspettò
il piano. «Puntiamo. Hai preso i soldi?»
Gen batté le palpebre. «Sono
scappata in abito da sposa, ricordi?»
Lui fece una smorfia. «Ooops, scusa.
Te li anticipo io, allora.»
«Wow, che amico.»
«Questo però significa che mi prendo
il dieci per cento di tutti i soldi che
vinci.»
Si tolse la cannuccia dalla bocca e lo
fissò. «Non è giusto! È una rapina! Che
razza di uomo sei ad approfittare di una
donna debole e incompetente?»
Tenne lo sguardo fisso sul libretto,
mormorando sottovoce e scrivendo note
a margine con la matita. «Sei la donna
più forte e intelligente che conosco. Ora
della fine di questa giornata sarai tu ad
approfittarti di me.»
Inspirò altezzosa, anche se era un bel
complimento. «Non so niente di
scommesse sui cavalli, signor Wolfe.»
Lui alzò lo sguardo, infastidito, come
se lei gli avesse fatto perdere la
concentrazione. «Possiamo procedere in
due modi, facile e difficile.»
«Qual è quello difficile?»
«T’insegno a restringere il campo
finché trovi il cavallo su cui puntare.
Leggiamo i pronostici, studiamo le
statistiche, controlliamo gli allevamenti,
gli allenatori, i fantini e i piazzamenti
più recenti. Cerchiamo di dare una
valutazione
complessiva
delle
potenzialità del cavallo e delle
probabilità che ha di vincere oggi. Poi
facciamo le nostre scelte basandoci su
tutte queste informazioni.»
Rabbrividì. Sembrava più divertente
farsi devitalizzare un dente. «E quello
facile?»
«Leggi i nomi e i numeri e scommetti
su quello che t’ispira di più.»
«Andata. Scelgo quello facile. Dammi
il programma.» Lui sospirò. Era deluso
dalla sua scelta, ma a lei non poteva
importare di meno. E dal momento che
non doveva più preoccuparsi di stare a
dieta per non ingrassare, mentre lui
rimaneva lì a raccogliere tutte le sue
inutili informazioni, lei sarebbe andata a
prendersi qualcosa da mangiare.
Gen guardò la lista dei cavalli.
Sognatore deluso. Le suonò un
campanello e puntò il dito sul numero
quattro. «Questo.»
«Mmm, sì. Non è una grande scelta.
Ti mostro come leggere le statistiche. In
questa colonna ci sono le gare disputate,
e non ne vince una da aprile. Sembrava
un cavallo promettente ma deve essergli
successo qualcosa perché dall’ultima
vittoria continua a scendere di classe.
Nessun handicapper l’ha indicato come
probabile piazzato.»
«Non m’interessa. Che tipo di
scommessa devo fare?»
«Suggerisco vivamente pochi dollari
sul piazzato. Puoi scegliere tra vincente,
piazzato e accoppiata, che è una
combinazione dei primi due tipi di
puntata. Se scommetti vincente deve
arrivare primo, mentre piazzato può
arrivare anche secondo o terzo. Lo
danno 20 a 1 quindi è una scommessa
azzardata. Il favorito è a 3 a 1.»
Aprì la pagina e le mostrò i numeri.
«Vedi, il primo è il favorito perché ha
vinto le ultime tre corse. È lui il cavallo
da battere. Vuoi puntarci qualche dollaro
così provi l’ebrezza della vittoria?»
S’adombrò in volto. Per David,
vincere era sempre una questione di
capitale importanza. Essere i migliori,
mostrarsi gentili con gli sconfitti ma
assicurarsi sempre di superarli. Era così
stufa di provare a essere quella persona,
proprio come Sognatore deluso; anche
lui stava probabilmente cercando di
tenere il passo di quello stupido
favorito. Forse il suo allenatore non gli
lasciava disputare la sua corsa. Magari
non sarebbe sempre arrivato primo, ma
sarebbe andato a testa alta perché aveva
provato a fare del suo meglio. Be’, al
diavolo il numero uno e le vittorie.
Basta puntare sui favoriti.
Rispose praticamente sputando le
parole. «’Fanculo il numero uno. Voglio
il numero quattro. Dammi i soldi.»
Wolfe alzò la testa e la osservò. Poi
annuì, e con un sorriso prese il
portafoglio e le diede un pezzo da venti.
«Ecco qui.» Lei prese la banconota e
tenne su la mano, in attesa. «Che c’è?»
«Di più.»
«Di più? Piccola, venti dollari su un
brocco è fin troppo, puoi solo perderli.
Dopo te ne do ancora.» Prese la
limonata e ne bevve un sorso.
Lei scosse la testa. «Voglio
scommettere cento dollari vincente.»
Gli andò la limonata di traverso. «Sei
fuori di testa?»
«Non sei multimilionario?» Lui
rimase in silenzio. «È come pensavo. Ti
darò la tua quota da allibratore del dieci
per cento, ma adesso voglio cento
dollari. Oh, e altri venti per uno
spuntino.»
Lui estrasse le banconote dal
portafoglio e gliele porse. Caspita come
gli giravano le scatole quando non si
faceva come diceva lui. «Grazie. A
dopo.»
«Devo dirti come si fa a
scommettere!»
«C’è coda laggiù. Tu finisci di
studiare le tue statistiche, io mi arrangio.
Ci vediamo.»
Si allontanò con una strana
sensazione.
Aveva
come
il
presentimento che stesse per succedere
qualcosa di grosso. Aspettò il suo turno
allo sportello ascoltando le diverse
conversazioni delle persone in fila, tra
cui quella di tre ragazzi che discutevano
sulla gara.
«Vuoi scommettere sul quattro solo
perché sei stato mollato, amico. Così
oltre ad aver perso lei perdi pure i
soldi.»
«Appunto, guardati intorno, è pieno di
gnocca. Smettila di pensare a lei. Punta
sul favorito e vinci.»
Il tipo che era stato scaricato aveva
un’aria tristissima. Capelli biondi
spettinati, guance rubiconde, barba sfatta
e vestiti stropicciati, tutti segni della
fase di depressione in cui si cade
quando si rompe con una ragazza.
Poveraccio. I suoi amici gli stavano
accanto con la birra in mano facendo
quello che fanno gli uomini in questi
casi, vale a dire lo insultavano per farlo
contento. Proprio un mondo a parte, per
lei. Questi tre erano giovani,
probabilmente
universitari,
e
sembravano più interessati alle donne
che ai cavalli.
Il ragazzo piantato sospirò. «Chi se ne
frega di vincere quando in realtà ho
perso tutto?»
Gli amici reagirono con una smorfia
inorridita. «Oh merda, non vorrai
propinarci queste cazzate per tutto il
weekend. Siamo qui per divertirci,
amico, bere e fare un po’ di soldi.»
Gen non riuscì a trattenersi. Richiamò
l’attenzione di uno dei tre con un
colpetto sulla spalla. «Scusate, ma
secondo me vincerà il quattro.»
Gli amici del ragazzo piantato la
squadrarono dall’alto in basso e sembrò
superare la prova. Le fecero dei larghi
sorrisi di benvenuto. «Ehi, grande. Lui è
Ed, io sono Tom e questo è Steve.»
«Ciao, io sono Gen.» Guardò Ed. «Mi
dispiace per la tua ragazza.»
Gli altri due fecero una smorfia, ma
Ed annuì. «Grazie. È uno schifo.
Eravamo insieme da due anni e si è
innamorata di un attore del suo corso.
Ha dei denti orribili ma a lei non
interessa. Dice che è un artista, che è
eccitante.»
Schioccò la lingua, comprensiva. «Se
non ti apprezzava, meglio che sia
successo adesso. Anche se so che questo
non ti farà sentire meglio. Sei fortunato
ad avere degli amici che ti stanno
vicino.»
Tom e Steve si gonfiarono d’orgoglio.
«Perché non resti con noi a guardare la
corsa? Andiamo a bordo pista. Sei
venuta con delle amiche?» Si
guardarono intorno speranzosi.
«No, mi dispiace. Posso chiedervi
una mano? Cosa devo dire per
scommettere cento dollari sul quattro
vincente?»
«Wow, ti piace proprio il quattro,
eh?» commentò Tom.
«Sì. Sono stufa dei numeri uno che
vincono sempre. Secondo me ha una
possibilità.»
Ed fece un piccolo sorriso. «Anche
secondo me. Io punto su di lui.»
Steve scrollò le spalle. «Sono soldi
vostri. Io scommetto sul numero uno.
Gen, quando arriva il tuo turno devi dire
prima corsa, cento dollari sul quattro
vincente. Capito?»
«Grazie. Ho un presentimento. Sento
che vincerà.»
Prese il tagliando con la canzone dei
Black Eyed Peas che le risuonava in
mente. Wolfe non era al tavolo da
picnic, quindi decise di andare a bordo
pista coi ragazzi. Erano molto gentili
con lei, scherzavano e flirtavano in
modo innocente. Si era mai sentita così
giovane? Ultimamente si vedeva
invecchiata di cent’anni. Era bello
rilassarsi al sole fingendo di non avere
un pensiero al mondo se non indovinare
il vincitore della corsa.
Col tagliando stretto in mano, si alzò
in punta di piedi per vedere i cavalli,
maledicendo la propria altezza. Un
attimo dopo Steve la prese sulle spalle.
Le sfuggì un urletto. «Sono troppo
pesante!» Gli si aggrappò al collo per
non cadere mentre gli altri due
scoppiavano a ridere.
«Stai scherzando? Sei leggera come
una piuma. Così vedi i cavalli.»
Gen si rilassò. Aveva ragione. C’era
una bella visuale da qui, e poi non era
mai stata in spalla a qualcuno. Guardò
sfilare i cavalli. Avevano il corpo
lucido e scuotevano la testa. Furono
condotti ognuno nella sua gabbia, poi
d’un tratto ci fu uno squillo e
l’annunciatore urlò agli altoparlanti che
erano partiti.
Non credeva che una corsa potesse
essere così lunga. Non credeva
nemmeno che potesse essere così breve.
I cavalli sfrecciavano sulla pista,
sollevando la terra con gli zoccoli, i
fantini piegati in avanti a contendersi
brutalmente lo spazio.
Sognatore deluso era ultimo. Il
numero uno era in testa e si teneva
vicino allo steccato. La folla urlava
nomi diversi, con gli occhi fissi sulla
pista, e lentamente, molto lentamente, il
numero quattro cominciò ad avvicinarsi
al gruppo centrale.
La giubba da gara rossa del fantino
spiccava tra le altre. A testa bassa,
avvicinandosi alla linea del traguardo,
Sognatore deluso guadagnò rapidamente
terreno. Altri cavalli caddero uno dopo
l’altro, col favorito sempre in testa, ma
lui sfruttò bene la sua scia e si avvicinò
a una velocità tale che Gen stentava a
crederci.
Urlò così forte che le fece male la
gola, e poiché Steve saltava per
l’entusiasmo gli si aggrappò alla testa
per non cadere. E adesso il numero
quattro era testa a testa col numero uno,
e lottarono per due lunghi, lunghissimi
secondi.
Sognatore deluso tagliò il traguardo
con qualche centimetro di vantaggio.
Steve la fece scendere senza fatica
dalle spalle. Appena sentì i piedi a terra
Gen si mise a ballare come
un’indemoniata. Il cuore stava per
esploderle e aveva l’adrenalina a mille.
Il foto finish confermò l’ordine di
arrivo. Era ufficiale.
«Porca zoccola, hai vinto più di
duemila dollari!» disse Tom scuotendo
la testa. «Che corsa!»
«Abbiamo vinto, abbiamo vinto»,
gridò Gen abbracciando Ed. «Avevo un
presentimento, te l’avevo detto!»
All’improvviso una voce gelida
interruppe i festeggiamenti, facendola
restare di sasso.
«Che diavolo succede?»
Si girò di scatto verso due gelidi
occhi azzurri che la fissavano.
Oh oh. Aveva un altro presentimento
adesso.
Era nei guai.
Capitolo 8
Se aveva un motto che teneva sempre
presente, era: mantieni la calma.
Non erano molte le cose che lo
facevano innervosire. Dopo un passato
difficile e un percorso durissimo per
arrivare dov’era ora, Wolfe aveva
chiuso con gli alti e bassi generati dalle
emozioni. Ecco perché con le donne
preferiva relazioni brevi. Non era un
tipo geloso. E sul lavoro capitava che
gli girassero le scatole, ma non c’era
nulla che lo portasse a mostrare collera
vera e propria.
Fino ad oggi.
Stava per prendere a pugni la bella
faccina di quel tizio e non sapeva
perché.
La teneva sulle spalle. Con l’inguine
di lei sul collo. L’affiatato terzetto
sembrava incredulo per la vittoria del
numero quattro, anche se mai quanto lo
era lui. Ma fu l’espressione sul volto di
Gen a farlo andare fuori di testa.
Felice. Per la prima volta dopo tanto
tempo, Gen sembrava felice.
E non era merito suo.
Ma che gli prendeva adesso? Strinse
gli occhi. I ragazzi si guardarono
preoccupati e fecero un passo indietro.
Prima di David, Wolfe e Gen uscivano
spesso in coppia e si raccontavano le
loro relazioni. Non scendevano mai nei
dettagli, specie quelli sul sesso. Era più
che altro per riderci sopra. Dopo David,
Gen non gli aveva più raccontato niente
e nel giro di un anno l’aveva persa. Ci
aveva sofferto molto ma continuava a
ripetersi che era felice, e che era suo
dovere ingoiare il rospo. In genere lei
gli mancava. Ma non in modo
incontrollato.
Adesso? Be’, non era proprio così.
Non ebbe tempo di riflettere su cosa
gli fosse preso. Gen gli fece gli
occhiacci. «Wolfe, li stai spaventando.»
Poi si girò verso di loro. «Wolfe non è il
mio fidanzato, è solo un amico. Non
rischiate il pestaggio. Wolfe, loro sono
Ed, Tom e Steve.»
I ragazzi si rilassarono e cercarono di
mostrarsi amichevoli, ma lui rimase
freddo. Gen era vulnerabile e non aveva
intenzione di permettere a questi tizi di
prenderla in giro per andarci a letto.
Uno di loro alzò la mano. «Ehi. Piacere
di conoscerti.»
Gli occhi azzurri di Gen brillavano.
Accidenti se era bella. Aveva
dimenticato la vecchia Gen e la sua
personalità spumeggiante. Apprezzava
gli scherzi, le battute spinte, le piaceva
divertirsi. Sentì una fitta dolorosa. Solo
ora iniziava a rendersi conto che in
questi ultimi due anni in cui l’aveva
persa era stata solo un fantasma di
quella che era prima.
«Non ti ho più vista e mi sono
spaventato. Grazie per averla tenuta
d’occhio.» Fece un cenno ai ragazzi poi
si rivolse a Gen. «Andiamo a incassare
la vincita.»
Lei fece un saltino verso di lui, gli
prese la mano e si rivolse ai suoi
ammiratori. «Ha vinto anche Ed, quindi
dovremmo andare insieme. Ehi, perché
non venite con noi? Wolfe ha un tavolo
da picnic, e così mi date una mano con
la prossima corsa.»
Gli montò la rabbia ma la loro
reazione entusiasta lo costrinse a
ignorarla.
«Grazie, grande idea!» disse Ed.
Anche Steve e Tom accettarono di
cuore. «Magari ci trasmetti un po’ della
tua fortuna da principiante.»
Si recarono agli sportelli a ritirare la
vincita e Wolfe rimase in silenzio. A
quanto pare Ed e Gen avevano fatto
amicizia, visto che fecero una piccola
danza col denaro in mano. Che carini.
Gen si avvicinò e gli mise in mano
due banconote. «Ecco qui. Duecento
dollari, il dieci per cento del prestito.
Non credo mi serviranno altri soldi per
oggi, quindi grazie.»
Oh oh.
D’un tratto scese il gelo. Tre ragazzi
lo guardavano come fosse la feccia della
terra.
«Le fai pagare gli interessi?»
domandò Ed. «Pensavo foste amici.»
«Era uno scherzo.»
Gen rise. «Sì, proprio! Non scherzi
mai coi soldi, probabilmente mi avresti
anche aizzato contro uno strozzino.»
Merda. Tom strinse i pugni e Steve
mostrò un chiaro disprezzo nei suoi
confronti. «Che brutta cosa, amico»,
disse Tom. «Ed era a corto questa
settimana e gli ho prestato dei soldi, ma
senza interessi. Forse non tutti intendono
l’amicizia allo stesso modo.»
Gen minimizzò, del tutto ignara della
portata della discussione in corso. «Naa,
non fa niente. I milionari stanno sempre
molto attenti ai loro soldi.»
Steve deglutì a vuoto. «Sei
milionario?»
Due volte merda. Erano a un punto
morto. Gli diede l’occhiata intimidatoria
che riservava alle riunioni di lavoro.
«Lasciamo perdere, non ho voglia di
spiegare. Io e Gen siamo amici di
vecchia data.»
«Non ne dubito», rispose Ed
fulminandolo con lo sguardo, per nulla
intimidito. Poi prese Gen sottobraccio.
«Andiamo, ti offro un hot dog.»
«Ma ho vinto più soldi io.»
«Se vinci anche la prossima corsa
offri la birra.»
«D’accordo. Tu vieni, Wolfe?»
«Sì. Vengo.» S’accodò al gruppetto
che chiacchierava, chiedendosi cosa
sarebbe potuto succedere di peggio quel
giorno.
Tre ore dopo, Wolfe si rese conto che
non avrebbe dovuto farsi quella
domanda.
Era seduto solo col programma in
mano a guardare la folla sempre più
numerosa al tavolo da picnic. Quasi tutti
uomini. Tutti intorno a Gen. Non sapeva
bene come fosse accaduto.
Aveva vinto la seconda corsa con
un’altra scommessa azzardata su Equino
magico. Era andato a bordo pista con lei
e aveva guardato perdere il cavallo su
cui aveva puntato, ma almeno era
riuscito a non farla salire sulle spalle di
Ed. O di Tom. O chiunque altro.
Nell’eccitazione generale, al gruppo
s’erano aggiunte altre due persone, un
tizio con un taglio da marine e lo
sguardo da maniaco sessuale e il suo
compare pelle e ossa apparentemente
innocuo. Wolfe sapeva che era
impossibile vincere tre corse di fila per
pura fortuna, quindi aveva mantenuto le
sue posizioni. Dal momento che
correvano sull’erba aveva scommesso
su Aureola impetuosa, che aveva il
miglior allenatore su erba della storia.
Gen aveva vinto di nuovo con una
probabilità di 10 a 1.
Dopodiché il tempo era passato in
modo confuso. Molti pensavano che Gen
avesse un tocco magico e ogni volta che
si metteva in coda per fare una puntata
tornava al tavolo con nuove persone al
seguito. C’erano anche delle ragazze,
che più che alle vincite, però,
sembravano interessate alla sua capacità
di attirare tutti gli uomini single
dell’ippodromo.
Cercò di tenere a freno i nervi e di
apprezzare che avesse ripreso a
mangiare. Lei e Ed stavano facendo
amicizia gustando tacos di pesce, hot
dog, birre e salatini.
Non era abituato a dare confidenza
agli estranei e non faceva amicizia
facilmente. Resistette alla tentazione di
portarla via e di tornare a casa, dove
sarebbero stati solo loro due e
avrebbero potuto chiacchierare e
scherzare
tranquillamente
come
facevano sempre. Adesso era distratta,
ma una volta lasciato l’ippodromo si
sarebbe ricordata del pasticcio che si
era lasciata alle spalle. Non sopportava
l’idea di veder tornare la tristezza nei
suoi occhi o di veder sparire quel
sorriso che gli stringeva il cuore e lo
rendeva felice. No. Meglio restare lì,
tenerla d’occhio e cercare di essere
contento per lei.
Ed le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Lei buttò la testa indietro e rise. Poi le
mise il braccio intorno alla spalla e la
strinse brevemente a sé, un gesto più
intimo di un bacio in bocca. Che cazzo
stava succedendo?
Wolfe balzò in piedi. «Dobbiamo
andare!» disse ad alta voce.
Tutti gli sguardi convertirono su di
lui.
Gen batté le palpebre. «Siamo solo
alla quarta corsa. Che succede?»
Lo stavano guardando tutti. Erano anni
che non si sentiva così a disagio.
«Pensavo fossi stanca e che volessi
tornare a casa presto.»
Intervenne Ed. «Non può andarsene
mentre va a gonfie vele, porta male!»
«Non fa niente», disse Steve. «Se tu
vuoi andare, la accompagniamo a casa
noi.»
La sua voce si fece gelida. «Non
penso proprio. Gen non si allontana da
me. Chiaro?»
Gen sospirò. «Stai perdendo, vero? E
sei nervoso.»
Per tutti i diavoli, d’un tratto si
sentiva come un marmocchio. «No, non
sto perdendo. Senti, se vuoi restare va
bene. È solo che non volevo che
perdessi tutti i soldi.»
Gli rivolse un sorriso abbagliante.
Avrebbe potuto fare la pubblicità del
dentifricio con quei denti. «Non
succederà, sono ricca oggi!»
Le persone del suo seguito la
circondarono per conoscere la sua
puntata sulla quarta corsa, e lui tornò a
sedersi al tavolo. Da solo. Come
piaceva a lui. Senza interruzioni né
distrazioni.
Perfetto.
Perse le successive due corse. Gen le
vinse. E tutti gli altri pure, visto che
mezzo ippodromo aveva capito che era
la sua giornata fortunata. Andò a
prendersi una birra, e quando tornò Gen
aveva ufficialmente perso la sesta corsa
ed era circondata da facce tristi. Bene,
così adesso sarebbero venuti via. Era
ora. Non aveva mai sentito di nessuno
con una serie positiva così lunga.
«Mi dispiace, cara. Succede a tutti
prima o poi.»
Ed le diede una pacca sulla spalla.
«Vinceremo la prossima.»
Gen stava già leggendo i nomi dei
cavalli della corsa successiva. «Non ero
convinta di quest’ultimo. Non avrei
dovuto puntare. Ma adesso ho di nuovo
un buon presentimento, quindi possiamo
scommettere.»
Wolfe alzò una mano in segno di resa.
«Fate voi. Sono qui se hai delle
domande.»
Lei aveva già ripreso a ignorarlo,
rapita dai sei cavalli iscritti alla corsa,
oltre al favorito. Wolfe tornò al tavolo, a
metà tra l’irritato e il divertito per la
velocità con cui l’aveva rimpiazzato
anche stavolta. Sembrava la regola
ormai. Ora che finalmente era sfuggita
alle grinfie di David, ecco una massa di
nuovi amici a cui stava dedicando molta
più attenzione di quanta ne avesse
riservata a lui negli ultimi due anni.
Il pensiero gli peggiorò ulteriormente
l’umore.
La guardò perdere le tre corse
successive, mentre lui indovinò un paio
di vincenti. Meglio tardi che mai. Il suo
seguito, preso atto che la magia era
finita, cominciò a disperdersi, e Gen
rimase con i tre amici iniziali.
Il cellulare vibrava come se fosse
posseduto dal demonio. Wolfe lesse e
ascoltò i messaggi sempre più agitati e
capì di non poterla nascondere ancora
per molto. Kate avrebbe preso l’auto e
sarebbe venuta a cercarli. Alexa
avrebbe chiamato Sawyer, che l’avrebbe
detto a Julietta, e per lui sarebbero stati
guai. L’istinto gli diceva che a Gen
serviva ancora un giorno di pace prima
di tornare a casa, quindi fece in modo di
procurarglielo, avvisando via sms una
decina di persone che Gen stava bene e
che sarebbero tornati domani. Poi
spense il telefono.
’Fanculo.
Wolfe guardò gli iscritti alla nona
corsa. Che pasticcio. Una dozzina di
cavalli di cui la maggior parte non
aveva mai corso, con le quotazioni più
disparate. Non si sarebbe fidato
nemmeno di Lawton per questa gara,
quindi decise di non giocare. Buttò la
bottiglia vuota e andò da Gen.
«Fai l’ultima puntata o sei pronta? Sei
stata grande oggi.»
Gen alzò lo sguardo. Aveva una strana
luce negli occhi, una luce che lui
conosceva
bene.
Determinazione,
volontà ferrea, orgoglio e tenacia.
Un vero e proprio incubo.
D’un tratto il cuore prese a battergli
forte. «Gen, cos’hai in mente?»
Gli sorrise. Persino Steve e Tom
erano un po’ intimiditi da lei. «Ultima
gara, ultima possibilità. Numero sei.»
Lui guardò il monitor: 15 a 1. Non un
buon pronostico in questo guazzabuglio,
ma a questo punto non è che potesse
perdere molto. «Come si chiama?»
«Fenice rinascente.»
Inghiottì a vuoto. La cosa era
preoccupante.
Soprattutto
se
considerava quel nome una specie di
segno. Wolfe fece una risata forzata.
«Piccola, questi cavalli non hanno mai
gareggiato. Hai avuto la fortuna del
principiante, oggi, ma scommettere su
quel nome non è proprio il caso. Perché
non andiamo a incassare le tue vincite e
a mangiarci una bella bistecca?»
«Ho tre parole per te, Wolfe.»
Cercò di non allarmarsi, anche se
riconobbe
quell’espressione.
Gen
possedeva una vena di cocciutaggine che
non conosceva rivali. Se le dicevi di no,
la spingevi soltanto a dimostrarti che ti
sbagliavi.
Ricordò
di
quando
all’università la prendeva in giro
dicendo che non sarebbe mai riuscita a
prendere una A all’esame finale di
italiano. Aveva un’eccezionale mente
scientifica, ma era negata per le lingue, e
lui si divertiva un mondo a prenderla in
giro dicendo che rischiava di essere
bocciata nella seconda lingua della sua
famiglia. Lei allora cos’aveva fatto?
Si era immersa nell’italiano per una
settimana, rifiutando di parlare inglese
in casa. Poi all’esame aveva preso A.
Faceva paura.
«Sarebbero?»
Gen sorrise. «Felice e vincente.»
Ed sembrò preoccupato ma annuì
debolmente. «È l’unica cosa da fare.
L’unica mossa che ci resta. Se questo
cavallo vince, sarà un segno.»
Wolfe lo guardò. «Un segno di che?»
«Che la mia fidanzata non faceva per
me. La mia ex fidanzata. Se Fenice
rinascente arriva primo, io risorgerò
dalla ceneri e troverò un nuovo amore.»
Steve sospirò. «È la cosa più stupida
che abbia mai sentito. È un cavallo. Non
una fottuta metafora della tua vita
amorosa!»
Wolfe quasi vomitava, ma Gen annuì
dimostrando di trovarlo un ragionamento
perfettamente sensato. «Ed, sono
d’accordo con te. Ma dobbiamo dare un
segnale forte. Scommettiamo tutto.»
Ed le strinse la mano come se fossero
due sposini che avessero appena chiesto
un mutuo alla banca. «Sì. Facciamolo.»
«Siete fuori di testa?» urlò Tom.
«Queste minchiate succedono solo nei
film. I soldi ci servono per la benzina e
per mangiare!»
Ed scosse la testa. «Questa è una cosa
più grossa, amico. Dovrete appoggiarmi,
stavolta.»
Wolfe uscì dallo stato di trance e
scosse la testa. «State dando i numeri
tutti e due. I nomi dei cavalli non
significano
niente.
Ci
resterete
malissimo e sarete ancora più depressi.
Chiudiamo in bellezza. Dico sul serio,
andiamocene.»
Lei schioccò la lingua. «Mi dispiace
che tu non capisca, ma devo farlo. Se mi
assumo questo rischio, se ci credo,
succederà qualcosa di meraviglioso. È
ora di vedere l’araba fenice risorgere
dalle ceneri. Andiamo, Ed.»
Wolfe la guardò allontanarsi, a bocca
aperta. Cos’era successo? Come aveva
fatto a sfuggirgli tutto di mano, lei e
questa assurda giornata?
Steve
si
schiarì
la
gola.
«Maledizione. Dovremo pagargli tutto
noi questo weekend.»
«Che diavolo c’entra l’araba fenice
coi cavalli?» domandò Tom.
«È un simbolo di rinascita», rispose
Wolfe. «La fenice è un uccello
mitologico che dopo la morte risorge
dalle proprie ceneri.»
«Anche Gen ha rotto con qualcuno?»
Wolfe non rispose. Ah, merda, non era
il fatto di smenarci i soldi. Aveva paura
che se il cavallo avesse perso la corsa
lei sarebbe ricaduta nella spirale della
depressione. Puntando su quel cavallo
stava cercando il perdono. La speranza.
«Siete credenti, voi due?» domandò
Wolfe.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata.
«Mah, da piccoli andavamo a messa.
Crediamo in Dio.»
«Bene. Allora pregate che vincano.
Perché in caso contrario sarà un bel
casino.»
Col tagliando stretto in mano, Gen
focalizzò lo sguardo sui dodici cavalli
in gara. Il numero sei era marrone scuro,
con una magnifica criniera setosa e
quattro balzane bianche calzate. Il
fantino portava una giubba blu. Quando
le sfilò davanti diretto alle gabbie notò
che aveva un passo scattante e pensò
fosse un buon segno.
Fino a quando non batté la testa
contro la gabbia rifiutandosi di entrare.
Guardò Wolfe e la sua espressione le
fece sudare i palmi. Era alquanto...
preoccupato. Non l’aveva mai visto
così. Aveva sempre ogni situazione sotto
controllo e vederlo nervoso all’idea che
lei perdesse una stupida corsa la
costrinse a chiedersi perché le stesse
dando tanta importanza.
Perché sì.
David non credeva nel caso, nella
fortuna o in Dio. Lei una volta ci
credeva, invece. Ma dopo due anni con
lui non era più sicura di niente. Le
dimostrava sistematicamente che la
scienza era uno strumento, che esisteva
un calcolo delle probabilità e che le
coincidenze erano soltanto un’anomalia
che non significava nulla.
Pian piano aveva perso il suo senso
della magia. Razionalmente, si rendeva
conto che il cavallo numero sei era solo
un bersaglio della sua angoscia, un
tentativo di dare un senso a ciò che
sembrava non averne e di ritrovare la
parte di sé che credeva nell’irrazionale
e che pensava di aver perduto.
Ma, per dirla senza tanti giri di
parole, non gliene importava niente.
Fenice rinascente doveva vincere e
basta.
Alla fine riuscirono a farlo entrare
nella gabbia. Passarono alcuni preziosi
secondi. Poi le porte si spalancarono: la
corsa era cominciata.
I cavalli in gara erano una massa
indistinguibile di zampe assembrate in
un unico branco. Fenice era in mezzo,
andava bene, ma non benissimo. Si
morse il labbro mentre i ragazzi
urlavano frasi d’incoraggiamento, e il
branco fece la prima curva sollevando
la polvere.
Il cavallo numero otto in fondo al
gruppo
guadagnò
terreno
nella
confusione
e
passò
in
testa.
Maledizione. Era grigio. Aveva sentito
che i cavalli grigi erano fortunati.
Fenice non perse terreno e quando
arrivarono alla seconda curva accorciò
le distanze. Venti centimetri. Dieci.
Cinque.
Ed urlò. «Forza, figlio di puttana!
Vai!»
I cavalli si avvicinarono al traguardo
uno di fianco all’altro, coi fantini che li
incitavano furiosamente, gli zoccoli che
affondavano
nel
terreno,
tambureggiando.
Volarono oltre la linea del traguardo.
«Ha vinto?» gridò Steve. «Ha vinto?»
«Non lo so, cazzo! Non lo so!»
gemette Tom camminando avanti e
indietro. La folla mormorava eccitata,
con gli sguardi puntati sul tabellone in
attesa dei risultati. Ed non disse una
parola.
Col cuore che batteva all’impazzata,
Gen faticava a respirare. Poi una mano
calda e forte strinse la sua. Abbassò lo
sguardo sulle dita di lui intrecciate alle
sue, come se quello fosse il loro posto.
Wolfe sorrise. «Ha vinto.»
«Come fai a saperlo?»
Un lampo attraversò i suoi magnifici
occhi azzurri. «Lo so e basta.»
La scritta ‘Foto’ sparì dal tabellone.
Nel primo slot apparve numero 6.
Numero 8 fu messo nel secondo.
«Abbiamo vinto.» Ed si girò verso di
lei con la gioia pura dipinta sul volto.
«Abbiamo vinto, Gen!»
L’afferrò e la fece girare in tondo,
staccandola dalla presa di Wolfe. I
ragazzi urlavano versando birra e dando
pacche sulle spalle a destra e a manca.
Quando andarono a incassare le vincite,
lei tornò con trentamila dollari e un
modulo dell’ufficio imposte. Ed con
duemila dollari.
Era frastornata. Mentre i ragazzi
festeggiavano parlando di cene e
champagne e giri dei bar, Wolfe le si
avvicinò: si fermarono all’ingresso.
«Vieni con noi, vero?» le domandò Ed.
«Sei il mio portafortuna. Andiamo a
cena e rilassiamoci. Facciamo due
chiacchiere per conoscerci meglio.»
Steve e Tom restarono indietro. Anche
Wolfe arretrò di un passo senza dire
nulla.
Oh oh. Si accorse che Ed era
interessato a lei e che correva il rischio
di far soffrire un altro uomo. Però era
stata una giornata incredibile e non
l’avrebbe mai dimenticato.
Gen si alzò in punta di piedi e gli
diede un bacio sulla guancia. «Ho
appena rotto un fidanzamento, Ed», gli
disse. «Ho i nervi a pezzi. Però oggi per
qualche ora me ne sono dimenticata. Mi
sono divertita un mondo e non ti
dimenticherò mai, ma adesso devo
tornare a casa.»
S’aspettava occhi da cucciolo ferito
ed espressione mortificata. Invece lui
annuì, le prese la mano e le baciò il
palmo. «Sei una persona straordinaria.
Grazie per oggi. È stato un segno anche
per me. Tracey non era la donna della
mia vita.»
«E tu sei un ragazzo straordinario.
Meriti di meglio.» Gen sorrise, salutò
gli altri due ragazzi e si avviò verso
l’auto. Si sentiva stranamente leggera,
come se qualcosa le dicesse che le cose
si sarebbero sistemate. Magari non
subito, o la prossima settimana. Ma
Fenice rinascente aveva vinto contro
ogni pronostico, quindi nel mondo
esisteva la magia, dopo tutto.
«Tutto bene?»
Lo guardò: era appoggiato al sedile
dell’auto con le mani sul volante. Pronto
a portarla via dai demoni che la
inseguivano. Come avrebbe fatto senza
di lui?
«Sì. Ho vinto più di te oggi.»
«Appunto.» Accese il motore e si
avviò.
«Dove andiamo adesso?»
«Costata di manzo, cara. Offri tu. Va
bene?»
Si rilassò sul sedile e sorrise.
«Benissimo.»
Capitolo 9
Wolfe colse il momento preciso in cui il
senso di colpa fece la sua comparsa.
Avevano appena ordinato la cena al
Mouzon House. Con cibo fresco a
chilometri zero in un ambiente intimo,
era il posto ideale per una chiacchierata
in tutta calma. L’abitudine a mangiare
cucina italiana gli aveva insegnato una
cosa: semplice non significa mediocre.
Può essere un piatto a cinque stelle
quello che si basa su ingredienti di
qualità usati per esaltare i sapori senza
troppi fronzoli. Peccato che ancora non
sapeva cucinare.
Durante il viaggio in auto Gen era
stata allegra e loquace, ma adesso le era
calata un’ombra sul volto. Guardava il
piatto a capo chino, persa in un altro
mondo. Un posto non molto sicuro.
«Non hai mangiato il pane.» Avvicinò
il cestino al naso e annusò il profumo
caldo di lievito e rosmarino. «Prendilo,
ne faccio portare ancora.»
Gen scosse la testa. «No, grazie. I
carboidrati fanno ingrassare. Non avrei
dovuto mangiare neppure la pizza ieri
sera.»
Alzò un sopracciglio. «Ma se ti facevi
sempre fuori tutto il cestino e mi
lasciavi solo le briciole, e non sei mai
stata sovrappeso. Da dove escono certe
fesserie?»
«David.»
Il nome fu come un proiettile. Wolfe
cercò di reprimere la rabbia violenta al
pensiero che quel coglione fosse riuscito
a crearle insicurezze su tutto, dalla
carriera alla vita sessuale.
Inasprì il tono di voce. «Ti alleni
regolarmente. Scommetto che sei anche
sottopeso adesso e il pane non può che
farti bene. Provane un po’.»
L’ombra di un sorriso le piegò le
labbra. «Sei prepotente.»
«Non lo sapevi?»
Prese un pezzo di pane e lo assaggiò.
Poi chiuse gli occhi per il piacere.
«Mmm, che buono. C’è anche l’aglio.
Meglio non alitarti addosso dopo.»
Ne prese un pezzo anche lui e lo
masticò. «Ora puzziamo tutti e due. Ti
faceva dubitare di te stessa?»
Lei ebbe uno scatto. Wolfe sapeva che
il miglior modo di rubare un segreto era
l’attacco a sorpresa. L’aveva imparato
da Sawyer quando cercava di spillargli
informazioni che lui voleva tenersi
dentro. «No», rispose a bassa voce.
Bugia.
Non insistette. Si limitò ad annuire.
«Bene. Perché se l’avesse fatto sarebbe
stata un’ottima ragione per non sposarlo.
Non che sia un esperto, ma mi pare che
si debba infondere sicurezza nel partner.
Giusto?»
«Giusto.»
Il cameriere li interruppe con gli
antipasti.
«È un perfezionista. Fa parte del suo
talento, suppongo. È uno dei chirurghi
più apprezzati di New York. Non si può
biasimarlo per il suo costante desiderio
di migliorarsi e perché spinge gli altri a
fare lo stesso. Guarda te con il Purity.
Ce l’hai messa tutta per far funzionare
l’hotel di Manhattan. Hai persino
imparato a giocare a golf.»
«Grazie a Nate.» Aveva conosciuto
Nate Dunkle in campo quando cercava
disperatamente d’imparare a giocare per
accaparrarsi un cliente importante. Pur
non conoscendolo, Nate gli aveva dato
lezioni private e in tempo record gli
aveva insegnato quanto bastava per
concludere l’affare. Ora stava insieme
all’amica di Gen, Kennedy. «Chi
avrebbe mai detto che mi sarei divertito
a colpire una palla sull’erba per farla
entrare in un buco? Ho sempre preso in
giro i golfisti e adesso sono uno di loro.
E hai ragione, anch’io sono un
perfezionista, voglio riuscire in quello
che faccio e non accetto il fallimento.
Non c’è niente di male in questo, purché
non s’infranga la regola fondamentale.»
«Quale regola?»
Tenne lo sguardo sul piatto per non
metterla a disagio. «Non ferire gli altri.»
«Non credo fosse sua intenzione.»
«Le intenzioni sono nobili, ma se fai
del male a qualcuno non basta dire che
non era tua intenzione per renderlo
accettabile.»
Il cameriere venne a ritirare i piatti,
riempì i bicchieri d’acqua e se ne andò.
La tensione tra loro aumentò. Se
accusava David, lei lo difendeva,
perché il senso di colpa la stava
divorando. Quindi sarebbe stato al
gioco, sperando che arrivasse alla verità
da sola.
«Sono una stronza egoista, Wolfe.»
«Perché? Perché hai seguito l’istinto
evitando di commettere l’errore più
grosso della tua vita?»
«No. Perché oggi mi sono divertita.»
La guardò negli occhi. Erano pieni di
emozioni diverse, rabbia, tristezza,
vergogna, frustrazione. Stava seduta
rigida, come per paura che se si fosse
lasciata andare non sarebbe più riuscita
a tornare indietro.
Aveva ragione a sentirsi così. Lui
sapeva fin troppo bene che indietro non
si tornava.
«Quando è stata l’ultima volta che ti
sei veramente divertita?»
La desolazione sul suo viso gli spezzò
il cuore. «Non me lo ricordo. Ma non è
un buon motivo per mollare il fidanzato
all’altare.»
«Forse no. Il che significa che c’è un
motivo più importante che non hai
ancora individuato.»
Il cameriere portò gli altri piatti.
L’impressionante pezzo di Angus era al
sangue, bagnato con il brandy e steso
sopra un letto di ostriche fritte con una
spruzzata di pepe nero. Per un attimo
dimenticarono i discorsi seri.
«È un’esagerazione», commentò lei,
deliziata.
«Concordo. Ti avviso che dovrai
portarmi fuori tu da qui.»
«Nessun problema.»
«Bene.»
Consumarono la carne in silenzio.
Gen era l’unica donna, a parte i
familiari, con cui si sentiva a suo agio
quando mangiava. Ancora non sapeva
perché. Quando portava a cena le sue
conquiste non era mai abbastanza sciolto
per darci dentro, come se dovesse
recitare un ruolo e, rivelando troppo di
sé, rischiasse di essere scoperto. Forse
la cosa risaliva agli anni trascorsi in
Italia con la madre di Julietta, mamma
Conte. Diceva sempre che il cibo è
come i sentimenti. Ci nutrono entrambi,
se offerti col dovuto rispetto. Provò una
fitta dolorosa. Erano mesi che non
andava a trovare la sua famiglia e ne
sentiva la mancanza. Ma Gen era in
grado
di
gestire
conversazioni
impegnative alternate a lunghi silenzi
come nessun altro. Anche questo
avevano in comune.
«Ho riso.»
Il disprezzo con cui lo disse gli fece
venire voglia di consolarla, ma aveva
più bisogno di risposte adesso. «Ridere
è un ottimo modo per affrontare i
problemi.»
«Non stavo affrontando nessun
problema. O non capisci o fai il finto
tonto, il che mi fa solo andare in bestia.
Mi sono dimenticata di David. Ho
dimenticato di avergli distrutto la vita,
di averlo abbandonato all’altare e di
essere scappata dalla mia famiglia. Mi
sono divertita. Che razza di persona
sono?»
Lui strinse la forchetta e tenne lo
sguardo fermo. «Una persona normale.
Hai fatto quello che ti sentivi di fare in
quel momento. Non ti viene il dubbio
che ci fosse qualcosa che non andava?
Non hai pensato che eri così triste con
lui che solo allontanarti un attimo ti ha
resa felice? Come ha fatto a rovinarti in
questo modo?»
«Forse sono io che ho qualcosa che
non va.»
«Naa, io sono incasinato, non tu. Tra
noi due sei sempre stata tu quella
equilibrata, e quanto a David, credo gli
piacesse l’idea di chi poteva farti
diventare. Non chi sei. Non la donna
seduta di fronte a me.»
Spalancò gli occhi. «Migliorare è una
buona cosa. Voleva rendermi una
persona migliore.»
«Secondo quali standard? I suoi?» Si
chinò in avanti con la forchetta puntata
verso l’alto. «Non c’è meglio e peggio
quando decidi di sposare qualcuno. Ci
sei solo tu con i tuoi problemi, la tua
storia e i tuoi difetti. Se voleva una
principessa
doveva
andare
a
Disneyworld. Finisci la bistecca.»
Lo guardò per un po’. Wolfe aspettò
uno dei suoi scatti di rabbia, delle sue
frecciate, o anche un fiume di lacrime.
Invece Gen afferrò la forchetta e
riprese a mangiare.
Ripulì il piatto, cercando di trattenersi
dal leccarlo e chiedendosi come avesse
fatto Wolfe a centrare il vero problema a
tempo di record.
La pratica, forse. La mancanza di
filtri. Il nome gli calzava a pennello. Pur
essendo educato e un perfetto uomo
d’affari, c’era un che di selvaggio
nascosto sotto i suoi abiti eleganti.
Come se a porte chiuse le regole non
valessero.
Sentì un brivido lungo la schiena.
Per questo non aveva trovato
qualcuno con cui sistemarsi? Perché
nessuno avrebbe accettato il suo
cosiddetto bagaglio? Anche se si
vantava di essere un dongiovanni, dal
modo in cui parlava della sua famiglia
era evidente che una relazione stabile gli
avrebbe fatto bene. Kate lo pregava da
tempo di iscriversi a Kinnections ma lui
la trovava una cosa ridicola. Forse Gen
doveva insistere. Meritava di essere
felice.
Il pensiero che non sarebbe più stato
suo le tolse il fiato, ma la ritenne una
reazione più che legittima. Sicuramente
a nessuna avrebbe fatto piacere che lui
uscisse con la sua migliore amica. Alle
donne non piacevano queste cose. Era
normale provare un po’ di gelosia
all’idea di essere rimpiazzata.
Per Wolfe era stato lo stesso con
David?
Il pensiero la fece trasalire. Passando
al vaglio l’ultimo anno, si accorse di
come pian piano aveva iniziato ad
allontanarsi dalle persone più importanti
della sua vita. Quando voleva andare a
trovare le sue sorelle, David le
suggeriva di fare qualcosa loro due, per
stare un po’ in pace, da soli. Ogni volta
che pensava di passare da Mugs dopo il
lavoro, lui la chiamava chiedendole di
coprire un altro turno, o le faceva notare
con gentilezza che era stata un po’ lenta
nel giro di visite e forse aveva bisogno
di dormire un po’ di più. Negli ultimi
tempi usciva solo con lui o con gente
dell’ospedale, e tra lei e le persone che
amava si era cominciata a creare una
leggera distanza.
Non rispondeva quasi più neppure ai
messaggi di Wolfe. David le controllava
sempre il telefono per assicurarsi che
nessuno la chiamasse dall’ospedale
disturbandola.
Aveva
provato
a
spiegargli che il cellulare era un bene
personale ma lui se l’era presa così
tanto, avanzando il dubbio che lei
nascondesse qualcosa, che aveva
lasciato perdere. I messaggi che Wolfe
le scriveva con regolarità lo facevano
persino dubitare della loro relazione.
Del resto, se il suo migliore amico era
un altro e non il suo futuro marito, che
probabilità avevano di far funzionare un
matrimonio?
In quel momento le era sembrato un
ragionamento
sensato.
Giusto?
Ciononostante, a Wolfe non aveva detto
nulla. Aveva semplicemente smesso di
rispondere finché le loro comunicazioni
si erano ridotte al lumicino.
Si sentì confusa. Non sapeva più
cos’era giusto e cosa no. Oggi era stato
fantastico. Non ricordava più quanto
fosse divertente prendere una giornata
come veniva. Conoscere gente nuova
senza
preoccuparsi
di
dare
l’impressione di flirtare o di mandare
messaggi sbagliati. Fare cose stupide
senza essere educatamente ripresa. Era
quasi come essere fuggita dalla prigione.
Era questo David per lei? Una
prigione? Non aveva mai fatto niente per
ferirla. Non l’aveva mai picchiata. Mai.
Era sempre paziente, le ripeteva ogni
giorno che la amava, che viveva per lei,
e faceva di tutto per assicurarsi che la
loro fosse una relazione perfetta.
«Gen?»
Rabbrividì di nuovo. Strano, negli
anni Wolfe aveva detto il suo nome
milioni di volte, ma ultimamente
suonava più intimo. Una specie di
mugugno sexy. Faceva così con le donne
che si portava a letto? Gli piaceva
dominare, questo lo sapeva. Stringeva
loro i polsi e sussurrava loro
nell’orecchio mentre le sbatteva,
portandole a un punto in cui nient’altro
importava tranne l’orgasmo?
«Sei diventata rossa.»
Prese il bicchiere d’acqua e bevve.
Stava ufficialmente uscendo di senno.
Non aveva mai fantasticato su Wolfe a
letto. Non... in quel modo. D’altra parte
era così confusa che non c’era da
stupirsi di niente. Si ricompose e si
sforzò di guardarlo negli occhi.
«Ho caldo. Wolfe?»
«Sì?»
«Scusa.»
Sollevò un sopracciglio. «Per cosa?»
«Per averti abbandonato.» Trasalì nel
vedere il suo sguardo sorpreso. Una
voglia improvvisa le fece stringere le
cosce. «Io non... non mi sono resa conto
di quello che stavo facendo. David non
approvava la nostra amicizia e così ho
smesso di scriverti e di rispondere ai
tuoi messaggi. Mi sembrava la soluzione
più semplice. Mi sono allontanata anche
dalle ragazze, ma lui era fissato con te e
continuava a chiedermi se... se stavamo
facendo i furbi. Ogni volta che chiamavi
s’arrabbiava. È per questo che ho
cominciato a ignorarti.»
La guardava dritto negli occhi,
ascoltandola con attenzione. Come
avrebbe reagito lei se Wolfe non
l’avesse più chiamata perché la nuova
fidanzata era gelosa? Ci sarebbe rimasta
malissimo. Si sarebbe arrabbiata,
offesa. Lui non se l’era mai presa e non
aveva mai fatto un commento negativo su
David. Tutti quegli appuntamenti
mancati da Mugs e quelle telefonate mai
restituite.
Aveva perso un amico.
«Lo capisco, cara. Davvero. Ci stavo
male, devo essere onesto. Ti stavo
perdendo ed era l’ultima cosa che
volevo. Ma che ne sapevo, io? Non ho
mai avuto un rapporto serio con
qualcuno.»
Gen vinse la vergogna. «Mi
perdoni?»
«Se mi prometti di non abbandonarmi
di nuovo appena trovi un’alternativa
migliore. Specialmente Ed.»
Le sorrise, e lei sentì il cuore
esplodere. Amava quel sorriso che gli
addolciva il volto. «Mai», sussurrò.
«Affare fatto.»
Finirono la bistecca, poi lei spinse il
piatto da parte. Era ora di introdurre
l’unico argomento che non avevano
ancora affrontato. «Quant’è grave la
situazione?»
Wolfe non finse di non capire. «Le
chiamate? Stamattina ho detto a Kate e
ad Alexa che ci serve altro tempo. Poi
ho spento il telefono.»
Fece una smorfia. «Ho lasciato tutti
nei pasticci. Sono una vigliacca.»
«Se tu fossi vigliacca saresti rimasta
in quella chiesa e l’avresti sposato.
Ripeti un’altra volta quello che hai detto
e dovrò darti una lezione.»
Trattenne una risata. «Brrr, che paura
che mi fai.»
«Posso fartela.» Si guardarono e lei
inghiottì a vuoto. Intravide un lato del
suo amico che non aveva mai visto.
Qualcosa che la faceva sentire a disagio.
E la eccitava.
«Devo tornare.»
«Certo che torni. Ma ti serviva tempo
per capire perché sei scappata. Una cosa
è certa: al rientro troverai un casino.
Domande, accuse, confusione, David
che cercherà di manipolarti. Se non
avrai le idee chiare, rischierai di fare
qualcosa di cui ti potresti pentire.
Meglio tornare quando sarai pronta.»
«Lo so. Non ho mai fatto niente di
simile. Sono sempre stata quella che fa
la cosa giusta. Mai uscita dal seminato.»
«La vita è un casino. Fattene una
ragione.»
Lo guardò a bocca aperta e rise. «Ti
manca proprio la sensibilità femminile.
Ho bisogno di Kate.»
«Hai bisogno di sapere la verità.
Scava più a fondo, Gen. Ti starò vicino
quando torniamo, ma se ti serve altro
tempo, prenditelo. Diavolo, potremmo
montare in macchina e andare a Lake
George. Lasciarci tutto alle spalle.»
Era un pensiero così deliziosamente
allettante. Un’avventura alla Thelma e
Louise. Più o meno. Loro non sfuggivano
alla legge ma erano comunque due amici
in viaggio senza meta. «Se lo facessi,
probabilmente andrei all’inferno. Mi
odierebbero tutti.»
«Non le persone che contano.»
Ci pensò. Quasi quasi... fuori dal
mondo per qualche giorno, infilando
un’autostrada vuota dopo l’altra, senza
meta. Il suo cuore fece un salto di gioia.
Okay, sarebbe andata all’inferno. Era la
persona più orribile del pianeta,
d’accordo. Ma si poteva fare.
Guadagnare tempo, schiarirsi le idee
prima di tornare nel caos. Poteva
chiamare Kate e Alexa quella sera
stessa e spiegare loro la situazione.
Vivere qualche giorno senza doversi
preoccupare di essere bella, affascinante
e intelligente. Vivere e basta.
Dentro di lei esplose la speranza.
«Hai ragione», disse tremando per
l’eccitazione. «Facciamolo. Giusto
qualche giorno.»
Lui sorrise. «Brava.»
«Quando torniamo allo chalet chiamo
a casa così nessuno si preoccupa.»
Il cameriere portò il conto, si chinò a
prendere i piatti e si bloccò. La osservò
in volto con attenzione, come per capire
dove l’avesse già vista. «Ha un viso
familiare. Ci conosciamo?»
Lei lo guardò accigliata. Capelli
biondi, occhi scuri, una bella pelle
olivastra. Un po’ più giovane di lei, ma
non le sembrava di conoscerlo. «No, mi
spiace, non mi pare.»
Wolfe gli porse la carta di credito e
lui la mise velocemente nella cartellina.
«Scusi, è strano, ho questa impressione
di averla vista da qualche parte. Perdoni
l’intrusione.»
«Nessun problema.» Gli sorrise e lo
guardò allontanarsi. Wolfe sembrava
divertito. «Che c’è?»
«Un altro ammiratore?»
Alzò gli occhi al cielo. «Falla finita.
Ed era carinissimo.»
«E ti faceva un filo spietato. Sai cosa
continuavano a dirgli i suoi amici?»
«Cosa?»
«Il modo migliore per dimenticare
una donna è con un’altra.»
Rise. «Mi sembra di sentire
Kennedy.»
Il cameriere tornò, posò la ricevuta
per la firma sul tavolo e s’illuminò. «Ci
sono! L’ho vista sul giornale!»
Le si gelò il sangue e le si seccò la
bocca. «Che giornale?»
«Il Saratoga Herald. Lei è la sposa
fuggitiva!»
Wolfe balzò in piedi, firmò
velocemente la ricevuta e la prese per
mano. «Tieni la bocca chiusa, amico, o
farò altro oltre a non darti la mancia.
Intesi?»
Il cameriere trattenne il fiato,
accorgendosi dello sbaglio, e annuì.
«Scusi, signore. Scusi tanto.»
Wolfe non rispose. Lei si sentiva
pesante come un carro armato, così
pesante da non riuscire a muoversi. Non
che dovesse. Lui le afferrò il gomito e la
trascinò fuori, furente, finché l’aria
calda la investì e d’un tratto le mancò
l’ossigeno.
«Piegati in avanti. Mani sulle
ginocchia.»
Si piegò cercando di respirare, di
calmare il cuore impazzito mentre
ripensava alle parole del cameriere.
Sposa fuggitiva. Sul giornale.
Oh mio Dio.
Provò a parlare, non ci riuscì, ci
riprovò. «Devo vederlo.»
«Gen...»
«Devo vederlo. Subito.»
«Aspetta qui.»
Lo attese sul marciapiede buio. Una
coppia le passò davanti ed entrò nel
ristorante. Gen si strinse nelle braccia
finché lui tornò col giornale. Non le
disse niente, ma capì dallo sguardo
preoccupato che la situazione era seria.
Aprì il giornale e lesse il titolo.
Chirurgo abbandonato all’altare.
C’era una foto del loro fidanzamento.
Lei era radiosa nel suo abito di lino
bianco, riccioli raccolti in una crocchia
elaborata, la mano in quella di David
che la guardava adorante.
La foto accanto raffigurava la chiesa
gremita, rose che riempivano ogni
spazio, candelabri luccicanti e suo padre
con una mano sulla spalla di David, che
sorrideva emozionato.
L’ultima foto firmava la sua condanna.
Il volto distrutto di David che usciva
dalla chiesa assalito dai flash dei
fotografi e dai microfoni dei giornalisti.
Aveva lo sguardo vacuo, come se gli
avesse strappato il cuore e gliel’avesse
calpestato.
Il mondo prese a girare. Gen si
costrinse a saltare l’articolo, ma qualche
frase le balzò beffarda all’occhio.
‘Rinomato chirurgo abbandonato
all’altare da un suo medico interno.’
‘La famiglia addolorata rifiuta di
parlare coi giornalisti.’
‘Sposa scappa dalla finestra con
l’aiuto di un presunto amico. Un
amante?’
Si sentì sprofondare. Le speranze per
il futuro si ridussero in cenere,
lasciando macchie scure e un gusto
amaro che le ostruì la gola. Aveva fatto
l’inimmaginabile, ed era venuto il
momento di pagare.
Gen alzò lo sguardo. La voce suonò
gelida alle sue stesse orecchie. «Portami
a casa.»
Lui serrò la mascella. «Sei sicura?
Possiamo ancora seguire il nostro piano.
Saliamo in macchina e andiamo.»
«Non più. È finita, Wolfe. Portami a
casa.»
Wolfe imprecò sottovoce. Poi annuì.
Lei salì in auto col giornale ancora
stretto in mano e si allontanarono veloci
nella notte.
L’aveva persa.
Wolfe si girò verso di lei. Guardava
fuori dal finestrino, inespressiva,
completamente assente.
Non rimpiangeva soltanto la sua
presenza. In appena tre giorni aveva
ritrovato la gioia di stare con lei,
l’amicizia e le risate. Con Genevieve
MacKenzie, lui era un uomo diverso.
Rimpiangeva anche questo.
Non cercò di riportarla al presente.
C’era tempo. Lasciò la musica ad alto
volume e guidò verso casa.
Aveva fatto le dovute telefonate,
mettendosi d’accordo coi genitori per
vedersi a casa loro al mattino presto.
Fosse successo prima l’avrebbero
aspettata in piedi, quindi era contento di
avere ancora qualche ora solo con lei.
David grazie a Dio non aveva risposto e
lei gli aveva lasciato un messaggio
vocale impacciato. L’istinto gli diceva
che quell’uomo aveva qualcosa in
mente, oltre a recitare la parte del
fidanzato affranto. L’unica cosa che
poteva fare era tenere d’occhio Gen e
sostenerla. Passò l’insegna di benvenuto
a Verily e percorse Main Street fino alla
casetta a un solo piano. Kennedy e Nate
l’avevano presa in affitto per un po’ ma
di recente avevano deciso di trasferirsi
in una casa più grande, quindi per
fortuna era vuota. Anche se Wolfe non si
sarebbe sorpreso di trovare Kate ad
aspettarli sulla porta. Era una iena
quando si trattava di proteggere la sua
migliore amica.
Si fermò davanti alla sua allegra
casetta gialla, sotto la luce tremolante
del lampione.
«Sei pronta, cara?»
Lei annuì e scese dall’auto. Lui prese
le borse nel bagagliaio e la seguì fino
all’ingresso.
Si era fermata sulla porta aperta. Lui
sbirciò oltre la sua spalla.
La casa era vuota. Era ancora
arredata, certo, coi divani azzurri e i
cuscini colorati, i vivaci acquarelli alle
pareti e il tavolo di pino massiccio che
gli ricordava la cucina di mamma Conte.
La scala a chiocciola in metallo che
portava
alla
piccola
mansarda
aggiungeva
un
tocco
pittoresco
all’interno. Ma il silenzio e il sottile
strato di polvere che copriva ogni
superficie mettevano malinconia. Era
vuota da pochi mesi, eppure era triste,
come se avesse bisogno di qualcuno che
vi abitasse per essere allegra.
«Non avrei mai pensato di tornare
qui», disse debolmente. «Non ho niente,
né i vestiti né il laptop. Neanche lo
spazzolino.»
La spinse con dolcezza oltre
l’ingresso e chiuse la porta. «Possiamo
rimediare domattina. Anch’io non
profumo proprio di menta. Domani vado
in città presto a prendere quello che ti
serve.»
«David voleva che la vendessi ma
non ho voluto. Non so perché.»
Lui non lo disse perché ora lo
sapevano entrambi. Gen sentiva che tra
loro qualcosa non andava e se avesse
venduto la casa non avrebbe avuto un
posto dove andare in caso d’emergenza.
Wolfe rovistò negli armadi e trovò
lenzuola e coperte. Fece velocemente il
letto mentre lei lo guardava immobile,
così stanca che quasi oscillava sulle
gambe. La prese per mano, la fece
sedere sul materasso e s’inginocchiò
davanti a lei. Le slacciò le scarpe da
ginnastica, gliele sfilò dando una breve
stretta a ogni piede e la fece stendere
sotto la trapunta. La fiducia infantile
dipinta sul suo volto gli strinse il cuore
e provò un forte senso di possesso.
Sarebbe andato contro tutti per
proteggerla. L’aveva già lasciata andare
una volta con un altro, ed era tornata col
cuore spezzato.
D’ora in poi, chiunque altro sarebbe
dovuto passare prima da lui.
Wolfe non volle soffermarsi sulle
ragioni di quel pensiero. Le tolse
l’elastico dai capelli e le liberò la fronte
dai riccioli indisciplinati. «Dormi,
piccola.»
Fece per andarsene ma lei lo fermò.
«Resti qui con me?» sussurrò. «Scusa se
mi comporto come una bambina ma... ho
paura.»
Batteva forsennatamente le palpebre e
le tremava il labbro inferiore. Diavolo.
Non gli piaceva dormire con gli altri a
causa degli incubi, ma non poteva
lasciarla sola. Non in questo stato.
Annuì. Si sfilò le scarpe e si stese
sopra la trapunta, avvicinandola a sé. Il
suo profumo dolce di margherite e di
sapone lo investì. Fresco. Pulito.
Completamente diverso da David.
Si mise comoda contro di lui e si
rilassò. La teneva stretta in vita,
scaldandosi al calore del suo corpo che
bruciava come un falò. Imprecando
sottovoce, si concentrò sul respiro
cercando di non eccitarsi. Aveva baciato
tante donne e ancora di più ne aveva
portate a letto. Eppure non avrebbe mai
dimenticato la passione genuina di
quell’unico bacio.
Ma Gen era la sua amica. La sua
confidente. Il suo tutto. Non avrebbe mai
rovinato la loro amicizia col sesso.
Il sonno venne lentamente.
Il baccano era forte quella sera.
Vincent
alzò
il
volume
rammaricandosi di non avere quelle
bellissime cuffie che annullavano i
rumori circostanti. Gli auricolari del
suo iPod usato di solito bastavano, ma
non stavolta. Dalla porta sottile
sentiva gemiti, tonfi, mobili che
scricchiolavano. Erano in due stasera.
Ma aveva imparato la lezione
l’ultima volta. Non doveva farsi vedere.
Anche se la cosa andava avanti per ore.
Avrebbe voluto scappare nel bosco
ma faceva troppo freddo e l’avevano
colto di sorpresa. Di solito venivano
più tardi, ma oggi ne aveva trovato uno
al ritorno da scuola. Stava mangiando i
suoi cereali e l’aveva guardato in quel
modo che ormai conosceva bene.
La madre era peggiorata. Niente più
polvere bianca. Si bucava, adesso.
Aveva uno sguardo da pazza quando
aveva bisogno della dose e gli uomini
sapevano come approfittarne. Non
sapeva quanto tempo gli restava prima
di essere costretto alla fuga. Finora era
riuscito a mettere via poco più di cento
dollari. Non ci avrebbe fatto molta
strada. La madre gli aveva raccontato
storie orribili sull’affidamento. Gli
diceva sempre di mantenere il segreto o
non l’avrebbe più vista.
Non aveva nessun altro che si
prendesse cura di lei. Doveva restare.
Da grande li avrebbe sbattuti fuori, ma
adesso poteva solo aspettare.
Rabbrividì per le urla. Fino a
quando finalmente sentì i loro passi in
cucina.
«Avevi detto che se lo facevo me ne
davi un po’», mugolava sua madre.
«L’ho fatto. Dammela.»
«Avida puttana. Decido io quando.»
Si ruppe qualcosa contro il muro.
«La notte è ancora lunga. Abbiamo
altre cose da fare.»
«Solo un po’. Ti prego.»
Risate basse. «Fai la brava e avrai
quello che vuoi. Dov’è tuo figlio?»
«Da un amico.»
«È
sempre
nello
stanzino?
Facciamolo uscire che ci divertiamo.»
Il cuore di Vincent balzò in gola ma
lui restò completamente immobile.
Sentì dei pugni alla porta. La serratura
sbatacchiò ma tenne. «Ehi piccolo
vieni a giocare. Ho una bella cosa per
te.»
«Ti ho detto che non è qui. Lascialo
in pace, hai me.»
Qualche altro minuto di minacce, poi
il rumore degli aghi sul tavolo. «Tic toc
ragazzino. Prima o poi dovrai
comportarti da uomo e cominciare ad
aiutare tua madre. Hai capito?»
La madre disse qualcosa che lui non
comprese. Poi finalmente scese il
silenzio mentre si facevano e tornavano
in camera da letto. I rumori
ricominciarono.
Vincent si concentrò sulla musica,
dondolandosi. Avrebbe voluto essere
morto.
Aveva undici anni.
Capitolo 10
Gen schizzò fuori dal letto.
Qualcuno bussava forsennatamente
alla porta. E se fossero stati i
giornalisti? Wolfe non era più a letto.
Dov’era? Era andato in città?
Cos’avrebbe fatto ora?
Andò in silenzio in soggiorno, e,
stando attenta a non farsi vedere, guardò
fuori dalla finestra.
Kate, Kennedy e Arilyn stavano
sbirciando dentro.
«Tesoro siamo noi, apri!»
Aprì la porta e fu inghiottita dai loro
abbracci.
I muri che aveva innalzato negli ultimi
giorni crollarono.
Scoppiò in lacrime.
Si lasciò andare, piangendo e
singhiozzando mentre la facevano sedere
sul divano. Kate la stringeva forte,
Arylin le accarezzava un ginocchio e le
sussurrava parole di conforto, e
Kennedy girava per casa imprecando
come una forsennata.
«Che faccia di merda! Tutta quella
scena davanti ai giornalisti per farsi
compartire! Lo sapevo, Gen, non mi
sono mai fidata di lui. Non ci si può
fidare di uno coi denti così bianchi.»
Sentì il rumore metallico del bollitore
sul lavandino e dell’acqua che scorreva.
«Scappare dalla finestra della chiesa è
la mossa migliore che tu abbia mai
fatto.»
Gen inspirò con forza. «Ma l’ho
mollato all’altare! Mi amava, e io sono
proprio svalvolata, ho avuto paura e
adesso tutti mi odiano e chissà cosa
succederà. Non so perché l’ho fatto.»
Kate la prese per le spalle. La sua
voce ferma calmò subito l’ondata di
panico che stava per travolgerla. «Sì che
lo sai. È ora di guardare in faccia la
realtà, tesoro. Tu non volevi sposare
David. Secondo me era da un bel po’ di
tempo che volevi scappare.»
«Negli ultimi sei mesi sei cambiata»,
disse Arylin. «Ce ne siamo accorte tutte,
ma non sapevamo cosa fare. Ci evitavi,
eri sempre stressata, avevi perso la tua
allegria.»
Kennedy batté una tazza sul banco.
«Bastardo testa di cazzo. Me lo sentivo,
che ti stava manipolando. Ogni volta che
programmavamo qualcosa chiamavi con
una scusa. Hai cominciato a sparire. Ed
eri sempre nervosa. Mi fa così incazzare
non averti parlato prima. Avrei dovuto
capirlo subito che ti maltrattava.»
Le passò davanti agli occhi l’ultimo
anno, e la voce interiore che aveva
messo a tacere le parlò urlando. Esatto.
Ti diceva come vestirti. Come
comportarti.
Come
compiacerlo.
Ricordi il suo sguardo gelido quando
non era soddisfatto? La rabbia tenuta a
freno a stento se qualcosa non era
come diceva lui?
«Non mi ha mai picchiata.» Lo disse
con un filo di voce, consapevole del
fatto che era la sua ultima difesa. La
notte, quando pensava di fuggire e non
sapeva come fare, quando la paura di lui
si faceva più forte, si ripeteva sempre
questo. Come se fosse una cosa da
ammirare. Non l’aveva mai picchiata.
Era un buon segno, no? Dimostrava che
era una pazzia credere che lui le stesse
divorando l’anima, lentamente, pezzo
per pezzo, finché di lei non sarebbe
restato altro che una parvenza di quella
che era prima.
Arilyn sorrise. I capelli rossi che le
splendevano intorno al viso la facevano
somigliare a un angelo. «Certo che no.
Se l’avesse fatto ti avrebbe dato un buon
motivo per andartene. Di rado un
manipolatore ricorre alla violenza
fisica. È una violenza psicologica, la
sua. Pian piano prende il controllo di
tutto, riempie ogni tuo spazio, ti fa il
vuoto intorno, finché non ti resta più
nessuno a parte lui.»
La verità la colpì con forza. Mio Dio,
quante volte aveva sperato che la
picchiasse? Arilyn aveva ragione. In
quel caso se ne sarebbe andata senza
voltarsi indietro. Invece nascondeva la
manipolazione dietro l’amore, e lei non
sapeva più distinguere la realtà dalla
finzione.
Kennedy le portò una tazza di tè. Gen
la strinse tra le mani e ne bevve un
sorso. Un meraviglioso calore le scaldò
il ventre. «Ti rendeva nervosa? Ti
faceva dubitare delle tue decisioni? Ti
controllava il cellulare e tutte le
comunicazioni? Se sbagliavi qualcosa
aveva dei modi subdoli di punirti?»
Kennedy s’inginocchiò davanti a lei e
la guardò coi suoi occhi color ambra.
Altri flashback. La volta in cui aveva
invitato un amico e lei aveva bruciato la
cena. Ci aveva scherzato sopra, ma
quando erano rimasti soli non le aveva
rivolto la parola per due giorni. E lei
non aveva più sbagliato a cucinare.
La volta in cui non aveva voluto fare
sesso. Si era mostrato deluso, le aveva
fatto battutine acide dandole dell’egoista
e aveva flirtato con altre donne in
ospedale avvertendola che mancando di
soddisfare i suoi bisogni lo spingeva tra
le braccia di un’altra. Da allora non
aveva più detto di no al sesso.
«Sì. Tutto quello che hai detto. Non so
più chi sono senza di lui.»
Kate le strinse le spalle. «Sei tu, ma
diversa. Non restiamo mai le stesse
dopo una relazione, o dopo una tragedia,
ed è normale che sia così.»
Si sentì invadere dal disgusto. Era
sempre stata forte e indipendente.
Almeno così credeva. «Non pensavo di
essere tanto debole», mormorò.
«Leggevo romanzi con queste donne
stupide che si facevano maltrattare dal
protagonista ma non si ribellavano
perché ci stavano bene a letto... Come
sono arrivata fin qui? Non potevo dire
di no e basta? Andarmene prima di
combinare questo pasticcio? Ho così
bisogno di un uomo accanto?»
Kennedy sbuffò. «Diavolo, no.
Ascolta, la maggior parte dei libri che
leggo sono storie d’amore e quasi tutte
raccontano di donne che salvano il culo
agli uomini così vendono più copie. Non
siamo perfette, tesoro. Facciamo del
nostro meglio. Sei stata forte a scappare
prima di sposarti e a seguire il tuo
istinto. Ora devi solo andare avanti.»
Le sue parole la colpirono nel
profondo. Sì. Era proprio così.
Autopunirsi per gli errori commessi non
li avrebbe comunque cancellati. Doveva
riprendere in mano la sua vita e capire
cosa voleva davvero la vera Genevieve.
Non cosa voleva la donna che aveva
creato David.
«Vi voglio bene, ragazze.» Tirò su col
naso. «Sul serio.»
«Anche noi ti vogliamo bene»,
rispose Kate dandole un altro abbraccio.
«Ero così preoccupata. Ho minacciato
Wolfe di ammazzarlo se non si fosse
preso cura di te.»
Gen fece una mezza risata e si asciugò
le lacrime. «No, mi ha salvata. Mi ha
dato il tempo di accorgermi di quanto
fossi diversa da David. Siamo tornati
dopo aver visto i titoli sul quotidiano. I
giornalisti vi hanno importunato?»
Kate minimizzò. «Li abbiamo
sistemati. La maggior parte di loro ti sta
cercando a Nashville.»
«Cosa?»
«Kate li ha messi su una falsa pista e
Alexa le ha retto il gioco», spiegò
Kennedy. «Ha dichiarato di aver
ricevuto un tuo messaggio in cui dicevi
di essere diretta in Tennessee. Ti
staranno ancora aspettando.»
Le sfuggì una risata. «Grazie. Così ho
un po’ più di tempo.»
«Dov’eravate tu e Wolfe?» domandò
Arilyn.
«Sawyer ha uno chalet a Saratoga. È
stato bello. Avevo dimenticato cosa
significava
divertirsi
senza
preoccuparmi di fare qualcosa di
sbagliato. Mi ha portato alle corse dei
cavalli. Ho vinto un sacco di soldi.
Kennedy le batté il cinque. «Bello.
Credo che tu gli sia mancata.»
«Sì, David non approvava la nostra
amicizia. Mi sono resa conto che ormai
lo evitavo... quindi questo weekend
abbiamo parlato molto.»
Kennedy e Kate si scambiarono
un’occhiata.
«Parlato
e
basta?»
domandò Ken.
Il ricordo del bacio la fulminò. La sua
bocca calda, le sue labbra soffici, la sua
lingua irruente. «Certo. Sono appena
scappata dal mio matrimonio. Non sono
il tipo da andare a letto col mio migliore
amico. Non c’è niente del genere tra di
noi.»
«Così hai sempre detto», commentò
Kate.
«Perché è la verità.»
Arilyn si batté l’indice sulle labbra.
«Mmm.»
«Ragazze! Non c’è niente tra me e
Wolfe. Non c’è mai stato niente. E non ci
sarà mai niente. Chiaro?»
Si aprì la porta. «Piccola, ti ho
portato la colazione. È ora di alzarsi.
Oh! merda.»
Restò fermo un attimo a guardare il
gruppo di ragazze. Poi fece spallucce e
appoggiò le borse della spesa sul
tavolo. «Salve, ragazze. Kate, mi
sorprende che tu abbia aspettato fino a
stamattina. Ero convinto di trovarti di
guardia alla porta ieri sera.»
Kate incrociò le braccia e lo guardò
di traverso. «Hai spento il telefono.
Sono molto seccata.»
Wolfe sorrise e cominciò a sistemare
la spesa. L’odore di uova e bacon si
sparse nella stanza. «Quando sei in
modalità protezione fai paura. Ho
pensato io a lei. Giusto, Gen?»
Quando si era svegliata, nel cuore
della notte, aveva la testa sul suo petto e
la coscia di lui era pesantemente
appoggiata sulle sue. Si era sentita
confortata dal battito del suo cuore e dal
delizioso profumo maschile della sua
pelle e del cotone. Avrebbe dovuto
staccarsi da lui ma stava bene, si sentiva
così sicura che si era soltanto rimessa a
dormire.
«Giusto.»
«Sei arrivato adesso, Wolfe?»
domandò Kate.
Oh-oh. «Ehm, lui...»
«Naa, abbiamo dormito insieme
stanotte.»
Merda.
Arilyn alzò la testa. «Mmm.»
Kennedy sorrise. «Era ora. Sapete
qual è il modo migliore per dimenticare
un uomo?»
Wolfe alzò gli occhi al cielo. «Sì, l’ho
sentita: andare con un altro. Nate lo sa?»
Kennedy arrossì. «Ho intenzione di
stare con Nate ancora per molto, molto
tempo.»
«Ancora niente data del matrimonio,
però.»
Una smorfia d’insofferenza. «Ci sarà.
Perché cambiare una cosa perfetta? E
adesso stai fuori dalla mia vita
sentimentale o non lo lascio più giocare
a golf con te.»
Wolfe rise. «Fidati, Ken, è lui che
controlla te, non viceversa.»
«Vaffanculo.»
Gen scoppiò a ridere. Dio, quanto le
erano mancate. Le battute, i battibecchi,
gli insulti, e l’affetto sotto a tutto quanto.
Come aveva fatto a resistere così a
lungo senza le sue amiche?
Intervenne Arilyn, da buona paciera
qual era. «Cosa possiamo fare per te,
Gen? Parli con David oggi?»
«Non risponde, gli ho lasciato un
messaggio. Ora vado a casa dei miei e
parlo con loro. Ho chiesto che ci siano
tutti. Meritano una spiegazione.»
«Veniamo con te», disse Kate.
«No. È ora di dirgli la verità sul tipo
di rapporto che avevo con David. Devo
farlo da sola.»
Arilyn annuì. «Lo capiamo. Senti, noi
siamo in Kinnections tutto il giorno.
Perché non passi sul tardi e ci facciamo
una serata tra amiche? Potete venire da
me.»
Gen sorrise. «Grazie, ma non so se
me la sento. Ho bisogno di tempo per
pensare. Per parlare con David. Vi
faccio sapere, okay?»
Kate sembrò preoccupata ma
acconsentì. Wolfe distribuì il caffè, poi
le ragazze se ne andarono. Strano, si
sentiva già diversa. Come se una parte
di lei fosse rinata, e le avesse ricordato
che c’erano tante persone che la
amavano così com’era e non volevano
cambiarla. Non era quello l’amore,
come aveva detto Wolfe? David l’aveva
mai veramente amata? E lei l’aveva mai
amato?
«A che ora esci?»
Scacciò i pensieri e mise i piatti nel
lavandino. «Adesso.»
Lui si lavò le mani, le asciugò e prese
le chiavi. «Ti accompagno.»
Gen lo guardò. «Non è necessario. È
la mia famiglia. Andrà tutto bene.»
«Lo so. Ma non vedo i tuoi da un po’,
e poi vorrei stare con te, oggi.»
Lo guardò con sospetto. «Tu e mio
padre
non
andate
d’accordo.
Probabilmente ci sarà anche Izzy. E non
mi serve un babysitter.»
«Lo so. Vengo lo stesso.»
Lo guardò con occhio torvo, nella sua
cucina, rilassato, col tatuaggio che si
arrampicava sulla spalla massiccia e gli
accarezzava l’orecchio. Il punto luce al
lobo brillava insieme al piercing sul
sopracciglio e i capelli erano una massa
deliziosa di riccioli scuri. Aveva già
visto quell’espressione e sapeva che non
avrebbe cambiato idea. Era distratto e
indifferente solo in apparenza, ma dentro
era inamovibile. Se aveva deciso di
andare con lei, sarebbe andato con lei.
Sbuffò. «Va bene. Andiamo.»
Quando arrivarono a casa di sua
madre, Gen fu contenta che Wolfe
l’avesse accompagnata. Il vialetto era
pieno di auto e si sentì subito a disagio.
Aveva sempre temuto di deludere i suoi
familiari? Strano, non le avevano mai
messo pressione sulla carriera o altro.
Non avevano particolari aspettative su
di lei. Dunque era stata solo la sua
ambizione? Era venuto il momento di
riconoscere con coraggio i propri errori.
Di ammettere che non conosceva tutte le
risposte, e che forse non era la persona
che avevano sempre pensato fosse.
«Pronta?»
Le prese la mano.
«Pronta.»
Salirono insieme i gradini che
portavano all’ampia veranda con le
grandi sedie a dondolo bianche e i
tavolini. Avevano chiamato la casa Tara
perché aveva avuto una storia simile a
quella di Via col vento. Il padre li aveva
abbandonati per seguire il richiamo
della bottiglia e ricordava quanta fatica
aveva fatto sua madre per mantenerla
col suo stipendio insufficiente. Ripensò
a quando la sentiva piangere notti intere,
e alla rabbia di Izzy rivolta verso il
padre. Il fratello Lance studiava
medicina a quel tempo e aveva messo
incinta la fidanzata. Li avevano accolti
insieme al neonato, che era diventato il
suo primo amato nipote. Lance aveva
sposato Gina e Taylor era cresciuto lì
fino a quando lui non aveva terminato gli
studi.
Un giorno il padre era tornato. Sobrio
e deciso a riprendersi la sua famiglia.
La strada per il perdono era stata lunga e
nulla era stato dimenticato. Alla fine la
madre l’aveva ripreso e la famiglia era
guarita, ma le cicatrici erano rimaste.
Izzy era cambiata in quel periodo. Era
sempre stata fisicamente uguale a lei, ma
molto diversa di carattere. Gen voleva
seguire le regole ed essere la migliore,
Izzy voleva trasgredire quelle stesse
regole ed essere una ribelle. Era come
se fosse troppo sensibile, se le emozioni
fossero troppe da contenere, per lei. La
sua caduta nella lunga spirale di dolore
aveva quasi distrutto la sua famiglia di
nuovo.
Ripensò al giorno in cui aveva
scoperto della marijuana nascosta in una
vecchia borsa della palestra in fondo
all’armadio. Izzy l’aveva pregata di non
farne parola, dicendo che non era sua,
che la teneva per un’altra persona, e
supplicandola di crederle.
Si chiese se le cose sarebbero state
diverse se avesse taciuto. Invece aveva
fatto la spia e dopo era cambiato tutto.
Izzy non si era più fidata di lei e si era
allontanata. Il muro che le separava
adesso era troppo alto per essere
scalato. Gen rimpiangeva la perdita
della gemella ogni giorno.
Fece un respiro profondo e aprì la
porta.
Si sentì avvolta dai ricordi. La
splendida scala metteva in risalto i
soffitti alti, i bovindi e quel fascino del
Sud della casa, che accoglieva gli ospiti
in un’atmosfera calda e confortevole.
«Genevieve!»
La madre le corse incontro,
stringendola con la forza che solo le
madri hanno. Maria MacKenzie era di
sangue italiano e questo non significava
soltanto ottimo cibo, ma anche una
volontà di ferro. Era lei a tenere insieme
la famiglia ed era una donna generosa e
disponibile. Minuta, capelli ricci e
scuri, prese subito il controllo della
situazione.
«Wolfe, grazie per esserti preso cura
di mia figlia. Sapevo che ce l’avresti
riportata.»
Wolfe annuì, la baciò sulla guancia e
fece un passo indietro.
Poi le piombarono addosso gli altri.
Alexa fu la prima. La strinse forte
come una mamma orsa decisa a
difendere la prole. «Ero così
preoccupata», sussurrò. «Sono contenta
che tu stia bene.»
«Scusa», le rispose all’orecchio. «Mi
spiace di avervi fatto questo.»
«Ssst, vogliamo solo che tu sia al
sicuro.»
Poi toccò a Gina e Lance. Lance la
guardò con la tipica espressione
preoccupata da fratello maggiore,
mentre Gina le spiegò di aver mandato
Taylor a casa di un’amica per non dover
rispondere alle sue mille domande sul
perché la zia era scappata il giorno del
matrimonio.
Mentre si spostavano verso il
corridoio, il suo sguardo cadde sugli
ultimi due membri della famiglia. Izzy
era vestita come al suo solito,
pantaloncini di pelle e canotta nera
attillata. L’inchiostro rosso della rosa
spinata spuntava dalla curva del suo
seno. Aveva gli stessi ricci indisciplinati
di Gen ma li stirava, lasciandosi
incorniciare il volto da ciocche lunghe e
disuguali alternate di viola. Erano
gemelle ma non erano mai state tanto
diverse. Gen sentì una fitta dolorosa per
la distanza che le divideva. Aprì le
braccia.
La
sorella
rispose
all’abbraccio ma rimase rigida, come se
non fosse abituata a certe esternazioni.
«Hai fatto una grande uscita», osservò
Izzy. «Tutto bene?»
Gen trattenne una risata. «Era ora che
fossi io a creare un po’ di subbuglio, in
questa casa.» Il commento fece affiorare
un sorriso esitante sul volto della
gemella. Poi Gen guardò alle spalle di
Izzy e incrociò lo sguardo del padre.
«Ciao, papà.»
Jim MacKenzie batté le palpebre,
emozionato. «Genevieve. Ci hai fatto
preoccupare.»
«Lo so. Mi dispiace, papà.»
Lui inghiottì a vuoto, poi si avvicinò
per abbracciarla. Anche se le aveva
spezzato il cuore quando era piccola,
era ancora il suo cavaliere con
l’armatura scintillante. Un po’ ossidata,
magari. Ma era tornato dalla sua
famiglia, aveva cercato la redenzione, e
non le aveva più dato modo di dubitare
di lui. Odiava l’idea di deluderlo, ma lui
le aveva dimostrato che si poteva
sbagliare, e poi rimediare.
Quando girò la testa i suoi occhi
azzurri si fecero di ghiaccio. «Wolfe.
Cosa ci fai qui?»
«Jim! È il benvenuto a casa nostra.»
«Non ho detto il contrario, Maria. Ho
solo chiesto perché è qui. Anzi, vorrei
anche sapere come ci è finita mia figlia
nella sua macchina. Gliel’hai messa in
testa tu quest’idea?»
Gen restò a bocca aperta. «Papà,
smettila! Wolfe si è preso cura di me.
Non è colpa sua. È stata una mia
decisione. Sono io quella che è scappata
dalla chiesa e lui era fuori. Gli ho
chiesto di portarmi via.»
«Che coincidenza.»
«Jim, basta così», sbottò la moglie.
Lui tacque. Wolfe non disse una
parola. Gen non sapeva perché il padre
diffidasse tanto di Wolfe. Bastava
nominarlo per fargli cambiare umore e
più volte l’aveva messa in guardia,
dicendo di stare attenta a quel tipo,
anche se era parente di Alexa e di
Maggie.
«Andiamo in soggiorno a parlare»,
propose Maria.
Jim borbottò qualcosa e li seguì. La
madre aveva preparato un vassoio di
pasticcini, tè e caffè. Ognuno prese
qualcosa da mangiare e si sedette. Che
strano. Le riunioni di famiglia per
discutere un problema avevano sempre
riguardato Izzy. Mai lei.
Wolfe si accomodò sulla sedia più
lontana ma Gen sentiva la sua presenza
come se le fosse accanto. Si rilassò,
consapevole che i suoi avrebbero
appoggiato la sua decisione. Doveva
solo dir loro la verità.
«Innanzitutto, mi scuso per quello che
ho fatto. Non vi ho dato spiegazioni e vi
ho lasciato in un casino. È che... sono
andata nel panico.»
«Non c’interessano le conseguenze»,
disse Alexa. «Ci preoccupa di più il
motivo per cui sei scappata.»
«Hai sentito cos’ha detto», intervenne
Jim. «È andata nel panico. Non ha
gestito bene il nervosismo della sposa.
Si può rimediare.»
Lance annuì. «Amavo Gina ma
prendersi un impegno per tutta la vita
non è uno scherzo.» Sorrise quando lei
gli diede un pugno sulla spalla.
«Ascolta, so com’è la vita in ospedale
quando sei un medico interno. Orari
impossibili, poco sonno, e un
matrimonio da organizzare. David ci ha
detto che era un bel po’ che era
preoccupato per te.»
La sua voce interiore levò un grido di
protesta. David che parla di lei ai suoi?
Cosa stava succedendo?
Gen scosse la testa. «Aspettate un
attimo. Cos’ha detto David di me? Non è
stato un attacco di panico qualunque,
papà. C’erano dei problemi tra noi ma
non ho mai voluto affrontarli.»
I suoi genitori si scambiarono
un’occhiata. Alexa sembrava solidale e
Izzy si mangiucchiava le pellicine
intorno alle unghie. Ma c’era qualcosa
di strano nell’aria. Jim si schiarì la gola.
«Tesoro, se solo ce ne avessi parlato.
Avremmo potuto aiutarti. David ha detto
che avevi degli attacchi di panico, che ti
chiedevi di continuo se eri abbastanza
brava in ospedale e che stavi
cominciando a pensare di non meritarlo
come marito. È stato molto sincero con
me e con tua madre riguardo ai vostri
problemi, ma ti ama. Perché non prendi i
farmaci?»
Le si fermò il respiro. I campanelli
d’allarme le risuonarono in testa con
fragore. «Quali farmaci? Non so di cosa
parli.»
«Non c’è niente di cui vergognarsi ad
assumere farmaci», disse Alexa. «Molti
li prendono per l’ansia o la depressione.
Ti sei fatta carico di troppe cose. David
ha detto che ha provato a ridurti gli orari
di lavoro ma tu non hai voluto. E che
quando ti ha proposto un wedding
planner hai insistito per fare tutto da
sola. A volte bisogna avere il coraggio
di chiedere aiuto.»
Le salì il sangue alla testa. «Non so
cosa vi abbia detto David ma non è
vero. Continuava ad aggiungermi turni in
ospedale, altro che ridurli. E diceva che
non ci serviva nessuno per organizzare il
nostro matrimonio, che dovevamo fare
tutto noi.»
Alexa la guardò a occhi spalancati.
«Tesoro, David ha chiamato me per
chiedermi il nome di una wedding
planner. Ha cercato di assumerla ma tu
hai rifiutato. Ne abbiamo parlato a
pranzo. Ricordi? Ti ho consigliato di
contattarla e non hai voluto.»
Se lo ricordava eccome. Peccato che
quella mattina David le avesse detto che
sarebbe stato molto deluso se lei avesse
messo il matrimonio nelle mani di
un’estranea. Le aveva chiesto se voleva
che fosse una tata a crescere i loro figli,
se era quello il tipo di moglie e di
madre che aveva intenzione di essere.
Come aveva potuto farsi manipolare in
quel modo? Quando più tardi Alexa
aveva tirato fuori il discorso, lei era
ormai decisa a dimostrare che poteva
fare tutto da sola. Raccontava frottole
sulla loro relazione fin dall’inizio? E se
sì, perché?
Doveva fare in modo che i suoi
capissero. «Non ho bisogno di farmaci.
E lui distorce le cose. Ho cominciato a
notare un bisogno di controllare e
manipolare ogni aspetto della mia vita.
Mi controllava il telefono, mi teneva
lontana dai miei amici. Sapete quante
volte volevo vedere Alexa o venire qui
a cena e lui trovava una scusa per non
farmi andare?»
La madre aggrottò la fronte.
«Davvero? Ho sempre pensato il
contrario. Mi chiamava ogni settimana
per sapere come stavamo, ci raccontava
di te e di quello che stavate facendo. Un
mesetto fa ha detto a tuo padre che stava
cercando di farti uscire un po’ di casa
ma tu avevi delle crisi depressive.
Ricordi quando ti ho chiamato per
chiederti se avevi bisogno che venissi
da te? Mi hai detto di no perché avevi
bisogno di dormire.»
Aveva chiesto a David se poteva
invitare i suoi genitori a cena. Era stata
una giornata dura in ospedale e lui
aveva perso la pazienza, chiedendole
perché lui non le bastasse, perché non
potevano gustarsi una bella cenetta
insieme invece di mettere sempre in
mezzo altra gente. Quando la madre
aveva chiamato era così turbata che
aveva inventato una scusa per non farla
venire. Aveva sempre protetto David,
evitando di dire la verità su di lui. Così
nessuno sapeva nulla.
Nemmeno lei.
Se adesso era nei pasticci era solo
colpa sua. Fece un respiro profondo.
«Mamma, non volevo che sapessi che a
David non faceva piacere avervi a cena.
Quando hai chiamato ero in imbarazzo,
non potevo dire no e basta, quindi ho
detto che ero stanca.»
«Capisco.»
No, non capiva. Anzi, in un folgorante
momento d’illuminazione, Gen si rese
conto che i suoi non le credevano. In
qualche modo, David li aveva convinti
che era lui il buono e lei quella che
aveva bisogno di aiuto.
«Se avevi questi problemi perché sei
rimasta con lui? Hai fatto una grande
festa di fidanzamento. Hai avuto tutto il
tempo per dirci dei tuoi dubbi su
David», osservò il padre.
«Sapevo che c’era qualcosa che non
andava, ma non volevo ammetterlo.
Avevo paura. Vivevamo insieme, è il
mio capo, mi sentivo in trappola.»
«In trappola? Ti minacciava?»
domandò Jim.
«No. Ma credo che sia un
manipolatore, papà.»
Lance si chinò in avanti. «Ti ha
picchiata? Lo uccido, quel figlio di
puttana.»
«No, non mi ha mai picchiata.»
Scese il silenzio. Gina chinò la testa.
Alexa aveva la fronte aggrottata come se
stesse cercando di risolvere un rebus.
Izzy si concentrò sulle sue unghie, come
se avesse paura di dire la sua. I genitori
sembravano confusi.
Gen incrociò lo sguardo di Wolfe.
Forza. Lui le credeva. Lui sapeva.
Ma il problema era suo, la famiglia era
la sua. Doveva riuscire a far vedere loro
la verità.
Gen aprì la bocca per parlare.
Suonò il campanello.
Jim si alzò. «Bene. Dobbiamo
arrivare in fondo a questa storia.»
«Papà, chi è?»
Lui strinse la mascella. «David.
Voleva disperatamente vederti. È ridotto
a uno straccio. Da quando sei andata via
non ha fatto che chiedersi cosa può aver
sbagliato. Ti ama e gli devi una
spiegazione.»
Un’ondata di panico. Non ebbe il
tempo di radunare i pensieri e
prepararsi al confronto. D’un tratto
David era davanti a lei e la fissava.
Restò di sasso, incapace di staccare gli
occhi dai suoi.
Si era innamorata di lui a prima vista.
Bellezza divina e grandi capacità,
l’aveva amato a distanza per due anni
prima che lui la notasse. Dai pranzi
erano passati alle cene e quando erano
finiti a letto aveva avuto l’impressione
di aver trovato l’anima gemella.
Quanto era durata? Quel breve
periodo di somma felicità, di ore
passate sotto le coperte a fare l’amore,
scambiare opinioni e condividere sogni.
Lui era tutto ciò che aveva sempre
desiderato. Era stato facile ignorare i
segni, la sua delusione quando faceva
qualcosa che lui non approvava, il lento
anteporre i suoi bisogni a quelli di lei.
Il viso abbronzato metteva in risalto
gli occhi verde smeraldo, e i folti
capelli biondo platino facevano pensare
a un’aureola che sottolineava le rughe
d’espressione ai lati della bocca.
Metteva soggezione anche solo vederlo
entrare in una stanza. Cercò di
spiccicare qualche parola ma lui fu più
veloce.
La prese tra le braccia e la baciò. Poi
le cinse la vita con le mani e le
accarezzò i capelli, sussurrandole
parole d’amore all’orecchio. Quanta
tenerezza e affetto. Oh, come adorava
questo lato di lui, l’amante dolcissimo
che la faceva sentire realizzata con la
sua approvazione. Ma bastava un niente
per farlo cambiare, per essere punita
con parole sferzanti e sguardi glaciali.
Gen cercò di staccarsi ma lui la tenne
stretta. «Mi dispiace, dolcezza»,
continuava a ripetere. «È colpa mia. Ho
insistito troppo, eri preoccupata e non ti
ho ascoltata. Perdonami, amore mio.»
Era nauseata. Gli puntò le mani sul
petto e spinse con tutta la sua forza,
riuscendo finalmente ad allontanarlo da
sé. Il dolore sul suo volto la ferì, e la
sorpresa della madre per il suo rifiuto la
spinse a chiedersi se David non fosse un
bravo ragazzo, in realtà, e se non
dovesse dargli un’altra possibilità.
«Mi dispiace. Non era mia intenzione
lasciarti in questo modo. Non ho
scusanti.» La voce si ruppe. «Non mi
perdonerò mai d’averti costretto ad
affrontare il pasticcio che ho lasciato.»
«Io ti perdono, Genevieve. Non
voglio perderti, voglio che torni con
me.»
In quel momento i rumori cessarono e
il suo cuore fece un balzo. Lo amava,
una volta. Credeva fosse quello giusto.
Ma pian piano l’amore si era
trasformato in paura, dubbio, tristezza.
Non c’era un’altra possibilità per loro,
perché non le piaceva la persona che lei
era con David.
Non sapeva nemmeno che persona
fosse con lui.
Percepì la speranza intorno a sé.
Volevano il lieto fine. Ma lei non poteva
darglielo.
«David, io-io non posso. Non posso.»
Jim si schiarì la gola. «Credo che
dobbiate parlare in privato.»
Lei annuì. Salirono le scale in
silenzio e chiusero la porta della stanza
degli ospiti. Il padre l’aveva trasformata
in un ufficio quando la casa si era
svuotata. C’erano un piccolo futon, un
computer, una scrivania e un televisore.
Le pareti erano color pesca. Passò il
dito sulla leggera ammaccatura alla
finestra, ricordandosi di quando lei e
Izzy stavano giocando a Dance Off e Izzy
aveva battuto la testa nel tentativo, non
riuscito, di fare la verticale sulle mani.
«Perché? Perché mi hai lasciato,
Genevieve?»
La chiamava sempre col suo nome
intero. Una volta lo trovava intimo.
Adesso le faceva venire in mente un
insegnante più che un fidanzato.
«Avrei dovuto capire prima quali
erano i miei sentimenti. Sono infelice da
molto tempo. Non siamo fatti per stare
insieme.»
Sollevò un sopracciglio. «Come fai a
dirlo? Siamo sempre stati perfetti
insieme, sin dall’inizio. Io ti amo. Voglio
proteggerti e stare con te per sempre.
Cos’è che non va?»
Spostò il peso sull’altra gamba.
Doveva essere forte e decisa. «Non
sono più io», rispose con un filo di
voce. «Ho l’impressione di fare i salti
mortali per compiacerti ma non è mai
abbastanza. Non sono felice. E credo
non lo sia nemmeno tu. Non faccio che
pensare a come cambiare me stessa per
farti contento. Le persone che si amano
si accettano come sono.»
«Questa te l’ha detta Wolfe?» Lei
sussultò.
«Ti
rendi
conto
dell’umiliazione che ho subito? Lo
sanno tutti che eri con lui. Credono che
tu sia scappata con l’amante. In ospedale
non si può lavorare tanti sono i
pettegolezzi che circolano. Gli estranei
mi guardano. I giornalisti hanno
assaltato casa nostra e quella dei tuoi. E
non mi hai usato neppure la cortesia di
una telefonata. Sei solo sparita con quel
fetente.»
Il fascino cominciò a sparire. Avanzò
di alcuni passi, costringendola a
indietreggiare fino alla parete. Emanava
rabbia da tutto il corpo ma restava
immobile, tenendola con le spalle al
muro. Era un modo perfetto di intimidire
una persona senza dire una parola. Gen
cercò di mantenere la calma, ma già
avvertiva il panico che le suggeriva di
scappare. Perché aveva tanta paura di
lui?
«Non c’è mai stato niente tra noi e
mai ci sarà. Era fuori quando sono uscita
dalla finestra e gli ho chiesto un
passaggio. È colpa mia. Non ho
chiamato perché volevo riordinare le
idee. Avevo paura di affrontare la verità
su di noi.»
Ripensò a quando Wolfe le aveva
proposto di stare via qualche altro
giorno. Senza meta. Se non fosse stato
per quell’articolo sul giornale sarebbe
partita con lui senza voltarsi indietro e
forse non si sarebbe più fermata. Si
sentiva in colpa, ma doveva tenere duro.
«Non posso farti felice», sussurrò.
«Non sono abbastanza per te.»
L’aria aggressiva sparì. Il suo corpo
si afflosciò. Gen rivide nei suoi occhi
verdi quella tristezza e quel desiderio di
cui si era innamorata. Non solo il
chirurgo brillante, ma l’uomo in cerca
d’amore che le aveva promesso di darle
tutto. «No», disse a bassa voce. «Sono
io che non sono abbastanza per te. Non
lo sono mai stato.» Si passò le dita tra i
capelli, alzando la testa come in cerca di
risposte dal cielo. «Mi spiace per quello
che ho detto di Wolfe. So che non è così
tra voi, è solo che ormai straparlo. Non
dormo da quando sei scappata. Continuo
a pensare a cosa posso aver fatto per
indurti ad aver paura di me o a dubitare
dei miei sentimenti. E poi la mia più
grande paura si è avverata. Mi hai
lasciato.» La voce era spezzata.
«Proprio come mia madre. Proprio
come ho sempre temuto avresti fatto.»
Gen chiuse gli occhi. Non voleva
ferirlo. Magari non voleva più sposarlo,
ma un tempo lo aveva amato sul serio. Il
suo passato lo tormentava e lei
comportandosi in quel modo glielo
aveva fatto rivivere. Provò vergogna.
«Mi dispiace», ripeté. «Non ci sono
scusanti per quello che ho fatto. Mi ha
preso il panico e sono scappata. Avevo
paura di affrontarti.»
«Ti ho mai picchiata, Genevieve? Ti
ho mai ferita fisicamente?»
Rabbrividì ma riuscì a scuotere la
testa. «No. Ma mi hai ferita con le
parole.»
Piegò la testa da un lato, confuso. «Ti
ho sempre detto che ti amo. Ti ho
sempre lodata. La sola ragione per cui
chiedevo di più è che vedo grandi
potenzialità in te come medico e voglio
che tu le metta a frutto. Se questo ti
ferisce, possiamo sistemare le cose.
Sarò diverso.»
Ebbe paura di lasciarsi convincere.
Quando era con lui, la sua forza e
determinazione scomparivano in una
nuvola di fumo. Lottò per restare sulle
sue posizioni ed essere sincera. «Non
voglio più sistemarle, David. Dobbiamo
chiudere questa storia.»
I suoi occhi lucidi di lacrime le
spezzarono il cuore. «Ti prego»,
sussurrò lui. «Dammi un po’ di tempo.
Dallo a noi due. Ti ho messo troppa
pressione con l’organizzazione del
matrimonio e sul lavoro. Pensare che ti
ho ferita o che ti ho dato l’impressione
di non amarti con tutto me stesso mi fa
stare male. Ti supplico, dammi ancora
del tempo.»
«Non lo so.» Tremava. «Non penso
sia una buona idea. Non siamo adatti
l’uno all’altra»
«Possiamo esserlo.» Allungò una
mano verso di lei ma a metà strada
l’abbassò. «Hai bisogno di spazio. Non
insisto adesso, se non sei pronta. Passa
qualche giorno con la tua famiglia.
Pensaci. Ci vediamo la prossima
settimana in ospedale e ripartiamo da
lì.»
«No, David, non voglio...» Le parole
le morirono in gola quando la lasciò
sola nella stanza.
Cominciò a tremare e si strinse le
braccia intorno al petto per scaldarsi.
Perché non l’ascoltava? Perché era così
debole da permettergli di approfittare
del suo senso di colpa per avere quello
che voleva? Non sarebbe mai tornata
con lui. Lo spazio e il tempo non
potevano riparare il loro rapporto, e col
suo ostinato rifiuto di accettare la realtà
lui non faceva che perpetuare la
sofferenza.
Gen scivolò sul pavimento. Basta. Gli
avrebbe dato i giorni che aveva chiesto,
poi sarebbe tornata in ospedale e gli
avrebbe parlato. Gli avrebbe detto
chiaro e tondo che tra loro era finita.
Magari sul lavoro se la sarebbe cavata
meglio, avrebbe dato l’impressione di
avere più controllo. Le dispiaceva
ferirlo, ma non c’era modo di evitarlo.
Era finita.
«Piccola?» L’ombra di Wolfe
incombeva su di lei. Si chinò e le
sollevò il mento. «È stata dura?»
«Non è pronto a lasciarmi andare.»
Le accarezzò la guancia. «Non ha
scelta.»
Annuì. «Hai ragione. Mi dispiace
ferirlo, ma non ho scelta nemmeno io.
Mi ha chiesto di prendermi qualche
giorno per pensare e poi parliamo
quando rientro in ospedale.»
«Ti ha minacciata?»
«No. Penso sia ancora sotto shock.
Gli parlerò di nuovo e gli ripeterò
quello che gli ho già detto. Magari
quando vedrà che non ho cambiato idea
lo accetterà.»
Il volto di Wolfe s’indurì. «E se non
lo facesse?»
«Lo farà. Quello che non capisco è
perché ha detto quelle cose ai miei.»
«Per avere il controllo. Per tenerti
con lui. Ti fa il vuoto intorno così ti
costringe a dipendere da lui perché non
hai più nessun altro.» L’aiutò ad alzarsi
e la osservò in volto. «I tuoi capiranno,
dagli solo il tempo. È un po’ che se li
lavora di nascosto. E non sentirti troppo
in colpa se soffre. Sa come ottenere da
te quello che vuole. Fidati, è più
bastardo di quanto pensassi.»
Forse Wolfe aveva ragione. David
non le avrebbe più fatto paura e non
l’avrebbe più fatta dubitare di se stessa.
Era ora di riprendere il controllo della
propria vita. «Gli parlerò lunedì. Vado a
riprendere la mia roba. E prendo
qualche decisione per il futuro.»
Gli affiorò un sorriso sulle labbra.
«Buona idea. Se andassimo da basso a
mostrare un fronte unito ai tuoi?»
Allungò la mano. Quando lei la prese,
la forza e il calore della sua stretta le
diedero la spinta di cui aveva bisogno.
«MacKenzie! Com’è che non stai
facendo il giro visite?»
Alzò lo sguardo dalla pila di cartelle
e documenti che quasi la soffocavano.
«Mi hanno messo in ufficio oggi. Sheila
è sommersa e mi hanno detto di saltare il
giro.»
Dale la guardò con disprezzo da
sopra gli occhiali. «Se ragionassi con la
testa invece che col culo forse capiresti
meglio le istruzioni. Servi per il giro
visite.»
Gen trattenne la collera. «Capito.»
S’affrettò lungo il corridoio, sentendo
addosso il suo sguardo pieno d’odio. Si
fece forza, giurando di tenere duro per
quanto brutta fosse la situazione.
E ragazzi, se era brutta.
Si aspettava il peggio ma la realtà
aveva superato ogni aspettativa. Gen non
sapeva cos’avesse raccontato David al
suo staff, ma era chiaro che lei era il
nuovo Rotavirus. Negli anni aveva
stretto qualche amicizia in ospedale, ma
quando la relazione con David era
diventata nota si erano allontanati tutti.
Le relazioni tra medico e studente erano
mal viste, anche se la reputazione di
David aveva permesso loro di superare
quasi tutti gli ostacoli.
Ora non più. Nessuno le rivolgeva la
parola. Se erano costretti a darle
istruzioni, usavano un tono aspro e
gelido, come se avesse tradito loro
invece di David. Sparlavano di lei,
accusandola di avere una relazione con
un altro uomo. Le mettevano in disordine
le cartelle, le affibbiavano turni di notte
e turni doppi e quando aveva provato a
prendere del caffè alla mensa le
avevano detto che dovevano prepararlo.
Dopo un quarto d’ora d’attesa se n’era
andata e un minuto dopo aveva
incrociato la nuova infermiera con una
tazza fumante di caffè in mano.
«Stai tenendo botta?»
Gen non rallentò il passo ma si
rilassò leggermente nel sentire la voce
di Sally Winters. Era l’unico medico
interno che era ancora gentile con lei.
Era una ragazza graziosa, una bellezza
naturale, coi capelli color miele tirati
indietro e vivaci occhi castani. Le
piaceva scherzare e nel gruppo era
quella che aiutava di più, accollandosi
turni straordinari senza lamentarsi.
«Attenzione, potresti prendere il
virus.»
Si accigliò, tenendo il passo. «Che
virus?»
«Quello che si prende parlando con
me.»
Sally rise. «Aspetta che si calmi la
bufera, tesoro. David è come Dio, qui, e
stanno tutti dalla sua parte.»
Gen
premette
il
pulsante
dell’ascensore e guardò l’orologio.
«Dimmi la verità, Sally. Le voci che
girano su di me sono molto brutte?»
Le bastò vedere la sua espressione. Si
sentì sprofondare. Era umiliante che altri
giudicassero la sua vita privata, e senza
nemmeno
sapere
come
stavano
veramente le cose. Ma avrebbe tenuto
duro, anche se la situazione fosse
peggiorata.
«Senti, appena i Kardashian fanno
qualcosa si dimenticheranno tutti di te in
un baleno.»
Gen sorrise ed entrò nell’ascensore.
«Grazie. È bello aveva ancora una
persona con cui parlare.»
«Sono una tosta. Ci vediamo dopo per
il caffè.»
Arricciò il naso. «A me non lo danno
più.»
Sally scosse la testa. «Idioti. Li
raddrizzo io. Ci vediamo giù quando
finisci il turno.»
«Se mai lo finirò.»
Le porte si chiusero e Gen si preparò
a fare buon viso a cattivo gioco.
Qualche ora dopo, emotivamente e
fisicamente provata, riuscì a infilarsi
nella saletta coi distributori automatici
di bevande e per fortuna non ci trovò
nessuno. Prese un bicchiere di carta e si
versò
dell’acqua,
cercando
di
ricomporsi.
«Genevieve?»
S’irrigidì. Negli ultimi giorni non
c’era stato tempo per parlare e non
sapeva se aveva la forza di farlo ora.
Chi avrebbe mai detto che essere
detestata all’interno dell’ospedale le
sarebbe costato un tale dispendio di
energie? Le si avvicinò e lei si sforzò di
stare dritta e guardarlo negli occhi.
«David.»
La guardò. «Sembri stanca.»
Una risatina amara. «Lo sono.»
Quel rispondergli a monosillabi lo
indispettì. Strinse le labbra. «Mi
dispiace che te la passi male, ma presto
la tempesta si placherà e tutto tornerà
come prima. Ho pensato a noi due.»
«Anch’io.»
«Ne sono felice.» Il suo volto era una
maschera di determinazione. «Farò
meglio. Faremo meglio. Ho capito dove
sbagliavo e voglio cambiare. Penso
anche che la pressione del matrimonio
sia stata eccessiva. Stavolta fuggiamo
insieme. I miei genitori ci rimarranno
male, ma così non diamo nell’occhio e
teniamo lontana la stampa. Possiamo
anche far uscire un articolo sugli
attacchi di panico e sugli effetti che
possono avere sulla psiche, così
smorziamo le critiche negative. E
quando le acque si calmano possiamo
dare una festa elegante come piace a
noi.»
La nausea le ghermì lo stomaco e
sentì il cuore rimbombarle nelle
orecchie. Non voleva capire. Scosse la
testa cercando disperatamente di fargli
comprendere che non potevano andare
avanti così. «Non mi stai ascoltando. Ho
pensato a noi e a quello che voglio. Non
stiamo bene insieme e non è una cosa
che si può cambiare. È finita.»
Il suo shock era quasi palpabile. «No.
Ci amiamo.»
«Non più.» Si costrinse a sostenere il
suo sguardo. «Questo tipo di amore è
sbagliato. Non è sano, e io sono infelice.
Non possiamo più torturarci in questo
modo. Devi lasciarmi andare.»
La guardò fisso, poi scosse la testa.
«Tu sei mia, Genevieve. E lo sarai
sempre. Potevo avere chiunque, ma ho
scelto te perché in te vedo me stesso. La
nostra
ambizione,
la
nostra
determinazione. Il nostro bisogno di
essere migliori. Ti sbagli sull’amore.
Amare è testare i limiti, non accettarli.»
«David...»
«Non ti permetterò di cacciarmi via
solo per paura. Hai bisogno di me.»
«Io non voglio sposarti. È finita.»
«No. Non lo è.»
Fu così veloce che non se ne accorse.
La prese per la vita, la tirò a sé e la
baciò. Brutalmente, con forza, in segno
di possesso, senza un briciolo di
attenzione. Quando provò a respingerlo
si era già staccato.
Ansimò, stringendo i pugni. «Non
farlo mai più.»
«Non dirmi quello che posso e non
posso fare.» La rabbia era tornata,
trasformandolo in un uomo sgradevole
che non riconosceva. «Ci hai umiliati
abbastanza tutti e due. Vuoi mandare
all’aria tutta la tua carriera per un
capriccio?»
«Questo non c’entra niente con la mia
carriera!»
«Le
condizioni
mentali
sono
fondamentali per la carriera. Tutti sanno
dei tuoi regolari attacchi di panico. La
tua famiglia mi appoggia. E in ospedale
ho provveduto a documentare le tue crisi
nervose.»
Si coprì la bocca con una mano
tremante. «Di cosa stai parlando? Io non
ho attacchi di panico. Sei un bugiardo.»
Fece spallucce. «Sei a pezzi dal
periodo del fidanzamento. L’hanno visto
tutti. Ho detto all’ufficio del personale
che avevi delle crisi ma che a mio
parere potevi ancora lavorare, e che ho
insistito
perché
prendessi
in
considerazione dei farmaci ma il
matrimonio ti ha aumentato lo stress. È
troppo tardi per fare marcia indietro.
Siamo destinati a stare insieme. E se
sarà necessario, te lo dimostrerò.»
«Sei pazzo. Non la farai mai franca.
Non puoi obbligarmi a provare
sentimenti che non provo!»
David scosse la testa. «Continui a non
capire. Farò tutto ciò che è in mio potere
per dimostrarti che siamo destinati a
stare insieme. Nella vita ho sempre
lottato per quello che volevo e l’ho
sempre ottenuto. Con te sarà lo stesso.»
Le voltò le spalle. «Rifletti, Genevieve.
Sono il tuo capo. La tua carriera è nelle
mie mani. Possiamo avere la vita che
sognavamo, se solo mi dai un’altra
possibilità.»
«Non tornerò mai con te.» Tremava di
rabbia. «Non ti permetto più di fare il
prepotente con me. Oggi vengo a
prendere la mia roba e faccio un
reclamo su di te.»
«Accomodati. Ho già parlato delle tue
condizioni mentali alle persone che
contano in ospedale. Ho dei testimoni
che possono confermare ogni cosa.
Quanto alla rua roba, ho già cambiato la
serratura del mio appartamento. Alla
fine tornerai da me. Questo è giusto per
darti qualche motivazione in più.»
«Vaffanculo.»
Aggrottò le sopracciglia e si girò di
nuovo verso di lei. «Sai che non
approvo il linguaggio da marciapiede,
Genevieve. Hai frequentato gente dei
bassifondi per troppo tempo. Wolfe è un
problema tra noi. Liberati di lui.» Una
pausa. «Altrimenti lo farò io.»
Se ne andò.
Gen sentì le ginocchia molli. E per la
prima volta, ebbe veramente paura.
Cos’avrebbe fatto ora?
Il primo impulso fu di chiamare
Wolfe, ma si trattenne. Era stato così
carino a sacrificare il suo lavoro per
fare compagnia a lei. Da quando erano
tornati si erano riavvicinati e non voleva
che fosse sempre lui a salvarla. In più,
era in partenza per un viaggio d’affari e
non voleva distrarlo. No, avrebbe
gestito la cosa da sola. David era
probabilmente fuori di sé e nel giro di
qualche giorno si sarebbe pentito
d’averla ricattata. Non avrebbe mai fatto
seguito alle sue minacce con l’ufficio
del personale. Giusto? Avevano
condiviso troppo perché lui potesse
comportarsi in modo così orribile.
Non c’era bisogno di farsi prendere
dal panico. Per il momento si sarebbe
concentrata sul lavoro cercando di
evitarlo il più possibile. Ancora una
settimana e le cose sarebbero state
completamente diverse.
Genevieve pregò di aver ragione.
Capitolo 11
Wolfe si allontanò dalla scrivania
spingendosi coi piedi e si mise a
camminare avanti e indietro nel suo
elegante ufficio. Aveva imparato da
piccolo a seguire l’istinto. La civiltà e la
società moderna avevano fatto di tutto
per boicottare questa tendenza innata e
primitiva dell’uomo, ma lui preferiva
passare per troglodita. Seguire l’istinto
gli aveva sempre reso un buon servizio,
l’aveva messo in guardia dai pericoli,
dalle fregature, e l’aveva aiutato a
sopravvivere.
Adesso l’istinto gli diceva che Gen
poteva essere nei guai.
Doveva lavorare fino a tardi quella
sera per preparare un ciclo di
conferenze di tre giorni a cui non poteva
sottrarsi. Sarebbe stato impegnato in una
serie ininterrotta di riunioni per
discutere le strategie per allargare la
clientela. I giorni di stacco con Gen gli
avevano rinfrescato le idee, e aveva
individuato un paio di criticità su cui
occorreva intervenire. Quando si
trattava di scegliere tra un buon affare e
il carattere di una persona, di solito
optava per il primo, ma dopo l’episodio
con David, Wolfe aveva deciso di
eliminare gli anelli deboli nella sua
catena. Sawyer aveva messo l’anima e il
cuore nel suo impero alberghiero e
questo contava più dei soldi. Era il
momento di fare un repulisti.
Prese il cellulare e selezionò il
numero di Gen. Al diavolo. La sua
prima settimana in ospedale era stata un
incubo. Per fortuna era riuscito a tenersi
libero la sera e aveva passato molto
tempo con lei. Questa settimana in teoria
sarebbe andata meglio, se solo fosse
riuscito a superare la strana sensazione
che stesse per succedere qualcosa. Kate
e le sue amiche le sarebbero state
accanto, ovvio, ma era su di lui che Gen
faceva affidamento.
Si domandò perché questo gli facesse
così piacere. Forse perché nessuno
aveva mai avuto bisogno di lui? Gen era
la donna più forte che conoscesse e il
coraggio di mostrare le proprie
debolezze gliela faceva rispettare
ancora di più. Non erano in molti quelli
che scavavano in profondità, provavano
con tutte le forze e non trovavano scuse.
Ultimamente era una lamentela unica.
Tutti che piagnucolavano, povero me
con mia madre morta, povero me con
mio padre alcolizzato, povero me con
dei fratelli stronzi. Povero me che non
trovo un lavoro, che non ho soldi.
Povero me, punto.
Era più semplice dare la colpa dei
propri problemi a qualcun altro. Gen
riconosceva i suoi sbagli ed era disposta
a darsi da fare per correggerli.
Gli rispose la segreteria. «Ehi, sono
Wolfe. Chiamami quando hai un attimo.»
E chiuse.
Quand’era stata l’ultima volta che si
era dato pensiero per una donna che non
facesse parte della sua cerchia
familiare? L’unica cosa di cui si
preoccupava era che raggiungessero in
fretta l’orgasmo così poteva tornarsene a
casa. Non era per essere freddo o
crudele: era fatto così e basta. Aveva
smesso molto tempo prima di provare a
essere diverso.
La sua voce interiore lo stuzzicò.
Allora perché vuoi essere di più per
lei?
Taci.
La voce si zittì.
Non si fidava di David. Non era solo
una questione di riprendersi Gen, ma di
punirla per averlo lasciato e umiliato.
Sapeva come ragionano i manipolatori e
come le cose possono degenerare a
porte chiuse. Meglio abbondare in
prudenza. Un altro suo motto.
Dopo le conferenze avrebbe seguito
la faccenda da vicino. Adesso doveva
concentrarsi sul lavoro. Gen se la
sarebbe cavata benissimo. Erano amici,
non amanti. Non c’era ragione di
confondere le cose rischiando di
complicarle.
Complicarle a chi? A lei? O a te?
Stavolta non mise a tacere la voce
interiore. Tornò semplicemente al
lavoro.
Genevieve si fece largo nel caos del
pronto soccorso per occuparsi del
paziente successivo. I turni lì potevano
essere duri, e oggi era una delle giornate
peggiori. Erano a corto di letti e di
personale, e da quand’era arrivata non
aveva avuto un attimo di respiro. Un
incubo.
Gen tirò la tenda e lesse la cartella
del letto tre. Susan Avery. Quarantadue
anni. Sintomi: dolori addominali.
Nessuna allergia. Sorrise e incrociò lo
sguardo di una bionda piacente, con
grandi occhi castani e il viso magro.
«Salve Susan, io sono Genevieve.
Abbiamo bruciori di stomaco oggi?»
Susan era leggermente rossa in viso.
«Non volevo venire al pronto soccorso
ma i dolori non passavano e mi sono
spaventata un po’.»
«Naturale. Altri sintomi?»
«Non mi pare. Ho preso degli
antiacidi ieri sera ma non hanno avuto
nessun effetto.»
«Quando sono cominciati i dolori?»
«Ieri sera tardi.»
«Okay, prima controlliamo un paio di
cose.» Le misurò di nuovo la pressione,
che risultò leggermente alta. «Ha mai
avuto problemi di pressione alta?»
«No.»
Lo scrisse sulla cartella, sapendo che
a volte i valori risultavano più alti a
causa dell’ansia. «Le faccio fare
un’ecografia, Susan, per escludere
l’addome acuto. Tra qualche minuto
arriverà il tecnico, lei intanto si rilassi.»
La donna cambiò posizione. «Non
sono assicurata.» Lo disse alzando il
mento come per proteggere il proprio
orgoglio. «È un problema?»
Gen odiava l’enorme afflusso di
pazienti che avevano bisogno di certi
esami e non potevano permetterseli.
L’ospedale faceva del suo meglio ma
c’erano troppe falle nel sistema e nessun
modo di evitare perdite. Scosse la testa.
«No. Facciamo un passo per volta,
d’accordo?»
«Grazie.»
Gen ordinò l’esame ricevendo
un’occhiataccia dal tecnico, come se non
volesse essere lui a darle una mano. Poi
corse dal paziente successivo e congedò
altri due pazienti mentre in tasca il
cellulare vibrava con insistenza. Lo tirò
fuori velocemente e sullo schermo vide
il numero di Wolfe. Ascoltò il suo breve
messaggio destreggiandosi con le
cartelle in mano e sul volto le apparve
un sorriso. Non gli aveva detto della
conversazione con David, e negli ultimi
giorni le acque sembravano essersi
calmate. La trattavano ancora come
un’appestata, ma David le stava alla
larga. Mandò un veloce sms dicendo che
stava bene e che doveva lavorare fino a
tardi.
«Dottoressa MacKenzie, a quanto
pare pensa di essere ancora in vacanza
invece che in un pronto soccorso
sovraffollato. Se ha il tempo di chattare
al telefono forse non sta facendo il suo
lavoro.»
S’irrigidì e rimise in fretta il telefono
in tasca. Il dottor Tyler Ward era il capo
del pronto soccorso e un vero figlio di
puttana, nonché amico di David. «Mi
scusi.» Inventare una scusa avrebbe solo
peggiorato la situazione. Lui abbassò le
sopracciglia con disprezzo e la guardò
dall’alto in basso. «Ci serve il letto tre
per i nuovi arrivi. Com’è la situazione?»
«Sto
aspettando
i
risultati
dell’ecografia, signore.»
«Velocizzare.»
«Sì, signore.» Già immaginava che il
tecnico avesse sepolto la sua richiesta in
coda alle altre, quindi tornò da lui.
L’esame diede esito negativo per
l’addome acuto. Buon segno. Ma aveva
il sospetto che ci fosse dell’altro. Tornò
da Susan.
«Ci sono i risultati?» domandò la
donna.
«Sì, dall’ecografia non risulta nulla.»
«Bene, no? Forse dovrei solo
cambiare antiacidi e dormirci sopra»,
provò a scherzare, chiaramente a
disagio.
«Voglio controllare un paio di altre
cose.»
«Certo.»
Gen le riprovò la pressione. Mmm.
Ancora alta, e stavolta non era l’ansia.
Facendole una visita generale, notò che
aveva la pelle sudata e attaccaticcia e le
caviglie gonfie. Quante volte un
problema cardiaco veniva erroneamente
diagnosticato come indigestione?
«Ha qualche problema a casa?»
domandò
Gen
distrattamente,
auscultandole di nuovo il cuore.
«Un po’ di stress. Sto organizzando
una festa di matrimonio per mia figlia e
ci vuole un sacco di tempo. Sul lavoro
ho avuto una promozione e sono contenta
ma sto lavorando spesso fino a tardi.»
«Congratulazioni per tutte e due le
cose. Prima di mandarla a casa vorrei
fare un ultimo controllo per escludere
ogni possibilità. Mi scusi un momento.»
Gen prese la cartella. Senza
assicurazione e con l’ecografia negativa,
aveva bisogno dell’approvazione per
fare il test degli enzimi. Raggiunse il
dottor Ward che stava urlando contro
un’infermiera per la sola colpa di
esistere sul suo stesso pianeta.
«Mi serve il letto tre.»
«Lo so. Dottor Ward, vorrei
controllare gli enzimi cardiaci alla
paziente.»
«Perché?»
«Ha dolori all’addome e l’ecografia è
pulita.»
«Allora perché diavolo vuole fare
altre analisi? La mandi a casa.»
«Credo che il problema sia il cuore.»
«Oh, per l’amor del cielo, mi dia la
cartella.» Si fermò e guardò il foglio.
«Non è assicurata. La mandi a casa.»
Gen s’intestardì. «Le chiedo solo di
darle un’occhiata.»
Il lampo di odio nei suoi occhi la fece
arretrare di un passo. «Vede cose che
non ci sono, dottoressa? Non abbiamo
tempo per fare i babysitter al pronto
soccorso. Le conviene non farmi perdere
tempo.»
La seguì, e quando aprì la tenda era
un medico gentile e pieno di fascino.
«Salve Susan, sono il dottor Ward. La
sua ecografia è a posto. Ha mangiato
qualcosa di strano ieri sera che può aver
contribuito al suo mal di stomaco?»
«Cinese.»
«Mmm, un sacco di sale.» Diede
un’occhiata a Gen che capì che aveva
appena escluso il sintomo delle caviglie
gonfie. «E lo stress? Le sta accadendo
qualcosa di insolito?»
Susan rise. «Stavo giusto dicendo a
Genevieve che mia figlia sta per
sposarsi e ieri sera siamo state un’ora al
telefono a litigare sulla lista degli
invitati. Mio Dio, non so come farò ad
arrivare viva alle nozze.»
«I matrimoni sono una bella cosa ma
molto
stressante.
Prende
degli
antiacidi?»
«Sì, solo il Tums.»
«Mmm. Be’ la buona notizia è che sta
bene. Le prescriveremo del Prilosec e
lei cerchi di mangiare leggero per
qualche giorno. Niente cinese.»
«Grazie, dottore.»
«Prego.»
Gen lo seguì mentre si allontanava.
«Dottor Ward, io credo...»
Si girò di scatto e le puntò un dito
contro. «Non m’interessa cosa crede.
Faccia il suo dannato lavoro e la smetta
di sprecare risorse dell’ospedale per
ridicole analisi su pazienti non
assicurati. Un altro incidente come
questo e la sbatto fuori dal mio pronto
soccorso. Intesi?»
E se ne andò come una furia. Gen si
sentì frustrata. Cavolo, in un certo senso
non lo biasimava. Ma nello stesso
tempo, era convinta che Susan avesse
qualcos’altro, e che se l’avesse mandata
a casa se ne sarebbe pentita.
I primi anni alla scuola di medicina le
cose da sapere erano così tante che il
cervello era sempre in sovraccarico. Ma
lei sentiva di avere un dono. Se
ascoltava e guardava oltre la superficie,
scopriva cose che le analisi di routine
non segnalavano. Era una qualità di cui
andava molto orgogliosa prima di
incontrare David. Poi, negli ultimi due
anni, lui le aveva insegnato a fidarsi
solo dei risultati degli esami, sostenendo
che l’istinto per un chirurgo poteva
portare al caos e alla morte. E lei era
cambiata.
Oggi fece una scelta diversa.
Ingoiò a vuoto e tornò dalla paziente.
«Susan, se non le dispiace le vorrei fare
un ultimo controllo prima di rilasciarla.
Credo sia importante.»
«Oh, d’accordo. Probabilmente mi
riposo più qui che a casa.»
«Grazie.
Le
mando
subito
un’infermiera.»
Le tremavano leggermente le mani
quando ordinò le analisi degli enzimi al
laboratorio. «Occorre una firma per
queste», disse Ted scorbutico.
Non batté ciglio. «Le ha approvate
David, ehm, il dottor Riscetti.» Ted
sbuffò, seccato, e digitò il numero. Parlò
un momento poi alzò lo sguardo. «Vuole
sapere se ha chiesto al dottor Ward.»
La bugia le venne facile. «Certo, ma è
occupato al momento.» Ted riportò la
risposta, annuì e chiuse il telefono. «Ora
lo facciamo.»
«Grazie. Può mettere l’urgenza? Ci
serve il letto.»
Le batteva il cuore ma per la prima
volta dopo tanto tempo sentì di aver
fatto la cosa giusta. Tornò dagli altri
pazienti, controllando l’ora e sperando
di avere i risultati prima che la verità
venisse fuori. Ma forse sarebbe andata
bene. Forse Ward era così incazzato che
non si sarebbe accorto del test che
aveva ordinato e tutto sarebbe filato
liscio. Forse...
«Perché diavolo il letto tre non è
ancora libero?»
Chinò la testa fingendosi occupata a
fare una cosa così importante da non
riuscire a rispondere. «È quasi pronto,
signore.»
«Era pronta venti minuti fa. Cosa
succede?»
Le s’imperlò la fronte di sudore.
Merda. «Ehm, stiamo facendo un ultimo
controllo che dovrebbe essere quasi
pronto.»
Le si parò davanti, furente. «Che
controllo?»
«Valori degli enzimi cardiaci,
signore.»
«Le avevo detto di dimetterla. Chi ha
firmato le analisi?»
«Il dottor Riscetti.»
Ward strinse i denti. «Non m’interessa
se nel tempo libero se lo scopa, ma non
pensi di poter comandare qui dentro.»
Prese il telefono e digitò un numero.
«David, perché diavolo hai approvato le
troponine dopo che io ho espressamente
negato l’autorizzazione?»
Gen chiuse gli occhi. Era finita.
«Capisco. Sì. Meglio che tu scenda
subito.»
Ward strinse gli occhi. «Vada nella
sala conferenze, il suo capo vuole
vederla. E sparisca dal mio pronto
soccorso.»
Lei non rispose. D’un tratto le
sembrava di essere in una puntata di
Grey’s Anatomy. Senonché nel telefilm i
medici interni che uscivano dal seminato
non venivano mai cacciati via e neppure
finivano nei guai. Sapeva di aver
passato il limite, ma l’avrebbe fatto di
nuovo,
indipendentemente
dalle
conseguenze. Questo faceva di lei un
cattivo medico? O un buon medico?
David entrò nella stanza. Aveva i
capelli arruffati e gli occhi stanchi.
Aveva sentito che stava facendo i doppi
turni per affogare i dispiaceri nel lavoro
mentre lei, la stronza, era più in forma
che mai. Non stupiva che tutti la
odiassero. In una settimana aveva
mangiato e dormito meglio e riso più di
quanto avesse fatto nell’ultimo anno.
«Cosa stai cercando di dimostrare,
Genevieve?»
Fece attenzione a non mettersi sulla
difensiva, ma le vecchie abitudini erano
dure a morire. Parlò con un tono fermo e
professionale. «Mi dispiace. Il dottor
Ward non voleva ascoltare le mie
preoccupazioni riguardo a una paziente
che secondo me ha un problema al
cuore. Capita spesso con le donne di
scambiarlo per indigestione e volevo
fare un ultimo controllo. Ma lui ha
rifiutato.»
«Ha rifiutato per un motivo. Perché è
indigestione e perché la paziente non è
assicurata. Paghi tu per lei?»
Strinse le labbra. «Se devo.»
«Che animo nobile. Pensi di essere
più brava di Ward?»
«No.»
«Pensi di essere più brava di me?»
Lo guardò con odio. «No. Ho seguito
il mio sesto senso. C’è qualcosa che non
quadra e non mi sarei data pace se
l’avessi mandata a casa e le fosse
successo qualcosa. È sempre una mia
paziente.»
«Il sesto senso, eh? Lo stesso che ti ha
suggerito di scappare dalla finestra della
chiesa?»
«Questo non ha niente a che fare con
noi.»
«Ha tutto a che fare con noi, invece.»
Si passò la mano tra i capelli e si
avvicinò. «Mi manchi, Genevieve.»
«Per favore, no.»
«Voglio che torni da me, è passato
abbastanza tempo. Sposami.»
«Non posso. È finita. Mi dispiace che
sia andata in questo modo, di averti
ferito. Ma non posso più stare con te.
Mai più.»
La bellezza svanì. Le labbra morbide
si piegarono in un ghigno. «Temo che tu
non capisca. Mi rifiuto di essere
umiliato e preso in giro. E mi rifiuto di
perderti. Possiamo far funzionare la
cosa ed essere felici, ma se continui a
negarti non mi lasci altra scelta che
fartela pagare.» Le si fermò il respiro.
«A cominciare da una lettera di
richiamo. Hai disobbedito a due medici
tuoi superiori e ordinato analisi inutili
che non abbiamo autorizzato.»
«Cercavo di fare il meglio per la mia
paziente. Quante volte mi hai detto che è
fondamentale nel nostro lavoro?»
«Ho detto anche di guardare i fatti.
Fare scelte a casaccio basandosi sul
sesto senso mette tutti a rischio. E non
voglio un chirurgo del genere nella mia
equipe.»
«Lo fai solo per vendicarti di me»,
sussurrò.
«Voglio che torni con me perché ci
apparteniamo. Posso dimenticare questo
incidente e farti tornare in reparto con
Ward.»
«Se ti sposo.»
«Se torni dall’uomo che ti ama.»
Si sentì svuotata. La rabbia e il dolore
esplosero. «Mai. Stammi lontano e
lasciami fare il mio lavoro. Il tuo amore
è un’illusione, tu vuoi solo controllarmi
e manipolarmi. So cos’hai detto alla mia
famiglia alle mie spalle, cercando di
passare per il buono della situazione.
Ho chiuso.»
«Sì. Hai chiuso.» Fece per toccarle i
capelli ma lei si scostò. «Cominceremo
con un provvedimento disciplinare. Farò
presentare formalmente a Ward un
reclamo sulla tua instabilità. Molti tuoi
colleghi
hanno
notato
il
tuo
comportamento incostante, quindi quello
potrebbe diventare un problema. Puoi
continuare a lavorare qui, Genevieve,
ma sei nel mio mondo. Giuro che ti
renderò la vita un inferno e alla fine ti
farò buttare fuori dall’ospedale.
Distruggerò la tua carriera. Ci siamo
capiti?»
Le veniva da piangere ma sarebbe
morta piuttosto che cedere. «È questo il
modo in cui dimostri il tuo amore per
qualcuno?»
«Non doveva andare così. L’hai
voluto tu. Ricordatelo.»
Le passò il futuro davanti. I
pettegolezzi poteva sopportarli. La
freddezza e la manipolazione anche. Ma
il lento calo delle sue capacità e della
sua crescita come medico no. Avrebbe
perso la fiducia in se stessa e l’amore
per la medicina. Lui le avrebbe portato
via tutto. E poteva farlo.
Certo, c’erano delle alternative.
Poteva andare a protestare all’ufficio
del personale. La sua parola contro
quella di lui. Ma col prestigio e la
posizione di David, e specialmente dopo
la loro relazione, sarebbe sembrato che
lei volesse riprenderselo e lui rifiutasse.
La gente avrebbe sempre creduto a lui.
Nessuno le avrebbe offerto un altro
internato.
In quel momento andò tutto a pezzi. La
fiducia e l’amore per un uomo in cui un
tempo aveva creduto, e la carriera che
aveva sognato sin da bambina.
Tutto finito.
«Ho capito.»
«Bene. E la tua decisione?»
Fece un passo indietro, inebetita.
Forse era meglio così. Il dolore sarebbe
venuto dopo aver distrutto l’ultimo
sottilissimo filo che li legava.
«Lascio l’internato. Addio, David.»
Uscì. La guardarono tutti, in attesa
degli sviluppi della soap opera. Gen non
lasciò trapelare nulla.
Il tecnico le toccò la spalla.
«Dottoressa, sono pronte le analisi degli
enzimi cardiaci.»
«Come sono?»
«Positivi.»
Si godette la soddisfazione per un
attimo, poi si voltò verso David, che era
fermo sulla soglia a guardarla andare
via. «Dai i risultati e Ward e digli che
avevo ragione. Ha un’ostruzione e
dobbiamo evitare un attacco cardiaco.»
Furono le ultime parole che pronunciò
prima di lasciarsi tutto alle spalle.
Capitolo 12
«Gen, alzati.»
«Bleah, cos’è questa puzza?»
«Mi sa che è lei. Ve l’avevo detto che
dovevamo venire ieri.»
«Lo so, non trovavo la copia della
chiave. Perché non si sveglia? E se
fosse in overdose?»
«Non essere tragica, non ci sono
boccette di pillole in giro. Ma dalle
vaschette di gelato e le carte di
caramelle direi che ha esagerato con gli
zuccheri. Gen, tesoro, apri gli occhi.»
Le voci si mischiarono insieme
formando una meravigliosa armonia.
Aveva le palpebre pesanti e temeva che
se le avesse sollevate si sarebbe
ricordata di qualcosa di orribile. Sentì
le loro mani che cercavano di girarla.
«Andatevene», brontolò. «Sono stanca.»
La scossero più forte di un Vesper
Martini. «Svegliati, dico sul serio. Ci
stai facendo spaventare.»
Aprì un occhio. Tre volti femminili la
guardavano. «Come mai non siete al
lavoro?» mormorò.
«È domenica», rispose Kate. «Ti
stiamo cercando da ieri. Pensavamo
fossi con Wolfe, ma lui è a una specie di
convention quindi ci ha detto di fare
irruzione. Da quando sei a letto?»
Che giorno era quello in cui la sua
vita era andata in frantumi ed era rimasta
senza lavoro, senza beni e senza futuro?
Ah sì, giovedì. «Da qualche giorno.»
Kennedy si tirò indietro. «Ragazza,
devi lavarti i denti.»
«Domani.» Si girò dall’altra parte ma
la costrinsero a mettersi seduta, salendo
sul letto e circondandola.
«È successo qualcosa con David
all’ospedale?» domandò Arilyn.
Gen si rese conto che non sapevano
niente. Appena uscita dall’ospedale era
andata in un supermercato e aveva fatto
il pieno di grassi e zuccheri. Poi per
potersi autocommiserare in santa pace
aveva mandato un messaggio a tutti
dicendo che doveva lavorare e che
avrebbe chiamato presto. A Wolfe,
sapendo
che
avrebbe
chiamato
comunque, disse che dormiva da Kate e
che si sarebbero visti la settimana
prossima.
Poi si era messa a letto e lì era
rimasta.
«Tesoro, cos’è successo? Wolfe era
agitatissimo. Gli hai mentito dicendo che
eri da me», disse Kate.
«Non volevo farlo preoccupare. È un
po’ che mi fa da babysitter e sta
diventando imbarazzante. Io sto bene.»
Kennedy sollevò due sacchetti di
anelli di cipolla fritti. «Se mangi questa
roba non stai bene.»
Gen inspirò profondamente. «Ho
lasciato l’ospedale. Il mio internato è
finito. Ho avuto un grosso scontro con
David e ha minacciato di rendermi la
vita un inferno. Mi sono accorta che non
posso restare lì.»
Kate si alzò e si tirò indietro i capelli.
«Okay, adesso lo uccido. Voi siete mie
testimoni, io non sono mai stata da lui.»
Gen le prese la mano. «So che non
scherzi, quindi siediti. Ho bisogno di
averti qui, non in prigione.»
Kennedy era furente. «Non può
passarla liscia. Devi denunciarlo.»
Alzò le mani. «Ragazze, ha nascosto
bene le sue tracce. Di più, ha gettato
semi di depressione e ansia. Ha scritto
una lettera di richiamo all’ufficio del
personale. Comanda tutto lì dentro, e io
sono solo la stupida sposa che è
scappata. Non ho nessuna intenzione di
tornare e non voglio impelagarmi in una
causa che perderei sicuramente. Per me
sarebbe ancora peggio.»
«Mi dispiace, Gen. Ma lo uccido lo
stesso.»
«So che lo faresti. Sei un’amica
fantastica.»
«Evitiamo di parlare di omicidi, per
favore, e vediamo cosa possiamo fare»,
intervenne Arilyn. «Se ti attacchiamo un
registratore, riesci a fargli ripetere
quello che ti ha detto?»
La fissarono tutte. Per un’anima così
dolce e mite, Arilyn aveva una vena di
malvagità sorprendente. «Buona idea»,
commentò Ken. «Nate può darci una
mano.»
Gen rise. Solo le sue amiche potevano
portare allegria in ogni situazione.
«Grazie per il suggerimento, A, ma
lascerei perdere. Voglio solo andare
avanti. Non m’interessa altro adesso.»
«Cosa farai?» domandò Kate. «Un
internato in un altro ospedale?»
Lei scosse la testa. «Mi prendo una
pausa. Voglio capire se questo è davvero
ciò che voglio o se è solo un obiettivo
che mi ero prefissa. Mi manca ancora
qualche anno per diventare chirurgo.
Forse è un segno che non sono destinata
a questo mestiere.» Fecero tutte per
protestare ma le fermò alzando una
mano. «No, non sto dicendo che non
sono abbastanza brava, sto solo dicendo
che non mi sono mai data un’alternativa.
Mi serve tempo.» Fece un piccolo
sorriso. «Non ho più niente. Forse è una
buona cosa perché così posso
ricominciare da zero. Riscoprire chi
sono. Mi spiego?»
Arilyn annuì. «Assolutamente.»
«David ti sta assillando? Hai paura di
lui? Penso ancora che dovresti chiamare
la polizia», disse Kennedy.
«No. Ora che non sono più in
ospedale non ha più bisogno di
tormentarmi. La mia roba può tenersela,
non me ne può fregare di meno. Voglio
solo essere libera e ricominciare.»
«Okay, ma non passerai le giornate a
letto a mangiare schifezze nel tentativo
di capire le cose», disse Kennedy. «Hai
un lavoro.»
«Dove?»
«In Kinnections, ovviamente.»
Kennedy e Arilyn si batterono il
cinque. «Sì, è perfetto», pigolò Kennedy.
«Stiamo crescendo così in fretta che non
riusciamo a tenere il passo e dobbiamo
assumere un’altra assistente. Cominci
domani.»
«Cosa? Non posso lavorare in
Kinnections! Non so niente di agenzie
matrimoniali.»
«Non importa», disse Kate, spiccia.
«T’insegniamo noi quello che ti serve,
ma sei già a metà strada. Hai sempre
avuto un intuito straordinario con la
gente. Ti basta ritrovare quella parte di
te.»
L’idea era così assurda che quasi
pensò potesse funzionare. Avrebbe
conosciuto il mestiere delle sue amiche,
si sarebbe tenuta occupata e avrebbe
dato una mano. La pagavano pure. E
quale ambiente migliore di uno popolato
dalle persone che amava di più?
«Non ti permetto di dire di no quindi
fattela andare bene», l’avvertì Kate.
Gen sorrise. «La solita tiranna.»
«Sì, a Slade piace.»
Ken alzò gli occhi al cielo. «Oh, per
favore, è lui il dominatore tra voi due.
Ti ordina di fare ogni genere di assurdità
e tu fai tutta la svenevole.»
Kate soffiò dal naso. «Cosa sta
studiando Nate adesso, giochi anali?»
Gen rise e Kennedy diventò rossa.
Impagabile.
Al
suo
ingegnere
aerospaziale piaceva studiare nuovi
argomenti tra cui i modi migliori di fare
sesso.
Le
sue
dimostrazioni
mantenevano la loro vita sessuale
piuttosto attiva. Era capitato spesso che
Kate trovasse Ken addormentata sulla
scrivania nel disperato tentativo di farsi
qualche effettiva ora di sonno.
Provò una fitta di nostalgia. Sarebbe
dovuto essere così anche per lei e
David. Si chiese se ci sarebbe mai stato
qualcuno che la capisse e la amasse per
quella che era, difetti e complessi
inclusi. Anche se non voleva
ammetterlo, al momento la sua fiducia in
se stessa era ai minimi storici. Avrebbe
mai incontrato un uomo che la voleva
con tanta passione e desiderio? Poteva
capitare anche a lei?
Le balzò alla mente il ricordo del
bacio di Wolfe. La pressione della sua
erezione contro la coscia. Il calore della
sua pelle. La spinta della sua lingua. Sì.
Con David c’era attrazione fisica,
specialmente all’inizio, ma man mano si
era dissolta. Quell’unico bacio di Wolfe
le aveva fatto capire cos’era in grado di
dare alle sue donne a letto. Era sbagliato
desiderare la stessa passione per sé?
Allontanò il pensiero e cercò di
tornare al presente. «Se ritenete che
possa esservi utile, ci sto.»
Kate sorrise soddisfatta. «Bene. Alle
nove. Sarà fantastico.»
«Ma prima devi farti una doccia»,
interloquì Ken.
Arilyn le mise una mano sulla spalla.
«Perché non ti dai una sistemata e
ordiniamo qualcosa da Mugs? Possiamo
guardare un film.»
«Oh, che ne dite di Corpi da reato
con Sandra Bullock? Fa morire dal
ridere», propose Kate.
Ken sospirò. «Tu e le tue commedie.
Non è meglio Magic Mike?»
Arilyn scosse la testa. «L’abbiamo già
visto tre volte. Non ha trama.»
Ken sollevò
un sopracciglio.
«Quindi?»
Gen si alzò dal letto e si diresse alla
doccia accompagnata da un barlume di
speranza. Avrebbe superato questo
momento e le cose si sarebbero
sistemate. E se anche fosse stata un
chirurgo fallito e una futura zitella?
Dov’era il problema? Aveva delle
ottime amiche, una famiglia e un
cervello che funzionava.
Per oggi era abbastanza.
«Salve, benvenuto in Kinnections...
Wolfe? Che ci fai qui?»
Oh, come voleva strangolarla.
Si avvicinò a grandi passi al banco
della reception guardando fisso nei suoi
occhi azzurri apparentemente innocenti.
Era abituato a vederla col camice da
medico o coi jeans, quindi il top di
pizzo nero e la gonna che lasciava
scoperte le gambe lo lasciarono un
attimo sconcertato. Al posto della solita
coda aveva lasciato i riccioli sciolti
sulle spalle, e una ciocca castana le
danzava su un occhio, cosa che
sembrava alquanto fastidiosa ma
maledettamente
sexy.
Seducente.
Provocante. Decisamente non la Gen che
conosceva lui.
Appoggiò i palmi sul banco e si chinò
verso di lei. «Penso sia meglio chiedere
cosa ci fai tu, qui.»
Fece il broncio. Si era messa il
rossetto? Non avrebbe mai pensato che
potesse scegliere una tinta audace, ma
quel color caffè sulle labbra faceva
proprio venire voglia di provarne un
sorso.
Che diavolo stava pensando?
«Sei di cattivo umore. Lavoro qui
adesso.»
La rabbia aumentò. «Sei un chirurgo.
Perché non sei in ospedale?»
Si spostò sulla sedia. «Mi sono
dimessa.»
«Lo uccido quel figlio di puttana.
Aspetta qui.»
Wolfe riuscì a fare qualche passo
prima che lei gli si parasse davanti
bloccandogli l’uscita. «Kate ci ha già
provato due volte. Ascolta, scusa se non
te ne ho parlato ma è meglio così. C’è
stato un episodio sgradevole e ho capito
che non riuscirò più a lavorare lì.»
«Perché non me l’hai detto? Mi mandi
un messaggio dicendo che lavori fino a
tardi e che dormi da Kate. Non rispondi
al telefono e quando finalmente trovo
Kate dice che non sei con lei. Merda,
Gen, mi hai fatto venire un colpo! Ero
bloccato alla convention con una massa
di bellimbusti e non ti trovavo. Che
episodio?»
«Una faccenda con una paziente.
Avevo bisogno di stare sola e non
volevo disturbare nessuno.»
Wolfe strinse i denti e pregò di
rimanere calmo. «Tu non disturbi mai.
Sei mia amica.»
S’addolcì in volto e gli prese i polsi.
Aveva le dita appoggiate sul cuoio dei
bracciali, ma lui le sentì bruciare lo
stesso. «Lo so. Ma devi capire che
ultimamente mi sembra di essere una
femminuccia debole, lagnosa e patetica.
Ho fatto una pazzia dietro l’altra e a un
certo punto sono crollata. Però adesso
sto meglio, grazie.»
La condiscendenza della spiegazione
aumentò la collera di Wolfe, anche se
non capiva perché. Il fatto che s’isolasse
lo mandava fuori di testa ma il pensiero
che si rivolgesse a qualcuno altro era
ancora peggio. Avrebbe voluto scuoterla
finché non avesse capito quanto era
importante per lui. «Non stai meglio. Mi
rifiuto di permettere a quel coglione di
sbatterti fuori quando sei nata per fare il
chirurgo. Non puoi lavorare in
un’agenzia matrimoniale. È indegno di
te, sei totalmente sprecata.»
La dolcezza di Gen scomparve; soffiò
come una gatta: «Chi cavolo sei tu per
giudicare me o Kinnections? Il playboy
magnate dell’industria alberghiera d’un
tratto è diventato snob?»
Lui cercò di non farsi venire il sangue
alla testa. «Non essere ridicola. Sto solo
dicendo che sei destinata a salvare vite
umane, non a metterle insieme!»
Sbuffò, come se la trovasse una
spiegazione ragionevole. «Non sono
d’accordo. Potrebbe essere questa la
mia vocazione. Sono stanca di essere
stressata e di decidere questioni di vita
o di morte. Mi voglio divertire. Chi lo
sa? Magari trovo anche il vero amore.»
Wolfe si sentì grattare dall’irritazione
come da una spugnetta ruvida per
cucina. «Tra una settimana sarai già
stufa di stare qui.»
Tirò fuori la lingua rosa. Era seria?
«No, invece. E non me ne vado finché
non ho accoppiato qualcuno. Voglio
vivere in un mondo di magia e di
speranza. Ehi, ti va di iscriverti? Kate
dice che se trovo dei clienti ho diritto a
un bonus.»
La fissò. «Mi stai prendendo in giro?
No, non mi iscrivo a Kinnections.
Ascolta, ti aiuto a farti trasferire in un
altro ospedale. Posso fare qualche
telefonata, conosco un tizio ad Albany,
molto influente. Non puoi lasciare
l’internato dopo aver lavorato tanto.
Sistemiamo tutto.»
«Non c’è niente da sistemare. Questo
è il mio lavoro e ti ci dovrai abituare.»
Suonò il telefono e lei s’illuminò.
«Devo rispondere.»
Wolfe la guardò correre al banco e
appoggiarsi al piano. La gonna si tese
sul sedere pieno, scoprendo un pezzo di
coscia in più. Indecente. Barcollò sui
tacchi a spillo fino a trovare
l’equilibrio. Per l’amor del cielo, non
metteva mai i tacchi. L’aveva convinta
Kennedy? Perché faceva così caldo lì
dentro?
Si passò le mani tra i capelli e
l’ascoltò cinguettare di una prossima
serata d’incontri al Purple Haze, quindi
ridacchiare in modo sospettosamente
civettuolo. Oh sì. Kennedy le aveva
decisamente fatto qualcosa. Riagganciò,
si girò vacillando verso di lui e si
aggiustò il ridicolo pezzo di stoffa che
costituiva il suo abito da ufficio. Persino
il profumo era diverso. Era venuta a
lavorare qui per trovarsi un compagno?
No, non sarebbe stato da lei. Diceva
sempre che le ci volevano mesi per
dimenticare un uomo. Per dimenticare un
futuro marito doveva volerci almeno un
anno.
«Sicuro che non vuoi aiutarmi a
guadagnare qualche soldino in più?» Gli
strizzò l’occhio. «Saresti un bene
preziosissimo.»
Rifiutò di sentirsi in imbarazzo. «No.
Le donne posso trovarmele da solo.»
«Okay. Tanto prenderò qualcosa per
la mia iscrizione.»
Aprì la bocca, la chiuse. La riaprì.
«Di che parli?»
Gen sorrise. «Sarò una nuova cliente
di Kinnections!»
«Hai appena rotto con David. Dici
sempre che ci vogliono mesi per uscire
da una relazione e cominciarne un’altra.
Ricordi quando ho lasciato Allie e mi
hai fatto annullare l’appuntamento del
weekend successivo? Mi hai costretto
alla castità per due settimane!»
Alzò gli occhi e spinse in fuori un
fianco. Il top si spostò, mostrando una
spallina di pizzo. Cosa? Sapeva per
certo che portava solo biancheria intima
di cotone. «Dovevi pagare. Le hai
spezzato il cuore.»
«Non è vero. Sapeva dall’inizio come
stavano le cose.»
«È comunque sbagliato. Dichiarare di
non volersi impegnare non significa che
le cose non possano cambiare. Si è
innamorata di te e tu te ne sei andato
senza nemmeno provarci.»
Stavolta arrossì. «Dico a tutte le
donne con cui esco che non sono
interessato a una relazione a lungo
termine. Lo sai. Hai sempre detto di
apprezzare la mia correttezza e onestà.»
«Be’, ho cambiato idea. Penso che sia
da stronzi, invece. Devi cominciare a
guardare al futuro. Perché non ci
iscriviamo insieme? Possiamo uscire in
quattro!»
Aveva mangiato qualcosa di avariato
a colazione? Perché gli veniva da
vomitare. L’immagine di loro due a cena
con due estranei era intollerabile.
Quella donna gli stava facendo venire il
mal di testa.
«Sto bene così. E penso che l’ultima
cosa di cui hai bisogno è un’altra
delusione da un uomo. Prenditi una
pausa. Potresti crearti un hobby. Lavoro
a maglia?»
Lo fulminò con lo sguardo. «Non ho
ottant’anni. Voglio riprovarci. David mi
ha quasi rotto qualcosa dentro e lo
rivoglio.»
Merda. Se la metteva così, avrebbe
fatto qualunque cosa per aiutarla. «Cara,
non è meglio trovare la guarigione
dentro di te piuttosto che affidarti a fonti
esterne?»
Spalancò gli occhi. «Wow. Come sei
diventato profondo. Di regola sarei
d’accordo, ma sono stufa di sentirmi
insicura e timorosa. Voglio essere
coraggiosa e fare un salto nell’ignoto.
Capisci?»
Sì, capiva. Quello che non capiva era
perché il pensiero che riprendesse a
uscire con gli uomini gli desse tanto
fastidio. Si erano sempre raccontati le
loro avventure e lui le dava persino dei
consigli. Cos’era cambiato? Si stava
innervosendo, quindi cambiò argomento.
«Perché porti quella roba?»
«Quale roba? La gonna?»
«Detesti vestirti per fare colpo. C’è
lo zampino di Kennedy?»
Lo guardò come se gli fossero sputate
le corna. «Certo che sei strano, amico.
Ti sei stancato troppo alle conferenze?
Com’è andata?»
«Bene.» Non aveva voglia di parlare
di lavoro, di riunioni infinite o di dati di
vendita. «Credo che dovremmo parlarne
più approfonditamente. Che ne dici di
stasera a cena? Vengo a prenderti alle
sette.»
Incrociò le braccia sul petto. «Se mi
prometti di non provare a farmi
cambiare idea.»
«Questo non posso promettertelo. Ma
ti offro un hamburger.»
Gen scosse la testa. «Va bene. Non ho
preferenze. A stasera.»
La guardò tornare dietro il banco e
sedersi. Quando incrociò le gambe, per
un attimo rimase accecato dalla sua
pelle liscia e bianca. Gen scherzava
sempre sul fatto di non aver ereditato un
goccio di sangue italiano perché si
scottava subito e non si abbronzava mai.
Ma a lui prudevano le mani dalla voglia
di toccare quella meravigliosa pelle
nuda, morbida e pura.
Wolfe voltò le spalle a lei e ai suoi
pensieri sconcertanti. Aveva bisogno di
una doccia e di un pisolino. Cominciava
a chiedersi se gli ultimi tre mesi di
castità fossero davvero una buona idea.
La pausa ci voleva. Era stufo del gioco
della seduzione e della velocità con cui
le donne gli si attaccavano. Quasi
considerassero una sfida farlo crollare.
Se solo avessero capito che non c’era
niente in lui che non fosse già crollato.
Il sesso tuttavia avrebbe potuto
rendere la pausa meno dura. L’ultima
cosa di cui aveva bisogno erano le
fantasie proibite sulla sua migliore
amica. Era l’unica relazione sana che
avesse mai avuto con una donna. Non
voleva rovinare la cosa più bella che gli
era mai capitata per un’impennata di
testosterone.
Tornò in auto a Manhattan. Il suo
attico era super attrezzato, sistemi di
sicurezza, articoli di lusso e tutti i
comfort possibili e immaginabili. Ma
per quanto elegante, con i pavimenti in
parquet e i soffitti alti, l’appartamento
era arredato in modo spartano (e con
gusto maschile). Legno scuro, vetro,
schermi di computer e tv e pareti nude.
Lui quasi non ci dormiva neppure.
Trovava più comodo alloggiare al
Purity, così poteva mantenere tutto sotto
controllo.
Fece una doccia veloce, si cambiò e
mise su il caffè. Avrebbe potuto
rilassarsi, guardare una partita di
baseball in tv e poi lavorare un po’.
Tutto considerato, i giorni precedenti
erano stati faticosi e aveva bisogno di un
po’ di riposo. La cena con Gen gli
avrebbe migliorato l’umore. Avrebbero
ripreso le loro abitudini e lui avrebbe
iniziato a cercare una nuova compagna
di letto che non avesse niente a che fare
con Kinnections.
Quando citofonò il portiere per dirgli
che un agente in uniforme voleva
vederlo, Wolfe ebbe un brutto
presentimento.
Gli fu consegnato un ordine restrittivo
temporaneo richiesto dal signor David
Riscetti, che lo accusava di molestie e
di una serie di altre sciocchezze.
Presentimento confermato. Come
sempre.
Lesse l’ordine. Quel figlio di puttana
era in gamba, doveva riconoscerlo.
Nella partita a scacchi che stava
giocando, stava facendo delle ottime
mosse. Wolfe non si preoccupava per sé,
gli bastava che David stesse alla larga
da Gen. Purtroppo qualcosa gli diceva
che non sarebbe stato così.
Già. Nel complesso era stato uno
schifo di giornata.
Gen finì d’immettere informazioni nel
programma creato da Arilyn e si chiese
cosa fosse preso a Wolfe.
Credeva che sarebbe stato contento di
vederla pronta a uscire con qualcuno.
Invece era di malumore e scorbutico.
Forse erano state le conferenze. Si
ammazzava di lavoro per inseguire il
successo e dimostrare a Sawyer che ci
sapeva fare.
Sentì una stretta al cuore. Era così
chiuso, ma quando amava una persona
era pronto a rischiare la vita per lei. Era
così deplorevole desiderare che
trovasse il vero amore con una donna
degna di lui? Doveva convincerlo a
provarci. Se si fosse iscritto a
Kinnections
avrebbe
avuto
più
probabilità d’incontrare quella giusta.
E magari lei avrebbe smesso di avere
certi pensieri su di lui.
Gen trattenne un sospiro e andò a
riempirsi la bottiglietta d’acqua. Wolfe
era sempre stato fisicamente attraente.
Aveva fatto tanti soldi con la pubblicità
dell’intimo,
esibendo
tatuaggi,
addominali d’acciaio e muscoli asciutti
che risvegliavano desideri assopiti. Ma
il suo aspetto non aveva mai interferito
con la loro amicizia.
Ora invece sì. Quasi cadeva dalla
sedia quando l’aveva visto entrare.
L’abito dal taglio pulito ed essenziale
che indossava era dello stesso azzurro
degli
occhi
e
gli
modellava
perfettamente il corpo. Con quei riccioli
color cioccolato, le labbra sensuali e
l’aura di potere che emanava,
risucchiava tutta l’aria della stanza.
Nessuno avrebbe dovuto essere così
sexy con un abito elegante. Non era
giusto.
E l’aveva guardata in modo diverso,
oggi. Il suo sguardo le aveva
accarezzato le gambe nude e il top di
pizzo in modo quasi... famelico. La cosa
peggiore? Che per un orribile attimo
aveva desiderato di spogliarsi per lui e
di essere guardata in quel modo, come
se volesse mangiarla viva.
Rabbrividì.
Che
stupidaggine.
Probabilmente era tutta conseguenza
della rottura del fidanzamento, della
crisi del primo quarto di vita e di un po’
di voglia repressa. Doveva essere così.
Per forza.
Le trillò il telefono. Guardò il numero
ma non lo riconobbe. Rispose lo stesso.
«Pronto?»
«Genevieve! Sono Sally. Come stai?»
Sorrise. Le mancava l’ospedale ma
non l’aveva contattata nessuno da
quando era andata via, a parte Sally.
Gen non le aveva raccontato molto, ma
lei aveva notato il modo in cui la
trattavano. Era carino avere qualcuno
dalla sua parte. «Ciao, Sally. Sto bene.
Non ho riconosciuto il numero.»
«Sto usando il telefono di un
volontario. Scusa se non ti ho più
chiamata.»
«Scherzi? Sei fortunata se ti lasciano
respirare. È successo qualcosa?»
«Volevo sapere se possiamo vederci
una sera a cena. Mi manchi.»
«Grazie. Significa molto per me.
Scrivimi tu un messaggio quando sei
libera e ci mettiamo d’accordo, okay? Io
ho orari più ragionevoli.»
«D’accordo. Ehm, ci sarebbe un’altra
cosa ma è un po’ strana.»
Un formicolio alla pelle. «Dimmi
pure.»
«Si tratta di David. Non voglio essere
messa in mezzo, Gen, quindi spero che
non t’arrabbi. Mi ha chiesto se ti sentivo
e gli ho detto che avevamo parlato
velocemente, al che mi ha pregato di
chiederti di chiamarlo al cellulare oggi.
Per la tua roba, credo.»
Gen s’accigliò. «Ha chiesto a te di
chiamarmi?»
Sally fece una risata forzata. «Esatto.
Sta facendo i doppi turni quindi forse lui
non ha proprio tempo. Mi dispiace, non
sapevo cosa fare.»
Ribollì di rabbia. Povera Sally, messa
in mezzo in quel modo. Era chiaro che
non poteva dire di no al suo capo. «Non
preoccuparti. Gli faccio uno squillo.
Non dimenticare la cena.»
«Grazie per aver capito. Prometto che
non ci saranno altri messaggi. Ooops,
devo andare, ti scrivo!»
La linea s’interruppe.
Gen si picchiettò un dito sulle labbra,
perplessa. Doveva chiamarlo? Forse
voleva restituirle le sue cose. Se era
così occupato al lavoro, non c’era da
stupirsi che la facesse chiamare da
qualcun altro. David non era tipo da
ammettere distrazioni quando aveva a
che fare coi pazienti. Era davvero un
ottimo medico. Com’era possibile che
fosse anche un crudele manipolatore?
Non volle pensarci troppo. Col cuore
che batteva forte, digitò il suo numero e
ascoltò gli squilli. Uno. Due.
«Pronto.»
La sua voce profonda le accarezzò le
orecchie. Un tempo adorava ascoltarlo,
specialmente quando le spiegava
qualcosa. Finché quella bella voce
aveva cominciato a lanciare frecciate
velenose senza mai capire quanto le
facessero male. Si fece forza. «Sono io.
Sally mi ha detto di chiamarti.»
«Ah, giusto. Oggi siamo nel caos per
un incidente d’autobus. Non ho avuto un
attimo.»
«Cosa vuoi?»
Un breve silenzio. «Non voglio tenere
nulla che ti appartenga, Genevieve»,
rispose. «Se abbiamo deciso di rompere
definitivamente, è chiaro che puoi
riavere le tue cose. Comportiamoci da
adulti e non peggioriamo la situazione.»
Si rilassò leggermente. Non sembrava
determinato a riprendersela. Forse ora
che aveva lasciato l’ospedale aveva
capito che era veramente finita.
«Concordo.»
«Passo da te stasera col computer e
un paio di altre cose. Il resto puoi venire
a prenderlo quando non ci sono.»
«Oh, non c’è bisogno, posso
aspettare.»
«Il tuo computer contiene file
personali», ribatté infastidito. «Visto che
non sei più in ospedale dovrai
organizzarti e non voglio essere
responsabile. Sarò da te verso le sette.»
«Devo uscire a cena.»
«Alle sei, allora. Non mi fermo. Non
voglio trascinare la cosa più di quanto
lo voglia tu. D’accordo?»
Non c’era motivo di rifiutare. Si stava
mostrando ragionevole e voleva soltanto
restituirle le sue cose. «Sì.»
«Molto bene. Ci vediamo stasera.»
Gen provò a rimettersi al lavoro ma
sentì addosso una profonda tristezza.
Essere innamorata di un uomo, pensare
di conoscerlo, e scoprire di essersi
innamorata di un estraneo. Le passò il
buon umore. Forse non era il caso di
ricominciare a vedere gente. Forse era
meglio stare sola per un po’.
Arilyn passò dall’ufficio in leggings
neri, maglietta lunga e zoccoli comodi,
capelli sciolti e sacca in spalla. «Ehi,
come va oggi?»
Gen sorrise. «Benino. Ho studiato i
file di alcuni clienti e sto imparando a
usare il programma e a rispondere al
telefono.»
«Vai benissimo. Ho creato un manuale
che ti può essere utile. Passo a
prenderlo a casa.»
«Non c’è fretta, non passarci adesso.»
Arilyn sospirò. «Devo andarci
comunque, aspetto l’idraulico. Come se
non bastassero i soffitti che perdono e il
riscaldamento quasi inesistente, adesso
ci si mettono anche le tubature.»
Gen alzò un sopracciglio. «E il
padrone di casa? È illegale.»
«Lui si disinteressa totalmente, gli
lascio dei messaggi ma è all’estero e
non risponde nemmeno. Vuole vendere a
tutti i costi. Potrei essere costretta ad
andarmene, ma dev’essere un posto in
cui si possono tenere i cani.»
«Mi dispiace. Comincerò a chiedere
in giro.»
«Grazie. Ti porto il manuale dopo la
lezione di yoga.»
«Mmm, come va lo yoga? Con... lui.»
Le scese un’ombra sul volto. «Non
benissimo. Ma ha scelto di stare con me
e sono certa che andrà meglio. Non è
facile quando hai tutte le allieve che
s’innamorano di te e come istruttore ti
senti in dovere di dar loro qualcosa.
Non capisci più quali sono i limiti.»
La storia col suo istruttore di yoga
andava avanti a intervalli da un pezzo.
Gen non sapeva esattamente come
stavano le cose, ma solo il fatto che
dovessero tenere nascosta la relazione
le sembrava fuori dal mondo. L’ultima
volta che lui l’aveva tradita, Arilyn era
cambiata. Aveva perso la sua
proverbiale calma, non riusciva più a
concentrarsi. Kate aveva minacciato di
mostrargli il vero significato dello yoga
ammazzandolo di botte, ma dopo una
settimana erano tornati insieme e Arilyn
l’aveva difeso a spada tratta.
Non uno scenario promettente.
Ma chi era lei per giudicare? Era
scappata dal suo matrimonio. «Sono
contenta», disse. «Meriti di essere
felice.»
Arilyn sorrise. «E tu anche. Come ti
senti?»
Sospirò. «David passa a restituirmi
un po’ della mia roba, stasera. Ero di
buon umore, oggi, ma d’un tratto mi sono
resa conto che non avevo capito niente.
Non posso credere di essere stata due
anni con un uomo senza capire quello
che stava succedendo. Mi chiedo se
posso ancora fidarmi del mio istinto.»
«Il tuo istinto ti ha impedito di
sposarlo. Le donne forti e indipendenti
sono le più vulnerabili agli abusi. Ci fa
piacere rinunciare al controllo, ogni
tanto, farci proteggere e avere qualcuno
che si occupa di noi. E spesso l’amore
impedisce di vedere chiaramente. Non
essere dura con te stessa. Siamo tutti qui
per sbagliare, ma troverai la tua strada.»
«Forse dovrei lasciar perdere
l’iscrizione a Kinnections. Non sono
pronta.»
Arilyn alzò un sopracciglio. «Di
solito suggerisco di prendersi il tempo
per guarire, ma nel tuo caso credo che
uscire con qualcuno ti farebbe bene.
Devi riacquistare sicurezza. E comunque
ci vogliono settimane per trovare una
persona adatta. A volte la promessa di
qualcosa di nuovo ti offre una
prospettiva diversa sulle cose.»
«Può darsi.»
Arilyn fluttuò verso la porta.
«Pensaci. Kate e Kennedy sono nel loro
ufficio se hai bisogno. A dopo.»
«Ciao.»
Gen si appoggiò alla sedia
mangiucchiandosi le unghie. Aveva
avuto molti alti e bassi ultimamente,
come se fosse intrappolata su una
montagna russa di emozioni. Da una
parte le mancava il caos dell’ospedale,
il pensare continuamente agli altri.
Dall’altra era sollevata di non doversi
più preoccupare per nessuno.
Si mise davanti al computer e si diede
da fare per aiutare gli altri a trovare
l’amore.
«Eccomi!»
La seconda bussata aveva il tono
paziente di un uomo che non era abituato
ad aspettare. Gen andò verso la porta
saltellando su un piede mentre infilava
un paio di ballerine.
David la guardò velocemente da capo
a piedi, dando la sua silenziosa
valutazione. Cercò di non innervosirsi e
aspettò il suo giudizio. Quante volte
uscendo dal bagno era stata accolta da
una scrollata di capo seguita dalla
richiesta di cambiarsi? Aveva un’idea
molto precisa del tipo di abbigliamento
che la moglie di un chirurgo di successo
doveva indossare, tanto che a un certo
punto aveva preso l’abitudine di far
scegliere a lui i capi che voleva vederle
addosso.
Ingoiò a vuoto e fece un passo
indietro. «Prego.»
Lui entrò in casa come se ne avesse
tutto il diritto. «Ti trovo molto...
vivace.» Lei s’irrigidì ma non disse
niente. «Ritorno alle origini, eh?
Speravo che il tempo passato insieme
avesse affinato un po’ i tuoi gusti.»
«Dov’è il mio computer?»
«In macchina.» Portava ancora il
camice e aveva un velo di barba. Strano.
Ovunque andasse aveva sempre un
rasoio a portata di mano, e la
sorprendeva che non si fosse fermato a
darsi una ripulita. David detestava
mostrarsi in disordine. Diceva che era
dovere di un chirurgo ispirare fiducia a
prima vista.
Sentì una fitta al cuore. Era così
bello, ma così freddo. Come una statua
che potevi ammirare o sognare, ma non
avere. Gen si girò cercando di scacciare
le lacrime improvvise per la perdita di
una persona che non aveva mai
veramente avuto.
«Lo prendo io. Il resto sarò felice di
venire a ritirarlo domenica durante il tuo
solito turno.»
«Abbiamo
fretta?»
biascicò
fermandosi davanti a lei.
Gen si raddrizzò per sembrare più
alta, il che era patetico, e cercò di
mostrarsi calma. «Ho un appuntamento a
cena.»
«Me l’hai detto. Alle sette, però.»
«Preferirei sbrigare questa faccenda
in fretta.»
Alzò un sopracciglio. «Ti stai
comportando come una marmocchia
scontrosa. Non hai diritto a preferire
niente. Te ne sei andata umiliandomi il
giorno del mio matrimonio. La donna
che amavo e con cui progettavo il mio
futuro non mi avrebbe mai ferito così
profondamente.»
Fece una smorfia. «Mi dispiace»,
disse con dolcezza. «Posso continuare a
ripeterlo per sempre, ma non capisci il
vero problema. Avevo l’impressione di
non andarti mai bene, qualunque cosa
facessi. Mi dicevi cosa mettere, cosa
mangiare, cosa dire. Come comportarmi,
chi frequentare. Era soffocante.»
Piegò le labbra in un ghigno. «È
questo il problema? Fare solo quello
che volevi tu? Cercavo di prendermi
cura di te, di darti quello di cui avevi
bisogno. E mi ripaghi comportandoti
come
una
sgualdrina
e
rinfacciandomelo?»
Il cuore le batteva forte. Odiava
questo lato del suo carattere. L’aveva
sempre spaventata, anche se prima non
se ne rendeva del tutto conto. Si
allontanò da lui, cercando di mantenere
la calma. «Non rifacciamo questa
scenata. Prendo solo il computer e per
stasera la chiudiamo qui.»
Le diede una spinta così forte che
cadde
sul
divano.
Restò
momentaneamente immobile per lo
shock. «Non abbiamo finito. Neanche
lontanamente. Ti ho dato tutto e ti
lamenti pure. Pensi di potermi mollare
per una squallida scappatella senza
conseguenze? Secondo me è un bel po’
che ci prendi entrambi per i fondelli.»
Balzò in piedi guardando il telefono.
La rabbia nel suo sguardo le fece sudare
le ascelle. Cercò di mantenere il respiro
regolare, incerta sul da farsi. Avrebbe
giurato che David non l’avrebbe mai
sfiorata con un dito, né sarebbe mai
riuscito a farle del male. Ora invece
davanti a lei c’era un estraneo con cui
non aveva mai avuto nulla a che fare. E
se la faceva sotto dalla paura.
«Ti ascolto.»
Si mosse di nuovo come un fulmine,
afferrandola per un braccio e
sbattendola contro al muro. Gen batté
forte la schiena e cercò di non perdere
l’equilibrio, ma lui la stava già
schiacciando col suo corpo tenendole
stretti i polsi. Sentì il suo alito sul viso.
«Non fare la condiscendente con me,
Genevieve. Lo facevi meglio con Wolfe
che con me? Perché ti dirò che, a parte
le prime settimane, poi sei stata una vera
delusione.»
Cercò di liberarsi dalla sua presa ma
lui la teneva stretta in una morsa. Le
parole le si fermarono in gola e si sforzò
d’incamerare ossigeno. «Per favore, no.
Vattene, ti prego.»
«Quando avrò finito.» Spinse i fianchi
contro di lei. La sua erezione la nauseò.
«Ti ha insegnato come si fanno i
pompini? Ti sei comportata come una
cagna in calore mentre ti scopava?
Perché con me non l’hai mai fatto. Oh, la
tecnica era corretta, ma eri come una
bambola gonfiabile. Un versetto carino
qui, un orgasmo finto là. Credevi che
non lo sapessi? Scommetto che se metto
la mano dentro questi jeans sei asciutta e
secca come una foglia morta.»
L’aggressione verbale la ferì quanto
quella fisica. Era così scossa che
cominciò a battere i denti dalla paura e
dalla vergogna. Quando stavano insieme
tremava al pensiero di fare l’amore con
lui perché nonostante i disperati tentativi
di dare piacere a entrambi, mancava
sempre qualcosa. E dopo era tutta una
critica e un suggerimento, senza più
spazio per i sentimenti. Restava solo un
immenso vuoto che lei non riusciva a
riempire.
«Lasciami, per favore», sussurrò.
Lui sorrise. «Fingi come hai sempre
fatto, piccola.» Lo strattone al bottone
dei jeans risuonò come un colpo d’arma
da fuoco.
Perse la testa.
Al limite dell’isteria, lo spinse con
tutta la forza che aveva, pronta a usare le
unghie e i denti e qualunque cosa le
capitasse a tiro per toglierselo di dosso.
D’un tratto volò indietro e fu libera.
Gen guardò Wolfe torreggiare
sull’uomo a terra. Come uno spirito
vendicatore, pugni stretti e occhi azzurri
infuriati, a metà strada tra un individuo
evoluto e un primate. «Stai bene?» Il
tono calmo era in totale contraddizione
con la furia che emanava da lui.
«Sì.»
«Okay.»
David si rimise in piedi e si sistemò
il camice. «Che coincidenza. Il
cavaliere con l’armatura che arriva in
soccorso. Non preoccuparti, Wolfe. Sarà
sempre la mia seconda scelta.»
Sghignazzò. «Magari ci riprovo quando
hai finito tu. Magari è un po’ più
pronta.»
Wolfe fece un sorrisetto. «Ora mi
diverto.» Gli mollò un pugno. David
barcollò,
tenendosi
la
mascella
esterrefatto. «Se solo ti avvicini, o pensi
a lei, o anche solo pronunci il suo nome,
giuro su Dio che ti uccido.»
Gen trattenne il fiato quando Wolfe
ripartì all’attacco. Veloce come un
fulmine, colpì David con un pugno alla
bocca dello stomaco, seguito da un
violento montante al mento. Schizzò il
sangue e David cadde a terra. C’era una
luce pericolosa negli occhi di Wolfe, e
Gen capì che se non l’avesse fermato
subito avrebbe passato il limite e poi
sarebbe stato troppo tardi.
Gli si buttò tra le braccia,
stringendosi forte a lui. «Wolfe. No!»
David tossiva tenendosi lo stomaco.
«Sei finito. Ti faccio causa!»
Wolfe avanzò di un altro passo. Gen
gli prese il volto tra le mani e lo obbligò
a guardarla negli occhi. «Basta, Wolfe,
non ne vale la pena.» Lui batté le
palpebre come se fosse appena tornato
da un altro mondo e cominciò a toccarla
in affanno, accarezzandole i capelli, le
guance, le braccia, i fianchi.
«Ti ha fatto del male? Ti ha toccata?»
«No, sei arrivato in tempo. Non mi ha
fatto niente.»
Le prese il volto tra le mani, lo scorse
con lo sguardo, poi la strinse tra le
braccia.
Il calore del suo corpo la fece
smettere di tremare. Gli lasciò le
braccia al collo e appoggiò la testa
contro il suo petto.
«Fermi! Polizia!»
Le luci dei lampeggianti illuminarono
la finestra. Due poliziotti entrarono dalla
porta semiaperta. «Lasciala andare
immediatamente.»
Gen inspirò di colpo. «Non ha fatto
niente di male, agente.»
«Nessuno si muova. Signora, per
favore, si allontani da lui. Lentamente.»
Gen obbedì, staccandosi di qualche
centimetro. David si girò sul fianco
gemendo, piegato in due. «Restate tutti
dove siete. Signore, ha bisogno di
un’ambulanza?»
«Non credo. Questo figlio di puttana
mi ha picchiato. Voglio che l’arrestiate.»
«Non è vero!» Gen guardò agli agenti.
Portavano l’uniforme blu di Verily con
la pistola nella fondina al fianco e
osservavano la scena. Notò che erano
completamente diversi. Uno aveva i
capelli scuri quasi rasati, a enfatizzare il
pizzetto, ed era altissimo. Cavolo, la
testa gli arrivava quasi alla traversa
della porta. Aveva un viso magro dai
lineamenti marcati e un aspetto da bruto;
persino le labbra erano naturalmente
piegate in un ghigno. Non avrebbe mai
voluto incontrarlo in un vicolo deserto.
L’altro invece sembrava appena
sbarcato da Hollywood, capelli castani
chiari spettinati, occhi nocciola e faccia
da attore, con lineamenti finemente
scolpiti, labbra piene e aria da ragazzo
della porta accanto. Era alto la metà del
suo collega. «Agente, mi stava
aggredendo. Wolfe è arrivato in tempo
per impedirlo.»
David si alzò in piedi tenendosi la
mano sulla mascella. «Di nuovo questo
giochetto, Genevieve?» disse con lo
sguardo addolorato. «Mi hai chiamato
tu. Mi hai pregato di venire. Adesso
questo coglione ci coglie sul fatto e tu
mi consegni alla polizia? Gesù, non
conto niente per te?»
«Quest’uomo è un bugiardo!»
Si voltarono tutti verso la voce
femminile che aveva appena tuonato con
grande autorevolezza. Arilyn passò in
mezzo agli agenti come se avesse pieno
titolo di farlo e abbracciò la sua amica.
Gen le si abbandonò con la sensazione
di trovarsi in una serie tv. N.C.I.S.,
forse? No, quello era l’esercito. O il
governo. Qualcosa del genere. Cavolo,
cominciava a dare i numeri.
Il bruto strinse gli occhi. «Lei chi è?»
volle sapere.
«Arilyn Meadows. Vi ho chiamati
io.»
«Cosa?» sussurrò Gen. «Come facevi
a saperlo?»
«Sono venuta a lasciarti il manuale
perché non sono ripassata dall’ufficio, e
quando ho visto la sua macchina qui
davanti ho sentito puzza di guai. Non
volendo intervenire da sola ho chiamato
la polizia. Ma Wolfe è arrivato prima.»
Alzò il mento e annusò l’aria come se
sentisse un cattivo odore. «Ho detto che
era un’emergenza e ci avete messo una
vita ad arrivare.» Li guardò di traverso.
«Pensavo che la città di Verily fosse più
preparata. Sono molto delusa.»
Il bello rise. Il bruto grugnì
infastidito. «Complimenti per il
carattere, signora. Che ne dice se adesso
saltiamo la parte del tè e dei pasticcini e
cominciamo a rispondere a qualche
domanda?» Si girò verso Wolfe. «Lei
Rambo non si muova, intesi?» Wolfe
alzò le mani e le tenne ben in vista.
«Parliamo uno per volta. Lei. Mi dica
cosa è successo.»
David rispose. «Io e Genevieve ci
eravamo lasciati, ma stavamo pensando
di rimetterci insieme. Mi ha chiamato
oggi pomeriggio mentre ero in ospedale
e mi ha chiesto di venire da lei. Voleva
parlare. Ha detto che le dispiaceva di
avermi tradito con Wolfe, quel tizio»,
precisò indicando Wolfe. «Stava
andando tutto bene, l’atmosfera si stava
scaldando nel senso buono del termine,
e ci stavamo baciando contro la parete.
Poi questo psicopatico è piombato in
casa, mi ha afferrato e mi ha pestato a
sangue.»
Gen strinse la mano di Arilyn per
farsi forza. «Non è vero», disse col
respiro affannoso. «Sta mentendo.»
Gli agenti osservarono David, poi
annuirono. Parlò il bello. «Signora? La
sua versione?»
Gen ricominciò a tremare. «Io e
David ci siamo lasciati. Non torneremo
mai insieme. Mi ha chiamata per dirmi
che sarebbe passato a restituirmi una
parte delle cose di mia proprietà che
sono ancora nel suo appartamento.
Quando è arrivato gli ho chiesto
dov’erano le mie cose e ha risposto che
erano in macchina. Poi ha cominciato a
insultarmi, mi ha spinta contro il muro e
ha cercato... ha cercato...»
«Di farle del male!» concluse la frase
Arilyn. «Di stuprarla. Per l’amor del
cielo, agente, faccia il suo lavoro e
arresti quest’uomo.»
Il bruto le diede un’occhiataccia.
Arilyn tacque.
Il collega avanzò verso di loro e si
fece seguire in cucina. «Venite, signore.
Voglio qualche dettaglio in più di questa
storia.»
L’altro si girò verso Wolfe. «E lei?
Cos’ha da dire?»
«Gen ed io dovevamo uscire a cena
alle sette. Sono arrivato prima, ho visto
la macchina di lui e ho sentito lei che
gridava, quindi sono piombato in casa e
l’ho sorpreso mentre l’aggrediva.
Gliel’ho tolto di dosso e l’ho colpito.»
David scosse la testa. «Figlio di
puttana! L’hai talmente spaventata con le
tue sfuriate che ha paura di dirti che
siamo tornati insieme. Perché credi che
abbia ottenuto un ordine restrittivo?»
Gen restò di stucco. «Cosa?»
Il bruto guardò Wolfe. «È vero? C’è
un ordine di protezione contro di lei?»
Wolfe strinse la mascella. «L’ho
ricevuto qualche ora fa. Era tutto
premeditato.»
L’agente mormorò qualcosa tra sé.
«Devo fare un controllo. Chiamo e
chiedo la verifica.»
Il bello guardò Gen preoccupato.
«Signora, vuole andare in ospedale? È
stata malmenata?»
Lei si sfregò le mani sulle braccia per
scaldarsi. La stanza cominciò a girare.
«David mi ha minacciata. Non so cosa
sarebbe successo se non fosse arrivato
Wolfe.»
David le puntò un dito contro. «Ti
rendi conto che queste bugie potrebbero
danneggiare la mia carriera? Diavolo,
posso provarlo. Mi ha chiamato sul
numero privato. È lei che ha organizzato
l’incontro. Controllate il cellulare se
non mi credete.»
«No, no, tu hai chiamato me! Cioè mi
ha chiamato Sally chiedendomi di
chiamarti...» La voce s’affievolì e
tacque. D’un tratto aveva capito.
«Gliel’hai chiesto tu.» Si coprì la bocca
con la mano. «L’hai fatto apposta. Mi hai
fatto chiamare per avere la prova della
telefonata.»
«Ne ho abbastanza. Sporgerò
denuncia. Ora chiamo il mio avvocato,
che proverà che c’è un divieto di
avvicinamento a cui questo tizio non ha
obbedito. Lo voglio in carcere.»
«No!»
«Io sono sua testimone!» gridò Arilyn.
«Sporgiamo denuncia anche noi.»
Il bruto alzò la voce. «Calmiamoci
tutti quanti, ora. Basta parlare e restate
separati.» Imprecò sottovoce, comunicò
qualcosa al collega con lo sguardo e
prese la ricetrasmittente. Il bello annotò
gli ultimi dettagli sul blocco.
Alla fine il bruto si girò verso Wolfe.
«Devo chiederle di venire con noi alla
centrale. C’è un’ordinanza restrittiva
contro di lei che prevede il divieto di
avvicinamento e ci sono prove di
violenza fisica.»
Wolfe annuì. L’agente estrasse le
manette.
«Oh mio Dio, no. Questo è ridicolo.
Vengo con te», balbettò Gen.
«Non è una cattiva idea. Vorrei che
veniste tutti, così raccogliamo le vostre
dichiarazioni ufficiali.»
David lo guardò di traverso.
«Chiederò al mio avvocato di
raggiungervi in centro.»
Il bruto alzò gli occhi al cielo. «Non
siamo in centro, signore. Siamo su Main
Street. Nei quartieri alti, si dà il caso.»
Il bello sembrò divertito. «Lo porto
io.»
Wolfe fece un passo verso Gen ma il
bruto lo fermò. «Non ancora. Preferisco
che non parliate finché non avremo
sentito le versioni di tutti.»
Oh oh. Gen guardò Wolfe. Stringeva i
denti sforzandosi di mantenere il
controllo. «Io sto bene», disse con
convinzione. «Vai con lui, ci vediamo
alla centrale.»
«Cos’ha nella testa?» abbaiò Wolfe
all’agente. «È appena stata aggredita. Le
procuri una coperta e dell’acqua.»
«Portalo via di qui. Noi ti seguiamo»,
disse il bruto al collega. Gen guardò
impotente il bello che scortava Wolfe
alla volante. Arilyn borbottò sottovoce
qualcosa d’indecoroso mentre il bruto
accompagnava anche loro due alla sua
auto. Le fece accomodare, chiuse la
portiera, sparì e tornò con una coperta e
due bottiglie d’acqua che aveva
recuperato nel bagagliaio. «Ecco.» Le
mise in mano ad Arilyn e si sedette al
posto di guida.
Arilyn avvolse la coperta intorno alle
gambe di Gen e le aprì la bottiglia. Lei
ne bevve qualche sorso. Il calore del
tessuto ruvido la rilassò. Era proprio
stupida. Era tutta colpa sua, che l’aveva
chiamato e aveva creduto a quello che le
aveva detto. Com’era possibile che la
loro relazione fosse arrivata a questi
livelli di odio e violenza?
E l’ordine restrittivo? Wolfe era nei
guai a causa sua. Doveva fare qualcosa,
ma ora che David aveva mostrato il suo
vero volto aveva paura di peggiorare la
situazione a danno di Wolfe. David
conosceva moltissime persone influenti
e avrebbe potuto rendergli la vita un
inferno. Durante il percorso verso la
stazione di polizia rimase in silenzio,
immersa in un turbinio di pensieri.
Arilyn le diede una leggera pacca sul
ginocchio e si lanciò all’attacco.
«Spero che lei non sia uno di quei
poliziotti misogeni», osservò con voce
gelida. «Agente...?»
«Petty. Stone Petty. Perché non mi
dice cosa significa misogeno, signora...»
«Signorina Arilyn Meadows. Le ho
detto il mio nome al telefono.»
«Non prendo io le chiamate, signorina
Meadows», rispose mettendo l’accento
sulla parola signorina. «Io vado dove mi
mandano.»
«Verily non è molto grande. Eravate
in pausa quando ho chiamato?
Sicuramente stavate facendo altro visto
che ci avete messo un quarto d’ora ad
arrivare.»
«Sì, stavo prendendo una ciambella e
chiacchierando coi miei colleghi
misogeni.»
Arilyn strinse le labbra. «Ho solo
paura che vi facciate condizionare dalle
apparenze. A quanto ne so la polizia si
affida alla prima impressione per
giudicare i fatti e David è un bugiardo.
Ha maltrattato la mia amica, ha
manipolato la situazione, e sospetto che
abbia architettato tutto per essere
sorpreso da Wolfe. Non vorrei che non
fosse fatta giustizia solo perché è dotato
di grande fascino e molte conoscenze.»
Nell’auto scese il gelo come se fosse
apparso un fantasma. «Capisco.
Cercherò di non farmi accecare dal suo
sorriso abbagliante e di far funzionare il
cervello. Incredibile la fortuna che ho
avuto a superare tutti i test psicologici
necessari per entrare nella polizia.
Diamine, almeno ho la mia ciambella
giornaliera e guido una bella auto.»
Arilyn sbuffò. «Lei si sta prendendo
gioco di me. La sto solo invitando ad
analizzare la situazione nella sua
interezza e a valutare i fatti con
distacco.»
«Sissignora. È lei la contribuente. E
ha ragione quando dice che le apparenze
ingannano. La mia prima impressione di
lei era completamente sbagliata.»
«Che intende dire?»
«In un primo momento ho pensato che
lei fosse una specie di buona samaritana
dolce e tranquilla», rispose senza
traccia di sarcasmo.
«Ah. E adesso?»
Gen trattenne il fiato. C’era una strana
tensione tra loro e lei si trovava in
mezzo. Non era da Arilyn aggredire la
gente in quel modo, specialmente un
poliziotto. Di solito rispettava gli
insegnanti
e
chiunque
portasse
un’uniforme. Persino troppo.
«Adesso non lo penso più.»
L’implicito insulto colpì nel segno.
Arilyn restò a bocca aperta ma lui stava
già accostando al marciapiede davanti
alla piccola stazione di polizia. Aprì la
portiera, le fece scendere e le
accompagnò all’interno.
Gen non era mai stata in una stazione
di polizia. Somigliava un po’ alle
caserme dei pompieri delle piccole
città, o alle sedi del corpo volontari
dell’ambulanza. Nell’atrio c’era un
bancone con alcune sedie e un odore
stantio di caffè, sudore e colpa. L’agente
Stone le condusse lungo un corridoio
che si apriva su una stanza con qualche
scrivania malconcia, schedari, una
cucina improvvisata e alcune porte che
immaginò portassero agli uffici privati.
Decisamente nulla con cui intrattenere
piacevolmente Kate e Kennedy, che
certo le avrebbero fatto un sacco di
domande.
Stone le fece accomodare davanti a
una scrivania attaccata al muro. Gen si
sedette su una sedia di metallo e si
guardò intorno. C’erano fotografie e
appunti attaccati ovunque sulle pareti,
ma niente di personale sulla scrivania
dell’agente Stone: vari dossier, un
computer e un calendario. A giudicare
dai molti sacchetti accartocciati gli
piacevano molto i dolci. Notò anche un
pacchetto aperto di Marlboro. Oh, no.
Sperò che Arilyn non lo vedesse. O che
almeno si rendesse conto che data la
situazione non era il caso di attaccare
coi suoi sproloqui sull’argomento.
«Lei fuma?»
La voce acuta della sua amica la fece
rabbrividire. Troppo tardi. Stone
sollevò un sopracciglio, mise il
pacchetto nel primo cassetto in alto e la
fissò.
«È un problema?»
Arilyn posò i gomiti sul legno
scheggiato della scrivania. «Sì, è un
enorme problema. A parte inquinare
l’ambiente e intossicare il prossimo col
fumo passivo, lei è una bomba a
orologeria di problemi di salute.
Cancro. Dolore. Morte. Ne vale la
pena?»
Gen non si mosse. La tensione tra loro
era come un cappio a cui fosse stata data
un’ulteriore stretta e lo sguardo di lui
era così minaccioso da togliere il
respiro. Alla fine Stone fece un
sorrisetto lento e poco amichevole.
«Sì, ne vale la pena. Ora perché non
mi racconta la sua versione della storia
prima che mi irriti al punto da
inventarmi qualcosa per sbatterla in
prigione?»
Spalancò gli occhi. «Non può
parlarmi in questo modo.»
«Sì che posso. Questo è il mio
territorio, signorinella. Meglio che ci si
abitui.»
Arilyn lo guardò in cagnesco,
mormorò qualcosa di assolutamente
turpe sottovoce e si rimise dritta sulla
sedia scomoda.
«Wolfe dov’è?» domandò Gen.
«Con l’agente Devine. Signorina
Meadows, può cominciare. Cos’ha visto
prima di chiamarci?»
Arilyn raccontò la sua versione della
storia tenendo un po’ il broncio. Gen,
quando fu il suo turno, si prese tutto il
tempo necessario per non tralasciare
nulla. Diede il cellulare a Stone per
mostrargli che prima di chiamare David
aveva
ricevuto
una
telefonata
dall’ospedale. Stone l’ascoltò con
attenzione, interrompendo ogni tanto con
qualche domanda. Alla fine chiuse la
cartella e alzò lo sguardo.
«Valuteremo i fatti e ci faremo vivi.»
Arilyn balzò in piedi. «Tutto qui?
Questo è tutto? Non arrestate David?»
«Volete sporgere denuncia?»
«Sì.»
«No», disse Gen. Arilyn si girò di
scatto verso di lei. «Adesso non posso.
Voglio solo far uscire Wolfe da qui e
tornare a casa.»
L’amica le prese la mano. «Ti ha
aggredita», le ricordò a bassa voce. «So
che hai paura, ma ti aiuteremo noi.
Denuncialo.»
«Non adesso. Per favore, A, non
insistere. Ci sono tanti aspetti da
considerare. Devo pensare all’ospedale,
ai problemi legali, alla pubblicità, a
Wolfe. Chiederò un ordine restrittivo
contro David così mi starà lontano. Non
voglio più vederlo.»
Arilyn si morse il labbro. Era
frustrata ma non voleva insistere. «Va
bene.
Aspettiamo
Wolfe
e
andiamocene.»
«Siamo spiacenti, signore, ma
dovremo trattenere il vostro amico fino
a domani.» L’ufficiale Devine alias il
bello si avvicinò e le guardò con aria
solidale. «Ha violato l’ordine restrittivo
e aggredito il signor Riscetti. Dovremo
aspettare domani quando apre il
tribunale per la cauzione.»
Gen stava per scoppiare in lacrime
ma si trattenne, pensando che Wolfe non
avrebbe voluto vederla piangere. Alzò il
mento e si ripropose di rendersi utile.
L’aveva trascinato lei in questo
pasticcio e ora doveva tirarlo fuori. «Ha
chiamato l’avvocato?»
Devine fece segno di no con la testa.
«Non ancora.»
«Diamoci da fare, allora. A, telefona
a Kate e chiedi di parlare con Slade. Poi
chiamiamo Max. Lui sa sempre cosa
fare.»
«Ricevuto.»
«Posso accompagnarvi a casa?»
domandò Stone.
Arilyn gli lanciò un’occhiataccia. «Ha
già fatto abbastanza.» S’interruppe. «O
forse no.»
L’agente scoppiò a ridere. «Ci
sentiamo, signora MacKenzie.» Poi
guardò
Arilyn
con
rimprovero.
«Arrivederci a presto, signorina
Meadows.»
Era più una minaccia che una
promessa. Arilyn cercò di mantenere il
contegno ma uscendo inciampò. La
risatina di lui le fece capire che se n’era
accorto.
Gen decise di non parlare della strana
conversazione tra loro e si diede da
fare.
Capitolo 13
«Spero proprio di evitarmi questa
esperienza quando mio figlio sarà
grande.»
Wolfe alzò lo sguardo. Maximus Gray
era un caro amico di Sawyer e socio
della catena di panifici La dolce
Maggie, ma soprattutto era un tipo molto
tosto. In questo momento lo stava
guardando attraverso le sbarre della
cella. Portava dei jeans e una maglietta
sporca di bava di neonato e altre strane
macchie, ma metteva comunque più
soggezione di molte altre persone che
Wolfe conosceva. Una vena di humour
gli piegava le labbra.
Wolfe si alzò dalla panca e si
avvicinò. «La eviterai. La prima cosa
che dirò a Max Junior sarà di chiamare
il suo vecchio amico Wolfe per tirarlo
fuori di prigione. Tu diventi irritabile
quando perdi qualche ora di sonno. Ehi,
chi ti ha chiamato? Non sono riuscito a
fare la mia telefonata.»
«Gen. Cos’è successo?»
«Un casino.»
«Già sentita, questa. Racconta.»
Wolfe si rilassò e gli raccontò tutta la
storia, senza tralasciare alcun dettaglio.
Normalmente si sarebbe intestardito a
tirarsi fuori da solo dai pasticci in cui
era finito, ma l’obiettivo che aveva in
mente vanificava tutto il resto.
Tornare da Gen prima possibile.
E non poteva farlo restando in
prigione.
Max prese alcuni appunti. «La prima
cosa è tirarti fuori. Faccio qualche
telefonata. Poi presenteremo richiesta di
ordine restrittivo a nostra volta. Gen sta
bene?»
«Penso di sì, è forte. Ma devo uscire
da qui, Max. Devo starle vicino.»
Max annuì, pensieroso. «State
insieme, adesso?»
Wolfe fece una risata. «No. Siamo
solo amici. Cos’è questa mania di tutta
la famiglia di vederci insieme? È stato
così sin dal primo giorno.»
S’aspettava che ridesse anche Max,
invece rimase stranamente in silenzio,
osservandolo come se sospettasse
qualcosa che lui stesso non sapeva.
Cercò
di
mostrare
indifferenza,
sperando che nessuno venisse mai a
sapere di quell’unico bacio rubato tra
loro. Un bacio perfetto.
«Perché state bene insieme», disse
semplicemente Max. «Non che non
volessi vederla felicemente sposata.
Però sono contento che abbia piantato
quel coglione prima che fosse troppo
tardi. È sempre stata molto intelligente.»
«Già. Ma questo tizio è in gamba,
Max. Ha pianificato tutto, le ha fatto
lasciare l’ospedale e la manovra come
un burattinaio. Sono preoccupato. Non
voglio che le si avvicini.»
«Capito. Lascia che mi occupi di un
paio di cose. Vuoi che chiami Sawyer e
Julietta?»
Wolfe fece una smorfia. Non
avrebbero potuto fare nulla per lui
quindi era inutile preoccuparli. «No,
glielo dirò io quando sarà tutto finito.
Conoscendo Sawyer prenderebbe un
aereo e verrebbe qui. Chiudiamo prima
la faccenda.» Max annuì. Wolfe era così
abituato a vederlo alla prese con
qualunque tipo di problema che non
aveva pensato al fatto che non era un
avvocato. «Ehi, ma come fai a farmi
uscire?»
Le sue labbra si piegarono in un
ghigno. «Diciamo che conosco della
gente. Torno presto.»
Wolfe scosse la testa. Per fortuna Max
era dalla sua parte. Non avrebbe voluto
essere nei panni di un suo avversario.
Si mise a camminare avanti e indietro
nella cella e aspettò.
«Sei uscito!»
Genevieve gli si gettò tra le braccia.
Wolfe la sollevò senza fatica, chiudendo
la porta con un piede, e la tenne stretta..
In genere quando si lasciava travolgere
dalle emozioni lui rideva e le dava della
mocciosa. Adesso sembrava felice di
vederla dare libero sfogo ai suoi
sentimenti. Meno male, perché anche
volendo non sapeva se sarebbe riuscita
a staccarsi.
Le premette le labbra sul cuoio
capelluto e le sussurrò qualche
stupidaggine. Il ricordo della brutta
avventura la fece tremare. S’aspettava
che puzzasse di sudore e di muffa,
invece odorava di cotone, acqua e
sapone. Il suo calore familiare
l’avvolgeva come un bozzolo e la
camicia morbida le accarezzava la
guancia.
«Scusa, mi dispiace tantissimo»,
sussurrò.
Lui alzò il mento. «Che stupidaggine.
Vuoi scusarti anche per i serial killer e
le catastrofi naturali?»
«Sì. Mi spiace anche per quelli. Mi
spiace per tutto ciò che può farti
soffrire.»
Lui s’addolcì e i suoi occhi azzurri si
riempirono di calore. Le tirò indietro i
capelli spettinati, un gesto che aveva
fatto mille volte, ma che adesso aveva
un sapore diverso. Più intimo. Da
amante, più che da amico.
Oh-oh.
Lui sembrò arrivare alla stessa
conclusione nello stesso momento. Si
schiarì la gola, si sciolse dall’abbraccio
e fece un passo indietro. «Sei stata
brava a chiamare Max. Ha sistemato
tutto, ma devo comunque comparire in
giudizio. Ora devo fare un paio di cose
poi torno. Tu stai bene?»
Annuì. «Sì. Arilyn è rimasta con me
stanotte. Slade si sta occupando
dell’ordine restrittivo contro David.
Sono certa che non si avvicinerà più ora
che rischia la reputazione. Slade ha
detto che penserà lui a come recuperare
la mia roba senza ch’io debba vederlo.»
Serrò le labbra. «C’è un solo modo
per essere sicuri che non torni. Vengo a
vivere qui.»
Rimase di sasso. Le sfuggì una
risatina. «Sei impazzito? Non puoi
venire a vivere con me.»
«Ti senti al sicuro qui, Gen?»
Un leggero brivido. «No. Ma voglio
farmi mettere un catenaccio da un fabbro
e farmi montare un sistema d’allarme.
Sono tutti in guardia in caso compaia la
sua macchina. Ho la protezione legale.
Sono a posto.»
Wolfe strinse gli occhi. «Non è
sufficiente. Si è offeso perché l’hai
lasciato e vuole vendicarsi. Io non mi
fido, Manhattan è troppo lontana da qui.
Staremmo meglio entrambi se dormissi
qui.»
Gen camminava per la stanza. Non
poteva scombussolargli la vita. La stava
salvando di nuovo e doveva essere stufo
marcio di farlo. «No, apprezzo l’offerta,
ma me la cavo da sola. Non puoi stare a
Verily quando il Purity è di fianco al tuo
appartamento. E poi casa mia ha una
sola camera. Tempo una settimana e ci
scanneremmo.»
«Non essere ridicola, andiamo
d’accordissimo. Io dormirò sul divano.
Sarà divertente, come un pigiama party
di un mese. Alle donne piacciono queste
cose, no?»
Si grattò la testa. Le sembrava un’idea
folle. «Ci facciamo anche le treccine ai
capelli?»
«Se vuoi.»
«No! So badare a me stessa. Le mie
amiche abitano qui e posso sempre
chiedere ad Arilyn di dormire da me se
ho paura. Non puoi trasferirti qui.»
«D’accordo, allora dormirò in
macchina e starò di guardia qui fuori. Se
non vuoi farmi entrare, fai pure.
Personalmente preferirei il divano.»
L’avrebbe fatto. Quando si metteva in
testa qualcosa era ostinato come un
mulo. Maledizione. Da quando era
diventata una donzella in pericolo?
Detestava quelle stupide principesse di
Walt Disney.
Ma la verità era che la sua presenza
l’avrebbe fatta sentire più al sicuro.
Aveva paura. Paura d’incontrare David,
di vedere la sua faccia alla finestra di
notte che le diceva di rilassarsi e di
fingere come aveva sempre fatto. Era
stata una cosa troppo brutta per poterla
dimenticare da un giorno all’altro.
Magari una settimana. Due al
massimo. Il tempo di constatare che
David aveva smesso di tormentarla e di
calmare l’istinto protettivo di Wolfe. Più
in là ripensando a questa storia ci
avrebbero riso sopra, la loro amicizia
ne sarebbe uscita rafforzata e lei
sarebbe finalmente passata oltre.
Tanto più che non aveva scelta.
Meglio risparmiare le forze per battaglie
che poteva vincere.
«Va bene. Hai vinto.»
«Ottima scelta.» Le scompigliò i
capelli e rise. «Faccio le valigie, passo
dal Purity a dare un’occhiata e torno.
Che ne dici se preparo la cena per
celebrare la nostra prima serata ufficiale
insieme?»
Alzò gli occhi al cielo. «Vorrei
mangiare, quindi cucino io.»
«Ancora meglio.»
Gen incrociò le braccia sul petto.
«Non pensare che ti vizi come fa
Julietta. E giuro che se mi lasci le
mutande sporche in giro per casa ti
sbatto fuori.»
Sembrò ferito. «Sono un convivente
perfetto.»
«Perché non hai mai vissuto con
nessuno.»
«È sulla lista di cose da fare prima di
morire. Adesso posso metterci la
spunta.»
Se ne andò. Lei si guardò intorno e
nel notare qualche ragnatela che ancora
non era riuscita a togliere decise che era
un buon momento per ristrutturare. Da
quando si era trasferita erano saltate
fuori una serie di riparazioni da fare e
già la sua vicina, la strega di Verily alias
signora Blackfire, aveva cominciato a
lasciarle antipatici bigliettini in cui le
intimava di tagliare il suo albero
preferito. La vecchia quercia era
bellissima e frondosa e pendeva
leggermente a sinistra del giardino. La
strega insisteva a dire che era morta e
che sarebbe crollata sul suo tetto. Gen
non era d’accordo. Dopo un avvocato,
un’ispezione
della
compagnia
assicurativa e una riunione in comune,
l’aveva spuntata. Quasi. Col suo
trasferimento la contesa era stata
sospesa ma ora che era tornata sarebbe
cominciato il secondo round.
Eppure le piaceva la sua casa e non
avrebbe permesso a David di rubarle il
senso di sicurezza che le dava.
Né alla strega di sottrarle il suo
diritto a tenere un albero salutare nel suo
giardino.
Gen raccolse i capelli in una coda e
prese i secchi, le spugne e i detersivi.
Poi sarebbe andata a comprare lenzuola
e cuscini. Almeno stava comodo.
Doveva fare anche un po’ di spesa per
preparare una bella cenetta. Magari
braciole di maiale con glassa
d’albicocca.
Accese l’iPod e si mise al lavoro.
«Andate a vivere insieme?» domandò
Kate con voce stridula sedendosi sulla
sedia viola. Erano nella saletta in cui
ricevevano i clienti a esaminare alcuni
dati relativi agli aspetti più importanti
da valutare per formare una coppia.
Dopo le pulizie e la spesa era andata al
lavoro per distrarsi. Buffo, da giornate
intere in piedi in ospedale senza un
attimo di respiro era passata a cercare
di riempire il tempo per non implodere.
Tuttavia era decisa a guardare a questo
cambiamento come a un’opportunità.
Aggrapparsi al lavoro era diventato un
modo per non vedere la realtà delle
cose.
«Non insieme come una coppia»,
s’affrettò a precisare. «Da amici. Finché
non lo convinco che David non è più un
pericolo.»
L’amica la guardò pensierosa. «Credi
che riproverà a farti del male?»
Gen fece spallucce. «No, ma Wolfe
non è convinto. Era più facile
assecondarlo che protestare. E in effetti
ero un po’ in paranoia. È solo per un
breve periodo.»
«A me sembra un’ottima idea. Sai che
avresti potuto anche venire a stare con
me, Slade e Robert, vero?»
Gen rise. «Due case più in là? Grazie,
ma per stavolta passo. A parte l’incubo
della nostra vicina, preferisco vivere
con uno senza fare sesso.»
«Ti stressa ancora, quella strega?
Avrà un binocolo per spiarti. Sai cosa
mi ha fatto settimana scorsa? Ha lasciato
un sacchetto di cacca di cane sulla mia
veranda e un biglietto con scritto: ‘Visto
che l’avete lasciata nel mio giardino ve
la restituisco’. Figuriamoci. Robert non
si abbasserebbe mai a farla nella sua
proprietà.»
Una risata strozzata. «Verily starebbe
meglio senza lei. Credi che prima o poi
se ne andrà?»
«Chi lo sa. Dopo la faccenda della
gelatina di frutta, al centro anziani non la
vogliono più. Chiede ancora di
eliminare la tua quercia?»
Annuì. «Ora lo chiamo l’albero della
discordia.»
L’amica rise. «È bellissimo. Almeno
blocca la visuale. Darà di matto quando
vedrà Wolfe.»
«Non vedo l’ora.»
«Torniamo al sesso.» Kate indicò la
cartella sulla scrivania. «Prima compili
il questionario e t’iscrivi, prima ti
troviamo qualcuno con cui uscire.»
Gen esitò. «Wolfe dice che non sono
pronta. Mi ha consigliato di stare sola
per un po’.»
«È geloso?»
«No! Solo preoccupato. Fa un po’ il
fratello maggiore. Ma no.»
Kate sembrò riflettere sulla risposta
in silenzio. «Sei stata vittima di un
rapporto violento per due anni. Non
penso sia una cattiva idea distrarsi un
po’. È passato più di un mese dal
matrimonio e penso che uscire con
qualcuno ti farebbe bene.»
«L’ha detto anche Arilyn. Se non
corro rischi e posso andarci piano,
allora d’accordo.» Si guardò le unghie
mangiucchiate e raccolse il coraggio per
fare la domanda che la ossessionava.
«Hai mai sentito il tocco con me e
David?»
Gen sapeva di aver sconfinato. Il
patto era che nessuna delle amiche
avrebbe mai usato Kate per verificare il
legame con l’uomo che aveva scelto.
Kate aveva paura di influenzarle, mentre
era giusto che fossero libere di
scegliere. Aveva infranto la regola una
volta soltanto, quando aveva confessato
a Kennedy che Nate era l’uomo della
sua vita. Ma le circostanze erano
diverse. Kennedy credeva di non essere
destinata all’amore e quasi perdeva
Nate per sempre. Ma la domanda di Gen
era diversa.
Kate sospirò. Le scese un velo di
tristezza sugli occhi. «No. Ma ho avuto
occasione di toccarvi entrambi una sola
volta al compleanno dei gemelli. È
quando ho pensato di aver perso il
tocco. Non ho più provato quindi non lo
so.»
Rilassò il busto, sollevata. Se Kate
avesse sentito il tocco tra loro, sarebbe
stato ancora più difficile capire perché
non aveva funzionato. «Me lo ricordo,
quel giorno», mormorò Gen. «Mi ha
colta di sorpresa chiedendomi di
sposarlo. Non mi sarei mai aspettata che
lo facesse davanti ai miei.»
«L’ha fatto apposta. Così era sicuro
che non avresti risposto di no.» Cambiò
posizione sulla sedia, tormentandosi il
labbro inferiore coi denti. «Anzi, ho
notato che hai guardato Wolfe prima di
dire di sì.»
«Davvero?»
«Sì. Perché?»
Gen si voltò per sottrarsi allo sguardo
inquisitore dell’amica. Cavolo, aveva
cercato di rimuovere quell’episodio.
L’uomo che amava e che aveva
desiderato per tanto tempo finalmente le
chiedeva di sposarlo, e prima di dire di
sì aveva sentito il bisogno di guardare
Wolfe. Era dietro agli altri invitati,
impassibile come una statua. Cosa
cercava? Approvazione? Un sorriso? O
altro?
Si erano guardati, ed era successo
tutto così in fretta. Aveva aperto la
bocca per dire di no, ma poi l’istante era
passato, Wolfe si era voltato e la sua
famiglia guardava lei e David in
ginocchio, e aveva detto l’unica cosa
che poteva dire in quel momento, e che
credeva di volere.
Sì.
«Non me lo ricordo.» Il silenzio di
Kate fu persino peggio della bugia. Si
sentì in colpa, ma non voleva più
pensare a quel giorno. «Posso farti
un’altra
domanda?
L’ultima,
lo
prometto.»
«Certo.»
«Hai mai sentito il tocco con me e
Wolfe?» Kate sussultò, ma Gen era più
sorpresa di lei. Perché aveva fatto una
domanda così stupida? Non voleva
saperlo. Erano amici, non amanti.
«Lascia stare, non rispondere. Ho il
cervello in pappa per la notte in
bianco.»
«No.»
Trattenne il respiro. «No, non l’hai
sentito?»
«Sento un legame tra voi due, ma non
ho mai sentito il tocco. Mi dispiace.»
Gen fece un sorriso forzato. «Non
essere sciocca, non pensavo certo che
l’avessi sentito. Non so perché te l’ho
chiesto.»
«Io penso che tu lo sappia, invece.»
Non volle soffermarsi su quel
commento. Sorrise e prese le cartelle.
«Inserisco questi dati al computer, poi
Kennedy mi porta ad assistere a una
seduta per migliorare l’immagine, così
vedo cosa succede dietro le quinte.»
Kate annuì, senza ostacolare la
ritirata. «Fammi sapere se ti serve
qualcosa. Stiamo organizzando una
serata tra ragazze questo weekend. Ci
sei anche tu?»
«Assolutamente.
Cocktail
e
pettegolezzi è proprio quello che mi ci
vuole.»
Tornò al lavoro, cercando di non
pensare alla delusione che stava
provando. Forse inventarsi strane
fantasie su lei e Wolfe l’aiutava in
qualche modo ad affrontare meglio la
fine della relazione con David. Certo,
quel bacio era stato meraviglioso, ma
non si sarebbe più ripetuto. Ci tenevano
troppo alla loro amicizia per rovinare
tutto col sesso, specie se non c’era
futuro per cui lottare. Kate non aveva
mai sentito il tocco. Quindi erano
destinati a essere solo amici. Ed era una
buona cosa.
Ottima.
Capitolo 14
«Non mi piacciono i cavolini di
Bruxelles.»
Gen notò il broncio del bambino
capriccioso, ma tra i tatuaggi, i piercing
e tutti quei muscoli non faceva molto
effetto. «Pazienza, fanno bene e come li
faccio io ti piaceranno.» Tirò fuori la
pentola e li tastò con la forchetta.
Deliziosamente croccanti ai bordi, con
l’olio d’oliva e il condimento a dargli
un sapore meraviglioso. Aveva imparato
presto che arrostire rendeva tutto più
gustoso. «Ti spiace controllarmi di
nuovo le focaccine? Tendo a bruciarle.»
Aprì il fornelletto e sbirciò dentro
come fosse un mistero di Scooby Doo.
«Sono marroncine.»
«Cacchio. Spegni subito, per favore, e
mettile su quel piatto.»
Ottemperò in modo maldestro con le
grandi mani e lei si sforzò di non ridere.
Wolfe dominava la piccola cucina con il
suo fisico imponente ma sembrava
intimidito dalle varie mansioni. Giurò
che gli avrebbe insegnato a cucinare
qualcosa nel periodo in cui sarebbe
stato con lei. Gli serviva qualche tecnica
di sopravvivenza in ambito domestico.
Intuì che serviva il burro, lo cercò e lo
mise in tavola. I piatti spaiati e i
bicchieri sbeccati avrebbero fatto venire
un attacco cardiaco a David. Quando si
erano messi insieme lei era un disastro
in cucina, preferiva cenare con cibi
pronti o una tazza di cereali, ma lui le
aveva subito tolto quell’abitudine,
insistendo sul fatto che doveva imparare
a cucinare pasti sani e genuini per la
futura famiglia e i futuri invitati. In men
che non si dicesse aveva imparato a
imbandire una tavola perfetta con
l’argenteria al posto giusto e i tovaglioli
arrotolati. Aveva smesso di bruciare i
cibi e imparato a seguire le ricette, pur
odiando la suspense di quando David li
assaggiava e lei aspettava la sua
opinione.
Gen guardò i due coperti, i piatti
scheggiati e il tavolo di pino che
straripava di pentole e sorrise. Era...
perfetto. Persino i biscotti bruciati
sembravano urlare un bel vaffanculo al
suo ex fidanzato. Quante volte aveva
schioccato la lingua deluso dal fatto che
non riuscisse a servire una focaccina
decente?
A lei personalmente piacevano
croccanti. Ma le vecchie abitudini erano
dure a morire. «Mi spiace per le
focaccine.»
Lui sbuffò dal naso. «Scherzi?
L’ultima volta che ne ho mangiata una è
stato in Italia. E poi mi sono sempre
piaciute un po’ bruciacchiate.»
Rise, sollevata. «Anche a me.» Versò
due bicchieri di Chianti e si sedettero a
tavola. Wolfe chinò il capo e chiuse gli
occhi. Guardò affascinata l’umile atto di
rendere grazie al Signore per il cibo.
Quando prese la focaccina e ci spalmò il
burro sopra si accorse che lo stava
fissando.
«Che c’è?»
«Non ti avevo mai visto rendere
grazie prima di mangiare.»
Le sue guance si colorarono
leggermente. Un’altra cosa che amava di
lui. Un playboy grande grosso e
milionario con la tendenza ad arrossire.
Cosa c’era di meglio? «Mamma Conte
diceva sempre che ogni pasto è un dono.
C’è stato un periodo nella mia vita in cui
dovevo fare i salti mortali per mangiare.
Ho recuperato molti avanzi dalla
spazzatura. Dopo un po’ di pasti cucinati
a casa, mi è venuto spontaneo
ringraziare
per
essere
sfuggito
dall’inferno che era la mia vita.»
Sentì un tuffo al cuore ma si concentrò
sul suo piatto, sapendo che era un
argomento delicato. Gen sapeva poco
del suo passato e la promessa che si
erano scambiati di non parlarne
confermava la sua intenzione di
mantenere le cose come stavano. C’era
un lato oscuro in lui di cui era sempre
consapevole. Gli diceva spesso di
essere
disposta
ad
ascoltarlo
amichevolmente se avesse mai voluto
parlarne. Lui annuiva, ringraziava e
stava zitto.
Azzardò un passo avanti. «Quanto è
durato questo periodo?»
La forchetta stridette sul piatto.
«Cinque anni. Sono andato via di casa a
quattordici anni.»
Sì, ne aveva diciannove quando
Sawyer l’aveva accolto in casa sua.
Venti quando si erano conosciuti loro
due. «Per via di tua madre? E della
droga? È per questo che hai dovuto
andartene?»
Mandò giù un sorso di vino evitando
il suo sguardo. «In parte.»
Azzardò ancora un po’. «Niente
affido? Non so come hai fatto a
sopravvivere per strada così giovane.
Dovevi essere coraggiosissimo.»
Strinse la mano intorno al bicchiere.
D’un tratto i suoi occhi azzurri erano
pieni di disprezzo e ripugnanza.
Spaventata, lei non aprì bocca e non osò
aggiungere altro.
«Non pensare che fossi coraggioso,
Gen. Non pensarlo mai. Ho fatto quello
che c’era da fare.»
Una ferita sanguinante al cuore.
«Wolfe...» disse con voce strozzata.
«Quando hai imparato a cucinare
così?» Prese una manciata di cavolini e
li mise in bocca. «Non sono affatto
male.»
Aveva rialzato le barricate. Il tempo
delle domande e delle risposte era
ufficialmente scaduto. «David voleva
che sapessi cucinare bene. Diceva che
era importante per una moglie e una
madre.»
«Da chirurgo sarai ricca abbastanza
da pagare qualcuno che cucini per te.
Scommetto che quella testa di minchia
non si è mai imposto gli stessi
standard.»
«No, infatti. All’inizio ero risentita
ma poi è successa una cosa strana. Ha
cominciato a piacermi. Per cucinare ci
vuole creatività ma anche scienza.
Seguire le ricette era rilassante.»
«Continua pure a rilassarti quando
sono qui.»
Sollevò un sopracciglio. «Oh, non
solo io. T’insegnerò alcune cosette. Ti
serviranno.»
Sbuffò. «Dovevo immaginarlo che
avresti cercato di tormentarmi. Senti,
dobbiamo studiare gli orari. Per vedere
se siamo compatibili.»
Aggrottò la fronte, perplessa. «I miei
orari di lavoro sono semplici.
T’informerò volta per volta, e di te so
già che lavori dodici ore al giorno. Puoi
scrivermi un messaggio quando pensi di
tornare per cena e cose simili. Non sarà
difficile.»
Ruotò gli occhi. «Non me ne può
fregare di meno del lavoro. Sto parlando
della tv. Del telecomando. Di chi vede
cosa e quando. E non pensare che mi
smazzi quegli schifosi reality che guardi
tu, The Bachelor o Hell’s Kitchen.
Dovresti vergognarti.»
Gen gli lanciò un cavolino di
Bruxelles che gli rimbalzò sul petto duro
come
una
roccia.
«Vaffanculo.
Comunque alla nuova stagione di The
Bachelor mancano ancora due settimane.
Si sta concludendo Ballando sotto le
stelle.»
«Lo puoi registrare.»
«Non penso proprio! Non ho nessuna
intenzione di sorbirmi i tuoi stupidi
Cacciatori di mostri o Paranormal che
cavolo. Non trovano mai né mostri né
fantasmi. Devi farti visitare.»
La guardò torvo. «Trovano un sacco
di prove. Devi smetterla di guardare tv
spazzatura. Cerca di ampliare i tuoi
orizzonti.»
«L’ho fatto. Ho guardato Scandal e mi
è piaciuto. Parla di politica a
Washington.»
Si strofinò il viso con disgusto. «Sono
morto e sono all’inferno.»
«Spero trasmettano dei buoni
programmi all’inferno», cinguettò lei
prendendo un cavolino e mettendolo in
bocca. «O almeno che abbiano il
videoregistratore.»
Continuarono a discutere mentre
sparecchiavano,
appendevano
gli
indumenti di Wolfe nell’armadio e
litigavano per lo spazio in quello del
bagno. Gli diede le nuove lenzuola e la
nuova trapunta che aveva comprato
insieme al cuscino e lo aiutò a sistemare
il divano. Cavolo, era corto. Con quelle
gambe lunghe sarebbe stato scomodo. Si
sentì subito in colpa.
«È un cuscino memory.»
Rimboccò il lenzuolo e lo guardò.
Teneva in mano il cuscino con
un’espressione meravigliata. «Eh? Ah,
sì, non mi hai detto che sei diventato
schiavo dei cuscini memory? Volevo che
stessi comodo.»
Le sue labbra si piegarono in un
sorriso. Il volto s’addolcì e Gen fece
molta fatica a non farsi sfuggire un
gridolino di piacere. Avrebbe fatto
qualunque cosa per fargli restare quel
sorriso.
Qualunque cosa.
«Possiamo vedere Ballando sotto le
stelle se proprio ci tieni.»
Gen rise. «Sei proprio schizzato.
Guarda pure tu la tv, io devo fare la
doccia. Sicuro di riuscire a dormire
qui?»
Agitò una mano per minimizzare.
«Non crederesti mai a dove ho dormito.
Questo è il Taj Mahal, piccola.»
Lo sguardo le cadde sui bracciali di
cuoio e ancora una volta si chiese cosa
nascondessero. Non poteva immaginarlo
dormire nei vicoli e andare a caccia di
cibo a quattordici anni. Che orrori aveva
visto? Respinse quelle emozioni,
sapendo di doverle lasciare alla
fortunata che avrebbe conquistato
totalmente la sua fiducia. Certo, lei era
la sua migliore amica, ma lui avrebbe
confidato i suoi più intimi segreti solo
alla donna che avrebbe amato.
Gen la odiava già.
Andò in camera, prese il pigiama e si
piazzò sotto la doccia. Basta con certi
pensieri. Specialmente ora che vivevano
insieme. Aveva bisogno di qualche
distrazione. Qualche antidoto alla
pozione d’amore.
Girò la manopola e fece uscire
l’acqua più fredda. Giusto per una
sicurezza in più.
Wolfe doveva ammettere che si stava
divertendo.
Da quando aveva lasciato l’Italia si
era abituato a stare da solo. A decidere
tutto lui. Eppure vivere a casa di Gen,
uscire con lei, cucinare insieme, sparare
a zero l’uno sull’altra, lo faceva sentire
come se fosse al suo posto. Una
sensazione che provava solo con
Sawyer e Julietta.
Sistemò il cuscino, allungò le gambe e
fece zapping. Magari non aveva la
comodità della vicinanza al Purity, ma
forse era una buona cosa. Poteva
approfittarne per rivedere anche lui le
sue priorità, come stava facendo Gen.
Negli ultimi cinque anni aveva quasi
soltanto lavorato. Da quando aveva
conosciuto Nate aveva aggiunto
un’uscita al golf col nuovo amico ai suoi
impegni settimanali, e quella era sacra.
Era forse il caso di riprendere a
rimorchiare? Di trovare magari una
donna con cui instaurare un rapporto un
po’ più profondo? L’idea lo spaventava
a morte ma Gen gli aveva fatto capire
che aveva bisogno di qualcosa di più
del sesso senza impegno.
La breve fiammata di speranza si
spense come se ci avesse versato sopra
un secchio d’acqua.
Non era pronto per le emozioni vere o
per la verità. Non lo sarebbe mai stato.
Qualunque donna alla fine avrebbe
voluto scavare in profondità, scoprire
quello che lui aveva dentro, e lui
sarebbe fuggito. Da manuale.
Nemmeno Gen sapeva tutta la verità.
Il dito si fermò un istante su un reality
di cantanti poi riprese a premere il
pulsante dei canali. Chiunque altra
l’avrebbe sfinito di domande. Lei no.
Gen rispettava la promessa che si erano
scambiati inizialmente e non curiosava
mai, anche se lui capiva che avrebbe
voluto sapere tutto della sua vita. Glielo
vedeva negli occhi. Avrebbe voluto che
si fidasse di lei abbastanza da
raccontarle il suo passato. Il suo volto
era come un libro aperto e Wolfe odiava
leggervi la delusione quando lui
cambiava argomento, e il modo allegro
con cui fingeva sempre che non fosse un
problema.
Lo era invece.
Ma non si sarebbe mai risolto.
Si toccò i bracciali di cuoio e ripensò
a quella notte. Rabbrividì, e si chiese
che diavolo avrebbe fatto se avesse
avuto gli incubi mentre era a casa sua.
Dormiva in soggiorno, quindi magari lei
non avrebbe sentito. A casa e al Purity
aveva una palestra attrezzata, ma qui non
c’era niente per scacciare i demoni. Si
fece un appunto di controllare se la
palestra
locale
era
aperta
ventiquattr’ore. Altrimenti non restava
che andare a correre, anche se non era
altrettanto efficace.
«C’è American Idol?»
La sua voce allegra gli accarezzò le
orecchie. Wolfe immaginò si trattasse
della competizione canora che aveva
appena intravisto e scosse la testa. «No,
ho passato tutti i canali. Che ne dici se
facciamo una tregua e guardiamo una
commedia? Sono sempre disposto a...»
Quando la vide, la voce s’interruppe.
Porca. Troia.
Gli salì il sangue alla testa. Era
abituato a bustier di pelle, giarrettiere e
tacchi dodici su corpi nudi. Profumi
muschiati. Labbra rosse.
Aveva la pelle ancora umida e la
camicia da notte di cotone era semplice,
lunga fino al ginocchio, con una
scollatura ampia e rotonda. Bianca a
fiorellini rosa. Calzine rosa ai piedi. I
capelli erano sciolti e i riccioli selvaggi
le danzavano allegramente intorno alla
testa. Era struccata e le labbra erano di
un rosa pallido con una spruzzata di
lentiggini sulla radice del naso.
Era uno schianto.
Inspirò e quasi gli sfuggì un gemito.
Erano pochi gli odori in cui avrebbe
voluto immergersi. L’erba appena
falciata. Gli indumenti appena usciti
dall’asciugatrice. Un’arancia appena
tagliata. Lei profumava di tutte queste
cose messe insieme. Com’era possibile?
Non portava il reggipetto e i seni
tendevano la stoffa morbida nello sforzo
di liberarsi. C’era niente al mondo di
più sexy del cotone che aderiva alla
pelle umida? Sapeva che Gen aveva
delle splendide curve, ma vederle in
questo modo era un’altra cosa. Il suo
corpo formava una clessidra perfetta,
con carne a sufficienza da stringere e a
cui aggrapparsi. E il sedere? Un dono
del Signore. Meglio di JLo. Meglio
della Kardashian. Meglio di tutto.
Gli si seccò la bocca e il corpo
cominciò a reagire. Oh, merda. Stava
per sedersi vicino a lui? Il pene gli
tirava i jeans nel disperato tentativo di
mettere la testa fuori. Strinse il cuscino
in mano cercando qualcosa a cui pensare
per allentare la tensione. Era la prima
dannata sera. Se Gen l’avesse visto così
arrapato l’avrebbe mandato fuori a calci
e non l’avrebbe più fatto tornare. E
anche se era una tortura, non aveva
intenzione di lasciarla sola finché non
fosse stata al sicuro da David.
«Mi stai mentendo.» Incrociò le
braccia sul petto. I capezzoli erano
chiaramente visibili sotto il bianco
innocente della camicia da notte.
S’irrigidì e si sforzò di abbassare lo
sguardo.
Si sforzò sul serio.
«Ehm, mentendo?»
«Su Idol. Scommetto che è in onda.»
Wolfe si spostò sofferente e lanciò il
telecomando all’angolo più lontano del
divano. «Hai ragione. Tieni. Prendilo
pure.» Basta che ti siedi e ti copri.
Veloce. Per favore.
Lei piegò il fianco e lo guardò con
sospetto. L’orlo si alzò di qualche
centimetro. Aveva la pelle bianca,
morbida e liscia. Immaginò di metterci
sopra la mano. Pelle scura contro pelle
chiara. Corpo morbido contro corpo
duro, a fargli da cuscinetto come quella
sera al lago. No, non pensarci. Non
adesso.
«Prendilo!» abbaiò. «Dai, mettiti
comoda.» Sollevò la trapunta e la invitò
a infilarsi sotto. Lei finalmente lo
assecondò. Wolfe espirò, sollevato, ma
il suo pene rimase duro a sufficienza per
tagliare il marmo.
«Mi sembri strano, ma non voglio
litigare», disse selezionando il canale
del reality canoro. Il programma era alla
fine, i concorrenti erano in attesa del
verdetto dei giudici e dei voti del
pubblico. Wolfe si concentrò su un tizio
sfigato e cercò d’immaginarlo nudo.
Lentamente, l’erezione diminuì. Era
proprio caduto in basso. La prossima
volta avrebbe pensato alle suore. Bleah.
«Mi manca Simon», disse Gen tanto
per fare due chiacchiere, tirando fuori
una gamba da sotto la trapunta. «Era
sgarbato ma onesto. Anche se il mio
preferito è sempre Keith Urban.
Comunque è finito.» Selezionò altri
canali incrociando i piedi sul tavolino.
La camicia da notte si sollevò da un
lato, scoprendo una lunga striscia di
pelle nuda che arrivava fino al fianco.
La sua seconda testa ringalluzzì.
Merda.
«Ehi, mettiamo su HGTV? C’è House
Hunters. Fanno vedere tre case e la
coppia deve sceglierne una. Mi piace
fare a chi indovina. Sono bravissima.
Vuoi provare?»
Rispose con un grugnito. Aveva gli
occhi incollati sulla deliziosa curva del
suo fianco. Dov’era il bordo delle
mutandine? Com’è che non si vedeva? A
meno che...
Il pensiero gli fece uscire gli occhi
dalle orbite e si affrettò ad afferrare la
trapunta e a gettargliela sopra.
«Ehi, ma che fai?»
I capelli le caddero davanti a un
occhio e aveva le labbra corrugate.
Ripensò al suo sapore. Dolce e pulito,
con un accenno di peccato. Suore. Suore
in bikini. Ecco. Che schifo.
«La tua... camicia da notte si è
sollevata. Non volevo pensassi che
stavo sbirciando.»
Perfetto. Questa suonava proprio da
amico.
«Ah, scusa.» Si sistemò. «Non volevo
spaventarti. Ehi, sai cosa stavo
pensando di farmi?»
«Cosa?»
«Un tatuaggio.»
Gli prese un colpo. La brava e
innocente Gen con un tatuaggio. Poteva
morire. «Fanno male.»
Alzò gli occhi al cielo. «Sono un
chirurgo, posso resistere. Sarebbe sexy,
no? Una rosa, magari, con le spine e una
goccia di sangue. Il tuo è bellissimo e ti
dà un’aria da ragazzaccio. Con le donne
aiuta, no?»
Mai come in quel momento aveva
desiderato guardare una coppia in cerca
di una casa ad Austin, in Texas. «A
volte. Ma a te non serve. E potresti
pentirtene, in seguito.»
«Non lo farei in un punto dove si
vede. Magari sulla schiena, in basso?»
No. Non sarebbe più riuscito a
guardarla senza immaginare di sfilarle i
jeans per scoprire il segreto nascosto
appena sopra la curva dolce del suo
sedere. Assolutamente no.
«Passano per tatuaggi da zoccola,
Gen.» Avrebbe voluto essere in Alaska
in quel momento, sepolto sotto un
cumulo di neve.
Arricciò il naso. «Quindi? Forse
qui?»
No. Non poteva farlo. Non l’avrebbe
fatto.
Lo fece.
Si tolse la coperta di dosso e alzò la
camicia da notte scoprendo la curva
nuda del fianco sinistro. «Che ne dici?
Col bikini si vedrebbe, ma sarebbe più
adatto a me. Giusto?»
Okay, le mutande le aveva. Si vedeva
la riga sottile attraverso il cotone.
Bianche, come la camicia da notte. Pura
come una colomba. Come sarebbe stato
ordinarle di togliersele ed essere pronta
per lui? Ci avrebbe giocato un po’,
l’avrebbe torturata rimandando il
momento dell’orgasmo e alla fine
l’avrebbe fatta volare. Avrebbe sentito
le sue unghie affondargli nelle spalle e
la sua passerina stretta intorno al suo
uccello mentre le infilava la lingua in
bocca...
Si alzò di scatto dal divano come se
gli stesse andando a fuoco il sedere.
«Vado a farmi una doccia. Guarda
quello che vuoi.»
Spalancò gli occhi per la sorpresa ma
lui non aspettò che dicesse qualcosa. Si
fiondò in bagno, aprì l’acqua a
temperatura polare e tornò alle suore.
Doveva risolvere un problema.
Vincent Soldano nascose il gruzzolo di
banconote nel buco del materasso.
Veloce. Qualche biglietto verde in più e
avrebbe tentato la sorte.
Non gli restava molto tempo.
Ricoprì il materasso col lenzuolo
macchiato, si sdraiò e accese l’iPod
col volume al massimo. Gli intervalli
tra i momenti di euforia si stavano
accorciando. Sua mamma qualche volta
preparava la cena, faceva la spesa, e
ogni tanto era anche sobria. Quei
momenti erano meglio di qualunque
cosa potesse immaginare. Lo guardava
con dolcezza, talvolta gli accarezzava i
capelli, lo chiamava il suo bambino e
lo abbracciava. Anche se sapeva che
non era più un bambino, gli si
stringeva comunque il cuore. La mente
si calmava, il corpo si rilassava, e per
un attimo lui s’illudeva che avrebbe
smesso e che sarebbero stati loro due
insieme, come una squadra, contro il
mondo.
Ma non accadde mai.
Sempre più spesso ormai la vedeva
fissare il muro senza vederlo. Non si
lavava. Aveva i capelli unti e spettinati
e i vestiti, quando li portava, erano
sporchi e pendevano larghi sul suo
corpo ossuto. Degli assegni sociali con
cui una volta compravano da mangiare
non vedeva più un centesimo. Gli
uomini ci arrivavano prima e usavano i
soldi per la droga.
Aveva paura che morisse. Se fosse
andato via sarebbe probabilmente
accaduto. Almeno la faceva mangiare e
le medicava le ferite.
Ma non aveva scelta. Lei non poteva
più proteggerlo e molti dei suoi
spacciatori lo guardavano con lascivia.
Non l’avrebbe permesso. Dormiva per
lo più nel bosco se in casa c’era gente
ma si stava riavvicinando l’inverno e
gli serviva un piano.
Cazzo se era stanco.
Quante volte era stato sul punto di
chiamare la polizia o gli assistenti
sociali? Sarebbe bastato premere il 911
e sarebbe uscito da quell’inferno. Ma
qualcosa gli diceva che sarebbe caduto
dalla padella alla brace, per non
parlare del fatto che sua madre sarebbe
finita in prigione e senza la droga
sarebbe morta. Era in trappola, quindi
non poteva far altro che fuggire.
«Sei qui dentro, ragazzo? Apri. Tua
mamma ha bisogno di te.»
Chiuse gli occhi e cercò di
concentrarsi sulla musica ma la porta
sbatteva così forte che la serratura si
sarebbe rotta. Vincent prese il coltello e
lo mise nella tasca posteriore. Non si
poteva mai sapere.
Poi aprì la porta.
Era uno di quelli che temeva di più.
Quello che trattava peggio sua madre,
divertendosi a schiaffeggiarla. Gli
piaceva anche guardare. Era tarchiato,
con due enormi bicipiti e braccia piene
di tatuaggi. Faccia da bulldog , occhi
scuri, capelli radi e cicatrici sulla
guancia destra.
Vincent lo guardò torvo. Sapeva che
mostrare paura era ancora peggio. Al
bulldog piaceva, lo minacciava
cercando di farlo piangere o
supplicare, ma Vincent non aveva
ancora ceduto e non intendeva farlo.
«Cosa vuoi?»
Ricevette un rapido manrovescio alla
mascella. Vide le stelle ma ignorò il
dolore e continuò a guardarlo fisso. «A
tua mamma serve una cosa, è meglio
che gliela dai.»
La madre era dietro di lui con un
sorriso disperato. Lanciò un’occhiata
alla porta di casa nel caso ci fosse
stato bisogno di scappare. Lei era
troppo fatta per essergli d’aiuto.
«Mi servono dei soldi», disse con
voce sottile e affannosa. Aveva l’occhio
sinistro gonfio per le botte del giorno
prima. «Mi servono proprio, tesoro,
sono disperata. Devi trovarmene un
po’.»
Mantenne la calma benché il cuore
battesse all’impazzata. «Io soldi non ne
ho. Hai usato quelli che erano rimasti
per le sigarette e la birra.»
Il bulldog sghignazzò. «Io credo che
tu stia mentendo, ragazzo. Ogni tanto
mi sparisce qualche dollaro e secondo
me sei tu che li rubi.»
Vincent fece spallucce. «Pensa
quello che ti pare, io non tocco mai la
tua roba.»
Lui lo fissò a lungo per capire se
diceva la verità. Poi sorrise molto
lentamente. «Allora non ti dispiace se
li cerco, vero?»
Bloccò la porta. «Non in camera
mia. Tieni le tue manacce lontane dalla
mia roba.»
Il colpo arrivò alla testa stavolta e
lo fece finire contro il muro. Sua madre
urlò ma il bulldog gli stava già
mettendo per aria la stanza, che lui
amava tenere pulita e in ordine.
Vaffanculo.
Gli si avventò contro con un grido,
agitando i pugni come un indemoniato.
L’adrenalina lo aiutò ad assestare
qualche bel pugno ma i bicipiti di quel
coglione erano dei mattoni. Un attimo
dopo lo stava sollevando come un peso
piuma e lanciando dall’altra parte
della stanza come una mosca colpita
dallo scacciamosche. Atterrò sul
pavimento e si slogò la caviglia. Sentì
un dolore lancinante ma si trascinò
verso la madre che urlava, cercando
disperatamente di sfuggire al bruto.
Troppo tardi.
Il bulldog ribaltò il materasso. La
fessura si burlava di entrambi, e lui
tremò di paura. No, no, no, no, no.
«Cos’abbiamo qui?» L’uomo infilò
le dita nella fessura e tirò fuori un
rotolo di banconote. «Il tuo adorato
figliolo è un maledetto bugiardo. Si
tiene i soldi pur sapendo che stai male
senza la tua dose. È questo il
ringraziamento perché gli dai un tetto
sulla testa?»
Alla madre s’illuminarono gli occhi
alla vista del denaro. Si leccò le labbra
e d’un tratto Vincent capì che era
veramente finita. Non avrebbe mai
vinto
contro
la
coca
e
le
metamfetamine.
Mai.
L’uomo si avvicinò. Vincent cercò di
alzarsi in piedi ma un calcio allo
stomaco lo stese di nuovo a terra.
Prese il coltello dalla tasca e cercò di
colpirlo ma il bulldog lo sorprese e gli
torse con forza il polso finché il
coltello cadde sul pavimento. Vincent
lo guardò. Lui rise, si fece schioccare
le giunture delle dita e si chinò su di
lui.
«Ora ti darò una lezione, ragazzo. E
farà male.»
Passò molto, molto tempo prima che
gli fosse concessa la benedizione di
perdere conoscenza.
Aveva tredici anni.
Capitolo 15
«Andiamo a prendere un gelato.»
Wolfe gemette. Era steso a pancia in
giù sul divano. «Sono sfinito. Abbiamo
subito un furto, ho perso un potenziale
cliente e i distributori automatici hanno
finito le tortine al cioccolato col ripieno
di burro d’arachidi. Ho dovuto prendere
degli schifosi M&M’s.»
«Oh, adoro gli M&M’s. Ma non hai
degli chef a cinque stelle che hai portato
via a Food Network? Perché ti servi ai
distributori automatici?»
Sbuffò. «Mi piacciono. E poi questi
chef snob le tortine col burro d’arachidi
non le fanno. Gliel’ho chiesto. Michael
ha detto che rivedrà i prodotti proposti
da La dolce Maggie, ma solo per essere
gentile.»
«Ci prendiamo un gelato e un
cappuccino. Avanti, non fare il musone.
È estate, è una bellissima serata. Hai
bisogno di prendere un po’ d’aria.»
«Ho bisogno di dormire.»
Si chinò e lo scosse per le spalle. Era
duro come una roccia e non si mosse di
un millimetro, ma si lasciò sfuggire un
brontolio. «Com’è che sei così pimpante
stasera? Ti sei annoiata oggi al lavoro?»
«No, anzi. C’è un nuovo iscritto che
secondo Kate è perfetto per me e stiamo
organizzando una serata. Mi sento giusto
un tantino irrequieta.»
Gen non volle dirgli la verità. E cioè
che cominciava a dare i numeri. Le
piaceva lavorare in Kinnections e
adorava vedere le amiche all’opera.
Erano un trio formidabile. Ma si sentiva
smarrita. Le mancavano il bisturi, il
camice e l’esaltazione che provava ogni
volta che visitava un nuovo paziente.
Quando Kate si era tagliata con la carta,
oggi, lei si era fatta prendere
dall’entusiasmo e le aveva applicato un
doppio bendaggio.
Che tristezza.
«Hai vinto. So che sei stanco. Vado
da sola. Vuoi che ti prenda qualcosa?»
La sondò in profondità con quel suo
sguardo tagliente come un laser. Poi con
un unico, grazioso balzo fu in piedi.
«Vengo anch’io. Zucchero e caffeina mi
sembrano un’ottima idea e poi non
azzecchi mai le mie ordinazioni.»
Era una bugia. In realtà voleva
starsene in panciolle sul divano ma
aveva intuito che lei aveva bisogno di
compagnia e per l’ennesima volta aveva
assunto le vesti del cavaliere con la
scintillante armatura. La quale alla fine
di questa storia avrebbe perso tutta la
sua lucentezza.
«Non sei obbligato.»
«Naa, devo uscire di più. Nel
momento in cui l’uscita al golf con Nate
diventa la cosa più eccitante della
settimana vuol dire che ho un
problema.»
Uscirono a piedi. L’afa li investì e gli
restò appiccicata addosso. Il sole
splendeva attraverso gli alberi che
fiancheggiavano la strada. Verily era in
pieno fermento: bambini in bicicletta,
gente a passeggio col cane, coppie che
si tenevano per mano. I negozi restavano
aperti fino a tardi e Main Street invitava
a gran voce i clienti a spendere. Gli
artisti locali dipingevano all’aperto e le
bancarelle straripanti di chincaglierie
tentavano i passanti. Davanti alla
Barking Dog Bakery c’era la fila di cani
coi rispettivi padroni. Gen si rilassò al
calore e al brusio familiare delle risate
e delle chiacchiere della pittoresca
cittadina in cui viveva.
«Come mai non esci più con
nessuno?» gli chiese. «Voglio dire, Nate
è un bel ragazzo e tutto quanto, ma un
modello milionario di biancheria intima
divenuto
magnate
dell’industria
alberghiera potrebbe permettersi una
compagnia un po’ più femminile.»
Wolfe fece spallucce. Tornato dal
lavoro si era cambiato, indossando un
semplice paio di calzoncini di jeans
sfilacciati, infradito e una maglietta nera
col logo del Purity. Perché allora
sembrava appena uscito dalle pagine
dell’Esquire?
Portava
qualunque
indumento con una naturalezza che pochi
potevano vantare. I tessuti si piegavano
alla sua volontà, s’abbarbicavano ai
suoi muscoli scolpiti e capitolavano.
Non stupiva che avesse fatto tanto furore
nel mondo della moda. Il suo volto, i
suoi occhi, non tradivano alcuna
emozione. Solo un bel vaffanculo che
faceva morire le donne dalla voglia di
addomesticarlo.
Merda, persino i suoi piedi erano
sexy e lei non era certo una a cui
piacessero i piedi.
Fece scorrere lo sguardo sui suoi
polpacci abbronzati, sui bicipiti possenti
e sullo splendido tatuaggio. Era, a suo
modo, un’opera d’arte, che però si
apprezzava meglio da lontano. Si chiese
se esistesse una donna che poteva
catturarlo.
«Sto organizzando un’uscita venerdì
sera.»
Sussultò, ma s’affrettò a nasconderlo.
«Oh, ma è fantastico! Ehm, non abbiamo
parlato di come possiamo fare. Eviterei
i calzini sulla porta, ma se mi avverti
con un messaggio posso andare da Kate
per quella sera. Sono sicura che per lei
va bene.»
«Perché diavolo dovresti uscire di
casa?»
Una risatina disperata. Cavolo.
Questo era imbarazzante. Faceva sesso
nel suo appartamento? In macchina? La
scena irruppe nella sua mente e quasi le
procurò una commozione cerebrale.
Il sedile di pelle che stride sotto il
suo sedere nudo. Lui che la sbatte
contro il volante mentre la manovra su
e giù sul suo uccello. Le tira i capelli e
la guarda venire e urlare il suo nome.
«Aagh.» Fece un gridolino e scacciò
l’immagine dalla mente con una
speronata.
«Che c’è?» Wolfe l’afferrò per un
braccio e lei si sentì come folgorata. Di
male in peggio.
Tirò bruscamente indietro il braccio.
«Niente! Ehm, mi ha punto una zanzara.
Scusa.»
Due bambini sullo skateboard gli
sfrecciarono in mezzo. La ritrovata
distanza l’aiutò a calmarsi.
«Ricordati di metterci quella pomata
rosa quando siamo a casa.»
«Sì, papino.»
«Torniamo alla nostra chiacchierata.
Parlavamo di sesso, giusto?»
Sentì colare il sudore lungo la
schiena. Si scostò la canotta dal petto e
ci soffiò dentro. «Sì. Quello. Non voglio
che ti ritrovi a non poter fare le tue cose
solo perché mi stai facendo un favore. A
meno che dopo tu non intenda restare a
casa tua.»
«Mi sembra giusto. Se l’uscita va
bene ti mando un sms così non ti
preoccupi. D’accordo?»
Annuì con entusiasmo. «Fantastico.
Perfetto. E io farò lo stesso con te.»
Si fermò. La guardò con le
sopracciglia aggrottate. Anche Gen lo
osservò. Cavolo, com’era sexy. Il labbro
inferiore sottolineato da un velo scuro di
barba. Le narici dilatate come uno
stallone incazzato a cui avevano portato
via la femmina. «Tu? Tu non sei pronta
per fare sesso.» Riprese a camminare
con lunghe falcate.
Lei accelerò il passo per stargli
dietro. «Ehi, non ti sembra di essere un
po’ sciovinista? Solo perché ho rotto
con un uomo devo votarmi alla castità?
Potrebbe
farmi
bene,
invece.
Specialmente del gran sesso.»
«Non sei il tipo da una botta e via»,
disse con fermezza. «Tu hai bisogno di
farlo all’interno di una relazione
impegnata.»
Gen alzò gli occhi al cielo. «L’ho
fatto. Non ha funzionato. Magari mi farà
bene provare qualcosa di diverso.
Esplorare altri mondi. Avere orgasmi da
sballo. Passare una notte con qualcuno e
andarmene la mattina. Come te.»
Lo sguardo si fece ancora più torvo.
«Per me è diverso. Io non mi metto mai
insieme a nessuno.»
«Potremmo far cambio. Io faccio
sesso senza impegno e tu provi ad avere
un rapporto vero senza sesso. Che ne
dici, è una buona idea?»
«No.»
Arrivarono all’Xpressions Café, un
posticino con gelati e vari tipi di caffè,
tè biologico e cioccolato. Soltanto
l’odore la fece sentire euforica come
dopo un pieno di zucchero e cacao.
Perfetto.
Si misero in coda in fondo alla fila.
«Perché no?» volle sapere.
Wolfe sbuffò, seccato. «Perché non
sono pronto per un rapporto a lungo
termine.»
«Non ci hai mai provato», gli fece
notare.
«E mi è andata benissimo così.»
«Dove l’hai conosciuta questa con cui
esci venerdì?» domandò cercando di
apparire disinvolta.
«È la sorella di un mio cliente.
Abbiamo pranzato insieme qualche volta
e adesso siamo pronti a passare alla
cena.»
«Cena equivale a sesso? Devo
impararle, queste cose.»
Il tizio davanti a loro si voltò,
incuriosito. «Guarda avanti, amico»,
l’avvertì Wolfe. Lui diventò rosso e si
girò.
Gen rise. «Come sei rigido. Chiederò
a Kennedy.»
«Perché mi fai fare questi discorsi?
Se uno si aspetta di fare sesso con te
solo perché ti ha portato a cena è una
feccia.»
«Ma se io voglio fare sesso con lui?»
Il tizio di prima stava prendendo un
sorso d’acqua e gli andò di traverso.
Wolfe la fulminò con lo sguardo. «Se le
donne vogliono fare sesso, gli uomini di
solito accettano. Ma in genere le donne
non vanno a letto con qualcuno la prima
sera. Almeno credo. Ci vogliono tre o
quattro uscite prima di decidere. Meglio
se sono di vario genere: pranzo, cena, un
film, un aperitivo eccetera. Occorre
vedere l’altro in contesti diversi per
capire se c’è compatibilità.»
«Capito.» Il tizio annuì come se fosse
d’accordo con Wolfe. Gen soffocò una
risata. «Tu fai così?»
«A volte.»
L’evidente imbarazzo tradiva la
verità. «Tu ci vai a letto e basta, vero?»
La fece andare avanti con una leggera
spintarella come per mettere fine alla
conversazione. «Ordina il tuo gelato,
Gen.»
Si prese del tempo per decidere tra i
vari gusti, poi ordinò il solito: menta
con gocce di cioccolato. David trovava
intollerabile che ci mettesse tanto a
decidere per poi optare sempre per la
stessa cosa, ma Wolfe non sembrò
infastidito. Lui scelse il gusto puffo, che
avrebbe dovuto essere vietato ai
maggiori di dodici anni ma che in effetti
aveva un aspetto tremendamente
invitante. Quando uscirono, il sole stava
tramontando e il cielo brillava di rosa.
Sentirono qualche nota in lontananza.
«Suonano al parco!» strillò lei.
«Andiamo.»
Lui sembrò più interessato al cono
gelato. «Non mi piace la polka.»
Gen lo prese per mano e lo trascinò
oltre il recinto per cani, nel grande prato
dove si svolgevano gli eventi della
cittadina. Il fiume Hudson era uno
sfondo
perfetto
per
il
palco
improvvisato alla destra di un chiosco
bianco. I negozi avevano sistemato delle
bancarelle per esporre i loro prodotti in
vendita. Intere famiglie erano sedute
sulle coperte sorseggiando bibite e
snack. «Sei proprio uno snob. Ci sono
dei gruppi locali che suonano qui una
volta alla settimana e non ho mai avuto
tempo di venire a sentirli. Molti pare
siano anche bravi. Ah, c’è la bancarella
della Barking Dog Bakery. Andiamo a
prendere un dolcetto a Robert.»
Si gettarono nella folla, mano nella
mano. Lei si fermò a chiacchierare con
alcuni vicini, che guardarono con
curiosità il suo accompagnatore,
specialmente i suoi tatuaggi e piercing.
Nessuno nominò il fidanzamento rotto o
la fuga dalle nozze, e lei non sapeva se
fosse un buono o un cattivo segno.
Ultimamente tutti quelli che incontrava
le parlavano con grande prudenza e
cautela, facendo attenzione a non alzare
la voce e a non sfiorare discorsi
riguardanti la sfera sentimentale.
Comprò dei biscotti al burro
d’arachidi senza glutine per Robert e si
fermò alla bancarella successiva a
provare alcuni bracciali fatti a mano con
scritte suggestive tipo ‘Speranza’,
‘Amore’ e ‘Guarigione’. Il gruppo si
chiamava Safe Word e a vederlo non
sembrava male. La cantante aveva i
capelli con le striature rosa.
«Genevieve MacKenzie.»
Quando sentì pronunciare il suo nome
si girò, abbassò lo sguardo e s’irrigidì.
Oh no. Non stasera che si stava
finalmente divertendo.
L’anziana signora davanti a lei era più
piccola di uno Hobbit e più meschina di
Gollum. Aveva le mani strette intorno a
un deambulatore e indossava un vestito
da casa sbiadito a motivi cashmere con
delle scarpe bianche ortopediche. Le
calze le ricadevano molli alle caviglie.
La guardò con gli occhi socchiusi dietro
le lenti spesse. Il suo volto era pieno di
rughe e macchie scure.
Gen sapeva che non erano rughe
dovute al troppo riso. Dubitava che la
signora Blackfire avesse mai sorriso in
vita sua. Era il flagello di Verily, nota in
tutti i negozi che frequentava per il suo
pessimo carattere. Odiava gli animali e
una volta aveva chiamato il rifugio
comunale perché portasse via uno dei
cani di Arilyn, il beagle, che a suo dire
aveva fatto pipì nel suo roseto. Era
sempre acida, mancava totalmente di
senso dell’umorismo ed era un’infelice
cronica. La evitavano tutti. Gen aveva
sentito che quando era iscritta al centro
sociale per anziani aveva chiamato la
Asl perché la gelatina alla frutta non era
buona.
Da allora non l’avevano più voluta in
nessun centro.
«Salve, signora Blackfire.» Gen cercò
di non tremare. «Come sta?»
La donna strinse le labbra in un
ghigno.
Su
quello
superiore
s’intravedevano
dei
baffi
grigi.
«Malissimo. La tua casa abbassa il
valore della mia e così non mi è
possibile venderla. Devi ridipingere e
sistemare i gradini davanti alla porta,
visto che ci mancano dei mattoni.»
Si
gonfiò di
speranza. «Si
trasferisce?»
Due occhi dello stesso grigio acciaio
dei capelli la guardarono con odio. «No.
Ma
questo
non
importa.
Tra
quell’orribile cane di Kate che mi
rovina le rose e il tuo albero pronto a
crollarmi sul tetto, non venderò mai al
valore di mercato. Questo chi è?»
Gen ingoiò a vuoto. «È il mio amico
Wolfe.»
«Piacere di conoscerla», disse lui con
cortesia pulendosi le mani appiccicose
col tovagliolo.
«Che nome ridicolo. Non sei mica un
animale. Cos’è successo a Robert o
William? I nomi normali non sono
abbastanza per te?»
Gen trattenne il respiro ma Wolfe
aveva lo sguardo divertito. «Almeno non
mi chiamo Ciuco.»
La signora Blackfire lo guardò con
sospetto. «Mi stai prendendo in giro,
ragazzo?»
«No, signora.»
«Lo spero.» Osservò i piercing e il
tatuaggio. «Fai parte di qualche gang?
Non tolleriamo atti di teppismo a
Verily.»
«Non intendo farne alcuno, signora.
Anzi se le capitasse di aver bisogno di
qualcosa a casa me lo faccia sapere.
Sarò felice di darle una mano.»
«So badare a me stessa. Abiti con lei
adesso?»
«Per un po’.»
La signora Blackfire sbuffò dal naso.
«Questo è un quartiere tranquillo. Non
voglio star sveglia la notte a sentire
versi e rumori disgustosi.»
Oh mio Dio. Quasi vomitava. «Ehm,
la band inizia a suonare, dovremmo
andare.»
La vicina riportò lo sguardo su Gen.
«Nel periodo in cui non eri a casa ho
fatto venire un esperto a esaminare
quella quercia e ha detto che è marcia.
Ti manderò il rapporto.»
Fece appello a tutta la sua pazienza.
«La quercia sta benissimo ed è nella mia
proprietà. Mi dispiace ma non ho
nessuna intenzione di abbatterla.»
La signora Blackfire le puntò contro
un indice ossuto e tremolante. «Hai
portato lo scandalo in questa città.
Giornalisti che giravano facendo
domande a tutti. Hai piantato quel bravo
dottore. Ho sentito che hai lasciato
anche l’ospedale e lavori in quella
ridicola agenzia matrimoniale. Ai miei
tempi, noi facevamo quello che
bisognava fare. Rispettavamo le nostre
scelte. Sei debole, ragazza. Hai
rinunciato a tutto ciò che contava.»
Le parole la ferirono profondamente.
Non era proprio quello che pensava
anche lei? S’era adoperata tanto per
riuscire bene in tutto, invece aveva
combinato solo un pasticcio. Aveva
distrutto tutto ciò che aveva toccato e
tradito le sue scelte. «Forse ha ragione»,
sussurrò.
«Non sono d’accordo.»
La testa della donna girò di scatto
verso Wolfe. «Cos’hai detto?»
Wolfe si mise in mezzo tra loro due,
proteggendo
l’amica
dall’Hobbit
maligno. «Ho detto che non sono
d’accordo. Ci vuole fegato per
cambiare. Le persone che hanno paura di
ciò che non conoscono sono vigliacche.
Guardano la vita passar loro accanto e
s’incattiviscono giorno dopo giorno
perché tutti sembrano più felici. Crede
sia facile scappare il giorno delle nozze
perché hai capito che stai commettendo
un grosso errore? O studiare dieci anni e
avere il coraggio di prenderti una pausa
per assicurarti che sia quello che vuoi?»
La signora Blackfire restò a bocca
aperta.
Wolfe si chinò verso di lei, molto
vicino.
«Scommetto che lei non sarebbe
scappata. Questo fa di lei una persona
forte? Intelligente? O solo infelice?»
L’anziana donna emise un verso
rabbioso. Le guance erano chiazzate di
un rosso spento. «Come ti permetti? Sei
un ragazzo di strada. Ti terrò d’occhio,
giovanotto.»
Lui sorrise e si raddrizzò. «Non vedo
l’ora. Le auguro una piacevole serata,
signora Blackfire.»
Le voltò le spalle e condusse Gen
verso il prato. Scese il buio e la cantante
s’avvicinò al microfono per presentare
la prima canzone. Wolfe continuò a
camminare fino alla staccionata in fondo
al prato, lontano dalla folla. Si appoggiò
a un pino nodoso, incrociò le caviglie e
si aggiustò la mano di lei nella sua.
Appoggiò anche lei la schiena sulla
corteccia ruvida accanto a lui e si
godette la sua stretta calda.
«Non c’era bisogno di dirle quelle
cose», osservò Gen. Dio, che buon
odore che aveva Wolfe. Le ricordava la
biancheria pulita e la luce del sole. «È
solo un’anziana sgarbata e crudele.»
«A me non dispiace.»
«Cosa? Non la sopporta nessuno! È
una vecchia strega. Sarebbe capace di
portare via Toto e farlo abbattere.
Quanto a me però potrebbe aver
ragione.»
«È stata ferita profondamente e non si
è mai ripresa.»
«Come lo sai?»
Fece spallucce. «Lo capisco. Ma su
di te si sbaglia. E ogni parola che ho
detto la penso.» Si girò a guardarla.
«Ogni. Maledetta. Parola. Sei la donna
più coraggiosa che conosca. È da chi
crede di avere tutte le rispose che
bisogna guardarsi.»
I
suoi
occhi
erano
così
meravigliosamente azzurri e profondi
che avrebbe potuto perdercisi dentro.
«Intendi da quelli com’ero io prima?»
scherzò Gen. «Ero così sicura di me.»
«Io anche.»
Un’energia primitiva e violenta la
scosse nel profondo. L’atmosfera tra
loro si fece elettrica e d’un tratto Gen
voleva la sua bocca, le labbra, la lingua,
i denti, e voleva che lui possedesse ogni
parte del suo corpo. Ardeva dal
desiderio di aprire le cosce e
accoglierlo dentro di sé. Affondargli le
unghie nella pelle e lasciargli i segni.
Arrendersi. Scopare. Cosa le stava
succedendo? Il cuore le martellava.
«Wolfe.»
Il nome le uscì dalle labbra nello
stesso momento in cui il batterista
attaccò un rumoroso assolo. Il pubblico
lo incitò con urla e fischi e
l’incantesimo si ruppe. La tensione
s’allentò, e lei sospirò, turbata. Il
rapporto tra loro stava cambiando e non
sapeva cosa farci. Non poteva più
negare di essere sessualmente attratta da
lui. Forse vivere insieme la stava
mandando in confusione. D’altra parte,
vedere una persona tutti i giorni, cenare
insieme e guardare la tv in pigiama
inevitabilmente creava una certa
intimità. E questo, unito a una crisi
esistenziale
e
all’insoddisfazione
sessuale, creava un cocktail micidiale.
Giurò di mantenere il controllo. Non
ci pensava proprio a rovinare per
sempre la loro amicizia a causa delle
sue
momentanee
condizioni
di
debolezza.
Proprio no.
Se solo fosse mancato meno al suo
appuntamento...
Aveva bisogno di fare sesso.
Assolutamente.
Wolfe le lasciò la mano e si scostò
leggermente da lei. Era così morbida e
femminile. Aveva finalmente ripreso i
chili perduti e il volto indurito dallo
stress si era arrotondato di nuovo. Le
sue favolose curve erano tornate e a lui
prudevano le mani per il desiderio di
toccarle, stringerle e accarezzarle.
La voglia di lei gli veniva sempre più
spesso, adesso. Quando i loro sguardi
s’incrociavano sentiva un calore come
se si fosse accesa una fiamma. Cosa
stava succedendo tra loro? Stava steso
sul divano a lottare col sonno pensando
a lei nel suo letto. Con la camicia da
notte arrotolata intorno alle cosce. Le
labbra semiaperte e umide. Gli
splendidi
boccoli
sparsi
disordinatamente sul cuscino.
Cominciava a chiedersi se non
avrebbe dormito meglio in macchina.
Prima riusciva a toccarla senza
imbarazzi. La prendeva per i fianchi e le
faceva il solletico, una cosa che lei non
sopportava. Le scompigliava i capelli.
La abbracciava e la stringeva forte.
Certo, c’era sempre stato un legame
speciale tra loro, ma quel fuocherello
era diventato un incendio indomabile e
non sapeva che diavolo farci. Cos’era
cambiato? E perché d’un tratto voleva
tanto di più?
Lei doveva essere giunta alla stessa
conclusione perché gli rivolse un sorriso
forzato. «Grazie per avermi difeso,
amico», disse con falsa allegria,
sottolineando l’ultima parola come per
rammentare a entrambi quello che erano
in realtà. Ma più per ricordarlo a lui o
per ricordarselo lei?
Le sorrise a sua volta. «Prego.
Amica.»
Si girarono entrambi ad ascoltare i
ragazzi che suonavano. Erano piacevoli,
in grado di proporre brani che tutti
conoscevano senza scadere nel karaoke.
Gen ancheggiava e seguiva le parole
muovendo solo le labbra. Era sempre
stata brava a ballare, e si abbandonava
alla musica senza preoccuparsi di come
appariva agli occhi altrui. Provò un
desiderio struggente. Come sarebbe
stato prenderla come un uomo prende
una donna, invece che essere solo
amici? A letto non si sarebbe
risparmiata nulla come faceva per tutto
il resto, mettendoci entusiasmo ed
energia, decisa a ricavare il massimo da
ogni momento?
L’uomo che avrebbe conquistato il
suo cuore per sempre doveva essere
eccezionale. Avere la sua stessa
leggerezza interiore. I ricordi gli
attraversarono la mente come saette,
molesti
e
dolorosi.
Si
toccò
distrattamente i bracciali di cuoio,
rassegnandosi all’idea che lui non
sarebbe mai stato quell’uomo, non
avrebbe mai potuto avere quella
leggerezza.
Ma almeno avrebbe protetto Gen.
Anche da se stesso.
Gen apparteneva al mondo dei vivi,
delle cose belle. Era destinata a un
futuro pieno di gioia, figli e felicità
domestica. Stavolta si sarebbe accertato
che lei facesse la scelta giusta.
La musica rallentò e la cantante dai
capelli rosa intonò un brano popolare
che lui aveva sentito alla radio. Aveva
una voce intensa e bassa che faceva
pensare a un nightclub fumoso. Il buio li
avvolse, lottando contro le luci
accecanti del palco. Nel cielo esplosero
le stelle. L’aria aveva l’odore pesante
dei popcorn, dello zucchero filato e
dell’erba
umida.
Le
coppie
cominciarono a ballare accanto ai plaid
del picnic, corpi avvinghiati l’uno
all’altro che si muovevano lentamente e
all’unisono.
Batté le palpebre quando la vide
allungare la mano verso di lui. Aveva lo
sguardo di chi cerca qualcosa, qualcosa
che avrebbe voluto disperatamente darle
ma che sapeva di non avere. Sentì un
nodo in gola e pensò a qualche scusa per
sottrarsi all’invito.
«Balla con me.»
La sua voce era bassa. Rauca.
Seducente. Lui aveva intenzione di dire
di no.
Invece le prese la mano e l’attirò tra
le braccia.
Al suo posto.
La calda sensazione di familiarità si
mischiò all’attrazione sessuale. Il corpo
di lei s’incastrava perfettamente nel suo
e gli toglieva il respiro. Wolfe si tenne
un po’ indietro, cercando faticosamente
una distanza che lei non gli permise di
tenere. Seni pieni premuti contro il
petto. Cosce che strusciavano contro
cosce. Il profumo dello shampoo alla
pesca si diffuse verso l’alto,
ricordandogli i succhi freschi e il primo
delizioso morso alla polpa. Un lamento
animalesco gli salì dal petto pronto a
uscirgli dalle labbra, tanto era lo strazio
del desiderio.
Il timbro seducente della vocalist
riempiva l’aria, cantando di desideri
insoddisfatti. Il ritmo basso della
batteria e della chitarra in sottofondo
aggiungevano intensità alla scena.
Separati dalla folla, intrappolati nel
buio, erano soli al mondo. Con l’abilità
di una strega, Gen lo incantò con la sua
femminilità senza fare nient’altro che
arrendersi al suo abbraccio.
Smise di lottare. Solo per questa
volta.
Affondando il volto nei suoi ricci, lui
la prese per la vita e la strinse forte
contro di sé. La sua crescente erezione
era intrappolata tra i loro corpi. Lei
ansimò. Wolfe si chiese se si sarebbe
allontanata,
fermando
il
gioco
pericoloso che stavano cominciando, ma
ancora una volta lei lo sorprese
stringendogli le braccia intorno alla
schiena e abbandonandosi alla sua
stretta.
Strinse i denti per resistere al bisogno
dolce e doloroso di averla. Muoveva i
piedi mimando i movimenti del lento e
concedendo a ogni parte del corpo di
toccarsi, giocare, e strusciare l’una
contro l’altra. Sentì la pressione delle
sue dita che lo incitavano a continuare.
Wolfe moriva dalla voglia d’infilarle la
mano nelle mutandine e mettergliela
dentro. Quello che avvertiva era l’odore
muschiato della sua eccitazione o lo
stava solo immaginando? La sentì
fremere. Oh sì, era bagnata, ed eccitata
e... lo voleva.
Le sue labbra agirono per conto loro,
appoggiandosi sulla piega morbida del
collo di lei per sentirne il sapore. Ne
volle ancora, come lo zucchero a velo.
Le mordicchiò la clavicola e lei reagì
con un verso rauco e bramoso.
«Wolfe? Oddio, cosa stiamo facendo?
È bellissimo.»
Gli esplose il cervello. Passò la
lingua sulla curva sensibile sotto la
guancia, aprì la bocca e le diede un
morso.
Lei fremette in tutto il corpo. Gli
prese il volto tra le mani tremanti,
costringendolo a guardarla negli occhi.
Aveva lo sguardo annebbiato. Il respiro
usciva ansimante dalle sue labbra piene.
Era così maledettamente onesta nelle sue
reazioni, così disposta a dargli ciò di
cui aveva bisogno. «Perché mi sento
così?» sussurrò, aggrappandosi a lui con
una forza femminile che trovava sexy da
impazzire. «Cosa mi stai facendo?»
«Non lo so. La stessa cosa che stai
facendo tu a me.» Guardò la sua bocca,
così vicina, così umida. «Voglio
baciarti.»
«Oh sì. Solo per stavolta. Sì.»
Non aspettò un secondo di più.
Abbassò la testa e s’impadronì delle sue
labbra. Infilò la lingua nella dolce cavità
della sua bocca, spingendola con
movimenti lenti e languidi, deflorandola
completamente. Si appoggiò al tronco
dell’albero e la sollevò. Lei gli avvolse
le gambe intorno ai fianchi. Il suo sapore
lo travolse, spingendolo a catturare
l’essenza della sua bocca, senza
permetterle di trattenere nulla.
Lei non lo fece. Tenendosi stretta a
lui, gli si arrese completamente. Il
calore del suo corpo lo investì con
fiammate che lo fecero impazzire di
desiderio. Non ricordava se un bacio
l’avesse mai privato del respiro e della
ragione in questo modo, ma nulla
importava, adesso, tranne la voglia di
strapparle
i
vestiti,
assaggiarla
dappertutto, darle piacere. Sfregandole i
denti contro il labbro inferiore, spinse i
fianchi contro i suoi, muovendo
lentamente il bacino. Lei staccò la bocca
dalla sua e gemette, affondandogli le
unghie nelle spalle. Buttò la testa
indietro, e lui vide le sue labbra gonfie e
umide.
«Che bello», ansimò. «Vai avanti.»
Oh, sì.
Fece un rapido mezzo giro
spingendola contro la corteccia ruvida
del pino, e perse completamente la testa.
Dimenticò di trovarsi in un parco
pubblico, dimenticò che era la sua
migliore amica e che il sesso non era
contemplato, dimenticò tutto tranne il
bisogno di sentirla più vicina e di
tuffarsi dentro di lei fino a sparire.
Catturò di nuovo la sua bocca e lei lo
baciò con un desiderio così convulso e
sfrenato da farlo sussultare. Le prese la
testa tra le mani e le tirò i capelli,
spingendo al centro delle sue cosce e
dandole tutto quello che aveva.
Lei era eccitatissima, lo leccava, lo
mordeva, e il semplice bacio sfuggì al
loro controllo. Wolfe sentì vagamente la
canzone che finiva e gli applausi che
seguirono, poi le chiacchiere e il
movimento della folla nel parco lo
fecero uscire pian piano dal suo stato di
annebbiamento.
Alzò la testa. Restò di sale. Inspirò
profondamente, cercando di recuperare
il buon senso. Il suo pene era così duro e
gonfio che avrebbe potuto essere
registrato come arma letale.
Lei aprì gli occhi. Aveva le pupille
dilatate. Quando parlò, lo fece
farfugliando. «Co-cosa è successo?»
Porcaccia miseria, l’aveva fatto di
nuovo. Quell’orribile brano di Britney
Spears gli risuonava in testa con fragore.
Stavolta poteva incolpare solo se stesso.
Che amico era? Lei in questo momento
era debole, vulnerabile. Doveva tenere
duro, controllarsi e darle il sostegno che
meritava.
Ma come avrebbe fatto a guardarla
ancora senza provare il desiderio di
baciarla?
«Wolfe?» Batté le palpebre. «Che c’è
che non va?»
Fece un sorriso forzato e la posò
lentamente a terra. I suoi seni gli
strusciarono sul petto e risvegliando il
suo desiderio. «La canzone è finita.» Il
tono uscì un po’ sgarbato, e rimediò con
una carezza sulla guancia. Lei sembrò
notare il suo disagio e tra loro cadde un
imbarazzato silenzio mentre la cantante
ringraziava
il
pubblico.
Tutti
applaudirono
e
cominciarono
a
raccogliere le proprie cose per poi
avviarsi verso l’uscita del parco. Lui
restò con un’erezione e l’indecisione
circa la miglior rotta da seguire.
«Pronta per andare?» domandò.
«Certo.» Stavolta non la prese per
mano. Non parlarono. I negozi erano
chiusi, le stelle brillavano sopra di loro
e c’era soltanto il rumore dei loro passi
sul marciapiede. A metà strada lei si
decise a parlare. «Mi piacerebbe poter
dire che mi dispiace ma non è così.»
Cercò di non ridere. Era sempre
così... sorprendente. Onesta. Ancora una
volta, giurò di non distruggere il
rapporto più prezioso che aveva. «Non
dispiace nemmeno a me, piccola. Ma
non avrei voluto passare i limiti. Per me
la nostra amicizia è molto più
importante di qualche ormone impazzito.
Sarà stata la cantante. Mi ricorda un po’
Pink.»
La battuta non andò a segno e il
sorriso di lei sembrò forzato. «Giusto.
Ci siamo fatti prendere dal momento.»
«Questo weekend ci farà bene. Uscire
con qualcuno allenterà un po’ la
pressione.»
Perché d’un tratto lei sembrò
afflosciarsi? Pensava che ricordarle il
suo
appuntamento
l’avrebbe
tranquillizzata. Non aveva alcun diritto
di confonderle le idee e di portarla a
volere di più da lui.
Sebbene anche lui volesse di più.
Diavolo, se voleva di più di quel
bacio. A essere onesto, la voleva nel suo
letto, nuda, aperta e pronta a piegarsi
alla sua volontà. Voleva il suo calore, la
sua passione e la sua dolcezza. Si
rendeva anche conto che se mai fosse
andato a letto con lei non solo avrebbe
rovinato la loro amicizia, ma non
sarebbe più stato soddisfatto con
nessun’altra.
Lei però non doveva saperlo e
neppure sospettarlo. Doveva avere la
mente libera per il suo prossimo
appuntamento. Anche se il pensiero che
un altro uomo la toccasse gli faceva
venire voglia di spaccargli la faccia. Si
sarebbe trattenuto per il bene di lei.
Il suo lieve sospiro echeggiò nella
notte. «Può darsi. In effetti mi è sempre
piaciuta molto Pink.»
Si rilassò un po’. Aveva deciso di
stare al gioco. Di lasciarsi l’accaduto
alle spalle. Di aiutarlo a fingere che
quello che era successo non avesse
alcun significato.
Molto meglio così.
Camminarono fino a casa in silenzio.
Gen preparò il divano cercando di non
lasciarsi abbattere.
Non doveva più pensarci. Si erano
baciati. Le era piaciuto. Cavolo se le era
piaciuto. Non si era mai eccitata tanto in
vita sua. Si erano toccati e scambiati
qualche fluido corporeo e adesso era
finita. Chiuso.
Sentì il rumore dell’acqua che
scorreva nella doccia. L’immagine di
Wolfe nudo e bagnato le fece
attorcigliare le budella e prudere le
cosce. Pensava che quel bacio sul
ponticello a Saratoga fosse stato soltanto
un imprevisto. In fondo quel tipo di
attrazione tra amici era impossibile.
Giusto?
Invece stasera aveva capito che non
era così. Voleva andare a letto col suo
migliore amico. Voleva fare ogni sorta
di porcherie con lui, e per un attimo era
stata vicinissima a proporgli il pacchetto
scopamico completo, ma lui se n’era
uscito con la storia dei loro
appuntamenti. Quando si dice un
guastafeste...
Gli cambiò la federa del cuscino
memory e sospirò. Wolfe probabilmente
si eccitava con tutte quelle che baciava.
Non doveva pensare di essere speciale.
Cavolo, le aveva praticamente detto che
stava soffrendo perché non andava a
letto con nessuna e aveva bisogno di
fare sesso. Era chiaro che s’era trattato
soltanto di un eccesso di testosterone. Ci
si erano messe anche la musica lenta, lei
che gli si strusciava addosso e la notte
stellata ed ecco fatto il patatrac. Un
bacio folle e passionale contro l’albero.
Che adesso era finito.
Scosse la testa. Doveva comportarsi
da adulta e non essere depressa.
Specialmente con lui qui. Forse aveva
ragione. Forse i loro appuntamenti
sarebbero andati bene e avrebbero
messo fine a queste strane emozioni che
cominciava a provare. Forse.
«Cazzo!»
Si fermò di colpo. L’urlo scosse la
piccola casa fino alle fondamenta. Col
cuore in gola, Gen avanzò verso il bagno
col terrore che fosse scivolato nella
vasca, si fosse fatto un grosso taglio o
avesse visto un fantasma coi denti
insanguinati pronto a farlo a pezzi.
Accidenti a quel canale di fantascienza...
Arrivò davanti alla porta e lo chiamò.
Il battente si spalancò e un corpo nudo le
sfrecciò accanto. Sul pavimento c’era
una pozza d’acqua e la stanza era piena
di vapore. Cercando di mantenere la
calma, mise dentro la testa e si guardò
intorno, ma sembrava tutto a posto.
L’acqua della vasca scorreva ancora, la
tenda era chiusa e gli specchi erano
appannati.
C’erano
dei
vestiti
ammucchiati per terra. Asciugamani
sparsi. Ma a parte il disordine, non
vedeva altro.
«Maledizione, Wolfe, mi hai fatto
spaventare. Cosa ti prende?»
«C’è una fottuta tarantola lì dentro!
Non ho mai visto una cosa del genere.
Non fai le pulizie?»
Aprì la bocca per dirgli esattamente
cosa pensava della sua osservazione
maschilista ma si fermò. Conosceva
bene quel tono. Era terrorizzato, e per
quanto la divertisse la sua avversione
per i ragni, aveva rispetto per questa sua
unica debolezza. Scosse la testa e tornò
in bagno con una manciata di fazzoletti
di carta. «Dov’è?» chiese.
«Vicino agli asciugamani. L’ho visto
scendere
dal
soffitto.
Schifoso
bastardo.»
Gen soffocò una risata e cominciò a
cercarlo. «Perché non appendi gli
asciugamani al gancio? Si bagnano se li
lasci sul pavimento e ammuffiscono.»
«Possiamo parlarne dopo che hai
ucciso quella bestiaccia?»
Raccolse l’asciugamano e lo scosse.
Niente. «E cos’è quella battuta sulle
pulizie? Io le ragnatele le tolgo, ma non
ti ho ancora visto prendere in mano
l’aspirapolvere. Forse dovresti dare una
mano anche tu se non vuoi avere ospiti
sgraditi intorno.»
«Vuoi prendere quel ragno, Gen?»
alzò la voce.
Si morse il labbro e aguzzò lo
sguardo. Se era così grosso, com’è che
non lo trovava? Alzò il tappetino e fece
un balzo indietro quando il ragnetto
scappò via veloce sulle piastrelle
bianche. Ma che cavolo.
Una tarantola, eh? Era nero e
grassoccio, ma tutto sommato di piccole
dimensioni. Niente che giustificasse lo
spavento. Ah, ci sarebbe stato da
divertirsi. Sorrise con malizia e
schiacciò il malcapitato coi tovaglioli.
Scusa, Arilyn. I ragni e gli insetti non
erano animali come gli altri, per lei,
quindi non era contraria a sopprimerli.
«Preso.»
Sentì il suo sospiro di sollievo.
«Grazie. Stai bene?»
Fece una smorfia. «È stata dura, ma
l’ho scampata. Avevi ragione. È
gigantesco. Vuoi vederlo?»
La risposta fu sferzante. «Non fare la
spiritosa, Gen. Buttalo nel water o giuro
che...»
«Sì, sentiamo, cosa fai? Avanti,
potrebbe farti passare l’aracnofobia. Te
lo faccio vedere.» Uscì dal bagno
sorridendo con i fazzoletti appallottolati
in mano.
«Allontana da me quel coso!» Gen
voleva proseguire con lo scherzo ma
quando lo vide così in paranoia provò
pena per lui.
Poi si rese conto che i suoi stati
d’animo non erano ciò su cui avrebbe
dovuto concentrarsi adesso.
Perché era nudo.
Ed era un fico spaziale.
Gen sapeva del suo corpo
spettacolare. Lo sapeva tutto il mondo,
visto che era stato esposto sui tabelloni
quando pubblicizzava i boxer con
addosso soltanto i bracciali di cuoio.
Ma vederlo completamente nudo le fece
sentire le ginocchia così molli che quasi
cadeva a terra.
Wolfe era incredibile.
Era ancora bagnato e le gocce
d’acqua gli scivolavano sui muscoli tesi
e duri. Non un filo di grasso in nessun
punto del corpo. Dagli addominali a
tartaruga ai bicipiti alle possenti cosce,
era snello, asciutto e tonico. Pelle
olivastra. Peli scuri sul petto che si
stringevano in un’invitante riga che
scendeva verso il basso. Il suo sguardo
si fermò sui peli scuri, folti e ricci
dell’inguine.
Oh. Mio. Dio.
Aveva il piercing anche lì.
Restò quasi a bocca aperta quando
vide la barretta d’acciaio che gli
trapassava il pene. L’attrezzo era già
impressionante di per sé, e sotto il suo
sguardo fisso si stava anche alzando.
Sentì una vampata di calore e le si
prosciugò la saliva mentre immaginava
di toccarlo e di guardarlo diventare duro
grazie alle sue carezze. Immaginò di
stuzzicare la barretta con la lingua,
facendolo gemere. Immaginò come
sarebbe stato dentro di lei. La barretta le
avrebbe toccato il punto G? Le avrebbe
stimolato il clitoride quando lui
spingeva avanti e indietro? La stanza
perse i contorni e strinse i pugni per
resistere al desiderio di toccarlo.
«Gen.»
Sentì il suo nome mentre lo guardava
diventare più grosso, più lungo, fino a
raggiungere il massimo dell’erezione
sotto il suo sguardo bollente. «Sì?»
mormorò, incantata dalla manifestazione
di bellezza e di forza maschile davanti a
lei.
«Devi smetterla di guardarmi così,
piccola. Sto morendo qui. Mi serve un
asciugamano.»
Batté le palpebre. «Oh. Giusto. Un
asciugamano.» Si bagnò il labbro
inferiore con la lingua. Lui gemette come
se fosse in agonia. «Scusa.»
Gen non si mosse. Era così duro.
Aveva voglia di accarezzare la punta per
sentire com’era. Di chiudere la mano
intorno all’asta e farla scorrere
lentamente su e giù. Inginocchiarsi,
aprire la bocca e prenderlo tutto dentro.
Che sapore avrebbe avuto? Di terra e
muschio per l’eccitazione? O delizioso e
pulito come il suo odore?
Trasalì quando lui ripeté il suo nome
in tono più energico. «Sì?»
«Se non mi prendi subito un
asciugamano perdo il controllo.»
Oh, era così tentata. Avvicinarsi,
afferrargli l’uccello e non farlo pensare
per un po’. Non far pensare entrambi.
Ma quando alzò lo sguardo, nei suoi
occhi non c’erano soltanto desiderio e
bisogno.
C’era disperazione.
Inebetita, andò in bagno a prendere un
asciugamano e glielo portò. Lui se
l’avvolse intorno ai fianchi e lo tenne
stretto come per paura che lei glielo
strappasse via. Diventò rossa per
l’umiliazione. Probabilmente lo stava
fissando come un’adolescente arrapata
che non vedeva l’ora di perdere la
verginità.
«Scusa.» Fece un sorriso forzato. «Mi
sono distratta.»
Lui le sollevò il mento con la mano
costringendola a guardarlo. I suoi occhi
azzurri catturarono quelli di lei con una
tale forza che le si fermò il respiro. Il
suo
sguardo
fremeva
d’ardente
desiderio.
«Non scusarti mai più con me per
qualsiasi cosa facciamo insieme.»
Lo guardò, impotente, in attesa che
decidesse lui per entrambi, perché lei
era troppo stordita per dire di no. Se
l’avesse baciata, non sarebbero tornati
indietro. Un bacio, e sarebbero finiti a
letto. Nudi. Insieme.
Gen tremò. Aspettò.
Lui abbassò la mano.
«Grazie per aver ucciso il ragno.»
Non riuscì a rispondere. Lui le passò
accanto e chiuse la porta del bagno. Con
le gambe che tremavano, si lasciò
cadere sul divano chiedendosi come
cavolo avrebbe fatto.
Capitolo 16
Wolfe sorrise alla donna seduta al
tavolo di fronte a lui. Era il loro terzo
appuntamento. Quello che avrebbe
deciso se avrebbero fatto sesso... oppure
no. Fino a questo momento, Brit
sprizzava ‘sì’ da tutti i pori, e lui era
contento.
Già. Contentissimo.
L’appuntamento di Gen sarebbe stato
il giorno dopo. Si erano messi
d’accordo che lui non tornava a casa
stasera e portava Brit nel suo
appartamento di Manhattan. Dove si
sarebbe dato da fare. A questo
proposito, forse era meglio smettere di
pensare a Gen e concentrarsi invece su
di lei.
Era splendida. Trucco leggero.
Capelli scuri lunghi e dritti. Seni alti e
pieni. Vita sottile. Un po’ troppo magra,
come la maggior parte delle donne con
cui usciva. Avevano tutte paura di
mettere su qualche chilo sui fianchi e sul
sedere, ma era solo colpa di quelle
stupide riviste. In Europa le donne in
carne andavano per la maggiore.
Avrebbe voluto fosse così anche lì.
Gli sorrise e notò i denti bianchi e
splendenti. Merito dello sbiancamento,
sicuro come l’oro. Nessuno aveva i
denti così bianchi per natura. «Sono
felice che tu mi abbia chiamata, Wolfe.
Sono stata benissimo a pranzo e non
vedevo l’ora di conoscerti meglio.»
Abbassò leggermente lo sguardo. Una
mossa ben studiata. Tutt’altra cosa
rispetto allo sguardo scioccato e
affascinato di Gen quando aveva visto il
suo piercing alle parti intime. Non
avrebbe mai dimenticato i suoi occhi
spalancati e il suo volto stravolto dal
desiderio. Aveva mai visto una donna
tanto attratta da lui? Una che lo
conosceva e non considerava il suo
corpo un’entità a parte?
Si costrinse a smettere di pensare a
Gen e si concentrò su Brit. «Sono stato
bene anch’io. Non vedevo l’ora di
saperne di più di te.»
«Quanto di più?» Piegò la testa di
lato con civetteria.
«Molto di più.» Era una risposta
automatica, ma era convinto che il suo
corpo l’avrebbe seguito a ruota. Aveva
assolutamente bisogno di sfogarsi e
anche se inizialmente sperava che con
Brit potesse andare un gradino oltre, ora
qualcosa gli diceva che una notte
sarebbe stata sufficiente.
«Si può fare», sussurrò lei.
Non perse un colpo. «Allora forse
dovremmo chiedere il conto.»
Lei non protestò. Si limitò a sollevare
un sopracciglio perfettamente arcuato e
a sorridere. Il cameriere gli portò il
conto. Wolfe pagò e uscirono dal
ristorante. Lei parlò di lavoro, del
Purity, di suo padre e di cosa significa
essere donna in un settore dominato
dagli uomini. In un altro momento e in un
altro luogo, forse avrebbe apprezzato la
sua intelligenza e i suoi modi raffinati. In
un certo senso erano fatti della stessa
pasta. Avevano lavorato duramente per
arrivare
dov’erano,
apprezzavano
l’intimità
fisica
e
una
buona
conversazione, ed erano aperti a nuove
esperienze.
Peccato
che
ultimamente
gli
sembrasse tutto piatto.
Ma non importava. Finché i patti
erano chiari, non si sarebbe sentito in
colpa. Erano tre mesi che non faceva
sesso ed era al limite della
sopportazione. «Sto andando a casa
mia.» Fece una pausa. «A te va bene?»
Brit si voltò e ammiccò. «Sì. Devo
solo alzarmi presto domani perché ho
una presentazione.»
Gli si gelò il sangue. Sperava di
evitare che si fermasse a dormire. Era
imbarazzante, al mattino. O ci si
sforzava di salutarsi come se niente
fosse successo, o ci si trovava di fronte
a quel silenzio devastante in cui uno
sapeva che la cosa si chiudeva lì e
l’altra no. Diavolo. Rispettava Brit e
non meritava di essere usata per una
sveltina e buttata fuori di casa. Da
quando era diventato così freddo? Così
bravo a mantenere le distanze da tutti,
che ci fosse di mezzo il sesso o meno?
Su di lui scese il gelo. Quante volte
dopo quella fatidica sera aveva donato
il suo corpo senza mai metterci l’anima?
Non c’era niente da fare. Nulla
l’avrebbe guarito, non c’erano formule
magiche o affetti che potessero cambiare
quello che era diventato. Ma poteva
ancora dare piacere, onestà e cortesia.
Forse non gli restava altro.
Parcheggiò nello spazio a lui
assegnato e aprì la portiera. Salirono a
casa, portiere di notte, ascensore,
corridoio.
Lei
continuava
a
chiacchierare, ignara del suo stato
d’animo sempre più teso e confuso.
Eppure l’aveva già fatto mille volte. Sì,
ora viveva con Gen, ma questo non
poteva certo significare trascurare i suoi
bisogni e rinunciare a soddisfare le sue
esigenze per poter dormire senza incubi.
La pressione doveva pur sfogarla.
Indossò le vesti dell’ospite. Le porse
un bicchiere di vino e si sedettero sul
divano. Faceva tutti i versi giusti a
commento delle sue osservazioni, la
guardava negli occhi e partecipava alla
conversazione. Ma la mente era altrove,
lontano da Manhattan, e precisamente a
Verily.
Da Gen.
Dopo un po’ Brit posò il bicchiere e
si avvicinò. Gli accarezzò i capelli,
inclinando la testa in modo civettuolo. I
capelli le scivolarono sulla guancia
coprendole un occhio.
I ricci di Gen lo facevano
naturalmente, ma non stava pensando a
quello adesso.
«Ti voglio da molto tempo», sussurrò
lei chinandosi verso di lui.
«Anch’io. Brit, lo sai che non voglio
legami sentimentali, vero?»
Sperava in uno sguardo sorpreso,
indignato, magari uno schiaffo. Invece
lei fece una risatina. «Tesoro, non ho
tempo per i legami sentimentali. Non
correre troppo. Ma stanotte sono tua.»
«È tutto quello che voglio.»
La baciò. Aspettò che s’accendesse il
desiderio, o almeno che là sotto si
muovesse qualcosa per fargli capire che
sarebbe filato tutto liscio. Invece...
niente. Certo, era solo un bacio,
probabilmente ci voleva qualcosa di più
per coinvolgere anche altre parti
anatomiche.
Le perlustrò la bocca con la lingua.
Sapeva di rum e aveva un odore aspro e
pungente. Il suo corpo era estremamente
sottile e spigoloso e quando le si
avvicinò sentì le sue ossa contro i
muscoli. Cercò di lasciarsi guidare
dall’istinto, deciso a ricavare quanto più
piacere possibile dalla serata.
Brit gemette e fece ballare i seni.
«Oh, sì, tesoro, dammelo.»
Aggrottò la fronte. Dammelo? Un po’
squallida, forse, come espressione, ma
di norma si sarebbe eccitato. Perché
adesso no? Si impegnò di più,
toccandola dappertutto e stringendola a
sé. Non aveva niente che non andava,
eppure la fiamma non si accese.
Imprecando tra sé, smise di baciarla.
Lei aveva le labbra rosse e semiaperte.
Si alzò e lo invitò a fare lo stesso.
«Andiamo nel tuo letto. Voglio che mi
scopi selvaggiamente. Prendimi come
vuoi. Sono tua.»
Di solito si eccitava quando gli
parlavano in questo modo. Era quello
che ci voleva per lasciarsi andare e
godersi il momento. Ma Wolfe capì che
stasera nulla avrebbe funzionato. Poteva
fingere, farlo controvoglia, ma si era
giurato anni fa che non si sarebbe più
messo in quelle condizioni.
Ci pensò un attimo. No. Non voleva
svegliarsi al mattino pieno di vergogna
per aver mentito. Mentiva già
abbastanza. Fu indeciso se inventarsi un
disturbo allo stomaco o affrontare la
collera femminile. E ancora una volta
vinse l’onestà.
«Brit, ti chiedo scusa ma stasera non
me la sento di farlo. Non ci sono con la
testa.»
Lei non fece una piega ma si avvicinò
e gli afferrò il pene floscio. «Ma io
voglio questa testolina qui, tesoro»,
disse in tono seducente. Lui si stupì per
la volgarità. «Voglio quella piccola. Non
m’interessa quella grande.»
Imbarazzante.
Le tolse lentamente le mani dal suo
membro. «Quella piccola non funziona
bene, stasera. Ascolta, so che sei
seccata, e mi dispiace di averti illusa.»
Al diavolo, una piccola bugia non
avrebbe fatto male a nessuno. «Non mi
sento molto bene.»
Aggrottò le sopracciglia. «Devi
andare in bagno? Posso aspettare.»
Puah. Wolfe scosse la testa e prese il
telefono. Mandò un sms all’autista del
Purity chiedendogli di venirla a
prendere e di accompagnarla a casa.
«No, credo che sarà una notte lunga. Ho
bisogno di stare solo. Il mio autista ti
aspetta davanti al portone.»
Alzò
la
testa,
prendendo
probabilmente atto di essere appena
stata respinta con delle palesi bugie.
Alla fine Dio gli sorrise perché lei
annuì, prendendo la borsetta. «Certo.
Non voglio che la nostra prima serata
sia memorabile in questo senso. Ci
vediamo un’altra volta?»
«Assolutamente.» Okay, non aveva
avuto il coraggio di dirglielo, ma non se
la sentiva di affrontare quel tipo di
discorso adesso. L’avrebbe ripreso la
prossima volta. Lei non lo salutò con un
bacio. Gli fece solo l’occhiolino e uscì
dal suo appartamento ancheggiando
come sapeva fare molto bene.
Wolfe tirò un sospiro di sollievo.
Finalmente il silenzio. Prese i
bicchieri, li mise nel lavandino e si
guardò intorno. Come mai il suo
appartamento sembrava così vuoto? In
genere ne amava la semplicità,
l’arredamento
essenziale.
L’aveva
sempre considerato un posto perfetto per
rilassarsi e ricaricarsi. Ma non l’aveva
mai percepito come casa sua.
Da Gen invece si sentiva a casa.
Forse perché era un villino
indipendente? O per il fascino
dell’arredamento, i colori allegri, il
parquet irregolare e le finestre che non
si aprivano? O era Gen? Quel suo
saltellare da una stanza all’altra sempre
in attività, lasciando la sua roba e il suo
odore ovunque? La sua abitudine di
vedere la tv e sentire la musica ad alto
volume? O la mania ossessivocompulsiva di disporre i libri in ordine
alfabetico per cognome dell’autore?
Si grattò la fronte. La faccenda si
stava complicando. Non era andato a
letto con Brit, stasera, ma Gen doveva
credere il contrario. Occorreva creare
una distanza tra loro e ricordare a
entrambi che non erano amanti. Avrebbe
passato la notte qui e non avrebbe
raccontato nulla della sua uscita,
lasciando tirare a lei le ovvie
conclusioni. Tecnicamente non era una
bugia.
Gli affiorò alla mente l’immagine di
Gen in piedi davanti a lui in camicia da
notte, con la pelle umida e senza
mutandine. Il suo pene si mise subito
sull’attenti, e Wolfe gemette. Doveva
sfogarsi, e c’era un solo modo per farlo.
Chiuse gli occhi, si slacciò i pantaloni
e si toccò fino a raggiungere l’orgasmo
con il nome di Gen a fior di labbra.
«Farà male.»
Gen era stesa su un lettino imbottito
col sedere per aria e i pantaloni
abbassati sui fianchi. Un po’
imbarazzante, ma non poteva farci
molto. Guardò il volto preoccupato
dell’amica e le diede una pacca sulla
mano. «Sono abituata agli aghi.»
Kate si morse il labbro cercando di
non guardare lo strumento che ronzava a
pochi centimetri dalla pelle di Gen.
«Vuoi qualcosa di alcolico?»
«Non si beve nel mio negozio»,
intervenne il tatuatore. Capelli lunghi e
scuri con le trecce, portava dei pantaloni
di pelle e una maglietta nera e aveva le
stazioni della via crucis tatuate su
entrambe le braccia, con l’inchiostro
nero. L’unico centro per tatuaggi di
Verily si trovava in periferia. Il
proprietario era il nipote di Tattto Tony
di Marlboro, noto per aver eseguito il
famoso tatuaggio sul sedere di Cher. «I
tatuaggi non si rimborsano, quindi solo
clienti sobri.»
Gen rise per l’occhiata gelida che gli
lanciò Kate. «Va bene, ma tu vedi di non
guardarle il culo», replicò Kate.
Il tatuatore alzò gli occhi al cielo.
«Bella, non crederesti a dove ho fatto
alcuni tatuaggi. Non c’è nulla che non
abbia visto.»
Gen s’intromise. «Per favore,
ignorala.» Poi, a bassa voce: «Cominci
anche tu? Avresti dovuto vedere Arilyn
con l’agente Stone. Era una iena.»
«La nostra Arilyn?» domandò Kate
con grande stupore. «Impossibile.»
«Giuro! L’ha accusato di non fare il
suo lavoro e non stava più zitta. Penso
che lui fosse attratto da lei. C’era
qualcosa di elettrico nell’aria. Ah, e
fuma.»
«Non funzionerà mai, allora. Sono
preoccupata per il suo istruttore di yoga.
Ultimamente la vedo un po’ giù di corda.
La starà tradendo di nuovo?»
«Può darsi. L’ha già fatto due volte,
inventando un sacco di scuse sugli
uomini che per natura non sono
monogami e sul seguire l’istinto. È un
furbone.»
«Dici che dovremmo parlarle?»
«No. Deve arrivarci da sola. Come ho
fatto io con David.»
«Sì, penso che tu abbia ragione.»
Il tatuatore si chinò sul suo sedere.
«Pronta? Ci metterò un po’», le disse in
tono brusco.
«Pronta.»
Rabbrividì
per
l’eccitazione. Forse era così che ci si
sentiva a essere una cattiva ragazza. Izzy
sarebbe stata fiera di lei. Il pensiero
della gemella le procurò il solito
rammarico. Si chiese se provare di
nuovo a riavvicinarla. Forse ora che
aveva rotto con David sarebbe stata più
disposta a parlare.
Nel momento in cui l’ago bucò la
pelle sul fondo alla schiena, Kate strillò.
Gen provò un fastidio diffuso, come
tante punte di spillo, ma nulla
d’insopportabile. «Kate, mi stai facendo
innervosire. Respira.»
«Scusa. Mi ripeti perché lo fai? I
chirurghi possono farsi i tatuaggi?»
Le venne in mente Wolfe. Lo rivide
uscire dalla porta, più fico che mai,
pronto a portare a letto una bellissima
donna sexy e sicura di sé che l’avrebbe
fatto stare bene, l’avrebbe toccato
dappertutto e l’avrebbe preso dentro di
sé.
Zoccola.
Voleva urlare. Invece gli aveva fatto il
pollice in su come un’amica a cui non
importasse niente di quante donne si
scopava. In effetti prima era così. Prima
rideva, gli dava del playboy e finiva lì.
Ora le cose erano cambiate e non sapeva
come gestirle. Era verde di gelosia
come la pelle della Strega cattiva di Oz.
Tornò alla domanda di Kate. «Sì,
sono i militari che non possono. Quanto
al perché, diciamo che ho bisogno di
darmi una scossa. Ho voglia di fare
qualcosa di un po’ folle. Fuori
dall’ordinario. Capisci cosa intendo?»
«Assolutamente. Ma bastava che mi
accompagnassi a trovare mia madre, te
l’avrebbe data lei una bella scossa.»
Gen sorrise. La madre di Kate era una
sessuologa, ex hippy e fumatrice di
marijuana, e con un cuore d’oro. «A
proposito, come sta?»
Kate mangiucchiò qualche M&M’s.
Lo zucchero l’aiutava ad attenuare la
paura degli aghi. «Bene. È tutta eccitata
per questo nuovo paziente che soffre di
disfunzioni erettili. Vuole curarlo.»
«Tua madre è una dritta.»
«A Slade è simpatica. Ha accolto con
una certa freddezza la notizia del
matrimonio, quindi siamo contenti che
lasci fare a noi.»
«Non posso credere che tra poco ti
sposi. Sono eccitatissima.»
«Anch’io. Forse poi toccherà a
Kennedy, se Nate la spunta. A proposito
di uomini e di convivenze, come va con
Wolfe?»
Il ricordo la colpì come un gancio
sinistro. Wolfe nudo in soggiorno.
Bagnato. Gli occhi azzurri che
brillavano di desiderio. Ingoiò a vuoto.
«Mmm, bene.»
L’amica la guardò con sospetto.
«Dalla risposta non sembrerebbe.»
Rispose con un tono indifferente.
«Conviviamo da amici. Mangiamo
insieme, guardiamo la tv, cose così.»
«Andate anche a letto insieme?»
Gen sussultò. Il tatuatore le diede una
pacca sulla coscia. «Non muoverti.»
«Ehi, non sei il suo capo!» lo
rimproverò Kate.
Lui sollevò l’ago. «Stai buona o la tua
amica si ritroverà con un tatuaggio molto
diverso da quello che ha chiesto.»
Gen la supplicò con gli occhi. «Kate!
Lasciagli fare il suo lavoro, ti prego.»
«Va bene. Vai a letto con Wolfe?»
«No. Siamo amici. Te l’ho detto un
milione di volte. Figurati, stasera è
uscito per scoparsi una di cui
probabilmente non gli importa niente.»
«Interessante. E perché sembri
gelosa?»
Gen la guardò di traverso, ma non
doveva mettere molta soggezione coi
pantaloni calati. «No. Voglio solo che la
smetta con queste avventure e provi ad
avere una vera relazione. Rifiuta di
iscriversi a Kinnections e insiste su
questa sua presunta incapacità di
impegnarsi.»
«Magari è vero.»
«Stronzate. Ha paura di aprirsi con
qualcuno. È frustrante. Cavolo, non mi
ha parlato nemmeno del suo passato e lo
conosco da anni.»
«È un problema suo, Gen, non tuo»,
disse Kate con dolcezza. «Deve sentirsi
pronto lui, non puoi forzarlo. Perché non
ti concentri sul tuo appuntamento,
piuttosto? Tu sei pronta?»
Era pronta? Da quando Wolfe le
aveva tolto la pace e scatenato la libido,
s’era dimenticata di cosa s’aspettava da
questo
appuntamento.
Un inizio
promettente? La conferma che poteva
ancora trovare l’amore? Un salto
nell’ignoto per ricordarle che il sesso
non doveva essere un campo di
battaglia? O l’amore. O quello che
diceva quella canzone degli anni Ottanta
di Pat Benetar.
«Sì. Non vedo l’ora. Il computer dice
che è il tipo giusto per me, vero?»
Kate annuì. «Vi compensate a
vicenda. È divorziato ma pronto a
innamorarsi di nuovo. È un farmacista
quindi può apprezzare la tua formazione
in medicina. Gli piace divertirsi, e non è
per niente noioso.»
«Kate?»
«Sì?»
«Se tutto va secondo i piani, vorrei
andarci a letto.»
La risatina del tatuatore non fu nulla
confronto alla reazione della sua amica.
«No! È contro le regole di Kinnections.
Le regole implicite, diciamo. Niente
sesso
al
primo
appuntamento.
L’obiettivo non è trovare uno con cui
andare a letto, ma provare a costruire
una relazione seria e appagante.»
«Se facciamo sesso che fai, mi sbatti
fuori?» chiese per curiosità.
Kate sbuffò e si coprì il volto. «No,
non dire stupidaggini. Ma non credo che
Charles sia quel tipo di persona. Se
volevi solo fare sesso avresti dovuto
dirmelo!»
Gen trattenne una risata. «Perché? Per
gli uomini a cui va bene anche una sola
notte di sesso c’è una lista separata?»
Un’altra risata dal tatuatore. Kate lo
guardò malissimo.
«No. Però magari avrei scelto
diversamente. Lui sta cercando l’amore.
Non il sesso.»
Si afflosciò. Certo. Perché si
sorprendeva? Nessuna delle sue
conoscenze la considerava un tipo da
una botta e via. Wolfe meno di tutti.
Cosa c’era di male a voler uscire dagli
schemi qualche volta? A desiderare una
notte di passione prima di preoccuparsi
delle decorazioni dei piatti e delle
staccionate bianche?»
«Ah, dannazione. Ho detto qualcosa
di sbagliato. Cos’ho detto?»
Gen cercò di non incrociare il suo
sguardo. «Niente, non essere sciocca.
Probabilmente hai ragione. Penso solo
che
avendo
appena
rotto
un
fidanzamento imbarcarmi in un’altra
relazione non sia una buona idea. Forse
ho bisogno di spassarmela un po’. Ti
sembra così terribile?»
Kate le prese la mano e gliela strinse.
«Nient’affatto. Scusa se non ho cercato
di capire meglio quello che volevi.» Si
batté l’indice sul labbro. «Magari
Charlie ti sorprende. Se capisce che hai
voglia, magari fa una piccola follia e ti
accontenta.»
Gen non poté evitarlo. Rise. Kate
l’aveva detto come se fosse una novità
assoluta. Chi voleva prendere in giro?
Non avrebbe mai avuto un’avventura di
una notte, né l’avrebbe mai voluta. A lei
interessava
l’intesa,
il
dialogo,
l’emozione. Ma Wolfe non doveva
saperlo.
L’idea si trasformò in un piano.
Sarebbe
uscita
con
Charles
comportandosi decorosamente ma non
avrebbe raccontato nulla su come era
finita la serata, così Wolfe avrebbe
creduto che ci era andata a letto e questo
forse avrebbe messo fine a quella strana
tensione tra loro. E se con Charles fosse
scoccata la scintilla, si sarebbe lasciata
guidare dall’istinto. Sentì una voce
dietro di lei.
«Puoi sempre fargli venire voglia
mostrandogli questa meraviglia. Sicura
di non volere il fiore della nebbia
accanto alla rosa? Tra le signore va per
la maggiore.»
No. Aveva scelto la rosa, ma questo
era il suo piccolo segreto. La bellezza e
il suo lato oscuro. Il piacere con un po’
di sofferenza. Non era il mondo in cui
avrebbe voluto vivere, ma era la realtà,
e non avrebbe più cercato di ignorarla.
Quel mondo adesso era una piccola
parte di lei.
«No», disse ad alta voce. «Voglio le
spine con le gocce di sangue.»
«Sarà fatto.»
Kate fece una smorfia e distolse lo
sguardo. Gen invece si sentiva più
soddisfatta a ogni puntura dell’ago. Era
giunto il momento di accettare l’idea che
non doveva fare sempre la cosa giusta,
le scelte giuste. Forse c’era dell’altro in
lei oltre a quanto aveva sempre creduto,
e farsi questo tatuaggio era il primo
passo.
Sorrise e si abbandonò alla nuova
esperienza.
«Com’è andata la tua uscita?»
Le
costava
tantissimo
l’indifferente, ma sarebbe
fare
morta
piuttosto che mostrare i suoi veri stati
d’animo. Gelosia. Rabbia. Confusione.
Ancora gelosia.
Non era tornato ieri sera. Certo,
gliel’aveva detto, ma lei era comunque
rimasta sveglia fino all’alba a sentire
quando si apriva la porta. Era rientrato
alle otto con dei vestiti diversi da quelli
della sera prima. Fresco di doccia,
Levi’s sbiaditi e canottiera nera che
metteva in risalto le braccia scolpite e il
tatuaggio, trasudava peccato da tutti i
pori. Era anche rilassato. Come se
avesse dato sfogo a tutte le sue tensioni
facendo sesso sfrenato e animalesco con
quella zoccola. Ehm, con quella donna.
Quello che era.
Doveva smetterla di parlare da sola.
«Bene. C’è dell’altro bacon?»
Fumava per l’irritazione ma gli fece
un sorriso radioso. «Certo. Ti sei
divertito?»
«Sì. Fai anche le uova?»
Le tremò leggermente un occhio. «Ti è
venuta fame, eh?»
Il commento lo sorprese e la osservò.
Si voltò a trafficare con la padella,
imprecando per la sua incapacità di
fingere indifferenza. Il silenzio alle sue
spalle era molto eloquente. Alla fine
Wolfe si schiarì la gola. «Com’è andata
la tua serata?» le chiese.
Se pensava che fosse stata in casa in
compagnia del telecomando si sbagliava
di grosso. «Benissimo.» Il bacon
sfrigolava nella padella facendo
schizzare l’olio. Girò le uova con la
spatola. «Una serata fantastica.»
Percepì la sua sorpresa ma non si
girò. «Oh. Bene. Ma l’appuntamento è
stasera, giusto?»
«Sì.»
«Quindi che hai fatto, sei andata da
Mugs con le ragazze?»
Mise le uova e il bacon sui piatti,
prese il suo caffè e lo sorseggiò. «No.
Mi sono fatta un tatuaggio e una ceretta
brasiliana.»
La sua faccia esprimeva perfettamente
lo shock: occhi azzurri spalancati e
labbro inferiore appeso. La guardò da
capo a piedi, soffermandosi un istante
sulla zona dell’inguine per poi tornare
subito su. Gli spuntò qualche goccia di
sudore sulla fronte.
Gen sorrise e cominciò a mangiare le
uova.
«Di che diavolo parli? Quale
tatuaggio? Dove? Perché?»
Fece spallucce. «Così. Mi andava di
farlo. Ma ho sentito più male con la
ceretta.»
La fissava con una luce intensa negli
occhi. Il suo corpo si mise subito
sull’attenti. I capezzoli s’indurirono e si
sentì umida tra le cosce. Detestava
sentirsi così. Lo sconfinamento da amico
a uomo con cui voleva andare a letto era
devastante. Forse conveniva riprendere
con le battute e gli scherzi come
facevano prima. Dopotutto, se Wolfe
aveva deciso di scopare in giro, era
evidente che lei non era tra quelle con
cui voleva disperatamente andare a
letto. Quindi se era solo lei che sbavava
dietro a lui, era meglio tornare su un
piano di parità.
«A che ti serviva?» le chiese in tono
brusco.
«La brasiliana?»
Strinse la forchetta con forza bruta.
«No. Il tatuaggio.»
«Te l’ho detto, mi andava così. Mi ha
accompagnata Kate. Quasi sbarellava tra
la paura degli aghi e il fatto che ero
nuda.»
La forchetta cadde a terra. Wolfe
aveva il respiro pesante. «Chi ti ha visto
nuda?» domandò alzando la voce.
«Dove l’hai fatto?»
Sollevò un sopracciglio. «Calma,
amico. Hai un piercing sull’uccello.
Dev’essere stato un dolore atroce. Tu
perché l’hai fatto?»
Arrossì di nuovo in quel modo virile
e adorabile. Si chinò a raccogliere la
forchetta e la buttò sul banco della
cucina. Lei gliene prese un’altra,
aspettando la risposta. «Perché ero fuori
di testa in quel momento. Non
m’importava del dolore, volevo solo
torturarmi, avevo i miei motivi.»
Lei si chinò in avanti. La voce era un
sussurro. «Quali motivi?»
«Lasciamo stare. Non voglio parlare
del piercing, Gen. Dov’è il tatuaggio?»
Delusa, tornò alla sua colazione.
Certo. Lui non parlava di cose personali
brutte e tristi. Sentì un vuoto dentro, per
il bisogno di sapere di più di lui. Non le
era mai importato prima, gli era sempre
stata grata per quello che sceglieva di
raccontarle. E adesso?
Adesso non più.
Si toccò la parte inferiore della
schiena. «Tatuaggio da zoccola.»
Lui inspirò rumorosamente ma lo
ignorò. Svuotò i suoi piatti e li mise
nella lavastoviglie. «Posso vederlo?»
domandò.
«È coperto. Un’altra volta.» Non ci
pensava proprio a mostrarglielo adesso,
quando si sentiva così vulnerabile. Se
avesse provato a toccarla avrebbe
rischiato di perdere il controllo. Meglio
mantenere un tono leggero e lasciargli
intendere i suoi progetti per la serata.
«Dovresti dormire a casa tua stanotte.»
Si rabbuiò. «Non è una buona idea.
David ti starà tenendo d’occhio e non
voglio che resti sola due notti di fila.»
«Non sarò sola. Se tutto va secondo i
piani, Charles passerà la notte qui.
Preferirei evitare imbarazzi.»
«Non lo conosci nemmeno! E se non ti
piace? Non puoi farti una normale cena
e tornare a casa? Possiamo parlare delle
sue qualità e dei suoi difetti con una
birra davanti alla tv.»
Montò in collera. Fece attenzione a
non sbattere il suo piatto mentre lo
svuotava. «Forse sono in cerca di
qualcos’altro stasera, Wolfe. Forse
voglio provare a me stessa che ci
saranno altri uomini che mi vorranno.»
«Piccola, non dire stupidaggini.
Bisognerebbe essere folli per non
volerti. Ma non c’è bisogno di correre,
potresti commettere uno sbaglio se non è
quello giusto. Ti serve tempo. Te lo dico
perché ti sono amico.»
«Sì, infatti.» Pulì il banco della
cucina e finì di riempire la
lavastoviglie. «Proprio perché mi sei
amico, non ti farai vedere. Preferisco
portarlo qui che andare io da lui. Questo
appuntamento è molto importante per
me. Sento che andrà bene e mi manca il
sesso. L’intesa. Ho bisogno di sapere
che esiste qualcosa di più di quello che
avevo io. È così sbagliato?»
Si passò le dita tra i capelli già
spettinati, in preda alla frustrazione.
«Kate sa delle tue intenzioni?»
«Sì.»
Aggrottò la fronte. «E non ti ha detto
niente?»
Inspirò, appellandosi alla santa
pazienza. Con che coraggio le faceva
questa domanda quando solo la notte
prima era andato a letto con un’altra?
Come si permetteva di giudicare?
Perché per lei le regole dovevano essere
diverse? «Mi ha incoraggiata.» La bugia
venne facile. Era la prima volta che
gliene diceva una? O anche l’aver
sempre negato di essere infelice con
David contava come bugia?
«Me lo presenti, prima?»
Restò a bocca aperta. «No! Tu mi hai
forse presentato quella di ieri sera prima
di scopartela? Senti, l’argomento è
chiuso. La casa stasera non è
disponibile. E del mio appuntamento ti
racconterò quello che mi hai raccontato
tu del tuo.»
E con questo si avviò a grandi passi
fuori dalla cucina. La intercettò a metà
strada afferrandola per un braccio.
Wolfe non perdeva mai la calma. Gen
sapeva quanto fosse spietato negli affari
e fascinoso con le donne. Ma con lei era
sempre a suo agio e rilassato.
Lo guardò incuriosita e notò la
mascella contratta. Il modo in cui
stringeva i denti. L’energia sessuale allo
stato puro che emanava dalla sua figura.
Gli occhi azzurri pieni di emozioni
turbinanti a cui non sapeva dare un
nome. Cosa voleva da lei? E perché
questa rabbia sembrava così diversa?
Quasi fosse unita a desiderio e
frustrazione sessuale?
«Vuoi davvero sapere com’è andata
ieri sera?» ringhiò. Le sue dita premute
sulla pelle la marchiarono a fuoco. Gen
voleva urlare per la soddisfazione di
avere i suoi segni addosso.
«No, grazie», ribatté. «Non mi serve
sapere quante volte l’hai fatta venire. So
già che sei un maestro in quel campo.»
«Non mi esasperare. Potresti restare
sorpresa dalle mie reazioni.» Sentì il
suo alito sulla bocca. Caffè e menta
piperita. S’irrigidì per combattere la
tentazione di assaggiarlo. Avrebbe
voluto fare un passo indietro e lasciar
correre. La canzone di Frozen – Il regno
di ghiaccio le urlava: Letit go. La
supplicava.
«Non è detto.» Alzò la testa e lo
sfidò. «Magari sarai tu a restare
sorpreso se mi esasperi.»
«A che gioco stai giocando, Gen?
Sempre che tu lo sappia.»
L’enigmatico scambio di battute era
pregno di significati nascosti. Tremava
per lo sforzo di trattenere le emozioni.
«Pronto a raccontarmi del tuo
appuntamento, adesso?» lo stuzzicò.
«Scommetto che era una modella pelle e
ossa. A te piacciono così. L’hai fatta
restare o l’hai cacciata fuori alle tre? È
quella l’ora in cui di solito cominci a
innervosirti.»
Imprecò sottovoce. Lei intuì che stava
per perdere la pazienza e continuò a
giocare col fuoco, convinta che quando
l’avesse persa avrebbe finalmente
scoperto le carte.
«Le hai fatto il discorsetto, prima?
Hai chiarito che vuoi solo divertirti e
non vuoi impegni? Almeno dopo un po’
di volte che urlano il tuo nome puoi
sentirti a posto dicendo a te stesso che
sei stato onesto. Te ne puoi andare con
la coscienza pulita e il sorriso sulla
faccia. Quanti orgasmi ci vogliono per
non farti sentire in colpa?»
La tirò di scatto contro di sé, la furia
che usciva da tutti i pori. «Un’altra
parola e ti faccio vedere quello che ha
avuto lei ieri sera», l’avvertì.
Un nodo
allo
stomaco
per
l’eccitazione. «Te la dico subito.»
«Non ti azzardare.»
«Vaffanculo.»
La sua bocca scese su di lei.
Gen si alzò sulle punte dei piedi, gli
piantò le unghie nelle spalle e andò
incontro alla sua lingua. Si baciarono
con foga, strusciandosi l’uno contro
l’altra in un disperato bisogno di
contatto, di pelle, di labbra e di denti,
del pene di lui che spingeva tra le cosce
di lei ancora, ancora e ancora.
Le prese il sedere con entrambe le
mani e la sollevò, spingendo il bacino
contro di lei senza mai smettere di
entrare e uscire dalla sua bocca con la
lingua. Gen gli bruciava tra le braccia,
tremando dal bisogno di averlo
completamente, gemendo e supplicando
mentre lui la assaporava sempre più a
fondo, finché...
Suonarono alla porta.
Si staccarono come se fossero stati
colti in uno scandalo sessuale alla Casa
Bianca. Qualcuno bussò.
«Gen? Sono Arilyn. Kate è in ritardo,
ci raggiunge al parco. Sei pronta?»
I loro sguardi s’incrociarono. Le
dolevano le labbra e fu tentata di
premersi le dita sulla bocca per
accertarsi che il bacio ci fosse stato
davvero. Le tremava la terra sotto i
piedi. Sentiva ancora il sapore di
sapone e limone sulla lingua. Fremeva in
tutto il corpo dal desiderio di mettere
finalmente fine alla tortura, ma lo
scacciò appena vide la sua espressione.
Distaccata. Le emozioni erano state
spazzate via e c’era solo... distanza. Una
distanza
elegante.
Una
distanza
amichevole.
Sentì una stretta allo stomaco ma la
ignorò e andò ad aprire la porta ad
Arilyn.
La sua amica entrò con due guinzagli
in mano e due cuccioli festanti. «Ciao
Wolfe. Spero di non aver interrotto la
colazione.» Dovette cogliere la strana
atmosfera nell’aria perché d’un tratto
tacque e guardò l’uno e l’altra. «O
qualcos’altro.»
Gen fece un sorriso forzato. «No,
abbiamo appena finito. Vero?»
Wolfe la guardò imbronciato.
Trattenne il fiato finché lui annuì. «Sì.
Esatto.»
Gen si chinò e affondò il volto nel
pelo dei cani. Non voleva fargli vedere
quanto l’aveva ferita. «Sì, sono pronta»,
disse con brio. I cuccioli a chiazze
bianche e nere saltavano su e giù,
leccandole le guance con le lingue
bagnate e mordicchiandole le dita coi
dentini da latte appuntiti. Magari si
sarebbe presa un cane. Le mettevano
allegria. «Tu vai in ufficio, Wolfe?»
«Oggi no.»
La sua secca risposta attirò
l’attenzione di Arilyn, che lo guardò.
Gen si alzò, prese la borsa e s’avviò
verso la porta. «Ci vediamo dopo.»
Sentì il suo sguardo perforarle la
schiena mentre usciva di corsa, ansiosa
di fuggire. Afferrò un guinzaglio,
ignorando il sopracciglio alzato di
Arilyn. ’Fanculo. Avrebbe passato una
bella giornata con le sue amiche e i cani
e mangiato un buon gelato, poi sarebbe
tornata a casa a prepararsi per
l’appuntamento. Per fortuna lui non
rientrava fino a domani. Domani
l’equilibrio sarebbe stato ristabilito.
Forse.
Se tutto andava bene.
«Hai intenzione di dirmi cosa sta
succedendo?» domandò Arilyn.
«No.»
L’amica fece una risatina. «Lo
immaginavo. Comunque, se hai bisogno
di me, ci sono.»
«Lo so. E ci sono anch’io se mai
vorrai parlarmi del tuo istruttore di
yoga.»
Si
scambiarono
uno
sguardo
complice, poi scoppiarono a ridere.
Capitolo 17
Stava andando fuori di testa.
Wolfe camminava avanti e indietro
nella piccola cucina aspettando che Gen
uscisse dalla camera da letto. Le aveva
già scritto un sms al pomeriggio
scusandosi per essersi comportato come
uno stronzo. Lei l’aveva perdonato
subito
inviandogli
una
faccina
sorridente, ma intuiva che c’era sotto
qualcosa di più grosso e complicato.
L’aveva baciata.
Di nuovo.
Gli sfuggì un lamento e prese una
birra dal frigo. Il suo sapore l’avrebbe
ossessionato per sempre. Così dolce.
Meglio del succo di frutta e del miele. Il
modo in cui il suo corpo reagiva al
contatto della loro pelle, sciogliendosi
come se non avesse altra scelta, come se
fosse trasportata dalla forza di un
uragano o di un tornado o qualche altro
evento mandato da Dio. Pelle setosa e
capelli selvaggi.
Ancora due secondi e l’avrebbe presa
in piedi contro il muro. O sul pavimento.
O sul banco della cucina. Se non fosse
arrivata Arilyn, chissà cosa sarebbe
successo. Non pensava ad altro da tutto
il giorno.
Non avrebbe dovuto essere lì. La
mattina l’aveva passata quasi tutta in
palestra. Gli aveva mandato in pappa il
cervello quando gli aveva detto due
delle parole più sexy del pianeta.
Tatuaggio.
Brasiliana.
Lui non avrebbe visto né l’uno né
l’altra. E magari quello con cui sarebbe
uscita stasera li avrebbe visti entrambi.
Diavolo, sapeva che avrebbe dovuto
starsene buono a casa sua e darsi una
calmata. Domani le cose tra loro
sarebbero andate meglio. Sarebbero
tornati a essere due buoni amici.
Stappò la bottiglia e tracannò la birra.
La sete in gola si placò, ma quella
dell’anima no. Era improbabile che
succedesse qualcosa stasera. Gen poteva
anche dirlo e poteva anche aver davvero
voglia di fare sesso, ma la sua testa si
sarebbe messa di mezzo. Non era fatta
per avventure di una notte. Non era
come lui.
Pensava di doverle delle scuse.
Gliele avrebbe fatte di persona, poi
l’avrebbe lasciata in pace.
La porta della camera da letto si
spalancò.
Wolfe inspirò di colpo. Era fantastica.
La testa piena di boccoli che moriva
dalla voglia di spettinarle. Occhi
truccati con la matita nera che facevano
risaltare l’azzurro dell’iride. Lentiggini
che non erano mai state così adorabili e
labbra piene e rosa su cui avrebbe
voluto posare le sue.
Il vestito gli diede il colpo di grazia.
Conosceva il classico tubino nero.
Ma questo era proprio striminzito. Le
curve di lei lo rendevano più corto del
normale mostrando i polpacci muscolosi
e i fianchi generosi. Il tessuto elastico
sembrava lavorato all’uncinetto e le
tirava sui seni. L’ampia scollatura a V
prometteva una discesa mozzafiato giù
da una pericolosa collina.
Qui e là brillavano gingilli d’argento.
Catenine intorno alla caviglia e ai polsi,
orecchini pendenti. Le scarpe erano
incrociate sul dorso, e chiuse dietro da
una cerniera e suggerivano sesso
trasgressivo.
Gli si prosciugò la saliva. Sotto il
tubino nero una brasiliana la lasciava
completamente
nuda,
aperta
e
accessibile. Il solito profumo fresco era
stato sostituito da una fragranza di
sandalo muschiato, esotica e sexy allo
stesso tempo. Cazzo quanto gli piaceva.
Cazzo quanto gli rodeva.
«Mi aiuti a tirare su la lampo?»
Le orecchie udirono la richiesta ma i
piedi erano inchiodati al pavimento.
Probabilmente sembrava Forrest Gump
quando blaterava di cioccolatini.
«Wolfe?»
«Sì, certo», mormorò. Posò la birra
sul banco e si costrinse ad avvicinarsi.
Lei raccolse i capelli in una mano e li
sollevò per liberare il collo. L’abito
aperto lasciava scoperta la delicata
spina dorsale e la pelle morbida e
setosa della nuca. A Wolfe tremava la
mano quando prese il gancetto della
cerniera e lo tirò su.
Il sibilo fendette l’improvviso
silenzio. Si accorse che lei tratteneva il
fiato. C’era tensione tra loro.
«Grazie.»
Le tenne le mani sulla schiena per un
attimo, resistendo alla tentazione di
tirare giù la cerniera, spogliarla
completamente e possederla subito,
senza altre domande, scuse idiote o
convenevoli.
Invece fece un passo indietro.
«Prego.»
Lei guardò l’orologio d’acciaio al
braccio. «Che ci fai ancora qui? Ti ho
detto che è tutto passato.» Il suo sorriso
brillava alla luce fioca. I seni si
alzavano e abbassavano a ogni respiro.
Portava uno di quei corsetti che
esaltavano le forme? Non ne aveva
bisogno. Immaginò di passarle la mano
sulle curve. Strano, non sapeva di che
colore fossero i suoi capezzoli. Rosso
rubino come le ciliegie? O rosati come
le sue labbra, che poi si scurivano
quando era eccitata?
La stanza s’inclinò come fosse
ubriaco e sentì bruciare il sangue nelle
vene. Forse aveva l’influenza. Un
attacco di cuore. Non aveva mai provato
un’eccitazione così intensa. Non credeva
neppure fosse possibile.
«Wolfe? Mi stai ascoltando?»
Lui scosse la testa cercando di
schiarirsi la mente. «Volevo aspettare
che uscissi. Per essere sicuro che è tutto
a posto. Kate ha il numero di questo
tizio?»
Un sorriso divertito le sfiorò le
labbra. «Certo, è un cliente. Ho anche i
soldi, paparino.»
«Lasciami restare.» Lei spalancò gli
occhi. «Giuro che appena sento la voce
di un uomo esco dalla finestra. Voglio
essere sicuro che David non venga a
ficcare il naso.»
Raddrizzò la schiena e afferrò la sua
minuscola borsetta decorata di perline.
«No. Hai promesso e devi mantenere la
parola. David non mi ha più dato
fastidio e penso che abbia capito il
messaggio. Vorrei la mia privacy
stasera. È importante per me.»
«Non andarci a letto, Gen.»
La supplica gli sfuggì dalle labbra
senza riuscire a trattenerla. La vide
barcollare sui tacchi alti e per un attimo
giurò che avrebbe accettato. Pensò che
si sarebbe avvicinata, gli avrebbe messo
le braccia al collo e gli avrebbe detto
che non voleva andare a letto con
nessuno tranne che con lui.
«Non posso prometterti niente.» Il suo
sguardo lo sfidò a fermarla o a provare
a farle cambiare idea. «Voglio quello
che hai tu.»
Si sentì improvvisamente svuotato di
ogni emozione. Fosse stato per lui,
avrebbe sfidato tutti i diavoli
dell’inferno per impedire che avesse una
vita come la sua. Sesso di cui non
restava niente. Un cuore intorpidito. In
questo ultimo mese con lei era cambiato.
Si sentiva più in pace col mondo e allo
stesso tempo più vivo. Ma non poteva
durare, e se alla fine l’avesse portata a
letto avrebbe perso l’unica donna per
cui valeva la pena soffrire.
Riuscì ad annuire. Lei si voltò, ma
non prima che lui cogliesse un lampo di
delusione sul suo volto. Un classico. Si
odiava per la sua incapacità di lasciarla
andare con gioia, augurandole tutta la
felicità che meritava. Ma era sempre
stato un cretino.
«Ci vediamo domattina», disse con
cortesia.
«Divertiti.»
Non riuscì a guardarla. Sentì
chiudersi la porta e prese la birra,
pensando che era meglio così. Sarebbe
andato a casa sua e si sarebbe ubriacato.
Senza pensare a lei, senza sognarla o
fingere che avessero altro a cui aspirare
a parte una perfetta amicizia.
Sollevò la bottiglia e se la svuotò in
gola.
Il Cosmos era un ottimo compromesso
tra buona cucina e ambiente rilassante.
L’aria profumava di aglio, pomodoro e
basilico, e la distanza tra gli ampi tavoli
e i séparé consentiva di dialogare in
tutta privacy. Il bancone del bar in legno
di quercia era lungo e pieno di gente che
sorseggiava cocktail e mangiucchiava le
famose pizze cotte nel forno di mattoni.
La Kinnections teneva molti eventi in
questo popolare ristorante, quindi Gen
era felice di aver fissato l’appuntamento
qui.
Gen parlò brevemente con la
direttrice di sala che l’accompagnò al
tavolo. Inspirò e scacciò Wolfe dalla
mente. Stasera no. Per la prima volta
dopo un sacco di tempo si sentiva sexy,
audace e sicura di sé. Il tatuaggio le
bruciava
ancora,
un
piccante
promemoria. S’immaginò travolta dal
desiderio per la sua nuova conoscenza.
Il pensiero di portare a casa sua un
uomo che non era né suo amico né suo
nemico per una notte di sesso sfrenato la
tentava come un miraggio.
Certo, se queste erano le aspettative,
non c’era da stupirsi che le donne
restassero spesso deluse dal primo
appuntamento.
Gen si fermò e sorrise all’uomo
davanti a lei. Wow. Molto fascinoso. Si
alzò subito, rispondendo al sorriso, e le
diede una stretta di mano calda e decisa,
che le piacque. Aveva i capelli castano
chiaro, come gli occhi, e uno sguardo
seducente. Il volto magro e spigoloso
era dominato da un naso aquilino e le
due fossette le fecero venire in mente
una bella parola.
BINGO.
Si sedette. «È un piacere conoscerti,
Gen», disse con un fantastico accento
che l’avvolse come fumo. Gnam gnam.
Non avrebbe saputo individuarne la
provenienza, ma la cosa non la
sorprendeva, visto che all’esame di
geografia quasi la bocciavano.
«Anche per me. Non vedevo l’ora.»
Scelsero cos’avrebbero bevuto e
mangiato e si lanciarono nella
conversazione. «Scusa, non riconosco il
tuo accento.»
Lui rise e unì le mani sul tavolo.
«Sono di origine francese ma vivo in
America da parecchio tempo. Ho
studiato farmacologia qui, ho messo su
famiglia e sono rimasto. Mi piace
andare in vacanza in Francia ma casa
mia per me è New York.»
Provò una piacevole sensazione. Da
quanto tempo non le interessava un
uomo? Anche prima di David usciva
molto poco, essendo sempre occupata
con lo studio, i voti e la carriera.
L’attenzione di lui le faceva risplendere
la pelle più di qualunque esfoliante. «Ho
sempre desiderato visitare la Francia.
Non ho viaggiato molto.»
Sorseggiò il vino, stringendo il
bicchiere con le dita lunghe e affusolate.
«Comprensibile, visto che sei un
chirurgo.»
«Sto ancora facendo l’internato», lo
corresse.
«Ti piace il tuo lavoro?»
La domanda la spinse fuori rotta. Le
piaceva? Strano, Wolfe le aveva fatto la
stessa domanda quella sera sul
ponticello. Non si era mai fermata a
riflettere su quanto la sua scelta di
carriera la rendesse felice. Era una cosa
che aveva deciso di fare e basta.
Ultimamente, tuttavia, dopo essere stata
fuori dall’ambiente per un po’,
cominciava a sentire nostalgia di quello
che si era lasciata alle spalle. Le
mancavano i pazienti, l’energia che
l’animava quando affrontava un
problema, e la calma dentro la tempesta
alla prima incisione del bisturi. Il
mondo scomparve, e si ricordò chi
fosse. Qual era il suo destino.
«Sì», rispose a bassa voce,
guardandolo negli occhi. «Per un certo
periodo mi sono sentita smarrita, perché
cercavo la conferma di aver fatto la
scelta giusta.»
Si chinò in avanti. «Penso che lo
facciamo tutti, prima o poi. Se non
mettessimo mai in dubbio le nostre
scelte, non varrebbe la pena di farle.»
Lei sorrise. «Da come parli sembri
più un filosofo che uno scienziato.»
Charles rise. «Lo immagino. Sono
sempre stato quel che si dice una
persona spirituale. Ho commesso degli
errori ma non ho rimpianti.»
«Concordo.»
Portarono il cibo e loro continuarono
a chiacchierare. Oltre a emanare una
deliziosa energia sessuale, Charles era
arguto, educato e divertente. Alla fine
della cena a Gen batteva il cuore dalla
felicità. Sebbene un po’ arrugginita in
questo campo, era sicura che tra loro ci
fosse una grande intesa. Uscendo dal
ristorante lui le prese il gomito e
l’accompagnò alla sua auto. L’attesa era
dolce come il Sauvignon Blanc che
aveva appena bevuto. Oh, che voglia di
lasciarsi andare a qualche piccola follia.
Di liberare la mente da tutte le
costrizioni che David le aveva
inculcato. Di smettere di dubitare della
sua capacità di attrarre gli uomini e di
abbandonarsi al sesso dando piacere al
suo compagno.
«Sono stato benissimo, Gen», disse
lui. Si fermarono accanto alla Ford
Fusion di lei. «Mi è capitato di rado di
fare una chiacchierata così profonda e
interessante con una persona appena
conosciuta.»
Le piaceva il suo modo di parlare,
formale con ritmo, come musica
accompagnata da un testo perfetto. Si
voltò e alzò la testa. La guardava con
dolcezza e le fossette gemelle le
ammiccavano al chiaro di luna. Col
cuore che batteva come un tamburo, fece
un salto nel buio.
«È lo stesso per me. Ti andrebbe di
continuare
quest’affascinante
conversazione a casa mia?» La voce
uscì un po’ tremula ma sperò che non ci
facesse caso. Torse le labbra per indurlo
un po’ in tentazione, o almeno così si
augurava. Le sudavano le mani. Che
agitazione. Ma non aveva capito male,
era chiaro che era attratto da lei, lo
sentiva.
Lui fece una risatina sexy, le prese le
mani e gliele strinse leggermente. Lei
cercò di non far trapelare il suo
nervosismo. «Sei molto carina. Posso
essere del tutto onesto?»
«Assolutamente.»
Si chinò verso di lei e posò lo
sguardo sulle sue labbra piene. Le venne
in mente Wolfe ma lo scacciò subito dai
suoi pensieri. Non voleva perdersi
questa opportunità.
«Tu hai tutto, non ti manca nulla. Ma
dopo il divorzio, mi sono fatto una
promessa. Mi sono sposato la prima
volta perché mi sembrava la cosa ovvia
da fare. Lei era sveglia, dolce e
divertente. Ma la amavo come un’amica.
Non c’era passione tra noi.» Portò le sue
mani alla bocca e le baciò i palmi
sudati. «Tu mi ricordi lei. Ci
divertiremmo e staremmo bene insieme,
ma non ci sarebbe mai la scintilla che
sto cercando. La passione di cui ho
bisogno. E so che per te è lo stesso. Ti
sarai accorta che tra noi non c’è quel
tipo di attrazione che ci fa impazzire
dalla voglia di buttarci sul letto e fare
l’amore fino allo sfinimento. La nostra è
solo... amicizia.»
Gen sbatté le palpebre. Il cuore smise
di battere. Il salto nel buio si era
rivelato un tuffo in caduta libera finito
con un cumulo di membra spappolate sul
cemento. Inebetita, annuì con decisione.
«Sì, sì, certo. Concordo pienamente, ma
mi
stava
piacendo
la
nostra
chiacchierata amichevole.»
Sorrise. «Anche a me. Dirò a Kate
che è inutile fissare un secondo
appuntamento, ma spero davvero di
rivederti, Genevieve. Sei una compagnia
meravigliosa per un cuore triste.»
Gli fece un sorriso finto, sopportò un
bacio frettoloso sulla guancia e lo salutò
con la mano mentre andava alla sua auto.
Le strade erano piene di gente che si
godeva la serata calda. I lampioni
brillavano tra gli alberi che solcavano il
marciapiede. Notò una giovane coppia
abbracciata:
si
toccavano
e
accarezzavano come se non riuscissero a
farne a meno e ridevano tra loro,
parlandosi a bassa voce e creando una
bolla intorno a loro che nessuno poteva
far scoppiare.
Gen montò in auto e accese il motore.
Guidò con cautela fino a casa,
concentrandosi sulla strada. Parcheggiò
accanto al marciapiede e vide che l’auto
di Wolfe non c’era. Bene. Aveva fatto
come gli era stato chiesto. Prese la
borsetta, rientrò nella casa silenziosa e
accese alcune luci. Si guardò intorno. E
si chiese perché non provasse
assolutamente nulla.
Restò a lungo in piedi accanto alla
porta. C’era una bottiglia di birra vuota
sul banco della cucina. Wolfe lasciava
sempre tutto in disordine. Sarebbe stato
un pessimo marito. Avrebbe fatto
impazzire la moglie a furia di non
mettere i vestiti sporchi nel cesto della
biancheria, di non riappendere gli
asciugamani bagnati e di non portare i
piatti sporchi nel lavandino. Scosse la
testa e andò a prendere la bottiglia per
poi buttarla nel cestino dei rifiuti
riciclabili. Pulì il banco della cucina e
sistemò nella lavastoviglie i piatti
rimasti in giro. Pensò di bersi un bel
bicchiere di vino e rilassarsi. C’erano
un sacco di film registrati ancora da
vedere.
Prese un bicchiere, ci versò il vino
bianco che era rimasto in frigo e lo
sorseggiò. Un libro, magari. Aveva
migliaia di libri cartacei e sul Kindle
che non aveva mai letto. Nel silenzio
che la circondava, si domandò di nuovo
perché si sentisse così vuota. Strano. A
parte quando era in sala operatoria, per
il resto aveva sempre la mente intasata
di pensieri. Forse per questo fare il
chirurgo era così eccitante. Per il
sollievo di spegnere il cervello.
David le ripeteva spesso che era
troppo impulsiva e che doveva avere un
approccio più logico e razionale alle
cose. Lei aveva provato a spiegargli che
quando si affidava all’istinto le voci
smettevano e tutto andava a posto, ma lui
non era d’accordo. Aveva fatto di tutto
per cambiare. Amava David, lo
rispettava, e voleva essere degna di lui.
Ma non ci era mai riuscita.
Quanto tempo erano stati insieme
prima di smarrirsi? Com’era diventato
così freddo e crudele? All’inizio
passavano ore a letto, lo ricordava bene,
ma lui fingeva anche allora? Era
incuriosito da lei, ma non attratto in quel
modo primitivo in cui gli uomini hanno
bisogno di essere attratti per
innamorarsi davvero? Forse lei non
riusciva a ispirare quel tipo di
desiderio.
Posò con attenzione il bicchiere sul
banco, poi andò in camera e si sedette
sul letto. Fissò la parete per un po’.
Quell’azzurrino delizioso. Ma la signora
Blackfire aveva ragione. C’erano un
mucchio di lavori da fare. La casa
doveva essere imbiancata e aveva
bisogno di manutenzione. Adesso aveva
tempo. Non faceva più il medico. Non
aveva una relazione. E niente notti folli
di sesso per lei. Non era proprio il tipo,
che si facesse la brasiliana o un
tatuaggio o passasse ore in bagno
cercando di scatenare l’appetito
sessuale negli uomini.
La delusione la trascinò nell’abisso
della depressione contro cui lottava da
un anno. Probabilmente non avrebbe mai
trovato quello che cercava: un amore
meraviglioso e completo. Una passione
travolgente a cui abbandonarsi. Kate ce
l’aveva. Kennedy anche. Alexa. Lance.
Esisteva.
Ma non per lei.
Guardò il suo tubino sexy e i sandali
modello scopami subito. Le curve
generose che esplodevano dal tessuto. Si
toccò i boccoli, che già sparavano
dappertutto, e quando ritirò la mano
aveva le dita bagnate. Strano, non si era
accorta che stava piangendo. Addio
trucco. Immaginò le righe di mascara
che le solcavano il volto.
Sentì arrivare la tempesta. Avrebbe
voluto evitarla ma era troppo violenta.
Le emozioni la travolsero come uno
tsunami e le macerie le lacerarono la
pelle. Dal petto salirono i singhiozzi e si
lasciò andare.
Chinò la testa e pianse. Pianse per
aver perso David. Per i dubbi che
l’avevano assillata da quando aveva
affidato il suo cuore a un’altra persona
perché se ne prendesse cura e
gliel’aveva spezzato. Per la confusione
che aveva in testa, per la sua debolezza.
Per gli inaccettabili sentimenti che
provava per il suo migliore amico.
Gen non lo sentì arrivare.
D’un tratto il suo cavaliere la stava
stringendo tra le sue braccia forti. Il suo
calore sciolse il gelo che la irrigidiva e
lentamente si rilassò, tirando su col
naso, il volto sepolto nel cotone
morbido. Le premette le labbra sulla
testa e le mormorò parole dolci e
insensate, consolandola. Lei si arrese,
liberandosi di tutto quello che aveva
dentro, e finalmente si calmò,
abbandonandosi a lui completamente.
La leggerezza tornò. La pace. Lui la
stringeva forte. Era bloccata contro il
suo petto di marmo da braccia d’acciaio
che non ne volevano sapere di diminuire
la stretta. Non si era mai sentita così
protetta e amata, e cadde in silenzio,
prosciugata.
«Piccola, è successo qualcosa?
Dimmelo, per favore.»
Lei scosse la testa, rifiutandosi di
guardarlo.
«È stato lui? Ti ha toccata? Ti ha fatto
del male?»
Scosse di nuovo la testa con
decisione.
«Sto cercando di mantenere la calma
e di non andare fuori di testa.» Cominciò
a tremare e Gen si accorse che
manteneva il controllo a malapena.
«Dimmi chi è stato e ci penso io. Dammi
un nome.»
Tirò su col naso. «Nessuno. Non ho
niente. Cosa ci fai qui? Avevi
promesso.»
«Ci ho provato, ma a metà strada sono
tornato indietro. Ho pensato che era
meglio parcheggiare lungo la strada e
dormire in macchina. Dovevo essere
sicuro che stessi bene.»
Sentì male al cuore. Era così buono
con lei, così dolce e gentile, e tutto
quello che voleva era che impazzisse di
desiderio per lei, cedesse ai suoi istinti
primari e la spogliasse, l’afferrasse e la
scopasse.
Si scostò lentamente e lo guardò.
Doveva essere brutta da fare spavento.
A pezzi. Le montò la rabbia. ’Fanculo
tutto. ’Fanculo lui. ’Fanculo tutti quanti.
Si chiuse in se stessa e parlò in tono
gelido. «Grazie ancora per il tentativo di
salvataggio, ma sto bene. Non mi serve
la tua armatura stasera. E scusa per la
scena drammatica.»
Lui socchiuse gli occhi, lanciando
fiammate di fuoco blu zaffiro. «Non fare
i giochetti con me, Gen. Cos’è successo
stasera con quel tipo? Perché vengo a
casa e ti
trovo a piangere
disperatamente?»
Se gli fosse rimasta vicina avrebbe
soltanto umiliato se stessa. L’avrebbe
supplicato di desiderarla e non sarebbe
più potuta tornare indietro. Si asciugò
gli occhi e si alzò dal letto. Aveva
bisogno di stargli lontano. «Lascia
perdere, okay? Sono una donna, per la
miseria. A volte piango e mi piace farlo
in privato, senza gente che mi guarda.»
Gli voltò le spalle per non farsi vedere
in faccia. «Non ti voglio qui, stanotte.»
«Peccato.»
Si girò di nuovo verso di lui, a bocca
aperta. Una rabbia violenta e pura prese
il posto delle stupide lacrime e
dell’autocommiserazione, un sentimento
che aveva sempre disprezzato. «Non hai
nessun diritto d’immischiarti», ringhiò.
«Io ti ho lasciato il tuo spazio quando
hai voluto andare a scopare la tua
amica! Non ti ho fatto mille domande e
non ho invaso la tua privacy.»
«Non mi hai neanche trovato in
lacrime. Ti conosco, Gen. Ti ho visto
piangere per gli animali feriti, per i
bambini maltrattati e persino per quelle
orribili commedie romantiche che trovo
insopportabili. Ma stavolta era diverso.
Questo era un pianto che veniva dal
profondo, e voglio trovare il figlio di
puttana che ne è responsabile per
ammazzarlo.»
Spalancò gli occhi per la naturalezza
con cui lo disse. La sua espressione
ferma era quella di un uomo possessivo.
Era ancora seduto sul bordo del letto e
la guardava, irremovibile, deciso a non
farsi incantare e a non cedere alle sue
richieste. Che bravo... amico.
Fece un passo avanti e quasi gli
sputava in faccia. «Ti ho detto che non è
successo niente. Non è stato David o
Charles né nessun altro e non voglio più
parlarne. Vattene.»
«No.»
«Vattene!»
«No. Ci ha provato? Ti sei
spaventata? Sapevo che non era una
buona idea. Non sei pronta per il sesso
senza coinvolgimento sentimentale e se
lui non l’ha capito gli insegnerò una
bella lezione per la prossima volta.»
Perse le staffe. L’ultimo filo che la
teneva legata alla sanità mentale si
spezzò e non rimase nulla a fermarla.
Vide rosso, e barcollando su tacchi
troppo alti per lei gli disse l’umiliante
verità.
«Ero io che volevo lui!» urlò. «Vuoi
sapere com’è andata? Era perfetto.
Affascinante. Sexy. Non mi sentivo così
in forma e sicura di me da una vita, così
l’ho invitato a casa mia per andare a
letto con lui. E sai cos’ha detto?
Indovina.»
Wolfe restò in silenzio, tenendola
intrappolata con lo sguardo.
«Ha detto ‘no grazie’! Che si è
sposato e poi ha divorziato perché con
la moglie non c’era passione. Era bello
parlare con lei, era simpatica e
divertente. Proprio come me. Ma non
era sexy. Non abbastanza da far perdere
la testa a un uomo e catturare il suo
cuore. Quindi ecco, ho fallito di nuovo.
Sono un’ottima compagnia, una buona
amica e collega, e questo dovrà
bastarmi.» Fece una risata amara e si
spostò i ricci dal volto, senza più far
caso a quanto doveva essere in
disordine. «David aveva ragione e nulla
cambierà questa realtà. Né uno stupido
tatuaggio né la ceretta e tantomeno
l’aiuto di un’agenzia matrimoniale.»
Fece per alzarsi ma lei non si fermò,
sapendo che se avesse colto la pietà nei
suoi occhi non sarebbe più stata la
stessa. «Non osare compatirmi! Voglio
che tu te ne vada. Ti supplico di
andartene e di darmi del tempo per
rimettermi in sesto. Domani sarà tutto a
posto.» Le si spezzò la voce ma
continuò. «Ho solo bisogno di stare un
po’ da sola. Per riflettere. Per favore,
Wolfe, vattene.»
Lui non si mosse. Non batté ciglio.
Gen si voltò e andò alla finestra.
Appoggiò la fronte al vetro freddo e
pregò di poter concludere quell’orribile
serata in solitudine. Domani si sarebbe
ripresa e tutto sarebbe tornato alla
normalità. Ma stanotte si sentiva
pericolosamente
fuori
controllo...
sull’orlo di qualcosa che non avrebbe
saputo come gestire.
Il letto cigolò. Rumore di passi.
Trattenne il respiro e aspettò il completo
silenzio, ma invece di uscire Wolfe andò
da lei. Il calore del suo corpo la prese al
lazo e lei si sentì come un vitello
indifeso a un rodeo. Strinse le mani sul
davanzale, sentendolo sempre più
vicino, finché il suo petto le sfiorò la
schiena.
«Guardami.»
Era un ordine. Non ebbe la forza di
disobbedire e si voltò. Lui le sollevò il
mento con un dito.
I suoi occhi erano folli di desiderio.
Come se li vedesse brillare sott’acqua
nel mar dei Caraibi con attaccata
l’etichetta ‘Attenzione: pericolo’, si
tuffò nelle profondità del suo sguardo
che prometteva tutto. Lui aumentò la
stretta, impedendole di andarsene, e
occupò tutto il suo spazio avanzando di
un altro passo tra le sue cosce. Sentì il
bordo del davanzale premerle contro la
schiena. Il suo meraviglioso odore di
limone, sapone e cotone cancellò tutto
tranne il bisogno di toccarlo,
assaggiarlo, nutrirsi di lui.
«Voglio che mi ascolti con molta
attenzione perché te lo dirò una volta
sola. Intesi?»
Dischiuse le labbra. Questo non era
un amico. Era un uomo pericoloso con
un’idea precisa in mente. Annuì,
paralizzata, incapace di parlare, una
mera preda in balia di un pericoloso
predatore.
«Ho chiuso con le scuse, le
chiacchiere e le buone maniere. Basta
con questo tuo ridicolo mettere in
discussione il potere che hai di
stringermi in una morsa tale da non
lasciarmi nemmeno respirare senza
desiderarti con tutta l’anima. Sono stufo
di andare in giro con l’uccello alzato
quando sento il tuo odore o guardo le tue
curve, o quando immagino di essere
dentro di te. Mi stai ascoltando, Gen?»
Sentiva il corpo così in fiamme che
era sorpresa che non si vedessero le
bruciature sulla pelle. Cominciò a
tremare e avvertì un liquido caldo
scorrerle tra le cosce. Irrigidì i muscoli,
prigioniera di un desiderio che non
aveva mai provato e che neppure
credeva possibile. «Sì», sussurrò.
«Bene. Perché stanotte ti scopo. Tutta
la notte. Se fossi un vero amico me ne
andrei e ti lascerei lo spazio che ti serve
per ricostruire le tue difese. Lo meriti.
Ma sono uno stronzo egoista che ha un
tale bisogno di portarti a letto che
venderebbe l’anima al diavolo pur di
averti anche una sola volta. Mi stai
ancora ascoltando?»
«S-s-sì.»
«Ti do tre secondi per andartene. È la
cosa più saggia da fare. Vattene e non ne
parleremo mai più. Torneremo a essere
amici, metteremo da parte per sempre
questo episodio e continueremo a
fingere. Ma se dopo tre secondi sarai
ancora qui, sei mia. Tutta quanta. E ti
giuro che non metterai più in dubbio la
tua capacità di attrarre sessualmente un
uomo al punto da fargli passare il resto
della vita a paragonare tutte le donne
che sfiora a te.»
La stanza cominciò a girare e si
aggrappò al suo braccio per non perdere
l’equilibrio. «Wolfe.»
«Uno.»
Si sentì sprofondare. La bocca di lui
si avvicinò.
«Oh, Dio.»
«Due.»
Ingoiò a vuoto, un piede pronto alla
fuga, sapendo che questo avrebbe
rovinato tutto, cambiato il loro rapporto
per sempre, aperto una porta che non
avrebbero più potuto richiudere.
«Io non...»
«Tre. Troppo tardi. Stanotte sei mia.»
«Penso che...»
«Non pensare. Dammi tutto quello che
hai.»
Le prese le guance tra le mani,
abbassò la testa e la baciò.
Capitolo 18
L’inferno valeva davvero il viaggio.
Dal momento in cui si era messo in
auto per andare al suo appartamento si
era sentito in torto. Alla fine aveva
invertito la marcia, imprecando per tutto
il tragitto, e aveva deciso di tenere
d’occhio la casa per assicurarsi che
nessuno le desse fastidio. L’idea
d’incontrare il suo amante di una notte
gli seccava da morire, ma avrebbe
onorato la promessa.
Quando aveva visto l’auto voleva
solo dare una sbirciata per assicurarsi
che stesse bene. Tutto lì. Nient’altro. Ma
aveva sentito i singhiozzi ed era andato
nel panico. L’adrenalina gli era salita a
livelli inquietanti. Era pronto a menar le
mani ma lei era sul letto da sola a
piangere e lui si era sentito di merda
come dopo tre notti di bisboccia a Las
Vegas. Prenderla tra le braccia gli era
venuto naturale. Aveva pensato solo a
calmarla e a farle passare il dolore. Poi
avrebbe fatto sputare sangue a qualcuno.
Era così maledettamente bella. Trucco
sciolto, labbra gonfie, capelli in
disordine sciolti sulle spalle. Quando gli
aveva confessato quello che era
successo ci aveva messo un po’ a
ritrovare la parola. Che ci fosse un
uomo che non la desiderasse era al di là
della sua comprensione. Lui non
pensava ad altro ogni giorno, ogni
minuto, a quel tesoro prezioso che aveva
a portata di mano ma che non poteva
toccare. L’autodisprezzo che le aveva
letto negli occhi era stata la goccia che
aveva fatto traboccare il vaso. Lì aveva
deciso che basta, non poteva andarsene
senza provarle quanto fosse splendida e
desiderabile.
Già. Un bel sacrificio.
L’opportunità di sfuggirgli gliel’aveva
data. Era stato corretto. E quando lei non
si era mossa, la sensazione di vittoria
all’idea che sarebbe stata sua quasi lo
riduceva in ginocchio.
Finché l’aveva baciata.
E aveva capito di appartenerle quanto
lei a lui.
Lo stracciò. Si aspettava dolcezza,
abbandono e una totale rinuncia al
controllo.
Voleva
dominarla,
soddisfarla, possederla. Ma ebbe molto
di più. Quando invase la sua bocca lei
gli andò incontro con la lingua. Quando
le prese i fianchi per sollevarla, lei gli
strinse le gambe intorno alla vita,
infilandogli le dita tra i capelli e
tenendosi stretta. Il vestito le salì sopra
le cosce e la sua erezione spinse contro
la sottile barriera delle mutandine,
pretendendo di passare. Dal profondo
della gola, le uscì un verso simile a un
piagnucolio che lo fece impazzire. La
spostò mettendola con la schiena contro
il muro per reggerla meglio e le morse il
labbro inferiore. Poi lo succhiò. Poi si
rituffò nella sua bocca per gustare il suo
sapore, un misto di frutta e miele di cui
non era mai sazio. Lei gli si torceva
contro, pazza di desiderio, ma quel
dannato tubino era un vero impedimento.
Le loro bocche si staccarono e lei
ansimò. «Toglimelo.»
«Ci sto provando. La cerniera è
bloccata. Ci tieni a questo vestito?»
«Abbastanza.»
«Te ne compro un altro.» Tenendola
sollevata contro il muro, afferrò il pizzo
in alto e tirò con forza.
Il rumore del tessuto che si lacerava
gli diede grande soddisfazione. Le tolse
il vestito strappato e sentì la sua pelle
calda, morbida, nuda e profumata. I seni
pieni erano trattenuti da un reggipetto
nero a balconcino e le mutandine di
pizzo le coprivano appena le parti
intime. Strinse le cosce piantandogli i
tacchi a spillo nel sedere. Gli uscì un
gemito di piacere misto a dolore.
«Oh, scusa.»
«Non scusarti. Tra poco sarà molto
peggio. Cristo sei più bella di quanto
immaginassi. Guardati.»
Le prese i seni tra le mani, stimolò i
capezzoli e li guardò indurirsi. Il petto si
alzava e si abbassava a ogni respiro, e il
cuore le batteva con violenza alla base
del collo. La sua pelle bianca si era tinta
di rosa. «Sogno questo momento da un
sacco di tempo, ma la realtà è ancora
meglio.» Chinò la testa e le succhiò un
capezzolo
attraverso
il
pizzo,
mordicchiandolo coi denti e facendola
bagnare tutta. Voleva infilarle dentro le
dita ma aveva paura di venire nei jeans
come un adolescente arrapato. Meglio
aspettare ancora un attimo.
Com’era tipico di Gen, cercò di
prendersi quello che voleva, inarcando
la schiena e strusciando il sesso contro
la protuberanza dura dei jeans di Wolfe.
Gli graffiò la nuca e si dimenò, cercando
di liberarsi dal reggiseno. «Smettila di
giocherellare e toglimi quest’affare.»
«Tanto vale che ti compri un
reggiseno nuovo.»
«Eh?»
Lo strappò a metà sul davanti e i suoi
seni nudi gli esplosero tra le mani. I
capezzoli duri lo reclamavano, così
sollevò i seni verso la bocca e li
succhiò con forza, passando la lingua
intorno all’areola fino a quando lei gli
afferrò la camicia cercando di
togliergliela.
«Spogliati subito.»
Ignorò la sua richiesta, torcendole i
capezzoli e tuffando di nuovo la lingua
nella sua bocca per ubriacarsi della sua
essenza. Lei urlò di piacere, e lui gioì di
quel suono celestiale. «Dolcissima.» La
baciò ancora e ancora. «Cazzo quanto
sei dolce. Non mi basta mai.» Voleva
farla impazzire, portarla a un punto in
cui non le importasse più nulla di fargli
male o di qualunque cosa che non fosse
raggiungere l’estasi con un orgasmo
dopo l’altro. L’aroma muschiato della
sua eccitazione gli disse che era bagnata
fradicia, pronta per lui. Sapere che lo
voleva quanto lui voleva lei lo scosse
nel profondo e si sforzò di mantenere il
controllo mentre il flusso di emozioni e
di desiderio lo travolgevano. Non aveva
mai provato nulla di simile.
«Se non ti togli questi maledetti jeans
do i numeri», lo minacciò ansimando e
dimenandosi contro di lui. Cercò
goffamente di slacciargli la cerniera per
liberarlo, accarezzando il rigonfiamento
del suo pene duro, e fu in quel momento
che lui decise di non poter resistere
oltre.
Doveva farla venire.
Adesso.
«Dopo.» Fece scivolare le mani dai
seni al ventre tremante e le infilò sotto
l’elastico delle mutandine. «Intimo
firmato?»
«Sì, costano più del vestito... oh, sì!»
Le strappò con un solo gesto, le gettò
da parte e affondò due dita nella sua tana
dolce e calda.
«Wolfe! Ah, che meraviglia...»
gemette mentre il suo sesso gli si
stringeva intorno alle dita. Le stimolò
delicatamente il clitoride col pollice,
senza fare pressione, e continuò a
entrare e uscire da lei con movimenti
lenti e profondi. Catturò i piccoli versi
che le salivano dalla gola, passando la
lingua sul suo carnoso labbro inferiore,
e la guardò tendere i muscoli del volto
mentre si avvicinava all’orgasmo. Le
pupille si dilatarono e tutto il corpo
s’irrigidì, inarcandosi contro il suo
palmo, in cerca di qualcosa che solo lui
poteva darle muovendo le dita.
«Ci sono quasi. Non ce la faccio più,
ti prego...»
Le passò il pollice sul clitoride
un’ultima volta, lentamente. «Vieni per
me, Gen. Adesso.»
Strofinò con forza e spinse fino in
fondo.
Lei esplose, il corpo scosso dagli
spasmi dell’orgasmo. Gli ficcò le unghie
nelle
spalle,
aggrappandosi
e
stringendosi a lui con forza sovrumana.
Wolfe osservò ogni sua minima
espressione. Il modo in cui si mordeva il
labbro inferiore, lo sguardo annebbiato.
La pelle umida e il calore che gli
avvolgeva le dita.
«Cazzo quanto sei sexy», le mormorò
all’orecchio, mordendole il lobo.
«Voglio vederlo un’altra volta.»
«No», farfugliò. «Prima spogliati.
Togliti tutto.»
«Qui non comandi tu, piccola.» Le
tenne aperte le gambe per restare dentro
di lei fino all’ultimo e le ficcò la lingua
in bocca per zittirla, chiedendosi se si
sarebbe mai stancato di guardarla
venire. Era la cosa più sexy del mondo e
voleva già farlo di nuovo. E ancora.
Si espresse come un’ubriaca con un
disperato bisogno di comunicare.
«Dammi lo stesso tempo in ginocchio e
dovrò dissentire.»
Lui rise, deliziato dalla sua insolenza
e dal suo humour. Come faceva a
scherzare in questi momenti? Lui non
aveva mai riso durante il sesso o i
preliminari. Ma già stava cercando di
nuovo di togliergli la camicia con mani
tremanti.
Gli piaceva.
«Ho intenzione di farti stare a lungo in
ginocchio», disse sollevandola senza
sforzo e portandola a letto. «Ma ho
appena cominciato. Adesso lasciati
guardare.»
Lei fece per coprirsi, spinta da un
senso del pudore che intendeva farle
passare immediatamente. «Non sono
come le modelle con cui esci. O con cui
vai a letto.»
In quel momento giurò che non
sarebbe più uscito con una donna pelle e
ossa. Diavolo, dopo aver visto le curve
di Gen, la sua pelle immacolata e i suoi
seni pieni, non avrebbe comunque più
guardato nessun’altra. Adorava la sua
figura minuta, così facile da sollevare e
da stringere tra le braccia. Amava ogni
centimetro del suo corpo. Ma tutto
questo era niente a confronto della sua
vulva bagnata, gonfia e nuda sotto i suoi
occhi. Labbra piene che aspettavano
solo la sua bocca e la sua lingua. E
sapeva che anche il sapore sarebbe stato
inebriante.
Era l’ora della verità. «Non ci sono
andato a letto, piccola. Pensavo a te e
non ci sono riuscito. Ma volevo mettere
una barriera tra noi.»
«Perché?»
«Perché morivo dalla voglia di
saltarti addosso.»
Sorrise ma continuò a coprirsi i seni
con le mani, quasi temendo di non
piacergli. Come se fosse possibile.
La sua voce fu come una frustata.
«Non farti venire in mente di coprirti.
Adoro il tuo corpo, l’ho sempre adorato.
Ricordi quello che ti ho detto?»
Posò le mani sul materasso e scosse
la testa.
«Non dobbiamo scusarci per quello
che facciamo insieme o per quello che
proviamo. E intendo fare ogni sorta di
porcheria con te, tutte le cose più
sudicie e indecenti che ho immaginato,
senza scusarmi. Allarga le gambe.»
Obbedì, e lui contemplò rapito tutta
quella carne rosa a sua disposizione.
Nel frattempo si spogliò, e finalmente
anche lui era nudo davanti a lei. Si
sollevò sui gomiti per guardarlo, ma
Wolfe sapeva che c’era tutto il tempo
per questo. Adesso aveva bisogno di
assaggiarla, di farla venire sulla sua
lingua e sentirla di nuovo abbandonata
tra le sue braccia.
«Questa brasiliana è il regalo più
sexy che un uomo possa chiedere,
piccola.» S’inginocchiò tra le sue cosce
e soffiò l’alito caldo tra le pieghe
gonfie. Lei gemette, stringendo le
lenzuola tra le mani. Sì, era più che
pronta. Il clitoride era così gonfio e duro
che sarebbe bastato un colpetto con la
lingua per farla venire di nuovo, ma
prima voleva farla impazzire, voleva
sentire il suo nome uscire dalla sua
bocca.
Wolfe chinò la testa.
Penetrando lentamente la sua fessura,
assaggiò, stuzzicò e sorseggiò come
fosse un ottimo champagne e intendesse
farlo durare. Con le braccia le bloccò il
corpo che si dimenava, senza mai
aumentare il ritmo, inalando il suo odore
muschiato, leccando la protuberanza
dura e spingendo il pollice dentro e
fuori dal canale bagnato. La sua vulva si
chiuse intorno al dito e cercò di
risucchiarlo, ma lui continuò a
stimolarla fin quasi a farle perdere i
sensi.
«Basta», ansimò, gli occhi azzurri
privi di coscienza. «Accidenti a te,
Wolfe, fammi venire o ti ammazzo.»
Con una risatina, le prese il clitoride
tra le labbra e succhiò forte. Più forte.
Unì tre dita e gliele infilò dentro.
Venne di nuovo e lui bevve tutto,
senza mai smettere di succhiare. Così
Gen ebbe un altro orgasmo, e lui si
chiese se l’avrebbe mai lasciata
allontanarsi dal letto. Quando riprese i
sensi, si strinse a lui con una dolcezza
disperata che non poté ignorare. Si stese
su di lei baciando ogni centimetro della
sua pelle e si fermò sulla sua bocca,
mordicchiandole le labbra. Poi le strinse
con delicatezza il volto tra le mani e la
guardò adorante.
«Figlio di puttana», disse lei con voce
sottile. «Mi stai uccidendo. Ne voglio
ancora.»
«Anch’io.» Le diede un bacio lungo e
profondo. «Hai un sapore buonissimo,
non ne ho mai abbastanza.»
«Dentro. Ti voglio dentro di me.»
Inarcò la schiena, con una franchezza
così commovente che avrebbe voluto
inginocchiarsi e ricominciare tutto
daccapo. «Ti prego.»
«Cristo, piccola, ho dimenticato i
profilattici. Tu li hai?»
«Primo cassetto. Sbrigati.»
Recuperò velocemente la confezione
e infilò un preservativo. Le sollevò le
caviglie spingendole in avanti in modo
da averla tutta aperta sotto gli occhi e si
fermò sulla soglia. Lei fremeva
leggermente.
«Sei pronta?»
Lo guardò con gli occhi semichiusi.
La pelle madida di sudore, i ricci sparsi
intorno al volto, le labbra gonfie e
livide, lo invitò a penetrarla,
aggrappandosi alle sue spalle come se
fosse l’unica cosa salda del suo mondo.
«Prendimi, Wolfe. Prendi tutto.»
Imprecò tra i denti e spinse.
Più a fondo, più a fondo, spinse nella
sua tana calda e bagnata cercando
disperatamente di non venire subito.
Guardò le sue deliziose espressioni
mentre si adattava al suo attrezzo, senza
mai tirarsi indietro. Lo teneva stretto con
le unghie e con le cosce.
Wolfe provò a respirare, a rallentare,
ma le sensazioni in gioco erano troppe.
Gemette. «Non ce la faccio più. È
troppo bello.»
«Non fermarti», ansimò lei. «Ti
prego, ho bisogno...»
Non aspettò. Uscì completamente da
lei, poi rientrò con violenza. Ancora.
Ancora.
La cavalcò lentamente e con
regolarità,
aumentando
l’intensità
quando sentì che era prossima
all’orgasmo.
Strinse
i
denti
preparandosi all’esplosione, i testicoli
sollevati, ogni spinta meglio di quella
precedente. Le strofinò un dito sul
clitoride,
guardandola
sull’orlo
dell’estasi, lo sguardo folle di
desiderio. Spostando leggermente i
fianchi, si assicurò che il bordo del
piercing strofinasse contro la parete
sensibile della vagina. Capì dal suo urlo
di sorpresa di aver trovato l’oro e lo
fece di nuovo, e ancora. Le strofinò il
clitoride con più forza. E poi...
Lei gridò il suo nome e si dimenò
sotto di lui. La soddisfazione gli fece
sfuggire un verso animale e finalmente si
lasciò andare, spingendo con forza e
svuotandosi. L’orgasmo fu così lungo e
intenso che pensò che non sarebbe mai
riuscito a staccarsi da lei. Il muro che
circondava quella parte profonda di lui
che nessuno era mai riuscito a toccare
vacillò. E quando collassarono l’uno
sull’altra, distrutti, Wolfe si accorse di
un’altra cosa.
Non sarebbe più riuscito a fare
l’amore con un’altra donna senza
desiderare che al suo posto ci fosse
Genevieve MacKenzie.
«Ti ricordi il cognome di quello con cui
sei uscita?» le mormorò Wolfe.
Erano stesi sul fianco, lui alle spalle
di lei. La sua quinta erezione spingeva
saldamente tra le sue gambe e col
braccio la teneva stretta a sé per poterla
mordicchiare, leccare o accarezzare a
piacimento.
Gen
si
sentiva
profondamente appagata e rilassata,
come se avesse preso un afrodisiaco.
Era pronta a fare tutto quello che lui
voleva, qualunque cosa fosse, e anche
ad alzare la posta, da vera sgualdrina.
Le piaceva da morire.
«A che ti serve saperlo?» gli
domandò mentre lui le pizzicava
giocosamente un capezzolo.
«Voglio mandargli dei fiori. Sai, per
ringraziarlo.»
La risata che le uscì dalle labbra si
trasformò in un gemito quando il suo
seno pretese più attenzioni. «Sei un
mostro.»
«E tu sei bellissima.» Ridacchiò e le
strinse il capezzolo, mandando scosse
calde al suo sesso. «E ingorda. E
talmente reattiva che non riesco a
smettere.»
Gen si allungò, offrendogli il suo
corpo nudo e sentendosi una dea sotto il
suo sguardo famelico e traboccante di
desiderio. «Chi ti ha detto di smettere?»
Borbottò impercettibilmente e la fece
girare a pancia in giù. «Hai ragione. Ma
prima voglio vedere il tatuaggio. Chi
altro l’ha visto?»
Trovò elettrizzante il suo tono
possessivo, pur sapendo che era solo
per stanotte. «Soltanto Kate. E il
tatuatore.»
«Bene. Adesso, da brava bambina,
stai ferma.»
Il cuore le batteva all’impazzata.
Wolfe non era solo un amante
straordinario. Maneggiava il suo corpo
come un musicista il suo strumento, ed
era capace di passare dall’amante dolce
e attento al dominatore trasgressivo che
parlava sporco. Amava ogni lato di lui,
il buono e il cattivo, e così sarebbe
sempre stato. Credeva che avrebbe
avuto soltanto il suo corpo, invece le
stava dando molto di più, e lei ne
avrebbe fatto tesoro per il resto della
vita.
La voce della ragione provò a
intervenire per metterla in guardia. Si
rese conto che era solo per una notte.
Un’occasione per soddisfare i loro
appetiti sessuali, per stare insieme come
amanti invece che come amici. Lui non
avrebbe mai voluto andare oltre, non si
sarebbe messo insieme a lei. All’alba si
sarebbe fatto prendere dall’ansia e
avrebbe iniziato la ritirata.
Ma andava bene. Doveva andar bene.
Perché mancava ancora qualche ora
prima che sorgesse il sole e intendeva
sfruttarne ogni secondo.
Girò la testa di lato e si godette le sue
mani grandi che le frizionavano le spalle
e la schiena. Con un gemito di piacere,
si abbandonò al massaggio. Wolfe le
mormorò qualcosa di sconcio e scese
lentamente con le mani fino ai fianchi. A
ogni movimento, lei era sempre più
bagnata. Spinse i fianchi contro il
materasso per sentire la pressione sul
clitoride ma lui la sorprese con una
sculacciata.
«Ehi!»
«Non credere che non sappia cosa
stai cercando di fare. Ti impedisco di
venire senza il mio intervento.»
«Bene. Allora intervieni.»
Un morso sulla schiena e una passata
di lingua su tutta la colonna fino all’osso
sacro le chiusero subito la bocca. Era
come vittima di un incantesimo, le
importava soltanto di lui, della sua voce,
delle sue mani. Non aveva mai provato
nulla di simile con gli uomini con cui
era stata. Il sesso le piaceva, amava
David abbastanza da abbandonarsi a lui,
almeno finché aveva cominciato a farla
stare più male che bene. Ma con Wolfe?
Si sentiva completamente posseduta da
lui. Ebbe un brivido di paura. Temeva
che se fossero stati ancora insieme in
quel modo, avrebbe finito per
possederla per sempre.
Il resto dei suoi pensieri si disperse
quando sentì le sue dita seguire
delicatamente i contorni del tatuaggio,
accarezzando la pelle ancora sensibile
in quel punto. «Bellissimo.» Immaginò i
petali rossi, la curva del gambo che
finiva appena sopra il sedere e le gocce
di sangue che colavano da ogni spina.
«Sangue. Niente fiore della nebbia.»
Fece una pausa senza smettere di
accarezzarla. «Come mai?»
«Il piacere e il dolore. L’amore e la
sofferenza. La fiducia e il tradimento.
Sto imparando che non c’è mai una cosa
sola ma un misto. E non voglio più
dimenticarlo.»
Lo sentì inspirare con forza, ma la
mano restò leggera sulla sua pelle.
«Vorrei che non avessi mai dovuto
impararlo», mormorò.
«Sono felice di saperlo, invece. Non
augurarmi di essere al riparo dalla
realtà. Sono abbastanza forte da
affrontarla, sopravvivere e stare bene.
Proprio come te.»
Stavolta la mano premette sulla pelle,
ma il breve dolore non le dispiacque.
«Cosa devo fare con te?» sussurrò lui.
«Ti conosco da anni, eppure stanotte mi
sembra di vederti per la prima volta. È
troppo. È...»
«Lo so.» Aveva ancora voglia di lui e
non aveva la forza di resistere. Cavolo,
non voleva neanche. Il suo corpo
fremeva dal bisogno di contatto. «È
troppo intenso, troppo bello, ma non
m’interessa. Voglio godermela un po’.
Prendimi ancora, Wolfe.» Le si spezzò
la voce. «A quanto pare non riesco a
farmelo bastare.»
Le diede un morso, forte, e lei urlò di
puro piacere. Voleva il suo marchio
addosso e sollevò il sedere per invitarlo
a lasciarglielo. Le prese le natiche tra le
mani e le strinse, le accarezzò, le
massaggiò, poi scivolò tra le gambe a
raccogliere i suoi umori e li spalmò sul
clitoride. Fece dentro e fuori con le dita
spingendo la lingua nell’orifizio e lei
strofinò i capezzoli sulle lenzuola e
pianse, dicendo addio al decoro, al
pudore e alle buone maniere.
Le aprì le gambe, la spinse verso
l’alto in modo che potesse tenersi alla
testiera del letto e la prese con violenza.
Lo sfregamento del piercing sul clitoride
la fece impazzire e sentì avvicinarsi un
altro devastante orgasmo. Si aggrappò
alla testiera. Il suo pene pulsava,
occupandola tutta, e i loro corpi sudati
sbattevano l’uno contro l’altro immersi
nei piaceri della carne. L’orgasmo fu
così intenso che le scesero le lacrime.
Era un piacere profondo misto a dolore,
una sensazione che neppure pensava
esistesse. I muscoli si rilassarono e
ricadde sui cuscini mentre Wolfe veniva
dentro di lei tenendola per i fianchi e
lasciandosi sfuggire un verso gutturale
che le toccò l’anima e non solo.
Capì in quel momento che era troppo
tardi. Era sempre stato troppo tardi.
Era perdutamente e irrevocabilmente
innamorata del suo migliore amico.
«Sete.»
Lo sentì ridacchiare e il materasso
traballò. Cercò di alzare la testa dal
cuscino ma era troppo esausta. Quando
però si rese conto che si sarebbe persa
lo spettacolo del suo corpo nudo riuscì a
sollevarla un pezzettino.
Oh, sì. La vista valeva decisamente lo
sforzo. Avrebbero potuto farci una statua
con quel sedere di marmo. Per non dire
della delizia della pelle più chiara
rispetto al resto del corpo abbronzato.
Sparì per un attimo e tornò con un
grosso bicchiere d’acqua. Il ghiaccio
tintinnava ma lo sguardo di Gen si fissò
sul suo pene pesante e sull’intrigante
piercing vicino alla punta. Si leccò le
labbra come aveva già fatto in
precedenza e lo guardò ingrossarsi, ma
stavolta intendeva approfittarne.
«Lo stai facendo di nuovo», l’avvertì,
porgendole il bicchiere.
Bevve con foga, facendosi colare
l’acqua sul mento e sui seni. Lui si chinò
ad asciugarla con la lingua. «Facendo
cosa?» ansimò.
«Mi guardi come se volessi
divorarmi.» Le succhiò il capezzolo e lo
guardò allungarsi. Si poteva morire di
troppi orgasmi? Com’era possibile che
il suo corpo fosse di nuovo pronto ad
accoglierlo? L’odore di muschio della
loro eccitazione impregnava le lenzuola
e riempiva l’aria come un deodorante.
«Continua così e ti darà qualcosa da
divorare.»
Oh, la sfida era troppo grande. Lo
guardò di traverso, spostandosi un
ricciolo dagli occhi e restituendogli il
bicchiere. Bevve un sorso d’acqua
anche lui. Era così sicuro e a suo agio
con la sua prorompente sessualità che
Gen decise di fargliela pagare. Quando
fece per posare il bicchiere lo fermò
afferrandogli il polso.
«Tieni il bicchiere in mano, Wolfe.»
La guardò sorpreso, poi sembrò
valutare le sue intenzioni. Col fiato
sospeso, la osservò scendere con grazia
dal letto e inginocchiarsi sul pavimento
davanti a lui. Provava un’inebriante
sensazione di potere ed era così bagnata
che si chiese se non rischiava di venire
adesso
soltanto
guardandolo.
Lentamente, molto lentamente, gli passò
le mani sui polpacci, sulle cosce, e
infine le unì intorno al suo pene duro.
Lui espirò e strinse il bicchiere in
mano. «Cosa stai facendo?»
«Se te lo domandi allora non lo sto
facendo bene.» Avvicinò la bocca e
soffiò l’alito caldo sulla punta. I muscoli
di lui s’irrigidirono. Il pene s’ingrossò,
pulsando davanti ai suoi occhi. Si passò
la lingua sulle labbra e fece scorrere le
dita su tutta la lunghezza, studiando ogni
dettaglio. Il nido di peli crespi, l’asta
bollente, la barretta d’acciaio che gli
perforava la pelle. Lo strinse e mosse la
mano su e giù, scrollando la barretta di
metallo. Lui sobbalzò e gemette. Oh sì,
era una parte sensibile.
«Non credo di poter resistere,
piccola. Meglio che ti tiri su prima che
perda il controllo.»
«Hai fatto il prepotente e adesso
paghi le conseguenze.» Provò a farla
alzare ma lei fece segno di no con
l’indice. «Stai fermo. E non rovesciare
l’acqua. Potrebbe volerci un po’.»
«Gen...»
Avvicinò la testa, dischiuse le labbra
e lo prese in bocca.
Aveva un buonissimo sapore. Salato.
Muschiato. Maschio. Non ebbe paura di
sbagliare e non si preoccupò della
tecnica come faceva con David. Si
lasciò guidare dall’istinto, dal desiderio
di dargli piacere e di esplorare ogni
centimetro del suo splendido corpo.
Voleva che si struggesse dal bisogno di
lei. La lingua guizzò sul piercing, la
bocca
succhiò
forte,
le
mani
accarezzarono l’asta e strinsero
lievemente i testicoli e il suo nome uscì
dalle labbra di lui come musica. David
la costringeva a fare cose che non le
piacevano con la scusa che si amavano.
Stanotte, con Wolfe, il bisogno di lui era
tale che non c’erano barriere o regole a
trattenerla.
«Sto per...»
Succhiò più forte, passando la lingua
sulla fessura, e prendendolo fino in
fondo alla gola.
Venne, rabbrividendo e imprecando, e
lei ingoiò tutto senza pensarci due volte.
Le dolevano le ginocchia, le labbra
erano tumefatte, ma il suo spirito era
così alto che nemmeno lei riusciva ad
afferrarlo. Si alzò in piedi, baciandolo e
accarezzandolo con dolcezza, e gli tolse
il bicchiere di mano, posandolo sul
comodino. Aveva il viso beato e
rilassato, con un velo di barba super
sexy intorno alle labbra piene.
La sua voce aveva un suono roco.
«Non ho rovesciato l’acqua.»
Gen rise, gli mise le braccia al collo
e lo strinse forte. Restarono abbracciati
a lungo, mentre il sole rincorreva il buio
e l’alba si avvicinava.
Wolfe le passò teneramente la pezzuola
umida sulla fronte imperlata di sudore.
Quando gliela premette tra le gambe e
all’interno coscia, Gen gemette di
piacere e si rilassò. Aperta. Vulnerabile.
Indifesa.
Wolfe sentì un nodo in gola. Un
miscuglio di emozioni gli attanagliava il
petto, tante che non riusciva a separare
quelle che poteva concedersi dalle altre.
Continuò a prendersi cura di lei,
controllando i vari lividi, e quando si
accorse d’esser contento di averle
lasciato i segni si sentì una merda.
Almeno per qualche secondo.
Al mattino avrebbe dovuto fare i conti
con questa nottata. Parlare. Decidere il
modo migliore per salvare la relazione
più importante che aveva. L’avrebbe
fatto, ma al momento voleva solo essere
il suo amante, accudirla, accarezzarla,
scoparla, lasciarle i segni, possederla
fino a poter rivendicare ogni centimetro
del suo corpo come proprio.
Sì, era fuori di testa.
«Perché il serpente?»
Due meravigliosi occhi azzurri
sondavano i suoi, chiedendo una cosa
che non aveva mai concesso. Una
risposta ai misteri del suo passato. Un
barlume di quello che era stato e che
era. Non poteva negarglielo, adesso, ma
si sorprese lui stesso della naturalezza
della sua reazione.
«Rappresenta tutto ciò che voglio
esprimere», rispose lui semplicemente;
poi tacque. Non avrebbe mai detto tutta
la verità. Non poteva. Nemmeno a lei
anche se meritava di sapere di più e di
capire perché non era in grado di avere
una relazione sana. «Il serpente è un
simbolo di luce e buio. Lottavo per
restare sano di mente, in quel periodo.
Sono incappato in un vecchio libro che
qualcuno aveva buttato in un cassonetto,
parlava di serpenti e narrava varie
leggende su di essi. Affascinante. I
serpenti mutano la pelle, si rinnovano.
Sono considerati esseri infidi a causa
della lingua biforcuta che mischia la
verità alle bugie, e pericolosi a causa
del veleno e perché attaccano senza
avvertire la preda.» Il passato provò ad
aprirsi una breccia nei muri che si era
costruito intorno ma le difese
resistettero. Continuò a parlare in tono
espositivo. «Il serpente è anche un
simbolo di protezione. Anche sotto
minaccia, tiene duro e difende. Quando
sono entrato nella bottega del tatuatore
non ci ho pensato due volte. Volevo
ricordarmelo ogni volta che mi
guardavo.»
Gen lo osservò in silenzio, riflettendo
su quanto le aveva detto e scavando più
a fondo di chiunque altra prima di lei.
Perché d’un tratto lui aveva voglia di
vuotare il sacco? Una stretta allo
stomaco. No. Certi segreti dovevano
restare sepolti per sempre.
Come al solito, lo sorprese con
un’altra domanda.
«Cosa ti sussurra?»
Si toccò il punto in cui la lingua
biforcuta saliva intorno all’orecchio.
Sentì prudere la pelle sotto i bracciali di
cuoio. Come faceva a saperlo? Wolfe
inghiottì a vuoto e rispose con voce
piatta. «Vivi.»
Lei non mostrò sorpresa né
compassione. Il suo sguardo cadde sui
polsi coperti, come se sapesse che era
quella la chiave dei suoi segreti, ma poi
si limitò ad annuire, accontentandosi
della sua breve risposta. Nulla lo aveva
mai fatto sentire calmo quanto quel suo
modo silenzioso di comprenderlo. Il suo
corpo si risvegliò e il bisogno di
ritrovare la sua dolcezza lo travolse di
nuovo. Senza esitare, lei allungò una
mano verso di lui e allargò le gambe.
Riuscì a malapena a parlare. «No. Sei
troppo infiammata.»
«Non m’interessa», rispose con un
sorriso gioioso che le illuminava il
volto. «Mi sento viva quando sei dentro
di me.»
Wolfe gemette, commosso dalla sua
generosità e dall’amore che riusciva a
dare. Ed essendo egoista, accettò quello
che lei gli offriva, infilando un
preservativo e spingendola dolcemente
sul letto. Gli mise le braccia intorno al
collo, invitandolo a entrare nel suo
sesso bagnato e Wolfe, con un unico
movimento, scivolò lentamente dentro di
lei.
«Piano, stavolta», sussurrò. «Dimmi
se ti faccio male.»
Sollevò i fianchi e lui cominciò a
muoversi, aumentando lievemente il
ritmo.
Uscì
completamente
per
assicurarsi che le due estremità della
barretta le toccassero il clitoride, e
rientrò. Lei rabbrividì e gemette sotto di
lui, arrendendosi.
Era sua. Non c’era una sola parte di
lei che non gli appartenesse. Ogni
centimetro della sua pelle aveva
conosciuto la sua lingua, i suoi denti le
sue mani, e il suo nome le uscì dalla
bocca come una preghiera o una
melodia.
Continuò
a
muoversi,
desiderando che quel momento non
finisse mai. Facendo attenzione a ogni
respiro, a ogni goccia di sudore e a ogni
suo grido, inclinò i fianchi in modo da
toccarle il punto G, spingendo così
lentamente e in profondità che
diventarono una cosa sola. Le morse il
collo con un grugnito e spinse un’ultima
volta. I suoi spasmi lo scossero fino in
fondo all’anima.
Venne anche lui, con un’intensità mai
provata prima, e mentre svuotava il suo
seme dentro di lei, Wolfe capì che era
già troppo tardi, e che non sarebbe più
stato lo stesso uomo di prima.
Invece di piangere, seppellì il volto
tra i suoi capelli e si lasciò andare.
Capitolo 19
Odiava la mattina.
Genevieve si girò e guardò il sole che
penetrava dalle finestre. L’odore di
sesso e di maschio era ancora forte, ma
il letto era vuoto. L’impronta della testa
di lui sul cuscino e il proprio corpo
dolorante erano le uniche testimonianze
del passaggio di Wolfe. Ascoltò il
silenzio. Era probabilmente fuggito
all’alba quando lei era in coma. Più
semplice, così. Tempo per tornare in sé,
prendere le distanze e affrontare un
discorso razionale su quella notte di
sesso del tutto irrazionale.
Merda.
La tristezza incombeva ma la scacciò.
No. Si era promessa di non intristirsi
per cose che lui non poteva darle.
L’aveva sempre amato come amico. Lui
non aveva colpa se adesso lei era
innamorata. Era convinto di non poter
sostenere il peso di una relazione e lei
poteva fare tutti gli sforzi del mondo per
provare a dissuaderlo, ma alla fine non
ci sarebbe riuscita. Del resto, aveva
imparato che l’amore è anche una scelta.
Wolfe non voleva scegliere lei.
Preferiva tenersi le sue cicatrici e il suo
passato segreto, offrendole una sincera
amicizia e tutto ciò che era in grado di
darle. Ma non il suo cuore. E prima Gen
l’avesse capito, accettato e superato,
meglio sarebbe stato.
Certo non era facile.
Scese dal letto con una smorfia di
sofferenza. Aveva tutti i muscoli
indolenziti, ma si sentiva profondamente
soddisfatta e appagata. Wolfe le aveva
mostrato cosa volesse dire essere
desiderata con tutta l’anima, con una
forza tale che tutto il resto spariva. Era
un dono impagabile che non avrebbe
dimenticato. Non avrebbe mai accettato
nulla di meno.
La doccia fu un piacere immenso. Il
getto caldo sciolse ogni tensione e lavò
via l’odore di lui. Quando si guardò allo
specchio restò a bocca aperta. Succhiotti
sul collo. Lividi sui fianchi e sulle
cosce. Capezzoli doloranti. E quando
camminava sentiva male in mezzo alle
gambe. Era stata usata e amata per bene.
Cavolo, fico.
Indossò dei leggings e una maglietta
bianca e si tirò su i capelli con
l’intenzione di lasciarli asciugare
naturalmente. Per fortuna era domenica.
Poteva riposare, riflettere e starsene
tranquilla per conto suo. Aveva pensato
di vedere Izzy oggi, ma non se la
sentiva. Dopo la sua fuga dalla chiesa
era diventata più gentile con lei, ma
continuava a mantenere le distanze. No,
avrebbe rimandato a quando si sarebbe
sentita più forte e pronta a tentare di
riallacciare i rapporti con la sua
gemella. Al momento era troppo stanca.
Andò in cucina e cominciò a
preparare la caffettiera.
La porta si aprì.
Si girò sorpresa e incrociò il suo
sguardo. Teneva in mano due sacchetti e
un porta bicchiere in precario
equilibrio. Indossava Levi’s sbiaditi e
una camicia di lino nera button-down e
sembrava fresco e rilassato. Soltanto le
borse sotto gli occhi tradivano una
carenza di sonno. Non si era rasato e il
tipico velo di barba del mattino dopo
intorno alle labbra e sulla mascella
risvegliò in Gen tutti i sensi. I folti ricci
scuri gli cadevano disordinatamente
sulla fronte.
Era un bel casino. Perché adesso lei
sapeva quant’erano morbide quelle
labbra. Quant’era delizioso il morso dei
suoi denti. Quant’era buona la sua
lingua. Le passarono davanti un migliaio
d’immagini della notte appena trascorsa
e i capezzoli s’indurirono. Strinse le
cosce nel tentativo di alleviare la
pressione.
Lui chiuse la porta con un calcio.
Posò i sacchetti sul banco e la guardò.
Nella sua mente passarono gli stessi
ricordi e i suoi occhi azzurri già si
scurivano di desiderio mentre la
osservava, accarezzando con lo sguardo
tutti i punti del corpo che aveva toccato,
morso e leccato. Lei cercò di dire
qualcosa, non ci riuscì, ci riprovò.
«Pensavo fossi andato via.» Si schiarì
la gola e si sforzò di continuare.
«Pensavo fossi tornato a casa tua.»
Lui aggrottò la fronte. «Credi che
sarei capace di andarmene dopo la notte
che abbiamo trascorso insieme?»
Ingoiò la saliva cercando di non
aggrapparsi alla folle speranza di poter
far funzionare questa cosa tra loro.
Qualunque cosa fosse. «Non lo sapevo.»
Le mise davanti il grosso bicchiere di
caffè. «Adesso lo sai. Sarò anche uno
stronzo, a volte, ma non ti ferirei mai in
questo modo.»
Gen raddrizzò la schiena. «Se sei
rimasto solo perché avevi paura che
sbarellassi, non preoccuparti. Puoi
toglierti l’armatura.»
Gli angoli delle labbra si sollevarono
in un mezzo sorriso. «Sei sempre
nervosa prima del caffè. Bevi.» Lo
guardò di traverso ma bevve qualche
sorso, chiudendo gli occhi in estasi al
primo impatto con la caffeina. «Ti ho
portato anche queste. Tortine alla mela.
Appena uscite dal forno.»
Si sedette sullo sgabello mentre lui
toglieva le tortine dal sacchetto e le
metteva su un piatto. La pasta sfoglia e
la marmellata le alzarono il livello di
glicemia nel sangue. «Mmm, che
buona», mormorò. «Grazie.»
Alzò lo sguardo e restò di sasso.
La stava divorando con gli occhi,
famelico, rapito da un desiderio
primitivo e animalesco che le fece
venire voglia di mettersi nuda e tentare
la bestia che era in lui. D’un tratto si
vide con le gambe spalancate, la bocca
di lui sul sesso, e lei che si contorceva e
gemeva di piacere mentre la portava
all’orgasmo. Le scivolò di mano la
tortina.
Lui sembrava dibattuto, indeciso se
avvicinarsi, prenderla tra le braccia e
baciarla. Ma poi distolse lo sguardo e
l’incantesimo si ruppe. Gen sorseggiò
dell’altro caffè. D’un tratto le era
passato l’appetito.
’Fanculo. Non aveva mai avuto paura
di dirgli quello che le passava per la
mente. Il sesso non le avrebbe portato
via la schiettezza.
«Stiamo
scoprendo
un nuovo
significato della parola imbarazzo»,
disse. «A guardarti si direbbe che
preferiresti un faccia a faccia con una
tarantola.»
Fece una risata strozzata ma non la
guardò negli occhi. «Sicuramente siamo
in territorio sconosciuto. Non mi era mai
successo, prima.»
«Di fare sesso selvaggio con una
donna?»
«Di fare sesso selvaggio con la mia
migliore amica.»
«Sono ancora tua amica», disse con
dolcezza.
Lui sospirò. «Lo so. Ma mi chiedo se
non vorrò sempre di più di questo.»
Gen moriva dalla voglia di toccarlo,
di spianare le rughe di preoccupazione
sulla sua fronte, ma era meglio stare
lontani. «E se potessi avere di più?» Lo
disse col cuore che stava per esplodere.
Un invito che non aveva bisogno di
risposta. Era proprio stupida. Ma non
gliene importava niente.
Lentamente, la speranza abbandonò il
suo volto, sostituita da un dolore
profondo. «Non posso, Gen», disse, con
un gesto che indicava la resa. «Non
posso darti quello di cui hai bisogno.»
«Come fai a saperlo? Magari ho solo
bisogno che ci provi.»
«E rovinare la nostra amicizia?
Trasformare una cosa bella in sofferenza
e risentimento? Perché è questo che so
fare. Non riesco ad avvicinarmi, a darti
risposte su di me, a dirti chi sono. Non
lo farò mai. Sono un uomo a metà, e non
è abbastanza per te. Un giorno mi
odieresti, e non potremmo più tornare
indietro. Se ci fermiamo subito, invece,
possiamo ancora salvare la parte
buona.»
Odiava i suoi ragionamenti e le scuse
che tirava fuori per non provarci.
Odiava il suo rifiuto di lottare per lei,
per loro due, per se stesso. Gli era
successo qualcosa di orribile, e si era
arreso all’idea che non l’avrebbe mai
superato. E dal momento che non voleva
dirle di cosa si trattava, era come
combattere coi fantasmi. Abbassò le
spalle, delusa. No. Non avrebbe più
supplicato di avere una cosa che non
voleva darle. Mai più.
«E come facciamo?» volle sapere.
Fece un passo verso di lei. «Lasciami
restare ancora un po’. Dammi la
possibilità di tornare a essere amici.»
Le sfuggì una risata per nulla
divertita. «Stai scherzando? Vivere
insieme è proprio la cosa che ha
cambiato tutto. Devi andartene.»
Lui scosse la testa, ostinato. «No. Non
mi fido di David. Con l’ordine
restrittivo, mentre sono qui io non può
avvicinarsi. Ti lascerò il tuo spazio,
Gen. Ti dimostrerò che è meglio se
siamo amici. Giuro.»
Gemette e nascose il volto tra le mani.
Ridicolo. Bastava che entrasse in una
stanza e già aveva voglia di lui. Credeva
davvero di riuscire a dimenticare il
sesso più incredibile della sua vita e
tornare alle birre e alle freccette?
La voce dentro di lei urlava. È quello
di cui ha bisogno. Perderla lo avrebbe
ferito. Avrebbe ferito lei. Non poteva
abbandonarlo. Se ci avessero provato
entrambi, forse sarebbero riusciti a
esorcizzare quell’unica notte e a farla
diventare
un’esperienza
positiva.
Un’esperienza che li avrebbe legati
ancora di più. Già sentiva la voce acuta
di Kate urlarle che era matta da legare,
ma che altro poteva fare? Se non avesse
funzionato, l’avrebbe rimandato a casa
sua.
Tu lo vuoi qui. Ti aggrapperesti a
qualunque scusa per averlo vicino.
E allora? Poi le sarebbe passata.
Adesso che sapeva di non poter sperare
in qualcosa di più tra loro, magari
sarebbe riuscita a rinunciarci per
sempre.
Bugia.
Lasciami in pace.
«E se non funziona?»
Il suo volto era una maschera di
determinazione.
«Funzionerà.
Non
dimenticherò mai questa notte. Mi hai
dato qualcosa di...» S’interruppe, ma lei
aveva bisogno che finisse.
«Qualcosa di?»
«Di speciale.» Strinse le labbra. «Di
bello.»
Un nodo in gola. «Però non vuoi
provarci.»
«No.»
La sillaba esplose come una
cannonata. Avrebbe voluto urlare,
piangere,
scuoterlo,
supplicarlo,
picchiarlo. Invece accettò la sua
risposta, perché non aveva alternative.
«Proviamo una settimana. Alla fine
dovrai tornare alla tua vera vita.» Gen
ignorò la sua smorfia di dolore,
ricordando a se stessa che era stato lui a
volere così. «Se dovessi sentirmi a
disagio, però, devi promettermi che te
ne vai.»
«Va bene. Giuro che sistemerò tutto.»
Lei annuì, ma lui sapeva che non gli
credeva. Non più.
Gen tornò alla sua tortina ma stavolta
non fece alcun verso.
Gen bussò e aprì la porta. Kate stava
borbottando tra sé, circondata da
raccoglitori, e Robert sonnecchiava
tranquillo in un angolo su un logoro
lettino per cani esposto al sole: come la
sentì entrare alzò la testa e agitò la coda,
tremando di gioia in tutto il corpo. Poi si
alzò e si trascinò verso di lei. Aveva le
zampe posteriori paralizzate ma questo
non gl’impedì di andarle incontro e
buttarsi tra le sue braccia.
L’aveva visto un quarto d’ora prima
ma ogni volta era una festa come se
fosse la prima volta dopo tanto tempo.
Rise e si chinò ad abbracciarlo. Gli
coprì la testa di baci e si lasciò
confortare dal suo calore. Kate aveva
trovato Robert qualche anno prima per
strada e l’aveva salvato. Era stato
investito due volte da un’auto. Le zampe
posteriori erano perdute ma la
testardaggine di Kate e il suo amore per
tutte le creature viventi l’avevano
indotta a farlo operare e adesso aveva
un compagno per la vita.
Oltre a Slade, ovviamente.
Tra Slade e il cane si era creato un
legame strettissimo. Non era stato facile,
all’inizio, ma adesso erano come una
famiglia adottiva. Vedere Kate serena e
con un rapporto stabile rendeva molto
felice Gen.
«Vuoi che lo porti a fare una
passeggiata?»
domandò
grattando
Robert dietro le orecchie. Lui fece un
verso estasiato.
Kate sospirò. «No, sta bene. La mia
dogsitter non poteva venire oggi quindi
ho pensato di portarlo con me. Slade è
in tribunale tutto il giorno e tornerà
tardi.»
«D’accordo. Ti vedo stressata. Posso
fare qualcosa per aiutarti?»
«Mi stai già salvando il culo. Dio sia
lodato per i brillanti chirurghi che
lavorano nelle agenzie matrimoniali.
Ehi, stasera vuoi andare con Kennedy al
Purple Haze? C’è uno speed date,
potresti impratichirti un po’.»
«Certo. Non ho nient’altro in
programma.» Il pensiero di Wolfe che
cercava di rafforzare la loro amicizia
quando lei avrebbe solo voluto scoparlo
era alquanto fastidioso. Meglio tornare a
casa tardi.
Nel rialzarsi, Gen fece una smorfia di
dolore perché aveva ancora male tra le
cosce.
«Porca. Vacca.»
Si girò di scatto verso Kate. «Cos’è
successo?»
L’amica la guardò a occhi stretti.
«Come mai porti il foulard, oggi?»
Restò a bocca aperta. Il foulard di
seta rosa era leggero, simpatico, e
copriva i succhiotti sul collo. Il cuore
aumentò il ritmo ma cercò di mostrare
indifferenza. «Mi sembrava stesse bene
con quello che indosso. Perché? C’è una
regola contro i foulard?»
La battuta non la fece ridere. «Toglilo.
Voglio vedere una cosa.»
Forzò una risata. «No. Poi non riesco
a riannodarlo bene.»
«Hai fatto sesso! Perché non me l’hai
detto? So che hai deciso di non rivedere
Charles ma non pensavo che fosse
perché ci sei andata a letto. Com’è
stato? Pessimo? Buono? Medio? Sei
pentita? Sei contenta? Hai avuto un
orgasmo?»
Il fuoco di fila di domande la
bersagliò come una mitragliatrice.
Merda. Quasi la faceva franca.
Domenica aveva eluso gli sms di Kate e
stamattina era andata in ufficio a
riferirle l’esito dell’appuntamento.
Aveva detto che la serata era andata
bene ma che entrambi avevano pensato
non fosse il caso di rivedersi. L’amica
aveva accolto la notizia di buon cuore,
ripetendole che trovare il compagno
giusto richiedeva tempo, pazienza e
impegno.
Adesso pensava che fossero andati a
letto insieme.
«Ehm, non ho fatto sesso con
Charles.»
Kate batté le palpebre. «Scusa un
attimo. So che stai nascondendo le prove
sotto quel foulard. È tutto il giorno che
cammini in modo strano, ma pensavo
fossero le scarpe. Hai anche le labbra
gonfie di chi ha succhiato qualcosa per
molto tempo. So che hai fatto sesso, lo
sento!»
Perché Kate doveva essere così
dannatamente acuta? E adesso? Doveva
mentire? Giocò la carta della privacy
come ultima spiaggia. «Kate, per favore,
non farmi domande. Non me la sento di
parlare delle mie questioni personali e
apprezzerei se mi dessi un po’ di spazio
e di tempo fino a quando sarò pronta a
farlo.»
Perfetto. Da manuale. Nemmeno Kate
poteva dirle di no.
L’amica prese il telefono e digitò dei
numeri. «Kennedy? Vieni subito qui. E
chiama Arilyn. Sono con Gen, ha fatto
sesso e non vuole dirmi con chi. Sì,
certo che servono i Baileys!»
Kate incrociò le braccia sul petto, si
appoggiò
allo
schienale
della
poltroncina di pelle e la guardò torva.
«Perché non provi a ripetermi quella
stronzata?»
Gen chiuse gli occhi, sconfitta.
La porta si spalancò. Kennedy
stringeva quattro bottigliette di Baileys
tra le belle mani curate. I tacchi alti
ticchettavano
con
sicurezza
sul
pavimento e l’abito marrone di Donna
Karan le conferiva un look elegante e
professionale. Arilyn la seguiva in
leggings, camicia beige e i lunghi capelli
rossi castigati in una treccia. Dimostrava
circa dodici anni.
Robert dimostrò il suo affetto a
entrambe, poi si rimise a dormire.
Kennedy distribuì le bottigliette, si
sedette sulla sedia viola imbottita alla
destra di Kate, incrociò le gambe e svitò
il tappo.
«Con chi hai fatto sesso, Gen?»
Arilyn scosse la testa e sospirò.
«Kennedy, lasciale il tempo di sentirsi a
suo agio e aprirsi. Così la spaventi.»
Kennedy sbuffò. «È un chirurgo. Non
si spaventa facilmente. E ci sta
mentendo,
cosa
assolutamente
disdicevole.»
«Tu ci hai mentito», ribatté Arilyn.
«Ricordi quando uscivi con Nate e ti
rifiutavi di ammettere che ti piaceva?»
Kennedy fece un gesto di noncuranza.
«Non conta. Mentivo a me stessa, non a
voi. Con chi hai fatto sesso, Gen?»
Era finita. Tanto valeva ammettere la
sconfitta.
Aprì la bottiglietta e fece un lungo
sorso di Baileys. L’alcol le scaldò il
ventre.
«Con Wolfe.»
A Kate andò di traverso la saliva e
cominciò a tossire. Kennedy spalancò
gli occhi, ammirata. Arilyn restò a bocca
aperta.
Nella stanza scese il silenzio.
Ricorsero all’alcol tutte e tre, poi si
ricomposero.
«Non me l’aspettavo», ammise Kate.
«Voglio dire, tempo fa sospettavo che tra
voi due ci fosse qualcosa, ma pensavo
aveste deciso di essere amici.»
«È per quello che porti il foulard?»
domandò Kennedy. «Per nascondere le
prove?»
«Già.»
«Accidenti. È stato fantastico?»
Gen si lascò cadere sull’unica sedia
libera. «Sì. Più fantastico di quanto
potreste mai immaginare.»
«Ho sempre saputo che voi due a letto
avreste fatto scintille», commentò
Kennedy «Quello che mi preoccupa è la
tua faccia. Perché sembri così giù di
morale?»
Arilyn le prese la mano. «Tesoro,
cos’è successo? Dovresti essere al
settimo cielo.»
«È stata una notte che non
dimenticherò mai», mormorò. «Eravamo
come una persona sola. Un’unione
totale, assoluta, al punto che sembrava
che non saremmo mai più stati interi
senza l’altro.»
Kate sospirò. «Conosco quella
sensazione.»
«La migliore del mondo», concordò
Kennedy.
Arilyn rimase in silenzio.
«Ma poi si è fatto giorno.»
«L’alba rovina sempre tutto, cavolo»,
borbottò Kennedy prendendo un altro
sorso di liquore. «Si è spaventato?»
«Tantissimo. Ha detto che non vuole
rovinare la nostra amicizia e che non
potrebbe mai impegnarsi in una
relazione perché è un uomo a metà e
finirebbe per farmi soffrire.»
Kate scosse la testa. «Sembra di
sentire Kennedy quando si è innamorata
di Nate.»
«Chiudi il becco, Kate. Poi sono
rinsavita. A me sembra di sentire Slade,
invece, e tutte le sue stronzate sul
divorzio e l’ossitocina.»
Lei le fece la linguaccia.
Gen rise. Amava lo humour che non
mancavano mai di introdurre nei
discorsi seri. «Non mi parlerà mai del
suo passato. So che gli è successo
qualcosa di orribile. Come posso
obbligarlo a una relazione che non
vuole? E la nostra amicizia? Non voglio
nemmeno perderlo. È tutto un casino.
Accidenti al sesso. Maledetti quindici
orgasmi.»
Arilyn
spalancò
la
bocca.
«Quindici?»
«Porca miseria», sussurrò Kennedy.
«Non stupisce che cammini in quel
modo», osservò Kate. «Questi uomini
continuano ad alzare la posta, vero?»
«Perché il sesso deve complicare
tutto?» si lamentò Gen.
«Perché è troppo bello per non
pagarlo caro», rispose Kennedy. «Hai un
piano d’azione? Cosa vuoi?»
Impotenza e frustrazione gareggiavano
per avere la meglio l’una sull’altra.
Vinsero entrambe. «Non importa cosa
voglio. Devo guardare in faccia la
realtà. Ho chiesto a Wolfe di andarsene
ma si rifiuta, giura che farà di tutto per
tornare a essere amici.»
Arilyn mormorò parole di solidarietà.
Kate disse la verità. «Gli uomini hanno
l’encefalogramma piatto, a volte.
Penserete al sesso ogni volta che
incrocerete lo sguardo. Io e Slade
abbiamo cercato a lungo d’ignorare
l’attrazione reciproca ma alla fine
abbiamo ceduto.»
«Già. Harry ti presento Sally
colpisce ancora. Quando fai le
sporcacciate l’amicizia passa in
secondo piano», commentò Kennedy.
Gen la guardò di traverso. «Non mi
state facendo sentire meglio.»
Arilyn sorrise e le accarezzò la mano.
«Forse ha bisogno di tempo. Ho
scoperto che quando pretendi qualcosa
dagli uomini, loro si mettono sulla
difensiva. Ma se andate avanti così, a
vivere insieme cercando d’ignorare
l’attrazione, alla fine cederà e ti
trascinerà a letto. La carne è debole,
specie quella del pene. Dopo un po’ che
fate sesso la vostra diventerà una
relazione senza bisogno di dirlo o di
darle un nome.»
Si girarono tutte a guardare Arilyn.
Dal momento che si rifiutava di parlare
della sua altalenante relazione col suo
istruttore di yoga e addirittura di
nominarlo, ogni minima informazione
era preziosa.
«Come col tizio dello yoga?»
domandò Kate.
«Era solo un’osservazione generale»,
mormorò Arilyn, chiudendosi.
Kate e Kennedy sospirarono,
rassegnate.
«Sta usando David come scusa per
starmi vicino, ma non credo di essere in
pericolo. Non c’è più stato alcun
contatto dopo quella sera in cui siamo
finiti alla centrale.»
«Non ha denunciato Wolfe?» chiese
Arilyn.
«No. L’ordine restrittivo è ancora
valido ma ha lasciato cadere l’accusa di
aggressione. Probabilmente sapeva che
in tribunale sarebbe venuta fuori la
verità.»
«Coglione»,
disse
Kennedy.
«Comunque non mi fido di lui. I
manipolatori recedono solo quando
hanno un piano, e se ti vuole ancora,
vedrai che torna.»
Gen rabbrividì. Sapeva che Kennedy
non voleva metterle paura, che era un
giusto avvertimento, ma un altro motivo
per cui non sarebbe potuta tornare in
ospedale era David. Il solo vederlo
avrebbe riportato a galla il passato. Il
suo diventare più debole giorno dopo
giorno. Il controllo e gli abusi che
esercitava su di lei con sottigliezza,
senza che nessuno se ne accorgesse.
Odiava la donna che era diventata
durante la loro relazione, ma ora almeno
riconosceva d’aver avuto il coraggio di
scappare finché era ancora in tempo.
Adesso capiva molto meglio le donne
che restano. Ripensò a quanto aveva
insistito David per avere subito dei figli.
Sarebbe rimasta prigioniera di un
incubo, come accade a molte. Le venne
la pelle d’oca e provò dispiacere per
tutte le sconosciute che si trovavano in
quella
situazione.
Donne
forti,
indipendenti, in gamba.
«Sto sempre attenta», disse. «Ma non
mi va che Wolfe la usi come scusa.»
«Mmm. Be’, hai varie possibilità.
Puoi insistere perché se ne vada. Puoi
farlo restare e vedere come procede. O
puoi farti trovare nuda con un sorriso
quando rientra a casa. Non durerà tre
secondi.»
Gen rise ai suggerimenti di Kennedy e
finì il Baileys. «Tutte ottime soluzioni.
Ci penserò. Vediamo come va questa
settimana.»
«I tuoi hanno capito adesso? So che
David li ha manipolati alla grande.»
Gen annuì. «Sono stata un po’ con
loro. Essere sinceri è difficile. Ero così
imbarazzata che non gli ho mai detto
niente quindi è stato facile per David
raccontare quello che voleva. Ma Alexa
e mia madre sostengono la mia
decisione e persino mio padre piano
piano si sta convincendo. Izzy dice che
ho fatto la cosa giusta. Mi ha addirittura
definita coraggiosa.»
«Lo sei. Siamo tutte qui per te», disse
Kate. «Non sarai più sola. E quando si
hanno problemi con gli uomini, le
amiche sono la chiave per risolverli.»
L’emozione le strinse la gola. Le altre
due amiche annuirono, e Gen sentì che il
loro legame era forte come quello di una
famiglia, perché avevano scelto di
essere insieme. A volte le relazioni che
si eleggono sono più forti dei legami di
sangue.
«Grazie. Vi voglio bene, ragazze.»
Kennedy alzò gli occhi al cielo. «Dai
facciamo questo abbraccio di gruppo
così poi torniamo a lavorare.»
Robert abbaiò.
Ridendo, si unirono in cerchio e si
abbracciarono, e per la prima volta Gen
si sentì fiduciosa. Avrebbe aspettato di
vedere come sarebbero andate le cose,
senza forzarle. Non avrebbe mai smesso
di amare Wolfe, ma se era possibile
mantenere l’amicizia, avrebbe fatto di
tutto per riuscirci.
Capitolo 20
Wolfe si guardò intorno a dare un’ultima
controllata. Cassa di Sam Adams.
Cheeseburger al bacon e patatine di
Mugs. Vaschetta di gelato alla menta con
gocce di cioccolato. Pila di dvd sul
tavolino. Scarabeo.
Sì. C’era tutto. Tutte le cose che
amavano fare insieme da amici. Da
migliori amici. Non avrebbe pensato al
sesso, stasera, nemmeno se lei si fosse
messa qualcosa di indecentemente
succinto. Aveva già fissato in mente
l’immagine di suore incinte per
ricorrervi al primo cenno di eccitazione.
Poteva farcela. Doveva convincerla
di poter tornare amici, altrimenti
l’avrebbe persa per sempre.
E questa non era un’alternativa
prevista.
Entrò in casa con l’aria stanca. I
capelli erano raccolti con un fermaglio e
le ciocche che ne sfuggivano le
incorniciavano le guance. Il sole aveva
messo in risalto le lentiggini sul naso. Il
rossetto era venuto via, mostrando il
rosa naturale delle sue labbra. Indossava
un vestitino corto di jeans che donava
molto al suo corpicino a clessidra. Si
sfilò in malo modo le ballerine decorate
di perline, posò la borsa e si strappò la
molletta dai capelli.
«Sono stanca e di pessimo umore
quindi sarà meglio che non mi chiedi
cosa c’è per cena.»
Era magnifica.
Lui sorrise e si mise al lavoro
prendendo i piatti e servendole una birra
fredda. «Ho acquistato la cena fuori così
non dobbiamo preoccuparci. Perché non
ti metti qualcosa di comodo mentre
preparo?»
Borbottò che andava bene, annusò gli
hamburger e si trascinò in camera da
letto.
Quando uscì con un paio di leggings e
una canotta viola col logo di
Kinnections, trovò tutto pronto. Era a
piedi nudi e Wolfe notò le unghie dipinte
di rosa. Ripensò a come arricciava le
dita quando le toccava i punti sensibili,
specie quando la sua bocca era...
No. Concentrazione. Suore.
Inspirò e le fece segno di sedersi. «È
pronto. Giornata di merda?»
Lei diede un grosso morso
all’hamburger e gemette. «Che buono.
Naa, sono solo stanca. Non ho dormito
molto.»
La frase le uscì dalla bocca come una
cannonata. I loro sguardi s’incrociarono,
ricordando il motivo per cui non
avevano dormito, e Wolfe si schiarì la
gola, distogliendo lo sguardo. «Ehm,
già. È successo qualcosa di nuovo in
Kinnections?» Quello avrebbe dovuto
essere un argomento neutro.
Gen fece spallucce. «Non proprio. Un
altro fidanzamento. Kennedy era
contentissima dei nuovi dati statistici.
Ho aiutato un po’ Kate con
l’organizzazione del matrimonio. E ho
visto Robert. Tu?»
Pensò a qualcosa d’interessante da
dire. «Ho fissato un’altra grossa
convention con quelli dell’IT. Credo che
il golf mi abbia aiutato. I mercoledì con
Nate mi hanno dato accesso a una nuova
clientela. È in gamba, quel figlio di
puttana.»
Gen sorrise. «Di solito gli esperti di
missilistica lo sono.»
«Ingegnere aerospaziale.»
«Giusto.» Masticò qualche patatina.
«Come stanno Sawyer e Julietta? E la
bambina? Quanto ha adesso?»
«Quattro mesi.» Sentì una fitta al
cuore. La famiglia gli mancava. Da
quando aveva aperto il Purity non era
riuscito ad andare a trovarla molto
spesso. Si era preso un weekend lungo
per la nascita della bambina, ma Sawyer
diceva che cambiava ogni giorno.
Doveva organizzare un’altra visita.
«Stanno bene. Sembrano contenti. Gabby
confonde il giorno con la notte quindi è
un po’ dura, ma Sawyer è impazzito per
lei. Dio la aiuti se mai penserà di uscire
con qualcuno.»
Gen rise. «Con i tuoi genitori italiani?
Sarà un miracolo. Dovresti vedere Nick
con Lily e Maria. Lily è venuta a casa un
giorno dicendo di avere un fidanzatino
in seconda elementare. Lui l’ha fatta
sedere e le ha spiegato che uscire coi
ragazzi l’avrebbe fatta diventare meno
intelligente. Alexa l’ha trovata in
lacrime la mattina dopo perché aveva
paura di parlare coi maschi e di perdere
le capacità intellettuali. Ovviamente
Nick ha dormito con Zanna gialla e
Simba per un sacco di tempo.»
Wolfe rise con lei e scosse la testa.
Era perfetto. Scambiarsi storielle
divertenti sulle loro famiglie era una
delle cose che amavano di più. Gen si
allungò a prendere il ketchup e la
canotta si aprì, mostrando del pizzo
viola. Aveva il reggiseno coordinato? E
le mutandine? Sarà stato un tanga? No,
diceva sempre che le dava fastidio, ma
ora aveva gli occhi incollati al suo
sedere per controllare se si vedeva la
riga e...
«Wolfe?»
«Eh?»
«Ti ho chiesto se c’è rimasta della
Diet Coke.»
«Ah, sì, ecco.» Le passò la lattina e si
ricompose. «Ho preso dei film da
vedere stasera. Ho pensato che avevamo
bisogno entrambi di una serata
rilassante.»
«Non guarderò il milionesimo sequel
di Fast & Furious.»
«No, ho preso roba che ti piace. Shall
we dance, Le pagine della nostra vita,
Magnolie d’acciaio.»
«Fiori d’acciaio.»
«Giusto.»
Lo guardò con sospetto, stringendo le
labbra piene intorno alla cannuccia e
succhiando. La stanza s’annebbiò
qualche
secondo,
mentre
Wolfe
ripensava al calore e alla pressione di
quelle labbra intorno al suo uccello. Che
dolce visione quella di Gen in ginocchio
a dargli piacere finché...
Balzò in piedi, andò al lavandino e
cominciò a spruzzarsi l’acqua fredda sul
viso. «Cosa ti prende?» chiese lei.
«Vampate.»
«Non sei mica in menopausa.»
«Ah ah, anche gli uomini le hanno.»
Scosse la testa per eliminare le
goccioline rimaste sul viso, si appigliò
all’immagine dei cuccioli abbandonati
nei rifugi e tornò a sedersi a tavolo.
Doveva farcela.
«Non ho voglia di guardare film
strappalacrime», disse. «Possiamo fare
zapping?»
«Certo. Vuoi giocare a scarabeo?»
«Sono troppo stanca.» Passò dalla
coca alla birra, e dopo una lunga sorsata
fece un sospiro di piacere. «Ho fatto il
mio primo speed date al Purple Haze. È
stato divertente. C’è un sacco di lavoro
dietro per assicurarsi che vada tutto
liscio, ma niente è come il primo
incontro tra le persone. La speranza che
hanno tutti di trovare l’amore. Mi
commuove ogni volta.»
Cambiò posizione sulla sedia. «Già.»
«Stavo pensando di chiedere a Kate
di fissarmi un altro appuntamento. Ho
sbagliato approccio con Charles. Ero
alla ricerca di conferme circa la mia
sessualità ma non possono essere gli
altri a darmele. Devo trovarle da sola.»
Negli occhi di entrambi brillarono gli
stessi ricordi. «Tu mi hai aiutato, in
questo.»
Gli prudeva la pelle, gli sudavano le
mani e gli batteva il cuore a mille. «Ffelice che tu l’abbia finalmente capito.
Credi di essere pronta per una nuova
storia?»
Il suo sguardo lo infilzò come una
freccia appuntita. «Sono pronta a
provarci.»
Gli si prosciugò la saliva, quindi
mandò giù un lungo sorso di birra.
«Giusto. Sì, probabilmente è una buona
idea. Riprovarci.» Le parole suonarono
vuote e gli lasciarono l’amaro in bocca.
Cosa s’aspettava? Era stato lui a dire
che dovevano essere solo amici.
Lasciarla andare e smettere di cercare di
proteggerla avrebbe fatto bene anche a
lui. Doveva piantarla di essere geloso e
possessivo. Quella era roba da
innamorati. Da fidanzati. Cagate così.
Riportò la conversazione su un
terreno neutrale, ripulì tutto e aspettò
mentre si faceva la doccia e si
cambiava. I suoi pigiami erano un po’
tutti uguali, pantaloncini corti di flanella
e canottiera. Senza reggiseno. I
capezzoli spingevano contro il tessuto
morbido, tentandolo e invitando le sue
labbra a succhiarli, leccarli e morderli.
Ma non poteva. Gli amici non fanno
certe cose.
Si sedettero sul divano con le birre,
allungarono le gambe sul tavolino e lui
le passò il telecomando. Fece attenzione
a tenere lo sguardo incollato allo
schermo evitando di posarlo sulle sue
gambe nude. Scelsero di guardare House
Hunters. Borbottò a sufficienza da dare
l’impressione di farle un favore, ma
accidenti se quello stupido programma
lo intrigava. Di solito non riusciva a
dormire se prima non scopriva che casa
aveva scelto la coppia di turno.
Gen espresse il suo parere sulla casa
numero due. «Hai visto? A quel tizio non
gliene importa niente di quello che vuole
sua moglie. La cucina è un casino,
gl’interessa solo avere uno stanza tutta
per sé. Che stronzo egoista.»
«Ma fammi il piacere. Lei parla di
organizzare feste con un milione di
persone. Vuoi scommettere quante feste
faranno? Da contare sulle dita di una
mano. Con tre figli non hanno tempo
d’invitare gente a casa.»
«Magari, se lui le desse una mano in
cucina invece di farsi i fatti suoi nella
sua stanza, qualcuno potrebbero
invitarlo.»
«Magari se lei gli lasciasse un po’ di
spazio senza brontolare continuamente
lui la aiuterebbe.»
Lei fece una smorfia di scherno. Lui
sbuffò.
Wolfe si rilassò. Avevano ripreso con
i soliti battibecchi e la speranza brillava
all’orizzonte. Ce la potevano fare.
Bastava rieducare il loro corpo a non
reagire e l’amicizia avrebbe trionfato.
La coppia scelse la casa con la cucina
bella. Gen esultò mentre lui cercava di
mostrarsi seccato e tratteneva un sorriso.
Lei cambiò canale.
Sullo schermo apparve un’altra
coppia. Lei era a gambe nude, portava la
camicia di lui e aveva tutti i capelli per
aria. Lui la stringeva, la prendeva in
braccio e d’un tratto erano a letto. No.
No. Perché questo film gli sembrava
così familiare? Pregò che cambiasse
canale ma aveva posato il telecomando
in grembo. I pantaloncini erano saliti
abbastanza da mostrare la coscia fino in
alto. Tutte le strade portavano in
paradiso.
«Ti ricordi questo film?» domandò lei
un po’ ansimante. «Adoro Timberlake!»
Non era possibile.
Amici di letto.
La trama era un incubo. Due amici che
decidono di fare sesso senza mettersi
insieme. S’irrigidì. «Un po’ una
stronzata, vero?»
«A me era piaciuto.» Guardarono in
silenzio i due che si baciavano
appassionatamente e cominciavano a
strapparsi i vestiti di dosso. L’aria si
fece pesante e Wolfe si sentì ribollire e
si chiese se non sarebbe uscito di senno.
Ingoiò altra birra.
Un’occhiata gli confermò il peggio.
Gen era eccitata. Si vedeva la punta
dura dei capezzoli sotto la canottiera e il
battito del cuore alla base del collo. Era
pronto a scommettere che se l’avesse
guardata negli occhi avrebbe visto anche
le pupille dilatate. Le labbra umide. E se
avesse
infilato
una
mano
nei
pantaloncini e sotto le mutandine
l’avrebbe trovata fradicia e vogliosa. Di
lui.
Strinse il collo della bottiglia. Pregò.
La sua erezione spingeva dolorosamente
contro i jeans cercando una via d’uscita
mentre lui si sforzava di resistere al
bisogno profondo di ribaltarla e
scoparla forte, bene e a lungo.
La tensione sessuale aumentò ancora.
Cominciò a sudare. Lei aveva ancora gli
occhi incollati al televisore, ma notò che
stringeva le cosce per alleviare la
sofferenza. E si mordeva il labbro
inferiore coi denti.
Il dialogo del film fu come uno
schiaffo.
«Mi manca il sesso.»
«Manca anche a me.»
«Voglio dire, a volte se ne ha bisogno
e basta.»
«Perché devono sempre esserci delle
complicazioni?»
Suore.
Cuccioli.
Neonati
che
frignavano. Cercò di aggrapparsi a
qualunque immagine gli permettesse di
ritrovare il respiro regolare e gli facesse
riabbassare l’uccello. Lentamente, molto
lentamente, lei si voltò verso di lui. I
suoi occhi azzurri sostennero il suo
sguardo.
E fu fatta.
Si mossero entrambi così rapidamente
che non passò un secondo e già lei era a
cavalcioni su di lui, la bocca sulla sua,
le dita tra i suoi capelli. Wolfe le
affondò la lingua in bocca in cerca della
dolcezza che tanto gli mancava mentre
lei gli strusciava il sedere sulle cosce
quasi volesse fondersi con lui. Le uscì
un gemito dal profondo della gola e lui
ingoiò quel suono, avviluppando la
lingua alla sua mentre lei cercava di
tirargli giù la cerniera dei jeans.
«Togliteli», ringhiò come una tigre
sexy. «Subito.»
«Ci sto provando. Sei così buona.»
Aveva le mani dappertutto, bramose di
tastare la sua pelle bianca e setosa, e si
rimpinzava del suo odore di pesche e
miele mentre con la lingua entrava e
usciva dalla sua bocca. «Alzati.» Lei si
sollevò quel tanto che bastava per
permettergli di toglierle i calzoncini e le
mutandine insieme. «Non posso
aspettare. Ti voglio subito.»
«Sì, sì», rispose lei sfilandogli i
jeans. Quando gli strinse la mano intorno
al membro quasi piangeva di gratitudine
per non essersi messo i boxer, oggi. Gli
graffiò le spalle, gli morse il collo e si
dimenò contro di lui. La sua pelle gli
bruciava sotto le mani e aveva lo
sguardo annebbiato dalla lussuria. La
sua sessualità aperta e audace lo
inebriava.
Le afferrò le cosce, la sollevò e fece
per penetrarla.
Merda.
«I preservativi», borbottò. Glielo
stava strofinando dalla base alla punta e
sentì un brivido in tutto il corpo.
«Dove?»
Batté le palpebre come per ritrovare
la concentrazione e i riccioli le caddero
intorno al volto. «Non li ho. Ero
arrabbiata con te e li ho buttati.»
«Non dirmelo.»
«Te lo dico. Tu non ne hai?»
Una risata strozzata. «Li ho buttati per
non cedere alla tentazione.» Continuò a
baciarlo e gli si aprì il cuore. Era così
dolce, amorevole, genuina. «Piccola,
devi rallentare perché perdo il
controllo.»
«Non serve il preservativo. Sto
prendendo la pillola.»
La baciò a lungo e con passione. «Io
ho appena fatto le analisi ed è tutto
regolare. Sei sicura?»
Gli strinse forte l’uccello. «Ti do
l’impressione di essere sicura?»
«Sì. Reggiti. Si fa un giro.»
Stavolta non si fermò, la sollevò e la
spinse verso il basso con forza.
Lei urlò, chiudendo gli occhi e
stringendo i denti. Lui ansimò. Starle
tutto dentro era una sensazione così
meravigliosa che avrebbe potuto
portarlo alle lacrime. Lei pulsava e lo
mungeva con piccole strette, incitandolo
per averne di più. Spingendo la schiena
contro il divano, prese a sollevarla su e
giù, sbattendola sempre più forte e
penetrandola sempre più a fondo. La
barretta gli strusciava ogni volta contro
il clitoride e le toccava il punto G
facendola rabbrividire dalla testa ai
piedi. Oh sì. Cazzo che bello.
«Devo venire», disse lei con voce
spezzata. «Oddio, non posso più
aspettare.»
«Non ancora. Non ho finito con te.»
Inarcò la schiena per prepararsi
all’orgasmo ma lui rallentò il ritmo,
negandoglielo. Lei sbuffò e si chinò a
mordergli una spalla. Forte.
«Brava, piccola. Dacci dentro.»
«Bastardo.» Gli affondò le unghie
nella schiena strusciando i capezzoli
contro di lui e gli strinse le cosce
intorno ai fianchi per farlo muovere più
veloce. La punì pizzicandole i capezzoli,
poi afferrandole il sedere per
controllarla meglio.
Lei
si
arrese, piagnucolando,
rabbrividendo, e d’un tratto aveva finito
di giocherellare.
Le diede un’ultima spinta.
Venne con violenza, urlando il suo
nome durante gli spasmi. Wolfe
mantenne lo stesso ritmo spremendole
tutto il piacere dal corpo. Poi le strofinò
il clitoride da una parte dall’altra con
movimenti rapiti, portandola ad un altro
violento orgasmo. Infine si lasciò
andare.
Venne dentro di lei, godendo del
piacere di sentirla sulla pelle nuda,
della
sensazione
di
essere
completamente unito al suo corpo
minuto, senza barriere tra loro. Gli si
abbandonò sul petto, con le braccia
strette intorno alle sue spalle e tutto il
suo uccello dentro.
Lui chiuse gli occhi e la strinse come
un tesoro prezioso. Sapendo di non
potersi più ribellare. Non sapendo quale
fosse la risposta.
Lei aprì un occhio. «Ancora amici?»
Lui rise, baciandole una spalla.
«Assolutamente. Amici di letto?»
«Sì. Non voglio oppormi a questa
cosa. Che ne dici di prenderla come
viene? Giorno per giorno? Se vogliamo
fare sesso, lo facciamo. Senza
domande.»
«Ma non voglio che usciamo o
andiamo a letto con altre persone.»
Lei sorrise e lo baciò con tenerezza.
«Questo è pacifico. Vediamo come va.
Quando te ne andrai, magari sarà un
segnale per smettere di farlo. Ma perché
negarci quello che vogliamo?»
Le accarezzò le natiche, e la sentì
fremere. «Hai ragione. Anche perché è
una cosa straordinaria.»
«Non deve finire per forza come in
uno stupido film. Possiamo gestirla
come vogliamo.»
«Hai ragione. La nostra amicizia è
abbastanza solida da reggere del sesso
da sballo. Ci farà bene.»
«Sicuro. Adesso portarmi a letto»,
ordinò.
La sollevò e la portò in camera.
Incredibile quanto d’un tratto fosse tutto
improvvisamente chiaro. Forse vedere
quel film era stato un segno. Un buon
segno. Avrebbero gestito la cosa
insieme. Senza combattere l’attrazione
che c’era tra loro. Prenderla come
veniva era un’idea assolutamente
geniale.
Tanto cosa poteva succedere?
Ignorò il monito dentro di sé e si
concentrò sulla donna che aveva tra le
braccia.
Vincent Soldano entrò nel suo stanzino,
spostò il poster di Harry Potter che
aveva appeso da piccolo e mise il resto
dei soldi in una fessura nel muro. Gli
sembrava di essere quel prigioniero in
Le ali della libertà che nascondeva il
suo piano di fuga dietro uno stupido
poster. Ma funzionava. Da quando era
stato
costretto
a
cambiare
nascondiglio, nessuno degli uomini di
sua madre aveva trovato il suo
gruzzolo, e nemmeno lei.
Se ne andava da questo inferno.
Aveva dei soldi. Il coltello. Vestiti.
Zaino. Qualche oggetto personale.
Acqua e cibo. Era cresciuto nell’ultimo
anno e non era più un ragazzo pelle e
ossa. Stava diventando un uomo, e
pensava che questo gli avrebbe
facilitato le cose. Niente affidamenti e
cagate simili. Soltanto lui, il suo
ingegno e il suo spirito di
sopravvivenza.
Le urla aumentarono e imprecò
sottovoce. Avrebbe dovuto andarsene
ieri, ma voleva avere un giorno in più
per accertarsi che il suo piano fosse
ben congegnato. Meglio che la madre
fosse completamente fatta, così per un
po’ non l’avrebbe cercato. Più
distrazioni c’erano meglio era, e ieri
sera c’era stata fin troppa calma.
Adesso invece c’era baldoria. Dopo il
sesso e la droga, se ne sarebbe andato
senza voltarsi indietro.
Era fatta, finalmente.
Passò l’ora successiva cercando di
distrarsi, ascoltando la notte che si
faceva sempre più scalmanata. Poi
qualcuno lo sorprese bussando alla
porta. S’irrigidì.
«Sì?»
«Ehi ragazzo, vieni fuori. Tua
mamma ha bisogno.»
Di solito non dava retta a nessuno,
ma il pensiero che fosse l’ultima volta
che vedeva sua madre lo addolcì. Aveva
il coltello in tasca, e stavolta sapeva
come usarlo. Si era allenato con
costanza e aveva imparato a difendersi.
Alla prossima occasione sarebbe stato
pronto.
Uscì col broncio. «Che c’è?»
La madre era appoggiata alla parete,
gli occhi iniettati di sangue, la bocca
semiaperta nello stupore di chi vedeva
cose che non c’erano. Sperò fossero
cose belle, almeno. C’era tutto
l’armamentario. Erba. Crack. Bottiglie
vuote di whisky e vodka. Lattine di
birra. Qualcuno stava scopando in
camera, ma lo stronzo che aveva
bussato aveva uno sguardo strano.
Come se avesse qualcosa di eccitante
in mente.
«Tua madre è andata», disse il
magnaccia basso e muscoloso. «Non
sarà di grande utilità stasera. Quindi
ci servi tu.»
Gli si rivoltarono le budella. Sentì
l’adrenalina pompargli nel sangue e
fiutò il pericolo nell’aria. Lo
spacciatore si faceva chiamare Scott.
Era in giro da un po’, si prendeva cura
della madre quando era fatta e la
spingeva a prostituirsi sempre di più.
Vincent non aveva paura di Scott come
degli altri e lui sembrava lasciarlo
sostanzialmente in pace. Non sembrava
che gli piacessero i maschi.
E fu questo il punto su cui Vincent si
rese conto d’aver commesso un
terribile sbaglio.
«Sì, be’, non posso farci niente»,
rispose cercando di fare l’indifferente.
Si avviò verso la porta col coltello in
tasca, ma l’uomo lo bloccò. Gli
comparve un sorrisetto sulle labbra.
«Secondo me sì, invece», biascicò.
Vincent s’irrigidì. «Vedi, tua madre ha
finito i soldi. Ha finito i favori. Quindi
stasera deve ricorrere all’ultima
risorsa.»
La madre gli fece un sorriso così
melenso e morboso che lui pensò di
essere sul punto di vomitare. «Scusa,
tesoro. Devi aiutarmi. Aiutami.»
Strinse i pugni e cercò di respirare
regolarmente. Rischiava di dover
scappare senza il gruzzolo. Cazzo. «Se
pensi che io sia una specie di puttana,
ti sbagli. Toccami e ti ammazzo.»
Scott sorrise. «Hai mai provato?
Magari non è così male. Facciamo
così, lo fai stavolta per me e saremo
pari. Poi non tormenterò più né te né
tua madre.»
Fece un passo indietro ma senza
guardare la porta. Troppo vicino.
Avrebbe dovuto scappare. Allungò la
mano fino alla tasca posteriore e prese
il coltello. Stavolta non l’avrebbe
mancato. La posta era troppo alta.
«Non sapevo fossi una checca», ghignò
cercando di distrarlo. «Qual è il
problema? Il tuo uccello non è grosso
abbastanza per una donna?»
Scott gli si avvicinò senza smettere
di sorridere. «Possiamo farlo con le
buone maniere o con le cattive. Ti ho
dato tempo, ti ho lasciato in pace. Ti ho
permesso di rubarmi i soldi quando
pensavi che non me ne accorgessi. Ma
adesso è ora di saldare i conti.»
Vincent cercò d’ignorare la paura,
estrasse il coltello e colpì.
La lama affondò nel petto dell’uomo.
Non aspettò di vedere cosa gli aveva
fatto. Si girò e corse verso l’unica
uscita, sapendo che se non ci fosse
arrivato in tempo non avrebbe avuto
un’altra occasione.
Sentì le urla di Scott. Dei passi
frettolosi. Girò il pomello. Un soffio di
aria fresca. Poi un piede toccò il
terreno e cominciò a correre.
Fu ripreso da mani brutali che lo
colpirono alla testa con qualcosa. Sentì
un miscuglio di voci maschili e cercò di
non perdere conoscenza. Mentre
cercava disperatamente di liberarsi, la
mente urlò tutto il tempo un’unica
sillaba,
la
stessa
che
dopo
quell’orribile notte avrebbe ripetuto
per anni durante i suoi incubi.
No. No. No. No.
Due uomini lo gettarono sul letto in
camera sua. Lui cercò di divincolarsi
ma erano più grossi di Scott. Il primo si
mise di guardia alla porta e l’altro lo
trascinò giù dal materasso e lo fece
mettere in ginocchio, coi palmi sul
parquet. Stava per vomitare.
«Ora t’insegniamo un po’ di buone
maniere. E anche come fare dei soldi.»
Scott si avvicinò e gli alzò la testa
tirandolo per i capelli. Sorrise con
malignità, col sangue che gli colava
dalla ferita superficiale accanto alla
spalla. «Pagherai per questo. Mi
divertirò a vederti ripagare i debiti di
tua mamma.»
No. No. No. No.
Il primo uomo rise e cominciò a
slacciarsi i pantaloni.
No. No. No. No.
E poi cominciò l’incubo.
Capitolo 21
Gen uscì dall’Xpressions Café con un
sacchetto di biscotti e grandi programmi
per la serata. Voleva fare la pasta agli
scampi e gamberi e poi bruciare le
calorie con il suo nuovo sport preferito.
Sesso. Con Wolfe.
Camminò canticchiando, facendo
dondolare il sacchetto e godendosi il
sole.
«Genevieve?»
Quella voce, che conosceva molto
bene, le tolse tutto l’entusiasmo. Si girò
verso David e la felicità svanì. Sentì un
brivido di paura lungo la spina dorsale,
anche se erano alla luce del giorno.
Strinse le labbra e si voltò per
andarsene ma lui la chiamò di nuovo,
con insistenza.
«Ti prego, concedimi un minuto. So
che non lo merito. Possiamo parlare
anche qui in mezzo alla gente. Per
favore.»
S’irrigidì, ma si fermò. Doveva avere
appena finito il turno, dal momento che
indossava ancora il camice. I capelli
erano un po’ scompigliati ma al sole
brillavano come un’aureola. Le piccole
rughe intorno alla bocca e agli occhi gli
davano quell’aria stanca che gli aveva
visto tante volte. Sentì una fitta
dolorosa. Le mancava l’ospedale. Il suo
lavoro. Sentirsi parte di qualcosa di più
grande, sacrificare il tempo per salvare
delle vite. Cercò di non mostrare
nostalgia per non rischiare che venisse
fraintesa.
«Cosa vuoi?»
«La prima cosa? Scusarmi. Mi
vergogno di quello che ho fatto. Ho
perso la testa, era così pazzo di gelosia
che volevo farti del male.»
«Mi dispiace. Non posso perdonarti.
Hai cancellato tutto il buono che c’era
stato tra noi aggredendomi in quel
modo.»
Lui annuì, stringendo la mascella.
«Capisco. Ma dovevo dirlo a voce alta.
Ho organizzato per farti portare la tua
roba questo weekend, se ti va bene.»
Alzò un sopracciglio. Max se ne stava
occupando ma avevano fermato tutto
quando l’avvocato di David aveva
minacciato di trascinarla in tribunale
dicendo che la sua storia con Wolfe non
le dava diritto a niente. «Non voglio che
me la consegni personalmente.»
«No, io non ci sarò. Hai vinto tu, Gen.
È finita. Ti starò alla larga. Ho ripensato
alla nostra relazione e credo di sapere
dove ho sbagliato, ma se non vuoi darmi
un’altra
possibilità
non
posso
obbligarti.»
«Non si può tornare indietro»,
sussurrò.
«Lo so.» Per un attimo, quei primi
mesi le riaffiorarono alla mente e provò
tristezza. Una volta lo amava. Voleva
sposarlo. Ora era solo un estraneo. La
vita era bizzarra. Adesso, quando Wolfe
la prendeva tra le braccia, tutto
sembrava andare al suo posto. Non si
era mai sentita così a suo agio nel
profondo dell’anima. «Ma c’è una cosa
che devo chiederti.»
Eccolo. Strinse gli occhi.
«Ho bisogno che torni in ospedale.»
Tese tutti i muscoli. Ci mise qualche
attimo a riprendere il respiro per
rispondere con calma. «Non posso. Il
perché lo sai.»
David scosse la testa. «La medicina è
la tua vita, Genevieve. Hai un dono.
L’ho capito subito, e perdere tempo in
una stupida agenzia matrimoniale è un
crimine.»
«Kinnections è una società di
successo che aiuta la gente a trovare
l’amore. Come ti permetti di
giudicarmi?»
Parlò a labbra strette. «Ti stai
nascondendo, lì dentro. E so che il
motivo sono io. Senti, l’idea di lavorare
accanto a te, di vederti ogni giorno
sapendo che non eri più mia, quasi mi
distruggeva. Ho fatto tutto ciò che era in
mio potere per farti andare via. Ti devo
delle scuse anche per questo. Quindi mi
trasferisco.»
Restò a bocca aperta. «Sei la spina
dorsale del reparto chirurgia. E non ti
credo. È solo un trucco per farmi
tornare.»
«No, Genevieve. Mi hanno offerto
un’opportunità all’ospedale pediatrico
di Boston. Per me è ora di andarmene.
Posso fare molto di più, specialmente
nel campo dell’insegnamento e della
chirurgia. Mi sentivo un po’ soffocato,
negli ultimi tempi, ma non volevo
ammetterlo. Specialmente con te che
dovevi finire l’internato e volevi stare a
New York.»
Era oltremodo sorpresa. La speranza
di riprendere il lavoro che significava
tutto per lei le balenava davanti.
«Perché me lo stai dicendo? Devo
credere che d’un tratto sei pronto ad
accettare la fine della nostra storia?
Dopo aver chiesto un ordine restrittivo
contro Wolfe? E aver convinto i miei
genitori che avevo dei problemi
emotivi?
E
avermi
cacciata
dall’ospedale?»
Non fece una piega. Si limitò a
guardarla con la stessa intensità che
riservava ai medici interni. «È la verità.
Sentivo che mi stavi sfuggendo e ho fatto
il possibile per trattenerti. Ma non
voglio buttare il resto della mia vita a
supplicarti di tornare con me. L’ordine
restrittivo resta. Non mi fiderò mai di
quell’imbecille e credo che ti desse la
caccia anche mentre eri con me. Volevo
comunicarti la mia decisione di persona.
Chiama Brian, ti farà rientrare nel
programma.
Ho
già
dato
l’approvazione.»
Le batteva il cuore così forte che
sentiva il rombo nelle orecchie.
«Potrebbe essere troppo tardi.»
«Non è mai troppo tardi. Non
sprecare il tuo talento in un lavoro
indegno di te. Sei migliore di quello che
stai facendo.» Le diede un’occhiata
veloce. «Sei migliore anche di Wolfe.»
Gen aprì la bocca per protestare ma
aveva già girato sui tacchi e se ne stava
andando.
Guardò il marciapiede deserto.
Quante
decisioni.
Le
piaceva
Kinnections. Era più impegnativo di
quanto avrebbe immaginato e lavorare
con le amiche era un sogno divenuto
realtà.
Ma lei era un medico. Un chirurgo. La
medicina era nel suo DNA, e anche se
aveva cercato di dimenticarlo nella
speranza di avere una vita piena e più
equilibrata di prima, si rese conto che
tutte le strade portavano all’ospedale.
Aveva molto su cui riflettere.
Si avviò verso casa con mille
pensieri che le frullavano in testa.
Wolfe fissò il grosso schermo davanti a
lui. Aveva appena concluso un ottimo
affare. ’Fanculo Plaza. Siamo arrivati
noi.
Non vedeva l’ora di dire a Sawyer di
quest’ultimo colpo da maestro. Ogni
vittoria era un modo di ricambiare
l’occasione offertagli dall’uomo che
l’aveva tolto dalla strada.
Come al solito, lo eccitava l’idea di
usare la sua intelligenza e le sue
capacità per ottenere quello che voleva.
Specialmente negli affari. La sua vita
personale era sempre stata piatta, un
infinito deserto con nulla di eccitante in
vista. Il che rendeva tutto più semplice.
Vuoto, ma semplice.
Fino a Gen, ovviamente. Adesso
passava la giornata lavorativa con
l’entusiasmo di un bambino che aspetta
il Natale.
Scosse la testa ridendo di sé e guardò
il suo ufficio. L’aveva arredato come
quello di Sawyer in Italia. Mobili in
mogano. Tappeto bordeaux. Sculture e
soprammobili di suo gusto. Una libreria
a parete piena di edizioni rare e romanzi
di successo. E una palestra nella stanza
accanto dove sfogava le sue frustrazioni
su un sacco per pugili con la musica
metal degli anni Ottanta.
Quante volte aveva finito per dormire
lì? Adesso appena scattavano le cinque
usciva dalla porta. La sua assistente
quasi sveniva quando si era rifiutato di
restare più a lungo per presiedere una
riunione. Sapeva che la sua presenza non
era necessaria. Gli piaceva soltanto
seguire personalmente tutte le fasi del
lavoro. Finché una brunetta sexy gli
aveva fatto un incantesimo.
Respinse le preoccupazioni pronte a
tormentarlo. Non poteva durare.
Pazienza. Era già passata un’intera
settimana ed era andato tutto alla
perfezione. Aveva deciso di spremere
tutto il piacere fino all’ultima goccia
finché l’attrazione tra loro non fosse
svanita. Chi avrebbe pensato che questa
cosa degli amici di letto avrebbe
funzionato? Eppure per il momento
funzionava. Passavano il tempo insieme,
facevano sesso strepitoso quasi tutta la
notte, e si godevano l’uno la compagnia
dell’altro. Senza domande, limitazioni o
regole. Nessuna promessa. Solo il
momento e un mare di piacere.
Sentì vibrare il cellulare e lo afferrò
rapidamente. Gli apparve subito un
sorriso. «Ehi, Sawyer. Come te la
passi?»
Una risatina dall’altra parte del
ricevitore. «Stavo per farti la stessa
domanda. Ho sentito che hai battuto il
Plaza e hai chiuso il contratto con
Conway. Ottimo lavoro.»
Wolfe scosse la testa, incredulo. «Mi
hai messo una spia alle costole? Non si
è ancora asciugato l’inchiostro della
firma. Volevo chiamarti più tardi per
darti la bella notizia.»
«Non potevo aspettare. Ascolta,
volevo chiederti un favore.»
Strinse il cellulare. «Qualunque
cosa.»
«Pensi di riuscire a venire qui la
settimana prossima? Per passare qualche
giorno con noi?»
«Va tutto bene? Julietta? Gabby? Tu?»
Un’altra risata. «Calmati, stiamo tutti
benissimo. Volevamo solo dirti una
cosa. E Julietta sente la tua mancanza.
Come del resto io.»
Provò una forte emozione. «Mi
mancate anche voi. Sì, sistemo un paio
di cose e tra qualche giorno arrivo.»
«Bene. Dobbiamo tenerci aggiornati. I
messaggi e Skype non valgono come
vedersi di persona. E Gabby ha bisogno
di torturare il suo fratellone.»
Rise. «Fammi il piacere. Volete solo
un babysitter.»
«Mi hai beccato. Ho già comprato i
biglietti per la Scala quindi non pensare
di tirarti indietro.»
«Non vedo l’ora.»
«L’aereo verrà a prenderti quando
sarai pronto. Mandami un sms.»
«Sarà fatto. A presto. Dai un bacio
alla piccola.»
«Lo farò.»
La linea cadde.
A casa. Strano, aveva deciso di
stabilirsi e di fare carriera a New York,
ma nel cuore avrebbe sempre avuto
Milano. La città in cui aveva capito
cos’erano la famiglia, l’amore e il
rispetto. La città in cui gli era stata data
l’occasione di non essere più un rifiuto
della società. Non vedeva l’ora.
Il pensiero di separarsi da Gen anche
solo per qualche giorno spense un po’ la
gioia, ma cercò di non pensarci.
Il cellulare suonò di nuovo. Rispose.
«Tutto bene?»
Il suo sospiro dolce glielo fece
diventare duro all’istante. Diavolo, era
una strega. «Ho dimenticato il pane
italiano. Puoi passare tu a prenderlo
quando torni a casa?»
«Certo. Cosa c’è per cena?»
«Scampi e gamberetti.»
Gli brontolò lo stomaco. Stava
diventando viziato in fatto di cibo, e
aveva cominciato a compensare
l’incapacità di cucinare facendo le
pulizie e dei piccoli lavoretti in casa.
Aveva sigillato le crepe nella vasca,
fissato il gradino rotto all’ingresso e
imbiancato il bagno. La faccia contenta
di Gen era valsa ogni goccia di sudore,
e gli piaceva usare le mani per abbellire
casa loro.
Casa di lei.
Non si soffermò sul lapsus.
«Benissimo. Rimedio una bottiglia di
rosso da abbinarci. Ehi, hai registrato
Prendere o lasciare ieri sera?»
«Sì. Perché?»
«Così. Ho pensato volessi vedere se
finivano per venderla, quella casa. Lei
ha fatto un ottimo lavoro con la
ristrutturazione ma lui era un po’ un
imbecille. Voglio dire, lei come faceva a
sapere che avrebbero trovato la muffa
nel seminterrato?»
«Ah, io volevo vedere, eh? Perché
non ammetti che ti ho fatto
appassionare?»
Soffiò aria dal naso. «Figurarsi.»
«Sembri Nate. Se non sei interessato
posso sempre guardarlo presto e
cancellarlo prima che tu rientri.»
Maledizione. Come faceva a tirarsi
fuori, adesso? «Fai come vuoi», disse.
«Per me è assolutamente indifferente.»
Si fece un appunto di controllare su
internet se avevano caricato i nuovi
episodi.
La sua risata divertita gli fece venire
voglia di toccarla attraverso il telefono.
Di tirarle indietro i capelli. Di passare
il dito sulla curva delle sue labbra. Di
baciare le lentiggini sul naso.
«Non lo cancello. E non lo dico a
nessuno, tranquillo. Guida piano.»
«Va bene. A tra poco.»
Chiuse il cellulare e sorrise.
Un’ottima cena. Un po’ di tv.
Conversazione interessante. E un sacco
di carne nuda.
Per la prima volta nella sua esistenza,
la vita era perfetta.
Wolfe posò il gamberetto e la fissò.
«Hai davvero parlato con quello
stronzo? Dopo quello che ti ha fatto?»
Riconobbe
il
suo
sospiro
d’insofferenza.
Fortunatamente,
o
sfortunatamente, adesso erano amanti, e
non gli andava che nessun altro uomo le
si avvicinasse. Specialmente il suo ex.
«Stai
esagerando»,
disse
lei
sorseggiando il Pinot nero. «Eravamo
per strada, alla luce del sole. Sembrava
pentito e, per la prima volta, anche
sincero.»
La gelosia bruciava come whisky ma
senza la sensazione piacevole che
seguiva. Gli dava solo nausea.
Allontanò il piatto. D’un tratto gli era
passata la fame. «Non credo a una
parola di quello che dice, Gen. È un
manipolatore, un egoista e un maniaco
del controllo. Perché non mi hai
chiamato?»
Lo guardò con aria di rimprovero.
Già. La scintilla in quegli occhi azzurri
era il primo avvertimento. «Perché
contrariamente a quanto si creda, posso
cavarmela da sola. A volte me la cavo
benissimo senza un cavaliere con
l’armatura.»
Sì, era seccata. Non si era mai sentito
un salvatore. Stava solo cercando di
recuperare il fatto di non essersi accorto
di quanto fosse profondamente infelice
con David. «E se ti stesse mentendo per
farti tornare in ospedale, così può tenerti
sotto controllo? E credo che restituirti la
roba sia solo una scusa per rivederti. Te
l’avevo detto di chiedere l’ordine
restrittivo!»
Torse le labbra. Secondo segno di
collera imminente. «Ho preferito
aspettare. Ho detto a Slade di tenere la
cosa in sospeso finché si calmavano le
acque. Non volevo che se la prendesse
con te.»
«Con me? Eri preoccupata per me? Io
so badare a me stesso.»
«E io a me stessa», ringhiò. «David
ha ritirato l’accusa di aggressione e
rinunciato all’azione legale, o sbaglio?
È fuori dalla nostra vita e sta per
trasferirsi a Boston. Non c’è motivo di
agitarsi.»
«Non sono agitato.»
«Allora va tutto alla grande.»
Scese il silenzio. Si guardarono in
cagnesco, senza sapere perché l’altro
era arrabbiato e senza sapere cosa farci.
Wolfe cercò di mostrarsi calmo e
ragionevole. «Non mi piace che t’illuda
di poter tornare in ospedale. È come
farti dondolare la carota davanti per poi
portartela via.»
«Lo so. E so anche che, se tornerò, li
avrò tutti contro. Dovrò vedermela con
gli impiegati risentiti convinti che
l’abbia fatto andare via io. Niente di
male a fare un passo indietro prima di
decidere. Brian mi ha già chiamata per
confermarmi la nuova posizione di
David a Boston.»
Perché aveva l’impressione che
avesse agito alle sue spalle? Cosa gli
prendeva? Questo suo essere possessivo
era oltremodo imbarazzante. Credeva
che avrebbe parlato prima con lui,
dicendogli che cosa le sarebbe piaciuto
fare e valutando insieme le alternative.
Ma a quanto pareva non aveva bisogno
di lui per prendere decisioni. Lei andava
avanti con la sua vita.
Ma non era quello che voleva? Non
avevano una relazione stabile. E gli
amici non erano tenuti a discutere le loro
decisioni. Giusto?
«Ti manca l’ospedale?» le chiese.
Si calmò. Intrecciò le dita. Sì, le
mancava. Ce l’aveva scritto in faccia, e
d’un tratto a Wolfe dispiacque per la
vita che si era lasciata alle spalle. Era
nata per servire, e anche se Kinnections
era stata una buona occasione per
riprendere fiato, doveva tornare al suo
lavoro.
«Sì.»
Lui annuì. E che fosse dannato se la
domanda successiva non gli sfuggì dalla
bocca. «Lui ti manca?»
Spalancò gli occhi, improvvisamente
in collera. Strinse i pugni e si chinò in
avanti come se volesse strangolarlo.
Come mai tanta rabbia?
«Perché? Hai paura che pensi a lui
quando scopo con te?»
Wolfe si alzò da tavola, ribollendo
d’ira anche lui. Non parlava mai in quel
modo. Non era mai così aggressiva.
«Questa è una cosa orribile da dire»,
commentò. «Perché vuoi litigare? Io
volevo solo guardare la tv!»
Lei balzò in piedi agitando l’indice.
«E io anche! Ma odio quando mi tratti
come una stupida marmocchia che ha
sempre bisogno di protezione. E se mi
mancasse David, non sarei mai venuta a
letto con te!»
«Bene. D’accordo. Come ti pare.»
«Sei proprio un cagaminchia.»
Si girò, sconcertato. Non credeva alle
sue orecchie. «Come mi hai chiamato?»
«Cagaminchia. Sai. Uno che scassa le
palle.»
«Sì, lo so. Nate viene chiamato così
dal suo parrucchiere, ma se lo ripeti
un’altra volta te ne faccio pentire.»
Fece una finta risata. «È così che
gestisci le cose nel tuo mondo? Minacce
da bullo a quelle che ti porti a letto? E
se invece provassi a comunicare? Se
invece ammettessi di essere confuso
quanto me per questa situazione tra noi
due, di essere geloso di David, e di non
avere idea di come andare avanti?»
Aveva ragione. Ma il confine tra
l’amicizia e la relazione fissa era troppo
terrificante da superare. Non se la
sentiva di calarsi in quella situazione.
Era stato solo per troppo tempo e
sapeva che non ce l’avrebbe fatta. La
guardò con gli occhi stretti, prendendo
atto della sua posizione difensiva, e fece
appello al suo punto di forza.
Il sesso.
«A me sembra che ti piacciano le mie
minacce», ribatté. «Quando ti strappo i
vestiti e ti faccio tacere sbattendoti sul
letto finché l’unica cosa che ti esce dalla
bocca è il mio nome.»
Oh, sì. Le ardeva lo sguardo e notò i
capezzoli che s’indurivano sotto la
camicetta. Per un attimo pensò che
avrebbe ceduto. Ma l’attimo dopo Gen
irrigidì la schiena, raddrizzandosi in tutti
i suoi 153 centimetri, alzò il mento e gli
passò di fianco come una furia.
Si rifugiò in camera sbattendo la
porta.
Wolfe sbuffò. Aveva sbagliato di
nuovo. Come aveva fatto una semplice
conversazione a degenerare in una lite?
E se non fosse arrivato lui e David
l’avesse violentata? Rabbrividì al
ricordo. Avrebbe dato la vita per
assicurarsi che non accadesse. Non
voleva tenerla sotto una campana di
vetro come faceva quel coglione, ma non
sopportava che le facessero del male. E
adesso era lui a farglielo.
Si grattò la fronte e cominciò a
sparecchiare. Le avrebbe chiesto scusa.
Tra poco, dopo averle lasciato il tempo
per calmarsi. Le avrebbe spiegato le sue
ragioni, e quanto l’aggressione di David
l’aveva scosso. Si concentrò sui piatti
da mettere nella lavastoviglie, sugli
avanzi da riporre in frigo e sui bicchieri
di vino da riempire. Avrebbe bussato e
le avrebbe chiesto di fare pace. Avrebbe
provato a comunicare. Poi stanotte
avrebbe dormito sul divano per lasciarle
il tempo di...
La porta si aprì.
Gen uscì dalla camera con addosso
culotte di pizzo nere, reggiseno
coordinato e tacchi a spillo.
Porca. Miseria.
Divorò con occhi famelici i suoi
fianchi che ondeggiavano, la curva
voluttuosa delle natiche, il solco
profondo tra i seni. I capezzoli
spingevano contro il pizzo. Senza
neppure guardarlo, andò diretta in
cucina, ignorando completamente la sua
erezione istantanea, la sua lingua
penzoloni e il suo sguardo libidinoso.
«Ah, bene, vedo che hai sistemato. E
hai versato dell’altro vino. Perfetto.»
Provò a rispondere ma gli uscirono
solo dei versi da uomo delle caverne.
Lei si voltò, e Wolfe vide lo
splendido tatuaggio appena oltre il
bordo delle culotte. Le gocce di sangue
che
grondavano
dalle
spine
continuavano sotto il pizzo.
«Co-co-cosa stai facendo?» Gli uscì
una vocina sottile e acuta.
Lei prese il bicchiere, bevve un sorso
di vino e spostò il peso su una gamba
appoggiando la mano sul fianco. «Cosa
ti sembra che stia facendo?» rispose con
civetteria. «Sto usando il sesso per
chiudere la discussione.»
Batté le palpebre. «M-m-ma hai detto
che non era un buon modo di
comunicare.»
Gli fece un sorriso così sexy e
abbagliante che lo zittì del tutto. «Questo
vale per gli uomini. A loro non è
concesso usare il sesso come arma. Ma
alle donne sì. Possiamo fare pace,
adesso, e poi guardiamo Prendere o
lasciare?»
«Sì.»
Un secondo dopo l’aveva sollevata e
stesa sul tavolo di legno. Sapendo che
non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare
fino in camera da letto, prese quello che
voleva lì dove si trovava e giurò che ne
avrebbe avuto cura per tutta la vita.
La sua donna.
Non le lasciò il tempo di opporre
alcuna reazione. La baciò con foga,
strappandole le culotte e allargandole le
gambe. Le infilò un dito dentro e la sentì
bagnata, ma non poteva aspettare. Niente
preliminari stavolta. Questo era sesso
puro, fame primitiva, quindi si slacciò la
cintura, si prese in mano l’uccello, la
trascinò verso il bordo del tavolo e
glielo puntò sul sesso.
Poi staccò la bocca dalla sua e le
diede l’ordine. «Aggrappati al bordo del
tavolo e tieniti stretta.»
Lei obbedì.
La penetrò tutta con un’unica spinta.
Gen gemette. Inarcò la schiena e si
tenne stretta al tavolo come se fosse
l’unica cosa al mondo che poteva
salvarla. E lo era.
Wolfe non si trattenne. Continuò a
spingere forsennatamente nel suo sesso
bagnato, rifiutandosi di rallentare il
ritmo o di darle un attimo per
riprendersi. Lei urlò il suo nome, si
morse il labbro inferiore e venne.
Ma lui non si fermò. La sollevò
leggermente in modo che il piercing
strusciasse contro il clitoride e continuò
a spingere costringendola a un altro
orgasmo mentre lei supplicava e urlava
di piacere.
Poi lo fece di nuovo.
Il suo corpo si afflosciò sotto di lui,
inerme. Mollò la presa sul tavolo e si
arrese al misto di piacere e dolore,
abbandonandosi completamente.
Wolfe si lasciò andare, scaricandole
dentro il suo seme con alcune violente
scosse dei fianchi.
Svuotato e appagato, le baciò la
pancia, le labbra, le accarezzò i capelli
umidi. E la guardò in quei meravigliosi
occhi azzurri che lo invitavano ad
abbandonare ogni incertezza e ad amarla
senza riserve.
«Ti ho detto quanto adoro le tue
capacità comunicative?»
Lei sorrise, gli mise le braccia
intorno al collo e lo baciò.
Capitolo 22
Genevieve salì due o tre gradini alla
volta come faceva da bambina.
«Sbrigati, siamo in ritardo.»
Wolfe la seguiva a breve distanza,
scuotendo la testa divertito. «Di chi è la
colpa? Ero già vestito e pronto. Sei tu
che sei uscita dalla doccia tutta bagnata,
nuda e provocante.»
Sentì le guance calde. Incredibilmente
riusciva ancora ad arrossire. Il suo
vorace appetito sessuale e la passione
intensa per il suo corpo le avevano tolto
ogni freno e senso del pudore. Non si
era mai sentita così splendida,
nonostante le sue curve voluttuose.
Nonostante sapesse che lui usciva con
modelle pelle e ossa. All’alba dei
trent’anni, stava finalmente cominciando
ad accettare il suo corpo senza
desiderare di essere diversa.
«Ssst, potrebbero sentirti.»
Non fece caso alla risatina sexy di
Wolfe e aprì la porta. Ora che le cose
con David si erano sistemate e i sensi di
colpa erano passati, era felice di stare
con la sua famiglia. Lei era andata
avanti, David si era rassegnato. Forse
anche suo padre avrebbe smesso di
preoccuparsi per lei e di darle
suggerimenti su come rimettere le cose a
posto con David. Forse prima o poi si
sarebbe ammorbidito nei confronti di
Wolfe, anche se lei aveva intenzione di
mantenere segreta la loro relazione.
Jim MacKenzie s’illuminò e la prese
tra le braccia. «Era ora. Stavo per
mangiarmi tutti gli antipasti.»
«La mamma te l’avrebbe impedito.
Scommetto che ha tenuto dei peperoni
solo per me.»
«Infatti!» gridò la madre dalla cucina.
Il sorriso di Jim svanì appena vide
Wolfe alle spalle della figlia. S’irrigidì
e gli fece un cenno. «Wolfe.»
«Jim, come stai? Grazie per avermi
invitato.»
«Prego. È stata Maria a invitarti,
comunque.»
Gen fece una smorfia. Uff. Suo padre
era uno degli uomini più gentili che
conosceva. L’assistenza agli alcolisti era
diventato il suo lavoro e, pur avendo a
che fare con gente di ogni tipo, era raro
che giudicasse qualcuno. Con Wolfe
invece sembrava un’altra persona. Prese
per mano il suo amico e lo condusse in
casa con lei. Una dimostrazione di unità.
Un silenzioso ‘piantala’ a suo padre.
Jim s’accigliò.
«Sono tutti qui?» chiese dirigendosi
verso il soggiorno. Gli antipasti erano
pronti insieme a una bottiglia di vino
bianco e una di rosso. La nipote
dodicenne, Taylor, scriveva sms al
cellulare ascoltando musica nelle cuffie.
Gen le si avvicinò e le agitò una mano
davanti agli occhi. L’angelo biondo
ormai adolescente sorrise, si tolse le
cuffie e abbracciò la zia. «Ciao zia Gen!
Ciao Wolfe. Zia, non ci crederai, sono
sicura che appena te lo dico svieni.»
Fece la faccia seria. «Dimmi.»
Nei luminosi occhi azzurri di Taylor
brillava un segreto. Oddio. Conosceva
bene quello sguardo. Lei e Izzy ne
avevano fatto un’arte. «Vado a Parigi.»
Wow. «Stai scherzando? Tua madre ti
lascia andare così lontano? A fare?»
«C’è un programma speciale per
studenti stranieri a cui voglio iscrivermi.
Passo un mese in famiglia a Parigi e
imparo la lingua. Ci puoi credere?»
Gen si guardò intorno in cerca di
quegli scriteriati di suo fratello e della
cognata. Era una cosa impensabile.
«Quando vai?»
«Quando avrò sedici anni.»
Un sospiro di sollievo. Fiu, per poco
non le veniva un colpo. «Quindi la mia
splendida nipote mi sta dicendo con soli
quattro anni di anticipo che andrà a
Parigi a studiare il francese?»
«Sì!»
«Non ci posso credere! È fantastico!»
Saltarono insieme su e giù, stringendosi
le mani e facendo piccoli urletti, mentre
Wolfe rideva accanto a loro. «Vengo
sicuramente a trovarti.»
«Assolutamente.»
Lance e Gina entrarono dal giardino
sul retro e si lanciarono in una
discussione sui viaggi all’estero e sul
fatto che Maria non gli aveva mai
permesso di andare oltre la porta dei
vicini.
«Non capisco questi ragazzi di oggi»,
sospirò la madre posando davanti a loro
un vassoio di bruschette. Wolfe e Jim
fecero per prenderne una ma Wolfe tirò
indietro la mano, lasciando che si
servisse prima lui. «Cosa c’è di male a
stare a casa? Avranno tutto il tempo di
viaggiare, dopo. Siete cresciuti tutti
bene.»
Lance si mise comodo sulla sedia,
stendendo le gambe. «Gina potrebbe non
essere d’accordo, mamma. Dice che ho
dei problemi.»
Sia Gina che la madre gli diedero una
pacca sul braccio. Taylor rise.
«Alexa e Nick dove sono?» domandò
Gen.
«Lily ha preso un virus quindi restano
a casa stasera. Gli porterò del brodo di
pollo domani.»
Gen sorrise. Amava la convinzione
che il brodo di pollo della madre
guarisse da tutti i mali, morbi, malanni e
infelicità. Chiacchierarono del più e del
meno, scherzando e bevendo il vino. La
madre annunciò che la cena era pronta.
Mentre tutti si alzavano e si trasferivano
in sala da pranzo, il rumore di una porta
che sbatteva echeggiò in tutta la casa.
Era arrivata Izzy.
Gen la guardò. La sorella aveva
smesso da tempo di partecipare alle
cene in famiglia. Ripensò a quella
fatidica serata in cui si era presentata
completamente fatta e aveva cominciato
a schernire la sua cosiddetta famiglia
felice, lanciando accuse a tutti. E
rabbrividì.
Era stato come rivivere l’incubo della
caduta del padre nella spirale
dell’alcolismo. Quando Jim l’aveva
sbattuta fuori casa, Izzy aveva giurato di
non metterci più piede.
Non si drogava più da un pezzo,
ormai, ma c’era qualcos’altro di
diverso, in lei. In genere arguzia e
sarcasmo non l’abbandonavano un
attimo. Oggi appariva... riservata.
Turbata. Portava i capelli neri a strisce
viola raccolti e si era truccata poco,
lasciando che si vedessero le lentiggini.
Le aveva come quelle di Gen, e anche
gli occhi erano azzurri come i suoi, ma
ora vi si leggeva una stanchezza che non
c’era mai stata, prima.
Erano tutti immobili tra la sorpresa e
il dubbio che il suo contegno fosse solo
un miraggio.
Wolfe ruppe il silenzio e fece un
passo avanti. «Izzy, è un piacere vederti.
Spero che non volessi gli antipasti. Li
abbiamo spazzati via tutti.»
Era sollievo quello che le passò sul
volto? Un mezzo sorriso le curvò le
labbra, che non erano rosso sangue come
al solito ma di un rosa naturale. Portava
dei jeans e una semplice maglietta nera
che lasciava intravedere due dei suoi
tatuaggi. Scarpe da ginnastica al posto
dei soliti tacchi a spillo in acciaio.
«Tanto Gen si sarebbe comunque
accaparrata tutti i peperoni, come ha
sempre fatto.»
In un impeto di gioia, senza
preoccuparsi di essere patetica o
d’infastidire la sorella, Gen le si buttò
tra le braccia e la strinse forte. «Sono
felicissima che tu sia qui!»
Izzy rise e ricambiò l’abbraccio. Era
diventata rossa. «Anch’io.»
Si
girarono
entrambe
quando
sentirono la voce di Maria rotta
dall’emozione. «Le mie belle figlie sono
a cena con noi. Oggi è un giorno
speciale.»
Jim si schiarì la gola. «Sei arrivata
giusto in tempo, tesoro. Mettiamoci a
tavola.»
La cena fu perfetta. Izzy non parlò
molto ma sorrise spesso. Non fece
nessuna delle sue battute pungenti. Gen
notò che si guardava intorno come per
analizzare l’umore di ognuno. Aveva
forse qualche notizia da dare? Meglio
lasciarle i suoi tempi e aspettare che si
sentisse a suo agio. Il desiderio di
riallacciare un vero rapporto con lei era
quasi doloroso, tanto era intenso. Tutte
quelle notti sveglie a ridere e scambiarsi
segreti. La scuola, quando Izzy la
proteggeva dai bulli che le prendevano
in giro per la loro somiglianza. I pianti
per la fuga del padre, e le mani unite
sotto il tavolo quando i genitori
litigavano. I ricordi erano così tanti che
non avrebbe mai superato il dolore di
averla persa. Era come aver perduto una
parte di sé.
Di conseguenza si godette la presenza
della sorella, e il calore avvolgente
della sua famiglia. Wolfe era a suo agio
con tutti tranne che con suo padre, e si
lasciava punzecchiare bonariamente.
Dio, quanto lo amava.
Gen chinò la testa sul piatto. Le
veniva così naturale ammetterlo. Senza
drammi. Solo la chiara consapevolezza
che tutte le strade l’avevano portata a
lui. La sofferenza, gli sbagli, i rimpianti
del passato non significavano nulla
adesso. Anzi, l’averlo trovato rendeva il
presente era ancora più dolce. Prima
non era mai stato il momento giusto.
Adesso sì invece. Adesso avevano
una possibilità. Il suo piano era
semplice. Seguire il consiglio di Arilyn,
lasciargli fare quello che si sentiva, e
vivere alla giornata. Un giorno avrebbe
potuto accorgersi che l’amava anche lui.
Che non era così terribile stare con
qualcuno e che poteva finalmente fidarsi
a raccontarle il suo passato.
«Sembri proprio felice.»
Gen alzò la testa e guardò la madre.
Quel commento e quello sguardo
complice le diedero un’approvazione
che non avrebbe osato chiedere. «Lo
sono», disse.
«David non ti tormenta più?»
domandò Gina, preoccupata. «Quella
storia dell’ordine restrittivo è stata
proprio brutta.»
Il padre mormorò qualcosa tra i denti.
Wolfe la guardò di traverso.
«Mi ha riportato tutta la mia roba»,
disse. «Ha deciso di accettare un lavoro
a Boston, quindi presto si trasferirà.»
«E quindi tu torni in ospedale?»
chiese Lance.
Evitò d’incrociare lo sguardo di
Wolfe, che la stava fissando. «Può
darsi.»
«Perché te lo chiedo, poi?» continuò
Lance. «Non puoi certo mollare
l’internato adesso. L’hai fatto per non
vedere David, ma ora che il problema
non sussiste, non capisco l’esitazione.»
La guardarono tutti, in attesa della
risposta. Ma lei ancora non l’aveva. Le
sarebbe piaciuto tornare, ma stavolta
non voleva avere ostacoli. Era pronta a
riprendere quei turni massacranti che le
lasciavano poco spazio per la vita
privata, e ad affrontare il risentimento di
tutti in ospedale? Vedeva le cose con un
altro occhio adesso. Forse a causa dei
sentimenti che provava per Wolfe?
Finalmente parlò. «Mi serve ancora un
po’ di tempo, Lance. Se torno, so cosa
mi aspetta. Amo la medicina ma è un
lavoro snervante, che mi toglie tutte le
energie.»
Lui scosse la testa. «Più aspetti più
sarà difficile. Io direi di riprendere
subito. Lunedì. Tanto non è che hai più
una vita o un fidanzato.»
Gina e Maria restarono a bocca
aperta. «Lancelot, non parlare così a tua
sorella!»
«Non intendevo in quel senso,
mamma. Volevo solo dire che non c’è
nulla che le impedisca di tornare al suo
lavoro. Scusa, Gen.»
Lei fece un gesto di noncuranza. «So
cosa volevi dire. Deciderò presto. Ma
apprezzerei se non mi metteste troppa
pressione.»
Lance strinse le labbra e rimase in
silenzio. Jim fulminò Wolfe con lo
sguardo
come
se
tutta
quella
conversazione fosse colpa sua. E Izzy
chinò la testa sul piatto guardandolo
come se contenesse tutte le risposte.
Che diavolo stava succedendo?
Izzy non annunciò alcuna notizia,
quindi Gen ci provò. «Izzy, vieni su con
me? A scambiare due parole?»
Gli altri la assecondarono, chiedendo
loro di allontanarsi perché dovevano
sparecchiare. Salirono al piano di sopra
e Gen andò nella loro stanza da letto.
Odorava un po’ di stantio ma era rimasta
più o meno come prima. Pareti rosa.
Mobilio bianco e scaffali pieni di
soprammobili. Lo specchio con adesivi,
cartoline e vecchie fotografie ancora
attaccati. Al posto dei due letti singoli
c’era un unico letto matrimoniale per gli
ospiti, ma come si sedette sul materasso
i ricordi degli anni passati insieme alla
sorella l’assalirono.
Izzy si sedette accanto a lei. «Chissà
se quel numero di Playboy è ancora
nell’armadio»,
osservò.
«Mister
Settembre.»
Gen rise. «Avevo così paura che la
mamma lo trovasse! Guardiamo?»
Sulla bocca della sorella riapparve il
vecchio ghigno birichino. «Certo.» Aprì
l’anta dell’armadio a muro, avvicinò una
sedia e ci montò sopra per togliere una
delle piastrelle in alto. Quando avevano
scoperto che era rotta, avevano deciso
di usare quello come nascondiglio. Izzy
scese dalla sedia con una vecchia rivista
in mano. «Trovato!»
«Non ci credo. Vediamo.»
Si sedettero vicine sul letto e
sfogliarono
le
pagine.
Risero
commentando i loro preferiti e
ripensando ai vecchi tempi. «Ogni volta
che la mamma ci costringeva ad andare
a messa pensavo e questa rivista per
vendicarmi», disse Izzy. «A proposito
del senso di colpa cattolico.»
Gen le tirò la coda. «Io di solito
confessavo i peccati a padre Jonas ma
quando io e Tim ci siamo baciati in
macchina e mi ha toccato le tette non ho
voluto dirglielo. Ricordo di averlo
confessato a Dio di notte sperando che
fosse sufficiente.»
Izzy rise. «Io non ho mai confessato
niente di cui non fossi davvero pentita»,
disse. «Forse per questo non mi sono
mai confessata.»
Si guardarono e scoppiarono a ridere.
Gen sentì un nodo in gola per
l’emozione. «Mi sei mancata», disse a
bassa voce.
La sorella annuì. Avvicinò lentamente
la mano verso la sua. Gen trattenne il
respiro, sperando di non sognare. «Mi
sei mancata anche tu. Io... io non voglio
parlare del passato, adesso. O del
casino che è successo. Sono venuta
stasera perché mi sono resa conto che
anche se le cose tra noi non andavano
bene, quando avevi bisogno di me io non
c’ero. Dopo David. Pensavo avessi una
relazione perfetta, come il resto della
tua vita. Non avevo capito che cercava
di manipolarti.»
«Sì, all’inizio non l’avevo capito
nemmeno io. E quando ci sono arrivata
non l’ho detto a nessuno. È successo
piano piano, e poi alla fine mi sembrava
troppo tardi. Eravamo fidanzati, gli
volevano tutti bene, e non volevo
deludere nessuno.»
Izzy guardò le loro mani unite. «Buffo,
vero? Tu hai sempre cercato di
accontentare tutti. Io ho sempre fatto il
contrario così non avrei deluso alcuna
aspettativa.
Penso
che
abbiamo
sbagliato entrambe.»
Sorrise, trattenendo le lacrime. «Sì,
credo anch’io.»
«Vai a letto con Wolfe.»
Gen si girò di scatto. «Co-come lo
sai?»
Izzy sorrise. «Lo capisco. È un bravo
ragazzo. Ha cercato di aiutarmi a più
riprese ma odiavo anche lui. Sono stata
male per molto tempo, Gen. Non voglio
più stare così.»
«Allora non farlo.»
La gemella le strinse la mano. «Non
lo farò. Wolfe ti rende felice?»
«Siamo solo amici di letto. Almeno,
questo è quello che pensa lui.»
«Tu sei innamorata.»
Chiuse gli occhi e si arrese al piacere
di ammetterlo a voce alta, di poterlo
dire a qualcuno. «Sì. Non so cosa
succederà ma io lo amo.»
Izzy fece un sospiro. «È complicato,
eh? È chiaro che è pazzo di te. Lo è
sempre stato. Ma ha sofferto molto e
anche a te qualcuno ha già spezzato il
cuore.»
Cercò di non farsi prendere dalla
tristezza. «Lo so. Non insisto, infatti.
Magari troveremo la nostra strada.»
«Magari.»
«Perché lo odiavi?»
La sorella fece un debole sorriso.
Aveva un’espressione sofferente, ma
Gen non fece domande. Le tenne soltanto
la mano. «Forse perché si era salvato.
Ho fatto cose di cui non vado
orgogliosa. Lui ha trovato un modo per
tirarsi fuori. Io invece sembro sempre in
cerca di guai.»
«Sono qui se vuoi parlarne. Non ti
giudicherò. Non più.»
Izzy la guardò dritto negli occhi. Si
scambiarono un cenno d’intesa. «Grazie.
Vorrei che...» S’interruppe, inspirò
profondamente e ci riprovò. «Vorrei che
tornassimo ad avere il rapporto di
prima. Sono stufa di essere arrabbiata.
Stufa di fare del male a te e alle persone
a cui voglio bene. Vorrei indietro la mia
gemella.»
Stavolta non batté le palpebre per
fermare le lacrime. Le lasciò scorrere.
«Anch’io.»
Gen la abbracciò, stringendola forte,
e per la prima volta dopo tanti anni, Izzy
la strinse con la stessa forza.
Wolfe sorseggiò la Sambuca, gustando
l’aroma ardente dell’anice che gli
bruciava in gola. Dalla cucina giungeva
il chiacchiericcio delle voci, ma Maria
l’aveva cacciato fuori, quindi si
aggirava sulla veranda, godendosi la
serata e la vista del prato verde davanti
a sé. C’era un salice piangente con
accanto
un’altalena
arrugginita.
Immaginò l’infanzia di Gen, cresciuta lì,
circondata da amici e da una famiglia
che la amava. Avevano avuto problemi
anche loro, prima col padre, poi con
Izzy, ma li avevano risolti.
Il forziere in cui aveva rinchiuso il
suo segreto traballò dentro di lui. Poi
smise.
«Wolfe.»
Si voltò. Jim MacKenzie chiuse con
decisione la porta scorrevole. Oh-oh.
Aveva
un’espressione
che
non
prometteva niente di buono.
«Jim. Bella serata, eh?»
Lui non rispose. Si limitò a guardarlo
con gli occhi stretti in una fessura.
Cos’aveva fatto per renderlo così
diffidente? Lo accettavano tutti in
famiglia, tranne lui.
«Forse no», borbottò Wolfe bevendo
un altro sorso e chiedendosi se non fosse
il caso di rientrare.
«Voglio parlarti di Genevieve.»
Ecco. Il brutto presentimento era
giusto. Wolfe raddrizzò le spalle, lo
guardò e annuì. «Me lo aspettavo. Non
so se ho fatto qualcosa per offenderla o
se ho parlato a sproposito, ma se è così
mi scuso.»
Gli occhi si addolcirono leggermente.
«No, non hai fatto niente. Sei sempre
stato corretto a casa mia. Gentile con la
mia famiglia. Da un certo punto di vista
mi dispiace di averti sempre trattato con
freddezza. Speravo di non arrivare a
dover fare questa conversazione, ma non
ho scelta. Gen si sta attaccando troppo a
te. So che siete amici da tanto tempo, e
vi ho sempre tenuto d’occhio, ma non ho
mai pensato ci fosse un problema.
Finché non ha lasciato David.»
Wolfe aumentò la stretta sul bicchiere
che aveva in mano. «David le faceva del
male. Spero che lei se ne renda conto.
So che l’ha sempre difeso, ma è un
pericolo per sua figlia e giuro che non
gli permetterò più di farla soffrire.»
Jim gli puntò l’indice contro. «Vedi?
Sei troppo protettivo. Sai quante volte vi
siete guardati durante la cena? Mia figlia
scoppia di felicità e ha appena rotto un
fidanzamento. Ti vede sotto un’altra
luce, e non posso permetterlo.»
Provò vergogna. Era così indegno di
far parte della sua vita che suo padre
non ne sopportava neanche l’idea? Una
tempesta di emozioni gli infuriava
dentro, ma cercò di mantenere il volto
impassibile. «Sono i piercing? Il
tatuaggio? Cos’è che la preoccupa
tanto?»
Jim scosse la testa. «È ovvio che non
mi piacciono, ma non sono quelli. Vedi,
Wolfe, tu sei come me. Le persone come
noi si riconoscono tra loro. Non posso
lasciare che Gen s’innamori di un uomo
che finirà per rovinarla.»
Rimase di stucco. Rispettava Jim
MacKenzie. Aveva abbandonato la
famiglia per l’alcol ma era riuscito a
uscirne e ora aiutava gli altri. Si era
fatto perdonare dai suoi cari. «Non
capisco. Lei è un buon marito, un buon
padre. Ha fatto ammenda dei suoi
errori.»
«Sono un alcolista», disse Jim con gli
occhi che fiammeggiavano. «Sono
sempre stato perseguitato dai demoni.
Pensavo che Maria potesse salvarmi, e
per un po’ ci è riuscita, ma poi mi hanno
trovato e mi hanno trascinato nel
baratro. Ho rovinato tutto quello che
avevo di buono. Mia moglie. I miei figli.
Ho dato loro dolore e sofferenza, e so
che quei demoni sono sempre lì in
attesa, pronti ad approfittare di un mio
momento di debolezza. Sì, alla fine ho
vinto io. Ho cercato aiuto, sono andato
dagli Alcolisti Anonimi, ho dedicato la
vita ad aiutare gli altri e ad assicurarmi
che i miei cari non soffrissero più. Sono
stato fortunato. Mi hanno perdonato. Ma
quando ti guardo, vedo gli stessi demoni
nei tuoi occhi. Tu cerchi di scappare, ma
ti prenderanno, e trascinerai anche
Genevieve nel baratro insieme a te. Non
posso permetterlo. Non di nuovo. Ne ha
passate troppe e merita una bella vita.
Una carriera da chirurgo e non un
compagno emotivamente distrutto.»
Quelle parole gli s’impressero a
fuoco
nell’anima.
Emotivamente
distrutto. Wolfe sapeva che gli
sarebbero rimaste per sempre come una
cicatrice. Jim lo vedeva ogni volta che
lo guardava. Come se sapesse quello
che gli era successo quella notte di tanto
tempo fa.
Gli anni trascorsi a ritrovare se
stesso, circondato dal sostegno di
Sawyer e Julietta, svanirono in una
nuvola di fumo. D’un tratto era di nuovo
al punto di partenza. In mezzo alla
strada, solo, senza soldi, vuoto. Col
desiderio di morire ma condannato a
vivere.
Jim aveva ragione.
Gen meritava di più.
La sua voce risuonò ferma e decisa.
«Ha ragione, certo. Capisco.»
Jim lo guardò con sospetto. Lo
osservò a lungo, poi annuì.
Si aprì la porta.
Izzy e Gen uscirono a braccetto. «Che
ci fate qui fuori?» domandò Gen.
Jim rise. «Due chiacchiere tra uomini.
È pronto il dolce?»
«Quasi.» Gen sorrise a Wolfe, gli
occhi pieni di gioia per aver ritrovato la
sorella. Lei era luce, era felicità, era
vita. Era... tutto.
Si sforzò di rispondere al sorriso.
«Bene. È pieno di zanzare stasera. Ci
vediamo dentro.»
Rientrò
in
casa,
con
la
consapevolezza che era di nuovo
cambiato tutto.
Capitolo 23
«Vado in Italia. Starò via un po’.»
Gen lo osservò con attenzione. Era
successo qualcosa. Non era più
tranquillo e di buon umore come prima.
Era freddo, riservato, educato, sorrideva
quando bisognava sorridere ed era
completamente inebetito.
«Oh. A trovare Sawyer e Julietta?»
«Sì. Me l’ha chiesto lui. Mi ero
dimenticato di dirtelo. Parto domani o
dopo.»
Cercò di non mostrarsi sorpresa.
Perché quello strano tono? Come se
stesse recitando una parte? Ripercorse
le ultime ventiquattr’ore. Il sesso era
stato incredibile. La cena dai suoi era
andata bene, aveva scherzato, era
rilassato e con lei si era comportato
normalmente. Poi l’aveva trovato in
veranda con suo padre e...
Suo padre.
Certo. Durante il dolce non aveva
aperto bocca. Si era comportato come un
automa. Era successo qualcosa tra loro e
non era niente di buono. Si sentì a
disagio. Avrebbe ucciso suo padre per
essersi immischiato.
Mantenne la calma. «È fantastico. So
quanto ti mancano.»
«Infatti.»
«Di cosa avete parlato tu e mio
padre?»
Strinse le mani al volante, con
evidente nervosismo. Bingo.
«Di niente.»
«Balle.»
Aggrottò le sopracciglia. Arrivarono
a Verily e percorsero lentamente Main
Street. «Niente di speciale. Football.»
«Mio padre non parla mai di
football.»
«Baseball
allora.
Dei
Mets,
ovviamente.»
«È stato sgradevole, vero?»
Non rispose. Lei fece un respiro
profondo, decisa ad affrontare subito il
problema.
Finché vide casa sua.
Wolfe
si
fermò
accanto
al
marciapiede. La casetta gialla con le
persiane
bianche
appariva
improvvisamente minacciosa e maligna.
Sulla facciata, c’era la parola
‘PUTTANA’ tracciata a grandi lettere
con lo spray rosso.
Wolfe spense il motore e imprecò tra i
denti. Scese dall’auto e controllò se ci
fosse il responsabile ancora nei paraggi.
Scese anche lei, scioccata dalla
volgarità e dalla crudeltà di quella
scritta. Perché? Perché qualcuno
avrebbe dovuto fare un gesto simile?
David.
Le aveva riportato la roba. Stava
lasciando l’ospedale, o così sosteneva.
Era forse un altro modo di controllarla e
distruggerla psicologicamente?
«Stai qui. Controllo la casa.»
Lo guardò fare il giro dell’abitazione
e sparire all’interno. Uscì dopo un po’
col cellulare in mano e digitò i tre
numeri. «Non vedo nessuno. Chiamo la
polizia. Andrà tutto bene.»
Non sapeva se essere più spaventata
o offesa da quell’atto di vandalismo.
Aveva fatto in modo che non si sentisse
più al sicuro. Come osava? Questo tipo
di umiliazioni portava la sua firma. Una
vigliaccata. Tipica dei manipolatori.
Strinse i pugni scoppiando dalla voglia
di rivalsa.
Nel giro di pochi minuti le sirene
della polizia ruppero il silenzio,
invadendo la serenità del paese con le
luci rosse e blu che lampeggiavano.
La volante si fermò accanto a loro e
scese l’agente Stone Petty. Aveva la
divisa leggermente stropicciata ma
sprigionava l’energia del maschio
dominante che ricordava a tutti che era
lui a comandare e si faceva come diceva
lui. Avanzò verso di loro osservando la
scena col suo sguardo penetrante.
«Signorina MacKenzie. Wolfe. Avete
chiamato voi?»
Lei piegò il collo all’indietro, molto
all’indietro, per guardarlo negli occhi.
«Sì.»
«Siete appena tornati?» domandò
indicando la casa con un cenno della
testa.
«Siamo andati a cena dai genitori di
Gen. Appena arrivati qui abbiamo
trovato questo. Ho guardato in giro e
controllato dentro ma non ho trovato
niente. Poi ho chiamato il 911.»
Strinse le labbra con evidente
disapprovazione. «Mai entrare in casa.
Bisogna chiamare subito, perché non si
può sapere cosa si trova.»
Si sentì sbattere una portiera. L’agente
Devine li raggiunse. Aveva i capelli
leggermente scompigliati e la divisa
stirata. Li salutò con un’occhiata
amichevole e si rivolse a Petty.
«L’ex?»
«Può darsi.» Petty si girò verso Gen.
«Ha sentito il signor Riscetti di
recente?»
Lei annuì. «Mi ha fermata su Main
Street. Voleva parlarmi. Ha detto che si
sarebbe trasferito a Boston e che dovrei
tornare in ospedale. Si è scusato per il
suo comportamento, ma gli ho detto che
non l’avrei mai perdonato. Sembrava
dispiaciuto. Mi ha riportato la mia roba
questo fine settimana.»
Petty annuì, prendendo qualche
appunto. «Ha detto niente di Wolfe? L’ha
minacciata di nuovo o insultata?»
«Ha detto che Wolfe è un imbecille e
che io sono migliore di lui.»
Wolfe scosse la testa. «Sono io
l’imbecille, eh? Il vero imbecille è lui.
E se voialtri non vi date una mossa, lo
farò io a modo mio.»
L’agente Petty alzò un sopracciglio.
«Fingo di non aver sentito. Restate qui,
per favore. Facciamo una perlustrazione,
poi raccoglieremo altre informazioni.»
Wolfe fremeva d’impazienza ma
annuì. L’agente Devine fece loro un
sorriso solidale e si mise al lavoro col
collega. Quelle lettere rosse le facevano
rivoltare
le
budella.
Puttana.
Cos’avrebbero pensato i vicini? Doveva
toglierla subito.
«La cancelliamo», disse Wolfe
leggendole nel pensiero. «Non si
avvicinerà, Gen. Non finché ci sono qui
io.»
Pensò che lui stava per partire e
sarebbe rimasta in questa casa da sola.
Niente panico. Se avesse avuto paura
poteva andare da Kate. O da Arilyn. O
dai suoi. David non avrebbe più deciso
il corso della sua vita.
Aguzzò la vista verso la figura esile
ed eterea che veniva con passo leggero
verso di loro. Un fantasma?
«Stai bene? Cos’è successo? Ho
sentito le sirene ma non ero sicura
fossero per te. Gen? Perché non parli?»
Quasi rise alla vista di Arilyn in
camicia da notte bianca di cotone. Piedi
nudi, capelli sciolti, sembrava spuntata
da un’altra epoca. Ma non era un
fantasma. Le braccia che la strinsero con
forza, come per assicurarsi che fosse
tutta intera, erano reali.
«Che ci fai qui? Sto bene. Siamo
appena tornati da casa dei miei e
abbiamo trovato questo.»
Gli
occhi
verdi
dell’amica
fiammeggiavano. «Sono qui da Kate a
fare compagnia a Robert. Loro sono in
città a una cena di lavoro. Ho sentito le
sirene.» Guardò la scritta e strinse le
labbra. «Adesso basta. Il tuo ex ha
proprio passato il segno. Me ne
occuperò io.»
Era così raro vedere Arilyn
arrabbiata. Gen rise, già di un umore
migliore per l’atteggiamento protettivo
da mamma orsa della sua amica.
«Mettiti in coda», mormorò Wolfe. «È
un uomo morto.»
«Gli agenti sono qui? Ci hanno messo
ancora un’eternità ad arrivare? Spero
sia venuto qualcuno più qualificato di
quello Stone Petty. Non mi sembra che
ci capisca molto.»
«Signorina Meadows? Che piacere
rivederla. O forse no.»
Arilyn si voltò e lo guardò di
traverso. Il poliziotto torreggiava su di
lei, nonostante anche lei fosse altissima.
Ma non sembrava farle paura. Fece un
passo avanti, indignata. «Ci sono prove
sufficienti adesso per rinchiudere quello
psicopatico?» lo sfidò, nonostante la
camicia da notte e i piedi nudi. «O avete
bisogno della scientifica per fare i
rilievi?»
«Una parolaccia con lo spray non è
sufficiente a giustificare questo tipo di
indagini, signorina Meadows», rispose
l’agente. «È un gesto immaturo,
oltraggioso, che richiama attenzione. Ma
non è una minaccia di morte.»
Arilyn torse le labbra. «Fantastico.
Quindi David deve minacciare di
ucciderla perché voi facciate il vostro
lavoro? Avete intenzione di fare
qualcosa o starete con le mani in mano
ad aspettare che sia in serio pericolo?»
L’agente Petty si chinò verso di lei e
le ringhiò praticamente in faccia. «Se
non fossi interrotto ogni volta da vicini
ficcanaso che pensano di avere tutte le
risposte, forse potrei usare il tempo per
indagare invece di dover difendere il
mio lavoro.»
«Io non ficco il naso», protestò. «E
forse ci serve un altro agente per avere
la certezza che le indagini siano
condotte come si deve.»
Gen fece un verso che somigliava a un
pigolio. Wolfe non aprì bocca. Devine
sembrava affascinato.
Petty strinse la mascella. «A lei serve
qualcuno che la metta in riga e la tenga
fuori dai guai. E dal momento che
nessuno si offrirebbe volontario, forse
dovrò farlo io. Che ne dice di una notte
in cella per aver interferito col lavoro
della polizia?»
«Ci deve solo provare. Prima la
denuncio poi le faccio causa.»
Fece una risata maligna. «Prego, si
accomodi. Non vedo l’ora.»
Lei restò a bocca aperta. «Lei non mi
piace!»
«La cosa è reciproca.» Abbassò la
voce. «Adesso faccia la brava e si tolga
dai piedi così posso finire qui e andare
a prendermi qualche ciambellina.»
Arilyn fece un passo indietro e
tacque.
Il secondo round l’aveva vinto
l’agente Petty.
Il rumore di un bastone che picchiava
sul marciapiede e la luce sulla porta
della vicina furono un segnale
sufficientemente chiaro. La serata stava
per peggiorare.
La signora Blackfire si avvicinò coi
suoi occhietti tondi che sbirciavano
dalle lenti spesse. Portava la retina ai
capelli, le pantofole e un vestito da casa
rosa sbiadito. Guardò la scritta sulla
facciata della casa, gli agenti, e Arilyn
in camicia da notte.
«Cosa succede qui?» sbottò. «Questo
è il mio quartiere e sono una
contribuente. Pretendo di sapere chi è
stato.»
«Altri contribuenti», mormorò Petty
sottovoce. «Perché sono venuto a
Verily?»
«È una faccenda di sesso?» domandò
l’anziana donna. «L’ho visto a 20/20.
Questa donna gestisce un bordello?»
Gen spalancò gli occhi. «No! Io sono
la vittima e non ho fatto niente di male.
Ho subito un atto di vandalismo.»
Intervenne l’agente Devine. «Signora,
lei abita accanto alla signorina
MacKenzie. Ha visto o sentito
qualcosa?»
La signora Blackfire sbuffò. «No, mi
sono addormentata presto, stasera, con
la tv accesa. Mi hanno svegliata le
vostre sirene.»
Lui annotò qualcosa. «Il suo nome,
per favore.»
«Signora Joan Blackfire. Chi farebbe
mai una cosa del genere?» Puntò lo
sguardo su Wolfe. «Tu! Hai degli amici
teppisti in cerca di guai?»
Gen pensò che avrebbe perso la
pazienza, invece sembrò quasi divertito.
«No, i miei amici non farebbero cose
simili. È quel folle del suo ex.»
«Questo non lo sappiamo», precisò
Petty.
«Magari se faceste le indagini lo
scoprireste», disse Arilyn.
Petty trattenne
un’imprecazione.
Arilyn lo guardò storto. L’agente Devine
si schiarì la gola. «Non ci sono segni
d’intrusione quindi il danno è solo
all’esterno. Oltre al signor Riscetti, c’è
qualcun altro di cui potrebbe sospettare?
Amiche con cui ha litigato? Donne
gelose del signor Riscetti?»
«No», rispose Gen. «Sono in tanti in
ospedale ad avercela con me, ma non ho
contatti con nessuno da settimane. Non
ho litigato con nessuno. L’unica persona
a cui mi viene da pensare è David.»
L’agente Devine annuì e le porse un
biglietto da visita. «È una ditta che
ripulisce velocemente i muri. Dovrebbe
pagare la sua assicurazione, a parte la
franchigia.»
Prese il biglietto fra le dita tremanti.
«Grazie. Ci farete sapere dopo aver
parlato con lui?»
«Sì. Gli chiederemo dove si trovava,
indagheremo un po’ più a fondo, e
vediamo cosa salta fuori. Interrogherò
anche gli altri vicini, in caso qualcuno
avesse visto qualcosa. Purtroppo, senza
testimoni, potremmo non risalire al
responsabile.»
Arilyn sbuffò.
Petty la fulminò con lo sguardo.
«Grazie per l’aiuto», disse Wolfe.
«Avete i nostri numeri di cellulare?»
«Siamo a posto.»
La signora Blackfire alzò la voce.
«Agenti, visto che siete qui, potreste per
favore guadare quell’albero?» Indicò
col dito ossuto la graziosa quercia
leggermente china da un lato. «È malato
e sta per cadere nella mia proprietà.
Non potete dirle di abbatterlo?»
Gen chiuse gli occhi. Tutta quella
situazione era così ridicola che quasi le
sfuggì una risata. L’albero della
discordia frusciava leggermente, come
se ridesse anche lui di quella bizzarra
vecchietta.
L’agente Petty fece un sospiro
impaziente.
«Deve
chiamare
la
compagnia
assicurativa,
signora
Blackfire. O il servizio che si occupa
dell’abbattimento degli alberi. Noi non
possiamo aiutarla.»
Strinse gli occhi. «Non fate molto per
i contribuenti, vero?»
Stone Petty serrò la mascella e si
avviò a grandi passi verso la volante.
Devine sorrise e lo seguì.
La signora Blackfire finalmente tornò
a casa. Arilyn strinse la mano a Gen.
«Dormi da me stanotte.»
«No. La porto a casa mia.»
Arilyn restò a bocca aperta. Era una
dichiarazione
che
andava
oltre
l’amicizia, sconfinando nel territorio
degli innamorati. Gen stava per
acconsentire, ma non voleva permettere
a David di cacciarla fuori di casa
un’altra volta. «No. Resto qui. Starò
bene.»
Wolfe strinse i denti. «Non credo...»
«Non vincerà lui», lo interruppe,
furente. «È un vigliacco e mi rifiuto di
lasciare casa mia.»
Imprecò sottovoce, poi annuì. «Va
bene. Restiamo qui.»
Arilyn seguì con interesse la
conversazione. «Fammi sapere se ti
serve qualcosa», disse infine.
«Lo farò.»
Si salutarono con un abbraccio e
Arilyn tornò a casa di Kate. Gen rientrò
a casa sua. Wolfe la seguì.
Si guardarono in silenzio per un po’.
«Non voglio più scappare», disse infine.
«Sì. Lo so. È solo che non mi fido di
lui.»
Posò il biglietto da visita che le
aveva dato l’agente Devine e si sfregò le
tempie. «Non voglio che ti preoccupi
quando sei in Italia. Farò venire qui
Arilyn, o mia sorella.»
«Ho avuto un’idea migliore.»
«Cioè?»
«Vieni in Italia con me.»
Gen batté le palpebre. Era ammattito?
Non poteva andare in Italia. Era troppo
occupata. Il lavoro, la famiglia, gli
amici, il lavoro. «Non posso lasciare
tutto e venire in Italia. Non si fa così. Ho
delle responsabilità.»
«Lavori per le tue migliori amiche.
Sono certo che concorderanno sul fatto
che hai bisogno di una vacanza e ti
lasceranno qualche giorno libero.»
Lei scosse la testa. «No. Mi rifiuto di
essere trattata come una bambina che hai
sempre paura a lasciare da sola. Non
vengo in Italia.»
Il suo lento sorriso le fece bollire il
sangue e la mise in agitazione. «Allora
dovrò farti cambiare idea.»
Incrociò le braccia sul petto. «Non
puoi farmi fare tutto quello che vuoi.
Penserai che questo atteggiamento
focoso da uomo delle caverne sia sexy,
ma ti sbagli di grosso.»
Alzò un angolo delle labbra. «Meglio
che chiami Kate e l’avverti che parti
martedì.»
«Non vengo in Italia. E non verrò
nemmeno a letto con te, stanotte.»
Lui non disse nulla, ma il suo
sorrisetto malizioso le fece venire le
farfalle allo stomaco e in altri posti. Si
ripromise di tenere duro su entrambi i
punti.
«Vedremo.»
Lei gli fece la linguaccia e giurò su
una pila di Bibbie immaginarie che non
avrebbe ceduto.
Mai.
Questo era un braccio di ferro che
avrebbe vinto.
Genevieve non ci poteva credere.
Era in Italia.
Gli ultimi due giorni erano volati. Le
sue amiche non ci avevano messo un
secondo a concederle i giorni di ferie,
insistendo perché partisse e addirittura
aiutandola a fare i bagagli. Doveva
riconoscerlo a Wolfe.
Non aveva neppure rimarcato: ‘te
l’avevo detto’.
L’auto procedeva lentamente lungo le
strade animate di Milano verso la casa
che era ansiosa di vedere. I pedoni
intasavano i marciapiedi, i motorini
zigzagavano nel traffico e una pesante
cortina di nebbia simile a fumo copriva
il cielo. Wolfe rise vedendola girare la
testa a destra e a sinistra, cercando di
non perdersi nulla e annusando il
profumo delizioso del pane e del caffè
misto all’odore dei tubi di scappamento.
Giravano nelle vie del quadrilatero
della moda finché l’auto si fermò
davanti a un portone. Gen notò che il
palazzo di tre piani era un po’ fatiscente.
Ah. Pensava che Sawyer e Julietta
abitassero in una villa elegantissima,
invece
l’edificio
aveva
un’aria
pittoresca e le piaceva molto.
Terracotta, mattoni, piante e fiori.
L’autista prese le valigie ma non era
ancora scesa dall’auto che i genitori di
Wolfe erano già corsi fuori urlando in
italiano e soffocandolo di baci.
Guardò la scena con stupore. A Wolfe
non piaceva essere toccato. Quando
facevano l’amore non c’erano barriere
tra loro, ma alla luce del giorno metteva
sempre una certa distanza tra sé e gli
altri. Era cordiale con tutti, ma a
guardarlo sembrava dicesse ‘giù le
mani’. Con i parenti di lei si era aperto
un po’ di più, ma di fatto permetteva a
loro di avvicinarsi più che essere lui ad
abbandonarsi a manifestazioni d’affetto.
Vederlo gettarsi tra le braccia dei suoi
genitori le strinse il cuore. L’affetto che
li univa era ancora più forte di un
legame di sangue perché era basato su
una scelta. Trattenne le lacrime, poi lui
riuscì a liberarsi e allungò una mano
verso di lei. Gen la prese, titubante, e lui
la tirò a sé.
«Ho portato Genevieve», disse con
voce roca. «L’ho convinta a prendersi
una vacanza e a stare un po’ con noi.»
«Finalmente!»
strillò
Julietta,
abbracciandola con una forza che poteva
competere con quella di sua madre.
Julietta era più bella che mai, i capelli
scuri sciolti sulle spalle, gli occhi a
mandorla pieni di gioia e voglia di
vivere. Con un pantalone nero
dall’ottimo taglio, una camicetta color
avorio senza maniche e le ballerine, era
la grazia e l’eleganza in persona.
Gen rise e le restituì l’abbraccio.
«Wolfe non mi ha lasciato molta scelta.
Grazie per l’ospitalità.»
Sawyer sorrise e le diede un bacio
sulla testa. «Morivamo dalla voglia di
avervi qui. Lavorate troppo.» I suoi
occhi dorati brillavano di affetto, in
totale contraddizione con la brutta
cicatrice che gli sfregiava la guancia fin
sotto il mento. Sorrideva facilmente e il
viso affilato sembrava meno spigoloso
del solito. Forse era merito della
piccola Gabriella. Wolfe aveva detto
che era impazzito per la figlia e che gli
capitava persino di parlare con la
vocina infantile durante le riunioni,
dimenticandosi di essere tra adulti. Era
bello pensare che un maschio così forte
e dominante si addolcisse fino a quel
punto grazie a una bambina.
Julietta la prese sottobraccio e la
condusse in casa. «Mangiamo, ci
sistemiamo e organizziamo un itinerario.
Immagino che vorrete visitare un po’ la
città.»
«E occuparvi della piccola», aggiunse
Sawyer con una strizzata d’occhio.
«Adesso dorme, ma si sveglierà presto.»
Wolfe sbuffò. «Sapevo che volevate
vedermi per un motivo.»
La replica di Sawyer le tolse il
respiro. «Non ho bisogno di un motivo
per volerti qui, Wolfe. Mi sei mancato
da impazzire.»
Gli diede una pacca sulla spalla e a
Gen sembrò di notare che al suo amante
erano venuti gli occhi lucidi, ma durò un
attimo, forse
immaginazione.
era
solo
la
sua
Wolfe rise per la faccia che fece Gen
quando vide l’interno. Sapeva che
l’esterno traeva in inganno, ma una volta
oltrepassata la porta ad arco si restava
abbagliati. Pavimenti in parquet
lucidissimo che profumava di cera al
limone, soffitti a volta con enormi
lampadari e una collezione di dipinti e
oggetti d’antiquariato che davano
l’impressione di tornare indietro nel
tempo. Wolfe lo considerava un tipo di
arredamento normalmente freddo, ma
non nel caso di Julietta e Sawyer. Da
loro c’era aria di casa, dai libri e le
riviste alle coperte all’uncinetto a colori
vivaci, dai cancelletti per impedire alla
bambina di arrampicarsi sulle scale
all’odore di aglio, pomodori e pane che
si fiutava nell’aria.
Julietta condusse Gen a fare il giro
della casa e lui andò in cucina con
Sawyer. «Ti trovo bene.»
Wolfe gli sorrise. «Grazie. Ma
scommetto che ti mancano i piercing e i
capelli assurdi.»
Sawyer rise e gli diede una bottiglia
d’acqua. «Naa, mi piace come sei
diventato. Ma ti ho sempre dato credito.
Ricordo ancora quando sono venuto a
prenderti la prima mattina. In pochi
giorni ti eri rasato i capelli, ti eri fatto il
tatuaggio e ti eri riempito di piercing. Un
bel vaffanculo al sottoscritto. Ricordi
quello che hai detto?»
Come se fosse stato ieri. «Ho detto:
‘Cosa mi dici adesso? Come mi vedi
fuori, così sono dentro. Mi vuoi
ancora?’.»
Sawyer annuì. «Giuro su Dio che ho
iniziato a volerti bene in quel momento.
Eri un tale scassapalle.»
Wolfe scosse la testa, bevendo un
lungo sorso d’acqua. «Avevi bisogno di
una sfida.»
«Sì. Sono contento che tu abbia
portato Gen. Sorpreso, ma contento.»
«Perché?»
Sawyer si accigliò, come se stesse
riflettendo sulla domanda. «Non ti è mai
importato abbastanza di una persona da
volerla portare a casa. So che siete
amici da tanto tempo, ma mi sembra una
cosa diversa. State insieme?»
S’irrigidì. Non gli andava che Sawyer
o Julietta pensassero che avevano una
relazione
stabile.
Avrebbe
solo
complicato le cose e magari messo in
imbarazzo
Gen.
Meglio
restare
sull’amicizia e non ammettere che
andavano a letto insieme. Fece un
sorriso forzato. «No, siamo solo ottimi
amici. Ha rotto col fidanzato e ho
pensato che un viaggio le avrebbe fatto
bene.»
Sawyer lo osservò per un po’. Aveva
capito che era una bugia, come l’aveva
capito quando era giovane. Ma accettò
la sua versione, per il momento. «Certo.
In ogni caso sono contento che siate
qui.»
«Non vedevo l’ora. A parte farmi fare
il babysitter, ho la sensazione che ci sia
qualcos’altro di cui vuoi parlarmi.»
«Sì. Ma vorrei che fossimo tutti
insieme, seduti. Stasera va bene? A
cena?»
«Assolutamente. Cucini tu?»
«Ho mai cucinato?»
Wolfe rise. «Bene. Certe cose non
cambiano mai.»
Si sorrisero. Sarebbe stata una gran
settimana.
Capitolo 24
Wolfe era nella biblioteca, che fungeva
anche da ufficio di Sawyer. Seduto
nell’ampia
poltrona
di
pelle,
sorseggiava del cognac godendosi la
serata tranquilla. Sul tavolino c’erano
dei biscotti, un assortimento di
pasticcini de La dolce famiglia e altri
due bicchieri contenenti un liquido
ambrato. Julietta ripiegò le gambe sul
divano, appoggiandosi al bracciolo.
Sawyer era seduto sulla poltrona di
pelle di fronte a Wolfe con una
cartelletta in mano.
L’aria profumava di tabacco da pipa
mista all’odore di alcol, pelle e libri
vecchi. Wolfe inspirò profondamente e
si sentì invadere dalla calma. Dalla
finestra aperta della terrazza entrava una
leggera brezza. Gen era salita presto in
camera sua.
«Grazie ancora per la cena», disse.
«Tra i tuoi pasti e quelli che mi prepara
Gen, ho messo su qualche chilo. Dovrò
dare una strapazzata a Sawyer in
palestra, questa settimana, almeno
riprendo la linea.»
Sawyer sbuffò. «Sarò anche vecchio
ma ti batto ancora. La saggezza batte la
giovinezza.»
«Non in palestra.»
Julietta rise. «Siete due vincenti. Cosa
significa i pasti che ti prepara Gen?
Pensavo abitasse a Verily.»
Si era completamente dimenticato di
non aver detto che vivevano insieme.
Per un breve periodo, ovviamente. «Il
suo ex le sta dando dei problemi e mi
sono trasferito da lei per un po’. Giusto
per assicurarmi che non le succeda
niente.»
Gli occhi penetranti di Julietta videro
quello che aveva visto anche Sawyer,
ma si limitò ad annuire. «Capisco.»
Wolfe cambiò argomento. «Che ne
dite di togliermi la curiosità e dirmi
cosa c’è in quella cartelletta? Qualcosa
di buono? Ho ereditato?» Aspettò una
risata che però non venne. Sawyer aveva
il volto tirato, come se fosse stressato.
D’un tratto si preoccupò. «Sto solo
scherzando. Se è un problema, vi aiuto a
risolverlo.»
Julietta sospirò. «Non è un problema.
È una cosa che aspettiamo da anni. Non
sapevamo
se
sarebbe
successa.
Speriamo solo che tu sia felice quanto
noi.»
Okay, adesso cominciava ad agitarsi
sul serio. «Ragazzi, mi state uccidendo.
Non potete dirmi cosa sta succedendo?»
Sawyer tirò fuori un documento.
Picchiettava le dita sulla cartelletta e gli
tremava leggermente una gamba.
Decisamente un segno di nervosismo.
Aveva combinato qualcosa con il Purity?
Li aveva messi nei guai? L’ansia gli fece
venire un nodo allo stomaco.
«Ricordi il discorso che abbiamo
fatto qualche anno fa? Quando avevi
ventun anni?»
Wolfe sbuffò con impazienza. «Ne
abbiamo fatti mille, di discorsi. A quale
ti riferisci in particolare?»
«A quello sulla tua adozione.»
Si bloccò. Guardò il documento, poi
il volto di Sawyer, cercando di capire
dove sarebbe andata a parare la
conversazione. «Sì. Volevate adottarmi
legalmente e siamo andati in tribunale
alcune volte, ma c’erano degli ostacoli.»
Sawyer annuì. Julietta stringeva le
mani, annuendo come per incoraggiarlo
a proseguire. «Non sapevamo che fine
aveva fatto tua madre. Io ero più
concentrato a farti stare tranquillo. Non
volevo riesumare il passato. Così ho
incaricato il mio investigatore privato di
fare le ricerche e ci è voluto qualche
anno.» Aveva la fronte imperlata di
sudore. Wolfe mandò giù un altro sorso
di cognac, conscio del fatto che i
prossimi minuti gli avrebbero cambiato
la vita.
«Ora sappiamo di tua madre, Wolfe.»
Chinò la testa. Aveva bisogno di un
minuto. Sapeva la risposta. «È morta.»
Julietta allungò un braccio e gli
strinse la mano. Lui le restituì la stretta.
«Sì, ragazzo mio. È morta anni fa.
Sappiamo dov’è sepolta. Puoi andare a
trovarla, se ti va.»
«È morta per overdose?»
Un’altra piccola esitazione. «Attacco
di cuore. Potrebbero essere state le
droghe ma non è stata fatta nessuna
autopsia.»
Wolfe si chiese come mai non
sentisse... qualcosa di più. In un certo
senso, aveva pianto la morte della
madre a cominciare da quella fatidica
sera in cui era scappato. Per lui era già
scomparsa, e questa era solo la
conferma che non sarebbe mai tornata.
«Sto bene», disse lentamente. «Me lo
aspettavo, e ho già affrontato la cosa
anni fa.»
Sawyer annuì. «È quello che
speravamo, ma sentirlo a voce alta a
volte riporta brutti ricordi.»
«Apprezzo che abbiate fatto questa
ricerca per me.»
«Dopo
aver
ottenuto
queste
informazioni su tua madre, sono andate a
posto molte cose. Abbiamo recuperato i
documenti necessari e adesso finalmente
non ci sono più ostacoli.»
Alzò la testa, ancora confuso.
«Ostacoli per cosa?»
«Per la tua adozione. Possiamo
adottarti legalmente, Wolfe. E vogliamo
farlo, se tu ci accetti.»
Quella
semplice
dichiarazione
penetrò il suo scudo e arrivò dritta al
cuore. Si sentì travolto dall’emozione.
Guardò lei, poi lui, vedendo la speranza
sul volto dell’una e la tensione su quello
dell’altro. Erano nervosi? Avevano
paura che lui non li volesse? Cominciò a
tremare e gli venne la pelle d’oca.
Dentro era tutto un fremito. Non era
nessuno, prima di loro. Gli avevano
salvato la vita, facendosi carico di un
ragazzo di strada con un sacco di
problemi, e gli stavano chiedendo se era
d’accordo?
«Ti vogliamo bene», sussurrò Julietta.
«Ma se non ti va di firmare, lo capiamo.
Non ci offendiamo. Sarai sempre nostro.
Questo legalizza semplicemente le
cose.»
Sawyer alzò le mani. «Puoi pensarci
per tutto il tempo che vuoi. Se è un no,
non ne parliamo più, e non c’è alcun
bisogno di sentirsi in colpa. Intesi? A
noi va bene quello che vuoi tu.»
La risposta gli salì dal cuore e si
liberò nel mondo. «Sì.»
I suoi genitori quasi legali lo
fissarono. «Sì?» ripeté Julietta. «Vuoi
essere nostro?»
Wolfe fece una risatina strozzata.
«Diavolo, sì, pensate che sia scemo?
Non sapevo che ci stavate ancora
provando. Mi sono sempre ritenuto
figlio vostro, ma avere finalmente dei
documenti che lo confermano? Diavolo,
sì.»
Sawyer rise, il volto illuminato dalla
gioia. «Diavolo, sì!»
Julietta lo abbracciò e Sawyer
continuò a sorridere come un idiota,
troppo emozionato per partecipare
all’abbraccio, cosa di cui Wolfe gli fu
molto grato. Non voleva piagnucolare
come una femminuccia. Ma dentro si
sentiva... diverso. Più completo.
Aveva una vera famiglia adesso.
Legalmente. Erano i suoi genitori, e lui
era loro figlio.
Diavolo, sì.
Sawyer gli passò la cartelletta con
una penna. «C’è una tonnellata di roba
da firmare ma gli avvocati hanno già
esaminato tutte le carte. Dovrai solo
abituarti al tuo nuovo nome.»
«Wolfe Wells. Mmm, sì. Non è il
massimo ma ormai le medie le ho
superate.»
Scoppiarono a ridere.
E lui firmò i documenti.
Stesa sul letto sopra le coperte, Gen
fissava lo splendido soffitto affrescato
con la Madonna e il bambino. Faceva
forse passare un po’ la voglia, se
l’intenzione era di fare del sesso spinto,
ma visto che stanotte non sarebbe
successo, magari poteva recitare il
rosario. Sua madre sarebbe stata
contenta.
Uff.
Era esausta per il viaggio, ma aveva
anche capito che Wolfe aveva bisogno di
stare un po’ solo con la sua famiglia.
Aveva fatto un sonnellino e adesso era
sveglia e piena di energia. Non aveva
voglia di leggere. Continuava a pensare
ai segnali contraddittori che riceveva da
lui. Un attimo la trattava come un’amica
che aveva portato a fare un viaggio per
proteggerla dal lupo cattivo, e l’attimo
dopo si eccitava appena la toccava e gli
si scurivano le pupille dalla voglia di
farle la festa. Per ore.
Purtroppo l’avevano sistemata in una
camera molto lontana dalla sua. Un
chiaro segno che non intendeva farle
visita. Julietta e Sawyer erano convinti
che fossero solo amici. Platonici, non di
letto. Quindi niente sesso per quella
settimana. Il che era un bene. Avevano
deciso per la flessibilità, anche se lei si
era innamorata di lui.
Sentì bussare leggermente alla porta.
Schizzò in piedi e andò ad aprire.
Davanti a lei c’era Wolfe in
canottiera, pantaloni della tuta e piedi
nudi. Aveva i capelli arruffati come se
avesse passato le dita nei riccioli e
profumava di sapone e un po’ di alcol.
«Ti ho svegliata?»
«No. Non riesco a dormire.»
Spostò il peso del corpo sull’altra
gamba e la guardò. I suoi occhi azzurri
si accesero ma restò al sicuro in
corridoio. «Ti va di fare una
passeggiata?»
No. Voleva che si spogliasse e si
desse da fare sul suo letto, ma annuì.
«Mi cambio.»
«Vai bene così.»
Esitò. Non aspettandosi di vederlo né
di fare sesso, si era messa dei pantaloni
di flanella a fiorellini rosa e una
maglietta a V con lo stesso disegno.
Aveva i capelli per aria perché era stata
sdraiata sul letto e non si era truccata.
Arricciò il naso. «Sembro una
sciattona.»
Si avvicinò e le prese la mano. Il
calore tra loro scorreva come in un filo
elettrico. Trattenne a stento un sibilo.
«Una stupenda sciattona», disse con
dolcezza. «Andiamo a fare due passi e
basta.»
Era proprio pazza di quest’uomo.
«Okay.» Mise un paio di Keds ai piedi e
lo seguì lungo le scale.
Fuori era buio pesto, fatta eccezione
per qualche lampione stradale e la luce
della luna. Wolfe la condusse con
sicurezza lungo i marciapiedi, tenendola
stretta per mano. Si sentiva il rumore dei
loro passi e gli edifici antichi che si
protendevano verso il cielo erano come
vecchi alberi che li circondavano e li
proteggevano. Nonostante l’ora tarda e i
negozi chiusi, c’era ancora gente in giro
che prendeva il caffè con grandi
sacchetti in mano provenienti da una
delle vie dello shopping più famose del
mondo.
Wolfe sembrava non avere una meta.
Passeggiava in silenzio, tranquillo e
rilassato. Quando finalmente parlò, le
riferì la sconvolgente notizia come se
fosse la cosa più naturale del mondo.
Come se da sempre si fossero scambiati
dettagli intimi della loro vita.
«Sawyer e Julietta mi hanno adottato
legalmente.»
Inciampò ma lui la afferrò prima che
cadesse. Gen si aggrappò alla sua mano.
«Cosa?»
Un lieve sorriso gli accese il volto.
Dio, quant’era sexy. Strafico. Sexy. «Sì.
Era questa la notizia, il motivo per cui
volevano che venissi qui. Avevamo
provato anni fa ma non si trovava mia
madre e i documenti non erano completi.
Ci eravamo rivolti al tribunale ma senza
risultati. Pensavo che Sawyer ci avesse
messo una croce sopra invece ha
continuato a occuparsene per tutto
questo tempo.»
«Cos’hai saputo di tua mamma?»
Il sorriso sparì. «È morta.»
«Mi dispiace.»
Annuì. «L’ho persa molto tempo fa.
Non riesco neanche a essere triste. Non
era più mia madre.»
Quella semplice constatazione le fece
male al cuore. L’idea che un genitore
potesse distruggere l’amore e la fiducia
di un figlio era inconcepibile, per lei.
Ma sapeva che Wolfe non voleva la sua
compassione. E non l’avrebbe comunque
avuta, perché Gen pensava che alla fine
lui aveva vinto. Era andato via, si era
ricostruito una vita e aveva trovato una
famiglia che lo amava. «Odio quello che
hai dovuto passare», disse con dolcezza.
«La ucciderei con le mie mani per
quello che ti ha fatto. Ma ti sei salvato.
E anche se un pezzo di carta è
importante, Julietta e Sawyer erano già
la tua famiglia. Sono contenta di poter
festeggiare che lo sia anche legalmente.»
Lui distolse lo sguardo, come se
cercasse di esprimere i suoi pensieri.
«Non posso credere che mi abbiano
voluto», disse infine. «Ero un
rompicoglioni. Voglio dire, ovvio che io
volessi loro, ma l’idea che non abbiano
mai rinunciato a tentare di adottarmi mi
sconcerta.»
Si alzò in punta di piedi, gli prese le
guance tra le mani e lo costrinse a
guardarla. Ammirò affascinata ogni
centimetro del suo amato volto, dalla
barba corta sulla mascella al naso
leggermente storto, dalle sopracciglia
folte a quegli occhi azzurri custodi di
segreti che non avrebbe mai svelato a
nessuno. Poi gli parlò con la voce
strozzata. «Perché gli hai dato tanta
gioia, Wolfe. Sei speciale. Ti amano più
di quanto tu possa immaginare perché gli
hai fatto un dono prezioso. La tua
fiducia. La tua amicizia. Il tuo rispetto. Il
tuo cuore. Tutto quello che sei.»
«Non sarà mai abbastanza.»
Sorrise
per
quell’affermazione
ridicola, e prima che riuscisse a
innalzare le solite barriere intorno a sé,
la sua anima volò via e si liberò.
«Non capisci chi sei? Quanto rendi
felici gli altri?»
Il mondo s’inclinò. Trattenne il
respiro. E aspettò.
«Non capisci quanto ti amo?»
Lui restò di sasso. A Gen venne in
mente un personaggio dei cartoni animati
con la nuvola di dialogo sulla testa in
attesa di una risposta. Avrebbe voluto
metterla sullo scherzo e tornare ai loro
accordi. Ma era troppo tardi. Non
poteva rimangiarsi la verità o
nascondere i suoi veri sentimenti. E se
la cosa non gli piaceva, pazienza, era
ora che cominciasse a farsene una
ragione.
Passarono i secondi. Un minuto.
Wolfe non si mosse, non disse una
parola, la guardava soltanto con quello
sguardo famelico che diceva più di
quanto qualunque risposta avrebbe
potuto dire.
Premette la fronte su quella di lei,
scuotendo la testa, cercando di negare il
momento. «Cosa mi stai facendo?»
sussurrò. «Andrà a finire malissimo.»
Le sfuggì una mezza risata. Sentì il
suo alito sulle labbra. «Sì. Può darsi.»
«Dovremmo rimettere le cose come
stavano prima. Sarebbe meglio.»
«Non voglio.»
«Io non posso darti quello che vuoi.»
Chiuse gli occhi. Poteva, ma non se ne
rendeva conto. Non ci voleva credere.
«Non sono d’accordo.»
«Sei proprio testarda. Non dovremmo
più andare a letto insieme. Le cose si
stanno complicando troppo.»
«Allora dimmi di no.»
Le labbra di lui sfiorarono le sue.
«Non posso. Non ho tanta forza di
volontà. Ma non voglio farti del male.»
Premette le labbra sulle sue, si staccò,
le sfiorò di nuovo. Lei gli strinse le
braccia intorno al collo. «Allora non
farlo», sussurrò. Poi lo baciò.
Dolcezza. Sentì le ginocchia molli e
gli si abbandonò tra le braccia mentre la
sua lingua le invadeva la bocca. Wolfe
la baciò come fosse un tesoro fragile e
prezioso, da manovrare con la massima
cura. A lei sfuggì un gemito e lui
continuò a adorarla con la bocca, la
lingua e le labbra, dandole col corpo
quello che non riusciva a darle con la
mente.
Tutto.
«Portami a letto.»
L’ordine gli fece sfuggire una risata.
Le mordicchiò l’orecchio, il lobo, e le
accarezzò la schiena. «Per l’ultima
volta.»
«Per l’ultima volta», ripeté. Le riuscì
facile mentire, mentre lui la prendeva in
braccio e la riportava a casa. Non
voleva pensarci, adesso. Fece l’amore
con lei con tanta attenzione e tenerezza
che resistette all’orgasmo per gustare
ogni sua carezza, ogni bacio, ogni
attimo. Quando finalmente le venne
dentro, anche lei si lasciò andare,
ripetendosi un’altra bugia per tutta la
notte, mentre lui la faceva sua ancora e
ancora.
Lei lo amava abbastanza per tutti e
due.
«Sono nervosa.»
Wolfe abbassò lo sguardo. Gen
stringeva le mani l’una nell’altra, ferma
sui gradini davanti alla porta. D’un tratto
tornò indietro negli anni e il ricordo
riaffiorò con forza. Sulla porta di
mamma Conte per la prima volta, vestito
a puntino e con le scarpe rigide, in
procinto di partecipare a una cena in
famiglia
che
avrebbe
voluto
risparmiarsi. Il timore che quella donna
non approvasse, o si prendesse gioco di
lui. La paura di entrare in una casa vera
con una vera famiglia di cui non faceva
parte.
Scacciò il ricordo. Mamma Conte, la
madre di Julietta, era una leggenda, e
benché Gen morisse dalla voglia di
conoscerla, Wolfe capiva la sua ansia
improvvisa. Oltre ad aver cresciuto
quattro figli e fondato l’impero dolciario
La Dolce Famiglia, intuiva i segreti
delle persone con una facilità
impressionante. «Le piacerai. Fidati.
Alexa ha imparato da lei a fare la pasta
fatta in casa, potresti imparare qualcosa
anche tu.»
Si guadagnò un sorrisetto e un pugno
sulla spalla. «Furbone. T’interessa solo
che cucini per te.»
«Hai detto bene.»
Aprì la porta ed entrarono. Gen
osservò la scena davanti a lei, e Wolfe
sapeva cosa stava provando. L’aveva
vissuto anche lui, e gli succedeva ogni
volta che ci tornava. Quella casa, la sua
vista, i rumori e gli odori di quel luogo,
non smettevano mai di colpirlo.
Essendo situata a Bergamo alta,
avevano preso la funicolare e avevano
raggiunto la villa a piedi. I balconi con
le ringhiere in ferro battuto erano pieni
di gerani dai colori vivaci e altri tipi di
fiori. La villa era circondata da un
giardino molto curato che si allargava
sul retro ospitando un patio dove la
famiglia amava prendere l’aperitivo
godendosi il sole e la vista delle colline.
L’interno era in quello stile italiano che
lui adorava, coi pavimenti in parquet
coperti di tappeti intrecciati, fotografie
incorniciate alle pareti e sui mobili, e
con tutti i corridoi che portavano in
cucina, il cuore e l’anima di casa Conte.
Gen restò senza fiato. Al centro della
stanza c’era un tavolo in pino massiccio.
I fornelli e i banchi erano pieni di
prodotti freschi, mozzarella, pomodori a
fette, olio di oliva e cestini di aglio. Sul
davanzale erano allineati vasetti con tutti
i tipi di erbe. La tavola era
apparecchiata con piatti bordeaux sopra
una tovaglia di pizzo bianca. Il pane,
fresco e con la crosta croccante,
riposava su un tagliere pesante. Il
fornello era colmo di pentole che
borbottavano e fumavano esalando
profumi che facevano a gara tra loro.
Il nirvana.
Non erano molti i luoghi in cui Wolfe
si sentiva totalmente in pace, e la cucina
di mamma Conte era uno di questi. La
donna che stava gestendo una serie di
pentole contemporaneamente si voltò e
fece loro un sorriso di benvenuto,
asciugandosi le mani sul grembiule.
«Oh, mamma mia, non ho nemmeno
sentito la porta!» esclamò, andandogli
incontro. «Non diventare mai vecchio,
ragazzo mio. Non è bello.»
Wolfe la strinse tra le braccia e quasi
rise per la forza del suo abbraccio.
Quelle
mani
avvizzite
avevano
impastato così tanta farina negli anni da
essere più forti di quelle di alcuni
assidui frequentatori della palestra in
cui si allenava. Il suo bastone, un valido
aiuto per l’artrite, era appoggiato al
piano della cucina. I capelli lunghi e
grigi erano raccolti nel solito chignon e
portava un vestito da casa rosso, il
grembiule e scarpe comode. Wolfe
sapeva che era stata una gran bella
donna, era evidente dai lineamenti
aggraziati, gli zigomi alti e gli occhi neri
e sorridenti che gli ricordavano tanto
Julietta e Carina. Quando si scostò, gli
diede una frustata con lo straccio.
«Che modi sono questi? Porti una
ragazza e non mi presenti prima lei?»
Arrossì. Si schiarì la gola e si girò.
«Genevieve MacKenzie, lei è mamma
Conte.»
Gen sorrise e aprì le braccia. Mamma
Conte la abbracciò con energia, e la
guardò in quel modo curioso che era
parte del suo fascino. «Sei bella come
Alexa. Quando le bambine erano piccole
sono venute a trovarmi e sono state qui
con me. È ancora uno dei miei ricordi
preferiti.»
«Grazie. È anche uno dei ricordi
preferiti di mia sorella. Si è sentita a
casa qui e adesso fa anche la pasta a
mano.»
Mamma Conte piegò la testa da un
lato e rise. «Imparerai anche tu. Non
come la moglie di mio figlio Michael.
Margherita cerca sempre di svignarsela
quando si tratta di cucinare, ma fa bene
altre cose, quindi è perdonata.»
Wolfe sorrise. Maggie faceva sempre
il possibile per evitare di cucinare, era
una delle cose che le piacevano meno.
Mamma Conte si divertiva a discutere
con la nuora e l’aveva amata sin dal
primo momento. Era stata presente
persino alla nascita dei gemelli di
Maggie e Michael.
«Accomodatevi. Julietta e Sawyer
dove sono?»
«Arrivano subito. Gabby stava
dormendo quindi hanno aspettato un
attimo.»
Mamma Conte scosse la testa. «Ah,
quando arrivano i bambini cambia tutto.
È sfinente, ma è l’avventura più bella
che possiamo avere, no?»
Wolfe prese una fetta di pane, la
immerse nell’olio di oliva col
peperoncino e la diede a Gen. Abituato
ad aiutare in cucina quando veniva qui,
versò del Chianti e prese una fetta di
pane anche per sé.
«Siediti», gli disse mamma Conte
quando lui provò ad aiutarla. «Voglio
sapere tutto di New York. Dimmi del
Purity e di come te la passi.»
Si
misero
a
chiacchierare
piacevolmente, e Gen partecipò alla
conversazione: Wolfe si sorprese
quando raccontò di essere scappata il
giorno del suo matrimonio, con il suo
aiuto. Ancora di più quando disse di
essere indecisa se tornare alla sua
carriera di medico, e di avere un sacco
di dubbi su cose che prima erano
certezze. La lasciò parlare, apprezzando
il suo modo genuino di aprirsi agli altri.
Era una grande dote, ma lei neppure se
ne rendeva conto. Mamma Conte la
ascoltò, la incoraggiò e le diede dei
consigli che un giorno avrebbero dovuto
essere raccolti in un libro e venduti a
caro prezzo.
Quando arrivarono Julietta e Sawyer,
loro tre stavano banchettando con della
musica italiana di sottofondo. Un regalo
di Michael, confessò mamma Conte,
aggiungendo che in genere preferiva il
silenzio, ma che si stava abituando ad
ascoltare più spesso la musica. Gabby
passò di mano in mano, e Wolfe
l’accarezzò col naso, inspirando il
profumo confortante di borotalco e
innocenza.
«Tocca a me», pretese Gen
allungando le braccia. Le passò la
bambina con molta attenzione e la
guardò osservarla in totale adorazione.
Fu travolto da un’emozione violenta.
Gli si fermò il respiro.
Immaginò Gen col suo bambino in
braccio, il loro bambino, e fu come
ricevere un pugno allo stomaco. Mentre
la guardava baciare la testa di Gabby
mormorandole sciocchezze, la stanza
intorno a lui prese a girare come fosse
ubriaco.
Cosa stava succedendo? Sì, gli
sarebbe piaciuto veder crescere la sua
Gabby. Amava le riunioni di famiglia
con i bambini che scorrazzavano. Ma i
figli non erano nel suo futuro. Non si era
mai fermato a pensarci. Diavolo, non gli
era mai passato nemmeno per la testa.
Ora invece, accorgendosi di quanto
stava bene Gen nella cucina di mamma
Conte con quella bambina in braccio,
provò una fitta al cuore.
Perché adesso? Perché d’un tratto
accettava, voleva, bramava l’idea di un
futuro?
Allontanò il piatto. Non aveva più
fame. Si toccò i bracciali di cuoio che
erano ormai parte di lui e del suo corpo.
E cercò di non ricordare.
Rimase in silenzio per il resto della
cena. Quando arrivò il momento della
grappa, della frutta, dei formaggi e dei
pasticcini, Gen gemette. «Non so se ce
la faccio», mugolò. «Sono pienissima.»
Mamma Conte scosse la testa con
disapprovazione. «Perché non esci a
prendere un po’ d’aria e a fare due
passi? Ti aiuta a digerire. Non puoi
perderti la torta di mele.»
Gen si strofinò la pancia e Wolfe rise.
«Vieni, ti mostro la terrazza.» Uscirono
all’aria aperta e osservarono le colline e
la distesa infinita di verde, circondati
dal profumo di terra e di limoni. Fece
per abbracciarla, poi si rese conto che
non ne aveva alcun diritto. Non più. Se
voleva riportare tutto sul terreno
dell’amicizia, doveva smettere di
toccarla come faceva un amante. Al
momento, era troppo pericoloso.
Lei si avvicinò come per mettergli le
braccia intorno alla vita, e lui si spostò
rapidamente, andando verso il bordo
della terrazza. «Bellissima serata»,
disse senza riuscire a voltarsi verso di
lei. Il cuore gli batteva all’impazzata.
Sarebbe sempre stato così difficile?
Sarebbe mai riuscito a guardarla negli
occhi, a toccarle i riccioli, senza
desiderarla con una fame che sembrava
impossibile da saziare?
«Sì.»
«Ti stai divertendo finora?»
«Come
potrebbe
essere
diversamente? Sono in Italia con te e la
tua famiglia. Sono stata nutrita, viziata e
coccolata. Adoro mamma Conte e
Gabby. Ho fatto shopping in alcune delle
boutique più esclusive del mondo, ho
girato per le strade in motorino con te, e
ti ho baciato al chiaro di luna.»
«Gen...»
«Mi piace guardarti qui. Sei diverso.
Più aperto. In tutto questo tempo mi è
sembrato di far parte della tua cerchia
ristretta.»
«Ne facevi parte, infatti. Ne fai parte.
Siamo amici da tanto tempo.» Una frase
che suonava come un’offesa, adesso.
«Ci tengo a te.»
«Non abbastanza da raccontarmi il tuo
passato. Non abbastanza da venire a
letto con me senza mentire su cosa siamo
veramente.»
Trasalì. L’avrebbe uccisa. L’avrebbe
fatta a pezzi e avrebbe sparso le ceneri.
Perché doveva pretendere tanto, adesso?
Cercò di mantenere un tono leggero. «Ti
ho detto più di quanto abbia mai detto a
chiunque altro. Tu sai di mia madre,
degli anni vissuti per strada, di come mi
ha trovato Sawyer. Che altro vuoi?»
«Lo sai.»
Non si girò. Tenne lo sguardo fisso
sul paesaggio e pregò che non gli si
avvicinasse. Non lo fece. La distanza tra
loro crebbe per ogni attimo in cui non
dissero nulla. Gli uccelli cinguettavano.
Dalla cucina arrivavano le voci e le
risate attutite. Finalmente lui parlò.
«Non farebbe nessuna differenza.»
Il suo sospiro gli ferì le orecchie. E il
cuore. Era così triste vederla ancora lì a
combattere per qualcosa che non
avrebbe mai potuto darle.
«Ti faccio io una domanda. Tu cosa
vuoi, Wolfe?»
Il suo corpo, la sua anima, il suo
cuore. Essere un uomo integro per
poterle dare tutto. Avere il coraggio di
provarci.
Invece mentì. «Questo. Noi. Amici
per sempre. Abbiamo deciso di
includere il sesso finché non avesse
rovinato il nostro rapporto. Ma
dobbiamo ammettere che le cose si
stanno complicando. Fare un passo
indietro adesso potrebbe essere una
buona idea.»
Lei non rispose.
Lui non si girò.
Si aprì la porta e la voce di mamma
Conte risuonò forte e genuina. «Ragazzi,
a tavola. Siamo pronti per il dolce.»
Quando Wolfe ebbe finalmente il
fegato di girarsi, Gen era già rientrata.
Gli uomini se ne andarono.
Vincent Soldano era steso a terra in
posizione fetale, con le braccia strette
intorno al corpo martoriato. L’orrore
di quello che gli avevano fatto e che
l’avevano costretto a fare gli girava in
testa come un disco rotto che ripeteva
sempre la stessa nota. Affondò le
unghie nelle tempie cercando di
scacciare quelle immagini, quei
ricordi, ma era caduto troppo in basso
e sapeva che non sarebbe mai riemerso.
Era finita.
Se solo fosse scappato. Se solo non
avesse aspettato. Ieri, avrebbe ancora
avuto una vita da vivere. Oggi non
c’era nient’altro che vergogna e
sporcizia e un incubo così reale che
non sarebbe più riuscito a dormire.
Non poteva vivere così. Non voleva.
Il mormorio di voci all’esterno
penetrò attraverso le pareti sottili. Si
girò a guardare, la vista annebbiata,
quasi senza riconoscere la stanza in cui
era cresciuto. Provò nausea quando
vide la vecchia foto di lui e sua madre
sullo specchio scheggiato.
Non aveva più una madre.
Desiderava il silenzio. Il vuoto. Gli
dolevano tutti i muscoli, ma riuscì a
strisciare lungo il pavimento in cerca
di qualcosa, di qualunque cosa, di un
segno.
La luce brillò sulla lama del coltello.
Guadagnò altri centimetri, con
sofferenza, finché ci arrivò. Lo strinse
nella mano tremante. In testa aveva
solo dolore, rabbia, agonia. Vincent
sapeva che la sua salute mentale era
andata perduta durante le ore con
quegli uomini, in balia dei loro luridi
corpi, delle loro mani e delle loro dita.
Non sarebbe più tornato pulito.
Sollevò il coltello e girò i polsi.
Cominciò a tagliare. Sempre più a
fondo.
Quando il sangue cominciò a
scorrere copioso, finalmente trovò la
pace.
Vincent Soldano si stese a terra e
aspettò di morire.
Aveva quattordici anni.
Capitolo 25
Wolfe saltò fuori dal letto, l’urlo
intrappolato nei polmoni. Era sudato
dalla testa ai piedi, e si strinse subito i
polsi, tastando i bracciali di cuoio che
lo proteggevano dai ricordi. Inspirò,
abituato a questi episodi, e cercò di
ritrovare il battito regolare del cuore.
Si chinò appoggiando le mani sulle
ginocchia e resistendo alla nausea. Era
un po’ che non riviveva quella scena.
Certo, gli incubi venivano regolarmente
ma, come con un vecchio nemico, aveva
imparato a conviverci. A volte dormiva.
Altre no. Il patto col diavolo risaliva a
qualche anno fa. Quando veniva a
trovarlo, lui andava in palestra e
scacciava i ricordi con la ginnastica.
Gli esplodeva la testa di immagini del
passato. Il coltello. Gli uomini. L’orrore.
La codardia.
Fuori. Doveva uscire da lì.
In piena modalità sopravvivenza,
Wolfe indossò un paio di calzoncini e le
scarpe da ginnastica e uscì dalla camera.
Giù dalle scale.
Lungo il corridoio.
Altre scale.
Accese la luce. La stanza s’illuminò,
il rifugio dalla notte oscura, il luogo che
Sawyer aveva costruito per entrambi,
per quando venivano i demoni.
La palestra aveva le pareti
insonorizzate, un impianto stereo
formidabile e tutti gli attrezzi possibili e
immaginabili. Si allacciò le scarpe e
andò dritto al sacco. C’erano dei pesi
sparsi sul pavimento e dei tappetini
appesi a casaccio alle pareti. Una
sbarra, il vogatore, e infiniti strumenti di
tortura e guarigione che offrivano il
ritorno al mondo normale.
Accese lo stereo e il metal duro dei
Kiss gli esplose nelle orecchie.
Sì. Sawyer era stato lì di recente.
Wolfe si mise al lavoro.
Dove stava andando?
A letto sveglia, al buio, Gen sentì
qualcuno scendere le scale. I passi erano
partiti dalla camera di Wolfe in fondo al
corridoio. Avrebbe dovuto cercare di
dormire. Era stato piuttosto chiaro nella
sua decisione di tornare a essere amici,
nonostante l’incredibile notte di sesso,
orgasmi e tenerezze. Adesso non la
guardava neanche più, limitandosi a
stupide conversazioni durante le quali
stava a testa bassa e lontano da lei come
per scongiurare l’eventualità che gli
saltasse addosso.
Cosa che lei avrebbe voluto fare.
Oltre a picchiarlo. Invece aveva cercato
di mantenere il decoro e di fare tesoro
del consiglio di Arilyn. Vivere momento
per momento. Senza analizzare e
discutere. Lasciar andare le cose come
andavano. Non mettergli pressione.
Il consiglio di Arilyn faceva schifo.
Al diavolo. L’avrebbe seguito.
Sapeva già che soffriva di incubi
notturni. Quando si svegliava per andare
in bagno spesso trovava il divano dove
lui dormiva vuoto. Sapeva che andava in
palestra o a correre, ma quando aveva
provato a chiedergli qualcosa di più dei
suoi incubi si era chiuso in se stesso.
Avanzò per la casa a piedi nudi.
Guardò in molte stanze, finché trovò
delle scale che scendevano, e finalmente
individuò la porta giusta.
Entrò.
Il suono duro e rabbioso dell’heavy
metal rimbombava dalle casse. La
palestra era molto equipaggiata, ma
mentre si chiudeva la porta alle spalle,
la sua attenzione si focalizzò su un unico
punto.
Wolfe.
Era al centro della stanza, accanto a
un sacco da boxe appeso al soffitto. Non
portava i guanti, solo i bracciali di
cuoio. Scarpe da ginnastica ai piedi.
Petto nudo.
Inspirò con forza.
Era bellissimo. Scatenato. Sferrava
pugni velocissimi, uno via l’altro, i
piedi ben piantati a terra, pestando quel
sacco con tutta la sua forza, facendo
sputare sangue a un nemico immaginario.
A ogni pugno i fianchi ruotavano
leggermente,
evidenziando
gli
addominali scolpiti. Gli colava il sudore
dai capelli, dalle sopracciglia e lungo il
petto, facendo brillare il tatuaggio. Gli
occhi erano due fessure scure,
concentrati su un altro tempo, pieni di
odio e rabbia. Restò immobile, senza
osare respirare, lo sguardo fisso su
quella massa di muscoli duri come il
marmo, sui bicipiti gonfi, sulle cosce
potenti.
Non avrebbe saputo dire quanto
tempo rimase a guardarlo prima che lui
s’accorgesse della sua presenza. Sferrò
un violento calcio al sacco, che dondolò
arrendendosi alla sua brutalità, e girò la
testa.
I loro sguardi s’incrociarono.
Il tempo si fermò.
Aveva il respiro corto e affannoso.
Non distolse mai lo sguardo, e nei suoi
occhi azzurri brillava una tale ferocia
che, per la prima volta, Gen ebbe paura.
Era selvaggio. Gen era entrata in un
angolo del suo mondo che lui non voleva
mostrare a nessuno. Intravedeva la
bestia oscura in agguato oltre le
barriere, ma Wolfe la teneva incatenata,
imprigionata
nei
sotterranei.
Guardandolo, si rese conto di essere
entrata all’inferno.
«Devi andartene.» Lo disse con la
mascella stretta, e le parole uscirono
con un sibilo. Sembrava fosse il
serpente a sussurrargli gli ordini
all’orecchio. «Subito.»
Stava per farlo. Sapeva che sarebbe
stato meglio. Ma era arrivata a una
svolta, e le restava un’ultima occasione
per provare a spezzare le sue resistenze.
Per costringerlo ad aprirsi. Per darsi
l’opportunità di essere amata da lui. In
questa stanza, stanotte, i demoni
dovevano essere liberati.
«No.»
Gli salì un ringhio dalla gola. «Ti
conviene stare alla larga, Gen. Non è
sicuro qui.»
«Non voglio stare alla larga da te.»
Indicò il sacco con lo sguardo.
«Incubi?»
Gen avrebbe voluto piangere, ululare,
scappare, tanto era il dolore impresso
sul suo volto. Ma rimase, giurando di
arrivare fino in fondo e di vedere la
fine, per quanto orribile fosse. Glielo
doveva, e lei lo doveva a lui. «Sì. Ogni
tanto mi vengono e preferisco scacciarli
allenandomi. Da solo.»
«Forse è questo il problema. Sei stato
solo troppo a lungo.»
«Non ho voglia di fare questi
discorsi, adesso. Torna a letto e
domattina parliamo.»
«E se non volessi parlare?» Lui
imprecò tra i denti. Lei abbassò lo
sguardo sull’erezione di marmo che gli
tirava i calzoncini e lo mantenne lì.
«Sembra che anche tu non voglia
parlare.»
«Smettila. Non sei al sicuro, al
momento.»
Fece un passo verso di lui. «Di nuovo
quella frase. Al sicuro. Dobbiamo stare
al sicuro l’uno dall’altra? Al sicuro dal
mondo? Perché non mi dici quello che
vuoi e ci dai un taglio con tutte queste
stronzate?»
Il lampo nei suoi occhi la fece
rabbrividire. «Voglio che tu vada di
sopra e stia lontano da me. Sono appeso
a un filo in questo momento e se si
spezza potrei farti del male.»
Lei allargò le braccia coi palmi
rivolti verso l’alto. «Mi fai del male
ogni volta che mi sfuggi, o mi tieni a
distanza. Cosa riguarda questo tuo
incubo, Wolfe? So che è una cosa brutta.
Brutta quanto?»
Lo sentì digrignare i denti. «Brutta.
Niente che tu debba sapere. Vuoi
scopare? Okay, vai su e aspettami, tra
poco vengo e ti do quello che vuoi.»
Non fece una piega. Aveva sentito il
dolore e la disperazione nella sua voce.
Tenne duro e insistette. «Parlamene.
Dimmi degli incubi. Hanno a che fare
con quei bracciali di cuoio che non ti
togli mai? Quelli che ti tocchi
continuamente, come per ricordare a te
stesso che non sei morto?»
Lo shock negli occhi di Wolfe la
distrusse. La guardò come se stesse per
aggredirlo, così addolcì la voce e si
avvicinò di un altro passo, sempre con
le braccia aperte. «Ogni volta che rifiuti
di parlarne, il ricordo acquista potere.
Se non lo tiri fuori diventa sempre più
forte e orribile. Sei già un
sopravvissuto. Cosa riguarda l’incubo?»
Il filo sottile si spezzò, e d’un tratto
Wolfe si trasformò in un essere feroce e
primitivo,
quasi
inumano
e
irriconoscibile. Con le pupille dilatate,
cacciò un urlo e si scagliò contro il
sacco da boxe come se volesse
aggredire lei. Lo riempì di calci e pugni
sfogando tutta la rabbia, ma Gen non si
mosse, non batté ciglio, lasciando che
liberasse tutto il male che aveva dentro.
«Vattene.»
«No. Parlami dell’incubo.»
Gli sfuggì un lamento. Il passato lo
risucchiò, e dovette affrontare i ricordi.
Finalmente parlò.
«Mia madre aveva finito la droga. Era
così fatta da così tanto tempo che ormai
non funzionava più. Non era più
presente, era solo una parvenza di quella
che era stata. Gli uomini volevano altri
soldi per la droga. Era la sera in cui
avevo programmato di scappare. Era
tutto pronto, ma sono venuti in camera
mia. Mi hanno violentato. Picchiato. E
quando hanno finito, era come se fossi
già morto. Proprio come mia madre.»
Non lasciò che si fermasse, lo incitò
ad andare avanti, certa che ora della fine
della storia sarebbe morta con lui.
«Cos’hai fatto, Wolfe?»
Aprì la bocca, la richiuse. Guardò la
parete con lo sguardo assente, tremando
leggermente. Poi abbassò le mani e si
tolse i bracciali. Gen inorridì. Le ferite
erano scure e profonde, un incrocio di
tagli fatti a casaccio. «Ho preso il
coltello. Dovevo chiuderla lì. Mi sono
tagliato i polsi e ho aspettato di morire.»
Sentì le guance bagnate ma non
importava. Doveva tirargli fuori tutta la
storia, spurgare quella ferita infetta che
lo stava uccidendo a poco a poco. «Ma
non sei morto. Cos’è successo?»
«Sono svenuto. Ero contento. Pensavo
di essere libero. Invece mi sono
svegliato nello stesso letto. Coi polsi
bendati. Sangue dappertutto. Non so
quanto tempo sono rimasto incosciente,
né cosa fosse successo. Mi sono
svegliato, ho guardato fuori e non c’era
nessuno. Mia madre era sparita. La casa
era vuota. Me ne sono andato.»
«Dove sei andato?»
«Ho camminato. A lungo. Ho dormito
nei boschi. Aspettavo di morire. Non
ricordo molto di quei primi giorni. Ho
trovato un ristorante e ho chiesto
qualcosa da mangiare, me l’hanno dato.
Ho rubato. Ho trovato dei posti dove
dormire. Poi ho incontrato altri due
ragazzi come me. Mi hanno insegnato a
sopravvivere. A pestare i malcapitati
per derubarli. A stare lontano dalla
polizia e dalle comunità di accoglienza.
Vedi, all’inizio era tutto un gioco. Ero
convinto che sarei morto accoltellato
durante una rissa o in prigione. Invece
no. I giorni sono passati, e mi sono
riabituato a vivere. Ma quando mi
guardavo i polsi mi ricordavo di quella
notte. Così ho iniziato a coprirli. Per non
vederli. Per fingere che non fosse
successo. Per non ricordare.»
Gen avrebbe dato l’anima per
abbracciarlo, stringerlo, piangere con
lui. Sapere finalmente la verità e sentirsi
ancora così distante da lui la lacerava.
Le stava sfuggendo, a poco a poco, e in
preda alla pura disperazione, gli si
avvicinò e lo afferrò per le spalle,
piantandogli le unghie nella pelle e
scuotendolo con tutta la forza che aveva.
«Invece te lo ricordi. È successo, e
sei sopravvissuto. Sei qui adesso, con
me.»
«Non sono integro.»
Parole semplici, ma taglienti come un
rasoio. Gli prese il volto tra le mani,
tenendogli la testa ferma. «Certo che sei
integro. Ti hanno leso fisicamente, tua
madre ti ha spezzato il cuore, ma sei
sempre tu, la tua anima è ancora la
stessa. Ogni giorno che hai scelto di
vivere, di provarci, di voler bene a
qualcuno come a Sawyer, a Julietta, a
Gabby e a me, hai detto un bel
vaffanculo. Sei integro.»
Wolfe rabbrividì e le strofinò le mani
ai lati del corpo come se il calore della
sua pelle potesse sciogliere il ghiaccio
dentro di lui. «Sono sempre in bilico,
sull’orlo dell’abisso. Non sono sicuro di
poter mantenere il controllo.»
In un lampo, Gen riconobbe la linea
sottile che divideva il piacere dal
dolore, la sopravvivenza dalla morte. Le
emozioni erano troppe per lui ora, e
aveva bisogno di uno sfogo, di qualcosa
a cui aggrapparsi e per cui lottare.
Aveva bisogno di qualcosa di buono, di
puro e di reale da sostituire all’orrore.
Doveva assolutamente tirarlo fuori da
quel luogo infestato dai demoni. Per
farlo, si arrese all’istinto.
«Non devi mantenere il controllo.»
Gli passò le dita tra i capelli e glieli
tirò. Premendo il corpo contro il suo,
sentendo ogni muscolo e la pelle umida
di sudore, gli parlò con le labbra
attaccate alle sue. «Sono io quella che ti
ama. Usa me.»
Il desiderio si accese. Provò a
respingerla, ma lei gli stava avvinghiata
con forza, intuendo che il muro tra loro
stava per sgretolarsi. «No, ti farei del
male.»
Gli affondò i denti nel labbro e le
unghie nel cuoio capelluto. «Bene.
Scopami. Prendimi. Sono già tua. È
questo che è reale, e bello.» Gli sfuggì
un lamento e l’afferrò, sollevandola
affinché gli avvolgesse le gambe intorno
alla vita. Ansimava.
«Gen...»
«Adesso, qui, noi due. È bellissimo.
Usami e ricordati questo.» Lo baciò,
spingendogli la lingua fino in fondo alla
bocca e gustando il vero sapore del
maschio. Tremando come in preda alla
febbre, lui le strinse le braccia intorno
alla vita e rispose al bacio.
Cominciarono a divorarsi, sempre più
famelici. Si spostò un po’ più in là,
barcollando, la adagiò su una panca e le
strappò la maglietta. Lei lo prese per le
spalle, inarcandosi, accettando il morso
dei suoi denti sui capezzoli, la sua bocca
che succhiava forte, la sua lingua che
guizzava. Le strappò anche i pantaloni
del pigiama. Nuda e aperta sulla panca,
gli abbassò i pantaloncini e gli prese il
membro in mano, stringendo forte e
strappandogli qualche imprecazione.
Quando gli passò le unghie sui testicoli,
lui la spinse di nuovo sulla panca.
«Allarga le gambe. Reggiti alla
sbarra.»
Lei obbedì, volendo disperatamente
dargli tutto ciò che poteva. In piedi su di
lei, le prese i seni tra le mani
appoggiando il membro sul suo punto di
accesso. Si sentiva gonfia e bagnata e il
bisogno di averlo dentro era tale che
probabilmente sarebbe venuta alla prima
spinta.
«Sei mia.»
La penetrò in profondità. Lei urlò
quando la barretta di metallo strusciò
contro il clitoride per poi toccare il
punto magico. «Oh, mio Dio.»
Lo fece di nuovo. Le prese le
ginocchia e gliele spinse verso l’alto in
modo da entrare tutto dentro di lei, senza
lasciar fuori nulla, dandole un piacere
che rasentava il dolore a cui lei cercò di
sottrarsi. «È troppo.»
«Non è ancora abbastanza.»
Un’altra spinta. Più veloce. Più forte.
Più in profondità. Lei scuoteva la testa
ma lui non si fermò, costringendola a
prendersi tutto di lui, facendola arrivare
così in alto che non credeva sarebbe mai
tornata giù.
«Wolfe!»
«Vieni. Vieni per me, Gen.»
L’orgasmo coinvolse tutti i muscoli
del suo corpo, spremendoli senza pietà.
Il suo grido squarciò l’aria e Wolfe
premette le labbra su quelle di lei per
attutirlo. Poi le venne dentro mentre lei
si dimenava fuori controllo e gli spasmi
continuavano...
Non si accorse neppure che stava
piangendo finché non sentì i singhiozzi.
La prese tra le braccia mormorandole
parole dolci e stringendola con
tenerezza mentre lei piangeva per il
ragazzo che era, per le sofferenze che
aveva sopportato e per l’amore
devastante che provava per lui. Lo
amava più di chiunque altro al mondo.
Pianse per lui e anche per se stessa,
per la paura che quella notte non
sarebbe stata comunque sufficiente
perché lui la amasse come aveva
bisogno di essere amata.
La tenne stretta a lungo. Quando alla
fine si calmò la accompagnò di sopra, la
infilò sotto le coperte e si mise a letto
con lei. La attirò a sé e le circondò la
vita con le braccia. Lei portò i suoi
polsi pieni di cicatrici alle labbra e li
baciò con tenerezza.
Dormirono.
Era andato via.
Gen si rigirò nel letto e fissò il muro.
La luce del giorno penetrava nella
stanza. Avevano fatto l’amore altre due
volte, quella notte, in un modo che
trascendeva la sola passione fisica.
Avevano unito le loro anime, oltre ai
loro corpi, tanto da non essere più due
individui ma uno soltanto.
Non sarebbe più stata la stessa. Non
avrebbe mai amato nessuno come amava
Wolfe. Quella notte sarebbe potuta
essere l’inizio di un nuovo capitolo
della loro vita, un capitolo in cui
l’amicizia diventava amore e l’amore
dava il via a una relazione in cui
crescere insieme.
Invece Gen sentiva che quella notte
lui le aveva dato l’addio definitivo.
Si mise a sedere, lentamente. Fece
una smorfia per i leggeri lividi sul
corpo, ma quel dolore era nulla se
paragonato a quello che provava nel
cuore. L’odore di sesso e muschio le salì
alle narici. Doveva trovare un modo per
avvicinarlo, o sarebbe stata costretta a
prendere l’unica decisione che restava.
Rassegnarsi a perderlo.
Si fece la doccia, si vestì e scese in
cucina. Julietta aveva la bambina sul
fianco, una spatola in mano e il cellulare
bloccato tra l’orecchio e la spalla. «Sto
arrivando, tu resta lì», disse in italiano.
Poi posò il telefono. «Porca vacca!
Idiota! Perché gli uomini sono così
testardi?»
Gen prese il piatto da portata con le
uova e le verdure. «Mi stavo facendo la
stessa domanda.»
Julietta scosse la testa, preparò due
piatti e mise la bambina nella sdraietta.
Poi posò due tazze fumanti di caffè sul
tavolo. «Bevi. La caffeina migliora le
cose. Wolfe si sta comportando da
idiota?»
Soffocò una risata. «Sì. Siamo a un
punto morto.» Gen si ricordò che Julietta
non sapeva che andavano a letto
insieme. «Della nostra amicizia,
ovviamente.»
La donna le fece un sorriso d’intesa.
«Ah quindi pensi che sia idiota anche
io? So che andate a letto insieme. Tu sei
innamorata di lui e lui di te, e
probabilmente sta facendo i salti mortali
per negare tutto, rifiutando la realtà
della situazione. Ci sono andata
vicina?»
Gen la fissò. «Come fai a saperlo?»
Julietta scosse la testa e sorseggiò
dell’altro caffè. «Ve lo leggo in faccia.
Wolfe è mio figlio. Sapevo che un
giorno si sarebbe innamorato e avrebbe
sofferto. Somiglia molto a Sawyer, e
anche noi abbiamo avuto dei problemi.
Posso fare qualcosa?»
Sospirò. «Non penso. Sta a lui
scegliere. Io così non posso andare
avanti. Fingere di essere solo amici
quando le cose sono cambiate. Non
posso tornare indietro.»
«E nemmeno devi.» Si picchiettò un
dito sulle labbra. «È stato in analisi ma
c’è una parte di lui che nessuno può
toccare. Non l’ho mai visto così aperto
come quando ti guarda. Ha il cuore più
leggero ed è più in pace. Lo rendi
felice.»
Gen trattenne le lacrime. Non voleva
fare la femminuccia frignona. Basta
piangere. «Grazie. Significa molto per
me.»
«Ti ha parlato del suo passato?»
Le salì un nodo in gola, ma si sforzò
di rispondere. «Sì. Finalmente mi ha
detto tutto.»
La donna annuì e cadde in silenzio per
riflettere. «Ti ha fatto un dono. A parte
Sawyer e forse il suo analista, non l’ha
mai detto a nessuno. Credo che ci sarà
sempre un lato oscuro in lui che non
comprenderemo mai veramente. Ma ho
insegnato a Sawyer a tenerlo a bada,
senza farsi influenzare. Entrambi
meritano molto di più.» Le si spezzò la
voce ripensando al passato del marito.
Gen era sollevata dal fatto che la
capisse e che avesse superato i suoi
stessi ostacoli. Loro però avevano una
famiglia, adesso, e un futuro pieno di
promesse. Era possibile trovare la
stessa felicità con Wolfe?
«Cosa posso fare?» sussurrò. «Io lo
amo.»
Julietta allungò un braccio e le strinse
la mano. «Lotta. Io ho lottato per
Sawyer, ma non è stato facile.»
«E se lui non vuole lottare per me?»
Staccò la mano e un lampo di tristezza
le attraversò il volto. «L’amore è una
scelta, no?» disse con dolcezza.
Il
cellulare
di
Gen
vibrò,
interrompendo la conversazione. Guardò
il nome sul display. La polizia di Verily.
«Scusa, devo rispondere.»
«Prego. Vado a vestire Gabby.»
Gen andò in biblioteca. «Pronto?»
«Signorina
MacKenzie.
Agente
Petty.»
«Salve, agente. Avete parlato con
David?»
«In effetti sì. Era a Boston la sera del
vandalismo.
I
testimoni
hanno
confermato.»
Si sentì sprofondare. «Non può
essersi allontanato di nascosto? O
averlo fatto fare a qualcun altro? Non
capisco.»
«Abbiamo trovato i colpevoli. Anzi,
la colpevole. Conosce una certa Sally
Winters che lavora in ospedale?»
Un capogiro. Cosa? «Sì. Lavoravamo
insieme. È una mia amica. Mi sta
dicendo che è stata lei?»
«Già. Ieri sera ha scritto ‘Bugiarda’ e
‘Puttana’ sulla facciata di casa sua, ma
una vicina l’ha colta sul fatto. Ci ha
chiamati e abbiamo sorpreso Sally con
la vernice spray. Ha ammesso tutto.»
«Quale vicina?»
«La signora Blackfire.»
Gen scosse la testa. Immaginò
l’anziana ficcanaso col cannocchiale, e
d’un tratto non le sembrò più così
squilibrata. «Come è riuscita a coglierla
in flagrante?»
«Ha detto che non poteva permettere
che i pasticci sui muri facessero
scendere il valore del quartiere, quindi è
stata di guardia nelle ultime notti.» Il
tono era lievemente divertito. «È molto
irascibile. Voleva denunciare Sally
Winters, ma la proprietà è la sua. Spetta
a lei fare la denuncia. Comunque Sally
ha confessato di essere andata a letto
con David dopo la rottura del
fidanzamento e di aver pensato che fosse
una cosa seria. Aveva paura che volesse
tornare con lei quindi ha architettato un
piano per spaventarla.»
Gen si morse il labbro. C’era ancora
qualcosa che non quadrava. Anche se
Sally era interessata, l’intera faccenda
puzzava di manipolazione. «Siete sicuri
che non l’abbia istigata David a farlo?»
Un breve silenzio dall’altra parte.
«Lei lo nega, ma non mi sorprenderebbe.
In ogni caso ho la sua deposizione. Lei
dovrebbe passare qui in centrale, però.»
L’idea che la sua amica e collega
fosse accondiscesa a un atto così
spregevole l’addolorava, ma sapeva
quanto riusciva a essere convincente
David. Le aveva probabilmente
promesso un futuro insieme senza dirle
di Boston. Aveva pianificato tutto
affinché arrivasse a fare quello che lui
voleva facesse. Si sentì sollevata. David
non le avrebbe più dato fastidio,
specialmente adesso che Sally era stata
beccata. Era finalmente libera.
Era il momento di fare l’ultimo
tentativo.
«Grazie agente. Tornerò domani se
per voi va bene.»
«Certo. Mi chiami quando arriva a
casa.»
Si salutarono e lei spense il cellulare.
Strano, fu come se altri pezzi della
sua vita fossero andati a posto. Voleva
riprendere a fare il medico. Tornare in
ospedale e finire quello che aveva
cominciato. Voleva recuperare il
rapporto con la sorella e avere più
tempo per le amiche.
E voleva Wolfe.
Lo trovò sul balcone. Sorseggiava il
caffè guardando il traffico cittadino che
si muoveva sotto di lui, immerso nei
suoi pensieri. Si fermò a osservarlo.
Il modello miliardario divenuto un
magnate dell’industria era vestito come
al solito, in pantaloncini e maglietta, ed
era seduto coi piedi nudi appoggiati sul
tavolino. I riccioli castani gli cadevano
disordinatamente intorno alla testa ed
emanava il familiare odore di limone,
sapone e caffè. Immaginò di non
svegliarsi accanto a lui al mattino e di
non dargli il bacio della buonanotte.
Non era possibile: voleva essere lei a
uccidergli i ragni, a cucinare per lui, a
sgridarlo, a fare l’amore con lui in ogni
momento libero.
La notte scorsa le aveva detto la
verità.
Adesso doveva darle il cuore.
«Wolfe.»
Si girò di scatto, facendo uscire un
po’ di caffè dal bordo della tazzina. Si
alzò in piedi, asciugò la macchia e posò
il caffè sul tavolino. «Scusa, non ti ho
sentito.»
Si guardarono. Ricordando. Lo
sguardo le cadde un attimo sui suoi
polsi, nuovamente coperti dai bracciali
di cuoio. Lui li toccò, poi smise.
«Come ti senti?» gli chiese con
dolcezza.
«Bene.»
«Ha chiamato la polizia. Hanno
trovato chi è stato.» Aggrottò la fronte.
Gli riferì velocemente la conversazione
con l’agente e lui sembrò accettare la
spiegazione. «Gli ho detto che torno
domani.»
«Si può fare. Ti aiuto a ridipingere.»
«Ho deciso di tornare in ospedale.»
Annuì, come se cercasse di tenere il
passo. «Bene. È il tuo posto. Potrebbe
essere dura all’inizio, ma nulla che tu
non possa gestire. L’ho sempre saputo.»
«Wolfe?»
«Sì?»
«Ti amo.»
Sussultò. Impallidì.
Lei si sentì mancare, ma si era
impegnata a fare un ultimo tentativo e
sarebbe andata fino in fondo. Da amici,
si erano sempre detti di volersi bene.
Ma l’amore era un’altra cosa.
«Be’, siamo amici», disse lui.
S’irrigidì, cercando d’ignorare il
pugno allo stomaco. «Non in quel senso.
Ti ho sempre voluto bene come amico.
Ma c’è dell’altro adesso. Ti amo come
uomo, come amante, come compagno.»
Fece un balzo indietro, premendo la
schiena contro la ringhiera. «Perché fai
così adesso? Torniamo a casa,
chiariamoci le idee e vediamo cosa
succede.» Gli sfuggì una risata nervosa.
«Stanotte è stata dura per me, ti ho detto
cose che non ho mai detto a nessuno.»
«Tu mi ami?» Lui spalancò gli occhi.
Gen giurò che stesse considerando
l’eventualità di buttarsi giù dal balcone
per non rispondere. Gli si avvicinò,
obbligandolo ad affrontarla. «Perché
questa notte ha significato molto per me.
Mi hai fatto dono della verità. Ma non è
solo questo. Ti guardo negli occhi e
vedo l’uomo che desidero con tutta me
stessa. Ti voglio nella mia vita più che
come amico. Mi vuoi anche tu?»
Inghiottì a vuoto. La fissò. Nei suoi
occhi azzurri brillava la paura allo stato
puro.
E non rispose.
Gen si fermò a pochi centimetri da
lui. «Ti amo», ripeté. «Adesso. Qui. Ho
bisogno di sapere cosa provi per me. La
verità.»
Il sole batteva caldo e splendente. Il
ronzio dei motorini e il rumore dei passi
sui marciapiedi saliva fino a loro. Non
si mosse, non batté ciglio. Era immobile
come una statua. O come la vittima di
un’aggressione
che
guardava
l’aggressore andargli incontro.
Le tremarono le mani, le si annodò lo
stomaco. Lo stava perdendo, e non
sapeva cosa fare per sbloccarlo, per
convincerlo a lottare per lei e ad
ammettere i suoi veri sentimenti.
«Ti prego, dì qualcosa», sussurrò.
«Qualsiasi cosa. Non posso più andare
avanti così. Sto lottando per entrambi,
ma se non mi dai un segno, qualcosa in
cui sperare, io...» Lo prese per la
maglietta, tirandolo verso di sé. Presero
subito fuoco entrambi.
«Non m’importa del tuo passato. A
me importa del tuo futuro. Con me. Ma
devi dirmelo. Maledizione, Wolfe, dì
qualcosa!»
Il silenzio fu assordante.
Mollò la presa. Lui la fissava,
rifiutandosi di parlare. Gen fece un
passo indietro, poi un altro, finché non
fu sulla porta e lo spazio tra loro
divenne largo e profondo come il Grand
Canyon.
Era finita.
Era finita.
Lo sapeva. Aveva capito che sarebbe
successo quando era uscita sul balcone.
Era così bella. Nonostante lui si
rifiutasse di parlare, continuava a
sfidarlo, col mento alzato. Ti amo.
Parole che gli toccarono il cuore e lo
risanarono. Parole che gli toccarono il
cuore e lo fecero a pezzi.
Con Julietta, Sawyer, Gabby e
mamma Conte era diverso. Non era
quell’amore che ti consumava, che ti
mangiava vivo, che incasinava tutto.
Questo tipo di amore, questa smania di
dare il mondo a una persona, era
impossibile. Avrebbe finito per farle del
male, perché lui era come merce
avariata. Aveva fatto cose terribili.
Aveva rubato. Era stato violentato da
mostri. Non era pulito e non era degno
di una donna come lei. Non sarebbe
riuscito a crescere dei figli, a essere un
marito e un padre responsabile. Cosa
sarebbe successo se i demoni fossero
tornati e si fossero impadroniti di lui?
Gen meritava di più, e se tacere adesso
era il modo di proteggerla, così avrebbe
fatto.
Lo sapeva anche suo padre.
Gliel’aveva detto chiaro e tondo.
Jim sapeva dei demoni e diceva che
tornavano sempre. Non avrebbe
permesso
che
quei
bastardi
trascinassero nell’abisso dell’inferno
anche lei.
Si allontanò. Wolfe sentì il gelo,
dentro, quel torpore familiare che lo
trascinava di nuovo nel vuoto.
Dì qualcosa.
Quella preghiera e le lacrime che
brillavano nei suoi occhi l’avrebbero
perseguitato per sempre.
Aprì la bocca.
La sua voce sottile si ruppe, come un
vetro in frantumi. «Non posso più
andare avanti così.»
La porta si chiuse.
Wolfe si voltò. Se n’era andata.
L’aveva fatto. Aveva reciso l’ultimo
filo che li teneva uniti. Forse, col tempo,
avrebbero potuto tornare a essere amici.
Lui avrebbe seppellito i propri
sentimenti, avrebbe atteso il tempo
necessario, poi sarebbe tornato da lei.
Almeno era al sicuro. Poteva riprendere
in mano la sua vita. Tornare a essere se
stessa.
Bastava aspettare. Darle il tempo
necessario per farsela passare. Poi pian
piano sarebbe tornato nella sua vita. Con
le dovute distanze. Senza rischi.
Da amico.
Dì qualcosa.
Wolfe chinò la testa, convinto di aver
fatto l’unica cosa possibile.
Salvarla da se stesso.
Capitolo 26
Genevieve si sedette nel séparé e
sorrise. Le sue migliori amiche
commentarono il suo arrivo con
gridolini di gioia e le passarono un
margarita con la perfetta quantità di sale
sul bordo del bicchiere. Era il suo
ultimo giorno in Kinnections prima di
riprendere ufficialmente l’internato.
Dopo aver discusso alcuni punti con
Brian e dopo un confronto aperto con
alcune figure chiave dell’ospedale, che
aveva provveduto a informare del
comportamento di Sally, Gen si sentiva
più preparata. Era un chirurgo ed era
tempo di riprendere in mano la sua
carriera. C’erano ancora molti fantasmi
contro cui combattere, ma era pronta ad
affrontarli.
«Mi mancherete», disse sollevando il
bicchiere. Kate, Arilyn e Kennedy
fecero cin cin. «Mi ero abituata a
vedervi tutti i giorni.»
Kate alzò un sopracciglio. «Questo
non
cambierà.
So
che
sarai
occupatissima, Gen, ma non voglio più
che ci sfuggi come hai fatto prima. Hai
bisogno di equilibrio. Hai bisogno di
noi.»
«Assolutamente», concordò Arilyn.
«La vita passa in fretta e anche se il
lavoro è importante non è tutto.»
«Sappi che appena ricominci a essere
strana o riservata, ti preleviamo con la
forza e ti facciamo ubriacare», la
informò Kennedy.
Gen rise. «Grazie, ragazze. È bello
essere di nuovo da Mugs.»
Chiacchierarono di scarpe, di
Kinnections e del matrimonio di Kate.
Quando notò che l’amica esitava a
scendere nei dettagli, le prese la mano.
«Kate, ascolta. So che il mio matrimonio
andato all’aria ha creato qualche
imbarazzo. Ma sono felicissima per te e
per Slade. Perché mi avete mostrato la
differenza tra l’amore vero e quello che
sembra perfetto solo sulla carta. Parlare
di vestiti e di fiori è divertente, e non mi
rattrista affatto. Hai capito?»
L’amica annuì, e la tensione sul suo
volto si allentò. «È che mi dispiaceva.
Sei la mia damigella d’onore e non
volevo ti pentissi d’avermi detto di sì.»
«Mai. Sarà un matrimonio favoloso e
starti accanto può solo farmi felice.
Adesso basta stronzate.»
Kate rise. «D’accordo. C’è qualcuno
che può aiutarmi a convincere mia
madre a non dare in omaggio i brownies
alla marijuana?»
Kennedy alzò un sopracciglio. «Io
credo che insisterò perché lo faccia.»
Arilyn rimase stranamente in silenzio
per tutto il giro di drink successivo. Alla
fine Gen si chinò verso di lei e le parlò
a voce un po’ alta per farsi sentire. «A?
Cos’hai? Ti vedo distratta. Va tutto
bene?»
Kate e Kennedy si scambiarono
un’occhiata. Arilyn sorrise ma non era il
suo solito sorriso genuino da duemila
megawatt che metteva allegria solo a
guardarlo. «Mi sbagliavo», disse
finalmente.
Gen alzò la testa. «Su cosa?»
Nei suoi occhi verdi c’era una punta
di rammarico. «Ti ho detto di vivere il
momento. Di non mettere tutto in
discussione, parlando di regole e
sentimenti. Lo pensavo, quando l’ho
detto, ma ora so che sbagliavo.»
Kate
cominciò
a
cambiare
espressione. Lo sguardo s’incattivì. Gen
pensò che avrebbe dato una sonora
strapazzata all’istruttore di yoga.
Kennedy strinse i pugni come se si
stesse preparando a pestarlo. «È
successo qualcosa?» le chiese con
dolcezza. «Ti ha mollata?»
Scosse la testa. I lucenti capelli rossi
svolazzarono a destra e a sinistra. «Non
ancora. Ma i vigliacchi fanno così. Se
ami qualcuno, devi essere onesto.
Coraggioso. Dirglielo chiaramente e
fregartene delle regole. Perché comincio
a credere che quando ami qualcuno le
regole non valgono più.»
Gen era quasi piegata in due, tanto
male le fecero quelle parole e il
pensiero di Wolfe che le accompagnò.
Era un dolore lancinante, che toglieva il
fiato. Da quando erano tornati, due
settimane prima, lui era andato via e si
era tenuto a distanza. Qualche
messaggio, un paio di telefonate. Una
sera avrebbe giurato di aver visto la sua
macchina parcheggiata in fondo alla
strada, ma quando era uscita a guardare,
l’auto non c’era più.
Gli sembrava di vederlo dappertutto,
ma non c’era mai. Da quel fatidico
giorno sul balcone, Gen si era resa conto
di non poter vivere in un continuo stato
di bisogno. Non era facile allontanarsi
da Wolfe, anche perché aveva il timore
che non sarebbe mai riuscita a
dimenticarlo e che qualunque altro uomo
sarebbe stato soltanto una sua pallida
fotocopia. Ma ci avrebbe provato con
tutte le forze.
Stavolta non c’era il premio di
consolazione dell’amicizia. Alla fine le
commedie romantiche avevano ragione.
Il sesso tra amici rovina tutto.
Le ragazze sospirarono, solidali. «Mi
dispiace, A», intervenne Gen. «Quando
ho detto la verità a Wolfe, lui non ha
reagito. Non è riuscito a darmi quello di
cui avevo bisogno. Ma hai ragione.
Meglio saperlo subito che scoprirlo
dopo.»
«Già.»
Bevvero i loro cocktail con la musica
in sottofondo. «Credi che Wolfe ti
cercherà?» domandò Arilyn.
Un nodo allo stomaco. «Se non è
pronto a dare tutto se stesso, non voglio
nemmeno starlo a sentire. E se sta
aspettando che mi passi e che possiamo
tornare a essere amici, rimarrà
parecchio deluso.»
«Non sarebbe mai così stupido»,
commentò Arilyn. «Wolfe è un tipo in
gamba.»
Kennedy sbuffò dal naso. «Ha un
pene. Fidatevi, potrebbe essere così
stupido, specialmente adesso che Gen
l’ha mandato in stato confusionale.
Nessuna ha mai preteso più di una bella
chiacchierata e di una scopata veloce.
Non è mai stato innamorato, quindi non
sa come gestire la cosa.»
«Odio l’amore», si lamentò Arilyn.
Un’altra occhiata complice tra Kate e
Kennedy.
Gen sospirò e finì il suo drink.
«Anch’io. Essere innamorate è uno
schifo.»
Kennedy alzò il braccio per chiamare
la cameriera. «Ecco perché hanno
inventato l’alcol, ragazze. Un altro giro,
per favore.»
Si guardarono e scoppiarono a ridere.
Wolfe la stava aspettando. Finalmente la
vide sul marciapiede.
Era seduto in macchina in attesa della
donna che aveva sostituito i suoi incubi.
Da quella fatidica notte, il loro rapporto
si era raffreddato. Aveva accettato di
prendersi la colpa e di aspettare che lei
si calmasse e capisse che era meglio che
restassero amici.
Ma le ultime due settimane erano state
allucinanti.
Stava per riprendere il suo ruolo in
ospedale. Era così fiero di lei. A volte,
quando non riusciva a dormire, andava a
Verily e parcheggiava sulla strada.
Guardare la sua allegra casetta gialla lo
faceva sentire bene. Ora che David era
fuori dalla sua vita e che essendo a
Boston non poteva più avvicinarla, ora
che il colpevole era stato trovato e
punito, le cose stavano tornando alla
normalità.
Lo stesso avrebbe dovuto valere per
il loro rapporto.
Col fiato sospeso, la guardò
camminare verso casa al chiaro di luna.
Era splendida. Probabilmente era stata
da Mugs con le amiche. Indossava un
paio di jeans elasticizzati, sandali col
tacco alto e un top scintillante tutto pizzo
e brillantini. I boccoli le rimbalzavano
disordinatamente intorno al viso.
Canticchiava una canzone che non
riusciva a sentire. Sì, sicuramente Mugs.
Piegava i fianchi più del dovuto al ritmo
della canzone che le era rimasta in
mente e salì i gradini a due a due. La
luce della veranda si accese.
Sparì in casa.
Gli sudavano le mani. Imprecò tra sé
e scese dall’auto. Non voleva fare il
cacasotto. Certo, era stato stronzo, ma
meglio adesso che farsi odiare dopo,
quando si fosse resa conto che era un
uomo a metà. Lo stupro e il tentato
suicidio avevano portato via una parte
di lui. L’aveva ricostruita, ma c’era
troppa violenza nel suo passato. Lei era
integra, pulita, innocente. Lui no.
Stava meglio senza di lui.
Si asciugò le mani sui jeans e
percorse lentamente il vialetto. Sarebbe
stato disinvolto, amichevole e educato.
Solo per sapere come stava. Magari
potevano bersi una birra. Sicuramente
l’avrebbe lasciato entrare e avrebbe
cominciato a perdonarlo. Sicuramente
avrebbe capito le sue motivazioni e si
sarebbe resa conto che le cose tra loro
potevano tornare come prima.
Bussò.
Lei rimase di sasso quando lo vide.
Lui si sentì come se fosse appena
inciampato e stesse precipitando in
caduta libera.
Dalla sua bocca uscì una spruzzata di
ghiaccio. «Cosa vuoi?»
Wolfe cercò di non fare un balzo
indietro. Questa non era la solita Gen.
Lei non l’avrebbe mai trattato come un
estraneo
indesiderato.
«V-volevo
vederti. Sapere come va. È passato un
sacco di tempo.» Aspettò come un idiota
davanti alla sua porta mentre lei lo
guardava come un insetto che stava
decidendo se schiacciare o meno.
S’irritò. Per tutti i diavoli, non era così
che doveva andare. «Hai intenzione di
farmi stare qui o mi fai entrare?» La
battuta non venne colta e quando guardò
in quegli occhi azzurri non vide... nulla.
C’era un muro, tra loro. Se avesse
allungato la mano avrebbe potuto
toccarlo. In qualche modo, doveva
sistemare questa situazione.
«Gen, ti prego. Fammi entrare. Una
birra?»
Finalmente si spostò dalla soglia e lo
fece entrare.
Cercò di nascondere il sollievo e di
comportarsi come se niente fosse
successo. Andò in cucina, prese due
birre dal frigo, le stappò e gliene porse
una. Era una specie di rito, per loro, e si
aspettava un sorriso da parte sua, o una
frecciatina che l’avrebbe fatto ridere.
Invece prese la bottiglia e la tenne in
mano, come se avesse paura di bere.
Era sempre più irritato. «Sei andata
da Mugs con le ragazze?»
«Già.»
«Divertita?»
«Certo.»
Annuì, sorseggiò la birra e cercò di
mantenere la calma. Il fatto che
rispondesse a monosillabi era molto
seccante, ma se avesse perso la pazienza
l’avrebbe cacciato fuori a pedate. E poi
perché prendersela? Era stato lui ad
allontanarla,
quindi
non
poteva
aspettarsi che sarebbe stata una
passeggiata. Forse era meglio affrontare
il discorso che entrambi stavano
cercando di evitare?
«Volevo parlarti.» Altro silenzio. «Mi
dispiace per quello che è successo quel
giorno sul balcone.» Faccia impassibile.
«Puoi dire qualcosa anche tu, sai?»
«Per cosa ti dispiace esattamente?»
Gelida. Controllata. Wolfe inspirò e
giurò di fare in modo che capisse. «Per
averti ferita. Ho fatto l’unica cosa che
potevo fare. Un rapporto di quel tipo
non funzionerebbe mai tra noi, piccola.
Non sono a posto con la testa, e non
tollero l’idea di rovinare tutto. Non
pensi anche tu che sia meglio essere
amici? Ho voluto darti un po’ di tempo
affinché tu potessi arrivare alla stessa
conclusione.»
Lo fissava e basta. Analizzando le sue
parole come fosse un estraneo. L’aveva
penetrata in profondità e l’aveva fatta
urlare in preda agli orgasmi. L’aveva
salvata dal matrimonio. Le aveva detto
la verità sul suo passato. E nonostante
tutto questo, il suo volto non tradiva
alcuna emozione.
«Volevi dire qualcos’altro?»
«Perché fai così? Non capisco perché
vuoi buttare alle ortiche la nostra
amicizia. Ti serve altro tempo? Dimmi
cosa fare per sistemare le cose e lo
faccio.»
Posò lentamente la birra. L’unico
segno di turbamento era che si stringeva
le braccia intorno al petto, come se
volesse proteggersi da lui. Provò un
dolore profondo. Lo stava torturando.
Avrebbe voluto prenderla tra le braccia,
renderla felice, farla ridere. Ma adesso
non era più come quando aveva lasciato
David.
Adesso lo guardava come se fosse il
suo incubo peggiore.
«Non puoi sistemarle», disse
finalmente. I suoi occhi azzurri restarono
calmi. «Non credo che tu capisca,
Wolfe. Non siamo più bambini. Non
posso smettere di amarti con un colpo di
bacchetta magica. Non posso prendere
un hamburger e una birra con te senza
desiderare di averti nel mio letto e darti
tutta me stessa.»
«È un problema che possiamo
risolvere. Col tempo le cose
miglioreranno e torneranno come prima,
te lo prometto.»
Fece una risata amara. «No, non
miglioreranno. Non se continuo a vederti
e a ricordarmi quello che non potrò mai
avere. È finita tra noi. È finito tutto.
L’amicizia, le uscite, i messaggi, le
telefonate e le email. Ho bisogno che tu
te ne vada. Non voglio più vederti. E
nemmeno essere tua amica.»
Il panico gli attanagliava il petto,
tanto da rendergli difficile respirare.
«Non puoi dire sul serio. Sei ancora
arrabbiata, ci sei rimasta male, ma io
non vado da nessuna parte. Come puoi
rinunciare a quello che c’è tra noi?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Si guardarono, sfidandosi. Lui posò
con rabbia la birra e si passò le dita tra i
capelli. «Questa è una cosa diversa»,
protestò. «Cazzo, ti ho anche spiegato il
motivo! Stai punendo tutti e due per una
cosa su cui non ho alcun potere. Io sto
cercando di proteggerti!»
Un sorriso triste le piegò le labbra.
«No. Tu stai cercando di proteggere te
stesso. Sei forte, coraggioso, puro di
cuore, ma stai scappando come un
vigliacco. Mi hai ferita rifiutandoti di
lottare per noi due. Nascondersi dietro
una bugia non cambierà la realtà. Mi
dispiace che tu non possa avere tutto
quello che vuoi, ma io non sono un
premio di consolazione. Ho giocato tutte
le mie carte e ho perso, quindi ho
chiuso. Con te. Con noi. Dovrai trovare
qualcun’altra per uscire. Per bere la
birra, giocare a freccette e fingere di
essere diverso da quello che sei. Perché
io mi chiamo fuori.»
Andò ad aprire la porta. Restò a
bocca aperta. Lo stava buttando fuori?
Non voleva più vederlo? Gli venne un
capogiro e sentì un ronzio nelle
orecchie, come uno sbatter d’ali di
uccelli che lo disorientava. Non poteva
perderla.
Sarebbe morto senza di lei.
«Vattene, Wolfe. E per favore non
cercarmi. Ho bisogno di tempo per
guarire e per imparare a vivere senza di
te.»
«Non farlo», disse con voce rotta. «Ti
prego.»
«Non è una punizione. È solo quello
che devo fare.»
Non avrebbe saputo dire quanto
tempo rimase lì. Gen aspettò con
pazienza, senza incrociare il suo
sguardo, finché Wolfe si convinse a
prendere la via della porta. Si fermò
accanto a lei. «Gen.»
Lei non disse niente.
Wolfe se ne andò.
Quando gli chiuse la porta alle spalle,
si rese conto che forse c’era qualcosa di
persino peggiore di quello che gli era
capitato in passato.
«Tesoro, che c’è che non va? Io e tua
madre siamo preoccupati.»
Gen fece un sorriso forzato ai suoi
genitori. Girava la forchetta a vuoto nel
piatto, senza appetito. Le era passato da
quando Wolfe era andato da lei, qualche
sera prima. Era assillata da un profondo
senso di perdita da cui non riusciva a
liberarsi. Strano, non aveva provato
nulla di simile quando aveva lasciato
David. Si sentiva come se avesse dato
metà del suo cuore a una persona che
non lo voleva.
Era stata sul punto di cedere,
accettando il poco che lui voleva darle.
Ma sapeva che sarebbe stata una lenta
agonia. Meglio strappare subito il
cerotto, soffrire tanto ma per un tempo
più breve. Al momento almeno le era
sembrata una buona idea.
«Solo qualche piccola seccatura.»
«Ma sei contenta di essere tornata in
ospedale, giusto?» le domandò il padre.
«Sì.» Riprendere il lavoro era il
primo passo. Ma non si sarebbe più fatta
risucchiare nel vortice come prima,
quando l’ospedale occupava tutto il suo
tempo e i suoi pensieri. Poteva fare
carriera anche avendo una vita. Senza
David, aveva ricominciato a seguire il
suo istinto, ed era contenta di poter
prendere
decisioni
senza
farsi
influenzare da lui.
«È Wolfe, vero?»
Fissò la madre. Maria le prese le
mani, guardandola dritto negli occhi.
«Quel ragazzo è solo un amico»,
s’intromise il padre. «Ha avuto appena
il tempo di superare la rottura del
fidanzamento con David! Wolfe non
c’entra niente.»
«Sì.»
Per il padre fu una fucilata. Maria
annuì lentamente. «Lo immaginavo. Tutti
quegli sguardi furtivi tra voi due. La
gioia dipinta sulle vostre facce.» Le
spuntò un sorriso. «Per me e tuo padre è
stato lo stesso quando ci siamo
innamorati. È difficile nascondere al
mondo un amore di quel tipo.»
«Amore? Dove siamo, in un’altra
dimensione? Quand’è che tu e Wolfe
sareste diventati più che amici? È il
motivo per cui hai rotto con David? Ti
ha fatto del male? Lo uccido, giuro che
vado a cercarlo subito.»
«Jim, datti una calmata.»
Gen sospirò. Suo padre era una roccia
quando si trattava di interventi, problemi
di salute o problemi finanziari. Ma
quando qualcuno spezzava il cuore a uno
dei suoi figli, diventava uno squilibrato.
«Papà, stammi a sentire un secondo.
Wolfe non ha niente a che fare con me e
David. David era un manipolatore e non
eravamo fatti l’uno per l’altra. Mi sono
accorta di provare dei sentimenti più
profondi per Wolfe quando abbiamo
cominciato a passare più tempo insieme.
Mi sono innamorata di lui.»
Jim saltò su dalla sedia. «Sapevo che
sarebbe successo. Lui non va bene per
te. Cosa ti ha fatto?»
«Hai bisogno della pastiglia per il
cuore, caro?» gli domandò Maria.
«No, starò benissimo se mia figlia
risponde alla mia domanda.»
«Papà, per favore, calmati. Non
voleva farmi star male. Io volevo più di
un’amicizia, e lui no. Gli sono successe
delle cose in passato e non crede di
valere abbastanza. Non si ritiene degno
di me. Non vuole prendersi il rischio.»
Il padre cadde in silenzio. La osservò
per un attimo, poi chinò la testa. Maria
le prese la mano, i dolci occhi castani
pieni di comprensione. «Mi dispiace
tanto. So quanto soffri, adesso. Credi
che col tempo ci ripenserà?»
Di nuovo queste dannate lacrime. Era
come una sindrome premestruale
permanente. «No. So che mi ama, ma è
fissato con l’idea che un giorno mi farà
soffrire. Non riesco a convincerlo a
provarci.»
«No, non puoi riuscirci.» Maria si
avvicinò e la abbracciò, cullandola
come quando era piccola e premendole
le labbra sulla testa. «Starai meglio. Ci
vorrà un po’, sarà dura. Ma hai fatto
bene a provarci.»
«Forse è meglio così», disse il padre,
acido. «Forse ti avrebbe fatto soffrire.»
Genevieve tirò su col naso. «La
garanzia non si può mai avere, papà.
Volevo solo che avesse il coraggio di
fare quel salto con me. La cosa che mi fa
stare peggio è che non capisce quanto
sia speciale. Gentile, affettuoso,
protettivo. Mi rende... migliore.»
Maria la lasciò piangere, e quando
finalmente rialzò la testa, Gen si sentiva
più tranquilla.
Il padre se n’era andato.
Capitolo 27
Wolfe finì la terza serie di sollevamenti
alla sbarra e stramazzò.
Le casse sparavano la musica
aggressiva dei Mötley Crüe a tutto
volume. Trangugiò dell’acqua, infilò i
guantoni da boxe e si preparò a un’altra
serie di pugni violenti al sacco.
Avrebbe fatto di tutto per smettere di
stare male.
Pestava il sacco da cinque minuti
buoni quando la musica si spense.
Riprese fiato, si asciugò il viso con un
asciugamano e si girò verso Sawyer.
«Sei qui per prenderti una bella
batosta?» disse con un sorriso.
Sawyer non sorrise. Aveva il volto
tirato e sembrava preoccupato. Oh-oh.
Wolfe conosceva quell’espressione.
L’aveva vista spesso quando aveva
diciannove anni, venti, e sì, forse fino a
ventuno. Voleva fargli un discorso.
«Dopo, magari. Hai un minuto?»
Non se la sentiva, al momento. Una
chiacchierata a cuore aperto con l’unica
persona che lo capiva rischiava di
tirargli fuori qualcosa che voleva tenersi
dentro per sempre. «Possiamo fare
dopo?»
Sawyer sospirò e si sedette sulla
panca. «Non è una cosa lunga. Come mai
sei tornato in Italia?»
Wolfe
s’irrigidì,
evitando
d’incrociare il suo sguardo. «Te l’ho
detto. Volevo stare qualche settimana ma
Gen doveva tornare a casa. L’ho
riaccompagnata e sono tornato. Se ti do
fastidio me ne vado. Bastava dirlo.»
«È questo che pensi?»
Restò un attimo in silenzio. Si stava
comportando da imbecille e lo sapeva.
«Scusa. È un momento difficile, sto
cercando di venirne fuori.»
«Questo posso capirlo. Senti, sono
contento di averti qui. Sono strafelice e
voglio che resti il più a lungo possibile.
Ma sei diverso, e credo che abbia a che
fare con Gen. Non voglio farmi gli affari
tuoi, ma con me puoi parlare. Ci sono
passato anch’io.»
Inspirò con forza e guardò il padre
adottivo. «Lo so. Mi serve solo un po’ di
tempo, poi starò meglio.»
Sawyer annuì ma era evidente che non
gli credeva. «Lo rispetto. Se hai bisogno
sono qui. Ti dico solo una cosa. Quando
ho conosciuto Julietta, volevo che la
nostra fosse soltanto una storia di
sesso.»
Wolfe
fece
una
smorfia.
«Risparmiami
questi
particolari,
amico.»
«Scusa, ma è per spiegarti. Presto tra
noi è nato qualcosa. C’era molto più
dell’attrazione fisica, ma io lo negavo
perché non mi sentivo all’altezza a causa
di certe cose che avevo fatto in passato.
Mi ha convinto che mi sbagliavo, ma ci
è voluto del tempo. Devi capire, Wolfe,
che quando una donna ti ama, non vede
il passato, gli errori e le stronzate. Vede
solo il futuro.»
Restò in silenzio. Sawyer si alzò e gli
strinse una spalla. «Ho finito. Ti
conviene farti una doccia perché hai un
appuntamento.»
«Con chi?»
«Mamma Conte ti aspetta a cena alle
sei.»
«Venite anche voi?»
Sawyer lo guardò. «Stavolta no. Ha
invitato solo te. Buona fortuna.»
Sparì, lasciandolo coi suoi pensieri,
il rammarico e il sudore.
«Ah, cazzo.»
Wolfe cominciò a rilassarsi.
La cena era stata perfetta. Solo
quattro portate invece che sei, e fare due
chiacchiere in santa pace solo con
mamma Conte era stato piacevole. Gli
aveva raccontato di quando Julietta era
piccola, di quando aveva avviato il
panificio, e del potente uomo che aveva
amato, sposato e perduto. Non aveva
accennato a nulla di personale e non
sembrava
avere
particolari
preoccupazioni. Finì di macinare i
chicchi di caffè e preparò due tazze di
espresso da bere coi biscotti agli
amaretti appena sfornati.
«Hai mai pensato di poter fallire
quando hai aperto La Dolce Famiglia?»
le chiese tornando a sedersi sulla sedia
di legno.
Mamma Conte sorrise e si sedette
accanto a lui. «Certo. Ma avevo un
compagno accanto, e sapevo che, se
anche fosse andata male, almeno ci
avevo provato. I sogni, il lavoro duro e i
fallimenti non sono cose di cui
vergognarsi. L’unica cosa vergognosa è
non provare.»
Mangiucchiò un biscotto. «Come il
sogno di Sawyer con il Purity.»
«Sì. O di Michael quando ha aperto
La Dolce Maggie. Da piccolo voleva
fare il pilota di auto da corsa.»
«Non ci credo.» Non se lo vedeva
Michael nei panni di un giovane e
sfrontato pilota. L’italiano era alto ed
elegante, aveva una voce profonda e un
fascino incredibile, ed era uno degli
uomini d’affari più in gamba della
nazione. «Non ce lo vedo proprio.»
«Ah, è stata dura per lui rinunciare a
quel sogno. Quando è morto mio marito,
Michael ha preso l’azienda sulle sue
spalle e non si è più voltato indietro.
Sono sicura che ha dei rimpianti, ma
quella scelta gli ha fatto trovare Maggie
e una nuova vita. Al momento non
sappiamo mai cosa ci riserva il futuro. A
volte ci vuole un atto di fede.»
Rifletté
sulle
sue
parole,
aggrappandosi a quella teoria come a
una Bibbia del cuore. Era meraviglioso
credere che ogni momento, buono e
cattivo, avesse un significato. Non aveva
mai pensato alla sua vita in quei termini.
La perdita di Genevieve aveva creato un
vuoto che niente riusciva a riempire.
«Ricordi quello che ti ho detto quella
domenica di tanti anni fa? La prima
volta che sei stato qui?»
Wolfe batté le palpebre. Quel
pomeriggio era impresso nella sua
memoria ed era stato uno dei punti di
svolta della sua vita. Avevano pranzato
con Sawyer e Julietta e dopo il dolce lei
gli aveva chiesto di parlargli in privato.
«Sì, certo. Hai detto che ero sempre il
benvenuto a casa tua e che ero parte
della vostra famiglia. Che ero un
ragazzo in gamba e un giorno me ne
sarei accorto.»
Un debole sorriso. «Bene. E l’ultima
cosa che ti ho detto?»
Riascoltò
mentalmente
la
conversazione. «Che stavo cercando
qualcosa e che un giorno l’avrei trovata.
Ma che dovevo essere abbastanza
coraggioso da pensare di meritarla.»
«Esatto, ragazzo mio. Sono orgogliosa
dell’uomo che sei diventato. Sei il figlio
di Sawyer e Julietta, sei mio nipote, sei
il cuore e l’anima del Purity e possiedi
una saggezza e una dolcezza che mi
commuovono. L’ultima volta che sei
stato qui, mi sono accorta che eri
cambiato. Non sapevo chi fosse, ma
quando ho conosciuto Genevieve, ho
capito tutto.»
Wolfe cambiò posizione sulla sedia,
alzando le barricate. «Io e Gen siamo
amici.» La bugia gli bruciò la lingua.
Mamma Conte buttò la testa indietro e
ridacchiò. «Avete cominciato da amici,
sì. Ma siete anime gemelle. Siete fatti
l’uno per compensare l’altra.»
«Non mi va di parlarne, adesso. Non
funzionerebbe tra noi. È meglio così.»
Lei continuò a parlare come se lui non
ci fosse. «Se solo avessi un modo per
farvi sposare. Purtroppo stavolta non
funzionerà.»
«Scusa?»
«Niente. Hai scoperto cosa stai
cercando?»
Era confuso dal repentino cambio di
discorso. «Niente. Ho tutto quello che
voglio.» Un’altra bugia.
«Wolfe Wells. È una cosa importante.
Non fare l’insolente e dimmi la verità.»
Il rimprovero fu come una frustata.
Guardò l’anziana donna che lo fissava
con intensità e la risposta gli uscì
dall’anima. «Qualcosa di bello. Sto
cercando qualcosa di bello in questo
mondo.» Le emozioni penetrarono sotto
le barricate, misero le radici e
cominciarono a fiorire. Era abituato a
strappare le erbacce portandosi
appresso anche i fiori, ma stavolta si
fermò.
Lei gli rivolse un sorriso pieno di
gioia, conforto e bontà. Allungò le
braccia, gli afferrò i polsi con le mani
forti e li sollevò. «Sì. E finalmente l’hai
trovato, mio dolce ragazzo. È l’amore.
Genevieve è la risposta, ma a volte la
cosa più difficile e che richiede più
coraggio di tutte è lasciarci amare.» Gli
tolse lentamente i bracciali, scoprendo
le cicatrici. «Concediti di essere felice.
Questo ragazzo che ha cercato di
togliersi la vita, che ha sofferto e ha
subito perdite terribili, è una parte di te.
Ma non deve prendere il sopravvento.
Non più. Devi andare da lei e dirle la
verità. Lo capisci?»
Wolfe la fissò. La sua voce echeggiò
in un luogo della sua anima, in una
stanza sporca, dove gli uomini
l’avevano usato e da dove aveva
provato a scappare. Poi però emerse
un’altra immagine, quella del volto
sorridente di Gen, dei suoi occhi pieni
d’amore quando lo baciava, lo
abbracciava e gli mostrava qualcosa che
era possibile.
Qualcosa di bello.
Uno strano bruciore agli occhi. «E se
va male? Se fallisco?»
Gli strinse i polsi ancora più forte e
gli accarezzò la guancia con tenerezza.
«Non importa. Chi prova non fallisce
mai.»
Cominciò a tremare. Quando era
piccolo desiderava disperatamente
qualcuno che lo abbracciasse, che lo
consolasse, che gli asciugasse le
lacrime, ma non aveva nessuno. Adesso
invece, nella cucina di mamma Conte, si
sentiva al sicuro.
Si sentiva amato.
Lei lo prese tra le braccia e lo strinse
forte.
«Mi serve un piano.»
Sul campo da golf, Nate restò in
silenzio, preparandosi al tiro. Era un
pomeriggio di ottobre. L’aria era pesante
e umida e l’erba ancora lievemente
bagnata dopo la pioggerella del mattino,
ma nessuno dei due aveva voluto
rinunciare al solito mercoledì mattina al
golf.
Nate eseguì uno swing pulito, con un
arco e una traiettoria perfetti. «Bello.»
«Grazie. Mi fa piacere non aver perso
colpi. Hai annullato due volte questo
mese. Ti sei stufato di vedermi? O
volare in Italia per capriccio è più
importante del golf?»
Alzò gli occhi al cielo e prese il
bastone. «Frequenti un po’ troppo Benny.
Stai diventando melodrammatico.»
«Stronzo.»
«Metrosessuale.»
«Ohi.»
Rise, si preparò e fece il suo tiro. Il
suo sorrisetto compiaciuto quando la
pallina atterrò vicino al green fece
scuotere la testa a Nate. «Forse una
vacanza in Italia è proprio quello che ci
vuole per migliorare il tuo gioco. Vuoi
un handicap?»
«Coglione.»
Wolfe
sorrise
e
s’incamminarono. «Per tornare a quello
che stavi dicendo. Che tipo di piano ti
serve?»
Wolfe aveva deciso di cominciare a
essere più aperto con le persone che
sentiva più vicine. Non sarebbe stato
facile, ma era ora di provarci. «Te la
faccio breve. Io e Gen abbiamo
cominciato ad andare a letto insieme, ci
siamo innamorati, lei mi ha chiesto di
più, io sono andato nel panico e ho detto
di no, lei mi ha mollato e io sto
cercando di riprendermela.»
«Perché sei andato nel panico?»
«Ho dei problemi.»
Nate scoppiò in una risata. «Ma dai.
Chi non li ha? Okay, quindi lei è
arrabbiata e non vuole vederti.»
«Esatto.»
«Sembra quello che è successo a me e
Kennedy.»
«Sì, ma una dichiarazione sullo
striscione al campo da golf non mi
aiuterà. Mi serve qualcosa di
eccezionale.»
Nate arricciò il naso. «Lo striscione
era eccezionale. Slade a Kate ha
regalato delle poltrone reclinabili.»
«Che squallore.»
«Già, gliel’ho detto anch’io. Una
poesia? Dare il suo nome al Purity?»
Wolfe lo guardò in cagnesco. «Ma che
consigli sono? Vengo da te a cuore
aperto e questo è l’aiuto che mi dai?»
«Sono un uomo. Non so cosa vogliano
le donne. Una serenata davanti a casa
sua?»
«Okay, lasciamo perdere.»
Ricominciarono a giocare ma Wolfe
ancora non sapeva come fare per
scusarsi, dichiarare il suo amore a Gen e
supplicarla di dargli un’altra possibilità.
Sentiva che le faceva più male. Da
quando era tornato dall’Italia, aveva
cominciato a guardare le cose con altri
occhi. Con meno paura. Aveva persino
ripreso l’analisi, deciso a continuare a
lavorare su se stesso. Si toccò i
bracciali, tastando la pelle sudata sotto,
e d’un tratto si bloccò.
Gen era una persona diretta. Senza
fronzoli. Grintosa, coraggiosa e onesta.
Avrebbe fatto la cosa più semplice.
Niente striscioni, poesie o scritte sui
dirigibili pubblicitari.
Solo la verità.
«Ci sono.»
Nate annuì. «Bene. Finiamo la partita
prima che tu vada a riprenderti la tua
donna?»
«Sì. Giochiamo.»
Col cuore più leggero, Wolfe si
concentrò sul golf, grato per i buoni
amici.
Gen rise quando Lily e Maria le
balzarono addosso facendo a gara a chi
riceveva più abbracci. Le prese
entrambe e fece loro il solletico senza
pietà. Le loro risate stridule le
ricordarono che anche nei periodi di
sofferenza la vita offriva dei momenti
bellissimi. Si lasciò cadere sul tappeto,
esausta, e Alexa scosse la testa.
«Bambine, fate prendere fiato alla zia.
Non è più giovane come prima.»
Gen le fece la linguaccia. «Parla per
te, sorella. Ho appena fatto due turni di
seguito, altrimenti ti darei una
strapazzata a Just Dance.»
Lily saltò su e giù. «Sì! Facciamo una
partita con la Wii! Io sto con zia Gen!»
«No, io», gridò Maria.
Alexa fece il broncio. «E vostra
madre? So ballare anch’io!»
Le bambine fecero la faccia
dispiaciuta ma non dissero nulla.
Nick rise, stringendo la moglie per la
vita. «Io punto su di te, tesoro. È solo
che le bambine preferiscono roba più
moderna di Thriller.»
«Cos’ha Michael Jackson che non
va?» rispose. «Devono conoscere i
classici.»
Suonò il campanello. Gen si alzò in
piedi. «Lasciate, vado io. Saranno Lance
e Gina, sono in ritardo. Qualcuno di noi
deve aver chiuso la porta per sbaglio.»
Maria urlò dalla cucina. «Qualcuno
va ad aprire?»
«Ecco!» Corse lungo il corridoio e
aprì la porta. «Avete dimenticato le
chiavi? Come mai...» Smise di parlare e
spalancò gli occhi.
Wolfe.
Le sfuggì un lieve pigolio. Era da
urlo. Sexy da morire. Portava un
maglione a girocollo blu con il logo del
Purity che gli aderiva al dorso asciutto
mettendo in risalto i penetranti occhi
azzurri, e dei jeans sbiaditi a vita bassa.
Il volto era un po’ stanco, ma osservò
golosamente le sue labbra piene, il
disegno arcuato delle sopracciglia e gli
zigomi scolpiti. Si era rasato la mascella
e l’odore del dopobarba e del sapone le
salì alle narici.
Strinse la maniglia della porta,
cercando disperatamente di mantenersi
lucida. «C-che ci fai qui?» sussurrò.
«Devo parlarti.»
«Ci sono i miei. Ti avevo detto di non
cercarmi più.» Si morse il labbro con
forza, per farlo smettere di tremare. Per
impedirsi di dirgli che lo amava ancora,
che lo desiderava, che lo sognava.
«Devi andartene.»
«Non prima di aver detto quello che
devo dire.»
Si sentirono dei passi alle sue spalle.
«Sono Lance e Gina... oh! Wolfe, caro,
entra pure.»
«Grazie.»
Sua madre accolse in casa l’uomo che
le aveva spezzato il cuore. Lui si fermò
nell’atrio, in imbarazzo, con le spalle
basse, chiaramente nervoso. Cosa
voleva? Cosa poteva avere da dire dopo
tutte quelle settimane di silenzio?
«Vieni.»
«No, preferisco stare qui. Devo dire
un paio di cose a Gen.»
Oh-oh. Sentì altri passi alle sue spalle
e, quando si voltò, quello che vide
confermò le sue peggiori paure. Nick e
Alexa erano sulla soglia dell’atrio, e suo
padre
alle
loro
spalle,
con
un’espressione preoccupata. La madre
era rimasta in mezzo ed era immobile,
come se stesse aspettando qualcosa. Per
fortuna Lily e Maria erano scese in
taverna a giocare con la Wii.
«Vi lasciamo soli», disse la madre,
facendo per andarsene.
«No, restate.» Gen lo guardò. Paura e
determinazione
baluginavano
nell’azzurro profondo dei suoi occhi.
«Sono cose che avrei dovuto dire a Gen
già da molto tempo. E poiché siete la
sua famiglia, e parte della sua vita, devo
dirle anche a voi.»
Calò il silenzio. Dal piano di sotto
giunse lieve il suono della musica.
Stavano tutti col fiato sospeso, in attesa
che lui parlasse.
Il cuore di Gen batteva così forte che
stava per venirle un infarto. Le colava il
sudore lungo la schiena. Perché era
venuto? Di nuovo per scusarsi? O per un
altro motivo? Qualcosa che poteva solo
sognare?
Quando gli occhi di Wolfe si
posarono su di lei, tutto il resto
scomparve.
«Quando mi hai chiesto cosa provassi
per te, avevo troppa paura. Siamo amici
da tanto tempo e l’amicizia non mi
spaventava, ma negli ultimi mesi le cose
sono cambiate. Mi sono innamorato di
te. Amo tutto di te. Ma certe cose che ho
fatto in passato non mi facevano sentire
degno di te. Provavo troppa vergogna.
Così ho creduto di doverti risparmiare
un futuro di sofferenza con me. Ero
convinto di farlo per il tuo bene. Ma mi
sbagliavo, Gen. Finalmente so la
verità.»
Avanzò di un passo. Lei restò
immobile, stregata dalle sue parole, in
cima a una vetta di tale bellezza da
toglierle il respiro.
«Ti amo. Ti ho sempre amata. E non è
il passato che deve dirmi chi sono e
come sarà il nostro futuro insieme. Forse
ti farò soffrire, ma almeno devo
provarci. Se mi vuoi. Se puoi
perdonarmi di non essere stato
coraggioso quanto te, e di non essermi
preso il rischio come avresti meritato.
Giuro che passerò il resto della mia vita
a ripagarti.»
La madre inspirò con forza. Dietro di
lei, sentì la sorella tirare su col naso.
In piedi davanti all’uomo che amava,
Gen aprì la bocca per dire di sì.
E lui si tolse i bracciali di cuoio e
glieli mise in mano.
La pelle cicatrizzata era nuda sotto i
suoi occhi.
«Basta nascondersi. Mi sono sempre
chiesto perché non sono morto, quel
giorno. Adesso lo so. Ero destinato a
trovare te, Sawyer e Julietta, mamma
Conte. Tutti voi. E vorrei far parte di
questa famiglia, se mi vorrete.»
Le aveva fatto il dono più grande, il
più prezioso e fragile, e quasi non
s’azzardava a muoversi per paura di
rompere l’incantesimo.
Allungò le mani verso di lui e si
rifugiò tra le sue braccia.
Al suo posto.
Si sentì avvolta dal suo calore e dalla
sua forza. Si alzò in punta di piedi
baciandolo, accarezzandogli le guance e
sussurrandogli ripetutamente: «Ti amo».
Nel giro di qualche minuto, Wolfe
aveva tutta la famiglia intorno, a offrirgli
il sostegno e l’accoglienza che era nel
loro DNA. Alexa stava già piangendo, la
madre lo abbracciò e Nick gli diede una
pacca sulla spalla. Quando finalmente
stavano per spostarsi in soggiorno, suo
padre si avvicinò.
«Papà», l’avvertì lei, cingendo la vita
di Wolfe con le braccia. «Lo amo.»
Wolfe guardò suo padre negli occhi.
«Jim, io...»
«No.» Il padre alzò una mano per
interromperlo. «Prima voglio dire una
cosa. Avevo torto.» Aspettarono, mentre
lui sembrava radunare i pensieri. «Ti ho
detto di starle alla larga per non farla
soffrire, perché tu eri come me.» Scosse
la testa con forza. «Cercavo solo di
proteggerla da qualcosa che non ho
alcun diritto di negarle. Avrò commesso
degli errori stupidi, ma se qualcuno mi
avesse impedito di stare con Maria per
quel motivo, non avrei avuto la mia
famiglia. Non avrei avuto niente per cui
lottare, niente per cui valesse la pena
vivere. Quindi avevo torto. Tutti
meritiamo una possibilità, e spero che tu
possa perdonarmi.»
Wolfe gli strinse la mano. «Già
perdonato.»
I parenti si allontanarono e restarono
soltanto loro due. Non riusciva a
smettere di toccarlo, di stringersi a lui.
Finalmente era suo.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» gli
domandò con dolcezza.
Wolfe sorrise. «Certe persone molto
in gamba che mi vogliono bene.»
Rise e lo baciò. «Ne sono felice.»
La baciò anche lui e l’abbracciò.
«Anch’io.»
Epilogo
Gen guardò il casino tutt’intorno e
sospirò. Odiava i traslochi, ma ne
sarebbe valsa la pena. C’erano pile di
carta, scatoloni e vestiti ovunque. Come
ci stava tutta quella roba nella sua
casetta?
«Gen? Ci sei?»
«Sono in camera!» gridò. Kate si fece
largo tra gli scatoloni con una tazza di
caffè, seguita da Arilyn. Gen salì sul
materasso e scese dall’altra parte.
«Caffè! Oh grazie, grazie mille!»
Kate rise. Arilyn invece s’accigliò.
«Secondo me hai una dipendenza da
caffeina. Il tè contiene antiossidanti e ha
molti benefici per la salute. Dovresti
fare il cambio.»
«Comincio domani», mormorò lei
affondando il naso nella tazza e
inspirando il profumo divino del caffè.
«Ho bisogno di qualche vizio per finire
d’imballare tutta questa roba.»
«Be’, siamo qui per darti una mano»,
ribatté Arilyn col solito atteggiamento
positivo mentre il suo cervello super
organizzato valutava la situazione.
«Spero che tu non stia facendo le cose di
corsa a causa mia. Già mi hai salvato la
vita affittandomi casa tua. Nella mia
hanno trovato la muffa nelle tubature.»
Rabbrividì.
«Pensa
cos’abbiamo
respirato io e i miei poveri cani.»
Gen le strinse la mano. «Sono
contentissima che tu possa venire a stare
qui. Io e Wolfe abbiamo bisogno di
essere più vicino alla città per lavoro, e
anche se questa casa è un po’ piccola mi
rifiuto di venderla. È troppo speciale.»
Arilyn si guardò intorno e sorrise.
«Sì, lo è. Sei sicura che i cani non siano
un problema, vero?»
Gen rise e sollevò uno scatolone.
«Puoi tenere tutti i cani che vuoi. Ho
vissuto con mia sorella Alexa, ricordi?
Portava sempre a casa animali dal
rifugio. A sentire Nick, lo fa ancora.»
«Adoro tuo sorella», disse Kate. «I
tuoi vengono tutti, al matrimonio. Sarà
uno sballo.» Tolse le lenzuola dal letto e
le ficcò in uno scatolone in qualche
maniera, stile Kate. D’un tratto si fermò,
tirando fuori qualcosa da sotto il
materasso. «Ehi, questo cos’è?»
Gen si voltò. Kate aveva in mano un
pezzo di carta bianco.
L’incantesimo d’amore.
Le tornò in mente quella serata. Aveva
bevuto un margarita di troppo ed era
triste perché aveva sempre più dubbi su
David, così aveva convinto Arilyn e
Kennedy a completare un incantesimo
che aveva letto sul libro viola che le
aveva dato Kate. Dov’era quel libro? E
cos’aveva scritto lei nella lista?
«È
l’incantesimo»,
sussurrò,
strappandolo dalle mani dell’amica.
«Me n’ero completamente dimenticata.»
«Dal Libro degli incantesimi?»
strillò Kate. «Arilyn, non l’hai fatta
anche tu, la lista?»
Arilyn arrossì. «Sì, ma ero ubriaca
quella sera. Non so dove l’ho messa.»
«Leggila, Gen! Guarda se le cose che
hai elencato corrispondono a Wolfe!»
«Sarebbe impossibile», osservò
cominciando a scorrere l’elenco.
Ricordava che le istruzioni dicevano
chiaramente di scrivere le caratteristiche
che si desideravano in un uomo su due
fogli, poi di bruciarne uno e di mettere
l’altro sotto il materasso. La madre terra
o l’universo avrebbero provveduto a far
trovare l’uomo richiesto. Kate aveva
giurato che con lei e Slade aveva
funzionato. E anche con Kennedy e Nate.
«Ho fatto l’incantesimo quando ero
fidanzata
con
David,
quindi
probabilmente le caratteristiche...»
S’interruppe.
Continuò a leggere.
Sentì un brivido lungo la schiena. Che
strano. David non aveva nessuna delle
qualità che aveva elencato, eppure
ricordava bene di aver scritto tutto
quello che sognava di trovare in un
compagno.
Una profonda amicizia
Rispetto
Grande senso dell’umorismo
Sesso strepitoso
Un uomo di carattere
Un uomo che crede in me qualunque
scelta io faccia
Un uomo che non giudica
Non un perfezionista
Un tipo tosto
Uno con dei difetti, come me
Un uomo disposto a prendersi dei
rischi.
La lista era la descrizione di Wolfe.
«Oh mio Dio, ha funzionato, vero?»
domandò Kate.
Le tremava la lista in mano.
Impossibile. Gen alzò lo sguardo. Le
amiche la guardarono. «Questo è Wolfe.
Non David.»
Arilyn
rabbrividì.
«È
una
coincidenza. Giusto?»
Kate si morse il labbro. «Può darsi.
Ma c’è ancora una persona che può
confermare se l’incantesimo funziona.»
Guardò Arilyn. «Devi controllare se il
tuo istruttore di yoga possiede le qualità
che hai scritto nella tua lista.»
Arilyn fece una risata forzata. «Non
so nemmeno dove l’ho messa. Sentite, è
una stupidaggine. Smettiamola di parlare
di incantesimi e vudù e rimettiamoci al
lavoro. Io comincio dal soggiorno.»
Prese uno scatolone e uscì dalla camera.
Kate e Gen si scambiarono
un’occhiata. «Scommetto che ce l’ha
sotto il materasso.»
«Sicuro come l’oro», concordò Gen.
«Ce ne occuperemo più tardi. Hai
ancora il libro?»
Ce l’aveva? Controllò sugli scaffali e
trovò un libro viola. Il libro degli
incantesimi. Senza autore. «Eccolo.»
Kate alzò le mani. «Non voglio
toccarlo. L’ultima volta mi sono presa la
scossa. Tienilo e vediamo cosa succede
con Arilyn.»
«Affare fatto.»
«Posso unirmi a questo affare?» Alzò
lo sguardo. Wolfe aveva in mano una
tazza di caffè e un sacchetto della
pasticceria e sorrideva. «Qualcuno ha
bisogno di caffeina?»
Gen gli si gettò tra le braccia,
saltandogli al collo e stringendosi forte
a lui. Le loro bocche si unirono e il
cuore le si gonfiò così tanto che pensò le
sarebbe esploso dal petto. Lentamente,
lui la fece scivolare a terra. «Mi sei
mancata.»
«Anche tu.»
Ammiccò. «Ciao Kate.»
Kate gli fece un grande sorriso
contagioso. «Ciao, Wolfe.»
«Grazie per l’aiuto che ci stai
dando.»
«Nessun
problema.
Sono
contentissima per voi due.» Si avvicinò
e li abbracciò entrambi. «Siete i migl...
porca miseria!»
Kate fece un balzo indietro con la
bocca spalancata e inciampò, cadendo
sul sedere. Batté le palpebre, sorpresa, e
si guardò le mani.
«Ti sei fatta male?» Gen voleva
aiutarla a rialzarsi ma Wolfe l’aveva già
tirata su. «Cos’è successo?»
«Non venitemi vicino!»
Gen restò di sasso. Era spaventata,
ma Kate scoppiò in una risata profonda
e gioiosa. «Se non mi dici subito cosa
sta succedendo do in escandescenze»,
l’avvertì, accigliandosi.
Kate scosse la testa, mantenendosi a
distanza.
«Scusa,
non
volevo
spaventarti. Ho solo v-v-visto un r-rragno.»
«Dove?»
Wolfe
si
guardò
nervosamente intorno. Gen guardò
l’amica con sospetto.
«Niente,
è
scappato,
non
preoccuparti.» Kate agitò la mano per
non dare importanza all’episodio.
«Devo andare. T-torno subito.» La
guardarono scavalcare il letto per
evitare di passare accanto a loro e
fermarsi sulla soglia. «Sono così
contenta!»
E sparì.
«Che roba era?» domandò Wolfe.
«Hai visto dei ragni?»
«No, tesoro. E se li vedo, li faccio
fuori. Sarà la mia promessa di
matrimonio.»
Le tirò i riccioli e rise. «Furbona.» Si
guardò intorno. «Dimmi la verità. Ti
mancherà questa casa?»
Sorrise. «Certo. È il posto in cui ci
siamo innamorati. Ma Arilyn se ne
prenderà cura, e noi avremo una nuova
casa. La nostra casa.»
«Sì, la nostra casa.» Corrugò la
fronte. «A proposito di case, hai
registrato House Hunters?»
Alzò gli occhi al cielo. «Ci siamo
persi la puntata di ieri perché dovevo
già registrare The Bachelor – L’uomo
dei sogni. Lo vedremo quando faranno
la replica.»
«Okay. Nella nuova casa avremo due
videoregistratori digitali. E due
telecomandi.»
«Va bene.»
«E basta con quegli inquietanti
gemelli. Società di fratelli o come
diavolo si chiama. Sono strani.»
«Fratelli in affari. E sono
grandissimi! Se mettessero le mani su
questa casa la farebbero diventare una
reggia.»
«Sono inquietanti, non li ingaggerei
mai. E poi questa casa mi piace così
com’è.» Indicò il foglio accartocciato
che aveva in mano. «Quella cos’è?
Un’altra lista di cose da fare?»
Guardò la prova del suo incantesimo
d’amore. Se solo avesse saputo. La buttò
nel cestino e giurò di non preoccuparsi.
Gli
incantesimi
d’amore
non
funzionavano. E comunque non le
importava di come accadevano le cose.
Tutto ciò che sapeva era che l’uomo
della sua vita era suo, e che stavano per
costruire un futuro insieme.
«La migliore lista di tutte. Ti amo.»
«Ti amo anch’io, piccola.»
Si chinò e la baciò di nuovo, e tutto
era... bello.
FINE
Indice
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Epilogo
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l’ultima pagina.»
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