Presentazione DOPO «CERCANDO TE» E «SOGNANDO TE», IL TERZO VOLUME DELLA NUOVA SERIE CALDISSIMA DELL’AUTRICE DI «CONTRATTO INDECENTE». Genevieve MacKenzie, giovane chirurgo in carriera, sta per sposare il primario del reparto: un matrimonio fantastico che corona i suoi sogni. D’altronde Genevieve sa perfettamente quel che vuole dalla vita, almeno fino a quando un impulso improvviso la costringe a una fuga precipitosa attraverso una finestra della chiesa proprio il giorno delle nozze. E quando Wolfe si ritrova fra le braccia la promessa sposa del suo migliore amico scappata da una finestra, non si pone troppe domande e la porta via con sé determinato a proteggerla e a scoprire la verità dietro il gesto disperato di lei. Il problema è che i sentimenti di Wolfe e Genevieve si rivelano ben presto assai più che platonici, minacciando di distruggere tutto quel che entrambi avevano costruito fino a quel momento... Jennifer Probst è autrice di numerosi libri di Romance fiction Sexy&Erotic. Ha scritto romanzi per Red Sage, celebre casa editrice americana di romanzi erotici, fra cui The Tantric Principles, Sex Lies and Contracts e Secrets. Ma è con la serie iniziata con Contratto indecente che ha raggiunto il successo: negli Stati Uniti, Contratto indecente è uscito prima in ebook, proprio come Cinquanta sfumature di grigio, ottenendo uno straordinario successo – 500.000 copie vendute in 5 mesi – risultato che ha convinto la prestigiosa Simon & Schuster ad acquisire i diritti dell’edizione a stampa della serie che comprende oltre a Contratto indecente, Contratto fatale, Contratto di passione e Contratto finale. Oltre a questa serie, Corbaccio ha pubblicato anche Vendetta piccante, Fire e Cercando te e Sognando te, i primi due volumi della nuova serie di cui Trovando te è il terzo libro, e un’appendice alla serie dei contratti Il libro degli incantesimi, disponibile solo in ebook. Jennifer Probst vive a New York con il marito e i figli. www.corbaccio.it facebook.com/Corbaccio @LibriCorbaccio www.illibraio.it Titolo originale: Searching for Beautiful Traduzione dall’originale americano di Elisabetta De Medio In copertina: © Photonica / Getty Images Grafica Linda Ronzoni / Meccano Floreal PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright © 2015 by Jennifer Probst All rights reserved Originally published by Gallery Books, a Division of Simon & Schuster Inc. Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti S.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2015 Garzanti S.r.l., Milano ISBN 978-88-6700-058-6 Prima edizione digitale 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Capitolo 1 Doveva squagliarsela. Genevieve MacKenzie si piegò in avanti e cercò di respirare normalmente. Il velo leggero le sfiorò il volto come tante piccole dita che le facevano il solletico. Il panico le attanagliava lo stomaco; si strappò il pizzo decorato di perle dalla testa, appoggiò le mani alle ginocchia e invocò il buon senso. Stava per sposarsi. Adesso. Tra cinque minuti. I suoi cari erano fuori dalla porta e chiacchieravano eccitati in attesa che lei facesse la sua comparsa in tutto il suo bianco e immacolato splendore. David l’aspettava in smoking all’ingresso della chiesa con il sacerdote e il testimone al suo fianco. Immaginò i suoi splendidi capelli biondi dal look finto spettinato, il suo sorriso assassino e gli occhi di un azzurro brillantissimo. Perfetto, come sempre. Mentre si vestiva, le aveva fatto recapitare da un fattorino due dozzine di rose bianche con appena un accenno di rosa al centro. Sul biglietto c’era scritto: ‘Non vedo l’ora che tu sia finalmente mia’. Le ragazze avevano fatto un sospiro soddisfatto. La sorella gemella, Isabella, aveva alzato gli occhi al cielo e portato le mani al collo mimando un soffocamento. Si sperava che restasse gestibile almeno fino alla fine della cerimonia. Non avevano un buon rapporto e già che Izzy si fosse presa il disturbo d’indossare il vestito da damigella era un miracolo. La sua migliore amica, Kate, si era affrettata a mettere le rose nell’acqua e a sistemarle nel vaso al centro del tavolo da pranzo circondato da chiacchiere e risatine femminili. La sorella Alexa aveva rimproverato scherzosamente il marito per non averle regalato nulla il suo grande giorno, scatenando una filippica da parte di Nick e di suo padre su come i reality in tv fornissero una visione distorta del vero amore. Gen aveva continuato a sorridere e mormorato le risposte giuste, col biglietto stretto in mano. Poi era corsa in bagno cercando disperatamente di non vomitare. Non la reazione più auspicabile per una futura sposa. Ovviamente aveva dato la colpa ai nervi, aveva ignorato la nausea e si era trascinata sulla limousine dalla carrozzeria allungata. Mentre l’auto sfrecciava verso la chiesa, divorando un miglio dopo l’altro, aveva ripercorso a mente gli ultimi dettagli per scongiurare eventuali dimenticanze. David odiava le cose fatte in modo approssimativo e, con quasi trecento invitati, il loro matrimonio era un evento sufficientemente prestigioso da attirare la stampa e qualche personaggio in vista. Avrebbe voluto un wedding planner, ma David aveva insistito per fare tutto da soli. Lei naturalmente aveva acconsentito, anche perché sarebbe stato carino dire che avevano organizzato tutto loro invece che affidarsi a un estraneo. Ma ora era esausta. Aveva fatto tutto lei, assolutamente ogni cosa, dedicando gli ultimi giorni a ricontrollare tre volte ogni dettaglio. Dagli abiti color albicocca delle damigelle, di una seta così leggera che luccicava, alle splendide orchidee avvolte dai nastri, il seguito della sposa mozzava il fiato. Senza i contatti giusti sarebbe stato impossibile prenotare il posto con soltanto un anno di anticipo. Il castello di Tarrytown vantava giardini spettacolari, un’architettura sublime con soffitti a volta e una sala da pranzo degna di un re con cucina francese. Certo, lei avrebbe preferito sposarsi alla Mohonk Mountain House, vicino ai suoi genitori, in un’atmosfera più rilassata e divertente, ma almeno David aveva acconsentito alla cerimonia in chiesa. E anche riguardo a invitare Izzy l’aveva spuntata lei. A David non era simpatica, ma Gen aveva tenuto duro e ora aveva intorno la famiglia al completo. La limousine si era fermata. Lei era scesa a capo chino per proteggersi dai flash dei fotografi e Kate l’aveva aiutata con il lungo strascico decorato di perle. L’abito di Vera Wang era costato una cifra spropositata e non se lo sentiva per niente bene addosso. D’altra parte l’abito delle spose e delle principesse doveva essere così. Pizzo, tulle, perle e diamanti. Peccato che non riuscisse a respirare. Nella saletta interna della chiesa era riuscita a controllarsi mentre la madre piangeva, le raddrizzava il velo e le diceva quanto fosse incredibilmente orgogliosa di lei. Alexa sprizzava gioia da tutti i pori e la bellissima nipote Lily sembrava una principessa delle fiabe col cesto di petali e l’abito lungo intonato a quello della sposa. L’altra nipote, Taylor, era un vero splendore col suo abitino dello stesso rosa pallido e delicato di quello al centro delle rose. A un certo punto Gina, la cognata, le aveva strizzato l’occhio e aveva annunciato che la sposa aveva bisogno di un attimo di raccoglimento prima di percorrere la navata. Gen si era sentita sollevata, e finalmente la porta si era chiusa. Un benedetto silenzio aveva riempito la stanza. Era tutto perfetto, proprio come avrebbe dovuto essere. Perfetto. Come David aveva sempre voluto. Gen cercò di calmarsi. Il mormorio di voci e la musica organistica filtravano attraverso la porta. Raggiunse boccheggiando la magnifica finestra raffigurante la Madonna col bambino e strattonò la maniglia. Bloccata. Stava per avere un capogiro. Cavolo, aveva bisogno d’aria, subito. Strinse le dita abbellite dalla French manicure intorno alla vecchia manovella e tirò con forza. Finalmente la finestra si scostò un poco e avvicinò la bocca allo spiraglio, inspirando l’aria calda. Perché crollare proprio adesso? Probabilmente cominciava a risentire di tutto lo stress del matrimonio. Ora sarebbe uscita da quella stanza, avrebbe percorso la navata fino all’altare a testa alta e avrebbe fatto le sue promesse. Amava David. Chi non l’avrebbe amato? La trattava come una regina, le ripeteva ogni giorno quando lei fosse importante per lui e la spingeva a essere una persona migliore. Sempre di più. Sarebbero stati la coppia che tutti invidiavano: chirurghi che salvavano vite, partecipavano a eventi di beneficenza e cambiavano il mondo. Erano follemente innamorati. Non vedo l’ora che tu sia finalmente mia. Sentì un brivido lungo la schiena. Abbassò lo sguardo sul diamante purissimo da tre carati che le brillava al dito. Un simbolo di proprietà. Una volta preso l’impegno, sarebbe stato davvero per sempre. Non l’avrebbe mai lasciata andare. Scappa. La voce interiore che aveva sempre messo a tacere per paura di rappresaglie le salì dal profondo e urlò un’ultima parola. Gen si aggrappò al davanzale. Ridicolo. Non poteva scappare, giusto? Lo facevano solo nei film. E poi non poteva fare una cosa del genere a David. Scappa. Negli ultimi due anni con David aveva imparato a tenere a bada le emozioni che si scatenavano in lei e ad affidarsi esclusivamente alla ragione. Il suo fidanzato disprezzava il caos, le decisioni prese sulla base dell’istinto e dell’emotività. A furia di sentirgli citare le tragiche conseguenze di quel tipo di approccio, si era convinta a quietare quella voce pazza che una volta cantava libera dentro di lei, forse un po’ stonata ma sempre gioiosa. E l’aveva fatto con tale forza e convinzione che era sicura che non l’avrebbe più sentita. Ma ovviamente, con la sua sfortuna, di tutti i momenti possibili aveva scelto proprio questo per riaffermare la sua esistenza. Scappa prima che sia troppo tardi. Un turbinio di pensieri frenetici. Non restava molto tempo. I suoi stavano per rientrare e sarebbe finita. L’avrebbero fatta calmare, avrebbero scambiato il suo malessere per nervosismo della sposa e l’avrebbero accompagnata all’altare. Dove avrebbe sposato David. E non sarebbe più stata la stessa. Il che era un bene, giusto? Lei voleva il matrimonio. Un compagno per tutta la vita. David. Gen guardò la porta chiusa. I prossimi secondi avrebbero cambiato il corso della sua vita. Non aveva tempo di soppesare i pro e i contro e di valutare i vantaggi e gli svantaggi per poi scegliere in base a un preciso quadro statistico. Quindi si affidò al suo istinto, come faceva ogni volta che aveva un bambino ferito sulla barella e doveva prendere decisioni di capitale importanza. Neppure David era riuscito a cambiare questa parte di lei perché era l’essenza della sua anima. Un chirurgo. Una donna. Una sopravvissuta. Scappa. Gen non perse un altro momento. Col respiro corto e il cuore che batteva all’impazzata, girò la manovella con tutta la forza che aveva in corpo, finché non si spostò più di un solo millimetro. La finestra era aperta a metà. Lo sguardo giudice del Bambin Gesù splendeva su di lei. Ce la poteva fare. Per la prima volta nella sua vita, essere minuta era un vantaggio. Infilò la testa e il dorso nella finestra e si spinse fuori, verso la liberà. Capitolo 2 Wolfe accese la sigaretta e si guardò intorno con aria colpevole. Diavolo, questo maledetto vizio lo fregava sempre. I suoi genitori adottivi, Sawyer e Julietta, si sarebbero arrabbiati tantissimo, e lei avrebbe fatto quella faccia delusa che le riusciva così bene. Ma loro erano ancora in Italia, a miglia e miglia di distanza, e non l’avrebbero mai saputo. Solo una, poi avrebbe buttato via il pacchetto. Il fumo gli riempì i polmoni e gli calmò immediatamente i nervi. Tanto nessuno l’avrebbe visto, la cerimonia stava per cominciare. A quest’ora avrebbe dovuto essere nelle prime file coi parenti di Gen, a guardare con un bel sorriso la sua migliore amica che si sposava un coglione. Stava per andarci, infatti. A momenti. Adesso aveva solo bisogno di un attimo di silenzio e di qualche boccata di fumo prima di affrontare il resto della serata fingendosi contentissimo. Si sentì in colpa. Era proprio uno stronzo. Dopotutto David era perfetto per Gen, e meritava di sposarla. Magari non era degno di lei al cento per cento, ma quasi. Certo non era colpa sua se Wolfe non riusciva a liberarsi dalla netta sensazione che c’era qualcosa che non andava. Forse perché l’aveva sorpreso a guardare Gen con un tale orgoglio di possederla che sembrava si trovasse davanti a un cavallo da corsa invece che a una donna in gamba e indipendente. E trovava seccante anche quel suo modo di darle ordini. Gen tuttavia non aveva mai mostrato alcun fastidio in proposito, e diceva solo meraviglie di lui. Diavolo, lo amava abbastanza da sposarlo, quindi chi era lui per giudicare? Wolfe non sapeva niente di relazioni. Se avesse scavato a fondo dentro di sé, probabilmente avrebbe scoperto che gli seccava che Gen l’avesse rimpiazzato. Prima uscivano sempre insieme. Andavano al bar, al cinema, facevano quello che fanno i migliori amici. Le donne volevano tutte qualcosa da lui, soldi, favori, sesso. Tranne Gen. Lei era autentica e genuina come Julietta e le altre donne della sua famiglia adottiva. Diavolo, tra loro c’era stata un’intesa immediata. Si erano piaciuti subito, dal momento in cui si erano conosciuti, sei anni prima. E quando mai capitava? Ovviamente David non vedeva di buon occhio la loro amicizia e aveva cominciato a mettersi contro dal primo giorno. Da un anno ormai Gen trovava sempre più scuse per non vederlo in modo da tenere buono il fidanzato. Comunque. Era un calice amaro che doveva bere. Wolfe trattenne un lamento. Le campane suonarono una volta. Due. Le limousine erano parcheggiate lungo il marciapiede, e c’erano dei giornalisti in attesa sulla gradinata. Evidentemente il chirurgo faceva notizia, perché nessun altro attirava una folla simile. Arretrò di qualche passo, non dell’umore di salutare gli ultimi arrivati. Finì in pace la sua sigaretta, si sistemò lo smoking e cercò di non graffiare la suola lucida delle sue scarpe eleganti. Nonostante la posizione prestigiosa sul lavoro e il passato da indossatore, fosse stato per lui avrebbe indossato solamente tute da ginnastica. Gli abiti lo mettevano ancora a disagio. E anche la biancheria intima che costava più di quanto guadagnasse certa gente in un anno. Chi l’avrebbe mai detto? Arrabattarsi per vitto e alloggio un giorno, e trovarsi tra i milionari in ascesa di Fortune il giorno dopo, e tutto a ventisei anni, per la miseria. Respinse i brutti pensieri che minacciavano di travolgerlo e si concentrò sul presente. Era il giorno del matrimonio di Gen e doveva starle vicino. Non fumare come un idiota e autocommiserarsi. Schiacciò il mozzicone sotto i tacchi, si sistemò i polsini e si voltò. «Porca troia.» Guardò scioccato l’immagine davanti a lui. La sposa era stesa a gambe all’aria sul selciato, circondata da una nuvola bianca di pizzo e perle. Il suo cuore si fermò, poi ripartì a singhiozzo. Cristo, era fantastica. Gen era sempre stata una donna obiettivamente attraente, ma adesso sembrava la fragile bambolina sulla torta nuziale. Doveva essersi tolta il velo perché la sua complicata crocchia era crollata da un lato e spuntavano forcine da ogni ciocca. L’umidità le aveva arricciato i capelli, che sparavano da tutte le parti, rifiutandosi di stare a posto. Due occhi azzurri incorniciati dalla matita nera e da un ombretto brillante lo guardarono di traverso. Non si truccava mai. Ma oggi quei magnifici occhi azzurri dominavano il suo volto a cuore dandole un’aria sexy e sensuale che non le aveva mai visto. Le scarpe col tacco dieci a spillo rivestite di diamanti spuntavano dalla sottogonna. Wolfe vide di sfuggita la giarrettiera di pizzo bianco e le cosce muscolose prima che lei si ricoprisse le gambe con la gonna, ansimando. «Fumi il giorno del mio matrimonio? Avevi detto che avevi smesso. Julietta ti ucciderà.» Era senza parole ma cercò di riprendersi. Forse stava avendo un’allucinazione. «Non se non glielo dici.» Sbuffò dal naso. «Ti piacerebbe. Non voglio che tu muoia di cancro ai polmoni. Non stare lì a bocca aperta. Aiutami ad alzarmi, non riesco neanche a muovermi con quest’affare addosso.» E in quel momento fu di nuovo soltanto Gen. La sua migliore amica, una gran rompipalle, e la persona più preziosa e più cara che aveva. Si affrettò a rimetterla in piedi. «Stai bene? Sei caduta dalla finestra?» Ritrovò l’equilibrio sui ridicoli tacchi e fece un gesto con la mano. «Sì, sto bene. Ero rimasta incastrata coi fianchi ma alla fine ce l’ho fatta.» Si spolverò l’abito bianco come se saltare fuori dalla finestra della chiesa fosse la cosa più normale del mondo. Accidenti, era una donna coi fiocchi. «Ehm, piccola? Stai cercando di dartela a gambe? O volevi solo controllare che l’uscita antincendio funzionasse?» La grinta le scomparve dal volto. Alzò il mento col labbro inferiore che tremava. «Sono nei guai. Mi aiuti?» Lui rimase calmo, anche se gli sudavano le mani. Era successo qualcosa, ma adesso doveva solo starle accanto. «A mollare lo sposo?» «Sì.» Wolfe decise di considerarla una grande avventura. «Fico. Ci penso io. Togliti le scarpe.» Si sfilò gli infernali tacchi a spillo. «Ci sono i giornalisti?» «Non preoccuparti, sarà un gioco da ragazzi. Ma dobbiamo sbrigarci. Dammi la mano.» Mise la sua mano piccola in quella di lui e la strinse. Wolfe giurò che l’avrebbe portata via da lì e condotta in un posto sicuro, avesse dovuto combattere contro tutti i talebani. Le discussioni le avrebbero fatte dopo. «Ho l’auto parcheggiata in fondo alla strada quindi siamo a posto. Seguimi.» La condusse giù dalla scalinata posteriore, dietro il presbiterio, e avanzarono lungo una fila di cespugli fioriti e curatissimi. Lei si fermò un attimo durante la corsa, facendo una smorfia di dolore per il terriccio e la ghiaia sotto i piedi nudi. «Ohi.» «Che femminuccia. Dai, ti porto io, sei troppo lenta.» La sollevò tra le braccia in uno sbuffo di raso e pizzo e tagliò il percorso attraverso dei salici piangenti. «Non posso credere che hai parcheggiato così lontano, vuol dire che eri in ritardo. Bel migliore amico che sei.» «Ringrazia il cielo che ero in ritardo, visto che adesso ti sto parando il culo.» Lei fece una smorfia come a dire ‘figuriamoci’. Lui accelerò il passo, con la netta sensazione che di lì a poco sarebbe scoppiato il caos. Se non l’avesse portata via in tempo e qualcuno li avesse visti allontanarsi sarebbe stato un bel casino. Si chinò per passare sotto un ramo basso, attraversò il giardino sul retro di una casetta stile Cape Cod dietro la chiesa e voltò a destra. Lei rimase in silenzio, e Wolfe era pronto a scommettere che tra due minuti si sarebbe resa conto della decisione impulsiva che aveva preso e gli avrebbe chiesto di riportarla indietro. Se era scappata, però, qualcosa di grosso doveva averla spinta a farlo, e non era un particolare che si poteva ignorare. Col cavolo che l’avrebbe riportata indietro. Finalmente vide la sua Mercedes cabriolet. Pescò le chiavi in tasca, disattivò l’antifurto e aprì la portiera. «Sali.» Un altro tremolio del labbro inferiore. «Wolfe, forse sto sbagliando. Forse dovrei tornare indietro.» «Vuoi sposarlo, Gen? Nel profondo, dentro di te, con tutta la tua anima?» Si morse il labbro. Vergogna, paura e umiliazione distorsero i contorni del suo volto. Le uscì una sola sillaba. «No.» Lui annuì e la aiutò a salire in macchina. «Allora stai facendo la cosa giusta e sistemeremo tutto. Promesso.» Lei inghiottì a vuoto. Annuì a sua volta. E si accomodò sul sedile anteriore dell’auto. Wolfe non perdette tempo. Mise in moto e fece inversione di marcia in tre manovre, uscendo dalla strada secondaria e allontanandosi di corsa dalla chiesa neanche fosse il tempio del diavolo e le loro anime fossero a rischio. Quando giunsero sulla strada principale e nessuno sembrava seguirli, si girò a guardare Gen. Era accasciata sul sedile coi capelli mezzi sciolti che le sfioravano il collo. Il suo grazioso profilo sembrava scolpito nella pietra. Guardava fuori dal finestrino come se stesse guardando la sua vita disperdersi dietro di lei. E in un certo senso era così. L’aveva già aiutata altre volte a superare dei momenti difficili e giurò che l’avrebbe fatto anche stavolta. Sapendo di cosa aveva più bisogno in questo frangente, Wolfe accese lo stereo e la musica dei Guns n’ Roses esplose, potente e ad alto volume. Non disse nulla. Guidò e basta. Capitolo 3 Wolfe si fermò nel parcheggio e spense il motore. Sentì i suoi occhi sondarle il volto ma era troppo stanca per provare a sorridere. Dopotutto con lui non aveva mai dovuto nascondere i suoi stati d’animo. E al momento rischiava un attacco isterico con tutti i crismi se non si toglieva l’abito da sposa. «Resta qui. Torno subito. Vuoi una bibita? Acqua?» Gen annuì. «Va benissimo l’acqua.» «Tieni chiuse le portiere. I finestrini sono oscurati, non ti vede nessuno.» Sbatté le palpebre, provando a concentrarsi sui resti carbonizzati della sua vita. «Ho lasciato là il telefono. Devo almeno dire che non mi è successo niente.» «Adesso glielo diciamo. Stai qui buona un attimo. Okay?» Annuì di nuovo e lo guardò entrare da Walmart, seguito dalle occhiate dei gruppetti di adolescenti che gironzolavano nel parcheggio. Lo guardavano sempre tutti, ma in smoking era irresistibile. Con quel fisico alto e muscoloso e quel fantastico tatuaggio, aveva scritto ‘cattivo ragazzo da addomesticare’ dappertutto. Così diverso dal fascino angelico e mellifluo di David. David. D’un tratto si rese conto con orrore di quello che aveva fatto. L’aveva abbandonato all’altare. L’uomo che sosteneva di amare. Un suo superiore nell’ospedale in cui stava costruendo la sua carriera, il suo capo. Aveva trasferito tutte le sue cose nell’appartamento di lui e aveva affittato il suo. Avevano due biglietti per la luna di miele alle Bermuda. I suoi genitori erano probabilmente in lacrime, umiliati e in collera. Era Izzy quella difficile, non lei. Gen era quella brava. Quella in gamba. Quella che non aveva mai creato problemi. E adesso? Come avrebbe fatto a tornare alla sua vita? Pensieri e immagini le ronzavano in testa come uno sciame d’api imbestialite e pronte ad attaccarla. Si strinse la mano sulle tempie sperando che non le esplodesse il cervello. La portiera si aprì. Wolfe le passò due sacchetti di plastica e una bottiglia di Poland Springs. «Ecco. Prima bevi, hai l’aria di essere sul punto di sbarellare.» Ingoiò qualche sorso d’acqua. Poi lo guardò in attesa di ulteriori istruzioni. Come se avesse capito che era senza forze, le sorrise con tenerezza e s’inginocchiò accanto all’auto. Senza parlare, le passò le mani tra i riccioli sciogliendole i capelli e togliendole le forcine una per una. Poi le massaggiò la cute, facendo scorrere le dita tra le ciocche finché non rimasero più nodi. Mentre si prendeva cura di lei, Gen osservò il suo volto familiare. Mascella forte e squadrata. Un velo di barba sul labbro superiore e sul mento, a disegnare un seducente pizzetto. Occhi azzurri e penetranti e sguardo tagliente. Di solito portava i capelli rasati, ma li stava facendo crescere e i ricci scuri che cominciavano a spuntare gli addolcivano leggermente il volto. Il serpente monocromo gli s’avvolgeva intorno al collo come per strozzarlo. Quel tatuaggio l’aveva sempre affascinata. Raffigurava un impressionante rettile nero che dal petto saliva per un braccio e una spalla fin sotto l’orecchio. Come se gli stesse sempre sussurrando qualcosa. Wolfe era un patito della palestra, quindi aveva muscoli che non perdonavano ben visibili sotto gli indumenti, dagli addominali a tartaruga ai possenti bicipiti. Abbassò lo sguardò sui suoi polsi e sui bracciali di cuoio a fascia lasciati scoperti dalle maniche arrotolate della camicia. Non l’aveva mai visto senza. Li aveva resi famosi in tutto il mondo con la pubblicità di biancheria intima. Molti giovani avevano seguito il suo esempio finché quei bracciali avevano fatto tendenza. Buffo, Gen e Wolfe erano destinati a diventare amici dal momento in cui si erano conosciuti. Le loro conversazioni profonde avevano aperto la strada a un’amicizia sincera mai disturbata dalla tensione sessuale. Non avevano mai flirtato. Wolfe era soltanto un amico che contava tantissimo per lei. Kate era la sua migliore amica femmina, e lui il suo corrispettivo al maschile. Le sbottonò la fila di bottoni di perle lungo la schiena. «Mettiti questi.» Lei tirò fuori dal sacchetto dei calzoncini di jeans, una maglietta e un paio d’infradito. «Sto malissimo con l’arancione.» «Non c’era molta scelta in saldo. Tutto il resto era extra large.» «Scusa. Essere una sposa in fuga mi rende un po’ stronza.» Gen si spostò sul sedile posteriore e si sfilò l’abito. Sentì subito l’aria pura e dolce che le riempiva i polmoni e si tolse in fretta anche calze e giarrettiere, infilandosi gli indumenti comodi e strappando via il cartellino col prezzo. Nel sacchetto c’erano anche dei fermagli per capelli; ne prese uno e raccolse velocemente i ricci in una coda corta. Poi uscì dall’auto. Wolfe annuì. «Bene. Ho preso qualcosa da sgranocchiare durante il viaggio, quindi quando vuoi approfittane.» Gen diede un’occhiata: barrette di cioccolato, Ritz, patatine, Togo... «Questi sono i dolcetti natalizi alle noci? Non pensavo li facessero ancora.» «Nemmeno io. Colpo di fortuna.» «Dove andiamo?» «Stiamo qualche giorno allo chalet di Sawyer sul lago. Giusto il tempo di far calmare le acque e riunire le idee.» Di nuovo la paura a pizzicarle i nervi. «Devo chiamare i miei.» «Già fatto. Ho mandato un messaggio ad Alexa e uno a Kate. Sono loro quelle che volevi contattare, giusto?» Si strinse nelle braccia. «Sì. Cos’hai scritto?» «Che ti dispiaceva di essere scappata ma che non potevi sposare David. Che avevi bisogno di pensare e che ti saresti fatta sentire presto. Che stavi bene e di non chiamarti per un po’.» «E il ricevimento? Dove vanno tutti, adesso? E la stampa?» Il suo tono era quello di chi ha il pieno controllo della situazione. «Alexa e Kate sono un’ottima squadra. Ci penseranno loro. Adesso lascia fare a me.» Si sentì sciogliere dal sollievo. Sì. Per un po’, Wolfe si sarebbe occupato di tutto, e lei avrebbe riflettuto, preso delle decisioni e fatto ordine nel pasticcio che aveva combinato. Ma non ora. «Grazie.» «Nessun problema. Andiamo.» Rimontarono in auto e partirono. La Mercedes macinò i chilometri da Verily verso nord. La musica era alta, il vento le frustava i capelli, e il paesaggio che scorreva veloce era un’immagine confusa e rilassante. Diede un morso a una barretta di cioccolato mentre Wolfe sgranocchiava le patatine e sorseggiava una bibita. Chiuse gli occhi e finse di essere in partenza per il weekend. Nell’ultimo anno, ogni volta che cercava di vedere Wolfe, David sollevava il problema di quanto poco tempo passassero insieme a causa dei loro impegni di lavoro, facendola sentire in colpa. Gen si considerava una donna forte. Grintosa. Caparbia. Eppure quando David cercava d’imporle il suo punto di vista, lei ne usciva sempre come i sudisti a Gettysburg: sconfitta. Così aveva cominciato a trovare delle scuse. Odiava mentire, ma David la ricompensava aumentando la dose di attenzioni e tenerezze e ripetendole che stavano così bene insieme, quando lei ce la metteva tutta. Aveva dimenticato com’era bello non doversi preoccupare di dire qualcosa di stupido o di non essere abbastanza arguta o sexy. Con Wolfe il silenzio era piacevole e non c’era alcun bisogno di riempirlo con conversazioni intelligenti. Dopo l’uscita per Saratoga Springs la vegetazione si fece più fitta e il paesaggio più selvatico. Attraversarono la pittoresca cittadina col verde e i negozi che ricordavano Verily e proseguirono. I Nine Inch Nails rimbombavano dall’impianto stereo in totale contraddizione col silenzio delle strade in mezzo agli alberi che stavano percorrendo. Wolfe girò a destra in un ripido sentiero in salita e dopo una serie di tornanti spense il motore. «Eccoci.» Gen restò a bocca aperta. Il calore di quella baita di tronchi la fece sentire subito la benvenuta. La costruzione era circondata da siepi e aveva un’ampia veranda con due sedie a dondolo. A entrambi i lati si aprivano ampie finestre, e un vialetto di ciottoli conduceva a un lussureggiante giardino sul retro biforcandosi: da una parte conduceva a un pozzo del fuoco in pietra e dall’altra a un piccolo gazebo. Il suono degli uccelli, delle cavallette e delle api sostituì la musica. L’aria del caldo pomeriggio era densa e odorava di muschio. Una gran varietà di profumi di fiori le riempì le narici. Sì. Sarebbe stato bello lì. Poteva riflettere e rimettere le cose a posto. «È fantastico», disse a bassa voce. «Come mai Sawyer non l’affitta per l’estate?» «Di solito lo fa, ma questo mese me l’ha lasciata a disposizione. Lo chalet è isolato ma è vicino a Fish Creek. Ha detto che se volevo prendermi un po’ di tempo libero andando a pesca potevo usarlo.» «Chi avrebbe mai immaginato che ci avresti dovuto nascondere una sposa fuggitiva?» Lui non sorrise. Per la prima volta da quando erano scappati, i suoi occhi mostrarono preoccupazione. Aveva l’aria di voler dire qualcosa ma lei non voleva sentirlo e scese dall’auto prima di essere costretta a fare i conti con la realtà. Lui attese un momento poi la seguì. Gen entrò nello chalet. Una luce magnifica splendeva sul pavimento di pino e sui soffitti alti con le travi a vista. Un camino di pietra con un grande tappeto rosso davanti occupava la parete più lunga della stanza. Si guardò intorno, osservando l’attrezzatura da pesca, le fotografie della natura e l’atmosfera calda e rustica. La cucina era di quelle sognate da ogni cuoco, con gli elettrodomestici di ultima generazione in acciaio inossidabile, il lavello a due vasche e i piani di lavoro in granito marrone scuro. «Non sapevo che Sawyer fosse un amante della pesca», commentò. Wolfe ridacchiò. «Non lo è infatti. L’anno scorso ci ha trascinati qui per mostrare a Julietta i benefici della vita di campagna. Ha detto che le avrebbe riportato una tonnellata di pesce da cucinare la sera stessa. Diciamo che è un buon affare per quelli che consegnano la pizza a domicilio.» Lei rise. «Be’, è un miliardario che gestisce una catena alberghiera. Non può essere bravo in tutto.» «Dillo a lui. Da allora guarda quei dannati programmi sulla pesca su Discovery Channel pensando di riscattarsi. Peccato che Julietta non voglia saperne di tornare. È decisamente una donna di città.» Gen aveva conosciuto Julietta e Sawyer. Vivevano a Milano e avevano accolto un Wolfe diciannovenne e senza tetto nella loro famiglia. Erano la coppia che Gen aveva sempre invidiato. Gestivano una fra le più famose catene di panifici e alberghi del mondo, stavano benissimo insieme ed erano pazzamente innamorati. Proprio come sperava fosse con David. Allontanò con decisione quel pensiero. «Le camere sono di sopra», disse Wolfe. «Faccio un salto in paese a fare un po’ di provviste e a prenderti dei vestiti.» «Quanto tempo restiamo qui?» La guardò. Strano, aveva un viso severo, dai lineamenti duri e marcati e le labbra lievemente piegate in un ghigno come se non si fosse mai liberato del ragazzo stizzoso che era in lui, eppure esprimeva una dolcezza che l’aveva sempre incuriosita. «Quando devi tornare in ospedale?» Ripensare alla vita reale la fece sobbalzare. «Tra una settimana. Ci siamo presi sette giorni per la luna di miele.» Quell’espressione le procurò una leggera nausea. «Allora c’è tempo. Decideremo il da farsi giorno per giorno. Ti serve qualcosa in particolare?» Lei scosse la testa. «No, fai tu, mi fido di te.» Le parole lo colpirono nel profondo; Wolfe fece un passo verso di lei. «Vuoi venire con me?» Gen si sforzò di sorridere. «No, riposo un po’. È stata una giornata lunga. Ci vediamo dopo.» Lui s’accigliò un poco e la sua espressione da papà orso quasi la fece ridere. Poi annuì e uscì. Le tremarono improvvisamente le gambe al pensiero di essere sola. Patetica. Non ricordava l’ultima volta che non aveva avuto qualcuno intorno o qualcosa da fare o una scadenza da rispettare. L’ultimo anno l’aveva praticamente trascorso nella ruota del criceto. Persino il sonno per lei non durava mai più di qualche ora ed era interrotto da incubi sull’infinità di cose da fare. Non era più padrona della sua mente. E neppure della sua anima. Percorse il corridoio per andare in bagno. Accese la luce. E si guardò allo specchio. La donna che vide era quasi irriconoscibile. Capelli castani raccolti. Trucco rovinato. Occhiaie profonde. Labbra piene e zigomi alti. Aveva perso altro peso, e la maglietta arancione le era larga di spalle. Si guardò meglio. I suoi occhi solitamente vivaci erano... vuoti. Lo scintillio era scomparso e lo sguardo era spento. Quand’era successo? Era sempre stata ambiziosa, e sostanzialmente felice. Certo, si caricava di troppe responsabilità, ma il mondo era così grande e c’erano così tante cose da fare. I chirurghi avevano un po’ tutti il complesso di Dio. Voleva aiutare, guarire, dare. Amava conoscere, fare nuove esperienze, meravigliarsi. Nell’ultimo anno, tuttavia, tutto ciò che ne aveva ricavato era stato un invalidante senso di inadeguatezza. Le sembrava di non valere abbastanza per nessuno. Né per il mondo né per David né per se stessa. Gen distolse lo sguardo dallo specchio. Wolfe guidava veloce, deciso a tornare presto allo chalet. Non avrebbe voluto lasciarla sola, ma sapeva che Gen aveva bisogno di elaborare l’accaduto. Finora aveva fatto come se niente fosse successo, ma era pronto a scommettere che quando se ne fosse resa conto sarebbe esplosa in un delirio. Era preoccupato. Maledizione, non l’aveva mai vista così. Quando le aveva chiesto se voleva sposare David, aveva letto la paura sul suo volto. Cosa le aveva fatto quel coglione? Questa storia avrebbe avuto conseguenze enormi. La sua famiglia, molto unita, adorava il suo fidanzato; e a parte questo, si era pure rovinata la carriera, visto che David era il suo capo. Gen non amava mettersi contro il sistema, specialmente contro la famiglia. Ma lui l’avrebbe aiutata. Se c’era una lezione che aveva imparato, era che la sola cosa che conta è proteggere la propria anima. Dio sapeva se non ci era passato anche lui. Aveva mollato tutto e aveva conosciuto l’inferno. Ma ne era valsa la pena. Il passato cercò di affacciarsi in superficie ma lui lo ricacciò indietro. Doveva concentrarsi su Gen e su ciò di cui aveva bisogno. Le prese un paio di cambi, biancheria intima, un costume, una confezione di bottiglie d’acqua e fece la spesa. Non c’era molta scelta in paese, ma era un posto perfetto per nascondersi qualche giorno. La gente ci veniva per le attività ricreative che la zona offriva, o per visitare il famoso ippodromo e il National Baseball Hall of Fame, il museo di baseball di Cooperstown. Buttò i sacchetti in macchina e prese il telefono. Sì, la situazione era grave. Alexa, Kate, Izzy e la madre di Gen gli avevano lasciato dei messaggi vocali. Pensò se dirlo a Gen, ma decise di no. Non era ancora pronta ad affrontare le conseguenze. Lasciare lo sposo all’altare sollevava una serie di complicazioni. Meglio darle tempo. Ascoltò e lesse i messaggi e rispose velocemente a ognuno senza svelare nulla. Izzy era stata bisbetica come al solito. La gemella di Gen stava passando un brutto periodo ed era soggetta a violenti e improvvisi scoppi di rabbia, quindi la sua reazione non lo sorprese. Alexa si dichiarava pronta a sostenere la sorella e Wolfe sapeva che poteva contare su di lei per calmare la famiglia. Da David ancora nulla. Cosa stava succedendo realmente tra loro? Stava facendo del male a Gen? Perché lei aveva tanta paura dell’uomo che stava per sposare? O temeva solo di ferirlo? Passò al messaggio successivo e scosse la testa. Kate era la peggiore. Quando si trattava di Gen entrava in modalità protezione estrema. Se non mi dici dove la nascondi sei fottuto. Ha bisogno di me. Wolfe digitò la risposta. Ha bisogno di tempo, poi puoi fottermi quanto vuoi. Dalle un giorno. Mi occupo io di lei. Il telefono suonò. Ah, merda. Stette un attimo a guardarlo, ma le migliori amiche erano tremende. Pensò che ora di sera Kate sarebbe riuscita a localizzarli col GPS, se avesse voluto, quindi rispose. «Come sta? Sto venendo a prenderla.» Wolfe mantenne un tono gentile ma deciso. «Aspetta. Lasciami un po’ di spazio. Ha mandato all’aria il suo matrimonio e ha bisogno di riordinare le idee. Ti sto chiedendo una mano, Kate. Aiutami a darle un po’ di tempo.» Un silenzio furioso all’altro capo del telefono. «Cosa sta succedendo? Non immaginavo che avesse in mente una cosa simile. Voglio dire, ero preoccupata per lei, sapevo che era stressata, ma questo non è da lei. Ti ha detto perché?» «No. Ma lo scoprirò. È brutta la situazione lì?» Uno sbuffo. «Non hai idea. È un pandemonio e io sto cercando di fare in modo che nessuno perda la testa. David ha il cuore spezzato e si è chiuso in camera col padre di Gen e col suo testimone. La stampa ha fiutato l’odore del sangue e ha preso d’assalto la chiesa. La madre di Gen pensava che la figlia fosse stata rapita perché era sicura che non sarebbe mai scappata. Come diavolo ci è finita con te?» Wolfe tirò un sospiro. «È uscita dalla finestra e io ero lì. Senti, Kate, qui c’è qualcosa sotto, non è solo tremarella o nervosismo della sposa. Penso che Gen abbia paura di quel figlio di puttana.» «Cosa? Oh mio Dio, l’ha picchiata o qualcosa del genere?» «Non lo so. Dammi qualche giorno per scoprirlo e rimetterla in piedi. Per favore.» Aspettò la sua risposta. Sapeva che Kate era testarda, leale e che amava Gen come una sorella. Sapeva anche che era dotata di un intuito straordinario. «Okay. Scrivimi le novità. Parlerò coi suoi e gli dirò che si è nascosta e che poi spiegherà tutto. E terrò d’occhio David. Forse riesco a capire qual è il vero problema.» «Grazie.» Ripose il cellulare in tasca e salì in macchina. Qualcosa non quadrava, ma avrebbe scoperto di cosa si trattava. Nel frattempo, sarebbe stato accanto a Gen per qualche giorno. Il Purity andava bene, quindi bastava chiamare uno dei suoi assistenti chiedendo di tenerlo informato. Non ricordava l’ultima volta che si era preso un giorno di libertà, per non parlare di un intero fine settimana. Avrebbe fatto bene a entrambi. Un po’ d’aria fresca e il tempo di ricaricare le batterie per poi rientrare nel mondo reale. Wolfe fece ritorno allo chalet. Capitolo 4 Genevieve alzò lo sguardo all’arrivo dell’auto. Una nebbiolina spettrale la circondava, quasi fosse bloccata a metà strada tra la terra e un piano più alto. Molto più alto, sperava, visto il senso di colpa ereditato dalla madre cattolica che le impregnava l’anima. Sentirsi stordita non le dispiaceva, invece. Meglio degli attacchi di panico che minacciavano la sua sanità mentale. Niente più specchi. Tenersi occupata. Non pensare. Le tre nuove regole di sopravvivenza. Gli andò incontro e lo aiutò a scaricare le provviste. «Stai bene?» Il suo sguardo la percorse da capo a piedi, come se nell’ora in cui l’aveva lasciata sola fosse cresciuta di qualche centimetro, superando la sua statura da Hobbit. Le fece segno di spostarsi e prese il resto dei sacchetti, lasciandole soltanto il pane. «Tu sai che sono in grado di sollevare un paziente di centotrenta chili, vero?» «Allora prendi questo.» Le passò il cartone delle uova. «Così ti mantieni in forma.» La battutina le calmò i nervi, perché le diede l’impressione che fosse tutto come sempre. Lo seguì in casa e posarono i sacchetti sul banco della cucina. «Preparo qualcosa per cena?» gli domandò. Lui sollevò un sopracciglio. «Hai fame?» Tra il pieno di dolciumi e il nervosismo, dubitava di riuscire a mettere un boccone nello stomaco. «No. Ma posso cucinarti qualcosa.» Lui sorrise e prese due confezioni da sei di Sam Adams Summer Ale da un sacchetto. «Perché invece non ci ubriachiamo?» Gli si gettò tra le braccia, d’istinto. David avrebbe insistito perché badasse alla sua salute. Era contrario a tutti i tipi di alcolici e controllava minuziosamente quello che mangiava. Le mancava il non avere più regole. Le mancava Wolfe. Si sentì circondata da muscoli duri come il marmo che esprimevano forza allo stato puro. Con la testa gli arrivava al petto, ma la tenerezza con cui la stringeva le fece provare una strana nostalgia e sentì un nodo in gola. Amata, ma non posseduta. Com’è che non aveva notato la differenza? L’odore pulito di cotone e sapone le riempì le narici. Inspirò profondamente per gustarsi il momento, poi si staccò. «Ehi.» Le toccò i capelli. «Se avessi saputo che saresti stata così carina con me, ti avrei proposto di ubriacarci ogni volta.» Fece una smorfia. «Sono sempre carina con te.» Wolfe stappò una bottiglia e gliela passò. La birra ghiacciata le scese in gola e le scaldò lo stomaco. Il retrogusto di limone indugiò sulla lingua. «Non è vero. Hai un discutibile senso dell’umorismo. E ti diverti a torturarmi. Tipo quella volta in cui mi hai fatto uscire con la tua amica Molly.» Stava per ridere ma si trattenne quando vide lo sguardo accusatorio di Gen. «Cercavo solo di trovarti una brava ragazza.» «Dominatrice mi sembra un termine più adatto. Ha portato una frusta. E qualche altro spaventoso aggeggio che mi ha fatto rinunciare al dessert. E io non rinuncio mai al dessert.» Gen si morse la lingua cercando di restare seria. «Non sapevo che avesse certi gusti, giuro. È un’infermiera specializzata e si lamentava di non riuscire a conoscere un tizio decente. Mi aveva detto che le piaceva il sesso con un po’ di pepe, ma non il sadomaso.» Lui prese una birra e aprì un pacchetto di salatini. «Ti sembro il tipo a cui piace essere sottomesso? O uno che si eccita a stare legato a un letto con una tenaglia alle palle? Non fa ridere, Gen.» Lei fece un altro sorso. «Mi avevi detto che ti piaceva il sesso trasgressivo. Volevo solo farti un favore.» «Trasgressivo, non pericoloso. Come ti sentiresti se ti facessi uscire con uno che ti ordina di metterti in ginocchio e di servirlo?» Il ricordo la colpì come un pugno. Un’altra discussione. David si lamentava perché lei non era abbastanza attenta ai suoi bisogni ed era diventata pigra a letto. Così l’aveva afferrata per i capelli. L’aveva costretta a inginocchiarsi. Si era slacciato i pantaloni. E aveva aspettato. Qualcuno diceva che certi giochetti rendevano il sesso piccante. Ma lei si era sentita solo umiliata e usata. Il modo in cui aveva valutato la sua abilità, rimproverandola perché non lo faceva bene. Alla fine si era girata dall’altra parte cercando di non vomitare e lui l’aveva lodata, accarezzandole i capelli come fosse un animale che aveva finalmente imparato a eseguire un comando. Le aveva detto che l’amava, che l’adorava e voleva che fossero perfetti. Gen si girò di scatto, chiudendo gli occhi e scacciando quelle immagini dalla mente. No, non ora. Perché non l’aveva mandato a fare in culo e non l’aveva cacciato di casa? Cos’aveva che non andava? «Gen?» Lei rabbrividì e rispose usando un tono leggero. «Scusa. Come direbbe Dug, il cane parlante di Up, ‘Scoiattolo!’. Ho perso il filo. Ultimamente sembra il mio nuovo motto.» La osservò in silenzio, poi annuì. «Preferisco il mio, da Nemo.» «Com’è?» La guardò negli occhi per dare un significato più profondo alle sue parole. «Continua a nuotare.» Lei si rilassò e riuscì a fare un sorriso. «È il film preferito di Lily.» «Anche il mio. Il secondo è The Avengers.» Arricciò il naso. «Non ci credo. Ho sempre pensato che ti piacessero i film di gangster. Non sembravi tipo da supereroi.» Un’alzata di spalle possenti. «Non c’è niente di male a sperare che i buoni le suonino ai cattivi.» L’ombra di un pensiero gli attraversò il volto, forse un ricordo. Gen avrebbe voluto chiederglielo, ma lui sparì subito. «Mangia qualche salatino, ti riempie lo stomaco. Vado a cambiarmi un attimo, torno subito.» Gen ne masticò qualcuno e lo aspettò seduta sul divano soffice con la sua birra. Wolfe tornò con addosso solo un costume blu, maglietta e sandali, e si accomodò sulla poltrona di fronte a lei. La scena le ricordò una semplice riunione tra buoni amici. Purtroppo era molto di più. Strinse la mano intorno al collo della bottiglia. «Hai parlato con i miei?» La guardò da sotto le palpebre pesanti, ma il tono era rilassato. «Ho parlato con Kate. Le ho detto che saremmo rimasti nascosti per qualche giorno. Penserà a tutto lei finché non sarai pronta.» «David ti ha cercato?» «Non ancora.» Rifletté su quella risposta e si morse il labbro. Era spaventata e confusa come se fosse finita nel paese di Oz e non sapesse ancora come interpretare le cose. «Non mi hai chiesto il perché.» «Non c’è bisogno.» Lo osservò, cercando di vedere oltre la sua calma apparente. Sicuramente moriva dalla curiosità, eppure non glielo chiedeva. «Non vuoi saperlo?» La sorprese con un mezzo sorriso. «Diavolo, certo che voglio saperlo. Sei la mia migliore amica e non avevo idea che avessi dei problemi. Ma non sei pronta. Quando vorrai parlarne io sono qui. Per adesso hai solo bisogno di un po’ d’alcol e di distrarti. Vieni, usciamo.» Le prese la mano e la fece alzare. «Dove? Non possiamo bere mentre guidiamo.» «C’è un sentiero dietro lo chalet che porta al lago.» Prese le birre e due asciugamani e uscì. Il sole le scottava sulla pelle ma appena presero il sentiero all’ombra degli alberi il bruciore passò. L’odore di muschio della terra e del legno marcio le salì alle narici, e proseguì con cautela con le infradito, finché il sentiero si aprì. Camminarono in silenzio. Gli uccelli cantavano, gli alberi osservavano, i legnetti calpestati si spezzavano e gli insetti svolazzavano, tentando di quando in quando una rapida incursione. Si sentì stranamente leggera. Com’era possibile, quando solo qualche ora prima si trovava in chiesa sul punto di sposare David? Come mai questo momento le sembrava più reale degli ultimi sei mesi? Doveva impegnarsi a capirlo, perché la risposta stava nella ragione per cui era fuggita. Sfortunatamente, al momento negare tutto sembrava meno pericoloso della verità. «Eccolo.» Più che un lago, era uno stagno circondato da erbe palustri con un ponticello sbilenco quasi ridotto in pezzi. Gen lo guardò e si chiese se bastasse mettere un piede in acqua per essere agguantati da un gigantesco alligatore come in Lake Placid – Il terrore corre sul lago. Mise le mani sui fianchi. «Vuoi farmi fuori o cosa? Non ci entro neanche se mi paghi.» «Fifona. Non è pericoloso. Ci ho sorpreso Sawyer e Julietta a fare il bagno nudi. Mi è venuto un colpo.» Lei rise. «Una volta ho beccato Nick e Alexa che facevano gli stupidi nel guardaroba a casa dei miei. Non riuscivo neanche a guardarli, figuriamoci a mangiare. Mi hanno rovinato l’appetito.» Wolfe posò la birra, si sfilò i sandali e raggiunse il ponticello traballante. «Il lago di Saratoga è a circa otto miglia da qui ma l’uscita è Fish Creek. Noi siamo proprio alla fine. A Sawyer interessava la privacy più che lo svago. Siamo in un paradiso isolato e ti lamenti. Molto meglio di un’elegante piscina piena di cloro.» «Parla per te.» Si tolse la maglietta scoprendo pettorali perfettamente definiti e addominali d’acciaio. L’impressionante tatuaggio spiraleggiava come fumo partendo alla destra dell’addome e proseguendo sul petto e intorno al braccio per giungere fin sotto l’orecchio. Lo vedeva di rado svestito, se non sui cartelloni pubblicitari degli stilisti per cui aveva posato, e solo ora si accorgeva che le dimensioni e i particolari di quel serpente lo facevano sembrare vivo. Portava gli stessi bracciali a fascia che erano diventati un segno distintivo tra i modelli. Gen sapeva che non li toglieva mai. Mai. Li indossava sempre, quando era in mutande, quando nuotava, col caldo e col freddo. Era sicura che li tenesse pure sotto la doccia e che ci dormisse anche. All’inizio li aveva giudicati soltanto un vezzo, poi però negli anni aveva cominciato a considerarli una parte del suo corpo. E non gli aveva mai fatto domande. Ripensò alla prima volta che l’aveva visto a una cena a casa di Alexa. L’avevano portato Max e Michael, i mariti delle migliori amiche di Alexa, e l’avevano presentato a tutti. Gen ne era rimasta subito affascinata. Dal tatuaggio alla testa rasata, dai vari piercing ai muscoli possenti, non era un tipo che poteva passare inosservato. Era chiaramente a disagio e aveva le labbra piegate in un ghigno come se stesse per mandare tutti quanti a fare in culo. Ciononostante era rimasto educatamente in silenzio osservando i presenti finché i loro sguardi si erano incrociati. Era subito scattato qualcosa tra loro. Come se si fossero già incontrati da qualche altra parte. Si erano riconosciuti. Ed erano stati presentati di nuovo. Non sapeva perché fosse tanto attratta da Wolfe. Era un tipo che poteva piacere a Izzy, non a lei. Era sua sorella la ragazzaccia. E infatti se l’era mangiato con gli occhi. Suo padre aveva fatto la faccia scura e sembrava pronto ad azzannarlo. Alexa si era messa a cianciare senza sosta cercando di allentare la tensione e Maggie, la migliore amica di Alexa nonché sua zia onoraria, aveva parlato con orgoglio della sua carriera di modello e lodato la sua intelligenza. Gen si era avvicinata e aveva allungato la mano con un sorriso. «Benvenuto in famiglia, Wolfe. Sono Gen.» Lui era rimasto un attimo immobile. Per un lunghissimo secondo, aveva temuto che l’avrebbe insultata. Invece le aveva dato una stretta di mano calda e decisa. «Piacere di conoscerti.» Di lui, Gen sapeva soltanto che un tempo era stato un senzatetto, ma che ora viveva con Sawyer, il marito della sorella di Michael. E che si era iscritto a ingegneria gestionale alla New York University. Dal momento che lui e Gen frequentavano la stessa università, a cena erano stati messi a sedere vicini. Avevano conversato piacevolmente. Lei aveva intuito che lui custodiva segreti profondi e oscuri che nessuno probabilmente avrebbe mai scoperto, ma non le importava. Il suo istinto le diceva che quel ragazzo aveva più dignità di molti altri della sua età. Dopo cena avevano chiacchierato fuori, da soli. Gen gli aveva fatto qualche domanda per conoscerlo meglio, ma lui aveva risposto a monosillabi, col volto teso, e si era accorta di averlo allontanato. Tornò con la mente a un frammento di quella conversazione. Non ti piace parlare di te? chiese, curiosa. Questo ragazzo, che la sorella gemella aveva definito molto scopabile, sembrava avere molto più che la testa rasata, il tatuaggio e i bracciali di cuoio. Nascondeva dei segreti. E sentiva che erano segreti brutti. Era questo il motivo per cui non gli piaceva parlare? «No», rispose. «Non parlo del passato. Solo del presente.» La risposta la colpì. Percepì un legame tra loro, come se si fossero incontrati in un’altra vita e stessero riprendendo da dove s’erano interrotti. «Allora non ti faccio altre domande. Saremo solo amici.» I suoi splendidi occhi azzurri tradirono un bisogno misto a sospetto. «Amici? Scommetto che un giorno mi farai un sacco di domande. E ti arrabbierai con me perché non mi confido. Le ragazze fanno così.» Lei sorrise. Sapeva di non essere come le altre. «Facciamo giurin giuretta, allora. Non parleremo mai del nostro passato, a meno che non lo voglia tu. Niente domande.» Le piaceva l’idea di cominciare da zero con lui. Con una persona che non la giudicava per quello che aveva fatto in passato ma che l’accettava per quella che era in quel momento. Lui aggrottò la fronte. «Giurin giuretta?» Lei sospirò con impazienza. «C’è un modo migliore? Un giuramento è un giuramento.» Lui allungò la mano, esitante. I loro indici si accavallarono. Avvertì un soffio di energia pura e inebriante che la fece sentire bene. «Giurin giuretta», disse lui in tono burbero. E poi accadde la cosa più bella. Per la prima volta da quando si erano presentati, le sorrise. Le si riempì il cuore e capì che quel sorriso l’avrebbe sempre resa felice. Finalmente aveva un ragazzo con cui si sentiva al sicuro, con cui poteva ridere e divertirsi e a cui poteva raccontare i propri segreti. Anni dopo, Izzy ancora la faceva impazzire pretendendo di sapere perché non se lo scopava. Persino le sue migliori amiche, Kate, Kennedy e Arylin, si erano sempre chieste come mai lei e Wolfe non si fossero messi insieme. Gen era attratta da lui, ma vedeva anche oltre. Wolfe non era in grado di gestire una relazione. Gli piaceva il sesso e la stuzzicava raccontandole le sue imprese a letto mentre lei si copriva il volto protestando e dicendo di non voler sentire altro. Ma non andava oltre il livello puramente fisico. Quando entravano in gioco i sentimenti lui scompariva... Gen aveva capito che il rapporto tra loro due era molto più profondo e significativo delle sue storielle toccata e fuga. Lo osservò con addosso nient’altro che il costume e si chiese come mai si trovassero così a loro agio insieme. Forse perché non avevano il pensiero di dover rispondere prima o poi a delle domande. Forse perché si accettavano com’erano, accontentandosi di ciò che ognuno voleva mostrare di sé, senza chiedersi come fosse prima o cos’avesse fatto in passato. E scommetteva che lui ne aveva combinate delle belle. Si fermò in equilibrio sul bordo del ponticello in tutto il suo splendore maschio e alzò un sopracciglio. Lei sentì un languore simile alla fame, ma le passò subito. Era abituata a quella sensazione e non si stupiva di provarla. Wolfe era super sexy e solo un cadavere non avrebbe avuto alcuna reazione fisica in quella situazione. E comunque bastava il pensiero di perdere la sua amicizia per farle ignorare l’attrazione fisica. «Vieni?» «No.» «Non sei cresciuta in campagna? Dai, Gen. Odio quando ti comporti da femminuccia.» Gli fece la linguaccia e prese un’altra birra. Poi posò il sedere su un grosso sasso e allungò le gambe. «Sono una femmina, idiota. È pieno di insetti, pesci e animalacci vari lì dentro. Non ci penso proprio.» «Mi deludi.» Si preparò a un bel tuffo e il diavoletto dentro di lei si rifece vivo, dopo tanti mesi di vacanza. «Attento, hai un ragno sulla gamba.» «Cosa?» Saltellò sui piedi per liberarsi dal ragno e quando si piegò per passarsi le mani sulle gambe cadde in acqua. Lei rise così tanto che ebbe paura di rompersi una costola, specialmente quando lui riemerse sputando acqua dalla bocca. «Ah ah, che scena impagabile», riuscì a dire tra le risa. Il suo terrore dei ragni l’aveva sempre incuriosita. Era grande e grosso e nulla lo spaventava, a parte quelle piccole creature a otto zampe. Come Indiana Jones coi serpenti. «Scusa, non sono riuscita a trattenermi.» I suoi occhi si ridussero a una fessura. «Sai che la vendetta è una brutta bestia, vero?» Gen cercò di respirare. «Ho lasciato lo sposo all’altare. Dovrebbe essere abbastanza per oggi.» Lui grugnì. «Forse. O forse no.» S’immerse con un unico grazioso movimento e fece qualche capriola. Lei restò a guardarlo senza sensi di colpa. I suoi muscoli asciutti fendevano l’acqua con movimenti veloci e armoniosi. Il cielo era di un azzurro intenso come i suoi occhi. «Come va in ospedale?» «Bene.» Prese un altro sorso di birra e pensò a David. Qualunque discorso sembrava portare al suo fidanzato. Ex fidanzato. Dal momento che dirigeva tutto il reparto e lei era una sua sottoposta, probabilmente anche la sua carriera era a rischio. «Un sacco da fare.» «È un po’ che non ti piace più il tuo lavoro, vero?» Girò la testa di scatto, con rabbia. «Non è solo un lavoro. È la mia vita. Il college, la scuola di medicina, l’internato. Giorni, notti, fine settimana. Non ho mai perso colpi, mai avuto dubbi e mai allentato la concentrazione. Ho smesso molto tempo fa di chiedermi se mi piace. Lo faccio e basta.» Lui nuotava avanti e indietro come se non avesse un solo pensiero al mondo. E non l’aveva. Era lei che aveva mandato all’aria la propria vita scappando. «Perché?» chiese lui. Batté le palpebre. «Che domanda è? Perché se vuoi farti apprezzare come chirurgo devi dare tutto, e di te rimane ben poco. Poi piano piano puoi cercare di rimettere insieme quello che rimane.» Lui faceva il morto in acqua, in assoluta beatitudine. «È solo che non capisco. Se non mi piacesse lavorare al Purity, me ne andrei. Farei qualcos’altro. Non posso credere che tu sia così ossessionata da questo lavoro da non esserti mai fermata a chiederti se ti piace.» Le andò la birra di traverso per l’indignazione. Come osava mettere in dubbio le sue motivazioni? Lottava per riuscire nel campo della medicina da quando giocava con le bambole prestando loro il primo soccorso. Quando suo fratello Lance aveva dichiarato di voler studiare medicina, lei se l’era presa perché le aveva copiato l’idea. L’ambizione, la carriera e il raggiungimento di determinati obiettivi erano cose che capiva. Salvare vite umane e sforzarsi di raggiungere l’eccellenza la facevano sentire speciale e meritevole. Eppure il suo migliore amico la considerava un’occupazione come tante, scelta a casaccio tra un mucchio di altri mestieri insignificanti. «Io curo persone, salvo vite. Tu offri piacevoli notti fuori casa.» Le dispiaceva essere così acida, ma lui continuava a nuotare beatamente. «Be’, abbiamo una spa e una cappella. Ci prendiamo cura anche dell’anima.» «Perché vuoi farmi imbestialire? È il lavoro della mia vita. Non mollo una cosa solo perché è difficile o perché non mi diverte più.» «Hai mai mollato una cosa che non ti piaceva?» La domanda la prese alla sprovvista. Trangugiò la restante metà della birra, ne prese un’altra e la stappò. «Sì, la ginnastica. Non ero coordinata. Mia madre sognava le olimpiadi. Una volta sono caduta dall’asse di equilibrio e ho pianto per un’ora. Così ho smesso.» «Quante lezioni hai resistito?» Gen si accigliò. «Be’, ho finito il corso. Poi però l’anno successivo non mi sono riscritta.» «Hai mai lasciato un libro a metà?» Inorridì. «Stai scherzando? Se lo comincio, lo finisco. Non so come faccia la gente a dormire senza sapere come va a finire.» «E se ordini una cosa che non ti piace al ristorante? La mandi indietro?» «Se è cucinata bene e non mi piace il sapore? Certo che no. È colpa mia se l’ho ordinata.» «Mmm, interessante.» Lo guardò di traverso mentre cominciava a nuotare sul dorso. «Interessante cosa? E perché tutte queste domande stupide?» «Prendi le tue scelte molto seriamente.» Lei alzò il mento. «Certo. Le scelte hanno delle conseguenze. Non assumersene la responsabilità è un fallimento.» «O forse è solo un errore da correggere. Non tutte le strade vanno percorse. A volte è meglio tornare indietro.» Le sue parole le scatenarono un’esplosione di frustrazione e rabbia repressa. «Tornare indietro significa fallire.» «No. Significa solo che hai sbagliato strada.» Lui lo disse con un tono dolce, eppure si sentì graffiata come se le avesse sputato la ghiaia addosso. Tremava dalla collera. Quando il padre li aveva abbandonati, aveva deciso di fare le cose per bene senza mai creare problemi. L’aveva fatto, e suo padre era tornato. La sua famiglia era guarita. Comportarsi bene conveniva. Seguire le regole ricompensava. Wolfe non sapeva di cosa parlava. Si alzò, posò la birra a terra e andò sul bordo del ponticello. «Chi sei tu per propinarmi tutte queste psicocazzate? Sul lavoro sei ambizioso quanto me. E detesti il fallimento, la pigrizia e la mediocrità.» La sua risata ruppe il silenzio del bosco. Il sole cominciava a calare dietro la collina. Le ombre degli alberi ondeggianti danzavano. «Sì, infatti. Sembri arrabbiata.» «Lo sono!» Nuotò verso di lei. «Quanto?» «Tanto», ringhiò lei. «È quello che pensavo. Meglio farti sbollire.» Non fece in tempo a reagire. Wolfe schizzò fuori dall’acqua come un mostro marino, l’afferrò e la trascinò nel lago. Le sue urla furono interrotte dall’acqua che le si chiudeva sopra la testa. Toccò il fondo coi piedi, poi tornò scalciando in superficie. Il gran sorriso sul suo volto le fece venire una sola idea. Vendetta. Oh, sarebbe stata dolce. «Contento?» biascicò scuotendo la testa come un cane bagnato per togliersi i capelli dal volto. «Abbastanza. Stavamo facendo discorsi troppo seri.» La sfacciataggine della risposta la fece ridere. Non le permetteva d’essere di cattivo umore nemmeno il giorno del suo matrimonio mancato. Wolfe capiva quando era meglio lasciarla cuocere nel suo brodo e quando invece aveva bisogno di essere tirata su. Al momento le emozioni che si agitavano dentro di lei erano così tante che non sapeva su quale concentrarsi. L’acqua l’aiutò a schiarirsi la mente. Si tenne a galla agitando le gambe. «Bleah, è tutto molle e melmoso sul fondo, Dio sa cosa c’è lì sotto.» «Hai paura di qualche pesciolino?» Gen torse le labbra. «Non correre a rifugiarti in camera mia stanotte.» Lui alzò un sopracciglio e le nuotò intorno come uno squalo che circonda la preda. «È una proposta? Non sapevo che desiderassi il mio corpo.» Sbuffò dal naso. «Oh, sì, sarà molto romantico. Io, te e il grosso ragno peloso che t’infilerò nel letto.» Smise di scherzare. «Non provocarmi.» Lei rise e tirò fuori la lingua. «Scommetto che è pieno, qui intorno. Hai mai visto i ragni dei boschi?» Una smorfia di disgusto. «Pelosi, con le zampe grosse e così veloci che non riesci a prenderli.» Cercava di stare allo scherzo ma era pallido. Accidenti, era troppo divertente. «Sai cosa si trova qui intorno oltre ai ragni?» chiese lui. «Cosa?» «Le rane. Un sacco di rane verdi. Come Kermit.» Rabbrividì per l’orrore. «Te l’ho detto in confidenza», sussurrò. «Sei una persona orribile e cattiva.» «Fammi trovare un ragno nel letto e ti sveglierò con un ritratto di Kermit.» «Stronzo. Ero ubriaca quando te l’ho confessato. Le confidenze fatte sotto l’effetto dell’alcol sono sacre. Hai infranto la regola fondamentale.» Aveva avuto un incubo che ancora oggi la perseguitava, ed era stata così stupida da raccontarlo a Wolfe dopo un numero eccessivo di birre. Aveva sognato di essere aggredita da un mare di volti come quello di Kermit la rana, solo che invece del sorriso dolce avevano i denti insanguinati e la inseguivano come un banco di piranha. Da allora non era più riuscita a guardare un film dei Muppets. «Occhio per occhio», disse lui. Poi s’immerse. Lo guardò nuotare, ammirando la grazia e la potenza del suo corpo e dei muscoli che si flettevano. Era attratta da lui, ma era brava a ignorarlo. Wolfe aveva bisogno di ben altro che di una scopata veloce o un’altra storiella. Aveva bisogno di un’amica. Gen lo conosceva meglio di chiunque altro e lui le aveva fatto il dono di mostrarle la sua vera anima. Il sesso avrebbe rovinato tutto e le avrebbe fatto perdere uno dei rapporti umani più importanti della sua vita. No, grazie. Le bastava quello che le dava. Zero aspettative, solo accettazione, rispetto e affetto. Molto diverso da David. Il pensiero la colpì come un montante e per un attimo faticò a respirare. Aveva fatto una cosa terribile, e l’avrebbe pagata cara. Wolfe si sbagliava. Gli errori rovinano la vita, e lei, non andando fino in fondo, aveva deluso tutti. No. Hai salvato te stessa. Tu sai perché. Ebbe l’impressione che la sua voce interiore sapesse molte altre cose e non vedesse l’ora di rivelarle. Ma non voleva ascoltarla, adesso. Tornò a nuoto al ponticello e uscì dall’acqua, andando a riprendersi la birra. Il proposito di ubriacarsi per non pensare era l’unica cosa che la sosteneva, al momento. Dio fosse lodato per il signor Sam Adams. Wolfe riemerse, uscì dall’acqua e si prese una birra. Stese gli asciugamani sul ponticello malconcio, si sdraiò sulla schiena appoggiandosi la bottiglia sulla pancia e guardò il cielo. Lei sospirò e fece lo stesso. Erano stesi ad asciugarsi alla brezza calda, spalla contro spalla, guardando le stelle che cominciavano a spuntare dalle nuvole. L’alcol rendeva la scena piacevolmente sfocata, smussando i contorni. «Dovrei essere su un aereo per le Bermuda», disse lei. «Qui è meglio. La sabbia rosa è sopravvalutata.» «La torta era di cocco e cioccolato. Cinque piani.» «Ti ho preso i dolcetti natalizi. C’è anche il cocco, sopra.» Un sorriso le sfiorò le labbra. «Vero. Avevo un négligé di seta da cinquecento dollari. Me l’ha preso Maggie in Europa.» «Be’ è proprio una sciocchezza. Lo tieni due minuti e poi te lo strappano di dosso. Non ho mai capito la mania della biancheria intima costosa.» «Gli hai anche fatto pubblicità guadagnandoci un milione di dollari.» Maggie l’aveva fatto diventare una star dei boxer firmati. Al posto delle solite mutande bianche aderenti, le foto sui tabelloni e sulle riviste avevano proposto i boxer come nuova tendenza. Wolfe posava girato leggermente di fianco con un paio di semplici boxer neri, le braccia incrociate sul petto e l’espressione imbronciata. Un ribelle. Assolutamente irresistibile. Lo slogan diceva: ‘’Fanculo le mutande. Indossa quello che ti fa stare bene’. Negli Stati Uniti la parolaccia non era piaciuta. In Europa l’avevano adorata. Wolfe era diventato ricco e famoso, nonché uno dei modelli più richiesti. Aveva smesso dopo un anno per laurearsi e gestire il Purity. Le donne gli davano ancora la caccia, ma lui non parlava mai della sua carriera di modello, e poiché si stava facendo crescere i capelli e nascondeva il tatuaggio con le maniche lunghe, molte non lo riconoscevano e neppure sapevano che fosse il ragazzo della pubblicità. «È stato divertente, per un po’, ma non comprerei mai boxer che costano un patrimonio. Tanto chi li vede?» Le sfuggì una sincera risata. Era così diverso da David. Il suo ex amava le griffe, l’etichetta giusta, e sparava sempre a zero sul suo guardaroba e sulla sua noiosa biancheria intima. «Concordo. Ma il sesso? In luna di miele si prende il sole, si beve e si fa sesso. Potrebbe passare un anno prima di farlo di nuovo. Forse di più.» «La birra ce l’hai, il sole è appena calato, siamo sul lago, e ci sono io. Se proprio non resisti posso fare io sesso con te.» Gli diede un pugno che fece più male a lei che a lui. «Wow, grazie. Sei proprio un amico.» «Li chiamano ‘scopamico’. Sai, gli amici che non vogliono impegni sentimentali e quindi fanno solo sesso occasionale.» «Odio quel termine, è così volgare. Ho fatto il pieno di film sull’argomento e finiscono tutti nello stesso modo. Uno dei due s’innamora, l’amicizia finisce, poi anche il secondo confessa di essere sempre stato innamorato dell’altro e si mettono insieme.» «Da cui la parola ‘film’, Gen. Opera di fantasia.» «Certi film sono basati sulla realtà. Magari anche quelli romantici.» Percepì, più che vedere, che stava alzando gli occhi al cielo. «Forse qualche film di guerra, ma nessuna storia d’amore è basata sulla realtà.» Gen si girò sul fianco, si appoggiò a un gomito e lo guardò. Era una sfida, e lei era un tipo competitivo. Avevano entrambi un inspiegabile bisogno di vincere, e potevano passare ore immersi in discussioni senza senso. «Io e Marley.» «Oh, Dio santissimo. Okay, escludiamo i film di guerra, i documentari sugli animali e quelli storici.» «Quanti te ne devo dire?» «Ne bastano due.» «In cambio?» «Ti proteggo da Kermit.» «Ah ah, che ridere. Devi dirmi un segreto che non hai mai detto a nessuno. Non importa quale.» Non sapeva come le fosse uscito. Si aspettava un rifiuto e stava per ritrattare ma qualcosa la fece restare in silenzio. Forse perché dopo che la sua vita era andata a rotoli non aveva nulla a cui aggrapparsi. Un segreto in cambio di un segreto. Qualcosa che la facesse sentire meno sola. Meno... disperata. Arylin sarebbe stata orgogliosa della sua capacità di autoanalisi. Era la psicoterapeuta dell’agenzia matrimoniale Kinnections e aiutava i clienti ad acquisire consapevolezza delle proprie relazioni e a superare le barriere che impedivano loro di raggiungere la felicità. Certo, aver capito di avere qualche problema di testa perché il giorno del suo matrimonio si era data alla fuga non era esattamente un’intuizione geniale. «Wolfe, lascia stare, io...» «D’accordo.» Wow. Questa non se l’aspettava. Certo, adesso doveva trovare due film basati sulla vita reale che avessero qualcosa di romantico dentro. Non stupiva che avesse accettato. «Dammi un minuto per pensarci.» Lui incrociò le braccia sotto la testa e fece un sorriso impertinente. «Prenditi tutto il tempo che ti occorre.» Le si accese la lampadina. «Titanic!» Era raggiante d’orgoglio. «Basato su un evento storico. Escluso.» «Oh, andiamo! La storia d’amore non c’entra con la nave che affonda!» «Le regole le abbiamo dette. Niente fatti storici. Trovane un altro.» Finì la birra brontolando e ne prese un’altra, lambiccandosi il cervello. Le venne in mente Shakespeare in Love. Merda, non ce n’era uno che non fosse basato sulla storia? «A Beautiful Mind! E non provare a dirmi che questo non vale.» Non rispose per un attimo. Sapeva che stava cercando l’appiglio per squalificarlo ed era già pronta a protestare. «Okay, questo te lo concedo. Non male come film.» Sì! Ne mancava un altro. «Tutti insieme appassionatamente!» «No.» «È vero ed è una storia d’amore!» «Mmm, fammi pensare. Seconda guerra mondiale. Invasione tedesca. Fuga sui monti per sfuggire al regime di Hitler. Storia, cara. Escluso.» «Sapevo che mentivi quando hai detto di non averlo visto.» «Mi ha costretto Julietta a vederlo e ho avuto conati di vomito per tutto il tempo.» Mise il broncio, bevve dell’altra birra e si rese conto di non conoscere molti film a lieto fine. Per forza. I finali rosa erano tutti finti. «Ti arrendi?» «No.» Lui rise. «Deprimente, vero?» Qualche minuto dopo capì di aver vinto. «Preparati a confessare.» «Cos’hai trovato?» «La memoria del cuore.» Gen fece una piccola danza della vittoria da sdraiata. Era un po’ che non si sentiva così soddisfatta. «Ho vinto, ho vinto, ho vinto.» Lui s’accigliò. «Che diavolo è La memoria del cuore?» «Non lo conosci? Con Channing Tatum. Lei perde la memoria in un incidente e non riconosce più il marito e lui deve farla innamorare di lui di nuovo come se fosse un estraneo. Bellissimo.» «Non può essere basato sulla realtà. Escluso.» Si alzò a sedere. «No, no. Controlla sul telefono, l’hai portato?» Lui prese il cellulare e avviò la ricerca. Capì dalla sua espressione disgustata che l’aveva trovato. «È la cosa più idiota che abbia mai letto. Una storia d’amore nata da un’amnesia?» Sbuffò dal naso. «È molto romantico e credibile.» «Tatum è veramente sopravvalutato.» «Geloso?» Lui tornò a stendersi e inghiottì a vuoto. Per quanto la riguardava, Wolfe batteva Tatum tutta la vita, ma neanche morta l’avrebbe ammesso. Era già abbastanza presuntuoso. Accidenti, aveva un buonissimo odore. Di pulito. Pino, acqua e cotone, con giusto un pizzico di sudore maschile per captare l’attenzione di una donna. Grazie a Dio non era attratta da lui in quel senso. Le aveva sempre ricordato un po’ Adam Levine. Tatuaggi, inquietudine da ragazzaccio e un’anima meravigliosa erano un’affascinante combinazione. «È a malapena in grado di recitare quindi si spoglia per compensare.» Gen rise a crepapelle. «Lo dici tu.» La sua immagine si divise in due. I grilli frinivano e tutto, intorno a lei, sembrò più vivo. Oh sì. Quattro birre ed era bella che andata. Anzi, era la quinta, giusto? Si sentiva finalmente calma e d’un tratto non aveva più paura. Era una sposa fuggitiva, e con questo? Aveva abbandonato all’altare la cosa migliore che le era mai capitata. Quindi? Aveva spezzato il cuore a David, e l’aveva umiliato. E allora? Sai che tragedia. «Stai meglio?» La guardò stappare un’altra birra e ricadere sulla schiena. Il cielo girava tutto. «Sì. Me le sto bevendo tutte io, le birre.» «Ti ci volevano. Ma non voglio che tu stia male.» Ridacchiò. «Ti ricordi quella volta da Mugs quando hanno cercato di introdurre il karaoke e dopo aver bevuto troppo ci siamo messi a cantare I Got You Babe?» La sua risata contagiosa era come una carezza per le orecchie di Gen. «Brutta faccenda. Se qualcuno ci avesse messi su YouTube il filmato sarebbe diventato virale. Addio rispettabile carriera nel mondo della ristorazione. Addio brillante futuro da chirurgo.» «David non sopportava che bevessi. Diceva che la cosa avrebbe avuto ripercussioni su di lui in ospedale. E che sarei diventata un’alcolizzata come mio padre.» Lui s’irrigidì, poi lentamente si rilassò. «Non sei una forte bevitrice, Gen. Credimi, io li ho visti quelli che bevono. Ti sei divertita un po’ prima di diventare medico interno. Eri più giovane. Non faresti mai nulla che potrebbe mettere in pericolo la tua reputazione o la tua carriera.» «Può darsi. Ma a volte...» s’interruppe, inorridita al pensiero di proseguire. Mettere i pensieri in parole li rendeva reali. «A volte cosa?» Non avrebbe voluto dirlo, ma con lui era al sicuro. «A volte speravo che mi beccassero. Che David mi lasciasse e che mi buttassero fuori dalla scuola di medicina. Sognavo un enorme scandalo che m’impedisse di tener fede alle scelte che avevo fatto.» Un nodo in gola. «Ora ho avuto quello che volevo. E mi odio per questo.» La vergogna di non essere forte e grintosa come aveva sempre creduto la nauseava. David aveva ragione. Diceva che era debole e disprezzava la sua incapacità di comunicare e di fare quello che andava fatto. La spingeva ogni giorno a essere migliore, ma lei lo deludeva ogni volta, fino alla vigliaccata della fuga dalla chiesa. «Mia madre era tossicodipendente.» Gen tirò dentro il fiato. Aveva parlato a bassa voce, guardando il cielo, come se sperasse che affidando le parole alla notte sarebbero finite in un luogo magico da cui non gli avrebbero più fatto male. Lei restò in silenzio, in attesa che proseguisse. «Si piegava a tutto per farsi. Il che in genere voleva dire farci morire tutti e due di fame o prostituirsi per una sniffata. Ricordo una volta, avevo sette anni... Sono tornato a casa da scuola e l’ho sentita fare sesso in camera. Ci ero abituato, e mi sono messo a cercare qualcosa da mangiare. Ho trovato dei cereali nella credenza. Prendendo una tazza ho scoperto una bustina di polvere bianca. Ero incantato, voglio dire, ero abituato a vedere mia madre sotto l’effetto della coca, ma lei nascondeva sempre bene la sua roba. Sembrava proprio zucchero, come quello che avrei messo sui waffle, se li avessi avuti.» A Gen batteva così forte il cuore che quasi non sentiva quello che lui diceva. «L’ho presa, l’ho aperta, e ho pensato che potevo drogarmi anch’io. Così sarei stato più contento. Le sarei stato più vicino. Lei era felice quando si faceva, mi abbracciava, a volte cantava e ballava, e ho pensato che poteva essere sempre così. Me ne sono messa un po’ sul dito e l’ho avvicinato al naso. Volevo andare lontano come lei, smettere di avere sempre paura e di avere sempre bisogno di tutto.» Sospirò. Gen non disse nulla. Aspettò. «Non ho fatto in tempo a sniffarla. Sono usciti dalla camera e appena mi hanno visto con la bustina in mano il suo cliente mi ha riempito di botte. Non ho più trovato la sua coca. Credo avesse paura che ne avrebbe avuta meno per lei se mi fossi fatto anch’io.» Le si strinse il cuore e si vergognò. Nonostante il suo passato, i suoi genitori la amavano ed erano uniti. La sua famiglia era la cosa più importante della sua vita. Che persona sarebbe diventata se non avesse avuto quella rete di sicurezza? Senza nessuno di cui fidarsi e a cui affidarsi che la amasse incondizionatamente? Gen sapeva che Wolfe non voleva pietà. E non la meritava, comunque. Era troppo forte per essere compatito. Fece il possibile per non parlare con la voce tremolante. «Figlia di puttana. Scusa, ma odio tua madre.» Gli sfuggì una risatina sorpresa. «Già, anch’io.» «Almeno non hai sniffato.» «Credo che l’avrei fatto. Ed è una cosa che non dimenticherò mai. Non è stata la forza di volontà a salvarmi. È stato un caso.» Avrebbe voluto dirgli di non sparare cazzate, ma non voleva innescare una discussione. Non era pronto per una conversazione a cuore aperto, ma era la prima volta che le raccontava del suo passato. E se quella era solo una piccola parte, non era certa di poter sentire tutta la storia. «Uffa. Speravo in qualche clamorosa rivelazione a sfondo sessuale, tipo che ti piace davvero il sadomaso.» «Di nuovo il sesso, eh?» «Dev’essere l’alcol.» Finì la quinta o la sesta birra, e si godette il calore che si spandeva nelle vene. La finta contentezza sarebbe presto diventata depressione ma al momento non le importava. Era una vita che non si lasciava andare a fare qualcosa di sconsiderato. «David diceva che sessualmente ero un disastro.» Questa volta si girò. Le puntò gli occhi negli occhi e strinse la mascella. «David è un coglione ed è per questo che sei scappata. Non sei un disastro.» Rise. «Tu come lo sai? Non abbiamo mai fatto sesso. Probabilmente lo sono, invece. Sono troppo cerebrale, sto sempre lì a chiedermi se sono abbastanza brava, e a un certo punto fingere l’orgasmo è diventata la mia arte.» «Te lo ripeto», disse con rabbia. «È un coglione e pure scarso a letto se ti toccava fingere l’orgasmo. Ti ha riempito la testa di stupidaggini, piccola. Non farti influenzare.» Fece un gesto con la mano cercando di non ridere. Oh sì, era ubriaca. Non era così divertente, prima, ma adesso le sembrava patetico non riuscire a spassarsela a letto col proprio fidanzato. «Non fa niente. Non sono portata per il sesso. Mi piace quello tradizionale. Noioso. Ha anche detto che i miei baci erano come fare sesso alla missionaria ogni sera. Ma so che non lo diceva per ferirmi. Cercava di farmi migliorare, infatti ho anche letto dei libri ma non ha funzionato gran che.» Lui strinse i denti. Era affascinata dalla rabbia pura che gli balenava sul volto e dal modo in cui teneva tutti i muscoli tesi come un supereroe che stesse per esplodere. «Io lo ammazzo.» Voleva ridere ma Wolfe era un po’ troppo serio. Aggrottò la fronte e allungò la mano verso di lui. Fu fortunata perché centrò proprio lui, quello vero, non il suo doppio che gli vedeva di fianco. Gli accarezzò la mascella per calmarlo. Caspita, una volta reggeva cinque birre a sera. Forse perché oggi era a stomaco vuoto ed era stata una giornata infernale. Come mai era di nuovo così arrabbiato? Ah sì, perché lei baciava da schifo e lui voleva ammazzare David. «Non è colpa sua. Non voleva offendermi, me lo ripeteva sempre. Lo costringevo io a farlo perché non lo ascoltavo.» «Credi davvero nelle cazzate che stai dicendo, Gen?» «Non è una tragedia. Mi comprerò un vibratore o qualcosa del genere, magari prenderò delle lezioni. La mamma di Kate è una sessuologa. Potrebbe aiutarmi.» Le afferrò la mano e gliela strinse. «Lo faccio a pezzi quello stronzo. Non è vero che non sai baciare, sei brava invece. Hai capito?» Annuì con convinzione. Oooh, bello. Tre facce, adesso. Era così carino da guardare, avrebbe potuto guardarlo tutto il giorno. Molto meglio dei Kermit cattivi. «Ah-ha. Sei un amico, ma sono io che non so proprio fare certe cose.» «Cazzo.» La sua bocca sexy lanciò nell’aria una parolaccia. Il suo alito caldo le sfiorò la guancia. Odiava quando si arrabbiava. «Sarà meglio che te lo ricordi, domani.» «Che?» D’un tratto era sopra di lei, coi fianchi premuti sui suoi. Oh. Wow. Sentì il calore del suo corpo attraverso i vestiti bagnati e automaticamente aprì le gambe nude, in un primitivo impulso alla resa. Le mise le mani ai lati della testa e avvicinò le labbra alle sue. Cosa stava facendo? Il suo profumo delizioso le entrò nelle narici e lei gli si aggrappò ai fianchi con le mani. Aveva la pelle umida e liscia. Volò un’altra parolaccia. Sembrava dibattuto mentre la guardava con la bocca a pochi centimetri dalla sua, e Gen batté le palpebre perché vedeva la sua testa fluttuare e voleva sentire di più il suo corpo, giusto un altro po’... Poi lui bisbigliò: «Ti dimostro che sei brava a baciare, okay?» e la baciò. La sensazione meravigliosa di quelle labbra morbide e lisce sulle sue la fece piagnucolare, nel vero senso della parola. Ah, che fantastiche visioni regalava l’alcol! Wolfe, il suo migliore amico, la stava baciando, ed era troppo bello per essere vero, quindi doveva per forza essere una specie di miraggio psichedelico dovuto alle troppe Sam Adams. La mente cercò di capire quello che stava succedendo, ma ci rinunciò. Il corpo si fece avanti e prese il controllo. Inarcò la schiena, gli affondò le unghie nei fianchi e si arrese a quelle sensazioni che si spargevano come un fuoco nelle vene. Wolfe la baciò per un po’, fino a quando la sentì abbandonata e sciolta sotto di lui, poi le infilò la lingua tra le labbra. Lei aprì la bocca e gli andò incontro, inebriata dal suo sapore. La lingua di lui spingeva, accarezzava, esplorava a fondo. Gemette e ne volle ancora. Dio se ne voleva ancora. Era inebriata dal suo odore di limone e dal desiderio che avvertiva in lui. Lo sentì duro tra le cosce e gli mordicchiò il labbro inferiore, succhiando leggermente. Lui mormorò qualcosa di sconcio e continuò a deflorarle la bocca come se fosse una vergine che voleva essere violentata, presa e scopata. Il tempo si fermò. Fu troppo breve, fu interminabile, fu tutto. Le girava la testa, i seni erano tesi e dolenti, ed era così bagnata che avrebbe potuto scivolarle dentro senza incontrare alcuna resistenza. Si staccò pian piano, concedendole un ultimo assaggio della sua lingua. Lei batté le palpebre. Calore soffocante, rabbia e desiderio nei suoi occhi azzurri. Era come se la stesse mangiando viva, e si sentì mancare la terra sotto i piedi. «Mi ascolti, Gen?» Non riusciva a parlare, ma annuì. «Baci meravigliosamente. Se adesso ti avessi scopato sarei l’uomo più felice del mondo. Bisogna essere morti per non volerti. David è un pezzo di merda. Hai capito?» Lei inghiottì a vuoto e annuì di nuovo. «Bene.» E rotolò via. Gen quasi gridò quando non sentì più il suo calore e il suo peso addosso. D’un tratto avvertì una profonda stanchezza. Era eccitata, sfinita, emotivamente provata, e gli prese la mano per non perdere il contatto fisico. Restarono stesi l’uno accanto all’altra sul ponticello, con le dita intrecciate. Pian piano si rilassò. La sua presenza era un grande conforto per lei e anche qualcos’altro, qualcosa che rifiutava di analizzare. Gen si arrese e il buio la prese. Ma prima glielo disse. «Ti voglio bene, Wolfe.» Poi scivolò nel sonno. La risposta di Wolfe si perse nell’aria umida tra il frinire dei grilli. «Ti voglio bene anch’io, piccola.» Capitolo 5 Aveva fatto uno sbaglio clamoroso. Wolfe le teneva stretta la mano mentre dormiva. Le sue parole gli s’insinuarono sotto la pelle e gli entrarono nei muscoli, nelle vene, nel cuore. Certo, sapeva bene cosa intendeva dire. Gli voleva bene come amico, protettore, come colui che l’aveva salvata da una scelta rovinosa. Ma lui aveva risposto in quel modo soltanto due volte, nella sua vita. Una volta a Sawyer. Una a Julietta. Solo familiari. Mai a una donna. Eppure lo pensava. Le voleva bene davvero. La loro amicizia era la cosa più preziosa che aveva, e sperava di non averla rovinata con quel colpo di testa. L’affetto che nutriva per lei era più profondo e puro di tutto ciò che aveva sperimentato in passato. In tante gli avevano detto di amarlo. Ma erano stati solo il sesso, il potere e l’eccitazione a farle parlare così. Non sapevano nulla di lui, benché non per colpa loro. Era sempre stato chiuso e gli erano sempre andati bene rapporti che non andavano oltre l’attrazione fisica, con l’aggiunta della compagnia e, nel migliore dei casi, di qualche risata. Wolfe inspirò tutta l’aria che poté e cercò di schiarirsi la mente. Quand’era stata l’ultima volta che si era lasciato guidare dall’impulso? Mai. Non c’era spazio per seguire gli impulsi nel suo lavoro, e neppure nella sua vita privata. Forse s’illudeva soltanto di avere sempre il controllo, però funzionava. Aveva frequentato abbastanza psicanalisti da sapere che certi bisogni e certi blocchi mentali erano solo un modo per difendersi dalle sofferenze del passato. Odiava andare in analisi ma l’aveva fatto per il padre adottivo, perché non voleva che si chiedesse mai se avrebbe potuto fare di più per lui. Sawyer l’aveva salvato, in senso letterale e figurato. Se oggi Wolfe aveva una vita che era felice di vivere, era soltanto perché l’uomo che un giorno aveva borseggiato aveva preso a cuore la sua situazione. Scosse la testa mentre il passato riaffiorava. Era in mezzo a una strada, e aveva cominciato a tenere d’occhio alberghi di lusso come il Waldorf per trovare qualche pollo da derubare. Sottrarre un’uniforme e fingersi un dipendente era facile, ma aveva scelto il pollo sbagliato. Sawyer era un tipo sgamato oltre che ricco sfondato, e l’aveva trascinato in direzione. Wolfe ricordava la paura che aveva provato nel momento in cui si era reso conto che stava per finire in prigione. Ma Sawyer gli aveva offerto una scappatoia: se avesse accettato di lavorare per lui si sarebbe evitato la galera. Il giudice aveva dato il consenso. La sera prima del fatidico giorno in cui Sawyer sarebbe dovuto andare a prenderlo il terrore si era impadronito di lui. Aveva l’occasione di cominciare una vita normale, e l’avrebbe sicuramente mancata. E poi non si fidava più di nessuno. Così era corso a riempirsi la faccia di piercing, si era fatto tatuare e si era rasato la testa scimmiottando Johnny Depp. Quando Sawyer era andato a prenderlo il ragazzo s’aspettava che l’accordo sarebbe saltato. Invece no. L’aveva portato in Italia e gli aveva dato l’opportunità di imparare a gestire un albergo. Aveva creato una catena di alberghi di lusso di nome Purity, il primo dei quali a Milano, e Wolfe aveva imparato tutto ciò che c’era da imparare. Ma quell’uomo non gli aveva dato soltanto un lavoro e la sicurezza. L’aveva anche accolto nella sua vita, nel suo cuore. Quando si era innamorato di Julietta, entrambi avevano accolto Wolfe in casa loro e insieme avevano formato una famiglia. E quando Sawyer gli aveva chiesto di laurearsi per poter gestire i Purity di New York, Wolfe aveva acconsentito, ed era stato il resto della famiglia Conte a occuparsi di lui durante gli anni di studio. Chi avrebbe mai detto che avrebbe incontrato la terza persona più importante della sua vita a una cena in famiglia? Gen l’aveva trattato da pari a pari dal primo momento. Era interessata all’uomo che stava diventando, non a quello che era stato. La loro amicizia era fiorita durante gli anni dell’università ed era diventata sempre più solida. Gen emise un lamento rauco che lo fece ripensare al bacio. Voleva solo dimostrarle che l’ex fidanzato si sbagliava prima di andare da lui a fargli sputare tutti i denti. Purtroppo si era fatto prendere la mano, dimenticando che era solo una dimostrazione. L’istinto e il testosterone avevano preso il sopravvento e a quel punto non era più riuscito a pensare ad altro se non alla morbidezza del suo corpo e a quel suo delizioso profumo che quasi lo ubriacava ogni volta. Chi altra profumava di fiori di campo e saponette. Dove? Era abituato a profumi esotici creati per sedurre, ma la semplicità di Gen lo eccitava più di quanto qualunque coniglietta di Playboy o supermodella avrebbero mai fatto. Il suo respiro ansimante, la pienezza dei suoi seni, la facilità con cui aveva allargato le gambe per accoglierlo come se il suo posto fosse dentro di lei. Wolfe strinse i denti e cercò di ragionare. Non sarebbe più successo. Erano entrambi ubriachi ed emotivamente vulnerabili e avevano agito impulsivamente. Questo avrebbe detto. Anzi non ne avrebbe proprio più parlato. Magari lei non se lo ricordava nemmeno. Se tra loro fosse cambiato qualcosa per colpa di quel bacio, non se lo sarebbe mai perdonato. Si passò la lingua sul labbro inferiore e sentì il suo sapore. Chiuse gli occhi e cercò d’imprimere quel ricordo nella memoria, dove l’avrebbe custodito a lungo per recuperarlo in quelle notti orribili e solitarie in cui avrebbe desiderato qualcosa di bello che lo aiutasse a superare le ore di oscurità. Quando il respiro divenne regolare, staccò la mano da quella di lei e si alzò. Gen fece una smorfia nel sonno e si girò leggermente verso di lui, come se lo cercasse. Lasciò le bottiglie all’aperto con l’intenzione di tornare a pulire il giorno dopo e la prese in braccio senza fatica. Un perfetto fagottino di morbidezza femminile con la testa appoggiata al suo petto in totale abbandono e fiducia. Riuscì a portarla a casa, metterla a letto e tirarle su le coperte. Le diede un bacio casto sulla fronte. Le sue labbra rosa pallido si piegarono in un mezzo sorriso addormentato. Non riusciva a concepire come qualcuno potesse farle del male. Giurò di andare a fondo di quel pasticcio e di scoprire cosa fosse accaduto realmente: sicuramente c’era stata una violenza di qualche genere. Era brava a nascondere i suoi segreti. Quasi quanto lui. Chiuse la porta, si spogliò e si stese sul letto. Il corpo ancora fremeva di energia residua ed eccitazione sessuale, ma alla fine le conseguenze degli avvenimenti della giornata si fecero sentire. Cadde nel sonno, un amico inquieto e incostante di cui non si fidava. Vincent Soldano odiava sua madre. Sfortunatamente la amava anche, la temeva, e avrebbe fatto qualunque cosa per un suo sorriso o una sua parola gentile. Aveva imparato presto quando poteva disturbarla e quando invece doveva starle lontano. La polvere bianca era sacra, ma non era la sostanza simile allo zucchero a fargli paura. E nemmeno gli aghi, gli sporadici ceffoni e le urla. Erano gli uomini a fargli paura. Strisciò i piedi fuori dalla porta, il palmo già sudato sulla maniglia rotta. La casa era a malapena un rifugio, giusto qualche parete, il tetto che perdeva e le erbacce che infestavano il perimetro. Due finestre erano chiuse col nastro isolante. Abitavano in fondo a Happy Street, che era una strada chiusa. Quando stava imparando a leggere aveva pensato che quel nome portasse fortuna. Aveva scoperto presto che era solo il primo degli scherzi crudeli che Dio aveva in serbo per lui. Vincent entrò in casa. Non c’era nessuno. Si sentì sollevato e si diede subito da fare. Non sapeva quanto sarebbe passato prima che arrivasse qualcuno e cominciassero i rumori. Posò il suo unico libro sul tavolo pieghevole e cominciò a curiosare nel frigo e negli armadietti in cerca di qualcosa da mangiare. La porta della camera della mamma restò chiusa. Scacciò gli scarafaggi dal lavandino, riempì un bicchiere di acqua e trovò un vecchio biscotto di muesli con pepite di cioccolato. Che fortuna. Lo mangiò lentamente, assaporandone ogni morso mentre sfogliava il libro di matematica. Mancava spesso da scuola, ma quando riusciva ad andarci la trovava semplice. Specialmente le materie coi numeri. Gli bastava guardare una pagina e chiudere gli occhi per ricordare tutto quello che c’era scritto a memoria. Dondolò le gambe sottili, pensando che quella sera avrebbe dovuto cercare di lavarsi, poi sentì il cigolio. Si bloccò. Alzò lo sguardo. L’uomo lo guardò con uno strano sorriso sul volto. «Ehi piccolo. Non ti ho sentito entrare.» Era paralizzato dalla paura. Non sapeva perché. Aveva semplicemente scoperto da qualche anno che gli uomini erano cattivi e che volevano fare cose che gli facevano venire la nausea. Provò a fare la faccia cattiva ma non dovette riuscirci molto bene perché l’uomo sorrise ancora di più e si avvicinò. «La mamma dov’è?» L’uomo aveva i capelli lisci tirati indietro e alla luce del sole che filtrava dalla finestra rotta sembravano unti. Era alto, portava dei jeans e una maglietta e i suoi occhi ricordavano quelli di uno squalo. Grigiastri, spenti e crudeli. «È andata a fare un salto alla bottega. Tra poco torna.» «Ti piace la scuola?» gli chiese. Vincent s’irrigidì ma cercò di nascondere la paura. «È okay.» «Hai l’aria di essere un ragazzino sveglio. Ma c’è un modo migliore per tirar su qualche soldino. Scommetto che ti farebbe comodo.» Gli suonò un campanello d’allarme in testa. Calcolò la distanza dal tavolo alla porta. «Non mi servono i soldi.» L’uomo rise, ma non era affatto divertito. «Vuoi che ci pensi la tua povera mamma a te, vero? Non è molto da uomo. Sarebbe ora che cominciassi a darle una mano.» Si leccò le labbra e fece un altro passo verso di lui. «Posso aiutarti io.» Si preparò a fuggire. Per fortuna era veloce. E sapeva dove andare. Aveva un nascondiglio nel bosco in cui rifugiarsi in caso di bisogno. Ci teneva una coperta e dell’acqua. La porta dello stanzino si chiudeva e molti non avevano voglia di sbattersi a sfondare la porta. Strinse i pugni, si alzò e si preparò. La porta di casa si aprì. La madre entrò con un sorriso allegro. Aveva ancora il naso infiammato dall’ultima volta che le era sanguinato. Portava una canotta e una gonna rosa e quando si muoveva le spuntavano le ossa dappertutto. Ripensò a quanto amava i suoi capelli, da piccolo. Lunghi, scuri e setosi. Ci seppelliva il viso in mezzo e li annusava, e lei rideva e gli diceva che lui era la sua fulgida stella. Adesso erano tagliati tutti storti e irregolari. «Ehi, piccolo.» Vincent si rilassò. Oggi la mamma era normale. Per un po’. «Ciao mamma.» «Stai facendo conoscenza con Johnny?» Lui annuì. L’uomo di nome Johnny fece un sorriso forzato e le prese la busta della spesa, appoggiandola sul piccolo piano in linoleum della cucina. «Già, stiamo facendo una chiacchierata da uomo a uomo.» «Bello. Ho trovato del pollo in offerta, tesoro. Lo cucinerò come piace a te.» Vincent si alzò. «Grazie. Vado a studiare un po’.» «Okay ma non allontanarti, tra poco è pronto.» Si chiuse nello stanzino che usava come camera da letto e sperò, non per la prima volta, di diventare come quel cazzo di Harry Potter per poter fuggire dalla sua vita d’inferno e sentirsi al sicuro. Solo per un po’. Cercò di non pensare al volto dell’uomo e alla sensazione che la sua fortuna stesse per finire. Aveva dieci anni. Capitolo 6 Genevieve aprì gli occhi. Puah. Sbatté gli occhi incrostati e si girò con un lamento. Le brontolava lo stomaco per la fame e al posto della testa le sembrava di avere una palla da bowling che avesse atterrato centinaia di birilli. Cos’era successo? Dov’era David? Il ricordo le fece alzare la testa di scatto. Non era un incubo. Era successo davvero. Aveva abbandonato David all’altare il giorno del matrimonio, davanti a centinaia di persone. Era rovinata. La sua vita era finita. Sarebbe morta. Le sembrava di avere l’influenza tanto si sentiva sfinita, per non parlare dei brividi e delle convulsioni. Perché alzarsi? Sarebbe rimasta qui sotto le coperte finché avessero scoperto il suo cadavere in decomposizione. Allora tutti avrebbero detto che in effetti era mentalmente instabile e che David si era risparmiato una vita di pene. Nessuno si sarebbe ricordato di lei. A parte le sue sorelle. E i genitori. Ah, e gli amici. Ma nessun altro. La porta cigolò. Gen non alzò lo sguardo. Era inutile farlo, tanto non aveva nessuna intenzione di alzarsi perché voleva morire a letto. E poi le faceva male la testa. «Piccola? Sono quasi le undici. Devi mangiare qualcosa.» Bofonchiò contro il cuscino. «Vai via.» Passi. Sentì il suo odore, un misto di sapone, caffè e sole. «Non me ne vado. E non ti lascio dormire tutto il giorno. Avanti, ho organizzato una cosa ma prima devi mangiare del cibo vero e non dolcetti alle noci. Ed è d’obbligo una doccia.» «Lassami impace» bofonchiò. Il materasso sprofondò un po’. Aprì un occhio. Wolfe aveva un’espressione seria e risoluta. Non era come le sue amiche, che la lasciavano tutto il giorno a letto con un pacco di fazzoletti a lamentarsi. Gli uomini rompevano. Dovevano fare qualcosa, come se fare qualcosa servisse davvero a qualcosa. Non serviva a niente. Quello era caffè? Rispose come se le avesse letto nel pensiero. «Ecco la tua tazza e due aspirine per il mal di testa. So che sei in paranoia ma questa è anche la mia vacanza e non voglio passarla chiusi in casa a piangere sulla nostra disgraziata vita sentimentale.» Gen sbuffò e si tirò un po’ su a sedere. «Tu non hai una vita sentimentale.» «Giusto. Be’, è mio compito distrarti per almeno altre ventiquattr’ore prima di occuparci del casino che abbiamo lasciato. D’accordo?» Ogni volta che pensava al da farsi sentiva un dolore lancinante come se delle lame affilate le pugnalassero il cervello. La prospettiva di negare la realtà ancora per un giorno era allettante. Domani avrebbe dovuto chiamare tutti e iniziare a rimettere insieme i pezzi. Il problema era che non sapeva neppure da che parte cominciare. Magari una giornata con Wolfe le avrebbe dato qualche spunto. «Sono contento che tu sia d’accordo. Adesso siediti dritta, prendi le compresse e vieni a mangiare.» Buttò giù un sorso di caffè. Era caldo e forte. «Cosa c’è per colazione? Pancake? Frittata? French toast?» Ruotò gli occhi. «Cereali, Gen.» «Ma hai comprato le uova!» «Per farle sode. In caso. Sai che non so cucinare.» «Hai vissuto con Julietta che faceva la pasta in casa e il sugo e quelle deliziose salsicce e polpette. Hai detto che stavi cercando di imparare i segreti del mestiere.» «Ho mentito, sono ricco abbastanza da ordinare cibo già pronto.» Fece un sospiro. «Che delusione. Giuro che se ti vedo ancora fumare la chiamo.» La guardò con occhi torvi. «Bell’amica che sei. Smetto, okay? È stato giusto uno scivolone.» Gen mise le compresse in bocca e le ingoiò. «Certo. Sai quanti casi di cancro ai polmoni vediamo in ospedale? O di cancro alla gola? Sai che significa vivere senza lingua o con una laringe artificiale?» Impallidì leggermente. «Sai che odio sentire queste cose, dacci un taglio.» Gonfiò il petto. «È mio compito informarti circa le conseguenze delle scelte sbagliate.» «Sei proprio come Debbie Downer.» Reagì imitando la vecchia parodia del Saturday Night Live. «Ueeh, ueeh, ueeh.» Scoppiarono entrambi a ridere. «Ci vediamo in cucina. Rice Krispies o Frosted Flakes?» «Tony la tigre, grazie.» «Perfetto. Non metterci troppo. Abbiamo una giornata piena.» Uscì dalla stanza. Gen brontolò sottovoce ma mentre sorseggiava il caffè si accorse che quando parlava con Wolfe non aveva brutti pensieri. Lui aveva questa straordinaria capacità di essere sincero con lei, e di non lasciarla crogiolarsi nel dolore. La ascoltava ma non la giudicava. La incitava ma non la insultava. E accidenti, baciava meglio di chiunque... Il pensiero affiorò. Oh no. Aveva baciato il suo migliore amico, ieri sera. O lui aveva baciato lei. Il ricordo era un po’ confuso, ma rammentava il tocco di quelle labbra sulle sue, il fremito del suo corpo, il desiderio, la meravigliosa pressione dei fianchi e dell’erezione di lui. Si coprì il volto con le mani, inorridita. Brutta faccenda. Molto brutta. Cos’aveva detto dopo? Era svenuta prima di tirare fuori qualche stupidaggine? Ci sarebbe stato imbarazzo tra loro, adesso? Come poteva essere stata così zoccola dopo aver appena mollato il fidanzato all’altare? Si aprì la porta. Wolfe fece capolino. «Ah, a proposito, non preoccuparti per il bacio. Sarai già in paranoia, ma non roviniamoci la giornata, d’accordo?» Restò a bocca aperta. «G-g-giusto. Scusa, Wolfe. Mi dispiace un sacco. Non so cosa m’è preso.» Una pausa. «Ma... andava bene, almeno?» Un sorriso malizioso gli distese le labbra carnose. Fu colpita ancora una volta dalla sua aria da ragazzaccio, coi bracciali di cuoio, il tatuaggio, il piercing al sopracciglio, e quei penetranti occhi azzurri che gli accendevano il volto e gli davano l’aria di uno che conosceva tutte le brutte cose da fare alle donne, e che le faceva tutte, fino all’ultima. «Diavolo, sì, andava benissimo. Ma eravamo tristi e ubriachi e ne avevamo bisogno. Non facciamoci mettere in imbarazzo. E poi ti ho baciato io quindi non sentirti in colpa.» «Mmm, okay.» «Gen?» «Sì?» Le strizzò l’occhio. «Baci divinamente. Se non fossi stata la mia migliore amica ti avrei scopato senza ritegno e non avresti potuto sfuggirmi.» Un tuffo al cuore e un desiderio improvviso. Piegò le labbra in un sorriso. «Grazie. Suppongo.» Lui rise e chiuse la porta. Accidenti a lui. Aveva il talento di uno Jedi a entrare nella sua mente, a indovinare sempre la cosa giusta da fare o da dire. D’accordo. Se lui non pensava al bacio, allora neanche lei. Riuscì a farsi una doccia e a indossare un paio di calzoncini corti di jeans, una canotta gialla e le infradito. Lasciando il viso struccato, raccolse velocemente i capelli in una coda e andò in cucina. Si sedette sullo sgabello e si buttò sui cereali. Ci trovò dentro una banana e gli diede un’occhiataccia. «Anche la frutta? Diventerai un vero intenditore.» «Aspetta a vedere cosa c’è sulla pizza a cena.» «Che facciamo oggi?» «Pensa a Hemingway.» Alzò un sopracciglio. Caspita, aveva dimenticato quanto potessero essere buoni i fiocchi di mais glassati al mattino. Tutta quella crusca e quel muesli le stavano davvero togliendo ogni piacere. «Stai scherzando? Devo ancora riprendermi dalla sbronza. E com’è che sei così in forma? Quelle birre ieri mi hanno ucciso.» Sorseggiò il caffè appoggiandosi al banco della cucina. «Hai perso lo smalto, fanciulla. Una volta mi tenevi testa.» «Sono rammollita. E poi adesso bevo la Michelob Ultra. Non ero più abituata.» Wolfe sorrise. Era vestito alla buona anche lui, calzoncini di jeans tagliati sopra il ginocchio, maglietta blu e sandali di cuoio. I capelli appena lavati gli ricadevano a ciocche umide sulla fronte. L’anellino al sopracciglio ammiccava con allegria e tra le fessure della camicia s’intravedeva l’inchiostro nero del tatuaggio che si arrampicava sul collo. Si era sempre chiesta perché avesse scelto un serpente. Non gliel’aveva mai domandato. «Hai intenzione di dirmelo o dobbiamo giocare agli indovinelli?» «Io, te e i pesci, piccola.» Batté le palpebre. «Sei fuori? Che divertimento è? Stare seduti su un ponticello pericolante a pescare pesci puzzolenti che si dimenano cercando di sfuggire a una morte atroce... Torno a letto.» «Non durante le mie vacanze. Non stiamo seduti sul ponticello. Molto meglio.» «Cioè?» «Prendiamo una barca.» Si alzò, mise tazza e cucchiaio nel lavandino e fece per tornare in camera. «Buona fortuna. ’Notte.» L’afferrò per la vita e la girò verso di sé. «Non hai scelta. Sarà fantastico. Solchiamo le acque, peschiamo del pesce fresco e stasera ce lo cuciniamo per cena, in comunione con la natura.» «Io non cucino nessun pesce.» «Non è un problema, lo faccio io.» Rise. Solo l’idea valeva quasi l’avventura. Quasi. «Ma io mi annoio», si lagnò. «Non con me. Dai, preparati che andiamo. Le canne da pesca sono fuori.» Brontolò ma fece come le era stato detto. Purtroppo non era in grado di prendere decisioni al momento, quindi le toccava dipendere da quelle di lui. Lo vide uscire con una borsa porta esche, le canne da pesca, una cassa d’acqua e qualche stuzzichino e dirigersi verso il bosco. Gen lo seguì trascinando i piedi e brontolando. Lui camminava fischiettando, ignorando le sue lamentele e senza rallentare il passo nonostante le sue gambe fossero lunghe il doppio. Dopo venti minuti buoni di camminata, punture di zanzare e respiro ansimante, quando stava per dire che non sarebbe andata oltre, Wolfe si fermò di colpo. «Era ora! Perché non siamo venuti in auto? Odio camminare nel bosco. Sono stanca. Mi dai un po’ d’acqua? La barca dov’è?» «Dovrebbe essere qui da qualche parte.» Posò la roba a terra e cominciò a cercare tra i salici e le sterpaglie. «Ah, eccola.» Sparì nel terreno, poi riemerse con una barca accanto. Gen spalancò gli occhi. S’aspettava un bel motoscafo con la musica e tutto quanto. Magari un bel giro veloce intorno al lago mentre lei prendeva il sole. Con quell’affare era già tanto se restavano a galla. Era una vecchia barca a remi di legno che scricchiolava in modo inquietante. Stretta e decisamente sbilanciata, ondeggiava di qui e di là come se aspettasse solo di scaricarli in quell’acqua verdastra e piena di alghe che percorrevano in superficie. Rabbrividì all’idea. Lui caricò la roba sulla barca e le tese una mano. «Non ci penso neanche.» Wolfe ebbe la sfacciataggine di passare per uno che stava avendo molta pazienza. «Qual è il problema adesso, principessa?» Sbottò, furente. «Sei impazzito? Dove sono i giubbotti di salvataggio? La barca che non affonda? Il contratto sulle responsabilità da firmare e l’omino che prima di affidarti la barca t’insegna a manovrarla?» «È questo il bello, che non c’è nulla di tutto ciò. Siamo noi e la natura, in un posto bellissimo che non conosce nessuno. Senza regole, contratti e persone estranee. Solo io, te e i pesci.» «Ma è peggio che non sposarsi!» «Non puoi fidarti e basta? Sarà bellissimo. Ti piacerà.» Lo guardò di traverso. Accidenti, che alternativa aveva? Non voleva stare chiusa in casa tutto il giorno a pensare a David, agli sbagli che aveva commesso, al pasticcio in cui si trovava. Magari questo l’avrebbe aiutata. Aveva letto Hemingway. Aveva visto quel vecchio film con Fonda, Sul lago dorato. Da quando era diventata così rigida da rifiutarsi di agire impulsivamente? Da quando si era fidanzata. A David non piaceva deviare dalla rotta col rischio che qualcosa non funzionasse. Lui avrebbe prenotato una battuta di pesca in un bel porticciolo turistico con servizio incluso, un pescatore professionista e una bussola. Stare ore su una barca a remi in mezzo a un lago pieno di alghe senza tappe organizzate sarebbe stato inconcepibile, per lui. All’inizio lo trovava affascinante. Preferiva gli uomini ben organizzati, che prendevano le cose sul serio. Finché si era accorta che non le concedeva nemmeno lo spazio per respirare. Quando lei provava ad abbracciare una prospettiva più ampia, il suo disprezzo e le piccole punizioni le toglievano ogni entusiasmo, finché era diventato più facile fare come diceva lui. Ma la colpa era davvero sua? O era lei che avrebbe dovuto lottare per difendere il suo punto di vista? Scacciò il pensiero e serrò la mascella. «Okay. Facciamolo.» Salì sulla barca con cautela e si sedette dietro, attaccandosi ai bordi. Wolfe sciolse le corde e diede una spinta alla barca, posizionandosi ai remi. Dopo qualche minuto di puro terrore, costatando che il trabiccolo stava a galla e che Wolfe era in grado di governarlo, Gen si rilassò. Okay, magari sarebbe stato carino. Era una giornata calda e soleggiata, gli uccelli cantavano, il bosco abbracciava il lago con panorami mozzafiato e lei non doveva preoccuparsi che qualcuno li scovasse. «Va meglio?» Gen annuì. «Sì. Pare che tu sappia quello che fai.» «Non è ingegneria aerospaziale, basta remare.» Gen gli fece la linguaccia. Remarono in silenzio. La sua mente si quietò, godendosi il momento. I piccoli saltelli e le increspature sulla superficie dell’acqua promettevano un’ampia varietà di animali. Pregò che fossero solo pesciolini e non qualche orribile creatura marina pronta ad affondare la barca. «Perché guardi in basso come se dovesse spuntare Jason fuori dall’acqua con la sua maschera da hockey?» «Non dire queste cose! Bleah, questo lago fa schifo. Non posso credere di averci fatto il bagno ieri sera.» «Lo dici solo perché siamo abituati all’acqua disinfettata delle piscine. Ci vorrebbero più germi. Sarebbe più sano.» Scosse la testa. «Grazie, dottor Wolfe.» «Suona bene.» «Ricordi quando mio padre ha scoperto che hai un nome solo?» Alzò gli occhi al cielo. «Tuo padre mi ha odiato dal primo momento.» Rise. «Aveva detto: ‘Wolfe, come Prince?’ E tu: ‘Non proprio’.» «E lui mi aveva guardato come se fossi un insetto che avrebbe voluto schiacciare.» «Non ti odia, non so più come dirtelo. È solo diffidente. Izzy continuava a guardarti, sembrava assatanata, e lui è un uomo all’antica. Ci diceva sempre che se ci fossimo fatte il piercing o un tatuaggio sarebbero stati guai.» «Mmm, minaccia che non ha funzionato gran che, con Izzy.» «Con lei non ha funzionato quasi niente.» Era un sacco di tempo che moriva dalla voglia di chiederglielo. In barca, da sola coi suoi pensieri, la domanda le scappò di bocca. «Sei mai andato a letto con Izzy?» Quasi gli sfuggì un remo e la barca s’inclinò di colpo. Gen s’aggrappò ai bordi finché quella si raddrizzò. «Vuoi scherzare? Certo che no! Perché me lo chiedi?» Si sentì sollevata. Fece spallucce. «Le sei sempre piaciuto. Credo sia gelosa della nostra amicizia, e poi sarebbe stato un ottimo sistema per vendicarsi di me. Io ero quella buona, la cocca di mamma e papà. Lei era quella che combinava guai. Ci hanno sempre viste così, da quando eravamo piccole. E noi abbiamo fatto esattamente come tutti si aspettavano. Io ho seguito la giusta via e lei ha fatto il diavolo a quattro.» Sembrò scegliere le parole con attenzione. «Ci ha provato un paio di volte, ma ho sempre saputo che non voleva me. Era confusa, sofferente. Non capivo che problemi avesse.» «Nemmeno io. Quando è entrata nel tunnel della droga è stato uno shock per tutti. Papà non riusciva a farsene una ragione, pensava di aver fallito come genitore e quasi non le rivolgeva più la parola. È stata isolata. Non ti biasimerei se ci fossi andato a letto, Wolfe. Giuro.» Le mancò il respiro quando lui la guardò. La fermezza che lesse in quegli occhi azzurri e penetranti valeva più di mille discorsi. «Non siamo andati a letto insieme. Non ho mai desiderato Izzy. Hai capito?» Le si era chiusa la gola quindi si limitò ad annuire. «Bene. Siamo arrivati. Prendiamo qualche pesce.» L’insenatura deserta non sembrava la capitale della pesca di Saratoga, ma a Gen non importava. Le insegnò a mettere l’esca all’amo e le mostrò velocemente l’attrezzatura e come lanciare la canna. Gen si risedette in attesa di uno strattone. Ora che ci si trovava in mezzo, voleva prendere un pesce, e lo voleva più grosso di quello di Wolfe, così avrebbe potuto vantarsene in eterno. «Non voglio nemmeno sapere cosa stai pensando con quel sorrisetto», commentò lui. «Meno male perché non te lo dico. Posso farti una domanda un po’ fuori dalle righe?» «Certo.» «Perché hai un nome solo?» Lo vide irrigidire le spalle e si pentì d’averglielo chiesto. Da quando era scappata dalla chiesa, la curiosità riguardo al suo passato era peggiorata. Aspettò che s’appellasse alla promessa di non parlare del passato, ma la sorprese un’altra volta. «Ero un’altra persona, molto tempo fa. Me la passavo male, mi sono successe delle cose. Quando Sawyer mi ha preso con lui ero così confuso e insoddisfatto che ho pensato che cambiare nome mi avrebbe aiutato a cambiare anche me stesso.» «Non fa una piega. Tabula rasa. Come mai hai scelto Wolfe? Perché non Serpe come il tuo tatuaggio?» Fece un mezzo sorriso. «Quello sarebbe solo stato stupido.» Sorrise anche lei. «Suppongo di sì.» Lui guardò la sua canna. «Ho scelto Wolfe perché mi fa pensare a un grande cacciatore. Volevo sentire quel tipo di potere, per una volta. Volevo essere quello che cacciava, non quello che veniva cacciato. Il predatore, non la preda.» Fu profondamente colpita dalle sue parole. Le aveva dato un altro tassello del puzzle, ma ne mancavano ancora molti. Il colpo secco della canna l’interruppe, e d’un tratto stava tirando su un pesce col mulinello. Gen si fece prendere dall’entusiasmo e si mise a urlare. «Tira più forte, a sinistra, così lo perdi, ne hai preso uno!» «Ssst, lo stai facendo scappare. Mi sa che è grosso.» La canna diede uno strattone e comparve il pesce. Si dimenava forsennatamente schizzando acqua dappertutto. Wolfe lo trascinò sulla barca riavvolgendo la lenza, lo staccò dall’amo e lo guardò con grande fierezza e soddisfazione. Anche Gen lo guardò. Era argenteo, di media grandezza, e strabuzzava gli occhi come se si stesse rendendo conto che la sua vita era ufficialmente finita e che presto sarebbe stato arso vivo, o comunque avrebbe avuto una morte lenta e dolorosa. «Porca vacca, ne ho preso uno! Dunque, mi pare che Sawyer abbia detto di tramortirlo con quella specie di martello che c’è lì nella borsa, mi pare almeno, Gen, cosa stai facendo? Gen? Ehi!» Gen si lanciò all’altro estremo della barca, afferrò il pesce viscido e scivoloso e riuscendo a stento a tenerlo in mano lo ributtò in acqua. La superficie s’increspò, poi tornò liscia, e lei fece un sospiro di sollievo. Grazie a Dio. Non era ipersensibile, ma non se ne parlava proprio di stare a guardare una povera bestiola mentre veniva torturata e uccisa. Quel pesce ora sarebbe tornato nuotando dalla sua famiglia di pesci e in futuro avrebbe evitato esperienze simili. Così almeno sperava. Probabilmente somigliava a sua sorella Alexa più di quanto pensasse. Si girò verso di lui sorridendo e rimase di sasso. Oh oh. «Hai ributtato in acqua il mio pesce?» Non aveva mai sentito picchi tanto acuti nella sua voce. Come se fosse veramente seccato. Così seccato da non riuscire a controllare il tono. Fece una smorfia. «Mi dispiace. Non ce la potevo fare. Non posso rendermi complice di un omicidio.» Strinse gli occhi, imbufalito. «Mi prendi in giro? È un pesce. Hai sempre mangiato pesce e non ti sei mai fatta problemi. Adesso me lo paragoni a un omicidio?» Alzò il mento. «Lo è. Volevi sfondargli il cranio. Fa male. Prendiamoli per divertimento e poi restituiamoli al lago.» Lui grugnì, le si avvicinò e afferrò la canna stringendola come fosse il suo collo. «I pesci non hanno terminazioni nervose. E perdonami ma non trovo divertente restituire un pesce che mi sono guadagnato. È stupido.» Lo guardò con odio. «Che ne sai tu se i pesci hanno i nervi o no? Sei un pesce reincarnato? E non è stupido, è umano.» «Tocca ancora un mio pesce e sarà peggio per te.» Come aprì la bocca per rispondergli male vide con la coda dell’occhio una cosa nera che si muoveva veloce. Quando capì cosa fosse gli diede una rispostaccia e alzò le spalle. Voleva comportarsi come un assassino senza coscienza? Bene. Sarebbe stato punito. Era il karma. «Sono contento che tu abbia capito.» Avvertì un fastidio sulla parte inferiore della gamba e si diede una pacca, ma l’animaletto evitò le sue cinque dita e salì più in alto. Ci sarebbe stato da ridere. «Adesso taci che provo a prenderne un altro.» «Non una parola?» domandò lei mielosa. «Non una sillaba.» Provò a scacciare di nuovo la bestiola che tuttavia arrivò sana e salva al bordo dei pantaloni e si fermò. E se s’infilava sotto? Gen si morse il labbro inferiore, improvvisamente preoccupata. Un uomo giovane e sano poteva rischiare un attacco di cuore se la sua fobia si risvegliava? O era meglio avvertirlo, anche se si stava comportando da stronzo? «Ehm, Wolfe, dovrei dirti una cosa.» «Hai già fatto abbastanza. Voglio mangiare il pesce stasera, e ho intenzione di pescarlo.» «Forse invece di darti tanto da fare per uccidere un pesce dovresti uccidere qualcos’altro.» «Ah sì? Tipo?» Lei indicò il ragno sulla sua coscia nuda. «Tipo quel ragno.» «Porca troia!» Successe così in fretta che non ebbe tempo di rendersene conto. Wolfe saltò sull’altra gamba battendosi forte le mani sui calzoncini e perse l’equilibrio. La barca s’inclinò a destra e caddero entrambi in acqua. Gen boccheggiò e cercò di tenere la bocca chiusa. L’acqua fredda che le impregnò i vestiti la colpì come un’onda d’urto. Coi capelli appiccicati in faccia, sputò con violenza temendo d’aver ingoiato le alghe. L’idea di trovarsi nello stesso regno degli alligatori e dei mostri marini la fece sbarellare. «Tirami fuori da qui!» gridò. «Non farmi morire qui!» Due braccia forti la afferrarono per la vita, tenendola a galla. «Che hai da urlare come un’indemoniata? Sai nuotare.» Gen strillò e gli si aggrappò con le gambe e con le braccia. «Ci sono degli animalacci qui dentro, cose che strisciano e che nuotano. Riportami subito sulla barca!» La sua risata le vibrò nelle orecchie. Le venne la pelle d’oca e sentì un fremito al basso ventre. La coscia di lui, resa ruvida dai peli, le sfregava contro, toccando il suo punto più delicato. «Avevo addosso un ragno. Un ragno gigantesco. Lo sapevi?» Scosse la testa con forza e piagnucolò. «No, giuro, ti prego torniamo sulla barca.» «Okay. Ma non devi più impicciarti di quello che pesco. Adesso prendo la barca e... che diavolo era quello?» «Cosa? Cosa?» «Non lo so, qualcosa mi ha toccato la gamba. Sembravano delle dita, come se fosse una mano.» Gen spalancò la bocca e gridò. Neppure sentì la sua risata mentre annaspava cercando di scappare a nuoto verso la barca. Quando la raggiunse, sentì due mani forti spingerla da sotto il sedere e sollevarla in alto finché non ci rotolò dentro, in salvo. Si alzò subito in piedi e si sfregò le gambe per togliersi le alghe di dosso. Wolfe salì a sua volta, si sedette e ridacchiò. «Ragazzi, avresti dovuto vedere la tua faccia. Impagabile.» «Sei uno stronzo! Non c’era nessuna mano, bugiardo.» «Scusa, cara, non ho potuto farne a meno.» «Odio pescare. Questa giornata è uno schifo. Sono bagnata, stanca e appiccicosa.» «È stata dura ma andrà meglio, vedrai. Che altro può succedere? È una bella giornata. Potremmo tornare al ponticello e andare a fare una passeggiata.» Il diavolo ci mise nuovamente lo zampino. Il sole s’allontanò e dal cielo scesero alcune gocce di pioggia. Gen batté le palpebre e guardò in su. Non era possibile. O sì? «Sta piovendo?» domandò. Wolfe alzò la testa. Le gocce aumentarono. «Sì, meglio tornare indietro. Dove sono i remi?» «Di che remi parli? Non sono attaccati a quelle specie di ferri di cavallo?» Guardarono entrambi le scalmiere. Erano vuote. Si girò a destra e vide i remi galleggiare in lontananza. Il cuore prese a batterle forte. Erano distanti dallo chalet e anche da un punto in cui poter scendere a terra. «Wolfe? Cosa facciamo?» Lui si sfregò la testa come se nel suo mondo le catastrofi fossero ordinaria amministrazione. «Mmm. Questo potrebbe essere un problema. Dovremo tornare a nuoto.» Gen spalancò la bocca. «Non ho nessuna intenzione di nuotare in quell’acqua piena di animalacci che mi aggrediscono! Ho visto Scooby Doo e la maledizione del mostro del lago con Lily! Mai nella vita!» «Okay, allora ti porto io sulla schiena così ti proteggo dai mostri.» Le gocce di pioggia si fecero più fredde e pesanti. Gemette disperata e guardò l’acqua. «Non posso farlo.» «Lo stai facendo.» Saltò in acqua e si tenne a galla ad aspettare. «E le provviste?» «È un’emergenza. Direi che possiamo sacrificare una cassa d’acqua e due canne da pesca. Forza, Gen. Salta.» «Non ce la faccio.» Rabbrividì, sempre più infreddolita. La sua voce le fece l’effetto di un colpo di frusta. «Te lo dico per l’ultima volta. Entra in acqua. Ti prometto che non ti succederà niente.» Inghiottì a vuoto. «Promettimelo.» «Promesso.» E lei saltò. Il fuoco crepitava. La pioggia batteva incessante contro le finestre e i ceppi scoppiettavano nel camino riempiendo l’aria col profumo del legno bruciato e della pizza. Avvolta in una coperta calda Gen prese un pezzo di formaggio filante ed emise un sospiro di piacere. «Mmm, buonissima.» Wolfe annuì masticando. Stava mangiando prima la crosta poi l’interno, come piaceva a lui. «Meglio del pesce.» «Te l’avevo detto.» Si leccò le dita e si appoggiò soddisfatta allo schienale del divano. Guardò fuori, dove il vento strepitava e furoreggiava un temporale estivo. «Chissà che fine ha fatto la barca. Spero non fosse molto costosa.» Lui rise e si pulì le mani. «L’ho trovata nel bosco durante la mia passeggiata mattutina.» «Cosa? Non sapevi nemmeno se era sicura? Ci potevamo rimettere le penne.» Wolfe soffiò l’aria dal naso, appoggiando la schiena al divano e allungando le gambe sul tavolino. «Ti ho protetta dalla creatura della laguna nera o sbaglio? Quasi mi uccidevi. Mi stringevi il collo così forte che non riuscivo a respirare.» Cercò di mostrarsi arrabbiata ma le labbra sorridevano. Era stato fortunato. Lei non aveva mai allentato la presa e il rientro a nuoto era stato faticosissimo. «Giusto. Siamo pari.» Restarono piacevolmente in silenzio. Gen sorseggiava un bicchiere di Chardonnay lasciandosi avvolgere dal calore della serata. Che meraviglia. Adorava stare così con David, seduta a far niente, solo a godersi la sua compagnia e la sua mente brillante. Purtroppo, man mano che la storia era andata avanti, quei momenti erano diventati sempre più rari. Lui era sempre occupato a fare qualcosa o a dire a lei di fare qualcos’altro. L’ozio è il padre dei vizi e roba simile. E lei aveva dimenticato come fosse stare seduta tranquilla con un uomo a fare due chiacchiere, gustandosi il momento. Era così immorale? Davvero ogni secondo della vita doveva essere produttivo? Ripensò a come avesse cercato di ribellarsi, di dire la sua, e a quando lui crollava ai suoi piedi, emotivamente a pezzi. David aveva il complesso di non essere stato amato. I genitori avevano divorziato quando era piccolo e la madre era stata assente, non sembrava essergliene mai importato molto di quell’unico figlio. Lui si era consacrato alla medicina e al successo, per provare il proprio valore. E ci era riuscito. Ma Gen vedeva una luce fredda negli occhi di David, come se il suo scopo fosse soltanto eliminare il passato con un bisturi. Quando lei lo deludeva, lui tornava ai suoi trascorsi. All’inizio la disponibilità a parlare del suo vissuto e ad ammettere i suoi limiti e debolezze la stupiva. Le ripeteva continuamente che era stata lei a salvarlo. Ci aveva provato. O no? Ma non era stata abbastanza forte. Il continuo altalenarsi tra disprezzo e atteggiamenti dittatori da una parte e il compagno bisognoso e innamorato dall’altra aveva cominciato a distruggerla. Quante volte l’aveva ferita e lei l’aveva perdonato perché la amava? Ma era vero amore? Non lo sapeva più. A poco a poco, la tristezza cominciò a toglierle il senso di pace che stava provando. Ricacciò indietro le lacrime. Si sentiva in colpa per aver cercato di salvarsi, per essere stata tanto egoista da fuggire, rovinando la vita ad altre persone. Vigliacca. Vigliacca... «Cara? Sei pronta?» Scosse la testa per ritrovare la concentrazione. Wolfe s’inginocchiò dietro il tavolino con una scatola davanti a sé. «Per cosa?» «Scarabeo. Aiutami a preparare.» Le passò la sua bustina con le lettere e lei cominciò automaticamente a disporre le tesserine di legno sul portalettere. «Wolfe, sono stanca. Forse mi conviene andare a letto.» L’idea di pensare alle parole per vincere a Scarabeo era più di quanto potesse concepire. Aspettò il suo consenso, convinta che le avrebbe dato una carezza e l’avrebbe lasciata andare. «Non credo proprio. Mi sto annoiando, quindi tu ora giochi. Non dimenticare le regole. E non puoi usare tutti termini medici, non è giusto.» Scosse la bustina con indignazione. «Sei crudele ed egoista. Sono stanca e tu mi costringi a giocare.» «Ti fa bene.» Si riempì il bicchiere di vino e tornò con una penna e un blocchetto. «Cosa ci giochiamo?» Sbuffò. «Non saprei. Sono una studentessa di medicina che lavora e tu sei un milionario. Se scommettessimo dei soldi?» «Spiritosa. Ci giocheremo dei segreti.» Restò di sasso. Lo osservò attentamente mentre tirava fuori la prima lettera dalla bustina. Sembrava dicesse sul serio. «Che tipo di segreti?» Wolfe fece spallucce. «Se vinci tu puoi chiedermi quello che vuoi e io te lo dico. E viceversa. Ci stai?» Non aveva niente da perdere. Si rianimò e pescò la lettera S. Non male. Lui pescò una A. Il solito culo. «Comincia tu.» Gen aveva dimenticato quanto fosse divertente giocare a Scarabeo. In famiglia si sfidavano con tornei combattutissimi e infatti il dizionario era logoro. L’innocua complessità del gioco la distrasse e d’un tratto si ritrovò impegnata in un’accesa competizione con uno degli uomini più brillanti che conosceva. E il bello era che non lo dava a vedere. Da come si vestiva e da come parlava, nessuno avrebbe indovinato che fosse tanto intelligente e colto. A Scarabeo, poi, era micidiale. Gen era avanti di venti punti buoni, aveva ancora una Z e nessuna intenzione di perdere. Ah, la bellezza di avere una P. ZIP. «Brava», commentò lui con un fischio. L’adrenalina le fece fare un saltino sul divano. Rovesciò la bustina delle lettere. «Finite!» disse compiaciuta. Stava proprio per vincere. Lo guardò masticare l’estremità della matita, concentrato sulla scacchiera. «Mmm, lo spazio si sta restringendo. Non sarà facile.» Lei bevve il vino, in giubilante attesa della parolina che s’aspettava, e giurò a se stessa che non gli avrebbe fatto pesare troppo la vittoria. Be’, ci avrebbe provato, almeno. Aveva solo una A da giostrarsi e non è che potesse farci molto. «Trovato.» Cominciò a disporre le lettere una a una sulla griglia. ANESTRO. Eh? Gen si chinò in avanti per leggere meglio. Un momento, aveva finito le lettere? Guardò incredula il suo portalettere vuoto. Aveva appena guadagnato altri trenta punti bonus. «Aspetta un attimo. Che diavolo è anestro? Non è una parola. E come hai fatto a tenermi nascosta una S?» Lui fece spallucce sminuendo l’importanza della cosa. «Volevo tenerla per una buona occasione. Non sai cosa significa? È una parola eccome.» «Chiedo la verifica!» Tirò indietro la testa. «Sei un medico, la biologia dovresti conoscerla. Vuoi dire che non hai mai sentito questa parola?» «Certo che no, perché non esiste. Che cosa significherebbe, sapientone?» «È il periodo d’inattività sessuale dei mammiferi.» Batté le palpebre. «Mi stai prendendo in giro.» «No. Cercala. Così tu perdi e io vinco.» «Okay, verifico lo stesso.» Aprì brontolando il dizionario e trovò la parola... anestro: periodo d’inattività sessuale dei mammiferi. Bastardo. Chiuse il libro in malo modo. Lui fece un sorriso soddisfatto. «Mi credi adesso, dottoressa?» Oh, che voglia di urlargli che era un baro, ma non poteva. Era solo più bravo di lei, il che le rugava parecchio. Era un’altra cosa che aveva preso da sua sorella. La smania di vincere a tutti i giochi di società. Lo guardò liberare la scacchiera, rilassato, col sorriso ancora stampato in volto. Si era cambiato e portava dei calzoncini corti da corsa e una canotta che metteva in evidenza le braccia e le spalle scolpite. Aveva la pelle gradevolmente abbronzata dal sole. Buffo, un’altra donna sarebbe impazzita a trovarsi sola con lui davanti al camino in uno chalet deserto. Era un Dio del sesso ambulante, e lei ci stava giocando a Scarabeo con addosso due stracci di Walmart, senza trucco e coi capelli per aria. Da non credere. Fu nuovamente presa dalla sonnolenza. Appoggiò la testa al bracciolo del divano e sbadigliò. «Odio perdere.» «Lo so.» «Hai vinto onestamente. Sono a tua disposizione.» Lui alzò il sopracciglio. «Per un segreto, intendo.» «Ero solo preoccupato che volessi mettere fine al tuo anestro.» Non poté evitarlo. Buttò la testa indietro e rise. «Un giorno. Non stasera.» «Buono a sapersi.» Aspettò la domanda, sapendo che avrebbe riguardato David. Che tristezza il modo in cui aveva evitato Wolfe per assecondare i capricci del fidanzato. Presto avrebbe dovuto scusarsi e sperare che Wolfe la perdonasse. Adesso almeno poteva dirgli la verità, qualunque cosa fosse quella che voleva sapere. «Qual è il pensiero che ti ha attraversato la mente l’attimo prima di decidere di saltare fuori dalla finestra?» La domanda la sorprese. Torcendosi le mani, tornò con la memoria al preciso momento in cui aveva deciso di mandare all’aria la sua vita perfetta e controllata. E disse la verità. «Ho sempre avuto una voce interiore che mi parlava. Mi diceva delle cose. Non so se fosse l’istinto o il subconscio, ma mi fidavo di lei e l’ascoltavo. Dopo qualche mese con David, tuttavia, ha smesso di parlarmi. All’inizio pensavo fosse perché non ne avevo più bisogno. Avevo l’uomo che amavo. Poi mi sono accorta che avevo solo paura di darle retta. La voce era morta.» Inspirò, tremante. «Appena prima di sposarmi l’ho sentita di nuovo. Continuava a ripetermi una cosa.» «Cosa?» «Scappa», disse semplicemente. «E io sono scappata.» L’emozione la travolse. Stremata, triste, confusa, si stese sul divano, abbandonando le sue difese. Wolfe si alzò in silenzio e sparì. Tornò con un cuscino. Glielo mise delicatamente sotto la testa, le sistemò le coperte intorno e le spostò i capelli dal viso. Lei fece un verso simile alle fusa per la tenerezza di quel gesto. Chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dalle tenebre, dove nulla importava e non c’era bisogno di pensare. «La voce aveva ragione, piccola. Ha sempre ragione. E grazie a Dio l’hai ascoltata.» Le diede un bacio sulla fronte, ma lei stava già scivolando nel sonno. Capitolo 7 «Dove andiamo?» Wolfe l’aveva tirata giù dal letto alle dieci, rifiutandosi di lasciarla dormire più a lungo. Dopo altri cereali e altre lamentele, le aveva detto che andavano a fare una gita e l’aveva fatta salire in auto. «In un posto dove i sogni diventano realtà.» «In una cittadina dell’interno? Aspetta... è una spa? Bello! Possiamo fare i massaggi e i bagni di fango per eliminare le tossine. Arylin mi supplicava sempre di farne uno ma non avevo mai tempo.» «Non è una spa. Non mi farei mettere del fango addosso nemmeno a pagamento. Le mie tossine me le voglio tenere.» «Oh.» Si allacciò la cintura e pensò alla possibile alternativa. «Shopping? Le donne amano fare shopping quando sono depresse. A me non piace molto ma d’accordo, ci provo. Adoro le scarpe.» «Io no. Voglio divertirmi anch’io, non farmi torturare da queste stronzate da donna. Questo posto andrà bene a tutti e due.» «D’accordo. Pensi di dirmi che posto è?» «No. Prima regola della strada: vai avanti e non voltarti mai indietro.» L’ombra sul suo volto parlava di sofferenze che lei non poteva neppure immaginare. E non voleva farlo. Si fidava ciecamente di Wolfe e sapeva che avrebbe fatto la cosa giusta. Ma se gliel’avesse detto l’avrebbe soltanto messo in imbarazzo. Quindi accettò di seguirlo per il secondo giorno e annuì. «Allora sono pronta a scoprirlo.» Aveva smesso di piovere a metà della notte. Era una giornata calda e viaggiavano con la capote abbassata. Gen si godette la sensazione del vento tra i capelli. Neppure stavolta parlarono molto. Wolfe alzò il volume della radio che trasmetteva gli Imagine Dragons e guidò verso la città. Il ricordo la colpì con forza. David che guidava verso Newport in fuga romantica per il fine settimana. L’eccitazione al pensiero di essere finalmente soli, senza occhi indiscreti e cercapersone che suonavano. Guardava il suo profilo da dio greco e si meravigliava di quanto fosse stata fortunata a essere notata da lui. Poi l’auto aveva urtato qualcosa per strada. Era scoppiata una gomma. Avevano passato ore sul ciglio della strada, il weekend del Memorial Day, in attesa dell’assistenza stradale. Gen era abituata agli imprevisti e li prendeva bene. Lui no. Col passare delle ore era diventato sempre più scontroso, e il suo nodo allo stomaco sempre più stretto. Una volta sistemata l’auto, l’aveva accusata di flirtare col meccanico. E le aveva detto che se lei non l’avesse distratto avrebbe visto il rottame sulla strada. Era un’accusa velata, lanciata con un sorriso e un sottile sarcasmo. E la sera si era ritrovata a scusarsi senza neppure capire per cosa. Era solo l’inizio. Le venne la pelle d’oca e si sfregò le braccia. Come mai non si era accorta prima che la stava manipolando? L’aveva sempre fatto? Il loro rapporto era cresciuto così in fretta che era difficile tenere il passo, ma David le diceva sempre che la amava immensamente, che voleva proteggerla. Che desiderava che riuscisse nel lavoro e come sua compagna. Cosa c’era di male? Abbastanza da farti scappare dalla finestra della chiesa, le rispose la sua voce interiore. Abbastanza da farti sentire nervosa e agitata ogni sera quando tornavi a casa per la paura che non fosse tutto perfetto. Adesso no, rispose lei. Non sono pronta. Benissimo. Ma quando lo sarai, preparati a qualche dura verità. «Hai freddo? Posso chiudere la capote.» Gen si voltò. Lui la stava guardando con attenzione. «No, mi piace. Sono solo le voci che mi danno fastidio. Niente di grave.» Lui annuì. «Io le sento sempre.» «E come fai a farle smettere?» Wolfe guardava la strada ma lei sapeva che vedeva molto altro. «Alzo il volume della musica.» Gen sorrise. E alzò il volume. Quando giunsero a destinazione, Wolfe rallentò avvicinandosi all’ippodromo. Corse dei cavalli? Oh. Com’è che non aveva indovinato? Lei odiava il gioco d’azzardo, perdeva sempre. «Fai sul serio? Prima perdo il fidanzato, poi tutti i miei soldi? Non è divertente», commentò delusa. La guardò di traverso. «Qualcuno ti ha mai mostrato la bellezza dell’ippica? L’adrenalina. Lo scalpitio degli zoccoli quando i cavalli escono dalle gabbie. Le urla della folla. Il Saratoga Race Course è l’ippodromo più antico degli Stati Uniti ed è qui che si svolge la famosa corsa Travers Stakes. I campioni corrono qui, e la gente viene da tutto il mondo per assistere... stai sbadigliando?» Si diede un colpetto delicato sulla bocca. «Sono andata a cavallo una volta e non mi è piaciuto.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Non ci vai tu a cavallo, tu devi solo scommettere su chi vince. Anche se la taglia del fantino ce l’hai.» Gen sbuffò. «Battuta di cattivo gusto. Pensavo ti piacesse farli, i soldi, non perderli.» «Non perdo mai alle corse.» «Mi annoierò. Sarà una giornata disastrosa come quella al lago.» «Muoviti, Gen.» Obbedì, sospirando e trascinando i piedi come una bambina capricciosa. Una folla entusiasta occupava tutto il marciapiede. Tutti avevano in mano un libricino e puntavano piccole matite sulle pagine, parlando di probabilità, allevamenti e allenatori. Dopo aver pagato, mentre attraversavano i cancelli in ferro battuto, le sue narici furono invase dal profumo pungente della terra e del letame. La scena che si trovò davanti la sorprese. S’aspettava un gruppo di uomini che fumavano intorno a una piccola pista, invece sembrava di fare un passo indietro nella Old America. Chioschi che vendevano limonata, ciambelline calde e snack vari, un’allegra banda all’ingresso che suonava e bambini sorridenti che ballavano al suo ritmo. Le aree picnic si trovavano all’ombra di grandi alberi e c’erano monitor dappertutto. L’aria sfrigolava di energia, mentre l’annunciatore parlava dei concorrenti che si erano ritirati ed elencava i cavalli in gara nominandone vantaggi e svantaggi. Donne in abiti splendidi e cappelli elaborati le passavano accanto muovendosi con eleganza. Strano, sembrava più una colazione all’aperto che una pista per le corse. «Com’è possibile che le scommesse attirino così tante famiglie per bene?» domandò trottandogli dietro. Comprò due programmi, delle matite e un grosso bicchiere di limonata. Poi si diresse a una panchina. «Perché l’ippica è uno sport rispettato. L’ippodromo è aperto solo ad agosto e molti sono in vacanza e si fermano qui sulla strada per Lake George. È uno dei pochi ippodromi dove puoi vedere i fantini e i cavalli da vicino e dove puoi stare accanto alle gabbie a seguire la gara.» Si sedette di fianco a lui e prese un sorso di limonata. Aspra e dolce allo stesso tempo. Si leccò le labbra con piacere. Almeno qui avrebbe mangiato bene. «Okay, quindi cosa facciamo?» Lui studiò il programma per qualche minuto picchiettando la matita sulle pagine. Lei rimase in silenzio e aspettò il piano. «Puntiamo. Hai preso i soldi?» Gen batté le palpebre. «Sono scappata in abito da sposa, ricordi?» Lui fece una smorfia. «Ooops, scusa. Te li anticipo io, allora.» «Wow, che amico.» «Questo però significa che mi prendo il dieci per cento di tutti i soldi che vinci.» Si tolse la cannuccia dalla bocca e lo fissò. «Non è giusto! È una rapina! Che razza di uomo sei ad approfittare di una donna debole e incompetente?» Tenne lo sguardo fisso sul libretto, mormorando sottovoce e scrivendo note a margine con la matita. «Sei la donna più forte e intelligente che conosco. Ora della fine di questa giornata sarai tu ad approfittarti di me.» Inspirò altezzosa, anche se era un bel complimento. «Non so niente di scommesse sui cavalli, signor Wolfe.» Lui alzò lo sguardo, infastidito, come se lei gli avesse fatto perdere la concentrazione. «Possiamo procedere in due modi, facile e difficile.» «Qual è quello difficile?» «T’insegno a restringere il campo finché trovi il cavallo su cui puntare. Leggiamo i pronostici, studiamo le statistiche, controlliamo gli allevamenti, gli allenatori, i fantini e i piazzamenti più recenti. Cerchiamo di dare una valutazione complessiva delle potenzialità del cavallo e delle probabilità che ha di vincere oggi. Poi facciamo le nostre scelte basandoci su tutte queste informazioni.» Rabbrividì. Sembrava più divertente farsi devitalizzare un dente. «E quello facile?» «Leggi i nomi e i numeri e scommetti su quello che t’ispira di più.» «Andata. Scelgo quello facile. Dammi il programma.» Lui sospirò. Era deluso dalla sua scelta, ma a lei non poteva importare di meno. E dal momento che non doveva più preoccuparsi di stare a dieta per non ingrassare, mentre lui rimaneva lì a raccogliere tutte le sue inutili informazioni, lei sarebbe andata a prendersi qualcosa da mangiare. Gen guardò la lista dei cavalli. Sognatore deluso. Le suonò un campanello e puntò il dito sul numero quattro. «Questo.» «Mmm, sì. Non è una grande scelta. Ti mostro come leggere le statistiche. In questa colonna ci sono le gare disputate, e non ne vince una da aprile. Sembrava un cavallo promettente ma deve essergli successo qualcosa perché dall’ultima vittoria continua a scendere di classe. Nessun handicapper l’ha indicato come probabile piazzato.» «Non m’interessa. Che tipo di scommessa devo fare?» «Suggerisco vivamente pochi dollari sul piazzato. Puoi scegliere tra vincente, piazzato e accoppiata, che è una combinazione dei primi due tipi di puntata. Se scommetti vincente deve arrivare primo, mentre piazzato può arrivare anche secondo o terzo. Lo danno 20 a 1 quindi è una scommessa azzardata. Il favorito è a 3 a 1.» Aprì la pagina e le mostrò i numeri. «Vedi, il primo è il favorito perché ha vinto le ultime tre corse. È lui il cavallo da battere. Vuoi puntarci qualche dollaro così provi l’ebrezza della vittoria?» S’adombrò in volto. Per David, vincere era sempre una questione di capitale importanza. Essere i migliori, mostrarsi gentili con gli sconfitti ma assicurarsi sempre di superarli. Era così stufa di provare a essere quella persona, proprio come Sognatore deluso; anche lui stava probabilmente cercando di tenere il passo di quello stupido favorito. Forse il suo allenatore non gli lasciava disputare la sua corsa. Magari non sarebbe sempre arrivato primo, ma sarebbe andato a testa alta perché aveva provato a fare del suo meglio. Be’, al diavolo il numero uno e le vittorie. Basta puntare sui favoriti. Rispose praticamente sputando le parole. «’Fanculo il numero uno. Voglio il numero quattro. Dammi i soldi.» Wolfe alzò la testa e la osservò. Poi annuì, e con un sorriso prese il portafoglio e le diede un pezzo da venti. «Ecco qui.» Lei prese la banconota e tenne su la mano, in attesa. «Che c’è?» «Di più.» «Di più? Piccola, venti dollari su un brocco è fin troppo, puoi solo perderli. Dopo te ne do ancora.» Prese la limonata e ne bevve un sorso. Lei scosse la testa. «Voglio scommettere cento dollari vincente.» Gli andò la limonata di traverso. «Sei fuori di testa?» «Non sei multimilionario?» Lui rimase in silenzio. «È come pensavo. Ti darò la tua quota da allibratore del dieci per cento, ma adesso voglio cento dollari. Oh, e altri venti per uno spuntino.» Lui estrasse le banconote dal portafoglio e gliele porse. Caspita come gli giravano le scatole quando non si faceva come diceva lui. «Grazie. A dopo.» «Devo dirti come si fa a scommettere!» «C’è coda laggiù. Tu finisci di studiare le tue statistiche, io mi arrangio. Ci vediamo.» Si allontanò con una strana sensazione. Aveva come il presentimento che stesse per succedere qualcosa di grosso. Aspettò il suo turno allo sportello ascoltando le diverse conversazioni delle persone in fila, tra cui quella di tre ragazzi che discutevano sulla gara. «Vuoi scommettere sul quattro solo perché sei stato mollato, amico. Così oltre ad aver perso lei perdi pure i soldi.» «Appunto, guardati intorno, è pieno di gnocca. Smettila di pensare a lei. Punta sul favorito e vinci.» Il tipo che era stato scaricato aveva un’aria tristissima. Capelli biondi spettinati, guance rubiconde, barba sfatta e vestiti stropicciati, tutti segni della fase di depressione in cui si cade quando si rompe con una ragazza. Poveraccio. I suoi amici gli stavano accanto con la birra in mano facendo quello che fanno gli uomini in questi casi, vale a dire lo insultavano per farlo contento. Proprio un mondo a parte, per lei. Questi tre erano giovani, probabilmente universitari, e sembravano più interessati alle donne che ai cavalli. Il ragazzo piantato sospirò. «Chi se ne frega di vincere quando in realtà ho perso tutto?» Gli amici reagirono con una smorfia inorridita. «Oh merda, non vorrai propinarci queste cazzate per tutto il weekend. Siamo qui per divertirci, amico, bere e fare un po’ di soldi.» Gen non riuscì a trattenersi. Richiamò l’attenzione di uno dei tre con un colpetto sulla spalla. «Scusate, ma secondo me vincerà il quattro.» Gli amici del ragazzo piantato la squadrarono dall’alto in basso e sembrò superare la prova. Le fecero dei larghi sorrisi di benvenuto. «Ehi, grande. Lui è Ed, io sono Tom e questo è Steve.» «Ciao, io sono Gen.» Guardò Ed. «Mi dispiace per la tua ragazza.» Gli altri due fecero una smorfia, ma Ed annuì. «Grazie. È uno schifo. Eravamo insieme da due anni e si è innamorata di un attore del suo corso. Ha dei denti orribili ma a lei non interessa. Dice che è un artista, che è eccitante.» Schioccò la lingua, comprensiva. «Se non ti apprezzava, meglio che sia successo adesso. Anche se so che questo non ti farà sentire meglio. Sei fortunato ad avere degli amici che ti stanno vicino.» Tom e Steve si gonfiarono d’orgoglio. «Perché non resti con noi a guardare la corsa? Andiamo a bordo pista. Sei venuta con delle amiche?» Si guardarono intorno speranzosi. «No, mi dispiace. Posso chiedervi una mano? Cosa devo dire per scommettere cento dollari sul quattro vincente?» «Wow, ti piace proprio il quattro, eh?» commentò Tom. «Sì. Sono stufa dei numeri uno che vincono sempre. Secondo me ha una possibilità.» Ed fece un piccolo sorriso. «Anche secondo me. Io punto su di lui.» Steve scrollò le spalle. «Sono soldi vostri. Io scommetto sul numero uno. Gen, quando arriva il tuo turno devi dire prima corsa, cento dollari sul quattro vincente. Capito?» «Grazie. Ho un presentimento. Sento che vincerà.» Prese il tagliando con la canzone dei Black Eyed Peas che le risuonava in mente. Wolfe non era al tavolo da picnic, quindi decise di andare a bordo pista coi ragazzi. Erano molto gentili con lei, scherzavano e flirtavano in modo innocente. Si era mai sentita così giovane? Ultimamente si vedeva invecchiata di cent’anni. Era bello rilassarsi al sole fingendo di non avere un pensiero al mondo se non indovinare il vincitore della corsa. Col tagliando stretto in mano, si alzò in punta di piedi per vedere i cavalli, maledicendo la propria altezza. Un attimo dopo Steve la prese sulle spalle. Le sfuggì un urletto. «Sono troppo pesante!» Gli si aggrappò al collo per non cadere mentre gli altri due scoppiavano a ridere. «Stai scherzando? Sei leggera come una piuma. Così vedi i cavalli.» Gen si rilassò. Aveva ragione. C’era una bella visuale da qui, e poi non era mai stata in spalla a qualcuno. Guardò sfilare i cavalli. Avevano il corpo lucido e scuotevano la testa. Furono condotti ognuno nella sua gabbia, poi d’un tratto ci fu uno squillo e l’annunciatore urlò agli altoparlanti che erano partiti. Non credeva che una corsa potesse essere così lunga. Non credeva nemmeno che potesse essere così breve. I cavalli sfrecciavano sulla pista, sollevando la terra con gli zoccoli, i fantini piegati in avanti a contendersi brutalmente lo spazio. Sognatore deluso era ultimo. Il numero uno era in testa e si teneva vicino allo steccato. La folla urlava nomi diversi, con gli occhi fissi sulla pista, e lentamente, molto lentamente, il numero quattro cominciò ad avvicinarsi al gruppo centrale. La giubba da gara rossa del fantino spiccava tra le altre. A testa bassa, avvicinandosi alla linea del traguardo, Sognatore deluso guadagnò rapidamente terreno. Altri cavalli caddero uno dopo l’altro, col favorito sempre in testa, ma lui sfruttò bene la sua scia e si avvicinò a una velocità tale che Gen stentava a crederci. Urlò così forte che le fece male la gola, e poiché Steve saltava per l’entusiasmo gli si aggrappò alla testa per non cadere. E adesso il numero quattro era testa a testa col numero uno, e lottarono per due lunghi, lunghissimi secondi. Sognatore deluso tagliò il traguardo con qualche centimetro di vantaggio. Steve la fece scendere senza fatica dalle spalle. Appena sentì i piedi a terra Gen si mise a ballare come un’indemoniata. Il cuore stava per esploderle e aveva l’adrenalina a mille. Il foto finish confermò l’ordine di arrivo. Era ufficiale. «Porca zoccola, hai vinto più di duemila dollari!» disse Tom scuotendo la testa. «Che corsa!» «Abbiamo vinto, abbiamo vinto», gridò Gen abbracciando Ed. «Avevo un presentimento, te l’avevo detto!» All’improvviso una voce gelida interruppe i festeggiamenti, facendola restare di sasso. «Che diavolo succede?» Si girò di scatto verso due gelidi occhi azzurri che la fissavano. Oh oh. Aveva un altro presentimento adesso. Era nei guai. Capitolo 8 Se aveva un motto che teneva sempre presente, era: mantieni la calma. Non erano molte le cose che lo facevano innervosire. Dopo un passato difficile e un percorso durissimo per arrivare dov’era ora, Wolfe aveva chiuso con gli alti e bassi generati dalle emozioni. Ecco perché con le donne preferiva relazioni brevi. Non era un tipo geloso. E sul lavoro capitava che gli girassero le scatole, ma non c’era nulla che lo portasse a mostrare collera vera e propria. Fino ad oggi. Stava per prendere a pugni la bella faccina di quel tizio e non sapeva perché. La teneva sulle spalle. Con l’inguine di lei sul collo. L’affiatato terzetto sembrava incredulo per la vittoria del numero quattro, anche se mai quanto lo era lui. Ma fu l’espressione sul volto di Gen a farlo andare fuori di testa. Felice. Per la prima volta dopo tanto tempo, Gen sembrava felice. E non era merito suo. Ma che gli prendeva adesso? Strinse gli occhi. I ragazzi si guardarono preoccupati e fecero un passo indietro. Prima di David, Wolfe e Gen uscivano spesso in coppia e si raccontavano le loro relazioni. Non scendevano mai nei dettagli, specie quelli sul sesso. Era più che altro per riderci sopra. Dopo David, Gen non gli aveva più raccontato niente e nel giro di un anno l’aveva persa. Ci aveva sofferto molto ma continuava a ripetersi che era felice, e che era suo dovere ingoiare il rospo. In genere lei gli mancava. Ma non in modo incontrollato. Adesso? Be’, non era proprio così. Non ebbe tempo di riflettere su cosa gli fosse preso. Gen gli fece gli occhiacci. «Wolfe, li stai spaventando.» Poi si girò verso di loro. «Wolfe non è il mio fidanzato, è solo un amico. Non rischiate il pestaggio. Wolfe, loro sono Ed, Tom e Steve.» I ragazzi si rilassarono e cercarono di mostrarsi amichevoli, ma lui rimase freddo. Gen era vulnerabile e non aveva intenzione di permettere a questi tizi di prenderla in giro per andarci a letto. Uno di loro alzò la mano. «Ehi. Piacere di conoscerti.» Gli occhi azzurri di Gen brillavano. Accidenti se era bella. Aveva dimenticato la vecchia Gen e la sua personalità spumeggiante. Apprezzava gli scherzi, le battute spinte, le piaceva divertirsi. Sentì una fitta dolorosa. Solo ora iniziava a rendersi conto che in questi ultimi due anni in cui l’aveva persa era stata solo un fantasma di quella che era prima. «Non ti ho più vista e mi sono spaventato. Grazie per averla tenuta d’occhio.» Fece un cenno ai ragazzi poi si rivolse a Gen. «Andiamo a incassare la vincita.» Lei fece un saltino verso di lui, gli prese la mano e si rivolse ai suoi ammiratori. «Ha vinto anche Ed, quindi dovremmo andare insieme. Ehi, perché non venite con noi? Wolfe ha un tavolo da picnic, e così mi date una mano con la prossima corsa.» Gli montò la rabbia ma la loro reazione entusiasta lo costrinse a ignorarla. «Grazie, grande idea!» disse Ed. Anche Steve e Tom accettarono di cuore. «Magari ci trasmetti un po’ della tua fortuna da principiante.» Si recarono agli sportelli a ritirare la vincita e Wolfe rimase in silenzio. A quanto pare Ed e Gen avevano fatto amicizia, visto che fecero una piccola danza col denaro in mano. Che carini. Gen si avvicinò e gli mise in mano due banconote. «Ecco qui. Duecento dollari, il dieci per cento del prestito. Non credo mi serviranno altri soldi per oggi, quindi grazie.» Oh oh. D’un tratto scese il gelo. Tre ragazzi lo guardavano come fosse la feccia della terra. «Le fai pagare gli interessi?» domandò Ed. «Pensavo foste amici.» «Era uno scherzo.» Gen rise. «Sì, proprio! Non scherzi mai coi soldi, probabilmente mi avresti anche aizzato contro uno strozzino.» Merda. Tom strinse i pugni e Steve mostrò un chiaro disprezzo nei suoi confronti. «Che brutta cosa, amico», disse Tom. «Ed era a corto questa settimana e gli ho prestato dei soldi, ma senza interessi. Forse non tutti intendono l’amicizia allo stesso modo.» Gen minimizzò, del tutto ignara della portata della discussione in corso. «Naa, non fa niente. I milionari stanno sempre molto attenti ai loro soldi.» Steve deglutì a vuoto. «Sei milionario?» Due volte merda. Erano a un punto morto. Gli diede l’occhiata intimidatoria che riservava alle riunioni di lavoro. «Lasciamo perdere, non ho voglia di spiegare. Io e Gen siamo amici di vecchia data.» «Non ne dubito», rispose Ed fulminandolo con lo sguardo, per nulla intimidito. Poi prese Gen sottobraccio. «Andiamo, ti offro un hot dog.» «Ma ho vinto più soldi io.» «Se vinci anche la prossima corsa offri la birra.» «D’accordo. Tu vieni, Wolfe?» «Sì. Vengo.» S’accodò al gruppetto che chiacchierava, chiedendosi cosa sarebbe potuto succedere di peggio quel giorno. Tre ore dopo, Wolfe si rese conto che non avrebbe dovuto farsi quella domanda. Era seduto solo col programma in mano a guardare la folla sempre più numerosa al tavolo da picnic. Quasi tutti uomini. Tutti intorno a Gen. Non sapeva bene come fosse accaduto. Aveva vinto la seconda corsa con un’altra scommessa azzardata su Equino magico. Era andato a bordo pista con lei e aveva guardato perdere il cavallo su cui aveva puntato, ma almeno era riuscito a non farla salire sulle spalle di Ed. O di Tom. O chiunque altro. Nell’eccitazione generale, al gruppo s’erano aggiunte altre due persone, un tizio con un taglio da marine e lo sguardo da maniaco sessuale e il suo compare pelle e ossa apparentemente innocuo. Wolfe sapeva che era impossibile vincere tre corse di fila per pura fortuna, quindi aveva mantenuto le sue posizioni. Dal momento che correvano sull’erba aveva scommesso su Aureola impetuosa, che aveva il miglior allenatore su erba della storia. Gen aveva vinto di nuovo con una probabilità di 10 a 1. Dopodiché il tempo era passato in modo confuso. Molti pensavano che Gen avesse un tocco magico e ogni volta che si metteva in coda per fare una puntata tornava al tavolo con nuove persone al seguito. C’erano anche delle ragazze, che più che alle vincite, però, sembravano interessate alla sua capacità di attirare tutti gli uomini single dell’ippodromo. Cercò di tenere a freno i nervi e di apprezzare che avesse ripreso a mangiare. Lei e Ed stavano facendo amicizia gustando tacos di pesce, hot dog, birre e salatini. Non era abituato a dare confidenza agli estranei e non faceva amicizia facilmente. Resistette alla tentazione di portarla via e di tornare a casa, dove sarebbero stati solo loro due e avrebbero potuto chiacchierare e scherzare tranquillamente come facevano sempre. Adesso era distratta, ma una volta lasciato l’ippodromo si sarebbe ricordata del pasticcio che si era lasciata alle spalle. Non sopportava l’idea di veder tornare la tristezza nei suoi occhi o di veder sparire quel sorriso che gli stringeva il cuore e lo rendeva felice. No. Meglio restare lì, tenerla d’occhio e cercare di essere contento per lei. Ed le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei buttò la testa indietro e rise. Poi le mise il braccio intorno alla spalla e la strinse brevemente a sé, un gesto più intimo di un bacio in bocca. Che cazzo stava succedendo? Wolfe balzò in piedi. «Dobbiamo andare!» disse ad alta voce. Tutti gli sguardi convertirono su di lui. Gen batté le palpebre. «Siamo solo alla quarta corsa. Che succede?» Lo stavano guardando tutti. Erano anni che non si sentiva così a disagio. «Pensavo fossi stanca e che volessi tornare a casa presto.» Intervenne Ed. «Non può andarsene mentre va a gonfie vele, porta male!» «Non fa niente», disse Steve. «Se tu vuoi andare, la accompagniamo a casa noi.» La sua voce si fece gelida. «Non penso proprio. Gen non si allontana da me. Chiaro?» Gen sospirò. «Stai perdendo, vero? E sei nervoso.» Per tutti i diavoli, d’un tratto si sentiva come un marmocchio. «No, non sto perdendo. Senti, se vuoi restare va bene. È solo che non volevo che perdessi tutti i soldi.» Gli rivolse un sorriso abbagliante. Avrebbe potuto fare la pubblicità del dentifricio con quei denti. «Non succederà, sono ricca oggi!» Le persone del suo seguito la circondarono per conoscere la sua puntata sulla quarta corsa, e lui tornò a sedersi al tavolo. Da solo. Come piaceva a lui. Senza interruzioni né distrazioni. Perfetto. Perse le successive due corse. Gen le vinse. E tutti gli altri pure, visto che mezzo ippodromo aveva capito che era la sua giornata fortunata. Andò a prendersi una birra, e quando tornò Gen aveva ufficialmente perso la sesta corsa ed era circondata da facce tristi. Bene, così adesso sarebbero venuti via. Era ora. Non aveva mai sentito di nessuno con una serie positiva così lunga. «Mi dispiace, cara. Succede a tutti prima o poi.» Ed le diede una pacca sulla spalla. «Vinceremo la prossima.» Gen stava già leggendo i nomi dei cavalli della corsa successiva. «Non ero convinta di quest’ultimo. Non avrei dovuto puntare. Ma adesso ho di nuovo un buon presentimento, quindi possiamo scommettere.» Wolfe alzò una mano in segno di resa. «Fate voi. Sono qui se hai delle domande.» Lei aveva già ripreso a ignorarlo, rapita dai sei cavalli iscritti alla corsa, oltre al favorito. Wolfe tornò al tavolo, a metà tra l’irritato e il divertito per la velocità con cui l’aveva rimpiazzato anche stavolta. Sembrava la regola ormai. Ora che finalmente era sfuggita alle grinfie di David, ecco una massa di nuovi amici a cui stava dedicando molta più attenzione di quanta ne avesse riservata a lui negli ultimi due anni. Il pensiero gli peggiorò ulteriormente l’umore. La guardò perdere le tre corse successive, mentre lui indovinò un paio di vincenti. Meglio tardi che mai. Il suo seguito, preso atto che la magia era finita, cominciò a disperdersi, e Gen rimase con i tre amici iniziali. Il cellulare vibrava come se fosse posseduto dal demonio. Wolfe lesse e ascoltò i messaggi sempre più agitati e capì di non poterla nascondere ancora per molto. Kate avrebbe preso l’auto e sarebbe venuta a cercarli. Alexa avrebbe chiamato Sawyer, che l’avrebbe detto a Julietta, e per lui sarebbero stati guai. L’istinto gli diceva che a Gen serviva ancora un giorno di pace prima di tornare a casa, quindi fece in modo di procurarglielo, avvisando via sms una decina di persone che Gen stava bene e che sarebbero tornati domani. Poi spense il telefono. ’Fanculo. Wolfe guardò gli iscritti alla nona corsa. Che pasticcio. Una dozzina di cavalli di cui la maggior parte non aveva mai corso, con le quotazioni più disparate. Non si sarebbe fidato nemmeno di Lawton per questa gara, quindi decise di non giocare. Buttò la bottiglia vuota e andò da Gen. «Fai l’ultima puntata o sei pronta? Sei stata grande oggi.» Gen alzò lo sguardo. Aveva una strana luce negli occhi, una luce che lui conosceva bene. Determinazione, volontà ferrea, orgoglio e tenacia. Un vero e proprio incubo. D’un tratto il cuore prese a battergli forte. «Gen, cos’hai in mente?» Gli sorrise. Persino Steve e Tom erano un po’ intimiditi da lei. «Ultima gara, ultima possibilità. Numero sei.» Lui guardò il monitor: 15 a 1. Non un buon pronostico in questo guazzabuglio, ma a questo punto non è che potesse perdere molto. «Come si chiama?» «Fenice rinascente.» Inghiottì a vuoto. La cosa era preoccupante. Soprattutto se considerava quel nome una specie di segno. Wolfe fece una risata forzata. «Piccola, questi cavalli non hanno mai gareggiato. Hai avuto la fortuna del principiante, oggi, ma scommettere su quel nome non è proprio il caso. Perché non andiamo a incassare le tue vincite e a mangiarci una bella bistecca?» «Ho tre parole per te, Wolfe.» Cercò di non allarmarsi, anche se riconobbe quell’espressione. Gen possedeva una vena di cocciutaggine che non conosceva rivali. Se le dicevi di no, la spingevi soltanto a dimostrarti che ti sbagliavi. Ricordò di quando all’università la prendeva in giro dicendo che non sarebbe mai riuscita a prendere una A all’esame finale di italiano. Aveva un’eccezionale mente scientifica, ma era negata per le lingue, e lui si divertiva un mondo a prenderla in giro dicendo che rischiava di essere bocciata nella seconda lingua della sua famiglia. Lei allora cos’aveva fatto? Si era immersa nell’italiano per una settimana, rifiutando di parlare inglese in casa. Poi all’esame aveva preso A. Faceva paura. «Sarebbero?» Gen sorrise. «Felice e vincente.» Ed sembrò preoccupato ma annuì debolmente. «È l’unica cosa da fare. L’unica mossa che ci resta. Se questo cavallo vince, sarà un segno.» Wolfe lo guardò. «Un segno di che?» «Che la mia fidanzata non faceva per me. La mia ex fidanzata. Se Fenice rinascente arriva primo, io risorgerò dalla ceneri e troverò un nuovo amore.» Steve sospirò. «È la cosa più stupida che abbia mai sentito. È un cavallo. Non una fottuta metafora della tua vita amorosa!» Wolfe quasi vomitava, ma Gen annuì dimostrando di trovarlo un ragionamento perfettamente sensato. «Ed, sono d’accordo con te. Ma dobbiamo dare un segnale forte. Scommettiamo tutto.» Ed le strinse la mano come se fossero due sposini che avessero appena chiesto un mutuo alla banca. «Sì. Facciamolo.» «Siete fuori di testa?» urlò Tom. «Queste minchiate succedono solo nei film. I soldi ci servono per la benzina e per mangiare!» Ed scosse la testa. «Questa è una cosa più grossa, amico. Dovrete appoggiarmi, stavolta.» Wolfe uscì dallo stato di trance e scosse la testa. «State dando i numeri tutti e due. I nomi dei cavalli non significano niente. Ci resterete malissimo e sarete ancora più depressi. Chiudiamo in bellezza. Dico sul serio, andiamocene.» Lei schioccò la lingua. «Mi dispiace che tu non capisca, ma devo farlo. Se mi assumo questo rischio, se ci credo, succederà qualcosa di meraviglioso. È ora di vedere l’araba fenice risorgere dalle ceneri. Andiamo, Ed.» Wolfe la guardò allontanarsi, a bocca aperta. Cos’era successo? Come aveva fatto a sfuggirgli tutto di mano, lei e questa assurda giornata? Steve si schiarì la gola. «Maledizione. Dovremo pagargli tutto noi questo weekend.» «Che diavolo c’entra l’araba fenice coi cavalli?» domandò Tom. «È un simbolo di rinascita», rispose Wolfe. «La fenice è un uccello mitologico che dopo la morte risorge dalle proprie ceneri.» «Anche Gen ha rotto con qualcuno?» Wolfe non rispose. Ah, merda, non era il fatto di smenarci i soldi. Aveva paura che se il cavallo avesse perso la corsa lei sarebbe ricaduta nella spirale della depressione. Puntando su quel cavallo stava cercando il perdono. La speranza. «Siete credenti, voi due?» domandò Wolfe. I ragazzi si scambiarono un’occhiata. «Mah, da piccoli andavamo a messa. Crediamo in Dio.» «Bene. Allora pregate che vincano. Perché in caso contrario sarà un bel casino.» Col tagliando stretto in mano, Gen focalizzò lo sguardo sui dodici cavalli in gara. Il numero sei era marrone scuro, con una magnifica criniera setosa e quattro balzane bianche calzate. Il fantino portava una giubba blu. Quando le sfilò davanti diretto alle gabbie notò che aveva un passo scattante e pensò fosse un buon segno. Fino a quando non batté la testa contro la gabbia rifiutandosi di entrare. Guardò Wolfe e la sua espressione le fece sudare i palmi. Era alquanto... preoccupato. Non l’aveva mai visto così. Aveva sempre ogni situazione sotto controllo e vederlo nervoso all’idea che lei perdesse una stupida corsa la costrinse a chiedersi perché le stesse dando tanta importanza. Perché sì. David non credeva nel caso, nella fortuna o in Dio. Lei una volta ci credeva, invece. Ma dopo due anni con lui non era più sicura di niente. Le dimostrava sistematicamente che la scienza era uno strumento, che esisteva un calcolo delle probabilità e che le coincidenze erano soltanto un’anomalia che non significava nulla. Pian piano aveva perso il suo senso della magia. Razionalmente, si rendeva conto che il cavallo numero sei era solo un bersaglio della sua angoscia, un tentativo di dare un senso a ciò che sembrava non averne e di ritrovare la parte di sé che credeva nell’irrazionale e che pensava di aver perduto. Ma, per dirla senza tanti giri di parole, non gliene importava niente. Fenice rinascente doveva vincere e basta. Alla fine riuscirono a farlo entrare nella gabbia. Passarono alcuni preziosi secondi. Poi le porte si spalancarono: la corsa era cominciata. I cavalli in gara erano una massa indistinguibile di zampe assembrate in un unico branco. Fenice era in mezzo, andava bene, ma non benissimo. Si morse il labbro mentre i ragazzi urlavano frasi d’incoraggiamento, e il branco fece la prima curva sollevando la polvere. Il cavallo numero otto in fondo al gruppo guadagnò terreno nella confusione e passò in testa. Maledizione. Era grigio. Aveva sentito che i cavalli grigi erano fortunati. Fenice non perse terreno e quando arrivarono alla seconda curva accorciò le distanze. Venti centimetri. Dieci. Cinque. Ed urlò. «Forza, figlio di puttana! Vai!» I cavalli si avvicinarono al traguardo uno di fianco all’altro, coi fantini che li incitavano furiosamente, gli zoccoli che affondavano nel terreno, tambureggiando. Volarono oltre la linea del traguardo. «Ha vinto?» gridò Steve. «Ha vinto?» «Non lo so, cazzo! Non lo so!» gemette Tom camminando avanti e indietro. La folla mormorava eccitata, con gli sguardi puntati sul tabellone in attesa dei risultati. Ed non disse una parola. Col cuore che batteva all’impazzata, Gen faticava a respirare. Poi una mano calda e forte strinse la sua. Abbassò lo sguardo sulle dita di lui intrecciate alle sue, come se quello fosse il loro posto. Wolfe sorrise. «Ha vinto.» «Come fai a saperlo?» Un lampo attraversò i suoi magnifici occhi azzurri. «Lo so e basta.» La scritta ‘Foto’ sparì dal tabellone. Nel primo slot apparve numero 6. Numero 8 fu messo nel secondo. «Abbiamo vinto.» Ed si girò verso di lei con la gioia pura dipinta sul volto. «Abbiamo vinto, Gen!» L’afferrò e la fece girare in tondo, staccandola dalla presa di Wolfe. I ragazzi urlavano versando birra e dando pacche sulle spalle a destra e a manca. Quando andarono a incassare le vincite, lei tornò con trentamila dollari e un modulo dell’ufficio imposte. Ed con duemila dollari. Era frastornata. Mentre i ragazzi festeggiavano parlando di cene e champagne e giri dei bar, Wolfe le si avvicinò: si fermarono all’ingresso. «Vieni con noi, vero?» le domandò Ed. «Sei il mio portafortuna. Andiamo a cena e rilassiamoci. Facciamo due chiacchiere per conoscerci meglio.» Steve e Tom restarono indietro. Anche Wolfe arretrò di un passo senza dire nulla. Oh oh. Si accorse che Ed era interessato a lei e che correva il rischio di far soffrire un altro uomo. Però era stata una giornata incredibile e non l’avrebbe mai dimenticato. Gen si alzò in punta di piedi e gli diede un bacio sulla guancia. «Ho appena rotto un fidanzamento, Ed», gli disse. «Ho i nervi a pezzi. Però oggi per qualche ora me ne sono dimenticata. Mi sono divertita un mondo e non ti dimenticherò mai, ma adesso devo tornare a casa.» S’aspettava occhi da cucciolo ferito ed espressione mortificata. Invece lui annuì, le prese la mano e le baciò il palmo. «Sei una persona straordinaria. Grazie per oggi. È stato un segno anche per me. Tracey non era la donna della mia vita.» «E tu sei un ragazzo straordinario. Meriti di meglio.» Gen sorrise, salutò gli altri due ragazzi e si avviò verso l’auto. Si sentiva stranamente leggera, come se qualcosa le dicesse che le cose si sarebbero sistemate. Magari non subito, o la prossima settimana. Ma Fenice rinascente aveva vinto contro ogni pronostico, quindi nel mondo esisteva la magia, dopo tutto. «Tutto bene?» Lo guardò: era appoggiato al sedile dell’auto con le mani sul volante. Pronto a portarla via dai demoni che la inseguivano. Come avrebbe fatto senza di lui? «Sì. Ho vinto più di te oggi.» «Appunto.» Accese il motore e si avviò. «Dove andiamo adesso?» «Costata di manzo, cara. Offri tu. Va bene?» Si rilassò sul sedile e sorrise. «Benissimo.» Capitolo 9 Wolfe colse il momento preciso in cui il senso di colpa fece la sua comparsa. Avevano appena ordinato la cena al Mouzon House. Con cibo fresco a chilometri zero in un ambiente intimo, era il posto ideale per una chiacchierata in tutta calma. L’abitudine a mangiare cucina italiana gli aveva insegnato una cosa: semplice non significa mediocre. Può essere un piatto a cinque stelle quello che si basa su ingredienti di qualità usati per esaltare i sapori senza troppi fronzoli. Peccato che ancora non sapeva cucinare. Durante il viaggio in auto Gen era stata allegra e loquace, ma adesso le era calata un’ombra sul volto. Guardava il piatto a capo chino, persa in un altro mondo. Un posto non molto sicuro. «Non hai mangiato il pane.» Avvicinò il cestino al naso e annusò il profumo caldo di lievito e rosmarino. «Prendilo, ne faccio portare ancora.» Gen scosse la testa. «No, grazie. I carboidrati fanno ingrassare. Non avrei dovuto mangiare neppure la pizza ieri sera.» Alzò un sopracciglio. «Ma se ti facevi sempre fuori tutto il cestino e mi lasciavi solo le briciole, e non sei mai stata sovrappeso. Da dove escono certe fesserie?» «David.» Il nome fu come un proiettile. Wolfe cercò di reprimere la rabbia violenta al pensiero che quel coglione fosse riuscito a crearle insicurezze su tutto, dalla carriera alla vita sessuale. Inasprì il tono di voce. «Ti alleni regolarmente. Scommetto che sei anche sottopeso adesso e il pane non può che farti bene. Provane un po’.» L’ombra di un sorriso le piegò le labbra. «Sei prepotente.» «Non lo sapevi?» Prese un pezzo di pane e lo assaggiò. Poi chiuse gli occhi per il piacere. «Mmm, che buono. C’è anche l’aglio. Meglio non alitarti addosso dopo.» Ne prese un pezzo anche lui e lo masticò. «Ora puzziamo tutti e due. Ti faceva dubitare di te stessa?» Lei ebbe uno scatto. Wolfe sapeva che il miglior modo di rubare un segreto era l’attacco a sorpresa. L’aveva imparato da Sawyer quando cercava di spillargli informazioni che lui voleva tenersi dentro. «No», rispose a bassa voce. Bugia. Non insistette. Si limitò ad annuire. «Bene. Perché se l’avesse fatto sarebbe stata un’ottima ragione per non sposarlo. Non che sia un esperto, ma mi pare che si debba infondere sicurezza nel partner. Giusto?» «Giusto.» Il cameriere li interruppe con gli antipasti. «È un perfezionista. Fa parte del suo talento, suppongo. È uno dei chirurghi più apprezzati di New York. Non si può biasimarlo per il suo costante desiderio di migliorarsi e perché spinge gli altri a fare lo stesso. Guarda te con il Purity. Ce l’hai messa tutta per far funzionare l’hotel di Manhattan. Hai persino imparato a giocare a golf.» «Grazie a Nate.» Aveva conosciuto Nate Dunkle in campo quando cercava disperatamente d’imparare a giocare per accaparrarsi un cliente importante. Pur non conoscendolo, Nate gli aveva dato lezioni private e in tempo record gli aveva insegnato quanto bastava per concludere l’affare. Ora stava insieme all’amica di Gen, Kennedy. «Chi avrebbe mai detto che mi sarei divertito a colpire una palla sull’erba per farla entrare in un buco? Ho sempre preso in giro i golfisti e adesso sono uno di loro. E hai ragione, anch’io sono un perfezionista, voglio riuscire in quello che faccio e non accetto il fallimento. Non c’è niente di male in questo, purché non s’infranga la regola fondamentale.» «Quale regola?» Tenne lo sguardo sul piatto per non metterla a disagio. «Non ferire gli altri.» «Non credo fosse sua intenzione.» «Le intenzioni sono nobili, ma se fai del male a qualcuno non basta dire che non era tua intenzione per renderlo accettabile.» Il cameriere venne a ritirare i piatti, riempì i bicchieri d’acqua e se ne andò. La tensione tra loro aumentò. Se accusava David, lei lo difendeva, perché il senso di colpa la stava divorando. Quindi sarebbe stato al gioco, sperando che arrivasse alla verità da sola. «Sono una stronza egoista, Wolfe.» «Perché? Perché hai seguito l’istinto evitando di commettere l’errore più grosso della tua vita?» «No. Perché oggi mi sono divertita.» La guardò negli occhi. Erano pieni di emozioni diverse, rabbia, tristezza, vergogna, frustrazione. Stava seduta rigida, come per paura che se si fosse lasciata andare non sarebbe più riuscita a tornare indietro. Aveva ragione a sentirsi così. Lui sapeva fin troppo bene che indietro non si tornava. «Quando è stata l’ultima volta che ti sei veramente divertita?» La desolazione sul suo viso gli spezzò il cuore. «Non me lo ricordo. Ma non è un buon motivo per mollare il fidanzato all’altare.» «Forse no. Il che significa che c’è un motivo più importante che non hai ancora individuato.» Il cameriere portò gli altri piatti. L’impressionante pezzo di Angus era al sangue, bagnato con il brandy e steso sopra un letto di ostriche fritte con una spruzzata di pepe nero. Per un attimo dimenticarono i discorsi seri. «È un’esagerazione», commentò lei, deliziata. «Concordo. Ti avviso che dovrai portarmi fuori tu da qui.» «Nessun problema.» «Bene.» Consumarono la carne in silenzio. Gen era l’unica donna, a parte i familiari, con cui si sentiva a suo agio quando mangiava. Ancora non sapeva perché. Quando portava a cena le sue conquiste non era mai abbastanza sciolto per darci dentro, come se dovesse recitare un ruolo e, rivelando troppo di sé, rischiasse di essere scoperto. Forse la cosa risaliva agli anni trascorsi in Italia con la madre di Julietta, mamma Conte. Diceva sempre che il cibo è come i sentimenti. Ci nutrono entrambi, se offerti col dovuto rispetto. Provò una fitta dolorosa. Erano mesi che non andava a trovare la sua famiglia e ne sentiva la mancanza. Ma Gen era in grado di gestire conversazioni impegnative alternate a lunghi silenzi come nessun altro. Anche questo avevano in comune. «Ho riso.» Il disprezzo con cui lo disse gli fece venire voglia di consolarla, ma aveva più bisogno di risposte adesso. «Ridere è un ottimo modo per affrontare i problemi.» «Non stavo affrontando nessun problema. O non capisci o fai il finto tonto, il che mi fa solo andare in bestia. Mi sono dimenticata di David. Ho dimenticato di avergli distrutto la vita, di averlo abbandonato all’altare e di essere scappata dalla mia famiglia. Mi sono divertita. Che razza di persona sono?» Lui strinse la forchetta e tenne lo sguardo fermo. «Una persona normale. Hai fatto quello che ti sentivi di fare in quel momento. Non ti viene il dubbio che ci fosse qualcosa che non andava? Non hai pensato che eri così triste con lui che solo allontanarti un attimo ti ha resa felice? Come ha fatto a rovinarti in questo modo?» «Forse sono io che ho qualcosa che non va.» «Naa, io sono incasinato, non tu. Tra noi due sei sempre stata tu quella equilibrata, e quanto a David, credo gli piacesse l’idea di chi poteva farti diventare. Non chi sei. Non la donna seduta di fronte a me.» Spalancò gli occhi. «Migliorare è una buona cosa. Voleva rendermi una persona migliore.» «Secondo quali standard? I suoi?» Si chinò in avanti con la forchetta puntata verso l’alto. «Non c’è meglio e peggio quando decidi di sposare qualcuno. Ci sei solo tu con i tuoi problemi, la tua storia e i tuoi difetti. Se voleva una principessa doveva andare a Disneyworld. Finisci la bistecca.» Lo guardò per un po’. Wolfe aspettò uno dei suoi scatti di rabbia, delle sue frecciate, o anche un fiume di lacrime. Invece Gen afferrò la forchetta e riprese a mangiare. Ripulì il piatto, cercando di trattenersi dal leccarlo e chiedendosi come avesse fatto Wolfe a centrare il vero problema a tempo di record. La pratica, forse. La mancanza di filtri. Il nome gli calzava a pennello. Pur essendo educato e un perfetto uomo d’affari, c’era un che di selvaggio nascosto sotto i suoi abiti eleganti. Come se a porte chiuse le regole non valessero. Sentì un brivido lungo la schiena. Per questo non aveva trovato qualcuno con cui sistemarsi? Perché nessuno avrebbe accettato il suo cosiddetto bagaglio? Anche se si vantava di essere un dongiovanni, dal modo in cui parlava della sua famiglia era evidente che una relazione stabile gli avrebbe fatto bene. Kate lo pregava da tempo di iscriversi a Kinnections ma lui la trovava una cosa ridicola. Forse Gen doveva insistere. Meritava di essere felice. Il pensiero che non sarebbe più stato suo le tolse il fiato, ma la ritenne una reazione più che legittima. Sicuramente a nessuna avrebbe fatto piacere che lui uscisse con la sua migliore amica. Alle donne non piacevano queste cose. Era normale provare un po’ di gelosia all’idea di essere rimpiazzata. Per Wolfe era stato lo stesso con David? Il pensiero la fece trasalire. Passando al vaglio l’ultimo anno, si accorse di come pian piano aveva iniziato ad allontanarsi dalle persone più importanti della sua vita. Quando voleva andare a trovare le sue sorelle, David le suggeriva di fare qualcosa loro due, per stare un po’ in pace, da soli. Ogni volta che pensava di passare da Mugs dopo il lavoro, lui la chiamava chiedendole di coprire un altro turno, o le faceva notare con gentilezza che era stata un po’ lenta nel giro di visite e forse aveva bisogno di dormire un po’ di più. Negli ultimi tempi usciva solo con lui o con gente dell’ospedale, e tra lei e le persone che amava si era cominciata a creare una leggera distanza. Non rispondeva quasi più neppure ai messaggi di Wolfe. David le controllava sempre il telefono per assicurarsi che nessuno la chiamasse dall’ospedale disturbandola. Aveva provato a spiegargli che il cellulare era un bene personale ma lui se l’era presa così tanto, avanzando il dubbio che lei nascondesse qualcosa, che aveva lasciato perdere. I messaggi che Wolfe le scriveva con regolarità lo facevano persino dubitare della loro relazione. Del resto, se il suo migliore amico era un altro e non il suo futuro marito, che probabilità avevano di far funzionare un matrimonio? In quel momento le era sembrato un ragionamento sensato. Giusto? Ciononostante, a Wolfe non aveva detto nulla. Aveva semplicemente smesso di rispondere finché le loro comunicazioni si erano ridotte al lumicino. Si sentì confusa. Non sapeva più cos’era giusto e cosa no. Oggi era stato fantastico. Non ricordava più quanto fosse divertente prendere una giornata come veniva. Conoscere gente nuova senza preoccuparsi di dare l’impressione di flirtare o di mandare messaggi sbagliati. Fare cose stupide senza essere educatamente ripresa. Era quasi come essere fuggita dalla prigione. Era questo David per lei? Una prigione? Non aveva mai fatto niente per ferirla. Non l’aveva mai picchiata. Mai. Era sempre paziente, le ripeteva ogni giorno che la amava, che viveva per lei, e faceva di tutto per assicurarsi che la loro fosse una relazione perfetta. «Gen?» Rabbrividì di nuovo. Strano, negli anni Wolfe aveva detto il suo nome milioni di volte, ma ultimamente suonava più intimo. Una specie di mugugno sexy. Faceva così con le donne che si portava a letto? Gli piaceva dominare, questo lo sapeva. Stringeva loro i polsi e sussurrava loro nell’orecchio mentre le sbatteva, portandole a un punto in cui nient’altro importava tranne l’orgasmo? «Sei diventata rossa.» Prese il bicchiere d’acqua e bevve. Stava ufficialmente uscendo di senno. Non aveva mai fantasticato su Wolfe a letto. Non... in quel modo. D’altra parte era così confusa che non c’era da stupirsi di niente. Si ricompose e si sforzò di guardarlo negli occhi. «Ho caldo. Wolfe?» «Sì?» «Scusa.» Sollevò un sopracciglio. «Per cosa?» «Per averti abbandonato.» Trasalì nel vedere il suo sguardo sorpreso. Una voglia improvvisa le fece stringere le cosce. «Io non... non mi sono resa conto di quello che stavo facendo. David non approvava la nostra amicizia e così ho smesso di scriverti e di rispondere ai tuoi messaggi. Mi sembrava la soluzione più semplice. Mi sono allontanata anche dalle ragazze, ma lui era fissato con te e continuava a chiedermi se... se stavamo facendo i furbi. Ogni volta che chiamavi s’arrabbiava. È per questo che ho cominciato a ignorarti.» La guardava dritto negli occhi, ascoltandola con attenzione. Come avrebbe reagito lei se Wolfe non l’avesse più chiamata perché la nuova fidanzata era gelosa? Ci sarebbe rimasta malissimo. Si sarebbe arrabbiata, offesa. Lui non se l’era mai presa e non aveva mai fatto un commento negativo su David. Tutti quegli appuntamenti mancati da Mugs e quelle telefonate mai restituite. Aveva perso un amico. «Lo capisco, cara. Davvero. Ci stavo male, devo essere onesto. Ti stavo perdendo ed era l’ultima cosa che volevo. Ma che ne sapevo, io? Non ho mai avuto un rapporto serio con qualcuno.» Gen vinse la vergogna. «Mi perdoni?» «Se mi prometti di non abbandonarmi di nuovo appena trovi un’alternativa migliore. Specialmente Ed.» Le sorrise, e lei sentì il cuore esplodere. Amava quel sorriso che gli addolciva il volto. «Mai», sussurrò. «Affare fatto.» Finirono la bistecca, poi lei spinse il piatto da parte. Era ora di introdurre l’unico argomento che non avevano ancora affrontato. «Quant’è grave la situazione?» Wolfe non finse di non capire. «Le chiamate? Stamattina ho detto a Kate e ad Alexa che ci serve altro tempo. Poi ho spento il telefono.» Fece una smorfia. «Ho lasciato tutti nei pasticci. Sono una vigliacca.» «Se tu fossi vigliacca saresti rimasta in quella chiesa e l’avresti sposato. Ripeti un’altra volta quello che hai detto e dovrò darti una lezione.» Trattenne una risata. «Brrr, che paura che mi fai.» «Posso fartela.» Si guardarono e lei inghiottì a vuoto. Intravide un lato del suo amico che non aveva mai visto. Qualcosa che la faceva sentire a disagio. E la eccitava. «Devo tornare.» «Certo che torni. Ma ti serviva tempo per capire perché sei scappata. Una cosa è certa: al rientro troverai un casino. Domande, accuse, confusione, David che cercherà di manipolarti. Se non avrai le idee chiare, rischierai di fare qualcosa di cui ti potresti pentire. Meglio tornare quando sarai pronta.» «Lo so. Non ho mai fatto niente di simile. Sono sempre stata quella che fa la cosa giusta. Mai uscita dal seminato.» «La vita è un casino. Fattene una ragione.» Lo guardò a bocca aperta e rise. «Ti manca proprio la sensibilità femminile. Ho bisogno di Kate.» «Hai bisogno di sapere la verità. Scava più a fondo, Gen. Ti starò vicino quando torniamo, ma se ti serve altro tempo, prenditelo. Diavolo, potremmo montare in macchina e andare a Lake George. Lasciarci tutto alle spalle.» Era un pensiero così deliziosamente allettante. Un’avventura alla Thelma e Louise. Più o meno. Loro non sfuggivano alla legge ma erano comunque due amici in viaggio senza meta. «Se lo facessi, probabilmente andrei all’inferno. Mi odierebbero tutti.» «Non le persone che contano.» Ci pensò. Quasi quasi... fuori dal mondo per qualche giorno, infilando un’autostrada vuota dopo l’altra, senza meta. Il suo cuore fece un salto di gioia. Okay, sarebbe andata all’inferno. Era la persona più orribile del pianeta, d’accordo. Ma si poteva fare. Guadagnare tempo, schiarirsi le idee prima di tornare nel caos. Poteva chiamare Kate e Alexa quella sera stessa e spiegare loro la situazione. Vivere qualche giorno senza doversi preoccupare di essere bella, affascinante e intelligente. Vivere e basta. Dentro di lei esplose la speranza. «Hai ragione», disse tremando per l’eccitazione. «Facciamolo. Giusto qualche giorno.» Lui sorrise. «Brava.» «Quando torniamo allo chalet chiamo a casa così nessuno si preoccupa.» Il cameriere portò il conto, si chinò a prendere i piatti e si bloccò. La osservò in volto con attenzione, come per capire dove l’avesse già vista. «Ha un viso familiare. Ci conosciamo?» Lei lo guardò accigliata. Capelli biondi, occhi scuri, una bella pelle olivastra. Un po’ più giovane di lei, ma non le sembrava di conoscerlo. «No, mi spiace, non mi pare.» Wolfe gli porse la carta di credito e lui la mise velocemente nella cartellina. «Scusi, è strano, ho questa impressione di averla vista da qualche parte. Perdoni l’intrusione.» «Nessun problema.» Gli sorrise e lo guardò allontanarsi. Wolfe sembrava divertito. «Che c’è?» «Un altro ammiratore?» Alzò gli occhi al cielo. «Falla finita. Ed era carinissimo.» «E ti faceva un filo spietato. Sai cosa continuavano a dirgli i suoi amici?» «Cosa?» «Il modo migliore per dimenticare una donna è con un’altra.» Rise. «Mi sembra di sentire Kennedy.» Il cameriere tornò, posò la ricevuta per la firma sul tavolo e s’illuminò. «Ci sono! L’ho vista sul giornale!» Le si gelò il sangue e le si seccò la bocca. «Che giornale?» «Il Saratoga Herald. Lei è la sposa fuggitiva!» Wolfe balzò in piedi, firmò velocemente la ricevuta e la prese per mano. «Tieni la bocca chiusa, amico, o farò altro oltre a non darti la mancia. Intesi?» Il cameriere trattenne il fiato, accorgendosi dello sbaglio, e annuì. «Scusi, signore. Scusi tanto.» Wolfe non rispose. Lei si sentiva pesante come un carro armato, così pesante da non riuscire a muoversi. Non che dovesse. Lui le afferrò il gomito e la trascinò fuori, furente, finché l’aria calda la investì e d’un tratto le mancò l’ossigeno. «Piegati in avanti. Mani sulle ginocchia.» Si piegò cercando di respirare, di calmare il cuore impazzito mentre ripensava alle parole del cameriere. Sposa fuggitiva. Sul giornale. Oh mio Dio. Provò a parlare, non ci riuscì, ci riprovò. «Devo vederlo.» «Gen...» «Devo vederlo. Subito.» «Aspetta qui.» Lo attese sul marciapiede buio. Una coppia le passò davanti ed entrò nel ristorante. Gen si strinse nelle braccia finché lui tornò col giornale. Non le disse niente, ma capì dallo sguardo preoccupato che la situazione era seria. Aprì il giornale e lesse il titolo. Chirurgo abbandonato all’altare. C’era una foto del loro fidanzamento. Lei era radiosa nel suo abito di lino bianco, riccioli raccolti in una crocchia elaborata, la mano in quella di David che la guardava adorante. La foto accanto raffigurava la chiesa gremita, rose che riempivano ogni spazio, candelabri luccicanti e suo padre con una mano sulla spalla di David, che sorrideva emozionato. L’ultima foto firmava la sua condanna. Il volto distrutto di David che usciva dalla chiesa assalito dai flash dei fotografi e dai microfoni dei giornalisti. Aveva lo sguardo vacuo, come se gli avesse strappato il cuore e gliel’avesse calpestato. Il mondo prese a girare. Gen si costrinse a saltare l’articolo, ma qualche frase le balzò beffarda all’occhio. ‘Rinomato chirurgo abbandonato all’altare da un suo medico interno.’ ‘La famiglia addolorata rifiuta di parlare coi giornalisti.’ ‘Sposa scappa dalla finestra con l’aiuto di un presunto amico. Un amante?’ Si sentì sprofondare. Le speranze per il futuro si ridussero in cenere, lasciando macchie scure e un gusto amaro che le ostruì la gola. Aveva fatto l’inimmaginabile, ed era venuto il momento di pagare. Gen alzò lo sguardo. La voce suonò gelida alle sue stesse orecchie. «Portami a casa.» Lui serrò la mascella. «Sei sicura? Possiamo ancora seguire il nostro piano. Saliamo in macchina e andiamo.» «Non più. È finita, Wolfe. Portami a casa.» Wolfe imprecò sottovoce. Poi annuì. Lei salì in auto col giornale ancora stretto in mano e si allontanarono veloci nella notte. L’aveva persa. Wolfe si girò verso di lei. Guardava fuori dal finestrino, inespressiva, completamente assente. Non rimpiangeva soltanto la sua presenza. In appena tre giorni aveva ritrovato la gioia di stare con lei, l’amicizia e le risate. Con Genevieve MacKenzie, lui era un uomo diverso. Rimpiangeva anche questo. Non cercò di riportarla al presente. C’era tempo. Lasciò la musica ad alto volume e guidò verso casa. Aveva fatto le dovute telefonate, mettendosi d’accordo coi genitori per vedersi a casa loro al mattino presto. Fosse successo prima l’avrebbero aspettata in piedi, quindi era contento di avere ancora qualche ora solo con lei. David grazie a Dio non aveva risposto e lei gli aveva lasciato un messaggio vocale impacciato. L’istinto gli diceva che quell’uomo aveva qualcosa in mente, oltre a recitare la parte del fidanzato affranto. L’unica cosa che poteva fare era tenere d’occhio Gen e sostenerla. Passò l’insegna di benvenuto a Verily e percorse Main Street fino alla casetta a un solo piano. Kennedy e Nate l’avevano presa in affitto per un po’ ma di recente avevano deciso di trasferirsi in una casa più grande, quindi per fortuna era vuota. Anche se Wolfe non si sarebbe sorpreso di trovare Kate ad aspettarli sulla porta. Era una iena quando si trattava di proteggere la sua migliore amica. Si fermò davanti alla sua allegra casetta gialla, sotto la luce tremolante del lampione. «Sei pronta, cara?» Lei annuì e scese dall’auto. Lui prese le borse nel bagagliaio e la seguì fino all’ingresso. Si era fermata sulla porta aperta. Lui sbirciò oltre la sua spalla. La casa era vuota. Era ancora arredata, certo, coi divani azzurri e i cuscini colorati, i vivaci acquarelli alle pareti e il tavolo di pino massiccio che gli ricordava la cucina di mamma Conte. La scala a chiocciola in metallo che portava alla piccola mansarda aggiungeva un tocco pittoresco all’interno. Ma il silenzio e il sottile strato di polvere che copriva ogni superficie mettevano malinconia. Era vuota da pochi mesi, eppure era triste, come se avesse bisogno di qualcuno che vi abitasse per essere allegra. «Non avrei mai pensato di tornare qui», disse debolmente. «Non ho niente, né i vestiti né il laptop. Neanche lo spazzolino.» La spinse con dolcezza oltre l’ingresso e chiuse la porta. «Possiamo rimediare domattina. Anch’io non profumo proprio di menta. Domani vado in città presto a prendere quello che ti serve.» «David voleva che la vendessi ma non ho voluto. Non so perché.» Lui non lo disse perché ora lo sapevano entrambi. Gen sentiva che tra loro qualcosa non andava e se avesse venduto la casa non avrebbe avuto un posto dove andare in caso d’emergenza. Wolfe rovistò negli armadi e trovò lenzuola e coperte. Fece velocemente il letto mentre lei lo guardava immobile, così stanca che quasi oscillava sulle gambe. La prese per mano, la fece sedere sul materasso e s’inginocchiò davanti a lei. Le slacciò le scarpe da ginnastica, gliele sfilò dando una breve stretta a ogni piede e la fece stendere sotto la trapunta. La fiducia infantile dipinta sul suo volto gli strinse il cuore e provò un forte senso di possesso. Sarebbe andato contro tutti per proteggerla. L’aveva già lasciata andare una volta con un altro, ed era tornata col cuore spezzato. D’ora in poi, chiunque altro sarebbe dovuto passare prima da lui. Wolfe non volle soffermarsi sulle ragioni di quel pensiero. Le tolse l’elastico dai capelli e le liberò la fronte dai riccioli indisciplinati. «Dormi, piccola.» Fece per andarsene ma lei lo fermò. «Resti qui con me?» sussurrò. «Scusa se mi comporto come una bambina ma... ho paura.» Batteva forsennatamente le palpebre e le tremava il labbro inferiore. Diavolo. Non gli piaceva dormire con gli altri a causa degli incubi, ma non poteva lasciarla sola. Non in questo stato. Annuì. Si sfilò le scarpe e si stese sopra la trapunta, avvicinandola a sé. Il suo profumo dolce di margherite e di sapone lo investì. Fresco. Pulito. Completamente diverso da David. Si mise comoda contro di lui e si rilassò. La teneva stretta in vita, scaldandosi al calore del suo corpo che bruciava come un falò. Imprecando sottovoce, si concentrò sul respiro cercando di non eccitarsi. Aveva baciato tante donne e ancora di più ne aveva portate a letto. Eppure non avrebbe mai dimenticato la passione genuina di quell’unico bacio. Ma Gen era la sua amica. La sua confidente. Il suo tutto. Non avrebbe mai rovinato la loro amicizia col sesso. Il sonno venne lentamente. Il baccano era forte quella sera. Vincent alzò il volume rammaricandosi di non avere quelle bellissime cuffie che annullavano i rumori circostanti. Gli auricolari del suo iPod usato di solito bastavano, ma non stavolta. Dalla porta sottile sentiva gemiti, tonfi, mobili che scricchiolavano. Erano in due stasera. Ma aveva imparato la lezione l’ultima volta. Non doveva farsi vedere. Anche se la cosa andava avanti per ore. Avrebbe voluto scappare nel bosco ma faceva troppo freddo e l’avevano colto di sorpresa. Di solito venivano più tardi, ma oggi ne aveva trovato uno al ritorno da scuola. Stava mangiando i suoi cereali e l’aveva guardato in quel modo che ormai conosceva bene. La madre era peggiorata. Niente più polvere bianca. Si bucava, adesso. Aveva uno sguardo da pazza quando aveva bisogno della dose e gli uomini sapevano come approfittarne. Non sapeva quanto tempo gli restava prima di essere costretto alla fuga. Finora era riuscito a mettere via poco più di cento dollari. Non ci avrebbe fatto molta strada. La madre gli aveva raccontato storie orribili sull’affidamento. Gli diceva sempre di mantenere il segreto o non l’avrebbe più vista. Non aveva nessun altro che si prendesse cura di lei. Doveva restare. Da grande li avrebbe sbattuti fuori, ma adesso poteva solo aspettare. Rabbrividì per le urla. Fino a quando finalmente sentì i loro passi in cucina. «Avevi detto che se lo facevo me ne davi un po’», mugolava sua madre. «L’ho fatto. Dammela.» «Avida puttana. Decido io quando.» Si ruppe qualcosa contro il muro. «La notte è ancora lunga. Abbiamo altre cose da fare.» «Solo un po’. Ti prego.» Risate basse. «Fai la brava e avrai quello che vuoi. Dov’è tuo figlio?» «Da un amico.» «È sempre nello stanzino? Facciamolo uscire che ci divertiamo.» Il cuore di Vincent balzò in gola ma lui restò completamente immobile. Sentì dei pugni alla porta. La serratura sbatacchiò ma tenne. «Ehi piccolo vieni a giocare. Ho una bella cosa per te.» «Ti ho detto che non è qui. Lascialo in pace, hai me.» Qualche altro minuto di minacce, poi il rumore degli aghi sul tavolo. «Tic toc ragazzino. Prima o poi dovrai comportarti da uomo e cominciare ad aiutare tua madre. Hai capito?» La madre disse qualcosa che lui non comprese. Poi finalmente scese il silenzio mentre si facevano e tornavano in camera da letto. I rumori ricominciarono. Vincent si concentrò sulla musica, dondolandosi. Avrebbe voluto essere morto. Aveva undici anni. Capitolo 10 Gen schizzò fuori dal letto. Qualcuno bussava forsennatamente alla porta. E se fossero stati i giornalisti? Wolfe non era più a letto. Dov’era? Era andato in città? Cos’avrebbe fatto ora? Andò in silenzio in soggiorno, e, stando attenta a non farsi vedere, guardò fuori dalla finestra. Kate, Kennedy e Arilyn stavano sbirciando dentro. «Tesoro siamo noi, apri!» Aprì la porta e fu inghiottita dai loro abbracci. I muri che aveva innalzato negli ultimi giorni crollarono. Scoppiò in lacrime. Si lasciò andare, piangendo e singhiozzando mentre la facevano sedere sul divano. Kate la stringeva forte, Arylin le accarezzava un ginocchio e le sussurrava parole di conforto, e Kennedy girava per casa imprecando come una forsennata. «Che faccia di merda! Tutta quella scena davanti ai giornalisti per farsi compartire! Lo sapevo, Gen, non mi sono mai fidata di lui. Non ci si può fidare di uno coi denti così bianchi.» Sentì il rumore metallico del bollitore sul lavandino e dell’acqua che scorreva. «Scappare dalla finestra della chiesa è la mossa migliore che tu abbia mai fatto.» Gen inspirò con forza. «Ma l’ho mollato all’altare! Mi amava, e io sono proprio svalvolata, ho avuto paura e adesso tutti mi odiano e chissà cosa succederà. Non so perché l’ho fatto.» Kate la prese per le spalle. La sua voce ferma calmò subito l’ondata di panico che stava per travolgerla. «Sì che lo sai. È ora di guardare in faccia la realtà, tesoro. Tu non volevi sposare David. Secondo me era da un bel po’ di tempo che volevi scappare.» «Negli ultimi sei mesi sei cambiata», disse Arylin. «Ce ne siamo accorte tutte, ma non sapevamo cosa fare. Ci evitavi, eri sempre stressata, avevi perso la tua allegria.» Kennedy batté una tazza sul banco. «Bastardo testa di cazzo. Me lo sentivo, che ti stava manipolando. Ogni volta che programmavamo qualcosa chiamavi con una scusa. Hai cominciato a sparire. Ed eri sempre nervosa. Mi fa così incazzare non averti parlato prima. Avrei dovuto capirlo subito che ti maltrattava.» Le passò davanti agli occhi l’ultimo anno, e la voce interiore che aveva messo a tacere le parlò urlando. Esatto. Ti diceva come vestirti. Come comportarti. Come compiacerlo. Ricordi il suo sguardo gelido quando non era soddisfatto? La rabbia tenuta a freno a stento se qualcosa non era come diceva lui? «Non mi ha mai picchiata.» Lo disse con un filo di voce, consapevole del fatto che era la sua ultima difesa. La notte, quando pensava di fuggire e non sapeva come fare, quando la paura di lui si faceva più forte, si ripeteva sempre questo. Come se fosse una cosa da ammirare. Non l’aveva mai picchiata. Era un buon segno, no? Dimostrava che era una pazzia credere che lui le stesse divorando l’anima, lentamente, pezzo per pezzo, finché di lei non sarebbe restato altro che una parvenza di quella che era prima. Arilyn sorrise. I capelli rossi che le splendevano intorno al viso la facevano somigliare a un angelo. «Certo che no. Se l’avesse fatto ti avrebbe dato un buon motivo per andartene. Di rado un manipolatore ricorre alla violenza fisica. È una violenza psicologica, la sua. Pian piano prende il controllo di tutto, riempie ogni tuo spazio, ti fa il vuoto intorno, finché non ti resta più nessuno a parte lui.» La verità la colpì con forza. Mio Dio, quante volte aveva sperato che la picchiasse? Arilyn aveva ragione. In quel caso se ne sarebbe andata senza voltarsi indietro. Invece nascondeva la manipolazione dietro l’amore, e lei non sapeva più distinguere la realtà dalla finzione. Kennedy le portò una tazza di tè. Gen la strinse tra le mani e ne bevve un sorso. Un meraviglioso calore le scaldò il ventre. «Ti rendeva nervosa? Ti faceva dubitare delle tue decisioni? Ti controllava il cellulare e tutte le comunicazioni? Se sbagliavi qualcosa aveva dei modi subdoli di punirti?» Kennedy s’inginocchiò davanti a lei e la guardò coi suoi occhi color ambra. Altri flashback. La volta in cui aveva invitato un amico e lei aveva bruciato la cena. Ci aveva scherzato sopra, ma quando erano rimasti soli non le aveva rivolto la parola per due giorni. E lei non aveva più sbagliato a cucinare. La volta in cui non aveva voluto fare sesso. Si era mostrato deluso, le aveva fatto battutine acide dandole dell’egoista e aveva flirtato con altre donne in ospedale avvertendola che mancando di soddisfare i suoi bisogni lo spingeva tra le braccia di un’altra. Da allora non aveva più detto di no al sesso. «Sì. Tutto quello che hai detto. Non so più chi sono senza di lui.» Kate le strinse le spalle. «Sei tu, ma diversa. Non restiamo mai le stesse dopo una relazione, o dopo una tragedia, ed è normale che sia così.» Si sentì invadere dal disgusto. Era sempre stata forte e indipendente. Almeno così credeva. «Non pensavo di essere tanto debole», mormorò. «Leggevo romanzi con queste donne stupide che si facevano maltrattare dal protagonista ma non si ribellavano perché ci stavano bene a letto... Come sono arrivata fin qui? Non potevo dire di no e basta? Andarmene prima di combinare questo pasticcio? Ho così bisogno di un uomo accanto?» Kennedy sbuffò. «Diavolo, no. Ascolta, la maggior parte dei libri che leggo sono storie d’amore e quasi tutte raccontano di donne che salvano il culo agli uomini così vendono più copie. Non siamo perfette, tesoro. Facciamo del nostro meglio. Sei stata forte a scappare prima di sposarti e a seguire il tuo istinto. Ora devi solo andare avanti.» Le sue parole la colpirono nel profondo. Sì. Era proprio così. Autopunirsi per gli errori commessi non li avrebbe comunque cancellati. Doveva riprendere in mano la sua vita e capire cosa voleva davvero la vera Genevieve. Non cosa voleva la donna che aveva creato David. «Vi voglio bene, ragazze.» Tirò su col naso. «Sul serio.» «Anche noi ti vogliamo bene», rispose Kate dandole un altro abbraccio. «Ero così preoccupata. Ho minacciato Wolfe di ammazzarlo se non si fosse preso cura di te.» Gen fece una mezza risata e si asciugò le lacrime. «No, mi ha salvata. Mi ha dato il tempo di accorgermi di quanto fossi diversa da David. Siamo tornati dopo aver visto i titoli sul quotidiano. I giornalisti vi hanno importunato?» Kate minimizzò. «Li abbiamo sistemati. La maggior parte di loro ti sta cercando a Nashville.» «Cosa?» «Kate li ha messi su una falsa pista e Alexa le ha retto il gioco», spiegò Kennedy. «Ha dichiarato di aver ricevuto un tuo messaggio in cui dicevi di essere diretta in Tennessee. Ti staranno ancora aspettando.» Le sfuggì una risata. «Grazie. Così ho un po’ più di tempo.» «Dov’eravate tu e Wolfe?» domandò Arilyn. «Sawyer ha uno chalet a Saratoga. È stato bello. Avevo dimenticato cosa significava divertirsi senza preoccuparmi di fare qualcosa di sbagliato. Mi ha portato alle corse dei cavalli. Ho vinto un sacco di soldi. Kennedy le batté il cinque. «Bello. Credo che tu gli sia mancata.» «Sì, David non approvava la nostra amicizia. Mi sono resa conto che ormai lo evitavo... quindi questo weekend abbiamo parlato molto.» Kennedy e Kate si scambiarono un’occhiata. «Parlato e basta?» domandò Ken. Il ricordo del bacio la fulminò. La sua bocca calda, le sue labbra soffici, la sua lingua irruente. «Certo. Sono appena scappata dal mio matrimonio. Non sono il tipo da andare a letto col mio migliore amico. Non c’è niente del genere tra di noi.» «Così hai sempre detto», commentò Kate. «Perché è la verità.» Arilyn si batté l’indice sulle labbra. «Mmm.» «Ragazze! Non c’è niente tra me e Wolfe. Non c’è mai stato niente. E non ci sarà mai niente. Chiaro?» Si aprì la porta. «Piccola, ti ho portato la colazione. È ora di alzarsi. Oh! merda.» Restò fermo un attimo a guardare il gruppo di ragazze. Poi fece spallucce e appoggiò le borse della spesa sul tavolo. «Salve, ragazze. Kate, mi sorprende che tu abbia aspettato fino a stamattina. Ero convinto di trovarti di guardia alla porta ieri sera.» Kate incrociò le braccia e lo guardò di traverso. «Hai spento il telefono. Sono molto seccata.» Wolfe sorrise e cominciò a sistemare la spesa. L’odore di uova e bacon si sparse nella stanza. «Quando sei in modalità protezione fai paura. Ho pensato io a lei. Giusto, Gen?» Quando si era svegliata, nel cuore della notte, aveva la testa sul suo petto e la coscia di lui era pesantemente appoggiata sulle sue. Si era sentita confortata dal battito del suo cuore e dal delizioso profumo maschile della sua pelle e del cotone. Avrebbe dovuto staccarsi da lui ma stava bene, si sentiva così sicura che si era soltanto rimessa a dormire. «Giusto.» «Sei arrivato adesso, Wolfe?» domandò Kate. Oh-oh. «Ehm, lui...» «Naa, abbiamo dormito insieme stanotte.» Merda. Arilyn alzò la testa. «Mmm.» Kennedy sorrise. «Era ora. Sapete qual è il modo migliore per dimenticare un uomo?» Wolfe alzò gli occhi al cielo. «Sì, l’ho sentita: andare con un altro. Nate lo sa?» Kennedy arrossì. «Ho intenzione di stare con Nate ancora per molto, molto tempo.» «Ancora niente data del matrimonio, però.» Una smorfia d’insofferenza. «Ci sarà. Perché cambiare una cosa perfetta? E adesso stai fuori dalla mia vita sentimentale o non lo lascio più giocare a golf con te.» Wolfe rise. «Fidati, Ken, è lui che controlla te, non viceversa.» «Vaffanculo.» Gen scoppiò a ridere. Dio, quanto le erano mancate. Le battute, i battibecchi, gli insulti, e l’affetto sotto a tutto quanto. Come aveva fatto a resistere così a lungo senza le sue amiche? Intervenne Arilyn, da buona paciera qual era. «Cosa possiamo fare per te, Gen? Parli con David oggi?» «Non risponde, gli ho lasciato un messaggio. Ora vado a casa dei miei e parlo con loro. Ho chiesto che ci siano tutti. Meritano una spiegazione.» «Veniamo con te», disse Kate. «No. È ora di dirgli la verità sul tipo di rapporto che avevo con David. Devo farlo da sola.» Arilyn annuì. «Lo capiamo. Senti, noi siamo in Kinnections tutto il giorno. Perché non passi sul tardi e ci facciamo una serata tra amiche? Potete venire da me.» Gen sorrise. «Grazie, ma non so se me la sento. Ho bisogno di tempo per pensare. Per parlare con David. Vi faccio sapere, okay?» Kate sembrò preoccupata ma acconsentì. Wolfe distribuì il caffè, poi le ragazze se ne andarono. Strano, si sentiva già diversa. Come se una parte di lei fosse rinata, e le avesse ricordato che c’erano tante persone che la amavano così com’era e non volevano cambiarla. Non era quello l’amore, come aveva detto Wolfe? David l’aveva mai veramente amata? E lei l’aveva mai amato? «A che ora esci?» Scacciò i pensieri e mise i piatti nel lavandino. «Adesso.» Lui si lavò le mani, le asciugò e prese le chiavi. «Ti accompagno.» Gen lo guardò. «Non è necessario. È la mia famiglia. Andrà tutto bene.» «Lo so. Ma non vedo i tuoi da un po’, e poi vorrei stare con te, oggi.» Lo guardò con sospetto. «Tu e mio padre non andate d’accordo. Probabilmente ci sarà anche Izzy. E non mi serve un babysitter.» «Lo so. Vengo lo stesso.» Lo guardò con occhio torvo, nella sua cucina, rilassato, col tatuaggio che si arrampicava sulla spalla massiccia e gli accarezzava l’orecchio. Il punto luce al lobo brillava insieme al piercing sul sopracciglio e i capelli erano una massa deliziosa di riccioli scuri. Aveva già visto quell’espressione e sapeva che non avrebbe cambiato idea. Era distratto e indifferente solo in apparenza, ma dentro era inamovibile. Se aveva deciso di andare con lei, sarebbe andato con lei. Sbuffò. «Va bene. Andiamo.» Quando arrivarono a casa di sua madre, Gen fu contenta che Wolfe l’avesse accompagnata. Il vialetto era pieno di auto e si sentì subito a disagio. Aveva sempre temuto di deludere i suoi familiari? Strano, non le avevano mai messo pressione sulla carriera o altro. Non avevano particolari aspettative su di lei. Dunque era stata solo la sua ambizione? Era venuto il momento di riconoscere con coraggio i propri errori. Di ammettere che non conosceva tutte le risposte, e che forse non era la persona che avevano sempre pensato fosse. «Pronta?» Le prese la mano. «Pronta.» Salirono insieme i gradini che portavano all’ampia veranda con le grandi sedie a dondolo bianche e i tavolini. Avevano chiamato la casa Tara perché aveva avuto una storia simile a quella di Via col vento. Il padre li aveva abbandonati per seguire il richiamo della bottiglia e ricordava quanta fatica aveva fatto sua madre per mantenerla col suo stipendio insufficiente. Ripensò a quando la sentiva piangere notti intere, e alla rabbia di Izzy rivolta verso il padre. Il fratello Lance studiava medicina a quel tempo e aveva messo incinta la fidanzata. Li avevano accolti insieme al neonato, che era diventato il suo primo amato nipote. Lance aveva sposato Gina e Taylor era cresciuto lì fino a quando lui non aveva terminato gli studi. Un giorno il padre era tornato. Sobrio e deciso a riprendersi la sua famiglia. La strada per il perdono era stata lunga e nulla era stato dimenticato. Alla fine la madre l’aveva ripreso e la famiglia era guarita, ma le cicatrici erano rimaste. Izzy era cambiata in quel periodo. Era sempre stata fisicamente uguale a lei, ma molto diversa di carattere. Gen voleva seguire le regole ed essere la migliore, Izzy voleva trasgredire quelle stesse regole ed essere una ribelle. Era come se fosse troppo sensibile, se le emozioni fossero troppe da contenere, per lei. La sua caduta nella lunga spirale di dolore aveva quasi distrutto la sua famiglia di nuovo. Ripensò al giorno in cui aveva scoperto della marijuana nascosta in una vecchia borsa della palestra in fondo all’armadio. Izzy l’aveva pregata di non farne parola, dicendo che non era sua, che la teneva per un’altra persona, e supplicandola di crederle. Si chiese se le cose sarebbero state diverse se avesse taciuto. Invece aveva fatto la spia e dopo era cambiato tutto. Izzy non si era più fidata di lei e si era allontanata. Il muro che le separava adesso era troppo alto per essere scalato. Gen rimpiangeva la perdita della gemella ogni giorno. Fece un respiro profondo e aprì la porta. Si sentì avvolta dai ricordi. La splendida scala metteva in risalto i soffitti alti, i bovindi e quel fascino del Sud della casa, che accoglieva gli ospiti in un’atmosfera calda e confortevole. «Genevieve!» La madre le corse incontro, stringendola con la forza che solo le madri hanno. Maria MacKenzie era di sangue italiano e questo non significava soltanto ottimo cibo, ma anche una volontà di ferro. Era lei a tenere insieme la famiglia ed era una donna generosa e disponibile. Minuta, capelli ricci e scuri, prese subito il controllo della situazione. «Wolfe, grazie per esserti preso cura di mia figlia. Sapevo che ce l’avresti riportata.» Wolfe annuì, la baciò sulla guancia e fece un passo indietro. Poi le piombarono addosso gli altri. Alexa fu la prima. La strinse forte come una mamma orsa decisa a difendere la prole. «Ero così preoccupata», sussurrò. «Sono contenta che tu stia bene.» «Scusa», le rispose all’orecchio. «Mi spiace di avervi fatto questo.» «Ssst, vogliamo solo che tu sia al sicuro.» Poi toccò a Gina e Lance. Lance la guardò con la tipica espressione preoccupata da fratello maggiore, mentre Gina le spiegò di aver mandato Taylor a casa di un’amica per non dover rispondere alle sue mille domande sul perché la zia era scappata il giorno del matrimonio. Mentre si spostavano verso il corridoio, il suo sguardo cadde sugli ultimi due membri della famiglia. Izzy era vestita come al suo solito, pantaloncini di pelle e canotta nera attillata. L’inchiostro rosso della rosa spinata spuntava dalla curva del suo seno. Aveva gli stessi ricci indisciplinati di Gen ma li stirava, lasciandosi incorniciare il volto da ciocche lunghe e disuguali alternate di viola. Erano gemelle ma non erano mai state tanto diverse. Gen sentì una fitta dolorosa per la distanza che le divideva. Aprì le braccia. La sorella rispose all’abbraccio ma rimase rigida, come se non fosse abituata a certe esternazioni. «Hai fatto una grande uscita», osservò Izzy. «Tutto bene?» Gen trattenne una risata. «Era ora che fossi io a creare un po’ di subbuglio, in questa casa.» Il commento fece affiorare un sorriso esitante sul volto della gemella. Poi Gen guardò alle spalle di Izzy e incrociò lo sguardo del padre. «Ciao, papà.» Jim MacKenzie batté le palpebre, emozionato. «Genevieve. Ci hai fatto preoccupare.» «Lo so. Mi dispiace, papà.» Lui inghiottì a vuoto, poi si avvicinò per abbracciarla. Anche se le aveva spezzato il cuore quando era piccola, era ancora il suo cavaliere con l’armatura scintillante. Un po’ ossidata, magari. Ma era tornato dalla sua famiglia, aveva cercato la redenzione, e non le aveva più dato modo di dubitare di lui. Odiava l’idea di deluderlo, ma lui le aveva dimostrato che si poteva sbagliare, e poi rimediare. Quando girò la testa i suoi occhi azzurri si fecero di ghiaccio. «Wolfe. Cosa ci fai qui?» «Jim! È il benvenuto a casa nostra.» «Non ho detto il contrario, Maria. Ho solo chiesto perché è qui. Anzi, vorrei anche sapere come ci è finita mia figlia nella sua macchina. Gliel’hai messa in testa tu quest’idea?» Gen restò a bocca aperta. «Papà, smettila! Wolfe si è preso cura di me. Non è colpa sua. È stata una mia decisione. Sono io quella che è scappata dalla chiesa e lui era fuori. Gli ho chiesto di portarmi via.» «Che coincidenza.» «Jim, basta così», sbottò la moglie. Lui tacque. Wolfe non disse una parola. Gen non sapeva perché il padre diffidasse tanto di Wolfe. Bastava nominarlo per fargli cambiare umore e più volte l’aveva messa in guardia, dicendo di stare attenta a quel tipo, anche se era parente di Alexa e di Maggie. «Andiamo in soggiorno a parlare», propose Maria. Jim borbottò qualcosa e li seguì. La madre aveva preparato un vassoio di pasticcini, tè e caffè. Ognuno prese qualcosa da mangiare e si sedette. Che strano. Le riunioni di famiglia per discutere un problema avevano sempre riguardato Izzy. Mai lei. Wolfe si accomodò sulla sedia più lontana ma Gen sentiva la sua presenza come se le fosse accanto. Si rilassò, consapevole che i suoi avrebbero appoggiato la sua decisione. Doveva solo dir loro la verità. «Innanzitutto, mi scuso per quello che ho fatto. Non vi ho dato spiegazioni e vi ho lasciato in un casino. È che... sono andata nel panico.» «Non c’interessano le conseguenze», disse Alexa. «Ci preoccupa di più il motivo per cui sei scappata.» «Hai sentito cos’ha detto», intervenne Jim. «È andata nel panico. Non ha gestito bene il nervosismo della sposa. Si può rimediare.» Lance annuì. «Amavo Gina ma prendersi un impegno per tutta la vita non è uno scherzo.» Sorrise quando lei gli diede un pugno sulla spalla. «Ascolta, so com’è la vita in ospedale quando sei un medico interno. Orari impossibili, poco sonno, e un matrimonio da organizzare. David ci ha detto che era un bel po’ che era preoccupato per te.» La sua voce interiore levò un grido di protesta. David che parla di lei ai suoi? Cosa stava succedendo? Gen scosse la testa. «Aspettate un attimo. Cos’ha detto David di me? Non è stato un attacco di panico qualunque, papà. C’erano dei problemi tra noi ma non ho mai voluto affrontarli.» I suoi genitori si scambiarono un’occhiata. Alexa sembrava solidale e Izzy si mangiucchiava le pellicine intorno alle unghie. Ma c’era qualcosa di strano nell’aria. Jim si schiarì la gola. «Tesoro, se solo ce ne avessi parlato. Avremmo potuto aiutarti. David ha detto che avevi degli attacchi di panico, che ti chiedevi di continuo se eri abbastanza brava in ospedale e che stavi cominciando a pensare di non meritarlo come marito. È stato molto sincero con me e con tua madre riguardo ai vostri problemi, ma ti ama. Perché non prendi i farmaci?» Le si fermò il respiro. I campanelli d’allarme le risuonarono in testa con fragore. «Quali farmaci? Non so di cosa parli.» «Non c’è niente di cui vergognarsi ad assumere farmaci», disse Alexa. «Molti li prendono per l’ansia o la depressione. Ti sei fatta carico di troppe cose. David ha detto che ha provato a ridurti gli orari di lavoro ma tu non hai voluto. E che quando ti ha proposto un wedding planner hai insistito per fare tutto da sola. A volte bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto.» Le salì il sangue alla testa. «Non so cosa vi abbia detto David ma non è vero. Continuava ad aggiungermi turni in ospedale, altro che ridurli. E diceva che non ci serviva nessuno per organizzare il nostro matrimonio, che dovevamo fare tutto noi.» Alexa la guardò a occhi spalancati. «Tesoro, David ha chiamato me per chiedermi il nome di una wedding planner. Ha cercato di assumerla ma tu hai rifiutato. Ne abbiamo parlato a pranzo. Ricordi? Ti ho consigliato di contattarla e non hai voluto.» Se lo ricordava eccome. Peccato che quella mattina David le avesse detto che sarebbe stato molto deluso se lei avesse messo il matrimonio nelle mani di un’estranea. Le aveva chiesto se voleva che fosse una tata a crescere i loro figli, se era quello il tipo di moglie e di madre che aveva intenzione di essere. Come aveva potuto farsi manipolare in quel modo? Quando più tardi Alexa aveva tirato fuori il discorso, lei era ormai decisa a dimostrare che poteva fare tutto da sola. Raccontava frottole sulla loro relazione fin dall’inizio? E se sì, perché? Doveva fare in modo che i suoi capissero. «Non ho bisogno di farmaci. E lui distorce le cose. Ho cominciato a notare un bisogno di controllare e manipolare ogni aspetto della mia vita. Mi controllava il telefono, mi teneva lontana dai miei amici. Sapete quante volte volevo vedere Alexa o venire qui a cena e lui trovava una scusa per non farmi andare?» La madre aggrottò la fronte. «Davvero? Ho sempre pensato il contrario. Mi chiamava ogni settimana per sapere come stavamo, ci raccontava di te e di quello che stavate facendo. Un mesetto fa ha detto a tuo padre che stava cercando di farti uscire un po’ di casa ma tu avevi delle crisi depressive. Ricordi quando ti ho chiamato per chiederti se avevi bisogno che venissi da te? Mi hai detto di no perché avevi bisogno di dormire.» Aveva chiesto a David se poteva invitare i suoi genitori a cena. Era stata una giornata dura in ospedale e lui aveva perso la pazienza, chiedendole perché lui non le bastasse, perché non potevano gustarsi una bella cenetta insieme invece di mettere sempre in mezzo altra gente. Quando la madre aveva chiamato era così turbata che aveva inventato una scusa per non farla venire. Aveva sempre protetto David, evitando di dire la verità su di lui. Così nessuno sapeva nulla. Nemmeno lei. Se adesso era nei pasticci era solo colpa sua. Fece un respiro profondo. «Mamma, non volevo che sapessi che a David non faceva piacere avervi a cena. Quando hai chiamato ero in imbarazzo, non potevo dire no e basta, quindi ho detto che ero stanca.» «Capisco.» No, non capiva. Anzi, in un folgorante momento d’illuminazione, Gen si rese conto che i suoi non le credevano. In qualche modo, David li aveva convinti che era lui il buono e lei quella che aveva bisogno di aiuto. «Se avevi questi problemi perché sei rimasta con lui? Hai fatto una grande festa di fidanzamento. Hai avuto tutto il tempo per dirci dei tuoi dubbi su David», osservò il padre. «Sapevo che c’era qualcosa che non andava, ma non volevo ammetterlo. Avevo paura. Vivevamo insieme, è il mio capo, mi sentivo in trappola.» «In trappola? Ti minacciava?» domandò Jim. «No. Ma credo che sia un manipolatore, papà.» Lance si chinò in avanti. «Ti ha picchiata? Lo uccido, quel figlio di puttana.» «No, non mi ha mai picchiata.» Scese il silenzio. Gina chinò la testa. Alexa aveva la fronte aggrottata come se stesse cercando di risolvere un rebus. Izzy si concentrò sulle sue unghie, come se avesse paura di dire la sua. I genitori sembravano confusi. Gen incrociò lo sguardo di Wolfe. Forza. Lui le credeva. Lui sapeva. Ma il problema era suo, la famiglia era la sua. Doveva riuscire a far vedere loro la verità. Gen aprì la bocca per parlare. Suonò il campanello. Jim si alzò. «Bene. Dobbiamo arrivare in fondo a questa storia.» «Papà, chi è?» Lui strinse la mascella. «David. Voleva disperatamente vederti. È ridotto a uno straccio. Da quando sei andata via non ha fatto che chiedersi cosa può aver sbagliato. Ti ama e gli devi una spiegazione.» Un’ondata di panico. Non ebbe il tempo di radunare i pensieri e prepararsi al confronto. D’un tratto David era davanti a lei e la fissava. Restò di sasso, incapace di staccare gli occhi dai suoi. Si era innamorata di lui a prima vista. Bellezza divina e grandi capacità, l’aveva amato a distanza per due anni prima che lui la notasse. Dai pranzi erano passati alle cene e quando erano finiti a letto aveva avuto l’impressione di aver trovato l’anima gemella. Quanto era durata? Quel breve periodo di somma felicità, di ore passate sotto le coperte a fare l’amore, scambiare opinioni e condividere sogni. Lui era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Era stato facile ignorare i segni, la sua delusione quando faceva qualcosa che lui non approvava, il lento anteporre i suoi bisogni a quelli di lei. Il viso abbronzato metteva in risalto gli occhi verde smeraldo, e i folti capelli biondo platino facevano pensare a un’aureola che sottolineava le rughe d’espressione ai lati della bocca. Metteva soggezione anche solo vederlo entrare in una stanza. Cercò di spiccicare qualche parola ma lui fu più veloce. La prese tra le braccia e la baciò. Poi le cinse la vita con le mani e le accarezzò i capelli, sussurrandole parole d’amore all’orecchio. Quanta tenerezza e affetto. Oh, come adorava questo lato di lui, l’amante dolcissimo che la faceva sentire realizzata con la sua approvazione. Ma bastava un niente per farlo cambiare, per essere punita con parole sferzanti e sguardi glaciali. Gen cercò di staccarsi ma lui la tenne stretta. «Mi dispiace, dolcezza», continuava a ripetere. «È colpa mia. Ho insistito troppo, eri preoccupata e non ti ho ascoltata. Perdonami, amore mio.» Era nauseata. Gli puntò le mani sul petto e spinse con tutta la sua forza, riuscendo finalmente ad allontanarlo da sé. Il dolore sul suo volto la ferì, e la sorpresa della madre per il suo rifiuto la spinse a chiedersi se David non fosse un bravo ragazzo, in realtà, e se non dovesse dargli un’altra possibilità. «Mi dispiace. Non era mia intenzione lasciarti in questo modo. Non ho scusanti.» La voce si ruppe. «Non mi perdonerò mai d’averti costretto ad affrontare il pasticcio che ho lasciato.» «Io ti perdono, Genevieve. Non voglio perderti, voglio che torni con me.» In quel momento i rumori cessarono e il suo cuore fece un balzo. Lo amava, una volta. Credeva fosse quello giusto. Ma pian piano l’amore si era trasformato in paura, dubbio, tristezza. Non c’era un’altra possibilità per loro, perché non le piaceva la persona che lei era con David. Non sapeva nemmeno che persona fosse con lui. Percepì la speranza intorno a sé. Volevano il lieto fine. Ma lei non poteva darglielo. «David, io-io non posso. Non posso.» Jim si schiarì la gola. «Credo che dobbiate parlare in privato.» Lei annuì. Salirono le scale in silenzio e chiusero la porta della stanza degli ospiti. Il padre l’aveva trasformata in un ufficio quando la casa si era svuotata. C’erano un piccolo futon, un computer, una scrivania e un televisore. Le pareti erano color pesca. Passò il dito sulla leggera ammaccatura alla finestra, ricordandosi di quando lei e Izzy stavano giocando a Dance Off e Izzy aveva battuto la testa nel tentativo, non riuscito, di fare la verticale sulle mani. «Perché? Perché mi hai lasciato, Genevieve?» La chiamava sempre col suo nome intero. Una volta lo trovava intimo. Adesso le faceva venire in mente un insegnante più che un fidanzato. «Avrei dovuto capire prima quali erano i miei sentimenti. Sono infelice da molto tempo. Non siamo fatti per stare insieme.» Sollevò un sopracciglio. «Come fai a dirlo? Siamo sempre stati perfetti insieme, sin dall’inizio. Io ti amo. Voglio proteggerti e stare con te per sempre. Cos’è che non va?» Spostò il peso sull’altra gamba. Doveva essere forte e decisa. «Non sono più io», rispose con un filo di voce. «Ho l’impressione di fare i salti mortali per compiacerti ma non è mai abbastanza. Non sono felice. E credo non lo sia nemmeno tu. Non faccio che pensare a come cambiare me stessa per farti contento. Le persone che si amano si accettano come sono.» «Questa te l’ha detta Wolfe?» Lei sussultò. «Ti rendi conto dell’umiliazione che ho subito? Lo sanno tutti che eri con lui. Credono che tu sia scappata con l’amante. In ospedale non si può lavorare tanti sono i pettegolezzi che circolano. Gli estranei mi guardano. I giornalisti hanno assaltato casa nostra e quella dei tuoi. E non mi hai usato neppure la cortesia di una telefonata. Sei solo sparita con quel fetente.» Il fascino cominciò a sparire. Avanzò di alcuni passi, costringendola a indietreggiare fino alla parete. Emanava rabbia da tutto il corpo ma restava immobile, tenendola con le spalle al muro. Era un modo perfetto di intimidire una persona senza dire una parola. Gen cercò di mantenere la calma, ma già avvertiva il panico che le suggeriva di scappare. Perché aveva tanta paura di lui? «Non c’è mai stato niente tra noi e mai ci sarà. Era fuori quando sono uscita dalla finestra e gli ho chiesto un passaggio. È colpa mia. Non ho chiamato perché volevo riordinare le idee. Avevo paura di affrontare la verità su di noi.» Ripensò a quando Wolfe le aveva proposto di stare via qualche altro giorno. Senza meta. Se non fosse stato per quell’articolo sul giornale sarebbe partita con lui senza voltarsi indietro e forse non si sarebbe più fermata. Si sentiva in colpa, ma doveva tenere duro. «Non posso farti felice», sussurrò. «Non sono abbastanza per te.» L’aria aggressiva sparì. Il suo corpo si afflosciò. Gen rivide nei suoi occhi verdi quella tristezza e quel desiderio di cui si era innamorata. Non solo il chirurgo brillante, ma l’uomo in cerca d’amore che le aveva promesso di darle tutto. «No», disse a bassa voce. «Sono io che non sono abbastanza per te. Non lo sono mai stato.» Si passò le dita tra i capelli, alzando la testa come in cerca di risposte dal cielo. «Mi spiace per quello che ho detto di Wolfe. So che non è così tra voi, è solo che ormai straparlo. Non dormo da quando sei scappata. Continuo a pensare a cosa posso aver fatto per indurti ad aver paura di me o a dubitare dei miei sentimenti. E poi la mia più grande paura si è avverata. Mi hai lasciato.» La voce era spezzata. «Proprio come mia madre. Proprio come ho sempre temuto avresti fatto.» Gen chiuse gli occhi. Non voleva ferirlo. Magari non voleva più sposarlo, ma un tempo lo aveva amato sul serio. Il suo passato lo tormentava e lei comportandosi in quel modo glielo aveva fatto rivivere. Provò vergogna. «Mi dispiace», ripeté. «Non ci sono scusanti per quello che ho fatto. Mi ha preso il panico e sono scappata. Avevo paura di affrontarti.» «Ti ho mai picchiata, Genevieve? Ti ho mai ferita fisicamente?» Rabbrividì ma riuscì a scuotere la testa. «No. Ma mi hai ferita con le parole.» Piegò la testa da un lato, confuso. «Ti ho sempre detto che ti amo. Ti ho sempre lodata. La sola ragione per cui chiedevo di più è che vedo grandi potenzialità in te come medico e voglio che tu le metta a frutto. Se questo ti ferisce, possiamo sistemare le cose. Sarò diverso.» Ebbe paura di lasciarsi convincere. Quando era con lui, la sua forza e determinazione scomparivano in una nuvola di fumo. Lottò per restare sulle sue posizioni ed essere sincera. «Non voglio più sistemarle, David. Dobbiamo chiudere questa storia.» I suoi occhi lucidi di lacrime le spezzarono il cuore. «Ti prego», sussurrò lui. «Dammi un po’ di tempo. Dallo a noi due. Ti ho messo troppa pressione con l’organizzazione del matrimonio e sul lavoro. Pensare che ti ho ferita o che ti ho dato l’impressione di non amarti con tutto me stesso mi fa stare male. Ti supplico, dammi ancora del tempo.» «Non lo so.» Tremava. «Non penso sia una buona idea. Non siamo adatti l’uno all’altra» «Possiamo esserlo.» Allungò una mano verso di lei ma a metà strada l’abbassò. «Hai bisogno di spazio. Non insisto adesso, se non sei pronta. Passa qualche giorno con la tua famiglia. Pensaci. Ci vediamo la prossima settimana in ospedale e ripartiamo da lì.» «No, David, non voglio...» Le parole le morirono in gola quando la lasciò sola nella stanza. Cominciò a tremare e si strinse le braccia intorno al petto per scaldarsi. Perché non l’ascoltava? Perché era così debole da permettergli di approfittare del suo senso di colpa per avere quello che voleva? Non sarebbe mai tornata con lui. Lo spazio e il tempo non potevano riparare il loro rapporto, e col suo ostinato rifiuto di accettare la realtà lui non faceva che perpetuare la sofferenza. Gen scivolò sul pavimento. Basta. Gli avrebbe dato i giorni che aveva chiesto, poi sarebbe tornata in ospedale e gli avrebbe parlato. Gli avrebbe detto chiaro e tondo che tra loro era finita. Magari sul lavoro se la sarebbe cavata meglio, avrebbe dato l’impressione di avere più controllo. Le dispiaceva ferirlo, ma non c’era modo di evitarlo. Era finita. «Piccola?» L’ombra di Wolfe incombeva su di lei. Si chinò e le sollevò il mento. «È stata dura?» «Non è pronto a lasciarmi andare.» Le accarezzò la guancia. «Non ha scelta.» Annuì. «Hai ragione. Mi dispiace ferirlo, ma non ho scelta nemmeno io. Mi ha chiesto di prendermi qualche giorno per pensare e poi parliamo quando rientro in ospedale.» «Ti ha minacciata?» «No. Penso sia ancora sotto shock. Gli parlerò di nuovo e gli ripeterò quello che gli ho già detto. Magari quando vedrà che non ho cambiato idea lo accetterà.» Il volto di Wolfe s’indurì. «E se non lo facesse?» «Lo farà. Quello che non capisco è perché ha detto quelle cose ai miei.» «Per avere il controllo. Per tenerti con lui. Ti fa il vuoto intorno così ti costringe a dipendere da lui perché non hai più nessun altro.» L’aiutò ad alzarsi e la osservò in volto. «I tuoi capiranno, dagli solo il tempo. È un po’ che se li lavora di nascosto. E non sentirti troppo in colpa se soffre. Sa come ottenere da te quello che vuole. Fidati, è più bastardo di quanto pensassi.» Forse Wolfe aveva ragione. David non le avrebbe più fatto paura e non l’avrebbe più fatta dubitare di se stessa. Era ora di riprendere il controllo della propria vita. «Gli parlerò lunedì. Vado a riprendere la mia roba. E prendo qualche decisione per il futuro.» Gli affiorò un sorriso sulle labbra. «Buona idea. Se andassimo da basso a mostrare un fronte unito ai tuoi?» Allungò la mano. Quando lei la prese, la forza e il calore della sua stretta le diedero la spinta di cui aveva bisogno. «MacKenzie! Com’è che non stai facendo il giro visite?» Alzò lo sguardo dalla pila di cartelle e documenti che quasi la soffocavano. «Mi hanno messo in ufficio oggi. Sheila è sommersa e mi hanno detto di saltare il giro.» Dale la guardò con disprezzo da sopra gli occhiali. «Se ragionassi con la testa invece che col culo forse capiresti meglio le istruzioni. Servi per il giro visite.» Gen trattenne la collera. «Capito.» S’affrettò lungo il corridoio, sentendo addosso il suo sguardo pieno d’odio. Si fece forza, giurando di tenere duro per quanto brutta fosse la situazione. E ragazzi, se era brutta. Si aspettava il peggio ma la realtà aveva superato ogni aspettativa. Gen non sapeva cos’avesse raccontato David al suo staff, ma era chiaro che lei era il nuovo Rotavirus. Negli anni aveva stretto qualche amicizia in ospedale, ma quando la relazione con David era diventata nota si erano allontanati tutti. Le relazioni tra medico e studente erano mal viste, anche se la reputazione di David aveva permesso loro di superare quasi tutti gli ostacoli. Ora non più. Nessuno le rivolgeva la parola. Se erano costretti a darle istruzioni, usavano un tono aspro e gelido, come se avesse tradito loro invece di David. Sparlavano di lei, accusandola di avere una relazione con un altro uomo. Le mettevano in disordine le cartelle, le affibbiavano turni di notte e turni doppi e quando aveva provato a prendere del caffè alla mensa le avevano detto che dovevano prepararlo. Dopo un quarto d’ora d’attesa se n’era andata e un minuto dopo aveva incrociato la nuova infermiera con una tazza fumante di caffè in mano. «Stai tenendo botta?» Gen non rallentò il passo ma si rilassò leggermente nel sentire la voce di Sally Winters. Era l’unico medico interno che era ancora gentile con lei. Era una ragazza graziosa, una bellezza naturale, coi capelli color miele tirati indietro e vivaci occhi castani. Le piaceva scherzare e nel gruppo era quella che aiutava di più, accollandosi turni straordinari senza lamentarsi. «Attenzione, potresti prendere il virus.» Si accigliò, tenendo il passo. «Che virus?» «Quello che si prende parlando con me.» Sally rise. «Aspetta che si calmi la bufera, tesoro. David è come Dio, qui, e stanno tutti dalla sua parte.» Gen premette il pulsante dell’ascensore e guardò l’orologio. «Dimmi la verità, Sally. Le voci che girano su di me sono molto brutte?» Le bastò vedere la sua espressione. Si sentì sprofondare. Era umiliante che altri giudicassero la sua vita privata, e senza nemmeno sapere come stavano veramente le cose. Ma avrebbe tenuto duro, anche se la situazione fosse peggiorata. «Senti, appena i Kardashian fanno qualcosa si dimenticheranno tutti di te in un baleno.» Gen sorrise ed entrò nell’ascensore. «Grazie. È bello aveva ancora una persona con cui parlare.» «Sono una tosta. Ci vediamo dopo per il caffè.» Arricciò il naso. «A me non lo danno più.» Sally scosse la testa. «Idioti. Li raddrizzo io. Ci vediamo giù quando finisci il turno.» «Se mai lo finirò.» Le porte si chiusero e Gen si preparò a fare buon viso a cattivo gioco. Qualche ora dopo, emotivamente e fisicamente provata, riuscì a infilarsi nella saletta coi distributori automatici di bevande e per fortuna non ci trovò nessuno. Prese un bicchiere di carta e si versò dell’acqua, cercando di ricomporsi. «Genevieve?» S’irrigidì. Negli ultimi giorni non c’era stato tempo per parlare e non sapeva se aveva la forza di farlo ora. Chi avrebbe mai detto che essere detestata all’interno dell’ospedale le sarebbe costato un tale dispendio di energie? Le si avvicinò e lei si sforzò di stare dritta e guardarlo negli occhi. «David.» La guardò. «Sembri stanca.» Una risatina amara. «Lo sono.» Quel rispondergli a monosillabi lo indispettì. Strinse le labbra. «Mi dispiace che te la passi male, ma presto la tempesta si placherà e tutto tornerà come prima. Ho pensato a noi due.» «Anch’io.» «Ne sono felice.» Il suo volto era una maschera di determinazione. «Farò meglio. Faremo meglio. Ho capito dove sbagliavo e voglio cambiare. Penso anche che la pressione del matrimonio sia stata eccessiva. Stavolta fuggiamo insieme. I miei genitori ci rimarranno male, ma così non diamo nell’occhio e teniamo lontana la stampa. Possiamo anche far uscire un articolo sugli attacchi di panico e sugli effetti che possono avere sulla psiche, così smorziamo le critiche negative. E quando le acque si calmano possiamo dare una festa elegante come piace a noi.» La nausea le ghermì lo stomaco e sentì il cuore rimbombarle nelle orecchie. Non voleva capire. Scosse la testa cercando disperatamente di fargli comprendere che non potevano andare avanti così. «Non mi stai ascoltando. Ho pensato a noi e a quello che voglio. Non stiamo bene insieme e non è una cosa che si può cambiare. È finita.» Il suo shock era quasi palpabile. «No. Ci amiamo.» «Non più.» Si costrinse a sostenere il suo sguardo. «Questo tipo di amore è sbagliato. Non è sano, e io sono infelice. Non possiamo più torturarci in questo modo. Devi lasciarmi andare.» La guardò fisso, poi scosse la testa. «Tu sei mia, Genevieve. E lo sarai sempre. Potevo avere chiunque, ma ho scelto te perché in te vedo me stesso. La nostra ambizione, la nostra determinazione. Il nostro bisogno di essere migliori. Ti sbagli sull’amore. Amare è testare i limiti, non accettarli.» «David...» «Non ti permetterò di cacciarmi via solo per paura. Hai bisogno di me.» «Io non voglio sposarti. È finita.» «No. Non lo è.» Fu così veloce che non se ne accorse. La prese per la vita, la tirò a sé e la baciò. Brutalmente, con forza, in segno di possesso, senza un briciolo di attenzione. Quando provò a respingerlo si era già staccato. Ansimò, stringendo i pugni. «Non farlo mai più.» «Non dirmi quello che posso e non posso fare.» La rabbia era tornata, trasformandolo in un uomo sgradevole che non riconosceva. «Ci hai umiliati abbastanza tutti e due. Vuoi mandare all’aria tutta la tua carriera per un capriccio?» «Questo non c’entra niente con la mia carriera!» «Le condizioni mentali sono fondamentali per la carriera. Tutti sanno dei tuoi regolari attacchi di panico. La tua famiglia mi appoggia. E in ospedale ho provveduto a documentare le tue crisi nervose.» Si coprì la bocca con una mano tremante. «Di cosa stai parlando? Io non ho attacchi di panico. Sei un bugiardo.» Fece spallucce. «Sei a pezzi dal periodo del fidanzamento. L’hanno visto tutti. Ho detto all’ufficio del personale che avevi delle crisi ma che a mio parere potevi ancora lavorare, e che ho insistito perché prendessi in considerazione dei farmaci ma il matrimonio ti ha aumentato lo stress. È troppo tardi per fare marcia indietro. Siamo destinati a stare insieme. E se sarà necessario, te lo dimostrerò.» «Sei pazzo. Non la farai mai franca. Non puoi obbligarmi a provare sentimenti che non provo!» David scosse la testa. «Continui a non capire. Farò tutto ciò che è in mio potere per dimostrarti che siamo destinati a stare insieme. Nella vita ho sempre lottato per quello che volevo e l’ho sempre ottenuto. Con te sarà lo stesso.» Le voltò le spalle. «Rifletti, Genevieve. Sono il tuo capo. La tua carriera è nelle mie mani. Possiamo avere la vita che sognavamo, se solo mi dai un’altra possibilità.» «Non tornerò mai con te.» Tremava di rabbia. «Non ti permetto più di fare il prepotente con me. Oggi vengo a prendere la mia roba e faccio un reclamo su di te.» «Accomodati. Ho già parlato delle tue condizioni mentali alle persone che contano in ospedale. Ho dei testimoni che possono confermare ogni cosa. Quanto alla rua roba, ho già cambiato la serratura del mio appartamento. Alla fine tornerai da me. Questo è giusto per darti qualche motivazione in più.» «Vaffanculo.» Aggrottò le sopracciglia e si girò di nuovo verso di lei. «Sai che non approvo il linguaggio da marciapiede, Genevieve. Hai frequentato gente dei bassifondi per troppo tempo. Wolfe è un problema tra noi. Liberati di lui.» Una pausa. «Altrimenti lo farò io.» Se ne andò. Gen sentì le ginocchia molli. E per la prima volta, ebbe veramente paura. Cos’avrebbe fatto ora? Il primo impulso fu di chiamare Wolfe, ma si trattenne. Era stato così carino a sacrificare il suo lavoro per fare compagnia a lei. Da quando erano tornati si erano riavvicinati e non voleva che fosse sempre lui a salvarla. In più, era in partenza per un viaggio d’affari e non voleva distrarlo. No, avrebbe gestito la cosa da sola. David era probabilmente fuori di sé e nel giro di qualche giorno si sarebbe pentito d’averla ricattata. Non avrebbe mai fatto seguito alle sue minacce con l’ufficio del personale. Giusto? Avevano condiviso troppo perché lui potesse comportarsi in modo così orribile. Non c’era bisogno di farsi prendere dal panico. Per il momento si sarebbe concentrata sul lavoro cercando di evitarlo il più possibile. Ancora una settimana e le cose sarebbero state completamente diverse. Genevieve pregò di aver ragione. Capitolo 11 Wolfe si allontanò dalla scrivania spingendosi coi piedi e si mise a camminare avanti e indietro nel suo elegante ufficio. Aveva imparato da piccolo a seguire l’istinto. La civiltà e la società moderna avevano fatto di tutto per boicottare questa tendenza innata e primitiva dell’uomo, ma lui preferiva passare per troglodita. Seguire l’istinto gli aveva sempre reso un buon servizio, l’aveva messo in guardia dai pericoli, dalle fregature, e l’aveva aiutato a sopravvivere. Adesso l’istinto gli diceva che Gen poteva essere nei guai. Doveva lavorare fino a tardi quella sera per preparare un ciclo di conferenze di tre giorni a cui non poteva sottrarsi. Sarebbe stato impegnato in una serie ininterrotta di riunioni per discutere le strategie per allargare la clientela. I giorni di stacco con Gen gli avevano rinfrescato le idee, e aveva individuato un paio di criticità su cui occorreva intervenire. Quando si trattava di scegliere tra un buon affare e il carattere di una persona, di solito optava per il primo, ma dopo l’episodio con David, Wolfe aveva deciso di eliminare gli anelli deboli nella sua catena. Sawyer aveva messo l’anima e il cuore nel suo impero alberghiero e questo contava più dei soldi. Era il momento di fare un repulisti. Prese il cellulare e selezionò il numero di Gen. Al diavolo. La sua prima settimana in ospedale era stata un incubo. Per fortuna era riuscito a tenersi libero la sera e aveva passato molto tempo con lei. Questa settimana in teoria sarebbe andata meglio, se solo fosse riuscito a superare la strana sensazione che stesse per succedere qualcosa. Kate e le sue amiche le sarebbero state accanto, ovvio, ma era su di lui che Gen faceva affidamento. Si domandò perché questo gli facesse così piacere. Forse perché nessuno aveva mai avuto bisogno di lui? Gen era la donna più forte che conoscesse e il coraggio di mostrare le proprie debolezze gliela faceva rispettare ancora di più. Non erano in molti quelli che scavavano in profondità, provavano con tutte le forze e non trovavano scuse. Ultimamente era una lamentela unica. Tutti che piagnucolavano, povero me con mia madre morta, povero me con mio padre alcolizzato, povero me con dei fratelli stronzi. Povero me che non trovo un lavoro, che non ho soldi. Povero me, punto. Era più semplice dare la colpa dei propri problemi a qualcun altro. Gen riconosceva i suoi sbagli ed era disposta a darsi da fare per correggerli. Gli rispose la segreteria. «Ehi, sono Wolfe. Chiamami quando hai un attimo.» E chiuse. Quand’era stata l’ultima volta che si era dato pensiero per una donna che non facesse parte della sua cerchia familiare? L’unica cosa di cui si preoccupava era che raggiungessero in fretta l’orgasmo così poteva tornarsene a casa. Non era per essere freddo o crudele: era fatto così e basta. Aveva smesso molto tempo prima di provare a essere diverso. La sua voce interiore lo stuzzicò. Allora perché vuoi essere di più per lei? Taci. La voce si zittì. Non si fidava di David. Non era solo una questione di riprendersi Gen, ma di punirla per averlo lasciato e umiliato. Sapeva come ragionano i manipolatori e come le cose possono degenerare a porte chiuse. Meglio abbondare in prudenza. Un altro suo motto. Dopo le conferenze avrebbe seguito la faccenda da vicino. Adesso doveva concentrarsi sul lavoro. Gen se la sarebbe cavata benissimo. Erano amici, non amanti. Non c’era ragione di confondere le cose rischiando di complicarle. Complicarle a chi? A lei? O a te? Stavolta non mise a tacere la voce interiore. Tornò semplicemente al lavoro. Genevieve si fece largo nel caos del pronto soccorso per occuparsi del paziente successivo. I turni lì potevano essere duri, e oggi era una delle giornate peggiori. Erano a corto di letti e di personale, e da quand’era arrivata non aveva avuto un attimo di respiro. Un incubo. Gen tirò la tenda e lesse la cartella del letto tre. Susan Avery. Quarantadue anni. Sintomi: dolori addominali. Nessuna allergia. Sorrise e incrociò lo sguardo di una bionda piacente, con grandi occhi castani e il viso magro. «Salve Susan, io sono Genevieve. Abbiamo bruciori di stomaco oggi?» Susan era leggermente rossa in viso. «Non volevo venire al pronto soccorso ma i dolori non passavano e mi sono spaventata un po’.» «Naturale. Altri sintomi?» «Non mi pare. Ho preso degli antiacidi ieri sera ma non hanno avuto nessun effetto.» «Quando sono cominciati i dolori?» «Ieri sera tardi.» «Okay, prima controlliamo un paio di cose.» Le misurò di nuovo la pressione, che risultò leggermente alta. «Ha mai avuto problemi di pressione alta?» «No.» Lo scrisse sulla cartella, sapendo che a volte i valori risultavano più alti a causa dell’ansia. «Le faccio fare un’ecografia, Susan, per escludere l’addome acuto. Tra qualche minuto arriverà il tecnico, lei intanto si rilassi.» La donna cambiò posizione. «Non sono assicurata.» Lo disse alzando il mento come per proteggere il proprio orgoglio. «È un problema?» Gen odiava l’enorme afflusso di pazienti che avevano bisogno di certi esami e non potevano permetterseli. L’ospedale faceva del suo meglio ma c’erano troppe falle nel sistema e nessun modo di evitare perdite. Scosse la testa. «No. Facciamo un passo per volta, d’accordo?» «Grazie.» Gen ordinò l’esame ricevendo un’occhiataccia dal tecnico, come se non volesse essere lui a darle una mano. Poi corse dal paziente successivo e congedò altri due pazienti mentre in tasca il cellulare vibrava con insistenza. Lo tirò fuori velocemente e sullo schermo vide il numero di Wolfe. Ascoltò il suo breve messaggio destreggiandosi con le cartelle in mano e sul volto le apparve un sorriso. Non gli aveva detto della conversazione con David, e negli ultimi giorni le acque sembravano essersi calmate. La trattavano ancora come un’appestata, ma David le stava alla larga. Mandò un veloce sms dicendo che stava bene e che doveva lavorare fino a tardi. «Dottoressa MacKenzie, a quanto pare pensa di essere ancora in vacanza invece che in un pronto soccorso sovraffollato. Se ha il tempo di chattare al telefono forse non sta facendo il suo lavoro.» S’irrigidì e rimise in fretta il telefono in tasca. Il dottor Tyler Ward era il capo del pronto soccorso e un vero figlio di puttana, nonché amico di David. «Mi scusi.» Inventare una scusa avrebbe solo peggiorato la situazione. Lui abbassò le sopracciglia con disprezzo e la guardò dall’alto in basso. «Ci serve il letto tre per i nuovi arrivi. Com’è la situazione?» «Sto aspettando i risultati dell’ecografia, signore.» «Velocizzare.» «Sì, signore.» Già immaginava che il tecnico avesse sepolto la sua richiesta in coda alle altre, quindi tornò da lui. L’esame diede esito negativo per l’addome acuto. Buon segno. Ma aveva il sospetto che ci fosse dell’altro. Tornò da Susan. «Ci sono i risultati?» domandò la donna. «Sì, dall’ecografia non risulta nulla.» «Bene, no? Forse dovrei solo cambiare antiacidi e dormirci sopra», provò a scherzare, chiaramente a disagio. «Voglio controllare un paio di altre cose.» «Certo.» Gen le riprovò la pressione. Mmm. Ancora alta, e stavolta non era l’ansia. Facendole una visita generale, notò che aveva la pelle sudata e attaccaticcia e le caviglie gonfie. Quante volte un problema cardiaco veniva erroneamente diagnosticato come indigestione? «Ha qualche problema a casa?» domandò Gen distrattamente, auscultandole di nuovo il cuore. «Un po’ di stress. Sto organizzando una festa di matrimonio per mia figlia e ci vuole un sacco di tempo. Sul lavoro ho avuto una promozione e sono contenta ma sto lavorando spesso fino a tardi.» «Congratulazioni per tutte e due le cose. Prima di mandarla a casa vorrei fare un ultimo controllo per escludere ogni possibilità. Mi scusi un momento.» Gen prese la cartella. Senza assicurazione e con l’ecografia negativa, aveva bisogno dell’approvazione per fare il test degli enzimi. Raggiunse il dottor Ward che stava urlando contro un’infermiera per la sola colpa di esistere sul suo stesso pianeta. «Mi serve il letto tre.» «Lo so. Dottor Ward, vorrei controllare gli enzimi cardiaci alla paziente.» «Perché?» «Ha dolori all’addome e l’ecografia è pulita.» «Allora perché diavolo vuole fare altre analisi? La mandi a casa.» «Credo che il problema sia il cuore.» «Oh, per l’amor del cielo, mi dia la cartella.» Si fermò e guardò il foglio. «Non è assicurata. La mandi a casa.» Gen s’intestardì. «Le chiedo solo di darle un’occhiata.» Il lampo di odio nei suoi occhi la fece arretrare di un passo. «Vede cose che non ci sono, dottoressa? Non abbiamo tempo per fare i babysitter al pronto soccorso. Le conviene non farmi perdere tempo.» La seguì, e quando aprì la tenda era un medico gentile e pieno di fascino. «Salve Susan, sono il dottor Ward. La sua ecografia è a posto. Ha mangiato qualcosa di strano ieri sera che può aver contribuito al suo mal di stomaco?» «Cinese.» «Mmm, un sacco di sale.» Diede un’occhiata a Gen che capì che aveva appena escluso il sintomo delle caviglie gonfie. «E lo stress? Le sta accadendo qualcosa di insolito?» Susan rise. «Stavo giusto dicendo a Genevieve che mia figlia sta per sposarsi e ieri sera siamo state un’ora al telefono a litigare sulla lista degli invitati. Mio Dio, non so come farò ad arrivare viva alle nozze.» «I matrimoni sono una bella cosa ma molto stressante. Prende degli antiacidi?» «Sì, solo il Tums.» «Mmm. Be’ la buona notizia è che sta bene. Le prescriveremo del Prilosec e lei cerchi di mangiare leggero per qualche giorno. Niente cinese.» «Grazie, dottore.» «Prego.» Gen lo seguì mentre si allontanava. «Dottor Ward, io credo...» Si girò di scatto e le puntò un dito contro. «Non m’interessa cosa crede. Faccia il suo dannato lavoro e la smetta di sprecare risorse dell’ospedale per ridicole analisi su pazienti non assicurati. Un altro incidente come questo e la sbatto fuori dal mio pronto soccorso. Intesi?» E se ne andò come una furia. Gen si sentì frustrata. Cavolo, in un certo senso non lo biasimava. Ma nello stesso tempo, era convinta che Susan avesse qualcos’altro, e che se l’avesse mandata a casa se ne sarebbe pentita. I primi anni alla scuola di medicina le cose da sapere erano così tante che il cervello era sempre in sovraccarico. Ma lei sentiva di avere un dono. Se ascoltava e guardava oltre la superficie, scopriva cose che le analisi di routine non segnalavano. Era una qualità di cui andava molto orgogliosa prima di incontrare David. Poi, negli ultimi due anni, lui le aveva insegnato a fidarsi solo dei risultati degli esami, sostenendo che l’istinto per un chirurgo poteva portare al caos e alla morte. E lei era cambiata. Oggi fece una scelta diversa. Ingoiò a vuoto e tornò dalla paziente. «Susan, se non le dispiace le vorrei fare un ultimo controllo prima di rilasciarla. Credo sia importante.» «Oh, d’accordo. Probabilmente mi riposo più qui che a casa.» «Grazie. Le mando subito un’infermiera.» Le tremavano leggermente le mani quando ordinò le analisi degli enzimi al laboratorio. «Occorre una firma per queste», disse Ted scorbutico. Non batté ciglio. «Le ha approvate David, ehm, il dottor Riscetti.» Ted sbuffò, seccato, e digitò il numero. Parlò un momento poi alzò lo sguardo. «Vuole sapere se ha chiesto al dottor Ward.» La bugia le venne facile. «Certo, ma è occupato al momento.» Ted riportò la risposta, annuì e chiuse il telefono. «Ora lo facciamo.» «Grazie. Può mettere l’urgenza? Ci serve il letto.» Le batteva il cuore ma per la prima volta dopo tanto tempo sentì di aver fatto la cosa giusta. Tornò dagli altri pazienti, controllando l’ora e sperando di avere i risultati prima che la verità venisse fuori. Ma forse sarebbe andata bene. Forse Ward era così incazzato che non si sarebbe accorto del test che aveva ordinato e tutto sarebbe filato liscio. Forse... «Perché diavolo il letto tre non è ancora libero?» Chinò la testa fingendosi occupata a fare una cosa così importante da non riuscire a rispondere. «È quasi pronto, signore.» «Era pronta venti minuti fa. Cosa succede?» Le s’imperlò la fronte di sudore. Merda. «Ehm, stiamo facendo un ultimo controllo che dovrebbe essere quasi pronto.» Le si parò davanti, furente. «Che controllo?» «Valori degli enzimi cardiaci, signore.» «Le avevo detto di dimetterla. Chi ha firmato le analisi?» «Il dottor Riscetti.» Ward strinse i denti. «Non m’interessa se nel tempo libero se lo scopa, ma non pensi di poter comandare qui dentro.» Prese il telefono e digitò un numero. «David, perché diavolo hai approvato le troponine dopo che io ho espressamente negato l’autorizzazione?» Gen chiuse gli occhi. Era finita. «Capisco. Sì. Meglio che tu scenda subito.» Ward strinse gli occhi. «Vada nella sala conferenze, il suo capo vuole vederla. E sparisca dal mio pronto soccorso.» Lei non rispose. D’un tratto le sembrava di essere in una puntata di Grey’s Anatomy. Senonché nel telefilm i medici interni che uscivano dal seminato non venivano mai cacciati via e neppure finivano nei guai. Sapeva di aver passato il limite, ma l’avrebbe fatto di nuovo, indipendentemente dalle conseguenze. Questo faceva di lei un cattivo medico? O un buon medico? David entrò nella stanza. Aveva i capelli arruffati e gli occhi stanchi. Aveva sentito che stava facendo i doppi turni per affogare i dispiaceri nel lavoro mentre lei, la stronza, era più in forma che mai. Non stupiva che tutti la odiassero. In una settimana aveva mangiato e dormito meglio e riso più di quanto avesse fatto nell’ultimo anno. «Cosa stai cercando di dimostrare, Genevieve?» Fece attenzione a non mettersi sulla difensiva, ma le vecchie abitudini erano dure a morire. Parlò con un tono fermo e professionale. «Mi dispiace. Il dottor Ward non voleva ascoltare le mie preoccupazioni riguardo a una paziente che secondo me ha un problema al cuore. Capita spesso con le donne di scambiarlo per indigestione e volevo fare un ultimo controllo. Ma lui ha rifiutato.» «Ha rifiutato per un motivo. Perché è indigestione e perché la paziente non è assicurata. Paghi tu per lei?» Strinse le labbra. «Se devo.» «Che animo nobile. Pensi di essere più brava di Ward?» «No.» «Pensi di essere più brava di me?» Lo guardò con odio. «No. Ho seguito il mio sesto senso. C’è qualcosa che non quadra e non mi sarei data pace se l’avessi mandata a casa e le fosse successo qualcosa. È sempre una mia paziente.» «Il sesto senso, eh? Lo stesso che ti ha suggerito di scappare dalla finestra della chiesa?» «Questo non ha niente a che fare con noi.» «Ha tutto a che fare con noi, invece.» Si passò la mano tra i capelli e si avvicinò. «Mi manchi, Genevieve.» «Per favore, no.» «Voglio che torni da me, è passato abbastanza tempo. Sposami.» «Non posso. È finita. Mi dispiace che sia andata in questo modo, di averti ferito. Ma non posso più stare con te. Mai più.» La bellezza svanì. Le labbra morbide si piegarono in un ghigno. «Temo che tu non capisca. Mi rifiuto di essere umiliato e preso in giro. E mi rifiuto di perderti. Possiamo far funzionare la cosa ed essere felici, ma se continui a negarti non mi lasci altra scelta che fartela pagare.» Le si fermò il respiro. «A cominciare da una lettera di richiamo. Hai disobbedito a due medici tuoi superiori e ordinato analisi inutili che non abbiamo autorizzato.» «Cercavo di fare il meglio per la mia paziente. Quante volte mi hai detto che è fondamentale nel nostro lavoro?» «Ho detto anche di guardare i fatti. Fare scelte a casaccio basandosi sul sesto senso mette tutti a rischio. E non voglio un chirurgo del genere nella mia equipe.» «Lo fai solo per vendicarti di me», sussurrò. «Voglio che torni con me perché ci apparteniamo. Posso dimenticare questo incidente e farti tornare in reparto con Ward.» «Se ti sposo.» «Se torni dall’uomo che ti ama.» Si sentì svuotata. La rabbia e il dolore esplosero. «Mai. Stammi lontano e lasciami fare il mio lavoro. Il tuo amore è un’illusione, tu vuoi solo controllarmi e manipolarmi. So cos’hai detto alla mia famiglia alle mie spalle, cercando di passare per il buono della situazione. Ho chiuso.» «Sì. Hai chiuso.» Fece per toccarle i capelli ma lei si scostò. «Cominceremo con un provvedimento disciplinare. Farò presentare formalmente a Ward un reclamo sulla tua instabilità. Molti tuoi colleghi hanno notato il tuo comportamento incostante, quindi quello potrebbe diventare un problema. Puoi continuare a lavorare qui, Genevieve, ma sei nel mio mondo. Giuro che ti renderò la vita un inferno e alla fine ti farò buttare fuori dall’ospedale. Distruggerò la tua carriera. Ci siamo capiti?» Le veniva da piangere ma sarebbe morta piuttosto che cedere. «È questo il modo in cui dimostri il tuo amore per qualcuno?» «Non doveva andare così. L’hai voluto tu. Ricordatelo.» Le passò il futuro davanti. I pettegolezzi poteva sopportarli. La freddezza e la manipolazione anche. Ma il lento calo delle sue capacità e della sua crescita come medico no. Avrebbe perso la fiducia in se stessa e l’amore per la medicina. Lui le avrebbe portato via tutto. E poteva farlo. Certo, c’erano delle alternative. Poteva andare a protestare all’ufficio del personale. La sua parola contro quella di lui. Ma col prestigio e la posizione di David, e specialmente dopo la loro relazione, sarebbe sembrato che lei volesse riprenderselo e lui rifiutasse. La gente avrebbe sempre creduto a lui. Nessuno le avrebbe offerto un altro internato. In quel momento andò tutto a pezzi. La fiducia e l’amore per un uomo in cui un tempo aveva creduto, e la carriera che aveva sognato sin da bambina. Tutto finito. «Ho capito.» «Bene. E la tua decisione?» Fece un passo indietro, inebetita. Forse era meglio così. Il dolore sarebbe venuto dopo aver distrutto l’ultimo sottilissimo filo che li legava. «Lascio l’internato. Addio, David.» Uscì. La guardarono tutti, in attesa degli sviluppi della soap opera. Gen non lasciò trapelare nulla. Il tecnico le toccò la spalla. «Dottoressa, sono pronte le analisi degli enzimi cardiaci.» «Come sono?» «Positivi.» Si godette la soddisfazione per un attimo, poi si voltò verso David, che era fermo sulla soglia a guardarla andare via. «Dai i risultati e Ward e digli che avevo ragione. Ha un’ostruzione e dobbiamo evitare un attacco cardiaco.» Furono le ultime parole che pronunciò prima di lasciarsi tutto alle spalle. Capitolo 12 «Gen, alzati.» «Bleah, cos’è questa puzza?» «Mi sa che è lei. Ve l’avevo detto che dovevamo venire ieri.» «Lo so, non trovavo la copia della chiave. Perché non si sveglia? E se fosse in overdose?» «Non essere tragica, non ci sono boccette di pillole in giro. Ma dalle vaschette di gelato e le carte di caramelle direi che ha esagerato con gli zuccheri. Gen, tesoro, apri gli occhi.» Le voci si mischiarono insieme formando una meravigliosa armonia. Aveva le palpebre pesanti e temeva che se le avesse sollevate si sarebbe ricordata di qualcosa di orribile. Sentì le loro mani che cercavano di girarla. «Andatevene», brontolò. «Sono stanca.» La scossero più forte di un Vesper Martini. «Svegliati, dico sul serio. Ci stai facendo spaventare.» Aprì un occhio. Tre volti femminili la guardavano. «Come mai non siete al lavoro?» mormorò. «È domenica», rispose Kate. «Ti stiamo cercando da ieri. Pensavamo fossi con Wolfe, ma lui è a una specie di convention quindi ci ha detto di fare irruzione. Da quando sei a letto?» Che giorno era quello in cui la sua vita era andata in frantumi ed era rimasta senza lavoro, senza beni e senza futuro? Ah sì, giovedì. «Da qualche giorno.» Kennedy si tirò indietro. «Ragazza, devi lavarti i denti.» «Domani.» Si girò dall’altra parte ma la costrinsero a mettersi seduta, salendo sul letto e circondandola. «È successo qualcosa con David all’ospedale?» domandò Arilyn. Gen si rese conto che non sapevano niente. Appena uscita dall’ospedale era andata in un supermercato e aveva fatto il pieno di grassi e zuccheri. Poi per potersi autocommiserare in santa pace aveva mandato un messaggio a tutti dicendo che doveva lavorare e che avrebbe chiamato presto. A Wolfe, sapendo che avrebbe chiamato comunque, disse che dormiva da Kate e che si sarebbero visti la settimana prossima. Poi si era messa a letto e lì era rimasta. «Tesoro, cos’è successo? Wolfe era agitatissimo. Gli hai mentito dicendo che eri da me», disse Kate. «Non volevo farlo preoccupare. È un po’ che mi fa da babysitter e sta diventando imbarazzante. Io sto bene.» Kennedy sollevò due sacchetti di anelli di cipolla fritti. «Se mangi questa roba non stai bene.» Gen inspirò profondamente. «Ho lasciato l’ospedale. Il mio internato è finito. Ho avuto un grosso scontro con David e ha minacciato di rendermi la vita un inferno. Mi sono accorta che non posso restare lì.» Kate si alzò e si tirò indietro i capelli. «Okay, adesso lo uccido. Voi siete mie testimoni, io non sono mai stata da lui.» Gen le prese la mano. «So che non scherzi, quindi siediti. Ho bisogno di averti qui, non in prigione.» Kennedy era furente. «Non può passarla liscia. Devi denunciarlo.» Alzò le mani. «Ragazze, ha nascosto bene le sue tracce. Di più, ha gettato semi di depressione e ansia. Ha scritto una lettera di richiamo all’ufficio del personale. Comanda tutto lì dentro, e io sono solo la stupida sposa che è scappata. Non ho nessuna intenzione di tornare e non voglio impelagarmi in una causa che perderei sicuramente. Per me sarebbe ancora peggio.» «Mi dispiace, Gen. Ma lo uccido lo stesso.» «So che lo faresti. Sei un’amica fantastica.» «Evitiamo di parlare di omicidi, per favore, e vediamo cosa possiamo fare», intervenne Arilyn. «Se ti attacchiamo un registratore, riesci a fargli ripetere quello che ti ha detto?» La fissarono tutte. Per un’anima così dolce e mite, Arilyn aveva una vena di malvagità sorprendente. «Buona idea», commentò Ken. «Nate può darci una mano.» Gen rise. Solo le sue amiche potevano portare allegria in ogni situazione. «Grazie per il suggerimento, A, ma lascerei perdere. Voglio solo andare avanti. Non m’interessa altro adesso.» «Cosa farai?» domandò Kate. «Un internato in un altro ospedale?» Lei scosse la testa. «Mi prendo una pausa. Voglio capire se questo è davvero ciò che voglio o se è solo un obiettivo che mi ero prefissa. Mi manca ancora qualche anno per diventare chirurgo. Forse è un segno che non sono destinata a questo mestiere.» Fecero tutte per protestare ma le fermò alzando una mano. «No, non sto dicendo che non sono abbastanza brava, sto solo dicendo che non mi sono mai data un’alternativa. Mi serve tempo.» Fece un piccolo sorriso. «Non ho più niente. Forse è una buona cosa perché così posso ricominciare da zero. Riscoprire chi sono. Mi spiego?» Arilyn annuì. «Assolutamente.» «David ti sta assillando? Hai paura di lui? Penso ancora che dovresti chiamare la polizia», disse Kennedy. «No. Ora che non sono più in ospedale non ha più bisogno di tormentarmi. La mia roba può tenersela, non me ne può fregare di meno. Voglio solo essere libera e ricominciare.» «Okay, ma non passerai le giornate a letto a mangiare schifezze nel tentativo di capire le cose», disse Kennedy. «Hai un lavoro.» «Dove?» «In Kinnections, ovviamente.» Kennedy e Arilyn si batterono il cinque. «Sì, è perfetto», pigolò Kennedy. «Stiamo crescendo così in fretta che non riusciamo a tenere il passo e dobbiamo assumere un’altra assistente. Cominci domani.» «Cosa? Non posso lavorare in Kinnections! Non so niente di agenzie matrimoniali.» «Non importa», disse Kate, spiccia. «T’insegniamo noi quello che ti serve, ma sei già a metà strada. Hai sempre avuto un intuito straordinario con la gente. Ti basta ritrovare quella parte di te.» L’idea era così assurda che quasi pensò potesse funzionare. Avrebbe conosciuto il mestiere delle sue amiche, si sarebbe tenuta occupata e avrebbe dato una mano. La pagavano pure. E quale ambiente migliore di uno popolato dalle persone che amava di più? «Non ti permetto di dire di no quindi fattela andare bene», l’avvertì Kate. Gen sorrise. «La solita tiranna.» «Sì, a Slade piace.» Ken alzò gli occhi al cielo. «Oh, per favore, è lui il dominatore tra voi due. Ti ordina di fare ogni genere di assurdità e tu fai tutta la svenevole.» Kate soffiò dal naso. «Cosa sta studiando Nate adesso, giochi anali?» Gen rise e Kennedy diventò rossa. Impagabile. Al suo ingegnere aerospaziale piaceva studiare nuovi argomenti tra cui i modi migliori di fare sesso. Le sue dimostrazioni mantenevano la loro vita sessuale piuttosto attiva. Era capitato spesso che Kate trovasse Ken addormentata sulla scrivania nel disperato tentativo di farsi qualche effettiva ora di sonno. Provò una fitta di nostalgia. Sarebbe dovuto essere così anche per lei e David. Si chiese se ci sarebbe mai stato qualcuno che la capisse e la amasse per quella che era, difetti e complessi inclusi. Anche se non voleva ammetterlo, al momento la sua fiducia in se stessa era ai minimi storici. Avrebbe mai incontrato un uomo che la voleva con tanta passione e desiderio? Poteva capitare anche a lei? Le balzò alla mente il ricordo del bacio di Wolfe. La pressione della sua erezione contro la coscia. Il calore della sua pelle. La spinta della sua lingua. Sì. Con David c’era attrazione fisica, specialmente all’inizio, ma man mano si era dissolta. Quell’unico bacio di Wolfe le aveva fatto capire cos’era in grado di dare alle sue donne a letto. Era sbagliato desiderare la stessa passione per sé? Allontanò il pensiero e cercò di tornare al presente. «Se ritenete che possa esservi utile, ci sto.» Kate sorrise soddisfatta. «Bene. Alle nove. Sarà fantastico.» «Ma prima devi farti una doccia», interloquì Ken. Arilyn le mise una mano sulla spalla. «Perché non ti dai una sistemata e ordiniamo qualcosa da Mugs? Possiamo guardare un film.» «Oh, che ne dite di Corpi da reato con Sandra Bullock? Fa morire dal ridere», propose Kate. Ken sospirò. «Tu e le tue commedie. Non è meglio Magic Mike?» Arilyn scosse la testa. «L’abbiamo già visto tre volte. Non ha trama.» Ken sollevò un sopracciglio. «Quindi?» Gen si alzò dal letto e si diresse alla doccia accompagnata da un barlume di speranza. Avrebbe superato questo momento e le cose si sarebbero sistemate. E se anche fosse stata un chirurgo fallito e una futura zitella? Dov’era il problema? Aveva delle ottime amiche, una famiglia e un cervello che funzionava. Per oggi era abbastanza. «Salve, benvenuto in Kinnections... Wolfe? Che ci fai qui?» Oh, come voleva strangolarla. Si avvicinò a grandi passi al banco della reception guardando fisso nei suoi occhi azzurri apparentemente innocenti. Era abituato a vederla col camice da medico o coi jeans, quindi il top di pizzo nero e la gonna che lasciava scoperte le gambe lo lasciarono un attimo sconcertato. Al posto della solita coda aveva lasciato i riccioli sciolti sulle spalle, e una ciocca castana le danzava su un occhio, cosa che sembrava alquanto fastidiosa ma maledettamente sexy. Seducente. Provocante. Decisamente non la Gen che conosceva lui. Appoggiò i palmi sul banco e si chinò verso di lei. «Penso sia meglio chiedere cosa ci fai tu, qui.» Fece il broncio. Si era messa il rossetto? Non avrebbe mai pensato che potesse scegliere una tinta audace, ma quel color caffè sulle labbra faceva proprio venire voglia di provarne un sorso. Che diavolo stava pensando? «Sei di cattivo umore. Lavoro qui adesso.» La rabbia aumentò. «Sei un chirurgo. Perché non sei in ospedale?» Si spostò sulla sedia. «Mi sono dimessa.» «Lo uccido quel figlio di puttana. Aspetta qui.» Wolfe riuscì a fare qualche passo prima che lei gli si parasse davanti bloccandogli l’uscita. «Kate ci ha già provato due volte. Ascolta, scusa se non te ne ho parlato ma è meglio così. C’è stato un episodio sgradevole e ho capito che non riuscirò più a lavorare lì.» «Perché non me l’hai detto? Mi mandi un messaggio dicendo che lavori fino a tardi e che dormi da Kate. Non rispondi al telefono e quando finalmente trovo Kate dice che non sei con lei. Merda, Gen, mi hai fatto venire un colpo! Ero bloccato alla convention con una massa di bellimbusti e non ti trovavo. Che episodio?» «Una faccenda con una paziente. Avevo bisogno di stare sola e non volevo disturbare nessuno.» Wolfe strinse i denti e pregò di rimanere calmo. «Tu non disturbi mai. Sei mia amica.» S’addolcì in volto e gli prese i polsi. Aveva le dita appoggiate sul cuoio dei bracciali, ma lui le sentì bruciare lo stesso. «Lo so. Ma devi capire che ultimamente mi sembra di essere una femminuccia debole, lagnosa e patetica. Ho fatto una pazzia dietro l’altra e a un certo punto sono crollata. Però adesso sto meglio, grazie.» La condiscendenza della spiegazione aumentò la collera di Wolfe, anche se non capiva perché. Il fatto che s’isolasse lo mandava fuori di testa ma il pensiero che si rivolgesse a qualcuno altro era ancora peggio. Avrebbe voluto scuoterla finché non avesse capito quanto era importante per lui. «Non stai meglio. Mi rifiuto di permettere a quel coglione di sbatterti fuori quando sei nata per fare il chirurgo. Non puoi lavorare in un’agenzia matrimoniale. È indegno di te, sei totalmente sprecata.» La dolcezza di Gen scomparve; soffiò come una gatta: «Chi cavolo sei tu per giudicare me o Kinnections? Il playboy magnate dell’industria alberghiera d’un tratto è diventato snob?» Lui cercò di non farsi venire il sangue alla testa. «Non essere ridicola. Sto solo dicendo che sei destinata a salvare vite umane, non a metterle insieme!» Sbuffò, come se la trovasse una spiegazione ragionevole. «Non sono d’accordo. Potrebbe essere questa la mia vocazione. Sono stanca di essere stressata e di decidere questioni di vita o di morte. Mi voglio divertire. Chi lo sa? Magari trovo anche il vero amore.» Wolfe si sentì grattare dall’irritazione come da una spugnetta ruvida per cucina. «Tra una settimana sarai già stufa di stare qui.» Tirò fuori la lingua rosa. Era seria? «No, invece. E non me ne vado finché non ho accoppiato qualcuno. Voglio vivere in un mondo di magia e di speranza. Ehi, ti va di iscriverti? Kate dice che se trovo dei clienti ho diritto a un bonus.» La fissò. «Mi stai prendendo in giro? No, non mi iscrivo a Kinnections. Ascolta, ti aiuto a farti trasferire in un altro ospedale. Posso fare qualche telefonata, conosco un tizio ad Albany, molto influente. Non puoi lasciare l’internato dopo aver lavorato tanto. Sistemiamo tutto.» «Non c’è niente da sistemare. Questo è il mio lavoro e ti ci dovrai abituare.» Suonò il telefono e lei s’illuminò. «Devo rispondere.» Wolfe la guardò correre al banco e appoggiarsi al piano. La gonna si tese sul sedere pieno, scoprendo un pezzo di coscia in più. Indecente. Barcollò sui tacchi a spillo fino a trovare l’equilibrio. Per l’amor del cielo, non metteva mai i tacchi. L’aveva convinta Kennedy? Perché faceva così caldo lì dentro? Si passò le mani tra i capelli e l’ascoltò cinguettare di una prossima serata d’incontri al Purple Haze, quindi ridacchiare in modo sospettosamente civettuolo. Oh sì. Kennedy le aveva decisamente fatto qualcosa. Riagganciò, si girò vacillando verso di lui e si aggiustò il ridicolo pezzo di stoffa che costituiva il suo abito da ufficio. Persino il profumo era diverso. Era venuta a lavorare qui per trovarsi un compagno? No, non sarebbe stato da lei. Diceva sempre che le ci volevano mesi per dimenticare un uomo. Per dimenticare un futuro marito doveva volerci almeno un anno. «Sicuro che non vuoi aiutarmi a guadagnare qualche soldino in più?» Gli strizzò l’occhio. «Saresti un bene preziosissimo.» Rifiutò di sentirsi in imbarazzo. «No. Le donne posso trovarmele da solo.» «Okay. Tanto prenderò qualcosa per la mia iscrizione.» Aprì la bocca, la chiuse. La riaprì. «Di che parli?» Gen sorrise. «Sarò una nuova cliente di Kinnections!» «Hai appena rotto con David. Dici sempre che ci vogliono mesi per uscire da una relazione e cominciarne un’altra. Ricordi quando ho lasciato Allie e mi hai fatto annullare l’appuntamento del weekend successivo? Mi hai costretto alla castità per due settimane!» Alzò gli occhi e spinse in fuori un fianco. Il top si spostò, mostrando una spallina di pizzo. Cosa? Sapeva per certo che portava solo biancheria intima di cotone. «Dovevi pagare. Le hai spezzato il cuore.» «Non è vero. Sapeva dall’inizio come stavano le cose.» «È comunque sbagliato. Dichiarare di non volersi impegnare non significa che le cose non possano cambiare. Si è innamorata di te e tu te ne sei andato senza nemmeno provarci.» Stavolta arrossì. «Dico a tutte le donne con cui esco che non sono interessato a una relazione a lungo termine. Lo sai. Hai sempre detto di apprezzare la mia correttezza e onestà.» «Be’, ho cambiato idea. Penso che sia da stronzi, invece. Devi cominciare a guardare al futuro. Perché non ci iscriviamo insieme? Possiamo uscire in quattro!» Aveva mangiato qualcosa di avariato a colazione? Perché gli veniva da vomitare. L’immagine di loro due a cena con due estranei era intollerabile. Quella donna gli stava facendo venire il mal di testa. «Sto bene così. E penso che l’ultima cosa di cui hai bisogno è un’altra delusione da un uomo. Prenditi una pausa. Potresti crearti un hobby. Lavoro a maglia?» Lo fulminò con lo sguardo. «Non ho ottant’anni. Voglio riprovarci. David mi ha quasi rotto qualcosa dentro e lo rivoglio.» Merda. Se la metteva così, avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarla. «Cara, non è meglio trovare la guarigione dentro di te piuttosto che affidarti a fonti esterne?» Spalancò gli occhi. «Wow. Come sei diventato profondo. Di regola sarei d’accordo, ma sono stufa di sentirmi insicura e timorosa. Voglio essere coraggiosa e fare un salto nell’ignoto. Capisci?» Sì, capiva. Quello che non capiva era perché il pensiero che riprendesse a uscire con gli uomini gli desse tanto fastidio. Si erano sempre raccontati le loro avventure e lui le dava persino dei consigli. Cos’era cambiato? Si stava innervosendo, quindi cambiò argomento. «Perché porti quella roba?» «Quale roba? La gonna?» «Detesti vestirti per fare colpo. C’è lo zampino di Kennedy?» Lo guardò come se gli fossero sputate le corna. «Certo che sei strano, amico. Ti sei stancato troppo alle conferenze? Com’è andata?» «Bene.» Non aveva voglia di parlare di lavoro, di riunioni infinite o di dati di vendita. «Credo che dovremmo parlarne più approfonditamente. Che ne dici di stasera a cena? Vengo a prenderti alle sette.» Incrociò le braccia sul petto. «Se mi prometti di non provare a farmi cambiare idea.» «Questo non posso promettertelo. Ma ti offro un hamburger.» Gen scosse la testa. «Va bene. Non ho preferenze. A stasera.» La guardò tornare dietro il banco e sedersi. Quando incrociò le gambe, per un attimo rimase accecato dalla sua pelle liscia e bianca. Gen scherzava sempre sul fatto di non aver ereditato un goccio di sangue italiano perché si scottava subito e non si abbronzava mai. Ma a lui prudevano le mani dalla voglia di toccare quella meravigliosa pelle nuda, morbida e pura. Wolfe voltò le spalle a lei e ai suoi pensieri sconcertanti. Aveva bisogno di una doccia e di un pisolino. Cominciava a chiedersi se gli ultimi tre mesi di castità fossero davvero una buona idea. La pausa ci voleva. Era stufo del gioco della seduzione e della velocità con cui le donne gli si attaccavano. Quasi considerassero una sfida farlo crollare. Se solo avessero capito che non c’era niente in lui che non fosse già crollato. Il sesso tuttavia avrebbe potuto rendere la pausa meno dura. L’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le fantasie proibite sulla sua migliore amica. Era l’unica relazione sana che avesse mai avuto con una donna. Non voleva rovinare la cosa più bella che gli era mai capitata per un’impennata di testosterone. Tornò in auto a Manhattan. Il suo attico era super attrezzato, sistemi di sicurezza, articoli di lusso e tutti i comfort possibili e immaginabili. Ma per quanto elegante, con i pavimenti in parquet e i soffitti alti, l’appartamento era arredato in modo spartano (e con gusto maschile). Legno scuro, vetro, schermi di computer e tv e pareti nude. Lui quasi non ci dormiva neppure. Trovava più comodo alloggiare al Purity, così poteva mantenere tutto sotto controllo. Fece una doccia veloce, si cambiò e mise su il caffè. Avrebbe potuto rilassarsi, guardare una partita di baseball in tv e poi lavorare un po’. Tutto considerato, i giorni precedenti erano stati faticosi e aveva bisogno di un po’ di riposo. La cena con Gen gli avrebbe migliorato l’umore. Avrebbero ripreso le loro abitudini e lui avrebbe iniziato a cercare una nuova compagna di letto che non avesse niente a che fare con Kinnections. Quando citofonò il portiere per dirgli che un agente in uniforme voleva vederlo, Wolfe ebbe un brutto presentimento. Gli fu consegnato un ordine restrittivo temporaneo richiesto dal signor David Riscetti, che lo accusava di molestie e di una serie di altre sciocchezze. Presentimento confermato. Come sempre. Lesse l’ordine. Quel figlio di puttana era in gamba, doveva riconoscerlo. Nella partita a scacchi che stava giocando, stava facendo delle ottime mosse. Wolfe non si preoccupava per sé, gli bastava che David stesse alla larga da Gen. Purtroppo qualcosa gli diceva che non sarebbe stato così. Già. Nel complesso era stato uno schifo di giornata. Gen finì d’immettere informazioni nel programma creato da Arilyn e si chiese cosa fosse preso a Wolfe. Credeva che sarebbe stato contento di vederla pronta a uscire con qualcuno. Invece era di malumore e scorbutico. Forse erano state le conferenze. Si ammazzava di lavoro per inseguire il successo e dimostrare a Sawyer che ci sapeva fare. Sentì una stretta al cuore. Era così chiuso, ma quando amava una persona era pronto a rischiare la vita per lei. Era così deplorevole desiderare che trovasse il vero amore con una donna degna di lui? Doveva convincerlo a provarci. Se si fosse iscritto a Kinnections avrebbe avuto più probabilità d’incontrare quella giusta. E magari lei avrebbe smesso di avere certi pensieri su di lui. Gen trattenne un sospiro e andò a riempirsi la bottiglietta d’acqua. Wolfe era sempre stato fisicamente attraente. Aveva fatto tanti soldi con la pubblicità dell’intimo, esibendo tatuaggi, addominali d’acciaio e muscoli asciutti che risvegliavano desideri assopiti. Ma il suo aspetto non aveva mai interferito con la loro amicizia. Ora invece sì. Quasi cadeva dalla sedia quando l’aveva visto entrare. L’abito dal taglio pulito ed essenziale che indossava era dello stesso azzurro degli occhi e gli modellava perfettamente il corpo. Con quei riccioli color cioccolato, le labbra sensuali e l’aura di potere che emanava, risucchiava tutta l’aria della stanza. Nessuno avrebbe dovuto essere così sexy con un abito elegante. Non era giusto. E l’aveva guardata in modo diverso, oggi. Il suo sguardo le aveva accarezzato le gambe nude e il top di pizzo in modo quasi... famelico. La cosa peggiore? Che per un orribile attimo aveva desiderato di spogliarsi per lui e di essere guardata in quel modo, come se volesse mangiarla viva. Rabbrividì. Che stupidaggine. Probabilmente era tutta conseguenza della rottura del fidanzamento, della crisi del primo quarto di vita e di un po’ di voglia repressa. Doveva essere così. Per forza. Le trillò il telefono. Guardò il numero ma non lo riconobbe. Rispose lo stesso. «Pronto?» «Genevieve! Sono Sally. Come stai?» Sorrise. Le mancava l’ospedale ma non l’aveva contattata nessuno da quando era andata via, a parte Sally. Gen non le aveva raccontato molto, ma lei aveva notato il modo in cui la trattavano. Era carino avere qualcuno dalla sua parte. «Ciao, Sally. Sto bene. Non ho riconosciuto il numero.» «Sto usando il telefono di un volontario. Scusa se non ti ho più chiamata.» «Scherzi? Sei fortunata se ti lasciano respirare. È successo qualcosa?» «Volevo sapere se possiamo vederci una sera a cena. Mi manchi.» «Grazie. Significa molto per me. Scrivimi tu un messaggio quando sei libera e ci mettiamo d’accordo, okay? Io ho orari più ragionevoli.» «D’accordo. Ehm, ci sarebbe un’altra cosa ma è un po’ strana.» Un formicolio alla pelle. «Dimmi pure.» «Si tratta di David. Non voglio essere messa in mezzo, Gen, quindi spero che non t’arrabbi. Mi ha chiesto se ti sentivo e gli ho detto che avevamo parlato velocemente, al che mi ha pregato di chiederti di chiamarlo al cellulare oggi. Per la tua roba, credo.» Gen s’accigliò. «Ha chiesto a te di chiamarmi?» Sally fece una risata forzata. «Esatto. Sta facendo i doppi turni quindi forse lui non ha proprio tempo. Mi dispiace, non sapevo cosa fare.» Ribollì di rabbia. Povera Sally, messa in mezzo in quel modo. Era chiaro che non poteva dire di no al suo capo. «Non preoccuparti. Gli faccio uno squillo. Non dimenticare la cena.» «Grazie per aver capito. Prometto che non ci saranno altri messaggi. Ooops, devo andare, ti scrivo!» La linea s’interruppe. Gen si picchiettò un dito sulle labbra, perplessa. Doveva chiamarlo? Forse voleva restituirle le sue cose. Se era così occupato al lavoro, non c’era da stupirsi che la facesse chiamare da qualcun altro. David non era tipo da ammettere distrazioni quando aveva a che fare coi pazienti. Era davvero un ottimo medico. Com’era possibile che fosse anche un crudele manipolatore? Non volle pensarci troppo. Col cuore che batteva forte, digitò il suo numero e ascoltò gli squilli. Uno. Due. «Pronto.» La sua voce profonda le accarezzò le orecchie. Un tempo adorava ascoltarlo, specialmente quando le spiegava qualcosa. Finché quella bella voce aveva cominciato a lanciare frecciate velenose senza mai capire quanto le facessero male. Si fece forza. «Sono io. Sally mi ha detto di chiamarti.» «Ah, giusto. Oggi siamo nel caos per un incidente d’autobus. Non ho avuto un attimo.» «Cosa vuoi?» Un breve silenzio. «Non voglio tenere nulla che ti appartenga, Genevieve», rispose. «Se abbiamo deciso di rompere definitivamente, è chiaro che puoi riavere le tue cose. Comportiamoci da adulti e non peggioriamo la situazione.» Si rilassò leggermente. Non sembrava determinato a riprendersela. Forse ora che aveva lasciato l’ospedale aveva capito che era veramente finita. «Concordo.» «Passo da te stasera col computer e un paio di altre cose. Il resto puoi venire a prenderlo quando non ci sono.» «Oh, non c’è bisogno, posso aspettare.» «Il tuo computer contiene file personali», ribatté infastidito. «Visto che non sei più in ospedale dovrai organizzarti e non voglio essere responsabile. Sarò da te verso le sette.» «Devo uscire a cena.» «Alle sei, allora. Non mi fermo. Non voglio trascinare la cosa più di quanto lo voglia tu. D’accordo?» Non c’era motivo di rifiutare. Si stava mostrando ragionevole e voleva soltanto restituirle le sue cose. «Sì.» «Molto bene. Ci vediamo stasera.» Gen provò a rimettersi al lavoro ma sentì addosso una profonda tristezza. Essere innamorata di un uomo, pensare di conoscerlo, e scoprire di essersi innamorata di un estraneo. Le passò il buon umore. Forse non era il caso di ricominciare a vedere gente. Forse era meglio stare sola per un po’. Arilyn passò dall’ufficio in leggings neri, maglietta lunga e zoccoli comodi, capelli sciolti e sacca in spalla. «Ehi, come va oggi?» Gen sorrise. «Benino. Ho studiato i file di alcuni clienti e sto imparando a usare il programma e a rispondere al telefono.» «Vai benissimo. Ho creato un manuale che ti può essere utile. Passo a prenderlo a casa.» «Non c’è fretta, non passarci adesso.» Arilyn sospirò. «Devo andarci comunque, aspetto l’idraulico. Come se non bastassero i soffitti che perdono e il riscaldamento quasi inesistente, adesso ci si mettono anche le tubature.» Gen alzò un sopracciglio. «E il padrone di casa? È illegale.» «Lui si disinteressa totalmente, gli lascio dei messaggi ma è all’estero e non risponde nemmeno. Vuole vendere a tutti i costi. Potrei essere costretta ad andarmene, ma dev’essere un posto in cui si possono tenere i cani.» «Mi dispiace. Comincerò a chiedere in giro.» «Grazie. Ti porto il manuale dopo la lezione di yoga.» «Mmm, come va lo yoga? Con... lui.» Le scese un’ombra sul volto. «Non benissimo. Ma ha scelto di stare con me e sono certa che andrà meglio. Non è facile quando hai tutte le allieve che s’innamorano di te e come istruttore ti senti in dovere di dar loro qualcosa. Non capisci più quali sono i limiti.» La storia col suo istruttore di yoga andava avanti a intervalli da un pezzo. Gen non sapeva esattamente come stavano le cose, ma solo il fatto che dovessero tenere nascosta la relazione le sembrava fuori dal mondo. L’ultima volta che lui l’aveva tradita, Arilyn era cambiata. Aveva perso la sua proverbiale calma, non riusciva più a concentrarsi. Kate aveva minacciato di mostrargli il vero significato dello yoga ammazzandolo di botte, ma dopo una settimana erano tornati insieme e Arilyn l’aveva difeso a spada tratta. Non uno scenario promettente. Ma chi era lei per giudicare? Era scappata dal suo matrimonio. «Sono contenta», disse. «Meriti di essere felice.» Arilyn sorrise. «E tu anche. Come ti senti?» Sospirò. «David passa a restituirmi un po’ della mia roba, stasera. Ero di buon umore, oggi, ma d’un tratto mi sono resa conto che non avevo capito niente. Non posso credere di essere stata due anni con un uomo senza capire quello che stava succedendo. Mi chiedo se posso ancora fidarmi del mio istinto.» «Il tuo istinto ti ha impedito di sposarlo. Le donne forti e indipendenti sono le più vulnerabili agli abusi. Ci fa piacere rinunciare al controllo, ogni tanto, farci proteggere e avere qualcuno che si occupa di noi. E spesso l’amore impedisce di vedere chiaramente. Non essere dura con te stessa. Siamo tutti qui per sbagliare, ma troverai la tua strada.» «Forse dovrei lasciar perdere l’iscrizione a Kinnections. Non sono pronta.» Arilyn alzò un sopracciglio. «Di solito suggerisco di prendersi il tempo per guarire, ma nel tuo caso credo che uscire con qualcuno ti farebbe bene. Devi riacquistare sicurezza. E comunque ci vogliono settimane per trovare una persona adatta. A volte la promessa di qualcosa di nuovo ti offre una prospettiva diversa sulle cose.» «Può darsi.» Arilyn fluttuò verso la porta. «Pensaci. Kate e Kennedy sono nel loro ufficio se hai bisogno. A dopo.» «Ciao.» Gen si appoggiò alla sedia mangiucchiandosi le unghie. Aveva avuto molti alti e bassi ultimamente, come se fosse intrappolata su una montagna russa di emozioni. Da una parte le mancava il caos dell’ospedale, il pensare continuamente agli altri. Dall’altra era sollevata di non doversi più preoccupare per nessuno. Si mise davanti al computer e si diede da fare per aiutare gli altri a trovare l’amore. «Eccomi!» La seconda bussata aveva il tono paziente di un uomo che non era abituato ad aspettare. Gen andò verso la porta saltellando su un piede mentre infilava un paio di ballerine. David la guardò velocemente da capo a piedi, dando la sua silenziosa valutazione. Cercò di non innervosirsi e aspettò il suo giudizio. Quante volte uscendo dal bagno era stata accolta da una scrollata di capo seguita dalla richiesta di cambiarsi? Aveva un’idea molto precisa del tipo di abbigliamento che la moglie di un chirurgo di successo doveva indossare, tanto che a un certo punto aveva preso l’abitudine di far scegliere a lui i capi che voleva vederle addosso. Ingoiò a vuoto e fece un passo indietro. «Prego.» Lui entrò in casa come se ne avesse tutto il diritto. «Ti trovo molto... vivace.» Lei s’irrigidì ma non disse niente. «Ritorno alle origini, eh? Speravo che il tempo passato insieme avesse affinato un po’ i tuoi gusti.» «Dov’è il mio computer?» «In macchina.» Portava ancora il camice e aveva un velo di barba. Strano. Ovunque andasse aveva sempre un rasoio a portata di mano, e la sorprendeva che non si fosse fermato a darsi una ripulita. David detestava mostrarsi in disordine. Diceva che era dovere di un chirurgo ispirare fiducia a prima vista. Sentì una fitta al cuore. Era così bello, ma così freddo. Come una statua che potevi ammirare o sognare, ma non avere. Gen si girò cercando di scacciare le lacrime improvvise per la perdita di una persona che non aveva mai veramente avuto. «Lo prendo io. Il resto sarò felice di venire a ritirarlo domenica durante il tuo solito turno.» «Abbiamo fretta?» biascicò fermandosi davanti a lei. Gen si raddrizzò per sembrare più alta, il che era patetico, e cercò di mostrarsi calma. «Ho un appuntamento a cena.» «Me l’hai detto. Alle sette, però.» «Preferirei sbrigare questa faccenda in fretta.» Alzò un sopracciglio. «Ti stai comportando come una marmocchia scontrosa. Non hai diritto a preferire niente. Te ne sei andata umiliandomi il giorno del mio matrimonio. La donna che amavo e con cui progettavo il mio futuro non mi avrebbe mai ferito così profondamente.» Fece una smorfia. «Mi dispiace», disse con dolcezza. «Posso continuare a ripeterlo per sempre, ma non capisci il vero problema. Avevo l’impressione di non andarti mai bene, qualunque cosa facessi. Mi dicevi cosa mettere, cosa mangiare, cosa dire. Come comportarmi, chi frequentare. Era soffocante.» Piegò le labbra in un ghigno. «È questo il problema? Fare solo quello che volevi tu? Cercavo di prendermi cura di te, di darti quello di cui avevi bisogno. E mi ripaghi comportandoti come una sgualdrina e rinfacciandomelo?» Il cuore le batteva forte. Odiava questo lato del suo carattere. L’aveva sempre spaventata, anche se prima non se ne rendeva del tutto conto. Si allontanò da lui, cercando di mantenere la calma. «Non rifacciamo questa scenata. Prendo solo il computer e per stasera la chiudiamo qui.» Le diede una spinta così forte che cadde sul divano. Restò momentaneamente immobile per lo shock. «Non abbiamo finito. Neanche lontanamente. Ti ho dato tutto e ti lamenti pure. Pensi di potermi mollare per una squallida scappatella senza conseguenze? Secondo me è un bel po’ che ci prendi entrambi per i fondelli.» Balzò in piedi guardando il telefono. La rabbia nel suo sguardo le fece sudare le ascelle. Cercò di mantenere il respiro regolare, incerta sul da farsi. Avrebbe giurato che David non l’avrebbe mai sfiorata con un dito, né sarebbe mai riuscito a farle del male. Ora invece davanti a lei c’era un estraneo con cui non aveva mai avuto nulla a che fare. E se la faceva sotto dalla paura. «Ti ascolto.» Si mosse di nuovo come un fulmine, afferrandola per un braccio e sbattendola contro al muro. Gen batté forte la schiena e cercò di non perdere l’equilibrio, ma lui la stava già schiacciando col suo corpo tenendole stretti i polsi. Sentì il suo alito sul viso. «Non fare la condiscendente con me, Genevieve. Lo facevi meglio con Wolfe che con me? Perché ti dirò che, a parte le prime settimane, poi sei stata una vera delusione.» Cercò di liberarsi dalla sua presa ma lui la teneva stretta in una morsa. Le parole le si fermarono in gola e si sforzò d’incamerare ossigeno. «Per favore, no. Vattene, ti prego.» «Quando avrò finito.» Spinse i fianchi contro di lei. La sua erezione la nauseò. «Ti ha insegnato come si fanno i pompini? Ti sei comportata come una cagna in calore mentre ti scopava? Perché con me non l’hai mai fatto. Oh, la tecnica era corretta, ma eri come una bambola gonfiabile. Un versetto carino qui, un orgasmo finto là. Credevi che non lo sapessi? Scommetto che se metto la mano dentro questi jeans sei asciutta e secca come una foglia morta.» L’aggressione verbale la ferì quanto quella fisica. Era così scossa che cominciò a battere i denti dalla paura e dalla vergogna. Quando stavano insieme tremava al pensiero di fare l’amore con lui perché nonostante i disperati tentativi di dare piacere a entrambi, mancava sempre qualcosa. E dopo era tutta una critica e un suggerimento, senza più spazio per i sentimenti. Restava solo un immenso vuoto che lei non riusciva a riempire. «Lasciami, per favore», sussurrò. Lui sorrise. «Fingi come hai sempre fatto, piccola.» Lo strattone al bottone dei jeans risuonò come un colpo d’arma da fuoco. Perse la testa. Al limite dell’isteria, lo spinse con tutta la forza che aveva, pronta a usare le unghie e i denti e qualunque cosa le capitasse a tiro per toglierselo di dosso. D’un tratto volò indietro e fu libera. Gen guardò Wolfe torreggiare sull’uomo a terra. Come uno spirito vendicatore, pugni stretti e occhi azzurri infuriati, a metà strada tra un individuo evoluto e un primate. «Stai bene?» Il tono calmo era in totale contraddizione con la furia che emanava da lui. «Sì.» «Okay.» David si rimise in piedi e si sistemò il camice. «Che coincidenza. Il cavaliere con l’armatura che arriva in soccorso. Non preoccuparti, Wolfe. Sarà sempre la mia seconda scelta.» Sghignazzò. «Magari ci riprovo quando hai finito tu. Magari è un po’ più pronta.» Wolfe fece un sorrisetto. «Ora mi diverto.» Gli mollò un pugno. David barcollò, tenendosi la mascella esterrefatto. «Se solo ti avvicini, o pensi a lei, o anche solo pronunci il suo nome, giuro su Dio che ti uccido.» Gen trattenne il fiato quando Wolfe ripartì all’attacco. Veloce come un fulmine, colpì David con un pugno alla bocca dello stomaco, seguito da un violento montante al mento. Schizzò il sangue e David cadde a terra. C’era una luce pericolosa negli occhi di Wolfe, e Gen capì che se non l’avesse fermato subito avrebbe passato il limite e poi sarebbe stato troppo tardi. Gli si buttò tra le braccia, stringendosi forte a lui. «Wolfe. No!» David tossiva tenendosi lo stomaco. «Sei finito. Ti faccio causa!» Wolfe avanzò di un altro passo. Gen gli prese il volto tra le mani e lo obbligò a guardarla negli occhi. «Basta, Wolfe, non ne vale la pena.» Lui batté le palpebre come se fosse appena tornato da un altro mondo e cominciò a toccarla in affanno, accarezzandole i capelli, le guance, le braccia, i fianchi. «Ti ha fatto del male? Ti ha toccata?» «No, sei arrivato in tempo. Non mi ha fatto niente.» Le prese il volto tra le mani, lo scorse con lo sguardo, poi la strinse tra le braccia. Il calore del suo corpo la fece smettere di tremare. Gli lasciò le braccia al collo e appoggiò la testa contro il suo petto. «Fermi! Polizia!» Le luci dei lampeggianti illuminarono la finestra. Due poliziotti entrarono dalla porta semiaperta. «Lasciala andare immediatamente.» Gen inspirò di colpo. «Non ha fatto niente di male, agente.» «Nessuno si muova. Signora, per favore, si allontani da lui. Lentamente.» Gen obbedì, staccandosi di qualche centimetro. David si girò sul fianco gemendo, piegato in due. «Restate tutti dove siete. Signore, ha bisogno di un’ambulanza?» «Non credo. Questo figlio di puttana mi ha picchiato. Voglio che l’arrestiate.» «Non è vero!» Gen guardò agli agenti. Portavano l’uniforme blu di Verily con la pistola nella fondina al fianco e osservavano la scena. Notò che erano completamente diversi. Uno aveva i capelli scuri quasi rasati, a enfatizzare il pizzetto, ed era altissimo. Cavolo, la testa gli arrivava quasi alla traversa della porta. Aveva un viso magro dai lineamenti marcati e un aspetto da bruto; persino le labbra erano naturalmente piegate in un ghigno. Non avrebbe mai voluto incontrarlo in un vicolo deserto. L’altro invece sembrava appena sbarcato da Hollywood, capelli castani chiari spettinati, occhi nocciola e faccia da attore, con lineamenti finemente scolpiti, labbra piene e aria da ragazzo della porta accanto. Era alto la metà del suo collega. «Agente, mi stava aggredendo. Wolfe è arrivato in tempo per impedirlo.» David si alzò in piedi tenendosi la mano sulla mascella. «Di nuovo questo giochetto, Genevieve?» disse con lo sguardo addolorato. «Mi hai chiamato tu. Mi hai pregato di venire. Adesso questo coglione ci coglie sul fatto e tu mi consegni alla polizia? Gesù, non conto niente per te?» «Quest’uomo è un bugiardo!» Si voltarono tutti verso la voce femminile che aveva appena tuonato con grande autorevolezza. Arilyn passò in mezzo agli agenti come se avesse pieno titolo di farlo e abbracciò la sua amica. Gen le si abbandonò con la sensazione di trovarsi in una serie tv. N.C.I.S., forse? No, quello era l’esercito. O il governo. Qualcosa del genere. Cavolo, cominciava a dare i numeri. Il bruto strinse gli occhi. «Lei chi è?» volle sapere. «Arilyn Meadows. Vi ho chiamati io.» «Cosa?» sussurrò Gen. «Come facevi a saperlo?» «Sono venuta a lasciarti il manuale perché non sono ripassata dall’ufficio, e quando ho visto la sua macchina qui davanti ho sentito puzza di guai. Non volendo intervenire da sola ho chiamato la polizia. Ma Wolfe è arrivato prima.» Alzò il mento e annusò l’aria come se sentisse un cattivo odore. «Ho detto che era un’emergenza e ci avete messo una vita ad arrivare.» Li guardò di traverso. «Pensavo che la città di Verily fosse più preparata. Sono molto delusa.» Il bello rise. Il bruto grugnì infastidito. «Complimenti per il carattere, signora. Che ne dice se adesso saltiamo la parte del tè e dei pasticcini e cominciamo a rispondere a qualche domanda?» Si girò verso Wolfe. «Lei Rambo non si muova, intesi?» Wolfe alzò le mani e le tenne ben in vista. «Parliamo uno per volta. Lei. Mi dica cosa è successo.» David rispose. «Io e Genevieve ci eravamo lasciati, ma stavamo pensando di rimetterci insieme. Mi ha chiamato oggi pomeriggio mentre ero in ospedale e mi ha chiesto di venire da lei. Voleva parlare. Ha detto che le dispiaceva di avermi tradito con Wolfe, quel tizio», precisò indicando Wolfe. «Stava andando tutto bene, l’atmosfera si stava scaldando nel senso buono del termine, e ci stavamo baciando contro la parete. Poi questo psicopatico è piombato in casa, mi ha afferrato e mi ha pestato a sangue.» Gen strinse la mano di Arilyn per farsi forza. «Non è vero», disse col respiro affannoso. «Sta mentendo.» Gli agenti osservarono David, poi annuirono. Parlò il bello. «Signora? La sua versione?» Gen ricominciò a tremare. «Io e David ci siamo lasciati. Non torneremo mai insieme. Mi ha chiamata per dirmi che sarebbe passato a restituirmi una parte delle cose di mia proprietà che sono ancora nel suo appartamento. Quando è arrivato gli ho chiesto dov’erano le mie cose e ha risposto che erano in macchina. Poi ha cominciato a insultarmi, mi ha spinta contro il muro e ha cercato... ha cercato...» «Di farle del male!» concluse la frase Arilyn. «Di stuprarla. Per l’amor del cielo, agente, faccia il suo lavoro e arresti quest’uomo.» Il bruto le diede un’occhiataccia. Arilyn tacque. Il collega avanzò verso di loro e si fece seguire in cucina. «Venite, signore. Voglio qualche dettaglio in più di questa storia.» L’altro si girò verso Wolfe. «E lei? Cos’ha da dire?» «Gen ed io dovevamo uscire a cena alle sette. Sono arrivato prima, ho visto la macchina di lui e ho sentito lei che gridava, quindi sono piombato in casa e l’ho sorpreso mentre l’aggrediva. Gliel’ho tolto di dosso e l’ho colpito.» David scosse la testa. «Figlio di puttana! L’hai talmente spaventata con le tue sfuriate che ha paura di dirti che siamo tornati insieme. Perché credi che abbia ottenuto un ordine restrittivo?» Gen restò di stucco. «Cosa?» Il bruto guardò Wolfe. «È vero? C’è un ordine di protezione contro di lei?» Wolfe strinse la mascella. «L’ho ricevuto qualche ora fa. Era tutto premeditato.» L’agente mormorò qualcosa tra sé. «Devo fare un controllo. Chiamo e chiedo la verifica.» Il bello guardò Gen preoccupato. «Signora, vuole andare in ospedale? È stata malmenata?» Lei si sfregò le mani sulle braccia per scaldarsi. La stanza cominciò a girare. «David mi ha minacciata. Non so cosa sarebbe successo se non fosse arrivato Wolfe.» David le puntò un dito contro. «Ti rendi conto che queste bugie potrebbero danneggiare la mia carriera? Diavolo, posso provarlo. Mi ha chiamato sul numero privato. È lei che ha organizzato l’incontro. Controllate il cellulare se non mi credete.» «No, no, tu hai chiamato me! Cioè mi ha chiamato Sally chiedendomi di chiamarti...» La voce s’affievolì e tacque. D’un tratto aveva capito. «Gliel’hai chiesto tu.» Si coprì la bocca con la mano. «L’hai fatto apposta. Mi hai fatto chiamare per avere la prova della telefonata.» «Ne ho abbastanza. Sporgerò denuncia. Ora chiamo il mio avvocato, che proverà che c’è un divieto di avvicinamento a cui questo tizio non ha obbedito. Lo voglio in carcere.» «No!» «Io sono sua testimone!» gridò Arilyn. «Sporgiamo denuncia anche noi.» Il bruto alzò la voce. «Calmiamoci tutti quanti, ora. Basta parlare e restate separati.» Imprecò sottovoce, comunicò qualcosa al collega con lo sguardo e prese la ricetrasmittente. Il bello annotò gli ultimi dettagli sul blocco. Alla fine il bruto si girò verso Wolfe. «Devo chiederle di venire con noi alla centrale. C’è un’ordinanza restrittiva contro di lei che prevede il divieto di avvicinamento e ci sono prove di violenza fisica.» Wolfe annuì. L’agente estrasse le manette. «Oh mio Dio, no. Questo è ridicolo. Vengo con te», balbettò Gen. «Non è una cattiva idea. Vorrei che veniste tutti, così raccogliamo le vostre dichiarazioni ufficiali.» David lo guardò di traverso. «Chiederò al mio avvocato di raggiungervi in centro.» Il bruto alzò gli occhi al cielo. «Non siamo in centro, signore. Siamo su Main Street. Nei quartieri alti, si dà il caso.» Il bello sembrò divertito. «Lo porto io.» Wolfe fece un passo verso Gen ma il bruto lo fermò. «Non ancora. Preferisco che non parliate finché non avremo sentito le versioni di tutti.» Oh oh. Gen guardò Wolfe. Stringeva i denti sforzandosi di mantenere il controllo. «Io sto bene», disse con convinzione. «Vai con lui, ci vediamo alla centrale.» «Cos’ha nella testa?» abbaiò Wolfe all’agente. «È appena stata aggredita. Le procuri una coperta e dell’acqua.» «Portalo via di qui. Noi ti seguiamo», disse il bruto al collega. Gen guardò impotente il bello che scortava Wolfe alla volante. Arilyn borbottò sottovoce qualcosa d’indecoroso mentre il bruto accompagnava anche loro due alla sua auto. Le fece accomodare, chiuse la portiera, sparì e tornò con una coperta e due bottiglie d’acqua che aveva recuperato nel bagagliaio. «Ecco.» Le mise in mano ad Arilyn e si sedette al posto di guida. Arilyn avvolse la coperta intorno alle gambe di Gen e le aprì la bottiglia. Lei ne bevve qualche sorso. Il calore del tessuto ruvido la rilassò. Era proprio stupida. Era tutta colpa sua, che l’aveva chiamato e aveva creduto a quello che le aveva detto. Com’era possibile che la loro relazione fosse arrivata a questi livelli di odio e violenza? E l’ordine restrittivo? Wolfe era nei guai a causa sua. Doveva fare qualcosa, ma ora che David aveva mostrato il suo vero volto aveva paura di peggiorare la situazione a danno di Wolfe. David conosceva moltissime persone influenti e avrebbe potuto rendergli la vita un inferno. Durante il percorso verso la stazione di polizia rimase in silenzio, immersa in un turbinio di pensieri. Arilyn le diede una leggera pacca sul ginocchio e si lanciò all’attacco. «Spero che lei non sia uno di quei poliziotti misogeni», osservò con voce gelida. «Agente...?» «Petty. Stone Petty. Perché non mi dice cosa significa misogeno, signora...» «Signorina Arilyn Meadows. Le ho detto il mio nome al telefono.» «Non prendo io le chiamate, signorina Meadows», rispose mettendo l’accento sulla parola signorina. «Io vado dove mi mandano.» «Verily non è molto grande. Eravate in pausa quando ho chiamato? Sicuramente stavate facendo altro visto che ci avete messo un quarto d’ora ad arrivare.» «Sì, stavo prendendo una ciambella e chiacchierando coi miei colleghi misogeni.» Arilyn strinse le labbra. «Ho solo paura che vi facciate condizionare dalle apparenze. A quanto ne so la polizia si affida alla prima impressione per giudicare i fatti e David è un bugiardo. Ha maltrattato la mia amica, ha manipolato la situazione, e sospetto che abbia architettato tutto per essere sorpreso da Wolfe. Non vorrei che non fosse fatta giustizia solo perché è dotato di grande fascino e molte conoscenze.» Nell’auto scese il gelo come se fosse apparso un fantasma. «Capisco. Cercherò di non farmi accecare dal suo sorriso abbagliante e di far funzionare il cervello. Incredibile la fortuna che ho avuto a superare tutti i test psicologici necessari per entrare nella polizia. Diamine, almeno ho la mia ciambella giornaliera e guido una bella auto.» Arilyn sbuffò. «Lei si sta prendendo gioco di me. La sto solo invitando ad analizzare la situazione nella sua interezza e a valutare i fatti con distacco.» «Sissignora. È lei la contribuente. E ha ragione quando dice che le apparenze ingannano. La mia prima impressione di lei era completamente sbagliata.» «Che intende dire?» «In un primo momento ho pensato che lei fosse una specie di buona samaritana dolce e tranquilla», rispose senza traccia di sarcasmo. «Ah. E adesso?» Gen trattenne il fiato. C’era una strana tensione tra loro e lei si trovava in mezzo. Non era da Arilyn aggredire la gente in quel modo, specialmente un poliziotto. Di solito rispettava gli insegnanti e chiunque portasse un’uniforme. Persino troppo. «Adesso non lo penso più.» L’implicito insulto colpì nel segno. Arilyn restò a bocca aperta ma lui stava già accostando al marciapiede davanti alla piccola stazione di polizia. Aprì la portiera, le fece scendere e le accompagnò all’interno. Gen non era mai stata in una stazione di polizia. Somigliava un po’ alle caserme dei pompieri delle piccole città, o alle sedi del corpo volontari dell’ambulanza. Nell’atrio c’era un bancone con alcune sedie e un odore stantio di caffè, sudore e colpa. L’agente Stone le condusse lungo un corridoio che si apriva su una stanza con qualche scrivania malconcia, schedari, una cucina improvvisata e alcune porte che immaginò portassero agli uffici privati. Decisamente nulla con cui intrattenere piacevolmente Kate e Kennedy, che certo le avrebbero fatto un sacco di domande. Stone le fece accomodare davanti a una scrivania attaccata al muro. Gen si sedette su una sedia di metallo e si guardò intorno. C’erano fotografie e appunti attaccati ovunque sulle pareti, ma niente di personale sulla scrivania dell’agente Stone: vari dossier, un computer e un calendario. A giudicare dai molti sacchetti accartocciati gli piacevano molto i dolci. Notò anche un pacchetto aperto di Marlboro. Oh, no. Sperò che Arilyn non lo vedesse. O che almeno si rendesse conto che data la situazione non era il caso di attaccare coi suoi sproloqui sull’argomento. «Lei fuma?» La voce acuta della sua amica la fece rabbrividire. Troppo tardi. Stone sollevò un sopracciglio, mise il pacchetto nel primo cassetto in alto e la fissò. «È un problema?» Arilyn posò i gomiti sul legno scheggiato della scrivania. «Sì, è un enorme problema. A parte inquinare l’ambiente e intossicare il prossimo col fumo passivo, lei è una bomba a orologeria di problemi di salute. Cancro. Dolore. Morte. Ne vale la pena?» Gen non si mosse. La tensione tra loro era come un cappio a cui fosse stata data un’ulteriore stretta e lo sguardo di lui era così minaccioso da togliere il respiro. Alla fine Stone fece un sorrisetto lento e poco amichevole. «Sì, ne vale la pena. Ora perché non mi racconta la sua versione della storia prima che mi irriti al punto da inventarmi qualcosa per sbatterla in prigione?» Spalancò gli occhi. «Non può parlarmi in questo modo.» «Sì che posso. Questo è il mio territorio, signorinella. Meglio che ci si abitui.» Arilyn lo guardò in cagnesco, mormorò qualcosa di assolutamente turpe sottovoce e si rimise dritta sulla sedia scomoda. «Wolfe dov’è?» domandò Gen. «Con l’agente Devine. Signorina Meadows, può cominciare. Cos’ha visto prima di chiamarci?» Arilyn raccontò la sua versione della storia tenendo un po’ il broncio. Gen, quando fu il suo turno, si prese tutto il tempo necessario per non tralasciare nulla. Diede il cellulare a Stone per mostrargli che prima di chiamare David aveva ricevuto una telefonata dall’ospedale. Stone l’ascoltò con attenzione, interrompendo ogni tanto con qualche domanda. Alla fine chiuse la cartella e alzò lo sguardo. «Valuteremo i fatti e ci faremo vivi.» Arilyn balzò in piedi. «Tutto qui? Questo è tutto? Non arrestate David?» «Volete sporgere denuncia?» «Sì.» «No», disse Gen. Arilyn si girò di scatto verso di lei. «Adesso non posso. Voglio solo far uscire Wolfe da qui e tornare a casa.» L’amica le prese la mano. «Ti ha aggredita», le ricordò a bassa voce. «So che hai paura, ma ti aiuteremo noi. Denuncialo.» «Non adesso. Per favore, A, non insistere. Ci sono tanti aspetti da considerare. Devo pensare all’ospedale, ai problemi legali, alla pubblicità, a Wolfe. Chiederò un ordine restrittivo contro David così mi starà lontano. Non voglio più vederlo.» Arilyn si morse il labbro. Era frustrata ma non voleva insistere. «Va bene. Aspettiamo Wolfe e andiamocene.» «Siamo spiacenti, signore, ma dovremo trattenere il vostro amico fino a domani.» L’ufficiale Devine alias il bello si avvicinò e le guardò con aria solidale. «Ha violato l’ordine restrittivo e aggredito il signor Riscetti. Dovremo aspettare domani quando apre il tribunale per la cauzione.» Gen stava per scoppiare in lacrime ma si trattenne, pensando che Wolfe non avrebbe voluto vederla piangere. Alzò il mento e si ripropose di rendersi utile. L’aveva trascinato lei in questo pasticcio e ora doveva tirarlo fuori. «Ha chiamato l’avvocato?» Devine fece segno di no con la testa. «Non ancora.» «Diamoci da fare, allora. A, telefona a Kate e chiedi di parlare con Slade. Poi chiamiamo Max. Lui sa sempre cosa fare.» «Ricevuto.» «Posso accompagnarvi a casa?» domandò Stone. Arilyn gli lanciò un’occhiataccia. «Ha già fatto abbastanza.» S’interruppe. «O forse no.» L’agente scoppiò a ridere. «Ci sentiamo, signora MacKenzie.» Poi guardò Arilyn con rimprovero. «Arrivederci a presto, signorina Meadows.» Era più una minaccia che una promessa. Arilyn cercò di mantenere il contegno ma uscendo inciampò. La risatina di lui le fece capire che se n’era accorto. Gen decise di non parlare della strana conversazione tra loro e si diede da fare. Capitolo 13 «Spero proprio di evitarmi questa esperienza quando mio figlio sarà grande.» Wolfe alzò lo sguardo. Maximus Gray era un caro amico di Sawyer e socio della catena di panifici La dolce Maggie, ma soprattutto era un tipo molto tosto. In questo momento lo stava guardando attraverso le sbarre della cella. Portava dei jeans e una maglietta sporca di bava di neonato e altre strane macchie, ma metteva comunque più soggezione di molte altre persone che Wolfe conosceva. Una vena di humour gli piegava le labbra. Wolfe si alzò dalla panca e si avvicinò. «La eviterai. La prima cosa che dirò a Max Junior sarà di chiamare il suo vecchio amico Wolfe per tirarlo fuori di prigione. Tu diventi irritabile quando perdi qualche ora di sonno. Ehi, chi ti ha chiamato? Non sono riuscito a fare la mia telefonata.» «Gen. Cos’è successo?» «Un casino.» «Già sentita, questa. Racconta.» Wolfe si rilassò e gli raccontò tutta la storia, senza tralasciare alcun dettaglio. Normalmente si sarebbe intestardito a tirarsi fuori da solo dai pasticci in cui era finito, ma l’obiettivo che aveva in mente vanificava tutto il resto. Tornare da Gen prima possibile. E non poteva farlo restando in prigione. Max prese alcuni appunti. «La prima cosa è tirarti fuori. Faccio qualche telefonata. Poi presenteremo richiesta di ordine restrittivo a nostra volta. Gen sta bene?» «Penso di sì, è forte. Ma devo uscire da qui, Max. Devo starle vicino.» Max annuì, pensieroso. «State insieme, adesso?» Wolfe fece una risata. «No. Siamo solo amici. Cos’è questa mania di tutta la famiglia di vederci insieme? È stato così sin dal primo giorno.» S’aspettava che ridesse anche Max, invece rimase stranamente in silenzio, osservandolo come se sospettasse qualcosa che lui stesso non sapeva. Cercò di mostrare indifferenza, sperando che nessuno venisse mai a sapere di quell’unico bacio rubato tra loro. Un bacio perfetto. «Perché state bene insieme», disse semplicemente Max. «Non che non volessi vederla felicemente sposata. Però sono contento che abbia piantato quel coglione prima che fosse troppo tardi. È sempre stata molto intelligente.» «Già. Ma questo tizio è in gamba, Max. Ha pianificato tutto, le ha fatto lasciare l’ospedale e la manovra come un burattinaio. Sono preoccupato. Non voglio che le si avvicini.» «Capito. Lascia che mi occupi di un paio di cose. Vuoi che chiami Sawyer e Julietta?» Wolfe fece una smorfia. Non avrebbero potuto fare nulla per lui quindi era inutile preoccuparli. «No, glielo dirò io quando sarà tutto finito. Conoscendo Sawyer prenderebbe un aereo e verrebbe qui. Chiudiamo prima la faccenda.» Max annuì. Wolfe era così abituato a vederlo alla prese con qualunque tipo di problema che non aveva pensato al fatto che non era un avvocato. «Ehi, ma come fai a farmi uscire?» Le sue labbra si piegarono in un ghigno. «Diciamo che conosco della gente. Torno presto.» Wolfe scosse la testa. Per fortuna Max era dalla sua parte. Non avrebbe voluto essere nei panni di un suo avversario. Si mise a camminare avanti e indietro nella cella e aspettò. «Sei uscito!» Genevieve gli si gettò tra le braccia. Wolfe la sollevò senza fatica, chiudendo la porta con un piede, e la tenne stretta.. In genere quando si lasciava travolgere dalle emozioni lui rideva e le dava della mocciosa. Adesso sembrava felice di vederla dare libero sfogo ai suoi sentimenti. Meno male, perché anche volendo non sapeva se sarebbe riuscita a staccarsi. Le premette le labbra sul cuoio capelluto e le sussurrò qualche stupidaggine. Il ricordo della brutta avventura la fece tremare. S’aspettava che puzzasse di sudore e di muffa, invece odorava di cotone, acqua e sapone. Il suo calore familiare l’avvolgeva come un bozzolo e la camicia morbida le accarezzava la guancia. «Scusa, mi dispiace tantissimo», sussurrò. Lui alzò il mento. «Che stupidaggine. Vuoi scusarti anche per i serial killer e le catastrofi naturali?» «Sì. Mi spiace anche per quelli. Mi spiace per tutto ciò che può farti soffrire.» Lui s’addolcì e i suoi occhi azzurri si riempirono di calore. Le tirò indietro i capelli spettinati, un gesto che aveva fatto mille volte, ma che adesso aveva un sapore diverso. Più intimo. Da amante, più che da amico. Oh-oh. Lui sembrò arrivare alla stessa conclusione nello stesso momento. Si schiarì la gola, si sciolse dall’abbraccio e fece un passo indietro. «Sei stata brava a chiamare Max. Ha sistemato tutto, ma devo comunque comparire in giudizio. Ora devo fare un paio di cose poi torno. Tu stai bene?» Annuì. «Sì. Arilyn è rimasta con me stanotte. Slade si sta occupando dell’ordine restrittivo contro David. Sono certa che non si avvicinerà più ora che rischia la reputazione. Slade ha detto che penserà lui a come recuperare la mia roba senza ch’io debba vederlo.» Serrò le labbra. «C’è un solo modo per essere sicuri che non torni. Vengo a vivere qui.» Rimase di sasso. Le sfuggì una risatina. «Sei impazzito? Non puoi venire a vivere con me.» «Ti senti al sicuro qui, Gen?» Un leggero brivido. «No. Ma voglio farmi mettere un catenaccio da un fabbro e farmi montare un sistema d’allarme. Sono tutti in guardia in caso compaia la sua macchina. Ho la protezione legale. Sono a posto.» Wolfe strinse gli occhi. «Non è sufficiente. Si è offeso perché l’hai lasciato e vuole vendicarsi. Io non mi fido, Manhattan è troppo lontana da qui. Staremmo meglio entrambi se dormissi qui.» Gen camminava per la stanza. Non poteva scombussolargli la vita. La stava salvando di nuovo e doveva essere stufo marcio di farlo. «No, apprezzo l’offerta, ma me la cavo da sola. Non puoi stare a Verily quando il Purity è di fianco al tuo appartamento. E poi casa mia ha una sola camera. Tempo una settimana e ci scanneremmo.» «Non essere ridicola, andiamo d’accordissimo. Io dormirò sul divano. Sarà divertente, come un pigiama party di un mese. Alle donne piacciono queste cose, no?» Si grattò la testa. Le sembrava un’idea folle. «Ci facciamo anche le treccine ai capelli?» «Se vuoi.» «No! So badare a me stessa. Le mie amiche abitano qui e posso sempre chiedere ad Arilyn di dormire da me se ho paura. Non puoi trasferirti qui.» «D’accordo, allora dormirò in macchina e starò di guardia qui fuori. Se non vuoi farmi entrare, fai pure. Personalmente preferirei il divano.» L’avrebbe fatto. Quando si metteva in testa qualcosa era ostinato come un mulo. Maledizione. Da quando era diventata una donzella in pericolo? Detestava quelle stupide principesse di Walt Disney. Ma la verità era che la sua presenza l’avrebbe fatta sentire più al sicuro. Aveva paura. Paura d’incontrare David, di vedere la sua faccia alla finestra di notte che le diceva di rilassarsi e di fingere come aveva sempre fatto. Era stata una cosa troppo brutta per poterla dimenticare da un giorno all’altro. Magari una settimana. Due al massimo. Il tempo di constatare che David aveva smesso di tormentarla e di calmare l’istinto protettivo di Wolfe. Più in là ripensando a questa storia ci avrebbero riso sopra, la loro amicizia ne sarebbe uscita rafforzata e lei sarebbe finalmente passata oltre. Tanto più che non aveva scelta. Meglio risparmiare le forze per battaglie che poteva vincere. «Va bene. Hai vinto.» «Ottima scelta.» Le scompigliò i capelli e rise. «Faccio le valigie, passo dal Purity a dare un’occhiata e torno. Che ne dici se preparo la cena per celebrare la nostra prima serata ufficiale insieme?» Alzò gli occhi al cielo. «Vorrei mangiare, quindi cucino io.» «Ancora meglio.» Gen incrociò le braccia sul petto. «Non pensare che ti vizi come fa Julietta. E giuro che se mi lasci le mutande sporche in giro per casa ti sbatto fuori.» Sembrò ferito. «Sono un convivente perfetto.» «Perché non hai mai vissuto con nessuno.» «È sulla lista di cose da fare prima di morire. Adesso posso metterci la spunta.» Se ne andò. Lei si guardò intorno e nel notare qualche ragnatela che ancora non era riuscita a togliere decise che era un buon momento per ristrutturare. Da quando si era trasferita erano saltate fuori una serie di riparazioni da fare e già la sua vicina, la strega di Verily alias signora Blackfire, aveva cominciato a lasciarle antipatici bigliettini in cui le intimava di tagliare il suo albero preferito. La vecchia quercia era bellissima e frondosa e pendeva leggermente a sinistra del giardino. La strega insisteva a dire che era morta e che sarebbe crollata sul suo tetto. Gen non era d’accordo. Dopo un avvocato, un’ispezione della compagnia assicurativa e una riunione in comune, l’aveva spuntata. Quasi. Col suo trasferimento la contesa era stata sospesa ma ora che era tornata sarebbe cominciato il secondo round. Eppure le piaceva la sua casa e non avrebbe permesso a David di rubarle il senso di sicurezza che le dava. Né alla strega di sottrarle il suo diritto a tenere un albero salutare nel suo giardino. Gen raccolse i capelli in una coda e prese i secchi, le spugne e i detersivi. Poi sarebbe andata a comprare lenzuola e cuscini. Almeno stava comodo. Doveva fare anche un po’ di spesa per preparare una bella cenetta. Magari braciole di maiale con glassa d’albicocca. Accese l’iPod e si mise al lavoro. «Andate a vivere insieme?» domandò Kate con voce stridula sedendosi sulla sedia viola. Erano nella saletta in cui ricevevano i clienti a esaminare alcuni dati relativi agli aspetti più importanti da valutare per formare una coppia. Dopo le pulizie e la spesa era andata al lavoro per distrarsi. Buffo, da giornate intere in piedi in ospedale senza un attimo di respiro era passata a cercare di riempire il tempo per non implodere. Tuttavia era decisa a guardare a questo cambiamento come a un’opportunità. Aggrapparsi al lavoro era diventato un modo per non vedere la realtà delle cose. «Non insieme come una coppia», s’affrettò a precisare. «Da amici. Finché non lo convinco che David non è più un pericolo.» L’amica la guardò pensierosa. «Credi che riproverà a farti del male?» Gen fece spallucce. «No, ma Wolfe non è convinto. Era più facile assecondarlo che protestare. E in effetti ero un po’ in paranoia. È solo per un breve periodo.» «A me sembra un’ottima idea. Sai che avresti potuto anche venire a stare con me, Slade e Robert, vero?» Gen rise. «Due case più in là? Grazie, ma per stavolta passo. A parte l’incubo della nostra vicina, preferisco vivere con uno senza fare sesso.» «Ti stressa ancora, quella strega? Avrà un binocolo per spiarti. Sai cosa mi ha fatto settimana scorsa? Ha lasciato un sacchetto di cacca di cane sulla mia veranda e un biglietto con scritto: ‘Visto che l’avete lasciata nel mio giardino ve la restituisco’. Figuriamoci. Robert non si abbasserebbe mai a farla nella sua proprietà.» Una risata strozzata. «Verily starebbe meglio senza lei. Credi che prima o poi se ne andrà?» «Chi lo sa. Dopo la faccenda della gelatina di frutta, al centro anziani non la vogliono più. Chiede ancora di eliminare la tua quercia?» Annuì. «Ora lo chiamo l’albero della discordia.» L’amica rise. «È bellissimo. Almeno blocca la visuale. Darà di matto quando vedrà Wolfe.» «Non vedo l’ora.» «Torniamo al sesso.» Kate indicò la cartella sulla scrivania. «Prima compili il questionario e t’iscrivi, prima ti troviamo qualcuno con cui uscire.» Gen esitò. «Wolfe dice che non sono pronta. Mi ha consigliato di stare sola per un po’.» «È geloso?» «No! Solo preoccupato. Fa un po’ il fratello maggiore. Ma no.» Kate sembrò riflettere sulla risposta in silenzio. «Sei stata vittima di un rapporto violento per due anni. Non penso sia una cattiva idea distrarsi un po’. È passato più di un mese dal matrimonio e penso che uscire con qualcuno ti farebbe bene.» «L’ha detto anche Arilyn. Se non corro rischi e posso andarci piano, allora d’accordo.» Si guardò le unghie mangiucchiate e raccolse il coraggio per fare la domanda che la ossessionava. «Hai mai sentito il tocco con me e David?» Gen sapeva di aver sconfinato. Il patto era che nessuna delle amiche avrebbe mai usato Kate per verificare il legame con l’uomo che aveva scelto. Kate aveva paura di influenzarle, mentre era giusto che fossero libere di scegliere. Aveva infranto la regola una volta soltanto, quando aveva confessato a Kennedy che Nate era l’uomo della sua vita. Ma le circostanze erano diverse. Kennedy credeva di non essere destinata all’amore e quasi perdeva Nate per sempre. Ma la domanda di Gen era diversa. Kate sospirò. Le scese un velo di tristezza sugli occhi. «No. Ma ho avuto occasione di toccarvi entrambi una sola volta al compleanno dei gemelli. È quando ho pensato di aver perso il tocco. Non ho più provato quindi non lo so.» Rilassò il busto, sollevata. Se Kate avesse sentito il tocco tra loro, sarebbe stato ancora più difficile capire perché non aveva funzionato. «Me lo ricordo, quel giorno», mormorò Gen. «Mi ha colta di sorpresa chiedendomi di sposarlo. Non mi sarei mai aspettata che lo facesse davanti ai miei.» «L’ha fatto apposta. Così era sicuro che non avresti risposto di no.» Cambiò posizione sulla sedia, tormentandosi il labbro inferiore coi denti. «Anzi, ho notato che hai guardato Wolfe prima di dire di sì.» «Davvero?» «Sì. Perché?» Gen si voltò per sottrarsi allo sguardo inquisitore dell’amica. Cavolo, aveva cercato di rimuovere quell’episodio. L’uomo che amava e che aveva desiderato per tanto tempo finalmente le chiedeva di sposarlo, e prima di dire di sì aveva sentito il bisogno di guardare Wolfe. Era dietro agli altri invitati, impassibile come una statua. Cosa cercava? Approvazione? Un sorriso? O altro? Si erano guardati, ed era successo tutto così in fretta. Aveva aperto la bocca per dire di no, ma poi l’istante era passato, Wolfe si era voltato e la sua famiglia guardava lei e David in ginocchio, e aveva detto l’unica cosa che poteva dire in quel momento, e che credeva di volere. Sì. «Non me lo ricordo.» Il silenzio di Kate fu persino peggio della bugia. Si sentì in colpa, ma non voleva più pensare a quel giorno. «Posso farti un’altra domanda? L’ultima, lo prometto.» «Certo.» «Hai mai sentito il tocco con me e Wolfe?» Kate sussultò, ma Gen era più sorpresa di lei. Perché aveva fatto una domanda così stupida? Non voleva saperlo. Erano amici, non amanti. «Lascia stare, non rispondere. Ho il cervello in pappa per la notte in bianco.» «No.» Trattenne il respiro. «No, non l’hai sentito?» «Sento un legame tra voi due, ma non ho mai sentito il tocco. Mi dispiace.» Gen fece un sorriso forzato. «Non essere sciocca, non pensavo certo che l’avessi sentito. Non so perché te l’ho chiesto.» «Io penso che tu lo sappia, invece.» Non volle soffermarsi su quel commento. Sorrise e prese le cartelle. «Inserisco questi dati al computer, poi Kennedy mi porta ad assistere a una seduta per migliorare l’immagine, così vedo cosa succede dietro le quinte.» Kate annuì, senza ostacolare la ritirata. «Fammi sapere se ti serve qualcosa. Stiamo organizzando una serata tra ragazze questo weekend. Ci sei anche tu?» «Assolutamente. Cocktail e pettegolezzi è proprio quello che mi ci vuole.» Tornò al lavoro, cercando di non pensare alla delusione che stava provando. Forse inventarsi strane fantasie su lei e Wolfe l’aiutava in qualche modo ad affrontare meglio la fine della relazione con David. Certo, quel bacio era stato meraviglioso, ma non si sarebbe più ripetuto. Ci tenevano troppo alla loro amicizia per rovinare tutto col sesso, specie se non c’era futuro per cui lottare. Kate non aveva mai sentito il tocco. Quindi erano destinati a essere solo amici. Ed era una buona cosa. Ottima. Capitolo 14 «Non mi piacciono i cavolini di Bruxelles.» Gen notò il broncio del bambino capriccioso, ma tra i tatuaggi, i piercing e tutti quei muscoli non faceva molto effetto. «Pazienza, fanno bene e come li faccio io ti piaceranno.» Tirò fuori la pentola e li tastò con la forchetta. Deliziosamente croccanti ai bordi, con l’olio d’oliva e il condimento a dargli un sapore meraviglioso. Aveva imparato presto che arrostire rendeva tutto più gustoso. «Ti spiace controllarmi di nuovo le focaccine? Tendo a bruciarle.» Aprì il fornelletto e sbirciò dentro come fosse un mistero di Scooby Doo. «Sono marroncine.» «Cacchio. Spegni subito, per favore, e mettile su quel piatto.» Ottemperò in modo maldestro con le grandi mani e lei si sforzò di non ridere. Wolfe dominava la piccola cucina con il suo fisico imponente ma sembrava intimidito dalle varie mansioni. Giurò che gli avrebbe insegnato a cucinare qualcosa nel periodo in cui sarebbe stato con lei. Gli serviva qualche tecnica di sopravvivenza in ambito domestico. Intuì che serviva il burro, lo cercò e lo mise in tavola. I piatti spaiati e i bicchieri sbeccati avrebbero fatto venire un attacco cardiaco a David. Quando si erano messi insieme lei era un disastro in cucina, preferiva cenare con cibi pronti o una tazza di cereali, ma lui le aveva subito tolto quell’abitudine, insistendo sul fatto che doveva imparare a cucinare pasti sani e genuini per la futura famiglia e i futuri invitati. In men che non si dicesse aveva imparato a imbandire una tavola perfetta con l’argenteria al posto giusto e i tovaglioli arrotolati. Aveva smesso di bruciare i cibi e imparato a seguire le ricette, pur odiando la suspense di quando David li assaggiava e lei aspettava la sua opinione. Gen guardò i due coperti, i piatti scheggiati e il tavolo di pino che straripava di pentole e sorrise. Era... perfetto. Persino i biscotti bruciati sembravano urlare un bel vaffanculo al suo ex fidanzato. Quante volte aveva schioccato la lingua deluso dal fatto che non riuscisse a servire una focaccina decente? A lei personalmente piacevano croccanti. Ma le vecchie abitudini erano dure a morire. «Mi spiace per le focaccine.» Lui sbuffò dal naso. «Scherzi? L’ultima volta che ne ho mangiata una è stato in Italia. E poi mi sono sempre piaciute un po’ bruciacchiate.» Rise, sollevata. «Anche a me.» Versò due bicchieri di Chianti e si sedettero a tavola. Wolfe chinò il capo e chiuse gli occhi. Guardò affascinata l’umile atto di rendere grazie al Signore per il cibo. Quando prese la focaccina e ci spalmò il burro sopra si accorse che lo stava fissando. «Che c’è?» «Non ti avevo mai visto rendere grazie prima di mangiare.» Le sue guance si colorarono leggermente. Un’altra cosa che amava di lui. Un playboy grande grosso e milionario con la tendenza ad arrossire. Cosa c’era di meglio? «Mamma Conte diceva sempre che ogni pasto è un dono. C’è stato un periodo nella mia vita in cui dovevo fare i salti mortali per mangiare. Ho recuperato molti avanzi dalla spazzatura. Dopo un po’ di pasti cucinati a casa, mi è venuto spontaneo ringraziare per essere sfuggito dall’inferno che era la mia vita.» Sentì un tuffo al cuore ma si concentrò sul suo piatto, sapendo che era un argomento delicato. Gen sapeva poco del suo passato e la promessa che si erano scambiati di non parlarne confermava la sua intenzione di mantenere le cose come stavano. C’era un lato oscuro in lui di cui era sempre consapevole. Gli diceva spesso di essere disposta ad ascoltarlo amichevolmente se avesse mai voluto parlarne. Lui annuiva, ringraziava e stava zitto. Azzardò un passo avanti. «Quanto è durato questo periodo?» La forchetta stridette sul piatto. «Cinque anni. Sono andato via di casa a quattordici anni.» Sì, ne aveva diciannove quando Sawyer l’aveva accolto in casa sua. Venti quando si erano conosciuti loro due. «Per via di tua madre? E della droga? È per questo che hai dovuto andartene?» Mandò giù un sorso di vino evitando il suo sguardo. «In parte.» Azzardò ancora un po’. «Niente affido? Non so come hai fatto a sopravvivere per strada così giovane. Dovevi essere coraggiosissimo.» Strinse la mano intorno al bicchiere. D’un tratto i suoi occhi azzurri erano pieni di disprezzo e ripugnanza. Spaventata, lei non aprì bocca e non osò aggiungere altro. «Non pensare che fossi coraggioso, Gen. Non pensarlo mai. Ho fatto quello che c’era da fare.» Una ferita sanguinante al cuore. «Wolfe...» disse con voce strozzata. «Quando hai imparato a cucinare così?» Prese una manciata di cavolini e li mise in bocca. «Non sono affatto male.» Aveva rialzato le barricate. Il tempo delle domande e delle risposte era ufficialmente scaduto. «David voleva che sapessi cucinare bene. Diceva che era importante per una moglie e una madre.» «Da chirurgo sarai ricca abbastanza da pagare qualcuno che cucini per te. Scommetto che quella testa di minchia non si è mai imposto gli stessi standard.» «No, infatti. All’inizio ero risentita ma poi è successa una cosa strana. Ha cominciato a piacermi. Per cucinare ci vuole creatività ma anche scienza. Seguire le ricette era rilassante.» «Continua pure a rilassarti quando sono qui.» Sollevò un sopracciglio. «Oh, non solo io. T’insegnerò alcune cosette. Ti serviranno.» Sbuffò. «Dovevo immaginarlo che avresti cercato di tormentarmi. Senti, dobbiamo studiare gli orari. Per vedere se siamo compatibili.» Aggrottò la fronte, perplessa. «I miei orari di lavoro sono semplici. T’informerò volta per volta, e di te so già che lavori dodici ore al giorno. Puoi scrivermi un messaggio quando pensi di tornare per cena e cose simili. Non sarà difficile.» Ruotò gli occhi. «Non me ne può fregare di meno del lavoro. Sto parlando della tv. Del telecomando. Di chi vede cosa e quando. E non pensare che mi smazzi quegli schifosi reality che guardi tu, The Bachelor o Hell’s Kitchen. Dovresti vergognarti.» Gen gli lanciò un cavolino di Bruxelles che gli rimbalzò sul petto duro come una roccia. «Vaffanculo. Comunque alla nuova stagione di The Bachelor mancano ancora due settimane. Si sta concludendo Ballando sotto le stelle.» «Lo puoi registrare.» «Non penso proprio! Non ho nessuna intenzione di sorbirmi i tuoi stupidi Cacciatori di mostri o Paranormal che cavolo. Non trovano mai né mostri né fantasmi. Devi farti visitare.» La guardò torvo. «Trovano un sacco di prove. Devi smetterla di guardare tv spazzatura. Cerca di ampliare i tuoi orizzonti.» «L’ho fatto. Ho guardato Scandal e mi è piaciuto. Parla di politica a Washington.» Si strofinò il viso con disgusto. «Sono morto e sono all’inferno.» «Spero trasmettano dei buoni programmi all’inferno», cinguettò lei prendendo un cavolino e mettendolo in bocca. «O almeno che abbiano il videoregistratore.» Continuarono a discutere mentre sparecchiavano, appendevano gli indumenti di Wolfe nell’armadio e litigavano per lo spazio in quello del bagno. Gli diede le nuove lenzuola e la nuova trapunta che aveva comprato insieme al cuscino e lo aiutò a sistemare il divano. Cavolo, era corto. Con quelle gambe lunghe sarebbe stato scomodo. Si sentì subito in colpa. «È un cuscino memory.» Rimboccò il lenzuolo e lo guardò. Teneva in mano il cuscino con un’espressione meravigliata. «Eh? Ah, sì, non mi hai detto che sei diventato schiavo dei cuscini memory? Volevo che stessi comodo.» Le sue labbra si piegarono in un sorriso. Il volto s’addolcì e Gen fece molta fatica a non farsi sfuggire un gridolino di piacere. Avrebbe fatto qualunque cosa per fargli restare quel sorriso. Qualunque cosa. «Possiamo vedere Ballando sotto le stelle se proprio ci tieni.» Gen rise. «Sei proprio schizzato. Guarda pure tu la tv, io devo fare la doccia. Sicuro di riuscire a dormire qui?» Agitò una mano per minimizzare. «Non crederesti mai a dove ho dormito. Questo è il Taj Mahal, piccola.» Lo sguardo le cadde sui bracciali di cuoio e ancora una volta si chiese cosa nascondessero. Non poteva immaginarlo dormire nei vicoli e andare a caccia di cibo a quattordici anni. Che orrori aveva visto? Respinse quelle emozioni, sapendo di doverle lasciare alla fortunata che avrebbe conquistato totalmente la sua fiducia. Certo, lei era la sua migliore amica, ma lui avrebbe confidato i suoi più intimi segreti solo alla donna che avrebbe amato. Gen la odiava già. Andò in camera, prese il pigiama e si piazzò sotto la doccia. Basta con certi pensieri. Specialmente ora che vivevano insieme. Aveva bisogno di qualche distrazione. Qualche antidoto alla pozione d’amore. Girò la manopola e fece uscire l’acqua più fredda. Giusto per una sicurezza in più. Wolfe doveva ammettere che si stava divertendo. Da quando aveva lasciato l’Italia si era abituato a stare da solo. A decidere tutto lui. Eppure vivere a casa di Gen, uscire con lei, cucinare insieme, sparare a zero l’uno sull’altra, lo faceva sentire come se fosse al suo posto. Una sensazione che provava solo con Sawyer e Julietta. Sistemò il cuscino, allungò le gambe e fece zapping. Magari non aveva la comodità della vicinanza al Purity, ma forse era una buona cosa. Poteva approfittarne per rivedere anche lui le sue priorità, come stava facendo Gen. Negli ultimi cinque anni aveva quasi soltanto lavorato. Da quando aveva conosciuto Nate aveva aggiunto un’uscita al golf col nuovo amico ai suoi impegni settimanali, e quella era sacra. Era forse il caso di riprendere a rimorchiare? Di trovare magari una donna con cui instaurare un rapporto un po’ più profondo? L’idea lo spaventava a morte ma Gen gli aveva fatto capire che aveva bisogno di qualcosa di più del sesso senza impegno. La breve fiammata di speranza si spense come se ci avesse versato sopra un secchio d’acqua. Non era pronto per le emozioni vere o per la verità. Non lo sarebbe mai stato. Qualunque donna alla fine avrebbe voluto scavare in profondità, scoprire quello che lui aveva dentro, e lui sarebbe fuggito. Da manuale. Nemmeno Gen sapeva tutta la verità. Il dito si fermò un istante su un reality di cantanti poi riprese a premere il pulsante dei canali. Chiunque altra l’avrebbe sfinito di domande. Lei no. Gen rispettava la promessa che si erano scambiati inizialmente e non curiosava mai, anche se lui capiva che avrebbe voluto sapere tutto della sua vita. Glielo vedeva negli occhi. Avrebbe voluto che si fidasse di lei abbastanza da raccontarle il suo passato. Il suo volto era come un libro aperto e Wolfe odiava leggervi la delusione quando lui cambiava argomento, e il modo allegro con cui fingeva sempre che non fosse un problema. Lo era invece. Ma non si sarebbe mai risolto. Si toccò i bracciali di cuoio e ripensò a quella notte. Rabbrividì, e si chiese che diavolo avrebbe fatto se avesse avuto gli incubi mentre era a casa sua. Dormiva in soggiorno, quindi magari lei non avrebbe sentito. A casa e al Purity aveva una palestra attrezzata, ma qui non c’era niente per scacciare i demoni. Si fece un appunto di controllare se la palestra locale era aperta ventiquattr’ore. Altrimenti non restava che andare a correre, anche se non era altrettanto efficace. «C’è American Idol?» La sua voce allegra gli accarezzò le orecchie. Wolfe immaginò si trattasse della competizione canora che aveva appena intravisto e scosse la testa. «No, ho passato tutti i canali. Che ne dici se facciamo una tregua e guardiamo una commedia? Sono sempre disposto a...» Quando la vide, la voce s’interruppe. Porca. Troia. Gli salì il sangue alla testa. Era abituato a bustier di pelle, giarrettiere e tacchi dodici su corpi nudi. Profumi muschiati. Labbra rosse. Aveva la pelle ancora umida e la camicia da notte di cotone era semplice, lunga fino al ginocchio, con una scollatura ampia e rotonda. Bianca a fiorellini rosa. Calzine rosa ai piedi. I capelli erano sciolti e i riccioli selvaggi le danzavano allegramente intorno alla testa. Era struccata e le labbra erano di un rosa pallido con una spruzzata di lentiggini sulla radice del naso. Era uno schianto. Inspirò e quasi gli sfuggì un gemito. Erano pochi gli odori in cui avrebbe voluto immergersi. L’erba appena falciata. Gli indumenti appena usciti dall’asciugatrice. Un’arancia appena tagliata. Lei profumava di tutte queste cose messe insieme. Com’era possibile? Non portava il reggipetto e i seni tendevano la stoffa morbida nello sforzo di liberarsi. C’era niente al mondo di più sexy del cotone che aderiva alla pelle umida? Sapeva che Gen aveva delle splendide curve, ma vederle in questo modo era un’altra cosa. Il suo corpo formava una clessidra perfetta, con carne a sufficienza da stringere e a cui aggrapparsi. E il sedere? Un dono del Signore. Meglio di JLo. Meglio della Kardashian. Meglio di tutto. Gli si seccò la bocca e il corpo cominciò a reagire. Oh, merda. Stava per sedersi vicino a lui? Il pene gli tirava i jeans nel disperato tentativo di mettere la testa fuori. Strinse il cuscino in mano cercando qualcosa a cui pensare per allentare la tensione. Era la prima dannata sera. Se Gen l’avesse visto così arrapato l’avrebbe mandato fuori a calci e non l’avrebbe più fatto tornare. E anche se era una tortura, non aveva intenzione di lasciarla sola finché non fosse stata al sicuro da David. «Mi stai mentendo.» Incrociò le braccia sul petto. I capezzoli erano chiaramente visibili sotto il bianco innocente della camicia da notte. S’irrigidì e si sforzò di abbassare lo sguardo. Si sforzò sul serio. «Ehm, mentendo?» «Su Idol. Scommetto che è in onda.» Wolfe si spostò sofferente e lanciò il telecomando all’angolo più lontano del divano. «Hai ragione. Tieni. Prendilo pure.» Basta che ti siedi e ti copri. Veloce. Per favore. Lei piegò il fianco e lo guardò con sospetto. L’orlo si alzò di qualche centimetro. Aveva la pelle bianca, morbida e liscia. Immaginò di metterci sopra la mano. Pelle scura contro pelle chiara. Corpo morbido contro corpo duro, a fargli da cuscinetto come quella sera al lago. No, non pensarci. Non adesso. «Prendilo!» abbaiò. «Dai, mettiti comoda.» Sollevò la trapunta e la invitò a infilarsi sotto. Lei finalmente lo assecondò. Wolfe espirò, sollevato, ma il suo pene rimase duro a sufficienza per tagliare il marmo. «Mi sembri strano, ma non voglio litigare», disse selezionando il canale del reality canoro. Il programma era alla fine, i concorrenti erano in attesa del verdetto dei giudici e dei voti del pubblico. Wolfe si concentrò su un tizio sfigato e cercò d’immaginarlo nudo. Lentamente, l’erezione diminuì. Era proprio caduto in basso. La prossima volta avrebbe pensato alle suore. Bleah. «Mi manca Simon», disse Gen tanto per fare due chiacchiere, tirando fuori una gamba da sotto la trapunta. «Era sgarbato ma onesto. Anche se il mio preferito è sempre Keith Urban. Comunque è finito.» Selezionò altri canali incrociando i piedi sul tavolino. La camicia da notte si sollevò da un lato, scoprendo una lunga striscia di pelle nuda che arrivava fino al fianco. La sua seconda testa ringalluzzì. Merda. «Ehi, mettiamo su HGTV? C’è House Hunters. Fanno vedere tre case e la coppia deve sceglierne una. Mi piace fare a chi indovina. Sono bravissima. Vuoi provare?» Rispose con un grugnito. Aveva gli occhi incollati sulla deliziosa curva del suo fianco. Dov’era il bordo delle mutandine? Com’è che non si vedeva? A meno che... Il pensiero gli fece uscire gli occhi dalle orbite e si affrettò ad afferrare la trapunta e a gettargliela sopra. «Ehi, ma che fai?» I capelli le caddero davanti a un occhio e aveva le labbra corrugate. Ripensò al suo sapore. Dolce e pulito, con un accenno di peccato. Suore. Suore in bikini. Ecco. Che schifo. «La tua... camicia da notte si è sollevata. Non volevo pensassi che stavo sbirciando.» Perfetto. Questa suonava proprio da amico. «Ah, scusa.» Si sistemò. «Non volevo spaventarti. Ehi, sai cosa stavo pensando di farmi?» «Cosa?» «Un tatuaggio.» Gli prese un colpo. La brava e innocente Gen con un tatuaggio. Poteva morire. «Fanno male.» Alzò gli occhi al cielo. «Sono un chirurgo, posso resistere. Sarebbe sexy, no? Una rosa, magari, con le spine e una goccia di sangue. Il tuo è bellissimo e ti dà un’aria da ragazzaccio. Con le donne aiuta, no?» Mai come in quel momento aveva desiderato guardare una coppia in cerca di una casa ad Austin, in Texas. «A volte. Ma a te non serve. E potresti pentirtene, in seguito.» «Non lo farei in un punto dove si vede. Magari sulla schiena, in basso?» No. Non sarebbe più riuscito a guardarla senza immaginare di sfilarle i jeans per scoprire il segreto nascosto appena sopra la curva dolce del suo sedere. Assolutamente no. «Passano per tatuaggi da zoccola, Gen.» Avrebbe voluto essere in Alaska in quel momento, sepolto sotto un cumulo di neve. Arricciò il naso. «Quindi? Forse qui?» No. Non poteva farlo. Non l’avrebbe fatto. Lo fece. Si tolse la coperta di dosso e alzò la camicia da notte scoprendo la curva nuda del fianco sinistro. «Che ne dici? Col bikini si vedrebbe, ma sarebbe più adatto a me. Giusto?» Okay, le mutande le aveva. Si vedeva la riga sottile attraverso il cotone. Bianche, come la camicia da notte. Pura come una colomba. Come sarebbe stato ordinarle di togliersele ed essere pronta per lui? Ci avrebbe giocato un po’, l’avrebbe torturata rimandando il momento dell’orgasmo e alla fine l’avrebbe fatta volare. Avrebbe sentito le sue unghie affondargli nelle spalle e la sua passerina stretta intorno al suo uccello mentre le infilava la lingua in bocca... Si alzò di scatto dal divano come se gli stesse andando a fuoco il sedere. «Vado a farmi una doccia. Guarda quello che vuoi.» Spalancò gli occhi per la sorpresa ma lui non aspettò che dicesse qualcosa. Si fiondò in bagno, aprì l’acqua a temperatura polare e tornò alle suore. Doveva risolvere un problema. Vincent Soldano nascose il gruzzolo di banconote nel buco del materasso. Veloce. Qualche biglietto verde in più e avrebbe tentato la sorte. Non gli restava molto tempo. Ricoprì il materasso col lenzuolo macchiato, si sdraiò e accese l’iPod col volume al massimo. Gli intervalli tra i momenti di euforia si stavano accorciando. Sua mamma qualche volta preparava la cena, faceva la spesa, e ogni tanto era anche sobria. Quei momenti erano meglio di qualunque cosa potesse immaginare. Lo guardava con dolcezza, talvolta gli accarezzava i capelli, lo chiamava il suo bambino e lo abbracciava. Anche se sapeva che non era più un bambino, gli si stringeva comunque il cuore. La mente si calmava, il corpo si rilassava, e per un attimo lui s’illudeva che avrebbe smesso e che sarebbero stati loro due insieme, come una squadra, contro il mondo. Ma non accadde mai. Sempre più spesso ormai la vedeva fissare il muro senza vederlo. Non si lavava. Aveva i capelli unti e spettinati e i vestiti, quando li portava, erano sporchi e pendevano larghi sul suo corpo ossuto. Degli assegni sociali con cui una volta compravano da mangiare non vedeva più un centesimo. Gli uomini ci arrivavano prima e usavano i soldi per la droga. Aveva paura che morisse. Se fosse andato via sarebbe probabilmente accaduto. Almeno la faceva mangiare e le medicava le ferite. Ma non aveva scelta. Lei non poteva più proteggerlo e molti dei suoi spacciatori lo guardavano con lascivia. Non l’avrebbe permesso. Dormiva per lo più nel bosco se in casa c’era gente ma si stava riavvicinando l’inverno e gli serviva un piano. Cazzo se era stanco. Quante volte era stato sul punto di chiamare la polizia o gli assistenti sociali? Sarebbe bastato premere il 911 e sarebbe uscito da quell’inferno. Ma qualcosa gli diceva che sarebbe caduto dalla padella alla brace, per non parlare del fatto che sua madre sarebbe finita in prigione e senza la droga sarebbe morta. Era in trappola, quindi non poteva far altro che fuggire. «Sei qui dentro, ragazzo? Apri. Tua mamma ha bisogno di te.» Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi sulla musica ma la porta sbatteva così forte che la serratura si sarebbe rotta. Vincent prese il coltello e lo mise nella tasca posteriore. Non si poteva mai sapere. Poi aprì la porta. Era uno di quelli che temeva di più. Quello che trattava peggio sua madre, divertendosi a schiaffeggiarla. Gli piaceva anche guardare. Era tarchiato, con due enormi bicipiti e braccia piene di tatuaggi. Faccia da bulldog , occhi scuri, capelli radi e cicatrici sulla guancia destra. Vincent lo guardò torvo. Sapeva che mostrare paura era ancora peggio. Al bulldog piaceva, lo minacciava cercando di farlo piangere o supplicare, ma Vincent non aveva ancora ceduto e non intendeva farlo. «Cosa vuoi?» Ricevette un rapido manrovescio alla mascella. Vide le stelle ma ignorò il dolore e continuò a guardarlo fisso. «A tua mamma serve una cosa, è meglio che gliela dai.» La madre era dietro di lui con un sorriso disperato. Lanciò un’occhiata alla porta di casa nel caso ci fosse stato bisogno di scappare. Lei era troppo fatta per essergli d’aiuto. «Mi servono dei soldi», disse con voce sottile e affannosa. Aveva l’occhio sinistro gonfio per le botte del giorno prima. «Mi servono proprio, tesoro, sono disperata. Devi trovarmene un po’.» Mantenne la calma benché il cuore battesse all’impazzata. «Io soldi non ne ho. Hai usato quelli che erano rimasti per le sigarette e la birra.» Il bulldog sghignazzò. «Io credo che tu stia mentendo, ragazzo. Ogni tanto mi sparisce qualche dollaro e secondo me sei tu che li rubi.» Vincent fece spallucce. «Pensa quello che ti pare, io non tocco mai la tua roba.» Lui lo fissò a lungo per capire se diceva la verità. Poi sorrise molto lentamente. «Allora non ti dispiace se li cerco, vero?» Bloccò la porta. «Non in camera mia. Tieni le tue manacce lontane dalla mia roba.» Il colpo arrivò alla testa stavolta e lo fece finire contro il muro. Sua madre urlò ma il bulldog gli stava già mettendo per aria la stanza, che lui amava tenere pulita e in ordine. Vaffanculo. Gli si avventò contro con un grido, agitando i pugni come un indemoniato. L’adrenalina lo aiutò ad assestare qualche bel pugno ma i bicipiti di quel coglione erano dei mattoni. Un attimo dopo lo stava sollevando come un peso piuma e lanciando dall’altra parte della stanza come una mosca colpita dallo scacciamosche. Atterrò sul pavimento e si slogò la caviglia. Sentì un dolore lancinante ma si trascinò verso la madre che urlava, cercando disperatamente di sfuggire al bruto. Troppo tardi. Il bulldog ribaltò il materasso. La fessura si burlava di entrambi, e lui tremò di paura. No, no, no, no, no. «Cos’abbiamo qui?» L’uomo infilò le dita nella fessura e tirò fuori un rotolo di banconote. «Il tuo adorato figliolo è un maledetto bugiardo. Si tiene i soldi pur sapendo che stai male senza la tua dose. È questo il ringraziamento perché gli dai un tetto sulla testa?» Alla madre s’illuminarono gli occhi alla vista del denaro. Si leccò le labbra e d’un tratto Vincent capì che era veramente finita. Non avrebbe mai vinto contro la coca e le metamfetamine. Mai. L’uomo si avvicinò. Vincent cercò di alzarsi in piedi ma un calcio allo stomaco lo stese di nuovo a terra. Prese il coltello dalla tasca e cercò di colpirlo ma il bulldog lo sorprese e gli torse con forza il polso finché il coltello cadde sul pavimento. Vincent lo guardò. Lui rise, si fece schioccare le giunture delle dita e si chinò su di lui. «Ora ti darò una lezione, ragazzo. E farà male.» Passò molto, molto tempo prima che gli fosse concessa la benedizione di perdere conoscenza. Aveva tredici anni. Capitolo 15 «Andiamo a prendere un gelato.» Wolfe gemette. Era steso a pancia in giù sul divano. «Sono sfinito. Abbiamo subito un furto, ho perso un potenziale cliente e i distributori automatici hanno finito le tortine al cioccolato col ripieno di burro d’arachidi. Ho dovuto prendere degli schifosi M&M’s.» «Oh, adoro gli M&M’s. Ma non hai degli chef a cinque stelle che hai portato via a Food Network? Perché ti servi ai distributori automatici?» Sbuffò. «Mi piacciono. E poi questi chef snob le tortine col burro d’arachidi non le fanno. Gliel’ho chiesto. Michael ha detto che rivedrà i prodotti proposti da La dolce Maggie, ma solo per essere gentile.» «Ci prendiamo un gelato e un cappuccino. Avanti, non fare il musone. È estate, è una bellissima serata. Hai bisogno di prendere un po’ d’aria.» «Ho bisogno di dormire.» Si chinò e lo scosse per le spalle. Era duro come una roccia e non si mosse di un millimetro, ma si lasciò sfuggire un brontolio. «Com’è che sei così pimpante stasera? Ti sei annoiata oggi al lavoro?» «No, anzi. C’è un nuovo iscritto che secondo Kate è perfetto per me e stiamo organizzando una serata. Mi sento giusto un tantino irrequieta.» Gen non volle dirgli la verità. E cioè che cominciava a dare i numeri. Le piaceva lavorare in Kinnections e adorava vedere le amiche all’opera. Erano un trio formidabile. Ma si sentiva smarrita. Le mancavano il bisturi, il camice e l’esaltazione che provava ogni volta che visitava un nuovo paziente. Quando Kate si era tagliata con la carta, oggi, lei si era fatta prendere dall’entusiasmo e le aveva applicato un doppio bendaggio. Che tristezza. «Hai vinto. So che sei stanco. Vado da sola. Vuoi che ti prenda qualcosa?» La sondò in profondità con quel suo sguardo tagliente come un laser. Poi con un unico, grazioso balzo fu in piedi. «Vengo anch’io. Zucchero e caffeina mi sembrano un’ottima idea e poi non azzecchi mai le mie ordinazioni.» Era una bugia. In realtà voleva starsene in panciolle sul divano ma aveva intuito che lei aveva bisogno di compagnia e per l’ennesima volta aveva assunto le vesti del cavaliere con la scintillante armatura. La quale alla fine di questa storia avrebbe perso tutta la sua lucentezza. «Non sei obbligato.» «Naa, devo uscire di più. Nel momento in cui l’uscita al golf con Nate diventa la cosa più eccitante della settimana vuol dire che ho un problema.» Uscirono a piedi. L’afa li investì e gli restò appiccicata addosso. Il sole splendeva attraverso gli alberi che fiancheggiavano la strada. Verily era in pieno fermento: bambini in bicicletta, gente a passeggio col cane, coppie che si tenevano per mano. I negozi restavano aperti fino a tardi e Main Street invitava a gran voce i clienti a spendere. Gli artisti locali dipingevano all’aperto e le bancarelle straripanti di chincaglierie tentavano i passanti. Davanti alla Barking Dog Bakery c’era la fila di cani coi rispettivi padroni. Gen si rilassò al calore e al brusio familiare delle risate e delle chiacchiere della pittoresca cittadina in cui viveva. «Come mai non esci più con nessuno?» gli chiese. «Voglio dire, Nate è un bel ragazzo e tutto quanto, ma un modello milionario di biancheria intima divenuto magnate dell’industria alberghiera potrebbe permettersi una compagnia un po’ più femminile.» Wolfe fece spallucce. Tornato dal lavoro si era cambiato, indossando un semplice paio di calzoncini di jeans sfilacciati, infradito e una maglietta nera col logo del Purity. Perché allora sembrava appena uscito dalle pagine dell’Esquire? Portava qualunque indumento con una naturalezza che pochi potevano vantare. I tessuti si piegavano alla sua volontà, s’abbarbicavano ai suoi muscoli scolpiti e capitolavano. Non stupiva che avesse fatto tanto furore nel mondo della moda. Il suo volto, i suoi occhi, non tradivano alcuna emozione. Solo un bel vaffanculo che faceva morire le donne dalla voglia di addomesticarlo. Merda, persino i suoi piedi erano sexy e lei non era certo una a cui piacessero i piedi. Fece scorrere lo sguardo sui suoi polpacci abbronzati, sui bicipiti possenti e sullo splendido tatuaggio. Era, a suo modo, un’opera d’arte, che però si apprezzava meglio da lontano. Si chiese se esistesse una donna che poteva catturarlo. «Sto organizzando un’uscita venerdì sera.» Sussultò, ma s’affrettò a nasconderlo. «Oh, ma è fantastico! Ehm, non abbiamo parlato di come possiamo fare. Eviterei i calzini sulla porta, ma se mi avverti con un messaggio posso andare da Kate per quella sera. Sono sicura che per lei va bene.» «Perché diavolo dovresti uscire di casa?» Una risatina disperata. Cavolo. Questo era imbarazzante. Faceva sesso nel suo appartamento? In macchina? La scena irruppe nella sua mente e quasi le procurò una commozione cerebrale. Il sedile di pelle che stride sotto il suo sedere nudo. Lui che la sbatte contro il volante mentre la manovra su e giù sul suo uccello. Le tira i capelli e la guarda venire e urlare il suo nome. «Aagh.» Fece un gridolino e scacciò l’immagine dalla mente con una speronata. «Che c’è?» Wolfe l’afferrò per un braccio e lei si sentì come folgorata. Di male in peggio. Tirò bruscamente indietro il braccio. «Niente! Ehm, mi ha punto una zanzara. Scusa.» Due bambini sullo skateboard gli sfrecciarono in mezzo. La ritrovata distanza l’aiutò a calmarsi. «Ricordati di metterci quella pomata rosa quando siamo a casa.» «Sì, papino.» «Torniamo alla nostra chiacchierata. Parlavamo di sesso, giusto?» Sentì colare il sudore lungo la schiena. Si scostò la canotta dal petto e ci soffiò dentro. «Sì. Quello. Non voglio che ti ritrovi a non poter fare le tue cose solo perché mi stai facendo un favore. A meno che dopo tu non intenda restare a casa tua.» «Mi sembra giusto. Se l’uscita va bene ti mando un sms così non ti preoccupi. D’accordo?» Annuì con entusiasmo. «Fantastico. Perfetto. E io farò lo stesso con te.» Si fermò. La guardò con le sopracciglia aggrottate. Anche Gen lo osservò. Cavolo, com’era sexy. Il labbro inferiore sottolineato da un velo scuro di barba. Le narici dilatate come uno stallone incazzato a cui avevano portato via la femmina. «Tu? Tu non sei pronta per fare sesso.» Riprese a camminare con lunghe falcate. Lei accelerò il passo per stargli dietro. «Ehi, non ti sembra di essere un po’ sciovinista? Solo perché ho rotto con un uomo devo votarmi alla castità? Potrebbe farmi bene, invece. Specialmente del gran sesso.» «Non sei il tipo da una botta e via», disse con fermezza. «Tu hai bisogno di farlo all’interno di una relazione impegnata.» Gen alzò gli occhi al cielo. «L’ho fatto. Non ha funzionato. Magari mi farà bene provare qualcosa di diverso. Esplorare altri mondi. Avere orgasmi da sballo. Passare una notte con qualcuno e andarmene la mattina. Come te.» Lo sguardo si fece ancora più torvo. «Per me è diverso. Io non mi metto mai insieme a nessuno.» «Potremmo far cambio. Io faccio sesso senza impegno e tu provi ad avere un rapporto vero senza sesso. Che ne dici, è una buona idea?» «No.» Arrivarono all’Xpressions Café, un posticino con gelati e vari tipi di caffè, tè biologico e cioccolato. Soltanto l’odore la fece sentire euforica come dopo un pieno di zucchero e cacao. Perfetto. Si misero in coda in fondo alla fila. «Perché no?» volle sapere. Wolfe sbuffò, seccato. «Perché non sono pronto per un rapporto a lungo termine.» «Non ci hai mai provato», gli fece notare. «E mi è andata benissimo così.» «Dove l’hai conosciuta questa con cui esci venerdì?» domandò cercando di apparire disinvolta. «È la sorella di un mio cliente. Abbiamo pranzato insieme qualche volta e adesso siamo pronti a passare alla cena.» «Cena equivale a sesso? Devo impararle, queste cose.» Il tizio davanti a loro si voltò, incuriosito. «Guarda avanti, amico», l’avvertì Wolfe. Lui diventò rosso e si girò. Gen rise. «Come sei rigido. Chiederò a Kennedy.» «Perché mi fai fare questi discorsi? Se uno si aspetta di fare sesso con te solo perché ti ha portato a cena è una feccia.» «Ma se io voglio fare sesso con lui?» Il tizio di prima stava prendendo un sorso d’acqua e gli andò di traverso. Wolfe la fulminò con lo sguardo. «Se le donne vogliono fare sesso, gli uomini di solito accettano. Ma in genere le donne non vanno a letto con qualcuno la prima sera. Almeno credo. Ci vogliono tre o quattro uscite prima di decidere. Meglio se sono di vario genere: pranzo, cena, un film, un aperitivo eccetera. Occorre vedere l’altro in contesti diversi per capire se c’è compatibilità.» «Capito.» Il tizio annuì come se fosse d’accordo con Wolfe. Gen soffocò una risata. «Tu fai così?» «A volte.» L’evidente imbarazzo tradiva la verità. «Tu ci vai a letto e basta, vero?» La fece andare avanti con una leggera spintarella come per mettere fine alla conversazione. «Ordina il tuo gelato, Gen.» Si prese del tempo per decidere tra i vari gusti, poi ordinò il solito: menta con gocce di cioccolato. David trovava intollerabile che ci mettesse tanto a decidere per poi optare sempre per la stessa cosa, ma Wolfe non sembrò infastidito. Lui scelse il gusto puffo, che avrebbe dovuto essere vietato ai maggiori di dodici anni ma che in effetti aveva un aspetto tremendamente invitante. Quando uscirono, il sole stava tramontando e il cielo brillava di rosa. Sentirono qualche nota in lontananza. «Suonano al parco!» strillò lei. «Andiamo.» Lui sembrò più interessato al cono gelato. «Non mi piace la polka.» Gen lo prese per mano e lo trascinò oltre il recinto per cani, nel grande prato dove si svolgevano gli eventi della cittadina. Il fiume Hudson era uno sfondo perfetto per il palco improvvisato alla destra di un chiosco bianco. I negozi avevano sistemato delle bancarelle per esporre i loro prodotti in vendita. Intere famiglie erano sedute sulle coperte sorseggiando bibite e snack. «Sei proprio uno snob. Ci sono dei gruppi locali che suonano qui una volta alla settimana e non ho mai avuto tempo di venire a sentirli. Molti pare siano anche bravi. Ah, c’è la bancarella della Barking Dog Bakery. Andiamo a prendere un dolcetto a Robert.» Si gettarono nella folla, mano nella mano. Lei si fermò a chiacchierare con alcuni vicini, che guardarono con curiosità il suo accompagnatore, specialmente i suoi tatuaggi e piercing. Nessuno nominò il fidanzamento rotto o la fuga dalle nozze, e lei non sapeva se fosse un buono o un cattivo segno. Ultimamente tutti quelli che incontrava le parlavano con grande prudenza e cautela, facendo attenzione a non alzare la voce e a non sfiorare discorsi riguardanti la sfera sentimentale. Comprò dei biscotti al burro d’arachidi senza glutine per Robert e si fermò alla bancarella successiva a provare alcuni bracciali fatti a mano con scritte suggestive tipo ‘Speranza’, ‘Amore’ e ‘Guarigione’. Il gruppo si chiamava Safe Word e a vederlo non sembrava male. La cantante aveva i capelli con le striature rosa. «Genevieve MacKenzie.» Quando sentì pronunciare il suo nome si girò, abbassò lo sguardo e s’irrigidì. Oh no. Non stasera che si stava finalmente divertendo. L’anziana signora davanti a lei era più piccola di uno Hobbit e più meschina di Gollum. Aveva le mani strette intorno a un deambulatore e indossava un vestito da casa sbiadito a motivi cashmere con delle scarpe bianche ortopediche. Le calze le ricadevano molli alle caviglie. La guardò con gli occhi socchiusi dietro le lenti spesse. Il suo volto era pieno di rughe e macchie scure. Gen sapeva che non erano rughe dovute al troppo riso. Dubitava che la signora Blackfire avesse mai sorriso in vita sua. Era il flagello di Verily, nota in tutti i negozi che frequentava per il suo pessimo carattere. Odiava gli animali e una volta aveva chiamato il rifugio comunale perché portasse via uno dei cani di Arilyn, il beagle, che a suo dire aveva fatto pipì nel suo roseto. Era sempre acida, mancava totalmente di senso dell’umorismo ed era un’infelice cronica. La evitavano tutti. Gen aveva sentito che quando era iscritta al centro sociale per anziani aveva chiamato la Asl perché la gelatina alla frutta non era buona. Da allora non l’avevano più voluta in nessun centro. «Salve, signora Blackfire.» Gen cercò di non tremare. «Come sta?» La donna strinse le labbra in un ghigno. Su quello superiore s’intravedevano dei baffi grigi. «Malissimo. La tua casa abbassa il valore della mia e così non mi è possibile venderla. Devi ridipingere e sistemare i gradini davanti alla porta, visto che ci mancano dei mattoni.» Si gonfiò di speranza. «Si trasferisce?» Due occhi dello stesso grigio acciaio dei capelli la guardarono con odio. «No. Ma questo non importa. Tra quell’orribile cane di Kate che mi rovina le rose e il tuo albero pronto a crollarmi sul tetto, non venderò mai al valore di mercato. Questo chi è?» Gen ingoiò a vuoto. «È il mio amico Wolfe.» «Piacere di conoscerla», disse lui con cortesia pulendosi le mani appiccicose col tovagliolo. «Che nome ridicolo. Non sei mica un animale. Cos’è successo a Robert o William? I nomi normali non sono abbastanza per te?» Gen trattenne il respiro ma Wolfe aveva lo sguardo divertito. «Almeno non mi chiamo Ciuco.» La signora Blackfire lo guardò con sospetto. «Mi stai prendendo in giro, ragazzo?» «No, signora.» «Lo spero.» Osservò i piercing e il tatuaggio. «Fai parte di qualche gang? Non tolleriamo atti di teppismo a Verily.» «Non intendo farne alcuno, signora. Anzi se le capitasse di aver bisogno di qualcosa a casa me lo faccia sapere. Sarò felice di darle una mano.» «So badare a me stessa. Abiti con lei adesso?» «Per un po’.» La signora Blackfire sbuffò dal naso. «Questo è un quartiere tranquillo. Non voglio star sveglia la notte a sentire versi e rumori disgustosi.» Oh mio Dio. Quasi vomitava. «Ehm, la band inizia a suonare, dovremmo andare.» La vicina riportò lo sguardo su Gen. «Nel periodo in cui non eri a casa ho fatto venire un esperto a esaminare quella quercia e ha detto che è marcia. Ti manderò il rapporto.» Fece appello a tutta la sua pazienza. «La quercia sta benissimo ed è nella mia proprietà. Mi dispiace ma non ho nessuna intenzione di abbatterla.» La signora Blackfire le puntò contro un indice ossuto e tremolante. «Hai portato lo scandalo in questa città. Giornalisti che giravano facendo domande a tutti. Hai piantato quel bravo dottore. Ho sentito che hai lasciato anche l’ospedale e lavori in quella ridicola agenzia matrimoniale. Ai miei tempi, noi facevamo quello che bisognava fare. Rispettavamo le nostre scelte. Sei debole, ragazza. Hai rinunciato a tutto ciò che contava.» Le parole la ferirono profondamente. Non era proprio quello che pensava anche lei? S’era adoperata tanto per riuscire bene in tutto, invece aveva combinato solo un pasticcio. Aveva distrutto tutto ciò che aveva toccato e tradito le sue scelte. «Forse ha ragione», sussurrò. «Non sono d’accordo.» La testa della donna girò di scatto verso Wolfe. «Cos’hai detto?» Wolfe si mise in mezzo tra loro due, proteggendo l’amica dall’Hobbit maligno. «Ho detto che non sono d’accordo. Ci vuole fegato per cambiare. Le persone che hanno paura di ciò che non conoscono sono vigliacche. Guardano la vita passar loro accanto e s’incattiviscono giorno dopo giorno perché tutti sembrano più felici. Crede sia facile scappare il giorno delle nozze perché hai capito che stai commettendo un grosso errore? O studiare dieci anni e avere il coraggio di prenderti una pausa per assicurarti che sia quello che vuoi?» La signora Blackfire restò a bocca aperta. Wolfe si chinò verso di lei, molto vicino. «Scommetto che lei non sarebbe scappata. Questo fa di lei una persona forte? Intelligente? O solo infelice?» L’anziana donna emise un verso rabbioso. Le guance erano chiazzate di un rosso spento. «Come ti permetti? Sei un ragazzo di strada. Ti terrò d’occhio, giovanotto.» Lui sorrise e si raddrizzò. «Non vedo l’ora. Le auguro una piacevole serata, signora Blackfire.» Le voltò le spalle e condusse Gen verso il prato. Scese il buio e la cantante s’avvicinò al microfono per presentare la prima canzone. Wolfe continuò a camminare fino alla staccionata in fondo al prato, lontano dalla folla. Si appoggiò a un pino nodoso, incrociò le caviglie e si aggiustò la mano di lei nella sua. Appoggiò anche lei la schiena sulla corteccia ruvida accanto a lui e si godette la sua stretta calda. «Non c’era bisogno di dirle quelle cose», osservò Gen. Dio, che buon odore che aveva Wolfe. Le ricordava la biancheria pulita e la luce del sole. «È solo un’anziana sgarbata e crudele.» «A me non dispiace.» «Cosa? Non la sopporta nessuno! È una vecchia strega. Sarebbe capace di portare via Toto e farlo abbattere. Quanto a me però potrebbe aver ragione.» «È stata ferita profondamente e non si è mai ripresa.» «Come lo sai?» Fece spallucce. «Lo capisco. Ma su di te si sbaglia. E ogni parola che ho detto la penso.» Si girò a guardarla. «Ogni. Maledetta. Parola. Sei la donna più coraggiosa che conosca. È da chi crede di avere tutte le rispose che bisogna guardarsi.» I suoi occhi erano così meravigliosamente azzurri e profondi che avrebbe potuto perdercisi dentro. «Intendi da quelli com’ero io prima?» scherzò Gen. «Ero così sicura di me.» «Io anche.» Un’energia primitiva e violenta la scosse nel profondo. L’atmosfera tra loro si fece elettrica e d’un tratto Gen voleva la sua bocca, le labbra, la lingua, i denti, e voleva che lui possedesse ogni parte del suo corpo. Ardeva dal desiderio di aprire le cosce e accoglierlo dentro di sé. Affondargli le unghie nella pelle e lasciargli i segni. Arrendersi. Scopare. Cosa le stava succedendo? Il cuore le martellava. «Wolfe.» Il nome le uscì dalle labbra nello stesso momento in cui il batterista attaccò un rumoroso assolo. Il pubblico lo incitò con urla e fischi e l’incantesimo si ruppe. La tensione s’allentò, e lei sospirò, turbata. Il rapporto tra loro stava cambiando e non sapeva cosa farci. Non poteva più negare di essere sessualmente attratta da lui. Forse vivere insieme la stava mandando in confusione. D’altra parte, vedere una persona tutti i giorni, cenare insieme e guardare la tv in pigiama inevitabilmente creava una certa intimità. E questo, unito a una crisi esistenziale e all’insoddisfazione sessuale, creava un cocktail micidiale. Giurò di mantenere il controllo. Non ci pensava proprio a rovinare per sempre la loro amicizia a causa delle sue momentanee condizioni di debolezza. Proprio no. Se solo fosse mancato meno al suo appuntamento... Aveva bisogno di fare sesso. Assolutamente. Wolfe le lasciò la mano e si scostò leggermente da lei. Era così morbida e femminile. Aveva finalmente ripreso i chili perduti e il volto indurito dallo stress si era arrotondato di nuovo. Le sue favolose curve erano tornate e a lui prudevano le mani per il desiderio di toccarle, stringerle e accarezzarle. La voglia di lei gli veniva sempre più spesso, adesso. Quando i loro sguardi s’incrociavano sentiva un calore come se si fosse accesa una fiamma. Cosa stava succedendo tra loro? Stava steso sul divano a lottare col sonno pensando a lei nel suo letto. Con la camicia da notte arrotolata intorno alle cosce. Le labbra semiaperte e umide. Gli splendidi boccoli sparsi disordinatamente sul cuscino. Cominciava a chiedersi se non avrebbe dormito meglio in macchina. Prima riusciva a toccarla senza imbarazzi. La prendeva per i fianchi e le faceva il solletico, una cosa che lei non sopportava. Le scompigliava i capelli. La abbracciava e la stringeva forte. Certo, c’era sempre stato un legame speciale tra loro, ma quel fuocherello era diventato un incendio indomabile e non sapeva che diavolo farci. Cos’era cambiato? E perché d’un tratto voleva tanto di più? Lei doveva essere giunta alla stessa conclusione perché gli rivolse un sorriso forzato. «Grazie per avermi difeso, amico», disse con falsa allegria, sottolineando l’ultima parola come per rammentare a entrambi quello che erano in realtà. Ma più per ricordarlo a lui o per ricordarselo lei? Le sorrise a sua volta. «Prego. Amica.» Si girarono entrambi ad ascoltare i ragazzi che suonavano. Erano piacevoli, in grado di proporre brani che tutti conoscevano senza scadere nel karaoke. Gen ancheggiava e seguiva le parole muovendo solo le labbra. Era sempre stata brava a ballare, e si abbandonava alla musica senza preoccuparsi di come appariva agli occhi altrui. Provò un desiderio struggente. Come sarebbe stato prenderla come un uomo prende una donna, invece che essere solo amici? A letto non si sarebbe risparmiata nulla come faceva per tutto il resto, mettendoci entusiasmo ed energia, decisa a ricavare il massimo da ogni momento? L’uomo che avrebbe conquistato il suo cuore per sempre doveva essere eccezionale. Avere la sua stessa leggerezza interiore. I ricordi gli attraversarono la mente come saette, molesti e dolorosi. Si toccò distrattamente i bracciali di cuoio, rassegnandosi all’idea che lui non sarebbe mai stato quell’uomo, non avrebbe mai potuto avere quella leggerezza. Ma almeno avrebbe protetto Gen. Anche da se stesso. Gen apparteneva al mondo dei vivi, delle cose belle. Era destinata a un futuro pieno di gioia, figli e felicità domestica. Stavolta si sarebbe accertato che lei facesse la scelta giusta. La musica rallentò e la cantante dai capelli rosa intonò un brano popolare che lui aveva sentito alla radio. Aveva una voce intensa e bassa che faceva pensare a un nightclub fumoso. Il buio li avvolse, lottando contro le luci accecanti del palco. Nel cielo esplosero le stelle. L’aria aveva l’odore pesante dei popcorn, dello zucchero filato e dell’erba umida. Le coppie cominciarono a ballare accanto ai plaid del picnic, corpi avvinghiati l’uno all’altro che si muovevano lentamente e all’unisono. Batté le palpebre quando la vide allungare la mano verso di lui. Aveva lo sguardo di chi cerca qualcosa, qualcosa che avrebbe voluto disperatamente darle ma che sapeva di non avere. Sentì un nodo in gola e pensò a qualche scusa per sottrarsi all’invito. «Balla con me.» La sua voce era bassa. Rauca. Seducente. Lui aveva intenzione di dire di no. Invece le prese la mano e l’attirò tra le braccia. Al suo posto. La calda sensazione di familiarità si mischiò all’attrazione sessuale. Il corpo di lei s’incastrava perfettamente nel suo e gli toglieva il respiro. Wolfe si tenne un po’ indietro, cercando faticosamente una distanza che lei non gli permise di tenere. Seni pieni premuti contro il petto. Cosce che strusciavano contro cosce. Il profumo dello shampoo alla pesca si diffuse verso l’alto, ricordandogli i succhi freschi e il primo delizioso morso alla polpa. Un lamento animalesco gli salì dal petto pronto a uscirgli dalle labbra, tanto era lo strazio del desiderio. Il timbro seducente della vocalist riempiva l’aria, cantando di desideri insoddisfatti. Il ritmo basso della batteria e della chitarra in sottofondo aggiungevano intensità alla scena. Separati dalla folla, intrappolati nel buio, erano soli al mondo. Con l’abilità di una strega, Gen lo incantò con la sua femminilità senza fare nient’altro che arrendersi al suo abbraccio. Smise di lottare. Solo per questa volta. Affondando il volto nei suoi ricci, lui la prese per la vita e la strinse forte contro di sé. La sua crescente erezione era intrappolata tra i loro corpi. Lei ansimò. Wolfe si chiese se si sarebbe allontanata, fermando il gioco pericoloso che stavano cominciando, ma ancora una volta lei lo sorprese stringendogli le braccia intorno alla schiena e abbandonandosi alla sua stretta. Strinse i denti per resistere al bisogno dolce e doloroso di averla. Muoveva i piedi mimando i movimenti del lento e concedendo a ogni parte del corpo di toccarsi, giocare, e strusciare l’una contro l’altra. Sentì la pressione delle sue dita che lo incitavano a continuare. Wolfe moriva dalla voglia d’infilarle la mano nelle mutandine e mettergliela dentro. Quello che avvertiva era l’odore muschiato della sua eccitazione o lo stava solo immaginando? La sentì fremere. Oh sì, era bagnata, ed eccitata e... lo voleva. Le sue labbra agirono per conto loro, appoggiandosi sulla piega morbida del collo di lei per sentirne il sapore. Ne volle ancora, come lo zucchero a velo. Le mordicchiò la clavicola e lei reagì con un verso rauco e bramoso. «Wolfe? Oddio, cosa stiamo facendo? È bellissimo.» Gli esplose il cervello. Passò la lingua sulla curva sensibile sotto la guancia, aprì la bocca e le diede un morso. Lei fremette in tutto il corpo. Gli prese il volto tra le mani tremanti, costringendolo a guardarla negli occhi. Aveva lo sguardo annebbiato. Il respiro usciva ansimante dalle sue labbra piene. Era così maledettamente onesta nelle sue reazioni, così disposta a dargli ciò di cui aveva bisogno. «Perché mi sento così?» sussurrò, aggrappandosi a lui con una forza femminile che trovava sexy da impazzire. «Cosa mi stai facendo?» «Non lo so. La stessa cosa che stai facendo tu a me.» Guardò la sua bocca, così vicina, così umida. «Voglio baciarti.» «Oh sì. Solo per stavolta. Sì.» Non aspettò un secondo di più. Abbassò la testa e s’impadronì delle sue labbra. Infilò la lingua nella dolce cavità della sua bocca, spingendola con movimenti lenti e languidi, deflorandola completamente. Si appoggiò al tronco dell’albero e la sollevò. Lei gli avvolse le gambe intorno ai fianchi. Il suo sapore lo travolse, spingendolo a catturare l’essenza della sua bocca, senza permetterle di trattenere nulla. Lei non lo fece. Tenendosi stretta a lui, gli si arrese completamente. Il calore del suo corpo lo investì con fiammate che lo fecero impazzire di desiderio. Non ricordava se un bacio l’avesse mai privato del respiro e della ragione in questo modo, ma nulla importava, adesso, tranne la voglia di strapparle i vestiti, assaggiarla dappertutto, darle piacere. Sfregandole i denti contro il labbro inferiore, spinse i fianchi contro i suoi, muovendo lentamente il bacino. Lei staccò la bocca dalla sua e gemette, affondandogli le unghie nelle spalle. Buttò la testa indietro, e lui vide le sue labbra gonfie e umide. «Che bello», ansimò. «Vai avanti.» Oh, sì. Fece un rapido mezzo giro spingendola contro la corteccia ruvida del pino, e perse completamente la testa. Dimenticò di trovarsi in un parco pubblico, dimenticò che era la sua migliore amica e che il sesso non era contemplato, dimenticò tutto tranne il bisogno di sentirla più vicina e di tuffarsi dentro di lei fino a sparire. Catturò di nuovo la sua bocca e lei lo baciò con un desiderio così convulso e sfrenato da farlo sussultare. Le prese la testa tra le mani e le tirò i capelli, spingendo al centro delle sue cosce e dandole tutto quello che aveva. Lei era eccitatissima, lo leccava, lo mordeva, e il semplice bacio sfuggì al loro controllo. Wolfe sentì vagamente la canzone che finiva e gli applausi che seguirono, poi le chiacchiere e il movimento della folla nel parco lo fecero uscire pian piano dal suo stato di annebbiamento. Alzò la testa. Restò di sale. Inspirò profondamente, cercando di recuperare il buon senso. Il suo pene era così duro e gonfio che avrebbe potuto essere registrato come arma letale. Lei aprì gli occhi. Aveva le pupille dilatate. Quando parlò, lo fece farfugliando. «Co-cosa è successo?» Porcaccia miseria, l’aveva fatto di nuovo. Quell’orribile brano di Britney Spears gli risuonava in testa con fragore. Stavolta poteva incolpare solo se stesso. Che amico era? Lei in questo momento era debole, vulnerabile. Doveva tenere duro, controllarsi e darle il sostegno che meritava. Ma come avrebbe fatto a guardarla ancora senza provare il desiderio di baciarla? «Wolfe?» Batté le palpebre. «Che c’è che non va?» Fece un sorriso forzato e la posò lentamente a terra. I suoi seni gli strusciarono sul petto e risvegliando il suo desiderio. «La canzone è finita.» Il tono uscì un po’ sgarbato, e rimediò con una carezza sulla guancia. Lei sembrò notare il suo disagio e tra loro cadde un imbarazzato silenzio mentre la cantante ringraziava il pubblico. Tutti applaudirono e cominciarono a raccogliere le proprie cose per poi avviarsi verso l’uscita del parco. Lui restò con un’erezione e l’indecisione circa la miglior rotta da seguire. «Pronta per andare?» domandò. «Certo.» Stavolta non la prese per mano. Non parlarono. I negozi erano chiusi, le stelle brillavano sopra di loro e c’era soltanto il rumore dei loro passi sul marciapiede. A metà strada lei si decise a parlare. «Mi piacerebbe poter dire che mi dispiace ma non è così.» Cercò di non ridere. Era sempre così... sorprendente. Onesta. Ancora una volta, giurò di non distruggere il rapporto più prezioso che aveva. «Non dispiace nemmeno a me, piccola. Ma non avrei voluto passare i limiti. Per me la nostra amicizia è molto più importante di qualche ormone impazzito. Sarà stata la cantante. Mi ricorda un po’ Pink.» La battuta non andò a segno e il sorriso di lei sembrò forzato. «Giusto. Ci siamo fatti prendere dal momento.» «Questo weekend ci farà bene. Uscire con qualcuno allenterà un po’ la pressione.» Perché d’un tratto lei sembrò afflosciarsi? Pensava che ricordarle il suo appuntamento l’avrebbe tranquillizzata. Non aveva alcun diritto di confonderle le idee e di portarla a volere di più da lui. Sebbene anche lui volesse di più. Diavolo, se voleva di più di quel bacio. A essere onesto, la voleva nel suo letto, nuda, aperta e pronta a piegarsi alla sua volontà. Voleva il suo calore, la sua passione e la sua dolcezza. Si rendeva anche conto che se mai fosse andato a letto con lei non solo avrebbe rovinato la loro amicizia, ma non sarebbe più stato soddisfatto con nessun’altra. Lei però non doveva saperlo e neppure sospettarlo. Doveva avere la mente libera per il suo prossimo appuntamento. Anche se il pensiero che un altro uomo la toccasse gli faceva venire voglia di spaccargli la faccia. Si sarebbe trattenuto per il bene di lei. Il suo lieve sospiro echeggiò nella notte. «Può darsi. In effetti mi è sempre piaciuta molto Pink.» Si rilassò un po’. Aveva deciso di stare al gioco. Di lasciarsi l’accaduto alle spalle. Di aiutarlo a fingere che quello che era successo non avesse alcun significato. Molto meglio così. Camminarono fino a casa in silenzio. Gen preparò il divano cercando di non lasciarsi abbattere. Non doveva più pensarci. Si erano baciati. Le era piaciuto. Cavolo se le era piaciuto. Non si era mai eccitata tanto in vita sua. Si erano toccati e scambiati qualche fluido corporeo e adesso era finita. Chiuso. Sentì il rumore dell’acqua che scorreva nella doccia. L’immagine di Wolfe nudo e bagnato le fece attorcigliare le budella e prudere le cosce. Pensava che quel bacio sul ponticello a Saratoga fosse stato soltanto un imprevisto. In fondo quel tipo di attrazione tra amici era impossibile. Giusto? Invece stasera aveva capito che non era così. Voleva andare a letto col suo migliore amico. Voleva fare ogni sorta di porcherie con lui, e per un attimo era stata vicinissima a proporgli il pacchetto scopamico completo, ma lui se n’era uscito con la storia dei loro appuntamenti. Quando si dice un guastafeste... Gli cambiò la federa del cuscino memory e sospirò. Wolfe probabilmente si eccitava con tutte quelle che baciava. Non doveva pensare di essere speciale. Cavolo, le aveva praticamente detto che stava soffrendo perché non andava a letto con nessuna e aveva bisogno di fare sesso. Era chiaro che s’era trattato soltanto di un eccesso di testosterone. Ci si erano messe anche la musica lenta, lei che gli si strusciava addosso e la notte stellata ed ecco fatto il patatrac. Un bacio folle e passionale contro l’albero. Che adesso era finito. Scosse la testa. Doveva comportarsi da adulta e non essere depressa. Specialmente con lui qui. Forse aveva ragione. Forse i loro appuntamenti sarebbero andati bene e avrebbero messo fine a queste strane emozioni che cominciava a provare. Forse. «Cazzo!» Si fermò di colpo. L’urlo scosse la piccola casa fino alle fondamenta. Col cuore in gola, Gen avanzò verso il bagno col terrore che fosse scivolato nella vasca, si fosse fatto un grosso taglio o avesse visto un fantasma coi denti insanguinati pronto a farlo a pezzi. Accidenti a quel canale di fantascienza... Arrivò davanti alla porta e lo chiamò. Il battente si spalancò e un corpo nudo le sfrecciò accanto. Sul pavimento c’era una pozza d’acqua e la stanza era piena di vapore. Cercando di mantenere la calma, mise dentro la testa e si guardò intorno, ma sembrava tutto a posto. L’acqua della vasca scorreva ancora, la tenda era chiusa e gli specchi erano appannati. C’erano dei vestiti ammucchiati per terra. Asciugamani sparsi. Ma a parte il disordine, non vedeva altro. «Maledizione, Wolfe, mi hai fatto spaventare. Cosa ti prende?» «C’è una fottuta tarantola lì dentro! Non ho mai visto una cosa del genere. Non fai le pulizie?» Aprì la bocca per dirgli esattamente cosa pensava della sua osservazione maschilista ma si fermò. Conosceva bene quel tono. Era terrorizzato, e per quanto la divertisse la sua avversione per i ragni, aveva rispetto per questa sua unica debolezza. Scosse la testa e tornò in bagno con una manciata di fazzoletti di carta. «Dov’è?» chiese. «Vicino agli asciugamani. L’ho visto scendere dal soffitto. Schifoso bastardo.» Gen soffocò una risata e cominciò a cercarlo. «Perché non appendi gli asciugamani al gancio? Si bagnano se li lasci sul pavimento e ammuffiscono.» «Possiamo parlarne dopo che hai ucciso quella bestiaccia?» Raccolse l’asciugamano e lo scosse. Niente. «E cos’è quella battuta sulle pulizie? Io le ragnatele le tolgo, ma non ti ho ancora visto prendere in mano l’aspirapolvere. Forse dovresti dare una mano anche tu se non vuoi avere ospiti sgraditi intorno.» «Vuoi prendere quel ragno, Gen?» alzò la voce. Si morse il labbro e aguzzò lo sguardo. Se era così grosso, com’è che non lo trovava? Alzò il tappetino e fece un balzo indietro quando il ragnetto scappò via veloce sulle piastrelle bianche. Ma che cavolo. Una tarantola, eh? Era nero e grassoccio, ma tutto sommato di piccole dimensioni. Niente che giustificasse lo spavento. Ah, ci sarebbe stato da divertirsi. Sorrise con malizia e schiacciò il malcapitato coi tovaglioli. Scusa, Arilyn. I ragni e gli insetti non erano animali come gli altri, per lei, quindi non era contraria a sopprimerli. «Preso.» Sentì il suo sospiro di sollievo. «Grazie. Stai bene?» Fece una smorfia. «È stata dura, ma l’ho scampata. Avevi ragione. È gigantesco. Vuoi vederlo?» La risposta fu sferzante. «Non fare la spiritosa, Gen. Buttalo nel water o giuro che...» «Sì, sentiamo, cosa fai? Avanti, potrebbe farti passare l’aracnofobia. Te lo faccio vedere.» Uscì dal bagno sorridendo con i fazzoletti appallottolati in mano. «Allontana da me quel coso!» Gen voleva proseguire con lo scherzo ma quando lo vide così in paranoia provò pena per lui. Poi si rese conto che i suoi stati d’animo non erano ciò su cui avrebbe dovuto concentrarsi adesso. Perché era nudo. Ed era un fico spaziale. Gen sapeva del suo corpo spettacolare. Lo sapeva tutto il mondo, visto che era stato esposto sui tabelloni quando pubblicizzava i boxer con addosso soltanto i bracciali di cuoio. Ma vederlo completamente nudo le fece sentire le ginocchia così molli che quasi cadeva a terra. Wolfe era incredibile. Era ancora bagnato e le gocce d’acqua gli scivolavano sui muscoli tesi e duri. Non un filo di grasso in nessun punto del corpo. Dagli addominali a tartaruga ai bicipiti alle possenti cosce, era snello, asciutto e tonico. Pelle olivastra. Peli scuri sul petto che si stringevano in un’invitante riga che scendeva verso il basso. Il suo sguardo si fermò sui peli scuri, folti e ricci dell’inguine. Oh. Mio. Dio. Aveva il piercing anche lì. Restò quasi a bocca aperta quando vide la barretta d’acciaio che gli trapassava il pene. L’attrezzo era già impressionante di per sé, e sotto il suo sguardo fisso si stava anche alzando. Sentì una vampata di calore e le si prosciugò la saliva mentre immaginava di toccarlo e di guardarlo diventare duro grazie alle sue carezze. Immaginò di stuzzicare la barretta con la lingua, facendolo gemere. Immaginò come sarebbe stato dentro di lei. La barretta le avrebbe toccato il punto G? Le avrebbe stimolato il clitoride quando lui spingeva avanti e indietro? La stanza perse i contorni e strinse i pugni per resistere al desiderio di toccarlo. «Gen.» Sentì il suo nome mentre lo guardava diventare più grosso, più lungo, fino a raggiungere il massimo dell’erezione sotto il suo sguardo bollente. «Sì?» mormorò, incantata dalla manifestazione di bellezza e di forza maschile davanti a lei. «Devi smetterla di guardarmi così, piccola. Sto morendo qui. Mi serve un asciugamano.» Batté le palpebre. «Oh. Giusto. Un asciugamano.» Si bagnò il labbro inferiore con la lingua. Lui gemette come se fosse in agonia. «Scusa.» Gen non si mosse. Era così duro. Aveva voglia di accarezzare la punta per sentire com’era. Di chiudere la mano intorno all’asta e farla scorrere lentamente su e giù. Inginocchiarsi, aprire la bocca e prenderlo tutto dentro. Che sapore avrebbe avuto? Di terra e muschio per l’eccitazione? O delizioso e pulito come il suo odore? Trasalì quando lui ripeté il suo nome in tono più energico. «Sì?» «Se non mi prendi subito un asciugamano perdo il controllo.» Oh, era così tentata. Avvicinarsi, afferrargli l’uccello e non farlo pensare per un po’. Non far pensare entrambi. Ma quando alzò lo sguardo, nei suoi occhi non c’erano soltanto desiderio e bisogno. C’era disperazione. Inebetita, andò in bagno a prendere un asciugamano e glielo portò. Lui se l’avvolse intorno ai fianchi e lo tenne stretto come per paura che lei glielo strappasse via. Diventò rossa per l’umiliazione. Probabilmente lo stava fissando come un’adolescente arrapata che non vedeva l’ora di perdere la verginità. «Scusa.» Fece un sorriso forzato. «Mi sono distratta.» Lui le sollevò il mento con la mano costringendola a guardarlo. I suoi occhi azzurri catturarono quelli di lei con una tale forza che le si fermò il respiro. Il suo sguardo fremeva d’ardente desiderio. «Non scusarti mai più con me per qualsiasi cosa facciamo insieme.» Lo guardò, impotente, in attesa che decidesse lui per entrambi, perché lei era troppo stordita per dire di no. Se l’avesse baciata, non sarebbero tornati indietro. Un bacio, e sarebbero finiti a letto. Nudi. Insieme. Gen tremò. Aspettò. Lui abbassò la mano. «Grazie per aver ucciso il ragno.» Non riuscì a rispondere. Lui le passò accanto e chiuse la porta del bagno. Con le gambe che tremavano, si lasciò cadere sul divano chiedendosi come cavolo avrebbe fatto. Capitolo 16 Wolfe sorrise alla donna seduta al tavolo di fronte a lui. Era il loro terzo appuntamento. Quello che avrebbe deciso se avrebbero fatto sesso... oppure no. Fino a questo momento, Brit sprizzava ‘sì’ da tutti i pori, e lui era contento. Già. Contentissimo. L’appuntamento di Gen sarebbe stato il giorno dopo. Si erano messi d’accordo che lui non tornava a casa stasera e portava Brit nel suo appartamento di Manhattan. Dove si sarebbe dato da fare. A questo proposito, forse era meglio smettere di pensare a Gen e concentrarsi invece su di lei. Era splendida. Trucco leggero. Capelli scuri lunghi e dritti. Seni alti e pieni. Vita sottile. Un po’ troppo magra, come la maggior parte delle donne con cui usciva. Avevano tutte paura di mettere su qualche chilo sui fianchi e sul sedere, ma era solo colpa di quelle stupide riviste. In Europa le donne in carne andavano per la maggiore. Avrebbe voluto fosse così anche lì. Gli sorrise e notò i denti bianchi e splendenti. Merito dello sbiancamento, sicuro come l’oro. Nessuno aveva i denti così bianchi per natura. «Sono felice che tu mi abbia chiamata, Wolfe. Sono stata benissimo a pranzo e non vedevo l’ora di conoscerti meglio.» Abbassò leggermente lo sguardo. Una mossa ben studiata. Tutt’altra cosa rispetto allo sguardo scioccato e affascinato di Gen quando aveva visto il suo piercing alle parti intime. Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi spalancati e il suo volto stravolto dal desiderio. Aveva mai visto una donna tanto attratta da lui? Una che lo conosceva e non considerava il suo corpo un’entità a parte? Si costrinse a smettere di pensare a Gen e si concentrò su Brit. «Sono stato bene anch’io. Non vedevo l’ora di saperne di più di te.» «Quanto di più?» Piegò la testa di lato con civetteria. «Molto di più.» Era una risposta automatica, ma era convinto che il suo corpo l’avrebbe seguito a ruota. Aveva assolutamente bisogno di sfogarsi e anche se inizialmente sperava che con Brit potesse andare un gradino oltre, ora qualcosa gli diceva che una notte sarebbe stata sufficiente. «Si può fare», sussurrò lei. Non perse un colpo. «Allora forse dovremmo chiedere il conto.» Lei non protestò. Si limitò a sollevare un sopracciglio perfettamente arcuato e a sorridere. Il cameriere gli portò il conto. Wolfe pagò e uscirono dal ristorante. Lei parlò di lavoro, del Purity, di suo padre e di cosa significa essere donna in un settore dominato dagli uomini. In un altro momento e in un altro luogo, forse avrebbe apprezzato la sua intelligenza e i suoi modi raffinati. In un certo senso erano fatti della stessa pasta. Avevano lavorato duramente per arrivare dov’erano, apprezzavano l’intimità fisica e una buona conversazione, ed erano aperti a nuove esperienze. Peccato che ultimamente gli sembrasse tutto piatto. Ma non importava. Finché i patti erano chiari, non si sarebbe sentito in colpa. Erano tre mesi che non faceva sesso ed era al limite della sopportazione. «Sto andando a casa mia.» Fece una pausa. «A te va bene?» Brit si voltò e ammiccò. «Sì. Devo solo alzarmi presto domani perché ho una presentazione.» Gli si gelò il sangue. Sperava di evitare che si fermasse a dormire. Era imbarazzante, al mattino. O ci si sforzava di salutarsi come se niente fosse successo, o ci si trovava di fronte a quel silenzio devastante in cui uno sapeva che la cosa si chiudeva lì e l’altra no. Diavolo. Rispettava Brit e non meritava di essere usata per una sveltina e buttata fuori di casa. Da quando era diventato così freddo? Così bravo a mantenere le distanze da tutti, che ci fosse di mezzo il sesso o meno? Su di lui scese il gelo. Quante volte dopo quella fatidica sera aveva donato il suo corpo senza mai metterci l’anima? Non c’era niente da fare. Nulla l’avrebbe guarito, non c’erano formule magiche o affetti che potessero cambiare quello che era diventato. Ma poteva ancora dare piacere, onestà e cortesia. Forse non gli restava altro. Parcheggiò nello spazio a lui assegnato e aprì la portiera. Salirono a casa, portiere di notte, ascensore, corridoio. Lei continuava a chiacchierare, ignara del suo stato d’animo sempre più teso e confuso. Eppure l’aveva già fatto mille volte. Sì, ora viveva con Gen, ma questo non poteva certo significare trascurare i suoi bisogni e rinunciare a soddisfare le sue esigenze per poter dormire senza incubi. La pressione doveva pur sfogarla. Indossò le vesti dell’ospite. Le porse un bicchiere di vino e si sedettero sul divano. Faceva tutti i versi giusti a commento delle sue osservazioni, la guardava negli occhi e partecipava alla conversazione. Ma la mente era altrove, lontano da Manhattan, e precisamente a Verily. Da Gen. Dopo un po’ Brit posò il bicchiere e si avvicinò. Gli accarezzò i capelli, inclinando la testa in modo civettuolo. I capelli le scivolarono sulla guancia coprendole un occhio. I ricci di Gen lo facevano naturalmente, ma non stava pensando a quello adesso. «Ti voglio da molto tempo», sussurrò lei chinandosi verso di lui. «Anch’io. Brit, lo sai che non voglio legami sentimentali, vero?» Sperava in uno sguardo sorpreso, indignato, magari uno schiaffo. Invece lei fece una risatina. «Tesoro, non ho tempo per i legami sentimentali. Non correre troppo. Ma stanotte sono tua.» «È tutto quello che voglio.» La baciò. Aspettò che s’accendesse il desiderio, o almeno che là sotto si muovesse qualcosa per fargli capire che sarebbe filato tutto liscio. Invece... niente. Certo, era solo un bacio, probabilmente ci voleva qualcosa di più per coinvolgere anche altre parti anatomiche. Le perlustrò la bocca con la lingua. Sapeva di rum e aveva un odore aspro e pungente. Il suo corpo era estremamente sottile e spigoloso e quando le si avvicinò sentì le sue ossa contro i muscoli. Cercò di lasciarsi guidare dall’istinto, deciso a ricavare quanto più piacere possibile dalla serata. Brit gemette e fece ballare i seni. «Oh, sì, tesoro, dammelo.» Aggrottò la fronte. Dammelo? Un po’ squallida, forse, come espressione, ma di norma si sarebbe eccitato. Perché adesso no? Si impegnò di più, toccandola dappertutto e stringendola a sé. Non aveva niente che non andava, eppure la fiamma non si accese. Imprecando tra sé, smise di baciarla. Lei aveva le labbra rosse e semiaperte. Si alzò e lo invitò a fare lo stesso. «Andiamo nel tuo letto. Voglio che mi scopi selvaggiamente. Prendimi come vuoi. Sono tua.» Di solito si eccitava quando gli parlavano in questo modo. Era quello che ci voleva per lasciarsi andare e godersi il momento. Ma Wolfe capì che stasera nulla avrebbe funzionato. Poteva fingere, farlo controvoglia, ma si era giurato anni fa che non si sarebbe più messo in quelle condizioni. Ci pensò un attimo. No. Non voleva svegliarsi al mattino pieno di vergogna per aver mentito. Mentiva già abbastanza. Fu indeciso se inventarsi un disturbo allo stomaco o affrontare la collera femminile. E ancora una volta vinse l’onestà. «Brit, ti chiedo scusa ma stasera non me la sento di farlo. Non ci sono con la testa.» Lei non fece una piega ma si avvicinò e gli afferrò il pene floscio. «Ma io voglio questa testolina qui, tesoro», disse in tono seducente. Lui si stupì per la volgarità. «Voglio quella piccola. Non m’interessa quella grande.» Imbarazzante. Le tolse lentamente le mani dal suo membro. «Quella piccola non funziona bene, stasera. Ascolta, so che sei seccata, e mi dispiace di averti illusa.» Al diavolo, una piccola bugia non avrebbe fatto male a nessuno. «Non mi sento molto bene.» Aggrottò le sopracciglia. «Devi andare in bagno? Posso aspettare.» Puah. Wolfe scosse la testa e prese il telefono. Mandò un sms all’autista del Purity chiedendogli di venirla a prendere e di accompagnarla a casa. «No, credo che sarà una notte lunga. Ho bisogno di stare solo. Il mio autista ti aspetta davanti al portone.» Alzò la testa, prendendo probabilmente atto di essere appena stata respinta con delle palesi bugie. Alla fine Dio gli sorrise perché lei annuì, prendendo la borsetta. «Certo. Non voglio che la nostra prima serata sia memorabile in questo senso. Ci vediamo un’altra volta?» «Assolutamente.» Okay, non aveva avuto il coraggio di dirglielo, ma non se la sentiva di affrontare quel tipo di discorso adesso. L’avrebbe ripreso la prossima volta. Lei non lo salutò con un bacio. Gli fece solo l’occhiolino e uscì dal suo appartamento ancheggiando come sapeva fare molto bene. Wolfe tirò un sospiro di sollievo. Finalmente il silenzio. Prese i bicchieri, li mise nel lavandino e si guardò intorno. Come mai il suo appartamento sembrava così vuoto? In genere ne amava la semplicità, l’arredamento essenziale. L’aveva sempre considerato un posto perfetto per rilassarsi e ricaricarsi. Ma non l’aveva mai percepito come casa sua. Da Gen invece si sentiva a casa. Forse perché era un villino indipendente? O per il fascino dell’arredamento, i colori allegri, il parquet irregolare e le finestre che non si aprivano? O era Gen? Quel suo saltellare da una stanza all’altra sempre in attività, lasciando la sua roba e il suo odore ovunque? La sua abitudine di vedere la tv e sentire la musica ad alto volume? O la mania ossessivocompulsiva di disporre i libri in ordine alfabetico per cognome dell’autore? Si grattò la fronte. La faccenda si stava complicando. Non era andato a letto con Brit, stasera, ma Gen doveva credere il contrario. Occorreva creare una distanza tra loro e ricordare a entrambi che non erano amanti. Avrebbe passato la notte qui e non avrebbe raccontato nulla della sua uscita, lasciando tirare a lei le ovvie conclusioni. Tecnicamente non era una bugia. Gli affiorò alla mente l’immagine di Gen in piedi davanti a lui in camicia da notte, con la pelle umida e senza mutandine. Il suo pene si mise subito sull’attenti, e Wolfe gemette. Doveva sfogarsi, e c’era un solo modo per farlo. Chiuse gli occhi, si slacciò i pantaloni e si toccò fino a raggiungere l’orgasmo con il nome di Gen a fior di labbra. «Farà male.» Gen era stesa su un lettino imbottito col sedere per aria e i pantaloni abbassati sui fianchi. Un po’ imbarazzante, ma non poteva farci molto. Guardò il volto preoccupato dell’amica e le diede una pacca sulla mano. «Sono abituata agli aghi.» Kate si morse il labbro cercando di non guardare lo strumento che ronzava a pochi centimetri dalla pelle di Gen. «Vuoi qualcosa di alcolico?» «Non si beve nel mio negozio», intervenne il tatuatore. Capelli lunghi e scuri con le trecce, portava dei pantaloni di pelle e una maglietta nera e aveva le stazioni della via crucis tatuate su entrambe le braccia, con l’inchiostro nero. L’unico centro per tatuaggi di Verily si trovava in periferia. Il proprietario era il nipote di Tattto Tony di Marlboro, noto per aver eseguito il famoso tatuaggio sul sedere di Cher. «I tatuaggi non si rimborsano, quindi solo clienti sobri.» Gen rise per l’occhiata gelida che gli lanciò Kate. «Va bene, ma tu vedi di non guardarle il culo», replicò Kate. Il tatuatore alzò gli occhi al cielo. «Bella, non crederesti a dove ho fatto alcuni tatuaggi. Non c’è nulla che non abbia visto.» Gen s’intromise. «Per favore, ignorala.» Poi, a bassa voce: «Cominci anche tu? Avresti dovuto vedere Arilyn con l’agente Stone. Era una iena.» «La nostra Arilyn?» domandò Kate con grande stupore. «Impossibile.» «Giuro! L’ha accusato di non fare il suo lavoro e non stava più zitta. Penso che lui fosse attratto da lei. C’era qualcosa di elettrico nell’aria. Ah, e fuma.» «Non funzionerà mai, allora. Sono preoccupata per il suo istruttore di yoga. Ultimamente la vedo un po’ giù di corda. La starà tradendo di nuovo?» «Può darsi. L’ha già fatto due volte, inventando un sacco di scuse sugli uomini che per natura non sono monogami e sul seguire l’istinto. È un furbone.» «Dici che dovremmo parlarle?» «No. Deve arrivarci da sola. Come ho fatto io con David.» «Sì, penso che tu abbia ragione.» Il tatuatore si chinò sul suo sedere. «Pronta? Ci metterò un po’», le disse in tono brusco. «Pronta.» Rabbrividì per l’eccitazione. Forse era così che ci si sentiva a essere una cattiva ragazza. Izzy sarebbe stata fiera di lei. Il pensiero della gemella le procurò il solito rammarico. Si chiese se provare di nuovo a riavvicinarla. Forse ora che aveva rotto con David sarebbe stata più disposta a parlare. Nel momento in cui l’ago bucò la pelle sul fondo alla schiena, Kate strillò. Gen provò un fastidio diffuso, come tante punte di spillo, ma nulla d’insopportabile. «Kate, mi stai facendo innervosire. Respira.» «Scusa. Mi ripeti perché lo fai? I chirurghi possono farsi i tatuaggi?» Le venne in mente Wolfe. Lo rivide uscire dalla porta, più fico che mai, pronto a portare a letto una bellissima donna sexy e sicura di sé che l’avrebbe fatto stare bene, l’avrebbe toccato dappertutto e l’avrebbe preso dentro di sé. Zoccola. Voleva urlare. Invece gli aveva fatto il pollice in su come un’amica a cui non importasse niente di quante donne si scopava. In effetti prima era così. Prima rideva, gli dava del playboy e finiva lì. Ora le cose erano cambiate e non sapeva come gestirle. Era verde di gelosia come la pelle della Strega cattiva di Oz. Tornò alla domanda di Kate. «Sì, sono i militari che non possono. Quanto al perché, diciamo che ho bisogno di darmi una scossa. Ho voglia di fare qualcosa di un po’ folle. Fuori dall’ordinario. Capisci cosa intendo?» «Assolutamente. Ma bastava che mi accompagnassi a trovare mia madre, te l’avrebbe data lei una bella scossa.» Gen sorrise. La madre di Kate era una sessuologa, ex hippy e fumatrice di marijuana, e con un cuore d’oro. «A proposito, come sta?» Kate mangiucchiò qualche M&M’s. Lo zucchero l’aiutava ad attenuare la paura degli aghi. «Bene. È tutta eccitata per questo nuovo paziente che soffre di disfunzioni erettili. Vuole curarlo.» «Tua madre è una dritta.» «A Slade è simpatica. Ha accolto con una certa freddezza la notizia del matrimonio, quindi siamo contenti che lasci fare a noi.» «Non posso credere che tra poco ti sposi. Sono eccitatissima.» «Anch’io. Forse poi toccherà a Kennedy, se Nate la spunta. A proposito di uomini e di convivenze, come va con Wolfe?» Il ricordo la colpì come un gancio sinistro. Wolfe nudo in soggiorno. Bagnato. Gli occhi azzurri che brillavano di desiderio. Ingoiò a vuoto. «Mmm, bene.» L’amica la guardò con sospetto. «Dalla risposta non sembrerebbe.» Rispose con un tono indifferente. «Conviviamo da amici. Mangiamo insieme, guardiamo la tv, cose così.» «Andate anche a letto insieme?» Gen sussultò. Il tatuatore le diede una pacca sulla coscia. «Non muoverti.» «Ehi, non sei il suo capo!» lo rimproverò Kate. Lui sollevò l’ago. «Stai buona o la tua amica si ritroverà con un tatuaggio molto diverso da quello che ha chiesto.» Gen la supplicò con gli occhi. «Kate! Lasciagli fare il suo lavoro, ti prego.» «Va bene. Vai a letto con Wolfe?» «No. Siamo amici. Te l’ho detto un milione di volte. Figurati, stasera è uscito per scoparsi una di cui probabilmente non gli importa niente.» «Interessante. E perché sembri gelosa?» Gen la guardò di traverso, ma non doveva mettere molta soggezione coi pantaloni calati. «No. Voglio solo che la smetta con queste avventure e provi ad avere una vera relazione. Rifiuta di iscriversi a Kinnections e insiste su questa sua presunta incapacità di impegnarsi.» «Magari è vero.» «Stronzate. Ha paura di aprirsi con qualcuno. È frustrante. Cavolo, non mi ha parlato nemmeno del suo passato e lo conosco da anni.» «È un problema suo, Gen, non tuo», disse Kate con dolcezza. «Deve sentirsi pronto lui, non puoi forzarlo. Perché non ti concentri sul tuo appuntamento, piuttosto? Tu sei pronta?» Era pronta? Da quando Wolfe le aveva tolto la pace e scatenato la libido, s’era dimenticata di cosa s’aspettava da questo appuntamento. Un inizio promettente? La conferma che poteva ancora trovare l’amore? Un salto nell’ignoto per ricordarle che il sesso non doveva essere un campo di battaglia? O l’amore. O quello che diceva quella canzone degli anni Ottanta di Pat Benetar. «Sì. Non vedo l’ora. Il computer dice che è il tipo giusto per me, vero?» Kate annuì. «Vi compensate a vicenda. È divorziato ma pronto a innamorarsi di nuovo. È un farmacista quindi può apprezzare la tua formazione in medicina. Gli piace divertirsi, e non è per niente noioso.» «Kate?» «Sì?» «Se tutto va secondo i piani, vorrei andarci a letto.» La risatina del tatuatore non fu nulla confronto alla reazione della sua amica. «No! È contro le regole di Kinnections. Le regole implicite, diciamo. Niente sesso al primo appuntamento. L’obiettivo non è trovare uno con cui andare a letto, ma provare a costruire una relazione seria e appagante.» «Se facciamo sesso che fai, mi sbatti fuori?» chiese per curiosità. Kate sbuffò e si coprì il volto. «No, non dire stupidaggini. Ma non credo che Charles sia quel tipo di persona. Se volevi solo fare sesso avresti dovuto dirmelo!» Gen trattenne una risata. «Perché? Per gli uomini a cui va bene anche una sola notte di sesso c’è una lista separata?» Un’altra risata dal tatuatore. Kate lo guardò malissimo. «No. Però magari avrei scelto diversamente. Lui sta cercando l’amore. Non il sesso.» Si afflosciò. Certo. Perché si sorprendeva? Nessuna delle sue conoscenze la considerava un tipo da una botta e via. Wolfe meno di tutti. Cosa c’era di male a voler uscire dagli schemi qualche volta? A desiderare una notte di passione prima di preoccuparsi delle decorazioni dei piatti e delle staccionate bianche?» «Ah, dannazione. Ho detto qualcosa di sbagliato. Cos’ho detto?» Gen cercò di non incrociare il suo sguardo. «Niente, non essere sciocca. Probabilmente hai ragione. Penso solo che avendo appena rotto un fidanzamento imbarcarmi in un’altra relazione non sia una buona idea. Forse ho bisogno di spassarmela un po’. Ti sembra così terribile?» Kate le prese la mano e gliela strinse. «Nient’affatto. Scusa se non ho cercato di capire meglio quello che volevi.» Si batté l’indice sul labbro. «Magari Charlie ti sorprende. Se capisce che hai voglia, magari fa una piccola follia e ti accontenta.» Gen non poté evitarlo. Rise. Kate l’aveva detto come se fosse una novità assoluta. Chi voleva prendere in giro? Non avrebbe mai avuto un’avventura di una notte, né l’avrebbe mai voluta. A lei interessava l’intesa, il dialogo, l’emozione. Ma Wolfe non doveva saperlo. L’idea si trasformò in un piano. Sarebbe uscita con Charles comportandosi decorosamente ma non avrebbe raccontato nulla su come era finita la serata, così Wolfe avrebbe creduto che ci era andata a letto e questo forse avrebbe messo fine a quella strana tensione tra loro. E se con Charles fosse scoccata la scintilla, si sarebbe lasciata guidare dall’istinto. Sentì una voce dietro di lei. «Puoi sempre fargli venire voglia mostrandogli questa meraviglia. Sicura di non volere il fiore della nebbia accanto alla rosa? Tra le signore va per la maggiore.» No. Aveva scelto la rosa, ma questo era il suo piccolo segreto. La bellezza e il suo lato oscuro. Il piacere con un po’ di sofferenza. Non era il mondo in cui avrebbe voluto vivere, ma era la realtà, e non avrebbe più cercato di ignorarla. Quel mondo adesso era una piccola parte di lei. «No», disse ad alta voce. «Voglio le spine con le gocce di sangue.» «Sarà fatto.» Kate fece una smorfia e distolse lo sguardo. Gen invece si sentiva più soddisfatta a ogni puntura dell’ago. Era giunto il momento di accettare l’idea che non doveva fare sempre la cosa giusta, le scelte giuste. Forse c’era dell’altro in lei oltre a quanto aveva sempre creduto, e farsi questo tatuaggio era il primo passo. Sorrise e si abbandonò alla nuova esperienza. «Com’è andata la tua uscita?» Le costava tantissimo l’indifferente, ma sarebbe fare morta piuttosto che mostrare i suoi veri stati d’animo. Gelosia. Rabbia. Confusione. Ancora gelosia. Non era tornato ieri sera. Certo, gliel’aveva detto, ma lei era comunque rimasta sveglia fino all’alba a sentire quando si apriva la porta. Era rientrato alle otto con dei vestiti diversi da quelli della sera prima. Fresco di doccia, Levi’s sbiaditi e canottiera nera che metteva in risalto le braccia scolpite e il tatuaggio, trasudava peccato da tutti i pori. Era anche rilassato. Come se avesse dato sfogo a tutte le sue tensioni facendo sesso sfrenato e animalesco con quella zoccola. Ehm, con quella donna. Quello che era. Doveva smetterla di parlare da sola. «Bene. C’è dell’altro bacon?» Fumava per l’irritazione ma gli fece un sorriso radioso. «Certo. Ti sei divertito?» «Sì. Fai anche le uova?» Le tremò leggermente un occhio. «Ti è venuta fame, eh?» Il commento lo sorprese e la osservò. Si voltò a trafficare con la padella, imprecando per la sua incapacità di fingere indifferenza. Il silenzio alle sue spalle era molto eloquente. Alla fine Wolfe si schiarì la gola. «Com’è andata la tua serata?» le chiese. Se pensava che fosse stata in casa in compagnia del telecomando si sbagliava di grosso. «Benissimo.» Il bacon sfrigolava nella padella facendo schizzare l’olio. Girò le uova con la spatola. «Una serata fantastica.» Percepì la sua sorpresa ma non si girò. «Oh. Bene. Ma l’appuntamento è stasera, giusto?» «Sì.» «Quindi che hai fatto, sei andata da Mugs con le ragazze?» Mise le uova e il bacon sui piatti, prese il suo caffè e lo sorseggiò. «No. Mi sono fatta un tatuaggio e una ceretta brasiliana.» La sua faccia esprimeva perfettamente lo shock: occhi azzurri spalancati e labbro inferiore appeso. La guardò da capo a piedi, soffermandosi un istante sulla zona dell’inguine per poi tornare subito su. Gli spuntò qualche goccia di sudore sulla fronte. Gen sorrise e cominciò a mangiare le uova. «Di che diavolo parli? Quale tatuaggio? Dove? Perché?» Fece spallucce. «Così. Mi andava di farlo. Ma ho sentito più male con la ceretta.» La fissava con una luce intensa negli occhi. Il suo corpo si mise subito sull’attenti. I capezzoli s’indurirono e si sentì umida tra le cosce. Detestava sentirsi così. Lo sconfinamento da amico a uomo con cui voleva andare a letto era devastante. Forse conveniva riprendere con le battute e gli scherzi come facevano prima. Dopotutto, se Wolfe aveva deciso di scopare in giro, era evidente che lei non era tra quelle con cui voleva disperatamente andare a letto. Quindi se era solo lei che sbavava dietro a lui, era meglio tornare su un piano di parità. «A che ti serviva?» le chiese in tono brusco. «La brasiliana?» Strinse la forchetta con forza bruta. «No. Il tatuaggio.» «Te l’ho detto, mi andava così. Mi ha accompagnata Kate. Quasi sbarellava tra la paura degli aghi e il fatto che ero nuda.» La forchetta cadde a terra. Wolfe aveva il respiro pesante. «Chi ti ha visto nuda?» domandò alzando la voce. «Dove l’hai fatto?» Sollevò un sopracciglio. «Calma, amico. Hai un piercing sull’uccello. Dev’essere stato un dolore atroce. Tu perché l’hai fatto?» Arrossì di nuovo in quel modo virile e adorabile. Si chinò a raccogliere la forchetta e la buttò sul banco della cucina. Lei gliene prese un’altra, aspettando la risposta. «Perché ero fuori di testa in quel momento. Non m’importava del dolore, volevo solo torturarmi, avevo i miei motivi.» Lei si chinò in avanti. La voce era un sussurro. «Quali motivi?» «Lasciamo stare. Non voglio parlare del piercing, Gen. Dov’è il tatuaggio?» Delusa, tornò alla sua colazione. Certo. Lui non parlava di cose personali brutte e tristi. Sentì un vuoto dentro, per il bisogno di sapere di più di lui. Non le era mai importato prima, gli era sempre stata grata per quello che sceglieva di raccontarle. E adesso? Adesso non più. Si toccò la parte inferiore della schiena. «Tatuaggio da zoccola.» Lui inspirò rumorosamente ma lo ignorò. Svuotò i suoi piatti e li mise nella lavastoviglie. «Posso vederlo?» domandò. «È coperto. Un’altra volta.» Non ci pensava proprio a mostrarglielo adesso, quando si sentiva così vulnerabile. Se avesse provato a toccarla avrebbe rischiato di perdere il controllo. Meglio mantenere un tono leggero e lasciargli intendere i suoi progetti per la serata. «Dovresti dormire a casa tua stanotte.» Si rabbuiò. «Non è una buona idea. David ti starà tenendo d’occhio e non voglio che resti sola due notti di fila.» «Non sarò sola. Se tutto va secondo i piani, Charles passerà la notte qui. Preferirei evitare imbarazzi.» «Non lo conosci nemmeno! E se non ti piace? Non puoi farti una normale cena e tornare a casa? Possiamo parlare delle sue qualità e dei suoi difetti con una birra davanti alla tv.» Montò in collera. Fece attenzione a non sbattere il suo piatto mentre lo svuotava. «Forse sono in cerca di qualcos’altro stasera, Wolfe. Forse voglio provare a me stessa che ci saranno altri uomini che mi vorranno.» «Piccola, non dire stupidaggini. Bisognerebbe essere folli per non volerti. Ma non c’è bisogno di correre, potresti commettere uno sbaglio se non è quello giusto. Ti serve tempo. Te lo dico perché ti sono amico.» «Sì, infatti.» Pulì il banco della cucina e finì di riempire la lavastoviglie. «Proprio perché mi sei amico, non ti farai vedere. Preferisco portarlo qui che andare io da lui. Questo appuntamento è molto importante per me. Sento che andrà bene e mi manca il sesso. L’intesa. Ho bisogno di sapere che esiste qualcosa di più di quello che avevo io. È così sbagliato?» Si passò le dita tra i capelli già spettinati, in preda alla frustrazione. «Kate sa delle tue intenzioni?» «Sì.» Aggrottò la fronte. «E non ti ha detto niente?» Inspirò, appellandosi alla santa pazienza. Con che coraggio le faceva questa domanda quando solo la notte prima era andato a letto con un’altra? Come si permetteva di giudicare? Perché per lei le regole dovevano essere diverse? «Mi ha incoraggiata.» La bugia venne facile. Era la prima volta che gliene diceva una? O anche l’aver sempre negato di essere infelice con David contava come bugia? «Me lo presenti, prima?» Restò a bocca aperta. «No! Tu mi hai forse presentato quella di ieri sera prima di scopartela? Senti, l’argomento è chiuso. La casa stasera non è disponibile. E del mio appuntamento ti racconterò quello che mi hai raccontato tu del tuo.» E con questo si avviò a grandi passi fuori dalla cucina. La intercettò a metà strada afferrandola per un braccio. Wolfe non perdeva mai la calma. Gen sapeva quanto fosse spietato negli affari e fascinoso con le donne. Ma con lei era sempre a suo agio e rilassato. Lo guardò incuriosita e notò la mascella contratta. Il modo in cui stringeva i denti. L’energia sessuale allo stato puro che emanava dalla sua figura. Gli occhi azzurri pieni di emozioni turbinanti a cui non sapeva dare un nome. Cosa voleva da lei? E perché questa rabbia sembrava così diversa? Quasi fosse unita a desiderio e frustrazione sessuale? «Vuoi davvero sapere com’è andata ieri sera?» ringhiò. Le sue dita premute sulla pelle la marchiarono a fuoco. Gen voleva urlare per la soddisfazione di avere i suoi segni addosso. «No, grazie», ribatté. «Non mi serve sapere quante volte l’hai fatta venire. So già che sei un maestro in quel campo.» «Non mi esasperare. Potresti restare sorpresa dalle mie reazioni.» Sentì il suo alito sulla bocca. Caffè e menta piperita. S’irrigidì per combattere la tentazione di assaggiarlo. Avrebbe voluto fare un passo indietro e lasciar correre. La canzone di Frozen – Il regno di ghiaccio le urlava: Letit go. La supplicava. «Non è detto.» Alzò la testa e lo sfidò. «Magari sarai tu a restare sorpreso se mi esasperi.» «A che gioco stai giocando, Gen? Sempre che tu lo sappia.» L’enigmatico scambio di battute era pregno di significati nascosti. Tremava per lo sforzo di trattenere le emozioni. «Pronto a raccontarmi del tuo appuntamento, adesso?» lo stuzzicò. «Scommetto che era una modella pelle e ossa. A te piacciono così. L’hai fatta restare o l’hai cacciata fuori alle tre? È quella l’ora in cui di solito cominci a innervosirti.» Imprecò sottovoce. Lei intuì che stava per perdere la pazienza e continuò a giocare col fuoco, convinta che quando l’avesse persa avrebbe finalmente scoperto le carte. «Le hai fatto il discorsetto, prima? Hai chiarito che vuoi solo divertirti e non vuoi impegni? Almeno dopo un po’ di volte che urlano il tuo nome puoi sentirti a posto dicendo a te stesso che sei stato onesto. Te ne puoi andare con la coscienza pulita e il sorriso sulla faccia. Quanti orgasmi ci vogliono per non farti sentire in colpa?» La tirò di scatto contro di sé, la furia che usciva da tutti i pori. «Un’altra parola e ti faccio vedere quello che ha avuto lei ieri sera», l’avvertì. Un nodo allo stomaco per l’eccitazione. «Te la dico subito.» «Non ti azzardare.» «Vaffanculo.» La sua bocca scese su di lei. Gen si alzò sulle punte dei piedi, gli piantò le unghie nelle spalle e andò incontro alla sua lingua. Si baciarono con foga, strusciandosi l’uno contro l’altra in un disperato bisogno di contatto, di pelle, di labbra e di denti, del pene di lui che spingeva tra le cosce di lei ancora, ancora e ancora. Le prese il sedere con entrambe le mani e la sollevò, spingendo il bacino contro di lei senza mai smettere di entrare e uscire dalla sua bocca con la lingua. Gen gli bruciava tra le braccia, tremando dal bisogno di averlo completamente, gemendo e supplicando mentre lui la assaporava sempre più a fondo, finché... Suonarono alla porta. Si staccarono come se fossero stati colti in uno scandalo sessuale alla Casa Bianca. Qualcuno bussò. «Gen? Sono Arilyn. Kate è in ritardo, ci raggiunge al parco. Sei pronta?» I loro sguardi s’incrociarono. Le dolevano le labbra e fu tentata di premersi le dita sulla bocca per accertarsi che il bacio ci fosse stato davvero. Le tremava la terra sotto i piedi. Sentiva ancora il sapore di sapone e limone sulla lingua. Fremeva in tutto il corpo dal desiderio di mettere finalmente fine alla tortura, ma lo scacciò appena vide la sua espressione. Distaccata. Le emozioni erano state spazzate via e c’era solo... distanza. Una distanza elegante. Una distanza amichevole. Sentì una stretta allo stomaco ma la ignorò e andò ad aprire la porta ad Arilyn. La sua amica entrò con due guinzagli in mano e due cuccioli festanti. «Ciao Wolfe. Spero di non aver interrotto la colazione.» Dovette cogliere la strana atmosfera nell’aria perché d’un tratto tacque e guardò l’uno e l’altra. «O qualcos’altro.» Gen fece un sorriso forzato. «No, abbiamo appena finito. Vero?» Wolfe la guardò imbronciato. Trattenne il fiato finché lui annuì. «Sì. Esatto.» Gen si chinò e affondò il volto nel pelo dei cani. Non voleva fargli vedere quanto l’aveva ferita. «Sì, sono pronta», disse con brio. I cuccioli a chiazze bianche e nere saltavano su e giù, leccandole le guance con le lingue bagnate e mordicchiandole le dita coi dentini da latte appuntiti. Magari si sarebbe presa un cane. Le mettevano allegria. «Tu vai in ufficio, Wolfe?» «Oggi no.» La sua secca risposta attirò l’attenzione di Arilyn, che lo guardò. Gen si alzò, prese la borsa e s’avviò verso la porta. «Ci vediamo dopo.» Sentì il suo sguardo perforarle la schiena mentre usciva di corsa, ansiosa di fuggire. Afferrò un guinzaglio, ignorando il sopracciglio alzato di Arilyn. ’Fanculo. Avrebbe passato una bella giornata con le sue amiche e i cani e mangiato un buon gelato, poi sarebbe tornata a casa a prepararsi per l’appuntamento. Per fortuna lui non rientrava fino a domani. Domani l’equilibrio sarebbe stato ristabilito. Forse. Se tutto andava bene. «Hai intenzione di dirmi cosa sta succedendo?» domandò Arilyn. «No.» L’amica fece una risatina. «Lo immaginavo. Comunque, se hai bisogno di me, ci sono.» «Lo so. E ci sono anch’io se mai vorrai parlarmi del tuo istruttore di yoga.» Si scambiarono uno sguardo complice, poi scoppiarono a ridere. Capitolo 17 Stava andando fuori di testa. Wolfe camminava avanti e indietro nella piccola cucina aspettando che Gen uscisse dalla camera da letto. Le aveva già scritto un sms al pomeriggio scusandosi per essersi comportato come uno stronzo. Lei l’aveva perdonato subito inviandogli una faccina sorridente, ma intuiva che c’era sotto qualcosa di più grosso e complicato. L’aveva baciata. Di nuovo. Gli sfuggì un lamento e prese una birra dal frigo. Il suo sapore l’avrebbe ossessionato per sempre. Così dolce. Meglio del succo di frutta e del miele. Il modo in cui il suo corpo reagiva al contatto della loro pelle, sciogliendosi come se non avesse altra scelta, come se fosse trasportata dalla forza di un uragano o di un tornado o qualche altro evento mandato da Dio. Pelle setosa e capelli selvaggi. Ancora due secondi e l’avrebbe presa in piedi contro il muro. O sul pavimento. O sul banco della cucina. Se non fosse arrivata Arilyn, chissà cosa sarebbe successo. Non pensava ad altro da tutto il giorno. Non avrebbe dovuto essere lì. La mattina l’aveva passata quasi tutta in palestra. Gli aveva mandato in pappa il cervello quando gli aveva detto due delle parole più sexy del pianeta. Tatuaggio. Brasiliana. Lui non avrebbe visto né l’uno né l’altra. E magari quello con cui sarebbe uscita stasera li avrebbe visti entrambi. Diavolo, sapeva che avrebbe dovuto starsene buono a casa sua e darsi una calmata. Domani le cose tra loro sarebbero andate meglio. Sarebbero tornati a essere due buoni amici. Stappò la bottiglia e tracannò la birra. La sete in gola si placò, ma quella dell’anima no. Era improbabile che succedesse qualcosa stasera. Gen poteva anche dirlo e poteva anche aver davvero voglia di fare sesso, ma la sua testa si sarebbe messa di mezzo. Non era fatta per avventure di una notte. Non era come lui. Pensava di doverle delle scuse. Gliele avrebbe fatte di persona, poi l’avrebbe lasciata in pace. La porta della camera da letto si spalancò. Wolfe inspirò di colpo. Era fantastica. La testa piena di boccoli che moriva dalla voglia di spettinarle. Occhi truccati con la matita nera che facevano risaltare l’azzurro dell’iride. Lentiggini che non erano mai state così adorabili e labbra piene e rosa su cui avrebbe voluto posare le sue. Il vestito gli diede il colpo di grazia. Conosceva il classico tubino nero. Ma questo era proprio striminzito. Le curve di lei lo rendevano più corto del normale mostrando i polpacci muscolosi e i fianchi generosi. Il tessuto elastico sembrava lavorato all’uncinetto e le tirava sui seni. L’ampia scollatura a V prometteva una discesa mozzafiato giù da una pericolosa collina. Qui e là brillavano gingilli d’argento. Catenine intorno alla caviglia e ai polsi, orecchini pendenti. Le scarpe erano incrociate sul dorso, e chiuse dietro da una cerniera e suggerivano sesso trasgressivo. Gli si prosciugò la saliva. Sotto il tubino nero una brasiliana la lasciava completamente nuda, aperta e accessibile. Il solito profumo fresco era stato sostituito da una fragranza di sandalo muschiato, esotica e sexy allo stesso tempo. Cazzo quanto gli piaceva. Cazzo quanto gli rodeva. «Mi aiuti a tirare su la lampo?» Le orecchie udirono la richiesta ma i piedi erano inchiodati al pavimento. Probabilmente sembrava Forrest Gump quando blaterava di cioccolatini. «Wolfe?» «Sì, certo», mormorò. Posò la birra sul banco e si costrinse ad avvicinarsi. Lei raccolse i capelli in una mano e li sollevò per liberare il collo. L’abito aperto lasciava scoperta la delicata spina dorsale e la pelle morbida e setosa della nuca. A Wolfe tremava la mano quando prese il gancetto della cerniera e lo tirò su. Il sibilo fendette l’improvviso silenzio. Si accorse che lei tratteneva il fiato. C’era tensione tra loro. «Grazie.» Le tenne le mani sulla schiena per un attimo, resistendo alla tentazione di tirare giù la cerniera, spogliarla completamente e possederla subito, senza altre domande, scuse idiote o convenevoli. Invece fece un passo indietro. «Prego.» Lei guardò l’orologio d’acciaio al braccio. «Che ci fai ancora qui? Ti ho detto che è tutto passato.» Il suo sorriso brillava alla luce fioca. I seni si alzavano e abbassavano a ogni respiro. Portava uno di quei corsetti che esaltavano le forme? Non ne aveva bisogno. Immaginò di passarle la mano sulle curve. Strano, non sapeva di che colore fossero i suoi capezzoli. Rosso rubino come le ciliegie? O rosati come le sue labbra, che poi si scurivano quando era eccitata? La stanza s’inclinò come fosse ubriaco e sentì bruciare il sangue nelle vene. Forse aveva l’influenza. Un attacco di cuore. Non aveva mai provato un’eccitazione così intensa. Non credeva neppure fosse possibile. «Wolfe? Mi stai ascoltando?» Lui scosse la testa cercando di schiarirsi la mente. «Volevo aspettare che uscissi. Per essere sicuro che è tutto a posto. Kate ha il numero di questo tizio?» Un sorriso divertito le sfiorò le labbra. «Certo, è un cliente. Ho anche i soldi, paparino.» «Lasciami restare.» Lei spalancò gli occhi. «Giuro che appena sento la voce di un uomo esco dalla finestra. Voglio essere sicuro che David non venga a ficcare il naso.» Raddrizzò la schiena e afferrò la sua minuscola borsetta decorata di perline. «No. Hai promesso e devi mantenere la parola. David non mi ha più dato fastidio e penso che abbia capito il messaggio. Vorrei la mia privacy stasera. È importante per me.» «Non andarci a letto, Gen.» La supplica gli sfuggì dalle labbra senza riuscire a trattenerla. La vide barcollare sui tacchi alti e per un attimo giurò che avrebbe accettato. Pensò che si sarebbe avvicinata, gli avrebbe messo le braccia al collo e gli avrebbe detto che non voleva andare a letto con nessuno tranne che con lui. «Non posso prometterti niente.» Il suo sguardo lo sfidò a fermarla o a provare a farle cambiare idea. «Voglio quello che hai tu.» Si sentì improvvisamente svuotato di ogni emozione. Fosse stato per lui, avrebbe sfidato tutti i diavoli dell’inferno per impedire che avesse una vita come la sua. Sesso di cui non restava niente. Un cuore intorpidito. In questo ultimo mese con lei era cambiato. Si sentiva più in pace col mondo e allo stesso tempo più vivo. Ma non poteva durare, e se alla fine l’avesse portata a letto avrebbe perso l’unica donna per cui valeva la pena soffrire. Riuscì ad annuire. Lei si voltò, ma non prima che lui cogliesse un lampo di delusione sul suo volto. Un classico. Si odiava per la sua incapacità di lasciarla andare con gioia, augurandole tutta la felicità che meritava. Ma era sempre stato un cretino. «Ci vediamo domattina», disse con cortesia. «Divertiti.» Non riuscì a guardarla. Sentì chiudersi la porta e prese la birra, pensando che era meglio così. Sarebbe andato a casa sua e si sarebbe ubriacato. Senza pensare a lei, senza sognarla o fingere che avessero altro a cui aspirare a parte una perfetta amicizia. Sollevò la bottiglia e se la svuotò in gola. Il Cosmos era un ottimo compromesso tra buona cucina e ambiente rilassante. L’aria profumava di aglio, pomodoro e basilico, e la distanza tra gli ampi tavoli e i séparé consentiva di dialogare in tutta privacy. Il bancone del bar in legno di quercia era lungo e pieno di gente che sorseggiava cocktail e mangiucchiava le famose pizze cotte nel forno di mattoni. La Kinnections teneva molti eventi in questo popolare ristorante, quindi Gen era felice di aver fissato l’appuntamento qui. Gen parlò brevemente con la direttrice di sala che l’accompagnò al tavolo. Inspirò e scacciò Wolfe dalla mente. Stasera no. Per la prima volta dopo un sacco di tempo si sentiva sexy, audace e sicura di sé. Il tatuaggio le bruciava ancora, un piccante promemoria. S’immaginò travolta dal desiderio per la sua nuova conoscenza. Il pensiero di portare a casa sua un uomo che non era né suo amico né suo nemico per una notte di sesso sfrenato la tentava come un miraggio. Certo, se queste erano le aspettative, non c’era da stupirsi che le donne restassero spesso deluse dal primo appuntamento. Gen si fermò e sorrise all’uomo davanti a lei. Wow. Molto fascinoso. Si alzò subito, rispondendo al sorriso, e le diede una stretta di mano calda e decisa, che le piacque. Aveva i capelli castano chiaro, come gli occhi, e uno sguardo seducente. Il volto magro e spigoloso era dominato da un naso aquilino e le due fossette le fecero venire in mente una bella parola. BINGO. Si sedette. «È un piacere conoscerti, Gen», disse con un fantastico accento che l’avvolse come fumo. Gnam gnam. Non avrebbe saputo individuarne la provenienza, ma la cosa non la sorprendeva, visto che all’esame di geografia quasi la bocciavano. «Anche per me. Non vedevo l’ora.» Scelsero cos’avrebbero bevuto e mangiato e si lanciarono nella conversazione. «Scusa, non riconosco il tuo accento.» Lui rise e unì le mani sul tavolo. «Sono di origine francese ma vivo in America da parecchio tempo. Ho studiato farmacologia qui, ho messo su famiglia e sono rimasto. Mi piace andare in vacanza in Francia ma casa mia per me è New York.» Provò una piacevole sensazione. Da quanto tempo non le interessava un uomo? Anche prima di David usciva molto poco, essendo sempre occupata con lo studio, i voti e la carriera. L’attenzione di lui le faceva risplendere la pelle più di qualunque esfoliante. «Ho sempre desiderato visitare la Francia. Non ho viaggiato molto.» Sorseggiò il vino, stringendo il bicchiere con le dita lunghe e affusolate. «Comprensibile, visto che sei un chirurgo.» «Sto ancora facendo l’internato», lo corresse. «Ti piace il tuo lavoro?» La domanda la spinse fuori rotta. Le piaceva? Strano, Wolfe le aveva fatto la stessa domanda quella sera sul ponticello. Non si era mai fermata a riflettere su quanto la sua scelta di carriera la rendesse felice. Era una cosa che aveva deciso di fare e basta. Ultimamente, tuttavia, dopo essere stata fuori dall’ambiente per un po’, cominciava a sentire nostalgia di quello che si era lasciata alle spalle. Le mancavano i pazienti, l’energia che l’animava quando affrontava un problema, e la calma dentro la tempesta alla prima incisione del bisturi. Il mondo scomparve, e si ricordò chi fosse. Qual era il suo destino. «Sì», rispose a bassa voce, guardandolo negli occhi. «Per un certo periodo mi sono sentita smarrita, perché cercavo la conferma di aver fatto la scelta giusta.» Si chinò in avanti. «Penso che lo facciamo tutti, prima o poi. Se non mettessimo mai in dubbio le nostre scelte, non varrebbe la pena di farle.» Lei sorrise. «Da come parli sembri più un filosofo che uno scienziato.» Charles rise. «Lo immagino. Sono sempre stato quel che si dice una persona spirituale. Ho commesso degli errori ma non ho rimpianti.» «Concordo.» Portarono il cibo e loro continuarono a chiacchierare. Oltre a emanare una deliziosa energia sessuale, Charles era arguto, educato e divertente. Alla fine della cena a Gen batteva il cuore dalla felicità. Sebbene un po’ arrugginita in questo campo, era sicura che tra loro ci fosse una grande intesa. Uscendo dal ristorante lui le prese il gomito e l’accompagnò alla sua auto. L’attesa era dolce come il Sauvignon Blanc che aveva appena bevuto. Oh, che voglia di lasciarsi andare a qualche piccola follia. Di liberare la mente da tutte le costrizioni che David le aveva inculcato. Di smettere di dubitare della sua capacità di attrarre gli uomini e di abbandonarsi al sesso dando piacere al suo compagno. «Sono stato benissimo, Gen», disse lui. Si fermarono accanto alla Ford Fusion di lei. «Mi è capitato di rado di fare una chiacchierata così profonda e interessante con una persona appena conosciuta.» Le piaceva il suo modo di parlare, formale con ritmo, come musica accompagnata da un testo perfetto. Si voltò e alzò la testa. La guardava con dolcezza e le fossette gemelle le ammiccavano al chiaro di luna. Col cuore che batteva come un tamburo, fece un salto nel buio. «È lo stesso per me. Ti andrebbe di continuare quest’affascinante conversazione a casa mia?» La voce uscì un po’ tremula ma sperò che non ci facesse caso. Torse le labbra per indurlo un po’ in tentazione, o almeno così si augurava. Le sudavano le mani. Che agitazione. Ma non aveva capito male, era chiaro che era attratto da lei, lo sentiva. Lui fece una risatina sexy, le prese le mani e gliele strinse leggermente. Lei cercò di non far trapelare il suo nervosismo. «Sei molto carina. Posso essere del tutto onesto?» «Assolutamente.» Si chinò verso di lei e posò lo sguardo sulle sue labbra piene. Le venne in mente Wolfe ma lo scacciò subito dai suoi pensieri. Non voleva perdersi questa opportunità. «Tu hai tutto, non ti manca nulla. Ma dopo il divorzio, mi sono fatto una promessa. Mi sono sposato la prima volta perché mi sembrava la cosa ovvia da fare. Lei era sveglia, dolce e divertente. Ma la amavo come un’amica. Non c’era passione tra noi.» Portò le sue mani alla bocca e le baciò i palmi sudati. «Tu mi ricordi lei. Ci divertiremmo e staremmo bene insieme, ma non ci sarebbe mai la scintilla che sto cercando. La passione di cui ho bisogno. E so che per te è lo stesso. Ti sarai accorta che tra noi non c’è quel tipo di attrazione che ci fa impazzire dalla voglia di buttarci sul letto e fare l’amore fino allo sfinimento. La nostra è solo... amicizia.» Gen sbatté le palpebre. Il cuore smise di battere. Il salto nel buio si era rivelato un tuffo in caduta libera finito con un cumulo di membra spappolate sul cemento. Inebetita, annuì con decisione. «Sì, sì, certo. Concordo pienamente, ma mi stava piacendo la nostra chiacchierata amichevole.» Sorrise. «Anche a me. Dirò a Kate che è inutile fissare un secondo appuntamento, ma spero davvero di rivederti, Genevieve. Sei una compagnia meravigliosa per un cuore triste.» Gli fece un sorriso finto, sopportò un bacio frettoloso sulla guancia e lo salutò con la mano mentre andava alla sua auto. Le strade erano piene di gente che si godeva la serata calda. I lampioni brillavano tra gli alberi che solcavano il marciapiede. Notò una giovane coppia abbracciata: si toccavano e accarezzavano come se non riuscissero a farne a meno e ridevano tra loro, parlandosi a bassa voce e creando una bolla intorno a loro che nessuno poteva far scoppiare. Gen montò in auto e accese il motore. Guidò con cautela fino a casa, concentrandosi sulla strada. Parcheggiò accanto al marciapiede e vide che l’auto di Wolfe non c’era. Bene. Aveva fatto come gli era stato chiesto. Prese la borsetta, rientrò nella casa silenziosa e accese alcune luci. Si guardò intorno. E si chiese perché non provasse assolutamente nulla. Restò a lungo in piedi accanto alla porta. C’era una bottiglia di birra vuota sul banco della cucina. Wolfe lasciava sempre tutto in disordine. Sarebbe stato un pessimo marito. Avrebbe fatto impazzire la moglie a furia di non mettere i vestiti sporchi nel cesto della biancheria, di non riappendere gli asciugamani bagnati e di non portare i piatti sporchi nel lavandino. Scosse la testa e andò a prendere la bottiglia per poi buttarla nel cestino dei rifiuti riciclabili. Pulì il banco della cucina e sistemò nella lavastoviglie i piatti rimasti in giro. Pensò di bersi un bel bicchiere di vino e rilassarsi. C’erano un sacco di film registrati ancora da vedere. Prese un bicchiere, ci versò il vino bianco che era rimasto in frigo e lo sorseggiò. Un libro, magari. Aveva migliaia di libri cartacei e sul Kindle che non aveva mai letto. Nel silenzio che la circondava, si domandò di nuovo perché si sentisse così vuota. Strano. A parte quando era in sala operatoria, per il resto aveva sempre la mente intasata di pensieri. Forse per questo fare il chirurgo era così eccitante. Per il sollievo di spegnere il cervello. David le ripeteva spesso che era troppo impulsiva e che doveva avere un approccio più logico e razionale alle cose. Lei aveva provato a spiegargli che quando si affidava all’istinto le voci smettevano e tutto andava a posto, ma lui non era d’accordo. Aveva fatto di tutto per cambiare. Amava David, lo rispettava, e voleva essere degna di lui. Ma non ci era mai riuscita. Quanto tempo erano stati insieme prima di smarrirsi? Com’era diventato così freddo e crudele? All’inizio passavano ore a letto, lo ricordava bene, ma lui fingeva anche allora? Era incuriosito da lei, ma non attratto in quel modo primitivo in cui gli uomini hanno bisogno di essere attratti per innamorarsi davvero? Forse lei non riusciva a ispirare quel tipo di desiderio. Posò con attenzione il bicchiere sul banco, poi andò in camera e si sedette sul letto. Fissò la parete per un po’. Quell’azzurrino delizioso. Ma la signora Blackfire aveva ragione. C’erano un mucchio di lavori da fare. La casa doveva essere imbiancata e aveva bisogno di manutenzione. Adesso aveva tempo. Non faceva più il medico. Non aveva una relazione. E niente notti folli di sesso per lei. Non era proprio il tipo, che si facesse la brasiliana o un tatuaggio o passasse ore in bagno cercando di scatenare l’appetito sessuale negli uomini. La delusione la trascinò nell’abisso della depressione contro cui lottava da un anno. Probabilmente non avrebbe mai trovato quello che cercava: un amore meraviglioso e completo. Una passione travolgente a cui abbandonarsi. Kate ce l’aveva. Kennedy anche. Alexa. Lance. Esisteva. Ma non per lei. Guardò il suo tubino sexy e i sandali modello scopami subito. Le curve generose che esplodevano dal tessuto. Si toccò i boccoli, che già sparavano dappertutto, e quando ritirò la mano aveva le dita bagnate. Strano, non si era accorta che stava piangendo. Addio trucco. Immaginò le righe di mascara che le solcavano il volto. Sentì arrivare la tempesta. Avrebbe voluto evitarla ma era troppo violenta. Le emozioni la travolsero come uno tsunami e le macerie le lacerarono la pelle. Dal petto salirono i singhiozzi e si lasciò andare. Chinò la testa e pianse. Pianse per aver perso David. Per i dubbi che l’avevano assillata da quando aveva affidato il suo cuore a un’altra persona perché se ne prendesse cura e gliel’aveva spezzato. Per la confusione che aveva in testa, per la sua debolezza. Per gli inaccettabili sentimenti che provava per il suo migliore amico. Gen non lo sentì arrivare. D’un tratto il suo cavaliere la stava stringendo tra le sue braccia forti. Il suo calore sciolse il gelo che la irrigidiva e lentamente si rilassò, tirando su col naso, il volto sepolto nel cotone morbido. Le premette le labbra sulla testa e le mormorò parole dolci e insensate, consolandola. Lei si arrese, liberandosi di tutto quello che aveva dentro, e finalmente si calmò, abbandonandosi a lui completamente. La leggerezza tornò. La pace. Lui la stringeva forte. Era bloccata contro il suo petto di marmo da braccia d’acciaio che non ne volevano sapere di diminuire la stretta. Non si era mai sentita così protetta e amata, e cadde in silenzio, prosciugata. «Piccola, è successo qualcosa? Dimmelo, per favore.» Lei scosse la testa, rifiutandosi di guardarlo. «È stato lui? Ti ha toccata? Ti ha fatto del male?» Scosse di nuovo la testa con decisione. «Sto cercando di mantenere la calma e di non andare fuori di testa.» Cominciò a tremare e Gen si accorse che manteneva il controllo a malapena. «Dimmi chi è stato e ci penso io. Dammi un nome.» Tirò su col naso. «Nessuno. Non ho niente. Cosa ci fai qui? Avevi promesso.» «Ci ho provato, ma a metà strada sono tornato indietro. Ho pensato che era meglio parcheggiare lungo la strada e dormire in macchina. Dovevo essere sicuro che stessi bene.» Sentì male al cuore. Era così buono con lei, così dolce e gentile, e tutto quello che voleva era che impazzisse di desiderio per lei, cedesse ai suoi istinti primari e la spogliasse, l’afferrasse e la scopasse. Si scostò lentamente e lo guardò. Doveva essere brutta da fare spavento. A pezzi. Le montò la rabbia. ’Fanculo tutto. ’Fanculo lui. ’Fanculo tutti quanti. Si chiuse in se stessa e parlò in tono gelido. «Grazie ancora per il tentativo di salvataggio, ma sto bene. Non mi serve la tua armatura stasera. E scusa per la scena drammatica.» Lui socchiuse gli occhi, lanciando fiammate di fuoco blu zaffiro. «Non fare i giochetti con me, Gen. Cos’è successo stasera con quel tipo? Perché vengo a casa e ti trovo a piangere disperatamente?» Se gli fosse rimasta vicina avrebbe soltanto umiliato se stessa. L’avrebbe supplicato di desiderarla e non sarebbe più potuta tornare indietro. Si asciugò gli occhi e si alzò dal letto. Aveva bisogno di stargli lontano. «Lascia perdere, okay? Sono una donna, per la miseria. A volte piango e mi piace farlo in privato, senza gente che mi guarda.» Gli voltò le spalle per non farsi vedere in faccia. «Non ti voglio qui, stanotte.» «Peccato.» Si girò di nuovo verso di lui, a bocca aperta. Una rabbia violenta e pura prese il posto delle stupide lacrime e dell’autocommiserazione, un sentimento che aveva sempre disprezzato. «Non hai nessun diritto d’immischiarti», ringhiò. «Io ti ho lasciato il tuo spazio quando hai voluto andare a scopare la tua amica! Non ti ho fatto mille domande e non ho invaso la tua privacy.» «Non mi hai neanche trovato in lacrime. Ti conosco, Gen. Ti ho visto piangere per gli animali feriti, per i bambini maltrattati e persino per quelle orribili commedie romantiche che trovo insopportabili. Ma stavolta era diverso. Questo era un pianto che veniva dal profondo, e voglio trovare il figlio di puttana che ne è responsabile per ammazzarlo.» Spalancò gli occhi per la naturalezza con cui lo disse. La sua espressione ferma era quella di un uomo possessivo. Era ancora seduto sul bordo del letto e la guardava, irremovibile, deciso a non farsi incantare e a non cedere alle sue richieste. Che bravo... amico. Fece un passo avanti e quasi gli sputava in faccia. «Ti ho detto che non è successo niente. Non è stato David o Charles né nessun altro e non voglio più parlarne. Vattene.» «No.» «Vattene!» «No. Ci ha provato? Ti sei spaventata? Sapevo che non era una buona idea. Non sei pronta per il sesso senza coinvolgimento sentimentale e se lui non l’ha capito gli insegnerò una bella lezione per la prossima volta.» Perse le staffe. L’ultimo filo che la teneva legata alla sanità mentale si spezzò e non rimase nulla a fermarla. Vide rosso, e barcollando su tacchi troppo alti per lei gli disse l’umiliante verità. «Ero io che volevo lui!» urlò. «Vuoi sapere com’è andata? Era perfetto. Affascinante. Sexy. Non mi sentivo così in forma e sicura di me da una vita, così l’ho invitato a casa mia per andare a letto con lui. E sai cos’ha detto? Indovina.» Wolfe restò in silenzio, tenendola intrappolata con lo sguardo. «Ha detto ‘no grazie’! Che si è sposato e poi ha divorziato perché con la moglie non c’era passione. Era bello parlare con lei, era simpatica e divertente. Proprio come me. Ma non era sexy. Non abbastanza da far perdere la testa a un uomo e catturare il suo cuore. Quindi ecco, ho fallito di nuovo. Sono un’ottima compagnia, una buona amica e collega, e questo dovrà bastarmi.» Fece una risata amara e si spostò i ricci dal volto, senza più far caso a quanto doveva essere in disordine. «David aveva ragione e nulla cambierà questa realtà. Né uno stupido tatuaggio né la ceretta e tantomeno l’aiuto di un’agenzia matrimoniale.» Fece per alzarsi ma lei non si fermò, sapendo che se avesse colto la pietà nei suoi occhi non sarebbe più stata la stessa. «Non osare compatirmi! Voglio che tu te ne vada. Ti supplico di andartene e di darmi del tempo per rimettermi in sesto. Domani sarà tutto a posto.» Le si spezzò la voce ma continuò. «Ho solo bisogno di stare un po’ da sola. Per riflettere. Per favore, Wolfe, vattene.» Lui non si mosse. Non batté ciglio. Gen si voltò e andò alla finestra. Appoggiò la fronte al vetro freddo e pregò di poter concludere quell’orribile serata in solitudine. Domani si sarebbe ripresa e tutto sarebbe tornato alla normalità. Ma stanotte si sentiva pericolosamente fuori controllo... sull’orlo di qualcosa che non avrebbe saputo come gestire. Il letto cigolò. Rumore di passi. Trattenne il respiro e aspettò il completo silenzio, ma invece di uscire Wolfe andò da lei. Il calore del suo corpo la prese al lazo e lei si sentì come un vitello indifeso a un rodeo. Strinse le mani sul davanzale, sentendolo sempre più vicino, finché il suo petto le sfiorò la schiena. «Guardami.» Era un ordine. Non ebbe la forza di disobbedire e si voltò. Lui le sollevò il mento con un dito. I suoi occhi erano folli di desiderio. Come se li vedesse brillare sott’acqua nel mar dei Caraibi con attaccata l’etichetta ‘Attenzione: pericolo’, si tuffò nelle profondità del suo sguardo che prometteva tutto. Lui aumentò la stretta, impedendole di andarsene, e occupò tutto il suo spazio avanzando di un altro passo tra le sue cosce. Sentì il bordo del davanzale premerle contro la schiena. Il suo meraviglioso odore di limone, sapone e cotone cancellò tutto tranne il bisogno di toccarlo, assaggiarlo, nutrirsi di lui. «Voglio che mi ascolti con molta attenzione perché te lo dirò una volta sola. Intesi?» Dischiuse le labbra. Questo non era un amico. Era un uomo pericoloso con un’idea precisa in mente. Annuì, paralizzata, incapace di parlare, una mera preda in balia di un pericoloso predatore. «Ho chiuso con le scuse, le chiacchiere e le buone maniere. Basta con questo tuo ridicolo mettere in discussione il potere che hai di stringermi in una morsa tale da non lasciarmi nemmeno respirare senza desiderarti con tutta l’anima. Sono stufo di andare in giro con l’uccello alzato quando sento il tuo odore o guardo le tue curve, o quando immagino di essere dentro di te. Mi stai ascoltando, Gen?» Sentiva il corpo così in fiamme che era sorpresa che non si vedessero le bruciature sulla pelle. Cominciò a tremare e avvertì un liquido caldo scorrerle tra le cosce. Irrigidì i muscoli, prigioniera di un desiderio che non aveva mai provato e che neppure credeva possibile. «Sì», sussurrò. «Bene. Perché stanotte ti scopo. Tutta la notte. Se fossi un vero amico me ne andrei e ti lascerei lo spazio che ti serve per ricostruire le tue difese. Lo meriti. Ma sono uno stronzo egoista che ha un tale bisogno di portarti a letto che venderebbe l’anima al diavolo pur di averti anche una sola volta. Mi stai ancora ascoltando?» «S-s-sì.» «Ti do tre secondi per andartene. È la cosa più saggia da fare. Vattene e non ne parleremo mai più. Torneremo a essere amici, metteremo da parte per sempre questo episodio e continueremo a fingere. Ma se dopo tre secondi sarai ancora qui, sei mia. Tutta quanta. E ti giuro che non metterai più in dubbio la tua capacità di attrarre sessualmente un uomo al punto da fargli passare il resto della vita a paragonare tutte le donne che sfiora a te.» La stanza cominciò a girare e si aggrappò al suo braccio per non perdere l’equilibrio. «Wolfe.» «Uno.» Si sentì sprofondare. La bocca di lui si avvicinò. «Oh, Dio.» «Due.» Ingoiò a vuoto, un piede pronto alla fuga, sapendo che questo avrebbe rovinato tutto, cambiato il loro rapporto per sempre, aperto una porta che non avrebbero più potuto richiudere. «Io non...» «Tre. Troppo tardi. Stanotte sei mia.» «Penso che...» «Non pensare. Dammi tutto quello che hai.» Le prese le guance tra le mani, abbassò la testa e la baciò. Capitolo 18 L’inferno valeva davvero il viaggio. Dal momento in cui si era messo in auto per andare al suo appartamento si era sentito in torto. Alla fine aveva invertito la marcia, imprecando per tutto il tragitto, e aveva deciso di tenere d’occhio la casa per assicurarsi che nessuno le desse fastidio. L’idea d’incontrare il suo amante di una notte gli seccava da morire, ma avrebbe onorato la promessa. Quando aveva visto l’auto voleva solo dare una sbirciata per assicurarsi che stesse bene. Tutto lì. Nient’altro. Ma aveva sentito i singhiozzi ed era andato nel panico. L’adrenalina gli era salita a livelli inquietanti. Era pronto a menar le mani ma lei era sul letto da sola a piangere e lui si era sentito di merda come dopo tre notti di bisboccia a Las Vegas. Prenderla tra le braccia gli era venuto naturale. Aveva pensato solo a calmarla e a farle passare il dolore. Poi avrebbe fatto sputare sangue a qualcuno. Era così maledettamente bella. Trucco sciolto, labbra gonfie, capelli in disordine sciolti sulle spalle. Quando gli aveva confessato quello che era successo ci aveva messo un po’ a ritrovare la parola. Che ci fosse un uomo che non la desiderasse era al di là della sua comprensione. Lui non pensava ad altro ogni giorno, ogni minuto, a quel tesoro prezioso che aveva a portata di mano ma che non poteva toccare. L’autodisprezzo che le aveva letto negli occhi era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Lì aveva deciso che basta, non poteva andarsene senza provarle quanto fosse splendida e desiderabile. Già. Un bel sacrificio. L’opportunità di sfuggirgli gliel’aveva data. Era stato corretto. E quando lei non si era mossa, la sensazione di vittoria all’idea che sarebbe stata sua quasi lo riduceva in ginocchio. Finché l’aveva baciata. E aveva capito di appartenerle quanto lei a lui. Lo stracciò. Si aspettava dolcezza, abbandono e una totale rinuncia al controllo. Voleva dominarla, soddisfarla, possederla. Ma ebbe molto di più. Quando invase la sua bocca lei gli andò incontro con la lingua. Quando le prese i fianchi per sollevarla, lei gli strinse le gambe intorno alla vita, infilandogli le dita tra i capelli e tenendosi stretta. Il vestito le salì sopra le cosce e la sua erezione spinse contro la sottile barriera delle mutandine, pretendendo di passare. Dal profondo della gola, le uscì un verso simile a un piagnucolio che lo fece impazzire. La spostò mettendola con la schiena contro il muro per reggerla meglio e le morse il labbro inferiore. Poi lo succhiò. Poi si rituffò nella sua bocca per gustare il suo sapore, un misto di frutta e miele di cui non era mai sazio. Lei gli si torceva contro, pazza di desiderio, ma quel dannato tubino era un vero impedimento. Le loro bocche si staccarono e lei ansimò. «Toglimelo.» «Ci sto provando. La cerniera è bloccata. Ci tieni a questo vestito?» «Abbastanza.» «Te ne compro un altro.» Tenendola sollevata contro il muro, afferrò il pizzo in alto e tirò con forza. Il rumore del tessuto che si lacerava gli diede grande soddisfazione. Le tolse il vestito strappato e sentì la sua pelle calda, morbida, nuda e profumata. I seni pieni erano trattenuti da un reggipetto nero a balconcino e le mutandine di pizzo le coprivano appena le parti intime. Strinse le cosce piantandogli i tacchi a spillo nel sedere. Gli uscì un gemito di piacere misto a dolore. «Oh, scusa.» «Non scusarti. Tra poco sarà molto peggio. Cristo sei più bella di quanto immaginassi. Guardati.» Le prese i seni tra le mani, stimolò i capezzoli e li guardò indurirsi. Il petto si alzava e si abbassava a ogni respiro, e il cuore le batteva con violenza alla base del collo. La sua pelle bianca si era tinta di rosa. «Sogno questo momento da un sacco di tempo, ma la realtà è ancora meglio.» Chinò la testa e le succhiò un capezzolo attraverso il pizzo, mordicchiandolo coi denti e facendola bagnare tutta. Voleva infilarle dentro le dita ma aveva paura di venire nei jeans come un adolescente arrapato. Meglio aspettare ancora un attimo. Com’era tipico di Gen, cercò di prendersi quello che voleva, inarcando la schiena e strusciando il sesso contro la protuberanza dura dei jeans di Wolfe. Gli graffiò la nuca e si dimenò, cercando di liberarsi dal reggiseno. «Smettila di giocherellare e toglimi quest’affare.» «Tanto vale che ti compri un reggiseno nuovo.» «Eh?» Lo strappò a metà sul davanti e i suoi seni nudi gli esplosero tra le mani. I capezzoli duri lo reclamavano, così sollevò i seni verso la bocca e li succhiò con forza, passando la lingua intorno all’areola fino a quando lei gli afferrò la camicia cercando di togliergliela. «Spogliati subito.» Ignorò la sua richiesta, torcendole i capezzoli e tuffando di nuovo la lingua nella sua bocca per ubriacarsi della sua essenza. Lei urlò di piacere, e lui gioì di quel suono celestiale. «Dolcissima.» La baciò ancora e ancora. «Cazzo quanto sei dolce. Non mi basta mai.» Voleva farla impazzire, portarla a un punto in cui non le importasse più nulla di fargli male o di qualunque cosa che non fosse raggiungere l’estasi con un orgasmo dopo l’altro. L’aroma muschiato della sua eccitazione gli disse che era bagnata fradicia, pronta per lui. Sapere che lo voleva quanto lui voleva lei lo scosse nel profondo e si sforzò di mantenere il controllo mentre il flusso di emozioni e di desiderio lo travolgevano. Non aveva mai provato nulla di simile. «Se non ti togli questi maledetti jeans do i numeri», lo minacciò ansimando e dimenandosi contro di lui. Cercò goffamente di slacciargli la cerniera per liberarlo, accarezzando il rigonfiamento del suo pene duro, e fu in quel momento che lui decise di non poter resistere oltre. Doveva farla venire. Adesso. «Dopo.» Fece scivolare le mani dai seni al ventre tremante e le infilò sotto l’elastico delle mutandine. «Intimo firmato?» «Sì, costano più del vestito... oh, sì!» Le strappò con un solo gesto, le gettò da parte e affondò due dita nella sua tana dolce e calda. «Wolfe! Ah, che meraviglia...» gemette mentre il suo sesso gli si stringeva intorno alle dita. Le stimolò delicatamente il clitoride col pollice, senza fare pressione, e continuò a entrare e uscire da lei con movimenti lenti e profondi. Catturò i piccoli versi che le salivano dalla gola, passando la lingua sul suo carnoso labbro inferiore, e la guardò tendere i muscoli del volto mentre si avvicinava all’orgasmo. Le pupille si dilatarono e tutto il corpo s’irrigidì, inarcandosi contro il suo palmo, in cerca di qualcosa che solo lui poteva darle muovendo le dita. «Ci sono quasi. Non ce la faccio più, ti prego...» Le passò il pollice sul clitoride un’ultima volta, lentamente. «Vieni per me, Gen. Adesso.» Strofinò con forza e spinse fino in fondo. Lei esplose, il corpo scosso dagli spasmi dell’orgasmo. Gli ficcò le unghie nelle spalle, aggrappandosi e stringendosi a lui con forza sovrumana. Wolfe osservò ogni sua minima espressione. Il modo in cui si mordeva il labbro inferiore, lo sguardo annebbiato. La pelle umida e il calore che gli avvolgeva le dita. «Cazzo quanto sei sexy», le mormorò all’orecchio, mordendole il lobo. «Voglio vederlo un’altra volta.» «No», farfugliò. «Prima spogliati. Togliti tutto.» «Qui non comandi tu, piccola.» Le tenne aperte le gambe per restare dentro di lei fino all’ultimo e le ficcò la lingua in bocca per zittirla, chiedendosi se si sarebbe mai stancato di guardarla venire. Era la cosa più sexy del mondo e voleva già farlo di nuovo. E ancora. Si espresse come un’ubriaca con un disperato bisogno di comunicare. «Dammi lo stesso tempo in ginocchio e dovrò dissentire.» Lui rise, deliziato dalla sua insolenza e dal suo humour. Come faceva a scherzare in questi momenti? Lui non aveva mai riso durante il sesso o i preliminari. Ma già stava cercando di nuovo di togliergli la camicia con mani tremanti. Gli piaceva. «Ho intenzione di farti stare a lungo in ginocchio», disse sollevandola senza sforzo e portandola a letto. «Ma ho appena cominciato. Adesso lasciati guardare.» Lei fece per coprirsi, spinta da un senso del pudore che intendeva farle passare immediatamente. «Non sono come le modelle con cui esci. O con cui vai a letto.» In quel momento giurò che non sarebbe più uscito con una donna pelle e ossa. Diavolo, dopo aver visto le curve di Gen, la sua pelle immacolata e i suoi seni pieni, non avrebbe comunque più guardato nessun’altra. Adorava la sua figura minuta, così facile da sollevare e da stringere tra le braccia. Amava ogni centimetro del suo corpo. Ma tutto questo era niente a confronto della sua vulva bagnata, gonfia e nuda sotto i suoi occhi. Labbra piene che aspettavano solo la sua bocca e la sua lingua. E sapeva che anche il sapore sarebbe stato inebriante. Era l’ora della verità. «Non ci sono andato a letto, piccola. Pensavo a te e non ci sono riuscito. Ma volevo mettere una barriera tra noi.» «Perché?» «Perché morivo dalla voglia di saltarti addosso.» Sorrise ma continuò a coprirsi i seni con le mani, quasi temendo di non piacergli. Come se fosse possibile. La sua voce fu come una frustata. «Non farti venire in mente di coprirti. Adoro il tuo corpo, l’ho sempre adorato. Ricordi quello che ti ho detto?» Posò le mani sul materasso e scosse la testa. «Non dobbiamo scusarci per quello che facciamo insieme o per quello che proviamo. E intendo fare ogni sorta di porcheria con te, tutte le cose più sudicie e indecenti che ho immaginato, senza scusarmi. Allarga le gambe.» Obbedì, e lui contemplò rapito tutta quella carne rosa a sua disposizione. Nel frattempo si spogliò, e finalmente anche lui era nudo davanti a lei. Si sollevò sui gomiti per guardarlo, ma Wolfe sapeva che c’era tutto il tempo per questo. Adesso aveva bisogno di assaggiarla, di farla venire sulla sua lingua e sentirla di nuovo abbandonata tra le sue braccia. «Questa brasiliana è il regalo più sexy che un uomo possa chiedere, piccola.» S’inginocchiò tra le sue cosce e soffiò l’alito caldo tra le pieghe gonfie. Lei gemette, stringendo le lenzuola tra le mani. Sì, era più che pronta. Il clitoride era così gonfio e duro che sarebbe bastato un colpetto con la lingua per farla venire di nuovo, ma prima voleva farla impazzire, voleva sentire il suo nome uscire dalla sua bocca. Wolfe chinò la testa. Penetrando lentamente la sua fessura, assaggiò, stuzzicò e sorseggiò come fosse un ottimo champagne e intendesse farlo durare. Con le braccia le bloccò il corpo che si dimenava, senza mai aumentare il ritmo, inalando il suo odore muschiato, leccando la protuberanza dura e spingendo il pollice dentro e fuori dal canale bagnato. La sua vulva si chiuse intorno al dito e cercò di risucchiarlo, ma lui continuò a stimolarla fin quasi a farle perdere i sensi. «Basta», ansimò, gli occhi azzurri privi di coscienza. «Accidenti a te, Wolfe, fammi venire o ti ammazzo.» Con una risatina, le prese il clitoride tra le labbra e succhiò forte. Più forte. Unì tre dita e gliele infilò dentro. Venne di nuovo e lui bevve tutto, senza mai smettere di succhiare. Così Gen ebbe un altro orgasmo, e lui si chiese se l’avrebbe mai lasciata allontanarsi dal letto. Quando riprese i sensi, si strinse a lui con una dolcezza disperata che non poté ignorare. Si stese su di lei baciando ogni centimetro della sua pelle e si fermò sulla sua bocca, mordicchiandole le labbra. Poi le strinse con delicatezza il volto tra le mani e la guardò adorante. «Figlio di puttana», disse lei con voce sottile. «Mi stai uccidendo. Ne voglio ancora.» «Anch’io.» Le diede un bacio lungo e profondo. «Hai un sapore buonissimo, non ne ho mai abbastanza.» «Dentro. Ti voglio dentro di me.» Inarcò la schiena, con una franchezza così commovente che avrebbe voluto inginocchiarsi e ricominciare tutto daccapo. «Ti prego.» «Cristo, piccola, ho dimenticato i profilattici. Tu li hai?» «Primo cassetto. Sbrigati.» Recuperò velocemente la confezione e infilò un preservativo. Le sollevò le caviglie spingendole in avanti in modo da averla tutta aperta sotto gli occhi e si fermò sulla soglia. Lei fremeva leggermente. «Sei pronta?» Lo guardò con gli occhi semichiusi. La pelle madida di sudore, i ricci sparsi intorno al volto, le labbra gonfie e livide, lo invitò a penetrarla, aggrappandosi alle sue spalle come se fosse l’unica cosa salda del suo mondo. «Prendimi, Wolfe. Prendi tutto.» Imprecò tra i denti e spinse. Più a fondo, più a fondo, spinse nella sua tana calda e bagnata cercando disperatamente di non venire subito. Guardò le sue deliziose espressioni mentre si adattava al suo attrezzo, senza mai tirarsi indietro. Lo teneva stretto con le unghie e con le cosce. Wolfe provò a respirare, a rallentare, ma le sensazioni in gioco erano troppe. Gemette. «Non ce la faccio più. È troppo bello.» «Non fermarti», ansimò lei. «Ti prego, ho bisogno...» Non aspettò. Uscì completamente da lei, poi rientrò con violenza. Ancora. Ancora. La cavalcò lentamente e con regolarità, aumentando l’intensità quando sentì che era prossima all’orgasmo. Strinse i denti preparandosi all’esplosione, i testicoli sollevati, ogni spinta meglio di quella precedente. Le strofinò un dito sul clitoride, guardandola sull’orlo dell’estasi, lo sguardo folle di desiderio. Spostando leggermente i fianchi, si assicurò che il bordo del piercing strofinasse contro la parete sensibile della vagina. Capì dal suo urlo di sorpresa di aver trovato l’oro e lo fece di nuovo, e ancora. Le strofinò il clitoride con più forza. E poi... Lei gridò il suo nome e si dimenò sotto di lui. La soddisfazione gli fece sfuggire un verso animale e finalmente si lasciò andare, spingendo con forza e svuotandosi. L’orgasmo fu così lungo e intenso che pensò che non sarebbe mai riuscito a staccarsi da lei. Il muro che circondava quella parte profonda di lui che nessuno era mai riuscito a toccare vacillò. E quando collassarono l’uno sull’altra, distrutti, Wolfe si accorse di un’altra cosa. Non sarebbe più riuscito a fare l’amore con un’altra donna senza desiderare che al suo posto ci fosse Genevieve MacKenzie. «Ti ricordi il cognome di quello con cui sei uscita?» le mormorò Wolfe. Erano stesi sul fianco, lui alle spalle di lei. La sua quinta erezione spingeva saldamente tra le sue gambe e col braccio la teneva stretta a sé per poterla mordicchiare, leccare o accarezzare a piacimento. Gen si sentiva profondamente appagata e rilassata, come se avesse preso un afrodisiaco. Era pronta a fare tutto quello che lui voleva, qualunque cosa fosse, e anche ad alzare la posta, da vera sgualdrina. Le piaceva da morire. «A che ti serve saperlo?» gli domandò mentre lui le pizzicava giocosamente un capezzolo. «Voglio mandargli dei fiori. Sai, per ringraziarlo.» La risata che le uscì dalle labbra si trasformò in un gemito quando il suo seno pretese più attenzioni. «Sei un mostro.» «E tu sei bellissima.» Ridacchiò e le strinse il capezzolo, mandando scosse calde al suo sesso. «E ingorda. E talmente reattiva che non riesco a smettere.» Gen si allungò, offrendogli il suo corpo nudo e sentendosi una dea sotto il suo sguardo famelico e traboccante di desiderio. «Chi ti ha detto di smettere?» Borbottò impercettibilmente e la fece girare a pancia in giù. «Hai ragione. Ma prima voglio vedere il tatuaggio. Chi altro l’ha visto?» Trovò elettrizzante il suo tono possessivo, pur sapendo che era solo per stanotte. «Soltanto Kate. E il tatuatore.» «Bene. Adesso, da brava bambina, stai ferma.» Il cuore le batteva all’impazzata. Wolfe non era solo un amante straordinario. Maneggiava il suo corpo come un musicista il suo strumento, ed era capace di passare dall’amante dolce e attento al dominatore trasgressivo che parlava sporco. Amava ogni lato di lui, il buono e il cattivo, e così sarebbe sempre stato. Credeva che avrebbe avuto soltanto il suo corpo, invece le stava dando molto di più, e lei ne avrebbe fatto tesoro per il resto della vita. La voce della ragione provò a intervenire per metterla in guardia. Si rese conto che era solo per una notte. Un’occasione per soddisfare i loro appetiti sessuali, per stare insieme come amanti invece che come amici. Lui non avrebbe mai voluto andare oltre, non si sarebbe messo insieme a lei. All’alba si sarebbe fatto prendere dall’ansia e avrebbe iniziato la ritirata. Ma andava bene. Doveva andar bene. Perché mancava ancora qualche ora prima che sorgesse il sole e intendeva sfruttarne ogni secondo. Girò la testa di lato e si godette le sue mani grandi che le frizionavano le spalle e la schiena. Con un gemito di piacere, si abbandonò al massaggio. Wolfe le mormorò qualcosa di sconcio e scese lentamente con le mani fino ai fianchi. A ogni movimento, lei era sempre più bagnata. Spinse i fianchi contro il materasso per sentire la pressione sul clitoride ma lui la sorprese con una sculacciata. «Ehi!» «Non credere che non sappia cosa stai cercando di fare. Ti impedisco di venire senza il mio intervento.» «Bene. Allora intervieni.» Un morso sulla schiena e una passata di lingua su tutta la colonna fino all’osso sacro le chiusero subito la bocca. Era come vittima di un incantesimo, le importava soltanto di lui, della sua voce, delle sue mani. Non aveva mai provato nulla di simile con gli uomini con cui era stata. Il sesso le piaceva, amava David abbastanza da abbandonarsi a lui, almeno finché aveva cominciato a farla stare più male che bene. Ma con Wolfe? Si sentiva completamente posseduta da lui. Ebbe un brivido di paura. Temeva che se fossero stati ancora insieme in quel modo, avrebbe finito per possederla per sempre. Il resto dei suoi pensieri si disperse quando sentì le sue dita seguire delicatamente i contorni del tatuaggio, accarezzando la pelle ancora sensibile in quel punto. «Bellissimo.» Immaginò i petali rossi, la curva del gambo che finiva appena sopra il sedere e le gocce di sangue che colavano da ogni spina. «Sangue. Niente fiore della nebbia.» Fece una pausa senza smettere di accarezzarla. «Come mai?» «Il piacere e il dolore. L’amore e la sofferenza. La fiducia e il tradimento. Sto imparando che non c’è mai una cosa sola ma un misto. E non voglio più dimenticarlo.» Lo sentì inspirare con forza, ma la mano restò leggera sulla sua pelle. «Vorrei che non avessi mai dovuto impararlo», mormorò. «Sono felice di saperlo, invece. Non augurarmi di essere al riparo dalla realtà. Sono abbastanza forte da affrontarla, sopravvivere e stare bene. Proprio come te.» Stavolta la mano premette sulla pelle, ma il breve dolore non le dispiacque. «Cosa devo fare con te?» sussurrò lui. «Ti conosco da anni, eppure stanotte mi sembra di vederti per la prima volta. È troppo. È...» «Lo so.» Aveva ancora voglia di lui e non aveva la forza di resistere. Cavolo, non voleva neanche. Il suo corpo fremeva dal bisogno di contatto. «È troppo intenso, troppo bello, ma non m’interessa. Voglio godermela un po’. Prendimi ancora, Wolfe.» Le si spezzò la voce. «A quanto pare non riesco a farmelo bastare.» Le diede un morso, forte, e lei urlò di puro piacere. Voleva il suo marchio addosso e sollevò il sedere per invitarlo a lasciarglielo. Le prese le natiche tra le mani e le strinse, le accarezzò, le massaggiò, poi scivolò tra le gambe a raccogliere i suoi umori e li spalmò sul clitoride. Fece dentro e fuori con le dita spingendo la lingua nell’orifizio e lei strofinò i capezzoli sulle lenzuola e pianse, dicendo addio al decoro, al pudore e alle buone maniere. Le aprì le gambe, la spinse verso l’alto in modo che potesse tenersi alla testiera del letto e la prese con violenza. Lo sfregamento del piercing sul clitoride la fece impazzire e sentì avvicinarsi un altro devastante orgasmo. Si aggrappò alla testiera. Il suo pene pulsava, occupandola tutta, e i loro corpi sudati sbattevano l’uno contro l’altro immersi nei piaceri della carne. L’orgasmo fu così intenso che le scesero le lacrime. Era un piacere profondo misto a dolore, una sensazione che neppure pensava esistesse. I muscoli si rilassarono e ricadde sui cuscini mentre Wolfe veniva dentro di lei tenendola per i fianchi e lasciandosi sfuggire un verso gutturale che le toccò l’anima e non solo. Capì in quel momento che era troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi. Era perdutamente e irrevocabilmente innamorata del suo migliore amico. «Sete.» Lo sentì ridacchiare e il materasso traballò. Cercò di alzare la testa dal cuscino ma era troppo esausta. Quando però si rese conto che si sarebbe persa lo spettacolo del suo corpo nudo riuscì a sollevarla un pezzettino. Oh, sì. La vista valeva decisamente lo sforzo. Avrebbero potuto farci una statua con quel sedere di marmo. Per non dire della delizia della pelle più chiara rispetto al resto del corpo abbronzato. Sparì per un attimo e tornò con un grosso bicchiere d’acqua. Il ghiaccio tintinnava ma lo sguardo di Gen si fissò sul suo pene pesante e sull’intrigante piercing vicino alla punta. Si leccò le labbra come aveva già fatto in precedenza e lo guardò ingrossarsi, ma stavolta intendeva approfittarne. «Lo stai facendo di nuovo», l’avvertì, porgendole il bicchiere. Bevve con foga, facendosi colare l’acqua sul mento e sui seni. Lui si chinò ad asciugarla con la lingua. «Facendo cosa?» ansimò. «Mi guardi come se volessi divorarmi.» Le succhiò il capezzolo e lo guardò allungarsi. Si poteva morire di troppi orgasmi? Com’era possibile che il suo corpo fosse di nuovo pronto ad accoglierlo? L’odore di muschio della loro eccitazione impregnava le lenzuola e riempiva l’aria come un deodorante. «Continua così e ti darà qualcosa da divorare.» Oh, la sfida era troppo grande. Lo guardò di traverso, spostandosi un ricciolo dagli occhi e restituendogli il bicchiere. Bevve un sorso d’acqua anche lui. Era così sicuro e a suo agio con la sua prorompente sessualità che Gen decise di fargliela pagare. Quando fece per posare il bicchiere lo fermò afferrandogli il polso. «Tieni il bicchiere in mano, Wolfe.» La guardò sorpreso, poi sembrò valutare le sue intenzioni. Col fiato sospeso, la osservò scendere con grazia dal letto e inginocchiarsi sul pavimento davanti a lui. Provava un’inebriante sensazione di potere ed era così bagnata che si chiese se non rischiava di venire adesso soltanto guardandolo. Lentamente, molto lentamente, gli passò le mani sui polpacci, sulle cosce, e infine le unì intorno al suo pene duro. Lui espirò e strinse il bicchiere in mano. «Cosa stai facendo?» «Se te lo domandi allora non lo sto facendo bene.» Avvicinò la bocca e soffiò l’alito caldo sulla punta. I muscoli di lui s’irrigidirono. Il pene s’ingrossò, pulsando davanti ai suoi occhi. Si passò la lingua sulle labbra e fece scorrere le dita su tutta la lunghezza, studiando ogni dettaglio. Il nido di peli crespi, l’asta bollente, la barretta d’acciaio che gli perforava la pelle. Lo strinse e mosse la mano su e giù, scrollando la barretta di metallo. Lui sobbalzò e gemette. Oh sì, era una parte sensibile. «Non credo di poter resistere, piccola. Meglio che ti tiri su prima che perda il controllo.» «Hai fatto il prepotente e adesso paghi le conseguenze.» Provò a farla alzare ma lei fece segno di no con l’indice. «Stai fermo. E non rovesciare l’acqua. Potrebbe volerci un po’.» «Gen...» Avvicinò la testa, dischiuse le labbra e lo prese in bocca. Aveva un buonissimo sapore. Salato. Muschiato. Maschio. Non ebbe paura di sbagliare e non si preoccupò della tecnica come faceva con David. Si lasciò guidare dall’istinto, dal desiderio di dargli piacere e di esplorare ogni centimetro del suo splendido corpo. Voleva che si struggesse dal bisogno di lei. La lingua guizzò sul piercing, la bocca succhiò forte, le mani accarezzarono l’asta e strinsero lievemente i testicoli e il suo nome uscì dalle labbra di lui come musica. David la costringeva a fare cose che non le piacevano con la scusa che si amavano. Stanotte, con Wolfe, il bisogno di lui era tale che non c’erano barriere o regole a trattenerla. «Sto per...» Succhiò più forte, passando la lingua sulla fessura, e prendendolo fino in fondo alla gola. Venne, rabbrividendo e imprecando, e lei ingoiò tutto senza pensarci due volte. Le dolevano le ginocchia, le labbra erano tumefatte, ma il suo spirito era così alto che nemmeno lei riusciva ad afferrarlo. Si alzò in piedi, baciandolo e accarezzandolo con dolcezza, e gli tolse il bicchiere di mano, posandolo sul comodino. Aveva il viso beato e rilassato, con un velo di barba super sexy intorno alle labbra piene. La sua voce aveva un suono roco. «Non ho rovesciato l’acqua.» Gen rise, gli mise le braccia al collo e lo strinse forte. Restarono abbracciati a lungo, mentre il sole rincorreva il buio e l’alba si avvicinava. Wolfe le passò teneramente la pezzuola umida sulla fronte imperlata di sudore. Quando gliela premette tra le gambe e all’interno coscia, Gen gemette di piacere e si rilassò. Aperta. Vulnerabile. Indifesa. Wolfe sentì un nodo in gola. Un miscuglio di emozioni gli attanagliava il petto, tante che non riusciva a separare quelle che poteva concedersi dalle altre. Continuò a prendersi cura di lei, controllando i vari lividi, e quando si accorse d’esser contento di averle lasciato i segni si sentì una merda. Almeno per qualche secondo. Al mattino avrebbe dovuto fare i conti con questa nottata. Parlare. Decidere il modo migliore per salvare la relazione più importante che aveva. L’avrebbe fatto, ma al momento voleva solo essere il suo amante, accudirla, accarezzarla, scoparla, lasciarle i segni, possederla fino a poter rivendicare ogni centimetro del suo corpo come proprio. Sì, era fuori di testa. «Perché il serpente?» Due meravigliosi occhi azzurri sondavano i suoi, chiedendo una cosa che non aveva mai concesso. Una risposta ai misteri del suo passato. Un barlume di quello che era stato e che era. Non poteva negarglielo, adesso, ma si sorprese lui stesso della naturalezza della sua reazione. «Rappresenta tutto ciò che voglio esprimere», rispose lui semplicemente; poi tacque. Non avrebbe mai detto tutta la verità. Non poteva. Nemmeno a lei anche se meritava di sapere di più e di capire perché non era in grado di avere una relazione sana. «Il serpente è un simbolo di luce e buio. Lottavo per restare sano di mente, in quel periodo. Sono incappato in un vecchio libro che qualcuno aveva buttato in un cassonetto, parlava di serpenti e narrava varie leggende su di essi. Affascinante. I serpenti mutano la pelle, si rinnovano. Sono considerati esseri infidi a causa della lingua biforcuta che mischia la verità alle bugie, e pericolosi a causa del veleno e perché attaccano senza avvertire la preda.» Il passato provò ad aprirsi una breccia nei muri che si era costruito intorno ma le difese resistettero. Continuò a parlare in tono espositivo. «Il serpente è anche un simbolo di protezione. Anche sotto minaccia, tiene duro e difende. Quando sono entrato nella bottega del tatuatore non ci ho pensato due volte. Volevo ricordarmelo ogni volta che mi guardavo.» Gen lo osservò in silenzio, riflettendo su quanto le aveva detto e scavando più a fondo di chiunque altra prima di lei. Perché d’un tratto lui aveva voglia di vuotare il sacco? Una stretta allo stomaco. No. Certi segreti dovevano restare sepolti per sempre. Come al solito, lo sorprese con un’altra domanda. «Cosa ti sussurra?» Si toccò il punto in cui la lingua biforcuta saliva intorno all’orecchio. Sentì prudere la pelle sotto i bracciali di cuoio. Come faceva a saperlo? Wolfe inghiottì a vuoto e rispose con voce piatta. «Vivi.» Lei non mostrò sorpresa né compassione. Il suo sguardo cadde sui polsi coperti, come se sapesse che era quella la chiave dei suoi segreti, ma poi si limitò ad annuire, accontentandosi della sua breve risposta. Nulla lo aveva mai fatto sentire calmo quanto quel suo modo silenzioso di comprenderlo. Il suo corpo si risvegliò e il bisogno di ritrovare la sua dolcezza lo travolse di nuovo. Senza esitare, lei allungò una mano verso di lui e allargò le gambe. Riuscì a malapena a parlare. «No. Sei troppo infiammata.» «Non m’interessa», rispose con un sorriso gioioso che le illuminava il volto. «Mi sento viva quando sei dentro di me.» Wolfe gemette, commosso dalla sua generosità e dall’amore che riusciva a dare. Ed essendo egoista, accettò quello che lei gli offriva, infilando un preservativo e spingendola dolcemente sul letto. Gli mise le braccia intorno al collo, invitandolo a entrare nel suo sesso bagnato e Wolfe, con un unico movimento, scivolò lentamente dentro di lei. «Piano, stavolta», sussurrò. «Dimmi se ti faccio male.» Sollevò i fianchi e lui cominciò a muoversi, aumentando lievemente il ritmo. Uscì completamente per assicurarsi che le due estremità della barretta le toccassero il clitoride, e rientrò. Lei rabbrividì e gemette sotto di lui, arrendendosi. Era sua. Non c’era una sola parte di lei che non gli appartenesse. Ogni centimetro della sua pelle aveva conosciuto la sua lingua, i suoi denti le sue mani, e il suo nome le uscì dalla bocca come una preghiera o una melodia. Continuò a muoversi, desiderando che quel momento non finisse mai. Facendo attenzione a ogni respiro, a ogni goccia di sudore e a ogni suo grido, inclinò i fianchi in modo da toccarle il punto G, spingendo così lentamente e in profondità che diventarono una cosa sola. Le morse il collo con un grugnito e spinse un’ultima volta. I suoi spasmi lo scossero fino in fondo all’anima. Venne anche lui, con un’intensità mai provata prima, e mentre svuotava il suo seme dentro di lei, Wolfe capì che era già troppo tardi, e che non sarebbe più stato lo stesso uomo di prima. Invece di piangere, seppellì il volto tra i suoi capelli e si lasciò andare. Capitolo 19 Odiava la mattina. Genevieve si girò e guardò il sole che penetrava dalle finestre. L’odore di sesso e di maschio era ancora forte, ma il letto era vuoto. L’impronta della testa di lui sul cuscino e il proprio corpo dolorante erano le uniche testimonianze del passaggio di Wolfe. Ascoltò il silenzio. Era probabilmente fuggito all’alba quando lei era in coma. Più semplice, così. Tempo per tornare in sé, prendere le distanze e affrontare un discorso razionale su quella notte di sesso del tutto irrazionale. Merda. La tristezza incombeva ma la scacciò. No. Si era promessa di non intristirsi per cose che lui non poteva darle. L’aveva sempre amato come amico. Lui non aveva colpa se adesso lei era innamorata. Era convinto di non poter sostenere il peso di una relazione e lei poteva fare tutti gli sforzi del mondo per provare a dissuaderlo, ma alla fine non ci sarebbe riuscita. Del resto, aveva imparato che l’amore è anche una scelta. Wolfe non voleva scegliere lei. Preferiva tenersi le sue cicatrici e il suo passato segreto, offrendole una sincera amicizia e tutto ciò che era in grado di darle. Ma non il suo cuore. E prima Gen l’avesse capito, accettato e superato, meglio sarebbe stato. Certo non era facile. Scese dal letto con una smorfia di sofferenza. Aveva tutti i muscoli indolenziti, ma si sentiva profondamente soddisfatta e appagata. Wolfe le aveva mostrato cosa volesse dire essere desiderata con tutta l’anima, con una forza tale che tutto il resto spariva. Era un dono impagabile che non avrebbe dimenticato. Non avrebbe mai accettato nulla di meno. La doccia fu un piacere immenso. Il getto caldo sciolse ogni tensione e lavò via l’odore di lui. Quando si guardò allo specchio restò a bocca aperta. Succhiotti sul collo. Lividi sui fianchi e sulle cosce. Capezzoli doloranti. E quando camminava sentiva male in mezzo alle gambe. Era stata usata e amata per bene. Cavolo, fico. Indossò dei leggings e una maglietta bianca e si tirò su i capelli con l’intenzione di lasciarli asciugare naturalmente. Per fortuna era domenica. Poteva riposare, riflettere e starsene tranquilla per conto suo. Aveva pensato di vedere Izzy oggi, ma non se la sentiva. Dopo la sua fuga dalla chiesa era diventata più gentile con lei, ma continuava a mantenere le distanze. No, avrebbe rimandato a quando si sarebbe sentita più forte e pronta a tentare di riallacciare i rapporti con la sua gemella. Al momento era troppo stanca. Andò in cucina e cominciò a preparare la caffettiera. La porta si aprì. Si girò sorpresa e incrociò il suo sguardo. Teneva in mano due sacchetti e un porta bicchiere in precario equilibrio. Indossava Levi’s sbiaditi e una camicia di lino nera button-down e sembrava fresco e rilassato. Soltanto le borse sotto gli occhi tradivano una carenza di sonno. Non si era rasato e il tipico velo di barba del mattino dopo intorno alle labbra e sulla mascella risvegliò in Gen tutti i sensi. I folti ricci scuri gli cadevano disordinatamente sulla fronte. Era un bel casino. Perché adesso lei sapeva quant’erano morbide quelle labbra. Quant’era delizioso il morso dei suoi denti. Quant’era buona la sua lingua. Le passarono davanti un migliaio d’immagini della notte appena trascorsa e i capezzoli s’indurirono. Strinse le cosce nel tentativo di alleviare la pressione. Lui chiuse la porta con un calcio. Posò i sacchetti sul banco e la guardò. Nella sua mente passarono gli stessi ricordi e i suoi occhi azzurri già si scurivano di desiderio mentre la osservava, accarezzando con lo sguardo tutti i punti del corpo che aveva toccato, morso e leccato. Lei cercò di dire qualcosa, non ci riuscì, ci riprovò. «Pensavo fossi andato via.» Si schiarì la gola e si sforzò di continuare. «Pensavo fossi tornato a casa tua.» Lui aggrottò la fronte. «Credi che sarei capace di andarmene dopo la notte che abbiamo trascorso insieme?» Ingoiò la saliva cercando di non aggrapparsi alla folle speranza di poter far funzionare questa cosa tra loro. Qualunque cosa fosse. «Non lo sapevo.» Le mise davanti il grosso bicchiere di caffè. «Adesso lo sai. Sarò anche uno stronzo, a volte, ma non ti ferirei mai in questo modo.» Gen raddrizzò la schiena. «Se sei rimasto solo perché avevi paura che sbarellassi, non preoccuparti. Puoi toglierti l’armatura.» Gli angoli delle labbra si sollevarono in un mezzo sorriso. «Sei sempre nervosa prima del caffè. Bevi.» Lo guardò di traverso ma bevve qualche sorso, chiudendo gli occhi in estasi al primo impatto con la caffeina. «Ti ho portato anche queste. Tortine alla mela. Appena uscite dal forno.» Si sedette sullo sgabello mentre lui toglieva le tortine dal sacchetto e le metteva su un piatto. La pasta sfoglia e la marmellata le alzarono il livello di glicemia nel sangue. «Mmm, che buona», mormorò. «Grazie.» Alzò lo sguardo e restò di sasso. La stava divorando con gli occhi, famelico, rapito da un desiderio primitivo e animalesco che le fece venire voglia di mettersi nuda e tentare la bestia che era in lui. D’un tratto si vide con le gambe spalancate, la bocca di lui sul sesso, e lei che si contorceva e gemeva di piacere mentre la portava all’orgasmo. Le scivolò di mano la tortina. Lui sembrava dibattuto, indeciso se avvicinarsi, prenderla tra le braccia e baciarla. Ma poi distolse lo sguardo e l’incantesimo si ruppe. Gen sorseggiò dell’altro caffè. D’un tratto le era passato l’appetito. ’Fanculo. Non aveva mai avuto paura di dirgli quello che le passava per la mente. Il sesso non le avrebbe portato via la schiettezza. «Stiamo scoprendo un nuovo significato della parola imbarazzo», disse. «A guardarti si direbbe che preferiresti un faccia a faccia con una tarantola.» Fece una risata strozzata ma non la guardò negli occhi. «Sicuramente siamo in territorio sconosciuto. Non mi era mai successo, prima.» «Di fare sesso selvaggio con una donna?» «Di fare sesso selvaggio con la mia migliore amica.» «Sono ancora tua amica», disse con dolcezza. Lui sospirò. «Lo so. Ma mi chiedo se non vorrò sempre di più di questo.» Gen moriva dalla voglia di toccarlo, di spianare le rughe di preoccupazione sulla sua fronte, ma era meglio stare lontani. «E se potessi avere di più?» Lo disse col cuore che stava per esplodere. Un invito che non aveva bisogno di risposta. Era proprio stupida. Ma non gliene importava niente. Lentamente, la speranza abbandonò il suo volto, sostituita da un dolore profondo. «Non posso, Gen», disse, con un gesto che indicava la resa. «Non posso darti quello di cui hai bisogno.» «Come fai a saperlo? Magari ho solo bisogno che ci provi.» «E rovinare la nostra amicizia? Trasformare una cosa bella in sofferenza e risentimento? Perché è questo che so fare. Non riesco ad avvicinarmi, a darti risposte su di me, a dirti chi sono. Non lo farò mai. Sono un uomo a metà, e non è abbastanza per te. Un giorno mi odieresti, e non potremmo più tornare indietro. Se ci fermiamo subito, invece, possiamo ancora salvare la parte buona.» Odiava i suoi ragionamenti e le scuse che tirava fuori per non provarci. Odiava il suo rifiuto di lottare per lei, per loro due, per se stesso. Gli era successo qualcosa di orribile, e si era arreso all’idea che non l’avrebbe mai superato. E dal momento che non voleva dirle di cosa si trattava, era come combattere coi fantasmi. Abbassò le spalle, delusa. No. Non avrebbe più supplicato di avere una cosa che non voleva darle. Mai più. «E come facciamo?» volle sapere. Fece un passo verso di lei. «Lasciami restare ancora un po’. Dammi la possibilità di tornare a essere amici.» Le sfuggì una risata per nulla divertita. «Stai scherzando? Vivere insieme è proprio la cosa che ha cambiato tutto. Devi andartene.» Lui scosse la testa, ostinato. «No. Non mi fido di David. Con l’ordine restrittivo, mentre sono qui io non può avvicinarsi. Ti lascerò il tuo spazio, Gen. Ti dimostrerò che è meglio se siamo amici. Giuro.» Gemette e nascose il volto tra le mani. Ridicolo. Bastava che entrasse in una stanza e già aveva voglia di lui. Credeva davvero di riuscire a dimenticare il sesso più incredibile della sua vita e tornare alle birre e alle freccette? La voce dentro di lei urlava. È quello di cui ha bisogno. Perderla lo avrebbe ferito. Avrebbe ferito lei. Non poteva abbandonarlo. Se ci avessero provato entrambi, forse sarebbero riusciti a esorcizzare quell’unica notte e a farla diventare un’esperienza positiva. Un’esperienza che li avrebbe legati ancora di più. Già sentiva la voce acuta di Kate urlarle che era matta da legare, ma che altro poteva fare? Se non avesse funzionato, l’avrebbe rimandato a casa sua. Tu lo vuoi qui. Ti aggrapperesti a qualunque scusa per averlo vicino. E allora? Poi le sarebbe passata. Adesso che sapeva di non poter sperare in qualcosa di più tra loro, magari sarebbe riuscita a rinunciarci per sempre. Bugia. Lasciami in pace. «E se non funziona?» Il suo volto era una maschera di determinazione. «Funzionerà. Non dimenticherò mai questa notte. Mi hai dato qualcosa di...» S’interruppe, ma lei aveva bisogno che finisse. «Qualcosa di?» «Di speciale.» Strinse le labbra. «Di bello.» Un nodo in gola. «Però non vuoi provarci.» «No.» La sillaba esplose come una cannonata. Avrebbe voluto urlare, piangere, scuoterlo, supplicarlo, picchiarlo. Invece accettò la sua risposta, perché non aveva alternative. «Proviamo una settimana. Alla fine dovrai tornare alla tua vera vita.» Gen ignorò la sua smorfia di dolore, ricordando a se stessa che era stato lui a volere così. «Se dovessi sentirmi a disagio, però, devi promettermi che te ne vai.» «Va bene. Giuro che sistemerò tutto.» Lei annuì, ma lui sapeva che non gli credeva. Non più. Gen tornò alla sua tortina ma stavolta non fece alcun verso. Gen bussò e aprì la porta. Kate stava borbottando tra sé, circondata da raccoglitori, e Robert sonnecchiava tranquillo in un angolo su un logoro lettino per cani esposto al sole: come la sentì entrare alzò la testa e agitò la coda, tremando di gioia in tutto il corpo. Poi si alzò e si trascinò verso di lei. Aveva le zampe posteriori paralizzate ma questo non gl’impedì di andarle incontro e buttarsi tra le sue braccia. L’aveva visto un quarto d’ora prima ma ogni volta era una festa come se fosse la prima volta dopo tanto tempo. Rise e si chinò ad abbracciarlo. Gli coprì la testa di baci e si lasciò confortare dal suo calore. Kate aveva trovato Robert qualche anno prima per strada e l’aveva salvato. Era stato investito due volte da un’auto. Le zampe posteriori erano perdute ma la testardaggine di Kate e il suo amore per tutte le creature viventi l’avevano indotta a farlo operare e adesso aveva un compagno per la vita. Oltre a Slade, ovviamente. Tra Slade e il cane si era creato un legame strettissimo. Non era stato facile, all’inizio, ma adesso erano come una famiglia adottiva. Vedere Kate serena e con un rapporto stabile rendeva molto felice Gen. «Vuoi che lo porti a fare una passeggiata?» domandò grattando Robert dietro le orecchie. Lui fece un verso estasiato. Kate sospirò. «No, sta bene. La mia dogsitter non poteva venire oggi quindi ho pensato di portarlo con me. Slade è in tribunale tutto il giorno e tornerà tardi.» «D’accordo. Ti vedo stressata. Posso fare qualcosa per aiutarti?» «Mi stai già salvando il culo. Dio sia lodato per i brillanti chirurghi che lavorano nelle agenzie matrimoniali. Ehi, stasera vuoi andare con Kennedy al Purple Haze? C’è uno speed date, potresti impratichirti un po’.» «Certo. Non ho nient’altro in programma.» Il pensiero di Wolfe che cercava di rafforzare la loro amicizia quando lei avrebbe solo voluto scoparlo era alquanto fastidioso. Meglio tornare a casa tardi. Nel rialzarsi, Gen fece una smorfia di dolore perché aveva ancora male tra le cosce. «Porca. Vacca.» Si girò di scatto verso Kate. «Cos’è successo?» L’amica la guardò a occhi stretti. «Come mai porti il foulard, oggi?» Restò a bocca aperta. Il foulard di seta rosa era leggero, simpatico, e copriva i succhiotti sul collo. Il cuore aumentò il ritmo ma cercò di mostrare indifferenza. «Mi sembrava stesse bene con quello che indosso. Perché? C’è una regola contro i foulard?» La battuta non la fece ridere. «Toglilo. Voglio vedere una cosa.» Forzò una risata. «No. Poi non riesco a riannodarlo bene.» «Hai fatto sesso! Perché non me l’hai detto? So che hai deciso di non rivedere Charles ma non pensavo che fosse perché ci sei andata a letto. Com’è stato? Pessimo? Buono? Medio? Sei pentita? Sei contenta? Hai avuto un orgasmo?» Il fuoco di fila di domande la bersagliò come una mitragliatrice. Merda. Quasi la faceva franca. Domenica aveva eluso gli sms di Kate e stamattina era andata in ufficio a riferirle l’esito dell’appuntamento. Aveva detto che la serata era andata bene ma che entrambi avevano pensato non fosse il caso di rivedersi. L’amica aveva accolto la notizia di buon cuore, ripetendole che trovare il compagno giusto richiedeva tempo, pazienza e impegno. Adesso pensava che fossero andati a letto insieme. «Ehm, non ho fatto sesso con Charles.» Kate batté le palpebre. «Scusa un attimo. So che stai nascondendo le prove sotto quel foulard. È tutto il giorno che cammini in modo strano, ma pensavo fossero le scarpe. Hai anche le labbra gonfie di chi ha succhiato qualcosa per molto tempo. So che hai fatto sesso, lo sento!» Perché Kate doveva essere così dannatamente acuta? E adesso? Doveva mentire? Giocò la carta della privacy come ultima spiaggia. «Kate, per favore, non farmi domande. Non me la sento di parlare delle mie questioni personali e apprezzerei se mi dessi un po’ di spazio e di tempo fino a quando sarò pronta a farlo.» Perfetto. Da manuale. Nemmeno Kate poteva dirle di no. L’amica prese il telefono e digitò dei numeri. «Kennedy? Vieni subito qui. E chiama Arilyn. Sono con Gen, ha fatto sesso e non vuole dirmi con chi. Sì, certo che servono i Baileys!» Kate incrociò le braccia sul petto, si appoggiò allo schienale della poltroncina di pelle e la guardò torva. «Perché non provi a ripetermi quella stronzata?» Gen chiuse gli occhi, sconfitta. La porta si spalancò. Kennedy stringeva quattro bottigliette di Baileys tra le belle mani curate. I tacchi alti ticchettavano con sicurezza sul pavimento e l’abito marrone di Donna Karan le conferiva un look elegante e professionale. Arilyn la seguiva in leggings, camicia beige e i lunghi capelli rossi castigati in una treccia. Dimostrava circa dodici anni. Robert dimostrò il suo affetto a entrambe, poi si rimise a dormire. Kennedy distribuì le bottigliette, si sedette sulla sedia viola imbottita alla destra di Kate, incrociò le gambe e svitò il tappo. «Con chi hai fatto sesso, Gen?» Arilyn scosse la testa e sospirò. «Kennedy, lasciale il tempo di sentirsi a suo agio e aprirsi. Così la spaventi.» Kennedy sbuffò. «È un chirurgo. Non si spaventa facilmente. E ci sta mentendo, cosa assolutamente disdicevole.» «Tu ci hai mentito», ribatté Arilyn. «Ricordi quando uscivi con Nate e ti rifiutavi di ammettere che ti piaceva?» Kennedy fece un gesto di noncuranza. «Non conta. Mentivo a me stessa, non a voi. Con chi hai fatto sesso, Gen?» Era finita. Tanto valeva ammettere la sconfitta. Aprì la bottiglietta e fece un lungo sorso di Baileys. L’alcol le scaldò il ventre. «Con Wolfe.» A Kate andò di traverso la saliva e cominciò a tossire. Kennedy spalancò gli occhi, ammirata. Arilyn restò a bocca aperta. Nella stanza scese il silenzio. Ricorsero all’alcol tutte e tre, poi si ricomposero. «Non me l’aspettavo», ammise Kate. «Voglio dire, tempo fa sospettavo che tra voi due ci fosse qualcosa, ma pensavo aveste deciso di essere amici.» «È per quello che porti il foulard?» domandò Kennedy. «Per nascondere le prove?» «Già.» «Accidenti. È stato fantastico?» Gen si lascò cadere sull’unica sedia libera. «Sì. Più fantastico di quanto potreste mai immaginare.» «Ho sempre saputo che voi due a letto avreste fatto scintille», commentò Kennedy «Quello che mi preoccupa è la tua faccia. Perché sembri così giù di morale?» Arilyn le prese la mano. «Tesoro, cos’è successo? Dovresti essere al settimo cielo.» «È stata una notte che non dimenticherò mai», mormorò. «Eravamo come una persona sola. Un’unione totale, assoluta, al punto che sembrava che non saremmo mai più stati interi senza l’altro.» Kate sospirò. «Conosco quella sensazione.» «La migliore del mondo», concordò Kennedy. Arilyn rimase in silenzio. «Ma poi si è fatto giorno.» «L’alba rovina sempre tutto, cavolo», borbottò Kennedy prendendo un altro sorso di liquore. «Si è spaventato?» «Tantissimo. Ha detto che non vuole rovinare la nostra amicizia e che non potrebbe mai impegnarsi in una relazione perché è un uomo a metà e finirebbe per farmi soffrire.» Kate scosse la testa. «Sembra di sentire Kennedy quando si è innamorata di Nate.» «Chiudi il becco, Kate. Poi sono rinsavita. A me sembra di sentire Slade, invece, e tutte le sue stronzate sul divorzio e l’ossitocina.» Lei le fece la linguaccia. Gen rise. Amava lo humour che non mancavano mai di introdurre nei discorsi seri. «Non mi parlerà mai del suo passato. So che gli è successo qualcosa di orribile. Come posso obbligarlo a una relazione che non vuole? E la nostra amicizia? Non voglio nemmeno perderlo. È tutto un casino. Accidenti al sesso. Maledetti quindici orgasmi.» Arilyn spalancò la bocca. «Quindici?» «Porca miseria», sussurrò Kennedy. «Non stupisce che cammini in quel modo», osservò Kate. «Questi uomini continuano ad alzare la posta, vero?» «Perché il sesso deve complicare tutto?» si lamentò Gen. «Perché è troppo bello per non pagarlo caro», rispose Kennedy. «Hai un piano d’azione? Cosa vuoi?» Impotenza e frustrazione gareggiavano per avere la meglio l’una sull’altra. Vinsero entrambe. «Non importa cosa voglio. Devo guardare in faccia la realtà. Ho chiesto a Wolfe di andarsene ma si rifiuta, giura che farà di tutto per tornare a essere amici.» Arilyn mormorò parole di solidarietà. Kate disse la verità. «Gli uomini hanno l’encefalogramma piatto, a volte. Penserete al sesso ogni volta che incrocerete lo sguardo. Io e Slade abbiamo cercato a lungo d’ignorare l’attrazione reciproca ma alla fine abbiamo ceduto.» «Già. Harry ti presento Sally colpisce ancora. Quando fai le sporcacciate l’amicizia passa in secondo piano», commentò Kennedy. Gen la guardò di traverso. «Non mi state facendo sentire meglio.» Arilyn sorrise e le accarezzò la mano. «Forse ha bisogno di tempo. Ho scoperto che quando pretendi qualcosa dagli uomini, loro si mettono sulla difensiva. Ma se andate avanti così, a vivere insieme cercando d’ignorare l’attrazione, alla fine cederà e ti trascinerà a letto. La carne è debole, specie quella del pene. Dopo un po’ che fate sesso la vostra diventerà una relazione senza bisogno di dirlo o di darle un nome.» Si girarono tutte a guardare Arilyn. Dal momento che si rifiutava di parlare della sua altalenante relazione col suo istruttore di yoga e addirittura di nominarlo, ogni minima informazione era preziosa. «Come col tizio dello yoga?» domandò Kate. «Era solo un’osservazione generale», mormorò Arilyn, chiudendosi. Kate e Kennedy sospirarono, rassegnate. «Sta usando David come scusa per starmi vicino, ma non credo di essere in pericolo. Non c’è più stato alcun contatto dopo quella sera in cui siamo finiti alla centrale.» «Non ha denunciato Wolfe?» chiese Arilyn. «No. L’ordine restrittivo è ancora valido ma ha lasciato cadere l’accusa di aggressione. Probabilmente sapeva che in tribunale sarebbe venuta fuori la verità.» «Coglione», disse Kennedy. «Comunque non mi fido di lui. I manipolatori recedono solo quando hanno un piano, e se ti vuole ancora, vedrai che torna.» Gen rabbrividì. Sapeva che Kennedy non voleva metterle paura, che era un giusto avvertimento, ma un altro motivo per cui non sarebbe potuta tornare in ospedale era David. Il solo vederlo avrebbe riportato a galla il passato. Il suo diventare più debole giorno dopo giorno. Il controllo e gli abusi che esercitava su di lei con sottigliezza, senza che nessuno se ne accorgesse. Odiava la donna che era diventata durante la loro relazione, ma ora almeno riconosceva d’aver avuto il coraggio di scappare finché era ancora in tempo. Adesso capiva molto meglio le donne che restano. Ripensò a quanto aveva insistito David per avere subito dei figli. Sarebbe rimasta prigioniera di un incubo, come accade a molte. Le venne la pelle d’oca e provò dispiacere per tutte le sconosciute che si trovavano in quella situazione. Donne forti, indipendenti, in gamba. «Sto sempre attenta», disse. «Ma non mi va che Wolfe la usi come scusa.» «Mmm. Be’, hai varie possibilità. Puoi insistere perché se ne vada. Puoi farlo restare e vedere come procede. O puoi farti trovare nuda con un sorriso quando rientra a casa. Non durerà tre secondi.» Gen rise ai suggerimenti di Kennedy e finì il Baileys. «Tutte ottime soluzioni. Ci penserò. Vediamo come va questa settimana.» «I tuoi hanno capito adesso? So che David li ha manipolati alla grande.» Gen annuì. «Sono stata un po’ con loro. Essere sinceri è difficile. Ero così imbarazzata che non gli ho mai detto niente quindi è stato facile per David raccontare quello che voleva. Ma Alexa e mia madre sostengono la mia decisione e persino mio padre piano piano si sta convincendo. Izzy dice che ho fatto la cosa giusta. Mi ha addirittura definita coraggiosa.» «Lo sei. Siamo tutte qui per te», disse Kate. «Non sarai più sola. E quando si hanno problemi con gli uomini, le amiche sono la chiave per risolverli.» L’emozione le strinse la gola. Le altre due amiche annuirono, e Gen sentì che il loro legame era forte come quello di una famiglia, perché avevano scelto di essere insieme. A volte le relazioni che si eleggono sono più forti dei legami di sangue. «Grazie. Vi voglio bene, ragazze.» Kennedy alzò gli occhi al cielo. «Dai facciamo questo abbraccio di gruppo così poi torniamo a lavorare.» Robert abbaiò. Ridendo, si unirono in cerchio e si abbracciarono, e per la prima volta Gen si sentì fiduciosa. Avrebbe aspettato di vedere come sarebbero andate le cose, senza forzarle. Non avrebbe mai smesso di amare Wolfe, ma se era possibile mantenere l’amicizia, avrebbe fatto di tutto per riuscirci. Capitolo 20 Wolfe si guardò intorno a dare un’ultima controllata. Cassa di Sam Adams. Cheeseburger al bacon e patatine di Mugs. Vaschetta di gelato alla menta con gocce di cioccolato. Pila di dvd sul tavolino. Scarabeo. Sì. C’era tutto. Tutte le cose che amavano fare insieme da amici. Da migliori amici. Non avrebbe pensato al sesso, stasera, nemmeno se lei si fosse messa qualcosa di indecentemente succinto. Aveva già fissato in mente l’immagine di suore incinte per ricorrervi al primo cenno di eccitazione. Poteva farcela. Doveva convincerla di poter tornare amici, altrimenti l’avrebbe persa per sempre. E questa non era un’alternativa prevista. Entrò in casa con l’aria stanca. I capelli erano raccolti con un fermaglio e le ciocche che ne sfuggivano le incorniciavano le guance. Il sole aveva messo in risalto le lentiggini sul naso. Il rossetto era venuto via, mostrando il rosa naturale delle sue labbra. Indossava un vestitino corto di jeans che donava molto al suo corpicino a clessidra. Si sfilò in malo modo le ballerine decorate di perline, posò la borsa e si strappò la molletta dai capelli. «Sono stanca e di pessimo umore quindi sarà meglio che non mi chiedi cosa c’è per cena.» Era magnifica. Lui sorrise e si mise al lavoro prendendo i piatti e servendole una birra fredda. «Ho acquistato la cena fuori così non dobbiamo preoccuparci. Perché non ti metti qualcosa di comodo mentre preparo?» Borbottò che andava bene, annusò gli hamburger e si trascinò in camera da letto. Quando uscì con un paio di leggings e una canotta viola col logo di Kinnections, trovò tutto pronto. Era a piedi nudi e Wolfe notò le unghie dipinte di rosa. Ripensò a come arricciava le dita quando le toccava i punti sensibili, specie quando la sua bocca era... No. Concentrazione. Suore. Inspirò e le fece segno di sedersi. «È pronto. Giornata di merda?» Lei diede un grosso morso all’hamburger e gemette. «Che buono. Naa, sono solo stanca. Non ho dormito molto.» La frase le uscì dalla bocca come una cannonata. I loro sguardi s’incrociarono, ricordando il motivo per cui non avevano dormito, e Wolfe si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo. «Ehm, già. È successo qualcosa di nuovo in Kinnections?» Quello avrebbe dovuto essere un argomento neutro. Gen fece spallucce. «Non proprio. Un altro fidanzamento. Kennedy era contentissima dei nuovi dati statistici. Ho aiutato un po’ Kate con l’organizzazione del matrimonio. E ho visto Robert. Tu?» Pensò a qualcosa d’interessante da dire. «Ho fissato un’altra grossa convention con quelli dell’IT. Credo che il golf mi abbia aiutato. I mercoledì con Nate mi hanno dato accesso a una nuova clientela. È in gamba, quel figlio di puttana.» Gen sorrise. «Di solito gli esperti di missilistica lo sono.» «Ingegnere aerospaziale.» «Giusto.» Masticò qualche patatina. «Come stanno Sawyer e Julietta? E la bambina? Quanto ha adesso?» «Quattro mesi.» Sentì una fitta al cuore. La famiglia gli mancava. Da quando aveva aperto il Purity non era riuscito ad andare a trovarla molto spesso. Si era preso un weekend lungo per la nascita della bambina, ma Sawyer diceva che cambiava ogni giorno. Doveva organizzare un’altra visita. «Stanno bene. Sembrano contenti. Gabby confonde il giorno con la notte quindi è un po’ dura, ma Sawyer è impazzito per lei. Dio la aiuti se mai penserà di uscire con qualcuno.» Gen rise. «Con i tuoi genitori italiani? Sarà un miracolo. Dovresti vedere Nick con Lily e Maria. Lily è venuta a casa un giorno dicendo di avere un fidanzatino in seconda elementare. Lui l’ha fatta sedere e le ha spiegato che uscire coi ragazzi l’avrebbe fatta diventare meno intelligente. Alexa l’ha trovata in lacrime la mattina dopo perché aveva paura di parlare coi maschi e di perdere le capacità intellettuali. Ovviamente Nick ha dormito con Zanna gialla e Simba per un sacco di tempo.» Wolfe rise con lei e scosse la testa. Era perfetto. Scambiarsi storielle divertenti sulle loro famiglie era una delle cose che amavano di più. Gen si allungò a prendere il ketchup e la canotta si aprì, mostrando del pizzo viola. Aveva il reggiseno coordinato? E le mutandine? Sarà stato un tanga? No, diceva sempre che le dava fastidio, ma ora aveva gli occhi incollati al suo sedere per controllare se si vedeva la riga e... «Wolfe?» «Eh?» «Ti ho chiesto se c’è rimasta della Diet Coke.» «Ah, sì, ecco.» Le passò la lattina e si ricompose. «Ho preso dei film da vedere stasera. Ho pensato che avevamo bisogno entrambi di una serata rilassante.» «Non guarderò il milionesimo sequel di Fast & Furious.» «No, ho preso roba che ti piace. Shall we dance, Le pagine della nostra vita, Magnolie d’acciaio.» «Fiori d’acciaio.» «Giusto.» Lo guardò con sospetto, stringendo le labbra piene intorno alla cannuccia e succhiando. La stanza s’annebbiò qualche secondo, mentre Wolfe ripensava al calore e alla pressione di quelle labbra intorno al suo uccello. Che dolce visione quella di Gen in ginocchio a dargli piacere finché... Balzò in piedi, andò al lavandino e cominciò a spruzzarsi l’acqua fredda sul viso. «Cosa ti prende?» chiese lei. «Vampate.» «Non sei mica in menopausa.» «Ah ah, anche gli uomini le hanno.» Scosse la testa per eliminare le goccioline rimaste sul viso, si appigliò all’immagine dei cuccioli abbandonati nei rifugi e tornò a sedersi a tavolo. Doveva farcela. «Non ho voglia di guardare film strappalacrime», disse. «Possiamo fare zapping?» «Certo. Vuoi giocare a scarabeo?» «Sono troppo stanca.» Passò dalla coca alla birra, e dopo una lunga sorsata fece un sospiro di piacere. «Ho fatto il mio primo speed date al Purple Haze. È stato divertente. C’è un sacco di lavoro dietro per assicurarsi che vada tutto liscio, ma niente è come il primo incontro tra le persone. La speranza che hanno tutti di trovare l’amore. Mi commuove ogni volta.» Cambiò posizione sulla sedia. «Già.» «Stavo pensando di chiedere a Kate di fissarmi un altro appuntamento. Ho sbagliato approccio con Charles. Ero alla ricerca di conferme circa la mia sessualità ma non possono essere gli altri a darmele. Devo trovarle da sola.» Negli occhi di entrambi brillarono gli stessi ricordi. «Tu mi hai aiutato, in questo.» Gli prudeva la pelle, gli sudavano le mani e gli batteva il cuore a mille. «Ffelice che tu l’abbia finalmente capito. Credi di essere pronta per una nuova storia?» Il suo sguardo lo infilzò come una freccia appuntita. «Sono pronta a provarci.» Gli si prosciugò la saliva, quindi mandò giù un lungo sorso di birra. «Giusto. Sì, probabilmente è una buona idea. Riprovarci.» Le parole suonarono vuote e gli lasciarono l’amaro in bocca. Cosa s’aspettava? Era stato lui a dire che dovevano essere solo amici. Lasciarla andare e smettere di cercare di proteggerla avrebbe fatto bene anche a lui. Doveva piantarla di essere geloso e possessivo. Quella era roba da innamorati. Da fidanzati. Cagate così. Riportò la conversazione su un terreno neutrale, ripulì tutto e aspettò mentre si faceva la doccia e si cambiava. I suoi pigiami erano un po’ tutti uguali, pantaloncini corti di flanella e canottiera. Senza reggiseno. I capezzoli spingevano contro il tessuto morbido, tentandolo e invitando le sue labbra a succhiarli, leccarli e morderli. Ma non poteva. Gli amici non fanno certe cose. Si sedettero sul divano con le birre, allungarono le gambe sul tavolino e lui le passò il telecomando. Fece attenzione a tenere lo sguardo incollato allo schermo evitando di posarlo sulle sue gambe nude. Scelsero di guardare House Hunters. Borbottò a sufficienza da dare l’impressione di farle un favore, ma accidenti se quello stupido programma lo intrigava. Di solito non riusciva a dormire se prima non scopriva che casa aveva scelto la coppia di turno. Gen espresse il suo parere sulla casa numero due. «Hai visto? A quel tizio non gliene importa niente di quello che vuole sua moglie. La cucina è un casino, gl’interessa solo avere uno stanza tutta per sé. Che stronzo egoista.» «Ma fammi il piacere. Lei parla di organizzare feste con un milione di persone. Vuoi scommettere quante feste faranno? Da contare sulle dita di una mano. Con tre figli non hanno tempo d’invitare gente a casa.» «Magari, se lui le desse una mano in cucina invece di farsi i fatti suoi nella sua stanza, qualcuno potrebbero invitarlo.» «Magari se lei gli lasciasse un po’ di spazio senza brontolare continuamente lui la aiuterebbe.» Lei fece una smorfia di scherno. Lui sbuffò. Wolfe si rilassò. Avevano ripreso con i soliti battibecchi e la speranza brillava all’orizzonte. Ce la potevano fare. Bastava rieducare il loro corpo a non reagire e l’amicizia avrebbe trionfato. La coppia scelse la casa con la cucina bella. Gen esultò mentre lui cercava di mostrarsi seccato e tratteneva un sorriso. Lei cambiò canale. Sullo schermo apparve un’altra coppia. Lei era a gambe nude, portava la camicia di lui e aveva tutti i capelli per aria. Lui la stringeva, la prendeva in braccio e d’un tratto erano a letto. No. No. Perché questo film gli sembrava così familiare? Pregò che cambiasse canale ma aveva posato il telecomando in grembo. I pantaloncini erano saliti abbastanza da mostrare la coscia fino in alto. Tutte le strade portavano in paradiso. «Ti ricordi questo film?» domandò lei un po’ ansimante. «Adoro Timberlake!» Non era possibile. Amici di letto. La trama era un incubo. Due amici che decidono di fare sesso senza mettersi insieme. S’irrigidì. «Un po’ una stronzata, vero?» «A me era piaciuto.» Guardarono in silenzio i due che si baciavano appassionatamente e cominciavano a strapparsi i vestiti di dosso. L’aria si fece pesante e Wolfe si sentì ribollire e si chiese se non sarebbe uscito di senno. Ingoiò altra birra. Un’occhiata gli confermò il peggio. Gen era eccitata. Si vedeva la punta dura dei capezzoli sotto la canottiera e il battito del cuore alla base del collo. Era pronto a scommettere che se l’avesse guardata negli occhi avrebbe visto anche le pupille dilatate. Le labbra umide. E se avesse infilato una mano nei pantaloncini e sotto le mutandine l’avrebbe trovata fradicia e vogliosa. Di lui. Strinse il collo della bottiglia. Pregò. La sua erezione spingeva dolorosamente contro i jeans cercando una via d’uscita mentre lui si sforzava di resistere al bisogno profondo di ribaltarla e scoparla forte, bene e a lungo. La tensione sessuale aumentò ancora. Cominciò a sudare. Lei aveva ancora gli occhi incollati al televisore, ma notò che stringeva le cosce per alleviare la sofferenza. E si mordeva il labbro inferiore coi denti. Il dialogo del film fu come uno schiaffo. «Mi manca il sesso.» «Manca anche a me.» «Voglio dire, a volte se ne ha bisogno e basta.» «Perché devono sempre esserci delle complicazioni?» Suore. Cuccioli. Neonati che frignavano. Cercò di aggrapparsi a qualunque immagine gli permettesse di ritrovare il respiro regolare e gli facesse riabbassare l’uccello. Lentamente, molto lentamente, lei si voltò verso di lui. I suoi occhi azzurri sostennero il suo sguardo. E fu fatta. Si mossero entrambi così rapidamente che non passò un secondo e già lei era a cavalcioni su di lui, la bocca sulla sua, le dita tra i suoi capelli. Wolfe le affondò la lingua in bocca in cerca della dolcezza che tanto gli mancava mentre lei gli strusciava il sedere sulle cosce quasi volesse fondersi con lui. Le uscì un gemito dal profondo della gola e lui ingoiò quel suono, avviluppando la lingua alla sua mentre lei cercava di tirargli giù la cerniera dei jeans. «Togliteli», ringhiò come una tigre sexy. «Subito.» «Ci sto provando. Sei così buona.» Aveva le mani dappertutto, bramose di tastare la sua pelle bianca e setosa, e si rimpinzava del suo odore di pesche e miele mentre con la lingua entrava e usciva dalla sua bocca. «Alzati.» Lei si sollevò quel tanto che bastava per permettergli di toglierle i calzoncini e le mutandine insieme. «Non posso aspettare. Ti voglio subito.» «Sì, sì», rispose lei sfilandogli i jeans. Quando gli strinse la mano intorno al membro quasi piangeva di gratitudine per non essersi messo i boxer, oggi. Gli graffiò le spalle, gli morse il collo e si dimenò contro di lui. La sua pelle gli bruciava sotto le mani e aveva lo sguardo annebbiato dalla lussuria. La sua sessualità aperta e audace lo inebriava. Le afferrò le cosce, la sollevò e fece per penetrarla. Merda. «I preservativi», borbottò. Glielo stava strofinando dalla base alla punta e sentì un brivido in tutto il corpo. «Dove?» Batté le palpebre come per ritrovare la concentrazione e i riccioli le caddero intorno al volto. «Non li ho. Ero arrabbiata con te e li ho buttati.» «Non dirmelo.» «Te lo dico. Tu non ne hai?» Una risata strozzata. «Li ho buttati per non cedere alla tentazione.» Continuò a baciarlo e gli si aprì il cuore. Era così dolce, amorevole, genuina. «Piccola, devi rallentare perché perdo il controllo.» «Non serve il preservativo. Sto prendendo la pillola.» La baciò a lungo e con passione. «Io ho appena fatto le analisi ed è tutto regolare. Sei sicura?» Gli strinse forte l’uccello. «Ti do l’impressione di essere sicura?» «Sì. Reggiti. Si fa un giro.» Stavolta non si fermò, la sollevò e la spinse verso il basso con forza. Lei urlò, chiudendo gli occhi e stringendo i denti. Lui ansimò. Starle tutto dentro era una sensazione così meravigliosa che avrebbe potuto portarlo alle lacrime. Lei pulsava e lo mungeva con piccole strette, incitandolo per averne di più. Spingendo la schiena contro il divano, prese a sollevarla su e giù, sbattendola sempre più forte e penetrandola sempre più a fondo. La barretta gli strusciava ogni volta contro il clitoride e le toccava il punto G facendola rabbrividire dalla testa ai piedi. Oh sì. Cazzo che bello. «Devo venire», disse lei con voce spezzata. «Oddio, non posso più aspettare.» «Non ancora. Non ho finito con te.» Inarcò la schiena per prepararsi all’orgasmo ma lui rallentò il ritmo, negandoglielo. Lei sbuffò e si chinò a mordergli una spalla. Forte. «Brava, piccola. Dacci dentro.» «Bastardo.» Gli affondò le unghie nella schiena strusciando i capezzoli contro di lui e gli strinse le cosce intorno ai fianchi per farlo muovere più veloce. La punì pizzicandole i capezzoli, poi afferrandole il sedere per controllarla meglio. Lei si arrese, piagnucolando, rabbrividendo, e d’un tratto aveva finito di giocherellare. Le diede un’ultima spinta. Venne con violenza, urlando il suo nome durante gli spasmi. Wolfe mantenne lo stesso ritmo spremendole tutto il piacere dal corpo. Poi le strofinò il clitoride da una parte dall’altra con movimenti rapiti, portandola ad un altro violento orgasmo. Infine si lasciò andare. Venne dentro di lei, godendo del piacere di sentirla sulla pelle nuda, della sensazione di essere completamente unito al suo corpo minuto, senza barriere tra loro. Gli si abbandonò sul petto, con le braccia strette intorno alle sue spalle e tutto il suo uccello dentro. Lui chiuse gli occhi e la strinse come un tesoro prezioso. Sapendo di non potersi più ribellare. Non sapendo quale fosse la risposta. Lei aprì un occhio. «Ancora amici?» Lui rise, baciandole una spalla. «Assolutamente. Amici di letto?» «Sì. Non voglio oppormi a questa cosa. Che ne dici di prenderla come viene? Giorno per giorno? Se vogliamo fare sesso, lo facciamo. Senza domande.» «Ma non voglio che usciamo o andiamo a letto con altre persone.» Lei sorrise e lo baciò con tenerezza. «Questo è pacifico. Vediamo come va. Quando te ne andrai, magari sarà un segnale per smettere di farlo. Ma perché negarci quello che vogliamo?» Le accarezzò le natiche, e la sentì fremere. «Hai ragione. Anche perché è una cosa straordinaria.» «Non deve finire per forza come in uno stupido film. Possiamo gestirla come vogliamo.» «Hai ragione. La nostra amicizia è abbastanza solida da reggere del sesso da sballo. Ci farà bene.» «Sicuro. Adesso portarmi a letto», ordinò. La sollevò e la portò in camera. Incredibile quanto d’un tratto fosse tutto improvvisamente chiaro. Forse vedere quel film era stato un segno. Un buon segno. Avrebbero gestito la cosa insieme. Senza combattere l’attrazione che c’era tra loro. Prenderla come veniva era un’idea assolutamente geniale. Tanto cosa poteva succedere? Ignorò il monito dentro di sé e si concentrò sulla donna che aveva tra le braccia. Vincent Soldano entrò nel suo stanzino, spostò il poster di Harry Potter che aveva appeso da piccolo e mise il resto dei soldi in una fessura nel muro. Gli sembrava di essere quel prigioniero in Le ali della libertà che nascondeva il suo piano di fuga dietro uno stupido poster. Ma funzionava. Da quando era stato costretto a cambiare nascondiglio, nessuno degli uomini di sua madre aveva trovato il suo gruzzolo, e nemmeno lei. Se ne andava da questo inferno. Aveva dei soldi. Il coltello. Vestiti. Zaino. Qualche oggetto personale. Acqua e cibo. Era cresciuto nell’ultimo anno e non era più un ragazzo pelle e ossa. Stava diventando un uomo, e pensava che questo gli avrebbe facilitato le cose. Niente affidamenti e cagate simili. Soltanto lui, il suo ingegno e il suo spirito di sopravvivenza. Le urla aumentarono e imprecò sottovoce. Avrebbe dovuto andarsene ieri, ma voleva avere un giorno in più per accertarsi che il suo piano fosse ben congegnato. Meglio che la madre fosse completamente fatta, così per un po’ non l’avrebbe cercato. Più distrazioni c’erano meglio era, e ieri sera c’era stata fin troppa calma. Adesso invece c’era baldoria. Dopo il sesso e la droga, se ne sarebbe andato senza voltarsi indietro. Era fatta, finalmente. Passò l’ora successiva cercando di distrarsi, ascoltando la notte che si faceva sempre più scalmanata. Poi qualcuno lo sorprese bussando alla porta. S’irrigidì. «Sì?» «Ehi ragazzo, vieni fuori. Tua mamma ha bisogno.» Di solito non dava retta a nessuno, ma il pensiero che fosse l’ultima volta che vedeva sua madre lo addolcì. Aveva il coltello in tasca, e stavolta sapeva come usarlo. Si era allenato con costanza e aveva imparato a difendersi. Alla prossima occasione sarebbe stato pronto. Uscì col broncio. «Che c’è?» La madre era appoggiata alla parete, gli occhi iniettati di sangue, la bocca semiaperta nello stupore di chi vedeva cose che non c’erano. Sperò fossero cose belle, almeno. C’era tutto l’armamentario. Erba. Crack. Bottiglie vuote di whisky e vodka. Lattine di birra. Qualcuno stava scopando in camera, ma lo stronzo che aveva bussato aveva uno sguardo strano. Come se avesse qualcosa di eccitante in mente. «Tua madre è andata», disse il magnaccia basso e muscoloso. «Non sarà di grande utilità stasera. Quindi ci servi tu.» Gli si rivoltarono le budella. Sentì l’adrenalina pompargli nel sangue e fiutò il pericolo nell’aria. Lo spacciatore si faceva chiamare Scott. Era in giro da un po’, si prendeva cura della madre quando era fatta e la spingeva a prostituirsi sempre di più. Vincent non aveva paura di Scott come degli altri e lui sembrava lasciarlo sostanzialmente in pace. Non sembrava che gli piacessero i maschi. E fu questo il punto su cui Vincent si rese conto d’aver commesso un terribile sbaglio. «Sì, be’, non posso farci niente», rispose cercando di fare l’indifferente. Si avviò verso la porta col coltello in tasca, ma l’uomo lo bloccò. Gli comparve un sorrisetto sulle labbra. «Secondo me sì, invece», biascicò. Vincent s’irrigidì. «Vedi, tua madre ha finito i soldi. Ha finito i favori. Quindi stasera deve ricorrere all’ultima risorsa.» La madre gli fece un sorriso così melenso e morboso che lui pensò di essere sul punto di vomitare. «Scusa, tesoro. Devi aiutarmi. Aiutami.» Strinse i pugni e cercò di respirare regolarmente. Rischiava di dover scappare senza il gruzzolo. Cazzo. «Se pensi che io sia una specie di puttana, ti sbagli. Toccami e ti ammazzo.» Scott sorrise. «Hai mai provato? Magari non è così male. Facciamo così, lo fai stavolta per me e saremo pari. Poi non tormenterò più né te né tua madre.» Fece un passo indietro ma senza guardare la porta. Troppo vicino. Avrebbe dovuto scappare. Allungò la mano fino alla tasca posteriore e prese il coltello. Stavolta non l’avrebbe mancato. La posta era troppo alta. «Non sapevo fossi una checca», ghignò cercando di distrarlo. «Qual è il problema? Il tuo uccello non è grosso abbastanza per una donna?» Scott gli si avvicinò senza smettere di sorridere. «Possiamo farlo con le buone maniere o con le cattive. Ti ho dato tempo, ti ho lasciato in pace. Ti ho permesso di rubarmi i soldi quando pensavi che non me ne accorgessi. Ma adesso è ora di saldare i conti.» Vincent cercò d’ignorare la paura, estrasse il coltello e colpì. La lama affondò nel petto dell’uomo. Non aspettò di vedere cosa gli aveva fatto. Si girò e corse verso l’unica uscita, sapendo che se non ci fosse arrivato in tempo non avrebbe avuto un’altra occasione. Sentì le urla di Scott. Dei passi frettolosi. Girò il pomello. Un soffio di aria fresca. Poi un piede toccò il terreno e cominciò a correre. Fu ripreso da mani brutali che lo colpirono alla testa con qualcosa. Sentì un miscuglio di voci maschili e cercò di non perdere conoscenza. Mentre cercava disperatamente di liberarsi, la mente urlò tutto il tempo un’unica sillaba, la stessa che dopo quell’orribile notte avrebbe ripetuto per anni durante i suoi incubi. No. No. No. No. Due uomini lo gettarono sul letto in camera sua. Lui cercò di divincolarsi ma erano più grossi di Scott. Il primo si mise di guardia alla porta e l’altro lo trascinò giù dal materasso e lo fece mettere in ginocchio, coi palmi sul parquet. Stava per vomitare. «Ora t’insegniamo un po’ di buone maniere. E anche come fare dei soldi.» Scott si avvicinò e gli alzò la testa tirandolo per i capelli. Sorrise con malignità, col sangue che gli colava dalla ferita superficiale accanto alla spalla. «Pagherai per questo. Mi divertirò a vederti ripagare i debiti di tua mamma.» No. No. No. No. Il primo uomo rise e cominciò a slacciarsi i pantaloni. No. No. No. No. E poi cominciò l’incubo. Capitolo 21 Gen uscì dall’Xpressions Café con un sacchetto di biscotti e grandi programmi per la serata. Voleva fare la pasta agli scampi e gamberi e poi bruciare le calorie con il suo nuovo sport preferito. Sesso. Con Wolfe. Camminò canticchiando, facendo dondolare il sacchetto e godendosi il sole. «Genevieve?» Quella voce, che conosceva molto bene, le tolse tutto l’entusiasmo. Si girò verso David e la felicità svanì. Sentì un brivido di paura lungo la spina dorsale, anche se erano alla luce del giorno. Strinse le labbra e si voltò per andarsene ma lui la chiamò di nuovo, con insistenza. «Ti prego, concedimi un minuto. So che non lo merito. Possiamo parlare anche qui in mezzo alla gente. Per favore.» S’irrigidì, ma si fermò. Doveva avere appena finito il turno, dal momento che indossava ancora il camice. I capelli erano un po’ scompigliati ma al sole brillavano come un’aureola. Le piccole rughe intorno alla bocca e agli occhi gli davano quell’aria stanca che gli aveva visto tante volte. Sentì una fitta dolorosa. Le mancava l’ospedale. Il suo lavoro. Sentirsi parte di qualcosa di più grande, sacrificare il tempo per salvare delle vite. Cercò di non mostrare nostalgia per non rischiare che venisse fraintesa. «Cosa vuoi?» «La prima cosa? Scusarmi. Mi vergogno di quello che ho fatto. Ho perso la testa, era così pazzo di gelosia che volevo farti del male.» «Mi dispiace. Non posso perdonarti. Hai cancellato tutto il buono che c’era stato tra noi aggredendomi in quel modo.» Lui annuì, stringendo la mascella. «Capisco. Ma dovevo dirlo a voce alta. Ho organizzato per farti portare la tua roba questo weekend, se ti va bene.» Alzò un sopracciglio. Max se ne stava occupando ma avevano fermato tutto quando l’avvocato di David aveva minacciato di trascinarla in tribunale dicendo che la sua storia con Wolfe non le dava diritto a niente. «Non voglio che me la consegni personalmente.» «No, io non ci sarò. Hai vinto tu, Gen. È finita. Ti starò alla larga. Ho ripensato alla nostra relazione e credo di sapere dove ho sbagliato, ma se non vuoi darmi un’altra possibilità non posso obbligarti.» «Non si può tornare indietro», sussurrò. «Lo so.» Per un attimo, quei primi mesi le riaffiorarono alla mente e provò tristezza. Una volta lo amava. Voleva sposarlo. Ora era solo un estraneo. La vita era bizzarra. Adesso, quando Wolfe la prendeva tra le braccia, tutto sembrava andare al suo posto. Non si era mai sentita così a suo agio nel profondo dell’anima. «Ma c’è una cosa che devo chiederti.» Eccolo. Strinse gli occhi. «Ho bisogno che torni in ospedale.» Tese tutti i muscoli. Ci mise qualche attimo a riprendere il respiro per rispondere con calma. «Non posso. Il perché lo sai.» David scosse la testa. «La medicina è la tua vita, Genevieve. Hai un dono. L’ho capito subito, e perdere tempo in una stupida agenzia matrimoniale è un crimine.» «Kinnections è una società di successo che aiuta la gente a trovare l’amore. Come ti permetti di giudicarmi?» Parlò a labbra strette. «Ti stai nascondendo, lì dentro. E so che il motivo sono io. Senti, l’idea di lavorare accanto a te, di vederti ogni giorno sapendo che non eri più mia, quasi mi distruggeva. Ho fatto tutto ciò che era in mio potere per farti andare via. Ti devo delle scuse anche per questo. Quindi mi trasferisco.» Restò a bocca aperta. «Sei la spina dorsale del reparto chirurgia. E non ti credo. È solo un trucco per farmi tornare.» «No, Genevieve. Mi hanno offerto un’opportunità all’ospedale pediatrico di Boston. Per me è ora di andarmene. Posso fare molto di più, specialmente nel campo dell’insegnamento e della chirurgia. Mi sentivo un po’ soffocato, negli ultimi tempi, ma non volevo ammetterlo. Specialmente con te che dovevi finire l’internato e volevi stare a New York.» Era oltremodo sorpresa. La speranza di riprendere il lavoro che significava tutto per lei le balenava davanti. «Perché me lo stai dicendo? Devo credere che d’un tratto sei pronto ad accettare la fine della nostra storia? Dopo aver chiesto un ordine restrittivo contro Wolfe? E aver convinto i miei genitori che avevo dei problemi emotivi? E avermi cacciata dall’ospedale?» Non fece una piega. Si limitò a guardarla con la stessa intensità che riservava ai medici interni. «È la verità. Sentivo che mi stavi sfuggendo e ho fatto il possibile per trattenerti. Ma non voglio buttare il resto della mia vita a supplicarti di tornare con me. L’ordine restrittivo resta. Non mi fiderò mai di quell’imbecille e credo che ti desse la caccia anche mentre eri con me. Volevo comunicarti la mia decisione di persona. Chiama Brian, ti farà rientrare nel programma. Ho già dato l’approvazione.» Le batteva il cuore così forte che sentiva il rombo nelle orecchie. «Potrebbe essere troppo tardi.» «Non è mai troppo tardi. Non sprecare il tuo talento in un lavoro indegno di te. Sei migliore di quello che stai facendo.» Le diede un’occhiata veloce. «Sei migliore anche di Wolfe.» Gen aprì la bocca per protestare ma aveva già girato sui tacchi e se ne stava andando. Guardò il marciapiede deserto. Quante decisioni. Le piaceva Kinnections. Era più impegnativo di quanto avrebbe immaginato e lavorare con le amiche era un sogno divenuto realtà. Ma lei era un medico. Un chirurgo. La medicina era nel suo DNA, e anche se aveva cercato di dimenticarlo nella speranza di avere una vita piena e più equilibrata di prima, si rese conto che tutte le strade portavano all’ospedale. Aveva molto su cui riflettere. Si avviò verso casa con mille pensieri che le frullavano in testa. Wolfe fissò il grosso schermo davanti a lui. Aveva appena concluso un ottimo affare. ’Fanculo Plaza. Siamo arrivati noi. Non vedeva l’ora di dire a Sawyer di quest’ultimo colpo da maestro. Ogni vittoria era un modo di ricambiare l’occasione offertagli dall’uomo che l’aveva tolto dalla strada. Come al solito, lo eccitava l’idea di usare la sua intelligenza e le sue capacità per ottenere quello che voleva. Specialmente negli affari. La sua vita personale era sempre stata piatta, un infinito deserto con nulla di eccitante in vista. Il che rendeva tutto più semplice. Vuoto, ma semplice. Fino a Gen, ovviamente. Adesso passava la giornata lavorativa con l’entusiasmo di un bambino che aspetta il Natale. Scosse la testa ridendo di sé e guardò il suo ufficio. L’aveva arredato come quello di Sawyer in Italia. Mobili in mogano. Tappeto bordeaux. Sculture e soprammobili di suo gusto. Una libreria a parete piena di edizioni rare e romanzi di successo. E una palestra nella stanza accanto dove sfogava le sue frustrazioni su un sacco per pugili con la musica metal degli anni Ottanta. Quante volte aveva finito per dormire lì? Adesso appena scattavano le cinque usciva dalla porta. La sua assistente quasi sveniva quando si era rifiutato di restare più a lungo per presiedere una riunione. Sapeva che la sua presenza non era necessaria. Gli piaceva soltanto seguire personalmente tutte le fasi del lavoro. Finché una brunetta sexy gli aveva fatto un incantesimo. Respinse le preoccupazioni pronte a tormentarlo. Non poteva durare. Pazienza. Era già passata un’intera settimana ed era andato tutto alla perfezione. Aveva deciso di spremere tutto il piacere fino all’ultima goccia finché l’attrazione tra loro non fosse svanita. Chi avrebbe pensato che questa cosa degli amici di letto avrebbe funzionato? Eppure per il momento funzionava. Passavano il tempo insieme, facevano sesso strepitoso quasi tutta la notte, e si godevano l’uno la compagnia dell’altro. Senza domande, limitazioni o regole. Nessuna promessa. Solo il momento e un mare di piacere. Sentì vibrare il cellulare e lo afferrò rapidamente. Gli apparve subito un sorriso. «Ehi, Sawyer. Come te la passi?» Una risatina dall’altra parte del ricevitore. «Stavo per farti la stessa domanda. Ho sentito che hai battuto il Plaza e hai chiuso il contratto con Conway. Ottimo lavoro.» Wolfe scosse la testa, incredulo. «Mi hai messo una spia alle costole? Non si è ancora asciugato l’inchiostro della firma. Volevo chiamarti più tardi per darti la bella notizia.» «Non potevo aspettare. Ascolta, volevo chiederti un favore.» Strinse il cellulare. «Qualunque cosa.» «Pensi di riuscire a venire qui la settimana prossima? Per passare qualche giorno con noi?» «Va tutto bene? Julietta? Gabby? Tu?» Un’altra risata. «Calmati, stiamo tutti benissimo. Volevamo solo dirti una cosa. E Julietta sente la tua mancanza. Come del resto io.» Provò una forte emozione. «Mi mancate anche voi. Sì, sistemo un paio di cose e tra qualche giorno arrivo.» «Bene. Dobbiamo tenerci aggiornati. I messaggi e Skype non valgono come vedersi di persona. E Gabby ha bisogno di torturare il suo fratellone.» Rise. «Fammi il piacere. Volete solo un babysitter.» «Mi hai beccato. Ho già comprato i biglietti per la Scala quindi non pensare di tirarti indietro.» «Non vedo l’ora.» «L’aereo verrà a prenderti quando sarai pronto. Mandami un sms.» «Sarà fatto. A presto. Dai un bacio alla piccola.» «Lo farò.» La linea cadde. A casa. Strano, aveva deciso di stabilirsi e di fare carriera a New York, ma nel cuore avrebbe sempre avuto Milano. La città in cui aveva capito cos’erano la famiglia, l’amore e il rispetto. La città in cui gli era stata data l’occasione di non essere più un rifiuto della società. Non vedeva l’ora. Il pensiero di separarsi da Gen anche solo per qualche giorno spense un po’ la gioia, ma cercò di non pensarci. Il cellulare suonò di nuovo. Rispose. «Tutto bene?» Il suo sospiro dolce glielo fece diventare duro all’istante. Diavolo, era una strega. «Ho dimenticato il pane italiano. Puoi passare tu a prenderlo quando torni a casa?» «Certo. Cosa c’è per cena?» «Scampi e gamberetti.» Gli brontolò lo stomaco. Stava diventando viziato in fatto di cibo, e aveva cominciato a compensare l’incapacità di cucinare facendo le pulizie e dei piccoli lavoretti in casa. Aveva sigillato le crepe nella vasca, fissato il gradino rotto all’ingresso e imbiancato il bagno. La faccia contenta di Gen era valsa ogni goccia di sudore, e gli piaceva usare le mani per abbellire casa loro. Casa di lei. Non si soffermò sul lapsus. «Benissimo. Rimedio una bottiglia di rosso da abbinarci. Ehi, hai registrato Prendere o lasciare ieri sera?» «Sì. Perché?» «Così. Ho pensato volessi vedere se finivano per venderla, quella casa. Lei ha fatto un ottimo lavoro con la ristrutturazione ma lui era un po’ un imbecille. Voglio dire, lei come faceva a sapere che avrebbero trovato la muffa nel seminterrato?» «Ah, io volevo vedere, eh? Perché non ammetti che ti ho fatto appassionare?» Soffiò aria dal naso. «Figurarsi.» «Sembri Nate. Se non sei interessato posso sempre guardarlo presto e cancellarlo prima che tu rientri.» Maledizione. Come faceva a tirarsi fuori, adesso? «Fai come vuoi», disse. «Per me è assolutamente indifferente.» Si fece un appunto di controllare su internet se avevano caricato i nuovi episodi. La sua risata divertita gli fece venire voglia di toccarla attraverso il telefono. Di tirarle indietro i capelli. Di passare il dito sulla curva delle sue labbra. Di baciare le lentiggini sul naso. «Non lo cancello. E non lo dico a nessuno, tranquillo. Guida piano.» «Va bene. A tra poco.» Chiuse il cellulare e sorrise. Un’ottima cena. Un po’ di tv. Conversazione interessante. E un sacco di carne nuda. Per la prima volta nella sua esistenza, la vita era perfetta. Wolfe posò il gamberetto e la fissò. «Hai davvero parlato con quello stronzo? Dopo quello che ti ha fatto?» Riconobbe il suo sospiro d’insofferenza. Fortunatamente, o sfortunatamente, adesso erano amanti, e non gli andava che nessun altro uomo le si avvicinasse. Specialmente il suo ex. «Stai esagerando», disse lei sorseggiando il Pinot nero. «Eravamo per strada, alla luce del sole. Sembrava pentito e, per la prima volta, anche sincero.» La gelosia bruciava come whisky ma senza la sensazione piacevole che seguiva. Gli dava solo nausea. Allontanò il piatto. D’un tratto gli era passata la fame. «Non credo a una parola di quello che dice, Gen. È un manipolatore, un egoista e un maniaco del controllo. Perché non mi hai chiamato?» Lo guardò con aria di rimprovero. Già. La scintilla in quegli occhi azzurri era il primo avvertimento. «Perché contrariamente a quanto si creda, posso cavarmela da sola. A volte me la cavo benissimo senza un cavaliere con l’armatura.» Sì, era seccata. Non si era mai sentito un salvatore. Stava solo cercando di recuperare il fatto di non essersi accorto di quanto fosse profondamente infelice con David. «E se ti stesse mentendo per farti tornare in ospedale, così può tenerti sotto controllo? E credo che restituirti la roba sia solo una scusa per rivederti. Te l’avevo detto di chiedere l’ordine restrittivo!» Torse le labbra. Secondo segno di collera imminente. «Ho preferito aspettare. Ho detto a Slade di tenere la cosa in sospeso finché si calmavano le acque. Non volevo che se la prendesse con te.» «Con me? Eri preoccupata per me? Io so badare a me stesso.» «E io a me stessa», ringhiò. «David ha ritirato l’accusa di aggressione e rinunciato all’azione legale, o sbaglio? È fuori dalla nostra vita e sta per trasferirsi a Boston. Non c’è motivo di agitarsi.» «Non sono agitato.» «Allora va tutto alla grande.» Scese il silenzio. Si guardarono in cagnesco, senza sapere perché l’altro era arrabbiato e senza sapere cosa farci. Wolfe cercò di mostrarsi calmo e ragionevole. «Non mi piace che t’illuda di poter tornare in ospedale. È come farti dondolare la carota davanti per poi portartela via.» «Lo so. E so anche che, se tornerò, li avrò tutti contro. Dovrò vedermela con gli impiegati risentiti convinti che l’abbia fatto andare via io. Niente di male a fare un passo indietro prima di decidere. Brian mi ha già chiamata per confermarmi la nuova posizione di David a Boston.» Perché aveva l’impressione che avesse agito alle sue spalle? Cosa gli prendeva? Questo suo essere possessivo era oltremodo imbarazzante. Credeva che avrebbe parlato prima con lui, dicendogli che cosa le sarebbe piaciuto fare e valutando insieme le alternative. Ma a quanto pareva non aveva bisogno di lui per prendere decisioni. Lei andava avanti con la sua vita. Ma non era quello che voleva? Non avevano una relazione stabile. E gli amici non erano tenuti a discutere le loro decisioni. Giusto? «Ti manca l’ospedale?» le chiese. Si calmò. Intrecciò le dita. Sì, le mancava. Ce l’aveva scritto in faccia, e d’un tratto a Wolfe dispiacque per la vita che si era lasciata alle spalle. Era nata per servire, e anche se Kinnections era stata una buona occasione per riprendere fiato, doveva tornare al suo lavoro. «Sì.» Lui annuì. E che fosse dannato se la domanda successiva non gli sfuggì dalla bocca. «Lui ti manca?» Spalancò gli occhi, improvvisamente in collera. Strinse i pugni e si chinò in avanti come se volesse strangolarlo. Come mai tanta rabbia? «Perché? Hai paura che pensi a lui quando scopo con te?» Wolfe si alzò da tavola, ribollendo d’ira anche lui. Non parlava mai in quel modo. Non era mai così aggressiva. «Questa è una cosa orribile da dire», commentò. «Perché vuoi litigare? Io volevo solo guardare la tv!» Lei balzò in piedi agitando l’indice. «E io anche! Ma odio quando mi tratti come una stupida marmocchia che ha sempre bisogno di protezione. E se mi mancasse David, non sarei mai venuta a letto con te!» «Bene. D’accordo. Come ti pare.» «Sei proprio un cagaminchia.» Si girò, sconcertato. Non credeva alle sue orecchie. «Come mi hai chiamato?» «Cagaminchia. Sai. Uno che scassa le palle.» «Sì, lo so. Nate viene chiamato così dal suo parrucchiere, ma se lo ripeti un’altra volta te ne faccio pentire.» Fece una finta risata. «È così che gestisci le cose nel tuo mondo? Minacce da bullo a quelle che ti porti a letto? E se invece provassi a comunicare? Se invece ammettessi di essere confuso quanto me per questa situazione tra noi due, di essere geloso di David, e di non avere idea di come andare avanti?» Aveva ragione. Ma il confine tra l’amicizia e la relazione fissa era troppo terrificante da superare. Non se la sentiva di calarsi in quella situazione. Era stato solo per troppo tempo e sapeva che non ce l’avrebbe fatta. La guardò con gli occhi stretti, prendendo atto della sua posizione difensiva, e fece appello al suo punto di forza. Il sesso. «A me sembra che ti piacciano le mie minacce», ribatté. «Quando ti strappo i vestiti e ti faccio tacere sbattendoti sul letto finché l’unica cosa che ti esce dalla bocca è il mio nome.» Oh, sì. Le ardeva lo sguardo e notò i capezzoli che s’indurivano sotto la camicetta. Per un attimo pensò che avrebbe ceduto. Ma l’attimo dopo Gen irrigidì la schiena, raddrizzandosi in tutti i suoi 153 centimetri, alzò il mento e gli passò di fianco come una furia. Si rifugiò in camera sbattendo la porta. Wolfe sbuffò. Aveva sbagliato di nuovo. Come aveva fatto una semplice conversazione a degenerare in una lite? E se non fosse arrivato lui e David l’avesse violentata? Rabbrividì al ricordo. Avrebbe dato la vita per assicurarsi che non accadesse. Non voleva tenerla sotto una campana di vetro come faceva quel coglione, ma non sopportava che le facessero del male. E adesso era lui a farglielo. Si grattò la fronte e cominciò a sparecchiare. Le avrebbe chiesto scusa. Tra poco, dopo averle lasciato il tempo per calmarsi. Le avrebbe spiegato le sue ragioni, e quanto l’aggressione di David l’aveva scosso. Si concentrò sui piatti da mettere nella lavastoviglie, sugli avanzi da riporre in frigo e sui bicchieri di vino da riempire. Avrebbe bussato e le avrebbe chiesto di fare pace. Avrebbe provato a comunicare. Poi stanotte avrebbe dormito sul divano per lasciarle il tempo di... La porta si aprì. Gen uscì dalla camera con addosso culotte di pizzo nere, reggiseno coordinato e tacchi a spillo. Porca. Miseria. Divorò con occhi famelici i suoi fianchi che ondeggiavano, la curva voluttuosa delle natiche, il solco profondo tra i seni. I capezzoli spingevano contro il pizzo. Senza neppure guardarlo, andò diretta in cucina, ignorando completamente la sua erezione istantanea, la sua lingua penzoloni e il suo sguardo libidinoso. «Ah, bene, vedo che hai sistemato. E hai versato dell’altro vino. Perfetto.» Provò a rispondere ma gli uscirono solo dei versi da uomo delle caverne. Lei si voltò, e Wolfe vide lo splendido tatuaggio appena oltre il bordo delle culotte. Le gocce di sangue che grondavano dalle spine continuavano sotto il pizzo. «Co-co-cosa stai facendo?» Gli uscì una vocina sottile e acuta. Lei prese il bicchiere, bevve un sorso di vino e spostò il peso su una gamba appoggiando la mano sul fianco. «Cosa ti sembra che stia facendo?» rispose con civetteria. «Sto usando il sesso per chiudere la discussione.» Batté le palpebre. «M-m-ma hai detto che non era un buon modo di comunicare.» Gli fece un sorriso così sexy e abbagliante che lo zittì del tutto. «Questo vale per gli uomini. A loro non è concesso usare il sesso come arma. Ma alle donne sì. Possiamo fare pace, adesso, e poi guardiamo Prendere o lasciare?» «Sì.» Un secondo dopo l’aveva sollevata e stesa sul tavolo di legno. Sapendo che non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare fino in camera da letto, prese quello che voleva lì dove si trovava e giurò che ne avrebbe avuto cura per tutta la vita. La sua donna. Non le lasciò il tempo di opporre alcuna reazione. La baciò con foga, strappandole le culotte e allargandole le gambe. Le infilò un dito dentro e la sentì bagnata, ma non poteva aspettare. Niente preliminari stavolta. Questo era sesso puro, fame primitiva, quindi si slacciò la cintura, si prese in mano l’uccello, la trascinò verso il bordo del tavolo e glielo puntò sul sesso. Poi staccò la bocca dalla sua e le diede l’ordine. «Aggrappati al bordo del tavolo e tieniti stretta.» Lei obbedì. La penetrò tutta con un’unica spinta. Gen gemette. Inarcò la schiena e si tenne stretta al tavolo come se fosse l’unica cosa al mondo che poteva salvarla. E lo era. Wolfe non si trattenne. Continuò a spingere forsennatamente nel suo sesso bagnato, rifiutandosi di rallentare il ritmo o di darle un attimo per riprendersi. Lei urlò il suo nome, si morse il labbro inferiore e venne. Ma lui non si fermò. La sollevò leggermente in modo che il piercing strusciasse contro il clitoride e continuò a spingere costringendola a un altro orgasmo mentre lei supplicava e urlava di piacere. Poi lo fece di nuovo. Il suo corpo si afflosciò sotto di lui, inerme. Mollò la presa sul tavolo e si arrese al misto di piacere e dolore, abbandonandosi completamente. Wolfe si lasciò andare, scaricandole dentro il suo seme con alcune violente scosse dei fianchi. Svuotato e appagato, le baciò la pancia, le labbra, le accarezzò i capelli umidi. E la guardò in quei meravigliosi occhi azzurri che lo invitavano ad abbandonare ogni incertezza e ad amarla senza riserve. «Ti ho detto quanto adoro le tue capacità comunicative?» Lei sorrise, gli mise le braccia intorno al collo e lo baciò. Capitolo 22 Genevieve salì due o tre gradini alla volta come faceva da bambina. «Sbrigati, siamo in ritardo.» Wolfe la seguiva a breve distanza, scuotendo la testa divertito. «Di chi è la colpa? Ero già vestito e pronto. Sei tu che sei uscita dalla doccia tutta bagnata, nuda e provocante.» Sentì le guance calde. Incredibilmente riusciva ancora ad arrossire. Il suo vorace appetito sessuale e la passione intensa per il suo corpo le avevano tolto ogni freno e senso del pudore. Non si era mai sentita così splendida, nonostante le sue curve voluttuose. Nonostante sapesse che lui usciva con modelle pelle e ossa. All’alba dei trent’anni, stava finalmente cominciando ad accettare il suo corpo senza desiderare di essere diversa. «Ssst, potrebbero sentirti.» Non fece caso alla risatina sexy di Wolfe e aprì la porta. Ora che le cose con David si erano sistemate e i sensi di colpa erano passati, era felice di stare con la sua famiglia. Lei era andata avanti, David si era rassegnato. Forse anche suo padre avrebbe smesso di preoccuparsi per lei e di darle suggerimenti su come rimettere le cose a posto con David. Forse prima o poi si sarebbe ammorbidito nei confronti di Wolfe, anche se lei aveva intenzione di mantenere segreta la loro relazione. Jim MacKenzie s’illuminò e la prese tra le braccia. «Era ora. Stavo per mangiarmi tutti gli antipasti.» «La mamma te l’avrebbe impedito. Scommetto che ha tenuto dei peperoni solo per me.» «Infatti!» gridò la madre dalla cucina. Il sorriso di Jim svanì appena vide Wolfe alle spalle della figlia. S’irrigidì e gli fece un cenno. «Wolfe.» «Jim, come stai? Grazie per avermi invitato.» «Prego. È stata Maria a invitarti, comunque.» Gen fece una smorfia. Uff. Suo padre era uno degli uomini più gentili che conosceva. L’assistenza agli alcolisti era diventato il suo lavoro e, pur avendo a che fare con gente di ogni tipo, era raro che giudicasse qualcuno. Con Wolfe invece sembrava un’altra persona. Prese per mano il suo amico e lo condusse in casa con lei. Una dimostrazione di unità. Un silenzioso ‘piantala’ a suo padre. Jim s’accigliò. «Sono tutti qui?» chiese dirigendosi verso il soggiorno. Gli antipasti erano pronti insieme a una bottiglia di vino bianco e una di rosso. La nipote dodicenne, Taylor, scriveva sms al cellulare ascoltando musica nelle cuffie. Gen le si avvicinò e le agitò una mano davanti agli occhi. L’angelo biondo ormai adolescente sorrise, si tolse le cuffie e abbracciò la zia. «Ciao zia Gen! Ciao Wolfe. Zia, non ci crederai, sono sicura che appena te lo dico svieni.» Fece la faccia seria. «Dimmi.» Nei luminosi occhi azzurri di Taylor brillava un segreto. Oddio. Conosceva bene quello sguardo. Lei e Izzy ne avevano fatto un’arte. «Vado a Parigi.» Wow. «Stai scherzando? Tua madre ti lascia andare così lontano? A fare?» «C’è un programma speciale per studenti stranieri a cui voglio iscrivermi. Passo un mese in famiglia a Parigi e imparo la lingua. Ci puoi credere?» Gen si guardò intorno in cerca di quegli scriteriati di suo fratello e della cognata. Era una cosa impensabile. «Quando vai?» «Quando avrò sedici anni.» Un sospiro di sollievo. Fiu, per poco non le veniva un colpo. «Quindi la mia splendida nipote mi sta dicendo con soli quattro anni di anticipo che andrà a Parigi a studiare il francese?» «Sì!» «Non ci posso credere! È fantastico!» Saltarono insieme su e giù, stringendosi le mani e facendo piccoli urletti, mentre Wolfe rideva accanto a loro. «Vengo sicuramente a trovarti.» «Assolutamente.» Lance e Gina entrarono dal giardino sul retro e si lanciarono in una discussione sui viaggi all’estero e sul fatto che Maria non gli aveva mai permesso di andare oltre la porta dei vicini. «Non capisco questi ragazzi di oggi», sospirò la madre posando davanti a loro un vassoio di bruschette. Wolfe e Jim fecero per prenderne una ma Wolfe tirò indietro la mano, lasciando che si servisse prima lui. «Cosa c’è di male a stare a casa? Avranno tutto il tempo di viaggiare, dopo. Siete cresciuti tutti bene.» Lance si mise comodo sulla sedia, stendendo le gambe. «Gina potrebbe non essere d’accordo, mamma. Dice che ho dei problemi.» Sia Gina che la madre gli diedero una pacca sul braccio. Taylor rise. «Alexa e Nick dove sono?» domandò Gen. «Lily ha preso un virus quindi restano a casa stasera. Gli porterò del brodo di pollo domani.» Gen sorrise. Amava la convinzione che il brodo di pollo della madre guarisse da tutti i mali, morbi, malanni e infelicità. Chiacchierarono del più e del meno, scherzando e bevendo il vino. La madre annunciò che la cena era pronta. Mentre tutti si alzavano e si trasferivano in sala da pranzo, il rumore di una porta che sbatteva echeggiò in tutta la casa. Era arrivata Izzy. Gen la guardò. La sorella aveva smesso da tempo di partecipare alle cene in famiglia. Ripensò a quella fatidica serata in cui si era presentata completamente fatta e aveva cominciato a schernire la sua cosiddetta famiglia felice, lanciando accuse a tutti. E rabbrividì. Era stato come rivivere l’incubo della caduta del padre nella spirale dell’alcolismo. Quando Jim l’aveva sbattuta fuori casa, Izzy aveva giurato di non metterci più piede. Non si drogava più da un pezzo, ormai, ma c’era qualcos’altro di diverso, in lei. In genere arguzia e sarcasmo non l’abbandonavano un attimo. Oggi appariva... riservata. Turbata. Portava i capelli neri a strisce viola raccolti e si era truccata poco, lasciando che si vedessero le lentiggini. Le aveva come quelle di Gen, e anche gli occhi erano azzurri come i suoi, ma ora vi si leggeva una stanchezza che non c’era mai stata, prima. Erano tutti immobili tra la sorpresa e il dubbio che il suo contegno fosse solo un miraggio. Wolfe ruppe il silenzio e fece un passo avanti. «Izzy, è un piacere vederti. Spero che non volessi gli antipasti. Li abbiamo spazzati via tutti.» Era sollievo quello che le passò sul volto? Un mezzo sorriso le curvò le labbra, che non erano rosso sangue come al solito ma di un rosa naturale. Portava dei jeans e una semplice maglietta nera che lasciava intravedere due dei suoi tatuaggi. Scarpe da ginnastica al posto dei soliti tacchi a spillo in acciaio. «Tanto Gen si sarebbe comunque accaparrata tutti i peperoni, come ha sempre fatto.» In un impeto di gioia, senza preoccuparsi di essere patetica o d’infastidire la sorella, Gen le si buttò tra le braccia e la strinse forte. «Sono felicissima che tu sia qui!» Izzy rise e ricambiò l’abbraccio. Era diventata rossa. «Anch’io.» Si girarono entrambe quando sentirono la voce di Maria rotta dall’emozione. «Le mie belle figlie sono a cena con noi. Oggi è un giorno speciale.» Jim si schiarì la gola. «Sei arrivata giusto in tempo, tesoro. Mettiamoci a tavola.» La cena fu perfetta. Izzy non parlò molto ma sorrise spesso. Non fece nessuna delle sue battute pungenti. Gen notò che si guardava intorno come per analizzare l’umore di ognuno. Aveva forse qualche notizia da dare? Meglio lasciarle i suoi tempi e aspettare che si sentisse a suo agio. Il desiderio di riallacciare un vero rapporto con lei era quasi doloroso, tanto era intenso. Tutte quelle notti sveglie a ridere e scambiarsi segreti. La scuola, quando Izzy la proteggeva dai bulli che le prendevano in giro per la loro somiglianza. I pianti per la fuga del padre, e le mani unite sotto il tavolo quando i genitori litigavano. I ricordi erano così tanti che non avrebbe mai superato il dolore di averla persa. Era come aver perduto una parte di sé. Di conseguenza si godette la presenza della sorella, e il calore avvolgente della sua famiglia. Wolfe era a suo agio con tutti tranne che con suo padre, e si lasciava punzecchiare bonariamente. Dio, quanto lo amava. Gen chinò la testa sul piatto. Le veniva così naturale ammetterlo. Senza drammi. Solo la chiara consapevolezza che tutte le strade l’avevano portata a lui. La sofferenza, gli sbagli, i rimpianti del passato non significavano nulla adesso. Anzi, l’averlo trovato rendeva il presente era ancora più dolce. Prima non era mai stato il momento giusto. Adesso sì invece. Adesso avevano una possibilità. Il suo piano era semplice. Seguire il consiglio di Arilyn, lasciargli fare quello che si sentiva, e vivere alla giornata. Un giorno avrebbe potuto accorgersi che l’amava anche lui. Che non era così terribile stare con qualcuno e che poteva finalmente fidarsi a raccontarle il suo passato. «Sembri proprio felice.» Gen alzò la testa e guardò la madre. Quel commento e quello sguardo complice le diedero un’approvazione che non avrebbe osato chiedere. «Lo sono», disse. «David non ti tormenta più?» domandò Gina, preoccupata. «Quella storia dell’ordine restrittivo è stata proprio brutta.» Il padre mormorò qualcosa tra i denti. Wolfe la guardò di traverso. «Mi ha riportato tutta la mia roba», disse. «Ha deciso di accettare un lavoro a Boston, quindi presto si trasferirà.» «E quindi tu torni in ospedale?» chiese Lance. Evitò d’incrociare lo sguardo di Wolfe, che la stava fissando. «Può darsi.» «Perché te lo chiedo, poi?» continuò Lance. «Non puoi certo mollare l’internato adesso. L’hai fatto per non vedere David, ma ora che il problema non sussiste, non capisco l’esitazione.» La guardarono tutti, in attesa della risposta. Ma lei ancora non l’aveva. Le sarebbe piaciuto tornare, ma stavolta non voleva avere ostacoli. Era pronta a riprendere quei turni massacranti che le lasciavano poco spazio per la vita privata, e ad affrontare il risentimento di tutti in ospedale? Vedeva le cose con un altro occhio adesso. Forse a causa dei sentimenti che provava per Wolfe? Finalmente parlò. «Mi serve ancora un po’ di tempo, Lance. Se torno, so cosa mi aspetta. Amo la medicina ma è un lavoro snervante, che mi toglie tutte le energie.» Lui scosse la testa. «Più aspetti più sarà difficile. Io direi di riprendere subito. Lunedì. Tanto non è che hai più una vita o un fidanzato.» Gina e Maria restarono a bocca aperta. «Lancelot, non parlare così a tua sorella!» «Non intendevo in quel senso, mamma. Volevo solo dire che non c’è nulla che le impedisca di tornare al suo lavoro. Scusa, Gen.» Lei fece un gesto di noncuranza. «So cosa volevi dire. Deciderò presto. Ma apprezzerei se non mi metteste troppa pressione.» Lance strinse le labbra e rimase in silenzio. Jim fulminò Wolfe con lo sguardo come se tutta quella conversazione fosse colpa sua. E Izzy chinò la testa sul piatto guardandolo come se contenesse tutte le risposte. Che diavolo stava succedendo? Izzy non annunciò alcuna notizia, quindi Gen ci provò. «Izzy, vieni su con me? A scambiare due parole?» Gli altri la assecondarono, chiedendo loro di allontanarsi perché dovevano sparecchiare. Salirono al piano di sopra e Gen andò nella loro stanza da letto. Odorava un po’ di stantio ma era rimasta più o meno come prima. Pareti rosa. Mobilio bianco e scaffali pieni di soprammobili. Lo specchio con adesivi, cartoline e vecchie fotografie ancora attaccati. Al posto dei due letti singoli c’era un unico letto matrimoniale per gli ospiti, ma come si sedette sul materasso i ricordi degli anni passati insieme alla sorella l’assalirono. Izzy si sedette accanto a lei. «Chissà se quel numero di Playboy è ancora nell’armadio», osservò. «Mister Settembre.» Gen rise. «Avevo così paura che la mamma lo trovasse! Guardiamo?» Sulla bocca della sorella riapparve il vecchio ghigno birichino. «Certo.» Aprì l’anta dell’armadio a muro, avvicinò una sedia e ci montò sopra per togliere una delle piastrelle in alto. Quando avevano scoperto che era rotta, avevano deciso di usare quello come nascondiglio. Izzy scese dalla sedia con una vecchia rivista in mano. «Trovato!» «Non ci credo. Vediamo.» Si sedettero vicine sul letto e sfogliarono le pagine. Risero commentando i loro preferiti e ripensando ai vecchi tempi. «Ogni volta che la mamma ci costringeva ad andare a messa pensavo e questa rivista per vendicarmi», disse Izzy. «A proposito del senso di colpa cattolico.» Gen le tirò la coda. «Io di solito confessavo i peccati a padre Jonas ma quando io e Tim ci siamo baciati in macchina e mi ha toccato le tette non ho voluto dirglielo. Ricordo di averlo confessato a Dio di notte sperando che fosse sufficiente.» Izzy rise. «Io non ho mai confessato niente di cui non fossi davvero pentita», disse. «Forse per questo non mi sono mai confessata.» Si guardarono e scoppiarono a ridere. Gen sentì un nodo in gola per l’emozione. «Mi sei mancata», disse a bassa voce. La sorella annuì. Avvicinò lentamente la mano verso la sua. Gen trattenne il respiro, sperando di non sognare. «Mi sei mancata anche tu. Io... io non voglio parlare del passato, adesso. O del casino che è successo. Sono venuta stasera perché mi sono resa conto che anche se le cose tra noi non andavano bene, quando avevi bisogno di me io non c’ero. Dopo David. Pensavo avessi una relazione perfetta, come il resto della tua vita. Non avevo capito che cercava di manipolarti.» «Sì, all’inizio non l’avevo capito nemmeno io. E quando ci sono arrivata non l’ho detto a nessuno. È successo piano piano, e poi alla fine mi sembrava troppo tardi. Eravamo fidanzati, gli volevano tutti bene, e non volevo deludere nessuno.» Izzy guardò le loro mani unite. «Buffo, vero? Tu hai sempre cercato di accontentare tutti. Io ho sempre fatto il contrario così non avrei deluso alcuna aspettativa. Penso che abbiamo sbagliato entrambe.» Sorrise, trattenendo le lacrime. «Sì, credo anch’io.» «Vai a letto con Wolfe.» Gen si girò di scatto. «Co-come lo sai?» Izzy sorrise. «Lo capisco. È un bravo ragazzo. Ha cercato di aiutarmi a più riprese ma odiavo anche lui. Sono stata male per molto tempo, Gen. Non voglio più stare così.» «Allora non farlo.» La gemella le strinse la mano. «Non lo farò. Wolfe ti rende felice?» «Siamo solo amici di letto. Almeno, questo è quello che pensa lui.» «Tu sei innamorata.» Chiuse gli occhi e si arrese al piacere di ammetterlo a voce alta, di poterlo dire a qualcuno. «Sì. Non so cosa succederà ma io lo amo.» Izzy fece un sospiro. «È complicato, eh? È chiaro che è pazzo di te. Lo è sempre stato. Ma ha sofferto molto e anche a te qualcuno ha già spezzato il cuore.» Cercò di non farsi prendere dalla tristezza. «Lo so. Non insisto, infatti. Magari troveremo la nostra strada.» «Magari.» «Perché lo odiavi?» La sorella fece un debole sorriso. Aveva un’espressione sofferente, ma Gen non fece domande. Le tenne soltanto la mano. «Forse perché si era salvato. Ho fatto cose di cui non vado orgogliosa. Lui ha trovato un modo per tirarsi fuori. Io invece sembro sempre in cerca di guai.» «Sono qui se vuoi parlarne. Non ti giudicherò. Non più.» Izzy la guardò dritto negli occhi. Si scambiarono un cenno d’intesa. «Grazie. Vorrei che...» S’interruppe, inspirò profondamente e ci riprovò. «Vorrei che tornassimo ad avere il rapporto di prima. Sono stufa di essere arrabbiata. Stufa di fare del male a te e alle persone a cui voglio bene. Vorrei indietro la mia gemella.» Stavolta non batté le palpebre per fermare le lacrime. Le lasciò scorrere. «Anch’io.» Gen la abbracciò, stringendola forte, e per la prima volta dopo tanti anni, Izzy la strinse con la stessa forza. Wolfe sorseggiò la Sambuca, gustando l’aroma ardente dell’anice che gli bruciava in gola. Dalla cucina giungeva il chiacchiericcio delle voci, ma Maria l’aveva cacciato fuori, quindi si aggirava sulla veranda, godendosi la serata e la vista del prato verde davanti a sé. C’era un salice piangente con accanto un’altalena arrugginita. Immaginò l’infanzia di Gen, cresciuta lì, circondata da amici e da una famiglia che la amava. Avevano avuto problemi anche loro, prima col padre, poi con Izzy, ma li avevano risolti. Il forziere in cui aveva rinchiuso il suo segreto traballò dentro di lui. Poi smise. «Wolfe.» Si voltò. Jim MacKenzie chiuse con decisione la porta scorrevole. Oh-oh. Aveva un’espressione che non prometteva niente di buono. «Jim. Bella serata, eh?» Lui non rispose. Si limitò a guardarlo con gli occhi stretti in una fessura. Cos’aveva fatto per renderlo così diffidente? Lo accettavano tutti in famiglia, tranne lui. «Forse no», borbottò Wolfe bevendo un altro sorso e chiedendosi se non fosse il caso di rientrare. «Voglio parlarti di Genevieve.» Ecco. Il brutto presentimento era giusto. Wolfe raddrizzò le spalle, lo guardò e annuì. «Me lo aspettavo. Non so se ho fatto qualcosa per offenderla o se ho parlato a sproposito, ma se è così mi scuso.» Gli occhi si addolcirono leggermente. «No, non hai fatto niente. Sei sempre stato corretto a casa mia. Gentile con la mia famiglia. Da un certo punto di vista mi dispiace di averti sempre trattato con freddezza. Speravo di non arrivare a dover fare questa conversazione, ma non ho scelta. Gen si sta attaccando troppo a te. So che siete amici da tanto tempo, e vi ho sempre tenuto d’occhio, ma non ho mai pensato ci fosse un problema. Finché non ha lasciato David.» Wolfe aumentò la stretta sul bicchiere che aveva in mano. «David le faceva del male. Spero che lei se ne renda conto. So che l’ha sempre difeso, ma è un pericolo per sua figlia e giuro che non gli permetterò più di farla soffrire.» Jim gli puntò l’indice contro. «Vedi? Sei troppo protettivo. Sai quante volte vi siete guardati durante la cena? Mia figlia scoppia di felicità e ha appena rotto un fidanzamento. Ti vede sotto un’altra luce, e non posso permetterlo.» Provò vergogna. Era così indegno di far parte della sua vita che suo padre non ne sopportava neanche l’idea? Una tempesta di emozioni gli infuriava dentro, ma cercò di mantenere il volto impassibile. «Sono i piercing? Il tatuaggio? Cos’è che la preoccupa tanto?» Jim scosse la testa. «È ovvio che non mi piacciono, ma non sono quelli. Vedi, Wolfe, tu sei come me. Le persone come noi si riconoscono tra loro. Non posso lasciare che Gen s’innamori di un uomo che finirà per rovinarla.» Rimase di stucco. Rispettava Jim MacKenzie. Aveva abbandonato la famiglia per l’alcol ma era riuscito a uscirne e ora aiutava gli altri. Si era fatto perdonare dai suoi cari. «Non capisco. Lei è un buon marito, un buon padre. Ha fatto ammenda dei suoi errori.» «Sono un alcolista», disse Jim con gli occhi che fiammeggiavano. «Sono sempre stato perseguitato dai demoni. Pensavo che Maria potesse salvarmi, e per un po’ ci è riuscita, ma poi mi hanno trovato e mi hanno trascinato nel baratro. Ho rovinato tutto quello che avevo di buono. Mia moglie. I miei figli. Ho dato loro dolore e sofferenza, e so che quei demoni sono sempre lì in attesa, pronti ad approfittare di un mio momento di debolezza. Sì, alla fine ho vinto io. Ho cercato aiuto, sono andato dagli Alcolisti Anonimi, ho dedicato la vita ad aiutare gli altri e ad assicurarmi che i miei cari non soffrissero più. Sono stato fortunato. Mi hanno perdonato. Ma quando ti guardo, vedo gli stessi demoni nei tuoi occhi. Tu cerchi di scappare, ma ti prenderanno, e trascinerai anche Genevieve nel baratro insieme a te. Non posso permetterlo. Non di nuovo. Ne ha passate troppe e merita una bella vita. Una carriera da chirurgo e non un compagno emotivamente distrutto.» Quelle parole gli s’impressero a fuoco nell’anima. Emotivamente distrutto. Wolfe sapeva che gli sarebbero rimaste per sempre come una cicatrice. Jim lo vedeva ogni volta che lo guardava. Come se sapesse quello che gli era successo quella notte di tanto tempo fa. Gli anni trascorsi a ritrovare se stesso, circondato dal sostegno di Sawyer e Julietta, svanirono in una nuvola di fumo. D’un tratto era di nuovo al punto di partenza. In mezzo alla strada, solo, senza soldi, vuoto. Col desiderio di morire ma condannato a vivere. Jim aveva ragione. Gen meritava di più. La sua voce risuonò ferma e decisa. «Ha ragione, certo. Capisco.» Jim lo guardò con sospetto. Lo osservò a lungo, poi annuì. Si aprì la porta. Izzy e Gen uscirono a braccetto. «Che ci fate qui fuori?» domandò Gen. Jim rise. «Due chiacchiere tra uomini. È pronto il dolce?» «Quasi.» Gen sorrise a Wolfe, gli occhi pieni di gioia per aver ritrovato la sorella. Lei era luce, era felicità, era vita. Era... tutto. Si sforzò di rispondere al sorriso. «Bene. È pieno di zanzare stasera. Ci vediamo dentro.» Rientrò in casa, con la consapevolezza che era di nuovo cambiato tutto. Capitolo 23 «Vado in Italia. Starò via un po’.» Gen lo osservò con attenzione. Era successo qualcosa. Non era più tranquillo e di buon umore come prima. Era freddo, riservato, educato, sorrideva quando bisognava sorridere ed era completamente inebetito. «Oh. A trovare Sawyer e Julietta?» «Sì. Me l’ha chiesto lui. Mi ero dimenticato di dirtelo. Parto domani o dopo.» Cercò di non mostrarsi sorpresa. Perché quello strano tono? Come se stesse recitando una parte? Ripercorse le ultime ventiquattr’ore. Il sesso era stato incredibile. La cena dai suoi era andata bene, aveva scherzato, era rilassato e con lei si era comportato normalmente. Poi l’aveva trovato in veranda con suo padre e... Suo padre. Certo. Durante il dolce non aveva aperto bocca. Si era comportato come un automa. Era successo qualcosa tra loro e non era niente di buono. Si sentì a disagio. Avrebbe ucciso suo padre per essersi immischiato. Mantenne la calma. «È fantastico. So quanto ti mancano.» «Infatti.» «Di cosa avete parlato tu e mio padre?» Strinse le mani al volante, con evidente nervosismo. Bingo. «Di niente.» «Balle.» Aggrottò le sopracciglia. Arrivarono a Verily e percorsero lentamente Main Street. «Niente di speciale. Football.» «Mio padre non parla mai di football.» «Baseball allora. Dei Mets, ovviamente.» «È stato sgradevole, vero?» Non rispose. Lei fece un respiro profondo, decisa ad affrontare subito il problema. Finché vide casa sua. Wolfe si fermò accanto al marciapiede. La casetta gialla con le persiane bianche appariva improvvisamente minacciosa e maligna. Sulla facciata, c’era la parola ‘PUTTANA’ tracciata a grandi lettere con lo spray rosso. Wolfe spense il motore e imprecò tra i denti. Scese dall’auto e controllò se ci fosse il responsabile ancora nei paraggi. Scese anche lei, scioccata dalla volgarità e dalla crudeltà di quella scritta. Perché? Perché qualcuno avrebbe dovuto fare un gesto simile? David. Le aveva riportato la roba. Stava lasciando l’ospedale, o così sosteneva. Era forse un altro modo di controllarla e distruggerla psicologicamente? «Stai qui. Controllo la casa.» Lo guardò fare il giro dell’abitazione e sparire all’interno. Uscì dopo un po’ col cellulare in mano e digitò i tre numeri. «Non vedo nessuno. Chiamo la polizia. Andrà tutto bene.» Non sapeva se essere più spaventata o offesa da quell’atto di vandalismo. Aveva fatto in modo che non si sentisse più al sicuro. Come osava? Questo tipo di umiliazioni portava la sua firma. Una vigliaccata. Tipica dei manipolatori. Strinse i pugni scoppiando dalla voglia di rivalsa. Nel giro di pochi minuti le sirene della polizia ruppero il silenzio, invadendo la serenità del paese con le luci rosse e blu che lampeggiavano. La volante si fermò accanto a loro e scese l’agente Stone Petty. Aveva la divisa leggermente stropicciata ma sprigionava l’energia del maschio dominante che ricordava a tutti che era lui a comandare e si faceva come diceva lui. Avanzò verso di loro osservando la scena col suo sguardo penetrante. «Signorina MacKenzie. Wolfe. Avete chiamato voi?» Lei piegò il collo all’indietro, molto all’indietro, per guardarlo negli occhi. «Sì.» «Siete appena tornati?» domandò indicando la casa con un cenno della testa. «Siamo andati a cena dai genitori di Gen. Appena arrivati qui abbiamo trovato questo. Ho guardato in giro e controllato dentro ma non ho trovato niente. Poi ho chiamato il 911.» Strinse le labbra con evidente disapprovazione. «Mai entrare in casa. Bisogna chiamare subito, perché non si può sapere cosa si trova.» Si sentì sbattere una portiera. L’agente Devine li raggiunse. Aveva i capelli leggermente scompigliati e la divisa stirata. Li salutò con un’occhiata amichevole e si rivolse a Petty. «L’ex?» «Può darsi.» Petty si girò verso Gen. «Ha sentito il signor Riscetti di recente?» Lei annuì. «Mi ha fermata su Main Street. Voleva parlarmi. Ha detto che si sarebbe trasferito a Boston e che dovrei tornare in ospedale. Si è scusato per il suo comportamento, ma gli ho detto che non l’avrei mai perdonato. Sembrava dispiaciuto. Mi ha riportato la mia roba questo fine settimana.» Petty annuì, prendendo qualche appunto. «Ha detto niente di Wolfe? L’ha minacciata di nuovo o insultata?» «Ha detto che Wolfe è un imbecille e che io sono migliore di lui.» Wolfe scosse la testa. «Sono io l’imbecille, eh? Il vero imbecille è lui. E se voialtri non vi date una mossa, lo farò io a modo mio.» L’agente Petty alzò un sopracciglio. «Fingo di non aver sentito. Restate qui, per favore. Facciamo una perlustrazione, poi raccoglieremo altre informazioni.» Wolfe fremeva d’impazienza ma annuì. L’agente Devine fece loro un sorriso solidale e si mise al lavoro col collega. Quelle lettere rosse le facevano rivoltare le budella. Puttana. Cos’avrebbero pensato i vicini? Doveva toglierla subito. «La cancelliamo», disse Wolfe leggendole nel pensiero. «Non si avvicinerà, Gen. Non finché ci sono qui io.» Pensò che lui stava per partire e sarebbe rimasta in questa casa da sola. Niente panico. Se avesse avuto paura poteva andare da Kate. O da Arilyn. O dai suoi. David non avrebbe più deciso il corso della sua vita. Aguzzò la vista verso la figura esile ed eterea che veniva con passo leggero verso di loro. Un fantasma? «Stai bene? Cos’è successo? Ho sentito le sirene ma non ero sicura fossero per te. Gen? Perché non parli?» Quasi rise alla vista di Arilyn in camicia da notte bianca di cotone. Piedi nudi, capelli sciolti, sembrava spuntata da un’altra epoca. Ma non era un fantasma. Le braccia che la strinsero con forza, come per assicurarsi che fosse tutta intera, erano reali. «Che ci fai qui? Sto bene. Siamo appena tornati da casa dei miei e abbiamo trovato questo.» Gli occhi verdi dell’amica fiammeggiavano. «Sono qui da Kate a fare compagnia a Robert. Loro sono in città a una cena di lavoro. Ho sentito le sirene.» Guardò la scritta e strinse le labbra. «Adesso basta. Il tuo ex ha proprio passato il segno. Me ne occuperò io.» Era così raro vedere Arilyn arrabbiata. Gen rise, già di un umore migliore per l’atteggiamento protettivo da mamma orsa della sua amica. «Mettiti in coda», mormorò Wolfe. «È un uomo morto.» «Gli agenti sono qui? Ci hanno messo ancora un’eternità ad arrivare? Spero sia venuto qualcuno più qualificato di quello Stone Petty. Non mi sembra che ci capisca molto.» «Signorina Meadows? Che piacere rivederla. O forse no.» Arilyn si voltò e lo guardò di traverso. Il poliziotto torreggiava su di lei, nonostante anche lei fosse altissima. Ma non sembrava farle paura. Fece un passo avanti, indignata. «Ci sono prove sufficienti adesso per rinchiudere quello psicopatico?» lo sfidò, nonostante la camicia da notte e i piedi nudi. «O avete bisogno della scientifica per fare i rilievi?» «Una parolaccia con lo spray non è sufficiente a giustificare questo tipo di indagini, signorina Meadows», rispose l’agente. «È un gesto immaturo, oltraggioso, che richiama attenzione. Ma non è una minaccia di morte.» Arilyn torse le labbra. «Fantastico. Quindi David deve minacciare di ucciderla perché voi facciate il vostro lavoro? Avete intenzione di fare qualcosa o starete con le mani in mano ad aspettare che sia in serio pericolo?» L’agente Petty si chinò verso di lei e le ringhiò praticamente in faccia. «Se non fossi interrotto ogni volta da vicini ficcanaso che pensano di avere tutte le risposte, forse potrei usare il tempo per indagare invece di dover difendere il mio lavoro.» «Io non ficco il naso», protestò. «E forse ci serve un altro agente per avere la certezza che le indagini siano condotte come si deve.» Gen fece un verso che somigliava a un pigolio. Wolfe non aprì bocca. Devine sembrava affascinato. Petty strinse la mascella. «A lei serve qualcuno che la metta in riga e la tenga fuori dai guai. E dal momento che nessuno si offrirebbe volontario, forse dovrò farlo io. Che ne dice di una notte in cella per aver interferito col lavoro della polizia?» «Ci deve solo provare. Prima la denuncio poi le faccio causa.» Fece una risata maligna. «Prego, si accomodi. Non vedo l’ora.» Lei restò a bocca aperta. «Lei non mi piace!» «La cosa è reciproca.» Abbassò la voce. «Adesso faccia la brava e si tolga dai piedi così posso finire qui e andare a prendermi qualche ciambellina.» Arilyn fece un passo indietro e tacque. Il secondo round l’aveva vinto l’agente Petty. Il rumore di un bastone che picchiava sul marciapiede e la luce sulla porta della vicina furono un segnale sufficientemente chiaro. La serata stava per peggiorare. La signora Blackfire si avvicinò coi suoi occhietti tondi che sbirciavano dalle lenti spesse. Portava la retina ai capelli, le pantofole e un vestito da casa rosa sbiadito. Guardò la scritta sulla facciata della casa, gli agenti, e Arilyn in camicia da notte. «Cosa succede qui?» sbottò. «Questo è il mio quartiere e sono una contribuente. Pretendo di sapere chi è stato.» «Altri contribuenti», mormorò Petty sottovoce. «Perché sono venuto a Verily?» «È una faccenda di sesso?» domandò l’anziana donna. «L’ho visto a 20/20. Questa donna gestisce un bordello?» Gen spalancò gli occhi. «No! Io sono la vittima e non ho fatto niente di male. Ho subito un atto di vandalismo.» Intervenne l’agente Devine. «Signora, lei abita accanto alla signorina MacKenzie. Ha visto o sentito qualcosa?» La signora Blackfire sbuffò. «No, mi sono addormentata presto, stasera, con la tv accesa. Mi hanno svegliata le vostre sirene.» Lui annotò qualcosa. «Il suo nome, per favore.» «Signora Joan Blackfire. Chi farebbe mai una cosa del genere?» Puntò lo sguardo su Wolfe. «Tu! Hai degli amici teppisti in cerca di guai?» Gen pensò che avrebbe perso la pazienza, invece sembrò quasi divertito. «No, i miei amici non farebbero cose simili. È quel folle del suo ex.» «Questo non lo sappiamo», precisò Petty. «Magari se faceste le indagini lo scoprireste», disse Arilyn. Petty trattenne un’imprecazione. Arilyn lo guardò storto. L’agente Devine si schiarì la gola. «Non ci sono segni d’intrusione quindi il danno è solo all’esterno. Oltre al signor Riscetti, c’è qualcun altro di cui potrebbe sospettare? Amiche con cui ha litigato? Donne gelose del signor Riscetti?» «No», rispose Gen. «Sono in tanti in ospedale ad avercela con me, ma non ho contatti con nessuno da settimane. Non ho litigato con nessuno. L’unica persona a cui mi viene da pensare è David.» L’agente Devine annuì e le porse un biglietto da visita. «È una ditta che ripulisce velocemente i muri. Dovrebbe pagare la sua assicurazione, a parte la franchigia.» Prese il biglietto fra le dita tremanti. «Grazie. Ci farete sapere dopo aver parlato con lui?» «Sì. Gli chiederemo dove si trovava, indagheremo un po’ più a fondo, e vediamo cosa salta fuori. Interrogherò anche gli altri vicini, in caso qualcuno avesse visto qualcosa. Purtroppo, senza testimoni, potremmo non risalire al responsabile.» Arilyn sbuffò. Petty la fulminò con lo sguardo. «Grazie per l’aiuto», disse Wolfe. «Avete i nostri numeri di cellulare?» «Siamo a posto.» La signora Blackfire alzò la voce. «Agenti, visto che siete qui, potreste per favore guadare quell’albero?» Indicò col dito ossuto la graziosa quercia leggermente china da un lato. «È malato e sta per cadere nella mia proprietà. Non potete dirle di abbatterlo?» Gen chiuse gli occhi. Tutta quella situazione era così ridicola che quasi le sfuggì una risata. L’albero della discordia frusciava leggermente, come se ridesse anche lui di quella bizzarra vecchietta. L’agente Petty fece un sospiro impaziente. «Deve chiamare la compagnia assicurativa, signora Blackfire. O il servizio che si occupa dell’abbattimento degli alberi. Noi non possiamo aiutarla.» Strinse gli occhi. «Non fate molto per i contribuenti, vero?» Stone Petty serrò la mascella e si avviò a grandi passi verso la volante. Devine sorrise e lo seguì. La signora Blackfire finalmente tornò a casa. Arilyn strinse la mano a Gen. «Dormi da me stanotte.» «No. La porto a casa mia.» Arilyn restò a bocca aperta. Era una dichiarazione che andava oltre l’amicizia, sconfinando nel territorio degli innamorati. Gen stava per acconsentire, ma non voleva permettere a David di cacciarla fuori di casa un’altra volta. «No. Resto qui. Starò bene.» Wolfe strinse i denti. «Non credo...» «Non vincerà lui», lo interruppe, furente. «È un vigliacco e mi rifiuto di lasciare casa mia.» Imprecò sottovoce, poi annuì. «Va bene. Restiamo qui.» Arilyn seguì con interesse la conversazione. «Fammi sapere se ti serve qualcosa», disse infine. «Lo farò.» Si salutarono con un abbraccio e Arilyn tornò a casa di Kate. Gen rientrò a casa sua. Wolfe la seguì. Si guardarono in silenzio per un po’. «Non voglio più scappare», disse infine. «Sì. Lo so. È solo che non mi fido di lui.» Posò il biglietto da visita che le aveva dato l’agente Devine e si sfregò le tempie. «Non voglio che ti preoccupi quando sei in Italia. Farò venire qui Arilyn, o mia sorella.» «Ho avuto un’idea migliore.» «Cioè?» «Vieni in Italia con me.» Gen batté le palpebre. Era ammattito? Non poteva andare in Italia. Era troppo occupata. Il lavoro, la famiglia, gli amici, il lavoro. «Non posso lasciare tutto e venire in Italia. Non si fa così. Ho delle responsabilità.» «Lavori per le tue migliori amiche. Sono certo che concorderanno sul fatto che hai bisogno di una vacanza e ti lasceranno qualche giorno libero.» Lei scosse la testa. «No. Mi rifiuto di essere trattata come una bambina che hai sempre paura a lasciare da sola. Non vengo in Italia.» Il suo lento sorriso le fece bollire il sangue e la mise in agitazione. «Allora dovrò farti cambiare idea.» Incrociò le braccia sul petto. «Non puoi farmi fare tutto quello che vuoi. Penserai che questo atteggiamento focoso da uomo delle caverne sia sexy, ma ti sbagli di grosso.» Alzò un angolo delle labbra. «Meglio che chiami Kate e l’avverti che parti martedì.» «Non vengo in Italia. E non verrò nemmeno a letto con te, stanotte.» Lui non disse nulla, ma il suo sorrisetto malizioso le fece venire le farfalle allo stomaco e in altri posti. Si ripromise di tenere duro su entrambi i punti. «Vedremo.» Lei gli fece la linguaccia e giurò su una pila di Bibbie immaginarie che non avrebbe ceduto. Mai. Questo era un braccio di ferro che avrebbe vinto. Genevieve non ci poteva credere. Era in Italia. Gli ultimi due giorni erano volati. Le sue amiche non ci avevano messo un secondo a concederle i giorni di ferie, insistendo perché partisse e addirittura aiutandola a fare i bagagli. Doveva riconoscerlo a Wolfe. Non aveva neppure rimarcato: ‘te l’avevo detto’. L’auto procedeva lentamente lungo le strade animate di Milano verso la casa che era ansiosa di vedere. I pedoni intasavano i marciapiedi, i motorini zigzagavano nel traffico e una pesante cortina di nebbia simile a fumo copriva il cielo. Wolfe rise vedendola girare la testa a destra e a sinistra, cercando di non perdersi nulla e annusando il profumo delizioso del pane e del caffè misto all’odore dei tubi di scappamento. Giravano nelle vie del quadrilatero della moda finché l’auto si fermò davanti a un portone. Gen notò che il palazzo di tre piani era un po’ fatiscente. Ah. Pensava che Sawyer e Julietta abitassero in una villa elegantissima, invece l’edificio aveva un’aria pittoresca e le piaceva molto. Terracotta, mattoni, piante e fiori. L’autista prese le valigie ma non era ancora scesa dall’auto che i genitori di Wolfe erano già corsi fuori urlando in italiano e soffocandolo di baci. Guardò la scena con stupore. A Wolfe non piaceva essere toccato. Quando facevano l’amore non c’erano barriere tra loro, ma alla luce del giorno metteva sempre una certa distanza tra sé e gli altri. Era cordiale con tutti, ma a guardarlo sembrava dicesse ‘giù le mani’. Con i parenti di lei si era aperto un po’ di più, ma di fatto permetteva a loro di avvicinarsi più che essere lui ad abbandonarsi a manifestazioni d’affetto. Vederlo gettarsi tra le braccia dei suoi genitori le strinse il cuore. L’affetto che li univa era ancora più forte di un legame di sangue perché era basato su una scelta. Trattenne le lacrime, poi lui riuscì a liberarsi e allungò una mano verso di lei. Gen la prese, titubante, e lui la tirò a sé. «Ho portato Genevieve», disse con voce roca. «L’ho convinta a prendersi una vacanza e a stare un po’ con noi.» «Finalmente!» strillò Julietta, abbracciandola con una forza che poteva competere con quella di sua madre. Julietta era più bella che mai, i capelli scuri sciolti sulle spalle, gli occhi a mandorla pieni di gioia e voglia di vivere. Con un pantalone nero dall’ottimo taglio, una camicetta color avorio senza maniche e le ballerine, era la grazia e l’eleganza in persona. Gen rise e le restituì l’abbraccio. «Wolfe non mi ha lasciato molta scelta. Grazie per l’ospitalità.» Sawyer sorrise e le diede un bacio sulla testa. «Morivamo dalla voglia di avervi qui. Lavorate troppo.» I suoi occhi dorati brillavano di affetto, in totale contraddizione con la brutta cicatrice che gli sfregiava la guancia fin sotto il mento. Sorrideva facilmente e il viso affilato sembrava meno spigoloso del solito. Forse era merito della piccola Gabriella. Wolfe aveva detto che era impazzito per la figlia e che gli capitava persino di parlare con la vocina infantile durante le riunioni, dimenticandosi di essere tra adulti. Era bello pensare che un maschio così forte e dominante si addolcisse fino a quel punto grazie a una bambina. Julietta la prese sottobraccio e la condusse in casa. «Mangiamo, ci sistemiamo e organizziamo un itinerario. Immagino che vorrete visitare un po’ la città.» «E occuparvi della piccola», aggiunse Sawyer con una strizzata d’occhio. «Adesso dorme, ma si sveglierà presto.» Wolfe sbuffò. «Sapevo che volevate vedermi per un motivo.» La replica di Sawyer le tolse il respiro. «Non ho bisogno di un motivo per volerti qui, Wolfe. Mi sei mancato da impazzire.» Gli diede una pacca sulla spalla e a Gen sembrò di notare che al suo amante erano venuti gli occhi lucidi, ma durò un attimo, forse immaginazione. era solo la sua Wolfe rise per la faccia che fece Gen quando vide l’interno. Sapeva che l’esterno traeva in inganno, ma una volta oltrepassata la porta ad arco si restava abbagliati. Pavimenti in parquet lucidissimo che profumava di cera al limone, soffitti a volta con enormi lampadari e una collezione di dipinti e oggetti d’antiquariato che davano l’impressione di tornare indietro nel tempo. Wolfe lo considerava un tipo di arredamento normalmente freddo, ma non nel caso di Julietta e Sawyer. Da loro c’era aria di casa, dai libri e le riviste alle coperte all’uncinetto a colori vivaci, dai cancelletti per impedire alla bambina di arrampicarsi sulle scale all’odore di aglio, pomodori e pane che si fiutava nell’aria. Julietta condusse Gen a fare il giro della casa e lui andò in cucina con Sawyer. «Ti trovo bene.» Wolfe gli sorrise. «Grazie. Ma scommetto che ti mancano i piercing e i capelli assurdi.» Sawyer rise e gli diede una bottiglia d’acqua. «Naa, mi piace come sei diventato. Ma ti ho sempre dato credito. Ricordo ancora quando sono venuto a prenderti la prima mattina. In pochi giorni ti eri rasato i capelli, ti eri fatto il tatuaggio e ti eri riempito di piercing. Un bel vaffanculo al sottoscritto. Ricordi quello che hai detto?» Come se fosse stato ieri. «Ho detto: ‘Cosa mi dici adesso? Come mi vedi fuori, così sono dentro. Mi vuoi ancora?’.» Sawyer annuì. «Giuro su Dio che ho iniziato a volerti bene in quel momento. Eri un tale scassapalle.» Wolfe scosse la testa, bevendo un lungo sorso d’acqua. «Avevi bisogno di una sfida.» «Sì. Sono contento che tu abbia portato Gen. Sorpreso, ma contento.» «Perché?» Sawyer si accigliò, come se stesse riflettendo sulla domanda. «Non ti è mai importato abbastanza di una persona da volerla portare a casa. So che siete amici da tanto tempo, ma mi sembra una cosa diversa. State insieme?» S’irrigidì. Non gli andava che Sawyer o Julietta pensassero che avevano una relazione stabile. Avrebbe solo complicato le cose e magari messo in imbarazzo Gen. Meglio restare sull’amicizia e non ammettere che andavano a letto insieme. Fece un sorriso forzato. «No, siamo solo ottimi amici. Ha rotto col fidanzato e ho pensato che un viaggio le avrebbe fatto bene.» Sawyer lo osservò per un po’. Aveva capito che era una bugia, come l’aveva capito quando era giovane. Ma accettò la sua versione, per il momento. «Certo. In ogni caso sono contento che siate qui.» «Non vedevo l’ora. A parte farmi fare il babysitter, ho la sensazione che ci sia qualcos’altro di cui vuoi parlarmi.» «Sì. Ma vorrei che fossimo tutti insieme, seduti. Stasera va bene? A cena?» «Assolutamente. Cucini tu?» «Ho mai cucinato?» Wolfe rise. «Bene. Certe cose non cambiano mai.» Si sorrisero. Sarebbe stata una gran settimana. Capitolo 24 Wolfe era nella biblioteca, che fungeva anche da ufficio di Sawyer. Seduto nell’ampia poltrona di pelle, sorseggiava del cognac godendosi la serata tranquilla. Sul tavolino c’erano dei biscotti, un assortimento di pasticcini de La dolce famiglia e altri due bicchieri contenenti un liquido ambrato. Julietta ripiegò le gambe sul divano, appoggiandosi al bracciolo. Sawyer era seduto sulla poltrona di pelle di fronte a Wolfe con una cartelletta in mano. L’aria profumava di tabacco da pipa mista all’odore di alcol, pelle e libri vecchi. Wolfe inspirò profondamente e si sentì invadere dalla calma. Dalla finestra aperta della terrazza entrava una leggera brezza. Gen era salita presto in camera sua. «Grazie ancora per la cena», disse. «Tra i tuoi pasti e quelli che mi prepara Gen, ho messo su qualche chilo. Dovrò dare una strapazzata a Sawyer in palestra, questa settimana, almeno riprendo la linea.» Sawyer sbuffò. «Sarò anche vecchio ma ti batto ancora. La saggezza batte la giovinezza.» «Non in palestra.» Julietta rise. «Siete due vincenti. Cosa significa i pasti che ti prepara Gen? Pensavo abitasse a Verily.» Si era completamente dimenticato di non aver detto che vivevano insieme. Per un breve periodo, ovviamente. «Il suo ex le sta dando dei problemi e mi sono trasferito da lei per un po’. Giusto per assicurarmi che non le succeda niente.» Gli occhi penetranti di Julietta videro quello che aveva visto anche Sawyer, ma si limitò ad annuire. «Capisco.» Wolfe cambiò argomento. «Che ne dite di togliermi la curiosità e dirmi cosa c’è in quella cartelletta? Qualcosa di buono? Ho ereditato?» Aspettò una risata che però non venne. Sawyer aveva il volto tirato, come se fosse stressato. D’un tratto si preoccupò. «Sto solo scherzando. Se è un problema, vi aiuto a risolverlo.» Julietta sospirò. «Non è un problema. È una cosa che aspettiamo da anni. Non sapevamo se sarebbe successa. Speriamo solo che tu sia felice quanto noi.» Okay, adesso cominciava ad agitarsi sul serio. «Ragazzi, mi state uccidendo. Non potete dirmi cosa sta succedendo?» Sawyer tirò fuori un documento. Picchiettava le dita sulla cartelletta e gli tremava leggermente una gamba. Decisamente un segno di nervosismo. Aveva combinato qualcosa con il Purity? Li aveva messi nei guai? L’ansia gli fece venire un nodo allo stomaco. «Ricordi il discorso che abbiamo fatto qualche anno fa? Quando avevi ventun anni?» Wolfe sbuffò con impazienza. «Ne abbiamo fatti mille, di discorsi. A quale ti riferisci in particolare?» «A quello sulla tua adozione.» Si bloccò. Guardò il documento, poi il volto di Sawyer, cercando di capire dove sarebbe andata a parare la conversazione. «Sì. Volevate adottarmi legalmente e siamo andati in tribunale alcune volte, ma c’erano degli ostacoli.» Sawyer annuì. Julietta stringeva le mani, annuendo come per incoraggiarlo a proseguire. «Non sapevamo che fine aveva fatto tua madre. Io ero più concentrato a farti stare tranquillo. Non volevo riesumare il passato. Così ho incaricato il mio investigatore privato di fare le ricerche e ci è voluto qualche anno.» Aveva la fronte imperlata di sudore. Wolfe mandò giù un altro sorso di cognac, conscio del fatto che i prossimi minuti gli avrebbero cambiato la vita. «Ora sappiamo di tua madre, Wolfe.» Chinò la testa. Aveva bisogno di un minuto. Sapeva la risposta. «È morta.» Julietta allungò un braccio e gli strinse la mano. Lui le restituì la stretta. «Sì, ragazzo mio. È morta anni fa. Sappiamo dov’è sepolta. Puoi andare a trovarla, se ti va.» «È morta per overdose?» Un’altra piccola esitazione. «Attacco di cuore. Potrebbero essere state le droghe ma non è stata fatta nessuna autopsia.» Wolfe si chiese come mai non sentisse... qualcosa di più. In un certo senso, aveva pianto la morte della madre a cominciare da quella fatidica sera in cui era scappato. Per lui era già scomparsa, e questa era solo la conferma che non sarebbe mai tornata. «Sto bene», disse lentamente. «Me lo aspettavo, e ho già affrontato la cosa anni fa.» Sawyer annuì. «È quello che speravamo, ma sentirlo a voce alta a volte riporta brutti ricordi.» «Apprezzo che abbiate fatto questa ricerca per me.» «Dopo aver ottenuto queste informazioni su tua madre, sono andate a posto molte cose. Abbiamo recuperato i documenti necessari e adesso finalmente non ci sono più ostacoli.» Alzò la testa, ancora confuso. «Ostacoli per cosa?» «Per la tua adozione. Possiamo adottarti legalmente, Wolfe. E vogliamo farlo, se tu ci accetti.» Quella semplice dichiarazione penetrò il suo scudo e arrivò dritta al cuore. Si sentì travolto dall’emozione. Guardò lei, poi lui, vedendo la speranza sul volto dell’una e la tensione su quello dell’altro. Erano nervosi? Avevano paura che lui non li volesse? Cominciò a tremare e gli venne la pelle d’oca. Dentro era tutto un fremito. Non era nessuno, prima di loro. Gli avevano salvato la vita, facendosi carico di un ragazzo di strada con un sacco di problemi, e gli stavano chiedendo se era d’accordo? «Ti vogliamo bene», sussurrò Julietta. «Ma se non ti va di firmare, lo capiamo. Non ci offendiamo. Sarai sempre nostro. Questo legalizza semplicemente le cose.» Sawyer alzò le mani. «Puoi pensarci per tutto il tempo che vuoi. Se è un no, non ne parliamo più, e non c’è alcun bisogno di sentirsi in colpa. Intesi? A noi va bene quello che vuoi tu.» La risposta gli salì dal cuore e si liberò nel mondo. «Sì.» I suoi genitori quasi legali lo fissarono. «Sì?» ripeté Julietta. «Vuoi essere nostro?» Wolfe fece una risatina strozzata. «Diavolo, sì, pensate che sia scemo? Non sapevo che ci stavate ancora provando. Mi sono sempre ritenuto figlio vostro, ma avere finalmente dei documenti che lo confermano? Diavolo, sì.» Sawyer rise, il volto illuminato dalla gioia. «Diavolo, sì!» Julietta lo abbracciò e Sawyer continuò a sorridere come un idiota, troppo emozionato per partecipare all’abbraccio, cosa di cui Wolfe gli fu molto grato. Non voleva piagnucolare come una femminuccia. Ma dentro si sentiva... diverso. Più completo. Aveva una vera famiglia adesso. Legalmente. Erano i suoi genitori, e lui era loro figlio. Diavolo, sì. Sawyer gli passò la cartelletta con una penna. «C’è una tonnellata di roba da firmare ma gli avvocati hanno già esaminato tutte le carte. Dovrai solo abituarti al tuo nuovo nome.» «Wolfe Wells. Mmm, sì. Non è il massimo ma ormai le medie le ho superate.» Scoppiarono a ridere. E lui firmò i documenti. Stesa sul letto sopra le coperte, Gen fissava lo splendido soffitto affrescato con la Madonna e il bambino. Faceva forse passare un po’ la voglia, se l’intenzione era di fare del sesso spinto, ma visto che stanotte non sarebbe successo, magari poteva recitare il rosario. Sua madre sarebbe stata contenta. Uff. Era esausta per il viaggio, ma aveva anche capito che Wolfe aveva bisogno di stare un po’ solo con la sua famiglia. Aveva fatto un sonnellino e adesso era sveglia e piena di energia. Non aveva voglia di leggere. Continuava a pensare ai segnali contraddittori che riceveva da lui. Un attimo la trattava come un’amica che aveva portato a fare un viaggio per proteggerla dal lupo cattivo, e l’attimo dopo si eccitava appena la toccava e gli si scurivano le pupille dalla voglia di farle la festa. Per ore. Purtroppo l’avevano sistemata in una camera molto lontana dalla sua. Un chiaro segno che non intendeva farle visita. Julietta e Sawyer erano convinti che fossero solo amici. Platonici, non di letto. Quindi niente sesso per quella settimana. Il che era un bene. Avevano deciso per la flessibilità, anche se lei si era innamorata di lui. Sentì bussare leggermente alla porta. Schizzò in piedi e andò ad aprire. Davanti a lei c’era Wolfe in canottiera, pantaloni della tuta e piedi nudi. Aveva i capelli arruffati come se avesse passato le dita nei riccioli e profumava di sapone e un po’ di alcol. «Ti ho svegliata?» «No. Non riesco a dormire.» Spostò il peso del corpo sull’altra gamba e la guardò. I suoi occhi azzurri si accesero ma restò al sicuro in corridoio. «Ti va di fare una passeggiata?» No. Voleva che si spogliasse e si desse da fare sul suo letto, ma annuì. «Mi cambio.» «Vai bene così.» Esitò. Non aspettandosi di vederlo né di fare sesso, si era messa dei pantaloni di flanella a fiorellini rosa e una maglietta a V con lo stesso disegno. Aveva i capelli per aria perché era stata sdraiata sul letto e non si era truccata. Arricciò il naso. «Sembro una sciattona.» Si avvicinò e le prese la mano. Il calore tra loro scorreva come in un filo elettrico. Trattenne a stento un sibilo. «Una stupenda sciattona», disse con dolcezza. «Andiamo a fare due passi e basta.» Era proprio pazza di quest’uomo. «Okay.» Mise un paio di Keds ai piedi e lo seguì lungo le scale. Fuori era buio pesto, fatta eccezione per qualche lampione stradale e la luce della luna. Wolfe la condusse con sicurezza lungo i marciapiedi, tenendola stretta per mano. Si sentiva il rumore dei loro passi e gli edifici antichi che si protendevano verso il cielo erano come vecchi alberi che li circondavano e li proteggevano. Nonostante l’ora tarda e i negozi chiusi, c’era ancora gente in giro che prendeva il caffè con grandi sacchetti in mano provenienti da una delle vie dello shopping più famose del mondo. Wolfe sembrava non avere una meta. Passeggiava in silenzio, tranquillo e rilassato. Quando finalmente parlò, le riferì la sconvolgente notizia come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se da sempre si fossero scambiati dettagli intimi della loro vita. «Sawyer e Julietta mi hanno adottato legalmente.» Inciampò ma lui la afferrò prima che cadesse. Gen si aggrappò alla sua mano. «Cosa?» Un lieve sorriso gli accese il volto. Dio, quant’era sexy. Strafico. Sexy. «Sì. Era questa la notizia, il motivo per cui volevano che venissi qui. Avevamo provato anni fa ma non si trovava mia madre e i documenti non erano completi. Ci eravamo rivolti al tribunale ma senza risultati. Pensavo che Sawyer ci avesse messo una croce sopra invece ha continuato a occuparsene per tutto questo tempo.» «Cos’hai saputo di tua mamma?» Il sorriso sparì. «È morta.» «Mi dispiace.» Annuì. «L’ho persa molto tempo fa. Non riesco neanche a essere triste. Non era più mia madre.» Quella semplice constatazione le fece male al cuore. L’idea che un genitore potesse distruggere l’amore e la fiducia di un figlio era inconcepibile, per lei. Ma sapeva che Wolfe non voleva la sua compassione. E non l’avrebbe comunque avuta, perché Gen pensava che alla fine lui aveva vinto. Era andato via, si era ricostruito una vita e aveva trovato una famiglia che lo amava. «Odio quello che hai dovuto passare», disse con dolcezza. «La ucciderei con le mie mani per quello che ti ha fatto. Ma ti sei salvato. E anche se un pezzo di carta è importante, Julietta e Sawyer erano già la tua famiglia. Sono contenta di poter festeggiare che lo sia anche legalmente.» Lui distolse lo sguardo, come se cercasse di esprimere i suoi pensieri. «Non posso credere che mi abbiano voluto», disse infine. «Ero un rompicoglioni. Voglio dire, ovvio che io volessi loro, ma l’idea che non abbiano mai rinunciato a tentare di adottarmi mi sconcerta.» Si alzò in punta di piedi, gli prese le guance tra le mani e lo costrinse a guardarla. Ammirò affascinata ogni centimetro del suo amato volto, dalla barba corta sulla mascella al naso leggermente storto, dalle sopracciglia folte a quegli occhi azzurri custodi di segreti che non avrebbe mai svelato a nessuno. Poi gli parlò con la voce strozzata. «Perché gli hai dato tanta gioia, Wolfe. Sei speciale. Ti amano più di quanto tu possa immaginare perché gli hai fatto un dono prezioso. La tua fiducia. La tua amicizia. Il tuo rispetto. Il tuo cuore. Tutto quello che sei.» «Non sarà mai abbastanza.» Sorrise per quell’affermazione ridicola, e prima che riuscisse a innalzare le solite barriere intorno a sé, la sua anima volò via e si liberò. «Non capisci chi sei? Quanto rendi felici gli altri?» Il mondo s’inclinò. Trattenne il respiro. E aspettò. «Non capisci quanto ti amo?» Lui restò di sasso. A Gen venne in mente un personaggio dei cartoni animati con la nuvola di dialogo sulla testa in attesa di una risposta. Avrebbe voluto metterla sullo scherzo e tornare ai loro accordi. Ma era troppo tardi. Non poteva rimangiarsi la verità o nascondere i suoi veri sentimenti. E se la cosa non gli piaceva, pazienza, era ora che cominciasse a farsene una ragione. Passarono i secondi. Un minuto. Wolfe non si mosse, non disse una parola, la guardava soltanto con quello sguardo famelico che diceva più di quanto qualunque risposta avrebbe potuto dire. Premette la fronte su quella di lei, scuotendo la testa, cercando di negare il momento. «Cosa mi stai facendo?» sussurrò. «Andrà a finire malissimo.» Le sfuggì una mezza risata. Sentì il suo alito sulle labbra. «Sì. Può darsi.» «Dovremmo rimettere le cose come stavano prima. Sarebbe meglio.» «Non voglio.» «Io non posso darti quello che vuoi.» Chiuse gli occhi. Poteva, ma non se ne rendeva conto. Non ci voleva credere. «Non sono d’accordo.» «Sei proprio testarda. Non dovremmo più andare a letto insieme. Le cose si stanno complicando troppo.» «Allora dimmi di no.» Le labbra di lui sfiorarono le sue. «Non posso. Non ho tanta forza di volontà. Ma non voglio farti del male.» Premette le labbra sulle sue, si staccò, le sfiorò di nuovo. Lei gli strinse le braccia intorno al collo. «Allora non farlo», sussurrò. Poi lo baciò. Dolcezza. Sentì le ginocchia molli e gli si abbandonò tra le braccia mentre la sua lingua le invadeva la bocca. Wolfe la baciò come fosse un tesoro fragile e prezioso, da manovrare con la massima cura. A lei sfuggì un gemito e lui continuò a adorarla con la bocca, la lingua e le labbra, dandole col corpo quello che non riusciva a darle con la mente. Tutto. «Portami a letto.» L’ordine gli fece sfuggire una risata. Le mordicchiò l’orecchio, il lobo, e le accarezzò la schiena. «Per l’ultima volta.» «Per l’ultima volta», ripeté. Le riuscì facile mentire, mentre lui la prendeva in braccio e la riportava a casa. Non voleva pensarci, adesso. Fece l’amore con lei con tanta attenzione e tenerezza che resistette all’orgasmo per gustare ogni sua carezza, ogni bacio, ogni attimo. Quando finalmente le venne dentro, anche lei si lasciò andare, ripetendosi un’altra bugia per tutta la notte, mentre lui la faceva sua ancora e ancora. Lei lo amava abbastanza per tutti e due. «Sono nervosa.» Wolfe abbassò lo sguardo. Gen stringeva le mani l’una nell’altra, ferma sui gradini davanti alla porta. D’un tratto tornò indietro negli anni e il ricordo riaffiorò con forza. Sulla porta di mamma Conte per la prima volta, vestito a puntino e con le scarpe rigide, in procinto di partecipare a una cena in famiglia che avrebbe voluto risparmiarsi. Il timore che quella donna non approvasse, o si prendesse gioco di lui. La paura di entrare in una casa vera con una vera famiglia di cui non faceva parte. Scacciò il ricordo. Mamma Conte, la madre di Julietta, era una leggenda, e benché Gen morisse dalla voglia di conoscerla, Wolfe capiva la sua ansia improvvisa. Oltre ad aver cresciuto quattro figli e fondato l’impero dolciario La Dolce Famiglia, intuiva i segreti delle persone con una facilità impressionante. «Le piacerai. Fidati. Alexa ha imparato da lei a fare la pasta fatta in casa, potresti imparare qualcosa anche tu.» Si guadagnò un sorrisetto e un pugno sulla spalla. «Furbone. T’interessa solo che cucini per te.» «Hai detto bene.» Aprì la porta ed entrarono. Gen osservò la scena davanti a lei, e Wolfe sapeva cosa stava provando. L’aveva vissuto anche lui, e gli succedeva ogni volta che ci tornava. Quella casa, la sua vista, i rumori e gli odori di quel luogo, non smettevano mai di colpirlo. Essendo situata a Bergamo alta, avevano preso la funicolare e avevano raggiunto la villa a piedi. I balconi con le ringhiere in ferro battuto erano pieni di gerani dai colori vivaci e altri tipi di fiori. La villa era circondata da un giardino molto curato che si allargava sul retro ospitando un patio dove la famiglia amava prendere l’aperitivo godendosi il sole e la vista delle colline. L’interno era in quello stile italiano che lui adorava, coi pavimenti in parquet coperti di tappeti intrecciati, fotografie incorniciate alle pareti e sui mobili, e con tutti i corridoi che portavano in cucina, il cuore e l’anima di casa Conte. Gen restò senza fiato. Al centro della stanza c’era un tavolo in pino massiccio. I fornelli e i banchi erano pieni di prodotti freschi, mozzarella, pomodori a fette, olio di oliva e cestini di aglio. Sul davanzale erano allineati vasetti con tutti i tipi di erbe. La tavola era apparecchiata con piatti bordeaux sopra una tovaglia di pizzo bianca. Il pane, fresco e con la crosta croccante, riposava su un tagliere pesante. Il fornello era colmo di pentole che borbottavano e fumavano esalando profumi che facevano a gara tra loro. Il nirvana. Non erano molti i luoghi in cui Wolfe si sentiva totalmente in pace, e la cucina di mamma Conte era uno di questi. La donna che stava gestendo una serie di pentole contemporaneamente si voltò e fece loro un sorriso di benvenuto, asciugandosi le mani sul grembiule. «Oh, mamma mia, non ho nemmeno sentito la porta!» esclamò, andandogli incontro. «Non diventare mai vecchio, ragazzo mio. Non è bello.» Wolfe la strinse tra le braccia e quasi rise per la forza del suo abbraccio. Quelle mani avvizzite avevano impastato così tanta farina negli anni da essere più forti di quelle di alcuni assidui frequentatori della palestra in cui si allenava. Il suo bastone, un valido aiuto per l’artrite, era appoggiato al piano della cucina. I capelli lunghi e grigi erano raccolti nel solito chignon e portava un vestito da casa rosso, il grembiule e scarpe comode. Wolfe sapeva che era stata una gran bella donna, era evidente dai lineamenti aggraziati, gli zigomi alti e gli occhi neri e sorridenti che gli ricordavano tanto Julietta e Carina. Quando si scostò, gli diede una frustata con lo straccio. «Che modi sono questi? Porti una ragazza e non mi presenti prima lei?» Arrossì. Si schiarì la gola e si girò. «Genevieve MacKenzie, lei è mamma Conte.» Gen sorrise e aprì le braccia. Mamma Conte la abbracciò con energia, e la guardò in quel modo curioso che era parte del suo fascino. «Sei bella come Alexa. Quando le bambine erano piccole sono venute a trovarmi e sono state qui con me. È ancora uno dei miei ricordi preferiti.» «Grazie. È anche uno dei ricordi preferiti di mia sorella. Si è sentita a casa qui e adesso fa anche la pasta a mano.» Mamma Conte piegò la testa da un lato e rise. «Imparerai anche tu. Non come la moglie di mio figlio Michael. Margherita cerca sempre di svignarsela quando si tratta di cucinare, ma fa bene altre cose, quindi è perdonata.» Wolfe sorrise. Maggie faceva sempre il possibile per evitare di cucinare, era una delle cose che le piacevano meno. Mamma Conte si divertiva a discutere con la nuora e l’aveva amata sin dal primo momento. Era stata presente persino alla nascita dei gemelli di Maggie e Michael. «Accomodatevi. Julietta e Sawyer dove sono?» «Arrivano subito. Gabby stava dormendo quindi hanno aspettato un attimo.» Mamma Conte scosse la testa. «Ah, quando arrivano i bambini cambia tutto. È sfinente, ma è l’avventura più bella che possiamo avere, no?» Wolfe prese una fetta di pane, la immerse nell’olio di oliva col peperoncino e la diede a Gen. Abituato ad aiutare in cucina quando veniva qui, versò del Chianti e prese una fetta di pane anche per sé. «Siediti», gli disse mamma Conte quando lui provò ad aiutarla. «Voglio sapere tutto di New York. Dimmi del Purity e di come te la passi.» Si misero a chiacchierare piacevolmente, e Gen partecipò alla conversazione: Wolfe si sorprese quando raccontò di essere scappata il giorno del suo matrimonio, con il suo aiuto. Ancora di più quando disse di essere indecisa se tornare alla sua carriera di medico, e di avere un sacco di dubbi su cose che prima erano certezze. La lasciò parlare, apprezzando il suo modo genuino di aprirsi agli altri. Era una grande dote, ma lei neppure se ne rendeva conto. Mamma Conte la ascoltò, la incoraggiò e le diede dei consigli che un giorno avrebbero dovuto essere raccolti in un libro e venduti a caro prezzo. Quando arrivarono Julietta e Sawyer, loro tre stavano banchettando con della musica italiana di sottofondo. Un regalo di Michael, confessò mamma Conte, aggiungendo che in genere preferiva il silenzio, ma che si stava abituando ad ascoltare più spesso la musica. Gabby passò di mano in mano, e Wolfe l’accarezzò col naso, inspirando il profumo confortante di borotalco e innocenza. «Tocca a me», pretese Gen allungando le braccia. Le passò la bambina con molta attenzione e la guardò osservarla in totale adorazione. Fu travolto da un’emozione violenta. Gli si fermò il respiro. Immaginò Gen col suo bambino in braccio, il loro bambino, e fu come ricevere un pugno allo stomaco. Mentre la guardava baciare la testa di Gabby mormorandole sciocchezze, la stanza intorno a lui prese a girare come fosse ubriaco. Cosa stava succedendo? Sì, gli sarebbe piaciuto veder crescere la sua Gabby. Amava le riunioni di famiglia con i bambini che scorrazzavano. Ma i figli non erano nel suo futuro. Non si era mai fermato a pensarci. Diavolo, non gli era mai passato nemmeno per la testa. Ora invece, accorgendosi di quanto stava bene Gen nella cucina di mamma Conte con quella bambina in braccio, provò una fitta al cuore. Perché adesso? Perché d’un tratto accettava, voleva, bramava l’idea di un futuro? Allontanò il piatto. Non aveva più fame. Si toccò i bracciali di cuoio che erano ormai parte di lui e del suo corpo. E cercò di non ricordare. Rimase in silenzio per il resto della cena. Quando arrivò il momento della grappa, della frutta, dei formaggi e dei pasticcini, Gen gemette. «Non so se ce la faccio», mugolò. «Sono pienissima.» Mamma Conte scosse la testa con disapprovazione. «Perché non esci a prendere un po’ d’aria e a fare due passi? Ti aiuta a digerire. Non puoi perderti la torta di mele.» Gen si strofinò la pancia e Wolfe rise. «Vieni, ti mostro la terrazza.» Uscirono all’aria aperta e osservarono le colline e la distesa infinita di verde, circondati dal profumo di terra e di limoni. Fece per abbracciarla, poi si rese conto che non ne aveva alcun diritto. Non più. Se voleva riportare tutto sul terreno dell’amicizia, doveva smettere di toccarla come faceva un amante. Al momento, era troppo pericoloso. Lei si avvicinò come per mettergli le braccia intorno alla vita, e lui si spostò rapidamente, andando verso il bordo della terrazza. «Bellissima serata», disse senza riuscire a voltarsi verso di lei. Il cuore gli batteva all’impazzata. Sarebbe sempre stato così difficile? Sarebbe mai riuscito a guardarla negli occhi, a toccarle i riccioli, senza desiderarla con una fame che sembrava impossibile da saziare? «Sì.» «Ti stai divertendo finora?» «Come potrebbe essere diversamente? Sono in Italia con te e la tua famiglia. Sono stata nutrita, viziata e coccolata. Adoro mamma Conte e Gabby. Ho fatto shopping in alcune delle boutique più esclusive del mondo, ho girato per le strade in motorino con te, e ti ho baciato al chiaro di luna.» «Gen...» «Mi piace guardarti qui. Sei diverso. Più aperto. In tutto questo tempo mi è sembrato di far parte della tua cerchia ristretta.» «Ne facevi parte, infatti. Ne fai parte. Siamo amici da tanto tempo.» Una frase che suonava come un’offesa, adesso. «Ci tengo a te.» «Non abbastanza da raccontarmi il tuo passato. Non abbastanza da venire a letto con me senza mentire su cosa siamo veramente.» Trasalì. L’avrebbe uccisa. L’avrebbe fatta a pezzi e avrebbe sparso le ceneri. Perché doveva pretendere tanto, adesso? Cercò di mantenere un tono leggero. «Ti ho detto più di quanto abbia mai detto a chiunque altro. Tu sai di mia madre, degli anni vissuti per strada, di come mi ha trovato Sawyer. Che altro vuoi?» «Lo sai.» Non si girò. Tenne lo sguardo fisso sul paesaggio e pregò che non gli si avvicinasse. Non lo fece. La distanza tra loro crebbe per ogni attimo in cui non dissero nulla. Gli uccelli cinguettavano. Dalla cucina arrivavano le voci e le risate attutite. Finalmente lui parlò. «Non farebbe nessuna differenza.» Il suo sospiro gli ferì le orecchie. E il cuore. Era così triste vederla ancora lì a combattere per qualcosa che non avrebbe mai potuto darle. «Ti faccio io una domanda. Tu cosa vuoi, Wolfe?» Il suo corpo, la sua anima, il suo cuore. Essere un uomo integro per poterle dare tutto. Avere il coraggio di provarci. Invece mentì. «Questo. Noi. Amici per sempre. Abbiamo deciso di includere il sesso finché non avesse rovinato il nostro rapporto. Ma dobbiamo ammettere che le cose si stanno complicando. Fare un passo indietro adesso potrebbe essere una buona idea.» Lei non rispose. Lui non si girò. Si aprì la porta e la voce di mamma Conte risuonò forte e genuina. «Ragazzi, a tavola. Siamo pronti per il dolce.» Quando Wolfe ebbe finalmente il fegato di girarsi, Gen era già rientrata. Gli uomini se ne andarono. Vincent Soldano era steso a terra in posizione fetale, con le braccia strette intorno al corpo martoriato. L’orrore di quello che gli avevano fatto e che l’avevano costretto a fare gli girava in testa come un disco rotto che ripeteva sempre la stessa nota. Affondò le unghie nelle tempie cercando di scacciare quelle immagini, quei ricordi, ma era caduto troppo in basso e sapeva che non sarebbe mai riemerso. Era finita. Se solo fosse scappato. Se solo non avesse aspettato. Ieri, avrebbe ancora avuto una vita da vivere. Oggi non c’era nient’altro che vergogna e sporcizia e un incubo così reale che non sarebbe più riuscito a dormire. Non poteva vivere così. Non voleva. Il mormorio di voci all’esterno penetrò attraverso le pareti sottili. Si girò a guardare, la vista annebbiata, quasi senza riconoscere la stanza in cui era cresciuto. Provò nausea quando vide la vecchia foto di lui e sua madre sullo specchio scheggiato. Non aveva più una madre. Desiderava il silenzio. Il vuoto. Gli dolevano tutti i muscoli, ma riuscì a strisciare lungo il pavimento in cerca di qualcosa, di qualunque cosa, di un segno. La luce brillò sulla lama del coltello. Guadagnò altri centimetri, con sofferenza, finché ci arrivò. Lo strinse nella mano tremante. In testa aveva solo dolore, rabbia, agonia. Vincent sapeva che la sua salute mentale era andata perduta durante le ore con quegli uomini, in balia dei loro luridi corpi, delle loro mani e delle loro dita. Non sarebbe più tornato pulito. Sollevò il coltello e girò i polsi. Cominciò a tagliare. Sempre più a fondo. Quando il sangue cominciò a scorrere copioso, finalmente trovò la pace. Vincent Soldano si stese a terra e aspettò di morire. Aveva quattordici anni. Capitolo 25 Wolfe saltò fuori dal letto, l’urlo intrappolato nei polmoni. Era sudato dalla testa ai piedi, e si strinse subito i polsi, tastando i bracciali di cuoio che lo proteggevano dai ricordi. Inspirò, abituato a questi episodi, e cercò di ritrovare il battito regolare del cuore. Si chinò appoggiando le mani sulle ginocchia e resistendo alla nausea. Era un po’ che non riviveva quella scena. Certo, gli incubi venivano regolarmente ma, come con un vecchio nemico, aveva imparato a conviverci. A volte dormiva. Altre no. Il patto col diavolo risaliva a qualche anno fa. Quando veniva a trovarlo, lui andava in palestra e scacciava i ricordi con la ginnastica. Gli esplodeva la testa di immagini del passato. Il coltello. Gli uomini. L’orrore. La codardia. Fuori. Doveva uscire da lì. In piena modalità sopravvivenza, Wolfe indossò un paio di calzoncini e le scarpe da ginnastica e uscì dalla camera. Giù dalle scale. Lungo il corridoio. Altre scale. Accese la luce. La stanza s’illuminò, il rifugio dalla notte oscura, il luogo che Sawyer aveva costruito per entrambi, per quando venivano i demoni. La palestra aveva le pareti insonorizzate, un impianto stereo formidabile e tutti gli attrezzi possibili e immaginabili. Si allacciò le scarpe e andò dritto al sacco. C’erano dei pesi sparsi sul pavimento e dei tappetini appesi a casaccio alle pareti. Una sbarra, il vogatore, e infiniti strumenti di tortura e guarigione che offrivano il ritorno al mondo normale. Accese lo stereo e il metal duro dei Kiss gli esplose nelle orecchie. Sì. Sawyer era stato lì di recente. Wolfe si mise al lavoro. Dove stava andando? A letto sveglia, al buio, Gen sentì qualcuno scendere le scale. I passi erano partiti dalla camera di Wolfe in fondo al corridoio. Avrebbe dovuto cercare di dormire. Era stato piuttosto chiaro nella sua decisione di tornare a essere amici, nonostante l’incredibile notte di sesso, orgasmi e tenerezze. Adesso non la guardava neanche più, limitandosi a stupide conversazioni durante le quali stava a testa bassa e lontano da lei come per scongiurare l’eventualità che gli saltasse addosso. Cosa che lei avrebbe voluto fare. Oltre a picchiarlo. Invece aveva cercato di mantenere il decoro e di fare tesoro del consiglio di Arilyn. Vivere momento per momento. Senza analizzare e discutere. Lasciar andare le cose come andavano. Non mettergli pressione. Il consiglio di Arilyn faceva schifo. Al diavolo. L’avrebbe seguito. Sapeva già che soffriva di incubi notturni. Quando si svegliava per andare in bagno spesso trovava il divano dove lui dormiva vuoto. Sapeva che andava in palestra o a correre, ma quando aveva provato a chiedergli qualcosa di più dei suoi incubi si era chiuso in se stesso. Avanzò per la casa a piedi nudi. Guardò in molte stanze, finché trovò delle scale che scendevano, e finalmente individuò la porta giusta. Entrò. Il suono duro e rabbioso dell’heavy metal rimbombava dalle casse. La palestra era molto equipaggiata, ma mentre si chiudeva la porta alle spalle, la sua attenzione si focalizzò su un unico punto. Wolfe. Era al centro della stanza, accanto a un sacco da boxe appeso al soffitto. Non portava i guanti, solo i bracciali di cuoio. Scarpe da ginnastica ai piedi. Petto nudo. Inspirò con forza. Era bellissimo. Scatenato. Sferrava pugni velocissimi, uno via l’altro, i piedi ben piantati a terra, pestando quel sacco con tutta la sua forza, facendo sputare sangue a un nemico immaginario. A ogni pugno i fianchi ruotavano leggermente, evidenziando gli addominali scolpiti. Gli colava il sudore dai capelli, dalle sopracciglia e lungo il petto, facendo brillare il tatuaggio. Gli occhi erano due fessure scure, concentrati su un altro tempo, pieni di odio e rabbia. Restò immobile, senza osare respirare, lo sguardo fisso su quella massa di muscoli duri come il marmo, sui bicipiti gonfi, sulle cosce potenti. Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase a guardarlo prima che lui s’accorgesse della sua presenza. Sferrò un violento calcio al sacco, che dondolò arrendendosi alla sua brutalità, e girò la testa. I loro sguardi s’incrociarono. Il tempo si fermò. Aveva il respiro corto e affannoso. Non distolse mai lo sguardo, e nei suoi occhi azzurri brillava una tale ferocia che, per la prima volta, Gen ebbe paura. Era selvaggio. Gen era entrata in un angolo del suo mondo che lui non voleva mostrare a nessuno. Intravedeva la bestia oscura in agguato oltre le barriere, ma Wolfe la teneva incatenata, imprigionata nei sotterranei. Guardandolo, si rese conto di essere entrata all’inferno. «Devi andartene.» Lo disse con la mascella stretta, e le parole uscirono con un sibilo. Sembrava fosse il serpente a sussurrargli gli ordini all’orecchio. «Subito.» Stava per farlo. Sapeva che sarebbe stato meglio. Ma era arrivata a una svolta, e le restava un’ultima occasione per provare a spezzare le sue resistenze. Per costringerlo ad aprirsi. Per darsi l’opportunità di essere amata da lui. In questa stanza, stanotte, i demoni dovevano essere liberati. «No.» Gli salì un ringhio dalla gola. «Ti conviene stare alla larga, Gen. Non è sicuro qui.» «Non voglio stare alla larga da te.» Indicò il sacco con lo sguardo. «Incubi?» Gen avrebbe voluto piangere, ululare, scappare, tanto era il dolore impresso sul suo volto. Ma rimase, giurando di arrivare fino in fondo e di vedere la fine, per quanto orribile fosse. Glielo doveva, e lei lo doveva a lui. «Sì. Ogni tanto mi vengono e preferisco scacciarli allenandomi. Da solo.» «Forse è questo il problema. Sei stato solo troppo a lungo.» «Non ho voglia di fare questi discorsi, adesso. Torna a letto e domattina parliamo.» «E se non volessi parlare?» Lui imprecò tra i denti. Lei abbassò lo sguardo sull’erezione di marmo che gli tirava i calzoncini e lo mantenne lì. «Sembra che anche tu non voglia parlare.» «Smettila. Non sei al sicuro, al momento.» Fece un passo verso di lui. «Di nuovo quella frase. Al sicuro. Dobbiamo stare al sicuro l’uno dall’altra? Al sicuro dal mondo? Perché non mi dici quello che vuoi e ci dai un taglio con tutte queste stronzate?» Il lampo nei suoi occhi la fece rabbrividire. «Voglio che tu vada di sopra e stia lontano da me. Sono appeso a un filo in questo momento e se si spezza potrei farti del male.» Lei allargò le braccia coi palmi rivolti verso l’alto. «Mi fai del male ogni volta che mi sfuggi, o mi tieni a distanza. Cosa riguarda questo tuo incubo, Wolfe? So che è una cosa brutta. Brutta quanto?» Lo sentì digrignare i denti. «Brutta. Niente che tu debba sapere. Vuoi scopare? Okay, vai su e aspettami, tra poco vengo e ti do quello che vuoi.» Non fece una piega. Aveva sentito il dolore e la disperazione nella sua voce. Tenne duro e insistette. «Parlamene. Dimmi degli incubi. Hanno a che fare con quei bracciali di cuoio che non ti togli mai? Quelli che ti tocchi continuamente, come per ricordare a te stesso che non sei morto?» Lo shock negli occhi di Wolfe la distrusse. La guardò come se stesse per aggredirlo, così addolcì la voce e si avvicinò di un altro passo, sempre con le braccia aperte. «Ogni volta che rifiuti di parlarne, il ricordo acquista potere. Se non lo tiri fuori diventa sempre più forte e orribile. Sei già un sopravvissuto. Cosa riguarda l’incubo?» Il filo sottile si spezzò, e d’un tratto Wolfe si trasformò in un essere feroce e primitivo, quasi inumano e irriconoscibile. Con le pupille dilatate, cacciò un urlo e si scagliò contro il sacco da boxe come se volesse aggredire lei. Lo riempì di calci e pugni sfogando tutta la rabbia, ma Gen non si mosse, non batté ciglio, lasciando che liberasse tutto il male che aveva dentro. «Vattene.» «No. Parlami dell’incubo.» Gli sfuggì un lamento. Il passato lo risucchiò, e dovette affrontare i ricordi. Finalmente parlò. «Mia madre aveva finito la droga. Era così fatta da così tanto tempo che ormai non funzionava più. Non era più presente, era solo una parvenza di quella che era stata. Gli uomini volevano altri soldi per la droga. Era la sera in cui avevo programmato di scappare. Era tutto pronto, ma sono venuti in camera mia. Mi hanno violentato. Picchiato. E quando hanno finito, era come se fossi già morto. Proprio come mia madre.» Non lasciò che si fermasse, lo incitò ad andare avanti, certa che ora della fine della storia sarebbe morta con lui. «Cos’hai fatto, Wolfe?» Aprì la bocca, la richiuse. Guardò la parete con lo sguardo assente, tremando leggermente. Poi abbassò le mani e si tolse i bracciali. Gen inorridì. Le ferite erano scure e profonde, un incrocio di tagli fatti a casaccio. «Ho preso il coltello. Dovevo chiuderla lì. Mi sono tagliato i polsi e ho aspettato di morire.» Sentì le guance bagnate ma non importava. Doveva tirargli fuori tutta la storia, spurgare quella ferita infetta che lo stava uccidendo a poco a poco. «Ma non sei morto. Cos’è successo?» «Sono svenuto. Ero contento. Pensavo di essere libero. Invece mi sono svegliato nello stesso letto. Coi polsi bendati. Sangue dappertutto. Non so quanto tempo sono rimasto incosciente, né cosa fosse successo. Mi sono svegliato, ho guardato fuori e non c’era nessuno. Mia madre era sparita. La casa era vuota. Me ne sono andato.» «Dove sei andato?» «Ho camminato. A lungo. Ho dormito nei boschi. Aspettavo di morire. Non ricordo molto di quei primi giorni. Ho trovato un ristorante e ho chiesto qualcosa da mangiare, me l’hanno dato. Ho rubato. Ho trovato dei posti dove dormire. Poi ho incontrato altri due ragazzi come me. Mi hanno insegnato a sopravvivere. A pestare i malcapitati per derubarli. A stare lontano dalla polizia e dalle comunità di accoglienza. Vedi, all’inizio era tutto un gioco. Ero convinto che sarei morto accoltellato durante una rissa o in prigione. Invece no. I giorni sono passati, e mi sono riabituato a vivere. Ma quando mi guardavo i polsi mi ricordavo di quella notte. Così ho iniziato a coprirli. Per non vederli. Per fingere che non fosse successo. Per non ricordare.» Gen avrebbe dato l’anima per abbracciarlo, stringerlo, piangere con lui. Sapere finalmente la verità e sentirsi ancora così distante da lui la lacerava. Le stava sfuggendo, a poco a poco, e in preda alla pura disperazione, gli si avvicinò e lo afferrò per le spalle, piantandogli le unghie nella pelle e scuotendolo con tutta la forza che aveva. «Invece te lo ricordi. È successo, e sei sopravvissuto. Sei qui adesso, con me.» «Non sono integro.» Parole semplici, ma taglienti come un rasoio. Gli prese il volto tra le mani, tenendogli la testa ferma. «Certo che sei integro. Ti hanno leso fisicamente, tua madre ti ha spezzato il cuore, ma sei sempre tu, la tua anima è ancora la stessa. Ogni giorno che hai scelto di vivere, di provarci, di voler bene a qualcuno come a Sawyer, a Julietta, a Gabby e a me, hai detto un bel vaffanculo. Sei integro.» Wolfe rabbrividì e le strofinò le mani ai lati del corpo come se il calore della sua pelle potesse sciogliere il ghiaccio dentro di lui. «Sono sempre in bilico, sull’orlo dell’abisso. Non sono sicuro di poter mantenere il controllo.» In un lampo, Gen riconobbe la linea sottile che divideva il piacere dal dolore, la sopravvivenza dalla morte. Le emozioni erano troppe per lui ora, e aveva bisogno di uno sfogo, di qualcosa a cui aggrapparsi e per cui lottare. Aveva bisogno di qualcosa di buono, di puro e di reale da sostituire all’orrore. Doveva assolutamente tirarlo fuori da quel luogo infestato dai demoni. Per farlo, si arrese all’istinto. «Non devi mantenere il controllo.» Gli passò le dita tra i capelli e glieli tirò. Premendo il corpo contro il suo, sentendo ogni muscolo e la pelle umida di sudore, gli parlò con le labbra attaccate alle sue. «Sono io quella che ti ama. Usa me.» Il desiderio si accese. Provò a respingerla, ma lei gli stava avvinghiata con forza, intuendo che il muro tra loro stava per sgretolarsi. «No, ti farei del male.» Gli affondò i denti nel labbro e le unghie nel cuoio capelluto. «Bene. Scopami. Prendimi. Sono già tua. È questo che è reale, e bello.» Gli sfuggì un lamento e l’afferrò, sollevandola affinché gli avvolgesse le gambe intorno alla vita. Ansimava. «Gen...» «Adesso, qui, noi due. È bellissimo. Usami e ricordati questo.» Lo baciò, spingendogli la lingua fino in fondo alla bocca e gustando il vero sapore del maschio. Tremando come in preda alla febbre, lui le strinse le braccia intorno alla vita e rispose al bacio. Cominciarono a divorarsi, sempre più famelici. Si spostò un po’ più in là, barcollando, la adagiò su una panca e le strappò la maglietta. Lei lo prese per le spalle, inarcandosi, accettando il morso dei suoi denti sui capezzoli, la sua bocca che succhiava forte, la sua lingua che guizzava. Le strappò anche i pantaloni del pigiama. Nuda e aperta sulla panca, gli abbassò i pantaloncini e gli prese il membro in mano, stringendo forte e strappandogli qualche imprecazione. Quando gli passò le unghie sui testicoli, lui la spinse di nuovo sulla panca. «Allarga le gambe. Reggiti alla sbarra.» Lei obbedì, volendo disperatamente dargli tutto ciò che poteva. In piedi su di lei, le prese i seni tra le mani appoggiando il membro sul suo punto di accesso. Si sentiva gonfia e bagnata e il bisogno di averlo dentro era tale che probabilmente sarebbe venuta alla prima spinta. «Sei mia.» La penetrò in profondità. Lei urlò quando la barretta di metallo strusciò contro il clitoride per poi toccare il punto magico. «Oh, mio Dio.» Lo fece di nuovo. Le prese le ginocchia e gliele spinse verso l’alto in modo da entrare tutto dentro di lei, senza lasciar fuori nulla, dandole un piacere che rasentava il dolore a cui lei cercò di sottrarsi. «È troppo.» «Non è ancora abbastanza.» Un’altra spinta. Più veloce. Più forte. Più in profondità. Lei scuoteva la testa ma lui non si fermò, costringendola a prendersi tutto di lui, facendola arrivare così in alto che non credeva sarebbe mai tornata giù. «Wolfe!» «Vieni. Vieni per me, Gen.» L’orgasmo coinvolse tutti i muscoli del suo corpo, spremendoli senza pietà. Il suo grido squarciò l’aria e Wolfe premette le labbra su quelle di lei per attutirlo. Poi le venne dentro mentre lei si dimenava fuori controllo e gli spasmi continuavano... Non si accorse neppure che stava piangendo finché non sentì i singhiozzi. La prese tra le braccia mormorandole parole dolci e stringendola con tenerezza mentre lei piangeva per il ragazzo che era, per le sofferenze che aveva sopportato e per l’amore devastante che provava per lui. Lo amava più di chiunque altro al mondo. Pianse per lui e anche per se stessa, per la paura che quella notte non sarebbe stata comunque sufficiente perché lui la amasse come aveva bisogno di essere amata. La tenne stretta a lungo. Quando alla fine si calmò la accompagnò di sopra, la infilò sotto le coperte e si mise a letto con lei. La attirò a sé e le circondò la vita con le braccia. Lei portò i suoi polsi pieni di cicatrici alle labbra e li baciò con tenerezza. Dormirono. Era andato via. Gen si rigirò nel letto e fissò il muro. La luce del giorno penetrava nella stanza. Avevano fatto l’amore altre due volte, quella notte, in un modo che trascendeva la sola passione fisica. Avevano unito le loro anime, oltre ai loro corpi, tanto da non essere più due individui ma uno soltanto. Non sarebbe più stata la stessa. Non avrebbe mai amato nessuno come amava Wolfe. Quella notte sarebbe potuta essere l’inizio di un nuovo capitolo della loro vita, un capitolo in cui l’amicizia diventava amore e l’amore dava il via a una relazione in cui crescere insieme. Invece Gen sentiva che quella notte lui le aveva dato l’addio definitivo. Si mise a sedere, lentamente. Fece una smorfia per i leggeri lividi sul corpo, ma quel dolore era nulla se paragonato a quello che provava nel cuore. L’odore di sesso e muschio le salì alle narici. Doveva trovare un modo per avvicinarlo, o sarebbe stata costretta a prendere l’unica decisione che restava. Rassegnarsi a perderlo. Si fece la doccia, si vestì e scese in cucina. Julietta aveva la bambina sul fianco, una spatola in mano e il cellulare bloccato tra l’orecchio e la spalla. «Sto arrivando, tu resta lì», disse in italiano. Poi posò il telefono. «Porca vacca! Idiota! Perché gli uomini sono così testardi?» Gen prese il piatto da portata con le uova e le verdure. «Mi stavo facendo la stessa domanda.» Julietta scosse la testa, preparò due piatti e mise la bambina nella sdraietta. Poi posò due tazze fumanti di caffè sul tavolo. «Bevi. La caffeina migliora le cose. Wolfe si sta comportando da idiota?» Soffocò una risata. «Sì. Siamo a un punto morto.» Gen si ricordò che Julietta non sapeva che andavano a letto insieme. «Della nostra amicizia, ovviamente.» La donna le fece un sorriso d’intesa. «Ah quindi pensi che sia idiota anche io? So che andate a letto insieme. Tu sei innamorata di lui e lui di te, e probabilmente sta facendo i salti mortali per negare tutto, rifiutando la realtà della situazione. Ci sono andata vicina?» Gen la fissò. «Come fai a saperlo?» Julietta scosse la testa e sorseggiò dell’altro caffè. «Ve lo leggo in faccia. Wolfe è mio figlio. Sapevo che un giorno si sarebbe innamorato e avrebbe sofferto. Somiglia molto a Sawyer, e anche noi abbiamo avuto dei problemi. Posso fare qualcosa?» Sospirò. «Non penso. Sta a lui scegliere. Io così non posso andare avanti. Fingere di essere solo amici quando le cose sono cambiate. Non posso tornare indietro.» «E nemmeno devi.» Si picchiettò un dito sulle labbra. «È stato in analisi ma c’è una parte di lui che nessuno può toccare. Non l’ho mai visto così aperto come quando ti guarda. Ha il cuore più leggero ed è più in pace. Lo rendi felice.» Gen trattenne le lacrime. Non voleva fare la femminuccia frignona. Basta piangere. «Grazie. Significa molto per me.» «Ti ha parlato del suo passato?» Le salì un nodo in gola, ma si sforzò di rispondere. «Sì. Finalmente mi ha detto tutto.» La donna annuì e cadde in silenzio per riflettere. «Ti ha fatto un dono. A parte Sawyer e forse il suo analista, non l’ha mai detto a nessuno. Credo che ci sarà sempre un lato oscuro in lui che non comprenderemo mai veramente. Ma ho insegnato a Sawyer a tenerlo a bada, senza farsi influenzare. Entrambi meritano molto di più.» Le si spezzò la voce ripensando al passato del marito. Gen era sollevata dal fatto che la capisse e che avesse superato i suoi stessi ostacoli. Loro però avevano una famiglia, adesso, e un futuro pieno di promesse. Era possibile trovare la stessa felicità con Wolfe? «Cosa posso fare?» sussurrò. «Io lo amo.» Julietta allungò un braccio e le strinse la mano. «Lotta. Io ho lottato per Sawyer, ma non è stato facile.» «E se lui non vuole lottare per me?» Staccò la mano e un lampo di tristezza le attraversò il volto. «L’amore è una scelta, no?» disse con dolcezza. Il cellulare di Gen vibrò, interrompendo la conversazione. Guardò il nome sul display. La polizia di Verily. «Scusa, devo rispondere.» «Prego. Vado a vestire Gabby.» Gen andò in biblioteca. «Pronto?» «Signorina MacKenzie. Agente Petty.» «Salve, agente. Avete parlato con David?» «In effetti sì. Era a Boston la sera del vandalismo. I testimoni hanno confermato.» Si sentì sprofondare. «Non può essersi allontanato di nascosto? O averlo fatto fare a qualcun altro? Non capisco.» «Abbiamo trovato i colpevoli. Anzi, la colpevole. Conosce una certa Sally Winters che lavora in ospedale?» Un capogiro. Cosa? «Sì. Lavoravamo insieme. È una mia amica. Mi sta dicendo che è stata lei?» «Già. Ieri sera ha scritto ‘Bugiarda’ e ‘Puttana’ sulla facciata di casa sua, ma una vicina l’ha colta sul fatto. Ci ha chiamati e abbiamo sorpreso Sally con la vernice spray. Ha ammesso tutto.» «Quale vicina?» «La signora Blackfire.» Gen scosse la testa. Immaginò l’anziana ficcanaso col cannocchiale, e d’un tratto non le sembrò più così squilibrata. «Come è riuscita a coglierla in flagrante?» «Ha detto che non poteva permettere che i pasticci sui muri facessero scendere il valore del quartiere, quindi è stata di guardia nelle ultime notti.» Il tono era lievemente divertito. «È molto irascibile. Voleva denunciare Sally Winters, ma la proprietà è la sua. Spetta a lei fare la denuncia. Comunque Sally ha confessato di essere andata a letto con David dopo la rottura del fidanzamento e di aver pensato che fosse una cosa seria. Aveva paura che volesse tornare con lei quindi ha architettato un piano per spaventarla.» Gen si morse il labbro. C’era ancora qualcosa che non quadrava. Anche se Sally era interessata, l’intera faccenda puzzava di manipolazione. «Siete sicuri che non l’abbia istigata David a farlo?» Un breve silenzio dall’altra parte. «Lei lo nega, ma non mi sorprenderebbe. In ogni caso ho la sua deposizione. Lei dovrebbe passare qui in centrale, però.» L’idea che la sua amica e collega fosse accondiscesa a un atto così spregevole l’addolorava, ma sapeva quanto riusciva a essere convincente David. Le aveva probabilmente promesso un futuro insieme senza dirle di Boston. Aveva pianificato tutto affinché arrivasse a fare quello che lui voleva facesse. Si sentì sollevata. David non le avrebbe più dato fastidio, specialmente adesso che Sally era stata beccata. Era finalmente libera. Era il momento di fare l’ultimo tentativo. «Grazie agente. Tornerò domani se per voi va bene.» «Certo. Mi chiami quando arriva a casa.» Si salutarono e lei spense il cellulare. Strano, fu come se altri pezzi della sua vita fossero andati a posto. Voleva riprendere a fare il medico. Tornare in ospedale e finire quello che aveva cominciato. Voleva recuperare il rapporto con la sorella e avere più tempo per le amiche. E voleva Wolfe. Lo trovò sul balcone. Sorseggiava il caffè guardando il traffico cittadino che si muoveva sotto di lui, immerso nei suoi pensieri. Si fermò a osservarlo. Il modello miliardario divenuto un magnate dell’industria era vestito come al solito, in pantaloncini e maglietta, ed era seduto coi piedi nudi appoggiati sul tavolino. I riccioli castani gli cadevano disordinatamente intorno alla testa ed emanava il familiare odore di limone, sapone e caffè. Immaginò di non svegliarsi accanto a lui al mattino e di non dargli il bacio della buonanotte. Non era possibile: voleva essere lei a uccidergli i ragni, a cucinare per lui, a sgridarlo, a fare l’amore con lui in ogni momento libero. La notte scorsa le aveva detto la verità. Adesso doveva darle il cuore. «Wolfe.» Si girò di scatto, facendo uscire un po’ di caffè dal bordo della tazzina. Si alzò in piedi, asciugò la macchia e posò il caffè sul tavolino. «Scusa, non ti ho sentito.» Si guardarono. Ricordando. Lo sguardo le cadde un attimo sui suoi polsi, nuovamente coperti dai bracciali di cuoio. Lui li toccò, poi smise. «Come ti senti?» gli chiese con dolcezza. «Bene.» «Ha chiamato la polizia. Hanno trovato chi è stato.» Aggrottò la fronte. Gli riferì velocemente la conversazione con l’agente e lui sembrò accettare la spiegazione. «Gli ho detto che torno domani.» «Si può fare. Ti aiuto a ridipingere.» «Ho deciso di tornare in ospedale.» Annuì, come se cercasse di tenere il passo. «Bene. È il tuo posto. Potrebbe essere dura all’inizio, ma nulla che tu non possa gestire. L’ho sempre saputo.» «Wolfe?» «Sì?» «Ti amo.» Sussultò. Impallidì. Lei si sentì mancare, ma si era impegnata a fare un ultimo tentativo e sarebbe andata fino in fondo. Da amici, si erano sempre detti di volersi bene. Ma l’amore era un’altra cosa. «Be’, siamo amici», disse lui. S’irrigidì, cercando d’ignorare il pugno allo stomaco. «Non in quel senso. Ti ho sempre voluto bene come amico. Ma c’è dell’altro adesso. Ti amo come uomo, come amante, come compagno.» Fece un balzo indietro, premendo la schiena contro la ringhiera. «Perché fai così adesso? Torniamo a casa, chiariamoci le idee e vediamo cosa succede.» Gli sfuggì una risata nervosa. «Stanotte è stata dura per me, ti ho detto cose che non ho mai detto a nessuno.» «Tu mi ami?» Lui spalancò gli occhi. Gen giurò che stesse considerando l’eventualità di buttarsi giù dal balcone per non rispondere. Gli si avvicinò, obbligandolo ad affrontarla. «Perché questa notte ha significato molto per me. Mi hai fatto dono della verità. Ma non è solo questo. Ti guardo negli occhi e vedo l’uomo che desidero con tutta me stessa. Ti voglio nella mia vita più che come amico. Mi vuoi anche tu?» Inghiottì a vuoto. La fissò. Nei suoi occhi azzurri brillava la paura allo stato puro. E non rispose. Gen si fermò a pochi centimetri da lui. «Ti amo», ripeté. «Adesso. Qui. Ho bisogno di sapere cosa provi per me. La verità.» Il sole batteva caldo e splendente. Il ronzio dei motorini e il rumore dei passi sui marciapiedi saliva fino a loro. Non si mosse, non batté ciglio. Era immobile come una statua. O come la vittima di un’aggressione che guardava l’aggressore andargli incontro. Le tremarono le mani, le si annodò lo stomaco. Lo stava perdendo, e non sapeva cosa fare per sbloccarlo, per convincerlo a lottare per lei e ad ammettere i suoi veri sentimenti. «Ti prego, dì qualcosa», sussurrò. «Qualsiasi cosa. Non posso più andare avanti così. Sto lottando per entrambi, ma se non mi dai un segno, qualcosa in cui sperare, io...» Lo prese per la maglietta, tirandolo verso di sé. Presero subito fuoco entrambi. «Non m’importa del tuo passato. A me importa del tuo futuro. Con me. Ma devi dirmelo. Maledizione, Wolfe, dì qualcosa!» Il silenzio fu assordante. Mollò la presa. Lui la fissava, rifiutandosi di parlare. Gen fece un passo indietro, poi un altro, finché non fu sulla porta e lo spazio tra loro divenne largo e profondo come il Grand Canyon. Era finita. Era finita. Lo sapeva. Aveva capito che sarebbe successo quando era uscita sul balcone. Era così bella. Nonostante lui si rifiutasse di parlare, continuava a sfidarlo, col mento alzato. Ti amo. Parole che gli toccarono il cuore e lo risanarono. Parole che gli toccarono il cuore e lo fecero a pezzi. Con Julietta, Sawyer, Gabby e mamma Conte era diverso. Non era quell’amore che ti consumava, che ti mangiava vivo, che incasinava tutto. Questo tipo di amore, questa smania di dare il mondo a una persona, era impossibile. Avrebbe finito per farle del male, perché lui era come merce avariata. Aveva fatto cose terribili. Aveva rubato. Era stato violentato da mostri. Non era pulito e non era degno di una donna come lei. Non sarebbe riuscito a crescere dei figli, a essere un marito e un padre responsabile. Cosa sarebbe successo se i demoni fossero tornati e si fossero impadroniti di lui? Gen meritava di più, e se tacere adesso era il modo di proteggerla, così avrebbe fatto. Lo sapeva anche suo padre. Gliel’aveva detto chiaro e tondo. Jim sapeva dei demoni e diceva che tornavano sempre. Non avrebbe permesso che quei bastardi trascinassero nell’abisso dell’inferno anche lei. Si allontanò. Wolfe sentì il gelo, dentro, quel torpore familiare che lo trascinava di nuovo nel vuoto. Dì qualcosa. Quella preghiera e le lacrime che brillavano nei suoi occhi l’avrebbero perseguitato per sempre. Aprì la bocca. La sua voce sottile si ruppe, come un vetro in frantumi. «Non posso più andare avanti così.» La porta si chiuse. Wolfe si voltò. Se n’era andata. L’aveva fatto. Aveva reciso l’ultimo filo che li teneva uniti. Forse, col tempo, avrebbero potuto tornare a essere amici. Lui avrebbe seppellito i propri sentimenti, avrebbe atteso il tempo necessario, poi sarebbe tornato da lei. Almeno era al sicuro. Poteva riprendere in mano la sua vita. Tornare a essere se stessa. Bastava aspettare. Darle il tempo necessario per farsela passare. Poi pian piano sarebbe tornato nella sua vita. Con le dovute distanze. Senza rischi. Da amico. Dì qualcosa. Wolfe chinò la testa, convinto di aver fatto l’unica cosa possibile. Salvarla da se stesso. Capitolo 26 Genevieve si sedette nel séparé e sorrise. Le sue migliori amiche commentarono il suo arrivo con gridolini di gioia e le passarono un margarita con la perfetta quantità di sale sul bordo del bicchiere. Era il suo ultimo giorno in Kinnections prima di riprendere ufficialmente l’internato. Dopo aver discusso alcuni punti con Brian e dopo un confronto aperto con alcune figure chiave dell’ospedale, che aveva provveduto a informare del comportamento di Sally, Gen si sentiva più preparata. Era un chirurgo ed era tempo di riprendere in mano la sua carriera. C’erano ancora molti fantasmi contro cui combattere, ma era pronta ad affrontarli. «Mi mancherete», disse sollevando il bicchiere. Kate, Arilyn e Kennedy fecero cin cin. «Mi ero abituata a vedervi tutti i giorni.» Kate alzò un sopracciglio. «Questo non cambierà. So che sarai occupatissima, Gen, ma non voglio più che ci sfuggi come hai fatto prima. Hai bisogno di equilibrio. Hai bisogno di noi.» «Assolutamente», concordò Arilyn. «La vita passa in fretta e anche se il lavoro è importante non è tutto.» «Sappi che appena ricominci a essere strana o riservata, ti preleviamo con la forza e ti facciamo ubriacare», la informò Kennedy. Gen rise. «Grazie, ragazze. È bello essere di nuovo da Mugs.» Chiacchierarono di scarpe, di Kinnections e del matrimonio di Kate. Quando notò che l’amica esitava a scendere nei dettagli, le prese la mano. «Kate, ascolta. So che il mio matrimonio andato all’aria ha creato qualche imbarazzo. Ma sono felicissima per te e per Slade. Perché mi avete mostrato la differenza tra l’amore vero e quello che sembra perfetto solo sulla carta. Parlare di vestiti e di fiori è divertente, e non mi rattrista affatto. Hai capito?» L’amica annuì, e la tensione sul suo volto si allentò. «È che mi dispiaceva. Sei la mia damigella d’onore e non volevo ti pentissi d’avermi detto di sì.» «Mai. Sarà un matrimonio favoloso e starti accanto può solo farmi felice. Adesso basta stronzate.» Kate rise. «D’accordo. C’è qualcuno che può aiutarmi a convincere mia madre a non dare in omaggio i brownies alla marijuana?» Kennedy alzò un sopracciglio. «Io credo che insisterò perché lo faccia.» Arilyn rimase stranamente in silenzio per tutto il giro di drink successivo. Alla fine Gen si chinò verso di lei e le parlò a voce un po’ alta per farsi sentire. «A? Cos’hai? Ti vedo distratta. Va tutto bene?» Kate e Kennedy si scambiarono un’occhiata. Arilyn sorrise ma non era il suo solito sorriso genuino da duemila megawatt che metteva allegria solo a guardarlo. «Mi sbagliavo», disse finalmente. Gen alzò la testa. «Su cosa?» Nei suoi occhi verdi c’era una punta di rammarico. «Ti ho detto di vivere il momento. Di non mettere tutto in discussione, parlando di regole e sentimenti. Lo pensavo, quando l’ho detto, ma ora so che sbagliavo.» Kate cominciò a cambiare espressione. Lo sguardo s’incattivì. Gen pensò che avrebbe dato una sonora strapazzata all’istruttore di yoga. Kennedy strinse i pugni come se si stesse preparando a pestarlo. «È successo qualcosa?» le chiese con dolcezza. «Ti ha mollata?» Scosse la testa. I lucenti capelli rossi svolazzarono a destra e a sinistra. «Non ancora. Ma i vigliacchi fanno così. Se ami qualcuno, devi essere onesto. Coraggioso. Dirglielo chiaramente e fregartene delle regole. Perché comincio a credere che quando ami qualcuno le regole non valgono più.» Gen era quasi piegata in due, tanto male le fecero quelle parole e il pensiero di Wolfe che le accompagnò. Era un dolore lancinante, che toglieva il fiato. Da quando erano tornati, due settimane prima, lui era andato via e si era tenuto a distanza. Qualche messaggio, un paio di telefonate. Una sera avrebbe giurato di aver visto la sua macchina parcheggiata in fondo alla strada, ma quando era uscita a guardare, l’auto non c’era più. Gli sembrava di vederlo dappertutto, ma non c’era mai. Da quel fatidico giorno sul balcone, Gen si era resa conto di non poter vivere in un continuo stato di bisogno. Non era facile allontanarsi da Wolfe, anche perché aveva il timore che non sarebbe mai riuscita a dimenticarlo e che qualunque altro uomo sarebbe stato soltanto una sua pallida fotocopia. Ma ci avrebbe provato con tutte le forze. Stavolta non c’era il premio di consolazione dell’amicizia. Alla fine le commedie romantiche avevano ragione. Il sesso tra amici rovina tutto. Le ragazze sospirarono, solidali. «Mi dispiace, A», intervenne Gen. «Quando ho detto la verità a Wolfe, lui non ha reagito. Non è riuscito a darmi quello di cui avevo bisogno. Ma hai ragione. Meglio saperlo subito che scoprirlo dopo.» «Già.» Bevvero i loro cocktail con la musica in sottofondo. «Credi che Wolfe ti cercherà?» domandò Arilyn. Un nodo allo stomaco. «Se non è pronto a dare tutto se stesso, non voglio nemmeno starlo a sentire. E se sta aspettando che mi passi e che possiamo tornare a essere amici, rimarrà parecchio deluso.» «Non sarebbe mai così stupido», commentò Arilyn. «Wolfe è un tipo in gamba.» Kennedy sbuffò dal naso. «Ha un pene. Fidatevi, potrebbe essere così stupido, specialmente adesso che Gen l’ha mandato in stato confusionale. Nessuna ha mai preteso più di una bella chiacchierata e di una scopata veloce. Non è mai stato innamorato, quindi non sa come gestire la cosa.» «Odio l’amore», si lamentò Arilyn. Un’altra occhiata complice tra Kate e Kennedy. Gen sospirò e finì il suo drink. «Anch’io. Essere innamorate è uno schifo.» Kennedy alzò il braccio per chiamare la cameriera. «Ecco perché hanno inventato l’alcol, ragazze. Un altro giro, per favore.» Si guardarono e scoppiarono a ridere. Wolfe la stava aspettando. Finalmente la vide sul marciapiede. Era seduto in macchina in attesa della donna che aveva sostituito i suoi incubi. Da quella fatidica notte, il loro rapporto si era raffreddato. Aveva accettato di prendersi la colpa e di aspettare che lei si calmasse e capisse che era meglio che restassero amici. Ma le ultime due settimane erano state allucinanti. Stava per riprendere il suo ruolo in ospedale. Era così fiero di lei. A volte, quando non riusciva a dormire, andava a Verily e parcheggiava sulla strada. Guardare la sua allegra casetta gialla lo faceva sentire bene. Ora che David era fuori dalla sua vita e che essendo a Boston non poteva più avvicinarla, ora che il colpevole era stato trovato e punito, le cose stavano tornando alla normalità. Lo stesso avrebbe dovuto valere per il loro rapporto. Col fiato sospeso, la guardò camminare verso casa al chiaro di luna. Era splendida. Probabilmente era stata da Mugs con le amiche. Indossava un paio di jeans elasticizzati, sandali col tacco alto e un top scintillante tutto pizzo e brillantini. I boccoli le rimbalzavano disordinatamente intorno al viso. Canticchiava una canzone che non riusciva a sentire. Sì, sicuramente Mugs. Piegava i fianchi più del dovuto al ritmo della canzone che le era rimasta in mente e salì i gradini a due a due. La luce della veranda si accese. Sparì in casa. Gli sudavano le mani. Imprecò tra sé e scese dall’auto. Non voleva fare il cacasotto. Certo, era stato stronzo, ma meglio adesso che farsi odiare dopo, quando si fosse resa conto che era un uomo a metà. Lo stupro e il tentato suicidio avevano portato via una parte di lui. L’aveva ricostruita, ma c’era troppa violenza nel suo passato. Lei era integra, pulita, innocente. Lui no. Stava meglio senza di lui. Si asciugò le mani sui jeans e percorse lentamente il vialetto. Sarebbe stato disinvolto, amichevole e educato. Solo per sapere come stava. Magari potevano bersi una birra. Sicuramente l’avrebbe lasciato entrare e avrebbe cominciato a perdonarlo. Sicuramente avrebbe capito le sue motivazioni e si sarebbe resa conto che le cose tra loro potevano tornare come prima. Bussò. Lei rimase di sasso quando lo vide. Lui si sentì come se fosse appena inciampato e stesse precipitando in caduta libera. Dalla sua bocca uscì una spruzzata di ghiaccio. «Cosa vuoi?» Wolfe cercò di non fare un balzo indietro. Questa non era la solita Gen. Lei non l’avrebbe mai trattato come un estraneo indesiderato. «V-volevo vederti. Sapere come va. È passato un sacco di tempo.» Aspettò come un idiota davanti alla sua porta mentre lei lo guardava come un insetto che stava decidendo se schiacciare o meno. S’irritò. Per tutti i diavoli, non era così che doveva andare. «Hai intenzione di farmi stare qui o mi fai entrare?» La battuta non venne colta e quando guardò in quegli occhi azzurri non vide... nulla. C’era un muro, tra loro. Se avesse allungato la mano avrebbe potuto toccarlo. In qualche modo, doveva sistemare questa situazione. «Gen, ti prego. Fammi entrare. Una birra?» Finalmente si spostò dalla soglia e lo fece entrare. Cercò di nascondere il sollievo e di comportarsi come se niente fosse successo. Andò in cucina, prese due birre dal frigo, le stappò e gliene porse una. Era una specie di rito, per loro, e si aspettava un sorriso da parte sua, o una frecciatina che l’avrebbe fatto ridere. Invece prese la bottiglia e la tenne in mano, come se avesse paura di bere. Era sempre più irritato. «Sei andata da Mugs con le ragazze?» «Già.» «Divertita?» «Certo.» Annuì, sorseggiò la birra e cercò di mantenere la calma. Il fatto che rispondesse a monosillabi era molto seccante, ma se avesse perso la pazienza l’avrebbe cacciato fuori a pedate. E poi perché prendersela? Era stato lui ad allontanarla, quindi non poteva aspettarsi che sarebbe stata una passeggiata. Forse era meglio affrontare il discorso che entrambi stavano cercando di evitare? «Volevo parlarti.» Altro silenzio. «Mi dispiace per quello che è successo quel giorno sul balcone.» Faccia impassibile. «Puoi dire qualcosa anche tu, sai?» «Per cosa ti dispiace esattamente?» Gelida. Controllata. Wolfe inspirò e giurò di fare in modo che capisse. «Per averti ferita. Ho fatto l’unica cosa che potevo fare. Un rapporto di quel tipo non funzionerebbe mai tra noi, piccola. Non sono a posto con la testa, e non tollero l’idea di rovinare tutto. Non pensi anche tu che sia meglio essere amici? Ho voluto darti un po’ di tempo affinché tu potessi arrivare alla stessa conclusione.» Lo fissava e basta. Analizzando le sue parole come fosse un estraneo. L’aveva penetrata in profondità e l’aveva fatta urlare in preda agli orgasmi. L’aveva salvata dal matrimonio. Le aveva detto la verità sul suo passato. E nonostante tutto questo, il suo volto non tradiva alcuna emozione. «Volevi dire qualcos’altro?» «Perché fai così? Non capisco perché vuoi buttare alle ortiche la nostra amicizia. Ti serve altro tempo? Dimmi cosa fare per sistemare le cose e lo faccio.» Posò lentamente la birra. L’unico segno di turbamento era che si stringeva le braccia intorno al petto, come se volesse proteggersi da lui. Provò un dolore profondo. Lo stava torturando. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, renderla felice, farla ridere. Ma adesso non era più come quando aveva lasciato David. Adesso lo guardava come se fosse il suo incubo peggiore. «Non puoi sistemarle», disse finalmente. I suoi occhi azzurri restarono calmi. «Non credo che tu capisca, Wolfe. Non siamo più bambini. Non posso smettere di amarti con un colpo di bacchetta magica. Non posso prendere un hamburger e una birra con te senza desiderare di averti nel mio letto e darti tutta me stessa.» «È un problema che possiamo risolvere. Col tempo le cose miglioreranno e torneranno come prima, te lo prometto.» Fece una risata amara. «No, non miglioreranno. Non se continuo a vederti e a ricordarmi quello che non potrò mai avere. È finita tra noi. È finito tutto. L’amicizia, le uscite, i messaggi, le telefonate e le email. Ho bisogno che tu te ne vada. Non voglio più vederti. E nemmeno essere tua amica.» Il panico gli attanagliava il petto, tanto da rendergli difficile respirare. «Non puoi dire sul serio. Sei ancora arrabbiata, ci sei rimasta male, ma io non vado da nessuna parte. Come puoi rinunciare a quello che c’è tra noi?» «Potrei farti la stessa domanda.» Si guardarono, sfidandosi. Lui posò con rabbia la birra e si passò le dita tra i capelli. «Questa è una cosa diversa», protestò. «Cazzo, ti ho anche spiegato il motivo! Stai punendo tutti e due per una cosa su cui non ho alcun potere. Io sto cercando di proteggerti!» Un sorriso triste le piegò le labbra. «No. Tu stai cercando di proteggere te stesso. Sei forte, coraggioso, puro di cuore, ma stai scappando come un vigliacco. Mi hai ferita rifiutandoti di lottare per noi due. Nascondersi dietro una bugia non cambierà la realtà. Mi dispiace che tu non possa avere tutto quello che vuoi, ma io non sono un premio di consolazione. Ho giocato tutte le mie carte e ho perso, quindi ho chiuso. Con te. Con noi. Dovrai trovare qualcun’altra per uscire. Per bere la birra, giocare a freccette e fingere di essere diverso da quello che sei. Perché io mi chiamo fuori.» Andò ad aprire la porta. Restò a bocca aperta. Lo stava buttando fuori? Non voleva più vederlo? Gli venne un capogiro e sentì un ronzio nelle orecchie, come uno sbatter d’ali di uccelli che lo disorientava. Non poteva perderla. Sarebbe morto senza di lei. «Vattene, Wolfe. E per favore non cercarmi. Ho bisogno di tempo per guarire e per imparare a vivere senza di te.» «Non farlo», disse con voce rotta. «Ti prego.» «Non è una punizione. È solo quello che devo fare.» Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì. Gen aspettò con pazienza, senza incrociare il suo sguardo, finché Wolfe si convinse a prendere la via della porta. Si fermò accanto a lei. «Gen.» Lei non disse niente. Wolfe se ne andò. Quando gli chiuse la porta alle spalle, si rese conto che forse c’era qualcosa di persino peggiore di quello che gli era capitato in passato. «Tesoro, che c’è che non va? Io e tua madre siamo preoccupati.» Gen fece un sorriso forzato ai suoi genitori. Girava la forchetta a vuoto nel piatto, senza appetito. Le era passato da quando Wolfe era andato da lei, qualche sera prima. Era assillata da un profondo senso di perdita da cui non riusciva a liberarsi. Strano, non aveva provato nulla di simile quando aveva lasciato David. Si sentiva come se avesse dato metà del suo cuore a una persona che non lo voleva. Era stata sul punto di cedere, accettando il poco che lui voleva darle. Ma sapeva che sarebbe stata una lenta agonia. Meglio strappare subito il cerotto, soffrire tanto ma per un tempo più breve. Al momento almeno le era sembrata una buona idea. «Solo qualche piccola seccatura.» «Ma sei contenta di essere tornata in ospedale, giusto?» le domandò il padre. «Sì.» Riprendere il lavoro era il primo passo. Ma non si sarebbe più fatta risucchiare nel vortice come prima, quando l’ospedale occupava tutto il suo tempo e i suoi pensieri. Poteva fare carriera anche avendo una vita. Senza David, aveva ricominciato a seguire il suo istinto, ed era contenta di poter prendere decisioni senza farsi influenzare da lui. «È Wolfe, vero?» Fissò la madre. Maria le prese le mani, guardandola dritto negli occhi. «Quel ragazzo è solo un amico», s’intromise il padre. «Ha avuto appena il tempo di superare la rottura del fidanzamento con David! Wolfe non c’entra niente.» «Sì.» Per il padre fu una fucilata. Maria annuì lentamente. «Lo immaginavo. Tutti quegli sguardi furtivi tra voi due. La gioia dipinta sulle vostre facce.» Le spuntò un sorriso. «Per me e tuo padre è stato lo stesso quando ci siamo innamorati. È difficile nascondere al mondo un amore di quel tipo.» «Amore? Dove siamo, in un’altra dimensione? Quand’è che tu e Wolfe sareste diventati più che amici? È il motivo per cui hai rotto con David? Ti ha fatto del male? Lo uccido, giuro che vado a cercarlo subito.» «Jim, datti una calmata.» Gen sospirò. Suo padre era una roccia quando si trattava di interventi, problemi di salute o problemi finanziari. Ma quando qualcuno spezzava il cuore a uno dei suoi figli, diventava uno squilibrato. «Papà, stammi a sentire un secondo. Wolfe non ha niente a che fare con me e David. David era un manipolatore e non eravamo fatti l’uno per l’altra. Mi sono accorta di provare dei sentimenti più profondi per Wolfe quando abbiamo cominciato a passare più tempo insieme. Mi sono innamorata di lui.» Jim saltò su dalla sedia. «Sapevo che sarebbe successo. Lui non va bene per te. Cosa ti ha fatto?» «Hai bisogno della pastiglia per il cuore, caro?» gli domandò Maria. «No, starò benissimo se mia figlia risponde alla mia domanda.» «Papà, per favore, calmati. Non voleva farmi star male. Io volevo più di un’amicizia, e lui no. Gli sono successe delle cose in passato e non crede di valere abbastanza. Non si ritiene degno di me. Non vuole prendersi il rischio.» Il padre cadde in silenzio. La osservò per un attimo, poi chinò la testa. Maria le prese la mano, i dolci occhi castani pieni di comprensione. «Mi dispiace tanto. So quanto soffri, adesso. Credi che col tempo ci ripenserà?» Di nuovo queste dannate lacrime. Era come una sindrome premestruale permanente. «No. So che mi ama, ma è fissato con l’idea che un giorno mi farà soffrire. Non riesco a convincerlo a provarci.» «No, non puoi riuscirci.» Maria si avvicinò e la abbracciò, cullandola come quando era piccola e premendole le labbra sulla testa. «Starai meglio. Ci vorrà un po’, sarà dura. Ma hai fatto bene a provarci.» «Forse è meglio così», disse il padre, acido. «Forse ti avrebbe fatto soffrire.» Genevieve tirò su col naso. «La garanzia non si può mai avere, papà. Volevo solo che avesse il coraggio di fare quel salto con me. La cosa che mi fa stare peggio è che non capisce quanto sia speciale. Gentile, affettuoso, protettivo. Mi rende... migliore.» Maria la lasciò piangere, e quando finalmente rialzò la testa, Gen si sentiva più tranquilla. Il padre se n’era andato. Capitolo 27 Wolfe finì la terza serie di sollevamenti alla sbarra e stramazzò. Le casse sparavano la musica aggressiva dei Mötley Crüe a tutto volume. Trangugiò dell’acqua, infilò i guantoni da boxe e si preparò a un’altra serie di pugni violenti al sacco. Avrebbe fatto di tutto per smettere di stare male. Pestava il sacco da cinque minuti buoni quando la musica si spense. Riprese fiato, si asciugò il viso con un asciugamano e si girò verso Sawyer. «Sei qui per prenderti una bella batosta?» disse con un sorriso. Sawyer non sorrise. Aveva il volto tirato e sembrava preoccupato. Oh-oh. Wolfe conosceva quell’espressione. L’aveva vista spesso quando aveva diciannove anni, venti, e sì, forse fino a ventuno. Voleva fargli un discorso. «Dopo, magari. Hai un minuto?» Non se la sentiva, al momento. Una chiacchierata a cuore aperto con l’unica persona che lo capiva rischiava di tirargli fuori qualcosa che voleva tenersi dentro per sempre. «Possiamo fare dopo?» Sawyer sospirò e si sedette sulla panca. «Non è una cosa lunga. Come mai sei tornato in Italia?» Wolfe s’irrigidì, evitando d’incrociare il suo sguardo. «Te l’ho detto. Volevo stare qualche settimana ma Gen doveva tornare a casa. L’ho riaccompagnata e sono tornato. Se ti do fastidio me ne vado. Bastava dirlo.» «È questo che pensi?» Restò un attimo in silenzio. Si stava comportando da imbecille e lo sapeva. «Scusa. È un momento difficile, sto cercando di venirne fuori.» «Questo posso capirlo. Senti, sono contento di averti qui. Sono strafelice e voglio che resti il più a lungo possibile. Ma sei diverso, e credo che abbia a che fare con Gen. Non voglio farmi gli affari tuoi, ma con me puoi parlare. Ci sono passato anch’io.» Inspirò con forza e guardò il padre adottivo. «Lo so. Mi serve solo un po’ di tempo, poi starò meglio.» Sawyer annuì ma era evidente che non gli credeva. «Lo rispetto. Se hai bisogno sono qui. Ti dico solo una cosa. Quando ho conosciuto Julietta, volevo che la nostra fosse soltanto una storia di sesso.» Wolfe fece una smorfia. «Risparmiami questi particolari, amico.» «Scusa, ma è per spiegarti. Presto tra noi è nato qualcosa. C’era molto più dell’attrazione fisica, ma io lo negavo perché non mi sentivo all’altezza a causa di certe cose che avevo fatto in passato. Mi ha convinto che mi sbagliavo, ma ci è voluto del tempo. Devi capire, Wolfe, che quando una donna ti ama, non vede il passato, gli errori e le stronzate. Vede solo il futuro.» Restò in silenzio. Sawyer si alzò e gli strinse una spalla. «Ho finito. Ti conviene farti una doccia perché hai un appuntamento.» «Con chi?» «Mamma Conte ti aspetta a cena alle sei.» «Venite anche voi?» Sawyer lo guardò. «Stavolta no. Ha invitato solo te. Buona fortuna.» Sparì, lasciandolo coi suoi pensieri, il rammarico e il sudore. «Ah, cazzo.» Wolfe cominciò a rilassarsi. La cena era stata perfetta. Solo quattro portate invece che sei, e fare due chiacchiere in santa pace solo con mamma Conte era stato piacevole. Gli aveva raccontato di quando Julietta era piccola, di quando aveva avviato il panificio, e del potente uomo che aveva amato, sposato e perduto. Non aveva accennato a nulla di personale e non sembrava avere particolari preoccupazioni. Finì di macinare i chicchi di caffè e preparò due tazze di espresso da bere coi biscotti agli amaretti appena sfornati. «Hai mai pensato di poter fallire quando hai aperto La Dolce Famiglia?» le chiese tornando a sedersi sulla sedia di legno. Mamma Conte sorrise e si sedette accanto a lui. «Certo. Ma avevo un compagno accanto, e sapevo che, se anche fosse andata male, almeno ci avevo provato. I sogni, il lavoro duro e i fallimenti non sono cose di cui vergognarsi. L’unica cosa vergognosa è non provare.» Mangiucchiò un biscotto. «Come il sogno di Sawyer con il Purity.» «Sì. O di Michael quando ha aperto La Dolce Maggie. Da piccolo voleva fare il pilota di auto da corsa.» «Non ci credo.» Non se lo vedeva Michael nei panni di un giovane e sfrontato pilota. L’italiano era alto ed elegante, aveva una voce profonda e un fascino incredibile, ed era uno degli uomini d’affari più in gamba della nazione. «Non ce lo vedo proprio.» «Ah, è stata dura per lui rinunciare a quel sogno. Quando è morto mio marito, Michael ha preso l’azienda sulle sue spalle e non si è più voltato indietro. Sono sicura che ha dei rimpianti, ma quella scelta gli ha fatto trovare Maggie e una nuova vita. Al momento non sappiamo mai cosa ci riserva il futuro. A volte ci vuole un atto di fede.» Rifletté sulle sue parole, aggrappandosi a quella teoria come a una Bibbia del cuore. Era meraviglioso credere che ogni momento, buono e cattivo, avesse un significato. Non aveva mai pensato alla sua vita in quei termini. La perdita di Genevieve aveva creato un vuoto che niente riusciva a riempire. «Ricordi quello che ti ho detto quella domenica di tanti anni fa? La prima volta che sei stato qui?» Wolfe batté le palpebre. Quel pomeriggio era impresso nella sua memoria ed era stato uno dei punti di svolta della sua vita. Avevano pranzato con Sawyer e Julietta e dopo il dolce lei gli aveva chiesto di parlargli in privato. «Sì, certo. Hai detto che ero sempre il benvenuto a casa tua e che ero parte della vostra famiglia. Che ero un ragazzo in gamba e un giorno me ne sarei accorto.» Un debole sorriso. «Bene. E l’ultima cosa che ti ho detto?» Riascoltò mentalmente la conversazione. «Che stavo cercando qualcosa e che un giorno l’avrei trovata. Ma che dovevo essere abbastanza coraggioso da pensare di meritarla.» «Esatto, ragazzo mio. Sono orgogliosa dell’uomo che sei diventato. Sei il figlio di Sawyer e Julietta, sei mio nipote, sei il cuore e l’anima del Purity e possiedi una saggezza e una dolcezza che mi commuovono. L’ultima volta che sei stato qui, mi sono accorta che eri cambiato. Non sapevo chi fosse, ma quando ho conosciuto Genevieve, ho capito tutto.» Wolfe cambiò posizione sulla sedia, alzando le barricate. «Io e Gen siamo amici.» La bugia gli bruciò la lingua. Mamma Conte buttò la testa indietro e ridacchiò. «Avete cominciato da amici, sì. Ma siete anime gemelle. Siete fatti l’uno per compensare l’altra.» «Non mi va di parlarne, adesso. Non funzionerebbe tra noi. È meglio così.» Lei continuò a parlare come se lui non ci fosse. «Se solo avessi un modo per farvi sposare. Purtroppo stavolta non funzionerà.» «Scusa?» «Niente. Hai scoperto cosa stai cercando?» Era confuso dal repentino cambio di discorso. «Niente. Ho tutto quello che voglio.» Un’altra bugia. «Wolfe Wells. È una cosa importante. Non fare l’insolente e dimmi la verità.» Il rimprovero fu come una frustata. Guardò l’anziana donna che lo fissava con intensità e la risposta gli uscì dall’anima. «Qualcosa di bello. Sto cercando qualcosa di bello in questo mondo.» Le emozioni penetrarono sotto le barricate, misero le radici e cominciarono a fiorire. Era abituato a strappare le erbacce portandosi appresso anche i fiori, ma stavolta si fermò. Lei gli rivolse un sorriso pieno di gioia, conforto e bontà. Allungò le braccia, gli afferrò i polsi con le mani forti e li sollevò. «Sì. E finalmente l’hai trovato, mio dolce ragazzo. È l’amore. Genevieve è la risposta, ma a volte la cosa più difficile e che richiede più coraggio di tutte è lasciarci amare.» Gli tolse lentamente i bracciali, scoprendo le cicatrici. «Concediti di essere felice. Questo ragazzo che ha cercato di togliersi la vita, che ha sofferto e ha subito perdite terribili, è una parte di te. Ma non deve prendere il sopravvento. Non più. Devi andare da lei e dirle la verità. Lo capisci?» Wolfe la fissò. La sua voce echeggiò in un luogo della sua anima, in una stanza sporca, dove gli uomini l’avevano usato e da dove aveva provato a scappare. Poi però emerse un’altra immagine, quella del volto sorridente di Gen, dei suoi occhi pieni d’amore quando lo baciava, lo abbracciava e gli mostrava qualcosa che era possibile. Qualcosa di bello. Uno strano bruciore agli occhi. «E se va male? Se fallisco?» Gli strinse i polsi ancora più forte e gli accarezzò la guancia con tenerezza. «Non importa. Chi prova non fallisce mai.» Cominciò a tremare. Quando era piccolo desiderava disperatamente qualcuno che lo abbracciasse, che lo consolasse, che gli asciugasse le lacrime, ma non aveva nessuno. Adesso invece, nella cucina di mamma Conte, si sentiva al sicuro. Si sentiva amato. Lei lo prese tra le braccia e lo strinse forte. «Mi serve un piano.» Sul campo da golf, Nate restò in silenzio, preparandosi al tiro. Era un pomeriggio di ottobre. L’aria era pesante e umida e l’erba ancora lievemente bagnata dopo la pioggerella del mattino, ma nessuno dei due aveva voluto rinunciare al solito mercoledì mattina al golf. Nate eseguì uno swing pulito, con un arco e una traiettoria perfetti. «Bello.» «Grazie. Mi fa piacere non aver perso colpi. Hai annullato due volte questo mese. Ti sei stufato di vedermi? O volare in Italia per capriccio è più importante del golf?» Alzò gli occhi al cielo e prese il bastone. «Frequenti un po’ troppo Benny. Stai diventando melodrammatico.» «Stronzo.» «Metrosessuale.» «Ohi.» Rise, si preparò e fece il suo tiro. Il suo sorrisetto compiaciuto quando la pallina atterrò vicino al green fece scuotere la testa a Nate. «Forse una vacanza in Italia è proprio quello che ci vuole per migliorare il tuo gioco. Vuoi un handicap?» «Coglione.» Wolfe sorrise e s’incamminarono. «Per tornare a quello che stavi dicendo. Che tipo di piano ti serve?» Wolfe aveva deciso di cominciare a essere più aperto con le persone che sentiva più vicine. Non sarebbe stato facile, ma era ora di provarci. «Te la faccio breve. Io e Gen abbiamo cominciato ad andare a letto insieme, ci siamo innamorati, lei mi ha chiesto di più, io sono andato nel panico e ho detto di no, lei mi ha mollato e io sto cercando di riprendermela.» «Perché sei andato nel panico?» «Ho dei problemi.» Nate scoppiò in una risata. «Ma dai. Chi non li ha? Okay, quindi lei è arrabbiata e non vuole vederti.» «Esatto.» «Sembra quello che è successo a me e Kennedy.» «Sì, ma una dichiarazione sullo striscione al campo da golf non mi aiuterà. Mi serve qualcosa di eccezionale.» Nate arricciò il naso. «Lo striscione era eccezionale. Slade a Kate ha regalato delle poltrone reclinabili.» «Che squallore.» «Già, gliel’ho detto anch’io. Una poesia? Dare il suo nome al Purity?» Wolfe lo guardò in cagnesco. «Ma che consigli sono? Vengo da te a cuore aperto e questo è l’aiuto che mi dai?» «Sono un uomo. Non so cosa vogliano le donne. Una serenata davanti a casa sua?» «Okay, lasciamo perdere.» Ricominciarono a giocare ma Wolfe ancora non sapeva come fare per scusarsi, dichiarare il suo amore a Gen e supplicarla di dargli un’altra possibilità. Sentiva che le faceva più male. Da quando era tornato dall’Italia, aveva cominciato a guardare le cose con altri occhi. Con meno paura. Aveva persino ripreso l’analisi, deciso a continuare a lavorare su se stesso. Si toccò i bracciali, tastando la pelle sudata sotto, e d’un tratto si bloccò. Gen era una persona diretta. Senza fronzoli. Grintosa, coraggiosa e onesta. Avrebbe fatto la cosa più semplice. Niente striscioni, poesie o scritte sui dirigibili pubblicitari. Solo la verità. «Ci sono.» Nate annuì. «Bene. Finiamo la partita prima che tu vada a riprenderti la tua donna?» «Sì. Giochiamo.» Col cuore più leggero, Wolfe si concentrò sul golf, grato per i buoni amici. Gen rise quando Lily e Maria le balzarono addosso facendo a gara a chi riceveva più abbracci. Le prese entrambe e fece loro il solletico senza pietà. Le loro risate stridule le ricordarono che anche nei periodi di sofferenza la vita offriva dei momenti bellissimi. Si lasciò cadere sul tappeto, esausta, e Alexa scosse la testa. «Bambine, fate prendere fiato alla zia. Non è più giovane come prima.» Gen le fece la linguaccia. «Parla per te, sorella. Ho appena fatto due turni di seguito, altrimenti ti darei una strapazzata a Just Dance.» Lily saltò su e giù. «Sì! Facciamo una partita con la Wii! Io sto con zia Gen!» «No, io», gridò Maria. Alexa fece il broncio. «E vostra madre? So ballare anch’io!» Le bambine fecero la faccia dispiaciuta ma non dissero nulla. Nick rise, stringendo la moglie per la vita. «Io punto su di te, tesoro. È solo che le bambine preferiscono roba più moderna di Thriller.» «Cos’ha Michael Jackson che non va?» rispose. «Devono conoscere i classici.» Suonò il campanello. Gen si alzò in piedi. «Lasciate, vado io. Saranno Lance e Gina, sono in ritardo. Qualcuno di noi deve aver chiuso la porta per sbaglio.» Maria urlò dalla cucina. «Qualcuno va ad aprire?» «Ecco!» Corse lungo il corridoio e aprì la porta. «Avete dimenticato le chiavi? Come mai...» Smise di parlare e spalancò gli occhi. Wolfe. Le sfuggì un lieve pigolio. Era da urlo. Sexy da morire. Portava un maglione a girocollo blu con il logo del Purity che gli aderiva al dorso asciutto mettendo in risalto i penetranti occhi azzurri, e dei jeans sbiaditi a vita bassa. Il volto era un po’ stanco, ma osservò golosamente le sue labbra piene, il disegno arcuato delle sopracciglia e gli zigomi scolpiti. Si era rasato la mascella e l’odore del dopobarba e del sapone le salì alle narici. Strinse la maniglia della porta, cercando disperatamente di mantenersi lucida. «C-che ci fai qui?» sussurrò. «Devo parlarti.» «Ci sono i miei. Ti avevo detto di non cercarmi più.» Si morse il labbro con forza, per farlo smettere di tremare. Per impedirsi di dirgli che lo amava ancora, che lo desiderava, che lo sognava. «Devi andartene.» «Non prima di aver detto quello che devo dire.» Si sentirono dei passi alle sue spalle. «Sono Lance e Gina... oh! Wolfe, caro, entra pure.» «Grazie.» Sua madre accolse in casa l’uomo che le aveva spezzato il cuore. Lui si fermò nell’atrio, in imbarazzo, con le spalle basse, chiaramente nervoso. Cosa voleva? Cosa poteva avere da dire dopo tutte quelle settimane di silenzio? «Vieni.» «No, preferisco stare qui. Devo dire un paio di cose a Gen.» Oh-oh. Sentì altri passi alle sue spalle e, quando si voltò, quello che vide confermò le sue peggiori paure. Nick e Alexa erano sulla soglia dell’atrio, e suo padre alle loro spalle, con un’espressione preoccupata. La madre era rimasta in mezzo ed era immobile, come se stesse aspettando qualcosa. Per fortuna Lily e Maria erano scese in taverna a giocare con la Wii. «Vi lasciamo soli», disse la madre, facendo per andarsene. «No, restate.» Gen lo guardò. Paura e determinazione baluginavano nell’azzurro profondo dei suoi occhi. «Sono cose che avrei dovuto dire a Gen già da molto tempo. E poiché siete la sua famiglia, e parte della sua vita, devo dirle anche a voi.» Calò il silenzio. Dal piano di sotto giunse lieve il suono della musica. Stavano tutti col fiato sospeso, in attesa che lui parlasse. Il cuore di Gen batteva così forte che stava per venirle un infarto. Le colava il sudore lungo la schiena. Perché era venuto? Di nuovo per scusarsi? O per un altro motivo? Qualcosa che poteva solo sognare? Quando gli occhi di Wolfe si posarono su di lei, tutto il resto scomparve. «Quando mi hai chiesto cosa provassi per te, avevo troppa paura. Siamo amici da tanto tempo e l’amicizia non mi spaventava, ma negli ultimi mesi le cose sono cambiate. Mi sono innamorato di te. Amo tutto di te. Ma certe cose che ho fatto in passato non mi facevano sentire degno di te. Provavo troppa vergogna. Così ho creduto di doverti risparmiare un futuro di sofferenza con me. Ero convinto di farlo per il tuo bene. Ma mi sbagliavo, Gen. Finalmente so la verità.» Avanzò di un passo. Lei restò immobile, stregata dalle sue parole, in cima a una vetta di tale bellezza da toglierle il respiro. «Ti amo. Ti ho sempre amata. E non è il passato che deve dirmi chi sono e come sarà il nostro futuro insieme. Forse ti farò soffrire, ma almeno devo provarci. Se mi vuoi. Se puoi perdonarmi di non essere stato coraggioso quanto te, e di non essermi preso il rischio come avresti meritato. Giuro che passerò il resto della mia vita a ripagarti.» La madre inspirò con forza. Dietro di lei, sentì la sorella tirare su col naso. In piedi davanti all’uomo che amava, Gen aprì la bocca per dire di sì. E lui si tolse i bracciali di cuoio e glieli mise in mano. La pelle cicatrizzata era nuda sotto i suoi occhi. «Basta nascondersi. Mi sono sempre chiesto perché non sono morto, quel giorno. Adesso lo so. Ero destinato a trovare te, Sawyer e Julietta, mamma Conte. Tutti voi. E vorrei far parte di questa famiglia, se mi vorrete.» Le aveva fatto il dono più grande, il più prezioso e fragile, e quasi non s’azzardava a muoversi per paura di rompere l’incantesimo. Allungò le mani verso di lui e si rifugiò tra le sue braccia. Al suo posto. Si sentì avvolta dal suo calore e dalla sua forza. Si alzò in punta di piedi baciandolo, accarezzandogli le guance e sussurrandogli ripetutamente: «Ti amo». Nel giro di qualche minuto, Wolfe aveva tutta la famiglia intorno, a offrirgli il sostegno e l’accoglienza che era nel loro DNA. Alexa stava già piangendo, la madre lo abbracciò e Nick gli diede una pacca sulla spalla. Quando finalmente stavano per spostarsi in soggiorno, suo padre si avvicinò. «Papà», l’avvertì lei, cingendo la vita di Wolfe con le braccia. «Lo amo.» Wolfe guardò suo padre negli occhi. «Jim, io...» «No.» Il padre alzò una mano per interromperlo. «Prima voglio dire una cosa. Avevo torto.» Aspettarono, mentre lui sembrava radunare i pensieri. «Ti ho detto di starle alla larga per non farla soffrire, perché tu eri come me.» Scosse la testa con forza. «Cercavo solo di proteggerla da qualcosa che non ho alcun diritto di negarle. Avrò commesso degli errori stupidi, ma se qualcuno mi avesse impedito di stare con Maria per quel motivo, non avrei avuto la mia famiglia. Non avrei avuto niente per cui lottare, niente per cui valesse la pena vivere. Quindi avevo torto. Tutti meritiamo una possibilità, e spero che tu possa perdonarmi.» Wolfe gli strinse la mano. «Già perdonato.» I parenti si allontanarono e restarono soltanto loro due. Non riusciva a smettere di toccarlo, di stringersi a lui. Finalmente era suo. «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» gli domandò con dolcezza. Wolfe sorrise. «Certe persone molto in gamba che mi vogliono bene.» Rise e lo baciò. «Ne sono felice.» La baciò anche lui e l’abbracciò. «Anch’io.» Epilogo Gen guardò il casino tutt’intorno e sospirò. Odiava i traslochi, ma ne sarebbe valsa la pena. C’erano pile di carta, scatoloni e vestiti ovunque. Come ci stava tutta quella roba nella sua casetta? «Gen? Ci sei?» «Sono in camera!» gridò. Kate si fece largo tra gli scatoloni con una tazza di caffè, seguita da Arilyn. Gen salì sul materasso e scese dall’altra parte. «Caffè! Oh grazie, grazie mille!» Kate rise. Arilyn invece s’accigliò. «Secondo me hai una dipendenza da caffeina. Il tè contiene antiossidanti e ha molti benefici per la salute. Dovresti fare il cambio.» «Comincio domani», mormorò lei affondando il naso nella tazza e inspirando il profumo divino del caffè. «Ho bisogno di qualche vizio per finire d’imballare tutta questa roba.» «Be’, siamo qui per darti una mano», ribatté Arilyn col solito atteggiamento positivo mentre il suo cervello super organizzato valutava la situazione. «Spero che tu non stia facendo le cose di corsa a causa mia. Già mi hai salvato la vita affittandomi casa tua. Nella mia hanno trovato la muffa nelle tubature.» Rabbrividì. «Pensa cos’abbiamo respirato io e i miei poveri cani.» Gen le strinse la mano. «Sono contentissima che tu possa venire a stare qui. Io e Wolfe abbiamo bisogno di essere più vicino alla città per lavoro, e anche se questa casa è un po’ piccola mi rifiuto di venderla. È troppo speciale.» Arilyn si guardò intorno e sorrise. «Sì, lo è. Sei sicura che i cani non siano un problema, vero?» Gen rise e sollevò uno scatolone. «Puoi tenere tutti i cani che vuoi. Ho vissuto con mia sorella Alexa, ricordi? Portava sempre a casa animali dal rifugio. A sentire Nick, lo fa ancora.» «Adoro tuo sorella», disse Kate. «I tuoi vengono tutti, al matrimonio. Sarà uno sballo.» Tolse le lenzuola dal letto e le ficcò in uno scatolone in qualche maniera, stile Kate. D’un tratto si fermò, tirando fuori qualcosa da sotto il materasso. «Ehi, questo cos’è?» Gen si voltò. Kate aveva in mano un pezzo di carta bianco. L’incantesimo d’amore. Le tornò in mente quella serata. Aveva bevuto un margarita di troppo ed era triste perché aveva sempre più dubbi su David, così aveva convinto Arilyn e Kennedy a completare un incantesimo che aveva letto sul libro viola che le aveva dato Kate. Dov’era quel libro? E cos’aveva scritto lei nella lista? «È l’incantesimo», sussurrò, strappandolo dalle mani dell’amica. «Me n’ero completamente dimenticata.» «Dal Libro degli incantesimi?» strillò Kate. «Arilyn, non l’hai fatta anche tu, la lista?» Arilyn arrossì. «Sì, ma ero ubriaca quella sera. Non so dove l’ho messa.» «Leggila, Gen! Guarda se le cose che hai elencato corrispondono a Wolfe!» «Sarebbe impossibile», osservò cominciando a scorrere l’elenco. Ricordava che le istruzioni dicevano chiaramente di scrivere le caratteristiche che si desideravano in un uomo su due fogli, poi di bruciarne uno e di mettere l’altro sotto il materasso. La madre terra o l’universo avrebbero provveduto a far trovare l’uomo richiesto. Kate aveva giurato che con lei e Slade aveva funzionato. E anche con Kennedy e Nate. «Ho fatto l’incantesimo quando ero fidanzata con David, quindi probabilmente le caratteristiche...» S’interruppe. Continuò a leggere. Sentì un brivido lungo la schiena. Che strano. David non aveva nessuna delle qualità che aveva elencato, eppure ricordava bene di aver scritto tutto quello che sognava di trovare in un compagno. Una profonda amicizia Rispetto Grande senso dell’umorismo Sesso strepitoso Un uomo di carattere Un uomo che crede in me qualunque scelta io faccia Un uomo che non giudica Non un perfezionista Un tipo tosto Uno con dei difetti, come me Un uomo disposto a prendersi dei rischi. La lista era la descrizione di Wolfe. «Oh mio Dio, ha funzionato, vero?» domandò Kate. Le tremava la lista in mano. Impossibile. Gen alzò lo sguardo. Le amiche la guardarono. «Questo è Wolfe. Non David.» Arilyn rabbrividì. «È una coincidenza. Giusto?» Kate si morse il labbro. «Può darsi. Ma c’è ancora una persona che può confermare se l’incantesimo funziona.» Guardò Arilyn. «Devi controllare se il tuo istruttore di yoga possiede le qualità che hai scritto nella tua lista.» Arilyn fece una risata forzata. «Non so nemmeno dove l’ho messa. Sentite, è una stupidaggine. Smettiamola di parlare di incantesimi e vudù e rimettiamoci al lavoro. Io comincio dal soggiorno.» Prese uno scatolone e uscì dalla camera. Kate e Gen si scambiarono un’occhiata. «Scommetto che ce l’ha sotto il materasso.» «Sicuro come l’oro», concordò Gen. «Ce ne occuperemo più tardi. Hai ancora il libro?» Ce l’aveva? Controllò sugli scaffali e trovò un libro viola. Il libro degli incantesimi. Senza autore. «Eccolo.» Kate alzò le mani. «Non voglio toccarlo. L’ultima volta mi sono presa la scossa. Tienilo e vediamo cosa succede con Arilyn.» «Affare fatto.» «Posso unirmi a questo affare?» Alzò lo sguardo. Wolfe aveva in mano una tazza di caffè e un sacchetto della pasticceria e sorrideva. «Qualcuno ha bisogno di caffeina?» Gen gli si gettò tra le braccia, saltandogli al collo e stringendosi forte a lui. Le loro bocche si unirono e il cuore le si gonfiò così tanto che pensò le sarebbe esploso dal petto. Lentamente, lui la fece scivolare a terra. «Mi sei mancata.» «Anche tu.» Ammiccò. «Ciao Kate.» Kate gli fece un grande sorriso contagioso. «Ciao, Wolfe.» «Grazie per l’aiuto che ci stai dando.» «Nessun problema. Sono contentissima per voi due.» Si avvicinò e li abbracciò entrambi. «Siete i migl... porca miseria!» Kate fece un balzo indietro con la bocca spalancata e inciampò, cadendo sul sedere. Batté le palpebre, sorpresa, e si guardò le mani. «Ti sei fatta male?» Gen voleva aiutarla a rialzarsi ma Wolfe l’aveva già tirata su. «Cos’è successo?» «Non venitemi vicino!» Gen restò di sasso. Era spaventata, ma Kate scoppiò in una risata profonda e gioiosa. «Se non mi dici subito cosa sta succedendo do in escandescenze», l’avvertì, accigliandosi. Kate scosse la testa, mantenendosi a distanza. «Scusa, non volevo spaventarti. Ho solo v-v-visto un r-rragno.» «Dove?» Wolfe si guardò nervosamente intorno. Gen guardò l’amica con sospetto. «Niente, è scappato, non preoccuparti.» Kate agitò la mano per non dare importanza all’episodio. «Devo andare. T-torno subito.» La guardarono scavalcare il letto per evitare di passare accanto a loro e fermarsi sulla soglia. «Sono così contenta!» E sparì. «Che roba era?» domandò Wolfe. «Hai visto dei ragni?» «No, tesoro. E se li vedo, li faccio fuori. Sarà la mia promessa di matrimonio.» Le tirò i riccioli e rise. «Furbona.» Si guardò intorno. «Dimmi la verità. Ti mancherà questa casa?» Sorrise. «Certo. È il posto in cui ci siamo innamorati. Ma Arilyn se ne prenderà cura, e noi avremo una nuova casa. La nostra casa.» «Sì, la nostra casa.» Corrugò la fronte. «A proposito di case, hai registrato House Hunters?» Alzò gli occhi al cielo. «Ci siamo persi la puntata di ieri perché dovevo già registrare The Bachelor – L’uomo dei sogni. Lo vedremo quando faranno la replica.» «Okay. Nella nuova casa avremo due videoregistratori digitali. E due telecomandi.» «Va bene.» «E basta con quegli inquietanti gemelli. Società di fratelli o come diavolo si chiama. Sono strani.» «Fratelli in affari. E sono grandissimi! Se mettessero le mani su questa casa la farebbero diventare una reggia.» «Sono inquietanti, non li ingaggerei mai. E poi questa casa mi piace così com’è.» Indicò il foglio accartocciato che aveva in mano. «Quella cos’è? Un’altra lista di cose da fare?» Guardò la prova del suo incantesimo d’amore. Se solo avesse saputo. La buttò nel cestino e giurò di non preoccuparsi. Gli incantesimi d’amore non funzionavano. E comunque non le importava di come accadevano le cose. Tutto ciò che sapeva era che l’uomo della sua vita era suo, e che stavano per costruire un futuro insieme. «La migliore lista di tutte. Ti amo.» «Ti amo anch’io, piccola.» Si chinò e la baciò di nuovo, e tutto era... bello. FINE Indice Presentazione Frontespizio Pagina di copyright Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Epilogo Seguici su IlLibraio www.illibraio.it Il sito di chi ama leggere Ti è piaciuto questo libro? Vuoi scoprire nuovi autori? 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