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Gli amici della musica, aprile 2004
Noi filologi: facciamo il punto
di Roberta Pedrotti
MILANO - Noi filologi era la progettata quarta Inattuale di Nietzsche, poi accantonata per la
redazione di Richard Wagner a Bayreuth e mai più ripresa. Un bel titolo, che, nella sua semplicità
quasi monumentale, suggerisce una riflessione su quegli studi affascinati e preziosi quanto fragili,
se già Seneca attaccava il Litterarum inutilium studium e lo Studium supervacua discendi di chi, tra
capziose questioni filologiche, dimentica l’oggetto reale dello studio. Eppure si tratta spesso di
dettagli di grande importanza, come quel Tamquam restituito filologicamente nella Germania di
Tacito in luogo di un Quanquam che permetteva di interpretare il passo come una conferma delle
teorie naziste, quando lo storico latino notava semplicemente caratteristiche fisiche simili "per
quanto possibile in una popolazione così numerosa". Rispetto a quella letteraria, però, la filologia
musicale presenta l’ulteriore difficoltà di dover ricostruire un linguaggio stilistico ed interpretativo
che va oltre il segno scritto. Il vero filologo deve essere, dunque, egli stesso interprete di un’arte cui
dona nuova vita, fornendo un testo il più possibile vergine, svelando così all’artista innumerevoli
chiavi di lettura, tutte plausibili perché legate al testo ed alla realtà in cui operava l’autore. Spesso la
tradizione arriva a cristallizzare delle varianti, contro all’ammonimento di Garcia: «Si deve variare
un pensiero ogni volta che questo pensiero si ripete, sia in totalità, sia in parte; è questa una cosa
indispensabile, e per comunicare una nuova attrattiva al pensiero, e per sostenere l’attenzione
dell’uditore». I mezzi per rendere attraente il pensiero e catturare così l’attenzione, sono dati dalla
filologia, che libera, appunto, il pensiero e ne ricostruisce il linguaggio. L’opera del filologo deve
però trovar riscontro nella sensibilità degli artisti di cui si fa strumento, dai quali può ricevere nuovi,
fondamentali stimoli. Sotto questo profilo la Beatrice di Tenda vista agli Arcimboldi è un esempio
illuminante di come l’interprete possa rivelare un volto nuovo ed autentico (ma non unico)
dell’opera, direttamente ispirato dal testo di Bellini e Romani (in questo caso nella revisione di
Armando Gatto). L’estetica, inevitabilmente perduta, del primo ottocento è assunta e rivissuta in
una moderna interpretazione drammaticamente incalzante, grazie soprattutto alla felicissima
collaborazione fra Mariella Devia e Renato Palumbo. Né soprano leggero né drammatico d’agilità,
la Devia si potrebbe oggi definire un soprano di coloratura drammatica, capace di conferire al
belcanto più puro e celestiale una sua specifica intensità, una particolare carnalità, ben evidente
nella scena finale della Beatrice. Questa sublimazione che nulla concede all’astrazione, ma che
continua a palpitare di vita trova perfetto riscontro nel gesto di Palumbo, capace di cesellare
sfumature e dettagli dinamici senza perdere l’intima tensione che innerva una lettura
drammaticamente vivissima. Non si tratta solo, dunque, di un eccelso soprano e di un direttore di
grandissimo talento, conoscitore come pochi delle voci e del teatro, ma soprattutto la perfetta
sintonia tra due artisti di rara intelligenza e personalità. Lo dimostrano le variazioni scelte ed in
particolare la mancanza di acuti al termine delle cabalette .
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Come ricorda anche Marco Beghelli nel suo bel saggio sul Trovatore (Per fedeltà a una nota, "Il
Saggiatore Musicale",VIII, 2001), la questione delle puntature acute è filologicamente piuttosto
complessa, ma generalmente la prassi, almeno fino a quel periodo di svolta che va dalla prima
Traviata (1853) al primo Boccanegra (1857), prevedeva l’eventuale acuto non sulla tonica
nell’ultima battuta, ma sulla dominante della penultima. Senza ipotizzare un assurdo decalogo delle
variazioni permesse o meno, è chiaro che avvicinare l’opera, con variazioni ed acuti più
appariscenti, ad un romanticismo espada lontano da Bellini, può falsare la prospettiva di una
moderna ricezione della Beatrice. Composta nel 1833, mentre Bellini, Donizetti e Meyerbeer
elaboravano l’eredità rossiniana e alla loro ombra si formavano Verdi e Wagner, Beatrice di Tenda,
tutt’altro che un’opera minore, presenta un intreccio politico e psicologico, senz’ombra di reale
intrigo erotico. Filippo ama Agnese, sorta di Seymour o di Eboli in sedicesimo, o piuttosto la
contrappone ad una sposa che l’ha annoiato? Che sviluppo hanno i sentimenti di Agnese ed
Orombello, se non vendetta e debolezza? Non stupisce dunque l’importanza assunta dai recitativi,
come il magnifico arioso di Beatrice ed il successivo dialogo con Orombello che aprono il finale
primo, continuamente esaltati dalla concertazione sempre accesa e ben calibrata. Il discorso è
analogo per i pezzi d’assieme, che costituiscono il vero nucleo di una partitura dove si contano ben
pochi numeri solistici (la cavatina di Beatrice e l’aria di Filippo, oltre alla cavatina di quest’ultimo
incastonata nell’introduzione ed all’aria dell’eroina nel finale secondo) e due duetti nel primo atto.
L’introduzione, quadro eloquente della noja e del martire del Duca; il travolgente finale primo; la
grande scena del giudizio (della quale si può ravvisare un precedente in Bianca e Falliero, su
libretto dello stesso Felice Romani): si tratta sempre di brani in cui è sì presente la classica
ripartizione della solita forma (tempo d’attacco, concertato, tempo di mezzo e stretta), ma elaborata
verso un discorso musicale più unitario e drammaticamente coeso di quanto non facciano
immaginare strutture i cui confini sono abilmente sfumati da Bellini. È perciò entusiasmante e
rivelatrice la fluidità con cui Palumbo sul podio stacca dinamiche in continua evoluzione,
dimostrando come tali schemi formali non siano più che uno strumento concettuale. È, sosterrà
Boito anni dopo, la Formula contrapposta alla Forma, là dove anche le formule sono elementi d’un
linguaggio poetico (potremmo negare valore letterario ai versi omerici?), ma che deve essere
compreso, letto e vissuto nell’ambito di un’unità formale superiore unica e complessa, quale può
essere la Beatrice, il melodramma del primo ottocento, l’idea stessa del teatro musicale come erede
della tragedia classica. Questo è il vero scopo della filologia, che, come in questo caso, arricchisce
l’interprete e diviene arte a sua volta.
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Bresciamusica, ottobre 2004
La traviata: presentazione
di Roberta Pedrotti
“Si chiamava Alphonsine Plessis, dal quale nome ella aveva composto quello più armonioso
e più elevato di Marie Duplessis. Era alta, molto sottile, nera di capelli, bianca e rosa in volto.
Aveva la testa piccola, dei lunghi occhi smaltati come una giapponese, vivaci e arguti, le
labbra rosse come ciliegie, i più bei denti del mondo; si sarebbe detta una figurina di Saxe.
Nel 1844, quando la vidi per la prima volta, sbocciava in tutta la sua opulenza e bellezza.
Morì nel 1847, d’una malattia al petto, all’età di ventitre anni.” Così Alexandre Dumas fils
ricorda la cortigiana più nota ed ammirata di Parigi, consegnata all’immortalità, sotto il nome
di Marguerite Gautier, da un amante meno abbiente di altri, ma dal grande talento letterario.
Verdi, con tutta probabilità, assistette nel ’51 alla pièce che Dumas trasse da La dame aux
camèlias e se ne innamorò: aveva trovato il soggetto per la sua nuova opera. Alphonsine,
dunque, mutava nuovamente nome, questa volta in Violetta Valery, ma con non poche
precauzioni da parte del librettista Piave. Questi, dopo i guai con la censura per Rigoletto,
decise di addolcire la provocatoria attualità di un soggetto che, santificando una prostituta,
additava con disprezzo l’ipocrisia della morale borghese. Che in questo Verdi sentisse un
richiamo autobiografico alla sua convivenza con Giuseppina Strepponi è dettaglio più
romanzesco che storico; certo, mal sopportò l’ambientazione “nel 1700 circa”, ai tempi di
Richelieu e del Re Sole. Tuttavia, nonostante la volontà dell’autore, l’indicazione oggi
comunemente riportata nel libretto, “1850 circa”, non si affermò con facilità e perfino le
figurine Liebig, nel ‘900, riportano una Violetta simile a Lucia, un Alfredo che potremmo
confondere con Arturo Talbo.
In realtà questa somiglianza non pare del tutto incongruente se si prende in considerazione la prima
versione della Traviata che andò in scena alla Fenice di Venezia il 6 marzo 1853. Non si trattò di un
fiasco, ma nemmeno di un trionfo, soprattutto per la prova non esaltante dei cantanti, ma anche qui
si è troppo romanzato sulle forme paffute e poco credibili della povera Fanny Salvini-Donatelli, ed
un anno dopo Verdi licenziò al teatro S. Benedetto della stessa città la versione corrente, che egli
stesso definì, con astuta diplomazia, “la stessa stessissima che si eseguì l’anno passato alla Fenice
ad eccezione di alcuni trasporti di toni, e di qualche puntatura […] non un idea musicale è stata
mutata.” Naturalmente non era così: le differenze sono molte ed aiutano a meglio comprendere la
modernità e la genialità della drammaturgia musicale dell’opera così come oggi viene eseguita.
Basti pensare a Germont, un vero padre verdiano, meschino e borghese finché si vuole, ma pur
sempre padre verdiano; nella scrittura acutissima e manierata del ‘53 sembra invece l’ultimo avanzo
d’una stirpe di genitori autoritari e tenorili che da Handel (Tamerlano) e Mozart (Mitridate ed
Idomeneo) giungeranno nell’800 con Rossini (Tancredi, Bianca e Falliero) e Donizetti (Otto mesi
in due ore, Maria Padilla) fino all’Elèazar della Juive di Halevy. Non a caso il brano che fu
rielaborato più profondamente fu il duetto fra Germont e Violetta, nododrammatico e patetico
dell’opera che nella prima versione è ancora concepito secondo la rigida scansione tradizionale,
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come dimostra il deciso cadenzare dopo ogni sezione, evidente soprattutto fra “Così alla misera” e
“Dite alla giovine”, quasi fuse, poi, nel canto accorato di Violetta. Confrontando le due versioni
appare chiara la portata rivoluzionaria di una costruzione musicale tesa ad un realismo che, è bene
precisarlo, è proprio del romanticismo italiano, e segnatamente milanese, e non può essere confuso
con un’anticipazione del verismo. Il vero naturalista, infatti, differisce profondamente dal vero
manzoniano. Violetta è parente più stretta di Lucia (Ashton o Mondella) che di Mimì, ma, pure, è
un’eroina moderna, mai vittima, perché capace di guardare negli occhi l’amante che l’ha insultata
con la fermezza di un amore incrollabile: “Alfredo, Alfredo, di questo core/ non puoi comprendere
tutto l’amore…/Tu non conosci che fino a prezzo/del tuo disprezzo – provato io l’ho./ Ma verrà il
giorno, in che il saprai…/ Com’io t’amassi confesserai…/Dio dai rimorsi ti salvi allora,/io spenta
ancora – pur t’amerò.”
Bresciamusica, ottobre 2004
Andrea Chénier: presentazione
di Roberta Pedrotti
Il Settecento, fra XIX e XX secolo, godette di grande fortuna musicale: piacque a Puccini e
Massenet per le passioni d’una sedicenne avida d’amore e denaro; a Cilea per sventure d’una
temperamentosa prim’attrice; a Strauss per le dotte disquisizioni sull’estetica del teatro musicale
come per gli intrecci sentimentali di nobili che sono eco nostalgiche degli Almaviva mozartiani;
ancora a Stravinskij per le geometrie formali di un piccolo Faust con ambizioni da Don Giovanni
o per qualche bella arietta, forse, di Pergolesi. In particolare, però, fu la Rivoluzione francese,
che da sempre aveva ispirato poeti e drammaturghi, a fornire argomenti di sicuro effetto agli
operisti, in particolare italiani: Mascagni con Il piccolo Marat (1921), Respighi con Marie
Victoire (composta intorno al ’13, debuttante a Roma ne 2004), Giordano con la commedia
Madame Sans Gêne (1915), e, soprattutto, Andrea Chénier, “dramma d’ambiente storico in
quattro quadri” del 1896 su libretto di Luigi Illica.
Frutto della collaborazione di due degli esponenti più eminenti della Giovine Scuola, lo Chénier
non è tuttavia un capolavoro, piuttosto un’opera di solida scrittura e sicuro impatto teatrale,
ancorché di grandi ambizioni. L’intreccio principale piuttosto scontato (l’amore fra la nobile
Maddalena e l’idealista Chénier prima osteggiato dal geloso Gérard che, pur pentito, non potrà
salvarli dal patibolo) è collocato in un affresco storico ricostruito con meticolosa precisione
verista sia nel libretto sia nella partitura, con citazioni della Marseillaise, di Ça ira e della
Carmagnole. Le tricoteuses commentano l’aumento del prezzo del pane (colpa degli Inglesi, si
dice), Robespierre appare sul fondo, muto ed inquietante. Ai protagonisti si contrappone una
folla indistinta, da cui emergono figure minori che più che veri personaggi sembrano tipi,
caricature: il sanculotto Mathieu, la vecchia Madelon, l’Incredibile, quasi una versione
repubblicana del mozartiano Don Basilio, ma anche dell’Abate e di tutti gli aristocratici che
popolano il salotto della Contessa di Coigny nel primo quadro, in fondo non troppo differenti
drammaturgicamente dal coro rivoluzionario. A costoro si oppone la nobile umanità di Chénier e
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Maddalena, romantici ed idealisti, e di Gérard, il personaggio forse più compiuto e complesso,
protagonista morale dell’opera. Lo si avverte già nel primo quadro, il più ambizioso e ricercato
per il contrasto fra il tramonto di una fittizia arcadia rococò e l’imminente Rivoluzione,
rappresentata più che dalla scherzosa irriverenza di Maddalena o dai proclami utopistici di
Chénier, dai tormenti di Gérard, che infine si strappa platealmente la livrea. Il commento della
Contessa è emblematico, “Quel Gérard! l’ha rovinato il leggere! Ed io che tutti i giorni Faceva
l’elemosina…”, come lo sono il coretto danzato “O pastorelle addio!” e quello fuori scena dei
poveri di Parigi, o la livida gavotta in cui gli aristocratici paiono ostinatamente pietrificati.
Ancora, il topos del ricatto erotico, presente nell’Ermione rossiniana, nel Trovatore come in
Tosca, ha qui più rapida e nobile risoluzione: piuttosto che uno snodo drammatico (la sentenza è
inesorabile, a Maddalena non resta che corrompere il carceriere per sostituirsi ad una condannata
e seguire l’amato), è un momento importante nell’evoluzione psicologica della contessina e del
suo ex servitore. Lei da ragazza “capricciosa e un po’ romantichetta” è divenuta una giovane
donna provata dal dolore; Gérard, che già aveva aderito con schietta partecipazione e
consapevolezza intellettuale alla Rivoluzione, si trova ora “servo obbediente di violenta
passione”, capace di uccidere tradendo l’ideale, e dolorosamente si ravvede. Per questo “Nemico
della patria”, non deve essere inteso come uno sfogo platealmente retorico, ma come un intenso
momento di introspezione; ugualmente “La mamma morta” di Maddalena e le tre arie dell’eroe
eponimo (ispirate in larga parte a poemi del vero Chénier), oltre che manifesti della vocalità
verista, rappresentano appunto tasselli fondamentali nella definizione dei personaggi e nello
sviluppo di un dramma forse ingenuo, ma perfettamente costruito.
Bresciamusica, ottobre 2005
I Capuleti e i Montecchi: presentazione
di Roberta Pedrotti
«Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e
tedesche; […] non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella
letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza. Che se le
lettere si arricchiscono colle traduzioni de’ poemi; traducendo i drammi si conseguirebbe una molto
maggiore utilità; poiché il teatro è come il magistrato della letteratura.» Così, nel 1816, scriveva
Madame De Staël nella sua lettera Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, destinata a innescare un
incendio dalle polveri già incandescenti del dibattito fra classicisti e romantici. Cita espressamente
Shakespeare, la baronessa, ma si dovrà attendere il declinare degli anni ’30 perché, dopo sparuti
tentativi settecenteschi, si intraprendesse un’organica versione italiana delle opere del massimo
drammaturgo inglese su iniziativa di letterati come Carlo Rognoni e Andrea Maffei, ovvero
intellettuali fra i più vicini a Verdi, il primo italiano ad aver dato alle scene un melodramma
direttamente tratto da Shakespeare: Macbeth. Le opere precedenti, per quanto assimilabili nei
soggetti, avevano fonti diverse, oppure si rifacevano alla mediazione delle riscritture francesi di
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Jean François Ducis, impegnatissimo nel rendere alle regole aristoteliche quei drammi che lo stesso
Voltaire giudicava men che barbari. Non ottenne però particolare fortuna operistica il suo fantasioso
Romèo et Juliette, che vedeva Montecchio, novello Conte Ugolino, rinchiuso da Capellio nella torre
della Fame con i tre figli, due dei quali rimarranno preda del delirio antropofago del padre, mentre il
solo Romeo tornerà a Verona con il padre assetato di vendetta. La vicenda degli sventurati amanti,
melodrammatica come nessuna mai, arriva sulle scene italiana attraverso il recupero della storia e
della novellistica medioevale e rinascimentale cui il classicismo metastasiano stava cedendo il
passo. Gerolamo Della Corte con le Storie di Verona e Matteo Bandello con i Quattro libri delle
novelle ispirano infatti il libretto di Giuseppe Foppa per il Giulietta e Romeo di Zingarelli (1796), al
quale guarderà Felice Romani per l’opera omonima destinata a Nicola Vaccaj (1825), basato anche
sulla tragedia di Luigi Scevola (1818), che sta a Shakespeare quanto l’Otello di Giovanni Carlo
Cosenza. Quando Bellini nel 1830 rimette in musica i versi del suo poeta prediletto (che avrà
provveduto a rielaborarlo personalmente) il nome del bardo di Stratford on Avon s’insinuava con
insistenza sempre maggiore nei circoli intellettuali progressisti, eppure I Capuleti e i Montecchi è
un’opera fondamentalmente rivolta al passato. L’intreccio è il medesimo dei rossiniani Tancredi o
Bianca e Falliero e come nei modelli Romeo ha voce di contralto, lo stesso contralto eroico e
malinconico di Zingarelli (dov’era un castrato) e Vaccaj. Il confronto con quest’ultimo è peraltro
sollecitato oltre che dal libretto pressoché identico, dalla fortuna dell’opera del tolentinate, tale da
far sì che Maria Malibran, impersonando il Romeo del catanese, sostituisse il finale con quello di
Giulietta e Romeo. Detto che la distribuzione dei ruoli è in Vaccaj più tradizionale, con il padre
tenore e l’amante deluso basso nobile, mentre Bellini farà di Capellio un basso e di Tebaldo un bel
tenore preverdiano. È però proprio il confronto dei finali quello rivelatore: si avvertono subito la
maggiore scolpitezza e la drammaticità del recitativo belliniano, la sua melodia, poi, deriva sì
direttamente dalla scuola napoletana, ma le sottende un sostrato armonico quasi chopiniano, che ben
giustifica l’ammirazione di Wagner: «Deh! Tu, bell’alma» è un’aria sublime, quella corrispondente
di Vaccaj, «Ah! Se tu dormi svegliati!», è semplicemente bella e più patetica. Dopo il duetto, infine,
Bellini prende alla lettera il greco katastrophé precipitando le ultime battute sulla scoperta dei due
cadaveri, quando in Vaccaj non era negata a Giulietta un’ultima aria di follia di fronte a Capellio e
Lorenzo. I Capuleti e i Montecchi inorridì Berlioz come il libretto dell’Otello di Rossini inorridì
Stendhal, ma l’opera italiana non è Shakespeare, tant’è vero che solo la musica francese sembra
aver colto la fatua leggerezza di Mercutio, il personaggio più schiettamente shakespeariano del
dramma. Forse Donizetti ne avrebbe fatto una sorta di Gondì della Maria di Rohan o di Maffio
Orsini della Lucrezia Borgia, ma non era nella sorte dell’amico di Romeo entrare nell’opera
italiana, a lui così estranea, nemmeno nel fedelissimo Romeo e Giulietta di Marchetti (1865) o in
quello decadente di Zandonai (1922).
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Bresciamusica, ottobre 2005
Nabucco: presentazione
di Roberta Pedrotti
Riguardo Nabucco esiste un tale intreccio di storia, leggenda, aneddoti e luoghi comuni che risulta
difficile riscoprire il dramma lirico dietro al simbolo, al dorato santino del melodramma quale
appare nell’immaginario collettivo. Una mitologia in buona parte da sfatare, ma, comunque, nel
bene e nel male, ormai parte integrante dell’identità di quest’opera.
È bello immaginarsi un giovane Verdi, provato dalle morti premature di moglie e figli oltre che dal
fiasco di Un giorno di regno, che si commuove leggendo i versi del “Va’ pensiero” e riprende a
comporre, trovando anche consolazione nelle braccia della primadonna Strepponi. Bello come un
Rossini che compone “Di tanti palpiti” mentre cuoce il riso: la storia è altra cosa e Nabucco non è
solo “Va’ pensiero”, tant’è vero che alla prima del 9 marzo 1842 il coro bissato fu “Immenso
Iehova”. L’ambizioso quadro storico, con scontri di popoli e fazioni, richiama alla tradizione del
gran-opèra francese e la Bibbia era soggetto favorito dai tempi dell’oratorio barocco fino al Rossini
di Ciro in Babilonia e dei due Mosé (italiano e francese), trattandosi anche d’un comodo
stratagemma per aggirare i rigori quaresimali o le maglie della censura. L’amor di patria e
l’oppressione straniera toccavano i cuori dell’Europa restaurata, ma nel libretto di Solera Verdi
trovò soprattutto un dramma conciso e serrato, il dramma di Abigaille e Nabucco, diversamente
lacerati fra affetti privati e sete di potere. Se l’una rinnegherà la propria umanità riconquistandola
solo nel suicidio, l’altro compirà il percorso inverso segnato dalla follia che punisce l’hubris del
tiranno proclamatosi Dio. Oppresso dalla sua stessa brama di potere del re assiro anticipa le angosce
di Macbeth, un’altra delle rare pazzie maschili del melodramma italiano, il cui modello si riconosce
nel delirio di Assur in quella Semiramide che ben più del tanto citato Mosé condiziona la
composizione di Nabucco. Oltre che nella follia del protagonista maschile, lo si può notare nel
brevissimo primo atto, giocato sull’alternanza fra maestosità epica e squarci intimisti, non
immemore dell’Introduzione dell’opera rossiniana, come pure la grande cavatina della primadonna
già apparsa precedentemente, il grande duetto di scontro fra questa e il basso-baritono, la
ricomposizione finale che segue alla morte di lei. Abigaille è, dunque, sì figlia di Semiramide,
Nabucco di Assur, Zaccaria di Oroe (anche se la Profezia molto deve a quella di Hiéros nel Siège de
Corinthe), ma ovviamente la maestosità delle forme rossiniane mal s’accordava all’impellenza della
drammaturgia verdiana, debitrice anche delle esperienze di Bellini, Donizetti e, innovatore anche
più ardito, Mercadante. Se un’analisi non può prescindere da una prospettiva storica, questa non
deve essere unilateralmente eziologia o teleologica, bensì valutare la dialettica fra innovazione e
tradizione che sottende a ogni opera d’arte. La scrittura vocale e strumentale, la vibrante teatralità
sono quelle del Verdi di Galera, preannuncianti già le opere più mature, mentre le volatine di “Tale
ti rendo, o misero, il foglio menzogner” chiarificano bene che di belcanto ancora si tratta, come
belcantisti erano i primi interpreti, soprattutto il baritono Giorgio Ronconi, insigne interprete di
Bellini e Donizetti, e capace di rendere quindi il giusto involo al cantabile “Dio di Giuda”, derivata
chiaramente dal linguaggio musicale del catanese e del bergamasco, come del resto le cabalette,
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ultimo avanzo d’una stirpe assai felice. D’altra parte lo stesso fantomatico soprano drammatico
d’agilità, come vengono definite con una pericolosa semplificazione alcune primedonne verdiane,
non è altro che l’evoluzione della coloratura di forza rossiniana, passata attraverso le eroine di
Bellini e Donizetti, e inserita ora nel fraseggio verdiano. Se Abigaille, dunque, non è una Walkiria
con l’agilità, la compianta Ghena Dimitrova rappresenta una miracolosa eccezione, mentre
dovrebbe esser rivelatore il fatto che il repertorio d’elezione della pur eclettica Callas, Abigaille
storica al pari della bulgara, fosse proprio fosse appunto quello neoclassico e protoromantico.
Abigaille, Odabella, Lady Macbeth portano l’agilità drammatica al suo dorato tramonto, dopodiché
il soprano prenderà altre strade.
Bresciamusica, ottobre 2006
Anna Bolena: presentazione
di Roberta Pedrotti
Caterina D’Aragona, Anne Boleyn, Jane Seymour, Anna di Kleve, Catherine Howard, Catherine
Parr. Matrimoni, più che d’amore, di passione, d’interesse politico o dinastico (l’unico, agognato
maschio, Edward, morrà giovanissimo, ma Elisabeth, dichiarata illegittima nel processo contro la
madre Anne, è fra i più grandi sovrani della storia); uno scisma addirittura per il primo divorzio, poi
la scure, il ripudio o la morte naturale a separare Enrico VIII dalle sue sei mogli. Sarebbe però
errato fare del re un volubile Barbalblù senza collocarlo nel complesso quadro politico dell’Europa
riformata e controriformista, oltre che in una corte popolata da figure come l’ambizioso sir Thomas
Boleyn, padre di Anne e di Mary, anch’essa resa, se non regina, almeno madre dall’esuberante
sovrano. Quella per la seconda moglie fu però vera passione, che anche nel suo tramontare offrì al
nostro melodramma romantico il topos favorito dell’eroina condannata ingiustamente per infedeltà,
come Pia de’ Tolomei e Beatrice di Tenda, tanto più che il contesto politico suggeriva anche una
componente storica manzoniana, in cui l’ideale dell’innocenza e del sentimento si scontra con il
reale dell’interesse e della lotta per il potere. Felice Romani, il classicissimo librettista, è maestro
nello sviluppare i caratteri dosando passione e ambizione, cosicché l’innocenza cede spesso il passo
all’amara consapevolezza della colpa. Già nel primo quadro la situazione suggerirebbe sublime
mestizia: la notte volge al termine e Anna, con la sua corte, ha atteso ancora invano la visita del re,
che la ignora ormai apertamente. Il coro però accenna alla vendetta della ripudiata Caterina e la
regina stessa svela la propria antica ambizione nel raccomandare a Seymour, che ancora non
immagina rivale, «Ah se mai di regio soglio | ti seduce lo splendor, | ti rammenta il mio cordoglio, |
non lasciarti lusingar». La stessa Seymour confesserà al re di bramare «onore e fama», tosto
rimproverata: «Anna pur amor m’offria, | vagheggiando il soglio inglese, | ella pure il serto ambia |
dell’altera aragonese». A differenza di Norma, la regina non è tradita per una giovane innocente
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sedotta: Romani sa bene che ciò che rende interessante la contrapposizione fra le rivali non è ciò
che renderà, esattamente un anno dopo (26 dicembre 1831), interessante il rapporto fra Norma,
Adalgisa e Pollione. Stabilita la netta polarità fra Enrico, convinto d’essere amato solo per interesse
e dunque a sua volta freddo ed egoista, e l’amore romantico di Percy, dipinta con melanconica
sensibilità la bella figura del paggio Smeton, è fra la Bolena e Seymour che si sviluppa una
dialettica tesissima, proprio per l’analogia di moventi e sentimenti. Se nella regina che mai rinuncia
alla dignità reale si fa via via predominante il rimpianto, in Seymour è il rimorso a esplodere
nell’aria «Per questa fiamma indomita» una volta compreso che quelle nozze chieste al re
comportavano anche la morte della regina. Eppure mentre Anna sale al patibolo Giovanna sale al
trono e mai risulta chiaro, forse nemmeno a ella stessa, se la fiamma indomita, in fondo, divampi
per Enrico o per la sua corona. Questa tensione non può che esplodere in un duetto che, se nel
contenuto di pentimento e perdono rammenta più quelli di Norma e Adalgisa, risulta soprattutto un
antecedente dello scontro fra Aida e Amneris. Tuttavia, più che alla libertà e alla concisione del
Romanticismo, Donizetti guarda ai modelli classici codificati da Rossini, sviluppa la forma con il
medesimo rigore e la medesima plasticità, esaltando il virtuosismo espressivo in una monumentalità
nella quale ben s’iscrivono lo spessore psicologico e i contrasti di potere d’un dramma che non è
solo e puro scontro di passioni. Il primo atto assume, così, amplissime proporzioni, con equilibrata
alternanza di pezzi solistici e d’assieme, fino al duetto fra Anna e l’antico amante Percy, che si lega
al finale primo fungendo praticamente da tempo d’attacco del concertato. Come da tradizione il
secondo atto è più sintetico, ma pure replica con diverso ordine la proporzione fra il duetto e il
terzetto da una parte, le arie di Giovanna e Percy dall’altra. L’apoteosi formale potrà così emergere
dalla struttura pensata da Donizetti e Romani, nemica d’ogni taglio per la sua complessità, nel
sublime finale, vera Gran Scena della protagonista, che dal delirio nostalgico per il castel natìo e
l’amore di Percy, prorompe nell’estremo eroico perdono della coppia iniqua, in una provvida
alternanza di consapevolezza e follia che rammenta la fine della manzoniana Ermengarda.
Bresciamusica, ottobre 2006
Faust: presentazione
di Roberta Pedrotti
«Je veux la jeunesse! À moi les plaisirs, les jeunes maîtresses! A moi leurs caresses! A moi leurs
désirs! A moi l’énergie des instincts puissants, et la folle orgie du cœur et des sens! Ardente
jeunesse, à moi tes désirs! A moi ton ivresse! À moi tes plaisirs!» [Io voglio a giovinezza! A me i
piaceri, le giovani amanti! Le loro carezze! I loro desideri! A me l’energia dei possenti istinti, e
l’orgia folle del cuore e dei sensi! Giovinezza ardente, a me i tuoi desideri! A me la tua ebbrezza! A
me i tuoi piaceri!]. Il credo superficialmente sensista del Faust di Gounod sembra talmente diverso
da quello dello studioso goethiano da giustificare il distacco con cui i tedeschi usavano titolare
l’opera Margarete. Soprattutto negli anni della guerra franco prussiana (la prima versione, come
opéra-comique, è del 1859, quella ampliata con recitativi musicati e balletti, tuttora in uso, del ’69,
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alla vigilia del conflitto) è difficile pensare che i concittadini di Goethe potessero vedere la
trasformazione del solo primo tomo del dramma in una vicenda sentimentale dai contorni
romanticamente soprannaturali. Eppure, come nessun testo letterario ha mai rappresentato lo spirito
tedesco quanto il dramma di Goethe, poche opere riassumono l’effimero trionfo della borghesia
francese prima di Sedan al pari del lavoro di Gounod.
L’inno gaudente «Vin ou bière», il valzer «Ainsi que la brise légère», il canto dei soldati «Gloire
immortelle» sono il quadro di questa società e delle sue illusioni presto spezzate, l’ode dei nipotini
di merveilleuses e incroyables che nell’eleganza danzante e leggiadra celano tutti i peccati che la
rispettabilità borghese impone di negare. La stessa religione è esibita e vantata nei simboli più che
nella sostanza con l’uso magico della croce o dell’acqua santa contro le arti di Méphistophélès. La
stessa apoteosi finale è una rassicurante illustrazione della vittoria del bene sul male, mentre
un’inquietudine più profonda pervade la scena della chiesa, in cui il demonio svela un più
complesso conflitto morale. Egli, infatti, è scandaloso perché sovverte le convenzioni e mostra ciò
che si deve nascondere. Inneggia all’oro e alla lussuria, usa il sarcasmo contro l’ipocrisia. La Nuit
de Walpurgis non è forse un festin in cui, come in una galleria alla moda di dipinti à la Moreau, alla
sfilata «des reines et des courtisanes», a Cléopâtre e Laïs prestano volto e – soprattutto – corpo
disponibili modelle e ballerine? La morte redentrice di Marguerite non ricalca forse la postuma
santificazione della sua omonima Gautier, al secolo Marie Duplessis? La fanciulla traviata dalla
società parigina e quella perduta dagli incanti del diavolo, lo splendore delle feste o di un cofanetto
di gioielli, il disprezzo del suocero mancato o del fratello, il pentimento, la caduta e la morte
salvatrice. La storia in fondo è la stessa: Boito lo capì modellando il suo quadro del carcere sul terzo
atto della Traviata, Gounod lo svelò nel fare del sardonico Méphistophélès colui che cinicamente
smaschera e amplifica in grottesche caricature i vizi della sofisticata società parigina. Colui che
vede nella pulsione di Faust per Marguerite l’impeto carnale e, come in Goethe, non ne comprende
il mutarsi in sentimento: lo studioso del prologo non avrebbe potuto intonare un’aria come «Salut
demeure». Così amici e parenti di Armand Duval capiscono che si possa desiderare la splendida
cortigiana, non amarla. Eppure anche per Faust l’amore dalla carne sublima nello spirito e,
nell’opera, nell’aria. E quest’opera, vasta e talvolta retorica, contiene arie fra le più belle dell’intero
repertorio, tanto belle che né Faust, né Marguerite, né Valentin, né Siebel potranno mai mentire,
forse proprio perché come prigionieri di quella melodia troppo morbida e perfetta per ammettere
ambiguità. Nemmeno Méphistophélès mente, ma perché lui conosce la chiave di questo linguaggio,
e lo piega alla sua espressione in ogni istante diversa, sempre distaccata e sempre sardonica, nella
Ronde come nella Sérénade.
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Bresciamusica, ottobre 2008
Turandot: presentazione
di Roberta Pedrotti
Le prove per conquistare la mano di una principessa costituiscono uno dei più diffusi topoi
fiabeschi e, se nella maggior parte dei casi esse sono imposte da un’autorità superiore (magica,
divina, genitoriale), non mancano i casi in cui sia la stessa fanciulla a stabilire la posta per ottenerne
la mano. È il caso, per esempio, della vergine Atalanta, che, confidando nelle proprie straordinarie
doti atletiche, sfida nella corsa ogni pretendente, o della Brunilde del Nibelungenlied, disposta a
concedersi solo a chi le si dimostri superiore in velocità e nel lancio del peso (la sua omonima
wagneriana avrà una parete di fiamme innalzata dal divino padre). Assai meno fiabesco ma non
meno diffuso, e legato a quello della donna che sceglie di sottoporre a prove insolvibili i
pretendenti, è il tema della femminilità che si arroga diritti e prerogative tradizionalmente maschili
sovvertendo, nell’astinenza o nella voracità, anche le leggi della sessualità. Turandot, la principessa
cinese che impone al padre di accettare le sue condizioni e di concederla in sposa solo a chi la
supererà in intelligenza sciogliendo tre enigmi, rappresenta forse l’archetipo massimo di questi
topoi, codificato per la prima volta in letteratura, dopo una florida tradizione orale, nella raccolta I
mille e un giorno, corrispettivo delle Mille e una notte nel quale invece di fornire allo spietato
Califfo di Bagdad eloquenti esempi di fedeltà femminile, si narrano alla scettica principessa
Farrukhnaz le vicende di innamorati sinceri capaci di conquistare le fanciulle più ritrose. Conosciuta
in Europa dai tempi di Luigi XIV, la raccolta persiana, ma di possibile origine indiana, susciterà
vasta eco, soprattutto con novelle come Re Cervo, Il baule volante e, appunto, La storia della
Principessa Turandot e del Principe Calaf, volta per il teatro da Gozzi (1762), in aperta polemica
con il realismo di Goldoni, e poi rivisitata secondo i principi del romanticismo tedesco da Schiller
(1801). A cavallo fra XIX e XX secolo il soggetto, che all’esotismo di moda poteva affiancare
torbidi temi decadenti o espressionisti e suggestioni freudiane, non poteva non tornare a interessare.
La fuga nel fiabesco si accompagna alla sua riscoperta sotto nuova luce simbolica e, mentre Busoni
nella sua Turandot tedesca (1917) rievoca la commedia dell’arte fra citazioni neoclassiche e
inquietudini espressioniste che ricordano certi dipinti di Ensor, Puccini con la sua ultima opera
(1926) si concentra sul dualismo delle figure femminili iscrivendosi in una tradizione recente di cui
coglie tutta la complessità e modernità, rimaste solo in boccio nel giovanile, scapigliato Edgar
(dove a fronteggiarsi erano la ribelle, crudele e sensuale Tigrana e la ben più domestica Fidelia).
Nella Rusalka di Dvorak (1901), su un soggetto praticamente identico a quello della Sirenetta di
Andersen, la ninfa è disperatamente incapace di diventare donna e di amare come tale e dopo il
sacrificio che l’ha relegata nel limbo del fondo del lago darà suo malgrado la morte al Principe con
il suo freddo bacio. La sua rivale e il suo doppio è la Principessa Straniera, seducente e carnale. Del
1917 è Die Frau ohne Schatten, di Strauss-Hofmannshtal, che nelle figure dell’Imperatrice e della
Tintora contrappone, con lieta conclusione, una creatura soprannaturale che anela a divenire donna
– e madre – e una figura umana, che invece la femminilità rinnega. L’opera di Puccini oppone la
docile, remissiva, devota Liù alla gelida dominatrice, all’amazzone che rifiuta il matrimonio non per
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non sommettersi al potere altrui, ma per puro odio verso il sesso maschile. Altoum, l’imperatore,
non ha altra autorità sulla figlia che di chiedere il rispetto del giuramento allorquando, finalmente,
Calaf scioglie i tre enigmi, ma è una sacra figura da paravento, senza lo spessore concesso a Timur,
padre del pretendente fortunato, re spodestato ramingo e dolente. Per dirla con Nietzsche, Turandot
narra con ferocia “l’odio mortale fra i sessi”, ma anche la sua conciliazione, senza lasciar spazio alle
figure paterne, ridotte a spettatori, per quanto di primo piano. Tutto ruota invece intorno alla donna
Turandot che sostituisce l’amore con la morte e solo nella morte del suo opposto, la piccola Liù,
potrà scendere sulla terra dal suo tragico cielo. Di fronte al gelo che diventa fuoco, del rifiuto che
non diventa tanto sottomissione quanto accettazione del sentimento, Calaf sembra un personaggio
unidimensionale, perfino odioso nella sua insensibilità alle preghiere di Liù e ai pericoli cui
sottopone lei e il padre, ma non si può cercare una psicologia, né tantomeno una morale, in colui
che è semplice energia vitale, motore erotico del cambiamento di Turandot privo d’identità propria:
si presenta come Principe Ignoto, alla fine sarà rinominato Amore dalla principessa. E questo è, né
più né meno: la forza primigenia e sprezzante dell’Eros. L’umanità è rappresentata piuttosto, dalle
Maschere, i tre ministri Ping Pong e Pang, cui spettano i ragionamenti spicci della gente comune (Se
la spogli nuda, è carne, carne cruda!Roba che non si mangia…Lascia le donne! O prendi cento
spose, ché, in fondo, la più sublime Turandot del mondo ha una faccia, due braccia e due gambe, si - belle – imperiali, belle, si ma sempre quelle!), le chiose ciniche e le nostalgie distillate nel
bellissimo terzetto che apre il secondo atto (Ho una casa nell’Onan…). Questo universo simbolico
perfettamente strutturato è tradotto musicalmente in una partitura che più d’ogni altra ci sembra
iscrivere Puccini nell’Olimpo dei grandi del Novecento, spazzando via i luoghi comuni sui
sentimenti semplici per sartine. Piuttosto, è dato ancor più rilevante che un’opera tanto avanzata
nell’armonia e nella tecnica compositiva abbia saputo raggiungere una tale popolarità. La stessa
patina esotica di certe melodie non è meramente decorativa: è vero che Puccini apprese da un
carillon alcuni modi musicali cinesi, ma se ne appropriò alla maniera di Debussy quando ascoltò il
gamelan giavanese. Non una citazione, dunque, ma la rielaborazione originale e sorprendente di
moduli nuovi, di materiali lontani che offrono nuova linfa all’ispirazione d’un artista che ha già
valicato i confini della tradizione e della convenzione. L’opera, è vero, è incompiuta: alla prima
Toscanini posò la bacchetta dopo la morte di Liù a indicare il punto in cui il Maestro aveva cessato
di comporre e il finale, affidato da Ricordi ad Alfano, è stato variamente tagliato, poi riscritto da
altri, fra cui Berio. La qualità di quanto possiamo oggi ascoltare e la quantità di appunti lasciati da
un Puccini già segnato dal cancro, però, difficilmente possono far pensare a un’insormontabile crisi
creativa, piuttosto all’impegno titanico richiesto da una partitura che è insieme l’ultimo grande
melodramma italiano e un vertice assoluto della musica europea inesorabilmente proteso verso il
futuro.
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Bresciamusica, ottobre 2009
Cose delicate: ricordo di Virgilio Savona
di Roberta Pedrotti
La sera è scesa più malinconica che mai. Frasi di circostanza e cordoglio di superficie rischiano di
addomesticare nei rassicuranti confini familiari dell’intrattenimento il ricordo di Virgilio Savona e
della sua attività, con Quartetto Cetra e come solista.
Antonio Virgilio Savona è nato a Palermo il primo gennaio 1920 e morto a Milano il 27 agosto del
2009, ha vissuto e si è formato a Roma, ha sposato una bolognese. Già nei dati anagrafici sembra
iscritta la storia del Novecento, ma Savona fu molto di più, intellettuale e musicista fra i maggiori
che il nostro paese abbia conosciuto, benché forse non conosciuto e stimato quanto in realtà
meritasse.
Dieci anni fa moriva Fabrizio De André, dieci giorni prima di Savona se ne andava Fernanda
Pivano e la coincidenza non può non suggerire una riflessione sulla statura culturale del cantautore
e del compositore. Mentre il regime s’avviava al tramonto e la guerra volgeva alle sue fasi più
aspre, la Pivano iniziava la sua opera di traduzione di Lee Masters e Hemingway; nel frattempo lo
studente di pianoforte del Conservatorio di Santa Cecilia, divenuto cantante, introduceva il jazz e il
blues all’EIAR. Mentre, dopo il ’68, De André pubblica la maggior parte dei suoi capolavori,
Savona rallenta l’attività con il quartetto si dedica a una produzione politicamente impegnata anche
in collaborazione con Giorgio Gaber (la voce dell’album Sexus et Politica, su testi sempre
attualissimi di poeti latini) e Michele Luciano Straniero, il fondatore del cantautorato italiano di
radice popolare e contenuto sociale. Per chi lo collegava alla Vecchia fattoria, a Vecchia America e
al Vecchio palco della Scala l’ascolto di Sono cose delicate poteva rivelarsi uno choc. Testi duri,
aspri, apertamente schierati. Lo stesso Savona ne pare consapevole e con amara ironia affida alla
canzone eponima una sorta di commuovente autobiografia intellettuale. Il testamento dell’artista
che non può rimanere sganciato dall’attualità, ma che si sente in dovere di far sentire la propria
voce, anche se gli argomenti sono delicati e dal simpatico occhialuto di Studio Uno proprio non ce li
si aspettava.
Cose da pazzi veramente, ma questo cosa vuole fare?
Dico, perché non si sta zitto, che fa? si mette a protestare!
Ma come? Vive agiatamente, tiene la macchina, va al mare
E vuole fare l’impegnato e si permette di parlare!
Ma che si faccia i fatti suoi, che si accontenti di campare!
Ma di che si va a impicciare? Questo si vuole rovinare!
Sono cose delicate, non devono essere toccate.
Ma che si faccia i caroselli, canti alla televisione!
Non si vada ad immischiare con la contestazione.
Ma questo come si permette di toccare le cose serie?
Non ci ha fatto fin da bambino il buffone ed il burattino?
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Ma che si faccia i fatti suoi, che si accontenti di campare!
Ma di che si va a impicciare? Questo si vuole rovinare.
Sono cose delicate, non devono essere toccate.
Nessuno dice che è vietato, se vuole scrivere canzoni,
Ma che le scriva con prudenza e senza rompere i coglioni.
E si ricordi che va bene la libertà delle opinioni,
però non deve esagerare, ma che? Ci ha preso per minchioni?
Ma che si faccia i fatti suoi, che si accontenti di campare!
Ma di che si va a impicciare questo si vuole rovinare!
Sono cose delicate, non devono essere toccate.
E che seguiti a cantare quella, com’è?.. la Fattoria:
Che faccia pure, l’ascoltiamo, canta, pazienza, così sia!
Ma questo legge, questo pensa, si atteggia a fare il comunista!
Che fa? Si mette a parodiare gli intellettuali di sinistra?
Ma che si faccia i fatti suoi, che si accontenti di campare!
Ma di che si va a impicciare? Questo si vuole rovinare!
Sono cose delicate, non devono essere toccate.
Ma che si faccia i fatti suoi, che si accontenti di campare!
Ma di che si va a impicciare? Questo si vuole rovinare?
Se diventa irriguardoso e continua a sfrucugliare
Lo mettiamo un po’ a riposo, a pensare, a meditare
Sulle cose delicate che non devono essere toccate.
Sia Savona sia De André riprendono le forme della ballata popolare, il primo è forse più musicista
(nella prefazione alla Buona Novella l’autore si schermisce per la propria “balbuzie melodica”), il
secondo più poeta. Non tanto perché solo ora, come cantautore, Savona lavora direttamente e
regolarmente ai testi che, nel Quartetto, erano appannaggio in primis di Tata Giacobetti, ma perché
il suo sguardo è più asciutto, più amaro, più violento. Difficilmente si trova quella tenera umanità,
quella poesia degli umili che si respira negli LP del genovese, al contrario troviamo la rabbia del
quarto stato, troviamo il dolore degli oppressi. Savona è legato a doppio filo all’attualità e cita senza
mezzi termini manifestazioni, di ribellione studentesca, delle diverse anime della sinistra, di scontri
e occupazioni con precisi riferimenti. Una tenerezza quasi fiabesca emerge quando meno ce la si
aspetta, come in una canzone intitolata La merda. Mai titolo meno poetico per un testo tanto
affettuoso, nel quale la delicatezza verso il soggetto bilancia la fermezza della critica. Eccolo,
l’amico e il collaboratore di Gianni Rodari (sui testi del quale, su invito di Luciano Berio, comporrà
tra l’altro l’Opera delle filastrocche), eccolo a raccontarci che non è giusto prendersela con quella
materia biodegradabile, naturalissima, tenera e perfino utile accostandola a politici, venditori di
fumo e di armi, sfruttatori ben più dannosi e puzzolenti, oltre che difficili da eliminare. L’accusa
diretta al “grande capo americano” (all’epoca Nixon) non avrebbe potuto essere più dura.
Se De André fu un anarchico e un ateo umanamente partecipe ai sentimenti evangelici, dalle
canzoni di Savona traspare chiarissima l’immagine di un comunista visceralmente anticlericale, sia
nella parodia sorridente di Pretini rossi Moniche bianche, sia nel j’accuse velenoso del Testamento
del parroco Meslier, scabra messa in musica dell’ultimo scritto del sacerdote francese del primo
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settecento, considerato fra i padri del socialismo per il pensiero che sfociava in espressioni
rivoluzionarie e in concetti non dissimili da quelli che avrebbero espresso in materia di religione
Feuerbach e Marx. C’è tuttavia anche Prete visionario, quasi un ritratto di Don Milani, a ricordarci
che esiste una chiesa lontana dai giochi di potere e vicina ai valori originali, la chiesa del popolo e
dei preti operai.
Pur tuttavia sarebbe un errore dividere nettamente la carriera di Savona fra impegno e disimpegno,
senza e con il Quartetto Cetra. L’osservazione critica spesso acuminata della realtà attuale faceva
effettivamente parte della poetica dei quattro, se si pensa a una canzone come Troppi affari,
cavaliere, scritta da Giacobetti come satira degli industriali rampanti e densa d’allusioni profetiche
(l’invito a lasciar perdere i giornali, la crisi della borsa, guai con moglie e avvocati), o anche alla
Ballata del critico TV, che, sbeffeggiando certa stampa snob che li accusava di presenzialismo,
satireggiava già l’alienazione televisiva di oggi (e nell’era squallida dei reality fa sorridere l’ironia
su chi passava le giornate fra sceneggiati e Studio Uno). Lo stesso Savona, in una recente intervista
alla Repubblica rivendicava un atteggiamento critico e persino sovversivo già dai primi anni,
quando con i suoi compagni d’avventura riusciva, fra adattamenti e traduzioni, a contrabbandare
“musica afro-epilettoide o barbara anti-musica negroide” nell’Eiar fascista e autarchica. E non
furono da meno l’arguzia critica e l’humour nero (l’allegro uxoricidio di Però mi vuole bene) di cui
erano intrisi anche brani apparentemente leggeri.
Su tutto però dominava, e garantiva l’efficacia dei contenuti, la straordinaria qualità musicale frutto
di un percorso favorito anche dalla sorte. Nel 1940 attorno a Giovanni Giacobetti, detto Tata, si
raduna il Quartetto EGIE (Enrico De Angelis, Giovanni Giacobetti, Iacopo Jacomelli ed Enrico
Gentile), pieno di buona volontà ma povero di basi musicali. Un brillante studente di pianoforte al
Conservatorio, che il padre vorrebbe avviato alla carriera di concertista, viene invitato da tata a
curare gli arrangiamenti e nel giro di pochi mesi, dopo la defezione di Jacomelli, Virgilio Savona
entra a far parte del gruppo anche come cantante. Il quartetto ora si chiama Ritmo, ma un altro dei
componenti iniziali abbandona l’iniziativa e viene rimpiazzato da un giovane di Latina, ottimo
cuoco e stornellatore, dotato di una vocalità grave particolarmente duttile e di ottima verve: Felice
Chiusano. Nel 1941 nasce il Quartetto Cetra, completamente maschile e, pur lavorando di concerto,
i ruoli sono già definiti, Virgilio è il compositore, Tata il responsabile dei testi, anche se è
impossibile non citare i contributi di Age, vecchio amico dei ragazzi del gruppo dai tempi
dell’EGIE, Gorni Kramer e Lelio Luttazzi. Nel frattempo Enrico De Angelis deve rinunciare per
adempiere al servizio militare e, inaspettatamente e indirettamente la soluzione viene dallo stesso
Savona. Si propose infatti come nuova voce una bella ragazza bolognese dotata di un registro acuto
cristallino e intenzionata a unire una nuova esperienza artistica (non s’erano ancora visti in Italia
gruppi vocali misti) alla possibilità di stare più vicina al marito Virgilio. Lucia Mannucci, giunta
alle nozze dopo un periodo di convivenza affatto raro per l’epoca, permise di valorizzare la
vocazione drammatica del quartetto e gli aprì vie artistiche prima insospettabili, in teatro come in
televisione.
Canzoni drammatizzate, rivista, parodie e sketch televisivo. L’impasto vocale era perfettamente
amalgamato e permetteva una perfetta articolazione polifonica, i caratteri ben definiti. La voce più
chiara e leggera di Tata, insieme con i lineamenti sottili, lo rendevano perfetto per i personaggi più
giovani, fatui, amorosi, ingenui o ambigui, come Telemaco, il Fornaretto di Venezia, Ashley,
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Aramis, Dracula. Virgilio, con il suo eclettismo timbrico si collocava preferibilmente su tessiture
baritonali, spaziando fra figure nobili, tenebrose e misteriose e altre più caricaturali: è Athos, Rett
Butler, Antinoo, ma soprattutto un fascinoso e implacabile Conte di Montecristo, magistrale
nell’incarnare la trasformazione dal goffo buon marinaio Dantés. Felice, versatile voce di basso,
affronta ruoli più maturi, spesso buffi o bonari (Geraldo O’Hara, Porthos) senza trascurare figure
negative (Chauvelin nella Primula rossa, Bondumier nel Fornaretto di Venezia ) o grandiose come
Napoleone o Ulisse. La primadonna è Lucia: Mercedes, Milady, Penelope (in gara con la Calipso di
Milva e la Circe di Elena Sedlak), Rossella. Esemplare, in tal senso, la distribuzione nel Fornaretto
di Venezia, dove i conti Lorenzo e Clemenza Barbo sono Virgilio e Lucia, Lauretta Masiero Sofia
Zeno, Sandra Mondaini Annella e un superlativo Lelio Luttazzi come Alvise Guoro. Proprio nel
Fornaretto emergono le qualità drammatiche dei Cetra, che toccano corde indiscutibilmente tragiche
nel finale, con la doppia esecuzione dell’innocente Fornaretto e del conte che, giunto troppo tardi a
confessare la sua colpevolezza, sceglie comunque di seguirloe sul patibolo. Il commiato,
pronunciato come d’abitudine dalla deliziosa Grazia Maria Spina, mentre per le calli si rianima il
carnevale è realmente commuovente, senza compiacimenti. Non traggano in inganno le situazioni
comiche (il Doge che si esprime solo in rime gastronomiche, il cameo di Raimondo Vianello come
pittore veneziano) perché come in Shakespeare queste, per contrasto, rendono ancor più forte la
tragedia. Di più, anche Lucia che canta “Guoro mio perché sei morto” sulle note di Maramao
sottolinea un uso etimologico della parodia come costruzione su un canto preesistente. Quante
messe polifoniche rinascimentali sono composte su temi popolari anche profanissimi?
I Cetra alzano addirittura il tiro e utilizzando più volte lo stesso brano ne enfatizzano una plasticità
semantica che fa pensare ad Hanslik o all’autoiprestito rossiniano. Per chi conosca il motivo
originale la reminescenza sarà inizialmente ragione di sorriso, ma non si potrà negare
l’appropriatezza del tema alla situazione. D’altra parte il citato Visconte di Castelfombrone era
passato tranquillamente al carosello della China Martini e alla lettera di delazione di Fernando e
Danglars ai danni di Edmondo Dantes (“All’ufficio Regio del Prefetto…”) e Siam tre piccoli
porcellin può diventare Siam tre impavidi moschettier. L’apoteosi è raggiunta nel ciclo di parodie
cinematografiche di un anno precenti (‘62/’63) alla Biblioteca: qui il personaggio femminile,
all’incirca a metà, intona E’ scesa malinconica la sera, sia che attenda un vampiro o l’esito della
battaglia di Waterloo. Una reminiscenza dell’aria di baule dei divi del belcanto? Un’ironia
iperbolica su un singolo brano, un esercizio semantico. Esperimento o convenzione portata
all’eccesso? Ogni lettura è lecita. Del resto quando nella Storia di Rossella O’Hara lo stesso tema
introduce alla spensieratezza della festa alle Dodici Querce e viene poi intonato con tutt’altro spirito
da Rossella affranta in una Tara distrutta dalla guerra non si può non pensare a un uso significativo
del tema non ignaro del Leitmotiv. La convenzione teatrale, il formalismo quasi operistico, nelle più
estese parodie di Biblioteca di Studio Uno si concretizza, peraltro, nell’appuntamento fisso di un
brano a quattro voci – quasi un concertato – che si colloca spesso come nodo dell’azione.
Nell’Odissea, per esempio, sulle note di Che centrattacco! si consuma l’ingresso di Ulisse
camuffato da mendicante al banchetto dei Proci.
La virtù straniante della musica permette poi di dipanare con un sorriso soluzioni poco accomodanti
e sempre intinte in un disincantato cinismo. Non si può mai parlare di adattamento edulcorato, non
si accettano varianti liete, a costo di mostrare più morti dell’Amleto, non c’è scampo per Valentina
e Donna Renata Villefort, né per Fernando, Edmondo abbandona Mercedes preferendone la fedele
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(e più fresca) Haydée; nessuno scampa alla strage dei Proci; Rossella spara senza problemi a un
Nordista assai esplicito per la RAI dell’epoca (“Bella sudista, ci sono altre libertà che ora mi
prenderò con te!”, ma un anno prima Tata/Ottaviano si lamentava con Lucia/Cleopatra d’essere
stato l’unico, fra Cesare e Marcantonio, ad essere “andato in bianco”).
Rossini, come si è detto, non si era comportato diversamente, aveva prestato le note della commedia
alla tragedia, dimostrando come gli affetti fondamentali della musica potessero svincolarsi e
superare le contingenze verbali. Travolta proprio il virtuosismo in questi mutamenti accentua
l’effetto del dramma, i meccanismi della lacrima e della risata, della pietà, del terrore, della catarsi.
Nella forma piacevole e nell’arte sublime della leggerezza il disimpegno – coltissimo – dei Cetra
diventa impegno. Non inferiore a quello del Virgilio Savona compositore, cantautore e studioso di
musica popolare. Del Virgilio Savona che nel suo album Sono cose delicate si concede il vezzo di
un autoimprestito sfacciato, affidando alla stessa musica la rivendicazione autobiografica del brano
eponimo e l’allegoria del Formichiere che trasforma le formichine ribelli e rivoluzionarie in
impiegati e segretarie funzionali all’ordine costituito.
Resta Lucia Mannucci, resta il figlio Carlo Savona a ricordare un’epoca in cui la responsabilità
delle idee e della cultura poteva essere rappresentata da uomini come Virgilio Savona o Gianni
Rodari (ma anche, fra i tanti, De André, Pivano, Gaber, Straniero) dagli artisti di una generazione
che conosceva l’impegno ma, forte di una solidissima e profonda preparazione, lo viveva con il
virtuosismo sublime della leggerezza.
Gli amici della musica, novembre 2007
Ariane simbolo di libertà senza vendetta
di Roberta Pedrotti
TORINO_ Non so se qualcuno abbia già pensato ad accostare René Magritte a Paul Dukas.
Entrambi perdono la madre in modo traumatico, il pittore tredicenne la vede suicida in un fiume, a
cinque anni il compositore la perde mentre da alla luce la sorellina. Paul eredita la vocazione
musicale dalla madre, eccellente pianista, ma mortifica la vena compositiva con una severissima
autocritica; René replicherà il trauma nelle figure velate come il cadavere materno, ritrovato con la
camicia da notte avvolta sul viso. Come la vena surreale, i sottintesi simbolici di Magritte trovano
realizzazione in una pittura apparentemente semplice, formalmente compiuta, così Dukas ripropone
cromatismi wagneriani e moduli à la Debussy in strutture sinfoniche – anche nell’opera –
solidamente strutturati nel solco della tradizione. Così è L’apprenti sorcier, il titolo più noto del pur
sparuto catalogo di Dukas; così è l’Ariane et Barbe Bleu, unica partitura teatrale completa. Il
legame con Pelléas et Mélisande e il suo autore sembra, peraltro, ineludibile, non solo perché il
libretto è dello stesso Maeterlinck, non solo perché una delle mogli di Barbablù ha il nome e gli
splendidi capelli dell’evanescente sposa di Golaud, ma anche perché al drammaturgo belga riuscì a
imporre come protagonista quell’amata Georgette Leblanc già vigorosamente rifiutata da Debussy
per la sua opera (e bene pare abbia fatto, giacché non pare che come Ariane si sia coperta di gloria).
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Non è però per mera convenienza teatrale che Maeterlinck riscrisse la fiaba di Perrault ponendo in
tale rilievo l’ultima moglie. Ariane et Barbe Bleu è una parabola simbolista non immune dal
misticismo che innerva la corrente belga del movimento e fa dell’eroina la portatrice della bonne
nouvelle, che immagina alla fine il marito padrone, aggredito dai contadini, come un Cristo deposto
accudito dalle pie donne. Ariane è una donna indipendente, emancipata, portatrice di un messaggio
ribelle e femminista. È anche, però, il simbolo universale della libertà: scende nel labirinto
sotterraneo tornando alla luce, come Arianna, ma sarà lei ad abbandonare un uomo che è insieme
Minotauro e Teseo, vittima e carnefice, ferino e amato amante. Come Antigone si ribella a una
legge che ai suoi occhi non ha ragione, come Ulisse ha ingegno versatile e multiforme, segue virtute
e canoscenza, quandanche, come per Edipo, la ricerca possa portare alla catastrofe. Ariane è la luce
che svela se stesse alle donne già sepolte prima di aver infranto il divieto ( je me n’etonne plus s’il
ne vous amait pas autant qu’il eût fallu […] il n’avait que vos ombres). Il velo che avvolge i volti di
Magritte come quello della madre che aveva preferito annegarsi, il velo metaforico che celava Mme
Dukas e il suo talento nelle mura domestiche è lo stesso nel quale Ygraine, Sélysette, Mélisande,
Bellangère e Alladine si sono nascoste. Eppure, quando riscoprono la luce e la natura, quando
rinasce la loro femminilità e si adornano degli splendidi gioielli del tesoro di Barbablù, esse non si
vendicano del castellano. Non lo fa Ariane, che lo libera e poi lo lascia senza odio, ma per amore
della libertà; non lo fanno le altre mogli che l’accudiscono e restano con lui. Forse è vero che la
libertà (come la democrazia) non può imporsi uguale per tutti, che si possono scegliere diverse
forme di felicità e realizzazione: tutte le donne hanno attraversato il labirinto e conquistato la luce,
la délivrance potrà essere inutile (come recita il sottotitolo del dramma) ma l’aggettivo ha valore
quantomai relativo. A un secolo dalla prima del 1907, il Regio di Torino ci offre l’occasione di
tornare sull’Ariane, opera ambigua e affascinante, per quanto figlia disciplinata del suo tempo più
che geniale rivelazione. Lo fa grazie soprattutto all’ottima concertazione di Emmanuel Villaume, a
suo perfetto agio nel linguaggio di Dukas, grazie anche all’orchestra e al coro del Regio, in forma
strepitosa. Peccato che la protagonista, Kristine Ciesinski, non abbia entusiasmato: suoni troppo
aperti, vibrato largo, interpretazione poco soggiogante. Pazienza, il ruolo è assai impegnativo e la
Ciesinski è stata chiamata all’ultimo dopo la defezione – nota da qualche mese – di Sonia Ganassi e
– più recente – di Hermine May. Marcel Vanaud canta solo poche frasi nel primo atto, ma il suo
Barbablù è subito caratterizzato e autorevole. Gli anni pesano più sulla Nutrice di Nadine Denize,
mentre si disimpegnano con disinvoltura le mogli: le cantanti Sophie Pondjiclis (Sélysette), Daniela
Schillaci (Ygraine), Gisèle Blanchard (Mèlisande), Gemma Cardinale (Bellangère) e la mima
Katiuscia Cauzzi (Alladine). I contadini erano Oliviero Giorgiutti, Giancarlo Pavan e Devis Longo.
La messa in scena, assai sobria e senza sorprese, si doveva a Danielle Ory (regia), Philippe Fraisse
(scene), Rossana Caringi (costumi) e Roberto Venturi (Luci). Alla recita domenicale pochi vuoti in
sala e alcuni spettatori anche da oltralpe.
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Gli amici della musica, dicembre 2009
A Torino Daniela Barcellona conferma la sua eccellenza d'artista completa
Tancredi capace di toccare anche gli animi più
ruvidi
di Roberta Pedrotti
TORINO - Nell'estate del 1999 Daniela Barcellona si rivelava come Tancredi al Rossini Opera
Festival raccogliendo il testimone di Lucia Valentini Terrani, scomparsa un anno prima. Sempre a
Pesaro Antonino Siragusa, già allievo dell'Accademia Rossiniana, era Belfiore nel Viaggio a Reims
e Selimo in Adina. Nell'estate 1999 Patrizia Ciofi cantava Traetta a Martina Franca, dove si era già
segnalata nella Sonnambula, nel Re e nel Mese mariano di Giordano e dove di lì a un anno sarebbe
stata Isabelle in Robert le diable. Le promesse di dieci anni fa ora sono consolidate certezze e
trovarle radunate per Tancredi al teatro Regio di Torino lascia presagire una delle migliori
produzioni possibili oggi. E così, in effetti, è, o, meglio, sarebbe, se sul podio non si trovasse il
giovane estone Kristjan Järvi, figlio d'arte dedito soprattutto alla musica del XX secolo e al suo
debutto nel repertorio italiano.
L'estraneità al fraseggio e all'articolazione stessa del suono nella nostra lingua è evidente, così come
traspare dagli attacchi indecisi e imprecisi, dallo stacco dei tempi privo di reale coerenza e respiro
musicale, dalla resa dell'orchestra e del coro decisamente inferiore alla media e dall'indubbia
difficoltà, se non fastidio, palesata dai solisti lasciano intuire una preparazione decisamente
inadeguata al cimento. Peccato: non solo la scelta si è rivelata fallimentare, ma ha creato non poche
difficoltà a chi Rossini lo conosce e lo frequenta ormai da parecchi anni con soddisfazione. Con
altra bacchetta avremmo forse potuto uscire dal teatro gridando al miracolo, ma i momenti di
eccellenza non sono mancati. Sembrerebbe, infatti, superfluo rimarcare ancora una volta le virtù del
Tancredi di Daniela Barcellona, ma a dieci anni dal debutto (e alla sua tredicesima produzione)
riesce ancora a stupire per la cura espressiva nel pieno rispetto della scrittura e dello stile, ad
ammaliare per il canto morbido e appassionato, a commuovere in una scena della morte nella quale
non una sillaba è sprecata e, anzi, si intende la perfetta fusione fra un recitar cantando d'ascendenza
monteverdiana e il petrarchesco Cantar che nell'anima si sente vagheggiato da Rossini. Impossibile
trattenere le lacrime, anche per gli animi più ruvidi. La sintonia con l'Amenaide stilizzata ed
evanescente, come da poema cavalleresco, di Patrizia Ciofi è tale che spiace si sia scelto di omettere
il primo duetto, L'aura che intorno spiri, spostando nel primo atto quello del secondo, Lasciami,
non t'ascolto. È importante ricordare che questa soluzione proviene sì dalla versione che Rossini
approntò per Ferrara, ma anche che solo il finale - quello tragico su testo del conte Lechi - è stato
proposto nella stessa versione, che prevederebbe anche il taglio della seconda aria di Argirio (Ah
segnar invano io tento), fortunatamente eseguita, e la sostituzione dell'aria di Amenaide No che il
morir non è con la meno interessante Ah se pur morir degg'io. Proprio nella scena del carcere,
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peraltro, la Ciofi raggiunge gli esiti più alti, cesellando variazioni e cadenze con somma eleganza e
perizia musicale e stilistica. Se le donne erano comunque veterane dei rispettivi ruoli, debuttava in
quello di Argirio, per di più decisamente più basso di quelli nei quali siamo abituati ad ascoltarlo,
Antonino Siragusa, ormai sempre più impegnato sul fronte del Rossini serio. La sua interpretazione
avrebbe sicuramente entusiasmato Stendhal, perché il colore limpido e solare del tenore siciliano
rievoca un ideale neoclassico che per accento e autorità vocale s'ammanta di dignità paterna,
restituendone nobiltà e spessore psicologico. L'esecuzione, poi, della perigliosa seconda aria è
notevolissima. Ai tre protagonisti, felici conferme, s'affiancano interessantissime nuove voci, come
il basso baritono Simone Del Savio, ottimo Orbazzano, e i mezzosoprani Paola Gardina, fresco
Roggiero, e Annunziata Vestri, intensa Isaura. Tutti stilisticamente e interpretativamente
inappuntabili. Come si è detto, invece, meno a fuoco del solito coro e orchestra, piuttosto piatti i
recitativi accompagnati da Gianandrea Agnoletto. L'allestimento, proveniente dai principali teatri
spagnoli, è di Yannis Kokkos, che sceglie una via fiabesca e volutamente antirealistica ispirandosi
al mondo dei pupi siciliani e di un'araldica surreale. Uno spettacolo coerente e ben costruito di cui
abbiamo apprezzato soprattutto l'uso della torre del palazzo d'Argirio, elemento scenico praticabile
che permette suggestioni stilnoviste o trobadoriche (l'amour de loin), ma anche posteriori (il
balcone di Giulietta o quello di Melisande, con la quale la Ciofi condivide le lunghe chiome
ramate). Bellissimo anche il finale pittorico con Tancredi morente accasciato sul suo stesso scudo
come un eroe antico o un martire (le frecce infitte suggeriscono un San Sebastiano). Teatro
pressoché esaurito e pubblico giustamente entusiasta per il cast, premiato con lunghe e ripetute
acclamazioni. Qualche sacrosanto mormorio per il direttore.
Brescia: nel teatro Grande un'opera di Donizetti e un altro insolito dittico
La figlia "italiana" e la strana coppia
di Roberta Pedrotti
BRESCIA - La fille du régiment "italiana"- Filologia, questa sconosciuta. Non, per fortuna, sul
palcoscenico, dove abbiamo visto restituire alle scene la versione italiana della Fille du régiment
così come Donizetti la scrisse e l'edizione critica la riporta. È nella comunicazione che la disciplina
risulta tristemente trascurata, tant'è che, non trovando nessuna delucidazione su quello che è a tutti
gli effetti un testo inedito né nella cartella stampa né nel programma di sala della stagione non è
rimasta altra alternativa che contattare direttamente il curatore dell'edizione, il cui nome le
locandine bresciane tacciono sistematicamente. Il professor Claudio Toscani, molto gentilmente,
chiarisce tutti i dubbi, ma ci resta il rimpianto che l'occasione di spiegare al pubblico la scelta di
questa versione (che non è una semplice traduzione) non sia stata colta appieno.
Da qualche anno il Grande organizza un ciclo di conferenze, Pazzi per l'opera, in cui appassionati
colti, ma non addetti ai lavori - classicisti, storici dell'arte, avvocati… - introducono le opere in
cartellone. Perché, per esempio, non affiancare loro, soprattutto in casi come questo, i curatori
dell'edizione critica? Il successo di pubblico di Bruno Cagli, Philip Gossett o Luciano Canfora
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insegna che non bisogna aver paura degli studiosi! Tornando in argomento La figlia del reggimento
italiana che Donizetti curò per la Scala nel 1840 prevede ovviamente i recitativi secchi in luogo dei
parlati e la soppressione dei couplets della Marchesa, eliminando così due tratti caratteristici dello
spirito originale dell'opèra comique. Anche la parte di Tonio è rivoluzionata, gli si offre una
cavatina buffa di carattere tratta dal Gianni di Calais (Feste? Pompe? Omaggi? Onori?),
negandogli però la splendida Pour me rapprocher de Marie. Ah mes amis, invece, era stata
approntata dall'autore con alcune varianti anche per Milano, ma il tenore dell'epoca preferì non
affrontarla, per cui il brano rimase nel cassetto, non riportato per molti anni nei libretti italiani
(finché non rientrò per influenza francese). La rielaborazione dell'aria esiste, tuttavia, e il tenore che
desideri cantarla potrà farlo con ogni diritto filologico anche in italiano. La differenza più vistosa
rispetto a quanto conosciamo, anche dalle incisioni nella nostra lingua, resta dunque il finale, che
non culmina nel rondò Salut à la France /Salvezza alla Francia ma, alla maniera dei Puritani di
Bellini, in un rondò a due voci - non memorabile - fra tenore e soprano, Su questo sen riposati. Nel
libretto tradotto da Calisto Bassi abbiamo, infine, qualche variante rispetto a quanto si legge
abitualmente ( la Francia , per esempio, diviene Savoia, Berkenfield e Krakentorp rispettivamente
Lauffen e Swingen).
Il risultato è purtroppo decisamente più debole dell'originale francese, l'opéra comique camuffata da
opera buffa si appesantisce, perde agilità e freschezza e solo un'esecuzione superlativa ne può
giustificare una ripresa che vada al di là della curiosità filologica. I recitativi, innanzitutto, sono
correttamente realizzati con l'apporto del violoncello e del contrabbasso al fianco della tastiera, ma
con tale mancanza di fantasia e leggerezza da rendere lo scrupolo esecutivo un'inutil precauzione.
Parimenti scrupoloso è nella cura dell'orchestrazione d'epoca il maestro Alessandro D'Agostini, ma
non giova a molto quando quel che si ascolta è generalmente uniforme, spesso troppo lento e gli
accompagnamenti non brillano per fantasia ed elasticità. Yolanda Auyanet, con il suo timbro dal
sapore antico, è valorizzata soprattutto dalle pagine più liriche e non teme di lanciarsi in puntature
acute, mentre nei momenti di coloratura più brillante si trova meno a suo agio e si avverte persino
qualche asprezza in alto. Il personaggio di Maria è reso comunque con simpatica immedesimazione
e risulta alla fine convincente. Convince meno Gianluca Terranova, Tonio cui difettano la grazia e
la solarità che dovrebbe essere il tratto distintivo del personaggio. La natura generosa lo sostiene
nella scalata ai nove do, ma la tecnica sembra ancora disordinata. Francesco Paolo Vultaggio è un
puntuale Sulpizio e Dionisia Di Vico si disimpegna come può con una Marchesa ridotta, in questa
versione, quasi ad una macchietta. Sara Palana è la contessa, Andrea Tabili il caporale, Gianfranco
Giuntoli il notaio. Andrea Cigni, regista scenografo e costumista, colloca l'azione nel secolo scorso:
Maria rifornisce la cucina del reggimento muovendosi in sidecar, brandisce carciofi e padelle ma
sogna la battaglia. Vive in una sorta di stato di natura, in un mondo già adulto ma
illuministicamente - o fiabescamente - ingenuo. Al contrario il mondo della Marchesa è una sorta di
casa di bambole dominata da un mastodontico orsacchiotto, un'infanzia cristallizzata e artificiale,
sclerotizzata come gli invitati alla festa, vecchietti decrepiti e un po' rimbambiti. Difficile non
ricordare l'allestimento recente e fortunato di Laurent Pelly, per molti versi simile, ma Cigni sa
comunque mantenere un tratto d'originalità, e se non ha anche sempre convinto tutti in egual
maniera, lo spettacolo è stato accolto dal pubblico bresciano con schietto divertimento (nella sfilata
dei nobili geriatrici le risate in platea e loggione non riuscivano a soffocarsi) e calorosi
apprezzamenti.
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Poulenc e Leoncavallo, la strana coppia - Dopo l'inaugurazione con Brecht e Weill ecco un nuovo
dittico inusuale sulle scene del Teatro Grande. Questa volta si tratta della Voix humaine di Poulenc
e dei Pagliacci di Leoncavallo, titoli certo lontani per stile e drammaturgia, fra i quali potremmo
azzardare paralleli ispirati per esempio alle frequentazioni culturali francesi di Leoncavallo, o al
tema della solitudine e del fallimento dei sentimenti. La semplice giustapposizione, però, non è da
rigettare, anzi, può servire a valorizzare le peculiarità di ciascuna partitura e, magari, a suggerire
nuove prospettive d'ascolto. Un forte elemento di continuità scenica è intanto suggerito
dall'ambientazione voluta da Leo Muscato, che, avvalendosi della scena di Antonio Panzuto,
colloca entrambi i drammi su uno squallido marciapiede di periferia.
È un angolo suburbano su cui si affaccia un piccolo teatrino che ospita compagnie di giro per farse
piuttosto grossolane. Lì la donna, forse ancora sotto l'effetto dei barbiturici, si è schiantata con l'auto
contro un lampione e telefona all'amante che cercava di raggiungere. Il dramma della
comunicazione ideato da Cocteau si sposta dalla solitudine di una camera da letto ormai vuota alla
desolazione di un marciapiede. Il vecchio telefono a disco è sostituito da un cellulare e la presenza
delle centraliniste da problemi di campo e batteria. L'adattamento conferma l'attualità del testo, il
dramma della solitudine nell'era della comunicazione globale, ma, certamente, deve sottostare a
qualche piccola forzatura (l'appello alla signorina del centralino diventa richiesta d'aiuto a una
prostituta di passaggio) per enfatizzare il naufragio di questa donna alla deriva che, aggrappandosi a
una storia ormai finita, diventa ella stessa da vittima mentitrice che finge di trovarsi in casa quando
invece ha quasi raggiunto l'abitazione dell'uomo. Lo spettacolo si regge tutto, com'è inevitabile,
sulla prova sorprendente di Tiziana Fabbricini, che ha superato brillantemente i postumi di un
intervento chirurgico che d'urgenza l'ha costretta a rinunciare alle prime recite della produzione.
Beniamina - a ragione - del pubblico bresciano, non è mancata all'appuntamento all'ombra del
Cidneo e non solo si è riconfermata straordinaria attrice (eccezionale per gesti, pause, colori, senso
della parola), ma ha anche sfoderato una notevole sicurezza vocale: il solo do acuto di Je devenais
folle, per di più assai scomodo, basterebbe a mettere a tacere chi dubita delle virtù della Fabbricini
anche cantante in questo repertorio. Una nota precisa e sicura che è allo stesso tempo, come nella
scrittura di Poulenc, un grido disperato, l'acmé di una spasmodica ricerca d'amore e sicurezza.
La Fabbricini , capelli sciolti sulle spalle, tacchi a spillo e soprabito sopra il ginocchio, è veramente
una giovane donna non priva di fascino, ma provata duramente dalla vita e dal crisi della sua vita
sentimentale, dal crollo d'ogni certezza affettiva. Una donna maltrattata dalla vita, maturata e
sfiorita nell'animo, ma ancora nel pieno della sua femminilità. Per quaranta minuti il teatro la segue
con il fiato sospeso, poi esplode di una meritatissima ovazione. Poi è la volta dei Pagliacci,
scompare il muro grigio e il palazzo rivela lo spaccato del teatro: sala, retropalco, camerini
diventano lo spazio di un'azione - sempre ambientata ai giorni nostri - ben narrata e articolata. Nei
panni di Tonio il bresciano Ivan Inverardi coglie finalmente un successo in patria: più di Verdi,
indubbiamente, questo repertorio gli si confà anche per personalità scenica, l'interpretazione risulta
azzeccatissima e gli acuti del prologo gli valgono l'applauso a scena aperta. Molto impegnato il
Canio di Michael Spadaccini, cui rendiamo l'onore delle armi dopo il malore che l'ha colto in
palcoscenico nella recita precedente, ma per il quale non possiamo non evidenziare il rischio di un
repertorio troppo oneroso (specie nella zona centro grave) per la sua voce, portata a un repertorio
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più lirico e con maggiore facilità nel registro medio acuto. Esther Andaloro è perfetta nella scena
ma poco timbrata e convincente nel canto. Enrico Marabelli è Silvio e Giulio Pelligra Peppe,
entrambi ben inseriti nello spettacolo. Ottimo il coro del Circuito Lombardo e convincente la
direzione del giovane Matteo Beltrami, che si conferma uno dei nomi più promettenti delle giovani
generazioni. Buon ritmo teatrale pur in un'impostazione è prevalentemente sinfonica, i dettagli sono
ben curati senza indulgere in effetti (peccato veniale solo la piccola pausa per attendere l'applauso
nel prologo). Con il tempo e l'esperienza potrà sicuramente riservare buone soddisfazioni: intanto
garantisce l'ottima resa di un dittico non facile che non ha mancato di entusiasmare e stupire il
pubblico bresciano.
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Roberta Pedrotti - Note in viaggio