La commedia dell'innocenza: intervista a Guido Vitiello
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La commedia dell'innocenza: intervista a Guido
Vitiello
pubblicato: lunedì 15 settembre 2008 da dario in: saggi
Moltissimi di noi hanno letto magari senza saperlo - gli
articoli Guido Vitiello, perché
costui è uno dei recensori di
libri
della
apprezzatissima
rivista Internazionale.
Da qualche mese il dottor
Vitiello ha dato alle stampe La
commedia dell’innocenza. Una
congettura
sulla
detective
story un delizioso saggio sulla
letteratura gialla e poliziesca
in cui sostiene una tesi, anzi
una
congettura
molto
originale. Vale la pena di
sviscerarla insieme a lui.
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Allora Vitiello, possiamo
dire che che la detective
story è figlia del dramma
greco?
Su questo punto è bene
essere molto cauti, e ritirare
l’analogia nel momento stesso in cui la si lancia.
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"Hitler": intervista a
Come una specie di yo-yo?
Esattamente. Sarebbe avventato, e in ultima analisi insensato,
sostenere che ci siano filiazioni dirette tra il teatro greco e il giallo
all’inglese, se non per quel tanto di cultura drammatica classica che ha
raggiunto – anche per tramite del magistero shakespeareano – un buon
numero di autori dell’epoca d’oro, Agatha Christie su tutti.
Ma allora di che parla il suo saggio?
Mi sono limitato a osservare una “somiglianza di famiglia”, meglio
ancora una analogia morfologica, tra lo schema generale della tragedia
(come discendente del rito sacrificale) e quello del giallo, senza
indugiare troppo sulla natura esatta e le cause di questa analogia, e per
far ciò mi sono fondato quasi esclusivamente su un esempio, quello
dell’Edipo Re, spesso citato un po’ impropriamente come primo giallo
della storia.
Niente di nuovo, dunque.
Be’, io ho capovolto l’accostamento consueto: se per lo più si è
sostenuto che quella messa in scena da Sofocle è la prima indagine
razionale su un delitto misterioso, io sostengo al contrario che il giallo
classico è fondato, come la tragedia greca, sulla ricerca di un
pharmakos, di un capro espiatorio a cui imputare tutti i mali della
comunità. Nel caso di Edipo questo male è la peste, scatenata
dall’assassinio invendicato di Laio, nel caso del giallo moderno il
contagio da debellare è l’ombra del sospetto che si addensa su tutti i
personaggi a seguito dell’effusione del sangue.
E come avverrebbe la catarsi nei gialli che, per definizione,
parlano più alla mente che al cuore?
È molto difficile ricostruire, oggi, cosa fosse la catarsi tragica nell’Atene
del sesto o quinto secolo avanti Cristo – sul tema esiste una letteratura
sterminata, e spesso fantasiosa (nel senso migliore che in essa è
all’opera una buona dose di immaginazione teorica) – ma è certo che in
essa vi fosse anche un elemento di sollievo legato all’espulsione
simulata di un capro espiatorio, e dunque alla liberazione della città da
qualche flagello. E non sappiamo in quale misura il sollievo prodotto dal
ristabilimento dell’ordine riguardasse il cuore o la mente. Ma è certo
che un meccanismo simile funziona nel giallo all’inglese, la cui catarsi è
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La commedia dell'innocenza: intervista a Guido Vitiello
senz’altro più “fredda” di quel che avviene nel thriller, nell’horror o nel
melodramma, ma la cui struttura è infinitamente più simile a un rito
rispetto a questi altri generi. Per questo, indagare sulla natura del giallo
consente di gettare luce sull’elemento sacrificale presente, in forma al
tempo stesso più sfacciata e più irriconoscibile, in altri generi popolari
della letteratura e del cinema. La “freddezza” della catarsi poliziesca –
che peraltro non sempre è tale, se pensiamo anche solo ad Agatha
Christie – forse è legata anche alla composizione del pubblico di
destinazione del giallo all’inglese, un pubblico fatto per lo più di
persone colte e di intellettuali, poco inclini alla letteratura
sensazionalista. E più in generale è legata all’autorappresentazione
compiacente del giallo come mero “gioco intellettuale” – che, per usare
un gergo desueto, secondo me è in buona parte una forma di “falsa
coscienza”: il giallo è molto di più.
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Sarà molto di più, ma ho l’impressione che il giallo cosiddetto
whodunit (chi ha ammazzato l’ammazzato?) sia un genere
sostanzialmente morto perché sostanzialmente noioso.
Non direi che il whodunit, in quanto tale, sia morto. Come mero
espediente narrativo, gode ancora di discreta salute: la domanda “chi è
stato?” è tuttora uno dei centri generatori della suspense in tanti gialli,
thriller e più in generale racconti del mistero. E come i critici vanno
osservando da anni, pare ormai che l’ingrediente giallo sia
indispensabile a gran parte della narrativa contemporanea, per non
parlare del cinema o delle serie televisive.
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Quindi il whodunit gode di ottima salute?
No, senza dubbio è morto il whodunit classico, quello dell’epoca d’oro
tra le due guerre mondiali, portato al massimo grado di perfezione da
Agatha Christie, Ellery Queen e John Dickson Carr. E la prova “indiretta”
di questa morte è che lo si rivisita sempre in maniera nostalgica,
ironica, ammiccante – direbbe Schiller: “sentimentale” – a segno che
quella stagione è chiusa per sempre e che la via del ritorno è sbarrata.
Ma la morte prematura di “quel” whodunit era inscritta, credo, nelle sue
stesse regole di composizione. In altre parole, un genere dalle norme
così rigide, che si avvale metodicamente dello stratagemma della least
likely person – secondo cui l’assassino dev’essere il personaggio più
insospettabile – per forza di cose non può che esaurire le sue possibilità
combinatorie, ed estinguersi. Una volta che il lettore è stato addestrato
ad aspettarsi che l’assassino può essere letteralmente chiunque – il
detective, la vittima, un bambino di tre anni, un uomo già morto, il
narratore, l’intero cast dei personaggi – non c’è più modo di
sorprenderlo. Per sopravvivere, il giallo ha dovuto contaminarsi con
altri generi e sciogliersi come una pasticca effervescente nel bicchier
d’acqua del romanzo, nel senso più largo del termine. Questo cammino
s’avviò ai tempi del grande scisma dell’hard-boiled di Hammett e
Chandler, del noir violento all’americana, ed è ancora in corso.
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Il suo libro può considerarsi un contributo della ricerca all’arte
narrativa? Secondo lei qualche giallista militante terrà conto
delle sue ricerche?
Chissà. Senz’altro scrivendolo non ho pensato alle sue possibili ricadute
“pratiche”. Ma ho l’impudenza di ritenere che l’idea centrale del mio
libro – in larga parte, occorre dirlo, debitrice di intuizioni di Northrop
Frye, di Brigid Brophy e di René Girard – apporti qualche lume nuovo
alla conoscenza del giallo, almeno di una certa famiglia di gialli, sui
quali c’è una letteratura tanto vasta e pregevole quanto ripetitiva.
Novità
Invece il suo lavoro in cosa si distingue?
In un certo senso, ho tentato di dimostrare che il vero baricentro del
giallo non è laddove si è creduto per decenni – nel puzzle intellettuale –
ma in una regione più vasta e profonda, e più ricca di significati
antropologici: nel “gioco sacrificale” che culmina con l’espulsione di un
pharmakos, la cui designazione è più arbitraria e casuale di quanto
l’apparenza razionale dell’indagine non lasci sospettare.
E come si potranno più scrivere gialli senza tenere conto di
questo elemento?
Ora che mi ci fa pensare, mi piace l’idea di un giallista che scelga di
imperniare consapevolmente la sua opera su questo che a me pare il
principio cardine del romanzo poliziesco. Solo Agatha Christie lo ha
fatto, in alcuni dei suoi libri migliori come La domatrice o Le due verità.
Ma, quanto alla Christie, nel suo saggio lei si concentra
soprattutto su Assassinio sull’Orient-Express.
Gli ho dedicato un capitolo intero. Anzi, sarebbe più corretto dire che il
mio libro nasce proprio da lì, dal senso di rivelazione che mi ha assalito
dopo aver letto il libro della Christie: quel romanzo è ben più che un
capolavoro del genere, è al tempo stesso anche un capolavoro della
riflessione critica sulla detective story, è il giallo che si distrugge
dall’interno e che rivela in piena luce la sua natura, pur fingendo di
restare parzialmente fedele alle sue regole.
Ma in definitiva chi è secondo lei il lettore ideale de La
commedia dell’innocenza?
Difficile a dirsi, e io stesso nell’atto dello scrivere ho in mente di volta in
volta interlocutori diversi. I lettori possibili sono molti, non tanto
(ahimè) come numero quanto come tipologia.
Cioè chi?
Molti, e nessuno. Il mio libro non è “interdisciplinare”, è semmai
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La commedia dell'innocenza: intervista a Guido Vitiello
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“diagonale”, in un senso simile a quello usato da uno dei miei autori
preferiti, Roger Caillois. È come una freccia che attraversi diversi piani
– antropologia, storia letteraria, narratologia, sociologia della
letteratura – ma in un solo punto. Mi interessava dire una cosa, una
sola, ma per giungere al cuore di quell’idea ho dovuto trapassare strati
su strati, come un pugnale acuminato (passatemi la metafora
giallistica).
Passata.
Va da sé, è un libro che può scontentare simultaneamente giallisti,
narratologi, antropologi, teologi, studiosi del sacrificio, sociologi della
letteratura, filologi, antichisti ecc. Tutti avranno qualcosa, o molto, da
ridire. Al tempo stesso, per usare un’altra metafora, questo libretto è
come uno strano poligono traslucido, una specie di cristallo o diamante
(come conformazione, non certo come valore!) in cui ciascuno può
guardare a partire dalla faccia che gli è più prossima, e da lì osservare i
nessi e la struttura dell’insieme.
Ehm…
Facciamola più semplice: a conti fatti volevo esporre una congettura,
senza curarmi troppo di trovare pezze d’appoggio per renderla
inattaccabile. Far spuntare idee in modo esuberante e persino un po’
selvatico mi interessava più che coltivarle, raccoglierle e stiparle
ordinatamente in qualche magazzino. Il mio lettore ideale è, molto
banalmente, il lettore curioso.
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