Narrativa Aracne
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Ogni riferimento a fatti o persone realmente esisteni è puramente casuale.
Tulio Ampez
La riscossa dei baroni
ARACNE
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I edizione: maggio 2006
Si può partire da Alessio Pahor. Chi era? Dove lavorava?
Forse, fra qualche anno sarebbe diventato professore
associato di tecnologia meccanica; conseguentemente
avrebbe vinto un nobel per l’hobby della meccanica
quantistica, avrebbe accettato con modestia i saluti da
cravatte sconosciute lungo il viale XX Settembre, e più
ancora, si sarebbe indaffarato a rispondere a lettere di
sensibili ammiratrici, parimenti intelligenti e gnocche.
Ma per il momento, Alessio Pahor, ricercatore di Tecnologia Meccanica all’Università di Trieste, rileggeva per
la terza volta il saldo che lo scontrino del bancomat fissava a milleseicento euro al mese. A dire la verità Alessio era
perfettamente a conoscenza dei propri emolumenti, che
già da sei mesi, da quando aveva ricevuto la conferma di
ricercatore erano passati da novecento a mille e sei. Il fatto è che un venerdì mattina di un mese prima, mentre si
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recava al lavoro lungo via Giulia, aveva chiesto conferma
al nuovo bancomat della filiale Unicredit. Quella scatoletta computerizzata, che per Alessio è inequivocabilmente di genere femminile, si era conquistata la sua amicizia rivelandogli il gradiente economico. Felicità. Immediata. Inaspettata. Ebbe così tanto quella prima volta che,
da allora, il rito si ripete ogni venerdì mattina.
Riscosso lo scontrino, se lo mise in tasca, rincagnò la
scheda in un portafogli dove solo gli spiccioli per il caffè
trovavano posto tra illeggibili appunti a matita e brani
di scienza ed entrò nel centro commerciale “Giulia” per
trangugiare l’ennesima ultima accoppiata di croissant e
cioccolatina. Preferiva il bar del centro commerciale a
quello di Ingegneria. Non gli piaceva, non c’era verso,
non gli piaceva farsi vedere mentre mangiava nel bar di
Ingegneria dove — per inciso — i croissant erano flaccidi e la crema pasticcera assomigliava ad una gelatina
gialla cotta e ricotta. Non gli piaceva proprio; quelle poche volte che aveva tentato il rifornimento mattutino all’Università non era riuscito a trovare un posto discreto
per la pancia che si era appoggiata irriverente al bancone; mentre apriva i denti, lo specchio di fronte, ben pulito e sfruttato dai capelli delle matricole, gli aveva
mostrato una bocca ingorda, spropositata, un organo
che gli altri uomini avrebbero potuto definire un buco,
un buco che deve chiedere poco.
E poi c’era Mario Stafani, il suo capo che quando lo sorprendeva mangiare gli palpava la pancia divertito e riciclava battute. Poteva proprio risparmiarsele le sue allegorie, i
suoi ossimori. Mamma Pahor impediva al figlio di dire e
pensare parolacce, ma quando Stafani si prendeva la libertà di infastidirlo di primo pomeriggio, in concomitanza
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alla pausa pranzo ed al panino, solo il desiderio di giudicarlo un pezzo di merda ed un coglione gli davano la forza
per inghiottire permettendosi anche il lusso di masticare.
Attraversò via Giulia con ancora il gusto della crema
pasticcera fra i denti, si sincerò della presenza dello spazzolino nella tasca della giacca ed affrontò la fatica della
salita di via Dello Scoglio. A metà, quando il ricordo della
crema pasticcera se n’era andato chissà dove, si riposò
stando in piedi aggrappato al palo che sostiene e delimita
il marciapiede. Ci stette un buon minuto, mimetizzandosi alla meglio come un ragazzone di quasi quarant’anni
potrebbe fare in mezzo ad una via stretta e vuota.
Infine piedi e muscoli delle cosce gli diedero il via libera ed affannandosi raggiunse la porta del suo ufficio.
Ma prima di trovare la chiave giusta sperando di non
averla dimenticata a casa — rifare la salita significava
morire e risuscitare di nuovo — sentì il passo martellante del professor Mugnai in persona.
Click. La porta si apre, ma non riesce ad infilarsi in
tempo.
— Allora, tutto a posto? — gli chiese il professore
avvicinandosi talmente tanto che avrebbe potuto sniffare qualche residuo di crema pasticcera.
Alessio indietreggiò masticando qualche sì, sì.
— Siamo sicuri? Sai che è una cosa importante.
— Sì, sì, sono partiti.
Quando il prof se ne andò, Alessio, seduto alla sua
scrivania, deposito di datasheet e manuali di tecnologia
meccanica, si chiese se aveva fatto bene ad immischiarsi in quella faccenda. L’avevano proprio infinocchiato di
brutto. E lui non era portato per quelle cose, proprio
non lo era.
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E chi sarebbe questo professore Alberto Mugnai? È
qualcuno che conta?
Non avrebbe mai immaginato Alberto che anche in
seguito, durante le arringhe in Consiglio di Facoltà,
avrebbe ricordato la rivelazione del pomeriggio del 5
agosto del 1972, come la più netta linea di separazione
nella sua vita. Il solco lo tracciò Claudia, la figlia del
meccanico sotto casa, alle due e trentasei esatte, dopo
cinque giorni dall’inizio del campeggio organizzato dalla parrocchia a Cinte Tesino.
Era caldo, ed il prete aveva concesso autorizzazione a
trovare conforto nei gavettoni. Così, dopo una guerra ben
impostata con squadre miste ragazzi e ragazze, escluse
quelle affette dal misterioso male delle mestruazioni,
Alberto si sedette ad asciugarsi a torso nudo vicino alla
vasca di legno. Là si abbeverano le vacche. Sarebbero
ritornate?, Dove erano in questo momento?, si chiese scegliendo qualcosa da domandarsi espressamente a caso.
Ogni anima del campeggio ricevette piena gratificazione; il prete si rallegrò di aver avuto così tanti iscritti
quell’anno, individuò addirittura due o tre bravi ragazzi
che con le giuste raddrizzate avrebbero potuto vestire in
futuro la veste nera dai mille bottoni; le ragazze strillarono per tutto il campo per farsi cecchinare; i maschi,
poi, si diedero animo per centrare e liquefare quante
più magliette poterono e memorizzare le forme dei capezzoli incappottati privi di mammelle. In tal senso Alberto si diede un gran da fare; corse, aggredì con precisione, non rise mai per non perdere concentrazione e in
un paio di occasioni gli ballonzolarono di fronte imma-
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gini di polpe femminili che non si sarebbe mai aspettato: quei dati erano fondamentali per le intime operazioni della notte ed Alberto possedeva la ferma volontà di
affidarsi più al ricordo che alla fantasia. Erano le due e
mezza. La battaglia volgeva al termine.
Claudia gli si avvicinò, strizzò l’angolo della maglietta, si pulì le chiappe dal fango e girandogli intorno, gli
svelò tutto, cinica, ignara degli effetti, dall’inizio alla fine. Tutto. Tutto partì da una semplice constatazione, da
una osservazione naturale.
Dopo aver eseguito l’analisi, Claudia si girò e come se
la propria presenza fosse motivata dall’esigenza di lasciare un messaggio, ormai fuori posto, priva di verità,
fece per allontanarsi.
Alberto avrebbe compiuto vent’anni il prossimo mese. Ma in quel momento, mentre Claudia se ne andava
verso la propria tenda tentando invano di sculettare,
priva di culo, il giorno del suo compleanno gli sembrò
una data insignificante.
Si alzò, sollevò il macigno che la coetanea gli aveva
lasciato appeso al collo, si trascinò nella sua di tenda pur
sapendo che il prete non voleva nessuno negli alloggi
prima di sera, si asciugò, si ricordò che un Dio esiste con
un padrenostro ed infine trascorse i restanti dieci giorni
di campeggio con la necessità irrefrenabile di ritornare a
Bologna il più presto possibile per verificare.
E se era una verifica che cercava, quella che ottenne
fu impietosa. Ovviamente non disse nulla a Claudia. In
pochi giorni tracciò i nuovi orizzonti della propria misera esistenza e quando, all’inizio del primo anno di Università, cambiò vita, appartamento, la Guzzi, palestra,
rasoio e le punte delle camicie, si mise in testa di intra-
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prendere quella carriera che avrebbe dovuto portarlo a
diventare cattedratico, rettore e parlamentare.
Per il momento Alberto Mugnai, o meglio, il professor
Alberto Mugnai, docente di Telecomunicazioni era riuscito a salire solo sul primo gradino. E con molta fatica. A
cinquantacinque anni, con una lotta della madonna, aveva sbraitato in lungo ed in largo talmente tanto in Facoltà,
che i colleghi gli avevano bandito un concorso interno per
professore di prima fascia. Era quel che si usa definire
con un termine tecnico in Facoltà un rompicoglioni.
Gli anni dai venti ai cinquanta non trascorsero così
velocemente come avrebbe voluto, malgrado gli impegni, lo studio, le cariche ufficiali, quelle informali e quelle che lui stesso si attribuiva ma che ai più non fregavano molto. Prima di approdare a Trieste si ripulì dell’accento bolognese, si procurò una giacca nuova, una cravatta intonata scelta da lui stesso dopo averne scartate
molte senza il giusto equilibrio tra grigio e grigio, una
agenda di quelle coi fogli rimovibili, un cappotto che il
venditore — e lui riproponeva la stessa tesi a chiunque
— garantiva essere cammello ed una stilografica.
Ma prima, molto prima si procurò una moglie. Neanche quella fu impresa facile dato che il Dio consumato
dai sui padrenostri per ottenere continui favori, lo aveva
dotato di un insaziabile attaccamento alla bellezza. Purtroppo lo stesso Dio si dimenticò di fornirgli occhi azzurri, capelli biondi e centottanta centimetri di muscoli.
Così accadeva che, quando si ritrovava nelle balere, la
sera, dopo lo studio, individuava le tre o quattro ragazze
più carine della sala. Senza poterlo evitare, iniziava ad in-
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filzarle con gli sguardi, tutte quante, quanto più poteva,
passando da una sala all’altra, divorando spume e fumando sigarette accartocciate che si sforzava di far assomigliare a spinelli. Ne perdeva una di vista e subito ne trovava un’altra. Sperava che qualcuna lo avvistasse, per la
miseria; che si avvicinasse, che si accorgesse che lui era
speciale e non aveva niente a che vedere con la media della marmaglia là dentro il cui unico interesse era sbronzarsi e ballare il bughi–bughi. Invece la più gnocca se ne andava sempre a braccetto di qualche fighetto con la camicia
bianca ed i pantaloni appiccicati alle chiappe. Nemmeno
lo guardava. Né si prendeva la briga di ringraziare chi le
aveva dedicato gli occhi per tutta la sera. Poi se ne andava
la seconda più bella, poi la terza, finché non si esauriva la
rosa delle accettabilmente belle. Quando i raggi perforanti
delle sue pupille arrivavano al punto di vagare tra tutte le
sale per più di due volte, rendendosi conto di inforcare solo
labbra grosse, zigomi allargati, mascelle da maschio, corpi
mediocri, allora, solo allora si precipitava verso l’uscita.
Voleva ogni volta farlo prima degli altri. Per la miseria, lui
non era come gli altri.
In verità Alberto non era affatto un brutto ragazzo. È
ragionevole pensare che lo spermatozoo che lo concepì
forse fosse stato più corto degli altri, visto che solo con i
tacchi arrivava ad un metro e settantuno, ma per il resto
aveva un bel sorriso, occhi vivi, fronte, zigomi e guance
con tutto al loro posto. Si era perfino dedicato alla palestra e d’estate poteva esibire bicipiti accentuati ed una
pancia piatta. Ma quello che aveva da offrire poteva andare bene per un equivalente femminile, non certo per le
perfezioni in minigonna che il suo animo si sentiva in
tutto e per tutto degno di amare. In realtà non voleva sco-
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parsele, anzi. Per quello bastava qualsiasi figliola compresa tra i cinquantacinque e sessanta chili con qualcosa
di scabroso da offrire come la consapevolezza di due tette
grosse, un paio di fantasie o delle calze che sua madre non
avrebbe mai osato mettere. No, la bellezza che cercava
disperatamente gli serviva per altro. Semplicemente era il
metro di misura di se stesso. Mettiamola così. Se una ragazza intelligente, bella, sensibile, invidiata da tutti, soprattutto invidiata da tutti, si fosse innamorava di lui,
ecco che si beccava un trenta e lode (dato che la ragazza
valeva un trenta e lode). Se invece conquistava un viso
dolce, dagli occhi grandi come quelli di una santa, con
però polpacci e cosce da camminatrice cortinense, ecco
invece che si assegnava un ventisette. Se poi la ragazza
con cui riusciva a flirtare aveva un difetto al viso, come,
non so, un labbro troppo grosso, o gli occhi che cadevano
ai lati, passava a venticinque. E così via. Un venti: inaccettabile. Nemmeno lo prendeva in considerazione. Significava sicuramente una ragazza un po’ insipida, ciompotta
o allungata, o col muso stirato, coi capelli appiccicati al
cranio, disciplinatamente pettinati, senza la minima intenzione di evidenziare femminilità ma solo per il decoro
che la madre le aveva indotto fin da bambina. No. Lui non
era per un venti. A volte un ventitré poteva guadagnare
punti se in possesso di requisiti inaspettati come ad esempio un paio di tette generose provenienti da geni lontani
che avevano poco in comune con il resto dell’anatomia,
oppure degli occhi particolarmente azzurri. Capitava anche che il suo metro di misura venisse dilatato da considerazioni puramente irrazionali; come quando una ragazza libera, senza particolari meriti, diciamo un ventiquattro, che bazzicava nei dintorni del branco di studenti a cui
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lui apparteneva, veniva adocchiata da più coetanei, e tutti
coetanei che viaggiavano su medie alte. Allora il ventiquattro poteva arrivare perfino ad un ventisette.
Ovviamente le valutazioni delle prede di caccia non
avevano nulla a che fare con le Telecomunicazioni, perciò Alberto non ebbe mai chiaro dove fosse il libretto
dei voti dentro al suo cervello così razionale. Anzi, in
realtà, venne a sapere solo molto tardi di questa sua
propensione alla valutazione, quando di valutazioni
non si riempiva più le serate.
Sarebbe stata sua moglie a rivelarglielo; in uno di quei
litigi in cui si vanno a sguainare le armi più in là nel passato, quelle più arrugginite, che fanno più male e che colpiscono indefinitamente: i difetti sono più deleteri delle
colpe, e questo sua moglie lo sapeva benissimo.
Erano in soggiorno. Alberto, in piedi, di fronte al caminetto che avevano appena comperato, guardando il golfo
di Trieste, per un attimo prese in considerazione la fondatezza di quell’analisi, ma poi la gettò nel mare e negò
tutto. Ma figuriamoci se un professore universitario del
suo stampo, con tutta la responsabilità e la raccolta di cariche che gli imponevano di pranzare a tramezzini d’ufficio, aveva il tempo di occuparsi della propria adolescenza.
Si voltò, si avvicinò alla moglie (silenziosa), ricacciò indietro ogni rancore per l’incomprensione che arrivava da chi
gli rifaceva il letto ogni mattina, la perdonò, la baciò sulle
labbra, ed andò nel suo studio ad estrarre carte da buste.
La sera, poi, quando la moglie si addormentò — quindi
non doveva più affrontarla — tentò di ricordare il motivo
per cui avevano litigato. Non lo trovò. Però, prima di
addormentarsi ebbe il tempo di rammaricarsi del fatto
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che, nella sua vita, non era stato un punteggio abbastanza
elevato per la moglie, ma questo riguardava solo il suo
aspetto fisico. La testa: un’altra faccenda.
Prima di sposarsi, ci vollero cinque anni per una ricerca
meticolosa. Ovviamente puntò ad un trenta. Non trovò
nulla. Nel frattempo ottenne il posto di ricercatore di
Telecomunicazioni all’Università di Bologna. Affittò un
piccolo appartamento tutto suo, vi ci mise dentro una scrivania, un letto, un paio di bilancieri, una mensola piena di
libri sulle telecomunicazioni ed una, a fianco, piena di libri
di storia e romanzi dell’ottocento ancora da leggere.
In quei cinque anni, tra le poche feste che si concesse e le studentesse tardone di psicologia che avevano
più o meno la sua stessa età, non riuscì ad andare oltre
un venticinque. Così, quando rincontrò una sua vecchia
amica d’infanzia che dopo lo sviluppo era arrivata ad un
ventisei, non ci pensò su due volte e se la sposò.
Si può dire che Claudia Anselmi apparteneva a quella
metà del mondo felice che dichiara di avere avuto un’infanzia infelice.
Claudia Anselmi si infilò le prime minigonne il giorno
in cui smise di giocare con le chiavi inglesi ed i cacciaviti.
Per sua madre fu un gran successo, proprio nel momento in cui si era già rassegnata all’idea di vedere l’insegna dell’officina di famiglia rinnovata: “Officina da Umberto & figlia”. Per il padre invece, uno dei primi comunisti bolognesi di via Schiavi, promotore del ruolo progressista della donna, fu un duro colpo, proprio nel mo-
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mento in cui si era già abbandonato all’idea di vedere l’insegna dell’officina di famiglia rinnovata: “Officina da
Claudia & padre”.
Era domenica. Claudia aveva quindici anni. L’officina era chiusa come avevano imposto i vicini molti anni
prima; almeno la domenica mattina si deve un po’ dormire senza il tamburellare di quel meccanico che, quando non usa il martello, sputa comizi in faccia a chiunque si avvicini alla sua serranda.
— Ecco, così, una attimo di pazienza, Claudia — le
disse una tipica madre bolognese fatta doppia da agnolotti e gnocchi fritti.
Claudia se ne stava in piedi, sopra uno sgabello, con
una gonna appena oltre il ginocchio, gonna che la madre
si sorprendeva di confermare essere una minigonna.
Spazientita, avrebbe voluto togliersi il cilindro di stoffa
scozzese, infilarsi la tutta unta, le scarpe da maschio coi
buchi e scendere in officina a sciacquare spinterogeni
con la nafta. Ma la domenica non si può. Gliel’aveva detto anche suo padre. Così non le rimase altro che far contenta la madre. Per l’occasione mamma Agata aveva posticipato ogni appuntamento con i clienti e si era dedicata alla figlia, il suo unico gioiello. Come era potuto accadere che un fiore così bello attecchisse tra grasso, cilindri e pastiglie di freni, non era l’unica a chiederselo. Anche le zie in visita ripetevano sempre la stessa cosa: mio
Dio, una bambina così bella, così bella, un angelo che sta
sempre a giocare coi motori. Lo dicevano quando non
c’era il padre perché sapevano che prima o poi lui le
avrebbe prese a calci in culo.
Claudia non dette mai retta alle zie. In fondo erano
tutte vecchie, vestite di nero e parlavano in un modo
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strano senza mai ridere, facendo degli “ooooo” lunghissimi e guardando dritto negli occhi, che se fossero state
delle pretesse, avrebbero intuito i suoi peccati ancora
prima della confessione. Claudia aveva l’impressione che
anche da piccole, da bambine, quelle donne fossero state
vestite di nero ed avessero emesso gli stessi sospiri in
lungo ed in largo per una Bologna coi cavalli al posto
delle auto. E poi erano democristiane. Questo l’aveva
detto anche la mamma, senza dare importanza alla cosa.
Ma papà Umberto sapeva bene cosa voleva dire anche se
ogni volta che lo spiegava alla figlia, forniva sempre una
definizione diversa; Claudia non voleva avere niente a
che fare con quelle democristiane, perciò non le stava
mai ad ascoltare.
— Insomma, Claudia, stai un po’ ferma altrimenti rischi di pungerti — la esortò con tutta la dolcezza che poté.
Si era allenata coi clienti. Quelli più esigenti, quelli
che avevano sviluppato un gusto ed una sensibilità che
li faceva sentire per poche ore divi e preziosi, quelli che
volevano vestiti con stoffe uniformi, leggiadre, ma con
tasche piccole, perché di soldi da metterci dentro non
ne avevano.
Mamma Agata era una sarta. Lavorava in una delle
due stanze sopra l’officina del marito. Perciò, dato che
non si poteva portare i clienti in camera, aveva allestito
uno studio del tutto originale in cucina. Papà Umberto
trovava tutto ciò molto progressista e non di rado capitava che al bar Sport se ne vantasse con gli amici, i quali, più informatori famigliari che comunisti, riferivano
tutto alle proprie mogli che riferivano alle mogli degli
altri, finché la voce ritornava in via Schiavi opportuna-
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mente abbellita. Perciò i più erano convinti che in casa
Anselmi i materassi fossero sotto il tavolo della cucina,
che il bagno bisognasse farselo nel lavabo dei piatti e
che per risparmiare, gli agnolotti li si mangiasse nei copri ruota delle Fiat Centoventiquattro.
La realtà invece era fatta di un fornello, di quelli smaltati di bianco, con soli due fuochi, appoggiato sopra ad
un cubo di legno, un tavolo per quattro, uno specchio,
uno sgabello sotto al tavolo, un manichino che tutti usavano come attaccapanni ed un lavabo che avrebbe finito
per bucarsi da quanto le due donne lo strofinavano prima
dell’arrivo dei clienti, la mattina presto.
A mamma Agata il mobile dei fornelli era costato ascolti ininterrotti dei comizi del marito mentre si lamentava dei vari governi De Gasperi, Pella e Fanfani. Ma non
poté farci niente. Da quando una delle prime volte che
scese in officina aveva visto il marito infilare cacciaviti e
brugole nei dodici cassetti del cubo, concepì la missione
di appropriarsene sottraendolo a suon di moine, carezze e
suppliche. Ci impiegò due anni a convincerlo; nel frattempo preparò la carta zucchero con cui ricoprire l’interno
dei cassetti e mentre di giorno lavorava in cucina, di sera,
quando Umberto era al bar Sport, scendeva a misurarne
gli interni e sognava, sognava. Sognava paratie per rocchetti, uncinetti, spille da balia, ditali, forbici, forbicette,
metro, spilli, aghi. E poi bottoni, serie complete di bottoni che non si sarebbe mai potuta permettere di possedere,
anche quei bottoni automatici di cui qualcuno parlava,
ma di cui in via Schiavi era arrivata solo la descrizione al
bar Sport. Prese le misure, rimetteva chiavi e macchie al
loro posto e ritornava su in cucina a gongolarsi come una
donna incinta mentre si accarezza la pancia.
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Infine Umberto cedette. Quella sera se la sarebbero ricordata entrambi per il resto della loro vita. Ci fu un solo
intoppo, quando, svuotati i dodici cassetti, prima di portare il cubo in cucina, Umberto esigette di far l’amore in
officina, come in una vera ottica progressista dei valori,
lontano da quell’alcova, che nei manuali dei giovani sposi
della chiesa, stava al sesso come il tabernacolo alla particola. Naturalmente, a mamma Agata, che conosceva bene
le bizzarrie del marito, non sembrò un grave peccato vendere il proprio corpo per il cubo dei desideri. Tanto più
che le zie, future democristiane, non sarebbero mai venute a saperlo. Perciò, più pratica che progressista, sul
primo scalino, nella penombra della saracinesca completamente abbassata, si tolse il vestito blu, quello di sempre
e rimase in reggiseno e mutande avvolgenti fino all’ombelico, con le mani congiunte all’altezza del pube.
Primo intoppo: Umberto, che dai comizi non era mai
passato all’azione operaia, sorpreso dalla sua stessa richiesta, che la moglie non avrebbe mai dovuto assecondare, non riuscì a trovare alcun mutamento incoraggiante dentro alla tuta da lavoro. Rimase lì, fermo, inebetito,
chiedendosi se doveva poggiare la bussola da tredici e lo
stelo, oppure sbattersela in testa. Fu quando Agata, spazientita, vincendo la timidezza, si tolse il reggiseno, che
Umberto si ricordò che un comunista è anche un uomo.
Secondo intoppo: quando le si avvicinò, dopo averla
baciata, abbracciata e detto che l’amava per la terza
volta nella sua vita, senza contare il giorno del fidanzamento e la prima volta che fecero l’amore, guardandosi
intorno si accorse che non c’era nessun metro quadro
sufficientemente degno e pulito per accogliere le loro
schiene. La buca era una pozza d’olio, la pedana della
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scrivania non era mai stata scopata, che lui ricordasse.
Rimaneva solo il bancone d’acciaio.
Ed è lì che Umberto ed Agata si diedero all’azione,
dopo aver appoggiato entrambe le mutande sul manico
della morsa. Forse perché dovettero comunicare più di
altre volte per rendere efficace l’accoppiamento, forse perché Dio non trovò nulla di strano nel far l’amore in officina piuttosto che nel letto, quella sera Agata, otre al cubo
dai dodici cassetti, ottenne anche la sua piccola Claudia.
— Ecco, ho finito — disse mamma Agata alla figlia
indicando lo specchio.
Questa volta Claudia non poté fare a meno di dar ragione alle zie democristiane: non solo gli occhi della madre
scoppiavano dalla commozione per aver appiccicato una
gonna alla propria figliola, esorcizzando definitivamente
il ricordo di un concepimento tra l’olio ed i carburatori,
ma anche gli occhi di Claudia, incredibile, proprio incredibile, videro qualcosa di bello che le apparteneva.
Quando mamma Agata registrò il mutamento, considerandolo semplicemente una tappa inderogabile di ogni
figlia, come l’abbandonare il seno, i pannolini, il menarca, volle renderlo irreversibile. Si alzò in piedi, guardò la figlia negli occhi attraverso lo specchio, spostò la
pentola del minestrone che bloccava in parte la vista delle
gonne, le appoggiò un palmo sulla spalla e, quando la
commozione le lasciò un po’ di tregua, le prese le dita.
— Claudia, ormai sei una signorina, non puoi andare in giro con le unghie sporche di grasso.
— Si mamma, ma io mi lavo, è che non va via, nemmeno con la pasta dell’officina.
Quando ritornarono a guardare le gonne sullo specchio, Claudia tenne le mani dietro la schiena. In segui-
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to avrebbe trovato più pratico passare meno tempo possibile in officina, malgrado il desiderio di seguire papà
Umberto, il suo modo impeccabile di rifasare i carburatori delle Alfa ed i suoi comizi non la abbandonarono
mai. Così quel giorno imparò il valore del compromesso oltre al fatto di essere bella. E per iniziare subito, prima di cena, uscì di casa per andare a mostrare al papà
le sue nuove false minigonne al bar Sport.
Mentre percorreva la fine di via Schiavi, si domandò
se quell’aria fastidiosa che le si infilava in mezzo alle
gambe peggio che in una valvola a farfalla, avrebbe continuato a infastidirla per il resto della vita.
Tutto sommato la storia di Claudia Anselmi è una storia normale, non altrettanto si può dire di Ludovico Cadorin.
Chi meglio di un dermatologo che ha rinunciato a
fare il dermatologo può conoscere il mare? Ludovico
Cadorin ne fu l’esempio più riuscito.
Ed è per questo che la giunta del Consiglio di Facoltà
gli affidò il difficile compito che lo poneva in mezzo
all’Adriatico e dintorni.
Benché fosse nato in un paese del Bellunese, San
Gregorio nelle Alpi, dove gli abitanti fino al milleottocento non avevano mai visto le coste della Serenissima
Repubblica, Ludovico familiarizzò con l’acqua a cominciare dall’infanzia. Apprese le tecniche marinaresche
sulle riviste di vela e poi, molto poi, ma prima che le esigenze di una famiglia gli impedissero di rinunciare al
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desiderio di fare il giro del mondo in barca, si comperò
un tredici metri motorsailer con cui annunciare a tutti
il suo voto di obbedienza al mare.
In realtà, almeno all’inizio, il passaggio non fu così
immediato. Da Padova, dove aveva studiato medicina, si
trasferì a Trieste. Lì tentò inutilmente di prendere un
posto di ricercatore. Malgrado il professore che aveva
elargito promesse gli avesse assicurato che in una decina d’anni non ci sarebbero stati problemi, rinnovandogli i suoi progetti su una dermatologia impegnata a livello internazionale, lui ne rimase fuori.
Aprì quindi di necessità uno studio privato di dermatologia in viale Turzi, vi ci mise dentro una segretaria,
fece della segretaria sua moglie, comperò appunto la
barca, divorziò dalla segretaria che già da un paio d’anni aveva rinunciato a fare la moglie e prese in sposa
Aidia, il vero amore della sua vita.
Ma ad un certo punto, all’età di quarantadue anni,
quando i guadagni gli avevano fatto dimenticare le velleità universitarie, decise di abbandonare tutto, studio,
casa e professione e vivere con Aidia in mezzo alla baia
di Muggia.
Si può essere più precisi sulle motivazioni. Alcuni dicono che lo fece perché Dio commise un errore a farlo nascere in mezzo ai monti invece che in un peschereccio, altri videro in quella scelta il fascino di colui che abbandona
il mondo frenetico per la sicurezza quantitativa del mare.
…ma la maggior parte pensa che giocoforza lo ebbe
una ricetta sbagliata alla persona sbagliata.
Da quando Melania Frinzi, figlia di uno dei massimi
dirigenti delle Assicurazioni Generali di Trieste, si trovò
con la pelle delle guance definitivamente compromessa
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a causa di una reazione allergica ad una pomata di sua
invenzione, Ludovico smise di credere nel connubio tra
omeopatia e farmaci. Si guadagnò in una settimana la
fama delle pagine del Piccolo, il giornale locale, e tre mesi dopo le azioni legali lo videro quasi completamente
prosciugato. Fu allora che disse di sì ad Aidia, la sua
barca che divenne anche casa e fonte di lavoro.
Con i soldi che salvò poté assicurarsi un attracco alla
darsena di Muggia.
E lì si impegnò a dimenticare il mondo. Ma per dimenticare il mondo gli serviva un amico che non gli facesse sentire la nostalgia del mondo. Così ne scelse uno
tutto suo: Andrea Micheli.
Quando Ludovico incontrò Andrea, il sole si era già
abbattuto sul golfo di Trieste per una giornata intera,
allontanando anche i gatti a capacità termica più elevata. In porto vecchio, a Muggia, dove sono in pochi a portare a riparare le barche in legno, il vecchio Andrea
Micheli si rivolse a Ludovico come un padre si rivolge
ad un figlio inconsistente.
— Tu sei quello che ha sfregiato la figlia del Frinzi,
non è vero?
Ludovico rimase per un po’ a pensare come questo
vecchio potesse rivolgersi ad un estraneo con così tanta
invadenza. Per far finta di niente ci voleva un bel paio
di palle e lui, dopo aver perso lo studio, i soldi e l’onore,
era convinto di averne due indistruttibili.
— Mi hanno detto che qua c’è qualcuno che può aiutarmi a trovare un posto per la mia barca.
— Vieni qua, avvicinati — gli rispose il vecchio senza
distogliere lo sguardo dal proprio lavoro.
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Stava infilando uno stoppino dentro ad una fessura
tra trave e trave di una chiglia in legno. Con forza, con
un pennello mimetizzato di nero, vi ci mise sopra della
pece. Poi aspettò. A non più di un metro di distanza, Ludovico si presentò in attenti.
Il vecchio Micheli lo guardò meglio dal suo sgabello
treppiede ed annunciò soddisfatto: — sei proprio tu
quello che ha combinato quel casino con i Frinzi. C’eri
anche sui giornali.
Ludovico stava per andarsene, continuando a convincersi che aveva le palle enormi e che non avrebbe mai
ceduto alla tentazione di prendere a calci quel vecchio.
Invece, al momento di fare dietro front, si fermò e rispose.
— Sì sono proprio io.
— Beh, ma mandali a cagare tutti quanti.
Allora, accortosi di come la difesa del vecchio irriverente gli avesse procurato un certo sollievo mai provato
nemmeno quando l’ex moglie tentò di consolarlo al telefono per più di tre quarti d’ora, decise che Andrea Micheli sarebbe diventato un albero maestro. In realtà ad
attrarlo fu proprio ciò che più detestava in lui, e cioè il
potere ed i modi da ufficiale di marina che Micheli esercitava senza il ben che minimo rispetto o misura sociale.
Comunque il vecchio assegnò a Ludovico un posto
sulla darsena come un tenente furiere assegnerebbe asciugamani ed anfibi ad una recluta. Gli spiegò dove
stavano le manichette e gli orari a cui i pochi privilegiati, quelli che andavano a genio al capo della darsena,
cioè lui stesso, dovevano sottostare. Ma gli fece capire
anche che gli orari possedevano proprietà flessibili. Infine offrì la mano per stipulare un accordo senza aver
nemmeno parlato di soldi.
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Ludovico rispose alla stretta, stupito di non aver dovuto salutare militarmente e sbattere il tacco e, senza
sapere i dettagli economici di quel contratto vidimato
con la pece tra i palmi, per due volte nella stessa ora, si
sentì sollevato.
In seguito avrebbe compreso che queste frequenti
piane dell’animo erano associate ai comandi di Micheli
che prendeva decisioni ed addirittura imponeva.
Quando era stato libero di scegliere, le sue scelte più risolutive gli avevano fatto perdere una moglie, una segretaria e lo studio. Quanto meglio sarebbe stato diventare allievo ufficiale di marina, avere avuto obiettivi
semplici, chiari ma altrettanto duri come finire la specialità di dermatologia. Quanto meglio sarebbe stato
preoccuparsi solamente di non scontentare un ammiraglio perennemente scontento per una divisa bianca
che non rimane bianca. Ed eccolo qua il suo ammiraglio, a capo di una accademia composta di due soli elementi.
Quella sera, prima di addormentarsi dentro all’Aidia,
vittima dei suoni delle maree di Muggia, Ludovico si
ricordò di avere quarantacinque anni.
Visto che Ludovico passa parecchio tempo con Micheli
e molto probabilmente in questo momento Micheli è in
Adriatico nella stessa barca, si può sapere qualcosa in più
di lui?
Certo non si può dire che Micheli, da buon vivente,
non avesse motivi per essere scontento. Anzi, ne aveva a
non finire. A cominciare dal fatto di essere solo. Aveva
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permesso al mare di allontanare qualsiasi affetto. E
mettiamoci pure che era l’ultimo capostipite di tre generazioni di chirurghi delle barche.
Il nonno del vecchio Micheli era infatti un calafà, un
artigiano della barca, non colui che le fabbrica, ma colui che riesce ad individuarne la più piccola falla.
Quando ne diagnosticava una, con stoppini, pece e pialla, ricomponeva la piaga senza che occhio umano potesse notare la cicatrice. Quand’era piccolo, Andrea andava a trovare il nonno dalle parti di Cittavecchia, vicino
all’Arco di Riccardo, di domenica. Assieme andavano fino alla darsena; il nonno lo usava come bilanciere sorreggendolo con la mano destra mentre la borsa degli attrezzi stava sulla sinistra. E lì il piccolo Andrea rimaneva ad ammirarlo. Più tardi arrivava anche suo papà, anche lui un calafà, altrettanto bravo, ma meno importante del nonno.
In seguito, il vecchio Micheli si sarebbe sorpreso parecchie volte la sera, d’estate, a filmarsi quei momenti
senza versione ridotta. Il fatto era che allora il nonno
era stimato da tutti; sua madre diceva che era ricco, che
era il calafà più famoso di Trieste e che la gente, se voleva una barca senza acqua sottocoperta doveva rivolgersi a lui.
Quando, contro ogni principio naturale, qualcuno
decise che le barche dovevano essere prodotte in ferro,
i calafà di Trieste si accorsero di non avere pialla e pece
adatte e molti di loro riuscirono a sopravvivere solo centellinando le ricchezze acquisite nei tempi indietro.
Alla fine ne rimase uno solo, Andrea Micheli, custode di una barca e medico di quei pochi esemplari in noce o mogano che hanno più o meno la sua stessa età.
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Narrativa - Aracne editrice