VIAGGI | Nepal Frammenti di un viaggio in Nepal Emozioni in caduta libera dal viaggio tutto Nepal gruppo Elvio D’Addato di Laura Infantino A lle prime ore del mattino fui svegliata da uno scampanellio assordante e continuo. “Dannate mucche, già al pascolo a quest’ora!” Imprecai, ficcando disperata la testa sotto al cuscino. “Ma come possono essere le mucche se siamo nel centro storico di Bhaktapur?????” Mi ero sbagliata infatti. Era il batacchio di una campana di bronzo posta all’uscita di un piccolo tempio induista che ogni fedele faceva risuonare al termine della quotidiana preghiera mattutina. Che sfortuna! L’hotel dove alloggiavamo era proprio lì davanti. 40 – Avventure nel mondo 1 | 2011 VIAGGI | Nepal La notte successiva stessa scampanellata. Fu così che il giorno dopo tentai di compiere un’azione sacrilega manomettendo il batacchio: ma il mio coltellino mille usi era fantastico solo per sbucciare le banane, lì ci sarebbe voluta una mannaia!! L’immagine della mia testa finita sull’altare di qualche divinità sacra tra incensi e candele di burro mi fece repentinamente cambiare idea e le notti successive ripiegai su dei banalissimi tappi per le orecchie. Wow, la pelle era salva, ma erano evidenti ormai i sintomi di un acclamato stato confusionale da overdose induista. Sì, perché ogni volta che voltavo l’angolo di una strada c’era un altarino con qualche divinità induista raffigurata; ogni tempio, davanti cui la guida ci obbligava a fermarci, traboccava di sculture e riferimenti simbolici di quello o quell’altro dio o di una delle sue molteplici apparizioni. Non era sufficiente saper distinguere Shiva da Brahma o sapere a memoria i nomi delle 10 incarnazioni di Vishnu, bisognava anche indovinare in quale dei 64 modi diversi il dio Bhairab, manifestazione cattiva di Shiva, si poteva manifestare. Follia pura, roba che far scoppiare le meningi anche al campione storico di “Lascia o raddoppia”. Per non parlare poi di quando, trasudando un sudore più appiccicoso di un biscotto di strutto al miele e dall’inequivocabile color grigio fumo da emissione di gas di scarico, che mi rendeva più simile ad una statua che ad un essere umano, mi accasciai sfatta su un basamento in pietra suscitando l’ilarità dei miei compagni di viaggio: avevo posato la mia yoni su un lingam dalle dimensioni esagerate assumendo “la posizione della moglie di Indra”, come magistralmente spiegato e raffigurato a pagina 47 del Ka- masutra. “La moglie di chiiiii????” Come avevo fatto a perdermi una conoscenza tanto approfondita del più antico trattato di arte amatoria nei miei lunghi anni di raffinata vita erotica matrimoniale! Per non rischiare di inciampare ancora in qualche “fallo” di troppo e per perfezionare lo studio delle posizioni diaboliche prima dell’esame di fine viaggio a cui sarebbero stati sottoposti tutti e 16 i componenti del “Tutto Nepal”, me compresa, mi buttai a capofitto sulla osservazione scrupolosa di ogni intaglio e decorazione dei templi nepalesi raffiguranti scene atletiche di erotismo tantrico, generando il sospetto di appartenere a quella categoria psichiatrica di tardone affette da isteria uterina. Manifestavo invece tutti gli effetti collaterali da sovradosaggio religioso, quelli che capitano una tantum e che nessun Centro di Medicina dei Viaggi né tanto meno la Lonely Planet si preoccuperebbero mai di menzionare accanto al lungo elenco di malattie tropicali per le quali è prevista la vaccinazione o una profilassi adeguata. Ecco spiegato il motivo per cui, rientrando a casa, sobbalzai davanti al piccolo Budda di legno posato sul mio scrittoio. Il suo volto era pacioso e sorridente così come l’avevo lasciato il giorno in cui ero partita per il Nepal. “Avrà sicuramente un’anima come tutte le divinità che ho incontrato in Nepal a cui tutti si rivolgono con devozione” pensai mentre posavo la valigia sul letto ”e prova compassione per lo stato di totale prostrazione mentale in cui verso”. Gli feci un inchino ossequioso e tirai un sospiro di sollievo: non era arrabbiato con me nonostante tutti gli indicibili insulti con cui avevo colpito e affondato lui e tutti gli Avventure nel mondo 1 | 2011 – 41 VIAGGI | Nepal dei dell’Olimpo induista, neanche fossero state le più agguerrite nave nemiche in un scontro di Battaglia Navale. Pace fatta, a quel punto decisi di mettere ordine al groviglio di appunti e pensieri che debordavano dal mio diario di bordo. Molto ci sarebbe stato da raccontare di quel viaggio; dai sobbalzi tra le rapide del fiume Tirsuli in un rafting carico di adrenalina, all’esplorazione del Parco Nazionale di Chitwan a dorso di elefante; dal fascino di straordinarie città medioevali quali Khatmandu e Patan ricche di templi e botteghe artigiane, a quello di alcuni centri minori come Thimi, ad esempio, dove centinaia di vasi di terracotta modellati a mano asciugavano al sole lungo le strade; della triste condizione della dea Kumari, la bambina prescelta fra tante e venerata come fosse una dea, costretta ad acconciarsi da donna e a vivere isolata dal mondo e dai suoi cari, fino a quando la prima mestruazione avrebbe cancellato il suo carattere divino rigettandola nel mondo dei comuni mortali; del cibo e dei momo, i deliziosi ravioli di carne cotti al vapore, da evitare accuratamente di intingere nella salsina piccante altrimenti non sarebbero bastati dieci estintori a spengere le lingue di fuoco emesse dalla bocca. Ma molti altri viaggiatori ne avevano già parlato, prima e meglio di me. Decisi così di limitarmi al racconto di alcuni momenti particolari, facendolo a volte con un sorriso, più spesso con partecipazione dolorosa, ma sempre con l’intensità emotiva con cui li avevo vissuti. Infinite scale di pietra I nostri portatori sono già arrivati, ci stanno aspettando. Fermo immagine di una pellicola che si ripeterà puntuale per ciascuno dei 4 giorni di trekking sull’Annapurna. Loro sempre avanti, noi sempre indietro. Facce giovani e serie, occhi scuri dal taglio a mandorla che scrutano incuriositi i nostri visi pallidi e i nostri bagagli che, anche se ridotti all’essenziale, appaiono comunque tanto voluminosi e pesanti. Siamo appena giunti a Nayapul, quota 800 mt., è da lì che comincerà il nostro percorso ad anello che ci porterà a raggiungere i 3210 mt. del Poon Hill, cima che tra le alte vette himala42 – Avventure nel mondo 1 | 2011 jane è considerata solo una modesta collina. Ma per le nostre chiappe quadrate di cittadini occidentali sedentari e pigri va più che bene. È una bella giornata di novembre, il cielo è terso, l’aria pulita. Abbiamo lasciato alle nostre spalle l’infernale caos di Kathmandu, dove ogni auto, moto, autobus pubblico, carretto si fa largo nel traffico a colpi di clacson dai suoni più arditi e fantasiosi. È d’obbligo suonare il clacson prima di effettuare un sorpasso. Chi prima suona, prima avanza. Solo pedoni, risciò, cani randagi, mucche - che vagano indisturbate tra le macchine o che si piantano immobili in mezzo alle strade protette dal volere degli dei - vagano senza orpelli sonori in mezzo al frastuono e alla puzza dei gas di scarico. Qui c’è finalmente pace per le nostre orecchie e soddisfazione per le proprie menti. Ognuno cerca la sua, in qualche modo, da qualche parte. È ora di andare. Zaino in spalle, noi quelli leggeri, gli sherpa invece i cesti pesanti contenenti i nostri bagagli o tutto il necessario per allestire la cucina da campo, dal fornelletto a gas, al vasellame di alluminio, ai viveri di ogni consistenza e genere. Abbiamo anche il cuoco. Questi omini leggeri, ma forti come l’acciaio, sembrano parentesi tonde che il vento ha soffiato via da un quaderno ingiallito dal tempo. Il petto è curvo a sostenere il peso del cesto di bambù legato in vita che una striscia di stoffa, girata intorno alla fronte, aiuta a rendere più leggero, ma che in compenso gli accorcia le ossa del collo. Artrosi future. Si dice siano molto resistenti alla fatica e che addirittura possano trasportare carichi superiori al doppio del loro peso corporeo; a me sem- brano peggio di muli da soma assoldati per poche rupie al giorno. Purtroppo è così; in Nepal le uniche fonti di reddito sono l’agricoltura e il turismo di montagna, tanto lavoro per poco guadagno. In un battibaleno i nostri portatori sono passati avanti al gruppo e corrono saltellando sui gradini di pietra che l’uomo, negli anni, ha sostituto al sentiero di terra battuta per rendere meno arduo il cammino, con ai piedi modeste scarpette da ginnastica o sandali infradito dalla suola sottile come una fettina di formaggio svizzero. “Che meraviglia, che idea geniale questi scalini!” dico a me stessa mentre con lo sguardo rivolto a terra cerco di individuare i sassi più bassi e più stabili su cui mettere i piedi in uno slalom continuo tra cacche di mulo. Più avanti imprecherò chi ha inventato le scale. Gradino su gradino si sale, si sale, si sale, ogni tanto lo sguardo si volta ad osservare il paesaggio intorno; pendii coltivati a terrazze dalle forme geometriche irregolari dove le fascine di riso sono stese al suolo ad essiccare, precise e allineate una ad una come gli schieramenti di soldatini con cui giocava mio fratello da piccolo, il fiume che scorre increspandosi tra le rocce, campi di senape gialla, bufali dal pelo nero fluente che solcano il terreno trainando antichi aratri di legno, vegetazione lussureggiante. Ma si continua a salire e queste dannate scale non finiscono mai. Ogni tanto qualche breve tratto pianeggiante consente di riprendere fiato, ma che fatica! Chi l’avrebbe detto che mi sarei trovata a fare l’odiato step da cui fuggo in palestra, proprio io che sono più simile ad un pesce che ad un essere umano, io che amo nuotare in silenzio, in pace col mondo e con me stessa, mentre qui sono costretta a sollevare di continuo le mie povere gambe stremate e a riempirmi la testa con tutte le chiacchiere, i canti e le risa dei miei compagni di viaggio più giovani, frizzanti e mai stanchi? “Forse è il caso che io rimanga in fondo al gruppo, non troppo indietro però, perché le ore passano in fretta e qui fa buio presto”. Mi dico. Per fortuna non sono ultima, dietro a me si attarda la giovane coppia di sposini N in viaggio di nozze. Hanno molto di cui gioire lassù ammirando i paesaggi e poi hanno il vantaggio dell’amore che allevia ogni fatica. Dietro, a chiudere il gruppo, c’è sempre un giovane sherpa. Mi sento più tranquilla. Finalmente il silenzio. Ogni tanto rallento per riprendere fiato. È importante che io ascolti il battito del mio cuore, il mio respiro si accorcia e si fa pesante, ma l’andatura è quella giusta, è la mia. Nutro rispetto per me stessa. È bello restare da sola: riesco a sentire ogni mio passo e il ritmo disuguale delle racchette da trekking sul terreno, il rumore del fiume che scende a valle creando piccole vasche tranquille e placide di acqua cristallina. Posso fermarmi ad asciugare il sudore che imperla la fronte e sorseggiare un po’ d’acqua, o ricaricarmi di energie rosicchiando qualche pezzetto di parmigiano che ho portato dall’Italia. Lungo il sentiero talvolta passano al mio fianco file di somarelli carichi di mercanzie, ma anche greggi di pecore e capre diretti verso pascoli più alti dove l’erba è ancora più verde. Vita agreste che appartiene ad un mondo passato. Piccoli raggruppamenti di case in legno e pietra, dipinte in parte di azzurro, lo stesso azzurro intenso del cielo; donne impegnate a lavarsi il corpo semivestito o i capelli alle fontane pubbliche, bimbi che festosamente vanno a scuola vestiti di tutto punto nelle loro ordinate e linde divise scolastiche, o bimbi più piccini tesi ad ingannare il tempo giocando tra loro. Qualche contadino con il suo carico da lavoro sulle spalle a cui rivolgo il mio saluto “Namastè” congiungendo le mani al petto. La notte che sopraggiunge veloce ci accoglie in una guest house a quota 1600 mt. Al mattino presto, la finestrella del bagno da cui mi affaccio fa da cornice a un campo di stelle di natale che sembrano appena dipinte e sullo sfondo la cima delle montagne innevate. Oggi la salita è molto più ardua di quella di ieri. Ci aspettano 8 ore di cammino e un dislivello di 1300 mt. Scale, scale, infinite scale di pietra. Sguardo fisso a terra per non inciampare. Meglio non guardare in alto perchè altrimenti mi assale lo sconforto. Camminare, sudare e asciugarsi il sudore, fermarsi un attimo a riprendere fiato, un veloce sguardo avanti, a destra e a sinistra, e poi via, ancora più su. Dopo un villaggio e un breve ristoro la salita muta in un continuo saliscendi che non ha proprio nulla di riposante. Si entra in una giungla fitta dalla vegetazione rigogliosa, con alberi frondosi, liane, felci, licheni attorcigliati sui rami e sui tronchi, sentieri a strapiombo. Ambiente umido, piovigginoso. Foschia tutto intorno. Gnomi e folletti non stonerebbero affatto. Fantasia e suggestione. Ma i muscoli delle gambe urlano. Il sole sta scendendo e con esso anche la temperatura. Il sudore si gela addosso. Occorre affrettarsi, la strada è ancora lunga, non ci si può arrendere. Così come le mani plasmano l’argilla con tocchi delicati ed esperti creando forme nuove, così come il vecchio nutre il bimbo di storie reali e sogni forgiandone un giovane uomo, così questa fatica modellerà il mio corpo e dai pori della pelle entrerà nuova linfa per la mia mente. Stringo i denti, serro i pugni, socchiudo gli occhi, respiro profondamente. Ce la farò. Il sole è al suo tramonto quando finalmente arrivo a Ghorepani, quota 2900 mt, e un lodge azzurro cielo mi attende con una grande stufa accesa al centro della sala. Ancora una rampa di scale, l’ultima, infine la mia camera a temperatura glaciale. Ma dalla finestra, seduta sul mio letto, assisto a uno spettacolo di incomparabile bellezza, il più straordinario che la natura potesse regalarmi al termine di tanta fatica. La vetta innevata dell’Annapurna sospesa tra le nuvole è lì, davanti a me, in una tavolozza di colori che mutano dal rosa, al violetto, all’arancio ed infine all’argento con il lento calare del sole. Spalanco i vetri, il gelo mi intirizzisce tutta, il viso è una immobile maschera di cera, ma i miei occhi ridono e piangono allo stesso tempo. Vola via ogni pensiero come bandierine di preghiera sospese nel vento, respiro la grandiosità dell’universo nella sua interezza e il cuore gioisce di felicità allo stato puro. Felicità sorniona e fuggevole per chi ha dentro di sé l’inquietudine della ricerca. So bene che continuerò ad inseguire la mia felicità altrove, in altri luoghi e con altri nomi. Ora mi basta questa. Richiudo la lampada magica, anche stavolta lo spirito del genio ha fatto il suo dovere. to penetrante. Non ho frenesie di acquisto, sono solo attratta da quel fumo grigio che vedo levarsi al cielo sulle rive del fiume sacro Bagnati. Il fiume appare un po’ in secca: tra sassi, immondizia di ogni genere, ghirlande di fiori arancioni e pezzi di legno carbonizzato, alcune scimmiette vagano tra le acque basse mentre dei fedeli si lavano per purificarsi e presentarsi degnamente al cospetto del Dio Shiva. Non so cosa abbia di sacro questo fiume, ai miei occhi appare solo come una putrida latrina. Sulla riva destra, sotto un sole dorato, una terrazza a gradoni con decine di piccoli santuari su cui vaga un numero imprecisato di fedeli, turisti, santoni e venditori ambulanti. E le solite scimmie, beffarde, dispettose, irriverenti. Un ponte congiunge le due sponde, o meglio, separa il luogo sacro - dove ci sono il tempio e i basamenti di pietra, i ghat, sopra i quali si attuano le cremazioni dei defunti - dal lato opposto del fiume dove c’è chi prega, ma anche una platea di spettatori pronta ad assistere a una cerimonia pubblica di forte impatto emotivo. Sembra di essere a teatro, solo che qui i protagonisti non sono attori che stanno recitando una parte, ma uomini e donne, mariti e mogli, genitori e figli, amici e parenti che si stringono attorno al caro estinto per l’ultimo definitivo abbraccio. Tra un funerale ed un altro non c’è soluzione di continuità: davanti ai miei occhi un corpo ha quasi finito di bruciare mentre su un altro ghat un addetto alla cremazione, appartenente alla casta degli intoccabili, sta spaccando con forti colpi di bastone ceppi di legna semicarbonizzata e fram- Nepal E l’uomo divenne cenere Il viale che scende al tempio di Pashupatinath è ornato ai due lati da bancarelle di incensi, polveri colorate e souvenir per turisti. Stiamo entrando in uno dei luoghi più sacri del Nepal, il tempio dove spiritualità e misticismo sono espressi all’ennesima potenza, là dove l’uomo dirà addio per sempre alla vita tornando ad essere cenere. Ma ogni posto è paese. Anche qui, nel sacro Olimpo degli dei induisti, c’è il Dio Denaro da venerare. Scivolo con noncuranza tra venditori di collane, pregevoli intarsi di legno e campane tibetane dal suono vibrante, armonico, mol- Avventure nel mondo 1 | 2011 – 43 VIAGGI | Nepal menti di ossa. Sembra quasi di sentire il suono delle costole che si rompono una dopo l’altra…… Poco più a destra, una catasta di legna è già pronta ad accogliere un corpo, un’altra in fase di allestimento, un’altra ancora è già adornata di ghirlande di fiori arancioni. Sta arrivando una famiglia con una curiosa barellina su cui è poggiato un familiare da cremare. Il corpo, avvolto in un sudario bianco e in uno arancione, viene adagiato su uno scivolo in pietra posto sugli ultimi gradini che scendono al fiume in modo che i piedi siano lambiti dall’acqua. Il bramino scopre il volto dell’uomo e inizia il complesso rituale di purificazione della sua anima. Lunghe preghiere a cui seguono abluzioni del corpo, poi ad uno ad uno i familiari versano con il palmo delle mani l’acqua sacra del fiume nella bocca del loro caro. Il tutto sembra avvolto da una serenità infinita, direi quasi sconcertante per il nostro modo di intendere le cerimonie funebri. È proprio quando stanno ricaricando il corpo sulla barellina per portarlo al ghat che istintivamente scatto in piedi e decido di attraversare il ponte. Eccomi sull’altra sponda, in mezzo ai vivi in preghiera e ai morti che bruciano. Nessuno mi nota, almeno così mi appare. Hanno altro a cui pensare. Mi fermo a pochi metri di distanza dalla pira su cui viene adagiato il corpo dell’uomo. Un giovane uomo si avvicina, è il figlio maschio maggiore, quello che ha il compito di accendere il fuoco. Fosse morta la madre il compito sarebbe spettato al figlio minore. Toglie il telo arancione, lo getta nel fiume, spalma degli unguenti sul corpo del padre. Serviranno a rendere l’aria meno nauseabonda. Poi aggiunge ancora pezzi di legno sul corpo e ciuffi di paglia per ottenere una fiammata maggiore. Alla fine del rituale il giovane, dopo aver compiuto tre giri intorno alla pira, accende una torcia di fuoco e l’infila nella bocca del padre da dove uscirà l’anima, come credono gli induisti, infine l’adagia sul suo petto. Altre torce vengono accese. Velocemente alcune lingue di fuoco s’innalzano al cielo. Il vento sospinge il fumo acre e dolciastro di carne bruciata in direzioni diverse. Non so che pensare…… Dovrei sentirmi scombussolata da tutto quello che vedo ma in realtà non è così, sono rapita e nello stesso tempo affascinata da questa rituali44 – Avventure nel mondo 1 | 2011 tà che non appartiene a noi occidentali, da questa compostezza, da questa apparente mancanza di dolore. Il rito si è concluso e dopo 3-4 ore le ceneri finiscono in acqua. Una vita è stata restituita alla natura e un’altra verrà subito generata, con sembianze diverse, per poi morire e rinascere tante e tante volte ancora fino alla definitiva salvezza dell’anima. Mi tornano in mente i disegni di Escher, quei tratti sapienti in bianco e nero con cui riesce a trasformare pesci in uccelli e mare in cielo. Ogni cosa è in trasformazione continua, nulla è come appare. Non è più tempo di rimanere a guardare, il sole sta scendendo. Sull’altra sponda del fiume mi aspetta il resto del gruppo e i sadhu, i santoni induisti dai corpi seminudi ricoperti di cenere bianca, dai lunghi capelli arruffati avvolti intorno al capo come turbanti. Coloro che hanno rinunciato radicalmente al mondo, astenendosi dal sesso, mangiando poco e niente, recidendo ogni legame familiare, per dedicarsi completamente alla meditazione e alla ricerca spirituale. Una foto ricordo in mezzo a loro è d’obbligo ………”Ehi, ma davvero vuoi i soldi, non avevi rinunciato ai beni materiali???” Un mattatoio sacro: il tempio di Dakshinkali Il martedì e soprattutto il sabato sono i giorni dedicati al culto della dea Kali. Per fortuna oggi è martedì e non c’è una folla enorme di fedeli al tempio di Dakshinkali ma ognuno di loro è rigorosamente in fila con la propria offerta di riso, frutta, candele di burro e le solite ghirlande di fiori arancioni. C’è anche una ragazzina che tiene in braccio un galletto dal piumaggio colorato e una donna con una capretta nera. Povere bestioline dallo sguardo spaurito, spero che ignorino ciò che le capiterà tra pochi minuti quando al termine della fila si troveranno al cospetto della statua di Kali, la divinità femminile più feroce e sanguinaria tra le divinità induiste, in onore della quale verranno offerte in sacrificio. Un colpo secco e la testa salterà via ad innaffiare di sangue il pavimento e le pareti del tempio. Le scene a cui non rifiuto di assistere sono abbastanza cruente e, a mio sindacabile giudizio, prive di sacralità. Mi soffermo a guardare ogni gesto, ogni sguardo e questa immensa pozza di sangue su cui i fedeli avanzano in preghiera rigorosamente a piedi nudi, chiedendomi con sconcerto quante malattie potranno essere facilmente trasmesse, basta una piccola ferita sotto la pianta dei piedi …… Fuori dal tempio una mamma e le sue due giovani figlie, dopo aver compiuto il rito, si apprestano a lavarsi lungo le sponde del fiume sacro che scorre lì vicino, per poi raggiungere il banchetto allestito con gli animali appena sacrificati e cucinati al momento. Niente di più terribile che cibarsi di colui che poco prima hai guardato negli occhi pieni di vita! Il mistero della colonna di destra Mi tolgo le scarpe come si conviene prima di entrare in un luogo sacro e camminando in punta di piedi vado a sedermi per terra con le spalle al muro. Sono all’interno della sala di preghiera del monastero buddista di Swayambhunath, detto anche il tempio delle scimmie, famoso per la grande cupola bianca dello Stupa con gli occhi di Budda dipinti che si erge in cima alla collina sopra Kathmandu. Sto per condividere una puja, cioè una cerimonia collettiva di preghiera con dei monaci buddisti e prevedo sarà un evento straordinario. Dopo essere vissuto in mattinata l’esperienza sanguinaria al tempio della dea Kali, finalmente ora mi sento beata come dentro a un ventre di vacca. La sala di preghiera è una caleidoscopio di colori: il giallo, il rosso porpora, i verdi, N VIAGGI | Nepal gli azzurri si compongono sulle pareti e sul soffitto creando disegni gioiosi e armoniosi. Di fronte alla porta alcune bacheche d’oro finemente decorate custodiscono preziose statue di Budda. Tutto intorno alla stanza, seduti nella classica posizione yoga con le gambe incrociate, una dozzina di monaci sta pregando. Uno di loro recita da un libretto i versi di alcune scritture buddiste con timbro di voce alto e cantilenoso, tutti gli altri fanno coro strascinando i versi a bassa voce e dondolando il corpo avanti e indietro. Di tanto in tanto qualche monaco fa tintinnare un campanellino sistemato accanto a sé. Questo lento incedere, questa nenia infinita è un invito alla meditazione, al riposo della mente. Quasi quasi chiudo gli occhi, abbandono ogni pensiero e mi lascio trasportare solo da questo suono. Del resto anche i miei compagni di viaggio sono scivolati in uno strano stato ipnotico: sembrano tutti assorti in profonde contemplazioni sul proprio io trascendentale o forse più semplicemente si sono addormentati. Anche il monaco anziano e il monaco più piccino, un bimbo di 6 anni o poco più, sbadigliano a rotta di collo. Ma se a loro è consentito, perché io dovrei reprimere i miei sbadigli e combattere questo desiderio irrefrenabile di chiudere gli occhi? In men che non si dica la mia mente è già fuori da ogni controllo in un dolce abbandono e si diverte a comporre e scomporre immagini fantasiose a suo piacimento. Ma il suono aspro di due trombe e un paio di colpi potenti su un tamburo mi riportano alla realtà. La preghiera prevede cinque minuti di pausa, giusto il tempo per consentire ai monaci di trangugiare una piccola scodella di riso finendo poi con una disinvolta leccatina all’interno della ciotola. “Questo particolare non mi sembra sia contemplato tra le regole del bon ton! Accidenti, fossi nata in Nepal da bambina avrei potuto leccare in santa pace gli ultimi granelli di pastina rimasti appiccicati sul fondo del piatto senza rimediare ogni volta quel ceffone da mio nonno che mi faceva girare vorticosamente la testa sulle spalle come gatto Silvestro quando sbatte contro un palo” Terminato il pasto altri squilli di tromba e colpi di tamburo annunciano il prosieguo della preghiera. “Bene, vediamo ora cosa succede”, fiduciosa che la cerimonia possa regalarmi ancora attimi di forte suggestione. Ma la magia è cessata; la preghiera è tale e quale a prima, stessa cadenza, stessa litania, solo un suono di parole incomprensibili che si ripete all’infinito, ito, ito, ito, ito……... Basta, vado via. Sono ormai decisa ad abbandonare la sala quando ha inizio quello che a me appare come uno speciale spettacolo di illusionismo e prestidigitazione, “Il mistero della colonna di destra”, interpretato da un monaco che, per abilità e somiglianza, potrebbe essere il fratello nepalese di Arturo Brachetti. In che consiste la performance? Ovviamente nel far apparire e scomparire alcuni oggetti di rito alla velocità della luce. Il giovane monaco, tenendo tra le mani un piattino, un’acquasantiera e una candela accesa, attraversa rapidamente la stanza, scompare dietro la colonna di destra e poi riappare tornando indietro con in mano solo il piattino e l’acquasantiera. E la candela? Non c’è più. Nulla di strano, l’avrà certamente posata su un candeliere o presso un altare. Neanche il tempo di finire il pensiero che il monaco attraversa di nuovo la stanza, questa volta però senza piattino, solo con l’acquasantiera e un’altra candela. Arriva alla colonna, gli gira intorno e riappare con la candela …ma si è spenta!!!!!!……E l’acquasantiera? E il piattino? Bohhhhh, scomparsi. Riparte ancora con il piattino e un’altra candela accesa e dopo la colonna…abracadabra….ecco riapparire l’acquasantiera. E via di seguito: acquasantiera e piattino, giro della colonna…. PUFF….candela accesa e piattino; acquasantiera e candela spenta, giro della colonna…. PUFF…..candela accesa e piattino; acquasantiera e piattino, giro della colonna ……PUFF…….. Aiuto!!!! Mi gira la testa!!! È un ritmo vorticoso e fulmineo, ammalia e stordisce come il gioco delle tre carte. Ricorda anche la storiella del contadino che deve trasportare al di là del fiume, una alla volta, un lupo, una capra e una cesta di cavoli e deve fare in modo che il lupo non mangi la capra e la capra non mangi il cavolo. Sarà il fumo allucinogeno di queste candele o la magia di questa preghiera che libera la mente ma sto cominciando a delirare. ”….. Se è vero, come dicono i buddisti, che ad ogni morte segue sempre una rinascita e che tutte le azioni buone o cattive compiute nelle vite precedenti determinano l’esistenza attuale in un meccanismo di causa-effetto, allora tutto mi è chiaro: il contadino a cui penso, salvando la capra dalla grinfie del lupo, ha commesso una buona azione, cioè ha prodotto un Karma positivo che gli ha permesso di elevarsi nel rigido sistema delle caste e di rinascere sotto le sembianze del monaco prestigiatore… Uhmmmmm, forse è il caso che cominci anch’io a fare qualcosa di buono per guadagnare un Karma positivo, certamente non basta aver messo la mollettina colorata tra i capelli pieni di pidocchi di quella bambina dagli occhi tristi, devo fare qualcosa di più e di meglio per sperare di rinascere un giorno gabbiano....” La preghiera è finita. Immersa in questi sconsolati pensieri sulla mia prossima vita mi avvio verso la porta non senza aver buttato l’occhio dietro la misteriosa colonna di destra. Ma non ci sono né candelieri e né altari, né tanto meno cappelli a cilindro e bacchette magiche, c’è solo una finestra aperta da cui si gode un magnifico panorama sui tetti di Kathmandu inondati di luce... e una enorme discarica piena di mozziconi di candele. Ma una pattumiera noooooooooooooo! Nepal Avventure nel mondo 1 | 2011 – 45