Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Io e il mio Autoritratto
Scuola di Specializzazione: Arti Terapie
Relatore: Dott.ssa Roberta Frison
Contesto di Project Work: Percorso per operatori sociali
Tesista Specializzando: Dott.ssa Margherita Grasselli
Anno di corso: Primo
Modena: 25/05/2014
Anno Accademico: 2012 - 2013
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO A UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Margherita Grasselli - SST in Arti Terapie (1 anno) A.A. 2013 - 2014
Indice dei Contenuti
Introduzione .................................................................................................................... 4
1.
L'arteterapia ................................................................................................................5
1.1 Il desiderio di interpretare ................................................................................. 6
1.2 Perché l'arteterapia aiuta ..................................................................................... 8
1.2.1 Pensiero visivo .......................................................................................... 8
1.2.2 Dire ciò che non si riesce a dire ................................................................ 9
1.2.3 Esperienza sensoriale ................................................................................ 9
1.2.4 Liberazione emotiva ................................................................................10
1.2.5 Creare un prodotto .................................................................................. 10
1.2.6 Arricchisce la vita.................................................................................... 11
1.2.7 Relazioni nuove ....................................................................................... 12
1.2.8 Fare arte è possibile per tutti ...................................................................12
1.2.9 Un nuovo modo di conoscere..................................................................14
2. Storia dell'arteterapia .................................................................................................15
2.1 Come nasce l'arteterapia ...................................................................................16
2.2 Gli artisti e la psicologia ...................................................................................18
2.3 I tempi sono maturi ........................................................................................... 19
3. L'atelier ......................................................................................................................23
3.1 Cos'è il setting ...................................................................................................24
3.2 L'arteterapeuta ................................................................................................... 25
3.2.1 La «concessione del permesso» ..............................................................26
3.3 L'arte nel lavoro di gruppo ................................................................................ 27
3.3.1 Gli obiettivi del percorso ........................................................................ 29
3.4 La strutturazione dell'incontro .......................................................................... 31
3.4.1 L'avvio e il riscaldamento ....................................................................... 31
3.4.2 L'esercizio principale ..............................................................................31
3.4.3 Discussione e feedback ........................................................................... 32
3.4.4 Conclusione dell'attività e scioglimento del gruppo ............................... 33
4. L'autoritratto ..............................................................................................................35
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4.1 Non solo psicologia... ....................................................................................... 35
4.2 Non solo autoritratti di artisti... ........................................................................ 36
4.2.1 Autoritratto come auto-proiezione ..........................................................38
4.2.2 Autoritratto come travestimento .............................................................. 40
4.2.3 Autoritratto mentale ................................................................................ 40
4.2.4 Autoritratto come negazione di soggettività ........................................... 41
4.2.5 Autoritratto e pulsione autobiografica ..................................................... 42
4.2.6 L'autoritratto figurativo e la memoria .....................................................44
4.2.7 Ritratto come autoritratto ........................................................................ 44
4.3 Implicazioni sociali dell'autoritratto ................................................................. 46
4.4 Le tipologie dell'autoritratto..............................................................................47
4.5 L'autoritratto come documento psicologico ...................................................... 48
5. Project Work ..............................................................................................................50
5.1 Il percorso “Io e il mio autoritratto” ................................................................. 51
5.1.1 Presentazione del gruppo ........................................................................53
5.2 Gli incontri ........................................................................................................54
5.2.1 L'autoritratto figurativo ...........................................................................54
5.2.2 L'autoritratto come narrazione ................................................................ 56
5.2.3 L'autoritratto come metafora ...................................................................57
5.2.4 L'autoritratto e l'ombra ............................................................................ 59
5.2.5 L'autoritratto come memoria ...................................................................63
5.2.6 L'autoritratto come gioco ........................................................................ 64
Conclusioni .....................................................................................................................66
6. Bibliografia ................................................................................................................67
7. Sitografia ...................................................................................................................69
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Introduzione
Si vive inseguendo il tempo che corre via veloce dedicandosi ogni giorno a molte
attività: più cose si fanno durante la giornata, la settimana, i mesi, più si rimane con la
sensazione di ansia e frenesia, perché sembra che il tempo a nostra disposizione sia
poco e sfugga dalle mani. Una vita bella ma impegnativa e da sostenere, se non si trova
uno spazio necessario per integrare tutte le attività in cui ci si imbatte. E' meglio
fermarsi, arrivare ad un certo punto e finalmente dar retta a quella vocina interiore che
già da tempo suggeriva di incominciare a riflettere su di noi, perché le tante attività
intraprese, le esperienze accumulate e le persone incontrate non sfuggano via
lasciandoci solamente un vago ricordo, ma possano davvero penetrare dentro di noi e
aiutarci a crescere. E' necessario riconoscere la propria esistenza se si vuole prendere la
responsabilità di vivere il presente con consapevolezza e libertà. Altrimenti si corre il
rischio di imbattersi in schemi che non fanno più crescere, anzi, limitano la mente
bloccandola su pensieri pesanti ed esperienze che non portano da nessuna parte.
Attraverso l'arte-terapia si può intraprendere un percorso che conduce ad una
conoscenza più profonda di sé stessi. Rivedere nei propri disegni i pensieri che ognuno
ha dentro, e che difficilmente riesce ad esprimere con le parole, è un primo passo verso
un cammino di cambiamento, di maturità e di positività.
Ci sono molte possibilità per entrare in contatto con sé stessi e l'arte-terapia è una di
queste. E' una terapia personale, che attraverso il linguaggio dell'arte collega mente,
vissuto, emozioni e mani. Entra dentro, prende ciò che trova e che può essere preso e lo
conduce fuori. In questo caso il termine “terapia” è utilizzato con il significato di
“cambiamento”. Essa evidenzia il vecchio, lo rende accettabile e riconoscibile come una
parte importante di sé e poi invita ad andare oltre. Questa visione grafica del passato
aiuta ad andare verso un miglioramento. L'interesse dell'arte-terapia non è verso i
problemi delle persone bensì verso la loro risoluzione1.
1 Raffaella Molteni (2007), L'arteterapia, Xenia Edizioni, Milano.
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1. L'arteterapia
C'è un'espressione che qualche tempo fa era molto in voga fra gli arte-terapeuti: arteterapia è disegnare dall'intimo2. Si tratta di una buona definizione di partenza, che aiuta
a distinguere questo uso dell'arte da tutti gli altri. A uno sguardo superficiale una seduta
di arte-terapia può sembrare una lezione di disegno o di pittura, ma gli obbiettivi e gli
intenti sono diversi. Per esempio, in una lezione d'arte chiederanno di ritrarre una
modella, di dipingere una natura morta o di fare degli schizzi in una passeggiata fra i
boschi. Di solito la richiesta è quella di rappresentare ciò che si vede e di lavorare per
renderlo con le giuste proporzioni, colori e chiaroscuri, insistendo soprattutto sulla
tecnica.
L'arte-terapia chiede di esplorare la propria esperienza interna: sentimenti, percezione,
immaginazione. Può comportare l'apprendimento di certe tecniche, ma l'accento è posto
sullo sviluppo e l'espressione di immagini che affiorano da dentro, non su ciò che si
vede nel mondo esterno. Anche in certe scuole d'arte si può chiedere talvolta di
disegnare o di dipingere soggetti di fantasia, ma nelle sedute di arte-terapia l'elemento
primario e fondamentale è sempre il mondo interiore di immagini, sentimenti e pensieri.
La parola greca therapéia significa tra le altre cose “prestare attenzione”, un concetto
che sottolinea il senso profondo dell'arte-terapia da due punti di vista. Anzitutto, c'è lo
specialista che segue il soggetto mentre produce il suo lavoro. La sua guida è la chiave
del processo terapeutico, in quanto l'attenzione e il sostegno assicurati da tale rapporto
sono indispensabili per indirizzare l'esperienza artistica e aiutare l'individuo a scoprirvi
un significato.
Il secondo aspetto importante è l'attenzione che l'individuo concentra sulla propria
attività, per dare un senso al prodotto artistico, cioè trovare una storia, una descrizione o
un significato che lo definiscono. Poche altre forme di terapia dipendono, come questa,
dalla partecipazione attiva del soggetto.
Le definizioni specifiche proposte per l'arte-terapia sono numerose, ma la maggior parte
di esse rientra in due categorie generali.
2 Cathy A. Malchiodi (2013), Arteterapia, l'arte che cura, Edizione Giunti.
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La prima chiama in causa la convinzione che il processo della creazione artistica abbia
di per sé un potere curativo. Questa concezione implica l'idea che fare arte sia un
processo terapeutico: in questo caso si parla talvolta di arte come terapia. Fare arte è
visto come occasione per esprimere sé stessi in maniera autentica, spontanea e
immaginativa, esperienza che con il tempo può condurre alla realizzazione di sé, alla
cura delle ferite emotive e alla trasformazione. Secondo questo concetto, il processo
creativo in sé e per sé può essere una salutare esperienza di crescita personale3.
L'altro tipo di definizione si base sull'idea che l'arte è un mezzo di comunicazione
simbolica.
Questo
approccio,
indicato
spesso
col
termine
di
“arte-terapia
psicodinamica”, oppure “psicoterapia mediante l'arte”, sottolinea il valore dei disegni,
dipinti e più in generale, dei prodotti, come mezzo di comunicazione di problemi,
emozioni e conflitti. La psicoterapia ha una parte fondamentale in questa impostazione e
l'immagine artistica acquista significato in quanto favorisce lo scambio verbale fra
terapeuta e paziente ai fini della comprensione di sé. Con la guida e il sostegno del
terapeuta l'arte favorisce la presa di coscienza, aiutando a risolvere i conflitti, superare i
problemi e formulare nuove percezioni, che a loro volta conducono a cambiamenti
positivi, alla crescita personale e alla salute fisica e mentale.
In realtà, la maggior parte degli specialisti che praticano l'arte-terapia integrano, in varia
misura nel lavoro clinico, entrambe le impostazioni prima discusse. In altre parole,
mettono insieme sia l'idea che l'attività artistica possa essere un processo salutare, sia
quella che i suoi prodotti comunichino informazioni rilevanti per la terapia. Il terapeuta
può accentuare l'uno o l'altro aspetto, a seconda della sua inclinazione e delle esigenze
del cliente4.
1.1. Il desiderio di interpretare
Molti che partecipano all'esperienza dell'arte-terapia sono anche interessati a capire
meglio cosa significano le immagini che producono.
La curiosità di alcuni per l'interpretazione deriva fra l'altro dalla familiarità o
3 Allen P. B. (1995), Art is a way of knowing, Shambhala, Boston.
4 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 13-15.
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conoscenza dei test psicologici di personalità: le macchie d'inchiostro di Rorschach5
oppure i test di disegno usati talvolta per la diagnosi. Dato che l'arte-terapia
effettivamente comporta la produzione di immagini, è naturale pensare che queste siano
interpretate a fini di valutazione.
In qualche misura, gli arteterapeuti sono interessati al significato dei manufatti artistici e
sono affascinati dalle immagini e dai simboli. Sono anche numerose le ricerche per
accertare se esistano simboli ricorrenti, contenuti e stili associati a disturbi emotivi,
traumi, malattie fisiche o problemi neurologici. Però questo tipo di lavoro punta
sull'espressione artistica in sede di valutazione e diagnosi, più che strumento di crescita
personale e comprensione del sé.
Il significato dell'arte prodotta in terapia può essere un tema affascinante, ma la maggior
dei terapeuti preferisce aiutare il soggetto a tirar fuori la sua interpretazione. Chiedere
alle persone di riflettere su ciò che hanno creato è un aspetto importante del processo
terapeutico, per varie ragioni. Anzitutto, sebbene possano esservi simboli universali
nell'espressione artistica, il modo in cui ciascuno si esprime attraverso l'arte è spesso
molto personale e individuale, segnato dalla parte “sommersa”, le esperienze di vita, le
influenze culturali e le prospettive personali. L'esperienza individuale nella produzione
artistica influisce anche sul modo di comunicare con l'arte idee e sentimenti. Questo
aspetto è prezioso perché è la persona stessa che produce l'immagine che decide che
significato darle.
Inoltre, il significato di un'immagine artistica è davvero nell'occhio di chi la contempla.
Tutti abbiamo la tendenza naturale a proiettare le nostre convinzioni, impressioni, idee
ed emozioni sulle immagini che vediamo. Infine, le espressioni artistiche possono anche
cambiare significato nel corso del tempo. In altre parole, riguardando lo stesso disegno,
dipinto o elaborato, a distanza di tempo si possono vedere aspetti nuovi e avere risposte
del tutto diverse. Ciò fa parte della magia dell'arte ma anche del suo mistero, che può far
pensare ad un linguaggio “vivo”6.
5 Wikipedia, Test di Rorschach, http://it.wikipedia.org/wiki/Test_di_Rorschach, Marzo 2014.
6 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 15-16.
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1.2. Perché l'arteterapia aiuta
L'arte può servire a capire meglio chi la produce, ma il processo terapeutico, con le sue
potenzialità di crescita e guarigione, deriva anche dalla concreta produzione di opere
d'arte. Aiutare le persone a comprendere la propria espressione artistica rientra
certamente nella terapia, ma insieme a questa è fondamentale anche il processo stesso
del fare arte. Si tratta di una modalità terapeutica che presenta speciali possibilità di
riparazione, trasformazione e auto-esplorazione7.
1.2.1.
Pensiero visivo
Il pensiero visivo è la capacità di organizzare, per mezzo di immagini, i nostri
sentimenti, pensieri e percezioni circa il modo che ci circonda. Esso è in tutte le cose
che facciamo, dal programma della giornata ai sogni notturni. Definiamo il mondo
mediante descrizioni visive, pensiamo per immagini, tante volte usandole per
rappresentare idee e sentimenti.
Sigmund Freud8, il padre della psicologia moderna, osservava che sogni, sentimenti e
pensieri sono espressi prevalentemente sotto forma di immagini. La frustrazione dei
pazienti nel descrivere i sogni poteva, a suo avviso, essere alleviata se riuscivano a
disegnarli. Secondo Freud, l'arte è molto vicina all'inconscio in quanto la percezione
visiva arriva prima dello sviluppo della capacità di espressione verbale. Le immagini
fanno parte delle nostre primissime esperienze e molti dei nostri pensieri preverbali
sono sotto forma di immagini. Ad esempio, quando abbiamo la possibilità di ricordare
un evento, un luogo o una persona, lo facciamo principalmente attraverso un'immagine
mentale.
Anche Carl Gustav Jung9, di cui è noto l'interesse per i simboli visivi nei sogni e
nell'arte, osservava che, lasciando che uno stato d'animo o un problema si incarni in
un'immagine, lo si comprende più chiaramente e profondamente sperimentando le
7 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., p. 17.
8 Freud S. (1923), « The Ego and the Id.» In J. Strachey (Ed.), The Complete Psychological Works of
Sigmund Freud. XIX. Hogarth, London.
9 Jung C. G., Von Franz M. L., Henderson J., Jacobi J., Jaffè A. (1968), Man and his symbols,
Doubleday, New York.
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emozioni che sono contenute in essa. La filosofia junghiana si basa ampiamente sulle
immagini di sogni e ricordi, nella loro connessione coi sentimenti, per aiutare le persone
a elaborare conflitti e problemi10.
1.2.2.
Dire ciò che non si riesce a dire
Nell'arte-terapia le persone sono incoraggiate ad esprimere ciò che non sanno dire a
parole attraverso un disegno, la pittura o altre forme artistiche. Per qualcuno le parole
possono essere un modo per evitare o camuffare l'espressione di veri sentimenti. Una
forma non verbale di comunicazione come l'arte può una finestra aperta su sentimenti e
pensieri che forse non sarebbero accessibili mediante un linguaggio. Questa
caratteristica dell'attività artistica può aprire la strada ad emozioni e idee che erano
volutamente o no ignorate e inconsce11.
Non essendo un processo lineare vincolato dalle regole del linguaggio verbale, come
sintassi, grammatica e ortografia, l'espressione artistica è in grado di esprimere
simultaneamente molti aspetti complessi. Ciò che richiederebbe un'ampia ed elaborata
esposizione verbale può essere espresso da un singolo disegno oppure elementi
ambigui, enigmatici o contraddittori possono confluire nella stessa immagine. L'arte, a
differenza del linguaggio, non avendo regole di struttura e di organizzazione può aiutare
ad integrare e sintetizzare sentimenti e esperienze vissute12.
1.2.3.
Esperienza sensoriale
L'arte è un'attività manuale dove si costruisce, dispone, mescola, si tocca, modella,
incolla, disegna, dipinge e altro. Fare arte è un'esperienza psicomotoria dove vengono
chiamate in causa vista, tatto, udito e altre modalità sensoriali, a seconda dei mezzi
usati. Queste esperienze, secondo lo psicologo Eugene Gentlin13, implica un “significato
sentito” ovvero una consapevolezza corporea di ciò che ci succede o che ci è successo.
10 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 17-20.
11 Maslow A. (1971), Verso una psicologia dell'Essere, Astrolabio Ubaldini, Roma.
12 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 2021.
13 Gendlin E. (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche. Astrolabio Ubaldini, Roma.
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Il significato sentito è un modo di dare senso alle cose, che ci aiuta a capire e valutare il
mondo intorno a noi. Nei casi di trauma emotivo, l'attività artistica offre una via per
reintegrare emozioni complesse che si esprimono mediante i sensi. Gli aspetti tattili
dell'arte possono gratificanti e rilassanti, e questo può portare verso un processo di
guarigione delle ferite emotive14.
1.2.4.
Liberazione emotiva
Fare un disegno, un dipinto o una scultura può essere liberatorio, in quanto offre
sollievo da sentimenti che possono essere dolorosi o disturbanti. Per molte persone
riuscire a contenere nell'arte le proprie idee, esperienze ed emozioni può avere un effetto
positivo, per altre è catartico (letteralmente purificatorio) parlare di ciò che hanno
rappresentato nelle immagini prodotte, in particolare vissuti o sentimenti traumatici. Il
processo della produzione artistica può alleviare lo stress e l'ansia anche creando una
risposta fisiologica di rilassamento, con rallentamento del battito cardiaco e
respiratorio15. Attraverso studi effettuati in passato si è visto che durante l'attività
creativa può di fatto aumentare il livello di serotonina nel cervello, combattendo così la
depressione. Inoltre, il lavoro artistico è per alcuni una forma di meditazione che genera
calma e pace interiore16.
1.2.5.
Creare un prodotto
Nel corso della storia umana l'arte è sempre stata usata per abbellire e decorare, in
armonia con l'inclinazione di fare qualcosa di speciale, che è un nostro autentico
bisogno.
L'arteterapia è una delle poche terapie che consente di realizzare qualcosa di duraturo
che registra significati, esperienze e sentimenti. Questa concretezza del prodotto
permette di documentare idee e percezioni per poi riesaminarle in un secondo momento.
Rivedere le espressioni artistiche create nell'arco anche di un tempo lungo consente di
14 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 21-22.
15 Kaplan F. (2000), Art, Science and Art Therapy. Jessica Kingsley, London.
16 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., p. 24.
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seguire lo sviluppo di temi, eventi, emozioni e pensieri nel corso del tempo.
I due aspetti fondamentali dell'arte-terapia son il processo creativo e la produzione
simbolica, ma ci sono anche altri aspetti che possono essere considerati terapeutici. A
livello più semplice e immediato, è un'attività che favorisce l'autostima, incoraggia a
sperimentare e assumersi rischi e responsabilità, insegna nuove abilità e arricchisce la
vita. Queste dimensioni possono sembrare puramente ricreative, ma fare qualcosa con le
proprie mani e rendersi conto di aver prodotto qualcosa di unico e irripetibile è molto
importante e significativo17.
1.2.6.
Arricchisce la vita
La storia ci fa vedere come persone sottoposte a grandi stress abbiano trovato nell'arte il
modo di esprimere e trasformare i conflitti interiori. Nel corso dei secoli pittori e
scultori si sono serviti del loro lavoro per esplorare le sofferenze umane, trovare un
senso ai propri conflitti e ricercare la trascendenza. Le opere di Vincent Van Gogh e di
altri artisti testimonia questo bisogno di espressione artistica. L'arte ci aiuta ad
esprimere paure, angosce e altre emozioni stressanti e tocca anche l'animo umano negli
aspetti più spirituali. L'arte ci aiuta a trascendere la vita quotidiana e restaura integrità e
soddisfazione personale anche laddove possano esservi “vissuti di morte”.
“Bruce Moon, arteterapeuta, crede che fare arte è un atto spirituale e sacro. L'arte è l'anima, e creare arte
crea l'anima. La sua fede sta nella espressione creativa come la migliore forma di comunicazione tra
mondi interni ed esterni, e tra il sé e Dio. Secondo Moon, fare arte serve un'esistenziale scopo e può
aiutare le persone a superare sentimenti di vuoto e disperazione. Nei percorsi di arte-terapia Moon si
concentra più sul processo creativo che il prodotto stesso. Egli risponde alla grafica con la conversazione,
i gesti del corpo, il suono, le prestazioni spontanee, e la pittura”18.
L'arte offre trascendenza e riflessione spirituale, permettendoci di contemplare e
immaginare nuove possibilità attraverso l'espressione visiva e di vivere noi stessi in
maniera rinnovata.
Infine, l'arte è un'attività piacevole che riempie di energie e dà godimento. Sembra
17 Ibidem.
18 Wikipedia, Bruce Moon, http://en.wikipedia.org/wiki/Bruce_Moon, Marzo 2014.
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proprio che il lavoro artistico serva a diventare più flessibili in generale e a realizzare se
stessi prendendone coscienza. Attraverso di esso si sfruttano e potenziano risorse
intuitive e modalità creative nella soluzione dei problemi. Provare gioia, giocare, creare
e comunicare sono esperienze necessarie per il nostro benessere psico-fisico e spirituale,
e queste sono tutte esperienze di cui l'attività artistica fornisce l'occasione19.
1.2.7.
Relazioni nuove
Se fare arte da soli è rilassante, soddisfacendo la persona sul piano emotivo riparando
carenze e danni, l'efficacia dell'arte-terapia si basa sulla relazione fra il soggetto, il
terapeuta e il gruppo se è previsto.
In tutte le forme di terapia la presenza di un facilitatore è essenziale per il processo di
recupero e trasformazione. Anche in questo caso, una relazione autentica e di fiducia col
terapeuta, insieme alla realizzazione di lavoro esteticamente soddisfacente, esalta il
potenziale curativo dell'attività proposta.
Così anche le attività artistiche fatte in gruppo mettono in rilievo una speciale modalità
nell'esplorazione del rapporto con gli altri e con se stessi. Secondo il terapeuta Shaun
McNiff20, creare arte insieme ad altri rende possibile la trasformazione personale
attraverso la condivisione dei lavori e lo scambio consapevole e/o inconsapevole di
ispirazioni e influenze reciproche. Lavorare in presenza di altre persone stimola idee
nuove e spunti creativi, generando in maniera naturale interazioni e scambi21.
1.2.8.
Fare arte è possibile per tutti
L'arte-terapia non richiede nessuna preparazione artistica specifica. Disegnare,
dipingere e altre forme artistiche sono semplici metodi di espressione accessibili a
chiunque, indipendentemente dall'età o dalle capacità naturali. Tutte le persone che lo
desiderano hanno la possibilità di essere creative attraverso l'espressione artistica e ciò
che ne viene fuori è assolutamente accettabile e degno di rispetto.
19 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 24-25.
20 McNiff S. (1981), The Arts and Psychotherapy, Charles C. Thomas, Springfield (IL).
21 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 25-26.
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Lo scopo non è creare grande arte. Ma che cosa si intende per “arte”? Generazioni di
artisti, teorici, e storici dell'arte hanno riflettuto su questo quesito senza mai trovarsi
d'accordo. Secondo alcuni, i prodotti dell'arte-terapia non sono arte in quanto sono creati
per scopi diversi dalla pura finalità artistica. Tuttavia, nella storia dell'arte sono sempre
convissute finalità opposte, opere prodotte a scopo di pura bellezza estetica insieme a
opere prodotte per esprimere il mondo interiore dell'artista.
Elizabeth Layton22, conosciuta anche come nonna Layton, riscopre il disegno e l'arte a
sessantasette anni e questo la aiuta ad uscire da trent'anni di sindrome manicodepressiva. Nel 1976, dopo la morte del figlio, a seguito di sedute di elettrochoc, litio e
psicoterapia che non avevano portato a miglioramenti, Elizabeth segue il consiglio della
sorella che le suggerisce di iscriversi ad un corso di disegno presso un college locale.
C'era posto soltanto nel corso di disegno di contorno. Si tratta di una tecnica a tratto
dove l'artista segue il contorno del modello, concentrando lo sguardo su di esso ed
evitando per quanto possibile di guardare il foglio su cui si lavora. Per questo le
immagini appaiono spesso distorte, ma molto dettagliate e personali. Realizzò una serie
di disegni che illustrano ogni ruga, macchia, ogni aspetto del suo corpo segnato dagli
anni. Sono emersi anche l'atteggiamento della società verso gli anziani, la lotta contro
l'invecchiamento, l'esperienza della depressione e del lutto. Elisabeth passò
gradualmente la depressione facendo i conti con i suoi pensieri, sentimenti e percezioni,
imparandoli ad esprimere attraverso il disegno.
Nonna Layton cominciò a raccontare la sua vita, non solo coi suoi disegni ma anche
conversando con l'artista Don Lambert e il terapeuta Robert Ault23. I colloqui le
permisero di approfondire la consapevolezza dei temi espressi nei suoi lavori e
contribuirono alla guarigione emotiva.
Per Elizabeth il disegno era un mezzo per comunicare ciò che non riusciva a dire con le
parole. Era anche un modo di conoscere una parte di sé più autentica e profonda.
Attraverso l'arte ha potuto esprimere il grande dolore per le perdite subite e capire le
ragioni del disagio e della depressione che aveva sperimentato per oltre trent'anni. Alla
fine, l'arte l'ha aiutata a scoprire e creare un senso della vita24.
22 Lambert D. (1995), The life and Art of Elizabeth “grandma” Layton, WRS, Topeka (KS).
23 Ault R. (1996), Drawing on the Contours of the Mind, manoscritto pubblicato dall'A., s.d.
24 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 26-29.
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1.2.9.
Un nuovo modo di conoscere
Pat Allen25 scrive nel suo libro che l'arte, oltre ad insegnarci cosa vuole dire essere vivi
e umani, è anche un modo di conoscere ciò in cui noi crediamo effettivamente.
Disegnando o dipingendo cominciamo il processo di esplorazione delle nostre credenze
profonde. L'arte inevitabilmente racconta la nostra storia personale in tutte le sue
dimensioni: sentimenti, pensieri, esperienze, valori e convinzioni. Nel processo per
rendere visibile parte del nostro “mondo interiore” mediante l'arte, ci viene offerto un
nuovo modo di conoscere noi stessi e trasformare tale prospettiva.
“Come quasi tutti coloro che la praticano, anch'io ho la mia personale definizione dell'arte-terapia e del
suo funzionamento. Ritengo che il mio ruolo sia di aiutare le persone a esplorare ed esprimere sé stesse in
maniera autentica per mezzo dell'arte. Attraverso questo processo, possono trovare sollievo a crisi, traumi
ed emozioni soverchianti, scoprire sé stesse, a crescere il proprio benessere, arricchire la vita quotidiana
con l'espressione creativa, sperimentare una trasformazione personale. Riconoscono all'arte il potere di
ampliare la comprensione di sé, di offrire intuizioni non accessibili con altri mezzi e di estendere le
capacità di comunicazione. Vedo inoltre le espressioni artistiche come narrazioni personali attraverso
immagini, oltre che mediante le storie che gli autori vi abbinano. Trovare un significato personale nelle
immagini prodotte fa parte del processo terapeutico e costituisce per alcuni la più potente risorsa curativa
dell'espressione artistica. E' una via importante per conoscere sé stessi e un'efficace medicina26”.
25 Allen P. B. (1995), Art is a Way of Knowing, Shambala, Boston.
26 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 29-30.
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2. Storia dell'arteterapia
Fin dall'antichità l'arte ha avuto un ruolo nelle pratiche della salute e l'espressione
simbolica è stata un elemento importante dei riti di guarigione. L'impulso artistico è un
bisogno umano fondamentale, un tratto della nostra specie altrettanto naturale come il
linguaggio, l'interazione sociale, il sesso e l'aggressività.
Sono almeno 200.000 anni che gli uomini hanno cominciato a tracciare segni e
immagini a scopo “magico” oltre che decorativo. Le prime figure risalgono al
paleolitico, tracciate con mezzi primitivi sulle pareti delle grotte. Obbligati a difendersi
dall'ambiente ostile, dagli animali e dalle forze ignote, i nostri progenitori non solo
costruivano utensili e ripari, ma creavano anche le immagini. E' probabile che
cercassero di propiziarsi buone battute di caccia, prima però catturando le prede con la
pittura. Gli esseri umani non hanno mai cessato di creare arte per collegarsi con la
divinità, proteggersi dal male e dalle disgrazie, per esprimere e controllare emozioni
forti come l'ansia e la paura, e in questo caso per prepararsi alla caccia.
Ancora oggi, e non solo nelle società preletterate, l'arte è usata simbolicamente per
curare le malattie e procurare sollievo fisico e psicologico. I najavo, per esempio,
combinano canto, danza e pittura sulla sabbia, usando figure specifiche per curare
particolari malattie. Anche i tibetani usano la pittura con la sabbia, nella forma di
Mandala, per concentrare la preghiera e promuovere la guarigione e il sollievo dalle
sofferenze. L'elemento che accomuna questi due esempi è, quindi, la pittura con la
sabbia che implica un simbolismo visivo che mira in parte alla trasformazione e alla
guarigione. La credenza dell'umanità nel potere magico dell'arte di produrre
cambiamenti e trasformare persone e circostanze può essere una ragione per cui da
sempre essa è considerata uno strumento terapeutico.
Gli sciamani sono i precursori della psichiatria moderna e in particolare dell'arteterapia.
La loro opera consiste nello scacciare dalle persone gli elementi insani e guarire corpo,
mente e spirito usando immagini e rituali. Lo sciamano utilizza simboli visivi
nell'abbigliamento e nelle cerimonie per attrarre gli spiriti, raggiungere uno stato di
coscienza alterato e provocare la guarigione. Ci sono stretti legami fra il suo lavoro e
quello dell'arte-terapeuta, che usa la produzione di immagini come modalità di recupero
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della salute psico-fisico e spirituale27.
2.1. Come nasce l'arteterapia
L’arteterapia è una disciplina che nasce per l’influenza di materie attinenti e si tratta di
un campo relativamente nuovo. Le prime forme di arte terapia nascono in Gran
Bretagna, negli anni 40, ed inizialmente i metodi utilizzati furono quelli pedagogici, a
differenza di quelli francesi segnati dagli studi psichiatrici sull’art des fous (l'arte dei
folli), e fu infatti Adrian Hill, maestro d’arte, che coniò nel 1945 il termine art therapy.
È necessario sottolineare che l’arte, come mezzo di cura, è stata influenzata dall’avvento
della psichiatria moderna, infatti nel XX secolo la psichiatria ha iniziato ad interessarsi
alle unioni tra le immagini e l’inconscio sfociando nella convinzione che vi sia
un’unione tra arte e mondo interiore. Già nel 1912 Emil Kraepelin e Karl Jaspers
notarono come i disegni dei loro pazienti fossero utili per la diagnosi della malattia, ma
si dovette aspettare Sigmund Freud e le sue teorie sull’inconscio e l’immagine onirica
per poter sottolineare il legame tra immagine e mondo interiore, anche se non impiegò
l’arte come strumento terapeutico pur ritenendo il prodotto artistico come specchio del
mondo interno.
Carl Gustav Jung elaborò il concetto di un inconscio collettivo, che, attraverso archetipi
universali, si trasmettono attraverso il fare artistico. Considerava l’arte come una via di
accesso ai sentimenti e all’analisi del sé che risiedono nell’inconscio, e che devono
essere portate alla luce per non avere effetti negativi sul comportamento e quindi entrare
in uno stato di benessere e trasformazione. A differenza di Freud spingeva i propri
pazienti a disegnare le loro immagini oniriche:
28
“Dipingere ciò che vediamo davanti a noi è un’arte diversa dal dipingere ciò che vediamo dentro” .
Inizialmente, i presupposti non furono sostanzialmente terapeutici: l’arte era utilizzata
come forma di svago, e di occupazione del paziente dall’ozio del ricovero.
Successivamente si crearono, all’interno degli istituti di cura, delle vere e proprie
27 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 31-32.
28 Ivi, p. 34.
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esposizioni dei lavori dei pazienti, le quali toccavano città come Londra, Parigi, Berna,
Torino. Come esempio possiamo citare l’antropologo criminale Cesare Lombroso, il
quale si interessò alla natura delle malattie mentali e al loro legame anatomico e
fisiopatologico. Noto per il saggio Genio e follia che pubblicò nel 1872 e per i suoi studi
in campo criminale, fu, inoltre un grande collezionista di opere dei malati che porterà ad
una grande raccolta29.
Di grande importanza, per l’epoca e per gli sviluppi delle ricerche successive, fu il
saggio “Bildnerei der Geisteskranken” (L’attività plastica nei malati di mente) del 1922
di Hans Prinzhorn, storico dell’arte e psichiatra. Al termine della prima guerra mondiale
egli ricevette l’incarico di curatore della collezione della clinica psichiatrica di
Heidelberg, Germania; per due anni si occupò della catalogazione e analisi delle
produzioni artistiche, fino al 1921 quando decise di intraprendere una vita nomade. In
questo saggio analizzò e raccolse le opere prodotte da malati di mente ospiti in istituti
psichiatrici tedeschi, e non solo, trovando una relazione tra attività artistica e
componente schizofrenica di alcuni grandi artisti, tra i quali Van Gogh e Kokoschka. Il
suo interesse era quello di sottolineare come le opere degli artisti isolati fossero di
grande spessore quanto quelle degli artisti conosciuti, inoltre, criticò le tesi di Lombroso
considerandole fonte di pregiudizio che si allontanano dalla vera comprensione della
produzione artistica dei malati, spostando l’attenzione sul processo di creazione
dell’immagine e delle radici psichiche30.
Il saggio suscitò l’interesse da parte dei Surrealisti, i quali consideravano le opere dei
pazienti fonte di ispirazione per le proprie opere.
Fu Jean Dubuffet che mise in risalto l’arte degli esclusi che poi diverrà l’Art Brut: l’arte
frizzante che nasce dove nessuno la cerca. L’arte spontanea che definisce l’arte, creata
da quelle persone estranee ai contesti artistici tradizionali. Dubuffet aprì nel 1947 il
Foyer de l’Art Brut e successivamente fondò la Compagnie de l’Art Brut. La sua
avversione nei confronti dell’arte culturel portò ad interagire con le esperienze
terapeutiche avvicinandosi sempre più all’arte degli emarginati.
Sino agli anni ’50-’60 i laboratori artistici venivano ancora posti per poter tenere
occupati i pazienti, ma negli anni ’60-’70 la disciplina verrà influenzata dal concetto
29 G. Bedoni, B. Tosatti, op. cit., p. 183.
30 Ivi, p. 41.
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psicanalitico di creatività di Donald Winnicott:
“E’ l’appercezione creativa, più di ogni altra cosa che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita
valga la pena di essere vissuta. In qualche modo la nostra teoria comprende la convinzione che vivere
31
creativamente sia una situazione di sanità, e che la compiacenza sia una base patologica per la vita” .
Sono, dunque, gli anni del secondo dopoguerra ed i traumi che essa portò con sé che
aprirono le porte alla disciplina arte-terapia vera e propria e successivamente la chiusura
dei luoghi manicomiali acconsentì la costituzione di comunità terapeutiche dove
“… gli atelier assumono un ruolo importante rispetto alle dinamiche d’integrazione con il territorio,
32 33
diventando uno strumento efficace di dialogo, apertura e lotta allo stigma” ,
2.2. Gli artisti e la psicologia
L'avvento della psichiatria e della psicologia all'inizio del XX secolo ebbe sugli artisti di
ogni corrente una profonda influenza. Soprattutto il concetto di inconscio34, quella parte
inaccessibile della psiche che si manifesta alla coscienza nei sogni e nei lapsus, esercitò
un grande influsso su di loro.
Il surrealismo è una corrente novecentesca profondamente interessata alle immagini
oniriche. I surrealisti come Salvador Dalì Max Ernst erano convinti che i sogni
contengano significati da interpretare e si sforzavano di creare un'arte ricca di immagini
simboliche, fantastiche e scioccanti, come il contenuto dei sogni, sottolineando la
necessità di superare la riproduzione della realtà esterna per far luce sul mondo interno.
Tecniche come il disegno automatico hanno interessato pittori come Joan Mirò, in base
all'idea che, l'abbandono ad una spontaneità totale permettesse di attingere alla psiche
inconscia ed esprimerla. Anni dopo, Jackson Pollock inventò il dripping, facendo
sgocciolare i colori sulla tela stesa a terra. Pollock ricorreva all'automatismo psichico
per esprimere più liberamente nella pittura i suoi contenuti interiori.
31 D. W. Winnicott (1971), Gioco e realtà, tr. it., Roma (1974), p. 119.
32 L. Tonani, Espressione artistica e cura del disagio psichico in “Psicologia contemporanea”, MarzoAprile 2010, pp. 46-51.
33 Erika Bettoni, Arteterapia: le origini, http://arteintasca.com/appunti/arte-terapia/#_ftn1, Aprile 2014.
34 S. Freud (2000), L'Io e l'Es, Opere, vol.9, Bollati Boringhieri, Torino.
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Un altro movimento artistico che puntava sulla rappresentazione delle emozioni è
l'espressionismo. Le opere di Paul Gauguin e di Vincent Van Gogh danno grande rilievo
all'esplorazione del mondo interiore.
Nei primi anni '20 Vasilij Kandinskij esplorò temi psicologici e spirituali attraverso l'uso
costante e spontaneo di colori, linee e forme, pensando di rispecchiare così il libero
fluire del pensiero inconscio. Per gli espressionisti, i surrealisti e Kandinskij, l'arte
doveva realizzarsi con una spontaneità pari a quella dell'associazione libera, ovvero dar
libero sfogo ai pensieri senza intenzioni né censure, introdotta da Freud come metodo
clinico per la comprensione dell'inconscio e del comportamento umano.
Così, mentre la psichiatria da un lato cercava di capire il funzionamento interno della
psiche, gli artisti cominciavano a guardare dentro di sé alla ricerca di immagini per il
loro lavoro.
Altri si sono interessati alla spontaneità dei “non artisti”, come i bambini o i malati di
mente. Jean Dubuffet è uno tra i tanti pittori e scultori che hanno praticato
intenzionalmente l'art brut, la cosiddetta “arte grezza”ispirata alle opere delle collezioni
Prinzhorn e Morgenthaler. Mentre i due psichiatri vedevano esemplificato in quella
produzione l'istinto creativo dell'umanità, Dubuffet ne apprezzava i valori di originalità
e spontaneità assoluta.
Questa attrazione per il talento esclusivo degli artisti spontanei è vivo ancora oggi:
chiamata outsider art apprezzata da artisti e studiosi. Quest'ultimo è un concetto
importante, che riconosce la creatività artistica come un'esperienza umana condivisa,
capace di trascendere i limiti posti dall'ambiente o da handicap di qualunque genere. Ciò
ha preparato il terreno per la ricognizione delle espressioni artistiche di tutti gli
emarginati, dai pazienti psichiatrici ai carcerati, dai disabili agli anziani35.
2.3. I tempi sono maturi
Verso la metà del XX secolo si diffondeva la convinzione che il processo creativo
dell'arte potesse favorire la riabilitazione, il cambiamento e crescita personale. Sia
l'interesse crescente per le immagini come rappresentazioni dell'inconscio, sia il
35 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 38-40.
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potenziale terapeutico del processo creativo contribuirono ad aprire le porte all'avvento
dell'arte-terapia.
Lo sviluppo di nuove terapie aumentò notevolmente dopo il 1950, creando un ambiente
favorevole alla comparsa e all'accettazione di novità. Alcune di queste metodologie si
ricollegavano ad esperienze del XIX secolo, quando era iniziata in Europa e negli Stati
Uniti, la sperimentazione della cosiddetta “terapia morale”: i pazienti erano inviati in
campagna, dove ricevevano un'attenzione individualizzata sotto forma di terapia
occupazionale e attività artistiche. Il movimento durò pochi anni, ma riemerse nel
secolo successivo con la creazione di ospedali psichiatrici, cliniche e centri di
riabilitazione che introdussero accanto ai trattamenti tradizionali basati sul colloquio,
attività artistiche, musicali, motorie e di scrittura creativa.
Le terapie basate sulla creazione artistica (non solo arti visive, ma anche danza, teatro e
poesia) divennero un campo di studi a pieno titolo, e furono riconosciute come valide
alternative nel trattamento dei pazienti ospedalizzati. L'arteterapia ottenne ampio credito
nei servizi di salute mentale negli Stati Uniti. Ai suoi esordi intervennero molte persone
che avevano scoperto il potere curativo dell'arte, ma a due in particolare va il merito di
aver introdotto l'arte-terapia negli Stati Uniti.
Il primato nell'uso dell'arte come modalità terapeutica, negli anni '40, è attribuito a
Margaret Naumburg36, tra i primi a definire l'arte-terapia una forma di psicoterapia.
Considerava l'espressione artistica un modo di manifestare le fantasie inconsce. Ai
pazienti chiedeva di disegnare, oltre ad enunciarli a parole, i contenuti dei sogni e delle
associazioni. A suo parere, il valore terapeutico primario dell'arte consisteva nella
comunicazione e nell'espressione autentica: riteneva che nelle immagini prodotte dai
pazienti fossero una forma di linguaggio simbolico. Negli anni '50, la terapeuta Edith
Kramer37 propose l'idea che il potenziale creativo dell'arte scaturisse dalla sua capacità
di attivare processi psicologici. Per la Kramer la chiave del processo di arteterapia non
era solo la comunicazione attraverso il linguaggio simbolico delle immagini, ma
soprattutto l'atto creativo in sé per sé. Riteneva infatti che creare un prodotto artistico
implica incanalare, ridurre e trasformare le esperienze interiori e può essere un atto di
sublimazione, interezza e sintesi. Benché non possa risolvere direttamente il conflitto,
36 Naumburg M. (1973), An introduction to Art Therapy, Teachers College Press, New York.
37 Kramer E. (1977), Arte come terapia nell'infanzia, tr. it., La Nuova Italia, Firenze.
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l'espressione artistica può mettere a disposizione uno spazio in cui manifestare e
sperimentare atteggiamenti e sentimenti nuovi. La visione dell'arte-terapia di Edith
Kramer è più profondamente radicata nel processo artistico, rispetto all'approccio di
Margaret Naumburg, centrato sul prodotto.
Altre figure hanno esercitato un'influenza importante negli sviluppi iniziali dell'arteterapia. Hanna Yaxa Kwiatkowska, che negli anni'50 e '60 lavorò al National Institute of
Mental Health, introdusse l'arteterapia nelle sedute di terapia familiare. Più tardi, negli
anni '60 e '70, Janie Rhyne ha usato l'espressione artistica per aiutare i clienti a
raggiungere l'autoconsapevolezza e la realizzazione di sé trovando soddisfazione nella
vita38. Grazie alle loro iniziative, negli anni '60 l'arte-terapia era ormai una pratica
pienamente riconosciuta. Contemporaneamente agli Stati Uniti, l'arte-terapia era stata
scoperta e studiata anche in Europa. Negli anni '40, l'inglese Adrian Hill aveva
sperimentato il potere curativo dell'arte durante un ricovero in sanatorio. Hill introdusse
per primo il termine di “arteterapia” al trattamento delle malattie fisiche ed emotive
basato sull'utilizzo dell'arte. Riteneva che l'arte alleviasse la monotonia della vita
ospedaliera e offrisse un senso di speranza a chi era colpito da una malattia39.
Edward Adamson era un artista inglese che lavorava con i pazienti in un ospedale
psichiatrico. Nel 1946 aveva messo a disposizione dei ricoverati un ambiente in cui
dipingere e “curarsi da soli”, convinto che l'attività artistica fosse un modo unico di
contribuire al proprio trattamento. Adamson pensava che le opere prodotte non
dovessero essere analizzate perché era convinto che parlassero da sole e testimoniassero
le qualità curative del processo creativo. Raccolse 60.000 fra dipinti e altri oggetti
prodotti da pazienti psichiatrici, che ora costituiscono la collezione Adamson40.
Un ospedale che ha contribuito in modo particolare all'affermazione dell'arte-terapia è la
Menninger Clinic di Topeka (Kansas), fondata nel 1925 dallo psichiatra Charles
Menninger con i due figli Karl e William. I Menninger erano convinti che l'arte
contribuisse alla guarigione delle malattie mentali e incoraggiarono nella loro clinica
numerose attività. Negli anni '30 introdussero l'arte-terapia, invitando l'artista Mary
Huntoon a tenere corsi, nei quali aiutava i pazienti a servirsi dell'arte per elaborare e
38 Rhyne J. (1995), The gestalt art experience, Magnolia, Chicago.
39 Hill A. (1945), Art versus Illness, Allen &Unwin, London.
40 Adamson E. (1990), Art as healing, Conventure, London.
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sfogare traumi e problemi psicologici. Artista e non psicologa, la Huntoon coniò il
termine di “arte-sintesi” per descrivere il processo di auto-scoperta vissuto da molti
pazienti nei suoi laboratori. Il valore terapeutico dell'arte risiedeva nel produrla, e non
nell'analisi dei significati simbolici o diagniostici41.
La Menninger Clinic ha continuato nei decenni seguenti a contribuire allo sviluppo
dell'arte-terapia. Diversi artisti hanno lavorato presso la clinica, tra cui Don Jones e
Robert Ault, che furono decisivi per la fondazione dell'American Art Therapy
Association nel 1969, organizzazione nazionale dei professionisti del settore, oggi
ufficialmente riconosciuti42.
41 Salina Art Center (1994), Beyond the Drawing Room. Tha art of Mary Huntoon, Salina Art Center,
Salina (Ks).
42 Cathy A. Malchiodi, Op. Cit., pp. 42-45.
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3. L'atelier
Ci sono atelier strutturati in modo ideale all'interno dei quali i percorsi di arteterapia
hanno luogo nelle condizioni migliori; in questi casi il clima che gli utenti respirano è
particolare e si differenzia dagli ambienti circostanti: anche chi entra per la prima volta
se ne accorge. L'ideale è un atelier fisso, dove tutto rimane uguale e ogni volta non
bisogna montare e smontare o aprire armadietti chiusi a chiave. Ogni arteterapeuta deve
fare il possibile per conquistarsi uno spazio che gli altri colleghi non usano e installare lì
l'atelier. Con questa possibilità esso diventa un luogo familiare che si arricchisce giorno
per giorno di cose belle riguardanti l'arte o la natura, come articoli, foto, ritagli, disegni,
carte che vengono appesi alle pareti o riposti sulle mensole a vista. Altrimenti
risulterebbe tutto un po' complicato perché ogni volta si dovrebbe ricreare lo spazio
protetto che predispone alla terapia. Tuttavia anche in quel caso non è impossibile
lavorare bene, ci vogliono solo un po' di pazienza e di tempo in più.
Per fare arteterapia non serve uno spazio troppo grande, basta un locale in cui possano
stare uno o due tavoli, dipende dal numero di partecipanti. I tavoli possono essere fissi
oppure variabili ed essere uno grande e uno piccolo per permettere un lavoro di gruppo,
ma offrire anche la possibilità di uno spazio riservato. La tovaglia disturba, è preferibile
un tavolo senza nulla che lo protegga o semplicemente una carta leggera. Se c'è una
buona fonte di luce solare è meglio, finestre che danno su un giardino per esempio sono
l'ideale, così si può anche uscire e sfruttare la natura come elemento evocativo per certi
lavori. L'arredo deve essere semplice ma sufficiente a garantire ordine. Servono spazi
per riporre gli elaborati degli utenti, essi infatti rimangono lì e nessuno li porta via se
non in casi eccezionali. Occorrono delle mensole su cui disporre i materiali secondo un
certo criterio: tutti quelli secchi, tutti quelli ad acqua, tutto il materiale riciclato e quello
naturale; i giornali e le riviste per i collage si tengono in un cesto a parte, invece
bicchieri di carta, piattini, barattoli di vetro, scotch, puntine, forbici, colla sono a
disposizione e a portata di mano in una grande scatola. I fogli si possono preparare già
tagliati in diverse misure e di diverso colore. Anche con i cartoni si può fare lo stesso
così da permettere eventualmente una scelta di supporti. Il materiale è tutto libero, in
modo che ogni persona possa sceglie cosa usare, anche se i fogli o altri supporti li
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consegna l'arteterapeuta così crea il primo contatto diretto con l'utente.
Si può mettere musica rilassante, popolare, portoghese o irlandese: questi generi sono
ideali per contribuire a creare un clima di concentrazione, anche se non è solo la musica
a favorire ciò. L'unione del gruppo può formarsi anche nel silenzio o semplicemente
nelle parole condivise. Prima che le persone arrivano, si preparano i tavoli, si
dispongono i materiali per essere a portata di mano, si riempiono i bicchieri di acqua per
lavorare con tempere e acquerelli, si ordinano la gamma dei colori nelle scatole di
pastelli e pennarelli, si temperano le punte e si ripone sul tavolo tutto ciò che potrebbe
servire con molta cura. In uno spazio curato è bello lavorare, l'ordine (non rigido) che si
respira aiuta a ricrearne uno interiore. La cura del materiale fa parte della terapia. Alla
fine si chiede di riordinare i materiali utilizzati per responsabilizzare e condividere il
senso di cura dello spazio. Se qualcuno non accoglie la richiesta non viene obbligato,
dipende dalla sua sensibilità e disponibilità del momento che sta vivendo43.
3.1. Cos'è il setting
Il setting è tutto ciò che in un atelier si sente, ma non si vede. E' l'ambiente che si crea,
lo spazio energetico in cui è possibile disegnare in una certa maniera perché ci sono le
condizioni ideali per farlo. Il gruppo ne fa parte come anche l'arteterapeuta. Il setting è
qualcosa di molto particolare che permette lo svolgimento della terapia.
In un atelier è importante creare questo stato nel quale le persone entrano e si sentono
bene. Può forse assomigliare all'atmosfera che si respira in certe situazioni, in certi
periodi dell'anno, in certi giorni particolari in cui la preparazione speciale
dell'ambientazione circostante crea le condizioni per le quali si riesce ad entrare nel
vivo della festa. Il setting è ciò che protegge il gruppo e nello stesso tempo permette
un'esperienza; l'arteterapeuta determina la creazione di questa atmosfera con i suoi
metodi, il suo talento nell'abbellire anche esteriormente lo spazio destinato allo
svolgimento dell'arte-terapia e con la buona energia nell'impostare la seduta. Il setting
non è solo una questione estetica, contiene molti elementi che si possono sentire e
43 Raffaella Molteni, Op. Cit., pp. 30-31.
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riconoscere anche a livello relazionale e affettivo44.
3.2. L'arteterapeuta
L'arteterapeuta si muove come una “maschera” nell'atelier. Organizza lo spazio
preparando il locale preoccupandosi di controllare che ci sia tutto il materiale necessario
prima che arrivino gli ospiti e mantenendo un buon ordine. Dà un'impostazione
personalizzata seguendo il metodo che ritiene migliore tenendo conto delle persone con
cui deve avere a che fare. Quando arriva il gruppo è capace di accogliere in modo aperto
le persone che in un certo senso si affidano a lui e sempre a lui fanno riferimento. La
sua disponibilità verso chi sta disegnando mantiene un'atmosfera ideale, calma e
pacifica, in più la sua presenza deve essere discreta, perché un'arteterapeuta competente
non si pone come figura protagonista. Egli induce l'espressione di sé negli altri: la
verbalizzazione opportuna, gli stimoli visivi che dà mostrando ritagli di giornale,
immagini, foto, insomma il suo intervento indiretto e ben calibrato lo pone in una
condizione distaccata dagli utenti. La relazione che si crea deve mantenersi il più
possibile una relazione terapeutica. Il mezzo che unisce le due parti (terapeuta-paziente)
rimane sempre il prodotto grafico, il linguaggio usato è quasi esclusivamente quello
delle immagini e, in questo contesto e con queste regole, si creano legami. Essi
rinforzano entrambe le parti e danno risultati benefici sia al paziente che al terapeuta.
Questi impara a riconoscere le persone dai loro manufatti perché ogni persona ha uno
stile che lo caratterizza, ognuno ha il suo stile personale e unico.
Importante è soprattutto il lavoro dietro le quinte. Nel silenzio dell'atelier, quando il
gruppo è andato via, l'arteterapeuta in solitudine con le cartelle degli utenti cerca di
decodificare dei percorsi e, prendendo una cartella per volta, dispone a terra tutti i
disegni che essa contiene e li osserva attentamente. Li raggruppa per temi, per tecniche,
per contenuti e in essi vi legge la storia stando però molto attento a non darne una sua
interpretazione. Trova un ingresso, si pone domande e attende che le risposte emergano
dal contenuto stesso delle opere. Cerca di individuare la via migliore da indicare
all'utente, affinché il suo percorso grafico possa continuare sempre di più in una
44 Ivi, pp. 31-32.
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direzione introspettiva che riconduca la persona a se stessa, alla sua anima, al suo corpo,
al suo vissuto con un senso rinnovato45.
3.2.1.
La «concessione del permesso»
Frasi che si sentono molto spesso da persone alle quali viene proposta l'idea di fare un
lavoro artistico possono essere: «Non sono mai stato portato per le materie artistiche»
oppure «Sono assolutamente negato per il disegno». Con queste affermazioni si
comunica il fatto che, per molti, l'unica esperienza personale di creazione artistica risale
ai tempi della scuola e che quell'esperienza è stata, nella maggioranza dei casi,
umiliante, imbarazzante, vincolante o semplicemente noiosa. Questo esclude coloro che
sono naturalmente portati per le materie artistiche, per le quali generalmente l'arte è
stata fin dall'infanzia fonte di piacere. E' quindi necessario che l'operatore di un gruppo
comprenda la paura degli utenti di sentirsi imbarazzati di fronte agli altri e cerchi di
mettere le persone a proprio agio incoraggiandole ad esprimere le proprie abilità
creative naturali. Questo processo può essere visto come la concessione del permesso.
La concessione del permesso può avvenire quando qualcuno lo concede a sé stesso
oppure è l'operatore che concede il permesso al gruppo:

Creando uno spazio in cui i partecipanti possono esprimere le proprie paure;

Spiegando chiaramente che l'approccio alla creazione artistica che si vuole
proporre è molto diverso dal modo convenzionale sperimentato ai tempi della
scuola. E' necessario sottolineare che: il gruppo deve focalizzarsi sull'uso
dell'arte come mezzo di espressione del sé; non viene espresso nessun giudizio
sul lavoro; ciascuno attribuisce un significato al proprio lavoro; ci sono molti
modo di fare arte (astratta-figurata) e nessuno può imporre come dovrebbe
avvenire la creazione.

Ricordando ai partecipanti che i colori, le forme, ecc. possono essere usati per
esprimere sentimenti e stati d'animo.

Discutendo brevemente le associazioni con i colori, secondo i gusti personali e
collettivi.
45 Raffaella Molteni, Op. Cit., pp. 32-33.
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L'attività artistica è prevista all'interno di un tempo e di uno spazio creati apposta per
dare dei confini. Il conduttore deve impartire chiare istruzioni sui temi e sul tempo
destinato al lavoro e assicurarsi che siano disponibili materiali protettivi adeguati in
modo che i partecipanti non si debbano neanche preoccupare di sporcarsi i vestiti.
Il rispetto per la propria produzione creativa ha origine principalmente nel modo in cui
il lavoro viene recepito. Il tempo dedicato a riflettere e magari discutere sull'attività
svolta aiuta anche ad incoraggiare i partecipanti a impegnarsi di più.
Quando le persone hanno la sensazione che le loro preoccupazioni riguardo all'attività
artistica siano state ascoltate e che il lavoro proposto sia accessibile, generalmente
scelgono di rischiare di provare a vedere che cosa può succedere46.
3.3. L'arte nel lavoro di gruppo
Esiste una letteratura molto ricca sia sulla natura dei gruppi, sul modo in cui le persona
si comportano al loro interno e sui motivi alla base di tali comportamenti, sia sugli
approcci all'attività terapeutica, di riabilitazione ed educativa di gruppo. E' importante
rilevare le caratteristiche generali della vita di gruppo in modo che risulti evidente come
l'attività artistica possa influire sulla vita di gruppo e viceversa.
La comunicazione e le relazioni possono essere verbali o non verbali e possono
includere il linguaggio del corpo.
L'importanza dell'attività artistica in gruppo sta nel fatto che un oggetto o più oggetti
vengono creati all'interno della vita del gruppo stesso. Il modo in cui il lavoro viene
svolto, il suo contenuto (riconosciuto o ignoto), il modo in cui esso viene recepito e
usato influiscono su tutti i livelli di interazione, di relazione e di comunicazione.
L'opera concreta e visibile che viene prodotta è vista dai membri: l'attenzione del
gruppo direttamente stimolata dalle immagini prende visione e si concentra su
argomenti e questioni specifici.
L'attribuzione ad una forma di aspetti della nostra vita psicologica e ai modi in cui
interpretiamo il mondo consente una più rapida apertura ed esplorazione di essi. Inoltre,
capita spesso che in un breve intervallo di tempo si venga a creare un forte senso di
46 Jean Campbell (1996), Attività artistiche in gruppo. Disegno, pittura, collage, scultura. Edizioni
Erickson, Trento.
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identità del gruppo47.
Principali funzioni dei gruppi
A prescindere dall’orientamento di base del gruppo terapeutico, alcune funzioni sono
presenti in ciascuna terapia di gruppo. Secondo Yalom48, i fattori terapeutici generali
validi per tutti gli approcci di gruppo sono:
- universalità: il paziente trae beneficio dal rendersi conto che tutti i suoi sintomi
possano essere condivisi;
- acquisizione di nuove informazioni: la pluralità che caratterizza il gruppo è fonte
inevitabile di notizie e chiarimenti sui problemi condivisi;
- instillazione di speranza: il farsi coraggio vicendevole mobilita l’ottimismo tra i
partecipanti e la sensazione di potercela fare;
- cambiamento del copione familiare: il gruppo consente la messa in scena, attraverso
un delicato gioco di transfert e contro-transfert, di vecchi drammi familiari, che con la
presenza esperta del terapeuta possono essere rivisitati e cambiati al fine di raggiungere
migliori livelli di benessere;
- altruismo: i partecipanti al gruppo sperimentano l’importante vissuto di essere non
solo bisognosi ma anche competenti e in grado di soddisfare richieste altrui, attraverso
le loro indicazioni o suggerimenti;
- sviluppo di tecniche di socializzazione: il gruppo svolge una fondamentale funzione
di specchio. I partecipanti attraverso feedback e risposte aiutano e sono aiutati
nell’acquisizione di una più accurata auto-percezione. La nuova consapevolezza è alla
base per un successivo cambiamento di interazione sociale;
- comportamento imitativo: ogni paziente ha la possibilità di osservare e prendere a
modello gli aspetti positivi del comportamento degli altri partecipanti e del terapeuta;
- apprendimento interpersonale: ogni partecipante deve attraversare diversi stadi. In
primo luogo è indispensabile rendersi conto delle proprie modalità di interazione sociale
e delle conseguenze che esse hanno sugli altri e su se stesso, quindi, deve modificare tali
modalità, attraverso la sperimentazione, nel gruppo, di nuovi comportamenti e infine
47 Ivi, p 20.
48 Invrin D. Yalom, Leszcz Molyn (2009), Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Boringhieri.
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deve verificare se essi risultano effettivamente più adeguati e rispettosi per tutti;
- coesione di gruppo: i partecipanti sperimentano la sensazione che qualcosa di
importante sta per avvenire all’interno di un contesto protetto e accogliente. La coesione
di gruppo altro non è che la percezione dell’esistenza di un setting o un contenitore le
cui “pareti” sono formate dai vari membri e dalla loro voglia di far parte del gruppo;
- catarsi: il contesto di gruppo sviluppa la potenzialità liberatoria attraverso
l’immedesimazione nell’altro e nelle sue problematiche;
- fattori esistenziali: non costituiscono di per se un fattore di cambiamento ma una
consapevolezza necessaria affinché gli eventi avversi della vita possano essere vissuti
con meno drammaticità. Essi comprendono la responsabilità, la solitudine, il senso
dell’esistenza, la morte49.
Il lavoro in gruppo presuppone il concetto di cambiamento e quindi porta verso il futuro. Insieme agli
altri, la persona rivive momenti dolorosi e pesanti, ma il fatto di non essere sola crea un contesto che gli
permette di superare queste difficoltà. All'interno del gruppo le aspettative e i legami che si creano
conducono a buoni risultati50.
3.3.1.
Gli obiettivi del percorso
Questo percorso grafico va al di là della terapia occupazionale. Si lavora sulle strutture
della persona, sulla sua capacità creativa attraverso il lavoro parallelo della
riorganizzazione estetica.
Ogni essere umano ha uno sviluppo grafico più o meno traumatizzato. Quando la
persona riesce a compiere il cammino dell'arte interrotto a un certo punto della sua vita,
ma ripreso dove c'è stata l'interruzione o il blocco, scopre il proprio stile personale. In
un primo tempo si verifica la liberazione regressiva: non si creano figure simboliche,
ma scarabocchi e macchie rappresentano l'esplorazione dei materiali vissuta come
esperienza positiva ed empatica. In un secondo tempo si sperimenta il caos attraverso il
49 Katia Carlini, La terapia di gruppo, http://www.benessere.com/psicologia/arg00/terapia_gruppo.htm,
Aprile 2014.
50 Jean Campbell, Op. Cit., p. 43.
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rovesciare i colori, il pestare, gli spruzzi. Sono comportamenti distruttivi da parte della
persona che favoriscono o esprimono la perdita di controllo, le manovre difensive, la
scarica dell'aggressività e che poi vengono superate. Successivamente, ci si può
nascondere dietro la ripetizione stereotipata di soggetti: temi, colori, stili e produzioni
banali o convenzionali sono tutte difese in atto. Seguono le pittografie, cioè quei
disegni che servono a creare un'intesa fra il paziente e l'arteterapeuta. Si tratta di una
comunicazione figurativa che sostituisce o integra la parola, un codice che difficilmente
è comprensibile a estranei. E' una comunicazione frequente nella psicoterapia e nei
rapporti molto stretti. Finalmente si giunge all'espressione personale che ha lo scopo di
comunicare.
L'impressionismo, il cubismo, il surrealismo sono stili usati dai pittori durante il corso
della storia dell'arte. Anche in arteterapia si parla di stili particolari adottati dagli utenti
che descrivono il mondo interno o la propria visione di quello esterno. L'utilizzo di certi
stili per l'esecuzione delle opere costituisce il processo terapeutico.
Il codice dell'arte-terapia considera anche come linguaggio per la decodifica lo spazio,
le forme, cosa c'è lontano, cosa c'è vicino, la spigolosità, la rotondità, la distanza tra
artista e soggetto, il campo visivo, cioè il supporto cartaceo. Il foglio, infatti, è uno
spazio importante da saper riconoscere: rappresenta il campo visivo per eccellenza, la
scelta di questo campo visibile è la prima variante ed è variabile. Il supporto cartaceo è
un campo di forze, esso infatti si può interpretare a seconda di come viene riempito; se è
vuoto può significare solitudine, se è pieno può indicare dinamicità, la dimensione
scelta invece può rispettare semplicemente la dimensione personale e il bisogno di
aprirsi o la necessità di chiudersi.
Per un'arteterapeuta parlare di mondo interno ed esterno è quasi la normalità. Il mondo
interno sono le emozioni che stanno dentro il soggetto, sono i lavori di sublimazione e
catarsi, raccontano episodi della memoria, la riparazione di qualcosa del passato,
parlano di nostalgia, di qualcosa che è scomparso e che viene riportato alla luce. C'è
qualcosa di magico nel disegno oppure un paradiso artificiale che crea e porta in un
mondo di illusioni. Attraverso la rappresentazione del mondo esterno si cerca di stabilire
una relazione e lo si riconosce dai disegni; il prodotto eseguito dà autostima e
gratificazione, chi lo fa cerca di ricostruire la propria identità nel presente o di riscoprire
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la realtà mediante l'ambiente o la figura umana per stabilire con essi dei contatti51.
3.4. La strutturazione dell'incontro
3.4.1.
L'avvio e il riscaldamento
I nuovi gruppi possono iniziare l'attività con il benvenuto e l'autopresentazione dei
partecipanti. Il conduttore è il primo che si presenta al gruppo dando soprattutto
informazioni sulla sua formazione professionale. Successivamente si condividono la
descrizione del percorso e le aspettative che ognuno ha in modo da iniziare a lavorare
per creare il gruppo. Se invece il gruppo non è al primo incontro, si può dedicare del
tempo ad ascoltare i commenti di ciascuno sulle sedute precedenti e cos'è successo
nell'intervallo tra di esse. Gli esercizi di riscaldamento possono servire a preparare il
gruppo all'esercizio principale, a ridurre la tensione e a focalizzare meglio la loro
attenzione. Questi esercizi possono prevedere uno stretching dolce degli arti e del collo,
un po' di Yoga e del training autogeno.
Qualunque sia la tipologia del gruppo è sempre consigliabile il riscaldamento iniziale
per aiutare a raggiungere il livello di tranquillità e relax necessari per una buona
esecuzione del lavoro.
3.4.2.
L'esercizio principale
A questa fase deve essere dedicato il tempo sufficiente dal momento in cui è la parte più
importante dell'incontro. E' utile avere ideato un programma da seguire ma, se dovesse
essere necessario, in base alle esigenze del gruppo, bisogna essere pronti anche a
modificare il programma o perfino abbandonarlo.
I gruppi costituiti per attività di svago possono lavorare su temi specifici qualora non
abbiano dei suggerimenti da proporre. Il conduttore, con poche parole ma chiare, deve
spiegare al gruppo l'attività che gli propone. Bisogna ricordare che il modo di affrontare
il tema proposto è sempre molto personale e soggettivo.
51 Raffaella Molteni, Op. Cit., pp. 54-56.
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Quando il gruppo opera per l'esecuzione del mandato calandosi nella creazione artistica
dell'opera, tende a lavorare in silenzio. Questo perché i partecipanti si ritagliano il loro
spazio interno ed esterno venendo assorbiti dalla loro stessa opera. Il silenzio deve
essere assolutamente rispettato.
Se il conduttore nota che qualcuno, per qualsiasi ragione, si è “bloccato” durante
l'esecuzione del lavoro deve aiutarlo a dire cosa non va e rassicurarlo. Può proporgli dei
materiali nuovi o addirittura fare una piccola pausa.
Più i membri del gruppo lavorano spontaneamente, più bisogna essere preparati
all'imprevisto: Come nei sogni, infatti, l'artista può manifestare aspetti del proprio
inconscio. Questo avviene quando si lavora soprattutto su esperienze di vita o quando
emergono particolari immagini, forme e colori. Se si tratta di un gruppo con delle
problematiche particolari, l'operatore deve sempre aver chiaro cosa sta succedendo alle
persone singole e al gruppo nel complesso per poi intervenire in modo adeguato.
Affinché tutti possano misurare il proprio ritmo di lavoro, è utile ricordare a intervalli
regolari quanto tempo hanno ancora a disposizione.
Dopo l'esercizio principale oppure anche a fine incontro, si chiede di riordinare i
materiali utilizzati. Per i gruppi con esigenze particolari saranno necessari tempi di
preparazione e riordino più lunghi.
3.4.3.
Discussione e feedback
La discussione e il feedback costituiscono una parte integrante nell'ambito di un gruppo
focalizzato sulle attività artistiche. In generale, tuttavia, non si dovrebbe mai costringere
nessuno a discutere del proprio lavoro davanti al gruppo sia per rispetto dei tempi e
spazi della persona ma anche perché a volte è sufficiente la sola realizzazione del
prodotto.
In genere, è necessario riservare del tempo per la riflessione, la sintesi e il feedback del
gruppo, che può commentare com'è stata l'esperienza dicendo, per esempio, se le sue
aspettative sono state soddisfatte.
Inoltre, mediante la riflessione e la discussione, si possono analizzare molti aspetti della
pittura, dei disegni e del lavoro tridimensionale, come l'uso del colore, il ritmo, lo
spazio, le forme e il contenuto simbolico dell'opera. Quando si lavora con un gruppo
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stabile a volte è possibile distinguere un linguaggio visuale personale che presenta
motivi e immagini ripetute.
L'uso dell'arte nel lavoro di gruppo, oltre a permettere l'esplorazione personale nel
momento della discussione, consente l'identificazione del gruppo con l'opera intera o
con parte di essa e la possibilità che la creazione di qualcuno esprima un particolare
significato per un altro.
Nella maggioranza dei casi, la cosa più importante è quella che l'artista ha da dire sul
proprio lavoro, ma questo non diminuisce l'importanza del contributo dei partecipanti
alla discussione. Spesso, infatti, quello che gli altri scelgono di osservare o dire sul
lavoro del compagno, riflette i loro interessi o le loro preoccupazioni.
Parlandone al gruppo, in ogni caso, i singoli aumentano la propria conoscenza del
processo creativo e la fiducia i sé stessi.
L'attività creativa non deve esaurirsi nella realizzazione di un'opera artistica; per
esempio, con la libera associazione di immagini si possono aprire nuove vie di
esplorazione di sé stessi oppure giocando con le immagini, si può scatenare la fantasia
del gruppo.
3.4.4.
Conclusione dell'attività e scioglimento
del gruppo
Il modo in cui gli incontri terminano è importante tanto quanto il modo in cui vengono
avviate. Sia che il gruppo sia continuo, specifico o intensivo, finalizzato all'arteterapia,
alla formazione personale o allo svago, lavorare con la creazione spontanea di immagini
crea un momento speciale in cui le persone condividono aspetti intimi di sé stesse e, per
questo, possono diventare molto affiatate.
Può essere opportuno far riassumere ai partecipanti quello che hanno fatto durante
l'incontro, trarre le conclusioni e magari creare un rituale di congedo del gruppo52.
Nella maggioranza dei gruppi di terapia sarà l'operatore a conservare le opere prodotte
per poterle esaminare e valutare anche a gruppo terminato. Nei gruppi ludici, invece,
52 Ivi., pp. 35-38.
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sono i partecipanti stessi ad occuparsi del proprio lavoro. Da ricordare di scrivere
sempre la data e il nome dell'artista sul lavoro corrispondente alla fine di ogni seduta.
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4. L'autoritratto
4.1. Non solo psicologia ...
Partiamo da una premessa ovvia ma essenziale. Occuparsi dell'autoritratto da un punto
di vista psicologico è diverso che occuparsene da un punto di vista storico-artistico o
estetico, nel senso che l'oggetto stesso della ricerca è diverso, in quanto molti elementi
che sono importanti nella prospettiva storico-artistica non lo sono altrettanto in quella
psicologica, e viceversa.
Ciò non ci deve far dimenticare che, come ogni prodotto artistico, anche l'autoritratto
può e deve venir letto all'interno del suo specifico orizzonte di riferimento, quello della
storia dell'arte e quello delle sue tradizioni. La dimensione psicologica è un elemento
accessorio che però, nel caso dell'autoritratto e delle sue dinamiche, assume un ruolo
oggettivamente importante. Tuttavia si ha a volte la tentazione di proiettare sul passato
interpretazioni e pensieri che appartengono al momento contemporaneo, caricando ogni
autoritratto di valenze retrospettive che molto probabilmente non gli appartengono. Si
pensa che una data rappresentazione induce immediatamente interessi e aspettative che
sono appunto della psicologia più del fruitore che dell'artista stesso. Nel passato, molti
autoritratti hanno avuto origine sia da ragioni contingenti (per esempio, la mancanza di
modelli) sia da intenzioni prevalentemente interne al mondo dell'arte: esigenze
estetiche, poetiche o tentazioni di adeguarsi ai modelli precedenti. Fanno parte di questa
tipologia, autoritratti d'autore in cui il pittore si autoraffigurava proprio in veste di
pittore. Queste opere rispondono all'esigenza di testimoniare le varie tappe della carriera
del pittore, dove la serie degli autoritratti seguono l'evoluzione del modo in cui egli
cerca di affermarsi come artista, di essere accettato o ammirato dagli altri artisti, dalla
critica o dal pubblico. L'opera diventa allora la proiezione all'esterno del modo in cui
l'artista ritiene di essere visto o di dover essere visto. In questo caso l'autoritratto riguarda gli altri, o per meglio dire, riguarda la relazione che ha l'autore con gli altri. Si
pensi a certi autoritratti di Holbien, Durër, Velàzquez, per non parlare di quello
famosissimo di Poussin del 1650 (museo Louvre, Parigi), che è una specie di teoria
della rappresentazione stessa.
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In questi casi sarebbe fuorviante far prevalere l'analisi psicologica, anche se certamente
non si possono escludere implicazioni profonde, di cui non sempre l'autore era
consapevole. Il fatto è che l'autoritratto in sé, soprattutto per la durata della sua
creazione, per il tempo che obbliga l'autore a stare con sé stesso, a contemplarsi, a
confrontarsi con la propria immagine allo specchio e a riflettere, non può non avere una
ricaduta psicologica sull'Io e sul senso di identità. Ciò vale, seppur con gradi di
consapevolezza diversa, in ogni epoca e in ogni contesto, anche se è vero che l'età
moderna e contemporanea hanno fornito agli artisti schemi concettuali e modelli
espressivi più consoni a questo tipo di valutazione53.
4.2. Non solo autoritratti di artisti ...
Un problema essenziale della psicologia dell'autoritratto che inevitabilmente lo storico
dell'arte o l'estetologo trascurano è quello del rapporto di ogni uomo con la propria
immagine, al di là che egli si faccia o meno l'autoritratto.
In fondo, coloro che sanno effettivamente autoritrarsi sono solo un'esigua minoranza
quindi non ci si può occupare solo di autoritratti di artisti. Se l'autoritratto corrisponde a
un bisogno profondo, questo bisogno sarà comune a tutti gli uomini e non solo agli
artisti.
Resta poi il problema, se e fino a che punto, questo bisogno profondo sia da considerarsi
originario
e
si
possa
parlare
dunque
di
una
vera
e
propria
pulsione
dell'autorappresentazione. Occorre tener conto che si tratta di qualcosa che riguarda
l'uomo 'adulto' e 'normodotato', in quanto, sia nel bambino che in molte persone con
difficoltà fisico e mentale l'esigenza di autorappresentarsi non si traduce nell'immediata
e diretta riproduzione della propria figura, ma è preceduta da rappresentazioni spostate
su altri oggetti o situazioni.
Gli artisti comunque sono senz'altro testimoni privilegiati di questa pulsione dell'uomo
all'autorappresentazione e, come si raccomandava Freud, la loro testimonianza va
sempre tenuta in attenta considerazione. Ma si tratta di testimonianze a volte un po'
interessate, infatti, occuparsi dell'autoritratto da un punto di vista psicologico significa,
53 Stefano Ferrari (2002), Lo specchio dell'Io, autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari.
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innanzitutto, cercare di cogliere l'essenzialità, l'elementarità del gesto che compone la
sua formazione: rintracciare un livello più generale.
Naturalmente l'artista è un uomo come tutti gli altri, anzi è l'uomo che meglio interpreta
bisogni che sono di tutti e che meglio interpreta anche questo bisogno di
autorappresentazione. Per cercare il livello generale bisognerebbe eliminare tutte le
sovrastrutture che l'essere artista comporta. Ma che senso ha liberare l'artista dalla sua
arte? E l'arte non è poi essa stessa una delle più dirette manifestazioni dell'essere uomo?
In realtà, essa induce a riformulare più appropriatamente quelle domande che l'uomo si
pone magari in modo confuso e approssimativo. Quindi non si può prescindere dall'arte,
perché anzi, proprio attraverso l'arte, la dinamica dell'autoritratto diviene più chiara e
completa.
Un'utile prospettiva potrebbe essere quella di privilegiare modelli di espressione
artistica, per così dire, ingenui, ascrivibili in senso lato all'Art Brut. Sul piano
metodologico, questi modelli sarebbero omologhi alla «scrittura privata dell'Io»54 che
Ferrari si occupa nel suo studio sulla riparazione. L'autore partiva dal presupposto che
certi meccanismi psichici, in questo tipo di scrittura, si rivelano in modo più esplicito,
consentendone dunque un'analisi più dettagliata. Christian Delacampagne ha notato che
in molte delle opere figurative cosiddette Brut vi è una forte tendenza
all'autorappresentazione che fa pensare ad un problema relativo all'identità.
"Gli artisti brut sarebbero più degli altri angosciati riguardo alle loro origini? Una tale idea è stata
giustamente contestata: l'autoritratto non è soltanto l'espressione di pulsioni marginali, è anche uno dei
più grandi generi dell'arte accademica. Infatti, non vi è praticamente pittore che appartenga 'all'arte
acculturata' che non vi si sia cimentato. Una visione più interessante della questione starebbe dunque nel
dire che gli artisti ufficiali sono, per quanto concerne la loro identità, altrettanto angosciati degli artisti
cosiddetti brut e che l'autoritratto risponde, presso gli uni come presso gli altri, a questa stessa angoscia:
la sola differenza sarebbe allora che, in un caso, l'affetto è relativamente ben canalizzato secondo le
norme ufficiali, mentre nell'altro esplode più o meno liberamente. Naturalmente si possono ritrovare tutti i
gradi intermedi fra questi due poli55.
Resta il fatto che l'artista, soprattutto se ha un alto grado di consapevolezza critica,
54 Stefano Ferrari (1994), Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicoanalisi. Laterza,
Roma-Bari.
55 Christian Delacampagne (1983), Regards, miroirs, rêverie, in L'Autoportrait, in «Corps écrit», p. 148.
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dovendo tener conto di norme, canoni e tradizioni, non è completamente libero per
quanto riguarda i contenuti e i modi della sua arte. Ma anche questo può avere a sua
volta una ricaduta psicologica. Per esempio, nel caso di molti autoritratti è
predominante il confronto con modelli del passato, con i quali l'autore instaura un
rapporto di problematica identificazione. Non possono sfuggire le oggettive valenze
psichiche di questa dialettica tra conflittualità e imitazione che caratterizza questo
genere particolare di relazione con il 'padre', a proposito del quale H. Bloom ha
esplicitamente parlato di «angoscia dell'influenza56»57.
4.2.1.
Autoritratto come autoproiezione
Non tutti gli artisti amano autoritrarsi, e per ciascuno di loro questo tipo di
rappresentazione ha poi un significato particolare. Senza contare che ci sono
'l'autoritratto esplicito', che l'autore stesso definisce tale, e la semplice 'autoproiezione',
che comprende anche l'autoritratto nascosto tra altre figure.
Quest'ultimo sta storicamente all'origine dell'autoritratto vero e proprio, quando ancora
non c'erano le condizioni storiche, sociali e culturali perché l'artista potesse
autorappresentarsi in modo diretto, facendo liberamente della propria immagine
l'oggetto esclusivo della sua opera.
Secondo Cicerone, il primo esempio è stato quello di Fidia, che si sarebbe autoritratto
nella figura di Dedalo sullo scudo di Minerva. Viene citato anche il caso di Fratello
Rufilus, minatore, che si è autorappresentato all'interno dell'iniziale R in una miniatura
del XII secolo58. Abbastanza frequente è l'autoritratto celato nell'opera, dove l'artista si
raffigura tra i santi, oppure tra i volti anonimi degli astanti, in un angolo della
composizione: è il caso di Giotto nell'affresco del Giudizio Universale nella
controfaccia della Cappella degli Scrovegni a Padova (1305-1310 ca.), di Filippo Lippi
nella pala dell'Incoronazione della Vergine agli Uffizi (1441- 1447 ca.), di Signorelli
negli affreschi della Cappella Nova nella Cattedrale di Orvieto (1499- 1502). Altre volte
invece l'artista si nasconde tra i personaggi più eminenti, come fa Masaccio negli
56 Harold Bloom (1983), L'angoscia dell'influenza. Una teoria della poesia. tr. it. Feltrinelli, Milano.
57 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., pp.4-7.
58 V. I. Stoichita (1998), L'invenzione del quadro, tr. it. Il Saggiatore, Milano, p.203.
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affreschi della Cappella Brancacci di S. Maria del Carmine: secondo la tradizione egli si
sarebbe raffigurato nell'apostolo Tommaso nel Tributo, del 1426; ma è più probabile che
l'autoritratto vero sia quello della Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in
cattedra, del 1427, sempre nella Cappella Brancacci.
'L'autore mascherato' è la modalità di autotemetizzazione più diffusa nell'arte del basso Medio Evo e del
Rinascimento. Il pittore recita la parte di un personaggio presente in una historia […]. Nella maggior
parte dei casi l'autoritratto è identificabile, in quanto tale, per via di indizi pertinenti alla retorica stessa
dell'immagine: guarda in direzione dello spettatore, occupa talvolta un posto privilegiato e/o isolato,
presenta una fisionomia ben caratterizzata e così via 59.
Una compiaciuta e matura consapevolezza di sé dimostra a sua volta Lorenzo Ghiberti,
che nel 1452 firma il suo capolavoro autoraffigurandosi nella Porta del Paradiso del
Battistero di Firenze. Celebre poi il caso di Raffaello, che si autoritrae nella Scuola di
Atene (1508- 1511, Vaticano, Stanza della Segnatura) fra il gruppo dei filosofi e dei
pensatori: in questo egli celebra sé stesso come pittore; è un modo per ribadire che la
pittura ha raggiunto uno stato che la pone alla pari delle altre arti liberali.
Stoichita parla poi dell'autoritratto 'da visitatore' che, rispetto all'autoritratto mascherato,
segna un passo avanti sulla via della coscienza di sé nell'inserimento autoriale. L'artista non prende a
prestito né i vestiti né la maschera di uno dei personaggi; si presenta come un corpo estraneo alla storia al
cui interno penetra, per così dire, per effrazione. […]
Nel 'Martirio di diecimila cristiani' (1508, Vienna, Kunsthistorisches Museum) nel mezzo del massacro, al
centro del quadro, nel cuore stesso della scena, ma in uno spazio lasciato libero, si possono riconoscere
due figure in abiti borghesi cinquecenteschi. Sono il pittore in persona e un suo amico60.
Non va dimenticato infine
l'inserimento contestuale dell'autore, in cui l'artista figura all'interno della propria opera non in veste di
'personaggio' o di 'visitatore', bensì come 'ritratto'. L'esempio più eloquente a questo proposito ci viene
dall'autoritratto di Perugino al Cambio di Perugia (1496). In un angolo di questo grande ciclo di affreschi
l'artista colloca la propria effigie in un 'quadro'. Trattasi dunque di un 'trompe-l'oeil'61.
59 Ivi, p. 204.
60 Ivi, p. 205.
61 Ivi, p. 207.
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Queste forme di autoproiezione sono allora un modo che consente all'artista di essere
presente dentro la sua opera, al di là delle convenienze e delle convezioni; un modo per
firmare il proprio lavoro, imprimendovi un segno di appartenenza inoppugnabile, e un
modo per testimoniare la propria presenza all'interno degli avvenimenti descritti62.
4.2.2.
Autoritratto come travestimento
C'è in generale negli artisti una quasi innata tendenza al travestimento che si riallaccia
ad un profondo bisogno dell'uomo di essere e sperimentare tutto, come ne parla Freud in
alcuni suoi saggi.
Un esempio travolgente di questa concezione titanica dell'arte è quella di Pablo Picasso,
che ha rappresentato un'autentica forza della natura e l'incarnazione della più solare e
positiva creatività. Nel suo caso, l'autoritratto non rientra nell'orizzonte dell'analisi
introspettiva, dello scavo interiore, del bisogno ossessivo di studiarsi o dell'angosciosa
scoperta dell'altro in sé e quindi la perdita dell'identità. In Picasso c'è il bisogno opposto
di inventarsi, di riconoscersi in personaggi sempre nuovi, insomma di diventare l'altro;
questa dimensione non lo spaventa affatto, anzi, diviene una delle ragioni della sua arte.
Picasso vuole riconoscersi ed essere riconosciuto in questa molteplicità che non è una
frammentazione o lacerazione bensì moltiplicazione dell'Io: io sono questo, e questo, e
quest'altro ancora. Il che presuppone che al centro di tale processo psichico si trovi un
Io plastico e molto ben strutturato63.
4.2.3.
Autoritratto mentale
La maggior parte degli autoritratti veri e propri mirano ad una discreta somiglianza
fisiognomica; ma ve ne sono altri che, senza venir meno al principio
dell'autoraffigurazione fisica, vogliono essere soprattutto l'espressione di un'emozione,
di un sentimento, di un affetto.
62 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., pp.8-10.
63 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 14.
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Marc Chagall produce molte opere a proposito come Il pittore davanti alla chiesa di
Vitesbsk (1914, collezione privata) oppure L'Autoritratto con smorfia (1924-1928,
Parigi). In questi casi il pittore vuole rappresentare il suo stato d'animo e non la sua
faccia e perciò spesso questo genere di autoritratto non è particolarmente somigliante.
Il pittore cinese, Yang Shaobin, propone nei suoi lavori l'esigenza dell'autoritratto
mentale: l'artista non vuole rappresentare il suo volto, ma vuole dare un volto alla sua
anima, al suo mondo interno, al suo stato mentale. Ci troviamo quindi di fronte a un
autoritratto come espressione e oggettivazione della psichicità dell'autore, un
autoritratto che tuttavia assume contorni precisi, i quali possono più o meno coincidere
con la fisionomia del suo volto. In questi casi il criterio fisiognomico è secondario, ma
non assente. Si tratta della proiezione sulla tela di uno stato mentale o di uno stato
d'animo ma all'interno di una cornice dove il tratto fisiognomico resta perfettamente
riconoscibile. Basta pensare all'autoritratto di Francis Bacon che è destinato a contenere
l'autoritratto mentale ma con il disegno del volto riconducibile all'immagine reale, come
se non si potesse scindere un'idea di identità che ha comunque nel volto il suo centro di
riferimento64.
4.2.4.
Autoritratto come negazione di soggettività
Un'altra situazione è quella di un autoritratto fisiognomicamente molto somigliante, ma
la cui valenza fondamentale non è psicologicamente quella di un'autorappresentazione.
L'artista si serve cioè del proprio corpo e del proprio viso per esprimere concetti,
condizioni, tematiche che hanno nulla o poco a che fare con la propria persona. L'arte
contemporanea è ricchissima di opere del genere, come ad esempio, i quadri di Magritte
oppure, in ambito fotografico, i lavori di Andy Warhol, che a un certo punto fa della sua
faccia una semplice icona, un'immagine di consumo, al pari del viso di Marylin Monroe
o della scatoletta della zuppa Campbell. Alla base di questa espropriazione della
soggettività dell'autoritratto ci possono essere a volte ragioni puramente contingenti
come per esempio la mancanza di altri modelli. L'autoritratto sarebbe cioè utilizzato
dall'artista semplicemente come mezzo più pratico e più economico di esprimere la
64 Ivi, p.16.
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propria creatività. Spesso sono gli artisti stessi a dare credito a questa tesi. Lo fa per
esempio Van Gogh in una lettera dove dice:
Ho comprato apposta uno specchio abbastanza buono per poter lavorare al mio ritratto in mancanza di
modelli, perché se arrivo a poter dipingere il colore della mia testa, il che non presenta poche difficoltà,
riuscirò anche a dipingere le teste dell'altra brava gente 65.
A sua volta Bacon afferma:
Ho fatto molti autoritratti, è vero, perché attorno a me la gente è morta come mosche e non mi restava da
dipingere nessun'altra persona. Io detesto il mio viso e ho fatto degli autoritratti per mancanza di altri
modelli. Ma ora smetterò di fare autoritratti. Amo dipingere persone belle, perché amo una buona
corporatura. Detesto il mio viso ma continuo a dipingerlo. E' vero che... Ogni giorno nello specchio vedo
la morte al lavoro, è una delle cose più belle che ha detto Cocteau 66.
Entrambe queste testimonianze, se teniamo conto dello spessore psicologico dei
personaggi che le hanno formulate e dei loro autoritratti, hanno quasi la forza di una
negazione67.
4.2.5.
Autoritratto e pulsione autobiografica
Un'altra distinzione, che va sempre tenuta presente, è quella tra l'autoritratto
propriamente inteso, in quanto riproduzione grafica della propria immagine, e la più
generica e universale pulsione autobiografica, che ha in parte la stessa origine, cioè il
bisogno di lasciare una testimonianza di sé, del proprio esserci e della propria esistenza,
testimonianza che si può esprimere in realtà attraverso svariate manifestazioni e che può
avere valenze psicologiche diverse. Un artista, per esempio, può riprodurre nella sua
opera qualcosa che invece appartiene al suo mondo: può disegnare oggetti o figure che
si riferiscono al suo privato, ma che solo lui e le persone che gli sono vicine possono
65 Van Gogh, Lettera al fratello Theo del 17 settembre 1888, in Tutte le lettere di Van Gogh, tr. it.,
Silvana Editoriale d'Arte, Milano, vol. III, p. 39.
66 F. Bacon (1970), L'art de l'impossible. Entretiens avec David Sylvester, Skira, Genève.
67 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 16-17.
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riconoscere come tali. In questi casi si parla di oggetti d'affezione68 ovvero tutto ciò che
gli ricorda il passato, che è stato in qualche modo importante, personaggi o cose nelle
quali si è identificato. Ma questi non sono tanto l'espressione diretta della psichicità
dell'artista quanto un segno oggettivo della sua storia.
Altre volte questa pulsione autobiografica si esprime invece semplicemente nel bisogno
di lasciare una traccia del proprio vissuto attraverso l'opera, intesa come prolungamento
del sé, senza che necessariamente ciò abbia implicazioni estetiche. In entrambi i casi
però non si può propriamente parlare di autoritratto, a meno che
ogni quadro è un autoritratto, rappresenta innanzitutto colui che lo crea: prima di essere un paesaggio, una
pittura di storia, una natura morta, il viso di un altro, una scena di genere o una composizione astratta […]
esso rappresenta il creatore nell'atto stesso della creazione cristallizzata in un'immagine 69.
A questo livello ogni produzione materiale dell'uomo (ogni manufatto) è comunque
sempre possibile rintracciare qualcosa che appartiene alla sua soggettività e considerarlo
un autoritratto. Effettivamente, anche l'artigiano che costruisce un mobile lascia, senza
saperlo del tutto, nell'opera un'impronta di sé che in qualche misura lo rappresenta
all'esterno.
Un altro elemento che vale la pena tener presente è che questa pulsione genericamente
autobiografica è spesso inconscia70.
Ho poi l'impressione che in generale i pittori, almeno a livello pubblico, parlino poco dei loro autoritratti,
in particolare dei meccanismi profondi che vi sono implicati. Questo silenzio è sospetto e significativo.
Forse ne parlano poco perché, letteralmente, non hanno nulla da dire a riguardo: i problemi, i conflitti, le
contraddizioni, le acrobazie psichiche, di cui tratteremo diffusamente nell'ultimo capitolo, sono già dentro
l'opera. L'opera assorbe, in silenzio, tutta quella complessità, quella densità che l'ha formata, l'ha
costruita. L'opera sembra aver assimilato tutto.
Quindi, forse gli artisti non parlano volentieri dei loro autoritratti, non solo e non tanto, per pudore, ma
forse perché non sanno davvero cosa dire, in quanto tutti i conflitti e le tensioni che stanno dietro
l'autoritratto restano appunto dietro e non arrivano alla coscienza: traspaiono talora dai loro volti dipinti,
68 M. Dallari (1998), L'esperienza pedagogica dell'arte, La Nuova Italia, Firenze.
69 P. Eon-Gerhardt (1987), Autoportrait: recheche d'identité, recherche d'immortalité, in “Psychologie
médicale”, 19 (9), p. 1531.
70 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 18-19.
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ma solo a posteriori, nella dinamica paradossale della fruizione 71.
4.2.6.
L'autoritratto figurativo e la memoria
La memoria è ciò che da continuità alla nostra esistenza. Il sentimento e l'espressione di
questa continuità sono elementi che non possiamo trovare nell'autoritratto figurativo:
esso è sempre un punto di arrivo. L'artista figurativo può rappresentare soltanto gli
effetti ultimi della vita e del suo trascorrere e può imprimere sulla tela il buono e il
cattivo che il tempo ha depositato sul volto dell'uomo, quindi quell'espressione che
caratterizza il suo vissuto e la sua storia. Ma l'immagine di per sé, per quanto efficace,
non può dire tutto quello che dice un racconto. Nell'immagine il tempo è irreversibile:
l'immagine di una persona vecchia ha cancellato l'immagine che le apparteneva da
giovane, e solo il ricordo (che però non appartiene all'immagine) può lasciare
intravedere dietro a quei tratti modificati dal tempo l'eco della sua gioventù. Per poter
trasmettere figurativamente questa impressione di continuità nel fruitore, ogni
autoritratto deve essere messo in sequenza con quelli che lo hanno preceduto. Soltanto
una successione di autoritratti può dare l'idea del tempo che passa e del divenire.
L'autoritratto è sempre e necessariamente il gesto di un particolare momento, il
momento in cui viene dipinto. Certo, dietro di esso c'è tutto il passato di un uomo, ma
questo passato si è come cristallizzato in un'immagine e una sola. Nell'autoritratto
figurativo di per sé non c'è racconto.
4.2.7.
Ritratto come autoritratto
E' stato detto che l'autoritratto risponde al bisogno dell'uomo di riprodurre la propria
immagine. Ma non bastano il gesto e l'intenzione nel fare ciò: la riproduzione deve
essere il più possibile fedele e corrispondere a standard che variano a seconda della
cultura e del contesto. Esistono anche situazioni che precedono questo livello, in cui il
bisogno dell'autorappresentazione viene soddisfatto semplicemente dalla possibilità di
lasciare un'impronta oppure autoriproduzioni dai tratti approssimativi:
71 Ibidem.
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A livello magico, lo sappiamo, basta dire che quel volto è il mio perché in un certo senso effettivamente
lo sia. Ma questa identificazione magica, per dir così, proprio in quanto trascende il rapporto con la realtà,
non riguarda in particolare queste dinamiche dell'autoritratto e cioè il rapporto che l'uomo intrattiene
oggettivamente con la propria immagine. Di solito comunque un'autoraffigurazione con tratti
fisiognomici molto approssimativi sta a significare che al centro dell'opera non c'è il rapporto con la
propria immagine e che l'autorappresentazione serve per uno scopo diverso, per raccontare qualcosa di sé
che non ha relazione con il proprio sembiante 72.
Ma in generale, la somiglianza fisiognomica del soggetto è più importante
nell'autoritratto che nel ritratto:
Infatti l'autoritratto, forse più del ritratto, presuppone la riconoscibilità e una certa fedeltà nella
riproduzione, almeno nel senso che la valenza magica dell'immagine in questo caso non è sufficiente a
garantire l'identità tra realtà e rappresentazione. Però questo aspetto va considerato in modo diverso a
seconda del periodo storico. Da quando c'è al fotografia il bisogno dell'artista di verificare e controllare la
proprio immagine in quanto sembiante viene in gran pare delegato appunto a questo tipo di riproduzione.
Infatti nell'autoritratto contemporaneo la somiglianza è spesso molto relativa: c'è sempre una certa
riconoscibilità fisiognomica, ma questo riconoscibilità è ottenuta sovente con dei semplici tratti
caratteristici, un po' come avviene nella caricatura, comunque con forti deformazioni (Bacon, Schiele
ecc..). Si ha l'impressione che in questi autori anche il proprio volto e la propria figura diventino una
semplice icona stilizzata73.
Se le cose stanno così, solo chi possiede particolari abilità tecniche riuscirà a farsi
l'autoritratto, in pratica solo chi è già capace di disegnare o di dipingere e chi possiede le
capacità tecniche. La rassomiglianza che l'autoritratto dovrebbe garantire non è solo
fisiognomica quindi l'abilità tecnica richiesta è maggiore. Bisogna tener conto, infatti,
che l'autoritratto deve riprodurre fedelmente la nostra immagine74 ma anche il nostro
stato d'animo, la nostra condizione esistenziale e la nostra visione del mondo.
All'immagine reale si sovrappone un'immagine mentale che, essendo priva di qualsiasi
oggettività, diventa alquanto difficile riprodurre in modo fedele.
Il ritratto può avere la funzione di autoritratto sia per la persona che si presta come
72 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 45.
73 Ibidem.
74 Per ciascuno di noi è costituita da una sintesi tra immagine reale (quella dello specchio o della foto),
immagine sociale (quella che vogliamo darci di volta in volta di fronte al prossimo, cioè la maschera)
e immagine ideale/interna che coincide in modo molto relativo con quella reale.
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modello che per l'artista. Per il modello il ricorso al lavoro dell'artista consente di
compensare la sua incapacità tecnica di autorappresentarsi (con le complicazioni che
possono derivare dal fatto che magari egli non si riconosce nel ritratto fatto dall'artista).
Non bisogna dimenticare che anche per l'artista il ritratto dell'altro è spesso un
autoritratto, in quanto egli tende a proiettare nel modello i propri tratti fisiognomici e il
proprio mondo interno. Questo aspetto corrisponde a un normale meccanismo di
identificazione mediante una proiezione. Può quindi significare che l'artista rende
semplicemente più famigliare e congeniale il modello, per meglio adeguarlo a sé e
quindi poterlo interpretare in maniera più completa; oppure può essere un pretesto per
appagare il proprio bisogno inconscio di autorappresentarsi. Comunque, a differenza
dell'uomo comune, si può dire che l'artista può appagare più liberamente la sua pulsione
all'autorappresentazione ogni volta che fa un ritratto in quanto ne ha l'abilità tecnica. È
questa modalità che, come notava Musatti75, gli consente anche di esprimere con
maggiore libertà contenuti anche molto intimi e privati76.
4.3. Implicazioni sociali dell'autoritratto
Con le cose dette finora, sembrerebbe che l'autoritratto non ha una connotazione sociale,
in quanto viene ad assolvere semplicemente una funzione che riguarda il costituirsi
dell'identità dell'individuo concentrato in una sorta di narcisistica autocontemplazione.
Ora si deve distinguere una prima fase, la quale corrisponde alla semplice
oggettivazione del riflesso allo specchio, dove tutto sembra consumarsi solo fra
soggetto e la sua immagine speculare; e un secondo livello, che è già presente in
qualche modo nel bisogno di autorappresentazione invece riguarda la relazione con la
propria immagine. Nel momento in cui si replica la propria immagine, il gesto assume
evidenti implicazioni sociali in quanto, dopo aver riconosciuto l'immagine come la
propria, si tende ad pensare allo sguardo delle persone che guardano l'opera, a
identificarsi con esse e a guardare come si pensa che guardino i loro occhi 77. In fondo
75 C. Musatti (1976), Ritratti di Brera, in Riflessioni sul pensiero psicoanalitico e incursioni nel mondo
delle immagini, Boringhieri, Torino.
76 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., pp. 31-33.
77 Secondo un processo di identificazione che prevede, come sempre, anche la proiezione nell'altro di
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noi abbiamo un volto perché l'altro lo possa vedere78; il volto è ciò che ci mette in
contatto con l'altro79.
Nell'autoritratto non c'è nulla di puramente solipsistico e soggettivo, c'è già un principio di socialità nella
sua dimensione più elementare e primitiva – anche là dove non si può ancora parlare propriamente di
comunicazione. Nell'autoritratto c'è infatti sempre una tensione verso l'altro: è lo sguardo dell'altro con
cui ci identifichiamo, che guida la nostra mano e costruisce la nostra immagine 80.
4.4. Le tipologie dell'autoritratto
Per sintetizzare quanto si è finora detto, si è visto che si passa da una concezione quasi
funzionale dell'autoritratto come eco della creazione dell'Io (in cui non mancano
implicazioni profonde, legate anche al riconoscimento dell'identità) ad una concezione
più psicologica, in cui prevalgono l'intenzionalità e la socialità. Questa intenzionalità
può essere legata ad una situazione particolare, come le occasioni o festeggiamenti, ma
può avere valenze molto più ampie e solenni come quando l'autoritratto segna delle
tappe cruciali della vita dell'individuo. Quella che può apparire un'esigenza contingente
legata ad una determinato momento può assumere un valore molto profondo81:
mi autoritraggo oggi, perché oggi, in questo frangente particolare della mia esistenza, sento di vivere un
momento fondamentale e lo voglio sottrarre al flusso del tempo, affinché domani mi possa rivedere come
oggi mi sento82.
Su queste basi si potrebbe intanto distinguere tre tipologie di autoritratto:

la prima coincide con l'origine stessa dell'autoritratto ovvero l'Io che viene
creato: l'autoritratto narcisistico. Riguarda in generale il rapporto dell'uomo con
la propria immagine nella prospettiva del mito di Narciso.

la seconda segue le tappe contingenti della vita di un uomo: è l'autoritratto
parti di noi.
78 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 36.
79 G. Simmel (1989), Sociologia, a cura di A. Cavalli, Comunità, Milano.
80 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., p. 37.
81 Ibidem.
82 Ibidem.
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d'occasione. E' l'espressione di momenti particolari, di emozioni specifiche,
significative sia a livello soggettivo che oggettivo.

la terza segue invece le tappe importanti della vita di una persona: è
l'autoritratto come monumento. Può essere grossolanamente paragonato
all'autobiografia. Vengono presi momenti 'solenni' che fanno del ritratto un vero
e proprio monumento con implicazioni psichiche molto profonde.
Le ultime due tipologie di autoritratto rappresentano una variante della funzione classica
del ritratto e dell'autoritratto: attraverso essi l'uomo intende infatti lasciare un'immagine
di sé che duri nel tempo e gli sopravviva. Non si può pensare che tutti gli autoritratti
rientrano in un'unica tipologia perché possono contenere al loro interno caratteristiche
altre. Le tipologie sono benissimo mescolabili tra loro83.
4.5. L'autoritratto come documento psicologico
L'autoritratto, quale sia la sua possibile collocazione all'interno di una qualche tipologia,
si rivela per l'artista soprattutto come un mezzo di autoanalisi, e quindi come,
imprescindibile, documento psicologico.
Attraverso l'autoritratto, l'artista, interpretando un bisogno proprio di ogni uomo, è
sostanzialmente alla continua ricerca di sé. Tale ricerca può avere anche delle
implicazioni riparative. E' come se gli uomini, soprattutto in certe circostanze, avessero
difficoltà a ritrovarsi, a riconoscersi, a sapere chi sono84. Possiamo pensare a situazioni
psicologicamente molto delicate, come quella di Van Gogh, dove la serie quasi
ossessiva dei suoi oltre quaranta autoritratti segnala la disperazione della stessa ricerca
che, poi, si conclude con la sua morte.
Questi autoritratti sono il risultato di un profondo bisogno psichico interiore, una disperata e ricorrente
domanda che non solo portò al cavalletto e davanti allo specchio, ma fece di queste tele un veicolo per
l'autoespressione e l'autodefinizione che altrimenti nella vita gli sfuggivano. Essi divennero non solo la
vetta della sua arte ma il riflesso dei suoi desideri più profondi e più forti 85.
83 Ivi, p.38.
84 Con tutte le diverse pronunce e sfumature che riguardano individui differenti in contesti culturali e in
epoche diverse.
85 W. W. Meissner (1993), Vincent: the self-portraits, in “Psychoanalytic Quarterly”, LXII, p. 80.
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Se da un lato, questa ricerca sancisce il fallimento del suo tentativo di riparazione,
dall'altro segna la sua rivincita postuma, nella misura in cui i suoi autoritratti gli
sopravvivono e restano, non solo un insostituibile documento psicologico per
comprendere la sua personalità e la sua arte, ma anche il segno che attraverso essa il
dolore e la morte stessa possono essere sconfitti.
È evidente che l'autoritratto che viene osservato e studiato come espressione della
psicologia e dell'arte di Van Gogh, anche se si colloca nel contesto del suo percorso
umano ed artistico, acquista il suo significato e il suo spessore solo alla luce della sua
intera parabola di uomo e di pittore: egli è parte di un corpus e di una totalità. Mentre
per l'artista che lo ha prodotto in un momento della sua vita, sollecitato dall'urgenza di
determinate emergenze psicologiche ed esistenziali, esso era tutt'altra cosa e aveva
tutt'altro significato.
Per quanto riguarda il rapporto con la morte e la funzione eternizzante dell'arte, che
costituisce una marca essenziale nella dinamica dell'autoritratto, bisogna ricordare che
non sempre questa prospettiva è intrinseca all'opera nel momento della sua creazione.
Per esempio, non è da credere che quando Van Gogh dipingeva certi suoi autoritratti,
pressato dal bisogno di esorcizzare il fantasma di quella sua immagine perturbante che
lo fissava dallo specchio, avesse in mente di lasciare un'immagine di sé che durasse
oltre la morte. Probabilmente si sarebbe accontentato di dare un senso al suo esserci in
quel momento specifico, liberandosi dall'angoscia di quel giorno e di quell'ora. Il
progetto
solenne
dell'autoritratto
come
monumento
e
come
strategia
di
autoeternificazione si trovano eventualmente negli esempi già citati di Dürer, di
Poussin, di Ingres, oppure in certe opere di De Chirico, ma non sempre fa parte del
concreto orizzonte operativo dell'artista86.
86 Stefano Ferrari (1994), Op.cit., pp. 38-39.
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5. Project Work
Quando si parla di lavoro di cura nella dimensione professionale, si intende un lavoro
che produce cura, basato sulla relazione tra le persone e destinato a una persona per il
suo benessere complessivo. E' impossibile che avvenga la cura senza che vi siano in
gioco almeno due persone, dove una cura e l'altra riceve la cura: la cura richiede, infatti,
costante interrelazione, richiede di essere lì e non altrove, richiede di essere insieme, chi
cura e chi riceve cura, per raggiungere il fine comune87.
Chi svolge un lavoro di cura affronta la necessità di continuare “a sentire”, nel senso che
è impossibile svolgere un lavoro con un alto contenuto di cura senza essere coinvolti sul
piano emotivo. Il problema quindi non è quello di non sforzarsi di non sentire più, è
bensì quello di diventare capaci di tenere sotto controllo la forte esposizione emotiva,
prendendo quella “giusta distanza” di cui la dimensione professionale necessita. Ciò che
ingombra non è il sentire emotivo ma ingombra il fatto che l'emotività sia invasiva
verso di sé e verso l'altro. Talvolta, nella vita lavorativa si può arrivare a sognare una
dimensione emotiva simile all'anestesia: non sentire più niente, “fare quello che devo
fare e basta”. Il problema che l'anestesia non fa più sentire il cattivo ma neppure il
buono e quindi l'operatore rischia di non sentire più la parte gratificante del proprio
lavoro. E' vero anche che la giusta distanza non è calcolabile né definibile, consiste
invece in un percorso di continua riflessione e ricerca su di sé, con il contributo del
gruppo con cui si lavora88.
Si è coinvolti in un lavoro emozionale nuovo a livello storico e si è ancora un po'
analfabeti rispetto al linguaggio di quel tipo di emozioni. Questo è uno dei problemi che
gli operatori che svolgono un lavoro di cura si trovano ad affrontare. E' una delle più
forti ragioni per cui ormai è chiaro che le persone che curano non vanno lasciate da sole:
in un certo senso vanno curate anche loro, offrendo ambiti di ricostruzione dei loro
percorsi operativi ed emotivi, di rassicurazione, di alimento per continuare a reggere il
87 G. Colombo, E. Cocever, L. Bianchi (2004), Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna,
Carocci Faber, Roma, p. 21.
88 Ivi, p. 28.
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loro carico emotivo.
E' un lavoro che logora e che può indurre, come difesa, a una sorta di anestesia delle
sensazioni e dell'interesse per la persona di cui ci si prende cura, rischiando di cadere
nell'automatismo di un fare ripetitivo, insensato e insoddisfacente. E' un lavoro fatto di
gesti che necessitano di essere rivestiti d'importanza. E' un lavoro che ha bisogno di
essere visto, fermato, considerato nei suoi aspetti minuti, perché è anche evocativo di
gesti materni o familiari passati e presenti89.
5.1. Il percorso “Io e il mio autoritratto”
Il percorso di arteterapia intitolato “Io e il mio autoritratto” nasce proprio dal desiderio
di proporre, a persone che praticano lavori di cura, un'occasione, una possibilità e un
cammino per prendersi cura di sé. Come è stato già detto, che prendersi cura degli altri è
decisamente impegnativo a livello emozionale, emotivo e va a toccare corde alcune
volte molto delicate della persona che pratica quest'arte; i curanti devono avere e trovare
la possibilità per fermarsi e per ricaricarsi, ridando il giusto spazio agli altri e a dedicare
quello che è necessario a sé stessi. L'obbiettivo principe di questo percorso è stato,
quindi, quello di proporre una via alternativa per raggiungere “sensazioni di benessere”
personale e di relazione col gruppo.
Ho scelto di proporre un percorso sull'autoritratto perché, come per Narciso, per tutti la
propria immagine, bene o male, cattura totalmente costringendo a “staccare la spina”
sulle faccende del quotidiano difficili da lasciare soprattutto per chi pratica questo tipo
di lavoro, per chi ha famiglia, figli, ecc. e secondo me è una proposta davvero molto
allettante di riflessione su di sé. Il volto e il proprio corpo trasmettono messaggi che,
alcune volte, non riceviamo perché vediamo e siamo concentrati sugli altri e su altro.
Questo può essere a lungo andare nocivo, ed è per questo che “girare lo sguardo su di
sé” trovando un tempo e uno spazio adeguati è importante. Non sempre, privilegiare sé
stessi è indice di egoismo, anzi, quando si riconosce questo bisogno significa che si è
responsabili nei confronti di sé stessi e di conseguenza degli altri e che si ha raggiunto
un livello di equilibrio fondamentale per vivere la vita e gustarsela.
89 Ibidem.
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Ho proposto delle attività di vario genere partendo da un laboratorio più figurativo
passando da altri più introspettivi e riflessivi, per poi proporre laboratori esperienziali, il
tutto accompagnato da tecniche e materiali di varia natura. Il percorso, con incontri
serali a cadenza settimanale, ha avuto il seguente programma:
venerdì 8 marzo 2013
L'autoritratto figurativo
venerdì 15 marzo 2013
L'autoritratto come narrazione
martedì 26 marzo 2013
L'autoritratto come metafora
venerdì 5 aprile 2013
L'autoritratto e l'ombra
venerdì 12 aprile 2013
L'autoritratto come memoria
venerdì 19 aprile 2013
L'autoritratto come gioco
Purtroppo, non avendo altri spazi, ho dovuto utilizzare casa mia come atelier cercando
di apportare tutti quegli accorgimenti descritti nel Capitolo 3 per raggiungere un buon
livello di accoglienza e comodità per l'esecuzione stessa dei laboratori. Per ogni
incontro sgomberavo quasi tutto l'arredo dalla sala da pranzo per avere uno spazio libero
e aperto. I mobili più ingombranti lo ho lasciati creando delle piccole nicchie per dare la
possibilità a chi volesse di lavorare in posti più custoditi. Non ho proposto ne tavoli ne
sedie: i partecipanti hanno lavorato sul pavimento. Questo è stato un modo per dare la
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possibilità di utilizzare anche il proprio corpo nella realizzazione delle opere, infatti,
qualcuno è stato ispirato o influenzato dalle posizioni che si sono prese durante l'atto
creativo, altri hanno esplicitato di averne trovato giovamento e altri ancora non avevano
notato questa dimensione di espressione di sé.
Ogni partecipante si portava i materiali da casa secondo le richieste che gli facevo la
volta prima o per mail. Arrivavano il giorno dell'incontro muniti di tutto l'occorrente che
mettevano nel centro del cerchio e chi se la sentiva li condivideva con gli altri
contribuendo così ad un clima di comunione e relazione col gruppo.
Gli incontri erano generalmente divisi nei seguenti momenti:

L'accoglienza;

La presentazione e consegna del laboratorio;

Presa visione di opere fatte da alcuni artisti famosi;

Esercizi di rilassamento;

Creazione dell'opera;

Condivisione finale;
Ogni incontro era accompagnato da musiche; inizialmente erano le canzoni preferite o
ritenute più adatte dai partecipanti rispetto ad una richiesta precisa che gli facevo io
precedente all'incontro stesso. Poi, siamo passati ad utilizzare delle musiche a corda
scelte da me. Per la buona costruzione di un clima accogliente e rilassante ho usato
diverse essenze e profumi che si diffondevano nell'aria durante tutto il tempo del
laboratorio.
5.1.1.
Presentazione del gruppo
Il gruppo era costituito da 13 persone di età compresa tra i 22 e i 36 anni. Nella
descrizione del percorso userò nomi fittizi e anche nelle foto verranno oscurati i volti
per rispettare la privacy di ognuno:

Giuditta: infermiera neolaureata, 22 anni.
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
Raffaele: educatore laureando, 22 anni.

Giorgia: assistente sociale neolaureata, 22 anni.

Barbara: operatrice socio sanitaria, 27 anni.

Davide: responsabile formazione volontari, 31 anni.

Roberta: psicoterapeuta, 31 anni.

Jenny: educatore familiare-domiciliare, 30 anni.

Loretta: infermiera, 30 anni.

Eleonora: RdS comunità tossicodipendenti, 29 anni.

Matteo: presidente cooperativa sociale, 33 anni.

Caterina: maestra d'asilo d'infanzia, 30 anni.

Laura: educatore cooperativa sociale disabili, 36 anni.

Federica: educatore, 36 anni.
Il gruppo è nato grazie alla risposta positiva di queste persone che si sono lanciate e
hanno accettato un percorso che ho pensato per lavoratori sociali per mettermi alla
prova per la mia formazione come arteterapeuta. In diversi si conoscevano già altri
meno e qualcuno solo per fama.
5.2. Gli incontri
5.2.1.
L'autoritratto figurativo
Per dare inizio a questo percorso ho pensato di proporre un attività che poteva far
lavorare in modo accattivante sulla propria immagine senza particolari acrobazie del
pensiero. Nei giorni precedenti all'incontro ho chiesto ai partecipanti di munirsi di uno
specchio sufficiente per riflettere almeno l'immagine del proprio volto e di farmi avere i
titoli di una o due canzoni che in generale preferivano per fare una raccolta musicale
che li avrebbe accompagnati durante il lavoro.
Prima ho accolto i partecipanti aspettando tutti anche i ritardatari. Ci siamo seduti sul
pavimento in cerchio in modo da guardarci tutti in faccia e abbiamo iniziato con una
classica presentazione (nome, età, lavoro). Ho presentato il percorso con programma,
struttura degli incontri e obiettivi e l'incontro della serata stessa.
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Consegna: riprodurre la propria immagine riflessa dallo specchio su un foglio A3
bianco con materiali a scelta (matite, pastelli, pennarelli, ecc.).
Ho voluto dargli qualche input mostrando una ventina di autoritratti figurativi di vario
genere da autori famosi (Van Gogh, Ligabue, Picasso, Modigliani, Kahlo, Da Vinci,
ecc.) e non. Posso dire che questo momento ha contribuito parecchio la formazione del
gruppo nella condivisione di quello che suscitavano le immagini e ha dato diversi spunti
e idee nella fase successiva. Finito di mostrare le immagini, ho chiesto ai partecipanti di
alzarsi e camminare nella stanza in modo casuale accompagnati dalle canzoni che loro
stessi mi avevano suggerito, prendendosi il tempo necessario per rilassarsi. Quando
sarebbero stati pronti avrebbero dovuto scegliere e posizionarsi nel posto dell'ambiente
che più gli piaceva per lavorare senza necessariamente rispettare il cerchio creato
inizialmente. Così hanno fatto mettendosi un po' di qua e un po' di là privilegiando
soprattutto le nicchie e gli angoli.
Inizia l'atto creativo...
Ho lasciato che le canzoni li accompagnassero nell'esplorazione del loro volto, dei loro
tratti e nella ricerca dell'espressione di ciò che voleva uscire.
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Dopo aver messo a posto i materiali utilizzati ci siamo rimessi in cerchio e ognuno ha
condiviso un po' le emozioni, le sensazioni che questo lavoro gli ha regalato del proprio
lavoro e quello altrui. Da sottolineare che è stato condiviso dalla maggioranza del
gruppo la sensazione di benessere provata.
5.2.2.
L'autoritratto come narrazione
Con la stessa struttura dello scorso incontro, accolgo i partecipanti e gli chiedo di fare
una presentazione con nome, età e cosa gli piace fare quando sono da soli.
Consegna: riprodurre la propria immagine (somigliante o no) con oggetti o figure che si
riferiscono a ciò che gli piace o che gli piace fare utilizzando sempre un foglio A3
bianco e un materiale diverso dalla volta scorsa.
Poi, gli mostro alcuni ritratti di autori famosi dove si sono dipinti inseriti in un
immagine con oggetti che appartenevano al loro mondo o mentre facevano qualcosa che
li caratterizzava. Dopo aver fatto il momento di ascolto e ricerca del proprio spazio
interno e esterno è iniziato il lavoro...
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Come per la volta scorsa, ho composto una raccolta di canzoni scelte dai partecipanti
stessi prima dell'incontro che ricollegavano ad un momento importante della loro vita.
Dopo aver rimesso i materiali in ordine ci siamo preparati per la condivisione finale.
Quasi tutti i partecipanti hanno condiviso:
Raffaele: “Ho cercato di mettere più cose possibili della mia vita”.
Laura: “Ho scelto gli acquerelli perché mi sembra che il disegno che volevo fare fosse pieno di
sfumature... mi ci sono ritrovata... mi sono disegnata con le braccia aperte sotto un grande albero perché
è sempre stato un po' il mio sogno di stare con la mia famiglia un po' in mezzo a questa natura...”.
Caterina: “Stasera non avevo niente in testa... A me piace molto il teatro anche se non lo pratico e mi
piace quando con D. e G. ci mettiamo così e l'ho voluto disegnare sul palco”.
Eleonora: “Ero molto stanca stasera però avevo tante idee però mi ha dato da fare non poter usare la
matita visto che l'avevo usata la volta scorsa... ho iniziato a disegnare me, ho provato a disegnare prima
le mani ma poi ho visto che non ci saltavo fuori quindi ho dovuto disegnare prima la faccia se no non
capivo dov'erano le mani e volevo essere a braccia aperte...”.
5.2.3.
L'autoritratto come metafora
Per il terzo incontro propongo un momento iniziale diverso dai precedenti: faccio
trovare al centro del pavimento un foglio di carta da pacchi bianco con al centro una
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piccola spirale gialla e arancione fatta da me. Quando tutti i partecipanti sono arrivati gli
chiedo di avvicinarsi al foglio e insieme lavorare in
gruppo facendo dei segni spontanei con il materiale
che vogliono. Il tutto sempre accompagnato da una
musica di pianoforte che per la prima volta ho scelto
io. Questa piccola attività ha fatto come una sorta di
presentazione al gruppo di sé stessi in “opera
artistica”. Per il laboratorio in sé avevo dato il compito di portare due fogli di carta da
pacchi uniti con nastro adesivo del colore desiderato tra bianco e marrone.
Consegna: durante la passeggiata di ritrovo di sé stessi dovevano trovare un compagno
con cui lavorare quella sera. Si sarebbero posizionati come desiderato sul foglio di carta
in modo da farsi fare il contorno del corpo dal compagno. Avrebbero poi dovuto
riempire dentro il contorno con segni spontanei e casuali e con il materiale a loro scelta.
Finita questa prima fase, avrebbero scambiato il foglio col compagno riempiendo la
parte fuori dal contorno sempre con segni casuali e spontanei.
Dopo aver chiarito alcuni dubbi inizia il lavoro..
E' stato un esercizio che ha richiesto molto tempo e così abbiamo sforato
abbondantemente il tempi di fine incontro. I partecipanti erano totalmente assorbiti
dall'esercizio proposto ed è stato per alcuni molto faticoso terminare il proprio lavoro.
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5.2.4.
L'autoritratto e l'ombra
Abbiamo iniziato l'incontro condividendo delle brevi riflessioni rispetto il lavoro fatto la
volta prima. Per questo incontro avevo chiesto ad ognuno di preparare l'inizio di una
breve storia (quindi senza finale), che durasse almeno qualche minuto, nella quale ci
fossero protagonista e antagonista e che non fosse pensata in base ad una morale
precisa. Oltre alla storia, che non necessariamente dovevano scrivere, ho chiesto di
preparare un librettino con le caratteristiche a loro piacere e che avesse almeno una
decina di pagine.
Consegna: riprodurre graficamente la storia pensata a casa nel libretto facendo
attenzione a lasciare bianche alcune pagine iniziali e finali dello stesso.
Successivamente, si passa il proprio libretto al compagno seduto di fronte a sé, il quale
dopo aver visionato ha il compito di disegnare la parte iniziale della storia. Finito questo
pezzo, il libretto va in mano alla persona che sta a destra di quest'ultima, la quale
leggendo la storia deve darne una conclusione disegnando un finale. In ultimo, il
proprietario del libretto torna in possesso del suo oggetto, guarda, legge e scruta la
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creazione venuta fuori dalla condivisione con altri e deve trovare un punto della storia
dove mettersi figurando il proprio ritratto.
I partecipanti, oltre ad essere assorbiti completamente dalla propria storia, sono stati
attenti e molto rispettosi dei lavori degli altri mettendosi in ascolto e trovando delle
versioni anche molto ricercate per impreziosire ulteriormente il libretto altrui.
Dopo aver riassettato tutti i materiali, chi voleva poteva dar voce alla storia del libretto e
raccontarla al gruppo. Ovviamente, chi l'ha raccontata ha interpretato, secondo i propri
strumenti, ciò che era stato disegnato dagli altri:
Roberta: “C'erano una volta due sposi molto felici che si volevano molto bene che vivevano in una
casetta in Africa. Erano da un po' di tempo sposati ed ebbero una bimba. Stavano bene e col tempo la
bimba crebbe e continuavano a volersi molto bene e a essere tutti quanto molto felici. Il papà andava a
lavorare la mamma idem però si dai. E soprattutto il papà e la mamma volevano insegnare alla bimba
quanto è bello incontrare le persone che vivevano nel villaggio con loro. Tant'è che un giorno la bimba
andò.. non mi ricordo.. facciamo sempre in Africa però verso sud. Era ospitata in una casa e passava
tanto tempo con le persone di questa casa. Pian piano crebbe in lei un semino verde. Questo semino
crebbe tanto in lei che la ragazza arrivò a cambiare nome... cioè gli altri le cambiarono il nome e tutti la
chiamarono: Esperanza. Un giorno decise di partire dall'Africa e andare a San Salvador. Lei pensava che
fosse un bel paese ma purtroppo vide tanti grattacieli, molto inquinata, tristissima. Partì perché voleva
far diventare questo seme più grande che maturasse. Ma si rese conto che in questa città con grandi
grattacieli, grandi macchine piena di smog, le persone erano grigie e tristi. Finché un giorno in mezzo a
queste persone tristi vide un bimbetto che sorrideva e che portava luce. Lei rimane stupita da questo
bambino e decide di partire dalla città e di rimettersi in cammino. Attraversò il deserto delle solitudini, la
montagna del coraggio e il mare delle incertezze. Finché arrivò in un bosco delle avventure vissute.
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Questo bosco era incantevole. C'erano alberi di ogni genere, fiori di ogni genere e frutti di ogni genere.
C'era una luce calda ma non accecante, era fioca. Esperanza incontrò l'acqua, incontrò il fiume: la vita.
Incontrò tutti gli animali e incontrò profumi di ogni genere. E si accorse che mentre attraversava il
bosco, le piante che le erano apparse belle, più andava avanti e più loro cambiavano forma e
diventavano sempre più belle. Ad un certo punto del suo cammino però incontrò un orso grigio con cui
parlò e gli racconto il suo percorso e il seme dentro di lei. L'orso le rispose che anche lui aveva fatto
uguale tanto tempo prima ma poi quando arrivò nel bosco aveva abbandonato l'idea di proseguire e
aveva capito che lui era un orso e doveva vivere da solo e triste in questo bosco. Anche esperanza si fece
influenzare dall'orso e incominciò a vivere come lui. Ma giorno dopo giorno il semino che era dentro di
lei si faceva sempre più piccolo. Finché un giorno mentre vagava in questo bosco vide una gemma o
germoglio su un ramo verde come il suo seme. Lì iniziò il dubbio: cosa fare? (io sono qua) si avvicinò al
germoglio e lo prese. Sentì un grande calore e una grande luce. Non pensò più al suo semino verde
perché il contatto con questo germoglio la fece stare così bene che vide un po' quali erano i suoi sogni.
Costruì la sua famiglia con tanti bimbi e visse in un bosco altrettanto incantevole. Lei si dimenticò del
semino verde ma proprio lui fu proprio quello a dare colore alla sua vita”.
Caterina: “C'era una volta un bambino che aveva la mania delle calze e voleva sempre delle calze
differenti ogni giorno e aveva il cassetto sempre pieno colmo di calze... tant'è che questa mania delle
calze era entrata anche nei suoi sogni, infatti una notte sognò il regno di Calzea. Questo regno di Calzea
era un regno dove c'era questo castello ed era governato da questo re (volevo dargli un nome ma non me
lo ricordo) e da questa regina che un giorno rimase incinta, però succede una cosa: questa regina era
molto felice perché voleva degli eredi, tutti aspettavano gli eredi al trono ma ci fu una grande delusione
perché invece di nascere due calzini (perché i calzini nascono a coppie), nasce solo un calzino.. il re era
infuriato, la regina pianse per mesi e mesi perché non si sapeva cosa fare di questo calzino spaiato. Il re
non accettò questa cosa, il calzino invece era contento di essere venuto al mondo, di scoprire di essere il
re di questo regno. Al re e alla regina non andava giù questa cosa di avere un calzino spaiato e chiesero
aiuto a tante persone e nessuno riusciva a dare loro una soluzione a questo problema e quindi per mesi e
mesi il regno andò avanti però con un re arrabbiato e una regina che piangeva sempre finché un giorno
arrivò un mago, il mago di Soppus, e questo mago diede la soluzione a questo problema. Cominciò a
dire: bisogna costruire un sosia, un calzino uguale a questo qua quindi faremo le selezioni tra tanti
calzini che arriveranno a palazzo e bisognerà trovare il calzino uguale a questo principino. Il principino
si chiamava Pedalino. Il principino Pedalino non era d'accordo e incominciò a ribellarsi a questa cosa
dicendo “no, non è possibile, io sono unico, non ho bisogno di un sosia, sono quel che sono ok, volevate
due calzini sono uscito solo io però mi dovete prendere così, perché io sono unico”. Questa cosa al re e
alla regina non andò bene, tant'è che Pedalino a un certo punto decide di scappare e scrive una lettera e
dice: “voi non volete me, ma volete due me quindi io esco così mi perdo” e scrive questa lettera e parte e
va via dal castello. Fa il suo fagotto e va in giro per il mondo a cercare la sua strada e va in tanti paesi
perché voleva sapere qual'era la sua missione e non era tanto felice perché non aveva ancora trovato il
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suo posto nel mondo. Un giorno un altro calzino, quasi uguale a lui, lo chiamò e allora Pedalino gli
raccontò un po' tutta la sua storia e questo calzino nuovo che l'aveva chiamato gli disse “dai, diventiamo
amici”. E io sono qua che sto guardando questa conversazione di due amici....però viene fuori un
personaggio un po' cattivo che non so se era lo stesso personaggio che era Soppus... non credo perché
non è uguale la sua faccia... però viene fuori un personaggio cattivo che se la prende con Pedalino e
decide di distruggerlo e di farlo diventare un gomitolo di lana e tagliarlo. Pedalino scappa però non
riesce e viene distrutto da questo personaggio cattivo. Il re e la regina vengono a sapere della storia del
loro figliuolo Pedalino che era andato in giro per il mondo ed era stato perseguitato da questo cattivo e
decidono di aiutarlo e di rattopparlo e di farlo diventare ancora Pedalino...
Davide: “C'era una volta... questi sono gli abitanti della terra che sono tutti neri e tutti grigi, tutti tristi
perché vivevano in un'epoca molto triste però tutti avevano un sogno. Questo sogno era di stare in un
prato con Riccardo Cocciante e Jovanotti, poi c'è Gianni Morandi e c'è il saio di San Francesco... tutti si
erano fumati qualcosa. In questa epoca triste per l'umanità ed esattamente nell'anno 18.237 Dopo Cristo
esisteva una galassia, la galassia 31 dove erano presenti 7 pianeti tutti divisi a metà, c'era Azve (metà
azzurro e metà verde) Azfu (azzurro-fucsia), Azne (azzurro-nero), Azgia (azzurro-giallo), Azbi (biancoazzurro), Azma (marrone-azzurro) e Azro (azzurro-rosso). I due colori erano molto marcati.
La pace regnava sovrana su tutti questi pianeti. La vita su Azve era gioiosa, gli azveiani erano strani
esseri caratterizzati dalla testa verde e dai piedi blu, il pianeta era per metà verde con immensi prati e
per metà un mare blu. La natura era rigogliosa su Azve. Nello stesso periodo sulla terra alcuni potenti
uomini con a capo un uomo senza scrupoli detto Arraffatutto avevano da tempo smantellato la terra e
arraffato tutto il bello e il verde che c'era uccidendo chi si opponeva e avevano portato tutto su una
astronave che al suo interno faceva vivere le persone ricche con il sogno di vivere in eterno in un
paradiso creato apposta per loro. Il verde serviva per fare funzionare questa astronave gigantesca e ne
veniva bruciato in continuazione. Il verde però stava finendo e Arraffatutto voleva andare per galassie a
cercarne e aveva sentito parlare di Azve e il suo colore verde.
La galassia 31 aveva però 3 custodi: Gino, Lino e Pino. Gino era molto alto (circa 2 metri) e magro con
la testa gialla come i Simpson e una camicia tipo Hawaiano, abitava su Azgia. Lino era abitante di Azro,
aveva quindi una testa rossa a forma di fragola, vestiva una tuta nera (tipo sub) mentre Pino era abitante
di Azve, era tutto verde e indossava solo dei boxer di Dolce & Gabbana bianchi. Tutti e tre avevano i
piedi azzurri come tutti gli abitanti della Galassia 31. Si accende così una dura lotta, una battaglia
feroce. Due pianeti si uniscono e creano un arma speciale che attraverso la luce del sole e la forza della
pace danno una mano ai tre supereroi nel combattimento. La battaglia ha fine nel momento in cui questi
supereroi riescono a mandare fuori Arraffatutto impedendogli, grazie all'aiuto degli altri sei pianeti che
si erano piazzati davanti, di arrivare a quello verde. Quindi la macchina crolla, cade, non so dove
nell'universo perché non ha più la benzina e dalla terra arriva un Sos per questi pianeti perché vengano
salvati e a riportare il colore sulla terra, quindi la terra dopo diventa tutta bella e gli abitanti diventano
colorati.
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5.2.5.
L'autoritratto come memoria
Per il penultimo incontro, ho fatto diverse richieste ai partecipanti per la preparazione a
casa. Avevo chiesto di cercare tre canzoni: una che gli ricordasse la loro infanzia, una
per l'adolescenza e una attuale. Come per gli altri incontri, ho fatto la raccolta sul CD
mettendo le canzoni in modo casualmente sparso. Poi, avevo detto di portare
all'incontro un foglio di carta da pacchi del colore che volevano (bianco o marrone) e
chi aveva la possibilità poteva colorarlo di rosso o nero per creare un altro tipo ancora di
supporto. Il lavoro della serata era incentrato sui ricordi, quindi dovevano anche portare
le fotocopie di fotografie che avevano come soggetti: la famiglia di origine, amici
passati, famiglia e amici attuali. Abbiamo iniziato subito l'incontro seduti in cerchio
posizionando i materiali ognuno davanti a sé.
Consegna: creare un disegno a tratti spontanei con al suo interno le fotografie.
L'opera ha inizio…
A fine lavoro si rimette tutto in ordine e ci si prepara per la condivisione finale: ho
chiesto ad ognuno di stare in silenzio rispetto a commenti o spiegazioni sul suo lavoro
ma se se la sentiva di condividere quello che gli suscitava il lavoro degli altri.
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5.2.6.
L'autoritratto come gioco
L'ultimo incontro è stato all'insegna dell'utilizzo di materiali di recupero. Ognuno aveva
portato da casa oggetti che in altro modo sarebbero stati buttati via e che durante la
serata gli avrebbero dato nuova vita. Questa volta in diversi erano assenti per esigenze e
motivi diversi e il laboratorio è stato partecipato da un gruppetto di quattro persone.
Abbiamo iniziato praticamente subito il laboratorio mettendo al centro tutto ciò che
avevano portato e condividendo con gli altri il proprio materiale.
Consegna: utilizzare tutti gli oggetti e materiali che gli piacevano e assemblarli insieme
per creare un oggetto che rappresentasse il loro autoritratto.
Visto il piccolo numero, partecipo anch'io all'attività creando il mio lavoro facendo però
molta attenzione al gruppo stesso e sono rimasta attiva per eventuali richieste di aiuto.
Hanno iniziato ad osservare, scrutare e manipolare gli oggetti; sembrava quasi ci
stessero giocando...
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Rimesso tutto in ordine ci accingiamo alla condivisione dove ognuno ha raccontato
cos'ha provato durante la realizzazione della propria opera e alcuni hanno condiviso
cosa avevano suscitato le opere degli altri.
Caterina: “Ho trovato tante cose viola… a me il viola piace… sembro una sposa… in realtà ho voluto fare
il mio vestito da sposa…”.
Davide: “Questo nastro mi piaceva tanto… l'ho preso perché l'azzurro è anche uno dei miei colori
preferiti... volevo che l'omino e il cuore fossero collegati…”.
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Conclusioni
Ora posso concludere questo cammino fatto insieme a questi ragazzi che mi hanno
aiutato a fare esperienza e a crescere sia a livello professionale che personale: per questo
li vorrei davvero ringraziare di cuore.
Per quanto riguarda gli obiettivi con i quali era nato questo percorso direi che sono stati
raggiunti abbondantemente. I partecipanti hanno detto più volte che lo spazio del
laboratorio gli ha permesso di rilassarsi e anche di divertirsi trovando sensazioni di
benessere e piacevolezza. Il clima del gruppo è risultato molto buono e con un buon
grado di ascolto e rispetto dando così la possibilità di far venir fuori e condividere
riflessioni ed emozioni interne alcune volte molto private ed intime. Ho saputo
successivamente che qualcuno ha proposto degli esercizi fatti agli utenti del suo posto di
lavoro. Questo è positivo perché, non solo si ha ricevuto, ma si è voluto andare oltre e
far provare ad altri un'esperienza che è stata piacevole e positiva per prima su di sé.
Possiamo dire infine che, oltre all'atto creativo della realizzazione dell'opera, anche il
desiderio di condivisione e il condividere in sé con altri è terapeutico e aiuta la persona
a curare ed essere curata.
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