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Le mille e una avventura
dell’Ingegnere
— colloquio (immaginario) con Emilio Rosetti • di Giulia Torri
— premessa • di Mario Graziano Parri
In piroscafo, in ferrovia, a dorso di mulo, centomila leghe con il taccuino in mano
e sempre una gran voglia di essere ovunque, di fare, di vedere, di raccontare.
Un urbanista e un architetto («el padre de la ingenieria argentina») che progetta
la Ferrovia Transaldina, fonda a Buenos Aires la Società Scientifica
dove introdurrà Darwin, si interessa di scienze esatte, di geografia, di storia
Premessa
E così li offerisco in questo mio libretto tutte le vigilie, fatiche e peregrinazioni mie…
Antonio Pigafetta, Relazione del primo
viaggio intorno al mondo, 1536
Il bisogno di andare, di viaggiare, di trasferirsi in un ambiente diverso per Chatwin
è dunque insito nella natura umana, è un
dato biologico e non un tratto culturale se
non addirittura strettamente individuale,
è insomma il risultato di un processo
evolutivo il cui inizio si perde nei meandri
del tempo preistorico.
Sandro Melani, Lontani altrove, 2002
Tre miglia d’Italia fanno una lega francese. Quattro miglia suddette sono una
lega germanica, e cinque miglia pure
suddette sono una lega svedese.
Guarino Guarini, Trattato
sulla fortificazione, che ora si usa in Italia,
Francia e Fiandre, 1676
P
er iniziativa della Fondazione Italia-Argentina intitolata a Emilio Rosetti, e del suo presidente, l’ingegnere Luciano Ravaglia
il quale opera nel campo dell’architettura, della pianificazione territoriale e delle metodologie di sviluppo sulle grandi aree (si veda su
di lui il saggio di Elio Garzillo, apparso su questa stessa rivista nel fascicolo n° 3 anno x, settembre-dicembre 2005), l’editore fiorentino
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Mauro Pagliai ha pubblicato il primo dei quattro volumi previsti dal piano dell’opera, ai quali viene affidato il resoconto di una vita avventurosissima, quella dell’ingegnere
romagnolo Emilio Rosetti, vissuto tra il 1839
e il 1908, l’arco di tempo che va dalla inaugurazione della prima linea ferroviaria in Italia, la famosa Napoli-Portici, al fatale terremoto
che distrugge Messina e Reggio Calabria e provoca la morte di oltre centocinquantamila persone. Il medesimo arco, ove si preferisca attestarlo
dal punto di vista degli eventi intellettuali, che parte dalla fondazione a
Milano del “Politecnico” da parte di
Carlo Cattaneo (iniziativa di assoluto rilievo nel campo della cultura tecnica e scientifica: fu definito «repertorio mensile di studi applicati
alla prosperità e coltura sociale») per
arrivare al varo di un altro periodico che si situerà fra le più importanti
espressioni del pensiero dei primi decenni del Novecento: vale a dire de
“La Voce”, fondata a Firenze da Giuseppe Prezzolini, rivista che darà un
vigoroso scrollone alla sonnacchiosa e un po’ stantia cultura italiana, indirizzandola decisamente verso l’economia e la politica, con una forte
ripresa della speculazione filosofica.
Questo primo volume de I viaggi e le memorie di Emilio Rosetti. Società, luoghi e tecniche del xix secolo
raccoglie le osservazioni di un instancabile
e intraprendente viaggiatore nel mondo dell’Ottocento (dall’Italia e dall’Europa passerà
in America per poi trasferirsi nell’Africa settentrionale e da qui nel Vicino Oriente) durante i primi trentaquattro anni della sua vita,
dall’atto di nascita, registrato a Forlimpopoli il 19 maggio di quel 1839 appunto, al 1973,
Caffè Michelangiolo
quando dal Paranà si sposterà a Santa Fè, per
raggiungere nella settimana di Pasqua Buenos Aires. Il 14 luglio di quello stesso anno
si “marita civilmente” con la «S. na Teresa Moneta arrivata qui il giorno 12 col fratello Pompeo e sposata da lui per procura e religiosamente a Milano il giorno 10 di giugno p.p.».
«Statura 1,73, capelli castagni, sopracciglia castagne, occhi castagni, fronte bassa,
naso lungo, bocca media, mento tondo, viso
oblungo, colorito naturale», come si può leggere nel suo foglio di licenza del 1862 allorché dovette «rassegnarsi a fare l’artigliere»,
il venticinquenne Emilio Rosetti ottiene a Torino il “Diploma di Ingegnere Laureato”
(con la Legge Casati le prime scuole di ingegneria del nuovo Stato italiano vennero istituite il 13 novembre 1859, e la prima a nascere fu nel dicembre successivo, a Torino, la
Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri). Si laurea nel corso del servizio militare («il colonello [sic], certo Signor Filippi,
per la stranezza del caso mi concesse subito
quanto desideravo», e cioè la possibilità «di
rimanere fuori del quartiere fino alle 10 di
sera» per poter seguire le lezioni di certi “professori straordinari”, così da porsi «alla pari
de’ mei nuovi colleghi», giacché all’Università di Bologna, «per i metodi antichi Papalini, non s’era fatto nulla»), e la dissertazione ebbe per oggetto il suo studio per una
«locomotiva-merci capace di condurre colla
velocità di 20 kilometri all’ora un convoglio
di 250 tonnellate su di una strada in pendenza
variabile ma sempre inferiore al 7 per 1000».
Le memorie di Emilio Rosetti sono una
miniera di informazioni, anche minute, dalle quali per esempio si ricava che il docente di Meccanica applicata era lo stesso direttore della Scuola, Prospero Richèlmy, e
quello di Costruzioni era Giulio Marchesi, addetto alle costruzioni delle Ferrovie liguri e
Ferrovie meridionali; che a Disegno c’era Giovan Battista Curioni, membro della Regia Accademia delle Scienze, a Chimica docimastica
il chimico e medico Ascanio Sobrero inventore della nitroglicerina (scoperta che
come è noto Alfred Nobel sfrutterà sul piano pratico, e a tutto suo vantaggio, con l’impianto della prima fabbrica a Heleneborg nel
1862) e ad Architettura Carlo Pròmis, architetto, storico dell’architettura (pubblicò tra
l’altro il trattato del senese Francesco di Giorgio Martini, pittore, scultore, architetto militare), nonché archeologo e direttore degli
scavi di Alba Fucente, Luni, Torino, Aosta. Il
corpo docente contava fra i suoi componenti
anche Quintino Sella, professore di geometria applicata e poi di matematica, in seguito e più volte ministro delle Finanze, che fu
il reale promotore per la parte relativa all’ingegneria della citata legge che porta il
nome del milanese conte Gabrio Casati, la
quale sarà considerata la Magna Charta del
diritto scolastico in Italia fino alla riforma di
Giovanni Gentile nel 1923. Gente che faceva sul serio, insomma, e che passerà nei libri di storia; Italiani di una Italia civile e concorde che aveva a cuore «la propria dignità
di nazione, la lealtà de’ nostri propositi, la
strenua difesa degli interessi italiani», come
si legge nel messaggio di saluto e di plauso
meritato che “amici e compaesani, villici e notabilità” di Pistoia con un seguito di un migliaio di firme indirizzarono l’11 luglio
1881 «all’esimio patriotta, al volontario delle prime battaglie per la indipendenza italiana, al Commendatore Dottor Licurgo
Macciò, Console generale di Sua Maestà in
Tunisia, reduce al tetto natio, perché quanto poté tenne alto il vessillo d’Italia contro
Sopra, la copertina del primo volume de
I viaggi e le memorie di Emilio Rosetti.
Società, luoghi e tecniche del XIX secolo,
elaborazione, integrazione e commento
di Giulia Torri, pubblicato nelle Edizioni
Polistampa di Mauro Pagliai nell’aprile 2010.
All’opera verrà dedicata a Forlimpopoli la
Tornata di Primavera dell’Accademia
degli Incamminati di Modigliana,
con la partecipazione dell’Accademia
dei Filopatrici, l’antico sodalizio
fondato a Savignano sul Rubicone
da Giulio Perticari e che fra i suoi presidenti
annoverò Giosue Carducci. Relatori saranno
Luciano Ravaglia, Augusto Vasina e Giulia Torri.
Luciano Ravaglia con Raúl Alfonsín (a sinistra),
presidente della Repubblica Argentina, in uno
scatto del 1987. Allievo di Michelucci,
l’ingegnere Ravaglia ha costruito in Italia,
Somalia, Finlandia, Marocco, Svezia, Austria.
In Argentina ha eseguito gli studi di progetto
per il recupero e il restauro della Galerias
Pacifico, uno dei più grandi edifici
dell’Ottocento, al centro di Buenos Aires.
Nella pagina a lato, Emilio Rosetti nel ritratto
(1874?) attribuito a Paolo Bacchetti, pittore
di Forlimpopoli della scuola di Pompeo Randi
e probabile allievo del modiglianese Silvestro
Lega. Olio su tela, cm 74,5×54,5,
Forlimpopoli, Quadreria comunale.
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siva venivano indicate le condizioni
economiche («lire novemila annue oltre
a lire 2.500 per indennità di viaggio»: cifre astronomiche, ove si consideri che il
reddito medio pro capite era all’epoca di
1.850 lire all’anno e che il Console Generale d’Italia al Cairo Licurgo Macciò
Forlimpopoli, piazza Pompilio.
Buenos Aires,
veduta di Plaza Victoria y Avenida
de Mayo.
le voglie invaditrici della Francese Repubblica»; cittadini di un Paese che si
stava saldando, e non, una volta di più,
disgregando come si prospetta oggi, e i cui
ideali non erano ancora menzogne ma si appoggiavano, come scriverà Croce, ad una effettiva «concezione della realtà» (Storia
d’Europa nel secolo decimonono, 1932).
Il cursus accademico dell’ingegnere civile
Emilio Rosetti fu di prim’ordine (da segnalare che a quel tempo gli studenti che ce la
mettevano tutta potevano attingere ad adeguate borse di studio, come fu per il giovane romagnolo a cui il Sindaco di Forlimpopoli concesse il “beneficio” del Legato Massi
per il proprio mantenimento agli studi fino
al ventiquattresimo anno di età) e di “prim’ordine” dové anche essere il giovanotto alto
1,73, se il Direttore della Scuola di Ingegneri,
il citato professor Rechèlmy, gli scriverà pochi mesi dopo la laurea (la lettera è del 14 febbraio 1865) per proporgli un incarico all’università di Buenos Aires «per ivi insegnare
la geometria analitica, la geometria descrittiva, l’architettura e il disegno». Nella mis-
La Licenza del Colonnello Comandante Territoriale
d’Artiglieria in Torino al «Cannoniere Rossetti
[sic] Emilio di rimanere fuori Quartiere sino
alle 10 di sera».
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percepiva nel 1869 uno stipendio annuo di
4.500 lire). L’imbarco avverrà il 25 marzo a
Bordeaux, e con lui, neoprofessore ventiseienne, viaggeranno il quarantaquattrenne
naturalista Pellegrino Strobel, fondatore
della paletnologia italiana, e il fisico-matematico Bernardino Spelluzzi, anche loro
chiamati a insegnare in Argentina.
Hanno inizio così le “mille e una avventura” di Emilio Rosetti, che saranno da
lui stesso raccontate con precisione e limpidezza di sguardo, con un sapore genuino
del linguaggio e con una capacità di visione,
nello stile, si potrebbe dire, dei Ragionamenti
dei miei viaggi intorno al mondo del mercante
fiorentino Francesco Carletti (1573-1636), primo tra i privati cittadini ad aver compiuto
Il «Diploma di Licenza rilasciato
dalla Regia Università degli Studi
di Torino al Sig. Rosetti Emilio
figlio di Pellegrino e Felicita
Perazzini, addì sei del mese
di marzo dell’anno
milleottocentosessantacinque».
il periplo del globo e autore di uno dei libri
di viaggio che in un celebre elzeviro Emilio
Cecchi non esitava ad annoverare fra i più
belli in assoluto della nostra letteratura: «Se
il barometro butta al cattivo, e l’unghia dei
cavalli fa risuonare il lastrico come acciaio,
se gli amici hanno telefonato che sono a letto con l’influenza, e il freddo e la neve assediano la casa, dalla quale si risponde con
la mitraglia delle castagne che scoppiettano
nella cenere della stufa, conosco dove la mia
mano corre negli scaffali, cercando il libro
da farmi compagnia dopo cena e portarmi
a letto. […] So, in queste circostanze, infallibilmente dove si va a cascare: al Marco Polo,
alle Lettere di Filippo Sassetti, ai Ragionamenti del Carletti; al Robinson Crusoe, alla
Vita, Avventure e Piraterie del famoso Capitano Singleton, al Gordon Pym, a Moby Dick,
all’Isola del Tesoro». Questo per dire che “il
Rosetti” sarebbe stato accolto con grande soddisfazione in quel certo scaffale, per le sere
in cui “il barometro punta al cattivo”, quando si sente il bisogno di evocare climi e paesaggi che la mente immagina più confortevoli. E Dio solo sa nell’attuale temperie
quanto livide e sconsolate calino le tenebre
sulla società dell’“etica flebile”, come probabilmente la definirebbe oggi John Maynard Keynes, quanto avvilenti scendano
sul nostro Paese che mostra oggi così scarsa fede nel futuro, ipnotizzato com’è dal “realtrash” delle trasmissioni televisive.
Ed effettivamente l’ingegnere Rosetti ci
attira in tutt’altro clima, e tuttavia non ab-
Il passaporto in data 14 marzo 1865.
Secondo la formula diplomatica del tempo:
«in nome di S. M. Vittorio Emanuele II Re
d’Italia il Ministro per gli Affari Esteri prega
le Autorità Civili e Militari di Sua Maestà e
delle Potenze amiche ed alleate di lasciar
liberamente passare il Sig. Rosetti Emilio di
Pellegrino che si reca in America, e di
prestargli assistenza in caso di bisogno».
Caffè Michelangiolo
biamo la sensazione che la moviola dei memoires venga azionata a ritroso ma è invece come se ogni volta ci reintroducesse in un
«vierge, vivace et bel aujurd’hui», per usare
una coeva espressione poetica (Mallarmé, Plusierurs sonnets). Non c’è neppure nulla di patetico e tantomeno di nostalgico nei ritorni
che lui compie, come quando nel gennaio del
1871 rivede Torino «sempre bella ed elegante,
sempre nuova e cara»; oppure Milano, dove
arriva alle 11 di notte, «sempre quella gran
città»; o Firenze, che rivede dopo 17 anni:
«come essa è cambiata in bene!? giù quelle
mura che la opprimevano ed in sua vece spaziosi viali e belle passeggiate; giù quelle case
brutte sull’Arno ed in sua vece graziose palazzine e bei Lungarni. […]. Si vede proprio
che è la capitale d’Italia e non più la capitale del piccolo ducato!». O Roma, dove trova
«con somma sorpresa che stavano riparando le mura, facendo scomparire la famosa
breccia del 20 settembre 1870 che io avrei
tanto volentieri conservata». Oppure Napoli: «Stupendo, stupendo e poi stupendo il
golfo, con quel suo colore particolare mi piace di più che Rio de Janeiro, che è tutto dire!».
Empatici sono l’entusiasmo, la carica che Ro-
setti mette in questa volontà di conoscenza,
e costantemente in un rapporto paritetico
con la storia: «Passai di poi il Gianicolo, a Porta San Pancrazio, al Vascello, alla villa Doria
Pamphili (Casino dei quattro venti), ai luoghi insomma che ricordavano le famose gesta e le battaglie contro i preti ed il papato».
I lavori al Paranà lo «han chiamato colà
per pochi giorni», ma subito riparte sul vapore Lujan alla volta del Rosario per arrivare poi a Buenos Aires dove deve “aggiustare” alcune «cose relative alla tranvia, che
procedeva lentamente a causa degli ostacoli postivi dalle autorità politiche». E da qui
si rimette in viaggio per Santa Fé dove passerà la Settimana Santa: «Stamane alle 10
tric-trac, campane, bombe, scariche di pettine,
un fracasso insomma indiavolato. Di più sto
vicino a una casa di Napoletani che fanno risuscitare il Signore in tutti i modi!».
I legami fra l’Italia e l’Argentina sono di
antica data, a cominciare, si potrebbe dire, dalla seconda spedizione del Vespucci il quale
tra il 1501 e il 1502 esplorò l’intero litorale
fino alla baia di San Giuliano nella Patagonia
meridionale, per giungere al ligure Nicola Descalzi (morto a Buenos Aires nel 1857) che
sulla sua esplorazione del Rio Negro ha lasciato un importante Diario; al botanico
piemontese Carlo Spegazzini (morto a La Plata nel 1926) che è stato direttore dell’orto botanico di Buenos Aires e direttore generale
al ministero dell’Agricoltura; al geormofologo
ligure Gaetano Rovereto (morto nel 1952), autore di trattati di notevole valore scientifico
sui risultati delle sue esplorazioni in Argentina e nel resto del continente sudamericano;
al salesiano Alberto De Agostini (morto nel
1960 e fratello del cartografo e geografo Giovanni, il fondatore nel 1901 dell’Istituto
geografico che porta il suo nome) il quale è
vissuto per ben trent’anni nella Terra del Fuo-
Un rarissimo documento, datato da Torino
l’11 agosto 1860: la regia nomina da parte
del Re di Sardegna Vittorio Emanuele II
di Licurgo Macciò a Console al Cairo presso
l’Imperatore degli Ottomani,
con giurisdizione a Suez e Djeddah. Firmato:
Vittorio Emanuele, controfirmato:
C. Cavour. (Arch. Parri-Macciò).
Il decreto con la successiva nomina
di Licurgo Macciò a console Generale
presso l’Imperatore degli Ottomani firmata
da Vittorio Emanuele II Re d’Italia,
controfirmato dal Presidente del Consiglio
in qualità di Ministro per gli Affari Esteri
Alfonso La Marmora. L’atto data da Firenze,
da un anno capitale provvisoria del nuovo
Regno d’Italia, «addì diciotto del mese
di Marzo dell’anno mille ottocento
sessantasei e del regno Nostro
il Decimosettimo». (Arch. Parri-Macciò).
Il decreto di nomina da parte di Umberto I Re d’Italia di Licurgo Macciò a «Console Generale in Cairo con giurisdizione nelle provincie [sic] di Galinbiech,
Menufieh e Ghizeh, nell’Alto Egitto e nei territori egiziani nell’interno dell’Africa con facoltà di nominare Vice Consoli ed Agenti Consolari nei luoghi ove lo
ravviserà conveniente». Il decreto, «controsegnato» da Crispi, presidente del Consiglio in qualità di Ministro Segretario di Stato
per gli Affari Esteri è «Dato in Roma addì ventinove del mese di Agosto dell’anno mille ottocento ottantanove e del Regno Nostro il dodicesimo».
Il 28 ottobre 1898, data della sua collocazione con a riposo per Sovrano Decreto, «Al Cavaliere di Gran Croce della Corona d’Italia e Grande Ufficiale dei
SS. Maurizio e Lazzaro, Avvocato Licurgo Macciò, Console Generale di 1ª Classe a riposo, è conferito il titolo onorario di Nostro Inviato Straordinario e
Ministro plenipotenziario». (Arch. Parri-Macciò).
Licurgo Macciò aveva svolto un importante ruolo diplomatico in Tunisia, proprio nel momento in cui l’espansione colonialista della Terza Repubblica
francese minacciava gli interessi dell’Italia in quel paese dove la presenza italiana era notevolissima. Nel 1881 cadeva il gabinetto Cairoli, fortemente
attaccato dalle opposizioni con l’accusa di non aver sostenuto con la necessaria energia l’azione diplomatica del Macciò. Rientrato temporaneamente
in Italia, a Pistoia quest’ultimo ricevé un plebiscitario attestato di solidarietà: «All’esimio patriotta, al volontario delle prime battaglie per la indipendenza
italiana, al Commendatore Dottor Licurgo Macciò, Console Generale di Sua Maestà il Re d’Italia in Tunisia, reduce al tetto natio, gli amici e compaesani
offrono un saluto ed un plauso meritato, perché quanto poté tenne alto il vessillo d’Italia contro le voglie invaditrici della Francese Repubblica, e non fu
per sua colpa se dové subire uno sfregio». Gli attestati furono numerosi, fra questi, il 10 settembre 1881, anche uno da parte di «alcuni buoni Villici».
La crisi in Tunisia costrinse alle dimissioni anche il primo ministro francese, Jules Ferry. Al Cairoli successe Agostino Depretis e al Ferry, Léon Gambetta.
Caffè Michelangiolo
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co dove ha esplorato i più elevati e impervi
gruppi montuosi, documentati in fondamentali scritti tradotti in molte lingue. Sul
finire dell’Ottocento, quando al secondo
censimento del 1895 la popolazione dell’Argentina non raggiungeva i quattro milioni
di abitanti (al precedente, del 1869, era sotto i due milioni) centinaia di migliaia furono gli italiani, fra cui tantissimi i friulani e
i veneti, che vi si trasferirono: terra promessa
con una superficie continentale equivalente
a nove volte quella italiana. Per una signifi-
piede in casa”. A gettare l’occhio oltre Atlantico, fin là nel New World, ci ha provato nel
secolo successivo un altro romagnolo (romagnolo-ferrarese, per l’esattezza), con sensazionali trasvolate che non ebbero però un
seguito politico in patria, bensì suscitarono
non nascoste gelosie: il trasvolatore si ritrovò,
prima, “distaccato” (sia pure onorevolmente)
nella “quarta sponda”, e poi, con le ali spezzate nel cielo di Tobruk, fatto precipitare a terra. La Romagna, come è noto, è suolo quanto mai fecondo, e vi «riecheggia nell’ora di
oggi | quel rigoglio ruggente dei pionieri», per dirla con
Vittorio Sereni: sì, è corposa in questa terra anche la
Scriveva Alessandro D’Ancona, filologo
e dal 1860 professore all’università di Pisa,
in Viaggiatori e avventurieri (1911): «I viaggiatori del tempo passato ragguagliarono intorno alle cose da essi vedute, perché in altro modo viaggiavano. […] le relazioni ne’
tempi andati quando si viaggiava in altro
modo, e appunto per codesta ragione, hanno un valore di documento storico, che per
lo più si cerca invano nelle odierne». Dello
stesso avviso è Luciano Ravaglia, che in premessa al primo volume degli scritti rosettiani
osserva appunto come quei viaggiatori fossero «nell’Ottocento soprattutto uomini
con lo spirito dell’illuminismo: ricercatori,
naturalisti, scienziati»; e come si mettesse-
La stazione Centrale di Milano, come si presentava nel 1871.
Subirà una trasformazione nel 1927 con il progetto di Ulisse Stacchini
(a Milano l’architetto fiorentino realizzerà anche il palazzo
delle Poste e a Monza il cimitero monumentale), dalla ridondante
decorazione, che Attilio Pracchi definirà un «incongruo involucro
di pietra», e verrà inaugurata nel 1931.
Transatlantico in partenza dal porto di Bordeaux.
Da qui salpò l’ingegnere e neoprofessore ventiseienne Emilio
Rosetti sul grande vapore a ruote l’Estremadure che lo porterà
in America, il 26 marzo 1865.
cativa tranche si è trattato di una emigrazione
di rango, costituita da enologi, agrimensori,
imprenditori, geologi, ingegneri, periti, e
che era stata preceduta, come Rosetti documenta in questo primo volume delle Memorie, da docenti ed esperti nelle più svariate
attività tecniche. A partire dal 1860 quello dall’Italia costituiva il 43,5 per cento dell’intero
flusso migratorio, mentre la Spagna era al 27
per cento (si calcola oggi che la popolazione
di discendenza italiana assommi al quaranta per cento del totale, e che nel 1960, cento
anni esatti più tardi, gli italiani di immigrazione recente fossero un milione e ventimila, contro gli ottocentodiecimila spagnoli). In
quegli anni si stava decidendo quale dovesse essere la lingua ufficiale, e il governo argentino guardava con spiccato favore all’Italia,
ma dal recente Regno sabaudo non venne alcun incoraggiamento. Se la lingua ufficiale
fosse diventata l’italiana, Borges e Cortázar
avrebbero scritto nell’idioma di Dante, e ancora prima di loro lo avrebbero fatto Lugones, Carriego, Alfonsina Storni e Güiraldes.
Dall’Unità in poi, e dopo Cavour, la governativa vision of the world non si spinse più
in là della “Quarta sponda” (non a caso così
si volle chiamarla), producendo quella che appunto è sempre stata da allora la “politica del
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tradizione d’avventura di viaggiatori
ed esploratori. Pressappoco negli stessi anni di Rosetti,
fra costoro si annoverano i ravennati Pellegrino Matteucci e Romolo Gessi, che fra l’altro si
spinsero nei territori dei Galla e dei bellicosi
Niam-Niam. Amico personale di Charles
George Gordon, Gessi, che aveva combattuto in Crimea e poi con Garibaldi, accettò dal
generale britannico che ispirerà Khartum, di
Basil Dearden, nel 1966 (uno di più mitici
Epics della storia del cinema, e la sua figura sarà impersonata da Charlton Heston, accanto a Laurence Olivier che interpreta il
Mahdi), l’incarico di condurre operazioni militari nel Bahr el-Ghaz l). E ambedue (insieme a Carlo Piaggia, Orazio Antinori, Gustavo Bianchi, Antonio Cecchi, Giovanni
Chiarini e a moltissimi altri: la letteratura
in proposito è amplissima) lasceranno una
massa ragguardevole e di prima mano, e per
molta parte tuttora inedita, di scritti, documenti, mappe, lettere di eccezionale interesse: l’ingegnere di Forlimpopoli non è
un caso isolato.
ro in cammino, in quel secolo caratterizzato dalle idee del positivismo, dal fiorire degli studi scientifici, da «uomini impavidi e
coraggiosi, rotti ai sacrifici, con l’ansia della conoscenza e della scoperta»; e come tra
questi ci fosse, appunto, Emilio Rosetti. L’ingegner Ravaglia è un attento e solerte conoscitore dell’Argentina, dove ha condotto
missioni per il ministero degli Esteri dopo
la caduta della giunta militare nel 1982, fino
a godere della fiducia del presidente Raúl
Alfonsín il quale gli affidò il progetto per il
recupero della Galerias Pacifico al centro di
Buenos Aires. E sarà là in Argentina, dai racconti dell’ambasciatore d’Italia Ludovico Incisa di Camerana, che Ravaglia “scoprirà” il
personaggio Emilio Rosetti, nato come lui a
Forlimpopoli, e quindi l’esistenza dell’inedito
manoscritto di mille e cinquecento pagine
fin qui custodito dalla nipote ed erede,
oggi novantenne, Diana Rosetti. La quale con
Caffè Michelangiolo
Corrado Matteucci ha dato vita alla fondazione nazionale dedicata «a tale grande
Italiano».
Mille e cinquecento pagine che non
hanno spaventato più di tanto la giovane curatrice Giulia Torri, laureata in Conservazione
dei Beni culturali, «sensibile e preparata ma
nello stesso tempo molto spontanea e naturale, un volo di puntigliosi riccioli al vento»
come graziosamente informa l’elegante brochure d’invito alla presentazioni di questo primo tomo a Roma, al Palazzo della Sapienza,
corredare l’opera di una abbondanza di
“immagini d’epoca”, che ci ripropongono a
distanza di un secolo e più l’aura un poco ossidata dei bei tempi andati («anche un po’
troppo andati», direbbe a questo proposito
Samuel Langhorne Clemens, alias Mark
Twain). Confortati da tali precedenti, confidiamo di trovare nel quarto e conclusivo volume di queste memorie anche l’indispensabile indice generale dei nomi (quello dei
luoghi c’è già), in mancanza del quale l’opera
risulterebbe non esaustiva, e incompleto apparirebbe così tutto l’argomentato lavoro che essa ha
comportato. E dal momento
che si è in tema, non paia su-
Vapore sul Rio Paranà. «Incaricato dalla casa Maveroff [Achille
Maveroff era un milanese trasferitosi in Argentina, tra i fondatori
del Banco de Italia y Rio de la Plata e della Società di navigazione
Italo-Platense] di progettare ed eseguire un molo e una ferrovia
nella città del Paranà che fu per alcun tempo la capitale della R.ca
Argentina, sono partito alla volta del Rosario col già conosciuto
vapore Capitan». Il mattino seguente, 21 febbraio 1872, Emilio
Rosetti ripartiva «col vaporino Estrella non molto comodo, per
continuare sul Rio Paranà verso la città del Paranà».
sede dell’antica Università romana fondata
nel 1303 da Bonifacio viii, e al Gabinetto
Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, a Firenze. Non deve essere stato comunque
agevole ordinare, integrare, commentare,
annotare un siffatto esuberante materiale:
non tanto un livre de merveilles (o uno degli
itinera et relationes che hanno meritato la
fama, per esempio, di un Odorico da Pordenone o di un Guglielmo Massaia) quanto un
quasi-romanzo, come lei stessa lo definisce,
«in un excursus denso di passioni, caratterizzato tuttavia da una percezione della
realtà sempre attenta al particolare, di uno
stampo che oggi chiameremmo, a pieno titolo, giornalistico». Un lavoro di curatela assiduo, puntiglioso, vivificante, che rende il testo attraente, godibile, stimolante e, quel che
più conta, alla portata anche dei nostri “apocalittici” tempi, così sbrigativi, agitati, assordati, folgorati non dalla luce dell’eternità
ma piuttosto da quella emanata dal tubo catodico. In questo senso Giulia Torri ha avuto una vera illuminazione nel pretendere di
Caffè Michelangiolo
altri autori dell’Ottocento, anche Twain usava il linguaggio del suo tempo».
Nello scritto che qui segue, per incuriosirci e farci accostare più disinvoltamente al
“suo” libro, Giulia Torri ha puntato sull’escamotage del “tavolino a tre gambe”, per riprendere un’immagine dall’elzeviro di Giulio Nascimbeni che sul “Corriere della Sera”
del 4 agosto 1975 commentava il ciclo radiofonico (estate 1974, Secondo Programma)
di ventotto “interviste impossibili” «che entra[va] in funzione alle 11.10 del martedì, del
giovedì e del sabato»: ciclo che nell’ottobre
dell’anno successivo sarebbe stato raccolto
in volume da Feltrinelli. Era iniziato con Italo Calvino che colloquiava con l’uomo di
Roma, Piazza Termini: il toponimo deriva dalle thermae
di Dioleziano, «mangiate in parte dai nuovi lavori della ferrovia», annota Emilio
Rosetti nel suo taccuino. La Stazione Ferroviaria era stata progettata da
Salvatore Bianchi nel 1867. I lavori per la sua costruzione iniziarono due anni
dopo, per concludersi nel 1873. Larga 95 metri, era costituita da due fabbricati
laterali congiunti da un’alta tettoia metallica, sul cui frontone venne aggiunta
una pensilina con un orologio, punto di riferimento nella Roma umbertina
e giolittiana: “sotto l’orologio” era il luogo degli appuntamenti. L’edificio
venne demolito nel 1948, per far posto alla nuova Stazione Centrale di Termini,
il cui edificio di testata, su progetto Montuori, Vitellozzi, Castellozzi,
venne inaugurato nell’Anno Santo 1950.
perfluo osservare, tanto per
non passare per eccessivamente partecipi laudatores,
che sarebbe stata non inopportuna l’aggiunta di un profilo biografico di Emilio Rosetti, nonché di una nota filologica sui criteri
di “elaborazione, integrazione e commento”
condotti sull’originale del Rosetti, e magari
pure di un’appendice che faccia sapere se il
manoscritto è stato qua e là purgato (siamo
contagiati dall’ossessione yankee del “politically uncorrect”). Per fare un esempio, appare quanto mai improbabile che l’ingegnere,
coetaneo di Mark Twain, scrivesse: «truppe
di neri e schiavi» (pagina 61). Una casa editrice dell’Alabama, la New South Books, ha
ristampato in questi giorni il capolavoro dello scrittore del Missouri, sostituendo la parola “nigger” (in The Adventures of Huckleberry vi compare 219 volte) con “slave”. Sul
“Wall Street Journal”, il poeta e scrittore Ishmael Reed, finalista al Pulizer e al National
Book Awards, ha parlato di “cultural blindeff”,
rimarcando che «come Frederick Douglass e
Neanderthal, si concludeva con Arbasino che
discettava con Pascoli, Sanguineti che interrogava Freud, Cattaneo che dialogava
con Vittorio Emanuele iii, Castellaneta che
battibeccava con Picasso («“Lei sa di essere
un genio, signor Picasso?” – “Non so che cosa
avrebbe risposto Leonardo”»). È dunque la
volta ora di Giulia Torri di vedersela faccia
a faccia con il “suo” ingegnere giramondo, il
personaggio da lei fatto emergere da un’“outre-tombe” per un atto d’imperio immaginativo. Per quanto “impossibile”, l’intervista
che segue non è inverosimile.
•
Vetrina
55
Colloquio (immaginario)
appuntamento, Emilio Rosetti me lo
ha dato al cimitero di Scutari. Mi
guardo attorno, cipressi e marmi, e
un senso di abbandono. Però da
quassù si domina «la meravigliosa città
che mollemente si siede sopra due mondi»:
Costantinopoli. Rosetti continua a chiamarla così, quando non la chiama Stambul,
che è una corruzione popolare del greco είς
τήν πόλιν: tradotto significa “verso la città”.
È tuttora anche il nome che viene dato alla
città vecchia, sul luogo dell’antica Bisanzio.
È pieno di gente, questo cimitero: dappertutto
turbanti e kaftan, ma penso che non mi sarà
difficile riconoscere Rosetti. Ho in mente il
suo ritratto, riprodotto sulla copertina del libro delle sue avventure, curato e annotato da
Un leggero sorriso gli fa brillare gli occhi.
La dottoressa Giulia Torri, I suppose… Be’,
glielo devo dire, lei ha fatto proprio un ottimo lavoro. Mi riferisco al mio manoscritto,
mettendoci le mani lei mi ha aperto la strada per essere nuovamente al mondo, e conto che anche il resto venga stampato al più presto. Guardi di sollecitarlo, l’editore. Da questo
primo volume che ha fatto uscire dai torchi,
il commendator Mauro Pagliai mi ha dato l’impressione di essere una gran brava persona.
Sì, uno che le cose se le prende a cuore. Come
può constatare, a differenza dei miei colleghi non ero affatto rimasto senza parole.
Erano solo chiuse nel
mio manoscritto, lei
gli ha ridato voce.
gare il progresso che non è un accidente ma
una necessità. È parte della natura, dice
Spencer. Herbert Spencer, ingegnere ferroviario e filosofo, che formulò prima di
Darwin la teoria dell’evoluzione, lo sapeva?
Anche Darwin viaggiò moltissimo, fu un
grande viaggiatore, le sue peregrinazioni
spesso assai azzardate e pericolose lo portarono all’interno della Patagonia. A Capo
Horne il famoso Beagle su cui era imbarcato
rischiò di naufragare. Visitò la Terra del Fuoco e anche le isole Falkland, quelle che l’Ar-
2
1
me con l’aggiunta di un gran numero di immagini, ricavate da quelle “cartoline d’epoca” che il pragmatico ingegnere si è ben guardato dal conservare. Appare virilmente
stempiato, la fronte non è più quella del ventitreenne descritta sul foglio di licenza. Il naso
è diritto, i baffi folti che si congiungono con
la barba sul mento non fanno vedere la bocca, ma sono ancora “castagni”, come i capelli
corti e all’indietro, con un accenno di riga dalla parte sinistra. E gli occhi castagni guardano lontano, e non potrebbe essere che così…
l’ultima Thule virgiliana.
Sbircio con una certa impazienza l’orologio
che ho al polso…
Non serve molto impegno per vedere
quello che si ha sotto il naso, ma ce ne vuole parecchio per decidere in quale direzione
puntare questo organo.
Mi volto, e me lo trovo davanti. È lui che ha
parlato. Emilio Rosetti!, esclamo.
Sì, sono proprio io, l’ingegnere giramondo. Nato a Forlimpopoli nel 1839, e che
da poco ha compiuto 171 anni. Modestamente, ben portati. Ero scomparso, non certo morto. Ero soltanto “diversamente vivo”.
Leva il braccio e descrive un ampio arco nell’aria luminosissima, torna a guardare lontano.
Non è anche questa una veduta meravigliosa? Miri!… la punta del Serraglio, il palazzo del Sultano, Santa Sofia, il Corno d’Oro, il Bosforo. Lo sa?, Scutari qui è chiamata
Üsküdar e sorge sui resti dell’antica Chrysopolis. Come si capisce dal mio manoscritto, io non ho fatto che viaggiare, appunto 480 mila chilometri. Un vero e
proprio pre-Guinness. Per la mia professione, ma anche per una indomita passione ho girato l’intera Italia, quasi tutta l’Europa fino a Capo Nord, buona parte del
continente americano, l’Africa del Nord, il
Vicino Oriente… Giuseppe Tucci, l’orientalista di Macerata, distingueva l’Oriente in
“Vicino”, “Medio” ed “Estremo”. Sì, ho viaggiato molto, e di tutto ho preso nota: lei ha
potuto vederlo e studiarlo, il mio sterminato
manoscritto. La mia vita è il simbolo stesso del mio secolo, un secolo stimolante, un
secolo quasi senza confronti… sì, il secolo
più bello, “il secolo più lungo”. Ma voi postmoderni, come sento che vi chiamate, voi
ben poco lo apprezzate. E io, dell’Ottocento, ho voluto raccontare l’atmosfera, spie-
gentina voleva riprendersi trent’anni fa. La
cee votò sanzioni economiche contro l’Argentina, ma l’Italia se ne dissociò. Io ho il
merito, come ha scritto l’intrepido collega
e generoso concittadino ingegner Ravaglia
introducendo questo primo volume dei
miei scritti, che lei, dottoressa ha con tanta dedizione e intelligenza curato, io ho il
merito, dicevo, di aver portato Charles Robert Darwin nella Società Scientifica Argentina da me fondata a Buenos Aires. Fu
lì che lui ribatté il concetto: «Il progresso
è stato molto più generale del regresso».
3
56
Vetrina
Caffè Michelangiolo
Rosetti torna ad alzare lo sguardo in lontananza, verso il Mar di Marmara e le Isole dei
Principi. Mi sembra di avvertire un silenzioso gemito interiore, non so se di disappunto
oppure di nostalgia. E quasi subito riprende
il discorso, ma è come se continuasse un dialogo con se stesso.
A ovest era tutta roba di Venezia e Genova… Scutari stessa, la Morea, Samo, Chio,
Creta, Cipro. Poi i Turchi presero a contendergliele. Quando espugnarono Famagosta
dopo una tenace resistenza di mesi, a Mar-
derno sistema dei pesi atomici, Livingstone
attraversa per primo il Kalahari, il primo cavo
sottomarino della storia viene steso fra
l’Europa e l’America, Raimondi raggiunge
per primo la regione d’origine del Rio delle
Amazzoni, Bullock costruisce la prima rotativa per giornali, Westinghouse inventa il
freno pneumatico, Meucci brevetta negli Stati Uniti il primo modello di telefono, Mele
risale per primo il corso del Uele in Congo,
Stanley traversa per primo l’Africa equatoriale dalla foce del fiume Congo a Zanzibar,
Schiaparelli traccia la prima
mappa completa di Marte, Monier brevetta le prime travi in cemento armato, Forlanini inventa per primo la tecnica
chirurgica del pneumotorace,
4
cantonio Bragadin che era il Governatore di
Cipro tagliarono le orecchie e lo scorticarono vivo. Ma anche i cristiani non sono stati da meno, alla quarta crociata Costantinopoli fu messa letteralmente a ferro e fuoco.
Massacri, saccheggi, stupri a non finire.
Venezia ne approfittò per occupare i punti
commercialmente più vantaggiosi e per ridurre a colonie le isole dell’Egeo e dello Ionio. Sì, erano tempi feroci. E da queste parti, poi… Solo nella prima metà dell’Ottocento
le potenze occidentali si misero d’accordo per
chiudere il Bosforo alle navi da guerra.
Scuote la testa, mi guarda. Lei, io lo stuzzico. Lei, ingegnere, non pensa ad altro che al
suo Ottocento. Non è così?, il migliore dei secoli possibili?...
Cara dottoressa, voi del “secolo breve”, per
usare la definizione di Hobsbawm, voi postmoderni insomma, dall’Ottocento avete tratto tutti i benefici, il vero grande secolo… A
Gottinga sorge il primo osservatorio per lo
studio del magnetismo terrestre, per la prima volta un pallone a idrogeno vola con un
equipaggio fra Londra e Weilburg, Fox Talbot mette a punto il primo processo fotografico con negativi e positivi, Draper ottiene
la prima fotografia della luna, Morse trasmette il primo messaggio, Matteucci installa
in Toscana il primo impianto elettromagnetico della Penisola, Ravizza brevetta il primo modello di macchina da scrivere, Scala
è il primo viaggiatore europeo a raggiungere
Abeokuta, capitale dello stato Omba in Nigeria, Cannizzaro definisce per primo il mo-
Caffè Michelangiolo
5
von Siemens realizza i primi forni per la produzione industriale dell’acciaio, Laveran il
protozoo della malaria e Koch il bacillo della tubercolosi, Daimler costruisce la prima
motocicletta al mondo, un orologiaio tedesco emigrato negli Stati Uniti costruisce la
prima linotype del mondo, a Firenze si costruisce la prima linea tranviaria elettrica del
mondo, Marconi stabilisce il primo contatto radio transatlantico…
Ingegnere, lo interrompo. Cerco di riportarlo al motivo del nostro colloquio. Lui però è
fin troppo infervorato.
Signorina Giulia, la grande storia, la
vera grande storia è quella delle invenzioni.
Sono le invenzioni che provocano la storia,
sul fondo dei dati statistici, storici, biologici, geografici. La più grande invenzione del
secolo xix è stata l’invenzione del metodo di
invenzione. L’Ottocento è il secolo che si
muove, che corre avanti, che scuote l’intera
società…
Ma dovevamo parlare dei viaggi, lo esorto.
Non delle invenzioni.
Le invenzioni non sono forse scoperte?
E non sono forse una continua scoperta, i
viaggi? Per questo le ho citato Livingstone,
Raimondi, Mele, Tucci, Stanley, eccetera ec-
1 Costantinopoli, il Cimitero turco a Scutari.
«Dopo mezzogiorno in uno splendido caiq ho
traversato il Bosforo per andare a Scutari […].
Feci una visita al grande cimitero, posto in alto,
di dove si domina Costantinopoli
meravigliosamente». E Rosetti aggiunge che
oltre a monumenti marmorei «vi si trovano steli
col turbante che sonnecchiano inclinati in tutti i
sensi come tanti ubriachi».
2 Veduta de Il Cairo. «Smontai al Cairo a
mezzogiorno e m’alloggiai in un meschino albergo
Francese a l’Esbekyèh; poi passai al consolato
Italiano». Il console generale d’Italia al Cairo
(allora non c’era l’ambasciata) era all’epoca Licurgo
Macciò. Nato a Pistoia il 5 agosto 1826, laureato
in giurisprudenza a Pisa, nel marzo del 1848
volontario nella prima guerra d’Indipendenza,
poi dal settembre tenente nel 1º Battaglione
Bersaglieri Toscano,
nel 1860 venne
nominato Vice Console
di 1ª classe
al Cairo, promosso
Console di 2ª classe
nel 63, “traslocato”
con patente di Console
Generale a Beirut
nel 1866, nel 1869
rientrato al Cairo come
Console di 1ª classe,
poi a Tunisi quale
Console Generale
di 2ª classe nel 1881 e
successivamente
Console Generale di 1ª classe nel 1884, venne
collocato a riposo
come Ministro Plenipotenziario con R. Decreto
il 4 settembre 1898, dopo 39 anni e due mesi
di servizio diplomatico in Asia e Africa.
3 Scalata alla Piramide di Cheope. «Arrivato
alle Piramidi fui subito circondato dalle guide
Arabe come mi successe al Vesuvio.
Contrattatene alcune, mi disposi alla salita per
l’angolo Nord-Ovest di quella di Cheope, che è la
principale». Aggiunge Emilio Rosetti:
«Alle 8 antimeridiane ero finalmente nella
piattaforma superiore, emettendo un grande ah!
di soddisfazione. Scaricai il revolver che portava
meco per precauzione. Esso teneva ancora la
carica delle Ande dell’anno scorso».
4 Costantinopoli, il Corno d’Oro e Stambul.
«Stamane son passato sul famoso ponte del Corno
d’oro dove è un andirivieni immenso di gente
di tutti i colori e le nazioni», scriverà Emilio Rosetti.
5 Un caffè turco, a Costantinopoli. «Stamane
sono tornato a Stambul alla visita del bazars per
far nuove compere, poi alla pittoresca piazza»
dove si trovava il palazzo del Serraschiere,
il capo delle forze armate dell’esercito turco,
per poi salire alla terrazza superiore dove «v’è
un caffè turco e nel mentre si gusta una buona
tazza si può studiare comodamente
la topografia della immensa e svariata città».
Vetrina
57
La pulperia. «Il gaucho è l’uomo più libero
del mondo e non può sopportare padroni: s’adatta
a far da peon solo quando non può fare a meno
per vivere. […]. Appena ha un soldo in tasca
corre alla pulperia per bere o per giocare».
cetera… Il viaggio…, se lo lasci dire dall’ingegnere giramondo, il viaggio è una specie
di porta attraverso la quale si esce da una
realtà che giorno per giorno si va facendo,
per penetrare in una realtà ben più grande,
inesplorata, e che è quasi fuori del tempo.
Ma non diceva Montaigne, a chi gli domandava la ragione dei suoi viaggi: «so bene quel
che fuggo, ma non quello che cerco»?
Una grande verità. Si trova quello che
non si cerca, le scoperte sono tutte figlie del
caso. Non è stato per caso che Colombo ha
scoperto l’America? Ma per oggi fermiamoci
qui, abbiamo parlato abbastanza.
Veramente ha detto tutto lei, ingegner Rosetti.
Non sia modesta, cara dottoressa Torri.
Lei sapeva benissimo che ficcando il naso fra
le mille e cinquecento pagine del mio manoscritto mi avrebbe rimesso al mondo.
Adesso lasci che gli dia un’occhiata, anche se
so che vedrò il mondo che ho vissuto io e non
quello che sta vivendo lei.
Dopo qualche giorno, e non è stato facile, sono
riuscita a rintracciarlo a Parigi, fra l’Hôtel Molière, Rue de Rivoli e il Bois de Boulogne. Gironzolava, guardava le avvenenti passanti in
cui probabilmente rivedeva le belle signore
del Boldini, e… rinviava l’approccio con la musica dei cafè chantant alla visita di qualche
anno più tardi a Smirne, a Costantinopoli.
Se è per questo, ho rimandato anche l’approccio con le operette di Offenbach fino al
mio soggiorno a Valparaiso, però non mi
sono perso al teatro francese di Rio de Janeiro
gli spettacoli non molto castigati di cancan
che furoreggiavano durante il Secondo Impero. A Parigi ho visitato il Louvre che non
aveva ancora la Piramide che voi ora vedete all’ingresso, e le Tuileries che voi non vedrete mai perché incendiate dai comunardi
e poi definitivamente demolite. E in previsione dei miei viaggi non ho mancato di sollecitare un incontro con l’ambasciatore
d’Argentina. Poi mi sono imbarcato, sull’Oceano ho avuto parecchie avventure, come
quella con i suonatori napoletani che continuamente comparivano e scomparivano sui
bastimenti in navigazione. Ricordo il mitico “passaggio dell’equatore” con l’attesa rotazione dei poli sulla bussola e l’acqua che
nello svuotarsi dei lavandini invertiva il gorgo. Ricordo le canzoni ascoltate nei miei spo-
58
Vetrina
stamenti per l’Italia, molte patriottiche come
Fratelli d’Italia messa in musica da Novaro
e l’Inno Militare musicato da Verdi, tutte e
due del Mameli, il poeta ferito sul Gianicolo il 3 giugno del ’49 e morto un mese dopo
a soli 22 anni, per quella diffusissima infezione setticemica che Semmelweis era sul
punto di accertare e quindi prevenire con l’asepsi, un’altra grande scoperta.
Lei ha annotato proprio tutto nel suo manoscritto, non è vero ingegnere? Luoghi, persone, musiche… Ha frequentato i teatri d’opera, a Londra il Coven Garden, a Firenze La
Pergola che ha definito “vecchiosissima”, a Napoli il San Carlo…
Sentivo l’urgenza di fissare cose viste,
sensazioni, rilievi. Come è stato osservato, nel
manoscritto si coglie quel pizzico di follia che
ammicca a prospettive insolite.
Ecco. Memorie intrecciate a riflessioni, rapidi
schizzi di vita, resoconti da reporter…
Vede, cara Giulia. Il giornalista dà per
vero tutto ciò che è probabile. Invece il memorialista, lo storico, ancora prima del rigore
del racconto deve puntare a cogliere lo spirito del tempo in cui è, perché lo spirito contiene tutto, tutto il passato e tutto il futuro.
È indispensabile, se vuole che il lettore
guardi al passato con gli occhi del proprio
presente.
Per questo non si è risparmiato situazioni che
potevano metterla in imbarazzo, come la salita al Vesuvio fra cenere e lapilli che venivano
addosso e le tre guide napoletane, una davanti
che lo tirava e due «per di dietro che mi spingevano per le natiche». Una comica da film
muto, le guide che poi l’afferrano e a rotta di
collo la riportano giù…
Già. Vesuviani e Piramidini sembrano di
una medesima razza, con quel loro continuo
gridare, le loro insistenze. Come accadde al
Vesuvio, arrivato alle Piramidi subito fui circondato dalle guide, e anche qui bisognò contrattare per farmi tirare e spingere su per i
250 gradinoni di quella di Cheope. Uno sforzo che poi si risente per parecchi giorni, ma
è una ascesa che si fa una sola volta nella
vita. Soltanto 140 metri, ma una volta su hai
sotto i piedi, come disse ai suoi soldati Napoleone, “40 secoli di storia”. Una volta rien-
trato al Cairo, mi sono incontrato con il Console Generale d’Italia Licurgo Macciò, un pistoiese volontario nel ’48, il quale mi ha detto che lui sulle piramidi non è mai voluto
salire.
Il suo modo di raccontare, ingegner Rosetti, è sempre scanzonato e leggero, senza moralismi, libero da ideologie. Mette il lettore
subito a suo agio, lo sorprende ad ogni riga,
lo invoglia a proseguire il viaggio con lei…
Viaggiare significa confrontarsi e conoscersi, come ha scritto un suo contemporaneo in un bel libro che le segnalo, Lontani altrove. Vede, cara Giulia, quelle che
racconto sono forse piccole cose, a confronto
di quello che hanno potuto riferire Stephenson, l’ingegnere che ha inventato la locomotiva a vapore, nell’intervista concessa a
Ceronetti; oppure Pitagora, l’inventore in
pari e in dispari dei numeri, il gioco del finito e dell’illimitato che regge la generazione
delle grandezze matematiche, intervistato da
Umberto Eco. Tuttavia, come nel caso delle celeberrima madaleine proustiana il cui
sapore, una volta inzuppata nell’infuso,
mette in moto nel narratore il meccanismo
della memoria, sono proprio certe piccole
cose che hanno il potere di far ritrovare un
senso e un significato al proprio esistere.
La conversazione si chiude a questo punto. L’ingegnere giramondo se l’è svignata mentre io ancora io stavo appuntando nel mio taccuino le sue parole. Prima di dileguarsi ha
fatto un riferimento a Monaco, oggi il capoluogo del land bavarese ma allorché lui la vide
nel giugno del 1871 ancora la capitale del regno dei Wittelsbach. Sul trono c’era quel
Ludwig II che sette anni prima aveva promesso
a Wagner di erigere un tempio alla sua arte
e che nel ’76 consentirà finalmente al compositore di Lipsia di inaugurare a Bayreuth
con L’Anello del Nibelungo quella che diverrà
la celebre Festspielhaus. Probabilmente sarà
da quelle parti, magari in Maximilianstrasse, e di fronte a quel Nationaltheater al tempo suo chiamato Hoftheater, che Emilio Rosetti ha in mente di darmi un nuovo
appuntamento, non appena uscirà il secondo volume tratto dal suo manoscritto sul quale ho già preso a lavorare.
•
L’Hoftheater, a Monaco,
oggi Nationaltheater, in stile neoclassico.
Caffè Michelangiolo
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