Un reportage cultural-filosofico di Sergio Benvenuto dalla capitale
transalpina
RESISTERE A PARIGI : "FRANÇAIS, ENCORE UNE RESISTANCE POUR
ETRE REPUBLICAINS"
Codice
A Parigi sui portoni delle case trovi non i nomi dei condomini, ma misteriosi pulsanti con
lettere e numeri. Per poter entrare nel condominio, soprattutto nei giorni non lavorativi, devi
comporre un CODICE. Se qualcuno ti invita a casa sua, dovrebbe rivelarti il codice segreto per
aprire il portone, perché solo una volta ammesso all'interno potrai trovare finalmente il citofono
con i nomi dei condomini e potrai farti aprire il secondo portone da chi ti aspetta.
Purtroppo, quando un parigino ti invita a casa sua, spesso dimentica di rivelarti il
famigerato codice – e tu, da straniero qual sei, dimentichi di chiederglielo. Allora, confrontato
alla laconica tastiera, non sai che cosa fare; ti senti come un esercito assediante ai piedi delle alte
mura di una città medievale, impenetrabile. Se non hai portato il cellulare o se questo è scarico o
non ricordi il numero di telefono del tuo ospite, allora sei perduto... Puoi solo sperare in una
qualche cabina telefonica – di solito rotta - e di aver portato con te una carta telefonica (perché i
telefoni pubblici parigini rifiutano rigorosamente monete e banconote) per chiedere aiuto a chi ti
aspetta. Ma ti chiedi perché Parigi talvolta ce la metta tutta per renderti la vita più difficile.
I parigini a cui chiedo perché si adattino ad un sistema così balzano mi rispondono che è
il modo migliore per tenere alla larga i seccatori. Ma forse la ragione vera di questa tendenza ad
abbandonare al suo destino chi non conosce il codice sta nel fatto che la cultura francese è tutta,
essenzialmente, codificata. (Parlo qui di cultura francese per parlare di cultura parigina: perché
in fondo questa è, quasi, la sola cultura francese che, all’estero, conosciamo.)
Non a caso prevalse in Francia, negli anni 60, lo strutturalismo, che vedeva la vita umana
come tessuta da cima a fondo da una trama di codici linguistici. Se vai a vivere a Parigi e non
conosci le mots-clefs della parisienneté, non entrerai mai nei salotti e nei circoli che contano –
ma forse nemmeno in un condominio.
In francese il termine cour designa sia la corte (quella dei re) che il cortile di casa. Forse
questa passione per il codice d’entrata si spiega con una segreta eredità mentale monarchica: i
parigini sotto sotto pensano che il loro cortile condominiale sia altrettanto esclusivo, sospirato e
selettivo della corte di Versailles.
Certo questa difesa attraverso i codici è un corollario di una diffidenza tutta francese.
Dato che non si fida, il parigino mette tra lui e te una distanza preventiva, che sorprende gli
italiani ad esempio. Per noi italiani basta una conoscenza superficiale per passare dal lei al tu –
segno di confidenza - mentre a Parigi anche coniugi o amici da anni si danno del vous: la
distanza va mantenuta. Uno scarto nobiliare spinge il parigino di nascita a non aprirsi e, talvolta,
1
a non aprirti. Ad esempio, talvolta quando in casa d’altri si chiede di andare nella toilette per un
bisogno improcrastinabile, la richiesta solleva – lo si nota – un certo imbarazzo: come se il
bagno fosse una parte riservata, invisitabile, della casa.
Lingua e scrittura francesi sono certo il codice fondamentale. Essere-parigino – che copre
l’essere-francese ma vi aggiunge molto di più - non è un’appartenenza etnica o razziale o
religiosa. Non importa se hai la pelle nera o un accento cinese – del resto, oggi un francese su sei
discende da una famiglia giunta in Francia dopo il 1900. Sei parigino se ti senti parte
dell'exception parisienne, se reagisci anche tu con i riflessi culturalmente condizionati di chi in
gioventù ha letto Molière, Balzac, Flaubert e Vian, e ha ascoltato le canzoni di Brel e Brassens.
Sarai accolto bene se sai usare bene i congiuntivi - il corretto uso del congiuntivo imperfetto è il
test capitale per capire se sei una persona colta o una mezzacartuccia. I giornali di tutto il mondo
insinuarono che nella sua visita in Francia nel 1998 Tony Blair piacque tanto ai francesi perché
all'Assemblée Nationale parlò in un francese fluido e disinvolto. Il parigino insomma non è
razzista, nazionalista o etnocentrico: è glottocentrico, e al centro c’è le bon français. Perché, se
parli bene francese allora saprai anche pensare francese.
Arroganza?
Di recente (22 ottobre 2004) leggo su Le Monde che gli studenti francesi sono i più
scadenti nella conoscenza dell’inglese rispetto agli altri paesi europei – anzi, il livello di
conoscenza dell’inglese dei giovani francesi si è degradato a partire dal 1996. Chi insegna
inglese a studenti di ogni parte del mondo mi conferma che di solito i francesi sono gli allievi più
difficili: sono così pieni della loro langue che hanno resistenze forti, inconsce, insomma
nevrotiche, a parlarne un'altra. E nei congressi internazionali di varie discipline scientifiche,
dove ovviamente si parla solo inglese, i soli che pretendono delle sessioni in francese sono i
francofoni. Quando vengono concesse, ci vanno solo loro.
E' vero che molti pensatori parigini più recenti, malgrado la loro scrittura codificata che
scoraggia estranei e stranieri, sono stati presi sul serio nel mondo intero, e soprattutto nei campus
americani. E’ la famosa French Theory, che ha trovato in US tanti seguaci, imitatori e
americanizzatori. Ma anche chi flirta con questa Theory ad un certo punto esclama "perché i
francesi scrivono in modo così dandystico?", "their style is weird". Da qui l'ipotesi, alquanto
sbrigativa, a cui molti approdano secondo cui tutti questi famosi intellettuali parigini siano in
fondo impostori o ciarlatani, dixit Sokal1.
In tutti gli angoli del mondo si sente sempre lo stesso ritornello: "i francesi sono
chauvinisti e arroganti". Come ogni luogo comune, che fa di ogni erba un fascio, esso mi irrita.
Non trovo particolarmente arroganti i miei tanti amici francesi.
1
Alan Sokal & Jean Bricmont, Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris 1997. Questo pamphlet
alquanto superficiale cerca di screditare tutti gli autori parigini importanti degli ultimi decenni mostrando che
quando parlano di cose scientifiche non sanno quello di cui stanno parlando. Questo libretto è diventato nei
paesi anglofoni una bandiera per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, detestano tendenze ed autori
post-moderni at home.
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Ma poi mi viene un dubbio: e se questi amici, intellettuali, non fossero arroganti con me
solo perché mi includono nella loro tribù? Dopo tutto, parlo bene la loro lingua, ho fatto gli studi
universitari a Parigi, seguo ancora quel che accade di politico e culturale in Francia. Insomma,
non vengo percepito come un buzzurro in trasferta che viene dal Burundi o dalla California,
come un outsider non-iniziato ai Misteri della cultura parigina. Conosco il codice, quindi sono
ammesso nella corte...
Ma si tratta solo di parlare o scrivere nella bella lingua, o si tratta anche di condividere un
codice di pensieri? A Parigi il codice è anche di contenuto. Esso si riassume in una parolachiave, in un mot de passe senza il quale non sarai mai accettato nella culture parisienne. Questa
parola fondamentale del codice è: résister. Resistere.
Resistenza!
Ogni francese oltre i quarant’anni adora la Resistenza - il termine e il concetto.
Quando, nel 1994, chiesi a Jean-François Lyotard di riassumere in un'ora, per la
televisione italiana, il nocciolo del suo pensiero, egli propose senza la minima esitazione il titolo
Résistances2. Fu quasi un testamento,dalì a poco sarebbe morto.
Jacques Derrida, dal canto suo, ha pubblicato un libro: Résistances3. Il volume raccoglie
tre saggi riguardanti la psicoanalisi, che cominciano con una confessione molto francese: "da
sempre, amo questa parola, resistenza". E si chiede, senza azzardare una risposta netta: "perché
ho sempre sognato la resistenza?"
Ora, nella tribù psicoanalitica resistenza ha una connotazione piuttosto negativa: l'io
narcisistico resiste alle verità inconsce che emergono nell'analisi. L’ottusa Ragione resiste alle
sgradite ragioni del cuore. Ma il doppio amore francese per Freud e per il maquis contro
l’Occupazione ha compiuto - non solo in Lyotard e Derrida - questa miracolosa comunione: la
resistenza freudiana è diventata, come la Resistenza contro il fascismo, una cosa buona, anzi, il
grande dovere dell'intellettuale alla fine del millennio. Come nella canzone di France Gall che
ogni francese conosce: "Résistes! / Montres que tu existes / Refuses ce monde égoiste..."
E così si chiama Résistances un gruppo rock francese la cui pubblicità tappezzava anni fa
i muri di Parigi. Importanti riviste francesi dedicano al tema "Résister" interi numeri4. Anche in
dibattiti e consessi internazionali, si può scommettere che prima o poi l'intellettuale parigino – e
quindi, per irraggiamento, l’intellettuale francofono - dirà qualcosa come "il faut résister..." Ma
bisogna resistere a che cosa? Quali sono gli occupanti nazisti di oggi?
Per un intellettuale francese occorre resistere a varie cose: alla mondialisation (termine
2
Conversazione pubblicata in Lyotard, “Resistances. A Conversation”, Journal of European
Psychoanalysis, 2, Fall 1995-Winter 1996, pp. 11-20; in www.psychomedia.it/jep, n. 2.
3
J. Derrida, Résistances – de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996.
4
Ad esempio Autrement. "Résister. Le prix du refus", Série Morales, dirigé par Gérald Cahen, 1994.
3
francese che resiste all’inglese globalization), allo strapotere dei media e di Hollywood, alla
versione anglo-americana del liberalismo detta libérisme, alla cultura di massa, a Bush a Blair e
alla “terza via”, alle scienze cognitiviste e allo “scientismo”, ecc. Insomma, occorre resistere al
dilagare dell'americanizzazione in tutte le sue forme, sia alte (la scienza moderna, Chomsky,
Microsoft) sia basse (Walt Disney, Harry Potter, McDonald, Disneyland). Parigi si propone
come roccaforte mondiale di questa Resistenza disperata al McWorld (McLuhan, McDonald,
McIntosh).
Non importa che tu francese sia di sinistra o di destra, che ammiri Chirac o Philippe
Hollande o José Bové5: se sei francese, allora devi resistere.
[Dopo la guerra di Bush Jr. in Irak questa resistenza ha assunto finalmente la dignità di
una linea politica condivisa da tutti o quasi i francesi. Molti governi erano ostili all’avventura
irakena, ma quello francese, più di ogni altro, è sembrato resistere ad una guerra che – tutti lo
sapevano – si sarebbe comunque fatta perché era già stata decisa alla Casa Bianca. Così oggi si
parla di una politica estera “americana” e di una “francese”, percepite come alternative. L’arte
politica imita la natura dei cuori nazionali.]
Così, nell’Ipersemplificazione planetaria l’Occidente pare diviso in due. Da una parte il
Davide Francia che vuol fare dell’ONU l’artefice del nuovo ordine mondiale e che coltiva il
decostruzionismo, la psicoanalisi, l’arte d’élite, la raffinatezza esausta, il relativismo storico, la
critica della modernità e il primato della filosofia. Dall’altra il Goliath USA che vuolre imporre il
nuovo ordine mondiale, la philosophy of mind e l’analytic philosophy, l’arte di massa, quello che
deve piacere a tutti, l’universalismo scientifico e democratico, l’esaltazione della modernità e il
primato della scienza e della tecnica. Goliath prevale nei vari continenti, Davide – “il partito
francese” – resiste.
Ma alla fine non fu la debole Resistenza a vincere sulle soverchianti armate germaniche?
E’ vero, solo che all’epoca il Davide-Résistance aveva dalla sua parte proprio gli americani, i
forti del mondo. La storia insegna che i deboli vincono Goliath solo quando altri forti sono dalla
loro parte.
Il cerchio e il fiume
Un parigino, anche prima di andare in prima elementare, sa una cosa fondamentale sulla
propria città: che è rotonda.
Chi vive nella Capitale – come dicono reverenzialmente i francesi – ha un’immagine
precisa di Essa, e sa sempre, visivamente, in quale punto della metropoli ella o egli si trovi. Il
logo cartesiano di Parigi, la sigla visiva della città, è ancora più popolare della tour Eiffel: un
perimetro rotondeggiante tagliato dalla curva trasversale dell’ansa della Senna. Si ritrova questa
figura ubiqua in ogni stazione del metrò, ad ogni fermata di autobus. Un romano, un viennese, un
5
P. Hollande è il segretario del partito socialista francese, capo quindi dell’opposizione. J. Bové è il più
popolare contestatore alter-mondialiste (anti-global o no global come diciamo noi) in Francia.
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londinese, un ateniese non hanno presente davanti ai loro occhi la Gestalt stilizzata della loro
città, un parigino ce l’ha sempre in testa o davanti agli occhi. Anche perché nell’immaginario del
parigino questo quasi-cerchio dove tutte le linee convergono è – virtualmente, spiritualmente – il
Centro del Mondo.
In ogni caso è al centro – non geometrico ma quasi – della Francia. Questa viene
chiamata dai francesi l’Esagono, ma la forma esagonale è un’approssimazione al cerchio:
nell’immaginario francese, Parigi è un cerchio (quasi) al centro di un cerchio.
E al centro di questo centro c’è il piccolo parallelepipedo dell’Ile de la Cité, in cui per
secoli consisteva tutta Parigi, città squisitamente fluviale. E al centro di questo centro di questo
Centro la piazza vuota costeggiata da una parte da Notre-Dame e dalla parte opposta dalla
massiccia Prefettura di polizia. I due poteri fondamentali, eterni, della civilisation française: la
chiesa e lo stato, ovvero, la Fede e la Polizia.
Ho conosciuto alcune città i cui abitanti si sentono al centro di tutto, a dispetto del fatto
che il mondo è rotondo. Molti romani, grazie al papa e alle vestigia dell’Impero antico, si
sentono ben saldi al centro dell’universo tolemaico. Si sentono invece al centro dell’universo
copernicano gli abitanti di Washington D.C., perché luogo di lavoro degli uomini politici più
potenti della terra. Fino a non molto tempo fa, anche i moscoviti si sentivano al centro
dell’universo futuro: Mosca, la terza Roma, capitale del Socialismo planetario. Quanto ai
newyorkesi, l’11 settembre hanno pagato caro il fatto di non essere solo loro a considerarsi
centro verticalizzato del mondo. Anche chi abita a Los Angeles si sente al centro dell’universo
dell’immaginario, perché nella sua città si producono le immagini – anche della sua città – che
saranno viste da tutto il mondo. Forse anche chi abita a Gerusalemme o a La Mecca o a Benares
o a Najaf si sente centrale, per ovvie ragioni.
I parigini sono tra questi ego-centrati: pensano che Parigi pensi per il resto del mondo, e
che tutto il mondo pensi a partire da Parigi.
Ma se come Caput Mundi Parigi è rotonda, nulla al suo interno lo è. Concepita prima del
1870 da Georges Eugène Haussmann, prefetto di Napoleone III, la Parigi che conosciamo è un
fascio irradiante di boulevards nel quale non si troverà mai una piazza rotonda. Tranne una:
place de la Catalogne vicino alla stazione di Montparnasse. Quando negli anni 80 l’architetto
spagnolo Ricardo Bofill creò quest’unica piazza tonda di Parigi, la cosa fece scandalo. Siccome
l’unico vero centro del Centro è lo spazio vuoto tra cattedrale e prefettura, nessuna piazza può
ambire alla forma della rotondità che connota centralità – deve accontentarsi del quadrato o del
rettangolo. In altre parole Haussmann ha strutturato Parigi come un corpo venoso dove bisogna
circolare sempre. Il fine politico-militare del prefetto urbanista, suol dirsi, era di eliminare i
dedali di vicoli che invitavano i parigini ad erigere ciclicamente barricate. Parigi è stata insomma
ridisegnata, riconcepita, in termini polizieschi, anti-rivoluzionari. E la polizia, per un parigino, è
quella che ordina sempre “circulez!”. Nella piazza rotonda ci si ferma, ci si assembra, si cospira
– in certi casi ci si rivolta - mentre in una città di ampi viali e quadrivi si deve per forza circolare,
andare avanti, fluire. Parigi è una tela di ragno che però non irretisce: irradia. Del resto, Hitler
adorava Parigi e desiderava per Berlino la sua stessa struttura urbanistica: anche lui voleva
irradiarsi.
Roland Barthes in una conferenza del 1967 sulla semiologia urbana disse che le grandi
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arterie delle città sono vissute come fiumi. E questo è certamente vero di Parigi, città
geneticamente fluviale. Anche sul fiume vero, la Senna, si circola molto: battelli turistici o
péniches, le eleganti e severe chiatte che, come bare senza anima viva, scivolano silenziose sul
boulevard d’acqua. Ma anche i famosi viali parigini sono fluidi. Sulle sue rive, ci si arresta
aggrappandosi ai bistrot, terrazze dai tavolini rotondi attorno ai quali ci si appollaia guardando le
monde, il traffico umano che fluisce.
Parigi è sempre Parigi
Nel fondo, Parigi non mi pare sostanzialmente cambiata rispetto a quando ci vivevo io,
da studente, tra 1967 e 1973. Forse è la mia ottica, perché alla mia età ci si aggrappa a quello che
non cambia per incollarsi addosso i propri residui di gioventù, anche se si accondiscende – con
prudenza - ad ammirare alcune cose nuove. Parigi è molto meno cambiata di quanto non sia
cambiata Londra, ad esempio.
La capitale britannica ha cessato di essere quell’orgogliosa eccezione insulare, dove tutto
era diverso dal Continente, dal breakfast mattutino fino all’intricatissimo sistema monetario a
base di mezze-corone, ghinee, pence, sterlings, e altre goticherie. Londra è ormai diventata una
capitale europea come le altre, in cui si sorseggiano vino ed espresso, si corteggiano le ragazze
per strada e si rubano borsellini in metropolitana. Negli anni 60 a Londra si mangiava all’inglese,
cioè malissimo; oggi invece Londra è diventata la città con i migliori ristoranti etnici al mondo.
Anche se i britannici ancora detestano l’Europa, in quanto temono che il Continente imponga la
guida a destra e l’euro – le sole differenze vistose rimaste. Temono soprattutto che la Gran
Bretagna diventi come ciò che secondo loro è il loro opposto, e che detestano: come la Francia.
In quarant’anni Parigi è cambiata meno. In fondo, nelle librerie importanti, a parte
qualche nuovo autore, si vedono gli stessi tipi di libri. I quotidiani importanti sono rimasti gli
stessi – “Le Monde”, “Libération”, “Le Figaro”, “France-Soir”. Invece “L’Humanité” – voce
ufficiale del partito comunista, un tempo venduto la domenica per strada da militanti in bluejeans – è oggi ridotto al lumicino. Persino il giornale satirico ufficiale, “Le Canard Enchaîné”,
resiste anch’esso come altre istituzioni vetuste - l’Académie Française, l’Ecole Polytechnique,
l’Ecole Normale Supérieure, l’Ecole Nationale d’Administration, le Collège de France, le Folies
Bergère. I rotocalchi danno sempre un rilievo enorme a psicologia e psicoanalisi. Nei bistrot,
sempre pieni di specchi e dove si beve il solito ballon de rouge (bicchiere di vino rosso) o la
mattina si mangia il solito croissant, ancora oggi ci si ferma a parlare per lunghe ore, magari a
leggere o a scrivere in solitudine sulla riva del boulevard-fiume. Gli odori di frites, di crêpes e di
croque-monsieur sono rimasti gli stessi, i giovani parigini spesso parlano e pensano come
parlavamo e pensavamo noi giovani a Parigi nel 1970: convinti oggi, come allora, qu’il faut
résister. Alcuni di quelli che all’epoca erano i nostri idoli culturali – Sartre, Foucault, Deleuze,
Lacan, Barthes, Bourdieu, Derrida, ecc. – sono morti, altri, come Lévi-Strauss, Todorov, Serres,
Sollers o Kristeva, sopravvivono, ma sono autori inevitabili anche per i giovani di oggi.
Come sto bene quando vado a Parigi! Qui posso assaporare i miei istinti conservatori,
travestendoli da fedeltà rivoluzionaria. Qui ritrovo la mia patria del passato, il mio passato come
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patria.
Anche la Parigi che conta – che ha innalzato il Cambiamento post-moderno a ideale
etico-politico immutabile - resiste al cambiamento de facto. Oggi come trent’anni fa, quando un
intellettuale chic ti dà appuntamento, puoi scommettere che te lo darà Chez Balzar a rue des
Ecoles, ristorante della Sorbona alternativa e prospera. O anche alla Closerie des Lilas in
Boulevard Montparnasse, rifugio di varie generazioni di scrittori famosi. Su ogni tavolo c’è una
targhetta aurea col nome di un autore famoso che l’ha frequentato, sin dall’Ottocento - il VIP
parigino che ti dà appuntamento là spera che un giorno quel tavolo dove ora sorseggia pastis
avrà una targhetta gialla anche con il suo nome.
Insomma, per farla breve, Parigi ha una forte resistenza a congedarsi definitivamente dal
20° secolo.
Certo tutto l’Occidente cambia, nel senso che si americanizza, ovvero si adegua sempre
più ad un’America che, da parte sua, si europeizza anche, per fortuna. Eppure ogni paese
europeo, per quanto americanizzato, quale più quale meno, resta se stesso, mantiene un’aria
heimisch, familiare, che lo distingue da qualsiasi altro paese americanizzato. E’ come una
persona che invecchia: ognuno “sceglie” certi caratteri specifici della senilità – tutti i vecchi si
assomigliano, in fondo. Eppure ogni invecchiato resta quello che è o è stato, mantiene la sua
nostalgica idiosincrasia.
Marianne e foulards
Ma c’è un solo concetto pervasivo della Parigi del 2004 che non aveva importanza agli
inizi degli anni 70: l’esprit républicain. Anche l’Italia è una repubblica, ma nessuno parla di
“spirito repubblicano” per denotare il suo DNA etico-nazionale. La République è il paradigma
della visione politica e civile di ogni francese - così come freedom è il paradigma dell’idealità
civile americana.
A Parigi il culto popolare della Marianne – immagine allegorica, sanculotta e femminea,
della Repubblica – è la vera religione, soprattutto di chi non ha altra religione. Non a caso hanno
dato volto alla Marianne - idolo con una ridicola cuffia ma con connotazioni erotiche - le più
belle attrici francesi: Brigitte Bardot, Catherine Deneuve, Laetitia Casta, e altre. L’euro francese
è la moneta più noiosa perché mostra sempre e solo la Marianne. I rivoluzionari dopo il 1789
non riuscirono a sostituire il culto dell’Ente Supremo o della dea Ragione a quello del dio
cattolico, eppure oggi La République è la nuova divinità, ad un tempo politica, etica ed estetica,
dei parigini. Mentre ampie fette della sterminata provincia francese restano vandeane, cioè
conservatrici e cattoliche, insomma anti-parigine.
Il punto è quali contenuti precisi dare a questo signifiant, a questo “significante” come si
dice in Francia – e qui allora sinistra e destra, moderni e post-moderni, libertini e conservatori,
divergono. Si tratta di vedere insomma se i principi solidaristici del welfare – che i francesi, in
linguaggio teologico, chiamano Stato-Provvidenza – facciano parte della religione della
République oppure siano un innesto inessenziale.
Comunque tutti sono d’accordo che la società repubblicana è laica. La divisione tra
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Religione (pratica etnica rispettabile anche per gli atei) e Repubblica è netta. In Gran Bretagna,
ad esempio – unico paese al mondo, credo, dove lo stato guida la religione, e non viceversa come
in Iran – l’istruzione religiosa è obbligatoria nelle scuole (anche se un genitore può chiederne la
dispensa). Questo obbligo è impensabile in Francia. Quando un bambino francese entra in una
scuola pubblica anche nel più sperduto villaggio del Massiccio Centrale o dell’Aveyron, egli sa
che entra in un’anti-chiesa, o in una chiesa autre, in un luogo polare e opposto rispetto alla
chiesa cristiana o alla sinagoga: nel tempio della Culture Républicaine. Poi, se è ambizioso, da
grande “salirà a Parigi” e acquisirà il codice della Capitale per poter essere ammesso anche lui
alla Cour – cortile e corte.
L’Ecole laique – creatura della terza Repubblica francese (1870-1940) – ha inventato il
famoso tablier o sarrau, il grembiule. Questa divisa egualitaria per bambini è stata poi adottata
dalle scuole statali di quasi tutta Europa. Il grembiule, versione secolarizzata e infantile della
tonaca del prete, marchia lo scolaro come officiante del culto della Scuola Repubblicana.
Anch’io, bambino italiano, ho portato fino a dieci anni il grembiulino blu con su cucito in stoffa
rossa il grado scolastico a cui ero giunto, grembiule di cui peraltro andavo molto fiero - i
bambini adorano indossare divise, ovvero travestirsi.
Questo assioma della scuola repubblicana come tempio della religione della Marianne
spiega l’ardore del dibattito – divenuto ora affaire mondiale – sul famigerato foulard delle
islamiche. Foulard un tempo era detto fichu – termine che Derrida ha sardonicamente
decostruito6, perché oltre a foulard significa anche “fottuto”, “sconfitto”, “male in arnese”.
Oggi, nell’immaginario politico francese, il foulard si oppone drammaticamente al tablier –
insomma, se si accetta il fichu delle ragazze, il tablier è fichu. Per anni – fino alla recente legge
chirachiana che proibisce ogni foulard a scuola – i francesi si sono dilaniati per decidere se
devono essere ammesse nel tempio scolastico le ragazze di fede islamica che portano appunto il
foulard o fichu. I clamori di questo dibattito sono giunti fin nei paesi islamici: due giornalisti
francesi sono stati rapiti in Iraq per punire l’esprit républicain.
E’ oggetto di dibattito molto caldo, in Francia, se lo stato debba ammettere che su patenti
e passaporti siano valide anche le foto di donne col capo coperto. La Regola Repubblicana è che
le foto di identità debbano essere a capo scoperto. Dibattiti del genere sarebbero impensabili in
Italia e in altri paesi. In Italia già il fascismo ammetteva che le monache si facessero ritrarre sulla
carta d’identità con il capo coperto, e questa dispensa oggi vale anche per le islamiche. Anche da
noi cominciano a frequentare le scuole ragazze mussulmane che portano l’hijab o il chador, ma
la cosa non solleva problemi né a destra né a sinistra - a parte qualche xenofobo del Nord.
Siccome dal fascismo in poi la scuola pubblica italiana è stata marcata dall’egemonia cattolica –
il crocefisso in aula, l’ora settimanale di religione – si trova oggi del tutto naturale che segni
anche delle altre religioni vengano ammessi. Anzi, sotto sotto il laico ridacchia compiaciuto
pensando che il crocefisso che ancora si erge nelle aule scolastiche sovrasti derisoriamente un
numero crescente di ragazzi e ragazze mussulmani. Ma la scuola italiana non è il tempio dei
Valori laici da opporre alle tenebre della Religione.
Quando, anni fa, in un convegno in Italia, evocai il dibattito sul foulard in Francia per
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J. Derrida, Fichus, Galilée, Paris 2002.
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illustrare certi paradossi della concezione liberale occidentale - che per combattere l’intolleranza
religiosa finisce con l’essere intollerante nei confronti di certe religioni - gli amici francesi là
presenti insorsero: mi dissero che non avevo capito nulla della questione. Che la scuola laica
francese esige che “nessun segno religioso venga ostentato”. Noi italiani facevamo notare che
questa proibizione assoluta di qualsiasi segno evocante la religione – ammesso che sia possibile
distinguerlo nettamente da ogni altro segno etnico – ha però l’aria di una prescrizione religiosa.
Ma negli amici francesi si agitavano troppe passioni repubblicane perché fossero sensibili alla
nostra obliqua ironia.
La lezione
Comunque, in un paese che si identifica essenzialmente nella lingua e nell’educazione di
stato, la Scuola assume un rilievo che da noi in Italia gli insegnanti sognano solo di notte. Non a
caso in Francia uno dei grandi eventi politici degli ultimi quarant’anni è stata la sollevazione
studentesca del 1968. Ma un rumeno pariginizzato, Eugène Ionesco, ha eretto il monumento
ironico più eloquente al primato francese dell’Ecole.
Da 50 anni si rappresenta sempre nello stesso Théâtre de la Huchette – un teatrino nel
cuore del quartiere latino – sempre la stessa commedia di Ionesco, La leçon, “La lezione” –
assieme all’altro classico ioneschiano, La cantatrice chauve, “La cantante calva”. Mentre scrivo
(novembre 2003) siamo arrivati alla 14.800a replica. E spesso non si trova posto perché tutto
esaurito. E’ il successo più longevo della storia del teatro occidentale?
La lezione è un capolavoro del teatro dell’assurdo anni 50. Ci mostra un anziano
insegnante celibe alle prese con una giovane studentessa che va a trovarlo a domicilio per avere
lezioni private. Il professore, dapprima timido e cerimonioso, in un impareggiabile crescendo si
trasforma poco a poco in un furibondo, irrefrenabile ed implacabile oratore, fino a che la sua
esaltazione non lo porta ad accoltellare a morte la sua sempre più sottomessa e smarrita allieva.
L’opera è aperta: il professore ripeterà la stessa cosa con la prossima allieva, senza limiti.
Si dice che questa commediola metterebbe a nudo il risvolto sado-masochistico implicito
in ogni rapporto pedagogico, anche in quello più affiatato e sublime. Ma forse i parigini vanno in
pellegrinaggio a vedere questo classico del loro teatro perché vi leggono la faccia raccapricciante
del culto francese della Scuola e della Cultura. L’insegnante serial killer di Ionesco è in effetti
una sorta di sacerdote della Scuola Repubblicana, ma la sua missione slitta in una ubris losca,
sado-erotica. E non si sente ogni francese quasi accoltellato dalla sua religione della Cultura, che
lo costringe a resistere per tutta la vita contro lo spettro delle tenebre?
La Corte delle Luci
L'organizzazione culturale francese segue un modello versagliesco che le varie
Rivoluzioni non hanno mai veramente intaccato: un Centro luminoso, come la Versailles de Re
Sole, che irraggia sapere e style. L'intellettualità francese tende a dire, alla Luigi XIV, “la culture
c'est moi”. In tutta la sterminata provincia francese un giovane di belle speranze sa che deve
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monter à Paris, salire a Parigi, anche se si trova in Normandia o nel Pas-de-Calais. Parigi è in
cima. Prevale insomma un paradigma squisitamente aristocratico di eccellenza culturale, che
contrasta con il modello grigiamente democratico – cioè massificato - che l'America sta
imponendo a quasi tutti i paesi, Cina inclusa. Questo modello nobiliare porta a trascurare gli
standard culturali generali, a coltivare un’arte snob di derisione del ridicule borghese, e a
concentrarsi sulla Cour – corte e cortile - cioè sui quei due o tre quartieri parigini dove si
produce l’80% della cultura nazionale.
Nessun paese occidentale importante ha centralizzato la produzione culturale come ha
fatto la Francia. Ho fatto da giovane gli studi universitari a Parigi: per oltre cinque anni solo di
rado ho avvertito il bisogno di andare fuori città per seguire gli eventi culturali - tranne i festival
di Cannes e di Avignone o qualche spettacolo a Strasburgo. Per seguire tutto quello che capitava
di interessante in Francia, bastava spostarsi tra le Halles, Denfert-Rochereau e la Gare d'Orsay.
Se si vanno ad esaminare gli indicatori del livello culturale - tasso di laureati e numero di
libri stampati o letti, investimenti nella ricerca e nell'educazione oltre che la produttività di
ambedue, numeri di brevetti accreditati, copie di quotidiani venduti, premi Nobel, ecc. - colpisce
quanto la Francia sia di fatto un paese di mezza tacca culturale, giusto un po' più su dell'Italia e
della Spagna. Il prestigio culturale francese è di fatto iper-concentrato nella testa parigina.
Questo paese è come un individuo con un corpo minuscolo e un po’ rachitico ma con una testa
gigantesca, sproporzionata, troppo rigogliosa.
Scandali per americani
Una illustre e affermata tradizione parigina - che me l'ha resa sempre simpatica - è la
produzione di autori scomodi e scandalosi. Dal 700 fino ad oggi il termine "autori francesi" è
stato spesso sinonimo di inammissibile snobismo, di obbrobrio per le anime pie e per le madri di
famiglia con la testa sul collo, pericolo per gli spiriti acqua e sapone. Ci si faceva la croce al solo
sentir risuonare il nome di Voltaire o di Rousseau o di Baudelaire o di Bataille. Ed è divertente
anche oggi vedere tutti i benpensanti del mondo, tutti gli accademici timorati dei vari continenti,
sobbalzare sulle loro poltrone non appena si fanno i nomi di Foucault, Lacan, Deleuze o Derrida.
La sola differenza è che alla fine del Settecento i benpensanti erano credenti e monarchici,
mentre oggi sono "scientifici" e "democratici", gente seria alla Sokal.
Ma il punto è se la scrittura o l’arte scomode o scandalose vadano protette dallo stato.
Nel 1999 intellettuali e cineasti francesi sferrarono un'ennesima campagna di "résistance contro
il Pensiero Unico americano" chiedendo allo stato più privilegi per fronteggiare l'invasione dei
prodotti culturali anglofoni. Ma si può difendere la propria cultura dal gigante americano
rifugiandosi, come marmocchi frignanti, sotto le gonne dello stato-mamma? In realtà, i francesi
che turbarono e scandalizzarono il loro tempo non compirono la loro rivoluzione culturale grazie
ai soldi dei contribuenti francesi - più spesso le fecero grazie ai soldi dei privati americani, che
venivano a Parigi a investire nella cultura parigina, per loro deliziosamente scomoda e
scandalosa.
E’ questo il paradosso: i fasti della belle époque parigina furono opera di ricchi americani
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in trasferta. Costoro, ansiosi di europeizzarsi per dimenticare le loro ruvide origini di allevatori
di bestiame puritani, scelsero Parigi come loro colonia europea di elezione. Venivano ad
aggiornarsi, a corrompersi, a Parigi. Nell’Ottocento Boston, New York e Londra erano le città
dove si facevano i soldi, Parigi era la città dove si veniva a spenderli – comprando opere d’arte,
cocottes e sottovesti femminili osées. Gli emuli di Henry James per gentrificarsi scelsero non
Londra (all’epoca l’Inghilterra era ancora la potenza colonizzatrice antipatica), non Roma
(troppo arretrata), non Berlino (troppo prussiana e austera), non Vienna (troppo imperiale), ma
Parigi. Così furono gli americani carichi di dollari ad inventare il mito di Paris come fucina delle
nuove avanguardie artistiche, capitale dell’epopea della bohème, santuario dei cafés chantants e
della vita innaffiata di champagne e merlettata da giarrettiere. Perciò in fondo non credo nella
strombazzata reciproca antipatia tra americani e francesi – da tempo, sono culture segretamente
interdipendenti, complementari.
Indubbiamente molti americani, soprattutto intellettuali, che si sentono a disagio in quel
Grand Hotel multietnico high tech che sono gli Stati Uniti, parteggiano per la Francia e non
perdono occasioni per fare una capatina a Parigi. Eppure questi francofili restano comunque
americani: l’attrazione per questi eccentrici francesi non elimina mai del tutto una loro scettica,
benpensante ilarità.
Uno di questi è Woody Allen. In un suo film recente, Hollywood Ending, un cineasta
molto newyorkese viene ingaggiato dal Sistema Hollywoodiano per girare un film. Il guaio è che
durante il tournage soffre di una cecità psicogena (evidentemente un’allegoria: un cineasta deve
diventare cieco per poter lavorare nel sistema di produzione di Hollywood!). Il film, girato da un
cieco, in America viene massacrato sia dalla critica che dal pubblico. Invece i critici francesi, e
solo loro, accolgono con elogi ditirambici questa pellicola alquanto bislacca. Commento di
Woody (che impersona il cineasta cieco): “Meno male che ci sono ancora i francesi!” Decide
così di andarsene a vivere a Parigi.
Allen – intendo qui il cineasta reale - sa bene che il suo cinema è molto più apprezzato in
Francia che nel suo paese; destino già toccato a Jerry Lewis, considerato negli US un cineasta
per bambini e a Parigi promosso a maestro del cinema modernista. Il suo Hollywood Ending pare
quindi un elogio grato alla lungimiranza parigina. Eppure anche Allen resta americano,
insomma, ride degli intellettuali parigini: dopo tutto, questi sono i soli a vedere un capolavoro in
un film rabberciato da un non vedente. Da una parte simpatia, dall’altra ironica diffidenza.
Oggi, certo, Parigi è ancora meta di elezione degli americani. Ma oggi questi americani
sono anonimi turisti che si sono fatti i soldi confezionando software per computer o comprandosi
case con i mutui. Parigi è diventata la Disneyland europea per la massa che cerca il brivido della
Cultura. Forse per questa ragione la prima Disneyland europea, quella vera, è stata edificata
proprio vicino Parigi.
Topolino sulla Marna
Come impresa commerciale, Eurodisney Resort va male. Da alcuni anni, il numero di
visitatori del parco di divertimenti a Marne-la-Vallée vicino Parigi diminuisce. Mentre scrivo
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(settembre 2004) apprendo che sul parco incombono 2,4 miliardi di euro di debiti. Su questo
mancato successo della prima Disneyland europea molto è stato detto. Non sono certo dotato di
acume imprenditoriale, eppure se fossi stato uno dei manager della Disney non avrei commesso
l’errore di mettere a Parigi quel parco così californiano.
La scelta sembrava scontata: all’epoca la capitale francese era la città europea in assoluto più
visitata e la Francia in generale resta il primo paese al mondo per flussi turistici. L’idea di
drenare sul parco di Topolino una fetta delle carovane turistiche che vanno in pellegrinaggio alla
tour Eiffel e alle Folies Bergère sembrava saggia. Ma se questi tecnocrati avessero conosciuto
bene Parigi, non avrebbero fatto quella scelta. Per un parco del genere avrei pensato piuttosto
all’area di Mestre vicino Venezia, o magari all’Andalusia.
La prima ragione per non sceglierla è climatica: Disneyland originaria è presso Los
Angeles, in un’area dove non esiste inverno. Un clima costantemente dolce rende possibile un
flusso continuo di visitatori. D’inverno a Parigi invece fa freddo, piove spesso anche a luglio, i
genitori non vi portano i bambini col brutto tempo. Inoltre, Parigi non è la classica città che si
visita con i figli piccoli – è piuttosto meta turistica agognata da coppie e comitive adulte in cerca
di emozioni amorose. Parigi non attrae particolarmente i pargoli. Inoltre, il parco a Marne-laVallée è identico a quello in California: un presepio del West americano catapultato nel mezzo
della vecchia Europa libertina. E’ come un McDonald aperto di fronte alla basilica di S. Pietro,
uno iato. I manager della Disney non hanno pensato minimamente ad europeizzare il parco, ma
chi va a visitare Parigi non intende visitare anche una cittadina del West americano, quale
Eurodisney si presenta prima facie al visitatore.
Ma c’è una ragione più profonda dell’insuccesso: il pubblico francese è americanizzato come
qualsiasi pubblico, ma nel fondo del suo cuore resiste ai simboli culturali US. E’ mancata ad
Eurodisney proprio la massa dei visitatori francesi: un padre e una madre parigini ci pensano più
volte prima di portare uno dei loro bambini ad assorbire “l’ideologia americana”. L’ho ben visto
un paio di anni fa.
Léa è la figlia unica, di otto anni, di un’attrice parigina rigorosamente de gauche, come lo
sono la maggior parte degli attori e artisti francesi. Non le era mai passato per l’anticamera della
mente di portare la figlia ad Eurodisney, è si è stupita quando mi sono proposto di
accompagnarla. La madre di Léa prima di dare il suo assenso ci ha pensato a lungo, “ma sei
proprio sicuro che è il caso di esporre Léa a quella schifezza?” Ha ceduto solo dopo strilla e
pianti della bimba, aizzata peraltro da una compagna di scuola che – superando anche lei
eurocentriche resistenze genitoriali – era già stata iniziata al parco. La madre si è ben guardata
dal venire con noi ad Eurodisney. Ovviamente, per Léa è stato uno dei più bei giorni della sua
vita. Anche perché ad Eurodisney tutto è studiato per rendere i bambini finalmente indipendenti
dagli adulti: non c’è traffico, si entra ovunque senza pagare, un mondo incantato dove gli adulti
diventano finalmente superflui. Ma le resistenze della madre de gauche non sono aneddotiche:
ogni francese, anche di destra, trova immorale portare i figli a Disneyland. No, Parigi non era il
posto giusto per europeizzare l’American Way of Fun.
Toilettes cartesiane
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Certo noi italiani siamo un popolo viziato, dal punto di vista dei servizi igienici. Quando
andiamo all’estero, la rarità o addirittura l’assenza del bidet ci affligge ancor più della mancanza
del caffè espresso, dei vini o della mozzarella. A Parigi il bidet – anche se dal nome sembrerebbe
un’invenzione francese – è un lusso quasi raro. E ci chiediamo attoniti “ma come fanno questi
parigini….?”
In effetti, negli ultimi decenni noi italiani abbiamo sovracompensato una lunga storia di
povertà che implicava, come spesso la povertà implica, un’igiene approssimativa. Oggi i miei
compatrioti ci tengono ossessivamente alla pulizia, soprattutto le donne, Hausfrauen dedite a
spolverare e risciacquare la loro magione con furibonda solerzia. L’iperpulizia degli italiani deve
cancellare un’antica macchia secolare, forse morale, di mediterranea, sontuosa sporcizia.
Sarebbe buona invece l’idea parigina, e francese in genere, di separare la tazza del cesso
dal bagno vero e proprio – ovvero, separare le deiezioni dalle abluzioni. Da una parte un bel
bagno con pretese quasi patrizie, con ampia vasca e largo lavandino – dall’altra, in uno
sgabuzzino vergognoso in tutt’altra parte della casa, l’umile tazza del cesso. Questa concezione
separativa andrebbe bene se, però, i parigini si dimenticassero spesso di mettere, accanto al trono
evacuativo, un lavandino per pulirsi. La sua assenza getta il povero italiano – viziato dal suo
bidet, che in Italia non manca nemmeno nella più misera topaia – in uno stato di quasi
disperazione.
Ma probabilmente questa rigorosa separazione architettonica tra cesso e bagno riflette
una separazione più fondamentale, più archetipica, che traversa tutta la cultura francese, la sua
societé civile. Probabilmente i parigini non si sono ancora riavuti dalla famosa dicotomia
cartesiana, secondo la quale da una parte c’è la res extensa (la materia, le cose) dall’altra la res
cogitans (il pensiero) – una separazione che rende à jamais problematica la loro intersecazione e
associazione nel mondo concreto. A livello igienico, si consuma una separazione isomorfa:
quella tra la Bellezza sensuale da una parte (il bagno con vasca, doccia e lavandino) e la Merda
dall’altra (la tazza del cesso). Da una parte il mondo erotico dei lavaggi che purificano e
seducono, dall’altra il mondo marginale, spregevole, delle defecazioni che insozzano. Questi due
atti, come due sostanze distinte, non si intersecano, non collaborano, non si armonizzano
pragmaticamente nella filosofia parigina di quello che gli americani chiamano ipocritamente
restroom, “stanza per il riposo”. Lo spirito cartesiano, divisorio, dei parigini non si riposa
nemmeno nella toilette.
“Italiani di cattivo umore”
I parigini si riconoscono senza riserve nella fulminante definizione di Jean Cocteau: “i
francesi sono italiani di cattivo umore”.
Bisogna dire che i francesi si sentono affini a noi italiani più di quanto noi italiani ci
sentiamo affini a loro. Un italiano anticonformista può anche ammirare la Francia, i francesi
italiofili invece non si limitano ad ammirarci: ci amano, molti ci adorano. Amore non
corrisposto: da recenti sondaggi risulta che per gli italiani sono più simpatici dei francesi –
nell’ordine - americani, inglesi, svizzeri e tedeschi.
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Quando i sociologi chiedono ai francesi in quale paese vorrebbero vivere, a parte la
Francia, il primo paese che indicano è l’Italia. Ma ammettono di avere, diversamente da noi, un
caratteraccio.
La scorbutichezza del parigino impressiona molti stranieri, ed è ormai entrata a far parte
dei tanti clichés etno-turistici. Da giovane, una delle poche città dove ho finito col fare più di una
volta a botte è stata proprio Parigi. La bagarre è un’istituzione parigina, come mangiare steak
frites o andare almeno una volta al Crazy Horse. Gli italiani conoscono una canzone di Paolo
Conte che recita “… e i francesi che si incazzano”, riferendosi alle vittorie di Bartali al Tour de
France negli anni 50 - ma la frase è diventata un logo per noi italiani. E quando Derrida venne a
fare un giro di conferenze in Italia, un giornale italiano importante titolò “Irascibile Derrida”.
Cosa può essere un francese, soprattutto quando è un filosofo famoso, se non spocchioso e
iracondo?
E’ vero, nella capitale europea con il maggiore afflusso turistico lo straniero può sentirsi
liquidato con sufficienza. Da una parte la maschera gentile e squisita della tipica boutiquière
parigina – “Bonjour monsieur”, “Au revoir madame”, con la cantilena a strascico finale così
tipica della politesse affettata – dall’altra una flatulenta collericità non meno autoctona.
Questo caratteraccio parigino si combina poi talvolta catastroficamente con una peculiare
pignoleria burocratica gallica, strascico caratteriale di uno stato centralizzato monarchicamente
da secoli. Ogni tanto incappi in qualche pachiderma d’ufficio che si impunta, per pura malvagità,
contro di te sfruttando al massimo l’esiguo potere che gli deriva dalla sua posizione burocratica
di controllore, dispensatore o certificatore. Di recente Spielberg ha girato un film, The Terminal,
ispirato ad un calvario reale: quello di certo Alfred Merham, malcapitato sloveno trattenuto per
giorni nel 1988 ai transfers dell’aeroporto di Roissy per tigna personale di un burocrate. La
storia aveva già ispirato un film francese7 proprio per il suo tenore ad un tempo kafkiano e
farsesco. Mi chiedo se sia davvero un caso che una storia di questo tipo sia accaduta a Parigi,
piuttosto che a New York, a Berlino o a Roma.
Il cattivo umore dei francesi è comunque una verità psichiatria, statistica: sono il popolo
che consuma più psicofarmaci e che va più di ogni altro da psicoterapeuti delle varie scuole. La
Francia batte primati di alcolismo in Occidente, e i giovani francesi si fanno canne e spinelli più
di qualsiasi altra gioventù europea.
I miei cari amici psicoanalisti francesi gonfiano il petto quando ricordano che la Francia è
il paese al mondo con più analisti – super-concentrati a Parigi. Ma di fatto la popolarità degli
analisti è solo una delle facce del prisma del malaise francese – un prima che include
psicofarmaci, crisi depressive e consumo di alcool8. Questa propensione all’addiction contrasta
7
Tombés du ciel (1993) di Philippe Loiret.
8
Questa cattiva salute mentale è stata quantificata da un’inchiesta epidemiologica – tra 1999 e 2003 –
sulle sofferenze mentali dei francesi sopra i 18 anni. Questa “Santé mentale en population générale”, resa
pubblica nel 2004, mostra che l’11% dei francesi interrogati ha conosciuto un episodio depressivo
recente, mentre il 12,8% dichiara di soffrire di ansia generalizzata. Cfr. Cécile Prieur, “Une enquête décrit
l’ampleur des troubles psychiques en France”, Le Monde, 24-24 octobre 2004, p. 6.
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con l’immagine reçue, convenzionale, del francese bon vivant, buongustaio dedito ai buoni vini,
edonista che sceglie accuratamente in una fastosa panoplia di profumi e tra
trecentosessantacinque formaggi. L’industria dell’edonismo – nella quale la Francia, con l’Italia,
resta tra i leader – è la faccia sorridente di una moneta la cui altra faccia è cupa e avvilita.
Scontentezza, mugugno, lamentazione senza fine sui nostri brutti tempi. Questo indulgere
alla doléance assume in Francia anche uno spessore politico. Dal 1981 in poi ad ogni elezione
legislativa vince sempre l’opposizione nella legislatura precedente – l’alternanza in Francia
sembra perfetta, non ammette deroghe. E’ come se i francesi fossero cronicamente delusi da chi
li governa, chiunque esso sia. E del resto una parte cospicua dei loro voti vanno a partiti fuori del
sistema: verso la xenofobia di Le Pen e Mégret da una parte, e verso i trotzkisti dall’altra. Il
sistema politico francese porta con se, come una mina, una forte componente anti-sistema. Ma
non è questo vero per ogni francese? Non porta ognuno dentro di sé qualcosa di esplosivo?
Chiunque appartenga ad una qualsiasi minoranza etnico-religiosa – ebraica, o islamica, o
maghrebina, o nero-africana, o asiatica, ecc. – e viva in Francia, ti confermerà quello che hai già
sentito molte altre volte: che negli ultimi anni in questo paese aumenta la distanza – per usare un
eufemismo – tra i vari gruppi etnici e religiosi. La République rischia di ridursi a mero ombrello
di conflitti inter-etnici sempre più decostruttivi. Anche questa rissosità intra-nazionale fa parte
del disagio francese, e aspetto ancora il sociologo che mi spieghi perché i vari gruppi etnici e
religiosi trovino molto più difficile convivere oggi in Francia che in Gran Bretagna, Germania o
Svezia. E’ come se questa inarticolata irritabilità francese contagiasse anche chi non è nato
francese, o non è nato da francesi.
Allora mi sento autorizzato ad avanzare io un’ipotesi. Mi chiedo se questa pena di
convivere – o di vivere tout court - non sia anch’essa un riflesso del codice francese: anche
l’immigrato finisce con il succhiare dalla Francia circostante il veleno agrodolce dell’orgoglio
nazional-linguistico. Oggi molti denunciano un certo ripiegamento franco-francese – questo è il
termine in voga – che rischia di isolare la nazione in una sorta di decorata e decorosa decadenza.
Ma anche l’immigrato respira questa franco-francesità: e più che altrove si convince che può
esistere solo diventando islamico-mussulmano, ebraico-ebreo, sino-cinese, maghreb-marocchino,
ecc. E se la sproporzionata conflittualità tra etnie in Francia fosse effetto di un cattivo esempio
dato dai franco-francesi?
Oso anche un’ipotesi sullo specifico malessere degli intellettuali parigini – quel
malessere che hanno incarnato figure come Louis Althusser, o Georges Poulantzas o Guy
Debord ad esempio, filosofi molto “incasinati” come si dice in Italia. In effetti l’aspirante o
riconosciuto intellettuale parigino è diviso, o dilaniato, tra due ideali contraddittori: essere da
una parte un maudit, un eccentrico o dandy inviso al bourgeois; dall’altra essere interprete dei
Diritti Universali dell’Uomo e del Cittadino. Essere ad un tempo Choderlos de Laclos e Kant, il
lascivo Sade e l’Incorruttibile Robespierre, il maledetto Rimbaud e l’austero De Gaulle. Da qui il
nervosismo, l’irrequietudine, della cultura parigina – che tanto stupisce l’intellettuale established
americano, ad esempio. Per l’intellettuale americano la sua funzione è chiara: deve contribuire
all’aumento della Happiness generale, non c’è indulgenza per i satanismi e per il rigetto radicale,
pessimistico, del mondo così com’è.
Il guaio è che l’intellettuale parigino è estromesso dalla Cour quando opta troppo
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drasticamente per la figura del Grande Maledetto o per quella della Voce Universale della
Ragione: quando diventa come il fascista antisemita Céline da una parte, o come i Nouveaux
Philosophes dall’altra. Quando risolve lo stridore della contraddizione, allora diventa un paria
nella Parigi che sorseggia ironica alla Closerie des Lilas. L’intellettuale parigino troppo risolto,
in un senso o nell’altro, non entrerà nella cour. Il conflitto, il dolore - tra l’eccentricità e il
conformismo – deve restare.
Rayonnez!
Per capire Parigi, occorre capire che in Francia contano fondamentalmente due cose:
gloire e rayonnement.
Ad ogni bambino francese si insegna che, parlando la sua lingua melodiosa, egli deve
sentirsi un centro irraggiante civiltà. Gli insegnanti vengono valutati, ad esempio, sulla base di
alcuni criteri, di cui uno essenziale è il rayonnement: la loro capacità di farsi ammirare anche
fuori delle aule scolastiche. L'irradiazione è una metafora che eufemizza e corregge le figure
malefiche dell'invasione e della colonizzazione: idealmente il faro della Ville Lumière rischiara
le tenebre e porta le luci nel mondo. A ciascun francese si chiede, nel suo piccolo, di essere un
faro simile.
Io sono un babacoul, un sessantottino francese: partecipai da studente ai moti del maggio
1968. Ero spesso presente alle tumultuose, sboccate e interminabili assemblee studentesche
nell'anfiteatro della Sorbona occupata. Una volta vi si infilò un professorino di scuole inferiori
chiaramente fuori posto, il quale osò evocare di fronte a migliaia di giovani scatenati con i
capelli lunghi il rayonnement francese. Sùbito si levò un boato di urla: "on a ras'le bol de
rayonner!", "ne abbiamo le scatole piene di irraggiare!"
Eppure, malgrado il 68, quanti francesi, anche di estrema sinistra, sono davvero stufi di
irraggiare? Solo che, di fronte all’accecante incandescenza dei modelli anglo-americani,
l'irradiamento è oggi… resistenza.
Bistrots
Se il caffè italiano è esibizionista, quello parigino è voyeurista. Nei rari caffè italiani ci si
va come ad un evento mondano, essenzialmente per farsi guardare seduti e per guardare chi
viene a sedersi. Invece il bistrot parigino soddisfa un bisogno diverso: vi si va per guardare la
gente che passa e per leggere. E per leggere intendo non solo leggere libri o giornali, ma anche
leggere la realtà esterna fluida, le belle ragazze che trottano spavalde, contemplare il mondo
come panta rei, come tutto ciò che scorre. Davanti al café, una passerella. Sedere al café è
occupare un posto privilegiato, filosofico, di osservazione.
Il pub londinese, invece, malgrado il nome – public – tende a ricomporre nel luogo
pubblico angoli privati. Per l’inglese la privacy è così preziosa che deve trionfare anche nel
luogo più pubblico. Al pub ci si siede spesso in gruppo, come una famiglia, attorno ad un tavolo.
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Non ci sono camerieri a servirti: sei tu stesso, come a casa tua, a doverti prendere la birra per
portartela al tavolo, che diventa quindi tuo luogo di colonizzazione privata. Dopo tutto, il
colonialismo inglese non è stato un trapianto ovunque della propria privacy? I barmen sono
separati da te da un bancone, isolati dal saloon da una barriera lignea: tutto il pub ha l’aria seria e
quasi solenne di una banca, che divide il mondo iniziatico dei clerks dal mondo profano dei
consumatori. Banca e privacy: i due capolavori della English Way of Life sono evocati nel pub.
Il bistrot parigino invece di solito è dotato di tavolini rotondi all’esterno e di tavolini
quadrati all’interno. Sempre all’interno è possibile combinare cartesianamente, come un domino,
questi tavolini quadrati o rettangolari. E il tavolino-cellula è duale: è per una coppia dove uno è
seduto di fronte all’altro. Se il pub inglese è una pubblicizzazione di piccoli salotti privati, il
bistrot francese è un preannuncio dell’alcova: luogo di incontro della coppia per conoscersi,
spiarsi, sedursi, sfidarsi.
Se non sei in coppia, andrai ad appollaiarti, come su un trespolo, su uno sgabello alto
davanti al zinc, “il zinco”, ovvero il bancone del café. Da tempo i banconi non sono fatti più in
zinco, oggi di solito sono in ottone giallo: ma un tempo il bistrot esibiva appunto un bancone
grigio sporco di rozzo zinco. In effetti, la matrice genetica del bistrot è popolare e pauperista,
una specie di arte povera. Davanti al tuo bicchiere di birra o di rouge, tu artigiano od operaio
cerchi di scambiare qualche conversazione disperatamente banale con il cameriere dall’altra
parte del zinc. Fuori il voyeur guarda il mondo che fluisce, dentro la coppia ai due lati del
tavolino-domino si soppesa e si verifica, e il solitario si allinea di fronte al zinco cercando nei
camerieri – di solito uomini – un interlocutore di emergenza.
Il calzolaio e il marchese
Si dice che la cultura parigina assomigli allo champagne – costosa e spumeggiante, con
tanta schiuma ma con una ridotta sostanza di alta qualità. La qualità c’è, ma…
Da ragazzo, in Italia, avevo avuto modo di conoscere già intellettuali italiani importanti,
prestigiosi, carichi di cariche e medaglie. Alcuni di loro, certo, erano anche bravi. Ma quando
arrivai a Parigi, mi sembrò di passare dal cortile di una scuola media alla Corte di Versailles. I
nostri maestri italiani mi apparvero presto rozzi e acerbi - legnosi, pesanti, accademici, poco
fantasiosi - rispetto ai frizzanti Maestri parigini. Se gli italiani erano di sinistra, imitavano una
certa rigidità del pensiero germanico, l’interminabile lagna dei filosofi di Francoforte contro
l’Orrore moderno, e la prolissità seriosa di Lukacs – mentre gli intellettuali di sinistra parigini
erano tutti al pepe o al selz, accattivanti parlatori da caffè artistico-letterario, con la bocca tutta
impastata della liquirizia delle parole e della sintassi francesi.
Eppure l’Italia da cui provenivo non era tutta da buttar via dall’Europa. Ma ancor oggi gli
intellettuali e professori italiani – a parte quell’élite di italiani che ha vissuto all’estero e che
all’estero viene invitata o tradotta – hanno l’aria di calzolai prestati alla Cultura. Mentre di solito
l’intellettuale parigino si veste in modo personalissimo, eccentrico, con strani foulard o gilets
indiani, e le parole gli zampillano addosso come schiuma di champagne, l’intellettuale italiano –
vessato e incattivito da decenni di penosi concorsi universitari – veste in grigio, con anonime
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cravatte e cerchiatissimi occhiali che gli consentono di farsi risucchiare dalla tappezzeria.
Quando parla in pubblico, sembra il prete che benedice dal pulpito o l’insegnante che fa una
lezione a studenti di primo anno: poco ironico, parla come un libro stampato, si arena
continuamente sulla piatta battigia delle frasi fatte. A Parigi c’era invece una cultura leggera,
aerea, il che non significava superficiale, anzi. Quando si andava a seminari o dibattiti sembrava
di entrare in uno Iacuzzi mentale, strapazzati deliziosamente da whirlpools intellettuali.
A Parigi, ci esaltava la sensazione di esserci lasciati alle spalle il grigiore dell’Italietta
cattolica o marxista – e di quella catto-marxista, la più grigia di tutte.
Poi crescemmo, maturammo. Ci accorgemmo che Parigi aveva cattive biblioteche,
pessime cineteche, carriere universitarie squallide, folle di lepenisti, una borghesia spesso di
mezza tacca. Avevamo confuso i marchesi di Versailles con la massa dei sudditi. Parigi è
diventata, per noi, una capitale come tante altre. Ma quanto ci ha fatto godere, quando ci aiutava
a liberarci del nostro così antico, così italico, odor di fieno!
Generazione viziata
Parigi, si sa, attrae tanta gente grazie a due miti vetusti: quello della capitale libertina e
quello della capitale intellettuale.
In effetti, fino a qualche decennio fa la Capitale era un santuario per attempati ed agiati
signori in cerca di attricette, cocotte, puttane, avventuriere. Questo mito sopravvive nella Parigi
turistica di oggi, oleata macchina per masse visitanti: il Crazy Horse e le Folies Bergère, il Lido
e Pigalle e i tanti cinema e teatri e strip-tease.
L’altro mito è quello di Paris capitale des intellectuels – di questo mito mi sono
inzuppato completamente da giovane.
Studente alla Sorbonne tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, vivevo spesso in uno
stato di ebbrezza. Quando si vive qualcosa di mentalmente eccitante, tanto più si ha bisogno di
essere eccitati – per restare all’altezza della propria eccitazione. E non solo perché per vivermi
più intensamente l’espatrio facevo ricorso periodicamente a pasticche di Corydrane,
l’amfetamina che aveva permesso al povero Jean-Paul Sartre di scrivere uno dei suoi libri
peggiori, Critique de la raison dialectique. La mia ebbrezza era dovuta soprattutto al fatto di
seguire in modo assiduo i seminari di Barthes, Greimas, Lacan, Foucault, Lévi-Strauss, e di altri
intellettuali di grido dell’epoca. Sentivo che stavo vivendo in prima persona una stagione
irripetibile, che ero testimone di uno straordinario rigoglio culturale, “c’ero anch’io!” avrei detto
ai nipotini accoccolati attorno alla mia sedia a dondolo. E su questo non mi sbagliavo: quegli
autori i cui libri divoravo e che seguivo vis-à-vis hanno lasciato, in tutto il mondo, un segno.
Tutt’oggi, quando racconto in varie parti del mondo ad intellettuali post-moderni quel che vidi e
vissi in quegli anni, vibra negli occhi dei miei interlocutori una scintilla viola di invidia. Quegli
anni furono mentalmente intensissimi: era come vivere in una festa del 14 Luglio permanente
delle idee. Ma quegli anni sono ormai lontani.
Gli intellettuali parigini della mia generazione – quella degli allievi dei mostri sacri degli
anni 60 e 70 - non sono stati all’altezza, questo è ormai evidente, dei loro maestri. Certo, tuttora
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in Francia e a Parigi in particolare fioriscono intellettuali raffinati, originali, acuti, da leggere,
come in tutti i paesi dell’Occidente. Ma i fuori-classe della mia gioventù non ci sono più. A parte
gli anziani sopravvissuti, che ancor oggi portano avanti quel che li aveva già resi celebri agli
inizi degli anni 70. Non esistono più sulla rive gauche intellettuali che squassino le menti della
nostra epoca come furono capaci di squassarle Bataille e Deleuze, Balthus e Lacan, Godard e
Derrida, Truffaut e Lyotard, Barrault e Foucault, Genet e Duras, Resnais e Levinas, e altri
ancora. Negli ultimi due secoli Parigi ad ogni generazione ha potuto sventolare davanti al naso
del mondo i suoi Grandi, ma è come se la mia generazione avesse perduto il suo turno. Mi
chiedo perché.
Forse perché siamo entrati in un’epoca in cui il modello parigino di intellettuale – il
filosofo-scrittore turbolento e un po’ dandy che riesce a turbare i contemporanei anche al di fuori
delle patrie frontiere – è tramontato. L’intellettualità parigina aveva praticato a suo modo uno
star system, a cui oggi in Occidente subentra un altro sistema, più anglo-americano, più grigio:
un’intellettualità decentrata, diffusa, ben pasciuta nei campus e nel prestigio accademico, che
non si cura di brillare al di fuori della cerchia iniziatica dei colleghi (anche se ogni professore,
anche ad Oxford, sogna il bestseller, quando malinconica cala la sera). Questa intellettualità del
Duemila scinde freddamente impegno politico e lavoro intellettuale. E se mi si citasse per
confutarmi Noam Chomsky – grande intellettuale americano molto impegnato politicamente
contro l’America – dirò che Chomsky è invece proprio un modello di engagement all’americana:
non si stanca infatti di ripetere che la sua militanza come cittadino non ha nulla a che vedere con
le sue teorie linguistiche. Invece, già con il suo famoso J’accuse all’epoca dell’affaire Dreyfus,
Zola considerava quel suo agire politico come un prolungamento organico, arto di polipo, del
suo naturalismo letterario. Per l’intellectuel – soprattutto se scrittore - tra grido politico e
performance intellettuale c’è per lo meno continuità, spesso addirittura osmosi. Forse questo tipo
di testa d’uovo parigina – qual furono anche non francesi come Bertrand Russell, Pier Paolo
Pasolini, Günther Grass, Alberto Moravia, Mario Vargas Llosa, Peter Handke, Karl Popper, ecc.
– ha fatto definitivamente il suo tempo. Se Parigi vorrà stare al passo, dovrà puntare piuttosto sui
curricula universitari e sui giornalisti. In effetti, il maître à penser parigino era rigorosamente
equidistante sia dal professore universitario che dal giornalista.
Ma può anche darsi che il mancato appuntamento dell’ultima generazione parigina con
la Gloria sia anche, indirettamente, colpa proprio di quei maestri dai quali i loro allievi ed
epigoni non sono riusciti mai veramente a schiodarsi. E’ bello aver avuto grandi maestri, come io
li ho avuti: anche se sei un po’ mediocre, elevano decisamente il tuo livello spirituale. Non ti
senti uno specialista isolato, nuoti in un acquario complice: la cultura parigina è un’aristocrazia
popolarizzata, un’élite affollata.
Ma i grandi maestri sono anche pericolosi perché è molto difficile liberarsi di loro – non
dico superarli, ma anche solo emanciparsi dal loro imperium. I grandi maestri parigini hanno
tessuto attorno ai seguaci delle magnifiche gabbie d’oro, magari con multicolori griglie art déco,
ma che rischiano, alla fine, di rivelarsi per quello che sono: soffici gabbie del pensiero.
La Ville-cinémathèque
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Per un vero parigino, la settimana comincia il mercoledì. In questo giorno della settimana
escono i settimanali su cui si perde più tempo: L’officiel des spectacles, Pariscope, le guide degli
spettacoli ed eventi della città.
Anche nelle altre metropoli esistono periodici preziosi per sapere dove andare, il più famoso è
Time Out di Londra e New York. Ma la lettura mercolediana dell’elenco di quello che offre
Parigi è un culto inaggirabile se si vuole “vivere la città”.
Parigi è la città con più cinema al mondo, e dove certamente si proiettano più film che in
qualsiasi altra metropoli. Perché Parigi è il santuario dei cinéphiles: degli eruditi, appassionati,
collezionisti storico-filologici della storia del cinema. In ognuna delle tre Cinemathèques si
proiettano in media quattro film al giorno. Ma tutta Parigi è una Cinemateca.
Nella guida degli spettacoli sono elencati centinaia di film e spettacoli teatrali, ragion per
cui spesso il mercoledì se ne va via tutto solo per leggerli. D’un tratto trovi il titolo di un film
che da dieci anni cerchi di vedere, vai subito a leggere dove e quando si proietta, e scopri magari
che lo si fa vedere una sola volta quella settimana, in quel dato cinema d’essai fuori mano. Di
solito il film a cui dai la caccia da tempo, come il capitano Akhab dava la caccia alla balena
bianca, si proietta a mezzogiorno, non so perché. Midi a Parigi non scatena il demone meridiano
come nel Medioevo: titilla la tua curiosa fedeltà alla rarità cinematografica.
Il cinema d’essai è di solito una saletta confortevole e minuscola, dove magari vedrai il
film raro assieme ad altre tre o quattro persone molto silenziose. Ci si va spesso da soli, come un
tempo si andavano a vedere film porno. Sembra una proiezione privata, insomma deve essere
chiaro che sei là per studiare, non per divertirti. Parigi è disseminata di questi studios dove si
proiettano film senegalesi o bengalesi, dell’epoca del muto o del secondo dopoguerra, classici
dell’avanguardia degli anni 20 o 60, e opere rare dei maestri del cinema asiatico: luoghi dove si
consuma il culto aristocratico, struggente, della Storia del Cinema. E’ stupefacente che la
diffusione delle cassette-video e dei DVD non abbia ucciso questo rito così parigino del cinéma
d’essai; rito felpato che intimizza l’atto pubblico e corale della proiezione cinematografica.
Anche in questo Parigi resiste.
Per amore di contraddizione logica, gli abitanti della Città Luce adorano l’oscurità
mefitica degli égouts, le vecchie fogne parigine. Una parte, alquanto ristretta, di queste possono
essere visitate pagando un regolare biglietto, ma altre parti sono percorse e persino abitate da
squatters degli intestini della città. Indubbiamente questa capitale dell’Illuminismo ha
un’attrazione particolare per l’underground, da intendersi qui alla lettera. Non a caso, in questi
locali del sottosuolo si è aperta una sala cinematografica clandestina, dove si proiettano
regolarmente film, per lo più appunto di genere underground. Questa trovata rivela il senso
antipodico della passione parigina per le sale cinematografiche, e per film marginali, rimossi,
dimenticati o inosservati: la Parigi cinematografica è la buia alcova dell’immaginario giusto
sotto la superficie della clarté, luogo di culto ipnotico delle sale buie come antifrasi alla Capitale
delle Luci.
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Il cinema della Rivoluzione
Tutto sommato, Parigi non è mai stata un centro di produzione di cinema più importante
di Los Angeles, Mosca o Roma. Eppure credo che oggi il fascino di Parigi sia inscindibile
dall’amore – forse perverso - per il cinema. Perché appunto Parigi è la capitale della riflessione
del cinema. Nel doppio senso, oggettivo e soggettivo, del genitivo del: è il luogo dove sul
cinema si riflette da chi sa riflettere, e luogo dove il cinema riflette continuamente su se stesso.
Il connubio inestricabile tra Parigi e il cinema è il vero tema del bel film di Bertolucci
The Dreamers (2003). Qui, gli eventi parigini del maggio ’68 sembrano essere un mero fondale
di cartone animato per compensare il tenore claustrofilico del film. Tre ventenni, una ragazza e
due ragazzi (di cui uno è il gemello di lei), si dedicano a vari giochi erotici e a quiz sul cinema
chiusi in un appartamento parigino pieno di vecchi libri e di vini invecchiati. Qui il regista
riprende un tema che gli riuscì benissimo in Last Tango in Paris (1973): quello dell’americano
spaesato a Parigi. Uno dei tre protagonisti, Matthew, è difatti uno studente californiano, faccia da
ragazzo perbene ottimista e un po’ imbranato secondo il cliché, catapultato nel bel mezzo di un
nido lussurioso emblematico della décadence europea. Sia in Last Tango che in The Dreamers
un americano si imbatte in una fatale ragazza parigina. Ormai nel nostro immaginario
cinematizzato, quando pensiamo all’americano in volontario esilio a Parigi non pensiamo più ad
Henry Miller od ad Hemingway, ma a Marlon Brando che, vestito di un grigio cappottino, si
aggira solo per una città un po’ fatiscente.
Il Viaggio a Parigi è tutt’oggi un momento obbligato della formazione del giovane
intellettuale US, come il Grand Tour, il pellegrinaggio in Italia, era nell’Ottocento un momento
fondamentale della formazione del giovane colto nordeuropeo. Ogni yankee è affascinato e/o
atterrito dalla cultura parigina, che secondo lui sintetizza quella euro-continentale in toto, con le
sue seduzioni ed obbrobri. Mi chiedo se il mito di Parigi – da Toulouse-Lautrec a Derrida, dal
Moulin Rouge alle sfilate di moda - non sia in fondo tutta un’invenzione americana. E The
Dreamers offre ai giovani americani in vena di aprirsi al mondo un modello turistico da favola:
soggiorno in casa di intellettuali francesi, partecipazione a perversioni ed incesti alla Bataille,
contorno barricadero e tentativo romantico di suicidio di gruppo.
Eppure, a quasi tutti il film appare anche un’interpretazione del Maggio ’68. Si dà il caso
che chi scrive avesse all’epoca proprio l’età dei protagonisti, era anche lui studente a Parigi e ha
vissuto da vicino tutto quel periodo. Non passai il maggio, come Matthew, chiuso in un
appartamento a scopare con due gemelli: trovai anche il tempo di occupare la Sorbona, di
partecipare alle manifestazioni, e di farmi picchiare di santa ragione dalla polizia. Eppure molti
che vissero quei giorni si riconoscono in quel trio del film, anche se costoro a stento paiono
accorgersi che in Francia stia succedendo qualcosa. Si riconoscono in quel trio per due aspetti:
da una parte per l’esibizionismo del godimento così tipico della gioventù dell’epoca, dall’altra
per il culto della storia del cinema.
Esibizionismo del godimento. Quando nel 1969 Jacques Lacan fu invitato a parlare agli
studenti scalmanati dell’università di Vincennes, allora quartier generale della cultura
alternativa, fu contestato – com’era di rigore all’epoca – da alcuni di loro. Lacan reagì dicendo
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che loro stessi, senza rendersene conto, funzionavano all’interno del regime che credevano di
combattere: “Il regime vi mostra. E dice – Guardateli godere.” Oggi pensiamo che “il regime”
sia soprattutto il sistema dei media: questi danno grande spazio alle rivolte giovanili – a quelle
del 1968 come di recente alle prodezze dei no-global. Le esaltano come godimenti da cui
l’average man è escluso, entusiasmi dionisiaci di una minoranza privilegiata che spavaldamente
succhia e brucia la propria gioventù. All’epoca, Parigi si pose come palcoscenico del nuovo
godimento.
Culto della storia del cinema. La realtà “di sogno” che vivono quei tre ragazzi appare la
prosecuzione di film già visti: la loro vita – ma anche la febbre politica di quei giorni – è un
Grand Spectacle cinematografico. E in effetti il Maggio ’68 fu anche la messa in scena – tanto
più riuscita che nessun regista c’era dietro – di una sceneggiatura che un’intera generazione
stava elaborando, succhiando film, romanzi, saggi e musica pop.
La trasgressione che nel ’68 veramente contò fu quella che in qualche modo ogni sogno
realizza: l’abbattimento della barriera tra immaginario e realtà.
Quando nel ’68 si passava la notte alla Sorbona su brande o materassini di plastica
bevendo pinard (vino rosso comune) e facendosi canne, per smaltire l’eccitazione non si parlava
tanto di politica: ma di cinema, teatro e letteratura. Tra un’assemblea e una manifestazione, si
trovava allora sempre il tempo per andare a vedere uno dei tanti filmini, vecchi o nuovissimi, che
il Quartiere Latino allora come oggi offre ai cine-dipendenti. E’ incomprensibile il Maggio senza
questo Impero dei sensi cinematografici.
Non deve stupire, per tutto l’Ottocento e fino a buona parte del Novecento Parigi è stata
quella che oggi sono piuttosto New York o Hollywood: la capitale dell’immaginario
occidentale. Palcoscenico per le bohèmes e trampolino di lancio delle avanguardie. Parigi è
ancora intrisa, fin nel suo midollo, dei fasti di questa spettacolarità.
Sergio Benvenuto
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