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La signorina cuorinfranti
Copyright © 2011 by Daniele Vecchiotti
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
© 2011 zero91 s.r.l., Milano
Prima edizione: giugno 2011
Copertina © Mark Owen /Arcangel Images
ISBN 978–88–95381–41–1
La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e
in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata,
fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.
Questo libro è opera di fantasia. Personaggi, fatti e luoghi citati
sono inventati dall’autore o sono utilizzati a scopo narrativo.
Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone, vive o defunte,
è puramente casuale.
Stampato in Italia nel mese di giugno 2011
presso GECA S.p.A. – Cesano Boscone (MI)
www.gecaonline.it
Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo
i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.
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DANIELE VECCHIOTTI
LA SIGNORINA
CUORINFRANTI
romanzo
{zeroI91}
A Paola Lippi Wuber
LA SIGNORINA
CUORINFRANTI
COSMETICA LEGGERA
1
Su un recente numero della rivista di chirurgia estetica Col
seno di poi, una paziente da poco sottopostasi a liposuzione
addominale raccontava la sua straordinaria rinascita postoperatoria.
«Ricordo solo l’immagine dell’infermiere che mi iniettava
l’anestesia» raccontava la protagonista del reportage «poi
una forte luce accecante, e infine una specie di videoclip in
cui, sul tema della canzone vincitrice all’ultimo Festival di
Sanremo, mi sono scorse davanti le immagini delle altre cure
estetiche – tutte inefficaci – effettuate nel corso degli anni.»
Nel dossier a corredo dell’articolo, uno psichiatra e un
teologo concordavano sulla teoria secondo la quale, al momento della morte, ognuno di noi rivede scorrere tutta la
propria esistenza in una specie di film a velocità accelerata. A
loro dire, come un’ultima occasione dataci un attimo prima
di andare all’altro mondo, ci viene concessa la possibilità di
ripercorrere nello spazio di pochi istanti tutte le fasi salienti
della nostra storia, riassaporandone le emozioni principali.
Dunque i due esperti non nutrivano dubbio alcuno: grazie
all’operazione, la signora aveva seppellito per sempre la sua
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vecchia, antiestetica identità, morendo e risorgendo in quella
che, a tutti gli effetti, si poteva definire una nuova vita.
R
A me lo stesso tipo di visione capita già ogni lunedì mattina,
quando scendo dal letto e salgo sul pesapersone.
Prendere nota di quei tre etti in più, conseguenza inevitabile di un fritto misto a cui non ho saputo resistere, o registrare i pochi grammi persi a costo di ore di sauna e pesanti
rinunce sul menu, basta ogni volta a mettere in moto la mia
memoria involontaria, e a risvegliarmi nella mente i tanti
rotoli di ricordi che mi si sono accumulati addosso.
Nuda come sono, osservo il mio riflesso a figura intera
nel guardaroba a specchio, che riesce a contenermi tutta
solo perché si tratta di un armadio a due ante, e parto con
la panoramica dall’alto in basso.
Comincio osservando le guanciotte tonde. A dispetto dei
miei trentadue anni compiuti, fanno ancora venire quella
voglia di stringerle con due dita tirandole come gomma ed
esclamando “ma che bella bimba paffuta!”.
Scendo poi sui seni, due debordanti sacche da latte che
hanno saziato l’appetito erotico di un buon numero di maschi,
ma che garantirebbero un buon sostentamento anche a una
piccola mandria di vitelli.
Circumnavigo con lo sguardo i miei fianchi di burro,
scendo con un po’ di malizia sul triangolo nero disegnato in
mezzo alla valle di cellulite delle cosce, e poi, ormai calatami
del tutto nel ruolo della bomba-sexy, gioco a fare la pin-up
extra large girandomi di spalle e offrendo allo specchio il
sederone sporto all’infuori.
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A seconda dell’umore, del piede con cui mi sono alzata,
del tempo che fa fuori o dei programmi per la giornata, traggo
le mie conclusioni, e decido se mi trovo davvero bellissima,
un giunonico trionfo dell’abbondanza, o se invece mi faccio
schifo.
Ma sul verdetto incidono assai poco le cifre nel quadrante
illuminato tra i piedi. Non ne faccio mai una banale questione
di chili, insomma.
Scoprirmi ulteriormente ingrassata può scatenarmi dentro
tutte le più classiche insicurezze oppure, al contrario, tonificarmi l’anima facendo di me una donna più robusta e ben
salda nel proprio io.
Allo stesso modo, mettere agli atti un po’ di ciccia persa
certe volte è motivo di grande soddisfazione e fiducia in me
stessa, ma spesso serve solo a rendermi conto di quanto io sia
ridicola, in questa goffa lotta contro l’impossibile. È come se
i trattamenti estetici a base di fanghi e un regime alimentare
rigoroso sciogliessero, insieme all’adipe sull’addome, anche
un po’ della mia struttura emotiva, e io, vedendomi dimagrita,
non mi riconoscessi più.
Per questo – checché ne dicano lo psichiatra e il teologo di
Col seno di poi – non ho certo bisogno di aspettare il giorno
in cui schiatterò, per fare i miei consuntivi esistenziali.
Ogni lunedì mattina, l’atto di salire sulla bilancia è già del
tutto analogo a quello di stilare un bilancio interiore.
Ma credo che tutto questo sia normale, quando si sono
passati quasi trent’anni in mezzo a cure estetiche, creme di
bellezza, unguenti dimagranti, macchine per lo scioglimento
della cellulite e un continuo, tormentato, amletico dilemma
tra benessere o non-essere.
Così anche oggi cerco di passare oltre, di evitare le domande inutili, e di non chiedermi se quei quattro etti presi
siano un trionfo oppure un fallimento. Chiudo la questione
senza darle troppo peso. La capacità di non appesantirmi
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l’esistenza con troppe autocritiche è sempre stata una mia
peculiarità, a partire dal primo barattolino di idratante viso
fino agli ultimi, superesclusivi macchinari per la cura del sé
installati pochi giorni fa.
E stamattina non saranno certo quei due o tre etti in più
sul display a ricoprire il mio buonumore di punti neri.
Il saper trarre vantaggio dal mio modo di essere, quale che
sia, fregandomene dei luoghi comuni e guardando sempre
oltre, è stato il miglior trattamento che abbia saputo riservare
a me stessa. Ha donato quel po’ di tono e luminosità di cui,
altrimenti, la mia storia sarebbe stata priva.
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2
Adolescente, mi ero avvicinata al mondo dei cosmetici solo
per assecondare mia madre che, a sua volta, si era fatta coinvolgere per assecondare la Isabella, la sua amica storica, quella
dai tempi della scuola, che lei si ostinava a definire “migliore”
solo perché in realtà era l’unica. Entrambe stavano per toccare
i cinquanta, ma, a differenza di mamma, che mai si era fatta
prendere dall’angoscia dello scorrere del tempo, già parecchi
anni prima la Isabella aveva dichiarato guerra alle rughe e ai
cedimenti strutturali, ed era diventata un’assidua frequentatrice di profumerie e saloni di bellezza. Io stessa l’avevo spesso
sentita rimproverare mamma perché, a suo dire, si trascurava
troppo, non era abbastanza attenta alla cura di sé, e più di una
volta aveva cercato – senza successo – di trascinarla in uno
dei suoi abituali sabati all’insegna dell’estetica.
Qualche volta aveva debordato e si era messa a sindacare
persino su di me:
«Dovresti aggiustarla un po’ questa ragazzina» aveva sputato un pomeriggio in mia presenza «metterla a dieta, farle
fare dell’attività fisica, insegnarle a essere più ambiziosa. Non
vorrai mica che cresca cicciona e piena di complessi?»
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Era stata Miss Qualcosa, secoli prima, Reginetta del Ginnasio Parini annata 1967 o roba analoga, e da allora non
aveva più voluto smuoversi dalla fotografia in bianco e nero
scattata in quell’attimo di vanagloria. La momentanea luce
fioca della popolarità rionale l’aveva abbagliata in maniera
così piacevole che lei non era più scesa dal podio, nemmeno quando i riflettori si erano spenti, e corona e scettro le
erano stati tolti di mano per passarli alla Bellissima ‘68. La
Isabella era il modello preciso della femmina nata carina,
cresciuta attraente, invecchiata elegante, e perciò da sempre
ferma ai valori dell’adolescenza, uno di quegli archetipi da
commedia dell’arte che qualunque donna dovrebbe combattere con tutta se stessa, un’icona del vuoto esistenziale
fatto estetica. La descrizione fedele dei suoi atteggiamenti
risulterebbe imbarazzante e offensiva (per chi la racconta,
non certo per chi ne è oggetto) perché gronderebbe dei più
triviali luoghi comuni sul binomio della “bella-e-svanita”.
Il mondo per lei era un immenso guardaroba, misurava gli
anni in collezioni autunno-inverno, e riusciva a distinguere
le diverse fasi della sua storia personale solo partendo dalla
pettinatura e dalla tinta con cui era acconciata nelle diverse
epoche. I ricordi della sua vita erano sempre legati alle sue
mise, per cui se mamma tirava fuori qualche vecchia foto
scattata in un periodo lontano, lei mai si faceva commuovere
dalla malinconia, ma preferiva perdersi in dolci memorie
su come fosse grazioso l’abitino così chic che le stava un
amore. Riusciva a dirti in quale boutique l’aveva comprato,
e quanto le era costato.
Certo io parlo così perché la Isabella mi è sempre stata
antipatica, non ho mai capito che cosa spingesse la mamma a
frequentarla e a considerarla una cara amica, soprassedendo
su tutte le mancanze di rispetto mascherate da consigli affettuosi. Mi era invece più chiaro perché lei frequentasse noi:
le serviva un contesto a suo parere brutto per far risaltare la
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sua avvenenza, la gratificava avere una specie di sorellastra
a cui dare il ruolo della sguattera, e sentirsi così una vera
principessa. E quel pomeriggio non ci suggerì i cosmetici del
catalogo in quanto davvero interessata alla nostra bellezza
ma, al contrario, per umiliarci. La sua profumiera di fiducia,
nel vederla trafficare coi campioni a marchio PerlaPelle, le
aveva fatto una faccia storta, commentando che quella era
roba da prostitute e serve, e a lei eravamo subito venute in
mente noi due.
Mamma abboccava sempre alle arcigne dimostrazioni di
affetto della sua compagna di scuola. O forse ne comprendeva lei per prima il vero senso, ma passava oltre, e cercava
di prendere solo ciò che c’era di buono.
Così una sera, dopo cena, si presentò in camera mia tenendo tra le braccia un gran carnevale di vasetti e bustine
in plastica colorata.
PerlaPelle era a quei tempi – come recitava lo slogan
stampato su tutte le confezioni dei prodotti – il Salone di
Bellezza a casa tua, vale a dire una vasta gamma di cosmetici
vari venduti per corrispondenza. Il catalogo arrivava puntuale nella cassetta delle lettere ogni due mesi, pieno zeppo
di belle signorine giovani e sorridenti, e tu potevi tranquillamente scegliere i prodotti più adatti e ordinarli compilando
l’apposito modulino prestampato. Circa tre settimane dopo
il postino suonava recapitandoti a domicilio uno scatolone
pieno di grandi speranze per la tua bellezza comodamente
pagabile in contrassegno.
La Isabella aveva ricevuto il catalogo perché tirata dentro
il meccanismo della catena di Sant’Antonio da qualche altra
conoscente ma, una volta consultatasi con la sua profumiera
e ricevuto il giudizio completamente negativo sui prodotti
classificati come “porcherie per donne di servizio e meretrici”, era stata così gentile da scrivere il nostro indirizzo sul
suo coupon-invito, regalando a noi il primo set completo
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di campioni omaggio a cui aveva diritto ogni nuova entrata
nella setta della cosmesi postale.
«Guarda, sono arrivati i belletti della Isabella!» mi disse
mamma sorridendomi entusiasta. «Che ne diresti di prenderci un po’ cura di noi?» E cominciò a dividere le piccole
confezioni di cosmetici separandole in base alla tipologia:
creme viso, creme corpo, profumi, trucchi.
Mi diede in mano il catalogo perché, consultandolo come
un manuale di istruzioni, la aiutassi a distinguere e a classificare. Sulla copertina un’enorme ostrica si apriva per mostrare
il set di flaconi di cosmetici nascosto al suo interno.
PerlaPelle – Bellezza di Valore
Signorine con la faccetta rigogliosa e idratatissima mi sorridevano dalle pagine di quel libretto diviso in sezioni, ognuna
di esse pensata per una fascia d’età e ispirata a una pietra
preziosa, di cui riprendeva la tonalità cromatica. Smeraldo
per le pelli giovani, tendenti alle impurità, Ametista per i
primissimi segni del tempo, Cobalto sopra i quarant’anni,
Diamante e Oro per una profonda azione antietà. Poi c’erano le linee-trucco, strutturate alla stessa maniera: Ambra i
fondotinta, Rubino i rossetti, Topazio gli ombretti le matite
e i mascara, Porpora gli smalti per unghie, Zaffiro i tonici e
detergenti. La mamma aveva cominciato ad aprire i piccoli
flaconcini-prova, e uno a uno me li passava perché potessi
assaggiarne il profumo e la consistenza.
«Senti questo… niente male… ha un ottimo profumo, e
si stende molto bene…»
Dieci minuti e tutti i nostri centimetri di pelle scoperta
erano diventati un’area di prova. Io già alla terza cremina
non capivo più nulla, avevo smesso di sentire gli odori, di
distinguerli l’uno dall’altro, ma continuavo a spalmarmi
roba sulla faccia, sulle mani e sugli avambracci provando a
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capire quale mi piacesse di più. Non riuscivo ad apprezzare
le differenze, non mi era affatto chiaro che cosa intendesse
mamma quando diceva che una crema si stendeva bene e
quando invece lasciava una traccia. Cercavo di notare le
differenze ma non riuscii a mentire.
«A me sembrano tutti uguali» sentenziai «anche i profumi
si assomigliano tutti.» Però il gioco mi divertiva.
Circa tre quarti d’ora dopo compilammo il nostro primo
modulo d’ordine, rigorosamente in stampatello maiuscolo,
con biro blu come specificato nelle istruzioni, e indicando
bene i codici alfanumerici degli articoli scelti.
Sono passati più di quindici anni, ma ricordo perfettamente che cosa scelsi per me: Giada Giovane, sapone purificante
per la pulizia del viso e crema idratante anti imperfezioni
coordinata, il tutto a base di cetriolo, dalle tipiche proprietà
astringenti e normalizzanti.
«Perché non prendi anche una bella crema corpo?» propose mamma, ma io rifiutai categoricamente.
«No» risposi laconica «così è già più che sufficiente.»
«Coraggio, su!» provò a insistere lei «mi va di farti un
regalo… approfittane!»
Ma io proprio non ne volevo sapere.
«Non ci penso nemmeno!» sputai aggredendola con tono
violento. «Quello che ho scelto è già più che sufficiente! A
che mi servono tutte queste porcherie?»
L’idea di accarezzarmi seno fianchi gambe e glutei per spalmarci sopra qualcosa mi spaventava a morte, era un pensiero
al quale non riuscivo ad andare incontro. Mamma sembrava
spiazzata, incredula davanti alla mia reazione eccessiva.
«Scusa» biascicò umiliata «pensavo ti facesse piacere…»
Resami conto di esser stata eccessiva, e terrorizzata anche
all’idea di giustificare un rifiuto così aggressivo, cercai di
mascherare il disagio provando a recuperare.
«Non offenderti, su» le dissi riavvicinandomi e aprendo
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un’altra volta il catalogo. «Che ne diresti di… ecco qua…
Polvere di Stelle! Un finissimo talco rinfrescante a base di
menta piperita per una pelle del corpo vellutata come non mai!»
Tra tutte le descrizioni che contenevano la parola “corpo”,
quella mi era sembrata la meno terrificante.
All’epoca non ne ero consapevole, lo capii solo col tempo,
ma quell’aggressività mi venne fuori perché fino ad allora
non ero riuscita a costruire un rapporto col mio aspetto
fisico. Avevo compiuto da poco diciassette anni, ero alta un
metro e sessanta, e pesavo ottantadue chili. Tuffandomi nel
catalogo PerlaPelle, per la prima volta mi ero confrontata
con una realtà estetica diversa dalla mia, e non avevo potuto
fare a meno di provare orrore per me stessa. La mia fantasia
iperbolica di ragazzina insicura e poco cresciuta aveva partorito un’immagine del tutto inedita: l’umiliante scena in cui
io mi accorgevo che un intero tubo di idratante corpo a me
non sarebbe bastato nemmeno per una singola applicazione.
Mamma dovette capire la natura dei miei pensieri, perché
d’improvviso smise di aprire vasetti campione. Mi guardò
con i suoi occhi teneri, un po’ tristi, e apparentemente senza
motivo mi abbracciò forte, mi diede un bacio in fronte e
disse solamente:
«Allora d’accordo! Vada per il talco alla menta piperita,
che piace molto anche a me.»
Mi sentii come se, da bambina che ero fino a pochi istanti
prima, fossi di colpo cresciuta e mi fossi trasformata in una
donna. Per tutta l’infanzia il fatto di essere grassa aveva
rappresentato uno degli ingredienti più efficaci della mia
tenerezza. Ero sempre stata una simpatica paffutella, papà e
mamma non si allarmavano se insistevo per avere due volte la
merenda, e ripetevano che “era tutta salute”. A loro parere
non dovevo ascoltare le prese in giro dei compagni di scuola,
grassa non ero affatto, robusta, tutt’al più. D’improvviso,
grazie alla Isabella e al catalogo PerlaPelle, mi ritrovavo
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obesa, antiestetica, sgraziata, disarmonica. Con quegli inediti consigli di bellezza e il suo invito a prendermi cura di
me, mamma stava rinnegando le ore e ore di frasi passate a
consolarmi quando piangevo dopo la scuola per le prese in
giro delle compagne. Cancellava tutti i suoi insegnamenti su
come reagire, e quelle sue carezze rassicuranti a conferma
del fatto che anche io ero un bella bambina. Davanti alla sua
insistenza perché ordinassi anche qualche crema corpo, per la
prima volta mi rendevo conto di essere sgradevole alla vista.
Guardai una fetta del mio viso riflessa nel minispecchietto
incluso come omaggio tra i campioni PerlaPelle, ma non vidi
una parte di me, vidi la faccia della Isabella e l’occhio truce
delle constatazioni amichevoli fatte a mia madre.
«Dovresti aggiustarla un po’ questa ragazzina, metterla a
dieta, farle fare dell’attività fisica, insegnarle a essere più ambiziosa. Non vorrai mica che cresca cicciona e piena di complessi?»
Lì per lì non ci avevamo fatto caso, ma mentre compilavamo il primo modulo d’ordine PerlaPelle sentivamo entrambe
che la filosofia di vita di Miss Patatina Profumata 1967 si era
aperta un varco e fatta strada a casa nostra. Con il nostro
pieno consenso, Isabella veniva a trasformare ciò che eravamo
state fino a quel momento, aiutandoci a cambiare noi stesse
per farci sentire più belle, più estetiche, più adeguate.
Dal pranzo del giorno dopo, senza che la decisione venisse
discussa, o quantomeno annunciata, a tavola tornarono in
auge soglioline, passati di verdura e riso in bianco.
E io lo conoscevo bene, quel rituale. Nei diciassette anni
precedenti mamma l’aveva messo in scena ognuna delle
quattro volte in cui tutti insieme – io, lei e papà – eravamo
stati dal dietologo. Pur soffrendo come cani, l’intera famiglia
metteva a statuto il decalogo dello specialista, niente pasta
a cena, aboliti formaggi e ogni tipo di salsina, e il dolce era
concesso solo la domenica. Ma ognuna delle quattro volte
in cui avevamo giurato fedeltà al piano strategico per il rag21
giungimento del peso-forma, già al secondo giorno di regime
si iniziavano a registrare i primi piccoli strappi alla regola.
«Tanto un budinetto cosa vuoi che incida?»
«Ma sì! E pensandoci bene… a cena un pezzettino di
taleggio non sconvolgerà certo il metabolismo!»
Al compimento della prima settimana di dieta, e dopo
un’infinita serie di ininfluenti eccezioni alla regola, ci ritrovavamo tutti e tre d’accordo sul fatto che le cure dimagranti
erano fatte per arricchire i dottori falliti e rendere infelici le
famiglie sane.
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