atti Le parole e le cose dei democratici Le parole e le cose dei democratici 5 5 Seminario promosso dal Centro Studi del PD dal Coordinamento territoriale del PD di Pisa, dai Giovani Democratici di Pisa e da Inshibboleth Pisa, 4-7 marzo 2011 5 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 1 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 2 Collana coordinata dal Forum Centro Studi Pd atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 3 Le parole e le cose dei democratici Seminario promosso dal Centro Studi del PD dal Coordinamento territoriale del PD di Pisa, dai Giovani Democratici di Pisa e da Inshibboleth Pisa, 4-7 marzo 2011 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 4 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 5 INDICE Presentazione Gianni Cuperlo Presidente del Centro studi PD Prefazione Francesco Nocchi 11 Segretario provinciale PD Pisa 23 Introduzione Comitato editoriale della rivista Inschibboleth 27 PLENARIA D’APERTURA Annamaria Parente Responsabile Formazione, Segreteria nazionale PD Andrea Giorgio Segretario regionale GD Toscana 33 37 Elio Matassi Professore di Filosofia della Storia, Università Roma Tre, membro del comitato direttivo di Inschibboleth Marco Filippeschi Sindaco di Pisa Enrico Letta Vicesegretario nazionale PD 41 47 53 PANEL I I democratici e il lavoro della memoria. Cosa ereditare del Novecento? Vittoria Franco Senatrice PD Claudia Mancina Professore di Etica, Università La Sapienza di Roma Michele Battini Professore di Storia Contemporanea, Università di Pisa 71 77 87 5 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 6 Vannino Chiti Vicepresidente del Senato della Repubblica 97 PANEL II Le figure e le forme dei democratici dopo il Novecento. Cosa possiamo e dobbiamo dire di centro-sinistra nell’epoca della Rete? Gianluca Giansante Ricercatore, formatore e consulente di comunicazione 107 Francesco Verducci Viceresponsabile vicario Dipartimento Cultura e Informazione PD nazionale 121 Adriano Fabris Professore di Filosofia morale e di Etica della comunicazione, Università di Pisa Giuseppe Civati Consigliere regionale PD Lombardia Mario Rodriguez Professore di Comunicazione Politica, Università di Padova 133 139 149 PANEL III Le grandi biografie della politica italiana. Chi comprende l’album dei democratici e chi esclude? Giovanni Bachelet Presidente del Forum PD per le politiche dell’Istruzione Luigi Covatta Direttore di Mondoperaio Paolo Fontanelli Deputato PD 161 177 191 PANEL IV Fenomenologia dei vizi e delle virtù della sinistra: patologie antiche e moderne, virtù volontarie e involontarie Alfonso Maurizio Iacono Professore di Storia della filosofia, Università di Pisa 207 Michele Ciliberto Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea, Scuola Normale Superiore di Pisa Susanna Cenni Deputata PD Roberto Cerreto Consigliere parlamentare 6 215 223 235 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 7 PLENARIA La politica dei giovani, le politiche per i giovani: il Partito Democratico alle prese con il futuro Chiara Geloni intervista Fausto Raciti e Rosy Bindi 247 PANEL V Quale europeismo per i democratici nella crisi dell’idea di Europa? Piero Graglia Docente di Storia dell’integrazione europea, Università degli Studi di Milano 283 Francesco Gui Professore di Storia dell’Europa, Università La Sapienza di Roma 299 Guido Montani Professore di Economia Politica Internazionale, Università di Pavia, Vicepresidente dell’Unione dei Federalisti Europei Leonardo Domenici Europarlamentare PD Ivana Bartoletti Manager e specialista di diritti umani Silvano Andriani Presidente CeSPI, Centro Studi Politica Internazionale 313 325 333 341 PLENARIA CONCLUSIVA Roberto Bernabò intervista Massimo D’Alema e Andrea Manciulli Postfazione Matteo Trapani Segretario Provinciale GD di Pisa 353 397 7 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 8 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 9 Nota editoriale Gli atti contenuti in questo volume sono stati curati da David Ragazzoni. Si ringraziano inoltre Maria Accarino per la sbobinatura delle registrazioni dei panel e delle plenarie e Michele Morandi per aver seguito il lavoro nelle sue prime fasi. E ancora, Giorgio Malet per l’editing dei testi del II panel e Matteo Trapani per l’editing della relazione di Piero Graglia. Un ringraziamento, infine, a Marco de Pascale e alla rivista Inschibboleth per la registrazione integrale delle quattro giornate di Seminario. I testi sbobinati sono stati poi editati, inviati agli autori per modifiche e riletture e infine nuovamente rivisti. Si è volutamente mantenuto il tono colloquiale della maggior parte degli interventi, anche per preservare nel volume il ricordo dell’occasione e del contesto nel quale questi sono nati. Un grazie particolare a Maria Grazia Gatti, Giorgio Malet, Giulio Nardinelli, Cristian Pardossi, David Ragazzoni ed Ermete Realacci per come hanno introdotto e coordinato le diverse sessioni di lavoro arricchendo la discussione di stimoli e spunti sempre vivi e interessanti. 9 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 10 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 11 Presentazione Gianni Cuperlo Presidente Centro studi PD Mi piace introdurre questa raccolta partendo un po’ da lontano, ricordando qualcuno che le parole le sapeva usare molto bene. Nel pomeriggio del 25 marzo del 1945 debuttò quello che forse è il capolavoro di Eduardo De Filippo, Napoli Milionaria. Accadeva un mese esatto prima della Liberazione. Quella prima rappresentazione si tenne al San Carlo di Napoli e nonostante i tempi complicatissimi il teatro era esaurito e stipato. La trama è quella che molti conoscono: Gennaro Iovine è un uomo perbene, è andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie Amalia che ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera, la figlia maggiore incinta di un soldato americano, il figlio tentato dalla malavita. Non riconosce più il proprio mondo perché, prima di tutto, non riconosce più la propria famiglia. Il terzo atto è un po’ una storia a sé: l’ultima figlia, la bambina, è malata e ha bisogno di una medicina che non si trova in tutta Napoli. Il medico già dispera quando, all’improvviso, entra in scena il vicino del ‘basso’ accanto – un uomo che Amalia ha praticamente rovinato attraverso l’usura – con la medicina in mano. Il dialogo tra la donna e il vicino è durissimo: lei gli chiede cosa vuole in cambio del farmaco; lui le risponde che non potrà restituirle nulla della vita che gli ha rubato e le apre gli occhi 11 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 12 Le parole e le cose dei democratici sulla oscenità di quella ricchezza accumulata. Poi consegna la medicina al dottore e se ne va. Per Amalia è la fine di un mondo, il crollo di un’impalcatura. Quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo-Gennaro parla e le dice quello che pensa di quella brama di ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie altrui. C’è del moralismo? Direi quanto può starne nel teatro di Eduardo. Però il talento è talento e stupisce sempre. Quindi, anche in quel passaggio così drammatico, è Amalia che reagisce in un modo imprevisto. È come se, svegliandosi dal suo sonno, si liberasse di tutto ciò che ha dentro, in uno sfogo che è uno dei momenti più intensi della commedia. O forse, a quel punto, del dramma. A me piacerebbe essere napoletano in questo tempo di imperante leghismo, ma non lo sono e non posso leggervi le battute con cui Amalia, rivolta al marito, gli chiede e chiede a se stessa: ‘Ma cosa è successo? Che cosa è accaduto nella nostra vita che ha stravolto a questo modo i nostri valori, i nostri principi? Erano anche cose semplici che però ci hanno consentito una vita dignitosa per tanto tempo’, e ripete: ‘Ma cosa è successo?’. Sono le battute finali. Il figlio torna a casa, non è andato a rubare, la figlia maggiore viene abbracciata dal padre, e il medico dice che bisogna aspettare qualche ora, anzi l’intera notte, per sapere se la bambina ce la farà. Quella bambina – è lo stesso Gennaro a dircelo – in fondo è il simbolo del paese e questo gli consente di consegnare alla storia quella battuta immortale sulla notte che deve passare. Eduardo, rievocando quella prima, ha detto di aver recitato il terzo atto in un silenzio assoluto. 12 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 13 Le parole e le cose dei democratici Poi, una volta calato il sipario, quel silenzio anomalo per il teatro è durato ancora qualche secondo sino a quando sono esplosi «un applauso furioso e un pianto irrefrenabile». Piangevano tutti: attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali del San Carlo stipati nel golfo mistico perché non c’erano posti; e piangeva Raffaele Viviani che salì sul palco ad abbracciare il maestro perché lui solo aveva saputo raccontare del dolore di tutti. E allora la domanda più banale che viene da farsi è: ‘come sarebbe oggi avere uno del talento di Eduardo tra di noi – lui o qualcuno come lui – capace di mettere in prosa la stessa domanda?’. Perché guardando agli ultimi quindici, vent’anni, della vicenda del nostro paese, è il caso di chiederci: ‘ma cosa è successo?’. Forse è la stessa domanda che sta alla base delle quattro giornate di incontri, discussioni, riflessioni che abbiamo voluto organizzare a Pisa e di cui raccogliamo gli atti in questo volume. Cosa è accaduto a questo paese che fatica tanto a liberarsi da un peso insopportabile? Gennaro-Eduardo parla della bambina malata nella stanza accanto come del paese nostro: e forse è un po’ lo stesso anche per noi. Certo c’è molto di stonato in un Parlamento umiliato, chiamato a discutere e a vagliare reati come quelli che sono stati imputati al capo del Governo. La questione, però, non riguarda il decoro. Il punto è nel contesto, nel corredo, cioè in un’idea del potere che è finito piegato al desiderio, alla proiezione di un io spinto oltre i confini storici che questo paese, pure segnato da una storia tormentata, non aveva mai conosciuto. L’interesse privato che si fa improvvisamente interesse dello Stato con una 13 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 14 Le parole e le cose dei democratici regressione politica e civile di un paio di secoli. Alla base vi è l’idea di una politica spogliata, dominata dall’interesse personale in una deriva dalla quale, secondo me, senza troppe lacrime, è scomparso ogni carisma collettivo. Il linguaggio – voi lo sapete – rivela sempre il pensiero: noi in questi anni, forse non per caso, abbiamo sempre utilizzato l’aggettivo al singolare, parlando di una ‘personalità carismatica’, di una ‘leadership carismatica’. Da anni quasi nessuno parla di un ‘movimento carismatico’, di un ‘partito carismatico’, quasi che la dimensione collettiva abbia perduto quella forza di attrazione che a lungo aveva preservato. Gli effetti sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: utilizzare lo Stato a proprio vantaggio, dettare leggi, blindare il consenso o addirittura acquistarlo per accentuare fino allo spasimo la misura di sé e del proprio desiderio, a tutti i livelli. A destra tutto questo si è tradotto in istituzioni che non sono più sovrane: oggi in Italia il primo cerchio dei collaboratori del Premier coincide, letteralmente parlando, con il suo collegio di difesa, in una logica che davvero corrisponde a una privatizzazione dello Stato: ‘La mattina mi difendono nelle aule dei tribunali, il pomeriggio mi tutelano nelle commissioni parlamentari dove scrivono le regole che serviranno la mattina dopo a difendermi meglio nelle aule dei tribunali’. A destra c’è esattamente questa paurosa regressione della dimensione pubblica – che non ha paragoni in Europa o nelle democrazie avanzate – con un uomo solo, ancora al comando, destinato a comandare fino all’ultimo istante utile. Eppure – se ne può star certi – non appena sprofonderà, un attimo dopo, secondo il drammatico co- 14 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 15 Le parole e le cose dei democratici stume di questo paese, verrà seppellito dal discredito non solo e non tanto delle opposizioni, ma soprattutto di molti dei suoi adulatori di oggi. Questa è la destra. Ma di qua, dall’altra parte – ed è la ragione delle giornate pisane – in quella dimensione culturale e politica che è stata la sinistra italiana, il centro-sinistra italiano, la domanda, anche scomoda, che credo ci si debba porre è: ‘Noi possiamo dirci del tutto innocenti?’. Possiamo credere di non avere delle responsabilità nella discesa del paese verso un costume confuso, verso un linguaggio così impoverito? E non dovremmo chiederci anche noi, un po’ come fa Amalia nel terzo atto: ‘Ma cosa è successo?’? In fondo l’Italia è stata ed è un grande, un grandissimo paese, uno dei più grandi dell’Europa e del mondo, dal punto di vista della propria tradizione, della propria cultura, delle proprie radici. Da dove arriva, allora, questa ondata di cinismo che troppo spesso ha spinto la politica a pensare che tutto si potesse ridurre alla tattica o all’efficientismo? Abbiamo assistito alla presentificazione del tempo e della politica, mentre il senso comune del paese sotto i nostri occhi cambiava natura, e perdeva persino alcuni dei tratti profondi della sua storia e del suo civismo. Quando è stato, se c’è stato, il momento in cui ci siamo come assopiti? Io lo chiedo anche alla mia parte, alla mia esperienza politica precedente. L’onda, la risacca si è spinta fino a portarci via i vestiti, che magari non erano troppo eleganti ma erano i nostri, lasciandoci a sperare di indossare gli abiti di altri. Lo dico perché se, tra tante colpe, ce n’è una che la destra non ha, è di aver suggerito a tutti di imitarla, perché quella in fondo era la sua 15 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 16 Le parole e le cose dei democratici missione. A volte lo ha fatto con uno stile più presentabile, ma i suoi valori di fondo negli ultimi trent’anni c’erano e si sono visti. Lo si capisce bene, almeno io l’ho capito in maniera abbastanza illuminante, leggendo il testo dell’audizione che Alan Greenspan – il potentissimo capo della FED americana – ha rilasciato ai deputati del Congresso. È un’audizione del 2008, quando la peggiore crisi del secolo oramai era un tratto manifesto, e l’uomo che era tra i maggiori responsabili di quella situazione – a fronte di un’economia saltata per aria e con una situazione gravissima delle banche e degli istituti di credito – dice sinceramente quello che pensa. Lo fa con queste parole: «Ho trovato una falla, non so quanto grave o duratura, ma il solo fatto che esista mi ha sconvolto». Allora un deputato democratico gli chiede: «In altre parole, Lei ha scoperto che la sua visione del mondo, la sua ideologia non era giusta, che non funzionava», e Greenspan risponde: «Proprio così, è esattamente questo che mi ha colpito, perché sono andato avanti per più di quarant’anni nella certezza assoluta che funzionasse benissimo». Viva la sincerità! Ma questo è accaduto: è crollato un modello economico, finanziario, politico e sociale fondato su valori solidissimi, e in quel modello per tanto tempo le figure centrali sono state consumatori e proprietari. Si racconta – non so se l’aneddoto è vero – che la signora Thatcher brindò la mattina in cui le comunicarono che il numero degli azionisti aveva superato il numero degli iscritti ai sindacati. Dal suo punto di vista si trattava di una vittoria, non c’è dubbio. Poiché, però, la maggior parte della popolazione non era in grado di giocare quella par- 16 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 17 Le parole e le cose dei democratici tita, le diseguaglianze aumentarono, e noi oggi facciamo i conti con società che sono più ingiuste, più insicure e, nel complesso, anche più infelici. Questo non è stato un fenomeno banale: in fondo, se ci pensiamo un istante, più o meno dalla fine del XIX secolo fino agli anni Settanta del Novecento le società avanzate dell’Occidente sono progressivamente diventate, tutte – qualcuna più, qualcuna meno – meno diseguali. Molto lo si deve alle culture di questa parte del campo, grazie alla tassazione progressiva, ai sussidi pubblici, al welfare: le democrazie moderne, cioè, hanno operato per liberarsi dal problema degli eccessi di ricchezza e di povertà. Negli ultimi trent’anni questa tendenza si è invertita, e non solo nei fatti, negli indicatori economici, ma, per la prima volta dopo decenni, si è invertita culturalmente: la diseguaglianza, con il correlato di società sempre più diseguali, non è più stata considerata un disvalore. Insomma, di là c’è stato un pensiero e in quell’impostazione elementi come l’etica pubblica e uno Stato regolatore contavano molto meno o finivano addirittura per non contare affatto. Noi – e credo che i contributi qui raccolti siano preziosi per ragionare anche di questo – forse abbiamo sottovalutato per una fase il bisogno di contrapporre a quel pensiero, che era un pensiero solido, storicamente forte, un impianto diverso e non per forza meno ambizioso. Il PD – almeno così l’ho inteso io – lo abbiamo voluto esattamente per colmare questo ritardo. Intendiamoci: in parte ha pesato anche la forza degli eventi ma la riflessione de Le parole e le cose dei democratici, può aiutarci a scavare un po’ più a fondo anche sui limiti della cultura politica e 17 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 18 Le parole e le cose dei democratici di governo della nostra parte. Lo dico con un esempio che è parziale, come tutti gli esempi, ma secondo me indicativo e che si trova nel bellissimo ‘testamento’ di Tony Judt, Guasto è il mondo, pubblicato in Italia da Laterza. L’esempio parla del nostro campo: alla metà degli anni Novanta, nel 1996 per l’esattezza, l’amministrazione Clinton varò una legge sulla responsabilità personale e sulle opportunità lavorative: lo scopo era ridurre il numero degli individui a carico dell’assistenza pubblica negando le prestazioni sociali a tutti quelli che non avevano accettato un’occupazione retribuita. Considerando che in questo modo un datore di lavoro poteva trovare un lavoratore a qualsiasi salario, perché c’era un elemento oggettivo di ricatto, oltre a sgravare l’assistenza pubblica si ottenne anche di ridurre i salari e i costi delle imprese; inoltre il welfare, o, meglio, quel modello particolare di welfare che esiste anche negli Stati Uniti, acquistò un esplicito marchio negativo: era un po’ un segno di fallimento personale, la prova che si era precipitati ai margini della società. Tony Judt, provocatoriamente, fa un paragone: quella legge – afferma – ricorda un’altra legge, assai più antica, approvata in Inghilterra quasi due secoli prima, la New Poor Law, del 1834, descritta compiutamente da Dickens in Oliver Twist. Quella legge obbligava gli indigenti del tempo a scegliere tra un lavoro a qualsiasi salario oppure l’umiliazione dell’ospizio per i poveri. Ma per il successivo secolo e mezzo i riformatori hanno cercato con ogni mezzo di abolire queste pratiche degradanti: quel tipo di legge è stato sostituito da una rete di assistenza da parte dello Stato che è stata concepita per la prima volta nelle democrazie come una forma di cittadinanza, come un di- 18 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 19 Le parole e le cose dei democratici ritto, e noi siamo esattamente i portatori di quella cultura. Chi non aveva un lavoro non era più considerato responsabile della propria sventura, ma più di ogni altra cosa gli Stati sociali del XX secolo hanno decretato che definire lo status civico di una persona in ragione della fortuna o della sfortuna, del censo o della famiglia in cui si è nati, era un’autentica indecenza. Precisamente da qui veniamo noi. La destra in questi anni ha tentato di riportarci invece a quell’approccio tardo-vittoriano, e anche il nostro vocabolario ne ha risentito. Dal momento che noi non solo pensiamo in una lingua, ma la lingua, come è stato detto autorevolmente, pensa con noi e a volte pensa per noi, abbiamo finito con l’usare più frequentemente le parole degli altri, rinunciando talvolta a cogliere la radice di umanità, l’umanesimo profondo che era contenuto nel nostro vocabolario, a partire da quella straordinaria parola di cui discuterete in questi giorni, ‘uguaglianza’ e, con essa, le espressioni ‘libertà’ e ‘responsabilità’. Affrontare questi temi non è qualcosa di molto distante dalla miccia che ha incendiato il Mediterraneo con movimenti prevalentemente di giovani, dove in maniera molto stretta si saldano bisogno di libertà, rivolta sociale e domanda di futuro. È l’idea, tutto sommato antica, che i diritti non siano un bene astratto ma il risultato storico di traguardi e anche di conflitti. Se però si affida al mercato e solo al mercato questo enorme capitolo della democrazia, si corre il rischio di perdere lungo la via sia la politica sia la cultura: la conseguenza sarà una società consapevole di quanto costino le cose, ma meno consa- 19 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 20 Le parole e le cose dei democratici pevole di quanto esse valgano. Prima o poi, allora, penso che dovremo fare quello che fecero le forze politiche e i grandi intellettuali in Italia dopo il fascismo. A lungo ci si è interrogati su che cosa fosse stata la cultura al tempo del fascismo e se si potesse parlare di una cultura fascista in senso proprio. Tre grandi intellettuali come Bobbio, Garin e Del Noce, diedero risposte diverse. Bobbio, ad esempio, ha sempre negato risolutamente l’esistenza di una cultura fascista. Ma, indipendentemente dalle risposte, io credo che, forse con minori ambizioni, una domanda analoga dovremmo porcela anche noi. Dovremmo chiederci se c’è stata, e che cosa ha prodotto, una cultura negli anni della destra e in particolare di questa destra berlusconiana. In fondo, abbiamo voluto e pensato in questa logica l’appuntamento di Pisa. Penso alle dichiarazioni di intenti di Vittorini sul primo numero del Politecnico, dove scriveva: «vogliamo far sorgere una nuova cultura che aiuti a eliminare lo sfruttamento e a vincere il bisogno, la cultura italiana del dopoguerra». Era un programma molto ambizioso, forse troppo. Tuttavia, tra quel traguardo così elevato e un ripiegamento culturale, credo che debba esserci una via mediana, anche dotata del coraggio di andare contro lo spirito del tempo e contro il sentimento prevalente. Io penso che lo avesse capito benissimo un uomo come Tommaso Padoa-Schioppa quando, in controtendenza rispetto allo spirito del tempo, andò in televisione a dire, col sorriso sulle labbra, che pagare le tasse è una cosa bella in una democrazia, perché serve a garantire le scuole pubbliche, i teatri, gli spazi civici dove la demo- 20 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 21 Le parole e le cose dei democratici crazia si manifesta e si esprime. Per quella battuta venne crocifisso. Tutti noi, forse, avremmo dovuto difenderlo di più, perché il suo era un modo di introdurre nel dibattito pubblico di questo paese la reazione giusta a un clima. A quella domanda – ‘che è successo?’ – noi dobbiamo dare una risposta. E allora, in assenza di un genio come Eduardo De Filippo che ci suggerisca le battute finali, l’unico modo, secondo me, è tornare a fidarci di noi e ricucire la trama di coerenze e buone pratiche, fuori dalla logica della retorica dei palchi e degli studi televisivi; in fondo si tratta soltanto di ripartire dal paese che c’è, che esiste, che è vitale, che è ricco, che è bello e che tutto ci chiede meno che un’alternativa grossolana tra la povertà e le paillettes. E allora ha da passà ‘a nuttata anche per noi, ma prima tocca a questo paese svegliarsi: noi lo stiamo spronando in questa direzione. Stiamo cercando di spiegare che senza PD questo risveglio non ci sarà o sarà molto più complicato, perché oggi questo partito è la sola vera speranza di rinascita e di riscossa, di risorgimento verrebbe da dire, se non fosse un termine troppo ambizioso, per un paese segnato da un degrado civile e morale che non trova riscontri nella nostra storia recente. Ecco: di questo e altro ancora abbiamo discusso a Pisa con l’auspicio di aiutare il PD non solo a vincere le elezioni, quando saranno – speriamo presto – ma soprattutto a motivare il senso profondo e la prospettiva della nostra esistenza. Un senso e una prospettiva che davvero, come si diceva una volta, vengono da lontano. In questo senso ho sempre apprezzato molto la citazione di Adam Smith che tanti, tanti anni fa diceva testualmente: «nessuna so- 21 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 22 Le parole e le cose dei democratici cietà può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile». Lo diceva il padre dell’economia moderna, un uomo che non per caso è stato, prima di tutto, un filosofo morale e poi un economista. A noi tocca incamminarci su quella strada. 22 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 23 Prefazione Francesco Nocchi Segretario provinciale PD Pisa I partiti della Prima Repubblica avevano pregi e difetti, anche se la storiografia recente tende a enfatizzare soprattutto i secondi. Tra i pregi c’era sicuramente l’attenzione dedicata alla formazione politica. Era un impegno oneroso, in termini sia di tempo che di risorse. Ma dava i suoi frutti. Come spesso accade, il valore delle cose risalta maggiormente quando non ci sono più. E questa è una mancanza che si fa sentire, oggi che la politica italiana attraversa una delle stagioni più difficili, in termini anzitutto di credibilità. È anche per questo che siamo orgogliosi di quello che abbiamo organizzato a Pisa. Se avete tra le mani questa pubblicazione significa che il Seminario di formazione politica Le parole e le cose dei democratici è stato un successo. Lo testimoniano i numeri, anzitutto: 250 partecipanti, per la maggior parte ragazzi, provenienti da tutta Italia. Otto ‘lezioni’ in tre giorni, durante le quali si sono confrontati decine di docenti universitari, politici, giornalisti e analisti, tutti a vario titolo autorevoli protagonisti della storia recente del nostro paese. Ne è emersa una riflessione approfondita, connotata da un respiro più ampio di quello permesso dall’attualità mediatica, troppo condizionata da spazi ristretti e ritmi serrati. Nell’era della comunicazione istantanea, abbiamo provato a riappro- 23 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 24 Le parole e le cose dei democratici priarci di un certo modo di ragionare, caratterizzato da tempi più lunghi. Quelli che sono propri, per l’appunto, dei momenti formativi. E non sta a me dire quanto, in questo momento, ci sia bisogno di incidere sulla cultura politica, la base valoriale, i modelli di riferimento. Soprattutto delle giovani generazioni. In ballo c’è un’identità forse ancora da costruire, certamente da rafforzare. Uno dei pregi del Seminario è stato quello di far convivere la riflessione sul passato con lo sguardo gettato sul futuro. E così a discussioni sulla memoria del Novecento e sulle grandi biografie della politica italiana si sono affiancati incontri sull’Europa e la Rete. Sempre mantenendo fisso il Partito Democratico come orizzonte di riferimento. Tutta la tre giorni pisana può essere intesa come un contributo al rafforzamento del PD e di quella cultura riformista che è propria del centrosinistra, italiano ed europeo. Quando abbiamo deciso di organizzarlo, questo evento ci entusiasmava ma ci incuteva anche un certo timore. A Pisa – città che pure vanta una tradizione politica con pochi eguali – non c’era mai stato nulla del genere. Oggi possiamo dire con un certo orgoglio che il risultato è andato perfino oltre le nostre aspettative. Questo ci incoraggia a riprovarci. Pisa ha dimostrato di possedere forza, competenze e capacità sufficienti per ripetersi. Vorremmo trasformare il Seminario 2011 in un appuntamento fisso, e fare di Pisa la sede permanente di uno spazio formativo dedicato soprattutto ai giovani. Se però il successo ottenuto ci spinge a pensare già alla seconda edizione, non possiamo dimenticare chi ha reso possibile lo svolgimento della prima. Con impegno e passione. A partire ovviamente dai relatori e da tutti coloro 24 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 25 Le parole e le cose dei democratici che hanno partecipato alle lezioni. Poi gli organismi dirigenti e il personale del PD di Pisa, e soprattutto i Giovani Democratici. Senza di loro probabilmente non ci saremmo neanche avventurati in questo progetto. Infine un ringraziamento particolare ad un relatore che...non c’era: Miriam Mafai. È inutile dire quanto ci avrebbe onorato la sua presenza. L’abbiamo invitata, non ci ha potuto raggiungere. Ma l’interesse che ha mostrato e la gentilezza con cui ha risposto ci impone anzitutto di ringraziarla, ma ci fa anche sperare di poterla avere con noi in futuro. Insieme a tutti gli altri. 25 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 26 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 27 Introduzione Per una rifondazione del concetto di laicità ll Comitato editoriale della rivista Inschibboleth L’espressione «Schibboleth», in cui si riconoscono un gruppo di intellettuali che guarda con grande attenzione al Partito Democratico, è sicuramente molto di più di una semplice suggestione letterario-filosofica. L’origine-costellazione semantico-concettuale si può ritrovare nella silloge dedicata da Jacques Derrida al grande poeta di lingua tedesca Paul Celan, Schibboleth-pour Paul Celan, in cui viene ad indicare in primo luogo il valore della con-divisione, un valore che esprime contestualmente «la differenza, la linea di demarcazione o lo spartiacque, la scissione, la cesura, quanto, d’altra parte, la partecipazione…». Si tratta di un paradigma prezioso per il legame indissolubile istituito tra differenza, linea di demarcazione e partecipazione/con-divisione e può essere utilizzato utilmente per una riformulazione del concetto di laicità che sia in grado, senza avventurarsi in semplificatori ed impraticabili eclettismi, di rinnovare categorie e linguaggio del Partito Democratico. Rinnovamento che non potrà prescindere da questa struttura aperta di con-divisione e partecipazione; lo spazio politico riempito da tale con-divisione non dovrà mai essere alternativo alla realizzazione dell’individuo quanto piuttosto il luogo del confronto e del riconoscimento reciproco. 27 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 28 Le parole e le cose dei democratici Ovviamente per una revisione-approfondimento del concetto di laicità non possono essere ignorati i problemi emersi nell’ultima parte del secolo XX, la sfida della globalizzazione e delle società multiculturali. Sono in proposito interessanti le risposte fornite in primo luogo da Habermas. Per il filosofo tedesco la società contemporanea è una società «postsecolare», ossia una società che «deve prevedere il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato». Una società compiutamente secolarizzata nella quale, tuttavia sia venuta meno la collisione fra una forma mentis laico-militante (laicista) e la forma mentis religiosa. L’auspicio conclusivo di Habermas, che si può largamente condividere è, dunque, quello della formazione di una «sfera pubblica polifonica» (l’aggettivazione musicale risulta in proposito molto pregnante), in cui le ragioni religiose e quelle secolari possano coesistere ascoltandosi reciprocamente. Una sfera pubblica, concepita come inclusiva e non esclusiva, che ponga fine all’ingiustizia di richiedere dallo Stato liberaldemocratico ai suoi cittadini credenti una suddivisione d’identità (in una parte pubblica ed in una privata). Un’interpretazione critica del paradigma francese di laicità, di cui rappresenta una versione alternativa importante, quando recita che «la generalizzazione politica di una concezione del mondo di tipo secolare non è compatibile con la neutralità ideologica del potere statale, che garantisce eguali libertà etiche per tutti i cittadini». Abbiamo scelto intenzionalmente Habermas e la sua proposta di una rifondata ed allargata nozione di laicità in quanto crediamo fermamente nella funzione di una rinnovata ‘teoria critica’ che sappia leggere nel profondo e filtrare criticamente l’idea di ibridazione che ha governato 28 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 29 Le parole e le cose dei democratici il destino della modernità occidentale. Anche in questo caso il Partito Democratico è riuscito ad esprimere una proposta, interessante sul piano teorico, e costruttiva su quello politico. Si può consultare in proposito il recentissimo libro di Vannino Chiti, Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo (Firenze, Giunti, 2011). 29 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 30 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 31 PLENARIA D’APERTURA 31 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 32 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 33 Annamaria Parente Responsabile Formazione, Segreteria nazionale PD Nel tempo a mia disposizione, vorrei riflettere sul rapporto tra cultura politica e formazione, sullo stato della democrazia nel nostro paese in rapporto al ruolo dei partiti e sui compiti della formazione politica. Infine, mi eserciterò a condividere, insieme a voi, le parole e le cose del nostro PD, come recita il bel titolo del Seminario. In questi giorni, come Dipartimento Nazionale Formazione, stiamo completando una ricerca, che diffonderemo a breve, sulla formazione politica nei principali partiti europei, con un excursus anche su Stati Uniti e Brasile. Una delle cause di crisi della democrazia consiste, a nostro avviso, nella rottura del circolo virtuoso tra cultura politica, organizzazione e formazione delle classi dirigenti. È significativo che su questo versante l’ultima ricerca strutturata risalga agli anni Novanta del secolo scorso, a vent’anni fa. I curatori di questa ricerca riflettevano sulla crisi dei partiti di massa e sulle problematiche della democrazia rappresentativa e individuavano nell’aggiornamento e nel rilancio dell’attività formativa, nel cuore degli anni Novanta, un possibile rimedio alla crisi stessa. In questa ricerca la formazione veniva vista come una necessità per i partiti, non tanto per conservare il loro ruolo, quanto per mantenere la caratteristica di partiti democratici e popolari. 33 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 34 Le parole e le cose dei democratici Credo che questo sia ancora molto attuale nel 2011. Lo è sicuramente per la costruzione del nostro giovane PD, dove la formazione politica può contribuire allo sviluppo di un partito democratico e popolare. Gustavo Zagrebelsky sostiene che in questo momento storico bisogna ridare anima alla democrazia. E non bastano le Carte costituzionali, non basta neppure la nostra, che è bellissima: per rianimare la democrazia è fondamentale un ethos diffuso. Quando Zagrebelsky definisce l’art. 1 della Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica» – egli scrive che, da una parte, si tratta di una descrizione della forma politica del nostro paese, ma che, dall’altra, è una norma programmatica, che invita ad un’azione per la democrazia. Pensate, ad esempio, alla scuola pubblica, al tentativo del suo smantellamento da parte di questo governo: avremmo immaginato fino a qualche anno fa di dover difendere e precisare il carattere pubblico della scuola? La scuola pubblica è un diritto del cittadino, costituzionalmente previsto, è un diritto dei cittadini! Eppure la norma non è sufficiente a metterci al riparo, è necessario sempre ‘agire’ per la democrazia, stimolare costantemente una ‘passione’ diffusa per essa. Ancora Zagrebelsky afferma che «due sono i modi per prosciugare la democrazia: chiuderne le condotte o spegnerne il desiderio». Probabilmente in Italia corriamo tutti e due questi rischi. Per riaccenderne il desiderio – qui vengo al compito del partito e della formazione politica – bisogna riscoprire il senso del ‘noi’ nella politica, la partecipazione dei cittadini e delle cittadine alle scelte. 34 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 35 Le parole e le cose dei democratici È necessario inoltre porsi la domanda: dove e come si forma l’opinione pubblica? Molto spesso attraverso il canale televisivo. Prima i partiti venivano definiti ‘facilitatori’ della formazione dell’opinione pubblica: adesso, invece, in questo mondo in cui siamo bombardati da immagini e informazioni, è molto difficile per le persone costruirsi un’opinione basata su una profondità di analisi. È molto importante per il Partito Democratico creare luoghi come questo e come tanti altri in cui si sviluppa ‘senso critico’. Hannah Arendt scriveva, riferendosi all’avvento della società di massa, che noi viviamo in una sorta di ‘fabbricazione di immagini’. Dobbiamo rompere questo muro. Come i grandi partiti di massa, anche attraverso le scuole di politica, hanno contribuito fortemente alla partecipazione allo spazio pubblico di intere generazioni e all’emancipazione stessa di molte persone, i partiti odierni devono impegnarsi per una nuova ‘alfabetizzazione democratica’. Per questo i principali terreni di impegno del Dipartimento sono essenzialmente tre: la formazione per gli amministratori, con un portale dedicato in cui raccogliamo esempi di buone pratiche locali e una piattaforma di Formazione a Distanza. La nostra parte politica storicamente fa ‘scuola’ di governo del territorio. Vi propongo di aprire anche qui, come in altre zone del paese, un Laboratorio di politica sulle prassi di buon governo locale; la scuola estiva di Cortona, cui molti di voi partecipano. Il tema per il 2011 è Democrazia e Crescita Economica; Officina Politica, un percorso di formazione ‘lungo’ di un 35 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 36 Le parole e le cose dei democratici anno per quaranta ragazzi e ragazze sotto i trent’anni, provenienti da tutte le Regioni italiane. Chiudo con un esercizio sul titolo: Le parole e le cose dei democratici. Le nostre parole, le nostre cose, devono nascere, crescere, coltivarsi, in un ambiente ‘caldo’, in un alveo di comunità: quando si fa formazione, si sta insieme, ci si esercita a stare nell’agorà della politica. La formazione è anche ‘affettività’ perché la politica, per ritrovare quel senso del ‘noi’, deve accompagnarci in percorsi collettivi per compiere azioni per la democrazia e condividere passione politica. Il nostro partito sta compiendo da qualche mese un percorso programmatico, iniziato «quasi in clandestinità», secondo l’espressione del Segretario Bersani. Percorso che ha alla base valori e idee forti, ‘le nostre parole e le nostre cose’: comunità, solidarietà, coesione sociale, uguaglianza nel rispetto delle differenze, il lavoro come nostra identità fondante, lo sviluppo sostenibile. Quindi da queste parole forti, da queste cose forti stanno discendendo le nostre proposte. Il punto adesso è approfondirle, organizzarle, diffonderle nei Circoli. Accogliendo anche le proposte dei cittadini e delle cittadine per fare democrazia, praticarla, costruire sempre di più il nostro partito, perché il PD ha tutte le carte in regola per essere sempre più forte in Italia e in Europa. 36 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 37 Andrea Giorgio Segretario regionale GD Toscana Come Segretario dei Giovani Democratici regionali, da poco eletto peraltro, voglio ringraziare l’organizzazione pisana, il partito pisano, e tutti i livelli del partito che hanno permesso di essere qui oggi e per tutto il weekend a parlare e a praticare qualcosa che spesso sembra esser scaduto e relegato alle prassi del secolo passato: la formazione politica. Viviamo il serio rischio, infatti, attraverso la televisione, che tutto sia banalizzato e trasformato in comunicazione: rischiamo di approdare a una concezione della politica per cui tutto è semplice, tutto è fattibile, e in questo quadro la formazione diventa démodé, un argomento di cui non parlare e un’attività da non praticare. Io credo invece che la formazione debba essere, e sempre di più, elemento centrale della vita del Partito Democratico e dei Giovani Democratici. È la formazione l’unico strumento attraverso cui provare a ricostruire una nuova classe dirigente, quella che dovrà prendere il Partito Democratico in mano: la prima generazione democratica per davvero non potrà essere costruita né attraverso il trucco né attraverso la propria capacità di stare sul palcoscenico televisivo. Dovrà essere costruita, al contrario, con la preparazione, con la capacità di affrontare e risolvere i problemi: qua- 37 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 38 Le parole e le cose dei democratici lità che ci renderanno la generazione in grado di prendere e di farci consegnare da altri le responsabilità di governo che a tutti i livelli ci spettano. Nel 2011 e nel Partito Democratico la formazione di partito sicuramente non basta: ai giovani di oggi, a chi farà politica domani, servirà aver fatto anche altro: aver viaggiato, essersi confrontati con i giovani europei, aver fatto l’Erasmus. Servirà, insomma, riuscire a portare, anche costruendolo con le proprie esperienze all’estero, uno sguardo sul futuro. In questo dobbiamo riuscire a mettere a confronto nuove e vecchie leve della politica, nuove e vecchie idee e visioni, nuove e vecchie culture politiche. Dobbiamo ricordarci che il Partito Democratico non viene dal nulla, non lo abbiamo trovato sotto i cavoli: ha radici profonde e occorre riconoscerglielo per garantirgli un futuro lungo. Quattro giorni di formazione e cultura politica sul tema Le parole e le cose dei democratici. «Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti qualche anno fa, ed è dello stesso parere anche un nostro parlamentare, Carofiglio, in un suo recente libro. È indubbio che noi abbiamo bisogno di avviare un ragionamento serio sulle parole: viviamo una condizione in cui la Repubblica, il futuro, i diritti, la dignità sembrano non avere più nessun senso oltre la retorica. Da qui dobbiamo ripartire nella nostra discussione per provare a ridare un senso e un peso a tutto questo. In merito alle cose, invece, abbiamo seriamente rischiato di costruire la sinistra del 2011 e quella del futuro sulla base di una pura rincorsa della destra. Io credo invece che sia possibile organizzare e pensare la sinistra del terzo mil- 38 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 39 Le parole e le cose dei democratici lennio senza inseguire alcuna forza politica ma mettendo al centro le nostre idee, reinterpretando i nostri valori e rendendoli vivi nell’oggi. Rischiamo invece di lasciare disorientato un pezzo consistente di società quando ribaltiamo tutto il nostro lavoro e diciamo che quanto fatto e detto fino a ieri è da buttare via del tutto. Dobbiamo tornare a dire le nostre parole: giustizia, lavoro, uguaglianza, pace, libertà, ambiente, sviluppo, Europa. La vera sfida è riuscire a far vivere questi valori oggi, senza andare a cercarne di altri; farli rivivere con nuovi mezzi, nuovi strumenti, adattarli alla società che ci troviamo davanti oggi. Credo che le nuove generazioni – i Giovani Democratici ma anche tutti coloro che ancora non fanno politica e vorranno venire a farla con noi avvicinandosi al PD – siano il vero strumento per portare il Partito Democratico nel futuro. Ne sono convinto semplicemente perché le nuove generazioni hanno le antenne sul presente e possono essere maggiormente in grado di dare una lettura del futuro, e penso che sia un loro dovere mettersi a disposizione in questo senso. Un dovere perché saremo noi le generazioni che il futuro lo vivranno e che ci si dovranno confrontare e anche scontrare. Noi siamo una generazione fatta di precari, di studenti fuori sede che non hanno più diritto allo studio; una generazione di stagisti, una generazione che ha coetanei di colori della pelle diversi, che provengono da paesi diversi, con cui oggi non riusciamo a relazionarci a causa di un sistema che li rende lontani da noi per tutele e diritti, per le prassi di cittadinanza nel nostro paese. Noi siamo una generazione che viaggia e che studia. Io credo che il Partito Democratico abbia un grande bi- 39 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 40 Le parole e le cose dei democratici sogno di momenti di confronto e discussione come quello di oggi, e abbia anche un grande bisogno di noi tutti, dei giovani e dei grandi, per essere all’altezza della sfida che abbiamo davanti. 40 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 41 Elio Matassi Professore di Filosofia della Storia, Università Roma Tre, membro del comitato direttivo di Inschibboleth Comincio partendo da una mia esperienza specifica, avviata nel giugno 2007 assieme a un gruppo di amici e colleghi dell’area italiana di filosofia morale e politica. Con alcuni politici e alcuni professori universitari, che si sono riconosciuti in questo progetto comune, abbiamo fondato la rivista Inschibboleth: una rivista che non ha ancora una veste cartacea, ma che si serve principalmente della Rete. Abbiamo calcolato tutti i rischi che un’operazione di questo di questo tipo poteva comportare, ci siamo misurati con le difficoltà della cosiddetta ‘democrazia informatica’: ciò nonostante, abbiamo ritenuto che questa fosse alla fine la scelta migliore. Non bisogna dimenticare che abbiamo avuto nel 2008 l’esperienza delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti: la vittoria di Obama è stata costruita proprio sulla Rete, con la partecipazione di tantissimi giovani, con donazioni online di persone della società civile. Le ultime elezioni statunitensi, cioè, hanno dimostrato in maniera inequivocabile che il primato della ‘spettatorialità’ televisiva che ancora domina nel nostro mondo politico è già, negli Stati Uniti, un’esperienza marginale, ormai alle nostre spalle. Abbiamo scelto, dunque, questo strumento perché ci sembrava il più democratico, nonostante tutti i rischi che questa operazione potesse comportare. Ci siamo poi in- 41 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 42 Le parole e le cose dei democratici terrogati sul ruolo degli intellettuali nella società contemporanea: non possiamo non costatare che l’esperienza dell’intellettuale organico rappresenta un’esperienza molto importante ma ormai datata. Nella contemporaneità gli intellettuali sono stati attraversati da una contraddizione di fondo: o si sono rifugiati nello specialismo iper-accademico, totalmente autoreferenziale e avulso dai problemi, dalla società in cui vivono, oppure si sono resi corresponsabili del circuito mediatico spettacolare, diventando a questo funzionali. Gli intellettuali che si riconoscono nel progetto di Inschibboleth, invece, hanno cercato, e cercano, di tenersi egualmente distanti da queste due visioni dell’intellettuale, fuorvianti allo stesso modo. È stato sollevato negli interventi precedenti il tema fondamentale della formazione politica: diventa sempre più imprescindibile e necessaria una formazione politica della classe dirigente. Una formazione politica di cui ha bisogno, certo, il nostro partito ma anche l’intera futura dirigenza, nei vari campi, di questo paese. Manca sempre di più in chi guida l’Italia quella dimensione progettuale che noi stiamo tentando di restituire alla politica: non si può concepire l’attività politica esclusivamente come politique d’abord, come amministrazione dei problemi del presente, come pura efficienza amministrativa o tecnocratica. Quella che io con una brutta espressione letteraria definisco la ‘presentificazione della politica’, che si manifesta in maniera estrema, per esempio, negli amministratori della Lega e nella loro demonizzazione della parola ‘futuro’, non ci appartiene e non deve sedurci. Sembra, invece, che ci sia un totale ostracismo della progettualità: sembra quasi che il politico, o la politica, pos- 42 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 43 Le parole e le cose dei democratici sano rimanere schiacciati sulla dimensione del presente e non debbano configurare all’interno di questa anche una prospettiva che sia rivolta al futuro. Badate bene: questo è un vizio gravissimo. Basti citare uno dei più grandi classici del pensiero, Immanuel Kant, che fondava tutta la sua filosofia sulla distinzione tra presente e futuro, tra essere e dover essere. Chi non accetta in linea di principio una distinzione di questo tipo ovviamente non può che distruggere l’etica e la stessa democrazia. La distruzione dell’etica e la distruzione della democrazia nascono proprio dalla mancata messa a fuoco della differenza tra la dimensione del presente e quella del futuro che l’attuale classe politica dirigente del paese non riesce in alcun modo a realizzare. Per venire poi al merito dei due problemi che vorrei sollevare in questo intervento, noi prendiamo molto sul serio l’aggettivo che ci siamo scelti per il nostro partito, ‘Democratico’. Noi intendiamo questo aggettivo nel modo più forte e pregnante perché abbiamo una visione non minimalistica ma integralistica della democrazia: riteniamo, cioè, che la democrazia sia non il meno peggiore, ma il migliore tra i sistemi possibili. Ovviamente, perché sia il migliore, la democrazia deve recuperare anche il suo spirito originario: non può essere solo una democrazia puramente rappresentativa ma deve saper essere anche, e sempre più, una democrazia partecipativa. Il nostro partito, come dire, sta già tentando di mettersi all’interno di questo progetto, con l’istituzione, per esempio, delle primarie, che danno luogo a un momento di grande partecipazione: basti pensare alle recentissime primarie di Torino per la scelta del candidato sindaco per la coalizione di 43 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 44 Le parole e le cose dei democratici centro-sinistra, che hanno mostrato un successo crescente di partecipazione. Il momento della partecipazione è un momento costitutivo, altrettanto quanto quello della rappresentanza, per l’affermarsi dello spirito democratico. Altro tema che io ritengo decisivo per la nostra discussione e per la piena realizzazione della democrazia: non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla crisi finanziaria degli ultimi anni, che a un certo punto abbiamo subito e che sta minacciando seriamente le premesse stesse del vivere democratico. Io credo che la versione estrema del capitalismo, che sta nella sua odierna declinazione finanziaria, sia la più seria minaccia per l’ideale democratico, non solo nella sua versione partecipativa ma anche sotto il profilo liberal-rappresentativo. Oggi, paradossalmente, la minaccia maggiore viene proprio dalla funzione delle oligarchie tecnocratico-economiche che hanno progressivamente svuotato ed estenuato l’ideale della democrazia, a livello tanto rappresentativo quanto partecipativo. In riferimento alle nuove culture politiche di cui si parlava negli interventi precedenti, io credo che noi con questa esigenza dobbiamo misurarci seriamente. Non è necessario scomodare uno dei nostri più grandi classici, Karl Marx, per capirlo; basta leggere, in modo serio e approfondito, un autore che non ha fatto mai parte del nostro vocabolario ideale della politica, Adam Smith. Basti pensare a un bellissimo libro, scritto recentemente da un professore universitario, Giovanni Arrighi, scomparso poco fa: si intitola Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo e ci aiuta a capire che in Smith non c’è assolutamente, come invece alcuni presumono in maniera del tutto fuorviante, l’idea di un mercato fine a se stesso, alimentato da 44 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 45 Le parole e le cose dei democratici un processo incessante e sorto sulle basi di uno Stato concepito come sempre più residuale e minimale fino ad essere completamente inesistente. È un’idea, questa, totalmente infondata ed errata, che non regge affatto il confronto con i testi. Dobbiamo quindi inserire nel nostro vocabolario ideale della politica proprio questo autore, perché già Adam Smith basta per farci capire quanto sia importante il ruolo dello Stato all’interno del mercato: di un mercato che non venga concepito come fine a se stesso perché, in tal caso, indebolisce fino a distruggere l’idea stessa della democrazia. Credo che questa sia una delle pregiudiziali su cui negli ultimi due anni si è interrogata la nostra rivista. Altri due presupposti importanti del nostro lavoro che mi piace richiamare, data anche la loro vibrante attualità in questi mesi: la difesa dell’unità nazionale e la prospettiva europeista. Il nostro partito ha una funzione per la quale non può che recuperare lo spirito dell’autentico Risorgimento di fronte all’attacco ormai massiccio che viene da più parti e che mina le basi dell’identità del paese, come d’altra parte deve farsi interprete e paladino di un’ottica non retoricamente ma autenticamente europeista e internazionale. Per affrontare questi due temi in modo serio, credibile e lungimirante, occorrono attenzione, riflessione e approfondimento. Da questo punto di vista, ‘democratico’ è proprio l’aggettivo che io credo sia più adatto a esprimere la vocazione, la progettualità, la pratica politica del nostro partito: noi vogliamo che il nostro partito sia sempre più democratico, nel senso e nella direzione che ho tentato in questo breve spazio di restituirvi. 45 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 46 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 47 Marco Filippeschi Sindaco di Pisa Sono molto contento che si sia organizzato questo Seminario. Credo che la formazione, quindi l’impegno a dare spessore culturale e profondità all’impegno politico dei più giovani, sia un segno importante da dare alla costruzione, ancora in gran parte da fare, o alla ricostruzione del Partito Democratico, laddove si è costruito male, laddove questo partito è venuto ‘storto’. Sono contento che si possa fare anche con una rivista telematica come Inschibboleth che abbiamo fondato solo pochi anni fa e che è un fiore raro perché una delle poche cose nuove che sono state messe in campo. Se sfogliate su Internet le annate, si vede la fioritura di contributi davvero interessanti e importanti di tanti intellettuali che in un momento in cui ci si allontanava, si sono avvicinati ad un discorso pubblico, molto chiaramente orientato: è stato un segnale in controtendenza del quale far tesoro. Credo che dare questo spessore alla politica sia importante. Io vengo da questa tradizione: io ed Enrico Letta ci siamo formati in campi diversi, ma è comune la formazione di chi ha dovuto fare una scuola esigente di politica, nell’esperienza e nel confronto con quelli che aveva vicino. Dimostrare di aver letto un certo libro, di stare al passo con il dibattito politico-culturale, anche nella soluzione di problemi concreti quando si guarda al governo 47 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 48 Le parole e le cose dei democratici di una città, di un territorio, avere un orizzonte più ampio, porsi il problema del confronto, dell’ispirazione e non soltanto della semplice amministrazione. Sono i contenuti delle tradizioni vitali che sono la ragione della nascita del PD. Noi dobbiamo avere la capacità, la forza di non perdere il filo iniziale: quando lo perdiamo, noi perdiamo l’essenziale, perdiamo insieme l’anima e anche un po’ la missione di un partito nuovo, di un’offerta nuova per il paese. Ora, io credo che ci sia di che riflettere: se si guarda all’impegno dei più giovani, noi non possiamo astrarlo dai mutamenti profondissimi che sono avvenuti in questi anni. Mutamenti culturali, di scenario globale, del modo di intendere l’individualità di ognuno nel rapporto con gli altri. Ma anche alcune contraddizioni che sono più evidenti e più vicine. Qualche mese fa, ad esempio, abbiamo avuto un ampio movimento contro la riforma Gelmini che ha portato in campo tanti giovani, tanti ragazzi e ragazze con motivazioni forti, ma non abbiamo in campo un movimento altrettanto forte e ampio per la difesa della democrazia, per contestare la deriva sempre più grave che corre il nostro paese. Non è una contraddizione da poco: è anche la contraddizione del PD. Io credo che noi dobbiamo riflettere su come siamo stati in campo. Ritengo che non ci sia contrapposizione tra la dichiarata ispirazione riformista del progetto del Partito Democratico anche come progetto di partito maggioritario, di partito che fa le alleanze, la sua natura di essere riferimento in un campo, una forza attrattiva per superare la frammentazione dell’offerta politica del nostro paese, e l’intransigenza necessaria nel fare una battaglia per la 48 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 49 Le parole e le cose dei democratici democrazia a sostegno di principi e valori forti, che hanno distinto nella storia dell’Italia repubblicana quanto ha portato al progetto del Partito Democratico e che adesso devono tornare a distinguerci. C’è poco da fare, non si sfugge a questa necessità di ritrovare un filo: tutte le volte che ci si è discostati da questo imperativo (perché per me è tale) e si è perso il filo, siamo stati molto più vulnerabili, disponibili a chi vuole la politica meno autonoma, a chi ha in mente un ruolo assai debole dei partiti politici e, in fondo, a chi non frena ma, anzi, contribuisce alla deriva democratica che stiamo vivendo e per la quale il nostro paese è diventato paradigmatico. È quindi fondamentale la capacità di pensare, di guidare e di governare il cambiamento da riformisti, di avere un’agenda per il futuro, e di avere anche un’agenda particolare che si attaglia a questo paese particolare, ai nostri ritardi, anche a quelli del riformismo italiano, alle mancanze di coraggio che hanno pesato e pesano ancora, all’indulgenza per una parte vecchia e non riproponibile del modo d’essere della sinistra. Tutto questo, che deve poi tramutarsi in contenuto, proposta, agenda, non può essere contrapposto alla necessità di far valere principi che sono anche spartiacque e lacerazione: la lacerazione viene prodotta dalla deriva che dicevo, e a questa bisogna rispondere con intransigenza. La democrazia come idea guida è grande tema del conflitto tra i poteri che snatura la democrazia nel nostro paese, dell’aggressione agli arbitri, quindi di una torsione in senso populista della democrazia, che costringe la possibilità di un’alternativa in termini più angusti. C’è poco da fare: su questo terreno bisogna essere intransigenti 49 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 50 Le parole e le cose dei democratici perché altrimenti si rischia di subire passivamente. Quando si hanno le corazzate mediatiche, i telegiornali all’unisono e magari anche il fuoco amico contro, diventa molto più difficile affermare una leadership riformista in questo paese. Per di più si va anche a fare la tara a chi cerca con fatica di costituire una guida. C’è un difetto, connaturato, sistemico, che è un difetto di democrazia, e noi non possiamo eludere questo grande tema. In passato, quando non ci siamo fatti capire da una parte grande degli italiani che ci ha inteso come sempre protesi verso il compromesso, come indecisi su principi chiave, abbiamo aperto enormi spazi a forze che non meritavano e non meritano di averli. Noi dobbiamo essere insieme riformisti e intransigenti. Noi siamo di fronte ad una situazione grave, dove l’esempio italiano ha la sua particolarità: abbiamo Berlusconi con il suo ‘impero’ mediatico, economico, finanziario, ma può essere la punta di un iceberg molto più profondo che parla di una crisi della democrazia, di una crisi in cui il potere dei grandi aggregati economici e mediatici soppianta il potere delle regole, della partecipazione dal basso che viene irretita e manipolata in partenza. Tutto ciò avrebbe bisogno di maggiori contrappesi, di una politica più forte e più legittimata. Non c’è alternativa: la ruota gira o in un senso o nell’altro. Allo stato attuale gira nel senso a noi contrario e questo è un grande problema che va affrontato, dal momento che rischia di tramutare le nostre ambizioni in progetti minoritari sin dall’inizio. Credo che questo sia un punto decisivo: la personalizzazione deteriore della politica, la crisi del partito politico, una certa idea di resa a questa deriva, sono temi su cui 50 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 51 Le parole e le cose dei democratici noi dobbiamo riprendere una discussione, a tutti i livelli a cui questa difficoltà si manifesta. Consiglio la rilettura (dato che si tratta della seconda edizione) del libro di Mauro Calise Il partito personale, che ora si presenta con il sottotitolo I due corpi del leader. Negli ultimi, nuovi capitoli approfondisce il tema, già affiorato nelle pagine precedenti, della deriva della politica tramite la sua personalizzazione estrema. Parla di macro-personalizzazione – l’esempio è Berlusconi – e di micro-personalizzazione. Badate bene: anche il correntismo estremo, il mito della preferenza, un certo mito delle primarie non regolate, che non fanno base politica di un partito e che a volte sono anche manipolabili, l’incapacità di strutturare regole per una partecipazione molto più ampia, tramite lo strumento di primarie regolate da una legge sui partiti politici, sono questioni che noi dobbiamo affrontare. Se non rottamiamo la politica cattiva e degenere, lasciamo campo libero a chi, magari, ha intenzione di rottamare anche la buona politica sulla scia della macro-personalizzazione. Su questo io penso che noi dobbiamo avere la capacità di portare un nostro pensiero e anche di condurre una nostra battaglia politica molto aperta. Questo è anche lo spazio in cui noi riconquistiamo una autonomia del nostro partito non in termini angusti, di mero mantenimento di un ceto dirigente ristretto, ma dentro a una certa idea di politica e di partito. Su temi che sono emersi, ad esempio, anche nella nostra discussione – le primarie, l’albo degli elettori, una regolazione dei partiti politici che risponda a democrazia e che costruisca il partito senza decostruirlo continuamente – serve il coraggio di dire con chiarezza quello che sta accadendo e di proporre soluzioni 51 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 52 Le parole e le cose dei democratici chiare e condivise. Altrimenti noi per strada perdiamo anche le buone idee, le intuizioni, le innovazioni, la capacità di pensare con orizzonti più ampi. Dobbiamo fare tesoro di un mondo che è in ebollizione, che pone problemi di democrazia, di partecipazione, di rinnovamento, assieme a grandi possibilità di cambiare geometrie politiche e di rilanciare idee fondamentali: l’idea dell’Europa, l’idea di una politica in questa dimensione che noi abbiamo immiserito e perso, le bandiere che noi dobbiamo poter agitare. Serve coraggio per preparare qualcosa di meglio e servono i partiti, costruiti assieme partendo dalla società e da alcuni idee forti e coraggiose. 52 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 53 Enrico Letta Vicesegretario nazionale PD Voglio partire dal titolo che ci siamo dati, parlando proprio delle parole, le parole dei democratici. Vorrei portare nella riflessione di oggi alcune delle idee che, come partito, stiamo cercando di definire all’interno di un percorso impegnativo. Nelle nostre ultime tre Assemblee nazionali abbiamo discusso, con i mille componenti, del nostro progetto per l’Italia. L’Italia che vogliamo dopo Berlusconi, la nostra idea d’Italia per batterlo. Una discussione partecipata che sta già dando risultati importanti. La nostra quattro giorni cade all’inizio di un decennio. Siamo nel 2011 ed entriamo in un decennio cruciale. Nel Novecento, il nostro paese è stato protagonista nel bene e nel male, un grande paese secondo i criteri classici della Storia. L’Italia è stata membro permanente del Consiglio di Sicurezza della Società delle Nazioni, prima della costituzione delle Nazioni Unite. L’Italia porta anche grandi responsabilità relativamente alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Siamo tra i fondatori prima della Comunità Europea e poi dell’Unione Europea, abbiamo contribuito alla nascita dell’euro e del G7. Vorrei soffermarmi sugli ultimi decenni. Proverei a descriverli così: gli anni Ottanta sono stati gli anni dell’euforia, una parola che può avere accezioni tanto positive quanto negative; gli anni Novanta sono stati il decennio 53 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 54 Le parole e le cose dei democratici del rigore, in cui il nostro paese è sembrato trasformarsi per comportamenti e regole; infine, questi ultimi dieci anni, che definirei il decennio perduto. Perduto sotto diversi punti di vista. L’accezione che voglio sottolineare è quella economica: si è trattato di un decennio perduto perché è stato l’unico della nostra storia unitaria nel quale, tolte ovviamente le esperienze delle guerre, siamo tornati indietro anziché compiere passi in avanti. È stato l’unico decennio nel quale la ricchezza di ognuno di noi, il reddito pro-capite, è andata arretrando invece che avanzando. Il reddito pro-capite degli italiani del 2009 è più basso del loro reddito pro-capite dell’anno 2000, e nessun altro paese si è trovato nelle nostre condizioni. Possiamo declinare questo dato da un altro punto di vista. Nel decennio che abbiamo alle spalle l’Italia, secondo una classifica del Fondo Monetario Internazionale che raccoglie tutti i centottanta paesi del Fondo, e che guarda alla crescita accumulata nel corso del decennio, si classifica 179°, con Haiti 180° a causa del terremoto che l’ha colpita. L’Italia, con il suo 2,4 per cento di crescita in un decennio, è il paese con la crescita più bassa. Se adottiamo uno sguardo comparativo, la Cina (che ovviamente non è metro di paragone per capire gli ordini di grandezza) in un decennio è cresciuta del 170 per cento, gli Stati Uniti del 18 per cento, la Spagna del 22 per cento, la Francia del 12 per cento. L’Italia, ripeto, del 2,4 per cento. È stato un decennio perduto, non ci sono molte altre definizioni. Perduto perché, con queste cifre, l’Italia è di gran lunga l’ultimo dei paesi occidentali. Oggi entriamo in un decennio in cui abbiamo un’alternativa secca: questo può essere il decennio del risveglio o il de- 54 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 55 Le parole e le cose dei democratici cennio della decadenza. Sono sicuro che non sarà il decennio della decadenza, ma soltanto se non lo interpreteremo e non lo vivremo in continuità con quello che abbiamo dietro le spalle. Se oggi c’è una categoria sulla quale il tempo che stiamo vivendo ci porta a riflettere, questa è l’accelerazione, e, in particolare, l’accelerazione dell’accelerazione. Tutto ciò che prevediamo possa accadere accade più rapidamente rispetto alle attese. L’Economist a metà dell’anno scorso prevedeva che nell’arco dei successivi cinque anni sarebbero esplosi il Nord Africa e il Medio Oriente. Trascorrono appena sei mesi e quella previsione si realizza. Faccio un esempio di cosa vuol dire decadenza. Nel secolo scorso un pezzo di Italia stava sotto due città, Vienna e Budapest, capitali tra le più importanti del mondo. A un tratto è cominciato il declino politico di quel mondo. La decadenza dell’impero austroungarico è durata qualche decennio. Vienna e Budapest sono diventate per lo più due mete turistiche, perdendo il loro ruolo di capitali del mondo contemporaneo. Oggi percorsi di decadenza simili non avvengono in decenni, ma sono molto più accelerati. Il concetto che voglio qui esprimere è che noi siamo un partito politico che rappresenta, o almeno ambisce a rappresentare, metà del paese, quella metà del nostro paese che oggi sta all’opposizione e che vuole governare, che vuole far sì che il prossimo decennio, questo decennio, non venga ricordato dalla Storia come quello in cui l’Italia ha vissuto un percorso simile a quello dell’impero austroungarico. Dovrà essere, invece, il decennio nel quale vivremo il risveglio del nostro paese. Il ragionamento che faccio in que- 55 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 56 Le parole e le cose dei democratici sta sede ha anche un altro grande caveat. Non dobbiamo né possiamo permetterci di pensare: ‘Tutto questo non mi riguarda: in fondo i miei genitori hanno qualche proprietà immobiliare che poi mi cederanno, faccio un lavoretto, vado avanti; si tratta di un problema che magari riguarderà le prossime generazioni…’. Nient’affatto: questo è un tema che ci riguarda direttamente, perché l’accelerazione del cambiamento è tale che, oggi, non ci sono certezze che possano sollevarci dall’impegno che noi tutti dobbiamo mettere in direzione del risveglio. Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo al nome del nostro paese, lo dobbiamo alle generazioni presenti e future, lo dobbiamo ai nostri figli. Questo deve essere l’impegno della politica di oggi. Se abbiamo un difetto come Democratici è che talvolta diamo l’idea di essere quelli che fanno politica in qualunque condizione e circostanza, rischiando di apparire talvolta come gli ‘amministratori del condominio’. Qualunque cosa accada nel condominio, noi siamo qui pronti ad amministrarlo. Non è quello che ci richiede questo tempo! Dobbiamo avere in testa una missione, dobbiamo saperla raccontare per farne partecipi gli altri. Se gli altri ci percepiscono come gli ‘amministratori del condominio’ potranno riporre in noi una parte della loro fiducia, ma non metteranno mai l’Italia nelle nostre mani per permetterci di dare un futuro a questo paese. Soltanto se viviamo la consapevolezza di questa missione, possiamo affrontare una sfida davvero epocale. Io credo che l’Italia non abbia mai vissuto un bivio come quello che abbiamo davanti: o il risveglio o la decadenza. Il risveglio è possibile, e oggi un modello di risveglio ci è offerto da un paese che 56 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 57 Le parole e le cose dei democratici tutti davano per perduto vent’anni fa e che oggi, invece, sta scrivendo, assieme ad altri, la storia del mondo moderno dal punto di vista della crescita e delle opportunità. Chi avrebbe mai scommesso un euro quindici anni fa sul Brasile, un paese perduto come si considerava perduta l’America Latina? Oggi il Brasile, dopo dieci anni di scelte lungimiranti sotto la presidenza di Lula, è uno dei paesi che hanno in mano le carte del futuro del mondo. Cito questo esempio perché non esistono fatti scontati nello scenario odierno, ma scelte da determinare per il nostro paese, per il nostro futuro e per quello dei nostri figli. Se questa è la premessa del ragionamento, quale deve essere il nostro ruolo oggi, avendo verificato lo stato delle nostre istituzioni e della nostra società civile? Per qualche verso, ciò che accade oggi all’Italia mi fa venire in mente un libro pubblicato recentemente sul golpe spagnolo del 1981: Anatomia di un istante. Ne consiglio la lettura. Il libro racconta agli spagnoli di oggi, ai giovani spagnoli che non hanno idea di cosa fosse la dittatura, come la situazione più drammatica di quella notte dell’81 fu che la società spagnola tutta si fermò in attesa di capire l’esito dello scontro in atto. Nessuno scese in piazza, nessuno occupò le università, nessuno mise in campo contro-manifestazioni. Quella notte la Spagna si fermò in attesa di capire se avevano vinto gli uni o gli altri. Per le strade della Spagna il solo movimento era quello a Valencia dei carri armati di Jaime Milans del Bosch. Il resto del paese si era rinchiuso e aspettava un messaggio televisivo che arrivò da parte del Re alle tre del mattino. Una riflessione che in un certo senso vale anche per l’Italia di oggi e per noi. Dobbiamo far svegliare la società italiana, 57 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 58 Le parole e le cose dei democratici dobbiamo essere insieme alla società italiana che si sveglia. La nostra lotta politico-istituzionale passerà attraverso la nostra capacità di far voltare pagina alle istituzioni e al paese. Rispetto alla crisi che oggi stiamo vivendo la società italiana sta dimostrando una permeabilità sulla quale dobbiamo riflettere. A mio avviso le condizioni necessarie perché il decennio che abbiamo cominciato sia il decennio del risveglio, possono essere declinate con quattro verbi, con quattro parole che, secondo me, dovremmo mettere a fuoco per descrivere l’Italia che il PD vuole e, quindi, per spiegare cosa il Partito Democratico è. È un lavoro necessario. Se non lo facciamo ognuno di noi continuerà a declinare i temi di oggi e le relative soluzioni con parole attinte dalle storie dalle quali proveniamo. Il Partito Democratico è un’esperienza nuova, originale, nella quale abbiamo voluto lanciarci proprio perché le storie che ognuno ha alle spalle non si sono rivelate sufficienti a dare al nostro paese un esito diverso dal berlusconismo. Male faremmo, dunque, se non ci impegnassimo tutti insieme a declinare le parole e le cose dei democratici, le nostre parole dell’oggi. Dobbiamo fare tutti insieme questo esercizio, tenendo conto del fatto che, per ovvi motivi anagrafici, molti democratici non vengono da storie politiche precedenti. È questa la forza del lavoro che i Giovani Democratici stanno facendo. Le nostre storie, quelle da cui proveniamo, sono storie fondanti della Costituzione del nostro paese, ma la cesura rappresentata dal berlusconismo rispetto agli anni in cui quelle storie erano vive e protago- 58 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 59 Le parole e le cose dei democratici niste è troppo profonda per non essere affrontata, con un nuovo sforzo oserei dire ‘costituente’, anche tra di noi. Il primo verbo sul quale voglio riflettere è ‘allargare’. Noi democratici dobbiamo essere coloro che allargano le opportunità, lavorano sul tema degli squilibri, sulla capacità per il nostro paese, per le nostre comunità e per le nostre città di allargare gli orizzonti nel tempo della globalizzazione. Partiamo da qui, da Pisa, che è anche la mia città. Un cittadino al momento di decidere dove andare in vacanza, si collega a Internet e, sulla mappa d’Europa della Ryanair, decide se andare a Fuerteventura, a Rodi o a Helsinki. Questa oggi è la quotidianità. Si decide la destinazione il giorno prima della partenza e poi si cerca di conoscere più a fondo il luogo prescelto, di capire dov’è, qual è la sua storia, quali le sue tradizioni. Vivere all’interno di un mondo globalizzato significa comprendere che globalizzazione equivale a opportunità, anche in riferimento all’orizzonte politico, sociale e culturale. Oggi il sindaco di una nostra città deve essere in grado di parlare l’inglese, l’italiano e anche il dialetto locale, nel nostro caso il vernacolo. È necessaria una maggiore apertura mentale per capire la dimensione nuova dell’Italia. Ho fatto riferimento in apertura al tema dell’Italia come grande paese del Novecento. L’Italia era un grande paese in un mondo piccolo; oggi il mondo è divenuto assai più grande e l’Italia si è fatta un medio-piccolo paese in uno scenario globale molto più ampio. Non è un gioco di parole quello che sto facendo. Dentro il mondo novecentesco, prevalentemente occidentale, i sessanta milioni di italiani erano numericamente consistenti. Quello di oggi, 59 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 60 Le parole e le cose dei democratici invece, è un mondo immensamente più vasto, a fronte del quale la nostra popolazione è rimasta pressoché stabile. L’unico modo perché, all’interno di un mondo tanto ampio, si mantenga un ruolo di primo piano è quello di essere europei. Allargamento vuol dire Europa: l’Europa è nel DNA di noi democratici e questo ci differenzia dalle altre forze politiche. Sappiamo che l’Europa è l’unico modo per l’Italia di essere rilevante nel mondo. Nel 1975 il G7 fu creato sulla base di una classifica meramente quantitativo-economica fondata sul PIL. Riuscendo a rientrare fra i primi sette paesi del mondo, l’Italia per trentacinque anni è stata protagonista degli eventi e delle scelte internazionali. Se dovessimo rifondare il G7 tra cinque anni secondo lo stesso criterio, nessun paese europeo vi verrebbe ammesso. La cartina geografica che ancora è affissa nelle nostre scuole o nelle nostre case è la cartina del Novecento, un secolo in cui l’Europa era al centro, con l’America da una parte e l’Asia dall’altra. Non è più questo lo scenario attuale. In Italia abbiamo assistito ad una accelerazione degli squilibri sociali impressionante. Occorre agire per allargare la fascia di coloro che riescono a stare nelle opportunità. Pensiamo ad esempio all’istruzione, alla scuola pubblica. Una battaglia in questo caso culturale che sta nel nostro DNA. Il problema di fondo è che oggi, attraverso i meccanismi di educazione e di istruzione, o si riesce a stare all’interno delle dinamiche della globalizzazione o non si riesce più a competere in modo adeguato. La riflessione più interessante su questa crisi e sugli squi- 60 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 61 Le parole e le cose dei democratici libri da cui nasce l’ho trovata nell’enciclica Caritas in veritate, nella quale si rinvengono parole durissime. Purtroppo una certa parte del nostro paese ha con la Chiesa un rapporto ‘mercantile’, di puro scambio, ragione per cui le parole scomode vengono volutamente ignorate. Come si legge in quell’enciclica, vi sono due grandi questioni alla base degli squilibri che stiamo vivendo, due fratture da ricomporre. In primo luogo quella tra le dimensioni economica e sociale. Nell’ultimo scorcio del Novecento siamo cresciuti con l’idea che l’economia fosse responsabile della crescita mentre la politica della redistribuzione. Questa ‘politica dei due tempi’ è fallita miseramente e ha condotto alla crisi finanziaria della quale ancora adesso stiamo vivendo le drammatiche conseguenze. La seconda frattura da ricomporre – anche questa sottolineata nell’enciclica secondo me in modo molto vigoroso, forse la denuncia più forte avvenuta in questi anni – riguarda il principio che la ricchezza si crea con il lavoro e non, come si è pensato finora, con la ricchezza. In fondo qui sta l’epicentro della crisi: la ricchezza si produce con il lavoro e il lavoro, per questo, è centrale. È chiaro in questo senso perché la nostra Costituzione affermi che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. Il lavoro è il centro di tutto, dà dignità alla persona, non può essere considerato una merce come le altre. Su questo terreno emerge in modo evidente l’abisso che separa la nostra concezione del diritto del lavoro da quella dell’attuale maggioranza. Il governo in carica vuole fare del diritto del lavoro una branca del diritto commerciale, mentre per noi i due ambiti devono restare assolutamente distinti. Il secondo verbo che propongo è ‘correre’: verbo difficile 61 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 62 Le parole e le cose dei democratici da declinare. Se è valido, però, tutto il ragionamento che ho provato a tracciare fino a qui, noi certo non possiamo essere coloro che si fermano al verbo ‘camminare’. Noi dobbiamo correre; questo paese deve correre. Occorre innovare, cambiare, e dobbiamo mettercela tutta, perché se stiamo fermi non ce la faremo. Oggi siamo tenuti fermi da mille questioni ma soprattutto dalla nostra paura di cambiare. Qui risiede la questione chiave di tutto il ragionamento che sto cercando di sviluppare: il cambiamento. Noi siamo forza di cambiamento ed è per questo paradossale che dai cittadini italiani veniamo percepiti, secondo una recente ricerca, come la parte politica più vicina alla polarità statica, mentre il centro-destra è avvertito come più prossimo alla polarità dinamica. Noi che vogliamo il progresso della nostra società siamo visti, al contrario, come quelli delle conservazione e del freno. Se vogliamo che il decennio appena avviato sia quello del risveglio e non più della decadenza, dobbiamo riuscire a distinguere la difesa dei grandi principi costituzionali dalla necessità di cambiare. Per produrre il cambiamento dobbiamo mettere in campo l’innovazione. ‘Innovazione’, però, è parola che va praticata. Da parola deve farsi cosa, se vogliamo cercare di sfatare quella frase molto bella di Cipolletta secondo cui «l’Italia è un paese di innovatori, ma un paese che rifugge l’innovazione». Gli italiani sono innovatori e l’Italia teme l’innovazione, oggi come ai tempi di Leonardo. Racconto questo aneddoto che molti di voi avranno già sentito ma che trovo molto efficace. Il Presidente di una Regione italiana, nel tentativo di replicare il successo americano delle grandi aziende di in- 62 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 63 Le parole e le cose dei democratici novazione, invia una delegazione di funzionari della propria Regione in California, nella Silicon Valley, per comprendere cosa unifichi tutti questi grandi successi. La delegazione di funzionari parte e incontra i diversi soggetti. Quelli di Amazon gli riferiscono la propria storia, di due ragazzi conosciutisi a scuola, partiti da un garage e arrivati a quotare la propria creazione in borsa; passano poi a quelli di Google, i quali riportano la propria storia di ragazzi che hanno cominciato a sperimentare e a creare nello spazio angusto di un garage; così riferiscono anche gli altri gruppi che la delegazione incontra. Alla fine, tornati dal proprio Presidente di Regione, i funzionari gli dicono: «Bisogna creare un incentivo fiscale perché nascano più garage nella nostra Regione: questo è il segreto del successo che unifica tutto». Ecco, a volte sembra che noi siamo fermi a un concetto di questo tipo. Il tema dell’innovazione comporta che non ci siano sacche di resistenza, di conservazione, di corporativismo; noi, invece, siamo invasi da sacche di privilegi che manteniamo e che mantengono fermo il nostro paese. Arrivo così al terzo verbo che voglio utilizzare, un verbo particolare: ‘shakerare’. La nostra è una società ferma nei privilegi che ha costruito e deve essere shakerata. Esattamente il contrario di ciò che Berlusconi da Arcore ha raccontato all’Italia. Le notti di Arcore sono l’esatto opposto, una scorciatoia per uscire dall’immobilismo sociale. Le intercettazioni a mio avviso sono interessanti per tanti motivi, ma soprattutto perché raccontano lo spaccato di un’Italia che ricerca solo la scorciatoia. L’ascensore sociale, invece, alla fine deve essere mosso dallo studio, dalla fatica, dal sacrificio. Quando dico che 63 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 64 Le parole e le cose dei democratici la nostra società va shakerata, intendo dire che vanno superate le posizioni di rendita. Vi rendete conto, ad esempio, di quello che è successo su una questione circoscritta ma molto importante come quella delle quote rosa nei Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa? Si tratta di una proposta sacrosanta, oggetto di un’iniziativa di legge bipartisan che noi abbiamo sposato e portato avanti. Da dove nasce questa idea? Parte dalla consapevolezza che in Italia spicca l’assenza di donne nelle società per azioni. La percentuale delle donne tra i consiglieri di amministrazione delle società quotate in borsa è pari al 3 per cento. Essendo l’Italia l’unico paese in queste condizioni, abbiamo provato a creare le condizioni per immettere persone in grado di cambiare la situazione smuovendo un quadro fin troppo statico. Considerato anche che nel restante 97 per cento di consiglieri uomini vi sono tanti, troppi nomi che ricorrono in dieci, venti, trenta Consigli di amministrazione. Purtroppo, poi, quel 3 per cento di donne è composto spesso da cognomi noti: magari si tratta della figlia del fondatore o del proprietario dell’azienda stessa. Non appena si è fatta questa proposta di legge, è arrivato il diktat di buona parte del mondo economico – compresa Confindustria, guidata da una donna – che chiede al governo di affossarla. Andiamo allora a vedere nel concreto cosa comporterebbe l’approvazione di una simile proposta. Le società quotate in borsa in Italia oggi sono quattrocento, i Consigli di amministrazione variano mediamente dai dieci ai venti consiglieri circa per società. Passare dal 3 per cento al 30 per cento vuol dire numericamente trovare cento donne nel nostro paese in grado di sedere nei 64 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 65 Le parole e le cose dei democratici Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Non ho detto centomila: ho detto cento e si tratta, come ovvio, di un numero realistico. La cosa incredibile è che il nostro paese ha reagito negativamente a questa proposta, che prevede un obiettivo minimo raggiungibilissimo, e l’ha bloccata. È per questo che la nostra società va shakerata, anche con le maniere forti se e quando necessario. Shakerare significa anche essere consapevoli che il tema dell’integrazione degli immigrati – parlo in una città come Pisa che vive questo tema da tempo e in modo molto rilevante – è fondamentale. Eppure continuiamo ad affrontarlo con la mentalità di venti anni fa. Io vorrei che su questo tema facessimo tutti un grande passo in avanti, a partire proprio dai numeri del nostro paese. Sappiamo bene che senza l’apporto dell’immigrazione in Italia non si potrebbe andare avanti. La situazione attuale è davvero paradossale: mentre affidiamo agli immigrati ciò che abbiamo di più caro – i nostri bimbi e i nostri anziani – l’immigrazione viene letta e vissuta come un tema scomodo, una minaccia. A questo proposito voglio leggervi un passo secondo me straordinario, che dovremmo raccontare ogni volta che ne abbiamo la possibilità: Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. 65 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 66 Le parole e le cose dei democratici Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. Questa citazione è tratta da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti nel 1912. È una citazione impressionante. Credo che soltanto leggere queste parole, situarle nel tempo e nello spazio, dia l’idea di cosa significhi per il nostro paese l’arretratezza culturale nell’affrontare l’immigrazione. L’ultimo verbo che richiamo per indicare l’Italia che noi democratici vogliamo è ‘scaldare’. Noi dobbiamo essere coloro che scaldano la nostra società, che usano la parola ‘comunità’, che riescono a uscire dal freddo dell’individualismo di questo tempo. Noi dobbiamo avere chiaro il cambiamento demografico in corso. Un grande demografo, Massimo Livi Bacci, invita a riflettere sul fatto che quest’anno i nonni hanno superato i nipoti: ciò significa che la classe degli over-65, quelli che vogliono la prescrizione breve, come abbiamo letto sui giornali di oggi, è più numerosa degli under-15. I nonni hanno superato i nipoti; tra dieci anni i bisnonni supereranno i bisnipoti, vale a dire che coloro che avranno più di ottant’anni saranno in numero maggiore di quanti avranno meno di dieci anni. Tra i bambini che nascono oggi, uno su due vivrà più di cent’anni. Quando vedo i miei figli piccoli e penso che uno di loro vivrà più di cent’anni, a me viene in mente quell’aneddoto che raccontava sempre il Cancelliere tedesco. In Germania è tradizione che, in occasione del compleanno di un centenario, il Cancelliere in persona vada a casa del festeggiato e gli consegni una medaglia. Quel Cancelliere raccontava però anche che, 66 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 67 Le parole e le cose dei democratici ad un certo punto del suo mandato, dovette smettere, poiché i compleanni dei centenari erano passati da dodici a duemilatrecento all’anno. Quello della demografia è un grande tema, che porta a chiederci quale cambiamento si stia determinando nelle nostre società. È indubbio che viviamo tutti più a lungo, ma riflettiamoci un po’ più attentamente. Io penso alla famiglia dei miei genitori: otto figli, una nonna e due genitori, tutti nella stessa casa. A quell’epoca il rischio era la condizione essenziale dell’esistenza dei figli che venivano messi al mondo e ai quali veniva dato quel che si poteva. Pensiamo invece alle famiglie di oggi, composte da bisnonni, nonni, genitori, tutti attorno normalmente ad un figlio che è coccolato in ogni aspetto della sua esistenza. Il bambino di oggi tende a non avere neppure un quarto d’ora libero perché ogni momento è organizzato da qualcuno dei bisnonni, dei nonni o dei genitori. Quale sarà la sua propensione al rischio, se già da piccolo ogni aspetto della sua vita è organizzato e programmato? Si tratta di un cambiamento che dobbiamo saper affrontare perché attorno a questo tema si gioca anche la sfida di cosa siamo e di cosa proponiamo. Alle volte avanziamo un modello di politica e di leadership civile che convince noi, ma che non piace agli altri. Quando questo modello non piace o non scalda, alla fine anche le proposte che avanziamo non passano o passano male e distorte. Alle volte credo che diamo l’impressione di seguire il modello cinematografico di Forrest Gump. Certo, non si tratta di un modello negativo, ma ho l’impressione che la gente ci chieda di essere piuttosto Jack Sparrow. Credo che a volte il nostro politically correct abbia i suoi limiti. 67 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 68 Le parole e le cose dei democratici Voglio lasciarvi proprio con questa idea. Dobbiamo osare di più, perché le nostre idee sono quelle giuste per il paese ma i mezzi con cui le veicoliamo non sono sufficienti, non arrivano a tutti. Sono convinto che le nostre parole, le parole dei democratici, sono quelle giuste per affrontare un’Italia dai problemi così complessi. Forse, però, dovremmo riuscire noi stessi a capire fino in fondo il valore dell’impegno che occorre per costruire, quello che Gianni Rodari racconta ne Il paese senza errori, probabilmente una delle sue fiabe più belle. Non la racconto tutta perché è lunga, ma narra di un brav’uomo che girava per il mondo alla ricerca del paese senza errori. Si recava in un paese, lo visitava, e appena trovava l’errore passava al paese successivo. Cercava il paese senza errori e ogni volta rimaneva deluso. Rodari termina chiedendosi e chiedendoci: non era forse meglio se quest’uomo, di nobile animo, si fosse fermato a correggere una parte di quegli errori? Questo, secondo me, dobbiamo avere chiaro noi, i democratici. 68 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 69 PANEL I I democratici e il lavoro della memoria. Cosa ereditare del Novecento? 69 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 70 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 71 Vittoria Franco Senatrice PD Cercherò di essere essenziale, con il rischio di ricorrere a qualche schematismo. Una delle eredità più importanti e di più ampia portata del Novecento consiste, a mio avviso, nell’acquisizione della possibilità della libertà femminile. Mi piace ricordare sempre alle ragazze che incontro che le donne non sono sempre state libere: lo sono diventate. Occorre però anche aggiungere che l’aver acquisito la possibilità di essere libere non significa che lo siano automaticamente nella realtà. Sostengo poi un’altra cosa: è innegabile che un complesso rilevante di diritti sia stato acquisito negli anni Settanta, che hanno rappresentato per l’Italia un’esplosione di conquiste e di diritti per le donne. Ma la vera conquista viene da molto più lontano: la libertà non si esaurisce nel mettere insieme, uno in fila all’altro, tanti diritti acquisiti: c’è un di più rispetto a questi diritti che ci porta a parlare di libertà. Di questo concetto è difficile dare una definizione esatta: libertà è la possibilità di dare realtà ai propri progetti di vita. Questa, però, è una definizione insufficiente, dato che illumina soltanto uno degli aspetti della libertà. Libertà è anche autonomia, che etimologicamente significa ‘darsi da sé la legge’: finalmente l’acquisizione di libertà riconosce alle donne la possibilità di stabilire da sé la legge e 71 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 72 Le parole e le cose dei democratici non di riceverla da qualcun altro. Libertà è anche soggettività: essere soggetto e non soltanto oggetto del discorso di altri. Libertà è reciprocità: riconoscimento reciproco della propria libertà e della libertà di ciascuno. Libertà è, soprattutto, responsabilità: ad esempio, nell’esercitare un potere decisionale. Al termine ‘responsabilità’ io attribuisco la parte più importante nella definizione di cosa sia la libertà per le donne. Responsabilità significa rispondere a qualcuno di qualcosa, e per farlo occorre essere titolari di una possibilità di fare, di decidere. Occorre essere soggetti. Nel dar conto agli altri, inoltre, si riconosce almeno un altro a cui dare conto. Nella responsabilità, quindi, è insita anche la relazione, e nella relazione c’è anche un limite. Vedete, dunque, quante cose chiama in causa il termine ‘libertà’, quando si parla di libertà in generale ma specialmente quando si parla di libertà rispetto al soggetto femminile! Una bella definizione di ‘libertà’ viene da una pensatrice femminista che ha dato un grande contributo alla elaborazione del concetto di ‘differenza di genere’, della differenza sessuale: Luce Irigaray. Il suo ragionamento, che vi riporto in sintesi, è il seguente: la donna è libera quando può diventare soggetto e quando è riconosciuta nella sua differenza, quando può disporre di un luogo per sé e non è soltanto involucro per l’altro, quando può organizzare un suo ethos (che etimologicamente significa ‘dimora’) e, di conseguenza, disporre di una sua ‘dimora’ in senso lato. Una donna è libera, in sostanza, quando dispone della propria territorialità con i suoi simboli e le sue leggi: quando può disporre di una dimora nel mondo. Ciò non era possibile prima che la donna acquisisse la di- 72 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 73 Le parole e le cose dei democratici mensione della possibilità della propria libertà: questo è, a mio avviso, il punto saliente nel momento in cui si ragiona intorno al concetto di ‘libertà’. In questo concetto rientra una dimensione filosofica – quella, appunto, trattata da Luce Irigaray e che si esplica nel momento in cui la possibilità di esercizio della libertà compie un salto qualitativo – ma anche un momento più strettamente storico, legato alla scienza che ha consentito alle donne di progredire verso la libertà reale. È il momento, questo, in cui è stato possibile controllare la fecondità, la fertilità, ricorrere alla contraccezione: possibilità e scelte che hanno significato libertà di autodeterminarsi nella maternità e nella sessualità. Non è qui il momento e il caso di richiamare quanto il controllo oppressivo dell’uomo sulla donna o l’assoggettamento all’uomo della donna si sia sempre realizzato, nei secoli, attraverso il controllo del corpo femminile come luogo della sessualità – si pensi alla gravidanza, ad esempio. La possibilità di sottrarsi a un simile controllo ha dischiuso alle donne un nuovo mondo, quello della possibilità della libertà. La maternità a un tratto non era più legata al destino biologico. La donna si sottrae a questo destino e finalmente si appropria della maternità come oggetto di scelta: può scegliere se e quando diventare madre. Questa è stata la grande rivoluzione che ha aperto alle donne la possibilità della libertà. Traducendo questo percorso in termini filosofici, possiamo affermare che è proprio in questo momento che la donna può diventare soggetto morale, responsabile fino al punto di poter decidere anche su questioni sulle quali prima non aveva né possibilità, né potere di decidere. Ora può scegliere in autonomia, re- 73 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 74 Le parole e le cose dei democratici sponsabile di se stessa e della propria vita. La libertà – vedete – è sempre legata all’idea di responsabilità, rispetto alla vita, a se stessa, al dare la nascita, allo stabilire nuove relazioni, a cancellarle, a interromperle: questo è sicuramente uno degli aspetti più rilevanti da evidenziare. Ci sono due parole – che riprendo da Luce Irigaray – che ci aiutano a definire meglio il concetto di ‘responsabilità’ come possibilità di decidere, di dare conto e, al tempo stesso, di porsi dei limiti: ‘irriducibilità’ e ‘parzialità’. Nel momento in cui la donna si appropria del suo destino, una diversa relazione si configura tra uomo e donna, una relazione improntata alla irriducibilità della donna al genere umano nella sua neutralità. Questo termine ‘irriducibilità’ – afferma Luce Irigaray – segna lo spazio dell’autonomia soggettiva perché definisce soprattutto il limite dell’altro rispetto a me: circoscrive una distanza che deve sempre permanere fra l’uomo e la donna perché ci sia rispetto della libertà di ciascuno. La Irigaray, sulla scia di Hannah Arendt, si riferisce a questo spazio per mezzo del termine ‘infra’. La Arendt, riferendosi alla libertà nella sua generalità (non soltanto a quella femminile), scriveva che tra gli individui ci deve essere come un tavolo, che unisce e separa: quando questo tavolo scompare, gli individui cascano gli uni sugli altri e lo spazio che li tiene separati si consuma. Quello è esattamente il momento del totalitarismo, della cancellazione delle individualità. Un discorso analogo fa Luce Irigaray quando introduce il termine ‘infra’ nella relazione tra gli uomini e le donne, sottolineando l’importanza dell’irriducibilità delle seconde ai primi. Lo si legge anche in un suo bellissimo libro, scritto prima in ita- 74 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 75 Le parole e le cose dei democratici liano e poi tradotto in francese, dal titolo Amo a te (1993): naturalmente l’errore di trasformare in senso intransitivo un verbo transitivo è voluto, proprio per trovare il linguaggio più consono a restituire l’idea della distanza che è necessario ci sia. L’amore non è possesso, non è fusione totale, deve sempre mantenere e rispettare questa distanza che per lei corrisponde alla libertà: è essenziale, a suo avviso, concepirsi come parziali e ricordare sempre questa propria parzialità per arrivare a stabilire una relazione senza dominio. Io credo che ogni giorno venga messa in discussione questa relazione senza dominio tra uomo e donna che attenui e possibilmente cancelli la violenza. Ne troviamo conferma quotidianamente nei fenomeni di stalking, soprattutto quando, dopo ripetute insistenze da parte degli stalkers, la vicenda si conclude con l’uccisione della vittima. Lo stalker-assassino argomenta che la vittima, essendosi sottratta a lui, non era più sua e, dunque, non doveva essere di nessun altro. Emerge chiaramente una concezione della relazione e dell’amore come possesso: a quel punto, però, è chiaro che non si tratta più di amore, ma di malattia. Oggi, dunque, il vero problema risiede nel chiedersi cosa sia la libertà femminile, in cosa consista, come la si concepisce nella convivenza reale tra uomini e donne. Io credo che questo sia un tema politico, relativo alla cultura politica, estremamente importante: come stabiliamo una nuova forma del convivere, del vivere insieme fra uomini e donne? Non stiamo più parlando solo di filosofia: stiamo trattando di politica. A mio avviso, questi temi devono entrare con maggiore decisone e diffusione nella cultura politica del nostro PD per 75 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 76 Le parole e le cose dei democratici poter attuare politiche che vengano davvero incontro a questa grande aspirazione che è la libertà femminile. Non arriveremo mai a una democrazia paritaria se non ci appropriamo del tema del con-vivere e del con-dividere. La violenza sessuale non si riduce se non condividiamo una cultura del rispetto reciproco e della reciproca libertà. Il fatto che a questo Seminario stasera ci siano tanti uomini fa molto piacere proprio perché dobbiamo discutere insieme di tali questioni. Quando parliamo dei temi delle donne, la discussione non deve avvenire – come ancora, purtroppo, noi stesse tendiamo a fare – soltanto tra donne e per un pubblico femminile. È importante riunirsi tra donne ma poi è altrettanto importante portare le nostre elaborazioni nelle sedi comuni. Soltanto in questo modo è possibile costruire un mondo comune basato sulla convivenza e sulla condivisione. 76 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 77 Claudia Mancina Professore di Etica, Università La Sapienza di Roma Indubbiamente l’eredità del Novecento è un’eredità complessa: è stato il secolo dei totalitarismi e, al tempo stesso, dei diritti, di una grande crescita della democrazia che soltanto nel Novecento ha raggiunto la pienezza del suo concetto. Se seguiamo la vicenda della democrazia novecentesca, vediamo che si tratta di una vicenda contraddittoria, come contraddittorio è appunto il secolo XX: nella prima metà, almeno in Europa, abbiamo una grande sconfitta, quasi un’eclissi, della democrazia, investita da una forte critica sul piano politico e intellettuale; il secolo prosegue poi con l’insorgere dei due totalitarismi, nazi-fascista e comunista, basati sulla convinzione che la democrazia abbia fallito, che appartenga al mondo antecedente la Prima Guerra Mondiale, al mondo del perbenismo borghese ottocentesco, e che altre siano le sfide del nuovo secolo. Per il totalitarismo di destra la base di questa critica della democrazia è di tipo etno-nazionalistico; è una critica all’universalismo dei diritti e all’idea stessa di eguaglianza. Per i comunisti, invece, pienamente seguaci, in questo, di Marx, si tratta essenzialmente di una critica al formalismo: l’idea è che la democrazia sia un guscio vuoto, i diritti parole illusorie, e che la condizione reale di vita delle persone, e in particolare dei lavoratori, non subisca miglioramenti sostanziali sotto 77 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 78 Le parole e le cose dei democratici forme di governo democratiche. Si tratta, come si vede, di critiche assai diverse ma coincidenti nel rifiuto della democrazia. Sembra quasi affermarsi, almeno in Europa, un’eclissi di questa forma politica nel periodo tra le due guerre. Tuttavia, gli Stati democratici escono vittoriosi dal secondo conflitto mondiale; nel dopoguerra le democrazie si rafforzano (nonostante non manchino fenomeni involutivi come il maccartismo negli Stati Uniti) finché, nell’Ottantanove, si verifica la grande vittoria pacifica della democrazia sul comunismo: un evento i cui effetti ancora danno forma alla nostra vita. Questa è, schematicamente, la vicenda storica della democrazia novecentesca. Non intendo, però, analizzarla sul piano storico, anche perché non è questo il mio mestiere. Vorrei piuttosto sottolineare che, parallelamente all’evoluzione storica, si sviluppano anche nuove teorie della democrazia, incentrate su una nuova declinazione di questo concetto tanto complesso. Nella seconda metà del Novecento hanno luogo importanti eventi politici che cambiano i lineamenti dei paesi democratici: l’affermazione dei diritti civili e la fine della segregazione negli Stati Uniti, ad esempio, che si realizza soltanto nel 1964, un secolo dopo la fine della Guerra Civile, con la presidenza di Lyndon Johnson e l’approvazione, da parte del Congresso, del Civil Rights Act. Questa, naturalmente, non rappresenta la fine del razzismo, ma certo la fine della segregazione e di un modo conseguente di pensare la democrazia. Siamo nel cuore degli anni Sessanta e proprio sull’onda di una simile vittoria si sviluppa un’epoca di fioritura democratica e di movimenti non solo politici ma an- 78 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 79 Le parole e le cose dei democratici che di costume: il Sessantotto. Quella importante stagione – nella quale affondano le loro radici sia il movimento femminista sia quello omosessuale – nasce in America in stretta relazione con il movimento dei diritti civili. A seguito di rivoluzioni così radicali sul terreno dei diritti nascono anche teorie democratiche che mutano profondamente il concetto di ‘democrazia’ e che, a mio avviso, costituiscono per noi un’eredità centrale del Novecento. Penso a filosofi come John Rawls e Ronald Dworkin o a uno scienziato della politica come Robert Dahl1. Ci sono numerosi altri studiosi che si sono imposti nel dibattito pubblico dopo Rawls, Dworkin e Dahl – due nomi per tutti: Amartya Sen e Martha Nussbaum – ma faccio riferimento esplicito a questi tre perché sono i padri del modo di intendere la democrazia che voglio presentarvi. La concezione di democrazia che essi maturano non è circoscritta al piano metodologico e procedurale: la democrazia, cioè, come metodo e insieme di regole e procedure per la costituzione del governo e per l’elaborazione delle decisioni politiche. Questa è la definizione che di democrazia fornisce Norberto Bobbio nel suo Dizionario di politica2. Non c’è alcun dubbio che questo sia un aspetto costitutivo e indispensabile della democrazia, ma Rawls, Dworkin e Dahl insegnano anche che le stesse regole procedurali hanno una base normativa, cioè di legittimazione, che le fonda e le rende accettabili, dando loro, appunto, legittimità, cioè rendendo possibile che esse abbiano il consenso dei cittadini. Ciò equivale a dire che la democrazia non è soltanto un metodo o una procedura di governo: alla base della sua 79 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 80 Le parole e le cose dei democratici architettura normativa vi è un nucleo morale, dato da concetti quali l’eguaglianza intrinseca degli esseri umani e l’eguale rispetto che è dovuto a tutti. Concetti come questi sono concetti morali. Se affermiamo che la democrazia prevede regole procedurali per cui tutti i cittadini hanno gli stessi diritti di voto e di partecipazione, questo è perché tutti i cittadini sono pensati come intrinsecamente eguali. Cosa significa ‘intrinsecamente eguali’? Mi riferisco a dibattiti che sono stati fondamentali nell’Ottocento in merito al suffragio universale o nel Novecento riguardo al riconoscimento del diritto di voto alle donne: significa per l’appunto che tutti gli individui che costituiscono il demos della cittadinanza hanno le capacità necessarie per prendere decisioni politiche. Non perché alcuni hanno strumenti culturali limitati, o dipendono da altri per la loro sussistenza, o versano in condizioni di indigenza, o non si sono mai occupati di politica ma soltanto di lavori manuali, allora per questo non hanno la capacità di esprimere giudizio politico. È proprio questo il cuore pulsante della democrazia: partecipare attivamente alla vita democratica non è un problema di competenza, ma un diritto intrinseco, una qualità che noi riconosciamo presente in tutti i cittadini in quanto cittadini, qualunque sia il loro livello mentale o culturale o la loro indipendenza sociale. L’intera battaglia per il suffragio universale si è confrontata con un simile problema: per parecchio tempo, fin da quando nel dibattito politico è apparso l’orizzonte della democrazia, molti conservatori hanno sostenuto che non si poteva concedere il voto a tutti, che non era pensabile che la sovranità effettivamente risiedesse nel popolo, 80 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 81 Le parole e le cose dei democratici proprio perché è bene che a governare siano le persone più competenti. Questa è un’idea che risale a Platone e al suo celebre argomento del governo dei custodi, spesso utilizzato da chi intende conservare un certo assetto di potere. È curioso, però, che Dahl sostenga che anche l’idea leninista sia, in realtà, aristocratica e antidemocratica perché fondata sulla convinzione che a governare debba essere il partito che è avanguardia e che ha sulla politica quella competenza che al popolo manca. È un rilievo interessante, che ci dice che una simile idea della democrazia come governo dei competenti, degli esperti, dei tecnici ritorna spesso e non è necessariamente limitata alle posizioni conservatrici. Quest’idea elitistica contraddice il concetto di democrazia e deve essere respinta in nome di una concezione ampia della vita politica democratica. Eguale rispetto è il secondo concetto morale che Rawls, Dworkin e Dahl pongono alla base della democrazia. Eguale rispetto significa che tutti gli individui sono titolari di diritti: prima ancora che si costituisca il sistema giuridico, gli individui sono intrinsecamente ed egualmente titolari di diritti. La titolarità è posseduta da tutti allo stesso modo. Eguale rispetto ed eguaglianza sono evidentemente collegati tra loro, ma si differenziano nella misura in cui, come ha sostenuto la filosofa politica Anna Elisabetta Galeotti, l’eguale rispetto rappresenta il principio che conferisce all’accordo politico un valore morale3. In altre parole: l’eguale rispetto implica che l’accordo politico, cioè il rapporto di cittadinanza, escluda la possibilità che una parte, seppur maggioritaria, imponga agli altri le proprie scelte e opinioni, i propri valori e principi, il proprio modo di vedere. L’eguale rispetto, dunque, è colle- 81 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 82 Le parole e le cose dei democratici gato alla tolleranza, alla laicità. Con ‘laicità’ – si badi bene – non s’intende l’esclusione della religione dalla sfera pubblica, ma l’idea per cui nessuno può pensare di tradurre la sua convinzione religiosa o morale in legge dello Stato. Questo significa ‘laicità’ e questo io credo noi dovremmo valorizzare oggi. C’è poi la questione del rapporto democrazia-individui: in un’epoca in cui si è fortemente sviluppato il principio individuale, quale significato acquisisce il termine ‘democrazia’? La democrazia è storicamente legata all’individualismo e allo sviluppo degli individui, poiché l’ideale democratico nasce insieme all’idea per cui gli individui sono titolari dei diritti da cui poi deriva l’istituzione dello Stato politico. Ma la convinzione che tra individuo e Stato non ci sia mediazione alcuna appartiene più ai totalitarismi che alle democrazie; al contrario, le teorie democratiche sono ben consapevoli del fatto che fra gli individui e lo Stato ci sono associazioni, società private e anche società che hanno valenza pubblica come, ad esempio, la famiglia, i partiti, i cosiddetti ‘corpi intermedi’. È stato Robert Dahl, in particolare, a elaborare una teoria della democrazia che utilizza l’idea di ‘poliarchia’, dove, con questo termine, s’intende esattamente che negli Stati democratici si dà una molteplicità di istituzioni e non esiste soltanto lo Stato. Se l’idea originaria della modernità, l’idea hobbesiana e poi rousseauiana, vuole che gli individui costituiscano lo Stato, Dahl ha una visione, se vogliamo, più sofisticata: ritiene che nella società esista un ventaglio ampio e variegato di istituzioni, alcune delle quali possono anche derivare da epoche premoderne. È il caso, per esempio, della rappresentanza, che è un 82 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 83 Le parole e le cose dei democratici aspetto tipico della democrazia moderna: per i moderni non c’è democrazia senza sistema rappresentativo, mentre per gli antichi l’aspetto rappresentativo era assai più marginale. Ma la rappresentanza democratica è l’evoluzione di un istituto premoderno, quello dei corpi rappresentativi – inizialmente privi di potere legislativo – con i quali i ceti manifestavano i loro bisogni e le loro richieste al sovrano. Vi sono poi altre istituzioni, proprie della realtà moderna. Quello, però, che per Dahl è rilevante è che la realtà della democrazia non è identificabile semplicemente con la centralità dello Stato. Lo Stato è importantissimo ma la sua presenza è equilibrata da altre istituzioni non meno rilevanti che, nella loro interazione reciproca e con lo Stato stesso, ridefiniscono poi il proprio essere entro il contesto di una democrazia. Oggi viviamo in un’epoca di sfide per la democrazia, legate alla trasformazione delle nostre società su vari livelli: trasformazioni che spesso fanno pensare a qualcuno che la democrazia sia destinata a soccombere. Una di queste è senza dubbio la trasformazione delle nostre società in società multiculturali. Queste non sono semplicemente società pluraliste: il pluralismo è un tratto proprio delle società europee già da secoli. Si tratta, piuttosto, di un pluralismo nuovo che porta alla convivenza, sullo stesso territorio e sul medesimo terreno politico, di culture profondamente diverse nel modo in cui intendono, ad esempio, il rapporto tra Stato e religione, tra pubblico e privato. Le odierne società multiculturali fronteggiano, dunque, problemi di convivenza ma anche domande forti e bisogni di riconoscimento da parte delle culture mi- 83 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 84 Le parole e le cose dei democratici noritarie. Si tratta di una delle sfide più serie per la democrazia, e non a caso costituisce uno dei filoni di studio e di elaborazione maggiori della filosofia politica e della scienza politica negli ultimi decenni, dalla fine del Novecento ad oggi. È una sfida certo difficile da vincere nella pratica ma non impossibile sul piano della concezione della democrazia. Occorre trovare soluzioni per ricomporre tra loro le esigenze di riconoscimento dei diversi gruppi e una cultura democratica che ha una sua origine storica e geografica precisa. La democrazia è nata in Occidente, per quanto, come ci insegna Amartya Sen, non possa essere interpretata come un’idea puramente occidentale, dato che anche altre culture hanno sviluppato, in epoche anche remote, una propria concezione della libertà e della tolleranza. La democrazia, inoltre, ha dimostrato di sapersi adattare anche ad aree del mondo assai diverse dall’Occidente: basti pensare all’India, che è una grande democrazia, sicuramente difficile e con grossi problemi, ma avviata da più di cinquant’anni. Proprio il suo essere una democrazia consente all’India di avere standard di vita più elevati che in Cina, dove pure la ricchezza è maggiore. Tra le altre sfide che la democrazia oggi è chiamata a fronteggiare, infine, voglio ricordare la crisi di identità che la globalizzazione produce, con il conseguente rafforzamento delle identità religiose; il problema, strettamente connesso, della laicità, cui ho fatto riferimento prima. Da ultimo vorrei citare l’emergere delle questioni bioetiche: anche questa è una sfida alla democrazia. Le questioni bioetiche infatti, nelle attuali condizioni della vita umana, sono uscite dalla sfera privata e richiedono decisioni pub- 84 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 85 Le parole e le cose dei democratici bliche4. È una sfida che in Italia viviamo con particolare drammaticità e che non trova risposte facili nella nostra democrazia. La via da percorrere è quella di identificare i valori che le istituzioni pubbliche devono tutelare – anche se sono conflittuali tra loro – e cercare un equilibrio, necessariamente instabile e provvisorio, ma accettabile, se non per tutti i cittadini, per quelli che sono disponibili al pluralismo ragionevole, e dunque al compromesso. Bisogna dunque essere in grado di definire un terreno di mediazione, sul quale cercare insieme delle soluzioni legislative che siano almeno in parte accettabili per i diversi punti di vista morali. È una ricerca che non parte da zero, ma ha alla sua base i principi fondamentali di cui ho parlato: l’eguaglianza di tutti gli esseri umani; il rispetto che, in conseguenza di questa eguaglianza, si deve a tutti nello stesso modo; il valore della libertà individuale e dell’autonomia delle scelte dei soggetti coinvolti. La nostra democrazia avrà serie difficoltà se non riuscirà ad affrontare positivamente queste sfide. 1 Di Rawls vedi Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1982 e Liberalismo politico (1993), Milano, Comunità, 1994; di Dworkin I diritti presi sul serio (1977), Bologna, il Mulino, 1982, e Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza (2000), Milano, Feltrinelli, 2002; di Dahl La democrazia e i suoi critici (1989), Roma, Editori Riuniti, 1990. 2 Dizionario di Politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, Utet, 1983. 3 A.E. Galeotti, La politica del rispetto, Roma-Bari, Laterza, 2010. 4 Vedi C. Mancina, La laicità al tempo della bioetica, Bologna, il Mulino, 2009. 85 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 86 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 87 Michele Battini Professore di Storia Contemporanea, Università di Pisa Comincerò col dire che, oltre ad aver lavorato per molti anni alla Scuola Normale Superiore di questa città, ho anche io qualche ‘peccato di giovinezza’, essendo stato anche un militante. Quanto dirò presuppone, dunque, lo studio ma anche il pregiudizio nel senso positivo del termine, perché non posso che denunciare la mia parzialità nel riflettere, come già hanno fatto gli altri relatori, anche sulla mia esperienza personale. Sul piano strutturale procederò per tesi, come si usava fare nel quarto decennio dell’Ottocento, quando si producevano tesi su progetti politici e filosofici. La mia prima tesi prende le mosse da un articolo apparso sul New Yorker di febbraio che mi ha colpito moltissimo: s’intitola Twitter non fa la rivoluzione ed è firmato dal giornalista Malcolm Gladwell, che de-costruisce intelligentemente il luogo comune secondo cui i social network avrebbero consentito straordinarie esperienze politiche: dalla primavera in Moldavia del 2009 ai movimenti di Teheran alle rivoluzioni degli ultimi mesi in Nord Africa. Ma, al di là della diffusione globale dei social network, esiste un rapporto così stretto tra le informazioni che circolano grazie a queste nuove piattaforme di comunicazione e discussione e il prodursi di movimenti socio-politici? Gladwell istituisce un confronto interessante con espe- 87 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 88 Le parole e le cose dei democratici rienze che prima Claudia Mancina ha richiamato: i movimenti americani per i diritti civili a metà degli anni Sessanta, la preparazione del Sessantotto negli Stati Uniti, l’azione del movimento per l’affermazione e la registrazione dei neri negli uffici elettorali. Famoso episodio è quello del movimento di Greensboro: nel 1960 quattro studenti neri entrano nel bar di un supermercato e chiedono da bere. Naturalmente viene loro risposto che in quel locale non si serve ai neri. I quattro studenti rimangono in attesa, fermi, fino alla chiusura del locale. Ritornano il giorno seguente, quello successivo ancora e così via: pian piano si uniscono a loro anche altri studenti, prima soltanto neri, poi anche qualche bianco. Le prime bianche ad aderire al sit-in sono due compagne di college e nell’arco di poche settimane il movimento esplode prima nell’intera Carolina del Nord e poi in ben quindici città di cinque Stati del Sud. Gladwell prende le mosse da questo episodio per argomentare che i grandi movimenti di protesta e rivendicazione si producevano già prima dell’avvento dei social network. I ragazzi di Greensboro non avevano certo mezzi di informazione e comunicazione così rapidi ed efficaci, ma disponevano di una risorsa non meno importante: sapevano organizzarsi, come dimostra la realtà della National Association for the Advancement of Colored People, vale a dire l’Associazione nazionale per la promozione della gente di colore, che giocò un ruolo rilevante nella cancellazione delle leggi segregazioniste assieme alle Chiese battiste e ai college universitari. Esisteva, quindi, una comunicazione che implicava anche una organizzazione, cioè un rapporto di fiducia. L’articolo di Gladwell, infatti, si chiude con la se- 88 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 89 Le parole e le cose dei democratici guente argomentazione: per fare la rivoluzione non basta Twitter: occorrono progetti chiari, fondati su analisi realistiche, occorrono compagni e amici fidati. Mi sembra una bellissima conclusione, soprattutto perché de-costruisce il pensiero che si sta affermando anche nelle università americane: un professore di New York, Clay Shirky, ha pubblicato nel 2008 un libro dal titolo Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione, in cui si evidenziano le potenzialità politiche (accanto alle possibili degenerazioni) dei social network. È interessante notare che uno storico americano dell’Illuminismo e dell’organizzazione delle culture, Robert Darnton, ha proposto un confronto a mio avviso straordinario, paragonando l’esaltazione odierna della comunicazione a una situazione molto lontana nel tempo, che risale addirittura al Settecento. Darnton invita a tenere presente che si è sempre posto il problema della organizzazione culturale di un’azione politica: l’Encyclopédie cos’altro era se non un intelligente tentativo di organizzare, con i mezzi dell’epoca, una comunicazione sulle innovazioni culturali e politiche più importanti? Era un tentativo di formare un senso comune diverso da quello prodotto dalla tradizione cristiana dell’Antico Regime, per produrre riforme: fu diffusa in grandi copie nelle Accademie, nei club, nelle società massoniche, nei salotti, con l’obiettivo di produrre una nuova visione del mondo in funzione delle riforme che si auspicavano, in primo luogo sul terreno giurisdizionale contro lo strapotere della Chiesa e contro i privilegi aristocratici. Altre ipotesi di riforme radicali si diffusero grazie a questo potentissimo veicolo, al tempo stesso culturale e di 89 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 90 Le parole e le cose dei democratici organizzazione, di costruzione, di associazione. Seconda tesi: non è vero che l’Italia – qui veniamo al Novecento – dal punto di vista della storia dei progetti politici e della loro organizzazione non abbia prodotto esperienze importanti. Io credo che noi, individualmente e anche collettivamente, siamo nani sulle spalle di giganti e che l’esperienza delle generazioni precedenti vada valutata molto attentamente, in quanto assai complicata e in parte contraddittoria. Il problema dell’organizzazione politica e culturale da questo punto di vista in Italia ha avuto soluzioni originali. Voglio richiamarmi ancora a uno studioso anglosassone, poiché gli anglosassoni sono particolarmente bravi ad osservarci e a proporci soluzioni. Si chiama Perry Anderson, è stato ed è uno storico importante per le indicazioni interessanti che ha saputo fornire al nostro paese sul piano della riflessione politica. Nel suo libro The New Old World troviamo un capitolo sull’Italia, una parte del quale è uscito qualche mese fa anche sulla stampa italiana con il titolo La sinistra invertebrata. Si tratta di un atto di accusa clamoroso contro «la dilapidazione» – testuali parole dell’autore – «della sinistra». Due partiti organizzati, sindacato, un’estesa presenza elettorale, una ramificata rete di associazioni, il mondo delle cooperazioni: questo straordinario patrimonio e un grande prestigio culturale – argomenta Anderson – oggi è, se non azzerato, di certo fortemente compromesso. La situazione italiana, che era la più brillante per la sinistra nel corso del Novecento, è oggi forse la più critica anche rispetto ad altri paesi della sinistra europea. Non so se il giudizio sia giusto e neppure mi interessa. Ritengo, però, che la provocazione sia molto inte- 90 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 91 Le parole e le cose dei democratici ressante per l’interrogativo che pone: cos’era, dunque, la specificità italiana della sinistra di allora? Anderson tocca qui il problema della comunicazione, dei valori culturali, dell’organizzazione della cultura: la sua risposta è che è esistito un modello sicuramente originale da questo punto di vista, proprio della nostra realtà storico-politica. In un paese come il nostro, in cui, fino a centocinquanta anni fa, non è mai esistita una struttura statale unificante e unificata ma in cui si sono date frammentate realtà statuarie diverse, disarticolate corporazioni e reti di interessi comunitari locali fortemente identitari, l’arte del governo dei popoli e delle coscienze è stata elaborata dalla struttura ecclesiastica. Questa specificità abnorme del nostro paese – dobbiamo rendercene conto – è un problema ancora oggi presente: l’egemonia della Chiesa cattolica nelle crisi storiche italiane si rinnova grazie a una tradizione di presenza organizzata sul territorio e di capacità di penetrare nelle coscienze anche là dove non sembra. Pensate alla Seconda Guerra Mondiale, quando alla Chiesa si rivolsero masse intere di popolazione dopo il crollo dello Stato e durante l’occupazione nazionale. In assenza, per secoli, di uno Stato unitario e in presenza di una Chiesa tridentina organizzata capillarmente in modo assai diverso che nel resto d’Europa, il nostro paese, ancor prima che fosse nazione, maturò i germi di un’anomalia che ancora oggi perdura. La peculiarità della politica e della storia italiane vanno sempre ricondotte a queste lunghe radici. La sinistra ha rappresentato un modello originale di costruzione di un corpo collettivo organizzato: la cultura, che per secoli era l’unica sfera in cui gli umanisti si oppone- 91 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 92 Le parole e le cose dei democratici vano all’invadenza della Chiesa, è diventata con la sinistra cultura organizzata. Anderson scrive di un grande patrimonio perduto perché sembrerebbe che questa realtà oggi si sia disgregata; in realtà quella organizzazione fu, come hanno rilevato alcuni studiosi in modo interessante, una grande risorsa scarsamente utilizzata sia per un rovesciamento dei rapporti di forza che la condizione nazionale non consentiva sia per avviare una stagione di riforme che subì forti condizionamenti dall’esterno, in anni cruciali quali gli anni Sessanta e Settanta. Vi fu allora quasi una sorta di immobilismo prodotto da questa forza organizzata che accumulava risorse ma non riusciva a entrare veramente nei meccanismi decisionali. Se è vero che quella del nostro paese è una situazione tutta particolare, quando ci poniamo il problema del Novecento dobbiamo certo farlo dal punto di vista di una prospettiva europea, ma non possiamo perdere di vista l’eccezionalità italiana. Un panorama politico come quello italiano non esiste nel resto di Europa: l’azzeramento delle culture politiche e la fine dei corpi organizzati ai quali abbiamo assistito in Italia non è un fenomeno analogo al logoramento della social-democrazia, del socialismo, alla crisi della sinistra che registriamo nel resto d’Europa. C’è sempre una particolarità nazionale di cui dobbiamo tener conto, anche se l’Europa è una risorsa per una risposta strategica. Da questo punto di vista è chiaro che molto del Novecento, nonostante quegli aspetti positivi e non pienamente utilizzati che abbiamo richiamato, è inevitabilmente alla nostre spalle. Il Novecento è stato fortemente segnato nelle sue culture politiche dall’orizzonte della 92 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 93 Le parole e le cose dei democratici guerra, e non è scontato ricordarlo: il socialismo – io di questo ho parlato fino ad oggi – e il comunismo novecenteschi sono profondamente diversi dal socialismo e dal comunismo dei decenni precedenti perché l’orizzonte della guerra, a partire proprio dal primo conflitto mondiale, ha ristrutturato la politica. La guerra significò non solo militarizzazione del territorio europeo ma soprattutto economia di guerra, abolizione delle libertà, conformazione delle coscienze, abolizione del dissenso, corporativizzazione dell’azione sociale con i sindacati: questo modello, sia a sinistra sia a destra, segnò fortemente le trasformazioni delle culture politiche. Claudia Mancina ha fatto un interessante accenno in questo senso quando ha parlato di due opposte critiche della democrazia. Questa, però, è stata una realtà tanto a sinistra quanto a destra: una scarsa popolarità della democrazia dopo la Prima Guerra Mondiale fino alla Seconda: questo è stato in effetti l’orizzonte del Novecento. Tuttavia, ciò non significa che dal Novecento e dalle sue radici illuministiche e socialiste ottocentesche non vi siano lezioni da recuperare. Chiudo allora su un tema che è per me formidabile, quello della giustizia sociale. Da questo punto di vista c’è chi ha scritto che la cultura socialista e comunista, sin dalle sue origini – quindi dall’inizio dell’Ottocento – ha sofferto di una contraddizione: da un parte, infatti, è stata un’utopia di completamento della Rivoluzione delle libertà – tema, questo, che ha trattato all’inizio Vittoria Franco. Le libertà sono quelle conquistate con la Rivoluzione dei diritti dell’uomo, il costituzionalismo politico, l’emancipazione giuridica, il lavoro libero: battaglie certo circoscritte a metà dell’universo ma pre- 93 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 94 Le parole e le cose dei democratici supposto ineludibile per l’estensione universale delle libertà. Questa tradizione attraversa tutto il secolo e vede impregnata di sé una parte importante della cultura socialista: si pensi, ad esempio, al rapporto tra libertà e giustizia sociale. Vi è, però, una parte del socialismo che sin dall’inizio vede nella ricostruzione di corpi organizzati e di corporazioni nello Stato la soluzione della giustizia sociale, contrapposta alle libertà. Tutte le famiglie politiche, ad essere sinceri, dovrebbero essere de-costruite e disaggregate nel momento in cui le ripensiamo. Esistono tradizioni cristiane e cattoliche democratiche ma esistono anche cristianesimi sociali, corporativi, autoritari, e così via. Nel Novecento abbiamo avuto una visione democratica della nazione conciliabile con la federazione delle nazioni – i polacchi che combattevano a Roma nel 1849, la prima Internazionale nata per la libertà della Polonia ecc. – ma anche il nazionalismo regressivo ed etnico. Recuperare questi aspetti è importante, così come è fondamentale tenere presente che poi nel corso del secolo scorso questa biforcazione si è persa. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la chiusura, la costrizione dentro una cultura della guerra tra Stato e forze organizzate, di una visione militare della lotta politica, per quanto ispirata ai più nobili ideali, ha segnato tutte le generazioni almeno fino agli anni Sessanta-Settanta. Persino la mia generazione è stata toccata dall’eredità di questa cultura novecentesca. Sul tema della giustizia e anche della reciprocità che Vittoria Franco ha toccato vorrei chiudere davvero, perché credo che vi sia un aspetto di questa tradizione di riflessione sul rapporto tra giustizia, universalismo politico e 94 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 95 Le parole e le cose dei democratici democrazia politica che è ancora interessante e meritevole di essere recuperato per la sua ricchezza. È stato citato Amartya Sen, un economista, non a caso indiano, cha ha lavorato a stretto contatto con altri economisti di particolare rilievo per il loro contributo ad una riflessione moderna sulla giustizia economica, a partire da Albert Otto Hirschman. Hirschman, ad esempio, si è formato anche in Italia negli anni Trenta a contatto con un’esperienza del socialismo italiano di grande interesse, seppure minoritaria. Ricordo le belle definizioni della libertà che ha rievocato in apertura Vittoria Franco: libertà come autonomia, come essere soggetto e non solo oggetto, come reciprocità e responsabilità. Nell’ambito di una politica novecentesca, quella parte del socialismo proponeva esattamente una visione autonomistica dell’articolazione dello Stato, una democrazia economica articolata dal basso contro la pianificazione sovietica. L’ultimo libro di Sen, L’idea di giustizia, avanza una critica interessante alla teoria della giustizia di Rawls che a me sembra fornisca un contributo molto utile per questa nostra storia delle culture politiche. In particolare, Sen sottolinea che la giustizia sia una forma che si realizza attraverso le pratiche più che attraverso uno specifico assetto istituzionale della democrazia economica. Tuttavia, essa non può prescindere da un’idea della democrazia economica che è e deve rimanere profondamente legata, al di là delle sue concrete realizzazioni, alla possibilità di conciliare due principi della distribuzione delle ricchezze che nella tradizione novecentesca sono stati contrapposti: da una parte, il principio del bisogno, della necessità di soccorrere chi non ha; dall’altra, il principio dello 95 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 96 Le parole e le cose dei democratici scambio e del libero mercato. Certamente è paradossale una sinistra che non si ponga il problema dei deboli, degli emarginati, degli sfruttati, dei bassi salari, soprattutto oggi che le conquiste italiane di venti-trenta anni fa sono fortemente a rischio. Che non ci si ponga il problema di un dialogo, oggi che le barriere nazionali sono sempre più porose, fra i lavoratori cinesi e quelli italiani e di un miglioramento sostanziale delle loro condizioni, attualmente assai lontane dall’orizzonte della giustizia, è indice di un grave deficit culturale, ancor prima che politico. Il tema decisivo, dunque, è quello della democrazia economica come universalizzazione nell’economia della democrazia politica. Lo ricordava giustamente Claudia Mancina: non si devono contrapporre giustizia e democrazia. Il rischio, altrimenti, è di ritornare, per questa via, ad errori consumati nel tempo. 96 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 97 Vannino Chiti* Vicepresidente del Senato della Repubblica 1 - Vi sono molte, vecchie, parole che mantengono importanza per la sinistra del XXI secolo; altre, inedite, che devono assumere ormai un rilievo fondamentale nel nostro vocabolario. Anche le prime, quelle che continuano a segnare l’orizzonte della nostra cultura politica, esigono tuttavia un rinnovamento – di contenuti, di relazioni con altri termini, di strumenti – per poterle rendere efficaci, togliendole dal rischio di interessare strati sociali ristretti o addirittura di essere destinate ad una collocazione nel museo delle idee nobili, ma ormai incapaci di agire nella realtà. È, tanto per fare un esempio, il caso di una parola irrinunciabile quale ‘pace’: come si afferma, nel nostro tempo, dopo la caduta dell’Unione Sovietica e degli altri regimi del cosiddetto ‘socialismo reale’, cioè dopo il fallimento di una speranza di liberazione umana universale affidata al marxismo e divenuta un sistema di oppressione di donne e uomini, una sovranità limitata imposta a Stati che costellavano l’est dell’Europa? Come può vincere la pace in un tempo come il nostro, nel quale è ripresa la diffusione delle armi nucleari e di distruzione di massa, con le spese per gli armamenti che, nel disinteresse quasi generale, crescono nel nostro pianeta insieme alle disuguaglianze? 97 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 98 Le parole e le cose dei democratici Per non restare un imperativo morale, ma costituire al tempo stesso un obiettivo politico, la pace deve essere parte di un progetto che assume l’ambizione di dar vita a strumenti di governance democratica mondiale, che la renda inseparabile dalla affermazione, ovunque, dei diritti umani, che ne faccia un’occasione per una radicale revisione del concetto ottocentesco di non ingerenza all’interno dei confini nazionali degli Stati. E naturalmente non si costruisce la pace – ma questo lo sapevamo dalle grandi lezioni del secolo precedente – senza o contro la giustizia e l’uguaglianza, che fondano la libertà e la dignità della persona. Si colloca in questo quadro una riforma dell’ONU, che ne faccia l’istituzione protagonista della garanzia del rispetto dei diritti umani e di uno sviluppo sostenibile, evitando forme di crescita ormai in grado di mettere a rischio il futuro del pianeta e la vita dell’umanità. Certo l’ONU che diviene una forma, per quanto embrionale, di governo del pianeta, su temi decisivi per la convivenza dell’umanità, non può più essere rappresentata da un Consiglio di Sicurezza ordinato su membri permanenti, dotati del diritto di veto, una fotografia oramai sbiadita degli esiti lontani del secondo conflitto mondiale. La sovranità degli Stati e il suo rispetto rimangono senza dubbio un valore, ma non fino al punto di essere un assoluto, che consenta a dittature di operare il massacro di popoli, di minoranze culturali o religiose: si chiami ingerenza umanitaria o operazione di polizia internazionale, quello che è fondamentale è ridefinire un asse della nostra cultura politica, che sia espressione di sensibilità e di 98 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 99 Le parole e le cose dei democratici azione, non di indifferenza, nei confronti di violazioni e repressioni dei diritti umani. Vi è dunque, da un lato, la necessità di impiegare su scala internazionale, per garantire i diritti umani – seppure come extrema ratio – la forza, decisa secondo criteri non arbitrari, da un’unica autorità riconosciuta – cioè l’Onu – e per un tempo circoscritto, così che non vi sia sproporzione tra mezzi utilizzati e fini; dall’altro, nell’azione per trasformare la società viene bandita ogni strategia che non sia fondata sulla non violenza. E qui si ha l’ingresso di una novità culturale e politica radicale nell’orizzonte della sinistra del XXI secolo, che viene per così dire – schematizzo per renderla più evidente – ad essere, riguardo alle forme di lotta, più gandhiana che marxista. Come ho premesso, si tratta di un esempio, ma non è il solo: si potrebbe continuare, riferendoci a pressoché tutti i capisaldi della nostra cultura politica. 2 - È che le parole del vocabolario politico si collocano in un contesto profondamente diverso dal passato: viviamo nel cosiddetto mondo globale. È in corso la terza, grande rivoluzione produttiva nella storia dell’umanità, dopo quelle agricola e industriale: la rivoluzione tecnologico-informatica. Sono già intervenuti cambiamenti epocali. Accenno ai principali. Quello che forse ci riguarda più direttamente è il rapporto con la politica, che non si riferisce più alle masse, secondo una concezione ed una pratica che si erano affermate a destra e a sinistra nel corso del Novecento, bensì agli individui, alle persone. Ed è stata la destra che meglio ha saputo cogliere la 99 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 100 Le parole e le cose dei democratici spinta dei nuovi protagonismi individuali, inserendovi il cuneo delle sue divisioni, quelle tra Nord e Sud, tra lavoratori del privato e del pubblico impiego, tra giovani e anziani, tra cittadini italiani – ed europei – e immigrati. È senza dubbio più complesso, partendo dalle soggettività individuali, ricostruire nuovi e forti legami di solidarietà, fratellanza, appartenenza, ma è altrettanto vero che la sinistra si è attardata nella difesa-conservazione di un passato ormai tramontato, ha fissato le ancore in un universo di valori annebbiato e spesso trascurato – basti pensare alla ridefinizione dei diritti, da coniugare con responsabilità e doveri –, in un ubriacamento di pragmatismo, che ha lasciato spazi immensi alle culture della destra, confinando così la sinistra in spazi sempre più angusti, spesso subalterni. Altri cambiamenti, nel mondo globale, hanno divaricato economia e sociale, mercato e democrazia. Nel nostro continente non esisterà più una sinistra capace di porsi come protagonista, se non sapremo prendere nelle nostre mani la sfida per portare a compimento la costruzione della dimensione politica dell’Europa: il nostro compito principale è la realizzazione di una vera democrazia sovranazionale europea e, in questo quadro, nei vari paesi, di un federalismo che renda le istituzioni più vicine ai cittadini e più efficaci nella qualità del governo. Democrazia sovranazionale e federalismo sono le risposte per sconfiggere i populismi, che svuotano le nostre istituzioni e mortificano la partecipazione dei cittadini: al di fuori di quegli obiettivi la stessa democrazia corre il rischio di un progressivo svuotamento e impoverimento. Questo rischio non riguarda solo l’Italia. 100 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 101 Le parole e le cose dei democratici Di fronte a noi vi è invece una sinistra imprigionata nei soli partiti, sindacati, Stati nazionali: incapace di proporsi per l’Europa, sorda alle grandi questioni di un cambiamento degli assi dello sviluppo, attorno al quale nel Sud del mondo si costruiscono pensieri nuovi, si affacciano soggetti plurali, tradizionali e inediti. 3 - Nel XX secolo concezioni guida per la sinistra, quelle capaci di aggregare le masse, di dar vita ad una egemonia culturale, ad un vero e proprio senso comune diffuso, sono state quelle di uguaglianza e di solidarietà. Oggi, nel nostro presente, in questo XXI secolo appena iniziato, tali impostazioni, per continuare a parlare con efficacia alle persone, devono sapersi rinnovare, integrare con altri contenuti. Sul tronco dell’uguaglianza deve sapersi innestare la differenza: la separazione tra uguaglianza e differenza, cioè la incapacità di una valorizzazione del merito, ha rappresentato la ragione fondamentale del fallimento delle esperienze politiche della sinistra, sia quando si è privilegiato il primo termine, proponendosi un’assurda omogeneità e omologazione, sia quando si è posto l’accento esclusivamente sul secondo. Uguaglianza-merito deve essere il binomio che nutre una ridefinizione della cultura politica progressista e orienta la riforma del welfare. Da questo punto di vista viene ad essere centrale la creazione di una reale uguaglianza di opportunità di vita e dunque costituiscono una priorità l’istruzione, la formazione, la salute, che non possono soggiacere all’ottica ristretta del profitto e del mercato. Altra cosa è la capacità 101 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 102 Le parole e le cose dei democratici di inventare strumenti che concretizzino la sussidiarietà, cioè la presenza di forme sociali – e non esclusivamente istituzionali – di offerta di servizi, finalizzate al bene collettivo. Questione cruciale è quella di non far diventare il mercato principio egemone non solo dell’economia, ma dell’intera società, cioè Dio assoluto della vita dei cittadini. Sul tronco della solidarietà deve innestarsi un’idea nuova e più ampia: quella della cittadinanza. Nel XXI secolo il fondamento della cittadinanza non può più essere rappresentato dal diritto di sangue (ius sanguinis): questa impostazione è diventata un approccio reazionario al configurarsi delle nazioni, all’espansione della sfera dei diritti, al rispetto da parte di ognuno dei legittimi doveri. Viviamo in un’epoca di migrazioni, moltitudini di persone si spostano verso paesi più ricchi, avanzati ma caratterizzati da crollo demografico e invecchiamento delle popolazioni. Con questo fenomeno, certamente complesso, dobbiamo fare i conti: la democrazia stessa ne viene sfidata. Al diritto di sangue deve essere sostituito quello di suolo (ius soli), cioè la uguaglianza nei diritti e nei doveri per quanti risiedono nello stesso territorio, vi siano o meno nati. Con il diritto di sangue deve essere superato quel lemma antagonistico amico-nemico, che ha fino ad ora, nel corso dei secoli, retto le sorti dell’umanità – nella politica, nella cultura come nelle religioni – motivando le nostre paure, i nostri rifiuti del diverso. Del terzo innesto, quello dell’individuo sul tronco dell’esperienza politica e civile di massa, ho già detto: è suf- 102 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 103 Le parole e le cose dei democratici ficiente ribadire che compito della sinistra è quello di privilegiare nella persona gli aspetti della relazione con gli altri, il suo bisogno di relazionalità, che arricchisce il senso della vita, sviluppa la virtù del senso civico. Rassegnarsi al prevalere di un isolamento egoistico, che sacrifica gli interessi collettivi e finisce per vanificare la stessa ricerca e affermazione della soggettività individuale, equivale – come sta avvenendo – a lasciare enormi spazi all’arrembaggio della destra. Vi è, infine, un altro aspetto, per me decisivo, da sottolineare, per quanto riguarda la sinistra, il movimento popolare, democratico e riformatore che essa ha saputo organizzare, rappresentare e dirigere nel corso del XX secolo: mi riferisco all’autonomia politica, culturale e filosofica che essa aveva saputo costruire e che è stata il presupposto per quel suo ruolo da protagonista. Nel XX secolo – basti pensare in Italia alla lezione di Gramsci – le forze del lavoro e del progresso sono uscite da una dimensione di subalternità, alla quale apparteneva per buona parte anche la tradizione socialista della cultura popolare, ed hanno elaborato un proprio punto di vista, in grado di leggere la realtà, nei suoi molteplici piani, la sua evoluzione storica, la sua struttura economico-produttiva, la formazione intellettuale, le classi sociali ed il ruolo di quelle dirigenti. Su questa base venne elaborato un progetto complessivo di riforma della società. Questa dimensione dell’autonomia, culturale e politica, deve essere tenuta ferma, deve restare un obiettivo permanente: senza un proprio punto di vista sull’insieme della realtà, senza una capacità di leggere il mondo e la società, non è possibile costruire un progetto di cambia- 103 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 104 Le parole e le cose dei democratici mento. In fondo è questo ciò che chiamiamo ‘moderna identità’: dei valori di riferimento, una autonomia critica, un progetto da far camminare nel concreto della società. Ed è ciò che più ci manca in questo inizio del XXI secolo. Il pragmatismo quotidiano è altra cosa: ci colloca su un piano di navigazione a vista, nel quale restiamo sempre sulla difensiva e subalterni, incapaci anche soltanto di impostare – meno che mai di affermare – una rotta, una strategia, un approdo. È l’autonomia culturale, come fondamento del suo agire politico, che la sinistra deve saper recuperare nel mondo globale, e non solo in Italia. * Si pubblica qui il testo gentilmente inviatoci dal Senatore Chiti, il quale non aveva potuto partecipare in prima persona ai lavori del panel per imprevisti motivi di salute. 104 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 105 PANEL II Le figure e le forme dei democratici dopo il Novecento. Cosa possiamo e dobbiamo dire di centrosinistra nell’epoca della Rete? 105 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 106 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 107 Gianluca Giansante Ricercatore, formatore e consulente di comunicazione Nelle scuole di formazione politica si parla sempre di economia, di finanza, di relazioni internazionali, cioè di una serie di discipline che sono molto utili quando si sono vinte le elezioni e si deve governare. Quasi mai, però, si parla di comunicazione, che è invece un sapere decisivo – insieme ad altri – per arrivare a raggiungere l’obiettivo di vincere le elezioni. L’argomento di questo intervento intende andare controcorrente e rispondere alla domanda: come si fa a costruire consenso politico? In altre parole, per parafrasare il titolo di questo panel: ‘come dire qualcosa di centro-sinistra?’. Vorrei affrontare il tema in una maniera molto pratica, dandovi strumenti che possiate utilizzare fin da quando avrete finito di ascoltarmi nella vostra attività politica quotidiana, durante la prossima campagna elettorale oppure per promuovere un’iniziativa di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Cominciamo dicendo che per costruire consenso politico è necessario aumentare l’efficacia dei propri messaggi. Cosa vuol dire? Vuol dire innanzitutto ricordarsi che nel sostenere le vostre ragioni non è sufficiente dire ‘le cose come stanno’. Probabilmente vi sarà capitato di cercare di convincere qualcuno, per esempio un avversario politico o un amico 107 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 108 Le parole e le cose dei democratici che aveva un’opinione diversa dalla vostra. Vi sarete accorti che, nonostante voi sosteneste la vostra tesi con una serie di dati, di fatti e di statistiche, questa persona non si convinceva. Questo accade perché i meccanismi mentali della persuasione sono molto diversi dall’idea di persuasione logico-razionale che naturalmente siamo portati a considerare validi. Per questo è importante utilizzare tecniche che permettano di aumentare la nostra efficacia: di essere, cioè, innanzitutto compresi dalle persone; in secondo luogo, di essere ascoltati, di non lasciare che le persone ‘spengano il cervello’ mentre parliamo; inoltre di far sì che il nostro interlocutore memorizzi ciò che stiamo dicendo e, infine, ovviamente che sia convinto e d’accordo con noi. In questa prima parte dell’intervento parlerò proprio di come questo sia possibile e, lo farò, come vi dicevo, fornendovi tre strumenti utili. Cominciamo però con due vere e proprie precondizioni della persuasione, che non inserisco fra i tre strumenti. La prima è la semplicità. Ricordatevi questo concetto: chi non vi capisce, non vi vota. Parlate sempre come se steste parlando a vostra nonna, al vostro meccanico, al vostro macellaio. Questo è un aspetto molto importante, ma, talvolta, dimenticato da chi fa politica a sinistra (ma non solo). Talvolta si pensa che la politica debba parlare un lessico specifico, per ‘addetti ai lavori’, ma si dimentica che così facendo si impedisce a tanti – per esempio a chi si occupa di altro o a chi non ha avuto la fortuna di studiare – di comprendere di cosa stiamo parlando e di poter liberamente essere d’accordo con noi. La seconda precondizione è: dire cose interessanti per chi 108 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 109 Le parole e le cose dei democratici ascolta. Se io avessi iniziato questo intervento parlando delle tecniche di innesto della vite americana, molto probabilmente avreste smesso di ascoltarmi e vi sareste dedicati ad altro, e giustamente, direi. Dunque è molto importante essere capaci di far percepire al nostro ascoltatore le ricadute sulla propria vita di quanto diciamo. In altre parole, se vi parlassi delle tecniche di innesto della vite come metafora per la politica o per aumentare il vostro benessere fisico, forse continuereste ad ascoltare. Almeno per un po’. A questo punto, dopo aver delineato le precondizioni per la persuasione politica cominciamo a parlare dei tre strumenti che ci permettono di aumentare l’efficacia dei nostri messaggi. Ce ne sono tanti, ma questi tre hanno un’importanza particolare. Iniziamo dal primo: la narrazione. Se ne parla tanto e talvolta senza troppa cognizione; in questa sede, però, non voglio essere teorico e addentrarmi in questioni tecniche1. Voglio invece partire da un esempio: la campagna di Barack Obama nel 2008. Nelle fasi finali del confronto Obama annunciò che, tre giorni prima del voto, avrebbe messo in onda uno spot pubblicitario di trenta minuti, un infomercial 2 dal titolo American Stories, American Solutions. C’era molta curiosità, anche perché non si sapeva nulla di più. Molti pensavano all’ennesimo discorso di un candidato che aveva infiammato le folle con la sua abilità retorica. Niente di tutto ciò: dopo una brevissima introduzione, Obama cede la parola ai cittadini per raccontare le loro storie, cinque storie di famiglie americane. Come quella della signora Rebecca Johnston, madre di quattro figli, di 109 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 110 Le parole e le cose dei democratici Kansas City, Missouri. C’è una frase che colpisce molto in questo documentario: la signora Johnston mostra il proprio frigorifero e dice: «ogni persona della famiglia ha un piano: così, se sanno che quello che c’è in quel piano è tutto quello che hanno per la settimana, se lo faranno durare di più». Ecco: questa frase, pronunciata nel paese dell’abbondanza e dello spreco, gli Stati Uniti, dice molto di più sulla crisi di qualsiasi statistica, di qualsiasi discorso. Mostra cosa significa la crisi veramente, nella quotidianità delle persone: una onesta famiglia americana si trova nella condizione di dover risparmiare perfino sul cibo. Questo fa capire quanto sia importante il tema economico: se si fosse affermato il tema della sicurezza, McCain sarebbe stato chiaramente favorito e avrebbe avuto gioco più facile. Sottolineare, invece, quanto fosse importante il tema economico era già un modo per far campagna a favore del Partito Democratico e di Obama. In secondo luogo, questa storia prepara l’ascoltatore ad accettare le soluzioni di Obama: permette di comprendere quanto sia urgente mettere in atto una serie di misure per contrastare la crisi. Facciamo un altro esempio, questa volta dall’Italia, per mostrarvi come la narrazione possa essere usata non soltanto in un documentario ma anche in un discorso. Il protagonista è Nichi Vendola3; durante la campagna per le elezioni regionali del 2010, nel corso di un comizio, a un certo punto dice alla folla che lo ascolta: «Sapete quando ho sentito di aver governato bene? Un giorno che in Regione è venuto a trovarmi un ragazzo diversamente abile, uno dei diecimila a cui abbiamo portato un computer a casa per liberarli dalle loro prigioni civili...». Pausa. «Eb- 110 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 111 Le parole e le cose dei democratici bene, quel giorno, quando mi hanno detto che era venuto mi sono preoccupato, pensavo che fosse accaduto qualcosa. Invece – spiegava Vendola mentre in platea cresceva la curiosità – era venuto perché voleva raccontarmi di persona che con il computer aveva trovato la fidanzata. La fidanzata, capite?»4. Raccontando questa storia innanzitutto Vendola ottiene un risultato: comunicare in maniera semplice, diretta e facilmente memorizzabile, uno dei progetti realizzati dalla propria amministrazione. Un altro politico, meno esperto, avrebbe detto: «Nella nostra amministrazione abbiamo posto grande attenzione alle questioni sociali finanziando l’acquisto di diecimila pc per ragazzi diversamente abili». Sarebbe stato come scrivere sull’acqua, perché le persone se lo sarebbero dimenticato nel giro di pochi secondi. In questo modo, invece, Vendola fissa l’idea: permette a chi lo ascolta di ricordare con facilità quanto lui afferma. In secondo luogo, fa capire quanto sia stato importante distribuire questi pc. Se io dico soltanto «ho dato dei computer», qualcuno potrebbe pensare che non sia un tema interessante. Qualcun altro potrebbe considerare che si tratti perfino di uno spreco. Invece, presentando in questo modo l’iniziativa, Vendola fa capire a chi lo ascolta come un piccolo gesto possa cambiare la vita di una persona. Iniziamo a capire, dunque, perché le storie funzionano in politica. Innanzitutto, perché ci permettono di passare dal livello astratto al livello concreto del discorso e, quindi, di essere compresi molto più facilmente. La politica è un argomento estremamente difficile, molto complesso, e spesso poco interessante per le persone. La nostra epoca, 111 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 112 Le parole e le cose dei democratici l’epoca della Rete, è anche un’epoca di grande distacco rispetto alla politica, e noi, per essere veramente democratici, dobbiamo sforzarci di far capire alle persone quanto sia importante nella loro quotidianità, quanto possa cambiare le loro vite. La narrazione ci aiuta a ottenere questo risultato. In secondo luogo le storie ci consentono di catturare l’attenzione, svegliano chi ci ascolta perché le persone sono interessate a sapere ‘come va a finire’. Il terzo vantaggio della narrazione è la capacità di favorire la memorizzazione. Se io vi racconto una storia, è molto più facile che voi la ricordiate, come è più facile che ricordiate un film piuttosto che un trattato di teoria economica. Infine, le storie creano un coinvolgimento emozionale. Io mi emoziono e mi sento coinvolto nel sentire il racconto del disabile, così come quello della signora Johnston: in qualche modo, quindi, voglio partecipare, e questo è molto utile in politica perché stimola all’azione. Se voglio partecipare posso farlo in un modo semplice, votando la persona che mi sembra sia più capace di risolvere questi problemi. Abbiamo visto in azione una prima tecnica, che vi raccomando di utilizzare quando vorrete far capire l’importanza di un tema, quando vorrete sostenere un’opinione nella vostra attività quotidiana. Se riuscite a raccontare un aneddoto, un fatto, un episodio, la storia di una persona che conoscete, potrete molto più facilmente catturare l’attenzione del vostro interlocutore e convincerlo rispetto a quanto fareste se cercaste di persuaderlo usando la logica. Perché avviene questo? Rispondendo a questa domanda, iniziamo a trattare della seconda tecnica, che consiste nel parlare al livello concreto. 112 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 113 Le parole e le cose dei democratici Vediamo cosa significa. Termini come disoccupazione, economia verde, solidarietà sono molto belli e hanno un grande valore, ma non sono in grado di catturare l’attenzione delle persone perché sono astratti: riescono ad essere compresi da chi ha un livello culturale molto alto e un interesse molto forte per il tema di cui si parla. Ma la maggior parte delle persone che votano ha un livello culturale che non sempre è altissimo; così come non sempre gli elettori sono interessati a quello che state dicendo. Parlando, quindi, al livello concreto, è più facile far capire l’importanza delle posizioni che vogliamo sostenere. Vi faccio un esempio di come possiamo fare. L’anno scorso ho seguito una campagna per un consigliere comunale nella mia città di origine, Chieti. Anziché parlare di grandi temi in maniera generale e astratta (usando termini come ‘disoccupazione giovanile’ o ‘disagio giovanile’), lo abbiamo fatto focalizzandoci sul livello concreto, avanzando una proposta realmente realizzabile e quindi un progetto che un consigliere comunale potesse effettivamente portare a compimento una volta eletto. In altre parole, non potevamo promettere di costruire un’autostrada, perché non avremmo avuto l’autorità per farlo e sarebbe stata quindi una promessa che non avremmo potuto mantenere. Tantomeno potevamo proporre di risolvere il problema della disoccupazione in generale perché saremmo risultati poco convincenti e necessariamente fumosi. Potevamo, però, fare qualcosa per contribuire a risolverla. Poiché si trattava di un giovane abbiamo pensato di impostare la campagna proprio sul tema del lavoro, di particolare interesse fra il suo bacino di riferimento dei potenziali elettori. Abbiamo costruito la campagna su questa 113 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 114 Le parole e le cose dei democratici proposta: l’organizzazione di corsi di formazione sull’uso di Internet per il commercio: il Comune avrebbe finanziato e organizzato quest’attività per insegnare ai partecipanti come si fa a vendere i prodotti locali nel mondo, attraverso Internet, usando Google AdWords e Facebook Ads, per esempio. Questo avrebbe dato loro una professionalità, un mestiere, e avrebbe anche aiutato il commercio della città. Qualcuno potrebbe pensare che fosse una proposta impossibile, avveniristica, futuribile. Per rafforzare l’idea che tutto questo fosse veramente realizzabile, abbiamo condiviso attraverso i vari strumenti di comunicazione della campagna (Facebook in primis) un video che racconta una storia bellissima. Quella di tre ragazzi di San Vito Chietino, un paese di tremila abitanti, a pochi chilometri da Chieti, che hanno creato un sito – www.lamiastampante.it – grazie al quale sono diventati leader in Italia nella vendita di cartucce per stampante5. Con questa storia abbiamo permesso di capire alle persone che ciò che noi proponevamo era assolutamente possibile, perché era stato già realizzato. Era possibile perché era stato fatto da ragazzi della loro età in un paese piccolissimo e periferico. Passiamo ora all’ultimo strumento che vi voglio presentare: la metafora. A questo punto potreste pensare: «cosa c’entra la metafora con la politica?». Non solo c’entra ma è anche una figura retorica molto utile nella comunicazione politica perché, per sua natura, semplifica i discorsi e permette di comprenderli e ricordarli meglio. Vediamo cosa intendo con un esempio. Un ragazzo potrebbe dire alla sua fidanzata: «la nostra relazione è a un bivio». Questa, anche se non sembra, è una metafora, 114 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 115 Le parole e le cose dei democratici perché non c’è un bivio reale nella loro relazione d’amore, non c’è un reale cammino che si divarica, ma un bivio figurato, metaforico, appunto. Questa frase utilizza la metafora concettuale ‘l’amore è un viaggio’, molto diffusa nella nostra cultura perché ci permette di parlare di un concetto assolutamente astratto – l’amore – e renderlo concreto, tangibile, paragonandolo a qualcosa che tutti conoscono, un bivio appunto6. Questa è l’essenza della metafora: prendere un concetto astratto e renderlo concreto. Ma questa non è l’unica caratteristica della metafora. La metafora è importante in politica perché, nel rendere concreto un concetto, ne sottolinea alcuni elementi e ne nasconde altri. Nel nostro esempio, sottolinea il fatto che l’amore è una relazione finalizzata a raggiungere un obiettivo: l’amore è come un viaggio, sottintende il pensiero «Noi stiamo insieme per andare da qualche parte, per sposarci, per avere un figlio o per stare tutta la vita insieme». Allo stesso tempo occulta altri elementi: per esempio, il fatto che nell’amore c’è anche un aspetto ludico, di conquista7. Cosa c’entra questo con la politica? Penso che voi abbiate sentito molte volte parlare di ‘pressione fiscale’. Questa è una metafora perché mette insieme qualcosa di astratto come le tasse con un concetto molto concreto che è la pressione, il peso. Questa espressione sottintende che le tasse sono un peso che grava su di noi. In questo modo sottolinea alcuni aspetti delle tasse – il fatto che pagarle è pesante, che sia un fardello. Ma ne occulta altri: per esempio la considerazione che se io, mentre sto parlando, mi sentissi male, arriverebbe un’ambulanza che mi porterebbe in ospedale e mi curerebbe e tutto questo gratui- 115 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 116 Le parole e le cose dei democratici tamente, proprio grazie alle tasse. Chiaramente la locuzione ‘pressione fiscale’ non è un’espressione neutra ma è portatrice di un punto di vista molto chiaro sulle tasse, che è il punto di vista del centro-destra. Ogni volta che un esponente di centro-sinistra la utilizza, rafforza inconsciamente in chi ascolta il punto di vista della destra sulle tasse. Non è un’espressione causale: è un’espressione che è stata studiata a tavolino. Ti faccio un esempio ancora più evidente: ‘scudo fiscale’. Anche questa è una metafora e qui è ancora più facile capire che lo scudo è qualcosa che serve per proteggersi da un nemico, da un avversario, da un orco, da un drago cattivo: le tasse. Questa espressione, quindi, vuole sottolineare il fatto che questa misura proposta dal governo voglia difendere delle persone oneste, brave, da qualcosa di cattivo, le tasse. Occulta, invece, il fatto che sia un semplice condono fiscale: i cattivi, cioè, sono quei soggetti che questa misura va a proteggere. Anche l’espressione ‘scudo fiscale’, quindi, è portatrice del punto di vista del centrodestra e non dovrebbe essere mai usata da un politico di centro-sinistra. Non è un’espressione nata per caso: infatti è un calco di un’espressione americana: ‘scudo spaziale’. Nel 1983 Reagan propone il finanziamento di un sistema di protezione, lo scudo spaziale, e lo fa sostenendo che serve per ‘proteggersi dai russi’. La metafora ‘scudo spaziale’, però, mentre sottolinea l’aspetto protettivo, occulta il fatto che il sistema in questione era anche un sistema di attacco: un complesso sistema di missili, e i missili, si sa, possono essere usati per attaccare il nemico. Chiaramente, se Reagan l’avesse chiamato ‘sistema missilistico di offesa’, nessuno lo avrebbe voluto finanziare, mentre con 116 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 117 Le parole e le cose dei democratici il nome prescelto la sua realizzazione era molto più condivisibile dall’opinione pubblica. È evidente, quindi, che badare alla comunicazione, capirne il senso, studiarla, avere dei centri di ricerca, dei think tank che vi si dedicano, non è soltanto un’attività accademica ma può essere molto utile per smascherare gli utilizzi manipolatori del linguaggio. Gli americani sono arrivati a questi risultati proprio perché hanno investito milioni di dollari nei centri di ricerca sulla comunicazione. La metafora non è solo uno strumento linguistico ma può essere impiegata anche attraverso le immagini. È quello che fece Margaret Thatcher nel 1979 in una celebre foto scattata nel corso della campagna elettorale che l’avrebbe portata al numero 10 di Downing Street. La candidata conservatrice mostra due buste, entrambe riempite con il contenuto della spesa fatta con una sterlina: soltanto che la prima, quella più grande, è stata riempita con la spesa fatta nel 1974 e l’altra con lo stesso importo ai prezzi del 1979, dopo cinque anni di amministrazione dei laburisti. In questo modo la Thatcher vuole mostrare come l’inflazione causata dai laburisti abbia pesantemente influito sulla vita dei cittadini. Un altro esempio che riguarda ancora la Thatcher è legato a un attacco dell’IRA in Irlanda del Nord, noto come il massacro di Warrenpoint, un agguato che costò la vita a diciotto soldati inglesi. In risposta all’episodio il Primo Ministro britannico si reca sul luogo della strage indossando una tuta mimetica e un elmetto; l’intento è quello di mostrare che la sua risposta sarà inflessibile, dura, militare. In questo caso l’abbigliamento è una metafora di quanto la Thatcher intenda fare ed è molto più efficace per espri- 117 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 118 Le parole e le cose dei democratici mere il suo punto di vista di qualsiasi discorso. Le foto, infatti, sono immediate e possono essere comprese da chiunque, anche da chi le guardi solo distrattamente. Ora abbiamo analizzato tre strumenti che possono esserti utili ad aumentare l’efficacia dei vostri messaggi nei contesti politici, ma anche in quelli professionali o familiari. Adesso vorrei soltanto raccomandarvi una cosa: l’impegno. Dedicatevi a studiare la comunicazione. Per chi si occupa di politica è importante avere una cultura in ambito giuridico, economico, filosofico. Ma non si può sottovalutate l’importanza della comunicazione. Vi raccomando quindi, se siete interessati a questo argomento, di approfondirlo, con lo studio e la lettura. Soprattutto, però, vi invito a non pensare che sia necessario avere un tipo di linguaggio serio, di alto livello, che la comunicazione efficace, metaforica, narrativa sia una tecnica del centro-destra mentre la sinistra debba parlare un lessico colto e forbito. Essere comprensibili, sforzarsi di essere chiari è, al contrario, un grande elemento di democrazia. La comunicazione efficace è una tecnica e come tale è neutra: se ne può fare un uso positivo o negativo, dipende da voi. Ne è un esempio il libro di Roberto Saviano che ha avuto un enorme successo nel sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della mafia perché usa uno stile narrativo, racconta delle storie, e le storie vengono seguite volentieri dalle persone. È stato letto da milioni di persone mentre i grandi trattati sull’argomento rimangono confinati a una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Un altro caso di questo genere è Blu Notte, il programma tv di Carlo Lucarelli che viene seguito da milioni di persone grazie allo stile narrativo del conduttore, che tiene avvinte 118 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 119 Le parole e le cose dei democratici le persone. In questo modo è possibile parlare di argomenti complessi, vicende politico-giudiziarie, passaggi storici controversi e allo stesso tempo permettere a tutti di capire e di appassionarsi. A questo punto non mi rimane che lasciarvi con l’indicazione di alcuni libri che credo vi possano essere utili per la vostra attività politica quotidiana. Si tratta di testi a cui credo valga la pena di dare un’occhiata, magari comprandoli e mettendoli a disposizione di tutti nel vostro Circolo o facendoli girare nel gruppo degli amici. Il primo è La mente politica di Drew Westen (Il Saggiatore): parla di emozioni e di quanto sia importante suscitarle in chi vi ascolta per essere convincente. Il secondo è Non pensare all’elefante, di George Lakoff (Fusi Orari), che tratta della metafora e dell’importanza di investire in comunicazione, di formare persone che sappiamo farlo con efficacia. Il terzo è Storytelling di Christian Salmon: parla di narrazione, nel contesto politico e in quello aziendale; infatti tutti gli strumenti che abbiamo visto possono essere utilizzati nella politica ma anche in un’attività commerciale, così come nella vostra vita quotidiana, per essere chiari ed efficaci quando parlate con i vostri amici, con il vostro partner o con i vostri genitori. L’ultimo libro è un mio lavoro uscito con l’editore Carocci. Il titolo è Le parole sono importanti e parla di come comunicano i politici italiani e di quali tecniche possono essere efficaci o, al contrario, controproducenti, per costruire consenso politico. Ci troverete anche alcune delle cose di cui vi ho parlato in questo intervento, affrontate in maniera più approfondita. Concludo con un ultimo invito, pregandovi di considerare in modo nuovo tutti gli strumenti della comunicazione, 119 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 120 Le parole e le cose dei democratici perfino quelli che vi sembrano più distanti dalla politica. Il giornalista Peppino Impastato utilizzava l’ironia e la satira per attaccare la mafia nel suo programma Onda Pazza, il più seguito dell’intero palinsesto dell’emittente locale Radio Aut. Le persone lo seguivano perché era divertente, ma allo stesso tempo Impastato riusciva a far passare il suo messaggio di denuncia contro la criminalità organizzata. La mafia ha capito quanto potesse essere potente quest’arma, per questo ha reagito come tutti sappiamo, con un’arma molto meno sottile. 1 Per chi sia interessato ad approfondire l’argomento rimando a due testi: GIANSANTE, Le parole sono importanti. I politici italiani alla prova della comunicazione, Carocci, 2011, e a ID., La narrazione come strumento di Framing: le metastorie nel discorso politico di Berlusconi e Obama. Hologràmatica, 2009, Número 10, V2, pp.21-43. 2 La parola nasce dalla crasi dei termini information e commercial (spot pubblicitario). 3 Vi prego di dimenticare qualsiasi vostra opinione a proposito di Vendola e della sua politica. 4 Riportata in TELESE, Comizi d’amore, Aliberti editore, 2010, Roma, p. 64. 5 Il video è rinvenibile su YouTube con il titolo: AdWords Video Case: La mia stampante. 6 Altri esempi di utilizzo di questa metafora concettuale sono le espressioni: «la nostra relazione è a un vicolo cieco» oppure «il nostro matrimonio sta andando a picco». Per un approfondimento si rimanda a G. LAKOFF, M. JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, 1998 (3a ed.), (Bompiani, Milano, dal quale abbiamo tratto questi e i successivi esempi relativi alle metafore concettuali dell’amore. 7 Questo aspetto è esaltato dalle espressioni «Egli è famoso per le sue numerose e rapide conquiste», «Lei ha lottato per lui ma alla fine ha vinto l’amante», «Lei è assediata dai corteggiatori». 120 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 121 Francesco Verducci Viceresponsabile vicario Dipartimento Cultura e Informazione, PD nazionale Cercherò di tenere insieme due versanti: questo è un corso di formazione e proverò ad attingere per quel che posso alle competenze, agli studi, all’esperienza di docente universitario; certamente attingerò anche all’esperienza concreta di chi cerca di ragionare dal versante politico (della militanza e della direzione politica) sul rapporto, insieme teorico e pratico, nuovi media/politica. In questi anni, noi, come Partito Democratico, abbiamo cercato di sperimentare alcuni strumenti innovativi sul terreno del rapporto tra partecipazione e tecnologie sociali della comunicazione legate al web. Ho avuto l’incarico e l’opportunità di seguire in prima persona alcune di queste sperimentazioni. In questo intervento, tuttavia, è mia intenzione soffermarmi in particolare sulle questioni legate alla costruzione dell’opinione pubblica (e del consenso) in Rete, come anche mi è stato chiesto di fare: immagino poi ci sarà l’opportunità per uno scambio di opinioni e per lo sviluppo di alcune questioni in sede di dibattito. A me piace partire da una citazione, da un’epigrafe, che dobbiamo a Manuel Castells, uno degli studiosi più importanti di questi temi. In un testo molto agevole intitolato ‘Galassia Internet’ pubblicato nel 2007 nella Economica di Feltrinelli, Castells scrive: «Internet è la trama delle 121 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 122 Le parole e le cose dei democratici nostre vite». In questa frase c’è molta suggestione. Quando è stata scritta, Internet era qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che noi oggi conosciamo. Il panorama dei media sociali, come oggi lo vediamo e di cui poi parleremo, era ancora di là da venire. Oggi Internet è effettivamente la trama delle nostre vite: ognuno di noi è continuamente coinvolto in una trama di relazioni dentro la Rete che condiziona il nostro modo di vivere, i nostri costumi, i tempi della nostra quotidianità. Insiste Castells: «se la tecnologia dell’informazione è l’equivalente odierno dell’elettricità nell’era industriale, Internet potrebbe essere paragonata alla rete elettrica». Comincio con questa affermazione per introdurre il tema della società dei network. Penso con convinzione che davvero noi oggi viviamo in quella che è definita ‘la società delle reti’ e ‘la società dei network’, e ritengo che questa sia una rivoluzione epocale, che va ad innestarsi sui mutamenti che hanno profondamente rimodellato le società nelle quali viviamo: in particolare, il passaggio dalla società di massa alla società degli individui dentro il grande contesto della globalizzazione che tutto ha stravolto. La divisione internazionale del lavoro e la terziarizzazione dei mercati del lavoro nei paesi occidentali ha portato per la prima volta al sorpasso dei lavori individuali e autonomi su quelli dipendenti: in questo cambio di paradigma è racchiusa una rivoluzione epocale dei costumi, del modo di pensare, del modo di vivere. Dentro questo passaggio c’è anche tanta parte di quella crisi delle democrazie rappresentative che è innanzitutto crisi degli isti- 122 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 123 Le parole e le cose dei democratici tuti di rappresentanza, crisi di legittimità e di rappresentanza dei cosiddetti ‘corpi intermedi’ – in primo luogo i partiti e i sindacati, che hanno svolto per lungo tempo una fondamentale funzione inclusiva, ma che a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, sull’onda di profondi mutamenti sociali, vivono una grave sclerosi nel rapporto con la società. La crisi dei soggetti della rappresentanza politica e sociale si lega profondamente alla crisi delle forme della democrazia rappresentativa, dentro il contesto del tramonto delle funzioni degli Stati nazionali e della insufficienza del tradizionale modello di welfare, che, nato in Europa, era riuscito ad assicurare per lunghi decenni tenuta sociale, mobilità sociale, integrazione sociale. In una parola: la possibilità per amplissimi strati sociali di far parte a pieno titolo della cittadinanza. Tutta questa complessa architettura a un certo punto si rompe, obbligando la sinistra a confrontarsi con la necessità – non solo la possibilità – di ripensarsi. Tale rottura, inoltre, chiama in causa anche gli istituti della democrazia, la sua capacità di rinnovarsi. Penso che tutto questo c’entri profondamente con la Rete e con quella ‘società dei network’ nella quale siamo immersi almeno sin dalla metà degli anni Novanta. Voglio dire anche che impressiona come la società dei network nella quale viviamo sia all’insegna di velocissime trasformazioni: la rivoluzione tecnologica è incessante e riplasma continuamente la Rete ad un ritmo vertiginoso. Se prendiamo come riferimento la citazione di Castells della ‘Galassia Internet’, con la quale ci si riferisce al ribaltamento dell’intero mondo che si aveva prima – quello della Galassia Gutenberg e della produzione culturale le- 123 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 124 Le parole e le cose dei democratici gata al libro –, a me viene da pensare come tutti i meccanismi di produzione, prima culturale e poi politica, legati alla rivoluzione del libro si siano sviluppati attraverso secoli. Prima di arrivare alla Rivoluzione francese, prima di arrivare all’età dell’Illuminismo, abbiamo impiegato secoli. Internet non funziona così: in un’unica generazione abbiamo vissuto rivoluzioni su rivoluzioni. Io sono nato nell’ottobre del 1972: non sono quindi un nativo digitale, nel senso che ero già studente universitario nel ’92 quando ci si iniziava a collegare alla Rete. Mi sono calato nel network con grande passione e curiosità, ma conservando le categorie di mediazione di chi sino ai vent’anni si è formato sui vecchi media e ha avuto imprinting ben diversi da quelli della Rete. Questo mi ha dato la possibilità di osservare lo strumento Internet. È sbalorditivo pensare che luoghi che oramai consideriamo parte del nostro vissuto quotidiano (in termini di relazioni sociali e culturali ampiamente intese) siano nati solo da qualche anno: YouTube nel 2005; Facebook nel 2006 (e in Italia è esploso solamente a partire dall’autunno del 2008). Tutto è avvenuto velocissimamente nel giro di cinque-sei anni, e ha significato tantissimo per un’intera generazione. Questo mi porta a fare ad alta voce un’altra considerazione, che riguarda certamente il contesto, le cose con le quali noi abbiamo a che fare, ma riguarda anche e soprattutto la politica. Pensiamo al tema del conflitto di interessi: una questione certamente pertinente quando parliamo di comunicazione. Io parlerò di conflitto di interessi legato anche alla Rete, perché se è vero che noi oggi viviamo – io ne sono persuaso – nella società dei network e della Rete (e noi cit- 124 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 125 Le parole e le cose dei democratici tadini, noi che vogliamo impegnarci in politica e nella società, dobbiamo farci i conti), è anche vero che grava su questa società un macigno enorme, quello del cosiddetto ‘divario digitale’: un fenomeno che forse potremmo definire meglio come ‘diseguaglianza digitale’. Questa disuguaglianza ha varie componenti, di natura culturale, economica, sociale: le disuguaglianze digitali sono forme di esclusione pesantissima perché sempre più nelle nostre società la discriminante sarà tra chi è in condizione di accedere alla Rete, e quindi avere conoscenza, un certo tipo di maturità e di cittadinanza, digitale certo, ma cittadinanza tout court, e chi, invece, ne è escluso. Si sta ragionando da un po’ di tempo, per quanto oggi si sia costretti a farlo dall’urto degli eventi, sulle nuove democrazie: ad esempio, quelle nei paesi arabi. Abbiamo iniziato a ragionarci già qualche tempo fa, ma adesso siamo spronati a farlo dalle rivoluzioni che da gennaio in poi hanno infiammato Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Giordania. Bene: lo sapevamo anche prima ma adesso ne abbiamo la conferma fattiva: ciò che alla fine permette ai movimenti di resistere al pugno della repressione è sempre costituito dalla Rete. La grande differenza che intercorre a livello mondiale tra lo schieramento dei democratici e quello dei conservatori (fino ai reazionari) è tra chi si batte per la libertà e la neutralità della Rete e chi invece vuole piegare la Rete, vuole che la Rete non sia libera perché sa che è uno strumento formidabile per la democrazia, per il suo perfezionamento, per la circolazione delle idee. È stato così in Iran qualche anno fa: abbiamo ancora negli occhi le immagini drammatiche, postate su YouTube, dei ragazzi che diedero vita alla rivolta, di Neda, 125 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 126 Le parole e le cose dei democratici la ragazza che in quegli scontri morì: immagini che fecero il giro del mondo e contribuirono a sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure, nonostante lo sdegno e la riprovazione internazionale che quelle immagini provocarono, oggi quei ragazzi in Iran sono sotto processo e rischiano la pena di morte. Nei giorni della rivolta in Egitto, uno dei tentativi del governo che poi è stato travolto dai movimenti era quello di togliere le concessioni alle reti telefoniche, per impedire ai telefonini e alla Rete di funzionare. A seguito di questa rivoluzione così veloce, l’intero scenario ha subito trasformazioni: non abbiamo più bisogno di avere una postazione con un computer per collegarci e relazionarci, per partecipare o fare politica: basta uno Smartphone che contiene tutte le applicazioni. Oggi ragioniamo sull’impatto di questa rivoluzione. Vorrei porre un altro tema alla vostra attenzione: il fatto che la società della Rete abbia, in qualche modo, fornito un contesto di socialità alla società degli individui: è il contesto della Rete che in qualche modo induce l’individuo, protagonista nelle nostre società, ad un meccanismo sociale, connettivo, relazionale. I legami che nascono in Rete danno luogo a comunità virtuali che hanno una loro importanza perché sono sempre più delle forme sociali che si aggregano su scelte comuni, molto diverse dalle vecchie e tradizionali appartenenze. Per questo si parla anche di ‘socialità elettive’: si tratta di persone e di gruppi che si scelgono tra di loro. In questo senso il meccanismo della Rete dà nuova linfa anche al meccanismo tradizionale dei movimenti sociali che, quando nascono, mettono insieme, di fronte a una certa questione, persone legate 126 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 127 Le parole e le cose dei democratici da un dato bisogno: persone che, in qualche modo, si scelgono tra di loro e si riconoscono in base a queste scelte. Penso che la Rete funzioni in modo analogo: alla sua base non vi sono più le appartenenze tradizionali – il censo, il clan, l’etnia – ma appartenenze nuove, scelte comuni, appartenenze ‘elettive’, potremmo dire con un termine classico, che richiama alla mente importanti letture. Queste ‘socialità elettive’ aumentano a dismisura un’altra grande agenzia che sappiamo importante per la socializzazione politica, per lo scambio dell’opinione, quindi per le scelte elettorali: il cosiddetto ‘gruppo di pari’ che in Rete trova una sua nuova dinamica. Inoltre questo protagonismo dei singoli irrompe anche nel mondo dell’informazione – un mondo che sappiamo particolarmente paludato e soggetto a ‘cattura’ da parte dei poteri forti, in un paese come il nostro gravato dal conflitto d’interessi e in cui scarseggiano editori puri – e riscrive anche il rapporto che intercorre tra media, potere e cittadinanza, in quanto permette maggiore indipendenza e maggiore discorso critico. Questa nuova cittadinanza possibile richiede però lo sviluppo di una cultura della Rete che consenta di superare divari e diseguaglianze: da questo punto di vista l’Italia è uno dei paesi più arretrati: ancora tra le nazioni più industrializzate del pianeta, ma all’incirca all’ottantesimo posto per investimenti nelle reti di nuova generazione e sviluppo delle potenzialità legate al digitale. L’altro versante su cui ragionare è il cosiddetto ‘web partecipativo’ – anche detto ‘web 2.0’ –, il cui avvento è una formidabile tappa evolutiva dentro la rivoluzione di Internet, capace di mutare lo scenario del rapporto tra 127 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 128 Le parole e le cose dei democratici Rete, società e partiti politici. Il web sociale nasce quando possiamo non solo scaricare ma anche caricare dati: è l’era dell’uploading, dei singoli utenti che caricano in Rete contenuti prodotti in proprio. A me pare sia un passo in avanti di straordinaria portata: si tratta della possibilità, per ognuno di noi, di fare opinione, senza dover sottostare a mediatori. Un attento osservatore, Giuseppe Granieri, descrive in un suo bel testo dal titolo Umanità Accresciuta il meccanismo di socializzazione e crescita di un contenuto attraverso i nostri commenti e le nostre opinioni: contribuiamo a costruire cultura, significati, identità nuove, accresciute, ampliate. Nasce un nuovo senso comune, profondamente e intimamente legato all’etica dello scambio e della gratuità. Il web 2.0 porta poi con sé un altro importante concetto, che ha notevole rilevanza anche per la politica. Noi tutti conosciamo il panorama del web 2.0 soprattutto per l’impatto dei cosiddetti ‘media sociali’, il più famoso dei quali è sicuramente Facebook. Ebbene, Facebook ha cinquecento milioni di iscritti in tutto il mondo, come recita il sottotitolo dell’ormai celebre pellicola di David Fincher di qualche mese fa, perché la chiave del suo successo, la sua straordinaria formula, consiste nell’aver assommato in un’unica piattaforma tutti i linguaggi della Rete e tutte le applicazioni. Non abbiamo più bisogno di creare e curare un blog perché direttamente su Facebook, seppure con un linguaggio più semplificato e sintetico, possiamo intervenire nel dibattito pubblico ed essere connessi con le persone alle quali ci sentiamo legati. Questo inedito panorama porta con sé un nuovo concetto di comunicazione. Quante volte – e mi rivolgo a 128 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 129 Le parole e le cose dei democratici Mario Rodriguez – io, tu, noi abbiamo detto che è fondamentale, per saper comunicare, saper innanzitutto ascoltare? Dal 2008 abbiamo a che fare con un cambio di scenario – quello della conversazione – che è formidabile anche per chi vuole comunicare la politica: conversare significa intrecciare linguaggi ed emozioni, significa un ingaggio emotivo e sentimentale, anche ascolto, condivisione. La grammatica e il metodo della conversazione sono importanti per la politica, così come per il marketing commerciale. In un testo della fine degli anni Novanta, il Cluetrain Manifesto (1999), l’autore prende le mosse proprio da questo concetto: i mercati sono conversazioni. Vi dice niente? Vi accennava in precedenza Gianluca Giansante: tutta la nostra pubblicità è un grande racconto, è la capacità di farci voler bene e di suscitare, in chi ci ascolta, il desiderio di un prodotto, di un obiettivo comune, di un orizzonte diverso: è, per l’appunto, per citare una formula felice, il lovemark. Io penso che in qualche modo la Rete ci dia anche la possibilità di rinsaldare dei meccanismi di solidarietà e delle identità comuni: il fatto di passare dalla navigazione alla conversazione, il fatto che tutti noi abbiamo l’opportunità di trasformarci da spettatori a protagonisti, il fatto che attraverso i blog e i media sociali ognuno di noi possa esprimere il proprio punto critico sulle cose che vede intorno. C’è un bel libro di uno studioso olandese, Zero Comments di Geert Lovink, pubblicato in Italia da Mondadori, che vi suggerisco per l’acutezza della sua analisi: riferendosi ai blog prima che nascessero i social network, egli scrive che essi hanno colmato il divario tra Internet e la società. Si tratta del resto di un progresso recente: ra- 129 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 130 Le parole e le cose dei democratici gioniamo sul fatto che centinaia di migliaia di persone, soprattutto quanti erano dotati di strumenti di conoscenza più deboli, hanno avuto la proprio alfabetizzazione ad Internet attraverso i media sociali, attraverso Facebook, attraverso i blog. Io penso che questo concetto si possa applicare anche alla politica e alla società; penso che la Rete sia uno strumento utile per colmare il divario che intercorre tra la società e la politica. In questi anni è dominante il tema, sul quale anche noi ci interroghiamo, su come rinnovare la politica. Il Partito Democratico è nato per fare appunto questo: rinnovare la politica. Sentiamo, percepiamo che c’è una distanza molto ampia tra l’opinione pubblica e la politica, tra le istituzioni, i soggetti politici ed una società frammentata, inquieta, divenuta più fragile: noi lo dobbiamo colmare, e possiamo farlo soltanto se riusciamo a rinnovare anche le forme della politica, se riusciamo a costruire nuove modalità del nostro essere democratici. Internet permette di ascoltare, di mobilitare, di riattivare ad uso dei partiti politici una democrazia di mobilitazione: per i partiti politici è molto importante che questo avvenga. A me non piace una società in cui la democrazia della mobilitazione sia, in maniera talvolta parossistica ed esagerata, realizzata dagli organi di stampa: in Italia ormai i giornali, tanto cartacei quanto online, siano di destra o di sinistra, sono tutti un appello alla mobilitazione. Questo, quando si presenta in forma troppo accentuata, porta a mio avviso a una radicalizzazione del confronto, in cui, come talvolta vediamo in televisione, rischia di non esserci più informazione né oggettività. A me piace pensare che il meccanismo dell’informazione 130 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 131 Le parole e le cose dei democratici dovrebbe essere diverso, per poter contribuire al rafforzamento delle democrazie. Per concludere, riprendo la domanda sollecitata dalla seconda parte del titolo così ambizioso che questo panel recita: ‘cosa dobbiamo e possiamo dire’ noi democratici nel tempo della società dei network? Per mobilitare non bastano gli strumenti: se Obama non avesse avuto qualcosa di molto solido da dire, in tutto rispondente ad una grande aspettativa sociale, allora certamente la Rete non lo avrebbe eletto proprio beniamino, prima che poi decidessero di farlo anche gli elettori nelle urne. Egli aveva da comunicare una nuova idea di modello sociale, una nuova socialità fondata sull’inclusione, una critica forte al paesaggio desolante del neoliberismo che ha ridotto ai margini larghe fasce di ceto medio e creato enorme sacche di vera indigenza negli Stati Uniti. Una missione fortemente simboleggiata dalla battaglia per la riforma della sanità e per i servizi pubblici: tanta parte della democrazia di mobilitazione messa in campo grazie alla Rete è dovuta alla forza di un nuovo messaggio di ricostruzione delle speranze collettive. A noi oggi compete uno sforzo analogo, non di minore portata. La forza di un messaggio che faccia percepire che è pronta davvero un’alternativa per il nostro stremato e inquieto paese. E intorno a questo progetto di cambiamento chiamare a raccolta e cementare una nuova alleanza sociale: un popolo che il Partito Democratico ha dalla sua parte, e che in larga misura esiste, dice la propria e si mobilita in Rete. 131 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 132 132 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 133 Adriano Fabris Professore di Filosofia morale ed Etica della comunicazione, Università di Pisa Il mio intervento parte da alcune domande. Voglio chiedermi, anzitutto: quali sono le forme di partecipazione che risultano egemoni nella nostra epoca? Quale partecipazione è possibile in un contesto in cui l’egemonia culturale è definita attraverso forme di comunicazione tuttora dominate dal modello televisivo? In che modo, concretamente, altri modelli comunicativi possono offrire possibilità di tipo diverso? In altre parole: in che modo, nel nostro contesto, è possibile agire e comunicare politicamente in maniera innovativa ed efficace? È abbastanza chiaro che in questa fase della storia della comunicazione, e della comunicazione politica in particolare, vi è un forte legame tra una determinata forma del comunicare, quale è quella massmediatica (la forma che viene soprattutto privilegiata), e un precipuo modo di ottenere e di conservare il consenso. Così com’è chiaro che chi per primo ha avuto l’idea di accaparrarsi il controllo degli strumenti di comunicazione radio-televisivi, e naturalmente ha avuto i mezzi finanziari e l’opportunità politica per farlo, si trova anche nella condizione di promuovere un certo modello politico. Lo insegna la storia della comunicazione. Le grandi dittature devono molto alla radio (che risulta, come sappiamo, garanzia e luogo della loro propaganda). Quello che noi dobbiamo alla te- 133 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 134 Le parole e le cose dei democratici levisione, invece, è il modello della democrazia leaderistica. Tutto ciò comporta una particolare idea di partecipazione. Infatti partecipazione, in qualche modo, vi è anche nella democrazia leaderistica: posto che il termine ‘democrazia’ (come accade per altri termini del nostro lessico politico: ‘libertà’, ‘responsabilità’ e per lo stesso concetto di ‘partecipazione’) possa essere trasformato nel suo senso, cioè radicalmente risemantizzato, conservando però un qualche legame, un qualche ricordo dei significati che esso aveva nel passato. Ma che cosa vuol dire in questo contesto ‘partecipazione’? Significa tre cose: la possibilità di seguire il leader (e chi più velocemente lo segue meglio viene ricompensato); possibilità di assistere in prima persona agli eventi che riguardano i protagonisti degli eventi politici (partecipazione allo spettacolo); possibilità d’imitare il leader facendo nei contesti locali ciò che egli fa nei contesti nazionali. Molto di questo lo abbiamo sotto gli occhi. Ma abbiamo sotto gli occhi anche altro. Abbiamo rivolte democratiche fatte da persone che, come in Maghreb, chiedono pane e libertà, e preferiscono sacrificare la propria vita se non li ottengono. Abbiamo sommovimenti resi possibili dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Abbiamo una tendenza sempre più forte alla trasparenza e alla diffusione delle notizie: si veda il controverso caso di Wikileaks. Le nuove tecnologie, ben lo sappiamo, rendono possibile un nuovo e diverso senso di ‘partecipazione’. La partecipazione del web 2.0 non è one-to-many, bensì many-tomany. Ha la struttura della Rete. Mette tutti quanti sullo stesso piano. Non c’è un leader e un target (ovvero, una 134 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 135 Le parole e le cose dei democratici massa che ascolta), ma vi sono veri e propri interlocutori. Proprio queste nuove possibilità, applicate all’ambito politico, hanno fatto nascere il mito del social network come luogo in cui è possibile esercitare, finalmente, una democrazia diretta (dove è possibile fare l’esperienza di un ‘cybersoviet’, com’è stato detto). Ecco perché impazzano i blog degli uomini politici, è quasi d’obbligo la loro presenza su Facebook, si ripropone come modello la campagna elettorale di Obama, considerata la madre di tutte le campagne elettorali vincenti. Ma è proprio così? Cerchiamo, almeno in questo caso, di non mitizzare, né di ideologizzare l’uso della Rete. Teniamo ben presenti alcune cose: Anzitutto, il pubblico del web 2.0 è un pubblico giovane. Non a caso giovani sono coloro che hanno dato il via alle rivoluzioni nel Nord Africa. In Italia, però, i giovani sono una minoranza, all’interno di una società che invecchia sempre più (e che sempre più si accontenta del mezzo di comunicazione radiotelevisivo). Non basta, per superare questo cultural divide, uno sforzo dettato dalla buona volontà. Non basta perché le generazioni più giovani sono quelle che sono cresciute, proprio, a pane e televisione. Il loro modo di ragionare è, appunto, per lo più per immagini, non già per argomenti. Ecco perché questa stessa fascia di età è suscettibile di essere contagiata da forme di populismo acritico, mediate anche da una sorta di mutazione genetica nell’uso del mezzo televisivo e della sua capacità di creare spettacolo. Il web 2.0, da questo punto di vista, è proprio il luogo in cui l’individuo singolo, isolato, può dare spettacolo di sé. Facebook ne è l’esempio più chiaro. In esso si riafferma il primato dell’individuo iso- 135 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 136 Le parole e le cose dei democratici lato, che arbitrariamente si collega ad altri individui, senza la garanzia che venga creato un agire comune. Il problema qui è dunque quello di mettere in opera una forma di partecipazione nella quale chi partecipa sente di contare davvero e di operare con altri alla realizzazione di un progetto condiviso. Il web 2.0, poi, suscita ben precise perplessità per quanto riguarda le questioni collegate all’autorevolezza, la privacy, la mercantilizzazione dei dati acquisiti in un reciproco scambio. Basta far riferimento, come esempi per ciascuno di questi problemi, rispettivamente a Wikipedia, a Facebook, a Google. Il web 2.0, insomma, non è la panacea: proprio per questo – ecco il punto – ha bisogno di regole. Ci deve essere un’etica della partecipazione in Rete al fondo di queste pratiche, affinché la Rete stessa possa svilupparsi davvero in forme partecipative. La comunicazione procede, nella sua storia, per accumulazione, non già per sostituzione. Il che vuol dire che, allo stesso modo in cui non muore né morirà la comunicazione giornalistica sulla carta stampata, e non muore né morirà la comunicazione radiofonica, non muore né morirà neppure la comunicazione televisiva, con la specifica forma di partecipazione che essa richiede e promuove. Il web 2.0 si affianca a tutto ciò, offre uno strumento ulteriore, ma non garantisce, di per sé solo, l’egemonia culturale di una parte o l’imporsi diffuso di una certa modalità di comportamento. Ciò che tuttavia va mantenuto, soprattutto nella prospettiva di una comunicazione politica, è il contatto diretto, faccia a faccia, con i cittadini. Posto che non lo si sia definitivamente 136 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 137 Le parole e le cose dei democratici perso. Il problema è allora quello di unire, non già di sostituire, nuove tecnologie e vecchie forme di interazione. L’uso di uno strumento non esime dall’elaborazione di strategie, prima ancora che politiche, di carattere culturale. L’uso di uno strumento, di uno strumento comunicativo, è tattico. Diventa strategico se si comprende la trasformazione culturale che è insita nell’uso di uno strumento comunicativo e la si sfrutta. E soprattutto se si comprende per primi questa trasformazione culturale. I secondi possono essere solo degli imitatori senza futuro (la storia recente lo ha insegnato ad abbondanza). Due sono dunque gli errori che è bene evitare: 1. Non comprendere la mutazione antropologica che è insita nelle nuove tecnologie e non saperla interpretare in chiave politica, ma considerare le nuove tecnologie come dei semplici strumenti da usare tatticamente; 2. Enfatizzare una sola modalità comunicativa a discapito di altre. Il problema di fondo, qui, è dunque quello di elaborare una politica culturale capace di comprendere, sfruttare e integrare, accanto alle diverse forme di comunicazione disponibili, anche quelle fornite dal web 2.0. In conclusione, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile, indubbiamente, nuove forme di partecipazione. Ma sarebbe un errore affidarsi semplicemente al mezzo, credendo che esso di per sé possa dettare le regole per una partecipazione efficace. Il mezzo va usato, e a usarlo siamo noi. A partire dai nostri interessi, dai nostri sogni e dalle nostre aspirazioni. A partire dalle regole di fondo alle quali possiamo riferirci e allo sfondo etico che motiva al loro utilizzo. E, so- 137 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 138 Le parole e le cose dei democratici prattutto, movendo dall’idea che i vari mezzi di comunicazione devono essere integrati l’uno con l’altro: per evitare gli errori di prospettiva connessi alla mitizzazione di una forma comunicativa; per rendere possibile, a tutti i livelli e per tutti i cittadini, modalità autentiche di partecipazione. 138 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 139 Giuseppe Civati Consigliere regionale PD Lombardia Da dove partiamo? Partiamo dall’età di Berlusconi. È come se i nostri orologi si fossero fermati al 28 marzo del 1994. Berlusconi è protagonista assoluto del dibattito pubblico, inevitabilmente anche del nostro. Io vorrei che facessimo ripartire le lancette e lo facessimo guardando finalmente avanti o almeno di fianco, guardando tutto quello che succede nel mondo, tutto quello che succede nella Rete, nella comunicazione e anche nel vissuto della politica a livello europeo e internazionale. C’è quella famosa raffigurazione di Susanna e i vecchioni che rappresenta un po’ l’epoca in cui viviamo. C’è anche un po’ di Ruby dentro. Però c’è il fatto che Susanna è salvata da Daniele, che è piccolino e già profeta: questo ci indica che il compito del salvataggio è affidato a voi. Noi siamo una generazione a metà strada e c’è bisogno di un’energia secondo me nuova, di un punto di vista che faccia saltare uno schema sul quale ci siamo soffermati troppo a lungo. Pensate al fatto che io sono considerato un giovane del PD. È bellissimo come slogan per la campagna di tesseramento: ‘nel PD si è giovani fino a sessant’anni’. Mi chiedo se sia una fregatura, perché uno può pensare che sia un trucco. Qualcuno può dire che io, la Serracchiani e gli altri del giro siamo sempre in prima pagina perché siamo i giovani. 139 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 140 Le parole e le cose dei democratici In realtà è una grande fregatura sotto il profilo politico perché noi non siamo più giovani. Come ha spiegato Rosa Russo Iervolino, siamo dei ‘guagliuncelli’. È un trucco retorico molto interessante: tutto il nostro discorso politico è intessuto di questi trucchi e di queste fregature che neanche vediamo, e magari ce ne vantiamo pure. Il web è l’esempio più clamoroso. Io non vi faccio una lezione perché non ne sono capace, ma ci sono alcune cose da evitare. Innanzitutto, il ‘popolo del web’. Spesso i nostri politici dicono: ‘io sono molto apprezzato nei comizi, è il popolo del web che ho contro’. Ma il popolo del web non esiste, non c’è nessuna separatezza tra i due tipi di pubblico. Ormai con i social network è un argomento veramente ridicolo distinguere tra chi fa politica in un certo modo e chi sta sul web, soprattutto al di sotto di una certa età. Vi segnalo, tra l’altro, che anche quest’ultimo è un luogo comune perché da qualche tempo ormai i social network e il web crescono moltissimo tra le persone di una certa età, anche in Italia. Chi vi parla del ‘popolo del web’, chi vi dice che c’è una separazione tra i due mondi, sta mentendo. C’è di più: questa separatezza provoca anche incomprensioni straordinarie proprio sul tema culturale che è stato benissimo descritto da Fabris in ultimo. Nel senso che noi, sul web, non abbiamo solo degli strumenti a disposizione, ma anche un modo di comportarci: abbiamo una filosofia, se volete, una struttura delle relazioni che è molto diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Noi, per esempio, siamo un partito molto gerarchico: sul web ci sono relazioni e regole da seguire, un’etichetta, un’educazione, un comportamento consigliabile, schemi da rovesciare. Forse, però, ci si potrebbe 140 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 141 Le parole e le cose dei democratici anche immaginare un mondo democratico in cui, a delle gerarchie un po’ piramidali, si sostituisca qualcosa di più orizzontale, con regole definite nei momenti di decisione, qualcosa che sia fondato su un concetto fondamentale: la trasparenza. Chi decide che cosa, dove matura una posizione, quali sono le conseguenze a cui questa posizione porta. La parola più bella è una parola di sinistra: ‘condivisione’. Una parola sulla quale si scrive molto ma che in fin dei conti, forse, non è entrata ancora nella vita politica italiana. È un modo anche per correggere l’individualismo di ciascuno di noi. Il personalismo, in generale, è quell’atteggiamento per cui è importante che una cosa la dica io. Io ho recentemente avanzato questa proposta: che noi sulle idee all’interno del PD non dovremmo mettere i cognomi, come nelle buste dei concorsi. Perché è certo che, se un’idea viene avanzata da Veltroni, ai dalemiani non piacerà, e viceversa. Il fattore culturale, anche su questo terreno, è decisivo. Sul web troviamo poi un altro insegnamento che la politica italiana non sembra aver compreso del tutto: la politica sta tra le cose. Mario Rodriguez ha uno dei profili di Facebook più da psicosi – ormai è irrecuperabile – in cui si trova un po’ di tutto, non solo articoli legati al suo lavoro: è un corso di idee, di associazioni, di intuizioni che Rodriguez colleziona e rendono il suo profilo più accattivante. Se parlasse sempre delle cose che studia o che fa sarebbe una noia mortale. I politici tendono invece a fare questo secondo errore: ci dicono, per esempio, quando vanno in tv. Ci sono degli status su Facebook fantastici: ‘sono a TeleLombardia alle nove’, tanto per citarne uno. Capite? Questa idea di stare tra le cose, di mostrare 141 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 142 Le parole e le cose dei democratici anche una umanità, è un elemento decisivo sul quale noi stessi dobbiamo sperimentare strategie concrete. Dobbiamo metterci a disposizione dell’elettorato, delle persone con cui noi lavoriamo. Questo io vorrei dire oggi: che la Rete è uno straordinario strumento leninista, se volete un nuovo conio, per organizzare la partecipazione. Per organizzare una partecipazione e un consenso che altrimenti ci scivolano via. Non credo che i circoli del PD siano esaustivi nella costruzione di una proposta democratica, e la Rete stessa non basta. Coniugando i due elementi si può costruire qualcosa. Pensate a tante iniziative che anche voi promuovete tra la Rete e il territorio e a come le due dimensioni si tengano insieme. Io stesso una volta scrissi: ‘Facebook è l’arte della manutenzione dei gazebo’. Facebook, infatti, può essere utilizzato anche per organizzare il banchetto tradizionale, in uscita dal quale si può anche fornire l’indicazione ‘seguici su Facebook!’. Altra questione da chiarire: noi parliamo spesso di ‘base’. La base è un luogo mitico che poi nessuno ascolta mai. Ma la base è anche base di dati. Noi siamo il partito nel mondo che ha più indirizzi, archivi, e-mail. Questa base di dati, questi archivi delle primarie, se fossimo Obama, li avremmo già utilizzati in modo molto ampio. La cura di quegli indirizzari e l’utilizzo di una strategia che si chiama microtargeting ci può consentire questo. Proveremo a farlo con le firme raccolte per la richiesta di dimissioni di Berlusconi. Può consentire una serie di mosse che nessuno ha mai provato e che in realtà Berlusconi mette in atto con altri mezzi economicamente più sostanziosi. Questo patrimonio di contatti lo vogliamo usare? È fondamentale esattamente quanto lo è la base, quella con la B maiu- 142 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 143 Le parole e le cose dei democratici scola, che spesso evochiamo nei nostri discorsi. Penultimo esempio di questo approccio culturale. Noi abbiamo fatto un congresso di un anno, lunghissimo, appassionato: un congresso tanto lungo che alla fine non se ne poteva più. In questo anno di dibattito congressuale si è sentito spesso richiamare il tema dell’identità, richiamato prima da Francesco Verducci. In verità anche su questo c’è un insegnamento che si percepisce attraverso la Rete, e che riguarda il modo in cui l’identità può essere scomposta e in cui alcuni punti di vista della politica, soprattutto quella nazionale, siano spesso limitati. Vi porto l’esempio più semplice. Noi spesso parliamo dell’elettorato dell’UDC, però facciamo più fatica a parlare di giovani, donne, precari come elettori che magari sono tifosi di questa o di quella squadra di calcio. Anche la storia della politica italiana ci insegna che aspetti più ludici entrano nella decisione politica, e non solo per Berlusconi. C’è un assessore della Regione Lombardia, tra le varie amenità che compongono quell’Atene di Pericle in cui vivo, che è un capo-ultrà dell’Atalanta. Si chiama Daniele Belotti, è della Lega, ed è stato fermato perché aveva partecipato all’insurrezione contro la tessera del tifoso voluta da Maroni, dal proprio Ministro. Ecco: questa è la scomposizione dell’identità. Il web è una grande opportunità, un campo aperto che Berlusconi sta iniziando ad occupare. Anche se in modo ancora troppo frontale e commerciale, la destra è molto presente sul web. Se voi aprite un video di Verducci, magari sotto trovate la pubblicità che ti chiede se voti a destra e ti invita a cliccare su un link specifico: vieni rinviato a un sito di approfondimento a favore di Berlusconi, e a 143 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 144 Le parole e le cose dei democratici quel punto devi decidere tra Verducci e Berlusconi… Questo per dirvi che la questione è molto più semplice di come spesso viene posta. Prendiamo il tema della narrazione. La politica non è stata inventata da Vendola. Siccome è Vendola, però, bisogna parlarne male: è un compito che ci siamo dati all’inizio dell’anno. Io ho sentito a Busto Arsizio, all’Assemblea nazionale, molti nostri dirigenti affermare che bisogna stare attenti, che la narrazione è pericolosa. No, la narrazione serve, il problema è che deve essere molto controllata, deve essere anche eticamente sostenibile. Questo è il problema di questo paese: ti viene raccontato un gran numero di storie, si tratta poi di vedere qual è verisimile. In più ci vuole un leader. Quando dico che dobbiamo trovare un leader da candidare, lo faccio perché credo sia importante avere un riferimento. Per uscire dall’età di Bush, noi dovevamo poter raccontare l’età di qualcun altro. E se ci pensate, questo in Italia noi ancora non lo abbiamo. È importantissimo l’approccio, è importantissima la scelta degli argomenti: come Rodriguez richiama spesso nei suoi articoli, c’è una parola che non si usa più: ‘topica’. La topica è la scelta degli argomenti, l’individuazione di quei luoghi comuni che ritornano, la costruzione anche di simboli intorno ai quali far ruotare il discorso. Faccio l’esempio monumentale per cui tutto l’universo si squaderna: il Trota. Voi ridete ma fate attenzione, perché stanno costruendo una mitologia sul Trota: stanno preparando la successione con il Trota. Gli stanno attribuendo delle qualità giocando proprio sul fatto che lui era l’uomo senza qualità, che è poi la classica fenomenologia di Mike Bongiorno, 144 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 145 Le parole e le cose dei democratici che tanti hanno studiato. Il Trota non riusciva a passare la maturità, hanno dovuto chiamare i caschi blu dell’ONU perché, vi ricordate, è stato bocciato tre volte: un record mondiale. Adesso fa il Consigliere regionale, dopo aver incassato tantissime preferenze. È il leader. Io consiglio di chiamarlo ‘il quota’ perché è quello che ha fatto la mediazione sulle quote. Fa anche politica e gli intestano molte iniziative di grande profilo: ad esempio, è stato il relatore della legge sulla formazione alla legalità contro la mafia in Lombardia. Guardate che fra qualche tempo lo ritroveremo tra i vari nomi che si faranno per la successione a Berlusconi. Zaia, Tosi, Cota e poi Trota. Lì, bisogna riconoscerlo, abbiamo dato anche noi il nostro contributo alla formazione della mitologia. La prima intervista che ha fatto il Trota è stata da Daria Bignardi, la sofisticatissima intellettuale della televisione un po’ di sinistra, progressista. Gli abbiamo in qualche modo attribuito una specie di biografia della nazione perché, guardate, questi simboli agiscono anche quando non ci pensiamo. Non è che non l’hanno votato. Certo, si chiama Bossi. Però è il simbolo di una tradizione familistica che in questo paese noi dovremmo contrastare con delle armi molto più aggressive e molto più convincenti che non siano soltanto quelle dell’ironia sul Trota, sulla Minetti e su tutta una serie di altri personaggi. Concludo proprio su questo punto con un appello a voi e a Pier Luigi Bersani (sempre sia lodato!). Io lo stimo, ho un culto della personalità, ma l’altra sera, al termine di Annozero, Santoro gli domanda: ‘Con quale alleanza, Bersani, andrete alle elezioni e chi ne sarà il leader?’. Vi prego di guardare la risposta di Bersani. Io non condivido alcune 145 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 146 Le parole e le cose dei democratici cose nel merito ma lì ad essere completamente sbagliati sono il linguaggio, la scelta dei tempi e l’ordine delle cose. Bersani prima di tutto si difende. Ma – mi chiedo – noi che colpe abbiamo per doverci sempre giustificare? Perché iniziare difendendosi? ‘L’alleanza’ – ha risposto Bersani – ‘noi la facciamo larghissima, ma non stiamo con quanti intendono ricostruire la destra’. E uno già pensa: ‘chi sono quelli che devono ricostruire la destra?’, e si perde. Poi Bersani torna indietro e dice: ‘con tutti quelli che ci stanno, ma non con Ferrero e Diliberto’. Ragazzi: io faccio politica, so cosa sta dicendo, ma ho l’impressione che un essere umano normodotato non abbia capito granché. E soprattutto si dava l’impressione di una clamorosa confusione, una confusione che Bersani non ha. Conclude dicendo: ‘ho poi cinque cose sulle quali costruire questa alleanza, cinque cose che vi diremo’. L’effetto, in definitiva, è completamente sbagliato. Deve partire dalle cinque cose e dirle subito, poi dire che si rivolgerà a Fini, Casini – utilizzando dei nomi comuni: Ferrero e Diliberto non li citerei, dato che già hanno già distrutto la sinistra italiana in più occasioni. Bello, sereno e tonico, magari scegliendo argomenti che possano aprire un dialogo con quelli che non ti aspetti. Non è questione di essere demagogici, narrativi, vendoliani. Ci sono, però, temi che servono per riaprire un dialogo. Sul web ce ne rendiamo conto, ma servono anche e soprattutto nella realtà. Per esempio, l’argomento della casta. Quando io dico, come ripeto sempre, ‘metà parlamentari a metà prezzo’, la platea applaude. Allora lì c’è un problema che tu devi rappresentare, c’è una distanza da colmare. L’idea è banale, ne sono consapevole, ma è 146 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 147 Le parole e le cose dei democratici un modo per prendere la parola e per avere un minimo di ascolto da parte delle persone. Questa è la mia urgenza: semplicità, ordine, chiarezza. Il senso etico. Nel libro Il narratore di Walter Benjamin, nella riflessione sulla narrazione emerge a un tratto il tema etico per cui il narratore è il giusto, o comunque riconosce se stesso come il giusto. Allora noi dobbiamo chiedere a noi stessi, a Vendola, a tutti quanti, un’altissima qualità del discorso pubblico e un’altissima verificabilità di questo discorso. Quello che manca anche a noi in questa grande confusione dei mezzi di informazione, che invade inevitabilmente anche il web, è un momento di confronto serio e puntuale. È un fatto di trasparenza e di democrazia. Io dico sempre di prendere il compagno Excel. Mettiamo in ordine i dati, spieghiamo. Per esempio, è in corso il dibattito sulle fonti rinnovabili. Spiegare quali sono le criticità in quel settore, spiegare bene perché non serve il nucleare, cosa sta facendo Romani, dove è meglio mettere i pannelli: tutto questo si può fare, si può fare anche scherzandoci sopra, essendo avanzatissimi e innovativi. Bisogna saper dare delle spiegazioni realistiche che siano verificabili anche la prossima settimana. Su questo, sulla piacevolezza del nostro discorso, sulla qualità delle nostre affermazioni e sulla loro coerenza, secondo me, possiamo far ripartire le lancette dell’orologio. E Bersani può fare il leader. Anzi, sarà l’età di Bersani. 147 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 148 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 149 Mario Rodriguez Professore di Comunicazione Politica, Università di Padova Due premesse Ieri sera, in questa splendida città, facevo una passeggiata romantica con mia moglie, ed eravamo in piazza dei Miracoli. Stamattina mi è tornata in mente la solita storiella dell’uomo del Rinascimento che passa per la piazza e chiede allo scalpellino cosa stia facendo e lui risponde: ‘sto scalpellando una pietra’. E poi chiede ad un altro scalpellino, che sta scalpellando una pietra come quello di prima, cosa stia facendo, e questi risponde: ‘sto costruendo una cattedrale’. Poi chiede al terzo scalpellino, ma potrebbe essere il sessantesimo: ‘e tu cosa stai facendo?’. Quello sta scalpellando la stessa pietra nello stesso modo, e risponde: ‘sto edificando la gloria del Signore’. Io credo – e vi vorrei convincere di questo – che ragionare di comunicazione significhi entrare nella mentalità, se non proprio di costruire la gloria del Signore, almeno di costruire la gloria di un umanesimo di natura nuova. Il concetto fondamentale su cui vorrei insistere da un punto di vista professionale, da professionista di comunicazione, è quello dell’inadeguatezza o insufficienza dell’approccio strumentale, trasmissivo, alla comunicazione, e della necessità di affrontare la comunicazione come un fenomeno culturale, simbolico, rituale. Uscendo dalla 149 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 150 Le parole e le cose dei democratici metafora, vorrei evidenziare la differenza tra scalpellare una pietra e contribuire alla costruzione di un edificio. La seconda premessa è relativa al rapporto tra il dire e il vivere, tra le affermazioni e i comportamenti, tra l’agire e il vivere esperienze. Questo vale anche per i prodotti. Anzi, proprio la pubblicità commerciale ci ha aiutato a mettere meglio a fuoco il meccanismo. I prodotti, pensate ad una automobile, non si vendono perché si fa una buona pubblicità. Le macchine si vendono perché la buona pubblicità corrisponde a una prestazione, ad una esperienza (tangibile o intangibile): il prodotto soddisfa in modo efficace le diverse esigenze connesse al desiderio. La buona comunicazione deve essere quindi a un livello di equilibrio, una sorta di omeostasi, tra autenticità, veridicità, credibilità, utilizzabilità, ed è strettamente collegata ai comportamenti, alle prestazioni. La mia professione vaga tra due estremi: da un lato, il consulente sconsolato, pieno di dubbi, consapevole della complessità dei meccanismi di formazione delle reputazioni, e quella del consulente affetto da delirio di onnipotenza, convinto di poter fare apparire una persona ciò che vuole o che ritiene necessario, cioè di poter costruire la sua immagine. A me pare invece che il compito di un buon consulente di comunicazione sia quello di dire: decidi tu quello che vuoi fare e io ti aiuto a farlo al meglio: non posso sostituirmi a te, posso aiutarti a dare il meglio di te, interagire con il tuo ambiente, ascoltare, comprendere come gli altri si rappresentano la realtà, e trovare le parole e le metafore che valorizzano i connotati distintivi della tua identità in funzione degli obiettivi che persegui. Bisogna delimitare il campo della comunicazione per non 150 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 151 Le parole e le cose dei democratici soffrire di delirio di onnipotenza. Occorre soprattutto dare una motivazione alla ricerca della dimensione culturale della comunicazione, dell’utilizzo degli strumenti. Gli strumenti ci sono, sono di facile utilizzo. Chi non sa utilizzare quegli strumenti non è che non sa come funzionino: è che ha deciso di non usarli, non ha chiaro i benefici che possono derivare dal loro utilizzo. Anche nel nostro recentissimo passato, ci sono leader politici che non hanno sentito il bisogno di sottoporsi ad un media training professionale prima di parlare attraverso la televisione per nove minuti a nove milioni di persone. È sottovalutazione dello strumento o un problema culturale? O meglio, la sottovalutazione dello strumento è frutto di una visione, di un’impostazione culturale? La mia frustrazione nasce quando ti dicono: ‘noi abbiamo i valori, abbiamo le competenze, ci manca soltanto il modo di far sapere quello che sappiamo fare’. Non è così. Non è vero che non abbiamo saputo dire. È che abbiamo detto certe cose e gli altri non ci hanno scelto. Abbiamo detto delle cose per cui una parte ci sceglie e una parte non ci sceglie. La dimensione antropologico-culturale Quindi, la comunicazione ha soprattutto una dimensione antropologico-culturale: è questo che dobbiamo condividere. È una rivoluzione culturale interna, è una modificazione del rapporto con la vita, con l’altro. È la capacità di mettere al centro chi riceve e non chi emette il messaggio. Perché il significato che assumono le cose che si dicono o che si trasmettono attraverso l’azione è frutto di 151 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 152 Le parole e le cose dei democratici una ‘negoziazione’ tra emittente e ricevente. Comunicare è costruire significati e inizia dalla comprensione di come gli altri, gli interlocutori, attribuiscono significati (diversi) alle cose che viviamo (insieme). Allora: se approccio strumentale o delle tecniche e approccio culturale devono procedere l’uno di fianco all’altro, occorre inserire queste tecniche in una visione delle cose. George Lakoff sostiene un concetto fondamentale: la metafora vincente – per esempio, ‘non metteremo le mani nelle tasche degli italiani’ –, nasce da uno studio approfondito e da una capacità di rappresentare e di interpretare la realtà, non è il frutto originale del creativo di turno. Non è scegliendo il bravo pubblicitario che si trovano le metafore con-vincenti, ma avendo una visione della realtà, una capacità di interpretazione della realtà. Soltanto quando si hanno chiare le idee in testa (le caratteristiche del prodotto, della proposta politica) nascono gli slogan vincenti. Gli slogan memorabili nascono da brief efficaci. Nella storia del movimento operaio, nella storia della sinistra, nella storia della democrazia, ci sono state metafore vincenti, semplificazioni inaudite, ci sono stati jingle fantastici. Capisco che definire un inno del movimento operaio un jingle può offendere qualcuno, ma la differenza non è nella cosa in sé, nella sua funzione di cristallizzare un’emozione, ma nel significato che ha assunto. Tutto questo attiene alle logiche della persuasione, alla retorica come arte del convincimento che accompagna da sempre la storia degli umani. Facciamo sempre le stesse cose, cambiano gli oggetti che usiamo, le tecnologie e le tecniche. 152 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 153 Le parole e le cose dei democratici C’è stata grande capacità retorica prima della tv– pensate ai discorsi di D’Annunzio dal Pincio – ma anche prima dei mezzi di comunicazione di massa; c’è stata personalizzazione e leaderizzazione anche prima della televisione. Non è che i leader politici, i dittatori, i grandi condottieri siano un’invenzione della tv. Allora mettiamo bene a fuoco il problema fondamentale di ogni approccio alla comunicazione politica (quella persuasiva, quella che persegue l’obiettivo di indurre persone a fare cose, agire, assumere comportamenti, condividere, votare): se non capiamo perché le persone pensano quello che pensano, non potremo mai parlare loro in modo tale da far cambiare il modo in cui attribuiscono significati, interpretano la realtà. La conversazione Uno dei pilastri fondamentali, dunque, di una buona comunicazione risiede nel capire i processi cognitivi, nel comprendere perché uno pensa quello che pensa. Il problema di questi vent’anni non è quanti votano Berlusconi, ma perché in Veneto continuano a votare in un certo modo e in Toscana a votare in un altro. A questa domanda non abbiamo dato risposta: a questa domanda la massmediologia non ha saputo ancora dare una risposta definitiva. Manca una spiegazione della permanenza, della lunga durata. C’è qualcosa che non capiamo nell’interazione tra influenza dei media e ruolo dell’interazione nella vita quotidiana. La chiacchiera alla macchinetta del caffè, così come la conversazione web, filtra il messaggio televisivo; rimpasta nel vissuto, nell’esperienza della vita quotidiana, le cose che ci hanno colpito. Le in- 153 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 154 Le parole e le cose dei democratici formazioni che abbiamo ricevuto diventano significato in questo processo di rielaborazione e di interpretazione. Per questo le conversazioni sono fondamentali. L’ascolto Ritorno a un concetto: l’ascolto. Faccio riferimento ad alcuni autori come Paul Watzlawick o Marianella Sclavi: nel momento in cui siete pronti a mettere le mani al collo alla persona che amate, perché vi sta dicendo una cosa che non condividete, avete una sola strategia, una sola possibilità dirle: ‘mi fai capire perché la pensi così?’. Mi sto riferendo non a una persona che non amate, ma a qualcuno che è parte della vostra vita, che ha vissuto la stessa esperienza che avete vissuto voi e la racconta in una maniera completamente diversa. A quel punto nasce il contrasto e una sola via d’uscita è possibile: ‘mi spieghi perché la pensi così?’. Soltanto se vi predisponete a pensare come l’altra persona, a capire perché la pensa in quella maniera, riuscite a mettere in comune significati, o almeno i significati che permettono di costruire mondi condivisi, penultime verità, approssimazioni. L’ascolto, per comunicare efficacemente, è fondamentale. Dovete saper ascoltare, dovete strutturare l’ascolto, modificare i processi organizzativi in funzione dell’ascolto. Bisogna ascoltare soprattutto per una questione tecnica: se non si riesce a capire come l’altro rappresenta la realtà, non è possibile entrarci in contatto. L’agire politico è agire comunicativo, con una finalità intimamente persuasiva. Che lo si voglia fare con l’argomentazione razionale piuttosto che sollecitando emozioni, in ogni caso lo si fa sollecitando il sentire, il sentimento, il feeling. 154 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 155 Le parole e le cose dei democratici Le sensazioni, i sentimenti, i feeling Antonio Damasio ha scritto cose molto importanti sull’importanza del feeling, del provare sensazioni. È attraverso i sentimenti che noi prendiamo posizione. Siamo quello che siamo, pensiamo quello che pensiamo, ci siamo schierati in politica, non perché ci siamo convinti leggendo libri o paragonando programmi, ma perché abbiamo provato sensazioni. È per ‘questione di feeling’ – se vogliamo adottare la moda del tempo di riferirsi ai titoli delle canzoni – che ci siamo schierati da una parte. Poi dopo abbiamo letto, cercato giustificazioni e sostegni, costruito la nostra identità. Da queste considerazioni, molto parziali, vorrei affrontare anche il tema del ruolo della personalizzazione nella comunicazione del nostro tempo. Se le interazioni personali sono fondamentali anche nella società dominata dalle tecnologie dell’informazione, se il web ci ripropone la conversazione in una veste del tutto nuova, sarà ancora importante la costruzione del patto fiduciario che si sviluppa nel momento in cui ci si guarda negli occhi. Certo la personalizzazione del nostro tempo, dalla quale non possiamo sfuggire, sarà una personalizzazione diversa. Ci potranno essere diversi tipi di personalizzazione: populistica, autoritaria, auto-centrata, frutto di un’elaborazione collettiva. Ma le persone hanno bisogno di credere e di avere fiducia in altre persone, e il rapporto di fiducia si stabilisce guardandosi negli occhi, attraverso quella scorciatoia emotiva che attribuisce carisma. Persone, non target Un’altra parola cruciale per la comunicazione efficace, 155 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 156 Le parole e le cose dei democratici questa volta in negativo, è ‘target’. Bisogna smettere di pensare che abbiamo dei target. Noi non dobbiamo bersagliare nessuno: abbiamo persone con cui entrare in relazione, con cui costruire speranze ragionevoli: questo è il punto. Devo avere capacità di focalizzare ma non di colpire. Devo legare, non conficcare chiodi. In parole semplici dobbiamo, per esempio, cancellare l’idea che l’altro che non la pensa come noi sia stupido. Quante volte ci si fa carico della ragionevolezza dell’altro? Poche. L’altro ragiona, non è che sbaglia, ha il suo modo di ragionare. E allora io devo capire il suo modo di ragionare per entrare in comunicazione con lui. Per questo la mia parola è ‘ascolto’, non ‘feedback’. Noi non ci occupiamo di bit trasmessi e ricevuti, non ci occupiamo di un fatto meccanico, ma di un fatto culturale, della costruzione di significati. Non mi interessa soltanto se l’impulso è stato ricevuto e se devo rimandarlo – modem, modulazione, demodulazione –: mi interessa che significato ha assunto il mio input. Come dicevamo, il significato lo determina il ricevente in una negoziazione con l’emittente. È per questo che l’ascolto è fondamentale. Io non posso determinare la mia immagine, ma solo comunicare i tratti distintivi della mia identità: l’identità si costruisce affrontando e risolvendo i problemi dell’oggi. L’identità non consiste nel cercare di essere identici a un passato rappresentato sempre meglio di quello che è stato, un passato che è diventato auto-narrazione, nostalgia, zavorra, paura di lasciare la costa e di andare avanti. L’identità è ciò che mi distingue, che mi fa identificare, e io mi identifico attraverso la comunicazione, consapevole dei tratti distintivi della mia personalità. 156 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 157 Le parole e le cose dei democratici L’esperienza, la prassi Due altre parole su cui richiamare l’attenzione sono ‘esperienza’ e ‘relazione’. Una campagna elettorale è soprattutto la capacità di far vivere un’esperienza: è soltanto attraverso l’esperienza che gli umani apprendono e modificano le proprie conoscenze. L’altra è ‘relazione’, dunque dialogo, parola. Ma la parola esiste se è detta, se è relazione dialogante. Stamattina con Fabris ricordavamo un’intervista di Gadamer che trovate anche su Rai Educational in cui il filosofo spiega la nascita del linguaggio e della parola. La parola è perché è detta: per questo, senza sottovalutare gli strumenti tecnici, vale più di mille immagini. La parola è alla base della costruzione del significato, è dialogo, conversazione. Lo abbiamo accennato: il web permette il recupero della conversazione. Voglio sottolineare questo tratto delle nuove tecnologie, che ci permettono di rivivere vecchie esperienze (di nuovo, si fanno all’incirca le stesse cose ma cambiano tecniche e tecnologie): le nuove tecnologie ci potrebbero permettere di far (ri)vivere le tradizionali esigenze associative o organizzative (dai Circoli del PD alle Case del popolo) all’altezza del nostro tempo: luoghi dove, invece che andare soltanto al bar, si possa per esempio fare esperienza ampia del fenomeno Internet e dei social network. Le parole democratiche. Quindi le parole democratiche – che rappresentano un insieme più ampio, più capace di interpretare e più inclusivo di quelle di sinistra – per me sono: ‘ascolto’, ‘dialogo’, ‘parola’, ‘comportamento’, ‘esperienza’. ‘Esperienza’, ‘ef- 157 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 158 Le parole e le cose dei democratici ficacia’, ‘autenticità’. Questo splendido equilibrio, questo momento magico che rende efficaci è un rapporto tra ciò che si dice e ciò che si fa. Ciò che si ascolta e ciò che si vive. I comportamenti comunicano più delle affermazioni. Un soggetto che comunica è efficace quando è credibile, legittimato ed empatico. Capace di governare la dimensione del ‘personale’ e della generazione di sensazioni. La fatica che sempre emerge nel trattare la dimensione della personalizzazione è la fatica nel comprendere il tempo che viviamo. Non possiamo non personalizzare la comunicazione, non possiamo non governare la dimensione affettivo-sentimentale della comunicazione, perché gli umani hanno bisogno di costruire significati attraverso il sentire. Per questo non è la lunghezza del programma a convincere come spiega Lakoff: è quello stato di grazia che si crea quando la gente crede che tu sapresti cosa fare, si fida, e tu riesci a proporti non come un scalpellino ma come uno che costruisce la gloria del Signore. 158 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 159 PANEL III Le grandi biografie della politica italiana. Chi comprende l’album dei democratici e chi esclude? 159 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 160 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 161 Giovanni Bachelet Presidente del Forum PD per le politiche dell’Istruzione Premessa Correva l’anno 1995 quando Prodi propose che tradizioni politico-culturali fino a quel punto in competizione fra loro confluissero in un soggetto politico democratico chiamato l’Ulivo. Eravamo nel secolo scorso. Finiva un’epoca sconosciuta ai ventenni di oggi. Erano appena crollati, fragorosamente, partiti che per cinquant’anni avevano rappresentato l’ossatura democratica dell’Italia. In quegli anni democrazia cristiana, socialdemocrazia, comunismo, liberalismo, rappresentavano ideologie, partiti e volti sul viale del tramonto, ma ancora riconoscibili sui media e sul territorio. Per quei tempi era una novità promuovere la confluenza e la contaminazione di queste culture politiche in un unico contenitore, distillando e rilanciando ciò che di buono avevano ancora da dire al paese; era una sfida inedita provare a buttar via l’acqua sporca dei vecchi partiti senza buttare il bambino dei loro ideali repubblicani, democratici e costituzionali; sembrava impervio e temerario portare in un’unica squadra giocatori che nei precedenti cinquant’anni erano stati, per la maggior parte del tempo, avversari. Radici dell’Ulivo Dalle elezioni vinte nel 1996 ad oggi, malgrado resi- 161 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 162 Le parole e le cose dei democratici stenze, ritardi ed errori, il progetto di Prodi, sotto diversi nomi, è andato avanti al punto tale che, a distanza di quindici anni, ci troviamo a riflettere su le parole e le cose dei democratici. Il motivo è, a mio avviso, che già nel 1995 questo progetto aveva basi solide, in quanto intercettava e dava sbocco a esperienze, idee e speranze maturate nella società italiana fin dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Le esperienze, le idee e le speranze che venivano naturalmente attratte nell’orbita di Prodi nascevano nell’alveo delle tradizioni democratiche repubblicane: appartenevano tutte a quell’arco costituzionale che era visto come fumo negli occhi (insieme alla Trimurti sindacale) dai reazionari degli anni Settanta, incluso il mitico Indro Montanelli, la cui successiva ripulsa del berlusconismo risultò, proprio per questo, particolarmente significativa. Queste esperienze erano maturate fra nuova scuola media e liberalizzazione degli accessi dell’università, fra Concilio Vaticano II e rivoluzione sessuale. Fra lotte operaie e studentesche, mobilitazioni giovanili per alluvioni e terremoti e decreti delegati. Fra nuova autonomia delle Regioni e Statuto dei lavoratori, fra nuovo diritto di famiglia e Servizio Sanitario Nazionale. Erano maturate, anche, fra presidenti e leader democratici ammazzati negli Stati Uniti, tra colpi di Stato in Grecia, Cecoslovacchia e Cile; e, a casa nostra, fra bombe di destra e pistole di sinistra, mafie e tangenti, logge segrete e servizi deviati. Non un semplice bis Già allora, venti o trent’anni prima dell’Ulivo, l’incontro di queste tradizioni non rappresentava un semplice bis 162 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 163 Le parole e le cose dei democratici della Resistenza o dell’Assemblea Costituente. Oltre al maggior respiro internazionale, oltre alla crescente insofferenza verso un mondo diviso in blocchi, c’erano novità radicali come l’ambientalismo e i diritti civili, riesumazioni di filoni antichi come l’azionismo o il pacifismo, e per i cattolici il progressivo tramonto del cortocircuito fra appartenenza religiosa e appartenenza politica o sindacale. E che dire della televisione e di trent’anni di egemonia americana? Ma c’è di più: quarant’anni fa, almeno nella mia percezione, ragazzi e ragazze provenienti da diverse storie e appartenenze democratiche si trovarono a dar vita (nel linguaggio, nel modo di vestirsi, nella musica: più per istinto e passione che per ragionamento) ad una inedita ecumene un po’ democratica e un po’ hippie, un po’ boy-scout e un po’ gruppettara, un po’ cristiana e un po’ socialista: ad un nuovo frullatore culturale nel quale, al confronto fra diversi, cominciavano a subentrare reciproca curiosità, contaminazione, meticciato. In una parte più, e meno altrove Questo vento non era, naturalmente, uniforme. Soffiava più nelle grandi città e meno nei paesi; più in alcune province e meno in altre; più in alcuni partiti e sindacati e meno in altri; più fra i giovani (giovani di allora, oggi almeno cinquantenni) e meno fra i vecchi (oggi ultraottantenni). Pur soffiando a diverse velocità, faceva scricchiolare ovunque vecchie ideologie e contenitori politici e spargeva ovunque semi di una unità democratica, di un nuovo assetto politico capace di coagulare i progressisti e portarli al governo del paese sulla base di programmi, schieramenti e candidati più che di appartenenze politi- 163 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 164 Le parole e le cose dei democratici che identitarie, immutabili, anagrafiche; un po’ come negli Stati Uniti o in qualche paese europeo meno ideologico del nostro. A questa evoluzione politico-culturale un’improvvisa e drammatica accelerazione fu imposta dall’assassinio di Aldo Moro. L’urgenza di nuove alleanze democratiche e un rinnovato patriottismo costituzionale parvero ulteriormente aumentare con l’irrompere, di poco successivo, di una televisione commerciale monopolista e di una politica spregiudicata, le quali a braccetto, in nome della modernizzazione, tendevano a travolgere, insieme a tabù e ipocrisie, valori e principi dell’Italia democratica; e mentre a parole dichiaravano guerra a statalismo e burocrazia, sfondavano gli argini dei conti pubblici, ponendo le premesse di un colossale debito. Già allora il sistema dei vecchi partiti appariva a molti una gabbia, un tappo, una comunità storicamente benemerita ma ormai incapace di svolgere il ruolo affidato dall’articolo 49 della Costituzione («tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»). La DC, in una grande città Farò un esempio personale. Quarant’anni fa da genitori, professori, preti, capi scout – da tutti quelli che hanno provato a educarmi – ho ricevuto l’unanime input che la partecipazione politica sia non solo un diritto, ma anche un dovere del cittadino e del cristiano; che per partecipare occorra informarsi, imparare a leggere i giornali, avere «il coraggio di alzarsi e parlare, e anche il coraggio di sedersi e ascoltare», come disse una volta Churchill. Ma già al- 164 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 165 Le parole e le cose dei democratici lora, nel decennio 1965-’75, a Roma, non solo nel mio ambiente familiare e associativo, cattolico e democratico, ma anche nella mia scuola statale, dove era rappresentato tutto lo spettro politico-culturale del paese, ben pochi dei miei educatori erano iscritti ad un partito. Erano cittadini attivi, attenti, partecipi, fedeli ad ogni appuntamento elettorale; ma non erano iscritti a un partito. O meglio: qualcuno era magari iscritto al PCI, ma praticamente nessuno ai partiti di governo, assorbiti da decenni di amministrazione, fatalmente più lontani dai cittadini. Quando nel 1975 Benigno Zaccagnini fu eletto segretario dal Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, e l’anno dopo confermato dal Congresso (con un nuovo sistema di elezione diretta voluto da Segni e Ciccardini), amici e parenti, giovani e vecchi affezionati alla democrazia e impegnati in parrocchia, tifavano quasi tutti per lui e per Moro; ma di loro quasi nessuno era iscritto alla DC e neanche a me l’idea di iscrivermi al partito per il quale votavo passava per la testa. Non mi era, peraltro, molto chiaro come si facesse a iscriversi. Non lontano da casa mia c’era la sezione DC del mio quartiere. Contava centinaia di iscritti, ma era quasi sempre chiusa, e io non ne conoscevo nemmeno uno. Quarant’anni fa, almeno in una grande città come Roma, a scuola e nei luoghi di lavoro c’era ancora una presenza capillare e organizzata del PCI, ma DC e PSI (per non parlare di socialdemocratici, repubblicani e liberali) erano ormai visibili solo sui media. Sul territorio svolgevano una limitatissima animazione politico-culturale, in genere con iniziative di corrente e non di partito, in genere sotto elezioni. Eppure, con qualche oscillazione, quei partiti e la loro coalizione che si chia- 165 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 166 Le parole e le cose dei democratici mava anche allora ‘di centro-sinistra’ (ne restavano fuori l’estrema sinistra di allora, il PCI, e l’estrema destra, il MSI) conquistavano, elezione dopo elezione, la maggioranza dei consensi, incluso il mio. Partiti liquidi ante litteram? Capacità di dialogare con i «corpi intermedi» della società riconoscendone l’autonomia? O macchine elettorali, uffici di collocamento che, in anni di sviluppo e grande incidenza del settore pubblico nell’economia nazionale, avevano smarrito gran parte delle originarie idealità? Certo è che, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, le parole dell’ultimo discorso di Moro – «devo riconoscere che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana» – suonavano chiare per molti. Sturzo, De Gasperi, Concilio: agli antipodi del patto Gentiloni In quell’epoca anche chi fra noi, in campagna elettorale, si spendeva per la DC, era al più un simpatizzante. Anche la formazione politico-culturale dei giovani che gravitavano nell’area cattolico-democratica non era curata dal partito della Democrazia Cristiana. Le idee e i progetti di alcuni leader nazionali DC di allora, così come le idee e i progetti di alcuni padri fondatori della DC, esuli o perseguitati sotto il fascismo (Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari...), le ho apprese frequentando un circolo culturale assolutamente autonomo ed autoreferenziale, intitolato appunto a Francesco Luigi Ferrari, fondato da Paolo Giuntella, che prima era stato mio capo scout in parrocchia. Paolo ci fece leggere anche abbondanti testi di Jacques Maritain e di Em- 166 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 167 Le parole e le cose dei democratici manuel Mounier, nonché documenti e costituzioni del Concilio Vaticano II, allora da poco concluso e in via di attuazione nella Chiesa cattolica italiana. Ci fece inoltre incontrare, invitandoli nel nostro circolo, personaggi chiave della politica e della cultura democratico-cristiana, a cominciare da Aldo Moro. In anni nei quali il marxismo andava per la maggiore nelle scuole e nelle fabbriche, il nostro circoletto aveva una spiccata simpatia verso l’impegno dei democratici cristiani, ma un rapporto organico con il partito nominalmente riconducibile a quella ispirazione non c’era. In quegli anni, per merito del Concilio Vaticano II, nel mondo cattolico si andavano poi riaffermando la distinzione fra impegno politico e attività della Chiesa, la legittimità per i cristiani di una pluralità di opzioni politiche, il divieto di rivendicare esclusivamente a favore proprio o del partito di appartenenza l’autorità della Chiesa. Il Concilio, in un certo senso, riprendeva e abbracciava ufficialmente l’idea di politica che aveva don Sturzo (prete, fondatore del Partito Popolare), il quale nel 1905, a Caltagirone, aveva pronunciato uno storico discorso nel quale, tra le altre cose, aveva detto: «è penetrato il concetto ormai generale che i cattolici, più che appartarsi in forme proprie, sentano con tutti gli altri partiti moderni la vita nelle sue svariate forme per assimilarle e trasformarle, e il moderno, più che sfiducia e ripulsa, desta per loro il bisogno della critica, del contatto e della riforma». In quella stessa occasione aveva invitato i cattolici ad essere «o sinceramente conservatori, o sinceramente democratici», contro tutti i «beghini dell’armonia dell’unione dei cattolici» che «tendono a sopprimere la vita comunitaria perché vogliono sopprimere 167 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 168 Le parole e le cose dei democratici la discussione, l’opinione, la tendenza diversa», tratteggiando un progetto politico fatto di libertà e partecipazione politica, di giustizia sociale, di lotta al latifondo, di valorizzazione delle autonomie regionali e cittadine: il progetto complessivo di un grande partito popolare, non confessionale, il cui orizzonte è il bene del paese; un partito al quale chiunque ne condivida il programma può aderire, anche se non fosse credente; e al quale, viceversa, un cattolico «sinceramente conservatore» non potrebbe aderire. Questa visione dell’impegno politico del cristiano secondo Sturzo è, come si vede, agli antipodi dell’idea clericale di partito e di politico cattolico, telecomandati dall’autorità ecclesiastica, vincolati ai temi che essa via via pone come prioritari, impegnati nella difesa o nella promozione di interessi e privilegi della Chiesa nel campo dell’istruzione, della sanità o dell’edilizia. È quindi importante ricordare che nelle elezioni del 1913, pochi anni dopo il discorso di Caltagirone, l’impostazione clericale, antitetica all’idea sturziana di partito popolare, aveva trovato puntuale applicazione nel cosiddetto ‘patto Gentiloni’: un accordo raggiunto da Giolitti in vista delle elezioni politiche italiane del 1913, che impegnava i cattolici a sostenere, nelle elezioni politiche, i candidati liberali contrari a misure anticlericali. Benché nel frattempo ci sia stato il fascismo, la guerra, la resistenza, la Costituzione Repubblicana e la lunga e feconda esperienza della Democrazia Cristiana, e benché, soprattutto, ci sia stato di mezzo un Concilio ecumenico che per la Chiesa cattolica ha proposto con chiarezza un nuovo stile di libertà e responsabilità nei rapporti fra comunità civile e comunità ecclesiale, alle elezioni del 2006, quasi cento anni 168 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 169 Le parole e le cose dei democratici dopo, abbiamo avuto l’impressione (speriamo errata) di un déjà-vu: l’elezione di una pattuglia di deputati e senatori che su alcuni temi, che si trattasse di interessi economici, simboli religiosi nei luoghi pubblici, temi legati alla famiglia o alla vita in fase iniziale o terminale, sembrava garantire nel voto parlamentare diretta dipendenza dall’autorità della Chiesa. Il che, se fosse vero, come a suo tempo fece garbatamente osservare Oscar Luigi Scalfaro, rappresenterebbe un bel problemino anche dal punto di vista costituzionale, dato l’articolo 67 («ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). In breve, quella di intervenire in prima persona come istituzione religiosa nella politica dei singoli Stati (anziché lasciare che i cristiani si impegnino sotto la propria responsabilità, partecipando alla cosa pubblica insieme a tutti gli altri cittadini) è una tentazione ricorrente per la Chiesa. Questa tentazione è agli antipodi dell’idea di partito popolare di Sturzo e in larga misura (vedi sotto) anche della cinquantennale esperienza storica del partito della Democrazia Cristiana in Italia dopo l’ultima guerra mondiale. È anche agli antipodi di quanto il Concilio Vaticano II dice a proposito del rapporto fra Chiesa e politica. La Chiesa cattolica in carne e ossa, però, ha per molti secoli puntato ad un rapporto privilegiato con il potere politico, e non c’è da meravigliarsi se l’ottemperanza e la piena interiorizzazione dei dettati conciliari non sia ancora (per usare un eufemismo) completa, e richieda altro tempo per arrivare a regime. Gramsci scriveva: «il Vaticano rappresenta la più grande forza reazionaria esistente in Italia. Per la Chiesa, sono dispotici i governi che intaccano i suoi privilegi e 169 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 170 Le parole e le cose dei democratici provvidenziali quelli che, come il fascismo, li accrescono». In questo modo non faceva che descrivere ciò che aveva sotto i propri occhi. In quegli anni la Chiesa non seguiva certo l’approccio di Sturzo: precedentemente alla Prima Guerra Mondiale provò a condizionare il liberalismo con una pattuglia di eletti concordata con Giolitti, poi nel parlamento successivo incoraggiò una parte dei popolari a votare a favore del gabinetto Mussolini, e infine, dopo minacce, botte e preti antifascisti come don Minzoni assassinati, dichiarò che Mussolini era l’uomo della Provvidenza (Gramsci usa parole non casuali) e ci fece il Concordato. DC: molte anime, un disegno per il paese, un argine alla destra e al clericalismo Dopo quel che si è detto è evidente che il partito popolare di Sturzo, nella sua impostazione originaria, assomiglia al nostro Partito Democratico più di quanto non assomigli ai partitini post-democristiani di oggi. Ma trovandoci qui a parlare di parole e cose dei democratici, sarebbe assurdo saltare l’esperienza politica democratica più importante dei cattolici italiani: la Democrazia Cristiana. Esperienza importantissima, con elementi di continuità e di rottura con l’impostazione di Sturzo. Da un lato, dopo la guerra, la Democrazia Cristiana si presenta come esplicita erede del Partito Popolare. Dall’altro, già nel nome, diversamente dal PPI, richiama l’appartenenza religiosa (Democrazia Cristiana era però una sigla gloriosa che coraggiosamente richiamava l’esperienza di Romolo Murri); ma soprattutto, nella sostanza, punta ad attrarre nella propria orbita tutti i cattolici, non solo la metà de- 170 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 171 Le parole e le cose dei democratici mocratica e progressista: nel primo decennio di vita si appoggia pesantemente alle strutture parrocchiali e alle associazioni cattoliche per la propria propaganda. Anche perché nel frattempo c’è stata Yalta e la divisione del mondo in blocchi, la Chiesa teme il comunismo e il vecchio De Gasperi, popolare prima della guerra e capo della nuova Democrazia Cristiana dopo la guerra, è convinto che se non si ‘imbriglia’ la Chiesa nella democrazia il rischio di un rigurgito fascista è elevato. A dimostrazione che questi timori sono fondati, il suo rifiuto di fare alle amministrative del 1952 liste comuni con i neofascisti a Roma pone perfino lui, trionfatore elettorale sui comunisti, nella ‘black list’ del Papa, che non lo riceverà più fino alla morte. Se fossi uno storico anziché un fisico teorico avrei raccontato molto meglio questa storia, ma qui, dato il tempo a disposizione, mi preme solo aggiungere che, malgrado le contraddizioni dell’esperienza democristiana (non solo rispetto al rapporto con la Chiesa), quando per esempio sentiamo quel che dice Berlusconi sulla scuola, o quel che fa Formigoni con il voucher per le scuole private, ci rendiamo conto che la Falcucci e la DC rappresentavano un argine democratico. Ricordo che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, in un dibattito televisivo, Martelli, che allora mi pare fosse vicesegretario del PSI, descrisse e lodò un’idea molto innovativa – il buono scuola – appena appresa ad uno dei primi meeting di CL a Rimini dove, come politico, era stato ospite. La Falcucci, allora Ministro dell’Istruzione, rispose a muso duro: «finché su questa poltrona siederà un democratico cristiano, ci occuperemo prioritariamente delle scuole statali», o qualcosa di simile. E va notato che la Falcucci 171 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 172 Le parole e le cose dei democratici non era della ‘sinistra democristiana’: era democristiana e basta! Come, del resto, anche il presidente Scalfaro, che pure agli occhi di Berlusconi è un pericoloso bolscevico. Altri esempi si potrebbero fare sulla riforma agraria, sullo Stato sociale, sulla giustizia, sui trasporti: la DC aveva un disegno per il paese e ha rappresentato un argine democratico a destra, forse più che a sinistra. In campo democristiano la forma partito era già in discussione quarant’anni fa Le contraddizioni dell’esperienza democristiana, non solo rispetto al rapporto con la Chiesa, sono emerse nel tempo, essenzialmente a causa della mancanza di alternanza per un periodo troppo lungo. Quando uno stesso partito si trova a governare ininterrottamente un paese per una cinquantina d’anni è difficile indovinare tutto. Anche qui ci vorrebbe uno storico e mi scuso per l’inevitabile superficialità. Un fisico come me, che fin da giovane leggeva i giornali e partecipava con attenzione alle scadenze elettorali, ma non studiava storia né faceva politica, ha l’impressione di aver visto democristiani capaci e incapaci, onesti e disonesti, commoventi e ridicoli, lungimiranti e miopi; anche alcuni martiri, straordinariamente onesti e intelligenti; anche alcuni delinquenti, straordinariamente pericolosi. Rispetto al tema di oggi, fin da giovane, trent’anni fa, avevo dubbi che sarebbero durati ancora molto a lungo la formula della Democrazia Cristiana in particolare, e l’intero assetto dei partiti italiani in generale: mi pareva di vedere appartenenze ideologiche sempre più sbiadite rispetto al comune sentire, etichette atte più a giustificare la sopravvivenza politica di chi le in- 172 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 173 Le parole e le cose dei democratici dossa che a rappresentare pezzi di società, manuali Cencelli, crescente ricatto dei partiti piccoli e conseguente distorsione della rappresentanza popolare nella formazione dei governi. Le esperienze di ecumene citate all’inizio mi suggerivano come naturale sbocco (e sblocco!) la competizione fra un gruppo progressista e democratico e un altro più o meno dichiaratamente conservatore o reazionario. In altre parole, ciò che è stato poi chiamato Partito Democratico alcuni di noi l’avevano nel cuore da parecchio tempo; forse chi faceva parte di partiti più efficienti e rappresentativi e soprattutto, in quegli anni, meno governativi, riusciva ancora ad entusiasmarsi di identità e appartenenze novecentesche. Ma, per esempio, già nel 1972 il qui presente Gigi Covatta insieme ad altri aclisti, sotto la guida di Livio Labor che da poco aveva lasciato la presidenza delle ACLI, diede vita al Movimento Politico dei Lavoratori” (MPL): alle elezioni prese pochissimi voti e come partito abortì, confluendo subito nel PSI. Ma fu uno dei primi segnali dello scardinamento del sistema dei vecchi partiti e dell’attesa, in campo cattolico, di nuove rappresentanze capaci di sbloccare il sistema politico italiano conquistando finalmente la possibilità di un’alternanza democratica. E infatti, ormai anziano, Livio Labor, cristiano post-conciliare, abbracciò con entusiasmo l’Ulivo di Prodi e fece a tempo a fare campagna elettorale per me quando nel 1996, in qualità di kamikaze, sfidai Fini nel suo collegio storico, dove abitavamo sia io che lui. Abbiamo mancato il momento magico, ma meglio tardi che mai Quindi confermo l’affermazione iniziale: già molti anni fa, 173 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 174 Le parole e le cose dei democratici almeno nella parte di mondo cattolico e democratico da me meglio conosciuta, c’erano esperienze e idee che preparavano il Partito Democratico di oggi. Che segnalavano già l’esaurimento della partecipazione in forme partitiche tradizionali e della rappresentanza fatta di democristiani, comunisti, socialisti, liberali, eccetera, che pure avevano ricostruito l’Italia dopo la guerra. Secondo me (mi concedo in chiusura un’opinione personale come quelle che si esprimono al bar sul campionato di calcio) il momento propizio per la transizione ad un nuovo soggetto politico di centro-sinistra era proprio il 1996. La persona che poteva guidarlo era Prodi. Non era un democristiano doc, non era nemmeno iscritto alla DC, era un ‘tecnico di area’ democristiana che vedeva lontano ed era stimato in casa e fuori. Forse potrà far sorridere, ma per me il concetto di ‘tecnico di area’ era e resta un concetto molto civile: siamo già un pezzo avanti quando nella scelta di governanti e alti dirigenti prima viene la competenza e poi l’appartenenza politica. Prodi rappresentava plasticamente il passaggio morbido da un passato ormai scricchiolante a un futuro europeo. Non avendo prodotto il PD o qualcosa che ci somigliasse in quel momento, il progetto ha via via perso velocità e le cose si sono di nuovo ingarbugliate. Il fisico Andrej Sacharov, all’epoca della Perestrojka, disse che se un carro va troppo piano in salita, ad un certo punto si ferma e torna indietro. Ho la stessa percezione per il Partito Democratico. Nel 1996, grazie all’effetto-novità, alla prima vittoria contro Berlusconi, all’euro, al rintontimento dei partiti vecchi dopo la botta di Tangentopoli e il recente crollo del Muro di Berlino, potevamo forse mettere tutti insieme in modo 174 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 175 Le parole e le cose dei democratici definitivo. In fondo allora, escluso Bertinotti, tutto il centro-sinistra aveva accettato di mettersi sotto il simbolo dell’Ulivo, complice il Mattarellum. Dieci anni dopo, nel 2006, la legge elettorale era cambiata e intanto avevamo perso per strada socialisti, ambientalisti, dipietristi e un sacco di altri pezzi e pezzetti, praticamente tutti deflagrati tranne gli ex democristiani e gli ex comunisti; anche la cosiddetta ‘società civile’ fuggiva a gambe levate, intravedendo, al di là delle parole dei leader DS e Margherita, una tenaglia che si andava chiudendo. Cambiare di nuovo tutto, diceva Tomasi di Lampedusa, affinché nulla cambi: nel nostro caso, affinché due nomenklature riescano a fare un altro giro di giostra anziché scendere e passare finalmente la mano. L’impulso dell’Ulivo di Prodi è stato sprecato e col PD ci siamo trovati a ripartire quasi da capo. Poiché, come ho cercato di dire fin dall’inizio, il progetto aveva una profonda corrispondenza con attese e sviluppi culturali e politici della società italiana, credo che, pur con molta fatica, sia ancora possibile farlo ripartire e crescere, ed è quel che stiamo facendo anche adesso, con Bersani. Però, e concludo, se è sempre bello raccontare le nostre storie davanti al caminetto, è anche vero che quarant’anni fa etichette e sigle dei partiti di allora, contrabbandate come appartenenze e identità irrinunciabili, ad alcuni di noi apparivano già obsolete; che il mescolamento dei diversi filoni democratici è partito quindici anni fa con Prodi; che per i miei figli, allora piccolini e ora elettori, DC, PCI e PSI sono argomenti di storia, non più di politica. Forse è venuto il momento di smetterla con le appartenenze passate, di caratterizzarci con la scelta di campo fra democratici o conservatori e con una rinnovata 175 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 176 Le parole e le cose dei democratici capacità di leggere la società e di rilanciare uno sviluppo equo e sostenibile: insomma con un buon programma, proprio come diceva Sturzo nel 1905. Con un ampio schieramento, con candidati di qualità. Alimentando, rinnovando e credibilmente traducendo in progetto lo straordinario patrimonio di ideali sociali e civili e di competenze personali e risorse umane che il nostro partito possiede, a tutti i livelli. Valorizzando (attenzione, è tema inscindibile da un buon programma, da buoni candidati, dallo sviluppo del proprio patrimonio ideale) il pluralismo interno, compreso e gestito come ricchezza e non come patologia, legato ai tanti ‘mondi vitali’ che un grande partito deve rappresentare con ragionevole articolazione interna, certo armonica e non cacofonica, ma neppure totalitaria e totalizzante. Le diverse radici del PD sembrano robuste e sufficientemente intrecciate. Possiamo stare tranquilli, non serve continuare a rimirarle. Basta innaffiarle. La sfida di domani riguarda i frutti. 176 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 177 Luigi Covatta Direttore di Mondoperaio La peculiarità del socialismo italiano Per capire la peculiarità del socialismo italiano è il caso di partire da un’osservazione che Giovanni Sabbatucci ha lasciato scivolare in un saggio pubblicato l’anno scorso su Mondoperaio in occasione del trentesimo anniversario della morte di Nenni riferendosi alla battaglia da lui condotta fra il 1922 e il 1923 per difendere l’autonomia del PSI. «Che cosa sarebbe successo» – si chiede Sabbatucci – «se Nenni e i suoi amici avessero perso e la maggioranza del vecchio PSI si fosse trasferita armi e bagagli sotto le bandiere del Comintern? Molto semplicemente il nome e il simbolo del PSI sarebbero stati ripresi dal PSU di Matteotti […] lasciando che il tempo si incaricasse di riequilibrare i rapporti di forza fra le due componenti (come sarebbe avvenuto in Francia e in Germania)»1. In effetti, se non si ricorda che la scissione di Livorno del 1921 non aveva separato i riformisti dai massimalisti ma i leninisti dai non leninisti, e che i riformisti erano comunque stati espulsi dal partito l’anno dopo, non si capisce quel carattere peculiare dell’autonomia del socialismo italiano che, nel mio piccolo, mi ha indotto a intitolare Menscevichi un saggio sui riformisti nella storia repubblicana2. I menscevichi, infatti, sono indissolubilmente legati ai bolscevichi: non solo perché si distinguono da essi per i mezzi e non per i fini, ma anche perché, benché da essi perseguitati, non 177 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 178 Le parole e le cose dei democratici li perseguitano a loro volta. La figura che meglio incarna questa peculiarità è appunto quella di Nenni: il quale, specialmente dopo la Liberazione, si trova alla guida di un partito in cui ci sono Saragat e Morandi, Mondolfo e i trotzkisti; e che, per ottenere la confluenza di Lelio Basso e del suo minuscolo Movimento di unità proletaria, è costretto addirittura a cambiare nome al partito (che diventa PSIUP, per ridiventare PSI – ironia degli acronimi – dopo la scissione saragattiana del 1947). Dopo la vittoria repubblicana, di cui fu protagonista, Nenni avrebbe potuto essere «il romagnolo di turno», e cioè, secondo Luciano Cafagna, «il leader ‘populista’, o popolar-democratico, della nuova democrazia italiana»3. Ma rinunciò a quel ruolo perché consapevole della fragilità non solo del suo partito, ma anche degli altri due partiti di massa, fragilità che avrebbe potuto essere superata solo con una comune esperienza costituente (come non si è fatto con l’avvento della seconda Repubblica)4. È così che, dopo la scissione saragattiana e il disastro del 18 aprile, il PSI di Nenni e di Morandi identifica ancora di più se stesso in relazione al PCI (accentua, cioè, la sua vocazione ‘menscevica’). È una condizione talmente ineffabile che l’unico che l’abbia saputa descrivere compiutamente è stato un poeta, Franco Fortini, che scrisse allora: «Il PSI è la sede naturale non solo di quegli elementi della classe proletaria e delle classi medie che non possono ancora accettare i termini organizzativo-disciplinari della lotta comunista, ma anche di coloro che non possono più accettare quei termini: non come transfughi ma come continuatori o superatori che non vogliono 178 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 179 Le parole e le cose dei democratici porsi in atteggiamento tale da favorire gli avversari»16. In politica, peraltro, l’ineffabile non è previsto. Perciò, dopo il 18 aprile, il PSI sarà piuttosto «la sede naturale […] di coloro che non possono più accettare» l’immobilismo di quello che poi verrà definito ‘bipartitismo imperfetto’6. Il primo è Riccardo Lombardi, l’ultimo segretario del Partito d’Azione, che insieme con Vittorio Foa e Fernando Santi, dopo la disfatta del 18 aprile, vince il congresso del 1948 sostenendo che «la sconfitta del PSI come forza politica efficiente ed autonoma sarebbe la sconfitta delle istanze democratiche e liberali prima ancora che di quelle socialiste»7. Lombardi non era marxista (anche per questo, mi raccontava, Saragat non lo aveva voluto nel suo partito), ma, come dice Lanaro, «parlava un dialetto marxista più che altro per non farsi sconfessare dai suoi compagni»8. Così come non erano marxisti Tristano Codignola, Vittorio Foa, Paolo Vittorelli e gli altri azionisti che erano confluiti nel PSI, e che nel 1956 sarebbero stati raggiunti da Antonio Giolitti e dai molti intellettuali comunisti che non avevano giustificato né i carri sovietici a Budapest, né il minimalismo di Togliatti dopo il XX congresso del PCUS. Sono questi meticci che, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, preparano l’apertura a sinistra dialogando con la ‘terza forza’ rappresentata dagli ‘Amici del Mondo’, e soprattutto con la migliore cultura cattolica dell’epoca: Pasquale Saraceno, Siro Lombardini, Achille Ardigò e tutti gli altri intellettuali che, dopo l’avventura tambroniana, si raccolgono attorno a Fanfani e alla sinistra democristiana d’allora9. Si è molto polemizzato, dopo il ridimensionamento di quel 179 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 180 Le parole e le cose dei democratici progetto, sul suo carattere velleitario e illuministico, imputato principalmente a Lombardi e a Giolitti. Si dimentica però che ad esso, come ho detto, diedero un contributo sostanziale La Malfa e la cultura cattolica. E si dimentica, soprattutto, che esso venne sacrificato sull’altare della ‘centralità democristiana’. Luciano Cafagna, che pure non è stato tenero col ‘riformismo illuminista’ di Lombardi e Giolitti10, nel 1980 ha magistralmente spiegato quale «stravolgimento dell’idea originaria del centro-sinistra» abbia rappresentato la rivolta dorotea contro Fanfani, che aveva dato luogo ad «un bel circolo vizioso» in cui «la DC chiamava dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì, più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un sostegno»11. Anche per questo, osserverà Guido Crainz, «a sfumare progressivamente, dopo i primi esordi del centro-sinistra, non furono solo le singole riforme», che per la verità ci furono, ma «fu il riformismo come modello a perdere fascino»12. Poco fascino, del resto, ebbe anche l’unificazione socialista del 1966: sia perché si realizzò attraverso la fusione a freddo di due apparati, quello del PSI e quello del PSDI; sia perché, nonostante l’adesione delle migliori intelligenze liberalsocialiste – da Norberto Bobbio a Franco Venturi, da Guido Calogero a Manlio Rossi Doria ed a Leo Valiani – fu troppo poco ambiziosa nel contestare gli equilibri immutabili del ‘bipartitismo imperfetto’. Così l’unificazione socialista non riuscì ad essere attraente né verso quelle aree del mondo cattolico che, ormai libere dal collateralismo verso la DC, erano state a loro volta sconfitte dai dorotei; né verso quelle aree del PCI che, nel 180 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 181 Le parole e le cose dei democratici 1964, avevano immaginato, con Amendola, il partito unico dei lavoratori, e che erano state messe a tacere da Berlinguer. Non a caso, quindi, ai lavoratori cattolici e ai lavoratori comunisti si rivolse invece un socialista che era stato critico dell’unificazione, e cioè Fernando Santi (uno dei rari riformisti autoctoni restato nel PSI, a lungo leader dei socialisti della CGIL). Santi scelse l’annuale convegno aclista di Vallombrosa, nel 1968, per pronunciare quello che sarebbe stato il suo ultimo discorso, col quale proponeva di creare a sinistra «una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque, garante e fedele ai principi della democrazia e della libertà nel rispetto della coscienza di ciascuno e di tutti, capace di offrire un’alternativa alla guida e alla gestione moderata del potere», attraverso la confluenza di «forze che si muovono in tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in quello comunista»13. Inutile dire che in seno al mondo cattolico la gerarchia optò per sostenere ancora la DC. Meno inutile sottolineare l’opinione di Tonino Tatò, che nell’autunno del 1970 poneva a Berlinguer una domanda retorica: «Staccare dalle ACLI una porzione di quadri e di voti per darli a una formazione di ‘terza forza socialista’non disturba noi (non è oggettivamente anticomunista) e non disturba, nel senso che indebolisce, le sinistre interne alla DC?»14. Non voglio fare dell’autobiografia e men che meno sopravvalutare il peso dell’iniziativa che, con Labor e Carniti, presero allora alcuni di noi. Voglio solo sottolineare che in quelle reazioni vanno probabilmente individuate le cause prime del successivo blocco del sistema politico e della crisi della sinistra. Ed anche ricordare che in quegli anni il 181 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 182 Le parole e le cose dei democratici meticciato socialista si arricchì di una nuova etnia, quella cattolico-sociale, che non fu ininfluente nell’evoluzione della cultura e della politica del PSI. E veniamo all’osso più duro, Craxi. Craxi non era «un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile e maneggione ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia», come scriveva Tatò a Berlinguer il 18 luglio 197815. E non era neanche «il leader che manca alla sinistra», come ha scritto di recente Piero Craveri16. Invece, come ha scritto Luciano Cafagna, «capì cose che se sei un genio, ma devi proprio esserlo, fai una di quelle rivoluzioni che sfondano e creano un vero mondo nuovo, ma se non lo sei, il solo fatto di averle capite non basta e finisce per ucciderti. E Craxi finì ucciso»17. Fra le cose che capì ce n’erano due di particolare rilievo. Innanzitutto, che occorreva correggere l’anomalia del socialismo italiano di cui ho parlato all’inizio, e in cui lui stesso, con buona pace di Tatò, si era formato (i suoi amici e i suoi nemici più cari li aveva conosciuti a Praga al Festival mondiale della gioventù18; la sua militanza politica era cominciata con la segreteria di zona di Sesto San Giovanni a fianco del suo omologo comunista Armando Cossutta; con Occhetto aveva rotto l’isolamento degli studenti socialcomunisti nella politica universitaria facendo confluire il CUDI nell’UGI di Pannella)19. La seconda, che il sistema politico italiano, in seno al quale il PSI aveva peraltro svolto un ruolo rilevantissimo, oltre ad essere bloccato era troppo condizionato da equilibri internazionali destinati a crollare. Questa duplice consape- 182 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 183 Le parole e le cose dei democratici volezza lo indusse ad accentuare il legame con il socialismo europeo, e specialmente con le sue componenti più scettiche rispetto all’Ostpolitik, rappresentate in particolare dal cancelliere Schmidt, del quale condivise l’iniziativa sugli euromissili. E lo indusse anche a collocare il rilancio del PSI nella prospettiva di una «grande riforma» del sistema politico italiano20. Questo, peraltro, andava in controtendenza. Come ha scritto Biagio de Giovanni, «il tentativo di stabilizzazione del compromesso storico pretendeva di rafforzare e rimotivare il vecchio equilibrio quando intorno tutto cambiava», e «DC e PCI pensavano, ideologicamente, a una stabilizzazione del bipolarismo e a una democratizzazione dell’URSS» proprio alla vigilia del crollo del comunismo21. Per questo, ed anche per l’opportunismo con cui l’esperimento venne gestito dalla DC, il compromesso storico determinò, più che una stabilizzazione, un definitivo blocco del sistema politico. Ed è in questo contesto che nasce il craxismo, che è la continuazione con altri mezzi dell’esercizio del ruolo sistemico del PSI. Secondo Gianfranco Pasquino, che scrive nel 1982, il rovesciamento operato da Craxi della tendenza seguita «un po’ impoliticamente» da Nenni e Lombardi, i quali avevano «sempre anteposto le preoccupazioni per il funzionamento e l’evoluzione del sistema politico a quelle relative ai vantaggi del partito», nasce dalla consapevolezza che «senza ambizioni partigiane il PSI condanna se stesso a un ruolo subalterno che è altresì nocivo per tutto il sistema»22. Craxi, del resto, proprio nel 1982 cerca di sottrarsi a questa alternativa del diavolo, e nel dibattito sulla fiducia al secondo governo Spadolini lancia un ultimo ap- 183 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 184 Le parole e le cose dei democratici pello al sistema politico perché sia possibile formare «o un vero centro-sinistra o una vera alternativa». Ma l’appello cade nel vuoto, per cui non resta che l’iniziativa partigiana, volta da un lato ad accentuare il profilo identitario del PSI, dall’altro a forzare il sistema attraverso un franco esercizio del principio di maggioranza23. L’identità del PSI non poteva essere sic et simpliciter quella della socialdemocrazia europea. Lo impediva il ruolo minoritario effettivamente svolto. E lo sconsigliava l’opportunità di valorizzare il felice meticciato che nel PSI si era realizzato. Perciò il PSI approdò prima di altri partiti socialisti al socialismo liberale, che si espresse pienamente con il discorso di Martelli alla conferenza di Rimini del 1982, con il quale il PSI si pose oltre «la pietrificata sociologia delle classi ereditata dal marxismo», scartò «il compito di produrre una rivoluzione che non c’è» invece «di rappresentare politicamente e di governare con l’efficienza della politica democratica la rivoluzione che è in atto», e propose l’alleanza fra «le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità» e «le donne e gli uomini immersi nel bisogno»: i primi, «persone utili a sé e agli altri», che «progrediscono e fanno progredire l’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze», e sono quindi «coloro che possono agire»; mentre i secondi, «persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, emarginati o dal lavoro, o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute», e sono quindi coloro che «devono agire»24. Quanto all’iniziativa per la riforma del sistema politico, essa non si ridusse alla proposta di riforme istituzionali, ma 184 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 185 Le parole e le cose dei democratici si ispirò anche alla politique d’abord di nenniana memoria25. Non va dimenticato, per esempio, che ancora alla vigilia delle elezioni del 1983 (quelle che gli avrebbero aperto le porte di Palazzo Chigi) Craxi si incontrò con Berlinguer alle Frattocchie per cercare di definire obiettivi comuni, nonostante «l’assoluta incomprensione» di quest’ultimo «delle ragioni che spingevano Craxi sulla scena», che «nascevano dalle spinte di nuovi ceti e da un bisogno oggettivo di modernizzazione del paese», secondo la testimonianza di Alfredo Reichlin26. Non è questa la sede per illustrare la performance del governo Craxi27. È il caso, invece, di riportare brani del necrologio che a Craxi dedicò Stefano Folli. «Nel maggio del 1987» – scriveva Folli – «giusto all’indomani del lungo governo Craxi, L’Espresso pubblicò un interessante sondaggio. Conteneva, quasi per caso, la chiave per capire gli anni Ottanta, e più ancora per leggere nell’immediato futuro, nel quinquennio che coinciderà con il declino del craxismo e sfocerà infine in Tangentopoli. Diceva, quel sondaggio, che il sessantacinque percento degli italiani dava un giudizio positivo di Bettino Craxi come statista e uomo politico affidabile; la maggioranza si esprimeva altresì contro la formula del pentapartito». Secondo Folli, però, Craxi «non seppe o non volle capire che la sua figura aveva già spezzato i vincoli e le gabbie di un sistema partitico (o francamente partitocratico) ormai logoro» e «non fu abbastanza coraggioso o semplicemente innovatore»28. Folli giustificava questa «prudenza istituzionale» di Craxi con «la sua tempra di democratico». Meno indulgente era stato, nel 1994, Gianni Baget Bozzo, che aveva imputato a Craxi, «ormai guidato solo da un or- 185 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 186 Le parole e le cose dei democratici ganigramma», la colpa di non avere sfruttato l’occasione storica che gli veniva offerta dalle ‘picconate’ di Cossiga; per cui «l’involuzione dell’unico leader italiano che avesse la statura per guidare un salto costituzionale disperdeva la possibilità di un’autoriforma della politica»29. Se fosse ancora di moda Karl Marx, della vicenda craxiana si potrebbe dire che «il morto ha acchiappato il vivo». Ma in politica, come insegnava Talleyrand, un errore è peggio di un crimine, e comunque chi perde ha sempre torto. Che Craxi abbia perso non c’è dubbio. Resta però da stabilire – e non è questione di poco conto – se ha perso per avere osato troppo o per avere osato troppo poco30. 1 Mondoperaio, dicembre 2009. 2 L. COVATTA, Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005. 3 L. CAFAGNA, Una strana disfatta, Marsilio, Venezia 1996, p. 43. 4 Un approccio non oleografico allo stato nascente della Repubblica può essere utile per comprendere meglio le caratteristiche che venne assumendo il nostro sistema politico dopo la Liberazione. Dei socialisti si è già detto. In seno al mondo cattolico il ruolo della DC non era affatto scontato. Subito dopo il 25 luglio 1943 il presidente della GIAC, Luigi Gedda, aveva scritto a Badoglio proponendogli puramente e semplicemente di sostituire il personale politico fascista con quello dell’Azione cattolica, senza modificare il regime (T. SALA, Un’offerta di collaborazione al governo Badoglio (agosto 1943), in Rivista di storia contemporanea, n. 4/1972). Sul tema si veda P. SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1977; A. RICCARDI, Il ‘partito romano’ nel secondo dopoguerra, Morcelliana, 1983. Quanto ai comunisti, un volume recente di storia diplomatica ricostruisce le vicende (un po’ rocambolesche) attraverso cui si giunse al riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS ben prima dello sbarco di Togliatti a Napoli e della ‘svolta di Salerno’ (E. DI NOLFO, M. SERRA, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Laterza, 2010). Un ruolo importante per la formazione dei tre partiti di massa a base ideologica lo ebbe anche il precedente fascista, come ha sottolineato Cafagna, che dopo avere ricordato, nel brano citato, la rinuncia di Nenni a perseguire «l’unica alternativa concreta alla partitocrazia», indica come DC e PCI si spartirono il «lascito fascista»: il PCI aderendo «alla attesa sociologica di una ‘successione’ totalitaria al fascismo», alla «funzione di manipolazione ideologica della incertezza sul futuro prodotta dal mutamento», alla «disponibilità di massa agli appelli di piazza e ad ampi inquadramenti, a una partecipazione mobilitata, a uno statalismo che però – ed è la tradizione socialista, che anche il fascismo, comunque, aveva parzialmente interinato – si auspica più so- 186 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 187 Le parole e le cose dei democratici ciale, più generale, possibilmente non favoritistico»; la DC ereditando «le attese di assistenza in senso stretto, e inoltre la funzione di mediazione generale verso lo Stato (una funzione formatasi, o comunque dilatatasi col fascismo) presso il notabilato economico e sociale […] nonché i mezzi e la tecnica per la strumentalizzazione del diffuso parastato di fascistica origine» (L. CAFAGNA, La grande slavina, Venezia, 1993, p. 64). Può essere interessante ricordare che a questa analisi si riferì implicitamente Giuliano Amato nel motivare in Parlamento le dimissioni del proprio governo nel 1993. Sull’avvento della partitocrazia si veda anche G. QUAGLIARIELLO, La sconfitta del ‘moderno Principe’, Biblioteca dell’immagine, 1993; S. LUPO, Partito e antipartito, Donzelli, 2004. 5 F. FORTINI, Dieci inverni (1947-1957). Contributo a un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957. 6 G. GALLI, Il bipartitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna 1966. 7 S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 87. 8 Ivi, p. 314. 9 Secondo Lanaro il centro-sinistra fu, nella storia unitaria, «l’unico esperimento progettato con qualche chiaroveggenza, provvisto di input strategico e preceduto da una discussione di ragguardevole dignità culturale» (ivi, pp. 307-314). 10 CAFAGNA, cit., pp.99-114. 11 Problemi del socialismo, settembre-dicembre 1980. 12 G. CRAINZ, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 2003, p. XIV. 13 F. SANTI, L’ora dell’unità, La Nuova Italia, 1969, p.330. 14 Caro Berlinguer, a cura di F. BARBAGALLO, Einaudi, 2003, p. 20. 15 Ivi, p. 74. 16 Mondoperaio, gennaio 2010. 17 L. CAFAGNA, prefazione a Menscevichi, cit., p. 11. 18 Fra i primi Carlo Ripa di Meana e Jiri Pelikan, tra i secondi Enrico Berlinguer. 19 Proprio per questa sua appartenenza alla sinistra del dopoguerra, però, Craxi non era cinico rispetto al confronto ideologico come lo erano stati i leader della generazione precedente, che mentre trescava con Rumor poteva tranquillamente firmare la Carta dell’unificazione socialista in cui si fissava come obiettivo del nuovo partito il superamento del capitalismo. Craxi invece non le mandava a dire a Berlinguer quando questi, a tre mesi dall’assassinio di Moro, rivendicava «la permanente validità della lezione leninista» (l’intervista di Berlinguer su La Repubblica del 2 agosto 1978; la replica di Craxi sull’Espresso del 28 agosto). La vulgata identifica lo scritto di Craxi (Il Vangelo socialista) con la riesumazione di Proudhon. Invece Craxi citava tutte le posizioni antileniniste del movimento socialista, da KautKautski alla Luxemburg, da Bernstein ai socialisti premarxisti (fra i quali, appunto, Proudhon). Qualche mese dopo (il 30 novembre) il tema venne ripreso in un convegno internazionale organizzato a Roma da Paolo Flores d’Arcais ed al quale, oltre a Craxi, intervennero fra gli altri Massimo L. Salvadori, Vittorio Strada, Alessandro Pizzorno, Luciano Cafagna, Rossana Rossanda, Giuseppe Vacca, Fabio Mussi, Giorgio Ruffolo, Cornelius Castoriadis, Alain Touraine, Leszek Kolakowski, Jiri Pelikan, Gil- 187 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 188 Le parole e le cose dei democratici les Martinet, Pierre Rosanvallon, Krisztof Pomian (Marxismo, leninismo, socialismo, ed. Avanti!, 1978). A testimonianza della diversa sensibilità della vecchia generazione socialista mi piace citare un piccolo episodio. Flores, che non aveva dimenticato le sue origini trotzkiste, aveva preteso che ciascuno degli ospiti stranieri, insieme con un dirigente del PSI, tenesse una lezione serale in una sezione. A me era toccato il compito di accompagnare Pomian nella storica sezione della Garbatella (non proprio una fucina di giovani talenti). Quando me ne andai, il segretario mi apostrofò: «Noi a te ti rispettiamo, ma non ti azzardare più a portarci un fascista!». 20 Sul tema si veda ora La ‘Grande riforma’ di Craxi, a cura di G. ACQUAVIVA e L. COVATTA, Marsilio, 2010. 21 Da un secolo all’altro, a cura di R. RACINARO, Rubbettino, 2004, p. 161. 22 Il Mulino, maggio-giugno 1982. 23 Il ‘decisionismo’ imputato a Craxi dalla propaganda comunista prendendo a prestito i concetti di Carl Schmitt effettivamente ridimensionava il ruolo svolto dal PCI in seno alla «democrazia consociativa» degli anni Settanta. Aveva però per obiettivo anche quello di fare uscire il PCI da quella «strategia dell’obesità» denunciata da Luciano Cafagna (L. CAFAGNA, C’era una volta. Riflessioni sul comunismo italiano, Marsilio, 1991). 24 Governare il cambiamento, Atti della Conferenza programmatica del PSI (Rimini, 31 marzo-4 aprile 1982), ed. Avanti!, 1982. La riscossa culturale del PSI, del resto, aveva preso le mosse, nel 1975, dai saggi di Norberto Bobbio pubblicati su Mondoperaio e dal dibattito che ne era seguito (Il marxismo e lo Stato, Quaderni di Mondoperaio, 1976). 25 Craxi, come tutti i politici della sua generazione, era di cultura ‘sostantiva’ piuttosto che ‘procedurale’, per usare i termini di Michele Salvati (M. SALVATI, Introduzione a V. PEREZ-DIAZ, La Spagna dalla transizione democratica ad oggi, Il Mulino, 2003). 26 V. FOA, M. MAFAI, A. REICHLIN, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, 2002, p. 57. 27 Si vedano, a questo proposito, i volumi della collana Gli anni di Craxi, curata da Gennaro Acquaviva ed edita da Marsilio, che riportano gli atti dei numerosi convegni dedicati al tema a partire dal 1998. 28 Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2000. 29 G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 124. 30 Al termine della sessione in cui è stata tenuta questa lezione si è sviluppato un breve dibattito del quale è corretto dare conto anche per fornire risposte più approfondite di quelle inevitabilmente sintetiche che sono state possibili nella sede del seminario. Difficile peraltro, da parte mia, rispondere a chi ha affermato che Craxi è stato puramente e semplicemente «un delinquente». In questo caso la risposta spetta a chi ha scelto i relatori, fra i quali appunto uno come me, del quale sono note le opinioni. Comunque sul rifiuto da parte di Craxi di sottoporsi all’autorità giudiziaria può essere utile leggere il saggio di Mario Ricciardi sul diritto di difendersi dal processo del resto già esercitato da Giovanni Giolitti dopo lo scandalo della Banca Romana (in Mondoperaio del gennaio 2010). Sulla questione dell’aumento del debito pubblico, imputata genericamente al governo Craxi, la risposta è necessariamente più complessa. Il debito pubblico comincia a crescere coi primi governi di centro-sinistra, si impenna coi governi di unità nazionale, non viene ridotto dal governo Craxi nonostante il beneficio che il taglio della scala mobile produce sull’entità degli interessi, diventa più percepibile negli anni Ottanta anche grazie al ‘divorzio’ fra Tesoro e Banca d’Italia voluto dal Ministro Andreatta, diventa insostenibile 188 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 189 Le parole e le cose dei democratici dopo l’adesione allo SME e soprattutto la firma del trattato di Maastricht da parte di Guido Carli e Gianni De Michelis. Secondo quest’ultimo, Ministro del Lavoro del governo Craxi, a Craxi può essere imputato di non aver voluto procedere, nel 1984, alla riforma delle pensioni (G. DE MICHELIS, La lunga ombra di Yalta, Marsilio, 2003). Ma se si pensa al putiferio scatenato, anche in seno a Confindustria ed alla maggioranza di governo, dal decreto sulla scala mobile, la tesi è opinabile. Sul debito pubblico italiano, comunque, è utile consultare M. SALVATI, Occasioni mancate, il Mulino, 2000; La politica economica italiana negli anni Ottanta, a cura di G. ACQUAVIVA, Marsilio, 2005; I. MUSU, Il debito pubblico, il Mulino, 2006. Infine all’ultimo paragrafo della mia lezione è stato contestato un eccesso di storicismo, o addirittura di hegelismo. Se si voleva intendere realismo politico la contestazione è corretta. Ma, senza risalire a Machiavelli, è bene ricordare che l’attribuzione alla politica dell’etica della responsabilità (e non dell’etica dell’intenzione) è di Max Weber, che non era un hegeliano. 189 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 190 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 191 Paolo Fontanelli Deputato PD Vorrei innanzitutto fare una precisazione rispetto al titolo, molto ambizioso, di questo panel: penso che l’interesse primario per noi sia quello di capire in che modo l’esperienza storica e i personaggi che hanno caratterizzato di più quelle grandi forze politiche che erano il PCI, il PSI e la DC, sono oggi un possibile riferimento di riflessione rispetto al compito e al ruolo del Partito Democratico odierno. Lo dico in modo molto chiaro fin da subito: non credo che la cosa si risolva con un elenco di chi deve starci dentro e chi invece ne è escluso. Un Pantheon dei ‘padri’ e delle ‘madri’ democratici non avrebbe, a parer mio, alcun senso: se si procedesse in questo senso, avremmo una galleria di figure sezionate o monche, in cui di ciascuna si seleziona il lascito positivo e si sceglie di tagliare via quanto non risulterebbe elemento utile al nostro progetto. Credo, però, che sia giusto riflettere su quelle personalità della storia politica italiana che hanno contribuito quanto meno a costruire quel passaggio, tuttora uno dei più importanti e fondamentali per il Partito Democratico, per la costruzione della democrazia del nostro paese. Noi diciamo a piè sospinto che siamo – ovviamente non solo noi – il partito della Costituzione italiana, per ribadire con forza che nella nostra Carta costituzionale noi ve- 191 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 192 Le parole e le cose dei democratici diamo i riferimenti e i valori fondamentali dell’agire politico nel nostro paese. La Costituzione è stata fatta dalle forze politiche e dalle persone che allora si sono battute, hanno lavorato perché l’Italia prima combattesse il fascismo, poi scegliesse la repubblica e, infine, si dotasse di questa Carta. Già un’affermazione di questo tipo porta in campo tutta una serie di ipotesi di nomi: tra i costituenti troviamo De Gasperi come Togliatti: credo che senza l’apporto di entrambi non avremmo avuto la Costituzione che ancora oggi rispettiamo e amiamo. Troviamo Dossetti, Moro, Terracini, Nenni, Pertini; ci si trovano nomi che fanno capo a queste tradizioni e a queste storie politicoculturali. Includerei anche azionisti come Parri, uomini di straordinario valore come Vittorio Foa, o di rarissima lungimiranza come Altiero Spinelli, che ci ha aperto una strada importantissima battendosi, spesso da solo, per un’Europa unita, con uno sforzo grande per portare le forze politiche italiane di allora a ragionare sull’importanza che aveva la prospettiva europea per l’Italia. Questi sono sicuramente alcuni dei nomi che farei, per quanto sarebbe interessante, nei singoli casi, valutare quale parte del loro patrimonio di idee e battaglie mantiene ancora oggi una propria validità e su quali fronti ideali e pratici, invece, essi sono stati poi sconfitti. Credo però che più che un Pantheon sia opportuno immaginare un discorso politico dinamico rispetto a quelle che sono oggi la prova e la sfida del Partito Democratico. La prima domanda che naturalmente si pone riguarda la ragione che ha portato all’idea di un incontro di queste tre forze: quella derivante dalla storia del Partito Comunista Italiano, quella che viene dal cattolicesimo demo- 192 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 193 Le parole e le cose dei democratici cratico, che con la prima si è incontrata, e infine quella che viene dalla storia del Partito Socialista. Io credo che la prima ragione di questa prospettiva vada cercata ancora più lontano ed è per questo che a mio avviso è particolarmente importante oggi ragionare seriamente sull’incontro di queste tre grandi tendenze. Perché i valori su cui ci muoviamo e i grandi obiettivi che perseguiamo – la voglia di creare condizioni per un’emancipazione politica, sociale e civile del paese su una base di maggiore giustizia ed eguaglianza – provengono proprio da queste forze: tanto dal cattolicesimo democratico quanto, in modo diverso ed elaborato ma con gli stessi riferimenti essenziali, dal movimento socialista, già a partire dal XIX secolo, non soltanto dal XX. Se dovessi indicare le figure di riferimento del progetto politico del Partito Democratico, penso che non potrebbero rimanerne fuori né Sturzo né Gramsci. Credo, ad esempio, che Gramsci, che ancora oggi continua ad essere un autore molto seguito, letto e studiato dagli Stati Uniti ai paesi asiatici e non soltanto nella ‘vecchia’ Europa, abbia prodotto, con i suoi Quaderni, un’analisi della società e della realtà italiane che mantiene una vivacità straordinaria; in quelle pagine si sviluppano una riflessione e un senso critico che fatichiamo a trovare in altri pensatori. Come possiamo non ragionare sul contributo che viene da una figura di questo genere? Sarebbe difficile immaginare un Partito Democratico che ha l’ambizione di rappresentare quell’ansia di riscatto e di eguaglianza senza confrontarsi, riattualizzandolo, con questo pensiero. Come vedete, il quadro di riferimento che ho in mente per il nostro Partito Democratico ha sicuramente radici 193 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 194 Le parole e le cose dei democratici lontane, anche se sappiamo che la motivazione politica che ha portato alla nascita del PD si lega molto strettamente anche all’evoluzione della storia politica del nostro paese e alla crisi economica e istituzionale italiana dell’ultimo ventennio. Ieri Enrico Letta, nella plenaria di apertura a questo Seminario, ha ricordato che noi abbiamo voluto l’incontro di queste culture perché ci eravamo resi conto che quelle organizzate nei partiti precedenti erano insufficienti ad affrontare la fase di oggi; perché volevamo creare un’alternativa forte e credibile al centro-destra e desideravamo aprire una strada di rinnovamento del e per il paese. Questo è stato senza dubbio il ragionamento che ha portato a questa fusione tra forze politiche che provenivano anche da un’esperienza importante come quella dell’Ulivo. Era stata quella una vicenda che, tra tante difficoltà, aveva anche vinto in alcune elezioni, rappresentando in maniera faticosa, con molte difficoltà e contraddizioni, un passaggio di governo importante, prima per un’intera legislatura (anche se travagliata) dal ’96 al 2001 e poi con quella, ben più breve, dal 2006 al 2008. Già allora si era individuato nell’Ulivo un percorso per cercare di far coesistere e dialogare meglio queste nostre culture. Esattamente questa è la sfida di oggi. Bachelet ha espresso una posizione che io condivido fino a un certo punto ma che nelle sue parole rivelava uno spirito molto costruttivo e positivo: per lui la sfida che oggi si apre a questo nuovo partito è quella di guardare avanti e di non farsi tirare la giacca da quelle esperienze passate, dai tanti, tra noi, che provengono da storie e tradizioni precedenti al PD. Io sinceramente non credo che si possa 194 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 195 Le parole e le cose dei democratici dire che tutto quello che c’era prima non c’è più, che si possa fare finta che non sia mai accaduto. Ha affermato lo stesso pensiero di Bachelet, seppure con toni molto diversi, Mario Rodriguez questa mattina, quando ha fatto riferimento alla parte finale del libro di Reichlin per contestarlo. Reichlin fa l’esempio di Enea che prende sulle spalle il vecchio padre Anchise, si lascia dietro di sé la città, va in cerca di un luogo nuovo ma sa di portarsi dietro un pezzo della storia passata. Questa mattina Rodriguez ha sostenuto che fare questo, comportarci come Enea con Anchise, sarebbe sbagliato; che non dobbiamo portarci dietro nulla di ciò che c’era prima, che ora si è aperto un campo del tutto nuovo. Io ritengo discutibile, oltre che impossibile, sul piano della cultura politica, un ragionamento di questo genere, anche se dobbiamo saper vagliare, analizzare, superare, rielaborare le tradizioni e le storie che abbiamo alle spalle e dalle quali proveniamo. Ma come può un gruppo dirigente, o una sua parte, dimenticare, fare finta che non ha avuto un passato? La politica non è fatta solo di testi e di documenti: in quel caso sarebbe un’operazione facile da realizzare: si archivierebbe e si aprirebbe un’altra pagina. Ma la storia politica è fatta anche di esperienze concrete, di relazioni, di rapporti di vita vissuta, di formazione che matura ed evolve nel tempo e che fa parte della memoria individuale e collettiva degli individui e dei partiti. Io stesso cerco, nella mia esperienza, di innovare, capire, misurarmi. So bene, però, qual è stata la mia formazione politica negli anni e non posso cancellarla e metterla da parte. Devo avere la capacità di rifletterci sopra in modo critico per capire cosa non è più valido, ma so anche che 195 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 196 Le parole e le cose dei democratici quella formazione ha una sua origine precisa. È questo che mi ha fatto aderire al Partito Democratico e che mi fa sentire tutt’oggi parte di questa battaglia. Per questo credo che non sia un ragionamento produttivo oggi pretendere di astrarre del tutto da ciò che è stato e che ciascuno di noi ha vissuto. Sappiamo bene che la sfida del PD dovrà essere, ora e nei prossimi anni, quella di far crescere una generazione nuova, che nasce come una generazione che si iscrive, milita, cresce con il Partito Democratico – coloro che ne vengono chiamati i nativi – e che bisogna dare forza a questo progetto, con la speranza e l’impegno, perché maturi e faccia del PD quello che noi vogliamo. Il PD deve essere un grande punto di riferimento della società italiana e motore centrale di un’alleanza che governa il paese e riesce a dare risposte ai problemi che abbiamo dinanzi. L’incontro delle culture politiche di centro-sinistra nel PD avviene dunque per dare una risposta a inadeguatezze e insufficienze su un progetto politico che vuole porsi il problema di rispondere, o almeno tentare di rispondere, alla crisi italiana, alla crisi anche democratica dell’Italia, che oramai si trascina da più di un ventennio e che finora non ha trovato soluzioni. Si è passati dalla Prima alla Seconda Repubblica: abbiamo visto la fine dei vecchi partiti e un processo di ri-articolazione del panorama politico nazionale. Ma i mali che avevano caratterizzato la decadenza di quella fase del nostro paese restano tuttora in gran parte irrisolti. Nella risposta a quei mali risiede per l’appunto, oggi, la nostra sfida, che consiste nel costruire, nel fare davvero il Partito Democratico, così come l’abbiamo immaginato. Noi siamo ancora in fase di costruzione: non 196 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 197 Le parole e le cose dei democratici direi che è già tutto risolto, che il PD è riuscito fin da subito a mettere nel paese le radici per portare avanti con forza e decisione quei progetti. Esiste ancora qualche nodo da sciogliere che non è solo quello dei nomi, dei padri nobili. Si tratta, più che altro, di chiederci se è possibile immaginare oggi un Partito Democratico che propone agli italiani quello specifico progetto di esercitare una funzione nazionale in direzione del rinnovamento, esclusivamente sulla base di una visione programmatica. La sfida non è facile perché oggi sosteniamo il progetto di fare e dare sostanza a un partito nel momento in cui in Italia la credibilità della politica e dei partiti nella percezione dei cittadini è scesa al punto più basso che mai ci sia stato. Tutti i sondaggi che vengono fatti oggi, alla domanda su cosa sia la cosa peggiore attualmente presente in Italia, conoscono prevalentemente una sola risposta: la politica, i partiti. Ecco, nel fare nel 2007 il Partito Democratico noi ci siamo tuffati in un fiume in cui nuotiamo decisamente contro corrente: da qui anche molti dei grandi elementi di difficoltà che tuttora riscontriamo e che talvolta non sappiamo contrastare. Qualcuno di noi a volte fa il gioco facile di mettersi a nuotare nell’altra direzione, secondo corrente. Civati, ad esempio, stamattina ha fatto una battuta su cui ho riflettuto: «quando dico che abbiamo bisogno di un Parlamento con meno parlamentari e stipendi dimezzati, la gente applaude». Ma una proposta di questo tipo è coerente con l’idea di fare politica in un partito? In questo modo si dà un contributo al recupero di credibilità della politica? Io credo che, ferme restando le nostre proposte per superare il bicameralismo e dimezzare 197 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 198 Le parole e le cose dei democratici il numero dei parlamentari, certe semplificazioni bisognerebbe evitarle: non dobbiamo avanzare proposte che non ragionano, o che lo fanno in modo semplificato, sul disagio e sul malessere che esistono, come sulla politica, ma non possiamo mandare messaggi contraddittori. Noi abbiamo scelto di fare un partito perché faccia politica, perché sia organizzato, presente sul territorio, in grado di portare impegno, competenze e partecipazione. Ma per fare tutto questo non basta un programma né è sufficiente piegarsi a ragionare secondo la mera logica del leader. È un punto su cui voglio insistere. Nel 2008 noi abbiamo fatto una notevole campagna elettorale con un leader che da solo, per scelta, è stato in tutte le piazze d’Italia, con grande visibilità e con grandissime manifestazioni: era l’atto di debutto del Partito Democratico. Nonostante questa innovazione e questa grande risposta da parte dei cittadini, non abbiamo vinto; e nel PD c’è stato un riflusso, una situazione di eccessiva frammentazione e anche di marcata correntizzazione. Per buona parte la personalizzazione che è entrata nella politica italiana in modo maldestro e negativo ha intaccato anche noi. Una personalizzazione che dai rami alti arriva fino a quelli bassi, frammentando e spezzettando il tronco e togliendo credibilità a un intero progetto. Se io oggi vado, come mi è capitato spesso anche recentemente, nelle assemblee dei Circoli del PD e discuto con gli iscritti, le critiche che sento muovere più di frequente sono due: da una parte, ci viene chiesto di smettere di litigare, perché, se ogni volta che c’è un’uscita del Segretario, vengono immediatamente dichiarate alla stampa altre dieci posizioni diverse, è chiaro che non solo non si sa 198 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 199 Le parole e le cose dei democratici cosa si comunica ma, soprattutto, si dà un’immagine di forte divisione del gruppo dirigente. Dall’altra parte, ci viene rimproverata la mancanza di un leader, spesso sollecitata da osservatori esterni, quasi come se l’alternativa al centro-destra si limitasse soltanto al problema di avere un leader: certo, si tratta di un problema presente anche nel nostro partito ma che non possiamo permettere monopolizzi il nostro dibattito interno assumendo dimensioni e toni assolutamente fuori dal ragionevole. Io credo allora che oggi, per dare senso alla domanda su cosa tenere e cosa lasciare per costruire il Partito Democratico, più che a un ideale Pantheon e a una galleria di persone, dovremmo pensare a quali principi e valori mettiamo nel progetto di questo PD. Questi, infatti, devono essere il punto di riferimento fondamentale attraverso cui definire la nostra politica nel paese e le azioni concrete da intraprendere: è necessaria non un’identità ideologica, ma un insieme di valori fondamentali e condivisi alla base della nostra azione politica, perché il programma da solo non basta. Quali sono allora questi valori? Questa deve essere la domanda da cui partire. Sicuramente quelli costituzionali: il valore, da difendere con spirito critico e lucida consapevolezza, della Costituzione; il lavoro (come ricordava anche ieri Enrico Letta nella plenaria d’apertura); l’uguaglianza come istanza da portare avanti rispetto a una società che ha visto, anche in questi anni, divaricarsi la condizione di vita di ampi strati sociali e accrescere i livelli di diseguaglianza; la democrazia, il senso della partecipazione e della discussione ampie all’interno della cittadinanza. Questi sono principi e valori che devono esserci, ma sono anche contenuti e obiettivi 199 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 200 Le parole e le cose dei democratici che non nascono oggi. Certamente vanno rielaborati e aggiornati ma hanno radici che affondano in profondità: se togliamo loro radici, diventa anche difficile comprenderli, dare loro forza ed efficacia nelle battaglie che abbiamo davanti, soprattutto su un piano, come quello della cultura politica, su cui oggi siamo spesso molto fragili. Il tema del leader che io richiamavo è esemplificativo di come noi spesso siamo subalterni a impostazioni altrui che non ci appartengono, e di come non di rado subiamo fascinazioni che ci conducono a un’impostazione del lavoro e del ragionamento che non è quella più corretta, giusta ed efficace per dare corpo a un partito che noi vogliamo radicato sul territorio, fondato sulla partecipazione, che fa partecipare iscritti e elettori. Un partito così non può essere un partito ‘tagliato’ sulle persone intese come singoli leader. Lo dico molto chiaramente. Ieri giustamente il Sindaco di Pisa ha ricordato proprio il libro di Calise sul partito personale. Ecco: il nostro progetto e la nostra idea di partito sono di gran lunga diverse dalla ricerca estenuante del leaderismo di oggi, dalla convinzione che un partito si fonda, si costruisce e si regge solo sulla figura del leader e non su un progetto definito e robusto di principi, valori e obiettivi programmatici in grado di parlare alla società e di indicare la strada per risolvere i problemi. Io credo sia questo il punto. Finora, tra i nomi che ho rammentato, ne ho tralasciati due che, rispetto alla mia formazione, hanno lasciato un segno particolarmente profondo nella vicenda politica italiana: Berlinguer e Moro. Penso sarebbe difficile pensare oggi al Partito Democratico se cancellassimo il peso e il ri- 200 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 201 Le parole e le cose dei democratici cordo del ruolo che queste due figure hanno svolto, del contributo che hanno portato nella storia del paese e di ciò che hanno rappresentato per molti di noi. Non da ultimo, per la ricerca di una strada indirizzata a sbloccare il paese, a salvaguardare la democrazia italiana in un momento difficilissimo e drammatico come furono gli anni Settanta, in un mondo bipolare dalle caratteristiche che venivano richiamate anche da Bachelet e da Covatta. Quella fase fu drammaticamente interrotta dall’assassinio di Moro, che ha segnato una battuta d’arresto e un arretramento rispetto alla situazione che si era determinata in quegli anni. Io credo che del lavoro e delle idee di Berlinguer vada sicuramente ricordato il suo rapporto, nell’arco della sua intera storia umana e politica, con il cattolicesimo democratico, su cui lavorò in modo costante, e che ebbe un passaggio di grande rilevanza con la proposta del ‘compromesso storico’. I progetti principali di Berlinguer furono poi, in quella fase, sconfitti politicamente; ma ritengo si debba riconoscere che, nonostante i suoi limiti e le sue sconfitte, e nonostante l’irrisolta questione del legame con l’Unione Sovietica, senza voler creare miti o sacralizzare una parte della nostra storia comune, quella fu un’esperienza storica e politica caratterizzata da profonde e importanti intuizioni, alcune delle quali ancora oggi mantengono, a mio avviso, una certa vitalità. Ho letto con grande interesse il libretto postumo di Edmondo Berselli L’economia giusta, che consiglio perché è una lettura suggestiva. Il sottotitolo recita: «Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società. Una via cristiana per uscire dalla grande crisi». In 201 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 202 Le parole e le cose dei democratici quelle pagine si parla della crisi, della situazione in cui siamo, e si conclude con la tesi che sarà necessario avere un tenore di vita diverso, più basso, a fronte dell’incapacità di mantenere il livello di sviluppo che abbiamo conosciuto in questi anni. I temi dello sviluppo economico sostenibile e del rispetto ambientale sono al centro delle riflessioni di Berselli, ma l’indicazione che ci viene da questo testo è anche quella di abituarci a costruire una cultura, se non della povertà, certo della minore ricchezza. Se andiamo a rileggere il discorso del ’77-’78 di Berlinguer sull’austerità – una linea che in quella fase politica uscì sconfitta, dato che la società andò poi da tutt’altra parte (come dimostrò in quegli anni la cosiddetta ‘Milano da bere’ con la sua esaltazione del consumismo) – noi ritroviamo tanti dei concetti che Berselli sviluppa in queste potenti pagine. Allora Berlinguer evocava, evidentemente sbagliando, il rischio di una crisi strutturale, che richiedeva di essere affrontata, a suo avviso, con una visione di largo respiro e con una politica dell’austerità; in realtà, come sappiamo, né l’Italia né l’Occidente, globalmente, conobbero una simile crisi. Ci fu, invece, una fase economica ancora di crescita, sostenuta però da un grande indebitamento pubblico. Politicamente perse l’idea dell’austerità e prevalse la convinzione che lo sviluppo potesse andare avanti senza alcun limite. Si potrebbe obiettare che anche Berlinguer arrivò tardi a stimolare il dibattito politico su questi temi; nel PCI ci fu, ad esempio, una discussione molto intensa quando Pasolini per primo pose tali questioni dalle colonne del Corriere della Sera. Pasolini vedeva più il problema del rischio e dei pericoli della degenerazione di una società consumistica 202 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 203 Le parole e le cose dei democratici come quella che si sviluppava, e pure anche a sinistra ci fu chi lo accusò troppo frettolosamente di sbagliarsi. Oggi quei veleni ritornano perché noi abbiamo sulle spalle un debito enorme, ci troviamo immersi in una situazione di crisi acuta e, di fatto, esposta al rischio di un declino competitivo – noi e l’Europa – nello scenario della globalizzazione. Il ragionamento di Berselli parte proprio da qui: la difficoltà è immaginare che noi si possa continuare a vivere con gli stessi livelli di reddito e di consumo che abbiamo avuto nella realtà ‘occidentale’ del globo fino ad oggi. Su tali questioni io credo che sia fondamentale recuperare una capacità seria di riflessione e di azione politica, riprendendo e innovando il discorso sulla qualità dello sviluppo che negli anni Ottanta non trovò lo spazio che era necessario. Ed è su questo che, se devo dare un giudizio, Craxi sbagliò. Egli anzi pensò che il modello economico e sociale in essere fosse il migliore possibile. Semmai Craxi aveva forse ragione nel sottolineare l’urgenza di una grande riforma istituzionale che mettesse la democrazia e le sue istituzioni in condizione di essere più efficienti e più rapide nelle decisioni. Noi, oggi, siamo ancora a parlare di questo, delle riforme istituzionali. Non siamo riusciti ad affrontare quei temi, o solo marginalmente lo abbiamo fatto. Su questo terreno io credo sinceramente che ci fu allora un ritardo da parte del PCI, e forse anche delle altre forze politiche, nel cogliere l’elemento innovativo che lì si poteva avere. Il punto fondamentale resta che il Partito Democratico, anche nel rileggere e rilanciare con serietà e spirito costruttivamente critico quei dibattiti, non può operare una cesura tout-court rispetto a quelle storie e a quelle culture 203 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 204 Le parole e le cose dei democratici politiche. Non credo che sia una strada praticabile. Credo, piuttosto, che si debba recuperare un ragionamento sui valori di fondo, sugli obiettivi, sulle intuizioni programmatiche dei possibili cambiamenti che avevano animato anche le esperienze precedenti e che oggi, con la necessaria rielaborazione, possono essere un punto importante della battaglia che dobbiamo fare per portare avanti quello che, senza retorica ma con grande realismo, noi chiamiamo ‘il progetto per l’Italia’. L’unico modo vero per portarlo avanti consiste nell’avere una visione della politica che sia ancorata ai principi e ai valori. Io mi trovai molto d’accordo con Vittorio Foa quando scrisse che i valori politici non li si può inseguire ma che è necessario viverli. C’è quindi un richiamo a recuperarli per farli diventare elemento concreto dell’agire di una forza politica capace di rappresentare gli interessi generali, di pensare e costruire una visione in cui si pensi a se stessi insieme agli altri. Questo progetto è esattamente il contrario di ciò che è oggi la cultura predominante, quella su cui si appoggia il centro-destra: gli egoismi, i particolarismi, i localismi. I valori e i principi ai quali invece si ancora il nostro ‘progetto per l’Italia’, io credo che abbiano radici lontane, e che da lì noi si debba avviare il nostro lavoro per radicare ancora di più e rafforzare la progettualità del Partito Democratico oggi. 204 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 205 PANEL IV Fenomenologia dei vizi e delle virtù della sinistra: patologie antiche e moderne, virtù volontarie e involontarie 205 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 206 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 207 Alfonso Maurizio Iacono Professore di Storia della filosofia, Università di Pisa Cosa resta di sinistra nella sinistra Cosa resta di sinistra nei partiti della sinistra? A vedere le cose astraendo dalla quotidianità di uno scontro politico che spesso, dietro l’emergenza, nasconde limiti e rimozioni, direi purtroppo niente o quasi niente. A me sembra che si sia persa l’abitudine a una riflessione critica e collettiva, spregiudicata e di lungo periodo, e si sia dissolta la capacità, e forse la volontà, di visione generale della società e della storia. Dietro l’apparente realismo politico, che dovrebbe essere rassicurante e invece non lo è, si cela la paura di pensare e di agire. Temo che si sia affermato ovunque ciò che Leonardo Sciascia attribuiva allo scetticismo dei siciliani, il non credere alle idee. Da tempo la sinistra non ha più l’egemonia culturale e subisce fondamentalmente la visione del mondo di destra che oscilla tra un plebeismo plebiscitario e mediatico e un giustizialismo conservatore. Avendo quasi del tutto abbandonato la presenza territoriale, la sinistra italiana si è illusa e si illude di poter contrastare il regime da terzo millennio, espresso attualmente da Berlusconi, che stiamo subendo e che opera all’interno di regole democratiche, opponendovi una lotta mediatica del tutto perdente perché contraddittoria con l’essenza stessa della sinistra. Si è lasciato libero terreno o alla tentazione mediatica di so- 207 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 208 Le parole e le cose dei democratici stituire la politica con la giustizia, oppure, al Nord, a una forza come la Lega che, nell’epoca del dominio dei mass media, non ha perso affatto territorialità, avendola paradossalmente ereditata, rovesciandola, dalla tradizione di sinistra. Temo che per riaprire un discorso di sinistra occorra azzerare molte cose dell’attuale sinistra. Temo che non ci sia molto ormai da salvare. Temo che assumere la finzione di una continuità con il passato, con una tradizione, con una cultura sia soltanto, appunto, assumere una finzione che forse ci rassicura nell’immediato sulla nostra identità politica, ma che ci lascia nello sconforto e nella depressione dopo che ci si rende conto di essere caduti nel peggiore dei conformismi e nella più disastrosa assenza di fantasia e di ampia visione. Non si può né si deve delegare la propria partecipazione a quelle trasmissioni che oppongono al potere mediatico di Berlusconi un altro potere mediatico. Non si può e non si deve esaurire la propria conoscenza e cultura nella lettura dei giornali che allo svilimento della politica operato da quelli berlusconiani contrappongono una politica scandalistica, moralistica, padronale. È un segno di debolezza il dovere sperare in una giustizia che di fatto si sostituisce alla politica. È sconvolgente come si chiuda troppo facilmente un occhio, anzi tutt’e due gli occhi, sulle connivenze, i piccoli e grandi privilegi, le ipocrisie che hanno certamente favorito l’egemonia e il potere di Berlusconi. La voglia grande sarebbe quella di ritirarsi a vita privata, ma la politica, si sa, contiene una legge alla quale non si può sfuggire: se non vi partecipi tu direttamente, gli altri la faranno per te. Ma oggi è la politica, supervisibile e superpresente nei mass 208 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 209 Le parole e le cose dei democratici media, che tiene lontano, spinge nell’isolamento della vita privata, perché, a dispetto di un senso comune fin troppo stolidamente radicato, non è vero che la scarsa o mancata partecipazione sia considerata un male. È vero purtroppo il contrario. Più spettatori ci sono, i quali rimangono inchiodati davanti allo schermo, meno cittadini sono disposti a muoversi e a occupare le piazze, meglio è per una politica fatta da professionisti che possono così decidere senza vincoli; professionisti in gran parte più o meno incapaci, perché, a differenza di un tempo, spesso, troppo spesso, si avvicina alla politica come professione chi la pensa come una carriera, talvolta purtroppo perché incapace di fare altro. Sto esagerando? Non nego naturalmente che vi siano per fortuna donne e uomini che lo fanno perché ci credono, ma sono loro a caratterizzare e a determinare oggi la politica dei partiti di sinistra? Credo che dovremmo avere il coraggio di farci questa domanda. Vi sono due modi di concepire la politica: o come amministrazione del potere oppure come attività di partecipazione al potere. Nel primo caso la politica è dei pochi, coloro che i molti hanno delegato ad amministrare; nel secondo caso è dei molti, i quali delegano sì ai pochi, ma senza una delega in bianco, bensì con dei vincoli e a tempo determinato. In entrambi i casi, come detto, vige una legge non scritta che è senza eccezioni. Alla politica non si sfugge. O te ne interessi tu direttamente oppure sono gli altri che la fanno per te, anche se non sono stati delegati da nessuno a farlo. O sei tu a farla oppure sono gli altri che la fanno per te. Per questo il consenso non può essere il solo e dominante metro di misura di una democrazia. O meglio: non è il metro di misura che distingue 209 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 210 Le parole e le cose dei democratici la democrazia da un regime totalitario. Sono le modalità con cui si ottiene il consenso a creare la distinzione. E una modalità decisiva è costituita dal senso della partecipazione. Come ebbe a osservare Primo Levi: «A contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Egli fa un elenco delle forme di disponibilità: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche assai circoscritto, viltà, calcolo finalizzato a eludere gli ordini. In modo variegato e sfumato la vittima si identifica con il carnefice, il suddito con il re. L’oppressione stimola il potere mimetico che è in noi. La domanda è: tutto questo è scomparso in democrazia? Seguendo la lezione di Primo Levi che analizzava i Lager anche come momento di riflessione più generale sul potere e le sue forme, mi devo chiedere, ci dobbiamo chiedere: cosa in un sistema democratico può portare (sta portando) a una nuova forma di regime dove al gioco del consenso non corrisponde la partecipazione? Allora, è necessario indagare su ciò che ci ha portati a un regime che, pur mantenendo le forme e le pratiche della democrazia, è diventato appunto un regime. Il potere sui mass media. D’accordo. Ma vi è anche, a mio parere, dell’altro. Per esempio, la condizione del precariato, quando diventa una condizione esistenziale permanente, finisce con lo svuotare la persona fino a renderla psicologicamente disponibile ai voleri del padrone. Qualche anno fa fu esaltata la precarietà, chiamata però, 210 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 211 Le parole e le cose dei democratici soprattutto a sinistra, con un nome ipocrita e allettante, flessibilità. La critica al posto fisso ha fatto perdere di vista la necessità e il diritto di tutti a un posto sicuro, a partire dal quale sarebbe bello pensare alla flessibilità, la quale ha senso se è scelta da chi lavora, laddove la precarietà è invece imposta da chi comanda. Di certo non auguro a nessuno di essere tutta la vita un precario. La precarietà non rende flessibili; al contrario irrigidisce il corpo e la mente e fa diventare gli uomini più disponibili al consenso senza partecipazione. Un tempo la sinistra aveva la capacità di unire riflessione, ricerca e azione collettiva. Oggi non è più così. La sinistra, negli ultimi anni, è stata connivente sia con l’idea di politica come amministrazione, sia con l’angoscia mediatica del consenso, sia con la condizione sociale della precarietà. Nella patetica ansia di non sembrare passatista e arretrata, si è data una pallida visione della società, osservata con occhi da miope, senza uno sguardo lontano. L’impallidimento degli ideali e l’offuscarsi di una visione egualitaria ha spinto fin quasi a idolatrare i manager e gli imprenditori, e ad accettare o subire del tatcherismo l’idea che una divaricazione economica e culturale fra dirigenti e diretti avrebbe aiutato l’organizzazione sociale; purtroppo, invece, ha favorito soltanto la sperequazione e la corruzione. A proposito di imprenditori, lo scorso anno è stata ricordata dal Comune di Pisa e dall’Università la figura di Adriano Olivetti, di cui Luciano Gallino recentemente ha sottolineato quel senso di responsabilità sociale che ormai gli imprenditori hanno deliberatamente perso. Gli utili, che la Olivetti sapeva ben realizzare, erano ripartiti fra i 211 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 212 Le parole e le cose dei democratici dipendenti e nel territorio. L’organizzazione del lavoro fece epoca. Adriano seguì sempre il suggerimento del padre Camillo: «Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia». Strana e meravigliosa affermazione da parte di un imprenditore che sembrava avere letto le considerazioni di Marx sugli effetti devastanti per gli operai e le loro famiglie delle rivoluzioni tecnologiche del capitalismo. Ma non c’era bisogno di essere marxisti. Bastava avere quel senso etico-sociale, laico o religioso che sia, oggi dissolto. Stride la contrapposizione fra questo modo di pensare la produzione e le teorie attualmente dominanti, le quali affermano che lo scopo dell’impresa è unicamente quella di fare buoni affari. Oggi tutti o quasi, chi per cinismo, chi per ignavia, accettano la fine della responsabilità sociale. Si obietta che il mondo è cambiato, che siamo nell’epoca della globalizzazione. Una buona scusa per tutti i filistei. La parola sociale un tempo, ora non più, qualificava il termine responsabilità. Una parola che nessuno vorrebbe più fra i piedi, visto che viviamo in un mondo dove le relazioni sociali sono tornate ad essere sempre più e quasi esclusivamente dei mezzi per i fini privati degli individui. Sì, il mondo è cambiato, ma, da questo punto di vista, in peggio. Non dovremmo riprendere, a sinistra, il discorso sulla responsabilità sociale delle imprese? Recentemente è stato pubblicato un libro di due sociologi britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett, il cui titolo italiano è a dir poco improprio, La misura dell’anima (Feltrinelli 2009). In realtà il titolo originale fa riferimento alla 212 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 213 Le parole e le cose dei democratici livelletta, quella dei muratori e di Totò, ed è un’interessante analisi delle società occidentali che dimostra come nei paesi ricchi ma caratterizzati da un maggiore livello delle diseguaglianze aumentano i malesseri sociali, crescono la violenza, il disagio psichico, lo sfruttamento del lavoro, le malattie, le dipendenze. Essi sfatano il pregiudizio diffuso e più o meno condiviso secondo cui la crescita economica rende automaticamente una nazione più sana e più soddisfatta di sé. «Nelle società moderne» – essi scrivono – «si osserva uno straordinario paradosso: pur avendo raggiunto l’apice del progresso tecnico e materiale dell’umanità, siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all’abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti. Com’è possibile che abbiamo creato tanta sofferenza mentale ed emotiva, nonostante livelli di ricchezza e di agio che non hanno precedenti nella storia umana?». Wilkinson e Pickett sostengono, dati comparativi alla mano, che questa situazione paradossale è causata dal divaricarsi delle diseguaglianze che, tra l’altro, ha spinto gli individui a ridurre i risparmi, ad aumentare gli scoperti bancari e i saldi delle carte di credito, nonché ad avviare un secondo mutuo per finanziare i consumi. Gli autori in sostanza anticipavano (il libro è del 2009) le conclusioni a cui è giunto Obama nel valutare l’attuale crisi econo- 213 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 214 Le parole e le cose dei democratici mica. «Sappiamo anche, scrivono gli autori, che la crescita economica non è il metro con cui si misura tutto il resto… Non dobbiamo neppure lasciarci convincere che i ricchi sono la rara e preziosa espressione di una razza superiore di individui più intelligenti, dai quali dipende la vita di tutti noi. Questa è una semplice illusione creata dalla ricchezza. Piuttosto che assumere un atteggiamento di gratitudine verso i ricchi, dobbiamo riconoscere gli effetti dannosi che essi hanno sul tessuto sociale». Forse, perché vi sia qualcosa di sinistra nella sinistra, dovremmo ripartire da qui, dal problema dell’eguaglianza, che, ben lungi dall’essere un uguagliamento plebeo da sudditi verso un capo, deve caratterizzarsi come un’aspirazione legittima di cittadini, nella consapevolezza che non vi può mai essere libertà piena per tutti nello stato di diseguaglianza. 214 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 215 Michele Ciliberto Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea, Scuola Normale Superiore di Pisa Assumo che siamo in una Scuola: farò quindi delle osservazioni come se fossimo in un seminario per costruire una discussione. Credo che il punto dal quale bisogna partire è quello che richiamava Iacono quando alludeva ad una crisi generale della democrazia, quando poneva la distinzione fra eguaglianza ed eguagliamento, assumendo appunto l’eguagliamento come obbedienza passiva ad una forma di dominio, e l’eguaglianza, invece, come elemento positivo di emancipazione e di libertà. Nel mio ultimo libro pubblicato da Laterza, La democrazia dispotica, ho cercato di dire che anche il problema dell’Italia è la crisi della democrazia in generale. Credo che questo sia il primo punto sul quale noi dobbiamo ragionare: le patologie in generale della democrazia, e il fatto che, all’interno della democrazia, possono fermentare e determinarsi anche inclinazioni dispotiche. All’interno della democrazia, cioè, ci possono essere elementi propriamente dispotici: il che significa, come avviene appunto in Italia, rottura dei rapporti fra esecutivo e legislativo, dominio dell’arbitrio del potere, rottura con i corpi intermedi, e via discorrendo. È dalla stessa democrazia che possono emergere elementi di carattere dispotico. Questo è il primo punto che dobbiamo aver presente. È sbagliato pensare che Berlu- 215 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 216 Le parole e le cose dei democratici sconi sia, come tante volte si dice, la ripresa del fascismo o una forma di autoritarismo di tipo tradizionale: Berlusconi sta tutto all’interno di una lunga crisi delle democrazie dei moderni, su cui già Tocqueville nell’Ottocento scrisse una serie di osservazioni molto importanti. All’interno dell’eguaglianza su cui insisteva prima Iacono possono emergere dei processi di rottura dei vincoli tra individui, processi di isolamento e di separazione degli individui fra di loro sui quali si costituisce e si impone un potere dispotico. La questione fondamentale alla quale arriverò alla fine del ragionamento è quella, appunto, dei vincoli necessari a rimettere in moto un processo democratico. Questo è un problema che riguarda anche la sinistra in modo particolarmente intenso e che è legato, nella fattispecie, alla crisi delle forme e delle politiche di massa del Novecento. Credo che questo debba essere un secondo punto sul quale dobbiamo provare a ragionare. Se noi pensiamo alle forme della democrazia o alle forme della politica nel Novecento, vediamo che si tratta sempre di politiche di massa e di democrazie di massa. La dimensione di massa era costitutiva di queste forme politiche e di queste forme democratiche. Anche il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana erano partiti che si muovevano all’interno di una dimensione di democrazia di massa. Quando si rompe questa dimensione di massa, si produce una rottura delle identità collettive quali si davano nel Partito Comunista o nella Democrazia Cristiana, nei grandi sindacati, nelle organizzazioni del dopolavoro: vengono meno le organizzazioni politiche e sociali di massa e avanzano, soprattutto a partire dagli anni Set- 216 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 217 Le parole e le cose dei democratici tanta, forme di individualismo e di cultura radicale – termine che, in questo caso, utilizzo in senso positivo – anche per la pesante responsabilità del Partito Comunista di non esservisi confrontato, allora, in modo intenso. Queste culture di carattere radicale ponevano in modo nuovo la questione dell’individuo, dell’individualità, dell’individualismo. Si determina, di conseguenza, una crisi generale della democrazia, non solo in Italia e non solo in Europa. Forme di un potere dispotico quale abbiamo noi oggi in Italia, basato sul consenso – questo è il punto di fondo che non va mai dimenticato –, patologie democratiche anche a sinistra, che nascono dalla crisi delle forme di politica di massa proprie del Novecento: il PD vuole nascere da qui, come un superamento delle forme dei partiti e delle politiche di massa. Questa è la sua sfida: come costruire un partito nell’epoca in cui non c’è più la politica di massa, in cui la politica ha cambiato forma e non è più nella forma della massa. Noi siamo nella fase della post-politica di massa: questo è il problema del PD. Il PD – vengo a quella che io considero una patologia di questo partito – si è trovato in una situazione di difficoltà perché sono andate in crisi le sezioni e le vecchie forme della politica di massa. Il PD ha avvertito il problema di tenere stretto un rapporto fra governanti e governati, come direbbe Gramsci, tra eletti ed elettori, fra vertici e base; ha avvertito, cioè, un problema di democrazia e a questo ha dato una risposta con le primarie. Io credo che su questo tema noi ci si debba interrogare molto, perché è un problema estremamente delicato. Intanto dovremmo chiederci: primarie di coalizione o primarie di partito? Sono, infatti, due cose abissal- 217 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 218 Le parole e le cose dei democratici mente diverse. Io ho ritenuto – questa è, però, una considerazione di carattere personale –, almeno in una prima fase, che le primarie fossero uno strumento assolutamente positivo e innovativo nella vita politica del Partito Democratico proprio perché si ponevano il problema di ricostituire forme di democrazia nel periodo della post-politica di massa, quando non erano più attive o possibili forme di politica di massa. Ho ritenuto che questo fosse un punto di notevole interesse e innovazione. Sottolineerei però qui con voi che le primarie sono poi progressivamente diventate, a mio giudizio, un dato della patologia della democrazia a sinistra. Perché, appunto, non si è distinto tra primarie di coalizione e primarie di partito. Perché le primarie suppongono un partito fortemente organizzato. Perché, nell’esperienza che abbiamo fatto delle primarie, abbiamo visto come siano diventate anche terreno di lotta fra dirigenti nazionali e boss locali, oltre che lo strumento attraverso cui personalità politiche estranee al PD sono entrate nella dialettica politica del PD e vi si sono imposte. Le primarie meritano una riflessione profonda: io non credo che debbano essere eliminate, ma certamente devono essere ripensate e riorganizzate, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista teorico. Dato che siamo nella sede di un Seminario allargato, vorrei appunto porre anche il problema teorico: le primarie nascono da una corrente che è propria della sinistra ed è propria della cultura marxista; nascono, cioè, da una corrente che ha fortemente valorizzato la democrazia diretta. Le primarie sono una forma di democrazia diretta, sono il modo in cui i militanti vengono portati a decidere direttamente, come è giusto che sia, sui capi del 218 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 219 Le parole e le cose dei democratici partito e sulla rappresentanza: sono, cioè, un pezzo della lunga storia della democrazia diretta che è propria dei partiti di sinistra, specialmente di quelli comunisti, ma non solo. Qual è il problema che si pone, a mio giudizio, quando si parla delle primarie? Il problema, anche di ordine teorico, è quale tipo di rapporto stabiliamo fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa nel caso specifico delle primarie. Io voglio esprimere la mia posizione con estrema nettezza: sono persuaso che la democrazia diretta, abbandonata a se stessa, produca esiti dispotici. Lo sosteneva già Kant prima di me. Il problema è come stringere insieme l’esigenza della democrazia diretta con le modalità proprie di una democrazia rappresentativa che deve essere il punto di riferimento e di compimento delle forme di democrazia dirette. Su questo io credo che dobbiamo fare una riflessione; altrimenti ci troviamo di fronte a quella deriva plebiscitaria e leaderistica che attualmente corre all’interno delle primarie del PD e che ne fa, come dicevo prima, una forma patologica della democrazia piuttosto che un suo elemento di sviluppo. Io sono meridionale, sono napoletano: basta che pensi alle primarie di Napoli perché mi sorgano molti interrogativi sulla potenza democratica delle primarie. Credo che noi dobbiamo pervenire a quello che è il tema proprio della nostra conversazione e riflettere anche sulle modalità proprie della crisi generale della società italiana. Come non possiamo parlare solo del PD, ma lo dobbiamo inserire nel contesto generale della politica, così dobbiamo ragionare della nostra crisi nell’ambito della crisi generale della società italiana. Io credo che su questo dobbiamo ca- 219 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 220 Le parole e le cose dei democratici pire a fondo quali sono le modalità di una forma di dominio che è basata sul programmatico rovesciamento di apparenza e realtà. Noi ci troviamo in una situazione nella quale le forme di sfruttamento sono diventate ancora più dure e perverse e in cui, come diceva Iacono, il problema dell’eguaglianza emerge sempre di più come il problema fondamentale. Eguaglianza dei nativi, eguaglianza degli immigrati, eguaglianza in senso generale: penso non ci sia mai stato un tempo della politica italiana e della storia repubblicana in cui le diseguaglianze fossero così profonde. Un altro elemento sul quale si è imposta una forma di propaganda, dalla quale dovremmo prendere le distanze, è quello del merito, ma non mi ci soffermo in questa sede. Riflettere a fondo sulle modalità in cui si costituisce il rovesciamento fra apparenza e realtà nella situazione italiana, individuando le forme in cui funziona il dominio di questa specifica patologia delle democrazia che è il berlusconismo: questo deve essere il fuoco del nostro ragionamento. In altre parole, a mio giudizio, dobbiamo rimettere al centro del nostro lavoro quella che una volta si chiamava la ‘critica dell’ideologia’: credo che sia un passaggio decisivo per chi si muove all’interno di un partito come quello Democratico e abbia ambizione di andare prima o dopo al governo. ‘Critica dell’ideologia’ significa riprendere Marx, ma non genericamente. Quando penso a questi temi, io ho in mente soprattutto il Marx de La questione ebraica, cioè il Marx che individua la differenza tra il livello politico e il livello sociale, fra l’astrattezza dell’eguaglianza politica e la concretezza della diseguaglianza sociale; il Marx per il quale è vero che, da un punto di vista politico, gli individui sono uguali, ma che 220 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 221 Le parole e le cose dei democratici evidenzia anche come, da un punto di vista reale, nella società civile ci sia profondità e radicalità di diseguaglianza. Riafferrare la critica di Marx ai diritti umani, ai diritti della Rivoluzione francese, mostrare come dietro al quadro dell’eguaglianza politica o giuridica fermentino e si siano rafforzate e potenziate forme di sfruttamento e di diseguaglianza: la critica dell’ideologia deve diventare oggi critica dei rapporti materiali di sfruttamento. Il Partito Democratico deve andare, io credo, in quella direzione. Badate, però: ci sono fasi, almeno io penso, nelle quali è fondamentale anzitutto la critica strutturale, e fasi nelle quali invece è fondamentale la critica dell’ideologia, la critica dell’universo dei valori, la critica della dimensione della cultura nell’accezione generale. Io credo che questo sia uno di quei momenti in cui il PD deve assumere come prioritarie, accanto alla critica dei rapporti materiali, la critica dell’ideologia e la messa in questione del rapporto rovesciato di apparenza e realtà. Prendiamo la questione del linguaggio: se voi andate a vedere il lessico politico di Berlusconi, vi accorgete che le parole sono gusci vuoti senza niente dentro. Il problema del PD, allora, dovrebbe essere quello di rinominare le parole, di ridare senso alle parole, perché le parole oggi non hanno più senso. Questo significa che oggi il problema del linguaggio è un problema propriamente politico, un decisivo problema politico: si tratta di ridare consistenza alle parole e di smascherare il lessico di Berlusconi, che agisce sempre, da un lato, come lessico della violenza, dall’altro come lessico rugiadoso dell’amore. Su tutto questo dobbiamo lavorare, ma credo anche che ci siano alcuni punti che noi dobbiamo mettere al centro 221 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 222 Le parole e le cose dei democratici del nostro lavoro come Partito Democratico. Ad esempio: quando ragioniamo di critica dei rapporti materiali, penso che noi dobbiamo, se vogliamo dare sostanza alla democrazia, rimettere al centro il grande tema del conflitto. Io non entro nel merito se a Torino si sia fatta la scelta giusta: non ragiono di questo. Dico però che, quando c’è conflitto, è sempre una battaglia per la libertà: il conflitto pone sempre una battaglia in nome della libertà. Quando noi assumiamo che il conflitto è negativo, ci stiamo ponendo su un terreno che è conservatore-reazionario: sono i conservatori a dire che il conflitto produce disaggregazione. Quando il conflitto è organizzato e governato, come sapeva Machiavelli, diviene condizione ed elemento di potenziamento della libertà. I metalmeccanici, al di là della loro battaglia specifica, come il movimento delle donne o degli studenti, ponendo elementi di conflitto, pongono elementi di libertà e di democrazia. Perché non c’è democrazia, cioè eguaglianza, senza libertà. Noi abbiamo fatto storicamente nelle nostre fila l’esperimento di che cosa sia un movimento che si concentra sull’eguaglianza tralasciando la libertà: quando non c’è libertà, l’eguaglianza diventa eguagliamento, diventa subordinazione passiva. È sul nesso tra libertà ed eguaglianza che dobbiamo mettere l’accento, ricordando che non c’è libertà senza conflitto. Se vogliamo tenere insieme libertà e democrazia, è fondamentale assumere il tema del conflitto. Perciò, a coloro i quali costituiscono un lessico e delle forme di comunicazione che assumono il conflitto come un dato negativo, dobbiamo saper dire che stanno facendo il loro lavoro di reazionari e di conservatori, ma che il nostro è un lavoro diverso. 222 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 223 Susanna Cenni Deputata PD Mi sono chiesta quale contributo potessi dare a questa sessione. Ma dalle donne ho imparato due cose preziose: la mia parzialità e il senso del limite, che mi conduce a partire da me e dalla mia personale esperienza. Provo quindi ad usare questo approccio. Giunta in Parlamento nel 2008, arrivata da una esperienza molto concreta – otto anni di governo regionale ad occuparmi di materie economiche, di sviluppo, di programmazione: di temi reali, con giornate a gestire tavoli con imprese – ho pensato che portare un simile bagaglio di attività nel mio nuovo impegno come deputata avrebbe potuto essere utile. La realtà è stata, ed è, ben diversa. Forse anche per questa ragione sono convinta di vivere una delle fasi più buie della storia del nostro Parlamento. Non mi riferisco solo al lunghissimo elenco dei voti di fiducia, dei decreti legge, dell’impossibilità di giungere in aula con iniziative di legge parlamentari, ma a un ventaglio molto più ampio di questioni: - lo stravolgimento in essere delle fondamenta della nostra democrazia parlamentare in modo più o meno diretto; - l’attacco sistematico del governo nei confronti degli al- 223 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 224 Le parole e le cose dei democratici tri poteri dello Stato; - il continuo richiamo all’investitura popolare del Premier; - le recenti ed inquietanti vicende di compravendita, o comunque di ‘salto della quaglia’, di singoli parlamentari; - la violazione di consuetudini, iter di costruzione delle decisioni (penso alla vicenda sul federalismo municipale). Per non parlare di uno stile politico assolutamente discutibile, che sembra invece essere diventato costume diffuso e praticato. Non sono suggestioni, ovviamente. Il recente Rapporto sullo stato della Legislazione, edito dalla Camera dei Deputati, ci consegna dati certi: solo il 18 per cento delle leggi approvate dal Parlamento è costituito da leggi di iniziativa parlamentare; il resto è relativo a conversioni, leggi di ratifica, ecc. Il dato è aggravato dalla pratica dei maxi emendamenti e dal costante ricorso alla fiducia. Eppure nel nostro disegno costituzionale il Parlamento è ancora oggi l’unico organo dello Stato eletto a suffragio universale, quindi lo strumento diretto della rappresentanza popolare su base territoriale. Non sta a me ragionare sui cambiamenti che in questi quindici/venti anni i referendum e le varie riforme delle leggi elettorali hanno apportato a quell’originale disegno: oggi il Parlamento assomiglia sempre di più ad un Consiglio Comunale. Purtroppo questa complessa situazione è accresciuta anche da una pessima considerazione da parte dell’opinione pubblica, abbondantemente indotta dal populi- 224 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 225 Le parole e le cose dei democratici smo cresciuto nel nostro paese: il Parlamento che non lavora, il Parlamento dei nominati, la Casta ecc. Sappiamo che esistono alcune ragioni, ma oramai siamo di fronte a un’ondata pericolosa che non distingue più merito e ragioni effettive, che semplifica e non analizza più nulla e che spesso rende invisibili anche importanti momenti di battaglia parlamentare. Noi, quindi, viviamo una difficilissima situazione di crisi del Parlamento e di crisi di legittimazione diffusa, che tendenzialmente non fa eccezione. Questo tema ci riguarda, riguarda il PD, riguarda la nostra capacità di fare opposizione dentro ad un sistema democratico, riguarda la percezione del nostro lavoro di opposizione non solo nell’opinione pubblica più generale, ma nel nostro stesso partito. Nadia Urbinati, in una intervista rilasciata a Liberazione qualche settimana fa, parla della rappresentanza politica nel nostro paese, della separazione tra i poteri dello Stato e della nostra Costituzione, e dice due cose che mi sono molto piaciute: «Le istituzioni servono ad un popolo che vuole proteggere se stesso e le sue libertà dagli errori che lui stesso può compiere». E ancora: […] la democrazia rappresentativa, che non è racchiudibile solo nell’espressione del voto popolare, vive solo se c’è un rapporto continuo con il mondo attivo della società, vale a dire le associazioni, i partiti, i singoli cittadini, attraverso petizioni, referendum, leggi di iniziativa popolare. Il fatto è che, con la crisi dei vecchi partiti ideologici, si avverte anche il declino di questo dialogo tra le istituzioni e i cittadini, con il rischio che chi anima le istituzioni si ritrovi a giocare un ruolo pressoché assoluto nel gioco democratico. Per evitare questo rischio si dovrebbe intervenire sia modificando le leggi che lavorando ad una ripresa delle forme associative di tipo politico. Urbinati indica strade nette, ma ovviamente non semplici 225 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 226 Le parole e le cose dei democratici né lineari. Ad esempio, qui si apre l’interrogativo, sul quale lo stesso Prof. Ciliberto ci invitava a riflettere, su come si fa politica oggi. Concetti molto chiari ed utili al nostro ragionamento, quelli di Urbinati: una politica debole non aiuta le istituzioni a funzionare e può favorire forme di personalizzazione ed uso improprio delle istituzioni. Personalizzazione, uso del potere, populismo, sfiducia indifferenziata, distanza. Scrive ancora Urbinati: I populismi sono l’equivalente per le democrazie rappresentative odierne di ciò che hanno rappresentato le tirannie per le democrazie antiche. Il populismo propone un azzeramento della rappresentanza perché indica un’autoaffermazione di rappresentatività di chi è leader che si proclama ‘espressione dell’intero popolo’. L’uso continuo dei sondaggi per calibrare di volta in volta l’attività dei politici serve proprio a far questo. Si parla dei sondaggi come dell’opinione dei cittadini, ma è cosa ben diversa. A questo proposito, mi piace ricordare un intervento del 1996 di Zagrebelsky: Abbiamo visto svilupparsi, negli ultimi tempi, una serie di pratiche politiche basate su tecniche apparentemente democratiche, forse sotto certi aspetti ‘troppo’ democratiche. Il sondaggio sembra uno strumento democratico, perché consente di percepire in tempo reale l’orientamento, i desideri, le aspirazioni dei cittadini. Il sondaggio dovrebbe dunque servire a mettere in contatto quotidiano gli uomini del potere con coloro che sono sottoposti al potere stesso. Il Presidente della Repubblica [allora, 1996, era Scalfaro] parlando di tali questioni ha invece definito la ‘sondocrazia’ uno strumento politico immorale, perché esonera la classe politica dal compito di elaborare progetti e di proporre programmi di cui si assume la responsabilità. In una ‘sondocrazia’ perfetta i governanti possono presentarsi come coloro che si limitano a seguire l’orientamento che proviene da coloro che hanno risposto al sondaggio. Questo è un modo per far sparire completamente una categoria fondamentale della democrazia rappresentativa, che è quella della responsabilità dell’uomo politico. Insomma la ‘sondocrazia’ potrebbe fondarsi sullo slogan: ‘Viva la gente, abbasso le istituzioni!’. 226 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 227 Le parole e le cose dei democratici Era il 1996, ma il contesto, a quindici anni di distanza, mi sembra ancora molto attuale. Noi ci troviamo, oggi, in un contesto segnato da una crisi delle istituzioni e da una profonda crisi economica (alla quale non si dà risposta), del sistema del welfare, del lavoro, dell’architettura dello Stato, nonché da un continuo richiamo alla investitura popolare quale alibi per ‘bypassare’ i passaggi parlamentari, per evitare il controllo costituzionale del Quirinale (troppo puntiglioso), della Corte (chiaramente orientata), per rigettare l’autonomia della magistratura (chiaramente comunista), un Parlamento che fa perdere tempo...al Premier, che si dice legittimato dal popolo. Siamo con chiarezza all’epilogo di una lunga fase politica caratterizzata non solo dalla persona Berlusconi, ma da un modello culturale, da un humus che è stato capace di coalizzare attorno ad un individuo e al suo sistema poteri, affari, clientele e milioni di italiani che hanno creduto in un sogno. A sinistra, nonostante questo epilogo, facciamo molta fatica a delineare e a comunicare una nuova idea di nazione, di sistema, di società, di paese. Non è pertanto scontata l’evoluzione di questo passaggio politico, non si conosce con chiarezza quale ne sarà lo sbocco. Del resto questi lunghi anni di governo del centrodestra e della Lega hanno modificato il paese e, forse, lo stesso terreno del confronto politico. Non mi riferisco solo alla caduta dei partiti ideologici, allo svuotamento istituzionale, alla crescita esponenziale della competizione personalizzata piuttosto che dei progetti alternativi, ma anche all’enorme crescita delle divergenze sociali, all’allargamento della forbice nell’accesso ai diritti e al red- 227 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 228 Le parole e le cose dei democratici dito e alla crescita delle rendite e delle speculazioni finanziarie. Lo dico perché la televisione è stata ed è tuttora uno strumento fondamentale per il consenso del Premier, ma un pezzo enorme dello spostamento elettorale è avvenuto per ragioni molto più concrete e più legate alla strada che il neoliberismo e la finanza hanno consentito di aprire. Poteri enormi sono oramai fuori del controllo dello Stato e del fisco. I dati Mediobanca ci dicono che la quota del lavoro sul valore aggiunto è passata dal 70 per cento al 53 per cento, quella dei dividendi dal 2 per cento all’8 per cento. Dentro la crisi si fanno ancora più acute le differenze tra lavoratori tradizionali con un minimo di ammortizzatori e di protezione nel sistema del welfare, e nuovi lavoratori, senza diritti e coperture. A questo si aggiunge lo scenario, estremamente preoccupante, che riguarda le giovani generazioni under-25: un terzo senza lavoro. Il centro-destra e la Lega hanno dato voce, amplificandole, a paure, incertezze, bisogni tuttora in essere dentro a un sistema traballante (garanzie dello Stato, vecchi diritti di cittadinanza, immigrazione, scontro fra culture). Noi facciamo fatica a mettere in campo un’idea di società che spieghi come si risolvono quelle paure nell’epoca che stiamo vivendo, e non riusciremo a farlo se non ricomponiamo, tutti assieme, una lettura che parta dalle condizioni materiali e sociali dei cittadini e che si leghi alla politica, dentro e fuori le istituzioni. Occorre, quindi, delineare con chiarezza programmi, contenuti, idee. Eppure, a proposito di vizi e virtù della sinistra, la capa- 228 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 229 Le parole e le cose dei democratici cità programmatica e l’esperienza dei governi ombra sono stati banco di prova concreta della sinistra e delle forze riformiste. Andando più indietro mi piace ricordare come le amministrazioni locali di sinistra siano state capaci di varare un sistema di welfare e una rete di servizi innovativi all’avanguardia ben prima che leggi-quadro nazionali prevedessero asili nido, scuole materne, consultori e, più avanti, la sperimentazione di nuovi tempi e spazi nelle città, le banche del tempo ecc. Era chiaro quale modello di società ‘altra’ si proponeva e si praticava. Era chiaro cosa una ‘comunità politica’ condivideva, elaborava e affidava a coloro che venivano eletti per governare. Si parlava di ‘modello emiliano’ e di ‘modello toscano’, indicando un’idea di organizzazione sociale, istituzionale, dei distretti produttivi. Oggi tutto ciò è molto aleatorio e diventa difficile un processo di riconoscimento profondo, come sottolineavano anche i relatori che mi hanno preceduta. Sui temi, ad esempio, dello sviluppo e della crescita: per noi si apre un versante enorme di proposta ed elaborazione politica che ci chiede di ragionare sui cambiamenti in atto nei consumi, sulla consapevolezza che non basterà qualche aggiustamento finalizzato alla cosiddetta ‘ripresa dei consumi’ e che, forse, occorrerà modificare profondamente qualche paradigma del nostro modello di sviluppo. Chi, se non noi, può provarci? Chi se non la sinistra può investire su questo cambiamento? Ho trovato molti spunti utili di riflessione nel libro di Gianni Cuperlo Basta Zercar. Gianni si interroga e ci interroga (noi che abbiamo creduto e scelto il progetto del PD) su quanto la nascita del PD abbia visto un lavoro di 229 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 230 Le parole e le cose dei democratici cura e di costruzione di un’identità comune e collettiva, e si domanda: […] che ruolo immaginiamo per l’Italia nei prossimi anni? Che modello di democrazia immaginiamo per l’Italia dei prossimi anni? Che modello di democrazia scegliamo di difendere o promuovere, a partire dal ‘nostro’ federalismo? Come pensiamo di affrontare il tema della crescita: quali terapie d’urto per creare nuova occupazione, per una più equa distribuzione dei redditi, per ridare dignità al lavoro? Che concezione abbiamo di sicurezza e legalità, della cittadinanza, del dialogo sulla pace e sui diritti umani? E come pensiamo di rapportarci a quelle domande di senso che ovunque investono le coscienze e responsabilizzano i parlamenti, a partire dalla difesa del principio della laicità nell’epoca dei fondamentalismi e di temi etici inediti? Insomma la vera domanda è come una politica ‘autonoma’ intende rinnovare quella trama di diritti e doveri, quella comune responsabilità che distingue una società libera e consapevole. Siamo all’anno zero? No, non credo. Oggi, dopo circa un anno di lavoro dell’Assemblea nazionale del PD e dei Forum, possediamo una ricca e qualificata elaborazione programmatica, un pacchetto di proposte di legge che ne discendono, iniziative diffuse. Non riusciamo, però, a trasformare tutto questo in terreno e patrimonio condiviso e consapevole della nostra comunità politica e del nostro elettorato, a farlo vivere, come diceva Urbinati, mantenendo attiva la relazione tra partiti, elettori e società civile. Perché? Me lo chiedo di continuo e temo che, nonostante i grandi sforzi del nostro Segretario e dei gruppi dirigenti, il PD faccia ancora molta fatica a trovare quel terreno innovativo di pratica politica e di comunicazione necessaria a rinnovare una relazione con gli italiani. Noi abbiamo un popolo democratico. C’è. Lo vediamo nelle mobilitazioni (11 dicembre) e lo abbiamo visto in queste settimane con la raccolta delle firme, ma c’è an- 230 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 231 Le parole e le cose dei democratici cora qualcosa che non fa sentire la stessa sintonia tra i segnali importanti e sani che vanno colti nelle piazze delle giovani generazioni (studenti, donne, precari), nella manifestazione del Palavobis di Milano, nel ‘popolo viola’, nell’impegno a difesa della Costituzione e della libertà di stampa, nella meravigliosa mobilitazione delle donne del 13 febbraio che non si è fermata. C’è un’analisi in quelle mobilitazioni che condividiamo, che spesso nasce spontaneamente, auto-organizzata. C’è una critica al governo, al modello di sviluppo, al Premier; c’è una consapevolezza dei rischi per la nostra democrazia, per il futuro di intere generazioni; c’è un sussulto, una ribellione di fronte all’annullamento della ricchezza che le donne rappresentano in questo paese, banalizzate, offese con la rappresentazione attraverso un modello culturale medievale. E credo ci sia un segnale importante anche nel dato che le primarie di Torino ci consegnano. Mi soffermo in particolare sulla mobilitazione delle donne. Non vorrei che considerassimo il 13 febbraio un evento, che pensassimo ‘nostre’ quelle piazze. Non lo sono, e se ci fosse stato il sospetto di un ‘cappello’ politico non sarebbe stato possibile avere duecentocinquanta piazze in tutta Italia. Eppure quei temi sono anche nostri e possiamo, con rispetto, farli tali. Non c’erano sondaggi in merito ai possibili risultati della mobilitazione, ma c’era un clima, una tensione grande. Personalmente ne ho anche scritto su Europa. C’era un processo straordinario di riconoscimento e identificazione di centinaia di migliaia di donne e ragazze italiane in quel ‘Se non ora quando?’, nelle parole d’ordine che parlavano di lavoro, di talenti, 231 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 232 Le parole e le cose dei democratici di futuro. Lo stesso è accaduto a Siena il 25 febbraio al convegno promosso dalla Fondazione ‘Nilde Jotti’, organizzato come confronto intergenerazionale tra donne: tantissime le ragazze venute a dibattere su modelli culturali, diritti, politica. In quella occasione erano tangibili l’entusiasmo, la voglia di continuare, il progetto di una scuola di politica per le giovani donne... Perché – si sono chieste alcune – la potenza delle donne non si fa potere? Eppure oggi siamo più formate, scolarizzate, capaci di fare qualsiasi cosa. Perché si diffida della politica tradizionale, dei partiti, del nostro partito? Noi (PD) abbiamo bisogno di quelle energie o moriremo delle nostre divisioni. Ieri sera ero in un Circolo della mia città. Età media dei presenti: sessant’anni. Volti stanchi, attenti, voglia di discutere, ma pessimismo cosmico. Mi è stato chiesto perché ci fossero assenze tra i nostri parlamentari. Come ha detto Camilleri: ‘Perché non facciamo qualcosa di clamoroso?’. Perché, come ci chiede Micromega, non blocchiamo l’attività parlamentare? Perché non abbiamo votato la mozione Borghesi che chiedeva la cancellazione della pensione ai parlamentari? Certo, abbiamo parlato anche di altro, ma l’interrogativo per me resta. Come è possibile – mi chiedo – che noi veicoliamo così un nostro modello di società? Come dare un messaggio diverso, raggiungere con i nostri contenuti i singoli, le intelligenze? La mia risposta è simile a quella che ho letto in Nadia Urbinati, così come in tante lucidissime riflessioni di Alfredo Reichlin, o ancora nelle parole che Sandra Bonsanti ha usato a Milano. Possiamo farlo solo con «un surplus di politica, con la società», «riempiendo le strade della de- 232 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 233 Le parole e le cose dei democratici mocrazia di parole e pensieri che comunque arricchiscano il cittadino che le abita. Andando nelle città e nei paesi a cercare contatti diversi da quelli che l’informazione televisiva offre». Oppure ‘rimboccandosi le maniche’, come il nostro Segretario ama dire. C’è molto da fare e noi non possiamo pensare di competere partecipando a qualche trasmissione televisiva. Dobbiamo portar la sfida su un altro terreno. La distanza tra i cittadini e le istituzioni, la sfiducia, il populismo ci dicono che c’è un paese da cambiare. I segnali di questi mesi ci dicono che c’è bisogno di più politica, di rappresentanza, di ascolto, di relazione. Io vedo qui lo scatto da compiere. Lo dico con la consapevolezza che c’è un contesto internazionale difficile, non favorevole alla sinistra, ma con un forte bisogno di sinistra, di riforme, di cambiamento: i sondaggi in Francia danno Le Pen sopra Sarkozy. La crisi è tutt’altro che superata. Il nostro paese vivrà ancora anni difficili soprattutto sul versante occupazionale. Noi siamo chiamati a ragionare non solo sull’insufficienza delle risposte del governo, sullo scarto tra noi, la Germania, gli USA, ma anche a dire che forse dobbiamo individuare nuovi paradigmi di sviluppo e di crescita. Che dobbiamo occuparci di una ‘ricostruzione’ dello Stato, di una rinnovata dignità e autorevolezza della rappresentanza, di riforme che vivano in Parlamento e nel paese. Siamo chiamati a costruire le condizioni per raccogliere le sfide che tanta società civile ci sta lanciando; siamo chiamati a scegliere e a rendere chiare le nostre scelte per consentire riconoscibilità in un progetto per il paese che non sia espressione di un solo ceto politico. 233 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 234 Le parole e le cose dei democratici Da Carofiglio ci vengono osservazioni importanti sui pericoli che derivano dalla manomissione delle parole, e di una in particolare: ‘scelta’. […] scegliere e dire implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui possiamo dare un nome. Dall’ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza indecifrabile alla possibile salvezza. Scelta significa progetto, promessa e tentativo di controllo sul futuro e sul caso. Come ha scritto Hannah Arendt: «Rimedio alla imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e di mantenere le promesse..cioè di progettare coraggiosamente il futuro». E mi viene da dire: ‘Se non ora, quando?’. 234 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 235 Roberto Cerreto Consigliere parlamentare L’idea intorno alla quale ruota il mio intervento è che – per restare al titolo della sessione – il parlamentarismo può essere letto come ‘virtù’, spesso involontaria, della sinistra e l’antiparlamentarismo, invece, come ‘vizio’ o ‘patologia’ ricorrente nella storia (anche) della sinistra. Dato che tutti, o quasi, hanno citato Marx, voglio ricordare che all’origine di questo atteggiamento ambivalente c’è, naturalmente, la critica marxiana della repubblica parlamentare come forma specifica della dominazione borghese (in particolare, K. Marx, Le 18 Brumaire de Louis Bonaparte, 1851). È, questo, un giudizio che ha pesato nel pensiero della sinistra comunista e socialista, anche se ha lasciato presto il posto a un approccio realistico che vedeva, quantomeno, nei Parlamenti uno strumento tattico per l’affermazione della classe operaia. Si sosteneva, in particolare, che i Parlamenti possono diventare uno degli strumenti più potenti per la lotta della classe operaia e che la socialdemocrazia aveva il compito di salvare il Parlamento dalla borghesia e contro la borghesia. Il punto di arrivo di un simile percorso può essere considerato Lenin, che aveva una concezione fondamentalmente strumentale della battaglia elettorale per la rappresentanza, almeno negli Stati liberali europei. Proprio nei Paesi europei, tuttavia, la socialdemocrazia, in 235 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 236 Le parole e le cose dei democratici particolare quella tedesca, incominciò ben presto a guardare ai Parlamenti in modo diverso, determinando anche una revisione teorica. Quando Friedrich Engels, nel 1895, scrive la sua prefazione a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di Marx, ha davanti a sé la socialdemocrazia tedesca, divenuta partito, e parla del parlamentarismo come strumento reale di transizione al socialismo. Non vi è più, quindi, soltanto una visione tattica: il parlamentarismo diventa strumento vero delle masse popolari. È interessante notare che in Italia, negli stessi anni, si sviluppa un forte antiparlamentarismo, ma si tratta di un antiparlamentarismo di destra. Per meglio dire: al di là degli anarchici e della sinistra radicale, che ovviamente criticano il Parlamento, vi è una critica liberale del parlamentarismo che utilizza l’argomento della corruzione dei parlamentari e delle clientele e che si fa forte dell’accusa alle monarchie parlamentari di essere sostanzialmente imbelli, incapaci, cioè, di dare al paese quella politica di potenza di cui avrebbe bisogno. Essa rovescia così, dal punto di vista assiologico, l’argomento kantiano per cui le democrazie sono meno propense alla guerra; al fondo di questa critica liberale c’è però, ben chiara, la paura per l’avanzata delle masse, per l’allargamento del suffragio. Si assiste a un fiorire straordinario di letteratura antiparlamentare in Italia alla fine dell’Ottocento, anche a livello di romanzi e racconti. Un compianto studioso dell’Università di Pisa, Carlo Alberto Madrignani, ha raccolto in un volume assai interessante ma ormai di difficile reperibilità, dal titolo Il rosso e il nero a Montecitorio, un’antologia del romanzo antiparlamentare italiano di fine Ottocento. Persino gli psichiatri si occupano e si 236 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 237 Le parole e le cose dei democratici preoccupano dei Parlamenti, di quello che accade nelle assemblee parlamentari: è abbastanza noto che gli ultimi due capitoli della Psychologie des foules di Gustave Le Bon (1895) sono dedicati alle assemblee parlamentari e ai processi elettorali; forse è meno noto, invece, che nello stesso 1895, in Italia, Scipio Sighele, autore quattro anni prima de La folla delinquente: studio di psicologia collettiva, pubblica per l’editore Treves di Milano un breve saggio dal titolo: Contro il parlamentarismo: saggio di psicologia collettiva. Questo, però, è un antiparlamentarismo che potremmo definire ‘di destra’. Quello che a noi interessa più da vicino in questa sede è la critica ‘da sinistra’, cioè una critica dei Parlamenti come luoghi non abbastanza democratici, in cui non si dà sufficientemente espressione alle istanze delle classi popolari, nonostante il progressivo allargamento del suffragio. Tra le due Guerre, in un periodo che fu un po’ lo spartiacque tra parlamentarismo e antiparlamentarismo in Europa, uno dei tanti motivi di frattura tra la socialdemocrazia tedesca, da una parte, e gli spartachisti e i comunisti, dall’altra, fu proprio la diversa valutazione della repubblica parlamentare (e di quella semipresidenziale), nel contesto di un’aspra e, col senno di poi, esiziale polemica contro le degenerazioni del parlamentarismo. Tornando, ancora una volta, in Italia, è obbligatorio un breve riferimento ad Antonio Gramsci e, in particolare, ad almeno due aspetti che emergono con forza nei Quaderni del carcere. Il primo è la richiesta dell’elezione di una Costituente per uscire dal fascismo: una proposta che – occorre ricordarlo, ricorrendo quest’anno il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia – è anche il frutto 237 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 238 Le parole e le cose dei democratici della memoria della mancata Costituente risorgimentale, che avrebbe consentito di radicare il Risorgimento nel popolo, nelle masse. È l’idea di un’assemblea, che potremmo ben dire ‘parlamentare’, che dia espressione alle masse popolari nella costruzione dello Stato nuovo dopo la fine del fascismo. L’altro aspetto interessante è che Gramsci recepisce una parte delle critiche all’inefficienza e alla corruzione del parlamentarismo italiano: c’è un passo molto bello, che per ragioni di tempo non cito estesamente, sulla ‘forza’, intesa come violenza, sul ‘consenso’ e sulla ‘corruzione-frode’ come via intermedia tra la prima e il secondo, corruzione che, nei momenti di emergenza, in «certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica», diventa nei Parlamenti scoperta e dichiarata (si veda il Quaderno 13, 1932-1934, vol. III, p. 1638 dell’edizione del 1977). C’è anche, però, un capovolgimento delle critiche liberali, perché vi è l’idea che il male del parlamentarismo italiano risieda nella costante paralisi del Parlamento ad opera del Senato, di nomina regia, e che il vulnus strutturale del Parlamento italiano sia l’assenza di partiti di massa. La visione di Gramsci, insomma, è che, senza la nascita dei grandi partiti di massa, non si possa affermare quel «nuovo tipo di regime rappresentativo» di cui l’Italia avrebbe bisogno (Quaderno 14, 1932-1935, vol. III, p. 1708). Questo ragionamento ci conduce abbastanza direttamente al ruolo che ebbe il Partito Comunista nella costruzione della Repubblica italiana come repubblica parlamentare. Qui mi concederete una piccola citazione: l’11 marzo del 1947 il PCI è, ancora per poco, al governo insieme alla Democrazia Cristiana e al Partito Socialista. Togliatti 238 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 239 Le parole e le cose dei democratici prende la parola all’Assemblea Costituente ed esalta il ruolo del Parlamento, per il fatto di essere, questo, l’espressione più diretta della sovranità popolare. Vi è, in questo celebre discorso di Togliatti, un’insofferenza dichiarata verso tutti quegli istituti di garanzia che potrebbero bilanciare il peso del Parlamento. La questione va, ovviamente, storicizzata: il PCI sente di aver dietro di sé le masse popolari, vede aperta una prospettiva di grande affermazione. E, al tempo stesso, ha ben viva la memoria della repressione fascista e del ruolo che vi ebbe la magistratura. Tutte queste norme sono state ispirate dal timore. Si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: […] e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. […] La mia opinione è che nell’ordinamento della Magistratura avremmo dovuto affermare in modo molto più energico la tendenza alla elettività dei magistrati, il che ci avrebbe fatto fare un grande passo avanti per togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui oggi si trova, di essere un sovrano senza corona e senza autorità. Soltanto quando sarà stabilito un contatto diretto tra il popolo, depositario della sovranità, e il magistrato, questi potrà sentirsi partecipe di un potere effettivo, e quindi godere della fiducia completa del popolo nella società democratica. Vi è poi, e per ragioni analoghe, la diffidenza nei confronti delle Regioni e del decentramento. È da notare che questo giudizio sulle Regioni si rovescerà rapidamente all’indomani di due passaggi politici piuttosto significativi, cioè l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo 239 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 240 Le parole e le cose dei democratici nel maggio del ’47, nel clima della incipiente Guerra fredda, e la pesantissima sconfitta elettorale dell’aprile del ’48, con il Fronte Democratico Popolare al 31 per cento circa e con la Democrazia Cristiana al 48,5 per cento. Sulle Regioni si opera, così, un rapido rovesciamento di fronti: saranno, cioè, le forze di governo a lasciare inattuato, per vent’anni, il regionalismo, nonostante le pressanti richieste del PCI. Sul sistema delle garanzie e dei contropoteri, invece, la ‘maturazione’ del PCI sarà più lenta: il mito della sovranità che si esprime nel Parlamento, possibilmente in modo poco controllato, sopravvive più a lungo e occorrerà tutta la prima legislatura repubblicana, la battaglia contro la cosiddetta ‘legge truffa’ nel ’53, ecc., per indurre il PCI a riconsiderare la questione. Comunque, tutto si può dire, ma non che il PCI non avesse posto al centro della sua riflessione il ruolo del Parlamento. Non si trovò, perciò, impreparato quando, nel ’56, Krusciov legittimò la via parlamentare al socialismo, aprendo la strada al programma di Bad Godesberg in Germania (1959), con cui si abbandona definitivamente il marxismo e si accetta l’economia di mercato, ma anche alla stessa idea togliattiana della democrazia progressiva. Anche in tempi molto più recenti si è sviluppata una critica della rappresentanza che, pur con molta cautela, definirei ‘da sinistra’: mi riferisco al dibattito sulla democrazia partecipativa o deliberativa, che, in fondo, muove dalle insufficienze della rappresentanza e, quindi, dei Parlamenti. Rinvio, a questo proposito, a un saggio del Prof. Raffale Bifulco (La teoria della democrazia deliberativa e la realtà della democrazia rappresentativa), conte- 240 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 241 Le parole e le cose dei democratici nuto nel volume edito nel 2010 da Italianieuropei La democrazia italiana: forme, limiti, garanzie, dove si propone, appunto, un bilancio del dibattito sulla democrazia partecipativa: Bifulco sostiene, in modo a mio avviso convincente, che il modo migliore di interpretarla consiste nel vederla come uno strumento volto a rivitalizzare la democrazia rappresentativa, non come un’alternativa ad essa. Il periodo della centralità parlamentare è comunemente considerato quello degli anni Settanta, dalla riforma dei regolamenti del ’71 fino, convenzionalmente, all’omicidio Moro nel ’78: il PCI, che non partecipa al governo del paese, trova però nel Parlamento un luogo di co-legislazione, di coinvolgimento diretto nella politica nazionale, e, perciò, è portato naturalmente a esaltare il ruolo del Parlamento. Se tutto questo, e molto altro che purtroppo non ho adesso il tempo di richiamare, fa parte della storia politica e culturale della sinistra, va notato che, dalla fine degli anni Settanta e, ancor di più, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, sembra crearsi un’egemonia della critica ‘di destra’ al Parlamento: utilizzo non a caso il termine ‘egemonia’, perché ho l’impressione che anche la sinistra abbia risentito, almeno in parte, dei motivi e degli argomenti di questa critica, in modo piuttosto passivo e senza rielaborarli in modo originale. Si afferma quello che qualcuno ha chiamato la ‘dromocrazia’, il dominio, cioè, della velocità, l’idea che i Parlamenti siano sistemi inefficienti, che lo Stato debba essere ridotto al minimo perché l’economia funziona meglio in sua assenza e che, se proprio uno Stato deve esserci, questo debba caratterizzarsi per 241 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 242 Le parole e le cose dei democratici la spiccata efficacia e rapidità delle decisioni: i tempi delle assemblee sarebbero, invece, troppo lunghi per stare al passo con quelli imposti dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla rapida evoluzione degli scenari internazionali. Si sviluppano, quindi, teorie della forma di governo piuttosto rozze, improntate unilateralmente al mito dell’efficienza; non casualmente, questo si accompagna, come ricordava l’On. Cenni, al dilagare del populismo. Nel libretto di Yves Mény e Yves Surel, Par le peuple, pour le peuple. Le populisme et les démocraties (2000), che tanta fortuna ha avuto anche in Italia, si mostra come elemento imprescindibile di ogni forma di populismo – di quello europeo come di quello sudamericano – sia la critica della rappresentanza e l’idea della leadership carismatica. Non si può dire che tutto questo non abbia trovato terreno fertile anche in una parte della cultura di sinistra: in questo ragionamento mi sentirei di includere, se volete anche in modo provocatorio, il dibattito nostrano sul presidenzialismo. Il presidenzialismo ovviamente è una forma pienamente legittima di organizzazione democratica del potere. La sinistra italiana ha dimostrato attenzione e apertura su questo versante: penso, ad esempio, alla Commissione bicamerale presieduta dall’On. D’Alema nella seconda metà degli anni Novanta. Si tratta, lo ribadisco, di un’opzione perfettamente legittima e pienamente democratica, ma, a volte, essa viene sostenuta con argomenti che sono fattualmente falsi: l’argomento dominante è, ovviamente, la lentezza e l’inefficienza del processo legislativo decisionale in Italia. 242 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 243 Le parole e le cose dei democratici Ora, come è noto, noi siamo l’unico paese in cui il governo può fare in una notte un decreto che la mattina dopo, con la pubblicazione, è legge dello Stato a tutti gli effetti; né accade quasi più, ormai, che il Parlamento faccia decadere un decreto-legge (a meno che non sia lo stesso governo ad ‘abbandonarlo’), rifiutandone la conversione in legge entro sessanta giorni: si tratta di un’evenienza rarissima, verificatasi due sole volte in questa legislatura, e sempre con il tacito assenso del governo. Non solo: quando la maggioranza parlamentare è compatta, disegni di legge anche molto controversi – si pensi al cosiddetto ‘Lodo Alfano’ – vengono approvati dalle Camere nel giro di una ventina di giorni. Non mi è chiarissimo, allora, cosa si intenda per efficienza decisionale. Vorrei ricordare, invece, che in Italia abbiamo già un modello di presidenzialismo praticato: non mi riferisco tanto ai Comuni, perché nella dimensione cittadina, ovviamente, la questione è un po’ diversa. Penso però alle Regioni: credo di non essere il solo a ritenere che la forma di governo regionale non abbia finora dato, mediamente, una grande prova di sé. Sappiamo che il core business delle Regioni è la sanità, e il numero di Regioni commissariate sulla sanità fa spavento. Naturalmente esistono molte Regioni virtuose; ma, a onor del vero, dobbiamo riconoscere che lo erano anche prima della modifica della forma di governo regionale nel corso degli anni Novanta. Per non parlare dello svilimento delle assemblee rappresentative in tutti i livelli istituzionali in cui si sono sperimentate forme di governo presidenzialistiche (Comuni, Province, Regioni); anche se, forse, ciò è dipeso più dall’aver adottato il principio del simul stabunt, simul cadent, 243 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 244 Le parole e le cose dei democratici che non dal presidenzialismo in sé. Insomma, credo che sull’introduzione del presidenzialismo in Italia bisognerebbe riflettere bene, come peraltro, più in generale, sull’idea di una revisione radicale della Costituzione. Probabilmente, dovremmo tenere presente che, in un paese come l’Italia, quando vanno in crisi le assemblee rappresentative – pur con tutti i loro limiti e i loro difetti – difendere i valori del pluralismo, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà rischia di diventare molto più difficile. 244 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 245 PLENARIA La politica dei giovani, le politiche per i giovani: il Partito Democratico alle prese con il futuro 245 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 246 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 247 Chiara Geloni intervista Fausto Raciti e Rosy Bindi Chiara Geloni Direttrice di YouDem Ringrazio il PD di Pisa, i Giovani Democratici, il Centro studi del PD, la rivista Inschibboleth e tutti per l’invito in questa città dove fui studentessa. È un piacere essere qui con voi, assieme a Fausto Raciti e a Rosy Bindi che naturalmente conoscete quanto li conosco io. Entro in punta di piedi come si deve fare quando si partecipa a una sessione plenaria in cui il nucleo dei partecipanti è costituito da persone che da diversi giorni stanno seguendo i lavori di un Seminario, che ha una sua logica e segue un proprio ragionamento culturale e politico. Spero vivamente di non discostarmi troppo dal filo delle vostre riflessioni con le domande tra attualità e cultura politica che farò a Fausto e a Rosy. Cominciamo da Fausto, con una domanda che penso non gli abbia mai fatto nessuno in vita sua… Chi te lo fa fare di fare politica? Che cosa diresti a un tuo quasi coetaneo che si chiede se valga la pena di impegnarsi in politica oppure no? Fausto Raciti Segretario nazionale Giovani Democratici In effetti è molto originale come domanda! Un solo piccolo inciso istituzionale che non è solo di ringraziamento 247 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 248 Le parole e le cose dei democratici per l’invito ma è di ringraziamento ai ragazzi dei Giovani Democratici di Pisa e al Partito Democratico della Federazione di Pisa per aver organizzato questo momento che, non a caso, ha riscosso un grande successo e un’ampia partecipazione nazionale. Tutto ciò testimonia una vitalità, un interesse, dimostra che in Italia ci sono più di qualche decina di ragazzi che non semplicemente credono nella politica, ma credono nel Partito Democratico come soggetto capace di offrire una risposta alla domande che la società ci pone, domande che attraversano la quotidianità di ciascuno di noi. Veniamo da una fase lunghissima nella quale il fare politica è stato considerato o come una scelta dettata da furbizia, la ricerca di una scorciatoia, di un piccolo posto al sole per ciascuno, oppure, quando era fatta con una spinta ideale appena più forte, più nitida, come una scelta quasi contro la storia. Perché la storia degli ultimi venti anni di questo paese è la storia della sfiducia nei confronti della politica, soprattutto della politica organizzata. E, permettetemi di aggiungere una riflessione: si tratta di una sfiducia che non è maturata a caso, perché quando la politica non c’è, quando è più debole e c’è meno fiducia nei partiti, gli altri poteri organizzati in una società trovano più spazio, riescono a strutturarsi su basi più solide e a tutelare meglio i propri interessi. Penso che il messaggio più difficile da far passare, ma che sta alla base di tutto, quindi anche della scelta di fare politica, sia proprio questo. Ed è un messaggio in forte controtendenza rispetto allo spirito del nostro tempo. Lo spirito del nostro tempo, infatti, è quello che individua la soluzione migliore, più semplice, più rapida, molto 248 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 249 Le parole e le cose dei democratici spesso più efficace ai propri problemi, nella ricerca di una scorciatoia individuale. La politica, invece, è la ricerca più difficile, ma più appassionante, di una strada collettiva alla soluzione dei problemi. Se noi non abbiamo la forza di ripartire da questo, allora il perché uno possa scegliere di fare politica resta avvolto in un velo di mistero, di incomprensibilità. Ed è da qui che noi e la nostra generazione dobbiamo ripartire. Attenzione: non perché l’Italia sia in qualche misura assimilabile al Maghreb, dove uomini e donne, prevalentemente nostri coetanei, si stanno riappropriando, spesso pagando un alto prezzo di sangue, della propria libertà. L’Italia non è quello. Tuttavia, il nostro paese ha bisogno di riscoprirsi, oggi più che mai. Nel momento di massima debolezza delle sue istituzioni, con un Parlamento svuotato di significato, in un tempo in cui i partiti sono molto spesso nient’altro che cartelli e sigle, l’Italia deve riscoprire se stessa, a partire da una generazione più giovane, apprendendo il significato della partecipazione collettiva e imparando, in questo senso, la lezione che i nostri coetanei maghrebini ci offrono e ci consegnano. È questo, a mio parere, l’unico tema in base al quale si può giustificare una scelta che altrimenti rischierebbe di essere incomprensibile. Se non si parte dall’idea della possibilità di ricostruire una storia collettiva, una democrazia nel nostro paese, una democrazia diversa, capace di vivere della partecipazione attiva e civile dei cittadini, è difficile spiegare il perché, oggi, un giovane scelga l’impegno politico come strada, come modo di guardare ai propri coetanei, al proprio futuro, al proprio paese. 249 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 250 Le parole e le cose dei democratici C. G.: Grazie, Fausto Raciti. Rosy Bindi, continuerei il ragionamento di Fausto sulla scelta dell’attività politica come scelta di partecipazione, come opposizione all’individualismo quale via di uscita dai problemi. Sono parole che in effetti evocano, oltre alla scelta della politica, anche una scelta di campo precisa. So che la presenza di questo sottotitolo per il Seminario – Domande e ipotesi sulla sinistra italiana ed europea – ha fatto un po’ discutere alla vigilia di questa quattro giorni. È un dibattito di quelli che vanno avanti a lungo, e che forse ancora non abbiamo del tutto risolto nel Partito Democratico, quello su quanto alcune parole del passato possano ancora rappresentare e quanto riescano a rappresentare tutto il PD e tutto quello che il PD vuole essere oggi. Qual è il tuo rapporto con questa parola: ‘sinistra’? Rosy Bindi Presidente dell’Assemblea nazionale del PD Un rapporto laico: è una parola che non mi spaventa. Dovremmo innanzitutto ricordarci che la storia della sinistra italiana è sempre stata una storia plurale. Per quanto solitamente con questa parola si rinvii alla tradizione comunista e socialista, è pur vero che in questo paese è esistita una sinistra cattolica, una sinistra liberale e la stessa storia della sinistra è stata, appunto, un incontro di tante culture e di tante sensibilità. Questa mattina ero ad Arcore invitata dall’ANPI per unire insieme la Festa della donna e il ricordo della Resistenza dal 1943 al 2011. E proprio alla Resistenza, per esempio, momento che comunemente si ritiene di grande partecipazione popolare ma prevalentemente guidato dalla sinistra, partecipa- 250 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 251 Le parole e le cose dei democratici rono molti cattolici, molti liberali, tantissime persone che forse non necessariamente si riconoscevano in una singola identità culturale, in una mono-identità. Io mi considero una persona di sinistra, però ho la mia tradizione e Chiara lo sa, ho sempre pensato che La Pira fosse più a sinistra di Togliatti in alcuni momenti della vita del nostro paese. Una volta chiesi a D’Alema chi tra i due fosse più a sinistra, mi disse che non conosceva la risposta ma ammetteva che io lo fossi più di lui. Questo è già un passo chiaro, e spiega perché questa parola non mi spaventa affatto. È anche vero, però, che non sempre siamo capaci di ricordarci che la storia della sinistra italiana è anch’essa una storia plurale, anche se ha avuto una cultura egemone. Il Partito Democratico non può semplicemente definirsi partito di sinistra, perché è la casa anche di culture che forse non intendono automaticamente identificarsi con questa tradizione, con questa parola. Penso che noi dovremmo, se posso avere questa ambizione, provare a vedere se ci basta la parola ‘democratici’. Penso che dovremmo fare questo sforzo tutti insieme, perché in fondo ciascuno di noi viene da una storia doppiamente aggettivata: cattolici democratici, socialdemocratici, liberaldemocratici. Vogliamo togliere una parte di questi aggettivi? Accontentiamoci di uno e cerchiamo di capire che la vera sfida risiede esattamente in questo: noi abbiamo scommesso sulla possibilità di dare al termine ‘democratico’ la funzione di sintesi delle culture riformiste del nostro paese. Mi spingo oltre e dico anche delle culture progressiste. Penso che questa ambizione non solo ci aiuterebbe ad allargare i confini del nostro partito, ma che sia la sfida che 251 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 252 Le parole e le cose dei democratici dobbiamo accogliere. L’altro giorno mi ha telefonato una giornalista australiana chiedendomi: ‘Come si sente, Lei, in questa storia PCPDS-DS-Partito Democratico?’. La mia risposta è stata che non mi ci sento, perché non è la mia storia. Se il Partito Democratico fosse l’evoluzione di PC-PDSDS, non sarebbe il PD. Se avessi voluto far parte di quella storia, ci sarei entrata dalla porta principale e non da qualche finestra, all’ultimo momento. E forse me la sarei cavata anche bene, senza neppure fare l’indipendente di sinistra, e non avrei avuto nessun timore. Non ho mai fatto parte, però, di quella storia e oggi sto nel Partito Democratico perché voglio costruire una storia nuova. Lo voglio fare con le persone che vengono da lì, anche accogliendo quella tradizione ma avendo l’ambizione di unirla ad altre tradizioni e soprattutto con la convinzione che insieme si debba diventare interpreti di una nuova cultura politica, che si manifesta nel nostro paese e che non ha aggettivi antichi ma che può ritrovarsi nei valori antichi di questa storia. Sono convinta che il Partito Democratico o vince questa sfida o non ce la fa! Se noi siamo destinati a rimanere il partito del Centro Italia, non andremo da nessuna parte! Se vogliamo essere un partito nazionale, italiano e degli italiani dobbiamo essere consapevoli di questa sfida. Qui, in questa parte di Italia, c’è sicuramente una componente fondamentale del Partito Democratico che è forte e che ci consente ancora di vincere, ma anche in Toscana vorrei vincere da democratica e non in continuità con il passato, più o meno recente. Anche in questa fetta del paese non ci possiamo accontentare. Nel resto del- 252 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 253 Le parole e le cose dei democratici l’Italia, al Nord come al Sud, abbiamo una sfida più impegnativa e noi la dobbiamo vincere lo stesso, e la vinceremo se il Partito Democratico non sarà la mera continuità di un pezzo di storia italiana: una storia certo nobilissima, con e dentro la quale io stessa ho deciso di camminare, ma con l’ambizione di puntare alla sintesi delle culture progressiste, riformiste, democratiche del nostro. Il berlusconismo ci consente di allargare la nostra metà campo, in nome magari della condivisione di principi che noi consideriamo quasi scontati ma che, non essendolo per molti, oggi diventano una necessità nella vita del nostro paese. Abbiamo la possibilità di allargare il nostro campo e lo possiamo fare, ma è necessaria una grande disponibilità ad accettare una contaminazione più ampia e più profonda anche da parte di chi dentro questo partito si sente ed è più forte. Questa è la nostra sfida. A me piacerebbe molto leggere questo titolo: ‘domande e ipotesi sui democratici italiani ed europei’. Questo sarebbe il mio titolo preferito. C. G.: Forse, Fausto, uno dei motivi per cui ci rifugiamo in altre parole anziché nella parola ‘democratici’ è che non abbiamo ancora riempito abbastanza di significato questo termine. Immagino che come Segretario nazionale dei Giovani Democratici ti capiti spesso di parlare della proposta del PD ai giovani. Ti chiedo dunque se condividi quella che è un po’ la mia impressione a volte, e cioè che siamo più affascinanti appunto se parliamo di Resistenza, di Costituzione, anche di lotta al terrorismo se vogliamo, della democrazia nella storia della Prima Repubblica, che non quando 253 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 254 Le parole e le cose dei democratici proviamo a descriverci per quello che siamo oggi. F. R.: Probabilmente è vero, e in parte è anche comprensibile. So che è curioso che a dirlo sia un ragazzo di ventisette anni, ma capisco che il livello e la qualità del dibattito politico e della partecipazione democratica, in altri periodi della storia di questo paese fossero indiscutibilmente più alti. Si fa un gran dire dei miti e dei fasti della Seconda Repubblica, ma pochi ricordano che l’unica trasformazione degna di questo nome che ha prodotto è stata l’ingresso nell’Euro: cosa non da poco, per carità, ma è evidente che l’ultima stagione di grandi riforme in Italia coincide con la fine degli anni Settanta. Un dato, questo, fisiologico: in qualche modo è il derivato della qualità della vita pubblica del nostro paese. La cosa che mi spaventa, però, è un’altra. A mio avviso, il problema che abbiamo davanti non è tanto quello di rinverdire i fasti di una stagione che si è chiusa, ma di provare a capire come superare un giro di boa della storia italiana nel quale coincidono sostanzialmente la fine del ciclo lungo di Berlusconi e la conseguente, o profondamente collegata, fine della Seconda Repubblica così come l’abbiamo conosciuta. Si tratta, cioè, di oltrepassare un sistema incentrato su fortissime leadership, sull’accentramento dei poteri da parte degli esecutivi, sullo svuotamento di fatto delle prerogative del Parlamento e, quindi, sulla radicale riduzione del ruolo dei partiti politici. Questo è il giro di boa: rispetto a tale obiettivo penso che il nostro compito sia quello di provare a dare un contributo. Ed è la cifra di questo contributo che farà la cifra del Partito Democratico. 254 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 255 Le parole e le cose dei democratici Dobbiamo dirlo con molta onestà, fino ad oggi, dentro le parole ‘Partito Democratico’ ognuno ha voluto vederci un po’ ciò che gli pareva. Un esempio, che faccio sempre, riguarda la campagna elettorale del 2008. In quell’occasione, il programma del PD riportava le seguenti parole, che sono da scolpire nel marmo come cose da non dire mai più: ‘non c’è redistribuzione senza crescita’, questo all’alba di una crisi che avrebbe dimostrato l’esatto opposto. Si sosteneva, cioè, che senza una redistribuzione della ricchezza verso il basso fosse impossibile pensare alla crescita del paese. Dico questo non per gettare la croce addosso a qualcuno, ma perché è un elemento che contribuisce a sottolineare come, dentro le parole ‘Partito Democratico’, finora, c’è stata una tendenza a proiettarvi più le proprie aspettative, che non la cifra identitaria vera, autentica del PD. E credo che su questo ci sia un supplemento di riflessione da fare. In ogni caso, davanti a noi vedo alcuni grandi ostacoli sui quali dobbiamo avere la capacità di intervenire con forza, se davvero vogliamo una volta per tutte invertire il ciclo e uscire da questa stagione. Una stagione che, onestamente, ci vede stretti in una duplice morsa. Da una parte, infatti, abbiamo il populismo plebiscitario di Berlusconi che non incontra il favore della maggioranza degli italiani. Perché, attenzione!, la maggioranza parlamentare di Berlusconi è una proiezione, deriva da una cosa che si chiama ‘premio di maggioranza’. Gli italiani che si riconoscono in quel modello sono decisamente meno della metà dei nostri elettori. Dall’altra parte, invece, siamo stretti dall’idea che il tema principale sia quello di costruire una narrazione. Lo dico con molta onestà: a me questa storia 255 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 256 Le parole e le cose dei democratici della narrazione sembra un modo per vestire i problemi di parole e a parole risolverli. Noi, piuttosto, dobbiamo riuscire a incastrare Berlusconi e coinvolgere gli italiani in un ragionamento di merito sul futuro di questo paese. Abbiamo bisogno di tornare a porci con forza il tema, che è una premessa per noi, dell’unità sindacale. Le stagioni a cui facevi riferimento tu, Chiara, sono state possibili grazie a un ruolo fortissimo e di avanguardia giocato dall’unità delle forze sindacali: una prospettiva, oggi, estremamente lontana. È questo il primo tema che abbiamo all’ordine del giorno, e che investe l’unità del mondo del lavoro. Non c’è dubbio che i sindacati abbiano un problema di rappresentanza enorme, ma senza quel presupposto vedo difficoltà enormi per il Partito Democratico. Un altro grande problema che dovremo affrontare, riguarda la necessità di rivitalizzare la funzione dei partiti e delle istituzioni democratiche di questo paese. Su questo, a mio avviso, si deve imporre un dibattito radicale che esca dall’insopportabile luogo comune secondo cui il problema della politica italiana, e della simmetria del confronto tra centro-destra e centro-sinistra, risieda nel tema della leadership del centro-sinistra. Quello è l’ultimo dei problemi che abbiamo, non certo il primo. In terzo luogo, occorre ridefinire un progetto che tenga insieme i due veri temi del nostro paese: anche su questo credo si giochi una capacità di innovazione vera del Partito Democratico. Mi riferisco alla qualità della nostra democrazia, cui ho fatto brevemente cenno prima, alla qualità del lavoro e al livello di diritti che all’interno della società italiana vengono offerti a chi entra nel mondo del 256 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 257 Le parole e le cose dei democratici lavoro. Possono apparire come due temi diversi, ma l’inaridimento della politica ha contribuito in maniera determinante all’impoverimento delle fasce più deboli della nostra società. Il Partito Democratico deve ridare voce a quel pezzo di società, che sono tanto gli operai della metallurgia, della siderurgia, quanto quei precari, quel 30 per cento di giovani disoccupati che non sanno come sbarcare il lunario. L’assenza di rappresentanza di quel pezzo d’Italia è la cifra vera della questione democratica di questo paese. È solo tenendo insieme queste due temi che, probabilmente, troveremo la forza, la capacità per affrontare il giro di boa, per chiudere definitivamente una stagione della storia del nostro paese e – permettetemi di aggiungere – per dare definitivamente un senso alla parola ‘democratico’. Una parola che, altrimenti, rischia di essere semplicemente un principio, pur pregevole, di vita interna al partito, ma che non dice nulla a quegli italiani che potrebbero guardare a noi ma i quali, ancora oggi, magari non sono convinti fino in fondo. C. G.: Mi pare che siamo andati dritti all’obiettivo di definire questa parola ‘democratico’ e di riempirla di significato, e sono sicura che Rosy Bindi avrà molto altro da aggiungere su questo. Io volevo però ricordare un’altra parola sulla quale sollecitarti dopo la parola ‘sinistra’, che è la parola ‘valori’. Prima Fausto ha detto che l’individualismo non può essere una risposta per noi. Le persone, Rosy, che vengono dalla storia che condividiamo preferiscono riferirsi alla parola ‘persona’, intendendo come ‘persona’ l’uomo in relazione con gli altri e nelle sue relazioni anche spirituali. Bersani parla spesso di un uma- 257 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 258 Le parole e le cose dei democratici nesimo che i democratici possono condividere. Su questo forse c’è ancora da discutere, ma io sinceramente penso – non so se sei d’accordo – che si sia in realtà più avanti di quanto pensiamo di essere. Qualche volta, se sapessimo discutere con un metodo più sincero e meno legato a bandierine e a rendite di posizione, ci renderemmo conto di essere più vicini di quanto pensiamo, anche in questo campo, alla soluzione del problema identitario del PD. R. B.: Non ho dubbi. Infatti io penso che noi dobbiamo fare di tutto per scrollarci di dosso questa caricatura che ci hanno cucito addosso per cui non avremmo progetto, non avremmo programma, non avremmo identità. Caricatura che qualche volta noi stessi alimentiamo, perché qualcuno, professionista nel marcare la propria posizione all’interno del PD, descrive un partito che non c’è. Noi, però, non possiamo accettarlo, così come non accetto gli editoriali di quei commentatori settimanali che sui grandi giornali ripetono che Berlusconi il 14 dicembre non è andato a casa perché non c’era e non c’è un’alternativa. A Scilipoti, infatti, dell’alternativa importava molto, non è vero? Si leggono e si sentono cose che non stanno né in cielo né in terra, eppure su di noi ormai si è costruita questa caricatura: Berlusconi resta in sella perché il Partito Democratico non avrebbe leadership, progetto, programma, parole chiare per questo paese. E questo è anche ciò che ci diciamo tra di noi in modo spesso strumentale. Ma la cosa che davvero più mi preoccupa è il comune sentire della nostra gente nei circoli sul territorio, secondo cui noi non abbiamo una posizione netta e univoca su questo o 258 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 259 Le parole e le cose dei democratici quel problema. Questo mi preoccupa davvero e ci tornerò alla fine. Ma per tornare alla domanda di Chiara, dico che noi sappiamo chi siamo, e lo sa anche l’Italia. Se si ha il coraggio di accettare di fare insieme questo pezzo di strada, dobbiamo essere consapevoli che il nostro compito, la nostra sfida, non è solo quella di mandare a casa Berlusconi ma di provare a ripensare questo paese in maniera diversa da come lui lo lascia e l’ha costruito. Arrivando qui stasera mi è stato chiesto: ‘Ma ce la facciamo? Ma quando lo mandate a casa? Questione di settimane o di mesi? Sarà questione ancora di un annetto?’. Non lo so: anche Gheddafi è lì che resiste. Questi signori hanno una capacità straordinaria di barricarsi, nel momento della disperazione esprimono il peggio e il meglio di sé, quindi non c’è da farsi illusioni: la soluzione del problema non è dietro l’angolo, ogni giorno. Tuttavia, noi ci dobbiamo attrezzare, perché la possibilità di una nostra vittoria elettorale arriva. Ha ragione Fausto: Berlusconi non ha più una maggioranza nel paese, sta barricato dentro il Parlamento con i suoi parlamentari comprati perché sa bene che se si va a votare non ha più la maggioranza. Non sprechiamo questo tempo, è preziosissimo. È un tempo nel quale dobbiamo mettere a fuoco meglio la nostra idea di Italia e la nostra capacità di comunicarla agli italiani. Un tempo nel quale ci dobbiamo anche irrobustire, perché – sia ben chiaro – tornare a governare questo paese nelle condizioni in cui lo lasceranno non sarà una passeggiata. Provate a immaginare, ad esempio, cosa vorrà dire combattere l’enorme massa di evasione fiscale e varare 259 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 260 Le parole e le cose dei democratici provvedimenti per far pagare a tutti le tasse! Ci dobbiamo preparare a una stagione che non sarà non semplice. Fausto anche in questo ha ragione: siamo entrati in Europa e abbiamo fatto alcune riforme, abbiamo provato a farle negli ultimi quindici, sedici, diciassette anni, ma è dalla fine degli anni Settanta che l’Italia non conosce vere riforme. Se torniamo al governo noi dovremo farle e dovremo mettere mano a cambiamenti profondi se vogliamo dare una risposta alla vostra generazione, per non farvi essere precari oggi e indigenti domani. E lo dobbiamo fare sapendo che i fari di orientamento sono sempre quelli della nostra Carta costituzionale, che considero ancora tutta intatta e tutta bella, e so che non saremmo in grado di riscriverla in quel modo. Non la voglio toccare: certo c’è da fare qualche piccolo intervento, le riforme minime che peraltro abbiamo presentato, ma nulla di più, perché i fari sono ancora tutti lì. Il nostro problema è un impianto legislativo e organizzativo pensato in un tempo profondamente diverso da quello che stiamo vivendo. Il nostro problema è che ci stiamo dividendo tra quanti pensano di continuare ad applicare quell’impianto normativo e legislativo al presente – vedi, ad esempio, il grande tema del lavoro, della contrattazione, dell’ unità sindacale – e quanti invece ritengono che, non essendo più adeguato, sia opportuno rinunciare anche ai principi che lo avevano ispirato. La realtà è più complessa, e penso che i principi e i valori che orientarono le scelte del passato siano ancora validi: tocca a noi coniugarli e declinarli nella sfida del tempo presente, della globalizzazione nella quale ci troviamo. Non posso difendere lo Statuto dei lavoratori degli anni 260 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 261 Le parole e le cose dei democratici Settanta come se fosse una pagina intoccabile, ma non posso neppure svendere, per modificare quella pagina, i principi che hanno ispirato quelle scelte. Ed è esattamente il rischio di questo momento. Qui c’è un lavoro enorme che dobbiamo fare per preparare l’Italia a risollevarsi. Se il welfare pensato negli anni Settanta non è più adeguato, abbiamo il dovere di ripensarlo e di creare, intorno alle innovazioni necessarie, il consenso e non il conflitto sociale. Fare politica significa pensare alle proposte giuste e costruire la condivisione indispensabile a realizzarle: è questa la nostra sfida perché noi siamo un partito politico, non siamo né una narrazione né un movimento. Questo, però, significa convincere gli italiani che esiste la possibilità di vivere insieme in una maniera diversa da come questi signori hanno fatto loro credere in questi anni. Una maniera diversa esiste e conviene. È questo il nostro lavoro di questo tempo. Possiamo passare in rassegna tutti i temi che ci stanno particolarmente a cuore – i valori, l’umanesimo, la persona – e verificare che nel Partito Democratico noi abbiamo fatto grandi passi avanti sui temi programmatici. Non è vero, ad esempio, che non abbiamo tenuto sulla FIAT una stessa, identica posizione: abbiamo avuto una sensibilità diversa, approcci diversi, consentitecelo! A me, quando parlava Marchionne, veniva in mente La Pira con la nuova Pignone; a qualcun altro venivano in mente altri riferimenti: è inevitabile. Ma la nostra posizione è stata una posizione chiara e ferma. Articolata, non semplificata, perché noi non stavamo né con Marchionne né con la FIOM: stavamo con i lavoratori e con l’azienda, e ci stiamo ancora. Dato che gli 261 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 262 Le parole e le cose dei democratici operai, con quel contratto, si sono assunti la responsabilità di salvare la FIAT, adesso gli altri si devono assumere le proprie. Non mi piace l’idea che Mirafiori diventi una delocalizzata della Chrysler! La Fiat si fa in Italia non perché ci rimangono gli uffici, ma perché ci rimane il pensiero, la struttura, la tecnologia, il lavoro: per questi fattori si sono assunti le responsabilità. Se noi fossimo stati al governo, non avremmo lasciato Marchionne da solo quando andava a incontrare Obama e la Merkel e non avremmo lasciato gli operai da soli quando dovevano scegliere cosa fare. Questo governo ha lasciato soli gli uni e gli altri perché è stato funzionale al modello di società che hanno in testa loro, ma non noi! I programmi approvati dall’Assemblea nazionale sono pronti per arrivare nei Circoli. Per questo io vi chiedo di trasformare i nostri Circoli in scuole di formazione permanente. Iniziative come queste sono straordinarie! A me sembra di essere nell’Azione Cattolica quando i campi scuola riuscivano bene, ma poi non si sapeva cosa far fare ai gruppi tutto il resto dell’anno. Così siamo anche noi: ci vengono bene le Feste, le manifestazioni con i nostri leader, le scuole di formazione. Ma bisogna che noi impariamo a vivere nella vita quotidiana dei nostri Circoli una festa ed una scuola permanenti. I Circoli dovrebbero essere i luoghi nei quali si cresce insieme sui valori e sui punti programmatici fondamentali del nostro partito. Galli della Loggia può anche non sapere chi siamo; un democratico iscritto ad un Circolo lo deve sapere, e bisogna che noi impariamo a crescere su questo terreno. Sull’ insieme delle questioni che ho sollevato finora, è falso affermare che non c’è una risposta. Si tratta di una 262 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 263 Le parole e le cose dei democratici risposta completa? No, per questo è necessario il vostro contributo. Dopo il lavoro dell’Assemblea e della Segreteria nazionale, di tutti gli uffici e di tutti i Forum, c’è bisogno del lavoro dei Circoli. C’è bisogno del contributo di chi vive quotidianamente la vita delle persone, perché poi diventi carne della nostra carne, pensiero dei nostri pensieri: così noi riusciamo anche a incontrare le persone di questo paese. Sono d’accordo con Bersani: abbiamo fatto dei passi avanti anche sulle questioni fondamentali. Non è vero che il partito non ha una posizione sul testamento biologico. Nella Commissione Affari Sociali alla Camera abbiamo sottoscritto tutti insieme gli stessi emendamenti. Dalla Coscioni alla persona più vicina a Giuseppe Fioroni che si chiama Luciana Pedoto, abbiamo presentato gli stessi emendamenti firmati da tutti, e con quelli noi ci presenteremo per correggere una legge che riteniamo sbagliata. Andremo però oltre: chiederemo al centro-destra di fermarsi. Perché a colpi di maggioranza in Parlamento non si impone al paese una visione etica della vita. La differenza profonda tra noi e loro – questa è un’ altra cifra dell’essere democratici oggi – è che sui temi che toccano il vivere, il morire, il volersi bene, non c’è una maggioranza politica che si impone su una minoranza. Non è questo il compito della politica. Noi dobbiamo cercare di unire, la politica deve creare unione intorno a questi temi, non spaccare il paese tra il partito della vita e il partito della morte, tra il partito dell’amore e il partito dell’odio, come invece stanno facendo loro. Anche a casa loro c’è qualche mente pensante che ha cominciato a capire che il legislatore non può entrare nei 263 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 264 Le parole e le cose dei democratici rapporti più intimi tra le persone, nei momenti più delicati della vita, e si chiede: ‘È proprio necessaria una legge su questi argomenti? Perché il mondo è andato avanti fino adesso e non c’era una legge?’. Noi chiediamo di fermarci e di provare a riflettere: vogliamo vedere se, anziché fare una violenza al paese, si riesce a offrire una legislazione mite che orienta e provoca delle responsabilità. Essere arrivati a condivisione su questi temi significa aver fatto insieme un cammino molto importante. Questo significa che la pensiamo tutti nello stesso modo? No, è non è uno scandalo. Nel PD, del resto, non ci sarà mai una disciplina di partito su questi temi: ci sarà una posizione politica, maggioritaria, prevalente ma non una disciplina di partito, guai se questo fosse! Questa impostazione significa anche un’altra cosa: è il Partito Democratico che su queste cose parla al paese, e si rivolge a tutti gli italiani con una sintesi culturale. E dobbiamo avere lo stesso approccio con la nostra sintesi economico-sociale, perché voglio essere in grado di riscattare i precari e la condizione operaia portando dalla mia parte gli imprenditori. Dobbiamo far capire che se si umilia il lavoro non c’è neppure la crescita economica! Mi pare un ragionamento assurdo, quello che a volte sento nel partito quando si dice che sulle grandi questioni etiche si deve avere la posizione dei cattolici e quella dei più radicali che si distinguono in modo che ciascuno parli ai rispettivi pezzi di società. Io penso invece che noi non possiamo lasciare il mondo cattolico alla destra, poi all’UDC, poi all’API. Dentro il Partito Democratico ci si assume tutti insieme la responsabilità delle posizioni che poi si difendono davanti 264 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 265 Le parole e le cose dei democratici al Papa e davanti a Pannella: questo è il punto! Da cattolica e da persona che pensa di essere credente, mi sento di affermare che non può essere una legge a regolare il momento della mia morte. E da appartenente a un partito nel quale c’è una componente laica molto forte, sento di poter dire che la cultura del limite, della responsabilità e non dell’individualismo e della libertà fuori dalla responsabilità, è una cultura democratica da difendere nel nome della libertà e della laicità, con altrettanta forza. Questo siamo noi, questo è quello che unisce questo paese e non lo divide. C. G.: Grazie. Ho una domanda che sarà uguale per entrambi, perché mi interessa sapere se la pensate allo stesso modo. Rispetto a quelle che vi ho fatto finora, riguarda più da vicino l’attualità politica. Noi, come Partito Democratico – uso un ‘noi’ di cui mi approprio: come direttore della televisione del partito posso dirlo – siamo vittime di una narrazione che non sempre ci aiuta: lo avete ripetuto entrambi. Ho letto in questi giorni sui giornali che stanno riprendendo le polemiche perché, poiché sembra che non si vada a votare in tempi brevissimi per le elezioni politiche, si dice che la strategia di costruire una grande alleanza il più larga possibile per far fronte a Berlusconi sarebbe superata dai fatti. Si dice anche che la strategia del PD, alla luce di tutti questi fatti, sarebbe troppo movimentista: tutte queste mobilitazioni, lo stare dentro le piazze della società civile, la raccolta delle firme, ecc. Io sono molto curiosa di sapere se il Segretario dei Giovani Democratici e la Presidente del partito hanno un’opinione su questo, e se è la stessa. 265 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 266 Le parole e le cose dei democratici F. R.: Sospetto che la mia posizione sia simile a quella della Bindi, la sua risposta ce lo confermerà. Dobbiamo dirci la verità. E la verità è che questa non è una narrazione che fanno altri, ma c’è qualcuno all’interno del nostro partito che, certo legittimamente, dice più o meno le stesse cose, e sarebbe bene che si assumesse fino in fondo la responsabilità della propria posizione. Quelle che hai elencato sono posizioni assunte non da un editorialista, ma da dirigenti del Partito Democratico, ai quali, intanto, andrebbe rivolta una domanda: chi ha detto che la strategia di costruzione di alleanze fosse una strategia di emergenza, legata all’imminenza della crisi di Berlusconi e della crisi di governo? A me risulta che il Partito Democratico su questo abbia aperto un dibattito e abbia anche trovato un’unità molto larga, che ricomprendeva anche quanti oggi si sono risvegliati a dire che è passata la fase di emergenza e che bisogna ridiscutere tutto. Nessuno, però, faceva riferimento esclusivo all’emergenza derivata dall’imminenza della crisi del governo Berlusconi. Del resto, non possiamo nasconderci che il tema di come non semplicemente vincere le elezioni, ma affrontare alcuni dei problemi che da soli abbiamo scarsissima speranza di risolvere, rimane in piedi anche al netto dell’imminenza della crisi del governo. Non possiamo non riconoscere il fatto che, quando ci saranno le prossime elezioni politiche, i problemi sul tappeto, che già sono molti, e ai quali se ne aggiungeranno probabilmente altri, realisticamente resteranno quelli: come riformare le istituzioni del paese, come affrontare, almeno in via embrionale, alcuni dei problemi di modernizzazione che ha ancora sulle spalle, come chiu- 266 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 267 Le parole e le cose dei democratici dere il ciclo lungo della Secondo Repubblica sotto la guida e l’egemonia del berlusconismo. Che le elezioni siano ora o tra due anni, il problema resta. Ragione per cui penso sia comunque interesse del Partito Democratico provare a tessere un’alleanza che parta dal suo programma, dai progetti che abbiamo elaborato nel corso di questi mesi, ma che si rivolga a un arco di forze ampio, il più largo possibile. Seconda questione: ma c’è davvero qualcuno tra noi convinto che ora possiamo sederci e fare un ennesimo congresso del Partito Democratico, un’ulteriore conta sulla leadership? Se qualcuno lo pensa abbia il coraggio di alzarsi e dirlo in maniera esplicita. Capiamoci bene: abbiamo del tempo, forse uno o due anni, per lavorare sulla costruzione del PD, sulla costruzione di quell’identità di cui abbiamo parlato tanto, del suo profilo politico, e abbiamo l’occasione di allargare i nostri consensi, di ritornare a parlare degli italiani e delle questioni di merito. E proprio in questo momento ci vogliamo rinchiudere in una discussione congressuale? Infine, credo che la cosa più estenuante del modo in cui si affronta questo dibattito, oggettivamente la più fastidiosa, è che si accusa di politicismo chi pone il tema della costruzione delle alleanze e del lavoro sul partito, per poi proporre una soluzione che più politicista si muore. Noi abbiamo davanti il compito di ritornare a parlare dell’Italia e dei problemi degli italiani, che è quanto questo governo non è strutturalmente capace di fare, perché si regge soltanto su un perenne stato di emergenza. Dovremmo provare ad affrontare quelle questioni nel tempo che ci separa dalla elezioni politiche, e parlare delle stesse 267 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 268 Le parole e le cose dei democratici con la società italiana. Il resto, in questa fase, è davvero solo politicismo, rincorsa a qualche sprazzo di visibilità personale e alla speranza di poter riaprire a partiti di leadership, che in questo momento mi sembrano ovunque tranne che nella mente degli italiani. Penso che su questo abbiamo il compito di tenere la barra dritta, orientare il dibattito sui problemi che riguardano gli italiani, provare a superare quel tasso di politicismo asfittico che sembrava vicino ad essere archiviato, ma che oggi ritorna prepotentemente come forma del nostro dibattito politico. Certo, è un politicismo sobillato da alcuni media, da chi può avere l’interesse a mettere il Partito Democratico in una condizione di difficoltà, ma è un politicismo di cui i protagonisti per una volta farebbero bene ad assumersi fino in fondo la responsabilità. C. G.: La domanda per Rosy Bindi è la stessa, e le chiedo anche: visto che martedì consegnerai le prime ‘milionate’ di firme per le dimissioni di Berlusconi, ti sentirai di fare una cosa troppo movimentista? R. B.: Un partito politico vive di strategie di lungo e medio periodo, e anche di tattiche o strategie del breve periodo o del momento immediato. È evidente che se il 14 dicembre Scilipoti si fosse dimenticato di alcuni suoi problemi e fosse rimasto coerente al proprio elettorato – Scilipoti assieme a qualcun altro – la storia ora sarebbe diversa e forse qui saremmo a discutere di altro. Invece è andata come andata. È normale che una forza politica si chieda cosa fare adesso. Ma fa parte della caricatura la drammatizzazione che, a condizioni cambiate, bisogne- 268 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 269 Le parole e le cose dei democratici rebbe anche ricalibrare la strategia Mi meraviglierei se un partito continuasse a vivere come se il 14 dicembre non ci fosse stato, come se non fosse nato il gruppo dei ‘responsabili’, come se Fini non avesse perso qualche pezzo, come se Casini... Insomma, è chiaro ed evidente che è cambiata una situazione e di conseguenza al navigatore della macchina si dà l’indicazione che vale per quel momento: mi pare sia una cosa scontata.. Questo significa che si era sbagliato prima? No: significa che eravamo dentro un percorso che ha avuto un esito diverso da quello che volevamo perché abbiamo a che fare con questo personaggio. Adesso, quindi, la prima risposta che nella prossima Assemblea e nell’incontro con i Segretari regionali si deve dare al partito è che intanto ci sono le elezioni amministrative: Berlusconi non può sospenderle. Sono la prima occasione nella quale gli italiani possono trasformare le firme in voti e sarà il caso di vivere questo appuntamento non con l’attitudine ‘beh, adesso non abbiamo le politiche, facciamoci le amministrative’. Le amministrative le abbiamo sempre fatte sul serio e normalmente abbiamo ricominciato a vincere proprio dalle amministrative. Allora, diamoci questo obiettivo che non è di poco conto. Come ci andiamo? Sono elezioni amministrative, certo, ma un po’ di politica io ce la metterei dentro. Tutto il lavoro che si è fatto in questi mesi è da buttare via? Le amministrative si fanno con il doppio turno e forse è la legge elettorale ideale per provare a verificare se è realizzabile la strategia di medio e di lungo periodo che abbiamo lanciato. Una strategia che non prevede, come banalmente si dice, una alleanza da Fini a Vendola: anche 269 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 270 Le parole e le cose dei democratici questa è una banalizzazione! Noi abbiamo sempre detto un’altra cosa. In questo momento della vita del paese, se vogliamo mandare a casa Berlusconi ma soprattutto se vogliamo scrivere una nuova pagina nel nostro paese, serve una nuova alleanza tra progressisti e moderati. E di fatto in Italia le cose hanno marciato in avanti quando i moderati sono rimasti legati al riformismo e non si sono fatti catturare dalle degenerazioni populiste autoritarie. La Costituzione è stata un grande accordo tra moderati e progressisti; la costruzione della Repubblica italiana è stata un grande accordo, perché la DC aveva fatto un miracolo, tenendo su posizioni riformiste i moderati di questo paese e persino la destra, per mezzo di politiche sociali avanzate e progressiste. È questa la storia d’Italia. Il grande miracolo blasfemo di Berlusconi è stato invece quello di aver catturato i moderati dentro il suo populismo. Ma adesso questa fascia di italiani comincia a capire. Casini stava con lui, adesso non ci sta più e ripete tutti i giorni che deve andare a casa. Che facciamo? Lo lasciamo lì a bagnomaria? No! Su Fini si dice che noi del PD lo abbiamo inseguito… Sarà stato lui che si sarà un po’ spostato, o no? Io non ho votato la Bossi-Fini, lui ci mise il nome. Ora sugli immigrati gli sento fare discorsi che quasi mi pare di leggere Famiglia Cristiana, e io registro. Sento parlare di valore del Parlamento, sento parlare di conflitto di interessi, sento parlare di rispetto della magistratura. Cosa vogliamo fare di tutto questo? Si dice: ma quella è una nuova destra! Certo, e – aggiungo – meglio nuova e buona che balorda e vecchia come quella che abbiamo adesso, o no? Questo allora è un nostro obiettivo? 270 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 271 Le parole e le cose dei democratici Avremo le elezioni amministrative, sono a doppio turno, che si fa? Se per caso si materializza questo terzo polo, lo ignoriamo? Non è piuttosto il caso di verificare, intanto, a partire dalle amministrative, se questa alleanza è possibile e ha un senso per il governo delle nostre città? A chi argomenta che la legge elettorale nazionale è un’altra cosa, rispondo: vedremo. Intanto l’obiettivo di cambiare la legge elettorale non lo abbiamo dimenticato. In ogni caso penso che questa strategia di lungo periodo, al di là delle alleanze elettorali, non possiamo archiviarla: se vogliamo fare le riforme non possiamo farcela da soli. Se si va a votare con questa legge elettorale e con tre poli, è sufficiente il 34 per cento per vincere. Magari noi vinciamo anche con il 38-40 per cento, ma col 40 per cento dei voti, anche se prendiamo la maggioranza assoluta nelle Camere, riusciamo a fare le riforme profonde di cui questo paese ha bisogno o è necessario allargare il consenso? Non sto dicendo che ci vuole una ‘grande coalizione’ o un ‘inciucio’ con gli altri. Sto semplicemente dicendo che noi abbiamo il dovere di tenere ancorati a un progetto di cambiamento del paese anche quei pezzi di società politica che hanno capito che cosa sta avvenendo. Questa strategia io la vedo ancora piena di valore. Se dobbiamo lavorarci di più, siamo tutti disponibili a farlo. L’abbiamo detto prima rispondendo a Chiara: serve un Partito Democratico più forte, con un profilo identitario più evidente, con una capacità di comunicare al paese la sua forza. Su questo siamo d’accordo, nessuno l’ha mai negato. Dopodiché, dicono che siamo movimentisti: firme, non firme, piazze, non piazze. Ci vogliamo mettere d’accordo 271 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 272 Le parole e le cose dei democratici anche su questo? Questo paese, con queste televisioni, con questa stampa, con questa situazione, vogliamo lasciarlo narcotizzato o vogliamo provare a creare prima di tutto un punto di resistenza culturale? Il giudizio più diffuso fuori dei nostri confini un tempo era: ‘quanto è grullo Berlusconi!’; oggi comincia a essere: ‘quanto sono grulli gli italiani che se lo tengono!’. Siamo consapevoli di questo? E chi deve creare dei momenti di riflessione? Si polemizza sul fatto che abbiamo lanciato la raccolta delle firme. È stata un’iniziativa che ha permesso di interloquire con milioni di cittadini che, mentre firmavano, hanno trovato chi si confrontava con loro e con le loro idee. Andate a vedere al Nord quanti leghisti hanno firmato: sì, proprio i leghisti, perché sono stufi del loro partito che continua a reggere la palla a Berlusconi. Sarà un segnale importante questo, o no? Si chiede quante firme siano, se abbia firmato anche Gesù Cristo… Eh, magari sarebbe stato d’accordo! E comunque sono piccole provocazioni e polemiche che nulla tolgono al valore di questa mobilitazione. Le donne il 13 febbraio hanno riempito le piazze d’Italia, le riempiranno l’8 marzo, le riempirà il 12 il movimento per la Costituzione. Dovremo fare qualche cosa il 17 marzo, festa nazionale, per dire alla Lega che noi teniamo all’Unità d’ Italia: sì o no? È movimentismo questo? E se anche fosse? Dove deve stare un partito? Sta in Parlamento, sta nelle sue sedi a elaborare, a crescere, ma poi dovrà stare anche a contatto e in ascolto con il resto del mondo: avrà mille strumenti per farlo, si tratterà di aggiustare anche qui un po’ le strategie di comunicazione, abbiamo il direttore della nostra televisione, abbiamo i 272 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 273 Le parole e le cose dei democratici giornali, ci sono tante cose da pensare, non dico che tutto sia perfetto allo stato attuale… Ma come si fa a pensare che un partito come il nostro, radicato, popolare, debba stare fuori dalla ripresa di un dialogo con il paese e continuare a dire tutti i giorni che il Premier deve andare a casa? Ci viene risposto che Berlusconi tanto non ci sente. Ma noi vogliamo che ci sentano gli italiani, e che gli italiani si convincano che deve andare a casa, perché arriverà un momento nel quale potranno mettere nell’urna questo loro convincimento. O possiamo continuare a sopportare che in Germania un ministro si dimette perché l’hanno beccato che aveva copiato un pezzo della tesi di dottorato mentre noi ci teniamo un Presidente del Consiglio imputato di prostituzione minorile? Ma cosa dobbiamo fare? Movimentismo? Ma io non ci dormo! E lo dico: su questo tema qui non c’è modo che si passi al secondo punto all’ordine del giorno! Tutti i giorni, mentre si parla di lavoro, di pensioni, di crescita, d’ambiente, di scuola, di giustizia, di tutto, gli dobbiamo ricordare che Berlusconi deve andare a casa, perché non è degno di stare lì, perché, anche se noi non esistessimo, non ci dovrebbe stare! È chiaro questo? Perché uno nelle sue condizioni non occupa quel posto! E chi dice che noi non ci siamo ancora, che non siamo un’alternativa, forse non vuole ammettere che preferisce Berlusconi, e allora se lo tenga! Ma una forza come la nostra deve ricordare agli italiani in che razza di anomalia ci troviamo in questo paese. Con la crisi che infiamma l’altra sponda del Mediterraneo, chi ci prende sul serio? Una volta nulla – venisse dalla Germania, dall’Oriente o dall’America – passava dal Medi- 273 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 274 Le parole e le cose dei democratici terraneo se prima non si parlava con Roma. L’Italia era l’interlocutore principale delle politiche del Mediterraneo. Adesso invece Maroni dice: ‘gli americani si diano una calmata’. Chi si deve calmare? Chi si deve svegliare? Ci rendiamo conto che in Libia c’è una carneficina, mentre ci sono possibilità di democratizzare l’ altra sponda del Mediterraneo? Riconosciamolo che noi abbiamo accettato di parlare con dei dittatori in questi anni. È accaduto come col comunismo: pur di combatterlo abbiamo sopportato tutto. È successo lo stesso: pur di evitare altri pericoli, abbiamo sopportato i dittatori. Adesso è arrivato il momento di mandarli a casa. Ma se l’Italia fosse stata quella che è sempre stata nella sua politica estera – badate, Craxi compreso – non saremmo in questa situazione. Una situazione che paghiamo a ogni livello: nella nostra dignità, sul piano internazionale, nell’economia. E dobbiamo tacere? Si dice che tanto non ci sente. Ma cosa significa? Noi lo dobbiamo gridare tutti i giorni che lui lì non ci può stare! C. G.: Ci avviamo a concludere. Siamo in Toscana, terra di ‘rottamatori’: sarebbe troppo facile, dato che ci conosciamo, Fausto, provocarti chiedendoti se ‘rottamazione’ dovrà essere una parola dei democratici. Effettivamente, però, perché non dovrebbe il Segretario nazionale dei Giovani Democratici interessarsi anche alla questione del rinnovamento generazionale dentro il Partito Democratico? Una delle cose che ho letto in questi giorni è che, se abbiamo fatto qualche errore di comunicazione (ammesso e non concesso!) nella questione delle gestione delle firme online per la campagna ‘Berlusconi dimettiti!’, 274 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 275 Le parole e le cose dei democratici il motivo è che abbiamo troppi dirigenti sessantenni che non sanno usare la Rete. F. R.: Mettiamola così: quelli che sanno usare la Rete, non più di un mese e mezzo fa, hanno preso il treno per andare ad Arcore e non mi sembra che abbiano avuto risultati sul piano della comunicazione particolarmente più interessanti e produttivi. Personalmente resto convinto del fatto che il nostro problema sia un altro e vada un po’ più in profondità. La questione vera è cosa vogliamo comunicare, poi il come farlo viene dopo, anche se naturalmente si potrebbe migliorare anche in quello. Non mi sono intestato battaglie di rinnovamento generazionale e onestamente non intendo farlo, perché non credo che sia quello il tema. Dietro l’espressione, pur bella, ‘rinnovamento generazionale’, spesso si nasconde una cultura, un modo di vedere il Partito Democratico e alcuni suoi limiti che sono troppo simili a quelli della generazione che servirebbe a sostituire. È questa la ragione per cui la battaglia del rinnovamento generazionale mi interessa il giusto. Innanzitutto, sono interessato a contribuire a costruire il Partito Democratico, perché credo sia questo il primo nodo da sciogliere. In secondo luogo, ho la sensazione che quelli che dicono ‘lasciateci spazio!’, lo dicano perché, in realtà, lo spazio non hanno la forza politica di prenderselo. Ma in un partito democratico è il consenso che permette di aprire stagioni di cambiamento: se non si ha la forza, è troppo facile fare appello a che qualcuno ti possa lasciar passare. Intanto, perché questo non avviene: mi sembra che in questo partito ormai ci conosciamo tutti a sufficienza da 275 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 276 Le parole e le cose dei democratici saperlo. In secondo luogo, perché l’età anagrafica probabilmente non basta a giustificare la richiesta di un cambio di passo. Terzo, ed è la cosa che onestamente mi sta più a cuore, io sono uno di quelli che è andato all’assemblea dei ‘rottamatori’ di ‘Prossima Fermata Italia’ alla Stazione Leopolda a Firenze; sono intervenuto, e ho fatto anche fatto discutere, ma dopo, non a caso, è sceso il silenzio. In quell’occasione sono andato a dire alcune delle cose che ho detto anche qui, cioè che penso che il problema principale, se davvero vogliamo parlare di rinnovamento della politica, è tornare a coniugare il tema del lavoro con quello della democrazia. Erano i giorni di Pomigliano, e mi diedero anche ragione. Un paio di mesi dopo si apre il caso di Mirafiori, e il sindaco di Firenze interviene dicendo: ‘io sto con Marchionne’. Se quello è il rinnovamento, lasciatemi dire: ‘non mi tengo i sessantenni, rivoglio indietro quelli di novant’anni!’. Se non è un tema politico generale che riguardi intanto la sfera della cultura politica e del progetto politico del Partito Democratico e che, anzi, mi riporta con le lancette dell’orologio indietro alla stessa cultura liberista e del neoliberismo che il PD nasce per superare, allora è un tipo di rinnovamento di cui me ne faccio ben poco. Se il rinnovamento è semplicemente una modalità di costruzione di carriere personali, fatto da narcisi, papaveri che hanno la pretesa di alzarsi sul podio e fare la lezione agli altri, come se necessariamente l’età anagrafica significasse che ne sanno di più, ne faccio volentieri a meno. Al contrario, il rinnovamento è battaglia collettiva. Nel momento in cui abbiamo come Presidente del Consiglio un uomo di settantaquattro anni, è ben complicato lamen- 276 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 277 Le parole e le cose dei democratici tarsi solo del PD. È vero che c’è un tema. Ma è anche vero che chi illude gli altri, ma non se stesso, di poterlo risolvere per l’ennesima volta in chiave personalistica e di leadership – perché questa è la cultura sottesa a un certo modo di concepire il rinnovamento – non prova a fare il rinnovamento, ma tenta esclusivamente di affermare la propria presenza, il proprio peso, il proprio potere politico. Ma per chi è capo di un’organizzazione collettiva, per chi, quindi, pensa, lavora e costruisce percorsi in un altro modo, cioè mettendo il problema di chi è il capo sempre alla fine, e il problema di qual è la politica sempre all’inizio, questa è una strada che non può accontentare. È una strada che io, necessariamente, per cultura e per funzione, rifiuto. Penso che sia la riproposizione di un modo sbagliato con cui abbiamo costruito il PD, un modo che non contribuisce a costruirlo, ma soltanto a riportarlo su una strada vecchia, che speravo, con questa stagione nuova del PD, noi iniziassimo definitivamente a superare. In questo modo, anziché guardare avanti, si riportano indietro le lancette dell’orologio. Ecco, io le lancette dell’orologio preferirei lasciarle continuare a correre. Quando arriverà il tempo, quando avremo la capacità, la forza, quando saremo in grado di farlo sulla base di un progetto politico chiaramente alternativo, allora sarà il caso di bussare e dire: ‘guardate, è stato bello, ma una fase si è chiusa: ora è arrivato il momento di aprire una stagione diversa’. C. G.: Mi sembra proprio che l’ultima parola la debba avere la Presidente del partito, e allora faccio una piccolissima domanda, altrettanto poco originale di quella che 277 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 278 Le parole e le cose dei democratici ho fatto a Fausto all’inizio, suggerita proprio dalle cose che lui diceva adesso. Perché un giovane che vuole fare politica dovrebbe scegliere questo strano partito bistratto da molti, qualche volta anche dai suoi stessi dirigenti, e che pretende anche di parlare un linguaggio diverso dalla politica alla quale siamo abituati, di non avere un meccanismo personalistico, di non avere il nome del suo leader nel simbolo e di non essere il partito di qualcuno? R. B.: Per cominciare, a un giovane direi che se vuole un paese che non sia organizzato contro i giovani deve decidersi a impegnarsi direttamente. Siamo un paese di vecchi e i numeri contano in democrazia: quando ero giovane, la demografia italiana era rappresentata da una piramide; adesso è una cipolla spostata verso una piramide rovesciata. Per noi era facile essere al centro; per voi è molto complicato, e dovete esserci anche in maniera creativa, senza avere paura di disturbare. Ve lo dico: ci sono dei modi assolutamente pacifici per far sentire la propria voce, ma bisogna farla sentire, perché il megafono non ve lo regala nessuno. E se qualcuno ve lo regala è per farvi dire le cose che vuol sentirsi dire. Un impegno politico diretto è quindi una strada obbligata in questo momento per capovolgere la situazione. Anche per le donne è un po’ così: noi siamo un po’ di più ma siamo rassegnate da troppo tempo. Anche per noi, però, vale lo stesso ragionamento: nessuno ci regala nulla e dubitate di chi vi fa regali. Non vi dico una cosa originale ma ve la dico con sincerità: irrompete e fate la vostra parte perché resterà un paese organizzato contro di voi se non c’è una presenza forte che afferma le vostre esigenze. A me la 278 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 279 Le parole e le cose dei democratici stagione delle contestazioni nelle università era piaciuta: vi invito a non fermarvi perché le scelte che sta facendo questo governo nel settore formativo e anche per il lavoro sono devastanti. Abbiamo il numero più alto di giovani che né studiano né lavorano, né cercano un luogo per studiare né cercano un luogo per lavorare. A questi giovani qualcuno deve pensare, e i più fortunati tra di voi devono andare a scovare questi ormai tre milioni di persone. Una società che pensa di poter fare a meno di tre milioni di persone è una società malata. Dato, però, che probabilmente la testa non si cambia, non c’è altro modo se non la vostra presenza. Poi perché scegliere il PD? Perché, paradossalmente, è il progetto più incompiuto nel quale potete dare di più. Noi non vi proponiamo una cosa già confezionata. Non sto dicendo il contrario di quello che ho detto prima: il progetto c’è, il programma c’è, ma è in progress, ed è lì che potete contare e fare qualcosa di davvero utile. Non vi si chiede di entrare in un luogo in cui tutto è già messo a posto: è una casa da finire di costruire, di arredare, da presentare all’esterno, un luogo nel quale il cantiere è aperto. Chi meglio di voi può dare un contributo importante? Quale situazione migliore di questa per poter fare la vostra parte? Io credo davvero che per il futuro di questa società voi possiate e dobbiate giocare un ruolo da protagonisti, per contribuire a organizzarla in modo che sia amica dei giovani e non loro avversaria. 279 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 280 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 281 PANEL V Quale europeismo per i democratici nella crisi dell’idea di Europa? 281 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 282 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 283 Piero Graglia Docente di Storia dell’integrazione europea, Università degli Studi di Milano Insegno Storia dell’integrazione europea alla Statale di Milano e sono un federalista europeo: sono iscritto al Movimento Federalista Europeo dal 1987 e, nello stesso tempo, sono iscritto al PD per il quale sono stato anche candidato alle europee nella circoscrizione Nord-Ovest. Posso dire, dunque, di avere speso una vita per promuovere l’unificazione dell’Europa – una mezza vita, dato che ancora non sono tanto vecchio. Ma quello che mi preme più di dirvi in via introduttiva è che insieme ad altri colleghi abbiamo costituito, il 29 aprile 2010, la ‘Rete 29 aprile’ che ha guidato e animato le proteste dei ricercatori strutturati e precari contro la riforma Gelmini. Da un anno a questa parte ho accantonato in parte l’impegno della ricerca per occuparmi quasi a tempo pieno della Rete 29 Aprile, della dimensione europea di una possibile riforma universitaria e della legge forse più discussa e contrastata degli ultimi anni; questo almeno fino a dicembre (quando la legge purtroppo è passata). Non per questo ritengo che l’esperienza della ‘Rete 29 aprile’ sia andata perduta: ogni fenomeno di aggregazione politica, che spinga a parlare di problemi concreti e porti persone di diversa provenienza ed esperienza a confrontarsi fattivamente su progetti alternativi di governo di un sistema complesso come quello universitario, rappresenta un ca- 283 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 284 Le parole e le cose dei democratici pitale eccezionalmente importante. Questo soprattutto per un partito come il PD, che dimostra alla base una notevole vivacità intellettuale, spesso purtroppo non disgiunta da un certo conformismo in alcuni dei suoi vertici. Far politica – ce lo insegna con angoscia la vasta serie di rivolte popolari nell’Africa del Nord – non deve essere mai un’esperienza legata solo alla propria soddisfazione personale, ma deve essere esperienza collettiva, condivisa, partecipata. E l’Europa e la sua costruzione, declinata anche come trasformazione della società italiana e delle sue dinamiche politiche, è la politica che più amo e che faccio più volentieri. Per questo ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare a questo incontro. Ho pensato di cominciare il mio intervento facendo un piccolo divertissement, un piccolo gioco, partendo proprio dalla parola «Europa». Visto il tema di questo panel, ho voluto fare una cosa che non si fa molto spesso: verificare su vari dizionari europei come viene interpretata la parola «europeismo». L’esercizio è stato divertente perché, per esempio, in inglese, l’Oxford Dictionary parla di «Europeanism» come derivazione di «Europe» senza fornire alcuna spiegazione aggiuntiva (anche se l’aggettivo «European» viene usato anche per indicare una persona «committed with the European Union»). Il dizionario francese Larousse è molto più accurato e ricco di sfumature: comincia a parlare di «européanisme» e apporta varie classificazioni: «tendenza a considerare le cose a livello europeo, a dare un carattere europeo; più particolarmente, tendenza favorevole all’unificazione dell’Europa». Aggiunge poi che «la prima comparsa di un termine analogo, [«europeisme», non «européanisme»] è del 1807, 284 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 285 Le parole e le cose dei democratici grazie a Tayllerand che lo usava parlando di Napoleone». Già si sente profumo di storia e di complessità in una definizione come questa. I tedeschi, come gli inglesi, non si spendono in molti discorsi: «Europagedanke», «pensiero sull’Europa», senza fornire alcuna spiegazione su cosa sia l’europeismo per il senso comune della lingua tedesca e su quale livello di coinvolgimento ci si pone quando si usa questa parola: è semplicemente una mutazione, un’alterazione morfologica della parola «Europa» con questo suffisso importante, «Gedanke», cioè «pensiero», «idea». In italiano, sul dizionario Treccani, trovo invece una definizione che potremmo definire tra l’hegeliano e il militante: «movimento politico e di idee che, sulla base delle fondamentali affinità culturali e storiche che legano fra loro i popoli d’Europa» – quali esse siano non è specificato – «tende a promuovere un progressivo avvicinamento tra i vari Stati nazionali europei fino alla costruzione di un’Europa spiritualmente e politicamente unita con radici lontane nella componente cosmopolita della Rivoluzione Francese». Da notare che «spiritualmente» e «politicamente» sono termini che indicano due dimensioni che non stanno così facilmente insieme. La definizione continua: «È stato variamente sostenuto per tutto il secolo XIX e buona parte del XX, ma solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ha perduto il suo carattere elitario per dar vita alla costruzione di organismi politico-giuridici: Consiglio d’Europa, CEE» – qui andrebbe messa in discussione l’affinità fra un Consiglio d’Europa e una CEE che sono realizzazioni estremamente differenti – «che hanno avviato un processo di integrazione economica e politica fra i maggiori paesi dell’Europa Occidentale». 285 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 286 Le parole e le cose dei democratici Ecco: se uno studente mi dà una spiegazione di questo tipo ad un esame, io lo boccio senza pensarci due volte, perché espone fattori magari reali e credibili ma somma insieme quantità diverse senza criterio: la spiritualità, l’integrazione politica, il Consiglio d’Europa (organismo di pura consultazione tra gli Stati europei) e la CEE (organismo con funzioni sovranazionali). Tutti elementi che non possono assolutamente stare insieme a meno di accompagnare una definizione simile con un centinaio di pagine di esplicazioni e di puntualizzazioni. Senza contare un particolare che dovrebbe essere sottolineato ai signori della Treccani: dal 1992 abbiamo l’Unione Europea che rappresenta il massimo ‘avvicinamento politico’ (sullo «spirituale» ci sarà da tornar sopra), ma dal 2007, con il Trattato di Lisbona, dobbiamo imparare a dimenticare il lemma «Comunità Europea», che scompare, per usare sempre e solo «Unione Europea». Dunque la definizione di «europeismo» che il bravo studente trova sul dizionario Treccani lo porta totalmente fuori strada, è incompleta, inserisce nell’elaborata sequenza di elementi fondativi dell’europeismo anche un ambiguo afflato «spirituale» nei confronti del quale ogni persona che voglia fondare la sua azione politica su basi concrete e non su sentimenti o gridolini o palpiti dell’animo dovrebbe mantenere una certa guardinga diffidenza. Proviamo a descrivere un percorso storico-ideale convincente. Se vogliamo individuare una data di nascita della parola «europeismo», intesa non come afflato filosoficospirituale ma come movimento che opera nel campo politico, bisogna guardare agli anni tra le due Guerre Mondiali. Qui la definizione della Treccani non ci aiuta, dato 286 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 287 Le parole e le cose dei democratici che parla di «movimento politico o di idee». Occorre invece operare una distinzione. Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi era un diplomatico ungherese, figlio di madre giapponese e di padre ungherese; non sapeva il francese (anche se le sue idee hanno avuto un grande successo in Francia) ed è il padre del movimento cosiddetto di ‘Paneuropa’, esempio di quell’europeismo elitario di cui parlava la nostra definizione del dizionario. Coudenhove-Kalergi nel 1926 organizza il primo Congresso di questo movimento: un movimento che non è strutturalmente votato alla pace universale ma parla apertamente di difesa dell’Europa dai possibili pericoli che la circondano e che minacciano di aggredirla. Una sorta, diciamo, di leghista di incommensurabile levatura e intelligenza… Apro una parentesi: se parlo a Calderoli o a Bossi di Coudenhove-Kalergi, probabilmente mi rispondono che sono due calciatori stranieri dell’Atalanta; di sicuro non saprebbero dire chi sia questo maggiore che ha parlato di federazione europea e di unità europea. Si tratta, invece, di un personaggio estremamente importante, perché per la prima volta richiama l’attenzione sui pericoli e sulle minacce, anche di tipo economico, che l’Europa deve affrontare, dando un senso e una forma organizzata a un inquieto stato d’animo che aveva preso piede nelle classi dirigenti europee dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e della connessa centralità europea nel mondo. Coudenhove-Kalergi è parte attiva di quella ‘coscienza della crisi europea’ diffusa dopo il 1919 e descrive la situazione di un continente assediato: parla di ‘pericolo giallo’ – il Giappone, in prospettiva la Cina – e di ‘pericolo rosso’ – l’Unione Sovietica. Da ultimo, 287 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 288 Le parole e le cose dei democratici evoca un pericolo più commerciale e meno aggressivo, che potremmo definire il pericolo ‘a stelle e strisce’: la competizione, in prospettiva, degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa. L’unica via dell’Europa per difendersi è contrastare la Pan-America organizzata dagli Stati Uniti, la Pan-Asia rappresentata dal complesso sino-giapponese, l’impero britannico che è Pan- anche se gli manca il suffisso geografico. In tali condizioni, una forma non meglio definita di unità europea (possedimenti coloniali inclusi) è un imperativo che gli Stati europei non possono eludere, pena il reciproco annientamento e la colonizzazione da parte dei potenti vicini, presenti e futuri. Le premesse di Coudenhove-Kalergi sono ancora oggi impressionanti per il carattere profetico e per la lucidità con cui il fondatore di Pan-Europa disegna le diverse alternative per il continente, soprattutto pensando a ciò che avverrà dal 1939 al 1945; ciò che manca nel suo disegno è, però, il coraggio di andare fino in fondo al ragionamento che sta alla base del suo progetto. Coudenhove-Kalergi infatti parla di unità europea ma esclude esplicitamente che si debba limitare la sovranità degli Stati partecipi di questa unità. Se i venticinque Stati europei vivono in una condizione di anarchia internazionale (come dice Kalergi), non è certo sostenendo il mantenimento di tale sovranità che l’Europa potrà raggiungere la sperata unità e realizzare gli ‘Stati Uniti d’Europa’. A meno che parlare di ‘unità’ non significhi semplicemente il perseguimento di un generico ‘bene comune’, l’evidente convenienza della cooperazione europea in molti campi, ma senza dare agli ‘Stati Uniti d’Europa’ la forma istituzionale di una vera e propria federazione, con un governo unico, una moneta 288 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 289 Le parole e le cose dei democratici unica, un’unica politica estera e di difesa. Dagli anni Venti in poi Coudenhove-Kalergi porta comunque avanti un’ampia propaganda, organizzando una sorta di grande Rotary europeista e diffondendo, anche con qualche risultato interessante, le sue idee in tutta la diplomazia europea. Nel 1930, ad esempio, Aristide Briand, il Ministro degli Esteri francese, propone di creare una sorta di federazione europea sulla base delle suggestioni di Coudenhove-Kalergi. Tuttavia, a seguito della grande crisi del ’29, poco spazio resta per parlare di cooperazione e collaborazione europea: il sacro egoismo del nazionalismo economico, nella vuota ricerca di una salvezza dalla crisi globale, diventa la norma. Al posto dell’europeismo difensivo di Coudenhove-Kalergi subentra una prospettiva diversa di unificazione europea forzata, per nulla aliena dall’idea di unificare il continente. È il nuovo ordine europeo di Hitler. Tra Coudenhove-Kalergi e Hitler, fatte ovviamente le debite proporzioni e tenendo in considerazione le diverse capacità di potenza e di influire sul corso della storia, la visione è molto simile. Il nuovo ordine europeo è l’idea di un barbaro autentico: un modo per porre la fortezza Europa al riparo dagli influssi esterni; un progetto di integrazione schiavista su base economica e politica che vede gli specialisti di Hitler parlare apertamente e diffusamente di ‘comunità europea’. Stiamo attenti, tuttavia: non dobbiamo pensare che Hitler fosse soltanto animato dal progetto folle di fare grande la Germania garantendole lo ‘spazio vitale’. La Germania è grande perché dominerà l’Europa, con una perversa, precisa, metodica distinzione tra popoli schiavi e popolo padrone. Il suo è anche un progetto di unifica- 289 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 290 Le parole e le cose dei democratici zione europea? Assolutamente sì: l’unificazione dell’assimilazione o dell’eliminazione. È un progetto accettabile? Assolutamente no. Ma il nuovo ordine europeo aggressivo, che supera l’ansia difensiva propria dei movimenti elitari e ideologici come quello di Coudenhove-Kalergi, porta ad una reazione in tutto l’antifascismo e l’antinazismo; induce a far pensare in maniera forte e determinata a una Europa unita sulla base non del ferro e del fuoco e della sopraffazione, ma su una base consensuale: la volontà liberamente espressa da parte dei popoli europei. Gli artefici di questa idea, che oggi celebriamo come due punti di riferimento anche per il Partito Democratico, sono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Essi elaborarono una visione di unificazione e federazione europea del tutto diversa sia da quella di Coudenhove-Kalergi sia da quella, ovviamente, che Hitler cercò di realizzare con le armi e con la violenza sterminatrice. E lo fecero nel forzato isolamento del confino di polizia che gli era stato imposto, con storie e motivi diversi, dopo aver scontato numerosi anni di carcere per la loro attività antifascista. Come tutti i regimi dittatoriali, violenti ma stupidi e privi di immaginazione, il fascismo pensava, erroneamente, che concentrare tutti gli oppositori in un solo luogo fosse il modo migliore per controllarli: non pensava che questo è invece il modo migliore per permettere ai dissenzienti di tenersi in contatto ed elaborare visioni politiche comuni. Isolati, dunque, sull’isolotto di Ventotene, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, diventati amici dopo essersi incontrati proprio sull’isola, cominciano a ragionare sulla base della realtà del loro tempo, vale a dire del dominio tedesco dell’Europa. L’interrogativo dal quale muovono, 290 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 291 Le parole e le cose dei democratici il loro quadro di riferimento, è il seguente: se fino ad oggi le relazioni tra Stati sono state dominate dal principio della sovranità assoluta, vi è un modo per superare questa impostazione e far sì che gli Stati europei possano convivere senza farsi guerra con cadenza ventennale e senza subire la spinta egemonica del più forte? La soluzione che i federalisti di Ventotene trovano è quella di richiamarsi al federalismo anglosassone hamiltoniano e di invocare la fine della centralità dello Stato nazionale sovrano. Per Rossi e Spinelli lo Stato nazionale sovrano ha esaurito la propria funzione storica: occorre passare a un soggetto di tipo nuovo. Questa nuova dimensione essi la trovano appunto nel federalismo di stampo hamiltoniano, come risposta al fallimento dello Stato nazionale e alla necessità che, in un’ottica federale, gli Stati nazionali cedano una parte sostanziosa della loro sovranità, in particolare in quattro aree fondamentali: politica estera, difesa, moneta, politica economica. È questo l’unico modo – sostengono i federalisti di Ventotene – per salvare la civiltà europea. Queste idee vengono elaborate all’interno di un documento che, scritto nell’anno più buio e incerto della guerra – il 1941 – diviene la base dell’europeismo federalista: il Manifesto di Ventotene. Il suo titolo completo era Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto ed è stato ripubblicato anche recentemente dal Corriere della Sera, dato in omaggio come ultimo della prima serie dei grandi classici del pensiero libero. In quelle pagine è contenuto proprio questo richiamo a una necessità storica ormai ineludibile: lo Stato nazionale sovrano, per non scomparire, deve perdere una parte della propria sovranità almeno nei quattro ambiti sopra ricordati. Il risultato 291 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 292 Le parole e le cose dei democratici di questo processo, la federazione europea, sarà l’unica garanzia per evitare nuove guerre mondiali. Questa è la base fondamentale di tutto l’europeismo federalista democratico che, durante gli anni della guerra, fa tabula rasa sia dei progetti di nuovo ordine europeo proposti da Hitler (sconfitto in seguito non solo dalle idee ma anche dalla forza delle armi britanniche, sovietiche e americane) sia di quell’europeismo generico, un po’ sentimentale, retorico e vuoto che ricordavo all’inizio. Cosa resta di questi progetti europeistici e federalisti dopo la Seconda Guerra Mondiale? Il Manifesto di Ventotene non è un fenomeno solo italiano. I principi federalisti si diffondono in Francia (Albert Camus, Emmanuel Mounier, Henri Frenay), in Germania (i giovani sfortunati studenti della Weisse Rose), in Polonia, in Norvegia, in Olanda: ovunque sorgono idee di tipo federalista; persino il piccolo movimento antinazista è europeista e vicino a una concezione di tipo federale per il futuro dell’Europa. Oggi si parla di ‘federalismo’ soprattutto come federalismo interno, cedendo spesso, peraltro, all’approssimazione e all’improvvisazione concettuale, ma se c’è una caratteristica che unisce tutta la resistenza europea anti-nazifascista, questa è proprio la petizione di principio forte a favore di un’unificazione politica dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. È un elemento caratterizzante, espresso in maniera chiara e vigorosa all’interno delle diverse resistenze europee che, non so poi per quale motivo, abbiamo perso per strada, al punto che quasi nessuno più ne parla. È chiaro che, quando dico ‘non so poi per quale motivo’, uso una figura retorica polemica, perché i motivi li sappiamo benissimo. 292 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 293 Le parole e le cose dei democratici Dopo il secondo conflitto l’Europa si risveglia distrutta: a decidere del futuro dell’Europa non sono gli europei ma è la potenza di riferimento, gli Stati Uniti d’America. La politica estera nordamericana degli anni Quaranta e Cinquanta è lungimirante nei confronti dell’Europa, anche perché gli americani non hanno alle spalle una tradizione di rapporti con l’Europa e devono crearla dal nulla. Il pragmatismo, così caratteristico della progettualità politica statunitense, fornisce un evidente e immediato principio ispiratore: l’invito a replicare in Europa l’esperienza statunitense. Ogni qualvolta si confrontano con gli europei e con il problema della costruzione europea, alla fine di ogni discorso tecnico – si tratti del Piano Marshall, dell’organizzazione dell’OECE o della European Cooperation Administration che gestirà gli aiuti Marshall tra i sedici paesi europei e l’amministrazione americana – ogni proposta americana si conclude sempre con una petizione forte che invita gli Stati europei a fare come gli Stati Uniti d’America, a federarsi: una federazione di Stati consentirebbe, infatti, una gestione degli aiuti molto più agevole rispetto alla difficoltà di concertare il soccorso a sedici soggetti distinti, avrebbe maggiori possibilità di costituire una valida barriera difensiva nei confronti di una minaccia di espansionismo sovietico, renderebbe l’Europa occidentale più solida. Lasciamo da parte la questione se la minaccia sovietica fosse reale o figurata: personalmente sono convinto che Stalin non avesse alcuna intenzione di muovere guerra all’Occidente per fagocitare anche l’Europa occidentale (del resto doveva fermarsi a digerire tutta l’Europa orientale); ma di certo avrebbe accolto ogni occasione per allargare la sua già vasta zona di influenza 293 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 294 Le parole e le cose dei democratici e di espansione. In ogni caso a noi interessano fino a un certo punto le ricostruzioni successive dei fatti: quel che conta è la percezione della minaccia sentita all’epoca, e questa era altissima. Non è un caso, quindi, che gli Stati Uniti propongano agli europei ripetutamente l’idea dell’unificazione europea, che viene avanzata nel 1947 con il Piano Marshall, poi nuovamente nel ’49 a fronte della cattiva gestione, da parte dell’Europa, degli aiuti Marshall. Una simile richiesta non verrà mai completamente accolta dagli europei: francesi e inglesi in particolare rifiutano ogni cessione di sovranità implicita nella petizione statunitense. Gli europei organizzeranno autonomamente le prime comunità economiche, ma saranno sempre deboli e incerti nel dare una dimensione politica all’integrazione economica. Si tratta di una grande occasione persa, che vede coinvolta anche l’Italia: la mancanza di decisione del nostro paese su questo piano, almeno fino al 1950, e l’incapacità di pensare oltre le parole e le idee consuete, superando il modulo organizzativo classico dell’Europa – lo Stato nazionale sovrano – ci hanno portato al punto in cui siamo oggi. Le difficoltà nate da una preziosa occasione persa allora emergono prepotentemente oggi, nei problemi che un’Europa nata solo sulla base della cooperazione economica, dal 1950 in poi (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) fino al sorgere dell’Unione Europea nel 1992, si trova ad affrontare. Fino al 1989 l’Europa ha potuto godere di una sorta di ‘bolla ecologica’ in cui è cresciuta enormemente dal punto di vista economico-commerciale, disinteressandosi di qualsiasi tipo di integrazione o cooperazione politica, surrogata efficacemente dalla 294 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 295 Le parole e le cose dei democratici presenza, politica e militare, degli Stati Uniti. Quando l’euro-americano Kissinger nel 1971 si lamentava del fatto che, trattandosi di chiedere l’opinione degli alleati europei, lui non sapeva che numero di telefono chiamare perché l’Europa non aveva una voce unica, esprimeva non solo la frustrazione dell’amministrazione di Washington, ma forse proclamava anche il suo personale disprezzo per l’incapace, immobile vecchio continente, ricco e tardo, seguace di Venere e non di Marte. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 si assiste, tuttavia, a una accelerazione del processo di integrazione: nasce l’Unione Europea nel 1992 e si progetta l’allargamento ai dieci paesi dell’Europa dell’Est gestito in maniera lungimirante dalla Commissione Prodi intorno agli anni 2000. Tuttavia, oggi è ancora assente una Unione Europea in politica estera. Come disse il Ministro degli Esteri belga in occasione della crisi dell’Iraq nel 1990-’91, l’Unione Europea è un gigante economico, un nano politico e un verme militare: è un organismo che non sa intervenire sulla scena internazionale, eppure è il primo soggetto economico-commerciale mondiale. Il suo PIL è maggiore di quello degli Stati Uniti, la sua presenza sul mercato internazionale è maggiore di quella degli Stati Uniti; a questa dimensione economica, però, non corrisponde un’analoga dimensione politico-istituzionale. C’è un vuoto: lo abbiamo visto con la crisi nella ex-Jugoslavia e con i suoi massacri tollerati e silenziosamente subiti dall’Unione e lo vediamo oggi in modo eclatante con la crisi nel Nord-Africa. Per questi motivi bisogna ritornare a ragionare, a progettare con una visione: i francesi definiscono visionnaire 295 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 296 Le parole e le cose dei democratici una persona che pensa a qualcosa di grande. Noi italiani, invece, quando parliamo di un ‘visionario’, ci riferiamo a una persona che non ha i piedi ben piantati a terra. Il mio suggerimento è: facciamo i francesi, cerchiamo di essere visionari, di avere una visione, di recuperare, attualizzandolo e migliorandolo, il pensiero dei federalisti di Ventotene. Cominciamo a pensare che ciò che viene richiesto oggi all’Europa è una dimensione politico-istituzionale per operare all’interno della scena mondiale, portatrice dei suoi valori, che non sono disprezzabili. Se mancherà questo, siamo destinati inevitabilmente al declino. Quando si inizia a scendere lungo la china del declino, cominciano a profilarsi anche le soluzioni à la Coudenhove-Kalergi: ‘dobbiamo difenderci’. No. Non dobbiamo difenderci. Da chi? Dai cinesi, dall’India, dal Brasile, da chissà quale Stato del mondo anelerà in futuro a guadagnare un livello di benessere economico, sociale, culturale compatibile con il nostro? La difesa crea sempre nuovi nemici, annulla gli stessi motivi per cui pensi di doverti difendere: fa scomparire la serenità e crea uno stato convulsivo di attenzione, sospetto, cautela, rabbia. In nome della difesa della european way of living si potrebbe assurdamente giustificare anche un accantonamento di quei vantaggi e di quelle misure di welfare che giustamente ci rendono diversi – anche e soprattutto durante le crisi economiche – dagli Stati Uniti e dai paesi non fondati sull’economia sociale di mercato. Se pensiamo ‘in difesa’ siamo spacciati. Dobbiamo invece essere noi europei a proporre qualcosa di nuovo per il resto degli Stati mondiali, sulla base dell’esperienza economico-sociale che si realizza, da più di sessant’anni, grazie al processo di costruzione europea. 296 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 297 Le parole e le cose dei democratici L’Unione Europea è un modello di integrazione regionale ammirato e replicato ovunque nel mondo e bisogna dare un senso ‘politico’ a questo modello; non possiamo assolutamente pensare che l’Europa sia sotto assedio, perché in questo modo scatta la paura del diverso e dell’invasione che sta alla base della visione di Coudenhove-Kalergi o di Hitler. Noi non vogliamo questo. Come democratici e come partito moderno e serio non dobbiamo volere questo. Dobbiamo combattere in tutti i modi una battaglia perché le parole ‘Europa’ ed ‘europeismo’ non vengano declinate in senso difensivo ma di proposta: per un governo europeo dell’economia che fronteggi la crisi e proponga soluzioni che altrimenti restano ostaggio dei diversi egoismi nazionali; per un sistema di difesa comune che scardini i gruppi di interesse che crescono all’ombra di ventisette sistemi diversi di commesse statali militari; per una fiscalità europea che integri e in parte sostituisca quella nazionale e dia più risorse all’Unione per politiche comuni dell’Unione. Siamo alla vigilia di una fase che vedrà sempre più in discussione e sotto assedio l’integrazione economica e monetaria e il suo simbolo, l’euro: se non spostiamo la nostra azione sul piano di quelle che gli americani definiscono le High Politics siamo inevitabilmente condannati a subire il lento logoramento dell’Unione Economica e a risvegliarci tutti, chi più chi meno, nella palude degli egoismi nazionali che la nostra Lega Nord così bene impersona e propaganda. Abbiamo un compito: essere parte attiva della storia e non farcela soltanto raccontare. Facciamolo. 297 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 298 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 299 Francesco Gui Professore di Storia dell’Europa, Università La Sapienza di Roma Mi sia consentita la parte del visionario, non so se all’italiana, ossia quale predicatore di miraggi irraggiungibili, o alla francese, nel senso di possedere una vision. Permettetemi a questo proposito di riportare una piccola citazione: «Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto; abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa». Sono le parole di Giorgio Ambrosoli in una lettera a sua moglie Annalori. Con questa citazione apposta in esordio, alcuni di noi, tra i quali lo stesso Graglia e anche Matteo Trapani, hanno qualche tempo fa inviato un appello al Segretario del PD Bersani in cui sono contenute più o meno le risposte ad alcune delle questioni sollevate qui. Per la verità il Segretario Bersani ancora non ci ha risposto: una delle ragioni per cui ho accettato questo invito è per sottolineare che forse sarebbe il caso di dare una risposta a questa pattuglia di federalisti che sono in parte iscritti, in parte vicini al PD. Cosa abbiamo scritto nell’appello al Segretario? Probabilmente siamo stati un po’ troppo ambiziosi, ma quanto ho sentito stamattina in questo Seminario mi rassicura del fatto che almeno la nostra provocazione non era del tutto sbagliata. Noi abbiamo l’impressione che il PD ab- 299 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 300 Le parole e le cose dei democratici bia in qualche misura un problema di identità: chi mettiamo insieme, dove dobbiamo andare, da dove veniamo, e via dicendo. Allora a noi è parso che attorno all’identità federalista europea si possa ritrovare una storia dei movimenti popolari italiani. Ho sentito tanto parlare di sinistra, ma l’ambizione, secondo noi, del PD deve essere quella di essere qualcosa di più che semplicemente il partito di sinistra legittimante una destra che dovrebbe essere altrettanto costituzionale. In realtà noi siamo in una situazione in cui c’è bisogno di rifondare il modello costituzionale italiano. Se c’è stato un difetto, è stato quello di accreditare il berlusconismo come parte di un sistema, di un assetto istituzionale ben fondato, di tipo per così dire ‘occidentale’, che di fatto, proprio a causa del berlusconismo, non poteva essere tale. Qui bisogna ritornare alle radici costituzionali della Repubblica, fondate su un idem sentire de republica condiviso da tutte le sue componenti politiche e di cui l’identità europea e la tensione verso la sovranazionalità sono parte integrante. L’art. 11 – lo sapete tutti – prevedeva proprio questo. E non certo come improvvisato antidoto, per quanto efficace, alla tragedia del nazionalismo bellicista, e nemmeno come fulminante rivelazione acquisita per imitazione del modello federale americano trionfante, bensì come portato di una cultura consolidata, evolutasi fin dal secolo precedente e giunta a maturazione proprio durante il fascismo e la stagione della Resistenza. Una cultura che fa parte integrante della storia dei movimenti popolari europei e che non può essere ignorata, che anzi deve diventare il cemento, il fondamento, il fattore identitario della nostra democrazia e di quella di 300 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 301 Le parole e le cose dei democratici tutta l’Unione. È un peccato che ancora oggi non ce ne sia abbastanza consapevolezza, né nel ceto politico, né nell’opinione pubblica e nemmeno nelle scuole o nei luoghi di formazione. Eppure il processo di avvicinamento dei popoli alla costruzione della democrazia europea non solo va raccontato, ma deve essere riconosciuto come parte integrante della storia del Partito Democratico. In quella storia non c’è solo Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi e la sua Paneuropa: in realtà, anche se il particolare è praticamente sconosciuto, quando nel 1867, a Ginevra, si tenne il Congresso della Pace, dei Diritti dell’Uomo e degli Stati Uniti d’Europa, a presiederlo venne invitato Giuseppe Garibaldi e vi si parlava di federazione europea. La Prima Internazionale stessa condivideva largamente questo obiettivo. E sempre a proposito di Garibaldi, nei giorni di Teano egli non solo consegnò il Mezzogiorno a Vittorio Emanuele, ma lanciò un appello ai governanti di tutta Europa per la federazione europea. Certo, poco dopo Ginevra il continente avrebbe conosciuto una svolta per molti aspetti non prevista, quella dell’unificazione tedesca e dell’affermazione del modello bismarckiano, che avrebbe fatto svanire molti sogni nel nulla. Tuttavia il messaggio degli Stati Uniti d’Europa è sempre riscontrabile nelle tradizioni della Prima e anche della Seconda Internazionale; lo possiamo ritrovare nel pensiero socialista e democratico, non meno che in Nitti, in Einaudi, in Rosselli, in Ernesto Rossi e in tutto un insieme di esperienze storiche che culminano, infine, in Altiero Spinelli e nel Manifesto di Ventotene, di cui si celebra nel 2011 la ricorrenza dei settant’anni. Ma chi era, ancora, Altiero Spinelli? Era un giovane mili- 301 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 302 Le parole e le cose dei democratici tante comunista, destinato a passare dieci anni in prigione e sei al confino, prima di essere liberato nell’agosto del ’43. Non era insomma un antifascista del 25 aprile, era andato in galera nel ’27, apparteneva a quella generazione contrappostasi al fascismo fin dagli esordi, aveva collaborato con Gramsci, era stato arrestato come dirigente della FGCI. Proprio per questo, in definitiva, aveva tutte le carte in regola per trasformarsi in un credibile innovatore, in grado di riscoprire e rilanciare la prospettiva del federalismo europeo, rispetto alla soluzione marxistaleninista, per portare finalmente un attacco radicale al mito dello Stato nazionale e della sua sovranità assoluta. Stamattina ho sentito parlare tanto di Marx: anche qui, secondo me, bisogna fare un salto di qualità. La figura di Spinelli ci propone proprio questo. Oggi di Marx si sono richiamate l’interpretazione politica, il tema della critica alla democrazia formale e la battaglia in nome di una democrazia sostanziale. Alla base di quel pensiero vi era l’idea della lotta di classe. Ma noi condividiamo ancora un’impostazione teorica fondata sulla lotta di classe, sul superamento necessario della borghesia e del capitalismo nel nome dell’affermazione del proletariato e del collettivismo? Oppure, come sostenne Spinelli all’epoca, il vero problema della società occidentale risiedeva nella sussistenza e nella presunta autosufficienza degli Stati nazionali sovrani, nemici l’uno dell’altro? Nell’idea dello Stato nazionale che non riconosceva alcuna legittimità, alcuna legalità, alcuna autorità al di sopra di se stesso? Inevitabilmente quell’idea di sovranità statuale monolitica aveva creato una serie di fortezze contrapposte l’una all’altra che si facevano guerra a vicenda. Ne seguivano, di 302 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 303 Le parole e le cose dei democratici riflesso, una società militarizzata e l’insegnamento nelle scuole del mito della razza o della nazione. In sostanza, se leggete il Manifesto di Ventotene, peraltro portatore di proposte di riforma sociale a carattere democratico e socialista, noterete che è quasi un contraltare al Manifesto di Marx: a risultare centrale per Spinelli non è il problema dell’inevitabile vittoria del proletariato sulla borghesia, bensì quello del superamento del moderno Stato nazione, un’entità che aveva avuto tanti meriti ma che ormai doveva essere rivisitata attraverso la creazione di istituzioni democratiche sovranazionali. Questo è il salto di civiltà individuato da Spinelli e che ci attende ancora oggi. Rispetto alla ricostruzione di Graglia mi permetto di aggiungere un particolare: la percezione quasi incandescente della necessità di anteporre la sovranazionalità democratica ad altri obiettivi fu avvertita in tutta la sua drammaticità, da parte dei confinati di Ventotene, nella fase più drammatica della guerra mondiale, ovvero dallo scoppio del conflitto fino al ’41. Non a caso il Manifesto è stato scritto nella prima metà di quell’anno, quando non solo imperversava l’hitlerismo, ma l’Unione Sovietica era più o meno convivente con esso e gli USA si mantenevano ancora ai margini del grande massacro. Quello fu il momento della solitudine assoluta dell’Europa, e solamente allora venne elaborata e sistematizzata la concezione dell’inadeguatezza degli Stati nazionali, che Spinelli avrebbe portato avanti tutta la vita, tanto da diventare alla fine parlamentare europeo, grazie ai voti del PC, e condurre a buon fine la sua ultima grande impresa, culminata con il voto dell’assemblea di Strasburgo del 14 303 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 304 Le parole e le cose dei democratici febbraio 1984, con cui venne approvato il progetto di Trattato di Unione Europea, detto anche ‘Progetto Spinelli’, che avrebbe aperto la strada alla trasformazione delle istituzioni comunitarie durata nei decenni successivi e per la verità non ancora conclusa. Come vedete, attorno al progetto federalista europeo, da una parte abbiamo tutta una storia sulla quale educare i giovani, su cui dare un’identità alla Repubblica e spiegare l’impegno spesso straordinario di tante generazioni che hanno sofferto, se non dato la vita per tutto questo; dall’altra, possediamo un progetto per il futuro, ovvero dobbiamo portare a compimento un salto di civiltà finora rimasto incompiuto e che a tratti può sembrare un po’ visionario, ma che è carico di profonde ragioni e di assoluta concretezza. Perché poi, a ben vedere, ogni democrazia, ogni regime politico si fonda su una visione generale: la politica non può essere ridotta al dispotismo dei sondaggi o a una mera tecnica di governo. Dobbiamo essere più ambiziosi: la politica va concepita sulla base di un’idea generale, di una prospettiva di futuro. Gli Stati Uniti d’America, già durante la Prima Guerra Mondiale, diffusero l’idea della democrazia e del liberismo economico, risultando per questo più avanzati dell’Europa, la quale vagheggiava ancora l’imperialismo coloniale. Un movimento democratico che abbia consapevolezza di questa storia e che, al tempo stesso, voglia innovare, deve sapere andare oltre: all’idea della libertà dei commerci e delle opportunità individuali, che è indiscutibilmente il grande merito americano, bisogna aggiungere forme istituzionali di protezione collettiva a tutela dei meno favoriti, da realizzarsi a livello europeo. Abbiamo tutti sotto gli 304 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 305 Le parole e le cose dei democratici occhi i meriti del modello americano: sicuramente la diffusione di Internet è una grandissima conquista, ma assistiamo anche al dilagare di diseguaglianze ormai eccessive. Qui risiede tutta l’attualità e la potenza del messaggio di Spinelli, un messaggio che, ripeto, egli portò avanti tutta la vita, anche all’interno delle istituzioni: egli andò al Parlamento europeo, grazie a Berlinguer e ad Amendola, per dare appunto garanzie democratiche anche all’attuale processo di globalizzazione ed evitare che si fosse alla mercé di quel liberismo che abbiamo conosciuto nella storia del reaganismo. Urgeva, in definitiva, superare gli egoismi criminali e al tempo stesso le grettezze dello Stato nazionale europeo, diventato nel frattempo troppo piccolo, per difendere, all’interno di un sistema istituzionale adeguato, tanto la libertà quanto la dignità degli individui, delle persone («autonomi centri di vita», dice il Manifesto), ora ridotte a strumenti della macchina statale, ora a materiali a disposizione di un liberismo senza leggi e senza garanzie. A nostro avviso, dunque, vale a dire stando ai federalisti che hanno sottoscritto l’appello al Segretario del PD, un partito che abbia la voglia di recepire questa tradizione e nello stesso tempo di inverarla, ha le potenzialità per porsi come rifondatore dello Stato democratico e non soltanto come una parte che si contrappone ad un’altra. Naturalmente si deve prevedere l’alternanza, ovviamente si possono avere visioni diverse, ma non è possibile progredire in una situazione in cui una componente manda in pezzi lo Stato della Costituzione e l’altra dovrebbe difenderne l’identità. La nostra domanda è allora questa: 305 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 306 Le parole e le cose dei democratici vuole il PD farsi carico di un simile problema? Se la risposta è sì, allora bisogna avere una visione non solo italiana, ma europea, propria di chi appartiene ad uno Stato fondatore dell’Unione. Sembrerà paradossale, ma se vogliamo ricondurre il paese sul solco della Costituzione e metterlo di fronte ai doveri (le sfide, si dice oggi) del nostro tempo, ci vuole altra cosa che il patto con gli italiani, per parte sua affondato nella ‘monnezza’, come tutti sanno: in realtà il patto vero deve essere sottoscritto con gli europei e nella prospettiva europea. Soltanto questo livello di impegno può assicurare la motivazione, gli strumenti, le cognizioni per fare al tempo stesso le riforme interne e restituire consistenza all’intera compagni nazionale, ovvero consapevolezza delle vere problematiche della nostra epoca, ormai obnubilate da una conflittualità interna tanto sterile quanto deprimente. A nostro avviso l’unico modo per realizzare questo grande, importante passo consiste nell’essere influenti, credibili e dotati di progettualità nelle sedi decisionali europee. Ma per andare in questa direzione occorrono cultura, preparazione, dedizione, senso dello Stato e della collettività, come in parte abbiamo avuto in passato quando Spinelli e De Gasperi collaboravano e c’era consapevolezza delle battaglie che valeva la pena combattere. Di fatto, oggi manca la cultura dell’appartenenza all’Unione, un’Unione che ha influenza enorme sulla nostra vita, con i suoi straordinari pregi ed anche con i suoi difetti, certo da riformare, purché si sia dotati dell’autorevolezza per farlo. Voi oggi aprite il Corriere della Sera (per fare il nome di un quotidiano diffuso su ampia scala e che forma l’opinione pubblica in questo paese) e vi annun- 306 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 307 Le parole e le cose dei democratici ciano battaglie furiose sul crocifisso fra l’Italia e l’Unione Europea, quando si tratta di una questione che con l’Unione Europea non ha niente a che fare. Quando uno dei maggiori commentatori italiani non distingue fra Consiglio d’Europa e Unione Europea, come pensate che noi si possa avere un’influenza a quel livello? È un problema che dobbiamo porci, anche perché non si tratta di un caso isolato. In questo nostro documento abbiamo esemplificato anche altri temi assolutamente trascurati e che pure sono fondamentali per capire in quale direzione stiamo andando. Vi rivolgo a questo proposito una domanda: quando andate a votare per il Parlamento europeo, ritenete che il vostro voto di italiani pesi come quello degli altri europei? Penso che tutti ritengano di sì, ma non è così. Ebbene, le istituzioni nate dal Trattato di Lisbona meritano una profonda riflessione, prima di tutto a livello giuridico-costituzionale, per capire se il modello attualmente vigente ci porta in prospettiva verso uno scenario federale oppure verso una confusione di principi e di poteri da cui potremo uscire soltanto tramite la balcanizzazione dell’Europa. Forse non ne siamo pienamente consapevoli, ma il fatto – e qui torniamo a Spinelli – che ogni piccolo Stato europeo entri a far parte dell’Unione con il riconoscimento della propria statualità nazionale sovrana, e dunque ciascuno con diritto di veto, è estremamente pericoloso. Per fare un esempio, fra un po’ entrerà il Montenegro, che avrà diritto di veto sulla politica fiscale e imporrà il proprio no all’ingresso della Turchia. Di fatto, nella vecchia Yugoslavia hanno intelligentemente creato, da uno che era, una flottiglia di piccoli Stati, ognuno do- 307 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 308 Le parole e le cose dei democratici verosamente aspirante ad un posto di commissario europeo, di membro della Corte di Giustizia, ovvero della Corte dei Conti. Tornando al Parlamento, l’Olanda, con sedici milioni di abitanti, elegge ventisette parlamentari; viceversa, tutti gli Stati piccoli, ammontanti complessivamente a quindici milioni di abitanti, eleggono sessantacinque parlamentari: perciò, quale giudizio dobbiamo dare delle maggioranze che si formano nell’europarlamento? Ma il problema non si arresta qui: gli equilibri si deformano sempre più man mano che altri paesi entrano a far parte dell’Unione. In definitiva, dal momento che si è riconosciuto che nel Consiglio europeo conta anche la popolazione, si è legittimato il Consiglio più del Parlamento, mentre noi continuiamo ad affermare che la sede della volontà popolare è il Parlamento. Questo è solo un esempio per dimostrarvi che vi è una serie ampia di temi di capitale importanza che vanno affrontati per evitare la balcanizzazione dell’Europa, eppure rimangono del tutto rimossi dalla discussione pubblica e dalla consapevolezza di grandissima parte dei cittadini europei. Ad aver sollevato il problema in questo caso è stata la Corte tedesca di Karlsruhe che, intervenendo sul Trattato di Lisbona, ha affermato che in Europa il principio democratico sintetizzabile nella formula ‘one man, one vote’ è disatteso. In pratica, finché non avremo un modello federale, il Parlamento tedesco, e di certo non solo quello tedesco, si riserverà di sindacare sulle decisioni dell’Unione, indebolendone la credibilità. Il che, da una parte, costituisce una riserva sul futuro dell’Unione, ma, dall’altra, riafferma il principio che solo il modello fede- 308 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 309 Le parole e le cose dei democratici rale può risultare pienamente accettabile e condivisibile. Questi sono i compiti della grande politica della nostra epoca, ma per affrontarli adeguatamente occorre essere all’altezza delle situazioni: avere consapevolezza dei problemi e insieme la capacità di affrontarli. La nostra provocazione, dunque, è questa: se accoglie questa eredità e questo impegno per il futuro, il PD può essere l’unica forza italiana in grado di avviare credibilmente un discorso davvero innovativo, in continuità con la storia dei grandi movimenti popolari e al livello necessario per incidere nei processi storici. Potete trovare il nostro appello sul sito di Graglia ed anche su quello della pubblicazione Gli Stati Uniti d’Europa (www.glistatiunitideuropa.eu, che si richiama all’omonima rivista edita in tre lingue dopo il 1867). Anche i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia non possono che essere letti in questa prospettiva. Nel Risorgimento, tra l’altro, vi era la consapevolezza forte e nitidissima che l’unità del paese non era la fine di un processo, ma una tappa verso la creazione di una coesistenza degli Stati europei. Tornando alle sfide dell’Unione, quando leggiamo che in Germania e in Francia, nonostante la crisi, gli investimenti nei settori dell’università e della ricerca sono aumentati, credete che lo facciano solo perché sono virtuosi? O forse perché i governi tedesco e francese ritengono, giustamente, che alla fine della crisi un paese esca più forte e prima degli altri se intraprende investimenti in settori cruciali come quelli? Pur accettando la politica di Tremonti e l’appoggio della Lega, noi italiani non possiamo fare solo una politica di contenimento della spesa: occorrono anche investimenti seri, che possono realizzarsi soprat- 309 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 310 Le parole e le cose dei democratici tutto a livello europeo, ma anche sul piano interno, mirando nella medesima direzione. Gli esempi dei compiti che ci attendono potrebbero protrarsi a lungo: in tema di Corte di Giustizia europea siamo disponibili ad accettare le sentenze di una Corte in cui, secondo il principio in base al quale ogni Stato ha diritto a una poltrona, la maggioranza dei giudici sarà presto composta da membri appartenenti ai paesi entrati per ultimi nell’Unione Europea? Ma una Corte di questo tipo avrà poi la legittimità adeguata per affrontare i grandi problemi della nostra società? Oppure sarà necessario introdurre delle riforme istituzionali per realizzare una Corte di Giustizia paragonabile alla Corte federale americana? Un altro quesito ancora, l’ultimo, per concludere: quando facciamo delle riforme nel nostro paese, comprese quelle dell’università, a quali modelli guardiamo? Ci ispiriamo rapsodicamente a quello australiano, americano o giapponese, oppure esiste un contesto europeo, caratterizzato tra l’altro dalla moneta unica e dal mercato unico, che ci prospetta modelli, attraverso le esperienze dei paesi che ci sono vicini, con cui dobbiamo vagamente confrontarci, dato che viviamo nella stessa area socio-economica? Se noi non adottiamo sistematicamente per la nostra legislazione il riferimento europeo, come Tommaso Padoa Schioppa faceva e ha sempre fatto quando era Ministro dell’Economia, non solo non potremo mai fare quel salto di civiltà che Spinelli esortava a compiere, ma forse finiremo per regredire parecchio, come l’esperienza di questi anni recenti sembra dimostrare. Soltanto questa consapevolezza ci può consentire di essere concreti. Questa è la provocazione che abbiamo fatto a Bersani – sicura- 310 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 311 Le parole e le cose dei democratici mente meglio illustrata nell’appello rispetto a quanto da me sintetizzato in questa sede – e sulla quale vorremmo avere una risposta. 311 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 312 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 313 Guido Montani Professore di Economia Politica Internazionale, Università di Pavia Vicepresidente dell’Unione dei Federalisti Europei Austerità europea senza crescita? Crescita europea senza democrazia? Come i cittadini europei possono rilanciare il progetto europeo e vincere l’euroscetticismo. Il progetto europeo è in crisi. I cittadini europei non comprendono più la sua rilevanza e le sue finalità. I giovani e l’attuale classe dirigente europea sembrano aver dimenticato il chiaro messaggio contenuto nel progetto europeo lanciato appena dopo la Seconda Guerra Mondiale ‘mai più guerre tra europei’. I padri fondatori dell’Unione Europea sono appena menzionati nei libri di testo di storia, ma l’Europa contemporanea è percepita come un’irritante burocrazia. In Europa, la pace e la stabilità economica sono considerate come uno stato di natura, come un dono caduto dal cielo. Perché tenere in vita un’inutile UE? La condizione dell’UE sta degenerando rapidamente. In quasi tutti gli Stati membri, le forze anti-europee stanno guadagnando consensi. Il populismo non è una nuova ideologia e non è necessariamente europeo: basti pensare al peronismo. Nell’Europa contemporanea il populismo è una nuova espressione del nazionalismo. In Italia, la Lega Nord fa parte del governo euroscettico di Berlusconi. In Francia, il Fronte Nazionale sta erodendo l’egemonia della UMP. In Belgio i contrasti tra fiamminghi e valloni 313 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 314 Le parole e le cose dei democratici stanno mettendo in pericolo l’unità dello Stato. In Olanda, in Ungheria, nella Repubblica Ceca, in Austria e in Finlandia le forze populiste o sono al governo o lo influenzano considerevolmente. Il nazional-populismo è differente dal nazionalismo del passato. Il nazionalismo di De Gaulle era un’ideologia fondata sulla ‘grandeur’ della storia della Francia e su un’idea d’Europa concepita come ‘Europa delle Patrie’ di cui la Francia sarebbe stata la leader nella politica internazionale. Il nazional-populismo contemporaneo è una forma di micro-nazionalismo: si oppone al progetto europeo, ma senza avere una precisa alternativa. Proprio per questo il populismo è pericoloso. Il suo obiettivo è non solo di interrompere il progetto unitario europeo ma anche di disgregare i vecchi Stati nazionali trasformandoli in micro-Stati etnici, come è avvenuto nella ex-Jugoslavia. Il populismo europeo e l’euroscetticismo sono due facce della medesima medaglia. I partiti democratici pro-europei non li possono sconfiggere entro i confini dello Stato nazionale. Entrambi sono il prodotto della crisi del progetto europeo. La crisi è iniziata con la fine della guerra fredda, a causa dell’incapacità dei leader dell’UE di sfruttare la favorevole occasione dell’allargamento per portare a compimento il progetto iniziale dei padri fondatori. Basti ricordare un certo numero di occasioni perse. Il Trattato di Maastricht è stato un insoddisfacente compromesso: un’Unione Monetaria senza Unione Economica e Unione Politica. La Convenzione europea ha elaborato una Costituzione europea senza includere un governo europeo. Inoltre, non ha mutato la regola dell’unanimità per la procedura di ratifica, sebbene il principio della doppia 314 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 315 Le parole e le cose dei democratici maggioranza dei cittadini e degli Stati fosse stato accolto nel progetto di Costituzione. Avvenne così che, quando i francesi e gli olandesi votarono con referendum contro il Trattato-Costituzione, nessuno osservò che una ‘minoranza’ di cittadini si era espressa contro, mentre una ‘maggioranza’ era favorevole. Ora abbiamo il Trattato di Lisbona che è considerato un sostituto del Trattato-Costituzione. Nel frattempo l’atmosfera politica è cambiata. La vecchia generazione che aveva sperimentato i mali della guerra è fuori causa. La nuova classe politica è alle prese con nuovi problemi: il terrorismo internazionale, le difficoltà dell’allargamento, l’immigrazione, le sfide della globalizzazione, la sempre più difficile intesa tra le due sponde dell’Atlantico e l’incapacità dell’Europa di stimolare la crescita economica. In questa nuova atmosfera politica, l’Unione Europea è considerata più un insieme di istituzioni utili ai governi nazionali, ma non più come un progetto a lunga scadenza che vale la pena di perseguire («le prime assise della Federazione europea», come si sosteneva nella Dichiarazione Schuman). Inoltre, il potere relativo tra Francia e Germania, il vecchio motore dell’integrazione europea, è mutato radicalmente. Dopo la guerra, la Francia era il solo Stato in grado di prendere l’iniziativa di unire l’Europa e lo fece. Ora, dopo la sua unificazione nazionale, la Germania mira a un nuovo status mondiale, economico e politico, come la sua ambizione di entrare nel Consiglio di sicurezza dell’ONU dimostra. Così, lentamente ma inesorabilmente, il motore franco-tedesco dell’integrazione europea si è trasformato in una sorta di Direttorio. Poiché il Trattato di Lisbona non ha risolto il problema del go- 315 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 316 Le parole e le cose dei democratici verno europeo, Francia e Germania hanno cominciato a proporre una ‘governance economica’ che, secondo il Presidente Sarkozy e la Sig.ra Merkel, non dovrebbe essere altro che il Consiglio Europeo, dove le principali decisioni riguardanti la politica estera e le finanze si prendono all’unanimità. Il risultato di questo progetto è che, quando è scoppiata la crisi finanziaria, il Direttorio francotedesco ha preso la leadership, imponendo soluzioni intergovernative al di fuori del tradizionale ‘triangolo istituzionale’, vale a dire Parlamento europeo, Commissione e Consiglio dei Ministri. Secondo i Trattati, queste istituzioni devono decidere sulla base del metodo comunitario: il Parlamento europeo e il Consiglio dei Ministri colegiferano e la Commissione esegue (in questo caso la Commissione diventa ‘il governo’ dell’Unione). Al contrario, il Direttorio esclude quasi del tutto il Parlamento europeo dal processo decisionale. Per quanto riguarda la crisi finanziaria, senza voler entrare in una pedante descrizione delle decisioni prese, è sufficiente osservare che il problema è stato così affrontato: quanto i paesi virtuosi dell’Unione devono pagare per evitare il fallimento di quelli viziosi, i cosiddetti PIGS? Per fare questo, è stato istituito, grazie a una riforma del Trattato, un Meccanismo di Stabilità Finanziaria (ESM) che rimane sotto il controllo dei governi nazionali. Questo meccanismo, insieme al semestre europeo, dovrebbe migliorare il rispetto delle regole fiscali da parte dei governi nazionali e garantire la necessaria austerità. Si tratta di un miglioramento del Patto di Stabilità e di Crescita. Ma esso perpetuerà anche i conflitti tra i governi nazionali. Al contrario, una soluzione rispettosa dello spirito europeo, 316 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 317 Le parole e le cose dei democratici e che non avrebbe richiesto alcuna riforma del Trattato, era alla mano: sarebbe bastato concordare un aumento del bilancio europeo della stessa dimensione dello ESM, attribuendo nuove risorse proprie all’UE. L’Unione Monetaria è l’istituzione che assicura un bene pubblico europeo cruciale: la stabilità monetaria. Se l’Unione Monetaria è in pericolo, a causa della cattiva amministrazione di qualche Stato membro, questo Stato è tenuto a rispettare le regole concordate, ma tutti i cittadini europei, al di là della loro nazionalità, devono contribuire al salvataggio dell’Unione. Il Direttorio è non solo inefficiente, perché produce soluzioni deboli e provvisorie ai problemi europei; è anche instabile, perché, quando è in discussione l’economia, la Germania assume la leadership, ma quando la situazione richiede un impegno militare – com’è successo per la Libia di Gheddafi – la Francia prende la leadership; è non democratico, perché discrimina i piccoli paesi ed esclude il Parlamento europeo (dunque i cittadini) dal processo decisionale (possono i cittadini europei e il Parlamento europeo esprimere un voto di sfiducia verso il Direttorio?); è dannoso, perché alimenta l’erronea convinzione che l’UE sia solo uno strumento ausiliario ai governi nazionali e che una maggiore unità politica non sia necessaria. Per concludere, il metodo intergovernativo e la volontà di istituire un Direttorio europeo sono le vere cause dell’euroscetticismo, la rinascita del nazionalismo e l’affermazione dei movimenti populisti in Europa. Nonostante la crisi dell’UE, il progetto europeo non è morto. L’attuale classe politica è incapace di elaborare una ‘visione’ del futuro dell’Unione Europea, ma fortunata- 317 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 318 Le parole e le cose dei democratici mente le istituzioni create dai padri fondatori sono più sagge. Jean Monnet ha sostenuto che «la vita delle istituzioni è più lunga di quella degli uomini e pertanto le istituzioni possono, se ben progettate, accumulare e trasmettere la saggezza alle generazioni successive». Questo è il caso del Parlamento europeo, un’istituzione concepita già nella CECA. Dopo la sua elezione a suffragio universale, nel 1979, il Parlamento europeo è divenuto la sola istituzione legittimata a rappresentare la volontà dei cittadini europei. In effetti, in occasione di ogni revisione dei Trattati, il Parlamento europeo è stato capace di accrescere i propri poteri. Ora, con il Trattato di Lisbona, ha conquistato anche il potere costituente di avviare la procedura per riforma dei Trattati. Alcuni avvenimenti recenti mostrano che il Parlamento europeo sopporta sempre meno l’arroganza dei governi nazionali. Vale la pena di ricordare almeno tre iniziative. Un gruppo di novantasette deputati europei, appartenenti a PPE, Verdi, S&D e ALDE, ha creato il ‘Gruppo Spinelli’, una rete (network) aperta ai contributi della società civile, sulla base di un Manifesto in cui si dichiara che sfortunatamente, mentre sfide formidabili di una crisi complessa richiederebbero risposte comuni, elaborate almeno al livello europeo, troppi politici pensano che la salvezza possa provenire solo dal livello nazionale. In un’epoca d’interdipendenza e in un mondo globalizzato, arroccarsi alle sovranità nazionali e all’intergovernamentalismo non è solo un attacco allo spirito europeo; è assuefazione alla politica dell’impotenza. […] Il nazionalismo è un’ideologia del passato. Il nostro obiettivo è un’Europa federale e post-nazionale, è l’Europa dei cittadini. 318 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 319 Le parole e le cose dei democratici Per ora, il Gruppo Spinelli ha organizzato pubblici dibattiti in occasione dei Consigli europei, proponendo delle contro-posizioni come ‘Consiglio ombra’ in alternativa a quelle dei governi nazionali. Naturalmente, il suo scopo è di allargare il consenso nel Parlamento europeo e nell’opinione pubblica al fine di rilanciare una riforma dell’Unione Europea. La seconda iniziativa è la riforma del sistema elettorale del Parlamento europeo. La Commissione costituzionale del Parlamento europeo ha approvato, nell’aprile 2011, la proposta del deputato federalista Andrew Duff per riservare venticinque seggi a candidati eletti in liste paneuropee presentate dai partiti europei sin dalle elezioni del 2014. Questo collegio transnazionale obbligherà i partiti europei a presentare rilevanti personalità politiche, ben conosciute in tutta l’Europa, con la possibilità per una di queste persone di diventare Presidente della Commissione Europea se eletto – o eletta – e se il suo partito, o coalizione di partiti, otterrà la maggioranza dei voti. Ogni elettore avrà due voti: uno per la lista nazionale e uno per la lista transnazionale. Secondo Duff: «i deputati di tutti i gruppi politici hanno raggiunto un significativo consenso sulla necessità di riformare il Parlamento. Sulla base del progetto proposto, la prossima elezione del 2014 potrà assumere una genuina dimensione europea. L’opportunità di usare un secondo voto per deputati transnazionali dovrebbe galvanizzare gli elettori consapevoli che i partiti politici nazionali non sono più in grado di sostenere il processo d’integrazione europea in modo democratico ed efficiente». La terza iniziativa è stata presa da tre deputati – Jutta 319 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 320 Le parole e le cose dei democratici Haug (S&D), Alain Lamassoure (PPE) e Guy Verhofstadt (ALDE) – che hanno lanciato la proposta Europe for Growth. For a Radical Change in Financing the EU. Lamassoure è anche il Presidente della Commissione Bilancio del Parlamento europeo: questa proposta può essere considerata come il necessario complemento al piano di austerità del Consiglio. Se l’economia europea non è in grado di crescere, di creare nuovi posti di lavoro e di competere nel mercato globale, il piano per l’austerità è destinato al fallimento. Come abbiamo appena osservato, a Maastricht si è deciso di creare un’Unione Economica e Monetaria (UME), ma in realtà si è creata solo la gamba M, e ci si è dimenticati della gamba E. Oggi abbiamo una sola moneta europea, ma diciassette politiche finanziarie nazionali. Questo governo asimmetrico dell’economia non funziona, come la crisi del debito sovrano ha mostrato. Il problema è: una politica finanziaria autonoma per l’UE è possibile? In realtà, l’UE ha un proprio bilancio, ma la sua dimensione è solo l’1 per cento del PIL e gran parte del bilancio è dedicata alla politica agricola; inoltre, è praticamente finanziato solo con contributi nazionali. Il risultato è che ciascuno Stato pretende un ‘giusto ritorno’ dai suoi pagamenti all’UE, così che, alla fine di estenuanti dibattiti tra i ministri nazionali, il bilancio europeo si riduce a un sostegno esterno dei bilanci nazionali. Il ruolo cruciale del bilancio europeo, che dovrebbe essere quello di provvedere alla fornitura di beni pubblici europei, non realizzabili al livello nazionale, viene completamente negato. Europe for Growth propone due obiettivi ambiziosi. Il primo è la fine dei contributi nazionali, grazie al ritorno al- 320 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 321 Le parole e le cose dei democratici l’idea originaria di genuine ‘risorse proprie’. L’attuale bilancio dell’UE può essere interamente finanziato con l’1 per cento della TVA, una carbon tax e una tassa, eventualmente, sulle transazioni finanziarie. Il secondo obiettivo è un piano d’investimenti pubblici finanziato interamente da Project Bond emessi dalla BEI. La ragione fondamentale per questo piano è che nelle ultime tre decadi il tasso d’investimenti pubblici nell’eurozona è diminuito di più dell’1 per cento del PIL. Questo trend ha contribuito significativamente a trasformare l’eurozona in un’area a basso tasso di crescita. Questa tendenza deve essere invertita. Ciò può essere ottenuto con una nuova emissione di Project Bond allo scopo di far aumentare il tasso di investimenti pubblici nella eurozona dell’1 per cento del PIL. Poiché il PIL dell’eurozona ammonta approssimativamente a € 10.000 miliardi, questo significa che deve essere effettuata una nuova emissione annuale di Project Bond di 100 miliardi di euro. Va notato che la dimensione di questo piano è pari a tre volte il Piano Delors del 1993. Queste tre iniziative sono cruciali per mutare il significato e l’esito delle prossime elezioni europee del 2014. Dal 1979, la partecipazione elettorale è continuamente diminuita da un’elezione all’altra. La spiegazione è semplice. Poiché non vi è in gioco una vera scelta politica e non vi è un vero governo che i cittadini possano scegliere, le elezioni europee si riducono a una sommatoria di elezioni nazionali. Il Parlamento europeo non è considerato un’istituzione cruciale per il futuro dei cittadini e, in effetti, il Consiglio – vale a dire i governi nazionali – pretende di es- 321 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 322 Le parole e le cose dei democratici sere il solo organo a prendere le maggiori decisioni. Ma se i cittadini potranno scegliere, in una circoscrizione europea, un leader europeo che possa diventare anche il Presidente della Commissione Europea, e se i maggiori partiti europei includeranno nei loro programmi un efficace piano per la crescita europea, per più investimenti pubblici e per più posti di lavoro, i cittadini potranno finalmente trovare un reale interesse a partecipare all’elezione europea. E se questo avverrà, il prossimo Parlamento europeo dovrà tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale. Una politica per la crescita non può avere successo senza il sostegno attivo dei cittadini, le organizzazioni della società civile, i partiti politici e i sindacati; in definitiva, una politica europea della crescita è impossibile senza democrazia europea. La partecipazione dei cittadini al progetto europeo non si può limitare all’occasione delle elezioni europee. In una comunità democratica i cittadini discutono pubblicamente le opzioni politiche e prendono quotidianamente posizione pro o contro le posizioni assunte dai partiti e dal governo. Ma uno spazio pubblico europeo e un popolo europeo esistono? L’opinione sostenuta dagli euroscettici secondo cui uno spazio pubblico europeo e un demos europeo non esistono ha influenzato significativamente l’esito del dibattito sulla Costituzione europea. Ora, il Trattato di Lisbona offre l’opportunità di superare queste critiche. Un milione di cittadini può prendere l’iniziativa di invitare la Commissione «a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali i cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione». Naturalmente, anche le forze euroscettiche potranno sfrut- 322 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 323 Le parole e le cose dei democratici tare l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). In effetti, ogni ICE può stimolare utili dibattiti pubblici nella UE e provocare una risposta da parte dei partiti politici e delle istituzioni europee. In ogni caso, la ICE può essere sfruttata per promuovere l’unità politica dell’Europa. Ad esempio, una ICE potrebbe invitare la Commissione a predisporre tutti gli atti legislativi necessari per realizzare la proposta Europe for Growth. Questa iniziativa potrebbe essere sostenuta non solo dai maggiori partiti europei, ma anche dai sindacati, dalle associazioni degli industriali, dai governi locali, dalle organizzazioni della società civile e da innumerevoli cittadini. Nel 1989 molti cittadini si radunarono nelle piazze dell’Europa orientale per rivendicare l’istituzione di regimi democratici. Oggi, i cittadini dei paesi arabi stanno protestando e lottando contro i loro dittatori. Ogni popolo deve trovare la propria via e i propri mezzi per affermare o far avanzare la democrazia. In Europa non vi è un dittatore con un preciso volto da combattere. Il nemico della democrazia europea è l’intergovernamentalismo, con la sua base ideologica: l’euroscetticismo. Se la ICE qui proposta avrà successo, gli euroscettici non potranno più sostenere che un demos europeo non esiste e si aprirà così la via per trasformare l’Unione Europea in una vera democrazia sovranazionale. 323 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 324 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 325 Leonardo Domenici Europarlamentare PD Ho molto apprezzato la scelta del titolo di questo Seminario. Penso infatti che uno dei problemi fondamentali che abbiamo davanti sia proprio quello di cominciare a ricostruire un rapporto tra le parole e le cose, perché nella maggior parte dei casi, oltre a essere estremamente elevato il numero di persone che intervengono su questioni di cui non hanno la minima consapevolezza, è anche estremamente elevato il livello di distacco che si determina tra ciò che accade intorno a noi e ciò che siamo in grado di dire, soprattutto sul piano della nostra capacità d’interpretazione. Ad esempio, se parliamo della crisi economico-finanziaria e dell’attuale situazione in Africa, noi abbiamo due esempi concreti di come anche i sistemi strutturati non riescano a capire o non vogliano vedere i problemi che si pongono. Nel caso della crisi economicofinanziaria come spesso diceva Tommaso PadoaSchioppa, la cosa più significativa fu detta dalla Regina d’Inghilterra quando incontrò gli economisti della London School of Economics che le spiegavano che cosa fosse la crisi economica. Ad un certo punto, mettendoli un po’ nel panico, lei chiese: ‘Ma perché voi non l’avevate capito in tempo che stava per succedere tutto questo?’. La stessa domanda può essere sollevata in merito a ciò che succede in Africa. 325 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 326 Le parole e le cose dei democratici Mi ha molto colpito il fatto che ci siano stati diplomatici francesi, sia di destra che di sinistra, che si sono ammutinati contestando la politica estera francese perché non era stata in grado di capire, o non aveva voluto capire, quello che si stava preparando nel Nord Africa. C’è un problema, per tutti noi, di riuscire a capire meglio che cosa accade nel mondo che abbiamo intorno, e credo che questo rientri anche in un ragionamento di medio e lungo termine. Io sono molto d’accordo con quanti oggi mettono l’accento sul fatto che la maggior parte delle scelte che noi compiamo non sono legate alla prospettiva di breve periodo, ma richiedono un’idea, una prospettiva. Troppe volte, invece, accade che l’idea venga espressa e che se ne parli per un giorno o due, senza che poi a quella idea si cerchi di dare consistenza, continuità, concretezza. Domani e dopodomani, a Strasburgo, noi discuteremo e voteremo su una relazione di iniziativa parlamentare che ha per oggetto la questione della finanza innovativa, che contiene molte proposte importanti; la relatrice è del gruppo dei Socialisti e dei Democratici. Tra le varie proposte avanzate, vi è anche quella di istituire una tassa sulle transazioni finanziarie a livello europeo. Attraverso altre iniziative stiamo cercando anche di promuovere una spinta nei confronti dei parlamentari italiani, anche delle altre forze politiche, perché diano il loro voto favorevole su questo punto. Ci sono, ad esempio, molti deputati europei della CDU tedeschi che sono a favore di una tassa di questo tipo sulle transazioni finanziarie e contestano l’alibi, che attualmente si sta utilizzando, secondo cui si tratterebbe di un’iniziativa interessante ma irrealizzabile. Non è vero: noi chiediamo e crediamo che sia possibile. 326 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 327 Le parole e le cose dei democratici Come primo step vogliamo cominciare ad applicare una tassa sulle transazioni finanziarie a livello europeo e martedì avremo un voto importante da questo punto di vista. Se avete un po’ di tempo, mandate una mail a tutti i deputati italiani del Parlamento europeo perché si rendano conto che votare a favore di questa proposta è molto importante e di interesse per tutti noi. Perché dico questo? Perché – lo accennava prima anche Montani – la situazione oggi è complicata, anzitutto per una questione di rapporti di forza: nel Parlamento europeo, per la prima volta da un certo numero di legislature, il gruppo di maggioranza relativa non è più il gruppo socialista ma quello del Partito Popolare Europeo, che pure non ha al suo interno i conservatori britannici. A livello di Stati nazionali ci sono ventisette paesi membri dell’Unione Europea: soltanto sei tra questi paesi hanno governi che o sono di sinistra, socialisti, o vedono la partecipazione di forze progressiste socialiste. Adesso c’è stato un risultato importante in Irlanda, ma anche lì si tratterà di formare il governo. Inoltre la situazione è tale per cui i governi socialisti sono in questo momento concentrati nei paesi che hanno il maggior numero di problemi: si pensi alla Grecia, al governo socialista in Portogallo, al successo ora in Irlanda, tutti paesi che certo non vivono, in questo momento, una situazione facile. Ecco perché questo è un momento importante, che richiede iniziative politiche coraggiose e di ampio respiro. Non sempre, poi, i leader di questi governi socialisti agiscono in una logica che è quella di riuscire a indicare una prospettiva diversa per l’uscita dell’Europa dalla crisi: il problema di fondo è proprio questo. Nessuno di noi può mettere in discussione 327 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 328 Le parole e le cose dei democratici che bisogna fare delle politiche che stiano attente ai bilanci pubblici; non c’è alcun dubbio che bisogna tenere sotto controllo la spesa pubblica. Tuttavia, non è vero che esiste un solo tipo di via d’uscita praticabile, una sola risposta possibile alla crisi economica, finanziaria e sociale che stiamo vivendo in questo momento in Europa. In questo momento è largamente prevalente una soluzione sostanzialmente imperniata sul principio della cosiddetta fiscal consolidation, che poi altro non è che una politica di rigore a senso unico: essa propone in modo giusto anche forme più avanzate di coordinamento a livello economico, ma bisogna vedere poi in che modo questo coordinamento è realizzato. Qui c’è il problema del ruolo che in questo momento sta esercitando non la Germania, ma il governo federale tedesco rispetto alle risposte che si possono dare: adesso si stanno stemperando e annacquando le asprezze del ‘Patto della competitività’ proposto dalla Merkel e da Sarkozy con cui si proponeva il coordinamento delle politiche economiche, età pensionabile per tutti a sessantasette anni, il rifiuto dell’indicizzazione sotto a qualsiasi forma dei salari, la costituzionalizzazione dei principi riguardanti il pareggio di bilancio, forme di armonizzazione fiscale. Tutte misure assolutamente giuste e opportune, ma il discrimine consiste appunto nel modo in cui queste, concretamente, vengono realizzate. Un simile discorso è portato avanti in Europa soprattutto dai governi conservatori senza alcuna attenzione alle questioni che riguardano gli investimenti, anche quelli pubblici, su scala europea, la gestione socializzata del debito strutturale dei paesi membri, i problemi della disoc- 328 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 329 Le parole e le cose dei democratici cupazione soprattutto giovanile, le possibili distorsioni del sistema europeo di welfare, da correggere mantenendone, però, i principi della coesione sociale e del riequilibrio, a livello macro-economico, tra le realtà dei vari paesi. Questo credo sia il problema maggiore che abbiamo in questo momento. Io non sono del tutto pessimista perché storicamente ritengo che l’Europa abbia sempre fatto dei passi in avanti quando è stata messa di fronte a situazioni drammatiche e a veri e propri bivi. Ha ragione Montani da questo punto di vista: la questione fondamentale è riuscire a far tornare a prevalere la logica del metodo e del governo comunitario. È necessario perseguire l’obiettivo dell’Europa come soggetto politico-istituzionale che parla con una voce sola, che ha delle politiche concertate, che ha un mercato interno vero, che ha una politica energetica propria, che compie scelte di sviluppo significative a livello europeo. A prevalere oggi è, invece, l’esatto contrario, cioè il metodo della negoziazione fra i governi. La politica intergovernativa è pericolosa non in sé ma perché la logica negoziale che le è sottesa porta inevitabilmente, a seconda della realtà contingente dei singoli paesi, a ignorare quanto avviene nei paesi limitrofi in nome dell’autosufficienza nazionale. Anche qui io penso che questo sia il momento di tornare a parlare in prospettiva degli Stati Uniti d’Europa; sono anche del parere, però, che parlare oggi in questo modo non significa annullare la dimensione e l’identità degli Stati nazionali. Questo è esattamente l’equivoco rispetto al quale molto spesso dobbiamo chiarirci e anche dirci tra noi con maggiore chiarezza quello che pensiamo: le due prospettive non 329 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 330 Le parole e le cose dei democratici sono incompatibili fra di loro. Noi abbiamo bisogno di una maggiore integrazione europea, abbiamo bisogno di una politica monetaria, abbiamo bisogno di una politica economica, abbiamo bisogno di una tassazione europea vera, abbiamo bisogno di fare i cosiddetti euro-bond, non solo per ridurre il debito ma anche per favorire lo sviluppo. Allora queste sono le questioni su cui oggi siamo sfidati e su cui credo che si debbano ricostruire l’identità e il profilo politico e programmatico di un’area di sinistra democratica e progressista a livello europeo. Allo stato attuale, rimanendo al livello degli Stati nazionali, non c’è la possibilità di indicare una via di uscita equa e solidale che tenga conto anche del fatto che una crescita deve avere, prima di tutto, una compatibilità con l’ambiente e con il clima del nostro continente. Ricordo l’ultima audizione che abbiamo fatto con Tommaso Padoa-Schioppa alla Commissione Affari Economici e Monetari: giustamente il punto di cui si discuteva era appunto questo. Se si deve riformare il patto di stabilità, non solo occorre inserire degli indicatori di carattere economico-sociale importanti come la crescita, lo sviluppo e l’occupazione; dobbiamo anche rovesciare la logica seguita fino adesso, quella del patto di stabilità, secondo cui gli Stati facevano lo sviluppo e l’Europa controllava i bilanci. Il risultato abbiamo visto molto chiaramente tutti quale è stato. Giustamente i tedeschi oggi se la prendono con i greci per aver truccato un po’ i conti in qualche momento; fanno, però, finta di dimenticarsi che alcuni anni fa, quando Francia e Germania hanno sforato sul rapporto deficit/PIL, sono state cambiate momentaneamente le regole del gioco. Allora questo significa che quel sistema – 330 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 331 Le parole e le cose dei democratici l’Europa controlla e gli Stati fanno le politiche economiche – non vale più. Oggi, invece, abbiamo bisogno di politiche responsabili e sostenibili a livello di bilanci negli Stati membri, così come di uno sviluppo a livello europeo. Ecco perché gli euro-bond, ecco perché la tassa sulle transazioni finanziarie, ecco perché la politica degli investimenti, ecco perché il tema dell’occupazione e degli equilibri macro-economici, ecc.: tutte questioni su cui tra poco si pronuncerà in modo più specifico e competente Silvano Andriani. Io vorrei concludere toccando una questione di carattere politico, dato che ci troviamo a discutere all’interno di un’iniziativa del Partito Democratico. Anche a partire dalla mia esperienza di questo poco più di anno e mezzo nel Parlamento europeo, io ho consolidato un’idea che avevo già prima: se l’Italia vuole pesare più di quanto pesi oggi (ma pesa poco anche il Partito Democratico nel dibattito europeo, non illudiamoci!), dobbiamo fare una scelta precisa. Tenendo conto di tutte le particolarità, specificità e originalità di questo progetto politico che è il Partito Democratico, io credo che il nostro partito debba scegliere pienamente, organicamente e consapevolmente di risiedere in una famiglia politica europea precisa: quella del socialismo, della social-democrazia e del laburismo europeo. Devo dire la verità: non mi attendevo questa accoglienza e questo applauso, che mi fa molto piacere. Dico in modo chiaro come la penso su questo punto non perché la mia sia una posizione ideologica: io sono il primo a dire che vedo nitidamente la crisi del socialismo e della social-democrazia e del laburismo europei. Ma – attenzione! – a maggior ragione io ci voglio stare dentro, 331 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 332 Le parole e le cose dei democratici perché proprio in questo momento posso portare un contributo anche per innovare e cambiare. Il mio problema non è attraccare in un porto sicuro e tranquillo, ma starci con la mia originalità e la mia particolarità, pienamente, per costruire una prospettiva progressista alternativa in Europa, anche allargando l’area. Il problema, altrimenti, è che noi abbiamo fatto una scelta importante – adesso siamo nel gruppo dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo – senza che questa sia conseguente anche sul piano politico. Rischiamo di restare perennemente in una sorta di non-luogo della politica europea, in un posto che non è chiaro quale sia. Io penso, invece, che noi questa scelta la dobbiamo fare con coerenza, con consapevolezza, con equilibrio e con convinzione; dobbiamo quindi portarla avanti sapendo che la prospettiva è quella di costruire qualche cosa che vada oltre l’esperienza storica dello stesso socialismo europeo, senza però starne fuori. La sfida che abbiamo è appunto quella di starci dentro pienamente con la nostra originalità. 332 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 333 Ivana Bartoletti Manager e specialista di diritti umani Può l’Europa essere una delle ‘parole’ del Partito Democratico? Mi pare sia questo ciò che vi state chiedendo qui a Pisa voi giovani Democratici, in questo encomiabile sforzo di costruzione di un lessico e di un vocabolario all’altezza delle migliori aspettative di un paese e, in particolare, delle generazioni più giovani. Il mio contributo sarà, spero, utile. Cercherò di portarvi un punto di vista diverso e di lanciare alcune provocazioni che vi chiedo fin da ora di prendere come tali, come spinta ad andare oltre terreni già noti e più scontati. Vi porto il contributo, in primo luogo, della mia storia e del mio know-how. Sono una specialista dei diritti umani, vivo e lavoro a Londra, dove gestisco un programma di lavoro e un dipartimento che si occupa di misure di sicurezza e di cooperazione tra agenzie. Ma sono anche una dirigente locale del Partito Laburista, impegnata nella Fabian Society, uno dei think-tank più autorevoli del progressismo inglese. Prima di trasferirmi a Londra, ero nel PDS, nei DS e nella Costituente del PD, nonché co-fondatrice della rivista Inschibboleth che ha co-promosso questa vostra lodevole iniziativa. Il mio osservatorio è, mi rendo conto, privilegiato e mi auguro possa esservi utile nel costruire il futuro del partito di cui voi sarete tra i protagonisti. 333 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 334 Le parole e le cose dei democratici Parlare di Europa oggi significa crisi economica, paesi da salvare dal tracollo finanziario e altri, più rigorosi, che si fanno carico dei deficit di altri. E come dare torto a quei tanti che la pensano così? L’Europa è un’entità per troppi inesistente, manca di una politica estera comune, di un centro di elaborazioni politica, economica e culturale capace di superare le differenze tra Stati e porsi come interlocutore del e nel mondo. A pochi passi da qui si infiamma la rivolta del mondo arabo. Eppure, fino ad ora, l’Europa non è stata in grado di guardare a quella richiesta di libertà con lo sguardo lungimirante di chi pensa che sia proprio da lì che possa nascere un nuovo equilibrio mondiale. L’Europa tentenna, riducendo tutto ad un problema di ordine pubblico, a quegli immigrati che arriveranno stremati dalle rivolte e dalla fame. Tutto ciò non stupisce. I nostri sono paesi attraversati dalle paure. Basta guardare a cosa accade nei vari paesi europei per rendersene contro. Sarkozy in Francia ha effettuato una vera e propria pulizia etnica per espellere donne ed uomini di etnia Rom. Non si capisce bene quale possa essere il criterio per definire l’etnia delle persone, ma certamente un provvedimento di quel tipo fa a pugni con le tradizioni democratiche costruite dopo il nazi-fascismo. Come se non bastasse, il Premier francese si è messo in testa di vietare il burqa dai luoghi pubblici, in nome di una laicità che, seppur comprensibile, di certo non è all’altezza delle sfide della modernità. Ovunque in Europa dilaga la questione del burqa. Vorrei soffermarmi su questo, poiché lo trovo il sintomo non solo dell’ennesimo tentativo di usare le donne come terreno 334 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 335 Le parole e le cose dei democratici di scontro tra presunte ‘civiltà’, ma anche delle semplificazioni estreme messe in piedi per nascondere le vere sfide del multiculturalismo. Fare proclami sul divieto del burqa è grave tanto quanto imporne l’uso. La decisione della Francia di imporre il divieto del velo è stata motivata con anni di terribili storie di giovani donne forzate dai loro padri ad indossare il burqa: eppure quasi mai si parla di punizione per quei padri, o di come potenziare il lavoro con le comunità per sconfiggere la violenza domestica. Al contrario, le ragazze sono utilizzate come pretesto per lotte di potere e di controllo culturale mentre entrambi i contendenti (i padri e lo Stato) sono impegnati a rendere loro la vita sempre più difficile. Se lo Stato non le vuole nelle scuole pubbliche, allora queste bambine e ragazze andranno a quelle islamiche e, se lo Stato dovesse tagliare i fondi per quelle confessionali, allora le famiglie decideranno di tenerle a casa. A me pare evidente che una decisione del genere rischi di violare il diritto all’educazione di generazioni di giovani donne musulmane, diritto peraltro sancito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’articolo 2 del primo Protocollo. Negare tale diritto, paradossalmente giustificando tale violazione con argomentazioni fondate sui valori di uguaglianza, tolleranza e diritti umani, è un rischio enorme: significa ridurre le donne a mero terreno di scontro per assecondare gli istinti più immediati e le paure più infondate, legittimate dagli stereotipi in cui, alla fine, per pigrizia, finiamo per credere tutti. Bisogna stare molto attenti a queste derive e vigilare perché siano vivi gli anticorpi che possono aiutarci nello 335 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 336 Le parole e le cose dei democratici sconfiggere pericolose semplificazioni. Il tema vero, dunque, è l’incapacità dell’Europa di costruire una visione coerente di sviluppo, che sia il frutto di una storia europea, di una narrativa che emerga dalle sue ragioni fondanti e dalle specificità che accomunano i paesi. Il mondo sta cambiando rapidamente. La Cina avanza in fretta , lasciando intravedere un futuro non lontano in cui gli equilibri mondiali saranno radicalmente diversi. Il Brasile è l’unica potenza economica che cresce coniugando economia e allargamento, diritti e redistribuzione. È il frutto dell’affacciarsi al mondo di masse che, fino a prima dell’arrivo di Lula, ne erano escluse. La primavera araba ci presenta l’alternativa di pensare a democrazie di matrice islamica che, tra la sharia e i diritti umani, scelgono diritti e libertà delle donne. Democrazie islamiche che vanno incoraggiate e sostenute: la finanza islamica, ad esempio, potrebbe essere da esempio e da stimolo a quanti oggi si interrogano sulle moral economies, su come sia possibile dopo la crisi finanziaria pensare a un modo più equo di condurre transazioni e operazioni internazionali. Di fronte a questo quadro così stimolante, cosa dovrebbe fare l’Europa e, in particolare, cosa dovrebbero fare i progressisti d’Europa? Nel Regno Unito il dibattito nel Partito Laburista è interessante. Dopo gli anni del New Labour di Tony Blair prima e di Gordon Brown poi, il paese è governato dall’alleanza tra i Conservatori e i Liberal-Democratici. I conservatori di Cameron hanno un’agenda politica che utilizza il ter- 336 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 337 Le parole e le cose dei democratici mine big society per designare una società in cui i cittadini si assumano direttamente la responsabilità per il funzionamento di alcuni servizi locali essenziali. Il tutto in nome di una nuova relazione tra cittadini e comunità. In realtà, si tratta di un modo più o meno velato per edulcorare i tagli al welfare e ai servizi pubblici che riportano la Gran Bretagna ai tempi di Margaret Thatcher. Quello che però è interessante notare è il dibattito interno al Partito Laburista. Un movimento di nome Blue Labour (Blue perché si avvicina al colore dei conservatori) propone una piattaforma fondata su patria, comunità e famiglia, rispolverando il sindacalismo del movimento laburista delle origini. Il New Labour (quello che abbracciava i mercati e la globalizzazione) e Blue Labour (che li detesta entrambi) hanno assolutamente poco in comune, tranne l’idea che lo Stato tolga potere alle persone che devono, invece, riappropriarsi di una dimensione di ‘cittadinanza’ attraverso l’appartenenza ad una comunità e ad un territorio. Presto per dire cosa succederà nel partito. Ma una cosa è certa: l’elezione di Ed Miliband con il grande supporto dei sindacati segna l’inizio di una nuova epoca nella sinistra inglese. Parole come ‘socialismo’, ‘partecipazione’, ‘democrazia’ e ‘radicalismo’ sono tornate in voga. L’elemento più interessante è quello della ‘dignità’. C’è un tema importantissimo per molti nel Partito Laburista e nei think-tank che ne accompagnano l’evoluzione politica, culturale e filosofica: la dignità delle persone nel lavoro, nella sanità, nella scuola e nella vita privata. La restituzione della dignità alle persone è un tema centrale, e non è seconda- 337 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 338 Le parole e le cose dei democratici rio il fatto che avvenga proprio in Inghilterra, il più capitalista e il meno europeista dei paesi europei. Io credo che sia proprio su questo terreno che i progressisti dovrebbero guardare all’Europa. In fondo, l’Europa è quella della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e di un welfare state fondato sulla persona e sulla sua dignità. In un mondo così incerto, può l’Europa rappresentare un modello di crescita e sviluppo fondato su equità, dignità e rispetto per le persone? In altri termini, possono i progressisti di Europa, sempre più marginalizzati nelle urne, pensare ad una piattaforma comune che ripensi all’idea di cittadinanza e di crescita? L’ingresso della Turchia in Europa deve essere visto come una grande opportunità: il fatto che uno Stato laico con milioni di musulmani entri a far parte dell’Unione Europea, mescolandosi con le sue tradizioni cristiane, con i movimenti che l’hanno attraversata, può essere un’occasione per ripensarsi drasticamente. Ma il tema vero è come le forze democratiche e progressiste possano tornare a governare i paesi europei per costruire, insieme, una dimensione internazionale nuova, un faro di democrazia per il mondo. Le destre sono al governo nella maggioranza dei paesi europei, e hanno preso possesso delle democrazie scandinave. Zapatero traballa in Spagna, soprattutto come conseguenza della crisi finanziaria che ha colpito drammaticamente la penisola iberica. Alla sinistra spetta il compito di una visione alternativa di sviluppo. Non sarà possibile per la sinistra in Italia e in Europa guardare al futuro senza radicalismo nelle scelte. 338 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 339 Le parole e le cose dei democratici Di fronte alle chiusure della società, alle paure e ai facili slogan la sinistra dovrà presentare una narrativa capace di parlare al cuore delle persone. Credo fortemente che proprio nei valori fondanti dell’Europa si possa trovare l’ispirazione per le forze progressiste. Soprattutto, da quei valori si potrà ripartire per porre le premesse di una nuova idea di crescita e sviluppo, capaci di superare l’insostenibilità del capitalismo attuale a favore di una democrazia inclusiva, rispettosa dei diritti di ognuno. 339 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 340 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 341 Silvano Andriani Presidente CeSPI – Centro Studi Politica Internazionale Qualche settimana fa la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato: «Se crolla l’Euro, crolla l’Europa». Forse esagera, ma una nella sua posizione non farebbe una dichiarazione del genere se non credesse che esista davvero il rischio di una rottura dell’Euro. Cerchiamo allora di capire come siamo arrivati a questo. Se consideriamo la vicenda dell’unità europea nel trentennio di egemonia culturale e politica del neo-liberismo a livello mondiale, credo si possano distinguere due fasi sostanzialmente diverse. La prima fase, che copre gli anni Ottanta e arriva agli inizi degli anni Novanta, ebbe come leader principali Mitterand e Delors nella veste di Presidente della Commissione Europea e fu caratterizzata dal tentativo di delineare in Europa un tipo di sviluppo diverso da quello che andava affermandosi in base all’approccio liberista, uno sviluppo che avrebbe dovuto ribadire il carattere solidarista delle società europee anche in una prospettiva di accelerazione del processo di globalizzazione attraverso una maggiore integrazione delle economie europee e in una dimensione esplicitamente federalista. Quell’impegno si ritrova ancora nel Libro bianco elaborato dalla Commissione Europea che proponeva non solo un completamento dell’unificazione dei mercati e il co- 341 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 342 Le parole e le cose dei democratici ordinamento delle politiche economiche e sociali, ma anche l’assunzione di un ruolo attivo dell’Unione nella politica economica da realizzare attraverso una grande strategia di investimenti rivolta a rafforzare le infrastrutture dello sviluppo in tutta l’area europea, da finanziare sia potenziando il bilancio dell’Unione, sia attraverso l’emissione di bond europei. Quell’approccio trovò la resistenza sistematica dell’Inghilterra della Thatcher, ma ciò non impedì che si creasse un clima nel quale nei Parlamenti si votavano risoluzioni che indicavano il federalismo come sbocco del processo unitario. La situazione è progressivamente cambiata quando il crollo dell’Unione Sovietica ha posto sul tappeto il problema dell’allargamento dell’Unione ed esso è stato affrontato senza approvare in anticipo una Costituzione dell’Unione che ne rafforzasse il potere di decisione e fissasse i termini dell’adesione per i nuovi entranti. Il rischio di diluizione che l’allargamento inevitabilmente comportava non è stato contrastato. In quella fase, inoltre, uscivano di scena i vari Brandt, Mitterand, Delors, Kholl, espressione di una sinistra fortemente europeista, ed arrivava al potere una nuova generazione nella quale, attraverso Blair, ha assunto un ruolo particolarmente forte l’Inghilterra sempre contraria a fare dell’Unione un autentico soggetto politico. Il risultato è stato l’abbandono del progetto federalista, ma anche dell’idea di una politica economica attiva da parte dell’Unione. Il progetto di Lisbona del 1999 gronda di buoni propositi, ma affida all’Unione semplicemente il compito di controllare che gli Stati nazionali seguano le buone regole fissate dal programma. Nella pratica 342 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 343 Le parole e le cose dei democratici l’Unione ha continuato ad operare attraverso le scarse risorse del suo bilancio, attraverso il patto di stabilità fissato sui parametri di inflazione, deficit e debito pubblico e attraverso le decisioni della BCE per i paesi dell’area Euro. La crisi che oggi attraversa l’Europa è figlia di quelle scelte e poiché sia della prima che della seconda fase protagonista è stata la sinistra, che all’epoca di Lisbona governava in tredici dei quindici paesi dell’Europa, una riflessione autocritica non farebbe male. Dall’inizio del passato decennio, entrato in funzione l’euro, passata la fase più critica dell’unificazione tedesca e con l’adozione a livello mondiale di politiche monetarie ancora più espansive in risposta all’esplosione della bolla tecnologica, la crescita economica europea è stata tale da aumentare i dislivelli strutturali già ampiamente presenti nell’area. Paesi come l’Irlanda, la Spagna, la Grecia, il Portogallo ed alcuni paesi dell’Est europeo esterni all’area euro hanno ridotto il divario nel livello dei consumi dai paesi più avanzati favorendo l’indebitamento delle famiglie; la loro crescita è stata superiore alla media europea, ma trainata dalla crescita dei consumi privati. Caduta del tasso di risparmio ed indebitamento delle famiglie sono stati a livello mondiale elementi costitutivi del modello di sviluppo ora entrato in crisi, ma hanno raggiunto livelli parossistici nei paesi anglosassoni e nei paesi europei prima citati. Il risultato è stato che tutti quei paesi sono vissuti al disopra dei propri mezzi con pesanti deficit strutturali della bilance dei pagamenti ed un crescente indebitamento sull’estero. Ed hanno basato la crescita interna soprattutto sulla crescita di settori non competitivi, quale l’edilizia e la finanza ad essa collegata. 343 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 344 Le parole e le cose dei democratici All’opposto, paesi come la Germania, da tempo portati a crescere attraverso le esportazioni, hanno accentuato quella caratteristica. La Germania è riuscita nella straordinaria impresa di aumentare leggermente la propria quota del mercato mondiale nel decennio segnato dall’ascesa della Cina, dell’India, del Brasile e dal drammatico aumento del prezzo del petrolio. Con una sostanziale differenza però. Mentre nei decenni precedenti l’attivo tedesco corrispondeva sopratutto al passivo strutturale degli USA, nel decennio passato, quando il passivo USA veniva sempre più colmato dalla Cina, l’attivo tedesco è andato corrispondendo ai crescenti deficit dei paesi europei. La Germania ha smesso di essere la locomotiva dell’Europa, essa utilizza la domanda interna di paesi europei per alimentare la propria crescita ed ha usato l’eccesso di risparmio, che un paese in attivo strutturale inevitabilmente ha, per finanziare i consumi degli statunitensi e degli europei che si indebitavano. Ha fatto con i paesi europei quello che la Cina ha fatto con gli USA. Ed alla Germania potete aggiungere l’Olanda, l’Austria ed i paesi scandinavi. Gli squilibri interni all’area sono aumentati e non solo per l’asimmetria finanziaria di paesi creditori e debitori, ma in quanto quel tipo di sviluppo ha finito col conformare la struttura produttiva dei diversi paesi determinando un crescente divario nei livelli di competitività. Insomma, si è andata delineando un’Europa non a due velocità, ma a due direzioni, peraltro opposte. Credo che occorra avere il coraggio di riconoscere che, in mancanza di una politica economica comune, il funzionamento dell’Euro ha aggravato la tendenza alla divergenza. In due modi: innanzitutto ha provocato un artifi- 344 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 345 Le parole e le cose dei democratici cioso allineamento al ribasso dei tassi di interesse dei paesi più deboli a quello della Germania e ne ha favorito così la corsa all’indebitamento; inoltre, poiché il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e decisamente basso per quelli forti, svantaggia i primi e favorisce i secondi. Se avesse ancora il Marco, la Germania avrebbe probabilmente un cambio di 1,70 col Dollaro con l’Euro a 1,40 e questo spiega non poco delle sue straordinarie performance nel commercio estero. Le politiche di austerità e il già annunciato aumento dei tassi di interesse accentueranno la tendenza alla divergenza poiché colpiscono soprattutto i paesi più indebitati. In effetti sta già accadendo. La Merkel ha ragione a temere una crisi dell’Euro; quello che non dice è che i rischi per l’Euro nascono in buona misura dalle scelte imposte dalla Germania. La risposta data alla crisi finanziaria dai governi di destra europei, influenzata soprattutto dalla posizione della Germania, si può riassumere in tre no: no ai default delle banche, no alla ristrutturazione dei debiti degli Stati a rischio di default, no all’aumento del tasso di inflazione accettabile, che pure viene proposto anche dal direttore del dipartimento economico del Fondo Monetario Internazionale per dare maggiore spazio alla politica economica e svalutare parzialmente i debiti. Il risultati sono il drammatico peggioramento dei bilanci pubblici, chiamati ad ogni sorta di operazione di salvataggio, e la conseguente scelta dell’austerità; l’ingiustizia per cui si chiama a fare cure dimagranti quelli che non erano affatto ingrassati nella fase precedente; e la possibile inefficacia dell’austerità rispetto all’obbiettivo di contenere l’indebitamento 345 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 346 Le parole e le cose dei democratici pubblico se essa, come è probabile, dovesse ostacolare la ripresa economica. Proviamo a capire che senso ha la scelta fatta e chiariamo subito che, quando si parla di salvare la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e domani, chissà, con la formazione del fondo provvisorio, l’ESFF, e di quello definitivo, l’ESFM, che dovrebbe entrare i funzione nel 2013, o attraverso l’acquisto da parte della BCE dei titoli degli Stati a rischio, in pratica stiamo aiutando le banche che hanno fatto credito a quei paesi evitando le perdite che subirebbero in caso di ristrutturazione dei debiti e che sono sostanzialmente banche tedesche, francesi e inglesi. L’Italia, le cui banche sono poco esposte ma che concorre pro quota ai fondi di salvataggio, sta aiutando banche concorrenti delle nostre. In pratica, l’Unione sta preservando il potenziale finanziario di paesi come la Germania, in parte compromesso dalle dissennate politiche creditizie degli anni trascorsi, e la possibilità di finanziare l’espansione ad Est, che sembra l’obbiettivo principale della strategia di crescita tedesca. Ora, la proposta franco tedesca è di rafforzare con più dure sanzioni il ‘patto di stabilità’ e di varare un ‘patto di competitività’. Per quanto riguarda il primo si fa finta di non vedere che il patto di stabilità non ha funzionato; altrimenti perché saremmo in una situazione di tale instabilità? E non ha funzionato non perché non è stato applicato – l’inflazione è stata in effetti contenuta e nella media europea il rapporto debito pubblico/PIL non è aumentato, ed i paesi oggi in maggiore difficoltà, tranne la Grecia, avevano un debito pubblico inferiore, anche nettamente, alla media europea. Non ha funzionato in 346 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 347 Le parole e le cose dei democratici quanto le difese furono erette nei confronti del debito pubblico, ma l’assalto è venuto dal debito privato, dagli squilibri delle bilance dei pagamenti, dall’indebitamento sull’estero. Per questo già cinque anni fa avevo suggerito di proporre di cambiare il patto assumendo come parametri l’indebitamento totale, la bilancia dei pagamenti e l’indebitamento sull’estero di ciascun paese. Proposta di cui a sinistra ancora adesso nessuno si è accorto. Il ‘patto di competitività’ proposto non contiene alcuna ipotesi di politiche attive dell’Unione per ridurre i dislivelli di competitività fra i paesi, ma segue la strada di stabilire regole più stringenti ed omogenee per la politica economica dei vari paesi. Fra di esse la più interessante è quella di omogeneizzare la fiscalità verso le imprese allo scopo di evitare il dumping fiscale, ma ritengo che non sarà facile farla accettare dall’Irlanda, che sul dumping fiscale ha basato in parte la sua crescita e che si trova già in gravissime difficoltà. Più significative sono invece altre due regole proposte: fissare per legge costituzionale il limite invalicabile dell’indebitamento pubblico, seguendo l’esempio della Germania, e rompere il collegamento delle retribuzioni all’inflazione. Per quest’ultima si tratta di ridurre le retribuzioni, il che, oltre a ribadire l’idea che a pagare debbano essere sempre gli stessi che con la crisi non c’entrano nulla, impone una domanda: cosa dovrà trainare la domanda interna nel prossimo ciclo di crescita? Quanto alla prima, va nella direzione opposta a quella suggerita dal FMI: renderebbe cioè più rigida la politica economica e sarebbe sostanzialmente impraticabile in quanto, in caso di nuove crisi, la situazione dei bilanci pubblici non potrebbe che peggiorare. Il problema non è 347 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 348 Le parole e le cose dei democratici quello di togliere alla politica economica la capacità di controbilanciare gli effetti di una crisi, ma di evitare che essa scoppi e questo dovrebbe innanzitutto indurre a cambiare il patto di stabilità. La via d’uscita sta, a mio avviso, nel rilanciare l’idea di un progetto di sviluppo europeo che rinnovi e rafforzi il carattere integrato delle società europee e assuma come obiettivo centrale la riduzione delle divergenze tra paesi europei. Certo, in questa prospettiva non possiamo pensare ad una crescita trainata, come in passato, dall’aumento dei consumi privati; la crescita deve essere trainata piuttosto da un formidabile flusso di investimenti diretto a far compiere un salto di qualità alle attività produttive e a potenziare l’offerta di beni pubblici necessari a migliorare le condizioni del vivere civile e l’efficienza dei sistemi economici, tendendo a valorizzare le risorse esistenti sul territorio europeo. In questa prospettiva sarebbe certo necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche, ma non semplicemente per applicare tutti le stesse regole, semmai per adottare politiche diverse, vista la diversa condizione dei vari paesi, ma complementari rispetto all’obiettivo di una crescita più equilibrata. E sarebbe necessario rilanciare l’idea di un ruolo attivo dell’UE nella politica economica soprattutto attraverso l’elaborazione e l’implementazione di una grande strategia di investimenti di dimensione europea nei campi delle infrastrutture hard e soft, da realizzare potenziando il ruolo del bilancio dell’Unione, ma anche mobilitando l’eccesso di risparmio presente nei paesi in attivo di bilancia dei pagamenti attraverso l’emissione di bond europei o la costituzione di 348 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 349 Le parole e le cose dei democratici fondi specializzati in investimenti infrastrutturali. In questo quadro si potrebbe proseguire con politiche fiscali e monetarie espansive, ma non affidando solamente al canale bancario in difficoltà il compito di trasmettere la spinta all’economia reale, ma indirizzando direttamente parte dei flussi finanziari derivanti da quelle politiche al finanziamento degli investimenti. Per concludere, avrei una notizia buona ed una cattiva. La buona è che di recente il Partito Socialista Europeo ha votato all’unanimità un documento che propone l’elaborazione di un progetto di sviluppo europeo. Certo il progetto ancora non esiste, ma è chiara l’intenzione di elaborare una linea alternativa a quella dell’austerità seguita dalla destra. La notizia cattiva è che nessuno lo sa. Almeno in Italia. Scommetto che nessuno di voi lo sa. Il fatto è che da molti anni abbiamo cancellato la dimensione internazionale e perfino quella europea dal dibattito politico. Ed è paradossale, visto che poi siamo tutti convinti che il tema di fondo è come ricollocare il paese in un contesto mondiale in rapido ed ineluttabile mutamento. La mia conclusione è che, se questo tipo di incontro servirà a formare un nuova generazione di militanti e di dirigenti, questa recuperi la consapevolezza della necessità di reintrodurre la dimensione internazionale e quella europea nel dibattito e nelle scelte della politica. 349 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 350 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 351 PLENARIA CONCLUSIVA 351 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 352 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 353 Roberto Bernabò intervista Massimo D’Alema e Andrea Manciulli Roberto Bernabò Direttore de Il Tirreno Il dibattito conclusivo di questo pomeriggio viene al termine di tre giornate estremamente dense e interessanti, soprattutto per la voglia dei giovani che hanno partecipato di confrontarsi e di interrogarsi sulla memoria e sul futuro del Partito Democratico e del centro-sinistra italiano. Hanno dimostrato che, contrariamente alla vulgata sui giovani di oggi, c’è una parte dell’Italia di domani che già oggi cerca di costruire una prospettiva diversa rispetto ai Bunga Bunga e di osservare la società da una prospettiva più nobile. La mia intenzione è proprio quella di pormi in continuità con le riflessioni che avete condotto in questi tre giorni, di riprenderne il filo, lasciando da parte la cronaca delle ultime settimane, almeno per il momento. Per iniziare, vorrei cercare di capire, assieme a Massimo D’Alema, cosa sia oggi la sinistra e cosa dovrebbe essere, in Italia e in Europa. È indubbio che la grande crisi del 2008 abbia messo in profonda discussione l’ideologia neoliberale e l’idea che il mercato avrebbe garantito benessere, diritti e sicurezza per tutti; dall’altra parte, però, mi pare che la sinistra oggi governi in soli sei paesi dell’Europa, il più grande dei quali è la Spagna. Insomma questa crisi globale ha trovato di fronte a sé una sinistra complessivamente ripiegata su se stessa, incapace di 353 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 354 Le parole e le cose dei democratici affermare un proprio progetto. Questa è la prima domanda che pongo a D’Alema: perché la sinistra non ha saputo cogliere gli elementi di svolta di questa fase storica? Guardando poi in prospettiva, da questa stagione forse sarebbe opportuno si uscisse con l’idea che la politica deve recuperare la centralità rispetto all’economia, che è stata invece la convinzione dominante del decennio da cui veniamo. Sarebbe importante recuperare con convinzione anche il tema dell’uguaglianza, come una battaglia fondamentale per una forza progressista che intende tenere insieme giustizia e sviluppo e che è convinta che senza uguaglianza non vi sia sviluppo. Vorrei chiedere se queste possono essere le chiavi di lettura delle riflessioni che sono state condotte negli ultimi tre giorni nonché l’orizzonte entro cui ragionare sul futuro del nostro paese. Massimo D’Alema Presidente Foundation for European Progressive Studies Innanzitutto vorrei ringraziare i Giovani Democratici per l’invito a questo Seminario e il direttore de Il Tirreno perché ha voluto aprire la nostra conversazione nel segno di questioni importanti. La domanda si presta a una risposta saggistica, anche perché quello della crisi e del futuro della sinistra europea è un tema che mi appassiona e di cui mi occupo, in maniera specifica da qualche mese. Sono, infatti, stato eletto Presidente della Foundation for European Progressive Studies, la cui base associativa è costituita da quarantuno think-tank disseminati per l’intera Europa, tra cui sono presenti tutte le principali fondazioni culturali della sinistra europea. Utilizzo il termine ‘europea’ perché questa è già una parte della risposta. 354 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 355 Le parole e le cose dei democratici Ebbene, siamo di fronte a una crisi della sinistra europea e, in particolare, di quella di ispirazione socialista, socialdemocratica, che ha rappresentato una grande forza non soltanto per la storia del nostro continente, ma per quella mondiale, al punto che, riferendosi al secolo trascorso, si è spesso parlato di ‘secolo socialdemocratico’. Oggi, nel resto del mondo, sono i progressisti a raccogliere la sfida che viene dalla crisi della globalizzazione neoliberista. Penso agli Stati Uniti d’America, dove questa ha portato al governo Obama e i democratici, in uno scenario molto contrastato. In un libro particolarmente interessante, The Power of Progress: How America’s Progressives Can (Once Again) Save Our Economy, Our Climate, and Our Country, il presidente del Center For American Progress, John Podesta, uno dei principali pensatori del mondo democratico americano, spiega perché i democratici non possono più essere chiamati ‘liberal’. La nozione di ‘liberal’, infatti, è legata alle battaglie per le libertà individuali mentre gli americani di oggi, secondo Podesta, hanno bisogno di una stagione progressista. Ecco perché i democrats statunitensi preferiscono riconoscersi nel termine ‘progressives’. Anche un altro grande continente, come l’America Latina, che sembrava fino a poco tempo fa immobile e sconfitto, oggi è governato da forze di sinistra. In qualche caso sono di tipo populista, ma vi sono anche grandi forze riformiste, in particolare nel Brasile di Lula e di Dilma Rousseff. Analogo ragionamento vale per il Sudafrica e per l’Asia. In India il Partito del Congresso non è un partito socialista ma una grande forza progressista. Per quanto riguarda i moti che stanno sconvolgendo il 355 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 356 Le parole e le cose dei democratici Nord Africa, sui quali mi soffermerò più avanti, essi non sembrano essere caratterizzati, almeno finora, da un’egemonia fondamentalista: a guidare le proteste sono, piuttosto, personalità del mondo progressista, di ispirazione prevalentemente laica. Tuttavia, non è vero che la crisi della globalizzazione neoliberista vede ovunque il trionfo delle forze progressiste. L’Europa, infatti, ha avuto una deriva a destra. E ciò tocca nel profondo l’attuale situazione del nostro continente e del progetto europeista, perché la globalizzazione ha messo in discussione proprio il primato europeo. Il nostro è un continente vecchio, a fronte dei grandi paesi governati dai progressisti. Paesi giovani che guardano con relativa fiducia al loro futuro: quelli dell’area della speranza, come l’ha definita Dominique Moïsi, che nella globalizzazione hanno conquistato uno spazio. Anche gli Stati Uniti, rispetto all’Europa, sono un paese più giovane, più dinamico, inclusivo e capace di aprirsi a nuove culture. Il nostro, al contrario, è un continente impaurito, che guarda con relativa preoccupazione alle prospettive di un mondo futuro nel quale certamente perderà il suo primato. In questa regione, la destra ha saputo parlare meglio della sinistra alle paure, cavalcandole e indirizzandole contro la competizione asiatica, contro l’immigrazione dal Sud del mondo, contro l’Islam, ritratto come una forza che minaccia la nostra civiltà. In qualche modo, la destra è l’espressione di una reazione dell’Europa di fronte alla sfida della globalizzazione, che ha portato il nostro continente a chiudersi in un atteggiamento impaurito piuttosto che ad aprirsi e coglierne le opportunità. Ricordo – si tratta, naturalmente, di un paragone che non 356 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 357 Le parole e le cose dei democratici va preso alla lettera – che di fronte alla grande crisi degli anni Trenta in America vinsero Roosevelt e il New Deal, mentre l’Europa fu preda di forze politiche di tutt’altro segno. Anche allora, dunque, davanti a una crisi economica e finanziaria globale vi fu una forte divaricazione tra una risposta nel segno della speranza e una nel segno dell’arroccamento nazionalista. Dieci anni fa il quadro era completamente diverso, e credo sarebbe molto opportuno ragionare sul perché il socialismo europeo sia arrivato così indebolito da uno dei suoi momenti di maggiore vigore. Ai Consigli europei del 1999-2000, sembrava di stare alla riunione del presidio dell’Internazionale socialista, di cui, tra i quindici Primi Ministri, c’erano il Presidente e dieci Vicepresidenti. Un dato abbastanza impressionante. Come la forza del socialismo europeo si sia sgretolata e in cosa abbiamo sbagliato nell’elaborare risposte politiche alle sfide della globalizzazione, dovrebbero essere domande al centro di una riflessione molto seria. Innanzitutto, bisogna riconoscere che su questo versante la sconfitta della sinistra è stata duplice. Di fronte alla globalizzazione, infatti, hanno perso le componenti che sono sempre state più apertamente neoliberali e che sono cadute vittima di una certa subalternità culturale: mi riferisco al modello della ‘terza via’ blairiana. Ma hanno perso anche quanti si sono illusi che, in un mondo sempre più globale, si potesse difendere il compromesso nazionale del welfare State, secondo il modello francese. Entrambi i modelli, dunque, si sono dimostrati perdenti. Ora, però, è opportuno ragionare su come ripartire. Perché è chiaro che questo processo è già in atto, quello che sta accadendo in Europa lo dimostra chiaramente. 357 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 358 Le parole e le cose dei democratici Qualche giorno fa, i risultati delle elezioni di Amburgo ci hanno detto che la Signora Merkel, che in Italia è popolarissima, in Germania non riscuote altrettanti consensi. In quella regione i democristiani, infatti, hanno registrato una pesante sconfitta e i sondaggi lasciano intravedere un quadro politico del tutto nuovo, estremamente frammentato rispetto al bipartitismo del passato, ma nel quale le forze di opposizione dell’area rosso-verde rappresentano un’ampia maggioranza dell’elettorato tedesco. Non so dire se queste forze saranno in grado di costruire una prospettiva comune, dato che – caratteristica tipica della sinistra in gran parte d’Europa – sono profondamente divise. Tuttavia in Germania ci sono le condizioni per un cambiamento. In Francia, al contrario, il principale ostacolo alla vittoria dei socialisti risiede proprio nei socialisti stessi. Non sappiamo se troveranno un accordo, ma se ciò dovesse accadere, come è auspicabile, essi partirebbero largamente favoriti nelle prossime elezioni presidenziali, dopo le vittorie nei distretti e in tutte le loro Regioni. Alle penultime regionali, infatti, vinsero in tutte quelle in cui già governavano, fuorché una; all’ultima tornata elettorale hanno colmato questo gap, riconquistandole tutte. La situazione in Europa, dunque, si sta muovendo e ridefinendo: un nuovo ciclo progressista è possibile. Certo, non accadrà domani, anche perché la destra, che pure è stata bravissima nel cavalcare le paure degli europei, non ha saputo dare risposte – lo vediamo anche al di fuori dell’Italia – in termini di crescita economica e occupazionale. D’altra parte, quando saranno maturate le condizioni, il nuovo ciclo progressista che si aprirà non sarà simile al secolo socialdemocratico, ma nascerà su basi nuove. Proprio qui, a 358 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 359 Le parole e le cose dei democratici mio giudizio, risiede la sfida maggiore, poiché non sarà un ciclo socialista in senso stretto. Per fare solo un esempio, le diverse componenti ambientaliste avranno un peso notevolissimo, a differenza del passato. In questa prospettiva, ritengo che sia molto importante cercare di individuare le idee-chiave della nuova fase, che nascono dall’analisi, che stiamo facendo, della grande crisi economica. Tra queste idee c’è innanzitutto quella di democrazia: una nozione che spesso è stata data per scontata, ma che è tornata a costituire un terreno di confronto assai problematico. La globalizzazione capitalistica, infatti, si è accompagnata a un restringimento pauroso della democrazia. Quando diciamo che uno dei mali di questi anni è stata la deregolazione, intendiamo appunto evidenziare che non esiste un potere democratico in grado di regolare uno sviluppo globale. Il tema di come si articoli oggi la democrazia, intesa tanto come partecipazione attiva dei cittadini quanto come costruzione di momenti democratici sovranazionali, è un tema cruciale. Seconda idea-chiave è quella dell’uguaglianza: un tema distintivo e costitutivo della sinistra, come spiega Norberto Bobbio nel bellissimo saggio dal titolo Destra e sinistra. Eppure la sinistra per molto tempo ha avuto un certo pudore su questo terreno, forse anche a seguito dell’esperienza dell’egualitarismo comunista. Invece, si tratta di un tema che deve tornare a essere cruciale. La crisi, d’altra parte, è stata anzitutto generata da una crescita paurosa delle diseguaglianze, in particolare quella tra la rendita finanziaria e il lavoro, che ha letteralmente segnato le nostre società. Essa è nata da una caduta della domanda, e questa caduta deriva dall’impoverimento delle classi medie, dei lavoratori. 359 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 360 Le parole e le cose dei democratici Come provvedere alla riduzione delle diseguaglianze? Questa, oggi, è un altra questione fondamentale. Terza idea-chiave riguarda l’innovazione, la cultura. In questi anni lo sviluppo è stato sorretto soprattutto dal basso costo del lavoro nei paesi emergenti, il che ha trascinato con sé la condizione dei lavoratori nei paesi ricchi. Da qui la precarizzazione e la perdita di valore del lavoro. Un nuovo ciclo di sviluppo deve invece fondarsi sulla ricerca scientifica, su quell’idea di economia basata sulla conoscenza che era stata il fondamento del progetto di Lisbona, che rappresenta ancora oggi il manifesto riformista più ambizioso mai scritto in Europa. Non a caso esso è figlio di quella stagione in cui il centrosinistra governava in gran parte del continente. Per ‘innovazione’ oggi si intende nuove tecnologie, ambiente, una nuova politica dell’energia, un concetto, cioè, orientato verso la qualità della vita. A questo proposito, vorrei segnalare un saggio estremamente stimolante, The Spirit Level, in cui gli autori, due ricercatori inglesi, spiegano che le società diseguali sono anche profondamente infelici. Le politiche e gli strumenti necessari a costruire una società più giusta, quindi più felice, assieme all’idea che la crescita del PIL non possa essere l’unico indice qualitativo di un paese e del suo benessere, sono temi che secondo me concorrono a definire la base culturale di una nuova stagione progressista. E di questa stagione, diversa da quella che abbiamo conosciuto nel passato, si cominciano a intravedere le precondizioni. Non è vero, quindi, che la sinistra europea è finita, semmai è finita un’epoca, quella del welfare State, delle socialdemocrazie nazionali, mentre cominciano a maturare i germi, gli elementi di una nuova fase. Questa è insieme una speranza ma anche un’analisi di quanto sta ac- 360 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 361 Le parole e le cose dei democratici cadendo in diversi paesi europei. R. B.: In questo quadro che Lei ha tratteggiato dei grandi elementi di fondo sui quali costruire una nuova stagione progressista, probabilmente – come Lei stesso richiamava – c’è anche il riconoscimento della centralità dell’Europa. È necessario, oggi più che mai, che le forze progressiste colgano l’urgenza di un recupero del valore e della centralità della prospettiva europeista. Lo dico riferendomi in particolare al grande sconvolgimento che sta avvenendo al di là del nostro mare e che sta cambiando gli assetti di paesi importanti: l’impressione è che complessivamente l’Europa (certo con grandi differenze tra l’Italia e altri paesi), così come gli Stati Uniti, sia stata presa in contropiede. La prima domanda che Le pongo su questo punto è dunque: com’è possibile che non siamo stati capaci di cogliere quello che stava avvenendo in quelle società? E poi le risposte: sono state balbettanti, non c’è un’idea davvero chiara su cosa fare. Un atteggiamento forse legato al sospetto, da parte di qualcuno, che nel caso particolare della Libia il risultato finale non sia così scontato e che quindi non sia opportuno esporsi troppo. La mia domanda ha due corni. Vorrei innanzitutto sapere quale è il Suo giudizio in merito all’atteggiamento complessivo dell’Europa e, chiaramente, dell’Italia. Inoltre, sarei curioso di sapere se condivide l’appello lanciato ieri da Veltroni a una mobilitazione maggiore. L’ex Segretario del PD ha affermato che è sorprendente che nelle nostre piazze non si scenda a sostenere il popolo libico nella sua battaglia contro un dittatore e in nome della libertà. In tutto questo pesano forse le relazioni storiche, i rapporti politici e commerciali che il nostro paese ha tenuto a tutti li- 361 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 362 Le parole e le cose dei democratici velli in questi anni, in modo trasversale rispetto ai governi, seppure con gradazioni assolutamente diverse? M. D’A.: In primo luogo sono convinto che sia giusto scendere in piazza a supporto dei libici che si ribellano perché chiedono democrazia e libertà. Da questa punto di vista, però, non credo che siamo di fronte a una ‘questione libica’, perché dobbiamo ammettere che, più in generale, abbiamo perso l’abitudine a manifestare in sostegno delle lotte dei popoli, come quelle che stanno infiammando l’Egitto e la Tunisia. Da questa parte del Mediterraneo abbiamo certamente bisogno di un’Europa più unita, più forte, in grado di esercitare il suo ruolo nello scenario internazionale. In un certo senso, il moto che sta sconvolgendo il Nord Africa ha anche un’ispirazione europea, dato che la democrazia e la libertà individuale sono valori europei che hanno una certa capacità di propagazione. La democrazia si diffonde più per contagio che non attraverso le guerre, come ci ha dimostrato la disastrosa esperienza in Iraq. Tuttavia, se osserviamo con sguardo autocritico alle politiche dei nostri governi nei confronti dei paesi interessati dalle rivolte, emerge come queste abbiano preso le mosse sostanzialmente da tre esigenze di base: la sicurezza energetica, il controllo dei flussi migratori e la lotta al terrorismo, in particolare quello di matrice islamica. Rispetto a questa impostazione securitaria, i regimi sono apparsi a lungo come quelli che meglio potevano garantire un contrafforte rispetto alle minacce fondamentaliste. Del resto, lo afferma oggi lo stesso Gheddafi, riferendosi a un sentimento che è stato proprio non soltanto dei governi, ma anche lar- 362 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 363 Le parole e le cose dei democratici gamente condiviso dall’opinione pubblica europea. Mi riferisco a quell’idea secondo cui, in questi paesi, fosse più opportuno che vigessero regimi non democratici, in grado di esercitare un controllo e, in particolare, di garantirci quelle fondamentali esigenze di cui ho appena parlato: la sicurezza energetica, il governo dei flussi migratori, la lotta al terrorismo. Questa impostazione è stata miope e, a questo punto, occorre un certo realismo. Intrattenere rapporti economici con questi paesi penso che fosse una cosa ragionevole. In proposito, qualche giorno fa, sono stato insultato da una signora con l’argomento che non si deve comprare il petrolio dai dittatori. Una posizione molto nobile certo, e si può anche decidere di non usare più l’automobile e andare tutti a piedi. Ma poi non ci potremo lamentare se mancherà il riscaldamento d’inverno o l’illuminazione la sera… Si tratta di decisioni drastiche che possono essere prese soltanto se socialmente condivise. Fino a quel momento, dunque, è inevitabile avere rapporti diplomatici ed economici anche con paesi dove non vige la democrazia parlamentare. Senza contare che l’attività internazionale dell’Europa, altrimenti, si restringerebbe moltissimo. Certo, una cosa è intrattenere dei rapporti istituzionali, ben altra è ciò cui abbiamo assistito sotto il governo di Silvio Berlusconi. Episodi piuttosto discutibili, dalla citazione di Gheddafi come modello di democrazia, alla richiesta a Mubarak su quale fosse il segreto del suo potere: una domanda che ha una risposta facilissima, l’esercito. Un segreto che fortunatamente non è esportabile nei paesi occidentali democratici. Insomma, abbiamo assistito a qualcosa che va molto al di là della necessità politica. 363 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 364 Le parole e le cose dei democratici Cionondimeno, non si può dimenticare che, rispetto ad altri paesi, l’Italia con la Libia ha un problema particolare. Per quanto si possa provare orrore di fronte ai massacri di Gheddafi, infatti, bisogna sempre ricordare che noi ne abbiamo compiuti di assai peggiori su quel territorio. Abbiamo una responsabilità storica che è il lascito del colonialismo fascista e aver normalizzato i rapporti con Tripoli è stata una scelta inevitabile. Tuttavia, come Ministro degli Esteri non firmai il trattato di amicizia italo-libico, pur avendolo lungamente negoziato e avendone determinato la struttura. Alcuni punti, infatti, non mi convincevano, e tra questi vi era l’idea che l’Italia versasse ogni anno a Gheddafi novecentocinquanta milioni di dollari. Mi sembrava umiliante per il nostro paese, oltre a costituire un elemento di rafforzamento del regime. Pertanto proposi alla controparte l’impegno dell’Italia a costruire delle opere in Libia, eliminando il versamento diretto di denaro. Una proposta diversa dal punto di vista sostanziale. Si trattava, infatti, di una riparazione per i danni del colonialismo e la forma in cui questa avveniva aveva un grosso valore politico. L’altro punto controverso riguardava il trattato di riammissione degli immigrati. Dal momento che la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, mancavano le garanzie internazionali alla base dell’accordo: un requisito a mio parere irrinunciabile. Si possono stringere patti e siglare trattati, ma la questione dirimente è il come lo si fa. Alla fine, il governo Berlusconi, in carica da poche settimane, firmò tutto secondo i dettami di Gheddafi. E noi lo denunciammo in Parlamento. Anche su questo versante, infatti, ci sono differenze sostanziali tra la nostra parte politica e l’attuale maggioranza. 364 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 365 Le parole e le cose dei democratici Fatta questa premessa, è innegabile che l’Europa abbia avuto a lungo, nei confronti di questi paesi, l’atteggiamento di chi pensava che tutto sommato la democrazia fosse qualcosa che apparteneva alla nostra civiltà e che per l’altra sponda del Mediterraneo potessero andare bene regimi autoritari purché garantissero i nostri interessi fondamentali. R. B.: Quali interventi occorrerebbero adesso, secondo Lei? M. D’A.: Innanzitutto, bisogna operare delle distinzioni perché si tratta di situazioni tra loro molto diverse: la Libia attira maggiormente la nostra attenzione, ma con i suoi cinque milioni di abitanti non è certo il paese più rilevante; piuttosto partirei dall’Egitto, che ne ha ottanta milioni, ed è di gran lunga il paese leader del mondo arabo. Lì, come in Tunisia, bisogna accompagnare un processo di transizione democratica che è solo all’inizio. Allo stato attuale, in Egitto il potere è esercitato da una giunta militare, il dittatore è fuggito e quindi occorre fare pressione perché si arrivi in un tempo ragionevole a una situazione di stabilità interna. Inoltre, si è aperta una discussione molto importante sui tempi, sull’urgenza di una prima riforma costituzionale e poi sull’alternativa delle elezioni presidenziali o di quelle parlamentari. È evidente che si tratta di due modalità di transizione diverse, anche per quanto riguarda gli effetti. Con ogni probabilità, infatti, nel momento in cui l’Egitto andrà alle elezioni parlamentari, i Fratelli Musulmani si affermeranno come la maggiore forza politica, intorno al 25-30 per cento, ma essendo isolati, è pressoché impossibile che vin- 365 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 366 Le parole e le cose dei democratici ceranno le elezioni presidenziali. In questo quadro è dunque più verosimile che l’Egitto democratico avrà un presidente laico, una personalità importante nel governare la transizione, sia pure in un contesto in cui sicuramente gli islamisti avranno un peso maggiore rispetto a quello che la dittatura riconosceva loro. Ecco, di questa situazione bisognerà occuparsene anche dal punto di vista politico. Abbiamo partecipato al vertice eurosocialista di Atene, dove, come socialisti democratici europei, abbiamo chiesto di riorganizzare il nostro sistema di relazioni politiche. Vorrei ricordare, con profonda vergogna, che il partito di Ben Alì e il partito di Mubarak erano entrambi membri dell’Internazionale Socialista. È un dato che non possiamo nascondere a noi stessi. Pertanto dobbiamo riorganizzare un tessuto di rapporti politici e aiutare i partiti che devono nascere e organizzarsi, perché non c’è democrazia senza partiti. Il PD ha recentemente incontrato i rappresentanti delle forze di opposizione di centro-sinistra tunisine, con le quali è stato avviato un lavoro comune: ad aprile si dovrebbe tenere una conferenza a Tunisi con tutte le forze democratiche del Maghreb, per cercare di avviare un percorso condiviso. Tutto sommato è stata una riunione estremamente interessante, sebbene i tunisini abbiano litigato tra di loro per circa un’ora; si tratta comunque di un processo democratico che va concretamente e attivamente sostenuto. Dobbiamo ricordare, però, che questo processo non ha vinto ovunque nel mondo arabo. Ci sono paesi in cui la rivolta popolare non ha avuto la meglio e nei confronti dei quali la pressione europea per le riforme democratiche deve essere molto forte e condizionante: penso all’Algeria, 366 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 367 Le parole e le cose dei democratici ai paesi del Golfo, al Bahrein, all’Oman, allo Yemen. Infine, c’è la crisi libica, in merito alla quale non ritengo produttivo aprire un’ampia discussione pubblica sull’opportunità o meno di un intervento militare di terra, dal momento che è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a decidere in materia. Ciononostante, tale esito sembra improbabile dal momento che, in quel paese, lo scenario si configura ormai come una sorta di guerra civile. Certamente il nostro dovere è soccorrere la popolazione, portare aiuti umanitari, accentuare l’isolamento innanzitutto economico del regime, perché la forza di Gheddafi è in buona misura nel denaro di cui dispone. Occorre, in secondo luogo, il nostro impegno per creare le condizioni affinché questa guerra non degeneri in un massacro spaventoso e per spingere Gheddafi in una condizione tale da costringerlo a negoziare e ad andarsene. Tutto questo naturalmente non è facile. Il governo italiano, dopo aver detto numerose bestialità, ha avviato un paio di iniziative positive, sulle quali deve essere sostenuto e incoraggiato. Penso, ad esempio, all’iniziativa umanitaria ai confini tra la Tunisia e la Libia, alla decisione di mandare aiuti umanitari a Bengasi e al tentativo di avviare rapporti con il Consiglio nazionale delle opposizioni. In un momento come questo, credo che, oltre a criticare, si debba anche incoraggiare le iniziative positive del governo. È l’unica strada oggi percorribile. R. B.: Grazie. Io rivolgerei ancora una domanda a D’Alema per poi coinvolgere il Segretario Manciulli. Per spostarci sul versante più strettamente nazionale, in questi giorni i giovani hanno molto discusso e ascoltato lezioni su personaggi 367 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 368 Le parole e le cose dei democratici di riferimento delle storie e delle culture politiche fondative del Partito Democratico, sull’evoluzione dei linguaggi comunicativi, sul modo di confrontarsi con gli elettori e gli iscritti. La mia domanda intende andare proprio in questa direzione. Il PD si presenta come una scommessa ancora tutta da costruire, che ha bisogno di tanta anima dentro: l’immagine che spesso ne emerge è, da una parte, quella di litigi, di divisioni, di distanze nelle posizioni dei diversi esponenti nazionali; dall’altra, sembra a volte di percepire una mancanza di un quadro di riferimento, di valori e di contenuti nitidamente identificabili. Abbiamo parlato fino ad ora della difficoltà per le sinistre europee di costruire un programma. Il tema è vibrante anche sul piano nazionale: in che modo dare al PD un contenuto, soprattutto di valori e di programmi, più chiaro? Ieri Rosy Bindi intervenuta a questo incontro ha detto che la gran parte degli iscritti a questo partito si porta sempre dietro una doppia aggettivazione – è insieme un popolo di ‘democratici’ più qualcos’altro – e che dovrebbero tutti rinunciare a pezzetto della propria identità per riuscire a costruirne una più ampia e condivisa. È possibile questo, soprattutto in presenza di tante personalità forti che vengono da stagioni lunghe e con storie così diverse? M. D’A.: Non credo che si possa dire che il PD sia un partito privo di un programma. È un approccio che non condivido. In primo luogo, perché non è vero: siamo una forza politica che ha costruito un’idea diversa del futuro del paese, anche dal punto di vista delle politiche economiche e sociali. L’Unione Europa chiede ai governi di presentare programmi di riforme di medio periodo e noi presenteremo 368 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 369 Le parole e le cose dei democratici in contemporanea a Roma e a Bruxelles un piano nazionale di riforme necessarie per la crescita dell’Italia. Un testo su cui ha lavorato il Partito Democratico, con la collaborazione della Fondazione Italianieuropei. Una parte delle proposte che vi si trovano raccolte sono già disegni di legge presentati in Parlamento, come, ad esempio, una proposta di riforma fiscale che prevede un riequilibrio della pressione sui redditi da lavoro, sulla rendita, non sul patrimonio. Eppure, un certo numero di iscritti del nostro partito, di elettori e di commentatori sono pronti a dichiarare che non abbiamo idee e che quelle poche che abbiamo non sono chiare. Un atteggiamento che riguarda anche certi editoriali di giornali. Berlusconi, al contrario, si è subito accorto che il Partito Democratico una proposta seria ce l’aveva, e ne ha distorto il significato attraverso una campagna di disinformazione e denigrazione, sostenendo che i comunisti volevano introdurre la patrimoniale! Voglio dire che rischiamo di avere una percezione di noi stessi meno precisa di quella che ha il Presidente del Consiglio, mentre siamo nella condizione in cui non solo abbiamo una proposta, ma questa è talmente valida che è già oggetto di una contro-campagna volta a stravolgerne il significato. Noi siamo una grande forza politica che ha vissuto, nel decennio passato, una storia non dissimile da quella delle altre forze riformiste europee. Negli anni Novanta abbiamo fronteggiato e sconfitto Berlusconi, abbiamo governato il paese, e lo abbiamo fatto anche bene, consentendo all’Italia di vivere l’ultima stagione significativa di riforme importanti. A partire dal 2001, grazie all’alleanza con la Lega, Berlusconi ha preso il sopravvento, così come altre forze di destra hanno conquistato la vittoria in Europa, caratterizzate da 369 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 370 Le parole e le cose dei democratici quel mix di populismo e di localismo venato di sentimenti razzisti di cui la Lega è soltanto l’espressione italiana, non molto diversa da certi movimenti emersi in Olanda e nelle Fiandre. A volte siamo convinti che quanto succede in Italia sia qualcosa al di fuori dell’ordinario, un atteggiamento che fa parte del provincialismo nazionale. Più spesso, però, cose molto simili avvengono in altri paesi europei, anche se, nel panorama delle nuove destre europee, la versione italiana è di gran lunga la più volgare. Oggi noi ci troviamo in una condizione in cui dobbiamo costruire una coalizione in grado di fare uscire il paese dal dominio di Berlusconi. Uno sforzo, questo, che abbiamo compiuto alla metà di questo decennio, vincendo anche le elezioni, ma alla base c’era una proposta politica che si è rivelata fragile: quella dell’Unione. Badate, anche su questo punto Berlusconi ha costruito il mito della propria invincibilità, un mito falso: egli ha alternativamente vinto e perso le elezioni. Dunque, se tutte le edizioni pari le abbiamo vinte noi, statisticamente, sarà così anche per la prossima. Anzi, di norma in questo paese la forza che è al governo perde le elezioni politiche successive. Ciò, invero, rappresenta anche una spia dell’estrema difficoltà a governare il nostro paese. Forse, l’ultima volta che abbiamo vinto le elezioni, avremmo potuto cercare di costruire una stagione politica più lunga. All’indomani della vittoria elettorale dell’Unione, a mio giudizio, occorreva rendersi conto che quel successo era troppo ristretto per dar vita a una nuova fase politica. Nel corso di quella legislatura, quando si è aperta la crisi tra l’UDC e Berlusconi, ed è venuta fuori una certa idea di riforma elettorale del sistema politico, se noi avessimo aperto un dialogo anziché pensare 370 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 371 Le parole e le cose dei democratici di essere autosufficienti, forse saremmo ancora al governo. Non è vero, quindi, che il nostro sia un destino cinico e crudele, perché tutto dipende dalle scelte politiche che si compiono. Trovo abbastanza normale che in una lotta politica di questo tipo, in un partito come il nostro, ci siano anche opinioni diverse che si confrontano. Non li chiamerei ‘litigi’. Anzi, con una valutazione ex post, direi che qualche volta, se avessimo litigato di più, forse avremmo evitato di compiere degli errori. Al di là della discussione e del confronto politico, entrambi aspetti fisiologici in un partito sano e democratico, credo che oggi siamo finalmente arrivati a definire una prospettiva per il futuro dell’Italia. Il problema di questo paese è mettersi alle spalle non soltanto Berlusconi, ma soprattutto il berlusconismo, una certa idea della politica e del rapporto tra cittadini e istituzioni. Il problema e la sfida che abbiamo di fronte consistono nel chiudere una stagione del bipolarismo italiano che si è rilevata inefficace, poiché abbiamo avuto governi fragili e un paese che nel complesso non è stato in grado di fare le riforme necessarie. Pertanto, quando Bersani afferma la necessità di un governo costituente, non lo fa muovendo da una esigenza di schieramento politico, ma da una considerazione di ciò di cui ha bisogno l’Italia: grandi riforme e ritrovare se stessa, perché il nostro paese ha vissuto un periodo, oramai lungo, in cui ha progressivamente perduto terreno su fronti molteplici. L’Italia è profondamente divisa e arretrata rispetto ai paesi più avanzati e moderni. In questi ultimi dieci anni la ricchezza non è cresciuta, sono aumentate le diseguaglianze sociali, si registra uno spaesamento dei giovani. La crescente fatica ad assorbire le professionalità e i talenti migliori fa sì 371 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 372 Le parole e le cose dei democratici che i giovani più qualificati se ne vadano all’estero. Questo ripiegamento non riguarda soltanto la politica, sarebbe un giudizio ingeneroso. Basta vedere come è invecchiata la classe dirigente economica del paese. È evidente, dunque, che abbiamo bisogno di riforme che coraggiosamente rimettano in movimento la società italiana, a cominciare da quelle del sistema politico istituzionale, capaci di sostituire all’attuale specie di sistema plebiscitario una democrazia funzionante. Badate, non esiste nessun paese al mondo dove, alle elezioni politiche, si voti su una scheda su cui è riportato il nome di uno che, però, non viene eletto: una sorta di presidenzialismo di fatto, di tipo plebiscitario, che non presenta alcun bilanciamento tra i poteri costituzionali. In Italia, quel signore, che non viene eletto, ma che allo stesso tempo pensa di essere stato eletto, nomina la sua maggioranza, in una condizione in cui evidentemente salta ogni equilibrio. Il nostro sistema, dunque, deve essere riformato, altrimenti resterà caratterizzato da una fragilità pericolosa della democrazia. Inoltre, nel decennio berlusconiano, sono diminuiti gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione ma è aumentata la spesa pubblica, che può sembrare un paradosso. In questo certamente c’è il fallimento del governo della destra, ma si registra anche una tale acutezza delle questioni nazionali che richiedono uno sforzo che deve andare oltre i confini della sinistra. Quando Bersani sostiene che occorre un patto tra progressisti e moderati per dare nuove basi allo sviluppo del paese, indica una prospettiva ragionevole. È talmente poco vero che il Partito Democratico è privo di una politica e di un programma, che Berlusconi non vuole in alcun 372 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 373 Le parole e le cose dei democratici modo le elezioni. Perché se Berlusconi davvero pensasse che siamo nelle condizioni in cui noi stessi ci raffiguriamo, ci chiederebbe di votare domani. Invece, poiché è convinto che, andando alle elezioni, la nostra proposta politica vincerebbe, si è barricato nel Palazzo e ha assoldato un gruppo di mercenari. Poi, siccome siamo un paese fantasioso, i mercenari si sono autodefiniti ‘Responsabili’. Insomma, Berlusconi cerca solo di guadagnare tempo. Per concludere, sono meno pessimista di molti commentatori e di molti iscritti rispetto alla questione del programma del Partito Democratico. Certo, se si affronta il tema dell’identità del PD, è innegabile che abbiamo un’idea di partito che si è tramandata nella nostra tradizione, nella nostra storia, nella nostra memoria. Si tratta di un’idea di partito che, però, è irripetibile. Alla mostra sulla storia del PCI, di cui sono stato tra i promotori, ho visto arrivare veri e propri fiumi di persone. Alcuni si mettevano a piangere, guardando le fotografie, vedendo i filmati, intanto perché «il pensiero di giovinezza è rimpianto», come dice il Poeta, e poi perché si è tramandata un’idea di partito che è ancora viva nella memoria di molti. Non sono certo pentito di avere voluto questa mostra, ma credo che forse bisognerebbe anche tenere dei corsi di demitizzazione. R. B.: Ma tra cento anni forse li vedremo piangere per Franceschini e Bersani… M. D’A.: Credo che quel tipo di partito non tornerà più, appartiene ad un’altra epoca storica. Vorrei ricordare che il PCI era sì suggestivo, e certamente il ricordo ci fa commuovere, ma tengo anche a precisare che non andò mai al governo 373 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 374 Le parole e le cose dei democratici di questo paese. E il fatto di non essersi messo in condizioni di governare in Italia è in parte imputabile allo stesso PCI, e non fu certo un piccolo danno. Faccio questa precisazione per demitizzare un po’ la nostra storia e per dire ai giovani: attenzione, questo nostro passato, che qualche volta presentiamo come straordinario, ha avuto anche le sue ombre. R. B.: Segretario, per misurare questi temi sulla dimensione regionale, il PD toscano ha rinnovato molto, nell’ultima tornata congressuale, i propri quadri dirigenti: c’è un gruppo di giovani che governano le federazioni. Mi pare d’altra parte, come diceva anche D’Alema, che il fatto che buona parte degli iscritti non si rendano conto che il partito ha un programma e delle proposte in materia di politica fiscali o su altri temi di rilievo, è sintomatico di un generale problema dell’informazione, del controllo in questo paese dei sistemi di informazione, del conflitto di interessi ecc. Ma c’è anche un problema da parte del partito nel colloquiare con i suoi iscritti e con la società nella sua dimensione più ampia. È un tema forte anche in una regione dove il PD è così radicato e dove però, alle ultime elezioni dello scorso anno, si sono registrate quote di assenteismo molto alte. In questi giorni i giovani qui presenti hanno discusso molto delle nuove forme di comunicazione politica e delle nuove strutture della politica, dalla sezione ai circoli a Facebook. Come vi state muovendo qui in Toscana per far sì che il partito vada incontro ai giovani e alla società in generale? Andrea Manciulli Segretario regionale PD Toscana La domanda ne contiene molte al suo interno, non tutte le- 374 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 375 Le parole e le cose dei democratici gate tra loro. Io penso che questo tema del rinnovamento sia un po’ come l’elemento nostalgico del quale parlava prima D’Alema: noi in questi mesi alle volte viviamo oscillando tra la nostalgia e l’evocazione del rinnovamento salvifico, senza renderci conto che invece lo sforzo nostro dovrebbe essere quello di legare insieme questi temi. Il rinnovamento è una cosa seria e non lo si può usare solo come vettore per l’affermazione di un singolo. Il rinnovamento a mio avviso è la sfida di dare a questo paese una nuova generazione che si ri-appassioni della politica e che vi contribuisca in prima persona. Ci sono, per essere precisi, due sfide: la prima è quella che una nuova generazione dia un contributo fondamentale per ridare legittimità piena alla politica in questo paese. Soltanto l’impegno di una nuova generazione, infatti, può aiutare a chiudere definitivamente questi anni di antipolitica che, finora, hanno solo favorito Berlusconi. Il secondo tema che vedo: io credo che qualsiasi opera di rinnovamento di un partito debba legarsi ad una missione più ampia. A mio avviso questa missione in questo paese c’è e necessita, più che di tanti singoli di discreto talento, di un gruppo dirigente che si leghi e che abbia la forza di affrontare i temi nel merito. Io penso che questa sfida ce l’abbia lanciata con un bellissimo discorso il Presidente della Repubblica con gli auguri di fine anno: in quel discorso io ho colto un elemento di grande forza, che chiama in causa il nostro paese. Giorgio Napolitano nel suo discorso ha affrontato il tema di una generazione che rischia di mancare, che alla fine è diventata lo specchio più evidente del nostro declino. In una Regione come la nostra, dove abbiamo, come è stato ricordato, l’emergere di un gruppo dirigente nuovo che si vuole mi- 375 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 376 Le parole e le cose dei democratici surare, l’idea che è venuta al nostro Presidente di Regione, che è una persona coraggiosa, è di mettere in campo un Progetto Giovani. Quando uno sente questa espressione, pensa subito a un pacchetto di leggi circoscritte: in realtà Enrico Rossi per la prima volta ha affrontato un tema che a mio avviso dovrebbe essere il titolo della nostra sfida per ritornare al governo del paese, vale a dire: cosa si fa per rimettere in moto la nostra società e nello stesso tempo garantire tutele ad una parte del nostro paese che rischia di non averle? Massimo lo sa perché ne abbiamo discusso altre volte: questa proposta di Enrico riprende anche una parte difficile del ragionamento che noi, quando eravamo al governo di questo paese, avevamo cominciato a fare. I primi a riflettere, allora giustamente e forse un po’ incompresi, sulla necessità di riformare un sistema di Stato sociale e di rilanciare questo paese fummo noi. Questa necessità, tutt’oggi, rimane immutata. Io credo che la forza di un partito come il nostro debba essere quella di riuscire a recuperare questa necessità e a trasferirla in un messaggio immediato e radicato sul territorio. Penso che questo lo si debba fare anche con la forza degli argomenti concreti. A me è capitato di leggere nelle scorse settimane una bella ricerca che l’IRPET ha fatto per noi, per il nuovo PRS e per le scelte di questo avvio di legislatura: in Toscana, che non si può certo dire sia una delle Regioni più povere del nostro paese, c’è uno spaccato che riguarda il futuro delle giovani generazioni che noi dovremmo conoscere e che il nostro partito a mio avviso dovrebbe studiare approfonditamente. Voglio citare qui qualche dato che secondo me serve per capire anche il tipo di orizzonte che si dà alla nostra politica. In Toscana oggi lo stipendio medio di un giovane sotto i trent’anni anni 376 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 377 Le parole e le cose dei democratici oscilla tra i settecento e i mille euro; venticinque anni, quando fu fatta in Toscana un’inchiesta analoga, per una casa si spendeva al massimo il 40 per cento di un salario. Oggi si spende per una casa quasi l’80 per cento del proprio salario. Ciò significa che se venticinque anni fa era opzionale che in un nucleo famigliare entrassero due stipendi, oggi è divenuto una necessità assoluta. È cambiata, cioè, la natura sociale delle famiglie: tanti nonni sono diventati il primo ammortizzatore della nostra società. Se ragioniamo, nelle aree urbane come Firenze e Pisa, chi vuole mettere su una famiglia e avere un bambino vede l’80 per cento del proprio stipendio andare via per la casa; va considerata poi, nel caso in cui entrambi i genitori lavorino, la spesa dell’asilo nido, per cui se ne vanno dai trecento euro in su; va aggiunta poi la spesa, le bollette, i pannolini… Siamo di fronte, senza tanti giri di parole, alle prime generazioni che, in un secolo nel quale la vita delle persone era sempre andata migliorando, vedono la propria qualità di vita peggiorare rispetto a quella dei genitori. Il tema del rinnovamento, allora, riguarda soltanto la capacità televisiva di questo o quel giovane oppure è la sfida di una società italiana e di un gruppo dirigente che sappia farsi carico di questa nuova diseguaglianza? Io non ho dubbi su quale delle due sia la risposta giusta: è la seconda. Io credo che un partito come il nostro debba partire proprio da questo: deve dare uno spazio a chi poi il futuro dell’Italia lo deve costruire. Prima si citava il Brasile: c’è un mondo nel quale i paesi in via di sviluppo hanno una centralità di popolazione attiva fortissima. Il Brasile è un paese di giovani, un paese di generazioni attive; il problema dell’Europa è l’opposto. L’Europa ha un alto tasso di invecchiamento della popolazione. 377 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 378 Le parole e le cose dei democratici Questa è una delle Regioni dove si vive più a lungo in tutta Europa, ma che non compensa questo dato con una natalità altrettanto elevata in tutte le Province: in Toscana la realtà con un ritmo di natalità più alto è Prato, anche a seguito di un tasso consistente di immigrazione. Da cosa dipende, allora, il livello di natalità mediamente molto basso della nostra Regione? Io penso che qui sta la cifra di quello che deve fare il centro-sinistra. Venendo poi alla parte della domanda relativa ai nostri militanti, io penso che noi dobbiamo riuscire a fare un partito che, contrariamente a quello che qualcuno pensava, non può essere solo comunicazione: la comunicazione, quando non ha contenuti, non serve a nulla. Serve solo per alimentare aspettative che poi finiscono per essere irrimediabilmente deluse. C’è bisogno, invece, di un partito che sappia porsi e risolvere in modo nuovo anche il problema della comunicazione. Noi abbiamo tenuto una bellissima Assemblea nazionale nella quale sono stati redatti dieci documenti, che poi abbiamo venduto alla stampa e all’opinione pubblica tutti e dieci insieme. Il giorno successivo, sui giornali, di tutto questo non c’è stata traccia: in parte forse per il vizio italiano, ancora molto diffuso, per cui prevalgono sempre i litigi sulle questioni serie; dall’altra parte, ha giocato a nostro svantaggio anche una gestione poco scaltra e strategica dei contenuti elaborati, perché a mio avviso, se alla stampa si consegnano dieci documenti molto articolati tutti in una sola volta, il rischio è che non rimanga granché. Io penso, invece, che noi dobbiamo fare lo sforzo di dare un titolo alla nostra sfida: noi siamo coloro che vogliono modernizzare questo paese per dare un futuro alle giovani generazioni: questo è il vero punto di fallimento dell’attuale 378 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 379 Le parole e le cose dei democratici governo di centro-destra. Il messaggio che era implicito nell’ascesa di Berlusconi era che quanto lui era riuscito a fare per se stesso e per le proprie imprese l’avrebbe fatto anche per il paese. Oggi, invece, l’Italia, a distanza di diciassette anni, è più povera e non ha quel tratto di modernità che dovrebbe avere. Noi dobbiamo essere credibili su questo terreno, essere coloro che la modernizzazione la vogliono e la realizzano per davvero; per conseguire questo obiettivo, a mio avviso, è necessario abbracciare una questione e farne la questione fondamentale della nostra azione politica, per il benessere del paese. Per questo io credo che Enrico Rossi stia facendo molto bene, perché ha avuto anche il coraggio di scegliere una priorità: su quella priorità noi possiamo, a livello locale, dare un contributo per il rilancio del centro-sinistra e anche del nostro partito a livello nazionale. È governando contraddizioni come queste che ci si accredita come classe dirigente, non andando a qualche talk show e lanciando qualche annuncio che magari dura solo lo spazio di una campagna comunicativa, senza poi produrre nulla. R. B.: Credo anche io che il Pacchetto ‘Giovani sì!’ sia stato uno degli elementi più forti del programma di governo del Presidente Rossi. L’altra grande sfida che si configura è quella che Lei richiamava citando i dati dello stato dell’economia anche toscana, con un PIL che cresce sotto la media nazionale: veniamo da anni di crescita molto bassa, abbiamo accusato fortemente la crisi, torneremo ai dati del 2007 non prima del 2015. Per alcuni sistemi economici locali il quadro è ancora più drammatico: i dati, ad esempio, dell’IRPET ci dicono che il sistema economico livornese 379 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 380 Le parole e le cose dei democratici forse tornerà a condizioni decenti intorno al 2025. Un’altra grande questione posta al centro della politica del governo regionale è quella delle infrastrutture: un tema sul quale da mesi si sta discutendo in merito alle varie opzioni e alle diverse scelte che si possono intraprendere. Questa discussione, da una parte, sta mettendo in luce inevitabilmente il ruolo importante dei sindaci e delle amministrazioni provinciali, attivi in difesa del proprio territorio; dall’altra, emerge un tentativo a livello regionale, forse sostenuto anche dal partito, di portare a sintesi le varie opinioni e di individuare dei punti comuni. Questa mi pare oggi la grossa sfida per la Toscana: riuscire a realizzare queste infrastrutture e a trovare dei punti di sintesi. La questione dell’aeroporto, ad esempio, è un tema molto sentito qui a Pisa: parlare di fusione o di holding non è semplice per una città che, rispetto a Firenze, sull’aeroporto ha investito e si è data delle strategie più avanzate. In che modo il partito riuscirà a giocare questo ruolo di cerniera, di luogo di discussione e di confronto propositivo per sostenere la ricerca di posizioni comuni? A. M.: Darò una risposta breve. Io penso che la questione delle infrastrutture rientri nel ragionamento che abbiamo condotto prima. Lo voglio dire con tutta la convinzione che mi è possibile: io credo abbia fatto bene Enrico Rossi a mettere la questione della società Pisa-Firenze al centro del dibattito toscano. Penso che per parlare di questo si debba, però, prima dire alcune cose. Ricordiamoci anche qui della lavagnetta di Vespa, perché qualche anno fa, in una delle tante trasmissioni che hanno contribuito a fare la storia del berlusconismo, fu presentata una lavagnetta, dietro la quale 380 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 381 Le parole e le cose dei democratici questo paese in qualche maniera aveva creduto si profilasse un paese più moderno. Si trattava di un miraggio, come poi hanno drammaticamente confermato gli anni successivi. Ecco, prima degli aeroporti vorrei parlare dell’alta velocità. Quando fu presentata la lavagnetta, vi era sempre in ballo la questione dell’alta velocità, che è ancora non si è chiusa in modo definitivo. Se guardiamo a quello che è successo negli ultimi vent’anni, abbiamo di fronte agli occhi una nuova frontiera di diseguaglianza per le nuove generazioni di questo paese: non si può pensare che, mentre un giovane europeo in due ore va da Parigi a Londra, in tre ore e mezzo da Parigi a Berlino e, quando sarà completato il tratto mediterraneo, in poco più di sei ore arriverà a Barcellona, un giovane italiano sia ancora in attesa di una linea di alta velocità. Queste sono le cose che cambiano la vita delle persone, mentre troppo spesso ci perdiamo a discutere di questioni vecchie e di scarso impatto. Su questo voglio dire un’altra cosa, perché tante volte ci sono questioni che in un attimo ti fanno capire di cosa si sta parlando. Quando fu varato il primo progetto di alta velocità per l’Italia correva l’anno 1978 e la prima, vera fase della discussione si tenne negli anni precedenti alla caduta del Muro di Berlino; fra tre anni sarà ultimata la prima linea di alta velocità che collega Berlino a Praga, inimmaginabile quando fu pensata la nostra linea di alta velocità perché esisteva ancora il Muro. Questa è anche la misura di quello che sta accadendo oggi e di un possibile ritardo. Noi, per esempio, in queste settimane stiamo affrontando a Firenze la questione della Biblioteca Nazionale: è una biblioteca che io ho frequentato da studente e poi anche da ricercatore e che è sempre, in larga parte, indicizzata manualmente, quando la Biblioteca 381 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 382 Le parole e le cose dei democratici Mitterand di Parigi, la nuova biblioteca di Berlino e le principali biblioteche del mondo sono tutte consultabili da casa. In una città che ha la centralità del sapere di Firenze, il fatto che non ci si possa scaricare da casa i libri della Biblioteca Nazionale ha un rilievo o no per il futuro delle persone? Da questo punto di vista io penso che noi dobbiamo avere la forza di essere coloro che recuperano questo tema e lo declinano per il futuro. All’interno di questo ragionamento rientra anche la discussione sulla società aeroportuale. La nostra Regione, accanto a tanti pregi, ha anche qualche difetto. Vedo qui Paolo Fontanelli, con il quale abbiamo discusso molto di questo tema: ricordo anche un suo intervento su questo. Noi, ad esempio, abbiamo una certa tendenza al campanilismo, che aiuta, col suo tratto identitario, anche sul piano elettorale, ma che poi, nella risoluzione dei problemi, non ne facilita sempre la risoluzione. Io penso che sia venuto il momento, in questa fase, di confrontarsi con quei processi che hanno una dimensione globale e di fare, su questo terreno, un passo in avanti. Se noi alla fine riusciamo a realizzare in Toscana una società che faccia di Pisa l’aeroporto internazionale della Regione e che al tempo stesso migliori l’aeroporto di Firenze – questa è l’unica soluzione possibile –, riuscendo così a diventare una delle prime società italiane, noi avremo compiuto un tratto positivo lungo la strada del riformismo per questa Regione. Come giustamente ha detto Rossi, noi dobbiamo stare all’altezza di questa sfida, perché non ci rimetta nessuno ma ci guadagnino tutti. Io penso che questo significhi governare, che questa sia la via per la credibilità che a mio avviso dobbiamo intraprendere per tornare al governo del paese ed essere coerenti con quello che si dice. 382 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 383 Le parole e le cose dei democratici R. B.: Da ex consigliere comunale, Massimo D’Alema, ci dice qualcosa sulla questione dell’aeroporto? M. D’A.: Sono d’accordo con Manciulli: il problema è di evitare la guerra degli aeroporti e credo che il modo migliore per farlo sia di concepire, in un’unica strategia, l’integrazione tra un grande aeroporto intercontinentale e un City Airport. Ai miei tempi si sarebbe detto che l’aeroporto c’era già, anche per via delle aspirazioni fiorentine, e la questione si sarebbe chiusa in questo modo. Certo, l’aeroporto di Firenze deve essere rinnovato, perché così com’è l’Associazione dei piloti non lo accetta. L’idea, però, che a Firenze ci sia un City Airport e a Pisa un aeroporto intercontinentale penso possa funzionare, soprattutto se inscritta all’interno di una strategia complessiva, e la società unica, da questo punto di vista, è una garanzia in questo senso. Si tratta, inoltre, di un’idea coraggiosa. Ciò indica quanto, in una Regione come questa, siano stati fatti tanti passi in avanti. Tanti anni fa, quando ero un giovane funzionario della Federazione Comunista di Pisa, venivamo diffidati dall’attraversare l’Elsa: un gesto che veniva considerato quasi un tradimento. Ancora è vivo nei miei ricordi un bellissimo documentario sulla rivolta pisana contro il dominio mediceo: altro che rispetto dei diritti umani! Ci furono momenti in cui la città si ritrovò letteralmente schiacciata dall’occupazione e dell’oppressione fiorentina. Trascorrono i secoli, eppure i tempi lunghi della storia fanno sì che in Toscana ci siano fenomeni incancellabili. Sul Monte Pisano, quello che ci separa dai lucchesi, correva il confine che separava Pisa ghibellina da Lucca guelfa; dopo centinaia di anni, oltrepassando lo stesso confine si passava dal 383 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 384 Le parole e le cose dei democratici Comune dove il PCI aveva il 60 per cento ai centri in cui trionfava la Democrazia Cristiana. Parliamo quindi di una Regione in cui fare la società unica dell’aeroporto Pisa-Firenze costituisce una scelta straordinariamente coraggiosa. E per intraprenderla ci voleva proprio un uomo di frontiera come Rossi. R. B.: Per tornare alle prospettive di questa fase politica, mi pare che le elezioni anticipate, che soltanto due o tre mesi fa sembravano molto probabili, in questa primavera si fanno un’evenienza sempre più remota all’interno di un patto Bossi-Berlusconi entro il quale stanno sia il federalismo che la giustizia. M. D’A.: Vedremo. Ci sarà da combattere. R. B.: La prospettiva del PD è quindi, come si diceva anche prima, quella di lavorare all’unione, all’intesa con il Terzo Polo per questa grande coalizione. Sia Lei sia Bersani parlate di una nuova fase costituente: credo che si debba avere la forza di fare capire al paese che ci sono 1850 miliardi di debito pubblico, una situazione, cioè, della nostra economia che richiede davvero una grande stagione di riforme, fatte con forza, capaci di incidere nel profondo, secondo una visione politica di lungo respiro. Senza una strategia di questo tipo il paese non ha ripresa, non ha sviluppo e, probabilmente, nessuna forza politica o nessuna piccola coalizione può avere la forza di incidere e di produrre un cambio simile. È questa l’idea che coltivate? M. D’A.: Sì, ma è difficile che ci possano essere elezioni po- 384 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 385 Le parole e le cose dei democratici litiche a primavera, perché Berlusconi è riuscito ad arginare ogni tentativo, soprattutto da parte di Fini, di dare una spallata. Noi abbiamo sostenuto questo sforzo, e qualcuno ci ha anche rimproverato. A questo punto non so cosa avremmo dovuto fare. Si tratta di quelle analisi strane secondo cui, poiché la votazione è andata male a causa di qualche irresponsabile, avremmo sbagliato ad appoggiarla. Non sono d’accordo. È evidente che non si deve mai sottovalutare la capacità di resistenza del Presidente del Consiglio, ma è anche vero che la frattura che si è determinata nel centro-destra lo ha indebolito molto nel rapporto con il paese. In questo momento, a mio parere, dobbiamo far decollare la proposta di un governo costituente per restituire forza al nostro sistema democratico, per dare un fondamento nuovo a un bipolarismo italiano che non si riduca all’attuale sistema plebiscitario, per un patto sociale per lo sviluppo e per le nuove generazioni, per rimettere mano e dare efficienza all’amministrazione pubblica – grande problema irrisolto –, e per non lasciare che anche il federalismo si traduca soltanto in un aumento di costi e di burocrazia. Pertanto abbiamo bisogno di un esecutivo che possa affrontare i grandi problemi del paese. Si tratta di una proposta indirizzata, più che al Terzo Polo, innanzitutto agli italiani, e in questo momento costituisce il programma fondamentale, quindi un tratto essenziale, dell’identità del Partito Democratico. Solo dopo esserci rivolti ai cittadini, verranno i Primi, Secondi, i Terzi Poli, tutti quelli che saranno necessari. Se si radica nel paese la convinzione che questo è ciò di cui abbiamo bisogno, anche il costituirsi degli schieramenti politici diventerà più facile. Il nostro è un progetto strategico sul futuro dell’Italia, e non dipende né da una di- 385 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 386 Le parole e le cose dei democratici chiarazione di Casini in tal senso, né dal fatto che le elezioni si spostino di un mese o di un anno. C’è qualcuno che è convinto che in mancanza di elezioni imminenti si debba cambiare strategia. Al contrario, penso che se Berlusconi rimanesse alla guida del paese un altro anno, a maggior ragione avremo bisogno di un governo in grado di ricostruire, poiché da qui a un anno potranno esserci solo guai. È necessaria, inoltre, una fermezza di ispirazione strategica: un grande partito non può cambiare idea a seconda delle dichiarazioni del giorno degli esponenti dell’opposizione. Il Presidente Mao diceva che la strategia e la tattica sono come le bacchette con cui si mangia il riso: la strategia deve rimanere ferma, è la tattica a muoversi. Se vogliamo un governo costituente per il futuro dell’Italia dobbiamo dare forza a questa prospettiva. Perché enunciare una proposta non basta, occorre motivarla, arricchirla di contenuti, spiegarne gli obiettivi. Secondariamente, se non ci sono le elezioni politiche, c’è la lotta politica. Nei prossimi mesi avremo le elezioni amministrative per duemila Comuni e credo che verrà evidenziato il fatto che la maggioranza degli italiani non sta con Berlusconi. Molto dipenderà dalla scelta dei candidati e dalle convergenze che si potranno realizzare, ma le elezioni amministrative in Italia hanno sempre avuto un valore politico. Poi ci saranno i referendum, sui quali dobbiamo assolutamente mettere l’accento. Berlusconi spera che i quesiti referendari finiscano in un dimenticatoio e sta facendo di tutto affinché questo si realizzi: li ha convocati per il mese di giugno nella speranza che gli italiani vadano al mare, secondo un ricordo che porta male. Per noi, invece, sono un’occasione da non perdere. Il referendum, in particolare, è stato 386 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 387 Le parole e le cose dei democratici promosso da Di Pietro, ed è stata un’iniziativa utile. Il quesito sul legittimo impedimento, c’è poco da fare, è diventato una sorta di referendum su Berlusconi: è l’occasione grazie alla quale quella maggioranza degli italiani che non si riconosce in lui, che pensa che si debba fare da parte, potrà esprimersi. In ogni caso dobbiamo impegnare appieno le nostre forze. Inoltre, c’è la società, ci sono i movimenti: a chi si chiede da dove dobbiamo ripartire, risponderei dalla piazza del 13 febbraio, quando le donne italiane si sono riunite. Quello è stato un momento in cui si sono rotte le barriere di partito ed è venuta in campo una parte importante della società italiana. E si è mostrata come possibile quella alleanza tra progressisti e moderati. Ora, per evitare che sembri una formula politica, la tradurrò nei termini di quella piazza, dove hanno parlato, tra le altre, sia una delle esponenti storiche del femminismo italiano sia una suora che ha tenuto un comizio straordinario, rivolgendosi alle autorità civili e religiose del paese con un richiamo di grande forza. Questa è la politica, non una chiacchiera di salotto sul se e quando ci saranno le elezioni politiche. Ci sono le amministrative, i referendum, la lotta politica, la lotta sociale, i movimenti. In tal modo si prepara una svolta per il paese e anche il Partito Democratico sta lavorando in questa direzione. Non è soltanto la discussione sulle alleanze o, peggio ancora, il nostro solito dibattito interno sulla leadership, su chi sarà il candidato di elezioni che non sono state neppure convocate. Quello è un modo di farsi del male, ma a questo punto abbiamo ben altre più urgenti scadenze. Infatti, è nelle prossime settimane che verrà definito il rapporto di forza del paese e noi non dobbiamo farci spaven- 387 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 388 Le parole e le cose dei democratici tare. Vogliono fare la riforma costituzionale della giustizia: non è aria, e lo dico rivolgendomi al governo, dato che tali riforme non passano senza una maggioranza qualificata. Berlusconi vuole promuovere anche un referendum popolare contro i giudici, ma segnalo che nel referendum costituzionale non è richiesto neppure il quorum. In questa prospettiva, spero davvero che Berlusconi intraprenda questa strada, ma dubito seriamente che lo farà, dal momento che è un uomo capace di fiutare l’aria. Non solo, quindi, dobbiamo avere coscienza della nostra forza, ma anche del fatto che si è aperta una lotta politica, il cui esito, a mio giudizio, sarà quello di una svolta di governo in Italia. Si tratta di un cammino che deve essere preparato, per evitare che il prossimo governo si perda in discussioni. Ad esempio, ricordo che nella mia più recente esperienza di governo, alla Farnesina, mi recavo spesso all’estero. La nostra è stata una politica estera che ha raggiunto alcuni risultati importanti, dal Libano alla Risoluzione delle Nazioni Unite contro la pena di morte: era, insomma, un’Italia che si presentava in un modo migliore rispetto a quella che abbiamo conosciuto più recentemente. Ciononostante, ogni volta che rientravo in Italia, ero travolto da discussioni pazzesche all’interno della maggioranza di governo. Dovevo discutere con persone strampalate che mi chiedevano cose assurde. C’era addirittura chi organizzava i cortei contro il governo di cui faceva parte. Tutto questo mentre credo di aver portato avanti una politica estera tra le più di sinistra che si potessero fare nel mondo, essendo al potere, dall’altra parte dell’oceano, l’amministrazione Bush. Ecco, non dimentichiamoci mai che il Partito Democratico 388 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 389 Le parole e le cose dei democratici è nato anche per voltare pagina rispetto a queste esperienze. Vorrei sottolinearlo, perché la forza del nostro partito è anche una delle condizioni perché vi sia un governo credibile del paese. Non è sufficiente battere Berlusconi, lo abbiamo già fatto in passato. Il vero problema è vincere la sfida del governo: una sfida, ve lo assicuro, certamente più difficile. R. B.: Lei citava il tema della giustizia, che sarà centrale nei prossimi mesi da vari punti di vista: da una parte la riforma epocale; dall’altra il nostro Premier che dovrebbe sfilare in tutti i processi. M. D’A.: Il processo del lunedì. R. B.: Ogni volta avremo le dichiarazioni spontanee del Premier, che si trasformeranno in attacchi ai magistrati. Vorrei chiederLe se ritiene che sarà importante, in questo senso, il segnale che il PD darà sul caso del Senatore Tedesco – vostro esponente – e il modo in cui si pronuncerà in merito alla richiesta di arresto. M. D’A.: Già la sua domanda costituisce una spia inquietante. La giunta per le autorizzazioni del Senato della Repubblica, che sta leggendo le carte, è chiamata a giudicare se ci sono le ragioni per arrestare una persona. Il fatto che in una materia come questa si pensi di dare un segnale politico lo considero aberrante, mi perdonerà per l’uso forte dell’aggettivo. Non credo che noi possiamo vincere la sfida con Berlusconi regalandogli quel poco di giusto che c’è nella sua posizione, ossia il garantismo: sulla libertà delle persone 389 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 390 Le parole e le cose dei democratici non si danno segnali politici, ma si valuta se ci sono gli estremi giuridici. In definitiva, quando si parla della reclusione, credo che a giudicare debbano essere esclusivamente i giudici e gli avvocati, non la politica. R. B.: Abbiamo affrontato molte questioni nel corso di questa nostra discussione. D’Alema ha richiamato più volte l’attenzione anche sull’attuale democrazia plebiscitaria: in Toscana uno degli impegni è quello di riformare il sistema elettorale ritornando alle preferenze o, comunque, a uno strumento che riporti il Consigliere in rapporto diretto con gli elettori. È chiaro che la scadenza è lontana, ma anche qui è importante riuscire a costruire presto una consapevolezza nel paese, non solo per dimostrare che questo è uno dei punti chiave del vostro programma ma soprattutto per ricostruire un rapporto più stretto tra la politica e i cittadini. A. M.: Io credo che questo tema vada affrontato seriamente. Noi abbiamo una legge elettorale che da questo punto di vista è stata da più parti assimilata alla legge nazionale, una legge che senza dubbio in questa fase mostra tutti i propri limiti: se non ci fosse un Parlamento di nominati direttamente dal Capo, forse ci sarebbe anche più libertà nel prendere certe decisioni. Tuttavia, la nostra legge non è proprio uguale: lo posso dire perché sono uno di quelli che ha contribuito a farla e ne porto la responsabilità, dal momento che in politica è importante metterci sempre la faccia. Con quella legge avevamo tolto le preferenze ma avevamo anche fatto una legge istituzionale per tenere le primarie. Su questo permettetemi una battuta: mi fa ridere 390 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 391 Le parole e le cose dei democratici qualche dirigente nazionale del mio partito che ora stigmatizza la Toscana per quella legge e che poi nei corridoi si appresta, nell’imminenza di elezioni politiche, a chiedere di non fare le primarie per i parlamentari. Il ragionamento non torna. Noi abbiamo fatto le primarie due volte e con una legge istituzionale. Tuttavia, dato che questo mestiere implica l’assumersi delle responsabilità, non si può non riconoscerci il merito di avere fatto per ben due volte le primarie praticamente da soli, portando cioè la democrazia in casa nostra: la Toscana è una terra di tre milioni e quattrocentomila abitanti e alle primarie per i Consiglieri regionali alle ultime elezioni hanno votato centottantamila persone. Ma le primarie non dovremmo farle noi soltanto. Per questo motivo io ritengo serio quello che Enrico Rossi ha in testa: noi dobbiamo intraprendere un percorso che ci porti a dare ai cittadini, nella forma più ampia possibile, la possibilità di scegliersi i rappresentanti tutti, non soltanto quelli del PD. Quello che mi fa rabbia e mi indispone è che, in questo dibattito, chi ha praticato una certa forma democratica alla fine sia equiparato a chi ha compiuto scelte anche molto discutibili. Da questo punto di vista io credo che la discussione non possa che ripartire da un doppio binario. Quando decidemmo di togliere le preferenze (Marco Filippeschi è qui e io condivisi con lui quella scelta), lo facemmo perché già erano emerse alcune di quelle storture che poi si sono profilate in modo più netto anche con le primarie. A mio avviso l’optimum sarebbe pensare a collegi uninominali, un’opzione che permette di avere un legame sul territorio, di fare le primarie in una maniera certa e, allo stesso tempo, di non avere meccanismi distorsivi. In subordine c’è anche il tema della introduzione delle preferenze, su cui, 391 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 392 Le parole e le cose dei democratici però, va intrapresa una discussione seria, lontana dall’onda emotiva sulla scia della quale troppo spesso ci capita di ragionare. Credo sinceramente che il bisogno di avere leggi regionali che dialoghino con la forma di governo e con le leggi nazionali sarà un tema all’ordine del giorno molto presto: un paese in cui sono contemplate moltissime forme di elezione, spesso diverse, di poteri diversi, alla fine crea anche qualche distorsione di governabilità. Su questo io penso ci debba essere un impegno nazionale da parte del PD e una serie di iniziative strutturate: proprio questa settimana, ad esempio, si terrà a Roma l’assemblea degli amministratori del nostro partito. Noi però – questa è la garanzia che mi sento di dare – ci dedicheremo seriamente a questo aspetto e non ci presteremo a iniziative-bandiera che hanno soltanto la caratteristica di provare ad accarezzare il pelo a quell’antipolitica strisciante che oggi pensa che tutto sia da buttare via (penso a iniziative di alcuni nostri alleati). A me quel modo di affrontare le questioni non piace affatto. A me fa piacere venire qui, come sono andato sabato all’iniziativa sui temi del lavoro fatta a Firenze, e incontrare i ragazzi perché credo che il rinnovamento passi anche dal coraggio di affrontare con responsabilità temi scomodi. Restituire legittimità alla politica, ai partiti, alle istituzioni, anche se scomodo, è un tema vero per l’identità e per la forza di questo paese col quale noi dobbiamo misurarci. Non è cedendo all’antipolitica e all’idea che tutto sia indifferentemente da buttare che si rimette in piedi un paese: su questo bisogna avere la forza e il coraggio anche di andare ad affrontare discussioni impopolari ma che servono per la dignità dell’Italia. La prossima settimana celebreremo i centocinquant’anni di un paese giovane: questo paese, se è una 392 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 393 Le parole e le cose dei democratici democrazia e una nazione, lo è anche grazie alle sue istituzioni e a chi si è battuto per quelle. C’è bisogno che questa nuova bandiera venga presa da chi la politica la vuole difendere. La politica ha fatto sì che io, figliolo di un lavoratore delle acciaierie e di una mamma casalinga, possa aver fatto quello che faccio. R. B.: Chiuderei con una domanda a D’Alema. Il centrosinistra spera ovviamente di battere elettoralmente Berlusconi quanto prima, ma di certo il berlusconismo come modello di valori, di relazioni sociali, di senso dell’essere, è penetrato nel profondo della nostra società. Secondo Lei sarà molto più faticoso liberarsi di questo modello che del governo Berlusconi? M. D’A.: Venendo in treno da Roma, ho letto un bellissimo saggio di Franco Cassano, L’umiltà del male. È un libro di filosofia molto interessante sul perché i migliori, o presunti tali, spesso non riescono a vincere: la forza del male consiste nel saper cogliere la fragilità dell’essere umano. In realtà, però, è un libro sul berlusconismo, per quanto questo non venga mai nominato e si prediliga una riflessione di tipo letterario, con bellissime considerazioni sulla leggenda di Dostoevskij sul Grande Inquisitore raccontata dai fratelli Karamazov. Parto da qui perché un difetto nella sinistra italiana, un difetto di tipo elitario, è consistito spesso nell’avere un atteggiamento di sprezzante incomprensione della capacità che indubbiamente Berlusconi ha avuto nel formare il senso comune di una parte così grande del nostro paese. Cosa sulla quale ha cominciato a lavorare già molto prima di en- 393 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 394 Le parole e le cose dei democratici trare in politica. Una penetrazione di senso che è dipesa, secondo me, anche dal modo in cui una parte della sinistra ha pensato a lungo che fossimo la parte buona di un paese cattivo, arrivando persino ad affermare che la vittoria di Berlusconi fosse imputabile ai nostri dirigenti, colpevoli di non essere stati abbastanza pugnaci. Si tratta, come sempre, di una risposta semplice a problemi complicati. Berlusconi, a mio avviso, ha avuto quella straordinaria capacità di far credere agli italiani che, se si fossero affidati a un grande imprenditore come lui, sarebbero stati aiutati nel fare fortuna, ma per questo occorreva togliere di mezzo la politica e i partiti. E il clima gli era favorevole, dato che anche grandi giornali di sinistra sostenevano che bisognasse fare a meno delle organizzazioni partitiche. In tale miraggio, inoltre, ha avuto un peso il diffondersi di una visione individualistica, il cosiddetto ‘edonismo reaganiano’ dell’Italia degli anni Ottanta, di quel craxismo di cui egli fu uno dei grandi ideologi e sostenitori. Quel fenomeno culturale, che ha avuto una grande influenza nella storia italiana, poté dilagare anche perché la sinistra si rivelò alquanto anti-moderna: su questo terreno si coglie il fascino, ma anche la ragione della sconfitta, della parola d’ordine berlingueriana ‘austerità’. La sinistra, in fondo, non fu capace di raccogliere quel bisogno di emancipazione individuale, di affermazione di sé, che il berlusconismo ha saputo interpretare nelle forme anche distorte che poi abbiamo conosciuto. In quegli anni, ripeto, gli italiani pensarono che uno che era stato così bravo a fare soldi per sé avrebbe aiutato tutti, ma lui, invece, ha continuato a seguire esclusivamente i propri interessi. È una forma di professionalità che non cambia. In 394 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 395 Le parole e le cose dei democratici proposito, vorrei citarvi quella meravigliosa pagina in cui Max Weber spiega la differenza tra l’etica dell’uomo di Stato e l’etica dell’imprenditore: il primo persegue l’interesse di tutti, mentre il secondo ricerca il proprio vantaggio personale e nel farlo realizza la sua missione sociale. Ora, credo che, in qualche modo, questa stagione abbia insegnato a molti italiani che l’illusione del traslare l’etica dell’imprenditore ai vertici istituzionali dello Stato alla fine non ha prodotto ciò che prometteva. Dunque, una nuova stagione ha bisogno anche di una nuova cultura: una cultura del bene comune, del rispetto delle regole. Come disse, con un’espressione infelice, Tommaso Padoa-Schioppa: ‘pagare le tasse è bello’. Certo, è difficile convincere gli italiani di questo, ma una nuova cultura politica deve saper convincere del fatto che solo una cultura della legalità e del perseguimento del bene comune può essere la risposta al berlusconismo. Si tratta della base necessaria per una rinascita del paese, che può avvenire soltanto laddove vi sia un ritrovarsi degli italiani in un futuro comune. Questa cultura del bene comune, inoltre, dovrebbe alimentarsi dell’apporto di diverse radici. Poco tempo fa, in un confronto con Monsignor Fisichella, ho articolato un ragionamento che ha destato un certo scandalo: in modo volutamente provocatorio, da laico quale sono, ho affermato di non lamentarmi per un eccesso di intromissione della Chiesa nella vita pubblica, quanto piuttosto per la sua non sufficiente presenza in un momento in cui il paese ne avrebbe fortemente bisogno. Intendo dire che oggi la voce della Chiesa potrebbe aiutare moltissimo a rilanciare quelle esigenze di coesione morale del paese e di rispetto dei valori fondamentali. 395 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 396 Le parole e le cose dei democratici Infatti, credo che per uscire da questa stagione dobbiamo anche ritrovare le radici di un’etica condivisa, fondata sui valori della solidarietà e del rispetto delle regole, riscoprire che ciò è vantaggioso per tutti, perché l’individualismo estremo, l’idea che ognuno possa fare come gli pare, che non è libertà ma arbitrio, è una delle ragioni che hanno portato al declino dell’Italia. Ci sono molte voci che parlano di una Italia diversa. C’è, ad esempio, un mondo della cultura che ha preso coscienza e che comunica anche attraverso i grandi media. Qualche giorno fa, ironizzando su di noi, qualcuno ha detto che la sinistra riparte dai tre Roberto. Ora, non credo che questo sia esattamente il punto di partenza, ma il fatto che uno scrittore di grande successo come Roberto Saviano, un cantante finalmente riconosciuto nel suo meritato successo come Roberto Vecchioni e un grande artista come Roberto Benigni ci parlino di solidarietà, di amore tra le persone, di rispetto della legalità, è sicuramente un messaggio positivo. Così com’è motivo di speranza il fatto che milioni di italiani raccolgano questo messaggio. Anche da queste basi dobbiamo ripartire per inaugurare una nuova stagione che non sarà soltanto una formula politica. Perché forse il principale problema del paese consiste nel dover riaffermare le basi etiche e culturali sulle quali fare ripartire una nuova Italia. 396 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 397 Postfazione Matteo Trapani Segretario provinciale GD Pisa Hanno attaccato quanto di meglio esiste in una democrazia: i giovani impegnati in politica. Jens Stoltenberg Abbiamo deciso di dedicare questo volume ai giovani laburisti morti per le proprie idee a Utoya, in Svezia, il 22 luglio 2011. Infatti, rileggere gli atti di questo Seminario alla luce di quella terribile strage, ci fa pensare ancor di più che la vera paura di chi è invasato da un fanatismo incomprensibile è rappresentata dai giovani che preferiscono alla violenza e alla forza degli atti la potenza e l’incisività delle parole e delle idee. La costruzione di questo Seminario partiva proprio da questo obiettivo: vivere una tre giorni fatta dai giovani, per i giovani che permettesse di costruire una alternativa a tutti coloro che decidono di fare delle contraddizioni tra ideali e realtà una questione personale. Un Seminario dove protagonisti fossero gli iscritti e i giovani militanti. Un Seminario dove chi avesse voluto respirare un’aria nuova fosse libero di parteciparvi e di mettere il proprio granello di sabbia. I vari panel erano così pensati per ripercorrere criticamente le battaglie del centrosinistra cercando di rinnovare nei metodi e nelle sostanza la militanza di tutti. Per questo motivo abbiamo deciso 397 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 398 Le parole e le cose dei democratici di invitare docenti universitari, tecnici dei vari settori, politici e giornalisti. Volevamo tutti sentirci giovani non grazie all’anagrafe ma grazie alla forza delle idee che può rendere ogni cittadino consapevole e impegnato. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia non accettiamo che si dica che si vive in una società senza valori. La storia d’Italia ci ha insegnato che si possono conseguire numerose conquiste politiche, sociali e culturali mettendo sempre alla base di tutto la tutela della dignità umana e la conquista del futuro. Abbiamo cercato con questo Seminario di non fare la parte dei procacciatori d’identità materiali ma di ripercorrere e riaffermare quell’identità procedurale che è insita nella democrazia e nella nostra Costituzione. Abbiamo cercato di trovare identità che ci rendano riconoscibili gli uni verso gli altri e non gli uni contro gli altri. Queste sono Le parole e le cose dei democratici. Queste sono le parole e le cose dei nostri coetanei di Utoya. Di battaglie ne abbiamo vinte e ne abbiamo perse. Sicuramente tutte le abbiamo combattute. Esse hanno rappresentato importanti banchi di prova per la nostra classe politica e per le nostre istituzioni. Gli esiti sono stati differenti ogni volta e molti di quegli errori che sono stati fatti potevano sicuramente essere previsti tra le righe di questo libro e molte vittorie si assaporavano già qui a Pisa. Questo è tuttavia un punto di partenza. Un florilegio di idee che non ha certo l’ambizione di fungere da mentore per le future azioni del Partito Democratico e dei suoi iscritti ma che mira a dare una idea di Italia, condivisibile o no, pur sempre una idea. Ripartiamo da qui, dalle idee. Le idee che hanno carat- 398 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 399 Le parole e le cose dei democratici terizzato questa tre giorni. Le stesse idee che caratterizzano ogni anno i momenti formativi dei Giovani Democratici e del Partito. Le stesse idee che hanno accompagnato per tutta la vita gli amici di Utoya e che un folle gesto aveva la presunzione di cancellare. Viviamo in Italia dove vi sono stati molti uomini e donne che hanno deciso di camminare con le proprie idee arrivando fino a farsi uccidere prima di piegarsi alla violenza ed alla corruzione. Il nostro impegno è quello di far sì che dove vi saranno più persone riunite per cambiare questo paese venga sempre riconosciuto come luogo di vita e di speranza di una generazione che non vuole dire: “Basta! Me ne vado!”. La penna finisce di passare l’inchiostro sulla carta ingiallita. Il passato lascia il passo al futuro e restarne fuori significherebbe non vivere. Viva l’Italia, Viva il Federalismo Europeo, viva chi lotta per le proprie idee. 399 atti_5:Layout 1 06/10/2011 11:30 Pagina 400