atti
Le parole e le cose
dei democratici
Le parole e le cose dei democratici
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Seminario promosso
dal Centro Studi del PD
dal Coordinamento territoriale
del PD di Pisa,
dai Giovani Democratici di Pisa
e da Inshibboleth
Pisa, 4-7 marzo 2011
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Collana coordinata dal
Forum Centro Studi Pd
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Le parole e le cose
dei democratici
Seminario promosso
dal Centro Studi del PD
dal Coordinamento territoriale del PD
di Pisa, dai Giovani Democratici di Pisa
e da Inshibboleth
Pisa, 4-7 marzo 2011
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INDICE
Presentazione
Gianni Cuperlo
Presidente del Centro studi PD
Prefazione
Francesco Nocchi
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Segretario provinciale PD Pisa
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Introduzione
Comitato editoriale della rivista Inschibboleth
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PLENARIA D’APERTURA
Annamaria Parente
Responsabile Formazione, Segreteria nazionale PD
Andrea Giorgio
Segretario regionale GD Toscana
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37
Elio Matassi
Professore di Filosofia della Storia, Università Roma Tre,
membro del comitato direttivo di Inschibboleth
Marco Filippeschi
Sindaco di Pisa
Enrico Letta
Vicesegretario nazionale PD
41
47
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PANEL I
I democratici e il lavoro della memoria.
Cosa ereditare del Novecento?
Vittoria Franco
Senatrice PD
Claudia Mancina
Professore di Etica, Università La Sapienza di Roma
Michele Battini
Professore di Storia Contemporanea, Università di Pisa
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77
87
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Vannino Chiti
Vicepresidente del Senato della Repubblica
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PANEL II
Le figure e le forme dei democratici dopo il Novecento.
Cosa possiamo e dobbiamo dire di centro-sinistra
nell’epoca della Rete?
Gianluca Giansante
Ricercatore, formatore e consulente di comunicazione
107
Francesco Verducci
Viceresponsabile vicario
Dipartimento Cultura e Informazione PD nazionale
121
Adriano Fabris
Professore di Filosofia morale
e di Etica della comunicazione, Università di Pisa
Giuseppe Civati
Consigliere regionale PD Lombardia
Mario Rodriguez
Professore di Comunicazione Politica, Università di Padova
133
139
149
PANEL III
Le grandi biografie della politica italiana.
Chi comprende l’album dei democratici e chi esclude?
Giovanni Bachelet
Presidente del Forum PD per le politiche dell’Istruzione
Luigi Covatta
Direttore di Mondoperaio
Paolo Fontanelli
Deputato PD
161
177
191
PANEL IV
Fenomenologia dei vizi e delle virtù della sinistra:
patologie antiche e moderne, virtù volontarie e involontarie
Alfonso Maurizio Iacono
Professore di Storia della filosofia, Università di Pisa
207
Michele Ciliberto
Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea,
Scuola Normale Superiore di Pisa
Susanna Cenni
Deputata PD
Roberto Cerreto
Consigliere parlamentare
6
215
223
235
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PLENARIA
La politica dei giovani, le politiche per i giovani:
il Partito Democratico alle prese con il futuro
Chiara Geloni intervista
Fausto Raciti e Rosy Bindi
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PANEL V
Quale europeismo per i democratici
nella crisi dell’idea di Europa?
Piero Graglia
Docente di Storia dell’integrazione europea,
Università degli Studi di Milano
283
Francesco Gui
Professore di Storia dell’Europa,
Università La Sapienza di Roma
299
Guido Montani
Professore di Economia Politica Internazionale, Università di Pavia,
Vicepresidente dell’Unione dei Federalisti Europei
Leonardo Domenici
Europarlamentare PD
Ivana Bartoletti
Manager e specialista di diritti umani
Silvano Andriani
Presidente CeSPI, Centro Studi Politica Internazionale
313
325
333
341
PLENARIA CONCLUSIVA
Roberto Bernabò
intervista Massimo D’Alema e Andrea Manciulli
Postfazione
Matteo Trapani
Segretario Provinciale GD di Pisa
353
397
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Nota editoriale
Gli atti contenuti in questo volume sono stati curati da
David Ragazzoni.
Si ringraziano inoltre Maria Accarino per la sbobinatura
delle registrazioni dei panel e delle plenarie e Michele
Morandi per aver seguito il lavoro nelle sue prime fasi.
E ancora, Giorgio Malet per l’editing dei testi del II panel e Matteo Trapani per l’editing della relazione di
Piero Graglia. Un ringraziamento, infine, a Marco de
Pascale e alla rivista Inschibboleth per la registrazione
integrale delle quattro giornate di Seminario.
I testi sbobinati sono stati poi editati, inviati agli autori
per modifiche e riletture e infine nuovamente rivisti. Si
è volutamente mantenuto il tono colloquiale della maggior parte degli interventi, anche per preservare nel volume il ricordo dell’occasione e del contesto nel quale
questi sono nati.
Un grazie particolare a Maria Grazia Gatti, Giorgio Malet, Giulio Nardinelli, Cristian Pardossi, David Ragazzoni
ed Ermete Realacci per come hanno introdotto e coordinato le diverse sessioni di lavoro arricchendo la discussione di stimoli e spunti sempre vivi e interessanti.
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Presentazione
Gianni Cuperlo
Presidente Centro studi PD
Mi piace introdurre questa raccolta partendo un po’ da
lontano, ricordando qualcuno che le parole le sapeva
usare molto bene. Nel pomeriggio del 25 marzo del 1945
debuttò quello che forse è il capolavoro di Eduardo De Filippo, Napoli Milionaria. Accadeva un mese esatto prima
della Liberazione. Quella prima rappresentazione si tenne
al San Carlo di Napoli e nonostante i tempi complicatissimi il teatro era esaurito e stipato. La trama è quella che
molti conoscono: Gennaro Iovine è un uomo perbene, è
andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie
Amalia che ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera,
la figlia maggiore incinta di un soldato americano, il figlio
tentato dalla malavita.
Non riconosce più il proprio mondo perché, prima di
tutto, non riconosce più la propria famiglia.
Il terzo atto è un po’ una storia a sé: l’ultima figlia, la bambina, è malata e ha bisogno di una medicina che non si
trova in tutta Napoli. Il medico già dispera quando, all’improvviso, entra in scena il vicino del ‘basso’ accanto
– un uomo che Amalia ha praticamente rovinato attraverso l’usura – con la medicina in mano. Il dialogo tra la
donna e il vicino è durissimo: lei gli chiede cosa vuole in
cambio del farmaco; lui le risponde che non potrà restituirle nulla della vita che gli ha rubato e le apre gli occhi
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Le parole e le cose dei democratici
sulla oscenità di quella ricchezza accumulata. Poi consegna la medicina al dottore e se ne va. Per Amalia è la fine
di un mondo, il crollo di un’impalcatura. Quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo-Gennaro parla e le dice quello che pensa di quella brama di
ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie altrui.
C’è del moralismo? Direi quanto può starne nel teatro di
Eduardo. Però il talento è talento e stupisce sempre.
Quindi, anche in quel passaggio così drammatico, è Amalia che reagisce in un modo imprevisto. È come se, svegliandosi dal suo sonno, si liberasse di tutto ciò che ha
dentro, in uno sfogo che è uno dei momenti più intensi
della commedia. O forse, a quel punto, del dramma.
A me piacerebbe essere napoletano in questo tempo di
imperante leghismo, ma non lo sono e non posso leggervi
le battute con cui Amalia, rivolta al marito, gli chiede e
chiede a se stessa: ‘Ma cosa è successo? Che cosa è accaduto nella nostra vita che ha stravolto a questo modo
i nostri valori, i nostri principi? Erano anche cose semplici
che però ci hanno consentito una vita dignitosa per tanto
tempo’, e ripete: ‘Ma cosa è successo?’. Sono le battute
finali. Il figlio torna a casa, non è andato a rubare, la figlia maggiore viene abbracciata dal padre, e il medico
dice che bisogna aspettare qualche ora, anzi l’intera
notte, per sapere se la bambina ce la farà.
Quella bambina – è lo stesso Gennaro a dircelo – in
fondo è il simbolo del paese e questo gli consente di consegnare alla storia quella battuta immortale sulla notte
che deve passare. Eduardo, rievocando quella prima, ha
detto di aver recitato il terzo atto in un silenzio assoluto.
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Le parole e le cose dei democratici
Poi, una volta calato il sipario, quel silenzio anomalo per
il teatro è durato ancora qualche secondo sino a quando
sono esplosi «un applauso furioso e un pianto irrefrenabile». Piangevano tutti: attori, comparse, il pubblico, gli
orchestrali del San Carlo stipati nel golfo mistico perché
non c’erano posti; e piangeva Raffaele Viviani che salì sul
palco ad abbracciare il maestro perché lui solo aveva saputo raccontare del dolore di tutti.
E allora la domanda più banale che viene da farsi è:
‘come sarebbe oggi avere uno del talento di Eduardo tra
di noi – lui o qualcuno come lui – capace di mettere in
prosa la stessa domanda?’. Perché guardando agli ultimi
quindici, vent’anni, della vicenda del nostro paese, è il
caso di chiederci: ‘ma cosa è successo?’. Forse è la stessa
domanda che sta alla base delle quattro giornate di incontri, discussioni, riflessioni che abbiamo voluto organizzare a Pisa e di cui raccogliamo gli atti in questo volume.
Cosa è accaduto a questo paese che fatica tanto a liberarsi da un peso insopportabile? Gennaro-Eduardo parla
della bambina malata nella stanza accanto come del
paese nostro: e forse è un po’ lo stesso anche per noi.
Certo c’è molto di stonato in un Parlamento umiliato,
chiamato a discutere e a vagliare reati come quelli che
sono stati imputati al capo del Governo. La questione,
però, non riguarda il decoro. Il punto è nel contesto, nel
corredo, cioè in un’idea del potere che è finito piegato al
desiderio, alla proiezione di un io spinto oltre i confini storici che questo paese, pure segnato da una storia tormentata, non aveva mai conosciuto. L’interesse privato
che si fa improvvisamente interesse dello Stato con una
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Le parole e le cose dei democratici
regressione politica e civile di un paio di secoli. Alla base
vi è l’idea di una politica spogliata, dominata dall’interesse
personale in una deriva dalla quale, secondo me, senza
troppe lacrime, è scomparso ogni carisma collettivo. Il linguaggio – voi lo sapete – rivela sempre il pensiero: noi in
questi anni, forse non per caso, abbiamo sempre utilizzato
l’aggettivo al singolare, parlando di una ‘personalità carismatica’, di una ‘leadership carismatica’. Da anni quasi
nessuno parla di un ‘movimento carismatico’, di un ‘partito carismatico’, quasi che la dimensione collettiva abbia
perduto quella forza di attrazione che a lungo aveva
preservato.
Gli effetti sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: utilizzare lo Stato a proprio vantaggio, dettare leggi, blindare
il consenso o addirittura acquistarlo per accentuare fino
allo spasimo la misura di sé e del proprio desiderio, a tutti
i livelli. A destra tutto questo si è tradotto in istituzioni che
non sono più sovrane: oggi in Italia il primo cerchio dei
collaboratori del Premier coincide, letteralmente parlando, con il suo collegio di difesa, in una logica che davvero corrisponde a una privatizzazione dello Stato: ‘La
mattina mi difendono nelle aule dei tribunali, il pomeriggio mi tutelano nelle commissioni parlamentari dove scrivono le regole che serviranno la mattina dopo a difendermi meglio nelle aule dei tribunali’. A destra c’è
esattamente questa paurosa regressione della dimensione pubblica – che non ha paragoni in Europa o nelle
democrazie avanzate – con un uomo solo, ancora al comando, destinato a comandare fino all’ultimo istante
utile. Eppure – se ne può star certi – non appena sprofonderà, un attimo dopo, secondo il drammatico co-
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Le parole e le cose dei democratici
stume di questo paese, verrà seppellito dal discredito
non solo e non tanto delle opposizioni, ma soprattutto di
molti dei suoi adulatori di oggi.
Questa è la destra. Ma di qua, dall’altra parte – ed è la ragione delle giornate pisane – in quella dimensione culturale e politica che è stata la sinistra italiana, il centro-sinistra italiano, la domanda, anche scomoda, che credo ci
si debba porre è: ‘Noi possiamo dirci del tutto innocenti?’. Possiamo credere di non avere delle responsabilità nella discesa del paese verso un costume confuso,
verso un linguaggio così impoverito? E non dovremmo
chiederci anche noi, un po’ come fa Amalia nel terzo atto:
‘Ma cosa è successo?’? In fondo l’Italia è stata ed è un
grande, un grandissimo paese, uno dei più grandi dell’Europa e del mondo, dal punto di vista della propria tradizione, della propria cultura, delle proprie radici. Da
dove arriva, allora, questa ondata di cinismo che troppo
spesso ha spinto la politica a pensare che tutto si potesse
ridurre alla tattica o all’efficientismo?
Abbiamo assistito alla presentificazione del tempo e della
politica, mentre il senso comune del paese sotto i nostri
occhi cambiava natura, e perdeva persino alcuni dei tratti
profondi della sua storia e del suo civismo.
Quando è stato, se c’è stato, il momento in cui ci siamo
come assopiti? Io lo chiedo anche alla mia parte, alla mia
esperienza politica precedente. L’onda, la risacca si è
spinta fino a portarci via i vestiti, che magari non erano
troppo eleganti ma erano i nostri, lasciandoci a sperare di
indossare gli abiti di altri. Lo dico perché se, tra tante
colpe, ce n’è una che la destra non ha, è di aver suggerito a tutti di imitarla, perché quella in fondo era la sua
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Le parole e le cose dei democratici
missione. A volte lo ha fatto con uno stile più presentabile, ma i suoi valori di fondo negli ultimi trent’anni
c’erano e si sono visti.
Lo si capisce bene, almeno io l’ho capito in maniera abbastanza illuminante, leggendo il testo dell’audizione che
Alan Greenspan – il potentissimo capo della FED americana – ha rilasciato ai deputati del Congresso. È un’audizione del 2008, quando la peggiore crisi del secolo oramai era un tratto manifesto, e l’uomo che era tra i
maggiori responsabili di quella situazione – a fronte di
un’economia saltata per aria e con una situazione gravissima delle banche e degli istituti di credito – dice sinceramente quello che pensa. Lo fa con queste parole:
«Ho trovato una falla, non so quanto grave o duratura,
ma il solo fatto che esista mi ha sconvolto». Allora un deputato democratico gli chiede: «In altre parole, Lei ha scoperto che la sua visione del mondo, la sua ideologia non
era giusta, che non funzionava», e Greenspan risponde:
«Proprio così, è esattamente questo che mi ha colpito,
perché sono andato avanti per più di quarant’anni nella
certezza assoluta che funzionasse benissimo».
Viva la sincerità! Ma questo è accaduto: è crollato un modello economico, finanziario, politico e sociale fondato su
valori solidissimi, e in quel modello per tanto tempo le figure centrali sono state consumatori e proprietari. Si racconta – non so se l’aneddoto è vero – che la signora Thatcher brindò la mattina in cui le comunicarono che il
numero degli azionisti aveva superato il numero degli
iscritti ai sindacati. Dal suo punto di vista si trattava di una
vittoria, non c’è dubbio. Poiché, però, la maggior parte
della popolazione non era in grado di giocare quella par-
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Le parole e le cose dei democratici
tita, le diseguaglianze aumentarono, e noi oggi facciamo
i conti con società che sono più ingiuste, più insicure e,
nel complesso, anche più infelici. Questo non è stato un
fenomeno banale: in fondo, se ci pensiamo un istante, più
o meno dalla fine del XIX secolo fino agli anni Settanta del
Novecento le società avanzate dell’Occidente sono progressivamente diventate, tutte – qualcuna più, qualcuna
meno – meno diseguali. Molto lo si deve alle culture di
questa parte del campo, grazie alla tassazione progressiva, ai sussidi pubblici, al welfare: le democrazie moderne, cioè, hanno operato per liberarsi dal problema degli eccessi di ricchezza e di povertà.
Negli ultimi trent’anni questa tendenza si è invertita, e
non solo nei fatti, negli indicatori economici, ma, per la
prima volta dopo decenni, si è invertita culturalmente: la
diseguaglianza, con il correlato di società sempre più diseguali, non è più stata considerata un disvalore. Insomma, di là c’è stato un pensiero e in quell’impostazione
elementi come l’etica pubblica e uno Stato regolatore
contavano molto meno o finivano addirittura per non
contare affatto.
Noi – e credo che i contributi qui raccolti siano preziosi per
ragionare anche di questo – forse abbiamo sottovalutato
per una fase il bisogno di contrapporre a quel pensiero,
che era un pensiero solido, storicamente forte, un impianto diverso e non per forza meno ambizioso. Il PD –
almeno così l’ho inteso io – lo abbiamo voluto esattamente per colmare questo ritardo. Intendiamoci: in parte
ha pesato anche la forza degli eventi ma la riflessione de
Le parole e le cose dei democratici, può aiutarci a scavare
un po’ più a fondo anche sui limiti della cultura politica e
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Le parole e le cose dei democratici
di governo della nostra parte. Lo dico con un esempio che
è parziale, come tutti gli esempi, ma secondo me indicativo e che si trova nel bellissimo ‘testamento’ di Tony Judt,
Guasto è il mondo, pubblicato in Italia da Laterza. L’esempio parla del nostro campo: alla metà degli anni Novanta,
nel 1996 per l’esattezza, l’amministrazione Clinton varò
una legge sulla responsabilità personale e sulle opportunità lavorative: lo scopo era ridurre il numero degli individui a carico dell’assistenza pubblica negando le prestazioni sociali a tutti quelli che non avevano accettato
un’occupazione retribuita. Considerando che in questo
modo un datore di lavoro poteva trovare un lavoratore
a qualsiasi salario, perché c’era un elemento oggettivo di
ricatto, oltre a sgravare l’assistenza pubblica si ottenne anche di ridurre i salari e i costi delle imprese; inoltre il welfare, o, meglio, quel modello particolare di welfare che
esiste anche negli Stati Uniti, acquistò un esplicito marchio negativo: era un po’ un segno di fallimento personale, la prova che si era precipitati ai margini della società.
Tony Judt, provocatoriamente, fa un paragone: quella
legge – afferma – ricorda un’altra legge, assai più antica,
approvata in Inghilterra quasi due secoli prima, la New
Poor Law, del 1834, descritta compiutamente da Dickens
in Oliver Twist. Quella legge obbligava gli indigenti del
tempo a scegliere tra un lavoro a qualsiasi salario oppure
l’umiliazione dell’ospizio per i poveri. Ma per il successivo
secolo e mezzo i riformatori hanno cercato con ogni
mezzo di abolire queste pratiche degradanti: quel tipo di
legge è stato sostituito da una rete di assistenza da parte
dello Stato che è stata concepita per la prima volta nelle
democrazie come una forma di cittadinanza, come un di-
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Le parole e le cose dei democratici
ritto, e noi siamo esattamente i portatori di quella cultura.
Chi non aveva un lavoro non era più considerato responsabile della propria sventura, ma più di ogni altra
cosa gli Stati sociali del XX secolo hanno decretato che definire lo status civico di una persona in ragione della fortuna o della sfortuna, del censo o della famiglia in cui si
è nati, era un’autentica indecenza.
Precisamente da qui veniamo noi. La destra in questi
anni ha tentato di riportarci invece a quell’approccio
tardo-vittoriano, e anche il nostro vocabolario ne ha risentito.
Dal momento che noi non solo pensiamo in una lingua,
ma la lingua, come è stato detto autorevolmente, pensa
con noi e a volte pensa per noi, abbiamo finito con
l’usare più frequentemente le parole degli altri, rinunciando talvolta a cogliere la radice di umanità, l’umanesimo profondo che era contenuto nel nostro vocabolario,
a partire da quella straordinaria parola di cui discuterete
in questi giorni, ‘uguaglianza’ e, con essa, le espressioni
‘libertà’ e ‘responsabilità’.
Affrontare questi temi non è qualcosa di molto distante
dalla miccia che ha incendiato il Mediterraneo con movimenti prevalentemente di giovani, dove in maniera
molto stretta si saldano bisogno di libertà, rivolta sociale
e domanda di futuro. È l’idea, tutto sommato antica, che
i diritti non siano un bene astratto ma il risultato storico
di traguardi e anche di conflitti. Se però si affida al mercato e solo al mercato questo enorme capitolo della democrazia, si corre il rischio di perdere lungo la via sia la
politica sia la cultura: la conseguenza sarà una società
consapevole di quanto costino le cose, ma meno consa-
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Le parole e le cose dei democratici
pevole di quanto esse valgano.
Prima o poi, allora, penso che dovremo fare quello che fecero le forze politiche e i grandi intellettuali in Italia dopo
il fascismo. A lungo ci si è interrogati su che cosa fosse
stata la cultura al tempo del fascismo e se si potesse parlare di una cultura fascista in senso proprio. Tre grandi intellettuali come Bobbio, Garin e Del Noce, diedero risposte diverse. Bobbio, ad esempio, ha sempre negato
risolutamente l’esistenza di una cultura fascista. Ma, indipendentemente dalle risposte, io credo che, forse con
minori ambizioni, una domanda analoga dovremmo porcela anche noi. Dovremmo chiederci se c’è stata, e che
cosa ha prodotto, una cultura negli anni della destra e in
particolare di questa destra berlusconiana. In fondo, abbiamo voluto e pensato in questa logica l’appuntamento
di Pisa.
Penso alle dichiarazioni di intenti di Vittorini sul primo numero del Politecnico, dove scriveva: «vogliamo far sorgere una nuova cultura che aiuti a eliminare lo sfruttamento e a vincere il bisogno, la cultura italiana del
dopoguerra». Era un programma molto ambizioso, forse
troppo. Tuttavia, tra quel traguardo così elevato e un ripiegamento culturale, credo che debba esserci una via
mediana, anche dotata del coraggio di andare contro lo
spirito del tempo e contro il sentimento prevalente. Io
penso che lo avesse capito benissimo un uomo come
Tommaso Padoa-Schioppa quando, in controtendenza
rispetto allo spirito del tempo, andò in televisione a dire,
col sorriso sulle labbra, che pagare le tasse è una cosa
bella in una democrazia, perché serve a garantire le
scuole pubbliche, i teatri, gli spazi civici dove la demo-
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Le parole e le cose dei democratici
crazia si manifesta e si esprime.
Per quella battuta venne crocifisso. Tutti noi, forse,
avremmo dovuto difenderlo di più, perché il suo era un
modo di introdurre nel dibattito pubblico di questo paese
la reazione giusta a un clima.
A quella domanda – ‘che è successo?’ – noi dobbiamo
dare una risposta. E allora, in assenza di un genio come
Eduardo De Filippo che ci suggerisca le battute finali,
l’unico modo, secondo me, è tornare a fidarci di noi e ricucire la trama di coerenze e buone pratiche, fuori dalla
logica della retorica dei palchi e degli studi televisivi; in
fondo si tratta soltanto di ripartire dal paese che c’è, che
esiste, che è vitale, che è ricco, che è bello e che tutto ci
chiede meno che un’alternativa grossolana tra la povertà
e le paillettes. E allora ha da passà ‘a nuttata anche per
noi, ma prima tocca a questo paese svegliarsi: noi lo
stiamo spronando in questa direzione. Stiamo cercando
di spiegare che senza PD questo risveglio non ci sarà o
sarà molto più complicato, perché oggi questo partito è
la sola vera speranza di rinascita e di riscossa, di risorgimento verrebbe da dire, se non fosse un termine troppo
ambizioso, per un paese segnato da un degrado civile e
morale che non trova riscontri nella nostra storia recente.
Ecco: di questo e altro ancora abbiamo discusso a Pisa con
l’auspicio di aiutare il PD non solo a vincere le elezioni,
quando saranno – speriamo presto – ma soprattutto a
motivare il senso profondo e la prospettiva della nostra
esistenza. Un senso e una prospettiva che davvero, come
si diceva una volta, vengono da lontano. In questo senso
ho sempre apprezzato molto la citazione di Adam Smith
che tanti, tanti anni fa diceva testualmente: «nessuna so-
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Le parole e le cose dei democratici
cietà può essere florida e felice se la grande maggioranza
dei suoi membri è povera e miserabile». Lo diceva il padre dell’economia moderna, un uomo che non per caso
è stato, prima di tutto, un filosofo morale e poi un economista.
A noi tocca incamminarci su quella strada.
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Prefazione
Francesco Nocchi
Segretario provinciale PD Pisa
I partiti della Prima Repubblica avevano pregi e difetti, anche se la storiografia recente tende a enfatizzare soprattutto i secondi. Tra i pregi c’era sicuramente l’attenzione
dedicata alla formazione politica. Era un impegno oneroso, in termini sia di tempo che di risorse. Ma dava i suoi
frutti. Come spesso accade, il valore delle cose risalta
maggiormente quando non ci sono più. E questa è una
mancanza che si fa sentire, oggi che la politica italiana attraversa una delle stagioni più difficili, in termini anzitutto
di credibilità.
È anche per questo che siamo orgogliosi di quello che abbiamo organizzato a Pisa. Se avete tra le mani questa
pubblicazione significa che il Seminario di formazione
politica Le parole e le cose dei democratici è stato un successo. Lo testimoniano i numeri, anzitutto: 250 partecipanti, per la maggior parte ragazzi, provenienti da tutta
Italia. Otto ‘lezioni’ in tre giorni, durante le quali si sono
confrontati decine di docenti universitari, politici, giornalisti e analisti, tutti a vario titolo autorevoli protagonisti
della storia recente del nostro paese. Ne è emersa una riflessione approfondita, connotata da un respiro più ampio di quello permesso dall’attualità mediatica, troppo
condizionata da spazi ristretti e ritmi serrati. Nell’era della
comunicazione istantanea, abbiamo provato a riappro-
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Le parole e le cose dei democratici
priarci di un certo modo di ragionare, caratterizzato da
tempi più lunghi. Quelli che sono propri, per l’appunto,
dei momenti formativi. E non sta a me dire quanto, in
questo momento, ci sia bisogno di incidere sulla cultura
politica, la base valoriale, i modelli di riferimento. Soprattutto delle giovani generazioni. In ballo c’è un’identità forse ancora da costruire, certamente da rafforzare.
Uno dei pregi del Seminario è stato quello di far convivere
la riflessione sul passato con lo sguardo gettato sul futuro.
E così a discussioni sulla memoria del Novecento e sulle
grandi biografie della politica italiana si sono affiancati incontri sull’Europa e la Rete. Sempre mantenendo fisso il
Partito Democratico come orizzonte di riferimento. Tutta
la tre giorni pisana può essere intesa come un contributo
al rafforzamento del PD e di quella cultura riformista che
è propria del centrosinistra, italiano ed europeo.
Quando abbiamo deciso di organizzarlo, questo evento
ci entusiasmava ma ci incuteva anche un certo timore. A
Pisa – città che pure vanta una tradizione politica con pochi eguali – non c’era mai stato nulla del genere. Oggi
possiamo dire con un certo orgoglio che il risultato è andato perfino oltre le nostre aspettative. Questo ci incoraggia a riprovarci. Pisa ha dimostrato di possedere forza,
competenze e capacità sufficienti per ripetersi. Vorremmo
trasformare il Seminario 2011 in un appuntamento fisso,
e fare di Pisa la sede permanente di uno spazio formativo
dedicato soprattutto ai giovani.
Se però il successo ottenuto ci spinge a pensare già alla
seconda edizione, non possiamo dimenticare chi ha reso
possibile lo svolgimento della prima. Con impegno e passione. A partire ovviamente dai relatori e da tutti coloro
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Le parole e le cose dei democratici
che hanno partecipato alle lezioni. Poi gli organismi dirigenti e il personale del PD di Pisa, e soprattutto i Giovani
Democratici. Senza di loro probabilmente non ci saremmo neanche avventurati in questo progetto. Infine un
ringraziamento particolare ad un relatore che...non c’era:
Miriam Mafai. È inutile dire quanto ci avrebbe onorato la
sua presenza. L’abbiamo invitata, non ci ha potuto raggiungere. Ma l’interesse che ha mostrato e la gentilezza
con cui ha risposto ci impone anzitutto di ringraziarla, ma
ci fa anche sperare di poterla avere con noi in futuro. Insieme a tutti gli altri.
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Introduzione
Per una rifondazione del concetto di laicità
ll Comitato editoriale della rivista Inschibboleth
L’espressione «Schibboleth», in cui si riconoscono un
gruppo di intellettuali che guarda con grande attenzione
al Partito Democratico, è sicuramente molto di più di una
semplice suggestione letterario-filosofica. L’origine-costellazione semantico-concettuale si può ritrovare nella silloge dedicata da Jacques Derrida al grande poeta di lingua tedesca Paul Celan, Schibboleth-pour Paul Celan, in
cui viene ad indicare in primo luogo il valore della con-divisione, un valore che esprime contestualmente «la differenza, la linea di demarcazione o lo spartiacque, la
scissione, la cesura, quanto, d’altra parte, la partecipazione…». Si tratta di un paradigma prezioso per il legame
indissolubile istituito tra differenza, linea di demarcazione e partecipazione/con-divisione e può essere utilizzato utilmente per una riformulazione del concetto di laicità che sia in grado, senza avventurarsi in semplificatori
ed impraticabili eclettismi, di rinnovare categorie e linguaggio del Partito Democratico.
Rinnovamento che non potrà prescindere da questa struttura aperta di con-divisione e partecipazione; lo spazio
politico riempito da tale con-divisione non dovrà mai essere alternativo alla realizzazione dell’individuo quanto
piuttosto il luogo del confronto e del riconoscimento reciproco.
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Le parole e le cose dei democratici
Ovviamente per una revisione-approfondimento del concetto di laicità non possono essere ignorati i problemi
emersi nell’ultima parte del secolo XX, la sfida della globalizzazione e delle società multiculturali. Sono in proposito interessanti le risposte fornite in primo luogo da
Habermas. Per il filosofo tedesco la società contemporanea è una società «postsecolare», ossia una società che
«deve prevedere il persistere di comunità religiose entro
un orizzonte sempre più secolarizzato». Una società compiutamente secolarizzata nella quale, tuttavia sia venuta
meno la collisione fra una forma mentis laico-militante
(laicista) e la forma mentis religiosa. L’auspicio conclusivo
di Habermas, che si può largamente condividere è, dunque, quello della formazione di una «sfera pubblica polifonica» (l’aggettivazione musicale risulta in proposito
molto pregnante), in cui le ragioni religiose e quelle secolari possano coesistere ascoltandosi reciprocamente.
Una sfera pubblica, concepita come inclusiva e non esclusiva, che ponga fine all’ingiustizia di richiedere dallo Stato
liberaldemocratico ai suoi cittadini credenti una suddivisione d’identità (in una parte pubblica ed in una privata). Un’interpretazione critica del paradigma francese
di laicità, di cui rappresenta una versione alternativa importante, quando recita che «la generalizzazione politica
di una concezione del mondo di tipo secolare non è
compatibile con la neutralità ideologica del potere statale,
che garantisce eguali libertà etiche per tutti i cittadini».
Abbiamo scelto intenzionalmente Habermas e la sua proposta di una rifondata ed allargata nozione di laicità in
quanto crediamo fermamente nella funzione di una rinnovata ‘teoria critica’ che sappia leggere nel profondo e
filtrare criticamente l’idea di ibridazione che ha governato
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Le parole e le cose dei democratici
il destino della modernità occidentale. Anche in questo
caso il Partito Democratico è riuscito ad esprimere una
proposta, interessante sul piano teorico, e costruttiva su
quello politico. Si può consultare in proposito il recentissimo libro di Vannino Chiti, Religioni e politica nel mondo
globale. Le ragioni di un dialogo (Firenze, Giunti, 2011).
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PLENARIA D’APERTURA
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Annamaria Parente
Responsabile Formazione, Segreteria nazionale PD
Nel tempo a mia disposizione, vorrei riflettere sul rapporto
tra cultura politica e formazione, sullo stato della democrazia nel nostro paese in rapporto al ruolo dei partiti e sui
compiti della formazione politica. Infine, mi eserciterò a
condividere, insieme a voi, le parole e le cose del nostro
PD, come recita il bel titolo del Seminario.
In questi giorni, come Dipartimento Nazionale Formazione, stiamo completando una ricerca, che diffonderemo
a breve, sulla formazione politica nei principali partiti europei, con un excursus anche su Stati Uniti e Brasile.
Una delle cause di crisi della democrazia consiste, a nostro avviso, nella rottura del circolo virtuoso tra cultura
politica, organizzazione e formazione delle classi dirigenti. È significativo che su questo versante l’ultima ricerca strutturata risalga agli anni Novanta del secolo
scorso, a vent’anni fa. I curatori di questa ricerca riflettevano sulla crisi dei partiti di massa e sulle problematiche
della democrazia rappresentativa e individuavano nell’aggiornamento e nel rilancio dell’attività formativa, nel
cuore degli anni Novanta, un possibile rimedio alla crisi
stessa. In questa ricerca la formazione veniva vista come
una necessità per i partiti, non tanto per conservare il loro
ruolo, quanto per mantenere la caratteristica di partiti democratici e popolari.
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Le parole e le cose dei democratici
Credo che questo sia ancora molto attuale nel 2011. Lo
è sicuramente per la costruzione del nostro giovane PD,
dove la formazione politica può contribuire allo sviluppo
di un partito democratico e popolare.
Gustavo Zagrebelsky sostiene che in questo momento
storico bisogna ridare anima alla democrazia. E non bastano le Carte costituzionali, non basta neppure la nostra,
che è bellissima: per rianimare la democrazia è fondamentale un ethos diffuso. Quando Zagrebelsky definisce
l’art. 1 della Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica» – egli scrive che, da una parte, si tratta di una
descrizione della forma politica del nostro paese, ma che,
dall’altra, è una norma programmatica, che invita ad
un’azione per la democrazia.
Pensate, ad esempio, alla scuola pubblica, al tentativo del
suo smantellamento da parte di questo governo:
avremmo immaginato fino a qualche anno fa di dover difendere e precisare il carattere pubblico della scuola? La
scuola pubblica è un diritto del cittadino, costituzionalmente previsto, è un diritto dei cittadini! Eppure la norma
non è sufficiente a metterci al riparo, è necessario sempre ‘agire’ per la democrazia, stimolare costantemente
una ‘passione’ diffusa per essa.
Ancora Zagrebelsky afferma che «due sono i modi per
prosciugare la democrazia: chiuderne le condotte o spegnerne il desiderio». Probabilmente in Italia corriamo
tutti e due questi rischi.
Per riaccenderne il desiderio – qui vengo al compito del
partito e della formazione politica – bisogna riscoprire il
senso del ‘noi’ nella politica, la partecipazione dei cittadini e delle cittadine alle scelte.
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Le parole e le cose dei democratici
È necessario inoltre porsi la domanda: dove e come si
forma l’opinione pubblica? Molto spesso attraverso il canale televisivo. Prima i partiti venivano definiti ‘facilitatori’
della formazione dell’opinione pubblica: adesso, invece,
in questo mondo in cui siamo bombardati da immagini e
informazioni, è molto difficile per le persone costruirsi
un’opinione basata su una profondità di analisi.
È molto importante per il Partito Democratico creare luoghi come questo e come tanti altri in cui si sviluppa
‘senso critico’. Hannah Arendt scriveva, riferendosi all’avvento della società di massa, che noi viviamo in una
sorta di ‘fabbricazione di immagini’. Dobbiamo rompere
questo muro.
Come i grandi partiti di massa, anche attraverso le scuole
di politica, hanno contribuito fortemente alla partecipazione allo spazio pubblico di intere generazioni e all’emancipazione stessa di molte persone, i partiti odierni
devono impegnarsi per una nuova ‘alfabetizzazione democratica’.
Per questo i principali terreni di impegno del Dipartimento sono essenzialmente tre:
la formazione per gli amministratori, con un portale dedicato in cui raccogliamo esempi di buone pratiche locali
e una piattaforma di Formazione a Distanza. La nostra
parte politica storicamente fa ‘scuola’ di governo del territorio. Vi propongo di aprire anche qui, come in altre
zone del paese, un Laboratorio di politica sulle prassi di
buon governo locale;
la scuola estiva di Cortona, cui molti di voi partecipano.
Il tema per il 2011 è Democrazia e Crescita Economica;
Officina Politica, un percorso di formazione ‘lungo’ di un
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Le parole e le cose dei democratici
anno per quaranta ragazzi e ragazze sotto i trent’anni,
provenienti da tutte le Regioni italiane.
Chiudo con un esercizio sul titolo: Le parole e le cose dei
democratici. Le nostre parole, le nostre cose, devono nascere, crescere, coltivarsi, in un ambiente ‘caldo’, in un alveo di comunità: quando si fa formazione, si sta insieme,
ci si esercita a stare nell’agorà della politica. La formazione
è anche ‘affettività’ perché la politica, per ritrovare quel
senso del ‘noi’, deve accompagnarci in percorsi collettivi
per compiere azioni per la democrazia e condividere passione politica.
Il nostro partito sta compiendo da qualche mese un percorso programmatico, iniziato «quasi in clandestinità», secondo l’espressione del Segretario Bersani. Percorso che
ha alla base valori e idee forti, ‘le nostre parole e le nostre cose’: comunità, solidarietà, coesione sociale, uguaglianza nel rispetto delle differenze, il lavoro come nostra
identità fondante, lo sviluppo sostenibile. Quindi da queste parole forti, da queste cose forti stanno discendendo
le nostre proposte.
Il punto adesso è approfondirle, organizzarle, diffonderle
nei Circoli. Accogliendo anche le proposte dei cittadini e
delle cittadine per fare democrazia, praticarla, costruire
sempre di più il nostro partito, perché il PD ha tutte le
carte in regola per essere sempre più forte in Italia e in Europa.
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Andrea Giorgio
Segretario regionale GD Toscana
Come Segretario dei Giovani Democratici regionali, da
poco eletto peraltro, voglio ringraziare l’organizzazione
pisana, il partito pisano, e tutti i livelli del partito che
hanno permesso di essere qui oggi e per tutto il weekend
a parlare e a praticare qualcosa che spesso sembra esser
scaduto e relegato alle prassi del secolo passato: la formazione politica.
Viviamo il serio rischio, infatti, attraverso la televisione,
che tutto sia banalizzato e trasformato in comunicazione:
rischiamo di approdare a una concezione della politica per
cui tutto è semplice, tutto è fattibile, e in questo quadro
la formazione diventa démodé, un argomento di cui non
parlare e un’attività da non praticare.
Io credo invece che la formazione debba essere, e sempre di più, elemento centrale della vita del Partito Democratico e dei Giovani Democratici. È la formazione
l’unico strumento attraverso cui provare a ricostruire una
nuova classe dirigente, quella che dovrà prendere il Partito Democratico in mano: la prima generazione democratica per davvero non potrà essere costruita né attraverso il trucco né attraverso la propria capacità di stare sul
palcoscenico televisivo.
Dovrà essere costruita, al contrario, con la preparazione,
con la capacità di affrontare e risolvere i problemi: qua-
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Le parole e le cose dei democratici
lità che ci renderanno la generazione in grado di prendere
e di farci consegnare da altri le responsabilità di governo
che a tutti i livelli ci spettano.
Nel 2011 e nel Partito Democratico la formazione di partito sicuramente non basta: ai giovani di oggi, a chi farà
politica domani, servirà aver fatto anche altro: aver viaggiato, essersi confrontati con i giovani europei, aver fatto
l’Erasmus. Servirà, insomma, riuscire a portare, anche
costruendolo con le proprie esperienze all’estero, uno
sguardo sul futuro. In questo dobbiamo riuscire a mettere
a confronto nuove e vecchie leve della politica, nuove e
vecchie idee e visioni, nuove e vecchie culture politiche.
Dobbiamo ricordarci che il Partito Democratico non viene
dal nulla, non lo abbiamo trovato sotto i cavoli: ha radici
profonde e occorre riconoscerglielo per garantirgli un
futuro lungo.
Quattro giorni di formazione e cultura politica sul tema
Le parole e le cose dei democratici. «Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti qualche anno fa, ed è
dello stesso parere anche un nostro parlamentare, Carofiglio, in un suo recente libro.
È indubbio che noi abbiamo bisogno di avviare un ragionamento serio sulle parole: viviamo una condizione in cui
la Repubblica, il futuro, i diritti, la dignità sembrano non
avere più nessun senso oltre la retorica. Da qui dobbiamo ripartire nella nostra discussione per provare a ridare un senso e un peso a tutto questo.
In merito alle cose, invece, abbiamo seriamente rischiato
di costruire la sinistra del 2011 e quella del futuro sulla
base di una pura rincorsa della destra. Io credo invece che
sia possibile organizzare e pensare la sinistra del terzo mil-
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Le parole e le cose dei democratici
lennio senza inseguire alcuna forza politica ma mettendo
al centro le nostre idee, reinterpretando i nostri valori e
rendendoli vivi nell’oggi. Rischiamo invece di lasciare disorientato un pezzo consistente di società quando ribaltiamo tutto il nostro lavoro e diciamo che quanto fatto e
detto fino a ieri è da buttare via del tutto.
Dobbiamo tornare a dire le nostre parole: giustizia, lavoro, uguaglianza, pace, libertà, ambiente, sviluppo, Europa. La vera sfida è riuscire a far vivere questi valori oggi,
senza andare a cercarne di altri; farli rivivere con nuovi
mezzi, nuovi strumenti, adattarli alla società che ci troviamo davanti oggi. Credo che le nuove generazioni – i
Giovani Democratici ma anche tutti coloro che ancora
non fanno politica e vorranno venire a farla con noi avvicinandosi al PD – siano il vero strumento per portare il
Partito Democratico nel futuro. Ne sono convinto semplicemente perché le nuove generazioni hanno le antenne
sul presente e possono essere maggiormente in grado di
dare una lettura del futuro, e penso che sia un loro dovere mettersi a disposizione in questo senso. Un dovere
perché saremo noi le generazioni che il futuro lo vivranno e che ci si dovranno confrontare e anche scontrare. Noi siamo una generazione fatta di precari, di studenti fuori sede che non hanno più diritto allo studio; una
generazione di stagisti, una generazione che ha coetanei
di colori della pelle diversi, che provengono da paesi diversi, con cui oggi non riusciamo a relazionarci a causa di
un sistema che li rende lontani da noi per tutele e diritti,
per le prassi di cittadinanza nel nostro paese. Noi siamo
una generazione che viaggia e che studia.
Io credo che il Partito Democratico abbia un grande bi-
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Le parole e le cose dei democratici
sogno di momenti di confronto e discussione come quello
di oggi, e abbia anche un grande bisogno di noi tutti, dei
giovani e dei grandi, per essere all’altezza della sfida che
abbiamo davanti.
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Elio Matassi
Professore di Filosofia della Storia,
Università Roma Tre,
membro del comitato direttivo di Inschibboleth
Comincio partendo da una mia esperienza specifica, avviata nel giugno 2007 assieme a un gruppo di amici e colleghi dell’area italiana di filosofia morale e politica. Con alcuni politici e alcuni professori universitari, che si sono
riconosciuti in questo progetto comune, abbiamo fondato
la rivista Inschibboleth: una rivista che non ha ancora
una veste cartacea, ma che si serve principalmente della
Rete. Abbiamo calcolato tutti i rischi che un’operazione di
questo di questo tipo poteva comportare, ci siamo misurati con le difficoltà della cosiddetta ‘democrazia informatica’: ciò nonostante, abbiamo ritenuto che questa
fosse alla fine la scelta migliore. Non bisogna dimenticare
che abbiamo avuto nel 2008 l’esperienza delle elezioni
presidenziali degli Stati Uniti: la vittoria di Obama è stata
costruita proprio sulla Rete, con la partecipazione di tantissimi giovani, con donazioni online di persone della società civile. Le ultime elezioni statunitensi, cioè, hanno dimostrato in maniera inequivocabile che il primato della
‘spettatorialità’ televisiva che ancora domina nel nostro
mondo politico è già, negli Stati Uniti, un’esperienza marginale, ormai alle nostre spalle.
Abbiamo scelto, dunque, questo strumento perché ci
sembrava il più democratico, nonostante tutti i rischi che
questa operazione potesse comportare. Ci siamo poi in-
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Le parole e le cose dei democratici
terrogati sul ruolo degli intellettuali nella società contemporanea: non possiamo non costatare che l’esperienza dell’intellettuale organico rappresenta un’esperienza molto
importante ma ormai datata. Nella contemporaneità gli intellettuali sono stati attraversati da una contraddizione di
fondo: o si sono rifugiati nello specialismo iper-accademico, totalmente autoreferenziale e avulso dai problemi,
dalla società in cui vivono, oppure si sono resi corresponsabili del circuito mediatico spettacolare, diventando a
questo funzionali. Gli intellettuali che si riconoscono nel
progetto di Inschibboleth, invece, hanno cercato, e cercano, di tenersi egualmente distanti da queste due visioni
dell’intellettuale, fuorvianti allo stesso modo.
È stato sollevato negli interventi precedenti il tema fondamentale della formazione politica: diventa sempre più
imprescindibile e necessaria una formazione politica della
classe dirigente. Una formazione politica di cui ha bisogno,
certo, il nostro partito ma anche l’intera futura dirigenza,
nei vari campi, di questo paese. Manca sempre di più in
chi guida l’Italia quella dimensione progettuale che noi
stiamo tentando di restituire alla politica: non si può concepire l’attività politica esclusivamente come politique
d’abord, come amministrazione dei problemi del presente, come pura efficienza amministrativa o tecnocratica.
Quella che io con una brutta espressione letteraria definisco la ‘presentificazione della politica’, che si manifesta
in maniera estrema, per esempio, negli amministratori
della Lega e nella loro demonizzazione della parola ‘futuro’, non ci appartiene e non deve sedurci.
Sembra, invece, che ci sia un totale ostracismo della progettualità: sembra quasi che il politico, o la politica, pos-
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Le parole e le cose dei democratici
sano rimanere schiacciati sulla dimensione del presente e
non debbano configurare all’interno di questa anche una
prospettiva che sia rivolta al futuro. Badate bene: questo
è un vizio gravissimo. Basti citare uno dei più grandi classici del pensiero, Immanuel Kant, che fondava tutta la sua
filosofia sulla distinzione tra presente e futuro, tra essere
e dover essere. Chi non accetta in linea di principio una distinzione di questo tipo ovviamente non può che distruggere l’etica e la stessa democrazia. La distruzione dell’etica
e la distruzione della democrazia nascono proprio dalla
mancata messa a fuoco della differenza tra la dimensione
del presente e quella del futuro che l’attuale classe politica dirigente del paese non riesce in alcun modo a realizzare.
Per venire poi al merito dei due problemi che vorrei sollevare in questo intervento, noi prendiamo molto sul serio
l’aggettivo che ci siamo scelti per il nostro partito, ‘Democratico’. Noi intendiamo questo aggettivo nel modo più
forte e pregnante perché abbiamo una visione non minimalistica ma integralistica della democrazia: riteniamo,
cioè, che la democrazia sia non il meno peggiore, ma il migliore tra i sistemi possibili. Ovviamente, perché sia il migliore, la democrazia deve recuperare anche il suo spirito
originario: non può essere solo una democrazia puramente rappresentativa ma deve saper essere anche, e
sempre più, una democrazia partecipativa. Il nostro partito, come dire, sta già tentando di mettersi all’interno di
questo progetto, con l’istituzione, per esempio, delle primarie, che danno luogo a un momento di grande partecipazione: basti pensare alle recentissime primarie di Torino per la scelta del candidato sindaco per la coalizione di
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Le parole e le cose dei democratici
centro-sinistra, che hanno mostrato un successo crescente
di partecipazione. Il momento della partecipazione è un
momento costitutivo, altrettanto quanto quello della rappresentanza, per l’affermarsi dello spirito democratico.
Altro tema che io ritengo decisivo per la nostra discussione
e per la piena realizzazione della democrazia: non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla crisi finanziaria degli ultimi anni, che a un certo punto abbiamo subito e che
sta minacciando seriamente le premesse stesse del vivere
democratico. Io credo che la versione estrema del capitalismo, che sta nella sua odierna declinazione finanziaria, sia
la più seria minaccia per l’ideale democratico, non solo
nella sua versione partecipativa ma anche sotto il profilo
liberal-rappresentativo. Oggi, paradossalmente, la minaccia maggiore viene proprio dalla funzione delle oligarchie tecnocratico-economiche che hanno progressivamente svuotato ed estenuato l’ideale della democrazia, a
livello tanto rappresentativo quanto partecipativo.
In riferimento alle nuove culture politiche di cui si parlava
negli interventi precedenti, io credo che noi con questa esigenza dobbiamo misurarci seriamente. Non è necessario
scomodare uno dei nostri più grandi classici, Karl Marx, per
capirlo; basta leggere, in modo serio e approfondito, un
autore che non ha fatto mai parte del nostro vocabolario
ideale della politica, Adam Smith. Basti pensare a un bellissimo libro, scritto recentemente da un professore universitario, Giovanni Arrighi, scomparso poco fa: si intitola
Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo e ci aiuta a capire che in Smith non c’è assolutamente,
come invece alcuni presumono in maniera del tutto fuorviante, l’idea di un mercato fine a se stesso, alimentato da
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Le parole e le cose dei democratici
un processo incessante e sorto sulle basi di uno Stato concepito come sempre più residuale e minimale fino ad essere completamente inesistente. È un’idea, questa, totalmente infondata ed errata, che non regge affatto il
confronto con i testi. Dobbiamo quindi inserire nel nostro
vocabolario ideale della politica proprio questo autore, perché già Adam Smith basta per farci capire quanto sia importante il ruolo dello Stato all’interno del mercato: di un
mercato che non venga concepito come fine a se stesso
perché, in tal caso, indebolisce fino a distruggere l’idea
stessa della democrazia.
Credo che questa sia una delle pregiudiziali su cui negli ultimi due anni si è interrogata la nostra rivista. Altri due presupposti importanti del nostro lavoro che mi piace richiamare, data anche la loro vibrante attualità in questi mesi:
la difesa dell’unità nazionale e la prospettiva europeista.
Il nostro partito ha una funzione per la quale non può che
recuperare lo spirito dell’autentico Risorgimento di fronte
all’attacco ormai massiccio che viene da più parti e che
mina le basi dell’identità del paese, come d’altra parte
deve farsi interprete e paladino di un’ottica non retoricamente ma autenticamente europeista e internazionale. Per
affrontare questi due temi in modo serio, credibile e lungimirante, occorrono attenzione, riflessione e approfondimento. Da questo punto di vista, ‘democratico’ è proprio l’aggettivo che io credo sia più adatto a esprimere la
vocazione, la progettualità, la pratica politica del nostro
partito: noi vogliamo che il nostro partito sia sempre più
democratico, nel senso e nella direzione che ho tentato in
questo breve spazio di restituirvi.
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Marco Filippeschi
Sindaco di Pisa
Sono molto contento che si sia organizzato questo Seminario. Credo che la formazione, quindi l’impegno a
dare spessore culturale e profondità all’impegno politico
dei più giovani, sia un segno importante da dare alla costruzione, ancora in gran parte da fare, o alla ricostruzione
del Partito Democratico, laddove si è costruito male, laddove questo partito è venuto ‘storto’. Sono contento
che si possa fare anche con una rivista telematica come
Inschibboleth che abbiamo fondato solo pochi anni fa e
che è un fiore raro perché una delle poche cose nuove
che sono state messe in campo. Se sfogliate su Internet
le annate, si vede la fioritura di contributi davvero interessanti e importanti di tanti intellettuali che in un momento in cui ci si allontanava, si sono avvicinati ad un discorso pubblico, molto chiaramente orientato: è stato un
segnale in controtendenza del quale far tesoro.
Credo che dare questo spessore alla politica sia importante. Io vengo da questa tradizione: io ed Enrico Letta
ci siamo formati in campi diversi, ma è comune la formazione di chi ha dovuto fare una scuola esigente di politica, nell’esperienza e nel confronto con quelli che aveva
vicino. Dimostrare di aver letto un certo libro, di stare al
passo con il dibattito politico-culturale, anche nella soluzione di problemi concreti quando si guarda al governo
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Le parole e le cose dei democratici
di una città, di un territorio, avere un orizzonte più ampio, porsi il problema del confronto, dell’ispirazione e non
soltanto della semplice amministrazione. Sono i contenuti
delle tradizioni vitali che sono la ragione della nascita del
PD. Noi dobbiamo avere la capacità, la forza di non perdere il filo iniziale: quando lo perdiamo, noi perdiamo l’essenziale, perdiamo insieme l’anima e anche un po’ la missione di un partito nuovo, di un’offerta nuova per il
paese.
Ora, io credo che ci sia di che riflettere: se si guarda all’impegno dei più giovani, noi non possiamo astrarlo dai
mutamenti profondissimi che sono avvenuti in questi
anni. Mutamenti culturali, di scenario globale, del modo
di intendere l’individualità di ognuno nel rapporto con gli
altri. Ma anche alcune contraddizioni che sono più evidenti e più vicine. Qualche mese fa, ad esempio, abbiamo
avuto un ampio movimento contro la riforma Gelmini che
ha portato in campo tanti giovani, tanti ragazzi e ragazze
con motivazioni forti, ma non abbiamo in campo un movimento altrettanto forte e ampio per la difesa della democrazia, per contestare la deriva sempre più grave che
corre il nostro paese. Non è una contraddizione da poco:
è anche la contraddizione del PD.
Io credo che noi dobbiamo riflettere su come siamo stati
in campo. Ritengo che non ci sia contrapposizione tra la
dichiarata ispirazione riformista del progetto del Partito
Democratico anche come progetto di partito maggioritario, di partito che fa le alleanze, la sua natura di essere
riferimento in un campo, una forza attrattiva per superare
la frammentazione dell’offerta politica del nostro paese,
e l’intransigenza necessaria nel fare una battaglia per la
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democrazia a sostegno di principi e valori forti, che hanno
distinto nella storia dell’Italia repubblicana quanto ha
portato al progetto del Partito Democratico e che adesso
devono tornare a distinguerci. C’è poco da fare, non si
sfugge a questa necessità di ritrovare un filo: tutte le volte
che ci si è discostati da questo imperativo (perché per me
è tale) e si è perso il filo, siamo stati molto più vulnerabili, disponibili a chi vuole la politica meno autonoma, a
chi ha in mente un ruolo assai debole dei partiti politici e,
in fondo, a chi non frena ma, anzi, contribuisce alla deriva democratica che stiamo vivendo e per la quale il nostro paese è diventato paradigmatico. È quindi fondamentale la capacità di pensare, di guidare e di governare
il cambiamento da riformisti, di avere un’agenda per il futuro, e di avere anche un’agenda particolare che si attaglia a questo paese particolare, ai nostri ritardi, anche a
quelli del riformismo italiano, alle mancanze di coraggio
che hanno pesato e pesano ancora, all’indulgenza per una
parte vecchia e non riproponibile del modo d’essere della
sinistra.
Tutto questo, che deve poi tramutarsi in contenuto, proposta, agenda, non può essere contrapposto alla necessità di far valere principi che sono anche spartiacque e lacerazione: la lacerazione viene prodotta dalla deriva che
dicevo, e a questa bisogna rispondere con intransigenza.
La democrazia come idea guida è grande tema del conflitto tra i poteri che snatura la democrazia nel nostro
paese, dell’aggressione agli arbitri, quindi di una torsione
in senso populista della democrazia, che costringe la possibilità di un’alternativa in termini più angusti. C’è poco
da fare: su questo terreno bisogna essere intransigenti
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Le parole e le cose dei democratici
perché altrimenti si rischia di subire passivamente.
Quando si hanno le corazzate mediatiche, i telegiornali all’unisono e magari anche il fuoco amico contro, diventa
molto più difficile affermare una leadership riformista in
questo paese. Per di più si va anche a fare la tara a chi
cerca con fatica di costituire una guida. C’è un difetto,
connaturato, sistemico, che è un difetto di democrazia, e
noi non possiamo eludere questo grande tema. In passato, quando non ci siamo fatti capire da una parte
grande degli italiani che ci ha inteso come sempre protesi
verso il compromesso, come indecisi su principi chiave,
abbiamo aperto enormi spazi a forze che non meritavano
e non meritano di averli. Noi dobbiamo essere insieme riformisti e intransigenti. Noi siamo di fronte ad una situazione grave, dove l’esempio italiano ha la sua particolarità: abbiamo Berlusconi con il suo ‘impero’ mediatico,
economico, finanziario, ma può essere la punta di un iceberg molto più profondo che parla di una crisi della democrazia, di una crisi in cui il potere dei grandi aggregati
economici e mediatici soppianta il potere delle regole,
della partecipazione dal basso che viene irretita e manipolata in partenza. Tutto ciò avrebbe bisogno di maggiori
contrappesi, di una politica più forte e più legittimata.
Non c’è alternativa: la ruota gira o in un senso o nell’altro. Allo stato attuale gira nel senso a noi contrario e questo è un grande problema che va affrontato, dal momento che rischia di tramutare le nostre ambizioni in
progetti minoritari sin dall’inizio.
Credo che questo sia un punto decisivo: la personalizzazione deteriore della politica, la crisi del partito politico,
una certa idea di resa a questa deriva, sono temi su cui
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noi dobbiamo riprendere una discussione, a tutti i livelli
a cui questa difficoltà si manifesta. Consiglio la rilettura
(dato che si tratta della seconda edizione) del libro di
Mauro Calise Il partito personale, che ora si presenta con
il sottotitolo I due corpi del leader. Negli ultimi, nuovi capitoli approfondisce il tema, già affiorato nelle pagine precedenti, della deriva della politica tramite la sua personalizzazione estrema. Parla di macro-personalizzazione –
l’esempio è Berlusconi – e di micro-personalizzazione. Badate bene: anche il correntismo estremo, il mito della preferenza, un certo mito delle primarie non regolate, che
non fanno base politica di un partito e che a volte sono
anche manipolabili, l’incapacità di strutturare regole per
una partecipazione molto più ampia, tramite lo strumento di primarie regolate da una legge sui partiti politici, sono questioni che noi dobbiamo affrontare. Se non
rottamiamo la politica cattiva e degenere, lasciamo campo
libero a chi, magari, ha intenzione di rottamare anche la
buona politica sulla scia della macro-personalizzazione.
Su questo io penso che noi dobbiamo avere la capacità
di portare un nostro pensiero e anche di condurre una nostra battaglia politica molto aperta. Questo è anche lo
spazio in cui noi riconquistiamo una autonomia del nostro
partito non in termini angusti, di mero mantenimento di
un ceto dirigente ristretto, ma dentro a una certa idea di
politica e di partito. Su temi che sono emersi, ad esempio, anche nella nostra discussione – le primarie, l’albo degli elettori, una regolazione dei partiti politici che risponda a democrazia e che costruisca il partito senza
decostruirlo continuamente – serve il coraggio di dire con
chiarezza quello che sta accadendo e di proporre soluzioni
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Le parole e le cose dei democratici
chiare e condivise. Altrimenti noi per strada perdiamo anche le buone idee, le intuizioni, le innovazioni, la capacità
di pensare con orizzonti più ampi. Dobbiamo fare tesoro
di un mondo che è in ebollizione, che pone problemi di
democrazia, di partecipazione, di rinnovamento, assieme
a grandi possibilità di cambiare geometrie politiche e di rilanciare idee fondamentali: l’idea dell’Europa, l’idea di
una politica in questa dimensione che noi abbiamo immiserito e perso, le bandiere che noi dobbiamo poter agitare. Serve coraggio per preparare qualcosa di meglio e
servono i partiti, costruiti assieme partendo dalla società
e da alcuni idee forti e coraggiose.
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Enrico Letta
Vicesegretario nazionale PD
Voglio partire dal titolo che ci siamo dati, parlando proprio delle parole, le parole dei democratici. Vorrei portare
nella riflessione di oggi alcune delle idee che, come partito, stiamo cercando di definire all’interno di un percorso
impegnativo. Nelle nostre ultime tre Assemblee nazionali
abbiamo discusso, con i mille componenti, del nostro
progetto per l’Italia. L’Italia che vogliamo dopo Berlusconi,
la nostra idea d’Italia per batterlo. Una discussione partecipata che sta già dando risultati importanti.
La nostra quattro giorni cade all’inizio di un decennio.
Siamo nel 2011 ed entriamo in un decennio cruciale. Nel
Novecento, il nostro paese è stato protagonista nel bene
e nel male, un grande paese secondo i criteri classici
della Storia. L’Italia è stata membro permanente del Consiglio di Sicurezza della Società delle Nazioni, prima della
costituzione delle Nazioni Unite. L’Italia porta anche
grandi responsabilità relativamente alla tragedia della
Seconda Guerra Mondiale. Siamo tra i fondatori prima
della Comunità Europea e poi dell’Unione Europea, abbiamo contribuito alla nascita dell’euro e del G7.
Vorrei soffermarmi sugli ultimi decenni. Proverei a descriverli così: gli anni Ottanta sono stati gli anni dell’euforia, una parola che può avere accezioni tanto positive
quanto negative; gli anni Novanta sono stati il decennio
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Le parole e le cose dei democratici
del rigore, in cui il nostro paese è sembrato trasformarsi
per comportamenti e regole; infine, questi ultimi dieci
anni, che definirei il decennio perduto. Perduto sotto diversi punti di vista. L’accezione che voglio sottolineare è
quella economica: si è trattato di un decennio perduto
perché è stato l’unico della nostra storia unitaria nel
quale, tolte ovviamente le esperienze delle guerre, siamo
tornati indietro anziché compiere passi in avanti. È stato
l’unico decennio nel quale la ricchezza di ognuno di noi,
il reddito pro-capite, è andata arretrando invece che
avanzando. Il reddito pro-capite degli italiani del 2009 è
più basso del loro reddito pro-capite dell’anno 2000, e
nessun altro paese si è trovato nelle nostre condizioni.
Possiamo declinare questo dato da un altro punto di vista. Nel decennio che abbiamo alle spalle l’Italia, secondo una classifica del Fondo Monetario Internazionale
che raccoglie tutti i centottanta paesi del Fondo, e che
guarda alla crescita accumulata nel corso del decennio, si
classifica 179°, con Haiti 180° a causa del terremoto che
l’ha colpita. L’Italia, con il suo 2,4 per cento di crescita in
un decennio, è il paese con la crescita più bassa. Se adottiamo uno sguardo comparativo, la Cina (che ovviamente non è metro di paragone per capire gli ordini di
grandezza) in un decennio è cresciuta del 170 per cento,
gli Stati Uniti del 18 per cento, la Spagna del 22 per cento,
la Francia del 12 per cento. L’Italia, ripeto, del 2,4 per
cento. È stato un decennio perduto, non ci sono molte altre definizioni. Perduto perché, con queste cifre, l’Italia è
di gran lunga l’ultimo dei paesi occidentali. Oggi entriamo in un decennio in cui abbiamo un’alternativa
secca: questo può essere il decennio del risveglio o il de-
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Le parole e le cose dei democratici
cennio della decadenza. Sono sicuro che non sarà il decennio della decadenza, ma soltanto se non lo interpreteremo e non lo vivremo in continuità con quello che abbiamo dietro le spalle.
Se oggi c’è una categoria sulla quale il tempo che stiamo
vivendo ci porta a riflettere, questa è l’accelerazione, e,
in particolare, l’accelerazione dell’accelerazione. Tutto ciò
che prevediamo possa accadere accade più rapidamente
rispetto alle attese. L’Economist a metà dell’anno scorso
prevedeva che nell’arco dei successivi cinque anni sarebbero esplosi il Nord Africa e il Medio Oriente. Trascorrono
appena sei mesi e quella previsione si realizza.
Faccio un esempio di cosa vuol dire decadenza. Nel secolo scorso un pezzo di Italia stava sotto due città, Vienna
e Budapest, capitali tra le più importanti del mondo. A un
tratto è cominciato il declino politico di quel mondo. La
decadenza dell’impero austroungarico è durata qualche
decennio. Vienna e Budapest sono diventate per lo più
due mete turistiche, perdendo il loro ruolo di capitali del
mondo contemporaneo.
Oggi percorsi di decadenza simili non avvengono in decenni, ma sono molto più accelerati. Il concetto che voglio qui esprimere è che noi siamo un partito politico che
rappresenta, o almeno ambisce a rappresentare, metà del
paese, quella metà del nostro paese che oggi sta all’opposizione e che vuole governare, che vuole far sì che il
prossimo decennio, questo decennio, non venga ricordato dalla Storia come quello in cui l’Italia ha vissuto un
percorso simile a quello dell’impero austroungarico. Dovrà essere, invece, il decennio nel quale vivremo il risveglio del nostro paese. Il ragionamento che faccio in que-
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sta sede ha anche un altro grande caveat. Non dobbiamo né possiamo permetterci di pensare: ‘Tutto questo
non mi riguarda: in fondo i miei genitori hanno qualche
proprietà immobiliare che poi mi cederanno, faccio un lavoretto, vado avanti; si tratta di un problema che magari
riguarderà le prossime generazioni…’. Nient’affatto: questo è un tema che ci riguarda direttamente, perché l’accelerazione del cambiamento è tale che, oggi, non ci
sono certezze che possano sollevarci dall’impegno che noi
tutti dobbiamo mettere in direzione del risveglio. Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo al nome del nostro paese,
lo dobbiamo alle generazioni presenti e future, lo dobbiamo ai nostri figli. Questo deve essere l’impegno della
politica di oggi. Se abbiamo un difetto come Democratici è che talvolta diamo l’idea di essere quelli che fanno
politica in qualunque condizione e circostanza, rischiando
di apparire talvolta come gli ‘amministratori del condominio’. Qualunque cosa accada nel condominio, noi
siamo qui pronti ad amministrarlo. Non è quello che ci richiede questo tempo!
Dobbiamo avere in testa una missione, dobbiamo saperla
raccontare per farne partecipi gli altri. Se gli altri ci percepiscono come gli ‘amministratori del condominio’ potranno riporre in noi una parte della loro fiducia, ma non
metteranno mai l’Italia nelle nostre mani per permetterci
di dare un futuro a questo paese. Soltanto se viviamo la
consapevolezza di questa missione, possiamo affrontare
una sfida davvero epocale. Io credo che l’Italia non abbia mai vissuto un bivio come quello che abbiamo davanti: o il risveglio o la decadenza. Il risveglio è possibile,
e oggi un modello di risveglio ci è offerto da un paese che
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Le parole e le cose dei democratici
tutti davano per perduto vent’anni fa e che oggi, invece,
sta scrivendo, assieme ad altri, la storia del mondo moderno dal punto di vista della crescita e delle opportunità.
Chi avrebbe mai scommesso un euro quindici anni fa sul
Brasile, un paese perduto come si considerava perduta
l’America Latina? Oggi il Brasile, dopo dieci anni di scelte
lungimiranti sotto la presidenza di Lula, è uno dei paesi
che hanno in mano le carte del futuro del mondo. Cito
questo esempio perché non esistono fatti scontati nello
scenario odierno, ma scelte da determinare per il nostro
paese, per il nostro futuro e per quello dei nostri figli. Se
questa è la premessa del ragionamento, quale deve essere il nostro ruolo oggi, avendo verificato lo stato delle
nostre istituzioni e della nostra società civile?
Per qualche verso, ciò che accade oggi all’Italia mi fa venire in mente un libro pubblicato recentemente sul golpe
spagnolo del 1981: Anatomia di un istante. Ne consiglio
la lettura. Il libro racconta agli spagnoli di oggi, ai giovani
spagnoli che non hanno idea di cosa fosse la dittatura,
come la situazione più drammatica di quella notte dell’81
fu che la società spagnola tutta si fermò in attesa di capire l’esito dello scontro in atto. Nessuno scese in piazza,
nessuno occupò le università, nessuno mise in campo
contro-manifestazioni. Quella notte la Spagna si fermò in
attesa di capire se avevano vinto gli uni o gli altri. Per le
strade della Spagna il solo movimento era quello a Valencia dei carri armati di Jaime Milans del Bosch. Il resto
del paese si era rinchiuso e aspettava un messaggio televisivo che arrivò da parte del Re alle tre del mattino. Una
riflessione che in un certo senso vale anche per l’Italia di
oggi e per noi. Dobbiamo far svegliare la società italiana,
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Le parole e le cose dei democratici
dobbiamo essere insieme alla società italiana che si sveglia.
La nostra lotta politico-istituzionale passerà attraverso la
nostra capacità di far voltare pagina alle istituzioni e al
paese. Rispetto alla crisi che oggi stiamo vivendo la società italiana sta dimostrando una permeabilità sulla quale
dobbiamo riflettere.
A mio avviso le condizioni necessarie perché il decennio
che abbiamo cominciato sia il decennio del risveglio, possono essere declinate con quattro verbi, con quattro parole che, secondo me, dovremmo mettere a fuoco per descrivere l’Italia che il PD vuole e, quindi, per spiegare cosa
il Partito Democratico è. È un lavoro necessario. Se non
lo facciamo ognuno di noi continuerà a declinare i temi
di oggi e le relative soluzioni con parole attinte dalle storie dalle quali proveniamo. Il Partito Democratico è
un’esperienza nuova, originale, nella quale abbiamo voluto lanciarci proprio perché le storie che ognuno ha alle
spalle non si sono rivelate sufficienti a dare al nostro
paese un esito diverso dal berlusconismo. Male faremmo,
dunque, se non ci impegnassimo tutti insieme a declinare
le parole e le cose dei democratici, le nostre parole dell’oggi.
Dobbiamo fare tutti insieme questo esercizio, tenendo
conto del fatto che, per ovvi motivi anagrafici, molti democratici non vengono da storie politiche precedenti. È
questa la forza del lavoro che i Giovani Democratici
stanno facendo. Le nostre storie, quelle da cui proveniamo, sono storie fondanti della Costituzione del nostro
paese, ma la cesura rappresentata dal berlusconismo rispetto agli anni in cui quelle storie erano vive e protago-
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Le parole e le cose dei democratici
niste è troppo profonda per non essere affrontata, con un
nuovo sforzo oserei dire ‘costituente’, anche tra di noi.
Il primo verbo sul quale voglio riflettere è ‘allargare’. Noi
democratici dobbiamo essere coloro che allargano le opportunità, lavorano sul tema degli squilibri, sulla capacità
per il nostro paese, per le nostre comunità e per le nostre
città di allargare gli orizzonti nel tempo della globalizzazione.
Partiamo da qui, da Pisa, che è anche la mia città. Un cittadino al momento di decidere dove andare in vacanza,
si collega a Internet e, sulla mappa d’Europa della Ryanair,
decide se andare a Fuerteventura, a Rodi o a Helsinki.
Questa oggi è la quotidianità. Si decide la destinazione il
giorno prima della partenza e poi si cerca di conoscere più
a fondo il luogo prescelto, di capire dov’è, qual è la sua
storia, quali le sue tradizioni. Vivere all’interno di un
mondo globalizzato significa comprendere che globalizzazione equivale a opportunità, anche in riferimento all’orizzonte politico, sociale e culturale. Oggi il sindaco di
una nostra città deve essere in grado di parlare l’inglese,
l’italiano e anche il dialetto locale, nel nostro caso il vernacolo. È necessaria una maggiore apertura mentale per
capire la dimensione nuova dell’Italia.
Ho fatto riferimento in apertura al tema dell’Italia come
grande paese del Novecento. L’Italia era un grande paese
in un mondo piccolo; oggi il mondo è divenuto assai più
grande e l’Italia si è fatta un medio-piccolo paese in uno
scenario globale molto più ampio. Non è un gioco di parole quello che sto facendo. Dentro il mondo novecentesco, prevalentemente occidentale, i sessanta milioni di
italiani erano numericamente consistenti. Quello di oggi,
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invece, è un mondo immensamente più vasto, a fronte
del quale la nostra popolazione è rimasta pressoché stabile. L’unico modo perché, all’interno di un mondo tanto
ampio, si mantenga un ruolo di primo piano è quello di
essere europei. Allargamento vuol dire Europa: l’Europa
è nel DNA di noi democratici e questo ci differenzia dalle
altre forze politiche. Sappiamo che l’Europa è l’unico
modo per l’Italia di essere rilevante nel mondo. Nel 1975
il G7 fu creato sulla base di una classifica meramente
quantitativo-economica fondata sul PIL. Riuscendo a
rientrare fra i primi sette paesi del mondo, l’Italia per trentacinque anni è stata protagonista degli eventi e delle
scelte internazionali. Se dovessimo rifondare il G7 tra
cinque anni secondo lo stesso criterio, nessun paese europeo vi verrebbe ammesso.
La cartina geografica che ancora è affissa nelle nostre
scuole o nelle nostre case è la cartina del Novecento, un
secolo in cui l’Europa era al centro, con l’America da una
parte e l’Asia dall’altra. Non è più questo lo scenario attuale.
In Italia abbiamo assistito ad una accelerazione degli
squilibri sociali impressionante. Occorre agire per allargare
la fascia di coloro che riescono a stare nelle opportunità.
Pensiamo ad esempio all’istruzione, alla scuola pubblica.
Una battaglia in questo caso culturale che sta nel nostro
DNA.
Il problema di fondo è che oggi, attraverso i meccanismi
di educazione e di istruzione, o si riesce a stare all’interno
delle dinamiche della globalizzazione o non si riesce più
a competere in modo adeguato.
La riflessione più interessante su questa crisi e sugli squi-
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libri da cui nasce l’ho trovata nell’enciclica Caritas in veritate, nella quale si rinvengono parole durissime. Purtroppo una certa parte del nostro paese ha con la Chiesa
un rapporto ‘mercantile’, di puro scambio, ragione per cui
le parole scomode vengono volutamente ignorate. Come
si legge in quell’enciclica, vi sono due grandi questioni alla
base degli squilibri che stiamo vivendo, due fratture da ricomporre. In primo luogo quella tra le dimensioni economica e sociale. Nell’ultimo scorcio del Novecento siamo
cresciuti con l’idea che l’economia fosse responsabile
della crescita mentre la politica della redistribuzione.
Questa ‘politica dei due tempi’ è fallita miseramente e ha
condotto alla crisi finanziaria della quale ancora adesso
stiamo vivendo le drammatiche conseguenze. La seconda
frattura da ricomporre – anche questa sottolineata nell’enciclica secondo me in modo molto vigoroso, forse la
denuncia più forte avvenuta in questi anni – riguarda il
principio che la ricchezza si crea con il lavoro e non,
come si è pensato finora, con la ricchezza. In fondo qui
sta l’epicentro della crisi: la ricchezza si produce con il lavoro e il lavoro, per questo, è centrale. È chiaro in questo senso perché la nostra Costituzione affermi che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. Il lavoro è il
centro di tutto, dà dignità alla persona, non può essere
considerato una merce come le altre. Su questo terreno
emerge in modo evidente l’abisso che separa la nostra
concezione del diritto del lavoro da quella dell’attuale
maggioranza. Il governo in carica vuole fare del diritto del
lavoro una branca del diritto commerciale, mentre per noi
i due ambiti devono restare assolutamente distinti.
Il secondo verbo che propongo è ‘correre’: verbo difficile
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Le parole e le cose dei democratici
da declinare. Se è valido, però, tutto il ragionamento che
ho provato a tracciare fino a qui, noi certo non possiamo
essere coloro che si fermano al verbo ‘camminare’. Noi
dobbiamo correre; questo paese deve correre. Occorre
innovare, cambiare, e dobbiamo mettercela tutta, perché
se stiamo fermi non ce la faremo. Oggi siamo tenuti
fermi da mille questioni ma soprattutto dalla nostra paura
di cambiare. Qui risiede la questione chiave di tutto il ragionamento che sto cercando di sviluppare: il cambiamento. Noi siamo forza di cambiamento ed è per questo
paradossale che dai cittadini italiani veniamo percepiti, secondo una recente ricerca, come la parte politica più vicina alla polarità statica, mentre il centro-destra è avvertito come più prossimo alla polarità dinamica. Noi che
vogliamo il progresso della nostra società siamo visti, al
contrario, come quelli delle conservazione e del freno. Se
vogliamo che il decennio appena avviato sia quello del risveglio e non più della decadenza, dobbiamo riuscire a distinguere la difesa dei grandi principi costituzionali dalla
necessità di cambiare. Per produrre il cambiamento dobbiamo mettere in campo l’innovazione. ‘Innovazione’,
però, è parola che va praticata. Da parola deve farsi
cosa, se vogliamo cercare di sfatare quella frase molto
bella di Cipolletta secondo cui «l’Italia è un paese di innovatori, ma un paese che rifugge l’innovazione». Gli italiani sono innovatori e l’Italia teme l’innovazione, oggi
come ai tempi di Leonardo. Racconto questo aneddoto
che molti di voi avranno già sentito ma che trovo molto
efficace.
Il Presidente di una Regione italiana, nel tentativo di replicare il successo americano delle grandi aziende di in-
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novazione, invia una delegazione di funzionari della propria Regione in California, nella Silicon Valley, per comprendere cosa unifichi tutti questi grandi successi. La delegazione di funzionari parte e incontra i diversi soggetti.
Quelli di Amazon gli riferiscono la propria storia, di due
ragazzi conosciutisi a scuola, partiti da un garage e arrivati a quotare la propria creazione in borsa; passano poi
a quelli di Google, i quali riportano la propria storia di ragazzi che hanno cominciato a sperimentare e a creare
nello spazio angusto di un garage; così riferiscono anche
gli altri gruppi che la delegazione incontra. Alla fine, tornati dal proprio Presidente di Regione, i funzionari gli dicono: «Bisogna creare un incentivo fiscale perché nascano
più garage nella nostra Regione: questo è il segreto del
successo che unifica tutto». Ecco, a volte sembra che noi
siamo fermi a un concetto di questo tipo. Il tema dell’innovazione comporta che non ci siano sacche di resistenza, di conservazione, di corporativismo; noi, invece,
siamo invasi da sacche di privilegi che manteniamo e che
mantengono fermo il nostro paese.
Arrivo così al terzo verbo che voglio utilizzare, un verbo
particolare: ‘shakerare’. La nostra è una società ferma nei
privilegi che ha costruito e deve essere shakerata. Esattamente il contrario di ciò che Berlusconi da Arcore ha
raccontato all’Italia. Le notti di Arcore sono l’esatto opposto, una scorciatoia per uscire dall’immobilismo sociale.
Le intercettazioni a mio avviso sono interessanti per tanti
motivi, ma soprattutto perché raccontano lo spaccato di
un’Italia che ricerca solo la scorciatoia.
L’ascensore sociale, invece, alla fine deve essere mosso
dallo studio, dalla fatica, dal sacrificio. Quando dico che
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Le parole e le cose dei democratici
la nostra società va shakerata, intendo dire che vanno superate le posizioni di rendita. Vi rendete conto, ad esempio, di quello che è successo su una questione circoscritta ma molto importante come quella delle quote
rosa nei Consigli di amministrazione delle società quotate
in borsa? Si tratta di una proposta sacrosanta, oggetto di
un’iniziativa di legge bipartisan che noi abbiamo sposato
e portato avanti. Da dove nasce questa idea? Parte dalla
consapevolezza che in Italia spicca l’assenza di donne
nelle società per azioni. La percentuale delle donne tra i
consiglieri di amministrazione delle società quotate in
borsa è pari al 3 per cento. Essendo l’Italia l’unico paese
in queste condizioni, abbiamo provato a creare le condizioni per immettere persone in grado di cambiare la situazione smuovendo un quadro fin troppo statico. Considerato anche che nel restante 97 per cento di consiglieri
uomini vi sono tanti, troppi nomi che ricorrono in dieci,
venti, trenta Consigli di amministrazione. Purtroppo, poi,
quel 3 per cento di donne è composto spesso da cognomi
noti: magari si tratta della figlia del fondatore o del proprietario dell’azienda stessa. Non appena si è fatta questa proposta di legge, è arrivato il diktat di buona parte
del mondo economico – compresa Confindustria, guidata
da una donna – che chiede al governo di affossarla. Andiamo allora a vedere nel concreto cosa comporterebbe
l’approvazione di una simile proposta.
Le società quotate in borsa in Italia oggi sono quattrocento, i Consigli di amministrazione variano mediamente
dai dieci ai venti consiglieri circa per società. Passare dal
3 per cento al 30 per cento vuol dire numericamente trovare cento donne nel nostro paese in grado di sedere nei
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Le parole e le cose dei democratici
Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa.
Non ho detto centomila: ho detto cento e si tratta, come
ovvio, di un numero realistico. La cosa incredibile è che
il nostro paese ha reagito negativamente a questa proposta, che prevede un obiettivo minimo raggiungibilissimo, e l’ha bloccata. È per questo che la nostra società
va shakerata, anche con le maniere forti se e quando necessario.
Shakerare significa anche essere consapevoli che il tema
dell’integrazione degli immigrati – parlo in una città come
Pisa che vive questo tema da tempo e in modo molto rilevante – è fondamentale. Eppure continuiamo ad affrontarlo con la mentalità di venti anni fa. Io vorrei che su
questo tema facessimo tutti un grande passo in avanti, a
partire proprio dai numeri del nostro paese. Sappiamo
bene che senza l’apporto dell’immigrazione in Italia non
si potrebbe andare avanti. La situazione attuale è davvero
paradossale: mentre affidiamo agli immigrati ciò che abbiamo di più caro – i nostri bimbi e i nostri anziani – l’immigrazione viene letta e vissuta come un tema scomodo,
una minaccia. A questo proposito voglio leggervi un
passo secondo me straordinario, che dovremmo raccontare ogni volta che ne abbiamo la possibilità:
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti
di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono,
vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro
prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una
stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Molti
bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle
chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con
toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono
assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
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Le parole e le cose dei democratici
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
Questa citazione è tratta da una relazione dell’Ispettorato
per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti nel 1912. È una citazione impressionante. Credo che soltanto leggere queste parole,
situarle nel tempo e nello spazio, dia l’idea di cosa significhi per il nostro paese l’arretratezza culturale nell’affrontare l’immigrazione.
L’ultimo verbo che richiamo per indicare l’Italia che noi democratici vogliamo è ‘scaldare’. Noi dobbiamo essere
coloro che scaldano la nostra società, che usano la parola
‘comunità’, che riescono a uscire dal freddo dell’individualismo di questo tempo. Noi dobbiamo avere chiaro il
cambiamento demografico in corso. Un grande demografo, Massimo Livi Bacci, invita a riflettere sul fatto che
quest’anno i nonni hanno superato i nipoti: ciò significa
che la classe degli over-65, quelli che vogliono la prescrizione breve, come abbiamo letto sui giornali di oggi,
è più numerosa degli under-15. I nonni hanno superato
i nipoti; tra dieci anni i bisnonni supereranno i bisnipoti,
vale a dire che coloro che avranno più di ottant’anni saranno in numero maggiore di quanti avranno meno di
dieci anni. Tra i bambini che nascono oggi, uno su due vivrà più di cent’anni. Quando vedo i miei figli piccoli e
penso che uno di loro vivrà più di cent’anni, a me viene
in mente quell’aneddoto che raccontava sempre il Cancelliere tedesco. In Germania è tradizione che, in occasione del compleanno di un centenario, il Cancelliere in
persona vada a casa del festeggiato e gli consegni una
medaglia. Quel Cancelliere raccontava però anche che,
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Le parole e le cose dei democratici
ad un certo punto del suo mandato, dovette smettere,
poiché i compleanni dei centenari erano passati da dodici
a duemilatrecento all’anno. Quello della demografia è un
grande tema, che porta a chiederci quale cambiamento
si stia determinando nelle nostre società. È indubbio che
viviamo tutti più a lungo, ma riflettiamoci un po’ più attentamente. Io penso alla famiglia dei miei genitori: otto
figli, una nonna e due genitori, tutti nella stessa casa. A
quell’epoca il rischio era la condizione essenziale dell’esistenza dei figli che venivano messi al mondo e ai quali veniva dato quel che si poteva. Pensiamo invece alle famiglie di oggi, composte da bisnonni, nonni, genitori, tutti
attorno normalmente ad un figlio che è coccolato in ogni
aspetto della sua esistenza. Il bambino di oggi tende a
non avere neppure un quarto d’ora libero perché ogni
momento è organizzato da qualcuno dei bisnonni, dei
nonni o dei genitori. Quale sarà la sua propensione al rischio, se già da piccolo ogni aspetto della sua vita è organizzato e programmato? Si tratta di un cambiamento
che dobbiamo saper affrontare perché attorno a questo
tema si gioca anche la sfida di cosa siamo e di cosa proponiamo. Alle volte avanziamo un modello di politica e
di leadership civile che convince noi, ma che non piace
agli altri. Quando questo modello non piace o non scalda,
alla fine anche le proposte che avanziamo non passano
o passano male e distorte. Alle volte credo che diamo
l’impressione di seguire il modello cinematografico di
Forrest Gump. Certo, non si tratta di un modello negativo, ma ho l’impressione che la gente ci chieda di essere
piuttosto Jack Sparrow. Credo che a volte il nostro politically correct abbia i suoi limiti.
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Le parole e le cose dei democratici
Voglio lasciarvi proprio con questa idea. Dobbiamo osare
di più, perché le nostre idee sono quelle giuste per il paese
ma i mezzi con cui le veicoliamo non sono sufficienti, non
arrivano a tutti. Sono convinto che le nostre parole, le parole dei democratici, sono quelle giuste per affrontare
un’Italia dai problemi così complessi. Forse, però, dovremmo riuscire noi stessi a capire fino in fondo il valore
dell’impegno che occorre per costruire, quello che Gianni
Rodari racconta ne Il paese senza errori, probabilmente
una delle sue fiabe più belle. Non la racconto tutta perché è lunga, ma narra di un brav’uomo che girava per il
mondo alla ricerca del paese senza errori. Si recava in un
paese, lo visitava, e appena trovava l’errore passava al
paese successivo. Cercava il paese senza errori e ogni
volta rimaneva deluso. Rodari termina chiedendosi e
chiedendoci: non era forse meglio se quest’uomo, di nobile animo, si fosse fermato a correggere una parte di
quegli errori?
Questo, secondo me, dobbiamo avere chiaro noi, i democratici.
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PANEL I
I democratici e il lavoro della memoria.
Cosa ereditare del Novecento?
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Vittoria Franco
Senatrice PD
Cercherò di essere essenziale, con il rischio di ricorrere a
qualche schematismo. Una delle eredità più importanti e
di più ampia portata del Novecento consiste, a mio avviso, nell’acquisizione della possibilità della libertà femminile. Mi piace ricordare sempre alle ragazze che incontro che le donne non sono sempre state libere: lo sono
diventate. Occorre però anche aggiungere che l’aver acquisito la possibilità di essere libere non significa che lo
siano automaticamente nella realtà.
Sostengo poi un’altra cosa: è innegabile che un complesso
rilevante di diritti sia stato acquisito negli anni Settanta,
che hanno rappresentato per l’Italia un’esplosione di conquiste e di diritti per le donne. Ma la vera conquista
viene da molto più lontano: la libertà non si esaurisce nel
mettere insieme, uno in fila all’altro, tanti diritti acquisiti:
c’è un di più rispetto a questi diritti che ci porta a parlare
di libertà.
Di questo concetto è difficile dare una definizione esatta:
libertà è la possibilità di dare realtà ai propri progetti di
vita. Questa, però, è una definizione insufficiente, dato
che illumina soltanto uno degli aspetti della libertà. Libertà
è anche autonomia, che etimologicamente significa ‘darsi
da sé la legge’: finalmente l’acquisizione di libertà riconosce alle donne la possibilità di stabilire da sé la legge e
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Le parole e le cose dei democratici
non di riceverla da qualcun altro. Libertà è anche soggettività: essere soggetto e non soltanto oggetto del discorso di altri. Libertà è reciprocità: riconoscimento reciproco della propria libertà e della libertà di ciascuno.
Libertà è, soprattutto, responsabilità: ad esempio, nell’esercitare un potere decisionale. Al termine ‘responsabilità’ io attribuisco la parte più importante nella definizione di cosa sia la libertà per le donne.
Responsabilità significa rispondere a qualcuno di qualcosa,
e per farlo occorre essere titolari di una possibilità di fare,
di decidere. Occorre essere soggetti. Nel dar conto agli altri, inoltre, si riconosce almeno un altro a cui dare conto.
Nella responsabilità, quindi, è insita anche la relazione, e
nella relazione c’è anche un limite. Vedete, dunque,
quante cose chiama in causa il termine ‘libertà’, quando
si parla di libertà in generale ma specialmente quando si
parla di libertà rispetto al soggetto femminile! Una bella
definizione di ‘libertà’ viene da una pensatrice femminista che ha dato un grande contributo alla elaborazione del
concetto di ‘differenza di genere’, della differenza sessuale: Luce Irigaray. Il suo ragionamento, che vi riporto in
sintesi, è il seguente: la donna è libera quando può diventare soggetto e quando è riconosciuta nella sua differenza, quando può disporre di un luogo per sé e non è
soltanto involucro per l’altro, quando può organizzare un
suo ethos (che etimologicamente significa ‘dimora’) e, di
conseguenza, disporre di una sua ‘dimora’ in senso lato.
Una donna è libera, in sostanza, quando dispone della
propria territorialità con i suoi simboli e le sue leggi:
quando può disporre di una dimora nel mondo.
Ciò non era possibile prima che la donna acquisisse la di-
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Le parole e le cose dei democratici
mensione della possibilità della propria libertà: questo è,
a mio avviso, il punto saliente nel momento in cui si ragiona intorno al concetto di ‘libertà’. In questo concetto
rientra una dimensione filosofica – quella, appunto, trattata da Luce Irigaray e che si esplica nel momento in cui
la possibilità di esercizio della libertà compie un salto
qualitativo – ma anche un momento più strettamente storico, legato alla scienza che ha consentito alle donne di
progredire verso la libertà reale. È il momento, questo, in
cui è stato possibile controllare la fecondità, la fertilità, ricorrere alla contraccezione: possibilità e scelte che hanno
significato libertà di autodeterminarsi nella maternità e
nella sessualità. Non è qui il momento e il caso di richiamare quanto il controllo oppressivo dell’uomo sulla
donna o l’assoggettamento all’uomo della donna si sia
sempre realizzato, nei secoli, attraverso il controllo del
corpo femminile come luogo della sessualità – si pensi alla
gravidanza, ad esempio. La possibilità di sottrarsi a un simile controllo ha dischiuso alle donne un nuovo mondo,
quello della possibilità della libertà.
La maternità a un tratto non era più legata al destino biologico. La donna si sottrae a questo destino e finalmente
si appropria della maternità come oggetto di scelta: può
scegliere se e quando diventare madre. Questa è stata la
grande rivoluzione che ha aperto alle donne la possibilità
della libertà. Traducendo questo percorso in termini filosofici, possiamo affermare che è proprio in questo momento che la donna può diventare soggetto morale, responsabile fino al punto di poter decidere anche su
questioni sulle quali prima non aveva né possibilità, né
potere di decidere. Ora può scegliere in autonomia, re-
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Le parole e le cose dei democratici
sponsabile di se stessa e della propria vita.
La libertà – vedete – è sempre legata all’idea di responsabilità, rispetto alla vita, a se stessa, al dare la nascita, allo
stabilire nuove relazioni, a cancellarle, a interromperle:
questo è sicuramente uno degli aspetti più rilevanti da evidenziare.
Ci sono due parole – che riprendo da Luce Irigaray – che
ci aiutano a definire meglio il concetto di ‘responsabilità’
come possibilità di decidere, di dare conto e, al tempo
stesso, di porsi dei limiti: ‘irriducibilità’ e ‘parzialità’. Nel
momento in cui la donna si appropria del suo destino, una
diversa relazione si configura tra uomo e donna, una relazione improntata alla irriducibilità della donna al genere
umano nella sua neutralità. Questo termine ‘irriducibilità’
– afferma Luce Irigaray – segna lo spazio dell’autonomia
soggettiva perché definisce soprattutto il limite dell’altro
rispetto a me: circoscrive una distanza che deve sempre
permanere fra l’uomo e la donna perché ci sia rispetto
della libertà di ciascuno. La Irigaray, sulla scia di Hannah
Arendt, si riferisce a questo spazio per mezzo del termine
‘infra’. La Arendt, riferendosi alla libertà nella sua generalità (non soltanto a quella femminile), scriveva che tra
gli individui ci deve essere come un tavolo, che unisce e
separa: quando questo tavolo scompare, gli individui cascano gli uni sugli altri e lo spazio che li tiene separati si
consuma. Quello è esattamente il momento del totalitarismo, della cancellazione delle individualità. Un discorso
analogo fa Luce Irigaray quando introduce il termine ‘infra’ nella relazione tra gli uomini e le donne, sottolineando
l’importanza dell’irriducibilità delle seconde ai primi. Lo si
legge anche in un suo bellissimo libro, scritto prima in ita-
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Le parole e le cose dei democratici
liano e poi tradotto in francese, dal titolo Amo a te
(1993): naturalmente l’errore di trasformare in senso intransitivo un verbo transitivo è voluto, proprio per trovare
il linguaggio più consono a restituire l’idea della distanza
che è necessario ci sia. L’amore non è possesso, non è fusione totale, deve sempre mantenere e rispettare questa
distanza che per lei corrisponde alla libertà: è essenziale,
a suo avviso, concepirsi come parziali e ricordare sempre
questa propria parzialità per arrivare a stabilire una relazione senza dominio.
Io credo che ogni giorno venga messa in discussione
questa relazione senza dominio tra uomo e donna che attenui e possibilmente cancelli la violenza. Ne troviamo
conferma quotidianamente nei fenomeni di stalking, soprattutto quando, dopo ripetute insistenze da parte degli stalkers, la vicenda si conclude con l’uccisione della vittima. Lo stalker-assassino argomenta che la vittima,
essendosi sottratta a lui, non era più sua e, dunque, non
doveva essere di nessun altro. Emerge chiaramente una
concezione della relazione e dell’amore come possesso:
a quel punto, però, è chiaro che non si tratta più di
amore, ma di malattia. Oggi, dunque, il vero problema risiede nel chiedersi cosa sia la libertà femminile, in cosa
consista, come la si concepisce nella convivenza reale tra
uomini e donne. Io credo che questo sia un tema politico,
relativo alla cultura politica, estremamente importante:
come stabiliamo una nuova forma del convivere, del vivere insieme fra uomini e donne? Non stiamo più parlando solo di filosofia: stiamo trattando di politica. A mio
avviso, questi temi devono entrare con maggiore decisone e diffusione nella cultura politica del nostro PD per
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Le parole e le cose dei democratici
poter attuare politiche che vengano davvero incontro a
questa grande aspirazione che è la libertà femminile.
Non arriveremo mai a una democrazia paritaria se non ci
appropriamo del tema del con-vivere e del con-dividere.
La violenza sessuale non si riduce se non condividiamo
una cultura del rispetto reciproco e della reciproca libertà. Il fatto che a questo Seminario stasera ci siano tanti
uomini fa molto piacere proprio perché dobbiamo discutere insieme di tali questioni. Quando parliamo dei temi
delle donne, la discussione non deve avvenire – come ancora, purtroppo, noi stesse tendiamo a fare – soltanto tra
donne e per un pubblico femminile. È importante riunirsi
tra donne ma poi è altrettanto importante portare le nostre elaborazioni nelle sedi comuni. Soltanto in questo
modo è possibile costruire un mondo comune basato sulla
convivenza e sulla condivisione.
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Claudia Mancina
Professore di Etica,
Università La Sapienza di Roma
Indubbiamente l’eredità del Novecento è un’eredità complessa: è stato il secolo dei totalitarismi e, al tempo stesso,
dei diritti, di una grande crescita della democrazia che soltanto nel Novecento ha raggiunto la pienezza del suo
concetto. Se seguiamo la vicenda della democrazia novecentesca, vediamo che si tratta di una vicenda contraddittoria, come contraddittorio è appunto il secolo
XX: nella prima metà, almeno in Europa, abbiamo una
grande sconfitta, quasi un’eclissi, della democrazia, investita da una forte critica sul piano politico e intellettuale;
il secolo prosegue poi con l’insorgere dei due totalitarismi,
nazi-fascista e comunista, basati sulla convinzione che la
democrazia abbia fallito, che appartenga al mondo antecedente la Prima Guerra Mondiale, al mondo del perbenismo borghese ottocentesco, e che altre siano le sfide
del nuovo secolo. Per il totalitarismo di destra la base di
questa critica della democrazia è di tipo etno-nazionalistico; è una critica all’universalismo dei diritti e all’idea
stessa di eguaglianza. Per i comunisti, invece, pienamente seguaci, in questo, di Marx, si tratta essenzialmente di una critica al formalismo: l’idea è che la democrazia sia un guscio vuoto, i diritti parole illusorie, e che
la condizione reale di vita delle persone, e in particolare
dei lavoratori, non subisca miglioramenti sostanziali sotto
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Le parole e le cose dei democratici
forme di governo democratiche.
Si tratta, come si vede, di critiche assai diverse ma coincidenti nel rifiuto della democrazia. Sembra quasi affermarsi, almeno in Europa, un’eclissi di questa forma politica nel periodo tra le due guerre. Tuttavia, gli Stati
democratici escono vittoriosi dal secondo conflitto mondiale; nel dopoguerra le democrazie si rafforzano (nonostante non manchino fenomeni involutivi come il maccartismo negli Stati Uniti) finché, nell’Ottantanove, si
verifica la grande vittoria pacifica della democrazia sul comunismo: un evento i cui effetti ancora danno forma alla
nostra vita.
Questa è, schematicamente, la vicenda storica della democrazia novecentesca. Non intendo, però, analizzarla sul
piano storico, anche perché non è questo il mio mestiere. Vorrei piuttosto sottolineare che, parallelamente all’evoluzione storica, si sviluppano anche nuove teorie
della democrazia, incentrate su una nuova declinazione
di questo concetto tanto complesso. Nella seconda metà
del Novecento hanno luogo importanti eventi politici
che cambiano i lineamenti dei paesi democratici: l’affermazione dei diritti civili e la fine della segregazione negli
Stati Uniti, ad esempio, che si realizza soltanto nel 1964,
un secolo dopo la fine della Guerra Civile, con la presidenza di Lyndon Johnson e l’approvazione, da parte del
Congresso, del Civil Rights Act. Questa, naturalmente,
non rappresenta la fine del razzismo, ma certo la fine della
segregazione e di un modo conseguente di pensare la democrazia. Siamo nel cuore degli anni Sessanta e proprio
sull’onda di una simile vittoria si sviluppa un’epoca di fioritura democratica e di movimenti non solo politici ma an-
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che di costume: il Sessantotto. Quella importante stagione – nella quale affondano le loro radici sia il movimento femminista sia quello omosessuale – nasce in
America in stretta relazione con il movimento dei diritti civili. A seguito di rivoluzioni così radicali sul terreno dei diritti nascono anche teorie democratiche che mutano profondamente il concetto di ‘democrazia’ e che, a mio
avviso, costituiscono per noi un’eredità centrale del Novecento. Penso a filosofi come John Rawls e Ronald
Dworkin o a uno scienziato della politica come Robert
Dahl1.
Ci sono numerosi altri studiosi che si sono imposti nel dibattito pubblico dopo Rawls, Dworkin e Dahl – due nomi
per tutti: Amartya Sen e Martha Nussbaum – ma faccio
riferimento esplicito a questi tre perché sono i padri del
modo di intendere la democrazia che voglio presentarvi.
La concezione di democrazia che essi maturano non è circoscritta al piano metodologico e procedurale: la democrazia, cioè, come metodo e insieme di regole e procedure
per la costituzione del governo e per l’elaborazione delle
decisioni politiche. Questa è la definizione che di democrazia fornisce Norberto Bobbio nel suo Dizionario di politica2. Non c’è alcun dubbio che questo sia un aspetto costitutivo e indispensabile della democrazia, ma Rawls,
Dworkin e Dahl insegnano anche che le stesse regole procedurali hanno una base normativa, cioè di legittimazione, che le fonda e le rende accettabili, dando loro, appunto, legittimità, cioè rendendo possibile che esse
abbiano il consenso dei cittadini.
Ciò equivale a dire che la democrazia non è soltanto un
metodo o una procedura di governo: alla base della sua
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Le parole e le cose dei democratici
architettura normativa vi è un nucleo morale, dato da
concetti quali l’eguaglianza intrinseca degli esseri umani
e l’eguale rispetto che è dovuto a tutti. Concetti come
questi sono concetti morali. Se affermiamo che la democrazia prevede regole procedurali per cui tutti i cittadini
hanno gli stessi diritti di voto e di partecipazione, questo
è perché tutti i cittadini sono pensati come intrinsecamente eguali. Cosa significa ‘intrinsecamente eguali’?
Mi riferisco a dibattiti che sono stati fondamentali nell’Ottocento in merito al suffragio universale o nel Novecento riguardo al riconoscimento del diritto di voto alle
donne: significa per l’appunto che tutti gli individui che
costituiscono il demos della cittadinanza hanno le capacità necessarie per prendere decisioni politiche. Non perché alcuni hanno strumenti culturali limitati, o dipendono da altri per la loro sussistenza, o versano in
condizioni di indigenza, o non si sono mai occupati di politica ma soltanto di lavori manuali, allora per questo non
hanno la capacità di esprimere giudizio politico. È proprio
questo il cuore pulsante della democrazia: partecipare attivamente alla vita democratica non è un problema di
competenza, ma un diritto intrinseco, una qualità che noi
riconosciamo presente in tutti i cittadini in quanto cittadini, qualunque sia il loro livello mentale o culturale o la
loro indipendenza sociale.
L’intera battaglia per il suffragio universale si è confrontata con un simile problema: per parecchio tempo, fin da
quando nel dibattito politico è apparso l’orizzonte della
democrazia, molti conservatori hanno sostenuto che non
si poteva concedere il voto a tutti, che non era pensabile
che la sovranità effettivamente risiedesse nel popolo,
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Le parole e le cose dei democratici
proprio perché è bene che a governare siano le persone
più competenti. Questa è un’idea che risale a Platone e
al suo celebre argomento del governo dei custodi, spesso
utilizzato da chi intende conservare un certo assetto di
potere. È curioso, però, che Dahl sostenga che anche
l’idea leninista sia, in realtà, aristocratica e antidemocratica perché fondata sulla convinzione che a governare
debba essere il partito che è avanguardia e che ha sulla
politica quella competenza che al popolo manca. È un rilievo interessante, che ci dice che una simile idea della democrazia come governo dei competenti, degli esperti, dei
tecnici ritorna spesso e non è necessariamente limitata alle
posizioni conservatrici. Quest’idea elitistica contraddice
il concetto di democrazia e deve essere respinta in nome
di una concezione ampia della vita politica democratica.
Eguale rispetto è il secondo concetto morale che Rawls,
Dworkin e Dahl pongono alla base della democrazia.
Eguale rispetto significa che tutti gli individui sono titolari
di diritti: prima ancora che si costituisca il sistema giuridico, gli individui sono intrinsecamente ed egualmente titolari di diritti. La titolarità è posseduta da tutti allo stesso
modo. Eguale rispetto ed eguaglianza sono evidentemente collegati tra loro, ma si differenziano nella misura
in cui, come ha sostenuto la filosofa politica Anna Elisabetta Galeotti, l’eguale rispetto rappresenta il principio
che conferisce all’accordo politico un valore morale3. In
altre parole: l’eguale rispetto implica che l’accordo politico, cioè il rapporto di cittadinanza, escluda la possibilità
che una parte, seppur maggioritaria, imponga agli altri le
proprie scelte e opinioni, i propri valori e principi, il proprio modo di vedere. L’eguale rispetto, dunque, è colle-
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Le parole e le cose dei democratici
gato alla tolleranza, alla laicità. Con ‘laicità’ – si badi
bene – non s’intende l’esclusione della religione dalla
sfera pubblica, ma l’idea per cui nessuno può pensare di
tradurre la sua convinzione religiosa o morale in legge
dello Stato. Questo significa ‘laicità’ e questo io credo noi
dovremmo valorizzare oggi.
C’è poi la questione del rapporto democrazia-individui:
in un’epoca in cui si è fortemente sviluppato il principio
individuale, quale significato acquisisce il termine ‘democrazia’? La democrazia è storicamente legata all’individualismo e allo sviluppo degli individui, poiché l’ideale
democratico nasce insieme all’idea per cui gli individui
sono titolari dei diritti da cui poi deriva l’istituzione dello
Stato politico. Ma la convinzione che tra individuo e
Stato non ci sia mediazione alcuna appartiene più ai totalitarismi che alle democrazie; al contrario, le teorie democratiche sono ben consapevoli del fatto che fra gli individui e lo Stato ci sono associazioni, società private e
anche società che hanno valenza pubblica come, ad
esempio, la famiglia, i partiti, i cosiddetti ‘corpi intermedi’.
È stato Robert Dahl, in particolare, a elaborare una teoria della democrazia che utilizza l’idea di ‘poliarchia’,
dove, con questo termine, s’intende esattamente che
negli Stati democratici si dà una molteplicità di istituzioni
e non esiste soltanto lo Stato. Se l’idea originaria della modernità, l’idea hobbesiana e poi rousseauiana, vuole che
gli individui costituiscano lo Stato, Dahl ha una visione, se
vogliamo, più sofisticata: ritiene che nella società esista un
ventaglio ampio e variegato di istituzioni, alcune delle
quali possono anche derivare da epoche premoderne. È
il caso, per esempio, della rappresentanza, che è un
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Le parole e le cose dei democratici
aspetto tipico della democrazia moderna: per i moderni
non c’è democrazia senza sistema rappresentativo, mentre per gli antichi l’aspetto rappresentativo era assai più
marginale. Ma la rappresentanza democratica è l’evoluzione di un istituto premoderno, quello dei corpi rappresentativi – inizialmente privi di potere legislativo – con i
quali i ceti manifestavano i loro bisogni e le loro richieste
al sovrano.
Vi sono poi altre istituzioni, proprie della realtà moderna.
Quello, però, che per Dahl è rilevante è che la realtà della
democrazia non è identificabile semplicemente con la
centralità dello Stato. Lo Stato è importantissimo ma la
sua presenza è equilibrata da altre istituzioni non meno
rilevanti che, nella loro interazione reciproca e con lo Stato
stesso, ridefiniscono poi il proprio essere entro il contesto di una democrazia.
Oggi viviamo in un’epoca di sfide per la democrazia, legate alla trasformazione delle nostre società su vari livelli:
trasformazioni che spesso fanno pensare a qualcuno che
la democrazia sia destinata a soccombere. Una di queste
è senza dubbio la trasformazione delle nostre società in
società multiculturali. Queste non sono semplicemente
società pluraliste: il pluralismo è un tratto proprio delle società europee già da secoli. Si tratta, piuttosto, di un pluralismo nuovo che porta alla convivenza, sullo stesso territorio e sul medesimo terreno politico, di culture
profondamente diverse nel modo in cui intendono, ad
esempio, il rapporto tra Stato e religione, tra pubblico e
privato. Le odierne società multiculturali fronteggiano,
dunque, problemi di convivenza ma anche domande
forti e bisogni di riconoscimento da parte delle culture mi-
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Le parole e le cose dei democratici
noritarie. Si tratta di una delle sfide più serie per la democrazia, e non a caso costituisce uno dei filoni di studio
e di elaborazione maggiori della filosofia politica e della
scienza politica negli ultimi decenni, dalla fine del Novecento ad oggi. È una sfida certo difficile da vincere nella
pratica ma non impossibile sul piano della concezione
della democrazia. Occorre trovare soluzioni per ricomporre tra loro le esigenze di riconoscimento dei diversi
gruppi e una cultura democratica che ha una sua origine
storica e geografica precisa. La democrazia è nata in Occidente, per quanto, come ci insegna Amartya Sen, non
possa essere interpretata come un’idea puramente occidentale, dato che anche altre culture hanno sviluppato,
in epoche anche remote, una propria concezione della libertà e della tolleranza. La democrazia, inoltre, ha dimostrato di sapersi adattare anche ad aree del mondo assai
diverse dall’Occidente: basti pensare all’India, che è una
grande democrazia, sicuramente difficile e con grossi
problemi, ma avviata da più di cinquant’anni. Proprio il
suo essere una democrazia consente all’India di avere
standard di vita più elevati che in Cina, dove pure la ricchezza è maggiore.
Tra le altre sfide che la democrazia oggi è chiamata a fronteggiare, infine, voglio ricordare la crisi di identità che la
globalizzazione produce, con il conseguente rafforzamento delle identità religiose; il problema, strettamente
connesso, della laicità, cui ho fatto riferimento prima. Da
ultimo vorrei citare l’emergere delle questioni bioetiche:
anche questa è una sfida alla democrazia. Le questioni
bioetiche infatti, nelle attuali condizioni della vita umana,
sono uscite dalla sfera privata e richiedono decisioni pub-
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Le parole e le cose dei democratici
bliche4. È una sfida che in Italia viviamo con particolare
drammaticità e che non trova risposte facili nella nostra
democrazia. La via da percorrere è quella di identificare i
valori che le istituzioni pubbliche devono tutelare – anche
se sono conflittuali tra loro – e cercare un equilibrio, necessariamente instabile e provvisorio, ma accettabile, se
non per tutti i cittadini, per quelli che sono disponibili al
pluralismo ragionevole, e dunque al compromesso. Bisogna dunque essere in grado di definire un terreno di
mediazione, sul quale cercare insieme delle soluzioni legislative che siano almeno in parte accettabili per i diversi
punti di vista morali. È una ricerca che non parte da zero,
ma ha alla sua base i principi fondamentali di cui ho parlato: l’eguaglianza di tutti gli esseri umani; il rispetto che,
in conseguenza di questa eguaglianza, si deve a tutti nello
stesso modo; il valore della libertà individuale e dell’autonomia delle scelte dei soggetti coinvolti.
La nostra democrazia avrà serie difficoltà se non riuscirà
ad affrontare positivamente queste sfide.
1
Di Rawls vedi Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1982 e Liberalismo
politico (1993), Milano, Comunità, 1994; di Dworkin I diritti presi sul serio (1977), Bologna, il Mulino, 1982, e Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza (2000), Milano, Feltrinelli,
2002; di Dahl La democrazia e i suoi critici (1989), Roma, Editori Riuniti, 1990.
2
Dizionario di Politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, Utet,
1983.
3
A.E. Galeotti, La politica del rispetto, Roma-Bari, Laterza, 2010.
4
Vedi C. Mancina, La laicità al tempo della bioetica, Bologna, il Mulino, 2009.
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Michele Battini
Professore di Storia Contemporanea,
Università di Pisa
Comincerò col dire che, oltre ad aver lavorato per molti
anni alla Scuola Normale Superiore di questa città, ho anche io qualche ‘peccato di giovinezza’, essendo stato anche un militante. Quanto dirò presuppone, dunque, lo
studio ma anche il pregiudizio nel senso positivo del termine, perché non posso che denunciare la mia parzialità
nel riflettere, come già hanno fatto gli altri relatori, anche
sulla mia esperienza personale.
Sul piano strutturale procederò per tesi, come si usava
fare nel quarto decennio dell’Ottocento, quando si producevano tesi su progetti politici e filosofici.
La mia prima tesi prende le mosse da un articolo apparso
sul New Yorker di febbraio che mi ha colpito moltissimo:
s’intitola Twitter non fa la rivoluzione ed è firmato dal
giornalista Malcolm Gladwell, che de-costruisce intelligentemente il luogo comune secondo cui i social network
avrebbero consentito straordinarie esperienze politiche:
dalla primavera in Moldavia del 2009 ai movimenti di Teheran alle rivoluzioni degli ultimi mesi in Nord Africa. Ma,
al di là della diffusione globale dei social network, esiste
un rapporto così stretto tra le informazioni che circolano
grazie a queste nuove piattaforme di comunicazione e discussione e il prodursi di movimenti socio-politici?
Gladwell istituisce un confronto interessante con espe-
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Le parole e le cose dei democratici
rienze che prima Claudia Mancina ha richiamato: i movimenti americani per i diritti civili a metà degli anni Sessanta, la preparazione del Sessantotto negli Stati Uniti,
l’azione del movimento per l’affermazione e la registrazione dei neri negli uffici elettorali. Famoso episodio è
quello del movimento di Greensboro: nel 1960 quattro
studenti neri entrano nel bar di un supermercato e chiedono da bere. Naturalmente viene loro risposto che in
quel locale non si serve ai neri. I quattro studenti rimangono in attesa, fermi, fino alla chiusura del locale. Ritornano il giorno seguente, quello successivo ancora e così
via: pian piano si uniscono a loro anche altri studenti,
prima soltanto neri, poi anche qualche bianco. Le prime
bianche ad aderire al sit-in sono due compagne di college
e nell’arco di poche settimane il movimento esplode
prima nell’intera Carolina del Nord e poi in ben quindici
città di cinque Stati del Sud. Gladwell prende le mosse da
questo episodio per argomentare che i grandi movimenti
di protesta e rivendicazione si producevano già prima dell’avvento dei social network. I ragazzi di Greensboro non
avevano certo mezzi di informazione e comunicazione
così rapidi ed efficaci, ma disponevano di una risorsa
non meno importante: sapevano organizzarsi, come dimostra la realtà della National Association for the Advancement of Colored People, vale a dire l’Associazione
nazionale per la promozione della gente di colore, che
giocò un ruolo rilevante nella cancellazione delle leggi segregazioniste assieme alle Chiese battiste e ai college
universitari. Esisteva, quindi, una comunicazione che implicava anche una organizzazione, cioè un rapporto di fiducia. L’articolo di Gladwell, infatti, si chiude con la se-
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Le parole e le cose dei democratici
guente argomentazione: per fare la rivoluzione non basta Twitter: occorrono progetti chiari, fondati su analisi
realistiche, occorrono compagni e amici fidati. Mi sembra
una bellissima conclusione, soprattutto perché de-costruisce il pensiero che si sta affermando anche nelle università americane: un professore di New York, Clay Shirky,
ha pubblicato nel 2008 un libro dal titolo Uno per uno,
tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione, in cui si evidenziano le potenzialità politiche (accanto alle possibili degenerazioni) dei social network.
È interessante notare che uno storico americano dell’Illuminismo e dell’organizzazione delle culture, Robert Darnton, ha proposto un confronto a mio avviso straordinario, paragonando l’esaltazione odierna della
comunicazione a una situazione molto lontana nel tempo,
che risale addirittura al Settecento. Darnton invita a tenere presente che si è sempre posto il problema della organizzazione culturale di un’azione politica: l’Encyclopédie cos’altro era se non un intelligente tentativo di
organizzare, con i mezzi dell’epoca, una comunicazione
sulle innovazioni culturali e politiche più importanti? Era
un tentativo di formare un senso comune diverso da
quello prodotto dalla tradizione cristiana dell’Antico Regime, per produrre riforme: fu diffusa in grandi copie
nelle Accademie, nei club, nelle società massoniche, nei
salotti, con l’obiettivo di produrre una nuova visione del
mondo in funzione delle riforme che si auspicavano, in
primo luogo sul terreno giurisdizionale contro lo strapotere della Chiesa e contro i privilegi aristocratici. Altre ipotesi di riforme radicali si diffusero grazie a questo potentissimo veicolo, al tempo stesso culturale e di
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organizzazione, di costruzione, di associazione.
Seconda tesi: non è vero che l’Italia – qui veniamo al Novecento – dal punto di vista della storia dei progetti politici e della loro organizzazione non abbia prodotto esperienze importanti. Io credo che noi, individualmente e
anche collettivamente, siamo nani sulle spalle di giganti
e che l’esperienza delle generazioni precedenti vada valutata molto attentamente, in quanto assai complicata e
in parte contraddittoria. Il problema dell’organizzazione
politica e culturale da questo punto di vista in Italia ha
avuto soluzioni originali. Voglio richiamarmi ancora a
uno studioso anglosassone, poiché gli anglosassoni sono
particolarmente bravi ad osservarci e a proporci soluzioni.
Si chiama Perry Anderson, è stato ed è uno storico importante per le indicazioni interessanti che ha saputo
fornire al nostro paese sul piano della riflessione politica.
Nel suo libro The New Old World troviamo un capitolo
sull’Italia, una parte del quale è uscito qualche mese fa anche sulla stampa italiana con il titolo La sinistra invertebrata. Si tratta di un atto di accusa clamoroso contro «la
dilapidazione» – testuali parole dell’autore – «della sinistra». Due partiti organizzati, sindacato, un’estesa presenza elettorale, una ramificata rete di associazioni, il
mondo delle cooperazioni: questo straordinario patrimonio e un grande prestigio culturale – argomenta Anderson – oggi è, se non azzerato, di certo fortemente
compromesso. La situazione italiana, che era la più brillante per la sinistra nel corso del Novecento, è oggi forse
la più critica anche rispetto ad altri paesi della sinistra europea. Non so se il giudizio sia giusto e neppure mi interessa. Ritengo, però, che la provocazione sia molto inte-
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ressante per l’interrogativo che pone: cos’era, dunque, la
specificità italiana della sinistra di allora? Anderson tocca
qui il problema della comunicazione, dei valori culturali,
dell’organizzazione della cultura: la sua risposta è che è
esistito un modello sicuramente originale da questo punto
di vista, proprio della nostra realtà storico-politica. In un
paese come il nostro, in cui, fino a centocinquanta anni
fa, non è mai esistita una struttura statale unificante e unificata ma in cui si sono date frammentate realtà statuarie diverse, disarticolate corporazioni e reti di interessi comunitari locali fortemente identitari, l’arte del governo dei
popoli e delle coscienze è stata elaborata dalla struttura
ecclesiastica.
Questa specificità abnorme del nostro paese – dobbiamo
rendercene conto – è un problema ancora oggi presente:
l’egemonia della Chiesa cattolica nelle crisi storiche italiane si rinnova grazie a una tradizione di presenza organizzata sul territorio e di capacità di penetrare nelle coscienze anche là dove non sembra. Pensate alla Seconda
Guerra Mondiale, quando alla Chiesa si rivolsero masse
intere di popolazione dopo il crollo dello Stato e durante
l’occupazione nazionale. In assenza, per secoli, di uno
Stato unitario e in presenza di una Chiesa tridentina organizzata capillarmente in modo assai diverso che nel resto d’Europa, il nostro paese, ancor prima che fosse nazione, maturò i germi di un’anomalia che ancora oggi
perdura. La peculiarità della politica e della storia italiane
vanno sempre ricondotte a queste lunghe radici. La sinistra ha rappresentato un modello originale di costruzione di un corpo collettivo organizzato: la cultura, che
per secoli era l’unica sfera in cui gli umanisti si oppone-
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vano all’invadenza della Chiesa, è diventata con la sinistra cultura organizzata. Anderson scrive di un grande patrimonio perduto perché sembrerebbe che questa realtà
oggi si sia disgregata; in realtà quella organizzazione fu,
come hanno rilevato alcuni studiosi in modo interessante, una grande risorsa scarsamente utilizzata sia per un
rovesciamento dei rapporti di forza che la condizione
nazionale non consentiva sia per avviare una stagione di
riforme che subì forti condizionamenti dall’esterno, in anni
cruciali quali gli anni Sessanta e Settanta. Vi fu allora quasi
una sorta di immobilismo prodotto da questa forza organizzata che accumulava risorse ma non riusciva a entrare veramente nei meccanismi decisionali.
Se è vero che quella del nostro paese è una situazione
tutta particolare, quando ci poniamo il problema del Novecento dobbiamo certo farlo dal punto di vista di una
prospettiva europea, ma non possiamo perdere di vista
l’eccezionalità italiana. Un panorama politico come quello
italiano non esiste nel resto di Europa: l’azzeramento
delle culture politiche e la fine dei corpi organizzati ai quali
abbiamo assistito in Italia non è un fenomeno analogo al
logoramento della social-democrazia, del socialismo, alla
crisi della sinistra che registriamo nel resto d’Europa. C’è
sempre una particolarità nazionale di cui dobbiamo tener
conto, anche se l’Europa è una risorsa per una risposta
strategica.
Da questo punto di vista è chiaro che molto del Novecento, nonostante quegli aspetti positivi e non pienamente utilizzati che abbiamo richiamato, è inevitabilmente alla nostre spalle. Il Novecento è stato fortemente
segnato nelle sue culture politiche dall’orizzonte della
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guerra, e non è scontato ricordarlo: il socialismo – io di
questo ho parlato fino ad oggi – e il comunismo novecenteschi sono profondamente diversi dal socialismo e dal
comunismo dei decenni precedenti perché l’orizzonte
della guerra, a partire proprio dal primo conflitto mondiale, ha ristrutturato la politica. La guerra significò non
solo militarizzazione del territorio europeo ma soprattutto
economia di guerra, abolizione delle libertà, conformazione delle coscienze, abolizione del dissenso, corporativizzazione dell’azione sociale con i sindacati: questo modello, sia a sinistra sia a destra, segnò fortemente le
trasformazioni delle culture politiche. Claudia Mancina ha
fatto un interessante accenno in questo senso quando ha
parlato di due opposte critiche della democrazia. Questa,
però, è stata una realtà tanto a sinistra quanto a destra:
una scarsa popolarità della democrazia dopo la Prima
Guerra Mondiale fino alla Seconda: questo è stato in effetti l’orizzonte del Novecento.
Tuttavia, ciò non significa che dal Novecento e dalle sue
radici illuministiche e socialiste ottocentesche non vi siano
lezioni da recuperare. Chiudo allora su un tema che è per
me formidabile, quello della giustizia sociale. Da questo
punto di vista c’è chi ha scritto che la cultura socialista e
comunista, sin dalle sue origini – quindi dall’inizio dell’Ottocento – ha sofferto di una contraddizione: da un
parte, infatti, è stata un’utopia di completamento della Rivoluzione delle libertà – tema, questo, che ha trattato all’inizio Vittoria Franco. Le libertà sono quelle conquistate
con la Rivoluzione dei diritti dell’uomo, il costituzionalismo politico, l’emancipazione giuridica, il lavoro libero:
battaglie certo circoscritte a metà dell’universo ma pre-
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supposto ineludibile per l’estensione universale delle libertà. Questa tradizione attraversa tutto il secolo e vede
impregnata di sé una parte importante della cultura socialista: si pensi, ad esempio, al rapporto tra libertà e giustizia sociale. Vi è, però, una parte del socialismo che sin
dall’inizio vede nella ricostruzione di corpi organizzati e di
corporazioni nello Stato la soluzione della giustizia sociale,
contrapposta alle libertà.
Tutte le famiglie politiche, ad essere sinceri, dovrebbero
essere de-costruite e disaggregate nel momento in cui le
ripensiamo. Esistono tradizioni cristiane e cattoliche democratiche ma esistono anche cristianesimi sociali, corporativi, autoritari, e così via. Nel Novecento abbiamo
avuto una visione democratica della nazione conciliabile
con la federazione delle nazioni – i polacchi che combattevano a Roma nel 1849, la prima Internazionale nata per
la libertà della Polonia ecc. – ma anche il nazionalismo regressivo ed etnico. Recuperare questi aspetti è importante, così come è fondamentale tenere presente che poi
nel corso del secolo scorso questa biforcazione si è persa.
Da questo punto di vista non c’è dubbio che la chiusura,
la costrizione dentro una cultura della guerra tra Stato e
forze organizzate, di una visione militare della lotta politica, per quanto ispirata ai più nobili ideali, ha segnato
tutte le generazioni almeno fino agli anni Sessanta-Settanta. Persino la mia generazione è stata toccata dall’eredità di questa cultura novecentesca.
Sul tema della giustizia e anche della reciprocità che Vittoria Franco ha toccato vorrei chiudere davvero, perché
credo che vi sia un aspetto di questa tradizione di riflessione sul rapporto tra giustizia, universalismo politico e
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democrazia politica che è ancora interessante e meritevole
di essere recuperato per la sua ricchezza. È stato citato
Amartya Sen, un economista, non a caso indiano, cha ha
lavorato a stretto contatto con altri economisti di particolare rilievo per il loro contributo ad una riflessione moderna sulla giustizia economica, a partire da Albert Otto
Hirschman. Hirschman, ad esempio, si è formato anche
in Italia negli anni Trenta a contatto con un’esperienza del
socialismo italiano di grande interesse, seppure minoritaria. Ricordo le belle definizioni della libertà che ha rievocato in apertura Vittoria Franco: libertà come autonomia,
come essere soggetto e non solo oggetto, come reciprocità e responsabilità. Nell’ambito di una politica novecentesca, quella parte del socialismo proponeva esattamente una visione autonomistica dell’articolazione dello
Stato, una democrazia economica articolata dal basso
contro la pianificazione sovietica.
L’ultimo libro di Sen, L’idea di giustizia, avanza una critica
interessante alla teoria della giustizia di Rawls che a me
sembra fornisca un contributo molto utile per questa nostra storia delle culture politiche. In particolare, Sen sottolinea che la giustizia sia una forma che si realizza attraverso le pratiche più che attraverso uno specifico
assetto istituzionale della democrazia economica. Tuttavia, essa non può prescindere da un’idea della democrazia economica che è e deve rimanere profondamente legata, al di là delle sue concrete realizzazioni, alla possibilità
di conciliare due principi della distribuzione delle ricchezze che nella tradizione novecentesca sono stati contrapposti: da una parte, il principio del bisogno, della necessità di soccorrere chi non ha; dall’altra, il principio dello
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Le parole e le cose dei democratici
scambio e del libero mercato. Certamente è paradossale
una sinistra che non si ponga il problema dei deboli, degli emarginati, degli sfruttati, dei bassi salari, soprattutto
oggi che le conquiste italiane di venti-trenta anni fa sono
fortemente a rischio. Che non ci si ponga il problema di
un dialogo, oggi che le barriere nazionali sono sempre più
porose, fra i lavoratori cinesi e quelli italiani e di un miglioramento sostanziale delle loro condizioni, attualmente
assai lontane dall’orizzonte della giustizia, è indice di un
grave deficit culturale, ancor prima che politico.
Il tema decisivo, dunque, è quello della democrazia economica come universalizzazione nell’economia della democrazia politica. Lo ricordava giustamente Claudia Mancina: non si devono contrapporre giustizia e democrazia.
Il rischio, altrimenti, è di ritornare, per questa via, ad errori consumati nel tempo.
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Vannino Chiti*
Vicepresidente del Senato della Repubblica
1 - Vi sono molte, vecchie, parole che mantengono importanza per la sinistra del XXI secolo; altre, inedite, che
devono assumere ormai un rilievo fondamentale nel nostro vocabolario. Anche le prime, quelle che continuano
a segnare l’orizzonte della nostra cultura politica, esigono
tuttavia un rinnovamento – di contenuti, di relazioni con
altri termini, di strumenti – per poterle rendere efficaci, togliendole dal rischio di interessare strati sociali ristretti o
addirittura di essere destinate ad una collocazione nel museo delle idee nobili, ma ormai incapaci di agire nella realtà.
È, tanto per fare un esempio, il caso di una parola irrinunciabile quale ‘pace’: come si afferma, nel nostro
tempo, dopo la caduta dell’Unione Sovietica e degli altri
regimi del cosiddetto ‘socialismo reale’, cioè dopo il fallimento di una speranza di liberazione umana universale
affidata al marxismo e divenuta un sistema di oppressione
di donne e uomini, una sovranità limitata imposta a Stati
che costellavano l’est dell’Europa? Come può vincere la
pace in un tempo come il nostro, nel quale è ripresa la diffusione delle armi nucleari e di distruzione di massa, con
le spese per gli armamenti che, nel disinteresse quasi generale, crescono nel nostro pianeta insieme alle disuguaglianze?
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Le parole e le cose dei democratici
Per non restare un imperativo morale, ma costituire al
tempo stesso un obiettivo politico, la pace deve essere
parte di un progetto che assume l’ambizione di dar vita
a strumenti di governance democratica mondiale, che la
renda inseparabile dalla affermazione, ovunque, dei diritti
umani, che ne faccia un’occasione per una radicale revisione del concetto ottocentesco di non ingerenza all’interno dei confini nazionali degli Stati. E naturalmente
non si costruisce la pace – ma questo lo sapevamo dalle
grandi lezioni del secolo precedente – senza o contro la
giustizia e l’uguaglianza, che fondano la libertà e la dignità
della persona.
Si colloca in questo quadro una riforma dell’ONU, che ne
faccia l’istituzione protagonista della garanzia del rispetto
dei diritti umani e di uno sviluppo sostenibile, evitando
forme di crescita ormai in grado di mettere a rischio il futuro del pianeta e la vita dell’umanità.
Certo l’ONU che diviene una forma, per quanto embrionale, di governo del pianeta, su temi decisivi per la
convivenza dell’umanità, non può più essere rappresentata da un Consiglio di Sicurezza ordinato su membri permanenti, dotati del diritto di veto, una fotografia oramai
sbiadita degli esiti lontani del secondo conflitto mondiale.
La sovranità degli Stati e il suo rispetto rimangono senza
dubbio un valore, ma non fino al punto di essere un assoluto, che consenta a dittature di operare il massacro di
popoli, di minoranze culturali o religiose: si chiami ingerenza umanitaria o operazione di polizia internazionale,
quello che è fondamentale è ridefinire un asse della nostra cultura politica, che sia espressione di sensibilità e di
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Le parole e le cose dei democratici
azione, non di indifferenza, nei confronti di violazioni e repressioni dei diritti umani.
Vi è dunque, da un lato, la necessità di impiegare su scala
internazionale, per garantire i diritti umani – seppure
come extrema ratio – la forza, decisa secondo criteri non
arbitrari, da un’unica autorità riconosciuta – cioè l’Onu –
e per un tempo circoscritto, così che non vi sia sproporzione tra mezzi utilizzati e fini; dall’altro, nell’azione per
trasformare la società viene bandita ogni strategia che
non sia fondata sulla non violenza.
E qui si ha l’ingresso di una novità culturale e politica radicale nell’orizzonte della sinistra del XXI secolo, che
viene per così dire – schematizzo per renderla più evidente – ad essere, riguardo alle forme di lotta, più gandhiana che marxista.
Come ho premesso, si tratta di un esempio, ma non è il
solo: si potrebbe continuare, riferendoci a pressoché tutti
i capisaldi della nostra cultura politica.
2 - È che le parole del vocabolario politico si collocano in
un contesto profondamente diverso dal passato: viviamo
nel cosiddetto mondo globale. È in corso la terza, grande
rivoluzione produttiva nella storia dell’umanità, dopo
quelle agricola e industriale: la rivoluzione tecnologico-informatica. Sono già intervenuti cambiamenti epocali. Accenno ai principali. Quello che forse ci riguarda più direttamente è il rapporto con la politica, che non si riferisce
più alle masse, secondo una concezione ed una pratica
che si erano affermate a destra e a sinistra nel corso del
Novecento, bensì agli individui, alle persone.
Ed è stata la destra che meglio ha saputo cogliere la
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spinta dei nuovi protagonismi individuali, inserendovi il
cuneo delle sue divisioni, quelle tra Nord e Sud, tra lavoratori del privato e del pubblico impiego, tra giovani e anziani, tra cittadini italiani – ed europei – e immigrati.
È senza dubbio più complesso, partendo dalle soggettività individuali, ricostruire nuovi e forti legami di solidarietà, fratellanza, appartenenza, ma è altrettanto vero che
la sinistra si è attardata nella difesa-conservazione di un
passato ormai tramontato, ha fissato le ancore in un universo di valori annebbiato e spesso trascurato – basti pensare alla ridefinizione dei diritti, da coniugare con responsabilità e doveri –, in un ubriacamento di
pragmatismo, che ha lasciato spazi immensi alle culture
della destra, confinando così la sinistra in spazi sempre più
angusti, spesso subalterni.
Altri cambiamenti, nel mondo globale, hanno divaricato
economia e sociale, mercato e democrazia.
Nel nostro continente non esisterà più una sinistra capace
di porsi come protagonista, se non sapremo prendere
nelle nostre mani la sfida per portare a compimento la costruzione della dimensione politica dell’Europa: il nostro
compito principale è la realizzazione di una vera democrazia sovranazionale europea e, in questo quadro, nei
vari paesi, di un federalismo che renda le istituzioni più vicine ai cittadini e più efficaci nella qualità del governo.
Democrazia sovranazionale e federalismo sono le risposte per sconfiggere i populismi, che svuotano le nostre
istituzioni e mortificano la partecipazione dei cittadini: al
di fuori di quegli obiettivi la stessa democrazia corre il rischio di un progressivo svuotamento e impoverimento.
Questo rischio non riguarda solo l’Italia.
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Le parole e le cose dei democratici
Di fronte a noi vi è invece una sinistra imprigionata nei soli
partiti, sindacati, Stati nazionali: incapace di proporsi per
l’Europa, sorda alle grandi questioni di un cambiamento
degli assi dello sviluppo, attorno al quale nel Sud del
mondo si costruiscono pensieri nuovi, si affacciano soggetti plurali, tradizionali e inediti.
3 - Nel XX secolo concezioni guida per la sinistra, quelle
capaci di aggregare le masse, di dar vita ad una egemonia culturale, ad un vero e proprio senso comune diffuso,
sono state quelle di uguaglianza e di solidarietà.
Oggi, nel nostro presente, in questo XXI secolo appena
iniziato, tali impostazioni, per continuare a parlare con efficacia alle persone, devono sapersi rinnovare, integrare
con altri contenuti.
Sul tronco dell’uguaglianza deve sapersi innestare la differenza: la separazione tra uguaglianza e differenza, cioè
la incapacità di una valorizzazione del merito, ha rappresentato la ragione fondamentale del fallimento delle
esperienze politiche della sinistra, sia quando si è privilegiato il primo termine, proponendosi un’assurda omogeneità e omologazione, sia quando si è posto l’accento
esclusivamente sul secondo.
Uguaglianza-merito deve essere il binomio che nutre
una ridefinizione della cultura politica progressista e
orienta la riforma del welfare.
Da questo punto di vista viene ad essere centrale la creazione di una reale uguaglianza di opportunità di vita e
dunque costituiscono una priorità l’istruzione, la formazione, la salute, che non possono soggiacere all’ottica ristretta del profitto e del mercato. Altra cosa è la capacità
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di inventare strumenti che concretizzino la sussidiarietà,
cioè la presenza di forme sociali – e non esclusivamente
istituzionali – di offerta di servizi, finalizzate al bene collettivo.
Questione cruciale è quella di non far diventare il mercato
principio egemone non solo dell’economia, ma dell’intera
società, cioè Dio assoluto della vita dei cittadini.
Sul tronco della solidarietà deve innestarsi un’idea nuova
e più ampia: quella della cittadinanza.
Nel XXI secolo il fondamento della cittadinanza non può
più essere rappresentato dal diritto di sangue (ius sanguinis): questa impostazione è diventata un approccio
reazionario al configurarsi delle nazioni, all’espansione
della sfera dei diritti, al rispetto da parte di ognuno dei legittimi doveri. Viviamo in un’epoca di migrazioni, moltitudini di persone si spostano verso paesi più ricchi, avanzati ma caratterizzati da crollo demografico e
invecchiamento delle popolazioni. Con questo fenomeno,
certamente complesso, dobbiamo fare i conti: la democrazia stessa ne viene sfidata.
Al diritto di sangue deve essere sostituito quello di suolo
(ius soli), cioè la uguaglianza nei diritti e nei doveri per
quanti risiedono nello stesso territorio, vi siano o meno
nati.
Con il diritto di sangue deve essere superato quel lemma
antagonistico amico-nemico, che ha fino ad ora, nel
corso dei secoli, retto le sorti dell’umanità – nella politica,
nella cultura come nelle religioni – motivando le nostre
paure, i nostri rifiuti del diverso.
Del terzo innesto, quello dell’individuo sul tronco dell’esperienza politica e civile di massa, ho già detto: è suf-
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ficiente ribadire che compito della sinistra è quello di privilegiare nella persona gli aspetti della relazione con gli altri, il suo bisogno di relazionalità, che arricchisce il senso
della vita, sviluppa la virtù del senso civico.
Rassegnarsi al prevalere di un isolamento egoistico, che
sacrifica gli interessi collettivi e finisce per vanificare la
stessa ricerca e affermazione della soggettività individuale, equivale – come sta avvenendo – a lasciare enormi
spazi all’arrembaggio della destra.
Vi è, infine, un altro aspetto, per me decisivo, da sottolineare, per quanto riguarda la sinistra, il movimento popolare, democratico e riformatore che essa ha saputo organizzare, rappresentare e dirigere nel corso del XX
secolo: mi riferisco all’autonomia politica, culturale e filosofica che essa aveva saputo costruire e che è stata il
presupposto per quel suo ruolo da protagonista.
Nel XX secolo – basti pensare in Italia alla lezione di
Gramsci – le forze del lavoro e del progresso sono uscite
da una dimensione di subalternità, alla quale apparteneva
per buona parte anche la tradizione socialista della cultura
popolare, ed hanno elaborato un proprio punto di vista,
in grado di leggere la realtà, nei suoi molteplici piani, la
sua evoluzione storica, la sua struttura economico-produttiva, la formazione intellettuale, le classi sociali ed il
ruolo di quelle dirigenti. Su questa base venne elaborato
un progetto complessivo di riforma della società.
Questa dimensione dell’autonomia, culturale e politica,
deve essere tenuta ferma, deve restare un obiettivo permanente: senza un proprio punto di vista sull’insieme
della realtà, senza una capacità di leggere il mondo e la
società, non è possibile costruire un progetto di cambia-
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Le parole e le cose dei democratici
mento. In fondo è questo ciò che chiamiamo ‘moderna
identità’: dei valori di riferimento, una autonomia critica,
un progetto da far camminare nel concreto della società.
Ed è ciò che più ci manca in questo inizio del XXI secolo.
Il pragmatismo quotidiano è altra cosa: ci colloca su un
piano di navigazione a vista, nel quale restiamo sempre
sulla difensiva e subalterni, incapaci anche soltanto di impostare – meno che mai di affermare – una rotta, una
strategia, un approdo.
È l’autonomia culturale, come fondamento del suo agire
politico, che la sinistra deve saper recuperare nel mondo
globale, e non solo in Italia.
*
Si pubblica qui il testo gentilmente inviatoci dal Senatore Chiti, il quale non aveva potuto partecipare in
prima persona ai lavori del panel per imprevisti motivi
di salute.
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PANEL II
Le figure e le forme dei democratici
dopo il Novecento.
Cosa possiamo e dobbiamo dire di centrosinistra
nell’epoca della Rete?
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Gianluca Giansante
Ricercatore, formatore e consulente di comunicazione
Nelle scuole di formazione politica si parla sempre di economia, di finanza, di relazioni internazionali, cioè di una serie di discipline che sono molto utili quando si sono vinte
le elezioni e si deve governare. Quasi mai, però, si parla
di comunicazione, che è invece un sapere decisivo – insieme ad altri – per arrivare a raggiungere l’obiettivo di
vincere le elezioni. L’argomento di questo intervento intende andare controcorrente e rispondere alla domanda:
come si fa a costruire consenso politico? In altre parole, per
parafrasare il titolo di questo panel: ‘come dire qualcosa
di centro-sinistra?’.
Vorrei affrontare il tema in una maniera molto pratica,
dandovi strumenti che possiate utilizzare fin da quando
avrete finito di ascoltarmi nella vostra attività politica quotidiana, durante la prossima campagna elettorale oppure
per promuovere un’iniziativa di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Cominciamo dicendo che per costruire consenso politico
è necessario aumentare l’efficacia dei propri messaggi.
Cosa vuol dire?
Vuol dire innanzitutto ricordarsi che nel sostenere le vostre ragioni non è sufficiente dire ‘le cose come stanno’.
Probabilmente vi sarà capitato di cercare di convincere
qualcuno, per esempio un avversario politico o un amico
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Le parole e le cose dei democratici
che aveva un’opinione diversa dalla vostra. Vi sarete accorti che, nonostante voi sosteneste la vostra tesi con una
serie di dati, di fatti e di statistiche, questa persona non si
convinceva. Questo accade perché i meccanismi mentali
della persuasione sono molto diversi dall’idea di persuasione logico-razionale che naturalmente siamo portati a
considerare validi. Per questo è importante utilizzare tecniche che permettano di aumentare la nostra efficacia: di
essere, cioè, innanzitutto compresi dalle persone; in secondo luogo, di essere ascoltati, di non lasciare che le persone ‘spengano il cervello’ mentre parliamo; inoltre di far
sì che il nostro interlocutore memorizzi ciò che stiamo dicendo e, infine, ovviamente che sia convinto e d’accordo
con noi.
In questa prima parte dell’intervento parlerò proprio di
come questo sia possibile e, lo farò, come vi dicevo, fornendovi tre strumenti utili. Cominciamo però con due vere
e proprie precondizioni della persuasione, che non inserisco fra i tre strumenti. La prima è la semplicità. Ricordatevi questo concetto: chi non vi capisce, non vi vota. Parlate sempre come se steste parlando a vostra nonna, al
vostro meccanico, al vostro macellaio. Questo è un
aspetto molto importante, ma, talvolta, dimenticato da chi
fa politica a sinistra (ma non solo). Talvolta si pensa che la
politica debba parlare un lessico specifico, per ‘addetti ai
lavori’, ma si dimentica che così facendo si impedisce a
tanti – per esempio a chi si occupa di altro o a chi non ha
avuto la fortuna di studiare – di comprendere di cosa
stiamo parlando e di poter liberamente essere d’accordo
con noi.
La seconda precondizione è: dire cose interessanti per chi
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ascolta. Se io avessi iniziato questo intervento parlando
delle tecniche di innesto della vite americana, molto probabilmente avreste smesso di ascoltarmi e vi sareste dedicati ad altro, e giustamente, direi. Dunque è molto importante essere capaci di far percepire al nostro ascoltatore
le ricadute sulla propria vita di quanto diciamo. In altre parole, se vi parlassi delle tecniche di innesto della vite come
metafora per la politica o per aumentare il vostro benessere fisico, forse continuereste ad ascoltare. Almeno per
un po’.
A questo punto, dopo aver delineato le precondizioni per
la persuasione politica cominciamo a parlare dei tre strumenti che ci permettono di aumentare l’efficacia dei nostri messaggi. Ce ne sono tanti, ma questi tre hanno
un’importanza particolare.
Iniziamo dal primo: la narrazione. Se ne parla tanto e talvolta senza troppa cognizione; in questa sede, però, non
voglio essere teorico e addentrarmi in questioni tecniche1.
Voglio invece partire da un esempio: la campagna di Barack Obama nel 2008. Nelle fasi finali del confronto
Obama annunciò che, tre giorni prima del voto, avrebbe
messo in onda uno spot pubblicitario di trenta minuti, un
infomercial 2 dal titolo American Stories, American Solutions. C’era molta curiosità, anche perché non si sapeva
nulla di più. Molti pensavano all’ennesimo discorso di un
candidato che aveva infiammato le folle con la sua abilità
retorica.
Niente di tutto ciò: dopo una brevissima introduzione,
Obama cede la parola ai cittadini per raccontare le loro
storie, cinque storie di famiglie americane. Come quella
della signora Rebecca Johnston, madre di quattro figli, di
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Le parole e le cose dei democratici
Kansas City, Missouri. C’è una frase che colpisce molto in
questo documentario: la signora Johnston mostra il proprio frigorifero e dice: «ogni persona della famiglia ha un
piano: così, se sanno che quello che c’è in quel piano è
tutto quello che hanno per la settimana, se lo faranno durare di più». Ecco: questa frase, pronunciata nel paese dell’abbondanza e dello spreco, gli Stati Uniti, dice molto di
più sulla crisi di qualsiasi statistica, di qualsiasi discorso.
Mostra cosa significa la crisi veramente, nella quotidianità
delle persone: una onesta famiglia americana si trova
nella condizione di dover risparmiare perfino sul cibo.
Questo fa capire quanto sia importante il tema economico: se si fosse affermato il tema della sicurezza, McCain
sarebbe stato chiaramente favorito e avrebbe avuto gioco
più facile. Sottolineare, invece, quanto fosse importante il
tema economico era già un modo per far campagna a favore del Partito Democratico e di Obama. In secondo
luogo, questa storia prepara l’ascoltatore ad accettare le
soluzioni di Obama: permette di comprendere quanto sia
urgente mettere in atto una serie di misure per contrastare
la crisi.
Facciamo un altro esempio, questa volta dall’Italia, per
mostrarvi come la narrazione possa essere usata non soltanto in un documentario ma anche in un discorso. Il protagonista è Nichi Vendola3; durante la campagna per le
elezioni regionali del 2010, nel corso di un comizio, a un
certo punto dice alla folla che lo ascolta: «Sapete quando
ho sentito di aver governato bene? Un giorno che in Regione è venuto a trovarmi un ragazzo diversamente abile,
uno dei diecimila a cui abbiamo portato un computer a
casa per liberarli dalle loro prigioni civili...». Pausa. «Eb-
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bene, quel giorno, quando mi hanno detto che era venuto
mi sono preoccupato, pensavo che fosse accaduto qualcosa. Invece – spiegava Vendola mentre in platea cresceva
la curiosità – era venuto perché voleva raccontarmi di persona che con il computer aveva trovato la fidanzata. La fidanzata, capite?»4.
Raccontando questa storia innanzitutto Vendola ottiene
un risultato: comunicare in maniera semplice, diretta e facilmente memorizzabile, uno dei progetti realizzati dalla
propria amministrazione. Un altro politico, meno esperto,
avrebbe detto: «Nella nostra amministrazione abbiamo
posto grande attenzione alle questioni sociali finanziando
l’acquisto di diecimila pc per ragazzi diversamente abili».
Sarebbe stato come scrivere sull’acqua, perché le persone
se lo sarebbero dimenticato nel giro di pochi secondi. In
questo modo, invece, Vendola fissa l’idea: permette a chi
lo ascolta di ricordare con facilità quanto lui afferma. In secondo luogo, fa capire quanto sia stato importante distribuire questi pc. Se io dico soltanto «ho dato dei computer», qualcuno potrebbe pensare che non sia un tema
interessante. Qualcun altro potrebbe considerare che si
tratti perfino di uno spreco. Invece, presentando in questo modo l’iniziativa, Vendola fa capire a chi lo ascolta
come un piccolo gesto possa cambiare la vita di una persona.
Iniziamo a capire, dunque, perché le storie funzionano in
politica. Innanzitutto, perché ci permettono di passare
dal livello astratto al livello concreto del discorso e, quindi,
di essere compresi molto più facilmente. La politica è un
argomento estremamente difficile, molto complesso, e
spesso poco interessante per le persone. La nostra epoca,
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Le parole e le cose dei democratici
l’epoca della Rete, è anche un’epoca di grande distacco rispetto alla politica, e noi, per essere veramente democratici, dobbiamo sforzarci di far capire alle persone quanto
sia importante nella loro quotidianità, quanto possa cambiare le loro vite. La narrazione ci aiuta a ottenere questo
risultato.
In secondo luogo le storie ci consentono di catturare l’attenzione, svegliano chi ci ascolta perché le persone sono
interessate a sapere ‘come va a finire’. Il terzo vantaggio
della narrazione è la capacità di favorire la memorizzazione. Se io vi racconto una storia, è molto più facile che
voi la ricordiate, come è più facile che ricordiate un film
piuttosto che un trattato di teoria economica. Infine, le
storie creano un coinvolgimento emozionale. Io mi emoziono e mi sento coinvolto nel sentire il racconto del disabile, così come quello della signora Johnston: in qualche
modo, quindi, voglio partecipare, e questo è molto utile
in politica perché stimola all’azione. Se voglio partecipare
posso farlo in un modo semplice, votando la persona che
mi sembra sia più capace di risolvere questi problemi.
Abbiamo visto in azione una prima tecnica, che vi raccomando di utilizzare quando vorrete far capire l’importanza
di un tema, quando vorrete sostenere un’opinione nella
vostra attività quotidiana. Se riuscite a raccontare un
aneddoto, un fatto, un episodio, la storia di una persona
che conoscete, potrete molto più facilmente catturare
l’attenzione del vostro interlocutore e convincerlo rispetto
a quanto fareste se cercaste di persuaderlo usando la logica. Perché avviene questo?
Rispondendo a questa domanda, iniziamo a trattare della
seconda tecnica, che consiste nel parlare al livello concreto.
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Le parole e le cose dei democratici
Vediamo cosa significa. Termini come disoccupazione,
economia verde, solidarietà sono molto belli e hanno un
grande valore, ma non sono in grado di catturare l’attenzione delle persone perché sono astratti: riescono ad essere compresi da chi ha un livello culturale molto alto e un
interesse molto forte per il tema di cui si parla. Ma la maggior parte delle persone che votano ha un livello culturale
che non sempre è altissimo; così come non sempre gli elettori sono interessati a quello che state dicendo. Parlando,
quindi, al livello concreto, è più facile far capire l’importanza delle posizioni che vogliamo sostenere.
Vi faccio un esempio di come possiamo fare. L’anno scorso
ho seguito una campagna per un consigliere comunale
nella mia città di origine, Chieti. Anziché parlare di grandi
temi in maniera generale e astratta (usando termini come
‘disoccupazione giovanile’ o ‘disagio giovanile’), lo abbiamo fatto focalizzandoci sul livello concreto, avanzando
una proposta realmente realizzabile e quindi un progetto
che un consigliere comunale potesse effettivamente portare a compimento una volta eletto. In altre parole, non
potevamo promettere di costruire un’autostrada, perché
non avremmo avuto l’autorità per farlo e sarebbe stata
quindi una promessa che non avremmo potuto mantenere. Tantomeno potevamo proporre di risolvere il problema della disoccupazione in generale perché saremmo
risultati poco convincenti e necessariamente fumosi. Potevamo, però, fare qualcosa per contribuire a risolverla.
Poiché si trattava di un giovane abbiamo pensato di impostare la campagna proprio sul tema del lavoro, di particolare interesse fra il suo bacino di riferimento dei potenziali elettori. Abbiamo costruito la campagna su questa
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Le parole e le cose dei democratici
proposta: l’organizzazione di corsi di formazione sull’uso
di Internet per il commercio: il Comune avrebbe finanziato
e organizzato quest’attività per insegnare ai partecipanti
come si fa a vendere i prodotti locali nel mondo, attraverso
Internet, usando Google AdWords e Facebook Ads, per
esempio. Questo avrebbe dato loro una professionalità, un
mestiere, e avrebbe anche aiutato il commercio della città.
Qualcuno potrebbe pensare che fosse una proposta impossibile, avveniristica, futuribile. Per rafforzare l’idea che
tutto questo fosse veramente realizzabile, abbiamo condiviso attraverso i vari strumenti di comunicazione della
campagna (Facebook in primis) un video che racconta una
storia bellissima. Quella di tre ragazzi di San Vito Chietino,
un paese di tremila abitanti, a pochi chilometri da Chieti,
che hanno creato un sito – www.lamiastampante.it – grazie al quale sono diventati leader in Italia nella vendita di
cartucce per stampante5.
Con questa storia abbiamo permesso di capire alle persone
che ciò che noi proponevamo era assolutamente possibile,
perché era stato già realizzato. Era possibile perché era
stato fatto da ragazzi della loro età in un paese piccolissimo e periferico.
Passiamo ora all’ultimo strumento che vi voglio presentare:
la metafora. A questo punto potreste pensare: «cosa
c’entra la metafora con la politica?». Non solo c’entra ma
è anche una figura retorica molto utile nella comunicazione politica perché, per sua natura, semplifica i discorsi
e permette di comprenderli e ricordarli meglio.
Vediamo cosa intendo con un esempio. Un ragazzo potrebbe dire alla sua fidanzata: «la nostra relazione è a un
bivio». Questa, anche se non sembra, è una metafora,
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Le parole e le cose dei democratici
perché non c’è un bivio reale nella loro relazione d’amore,
non c’è un reale cammino che si divarica, ma un bivio figurato, metaforico, appunto. Questa frase utilizza la metafora concettuale ‘l’amore è un viaggio’, molto diffusa
nella nostra cultura perché ci permette di parlare di un
concetto assolutamente astratto – l’amore – e renderlo
concreto, tangibile, paragonandolo a qualcosa che tutti
conoscono, un bivio appunto6.
Questa è l’essenza della metafora: prendere un concetto
astratto e renderlo concreto. Ma questa non è l’unica caratteristica della metafora. La metafora è importante in politica perché, nel rendere concreto un concetto, ne sottolinea alcuni elementi e ne nasconde altri. Nel nostro
esempio, sottolinea il fatto che l’amore è una relazione finalizzata a raggiungere un obiettivo: l’amore è come un
viaggio, sottintende il pensiero «Noi stiamo insieme per
andare da qualche parte, per sposarci, per avere un figlio
o per stare tutta la vita insieme». Allo stesso tempo occulta
altri elementi: per esempio, il fatto che nell’amore c’è anche un aspetto ludico, di conquista7.
Cosa c’entra questo con la politica? Penso che voi abbiate
sentito molte volte parlare di ‘pressione fiscale’. Questa è
una metafora perché mette insieme qualcosa di astratto
come le tasse con un concetto molto concreto che è la
pressione, il peso. Questa espressione sottintende che le
tasse sono un peso che grava su di noi. In questo modo
sottolinea alcuni aspetti delle tasse – il fatto che pagarle è
pesante, che sia un fardello. Ma ne occulta altri: per
esempio la considerazione che se io, mentre sto parlando,
mi sentissi male, arriverebbe un’ambulanza che mi porterebbe in ospedale e mi curerebbe e tutto questo gratui-
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tamente, proprio grazie alle tasse.
Chiaramente la locuzione ‘pressione fiscale’ non è
un’espressione neutra ma è portatrice di un punto di vista molto chiaro sulle tasse, che è il punto di vista del centro-destra. Ogni volta che un esponente di centro-sinistra
la utilizza, rafforza inconsciamente in chi ascolta il punto
di vista della destra sulle tasse. Non è un’espressione causale: è un’espressione che è stata studiata a tavolino.
Ti faccio un esempio ancora più evidente: ‘scudo fiscale’.
Anche questa è una metafora e qui è ancora più facile capire che lo scudo è qualcosa che serve per proteggersi da
un nemico, da un avversario, da un orco, da un drago cattivo: le tasse. Questa espressione, quindi, vuole sottolineare il fatto che questa misura proposta dal governo voglia difendere delle persone oneste, brave, da qualcosa di
cattivo, le tasse. Occulta, invece, il fatto che sia un semplice condono fiscale: i cattivi, cioè, sono quei soggetti che
questa misura va a proteggere. Anche l’espressione ‘scudo
fiscale’, quindi, è portatrice del punto di vista del centrodestra e non dovrebbe essere mai usata da un politico di
centro-sinistra. Non è un’espressione nata per caso: infatti
è un calco di un’espressione americana: ‘scudo spaziale’.
Nel 1983 Reagan propone il finanziamento di un sistema
di protezione, lo scudo spaziale, e lo fa sostenendo che
serve per ‘proteggersi dai russi’. La metafora ‘scudo spaziale’, però, mentre sottolinea l’aspetto protettivo, occulta
il fatto che il sistema in questione era anche un sistema di
attacco: un complesso sistema di missili, e i missili, si sa,
possono essere usati per attaccare il nemico. Chiaramente, se Reagan l’avesse chiamato ‘sistema missilistico di
offesa’, nessuno lo avrebbe voluto finanziare, mentre con
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il nome prescelto la sua realizzazione era molto più condivisibile dall’opinione pubblica.
È evidente, quindi, che badare alla comunicazione, capirne
il senso, studiarla, avere dei centri di ricerca, dei think tank
che vi si dedicano, non è soltanto un’attività accademica
ma può essere molto utile per smascherare gli utilizzi manipolatori del linguaggio. Gli americani sono arrivati a
questi risultati proprio perché hanno investito milioni di
dollari nei centri di ricerca sulla comunicazione.
La metafora non è solo uno strumento linguistico ma può
essere impiegata anche attraverso le immagini. È quello
che fece Margaret Thatcher nel 1979 in una celebre foto
scattata nel corso della campagna elettorale che l’avrebbe
portata al numero 10 di Downing Street. La candidata
conservatrice mostra due buste, entrambe riempite con il
contenuto della spesa fatta con una sterlina: soltanto che
la prima, quella più grande, è stata riempita con la spesa
fatta nel 1974 e l’altra con lo stesso importo ai prezzi del
1979, dopo cinque anni di amministrazione dei laburisti.
In questo modo la Thatcher vuole mostrare come l’inflazione causata dai laburisti abbia pesantemente influito
sulla vita dei cittadini.
Un altro esempio che riguarda ancora la Thatcher è legato
a un attacco dell’IRA in Irlanda del Nord, noto come il
massacro di Warrenpoint, un agguato che costò la vita a
diciotto soldati inglesi. In risposta all’episodio il Primo Ministro britannico si reca sul luogo della strage indossando
una tuta mimetica e un elmetto; l’intento è quello di mostrare che la sua risposta sarà inflessibile, dura, militare. In
questo caso l’abbigliamento è una metafora di quanto la
Thatcher intenda fare ed è molto più efficace per espri-
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mere il suo punto di vista di qualsiasi discorso. Le foto, infatti, sono immediate e possono essere comprese da
chiunque, anche da chi le guardi solo distrattamente.
Ora abbiamo analizzato tre strumenti che possono esserti
utili ad aumentare l’efficacia dei vostri messaggi nei contesti politici, ma anche in quelli professionali o familiari.
Adesso vorrei soltanto raccomandarvi una cosa: l’impegno. Dedicatevi a studiare la comunicazione. Per chi si occupa di politica è importante avere una cultura in ambito
giuridico, economico, filosofico. Ma non si può sottovalutate l’importanza della comunicazione. Vi raccomando
quindi, se siete interessati a questo argomento, di approfondirlo, con lo studio e la lettura. Soprattutto, però, vi invito a non pensare che sia necessario avere un tipo di linguaggio serio, di alto livello, che la comunicazione efficace,
metaforica, narrativa sia una tecnica del centro-destra
mentre la sinistra debba parlare un lessico colto e forbito.
Essere comprensibili, sforzarsi di essere chiari è, al contrario, un grande elemento di democrazia.
La comunicazione efficace è una tecnica e come tale è
neutra: se ne può fare un uso positivo o negativo, dipende
da voi. Ne è un esempio il libro di Roberto Saviano che ha
avuto un enorme successo nel sensibilizzare l’opinione
pubblica sul tema della mafia perché usa uno stile narrativo, racconta delle storie, e le storie vengono seguite volentieri dalle persone. È stato letto da milioni di persone
mentre i grandi trattati sull’argomento rimangono confinati a una ristretta cerchia di addetti ai lavori.
Un altro caso di questo genere è Blu Notte, il programma
tv di Carlo Lucarelli che viene seguito da milioni di persone
grazie allo stile narrativo del conduttore, che tiene avvinte
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le persone. In questo modo è possibile parlare di argomenti complessi, vicende politico-giudiziarie, passaggi
storici controversi e allo stesso tempo permettere a tutti di
capire e di appassionarsi.
A questo punto non mi rimane che lasciarvi con l’indicazione di alcuni libri che credo vi possano essere utili per la
vostra attività politica quotidiana. Si tratta di testi a cui
credo valga la pena di dare un’occhiata, magari comprandoli e mettendoli a disposizione di tutti nel vostro Circolo o facendoli girare nel gruppo degli amici.
Il primo è La mente politica di Drew Westen (Il Saggiatore): parla di emozioni e di quanto sia importante suscitarle in chi vi ascolta per essere convincente. Il secondo è
Non pensare all’elefante, di George Lakoff (Fusi Orari), che
tratta della metafora e dell’importanza di investire in comunicazione, di formare persone che sappiamo farlo con
efficacia. Il terzo è Storytelling di Christian Salmon: parla
di narrazione, nel contesto politico e in quello aziendale;
infatti tutti gli strumenti che abbiamo visto possono essere
utilizzati nella politica ma anche in un’attività commerciale,
così come nella vostra vita quotidiana, per essere chiari ed
efficaci quando parlate con i vostri amici, con il vostro partner o con i vostri genitori. L’ultimo libro è un mio lavoro
uscito con l’editore Carocci. Il titolo è Le parole sono importanti e parla di come comunicano i politici italiani e di
quali tecniche possono essere efficaci o, al contrario, controproducenti, per costruire consenso politico. Ci troverete
anche alcune delle cose di cui vi ho parlato in questo intervento, affrontate in maniera più approfondita.
Concludo con un ultimo invito, pregandovi di considerare
in modo nuovo tutti gli strumenti della comunicazione,
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Le parole e le cose dei democratici
perfino quelli che vi sembrano più distanti dalla politica. Il
giornalista Peppino Impastato utilizzava l’ironia e la satira
per attaccare la mafia nel suo programma Onda Pazza, il
più seguito dell’intero palinsesto dell’emittente locale Radio Aut. Le persone lo seguivano perché era divertente,
ma allo stesso tempo Impastato riusciva a far passare il suo
messaggio di denuncia contro la criminalità organizzata.
La mafia ha capito quanto potesse essere potente quest’arma, per questo ha reagito come tutti sappiamo, con
un’arma molto meno sottile.
1
Per chi sia interessato ad approfondire l’argomento rimando a due testi: GIANSANTE, Le
parole sono importanti. I politici italiani alla prova della comunicazione, Carocci, 2011, e
a ID., La narrazione come strumento di Framing: le metastorie nel discorso politico di Berlusconi e Obama. Hologràmatica, 2009, Número 10, V2, pp.21-43.
2
La parola nasce dalla crasi dei termini information e commercial (spot pubblicitario).
3
Vi prego di dimenticare qualsiasi vostra opinione a proposito di Vendola e della sua politica.
4
Riportata in TELESE, Comizi d’amore, Aliberti editore, 2010, Roma, p. 64.
5
Il video è rinvenibile su YouTube con il titolo: AdWords Video Case: La mia stampante.
6
Altri esempi di utilizzo di questa metafora concettuale sono le espressioni: «la nostra relazione è a un vicolo cieco» oppure «il nostro matrimonio sta andando a picco». Per un
approfondimento si rimanda a G. LAKOFF, M. JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, 1998
(3a ed.), (Bompiani, Milano, dal quale abbiamo tratto questi e i successivi esempi relativi
alle metafore concettuali dell’amore.
7
Questo aspetto è esaltato dalle espressioni «Egli è famoso per le sue numerose e rapide
conquiste», «Lei ha lottato per lui ma alla fine ha vinto l’amante», «Lei è assediata dai corteggiatori».
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Francesco Verducci
Viceresponsabile vicario Dipartimento Cultura
e Informazione, PD nazionale
Cercherò di tenere insieme due versanti: questo è un
corso di formazione e proverò ad attingere per quel che
posso alle competenze, agli studi, all’esperienza di docente universitario; certamente attingerò anche all’esperienza concreta di chi cerca di ragionare dal versante politico (della militanza e della direzione politica) sul
rapporto, insieme teorico e pratico, nuovi media/politica.
In questi anni, noi, come Partito Democratico, abbiamo
cercato di sperimentare alcuni strumenti innovativi sul terreno del rapporto tra partecipazione e tecnologie sociali
della comunicazione legate al web.
Ho avuto l’incarico e l’opportunità di seguire in prima persona alcune di queste sperimentazioni.
In questo intervento, tuttavia, è mia intenzione soffermarmi in particolare sulle questioni legate alla costruzione
dell’opinione pubblica (e del consenso) in Rete, come anche mi è stato chiesto di fare: immagino poi ci sarà l’opportunità per uno scambio di opinioni e per lo sviluppo di
alcune questioni in sede di dibattito.
A me piace partire da una citazione, da un’epigrafe, che
dobbiamo a Manuel Castells, uno degli studiosi più importanti di questi temi. In un testo molto agevole intitolato ‘Galassia Internet’ pubblicato nel 2007 nella Economica di Feltrinelli, Castells scrive: «Internet è la trama delle
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Le parole e le cose dei democratici
nostre vite». In questa frase c’è molta suggestione.
Quando è stata scritta, Internet era qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che noi oggi conosciamo. Il panorama
dei media sociali, come oggi lo vediamo e di cui poi parleremo, era ancora di là da venire.
Oggi Internet è effettivamente la trama delle nostre
vite: ognuno di noi è continuamente coinvolto in una
trama di relazioni dentro la Rete che condiziona il nostro
modo di vivere, i nostri costumi, i tempi della nostra
quotidianità.
Insiste Castells: «se la tecnologia dell’informazione è
l’equivalente odierno dell’elettricità nell’era industriale, Internet potrebbe essere paragonata alla rete elettrica».
Comincio con questa affermazione per introdurre il tema
della società dei network.
Penso con convinzione che davvero noi oggi viviamo in
quella che è definita ‘la società delle reti’ e ‘la società dei
network’, e ritengo che questa sia una rivoluzione epocale, che va ad innestarsi sui mutamenti che hanno profondamente rimodellato le società nelle quali viviamo: in
particolare, il passaggio dalla società di massa alla società
degli individui dentro il grande contesto della globalizzazione che tutto ha stravolto.
La divisione internazionale del lavoro e la terziarizzazione dei mercati del lavoro nei paesi occidentali ha portato per la prima volta al sorpasso dei lavori individuali e
autonomi su quelli dipendenti: in questo cambio di paradigma è racchiusa una rivoluzione epocale dei costumi,
del modo di pensare, del modo di vivere. Dentro questo
passaggio c’è anche tanta parte di quella crisi delle democrazie rappresentative che è innanzitutto crisi degli isti-
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Le parole e le cose dei democratici
tuti di rappresentanza, crisi di legittimità e di rappresentanza dei cosiddetti ‘corpi intermedi’ – in primo luogo i
partiti e i sindacati, che hanno svolto per lungo tempo una
fondamentale funzione inclusiva, ma che a partire dagli
anni Ottanta dello scorso secolo, sull’onda di profondi
mutamenti sociali, vivono una grave sclerosi nel rapporto con la società. La crisi dei soggetti della rappresentanza politica e sociale si lega profondamente alla
crisi delle forme della democrazia rappresentativa, dentro il contesto del tramonto delle funzioni degli Stati nazionali e della insufficienza del tradizionale modello di
welfare, che, nato in Europa, era riuscito ad assicurare per
lunghi decenni tenuta sociale, mobilità sociale, integrazione sociale. In una parola: la possibilità per amplissimi
strati sociali di far parte a pieno titolo della cittadinanza.
Tutta questa complessa architettura a un certo punto si
rompe, obbligando la sinistra a confrontarsi con la necessità – non solo la possibilità – di ripensarsi.
Tale rottura, inoltre, chiama in causa anche gli istituti
della democrazia, la sua capacità di rinnovarsi.
Penso che tutto questo c’entri profondamente con la
Rete e con quella ‘società dei network’ nella quale siamo
immersi almeno sin dalla metà degli anni Novanta.
Voglio dire anche che impressiona come la società dei
network nella quale viviamo sia all’insegna di velocissime
trasformazioni: la rivoluzione tecnologica è incessante e
riplasma continuamente la Rete ad un ritmo vertiginoso.
Se prendiamo come riferimento la citazione di Castells
della ‘Galassia Internet’, con la quale ci si riferisce al ribaltamento dell’intero mondo che si aveva prima – quello
della Galassia Gutenberg e della produzione culturale le-
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gata al libro –, a me viene da pensare come tutti i meccanismi di produzione, prima culturale e poi politica, legati alla rivoluzione del libro si siano sviluppati attraverso
secoli. Prima di arrivare alla Rivoluzione francese, prima
di arrivare all’età dell’Illuminismo, abbiamo impiegato
secoli. Internet non funziona così: in un’unica generazione
abbiamo vissuto rivoluzioni su rivoluzioni. Io sono nato
nell’ottobre del 1972: non sono quindi un nativo digitale,
nel senso che ero già studente universitario nel ’92
quando ci si iniziava a collegare alla Rete. Mi sono calato
nel network con grande passione e curiosità, ma conservando le categorie di mediazione di chi sino ai vent’anni
si è formato sui vecchi media e ha avuto imprinting ben
diversi da quelli della Rete.
Questo mi ha dato la possibilità di osservare lo strumento Internet. È sbalorditivo pensare che luoghi che oramai consideriamo parte del nostro vissuto quotidiano (in
termini di relazioni sociali e culturali ampiamente intese)
siano nati solo da qualche anno: YouTube nel 2005; Facebook nel 2006 (e in Italia è esploso solamente a partire
dall’autunno del 2008). Tutto è avvenuto velocissimamente nel giro di cinque-sei anni, e ha significato tantissimo per un’intera generazione. Questo mi porta a fare
ad alta voce un’altra considerazione, che riguarda certamente il contesto, le cose con le quali noi abbiamo a che
fare, ma riguarda anche e soprattutto la politica. Pensiamo al tema del conflitto di interessi: una questione certamente pertinente quando parliamo di comunicazione.
Io parlerò di conflitto di interessi legato anche alla Rete,
perché se è vero che noi oggi viviamo – io ne sono persuaso – nella società dei network e della Rete (e noi cit-
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Le parole e le cose dei democratici
tadini, noi che vogliamo impegnarci in politica e nella società, dobbiamo farci i conti), è anche vero che grava su
questa società un macigno enorme, quello del cosiddetto ‘divario digitale’: un fenomeno che forse potremmo
definire meglio come ‘diseguaglianza digitale’. Questa disuguaglianza ha varie componenti, di natura culturale,
economica, sociale: le disuguaglianze digitali sono forme
di esclusione pesantissima perché sempre più nelle nostre
società la discriminante sarà tra chi è in condizione di accedere alla Rete, e quindi avere conoscenza, un certo tipo
di maturità e di cittadinanza, digitale certo, ma cittadinanza tout court, e chi, invece, ne è escluso.
Si sta ragionando da un po’ di tempo, per quanto oggi si
sia costretti a farlo dall’urto degli eventi, sulle nuove democrazie: ad esempio, quelle nei paesi arabi. Abbiamo
iniziato a ragionarci già qualche tempo fa, ma adesso
siamo spronati a farlo dalle rivoluzioni che da gennaio in
poi hanno infiammato Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein,
Giordania. Bene: lo sapevamo anche prima ma adesso ne
abbiamo la conferma fattiva: ciò che alla fine permette ai
movimenti di resistere al pugno della repressione è sempre costituito dalla Rete. La grande differenza che intercorre a livello mondiale tra lo schieramento dei democratici e quello dei conservatori (fino ai reazionari) è tra
chi si batte per la libertà e la neutralità della Rete e chi invece vuole piegare la Rete, vuole che la Rete non sia libera perché sa che è uno strumento formidabile per la democrazia, per il suo perfezionamento, per la circolazione
delle idee. È stato così in Iran qualche anno fa: abbiamo
ancora negli occhi le immagini drammatiche, postate su
YouTube, dei ragazzi che diedero vita alla rivolta, di Neda,
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Le parole e le cose dei democratici
la ragazza che in quegli scontri morì: immagini che fecero
il giro del mondo e contribuirono a sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure, nonostante lo sdegno e la riprovazione internazionale che quelle immagini provocarono,
oggi quei ragazzi in Iran sono sotto processo e rischiano
la pena di morte.
Nei giorni della rivolta in Egitto, uno dei tentativi del governo che poi è stato travolto dai movimenti era quello
di togliere le concessioni alle reti telefoniche, per impedire ai telefonini e alla Rete di funzionare.
A seguito di questa rivoluzione così veloce, l’intero scenario ha subito trasformazioni: non abbiamo più bisogno
di avere una postazione con un computer per collegarci
e relazionarci, per partecipare o fare politica: basta uno
Smartphone che contiene tutte le applicazioni.
Oggi ragioniamo sull’impatto di questa rivoluzione. Vorrei porre un altro tema alla vostra attenzione: il fatto che
la società della Rete abbia, in qualche modo, fornito un
contesto di socialità alla società degli individui: è il contesto della Rete che in qualche modo induce l’individuo,
protagonista nelle nostre società, ad un meccanismo sociale, connettivo, relazionale. I legami che nascono in Rete
danno luogo a comunità virtuali che hanno una loro importanza perché sono sempre più delle forme sociali che
si aggregano su scelte comuni, molto diverse dalle vecchie e tradizionali appartenenze. Per questo si parla anche di ‘socialità elettive’: si tratta di persone e di gruppi
che si scelgono tra di loro. In questo senso il meccanismo
della Rete dà nuova linfa anche al meccanismo tradizionale dei movimenti sociali che, quando nascono, mettono
insieme, di fronte a una certa questione, persone legate
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Le parole e le cose dei democratici
da un dato bisogno: persone che, in qualche modo, si
scelgono tra di loro e si riconoscono in base a queste
scelte. Penso che la Rete funzioni in modo analogo: alla
sua base non vi sono più le appartenenze tradizionali – il
censo, il clan, l’etnia – ma appartenenze nuove, scelte comuni, appartenenze ‘elettive’, potremmo dire con un
termine classico, che richiama alla mente importanti letture.
Queste ‘socialità elettive’ aumentano a dismisura un’altra grande agenzia che sappiamo importante per la socializzazione politica, per lo scambio dell’opinione, quindi
per le scelte elettorali: il cosiddetto ‘gruppo di pari’ che
in Rete trova una sua nuova dinamica. Inoltre questo protagonismo dei singoli irrompe anche nel mondo dell’informazione – un mondo che sappiamo particolarmente
paludato e soggetto a ‘cattura’ da parte dei poteri forti,
in un paese come il nostro gravato dal conflitto d’interessi
e in cui scarseggiano editori puri – e riscrive anche il rapporto che intercorre tra media, potere e cittadinanza, in
quanto permette maggiore indipendenza e maggiore discorso critico. Questa nuova cittadinanza possibile richiede però lo sviluppo di una cultura della Rete che
consenta di superare divari e diseguaglianze: da questo
punto di vista l’Italia è uno dei paesi più arretrati: ancora
tra le nazioni più industrializzate del pianeta, ma all’incirca
all’ottantesimo posto per investimenti nelle reti di nuova
generazione e sviluppo delle potenzialità legate al digitale.
L’altro versante su cui ragionare è il cosiddetto ‘web partecipativo’ – anche detto ‘web 2.0’ –, il cui avvento è una
formidabile tappa evolutiva dentro la rivoluzione di Internet, capace di mutare lo scenario del rapporto tra
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Le parole e le cose dei democratici
Rete, società e partiti politici.
Il web sociale nasce quando possiamo non solo scaricare
ma anche caricare dati: è l’era dell’uploading, dei singoli
utenti che caricano in Rete contenuti prodotti in proprio.
A me pare sia un passo in avanti di straordinaria portata:
si tratta della possibilità, per ognuno di noi, di fare opinione, senza dover sottostare a mediatori. Un attento osservatore, Giuseppe Granieri, descrive in un suo bel testo
dal titolo Umanità Accresciuta il meccanismo di socializzazione e crescita di un contenuto attraverso i nostri
commenti e le nostre opinioni: contribuiamo a costruire
cultura, significati, identità nuove, accresciute, ampliate.
Nasce un nuovo senso comune, profondamente e intimamente legato all’etica dello scambio e della gratuità.
Il web 2.0 porta poi con sé un altro importante concetto,
che ha notevole rilevanza anche per la politica. Noi tutti
conosciamo il panorama del web 2.0 soprattutto per
l’impatto dei cosiddetti ‘media sociali’, il più famoso dei
quali è sicuramente Facebook. Ebbene, Facebook ha cinquecento milioni di iscritti in tutto il mondo, come recita
il sottotitolo dell’ormai celebre pellicola di David Fincher
di qualche mese fa, perché la chiave del suo successo, la
sua straordinaria formula, consiste nell’aver assommato
in un’unica piattaforma tutti i linguaggi della Rete e tutte
le applicazioni. Non abbiamo più bisogno di creare e curare un blog perché direttamente su Facebook, seppure
con un linguaggio più semplificato e sintetico, possiamo
intervenire nel dibattito pubblico ed essere connessi con
le persone alle quali ci sentiamo legati.
Questo inedito panorama porta con sé un nuovo concetto di comunicazione. Quante volte – e mi rivolgo a
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Le parole e le cose dei democratici
Mario Rodriguez – io, tu, noi abbiamo detto che è fondamentale, per saper comunicare, saper innanzitutto
ascoltare? Dal 2008 abbiamo a che fare con un cambio
di scenario – quello della conversazione – che è formidabile anche per chi vuole comunicare la politica: conversare significa intrecciare linguaggi ed emozioni, significa
un ingaggio emotivo e sentimentale, anche ascolto, condivisione. La grammatica e il metodo della conversazione
sono importanti per la politica, così come per il marketing
commerciale. In un testo della fine degli anni Novanta, il
Cluetrain Manifesto (1999), l’autore prende le mosse
proprio da questo concetto: i mercati sono conversazioni.
Vi dice niente? Vi accennava in precedenza Gianluca
Giansante: tutta la nostra pubblicità è un grande racconto, è la capacità di farci voler bene e di suscitare, in chi
ci ascolta, il desiderio di un prodotto, di un obiettivo comune, di un orizzonte diverso: è, per l’appunto, per citare
una formula felice, il lovemark.
Io penso che in qualche modo la Rete ci dia anche la possibilità di rinsaldare dei meccanismi di solidarietà e delle
identità comuni: il fatto di passare dalla navigazione alla
conversazione, il fatto che tutti noi abbiamo l’opportunità
di trasformarci da spettatori a protagonisti, il fatto che attraverso i blog e i media sociali ognuno di noi possa
esprimere il proprio punto critico sulle cose che vede intorno. C’è un bel libro di uno studioso olandese, Zero
Comments di Geert Lovink, pubblicato in Italia da Mondadori, che vi suggerisco per l’acutezza della sua analisi:
riferendosi ai blog prima che nascessero i social network,
egli scrive che essi hanno colmato il divario tra Internet e
la società. Si tratta del resto di un progresso recente: ra-
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Le parole e le cose dei democratici
gioniamo sul fatto che centinaia di migliaia di persone, soprattutto quanti erano dotati di strumenti di conoscenza
più deboli, hanno avuto la proprio alfabetizzazione ad Internet attraverso i media sociali, attraverso Facebook,
attraverso i blog. Io penso che questo concetto si possa
applicare anche alla politica e alla società; penso che la
Rete sia uno strumento utile per colmare il divario che intercorre tra la società e la politica. In questi anni è dominante il tema, sul quale anche noi ci interroghiamo, su
come rinnovare la politica. Il Partito Democratico è nato
per fare appunto questo: rinnovare la politica. Sentiamo,
percepiamo che c’è una distanza molto ampia tra l’opinione pubblica e la politica, tra le istituzioni, i soggetti politici ed una società frammentata, inquieta, divenuta più
fragile: noi lo dobbiamo colmare, e possiamo farlo soltanto se riusciamo a rinnovare anche le forme della politica, se riusciamo a costruire nuove modalità del nostro
essere democratici. Internet permette di ascoltare, di mobilitare, di riattivare ad uso dei partiti politici una democrazia di mobilitazione: per i partiti politici è molto importante che questo avvenga. A me non piace una società
in cui la democrazia della mobilitazione sia, in maniera talvolta parossistica ed esagerata, realizzata dagli organi di
stampa: in Italia ormai i giornali, tanto cartacei quanto online, siano di destra o di sinistra, sono tutti un appello alla
mobilitazione. Questo, quando si presenta in forma
troppo accentuata, porta a mio avviso a una radicalizzazione del confronto, in cui, come talvolta vediamo in televisione, rischia di non esserci più informazione né oggettività.
A me piace pensare che il meccanismo dell’informazione
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Le parole e le cose dei democratici
dovrebbe essere diverso, per poter contribuire al rafforzamento delle democrazie.
Per concludere, riprendo la domanda sollecitata dalla seconda parte del titolo così ambizioso che questo panel recita: ‘cosa dobbiamo e possiamo dire’ noi democratici nel
tempo della società dei network?
Per mobilitare non bastano gli strumenti: se Obama non
avesse avuto qualcosa di molto solido da dire, in tutto rispondente ad una grande aspettativa sociale, allora certamente la Rete non lo avrebbe eletto proprio beniamino,
prima che poi decidessero di farlo anche gli elettori nelle
urne. Egli aveva da comunicare una nuova idea di modello sociale, una nuova socialità fondata sull’inclusione,
una critica forte al paesaggio desolante del neoliberismo
che ha ridotto ai margini larghe fasce di ceto medio e
creato enorme sacche di vera indigenza negli Stati Uniti.
Una missione fortemente simboleggiata dalla battaglia
per la riforma della sanità e per i servizi pubblici: tanta
parte della democrazia di mobilitazione messa in campo
grazie alla Rete è dovuta alla forza di un nuovo messaggio di ricostruzione delle speranze collettive.
A noi oggi compete uno sforzo analogo, non di minore
portata.
La forza di un messaggio che faccia percepire che è
pronta davvero un’alternativa per il nostro stremato e inquieto paese. E intorno a questo progetto di cambiamento chiamare a raccolta e cementare una nuova alleanza sociale: un popolo che il Partito Democratico ha dalla
sua parte, e che in larga misura esiste, dice la propria e si
mobilita in Rete.
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Adriano Fabris
Professore di Filosofia morale ed Etica della comunicazione,
Università di Pisa
Il mio intervento parte da alcune domande. Voglio chiedermi, anzitutto: quali sono le forme di partecipazione
che risultano egemoni nella nostra epoca? Quale partecipazione è possibile in un contesto in cui l’egemonia culturale è definita attraverso forme di comunicazione tuttora dominate dal modello televisivo? In che modo,
concretamente, altri modelli comunicativi possono offrire
possibilità di tipo diverso? In altre parole: in che modo, nel
nostro contesto, è possibile agire e comunicare politicamente in maniera innovativa ed efficace?
È abbastanza chiaro che in questa fase della storia della
comunicazione, e della comunicazione politica in particolare, vi è un forte legame tra una determinata forma del
comunicare, quale è quella massmediatica (la forma che
viene soprattutto privilegiata), e un precipuo modo di ottenere e di conservare il consenso. Così com’è chiaro che
chi per primo ha avuto l’idea di accaparrarsi il controllo
degli strumenti di comunicazione radio-televisivi, e naturalmente ha avuto i mezzi finanziari e l’opportunità politica per farlo, si trova anche nella condizione di promuovere un certo modello politico. Lo insegna la storia
della comunicazione. Le grandi dittature devono molto
alla radio (che risulta, come sappiamo, garanzia e luogo
della loro propaganda). Quello che noi dobbiamo alla te-
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Le parole e le cose dei democratici
levisione, invece, è il modello della democrazia leaderistica.
Tutto ciò comporta una particolare idea di partecipazione. Infatti partecipazione, in qualche modo, vi è anche
nella democrazia leaderistica: posto che il termine ‘democrazia’ (come accade per altri termini del nostro lessico
politico: ‘libertà’, ‘responsabilità’ e per lo stesso concetto
di ‘partecipazione’) possa essere trasformato nel suo
senso, cioè radicalmente risemantizzato, conservando
però un qualche legame, un qualche ricordo dei significati che esso aveva nel passato. Ma che cosa vuol dire in
questo contesto ‘partecipazione’? Significa tre cose: la
possibilità di seguire il leader (e chi più velocemente lo segue meglio viene ricompensato); possibilità di assistere in
prima persona agli eventi che riguardano i protagonisti
degli eventi politici (partecipazione allo spettacolo); possibilità d’imitare il leader facendo nei contesti locali ciò che
egli fa nei contesti nazionali.
Molto di questo lo abbiamo sotto gli occhi. Ma abbiamo
sotto gli occhi anche altro. Abbiamo rivolte democratiche
fatte da persone che, come in Maghreb, chiedono pane
e libertà, e preferiscono sacrificare la propria vita se non
li ottengono. Abbiamo sommovimenti resi possibili dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Abbiamo una tendenza
sempre più forte alla trasparenza e alla diffusione delle
notizie: si veda il controverso caso di Wikileaks.
Le nuove tecnologie, ben lo sappiamo, rendono possibile
un nuovo e diverso senso di ‘partecipazione’. La partecipazione del web 2.0 non è one-to-many, bensì many-tomany. Ha la struttura della Rete. Mette tutti quanti sullo
stesso piano. Non c’è un leader e un target (ovvero, una
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Le parole e le cose dei democratici
massa che ascolta), ma vi sono veri e propri interlocutori.
Proprio queste nuove possibilità, applicate all’ambito politico, hanno fatto nascere il mito del social network come
luogo in cui è possibile esercitare, finalmente, una democrazia diretta (dove è possibile fare l’esperienza di un
‘cybersoviet’, com’è stato detto). Ecco perché impazzano i blog degli uomini politici, è quasi d’obbligo la loro
presenza su Facebook, si ripropone come modello la
campagna elettorale di Obama, considerata la madre di
tutte le campagne elettorali vincenti.
Ma è proprio così? Cerchiamo, almeno in questo caso, di
non mitizzare, né di ideologizzare l’uso della Rete. Teniamo ben presenti alcune cose:
Anzitutto, il pubblico del web 2.0 è un pubblico giovane.
Non a caso giovani sono coloro che hanno dato il via alle
rivoluzioni nel Nord Africa. In Italia, però, i giovani sono
una minoranza, all’interno di una società che invecchia
sempre più (e che sempre più si accontenta del mezzo di
comunicazione radiotelevisivo). Non basta, per superare
questo cultural divide, uno sforzo dettato dalla buona volontà. Non basta perché le generazioni più giovani sono
quelle che sono cresciute, proprio, a pane e televisione.
Il loro modo di ragionare è, appunto, per lo più per immagini, non già per argomenti. Ecco perché questa stessa
fascia di età è suscettibile di essere contagiata da forme
di populismo acritico, mediate anche da una sorta di mutazione genetica nell’uso del mezzo televisivo e della sua
capacità di creare spettacolo. Il web 2.0, da questo punto
di vista, è proprio il luogo in cui l’individuo singolo, isolato, può dare spettacolo di sé. Facebook ne è l’esempio
più chiaro. In esso si riafferma il primato dell’individuo iso-
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Le parole e le cose dei democratici
lato, che arbitrariamente si collega ad altri individui, senza
la garanzia che venga creato un agire comune. Il problema qui è dunque quello di mettere in opera una forma
di partecipazione nella quale chi partecipa sente di contare davvero e di operare con altri alla realizzazione di un
progetto condiviso.
Il web 2.0, poi, suscita ben precise perplessità per
quanto riguarda le questioni collegate all’autorevolezza,
la privacy, la mercantilizzazione dei dati acquisiti in un
reciproco scambio. Basta far riferimento, come esempi
per ciascuno di questi problemi, rispettivamente a Wikipedia, a Facebook, a Google. Il web 2.0, insomma,
non è la panacea: proprio per questo – ecco il punto –
ha bisogno di regole. Ci deve essere un’etica della partecipazione in Rete al fondo di queste pratiche, affinché
la Rete stessa possa svilupparsi davvero in forme partecipative.
La comunicazione procede, nella sua storia, per accumulazione, non già per sostituzione. Il che vuol dire che,
allo stesso modo in cui non muore né morirà la comunicazione giornalistica sulla carta stampata, e non muore
né morirà la comunicazione radiofonica, non muore né
morirà neppure la comunicazione televisiva, con la specifica forma di partecipazione che essa richiede e promuove. Il web 2.0 si affianca a tutto ciò, offre uno
strumento ulteriore, ma non garantisce, di per sé solo,
l’egemonia culturale di una parte o l’imporsi diffuso di
una certa modalità di comportamento. Ciò che tuttavia
va mantenuto, soprattutto nella prospettiva di una comunicazione politica, è il contatto diretto, faccia a faccia, con i cittadini. Posto che non lo si sia definitivamente
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Le parole e le cose dei democratici
perso. Il problema è allora quello di unire, non già di sostituire, nuove tecnologie e vecchie forme di interazione.
L’uso di uno strumento non esime dall’elaborazione di
strategie, prima ancora che politiche, di carattere culturale. L’uso di uno strumento, di uno strumento comunicativo, è tattico. Diventa strategico se si comprende la
trasformazione culturale che è insita nell’uso di uno
strumento comunicativo e la si sfrutta. E soprattutto se
si comprende per primi questa trasformazione culturale.
I secondi possono essere solo degli imitatori senza futuro
(la storia recente lo ha insegnato ad abbondanza). Due
sono dunque gli errori che è bene evitare: 1. Non comprendere la mutazione antropologica che è insita nelle
nuove tecnologie e non saperla interpretare in chiave
politica, ma considerare le nuove tecnologie come dei
semplici strumenti da usare tatticamente; 2. Enfatizzare una sola modalità comunicativa a discapito di altre.
Il problema di fondo, qui, è dunque quello di elaborare
una politica culturale capace di comprendere, sfruttare
e integrare, accanto alle diverse forme di comunicazione
disponibili, anche quelle fornite dal web 2.0.
In conclusione, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile, indubbiamente, nuove forme
di partecipazione. Ma sarebbe un errore affidarsi semplicemente al mezzo, credendo che esso di per sé possa
dettare le regole per una partecipazione efficace. Il
mezzo va usato, e a usarlo siamo noi. A partire dai nostri interessi, dai nostri sogni e dalle nostre aspirazioni.
A partire dalle regole di fondo alle quali possiamo riferirci e allo sfondo etico che motiva al loro utilizzo. E, so-
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Le parole e le cose dei democratici
prattutto, movendo dall’idea che i vari mezzi di comunicazione devono essere integrati l’uno con l’altro: per
evitare gli errori di prospettiva connessi alla mitizzazione
di una forma comunicativa; per rendere possibile, a
tutti i livelli e per tutti i cittadini, modalità autentiche di
partecipazione.
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Giuseppe Civati
Consigliere regionale PD Lombardia
Da dove partiamo? Partiamo dall’età di Berlusconi. È
come se i nostri orologi si fossero fermati al 28 marzo del
1994. Berlusconi è protagonista assoluto del dibattito
pubblico, inevitabilmente anche del nostro. Io vorrei che
facessimo ripartire le lancette e lo facessimo guardando
finalmente avanti o almeno di fianco, guardando tutto
quello che succede nel mondo, tutto quello che succede
nella Rete, nella comunicazione e anche nel vissuto della
politica a livello europeo e internazionale.
C’è quella famosa raffigurazione di Susanna e i vecchioni
che rappresenta un po’ l’epoca in cui viviamo. C’è anche
un po’ di Ruby dentro. Però c’è il fatto che Susanna è salvata da Daniele, che è piccolino e già profeta: questo ci
indica che il compito del salvataggio è affidato a voi. Noi
siamo una generazione a metà strada e c’è bisogno di
un’energia secondo me nuova, di un punto di vista che
faccia saltare uno schema sul quale ci siamo soffermati
troppo a lungo. Pensate al fatto che io sono considerato
un giovane del PD. È bellissimo come slogan per la campagna di tesseramento: ‘nel PD si è giovani fino a sessant’anni’. Mi chiedo se sia una fregatura, perché uno
può pensare che sia un trucco. Qualcuno può dire che io,
la Serracchiani e gli altri del giro siamo sempre in prima
pagina perché siamo i giovani.
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Le parole e le cose dei democratici
In realtà è una grande fregatura sotto il profilo politico
perché noi non siamo più giovani. Come ha spiegato Rosa
Russo Iervolino, siamo dei ‘guagliuncelli’. È un trucco retorico molto interessante: tutto il nostro discorso politico
è intessuto di questi trucchi e di queste fregature che neanche vediamo, e magari ce ne vantiamo pure.
Il web è l’esempio più clamoroso. Io non vi faccio una lezione perché non ne sono capace, ma ci sono alcune cose
da evitare. Innanzitutto, il ‘popolo del web’. Spesso i nostri politici dicono: ‘io sono molto apprezzato nei comizi,
è il popolo del web che ho contro’. Ma il popolo del web
non esiste, non c’è nessuna separatezza tra i due tipi di
pubblico. Ormai con i social network è un argomento veramente ridicolo distinguere tra chi fa politica in un certo
modo e chi sta sul web, soprattutto al di sotto di una certa
età. Vi segnalo, tra l’altro, che anche quest’ultimo è un
luogo comune perché da qualche tempo ormai i social
network e il web crescono moltissimo tra le persone di
una certa età, anche in Italia. Chi vi parla del ‘popolo del
web’, chi vi dice che c’è una separazione tra i due mondi,
sta mentendo. C’è di più: questa separatezza provoca anche incomprensioni straordinarie proprio sul tema culturale che è stato benissimo descritto da Fabris in ultimo.
Nel senso che noi, sul web, non abbiamo solo degli strumenti a disposizione, ma anche un modo di comportarci:
abbiamo una filosofia, se volete, una struttura delle relazioni che è molto diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Noi, per esempio, siamo un partito molto gerarchico: sul web ci sono relazioni e regole da seguire,
un’etichetta, un’educazione, un comportamento consigliabile, schemi da rovesciare. Forse, però, ci si potrebbe
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Le parole e le cose dei democratici
anche immaginare un mondo democratico in cui, a delle
gerarchie un po’ piramidali, si sostituisca qualcosa di più
orizzontale, con regole definite nei momenti di decisione,
qualcosa che sia fondato su un concetto fondamentale:
la trasparenza. Chi decide che cosa, dove matura una posizione, quali sono le conseguenze a cui questa posizione porta. La parola più bella è una parola di sinistra:
‘condivisione’. Una parola sulla quale si scrive molto ma
che in fin dei conti, forse, non è entrata ancora nella vita
politica italiana. È un modo anche per correggere l’individualismo di ciascuno di noi. Il personalismo, in generale,
è quell’atteggiamento per cui è importante che una cosa
la dica io. Io ho recentemente avanzato questa proposta:
che noi sulle idee all’interno del PD non dovremmo mettere i cognomi, come nelle buste dei concorsi. Perché è
certo che, se un’idea viene avanzata da Veltroni, ai dalemiani non piacerà, e viceversa. Il fattore culturale, anche
su questo terreno, è decisivo.
Sul web troviamo poi un altro insegnamento che la politica italiana non sembra aver compreso del tutto: la politica sta tra le cose. Mario Rodriguez ha uno dei profili di
Facebook più da psicosi – ormai è irrecuperabile – in cui
si trova un po’ di tutto, non solo articoli legati al suo lavoro: è un corso di idee, di associazioni, di intuizioni che
Rodriguez colleziona e rendono il suo profilo più accattivante. Se parlasse sempre delle cose che studia o che fa
sarebbe una noia mortale. I politici tendono invece a
fare questo secondo errore: ci dicono, per esempio,
quando vanno in tv. Ci sono degli status su Facebook fantastici: ‘sono a TeleLombardia alle nove’, tanto per citarne
uno. Capite? Questa idea di stare tra le cose, di mostrare
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Le parole e le cose dei democratici
anche una umanità, è un elemento decisivo sul quale noi
stessi dobbiamo sperimentare strategie concrete. Dobbiamo metterci a disposizione dell’elettorato, delle persone con cui noi lavoriamo. Questo io vorrei dire oggi:
che la Rete è uno straordinario strumento leninista, se volete un nuovo conio, per organizzare la partecipazione.
Per organizzare una partecipazione e un consenso che altrimenti ci scivolano via. Non credo che i circoli del PD
siano esaustivi nella costruzione di una proposta democratica, e la Rete stessa non basta. Coniugando i due elementi si può costruire qualcosa. Pensate a tante iniziative
che anche voi promuovete tra la Rete e il territorio e a
come le due dimensioni si tengano insieme. Io stesso una
volta scrissi: ‘Facebook è l’arte della manutenzione dei gazebo’. Facebook, infatti, può essere utilizzato anche per
organizzare il banchetto tradizionale, in uscita dal quale
si può anche fornire l’indicazione ‘seguici su Facebook!’.
Altra questione da chiarire: noi parliamo spesso di ‘base’.
La base è un luogo mitico che poi nessuno ascolta mai.
Ma la base è anche base di dati. Noi siamo il partito nel
mondo che ha più indirizzi, archivi, e-mail. Questa base
di dati, questi archivi delle primarie, se fossimo Obama,
li avremmo già utilizzati in modo molto ampio. La cura di
quegli indirizzari e l’utilizzo di una strategia che si chiama
microtargeting ci può consentire questo. Proveremo a
farlo con le firme raccolte per la richiesta di dimissioni di
Berlusconi. Può consentire una serie di mosse che nessuno
ha mai provato e che in realtà Berlusconi mette in atto
con altri mezzi economicamente più sostanziosi. Questo
patrimonio di contatti lo vogliamo usare? È fondamentale
esattamente quanto lo è la base, quella con la B maiu-
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Le parole e le cose dei democratici
scola, che spesso evochiamo nei nostri discorsi.
Penultimo esempio di questo approccio culturale. Noi
abbiamo fatto un congresso di un anno, lunghissimo, appassionato: un congresso tanto lungo che alla fine non se
ne poteva più. In questo anno di dibattito congressuale
si è sentito spesso richiamare il tema dell’identità, richiamato prima da Francesco Verducci. In verità anche su
questo c’è un insegnamento che si percepisce attraverso
la Rete, e che riguarda il modo in cui l’identità può essere
scomposta e in cui alcuni punti di vista della politica, soprattutto quella nazionale, siano spesso limitati. Vi porto
l’esempio più semplice. Noi spesso parliamo dell’elettorato dell’UDC, però facciamo più fatica a parlare di giovani, donne, precari come elettori che magari sono tifosi
di questa o di quella squadra di calcio. Anche la storia
della politica italiana ci insegna che aspetti più ludici entrano nella decisione politica, e non solo per Berlusconi.
C’è un assessore della Regione Lombardia, tra le varie
amenità che compongono quell’Atene di Pericle in cui
vivo, che è un capo-ultrà dell’Atalanta. Si chiama Daniele
Belotti, è della Lega, ed è stato fermato perché aveva partecipato all’insurrezione contro la tessera del tifoso voluta
da Maroni, dal proprio Ministro. Ecco: questa è la scomposizione dell’identità.
Il web è una grande opportunità, un campo aperto che
Berlusconi sta iniziando ad occupare. Anche se in modo
ancora troppo frontale e commerciale, la destra è molto
presente sul web. Se voi aprite un video di Verducci, magari sotto trovate la pubblicità che ti chiede se voti a destra e ti invita a cliccare su un link specifico: vieni rinviato
a un sito di approfondimento a favore di Berlusconi, e a
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Le parole e le cose dei democratici
quel punto devi decidere tra Verducci e Berlusconi…
Questo per dirvi che la questione è molto più semplice di
come spesso viene posta. Prendiamo il tema della narrazione. La politica non è stata inventata da Vendola. Siccome è Vendola, però, bisogna parlarne male: è un compito che ci siamo dati all’inizio dell’anno. Io ho sentito a
Busto Arsizio, all’Assemblea nazionale, molti nostri dirigenti affermare che bisogna stare attenti, che la narrazione è pericolosa. No, la narrazione serve, il problema è
che deve essere molto controllata, deve essere anche eticamente sostenibile. Questo è il problema di questo
paese: ti viene raccontato un gran numero di storie, si
tratta poi di vedere qual è verisimile. In più ci vuole un leader. Quando dico che dobbiamo trovare un leader da
candidare, lo faccio perché credo sia importante avere un
riferimento. Per uscire dall’età di Bush, noi dovevamo poter raccontare l’età di qualcun altro. E se ci pensate, questo in Italia noi ancora non lo abbiamo.
È importantissimo l’approccio, è importantissima la scelta
degli argomenti: come Rodriguez richiama spesso nei
suoi articoli, c’è una parola che non si usa più: ‘topica’. La
topica è la scelta degli argomenti, l’individuazione di quei
luoghi comuni che ritornano, la costruzione anche di
simboli intorno ai quali far ruotare il discorso. Faccio
l’esempio monumentale per cui tutto l’universo si squaderna: il Trota.
Voi ridete ma fate attenzione, perché stanno costruendo
una mitologia sul Trota: stanno preparando la successione
con il Trota. Gli stanno attribuendo delle qualità giocando proprio sul fatto che lui era l’uomo senza qualità,
che è poi la classica fenomenologia di Mike Bongiorno,
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Le parole e le cose dei democratici
che tanti hanno studiato. Il Trota non riusciva a passare
la maturità, hanno dovuto chiamare i caschi blu dell’ONU perché, vi ricordate, è stato bocciato tre volte: un
record mondiale. Adesso fa il Consigliere regionale, dopo
aver incassato tantissime preferenze. È il leader. Io consiglio di chiamarlo ‘il quota’ perché è quello che ha fatto
la mediazione sulle quote. Fa anche politica e gli intestano
molte iniziative di grande profilo: ad esempio, è stato il
relatore della legge sulla formazione alla legalità contro
la mafia in Lombardia. Guardate che fra qualche tempo
lo ritroveremo tra i vari nomi che si faranno per la successione a Berlusconi. Zaia, Tosi, Cota e poi Trota. Lì, bisogna riconoscerlo, abbiamo dato anche noi il nostro
contributo alla formazione della mitologia.
La prima intervista che ha fatto il Trota è stata da Daria
Bignardi, la sofisticatissima intellettuale della televisione
un po’ di sinistra, progressista. Gli abbiamo in qualche
modo attribuito una specie di biografia della nazione
perché, guardate, questi simboli agiscono anche quando
non ci pensiamo. Non è che non l’hanno votato. Certo,
si chiama Bossi. Però è il simbolo di una tradizione familistica che in questo paese noi dovremmo contrastare con
delle armi molto più aggressive e molto più convincenti
che non siano soltanto quelle dell’ironia sul Trota, sulla
Minetti e su tutta una serie di altri personaggi.
Concludo proprio su questo punto con un appello a voi
e a Pier Luigi Bersani (sempre sia lodato!). Io lo stimo, ho
un culto della personalità, ma l’altra sera, al termine di Annozero, Santoro gli domanda: ‘Con quale alleanza, Bersani, andrete alle elezioni e chi ne sarà il leader?’. Vi prego
di guardare la risposta di Bersani. Io non condivido alcune
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Le parole e le cose dei democratici
cose nel merito ma lì ad essere completamente sbagliati
sono il linguaggio, la scelta dei tempi e l’ordine delle cose.
Bersani prima di tutto si difende. Ma – mi chiedo – noi che
colpe abbiamo per doverci sempre giustificare? Perché iniziare difendendosi? ‘L’alleanza’ – ha risposto Bersani – ‘noi
la facciamo larghissima, ma non stiamo con quanti intendono ricostruire la destra’. E uno già pensa: ‘chi sono
quelli che devono ricostruire la destra?’, e si perde. Poi
Bersani torna indietro e dice: ‘con tutti quelli che ci
stanno, ma non con Ferrero e Diliberto’. Ragazzi: io faccio politica, so cosa sta dicendo, ma ho l’impressione che
un essere umano normodotato non abbia capito granché.
E soprattutto si dava l’impressione di una clamorosa confusione, una confusione che Bersani non ha. Conclude dicendo: ‘ho poi cinque cose sulle quali costruire questa alleanza, cinque cose che vi diremo’. L’effetto, in definitiva,
è completamente sbagliato. Deve partire dalle cinque
cose e dirle subito, poi dire che si rivolgerà a Fini, Casini
– utilizzando dei nomi comuni: Ferrero e Diliberto non li
citerei, dato che già hanno già distrutto la sinistra italiana
in più occasioni. Bello, sereno e tonico, magari scegliendo
argomenti che possano aprire un dialogo con quelli che
non ti aspetti.
Non è questione di essere demagogici, narrativi, vendoliani. Ci sono, però, temi che servono per riaprire un dialogo. Sul web ce ne rendiamo conto, ma servono anche
e soprattutto nella realtà. Per esempio, l’argomento della
casta. Quando io dico, come ripeto sempre, ‘metà parlamentari a metà prezzo’, la platea applaude. Allora lì c’è
un problema che tu devi rappresentare, c’è una distanza
da colmare. L’idea è banale, ne sono consapevole, ma è
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Le parole e le cose dei democratici
un modo per prendere la parola e per avere un minimo
di ascolto da parte delle persone.
Questa è la mia urgenza: semplicità, ordine, chiarezza. Il
senso etico. Nel libro Il narratore di Walter Benjamin, nella
riflessione sulla narrazione emerge a un tratto il tema etico
per cui il narratore è il giusto, o comunque riconosce se
stesso come il giusto. Allora noi dobbiamo chiedere a noi
stessi, a Vendola, a tutti quanti, un’altissima qualità del discorso pubblico e un’altissima verificabilità di questo discorso. Quello che manca anche a noi in questa grande
confusione dei mezzi di informazione, che invade inevitabilmente anche il web, è un momento di confronto serio e puntuale. È un fatto di trasparenza e di democrazia.
Io dico sempre di prendere il compagno Excel. Mettiamo
in ordine i dati, spieghiamo. Per esempio, è in corso il dibattito sulle fonti rinnovabili. Spiegare quali sono le criticità in quel settore, spiegare bene perché non serve il nucleare, cosa sta facendo Romani, dove è meglio mettere
i pannelli: tutto questo si può fare, si può fare anche
scherzandoci sopra, essendo avanzatissimi e innovativi.
Bisogna saper dare delle spiegazioni realistiche che siano
verificabili anche la prossima settimana. Su questo, sulla
piacevolezza del nostro discorso, sulla qualità delle nostre
affermazioni e sulla loro coerenza, secondo me, possiamo far ripartire le lancette dell’orologio. E Bersani può
fare il leader. Anzi, sarà l’età di Bersani.
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Mario Rodriguez
Professore di Comunicazione Politica,
Università di Padova
Due premesse
Ieri sera, in questa splendida città, facevo una passeggiata
romantica con mia moglie, ed eravamo in piazza dei Miracoli. Stamattina mi è tornata in mente la solita storiella
dell’uomo del Rinascimento che passa per la piazza e
chiede allo scalpellino cosa stia facendo e lui risponde: ‘sto
scalpellando una pietra’. E poi chiede ad un altro scalpellino, che sta scalpellando una pietra come quello di
prima, cosa stia facendo, e questi risponde: ‘sto costruendo una cattedrale’. Poi chiede al terzo scalpellino,
ma potrebbe essere il sessantesimo: ‘e tu cosa stai facendo?’. Quello sta scalpellando la stessa pietra nello
stesso modo, e risponde: ‘sto edificando la gloria del Signore’.
Io credo – e vi vorrei convincere di questo – che ragionare
di comunicazione significhi entrare nella mentalità, se
non proprio di costruire la gloria del Signore, almeno di
costruire la gloria di un umanesimo di natura nuova. Il
concetto fondamentale su cui vorrei insistere da un punto
di vista professionale, da professionista di comunicazione, è quello dell’inadeguatezza o insufficienza dell’approccio strumentale, trasmissivo, alla comunicazione,
e della necessità di affrontare la comunicazione come un
fenomeno culturale, simbolico, rituale. Uscendo dalla
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Le parole e le cose dei democratici
metafora, vorrei evidenziare la differenza tra scalpellare
una pietra e contribuire alla costruzione di un edificio.
La seconda premessa è relativa al rapporto tra il dire e il
vivere, tra le affermazioni e i comportamenti, tra l’agire
e il vivere esperienze. Questo vale anche per i prodotti.
Anzi, proprio la pubblicità commerciale ci ha aiutato a
mettere meglio a fuoco il meccanismo. I prodotti, pensate
ad una automobile, non si vendono perché si fa una
buona pubblicità. Le macchine si vendono perché la
buona pubblicità corrisponde a una prestazione, ad una
esperienza (tangibile o intangibile): il prodotto soddisfa in
modo efficace le diverse esigenze connesse al desiderio.
La buona comunicazione deve essere quindi a un livello
di equilibrio, una sorta di omeostasi, tra autenticità, veridicità, credibilità, utilizzabilità, ed è strettamente collegata ai comportamenti, alle prestazioni.
La mia professione vaga tra due estremi: da un lato, il
consulente sconsolato, pieno di dubbi, consapevole della
complessità dei meccanismi di formazione delle reputazioni, e quella del consulente affetto da delirio di onnipotenza, convinto di poter fare apparire una persona ciò
che vuole o che ritiene necessario, cioè di poter costruire
la sua immagine. A me pare invece che il compito di un
buon consulente di comunicazione sia quello di dire: decidi tu quello che vuoi fare e io ti aiuto a farlo al meglio:
non posso sostituirmi a te, posso aiutarti a dare il meglio
di te, interagire con il tuo ambiente, ascoltare, comprendere come gli altri si rappresentano la realtà, e trovare le
parole e le metafore che valorizzano i connotati distintivi
della tua identità in funzione degli obiettivi che persegui.
Bisogna delimitare il campo della comunicazione per non
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Le parole e le cose dei democratici
soffrire di delirio di onnipotenza.
Occorre soprattutto dare una motivazione alla ricerca
della dimensione culturale della comunicazione, dell’utilizzo degli strumenti. Gli strumenti ci sono, sono di facile
utilizzo. Chi non sa utilizzare quegli strumenti non è che
non sa come funzionino: è che ha deciso di non usarli,
non ha chiaro i benefici che possono derivare dal loro utilizzo. Anche nel nostro recentissimo passato, ci sono leader politici che non hanno sentito il bisogno di sottoporsi
ad un media training professionale prima di parlare attraverso la televisione per nove minuti a nove milioni di
persone. È sottovalutazione dello strumento o un problema culturale? O meglio, la sottovalutazione dello strumento è frutto di una visione, di un’impostazione culturale?
La mia frustrazione nasce quando ti dicono: ‘noi abbiamo i valori, abbiamo le competenze, ci manca soltanto
il modo di far sapere quello che sappiamo fare’. Non è
così. Non è vero che non abbiamo saputo dire. È che abbiamo detto certe cose e gli altri non ci hanno scelto. Abbiamo detto delle cose per cui una parte ci sceglie e una
parte non ci sceglie.
La dimensione antropologico-culturale
Quindi, la comunicazione ha soprattutto una dimensione
antropologico-culturale: è questo che dobbiamo condividere. È una rivoluzione culturale interna, è una modificazione del rapporto con la vita, con l’altro. È la capacità
di mettere al centro chi riceve e non chi emette il messaggio. Perché il significato che assumono le cose che si
dicono o che si trasmettono attraverso l’azione è frutto di
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Le parole e le cose dei democratici
una ‘negoziazione’ tra emittente e ricevente. Comunicare
è costruire significati e inizia dalla comprensione di come
gli altri, gli interlocutori, attribuiscono significati (diversi)
alle cose che viviamo (insieme).
Allora: se approccio strumentale o delle tecniche e approccio culturale devono procedere l’uno di fianco all’altro, occorre inserire queste tecniche in una visione delle
cose. George Lakoff sostiene un concetto fondamentale: la metafora vincente – per esempio, ‘non metteremo
le mani nelle tasche degli italiani’ –, nasce da uno studio
approfondito e da una capacità di rappresentare e di interpretare la realtà, non è il frutto originale del creativo
di turno. Non è scegliendo il bravo pubblicitario che si trovano le metafore con-vincenti, ma avendo una visione
della realtà, una capacità di interpretazione della realtà.
Soltanto quando si hanno chiare le idee in testa (le caratteristiche del prodotto, della proposta politica) nascono gli slogan vincenti. Gli slogan memorabili nascono
da brief efficaci.
Nella storia del movimento operaio, nella storia della sinistra, nella storia della democrazia, ci sono state metafore vincenti, semplificazioni inaudite, ci sono stati jingle
fantastici. Capisco che definire un inno del movimento
operaio un jingle può offendere qualcuno, ma la differenza non è nella cosa in sé, nella sua funzione di cristallizzare un’emozione, ma nel significato che ha assunto.
Tutto questo attiene alle logiche della persuasione, alla retorica come arte del convincimento che accompagna da
sempre la storia degli umani. Facciamo sempre le stesse
cose, cambiano gli oggetti che usiamo, le tecnologie e le
tecniche.
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Le parole e le cose dei democratici
C’è stata grande capacità retorica prima della tv– pensate
ai discorsi di D’Annunzio dal Pincio – ma anche prima dei
mezzi di comunicazione di massa; c’è stata personalizzazione e leaderizzazione anche prima della televisione.
Non è che i leader politici, i dittatori, i grandi condottieri
siano un’invenzione della tv.
Allora mettiamo bene a fuoco il problema fondamentale
di ogni approccio alla comunicazione politica (quella persuasiva, quella che persegue l’obiettivo di indurre persone
a fare cose, agire, assumere comportamenti, condividere, votare): se non capiamo perché le persone pensano
quello che pensano, non potremo mai parlare loro in
modo tale da far cambiare il modo in cui attribuiscono significati, interpretano la realtà.
La conversazione
Uno dei pilastri fondamentali, dunque, di una buona comunicazione risiede nel capire i processi cognitivi, nel
comprendere perché uno pensa quello che pensa. Il problema di questi vent’anni non è quanti votano Berlusconi,
ma perché in Veneto continuano a votare in un certo
modo e in Toscana a votare in un altro. A questa domanda non abbiamo dato risposta: a questa domanda la
massmediologia non ha saputo ancora dare una risposta
definitiva. Manca una spiegazione della permanenza,
della lunga durata. C’è qualcosa che non capiamo nell’interazione tra influenza dei media e ruolo dell’interazione nella vita quotidiana. La chiacchiera alla macchinetta del caffè, così come la conversazione web, filtra il
messaggio televisivo; rimpasta nel vissuto, nell’esperienza
della vita quotidiana, le cose che ci hanno colpito. Le in-
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Le parole e le cose dei democratici
formazioni che abbiamo ricevuto diventano significato in
questo processo di rielaborazione e di interpretazione. Per
questo le conversazioni sono fondamentali.
L’ascolto
Ritorno a un concetto: l’ascolto. Faccio riferimento ad alcuni autori come Paul Watzlawick o Marianella Sclavi: nel
momento in cui siete pronti a mettere le mani al collo alla
persona che amate, perché vi sta dicendo una cosa che
non condividete, avete una sola strategia, una sola possibilità dirle: ‘mi fai capire perché la pensi così?’. Mi sto
riferendo non a una persona che non amate, ma a qualcuno che è parte della vostra vita, che ha vissuto la stessa
esperienza che avete vissuto voi e la racconta in una maniera completamente diversa. A quel punto nasce il contrasto e una sola via d’uscita è possibile: ‘mi spieghi perché la pensi così?’. Soltanto se vi predisponete a pensare
come l’altra persona, a capire perché la pensa in quella
maniera, riuscite a mettere in comune significati, o almeno i significati che permettono di costruire mondi
condivisi, penultime verità, approssimazioni.
L’ascolto, per comunicare efficacemente, è fondamentale.
Dovete saper ascoltare, dovete strutturare l’ascolto, modificare i processi organizzativi in funzione dell’ascolto. Bisogna ascoltare soprattutto per una questione tecnica: se
non si riesce a capire come l’altro rappresenta la realtà,
non è possibile entrarci in contatto. L’agire politico è
agire comunicativo, con una finalità intimamente persuasiva. Che lo si voglia fare con l’argomentazione razionale piuttosto che sollecitando emozioni, in ogni caso
lo si fa sollecitando il sentire, il sentimento, il feeling.
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Le parole e le cose dei democratici
Le sensazioni, i sentimenti, i feeling
Antonio Damasio ha scritto cose molto importanti sull’importanza del feeling, del provare sensazioni. È attraverso i sentimenti che noi prendiamo posizione. Siamo
quello che siamo, pensiamo quello che pensiamo, ci
siamo schierati in politica, non perché ci siamo convinti
leggendo libri o paragonando programmi, ma perché
abbiamo provato sensazioni. È per ‘questione di feeling’
– se vogliamo adottare la moda del tempo di riferirsi ai titoli delle canzoni – che ci siamo schierati da una parte. Poi
dopo abbiamo letto, cercato giustificazioni e sostegni, costruito la nostra identità.
Da queste considerazioni, molto parziali, vorrei affrontare
anche il tema del ruolo della personalizzazione nella comunicazione del nostro tempo. Se le interazioni personali
sono fondamentali anche nella società dominata dalle tecnologie dell’informazione, se il web ci ripropone la conversazione in una veste del tutto nuova, sarà ancora importante la costruzione del patto fiduciario che si sviluppa
nel momento in cui ci si guarda negli occhi. Certo la personalizzazione del nostro tempo, dalla quale non possiamo sfuggire, sarà una personalizzazione diversa. Ci potranno essere diversi tipi di personalizzazione: populistica,
autoritaria, auto-centrata, frutto di un’elaborazione collettiva. Ma le persone hanno bisogno di credere e di
avere fiducia in altre persone, e il rapporto di fiducia si stabilisce guardandosi negli occhi, attraverso quella scorciatoia emotiva che attribuisce carisma.
Persone, non target
Un’altra parola cruciale per la comunicazione efficace,
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Le parole e le cose dei democratici
questa volta in negativo, è ‘target’. Bisogna smettere di
pensare che abbiamo dei target. Noi non dobbiamo bersagliare nessuno: abbiamo persone con cui entrare in relazione, con cui costruire speranze ragionevoli: questo è
il punto. Devo avere capacità di focalizzare ma non di colpire. Devo legare, non conficcare chiodi.
In parole semplici dobbiamo, per esempio, cancellare
l’idea che l’altro che non la pensa come noi sia stupido.
Quante volte ci si fa carico della ragionevolezza dell’altro?
Poche. L’altro ragiona, non è che sbaglia, ha il suo modo
di ragionare. E allora io devo capire il suo modo di ragionare per entrare in comunicazione con lui.
Per questo la mia parola è ‘ascolto’, non ‘feedback’. Noi
non ci occupiamo di bit trasmessi e ricevuti, non ci occupiamo di un fatto meccanico, ma di un fatto culturale,
della costruzione di significati. Non mi interessa soltanto
se l’impulso è stato ricevuto e se devo rimandarlo – modem, modulazione, demodulazione –: mi interessa che significato ha assunto il mio input. Come dicevamo, il significato lo determina il ricevente in una negoziazione con
l’emittente. È per questo che l’ascolto è fondamentale. Io
non posso determinare la mia immagine, ma solo comunicare i tratti distintivi della mia identità: l’identità si costruisce affrontando e risolvendo i problemi dell’oggi.
L’identità non consiste nel cercare di essere identici a un
passato rappresentato sempre meglio di quello che è
stato, un passato che è diventato auto-narrazione, nostalgia, zavorra, paura di lasciare la costa e di andare
avanti. L’identità è ciò che mi distingue, che mi fa identificare, e io mi identifico attraverso la comunicazione,
consapevole dei tratti distintivi della mia personalità.
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Le parole e le cose dei democratici
L’esperienza, la prassi
Due altre parole su cui richiamare l’attenzione sono ‘esperienza’ e ‘relazione’. Una campagna elettorale è soprattutto la capacità di far vivere un’esperienza: è soltanto attraverso l’esperienza che gli umani apprendono e
modificano le proprie conoscenze.
L’altra è ‘relazione’, dunque dialogo, parola. Ma la parola
esiste se è detta, se è relazione dialogante. Stamattina con
Fabris ricordavamo un’intervista di Gadamer che trovate
anche su Rai Educational in cui il filosofo spiega la nascita
del linguaggio e della parola. La parola è perché è detta:
per questo, senza sottovalutare gli strumenti tecnici, vale
più di mille immagini. La parola è alla base della costruzione del significato, è dialogo, conversazione.
Lo abbiamo accennato: il web permette il recupero della
conversazione. Voglio sottolineare questo tratto delle
nuove tecnologie, che ci permettono di rivivere vecchie
esperienze (di nuovo, si fanno all’incirca le stesse cose ma
cambiano tecniche e tecnologie): le nuove tecnologie ci
potrebbero permettere di far (ri)vivere le tradizionali esigenze associative o organizzative (dai Circoli del PD alle
Case del popolo) all’altezza del nostro tempo: luoghi
dove, invece che andare soltanto al bar, si possa per
esempio fare esperienza ampia del fenomeno Internet e
dei social network.
Le parole democratiche.
Quindi le parole democratiche – che rappresentano un insieme più ampio, più capace di interpretare e più inclusivo di quelle di sinistra – per me sono: ‘ascolto’, ‘dialogo’,
‘parola’, ‘comportamento’, ‘esperienza’. ‘Esperienza’, ‘ef-
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Le parole e le cose dei democratici
ficacia’, ‘autenticità’. Questo splendido equilibrio, questo
momento magico che rende efficaci è un rapporto tra ciò
che si dice e ciò che si fa. Ciò che si ascolta e ciò che si
vive.
I comportamenti comunicano più delle affermazioni. Un
soggetto che comunica è efficace quando è credibile, legittimato ed empatico. Capace di governare la dimensione del ‘personale’ e della generazione di sensazioni.
La fatica che sempre emerge nel trattare la dimensione
della personalizzazione è la fatica nel comprendere il
tempo che viviamo. Non possiamo non personalizzare la
comunicazione, non possiamo non governare la dimensione affettivo-sentimentale della comunicazione, perché
gli umani hanno bisogno di costruire significati attraverso il sentire. Per questo non è la lunghezza del programma a convincere come spiega Lakoff: è quello stato
di grazia che si crea quando la gente crede che tu sapresti cosa fare, si fida, e tu riesci a proporti non come un
scalpellino ma come uno che costruisce la gloria del Signore.
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PANEL III
Le grandi biografie della politica italiana.
Chi comprende l’album dei democratici
e chi esclude?
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Giovanni Bachelet
Presidente del Forum PD per le politiche dell’Istruzione
Premessa
Correva l’anno 1995 quando Prodi propose che tradizioni
politico-culturali fino a quel punto in competizione fra
loro confluissero in un soggetto politico democratico
chiamato l’Ulivo. Eravamo nel secolo scorso. Finiva
un’epoca sconosciuta ai ventenni di oggi. Erano appena
crollati, fragorosamente, partiti che per cinquant’anni
avevano rappresentato l’ossatura democratica dell’Italia.
In quegli anni democrazia cristiana, socialdemocrazia,
comunismo, liberalismo, rappresentavano ideologie, partiti e volti sul viale del tramonto, ma ancora riconoscibili
sui media e sul territorio. Per quei tempi era una novità
promuovere la confluenza e la contaminazione di queste
culture politiche in un unico contenitore, distillando e rilanciando ciò che di buono avevano ancora da dire al
paese; era una sfida inedita provare a buttar via l’acqua
sporca dei vecchi partiti senza buttare il bambino dei
loro ideali repubblicani, democratici e costituzionali; sembrava impervio e temerario portare in un’unica squadra
giocatori che nei precedenti cinquant’anni erano stati, per
la maggior parte del tempo, avversari.
Radici dell’Ulivo
Dalle elezioni vinte nel 1996 ad oggi, malgrado resi-
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Le parole e le cose dei democratici
stenze, ritardi ed errori, il progetto di Prodi, sotto diversi
nomi, è andato avanti al punto tale che, a distanza di
quindici anni, ci troviamo a riflettere su le parole e le cose
dei democratici. Il motivo è, a mio avviso, che già nel
1995 questo progetto aveva basi solide, in quanto intercettava e dava sbocco a esperienze, idee e speranze maturate nella società italiana fin dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Le esperienze, le idee e le
speranze che venivano naturalmente attratte nell’orbita
di Prodi nascevano nell’alveo delle tradizioni democratiche repubblicane: appartenevano tutte a quell’arco costituzionale che era visto come fumo negli occhi (insieme
alla Trimurti sindacale) dai reazionari degli anni Settanta,
incluso il mitico Indro Montanelli, la cui successiva ripulsa
del berlusconismo risultò, proprio per questo, particolarmente significativa. Queste esperienze erano maturate fra
nuova scuola media e liberalizzazione degli accessi dell’università, fra Concilio Vaticano II e rivoluzione sessuale. Fra lotte operaie e studentesche, mobilitazioni giovanili per alluvioni e terremoti e decreti delegati. Fra
nuova autonomia delle Regioni e Statuto dei lavoratori,
fra nuovo diritto di famiglia e Servizio Sanitario Nazionale.
Erano maturate, anche, fra presidenti e leader democratici ammazzati negli Stati Uniti, tra colpi di Stato in Grecia, Cecoslovacchia e Cile; e, a casa nostra, fra bombe di
destra e pistole di sinistra, mafie e tangenti, logge segrete
e servizi deviati.
Non un semplice bis
Già allora, venti o trent’anni prima dell’Ulivo, l’incontro
di queste tradizioni non rappresentava un semplice bis
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Le parole e le cose dei democratici
della Resistenza o dell’Assemblea Costituente. Oltre al
maggior respiro internazionale, oltre alla crescente insofferenza verso un mondo diviso in blocchi, c’erano novità
radicali come l’ambientalismo e i diritti civili, riesumazioni
di filoni antichi come l’azionismo o il pacifismo, e per i cattolici il progressivo tramonto del cortocircuito fra appartenenza religiosa e appartenenza politica o sindacale. E
che dire della televisione e di trent’anni di egemonia
americana? Ma c’è di più: quarant’anni fa, almeno nella
mia percezione, ragazzi e ragazze provenienti da diverse
storie e appartenenze democratiche si trovarono a dar
vita (nel linguaggio, nel modo di vestirsi, nella musica: più
per istinto e passione che per ragionamento) ad una inedita ecumene un po’ democratica e un po’ hippie, un po’
boy-scout e un po’ gruppettara, un po’ cristiana e un po’
socialista: ad un nuovo frullatore culturale nel quale, al
confronto fra diversi, cominciavano a subentrare reciproca curiosità, contaminazione, meticciato.
In una parte più, e meno altrove
Questo vento non era, naturalmente, uniforme. Soffiava
più nelle grandi città e meno nei paesi; più in alcune province e meno in altre; più in alcuni partiti e sindacati e
meno in altri; più fra i giovani (giovani di allora, oggi almeno cinquantenni) e meno fra i vecchi (oggi ultraottantenni). Pur soffiando a diverse velocità, faceva scricchiolare ovunque vecchie ideologie e contenitori politici
e spargeva ovunque semi di una unità democratica, di un
nuovo assetto politico capace di coagulare i progressisti
e portarli al governo del paese sulla base di programmi,
schieramenti e candidati più che di appartenenze politi-
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Le parole e le cose dei democratici
che identitarie, immutabili, anagrafiche; un po’ come
negli Stati Uniti o in qualche paese europeo meno ideologico del nostro. A questa evoluzione politico-culturale
un’improvvisa e drammatica accelerazione fu imposta
dall’assassinio di Aldo Moro. L’urgenza di nuove alleanze democratiche e un rinnovato patriottismo costituzionale parvero ulteriormente aumentare con l’irrompere, di poco successivo, di una televisione commerciale
monopolista e di una politica spregiudicata, le quali a
braccetto, in nome della modernizzazione, tendevano a
travolgere, insieme a tabù e ipocrisie, valori e principi dell’Italia democratica; e mentre a parole dichiaravano
guerra a statalismo e burocrazia, sfondavano gli argini dei
conti pubblici, ponendo le premesse di un colossale debito. Già allora il sistema dei vecchi partiti appariva a molti
una gabbia, un tappo, una comunità storicamente benemerita ma ormai incapace di svolgere il ruolo affidato dall’articolo 49 della Costituzione («tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale»).
La DC, in una grande città
Farò un esempio personale. Quarant’anni fa da genitori,
professori, preti, capi scout – da tutti quelli che hanno
provato a educarmi – ho ricevuto l’unanime input che la
partecipazione politica sia non solo un diritto, ma anche
un dovere del cittadino e del cristiano; che per partecipare
occorra informarsi, imparare a leggere i giornali, avere «il
coraggio di alzarsi e parlare, e anche il coraggio di sedersi
e ascoltare», come disse una volta Churchill. Ma già al-
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Le parole e le cose dei democratici
lora, nel decennio 1965-’75, a Roma, non solo nel mio
ambiente familiare e associativo, cattolico e democratico,
ma anche nella mia scuola statale, dove era rappresentato
tutto lo spettro politico-culturale del paese, ben pochi dei
miei educatori erano iscritti ad un partito. Erano cittadini
attivi, attenti, partecipi, fedeli ad ogni appuntamento
elettorale; ma non erano iscritti a un partito. O meglio:
qualcuno era magari iscritto al PCI, ma praticamente
nessuno ai partiti di governo, assorbiti da decenni di amministrazione, fatalmente più lontani dai cittadini.
Quando nel 1975 Benigno Zaccagnini fu eletto segretario dal Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, e
l’anno dopo confermato dal Congresso (con un nuovo sistema di elezione diretta voluto da Segni e Ciccardini),
amici e parenti, giovani e vecchi affezionati alla democrazia e impegnati in parrocchia, tifavano quasi tutti per
lui e per Moro; ma di loro quasi nessuno era iscritto alla
DC e neanche a me l’idea di iscrivermi al partito per il
quale votavo passava per la testa. Non mi era, peraltro,
molto chiaro come si facesse a iscriversi. Non lontano da
casa mia c’era la sezione DC del mio quartiere. Contava
centinaia di iscritti, ma era quasi sempre chiusa, e io non
ne conoscevo nemmeno uno. Quarant’anni fa, almeno in
una grande città come Roma, a scuola e nei luoghi di lavoro c’era ancora una presenza capillare e organizzata del
PCI, ma DC e PSI (per non parlare di socialdemocratici,
repubblicani e liberali) erano ormai visibili solo sui media.
Sul territorio svolgevano una limitatissima animazione
politico-culturale, in genere con iniziative di corrente e
non di partito, in genere sotto elezioni. Eppure, con qualche oscillazione, quei partiti e la loro coalizione che si chia-
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Le parole e le cose dei democratici
mava anche allora ‘di centro-sinistra’ (ne restavano fuori
l’estrema sinistra di allora, il PCI, e l’estrema destra, il MSI)
conquistavano, elezione dopo elezione, la maggioranza
dei consensi, incluso il mio. Partiti liquidi ante litteram?
Capacità di dialogare con i «corpi intermedi» della società
riconoscendone l’autonomia? O macchine elettorali, uffici di collocamento che, in anni di sviluppo e grande incidenza del settore pubblico nell’economia nazionale,
avevano smarrito gran parte delle originarie idealità?
Certo è che, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso,
le parole dell’ultimo discorso di Moro – «devo riconoscere
che qualche cosa da anni è guasto, è arrugginito nel
normale meccanismo della vita politica italiana» – suonavano chiare per molti.
Sturzo, De Gasperi, Concilio: agli antipodi del patto Gentiloni
In quell’epoca anche chi fra noi, in campagna elettorale,
si spendeva per la DC, era al più un simpatizzante. Anche la formazione politico-culturale dei giovani che gravitavano nell’area cattolico-democratica non era curata
dal partito della Democrazia Cristiana. Le idee e i progetti
di alcuni leader nazionali DC di allora, così come le idee
e i progetti di alcuni padri fondatori della DC, esuli o perseguitati sotto il fascismo (Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari...), le ho
apprese frequentando un circolo culturale assolutamente
autonomo ed autoreferenziale, intitolato appunto a Francesco Luigi Ferrari, fondato da Paolo Giuntella, che prima
era stato mio capo scout in parrocchia. Paolo ci fece leggere anche abbondanti testi di Jacques Maritain e di Em-
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Le parole e le cose dei democratici
manuel Mounier, nonché documenti e costituzioni del
Concilio Vaticano II, allora da poco concluso e in via di attuazione nella Chiesa cattolica italiana. Ci fece inoltre incontrare, invitandoli nel nostro circolo, personaggi chiave
della politica e della cultura democratico-cristiana, a cominciare da Aldo Moro. In anni nei quali il marxismo andava per la maggiore nelle scuole e nelle fabbriche, il nostro circoletto aveva una spiccata simpatia verso
l’impegno dei democratici cristiani, ma un rapporto organico con il partito nominalmente riconducibile a quella
ispirazione non c’era. In quegli anni, per merito del Concilio Vaticano II, nel mondo cattolico si andavano poi riaffermando la distinzione fra impegno politico e attività
della Chiesa, la legittimità per i cristiani di una pluralità di
opzioni politiche, il divieto di rivendicare esclusivamente
a favore proprio o del partito di appartenenza l’autorità
della Chiesa. Il Concilio, in un certo senso, riprendeva e
abbracciava ufficialmente l’idea di politica che aveva don
Sturzo (prete, fondatore del Partito Popolare), il quale nel
1905, a Caltagirone, aveva pronunciato uno storico discorso nel quale, tra le altre cose, aveva detto: «è penetrato il concetto ormai generale che i cattolici, più che appartarsi in forme proprie, sentano con tutti gli altri partiti
moderni la vita nelle sue svariate forme per assimilarle e
trasformarle, e il moderno, più che sfiducia e ripulsa, desta per loro il bisogno della critica, del contatto e della riforma». In quella stessa occasione aveva invitato i cattolici ad essere «o sinceramente conservatori, o
sinceramente democratici», contro tutti i «beghini dell’armonia dell’unione dei cattolici» che «tendono a sopprimere la vita comunitaria perché vogliono sopprimere
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Le parole e le cose dei democratici
la discussione, l’opinione, la tendenza diversa», tratteggiando un progetto politico fatto di libertà e partecipazione politica, di giustizia sociale, di lotta al latifondo, di
valorizzazione delle autonomie regionali e cittadine: il
progetto complessivo di un grande partito popolare, non
confessionale, il cui orizzonte è il bene del paese; un partito al quale chiunque ne condivida il programma può
aderire, anche se non fosse credente; e al quale, viceversa, un cattolico «sinceramente conservatore» non potrebbe aderire. Questa visione dell’impegno politico del
cristiano secondo Sturzo è, come si vede, agli antipodi
dell’idea clericale di partito e di politico cattolico, telecomandati dall’autorità ecclesiastica, vincolati ai temi che
essa via via pone come prioritari, impegnati nella difesa
o nella promozione di interessi e privilegi della Chiesa nel
campo dell’istruzione, della sanità o dell’edilizia. È quindi
importante ricordare che nelle elezioni del 1913, pochi
anni dopo il discorso di Caltagirone, l’impostazione clericale, antitetica all’idea sturziana di partito popolare,
aveva trovato puntuale applicazione nel cosiddetto ‘patto
Gentiloni’: un accordo raggiunto da Giolitti in vista delle
elezioni politiche italiane del 1913, che impegnava i cattolici a sostenere, nelle elezioni politiche, i candidati liberali contrari a misure anticlericali. Benché nel frattempo ci
sia stato il fascismo, la guerra, la resistenza, la Costituzione Repubblicana e la lunga e feconda esperienza della
Democrazia Cristiana, e benché, soprattutto, ci sia stato
di mezzo un Concilio ecumenico che per la Chiesa cattolica ha proposto con chiarezza un nuovo stile di libertà
e responsabilità nei rapporti fra comunità civile e comunità ecclesiale, alle elezioni del 2006, quasi cento anni
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dopo, abbiamo avuto l’impressione (speriamo errata) di
un déjà-vu: l’elezione di una pattuglia di deputati e senatori che su alcuni temi, che si trattasse di interessi economici, simboli religiosi nei luoghi pubblici, temi legati alla
famiglia o alla vita in fase iniziale o terminale, sembrava
garantire nel voto parlamentare diretta dipendenza dall’autorità della Chiesa. Il che, se fosse vero, come a suo
tempo fece garbatamente osservare Oscar Luigi Scalfaro,
rappresenterebbe un bel problemino anche dal punto di
vista costituzionale, dato l’articolo 67 («ogni membro del
Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato»).
In breve, quella di intervenire in prima persona come istituzione religiosa nella politica dei singoli Stati (anziché lasciare che i cristiani si impegnino sotto la propria responsabilità, partecipando alla cosa pubblica insieme a tutti gli
altri cittadini) è una tentazione ricorrente per la Chiesa.
Questa tentazione è agli antipodi dell’idea di partito popolare di Sturzo e in larga misura (vedi sotto) anche della
cinquantennale esperienza storica del partito della Democrazia Cristiana in Italia dopo l’ultima guerra mondiale.
È anche agli antipodi di quanto il Concilio Vaticano II dice
a proposito del rapporto fra Chiesa e politica. La Chiesa
cattolica in carne e ossa, però, ha per molti secoli puntato
ad un rapporto privilegiato con il potere politico, e non c’è
da meravigliarsi se l’ottemperanza e la piena interiorizzazione dei dettati conciliari non sia ancora (per usare un
eufemismo) completa, e richieda altro tempo per arrivare
a regime. Gramsci scriveva: «il Vaticano rappresenta la più
grande forza reazionaria esistente in Italia. Per la Chiesa,
sono dispotici i governi che intaccano i suoi privilegi e
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Le parole e le cose dei democratici
provvidenziali quelli che, come il fascismo, li accrescono».
In questo modo non faceva che descrivere ciò che aveva
sotto i propri occhi. In quegli anni la Chiesa non seguiva
certo l’approccio di Sturzo: precedentemente alla Prima
Guerra Mondiale provò a condizionare il liberalismo con
una pattuglia di eletti concordata con Giolitti, poi nel parlamento successivo incoraggiò una parte dei popolari a
votare a favore del gabinetto Mussolini, e infine, dopo
minacce, botte e preti antifascisti come don Minzoni assassinati, dichiarò che Mussolini era l’uomo della Provvidenza (Gramsci usa parole non casuali) e ci fece il Concordato.
DC: molte anime, un disegno per il paese, un argine alla
destra e al clericalismo
Dopo quel che si è detto è evidente che il partito popolare di Sturzo, nella sua impostazione originaria, assomiglia al nostro Partito Democratico più di quanto non assomigli ai partitini post-democristiani di oggi. Ma
trovandoci qui a parlare di parole e cose dei democratici,
sarebbe assurdo saltare l’esperienza politica democratica
più importante dei cattolici italiani: la Democrazia Cristiana. Esperienza importantissima, con elementi di continuità e di rottura con l’impostazione di Sturzo. Da un
lato, dopo la guerra, la Democrazia Cristiana si presenta
come esplicita erede del Partito Popolare. Dall’altro, già
nel nome, diversamente dal PPI, richiama l’appartenenza
religiosa (Democrazia Cristiana era però una sigla gloriosa
che coraggiosamente richiamava l’esperienza di Romolo
Murri); ma soprattutto, nella sostanza, punta ad attrarre
nella propria orbita tutti i cattolici, non solo la metà de-
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Le parole e le cose dei democratici
mocratica e progressista: nel primo decennio di vita si appoggia pesantemente alle strutture parrocchiali e alle associazioni cattoliche per la propria propaganda. Anche
perché nel frattempo c’è stata Yalta e la divisione del
mondo in blocchi, la Chiesa teme il comunismo e il vecchio De Gasperi, popolare prima della guerra e capo
della nuova Democrazia Cristiana dopo la guerra, è convinto che se non si ‘imbriglia’ la Chiesa nella democrazia
il rischio di un rigurgito fascista è elevato. A dimostrazione
che questi timori sono fondati, il suo rifiuto di fare alle amministrative del 1952 liste comuni con i neofascisti a
Roma pone perfino lui, trionfatore elettorale sui comunisti, nella ‘black list’ del Papa, che non lo riceverà più fino
alla morte. Se fossi uno storico anziché un fisico teorico
avrei raccontato molto meglio questa storia, ma qui,
dato il tempo a disposizione, mi preme solo aggiungere
che, malgrado le contraddizioni dell’esperienza democristiana (non solo rispetto al rapporto con la Chiesa),
quando per esempio sentiamo quel che dice Berlusconi
sulla scuola, o quel che fa Formigoni con il voucher per
le scuole private, ci rendiamo conto che la Falcucci e la DC
rappresentavano un argine democratico. Ricordo che a
metà degli anni Ottanta del secolo scorso, in un dibattito
televisivo, Martelli, che allora mi pare fosse vicesegretario del PSI, descrisse e lodò un’idea molto innovativa – il
buono scuola – appena appresa ad uno dei primi meeting
di CL a Rimini dove, come politico, era stato ospite. La
Falcucci, allora Ministro dell’Istruzione, rispose a muso
duro: «finché su questa poltrona siederà un democratico
cristiano, ci occuperemo prioritariamente delle scuole
statali», o qualcosa di simile. E va notato che la Falcucci
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Le parole e le cose dei democratici
non era della ‘sinistra democristiana’: era democristiana
e basta! Come, del resto, anche il presidente Scalfaro, che
pure agli occhi di Berlusconi è un pericoloso bolscevico.
Altri esempi si potrebbero fare sulla riforma agraria, sullo
Stato sociale, sulla giustizia, sui trasporti: la DC aveva un
disegno per il paese e ha rappresentato un argine democratico a destra, forse più che a sinistra.
In campo democristiano la forma partito era già in discussione quarant’anni fa
Le contraddizioni dell’esperienza democristiana, non solo
rispetto al rapporto con la Chiesa, sono emerse nel
tempo, essenzialmente a causa della mancanza di alternanza per un periodo troppo lungo. Quando uno stesso
partito si trova a governare ininterrottamente un paese
per una cinquantina d’anni è difficile indovinare tutto. Anche qui ci vorrebbe uno storico e mi scuso per l’inevitabile superficialità. Un fisico come me, che fin da giovane
leggeva i giornali e partecipava con attenzione alle scadenze elettorali, ma non studiava storia né faceva politica,
ha l’impressione di aver visto democristiani capaci e incapaci, onesti e disonesti, commoventi e ridicoli, lungimiranti e miopi; anche alcuni martiri, straordinariamente
onesti e intelligenti; anche alcuni delinquenti, straordinariamente pericolosi. Rispetto al tema di oggi, fin da giovane, trent’anni fa, avevo dubbi che sarebbero durati ancora molto a lungo la formula della Democrazia Cristiana
in particolare, e l’intero assetto dei partiti italiani in generale: mi pareva di vedere appartenenze ideologiche
sempre più sbiadite rispetto al comune sentire, etichette
atte più a giustificare la sopravvivenza politica di chi le in-
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Le parole e le cose dei democratici
dossa che a rappresentare pezzi di società, manuali Cencelli, crescente ricatto dei partiti piccoli e conseguente distorsione della rappresentanza popolare nella formazione
dei governi. Le esperienze di ecumene citate all’inizio mi
suggerivano come naturale sbocco (e sblocco!) la competizione fra un gruppo progressista e democratico e un
altro più o meno dichiaratamente conservatore o reazionario. In altre parole, ciò che è stato poi chiamato Partito
Democratico alcuni di noi l’avevano nel cuore da parecchio tempo; forse chi faceva parte di partiti più efficienti
e rappresentativi e soprattutto, in quegli anni, meno governativi, riusciva ancora ad entusiasmarsi di identità e appartenenze novecentesche. Ma, per esempio, già nel
1972 il qui presente Gigi Covatta insieme ad altri aclisti,
sotto la guida di Livio Labor che da poco aveva lasciato
la presidenza delle ACLI, diede vita al Movimento Politico
dei Lavoratori” (MPL): alle elezioni prese pochissimi voti
e come partito abortì, confluendo subito nel PSI. Ma fu
uno dei primi segnali dello scardinamento del sistema dei
vecchi partiti e dell’attesa, in campo cattolico, di nuove
rappresentanze capaci di sbloccare il sistema politico italiano conquistando finalmente la possibilità di un’alternanza democratica. E infatti, ormai anziano, Livio Labor,
cristiano post-conciliare, abbracciò con entusiasmo l’Ulivo
di Prodi e fece a tempo a fare campagna elettorale per me
quando nel 1996, in qualità di kamikaze, sfidai Fini nel suo
collegio storico, dove abitavamo sia io che lui.
Abbiamo mancato il momento magico, ma meglio tardi
che mai
Quindi confermo l’affermazione iniziale: già molti anni fa,
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Le parole e le cose dei democratici
almeno nella parte di mondo cattolico e democratico da
me meglio conosciuta, c’erano esperienze e idee che
preparavano il Partito Democratico di oggi. Che segnalavano già l’esaurimento della partecipazione in forme
partitiche tradizionali e della rappresentanza fatta di democristiani, comunisti, socialisti, liberali, eccetera, che
pure avevano ricostruito l’Italia dopo la guerra. Secondo
me (mi concedo in chiusura un’opinione personale come
quelle che si esprimono al bar sul campionato di calcio) il
momento propizio per la transizione ad un nuovo soggetto politico di centro-sinistra era proprio il 1996. La persona che poteva guidarlo era Prodi. Non era un democristiano doc, non era nemmeno iscritto alla DC, era un
‘tecnico di area’ democristiana che vedeva lontano ed era
stimato in casa e fuori. Forse potrà far sorridere, ma per
me il concetto di ‘tecnico di area’ era e resta un concetto
molto civile: siamo già un pezzo avanti quando nella
scelta di governanti e alti dirigenti prima viene la competenza e poi l’appartenenza politica. Prodi rappresentava
plasticamente il passaggio morbido da un passato ormai
scricchiolante a un futuro europeo. Non avendo prodotto il PD o qualcosa che ci somigliasse in quel momento, il progetto ha via via perso velocità e le cose si
sono di nuovo ingarbugliate. Il fisico Andrej Sacharov, all’epoca della Perestrojka, disse che se un carro va troppo
piano in salita, ad un certo punto si ferma e torna indietro. Ho la stessa percezione per il Partito Democratico. Nel
1996, grazie all’effetto-novità, alla prima vittoria contro
Berlusconi, all’euro, al rintontimento dei partiti vecchi
dopo la botta di Tangentopoli e il recente crollo del Muro
di Berlino, potevamo forse mettere tutti insieme in modo
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Le parole e le cose dei democratici
definitivo. In fondo allora, escluso Bertinotti, tutto il centro-sinistra aveva accettato di mettersi sotto il simbolo
dell’Ulivo, complice il Mattarellum. Dieci anni dopo, nel
2006, la legge elettorale era cambiata e intanto avevamo
perso per strada socialisti, ambientalisti, dipietristi e un
sacco di altri pezzi e pezzetti, praticamente tutti deflagrati
tranne gli ex democristiani e gli ex comunisti; anche la cosiddetta ‘società civile’ fuggiva a gambe levate, intravedendo, al di là delle parole dei leader DS e Margherita,
una tenaglia che si andava chiudendo. Cambiare di nuovo
tutto, diceva Tomasi di Lampedusa, affinché nulla cambi:
nel nostro caso, affinché due nomenklature riescano a
fare un altro giro di giostra anziché scendere e passare finalmente la mano. L’impulso dell’Ulivo di Prodi è stato
sprecato e col PD ci siamo trovati a ripartire quasi da capo.
Poiché, come ho cercato di dire fin dall’inizio, il progetto
aveva una profonda corrispondenza con attese e sviluppi culturali e politici della società italiana, credo che,
pur con molta fatica, sia ancora possibile farlo ripartire e
crescere, ed è quel che stiamo facendo anche adesso, con
Bersani. Però, e concludo, se è sempre bello raccontare le
nostre storie davanti al caminetto, è anche vero che quarant’anni fa etichette e sigle dei partiti di allora, contrabbandate come appartenenze e identità irrinunciabili, ad
alcuni di noi apparivano già obsolete; che il mescolamento dei diversi filoni democratici è partito quindici
anni fa con Prodi; che per i miei figli, allora piccolini e ora
elettori, DC, PCI e PSI sono argomenti di storia, non più
di politica. Forse è venuto il momento di smetterla con le
appartenenze passate, di caratterizzarci con la scelta di
campo fra democratici o conservatori e con una rinnovata
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Le parole e le cose dei democratici
capacità di leggere la società e di rilanciare uno sviluppo
equo e sostenibile: insomma con un buon programma,
proprio come diceva Sturzo nel 1905. Con un ampio
schieramento, con candidati di qualità. Alimentando, rinnovando e credibilmente traducendo in progetto lo straordinario patrimonio di ideali sociali e civili e di competenze personali e risorse umane che il nostro partito
possiede, a tutti i livelli. Valorizzando (attenzione, è tema
inscindibile da un buon programma, da buoni candidati,
dallo sviluppo del proprio patrimonio ideale) il pluralismo
interno, compreso e gestito come ricchezza e non come
patologia, legato ai tanti ‘mondi vitali’ che un grande partito deve rappresentare con ragionevole articolazione interna, certo armonica e non cacofonica, ma neppure totalitaria e totalizzante.
Le diverse radici del PD sembrano robuste e sufficientemente intrecciate. Possiamo stare tranquilli, non serve
continuare a rimirarle. Basta innaffiarle. La sfida di domani
riguarda i frutti.
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Luigi Covatta
Direttore di Mondoperaio
La peculiarità del socialismo italiano
Per capire la peculiarità del socialismo italiano è il caso di partire da un’osservazione che Giovanni Sabbatucci ha lasciato
scivolare in un saggio pubblicato l’anno scorso su Mondoperaio in occasione del trentesimo anniversario della morte
di Nenni riferendosi alla battaglia da lui condotta fra il 1922
e il 1923 per difendere l’autonomia del PSI. «Che cosa sarebbe successo» – si chiede Sabbatucci – «se Nenni e i suoi
amici avessero perso e la maggioranza del vecchio PSI si
fosse trasferita armi e bagagli sotto le bandiere del Comintern? Molto semplicemente il nome e il simbolo del PSI sarebbero stati ripresi dal PSU di Matteotti […] lasciando che
il tempo si incaricasse di riequilibrare i rapporti di forza fra le
due componenti (come sarebbe avvenuto in Francia e in
Germania)»1. In effetti, se non si ricorda che la scissione di
Livorno del 1921 non aveva separato i riformisti dai massimalisti ma i leninisti dai non leninisti, e che i riformisti erano
comunque stati espulsi dal partito l’anno dopo, non si capisce quel carattere peculiare dell’autonomia del socialismo italiano che, nel mio piccolo, mi ha indotto a intitolare Menscevichi un saggio sui riformisti nella storia repubblicana2. I
menscevichi, infatti, sono indissolubilmente legati ai bolscevichi: non solo perché si distinguono da essi per i mezzi e non
per i fini, ma anche perché, benché da essi perseguitati, non
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Le parole e le cose dei democratici
li perseguitano a loro volta.
La figura che meglio incarna questa peculiarità è appunto quella di Nenni: il quale, specialmente dopo la Liberazione, si trova alla guida di un partito in cui ci sono
Saragat e Morandi, Mondolfo e i trotzkisti; e che, per ottenere la confluenza di Lelio Basso e del suo minuscolo
Movimento di unità proletaria, è costretto addirittura a
cambiare nome al partito (che diventa PSIUP, per ridiventare PSI – ironia degli acronimi – dopo la scissione saragattiana del 1947). Dopo la vittoria repubblicana, di cui
fu protagonista, Nenni avrebbe potuto essere «il romagnolo di turno», e cioè, secondo Luciano Cafagna, «il leader ‘populista’, o popolar-democratico, della nuova democrazia italiana»3. Ma rinunciò a quel ruolo perché
consapevole della fragilità non solo del suo partito, ma
anche degli altri due partiti di massa, fragilità che avrebbe
potuto essere superata solo con una comune esperienza
costituente (come non si è fatto con l’avvento della seconda Repubblica)4.
È così che, dopo la scissione saragattiana e il disastro del
18 aprile, il PSI di Nenni e di Morandi identifica ancora di
più se stesso in relazione al PCI (accentua, cioè, la sua vocazione ‘menscevica’). È una condizione talmente ineffabile che l’unico che l’abbia saputa descrivere compiutamente è stato un poeta, Franco Fortini, che scrisse
allora: «Il PSI è la sede naturale non solo di quegli elementi della classe proletaria e delle classi medie che non
possono ancora accettare i termini organizzativo-disciplinari della lotta comunista, ma anche di coloro che non
possono più accettare quei termini: non come transfughi
ma come continuatori o superatori che non vogliono
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Le parole e le cose dei democratici
porsi in atteggiamento tale da favorire gli avversari»16.
In politica, peraltro, l’ineffabile non è previsto. Perciò,
dopo il 18 aprile, il PSI sarà piuttosto «la sede naturale
[…] di coloro che non possono più accettare» l’immobilismo di quello che poi verrà definito ‘bipartitismo imperfetto’6. Il primo è Riccardo Lombardi, l’ultimo segretario del Partito d’Azione, che insieme con Vittorio Foa e
Fernando Santi, dopo la disfatta del 18 aprile, vince il congresso del 1948 sostenendo che «la sconfitta del PSI
come forza politica efficiente ed autonoma sarebbe la
sconfitta delle istanze democratiche e liberali prima ancora
che di quelle socialiste»7. Lombardi non era marxista (anche per questo, mi raccontava, Saragat non lo aveva voluto nel suo partito), ma, come dice Lanaro, «parlava un
dialetto marxista più che altro per non farsi sconfessare
dai suoi compagni»8. Così come non erano marxisti Tristano Codignola, Vittorio Foa, Paolo Vittorelli e gli altri
azionisti che erano confluiti nel PSI, e che nel 1956 sarebbero stati raggiunti da Antonio Giolitti e dai molti intellettuali comunisti che non avevano giustificato né i carri
sovietici a Budapest, né il minimalismo di Togliatti dopo
il XX congresso del PCUS.
Sono questi meticci che, a cavallo fra gli anni Cinquanta
e Sessanta, preparano l’apertura a sinistra dialogando con
la ‘terza forza’ rappresentata dagli ‘Amici del Mondo’, e
soprattutto con la migliore cultura cattolica dell’epoca:
Pasquale Saraceno, Siro Lombardini, Achille Ardigò e tutti
gli altri intellettuali che, dopo l’avventura tambroniana, si
raccolgono attorno a Fanfani e alla sinistra democristiana
d’allora9.
Si è molto polemizzato, dopo il ridimensionamento di quel
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Le parole e le cose dei democratici
progetto, sul suo carattere velleitario e illuministico, imputato principalmente a Lombardi e a Giolitti. Si dimentica però che ad esso, come ho detto, diedero un contributo sostanziale La Malfa e la cultura cattolica. E si
dimentica, soprattutto, che esso venne sacrificato sull’altare della ‘centralità democristiana’. Luciano Cafagna,
che pure non è stato tenero col ‘riformismo illuminista’ di
Lombardi e Giolitti10, nel 1980 ha magistralmente spiegato quale «stravolgimento dell’idea originaria del centro-sinistra» abbia rappresentato la rivolta dorotea contro Fanfani, che aveva dato luogo ad «un bel circolo
vizioso» in cui «la DC chiamava dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì,
più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un
sostegno»11. Anche per questo, osserverà Guido Crainz,
«a sfumare progressivamente, dopo i primi esordi del centro-sinistra, non furono solo le singole riforme», che per
la verità ci furono, ma «fu il riformismo come modello a
perdere fascino»12.
Poco fascino, del resto, ebbe anche l’unificazione socialista del 1966: sia perché si realizzò attraverso la fusione
a freddo di due apparati, quello del PSI e quello del PSDI;
sia perché, nonostante l’adesione delle migliori intelligenze liberalsocialiste – da Norberto Bobbio a Franco
Venturi, da Guido Calogero a Manlio Rossi Doria ed a Leo
Valiani – fu troppo poco ambiziosa nel contestare gli
equilibri immutabili del ‘bipartitismo imperfetto’. Così
l’unificazione socialista non riuscì ad essere attraente né
verso quelle aree del mondo cattolico che, ormai libere dal
collateralismo verso la DC, erano state a loro volta sconfitte dai dorotei; né verso quelle aree del PCI che, nel
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Le parole e le cose dei democratici
1964, avevano immaginato, con Amendola, il partito
unico dei lavoratori, e che erano state messe a tacere da
Berlinguer. Non a caso, quindi, ai lavoratori cattolici e ai
lavoratori comunisti si rivolse invece un socialista che era
stato critico dell’unificazione, e cioè Fernando Santi (uno
dei rari riformisti autoctoni restato nel PSI, a lungo leader
dei socialisti della CGIL). Santi scelse l’annuale convegno
aclista di Vallombrosa, nel 1968, per pronunciare quello
che sarebbe stato il suo ultimo discorso, col quale proponeva di creare a sinistra «una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque, garante e fedele ai principi della democrazia e della libertà nel rispetto della
coscienza di ciascuno e di tutti, capace di offrire un’alternativa alla guida e alla gestione moderata del potere»,
attraverso la confluenza di «forze che si muovono in
tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in
quello comunista»13.
Inutile dire che in seno al mondo cattolico la gerarchia
optò per sostenere ancora la DC. Meno inutile sottolineare l’opinione di Tonino Tatò, che nell’autunno del
1970 poneva a Berlinguer una domanda retorica: «Staccare dalle ACLI una porzione di quadri e di voti per darli
a una formazione di ‘terza forza socialista’non disturba noi
(non è oggettivamente anticomunista) e non disturba, nel
senso che indebolisce, le sinistre interne alla DC?»14. Non
voglio fare dell’autobiografia e men che meno sopravvalutare il peso dell’iniziativa che, con Labor e Carniti, presero allora alcuni di noi. Voglio solo sottolineare che in
quelle reazioni vanno probabilmente individuate le cause
prime del successivo blocco del sistema politico e della
crisi della sinistra. Ed anche ricordare che in quegli anni il
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Le parole e le cose dei democratici
meticciato socialista si arricchì di una nuova etnia, quella
cattolico-sociale, che non fu ininfluente nell’evoluzione
della cultura e della politica del PSI.
E veniamo all’osso più duro, Craxi. Craxi non era «un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile e maneggione ricattatore, un figuro moralmente miserevole e
squallido, del tutto estraneo alla classe operaia», come
scriveva Tatò a Berlinguer il 18 luglio 197815. E non era
neanche «il leader che manca alla sinistra», come ha
scritto di recente Piero Craveri16. Invece, come ha scritto
Luciano Cafagna, «capì cose che se sei un genio, ma devi
proprio esserlo, fai una di quelle rivoluzioni che sfondano
e creano un vero mondo nuovo, ma se non lo sei, il solo
fatto di averle capite non basta e finisce per ucciderti. E
Craxi finì ucciso»17.
Fra le cose che capì ce n’erano due di particolare rilievo.
Innanzitutto, che occorreva correggere l’anomalia del
socialismo italiano di cui ho parlato all’inizio, e in cui lui
stesso, con buona pace di Tatò, si era formato (i suoi amici
e i suoi nemici più cari li aveva conosciuti a Praga al Festival mondiale della gioventù18; la sua militanza politica
era cominciata con la segreteria di zona di Sesto San Giovanni a fianco del suo omologo comunista Armando
Cossutta; con Occhetto aveva rotto l’isolamento degli
studenti socialcomunisti nella politica universitaria facendo confluire il CUDI nell’UGI di Pannella)19. La seconda, che il sistema politico italiano, in seno al quale il
PSI aveva peraltro svolto un ruolo rilevantissimo, oltre ad
essere bloccato era troppo condizionato da equilibri internazionali destinati a crollare. Questa duplice consape-
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Le parole e le cose dei democratici
volezza lo indusse ad accentuare il legame con il socialismo europeo, e specialmente con le sue componenti più
scettiche rispetto all’Ostpolitik, rappresentate in particolare dal cancelliere Schmidt, del quale condivise l’iniziativa sugli euromissili. E lo indusse anche a collocare il rilancio del PSI nella prospettiva di una «grande riforma»
del sistema politico italiano20. Questo, peraltro, andava in
controtendenza. Come ha scritto Biagio de Giovanni, «il
tentativo di stabilizzazione del compromesso storico pretendeva di rafforzare e rimotivare il vecchio equilibrio
quando intorno tutto cambiava», e «DC e PCI pensavano, ideologicamente, a una stabilizzazione del bipolarismo e a una democratizzazione dell’URSS» proprio alla
vigilia del crollo del comunismo21. Per questo, ed anche
per l’opportunismo con cui l’esperimento venne gestito
dalla DC, il compromesso storico determinò, più che una
stabilizzazione, un definitivo blocco del sistema politico.
Ed è in questo contesto che nasce il craxismo, che è la
continuazione con altri mezzi dell’esercizio del ruolo sistemico del PSI.
Secondo Gianfranco Pasquino, che scrive nel 1982, il rovesciamento operato da Craxi della tendenza seguita
«un po’ impoliticamente» da Nenni e Lombardi, i quali
avevano «sempre anteposto le preoccupazioni per il funzionamento e l’evoluzione del sistema politico a quelle relative ai vantaggi del partito», nasce dalla consapevolezza
che «senza ambizioni partigiane il PSI condanna se stesso
a un ruolo subalterno che è altresì nocivo per tutto il sistema»22. Craxi, del resto, proprio nel 1982 cerca di sottrarsi a questa alternativa del diavolo, e nel dibattito sulla
fiducia al secondo governo Spadolini lancia un ultimo ap-
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Le parole e le cose dei democratici
pello al sistema politico perché sia possibile formare «o un
vero centro-sinistra o una vera alternativa». Ma l’appello cade nel vuoto, per cui non resta che l’iniziativa partigiana, volta da un lato ad accentuare il profilo identitario del PSI, dall’altro a forzare il sistema attraverso un
franco esercizio del principio di maggioranza23.
L’identità del PSI non poteva essere sic et simpliciter
quella della socialdemocrazia europea. Lo impediva il
ruolo minoritario effettivamente svolto. E lo sconsigliava
l’opportunità di valorizzare il felice meticciato che nel PSI
si era realizzato. Perciò il PSI approdò prima di altri partiti socialisti al socialismo liberale, che si espresse pienamente con il discorso di Martelli alla conferenza di Rimini
del 1982, con il quale il PSI si pose oltre «la pietrificata sociologia delle classi ereditata dal marxismo», scartò «il
compito di produrre una rivoluzione che non c’è» invece
«di rappresentare politicamente e di governare con l’efficienza della politica democratica la rivoluzione che è in
atto», e propose l’alleanza fra «le donne e gli uomini di
merito, di talento, di capacità» e «le donne e gli uomini
immersi nel bisogno»: i primi, «persone utili a sé e agli altri», che «progrediscono e fanno progredire l’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la
loro creatività, con il produrre più conoscenze», e sono
quindi «coloro che possono agire»; mentre i secondi,
«persone che non sono poste in grado di essere utili a sé
e agli altri, emarginati o dal lavoro, o dalla conoscenza o
dagli affetti o dalla salute», e sono quindi coloro che «devono agire»24.
Quanto all’iniziativa per la riforma del sistema politico,
essa non si ridusse alla proposta di riforme istituzionali, ma
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si ispirò anche alla politique d’abord di nenniana memoria25. Non va dimenticato, per esempio, che ancora alla vigilia delle elezioni del 1983 (quelle che gli avrebbero
aperto le porte di Palazzo Chigi) Craxi si incontrò con Berlinguer alle Frattocchie per cercare di definire obiettivi comuni, nonostante «l’assoluta incomprensione» di quest’ultimo «delle ragioni che spingevano Craxi sulla scena»,
che «nascevano dalle spinte di nuovi ceti e da un bisogno
oggettivo di modernizzazione del paese», secondo la testimonianza di Alfredo Reichlin26.
Non è questa la sede per illustrare la performance del governo Craxi27. È il caso, invece, di riportare brani del necrologio che a Craxi dedicò Stefano Folli. «Nel maggio del
1987» – scriveva Folli – «giusto all’indomani del lungo
governo Craxi, L’Espresso pubblicò un interessante sondaggio. Conteneva, quasi per caso, la chiave per capire
gli anni Ottanta, e più ancora per leggere nell’immediato
futuro, nel quinquennio che coinciderà con il declino del
craxismo e sfocerà infine in Tangentopoli. Diceva, quel
sondaggio, che il sessantacinque percento degli italiani
dava un giudizio positivo di Bettino Craxi come statista e
uomo politico affidabile; la maggioranza si esprimeva altresì contro la formula del pentapartito». Secondo Folli,
però, Craxi «non seppe o non volle capire che la sua figura aveva già spezzato i vincoli e le gabbie di un sistema
partitico (o francamente partitocratico) ormai logoro» e
«non fu abbastanza coraggioso o semplicemente innovatore»28. Folli giustificava questa «prudenza istituzionale» di Craxi con «la sua tempra di democratico». Meno
indulgente era stato, nel 1994, Gianni Baget Bozzo, che
aveva imputato a Craxi, «ormai guidato solo da un or-
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ganigramma», la colpa di non avere sfruttato l’occasione
storica che gli veniva offerta dalle ‘picconate’ di Cossiga;
per cui «l’involuzione dell’unico leader italiano che avesse
la statura per guidare un salto costituzionale disperdeva
la possibilità di un’autoriforma della politica»29.
Se fosse ancora di moda Karl Marx, della vicenda craxiana
si potrebbe dire che «il morto ha acchiappato il vivo». Ma
in politica, come insegnava Talleyrand, un errore è peggio di un crimine, e comunque chi perde ha sempre
torto. Che Craxi abbia perso non c’è dubbio. Resta però
da stabilire – e non è questione di poco conto – se ha
perso per avere osato troppo o per avere osato troppo
poco30.
1
Mondoperaio, dicembre 2009.
2
L. COVATTA, Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005.
3
L. CAFAGNA, Una strana disfatta, Marsilio, Venezia 1996, p. 43.
4
Un approccio non oleografico allo stato nascente della Repubblica può essere utile per
comprendere meglio le caratteristiche che venne assumendo il nostro sistema politico
dopo la Liberazione. Dei socialisti si è già detto. In seno al mondo cattolico il ruolo della
DC non era affatto scontato. Subito dopo il 25 luglio 1943 il presidente della GIAC, Luigi
Gedda, aveva scritto a Badoglio proponendogli puramente e semplicemente di sostituire
il personale politico fascista con quello dell’Azione cattolica, senza modificare il regime
(T. SALA, Un’offerta di collaborazione al governo Badoglio (agosto 1943), in Rivista di storia contemporanea, n. 4/1972). Sul tema si veda P. SCOPPOLA, La proposta politica di De
Gasperi, il Mulino, 1977; A. RICCARDI, Il ‘partito romano’ nel secondo dopoguerra, Morcelliana, 1983. Quanto ai comunisti, un volume recente di storia diplomatica ricostruisce le vicende (un po’ rocambolesche) attraverso cui si giunse al riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS ben prima dello sbarco di Togliatti a Napoli e della
‘svolta di Salerno’ (E. DI NOLFO, M. SERRA, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943
al 1945, Laterza, 2010). Un ruolo importante per la formazione dei tre partiti di massa
a base ideologica lo ebbe anche il precedente fascista, come ha sottolineato Cafagna,
che dopo avere ricordato, nel brano citato, la rinuncia di Nenni a perseguire «l’unica alternativa concreta alla partitocrazia», indica come DC e PCI si spartirono il «lascito fascista»: il PCI aderendo «alla attesa sociologica di una ‘successione’ totalitaria al fascismo», alla «funzione di manipolazione ideologica della incertezza sul futuro prodotta dal
mutamento», alla «disponibilità di massa agli appelli di piazza e ad ampi inquadramenti,
a una partecipazione mobilitata, a uno statalismo che però – ed è la tradizione socialista, che anche il fascismo, comunque, aveva parzialmente interinato – si auspica più so-
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ciale, più generale, possibilmente non favoritistico»; la DC ereditando «le attese di assistenza in senso stretto, e inoltre la funzione di mediazione generale verso lo Stato (una
funzione formatasi, o comunque dilatatasi col fascismo) presso il notabilato economico
e sociale […] nonché i mezzi e la tecnica per la strumentalizzazione del diffuso parastato
di fascistica origine» (L. CAFAGNA, La grande slavina, Venezia, 1993, p. 64). Può essere
interessante ricordare che a questa analisi si riferì implicitamente Giuliano Amato nel motivare in Parlamento le dimissioni del proprio governo nel 1993. Sull’avvento della partitocrazia si veda anche G. QUAGLIARIELLO, La sconfitta del ‘moderno Principe’, Biblioteca
dell’immagine, 1993; S. LUPO, Partito e antipartito, Donzelli, 2004.
5
F. FORTINI, Dieci inverni (1947-1957). Contributo a un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957.
6
G. GALLI, Il bipartitismo imperfetto, Il Mulino, Bologna 1966.
7
S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 87.
8
Ivi, p. 314.
9
Secondo Lanaro il centro-sinistra fu, nella storia unitaria, «l’unico esperimento progettato con qualche chiaroveggenza, provvisto di input strategico e preceduto da una
discussione di ragguardevole dignità culturale» (ivi, pp. 307-314).
10
CAFAGNA, cit., pp.99-114.
11
Problemi del socialismo, settembre-dicembre 1980.
12
G. CRAINZ, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 2003, p. XIV.
13
F. SANTI, L’ora dell’unità, La Nuova Italia, 1969, p.330.
14
Caro Berlinguer, a cura di F. BARBAGALLO, Einaudi, 2003, p. 20.
15
Ivi, p. 74.
16
Mondoperaio, gennaio 2010.
17
L. CAFAGNA, prefazione a Menscevichi, cit., p. 11.
18
Fra i primi Carlo Ripa di Meana e Jiri Pelikan, tra i secondi Enrico Berlinguer.
19
Proprio per questa sua appartenenza alla sinistra del dopoguerra, però, Craxi non era
cinico rispetto al confronto ideologico come lo erano stati i leader della generazione precedente, che mentre trescava con Rumor poteva tranquillamente firmare la Carta dell’unificazione socialista in cui si fissava come obiettivo del nuovo partito il superamento
del capitalismo. Craxi invece non le mandava a dire a Berlinguer quando questi, a tre mesi
dall’assassinio di Moro, rivendicava «la permanente validità della lezione leninista»
(l’intervista di Berlinguer su La Repubblica del 2 agosto 1978; la replica di Craxi sull’Espresso del 28 agosto). La vulgata identifica lo scritto di Craxi (Il Vangelo socialista)
con la riesumazione di Proudhon. Invece Craxi citava tutte le posizioni antileniniste del
movimento socialista, da KautKautski alla Luxemburg, da Bernstein ai socialisti premarxisti (fra i quali, appunto, Proudhon). Qualche mese dopo (il 30 novembre) il tema venne
ripreso in un convegno internazionale organizzato a Roma da Paolo Flores d’Arcais ed
al quale, oltre a Craxi, intervennero fra gli altri Massimo L. Salvadori, Vittorio Strada, Alessandro Pizzorno, Luciano Cafagna, Rossana Rossanda, Giuseppe Vacca, Fabio Mussi,
Giorgio Ruffolo, Cornelius Castoriadis, Alain Touraine, Leszek Kolakowski, Jiri Pelikan, Gil-
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les Martinet, Pierre Rosanvallon, Krisztof Pomian (Marxismo, leninismo, socialismo, ed.
Avanti!, 1978). A testimonianza della diversa sensibilità della vecchia generazione socialista mi piace citare un piccolo episodio. Flores, che non aveva dimenticato le sue origini trotzkiste, aveva preteso che ciascuno degli ospiti stranieri, insieme con un dirigente
del PSI, tenesse una lezione serale in una sezione. A me era toccato il compito di accompagnare Pomian nella storica sezione della Garbatella (non proprio una fucina di giovani talenti). Quando me ne andai, il segretario mi apostrofò: «Noi a te ti rispettiamo,
ma non ti azzardare più a portarci un fascista!».
20
Sul tema si veda ora La ‘Grande riforma’ di Craxi, a cura di G. ACQUAVIVA e L. COVATTA,
Marsilio, 2010.
21
Da un secolo all’altro, a cura di R. RACINARO, Rubbettino, 2004, p. 161.
22
Il Mulino, maggio-giugno 1982.
23
Il ‘decisionismo’ imputato a Craxi dalla propaganda comunista prendendo a prestito
i concetti di Carl Schmitt effettivamente ridimensionava il ruolo svolto dal PCI in seno
alla «democrazia consociativa» degli anni Settanta. Aveva però per obiettivo anche quello
di fare uscire il PCI da quella «strategia dell’obesità» denunciata da Luciano Cafagna (L.
CAFAGNA, C’era una volta. Riflessioni sul comunismo italiano, Marsilio, 1991).
24
Governare il cambiamento, Atti della Conferenza programmatica del PSI (Rimini, 31
marzo-4 aprile 1982), ed. Avanti!, 1982. La riscossa culturale del PSI, del resto, aveva
preso le mosse, nel 1975, dai saggi di Norberto Bobbio pubblicati su Mondoperaio e dal
dibattito che ne era seguito (Il marxismo e lo Stato, Quaderni di Mondoperaio, 1976).
25
Craxi, come tutti i politici della sua generazione, era di cultura ‘sostantiva’ piuttosto
che ‘procedurale’, per usare i termini di Michele Salvati (M. SALVATI, Introduzione a V. PEREZ-DIAZ, La Spagna dalla transizione democratica ad oggi, Il Mulino, 2003).
26
V. FOA, M. MAFAI, A. REICHLIN, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, 2002, p. 57.
27
Si vedano, a questo proposito, i volumi della collana Gli anni di Craxi, curata da Gennaro Acquaviva ed edita da Marsilio, che riportano gli atti dei numerosi convegni dedicati al tema a partire dal 1998.
28
Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2000.
29
G. BAGET BOZZO, Cattolici e democristiani, Rizzoli, 1994, p. 124.
30
Al termine della sessione in cui è stata tenuta questa lezione si è sviluppato un breve
dibattito del quale è corretto dare conto anche per fornire risposte più approfondite di
quelle inevitabilmente sintetiche che sono state possibili nella sede del seminario. Difficile peraltro, da parte mia, rispondere a chi ha affermato che Craxi è stato puramente e
semplicemente «un delinquente». In questo caso la risposta spetta a chi ha scelto i relatori, fra i quali appunto uno come me, del quale sono note le opinioni. Comunque sul
rifiuto da parte di Craxi di sottoporsi all’autorità giudiziaria può essere utile leggere il saggio di Mario Ricciardi sul diritto di difendersi dal processo del resto già esercitato da Giovanni Giolitti dopo lo scandalo della Banca Romana (in Mondoperaio del gennaio 2010).
Sulla questione dell’aumento del debito pubblico, imputata genericamente al governo
Craxi, la risposta è necessariamente più complessa. Il debito pubblico comincia a crescere
coi primi governi di centro-sinistra, si impenna coi governi di unità nazionale, non viene
ridotto dal governo Craxi nonostante il beneficio che il taglio della scala mobile produce
sull’entità degli interessi, diventa più percepibile negli anni Ottanta anche grazie al ‘divorzio’ fra Tesoro e Banca d’Italia voluto dal Ministro Andreatta, diventa insostenibile
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dopo l’adesione allo SME e soprattutto la firma del trattato di Maastricht da parte di
Guido Carli e Gianni De Michelis. Secondo quest’ultimo, Ministro del Lavoro del governo
Craxi, a Craxi può essere imputato di non aver voluto procedere, nel 1984, alla riforma
delle pensioni (G. DE MICHELIS, La lunga ombra di Yalta, Marsilio, 2003). Ma se si pensa
al putiferio scatenato, anche in seno a Confindustria ed alla maggioranza di governo, dal
decreto sulla scala mobile, la tesi è opinabile. Sul debito pubblico italiano, comunque, è
utile consultare M. SALVATI, Occasioni mancate, il Mulino, 2000; La politica economica
italiana negli anni Ottanta, a cura di G. ACQUAVIVA, Marsilio, 2005; I. MUSU, Il debito pubblico, il Mulino, 2006. Infine all’ultimo paragrafo della mia lezione è stato contestato un
eccesso di storicismo, o addirittura di hegelismo. Se si voleva intendere realismo politico
la contestazione è corretta. Ma, senza risalire a Machiavelli, è bene ricordare che l’attribuzione alla politica dell’etica della responsabilità (e non dell’etica dell’intenzione) è
di Max Weber, che non era un hegeliano.
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Paolo Fontanelli
Deputato PD
Vorrei innanzitutto fare una precisazione rispetto al titolo,
molto ambizioso, di questo panel: penso che l’interesse
primario per noi sia quello di capire in che modo l’esperienza storica e i personaggi che hanno caratterizzato di
più quelle grandi forze politiche che erano il PCI, il PSI e
la DC, sono oggi un possibile riferimento di riflessione rispetto al compito e al ruolo del Partito Democratico
odierno.
Lo dico in modo molto chiaro fin da subito: non credo che
la cosa si risolva con un elenco di chi deve starci dentro
e chi invece ne è escluso. Un Pantheon dei ‘padri’ e delle
‘madri’ democratici non avrebbe, a parer mio, alcun
senso: se si procedesse in questo senso, avremmo una
galleria di figure sezionate o monche, in cui di ciascuna
si seleziona il lascito positivo e si sceglie di tagliare via
quanto non risulterebbe elemento utile al nostro progetto. Credo, però, che sia giusto riflettere su quelle personalità della storia politica italiana che hanno contribuito
quanto meno a costruire quel passaggio, tuttora uno dei
più importanti e fondamentali per il Partito Democratico,
per la costruzione della democrazia del nostro paese.
Noi diciamo a piè sospinto che siamo – ovviamente non
solo noi – il partito della Costituzione italiana, per ribadire
con forza che nella nostra Carta costituzionale noi ve-
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Le parole e le cose dei democratici
diamo i riferimenti e i valori fondamentali dell’agire politico nel nostro paese. La Costituzione è stata fatta dalle
forze politiche e dalle persone che allora si sono battute,
hanno lavorato perché l’Italia prima combattesse il fascismo, poi scegliesse la repubblica e, infine, si dotasse di
questa Carta. Già un’affermazione di questo tipo porta in
campo tutta una serie di ipotesi di nomi: tra i costituenti
troviamo De Gasperi come Togliatti: credo che senza
l’apporto di entrambi non avremmo avuto la Costituzione
che ancora oggi rispettiamo e amiamo. Troviamo Dossetti,
Moro, Terracini, Nenni, Pertini; ci si trovano nomi che
fanno capo a queste tradizioni e a queste storie politicoculturali. Includerei anche azionisti come Parri, uomini di
straordinario valore come Vittorio Foa, o di rarissima lungimiranza come Altiero Spinelli, che ci ha aperto una
strada importantissima battendosi, spesso da solo, per
un’Europa unita, con uno sforzo grande per portare le
forze politiche italiane di allora a ragionare sull’importanza
che aveva la prospettiva europea per l’Italia. Questi sono
sicuramente alcuni dei nomi che farei, per quanto sarebbe
interessante, nei singoli casi, valutare quale parte del loro
patrimonio di idee e battaglie mantiene ancora oggi una
propria validità e su quali fronti ideali e pratici, invece, essi
sono stati poi sconfitti.
Credo però che più che un Pantheon sia opportuno immaginare un discorso politico dinamico rispetto a quelle
che sono oggi la prova e la sfida del Partito Democratico.
La prima domanda che naturalmente si pone riguarda la
ragione che ha portato all’idea di un incontro di queste
tre forze: quella derivante dalla storia del Partito Comunista Italiano, quella che viene dal cattolicesimo demo-
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Le parole e le cose dei democratici
cratico, che con la prima si è incontrata, e infine quella che
viene dalla storia del Partito Socialista. Io credo che la
prima ragione di questa prospettiva vada cercata ancora
più lontano ed è per questo che a mio avviso è particolarmente importante oggi ragionare seriamente sull’incontro di queste tre grandi tendenze. Perché i valori su cui
ci muoviamo e i grandi obiettivi che perseguiamo – la voglia di creare condizioni per un’emancipazione politica,
sociale e civile del paese su una base di maggiore giustizia ed eguaglianza – provengono proprio da queste forze:
tanto dal cattolicesimo democratico quanto, in modo diverso ed elaborato ma con gli stessi riferimenti essenziali,
dal movimento socialista, già a partire dal XIX secolo, non
soltanto dal XX.
Se dovessi indicare le figure di riferimento del progetto
politico del Partito Democratico, penso che non potrebbero rimanerne fuori né Sturzo né Gramsci. Credo, ad
esempio, che Gramsci, che ancora oggi continua ad essere un autore molto seguito, letto e studiato dagli Stati
Uniti ai paesi asiatici e non soltanto nella ‘vecchia’ Europa,
abbia prodotto, con i suoi Quaderni, un’analisi della società e della realtà italiane che mantiene una vivacità straordinaria; in quelle pagine si sviluppano una riflessione e
un senso critico che fatichiamo a trovare in altri pensatori.
Come possiamo non ragionare sul contributo che viene
da una figura di questo genere? Sarebbe difficile immaginare un Partito Democratico che ha l’ambizione di rappresentare quell’ansia di riscatto e di eguaglianza senza
confrontarsi, riattualizzandolo, con questo pensiero.
Come vedete, il quadro di riferimento che ho in mente
per il nostro Partito Democratico ha sicuramente radici
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Le parole e le cose dei democratici
lontane, anche se sappiamo che la motivazione politica
che ha portato alla nascita del PD si lega molto strettamente anche all’evoluzione della storia politica del nostro
paese e alla crisi economica e istituzionale italiana dell’ultimo ventennio. Ieri Enrico Letta, nella plenaria di
apertura a questo Seminario, ha ricordato che noi abbiamo voluto l’incontro di queste culture perché ci eravamo resi conto che quelle organizzate nei partiti precedenti erano insufficienti ad affrontare la fase di oggi;
perché volevamo creare un’alternativa forte e credibile al
centro-destra e desideravamo aprire una strada di rinnovamento del e per il paese.
Questo è stato senza dubbio il ragionamento che ha
portato a questa fusione tra forze politiche che provenivano anche da un’esperienza importante come quella dell’Ulivo. Era stata quella una vicenda che, tra tante difficoltà, aveva anche vinto in alcune elezioni,
rappresentando in maniera faticosa, con molte difficoltà
e contraddizioni, un passaggio di governo importante,
prima per un’intera legislatura (anche se travagliata) dal
’96 al 2001 e poi con quella, ben più breve, dal 2006 al
2008. Già allora si era individuato nell’Ulivo un percorso
per cercare di far coesistere e dialogare meglio queste nostre culture. Esattamente questa è la sfida di oggi. Bachelet ha espresso una posizione che io condivido fino a
un certo punto ma che nelle sue parole rivelava uno spirito molto costruttivo e positivo: per lui la sfida che oggi
si apre a questo nuovo partito è quella di guardare avanti
e di non farsi tirare la giacca da quelle esperienze passate,
dai tanti, tra noi, che provengono da storie e tradizioni
precedenti al PD. Io sinceramente non credo che si possa
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Le parole e le cose dei democratici
dire che tutto quello che c’era prima non c’è più, che si
possa fare finta che non sia mai accaduto. Ha affermato
lo stesso pensiero di Bachelet, seppure con toni molto diversi, Mario Rodriguez questa mattina, quando ha fatto
riferimento alla parte finale del libro di Reichlin per contestarlo. Reichlin fa l’esempio di Enea che prende sulle
spalle il vecchio padre Anchise, si lascia dietro di sé la città,
va in cerca di un luogo nuovo ma sa di portarsi dietro un
pezzo della storia passata. Questa mattina Rodriguez ha
sostenuto che fare questo, comportarci come Enea con
Anchise, sarebbe sbagliato; che non dobbiamo portarci
dietro nulla di ciò che c’era prima, che ora si è aperto un
campo del tutto nuovo. Io ritengo discutibile, oltre che
impossibile, sul piano della cultura politica, un ragionamento di questo genere, anche se dobbiamo saper vagliare, analizzare, superare, rielaborare le tradizioni e le
storie che abbiamo alle spalle e dalle quali proveniamo.
Ma come può un gruppo dirigente, o una sua parte, dimenticare, fare finta che non ha avuto un passato? La politica non è fatta solo di testi e di documenti: in quel caso
sarebbe un’operazione facile da realizzare: si archivierebbe e si aprirebbe un’altra pagina. Ma la storia politica
è fatta anche di esperienze concrete, di relazioni, di rapporti di vita vissuta, di formazione che matura ed evolve
nel tempo e che fa parte della memoria individuale e collettiva degli individui e dei partiti.
Io stesso cerco, nella mia esperienza, di innovare, capire,
misurarmi. So bene, però, qual è stata la mia formazione
politica negli anni e non posso cancellarla e metterla da
parte. Devo avere la capacità di rifletterci sopra in modo
critico per capire cosa non è più valido, ma so anche che
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Le parole e le cose dei democratici
quella formazione ha una sua origine precisa. È questo
che mi ha fatto aderire al Partito Democratico e che mi fa
sentire tutt’oggi parte di questa battaglia. Per questo
credo che non sia un ragionamento produttivo oggi pretendere di astrarre del tutto da ciò che è stato e che ciascuno di noi ha vissuto. Sappiamo bene che la sfida del
PD dovrà essere, ora e nei prossimi anni, quella di far crescere una generazione nuova, che nasce come una generazione che si iscrive, milita, cresce con il Partito Democratico – coloro che ne vengono chiamati i nativi – e
che bisogna dare forza a questo progetto, con la speranza
e l’impegno, perché maturi e faccia del PD quello che noi
vogliamo. Il PD deve essere un grande punto di riferimento della società italiana e motore centrale di un’alleanza che governa il paese e riesce a dare risposte ai problemi che abbiamo dinanzi.
L’incontro delle culture politiche di centro-sinistra nel PD
avviene dunque per dare una risposta a inadeguatezze e
insufficienze su un progetto politico che vuole porsi il problema di rispondere, o almeno tentare di rispondere, alla
crisi italiana, alla crisi anche democratica dell’Italia, che
oramai si trascina da più di un ventennio e che finora non
ha trovato soluzioni. Si è passati dalla Prima alla Seconda
Repubblica: abbiamo visto la fine dei vecchi partiti e un
processo di ri-articolazione del panorama politico nazionale. Ma i mali che avevano caratterizzato la decadenza
di quella fase del nostro paese restano tuttora in gran
parte irrisolti. Nella risposta a quei mali risiede per l’appunto, oggi, la nostra sfida, che consiste nel costruire, nel
fare davvero il Partito Democratico, così come l’abbiamo
immaginato. Noi siamo ancora in fase di costruzione: non
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Le parole e le cose dei democratici
direi che è già tutto risolto, che il PD è riuscito fin da subito a mettere nel paese le radici per portare avanti con
forza e decisione quei progetti. Esiste ancora qualche
nodo da sciogliere che non è solo quello dei nomi, dei padri nobili. Si tratta, più che altro, di chiederci se è possibile immaginare oggi un Partito Democratico che propone
agli italiani quello specifico progetto di esercitare una funzione nazionale in direzione del rinnovamento, esclusivamente sulla base di una visione programmatica. La
sfida non è facile perché oggi sosteniamo il progetto di
fare e dare sostanza a un partito nel momento in cui in
Italia la credibilità della politica e dei partiti nella percezione dei cittadini è scesa al punto più basso che mai ci
sia stato.
Tutti i sondaggi che vengono fatti oggi, alla domanda su
cosa sia la cosa peggiore attualmente presente in Italia,
conoscono prevalentemente una sola risposta: la politica,
i partiti. Ecco, nel fare nel 2007 il Partito Democratico noi
ci siamo tuffati in un fiume in cui nuotiamo decisamente
contro corrente: da qui anche molti dei grandi elementi
di difficoltà che tuttora riscontriamo e che talvolta non
sappiamo contrastare. Qualcuno di noi a volte fa il gioco
facile di mettersi a nuotare nell’altra direzione, secondo
corrente. Civati, ad esempio, stamattina ha fatto una
battuta su cui ho riflettuto: «quando dico che abbiamo bisogno di un Parlamento con meno parlamentari e stipendi
dimezzati, la gente applaude». Ma una proposta di questo tipo è coerente con l’idea di fare politica in un partito?
In questo modo si dà un contributo al recupero di credibilità della politica? Io credo che, ferme restando le nostre proposte per superare il bicameralismo e dimezzare
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Le parole e le cose dei democratici
il numero dei parlamentari, certe semplificazioni bisognerebbe evitarle: non dobbiamo avanzare proposte che
non ragionano, o che lo fanno in modo semplificato, sul
disagio e sul malessere che esistono, come sulla politica,
ma non possiamo mandare messaggi contraddittori. Noi
abbiamo scelto di fare un partito perché faccia politica,
perché sia organizzato, presente sul territorio, in grado di
portare impegno, competenze e partecipazione. Ma per
fare tutto questo non basta un programma né è sufficiente piegarsi a ragionare secondo la mera logica del leader. È un punto su cui voglio insistere.
Nel 2008 noi abbiamo fatto una notevole campagna
elettorale con un leader che da solo, per scelta, è stato in
tutte le piazze d’Italia, con grande visibilità e con grandissime manifestazioni: era l’atto di debutto del Partito
Democratico. Nonostante questa innovazione e questa
grande risposta da parte dei cittadini, non abbiamo vinto;
e nel PD c’è stato un riflusso, una situazione di eccessiva
frammentazione e anche di marcata correntizzazione.
Per buona parte la personalizzazione che è entrata nella
politica italiana in modo maldestro e negativo ha intaccato anche noi. Una personalizzazione che dai rami alti arriva fino a quelli bassi, frammentando e spezzettando il
tronco e togliendo credibilità a un intero progetto. Se io
oggi vado, come mi è capitato spesso anche recentemente, nelle assemblee dei Circoli del PD e discuto con
gli iscritti, le critiche che sento muovere più di frequente
sono due: da una parte, ci viene chiesto di smettere di litigare, perché, se ogni volta che c’è un’uscita del Segretario, vengono immediatamente dichiarate alla stampa altre dieci posizioni diverse, è chiaro che non solo non si sa
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cosa si comunica ma, soprattutto, si dà un’immagine di
forte divisione del gruppo dirigente. Dall’altra parte, ci
viene rimproverata la mancanza di un leader, spesso sollecitata da osservatori esterni, quasi come se l’alternativa
al centro-destra si limitasse soltanto al problema di avere
un leader: certo, si tratta di un problema presente anche
nel nostro partito ma che non possiamo permettere monopolizzi il nostro dibattito interno assumendo dimensioni
e toni assolutamente fuori dal ragionevole.
Io credo allora che oggi, per dare senso alla domanda su
cosa tenere e cosa lasciare per costruire il Partito Democratico, più che a un ideale Pantheon e a una galleria di
persone, dovremmo pensare a quali principi e valori mettiamo nel progetto di questo PD. Questi, infatti, devono
essere il punto di riferimento fondamentale attraverso cui
definire la nostra politica nel paese e le azioni concrete da
intraprendere: è necessaria non un’identità ideologica, ma
un insieme di valori fondamentali e condivisi alla base
della nostra azione politica, perché il programma da solo
non basta. Quali sono allora questi valori? Questa deve
essere la domanda da cui partire. Sicuramente quelli costituzionali: il valore, da difendere con spirito critico e lucida consapevolezza, della Costituzione; il lavoro (come
ricordava anche ieri Enrico Letta nella plenaria d’apertura); l’uguaglianza come istanza da portare avanti rispetto a una società che ha visto, anche in questi anni, divaricarsi la condizione di vita di ampi strati sociali e
accrescere i livelli di diseguaglianza; la democrazia, il
senso della partecipazione e della discussione ampie all’interno della cittadinanza. Questi sono principi e valori
che devono esserci, ma sono anche contenuti e obiettivi
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Le parole e le cose dei democratici
che non nascono oggi.
Certamente vanno rielaborati e aggiornati ma hanno radici che affondano in profondità: se togliamo loro radici,
diventa anche difficile comprenderli, dare loro forza ed efficacia nelle battaglie che abbiamo davanti, soprattutto su
un piano, come quello della cultura politica, su cui oggi
siamo spesso molto fragili. Il tema del leader che io richiamavo è esemplificativo di come noi spesso siamo
subalterni a impostazioni altrui che non ci appartengono,
e di come non di rado subiamo fascinazioni che ci conducono a un’impostazione del lavoro e del ragionamento
che non è quella più corretta, giusta ed efficace per dare
corpo a un partito che noi vogliamo radicato sul territorio, fondato sulla partecipazione, che fa partecipare iscritti
e elettori. Un partito così non può essere un partito ‘tagliato’ sulle persone intese come singoli leader. Lo dico
molto chiaramente.
Ieri giustamente il Sindaco di Pisa ha ricordato proprio il
libro di Calise sul partito personale. Ecco: il nostro progetto e la nostra idea di partito sono di gran lunga diverse
dalla ricerca estenuante del leaderismo di oggi, dalla convinzione che un partito si fonda, si costruisce e si regge
solo sulla figura del leader e non su un progetto definito
e robusto di principi, valori e obiettivi programmatici in
grado di parlare alla società e di indicare la strada per risolvere i problemi. Io credo sia questo il punto.
Finora, tra i nomi che ho rammentato, ne ho tralasciati
due che, rispetto alla mia formazione, hanno lasciato un
segno particolarmente profondo nella vicenda politica italiana: Berlinguer e Moro. Penso sarebbe difficile pensare
oggi al Partito Democratico se cancellassimo il peso e il ri-
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Le parole e le cose dei democratici
cordo del ruolo che queste due figure hanno svolto, del
contributo che hanno portato nella storia del paese e di
ciò che hanno rappresentato per molti di noi. Non da ultimo, per la ricerca di una strada indirizzata a sbloccare il
paese, a salvaguardare la democrazia italiana in un momento difficilissimo e drammatico come furono gli anni
Settanta, in un mondo bipolare dalle caratteristiche che
venivano richiamate anche da Bachelet e da Covatta.
Quella fase fu drammaticamente interrotta dall’assassinio
di Moro, che ha segnato una battuta d’arresto e un arretramento rispetto alla situazione che si era determinata
in quegli anni. Io credo che del lavoro e delle idee di Berlinguer vada sicuramente ricordato il suo rapporto, nell’arco della sua intera storia umana e politica, con il cattolicesimo democratico, su cui lavorò in modo costante,
e che ebbe un passaggio di grande rilevanza con la proposta del ‘compromesso storico’. I progetti principali di
Berlinguer furono poi, in quella fase, sconfitti politicamente; ma ritengo si debba riconoscere che, nonostante
i suoi limiti e le sue sconfitte, e nonostante l’irrisolta questione del legame con l’Unione Sovietica, senza voler
creare miti o sacralizzare una parte della nostra storia comune, quella fu un’esperienza storica e politica caratterizzata da profonde e importanti intuizioni, alcune delle
quali ancora oggi mantengono, a mio avviso, una certa
vitalità.
Ho letto con grande interesse il libretto postumo di Edmondo Berselli L’economia giusta, che consiglio perché è
una lettura suggestiva. Il sottotitolo recita: «Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società. Una via cristiana per uscire dalla grande crisi». In
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Le parole e le cose dei democratici
quelle pagine si parla della crisi, della situazione in cui
siamo, e si conclude con la tesi che sarà necessario avere
un tenore di vita diverso, più basso, a fronte dell’incapacità di mantenere il livello di sviluppo che abbiamo conosciuto in questi anni. I temi dello sviluppo economico
sostenibile e del rispetto ambientale sono al centro delle
riflessioni di Berselli, ma l’indicazione che ci viene da
questo testo è anche quella di abituarci a costruire una
cultura, se non della povertà, certo della minore ricchezza. Se andiamo a rileggere il discorso del ’77-’78 di
Berlinguer sull’austerità – una linea che in quella fase politica uscì sconfitta, dato che la società andò poi da tutt’altra parte (come dimostrò in quegli anni la cosiddetta
‘Milano da bere’ con la sua esaltazione del consumismo)
– noi ritroviamo tanti dei concetti che Berselli sviluppa in
queste potenti pagine. Allora Berlinguer evocava, evidentemente sbagliando, il rischio di una crisi strutturale,
che richiedeva di essere affrontata, a suo avviso, con una
visione di largo respiro e con una politica dell’austerità; in
realtà, come sappiamo, né l’Italia né l’Occidente, globalmente, conobbero una simile crisi. Ci fu, invece, una
fase economica ancora di crescita, sostenuta però da un
grande indebitamento pubblico. Politicamente perse
l’idea dell’austerità e prevalse la convinzione che lo sviluppo potesse andare avanti senza alcun limite. Si potrebbe obiettare che anche Berlinguer arrivò tardi a stimolare il dibattito politico su questi temi; nel PCI ci fu, ad
esempio, una discussione molto intensa quando Pasolini
per primo pose tali questioni dalle colonne del Corriere
della Sera. Pasolini vedeva più il problema del rischio e dei
pericoli della degenerazione di una società consumistica
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Le parole e le cose dei democratici
come quella che si sviluppava, e pure anche a sinistra ci
fu chi lo accusò troppo frettolosamente di sbagliarsi.
Oggi quei veleni ritornano perché noi abbiamo sulle
spalle un debito enorme, ci troviamo immersi in una situazione di crisi acuta e, di fatto, esposta al rischio di un
declino competitivo – noi e l’Europa – nello scenario
della globalizzazione. Il ragionamento di Berselli parte
proprio da qui: la difficoltà è immaginare che noi si possa
continuare a vivere con gli stessi livelli di reddito e di consumo che abbiamo avuto nella realtà ‘occidentale’ del
globo fino ad oggi. Su tali questioni io credo che sia fondamentale recuperare una capacità seria di riflessione e
di azione politica, riprendendo e innovando il discorso
sulla qualità dello sviluppo che negli anni Ottanta non
trovò lo spazio che era necessario. Ed è su questo che, se
devo dare un giudizio, Craxi sbagliò. Egli anzi pensò che
il modello economico e sociale in essere fosse il migliore
possibile. Semmai Craxi aveva forse ragione nel sottolineare l’urgenza di una grande riforma istituzionale che
mettesse la democrazia e le sue istituzioni in condizione
di essere più efficienti e più rapide nelle decisioni.
Noi, oggi, siamo ancora a parlare di questo, delle riforme
istituzionali. Non siamo riusciti ad affrontare quei temi, o
solo marginalmente lo abbiamo fatto. Su questo terreno
io credo sinceramente che ci fu allora un ritardo da parte
del PCI, e forse anche delle altre forze politiche, nel cogliere l’elemento innovativo che lì si poteva avere. Il
punto fondamentale resta che il Partito Democratico,
anche nel rileggere e rilanciare con serietà e spirito costruttivamente critico quei dibattiti, non può operare una
cesura tout-court rispetto a quelle storie e a quelle culture
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Le parole e le cose dei democratici
politiche. Non credo che sia una strada praticabile. Credo,
piuttosto, che si debba recuperare un ragionamento sui
valori di fondo, sugli obiettivi, sulle intuizioni programmatiche dei possibili cambiamenti che avevano animato
anche le esperienze precedenti e che oggi, con la necessaria rielaborazione, possono essere un punto importante della battaglia che dobbiamo fare per portare avanti
quello che, senza retorica ma con grande realismo, noi
chiamiamo ‘il progetto per l’Italia’. L’unico modo vero per
portarlo avanti consiste nell’avere una visione della politica che sia ancorata ai principi e ai valori. Io mi trovai
molto d’accordo con Vittorio Foa quando scrisse che i valori politici non li si può inseguire ma che è necessario viverli. C’è quindi un richiamo a recuperarli per farli diventare elemento concreto dell’agire di una forza politica
capace di rappresentare gli interessi generali, di pensare
e costruire una visione in cui si pensi a se stessi insieme
agli altri. Questo progetto è esattamente il contrario di ciò
che è oggi la cultura predominante, quella su cui si appoggia il centro-destra: gli egoismi, i particolarismi, i localismi. I valori e i principi ai quali invece si ancora il nostro ‘progetto per l’Italia’, io credo che abbiano radici
lontane, e che da lì noi si debba avviare il nostro lavoro
per radicare ancora di più e rafforzare la progettualità del
Partito Democratico oggi.
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PANEL IV
Fenomenologia dei vizi e delle virtù della sinistra:
patologie antiche e moderne,
virtù volontarie e involontarie
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Alfonso Maurizio Iacono
Professore di Storia della filosofia, Università di Pisa
Cosa resta di sinistra nella sinistra
Cosa resta di sinistra nei partiti della sinistra? A vedere le
cose astraendo dalla quotidianità di uno scontro politico
che spesso, dietro l’emergenza, nasconde limiti e rimozioni, direi purtroppo niente o quasi niente.
A me sembra che si sia persa l’abitudine a una riflessione
critica e collettiva, spregiudicata e di lungo periodo, e si
sia dissolta la capacità, e forse la volontà, di visione generale della società e della storia. Dietro l’apparente realismo politico, che dovrebbe essere rassicurante e invece
non lo è, si cela la paura di pensare e di agire. Temo che
si sia affermato ovunque ciò che Leonardo Sciascia attribuiva allo scetticismo dei siciliani, il non credere alle idee.
Da tempo la sinistra non ha più l’egemonia culturale e subisce fondamentalmente la visione del mondo di destra
che oscilla tra un plebeismo plebiscitario e mediatico e un
giustizialismo conservatore. Avendo quasi del tutto abbandonato la presenza territoriale, la sinistra italiana si è
illusa e si illude di poter contrastare il regime da terzo millennio, espresso attualmente da Berlusconi, che stiamo
subendo e che opera all’interno di regole democratiche,
opponendovi una lotta mediatica del tutto perdente perché contraddittoria con l’essenza stessa della sinistra. Si è
lasciato libero terreno o alla tentazione mediatica di so-
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Le parole e le cose dei democratici
stituire la politica con la giustizia, oppure, al Nord, a una
forza come la Lega che, nell’epoca del dominio dei mass
media, non ha perso affatto territorialità, avendola paradossalmente ereditata, rovesciandola, dalla tradizione di
sinistra.
Temo che per riaprire un discorso di sinistra occorra azzerare molte cose dell’attuale sinistra. Temo che non ci sia
molto ormai da salvare. Temo che assumere la finzione di
una continuità con il passato, con una tradizione, con una
cultura sia soltanto, appunto, assumere una finzione che
forse ci rassicura nell’immediato sulla nostra identità politica, ma che ci lascia nello sconforto e nella depressione
dopo che ci si rende conto di essere caduti nel peggiore
dei conformismi e nella più disastrosa assenza di fantasia
e di ampia visione. Non si può né si deve delegare la propria partecipazione a quelle trasmissioni che oppongono
al potere mediatico di Berlusconi un altro potere mediatico. Non si può e non si deve esaurire la propria conoscenza e cultura nella lettura dei giornali che allo svilimento della politica operato da quelli berlusconiani
contrappongono una politica scandalistica, moralistica,
padronale. È un segno di debolezza il dovere sperare in
una giustizia che di fatto si sostituisce alla politica. È sconvolgente come si chiuda troppo facilmente un occhio, anzi
tutt’e due gli occhi, sulle connivenze, i piccoli e grandi privilegi, le ipocrisie che hanno certamente favorito l’egemonia e il potere di Berlusconi. La voglia grande sarebbe
quella di ritirarsi a vita privata, ma la politica, si sa, contiene una legge alla quale non si può sfuggire: se non vi
partecipi tu direttamente, gli altri la faranno per te. Ma
oggi è la politica, supervisibile e superpresente nei mass
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Le parole e le cose dei democratici
media, che tiene lontano, spinge nell’isolamento della vita
privata, perché, a dispetto di un senso comune fin troppo
stolidamente radicato, non è vero che la scarsa o mancata
partecipazione sia considerata un male. È vero purtroppo
il contrario. Più spettatori ci sono, i quali rimangono inchiodati davanti allo schermo, meno cittadini sono disposti a muoversi e a occupare le piazze, meglio è per una
politica fatta da professionisti che possono così decidere
senza vincoli; professionisti in gran parte più o meno incapaci, perché, a differenza di un tempo, spesso, troppo
spesso, si avvicina alla politica come professione chi la
pensa come una carriera, talvolta purtroppo perché incapace di fare altro. Sto esagerando? Non nego naturalmente che vi siano per fortuna donne e uomini che lo
fanno perché ci credono, ma sono loro a caratterizzare e
a determinare oggi la politica dei partiti di sinistra? Credo
che dovremmo avere il coraggio di farci questa domanda.
Vi sono due modi di concepire la politica: o come amministrazione del potere oppure come attività di partecipazione al potere. Nel primo caso la politica è dei pochi, coloro che i molti hanno delegato ad amministrare; nel
secondo caso è dei molti, i quali delegano sì ai pochi, ma
senza una delega in bianco, bensì con dei vincoli e a
tempo determinato. In entrambi i casi, come detto, vige
una legge non scritta che è senza eccezioni. Alla politica
non si sfugge. O te ne interessi tu direttamente oppure
sono gli altri che la fanno per te, anche se non sono stati
delegati da nessuno a farlo. O sei tu a farla oppure sono
gli altri che la fanno per te. Per questo il consenso non può
essere il solo e dominante metro di misura di una democrazia. O meglio: non è il metro di misura che distingue
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Le parole e le cose dei democratici
la democrazia da un regime totalitario. Sono le modalità
con cui si ottiene il consenso a creare la distinzione. E una
modalità decisiva è costituita dal senso della partecipazione.
Come ebbe a osservare Primo Levi: «A contrasto con una
certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura
l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Egli fa un elenco
delle forme di disponibilità: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope
di un qualsiasi potere, anche assai circoscritto, viltà, calcolo finalizzato a eludere gli ordini. In modo variegato e
sfumato la vittima si identifica con il carnefice, il suddito
con il re. L’oppressione stimola il potere mimetico che è
in noi. La domanda è: tutto questo è scomparso in democrazia? Seguendo la lezione di Primo Levi che analizzava i Lager anche come momento di riflessione più generale sul potere e le sue forme, mi devo chiedere, ci
dobbiamo chiedere: cosa in un sistema democratico può
portare (sta portando) a una nuova forma di regime
dove al gioco del consenso non corrisponde la partecipazione?
Allora, è necessario indagare su ciò che ci ha portati a un
regime che, pur mantenendo le forme e le pratiche della
democrazia, è diventato appunto un regime. Il potere sui
mass media. D’accordo. Ma vi è anche, a mio parere, dell’altro. Per esempio, la condizione del precariato, quando
diventa una condizione esistenziale permanente, finisce
con lo svuotare la persona fino a renderla psicologicamente disponibile ai voleri del padrone.
Qualche anno fa fu esaltata la precarietà, chiamata però,
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Le parole e le cose dei democratici
soprattutto a sinistra, con un nome ipocrita e allettante,
flessibilità. La critica al posto fisso ha fatto perdere di vista la necessità e il diritto di tutti a un posto sicuro, a partire dal quale sarebbe bello pensare alla flessibilità, la
quale ha senso se è scelta da chi lavora, laddove la precarietà è invece imposta da chi comanda. Di certo non auguro a nessuno di essere tutta la vita un precario. La precarietà non rende flessibili; al contrario irrigidisce il corpo
e la mente e fa diventare gli uomini più disponibili al consenso senza partecipazione.
Un tempo la sinistra aveva la capacità di unire riflessione, ricerca e azione collettiva. Oggi non è più così. La
sinistra, negli ultimi anni, è stata connivente sia con l’idea
di politica come amministrazione, sia con l’angoscia mediatica del consenso, sia con la condizione sociale della
precarietà. Nella patetica ansia di non sembrare passatista e arretrata, si è data una pallida visione della società,
osservata con occhi da miope, senza uno sguardo lontano. L’impallidimento degli ideali e l’offuscarsi di una visione egualitaria ha spinto fin quasi a idolatrare i manager e gli imprenditori, e ad accettare o subire del
tatcherismo l’idea che una divaricazione economica e
culturale fra dirigenti e diretti avrebbe aiutato l’organizzazione sociale; purtroppo, invece, ha favorito soltanto la
sperequazione e la corruzione.
A proposito di imprenditori, lo scorso anno è stata ricordata dal Comune di Pisa e dall’Università la figura di
Adriano Olivetti, di cui Luciano Gallino recentemente ha
sottolineato quel senso di responsabilità sociale che ormai
gli imprenditori hanno deliberatamente perso. Gli utili,
che la Olivetti sapeva ben realizzare, erano ripartiti fra i
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Le parole e le cose dei democratici
dipendenti e nel territorio. L’organizzazione del lavoro
fece epoca. Adriano seguì sempre il suggerimento del padre Camillo: «Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che
affligge la classe operaia». Strana e meravigliosa affermazione da parte di un imprenditore che sembrava avere
letto le considerazioni di Marx sugli effetti devastanti
per gli operai e le loro famiglie delle rivoluzioni tecnologiche del capitalismo. Ma non c’era bisogno di essere
marxisti. Bastava avere quel senso etico-sociale, laico o religioso che sia, oggi dissolto. Stride la contrapposizione fra
questo modo di pensare la produzione e le teorie attualmente dominanti, le quali affermano che lo scopo dell’impresa è unicamente quella di fare buoni affari. Oggi
tutti o quasi, chi per cinismo, chi per ignavia, accettano
la fine della responsabilità sociale. Si obietta che il mondo
è cambiato, che siamo nell’epoca della globalizzazione.
Una buona scusa per tutti i filistei. La parola sociale un
tempo, ora non più, qualificava il termine responsabilità.
Una parola che nessuno vorrebbe più fra i piedi, visto che
viviamo in un mondo dove le relazioni sociali sono tornate
ad essere sempre più e quasi esclusivamente dei mezzi per
i fini privati degli individui. Sì, il mondo è cambiato, ma,
da questo punto di vista, in peggio. Non dovremmo riprendere, a sinistra, il discorso sulla responsabilità sociale
delle imprese?
Recentemente è stato pubblicato un libro di due sociologi
britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett, il cui titolo italiano è a dir poco improprio, La misura dell’anima (Feltrinelli 2009). In realtà il titolo originale fa riferimento alla
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Le parole e le cose dei democratici
livelletta, quella dei muratori e di Totò, ed è un’interessante analisi delle società occidentali che dimostra come
nei paesi ricchi ma caratterizzati da un maggiore livello
delle diseguaglianze aumentano i malesseri sociali, crescono la violenza, il disagio psichico, lo sfruttamento del
lavoro, le malattie, le dipendenze. Essi sfatano il pregiudizio diffuso e più o meno condiviso secondo cui la crescita economica rende automaticamente una nazione
più sana e più soddisfatta di sé. «Nelle società moderne»
– essi scrivono – «si osserva uno straordinario paradosso:
pur avendo raggiunto l’apice del progresso tecnico e
materiale dell’umanità, siamo affetti da ansia, portati alla
depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo
nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo
conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli
acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all’abuso di
alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti. Com’è possibile che abbiamo creato tanta sofferenza mentale ed
emotiva, nonostante livelli di ricchezza e di agio che non
hanno precedenti nella storia umana?».
Wilkinson e Pickett sostengono, dati comparativi alla
mano, che questa situazione paradossale è causata dal divaricarsi delle diseguaglianze che, tra l’altro, ha spinto gli
individui a ridurre i risparmi, ad aumentare gli scoperti
bancari e i saldi delle carte di credito, nonché ad avviare
un secondo mutuo per finanziare i consumi. Gli autori in
sostanza anticipavano (il libro è del 2009) le conclusioni
a cui è giunto Obama nel valutare l’attuale crisi econo-
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Le parole e le cose dei democratici
mica. «Sappiamo anche, scrivono gli autori, che la crescita
economica non è il metro con cui si misura tutto il resto…
Non dobbiamo neppure lasciarci convincere che i ricchi
sono la rara e preziosa espressione di una razza superiore
di individui più intelligenti, dai quali dipende la vita di tutti
noi. Questa è una semplice illusione creata dalla ricchezza. Piuttosto che assumere un atteggiamento di gratitudine verso i ricchi, dobbiamo riconoscere gli effetti
dannosi che essi hanno sul tessuto sociale».
Forse, perché vi sia qualcosa di sinistra nella sinistra, dovremmo ripartire da qui, dal problema dell’eguaglianza,
che, ben lungi dall’essere un uguagliamento plebeo da
sudditi verso un capo, deve caratterizzarsi come un’aspirazione legittima di cittadini, nella consapevolezza che
non vi può mai essere libertà piena per tutti nello stato di
diseguaglianza.
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Michele Ciliberto
Professore di Storia della filosofia moderna
e contemporanea, Scuola Normale Superiore di Pisa
Assumo che siamo in una Scuola: farò quindi delle osservazioni come se fossimo in un seminario per costruire
una discussione. Credo che il punto dal quale bisogna partire è quello che richiamava Iacono quando alludeva ad
una crisi generale della democrazia, quando poneva la distinzione fra eguaglianza ed eguagliamento, assumendo
appunto l’eguagliamento come obbedienza passiva ad
una forma di dominio, e l’eguaglianza, invece, come elemento positivo di emancipazione e di libertà. Nel mio ultimo libro pubblicato da Laterza, La democrazia dispotica,
ho cercato di dire che anche il problema dell’Italia è la crisi
della democrazia in generale. Credo che questo sia il
primo punto sul quale noi dobbiamo ragionare: le patologie in generale della democrazia, e il fatto che, all’interno della democrazia, possono fermentare e determinarsi anche inclinazioni dispotiche. All’interno della
democrazia, cioè, ci possono essere elementi propriamente dispotici: il che significa, come avviene appunto in
Italia, rottura dei rapporti fra esecutivo e legislativo, dominio dell’arbitrio del potere, rottura con i corpi intermedi,
e via discorrendo.
È dalla stessa democrazia che possono emergere elementi di carattere dispotico. Questo è il primo punto che
dobbiamo aver presente. È sbagliato pensare che Berlu-
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Le parole e le cose dei democratici
sconi sia, come tante volte si dice, la ripresa del fascismo
o una forma di autoritarismo di tipo tradizionale: Berlusconi sta tutto all’interno di una lunga crisi delle democrazie dei moderni, su cui già Tocqueville nell’Ottocento
scrisse una serie di osservazioni molto importanti. All’interno dell’eguaglianza su cui insisteva prima Iacono possono emergere dei processi di rottura dei vincoli tra individui, processi di isolamento e di separazione degli
individui fra di loro sui quali si costituisce e si impone un
potere dispotico. La questione fondamentale alla quale arriverò alla fine del ragionamento è quella, appunto, dei
vincoli necessari a rimettere in moto un processo democratico.
Questo è un problema che riguarda anche la sinistra in
modo particolarmente intenso e che è legato, nella fattispecie, alla crisi delle forme e delle politiche di massa del
Novecento. Credo che questo debba essere un secondo
punto sul quale dobbiamo provare a ragionare. Se noi
pensiamo alle forme della democrazia o alle forme della
politica nel Novecento, vediamo che si tratta sempre di
politiche di massa e di democrazie di massa. La dimensione di massa era costitutiva di queste forme politiche e
di queste forme democratiche. Anche il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana erano partiti che si muovevano all’interno di una dimensione di democrazia di
massa. Quando si rompe questa dimensione di massa, si
produce una rottura delle identità collettive quali si davano nel Partito Comunista o nella Democrazia Cristiana,
nei grandi sindacati, nelle organizzazioni del dopolavoro:
vengono meno le organizzazioni politiche e sociali di
massa e avanzano, soprattutto a partire dagli anni Set-
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Le parole e le cose dei democratici
tanta, forme di individualismo e di cultura radicale – termine che, in questo caso, utilizzo in senso positivo – anche per la pesante responsabilità del Partito Comunista di
non esservisi confrontato, allora, in modo intenso. Queste culture di carattere radicale ponevano in modo nuovo
la questione dell’individuo, dell’individualità, dell’individualismo. Si determina, di conseguenza, una crisi generale della democrazia, non solo in Italia e non solo in Europa. Forme di un potere dispotico quale abbiamo noi
oggi in Italia, basato sul consenso – questo è il punto di
fondo che non va mai dimenticato –, patologie democratiche anche a sinistra, che nascono dalla crisi delle
forme di politica di massa proprie del Novecento: il PD
vuole nascere da qui, come un superamento delle forme
dei partiti e delle politiche di massa. Questa è la sua
sfida: come costruire un partito nell’epoca in cui non c’è
più la politica di massa, in cui la politica ha cambiato
forma e non è più nella forma della massa.
Noi siamo nella fase della post-politica di massa: questo
è il problema del PD. Il PD – vengo a quella che io considero una patologia di questo partito – si è trovato in una
situazione di difficoltà perché sono andate in crisi le sezioni e le vecchie forme della politica di massa. Il PD ha
avvertito il problema di tenere stretto un rapporto fra governanti e governati, come direbbe Gramsci, tra eletti ed
elettori, fra vertici e base; ha avvertito, cioè, un problema
di democrazia e a questo ha dato una risposta con le primarie. Io credo che su questo tema noi ci si debba interrogare molto, perché è un problema estremamente delicato. Intanto dovremmo chiederci: primarie di coalizione
o primarie di partito? Sono, infatti, due cose abissal-
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Le parole e le cose dei democratici
mente diverse. Io ho ritenuto – questa è, però, una considerazione di carattere personale –, almeno in una prima
fase, che le primarie fossero uno strumento assolutamente positivo e innovativo nella vita politica del Partito
Democratico proprio perché si ponevano il problema di
ricostituire forme di democrazia nel periodo della post-politica di massa, quando non erano più attive o possibili
forme di politica di massa. Ho ritenuto che questo fosse
un punto di notevole interesse e innovazione. Sottolineerei però qui con voi che le primarie sono poi progressivamente diventate, a mio giudizio, un dato della patologia della democrazia a sinistra. Perché, appunto, non
si è distinto tra primarie di coalizione e primarie di partito.
Perché le primarie suppongono un partito fortemente organizzato. Perché, nell’esperienza che abbiamo fatto
delle primarie, abbiamo visto come siano diventate anche
terreno di lotta fra dirigenti nazionali e boss locali, oltre
che lo strumento attraverso cui personalità politiche estranee al PD sono entrate nella dialettica politica del PD e vi
si sono imposte. Le primarie meritano una riflessione
profonda: io non credo che debbano essere eliminate, ma
certamente devono essere ripensate e riorganizzate, sia
dal punto di vista politico sia dal punto di vista teorico.
Dato che siamo nella sede di un Seminario allargato,
vorrei appunto porre anche il problema teorico: le primarie nascono da una corrente che è propria della sinistra ed è propria della cultura marxista; nascono, cioè, da
una corrente che ha fortemente valorizzato la democrazia diretta. Le primarie sono una forma di democrazia diretta, sono il modo in cui i militanti vengono portati a decidere direttamente, come è giusto che sia, sui capi del
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partito e sulla rappresentanza: sono, cioè, un pezzo della
lunga storia della democrazia diretta che è propria dei partiti di sinistra, specialmente di quelli comunisti, ma non
solo. Qual è il problema che si pone, a mio giudizio,
quando si parla delle primarie? Il problema, anche di ordine teorico, è quale tipo di rapporto stabiliamo fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa nel caso
specifico delle primarie. Io voglio esprimere la mia posizione con estrema nettezza: sono persuaso che la democrazia diretta, abbandonata a se stessa, produca esiti
dispotici. Lo sosteneva già Kant prima di me. Il problema
è come stringere insieme l’esigenza della democrazia diretta con le modalità proprie di una democrazia rappresentativa che deve essere il punto di riferimento e di
compimento delle forme di democrazia dirette. Su questo io credo che dobbiamo fare una riflessione; altrimenti ci troviamo di fronte a quella deriva plebiscitaria e
leaderistica che attualmente corre all’interno delle primarie del PD e che ne fa, come dicevo prima, una forma
patologica della democrazia piuttosto che un suo elemento di sviluppo.
Io sono meridionale, sono napoletano: basta che pensi
alle primarie di Napoli perché mi sorgano molti interrogativi sulla potenza democratica delle primarie. Credo che
noi dobbiamo pervenire a quello che è il tema proprio
della nostra conversazione e riflettere anche sulle modalità proprie della crisi generale della società italiana. Come
non possiamo parlare solo del PD, ma lo dobbiamo inserire nel contesto generale della politica, così dobbiamo ragionare della nostra crisi nell’ambito della crisi generale
della società italiana. Io credo che su questo dobbiamo ca-
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pire a fondo quali sono le modalità di una forma di dominio che è basata sul programmatico rovesciamento di
apparenza e realtà. Noi ci troviamo in una situazione nella
quale le forme di sfruttamento sono diventate ancora più
dure e perverse e in cui, come diceva Iacono, il problema
dell’eguaglianza emerge sempre di più come il problema
fondamentale. Eguaglianza dei nativi, eguaglianza degli
immigrati, eguaglianza in senso generale: penso non ci sia
mai stato un tempo della politica italiana e della storia repubblicana in cui le diseguaglianze fossero così profonde.
Un altro elemento sul quale si è imposta una forma di
propaganda, dalla quale dovremmo prendere le distanze,
è quello del merito, ma non mi ci soffermo in questa sede.
Riflettere a fondo sulle modalità in cui si costituisce il rovesciamento fra apparenza e realtà nella situazione italiana, individuando le forme in cui funziona il dominio di
questa specifica patologia delle democrazia che è il berlusconismo: questo deve essere il fuoco del nostro ragionamento. In altre parole, a mio giudizio, dobbiamo rimettere al centro del nostro lavoro quella che una volta
si chiamava la ‘critica dell’ideologia’: credo che sia un passaggio decisivo per chi si muove all’interno di un partito
come quello Democratico e abbia ambizione di andare
prima o dopo al governo. ‘Critica dell’ideologia’ significa
riprendere Marx, ma non genericamente. Quando penso
a questi temi, io ho in mente soprattutto il Marx de La
questione ebraica, cioè il Marx che individua la differenza
tra il livello politico e il livello sociale, fra l’astrattezza dell’eguaglianza politica e la concretezza della diseguaglianza sociale; il Marx per il quale è vero che, da un
punto di vista politico, gli individui sono uguali, ma che
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evidenzia anche come, da un punto di vista reale, nella
società civile ci sia profondità e radicalità di diseguaglianza. Riafferrare la critica di Marx ai diritti umani, ai diritti della Rivoluzione francese, mostrare come dietro al
quadro dell’eguaglianza politica o giuridica fermentino e
si siano rafforzate e potenziate forme di sfruttamento e
di diseguaglianza: la critica dell’ideologia deve diventare
oggi critica dei rapporti materiali di sfruttamento. Il Partito Democratico deve andare, io credo, in quella direzione. Badate, però: ci sono fasi, almeno io penso, nelle
quali è fondamentale anzitutto la critica strutturale, e
fasi nelle quali invece è fondamentale la critica dell’ideologia, la critica dell’universo dei valori, la critica della dimensione della cultura nell’accezione generale. Io credo
che questo sia uno di quei momenti in cui il PD deve assumere come prioritarie, accanto alla critica dei rapporti
materiali, la critica dell’ideologia e la messa in questione
del rapporto rovesciato di apparenza e realtà.
Prendiamo la questione del linguaggio: se voi andate a
vedere il lessico politico di Berlusconi, vi accorgete che le
parole sono gusci vuoti senza niente dentro. Il problema
del PD, allora, dovrebbe essere quello di rinominare le parole, di ridare senso alle parole, perché le parole oggi non
hanno più senso. Questo significa che oggi il problema
del linguaggio è un problema propriamente politico, un
decisivo problema politico: si tratta di ridare consistenza
alle parole e di smascherare il lessico di Berlusconi, che
agisce sempre, da un lato, come lessico della violenza,
dall’altro come lessico rugiadoso dell’amore.
Su tutto questo dobbiamo lavorare, ma credo anche che
ci siano alcuni punti che noi dobbiamo mettere al centro
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del nostro lavoro come Partito Democratico. Ad esempio:
quando ragioniamo di critica dei rapporti materiali, penso
che noi dobbiamo, se vogliamo dare sostanza alla democrazia, rimettere al centro il grande tema del conflitto.
Io non entro nel merito se a Torino si sia fatta la scelta giusta: non ragiono di questo. Dico però che, quando c’è
conflitto, è sempre una battaglia per la libertà: il conflitto
pone sempre una battaglia in nome della libertà. Quando
noi assumiamo che il conflitto è negativo, ci stiamo ponendo su un terreno che è conservatore-reazionario:
sono i conservatori a dire che il conflitto produce disaggregazione. Quando il conflitto è organizzato e governato, come sapeva Machiavelli, diviene condizione ed
elemento di potenziamento della libertà. I metalmeccanici, al di là della loro battaglia specifica, come il movimento delle donne o degli studenti, ponendo elementi di
conflitto, pongono elementi di libertà e di democrazia.
Perché non c’è democrazia, cioè eguaglianza, senza libertà. Noi abbiamo fatto storicamente nelle nostre fila
l’esperimento di che cosa sia un movimento che si concentra sull’eguaglianza tralasciando la libertà: quando
non c’è libertà, l’eguaglianza diventa eguagliamento, diventa subordinazione passiva. È sul nesso tra libertà ed
eguaglianza che dobbiamo mettere l’accento, ricordando
che non c’è libertà senza conflitto. Se vogliamo tenere insieme libertà e democrazia, è fondamentale assumere il
tema del conflitto. Perciò, a coloro i quali costituiscono un
lessico e delle forme di comunicazione che assumono il
conflitto come un dato negativo, dobbiamo saper dire che
stanno facendo il loro lavoro di reazionari e di conservatori, ma che il nostro è un lavoro diverso.
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Susanna Cenni
Deputata PD
Mi sono chiesta quale contributo potessi dare a questa
sessione. Ma dalle donne ho imparato due cose preziose: la mia parzialità e il senso del limite, che mi conduce
a partire da me e dalla mia personale esperienza. Provo
quindi ad usare questo approccio.
Giunta in Parlamento nel 2008, arrivata da una esperienza
molto concreta – otto anni di governo regionale ad occuparmi di materie economiche, di sviluppo, di programmazione: di temi reali, con giornate a gestire tavoli
con imprese – ho pensato che portare un simile bagaglio
di attività nel mio nuovo impegno come deputata
avrebbe potuto essere utile. La realtà è stata, ed è, ben
diversa. Forse anche per questa ragione sono convinta di
vivere una delle fasi più buie della storia del nostro Parlamento.
Non mi riferisco solo al lunghissimo elenco dei voti di fiducia, dei decreti legge, dell’impossibilità di giungere in
aula con iniziative di legge parlamentari, ma a un ventaglio molto più ampio di questioni:
- lo stravolgimento in essere delle fondamenta della nostra democrazia parlamentare in modo più o meno diretto;
- l’attacco sistematico del governo nei confronti degli al-
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tri poteri dello Stato;
- il continuo richiamo all’investitura popolare del Premier;
- le recenti ed inquietanti vicende di compravendita, o comunque di ‘salto della quaglia’, di singoli parlamentari;
- la violazione di consuetudini, iter di costruzione delle decisioni (penso alla vicenda sul federalismo municipale).
Per non parlare di uno stile politico assolutamente discutibile, che sembra invece essere diventato costume diffuso
e praticato.
Non sono suggestioni, ovviamente. Il recente Rapporto
sullo stato della Legislazione, edito dalla Camera dei Deputati, ci consegna dati certi: solo il 18 per cento delle
leggi approvate dal Parlamento è costituito da leggi di iniziativa parlamentare; il resto è relativo a conversioni,
leggi di ratifica, ecc. Il dato è aggravato dalla pratica dei
maxi emendamenti e dal costante ricorso alla fiducia.
Eppure nel nostro disegno costituzionale il Parlamento è
ancora oggi l’unico organo dello Stato eletto a suffragio
universale, quindi lo strumento diretto della rappresentanza popolare su base territoriale. Non sta a me ragionare sui cambiamenti che in questi quindici/venti anni i
referendum e le varie riforme delle leggi elettorali hanno
apportato a quell’originale disegno: oggi il Parlamento assomiglia sempre di più ad un Consiglio Comunale.
Purtroppo questa complessa situazione è accresciuta anche da una pessima considerazione da parte dell’opinione pubblica, abbondantemente indotta dal populi-
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smo cresciuto nel nostro paese: il Parlamento che non lavora, il Parlamento dei nominati, la Casta ecc. Sappiamo
che esistono alcune ragioni, ma oramai siamo di fronte a
un’ondata pericolosa che non distingue più merito e ragioni effettive, che semplifica e non analizza più nulla e
che spesso rende invisibili anche importanti momenti di
battaglia parlamentare.
Noi, quindi, viviamo una difficilissima situazione di crisi del
Parlamento e di crisi di legittimazione diffusa, che tendenzialmente non fa eccezione. Questo tema ci riguarda,
riguarda il PD, riguarda la nostra capacità di fare opposizione dentro ad un sistema democratico, riguarda la percezione del nostro lavoro di opposizione non solo nell’opinione pubblica più generale, ma nel nostro stesso
partito.
Nadia Urbinati, in una intervista rilasciata a Liberazione
qualche settimana fa, parla della rappresentanza politica
nel nostro paese, della separazione tra i poteri dello Stato
e della nostra Costituzione, e dice due cose che mi sono
molto piaciute: «Le istituzioni servono ad un popolo che
vuole proteggere se stesso e le sue libertà dagli errori che
lui stesso può compiere». E ancora:
[…] la democrazia rappresentativa, che non è racchiudibile solo nell’espressione
del voto popolare, vive solo se c’è un rapporto continuo con il mondo attivo
della società, vale a dire le associazioni, i partiti, i singoli cittadini, attraverso petizioni, referendum, leggi di iniziativa popolare. Il fatto è che, con la crisi dei
vecchi partiti ideologici, si avverte anche il declino di questo dialogo tra le istituzioni e i cittadini, con il rischio che chi anima le istituzioni si ritrovi a giocare
un ruolo pressoché assoluto nel gioco democratico. Per evitare questo rischio
si dovrebbe intervenire sia modificando le leggi che lavorando ad una ripresa
delle forme associative di tipo politico.
Urbinati indica strade nette, ma ovviamente non semplici
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né lineari. Ad esempio, qui si apre l’interrogativo, sul
quale lo stesso Prof. Ciliberto ci invitava a riflettere, su
come si fa politica oggi.
Concetti molto chiari ed utili al nostro ragionamento,
quelli di Urbinati: una politica debole non aiuta le istituzioni a funzionare e può favorire forme di personalizzazione ed uso improprio delle istituzioni. Personalizzazione, uso del potere, populismo, sfiducia indifferenziata,
distanza.
Scrive ancora Urbinati:
I populismi sono l’equivalente per le democrazie rappresentative odierne di ciò
che hanno rappresentato le tirannie per le democrazie antiche. Il populismo
propone un azzeramento della rappresentanza perché indica un’autoaffermazione di rappresentatività di chi è leader che si proclama ‘espressione dell’intero popolo’. L’uso continuo dei sondaggi per calibrare di volta in volta l’attività dei politici serve proprio a far questo.
Si parla dei sondaggi come dell’opinione dei cittadini, ma
è cosa ben diversa. A questo proposito, mi piace ricordare
un intervento del 1996 di Zagrebelsky:
Abbiamo visto svilupparsi, negli ultimi tempi, una serie di pratiche politiche basate su tecniche apparentemente democratiche, forse sotto certi aspetti
‘troppo’ democratiche. Il sondaggio sembra uno strumento democratico, perché consente di percepire in tempo reale l’orientamento, i desideri, le aspirazioni dei cittadini. Il sondaggio dovrebbe dunque servire a mettere in contatto
quotidiano gli uomini del potere con coloro che sono sottoposti al potere stesso.
Il Presidente della Repubblica [allora, 1996, era Scalfaro] parlando di tali questioni ha invece definito la ‘sondocrazia’ uno strumento politico immorale, perché esonera la classe politica dal compito di elaborare progetti e di proporre
programmi di cui si assume la responsabilità. In una ‘sondocrazia’ perfetta i governanti possono presentarsi come coloro che si limitano a seguire l’orientamento che proviene da coloro che hanno risposto al sondaggio. Questo è un
modo per far sparire completamente una categoria fondamentale della democrazia rappresentativa, che è quella della responsabilità dell’uomo politico.
Insomma la ‘sondocrazia’ potrebbe fondarsi sullo slogan: ‘Viva la gente, abbasso le istituzioni!’.
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Era il 1996, ma il contesto, a quindici anni di distanza, mi
sembra ancora molto attuale.
Noi ci troviamo, oggi, in un contesto segnato da una crisi
delle istituzioni e da una profonda crisi economica (alla
quale non si dà risposta), del sistema del welfare, del lavoro, dell’architettura dello Stato, nonché da un continuo
richiamo alla investitura popolare quale alibi per ‘bypassare’ i passaggi parlamentari, per evitare il controllo costituzionale del Quirinale (troppo puntiglioso), della Corte
(chiaramente orientata), per rigettare l’autonomia della
magistratura (chiaramente comunista), un Parlamento
che fa perdere tempo...al Premier, che si dice legittimato
dal popolo.
Siamo con chiarezza all’epilogo di una lunga fase politica
caratterizzata non solo dalla persona Berlusconi, ma da un
modello culturale, da un humus che è stato capace di coalizzare attorno ad un individuo e al suo sistema poteri, affari, clientele e milioni di italiani che hanno creduto in un
sogno. A sinistra, nonostante questo epilogo, facciamo
molta fatica a delineare e a comunicare una nuova idea
di nazione, di sistema, di società, di paese. Non è pertanto
scontata l’evoluzione di questo passaggio politico, non si
conosce con chiarezza quale ne sarà lo sbocco.
Del resto questi lunghi anni di governo del centrodestra
e della Lega hanno modificato il paese e, forse, lo stesso
terreno del confronto politico. Non mi riferisco solo alla
caduta dei partiti ideologici, allo svuotamento istituzionale, alla crescita esponenziale della competizione personalizzata piuttosto che dei progetti alternativi, ma anche all’enorme crescita delle divergenze sociali,
all’allargamento della forbice nell’accesso ai diritti e al red-
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dito e alla crescita delle rendite e delle speculazioni finanziarie. Lo dico perché la televisione è stata ed è tuttora uno strumento fondamentale per il consenso del Premier, ma un pezzo enorme dello spostamento elettorale
è avvenuto per ragioni molto più concrete e più legate alla
strada che il neoliberismo e la finanza hanno consentito
di aprire.
Poteri enormi sono oramai fuori del controllo dello Stato
e del fisco. I dati Mediobanca ci dicono che la quota del
lavoro sul valore aggiunto è passata dal 70 per cento al
53 per cento, quella dei dividendi dal 2 per cento all’8 per
cento. Dentro la crisi si fanno ancora più acute le differenze tra lavoratori tradizionali con un minimo di ammortizzatori e di protezione nel sistema del welfare, e
nuovi lavoratori, senza diritti e coperture. A questo si aggiunge lo scenario, estremamente preoccupante, che riguarda le giovani generazioni under-25: un terzo senza
lavoro.
Il centro-destra e la Lega hanno dato voce, amplificandole, a paure, incertezze, bisogni tuttora in essere dentro a un sistema traballante (garanzie dello Stato, vecchi
diritti di cittadinanza, immigrazione, scontro fra culture).
Noi facciamo fatica a mettere in campo un’idea di società
che spieghi come si risolvono quelle paure nell’epoca
che stiamo vivendo, e non riusciremo a farlo se non ricomponiamo, tutti assieme, una lettura che parta dalle
condizioni materiali e sociali dei cittadini e che si leghi alla
politica, dentro e fuori le istituzioni.
Occorre, quindi, delineare con chiarezza programmi,
contenuti, idee.
Eppure, a proposito di vizi e virtù della sinistra, la capa-
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cità programmatica e l’esperienza dei governi ombra
sono stati banco di prova concreta della sinistra e delle
forze riformiste. Andando più indietro mi piace ricordare
come le amministrazioni locali di sinistra siano state capaci
di varare un sistema di welfare e una rete di servizi innovativi all’avanguardia ben prima che leggi-quadro nazionali prevedessero asili nido, scuole materne, consultori e,
più avanti, la sperimentazione di nuovi tempi e spazi
nelle città, le banche del tempo ecc. Era chiaro quale modello di società ‘altra’ si proponeva e si praticava. Era
chiaro cosa una ‘comunità politica’ condivideva, elaborava e affidava a coloro che venivano eletti per governare.
Si parlava di ‘modello emiliano’ e di ‘modello toscano’, indicando un’idea di organizzazione sociale, istituzionale,
dei distretti produttivi. Oggi tutto ciò è molto aleatorio e
diventa difficile un processo di riconoscimento profondo,
come sottolineavano anche i relatori che mi hanno preceduta.
Sui temi, ad esempio, dello sviluppo e della crescita: per
noi si apre un versante enorme di proposta ed elaborazione politica che ci chiede di ragionare sui cambiamenti
in atto nei consumi, sulla consapevolezza che non basterà
qualche aggiustamento finalizzato alla cosiddetta ‘ripresa
dei consumi’ e che, forse, occorrerà modificare profondamente qualche paradigma del nostro modello di sviluppo. Chi, se non noi, può provarci? Chi se non la sinistra può investire su questo cambiamento?
Ho trovato molti spunti utili di riflessione nel libro di
Gianni Cuperlo Basta Zercar. Gianni si interroga e ci interroga (noi che abbiamo creduto e scelto il progetto del
PD) su quanto la nascita del PD abbia visto un lavoro di
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cura e di costruzione di un’identità comune e collettiva,
e si domanda:
[…] che ruolo immaginiamo per l’Italia nei prossimi anni? Che modello di democrazia immaginiamo per l’Italia dei prossimi anni? Che modello di democrazia scegliamo di difendere o promuovere, a partire dal ‘nostro’ federalismo?
Come pensiamo di affrontare il tema della crescita: quali terapie d’urto per
creare nuova occupazione, per una più equa distribuzione dei redditi, per ridare dignità al lavoro? Che concezione abbiamo di sicurezza e legalità, della
cittadinanza, del dialogo sulla pace e sui diritti umani? E come pensiamo di rapportarci a quelle domande di senso che ovunque investono le coscienze e responsabilizzano i parlamenti, a partire dalla difesa del principio della laicità nell’epoca dei fondamentalismi e di temi etici inediti? Insomma la vera domanda
è come una politica ‘autonoma’ intende rinnovare quella trama di diritti e doveri, quella comune responsabilità che distingue una società libera e consapevole.
Siamo all’anno zero? No, non credo. Oggi, dopo circa un
anno di lavoro dell’Assemblea nazionale del PD e dei Forum, possediamo una ricca e qualificata elaborazione
programmatica, un pacchetto di proposte di legge che ne
discendono, iniziative diffuse. Non riusciamo, però, a
trasformare tutto questo in terreno e patrimonio condiviso e consapevole della nostra comunità politica e del
nostro elettorato, a farlo vivere, come diceva Urbinati,
mantenendo attiva la relazione tra partiti, elettori e società civile. Perché?
Me lo chiedo di continuo e temo che, nonostante i grandi
sforzi del nostro Segretario e dei gruppi dirigenti, il PD
faccia ancora molta fatica a trovare quel terreno innovativo di pratica politica e di comunicazione necessaria a rinnovare una relazione con gli italiani.
Noi abbiamo un popolo democratico. C’è. Lo vediamo
nelle mobilitazioni (11 dicembre) e lo abbiamo visto in
queste settimane con la raccolta delle firme, ma c’è an-
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cora qualcosa che non fa sentire la stessa sintonia tra i segnali importanti e sani che vanno colti nelle piazze delle
giovani generazioni (studenti, donne, precari), nella manifestazione del Palavobis di Milano, nel ‘popolo viola’,
nell’impegno a difesa della Costituzione e della libertà di
stampa, nella meravigliosa mobilitazione delle donne del
13 febbraio che non si è fermata.
C’è un’analisi in quelle mobilitazioni che condividiamo,
che spesso nasce spontaneamente, auto-organizzata.
C’è una critica al governo, al modello di sviluppo, al Premier; c’è una consapevolezza dei rischi per la nostra democrazia, per il futuro di intere generazioni; c’è un sussulto, una ribellione di fronte all’annullamento della
ricchezza che le donne rappresentano in questo paese,
banalizzate, offese con la rappresentazione attraverso
un modello culturale medievale. E credo ci sia un segnale
importante anche nel dato che le primarie di Torino ci
consegnano.
Mi soffermo in particolare sulla mobilitazione delle donne.
Non vorrei che considerassimo il 13 febbraio un evento,
che pensassimo ‘nostre’ quelle piazze. Non lo sono, e se
ci fosse stato il sospetto di un ‘cappello’ politico non sarebbe stato possibile avere duecentocinquanta piazze in
tutta Italia. Eppure quei temi sono anche nostri e possiamo, con rispetto, farli tali. Non c’erano sondaggi in merito ai possibili risultati della mobilitazione, ma c’era un
clima, una tensione grande. Personalmente ne ho anche
scritto su Europa. C’era un processo straordinario di riconoscimento e identificazione di centinaia di migliaia di
donne e ragazze italiane in quel ‘Se non ora quando?’,
nelle parole d’ordine che parlavano di lavoro, di talenti,
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di futuro. Lo stesso è accaduto a Siena il 25 febbraio al
convegno promosso dalla Fondazione ‘Nilde Jotti’, organizzato come confronto intergenerazionale tra donne:
tantissime le ragazze venute a dibattere su modelli culturali, diritti, politica. In quella occasione erano tangibili
l’entusiasmo, la voglia di continuare, il progetto di una
scuola di politica per le giovani donne... Perché – si sono
chieste alcune – la potenza delle donne non si fa potere?
Eppure oggi siamo più formate, scolarizzate, capaci di fare
qualsiasi cosa. Perché si diffida della politica tradizionale,
dei partiti, del nostro partito? Noi (PD) abbiamo bisogno
di quelle energie o moriremo delle nostre divisioni.
Ieri sera ero in un Circolo della mia città. Età media dei
presenti: sessant’anni. Volti stanchi, attenti, voglia di discutere, ma pessimismo cosmico. Mi è stato chiesto perché ci fossero assenze tra i nostri parlamentari. Come ha
detto Camilleri: ‘Perché non facciamo qualcosa di clamoroso?’. Perché, come ci chiede Micromega, non blocchiamo l’attività parlamentare? Perché non abbiamo votato la mozione Borghesi che chiedeva la cancellazione
della pensione ai parlamentari? Certo, abbiamo parlato
anche di altro, ma l’interrogativo per me resta. Come è
possibile – mi chiedo – che noi veicoliamo così un nostro
modello di società? Come dare un messaggio diverso,
raggiungere con i nostri contenuti i singoli, le intelligenze?
La mia risposta è simile a quella che ho letto in Nadia Urbinati, così come in tante lucidissime riflessioni di Alfredo
Reichlin, o ancora nelle parole che Sandra Bonsanti ha
usato a Milano. Possiamo farlo solo con «un surplus di
politica, con la società», «riempiendo le strade della de-
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mocrazia di parole e pensieri che comunque arricchiscano il cittadino che le abita. Andando nelle città e nei
paesi a cercare contatti diversi da quelli che l’informazione
televisiva offre». Oppure ‘rimboccandosi le maniche’,
come il nostro Segretario ama dire. C’è molto da fare e
noi non possiamo pensare di competere partecipando a
qualche trasmissione televisiva. Dobbiamo portar la sfida
su un altro terreno.
La distanza tra i cittadini e le istituzioni, la sfiducia, il populismo ci dicono che c’è un paese da cambiare. I segnali
di questi mesi ci dicono che c’è bisogno di più politica, di
rappresentanza, di ascolto, di relazione. Io vedo qui lo
scatto da compiere. Lo dico con la consapevolezza che c’è
un contesto internazionale difficile, non favorevole alla sinistra, ma con un forte bisogno di sinistra, di riforme, di
cambiamento: i sondaggi in Francia danno Le Pen sopra
Sarkozy.
La crisi è tutt’altro che superata. Il nostro paese vivrà ancora anni difficili soprattutto sul versante occupazionale.
Noi siamo chiamati a ragionare non solo sull’insufficienza
delle risposte del governo, sullo scarto tra noi, la Germania, gli USA, ma anche a dire che forse dobbiamo individuare nuovi paradigmi di sviluppo e di crescita. Che dobbiamo occuparci di una ‘ricostruzione’ dello Stato, di una
rinnovata dignità e autorevolezza della rappresentanza,
di riforme che vivano in Parlamento e nel paese.
Siamo chiamati a costruire le condizioni per raccogliere le
sfide che tanta società civile ci sta lanciando; siamo chiamati a scegliere e a rendere chiare le nostre scelte per
consentire riconoscibilità in un progetto per il paese che
non sia espressione di un solo ceto politico.
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Le parole e le cose dei democratici
Da Carofiglio ci vengono osservazioni importanti sui pericoli che derivano dalla manomissione delle parole, e di
una in particolare: ‘scelta’.
[…] scegliere e dire implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui
possiamo dare un nome. Dall’ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza indecifrabile alla possibile salvezza. Scelta significa progetto, promessa e tentativo di
controllo sul futuro e sul caso. Come ha scritto Hannah Arendt: «Rimedio alla
imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e di mantenere le promesse..cioè di progettare coraggiosamente il futuro».
E mi viene da dire: ‘Se non ora, quando?’.
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Roberto Cerreto
Consigliere parlamentare
L’idea intorno alla quale ruota il mio intervento è che – per
restare al titolo della sessione – il parlamentarismo può essere letto come ‘virtù’, spesso involontaria, della sinistra
e l’antiparlamentarismo, invece, come ‘vizio’ o ‘patologia’
ricorrente nella storia (anche) della sinistra. Dato che
tutti, o quasi, hanno citato Marx, voglio ricordare che all’origine di questo atteggiamento ambivalente c’è, naturalmente, la critica marxiana della repubblica parlamentare come forma specifica della dominazione borghese (in
particolare, K. Marx, Le 18 Brumaire de Louis Bonaparte,
1851). È, questo, un giudizio che ha pesato nel pensiero
della sinistra comunista e socialista, anche se ha lasciato
presto il posto a un approccio realistico che vedeva,
quantomeno, nei Parlamenti uno strumento tattico per
l’affermazione della classe operaia. Si sosteneva, in particolare, che i Parlamenti possono diventare uno degli
strumenti più potenti per la lotta della classe operaia e che
la socialdemocrazia aveva il compito di salvare il Parlamento dalla borghesia e contro la borghesia. Il punto di
arrivo di un simile percorso può essere considerato Lenin,
che aveva una concezione fondamentalmente strumentale della battaglia elettorale per la rappresentanza, almeno negli Stati liberali europei.
Proprio nei Paesi europei, tuttavia, la socialdemocrazia, in
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particolare quella tedesca, incominciò ben presto a guardare ai Parlamenti in modo diverso, determinando anche
una revisione teorica. Quando Friedrich Engels, nel 1895,
scrive la sua prefazione a Le lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850 di Marx, ha davanti a sé la socialdemocrazia tedesca, divenuta partito, e parla del parlamentarismo
come strumento reale di transizione al socialismo. Non vi
è più, quindi, soltanto una visione tattica: il parlamentarismo diventa strumento vero delle masse popolari.
È interessante notare che in Italia, negli stessi anni, si sviluppa un forte antiparlamentarismo, ma si tratta di un antiparlamentarismo di destra. Per meglio dire: al di là degli anarchici e della sinistra radicale, che ovviamente
criticano il Parlamento, vi è una critica liberale del parlamentarismo che utilizza l’argomento della corruzione dei
parlamentari e delle clientele e che si fa forte dell’accusa
alle monarchie parlamentari di essere sostanzialmente
imbelli, incapaci, cioè, di dare al paese quella politica di
potenza di cui avrebbe bisogno. Essa rovescia così, dal
punto di vista assiologico, l’argomento kantiano per cui
le democrazie sono meno propense alla guerra; al fondo
di questa critica liberale c’è però, ben chiara, la paura per
l’avanzata delle masse, per l’allargamento del suffragio.
Si assiste a un fiorire straordinario di letteratura antiparlamentare in Italia alla fine dell’Ottocento, anche a livello
di romanzi e racconti. Un compianto studioso dell’Università di Pisa, Carlo Alberto Madrignani, ha raccolto in
un volume assai interessante ma ormai di difficile reperibilità, dal titolo Il rosso e il nero a Montecitorio, un’antologia del romanzo antiparlamentare italiano di fine Ottocento. Persino gli psichiatri si occupano e si
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preoccupano dei Parlamenti, di quello che accade nelle
assemblee parlamentari: è abbastanza noto che gli ultimi
due capitoli della Psychologie des foules di Gustave Le
Bon (1895) sono dedicati alle assemblee parlamentari e
ai processi elettorali; forse è meno noto, invece, che
nello stesso 1895, in Italia, Scipio Sighele, autore quattro
anni prima de La folla delinquente: studio di psicologia
collettiva, pubblica per l’editore Treves di Milano un breve
saggio dal titolo: Contro il parlamentarismo: saggio di psicologia collettiva. Questo, però, è un antiparlamentarismo
che potremmo definire ‘di destra’. Quello che a noi interessa più da vicino in questa sede è la critica ‘da sinistra’,
cioè una critica dei Parlamenti come luoghi non abbastanza democratici, in cui non si dà sufficientemente
espressione alle istanze delle classi popolari, nonostante
il progressivo allargamento del suffragio.
Tra le due Guerre, in un periodo che fu un po’ lo spartiacque tra parlamentarismo e antiparlamentarismo in
Europa, uno dei tanti motivi di frattura tra la socialdemocrazia tedesca, da una parte, e gli spartachisti e i comunisti, dall’altra, fu proprio la diversa valutazione della
repubblica parlamentare (e di quella semipresidenziale),
nel contesto di un’aspra e, col senno di poi, esiziale polemica contro le degenerazioni del parlamentarismo.
Tornando, ancora una volta, in Italia, è obbligatorio un
breve riferimento ad Antonio Gramsci e, in particolare, ad
almeno due aspetti che emergono con forza nei Quaderni
del carcere. Il primo è la richiesta dell’elezione di una Costituente per uscire dal fascismo: una proposta che – occorre ricordarlo, ricorrendo quest’anno il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia – è anche il frutto
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della memoria della mancata Costituente risorgimentale,
che avrebbe consentito di radicare il Risorgimento nel popolo, nelle masse. È l’idea di un’assemblea, che potremmo
ben dire ‘parlamentare’, che dia espressione alle masse
popolari nella costruzione dello Stato nuovo dopo la fine
del fascismo. L’altro aspetto interessante è che Gramsci recepisce una parte delle critiche all’inefficienza e alla corruzione del parlamentarismo italiano: c’è un passo molto
bello, che per ragioni di tempo non cito estesamente, sulla
‘forza’, intesa come violenza, sul ‘consenso’ e sulla ‘corruzione-frode’ come via intermedia tra la prima e il secondo, corruzione che, nei momenti di emergenza, in
«certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica», diventa nei Parlamenti scoperta e dichiarata (si
veda il Quaderno 13, 1932-1934, vol. III, p. 1638 dell’edizione del 1977). C’è anche, però, un capovolgimento delle critiche liberali, perché vi è l’idea che il male
del parlamentarismo italiano risieda nella costante paralisi del Parlamento ad opera del Senato, di nomina regia,
e che il vulnus strutturale del Parlamento italiano sia l’assenza di partiti di massa. La visione di Gramsci, insomma,
è che, senza la nascita dei grandi partiti di massa, non si
possa affermare quel «nuovo tipo di regime rappresentativo» di cui l’Italia avrebbe bisogno (Quaderno 14,
1932-1935, vol. III, p. 1708). Questo ragionamento ci
conduce abbastanza direttamente al ruolo che ebbe il Partito Comunista nella costruzione della Repubblica italiana come repubblica parlamentare.
Qui mi concederete una piccola citazione: l’11 marzo del
1947 il PCI è, ancora per poco, al governo insieme alla
Democrazia Cristiana e al Partito Socialista. Togliatti
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prende la parola all’Assemblea Costituente ed esalta il
ruolo del Parlamento, per il fatto di essere, questo,
l’espressione più diretta della sovranità popolare. Vi è, in
questo celebre discorso di Togliatti, un’insofferenza dichiarata verso tutti quegli istituti di garanzia che potrebbero bilanciare il peso del Parlamento. La questione va,
ovviamente, storicizzata: il PCI sente di aver dietro di sé
le masse popolari, vede aperta una prospettiva di grande
affermazione. E, al tempo stesso, ha ben viva la memoria della repressione fascista e del ruolo che vi ebbe la magistratura.
Tutte queste norme sono state ispirate dal timore. Si teme che domani vi possa
essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: […] e di qui anche quella bizzarria
della Corte Costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il
loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. […] La mia opinione è che nell’ordinamento
della Magistratura avremmo dovuto affermare in modo molto più energico la
tendenza alla elettività dei magistrati, il che ci avrebbe fatto fare un grande
passo avanti per togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui oggi si
trova, di essere un sovrano senza corona e senza autorità. Soltanto quando sarà
stabilito un contatto diretto tra il popolo, depositario della sovranità, e il magistrato, questi potrà sentirsi partecipe di un potere effettivo, e quindi godere
della fiducia completa del popolo nella società democratica.
Vi è poi, e per ragioni analoghe, la diffidenza nei confronti
delle Regioni e del decentramento. È da notare che questo giudizio sulle Regioni si rovescerà rapidamente all’indomani di due passaggi politici piuttosto significativi,
cioè l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo
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nel maggio del ’47, nel clima della incipiente Guerra
fredda, e la pesantissima sconfitta elettorale dell’aprile del
’48, con il Fronte Democratico Popolare al 31 per cento
circa e con la Democrazia Cristiana al 48,5 per cento. Sulle
Regioni si opera, così, un rapido rovesciamento di fronti:
saranno, cioè, le forze di governo a lasciare inattuato, per
vent’anni, il regionalismo, nonostante le pressanti richieste del PCI.
Sul sistema delle garanzie e dei contropoteri, invece, la
‘maturazione’ del PCI sarà più lenta: il mito della sovranità che si esprime nel Parlamento, possibilmente in modo
poco controllato, sopravvive più a lungo e occorrerà
tutta la prima legislatura repubblicana, la battaglia contro la cosiddetta ‘legge truffa’ nel ’53, ecc., per indurre il
PCI a riconsiderare la questione. Comunque, tutto si può
dire, ma non che il PCI non avesse posto al centro della
sua riflessione il ruolo del Parlamento. Non si trovò, perciò, impreparato quando, nel ’56, Krusciov legittimò la via
parlamentare al socialismo, aprendo la strada al programma di Bad Godesberg in Germania (1959), con cui
si abbandona definitivamente il marxismo e si accetta
l’economia di mercato, ma anche alla stessa idea togliattiana della democrazia progressiva.
Anche in tempi molto più recenti si è sviluppata una critica della rappresentanza che, pur con molta cautela, definirei ‘da sinistra’: mi riferisco al dibattito sulla democrazia partecipativa o deliberativa, che, in fondo, muove
dalle insufficienze della rappresentanza e, quindi, dei
Parlamenti. Rinvio, a questo proposito, a un saggio del
Prof. Raffale Bifulco (La teoria della democrazia deliberativa e la realtà della democrazia rappresentativa), conte-
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nuto nel volume edito nel 2010 da Italianieuropei La democrazia italiana: forme, limiti, garanzie, dove si propone,
appunto, un bilancio del dibattito sulla democrazia partecipativa: Bifulco sostiene, in modo a mio avviso convincente, che il modo migliore di interpretarla consiste nel
vederla come uno strumento volto a rivitalizzare la democrazia rappresentativa, non come un’alternativa ad
essa.
Il periodo della centralità parlamentare è comunemente
considerato quello degli anni Settanta, dalla riforma dei
regolamenti del ’71 fino, convenzionalmente, all’omicidio Moro nel ’78: il PCI, che non partecipa al governo del
paese, trova però nel Parlamento un luogo di co-legislazione, di coinvolgimento diretto nella politica nazionale,
e, perciò, è portato naturalmente a esaltare il ruolo del
Parlamento.
Se tutto questo, e molto altro che purtroppo non ho
adesso il tempo di richiamare, fa parte della storia politica
e culturale della sinistra, va notato che, dalla fine degli
anni Settanta e, ancor di più, a partire dagli anni Ottanta
del secolo scorso, sembra crearsi un’egemonia della critica ‘di destra’ al Parlamento: utilizzo non a caso il termine
‘egemonia’, perché ho l’impressione che anche la sinistra
abbia risentito, almeno in parte, dei motivi e degli argomenti di questa critica, in modo piuttosto passivo e senza
rielaborarli in modo originale. Si afferma quello che qualcuno ha chiamato la ‘dromocrazia’, il dominio, cioè, della
velocità, l’idea che i Parlamenti siano sistemi inefficienti,
che lo Stato debba essere ridotto al minimo perché l’economia funziona meglio in sua assenza e che, se proprio
uno Stato deve esserci, questo debba caratterizzarsi per
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la spiccata efficacia e rapidità delle decisioni: i tempi delle
assemblee sarebbero, invece, troppo lunghi per stare al
passo con quelli imposti dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla rapida evoluzione degli scenari internazionali.
Si sviluppano, quindi, teorie della forma di governo piuttosto rozze, improntate unilateralmente al mito dell’efficienza; non casualmente, questo si accompagna, come ricordava l’On. Cenni, al dilagare del populismo. Nel
libretto di Yves Mény e Yves Surel, Par le peuple, pour le
peuple. Le populisme et les démocraties (2000), che
tanta fortuna ha avuto anche in Italia, si mostra come elemento imprescindibile di ogni forma di populismo – di
quello europeo come di quello sudamericano – sia la critica della rappresentanza e l’idea della leadership carismatica. Non si può dire che tutto questo non abbia trovato terreno fertile anche in una parte della cultura di
sinistra: in questo ragionamento mi sentirei di includere,
se volete anche in modo provocatorio, il dibattito nostrano sul presidenzialismo. Il presidenzialismo ovviamente è una forma pienamente legittima di organizzazione democratica del potere. La sinistra italiana ha
dimostrato attenzione e apertura su questo versante:
penso, ad esempio, alla Commissione bicamerale presieduta dall’On. D’Alema nella seconda metà degli anni
Novanta.
Si tratta, lo ribadisco, di un’opzione perfettamente legittima e pienamente democratica, ma, a volte, essa viene
sostenuta con argomenti che sono fattualmente falsi:
l’argomento dominante è, ovviamente, la lentezza e
l’inefficienza del processo legislativo decisionale in Italia.
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Ora, come è noto, noi siamo l’unico paese in cui il governo può fare in una notte un decreto che la mattina
dopo, con la pubblicazione, è legge dello Stato a tutti gli
effetti; né accade quasi più, ormai, che il Parlamento
faccia decadere un decreto-legge (a meno che non sia lo
stesso governo ad ‘abbandonarlo’), rifiutandone la conversione in legge entro sessanta giorni: si tratta di un’evenienza rarissima, verificatasi due sole volte in questa legislatura, e sempre con il tacito assenso del governo. Non
solo: quando la maggioranza parlamentare è compatta,
disegni di legge anche molto controversi – si pensi al cosiddetto ‘Lodo Alfano’ – vengono approvati dalle Camere
nel giro di una ventina di giorni. Non mi è chiarissimo, allora, cosa si intenda per efficienza decisionale.
Vorrei ricordare, invece, che in Italia abbiamo già un modello di presidenzialismo praticato: non mi riferisco tanto
ai Comuni, perché nella dimensione cittadina, ovviamente, la questione è un po’ diversa. Penso però alle Regioni: credo di non essere il solo a ritenere che la forma
di governo regionale non abbia finora dato, mediamente,
una grande prova di sé. Sappiamo che il core business
delle Regioni è la sanità, e il numero di Regioni commissariate sulla sanità fa spavento. Naturalmente esistono
molte Regioni virtuose; ma, a onor del vero, dobbiamo riconoscere che lo erano anche prima della modifica della
forma di governo regionale nel corso degli anni Novanta.
Per non parlare dello svilimento delle assemblee rappresentative in tutti i livelli istituzionali in cui si sono sperimentate forme di governo presidenzialistiche (Comuni,
Province, Regioni); anche se, forse, ciò è dipeso più dall’aver adottato il principio del simul stabunt, simul cadent,
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che non dal presidenzialismo in sé. Insomma, credo che
sull’introduzione del presidenzialismo in Italia bisognerebbe riflettere bene, come peraltro, più in generale, sull’idea di una revisione radicale della Costituzione. Probabilmente, dovremmo tenere presente che, in un paese
come l’Italia, quando vanno in crisi le assemblee rappresentative – pur con tutti i loro limiti e i loro difetti – difendere i valori del pluralismo, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà rischia di diventare molto più
difficile.
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PLENARIA
La politica dei giovani, le politiche per i giovani:
il Partito Democratico alle prese con il futuro
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Chiara Geloni intervista Fausto Raciti e Rosy Bindi
Chiara Geloni
Direttrice di YouDem
Ringrazio il PD di Pisa, i Giovani Democratici, il Centro
studi del PD, la rivista Inschibboleth e tutti per l’invito in
questa città dove fui studentessa. È un piacere essere qui
con voi, assieme a Fausto Raciti e a Rosy Bindi che naturalmente conoscete quanto li conosco io. Entro in punta
di piedi come si deve fare quando si partecipa a una sessione plenaria in cui il nucleo dei partecipanti è costituito
da persone che da diversi giorni stanno seguendo i lavori
di un Seminario, che ha una sua logica e segue un proprio ragionamento culturale e politico. Spero vivamente
di non discostarmi troppo dal filo delle vostre riflessioni
con le domande tra attualità e cultura politica che farò a
Fausto e a Rosy. Cominciamo da Fausto, con una domanda che penso non gli abbia mai fatto nessuno in vita
sua… Chi te lo fa fare di fare politica? Che cosa diresti a
un tuo quasi coetaneo che si chiede se valga la pena di
impegnarsi in politica oppure no?
Fausto Raciti
Segretario nazionale Giovani Democratici
In effetti è molto originale come domanda! Un solo piccolo inciso istituzionale che non è solo di ringraziamento
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per l’invito ma è di ringraziamento ai ragazzi dei Giovani
Democratici di Pisa e al Partito Democratico della Federazione di Pisa per aver organizzato questo momento che,
non a caso, ha riscosso un grande successo e un’ampia
partecipazione nazionale. Tutto ciò testimonia una vitalità, un interesse, dimostra che in Italia ci sono più di qualche decina di ragazzi che non semplicemente credono
nella politica, ma credono nel Partito Democratico come
soggetto capace di offrire una risposta alla domande che
la società ci pone, domande che attraversano la quotidianità di ciascuno di noi. Veniamo da una fase lunghissima nella quale il fare politica è stato considerato o
come una scelta dettata da furbizia, la ricerca di una
scorciatoia, di un piccolo posto al sole per ciascuno, oppure, quando era fatta con una spinta ideale appena più
forte, più nitida, come una scelta quasi contro la storia.
Perché la storia degli ultimi venti anni di questo paese è
la storia della sfiducia nei confronti della politica, soprattutto della politica organizzata. E, permettetemi di aggiungere una riflessione: si tratta di una sfiducia che non
è maturata a caso, perché quando la politica non c’è,
quando è più debole e c’è meno fiducia nei partiti, gli altri poteri organizzati in una società trovano più spazio, riescono a strutturarsi su basi più solide e a tutelare meglio
i propri interessi. Penso che il messaggio più difficile da far
passare, ma che sta alla base di tutto, quindi anche della
scelta di fare politica, sia proprio questo. Ed è un messaggio in forte controtendenza rispetto allo spirito del nostro tempo.
Lo spirito del nostro tempo, infatti, è quello che individua
la soluzione migliore, più semplice, più rapida, molto
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spesso più efficace ai propri problemi, nella ricerca di una
scorciatoia individuale. La politica, invece, è la ricerca
più difficile, ma più appassionante, di una strada collettiva alla soluzione dei problemi. Se noi non abbiamo la
forza di ripartire da questo, allora il perché uno possa scegliere di fare politica resta avvolto in un velo di mistero,
di incomprensibilità.
Ed è da qui che noi e la nostra generazione dobbiamo ripartire. Attenzione: non perché l’Italia sia in qualche misura assimilabile al Maghreb, dove uomini e donne, prevalentemente nostri coetanei, si stanno riappropriando,
spesso pagando un alto prezzo di sangue, della propria libertà. L’Italia non è quello. Tuttavia, il nostro paese ha bisogno di riscoprirsi, oggi più che mai. Nel momento di
massima debolezza delle sue istituzioni, con un Parlamento svuotato di significato, in un tempo in cui i partiti
sono molto spesso nient’altro che cartelli e sigle, l’Italia
deve riscoprire se stessa, a partire da una generazione più
giovane, apprendendo il significato della partecipazione
collettiva e imparando, in questo senso, la lezione che i
nostri coetanei maghrebini ci offrono e ci consegnano.
È questo, a mio parere, l’unico tema in base al quale si
può giustificare una scelta che altrimenti rischierebbe di
essere incomprensibile.
Se non si parte dall’idea della possibilità di ricostruire
una storia collettiva, una democrazia nel nostro paese,
una democrazia diversa, capace di vivere della partecipazione attiva e civile dei cittadini, è difficile spiegare il
perché, oggi, un giovane scelga l’impegno politico come
strada, come modo di guardare ai propri coetanei, al
proprio futuro, al proprio paese.
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Le parole e le cose dei democratici
C. G.: Grazie, Fausto Raciti. Rosy Bindi, continuerei il ragionamento di Fausto sulla scelta dell’attività politica
come scelta di partecipazione, come opposizione all’individualismo quale via di uscita dai problemi. Sono parole
che in effetti evocano, oltre alla scelta della politica, anche una scelta di campo precisa. So che la presenza di
questo sottotitolo per il Seminario – Domande e ipotesi
sulla sinistra italiana ed europea – ha fatto un po’ discutere alla vigilia di questa quattro giorni. È un dibattito di
quelli che vanno avanti a lungo, e che forse ancora non
abbiamo del tutto risolto nel Partito Democratico, quello
su quanto alcune parole del passato possano ancora rappresentare e quanto riescano a rappresentare tutto il PD
e tutto quello che il PD vuole essere oggi. Qual è il tuo
rapporto con questa parola: ‘sinistra’?
Rosy Bindi
Presidente dell’Assemblea nazionale del PD
Un rapporto laico: è una parola che non mi spaventa. Dovremmo innanzitutto ricordarci che la storia della sinistra
italiana è sempre stata una storia plurale. Per quanto solitamente con questa parola si rinvii alla tradizione comunista e socialista, è pur vero che in questo paese è esistita una sinistra cattolica, una sinistra liberale e la stessa
storia della sinistra è stata, appunto, un incontro di tante
culture e di tante sensibilità. Questa mattina ero ad Arcore invitata dall’ANPI per unire insieme la Festa della
donna e il ricordo della Resistenza dal 1943 al 2011. E
proprio alla Resistenza, per esempio, momento che comunemente si ritiene di grande partecipazione popolare
ma prevalentemente guidato dalla sinistra, partecipa-
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rono molti cattolici, molti liberali, tantissime persone che
forse non necessariamente si riconoscevano in una singola
identità culturale, in una mono-identità. Io mi considero
una persona di sinistra, però ho la mia tradizione e Chiara
lo sa, ho sempre pensato che La Pira fosse più a sinistra
di Togliatti in alcuni momenti della vita del nostro paese.
Una volta chiesi a D’Alema chi tra i due fosse più a sinistra, mi disse che non conosceva la risposta ma ammetteva che io lo fossi più di lui. Questo è già un passo chiaro,
e spiega perché questa parola non mi spaventa affatto.
È anche vero, però, che non sempre siamo capaci di ricordarci che la storia della sinistra italiana è anch’essa una
storia plurale, anche se ha avuto una cultura egemone.
Il Partito Democratico non può semplicemente definirsi
partito di sinistra, perché è la casa anche di culture che
forse non intendono automaticamente identificarsi con
questa tradizione, con questa parola. Penso che noi dovremmo, se posso avere questa ambizione, provare a vedere se ci basta la parola ‘democratici’. Penso che dovremmo fare questo sforzo tutti insieme, perché in fondo
ciascuno di noi viene da una storia doppiamente aggettivata: cattolici democratici, socialdemocratici, liberaldemocratici. Vogliamo togliere una parte di questi aggettivi? Accontentiamoci di uno e cerchiamo di capire
che la vera sfida risiede esattamente in questo: noi abbiamo scommesso sulla possibilità di dare al termine
‘democratico’ la funzione di sintesi delle culture riformiste del nostro paese.
Mi spingo oltre e dico anche delle culture progressiste.
Penso che questa ambizione non solo ci aiuterebbe ad allargare i confini del nostro partito, ma che sia la sfida che
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Le parole e le cose dei democratici
dobbiamo accogliere.
L’altro giorno mi ha telefonato una giornalista australiana
chiedendomi: ‘Come si sente, Lei, in questa storia PCPDS-DS-Partito Democratico?’. La mia risposta è stata che
non mi ci sento, perché non è la mia storia.
Se il Partito Democratico fosse l’evoluzione di PC-PDSDS, non sarebbe il PD. Se avessi voluto far parte di quella
storia, ci sarei entrata dalla porta principale e non da qualche finestra, all’ultimo momento. E forse me la sarei cavata anche bene, senza neppure fare l’indipendente di sinistra, e non avrei avuto nessun timore. Non ho mai
fatto parte, però, di quella storia e oggi sto nel Partito Democratico perché voglio costruire una storia nuova. Lo
voglio fare con le persone che vengono da lì, anche accogliendo quella tradizione ma avendo l’ambizione di
unirla ad altre tradizioni e soprattutto con la convinzione
che insieme si debba diventare interpreti di una nuova
cultura politica, che si manifesta nel nostro paese e che
non ha aggettivi antichi ma che può ritrovarsi nei valori
antichi di questa storia.
Sono convinta che il Partito Democratico o vince questa
sfida o non ce la fa! Se noi siamo destinati a rimanere il
partito del Centro Italia, non andremo da nessuna parte!
Se vogliamo essere un partito nazionale, italiano e degli
italiani dobbiamo essere consapevoli di questa sfida.
Qui, in questa parte di Italia, c’è sicuramente una componente fondamentale del Partito Democratico che è
forte e che ci consente ancora di vincere, ma anche in Toscana vorrei vincere da democratica e non in continuità
con il passato, più o meno recente. Anche in questa fetta
del paese non ci possiamo accontentare. Nel resto del-
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l’Italia, al Nord come al Sud, abbiamo una sfida più impegnativa e noi la dobbiamo vincere lo stesso, e la vinceremo se il Partito Democratico non sarà la mera continuità di un pezzo di storia italiana: una storia certo
nobilissima, con e dentro la quale io stessa ho deciso di
camminare, ma con l’ambizione di puntare alla sintesi
delle culture progressiste, riformiste, democratiche del nostro. Il berlusconismo ci consente di allargare la nostra
metà campo, in nome magari della condivisione di principi che noi consideriamo quasi scontati ma che, non essendolo per molti, oggi diventano una necessità nella vita
del nostro paese. Abbiamo la possibilità di allargare il nostro campo e lo possiamo fare, ma è necessaria una
grande disponibilità ad accettare una contaminazione
più ampia e più profonda anche da parte di chi dentro
questo partito si sente ed è più forte. Questa è la nostra
sfida. A me piacerebbe molto leggere questo titolo: ‘domande e ipotesi sui democratici italiani ed europei’. Questo sarebbe il mio titolo preferito.
C. G.: Forse, Fausto, uno dei motivi per cui ci rifugiamo
in altre parole anziché nella parola ‘democratici’ è che
non abbiamo ancora riempito abbastanza di significato
questo termine. Immagino che come Segretario nazionale dei Giovani Democratici ti capiti spesso di parlare
della proposta del PD ai giovani.
Ti chiedo dunque se condividi quella che è un po’ la mia
impressione a volte, e cioè che siamo più affascinanti appunto se parliamo di Resistenza, di Costituzione, anche
di lotta al terrorismo se vogliamo, della democrazia
nella storia della Prima Repubblica, che non quando
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Le parole e le cose dei democratici
proviamo a descriverci per quello che siamo oggi.
F. R.: Probabilmente è vero, e in parte è anche comprensibile. So che è curioso che a dirlo sia un ragazzo di
ventisette anni, ma capisco che il livello e la qualità del dibattito politico e della partecipazione democratica, in altri periodi della storia di questo paese fossero indiscutibilmente più alti. Si fa un gran dire dei miti e dei fasti della
Seconda Repubblica, ma pochi ricordano che l’unica trasformazione degna di questo nome che ha prodotto è
stata l’ingresso nell’Euro: cosa non da poco, per carità, ma
è evidente che l’ultima stagione di grandi riforme in Italia coincide con la fine degli anni Settanta. Un dato, questo, fisiologico: in qualche modo è il derivato della qualità della vita pubblica del nostro paese. La cosa che mi
spaventa, però, è un’altra. A mio avviso, il problema che
abbiamo davanti non è tanto quello di rinverdire i fasti di
una stagione che si è chiusa, ma di provare a capire
come superare un giro di boa della storia italiana nel quale
coincidono sostanzialmente la fine del ciclo lungo di Berlusconi e la conseguente, o profondamente collegata, fine
della Seconda Repubblica così come l’abbiamo conosciuta. Si tratta, cioè, di oltrepassare un sistema incentrato
su fortissime leadership, sull’accentramento dei poteri
da parte degli esecutivi, sullo svuotamento di fatto delle
prerogative del Parlamento e, quindi, sulla radicale riduzione del ruolo dei partiti politici. Questo è il giro di boa:
rispetto a tale obiettivo penso che il nostro compito sia
quello di provare a dare un contributo. Ed è la cifra di
questo contributo che farà la cifra del Partito Democratico.
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Le parole e le cose dei democratici
Dobbiamo dirlo con molta onestà, fino ad oggi, dentro le
parole ‘Partito Democratico’ ognuno ha voluto vederci un
po’ ciò che gli pareva. Un esempio, che faccio sempre, riguarda la campagna elettorale del 2008. In quell’occasione, il programma del PD riportava le seguenti parole,
che sono da scolpire nel marmo come cose da non dire
mai più: ‘non c’è redistribuzione senza crescita’, questo
all’alba di una crisi che avrebbe dimostrato l’esatto opposto. Si sosteneva, cioè, che senza una redistribuzione
della ricchezza verso il basso fosse impossibile pensare alla
crescita del paese. Dico questo non per gettare la croce
addosso a qualcuno, ma perché è un elemento che contribuisce a sottolineare come, dentro le parole ‘Partito Democratico’, finora, c’è stata una tendenza a proiettarvi più
le proprie aspettative, che non la cifra identitaria vera, autentica del PD. E credo che su questo ci sia un supplemento di riflessione da fare.
In ogni caso, davanti a noi vedo alcuni grandi ostacoli sui
quali dobbiamo avere la capacità di intervenire con forza,
se davvero vogliamo una volta per tutte invertire il ciclo
e uscire da questa stagione. Una stagione che, onestamente, ci vede stretti in una duplice morsa. Da una parte,
infatti, abbiamo il populismo plebiscitario di Berlusconi
che non incontra il favore della maggioranza degli italiani.
Perché, attenzione!, la maggioranza parlamentare di Berlusconi è una proiezione, deriva da una cosa che si chiama
‘premio di maggioranza’. Gli italiani che si riconoscono in
quel modello sono decisamente meno della metà dei
nostri elettori. Dall’altra parte, invece, siamo stretti dall’idea che il tema principale sia quello di costruire una narrazione. Lo dico con molta onestà: a me questa storia
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della narrazione sembra un modo per vestire i problemi
di parole e a parole risolverli.
Noi, piuttosto, dobbiamo riuscire a incastrare Berlusconi
e coinvolgere gli italiani in un ragionamento di merito sul
futuro di questo paese. Abbiamo bisogno di tornare a
porci con forza il tema, che è una premessa per noi, dell’unità sindacale. Le stagioni a cui facevi riferimento tu,
Chiara, sono state possibili grazie a un ruolo fortissimo e
di avanguardia giocato dall’unità delle forze sindacali: una
prospettiva, oggi, estremamente lontana. È questo il
primo tema che abbiamo all’ordine del giorno, e che investe l’unità del mondo del lavoro. Non c’è dubbio che i
sindacati abbiano un problema di rappresentanza
enorme, ma senza quel presupposto vedo difficoltà
enormi per il Partito Democratico. Un altro grande problema che dovremo affrontare, riguarda la necessità di rivitalizzare la funzione dei partiti e delle istituzioni democratiche di questo paese. Su questo, a mio avviso, si deve
imporre un dibattito radicale che esca dall’insopportabile
luogo comune secondo cui il problema della politica italiana, e della simmetria del confronto tra centro-destra e
centro-sinistra, risieda nel tema della leadership del centro-sinistra. Quello è l’ultimo dei problemi che abbiamo,
non certo il primo.
In terzo luogo, occorre ridefinire un progetto che tenga
insieme i due veri temi del nostro paese: anche su questo credo si giochi una capacità di innovazione vera del
Partito Democratico. Mi riferisco alla qualità della nostra
democrazia, cui ho fatto brevemente cenno prima, alla
qualità del lavoro e al livello di diritti che all’interno della
società italiana vengono offerti a chi entra nel mondo del
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lavoro. Possono apparire come due temi diversi, ma l’inaridimento della politica ha contribuito in maniera determinante all’impoverimento delle fasce più deboli della nostra società. Il Partito Democratico deve ridare voce a quel
pezzo di società, che sono tanto gli operai della metallurgia, della siderurgia, quanto quei precari, quel 30 per
cento di giovani disoccupati che non sanno come sbarcare il lunario. L’assenza di rappresentanza di quel pezzo
d’Italia è la cifra vera della questione democratica di questo paese. È solo tenendo insieme queste due temi che,
probabilmente, troveremo la forza, la capacità per affrontare il giro di boa, per chiudere definitivamente una
stagione della storia del nostro paese e – permettetemi di
aggiungere – per dare definitivamente un senso alla parola ‘democratico’. Una parola che, altrimenti, rischia di
essere semplicemente un principio, pur pregevole, di vita
interna al partito, ma che non dice nulla a quegli italiani
che potrebbero guardare a noi ma i quali, ancora oggi,
magari non sono convinti fino in fondo.
C. G.: Mi pare che siamo andati dritti all’obiettivo di definire questa parola ‘democratico’ e di riempirla di significato, e sono sicura che Rosy Bindi avrà molto altro da
aggiungere su questo. Io volevo però ricordare un’altra
parola sulla quale sollecitarti dopo la parola ‘sinistra’, che
è la parola ‘valori’. Prima Fausto ha detto che l’individualismo non può essere una risposta per noi. Le persone,
Rosy, che vengono dalla storia che condividiamo preferiscono riferirsi alla parola ‘persona’, intendendo come
‘persona’ l’uomo in relazione con gli altri e nelle sue relazioni anche spirituali. Bersani parla spesso di un uma-
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nesimo che i democratici possono condividere. Su questo
forse c’è ancora da discutere, ma io sinceramente penso
– non so se sei d’accordo – che si sia in realtà più avanti
di quanto pensiamo di essere. Qualche volta, se sapessimo discutere con un metodo più sincero e meno legato
a bandierine e a rendite di posizione, ci renderemmo
conto di essere più vicini di quanto pensiamo, anche in
questo campo, alla soluzione del problema identitario del
PD.
R. B.: Non ho dubbi. Infatti io penso che noi dobbiamo
fare di tutto per scrollarci di dosso questa caricatura che
ci hanno cucito addosso per cui non avremmo progetto,
non avremmo programma, non avremmo identità. Caricatura che qualche volta noi stessi alimentiamo, perché
qualcuno, professionista nel marcare la propria posizione
all’interno del PD, descrive un partito che non c’è. Noi,
però, non possiamo accettarlo, così come non accetto gli
editoriali di quei commentatori settimanali che sui grandi
giornali ripetono che Berlusconi il 14 dicembre non è andato a casa perché non c’era e non c’è un’alternativa. A
Scilipoti, infatti, dell’alternativa importava molto, non è
vero? Si leggono e si sentono cose che non stanno né in
cielo né in terra, eppure su di noi ormai si è costruita questa caricatura: Berlusconi resta in sella perché il Partito Democratico non avrebbe leadership, progetto, programma,
parole chiare per questo paese. E questo è anche ciò che
ci diciamo tra di noi in modo spesso strumentale. Ma la
cosa che davvero più mi preoccupa è il comune sentire
della nostra gente nei circoli sul territorio, secondo cui noi
non abbiamo una posizione netta e univoca su questo o
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quel problema. Questo mi preoccupa davvero e ci tornerò
alla fine.
Ma per tornare alla domanda di Chiara, dico che noi sappiamo chi siamo, e lo sa anche l’Italia. Se si ha il coraggio di accettare di fare insieme questo pezzo di strada,
dobbiamo essere consapevoli che il nostro compito, la nostra sfida, non è solo quella di mandare a casa Berlusconi
ma di provare a ripensare questo paese in maniera diversa
da come lui lo lascia e l’ha costruito. Arrivando qui stasera mi è stato chiesto: ‘Ma ce la facciamo? Ma quando
lo mandate a casa? Questione di settimane o di mesi?
Sarà questione ancora di un annetto?’. Non lo so: anche
Gheddafi è lì che resiste. Questi signori hanno una capacità straordinaria di barricarsi, nel momento della disperazione esprimono il peggio e il meglio di sé, quindi non
c’è da farsi illusioni: la soluzione del problema non è dietro l’angolo, ogni giorno.
Tuttavia, noi ci dobbiamo attrezzare, perché la possibilità
di una nostra vittoria elettorale arriva.
Ha ragione Fausto: Berlusconi non ha più una maggioranza nel paese, sta barricato dentro il Parlamento con i
suoi parlamentari comprati perché sa bene che se si va a
votare non ha più la maggioranza. Non sprechiamo questo tempo, è preziosissimo. È un tempo nel quale dobbiamo mettere a fuoco meglio la nostra idea di Italia e la
nostra capacità di comunicarla agli italiani. Un tempo
nel quale ci dobbiamo anche irrobustire, perché – sia ben
chiaro – tornare a governare questo paese nelle condizioni in cui lo lasceranno non sarà una passeggiata. Provate a immaginare, ad esempio, cosa vorrà dire combattere l’enorme massa di evasione fiscale e varare
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provvedimenti per far pagare a tutti le tasse! Ci dobbiamo
preparare a una stagione che non sarà non semplice. Fausto anche in questo ha ragione: siamo entrati in Europa
e abbiamo fatto alcune riforme, abbiamo provato a farle
negli ultimi quindici, sedici, diciassette anni, ma è dalla
fine degli anni Settanta che l’Italia non conosce vere riforme. Se torniamo al governo noi dovremo farle e dovremo mettere mano a cambiamenti profondi se vogliamo dare una risposta alla vostra generazione, per
non farvi essere precari oggi e indigenti domani. E lo dobbiamo fare sapendo che i fari di orientamento sono sempre quelli della nostra Carta costituzionale, che considero
ancora tutta intatta e tutta bella, e so che non saremmo
in grado di riscriverla in quel modo. Non la voglio toccare:
certo c’è da fare qualche piccolo intervento, le riforme minime che peraltro abbiamo presentato, ma nulla di più,
perché i fari sono ancora tutti lì.
Il nostro problema è un impianto legislativo e organizzativo pensato in un tempo profondamente diverso da
quello che stiamo vivendo. Il nostro problema è che ci
stiamo dividendo tra quanti pensano di continuare ad applicare quell’impianto normativo e legislativo al presente
– vedi, ad esempio, il grande tema del lavoro, della contrattazione, dell’ unità sindacale – e quanti invece ritengono che, non essendo più adeguato, sia opportuno rinunciare anche ai principi che lo avevano ispirato. La
realtà è più complessa, e penso che i principi e i valori che
orientarono le scelte del passato siano ancora validi:
tocca a noi coniugarli e declinarli nella sfida del tempo
presente, della globalizzazione nella quale ci troviamo.
Non posso difendere lo Statuto dei lavoratori degli anni
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Settanta come se fosse una pagina intoccabile, ma non
posso neppure svendere, per modificare quella pagina, i
principi che hanno ispirato quelle scelte. Ed è esattamente il rischio di questo momento. Qui c’è un lavoro
enorme che dobbiamo fare per preparare l’Italia a risollevarsi. Se il welfare pensato negli anni Settanta non è più
adeguato, abbiamo il dovere di ripensarlo e di creare, intorno alle innovazioni necessarie, il consenso e non il conflitto sociale. Fare politica significa pensare alle proposte
giuste e costruire la condivisione indispensabile a realizzarle: è questa la nostra sfida perché noi siamo un partito politico, non siamo né una narrazione né un movimento. Questo, però, significa convincere gli italiani che
esiste la possibilità di vivere insieme in una maniera diversa da come questi signori hanno fatto loro credere in
questi anni.
Una maniera diversa esiste e conviene. È questo il nostro
lavoro di questo tempo. Possiamo passare in rassegna
tutti i temi che ci stanno particolarmente a cuore – i valori, l’umanesimo, la persona – e verificare che nel Partito
Democratico noi abbiamo fatto grandi passi avanti sui
temi programmatici. Non è vero, ad esempio, che non abbiamo tenuto sulla FIAT una stessa, identica posizione:
abbiamo avuto una sensibilità diversa, approcci diversi,
consentitecelo! A me, quando parlava Marchionne, veniva in mente La Pira con la nuova Pignone; a qualcun altro venivano in mente altri riferimenti: è inevitabile. Ma
la nostra posizione è stata una posizione chiara e ferma.
Articolata, non semplificata, perché noi non stavamo né
con Marchionne né con la FIOM: stavamo con i lavoratori e con l’azienda, e ci stiamo ancora. Dato che gli
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operai, con quel contratto, si sono assunti la responsabilità di salvare la FIAT, adesso gli altri si devono assumere
le proprie. Non mi piace l’idea che Mirafiori diventi una
delocalizzata della Chrysler! La Fiat si fa in Italia non perché ci rimangono gli uffici, ma perché ci rimane il pensiero, la struttura, la tecnologia, il lavoro: per questi fattori si sono assunti le responsabilità. Se noi fossimo stati
al governo, non avremmo lasciato Marchionne da solo
quando andava a incontrare Obama e la Merkel e non
avremmo lasciato gli operai da soli quando dovevano scegliere cosa fare. Questo governo ha lasciato soli gli uni e
gli altri perché è stato funzionale al modello di società che
hanno in testa loro, ma non noi!
I programmi approvati dall’Assemblea nazionale sono
pronti per arrivare nei Circoli. Per questo io vi chiedo di
trasformare i nostri Circoli in scuole di formazione permanente. Iniziative come queste sono straordinarie! A me
sembra di essere nell’Azione Cattolica quando i campi
scuola riuscivano bene, ma poi non si sapeva cosa far fare
ai gruppi tutto il resto dell’anno. Così siamo anche noi: ci
vengono bene le Feste, le manifestazioni con i nostri leader, le scuole di formazione. Ma bisogna che noi impariamo a vivere nella vita quotidiana dei nostri Circoli una
festa ed una scuola permanenti. I Circoli dovrebbero essere i luoghi nei quali si cresce insieme sui valori e sui punti
programmatici fondamentali del nostro partito. Galli della
Loggia può anche non sapere chi siamo; un democratico
iscritto ad un Circolo lo deve sapere, e bisogna che noi
impariamo a crescere su questo terreno.
Sull’ insieme delle questioni che ho sollevato finora, è
falso affermare che non c’è una risposta. Si tratta di una
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risposta completa? No, per questo è necessario il vostro
contributo. Dopo il lavoro dell’Assemblea e della Segreteria nazionale, di tutti gli uffici e di tutti i Forum, c’è bisogno del lavoro dei Circoli. C’è bisogno del contributo
di chi vive quotidianamente la vita delle persone, perché
poi diventi carne della nostra carne, pensiero dei nostri
pensieri: così noi riusciamo anche a incontrare le persone
di questo paese.
Sono d’accordo con Bersani: abbiamo fatto dei passi
avanti anche sulle questioni fondamentali. Non è vero che
il partito non ha una posizione sul testamento biologico.
Nella Commissione Affari Sociali alla Camera abbiamo
sottoscritto tutti insieme gli stessi emendamenti. Dalla Coscioni alla persona più vicina a Giuseppe Fioroni che si
chiama Luciana Pedoto, abbiamo presentato gli stessi
emendamenti firmati da tutti, e con quelli noi ci presenteremo per correggere una legge che riteniamo sbagliata. Andremo però oltre: chiederemo al centro-destra
di fermarsi. Perché a colpi di maggioranza in Parlamento
non si impone al paese una visione etica della vita. La differenza profonda tra noi e loro – questa è un’ altra cifra
dell’essere democratici oggi – è che sui temi che toccano
il vivere, il morire, il volersi bene, non c’è una maggioranza politica che si impone su una minoranza. Non è
questo il compito della politica. Noi dobbiamo cercare di
unire, la politica deve creare unione intorno a questi
temi, non spaccare il paese tra il partito della vita e il partito della morte, tra il partito dell’amore e il partito dell’odio, come invece stanno facendo loro.
Anche a casa loro c’è qualche mente pensante che ha cominciato a capire che il legislatore non può entrare nei
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rapporti più intimi tra le persone, nei momenti più delicati della vita, e si chiede: ‘È proprio necessaria una legge
su questi argomenti? Perché il mondo è andato avanti
fino adesso e non c’era una legge?’. Noi chiediamo di fermarci e di provare a riflettere: vogliamo vedere se, anziché fare una violenza al paese, si riesce a offrire una legislazione mite che orienta e provoca delle responsabilità.
Essere arrivati a condivisione su questi temi significa aver
fatto insieme un cammino molto importante. Questo significa che la pensiamo tutti nello stesso modo? No, è
non è uno scandalo. Nel PD, del resto, non ci sarà mai una
disciplina di partito su questi temi: ci sarà una posizione
politica, maggioritaria, prevalente ma non una disciplina
di partito, guai se questo fosse! Questa impostazione significa anche un’altra cosa: è il Partito Democratico che
su queste cose parla al paese, e si rivolge a tutti gli italiani
con una sintesi culturale.
E dobbiamo avere lo stesso approccio con la nostra sintesi economico-sociale, perché voglio essere in grado di
riscattare i precari e la condizione operaia portando dalla
mia parte gli imprenditori. Dobbiamo far capire che se si
umilia il lavoro non c’è neppure la crescita economica!
Mi pare un ragionamento assurdo, quello che a volte
sento nel partito quando si dice che sulle grandi questioni
etiche si deve avere la posizione dei cattolici e quella dei
più radicali che si distinguono in modo che ciascuno parli
ai rispettivi pezzi di società. Io penso invece che noi non
possiamo lasciare il mondo cattolico alla destra, poi all’UDC, poi all’API.
Dentro il Partito Democratico ci si assume tutti insieme la
responsabilità delle posizioni che poi si difendono davanti
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al Papa e davanti a Pannella: questo è il punto! Da cattolica e da persona che pensa di essere credente, mi
sento di affermare che non può essere una legge a regolare il momento della mia morte. E da appartenente a
un partito nel quale c’è una componente laica molto
forte, sento di poter dire che la cultura del limite, della responsabilità e non dell’individualismo e della libertà fuori
dalla responsabilità, è una cultura democratica da difendere nel nome della libertà e della laicità, con altrettanta
forza. Questo siamo noi, questo è quello che unisce questo paese e non lo divide.
C. G.: Grazie. Ho una domanda che sarà uguale per entrambi, perché mi interessa sapere se la pensate allo
stesso modo. Rispetto a quelle che vi ho fatto finora, riguarda più da vicino l’attualità politica. Noi, come Partito
Democratico – uso un ‘noi’ di cui mi approprio: come direttore della televisione del partito posso dirlo – siamo vittime di una narrazione che non sempre ci aiuta: lo avete
ripetuto entrambi. Ho letto in questi giorni sui giornali che
stanno riprendendo le polemiche perché, poiché sembra
che non si vada a votare in tempi brevissimi per le elezioni
politiche, si dice che la strategia di costruire una grande
alleanza il più larga possibile per far fronte a Berlusconi sarebbe superata dai fatti. Si dice anche che la strategia del
PD, alla luce di tutti questi fatti, sarebbe troppo movimentista: tutte queste mobilitazioni, lo stare dentro le
piazze della società civile, la raccolta delle firme, ecc. Io
sono molto curiosa di sapere se il Segretario dei Giovani
Democratici e la Presidente del partito hanno un’opinione su questo, e se è la stessa.
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Le parole e le cose dei democratici
F. R.: Sospetto che la mia posizione sia simile a quella della
Bindi, la sua risposta ce lo confermerà. Dobbiamo dirci la
verità. E la verità è che questa non è una narrazione che
fanno altri, ma c’è qualcuno all’interno del nostro partito
che, certo legittimamente, dice più o meno le stesse
cose, e sarebbe bene che si assumesse fino in fondo la responsabilità della propria posizione. Quelle che hai elencato sono posizioni assunte non da un editorialista, ma da
dirigenti del Partito Democratico, ai quali, intanto, andrebbe rivolta una domanda: chi ha detto che la strategia di costruzione di alleanze fosse una strategia di emergenza, legata all’imminenza della crisi di Berlusconi e
della crisi di governo?
A me risulta che il Partito Democratico su questo abbia
aperto un dibattito e abbia anche trovato un’unità molto
larga, che ricomprendeva anche quanti oggi si sono risvegliati a dire che è passata la fase di emergenza e che
bisogna ridiscutere tutto. Nessuno, però, faceva riferimento esclusivo all’emergenza derivata dall’imminenza
della crisi del governo Berlusconi. Del resto, non possiamo
nasconderci che il tema di come non semplicemente vincere le elezioni, ma affrontare alcuni dei problemi che da
soli abbiamo scarsissima speranza di risolvere, rimane in
piedi anche al netto dell’imminenza della crisi del governo. Non possiamo non riconoscere il fatto che, quando
ci saranno le prossime elezioni politiche, i problemi sul
tappeto, che già sono molti, e ai quali se ne aggiungeranno probabilmente altri, realisticamente resteranno
quelli: come riformare le istituzioni del paese, come affrontare, almeno in via embrionale, alcuni dei problemi di
modernizzazione che ha ancora sulle spalle, come chiu-
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dere il ciclo lungo della Secondo Repubblica sotto la
guida e l’egemonia del berlusconismo.
Che le elezioni siano ora o tra due anni, il problema resta. Ragione per cui penso sia comunque interesse del
Partito Democratico provare a tessere un’alleanza che
parta dal suo programma, dai progetti che abbiamo elaborato nel corso di questi mesi, ma che si rivolga a un arco
di forze ampio, il più largo possibile.
Seconda questione: ma c’è davvero qualcuno tra noi
convinto che ora possiamo sederci e fare un ennesimo
congresso del Partito Democratico, un’ulteriore conta
sulla leadership? Se qualcuno lo pensa abbia il coraggio
di alzarsi e dirlo in maniera esplicita. Capiamoci bene: abbiamo del tempo, forse uno o due anni, per lavorare sulla
costruzione del PD, sulla costruzione di quell’identità di
cui abbiamo parlato tanto, del suo profilo politico, e abbiamo l’occasione di allargare i nostri consensi, di ritornare
a parlare degli italiani e delle questioni di merito. E proprio in questo momento ci vogliamo rinchiudere in una
discussione congressuale?
Infine, credo che la cosa più estenuante del modo in cui
si affronta questo dibattito, oggettivamente la più fastidiosa, è che si accusa di politicismo chi pone il tema della
costruzione delle alleanze e del lavoro sul partito, per poi
proporre una soluzione che più politicista si muore. Noi
abbiamo davanti il compito di ritornare a parlare dell’Italia e dei problemi degli italiani, che è quanto questo governo non è strutturalmente capace di fare, perché si
regge soltanto su un perenne stato di emergenza. Dovremmo provare ad affrontare quelle questioni nel tempo
che ci separa dalla elezioni politiche, e parlare delle stesse
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con la società italiana. Il resto, in questa fase, è davvero
solo politicismo, rincorsa a qualche sprazzo di visibilità
personale e alla speranza di poter riaprire a partiti di leadership, che in questo momento mi sembrano ovunque
tranne che nella mente degli italiani. Penso che su questo abbiamo il compito di tenere la barra dritta, orientare
il dibattito sui problemi che riguardano gli italiani, provare
a superare quel tasso di politicismo asfittico che sembrava
vicino ad essere archiviato, ma che oggi ritorna prepotentemente come forma del nostro dibattito politico.
Certo, è un politicismo sobillato da alcuni media, da chi
può avere l’interesse a mettere il Partito Democratico in
una condizione di difficoltà, ma è un politicismo di cui i
protagonisti per una volta farebbero bene ad assumersi
fino in fondo la responsabilità.
C. G.: La domanda per Rosy Bindi è la stessa, e le chiedo
anche: visto che martedì consegnerai le prime ‘milionate’ di firme per le dimissioni di Berlusconi, ti sentirai di
fare una cosa troppo movimentista?
R. B.: Un partito politico vive di strategie di lungo e medio periodo, e anche di tattiche o strategie del breve periodo o del momento immediato. È evidente che se il 14
dicembre Scilipoti si fosse dimenticato di alcuni suoi problemi e fosse rimasto coerente al proprio elettorato – Scilipoti assieme a qualcun altro – la storia ora sarebbe diversa e forse qui saremmo a discutere di altro. Invece è
andata come andata. È normale che una forza politica si
chieda cosa fare adesso. Ma fa parte della caricatura la
drammatizzazione che, a condizioni cambiate, bisogne-
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rebbe anche ricalibrare la strategia Mi meraviglierei se un
partito continuasse a vivere come se il 14 dicembre non
ci fosse stato, come se non fosse nato il gruppo dei ‘responsabili’, come se Fini non avesse perso qualche pezzo,
come se Casini... Insomma, è chiaro ed evidente che è
cambiata una situazione e di conseguenza al navigatore
della macchina si dà l’indicazione che vale per quel momento: mi pare sia una cosa scontata..
Questo significa che si era sbagliato prima? No: significa
che eravamo dentro un percorso che ha avuto un esito diverso da quello che volevamo perché abbiamo a che
fare con questo personaggio.
Adesso, quindi, la prima risposta che nella prossima Assemblea e nell’incontro con i Segretari regionali si deve
dare al partito è che intanto ci sono le elezioni amministrative: Berlusconi non può sospenderle. Sono la prima
occasione nella quale gli italiani possono trasformare le
firme in voti e sarà il caso di vivere questo appuntamento non con l’attitudine ‘beh, adesso non abbiamo le
politiche, facciamoci le amministrative’. Le amministrative
le abbiamo sempre fatte sul serio e normalmente abbiamo ricominciato a vincere proprio dalle amministrative.
Allora, diamoci questo obiettivo che non è di poco conto.
Come ci andiamo? Sono elezioni amministrative, certo,
ma un po’ di politica io ce la metterei dentro. Tutto il lavoro che si è fatto in questi mesi è da buttare via? Le amministrative si fanno con il doppio turno e forse è la
legge elettorale ideale per provare a verificare se è realizzabile la strategia di medio e di lungo periodo che abbiamo lanciato. Una strategia che non prevede, come banalmente si dice, una alleanza da Fini a Vendola: anche
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Le parole e le cose dei democratici
questa è una banalizzazione! Noi abbiamo sempre detto
un’altra cosa. In questo momento della vita del paese, se
vogliamo mandare a casa Berlusconi ma soprattutto se
vogliamo scrivere una nuova pagina nel nostro paese,
serve una nuova alleanza tra progressisti e moderati. E di
fatto in Italia le cose hanno marciato in avanti quando i
moderati sono rimasti legati al riformismo e non si sono
fatti catturare dalle degenerazioni populiste autoritarie. La
Costituzione è stata un grande accordo tra moderati e
progressisti; la costruzione della Repubblica italiana è
stata un grande accordo, perché la DC aveva fatto un miracolo, tenendo su posizioni riformiste i moderati di questo paese e persino la destra, per mezzo di politiche sociali avanzate e progressiste. È questa la storia d’Italia.
Il grande miracolo blasfemo di Berlusconi è stato invece
quello di aver catturato i moderati dentro il suo populismo. Ma adesso questa fascia di italiani comincia a capire.
Casini stava con lui, adesso non ci sta più e ripete tutti i
giorni che deve andare a casa. Che facciamo? Lo lasciamo lì a bagnomaria? No! Su Fini si dice che noi del PD
lo abbiamo inseguito… Sarà stato lui che si sarà un po’
spostato, o no? Io non ho votato la Bossi-Fini, lui ci mise
il nome. Ora sugli immigrati gli sento fare discorsi che
quasi mi pare di leggere Famiglia Cristiana, e io registro.
Sento parlare di valore del Parlamento, sento parlare di
conflitto di interessi, sento parlare di rispetto della magistratura.
Cosa vogliamo fare di tutto questo? Si dice: ma quella è
una nuova destra! Certo, e – aggiungo – meglio nuova
e buona che balorda e vecchia come quella che abbiamo
adesso, o no? Questo allora è un nostro obiettivo?
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Le parole e le cose dei democratici
Avremo le elezioni amministrative, sono a doppio turno,
che si fa? Se per caso si materializza questo terzo polo, lo
ignoriamo? Non è piuttosto il caso di verificare, intanto,
a partire dalle amministrative, se questa alleanza è possibile e ha un senso per il governo delle nostre città? A chi
argomenta che la legge elettorale nazionale è un’altra
cosa, rispondo: vedremo. Intanto l’obiettivo di cambiare
la legge elettorale non lo abbiamo dimenticato. In ogni
caso penso che questa strategia di lungo periodo, al di là
delle alleanze elettorali, non possiamo archiviarla: se vogliamo fare le riforme non possiamo farcela da soli.
Se si va a votare con questa legge elettorale e con tre poli,
è sufficiente il 34 per cento per vincere. Magari noi vinciamo anche con il 38-40 per cento, ma col 40 per cento
dei voti, anche se prendiamo la maggioranza assoluta
nelle Camere, riusciamo a fare le riforme profonde di cui
questo paese ha bisogno o è necessario allargare il consenso? Non sto dicendo che ci vuole una ‘grande coalizione’ o un ‘inciucio’ con gli altri. Sto semplicemente dicendo che noi abbiamo il dovere di tenere ancorati a un
progetto di cambiamento del paese anche quei pezzi di
società politica che hanno capito che cosa sta avvenendo.
Questa strategia io la vedo ancora piena di valore. Se
dobbiamo lavorarci di più, siamo tutti disponibili a farlo.
L’abbiamo detto prima rispondendo a Chiara: serve un
Partito Democratico più forte, con un profilo identitario
più evidente, con una capacità di comunicare al paese la
sua forza. Su questo siamo d’accordo, nessuno l’ha mai
negato.
Dopodiché, dicono che siamo movimentisti: firme, non
firme, piazze, non piazze. Ci vogliamo mettere d’accordo
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Le parole e le cose dei democratici
anche su questo? Questo paese, con queste televisioni,
con questa stampa, con questa situazione, vogliamo lasciarlo narcotizzato o vogliamo provare a creare prima di
tutto un punto di resistenza culturale? Il giudizio più diffuso fuori dei nostri confini un tempo era: ‘quanto è
grullo Berlusconi!’; oggi comincia a essere: ‘quanto sono
grulli gli italiani che se lo tengono!’. Siamo consapevoli di
questo? E chi deve creare dei momenti di riflessione? Si
polemizza sul fatto che abbiamo lanciato la raccolta delle
firme. È stata un’iniziativa che ha permesso di interloquire
con milioni di cittadini che, mentre firmavano, hanno trovato chi si confrontava con loro e con le loro idee. Andate
a vedere al Nord quanti leghisti hanno firmato: sì, proprio
i leghisti, perché sono stufi del loro partito che continua
a reggere la palla a Berlusconi. Sarà un segnale importante questo, o no? Si chiede quante firme siano, se abbia firmato anche Gesù Cristo… Eh, magari sarebbe stato
d’accordo! E comunque sono piccole provocazioni e polemiche che nulla tolgono al valore di questa mobilitazione.
Le donne il 13 febbraio hanno riempito le piazze d’Italia,
le riempiranno l’8 marzo, le riempirà il 12 il movimento
per la Costituzione. Dovremo fare qualche cosa il 17
marzo, festa nazionale, per dire alla Lega che noi teniamo
all’Unità d’ Italia: sì o no? È movimentismo questo? E se
anche fosse? Dove deve stare un partito? Sta in Parlamento, sta nelle sue sedi a elaborare, a crescere, ma poi
dovrà stare anche a contatto e in ascolto con il resto del
mondo: avrà mille strumenti per farlo, si tratterà di aggiustare anche qui un po’ le strategie di comunicazione,
abbiamo il direttore della nostra televisione, abbiamo i
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giornali, ci sono tante cose da pensare, non dico che tutto
sia perfetto allo stato attuale… Ma come si fa a pensare
che un partito come il nostro, radicato, popolare, debba
stare fuori dalla ripresa di un dialogo con il paese e continuare a dire tutti i giorni che il Premier deve andare a
casa? Ci viene risposto che Berlusconi tanto non ci sente.
Ma noi vogliamo che ci sentano gli italiani, e che gli italiani si convincano che deve andare a casa, perché arriverà un momento nel quale potranno mettere nell’urna
questo loro convincimento. O possiamo continuare a
sopportare che in Germania un ministro si dimette perché l’hanno beccato che aveva copiato un pezzo della tesi
di dottorato mentre noi ci teniamo un Presidente del
Consiglio imputato di prostituzione minorile? Ma cosa
dobbiamo fare? Movimentismo? Ma io non ci dormo! E
lo dico: su questo tema qui non c’è modo che si passi al
secondo punto all’ordine del giorno! Tutti i giorni, mentre si parla di lavoro, di pensioni, di crescita, d’ambiente,
di scuola, di giustizia, di tutto, gli dobbiamo ricordare che
Berlusconi deve andare a casa, perché non è degno di
stare lì, perché, anche se noi non esistessimo, non ci dovrebbe stare! È chiaro questo? Perché uno nelle sue condizioni non occupa quel posto! E chi dice che noi non ci
siamo ancora, che non siamo un’alternativa, forse non
vuole ammettere che preferisce Berlusconi, e allora se lo
tenga! Ma una forza come la nostra deve ricordare agli
italiani in che razza di anomalia ci troviamo in questo
paese.
Con la crisi che infiamma l’altra sponda del Mediterraneo,
chi ci prende sul serio? Una volta nulla – venisse dalla Germania, dall’Oriente o dall’America – passava dal Medi-
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terraneo se prima non si parlava con Roma. L’Italia era
l’interlocutore principale delle politiche del Mediterraneo. Adesso invece Maroni dice: ‘gli americani si diano
una calmata’. Chi si deve calmare? Chi si deve svegliare?
Ci rendiamo conto che in Libia c’è una carneficina, mentre ci sono possibilità di democratizzare l’ altra sponda del
Mediterraneo? Riconosciamolo che noi abbiamo accettato di parlare con dei dittatori in questi anni. È accaduto
come col comunismo: pur di combatterlo abbiamo sopportato tutto. È successo lo stesso: pur di evitare altri pericoli, abbiamo sopportato i dittatori. Adesso è arrivato il
momento di mandarli a casa. Ma se l’Italia fosse stata
quella che è sempre stata nella sua politica estera – badate, Craxi compreso – non saremmo in questa situazione. Una situazione che paghiamo a ogni livello: nella
nostra dignità, sul piano internazionale, nell’economia. E
dobbiamo tacere? Si dice che tanto non ci sente. Ma cosa
significa? Noi lo dobbiamo gridare tutti i giorni che lui lì
non ci può stare!
C. G.: Ci avviamo a concludere. Siamo in Toscana, terra
di ‘rottamatori’: sarebbe troppo facile, dato che ci conosciamo, Fausto, provocarti chiedendoti se ‘rottamazione’
dovrà essere una parola dei democratici. Effettivamente,
però, perché non dovrebbe il Segretario nazionale dei
Giovani Democratici interessarsi anche alla questione del
rinnovamento generazionale dentro il Partito Democratico? Una delle cose che ho letto in questi giorni è che,
se abbiamo fatto qualche errore di comunicazione (ammesso e non concesso!) nella questione delle gestione
delle firme online per la campagna ‘Berlusconi dimettiti!’,
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il motivo è che abbiamo troppi dirigenti sessantenni che
non sanno usare la Rete.
F. R.: Mettiamola così: quelli che sanno usare la Rete, non
più di un mese e mezzo fa, hanno preso il treno per andare ad Arcore e non mi sembra che abbiano avuto risultati sul piano della comunicazione particolarmente più
interessanti e produttivi. Personalmente resto convinto del
fatto che il nostro problema sia un altro e vada un po’ più
in profondità. La questione vera è cosa vogliamo comunicare, poi il come farlo viene dopo, anche se naturalmente si potrebbe migliorare anche in quello. Non mi
sono intestato battaglie di rinnovamento generazionale e
onestamente non intendo farlo, perché non credo che sia
quello il tema. Dietro l’espressione, pur bella, ‘rinnovamento generazionale’, spesso si nasconde una cultura, un
modo di vedere il Partito Democratico e alcuni suoi limiti
che sono troppo simili a quelli della generazione che servirebbe a sostituire.
È questa la ragione per cui la battaglia del rinnovamento
generazionale mi interessa il giusto. Innanzitutto, sono interessato a contribuire a costruire il Partito Democratico,
perché credo sia questo il primo nodo da sciogliere. In secondo luogo, ho la sensazione che quelli che dicono ‘lasciateci spazio!’, lo dicano perché, in realtà, lo spazio
non hanno la forza politica di prenderselo. Ma in un partito democratico è il consenso che permette di aprire
stagioni di cambiamento: se non si ha la forza, è troppo
facile fare appello a che qualcuno ti possa lasciar passare.
Intanto, perché questo non avviene: mi sembra che in
questo partito ormai ci conosciamo tutti a sufficienza da
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saperlo. In secondo luogo, perché l’età anagrafica probabilmente non basta a giustificare la richiesta di un
cambio di passo. Terzo, ed è la cosa che onestamente mi
sta più a cuore, io sono uno di quelli che è andato all’assemblea dei ‘rottamatori’ di ‘Prossima Fermata Italia’ alla
Stazione Leopolda a Firenze; sono intervenuto, e ho fatto
anche fatto discutere, ma dopo, non a caso, è sceso il silenzio. In quell’occasione sono andato a dire alcune delle
cose che ho detto anche qui, cioè che penso che il problema principale, se davvero vogliamo parlare di rinnovamento della politica, è tornare a coniugare il tema del
lavoro con quello della democrazia. Erano i giorni di Pomigliano, e mi diedero anche ragione. Un paio di mesi
dopo si apre il caso di Mirafiori, e il sindaco di Firenze interviene dicendo: ‘io sto con Marchionne’. Se quello è il
rinnovamento, lasciatemi dire: ‘non mi tengo i sessantenni, rivoglio indietro quelli di novant’anni!’.
Se non è un tema politico generale che riguardi intanto
la sfera della cultura politica e del progetto politico del
Partito Democratico e che, anzi, mi riporta con le lancette
dell’orologio indietro alla stessa cultura liberista e del
neoliberismo che il PD nasce per superare, allora è un tipo
di rinnovamento di cui me ne faccio ben poco. Se il rinnovamento è semplicemente una modalità di costruzione di carriere personali, fatto da narcisi, papaveri che
hanno la pretesa di alzarsi sul podio e fare la lezione agli
altri, come se necessariamente l’età anagrafica significasse
che ne sanno di più, ne faccio volentieri a meno. Al contrario, il rinnovamento è battaglia collettiva. Nel momento in cui abbiamo come Presidente del Consiglio un
uomo di settantaquattro anni, è ben complicato lamen-
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tarsi solo del PD. È vero che c’è un tema. Ma è anche vero
che chi illude gli altri, ma non se stesso, di poterlo risolvere per l’ennesima volta in chiave personalistica e di leadership – perché questa è la cultura sottesa a un certo
modo di concepire il rinnovamento – non prova a fare il
rinnovamento, ma tenta esclusivamente di affermare la
propria presenza, il proprio peso, il proprio potere politico.
Ma per chi è capo di un’organizzazione collettiva, per chi,
quindi, pensa, lavora e costruisce percorsi in un altro
modo, cioè mettendo il problema di chi è il capo sempre
alla fine, e il problema di qual è la politica sempre all’inizio, questa è una strada che non può accontentare. È una
strada che io, necessariamente, per cultura e per funzione,
rifiuto. Penso che sia la riproposizione di un modo sbagliato con cui abbiamo costruito il PD, un modo che non
contribuisce a costruirlo, ma soltanto a riportarlo su una
strada vecchia, che speravo, con questa stagione nuova
del PD, noi iniziassimo definitivamente a superare. In
questo modo, anziché guardare avanti, si riportano indietro le lancette dell’orologio. Ecco, io le lancette dell’orologio preferirei lasciarle continuare a correre. Quando
arriverà il tempo, quando avremo la capacità, la forza,
quando saremo in grado di farlo sulla base di un progetto
politico chiaramente alternativo, allora sarà il caso di bussare e dire: ‘guardate, è stato bello, ma una fase si è
chiusa: ora è arrivato il momento di aprire una stagione
diversa’.
C. G.: Mi sembra proprio che l’ultima parola la debba
avere la Presidente del partito, e allora faccio una piccolissima domanda, altrettanto poco originale di quella che
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ho fatto a Fausto all’inizio, suggerita proprio dalle cose
che lui diceva adesso. Perché un giovane che vuole fare
politica dovrebbe scegliere questo strano partito bistratto
da molti, qualche volta anche dai suoi stessi dirigenti, e
che pretende anche di parlare un linguaggio diverso dalla
politica alla quale siamo abituati, di non avere un meccanismo personalistico, di non avere il nome del suo leader nel simbolo e di non essere il partito di qualcuno?
R. B.: Per cominciare, a un giovane direi che se vuole un
paese che non sia organizzato contro i giovani deve decidersi a impegnarsi direttamente. Siamo un paese di
vecchi e i numeri contano in democrazia: quando ero giovane, la demografia italiana era rappresentata da una piramide; adesso è una cipolla spostata verso una piramide
rovesciata. Per noi era facile essere al centro; per voi è
molto complicato, e dovete esserci anche in maniera
creativa, senza avere paura di disturbare. Ve lo dico: ci
sono dei modi assolutamente pacifici per far sentire la
propria voce, ma bisogna farla sentire, perché il megafono non ve lo regala nessuno. E se qualcuno ve lo regala
è per farvi dire le cose che vuol sentirsi dire. Un impegno
politico diretto è quindi una strada obbligata in questo
momento per capovolgere la situazione. Anche per le
donne è un po’ così: noi siamo un po’ di più ma siamo
rassegnate da troppo tempo. Anche per noi, però, vale lo
stesso ragionamento: nessuno ci regala nulla e dubitate
di chi vi fa regali. Non vi dico una cosa originale ma ve la
dico con sincerità: irrompete e fate la vostra parte perché
resterà un paese organizzato contro di voi se non c’è una
presenza forte che afferma le vostre esigenze. A me la
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stagione delle contestazioni nelle università era piaciuta:
vi invito a non fermarvi perché le scelte che sta facendo
questo governo nel settore formativo e anche per il lavoro
sono devastanti. Abbiamo il numero più alto di giovani
che né studiano né lavorano, né cercano un luogo per
studiare né cercano un luogo per lavorare. A questi giovani qualcuno deve pensare, e i più fortunati tra di voi devono andare a scovare questi ormai tre milioni di persone.
Una società che pensa di poter fare a meno di tre milioni
di persone è una società malata. Dato, però, che probabilmente la testa non si cambia, non c’è altro modo se
non la vostra presenza.
Poi perché scegliere il PD? Perché, paradossalmente, è il
progetto più incompiuto nel quale potete dare di più. Noi
non vi proponiamo una cosa già confezionata. Non sto dicendo il contrario di quello che ho detto prima: il progetto
c’è, il programma c’è, ma è in progress, ed è lì che potete
contare e fare qualcosa di davvero utile. Non vi si chiede
di entrare in un luogo in cui tutto è già messo a posto: è
una casa da finire di costruire, di arredare, da presentare
all’esterno, un luogo nel quale il cantiere è aperto. Chi
meglio di voi può dare un contributo importante? Quale
situazione migliore di questa per poter fare la vostra
parte? Io credo davvero che per il futuro di questa società
voi possiate e dobbiate giocare un ruolo da protagonisti,
per contribuire a organizzarla in modo che sia amica dei
giovani e non loro avversaria.
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PANEL V
Quale europeismo per i democratici
nella crisi dell’idea di Europa?
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Piero Graglia
Docente di Storia dell’integrazione europea,
Università degli Studi di Milano
Insegno Storia dell’integrazione europea alla Statale di
Milano e sono un federalista europeo: sono iscritto al Movimento Federalista Europeo dal 1987 e, nello stesso
tempo, sono iscritto al PD per il quale sono stato anche
candidato alle europee nella circoscrizione Nord-Ovest.
Posso dire, dunque, di avere speso una vita per promuovere l’unificazione dell’Europa – una mezza vita, dato che
ancora non sono tanto vecchio. Ma quello che mi preme
più di dirvi in via introduttiva è che insieme ad altri colleghi abbiamo costituito, il 29 aprile 2010, la ‘Rete 29
aprile’ che ha guidato e animato le proteste dei ricercatori strutturati e precari contro la riforma Gelmini. Da un
anno a questa parte ho accantonato in parte l’impegno
della ricerca per occuparmi quasi a tempo pieno della Rete
29 Aprile, della dimensione europea di una possibile riforma universitaria e della legge forse più discussa e contrastata degli ultimi anni; questo almeno fino a dicembre
(quando la legge purtroppo è passata). Non per questo
ritengo che l’esperienza della ‘Rete 29 aprile’ sia andata
perduta: ogni fenomeno di aggregazione politica, che
spinga a parlare di problemi concreti e porti persone di diversa provenienza ed esperienza a confrontarsi fattivamente su progetti alternativi di governo di un sistema
complesso come quello universitario, rappresenta un ca-
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Le parole e le cose dei democratici
pitale eccezionalmente importante. Questo soprattutto
per un partito come il PD, che dimostra alla base una notevole vivacità intellettuale, spesso purtroppo non disgiunta da un certo conformismo in alcuni dei suoi vertici. Far politica – ce lo insegna con angoscia la vasta serie
di rivolte popolari nell’Africa del Nord – non deve essere
mai un’esperienza legata solo alla propria soddisfazione
personale, ma deve essere esperienza collettiva, condivisa, partecipata. E l’Europa e la sua costruzione, declinata
anche come trasformazione della società italiana e delle
sue dinamiche politiche, è la politica che più amo e che
faccio più volentieri. Per questo ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare a questo incontro.
Ho pensato di cominciare il mio intervento facendo un
piccolo divertissement, un piccolo gioco, partendo proprio
dalla parola «Europa». Visto il tema di questo panel, ho
voluto fare una cosa che non si fa molto spesso: verificare
su vari dizionari europei come viene interpretata la parola
«europeismo». L’esercizio è stato divertente perché, per
esempio, in inglese, l’Oxford Dictionary parla di «Europeanism» come derivazione di «Europe» senza fornire alcuna spiegazione aggiuntiva (anche se l’aggettivo «European» viene usato anche per indicare una persona
«committed with the European Union»). Il dizionario
francese Larousse è molto più accurato e ricco di sfumature: comincia a parlare di «européanisme» e apporta varie classificazioni: «tendenza a considerare le cose a livello
europeo, a dare un carattere europeo; più particolarmente, tendenza favorevole all’unificazione dell’Europa».
Aggiunge poi che «la prima comparsa di un termine analogo, [«europeisme», non «européanisme»] è del 1807,
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Le parole e le cose dei democratici
grazie a Tayllerand che lo usava parlando di Napoleone».
Già si sente profumo di storia e di complessità in una definizione come questa. I tedeschi, come gli inglesi, non si
spendono in molti discorsi: «Europagedanke», «pensiero
sull’Europa», senza fornire alcuna spiegazione su cosa sia
l’europeismo per il senso comune della lingua tedesca e
su quale livello di coinvolgimento ci si pone quando si usa
questa parola: è semplicemente una mutazione, un’alterazione morfologica della parola «Europa» con questo
suffisso importante, «Gedanke», cioè «pensiero», «idea».
In italiano, sul dizionario Treccani, trovo invece una definizione che potremmo definire tra l’hegeliano e il militante: «movimento politico e di idee che, sulla base delle
fondamentali affinità culturali e storiche che legano fra
loro i popoli d’Europa» – quali esse siano non è specificato – «tende a promuovere un progressivo avvicinamento tra i vari Stati nazionali europei fino alla costruzione di un’Europa spiritualmente e politicamente unita
con radici lontane nella componente cosmopolita della Rivoluzione Francese». Da notare che «spiritualmente» e
«politicamente» sono termini che indicano due dimensioni che non stanno così facilmente insieme. La definizione continua: «È stato variamente sostenuto per tutto
il secolo XIX e buona parte del XX, ma solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ha perduto il suo carattere elitario per dar vita alla costruzione di organismi politico-giuridici: Consiglio d’Europa, CEE» – qui andrebbe messa in
discussione l’affinità fra un Consiglio d’Europa e una CEE
che sono realizzazioni estremamente differenti – «che
hanno avviato un processo di integrazione economica e
politica fra i maggiori paesi dell’Europa Occidentale».
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Le parole e le cose dei democratici
Ecco: se uno studente mi dà una spiegazione di questo
tipo ad un esame, io lo boccio senza pensarci due volte,
perché espone fattori magari reali e credibili ma somma
insieme quantità diverse senza criterio: la spiritualità, l’integrazione politica, il Consiglio d’Europa (organismo di
pura consultazione tra gli Stati europei) e la CEE (organismo con funzioni sovranazionali). Tutti elementi che non
possono assolutamente stare insieme a meno di accompagnare una definizione simile con un centinaio di pagine
di esplicazioni e di puntualizzazioni. Senza contare un particolare che dovrebbe essere sottolineato ai signori della
Treccani: dal 1992 abbiamo l’Unione Europea che rappresenta il massimo ‘avvicinamento politico’ (sullo «spirituale» ci sarà da tornar sopra), ma dal 2007, con il
Trattato di Lisbona, dobbiamo imparare a dimenticare il
lemma «Comunità Europea», che scompare, per usare
sempre e solo «Unione Europea». Dunque la definizione
di «europeismo» che il bravo studente trova sul dizionario Treccani lo porta totalmente fuori strada, è incompleta,
inserisce nell’elaborata sequenza di elementi fondativi
dell’europeismo anche un ambiguo afflato «spirituale»
nei confronti del quale ogni persona che voglia fondare
la sua azione politica su basi concrete e non su sentimenti
o gridolini o palpiti dell’animo dovrebbe mantenere una
certa guardinga diffidenza.
Proviamo a descrivere un percorso storico-ideale convincente. Se vogliamo individuare una data di nascita della
parola «europeismo», intesa non come afflato filosoficospirituale ma come movimento che opera nel campo politico, bisogna guardare agli anni tra le due Guerre Mondiali. Qui la definizione della Treccani non ci aiuta, dato
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Le parole e le cose dei democratici
che parla di «movimento politico o di idee». Occorre invece operare una distinzione. Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi era un diplomatico ungherese, figlio di madre giapponese e di padre ungherese; non sapeva il
francese (anche se le sue idee hanno avuto un grande
successo in Francia) ed è il padre del movimento cosiddetto di ‘Paneuropa’, esempio di quell’europeismo elitario di cui parlava la nostra definizione del dizionario.
Coudenhove-Kalergi nel 1926 organizza il primo Congresso di questo movimento: un movimento che non è
strutturalmente votato alla pace universale ma parla apertamente di difesa dell’Europa dai possibili pericoli che la
circondano e che minacciano di aggredirla. Una sorta, diciamo, di leghista di incommensurabile levatura e intelligenza… Apro una parentesi: se parlo a Calderoli o a Bossi
di Coudenhove-Kalergi, probabilmente mi rispondono
che sono due calciatori stranieri dell’Atalanta; di sicuro
non saprebbero dire chi sia questo maggiore che ha parlato di federazione europea e di unità europea. Si tratta,
invece, di un personaggio estremamente importante,
perché per la prima volta richiama l’attenzione sui pericoli e sulle minacce, anche di tipo economico, che l’Europa deve affrontare, dando un senso e una forma organizzata a un inquieto stato d’animo che aveva preso
piede nelle classi dirigenti europee dopo la fine della
Prima Guerra Mondiale e della connessa centralità europea nel mondo. Coudenhove-Kalergi è parte attiva di
quella ‘coscienza della crisi europea’ diffusa dopo il 1919
e descrive la situazione di un continente assediato: parla
di ‘pericolo giallo’ – il Giappone, in prospettiva la Cina –
e di ‘pericolo rosso’ – l’Unione Sovietica. Da ultimo,
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Le parole e le cose dei democratici
evoca un pericolo più commerciale e meno aggressivo,
che potremmo definire il pericolo ‘a stelle e strisce’: la
competizione, in prospettiva, degli Stati Uniti nei confronti
dell’Europa. L’unica via dell’Europa per difendersi è contrastare la Pan-America organizzata dagli Stati Uniti, la
Pan-Asia rappresentata dal complesso sino-giapponese,
l’impero britannico che è Pan- anche se gli manca il suffisso geografico. In tali condizioni, una forma non meglio
definita di unità europea (possedimenti coloniali inclusi)
è un imperativo che gli Stati europei non possono eludere,
pena il reciproco annientamento e la colonizzazione da
parte dei potenti vicini, presenti e futuri. Le premesse di
Coudenhove-Kalergi sono ancora oggi impressionanti
per il carattere profetico e per la lucidità con cui il fondatore di Pan-Europa disegna le diverse alternative per il
continente, soprattutto pensando a ciò che avverrà dal
1939 al 1945; ciò che manca nel suo disegno è, però, il
coraggio di andare fino in fondo al ragionamento che sta
alla base del suo progetto. Coudenhove-Kalergi infatti
parla di unità europea ma esclude esplicitamente che si
debba limitare la sovranità degli Stati partecipi di questa
unità. Se i venticinque Stati europei vivono in una condizione di anarchia internazionale (come dice Kalergi), non
è certo sostenendo il mantenimento di tale sovranità che
l’Europa potrà raggiungere la sperata unità e realizzare gli
‘Stati Uniti d’Europa’. A meno che parlare di ‘unità’ non
significhi semplicemente il perseguimento di un generico
‘bene comune’, l’evidente convenienza della cooperazione europea in molti campi, ma senza dare agli ‘Stati
Uniti d’Europa’ la forma istituzionale di una vera e propria federazione, con un governo unico, una moneta
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unica, un’unica politica estera e di difesa.
Dagli anni Venti in poi Coudenhove-Kalergi porta comunque avanti un’ampia propaganda, organizzando una
sorta di grande Rotary europeista e diffondendo, anche
con qualche risultato interessante, le sue idee in tutta la
diplomazia europea. Nel 1930, ad esempio, Aristide
Briand, il Ministro degli Esteri francese, propone di creare
una sorta di federazione europea sulla base delle suggestioni di Coudenhove-Kalergi. Tuttavia, a seguito della
grande crisi del ’29, poco spazio resta per parlare di cooperazione e collaborazione europea: il sacro egoismo del
nazionalismo economico, nella vuota ricerca di una salvezza dalla crisi globale, diventa la norma. Al posto dell’europeismo difensivo di Coudenhove-Kalergi subentra
una prospettiva diversa di unificazione europea forzata,
per nulla aliena dall’idea di unificare il continente. È il
nuovo ordine europeo di Hitler. Tra Coudenhove-Kalergi
e Hitler, fatte ovviamente le debite proporzioni e tenendo in considerazione le diverse capacità di potenza e
di influire sul corso della storia, la visione è molto simile.
Il nuovo ordine europeo è l’idea di un barbaro autentico:
un modo per porre la fortezza Europa al riparo dagli influssi esterni; un progetto di integrazione schiavista su
base economica e politica che vede gli specialisti di Hitler
parlare apertamente e diffusamente di ‘comunità europea’. Stiamo attenti, tuttavia: non dobbiamo pensare
che Hitler fosse soltanto animato dal progetto folle di fare
grande la Germania garantendole lo ‘spazio vitale’. La
Germania è grande perché dominerà l’Europa, con una
perversa, precisa, metodica distinzione tra popoli schiavi
e popolo padrone. Il suo è anche un progetto di unifica-
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zione europea? Assolutamente sì: l’unificazione dell’assimilazione o dell’eliminazione. È un progetto accettabile?
Assolutamente no. Ma il nuovo ordine europeo aggressivo, che supera l’ansia difensiva propria dei movimenti
elitari e ideologici come quello di Coudenhove-Kalergi,
porta ad una reazione in tutto l’antifascismo e l’antinazismo; induce a far pensare in maniera forte e determinata
a una Europa unita sulla base non del ferro e del fuoco e
della sopraffazione, ma su una base consensuale: la volontà liberamente espressa da parte dei popoli europei. Gli
artefici di questa idea, che oggi celebriamo come due
punti di riferimento anche per il Partito Democratico,
sono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Essi elaborarono
una visione di unificazione e federazione europea del
tutto diversa sia da quella di Coudenhove-Kalergi sia da
quella, ovviamente, che Hitler cercò di realizzare con le
armi e con la violenza sterminatrice. E lo fecero nel forzato isolamento del confino di polizia che gli era stato imposto, con storie e motivi diversi, dopo aver scontato numerosi anni di carcere per la loro attività antifascista.
Come tutti i regimi dittatoriali, violenti ma stupidi e privi
di immaginazione, il fascismo pensava, erroneamente,
che concentrare tutti gli oppositori in un solo luogo fosse
il modo migliore per controllarli: non pensava che questo è invece il modo migliore per permettere ai dissenzienti di tenersi in contatto ed elaborare visioni politiche
comuni. Isolati, dunque, sull’isolotto di Ventotene, Altiero
Spinelli e Ernesto Rossi, diventati amici dopo essersi incontrati proprio sull’isola, cominciano a ragionare sulla
base della realtà del loro tempo, vale a dire del dominio
tedesco dell’Europa. L’interrogativo dal quale muovono,
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Le parole e le cose dei democratici
il loro quadro di riferimento, è il seguente: se fino ad oggi
le relazioni tra Stati sono state dominate dal principio della
sovranità assoluta, vi è un modo per superare questa impostazione e far sì che gli Stati europei possano convivere
senza farsi guerra con cadenza ventennale e senza subire
la spinta egemonica del più forte? La soluzione che i federalisti di Ventotene trovano è quella di richiamarsi al federalismo anglosassone hamiltoniano e di invocare la
fine della centralità dello Stato nazionale sovrano. Per
Rossi e Spinelli lo Stato nazionale sovrano ha esaurito la
propria funzione storica: occorre passare a un soggetto
di tipo nuovo. Questa nuova dimensione essi la trovano
appunto nel federalismo di stampo hamiltoniano, come
risposta al fallimento dello Stato nazionale e alla necessità che, in un’ottica federale, gli Stati nazionali cedano
una parte sostanziosa della loro sovranità, in particolare
in quattro aree fondamentali: politica estera, difesa, moneta, politica economica. È questo l’unico modo – sostengono i federalisti di Ventotene – per salvare la civiltà
europea. Queste idee vengono elaborate all’interno di un
documento che, scritto nell’anno più buio e incerto della
guerra – il 1941 – diviene la base dell’europeismo federalista: il Manifesto di Ventotene. Il suo titolo completo
era Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto
ed è stato ripubblicato anche recentemente dal Corriere
della Sera, dato in omaggio come ultimo della prima serie dei grandi classici del pensiero libero. In quelle pagine
è contenuto proprio questo richiamo a una necessità storica ormai ineludibile: lo Stato nazionale sovrano, per non
scomparire, deve perdere una parte della propria sovranità almeno nei quattro ambiti sopra ricordati. Il risultato
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Le parole e le cose dei democratici
di questo processo, la federazione europea, sarà l’unica
garanzia per evitare nuove guerre mondiali. Questa è la
base fondamentale di tutto l’europeismo federalista democratico che, durante gli anni della guerra, fa tabula rasa
sia dei progetti di nuovo ordine europeo proposti da Hitler (sconfitto in seguito non solo dalle idee ma anche
dalla forza delle armi britanniche, sovietiche e americane) sia di quell’europeismo generico, un po’ sentimentale, retorico e vuoto che ricordavo all’inizio.
Cosa resta di questi progetti europeistici e federalisti
dopo la Seconda Guerra Mondiale? Il Manifesto di Ventotene non è un fenomeno solo italiano. I principi federalisti si diffondono in Francia (Albert Camus, Emmanuel
Mounier, Henri Frenay), in Germania (i giovani sfortunati
studenti della Weisse Rose), in Polonia, in Norvegia, in
Olanda: ovunque sorgono idee di tipo federalista; persino
il piccolo movimento antinazista è europeista e vicino a
una concezione di tipo federale per il futuro dell’Europa.
Oggi si parla di ‘federalismo’ soprattutto come federalismo interno, cedendo spesso, peraltro, all’approssimazione e all’improvvisazione concettuale, ma se c’è una caratteristica che unisce tutta la resistenza europea
anti-nazifascista, questa è proprio la petizione di principio forte a favore di un’unificazione politica dell’Europa
dopo la Seconda Guerra Mondiale. È un elemento caratterizzante, espresso in maniera chiara e vigorosa all’interno delle diverse resistenze europee che, non so poi per
quale motivo, abbiamo perso per strada, al punto che
quasi nessuno più ne parla. È chiaro che, quando dico
‘non so poi per quale motivo’, uso una figura retorica polemica, perché i motivi li sappiamo benissimo.
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Le parole e le cose dei democratici
Dopo il secondo conflitto l’Europa si risveglia distrutta: a
decidere del futuro dell’Europa non sono gli europei ma
è la potenza di riferimento, gli Stati Uniti d’America. La
politica estera nordamericana degli anni Quaranta e Cinquanta è lungimirante nei confronti dell’Europa, anche
perché gli americani non hanno alle spalle una tradizione di rapporti con l’Europa e devono crearla dal nulla.
Il pragmatismo, così caratteristico della progettualità politica statunitense, fornisce un evidente e immediato principio ispiratore: l’invito a replicare in Europa l’esperienza
statunitense. Ogni qualvolta si confrontano con gli europei e con il problema della costruzione europea, alla fine
di ogni discorso tecnico – si tratti del Piano Marshall, dell’organizzazione dell’OECE o della European Cooperation
Administration che gestirà gli aiuti Marshall tra i sedici
paesi europei e l’amministrazione americana – ogni proposta americana si conclude sempre con una petizione
forte che invita gli Stati europei a fare come gli Stati Uniti
d’America, a federarsi: una federazione di Stati consentirebbe, infatti, una gestione degli aiuti molto più agevole
rispetto alla difficoltà di concertare il soccorso a sedici soggetti distinti, avrebbe maggiori possibilità di costituire
una valida barriera difensiva nei confronti di una minaccia di espansionismo sovietico, renderebbe l’Europa occidentale più solida. Lasciamo da parte la questione se la
minaccia sovietica fosse reale o figurata: personalmente
sono convinto che Stalin non avesse alcuna intenzione di
muovere guerra all’Occidente per fagocitare anche l’Europa occidentale (del resto doveva fermarsi a digerire
tutta l’Europa orientale); ma di certo avrebbe accolto ogni
occasione per allargare la sua già vasta zona di influenza
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e di espansione. In ogni caso a noi interessano fino a un
certo punto le ricostruzioni successive dei fatti: quel che
conta è la percezione della minaccia sentita all’epoca, e
questa era altissima. Non è un caso, quindi, che gli Stati
Uniti propongano agli europei ripetutamente l’idea dell’unificazione europea, che viene avanzata nel 1947 con
il Piano Marshall, poi nuovamente nel ’49 a fronte della
cattiva gestione, da parte dell’Europa, degli aiuti Marshall.
Una simile richiesta non verrà mai completamente accolta
dagli europei: francesi e inglesi in particolare rifiutano
ogni cessione di sovranità implicita nella petizione statunitense. Gli europei organizzeranno autonomamente le
prime comunità economiche, ma saranno sempre deboli
e incerti nel dare una dimensione politica all’integrazione
economica. Si tratta di una grande occasione persa, che
vede coinvolta anche l’Italia: la mancanza di decisione del
nostro paese su questo piano, almeno fino al 1950, e l’incapacità di pensare oltre le parole e le idee consuete, superando il modulo organizzativo classico dell’Europa – lo
Stato nazionale sovrano – ci hanno portato al punto in cui
siamo oggi.
Le difficoltà nate da una preziosa occasione persa allora
emergono prepotentemente oggi, nei problemi che
un’Europa nata solo sulla base della cooperazione economica, dal 1950 in poi (Comunità europea del carbone
e dell’acciaio) fino al sorgere dell’Unione Europea nel
1992, si trova ad affrontare. Fino al 1989 l’Europa ha potuto godere di una sorta di ‘bolla ecologica’ in cui è cresciuta enormemente dal punto di vista economico-commerciale, disinteressandosi di qualsiasi tipo di integrazione
o cooperazione politica, surrogata efficacemente dalla
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presenza, politica e militare, degli Stati Uniti. Quando
l’euro-americano Kissinger nel 1971 si lamentava del
fatto che, trattandosi di chiedere l’opinione degli alleati
europei, lui non sapeva che numero di telefono chiamare
perché l’Europa non aveva una voce unica, esprimeva
non solo la frustrazione dell’amministrazione di Washington, ma forse proclamava anche il suo personale disprezzo per l’incapace, immobile vecchio continente,
ricco e tardo, seguace di Venere e non di Marte. Con la
caduta del Muro di Berlino nel 1989 si assiste, tuttavia, a
una accelerazione del processo di integrazione: nasce
l’Unione Europea nel 1992 e si progetta l’allargamento ai
dieci paesi dell’Europa dell’Est gestito in maniera lungimirante dalla Commissione Prodi intorno agli anni 2000.
Tuttavia, oggi è ancora assente una Unione Europea in
politica estera. Come disse il Ministro degli Esteri belga in
occasione della crisi dell’Iraq nel 1990-’91, l’Unione Europea è un gigante economico, un nano politico e un
verme militare: è un organismo che non sa intervenire
sulla scena internazionale, eppure è il primo soggetto economico-commerciale mondiale. Il suo PIL è maggiore di
quello degli Stati Uniti, la sua presenza sul mercato internazionale è maggiore di quella degli Stati Uniti; a questa dimensione economica, però, non corrisponde
un’analoga dimensione politico-istituzionale. C’è un
vuoto: lo abbiamo visto con la crisi nella ex-Jugoslavia e
con i suoi massacri tollerati e silenziosamente subiti dall’Unione e lo vediamo oggi in modo eclatante con la crisi
nel Nord-Africa.
Per questi motivi bisogna ritornare a ragionare, a progettare con una visione: i francesi definiscono visionnaire
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una persona che pensa a qualcosa di grande. Noi italiani,
invece, quando parliamo di un ‘visionario’, ci riferiamo a
una persona che non ha i piedi ben piantati a terra. Il mio
suggerimento è: facciamo i francesi, cerchiamo di essere
visionari, di avere una visione, di recuperare, attualizzandolo e migliorandolo, il pensiero dei federalisti di Ventotene. Cominciamo a pensare che ciò che viene richiesto oggi all’Europa è una dimensione politico-istituzionale
per operare all’interno della scena mondiale, portatrice dei
suoi valori, che non sono disprezzabili. Se mancherà questo, siamo destinati inevitabilmente al declino. Quando si
inizia a scendere lungo la china del declino, cominciano
a profilarsi anche le soluzioni à la Coudenhove-Kalergi:
‘dobbiamo difenderci’. No. Non dobbiamo difenderci. Da
chi? Dai cinesi, dall’India, dal Brasile, da chissà quale
Stato del mondo anelerà in futuro a guadagnare un livello
di benessere economico, sociale, culturale compatibile
con il nostro? La difesa crea sempre nuovi nemici, annulla
gli stessi motivi per cui pensi di doverti difendere: fa
scomparire la serenità e crea uno stato convulsivo di attenzione, sospetto, cautela, rabbia. In nome della difesa
della european way of living si potrebbe assurdamente
giustificare anche un accantonamento di quei vantaggi e
di quelle misure di welfare che giustamente ci rendono diversi – anche e soprattutto durante le crisi economiche –
dagli Stati Uniti e dai paesi non fondati sull’economia sociale di mercato. Se pensiamo ‘in difesa’ siamo spacciati.
Dobbiamo invece essere noi europei a proporre qualcosa
di nuovo per il resto degli Stati mondiali, sulla base dell’esperienza economico-sociale che si realizza, da più di
sessant’anni, grazie al processo di costruzione europea.
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Le parole e le cose dei democratici
L’Unione Europea è un modello di integrazione regionale
ammirato e replicato ovunque nel mondo e bisogna dare
un senso ‘politico’ a questo modello; non possiamo assolutamente pensare che l’Europa sia sotto assedio, perché in questo modo scatta la paura del diverso e dell’invasione che sta alla base della visione di
Coudenhove-Kalergi o di Hitler. Noi non vogliamo questo. Come democratici e come partito moderno e serio
non dobbiamo volere questo. Dobbiamo combattere in
tutti i modi una battaglia perché le parole ‘Europa’ ed ‘europeismo’ non vengano declinate in senso difensivo ma
di proposta: per un governo europeo dell’economia che
fronteggi la crisi e proponga soluzioni che altrimenti restano ostaggio dei diversi egoismi nazionali; per un sistema di difesa comune che scardini i gruppi di interesse
che crescono all’ombra di ventisette sistemi diversi di
commesse statali militari; per una fiscalità europea che integri e in parte sostituisca quella nazionale e dia più risorse
all’Unione per politiche comuni dell’Unione. Siamo alla vigilia di una fase che vedrà sempre più in discussione e
sotto assedio l’integrazione economica e monetaria e il
suo simbolo, l’euro: se non spostiamo la nostra azione sul
piano di quelle che gli americani definiscono le High Politics siamo inevitabilmente condannati a subire il lento logoramento dell’Unione Economica e a risvegliarci tutti, chi
più chi meno, nella palude degli egoismi nazionali che la
nostra Lega Nord così bene impersona e propaganda. Abbiamo un compito: essere parte attiva della storia e non
farcela soltanto raccontare. Facciamolo.
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Francesco Gui
Professore di Storia dell’Europa,
Università La Sapienza di Roma
Mi sia consentita la parte del visionario, non so se all’italiana, ossia quale predicatore di miraggi irraggiungibili, o
alla francese, nel senso di possedere una vision.
Permettetemi a questo proposito di riportare una piccola
citazione: «Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto; abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa».
Sono le parole di Giorgio Ambrosoli in una lettera a sua
moglie Annalori. Con questa citazione apposta in esordio,
alcuni di noi, tra i quali lo stesso Graglia e anche Matteo
Trapani, hanno qualche tempo fa inviato un appello al Segretario del PD Bersani in cui sono contenute più o meno
le risposte ad alcune delle questioni sollevate qui. Per la
verità il Segretario Bersani ancora non ci ha risposto: una
delle ragioni per cui ho accettato questo invito è per sottolineare che forse sarebbe il caso di dare una risposta a
questa pattuglia di federalisti che sono in parte iscritti, in
parte vicini al PD.
Cosa abbiamo scritto nell’appello al Segretario? Probabilmente siamo stati un po’ troppo ambiziosi, ma quanto
ho sentito stamattina in questo Seminario mi rassicura del
fatto che almeno la nostra provocazione non era del
tutto sbagliata. Noi abbiamo l’impressione che il PD ab-
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bia in qualche misura un problema di identità: chi mettiamo insieme, dove dobbiamo andare, da dove veniamo,
e via dicendo. Allora a noi è parso che attorno all’identità federalista europea si possa ritrovare una storia dei
movimenti popolari italiani. Ho sentito tanto parlare di sinistra, ma l’ambizione, secondo noi, del PD deve essere
quella di essere qualcosa di più che semplicemente il
partito di sinistra legittimante una destra che dovrebbe essere altrettanto costituzionale. In realtà noi siamo in una
situazione in cui c’è bisogno di rifondare il modello costituzionale italiano. Se c’è stato un difetto, è stato quello
di accreditare il berlusconismo come parte di un sistema,
di un assetto istituzionale ben fondato, di tipo per così dire
‘occidentale’, che di fatto, proprio a causa del berlusconismo, non poteva essere tale.
Qui bisogna ritornare alle radici costituzionali della Repubblica, fondate su un idem sentire de republica condiviso da tutte le sue componenti politiche e di cui l’identità europea e la tensione verso la sovranazionalità sono
parte integrante. L’art. 11 – lo sapete tutti – prevedeva
proprio questo. E non certo come improvvisato antidoto,
per quanto efficace, alla tragedia del nazionalismo bellicista, e nemmeno come fulminante rivelazione acquisita
per imitazione del modello federale americano trionfante, bensì come portato di una cultura consolidata,
evolutasi fin dal secolo precedente e giunta a maturazione
proprio durante il fascismo e la stagione della Resistenza.
Una cultura che fa parte integrante della storia dei movimenti popolari europei e che non può essere ignorata,
che anzi deve diventare il cemento, il fondamento, il fattore identitario della nostra democrazia e di quella di
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tutta l’Unione. È un peccato che ancora oggi non ce ne
sia abbastanza consapevolezza, né nel ceto politico, né
nell’opinione pubblica e nemmeno nelle scuole o nei luoghi di formazione. Eppure il processo di avvicinamento dei
popoli alla costruzione della democrazia europea non
solo va raccontato, ma deve essere riconosciuto come
parte integrante della storia del Partito Democratico. In
quella storia non c’è solo Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi e la sua Paneuropa: in realtà, anche se il particolare è praticamente sconosciuto, quando nel 1867, a
Ginevra, si tenne il Congresso della Pace, dei Diritti dell’Uomo e degli Stati Uniti d’Europa, a presiederlo venne
invitato Giuseppe Garibaldi e vi si parlava di federazione
europea. La Prima Internazionale stessa condivideva largamente questo obiettivo. E sempre a proposito di Garibaldi, nei giorni di Teano egli non solo consegnò il Mezzogiorno a Vittorio Emanuele, ma lanciò un appello ai
governanti di tutta Europa per la federazione europea.
Certo, poco dopo Ginevra il continente avrebbe conosciuto una svolta per molti aspetti non prevista, quella dell’unificazione tedesca e dell’affermazione del modello
bismarckiano, che avrebbe fatto svanire molti sogni nel
nulla. Tuttavia il messaggio degli Stati Uniti d’Europa è
sempre riscontrabile nelle tradizioni della Prima e anche
della Seconda Internazionale; lo possiamo ritrovare nel
pensiero socialista e democratico, non meno che in Nitti,
in Einaudi, in Rosselli, in Ernesto Rossi e in tutto un insieme di esperienze storiche che culminano, infine, in Altiero Spinelli e nel Manifesto di Ventotene, di cui si celebra nel 2011 la ricorrenza dei settant’anni.
Ma chi era, ancora, Altiero Spinelli? Era un giovane mili-
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tante comunista, destinato a passare dieci anni in prigione
e sei al confino, prima di essere liberato nell’agosto del
’43. Non era insomma un antifascista del 25 aprile, era
andato in galera nel ’27, apparteneva a quella generazione contrappostasi al fascismo fin dagli esordi, aveva
collaborato con Gramsci, era stato arrestato come dirigente della FGCI. Proprio per questo, in definitiva, aveva
tutte le carte in regola per trasformarsi in un credibile innovatore, in grado di riscoprire e rilanciare la prospettiva
del federalismo europeo, rispetto alla soluzione marxistaleninista, per portare finalmente un attacco radicale al
mito dello Stato nazionale e della sua sovranità assoluta.
Stamattina ho sentito parlare tanto di Marx: anche qui,
secondo me, bisogna fare un salto di qualità. La figura di
Spinelli ci propone proprio questo. Oggi di Marx si sono
richiamate l’interpretazione politica, il tema della critica
alla democrazia formale e la battaglia in nome di una democrazia sostanziale. Alla base di quel pensiero vi era
l’idea della lotta di classe. Ma noi condividiamo ancora
un’impostazione teorica fondata sulla lotta di classe, sul
superamento necessario della borghesia e del capitalismo
nel nome dell’affermazione del proletariato e del collettivismo? Oppure, come sostenne Spinelli all’epoca, il
vero problema della società occidentale risiedeva nella
sussistenza e nella presunta autosufficienza degli Stati nazionali sovrani, nemici l’uno dell’altro? Nell’idea dello
Stato nazionale che non riconosceva alcuna legittimità, alcuna legalità, alcuna autorità al di sopra di se stesso? Inevitabilmente quell’idea di sovranità statuale monolitica
aveva creato una serie di fortezze contrapposte l’una all’altra che si facevano guerra a vicenda. Ne seguivano, di
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riflesso, una società militarizzata e l’insegnamento nelle
scuole del mito della razza o della nazione.
In sostanza, se leggete il Manifesto di Ventotene, peraltro portatore di proposte di riforma sociale a carattere democratico e socialista, noterete che è quasi un contraltare
al Manifesto di Marx: a risultare centrale per Spinelli non
è il problema dell’inevitabile vittoria del proletariato sulla
borghesia, bensì quello del superamento del moderno
Stato nazione, un’entità che aveva avuto tanti meriti ma
che ormai doveva essere rivisitata attraverso la creazione
di istituzioni democratiche sovranazionali. Questo è il
salto di civiltà individuato da Spinelli e che ci attende ancora oggi.
Rispetto alla ricostruzione di Graglia mi permetto di aggiungere un particolare: la percezione quasi incandescente della necessità di anteporre la sovranazionalità
democratica ad altri obiettivi fu avvertita in tutta la sua
drammaticità, da parte dei confinati di Ventotene, nella
fase più drammatica della guerra mondiale, ovvero dallo
scoppio del conflitto fino al ’41. Non a caso il Manifesto
è stato scritto nella prima metà di quell’anno, quando non
solo imperversava l’hitlerismo, ma l’Unione Sovietica era
più o meno convivente con esso e gli USA si mantenevano ancora ai margini del grande massacro.
Quello fu il momento della solitudine assoluta dell’Europa, e solamente allora venne elaborata e sistematizzata
la concezione dell’inadeguatezza degli Stati nazionali,
che Spinelli avrebbe portato avanti tutta la vita, tanto da
diventare alla fine parlamentare europeo, grazie ai voti del
PC, e condurre a buon fine la sua ultima grande impresa,
culminata con il voto dell’assemblea di Strasburgo del 14
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febbraio 1984, con cui venne approvato il progetto di
Trattato di Unione Europea, detto anche ‘Progetto Spinelli’, che avrebbe aperto la strada alla trasformazione
delle istituzioni comunitarie durata nei decenni successivi
e per la verità non ancora conclusa.
Come vedete, attorno al progetto federalista europeo, da
una parte abbiamo tutta una storia sulla quale educare i
giovani, su cui dare un’identità alla Repubblica e spiegare
l’impegno spesso straordinario di tante generazioni che
hanno sofferto, se non dato la vita per tutto questo; dall’altra, possediamo un progetto per il futuro, ovvero dobbiamo portare a compimento un salto di civiltà finora rimasto incompiuto e che a tratti può sembrare un po’
visionario, ma che è carico di profonde ragioni e di assoluta concretezza. Perché poi, a ben vedere, ogni democrazia, ogni regime politico si fonda su una visione generale: la politica non può essere ridotta al dispotismo dei
sondaggi o a una mera tecnica di governo. Dobbiamo essere più ambiziosi: la politica va concepita sulla base di
un’idea generale, di una prospettiva di futuro. Gli Stati
Uniti d’America, già durante la Prima Guerra Mondiale,
diffusero l’idea della democrazia e del liberismo economico, risultando per questo più avanzati dell’Europa, la
quale vagheggiava ancora l’imperialismo coloniale. Un
movimento democratico che abbia consapevolezza di
questa storia e che, al tempo stesso, voglia innovare, deve
sapere andare oltre: all’idea della libertà dei commerci e
delle opportunità individuali, che è indiscutibilmente il
grande merito americano, bisogna aggiungere forme istituzionali di protezione collettiva a tutela dei meno favoriti, da realizzarsi a livello europeo. Abbiamo tutti sotto gli
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occhi i meriti del modello americano: sicuramente la diffusione di Internet è una grandissima conquista, ma assistiamo anche al dilagare di diseguaglianze ormai eccessive.
Qui risiede tutta l’attualità e la potenza del messaggio di
Spinelli, un messaggio che, ripeto, egli portò avanti tutta
la vita, anche all’interno delle istituzioni: egli andò al
Parlamento europeo, grazie a Berlinguer e ad Amendola,
per dare appunto garanzie democratiche anche all’attuale
processo di globalizzazione ed evitare che si fosse alla
mercé di quel liberismo che abbiamo conosciuto nella storia del reaganismo. Urgeva, in definitiva, superare gli
egoismi criminali e al tempo stesso le grettezze dello
Stato nazionale europeo, diventato nel frattempo troppo
piccolo, per difendere, all’interno di un sistema istituzionale adeguato, tanto la libertà quanto la dignità degli individui, delle persone («autonomi centri di vita», dice il
Manifesto), ora ridotte a strumenti della macchina statale,
ora a materiali a disposizione di un liberismo senza leggi
e senza garanzie.
A nostro avviso, dunque, vale a dire stando ai federalisti
che hanno sottoscritto l’appello al Segretario del PD, un
partito che abbia la voglia di recepire questa tradizione e
nello stesso tempo di inverarla, ha le potenzialità per
porsi come rifondatore dello Stato democratico e non soltanto come una parte che si contrappone ad un’altra. Naturalmente si deve prevedere l’alternanza, ovviamente si
possono avere visioni diverse, ma non è possibile progredire in una situazione in cui una componente manda
in pezzi lo Stato della Costituzione e l’altra dovrebbe difenderne l’identità. La nostra domanda è allora questa:
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vuole il PD farsi carico di un simile problema? Se la risposta è sì, allora bisogna avere una visione non solo italiana, ma europea, propria di chi appartiene ad uno Stato
fondatore dell’Unione. Sembrerà paradossale, ma se vogliamo ricondurre il paese sul solco della Costituzione e
metterlo di fronte ai doveri (le sfide, si dice oggi) del nostro tempo, ci vuole altra cosa che il patto con gli italiani,
per parte sua affondato nella ‘monnezza’, come tutti
sanno: in realtà il patto vero deve essere sottoscritto con
gli europei e nella prospettiva europea.
Soltanto questo livello di impegno può assicurare la motivazione, gli strumenti, le cognizioni per fare al tempo
stesso le riforme interne e restituire consistenza all’intera
compagni nazionale, ovvero consapevolezza delle vere
problematiche della nostra epoca, ormai obnubilate da
una conflittualità interna tanto sterile quanto deprimente.
A nostro avviso l’unico modo per realizzare questo
grande, importante passo consiste nell’essere influenti,
credibili e dotati di progettualità nelle sedi decisionali europee. Ma per andare in questa direzione occorrono cultura, preparazione, dedizione, senso dello Stato e della
collettività, come in parte abbiamo avuto in passato
quando Spinelli e De Gasperi collaboravano e c’era consapevolezza delle battaglie che valeva la pena combattere. Di fatto, oggi manca la cultura dell’appartenenza all’Unione, un’Unione che ha influenza enorme sulla nostra
vita, con i suoi straordinari pregi ed anche con i suoi difetti, certo da riformare, purché si sia dotati dell’autorevolezza per farlo. Voi oggi aprite il Corriere della Sera (per
fare il nome di un quotidiano diffuso su ampia scala e che
forma l’opinione pubblica in questo paese) e vi annun-
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ciano battaglie furiose sul crocifisso fra l’Italia e l’Unione
Europea, quando si tratta di una questione che con
l’Unione Europea non ha niente a che fare. Quando uno
dei maggiori commentatori italiani non distingue fra Consiglio d’Europa e Unione Europea, come pensate che noi
si possa avere un’influenza a quel livello? È un problema
che dobbiamo porci, anche perché non si tratta di un caso
isolato.
In questo nostro documento abbiamo esemplificato anche altri temi assolutamente trascurati e che pure sono
fondamentali per capire in quale direzione stiamo andando. Vi rivolgo a questo proposito una domanda:
quando andate a votare per il Parlamento europeo, ritenete che il vostro voto di italiani pesi come quello degli
altri europei? Penso che tutti ritengano di sì, ma non è
così. Ebbene, le istituzioni nate dal Trattato di Lisbona meritano una profonda riflessione, prima di tutto a livello
giuridico-costituzionale, per capire se il modello attualmente vigente ci porta in prospettiva verso uno scenario
federale oppure verso una confusione di principi e di poteri da cui potremo uscire soltanto tramite la balcanizzazione dell’Europa. Forse non ne siamo pienamente consapevoli, ma il fatto – e qui torniamo a Spinelli – che ogni
piccolo Stato europeo entri a far parte dell’Unione con il
riconoscimento della propria statualità nazionale sovrana,
e dunque ciascuno con diritto di veto, è estremamente
pericoloso. Per fare un esempio, fra un po’ entrerà il
Montenegro, che avrà diritto di veto sulla politica fiscale
e imporrà il proprio no all’ingresso della Turchia. Di fatto,
nella vecchia Yugoslavia hanno intelligentemente creato,
da uno che era, una flottiglia di piccoli Stati, ognuno do-
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verosamente aspirante ad un posto di commissario europeo, di membro della Corte di Giustizia, ovvero della
Corte dei Conti. Tornando al Parlamento, l’Olanda, con
sedici milioni di abitanti, elegge ventisette parlamentari;
viceversa, tutti gli Stati piccoli, ammontanti complessivamente a quindici milioni di abitanti, eleggono sessantacinque parlamentari: perciò, quale giudizio dobbiamo
dare delle maggioranze che si formano nell’europarlamento?
Ma il problema non si arresta qui: gli equilibri si deformano sempre più man mano che altri paesi entrano a far
parte dell’Unione. In definitiva, dal momento che si è riconosciuto che nel Consiglio europeo conta anche la popolazione, si è legittimato il Consiglio più del Parlamento,
mentre noi continuiamo ad affermare che la sede della
volontà popolare è il Parlamento.
Questo è solo un esempio per dimostrarvi che vi è una serie ampia di temi di capitale importanza che vanno affrontati per evitare la balcanizzazione dell’Europa, eppure
rimangono del tutto rimossi dalla discussione pubblica e
dalla consapevolezza di grandissima parte dei cittadini europei. Ad aver sollevato il problema in questo caso è stata
la Corte tedesca di Karlsruhe che, intervenendo sul Trattato di Lisbona, ha affermato che in Europa il principio democratico sintetizzabile nella formula ‘one man, one
vote’ è disatteso. In pratica, finché non avremo un modello federale, il Parlamento tedesco, e di certo non solo
quello tedesco, si riserverà di sindacare sulle decisioni dell’Unione, indebolendone la credibilità. Il che, da una
parte, costituisce una riserva sul futuro dell’Unione, ma,
dall’altra, riafferma il principio che solo il modello fede-
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rale può risultare pienamente accettabile e condivisibile.
Questi sono i compiti della grande politica della nostra
epoca, ma per affrontarli adeguatamente occorre essere
all’altezza delle situazioni: avere consapevolezza dei problemi e insieme la capacità di affrontarli. La nostra provocazione, dunque, è questa: se accoglie questa eredità
e questo impegno per il futuro, il PD può essere l’unica
forza italiana in grado di avviare credibilmente un discorso
davvero innovativo, in continuità con la storia dei grandi
movimenti popolari e al livello necessario per incidere nei
processi storici. Potete trovare il nostro appello sul sito di
Graglia ed anche su quello della pubblicazione Gli Stati
Uniti d’Europa (www.glistatiunitideuropa.eu, che si richiama all’omonima rivista edita in tre lingue dopo il
1867). Anche i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia non
possono che essere letti in questa prospettiva. Nel Risorgimento, tra l’altro, vi era la consapevolezza forte e nitidissima che l’unità del paese non era la fine di un processo, ma una tappa verso la creazione di una coesistenza
degli Stati europei.
Tornando alle sfide dell’Unione, quando leggiamo che in
Germania e in Francia, nonostante la crisi, gli investimenti
nei settori dell’università e della ricerca sono aumentati,
credete che lo facciano solo perché sono virtuosi? O
forse perché i governi tedesco e francese ritengono, giustamente, che alla fine della crisi un paese esca più forte
e prima degli altri se intraprende investimenti in settori
cruciali come quelli? Pur accettando la politica di Tremonti
e l’appoggio della Lega, noi italiani non possiamo fare
solo una politica di contenimento della spesa: occorrono
anche investimenti seri, che possono realizzarsi soprat-
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Le parole e le cose dei democratici
tutto a livello europeo, ma anche sul piano interno, mirando nella medesima direzione.
Gli esempi dei compiti che ci attendono potrebbero protrarsi a lungo: in tema di Corte di Giustizia europea siamo
disponibili ad accettare le sentenze di una Corte in cui, secondo il principio in base al quale ogni Stato ha diritto a
una poltrona, la maggioranza dei giudici sarà presto composta da membri appartenenti ai paesi entrati per ultimi
nell’Unione Europea? Ma una Corte di questo tipo avrà
poi la legittimità adeguata per affrontare i grandi problemi
della nostra società? Oppure sarà necessario introdurre
delle riforme istituzionali per realizzare una Corte di Giustizia paragonabile alla Corte federale americana?
Un altro quesito ancora, l’ultimo, per concludere: quando
facciamo delle riforme nel nostro paese, comprese quelle
dell’università, a quali modelli guardiamo? Ci ispiriamo
rapsodicamente a quello australiano, americano o giapponese, oppure esiste un contesto europeo, caratterizzato
tra l’altro dalla moneta unica e dal mercato unico, che ci
prospetta modelli, attraverso le esperienze dei paesi che
ci sono vicini, con cui dobbiamo vagamente confrontarci,
dato che viviamo nella stessa area socio-economica? Se
noi non adottiamo sistematicamente per la nostra legislazione il riferimento europeo, come Tommaso Padoa
Schioppa faceva e ha sempre fatto quando era Ministro
dell’Economia, non solo non potremo mai fare quel salto
di civiltà che Spinelli esortava a compiere, ma forse finiremo per regredire parecchio, come l’esperienza di questi anni recenti sembra dimostrare. Soltanto questa consapevolezza ci può consentire di essere concreti. Questa
è la provocazione che abbiamo fatto a Bersani – sicura-
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Le parole e le cose dei democratici
mente meglio illustrata nell’appello rispetto a quanto da
me sintetizzato in questa sede – e sulla quale vorremmo
avere una risposta.
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Guido Montani
Professore di Economia Politica Internazionale,
Università di Pavia
Vicepresidente dell’Unione dei Federalisti Europei
Austerità europea senza crescita? Crescita europea senza
democrazia? Come i cittadini europei possono rilanciare
il progetto europeo e vincere l’euroscetticismo.
Il progetto europeo è in crisi. I cittadini europei non
comprendono più la sua rilevanza e le sue finalità. I giovani e l’attuale classe dirigente europea sembrano aver
dimenticato il chiaro messaggio contenuto nel progetto
europeo lanciato appena dopo la Seconda Guerra Mondiale ‘mai più guerre tra europei’. I padri fondatori dell’Unione Europea sono appena menzionati nei libri di testo di storia, ma l’Europa contemporanea è percepita
come un’irritante burocrazia. In Europa, la pace e la stabilità economica sono considerate come uno stato di natura, come un dono caduto dal cielo. Perché tenere in
vita un’inutile UE?
La condizione dell’UE sta degenerando rapidamente. In
quasi tutti gli Stati membri, le forze anti-europee stanno
guadagnando consensi. Il populismo non è una nuova
ideologia e non è necessariamente europeo: basti pensare
al peronismo. Nell’Europa contemporanea il populismo è
una nuova espressione del nazionalismo. In Italia, la Lega
Nord fa parte del governo euroscettico di Berlusconi. In
Francia, il Fronte Nazionale sta erodendo l’egemonia
della UMP. In Belgio i contrasti tra fiamminghi e valloni
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stanno mettendo in pericolo l’unità dello Stato. In Olanda,
in Ungheria, nella Repubblica Ceca, in Austria e in Finlandia le forze populiste o sono al governo o lo influenzano considerevolmente.
Il nazional-populismo è differente dal nazionalismo del
passato. Il nazionalismo di De Gaulle era un’ideologia
fondata sulla ‘grandeur’ della storia della Francia e su
un’idea d’Europa concepita come ‘Europa delle Patrie’ di
cui la Francia sarebbe stata la leader nella politica internazionale. Il nazional-populismo contemporaneo è una
forma di micro-nazionalismo: si oppone al progetto europeo, ma senza avere una precisa alternativa. Proprio per
questo il populismo è pericoloso. Il suo obiettivo è non
solo di interrompere il progetto unitario europeo ma anche di disgregare i vecchi Stati nazionali trasformandoli in
micro-Stati etnici, come è avvenuto nella ex-Jugoslavia.
Il populismo europeo e l’euroscetticismo sono due facce
della medesima medaglia. I partiti democratici pro-europei non li possono sconfiggere entro i confini dello Stato
nazionale. Entrambi sono il prodotto della crisi del progetto europeo. La crisi è iniziata con la fine della guerra
fredda, a causa dell’incapacità dei leader dell’UE di sfruttare la favorevole occasione dell’allargamento per portare
a compimento il progetto iniziale dei padri fondatori. Basti ricordare un certo numero di occasioni perse. Il Trattato di Maastricht è stato un insoddisfacente compromesso: un’Unione Monetaria senza Unione Economica e
Unione Politica. La Convenzione europea ha elaborato
una Costituzione europea senza includere un governo europeo. Inoltre, non ha mutato la regola dell’unanimità per
la procedura di ratifica, sebbene il principio della doppia
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maggioranza dei cittadini e degli Stati fosse stato accolto
nel progetto di Costituzione. Avvenne così che, quando
i francesi e gli olandesi votarono con referendum contro
il Trattato-Costituzione, nessuno osservò che una ‘minoranza’ di cittadini si era espressa contro, mentre una
‘maggioranza’ era favorevole. Ora abbiamo il Trattato di
Lisbona che è considerato un sostituto del Trattato-Costituzione. Nel frattempo l’atmosfera politica è cambiata.
La vecchia generazione che aveva sperimentato i mali
della guerra è fuori causa. La nuova classe politica è alle
prese con nuovi problemi: il terrorismo internazionale, le
difficoltà dell’allargamento, l’immigrazione, le sfide della
globalizzazione, la sempre più difficile intesa tra le due
sponde dell’Atlantico e l’incapacità dell’Europa di stimolare la crescita economica.
In questa nuova atmosfera politica, l’Unione Europea è
considerata più un insieme di istituzioni utili ai governi nazionali, ma non più come un progetto a lunga scadenza
che vale la pena di perseguire («le prime assise della Federazione europea», come si sosteneva nella Dichiarazione Schuman). Inoltre, il potere relativo tra Francia e
Germania, il vecchio motore dell’integrazione europea, è
mutato radicalmente. Dopo la guerra, la Francia era il solo
Stato in grado di prendere l’iniziativa di unire l’Europa e
lo fece. Ora, dopo la sua unificazione nazionale, la Germania mira a un nuovo status mondiale, economico e politico, come la sua ambizione di entrare nel Consiglio di
sicurezza dell’ONU dimostra. Così, lentamente ma inesorabilmente, il motore franco-tedesco dell’integrazione
europea si è trasformato in una sorta di Direttorio. Poiché
il Trattato di Lisbona non ha risolto il problema del go-
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verno europeo, Francia e Germania hanno cominciato a
proporre una ‘governance economica’ che, secondo il
Presidente Sarkozy e la Sig.ra Merkel, non dovrebbe essere altro che il Consiglio Europeo, dove le principali decisioni riguardanti la politica estera e le finanze si prendono all’unanimità. Il risultato di questo progetto è che,
quando è scoppiata la crisi finanziaria, il Direttorio francotedesco ha preso la leadership, imponendo soluzioni intergovernative al di fuori del tradizionale ‘triangolo istituzionale’, vale a dire Parlamento europeo, Commissione
e Consiglio dei Ministri. Secondo i Trattati, queste istituzioni devono decidere sulla base del metodo comunitario: il Parlamento europeo e il Consiglio dei Ministri colegiferano e la Commissione esegue (in questo caso la
Commissione diventa ‘il governo’ dell’Unione). Al contrario, il Direttorio esclude quasi del tutto il Parlamento
europeo dal processo decisionale.
Per quanto riguarda la crisi finanziaria, senza voler entrare
in una pedante descrizione delle decisioni prese, è sufficiente osservare che il problema è stato così affrontato:
quanto i paesi virtuosi dell’Unione devono pagare per evitare il fallimento di quelli viziosi, i cosiddetti PIGS? Per fare
questo, è stato istituito, grazie a una riforma del Trattato,
un Meccanismo di Stabilità Finanziaria (ESM) che rimane
sotto il controllo dei governi nazionali. Questo meccanismo, insieme al semestre europeo, dovrebbe migliorare
il rispetto delle regole fiscali da parte dei governi nazionali e garantire la necessaria austerità. Si tratta di un miglioramento del Patto di Stabilità e di Crescita. Ma esso
perpetuerà anche i conflitti tra i governi nazionali. Al
contrario, una soluzione rispettosa dello spirito europeo,
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e che non avrebbe richiesto alcuna riforma del Trattato,
era alla mano: sarebbe bastato concordare un aumento
del bilancio europeo della stessa dimensione dello ESM,
attribuendo nuove risorse proprie all’UE. L’Unione Monetaria è l’istituzione che assicura un bene pubblico europeo cruciale: la stabilità monetaria. Se l’Unione Monetaria è in pericolo, a causa della cattiva amministrazione
di qualche Stato membro, questo Stato è tenuto a rispettare le regole concordate, ma tutti i cittadini europei,
al di là della loro nazionalità, devono contribuire al salvataggio dell’Unione.
Il Direttorio è non solo inefficiente, perché produce soluzioni deboli e provvisorie ai problemi europei; è anche instabile, perché, quando è in discussione l’economia, la
Germania assume la leadership, ma quando la situazione
richiede un impegno militare – com’è successo per la Libia di Gheddafi – la Francia prende la leadership; è non
democratico, perché discrimina i piccoli paesi ed esclude
il Parlamento europeo (dunque i cittadini) dal processo
decisionale (possono i cittadini europei e il Parlamento europeo esprimere un voto di sfiducia verso il Direttorio?);
è dannoso, perché alimenta l’erronea convinzione che
l’UE sia solo uno strumento ausiliario ai governi nazionali
e che una maggiore unità politica non sia necessaria. Per
concludere, il metodo intergovernativo e la volontà di istituire un Direttorio europeo sono le vere cause dell’euroscetticismo, la rinascita del nazionalismo e l’affermazione
dei movimenti populisti in Europa.
Nonostante la crisi dell’UE, il progetto europeo non è
morto. L’attuale classe politica è incapace di elaborare una
‘visione’ del futuro dell’Unione Europea, ma fortunata-
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mente le istituzioni create dai padri fondatori sono più
sagge. Jean Monnet ha sostenuto che «la vita delle istituzioni è più lunga di quella degli uomini e pertanto le istituzioni possono, se ben progettate, accumulare e trasmettere la saggezza alle generazioni successive». Questo
è il caso del Parlamento europeo, un’istituzione concepita
già nella CECA. Dopo la sua elezione a suffragio universale, nel 1979, il Parlamento europeo è divenuto la sola
istituzione legittimata a rappresentare la volontà dei cittadini europei. In effetti, in occasione di ogni revisione dei
Trattati, il Parlamento europeo è stato capace di accrescere i propri poteri. Ora, con il Trattato di Lisbona, ha
conquistato anche il potere costituente di avviare la procedura per riforma dei Trattati. Alcuni avvenimenti recenti
mostrano che il Parlamento europeo sopporta sempre
meno l’arroganza dei governi nazionali. Vale la pena di ricordare almeno tre iniziative.
Un gruppo di novantasette deputati europei, appartenenti a PPE, Verdi, S&D e ALDE, ha creato il ‘Gruppo Spinelli’, una rete (network) aperta ai contributi della società
civile, sulla base di un Manifesto in cui si dichiara che sfortunatamente, mentre sfide formidabili di una crisi complessa richiederebbero risposte comuni, elaborate almeno
al livello europeo, troppi politici pensano che la salvezza
possa provenire solo dal livello nazionale. In un’epoca
d’interdipendenza e in un mondo globalizzato, arroccarsi alle sovranità nazionali e all’intergovernamentalismo
non è solo un attacco allo spirito europeo; è assuefazione
alla politica dell’impotenza. […] Il nazionalismo è un’ideologia del passato. Il nostro obiettivo è un’Europa federale
e post-nazionale, è l’Europa dei cittadini.
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Per ora, il Gruppo Spinelli ha organizzato pubblici dibattiti in occasione dei Consigli europei, proponendo delle
contro-posizioni come ‘Consiglio ombra’ in alternativa a
quelle dei governi nazionali. Naturalmente, il suo scopo
è di allargare il consenso nel Parlamento europeo e nell’opinione pubblica al fine di rilanciare una riforma dell’Unione Europea.
La seconda iniziativa è la riforma del sistema elettorale
del Parlamento europeo. La Commissione costituzionale
del Parlamento europeo ha approvato, nell’aprile 2011,
la proposta del deputato federalista Andrew Duff per riservare venticinque seggi a candidati eletti in liste paneuropee presentate dai partiti europei sin dalle elezioni
del 2014. Questo collegio transnazionale obbligherà i
partiti europei a presentare rilevanti personalità politiche,
ben conosciute in tutta l’Europa, con la possibilità per una
di queste persone di diventare Presidente della Commissione Europea se eletto – o eletta – e se il suo partito,
o coalizione di partiti, otterrà la maggioranza dei voti.
Ogni elettore avrà due voti: uno per la lista nazionale e
uno per la lista transnazionale. Secondo Duff: «i deputati di tutti i gruppi politici hanno raggiunto un significativo consenso sulla necessità di riformare il Parlamento.
Sulla base del progetto proposto, la prossima elezione del
2014 potrà assumere una genuina dimensione europea. L’opportunità di usare un secondo voto per deputati transnazionali dovrebbe galvanizzare gli elettori consapevoli che i partiti politici nazionali non sono più in
grado di sostenere il processo d’integrazione europea in
modo democratico ed efficiente».
La terza iniziativa è stata presa da tre deputati – Jutta
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Haug (S&D), Alain Lamassoure (PPE) e Guy Verhofstadt
(ALDE) – che hanno lanciato la proposta Europe for
Growth. For a Radical Change in Financing the EU. Lamassoure è anche il Presidente della Commissione Bilancio del Parlamento europeo: questa proposta può
essere considerata come il necessario complemento al
piano di austerità del Consiglio. Se l’economia europea
non è in grado di crescere, di creare nuovi posti di lavoro
e di competere nel mercato globale, il piano per l’austerità è destinato al fallimento. Come abbiamo appena osservato, a Maastricht si è deciso di creare un’Unione Economica e Monetaria (UME), ma in realtà si è creata solo
la gamba M, e ci si è dimenticati della gamba E. Oggi abbiamo una sola moneta europea, ma diciassette politiche
finanziarie nazionali. Questo governo asimmetrico dell’economia non funziona, come la crisi del debito sovrano
ha mostrato. Il problema è: una politica finanziaria autonoma per l’UE è possibile? In realtà, l’UE ha un proprio
bilancio, ma la sua dimensione è solo l’1 per cento del PIL
e gran parte del bilancio è dedicata alla politica agricola;
inoltre, è praticamente finanziato solo con contributi
nazionali. Il risultato è che ciascuno Stato pretende un
‘giusto ritorno’ dai suoi pagamenti all’UE, così che, alla
fine di estenuanti dibattiti tra i ministri nazionali, il bilancio europeo si riduce a un sostegno esterno dei bilanci
nazionali. Il ruolo cruciale del bilancio europeo, che dovrebbe essere quello di provvedere alla fornitura di beni
pubblici europei, non realizzabili al livello nazionale,
viene completamente negato.
Europe for Growth propone due obiettivi ambiziosi. Il
primo è la fine dei contributi nazionali, grazie al ritorno al-
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Le parole e le cose dei democratici
l’idea originaria di genuine ‘risorse proprie’. L’attuale bilancio dell’UE può essere interamente finanziato con l’1
per cento della TVA, una carbon tax e una tassa, eventualmente, sulle transazioni finanziarie. Il secondo obiettivo è un piano d’investimenti pubblici finanziato interamente da Project Bond emessi dalla BEI. La ragione
fondamentale per questo piano è che
nelle ultime tre decadi il tasso d’investimenti pubblici
nell’eurozona è diminuito di più dell’1 per cento del PIL.
Questo trend ha contribuito significativamente a trasformare l’eurozona in un’area a basso tasso di crescita.
Questa tendenza deve essere invertita. Ciò può essere ottenuto con una nuova emissione di Project Bond allo
scopo di far aumentare il tasso di investimenti pubblici
nella eurozona dell’1 per cento del PIL. Poiché il PIL dell’eurozona ammonta approssimativamente a € 10.000
miliardi, questo significa che deve essere effettuata una
nuova emissione annuale di Project Bond di 100 miliardi
di euro.
Va notato che la dimensione di questo piano è pari a tre
volte il Piano Delors del 1993.
Queste tre iniziative sono cruciali per mutare il significato
e l’esito delle prossime elezioni europee del 2014. Dal
1979, la partecipazione elettorale è continuamente diminuita da un’elezione all’altra. La spiegazione è semplice.
Poiché non vi è in gioco una vera scelta politica e non vi
è un vero governo che i cittadini possano scegliere, le elezioni europee si riducono a una sommatoria di elezioni
nazionali. Il Parlamento europeo non è considerato un’istituzione cruciale per il futuro dei cittadini e, in effetti, il
Consiglio – vale a dire i governi nazionali – pretende di es-
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sere il solo organo a prendere le maggiori decisioni. Ma
se i cittadini potranno scegliere, in una circoscrizione europea, un leader europeo che possa diventare anche il
Presidente della Commissione Europea, e se i maggiori
partiti europei includeranno nei loro programmi un efficace piano per la crescita europea, per più investimenti
pubblici e per più posti di lavoro, i cittadini potranno finalmente trovare un reale interesse a partecipare all’elezione europea. E se questo avverrà, il prossimo Parlamento europeo dovrà tenere fede alle promesse fatte in
campagna elettorale. Una politica per la crescita non può
avere successo senza il sostegno attivo dei cittadini, le organizzazioni della società civile, i partiti politici e i sindacati; in definitiva, una politica europea della crescita è impossibile senza democrazia europea.
La partecipazione dei cittadini al progetto europeo non si
può limitare all’occasione delle elezioni europee. In una
comunità democratica i cittadini discutono pubblicamente
le opzioni politiche e prendono quotidianamente posizione pro o contro le posizioni assunte dai partiti e dal governo. Ma uno spazio pubblico europeo e un popolo europeo esistono? L’opinione sostenuta dagli euroscettici
secondo cui uno spazio pubblico europeo e un demos europeo non esistono ha influenzato significativamente
l’esito del dibattito sulla Costituzione europea. Ora, il Trattato di Lisbona offre l’opportunità di superare queste
critiche. Un milione di cittadini può prendere l’iniziativa
di invitare la Commissione «a presentare una proposta
appropriata su materie in merito alle quali i cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione». Naturalmente, anche le forze euroscettiche potranno sfrut-
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Le parole e le cose dei democratici
tare l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). In effetti, ogni
ICE può stimolare utili dibattiti pubblici nella UE e provocare una risposta da parte dei partiti politici e delle istituzioni europee. In ogni caso, la ICE può essere sfruttata
per promuovere l’unità politica dell’Europa. Ad esempio,
una ICE potrebbe invitare la Commissione a predisporre
tutti gli atti legislativi necessari per realizzare la proposta
Europe for Growth. Questa iniziativa potrebbe essere
sostenuta non solo dai maggiori partiti europei, ma anche dai sindacati, dalle associazioni degli industriali, dai
governi locali, dalle organizzazioni della società civile e da
innumerevoli cittadini.
Nel 1989 molti cittadini si radunarono nelle piazze dell’Europa orientale per rivendicare l’istituzione di regimi democratici. Oggi, i cittadini dei paesi arabi stanno protestando e lottando contro i loro dittatori. Ogni popolo
deve trovare la propria via e i propri mezzi per affermare
o far avanzare la democrazia. In Europa non vi è un dittatore con un preciso volto da combattere. Il nemico
della democrazia europea è l’intergovernamentalismo,
con la sua base ideologica: l’euroscetticismo. Se la ICE qui
proposta avrà successo, gli euroscettici non potranno più
sostenere che un demos europeo non esiste e si aprirà
così la via per trasformare l’Unione Europea in una vera
democrazia sovranazionale.
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Leonardo Domenici
Europarlamentare PD
Ho molto apprezzato la scelta del titolo di questo Seminario. Penso infatti che uno dei problemi fondamentali
che abbiamo davanti sia proprio quello di cominciare a ricostruire un rapporto tra le parole e le cose, perché nella
maggior parte dei casi, oltre a essere estremamente elevato il numero di persone che intervengono su questioni
di cui non hanno la minima consapevolezza, è anche
estremamente elevato il livello di distacco che si determina tra ciò che accade intorno a noi e ciò che siamo in
grado di dire, soprattutto sul piano della nostra capacità
d’interpretazione. Ad esempio, se parliamo della crisi
economico-finanziaria e dell’attuale situazione in Africa,
noi abbiamo due esempi concreti di come anche i sistemi
strutturati non riescano a capire o non vogliano vedere i
problemi che si pongono. Nel caso della crisi economicofinanziaria come spesso diceva Tommaso PadoaSchioppa, la cosa più significativa fu detta dalla Regina
d’Inghilterra quando incontrò gli economisti della London
School of Economics che le spiegavano che cosa fosse la
crisi economica. Ad un certo punto, mettendoli un po’ nel
panico, lei chiese: ‘Ma perché voi non l’avevate capito in
tempo che stava per succedere tutto questo?’. La stessa
domanda può essere sollevata in merito a ciò che succede
in Africa.
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Le parole e le cose dei democratici
Mi ha molto colpito il fatto che ci siano stati diplomatici
francesi, sia di destra che di sinistra, che si sono ammutinati contestando la politica estera francese perché non
era stata in grado di capire, o non aveva voluto capire,
quello che si stava preparando nel Nord Africa. C’è un
problema, per tutti noi, di riuscire a capire meglio che cosa
accade nel mondo che abbiamo intorno, e credo che questo rientri anche in un ragionamento di medio e lungo termine. Io sono molto d’accordo con quanti oggi mettono
l’accento sul fatto che la maggior parte delle scelte che
noi compiamo non sono legate alla prospettiva di breve
periodo, ma richiedono un’idea, una prospettiva. Troppe
volte, invece, accade che l’idea venga espressa e che se
ne parli per un giorno o due, senza che poi a quella idea
si cerchi di dare consistenza, continuità, concretezza. Domani e dopodomani, a Strasburgo, noi discuteremo e voteremo su una relazione di iniziativa parlamentare che ha
per oggetto la questione della finanza innovativa, che
contiene molte proposte importanti; la relatrice è del
gruppo dei Socialisti e dei Democratici. Tra le varie proposte avanzate, vi è anche quella di istituire una tassa sulle
transazioni finanziarie a livello europeo. Attraverso altre
iniziative stiamo cercando anche di promuovere una
spinta nei confronti dei parlamentari italiani, anche delle
altre forze politiche, perché diano il loro voto favorevole
su questo punto. Ci sono, ad esempio, molti deputati europei della CDU tedeschi che sono a favore di una tassa
di questo tipo sulle transazioni finanziarie e contestano
l’alibi, che attualmente si sta utilizzando, secondo cui si
tratterebbe di un’iniziativa interessante ma irrealizzabile.
Non è vero: noi chiediamo e crediamo che sia possibile.
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Le parole e le cose dei democratici
Come primo step vogliamo cominciare ad applicare una
tassa sulle transazioni finanziarie a livello europeo e martedì avremo un voto importante da questo punto di vista. Se avete un po’ di tempo, mandate una mail a tutti
i deputati italiani del Parlamento europeo perché si rendano conto che votare a favore di questa proposta è
molto importante e di interesse per tutti noi.
Perché dico questo? Perché – lo accennava prima anche
Montani – la situazione oggi è complicata, anzitutto per
una questione di rapporti di forza: nel Parlamento europeo, per la prima volta da un certo numero di legislature,
il gruppo di maggioranza relativa non è più il gruppo socialista ma quello del Partito Popolare Europeo, che pure
non ha al suo interno i conservatori britannici. A livello di
Stati nazionali ci sono ventisette paesi membri dell’Unione
Europea: soltanto sei tra questi paesi hanno governi che
o sono di sinistra, socialisti, o vedono la partecipazione di
forze progressiste socialiste. Adesso c’è stato un risultato
importante in Irlanda, ma anche lì si tratterà di formare il
governo. Inoltre la situazione è tale per cui i governi socialisti sono in questo momento concentrati nei paesi
che hanno il maggior numero di problemi: si pensi alla
Grecia, al governo socialista in Portogallo, al successo ora
in Irlanda, tutti paesi che certo non vivono, in questo momento, una situazione facile. Ecco perché questo è un
momento importante, che richiede iniziative politiche
coraggiose e di ampio respiro. Non sempre, poi, i leader
di questi governi socialisti agiscono in una logica che è
quella di riuscire a indicare una prospettiva diversa per
l’uscita dell’Europa dalla crisi: il problema di fondo è proprio questo. Nessuno di noi può mettere in discussione
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Le parole e le cose dei democratici
che bisogna fare delle politiche che stiano attente ai bilanci pubblici; non c’è alcun dubbio che bisogna tenere
sotto controllo la spesa pubblica.
Tuttavia, non è vero che esiste un solo tipo di via d’uscita
praticabile, una sola risposta possibile alla crisi economica,
finanziaria e sociale che stiamo vivendo in questo momento in Europa. In questo momento è largamente prevalente una soluzione sostanzialmente imperniata sul
principio della cosiddetta fiscal consolidation, che poi altro non è che una politica di rigore a senso unico: essa
propone in modo giusto anche forme più avanzate di coordinamento a livello economico, ma bisogna vedere poi
in che modo questo coordinamento è realizzato. Qui c’è
il problema del ruolo che in questo momento sta esercitando non la Germania, ma il governo federale tedesco
rispetto alle risposte che si possono dare: adesso si stanno
stemperando e annacquando le asprezze del ‘Patto della
competitività’ proposto dalla Merkel e da Sarkozy con cui
si proponeva il coordinamento delle politiche economiche, età pensionabile per tutti a sessantasette anni, il rifiuto dell’indicizzazione sotto a qualsiasi forma dei salari,
la costituzionalizzazione dei principi riguardanti il pareggio di bilancio, forme di armonizzazione fiscale. Tutte
misure assolutamente giuste e opportune, ma il discrimine
consiste appunto nel modo in cui queste, concretamente,
vengono realizzate.
Un simile discorso è portato avanti in Europa soprattutto
dai governi conservatori senza alcuna attenzione alle
questioni che riguardano gli investimenti, anche quelli
pubblici, su scala europea, la gestione socializzata del debito strutturale dei paesi membri, i problemi della disoc-
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Le parole e le cose dei democratici
cupazione soprattutto giovanile, le possibili distorsioni
del sistema europeo di welfare, da correggere mantenendone, però, i principi della coesione sociale e del riequilibrio, a livello macro-economico, tra le realtà dei vari
paesi. Questo credo sia il problema maggiore che abbiamo in questo momento.
Io non sono del tutto pessimista perché storicamente ritengo che l’Europa abbia sempre fatto dei passi in avanti
quando è stata messa di fronte a situazioni drammatiche
e a veri e propri bivi. Ha ragione Montani da questo
punto di vista: la questione fondamentale è riuscire a far
tornare a prevalere la logica del metodo e del governo comunitario. È necessario perseguire l’obiettivo dell’Europa
come soggetto politico-istituzionale che parla con una
voce sola, che ha delle politiche concertate, che ha un
mercato interno vero, che ha una politica energetica propria, che compie scelte di sviluppo significative a livello
europeo. A prevalere oggi è, invece, l’esatto contrario,
cioè il metodo della negoziazione fra i governi. La politica
intergovernativa è pericolosa non in sé ma perché la logica negoziale che le è sottesa porta inevitabilmente, a seconda della realtà contingente dei singoli paesi, a ignorare quanto avviene nei paesi limitrofi in nome
dell’autosufficienza nazionale. Anche qui io penso che
questo sia il momento di tornare a parlare in prospettiva
degli Stati Uniti d’Europa; sono anche del parere, però,
che parlare oggi in questo modo non significa annullare
la dimensione e l’identità degli Stati nazionali. Questo è
esattamente l’equivoco rispetto al quale molto spesso
dobbiamo chiarirci e anche dirci tra noi con maggiore
chiarezza quello che pensiamo: le due prospettive non
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Le parole e le cose dei democratici
sono incompatibili fra di loro. Noi abbiamo bisogno di una
maggiore integrazione europea, abbiamo bisogno di una
politica monetaria, abbiamo bisogno di una politica economica, abbiamo bisogno di una tassazione europea
vera, abbiamo bisogno di fare i cosiddetti euro-bond, non
solo per ridurre il debito ma anche per favorire lo sviluppo. Allora queste sono le questioni su cui oggi siamo
sfidati e su cui credo che si debbano ricostruire l’identità
e il profilo politico e programmatico di un’area di sinistra
democratica e progressista a livello europeo.
Allo stato attuale, rimanendo al livello degli Stati nazionali, non c’è la possibilità di indicare una via di uscita equa
e solidale che tenga conto anche del fatto che una crescita deve avere, prima di tutto, una compatibilità con
l’ambiente e con il clima del nostro continente. Ricordo
l’ultima audizione che abbiamo fatto con Tommaso Padoa-Schioppa alla Commissione Affari Economici e Monetari: giustamente il punto di cui si discuteva era appunto questo. Se si deve riformare il patto di stabilità, non
solo occorre inserire degli indicatori di carattere economico-sociale importanti come la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione; dobbiamo anche rovesciare la logica seguita fino adesso, quella del patto di stabilità, secondo cui
gli Stati facevano lo sviluppo e l’Europa controllava i bilanci. Il risultato abbiamo visto molto chiaramente tutti
quale è stato. Giustamente i tedeschi oggi se la prendono
con i greci per aver truccato un po’ i conti in qualche momento; fanno, però, finta di dimenticarsi che alcuni anni
fa, quando Francia e Germania hanno sforato sul rapporto
deficit/PIL, sono state cambiate momentaneamente le regole del gioco. Allora questo significa che quel sistema –
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Le parole e le cose dei democratici
l’Europa controlla e gli Stati fanno le politiche economiche – non vale più. Oggi, invece, abbiamo bisogno di politiche responsabili e sostenibili a livello di bilanci negli Stati
membri, così come di uno sviluppo a livello europeo. Ecco
perché gli euro-bond, ecco perché la tassa sulle transazioni finanziarie, ecco perché la politica degli investimenti, ecco perché il tema dell’occupazione e degli equilibri macro-economici, ecc.: tutte questioni su cui tra
poco si pronuncerà in modo più specifico e competente
Silvano Andriani.
Io vorrei concludere toccando una questione di carattere
politico, dato che ci troviamo a discutere all’interno di
un’iniziativa del Partito Democratico. Anche a partire
dalla mia esperienza di questo poco più di anno e mezzo
nel Parlamento europeo, io ho consolidato un’idea che
avevo già prima: se l’Italia vuole pesare più di quanto pesi
oggi (ma pesa poco anche il Partito Democratico nel dibattito europeo, non illudiamoci!), dobbiamo fare una
scelta precisa. Tenendo conto di tutte le particolarità,
specificità e originalità di questo progetto politico che è
il Partito Democratico, io credo che il nostro partito debba
scegliere pienamente, organicamente e consapevolmente
di risiedere in una famiglia politica europea precisa: quella
del socialismo, della social-democrazia e del laburismo europeo. Devo dire la verità: non mi attendevo questa accoglienza e questo applauso, che mi fa molto piacere.
Dico in modo chiaro come la penso su questo punto non
perché la mia sia una posizione ideologica: io sono il
primo a dire che vedo nitidamente la crisi del socialismo
e della social-democrazia e del laburismo europei. Ma –
attenzione! – a maggior ragione io ci voglio stare dentro,
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Le parole e le cose dei democratici
perché proprio in questo momento posso portare un
contributo anche per innovare e cambiare. Il mio problema non è attraccare in un porto sicuro e tranquillo, ma
starci con la mia originalità e la mia particolarità, pienamente, per costruire una prospettiva progressista alternativa in Europa, anche allargando l’area. Il problema, altrimenti, è che noi abbiamo fatto una scelta importante
– adesso siamo nel gruppo dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo – senza che questa sia conseguente anche sul piano politico. Rischiamo di restare perennemente in una sorta di non-luogo della politica
europea, in un posto che non è chiaro quale sia. Io penso,
invece, che noi questa scelta la dobbiamo fare con coerenza, con consapevolezza, con equilibrio e con convinzione; dobbiamo quindi portarla avanti sapendo che la
prospettiva è quella di costruire qualche cosa che vada oltre l’esperienza storica dello stesso socialismo europeo,
senza però starne fuori. La sfida che abbiamo è appunto
quella di starci dentro pienamente con la nostra originalità.
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Ivana Bartoletti
Manager e specialista di diritti umani
Può l’Europa essere una delle ‘parole’ del Partito Democratico? Mi pare sia questo ciò che vi state chiedendo qui
a Pisa voi giovani Democratici, in questo encomiabile
sforzo di costruzione di un lessico e di un vocabolario all’altezza delle migliori aspettative di un paese e, in particolare, delle generazioni più giovani.
Il mio contributo sarà, spero, utile. Cercherò di portarvi un
punto di vista diverso e di lanciare alcune provocazioni
che vi chiedo fin da ora di prendere come tali, come
spinta ad andare oltre terreni già noti e più scontati.
Vi porto il contributo, in primo luogo, della mia storia e
del mio know-how. Sono una specialista dei diritti umani,
vivo e lavoro a Londra, dove gestisco un programma di
lavoro e un dipartimento che si occupa di misure di sicurezza e di cooperazione tra agenzie. Ma sono anche una
dirigente locale del Partito Laburista, impegnata nella Fabian Society, uno dei think-tank più autorevoli del progressismo inglese. Prima di trasferirmi a Londra, ero nel
PDS, nei DS e nella Costituente del PD, nonché co-fondatrice della rivista Inschibboleth che ha co-promosso
questa vostra lodevole iniziativa.
Il mio osservatorio è, mi rendo conto, privilegiato e mi auguro possa esservi utile nel costruire il futuro del partito
di cui voi sarete tra i protagonisti.
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Le parole e le cose dei democratici
Parlare di Europa oggi significa crisi economica, paesi da
salvare dal tracollo finanziario e altri, più rigorosi, che si
fanno carico dei deficit di altri. E come dare torto a quei
tanti che la pensano così?
L’Europa è un’entità per troppi inesistente, manca di una
politica estera comune, di un centro di elaborazioni politica, economica e culturale capace di superare le differenze tra Stati e porsi come interlocutore del e nel mondo.
A pochi passi da qui si infiamma la rivolta del mondo
arabo. Eppure, fino ad ora, l’Europa non è stata in grado
di guardare a quella richiesta di libertà con lo sguardo lungimirante di chi pensa che sia proprio da lì che possa nascere un nuovo equilibrio mondiale. L’Europa tentenna, riducendo tutto ad un problema di ordine pubblico, a
quegli immigrati che arriveranno stremati dalle rivolte e
dalla fame.
Tutto ciò non stupisce. I nostri sono paesi attraversati dalle
paure. Basta guardare a cosa accade nei vari paesi europei per rendersene contro. Sarkozy in Francia ha effettuato una vera e propria pulizia etnica per espellere
donne ed uomini di etnia Rom. Non si capisce bene quale
possa essere il criterio per definire l’etnia delle persone,
ma certamente un provvedimento di quel tipo fa a pugni
con le tradizioni democratiche costruite dopo il nazi-fascismo. Come se non bastasse, il Premier francese si è
messo in testa di vietare il burqa dai luoghi pubblici, in
nome di una laicità che, seppur comprensibile, di certo
non è all’altezza delle sfide della modernità.
Ovunque in Europa dilaga la questione del burqa. Vorrei
soffermarmi su questo, poiché lo trovo il sintomo non solo
dell’ennesimo tentativo di usare le donne come terreno
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Le parole e le cose dei democratici
di scontro tra presunte ‘civiltà’, ma anche delle semplificazioni estreme messe in piedi per nascondere le vere
sfide del multiculturalismo.
Fare proclami sul divieto del burqa è grave tanto quanto
imporne l’uso. La decisione della Francia di imporre il divieto del velo è stata motivata con anni di terribili storie
di giovani donne forzate dai loro padri ad indossare il
burqa: eppure quasi mai si parla di punizione per quei padri, o di come potenziare il lavoro con le comunità per
sconfiggere la violenza domestica. Al contrario, le ragazze
sono utilizzate come pretesto per lotte di potere e di controllo culturale mentre entrambi i contendenti (i padri e
lo Stato) sono impegnati a rendere loro la vita sempre più
difficile. Se lo Stato non le vuole nelle scuole pubbliche,
allora queste bambine e ragazze andranno a quelle islamiche e, se lo Stato dovesse tagliare i fondi per quelle
confessionali, allora le famiglie decideranno di tenerle a
casa.
A me pare evidente che una decisione del genere rischi
di violare il diritto all’educazione di generazioni di giovani
donne musulmane, diritto peraltro sancito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’articolo 2 del
primo Protocollo. Negare tale diritto, paradossalmente
giustificando tale violazione con argomentazioni fondate
sui valori di uguaglianza, tolleranza e diritti umani, è un
rischio enorme: significa ridurre le donne a mero terreno
di scontro per assecondare gli istinti più immediati e le
paure più infondate, legittimate dagli stereotipi in cui, alla
fine, per pigrizia, finiamo per credere tutti.
Bisogna stare molto attenti a queste derive e vigilare
perché siano vivi gli anticorpi che possono aiutarci nello
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Le parole e le cose dei democratici
sconfiggere pericolose semplificazioni.
Il tema vero, dunque, è l’incapacità dell’Europa di costruire una visione coerente di sviluppo, che sia il frutto
di una storia europea, di una narrativa che emerga dalle
sue ragioni fondanti e dalle specificità che accomunano i
paesi.
Il mondo sta cambiando rapidamente. La Cina avanza in
fretta , lasciando intravedere un futuro non lontano in cui
gli equilibri mondiali saranno radicalmente diversi.
Il Brasile è l’unica potenza economica che cresce coniugando economia e allargamento, diritti e redistribuzione.
È il frutto dell’affacciarsi al mondo di masse che, fino a
prima dell’arrivo di Lula, ne erano escluse.
La primavera araba ci presenta l’alternativa di pensare a
democrazie di matrice islamica che, tra la sharia e i diritti
umani, scelgono diritti e libertà delle donne. Democrazie
islamiche che vanno incoraggiate e sostenute: la finanza
islamica, ad esempio, potrebbe essere da esempio e da
stimolo a quanti oggi si interrogano sulle moral economies, su come sia possibile dopo la crisi finanziaria pensare a un modo più equo di condurre transazioni e operazioni internazionali.
Di fronte a questo quadro così stimolante, cosa dovrebbe
fare l’Europa e, in particolare, cosa dovrebbero fare i
progressisti d’Europa?
Nel Regno Unito il dibattito nel Partito Laburista è interessante.
Dopo gli anni del New Labour di Tony Blair prima e di
Gordon Brown poi, il paese è governato dall’alleanza tra
i Conservatori e i Liberal-Democratici. I conservatori di
Cameron hanno un’agenda politica che utilizza il ter-
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Le parole e le cose dei democratici
mine big society per designare una società in cui i cittadini si assumano direttamente la responsabilità per il funzionamento di alcuni servizi locali essenziali. Il tutto in
nome di una nuova relazione tra cittadini e comunità. In
realtà, si tratta di un modo più o meno velato per edulcorare i tagli al welfare e ai servizi pubblici che riportano
la Gran Bretagna ai tempi di Margaret Thatcher.
Quello che però è interessante notare è il dibattito interno
al Partito Laburista. Un movimento di nome Blue Labour
(Blue perché si avvicina al colore dei conservatori) propone una piattaforma fondata su patria, comunità e famiglia, rispolverando il sindacalismo del movimento laburista delle origini.
Il New Labour (quello che abbracciava i mercati e la globalizzazione) e Blue Labour (che li detesta entrambi)
hanno assolutamente poco in comune, tranne l’idea che
lo Stato tolga potere alle persone che devono, invece,
riappropriarsi di una dimensione di ‘cittadinanza’ attraverso l’appartenenza ad una comunità e ad un territorio.
Presto per dire cosa succederà nel partito. Ma una cosa
è certa: l’elezione di Ed Miliband con il grande supporto
dei sindacati segna l’inizio di una nuova epoca nella sinistra inglese.
Parole come ‘socialismo’, ‘partecipazione’, ‘democrazia’
e ‘radicalismo’ sono tornate in voga. L’elemento più interessante è quello della ‘dignità’. C’è un tema importantissimo per molti nel Partito Laburista e nei think-tank
che ne accompagnano l’evoluzione politica, culturale e filosofica: la dignità delle persone nel lavoro, nella sanità,
nella scuola e nella vita privata. La restituzione della dignità alle persone è un tema centrale, e non è seconda-
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Le parole e le cose dei democratici
rio il fatto che avvenga proprio in Inghilterra, il più capitalista e il meno europeista dei paesi europei.
Io credo che sia proprio su questo terreno che i progressisti dovrebbero guardare all’Europa.
In fondo, l’Europa è quella della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo (CEDU) e di un welfare state fondato
sulla persona e sulla sua dignità.
In un mondo così incerto, può l’Europa rappresentare un
modello di crescita e sviluppo fondato su equità, dignità
e rispetto per le persone? In altri termini, possono i progressisti di Europa, sempre più marginalizzati nelle urne,
pensare ad una piattaforma comune che ripensi all’idea
di cittadinanza e di crescita?
L’ingresso della Turchia in Europa deve essere visto come
una grande opportunità: il fatto che uno Stato laico con
milioni di musulmani entri a far parte dell’Unione Europea, mescolandosi con le sue tradizioni cristiane, con i
movimenti che l’hanno attraversata, può essere un’occasione per ripensarsi drasticamente.
Ma il tema vero è come le forze democratiche e progressiste possano tornare a governare i paesi europei
per costruire, insieme, una dimensione internazionale
nuova, un faro di democrazia per il mondo.
Le destre sono al governo nella maggioranza dei paesi europei, e hanno preso possesso delle democrazie scandinave. Zapatero traballa in Spagna, soprattutto come conseguenza della crisi finanziaria che ha colpito
drammaticamente la penisola iberica.
Alla sinistra spetta il compito di una visione alternativa di
sviluppo. Non sarà possibile per la sinistra in Italia e in Europa guardare al futuro senza radicalismo nelle scelte.
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Le parole e le cose dei democratici
Di fronte alle chiusure della società, alle paure e ai facili
slogan la sinistra dovrà presentare una narrativa capace
di parlare al cuore delle persone.
Credo fortemente che proprio nei valori fondanti dell’Europa si possa trovare l’ispirazione per le forze progressiste. Soprattutto, da quei valori si potrà ripartire per
porre le premesse di una nuova idea di crescita e sviluppo,
capaci di superare l’insostenibilità del capitalismo attuale
a favore di una democrazia inclusiva, rispettosa dei diritti
di ognuno.
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Silvano Andriani
Presidente CeSPI – Centro Studi Politica Internazionale
Qualche settimana fa la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato: «Se crolla l’Euro, crolla l’Europa». Forse
esagera, ma una nella sua posizione non farebbe una dichiarazione del genere se non credesse che esista davvero
il rischio di una rottura dell’Euro. Cerchiamo allora di capire come siamo arrivati a questo.
Se consideriamo la vicenda dell’unità europea nel trentennio di egemonia culturale e politica del neo-liberismo
a livello mondiale, credo si possano distinguere due fasi
sostanzialmente diverse. La prima fase, che copre gli anni
Ottanta e arriva agli inizi degli anni Novanta, ebbe come
leader principali Mitterand e Delors nella veste di Presidente della Commissione Europea e fu caratterizzata dal
tentativo di delineare in Europa un tipo di sviluppo diverso
da quello che andava affermandosi in base all’approccio
liberista, uno sviluppo che avrebbe dovuto ribadire il carattere solidarista delle società europee anche in una
prospettiva di accelerazione del processo di globalizzazione attraverso una maggiore integrazione delle economie europee e in una dimensione esplicitamente federalista.
Quell’impegno si ritrova ancora nel Libro bianco elaborato dalla Commissione Europea che proponeva non solo
un completamento dell’unificazione dei mercati e il co-
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Le parole e le cose dei democratici
ordinamento delle politiche economiche e sociali, ma
anche l’assunzione di un ruolo attivo dell’Unione nella politica economica da realizzare attraverso una grande strategia di investimenti rivolta a rafforzare le infrastrutture
dello sviluppo in tutta l’area europea, da finanziare sia potenziando il bilancio dell’Unione, sia attraverso l’emissione
di bond europei. Quell’approccio trovò la resistenza sistematica dell’Inghilterra della Thatcher, ma ciò non impedì che si creasse un clima nel quale nei Parlamenti si votavano risoluzioni che indicavano il federalismo come
sbocco del processo unitario.
La situazione è progressivamente cambiata quando il
crollo dell’Unione Sovietica ha posto sul tappeto il problema dell’allargamento dell’Unione ed esso è stato affrontato senza approvare in anticipo una Costituzione
dell’Unione che ne rafforzasse il potere di decisione e fissasse i termini dell’adesione per i nuovi entranti. Il rischio
di diluizione che l’allargamento inevitabilmente comportava non è stato contrastato. In quella fase, inoltre, uscivano di scena i vari Brandt, Mitterand, Delors, Kholl,
espressione di una sinistra fortemente europeista, ed arrivava al potere una nuova generazione nella quale, attraverso Blair, ha assunto un ruolo particolarmente forte
l’Inghilterra sempre contraria a fare dell’Unione un autentico soggetto politico.
Il risultato è stato l’abbandono del progetto federalista,
ma anche dell’idea di una politica economica attiva da
parte dell’Unione. Il progetto di Lisbona del 1999 gronda
di buoni propositi, ma affida all’Unione semplicemente il
compito di controllare che gli Stati nazionali seguano le
buone regole fissate dal programma. Nella pratica
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Le parole e le cose dei democratici
l’Unione ha continuato ad operare attraverso le scarse risorse del suo bilancio, attraverso il patto di stabilità fissato
sui parametri di inflazione, deficit e debito pubblico e attraverso le decisioni della BCE per i paesi dell’area Euro.
La crisi che oggi attraversa l’Europa è figlia di quelle
scelte e poiché sia della prima che della seconda fase protagonista è stata la sinistra, che all’epoca di Lisbona governava in tredici dei quindici paesi dell’Europa, una riflessione autocritica non farebbe male.
Dall’inizio del passato decennio, entrato in funzione
l’euro, passata la fase più critica dell’unificazione tedesca
e con l’adozione a livello mondiale di politiche monetarie ancora più espansive in risposta all’esplosione della
bolla tecnologica, la crescita economica europea è stata
tale da aumentare i dislivelli strutturali già ampiamente
presenti nell’area. Paesi come l’Irlanda, la Spagna, la Grecia, il Portogallo ed alcuni paesi dell’Est europeo esterni
all’area euro hanno ridotto il divario nel livello dei consumi
dai paesi più avanzati favorendo l’indebitamento delle famiglie; la loro crescita è stata superiore alla media europea, ma trainata dalla crescita dei consumi privati. Caduta
del tasso di risparmio ed indebitamento delle famiglie
sono stati a livello mondiale elementi costitutivi del modello di sviluppo ora entrato in crisi, ma hanno raggiunto
livelli parossistici nei paesi anglosassoni e nei paesi europei prima citati. Il risultato è stato che tutti quei paesi sono
vissuti al disopra dei propri mezzi con pesanti deficit
strutturali della bilance dei pagamenti ed un crescente indebitamento sull’estero. Ed hanno basato la crescita interna soprattutto sulla crescita di settori non competitivi,
quale l’edilizia e la finanza ad essa collegata.
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Le parole e le cose dei democratici
All’opposto, paesi come la Germania, da tempo portati a
crescere attraverso le esportazioni, hanno accentuato
quella caratteristica. La Germania è riuscita nella straordinaria impresa di aumentare leggermente la propria
quota del mercato mondiale nel decennio segnato dall’ascesa della Cina, dell’India, del Brasile e dal drammatico aumento del prezzo del petrolio. Con una sostanziale
differenza però. Mentre nei decenni precedenti l’attivo tedesco corrispondeva sopratutto al passivo strutturale degli USA, nel decennio passato, quando il passivo USA veniva sempre più colmato dalla Cina, l’attivo tedesco è
andato corrispondendo ai crescenti deficit dei paesi europei. La Germania ha smesso di essere la locomotiva dell’Europa, essa utilizza la domanda interna di paesi europei per alimentare la propria crescita ed ha usato l’eccesso
di risparmio, che un paese in attivo strutturale inevitabilmente ha, per finanziare i consumi degli statunitensi e degli europei che si indebitavano. Ha fatto con i paesi europei quello che la Cina ha fatto con gli USA. Ed alla
Germania potete aggiungere l’Olanda, l’Austria ed i paesi
scandinavi. Gli squilibri interni all’area sono aumentati e
non solo per l’asimmetria finanziaria di paesi creditori e
debitori, ma in quanto quel tipo di sviluppo ha finito col
conformare la struttura produttiva dei diversi paesi determinando un crescente divario nei livelli di competitività.
Insomma, si è andata delineando un’Europa non a due
velocità, ma a due direzioni, peraltro opposte.
Credo che occorra avere il coraggio di riconoscere che, in
mancanza di una politica economica comune, il funzionamento dell’Euro ha aggravato la tendenza alla divergenza. In due modi: innanzitutto ha provocato un artifi-
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Le parole e le cose dei democratici
cioso allineamento al ribasso dei tassi di interesse dei
paesi più deboli a quello della Germania e ne ha favorito
così la corsa all’indebitamento; inoltre, poiché il tasso di
cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e
decisamente basso per quelli forti, svantaggia i primi e favorisce i secondi. Se avesse ancora il Marco, la Germania
avrebbe probabilmente un cambio di 1,70 col Dollaro con
l’Euro a 1,40 e questo spiega non poco delle sue straordinarie performance nel commercio estero. Le politiche di
austerità e il già annunciato aumento dei tassi di interesse
accentueranno la tendenza alla divergenza poiché colpiscono soprattutto i paesi più indebitati. In effetti sta già
accadendo. La Merkel ha ragione a temere una crisi dell’Euro; quello che non dice è che i rischi per l’Euro nascono in buona misura dalle scelte imposte dalla Germania.
La risposta data alla crisi finanziaria dai governi di destra
europei, influenzata soprattutto dalla posizione della Germania, si può riassumere in tre no: no ai default delle banche, no alla ristrutturazione dei debiti degli Stati a rischio
di default, no all’aumento del tasso di inflazione accettabile, che pure viene proposto anche dal direttore del dipartimento economico del Fondo Monetario Internazionale per dare maggiore spazio alla politica economica e
svalutare parzialmente i debiti. Il risultati sono il drammatico peggioramento dei bilanci pubblici, chiamati ad
ogni sorta di operazione di salvataggio, e la conseguente
scelta dell’austerità; l’ingiustizia per cui si chiama a fare
cure dimagranti quelli che non erano affatto ingrassati
nella fase precedente; e la possibile inefficacia dell’austerità rispetto all’obbiettivo di contenere l’indebitamento
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Le parole e le cose dei democratici
pubblico se essa, come è probabile, dovesse ostacolare la
ripresa economica.
Proviamo a capire che senso ha la scelta fatta e chiariamo
subito che, quando si parla di salvare la Grecia, l’Irlanda,
il Portogallo e domani, chissà, con la formazione del
fondo provvisorio, l’ESFF, e di quello definitivo, l’ESFM,
che dovrebbe entrare i funzione nel 2013, o attraverso
l’acquisto da parte della BCE dei titoli degli Stati a rischio,
in pratica stiamo aiutando le banche che hanno fatto credito a quei paesi evitando le perdite che subirebbero in
caso di ristrutturazione dei debiti e che sono sostanzialmente banche tedesche, francesi e inglesi. L’Italia, le cui
banche sono poco esposte ma che concorre pro quota ai
fondi di salvataggio, sta aiutando banche concorrenti
delle nostre. In pratica, l’Unione sta preservando il potenziale finanziario di paesi come la Germania, in parte
compromesso dalle dissennate politiche creditizie degli
anni trascorsi, e la possibilità di finanziare l’espansione ad
Est, che sembra l’obbiettivo principale della strategia di
crescita tedesca.
Ora, la proposta franco tedesca è di rafforzare con più
dure sanzioni il ‘patto di stabilità’ e di varare un ‘patto di
competitività’. Per quanto riguarda il primo si fa finta di
non vedere che il patto di stabilità non ha funzionato; altrimenti perché saremmo in una situazione di tale instabilità? E non ha funzionato non perché non è stato applicato – l’inflazione è stata in effetti contenuta e nella
media europea il rapporto debito pubblico/PIL non è
aumentato, ed i paesi oggi in maggiore difficoltà, tranne
la Grecia, avevano un debito pubblico inferiore, anche
nettamente, alla media europea. Non ha funzionato in
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Le parole e le cose dei democratici
quanto le difese furono erette nei confronti del debito
pubblico, ma l’assalto è venuto dal debito privato, dagli
squilibri delle bilance dei pagamenti, dall’indebitamento
sull’estero. Per questo già cinque anni fa avevo suggerito
di proporre di cambiare il patto assumendo come parametri l’indebitamento totale, la bilancia dei pagamenti e
l’indebitamento sull’estero di ciascun paese. Proposta di
cui a sinistra ancora adesso nessuno si è accorto.
Il ‘patto di competitività’ proposto non contiene alcuna
ipotesi di politiche attive dell’Unione per ridurre i dislivelli
di competitività fra i paesi, ma segue la strada di stabilire
regole più stringenti ed omogenee per la politica economica dei vari paesi. Fra di esse la più interessante è quella
di omogeneizzare la fiscalità verso le imprese allo scopo
di evitare il dumping fiscale, ma ritengo che non sarà facile farla accettare dall’Irlanda, che sul dumping fiscale ha
basato in parte la sua crescita e che si trova già in gravissime difficoltà. Più significative sono invece altre due
regole proposte: fissare per legge costituzionale il limite
invalicabile dell’indebitamento pubblico, seguendo
l’esempio della Germania, e rompere il collegamento
delle retribuzioni all’inflazione. Per quest’ultima si tratta
di ridurre le retribuzioni, il che, oltre a ribadire l’idea che
a pagare debbano essere sempre gli stessi che con la crisi
non c’entrano nulla, impone una domanda: cosa dovrà
trainare la domanda interna nel prossimo ciclo di crescita?
Quanto alla prima, va nella direzione opposta a quella
suggerita dal FMI: renderebbe cioè più rigida la politica
economica e sarebbe sostanzialmente impraticabile in
quanto, in caso di nuove crisi, la situazione dei bilanci
pubblici non potrebbe che peggiorare. Il problema non è
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Le parole e le cose dei democratici
quello di togliere alla politica economica la capacità di
controbilanciare gli effetti di una crisi, ma di evitare che
essa scoppi e questo dovrebbe innanzitutto indurre a
cambiare il patto di stabilità.
La via d’uscita sta, a mio avviso, nel rilanciare l’idea di un
progetto di sviluppo europeo che rinnovi e rafforzi il carattere integrato delle società europee e assuma come
obiettivo centrale la riduzione delle divergenze tra paesi
europei. Certo, in questa prospettiva non possiamo pensare ad una crescita trainata, come in passato, dall’aumento dei consumi privati; la crescita deve essere trainata
piuttosto da un formidabile flusso di investimenti diretto
a far compiere un salto di qualità alle attività produttive
e a potenziare l’offerta di beni pubblici necessari a migliorare le condizioni del vivere civile e l’efficienza dei sistemi economici, tendendo a valorizzare le risorse esistenti
sul territorio europeo.
In questa prospettiva sarebbe certo necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche, ma non
semplicemente per applicare tutti le stesse regole, semmai per adottare politiche diverse, vista la diversa condizione dei vari paesi, ma complementari rispetto all’obiettivo di una crescita più equilibrata. E sarebbe necessario
rilanciare l’idea di un ruolo attivo dell’UE nella politica
economica soprattutto attraverso l’elaborazione e l’implementazione di una grande strategia di investimenti di
dimensione europea nei campi delle infrastrutture hard e
soft, da realizzare potenziando il ruolo del bilancio dell’Unione, ma anche mobilitando l’eccesso di risparmio
presente nei paesi in attivo di bilancia dei pagamenti attraverso l’emissione di bond europei o la costituzione di
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Le parole e le cose dei democratici
fondi specializzati in investimenti infrastrutturali. In questo quadro si potrebbe proseguire con politiche fiscali e
monetarie espansive, ma non affidando solamente al canale bancario in difficoltà il compito di trasmettere la
spinta all’economia reale, ma indirizzando direttamente
parte dei flussi finanziari derivanti da quelle politiche al finanziamento degli investimenti.
Per concludere, avrei una notizia buona ed una cattiva. La
buona è che di recente il Partito Socialista Europeo ha votato all’unanimità un documento che propone l’elaborazione di un progetto di sviluppo europeo. Certo il progetto ancora non esiste, ma è chiara l’intenzione di
elaborare una linea alternativa a quella dell’austerità seguita dalla destra. La notizia cattiva è che nessuno lo sa.
Almeno in Italia. Scommetto che nessuno di voi lo sa. Il
fatto è che da molti anni abbiamo cancellato la dimensione internazionale e perfino quella europea dal dibattito politico. Ed è paradossale, visto che poi siamo tutti
convinti che il tema di fondo è come ricollocare il paese
in un contesto mondiale in rapido ed ineluttabile mutamento.
La mia conclusione è che, se questo tipo di incontro servirà a formare un nuova generazione di militanti e di dirigenti, questa recuperi la consapevolezza della necessità
di reintrodurre la dimensione internazionale e quella europea nel dibattito e nelle scelte della politica.
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PLENARIA CONCLUSIVA
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Roberto Bernabò intervista
Massimo D’Alema e Andrea Manciulli
Roberto Bernabò
Direttore de Il Tirreno
Il dibattito conclusivo di questo pomeriggio viene al termine
di tre giornate estremamente dense e interessanti, soprattutto per la voglia dei giovani che hanno partecipato di confrontarsi e di interrogarsi sulla memoria e sul futuro del Partito Democratico e del centro-sinistra italiano. Hanno
dimostrato che, contrariamente alla vulgata sui giovani di
oggi, c’è una parte dell’Italia di domani che già oggi cerca
di costruire una prospettiva diversa rispetto ai Bunga Bunga
e di osservare la società da una prospettiva più nobile. La
mia intenzione è proprio quella di pormi in continuità con
le riflessioni che avete condotto in questi tre giorni, di riprenderne il filo, lasciando da parte la cronaca delle ultime
settimane, almeno per il momento. Per iniziare, vorrei cercare di capire, assieme a Massimo D’Alema, cosa sia oggi
la sinistra e cosa dovrebbe essere, in Italia e in Europa. È indubbio che la grande crisi del 2008 abbia messo in profonda
discussione l’ideologia neoliberale e l’idea che il mercato
avrebbe garantito benessere, diritti e sicurezza per tutti; dall’altra parte, però, mi pare che la sinistra oggi governi in soli
sei paesi dell’Europa, il più grande dei quali è la Spagna. Insomma questa crisi globale ha trovato di fronte a sé una sinistra complessivamente ripiegata su se stessa, incapace di
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Le parole e le cose dei democratici
affermare un proprio progetto. Questa è la prima domanda che pongo a D’Alema: perché la sinistra non ha saputo cogliere gli elementi di svolta di questa fase storica?
Guardando poi in prospettiva, da questa stagione forse sarebbe opportuno si uscisse con l’idea che la politica deve recuperare la centralità rispetto all’economia, che è stata invece la convinzione dominante del decennio da cui
veniamo. Sarebbe importante recuperare con convinzione
anche il tema dell’uguaglianza, come una battaglia fondamentale per una forza progressista che intende tenere insieme giustizia e sviluppo e che è convinta che senza uguaglianza non vi sia sviluppo. Vorrei chiedere se queste
possono essere le chiavi di lettura delle riflessioni che sono
state condotte negli ultimi tre giorni nonché l’orizzonte
entro cui ragionare sul futuro del nostro paese.
Massimo D’Alema
Presidente Foundation for European Progressive Studies
Innanzitutto vorrei ringraziare i Giovani Democratici per l’invito a questo Seminario e il direttore de Il Tirreno perché ha
voluto aprire la nostra conversazione nel segno di questioni
importanti. La domanda si presta a una risposta saggistica,
anche perché quello della crisi e del futuro della sinistra europea è un tema che mi appassiona e di cui mi occupo, in
maniera specifica da qualche mese. Sono, infatti, stato
eletto Presidente della Foundation for European Progressive
Studies, la cui base associativa è costituita da quarantuno
think-tank disseminati per l’intera Europa, tra cui sono presenti tutte le principali fondazioni culturali della sinistra europea. Utilizzo il termine ‘europea’ perché questa è già una
parte della risposta.
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Le parole e le cose dei democratici
Ebbene, siamo di fronte a una crisi della sinistra europea e,
in particolare, di quella di ispirazione socialista, socialdemocratica, che ha rappresentato una grande forza non
soltanto per la storia del nostro continente, ma per quella
mondiale, al punto che, riferendosi al secolo trascorso, si è
spesso parlato di ‘secolo socialdemocratico’.
Oggi, nel resto del mondo, sono i progressisti a raccogliere
la sfida che viene dalla crisi della globalizzazione neoliberista. Penso agli Stati Uniti d’America, dove questa ha portato al governo Obama e i democratici, in uno scenario
molto contrastato.
In un libro particolarmente interessante, The Power of Progress: How America’s Progressives Can (Once Again) Save
Our Economy, Our Climate, and Our Country, il presidente del Center For American Progress, John Podesta, uno
dei principali pensatori del mondo democratico americano,
spiega perché i democratici non possono più essere chiamati
‘liberal’. La nozione di ‘liberal’, infatti, è legata alle battaglie
per le libertà individuali mentre gli americani di oggi, secondo Podesta, hanno bisogno di una stagione progressista. Ecco perché i democrats statunitensi preferiscono riconoscersi nel termine ‘progressives’.
Anche un altro grande continente, come l’America Latina,
che sembrava fino a poco tempo fa immobile e sconfitto,
oggi è governato da forze di sinistra. In qualche caso sono
di tipo populista, ma vi sono anche grandi forze riformiste,
in particolare nel Brasile di Lula e di Dilma Rousseff. Analogo ragionamento vale per il Sudafrica e per l’Asia. In India il Partito del Congresso non è un partito socialista ma
una grande forza progressista.
Per quanto riguarda i moti che stanno sconvolgendo il
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Nord Africa, sui quali mi soffermerò più avanti, essi non
sembrano essere caratterizzati, almeno finora, da un’egemonia fondamentalista: a guidare le proteste sono, piuttosto, personalità del mondo progressista, di ispirazione prevalentemente laica.
Tuttavia, non è vero che la crisi della globalizzazione neoliberista vede ovunque il trionfo delle forze progressiste.
L’Europa, infatti, ha avuto una deriva a destra. E ciò tocca
nel profondo l’attuale situazione del nostro continente e del
progetto europeista, perché la globalizzazione ha messo in
discussione proprio il primato europeo.
Il nostro è un continente vecchio, a fronte dei grandi paesi
governati dai progressisti. Paesi giovani che guardano con
relativa fiducia al loro futuro: quelli dell’area della speranza, come l’ha definita Dominique Moïsi, che nella globalizzazione hanno conquistato uno spazio. Anche gli Stati
Uniti, rispetto all’Europa, sono un paese più giovane, più dinamico, inclusivo e capace di aprirsi a nuove culture. Il nostro, al contrario, è un continente impaurito, che guarda con
relativa preoccupazione alle prospettive di un mondo futuro
nel quale certamente perderà il suo primato. In questa regione, la destra ha saputo parlare meglio della sinistra alle
paure, cavalcandole e indirizzandole contro la competizione asiatica, contro l’immigrazione dal Sud del mondo,
contro l’Islam, ritratto come una forza che minaccia la nostra civiltà. In qualche modo, la destra è l’espressione di una
reazione dell’Europa di fronte alla sfida della globalizzazione,
che ha portato il nostro continente a chiudersi in un atteggiamento impaurito piuttosto che ad aprirsi e coglierne le
opportunità.
Ricordo – si tratta, naturalmente, di un paragone che non
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va preso alla lettera – che di fronte alla grande crisi degli anni
Trenta in America vinsero Roosevelt e il New Deal, mentre
l’Europa fu preda di forze politiche di tutt’altro segno. Anche allora, dunque, davanti a una crisi economica e finanziaria globale vi fu una forte divaricazione tra una risposta
nel segno della speranza e una nel segno dell’arroccamento nazionalista.
Dieci anni fa il quadro era completamente diverso, e credo
sarebbe molto opportuno ragionare sul perché il socialismo
europeo sia arrivato così indebolito da uno dei suoi momenti
di maggiore vigore. Ai Consigli europei del 1999-2000,
sembrava di stare alla riunione del presidio dell’Internazionale socialista, di cui, tra i quindici Primi Ministri, c’erano il
Presidente e dieci Vicepresidenti. Un dato abbastanza impressionante. Come la forza del socialismo europeo si sia
sgretolata e in cosa abbiamo sbagliato nell’elaborare risposte politiche alle sfide della globalizzazione, dovrebbero
essere domande al centro di una riflessione molto seria. Innanzitutto, bisogna riconoscere che su questo versante la
sconfitta della sinistra è stata duplice. Di fronte alla globalizzazione, infatti, hanno perso le componenti che sono
sempre state più apertamente neoliberali e che sono cadute
vittima di una certa subalternità culturale: mi riferisco al modello della ‘terza via’ blairiana. Ma hanno perso anche
quanti si sono illusi che, in un mondo sempre più globale,
si potesse difendere il compromesso nazionale del welfare
State, secondo il modello francese. Entrambi i modelli, dunque, si sono dimostrati perdenti.
Ora, però, è opportuno ragionare su come ripartire. Perché
è chiaro che questo processo è già in atto, quello che sta accadendo in Europa lo dimostra chiaramente.
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Qualche giorno fa, i risultati delle elezioni di Amburgo ci
hanno detto che la Signora Merkel, che in Italia è popolarissima, in Germania non riscuote altrettanti consensi. In
quella regione i democristiani, infatti, hanno registrato una
pesante sconfitta e i sondaggi lasciano intravedere un quadro politico del tutto nuovo, estremamente frammentato rispetto al bipartitismo del passato, ma nel quale le forze di
opposizione dell’area rosso-verde rappresentano un’ampia
maggioranza dell’elettorato tedesco. Non so dire se queste
forze saranno in grado di costruire una prospettiva comune, dato che – caratteristica tipica della sinistra in gran
parte d’Europa – sono profondamente divise. Tuttavia in
Germania ci sono le condizioni per un cambiamento.
In Francia, al contrario, il principale ostacolo alla vittoria dei
socialisti risiede proprio nei socialisti stessi. Non sappiamo se
troveranno un accordo, ma se ciò dovesse accadere, come
è auspicabile, essi partirebbero largamente favoriti nelle
prossime elezioni presidenziali, dopo le vittorie nei distretti
e in tutte le loro Regioni. Alle penultime regionali, infatti,
vinsero in tutte quelle in cui già governavano, fuorché una;
all’ultima tornata elettorale hanno colmato questo gap, riconquistandole tutte.
La situazione in Europa, dunque, si sta muovendo e ridefinendo: un nuovo ciclo progressista è possibile. Certo, non
accadrà domani, anche perché la destra, che pure è stata
bravissima nel cavalcare le paure degli europei, non ha saputo dare risposte – lo vediamo anche al di fuori dell’Italia
– in termini di crescita economica e occupazionale. D’altra
parte, quando saranno maturate le condizioni, il nuovo ciclo progressista che si aprirà non sarà simile al secolo socialdemocratico, ma nascerà su basi nuove. Proprio qui, a
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mio giudizio, risiede la sfida maggiore, poiché non sarà un
ciclo socialista in senso stretto. Per fare solo un esempio, le
diverse componenti ambientaliste avranno un peso notevolissimo, a differenza del passato.
In questa prospettiva, ritengo che sia molto importante cercare di individuare le idee-chiave della nuova fase, che nascono dall’analisi, che stiamo facendo, della grande crisi economica. Tra queste idee c’è innanzitutto quella di
democrazia: una nozione che spesso è stata data per scontata, ma che è tornata a costituire un terreno di confronto
assai problematico. La globalizzazione capitalistica, infatti,
si è accompagnata a un restringimento pauroso della democrazia. Quando diciamo che uno dei mali di questi anni
è stata la deregolazione, intendiamo appunto evidenziare
che non esiste un potere democratico in grado di regolare
uno sviluppo globale. Il tema di come si articoli oggi la democrazia, intesa tanto come partecipazione attiva dei cittadini quanto come costruzione di momenti democratici sovranazionali, è un tema cruciale.
Seconda idea-chiave è quella dell’uguaglianza: un tema distintivo e costitutivo della sinistra, come spiega Norberto
Bobbio nel bellissimo saggio dal titolo Destra e sinistra. Eppure la sinistra per molto tempo ha avuto un certo pudore
su questo terreno, forse anche a seguito dell’esperienza dell’egualitarismo comunista. Invece, si tratta di un tema che
deve tornare a essere cruciale. La crisi, d’altra parte, è stata
anzitutto generata da una crescita paurosa delle diseguaglianze, in particolare quella tra la rendita finanziaria e il lavoro, che ha letteralmente segnato le nostre società. Essa
è nata da una caduta della domanda, e questa caduta deriva dall’impoverimento delle classi medie, dei lavoratori.
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Come provvedere alla riduzione delle diseguaglianze? Questa, oggi, è un altra questione fondamentale.
Terza idea-chiave riguarda l’innovazione, la cultura. In questi anni lo sviluppo è stato sorretto soprattutto dal basso costo del lavoro nei paesi emergenti, il che ha trascinato con
sé la condizione dei lavoratori nei paesi ricchi. Da qui la precarizzazione e la perdita di valore del lavoro. Un nuovo ciclo di sviluppo deve invece fondarsi sulla ricerca scientifica,
su quell’idea di economia basata sulla conoscenza che era
stata il fondamento del progetto di Lisbona, che rappresenta
ancora oggi il manifesto riformista più ambizioso mai scritto
in Europa. Non a caso esso è figlio di quella stagione in cui
il centrosinistra governava in gran parte del continente.
Per ‘innovazione’ oggi si intende nuove tecnologie, ambiente, una nuova politica dell’energia, un concetto, cioè,
orientato verso la qualità della vita. A questo proposito, vorrei segnalare un saggio estremamente stimolante, The Spirit Level, in cui gli autori, due ricercatori inglesi, spiegano che
le società diseguali sono anche profondamente infelici. Le
politiche e gli strumenti necessari a costruire una società più
giusta, quindi più felice, assieme all’idea che la crescita del
PIL non possa essere l’unico indice qualitativo di un paese
e del suo benessere, sono temi che secondo me concorrono
a definire la base culturale di una nuova stagione progressista. E di questa stagione, diversa da quella che abbiamo
conosciuto nel passato, si cominciano a intravedere le precondizioni. Non è vero, quindi, che la sinistra europea è finita, semmai è finita un’epoca, quella del welfare State, delle
socialdemocrazie nazionali, mentre cominciano a maturare i germi, gli elementi di una nuova fase. Questa è insieme una speranza ma anche un’analisi di quanto sta ac-
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cadendo in diversi paesi europei.
R. B.: In questo quadro che Lei ha tratteggiato dei grandi
elementi di fondo sui quali costruire una nuova stagione
progressista, probabilmente – come Lei stesso richiamava
– c’è anche il riconoscimento della centralità dell’Europa. È
necessario, oggi più che mai, che le forze progressiste colgano l’urgenza di un recupero del valore e della centralità
della prospettiva europeista. Lo dico riferendomi in particolare al grande sconvolgimento che sta avvenendo al di là
del nostro mare e che sta cambiando gli assetti di paesi importanti: l’impressione è che complessivamente l’Europa
(certo con grandi differenze tra l’Italia e altri paesi), così
come gli Stati Uniti, sia stata presa in contropiede. La prima
domanda che Le pongo su questo punto è dunque: com’è
possibile che non siamo stati capaci di cogliere quello che
stava avvenendo in quelle società? E poi le risposte: sono
state balbettanti, non c’è un’idea davvero chiara su cosa
fare. Un atteggiamento forse legato al sospetto, da parte
di qualcuno, che nel caso particolare della Libia il risultato
finale non sia così scontato e che quindi non sia opportuno
esporsi troppo. La mia domanda ha due corni. Vorrei innanzitutto sapere quale è il Suo giudizio in merito all’atteggiamento complessivo dell’Europa e, chiaramente, dell’Italia. Inoltre, sarei curioso di sapere se condivide l’appello
lanciato ieri da Veltroni a una mobilitazione maggiore. L’ex
Segretario del PD ha affermato che è sorprendente che nelle
nostre piazze non si scenda a sostenere il popolo libico nella
sua battaglia contro un dittatore e in nome della libertà. In
tutto questo pesano forse le relazioni storiche, i rapporti politici e commerciali che il nostro paese ha tenuto a tutti li-
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velli in questi anni, in modo trasversale rispetto ai governi,
seppure con gradazioni assolutamente diverse?
M. D’A.: In primo luogo sono convinto che sia giusto
scendere in piazza a supporto dei libici che si ribellano perché chiedono democrazia e libertà. Da questa punto di vista, però, non credo che siamo di fronte a una ‘questione
libica’, perché dobbiamo ammettere che, più in generale,
abbiamo perso l’abitudine a manifestare in sostegno delle
lotte dei popoli, come quelle che stanno infiammando
l’Egitto e la Tunisia.
Da questa parte del Mediterraneo abbiamo certamente bisogno di un’Europa più unita, più forte, in grado di esercitare il suo ruolo nello scenario internazionale. In un certo
senso, il moto che sta sconvolgendo il Nord Africa ha anche un’ispirazione europea, dato che la democrazia e la libertà individuale sono valori europei che hanno una certa
capacità di propagazione. La democrazia si diffonde più per
contagio che non attraverso le guerre, come ci ha dimostrato la disastrosa esperienza in Iraq.
Tuttavia, se osserviamo con sguardo autocritico alle politiche dei nostri governi nei confronti dei paesi interessati dalle
rivolte, emerge come queste abbiano preso le mosse sostanzialmente da tre esigenze di base: la sicurezza energetica, il controllo dei flussi migratori e la lotta al terrorismo,
in particolare quello di matrice islamica. Rispetto a questa
impostazione securitaria, i regimi sono apparsi a lungo
come quelli che meglio potevano garantire un contrafforte rispetto alle minacce fondamentaliste. Del resto, lo afferma oggi lo stesso Gheddafi, riferendosi a un sentimento
che è stato proprio non soltanto dei governi, ma anche lar-
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gamente condiviso dall’opinione pubblica europea. Mi riferisco a quell’idea secondo cui, in questi paesi, fosse più opportuno che vigessero regimi non democratici, in grado di
esercitare un controllo e, in particolare, di garantirci quelle
fondamentali esigenze di cui ho appena parlato: la sicurezza
energetica, il governo dei flussi migratori, la lotta al terrorismo. Questa impostazione è stata miope e, a questo
punto, occorre un certo realismo.
Intrattenere rapporti economici con questi paesi penso che
fosse una cosa ragionevole. In proposito, qualche giorno fa,
sono stato insultato da una signora con l’argomento che
non si deve comprare il petrolio dai dittatori. Una posizione
molto nobile certo, e si può anche decidere di non usare più
l’automobile e andare tutti a piedi. Ma poi non ci potremo
lamentare se mancherà il riscaldamento d’inverno o l’illuminazione la sera… Si tratta di decisioni drastiche che possono essere prese soltanto se socialmente condivise. Fino a
quel momento, dunque, è inevitabile avere rapporti diplomatici ed economici anche con paesi dove non vige la democrazia parlamentare. Senza contare che l’attività internazionale dell’Europa, altrimenti, si restringerebbe
moltissimo.
Certo, una cosa è intrattenere dei rapporti istituzionali, ben
altra è ciò cui abbiamo assistito sotto il governo di Silvio Berlusconi. Episodi piuttosto discutibili, dalla citazione di Gheddafi come modello di democrazia, alla richiesta a Mubarak
su quale fosse il segreto del suo potere: una domanda che
ha una risposta facilissima, l’esercito. Un segreto che fortunatamente non è esportabile nei paesi occidentali democratici. Insomma, abbiamo assistito a qualcosa che va
molto al di là della necessità politica.
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Cionondimeno, non si può dimenticare che, rispetto ad altri paesi, l’Italia con la Libia ha un problema particolare. Per
quanto si possa provare orrore di fronte ai massacri di
Gheddafi, infatti, bisogna sempre ricordare che noi ne abbiamo compiuti di assai peggiori su quel territorio. Abbiamo una responsabilità storica che è il lascito del colonialismo fascista e aver normalizzato i rapporti con Tripoli è
stata una scelta inevitabile. Tuttavia, come Ministro degli
Esteri non firmai il trattato di amicizia italo-libico, pur avendolo lungamente negoziato e avendone determinato la
struttura. Alcuni punti, infatti, non mi convincevano, e tra
questi vi era l’idea che l’Italia versasse ogni anno a Gheddafi novecentocinquanta milioni di dollari. Mi sembrava
umiliante per il nostro paese, oltre a costituire un elemento
di rafforzamento del regime. Pertanto proposi alla controparte l’impegno dell’Italia a costruire delle opere in Libia, eliminando il versamento diretto di denaro. Una proposta diversa dal punto di vista sostanziale. Si trattava, infatti, di una
riparazione per i danni del colonialismo e la forma in cui
questa avveniva aveva un grosso valore politico.
L’altro punto controverso riguardava il trattato di riammissione degli immigrati. Dal momento che la Libia non ha mai
ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, mancavano
le garanzie internazionali alla base dell’accordo: un requisito a mio parere irrinunciabile. Si possono stringere patti e
siglare trattati, ma la questione dirimente è il come lo si fa.
Alla fine, il governo Berlusconi, in carica da poche settimane,
firmò tutto secondo i dettami di Gheddafi. E noi lo denunciammo in Parlamento. Anche su questo versante, infatti,
ci sono differenze sostanziali tra la nostra parte politica e l’attuale maggioranza.
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Fatta questa premessa, è innegabile che l’Europa abbia
avuto a lungo, nei confronti di questi paesi, l’atteggiamento di chi pensava che tutto sommato la democrazia
fosse qualcosa che apparteneva alla nostra civiltà e che per
l’altra sponda del Mediterraneo potessero andare bene regimi autoritari purché garantissero i nostri interessi fondamentali.
R. B.: Quali interventi occorrerebbero adesso, secondo
Lei?
M. D’A.: Innanzitutto, bisogna operare delle distinzioni perché si tratta di situazioni tra loro molto diverse: la Libia attira maggiormente la nostra attenzione, ma con i suoi cinque milioni di abitanti non è certo il paese più rilevante;
piuttosto partirei dall’Egitto, che ne ha ottanta milioni, ed
è di gran lunga il paese leader del mondo arabo. Lì, come
in Tunisia, bisogna accompagnare un processo di transizione
democratica che è solo all’inizio. Allo stato attuale, in Egitto
il potere è esercitato da una giunta militare, il dittatore è fuggito e quindi occorre fare pressione perché si arrivi in un
tempo ragionevole a una situazione di stabilità interna.
Inoltre, si è aperta una discussione molto importante sui
tempi, sull’urgenza di una prima riforma costituzionale e poi
sull’alternativa delle elezioni presidenziali o di quelle parlamentari. È evidente che si tratta di due modalità di transizione diverse, anche per quanto riguarda gli effetti. Con
ogni probabilità, infatti, nel momento in cui l’Egitto andrà
alle elezioni parlamentari, i Fratelli Musulmani si affermeranno come la maggiore forza politica, intorno al 25-30 per
cento, ma essendo isolati, è pressoché impossibile che vin-
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ceranno le elezioni presidenziali. In questo quadro è dunque più verosimile che l’Egitto democratico avrà un presidente laico, una personalità importante nel governare la
transizione, sia pure in un contesto in cui sicuramente gli
islamisti avranno un peso maggiore rispetto a quello che la
dittatura riconosceva loro. Ecco, di questa situazione bisognerà occuparsene anche dal punto di vista politico.
Abbiamo partecipato al vertice eurosocialista di Atene,
dove, come socialisti democratici europei, abbiamo chiesto
di riorganizzare il nostro sistema di relazioni politiche. Vorrei ricordare, con profonda vergogna, che il partito di Ben
Alì e il partito di Mubarak erano entrambi membri dell’Internazionale Socialista. È un dato che non possiamo nascondere a noi stessi.
Pertanto dobbiamo riorganizzare un tessuto di rapporti
politici e aiutare i partiti che devono nascere e organizzarsi,
perché non c’è democrazia senza partiti. Il PD ha recentemente incontrato i rappresentanti delle forze di opposizione
di centro-sinistra tunisine, con le quali è stato avviato un lavoro comune: ad aprile si dovrebbe tenere una conferenza
a Tunisi con tutte le forze democratiche del Maghreb, per
cercare di avviare un percorso condiviso. Tutto sommato è
stata una riunione estremamente interessante, sebbene i tunisini abbiano litigato tra di loro per circa un’ora; si tratta comunque di un processo democratico che va concretamente
e attivamente sostenuto.
Dobbiamo ricordare, però, che questo processo non ha
vinto ovunque nel mondo arabo. Ci sono paesi in cui la rivolta popolare non ha avuto la meglio e nei confronti dei
quali la pressione europea per le riforme democratiche
deve essere molto forte e condizionante: penso all’Algeria,
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ai paesi del Golfo, al Bahrein, all’Oman, allo Yemen.
Infine, c’è la crisi libica, in merito alla quale non ritengo produttivo aprire un’ampia discussione pubblica sull’opportunità o meno di un intervento militare di terra, dal momento
che è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a decidere
in materia. Ciononostante, tale esito sembra improbabile dal
momento che, in quel paese, lo scenario si configura ormai
come una sorta di guerra civile.
Certamente il nostro dovere è soccorrere la popolazione,
portare aiuti umanitari, accentuare l’isolamento innanzitutto
economico del regime, perché la forza di Gheddafi è in
buona misura nel denaro di cui dispone. Occorre, in secondo luogo, il nostro impegno per creare le condizioni affinché questa guerra non degeneri in un massacro spaventoso e per spingere Gheddafi in una condizione tale da
costringerlo a negoziare e ad andarsene. Tutto questo naturalmente non è facile. Il governo italiano, dopo aver
detto numerose bestialità, ha avviato un paio di iniziative
positive, sulle quali deve essere sostenuto e incoraggiato.
Penso, ad esempio, all’iniziativa umanitaria ai confini tra la
Tunisia e la Libia, alla decisione di mandare aiuti umanitari
a Bengasi e al tentativo di avviare rapporti con il Consiglio
nazionale delle opposizioni. In un momento come questo,
credo che, oltre a criticare, si debba anche incoraggiare le
iniziative positive del governo. È l’unica strada oggi percorribile.
R. B.: Grazie. Io rivolgerei ancora una domanda a D’Alema
per poi coinvolgere il Segretario Manciulli. Per spostarci sul
versante più strettamente nazionale, in questi giorni i giovani hanno molto discusso e ascoltato lezioni su personaggi
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Le parole e le cose dei democratici
di riferimento delle storie e delle culture politiche fondative
del Partito Democratico, sull’evoluzione dei linguaggi comunicativi, sul modo di confrontarsi con gli elettori e gli
iscritti. La mia domanda intende andare proprio in questa
direzione. Il PD si presenta come una scommessa ancora
tutta da costruire, che ha bisogno di tanta anima dentro:
l’immagine che spesso ne emerge è, da una parte, quella
di litigi, di divisioni, di distanze nelle posizioni dei diversi
esponenti nazionali; dall’altra, sembra a volte di percepire
una mancanza di un quadro di riferimento, di valori e di
contenuti nitidamente identificabili. Abbiamo parlato fino ad
ora della difficoltà per le sinistre europee di costruire un programma. Il tema è vibrante anche sul piano nazionale: in
che modo dare al PD un contenuto, soprattutto di valori e
di programmi, più chiaro? Ieri Rosy Bindi intervenuta a
questo incontro ha detto che la gran parte degli iscritti a
questo partito si porta sempre dietro una doppia aggettivazione – è insieme un popolo di ‘democratici’ più qualcos’altro – e che dovrebbero tutti rinunciare a pezzetto della
propria identità per riuscire a costruirne una più ampia e
condivisa. È possibile questo, soprattutto in presenza di
tante personalità forti che vengono da stagioni lunghe e con
storie così diverse?
M. D’A.: Non credo che si possa dire che il PD sia un partito privo di un programma. È un approccio che non condivido. In primo luogo, perché non è vero: siamo una forza
politica che ha costruito un’idea diversa del futuro del
paese, anche dal punto di vista delle politiche economiche
e sociali. L’Unione Europa chiede ai governi di presentare
programmi di riforme di medio periodo e noi presenteremo
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Le parole e le cose dei democratici
in contemporanea a Roma e a Bruxelles un piano nazionale
di riforme necessarie per la crescita dell’Italia. Un testo su
cui ha lavorato il Partito Democratico, con la collaborazione
della Fondazione Italianieuropei. Una parte delle proposte
che vi si trovano raccolte sono già disegni di legge presentati in Parlamento, come, ad esempio, una proposta di riforma fiscale che prevede un riequilibrio della pressione sui
redditi da lavoro, sulla rendita, non sul patrimonio. Eppure,
un certo numero di iscritti del nostro partito, di elettori e di
commentatori sono pronti a dichiarare che non abbiamo
idee e che quelle poche che abbiamo non sono chiare. Un
atteggiamento che riguarda anche certi editoriali di giornali.
Berlusconi, al contrario, si è subito accorto che il Partito Democratico una proposta seria ce l’aveva, e ne ha distorto il
significato attraverso una campagna di disinformazione e
denigrazione, sostenendo che i comunisti volevano introdurre la patrimoniale! Voglio dire che rischiamo di avere una
percezione di noi stessi meno precisa di quella che ha il Presidente del Consiglio, mentre siamo nella condizione in cui
non solo abbiamo una proposta, ma questa è talmente valida che è già oggetto di una contro-campagna volta a stravolgerne il significato.
Noi siamo una grande forza politica che ha vissuto, nel decennio passato, una storia non dissimile da quella delle altre forze riformiste europee. Negli anni Novanta abbiamo
fronteggiato e sconfitto Berlusconi, abbiamo governato il
paese, e lo abbiamo fatto anche bene, consentendo all’Italia
di vivere l’ultima stagione significativa di riforme importanti.
A partire dal 2001, grazie all’alleanza con la Lega, Berlusconi
ha preso il sopravvento, così come altre forze di destra
hanno conquistato la vittoria in Europa, caratterizzate da
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Le parole e le cose dei democratici
quel mix di populismo e di localismo venato di sentimenti
razzisti di cui la Lega è soltanto l’espressione italiana, non
molto diversa da certi movimenti emersi in Olanda e nelle
Fiandre. A volte siamo convinti che quanto succede in Italia sia qualcosa al di fuori dell’ordinario, un atteggiamento
che fa parte del provincialismo nazionale. Più spesso, però,
cose molto simili avvengono in altri paesi europei, anche se,
nel panorama delle nuove destre europee, la versione italiana è di gran lunga la più volgare.
Oggi noi ci troviamo in una condizione in cui dobbiamo costruire una coalizione in grado di fare uscire il paese dal dominio di Berlusconi. Uno sforzo, questo, che abbiamo compiuto alla metà di questo decennio, vincendo anche le
elezioni, ma alla base c’era una proposta politica che si è rivelata fragile: quella dell’Unione. Badate, anche su questo
punto Berlusconi ha costruito il mito della propria invincibilità, un mito falso: egli ha alternativamente vinto e perso
le elezioni. Dunque, se tutte le edizioni pari le abbiamo vinte
noi, statisticamente, sarà così anche per la prossima. Anzi,
di norma in questo paese la forza che è al governo perde
le elezioni politiche successive.
Ciò, invero, rappresenta anche una spia dell’estrema difficoltà a governare il nostro paese. Forse, l’ultima volta che
abbiamo vinto le elezioni, avremmo potuto cercare di costruire una stagione politica più lunga. All’indomani della vittoria elettorale dell’Unione, a mio giudizio, occorreva rendersi conto che quel successo era troppo ristretto per dar
vita a una nuova fase politica. Nel corso di quella legislatura,
quando si è aperta la crisi tra l’UDC e Berlusconi, ed è venuta fuori una certa idea di riforma elettorale del sistema
politico, se noi avessimo aperto un dialogo anziché pensare
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Le parole e le cose dei democratici
di essere autosufficienti, forse saremmo ancora al governo.
Non è vero, quindi, che il nostro sia un destino cinico e crudele, perché tutto dipende dalle scelte politiche che si compiono. Trovo abbastanza normale che in una lotta politica
di questo tipo, in un partito come il nostro, ci siano anche
opinioni diverse che si confrontano. Non li chiamerei ‘litigi’.
Anzi, con una valutazione ex post, direi che qualche volta,
se avessimo litigato di più, forse avremmo evitato di compiere degli errori. Al di là della discussione e del confronto
politico, entrambi aspetti fisiologici in un partito sano e democratico, credo che oggi siamo finalmente arrivati a definire una prospettiva per il futuro dell’Italia.
Il problema di questo paese è mettersi alle spalle non soltanto Berlusconi, ma soprattutto il berlusconismo, una certa
idea della politica e del rapporto tra cittadini e istituzioni. Il
problema e la sfida che abbiamo di fronte consistono nel
chiudere una stagione del bipolarismo italiano che si è rilevata inefficace, poiché abbiamo avuto governi fragili e un
paese che nel complesso non è stato in grado di fare le riforme necessarie.
Pertanto, quando Bersani afferma la necessità di un governo
costituente, non lo fa muovendo da una esigenza di schieramento politico, ma da una considerazione di ciò di cui ha
bisogno l’Italia: grandi riforme e ritrovare se stessa, perché
il nostro paese ha vissuto un periodo, oramai lungo, in cui
ha progressivamente perduto terreno su fronti molteplici.
L’Italia è profondamente divisa e arretrata rispetto ai paesi
più avanzati e moderni. In questi ultimi dieci anni la ricchezza non è cresciuta, sono aumentate le diseguaglianze
sociali, si registra uno spaesamento dei giovani. La crescente
fatica ad assorbire le professionalità e i talenti migliori fa sì
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Le parole e le cose dei democratici
che i giovani più qualificati se ne vadano all’estero. Questo
ripiegamento non riguarda soltanto la politica, sarebbe un
giudizio ingeneroso. Basta vedere come è invecchiata la
classe dirigente economica del paese. È evidente, dunque,
che abbiamo bisogno di riforme che coraggiosamente rimettano in movimento la società italiana, a cominciare da
quelle del sistema politico istituzionale, capaci di sostituire
all’attuale specie di sistema plebiscitario una democrazia
funzionante.
Badate, non esiste nessun paese al mondo dove, alle elezioni politiche, si voti su una scheda su cui è riportato il
nome di uno che, però, non viene eletto: una sorta di presidenzialismo di fatto, di tipo plebiscitario, che non presenta
alcun bilanciamento tra i poteri costituzionali. In Italia, quel
signore, che non viene eletto, ma che allo stesso tempo
pensa di essere stato eletto, nomina la sua maggioranza, in
una condizione in cui evidentemente salta ogni equilibrio.
Il nostro sistema, dunque, deve essere riformato, altrimenti
resterà caratterizzato da una fragilità pericolosa della democrazia.
Inoltre, nel decennio berlusconiano, sono diminuiti gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione ma è aumentata
la spesa pubblica, che può sembrare un paradosso. In questo certamente c’è il fallimento del governo della destra, ma
si registra anche una tale acutezza delle questioni nazionali
che richiedono uno sforzo che deve andare oltre i confini
della sinistra. Quando Bersani sostiene che occorre un patto
tra progressisti e moderati per dare nuove basi allo sviluppo
del paese, indica una prospettiva ragionevole. È talmente
poco vero che il Partito Democratico è privo di una politica
e di un programma, che Berlusconi non vuole in alcun
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modo le elezioni. Perché se Berlusconi davvero pensasse che
siamo nelle condizioni in cui noi stessi ci raffiguriamo, ci
chiederebbe di votare domani. Invece, poiché è convinto
che, andando alle elezioni, la nostra proposta politica vincerebbe, si è barricato nel Palazzo e ha assoldato un gruppo
di mercenari. Poi, siccome siamo un paese fantasioso, i mercenari si sono autodefiniti ‘Responsabili’. Insomma, Berlusconi cerca solo di guadagnare tempo.
Per concludere, sono meno pessimista di molti commentatori e di molti iscritti rispetto alla questione del programma
del Partito Democratico. Certo, se si affronta il tema dell’identità del PD, è innegabile che abbiamo un’idea di partito che si è tramandata nella nostra tradizione, nella nostra
storia, nella nostra memoria. Si tratta di un’idea di partito
che, però, è irripetibile. Alla mostra sulla storia del PCI, di
cui sono stato tra i promotori, ho visto arrivare veri e propri fiumi di persone. Alcuni si mettevano a piangere, guardando le fotografie, vedendo i filmati, intanto perché «il
pensiero di giovinezza è rimpianto», come dice il Poeta, e
poi perché si è tramandata un’idea di partito che è ancora
viva nella memoria di molti. Non sono certo pentito di
avere voluto questa mostra, ma credo che forse bisognerebbe anche tenere dei corsi di demitizzazione.
R. B.: Ma tra cento anni forse li vedremo piangere per Franceschini e Bersani…
M. D’A.: Credo che quel tipo di partito non tornerà più, appartiene ad un’altra epoca storica. Vorrei ricordare che il PCI
era sì suggestivo, e certamente il ricordo ci fa commuovere,
ma tengo anche a precisare che non andò mai al governo
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di questo paese. E il fatto di non essersi messo in condizioni
di governare in Italia è in parte imputabile allo stesso PCI,
e non fu certo un piccolo danno. Faccio questa precisazione
per demitizzare un po’ la nostra storia e per dire ai giovani:
attenzione, questo nostro passato, che qualche volta presentiamo come straordinario, ha avuto anche le sue ombre.
R. B.: Segretario, per misurare questi temi sulla dimensione
regionale, il PD toscano ha rinnovato molto, nell’ultima tornata congressuale, i propri quadri dirigenti: c’è un gruppo
di giovani che governano le federazioni. Mi pare d’altra
parte, come diceva anche D’Alema, che il fatto che buona
parte degli iscritti non si rendano conto che il partito ha un
programma e delle proposte in materia di politica fiscali o
su altri temi di rilievo, è sintomatico di un generale problema
dell’informazione, del controllo in questo paese dei sistemi
di informazione, del conflitto di interessi ecc. Ma c’è anche
un problema da parte del partito nel colloquiare con i suoi
iscritti e con la società nella sua dimensione più ampia. È un
tema forte anche in una regione dove il PD è così radicato
e dove però, alle ultime elezioni dello scorso anno, si sono
registrate quote di assenteismo molto alte. In questi giorni
i giovani qui presenti hanno discusso molto delle nuove
forme di comunicazione politica e delle nuove strutture della
politica, dalla sezione ai circoli a Facebook. Come vi state
muovendo qui in Toscana per far sì che il partito vada incontro ai giovani e alla società in generale?
Andrea Manciulli
Segretario regionale PD Toscana
La domanda ne contiene molte al suo interno, non tutte le-
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gate tra loro. Io penso che questo tema del rinnovamento
sia un po’ come l’elemento nostalgico del quale parlava
prima D’Alema: noi in questi mesi alle volte viviamo oscillando tra la nostalgia e l’evocazione del rinnovamento salvifico, senza renderci conto che invece lo sforzo nostro dovrebbe essere quello di legare insieme questi temi. Il
rinnovamento è una cosa seria e non lo si può usare solo
come vettore per l’affermazione di un singolo. Il rinnovamento a mio avviso è la sfida di dare a questo paese una
nuova generazione che si ri-appassioni della politica e che
vi contribuisca in prima persona. Ci sono, per essere precisi,
due sfide: la prima è quella che una nuova generazione dia
un contributo fondamentale per ridare legittimità piena
alla politica in questo paese. Soltanto l’impegno di una
nuova generazione, infatti, può aiutare a chiudere definitivamente questi anni di antipolitica che, finora, hanno
solo favorito Berlusconi. Il secondo tema che vedo: io credo
che qualsiasi opera di rinnovamento di un partito debba legarsi ad una missione più ampia. A mio avviso questa missione in questo paese c’è e necessita, più che di tanti singoli di discreto talento, di un gruppo dirigente che si leghi
e che abbia la forza di affrontare i temi nel merito. Io penso
che questa sfida ce l’abbia lanciata con un bellissimo discorso il Presidente della Repubblica con gli auguri di fine
anno: in quel discorso io ho colto un elemento di grande
forza, che chiama in causa il nostro paese. Giorgio Napolitano nel suo discorso ha affrontato il tema di una generazione che rischia di mancare, che alla fine è diventata lo
specchio più evidente del nostro declino. In una Regione
come la nostra, dove abbiamo, come è stato ricordato,
l’emergere di un gruppo dirigente nuovo che si vuole mi-
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surare, l’idea che è venuta al nostro Presidente di Regione,
che è una persona coraggiosa, è di mettere in campo un
Progetto Giovani. Quando uno sente questa espressione,
pensa subito a un pacchetto di leggi circoscritte: in realtà Enrico Rossi per la prima volta ha affrontato un tema che a mio
avviso dovrebbe essere il titolo della nostra sfida per ritornare al governo del paese, vale a dire: cosa si fa per rimettere in moto la nostra società e nello stesso tempo garantire tutele ad una parte del nostro paese che rischia di non
averle? Massimo lo sa perché ne abbiamo discusso altre
volte: questa proposta di Enrico riprende anche una parte
difficile del ragionamento che noi, quando eravamo al governo di questo paese, avevamo cominciato a fare. I primi
a riflettere, allora giustamente e forse un po’ incompresi,
sulla necessità di riformare un sistema di Stato sociale e di
rilanciare questo paese fummo noi. Questa necessità, tutt’oggi, rimane immutata. Io credo che la forza di un partito
come il nostro debba essere quella di riuscire a recuperare
questa necessità e a trasferirla in un messaggio immediato
e radicato sul territorio. Penso che questo lo si debba fare
anche con la forza degli argomenti concreti. A me è capitato di leggere nelle scorse settimane una bella ricerca che
l’IRPET ha fatto per noi, per il nuovo PRS e per le scelte di
questo avvio di legislatura: in Toscana, che non si può certo
dire sia una delle Regioni più povere del nostro paese, c’è
uno spaccato che riguarda il futuro delle giovani generazioni
che noi dovremmo conoscere e che il nostro partito a mio
avviso dovrebbe studiare approfonditamente. Voglio citare
qui qualche dato che secondo me serve per capire anche il
tipo di orizzonte che si dà alla nostra politica. In Toscana oggi
lo stipendio medio di un giovane sotto i trent’anni anni
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oscilla tra i settecento e i mille euro; venticinque anni,
quando fu fatta in Toscana un’inchiesta analoga, per una
casa si spendeva al massimo il 40 per cento di un salario.
Oggi si spende per una casa quasi l’80 per cento del proprio salario. Ciò significa che se venticinque anni fa era opzionale che in un nucleo famigliare entrassero due stipendi,
oggi è divenuto una necessità assoluta. È cambiata, cioè, la
natura sociale delle famiglie: tanti nonni sono diventati il
primo ammortizzatore della nostra società. Se ragioniamo,
nelle aree urbane come Firenze e Pisa, chi vuole mettere su
una famiglia e avere un bambino vede l’80 per cento del
proprio stipendio andare via per la casa; va considerata poi,
nel caso in cui entrambi i genitori lavorino, la spesa dell’asilo
nido, per cui se ne vanno dai trecento euro in su; va aggiunta poi la spesa, le bollette, i pannolini… Siamo di
fronte, senza tanti giri di parole, alle prime generazioni
che, in un secolo nel quale la vita delle persone era sempre
andata migliorando, vedono la propria qualità di vita peggiorare rispetto a quella dei genitori. Il tema del rinnovamento, allora, riguarda soltanto la capacità televisiva di
questo o quel giovane oppure è la sfida di una società italiana e di un gruppo dirigente che sappia farsi carico di questa nuova diseguaglianza? Io non ho dubbi su quale delle
due sia la risposta giusta: è la seconda. Io credo che un partito come il nostro debba partire proprio da questo: deve
dare uno spazio a chi poi il futuro dell’Italia lo deve costruire.
Prima si citava il Brasile: c’è un mondo nel quale i paesi in
via di sviluppo hanno una centralità di popolazione attiva
fortissima. Il Brasile è un paese di giovani, un paese di generazioni attive; il problema dell’Europa è l’opposto. L’Europa ha un alto tasso di invecchiamento della popolazione.
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Questa è una delle Regioni dove si vive più a lungo in tutta
Europa, ma che non compensa questo dato con una natalità altrettanto elevata in tutte le Province: in Toscana la realtà con un ritmo di natalità più alto è Prato, anche a seguito
di un tasso consistente di immigrazione. Da cosa dipende,
allora, il livello di natalità mediamente molto basso della nostra Regione? Io penso che qui sta la cifra di quello che deve
fare il centro-sinistra.
Venendo poi alla parte della domanda relativa ai nostri militanti, io penso che noi dobbiamo riuscire a fare un partito
che, contrariamente a quello che qualcuno pensava, non
può essere solo comunicazione: la comunicazione, quando
non ha contenuti, non serve a nulla. Serve solo per alimentare aspettative che poi finiscono per essere irrimediabilmente deluse. C’è bisogno, invece, di un partito che sappia porsi e risolvere in modo nuovo anche il problema della
comunicazione. Noi abbiamo tenuto una bellissima Assemblea nazionale nella quale sono stati redatti dieci documenti, che poi abbiamo venduto alla stampa e all’opinione pubblica tutti e dieci insieme. Il giorno successivo, sui
giornali, di tutto questo non c’è stata traccia: in parte forse
per il vizio italiano, ancora molto diffuso, per cui prevalgono
sempre i litigi sulle questioni serie; dall’altra parte, ha giocato a nostro svantaggio anche una gestione poco scaltra
e strategica dei contenuti elaborati, perché a mio avviso, se
alla stampa si consegnano dieci documenti molto articolati
tutti in una sola volta, il rischio è che non rimanga granché.
Io penso, invece, che noi dobbiamo fare lo sforzo di dare
un titolo alla nostra sfida: noi siamo coloro che vogliono
modernizzare questo paese per dare un futuro alle giovani
generazioni: questo è il vero punto di fallimento dell’attuale
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governo di centro-destra. Il messaggio che era implicito nell’ascesa di Berlusconi era che quanto lui era riuscito a fare
per se stesso e per le proprie imprese l’avrebbe fatto anche
per il paese. Oggi, invece, l’Italia, a distanza di diciassette
anni, è più povera e non ha quel tratto di modernità che dovrebbe avere. Noi dobbiamo essere credibili su questo terreno, essere coloro che la modernizzazione la vogliono e la
realizzano per davvero; per conseguire questo obiettivo, a
mio avviso, è necessario abbracciare una questione e farne
la questione fondamentale della nostra azione politica, per
il benessere del paese. Per questo io credo che Enrico Rossi
stia facendo molto bene, perché ha avuto anche il coraggio di scegliere una priorità: su quella priorità noi possiamo, a livello locale, dare un contributo per il rilancio del
centro-sinistra e anche del nostro partito a livello nazionale.
È governando contraddizioni come queste che ci si accredita come classe dirigente, non andando a qualche talk
show e lanciando qualche annuncio che magari dura solo
lo spazio di una campagna comunicativa, senza poi produrre nulla.
R. B.: Credo anche io che il Pacchetto ‘Giovani sì!’ sia stato
uno degli elementi più forti del programma di governo del
Presidente Rossi. L’altra grande sfida che si configura è
quella che Lei richiamava citando i dati dello stato dell’economia anche toscana, con un PIL che cresce sotto la
media nazionale: veniamo da anni di crescita molto bassa,
abbiamo accusato fortemente la crisi, torneremo ai dati del
2007 non prima del 2015. Per alcuni sistemi economici locali il quadro è ancora più drammatico: i dati, ad esempio,
dell’IRPET ci dicono che il sistema economico livornese
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forse tornerà a condizioni decenti intorno al 2025. Un’altra
grande questione posta al centro della politica del governo
regionale è quella delle infrastrutture: un tema sul quale da
mesi si sta discutendo in merito alle varie opzioni e alle diverse scelte che si possono intraprendere. Questa discussione, da una parte, sta mettendo in luce inevitabilmente il
ruolo importante dei sindaci e delle amministrazioni provinciali, attivi in difesa del proprio territorio; dall’altra,
emerge un tentativo a livello regionale, forse sostenuto anche dal partito, di portare a sintesi le varie opinioni e di individuare dei punti comuni. Questa mi pare oggi la grossa
sfida per la Toscana: riuscire a realizzare queste infrastrutture e a trovare dei punti di sintesi. La questione dell’aeroporto, ad esempio, è un tema molto sentito qui a Pisa: parlare di fusione o di holding non è semplice per una città che,
rispetto a Firenze, sull’aeroporto ha investito e si è data delle
strategie più avanzate. In che modo il partito riuscirà a giocare questo ruolo di cerniera, di luogo di discussione e di
confronto propositivo per sostenere la ricerca di posizioni
comuni?
A. M.: Darò una risposta breve. Io penso che la questione
delle infrastrutture rientri nel ragionamento che abbiamo
condotto prima. Lo voglio dire con tutta la convinzione che
mi è possibile: io credo abbia fatto bene Enrico Rossi a mettere la questione della società Pisa-Firenze al centro del dibattito toscano. Penso che per parlare di questo si debba,
però, prima dire alcune cose. Ricordiamoci anche qui della
lavagnetta di Vespa, perché qualche anno fa, in una delle
tante trasmissioni che hanno contribuito a fare la storia del
berlusconismo, fu presentata una lavagnetta, dietro la quale
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questo paese in qualche maniera aveva creduto si profilasse
un paese più moderno. Si trattava di un miraggio, come poi
hanno drammaticamente confermato gli anni successivi.
Ecco, prima degli aeroporti vorrei parlare dell’alta velocità.
Quando fu presentata la lavagnetta, vi era sempre in ballo
la questione dell’alta velocità, che è ancora non si è chiusa
in modo definitivo. Se guardiamo a quello che è successo
negli ultimi vent’anni, abbiamo di fronte agli occhi una
nuova frontiera di diseguaglianza per le nuove generazioni
di questo paese: non si può pensare che, mentre un giovane
europeo in due ore va da Parigi a Londra, in tre ore e mezzo
da Parigi a Berlino e, quando sarà completato il tratto mediterraneo, in poco più di sei ore arriverà a Barcellona, un
giovane italiano sia ancora in attesa di una linea di alta velocità. Queste sono le cose che cambiano la vita delle persone, mentre troppo spesso ci perdiamo a discutere di
questioni vecchie e di scarso impatto. Su questo voglio dire
un’altra cosa, perché tante volte ci sono questioni che in un
attimo ti fanno capire di cosa si sta parlando. Quando fu varato il primo progetto di alta velocità per l’Italia correva
l’anno 1978 e la prima, vera fase della discussione si tenne
negli anni precedenti alla caduta del Muro di Berlino; fra tre
anni sarà ultimata la prima linea di alta velocità che collega
Berlino a Praga, inimmaginabile quando fu pensata la nostra linea di alta velocità perché esisteva ancora il Muro.
Questa è anche la misura di quello che sta accadendo oggi
e di un possibile ritardo. Noi, per esempio, in queste settimane stiamo affrontando a Firenze la questione della Biblioteca Nazionale: è una biblioteca che io ho frequentato
da studente e poi anche da ricercatore e che è sempre, in
larga parte, indicizzata manualmente, quando la Biblioteca
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Mitterand di Parigi, la nuova biblioteca di Berlino e le principali biblioteche del mondo sono tutte consultabili da casa.
In una città che ha la centralità del sapere di Firenze, il fatto
che non ci si possa scaricare da casa i libri della Biblioteca
Nazionale ha un rilievo o no per il futuro delle persone? Da
questo punto di vista io penso che noi dobbiamo avere la
forza di essere coloro che recuperano questo tema e lo declinano per il futuro. All’interno di questo ragionamento
rientra anche la discussione sulla società aeroportuale. La
nostra Regione, accanto a tanti pregi, ha anche qualche difetto. Vedo qui Paolo Fontanelli, con il quale abbiamo discusso molto di questo tema: ricordo anche un suo intervento su questo. Noi, ad esempio, abbiamo una certa
tendenza al campanilismo, che aiuta, col suo tratto identitario, anche sul piano elettorale, ma che poi, nella risoluzione dei problemi, non ne facilita sempre la risoluzione. Io
penso che sia venuto il momento, in questa fase, di confrontarsi con quei processi che hanno una dimensione globale e di fare, su questo terreno, un passo in avanti. Se noi
alla fine riusciamo a realizzare in Toscana una società che
faccia di Pisa l’aeroporto internazionale della Regione e
che al tempo stesso migliori l’aeroporto di Firenze – questa
è l’unica soluzione possibile –, riuscendo così a diventare una
delle prime società italiane, noi avremo compiuto un tratto
positivo lungo la strada del riformismo per questa Regione.
Come giustamente ha detto Rossi, noi dobbiamo stare all’altezza di questa sfida, perché non ci rimetta nessuno ma
ci guadagnino tutti. Io penso che questo significhi governare, che questa sia la via per la credibilità che a mio avviso
dobbiamo intraprendere per tornare al governo del paese
ed essere coerenti con quello che si dice.
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R. B.: Da ex consigliere comunale, Massimo D’Alema, ci
dice qualcosa sulla questione dell’aeroporto?
M. D’A.: Sono d’accordo con Manciulli: il problema è di
evitare la guerra degli aeroporti e credo che il modo migliore
per farlo sia di concepire, in un’unica strategia, l’integrazione
tra un grande aeroporto intercontinentale e un City Airport.
Ai miei tempi si sarebbe detto che l’aeroporto c’era già, anche per via delle aspirazioni fiorentine, e la questione si sarebbe chiusa in questo modo. Certo, l’aeroporto di Firenze
deve essere rinnovato, perché così com’è l’Associazione dei
piloti non lo accetta. L’idea, però, che a Firenze ci sia un City
Airport e a Pisa un aeroporto intercontinentale penso possa
funzionare, soprattutto se inscritta all’interno di una strategia complessiva, e la società unica, da questo punto di vista, è una garanzia in questo senso.
Si tratta, inoltre, di un’idea coraggiosa. Ciò indica quanto,
in una Regione come questa, siano stati fatti tanti passi in
avanti. Tanti anni fa, quando ero un giovane funzionario
della Federazione Comunista di Pisa, venivamo diffidati
dall’attraversare l’Elsa: un gesto che veniva considerato
quasi un tradimento. Ancora è vivo nei miei ricordi un bellissimo documentario sulla rivolta pisana contro il dominio
mediceo: altro che rispetto dei diritti umani! Ci furono momenti in cui la città si ritrovò letteralmente schiacciata dall’occupazione e dell’oppressione fiorentina.
Trascorrono i secoli, eppure i tempi lunghi della storia fanno
sì che in Toscana ci siano fenomeni incancellabili. Sul Monte
Pisano, quello che ci separa dai lucchesi, correva il confine
che separava Pisa ghibellina da Lucca guelfa; dopo centinaia di anni, oltrepassando lo stesso confine si passava dal
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Comune dove il PCI aveva il 60 per cento ai centri in cui
trionfava la Democrazia Cristiana. Parliamo quindi di una
Regione in cui fare la società unica dell’aeroporto Pisa-Firenze costituisce una scelta straordinariamente coraggiosa.
E per intraprenderla ci voleva proprio un uomo di frontiera
come Rossi.
R. B.: Per tornare alle prospettive di questa fase politica, mi
pare che le elezioni anticipate, che soltanto due o tre mesi
fa sembravano molto probabili, in questa primavera si
fanno un’evenienza sempre più remota all’interno di un
patto Bossi-Berlusconi entro il quale stanno sia il federalismo
che la giustizia.
M. D’A.: Vedremo. Ci sarà da combattere.
R. B.: La prospettiva del PD è quindi, come si diceva anche
prima, quella di lavorare all’unione, all’intesa con il Terzo
Polo per questa grande coalizione. Sia Lei sia Bersani parlate di una nuova fase costituente: credo che si debba
avere la forza di fare capire al paese che ci sono 1850 miliardi di debito pubblico, una situazione, cioè, della nostra
economia che richiede davvero una grande stagione di riforme, fatte con forza, capaci di incidere nel profondo, secondo una visione politica di lungo respiro. Senza una strategia di questo tipo il paese non ha ripresa, non ha sviluppo
e, probabilmente, nessuna forza politica o nessuna piccola
coalizione può avere la forza di incidere e di produrre un
cambio simile. È questa l’idea che coltivate?
M. D’A.: Sì, ma è difficile che ci possano essere elezioni po-
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litiche a primavera, perché Berlusconi è riuscito ad arginare
ogni tentativo, soprattutto da parte di Fini, di dare una spallata. Noi abbiamo sostenuto questo sforzo, e qualcuno ci ha
anche rimproverato. A questo punto non so cosa avremmo
dovuto fare. Si tratta di quelle analisi strane secondo cui,
poiché la votazione è andata male a causa di qualche irresponsabile, avremmo sbagliato ad appoggiarla. Non sono
d’accordo. È evidente che non si deve mai sottovalutare la
capacità di resistenza del Presidente del Consiglio, ma è anche vero che la frattura che si è determinata nel centro-destra lo ha indebolito molto nel rapporto con il paese. In questo momento, a mio parere, dobbiamo far decollare la
proposta di un governo costituente per restituire forza al nostro sistema democratico, per dare un fondamento nuovo
a un bipolarismo italiano che non si riduca all’attuale sistema
plebiscitario, per un patto sociale per lo sviluppo e per le
nuove generazioni, per rimettere mano e dare efficienza all’amministrazione pubblica – grande problema irrisolto –, e
per non lasciare che anche il federalismo si traduca soltanto
in un aumento di costi e di burocrazia.
Pertanto abbiamo bisogno di un esecutivo che possa affrontare i grandi problemi del paese. Si tratta di una proposta indirizzata, più che al Terzo Polo, innanzitutto agli italiani, e in questo momento costituisce il programma
fondamentale, quindi un tratto essenziale, dell’identità del
Partito Democratico. Solo dopo esserci rivolti ai cittadini, verranno i Primi, Secondi, i Terzi Poli, tutti quelli che saranno necessari. Se si radica nel paese la convinzione che questo è
ciò di cui abbiamo bisogno, anche il costituirsi degli schieramenti politici diventerà più facile. Il nostro è un progetto
strategico sul futuro dell’Italia, e non dipende né da una di-
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chiarazione di Casini in tal senso, né dal fatto che le elezioni
si spostino di un mese o di un anno. C’è qualcuno che è
convinto che in mancanza di elezioni imminenti si debba
cambiare strategia. Al contrario, penso che se Berlusconi rimanesse alla guida del paese un altro anno, a maggior ragione avremo bisogno di un governo in grado di ricostruire, poiché da qui a un anno potranno esserci solo guai.
È necessaria, inoltre, una fermezza di ispirazione strategica:
un grande partito non può cambiare idea a seconda delle
dichiarazioni del giorno degli esponenti dell’opposizione. Il
Presidente Mao diceva che la strategia e la tattica sono
come le bacchette con cui si mangia il riso: la strategia deve
rimanere ferma, è la tattica a muoversi. Se vogliamo un governo costituente per il futuro dell’Italia dobbiamo dare
forza a questa prospettiva. Perché enunciare una proposta
non basta, occorre motivarla, arricchirla di contenuti, spiegarne gli obiettivi. Secondariamente, se non ci sono le elezioni politiche, c’è la lotta politica. Nei prossimi mesi avremo
le elezioni amministrative per duemila Comuni e credo che
verrà evidenziato il fatto che la maggioranza degli italiani
non sta con Berlusconi. Molto dipenderà dalla scelta dei
candidati e dalle convergenze che si potranno realizzare, ma
le elezioni amministrative in Italia hanno sempre avuto un
valore politico.
Poi ci saranno i referendum, sui quali dobbiamo assolutamente mettere l’accento. Berlusconi spera che i quesiti referendari finiscano in un dimenticatoio e sta facendo di tutto
affinché questo si realizzi: li ha convocati per il mese di giugno nella speranza che gli italiani vadano al mare, secondo
un ricordo che porta male. Per noi, invece, sono un’occasione da non perdere. Il referendum, in particolare, è stato
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promosso da Di Pietro, ed è stata un’iniziativa utile. Il quesito sul legittimo impedimento, c’è poco da fare, è diventato una sorta di referendum su Berlusconi: è l’occasione
grazie alla quale quella maggioranza degli italiani che non
si riconosce in lui, che pensa che si debba fare da parte, potrà esprimersi. In ogni caso dobbiamo impegnare appieno
le nostre forze.
Inoltre, c’è la società, ci sono i movimenti: a chi si chiede da
dove dobbiamo ripartire, risponderei dalla piazza del 13 febbraio, quando le donne italiane si sono riunite. Quello è
stato un momento in cui si sono rotte le barriere di partito
ed è venuta in campo una parte importante della società italiana. E si è mostrata come possibile quella alleanza tra progressisti e moderati. Ora, per evitare che sembri una formula politica, la tradurrò nei termini di quella piazza, dove
hanno parlato, tra le altre, sia una delle esponenti storiche
del femminismo italiano sia una suora che ha tenuto un comizio straordinario, rivolgendosi alle autorità civili e religiose
del paese con un richiamo di grande forza.
Questa è la politica, non una chiacchiera di salotto sul se e
quando ci saranno le elezioni politiche. Ci sono le amministrative, i referendum, la lotta politica, la lotta sociale, i movimenti. In tal modo si prepara una svolta per il paese e anche il Partito Democratico sta lavorando in questa direzione.
Non è soltanto la discussione sulle alleanze o, peggio ancora, il nostro solito dibattito interno sulla leadership, su chi
sarà il candidato di elezioni che non sono state neppure convocate. Quello è un modo di farsi del male, ma a questo
punto abbiamo ben altre più urgenti scadenze.
Infatti, è nelle prossime settimane che verrà definito il rapporto di forza del paese e noi non dobbiamo farci spaven-
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tare. Vogliono fare la riforma costituzionale della giustizia:
non è aria, e lo dico rivolgendomi al governo, dato che tali
riforme non passano senza una maggioranza qualificata.
Berlusconi vuole promuovere anche un referendum popolare contro i giudici, ma segnalo che nel referendum costituzionale non è richiesto neppure il quorum. In questa
prospettiva, spero davvero che Berlusconi intraprenda questa strada, ma dubito seriamente che lo farà, dal momento
che è un uomo capace di fiutare l’aria.
Non solo, quindi, dobbiamo avere coscienza della nostra
forza, ma anche del fatto che si è aperta una lotta politica,
il cui esito, a mio giudizio, sarà quello di una svolta di governo in Italia. Si tratta di un cammino che deve essere preparato, per evitare che il prossimo governo si perda in discussioni.
Ad esempio, ricordo che nella mia più recente esperienza di
governo, alla Farnesina, mi recavo spesso all’estero. La nostra è stata una politica estera che ha raggiunto alcuni risultati importanti, dal Libano alla Risoluzione delle Nazioni
Unite contro la pena di morte: era, insomma, un’Italia che
si presentava in un modo migliore rispetto a quella che abbiamo conosciuto più recentemente. Ciononostante, ogni
volta che rientravo in Italia, ero travolto da discussioni pazzesche all’interno della maggioranza di governo. Dovevo discutere con persone strampalate che mi chiedevano cose
assurde. C’era addirittura chi organizzava i cortei contro il
governo di cui faceva parte. Tutto questo mentre credo di
aver portato avanti una politica estera tra le più di sinistra
che si potessero fare nel mondo, essendo al potere, dall’altra parte dell’oceano, l’amministrazione Bush.
Ecco, non dimentichiamoci mai che il Partito Democratico
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Le parole e le cose dei democratici
è nato anche per voltare pagina rispetto a queste esperienze. Vorrei sottolinearlo, perché la forza del nostro partito è anche una delle condizioni perché vi sia un governo
credibile del paese. Non è sufficiente battere Berlusconi, lo
abbiamo già fatto in passato. Il vero problema è vincere la
sfida del governo: una sfida, ve lo assicuro, certamente più
difficile.
R. B.: Lei citava il tema della giustizia, che sarà centrale nei
prossimi mesi da vari punti di vista: da una parte la riforma
epocale; dall’altra il nostro Premier che dovrebbe sfilare in
tutti i processi.
M. D’A.: Il processo del lunedì.
R. B.: Ogni volta avremo le dichiarazioni spontanee del Premier, che si trasformeranno in attacchi ai magistrati. Vorrei
chiederLe se ritiene che sarà importante, in questo senso,
il segnale che il PD darà sul caso del Senatore Tedesco – vostro esponente – e il modo in cui si pronuncerà in merito alla
richiesta di arresto.
M. D’A.: Già la sua domanda costituisce una spia inquietante. La giunta per le autorizzazioni del Senato della Repubblica, che sta leggendo le carte, è chiamata a giudicare
se ci sono le ragioni per arrestare una persona. Il fatto che
in una materia come questa si pensi di dare un segnale politico lo considero aberrante, mi perdonerà per l’uso forte
dell’aggettivo. Non credo che noi possiamo vincere la sfida
con Berlusconi regalandogli quel poco di giusto che c’è nella
sua posizione, ossia il garantismo: sulla libertà delle persone
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non si danno segnali politici, ma si valuta se ci sono gli
estremi giuridici.
In definitiva, quando si parla della reclusione, credo che a
giudicare debbano essere esclusivamente i giudici e gli avvocati, non la politica.
R. B.: Abbiamo affrontato molte questioni nel corso di
questa nostra discussione. D’Alema ha richiamato più volte
l’attenzione anche sull’attuale democrazia plebiscitaria: in
Toscana uno degli impegni è quello di riformare il sistema
elettorale ritornando alle preferenze o, comunque, a uno
strumento che riporti il Consigliere in rapporto diretto con
gli elettori. È chiaro che la scadenza è lontana, ma anche qui
è importante riuscire a costruire presto una consapevolezza
nel paese, non solo per dimostrare che questo è uno dei
punti chiave del vostro programma ma soprattutto per ricostruire un rapporto più stretto tra la politica e i cittadini.
A. M.: Io credo che questo tema vada affrontato seriamente. Noi abbiamo una legge elettorale che da questo
punto di vista è stata da più parti assimilata alla legge nazionale, una legge che senza dubbio in questa fase mostra
tutti i propri limiti: se non ci fosse un Parlamento di nominati direttamente dal Capo, forse ci sarebbe anche più libertà nel prendere certe decisioni. Tuttavia, la nostra legge
non è proprio uguale: lo posso dire perché sono uno di
quelli che ha contribuito a farla e ne porto la responsabilità,
dal momento che in politica è importante metterci sempre
la faccia. Con quella legge avevamo tolto le preferenze ma
avevamo anche fatto una legge istituzionale per tenere le
primarie. Su questo permettetemi una battuta: mi fa ridere
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qualche dirigente nazionale del mio partito che ora stigmatizza la Toscana per quella legge e che poi nei corridoi si
appresta, nell’imminenza di elezioni politiche, a chiedere di
non fare le primarie per i parlamentari. Il ragionamento non
torna. Noi abbiamo fatto le primarie due volte e con una
legge istituzionale. Tuttavia, dato che questo mestiere implica l’assumersi delle responsabilità, non si può non riconoscerci il merito di avere fatto per ben due volte le primarie
praticamente da soli, portando cioè la democrazia in casa
nostra: la Toscana è una terra di tre milioni e quattrocentomila abitanti e alle primarie per i Consiglieri regionali alle
ultime elezioni hanno votato centottantamila persone. Ma
le primarie non dovremmo farle noi soltanto. Per questo
motivo io ritengo serio quello che Enrico Rossi ha in testa:
noi dobbiamo intraprendere un percorso che ci porti a
dare ai cittadini, nella forma più ampia possibile, la possibilità di scegliersi i rappresentanti tutti, non soltanto quelli del
PD. Quello che mi fa rabbia e mi indispone è che, in questo dibattito, chi ha praticato una certa forma democratica
alla fine sia equiparato a chi ha compiuto scelte anche
molto discutibili. Da questo punto di vista io credo che la discussione non possa che ripartire da un doppio binario.
Quando decidemmo di togliere le preferenze (Marco Filippeschi è qui e io condivisi con lui quella scelta), lo facemmo
perché già erano emerse alcune di quelle storture che poi
si sono profilate in modo più netto anche con le primarie.
A mio avviso l’optimum sarebbe pensare a collegi uninominali, un’opzione che permette di avere un legame sul territorio, di fare le primarie in una maniera certa e, allo stesso
tempo, di non avere meccanismi distorsivi. In subordine c’è
anche il tema della introduzione delle preferenze, su cui,
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però, va intrapresa una discussione seria, lontana dall’onda
emotiva sulla scia della quale troppo spesso ci capita di ragionare. Credo sinceramente che il bisogno di avere leggi
regionali che dialoghino con la forma di governo e con le
leggi nazionali sarà un tema all’ordine del giorno molto presto: un paese in cui sono contemplate moltissime forme di
elezione, spesso diverse, di poteri diversi, alla fine crea anche qualche distorsione di governabilità. Su questo io penso
ci debba essere un impegno nazionale da parte del PD e
una serie di iniziative strutturate: proprio questa settimana,
ad esempio, si terrà a Roma l’assemblea degli amministratori del nostro partito. Noi però – questa è la garanzia che
mi sento di dare – ci dedicheremo seriamente a questo
aspetto e non ci presteremo a iniziative-bandiera che hanno
soltanto la caratteristica di provare ad accarezzare il pelo a
quell’antipolitica strisciante che oggi pensa che tutto sia da
buttare via (penso a iniziative di alcuni nostri alleati). A me
quel modo di affrontare le questioni non piace affatto. A me
fa piacere venire qui, come sono andato sabato all’iniziativa
sui temi del lavoro fatta a Firenze, e incontrare i ragazzi perché credo che il rinnovamento passi anche dal coraggio di
affrontare con responsabilità temi scomodi. Restituire legittimità alla politica, ai partiti, alle istituzioni, anche se scomodo, è un tema vero per l’identità e per la forza di questo paese col quale noi dobbiamo misurarci. Non è cedendo
all’antipolitica e all’idea che tutto sia indifferentemente da
buttare che si rimette in piedi un paese: su questo bisogna
avere la forza e il coraggio anche di andare ad affrontare discussioni impopolari ma che servono per la dignità dell’Italia. La prossima settimana celebreremo i centocinquant’anni di un paese giovane: questo paese, se è una
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democrazia e una nazione, lo è anche grazie alle sue istituzioni e a chi si è battuto per quelle. C’è bisogno che questa nuova bandiera venga presa da chi la politica la vuole
difendere. La politica ha fatto sì che io, figliolo di un lavoratore delle acciaierie e di una mamma casalinga, possa aver
fatto quello che faccio.
R. B.: Chiuderei con una domanda a D’Alema. Il centrosinistra spera ovviamente di battere elettoralmente Berlusconi
quanto prima, ma di certo il berlusconismo come modello
di valori, di relazioni sociali, di senso dell’essere, è penetrato
nel profondo della nostra società. Secondo Lei sarà molto
più faticoso liberarsi di questo modello che del governo Berlusconi?
M. D’A.: Venendo in treno da Roma, ho letto un bellissimo
saggio di Franco Cassano, L’umiltà del male. È un libro di filosofia molto interessante sul perché i migliori, o presunti
tali, spesso non riescono a vincere: la forza del male consiste nel saper cogliere la fragilità dell’essere umano. In realtà,
però, è un libro sul berlusconismo, per quanto questo non
venga mai nominato e si prediliga una riflessione di tipo letterario, con bellissime considerazioni sulla leggenda di Dostoevskij sul Grande Inquisitore raccontata dai fratelli Karamazov.
Parto da qui perché un difetto nella sinistra italiana, un difetto di tipo elitario, è consistito spesso nell’avere un atteggiamento di sprezzante incomprensione della capacità
che indubbiamente Berlusconi ha avuto nel formare il senso
comune di una parte così grande del nostro paese. Cosa
sulla quale ha cominciato a lavorare già molto prima di en-
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trare in politica. Una penetrazione di senso che è dipesa, secondo me, anche dal modo in cui una parte della sinistra ha
pensato a lungo che fossimo la parte buona di un paese cattivo, arrivando persino ad affermare che la vittoria di Berlusconi fosse imputabile ai nostri dirigenti, colpevoli di non
essere stati abbastanza pugnaci.
Si tratta, come sempre, di una risposta semplice a problemi
complicati. Berlusconi, a mio avviso, ha avuto quella straordinaria capacità di far credere agli italiani che, se si fossero affidati a un grande imprenditore come lui, sarebbero
stati aiutati nel fare fortuna, ma per questo occorreva togliere di mezzo la politica e i partiti. E il clima gli era favorevole, dato che anche grandi giornali di sinistra sostenevano che bisognasse fare a meno delle organizzazioni
partitiche.
In tale miraggio, inoltre, ha avuto un peso il diffondersi di
una visione individualistica, il cosiddetto ‘edonismo reaganiano’ dell’Italia degli anni Ottanta, di quel craxismo di cui
egli fu uno dei grandi ideologi e sostenitori. Quel fenomeno
culturale, che ha avuto una grande influenza nella storia italiana, poté dilagare anche perché la sinistra si rivelò alquanto
anti-moderna: su questo terreno si coglie il fascino, ma anche la ragione della sconfitta, della parola d’ordine berlingueriana ‘austerità’. La sinistra, in fondo, non fu capace di
raccogliere quel bisogno di emancipazione individuale, di affermazione di sé, che il berlusconismo ha saputo interpretare nelle forme anche distorte che poi abbiamo conosciuto.
In quegli anni, ripeto, gli italiani pensarono che uno che era
stato così bravo a fare soldi per sé avrebbe aiutato tutti, ma
lui, invece, ha continuato a seguire esclusivamente i propri
interessi. È una forma di professionalità che non cambia. In
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proposito, vorrei citarvi quella meravigliosa pagina in cui
Max Weber spiega la differenza tra l’etica dell’uomo di
Stato e l’etica dell’imprenditore: il primo persegue l’interesse
di tutti, mentre il secondo ricerca il proprio vantaggio personale e nel farlo realizza la sua missione sociale. Ora,
credo che, in qualche modo, questa stagione abbia insegnato a molti italiani che l’illusione del traslare l’etica dell’imprenditore ai vertici istituzionali dello Stato alla fine non
ha prodotto ciò che prometteva.
Dunque, una nuova stagione ha bisogno anche di una
nuova cultura: una cultura del bene comune, del rispetto
delle regole. Come disse, con un’espressione infelice, Tommaso Padoa-Schioppa: ‘pagare le tasse è bello’. Certo, è difficile convincere gli italiani di questo, ma una nuova cultura
politica deve saper convincere del fatto che solo una cultura
della legalità e del perseguimento del bene comune può essere la risposta al berlusconismo. Si tratta della base necessaria per una rinascita del paese, che può avvenire soltanto
laddove vi sia un ritrovarsi degli italiani in un futuro comune.
Questa cultura del bene comune, inoltre, dovrebbe alimentarsi dell’apporto di diverse radici. Poco tempo fa, in un
confronto con Monsignor Fisichella, ho articolato un ragionamento che ha destato un certo scandalo: in modo volutamente provocatorio, da laico quale sono, ho affermato
di non lamentarmi per un eccesso di intromissione della
Chiesa nella vita pubblica, quanto piuttosto per la sua non
sufficiente presenza in un momento in cui il paese ne
avrebbe fortemente bisogno. Intendo dire che oggi la voce
della Chiesa potrebbe aiutare moltissimo a rilanciare quelle
esigenze di coesione morale del paese e di rispetto dei valori fondamentali.
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Le parole e le cose dei democratici
Infatti, credo che per uscire da questa stagione dobbiamo
anche ritrovare le radici di un’etica condivisa, fondata sui valori della solidarietà e del rispetto delle regole, riscoprire che
ciò è vantaggioso per tutti, perché l’individualismo estremo,
l’idea che ognuno possa fare come gli pare, che non è libertà ma arbitrio, è una delle ragioni che hanno portato al
declino dell’Italia.
Ci sono molte voci che parlano di una Italia diversa. C’è, ad
esempio, un mondo della cultura che ha preso coscienza e
che comunica anche attraverso i grandi media. Qualche
giorno fa, ironizzando su di noi, qualcuno ha detto che la
sinistra riparte dai tre Roberto. Ora, non credo che questo
sia esattamente il punto di partenza, ma il fatto che uno
scrittore di grande successo come Roberto Saviano, un
cantante finalmente riconosciuto nel suo meritato successo
come Roberto Vecchioni e un grande artista come Roberto
Benigni ci parlino di solidarietà, di amore tra le persone, di
rispetto della legalità, è sicuramente un messaggio positivo.
Così com’è motivo di speranza il fatto che milioni di italiani
raccolgano questo messaggio.
Anche da queste basi dobbiamo ripartire per inaugurare una
nuova stagione che non sarà soltanto una formula politica.
Perché forse il principale problema del paese consiste nel
dover riaffermare le basi etiche e culturali sulle quali fare ripartire una nuova Italia.
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Postfazione
Matteo Trapani
Segretario provinciale GD Pisa
Hanno attaccato quanto di meglio esiste in una democrazia: i giovani impegnati in politica.
Jens Stoltenberg
Abbiamo deciso di dedicare questo volume ai giovani laburisti morti per le proprie idee a Utoya, in Svezia, il 22
luglio 2011. Infatti, rileggere gli atti di questo Seminario alla luce di quella terribile strage, ci fa pensare ancor
di più che la vera paura di chi è invasato da un fanatismo incomprensibile è rappresentata dai giovani che
preferiscono alla violenza e alla forza degli atti la potenza e l’incisività delle parole e delle idee.
La costruzione di questo Seminario partiva proprio da
questo obiettivo: vivere una tre giorni fatta dai giovani,
per i giovani che permettesse di costruire una alternativa a tutti coloro che decidono di fare delle contraddizioni tra ideali e realtà una questione personale. Un Seminario dove protagonisti fossero gli iscritti e i giovani
militanti. Un Seminario dove chi avesse voluto respirare
un’aria nuova fosse libero di parteciparvi e di mettere il
proprio granello di sabbia. I vari panel erano così pensati per ripercorrere criticamente le battaglie del centrosinistra cercando di rinnovare nei metodi e nelle sostanza
la militanza di tutti. Per questo motivo abbiamo deciso
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Le parole e le cose dei democratici
di invitare docenti universitari, tecnici dei vari settori, politici e giornalisti. Volevamo tutti sentirci giovani non grazie all’anagrafe ma grazie alla forza delle idee che può
rendere ogni cittadino consapevole e impegnato.
A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia non accettiamo
che si dica che si vive in una società senza valori. La storia d’Italia ci ha insegnato che si possono conseguire numerose conquiste politiche, sociali e culturali mettendo
sempre alla base di tutto la tutela della dignità umana
e la conquista del futuro. Abbiamo cercato con questo
Seminario di non fare la parte dei procacciatori d’identità materiali ma di ripercorrere e riaffermare quell’identità procedurale che è insita nella democrazia e
nella nostra Costituzione. Abbiamo cercato di trovare
identità che ci rendano riconoscibili gli uni verso gli altri e non gli uni contro gli altri. Queste sono Le parole
e le cose dei democratici. Queste sono le parole e le cose
dei nostri coetanei di Utoya.
Di battaglie ne abbiamo vinte e ne abbiamo perse. Sicuramente tutte le abbiamo combattute. Esse hanno
rappresentato importanti banchi di prova per la nostra
classe politica e per le nostre istituzioni. Gli esiti sono
stati differenti ogni volta e molti di quegli errori che sono
stati fatti potevano sicuramente essere previsti tra le righe di questo libro e molte vittorie si assaporavano già
qui a Pisa. Questo è tuttavia un punto di partenza. Un
florilegio di idee che non ha certo l’ambizione di fungere
da mentore per le future azioni del Partito Democratico
e dei suoi iscritti ma che mira a dare una idea di Italia,
condivisibile o no, pur sempre una idea.
Ripartiamo da qui, dalle idee. Le idee che hanno carat-
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Le parole e le cose dei democratici
terizzato questa tre giorni. Le stesse idee che caratterizzano ogni anno i momenti formativi dei Giovani Democratici e del Partito. Le stesse idee che hanno accompagnato per tutta la vita gli amici di Utoya e che un
folle gesto aveva la presunzione di cancellare. Viviamo
in Italia dove vi sono stati molti uomini e donne che
hanno deciso di camminare con le proprie idee arrivando
fino a farsi uccidere prima di piegarsi alla violenza ed alla
corruzione. Il nostro impegno è quello di far sì che dove
vi saranno più persone riunite per cambiare questo
paese venga sempre riconosciuto come luogo di vita e
di speranza di una generazione che non vuole dire:
“Basta! Me ne vado!”.
La penna finisce di passare l’inchiostro sulla carta ingiallita. Il passato lascia il passo al futuro e restarne
fuori significherebbe non vivere.
Viva l’Italia, Viva il Federalismo Europeo, viva chi lotta
per le proprie idee.
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