TranseuropA EDIZIONI Andrea Tarabbia la calligrafia come arte della guerra Transeur opA narratori delle riserve Collana diretta da Giulio Milani Nella stessa collana: Aa. Vv., I persecutori, (a cura di G. Milani e M. Rovelli) Fabio Genovesi, Versilia rock city (iii ed.) Giuseppe Catozzella, Espianti (ii ed.) Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza (ii ed.) Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione Aa. Vv., Over-Age, (a cura di Giulio Milani) Franz Krauspenhaar, L’inquieto vivere segreto Stefano Amato, Le sirene di Rotterdam Riccardo De Gennaro, La Comune 1871 ringraziamenti Prima di vedere la luce, le versioni di questo libro che sono andato via via approntando sono state oggetto di letture e discussioni da parte di alcune persone. In particolare, vorrei ringraziare chi ha contribuito con consigli, critiche o semplici opinioni a renderlo quello che è: Giulio Milani, Giulio Mozzi e Marco Rovelli; Antonio Moresco e Tiziano Scarpa: insieme a loro mi piace ricordare tutti gli amici della redazione de «Il primo amore»; Giorgio Fontana, che ha condiviso questo e altri percorsi fin dall’inizio; infine Laura, la mia prima editor. Questo esordio è per lei. Saronno, marzo 2010 © 10 pier vittorio e associati, transeuropa, massa www.transeuropaedizioni.it isbn 9788875800802 copertina: idea, progetto grafico e lettering di floriane pouillot PARTE PRIMA San Lorenzo «Piove a dirotto da sempre.» Paolo Volponi «Quanto al Giorno del Giudizio, disse l’estraneo, ogni giorno è il Giorno del Giudizio.» Flannery O’Connor i Adesso parlo io. Mi sono affacciato al pertugio che collega il mio nido a questa parte di cosmo e mi sono fermato a guardare. Se mi stringo nelle spalle, riesco a infilare le braccia nel passaggio e ad appoggiare i gomiti su quel pezzo di davanzale che mi viene concesso prima che questa pietra cada nel vuoto e si fracassi sulla superficie sassosa del cortile interno dell’edificio. Mi sono acceso una sigaretta e ho cominciato a fumarla con le spalle che mi battevano sulle orecchie, tutto costretto come sono anche dalla presenza dello stipite di legno nero che ferma l’infisso. Non si potrebbe fumare all’interno dei nidi, ma io sfrutto l’accondiscendenza che anche qui, luogo di ascesi e di guerra, viene concessa al corpo docente. La signora delle pulizie che tutte le mattine mi rifà il letto e scopa per terra deve sentire l’odore di fumo, perché mi guarda con sospetto nei corridoi. Tuttavia non mi dice mai nulla che non sia buongiorno o buonasera, e io mi sento autorizzato a fare finta di niente. Ci sono stelle per ogni dove, anche qui. La mia finestra dà sulle colline, ed è una fortuna, perché le colline sono buie, non si illuminano di quell’aureola di luce elettrica che copre la forma della città e che si vede dalla finestra dei bagni comuni. Tutte le sere, prima di coricarmi, mi piace rimanere un po’ a guardare in alto, nel buio, la calligrafia come arte della guerra con il mio cannocchiale. Mi hanno detto che si vedono spesso le stelle cadenti, ma io non sono ancora riuscito a scovarne una. Le guardo con calma, senza l’ansia comune di trovarle: la sessione estiva è appena cominciata e avrò tutto il tempo di stufarmene. Ma alle volte, dalle feritoie degli altri nidi, sento venire delle voci. Sono esclamazioni femminili, di ragazze che hanno visto da qualche parte un corpo celeste crollare e attraversare tutto il firmamento steso davanti a loro. Tra pochi giorni potrò riconoscere quelle voci, individuare il nido e la persona da cui provengono. La mattina in classe, ogni tanto, sento qualcuna delle ragazze che bisbiglia con la compagna di banco. «Ieri notte ho visto cadere tre desideri» ha detto Hina a una compagna pochi giorni fa, mentre suonava la campanella della ricreazione. Mi piace pensare che tutto l’Istituto, quando fa buio, si affacci sullo stesso lato dell’edificio, e tuffi il naso nella catastrofe molecolare del cielo che si prepara a cadere. Tutta una serie di esseri umani con le spalle incassate nei loro pertugi a guardare le stelle. ii Hina ha quasi quindici anni, è un’età limite. All’Istituto accettano solo ragazze di età compresa tra i sei e i quindici. Anche lei, come me, è arrivata da poco, e solo da pochi giorni ha preso posto nel proprio nido e ha conosciuto le compagne di corso. Sembra una ragazza mite, chiusa nel sipario di capelli neri e nelle canottiere che le imbalsamano il busto quasi piatto. Non mi è chiaro come mai il preside Herbat l’abbia presa con sé: di solito la durata minima di un corso è due anni, e in qualsiasi caso Hina non lo potrà completare perché il compimento del sedicesimo anno di età, secondo il regolamento interno, è anche il giorno in cui le ragazze sono obbligate a congedarsi dalle compagne, dai professori e dai nidi. L’Istituto le caccia perché i sedici anni sono l’età in cui una donna è in grado di pensare a se stessa e di metter su famiglia. Hina ha perso entrambi i genitori nell’attentato di H. di circa quattro mesi fa. Erano nell’autobus che è saltato in aria al crocevia tra la H4 e la superstrada. Ci sono stati trentasette morti e un pugno andrea tarabbia di superstiti. Lei era dentro questo pugno e ha saputo mantenere uno sguardo dolce, gli occhi neri e larghi, cerchiati di nero come le meridionali. Non ha rabbia, o io non la vedo. Non capisco perché sia qui. Ogni tanto qualcuna delle sue compagne scoppia improvvisamente a piangere durante la lezione di calligrafia, si asciuga le lacrime con le stoffe, ma sono lacrime di rabbia, quasi mai di dolore. È un pianto che si cura con i calmanti e non con gli abbracci. Hina ha due occhi fatti per essere pieni di lacrime, e invece non piange mai, o non l’ha ancora fatto. Non ha nemmeno ancora riso, se è per questo. Io e Hina siamo entrati qui dentro lo stesso giorno, per motivi diversi. Io non mi dilungherò a chiarire i miei, che possono anche rimanere riservati fino al momento della fine. Le nostre strade – la mia e quella di questa ragazzina forte – hanno cominciato a incrociarsi in uno svincolo autostradale e forse non smetteranno mai di ritrovarsi. Ma tutto questo dopo, dopo: non scrivo le presenti note per confessarmi, e comunque voglio dire da subito che non è né l’odio, né la rabbia, né il dolore per la perdita enorme che ho avuto che mi hanno spinto a fare domanda per l’Istituto. Come si dice, fatti miei. Anche il preside Herbat non ha insistito granché il giorno della mia assunzione. Si è acceso la pipa in quel suo modo goffo e disperato e ha guardato fuori dalla finestra per qualche istante (la finestra del suo studio è la più ampia di tutto l’Istituto). «Lei sa» ha detto, «che le motivazioni sono una componente fondamentale per poter lavorare qui dentro. Lei vuole tenere le sue per sé, ed è una scelta che umanamente rispetto, visto anche il curriculum che ha presentato…» qui ha ammiccato con le sopracciglia, o così mi è parso. «Tuttavia non è la prassi» ha ripreso, «e normalmente noi non transigiamo sul regolamento. Sappiamo ciò che le è accaduto, Magister, e comprendiamo il suo desiderio di riservatezza.» Si è fermato per scrutarmi da dietro la nuvola di fumo. Si è portato il moncherino della mano destra al viso e si è carezzato la guancia, o se l’è grattata. Ho chiesto se potevo fumare anch’io e lui ha appoggiato la pipa sul tavolo e mi ha allungato la scatola di fiammiferi con la mano buona. Siamo rimasti in silenzio per un po’, senza imbarazzi. la calligrafia come arte della guerra «Lei conosce bene le ragioni dell’esistenza e il funzionamento dell’Istituto» ha detto poi. «Questo non è un orfanotrofio, un rifugio per orfanelle. Sapere ogni cosa delle persone che vi entrano e vi escono è anche una questione di sicurezza, oltre che un valido principio per il vivere comune. Io conosco singolarmente tutte le nostre allieve, tutti i loro pregi e i loro difetti e, soprattutto, la loro storia personale. Con i professori, i bidelli, le cuoche, è lo stesso. C’è la guerra. Tuttavia faremo un’eccezione con lei, tenuto conto della situazione in cui ci troviamo, con l’improvvisa defezione di Magister Hugo. Noi abbiamo bisogno che ci venga restituita la voce…» Ha detto quest’ultima frase e si è alzato dalla sedia diretto alla porta, come per accompagnarmi. Ci siamo stretti la mano sinistra. iii La distribuzione delle allieve nei corsi non avviene secondo un criterio anagrafico. Avviene per capacità grafiche. Il primo giorno di scuola viene distribuito un test che tutte le allieve (anche le veterane) devono sostenere per l’assegnazione delle aule. I corsi si articolano sostanzialmente su tre livelli, e solo dopo aver raggiunto l’ultimo e superato un esame finale si può prendere il diploma. Capita a volte che alcune delle veterane, per diverse ragioni tra cui anche una certa superficialità e sufficienza, non superino il test d’ingresso e vengano implacabilmente declassate di uno o due anni. Le classi sono molto disomogenee e le adolescenti si trovano spesso a condividere il banco con bambine di sei anni. Durante le prime ore del giorno d’ingresso, il preside Herbat fa il giro delle classi per ridistribuire i nidi. Il criterio per l’assegnazione è rigido: le coetanee non possono condividere la stessa stanza. Le quindicenni sono quasi certe di dover fare da chioccia per tutto l’anno accademico alle bimbe di sei. Nessuna delle ragazze si è mai lamentata per questo, e comunque l’Istituto non sembra il luogo dove si possono stringere amicizie durature. Il preside Herbat è entrato nella mia classe all’improvviso, sul finire della prima ora. Tutte le ragazze si sono alzate in piedi di scatto e hanno fatto partire un «Buongiooorno!» squillante, che deve andrea tarabbia aver messo in preallarme la classe di fianco. Il preside Herbat mi ha stretto la mano e ha cominciato uno di quei discorsi da preside sull’impegno e la dedizione allo studio. Ha citato perfino i sette anni di Leopardi, e ha promesso una settimana di vacanza tutti insieme tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Poi si è fatto serio, quasi grave: «Bene» ha detto, «ci sono tra di voi alcune allieve nuove che devono ancora ambientarsi e imparare le nostre abitudini e le nostre usanze… C’è qualcuna che vuole dare il buon esempio e inaugurare con il suo discorso?» Si è alzata una ragazzetta di dodici anni, del sud. Ha fatto un mezzo inchino, prima al preside e a me e poi rivolta alla classe, e si è messa a declamare ad alta voce: «Mi chiamo Hyena Hyena, sono di Hu. Ho dodici anni e sono arrivata all’Istituto da circa un anno e mezzo. Ho deciso di presentare domanda alcuni mesi dopo la morte dei miei genitori, sgozzati nel sonno in quella che era la nostra casa da un commando di cinque uomini appartenenti alla falange armata di L. Sono qui per imparare l’arte del messaggio, della disciplina e dell’amor patrio.» Ha ripetuto tutto questo con una freddezza e un odio sconvolgenti. La tragedia non sembrava più sua, ma di tutto un popolo, e pareva che lei vi partecipasse come si partecipa a un lutto nazionale che ispira una vendetta senza eguali. Hyena si è seduta mentre il preside Herbat la guardava compiaciuto. Per oltre mezz’ora, una a una, tutte le ragazze si sono alzate dal posto, ci hanno riveriti e raccontato la loro storia. Hanno tutte ripetuto la formula che sta scritta anche sull’arco d’ingresso del cortile della ricreazione: Siamo qui per imparare l’arte del messaggio, della disciplina e dell’amor patrio. Sono tutte storie simili a quelle di Hyena, in definitiva anche quella di Hina. Quando è toccato a lei è arrossita e ha cominciato a guardare basso, mentre io rovesciavo la testa all’indietro stringendo gli occhi e la ascoltavo. È stata tra le ultime a raccontare, perché è stata l’ultima ad arrivare. Ed è per questo che non me ne libero. iv Esco a volte a fare un po’ di spesa. (L’Istituto ci assicura i pasti principali ma non i vizi). Compro le sigarette, bustine di tè e di vari la calligrafia come arte della guerra tipi di tisane (che non mi piacciono mai, ma di cui sento la mancanza se la sera non ne trovo), biscotti, succhi di frutta, fazzoletti di carta e qualche libro, più che altro romanzi e opere classiche; raramente metto in borsa cose di linguistica o che c’entrino col mio lavoro. Evito la saggistica, soprattutto quella storica, e non vado mai nel settore Attualità delle librerie. Sono molto conservatore in campo musicale: compro un cd una volta l’anno, e solo se lo conosco o ne ho sentito parlare da qualcuno di cui mi fido ciecamente. Allo stesso modo per quanto riguarda il cinema: escono molti film che vorrei vedere e mi dimentico di vederli quasi tutti. Non ho mai letto fumetti, e comunque non ci è permesso di portare all’interno delle mura dell’Istituto qualsiasi tipo di rivista o di quotidiano perché «potrebbe essere consultato dalle allieve». Le allieve devono conoscere, di quanto accade fuori, la versione ufficiale fornita dai dispacci radiofonici che la segreteria, a richiesta, filodiffonde nei nidi la sera prima di dormire: si tratta di brevi notiziari ripetuti per un’ora tra le otto e le nove. Sono notiziari epurati di due tipi di notizie: quelle che, in qualche modo, potrebbero essere ricondotte dalle ascoltatrici alle loro vicende personali, e le vicende di gossip e di spettacolo, «che distraggono oltremodo l’attenzione dallo studio e dal lavoro». La prima categoria di notizie censurate è evidentemente costituita dalle novità sulle questioni di politica internazionale. Circa dieci giorni prima che la mia domanda per entrare nell’Istituto fosse accolta, accadde un avvenimento per noi fondamentale, di cui a tutt’oggi non si è fatta menzione, sorprendentemente, nemmeno nell’uovo della sala professori: l’attentato alla stazione. Un’autobomba è esplosa all’improvviso, una mattina, in corrispondenza del parcheggio degli autobus di fronte alla biglietteria. Ci sono stati tredici morti – uno in più dei mesi dell’anno, ho pensato stupidamente io appena mi è giunta la notizia – e l’esplosione ha spalancato una voragine del diametro di una decina di metri proprio sotto l’auto saltata per aria. Dentro la voragine, dicono, sono caduti i corpi straziati di cinque persone e i resti di una cabina del telefono, mentre un albero si è incurvato e penzola tuttora gettando la sua ombra primitiva nel vuoto che tutto ha inghiottito. Terrorizzato, Magister Hugo, il professore che prima di me reg- andrea tarabbia geva la cattedra di calligrafia, ha rassegnato le dimissioni, pregando il preside Herbat di accettarle per direttissima e rifugiandosi da qualche parte all’interno dello Stato. Pare che Hugo fosse nei pressi al momento della detonazione, e abbia visto tutto con i propri occhi. Non ho ancora sentito un collega o un’allieva menzionare il suo nome, nemmeno di sfuggita. Quando sono entrato per la prima volta in sala professori, la sua targhetta era già scomparsa dalla fila di armadietti dove teniamo i libri di testo, e il suo ruolo di rappresentante dei professori era già stato preso da Horson. Nessuno può dunque far finta che l’attentato non ci sia stato, e che gli eventi internazionali non abbiano assunto un’accelerazione inedita, eppure nessuno, dentro, ne parla. Sono entrato nella libreria del signor Hermes. Lui ormai mi riconosce e mi saluta con riverenza. Siccome, poi, càpito da lui almeno una volta la settimana, ha preso la buona abitudine di farmi lo sconto del 10% se compero più di tre libri. Ho girato per gli scaffali senza guardare niente di preciso per una decina di minuti. Hermes stava impilando un buon numero di cartoni addossandoli contro una parete. Lo sentivo sbuffare e digrignare i denti per lo sforzo ogni volta che si abbassava per raccogliere un cartone da terra. «Novità?» ho detto, ammiccando ai cartoni. «No» mi ha risposto. «Questa settimana nessuna novità di rilievo. Qualche libretto, se vuole glielo faccio vedere, ma tutte pubblicazioni secondarie. Le grandi case hanno chiuso le rotative.» «Cosa?» Hermes si è sollevato e si è appoggiato alla prima pila di cartoni. «Settimana interlocutoria. Succede.» Si è deterso la fronte con il polsino della camicia e ha spinto la pila di cartoni più in fondo possibile. «Ha bisogno di una mano?» «No, grazie. Ci mancherebbe. Dovevo solo addossarli qui e il più ormai è fatto. Pomeriggio passa mio figlio e mi aiuta a portarli di sotto. Oh, dimenticavo: il suo libro tarderà un po’ ad arrivare.» «Non importa, posso aspettare.» La manica di un maglione sbucava, schiacciata, dall’interstizio la calligrafia come arte della guerra fra due cartoni, e penzolava coprendo parzialmente il logo di un editore. «Lei ha un magazzino, di sotto?» ho chiesto. Hermes si è fermato di nuovo e mi ha guardato. Ho visto che gli è passata per la mente una domanda a cui non ha dato risposta. «Un magazzino?» ha detto. «Non è proprio un magazzino… È… un posto.» Si è voltato, ha notato la manica e l’ha spinta a forza nell’intercapedine tra i cartoni. «Un posto, sì. Fa anche da cantina, all’occorrenza.» «In che senso un posto?» «Un posto. C’è… Un bagnetto per uso personale, un tavolo, qualche scaffale. Una stanza.» Poi si è avvicinato alla postazione computer, dandomi le spalle. Ha trafficato qualche istante con il mouse, concentrato. «Questi computer» mi ha detto. «Non imparerò mai a usarli del tutto… È mio figlio quello che se ne intende.» Mi ha fatto segno con la mano di avvicinarmi «Venga» ha detto. «Venga pure dietro il banco, tanto non c’è nessuno.» Ho girato attorno al banco e mi sono fermato alle sue spalle, un po’ imbarazzato. L’ho visto digitare la parola demon@ in una tabella, accanto alla scritta titolo. Sono comparsi sullo schermo cinquantatre titoli di libri, il primo dei quali era un’edizione dei Demoni di Dostoevskij che non era quella che avevo ordinato. Molti titoli non avevano niente a che fare con Dostoevskij: Demonologia per tutti, Demonio (Il), Demoni, Fate, Streghe e Spiriti della casa e altri che non ho fatto in tempo a leggere. Accanto ai titoli, in un’altra tabella, sotto la scritta giac compariva una lunga fila di 0. Il signor Hermes è sceso con il mouse e ha trovato l’edizione che gli avevo chiesto. Vicino allo 0 c’era un piccolo 1. «Quell’uno vuol dire che il libro è in ordine e che una copia è in arrivo.» «Perfetto.» «Ma io non posso sapere con precisione quando la spediranno.» «Non c’è problema.» «Io ho mandato l’ordine, e l’ordine resta attivo due mesi, dopodiché bisogna rifarlo.» andrea tarabbia «Ci metterà due mesi ad arrivare?» «Molto meno. Credo già per settimana prossima, se tutto va bene. Lei ne ha bisogno prima?» «No, no: non volevo metterle fretta. Come le ho detto posso aspettare senza problemi. Ma… Cosa significano questi codici dopo la giacenza?» ho indicato col dito un’altra fila di lettere, vicino al bordo di destra: ip, op, re, r, c, a, e. «Sono le disponibilità commerciali: ip e c significano che il libro è in commercio ed è recuperabile; op che è fuori catalogo; e che è esaurito; r che è in ristampa; re che è stato messo in resa; a che è in arrivo. Come vede, i suoi Demoni sono disponibili e sono in arrivo.» «Ho capito. È molto interessante. Ma perché nell’elenco ci sono dei titoli che non c’entrano con i Demoni?» «Perché per comodità ho digitato demon@ e non la parola completa. Per cui il computer cerca e trova tutti i titoli che contengono come prima parola demon-.» Si è accorto che la spiegazione non mi soddisfaceva, e ha aggiunto: «Lei la sa la storia del titolo, vero?» «No. Quale storia?» «Il titolo esatto è I demonî. Dostoevskij ha usato il plurale di demonio, che è demonî. Molti chiamano il libro I dèmoni, ma quello è il plurale di demone, e semmai è un altro libro. Se io avessi digitato demoni avrei eliminato dalla mia ricerca tutte le edizioni corrette che hanno per titolo I demonî, tra cui la sua.» «Ah.» «È per quello che l’ho fatto.» Si è alzato, e io ho capito che era ora di andare. «Allora grazie» ho detto. «Anche della lezione. Ci vediamo settimana prossima.» Sono uscito dalla libreria mentre Hermes ricominciava a trafficare con i cartoni impilati. Varcando la soglia ho incrociato un uomo sulla cinquantina che si è messo una mano sulla falda del cappello e mi ha salutato chiamandomi Magister. «Buongiorno a lei» ho risposto, senza che lo avessi mai visto prima. Sono entrato in un supermercato vicino e ho fatto una spesa veloce. Alla cassa, mi hanno detto che per problemi di natura tecnica la calligrafia come arte della guerra non potevano accettare né il bancomat né una carta di credito, e che avrei dovuto pagare in contanti. Di fianco al braccio della cassiera, la macchina per le carte sembrava attiva. Ho indicato una luce verde che lampeggiava e la scritta inserire carta. «Sembra che funzioni» ho detto. «Oh sì» ha risposto la ragazza, «la macchina funziona. I problemi sono nella registrazione delle vendite. Per qualche giorno avremo difficoltà a riscuotere. Per caso non ha contanti con sé?» «Ne ho, ne ho. Preferivo pagare con la carta, tutto qui.» Ho cercato le banconote nel portafogli e ho pagato. La ragazza mi ha ringraziato e ha allungato lo scontrino e il resto. Mi ha dato moltissime monetine da uno e due centesimi. «Credo che molti in città in questi giorni avranno questo tipo di problemi» ha detto poi. «È meglio che si procuri dei contanti. Dopo l’attentato c’è stata una specie di black out informatico e per molti esercizi è diventato più difficile stornare le carte di credito…» La spiegazione non mi ha convinto, anche perché la settimana precedente, nello stesso supermercato, avevo usato senza problemi il mio bancomat. Ma ho salutato la ragazza con gentilezza e sono uscito con la borsa della spesa in mano, le monetine che tintinnavano nella tasca. Fuori dal supermercato, sulla destra, c’era e forse c’è ancora un ingresso che non conduce a un appartamento, o a un negozio, o all’atrio di qualcosa. Un supporto di plastica orizzontale appeso in alto e illuminato 24 ore su 24 con una luce rossa segnala che in quel punto si apre l’ingresso per uno dei molteplici rifugi antiatomici che costellano la nostra città. Questi rifugi vengono chiamati «Porte Rosse». In caso di emergenza, gli allarmi cittadini suonano all’unisono e le Porte Rosse si aprono automaticamente, per permettere ai cittadini che in quel momento transitano nella via di trovare riparo. Dal giorno dell’attentato, ogni Porta Rossa (non saprei dire quante sono, ma credo almeno una cinquantina nel solo centro cittadino) viene costantemente presidiata da un militare di leva, il cui compito è evitare i possibili atti di sabotaggio e (credo) i tentativi dei cittadini terrorizzati di trovare comunque rifugio sottoterra. Al soldato, dicono, non è concesso l’ingresso in una Porta: una volta regolato andrea tarabbia il flusso dei civili, il suo compito è quello di raggiungere la caserma e mettersi a disposizione per fronteggiare l’emergenza. Accanto a ogni Porta Rossa è appeso un piccolo vademecum a uso della cittadinanza, in cui vengono elencate le regole basilari per l’utilizzo dei rifugi: all’attenzione della cittadinanza Il Consiglio Comunale decreta che: Vista la Delibera della Giunta Regionale n° vii/947 del **/**/200* - Allegato b; Vista Delibera della Giunta Regionale n° 1549 del **/**/200* e successive deliberazioni. Vista Delibera della Giunta Regionale n° 3398 del **/**/200* Visto l’art. 7 del Decreto Legislativo **/**/199*, n° 285 Testo Unico Codice di Comportamento in situazioni di emergenza con successive modifiche ed integrazioni; Visto il D.P.R. 16.12.92, n° 495, Regolamento d’esecuzione e d’attuazione del nuovo Codice e successive modifiche; Vista la Legge **/**/199* §6 e §7 n° 10; Visto l’Art. 107 del Decreto Legislativo n° 267 del **/**/200*; 1. le porte rosse verranno aperte solo in caso di attacco di- retto alla comunità. 2. tutti i cittadini e le persone presenti sul suolo urbano hanno diritto d’accesso senza distinzione di età, razza, sesso e religione secondo quanto stabilito dalle leggi di cui sopra. 3. ogni porta rossa ha una capienza massima di n° 40 (quaranta) individui. 4. ogni porta rossa contiene scorte di cibo e acqua sufficienti al sostentamento di n° 40 (quaranta) individui per un numero massimo di 27 (ventisette) giorni. 5. ogni porta rossa è presidiata da un membro nominato dell’esercito che ne è direttamente responsabile. 5. bis – in caso di necessità i membri dell’esercito organizzeranno il flusso di cittadini all’interno dei locali. la calligrafia come arte della guerra 6. ogni porta rossa viene aperta automaticamente nei trenta secondi successivi all’entrata in vigore dello stato d’allarme cittadino. 7. ogni gruppo di cittadini rifugiati è tenuto a nominare un capogruppo, che sarà responsabile unico delle comunicazioni con le autorità competenti degli eventuali rapporti con gli altri rifugi. 8. non sono ammesse persone in esubero. in allegato una pian- tina con indicata l’ubicazione delle porte rosse nei vari quartieri cittadini. **/**/200* Il Comune Sfoglio l’allegato, la distribuzione capillare dei rifugi e delle Porte Rosse. La sentinella non mi guarda nemmeno, ritta com’è e impettita e responsabile. Non la saluto, passo oltre, gioco con le monete che ho in tasca. Alla periferia della città, quando sono arrivato, c’erano delle piccole torri di avvistamento di metallo scuro. Miliziani armati si danno il cambio sopra i loro catafalchi e scrutano la campagna che ci circonda. Ogni città ha la sua piccola dogana militarizzata, anche nelle stazioni: nessuno entra ed esce senza prima essere identificato. Favorisca di documenti. Come mai in città? Sono stato assunto dall’Istituto Calligrafico in qualità di Magister calligraphiae. Sostituisco un collega che ha chiesto e ottenuto il trasferimento. Oh, benvenuto tra di noi, Magister Horatio. L’Istituto ci ha fatto pervenire i suoi dati ieri pomeriggio, sapevamo del suo arrivo, l’aspettavamo. Deve avere qualche minuto di pazienza, controlliamo il chip del suo passaporto e la lasciamo andare. Ha qualcosa da dichiarare? Niente di particolare. Cos’ha nella borsa? Soprattutto vestiti, quaderni, penne, qualche libro e un piccolo cannocchiale astronomico. Si interessa di stelle? È un buon passatempo. Faccia passare la sua valigia per di qua. Ci scusi, ma è la prassi. Capisco, fate pure. Indossa un orologio? Ho un orologio da tasca. Dovrebbe toglierlo e posarlo in questa vaschetta. Se ha delle carte di credito e dei rullini fotografici li metta qui, altrimenti rischia che la macchina li smagnetizzi. È tutto a posto? È tutto a posto, Magister, può andare. Se prende un taxi deve uscire dal retro, il piazzale davanti è inutiliz- andrea tarabbia zabile. Capisco. Arrivederci. Arrivederci, buon lavoro all’Istituto. E benvenuto tra noi. v Semper laboremus quia in labore est laetitia. È così che l’Istituto ci accoglie. Una lunga frase conventuale scolpita sul frontone dell’edificio al centro, che mi suona lugubre e anche volgare. Mi sembra stupida, cinica e troppo semplice se tengo conto di quanto si fa qui dentro e di quello che c’è là fuori. Esco poco, come ho detto, perché è pericoloso e perché in città non c’è molto da fare, ma anche per non leggere, rientrando, che c’è letizia nel nostro lavoro. Apro ad una delle prime pagine il taccuino su cui scrivo e trovo che poche ore dopo il mio arrivo mi sono appuntato una frase che mi è stata detta da un’insegnante conosciuta nella sala professori: «In questo posto sembra che non succeda mai niente e invece succede tutto.» Nel frattempo, scopro che Plutone ha perduto il diritto di considerarsi un pianeta appartenente al nostro sistema solare. La Conferenza Internazionale di Astronomia o come diavolo si chiama, che si è tenuta a Praga in questi giorni, ha stabilito che l’orbita di quel pianetino lontano e invisibile è troppo contorta e bizzosa per essere equiparata a quella dei suoi otto fratelli. È stato in prima classe per meno di un secolo, ora è un pianeta nano. Appena ho letto la notizia sul giornale, questo pomeriggio, ho cominciato a guardare in su e ad attendere il buio per potermi affacciare dal mio pertugio. Ora che è in serie b, Plutone si dovrà mostrare, dovrà metter fine agli atteggiamenti da primadonna. Mi sono infilato nel buco che collega il mio nido a questa parte di cosmo e, stupidamente, ho puntato il cannocchiale per trovare quella massa di ghiaccio cristallizzato che zigzaga per l’universo. Ho visto soltanto la solita fagiolata di stelle, e non è caduto nemmeno un desiderio. vi Visto che fa molto caldo, noi del corpo docente abbiamo pensato la calligrafia come arte della guerra di trasferire le lezioni in giardino. Abbiamo un giardino gigantesco, percorso da una serie di vialetti ondulati e tempestato di ulivi. C’è una piccola spianata vicino al muro di cinta, che è grande a sufficienza perché tutte le allieve vi si possano radunare a fare ginnastica e a sgranchirsi le ossa negli intervalli. Abbiamo deciso di dividerle per corso di appartenenza e le abbiamo fatte sedere per terra. Con il loro aiuto e quello dei bidelli abbiamo portato fuori tutta l’attrezzatura: le ampolle di metallo, i colori, i pennelli, le fasce elastiche. Le nostre ampolle sono di diverse grandezze e sono sufficientemente leggere per essere portate anche dalle allieve più giovani: hanno una lamina di metallo levigato sottile come un’unghia e presentano una forma conica. All’interno sono vuote, e sembrano degli enormi tappi bic o la guaina protettiva di smisurate supposte. Riproducono, in realtà, la forma della testata di un missile di medie dimensioni, anche se non ne hanno lo sguardo terribile. Sono le pergamene su cui ogni giorno lavoriamo e dipingiamo qui all’Istituto. Mi sono messo sotto un ulivo, in piedi, e ho aspettato che tutte le ragazze si preparassero. Ho guardato a lungo Hina mentre stendeva sull’erba il suo foglio di compensato e vi poggiava il treppiede che sorregge la sua ampolla. Le lezioni di calligrafia militare sono il fiore all’occhiello dell’attività didattica, e io in qualche modo sono il loro profeta. Ho studiato pittura e calligrafia a lungo, negli anni passati. Ho cominciato a insegnarla con un entusiasmo che ho perduto, ora che la situazione internazionale ha trasformato l’apprendimento di questa forma d’arte antica in una sorta di inutile addestramento, di esercitazione quasi del tutto alfabetica e priva di un vero rapporto con il passato. Ma sono nato Magister, o professore, o insegnante, come si dice oggi nelle altre scuole, e bene o male non ho alternative. Del resto ho già detto che non voglio parlare dei motivi che mi hanno spinto qua, e non lo farò certo ora. Ho chiesto alle ragazze e alle bambine se si sentivano a proprio agio in giardino, poi ho preso il mio treppiede e l’ho allestito col mio simulacro di missile. Stiamo tutti in piedi, perché dobbiamo girare attorno all’ampolla seguendo l’inclinazione del sole: la luce della nostra stella è fondamentale per scrivere. I primi calligrafi infatti furono, entro un certo andrea tarabbia margine, anche astronomi; oggi questa componente per così dire scientifica dell’arte calligrafica è andata quasi perduta, e agli studenti insegniamo solo a tenere presente l’inclinazione della luce solare per avere una visione perfetta della superficie di lavoro: qualunque sia il tipo di supporto con cui si scrive (usiamo penne e pennini d’oca, di cigno o di tacchino – queste ultime sono molte dure e corte, si consumano in fretta ma hanno il pregio di essere stabili e di non rompersi) la prima cosa che c’è da imparare per chi si avvicina alla nostra arte è che le penne e i pennelli vanno impugnati con il pollice e l’indice a una distanza che equivale a circa 4 centimetri dalle setole o dalla parte imbevuta d’inchiostro. Bisogna impugnare senza forza ma in modo saldo: come scrissero i nostri antichi maestri la penna va tenuta tra le dita «come se si trattasse di un uovo che non deve assolutamente sfuggire di mano». Bisogna avere la mano ferma, e noi la aiutiamo con le fasce. La seconda cosa che insegniamo è che la penna viene sempre tirata e mai spinta. Facciamo, i primi tempi, lunghissime esercitazioni di tratto sopra grandi fogli bianchi. Consideriamo gli allievi pronti a essere introdotti alle meraviglie della scrittura solo quando essi sono in grado di tirare delle linee verticali, orizzontali e oblique perfettamente diritte per almeno trenta/quaranta centimetri. Quasi tutte le ragazze dell’Istituto, alcune con qualche imprecisione, sono in grado di farlo. Siccome la penna (o il pennello) viene tirata sopra il foglio, ne viene che le uniche direzioni possibili di scrittura sono da sinistra a destra e dall’alto verso il basso e, pertanto, che abbiamo l’assoluta necessità di avere una fonte di luce che provenga da sinistra. Diverso e opposto è il discorso per i mancini, ma all’Istituto per questa tornata non ce ne sono. Ci sono due tecniche fondamentali con cui insegniamo l’alfabeto: una che definiamo spaziale e un’altra formale. In nessun caso l’arte calligrafica viene insegnata seguendo l’ordine alfabetico. La tecnica spaziale si basa, fondamentalmente, sull’idea del quadrato: se immaginiamo un quadrato ideale, ci sono delle lettere che lo occupano interamente, altre che lo occupano per ¾, altre ancora per metà e infine altre per una minima parte. Così questa è una o: la calligrafia come arte della guerra Nel gruppo della o ci sono anche la q, la d, la c e la g; occupano generalmente ¾ di quadrato la a, la h, la n, la t, la v, la x, la y e la z; in metà quadrato inseriamo la b, la e, la f, la k, la l, la p, la r e la s; infine, rimangono lettere che occupano una posizione minima della forma, e sono, ovviamente, la i e la j. Preferisco lavorare con il metodo formale, perché è più semplice, e perché permette alle allieve di mettere in pratica passo passo le cose che imparano. Siccome di solito insegno per prima cosa a comporre tratti obliqui – che sono più facili – i primi esercizi alfabetici su cui faccio lavorare sono su lettere che li contengono: a, v, x, y e poi m, n, z e k; passo poi al secondo gruppo, che è fatto di lettere che presentano solo tratti orizzontali e verticali: e, f, h, i, l e t; il terzo gruppo, molto difficile, contiene solo linee curve: è il più divertente da imparare, ma anche quello che comporta il maggior numero di errori nei primi mesi di esercitazioni: c, g, o, q, s. Infine l’ultimo, il gruppo misto: b, d, p, r, j, a cui si arriva quando si ha già una certa esperienza. Le lettere del terzo gruppo, nonostante quanto comunemente si crede, non sono costituite da un unico tratto circolare, ma da almeno due: il pennello va sempre tirato, per cui, arrivati a metà lettera, generalmente bisogna interrompere e cominciare a tirare dal vertice opposto. Difficile è collegare le due «pance», come dicono le allieve. Se prendo la c ad esempio, vedo che è più sottile nella parte centrale rispetto ai vertici, perché è lì – nella pancia – che si incontrano i due quarti di luna che la compongono: una allieva alle prime armi il più delle volte presenta, nell’esatto centro della lettera, un grumo di inchiostro che mantiene la lettera spezzata in due parti. Bisogna infine tenere conto che solo una parte delle esercitazioni (le esercitazioni piane) viene condotta su superfici piatte. Quando calligrafiamo, calligrafiamo sulle forme ovoidali dei missili, e solo andrea tarabbia l’esercizio e la pazienza permettono di lavorare tenendo conto della prospettiva. «Bene» ho detto. «Siamo tutti pronti per cominciare. Avete qualche domanda da fare riguardo la lezione di ieri? Hera, ti avevo chiesto di esercitarti nel pomeriggio su un foglio, lo hai fatto?» «Sì, Magister.» «Portami la tavola da vedere.» La bambina, non avrà più di dodici anni, si è alzata dal posto, ha tirato fuori dalla borsa un grosso foglio bianco arrotolato e me lo ha portato. Era una lunga teoria di a, la stessa lettera maiuscola, minuscola, ripetuta decine di volte con una calligrafia sempre più sicura. Ho giudicato buono lo spessore del tratto, che deve essere diverso tra l’asta sinistra e la destra: la sinistra, infatti, sempre a causa dell’inclinazione e del fatto che la penna viene tirata dal basso verso l’alto per comporre / è solitamente un 30% più sottile dell’asta destra \, che sfrutta il moto discendente della punta che la traccia e si riempie di inchiostro e di spessore: /\ Solitamente il tratto di destra appare, a un occhio attento, un po’ più grosso e grasso di quello di sinistra da cui ha origine. La calligrafia non è un’arte simmetrica. È un’arte ritmica. La forma delle lettere deve riflettere il movimento del corpo che le crea. «Hai lavorato bene, Hera» ho detto. «Hai ancora qualche incertezza sul vertice, vedi?, a volte è un po’ impreciso. Si capisce che ti fermi troppo tempo e il tratto si ispessisce. Ma devo dire che molte lettere sono quasi perfette. Ti manca ancora la pratica, ma hai fatto un buon compito. Hai tenuto le fasce, mentre scrivevi?» «Sì, Magister.» Hina ha alzato la mano. «Gliele ho legate io» ha detto. «E sono stata tutto il pomeriggio a esercitarmi con lei. Posso?» Si è alzata e si è avvicinata con un foglio dove aveva tracciato decine di volte la stessa lettera della compagna. «E a te chi ha messo le fasce?» ho chiesto. Non si è imbarazzata. «Abbiamo fatto a turno. Mezz’ora lei e mezz’ora io. Nelle pause, ci fasciavamo.» la calligrafia come arte della guerra Le ho mandate al posto mettendo due note di merito sul registro. La calligrafia è un’arte esatta, dove la precisione è imprescindibile. Ci sono molte scuole, ma la nostra è la migliore e la prescelta. Il corpo della lettera deve avere uno spessore preciso, e deve degradare con un’inclinazione costante e proporzionata verso i vertici, o angoli di congiunzione dei segmenti di lettera, e verso quelli che chiamiamo i «ritorni», che sono i riccioli decorativi, o «grazie», a inizio o fine lettera. Dipingere una lettera è un lavoro faticoso e perfetto. Sono in grado di riconoscere all’istante una lettera dipinta di fretta o raffazzonata, sento di potermi esprimere sul valore di una frase, e di giudicare il sentimento che l’ha prodotta. Le «a» di Hina sono declinanti, con una pendenza dettata tutt’altro che dalla fretta, ma dalla foga di imparare. Ha anche dei ritorni troppo piatti, imprime una specie di accelerazione al tratto che è uno dei difetti fondamentali da correggere, perché la scrittura necessita di pazienza e ostinazione. Sono convinto che non si sia ancora del tutto abituata a portare le fasce, anche se ha capito che il loro utilizzo è per obbligarle a tenere la mano ferma e ad avvicinarsi alla superficie da calligrafare con la massima lentezza e cautela. Ho aiutato le mie allieve a fasciarsi i polsi e le mani. La fascia non è che una benda legata stretta al polso e che arriva a coprire la prima falange delle dita. È molto fastidiosa, qualche ragazza a volte soffre di crampi, per cui permettiamo di sfasciare l’arto ogni mezz’ora. Io ho indossato le fasce per diciassette mesi, prima di poter calligrafare con la mano libera. Oggi forse non riuscirei più a indossarne una per più di cinque minuti. Ho cominciato a spiegare la lettera h. «h» è la lettera con la quale cominciano per convenzione i nostri nomi e i nostri toponimi, ma è anche una delle lettere più difficili, all’inizio, perché non ha quei tratti obliqui che sono i più naturali da tracciare. Se si escludono le lettere curvilinee, difficile quanto la «h» c’è solo la «e», che è però una lettera che compare meno nei nostri lavori. Quasi tutte le allieve, almeno all’inizio, hanno la «sindrome da lettera acca», una naturale difficoltà nel dipingerla che è anche fonte di frustrazione, dato che si tratta dell’unica lettera che, almeno una volta, con la firma, bisognerà giocoforza inserire nel messaggio. Le ragazze, prima degli andrea tarabbia esami di fine corso, confrontano le proprie acca, si danno consigli. Se devono rimanere sveglie la notte è per la lettera acca. Ho pensato di introdurre la calligrafia di questa lettera in giardino, perché in giardino le ragazze sono più rilassate. vii Mi sono seduto nel parco, ho acceso una sigaretta, ho chiuso gli occhi e ho rovesciato la testa all’indietro. Fumare con la testa parallela al suolo mi dà un senso di vertigine e di lontananza e mi aiuta a concentrarmi e ricordare. Hida mi ha raggiunto quasi subito. Mi ricordo di te, non ti dimentico, Hida, che non parli più. È passato poco tempo, e in questo tempo ho imparato ad associare dei luoghi al ricordo di te. A casa il letto, il nostro letto nuziale. Ho dormito due mesi sul divano del salotto per non pensarti prima di prendere sonno. Ma anche l’angolo cottura, so che non è qualcosa di romantico, ma anche l’angolo cottura. Ho mangiato più spesso alle mense, nei ristoranti. Oppure mi facevo portare a casa una pizza da quegli studenti liberi che per arrotondare saltano sui motorini e fanno le consegne a domicilio. Hida e Horatio, Horatio e Hida, unici e indivisibili. Ora anche questa panchina mi ricorderà di te, di quando eri viva, e non ci verrò più, anche se questa volta non ti aspettavo ed è stato bello che tu sia venuta e mi abbia sorretto la nuca mentre sputavo il fumo sulle fronde degli alberi. Mi sono riscosso, mi sono sgranchito il collo e mi sono guardato attorno. Il parco era quasi deserto perché si avvicinava l’ora del pranzo e perché le scuole sono ancora aperte e non ci sono bambini in giro a giocare. Mi sono levato gli occhiali e ho massaggiato a lungo i globi oculari. Avevo portato da leggere ma non ho letto, quando Hida mi viene a trovare mi allontana da tutto, mi deconcentra. Ho cominciato a camminare senza una meta precisa, ho vagato lungo i viali di sassi bianchi sotto il sole di mezzogiorno e poi sono uscito in strada. Alcune persone scaricavano degli scatoloni da una camionetta. Se li passavano e li ammucchiavano sul marciapiedi. Ho sentito che una donna si lamentava perché avrebbe voluto delle scatole di plastica e non degli scatoloni. la calligrafia come arte della guerra «Ma perché di sotto è umido!» ha urlato a un certo punto. «Sotto marcisce tutto!» Da qualche giorno hanno tutti una certa fretta, qui fuori. Un’aria distratta, di quella distrazione che è figlia di una concentrazione su qualche cosa di più grande e per me insondabile. Sono passato vicino a un’edicola e ho cercato con lo sguardo i titoli dei quotidiani. Ne erano avanzati pochi, e quasi tutti sportivi. Sulla prima pagina di un giornale locale campeggiava la foto di una Porta Rossa sovrastata da una scritta in stampatello: succederà? Ho chiesto all’edicolante di spiegarmi il senso di quel titolo. Mi ha guardato in silenzio, strabuzzando gli occhi. «Mi prende in giro?» «Assolutamente no» ho risposto. «Vengo dall’Istituto Calligrafico, sono Magister. Come saprà, là dentro non arrivano molte notizie. Esco non più di una volta o due alla settimana, e ho bisogno di essere guidato per capire.» «Oh, mi scusi, Magister. Lei è quindi Magister Horatio? Non l’avevo mai vista. Non la conoscevo. Mi scusi davvero.» «Non si preoccupi. Si pensa alla possibilità di un nuovo attentato?» «Non si capisce. Alcuni dicono di sì, e come avrà visto la situazione è di massima allerta. La gente si sta preparando a un periodo molto duro.» «Verranno aperte le Porte Rosse?» «E chi lo può sapere!» ha esclamato, schermendosi. «Chi lo può sapere! Le Porte Rosse si aprono all’improvviso per tutti.» «Ma ci sono state minacce, rivendicazioni, azioni promesse?» «Niente. Ma la gente si sta preparando al peggio.» Ho pensato alle scatole di plastica della signora di poco prima. «È per quello che vedo sempre più gente che ammucchia scatoloni?» Ha fatto un gesto sprezzante con la mano. «Ma quelli lì sono i paranoici! Gente che sembra non aver mai vissuto in questa situazione!» ha detto. Adesso sembrava sul punto andrea tarabbia di arrabbiarsi sul serio. «È gente come quella che causerà un sacco di problemi quando sarà il momento!» «Perché?» «Come perché? Perché non si possono portare troppe cose personali dentro le Porte Rosse!» «Magari è qualcuno che ha le cantine comunicanti con un rifugio e…» «Ascolti me» mi ha interrotto, «e lasci perdere quello che dice o che fa la gente. Quelle lì» e ha indicato un punto impreciso nella via, «sono tutte cazzate. L’unica cosa che si sa è che le cose non vanno bene con quelli di là, punto e basta. Bisogna stare attenti, ma non c’è niente di concreto. Se vuole la mia opinione quelli là non sono così scemi da fare un altro attentato adesso. È troppo vicino! Vuol dire sprecare – mi scusi il termine – quello che hanno appena fatto! C’è un po’ di tensione, e la gente si spaventa, fa la fila in banca e ai supermercati, ma son cose normali, e non bisogna dargli più peso di quello che hanno… Capito?» Ma tutti portano delle grosse scatole piene di cose, le portano da qualche parte con un’ansia innaturale. Ho cercato un’altra edicola, altri titoli di giornali. C’è tanto calciomercato, nonostante tutto. Una soubrette con le tette finte succhia l’alluce di un tizio con la pancia e il cellulare. Un bambino è stato rapito o è scappato di casa. Gli exit poll per le selezioni di un reality show ambientato in un’isola dell’Honduras. Il caldo soffocante. Un video porno con due minorenni lesbiche diffuso sulla versione porno di youtube, una beatificazione di nonsochi, Slimfast, il trend per l’autunno che viene, Qual è il vero successo dell’estate?, il papa cattolico che spiega che non è omofobico, il perizoma che torna di moda perché «gli uomini lo preferiscono alle culotte» – istigazione alla masturbazione maschile – consigli per una abbronzatura sicura da parte di un esperto (di abbronzature?), morti sull’autostrada, la gara d’appalto per un memoriale alla stazione, i treni e gli aerei in ritardo, last minute per Tunisi e Sharm-El-Sheik, tette, culi, tartarughe addominali e un prete che ha abusato di un bimbo in una comunità montana, le pagine di attualità e cultura che si interrogano sul valore fondante della Resistenza. Cammino, respiro. Sento arrivare il fischio all’orecchio. È Hida la calligrafia come arte della guerra che mi chiama, e io sto diventando superstizioso. In questa città non conosco nessuno a parte le mie allieve e i miei colleghi. Se adesso sto male e cado, nessuno mi verrà ad aiutare. Compro da un ambulante una bibita all’arancia per rinfrancarmi un po’. Il tizio non ha resto, gli lascio qualche centesimo di mancia. Dietro di lui, le vetrine d’ingresso del cinema luxuria sono coperte con delle lunghe fasce nere adesive; al centro di ogni vetrina hanno pittato delle grosse x viola: tre vetrine, tre x: xxx. Sono entrato in un cinema porno una sola volta nella vita, a Monaco di Baviera. Vicino alla stazione, sulla destra, in quello che sembra il quartiere turco, c’è una via costellata di cinema e cinemini a luci rosse, peep show, cabin show, pornoshop, table & lap dance eccetera. Sono entrato con Hida perché entrambi non l’avevamo mai fatto ed eravamo curiosi. Tutti ci guardavano perché anche per la Germania è strano che a entrare in un posto del genere non sia un singolo ma una coppia, per di più eterosessuale. Abbiamo visto uno spettacolo di lap dance durante il quale lei ha riso tutto il tempo e io mi sono eccitato. Poi siamo entrati in sala proiezioni e abbiamo visto un porno tedesco di seconda categoria: Gut, gut…, e colate di sperma in un’atmosfera vagamente cortina di ferro. L’ingresso del luxuria è piccolo e buio. Ci transitano persone di ogni età, ma perlopiù vecchi con la pancia e poco puliti. Il film di oggi si chiama PornArmageddon or The Big One. I locali sono molto piccoli, opprimenti, e c’è un continuo viavai di persone di sesso maschile vestite molto casual, con il tratto comune dei jeans: deve essere perché è l’unico tipo di pantalone che è in grado di contenere almeno un po’ l’erezione. Mi siedo in ultima fila, da frequentatore navigato. Mentre scorrono i trailer di pellicole di prossima uscita comincio subito a sentirmi turgido, e attraverso la porta del bagno ha inizio un’incessante processione di individui che evidentemente si vergognano a usare i fazzolettini in sala e a lasciarli nei cestini ricavati negli schienali delle poltrone. Nella mia fila siamo in due, io laterale e un tizio, sette-otto poltrone più in là, che appena si è seduto si è calato i pantaloni e se lo è preso in mano. Penso che quando si alzerà il suo culo avrà lasciato un’impronta di sudore nel vellutino della poltrona. PornAr- andrea tarabbia mageddon or The Big One comincia con l’inquadratura del giardino di una villa borghese probabilmente californiana. Sì, è californiana: compare subito la scritta Santa Monica in sovrimpressione. I californiani aspettano il Big One. Il giardino è enorme, pieno di palme. C’è una piscina e un Cayenne nero è parcheggiato nel vialetto di ciottoli che conduce alla gigantesca porta di ingresso della villa. Mi guardo attorno. Compaiono quattro attrici e qualcuno nelle prime file comincia ad agitare la spalla destra. Le attrici sono tutte vestite ma sono pornostar molto famose, e questo basta per eccitare gli spettatori. Un attore molto prestante e decisamente bello fa il suo ingresso nell’enorme sala della villa di Santa Monica. È avvolto in una vestaglia rossa da pappone e ha le infradito – cosa che lo rende un po’ ridicolo. Fa un largo giro della stanza e si mette davanti a un’enorme finestra che dà su un terrazzo affacciato sul Pacifico. La casa è piena di libri e di quadri. Davanti a lui, in fila sul divano e ancora vestite, le quattro sorseggiano dei cocktail che si sono servite durante la brevissima sigla. C’è un momento di silenzio, il regista gioca prima sugli sguardi, poi scende piano piano: sono tutte e quattro vestite in modo molto succinto, e gli abiti faticano a contenere i seni. Di una si intravede un capezzolo già eretto. La camera scende, scova un ombelico con un piercing dorato e poi scivola lungo le gambe depilate e accavallate in sequenza delle quattro. Per essere un porno, è curato, e l’immagine di lui in vestaglia in controluce con l’oceano dietro fa un certo effetto. Non capisco davvero la scelta dell’infradito, che rende il personaggio sciatto e gli dà un’aria provvisoria. Nero. succederà? Mi raddrizzo sulla poltrona. La scritta è qui, rimane ferma per qualche secondo. succederà? Sono passati tre minuti dall’inizio e non c’è stato ancora nemmeno uno sguardo lascivo. L’uomo con la vestaglia comincia a parlare. È un discorso mal scritto e mal recitato, che suona più o meno così: è stata annunciata la fine imminente del mondo, pare che rimangano poche settimane se non pochi giorni di vita al pianeta. (Il motivo di questa catastrofe la calligrafia come arte della guerra non viene specificato, ma vedo che in sala non interessa a nessuno). Io sono molto ricco, con il denaro ho sempre comprato tutto e sono molto potente. Mi rendo però conto che – testuale – non posso comprare la continuazione della specie, per cui mi rassegno a morire e a lasciare che tutti i miei beni vengano distrutti. Voglio però finire in modo degno, ed è per questo che vi ho fatte venire qui. Tutto quello che vedete qui dentro (allargando un braccio fa un gesto circolare che allude a tutto quello che lui possiede) è vostro e lo sarà da qui fino alla fine. Siete le padrone del mio piccolo mondo per il tempo che ci resta. Vi offro agio, ricchezza e ogni comodità in cambio della vostra totale disponibilità sessuale e oltre. Voglio che siate lesbiche, dominatrici, sottomesse, voglio che partecipiate a orge, che vi facciate fare ogni cosa sia possibile fare, voglio che non ci siano filtri tra voi, me e le mie ricchezze, voglio che vi facciate mettere incinte e che vi lasciate spiare nelle vostre sfere più intime. Voglio tutto e in ogni declinazione possibile. Saranno esclusi – precisa – la tortura e l’omicidio, perché a tutto questo penserà la natura entro breve e noi dobbiamo vivere quello che ci resta nella gioia. Vi prometterei del denaro, se ci fosse anche una sola possibilità di poterlo utilizzare. Le ragazze lo guardano, si scambiano delle occhiate indefinibili. Poi lui si avvicina a un cassetto, tira fuori delle carte e le lascia cadere sul tavolo davanti a loro. Le ragazze prendono i fogli e li sfogliano. Sono i miei estratti conti, le rendicontazioni di borsa, l’elenco delle mie proprietà demaniali, dice. È tutto quello che ho, e se accettate è vostro – nostro – da qui fino alla fine. In sala qualcuno comincia a mormorare. Dalla terza fila arriva uno sbuffo. Che cazzo di porno è?, si sente dire. Le ragazze, naturalmente, accettano. L’uomo a questo punto fa una cosa curiosa: leva dalla tasca della vestaglia un foglio dattiloscritto e lo fa firmare alle sue ospiti. Dall’inizio di PornArmageddon or The Big One sono passati quasi dieci minuti. Un tizio seduto poco davanti a me si alza e fa un gesto di stizza e bestemmia. Vaffanculo. Che porno è se si parla e non si scopa? Mi passa accanto borbottando qualcosa sul fatto che si farà restituire i soldi del biglietto. Che film di merda, non ho mica tempo da perdere, io. Lo sento uscire dalla andrea tarabbia sala mentre sullo schermo, finalmente, i primi indumenti cominciano a cadere sul tappeto. Per prima cosa, dice l’uomo, vi voglio vedere lesbicare sul divano. Le ragazze si guardano con lascivia e cominciano a toccarsi i seni a vicenda, si strizzano i capezzoli e li leccano. Il miliardario, che nel frattempo ha detto di chiamarsi Joe, si siede su una poltrona di vimini (citazione di Emmanuelle?) e le osserva. Un’enorme erezione sagoma la vestaglia. Le ragazze sono completamente nude, e si leccano sul divano. Arrivano da subito dallo schermo le loro urla di piacere, mentre lui ormai si è aperto la vestaglia e si sta masturbando. La scena dura una decina di minuti buoni. Sento il rumore del prepuzio del mio vicino di fila che viene sbatacchiato violentemente a pochi passi da me. Dall’ingresso, arriva l’eco di una discussione piuttosto animata tra lo spettatore e il bigliettaio. Non posso restituirle i soldi del biglietto, abbia pazienza. Come sarebbe a dire? Io non sono mica venuto qui per vedere un film di filosofia, io! Sono venuto a vedere un porno! Tette, culi, figa, sborrate! Mi spiace, ma le assicuro che PornArmageddon è il film migliore dell’anno! A febbraio ha vinto quattro Oscar del porno a Los Angeles! Non me ne frega un cazzo se ha vinto quello che ha vinto! Io rivoglio i miei soldi! Joe sta per venire. La camera indugia sul suo glande arrossato. È grosso come un barattolo di marmellata. Le ragazze si voltano a guardarlo e lui le chiama. Tutte corrono verso di lui e gli si inginocchiano davanti: una di loro glielo prende in bocca, mentre altre due gli mordicchiano le palle prima di levarsi giusto in tempo per ricevere il fiotto che Joe direziona sui loro volti e sui decolté. La seconda scena è nella vasca a idromassaggio. Joe e le ragazze sono già nudi e immersi nell’acqua. Joe non sa più dove toccare e baciare. La ragazza con il piercing all’ombelico, rimasta disoccupata per qualche istante, si infila il bocchettone della doccia tra le gambe e per un po’ si trastulla con quello. Poi Joe se ne accorge, glielo leva di mano e subito la scopa mentre le altre tre si masturbano sui bordi, tenendo le gambe ben spalancate in favore della camera. Lo spettatore picchia i pugni sul banco della biglietteria e tira una bestemmia. la calligrafia come arte della guerra Cambio di scena. Viene inquadrato il cielo. L’oceano è agitato, schiumano le onde. Nulla di troppo impressionante, nessuna apocalisse sembra annunciarsi. Il vero Big One, al momento, è Joe con quel suo batacchio smisurato che entra ed esce da ogni buco e viene utilizzato dalle quattro in tutti i modi immaginabili. Scena nella piscina. Scena nel campo da golf. Scena (classica) sul tavolo da biliardo. Sull’elicottero personale di Joe, che viene pilotato da una bionda completamente nuda a cui la ragazza con il piercing sta nel frattempo lappando le grandi labbra, Joe tenta di inculare una delle altre due, una rossa che sembra recalcitrante. Per convincerla, Joe le sussurra all’orecchio la frase migliore di tutto il film: «Vuoi per caso morire senza aver provato la terza via?» – la seconda, per gli americani, dev’essere con ogni evidenza la bocca. Questo basta per convincere la rossa: l’inculata aerea è davvero un prodigio di tecnica, di stile, di equilibrio e resistenza fisica da parte di entrambi. Lo spettatore incazzato rientra in sala borbottando proprio nel momento in cui la rossa gode e copre con le sue urla il rumore del rotore. Lo spettatore si siede in fretta davanti a me, si slaccia la cintura e sfoga la sua rabbia repressa in un grumo di fazzolettini di carta. Le ragazze decidono che Joe deve venire fuori dall’elicottero e lo lavorano facendogli puntare verso il portellone spalancato. Joe viene copiosamente e qui il regista si concede una cabrata dello schizzo dal giardino della megavilla. Colpo di scena. Dall’elicottero, lo schizzo cade in testa a un tipo biondo e palestrato che si trova sul bordo della piscina e sta guardando verso l’alto. La testa del biondino viene letteralmente inondata di bianco (avranno usato del latte, non è possibile spremere così tanto sperma in una sola volta), mentre altri due uomini che gli sono vicino scoppiano a ridere; il tizio impreca un po’ schifato e mette la testa nell’acqua per lavarsi. «Ha già fatto la scena dell’elicottero, il vecchio Joe!» dice uno degli altri due, e tutti si mettono a ridere. «Sì!» dice l’altro. «E ha già fatto piovere!» Inquadratura di un vulcano in eruzione – ma ci sono vulcani a Los Angeles?, e altro colpo di genio: dal vulcano si passa direttamente andrea tarabbia al glande del biondino che viene immediatamente ingoiato dalla bionda che guidava l’elicottero. Joe ha invitato i suoi amici in villa e il resto del film consiste in una serie di orge più o meno fantasiose compiute nei seguenti luoghi: in cucina durante una cena, in una camera, nella limousine di Joe – guidata da chi? – nel caveau al piano interrato, dove Joe distribuisce lingotti d’oro (che vengono anche utilizzati nella maniera che si può immaginare), dollari e – dice – «felicità», in giardino, su un complicato sistema di amache, sopra un albero (con la rossa a testa in giù inculata da un amico di Joe), nel garage, sulla scalinata di marmo che si apre nell’ingresso della villa. L’Armageddon non arriva. In alcune scene piove a dirotto, ci sono tuoni e lampi, ma i giorni scorrono e sembra non debba più succedere niente. È passata quasi un’ora e mezza. Attori e spettatori hanno smesso (se mai hanno iniziato) di farsi domande sulla fine del mondo che incombe. Infilo un fazzolettino nella tasca della poltrona davanti, lo incastro tra gli altri. La luce del bagno invade per un attimo la sala e un tizio torna a sedersi tra noi spettatori. È chiaro per tutti che il film sta per finire, e la fine arriva con un vero colpo di scena da romanzo popolare: gli otto sono ospiti di una grande sala, e ci stanno dando dentro. Joe è dentro la bionda, che sta ragliando di piacere. Anche Joe sta ululando, il momento dell’orgasmo è molto vicino anche per lui (l’attore che interpreta Joe fa una smorfia molto particolare ogni volta che sta per venire, e quindi è facile per lo spettatore arrivare a capire quando è il momento per le ragazze di essere inondate di sperma): ma Joe, stavolta, non si sfila dal corpo della bionda. «Mettimi incinta! Mettimi incinta!» sta gridando lei, completamente trasfigurata dal piacere. E Joe le viene dentro. Credo sia l’unico porno della storia dove c’è una scena in cui un attore viene dentro un’attrice, perlomeno nel buco davanti. Quando Joe si leva, la camera si ferma a lungo sulla figa della bionda e sullo sperma che le cola attraverso le labbra. Lei prende Joe per il collo, lo tira a sé e lo bacia, carezzandogli affettuosamente il Big One. C’è un momento di silenzio in cui tutti sembrano felici, mentre in sala torna a serpeggiare un po’ di malumore. Il pubblico non ha avuto la sua dose di sperma sulle tette siliconate e quindi protesta. A la calligrafia come arte della guerra nessuno interessa che le ragazze stiano aspettando di morire e che la bionda sia felice di affrontare l’apocalisse con del seme nel grembo. Ma si spalanca la porta d’ingresso. Entrano un signore attempato e una donna che è evidentemente la moglie. I due si guardano attorno e vedono gli otto corpi avvinghiati in salone. «Che cazzo state facendo?» urla l’uomo. «Questa è casa mia!» I ragazzi si alzano di colpo e arraffano dei vestiti a caso. Il biondo scappa dalla finestra che dà sul Pacifico. La moglie dell’uomo – una bella donna cinquantenne – ha un mancamento e si accascia sul divano. «Joe!» urla l’uomo. «Joe! Che state facendo? È opera tua, questo? L’hai fatto di nuovo?» Joe biascica qualcosa di incomprensibile e fa tre passi indietro. «Joe! Sei licenziato!» urla l’uomo, furente. «Ti avevo chiesto di custodire la casa!» Joe e gli altri due si infilano le vestaglie e senza dire una parola scappano attraverso il giardino. Rimangono in casa l’uomo, la moglie svenuta e le quattro ragazze, ancora nude. «E voi?» dice l’uomo. «E voi? Siete puttane? Che cosa vi ha raccontato, questa volta?» Le ragazze si guardano l’un l’altra e fanno spallucce. «Ancora quella storia della fine del mondo?» La ragazza con il piercing si avvicina al padrone di casa e lo bacia dietro un orecchio. «Non te la prendere, paparino» dice. «Ci stavamo solo divertendo un po’…» Si capisce che con una mano sta tastando il pene dell’uomo dentro i pantaloni. L’uomo suda e si guarda attorno. «Non facevamo niente di male…» dice ancora la ragazza con il piercing. La ragazza gli estrae il pene eretto e lo massaggia con le dita. «Ma… Signorina… C’è qui mia moglie…» dice lui. «E via!» dice la bionda, avvicinandosi a quattro zampe all’uomo e leccandogli il glande. Anche le altre due si avvicinano, lo baciano. La rossa gli mette in mano un tetta. La quarta lo afferra per un braccio, gli prende due dita e se le mette sul clitoride. «Rilassati un po’!» dice. «Tua moglie sta dormendo! Cosa vuoi che sia!» andrea tarabbia Le quattro guardano in macchina facendosi passare le lingue sulle labbra. «Non è mica la fine del mondo!» urlano. fine Esco senza più sentire il fischio all’orecchio. Cammino in fretta ed evito di guardare in faccia gli altri spettatori. Credo che anche loro facciano lo stesso. Fa molto caldo. Anche dentro al luxuria faceva caldo, ma dopo un po’ ho smesso di preoccuparmene. Anche il bigliettaio, ho visto, aveva uno scatolone dietro la cassa, su cui aveva appoggiato un espositore di caramelle. Sulle alette dello scatolone c’era la scritta Kleenex, e per un attimo mi sono vergognato. Ciao Hida. Non ho voglia di parlare. Voglio arrivare al mio nido e aspettare la notte sgranocchiando dei cracker che andrò a comprare sulla via del ritorno. Non c’è nemmeno una nuvola, il cielo è pulito come quello di Santa Monica, stanotte avrò voglia di riempirmi la testa di costellazioni. viii Poi è caduto un desiderio, o così mi è sembrato all’inizio. Una lunga scia di luce, per un attimo, ha illuminato la volta del cielo con una parabola discendente e si è infilata dietro la collina. Si è sentito subito il rumore di uno schianto, e il vetro del mio pertugio ha vibrato tremandomi addosso mentre il pezzo di mondo da cui provengo, e che sta dietro la collina, si accendeva come il culo di una lucciola. Subito ha brillato qualche luce nell’Istituto, e, ho scoperto poi, anche nel resto della città. Tutti quelli che si sono svegliati o che non dormivano si sono ritrovati come per un convegno pattuito nella spianata del giardino, con il naso rivolto all’insù. «Avete sentito?» «Sono arrivati, sono arrivati!» «Io ho visto, ho visto tutto! Ero alla finestra e ho visto tutto!» Io e il preside Herbat abbiamo tentato di calmare gli animi e di far abbassare le voci. È inutile svegliare le bambine e preoccuparle. Ho telefonato a casa, mentre il preside Herbat convocava tutti noi professori nel suo ufficio. La bomba è caduta nelle campagne a pochi la calligrafia come arte della guerra chilometri da qui, non ha toccato i paesi della zona. Sono andati a fuoco alcuni ettari di campi, e alla periferia di Hebru si è formata un’enorme buca geologica nel punto esatto dove quel mostro di metallo ha impattato con la terra. Non ci sono morti. Per tutta la notte abbiamo sentito i mezzi dei pompieri e della protezione civile sfrecciare lungo le strade illuminate della città per raggiungere il cratere della bomba e spegnere l’incendio. Siamo entrati nell’ufficio del preside mentre era al telefono con qualcuno. Ci siamo distribuiti lungo le pareti della stanza, rimanendo in piedi. Nessuno ha osato sedersi sull’unica sedia, e tutti guardavamo fuori dalla finestra. «Ero al telefono con il capitano dell’esercito» ha detto Herbat quando ha concluso la telefonata. «Il generale Homanat è già sul posto, per cui potremo parlare con lui non prima di domani mattina. Il capitano non mi ha potuto fornire informazioni precise, perché anche loro, al momento, sono in attesa di chiarimenti. Di sicuro è stata una bomba ed è finita in un campo: difficilmente chi l’ha lanciata ha sbagliato bersaglio di così tanti chilometri. L’ipotesi più attendibile è che sia stato un lancio di avvertimento, anche se bisogna recuperare l’ampolla per leggere il messaggio.» Il preside si è acceso la pipa e ci ha guardati per un po’. «Hanno voluto dare una dimostrazione di forza» ha aggiunto. «Comincia la controffensiva» ha detto una voce. «Non sappiamo ancora niente, e per le ragazze ufficialmente non è accaduto nulla di particolare fino a quando non riceveremo dall’esercito informazioni e istruzioni precise» ha detto Herbat. Ci siamo guardati l’un l’altro per un istante. «Dovevamo aspettarcelo, doveva succedere, prima o poi» ha detto Hanna, la prima Lector. «Sembravano settimane tranquille.» «Non cominciamo a fasciarci la testa» ho detto, «tutto fa pensare che sia un lancio di avvertimento e niente di più.» «Niente di più!» «Intendo dire che, in un certo senso, possiamo interpretare questa bomba come un’azione diplomatica, più che come un bombardamento. Non stanno lanciando più niente da un’ora. Se volevano distruggere un villaggio potevano farlo, e non l’hanno fatto.» andrea tarabbia «Ma come è potuto accadere? Con tutto il sistema di sorveglianza che…» Il preside Herbat si è alzato dalla scrivania e ha guardato fuori dalla finestra. Ha preso un elastico dal davanzale e ha cominciato a rigirarselo tra le nocche della mano sinistra. «Non si sa» ha detto. «Il generale non me lo ha saputo spiegare. Si capisce che è la prima cosa che ho chiesto. Lei ha sicuramente ragione» ha aggiunto, voltandosi verso di me, «è la stessa cosa che mi è stata detta al telefono. Tuttavia non possiamo pensare che, da qui in avanti, la situazione non avrà una sua evoluzione. Verrà chiesto il nostro aiuto e noi dobbiamo farci trovare pronti: sono convinto che non più tardi di giovedì riceveremo il pezzo da decifrare.» «Probabilmente è una richiesta» ho detto io. «Una richiesta?» «In aperta campagna è più facile recuperare i pezzi e ricomporli. Se è un’intimidazione o una serie di condizioni, vogliono che abbiano effetto immediato.» «In ogni caso» ha detto Herbat, con il solo pollice libero dalla presa dell’elastico, «da domani si torna nelle aule. È più sicuro e le ragazze non devono vedere cosa succede fuori. Hanna, si prenda delle ore in più, nel pomeriggio, per le ore di lettura, ma non le spaventi. Se le chiedono qualcosa, risponda, ma dica loro che il pericolo è ancora lontano.» Sono risalito nel mio nido con una voglia irrefrenabile di uscire e di andare sul posto. I nidi dei professori sono in corsie separate da quelle delle ragazze, e tuttavia, per arrivarci, noi docenti dobbiamo attraversare uno dei loro corridoi. È anche un modo per farle sentire controllate e per costringerle a non fare baccano. Appena sono arrivato al piano ho cominciato a camminare con lentezza. Ho avuto la tentazione di accostare l’orecchio alle porte e di ascoltare i rumori all’interno. Ma tutto sembrava tranquillo, le porte erano chiuse e non si sentivano voci, solo il rullio degli impianti ad aria condizionata. Probabilmente dormivano tutte quante al momento dell’esplosione, e non si sono svegliate: se si tengono chiuse le finestre, i nidi sono protetti dai rumori esterni, anche se quello di una bomba che scoppia a pochi chilometri dovrebbe scavalcare l’insonorizzazione. la calligrafia come arte della guerra Ho passato tutte le stanze della mia ala, finché ho sentito chiamare il mio nome, preceduto dal titolo onorifico di Magister. Mi sono voltato di scatto, quasi spaventato. Hina stava in piedi a pochi metri dietro di me, a piedi nudi, con indosso una vestaglia da notte bianca e accollata e le mani intrecciate sulla pancia. «Magister, sono Hina.» «Hina! Cosa ci fai ancora sveglia? Lo sai che non potete uscire dai vostri nidi durante la notte?» «Magister, cosa è stato? Ho sentito un rumore enorme…» «Non parlare ad alta voce in corridoio, sveglierai qualcuno.» L’ho portata dietro l’angolo della corsia dei docenti. «Parla a bassa voce anche qui» ho detto, «sono tutti svegli.» «È stata una bomba, vero?» «Come hai fatto ad accorgertene?» «Io di notte prima di dormire guardo un po’ fuori, tengo la finestra aperta.» «E la tua compagna?» «Chi? Holivia? Si addormenta sempre verso le nove. Le leggo una storia. Non le dà fastidio se tengo accesa la luce.» Aveva i capelli sciolti e neri, arricciati sulle tempie. «È stata una bomba, vero?» «L’hanno lanciata lontano, in campagna. Abbiamo telefonato alla caserma per informarci. Non è successo niente.» «Ma l’hanno lanciata!» «Sì, ma non hanno voluto uccidere, non ancora. Domani sarà una giornata come le altre. Con ogni probabilità è una bomba diplomatica, ne hai mai sentito parlare? Hanno voluto dirci qualcosa. Nei prossimi giorni ci sarà un po’ da lavorare.» L’ho vista che tremava sotto la camicia da notte, e mi guardava fisso negli occhi. «Non avere paura» le ho detto. «Qui dentro siamo al sicuro. Non devi dire niente alle tue compagne, quello è compito nostro.» Ha fatto di sì con la testa. Mi ha chiesto se potevo riaccompagnarla verso il suo nido. Si è girata a guardarmi sulla soglia. «Comincerà di nuovo la guerra?» «Non è mai finita. Probabilmente è iniziata una nuova fase, ma dobbiamo aspettare per poter capire.» andrea tarabbia Mi ha abbracciato stretto, a lungo, ho sentito le ossa del suo sterno premere contro la mia pancia e tremare. ix Sogno. Sono seduto sopra un’escrescenza del terreno che è sotto un ulivo. C’è il sole e fa caldo. Non riesco a leggere il titolo di copertina del volume che ho tra le mani e che sto leggendo tenendo ferme le pagine con la mano aperta perché c’è vento. Sono molto concentrato, anche se nel sogno non sono in grado di distinguere le parole che mi passano sotto gli occhi. Forse è Mentre morivo. Sento un colpo molto lieve sul piede destro, ho un piccolo sussulto perché ero molto concentrato. Una lucertola giovane è andata a sbattere contro la suola della scarpa, chissà come ha fatto a non accorgersi di me. La guardo che scappa via a scatti nervosi. Seguo con gli occhi la traiettoria della sua corsa, che è molto irregolare: sbatte di continuo contro i sassi e si lascia sorprendere dalle gibbosità del sentiero. A pochi metri da me, prima di infilarsi in un pertugio, riesce addirittura a ribaltarsi. Si gira subito, sparisce. Riprendo a leggere, sono sempre più convinto che si tratti di Faulkner. Mentalmente, nel sonno, mi ricordo di Darl. Sento un altro colpo, questa volta alla spalla. Mi volto di scatto, una seconda lucertola, anch’essa molto giovane, rotola giù dalla mia camicia e si sfracella. Si volta con un colpo di coda, muove nervosamente il collo a destra e a manca, corre via terrorizzata. Mi guardo un po’ attorno, butto lo sguardo verso l’ulivo sopra di me. Un’altra lucertola mi cade sulla coscia. Questa volta l’ho vista staccarsi dall’albero e cadere e ho lanciato un urlo che non ha sentito nessuno. La bestia scivola lungo i jeans e atterra su un sasso. Mi guardo attorno senza capire. Un’altra lucertola plana tra le pagine 114 e 115. Per un riflesso incondizionato, mollo il volume e lo lascio cadere, chiudendovi involontariamente dentro l’animale spaventato. Poi me ne cade un’altra sulla spalla, mentre quella nel Faulkner si libera del libro e fugge lontano. Un’altra, sulla gamba. Tento di alzarmi, ne sento qualcuna piovere sulla schiena e comincio a divincolarmi, mi tocco convulsamente dappertutto perché sono terrorizzato dal fatto che una di loro possa infilarsi dentro la camicia. Guardo di nuovo verso la calligrafia come arte della guerra l’alto: da tutto l’ulivo stanno piovendo lucertole, cadono a intervalli regolari, piombano sul terreno e su di me. Si staccano dai rami e si lasciano cadere nel vuoto a peso morto. Una di loro mi atterra su una lente, si aggrappa con le sue ventosine al vetro e lo unge. C’è una frazione di secondo in cui io e lei ci guardiamo, divisi solo da una lama di vetro ottico. I suoi occhietti miopi che si muovono in tutte le direzioni, la sua linguetta da rettile. Getto gli occhiali lontano con uno strattone. Ho lucertole tra i capelli, continua a piovere e per me è molto difficile fuggire da sotto l’ulivo. Urlo, mi divincolo, strappo via le lucertole dalla testa. Mi sembra di sentirle gridare quando le afferro e le lancio lontano. Ho dei sussulti di vomito, mentre le bestie cadono dall’albero come olive e mi ricoprono, e ricoprono il terreno attorno a me con uno strato di carne fredda e nervosa. Ci sono tre dita di lucertole ai miei piedi e non vuol smettere di piovere dall’ulivo. Riesco finalmente a fare un balzo in avanti, mi tolgo la camicia e la rivolto molte volte per vedere se è invasa di animali. Raccolgo Faulkner. Dall’ulivo piove ancora questa cascata eterna di animali, proviene dal terreno un rumore sordo che è la somma di centinaia di piccoli tonfi di corpi in caduta libera e in fuga verso altre zone del giardino. Cerco e trovo gli occhiali, sono sporchi di terra e una lente porta la sagoma del corpo di lucertola che l’ha impressa e mi ha guardato. Guardo l’ulivo da lontano, con un occhio solo. Un muro di squame cade ancora in tutto il suo disordine e in tutto il suo nervosismo e l’albero sembra non doversi svuotare mai. Vomito da in piedi, perché ho paura ad accovacciarmi. Comincio a correre. x Piove. Piove su questa terra dove da secoli non piove più, piove una pioggia densa e fitta che ingrassa il terreno sotto gli ulivi e lava via la polvere e il caldo e le lucertole che non ci sono. C’è sempre qualche cosa che cade dal cielo, e che si rovescia sopra queste nostre teste sempre tese per un motivo o per l’altro a guardare all’insù. La pioggia ci ha risparmiato di dover spiegare alle ragazze perché, all’improvviso, abbiamo deciso di non tenere più le lezioni in giardino. andrea tarabbia Appena sveglio, ho aperto la finestra del nido e mi sono messo a guardare fuori. Ho visto un’alta torre di fumo nero che rimaneva ferma nell’atmosfera, sospesa sopra quel pezzo di campagna massacrato e cosparso di uomini e militari che cercano un’ampolla da decifrare tra le sterpaglie e i campi coltivati. Ho pensato che difficilmente le ragazze non vedranno la torre nera, e non potremo fare finta di niente per molto. Ci siamo trovati tutti quanti in sala professori per ripianificare il programma didattico. Hanna non ha dormito, si è presentata con un enorme paio di occhiali da sole che nascondevano le occhiaie. «Ho guardato fuori fino all’alba» mi ha detto invece di salutarmi. Avevamo tutti delle facce piuttosto tese, Horson si grattava continuamente il pizzetto da junghiano mentre prendevamo posto attorno al tavolo e aspettavamo il preside Herbat. «Hanno già completato il recupero» ha detto il preside entrando. «L’ampolla è stata ritrovata questa mattina poco prima dell’alba dagli artificieri. Era a qualche centinaio di metri dal punto dell’impatto, perfettamente integra. Il generale Homanat, con cui ho parlato al telefono mezz’ora fa, ha chiesto un incontro con me e con voi per oggi pomeriggio. Dice che ci verrà portata al più presto l’ampolla da decifrare, non appena gli artificieri avranno dato il nulla osta al trasferimento.» Mi è sembrato che l’aria sopra il tavolo vibrasse per un momento, come scossa dal colpo di coda di una lucertola. Siamo rimasti in silenzio per alcuni secondi, chi guardava i volti degli altri, chi fissava il vuoto, chi giocherellava con un pezzo di matita. È stato il preside Herbat a riprendere la parola: «Tra poco le ragazze saranno in refettorio» ha detto, «e per loro comincerà una giornata in tutto e per tutto normale.» Ha estratto la sua pipa dal cassetto, e con essa il suo supporto di legno. Ha appoggiato il corpo del braciere sulla struttura del supporto, ha cercato il tabacco e ha cominciato a caricarlo facendo pressione col pollice. Poi si è abbassato verso il tavolo, ha preso in bocca il bocchino appoggiando il mento alla superficie di legno e con la mano sinistra ha avvicinato il fiammifero al braciere. Si è acceso la pipa e ha tirato una lunga boccata caramellando l’aria sopra il tavolo. «È inutile che vi ripeta che non bisognerà allarmarle.» la calligrafia come arte della guerra «Cosa diremo?» ha chiesto Hanna, inarcando le sopracciglia sopra la montatura. «Mi sembra naturale che non possiamo far finta di niente.» Mi sono voltato verso la torre nera bagnata di pioggia. «Ha ragione» ha risposto Herbat. «Andando in refettorio noteranno sicuramente la colonna di fumo. Bisognerà tranquillizzarle, dire loro che sono al sicuro e che al momento non è accaduto niente di grave. Le convocheremo tutte quante nell’aula magna dopo colazione.» Hanna si è passata due dita sul naso, sotto gli occhiali. «Bisogna anche che sappiano che in questi giorni intensificheremo le ore di lettura e calligrafia» ho detto. «Bisogna dire tutto così com’è. È inutile fare giri di parole.» Horson mi ha guardato tirando un sospiro. «Ha ragione. Ma alcune di loro sono qui da poco…» ha detto. «Non dico che non debbano sapere, ma lei deve tenere conto che ci sono casi di ragazze che hanno perso la famiglia da poche settimane, qualcuna solo da alcuni giorni. Alcune sono molto piccole, per loro la guerra non c’è mai stata, o comunque è cominciata nel momento in cui sono diventate orfane. Non conoscono le ragioni del conflitto, non si spiegano perché i loro genitori siano morti. Non si può spiattellargli tutto in faccia in tre frasi.» «Ma non sono qui per imparare l’arte del messaggio, della disciplina e dell’amor patrio?» ho detto io. Herbat mi ha fulminato con un’occhiata. «Non volevo essere cinico. Intendevo dire che mi sono sembrate tutte molto, come dire… Coscienti di quanto ci succede intorno.» Horson si è drizzato sulla schiena. «Oh, sì. Ma perlopiù sono bambine, non se lo dimentichi. Non è certo una formula ripetuta davanti alla classe che le può rendere consapevoli appieno della loro situazione e di quella di tutto il paese. La maggior parte di loro, quando è a colloquio con me nel mio studio, non riesce a parlarne.» Si sono sentite alcune voci femminili provenire dal corridoio. Le ragazze uscivano dai bagni collettivi dopo essersi lavate e andavano verso il refettorio per la colazione. Senza dire niente, il preside Herbat si è alzato all’improvviso e ha aperto la porta della sala professori. Il flusso dei passi si è bloccato all’improvviso, e un andrea tarabbia enorme «Buongiooorno!» ha riempito la stanza. Tutte le nostre allieve ferme ritte all’impiedi e voltate verso la figura del loro preside con la pipa in bocca. «Buongiorno a voi. Non fate tutto questo rumore, per favore. Siamo in riunione» ha detto lui. «Oggi piove, perciò le lezioni si terranno nelle classi secondo il programma, ma prima abbiamo bisogno di comunicarvi alcune cose. Ci vediamo dopo colazione nell’aula magna. Arrivederci.» Herbat ha richiuso la porta ed è tornato al posto. «Non doveva farlo, non così» ha detto Horson. «Che cosa?» «Lei non era mai uscito per salutarle prima di colazione, e noi non abbiamo mai fatto una riunione alla mattina presto.» C’è stato un attimo di imbarazzo. Ho pensato che all’interno di quel flusso compatto una di loro, Hina, sapeva già tutto e forse non si era stupita di vedere il preside. Haron, il professore di storia, si è alzato, e ha cominciato a caricare la macchinetta del caffè. «Chi ne vuole?» ha chiesto. Abbiamo alzato la mano in due. «Non ci ho pensato» ha detto Herbat. «Ma in qualche modo bisognava avvisarle della riunione in aula magna, e ho pensato che…» «Non si preoccupi» ho detto, indicando fuori dalla finestra. «C’è una colonna di fumo nero alta almeno 70 metri a pochi chilometri da qui. L’avranno vista tutte e ne avranno già discusso. Le più grandi forse lo avranno capito, e in ogni caso entro mezz’ora scopriranno tutte quante cosa sta succedendo.» Haron ci ha portato i caffè e si è seduto a mescolare lo zucchero. «Immagino che i nostri orari saranno ridotti» ha detto. «I nostri orari?» «Quelli di chi non è né Lector né Magister calligraphiae. Non è vero che le lezioni si terranno secondo il programma. Ragion di Stato.» «È naturale» ha detto Herbat. «Prenda per favore i registri.» Haron si è alzato di nuovo, con il bicchiere di plastica in mano. È andato all’armadio e ha tirato fuori i registri di tutte le classi. Herbat li ha messi davanti a Hanna e a me. «Prendete carta e penna e segnate i nomi delle alunne migliori la calligrafia come arte della guerra nelle vostre discipline, per favore. Lei, ormai, dovrebbe conoscerle» ha detto, rivolgendomi l’ultima frase. «Le alunne che non compariranno in quei due elenchi faranno lezioni alternative con voi» ha detto poi Herbat rivolgendosi a Haron e agli altri presenti. «Si tratta di qualche giorno, abbiamo bisogno che le alunne migliori si esercitino molto seriamente.» Il preside ha poi chiesto di vedere gli elenchi, il mio e quello di Hanna. Su entrambi, ho notato, comparivano quasi gli stessi nominativi, in tutto una quindicina per foglio. Herbat ha letto con attenzione i fogli e poi mi ha guardato a lungo. «È qui da poco, lo so» ho detto. «Ma è necessario che ci sia.» Horson si è fatto passare il foglio da me redatto e ha sgranato quasi subito gli occhi. «È qui da poco?» ha esclamato. «È qui da meno di un mese! Non ha ancora finito il primo giro di alfabeto!» Tutti hanno voluto leggere il nome che avevo scritto. Sono stato tentato per un istante di raccontare l’incontro notturno, e di giustificarmi dicendo che non me la sentivo di lasciarla fuori dalle attività, ma non l’ho fatto, ho aspettato che finisse il giro di lettura mentre Horson sproloquiava che la situazione era molto seria, che Hina non era pronta, e che la morte dei genitori era ancora troppo fresca per farla partecipare a un atto di guerra. Sollevando il suo pezzo di braccio il preside Herbat ha messo a tacere tutti e mi ha guardato di nuovo a lungo. «Magister» ha detto, «lei è davvero sicuro della sua scelta? Ci può fornire delle motivazioni che siano almeno plausibili?» «Hina non ha ancora appreso tutto l’alfabeto, ma ha talento» ho detto. «Si impegna e riesce bene, anche se per ovvie ragioni non può essere tra le più brave. Ma per quanto ne sappiamo, questa situazione può andare avanti per settimane o mesi, e lei prima di Natale compirà sedici anni. Non mi sembra giusto escluderla dalle lezioni. Lei si è iscritta per imparare, e voi l’avete accettata. Se il momento impone un cambio nei programmi, non è comunque giusto che la ragazza venga privata della possibilità di studiare calligrafia. Per quanto riguarda me, avere un’allieva in più o in meno non cambia le cose.» andrea tarabbia «Non è l’unica in quella situazione» ha detto Horson. «Invece sì. Nessun’altra delle ultime arrivate ha più di quindici anni.» «Questo le causerà dei problemi con le compagne.» «Sarà tutto lavoro per lei, dottor Horson.» «Bene» ha detto Herbat interrompendoci. «Se siete tutti d’accordo, Hina seguirà le lezioni di calligrafia… e di lettura.» Ci siamo voltati tutti verso Hanna. «Il gruppo delle prescelte deve rimanere compatto, le quindici ragazze seguiranno lo stesso programma intensivo con voi due. D’accordo?» Tutti abbiamo annuito. «Bene. È deciso. Dividetevi le quindici in due gruppi, uno da sette e uno da otto. Mettete Hina in quello da otto. Il gruppo che la mattina lavorerà con la Lector farà calligrafia nel pomeriggio e viceversa. Vi lascio la completa gestione dei gruppi, anche se, naturalmente, passerò spesso a farvi visita. Prenderete le aule H1 e H2, si comincia subito dopo l’assemblea in aula magna.» Herbat si è interrotto per un istante, ha tirato una lunga boccata dalla sua pipa, e poi: «Quando il generale Homanat verrà in visita all’Istituto» ha aggiunto, «vorrà parlare con le ragazze, oltre che con tutti voi. Probabilmente insieme a lui arriverà anche l’ampolla, e bisognerà cominciare a lavorarci al più presto. Preparate le allieve all’incontro. Io non ho più niente da dirvi. Abbiate tatto, soprattutto chi avrà a che fare con le allieve più grandi. Buone lezioni.» Tutti ci siamo alzati dai nostri posti. Ho raccolto i bicchieri di plastica e li ho gettati nel cestino, mescolando fra loro i fondi di caffè. Prima di uscire ho sentito la mano di Herbat sfiorarmi una spalla. «Ci fidiamo di lei» ha detto. xi Abbiamo radunato le nostre ragazze. Le finestre dell’aula magna sono più ampie di quelle delle altre sale, entra più luce, e non mi aspettavo di trovarvi un’atmosfera così buia. Pioveva obliquo contro le superfici verticali dei vetri, e l’enorme torre nera pareva gettare un cono d’ombra su tutta la città e sull’Istituto che ne è il culmine. Ho deciso di aprire tutte le tende, perché le ragazze, entrando, potessero la calligrafia come arte della guerra trovarsi subito di fronte alla torre nera, che del resto dovevano aver già visto. Le abbiamo attese distribuendoci sul tavolo a mezzaluna dei relatori, col preside al centro e me e Hanna ai lati. Horson è andato a prenderle in sala mensa. Herbat aveva svuotato la pipa e se la rigirava in mano osservando il movimento delle proprie nocche. Mi sono voltato verso Hanna: «Togliti gli occhiali» le ho detto. «Non c’è motivo per cui tu debba tenerli e mostrarti nervosa. È almeno mezz’ora che non parli.» Se li è tolti, e ha cominciato a massaggiarsi le occhiaie. «Non me lo aspettavo, tutto qui. Non è la mia prima bomba, ma eravamo convinti nonostante tutto di essere in un periodo di calma relativa, e forse mi ero convinta di essere al sicuro. Voglio vedere le ragazze, con loro mi scioglierò e tutto sarà normale.» Sono entrate in fila a due a due, seguite da Horson che le contava mentre varcavano la soglia. Hanno preso posto in silenzio sulle sedie, guardando fuori dalla finestra, oltre il muro d’acqua. Ho cercato Hina con lo sguardo, lei guardava me e non ha sorriso. Era seduta accanto alla bambina con cui condivide il nido e le teneva una mano sul grembo. «Buongiorno, ragazze» ha esordito Herbat, e subito si è voltato verso la finestra. «Vi starete domandando la ragione per cui vi abbiamo convocate tutte quante qui a quest’ora insolita per un’assemblea d’Istituto… Vi starete anche chiedendo, immagino, cosa sia e perché sia comparsa la colonna di fumo nero che vedete se guardate fuori dalla finestra…» Dicendo questo, Herbat ha indicato con il manico della pipa la torre nera oltre la pioggia, e tutti ci siamo voltati di nuovo. Piovono gocce grosse come scarafaggi, creano dei piccoli pieni d’acqua circolari sui vetri. L’acqua si slabbra subito, comincia a colare verso terra e ad allungarsi, lascia degli aloni che vengono subito lavati via da un nuovo scarafaggio pronto a farsi vincere dalla forza di gravità e a infilarsi nelle guarnizioni basse dell’infisso. Il rumore della pioggia viene amplificato dal tetto che ci sta sopra e ci protegge, e a tratti è così intenso che sembra una festa di corpi in caduta libera. Herbat è costretto a ripetere l’ultima frase per farsi sentire anche dalle ragazze che hanno trovato posto nel fondo dell’aula. andrea tarabbia «Questa notte, non credo che qualcuna di voi se ne sia potuta accorgere» io e Hina ci guardiamo senza espressione, «è successo qualcosa di molto importante nelle campagne attorno a noi: è stata lanciata una bomba d’avvertimento che non ha causato né morti né feriti perché è caduta in un’area coltivata e completamente disabitata.» Le ragazze mormorano, le più piccole chiedono qualcosa alle più grandi. «Buone, buone» dice Herbat. «Non c’è da allarmarsi e da aver paura: per il momento ci vogliono soltanto comunicare qualcosa. Quella lunga colonna nera di fumo è il risultato del lancio di stanotte, che non può essere definito un vero e proprio attacco. Gli artificieri e l’esercito si sono mobilitati e hanno già recuperato l’ampolla col messaggio calligrafato e ce la porteranno al più presto. Per il momento non sappiamo ancora cosa intendano chiederci o dirci attraverso l’ampolla, anzi, sarà compito nostro decifrarlo ed elaborare una risposta di comune accordo con il generale Homanat.» Tutte le ragazze hanno cominciato a parlare tra loro animatamente e si sono zittite soltanto dopo che Herbat e Horson si sono messi a urlare di fare silenzio. «Non corriamo nessun pericolo» ha detto Horson. «Noi non siamo un obiettivo e non lo possiamo essere. In ogni caso, lo ripetiamo, la città non è stata oggetto di un attacco. È stata una bomba diplomatica, come l’ha definita il vostro Magister. Ce ne saranno probabilmente altre, e dobbiamo accoglierle con tranquillità perché non costituiscono un pericolo per le nostre vite e il nostro lavoro.» «Sì» lo ha interrotto Herbat, agitando il moncherino nell’aria vuota, «si è trattato di un messaggio, di un avvertimento. Conosceremo presto il senso reale di questa iniziativa nemica, ma tutto sembra indicare che non abbiamo nulla da temere e che voi dovete continuare a comportarvi come avete sempre fatto.» Herbat ha cominciato a dare istruzioni alle ragazze sul nuovo regime di insegnamento provvisorio. Ha chiesto a Hanna di allungargli il foglio con i quindici nominativi delle prescelte, ha posato la pipa e li ha letti ad alta voce. Le quindici ragazze, Hina compresa, si sono alzate e hanno ringraziato. Hina era la più stupita, e deve aver capito cos’era successo perché mi ha guardato. Haron e gli altri hanno preso in consegna le ragazze rimaste e sono la calligrafia come arte della guerra usciti dall’aula magna per andare a lezione. Noi abbiamo spiegato alle quindici quello che si chiedeva loro. xii Abbiamo scritto per molte ore, quel primo giorno. Alcune ragazze erano brave, molto avanti con la preparazione. Ho voluto che Hina si posizionasse davanti, vicino a me e di fianco a quella che tra tutte mi sembra la calligrafa più dotata. Davo ordini che Hina non poteva comprendere e Hasja, la prima della classe, aveva la pazienza di aiutarla. Nessuna di loro mi ha fatto domande sul perché fosse nel gruppo un’allieva che non aveva ancora terminato di apprendere l’alfabeto, probabilmente tutte sentivano il peso di quanto sarebbe successo di lì a poche ore o giorni e non badavano alle contingenze. Hina è parsa molto stupita della velocità con cui le sue compagne sanno mettersi le fasce, ma non ha mai mostrato imbarazzo e si è applicata al meglio. Lavoravamo con le tende aperte, per far entrare più luce. Calligrafare un’ampolla con la luce artificiale rende più facile commettere delle imperfezioni, e quella luce grigia di pioggia era comunque preferibile ai neon dell’aula H1. Non sapendo con che frase cominciare, ho pensato di far scrivere, in caratteri sempre più minuti, ritornati e precisi, il testo dell’incisione che ci accoglie quando entriamo nell’edificio centrale: Semper laboremus quia in labore est laetitia. Ascoltavo il rumore dei pennelli sulle superfici delle ampolle e guardavo fuori dalla finestra verso la torre nera. «Magister, ho finito» ha detto Hasja dopo un’ora. Mi sono avvicinato a lei e ho cominciato a controllare le frasi che aveva scritto. «Se vuole, intanto che le altre finiscono, posso dare una mano a Hina con la sua ampolla.» Hina non aveva ancora terminato il primo giro di frasi. Mi sono avvicinato e le ho chiesto come andasse il lavoro. «Magister» ha risposto, «faccio molta fatica. È molto difficile la q.» «Lo so. È perché non l’hai ancora studiata. Hasja si è offerta di andrea tarabbia aiutarti. Farai molti più progressi stando qui qualche giorno che in due mesi con la tua classe.» «Lo so, Magister. Grazie.» Hasja si è seduta accanto a Hina e ha cominciato a guidarle la mano lungo l’ampolla. L’ora di pranzo è arrivata velocemente, e mezz’ora prima che suonasse la campanella ho detto alle ragazze di posare i pennelli, di togliere le fasce e lasciare che girassi fra i treppiedi per controllare gli esiti. Hina è stata l’unica a non terminare il compito, ma, con l’aiuto di Hasja, aveva fatto un buon lavoro. Mi sono complimentato con lei. Hasja potrebbe lavorare senza fasce, ormai, e come lei almeno altre due allieve sono diventate calligrafe esperte. Nella nostra scuola, dire a un’allieva che è in grado di lavorare senza fasce è la lode più grande, è come conferirle il massimo dei voti. Hina mi ha avvicinato mentre tutti uscivamo dall’aula per andare a pranzo. «Magister» ha detto. Aveva la mano arrossata e la fascia le aveva lasciato dei piccoli segni orizzontali lungo la circonferenza del polso. «Ti fa male la mano?» ho chiesto. «Non avevo mai lavorato con questo ritmo. Faccio molta fatica. Senza Hasja…» «Sei brava» l’ho interrotta. «Ci sono molte cose che non conosci, ma sei intelligente. In qualche giorno di immersione completa nello studio acquisterai la manualità necessaria per liberarti dei segni sui polsi e per lavorare in scioltezza.» «Lei sa benissimo che non sono all’altezza. Perché mi ha scelta? Per l’altra notte?» «Non voglio che tu rimanga indietro, tutto qui. Non te lo meriti.» «Ma mi mancano le basi…» L’ho presa da parte. Lei mi guardava, massaggiandosi il polso. «Faranno quanto promesso?» ha chiesto. «Non lo so. Non credo che il messaggio ce lo dirà, che sarà così chiaro. Pomeriggio va’ alla lezione di lettura, impegnati e non ci pensare.» Hina continuava a sostenere il mio sguardo. «Ha informato gli la calligrafia come arte della guerra altri docenti di quanto scrivevano i giornali prima che io e lei arrivassimo qui?» «No. Hanno preso così male i fatti di questa notte che è meglio aspettare qualche giorno, e vedere prima cosa c’è scritto sull’ampolla.» «Ma qui dentro» ha detto poi, «del massacro di L. qualcuno sa qualcosa?» xiii Il generale Homanat, insieme ad alcuni ufficiali dell’esercito, ha fermato la jeep nel cortile d’ingresso dell’Istituto. Erano seguiti da una camionetta piena di soldati, che hanno cominciato a scaricare un piccolo involto molto pesante. Siamo usciti tutti nel cortile ad accoglierli, il preside Herbat in testa. Il preside e il generale si sono stretti la mano sinistra, e mentre i bidelli accompagnavano i soldati verso il montacarichi la delegazione è stata fatta accomodare nell’aula magna. Homanat è un uomo grasso e macrocefalo, con una voce da generale. Si è lasciato cadere su una poltrona e si è messo a guardare fuori dalla finestra. «Questa pioggia non vuole smettere di cadere» ha detto. «La maggior parte delle strade è coperta di fango, il fiume si sta ingrossando. La zona del lancio è ormai inagibile. Anche per questo ci abbiamo messo più tempo del normale per recuperare l’ampolla: i campi sono una specie di acquitrino.» «Ha cominciato a piovere verso l’alba della notte del lancio» ha detto Hanna. «Oh sì, e non ha mai smesso. I miei uomini hanno fatto un buon lavoro, ma per forza di cose è andato a rilento.» Un bidello ha bussato, e senza aspettare risposta ha aperto la porta dell’aula magna. Tre soldati sono entrati spingendo un carrello, su cui era posata la forma dell’ampolla ricoperta da un telo bianco. Ci siamo voltati tutti verso l’oggetto nascosto. «Quando l’abbiamo recuperata» ha detto Homanat accennando col mento alla testata, «era già interamente coperta di fango. L’abbiamo ripulita per bene.» andrea tarabbia «Posso?» ha chiesto Hanna. Si è alzata e ha camminato a grandi passi verso il telo bianco. Un soldato ha scoperto con delicatezza la testata, e tutti ci siamo sollevati dai nostri posti per vederla. Si era scheggiata solo nella parte inferiore. Hanna le ha girato a lungo attorno, l’ha esaminata con attenzione. L’ho vista impallidire di colpo, ma è riuscita a mantenere un contegno. «È quasi intatta» ha detto senza voltarsi. «L’avete pulita molto bene, non avete cancellato nessuna traccia calligrafica.» «I miei uomini sono molto preparati» ha detto Homanat. «Allora?» ha chiesto Herbat rivolgendosi a Hanna. «Hanno usato il Codex Verbi Deorum» ha detto lei voltandosi, questa volta. Il suo volto era preoccupato. La voce le è tremata leggermente sulla prima u. «Il Codex Verbi Deorum?» ha sbottato Homanat. «È impossibile! È scritta in Codex Verbi Deorum! Ne è sicura?» «Assolutamente.» Mi sono alzato e mi sono avvicinato alla bomba. Le ho girato attorno per qualche passo, ma il carattere usato mi era stato chiaro fin da subito. «Sì, generale» ho detto. «È scritta in Codex Verbi Deorum.» Tutte le bocche hanno sputato delle esclamazioni che sono confluite in brusio concitato. «Dovrò informare immediatamente il ministro» ha detto Homanat come tra sé. «Il Codex Verbi Deorum… Riuscite già a stabilire a grandi linee cosa ci hanno voluto comunicare?» Hanna si è massaggiata gli occhi, e gli zigomi. Mi ha lanciato uno sguardo che tutti hanno notato, ma che solo io devo aver capito. «No, generale» ha detto intanto. «Qualche ora ce la deve dare, questa non è la nostra lingua. E il codice che hanno usato… Il Codex Verbi… Francamente è una scelta incomprensibile.» xiv Il Codex Verbi Deorum appartiene come gli altri al ceppo indoiranico e risale all’epoca della prima disseminazione dei popoli di quelli terre, alcuni dei quali si sono stanziati nella nostra zona e la calligrafia come arte della guerra hanno dato vita, nel corso dei secoli, alla tradizione calligrafica di cui anch’io mi sento parte. Questo Codex, che è in assoluto il più nobile ed elegante, appartiene alla prima delle tre ramificazioni fondamentali dell’Ars Calligraphiae che vado insegnando, e che si può riassumere nello schema seguente: Codex Verbi Deorum, grazie al quale da secoli riportiamo e interpretiamo la parola di Dio. È, come dicevo, il più elegante, ma anche il più antico e il più difficile. Codex Civilis, che si suddivide nei Codici: Familiaris et Sexualis, usato per regolamentare la vita famigliare, Rei Publicae, che è il codice delle leggi e dell’amministrazione pubblica e sociale, e Belli, il codice della guerra. È, come si vede, il codice più comune e più diffuso; è una sorta di linguaggio standard, per noi: ci stampiamo i libri, ci prendiamo gli appunti, ci firmiamo i documenti. Essendo il più comune, tutti lo conosciamo alla perfezione. Codex Artis, con cui da secoli calligrafiamo e interpretiamo le arti tutte, e che differisce (anche se di poco) a seconda dell’arte di cui tratta. Esiste un quarto codice, che teniamo separato dagli altri perché è un codice di genere, per così dire: è il Codex Muliebris, con cui per molti secoli le donne a cui era permesso hanno calligrafato e dissertato di tutti gli argomenti, compresi quelli appartenenti alle tre fondamentali categorie. Esso è il più grezzo ma anche il più ricco di varianti, dato che da solo deve coprire tutte le categorie che ho appena elencato. Ogni codice è in sostanza un alfabeto, o, come mi piace dire, un «modo per trattare una lettera». Ogni codice codifica un argomento: ad esempio, trovare uno scritto antico redatto con l’utilizzo del Codex Artis ci rende noto, prima ancora di cominciare a leggere, che la pagina che abbiamo tra le mani tratterà un argomento artistico. Fra i tre codici della seconda specie ci sono differenze minime, ed è per questo che vengono raggruppati sotto un’unica categoria. Alle nostre ragazze insegniamo tutti i codici principali, compreso quello Muliebris, anche se ormai non viene più utilizzato e non è considerato molto importante. Devono imparare, come si vede, un numero elevatissimo di tecniche e linguaggi alfabetici. NOTE SULL’EDIZIONE La calligrafia come arte della guerra di Andrea Tarabbia Editing Impaginazione Correzione delle bozze Promozione e distribuzione Giulio Milani Dario Rossi Giada Perini Dario Rossi pde Italia La nuova casa editrice Transeuropa ha sede dal a Massa, in Toscana, ed è stata (ri)fondata da Giulio Milani e Marco Rovelli. Al momento in cui questo libro va in stampa la nostra compagine è così composta: Direzione editoriale e amministrativa Direttore collana Narratori delle riserve Direttore collana Margini a fuoco Direttori collana Girardiana e La realtà umana Direttori collana Differenze Direttore collana Istruzione Responsabile corsi Segreteria di redazione Art director Direttore collana Graphic Ufficio stampa Torino Milano Segreteria di edizione Redazione Giulio Milani Marco Rovelli Pierpaolo Antonello Giuseppe Fornari Gianni Vattimo Santiago Zabala Gabriel Del Sarto Floriane Pouillot Massimo Montepagani Demetrio Paolin Clara Collalti Giada Perini Sabrina Morabito Dario Rossi Per comunicare con la casa editrice: [email protected] Per seguire le nostre attività: www.transeuropaedizioni.it – www.facebook.com/transeuropa La nostra sede: via Alberica 40, 54100 Massa (casella postale 4) – Toscana, Italy Transeuropa, il nuovo per tradizione transeuropa aderisce al farm market su www.isbf.it COLLANA NARRATORI DELLE RISERVE volumi pubblicati: . Aa.Vv., a cura di G. Milani e M. Rovelli, I persecutori . Fabio Genovesi, Versilia rock city (a ed.) . Giuseppe Catozzella, Espianti (a ed.) . Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza (a ed.) . Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione 6. Aa.Vv., a cura di G. Milani, Over-Age. Apocalittici e disappropriati 7. Franz Krauspenhaar, L’inquieto vivere segreto 8. Stefano Amato, Le sirene di Rotterdam 9. Pier Vittorio Buffa, Ufficialmente dispersi 10. Riccardo De Gennaro, La Comune 1871 volumi in uscita: 12. Roberto Pusiol, Ritratto di Edi Tonon Gerontolescente (maggio 2010) 13. Paolo Passanisi, L’Angelo di Leonardo (giugno 2010) COLLANA MARGINI A FUOCO volumi pubblicati: . Giulio Milani (a cura di), Mario Rigoni Stern, Hermann Heidegger. Ritorno sul fronte . Giulio Milani (a cura di), Storia di Mario. Mario Rigoni Stern e il suo mondo . Marco Rovelli (a cura di), Con il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani 4. Stefano Amato, Fabio Genovesi, Franz Krauspenhaar, Guida letteraria alla sopravvivenza in tempi di crisi 5. Giulio Mozzi, Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi 6. Laura Bettanin, Finché l’erba crescerà e i fiumi scorreranno 7. René Girard, Prima dell’apocalisse 8. Simona Castiglione, La mente e le rose 9. Marino Magliani, Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo volumi in uscita: 10. Alessandro Volpi, Dizionario della crisi per ignoranti colti (maggio 2010) COLLANA LA REALTà UMANA volumi pubblicati: . Aa.Vv., Politiche di Caino. Il paradigma conflittuale del potere . Giuseppe Fornari, Filosofia di passione. Vittima e storicità radicale . James Alison, Fede oltre il risentimento. Coscienza cattolica e coscienza gay: risorse per il dibattito . Slavoj Žižek, La fragilità dell’assoluto (ovvero perché vale la pena combattere per le nostre radici cristiane) 5. Aa.Vv., La violenza allo specchio. Passione e sacrificio nel cinema contemporaneo 6. Slavoj Žižek, Eric Santner, Odia il prossimo tuo 7. Gabriele Lenzi, L’eterna fuga. Nascita del desiderio amoroso e strategie di dominio 8. Aa.Vv., Catastrofi generative. Mito, storia, letteratura COLLANA GIRARDIANA volumi pubblicati: . René Girard, Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale . René Girard, Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antro pologia . Aa.V.v., La spirale mimetica. Dodici studi per René Girard . Aa.V.v., Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana 5. René Girard, Edipo liberato. Saggi su rivalità e desiderio 6. Aa. Vv., Religioni, laicità, secolarizzazione COLLANA ALTRE SCRITTURE / MUSICA volumi pubblicati: (collana «fuori commercio»): . Gabriel Del Sarto, Meridiano ovest . Fabrizio Bajek, Gli ultimi . Tommaso Di Dio, Favole (collana «inaudita», plaquette di poesia + cd musicale): 1. Marco Rovelli, L’inappartenenza + cd Marco Rovelli e libertAria 2. Laura Pugno, gilgames’ + cd In absentia dei Kobayashi 3. Anna Lamberti Bocconi, Canto di una ragazza fascista dei miei tempi + cd Ballate di fine comunismo di Davide Giromini 4. Luigi di Ruscio, Angelo Ferracuti, Kamikaze e altre persone + cd Teeth di Joseph (maggio 2010) volumi in uscita: 5. Gian Maria Annovi, Kamikaze e altre persone + cd Teeth di Joseph Keckler (giugno 2010) finito di stampare, a milano, nel marzo 10