ROMA
TRE
News
n. 1 - 2008
Scenari globali
Interviste
Guido Fabiani. Roma Tre
e lo sviluppo sostenibile
Oliviero Toscani
«Tra cervello e cuore»
Jean-Loup Amselle
L’etnicizzazione del sociale
Dal Chiapas. La lotta delle donne
zapatiste tra rivoluzione e
autodeterminazione
Dalla Cina. L’impero
del socialiberismo
Dall’Amazzonia
Lo Stato di Amapà e le donne
vittime di escalpelamento
Università degli Studi Roma Tre - Via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it
Sommario
Editoriale
3
Primo piano
La realtà dei servizi di Roma Tre
Due studenti raccontano la loro esperienza
di Francesco Rossi e Carlo Guglielmo Vitale
44
Le trasformazioni del giornalismo nell’era di internet
Gli effetti della globalizzazione sulla carta stampata in una
tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi
di Silvia Venanzoni
45
46
Globalizzazione
Analisi delle conseguenze economiche
di Paolo Leon
5
Il ruolo dell’Europa nel mondo globale
La proposta di Maria Zambrano in una tesi in Filosofia
di Ester Monteleone
Il prezzo delle regole
L’impatto ambientale dei processi globali
di Giovanni Scarano
6
Rubriche
«La globalizzazione che funziona»
L’università come territorio di incontro
di Maria Vittoria Tessitore
8
10
«La fabbrica del consenso»
Dialogo filosofico tra Giorgio De Vincenti e Noam Chomsky
a cura di Alessandra Ciarletti
11
Vandana Shiva
Un occhio critico sulla globalizzazione
di Camilla Spinelli
14
Oliviero Toscani. «Tra cervello e cuore»
di Alessandra Ciarletti
16
La guerra dei marchi
Il culture jamming come fenomeno di resistenza culturale
di Lia Luchetti
18
Il giudice o lo storico?
Nell’inchiesta italiana sul Sistema Condor le storie
di venticinque desaparecidos
di Federica Martellini
20
22
23
«Occhiali scuri, non ci sono gli occhi»
Storia di un disastro colposo. Bhopal 1984
di Alessandra Ciarletti
26
Il gran rifiuto delle ecoballe
Il dramma napoletano come emblema di un sistema globale
iniquo e scellerato
di Valentina Cavalletti
27
Giulia Caneva e Paraskevi Tavladoraki
Gli OGM, pro e contro
a cura di Martina D’Ermo
29
Incontri
Roberto Morassut. Roma: città eterna o metropoli globalizzata? 32
a cura di Federica Martellini
Andrea Riccardi. Globalizzazione ed ecumenismo
a cura di Michela Monferrini
33
35
Reportage
La lotta delle donne zapatiste, tra rivoluzione
e autodeterminazione
dal Chiapas, Monica Pepe
37
L’impero del socialiberismo
dalla Cina, Indra Galbo
40
Il fiume dai capelli rossi
dall’Amazzonia, Elena Mortelliti
42
Orientamento
Sezione studenti iscritti
Corri... ma più veloce della luce!
di Gessica Cuscunà
L’Occidente visto dai media arabi
Il pluralismo della comunicazione tra est e ovest
di Michela Monferrini
51
Il libero mercato fa bene come un elettroshock
Shock Economy di Naomi Klein: l’ascesa
del capitalismo dei disastri
di Ornella Mollica
52
«Le parole sono pietre»
Nell’ambito del progetto Ethicamente,
una giornata di studio sull’etica della comunicazione
di Federica Martellini
53
Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre
numero 1/2008
Direttore responsabile
Anna Lisa Tota
Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Jean-Loup Amselle. L’etnicizzazione del sociale
di Michela Monferrini
Andrea Vidotto. Sostenibilità e riqualificazione
dell’ambiente urbano
di Camilla Spinelli
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48
Recensioni
Guido Fabiani. Roma Tre e lo sviluppo sostenibile
di Monica Pepe
Jenoside in Ruanda: tra significanti globali e
interpretazioni locali
Il percorso linguistico del riconoscimento di una barbarie
di Michela Fusaschi
Orme
Non tutti sanno che
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Coordinamento di redazione
Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento)
Federica Martellini (Ufficio orientamento)
Divisione politiche per gli studenti
Redazione
Marco Angelino (studente del C.d.L. in Finanza), Ugo Attisani (Ufficio orientamento), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio
orientamento), Tommaso D’Errico (studente del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (studente del C.d.L. in
Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli
studenti), Michela Monferrini (studentessa del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe
(Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione)
Hanno collaborato a questo numero
M° Isabella Ambrosini (direttore del Coro polifonico Roma Tre), Valentina Bellafante
(studentessa IV B del Liceo scientifico Federigo Enriques), Elisabetta Bischetti (studentessa del C.d.L. in Scienze biologiche), Martina D’Ermo (studentessa del C.d.L.
in Lettere), Giorgio De Vincenti (Direttore del Dipartimento Comunicazione e spettacolo), Margherita Fantoli (studentessa II C del Liceo classico Luciano Manara), Michela Fusaschi (docente di Antropologia culturale), Paolo Leon (docente di Economia pubblica), Lia Luchetti (collaboratrice della cattedra di Sociologia dei processi
culturali e comunicativi) Ornella Mollica (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Ester Monteleone (studentessa
laureata presso il C.d.L. in Filosofia), Elena Mortelliti (regista di documentari), Francesco Rossi (studente C.d.L. in Scienze giuridiche), Giovanni Scarano (docente di
Economia dell’ambiente coordinatore del Master in Ingegneria ed economia dell’ambiente e del territorio), Maria Vittoria Tessitore (docente di Teatro inglese del Novecento e coordinatrice del Master in Politiche dell’incontro e mediazione culturale
in contesto migratorio), Silvia Venanzoni (studentessa laureata presso il C.d.L. in
Teoria della comunicazione), Guglielmo Vitale (studente C.d.L. in Scienze politiche)
Immagini e foto
Adbusters Media Foundation, Amnesty International, Martina D’Ermo, Fondazione Giuseppe Tomasello, Indra Galbo, Maila Iacovelli, Magellan Geographix, Santa Barbara CA, Elena Mortelliti, Monica Pepe, Stefania Pepoli, Francesco Pompeo, Oliviero Toscani, Orazio Truglio, www.chomsky.info, www.naomiklein.org,
www.urbanhonking.com
Progetto grafico
Magda Paolillo
Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma
06 64561102 - www.conmedia.it
Impaginazione e stampa
Stilgrafica s.r.l.
Via Ignazio Pettinengo 31-33 - 00159 Roma
06 43588200 - www.stilgrafica.com
Copertina
Kaifeng, mercato notturno
Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998
La globalizzazione delle ingiustizie,
dei rifiuti e delle “cattive idee”
di Anna Lisa Tota
Anna Lisa Tota
Globalizzazione e diritti umani: un tema difficile
quello che abbiamo scelto per questo numero, ma
indubbiamente un tema centrale e scottante, con cui
dobbiamo e vogliamo confrontarci. Sui processi di
globalizzazione si sono spesi negli ultimi decenni
fiumi di inchiostro: dal sistema-mondo di Wallerstein alla shock-economy di Naomi Klein, dal cosmopolitismo di Edward Said alle monocolture della mente di Vandana Shiva o alla guerra dei semi,
per citare soltanto alcuni fra i molti autori possibili.
I grandi teorici della globalizzazione hanno analizzato i profondi mutamenti negli assetti geopolitici
del nostro globo. Quando le economie diventano sovranazionali, quando gli stati cessano di detenere il
monopolio della sovranità politica sul territorio perché interdipendenti gli uni dagli altri, l’assetto complessivo del globo viene totalmente ridefinito. Muta
la struttura, l’articolazione e la fisionomia del potere, mutano le Weltanschauungen dei cittadini, muta
il panorama complessivo entro cui possiamo nel
discorso pubblico (globale) radicare il passato e
guardare al futuro. Ci sono molte dimensioni su cui
interrogarsi nel processo di globalizzazione: in questo numero ne articoliamo soltanto alcune, dovendo
necessariamente operare delle scelte. Per noi allora
la globalizzazione è in primo luogo interdipendenza: interdipendenza nei consumi ad esempio, per
cui se io consumo ciò che a te serve per sopravvivere, devo imparare a riflettere sul fatto che il mio
consumo alla lunga finirà per minare la tua possibilità di sopravvivere. O ancora: se il mio consumo
inquina, significa che sto distruggendo pezzi dell’ambiente che non mi appartengono. Posso decidere di pagare, acquistando così il diritto di inquinare
e riproporre così la logica ferrea del capitalismo e
del mercato. Tuttavia stabilire il prezzo equo di
questa distruzione è un’operazione tutt’altro che
scontata e, soprattutto, il prezzo non può essere fissato da chi acquista, quando chi vende è così povero da non avere nessun potere negoziale oppure è
semplicemente impossibilitato a far sentire la propria voce perché non c’è, come nel caso delle generazioni future. Ma l’interdipendenza riguarda anche
i pensieri, le parole e le immagini, per cui ciò che
vedo a Baltimora è simile a ciò che posso vedere a
Lisbona o a Roma, se sono dinnanzi ad esempio al
cartellone pubblicitario della Coca-Cola o della Nike. E allora abbiamo chiesto a Oliviero Toscani di
raccontarci il corpo anoressico della campagna pubblicitaria Nolita e di spiegarci perché le immagini
possono essere potenti più delle parole.
Un’altra dimensione chiave della globalizzazione è
la sostenibilità, un concetto che proviene dalla riflessione ambientalista. Sostenibilità significa imparare a riflettere e a tenere conto di tutti i costi effettivi implicati da ciò che produciamo e consumiamo. Gli economisti hanno elaborato concetti raffinati per comprendere queste questioni, come ad
esempio quello di esternalità positive e negative: se
una petroliera affonda e distrugge la fauna di una
certa area costiera, questi costi saranno da computare quando affidiamo alle navi il trasporto del petrolio, con cui riscaldiamo le nostre case o riforniamo le nostro automobili oppure no? Chi può pagare
nell’“economia dei disastri”, come dice Naomi
Klein? Sono davvero casi così eccezionali e imprevedibili oppure il disastro è globalizzato e globalizzabile? Fra i molti casi, di cui avremmo potuto
scrivere, abbiamo deciso di parlare di Bhopal, che
è ormai poco trendy e decisamente fuori moda, frequentata come è soltanto dai pochi che si ostinano
a non dimenticare. Ma senza andare così lontano,
avremmo potuto parlare di Seveso oppure delle
molte discariche al Nord e al Sud, dove si sono
stoccati per anni rifiuti troppo inquinanti. Parleremo di rifiuti ovviamente, perché la cronaca ce lo
impone…
La redazione
Ma la globalizzazione è anche multiculturalismo:
essa ha comportato fenomeni migratori crescenti,
con masse di persone (“cittadini”) che hanno scelto
di spostarsi dai luoghi in cui si muore a quelli in
cui la speranza media di vita, almeno apparentemente, è più alta. La trappola ideologica alla base
di questi spostamenti è che, se è pur vero che i cittadini e le cittadine europee hanno una speranza
media di vita di molte volte superiore a quella dei
cittadini e delle cittadine ruandesi, ciò vale appunto
per gli europei che in Europa ci vivono e non certo
per i ruandesi che clandestinamente riescono a immigrarci.
Arriviamo così all’altra questione centrale che vogliamo affiancare al concetto di globalizzazione:
quella dei diritti umani. E allora parliamo di
Ruanda, di Chiapas, di Cina e di Amazzonia. Un
libretto, pubblicato qualche anno or sono, si intitolava: La globalizzazione delle cattive idee. Ho
sempre pensato che questo titolo nella sua semplicità fosse geniale: noi globalizziamo le merci, i
mercati, la forza lavoro, le informazioni, i consumi, le idee, le innovazioni, ma anche le ingiustizie, i rifiuti, l’inquinamento e … le cattive idee,
appunto. Ciò che non si può fare in un paese si
esporta semplicemente in un altro. C’è sempre un
luogo dove anche l’illecito diventa lecito e con la
globalizzazione questi luoghi ora sono più accessibili, più vicini. Questo numero non è l’ennesimo
sguardo pessimista sul futuro, è semplicemente un
numero critico, dove ci interroghiamo sul futuro
che vogliamo. Dopo anni di lotte ambientaliste,
abbiamo imparato che noi siamo il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Una frase celebre di qualche anno fa diceva:
“chi inquina l’acqua, prima o poi beve”. Ma l’inquinamento quando è globale non è soltanto acustico, elettromagnetico, ambientale. C’è un inquinamento nuovo che si estende all’area del simbolico: è l’inquinamento delle parole e dei pensieri,
è l’inquinamento dei marchi, degli stili di vita e
delle immagini. Non è un caso che in questo numero parliamo di culture jamming, ovvero di sabotaggio o interferenza culturale: infatti, noi siamo anche le parole che ascoltiamo e le immagini
che vediamo. La globalizzazione delle idee buone
e cattive, dunque, la globalizzazione del simbolico sono i terreni centrali su cui ci interroghiamo,
perché oltre ai conflitti armati, ci sono le guerre
dei sogni - come ricorda Marc Augé - le guerre
degli immaginari. Le egemonie culturali, l’asservimento e la dominazione degli altri si possono
conseguire con le armi, ma sempre più nella contemporaneità si ottengono attraverso la colonizzazione degli immaginari, l’asservimento dei pensieri, la dominazione dei sogni. In definitiva, Marcuse, Adorno e i suoi amici sono sempre di grande
attualità, anche se talora un po’ datati…
Globalizzazione
Analisi delle conseguenze economiche
Alla luce della
crisi finanziaria e dell’incombente recessione, c’è
da chiedersi se
la globalizzazione subirà
dei cambiamenti. Da un
Paolo Leon
lato, infatti, è
impossibile
che le autorità monetarie centrali, di qua e di là dall’Atlantico, non determinino nuove regole quanto
agli strumenti finanziari commerciati, sia nazionalmente sia internazionalmente. La crisi dei sub prime,
com’è noto, non è la crisi di un particolare mercato
finanziario (quello delle cartelle fondiarie), ma è la
crisi dei soggetti che trattano ogni tipo di carta finanziaria e commerciale. Poiché si è rivelato possibile
costruire titoli che sono la composizione di altri titoli, e poiché questa composizione non è realmente nota a chi li acquista, né ha una relazione stringente con
il sottostante (la redditività dell’azienda, della merce,
del settore o del paese), il prodotto finanziario ha vita
propria, basata sulla fiducia dell’emittente e sull’abbondanza di liquidità da investire. In queste circostanze, simili a quelle del capitalismo selvaggio dell’Ottocento, è inevitabile un intervento regolativo.
D’altra parte, bisogna anche riconoscere che la globalizzazione finanziaria produce moneta endogena,
della quale si riforniscono anche gli stati. Si tratta
della liquidità creata dagli stessi emittenti i titoli discussi sopra; quanto più liquido è il titolo, tanto più si
comporta come moneta. Le imprese finanziarie, per
acquistare un titolo, ne vendono un altro: quando i
valori borsistici crescono, e se non ci sono limiti di
norme o regolamenti alla creazione di titoli (apparentemente) liquidi, la moneta si forma nella quantità
necessaria per acquistarli. Così, la speculazione, in
buona parte, finanzia se stessa: fino a quando i tassi
di interesse negli USA erano bassi, e più bassi del
tasso di inflazione sommato al tasso di crescita reale,
la moneta cresceva indisturbata, insieme alla speculazione e non rispondeva alle politiche monetarie
delle banche centrali. Quando queste decidono di interrompere il gioco alzando i tassi di interesse, facendo emergere il rischio dei titoli, la moneta endogena
si asciuga e il sistema finanziario entra in la crisi. Le
stesse banche centrali, di fronte alla crisi – che evi-
dentemente non si aspettavano – sostituiscono la liquidità mancante con la creazione di moneta. Se volevano battere l’inflazione proveniente dalla moneta
endogena, finiscono per ridarle momento con la moneta esogena.
Questo spiega come mai, per un lungo periodo, i
prezzi delle materie prime sono cresciuti più rapidamente della domanda: petrolio e materie prime sono
diventati titoli di credito, sui quali si specula senza
un rapporto stretto con il sottostante - il prezzo dei titoli rappresentativi delle materie prime cresce, senza
che sia cresciuta in una qualche proporzione la domanda di materie prime. Quando poi il meccanismo
speculativo tende a rompersi – come oggi – i prezzi
delle materie prime non si riducono, perché quando
gli acquirenti abbandonano i titoli spazzatura trattati
in borsa, acquisteranno titoli rappresentativi delle
materie prime più di quanto facevano in precedenza,
quando tutti i titoli vedevano crescere i loro valori –
e anche qui non c’entra la domanda, ma la prospettiva che i prezzi continueranno a crescere.
Se la bolla speculativa ha una bassa relazione con il
sottostante, tuttavia la recessione influenza certamente il sottostante (la produzione) e aggrava la crisi finanziaria: se il sottostante è in crisi, si riducono profitti e rendite, si licenzia e si riducono i salari. Di
nuovo, le materie prime sono un’eccezione, perché si
tratta di beni primari, la cui domanda è poco elastica
all’andamento dei prezzi e del reddito complessivo.
Prima o poi, naturalmente, tutto crollerà, ma fino a
quel punto le autorità sono ingannate dalla globalizzazione finanziaria, in modi perfino incredibili. Così,
si pensa che l’aumento del prezzo del petrolio sia
frutto di scarsità, e i governi tendono ad adottare politiche di risparmio e di diversificazione: sempre politiche giuste, salvo per il fatto – già avvenuto più di
una volta – che quelle politiche verranno abbandonate il giorno in cui i prezzi delle materie prime torneranno a livelli più vicini all’equilibrio tra domanda e
offerta.
Come abbiamo già ricordato, la Riserva federale
USA con maggior impeto, e la Banca centrale europea con grande prudenza, spingono per ridurre o non
aumentare i tassi di interesse, pur in presenza di inflazione (determinata dall’aumento dei prezzi delle
materie prime). L’idea è che riducendo i tassi e alimentando la liquidità nel sistema globale, le borse
non perderanno punti, e si pone un freno ad un calo
rovinoso degli indici. Si pensa anche che una riduzione dei tassi spinga le imprese ad investire e, per-
primo piano
di Paolo Leon
5
6
ciò, a far crescere il valore
termina una tendenza staaggiunto. Tuttavia, questa
gnazionista all’economia
speranza è mal riposta: se
europea, e riduce il tasso
c’è una recessione, la domondiale di crescita del
manda di beni e servizi caPIL. Il problema, tuttavia,
la o non cresce; anche a
è ancora quello del dollaminori tassi di interesse,
ro: quanto più la Cina (e
non conviene alle imprese
altri) diversificano i loro
intraprendere nuovi inveinvestimenti finanziari,
stimenti, per i prodotti dei
tanto più debole è il dollaquali la domanda si attarro, e tanto maggiore la rida. Piuttosto, poiché pocerca di beni rifugio, cotranno prendere a prestito
me le materie prime. Sia
a tassi bassi, andranno alla Corporate U.S. flag, spoof ad realizzato da Adbusters
pure lentamente, l’equiliricerca di titoli ad alto renbrio si potrebbe ricostruidimento. Così, la riduzione
re, se la svalutazione del
dei tassi non ha effetti reali, ma ha solo quello di tedollaro facesse crescere l’avanzo nei conti con l’enere in piedi una domanda di titoli, altrimenti calanstero degli USA. L’evidenza è che il disavanzo atte. La crisi finanziaria è solo frenata, ma non sostituituale o resta costante o diminuisce poco, perché gli
ta da un boom e, come abbiamo indicato, l’effetto
USA hanno ormai poco da esportare. Sembra prodelle politiche monetarie espansive è soprattutto
prio che si sia in attesa di uno shock esterno, senza
quello di sostituire la moneta endogena sparita.
il quale il mercato finanziario resta sostenuto da
Uno dei nodi difficili da sciogliere è il rapporto tra
fragilissime politiche, e la recessione prosegue il
le grandi economie emergenti e i mercati finanziari.
suo corso.
Fino a epoca recente, i surplus cinesi di bilancia
Questa crisi dimostra, ancora una volta, che la globacorrente dei pagamenti erano investiti in titoli denolizzazione va governata: ma non sembra si stia forminati in dollari. Poiché il dollaro si è (o, meglio, è
mando un consenso tra governi intorno alle regole
stato) indebolito, i surplus cinesi hanno la scelta se
necessarie e alle istituzioni che dovrebbero farle rirestare sui mercati americani, acquistando a basso
spettare. Non è un caso che il Fondo monetario interprezzo titoli, ma con il rischio della crisi finanzianazionale sia in profonda crisi, e tenda ormai a conria, o rivolgersi a mercati denominati in euro. Profondersi con la Banca mondiale, nella prospettiva di
babilmente, questo cambiamento è in corso: il rafuna più grande istituzione di benevolenza verso i
forzamento conseguente dell’euro, a sua volta, depaesi più poveri. Ci manca Bretton Woods.
Il prezzo delle regole
L’impatto ambientale dei processi globali
di Giovanni Scarano
Giovanni Scarano
Gli effetti della
globalizzazione sulla gestione delle risorse
naturali e sulla
tutela e conservazione degli
ecosistemi terrestri possono
essere valutati
in modo estremamente vario
e controverso.
Ciò dipende in
parte dal fatto
che si ha a che fare con un fenomeno complesso e
multidimensionale, che può interagire con gli ambienti naturali attraverso migliaia di strade diverse.
Se si privilegia però un punto di vista meramente
economico, si può ricondurre la complessità della
globalizzazione a due sole grandi classi di fenomeni:
l’espansione del commercio internazionale e l’incremento dei flussi di investimenti esteri. Di seguito si
prenderanno quindi in considerazione solo gli effetti
ambientali di questi due tipi di fenomeni.
Il commercio internazionale, in quanto attività di puro scambio, non produce alterazioni dirette degli ambienti naturali. Può però generare impatti ambientali
attraverso l’incremento dei trasporti su lunga distanza, ma soprattutto attraverso le variazioni del reddito
l’introduzione di quote per le
dei paesi partecipanti, le modifiimportazioni di automobili
cazioni della divisione internastraniere, che ha spinto le case
zionale del lavoro e la riduzione
automobilistiche giapponesi a
dei gradi di libertà nell’adozione
concentrare i propri sforzi
delle regolamentazioni ambiencommerciali nella vendita di
tali.
cilindrate più elevate, di magSecondo i fautori del libero
gior valore ma anche dotate di
scambio, la crescita del reddito
minore efficienza nei consumi
generata dal commercio internaenergetici e nelle emissioni inzionale tende a migliorare, nel
quinanti. Un ulteriore esempio
lungo periodo, l’impatto amè fornito dall’eccessivo uso di
bientale dei sistemi economici.
fertilizzanti, anticrittogamici e
Ciò avviene attraverso il migliomacchine effettuato dall’agriramento dell’efficienza nello
coltura europea, consentito da
sfruttamento delle risorse natupolitiche protezioniste e di sorali, l’instaurarsi di processi di
stegno dei prezzi.
transizione demografica virtuoGli effetti dell’uragano Katrina a New Orleans
Infine, il libero commercio può
si, che tendono a stabilizzare la
porre vincoli alla libertà dei gopopolazione mondiale, e un inverni di scegliere le forme di regolamentazione amcremento dei livelli di reddito pro capite e delle enbientale più opportune per il benessere delle proprie
trate fiscali capace di garantire un maggiore livello di
collettività, al fine di non intaccare unilateralmente la
sensibilità e di tutela ambientali.
capacità competitiva dei produttori nazionali o di non
I paesi che conferiscono oggi maggior valore alla turidurre la capacità del paese di attrarre investimenti
tela ambientale trarrebbero ulteriori benefici dal libeesteri. Le regolamentazioni ambientali, infatti, increro scambio. Potrebbero infatti penalizzare, mediante
mentano i costi di produzione degli investitori, e la litasse o standard, le produzioni interne più inquinanti
beralizzazione dei movimenti di capitali potrebbe
senza dover rinunciare ai consumi corrispondenti,
creare ulteriore incentivo ad abbassare gli standard
che potrebbero essere soddisfatti con l’importazione.
ambientali come fattore di attrazione per gli investiSul mercato mondiale vi saranno infatti probabilmenti esteri. Questi orientamenti di politica economimente paesi che, avendo abbondanza di risorse natuca possono a volte trovare giustificazione nella prorali o minori livelli di reddito, attribuiranno minor
spettiva di potenziare il posizionamento strategico di
valore agli impatti ambientali e troveranno quindi
un sistema economico nazionale, ma possono anche
conveniente espandere le produzioni più inquinanti a
essere la mera conseguenza sui governi delle pressiofini di esportazione.
ni di gruppi di interesse organizzati.
I detrattori del commercio internazionale, invece, riI gruppi di pressione operanti nei vari paesi possono
tengono che esso può solo aumentare i divari esistengiocare anche un altro ruolo nell’interazione tra libeti tra paesi ricchi e paesi poveri, producendo un detero scambio e problemi ambientali. Alcuni di essi, in
rioramento delle condizioni sociali di ampi settori
particolari congiunture economiche, possono infatti
della popolazione mondiale che porterà con sé nuovi
trovare conveniente mobilitare ampi movimenti di
impatti negativi su alcuni fra i più fragili ecosistemi
opinione in difesa di propri interessi protezionistici
naturali, quali, ad esempio, le foreste pluviali.
sulla base di principi che appaiono di respiro più geI mutamenti nella divisione internazionale del lavoro
nerale. E i problemi ambientali, quando sono opporpossono a loro volta generare effetti su diversi fronti.
tunamente inseriti nel contesto di previsioni apocalitIn un contesto di libero scambio è infatti possibile,
tiche, si mostrano particolarmente adatti a questo
come accennato poco prima, che i paesi poveri troviscopo. Questo tipo di strategie opportuniste può però
no incentivi a specializzarsi in produzioni a forte imfacilmente generare asimmetrie nel rapporto tra paesi
patto ambientale, con gravi rischi di degrado delle loricchi e paesi poveri. La sensibilità ambientale tende
ro risorse ambientali e del loro benessere sociale.
infatti oggi a concentrarsi nei primi, mentre nei sePossono inoltre formarsi incentivi allo sviluppo del
condi si concentra la maggior parte degli ambienti
commercio di sostanze pericolose, generando le connaturali da tutelare. Le campagne protezionistiche
venienze a esportare i rifiuti tossici dai paesi ricchi
condotte in nome della difesa dell’ambiente o della
nei paesi poveri.
tutela della salute possono così finire per assecondare
I liberoscambisti ritengono però che il protezionismo
l’interesse strategico dei paesi ricchi a incoraggiare
produca normalmente distorsioni nella composizione
la liberalizzazione commerciale dei paesi poveri o
del prodotto sociale che generano a loro volta ricaduemergenti, riservandosi di difendere i propri mercati
te negative sul fronte ambientale. Un esempio tipico
nel nome di valori etici di ordine superiore.
è fornito dagli effetti ottenuti negli Stati Uniti dal-
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«La globalizzazione che funziona»
L’università come territorio di incontro
di Maria Vittoria Tessitore
Si potrebbe dire che il termine globalizzazione definisce
un atto compiuto, un fenomeno che caratterizza in
modo pervasivo la modernità contemporanea. Definisce
per lo più la
sul cambiamento radicale di prospettiva e di funzionamento delle istituzioni internazionali – i soggetti
collettivi della società globalizzata – e sulla consapevolezza generalizzata dei soggetti individuali.
Ma il terreno di osservazione della realtà sociale in
azione resta per il soggetto individuale il territorio
locale. Dove la dinamica transnazionale presente ai
livelli di vertice nella gestione finanziaria, politica,
commerciale è spesso letta e vissuta secondo una
prospettiva fortemente nazionale. Una rivendicazione
di diritti da parte del capitale globale si accompagna
nell’analisi di Saskia Sassen a una rivendicazione di
diritti di cittadinanza da parte di settori svantaggiati
Maria Vittoria Tessitore
sfera del potere economico, cui si
aggregano a caduta gli ambiti del
potere sociale, politico e culturale.
Il termine fa pensare a un processo
di omogeneizzazione del mondo,
un appiattimento delle individualità, un annientamento delle differenze. Ma un’osservazione anche
approssimativa del mondo ci presenta paesi, gruppi e individui attraversati, possiamo dire pure afflitti, da un vortice di guerra infinita, da conflitti a tutti i livelli, radicalizzati e segnalati in una distanza
sempre più profonda tra ricchi e
poveri. A sentire Joseph Stiglitz il
fallimento della globalizzazione
economica – che pure avrebbe potuto colmare le ingiuste differenze
di sviluppo nel mondo – risiede
nella gestione che ne ha fatto la
politica incapace sia di governare i
processi, sia di affrontare gli effetti
sui percorsi (o i destini?) di vita
degli individui. Tant’è che conclude il suo più recente libro Making
Globalization Work (in italiano La
globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2006) con un capitolo politico, ricco di suggestioni
«per una globalizzazione democratica». Le suggestioni di Stiglitz per
una possibile gestione efficace della globalizzazione si concentrano
Locandina di uno degli appuntamenti organizzati dal Master in Politiche dell’incontro e
mediazione culturale in contesto migratorio
della popolazione urbana. E il settore svantaggiato
della popolazione urbana è percepito a livello territoriale come composto per lo più da migranti, persone
che hanno prevalentemente un orizzonte di aspettativa e di progetto certamente composito e a carattere
globale. All’immigrazione come «processo fondativo
della nuova politica economica transnazionale» Sassen dedica tutta la prima parte del suo libro Globalization and its Discontents (titolo che in italiano supera brillantemente l’ostacolo del riferimento shakespeariano e diventa Globalizzati e Scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002).
Se trasferiamo questo quadro sommario della globalizzazione al territorio a noi più vicino che è quello
dell’università, vediamo in che modo questo può
considerarsi alla stregua delle città globali osservate
da Sassen, e come luogo di formazione della consapevolezza individuale auspicata da Stiglitz. L’università è spazio limen nella vita dei cittadini e delle cittadine, dove si costruisce ricerca e su questa base si
praticano i saperi in direzione della formazione delle
nuove generazioni. L’università è quindi il luogo deputato di formazione di una cultura aggiornata nei
saperi, è anzi sicuramente un moltiplicatore di cultura. E quindi è il nocciolo fertile di costruzione della
cittadinanza. Come si può trascurare la dimensione
transnazionale della cultura di cittadinanza? E dove
si esercita tale dimensione?
Se la ricerca è già per sua natura transnazionale, globale, sia per quanto riguarda la collaborazione sui
progetti, sia, quindi, per quanto riguarda l’interazione funzionale tra soggetti ricercatori (un po’ meno
per quanto riguarda la messa in comune dei prodotti,
altro problema politico legato allo sviluppo), ancora
c’è molto da fare nell’ambito localmente italiano
quanto all’apertura del territorio-università a studenti provenienti da altre culture e in particolare ai cittadini e alle cittadine residenti in Italia ma affiliati a
nazionalità diverse. L’accesso agli studi e alla socialità che si esprime nel territorio-università permette
di valorizzare quella componente della globalizzazione identificata da molti osservatori nella popolazione migrante. È ipotizzabile, anzi auspicabile, il
formarsi di una popolazione studentesca di giovani
uomini e donne che affermando e declinando le loro
singolari identità plurime collaborino alla costruzione di una nuova cultura transnazionale. Partecipando
al ruolo delle città globali che Sassen definisce siti
strategici non solo per il capitale globale ma anche
per la transnazionalizzazione del lavoro anche la città-università (o l’università-nella-città come il Rettore Fabiani definisce Roma Tre) può/deve costituire
un sito strategico per il capitale intellettuale della ricerca globale, e per la transnazionalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici dello studio che localmente si pratica.
Un’italianista al DAMS
Un ricordo di Gioia Sebastiani
di Maria Vittoria Tessitore
È difficile pensare che non sia più tra noi. È facile rappresentarla alla nostra memoria: la sua presenza nelle nostre attività fin dagli inizi
ha assunto per me, ma per molte e molti di noi, un ruolo sempre più
significativo. Abbiamo condiviso l’onere e il piacere di traghettare il
gruppo ancora indistinto delle matricole DAMS dagli studi letterari
di stampo liceale ai primi strumenti di analisi e ricerca sul testo e
sulla storia della letteratura. Una sfida su cui Gioia ha lavorato mettendo in campo con grande generosità il suo amore per gli studi letterari e il rigore della ricerca. Nella convinzione che educare alla letteratura e alla lettura è indicare una finestra che si apre al mondo
Gioia ha praticato attentamente l’arte dell’ascolto in interminabili
sessioni di ricevimento studenti di cui catturava l’esplicitazione delle mancanze come l’affermazione di un bisogno che meglio si poteva soddisfare se espresso come desiderio e aspirazione. La sua estrema attenzione alla proprietà del linguaggio, la sua meticolosità nella ricerca, la puntualità, la precisione e la correttezza estrema che ha sempre mostrato nelle talvolta pressanti funzioni universitarie sono state un grande regalo di cui le siamo grati,
e che non dimenticheremo di sicuro.
Gioia Sebastiani, Pofessore associato presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo e docente nei
Corsi di Studio in DAMS è venuta a mancare il 14 febbraio 2008.
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Roma Tre e lo sviluppo sostenibile
Può un’istituzione universitaria coniugare la propria espansione
nel territorio con il rispetto per l’ambiente?
di Monica Pepe
Il concetto di sviluppo sostenibile
come miglioramento della qualità della vita di una
comunità, nel rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali, è
entrato sempre
più a far parte del
linguaggio comune. Ma cosa vuol
dire concretamenGuido Fabiani
te, come si può
coniugare all’interno di una struttura pubblica come
una università?
Roma Tre, che è al 16° anno di vita accademica, dovrebbe essere stata facilitata rispetto ad altri Atenei a
realizzare le proprie strutture secondo criteri di sviluppo
sostenibile. Ne parliamo con il Rettore Guido Fabiani.
«Roma Tre è nata anche come progetto urbanistico
oltre che accademico. Nel recuperare le aree industriali dismesse nella zona Ostiense ci siamo impegnati da subito a conservare ove possibile le prerogative originarie delle strutture, ma è con la realizzazione delle nuove Facoltà avvenuta negli ultimi anni che
abbiamo potuto fare investimenti strutturali più avanzati nella direzione del risparmio energetico, del rispetto dell’ambiente e anche di una ‘naturalizzazione’ del territorio. Il Polo della Vasca Navale di prossima realizzazione sarà un modello eccellente per
una completa integrazione degli spazi pubblici con
quelli universitari all’interno del territorio. È prevista
una separazione del traffico carrabile da quello pedonale, alcuni servizi pubblici come la piscina e l’asilo
saranno a disposizione dei cittadini, così come un orto botanico diffuso, ovvero non un unico spazio verde, ma molte aree sparse di vegetazione diversificata
anche con piante di pregio. Certo gli scenari di innovazione tecnologica che si aprono oggi ci spingono a
fare sempre meglio per la difesa dell’ambiente. Ma
senza guardare solo al futuro, invito tutti a visitare
l’area in cui sono insediati i dipartimenti di Geologia, Matematica, alcune aule di Scienze Matematiche
Fisiche e Naturali e le strutture sportive circostanti.
Molto spesso sono gli stessi docenti a prendersi cura
delle aree verdi e stiamo lavorando per apportare ulteriori miglioramenti».
Nel 2007 Roma Tre ha siglato un contratto Green
Network spa, grazie al contributo del Dipartimento
di Ingegneria meccanica e industriale, che consente
di realizzare una serie di interventi migliorativi finalizzati all’efficienza energetica. «Molto presto porteremo a termine un sistema di monitoraggio che ci
consentirà di rilevare eventuali anomalie dei consumi
nell’erogazione della energia elettrica dalla rete alle
cabine di ogni singola struttura. Questo ci consentirà
di intervenire con dispositivi ad hoc che ridurranno i
consumi».
Anche all’interno delle singole Facoltà è prevista
l’installazione di audit di monitoraggio dei consumi energetici che consentiranno di rilevare le dispersioni termiche durante l’inverno e di ottimizzare tutte le utenze energivore oltre a quelle elettriche. Il primo ad esserne dotato sarà l’edificio del
Rettorato. Lo scorso anno inoltre sono state distribuite gratuitamente 100.000 lampadine a basso
consumo a docenti, personale, studenti e famiglie.
È senz’altro importante sensibilizzare studenti e
personale ad una gestione domestica responsabile
delle risorse ambientali, ma quali sono gli altri
ambiti di intervento oltre a quello energetico?
«Vorrei solo aggiungere che stiamo concentrando i
nostri sforzi anche nella direzione delle energie rinnovabili. A breve presenteremo uno studio per realizzare
l’applicazione del fotovoltaico all’edificio del Rettorato da estendere alle altre strutture, mentre nel nuovo
Campus della Vasca Navale tutti gli edifici saranno
costruiti con una copertura di pannelli fotovoltaici.
Senz’altro un’altra questione cruciale è lo smaltimento dei rifiuti e Roma Tre ha sempre puntato sulla raccolta differenziata come impegno prioritario per la difesa dell’ambiente. Da un anno a questa parte abbiamo incrementato a 150 unità i raccoglitori per la carta, 200 per i toner e le pile usate distribuiti in tutte le
strutture. Stiamo inoltre concludendo un accordo per
inaugurare la raccolta interna di plastica e vetro».
Già l’emergenza rifiuti a Napoli, è uno dei temi
caldi del dibattito politico attuale.
Chiedo al Rettore Fabiani cosa farebbe come
membro della comunità scientifica se dovesse intervenire in tale circostanza.
«Offrirei l’Università come sede permanente per dibattere la questione in modo rigorosamente scientifico e divulgativamente corretto. E proporrei ad alcuni
dipartimenti di collaborare alle azioni di monitoraggio ambientale».
«La fabbrica del consenso»
Dialogo filosofico tra Giorgio De Vincenti e Noam Chomsky
a cura di Alessandra Ciarletti
Noam Chomsky è uno scienziato e teorico della comunicazione statunitense. Ha rivoluzionato gli studi linguistici con la teoria generativista che
ha avuto fondamentali ricadute nell’ambito della ricerca psicologica, logica, filosofica. Attualmente è professore emerito presso il Department of
Linguistic and Philosophy del Massachusetts Institute of Technology
(MIT).
All’attività accademica Chomsky affianca un notevole impegno politico
e sociale. A partire dalla sua forte presa di posizione contro la guerra in
Vietnam, non ha mai rinunciato a porsi come coscienza critica della società occidentale. La costante e acuta critica nei confronti della politica
estera di diversi paesi, in primo luogo gli Stati Uniti, così come l’analisi
del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali, lo hanno reso uno
degli intellettuali più celebri e seguiti della sinistra radicale americana.
Parlando di democrazia, Chomsky afferma che è
il miglior sistema, ma al tempo stesso cita la risposta che diede il Mahatma Gandhi a chi gli chiedeva cosa pensasse della civiltà occidentale:
«Forse è una buona idea, perché non realizzarla?». Chomsky continua dicendo che secondo una
teoria diffusa negli Stati Uniti, «la democrazia è
un sistema del quale i cittadini sono spettatori e
non attori. A intervalli regolari, hanno il diritto di
mettere una scheda nell’urna, di scegliere nella
classe dei capi qualcuno che li diriga. Fatto ciò,
tornano a casa, badano ai fatti propri, guardano
la televisione, fanno da mangiare e consumano e
non devono disturbare il manovratore. Questa è
la democrazia. Quando si inceppa, la reazione è
interessante. In Europa, per esempio, si è mai discusso della prima ricerca pubblicata nel 1975 dalla Commissione trilaterale e intitolata La crisi della democrazia? Negli Stati Uniti una ricerca simile
scatena reazioni molto più vivaci che in Europa.
(…) L’Europa si illude di avere intellettuali impegnati, ma fatte salve rare eccezioni la realtà è molto diversa. I progressi che ci sono stati non sono
venuti dagli intellettuali, ma prima di tutto dalle
forze popolari e spesso dalle organizzazioni della
classe operaia».
Queste parole suonano particolarmente incisive
rapportate al momento storico italiano. La speranza ci fa dire che il popolo italiano ce la farà e
sarà coeso, l’amarezza che deriva da una disincantata lettura dei fatti ci fa dire che siamo all’ennesimo gioco delle parti. Qual è lo stato di salute
della democrazia italiana?
Chomsky distingue molto opportunamente la democrazia come metodo elettorale da un concetto più
complesso di democrazia, che mette in gioco una
vasta e costante orchestrazione partecipativa dei cittadini a quella che viene chiamata la cosa pubblica.
Chomsky ha sostenuto in più occasioni che oggi gli
Stati Uniti vivono qualcosa che somiglia più a una
monarchia che non alla democrazia dei padri fondatori della nazione, parlando dell’attenuazione delle
garanzie costituzionali che si è registrata nel suo
Paese negli ultimi decenni e citando come esempio
per tutti le cosiddette guerre del Presidente, dichiarate da Bush senza rispetto per le garanzie previste
dalla costituzione statunitense. In questo brano è
molto critico anche con l’Europa e con gli intellettuali europei. Ha ragione, soprattutto per quanto riguarda l’incapacità degli intellettuali di bilanciare
l’ingigantimento del ruolo culturale dei politici.
Prendiamo per esempio il nostro Paese: i media, e
prima di tutto le televisioni, per motivi di mercato
da un lato e di controllo politico sui palinsesti dall’altro, hanno ridotto sempre più il ruolo della cultura nel quadro dei loro programmi, e hanno proposto al pubblico i politici, in forma sempre più diretta e massiccia, con la conseguenza che i politici
hanno finito con il rappresentare quasi l’intero spettro della riflessione sui temi della vita civile, dandosi come leader di opinione e come garanti dei valori. Un ruolo che in passato era ampiamente condiviso con gli intellettuali. Quando Enrico Belinguer,
per esempio, propose la “questione morale” e il
“compromesso storico”, era circondato da intellettuali che avevano un ruolo nella messa a punto di
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quei processi, e magari erano critici e tutt’altro che
organici; c’era una vita culturale intensa, nel nostro
Paese, una vita culturale in cui le scienze, le arti, la
letteratura, la poesia, il cinema giocavano un ruolo
forte. Oggi siamo molto lontani da quella condizione, c’è come un’eclisse della cultura e una sovraesposizione della politica, che assume compiti che
farebbe bene a demandare a un più ampio contesto
ragionativo e discorsivo, anche perché molto spesso
quando li assume lo fa con funzioni di garanzia nei
confronti di poteri forti, tra i quali è centrale in Italia (anche se non è l’unico) il potere ideologico ed
economico della Chiesa cattolica. Così accade che
all’inizio del 2007 in una crisi di governo di ventiquattr’ore si sganci il tema dei “dico” dal programma di governo perché altrimenti i cattolici escono
dalla maggioranza; e che importanti leader politici
possano dichiarare senza pensarci troppo di voler
procedere in un futuro non lontano verso una forma
presidenziale di Stato, che significa cambiare buona
parte delle garanzie costituzionali su cui si fonda la
Repubblica italiana. E perfino che un politico autorevole possa intravedere una possibilità di lesioni
permanenti come prevenzione della pedofilia: una
mostruosità incivile e incostituzionale. O ancora il
fatto che un candidato del PD sostenga pubblicamente in televisione (Ballarò) che i controlli dell’ispettorato del lavoro nelle aziende devono essere
preceduti da un congruo preavviso. Che è come dare il via libera agli abusi. Tutto questo, purtroppo, ci
fa cogliere molto bene il distacco della politica dalla vita civile e quanto sia reale il problema della democrazia oggi in Italia, non meno che in altri paesi:
bisognerebbe da un lato rileggere attentamente la
nostra Costituzione, che è il nostro “luogo” per eccellenza di incubazione della democrazia, il dna
della nostra democrazia, e dall’altro attuarla facendo vivere la democrazia nel senso che ho detto,
piuttosto che ridurla al sistema elettorale per una
delega in bianco ai rappresentanti politici, che già
ora, come si vede, mostrano di non essere davvero
rappresentativi. Figuriamoci con una delega in bianco. Ed è il motivo per il quale oggi più che mai sono in molti a chiedersi se non sia il caso di disertare
le urne. Il che è un problema gravissimo. La democrazia è un processo dialogico e ragionativo complesso per la messa a punto dei fini e dei mezzi per
conseguirli, un processo che per definizione richiede la più vasta partecipazione possibile dei cittadini, un processo che non ha mai fine e che coinvolge
la società a tutti i livelli. Qualunque semplificazione
di questa complessità è inconstituzionale e rappresenta un ritorno indietro sul piano non solo politico
ma anche di civiltà. Personalmente sono molto più
preoccupato della delega in bianco che non della
coesione, che potrebbe essere di pura facciata, visto
che questo paese tende sempre più a configurarsi
politicamente come un coacervo di corporazioni. E
questo è un grande problema culturale: significa
che il dibattito si è molto abbassato e che la tensione verso la solidarietà, l’armonia e la giustizia sociale si è molto allentata. E se, come ho detto, la
nostra democrazia coincide in larga misura con l’attuazione della Costituzione, appare ben sintomatico
il fatto che nessun politico oggi faccia riferimento a
questo compito. È il segno di una forte attenuazione
della vivacità culturale del nostro paese. E, conseguentemente, è il segno di una riduzione in atto della nostra democrazia.
Il prof. Chomsky, ricordando i movimenti femministi degli anni Settanta, dice «all’interno del movimento le donne cominciarono a lamentarsi perché gli uomini, mentre affermavano di lottare per
i diritti umani, stavano di fatto opprimendo le
donne». Nel nostro paese proprio in questi giorni
si è acceso un importante dibattito sul diritto alla
vita. Alcuni illustri docenti delle accademie romane hanno esercitato il loro diritto alla libertà di
parola stilando un documento in cui emerge chiaramente che il diritto alla vita non è godibile da
tutti alla stessa maniera perché, riconoscendolo
come valore assoluto, esso è addirittura primario
rispetto alla stessa vita di chi la dà. Potenza e atto.
Mi chiedo, è sempre vita quella di una donna violata o non lo è già più dal momento che il nostro
diritto pur prevedendo la pena, non si fa garante
di quella vita spezzata? Pensa che sarà mai riconosciuto il dovere al silenzio di fronte al dolore
delle donne?
Credo che questo genere di dibattito in Italia nasca
inquinato e quindi assuma connotazioni e scopi impropri. L’inquinamento deriva dalla presenza dell’integralismo cattolico, che svolge un ruolo di copertura degli interessi economici di una lobby medica molto potente collegata da importanti fili con il
Vaticano. Questo fa sì che quando si parla della fecondazione assistita e dell’aborto non lo si fa alla
luce della ragione e in spirito di verità, ma da una
prospettiva falsata in cui ideologia e bassi interessi
economici si sposano perfettamente. A questo si deve aggiungere la misoginia intrinseca alla cultura
cattolica, che gioca un ruolo importante nella questione. Il risultato è che non si fa chiarezza sui termini dei problemi e si mescola tutto. Per esempio,
già all’epoca del referendum sull’aborto le forze più
vive del cattolicesimo italiano si erano espresse in
difesa della legge sull’aborto con ampie motivazioni, di fondo (con un discorso sulla crescita del feto
e sulla distinzione tra la presenza di una persona
umana e quella che è invece una sua semplice possibilità) e pragmatiche (con un discorso sull’opportunità di sottrarre al dominio delle “mammane” e
della clandestinità questo problema). E la legge ha
funzionato, permettendo una riduzione degli aborti
in Italia. E soprattutto tutelando la salute e la vita
delle donne, che dobbiamo imparare a considerare
come il primo degli scopi.
Oggi un dibattito del genere non sembra nemmeno possibile. Per fortuna il
movimento delle donne e
la loro consapevolezza sono cresciuti e hanno conquistato un qualche diritto
di parola, anche se non
ancora nella pienezza che Giorgio De Vincenti
in tanti auspichiamo. Ne
è prova il successo della
sottoscrizione via internet di “liberadonna” espressione della condanna che le donne hanno decretato alla violenza della polizia nei confronti di
una donna di Napoli che aveva abortito -, sottoscrizione che ha ricevuto un numero altissimo di adesioni (e non solo di donne: siamo stati in molti, uomini, a sottoscrivere). In questo senso, al giusto richiamo al silenzio per il dolore delle donne va aggiunto io credo l’appoggio di tutti perché le donne
parlino. E tutto questo nella consapevolezza che le
donne, che sulla vita sono di certo le più competenti, sanno autoregolarsi assai meglio di quanto non
potrebbe accadere in virtù di leggi a loro estranee e
frutto dell’atavica misoginia di cui parlavo. Va detto
inoltre che sull’intero terreno dell’eros la cultura
cattolica mostra limiti antichi e ottusità che hanno
dell’incredibile. Un esempio per tutti: il divieto dell’uso degli anticoncezionali, uso che oltre ai sacrosanti (questi sì!) motivi di salvaguardia della salute,
da un punto di vista culturale più ampio presenta
anche il motivo dell’affidamento della fecondità al
complesso della vita di ciascun essere umano e di
ciascuna coppia (o addirittura di più estesi gruppi
sociali, e comunque nel rispetto di scelte personali
di non fecondità), e non certo al singolo atto sessuale. È una piccola grande cosa che mostra quanto sia
arretrata la Chiesa cattolica su temi della vita quotidiana di tutti e quanto formalismo ideologico infici
la sua dottrina.
«I regimi totalitari sono più trasparenti, più immediatamente leggibili e in fin dei conti meno interessanti. Non hanno bisogno di una grande efficacia perché tengono sempre in serbo la possibilità di usare la forza e la paura. (…) Voglio sottolineare ancora una volta che quando le società
si democratizzano e la coercizione smette di essere uno strumento di controllo e di emarginazione
facile da mettere in opera, le élite si rivolgono
naturalmente alla propaganda. (…) le grandi
aziende di pubbliche relazioni, pubblicità, arti
grafiche, cinema, televisione hanno innanzitutto
la funzione di controllare le menti. Devono creare “bisogni artificiali” e
far sì che le persone si
dedichino a soddisfarli,
ognuna per conto suo,
isolata dalle altre. In
questo sistema gli intellettuali svolgono un ruolo di prim’ordine». E dice «Più che una categoria di persone, si tratta
di un atteggiamento che
consiste nell’informarsi,
nel riflettere seriamente
sulle vicende umane e
nel ben articolare la propria comprensione e la
propria perspicacia. Conosco persone prive della
benché minima istruzione che sono, ai miei occhi, intellettuali notevoli. E conosco scrittori e
universitari rispettati che sono ben lontani dal
corrispondere a quell’ideale. Gli “intellettuali riconosciuti” sono un’altra faccenda. Con questo
termine intendo quelli che all’interno del proprio sistema di potere sono insigniti con il titolo
di “intellettuali responsabili” come in Occidente
si qualificano essi stessi, d’altronde. A volte vengono detti “intellettuali tecnocratici” per distinguerli dagli “intellettuali sovversivi” che seminano zizzania e sono “irresponsabili”». Di recente
l’opinione pubblica si è divisa di fronte alla spaccatura verificatasi tra gli intellettuali riguardo
alla opportunità della presenza del Papa all’interno della più antica accademia romana. Senza
arrivare a etichettare gli atteggiamenti mentali,
ci può dire qual è la missione dell’università, luogo deputato per eccellenza alla formazione degli
intellettuali?
Di fatto l’università, piuttosto che formare intellettuali, forma i futuri professionisti. La qualità di intellettuale è qualcosa di diverso. Si può essere ottimi professionisti e non essere affatto degli intellettuali. E direi che di norma le cose stanno proprio
così. Inoltre, lo status di intellettuale non dipende
necessariamente dal titolo di studio. Lo sottolinea
Chomsky nel passo appena citato, e la mia esperienza va nella stessa direzione. Molti anni fa mi
sono trovato a condividere la lotta politica con sindacalisti che erano ferrovieri e operai, con un grado di istruzione scolastica non elevato. Alcuni di
loro, per la capacità di interpretare le cose, per la
chiarezza con cui impostavano i problemi, per la
dimensione vasta e universale delle loro argomentazioni e della loro visione del mondo, erano certamente degli intellettuali, e qualche volta di alto livello, e io ho imparato moltissimo da loro. Quella
del sindacato, ma anche quella delle sezioni e delle
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cellule del PCI, era spesso una scuola eccellente
per la formazione di quel discorso culturale di base
cui accennavo sopra e di cui oggi sento la mancanza. Non perché rimpianga quell’epoca o quel partito, ma perché nulla è stato fatto per riempire il
vuoto che si è determinato quando quei luoghi di
dibattito e formazione si sono esauriti. E lì c’è sicuramente una responsabilità molto pesante dei politici, che hanno scientemente ridotto il dibattito
democratico nella società civile, in favore della richiesta di delega di cui ho parlato prima. Ciò detto,
ben venga la capacità dell’università, quando c’è,
di aiutare la formazione di intellettuali. E dal mio
punto di vista è certo che chi lavora al suo interno
dovrebbe operare perché questa capacità emerga e
si consolidi. Ma appunto, se vogliamo raggiungere
questo scopo non possiamo darla per scontata: il
bravo tecnico, come dicevo, non è necessariamente
un intellettuale. Quest’ultimo si qualifica come tale
in virtù della dimensione in cui sa affrontare i problemi, una dimensione capace di guardare agli elementi di universalizzazione e di farsi carico delle
componenti esistenziali che lavorano nel reale e
anche dentro le specifiche competenze dei vari
campi professionali. Insomma, l’intellettuale si caratterizza per la profondità e lo spessore umano e
sociale in cui sa collocare le problematiche cui si
dedica. Ben venga l’università capace di agevolare
questo tipo di formazione. Ripeto però che non basta conoscere la storia della filosofia per essere intellettuali. Né la letteratura, né le arti. Né il diritto,
né l’ingegneria, né l’urbanistica, né la fisica, né la
biologia. Quello dell’intellettuale vero e non “tecnocratico”, per usare la giusta espressione di
Chomsky, è un compito più sottile, che richiede altro dalla pura competenza disciplinare, per quanto
alta voglia essere. E qui si torna al discorso sul
processo democratico come luogo più autentico
della cultura di un Paese, e alla responsabilità che
tutti abbiamo di permettere a questo luogo di vivere. L’università può (e a mio avviso deve) dare il
suo contributo a questa vita, ma non lo farà per tra-
dizione, automaticamente, o per statuto: lo farà solo se sospinta da coloro che al suo interno sono
davvero degli intellettuali, e ciò non accadrà senza
contrasti. Anche perché la politica oggi nel nostro
paese non vuole intellettuali veri, che per definizione sono critici, ma, appunto, gli intellettuali “tecnocratici” di cui parla Chomsky, che costituiscano
gruppi di sostegno e propaganda. Quanto al caso
del papa alla Sapienza, si tratta di un esempio, che
si colloca ai livelli minimi della sopravvivenza del
sapere. Voglio dire che le perplessità dei firmatari
circa il ruolo inaugurale offerto a Ratzinger dal rettore erano il minimo che una comunità scientifica
potesse e dovesse fare di fronte alla violazione di
qualsiasi spirito scientifico contenuta nella dichiarazione di Ratzinger su Galileo. Una dichiarazione
che assai più che al passato guarda al presente e al
futuro, e che mostra un profondo disprezzo per
l’intelligenza dell’uomo, che pure, per la tradizione
ebraico-cristiana, è il dono precipuo che Dio ha
fatto agli esseri umani, senza il quale l’umanità
nemmeno esisterebbe e di conseguenza non avrebbe senso parlare né del Cristo né dell’intera tematica della salvezza. Credo che la Chiesa avrebbe tutto da guadagnare se ricominciasse a pensare, a
questo e ad altri temi, come per esempio quello
dell’evoluzionismo, ispirandosi ai suoi migliori
teologi: penso per esempio a Pierre Teilhard de
Chardin, gesuita, geologo e paleontologo evoluzionista di fama internazionale, nonché teologo e mistico di altissimo livello. Un intellettuale scomodo,
che la Chiesa di Roma obbligò a vivere lontano
(per lo più in Cina), arrivando perfino a chiedergli
di bruciare i suoi testi di teologia, che non ebbe
mai il permesso di pubblicare mentre era vivo. Per
fortuna, consigliato da altri eminenti teologi, non
lo fece. Sono un’eccellente lettura (per esempio, Il
fenomeno umano) sia per i cristiani sia per i laici
che vogliano incontrarsi con la parte più viva della
teologia cattolica. E sono l’esempio della possibilità di una Chiesa molto diversa da quella oscurantista di oggi.
Vandana Shiva
Un occhio critico sulla globalizzazione
di Camilla Spinelli
Nei momenti più importanti della storia dell’uomo
esistono dei personaggi che si distinguono per i loro
pensieri, le loro opere o per la loro semplice voglia di
mettere in risalto problemi che, senza un forte inter-
vento, rimarrebbero sconosciuti alla maggioranza
della popolazione mondiale.
La globalizzazione è senz’altro un elemento chiave
della modernità. Nel dibattito su questo tema fin
Questa operazione introppo esteso, si divece di giovare alle
vidono storici, scienfamiglie indiane, ha
ziati, giornalisti, proportato alla perdita
fessori universitari.
della biodiversità, alDa una parte coloro
l’incremento dell’inche la giustificano,
quinamento delle acdall’altra coloro che
que, attraverso lo scola disprezzano.
lo di fertilizzanti e
Vandana Shiva è uno
pesticidi, e alla dipendei massimi esperti
denza economica che
di ecologia sociale
nasce per ragioni di
alla quale si devono
forza tra contadini e
proprio quegli studi
multinazionali. I priche criticano il masmi si ritrovano a dosiccio intervento delver comprare i semi
la globalizzazione
geneticamente modinei paesi del cosidficati che purtroppo
detto Terzo Mondo
necessitano di pesticicome l’India, in cui
Vandana Shiva è una fisica, un’economista indiana nonché
di, erbicidi e macchilei è nata e cresciuta.
uno dei massimi esperti di ecologia sociale, leader con
ne agricole acquistaI suoi studi hanno lo
Ralph Nader e Jeremy Rifkin, dell’International Forum on
bili direttamente dalla
scopo di mettere in
Globalization.
stessa multinazionale.
risalto tutti quei proÈ
direttrice
della
Research
Foundation
for
Science,
TechnoÈ un dato di fatto che
blemi che le multinalogy and Ecology.
questo meccanismo
zionali occidentali
Nel 1993 ha ricevuto il Right Livelihood Award e il Global
genera dipendenza e
stanno creando pro500 Annual dall’UNEP (United Nation Environment Promolti contadini sono
prio in questo paese,
gramme) e l’Earth Day International Award of the United
costretti a vendere la
distruggendo la bioNations (UN) per il suo continuo lavoro nella difesa e conpropria terra per ripadiversità terrestre e
servazione del pianeta terra.
gare i debiti.
la semplice vita quoTra i suoi libri più conosciuti: Monocultures of the Mind: BioShiva critica fortetidiana dei contadini
diversity, Biotechnology and Agricolture (1993), Biopiracy:
the
Plunder
of
Nature
and
Knowledge
(1997),
Stolen
Harmente l’agricoltura
o dei pescatori dei
vest: The Hijacking of the Global Food Supply (1999), Globaindustriale che oggi si
villaggi costieri.
lization’s
New
Wars:
Seed,
Water
and
Life
Forms
(2005),
è trasformata in una
Per più di 10.000 anEarth Democracy; Justice, Sustainability, and Peace (2005).
guerra contro gli econi gli agricoltori hansistemi; questo si può
no lavorato con la
osservare anche dai
natura sviluppando
nomi, strani e fuoriluogo, che le multinazionali attrimigliaia di varietà colturali adatte ai diversi climi e
buiscono ai propri erbicidi: la Monsanto ha chiamato
culture. Oggi questa enorme diversità è minacciata
il suo Round – Up (Retata), mentre l’American Hodalla cosiddetta “pirateria genetica”: le monoculture
me Products ha optato per Pentagon (Pentagono) e
e i monopoli stanno distruggendo la ricca varietà di
Avenge (Vendicare).
semi che la natura e la cura degli agricoltori hanno
L’India, come molti altri paesi del Sud del mondo,
creato nel corso dei millenni.
dovrebbe invece continuare ad avere un’agricoltura
Shiva punta il dito contro il governo statunitense che
basata sulla diversità, le decentralizzazione e il minegli anni Sessanta ha imposto all’India, con il sosteglioramento della produttività delle piccole aziende
gno della Banca Mondiale, metodi di coltivazione
agricole attraverso metodi ecologici.
chimici e industriali sotto l’etichetta della RivoluzioOggi più che mai secondo la Shiva, siamo tutti parte
ne verde.
di questa macchina distruttrice: i governi del Nord
All’inizio questa avrebbe dovuto rappresentare un apche impongono la loro agenda agli abitanti del Sud
proccio innovativo alla produzione agricola, che attradel mondo, ma anche noi semplici cittadini proprio
verso l’accoppiamento di varietà ad alto potenziale
per il nostro atteggiamento di semplice distacco vergenetico e sufficienti input di fertilizzanti e altri proso tutti quei problemi che ci appaiono lontani geodotti, avrebbe dovuto garantire un incremento delle
graficamente e “sentimentalmente”.
produzioni agricole. Ma così non è stato.
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«Tra cervello e cuore»
Intervista a Oliviero Toscani
di Alessandra Ciarletti
Oliviero Toscani è nato a Milano e ha studiato fotografia alla Hochschule
fur Gestaltung di Zurigo.
I suoi lavori sono conosciuti e riconosciuti a livello internazionale e la sua
forza creativa ha lavorato per i più famosi giornali e marchi del mondo. Per
la United Colors of Benetton ha dato vita a immagini e strategie di comunicazione che hanno fatto scuola. Nel 1990 ha creato e diretto la rivista internazionale Colors; nel 1993 ha inventato e diretto Fabrica, un centro per le
arti e la ricerca della comunicazione moderna, producendo libri, mostre,
esposizioni e film. I suoi lavori sono stati esposti alla Biennale di Venezia,
San Paolo del Brasile, alla Triennale di Milano e nei musei di arte moderna
di Mexico City, Helsinky, Roma, Lausanne e Francoforte.
Il suo lavoro contro la pena di morte è un’esposizione richiesta in tutto il mondo.
Negli ultimi anni ha fondato un nuovo centro di ricerca della comunicazione moderna chiamato La Sterpaia.
Vive in Toscana, produce olio di oliva e alleva cavalli.
Nella sua recente campagna Nolita lei gioca con il
significato e il significante, imprimendo alla pubblicità un carattere di denuncia di segno opposto.
Perché ha scelto questo tema?
Lavoro da anni sull’anoressia, ho anche girato un
film su questo tema, Bianca, sedici anni, presentato
al Festival di Locarno. È la confessione di una ragazzina di sedici anni da cui si capisce bene per quale
ragione ci si ritrova a vivere quella condizione. Bisogna mostrare a tutti la realtà di questa malattia, nella
maggior parte dei casi causata dagli stereotipi imposti dal mondo della moda, ma non solo. Anche la recente campagna Nolita si muove in questa direzione:
ha fatto molto discutere l’immagine della ragazza
anoressica ed è stata molto osteggiata, tanto è vero
che a Milano è durata pochissimo e a Roma tre giorni in più. In Francia addirittura non hanno accettato
l’affissione considerando l’immagine troppo forte. In
ogni caso, per me, è molto interessante che finalmente proprio un’azienda di moda abbia capito l’importanza del problema, ne abbia preso coscienza e con
coraggio rischi, facendo questa campagna. La pubblicità non deve uniformare, piuttosto deve essere in
grado di destabilizzare.
Di quelle immagini si è a lungo parlato, ma sulle
strade non sono durate a lungo. Di quanta libertà
dispone oggi un creativo eticamente attento e che
prezzo paga?
È dura perché non si possono fare delle cose, non dico che non facciano pensare, ma che non siano nelle
norme del consumismo, dell’economia, del profitto e
quindi del consumo. È molto difficile, perchè le istituzioni sono quello che sono e anche i committenti
sono per lo più avvezzi a logiche di mercato. Devo
dire che per quella che è la mia esperienza ho sempre
avuto la fortuna di incontrare persone che capivano
ciò che volevo dire e ho sempre disposto della mia libertà creativa. Ma per avere libertà, bisogna garantire
ai committenti il pieno e talvolta non basta. I Benetton li ho arricchiti da matti eppure non è bastato perché di fronte alla mia campagna sulla pena di morte
si sono ritirati. Il rischio viene sempre considerato
una perdita; sostanzialmente non c’è coraggio, mentre la comunicazione e l’arte in generale, dovrebbero
essere sempre coraggiose. In particolar modo, la comunicazione dovrebbe essere in grado di trovare
nuove soluzioni senza trattare i problemi in modo
problematico; essa dovrebbe mettere in evidenza i
nodi sociali non ancora risolti. In questo senso si deve correre il rischio. L’arte è un rischio.
Globalizzazione e censura, due aspetti che caratterizzano i nostri tempi.. Che ruolo è riservato all’arte? Può ancora denunciare o è ormai totalmente
soggiogata a logiche di mercato? Parafrasando Pasolini, in un paese in cui si può tutto non si fa nulla,
viceversa dove non si può nulla, si fa qualche cosa.
C’è tanta gente che non vuole spostare il proprio
punto di vista e i censori purtroppo sono dei subumani con una mancanza totale di creatività e di generosità nei confronti della vita. La storia non ricorda
nessun tipo di censura che con il tempo si sia dimostrata intelligente. La censura è stupida, becera, violenta. Il ruolo dell’arte è un ruolo complesso, posso
dire che quando è censurata ha fatto il suo dovere.
L’arte deve traghettare, deve accendere la luce in
nuovi spazi.
Io non amo la violenza, anzi mi disturba molto, non
la sopporto. Non guardo mai film violenti. Nella violenza manca completamente la bellezza della tragedia. Ma oggi nessuno vuole più vedere la tragedia. La
condizione umana a volte è tremenda. Un’immagine
non è mai scioccante, è la realtà che è scioccante.
Lei ci ha abituato nel tempo a immagini scioccanti
che se non sovvertono tutti i luoghi comuni, almeno li mettono in evidenza. Al di là di un’irrinunciabile inclinazione a una sana sovversione, quando crea pensa che la sua istanza di libertà possa
essere utile a qualcuno?
È innanzitutto utile a me e probabilmente a un’altra persona. Se ciascuno di noi riuscisse ad essere utile ad una
persona soltanto, avrebbe fatto tantissimo. Se si riuscisse a fare del bene almeno a un’altra persona, il mondo
in breve avrebbe il doppio delle cose che gli servono.
L’arte è una questione di valori, se è solamente estetica
è mediocre. A me interessa documentare l’uomo e la
sua condizione, tutto il resto è cornice spesso evitabile.
Quando creo non rinuncio mai alla mia etica, al mio
modo di guardare, di essere curioso del mondo e della bellezza che contiene, spesso bellezza tragica. La
curiosità non censura mai e si porta dietro il fardello
del coraggio che fa mettere l’occhio dove la maggior
parte della gente volta le spalle. La volontà di capire
meglio le cose che accadono, sì, credo che questo sia
il motore principale.
Quale è la soddisfazione maggiore?
La soddisfazione è come la creatività: deve essere una
conseguenza. Io non mi sono mai definito un creativo,
sono gli altri che lo dicono quando guardano il mio lavoro. La creatività è una conseguenza ed è in stretta
relazione con la soddisfazione. In ogni caso io non ricerco consenso; la ricerca costante del consenso inizia
dalla scuola: si studia per ottenere buoni voti non per
imparare, ma del resto sono pochissimi i maestri che
insegnano per amore dell’insegnamento, la maggior
parte in realtà amano giudicare. Oramai si fa tutto per
il consenso: ci si rifanno le labbra, i seni, il naso per
ottenere consenso, per
adeguarsi a un modello La campagna pubblicitaria Nolita
di bellezza che non è la
propria, si rinuncia perfino alla propria personalità fisica per conformarci a una bellezza
commerciale, una bellezza definita dai mezzi
di comunicazione di
massa. Questo che ci
dice? Che si vive in una
costante paura di essere
rifiutati. Benissimo. Io
fortunatamente non ho
questa paura. Mi propongo per quello che
sono e se non piaccio
non è un problema. Anzi devo dire che le critiche mi
piacciono e mi fanno bene, mi fanno riflettere e tante
volte capire qualcosa che magari mi è sfuggito. Nessuno è perfetto. Mi considero una persona particolarmente fortunata e privilegiata, innanzitutto per il periodo storico in cui sono nato e cresciuto, per le esperienze che ho maturato, per le cose che ho e comunque
sia ci tengo a precisare che questa mia fortuna non ha
mai corrisposto un favore politico. Da quando sono
nato, non ho mai votato un partito che sia andato al
governo. È incredibile! Credo che la politica sia una
cosa fatta da imbecilloidi. Io appartengo sempre al
2%; in tutte le cose c’è il due per cento. Nella mia bottega vengono cento ragazzi, due hanno veramente talento…magari ce lo hanno anche gli altri, ma gli altri
sono più attenti a riscuotere consenso, vogliono conformarsi al successo e per questo ricercano come prima cosa il consenso. In questo modo si va dritti verso
la mediocrità.
Immagini globalizzate: l’anoressica di Nolita e i
corpi denutriti di molta parte del mondo. Percentuale di rischio di globalizzare, ovvero, sedare le
coscienze? La pubblicità se ne giova?
Tutto è pubblicità: il Papa che parla la domenica vestito di bianco è un comizio pubblicitario; in un certo
senso la pubblicità l’hanno inventata loro, è la voce
della cultura moderna. La Repubblica fa pubblicità a
una certa politica, il Corriere a un’altra e L’Unità a
un’altra ancora e via così. No?
Dobbiamo smettere di ragionare a compartimenti stagni, a valori dati. Tutto è strumentalizzato in funzione
del prodotto. Guardi che anche credere in Dio è un
prodotto. Ormai la pubblicità condiziona il gusto, la
cultura, la morale, l’etica della gente. Per un bambino
la pubblicità è relativa al suo libro di scuola. Il messaggio cifrato, ma poi ormai mica tanto, è che si è ciò
che si consuma, ciò che ci si mette addosso, quindi l’identità è diventata qualcosa di estremamente superficiale. Non ci si stupisce più di niente, travolti dall’effimero. Siamo anoressici, stiamo attraversando un pe-
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riodo di anoressia culturale. Liquidiamo ciò che non
comprendiamo nel modo più semplicistico possibile.
Sono comunque ottimista, credo nell’evoluzione. Certo
è che al momento c’è una predominanza di infelicità.
Basta guardarsi intorno la mattina in tram: non si trova
un volto felice. Non solo. Non ce ne è uno che emani
voglia di vivere, solo sguardi feroci. Per quale motivo
essere infelici? Io questo proprio non lo capisco. Si vive una volta sola e l’infelicità è un lusso che l’uomo in
quanto tale non può permettersi. La mia grande fatica
quotidiana nasce da una spinta contraria, dalla consapevolezza nitida di non voler essere assolutamente così. Per natura vado contro ai dati di fatto socialmente
accettati: bisogna essere in un determinato modo, bisogna lavorare in tal altro. Ecco, neanche quando andavo
al liceo riuscivo ad adeguarmi: capii in fretta che era
molto più divertente andare al cinema e in quegli anni
mi sono fatto una cultura cinematografica incredibile,
la scuola non mi ha insegnato così tanto. Io conosco in
prima persona tutti i film degli anni Cinquanta.
Ho imparato l’inglese così. In sintesi, però, ero un
autodidatta con un incredibile senso di colpa, perché
non andavo a scuola e dovevo raccontare balle ai
miei genitori, dovevo falsificare le assenze.
A cosa non può rinunciare?
All’istinto. Saper seguire il proprio istinto è una garanzia di felicità. Il resto ci porta all’infelicità. Certo
non è facile ascoltarlo, bisogna imparare e non c’è
nessuno che lo possa insegnare perché tutta l’educazione che riceviamo è volta a cancellarlo, a farci perdere questa fondamentale sensibilità.
Viviamo in tempi di incertezza, il lavoro, l’ambiente minacciato, la salute precaria.. L’insicurezza cara alla creatività è stata soppiantata da
una precarietà reale vissuta ogni giorno. Ne deriva una necessità contraria, di stabilità, di punti fermi che il sistema placa con analgesici effimeri che non fanno altro che dilazionare la sofferenza.
La sicurezza non esiste, è una balla! È un’operazione
di marketing. L’unica cosa certa è che moriremo. Bisogna quindi vivere fino a quel momento nel modo
più allegro, civile e bello possibile. Senza avere paura. Bisognerebbe innanzitutto eliminare la televisione. Il fatto che esista non comporta necessariamente
che bisogna averla. Io l’ho fatto tanto tempo fa. Non
c’è bellezza, etica, energia vitale in queste facce da
programmi demenziali intrisi di buonismo.
La guerra dei marchi
Il culture jamming come fenomeno di resistenza culturale
di Lia Luchetti
Nella società dei consumi, le
deprecabili, non sono tutelati
aziende hanno compreso da
da alcun diritto sindacale e ritempo di poter avere accesso alcevono un salario insufficiente
la realtà quotidiana dei consuper vivere. A tale sfruttamento
matori attraverso il marchio o
cercano di rispondere i gruppi
brand, più che con il semplice
di consumo critico, paragonati
prodotto. Il marketing ha assunda Naomi Klein a un esercito
to così un ruolo dominante nel
armato di spilloni che vuole far
sistema e la fase di produzione
scoppiare i palloncini gonfi
delle merci viene data in appalto
d’aria (i marchi). Questi divera società d’oltreoceano (le cosi movimenti possiedono un
siddette zone franche) che devoelemento in comune: la volonno produrre la merce al prezzo
tà di andare oltre l’imperialipiù basso possibile, per lasciar
smo del marchio per svelare
spazio agli investimenti sul
cosa c’è dietro le strategie di
branding. Di qui la corsa verso
marketing delle corporation.
il cosiddetto “peso zero” (Klein,
Il consumo equo e solidale e il
2000): chi possiede di meno e
boicottaggio rappresentano una
produce le immagini, anziché i
modalità di resistenza culturale
Spoof
ad
realizzato
da
Adbusters
contro
il
clown
prodotti, vince la corsa.
fondata sull’utilizzo del potere
All’interno di questi distretti Ronald testimonial di Mc’Donalds
dei consumatori in termini di
industriali si trovano fabbriche
scelta o di rifiuto di un prodotto.
Il commercio equo e solidale manifesta il potere dei
dove milioni di persone, soprattutto giovani donne e
consumatori di scegliere quali prodotti comprare.
bambini, lavorano in condizioni di sicurezza e igiene
Chiede maggiore dignidiamo il clown Ronald
tà per il produttore,
con l’adesivo grease
cioè una retribuzione
(unto) attaccato sulla
dignitosa del lavoro,
bocca, oppure la scena
maggiore giustizia nel
di un’operazione chirurcommercio, per valogica con in primo piano
rizzare i costi reali di
il grafico del monitor
lavorazione, e maggiore
che assume l’inconsueprotagonismo del conta forma di M (gli archi
sumatore, per garantire
d’oro del logo) perché il
la trasparenza di tutte le
paziente è stato colpito
fasi commerciali.
da “Big Mac attack”.
Il boicottaggio consiste,
Come non citare, poi, le
invece, nell’interruzione
falsificazioni della camorganizzata e temporapagna pubblicitaria AbBrand baby, spoof ad realizzato da Adbusters
nea dall’acquisto di uno
solut Vodka, che abbina
o più prodotti per indural nome del noto alcolire le società, con un calo di vendite, ad abbandonare
co una serie di vocaboli attraenti (absolut fun, absolut
comportamenti scorretti che creano ingiustizia sociajoy, absolut party). Nelle mani dei jammers lo slogan
le, impoverimento delle risorse e inquinamento.
diventa, al contrario, Absolute end, con il profilo di
Il movimento del culture jamming (in italiano interuna bottiglia disegnata per terra con il gesso, come
ferenza culturale) comprende, soprattutto negli Stati
fosse la scena un incidente stradale.
Uniti e in Canada, diversi gruppi di attivisti che opeInfine, sono molteplici gli spoof ad che rispondono
rano in risposta allo strapotere dei media e delle mulall’obiettivo di sabotare l’industria della moda, retinazionali mediante la manipolazione simbolica dei
sponsabile di trasmettere l’ideale di «bellezza=snelmarchi.
lezza=giovinezzazza» (Capecchi, 2006). Uno dei
Le azioni dei culture jammers consistono nel capobersagli preferiti dai jammers è l’azienda Calvin
volgere il significato dei repertori mediali utilizzando
Klein. Nell’anti-campagna sul profumo Obsession
il linguaggio stesso dell’advertising: i messaggi pubfor women, lo slogan è associato all’immagine di una
blicitari, con un’operazione simile al bricolage sottodonna di spalle, piegata di fronte ad un water sul
culturale (Hebdige, 1979) e al détournement (Depunto di dare di stomaco, simbolo di un rifiuto patobord, 1967), vengono spostati dalla loro collocazione
logico del cibo che può insorgere adeguandosi ai moper essere inseriti in un campo semantico opposto.
delli di femminilità imposti dal mondo della moda e
Questa modalità di azione viene definita subvertising
della pubblicità.
(subvert+advertising).
Anche Nike, prototipo di marchio svincolato dal proMovimento ispiratore di queste pratiche è la rivista
dotto (Klein, 2000), non sfugge agli attacchi. Uno
canadese Adbusters che, dal 1989, è celebre per gli
spoof ad, ritratto della campagna di boicottaggio che
spoof ad, le parodie di alcune pubblicità, di cui sfrutnel 1994 mise sotto accusa la Nike per le condizioni
ta l’estetica riconosciuta e il simbolismo forte per codi lavoro nelle sue fabbriche asiatiche, mostra una
struire un messaggio antagonista. Adbusters ha cosneaker nera su cui è scritto il prezzo in dollari pagastruito moltissimi spoof ad con la tecnica del subverto nei negozi per un paio di Nike ($250) e il costo eftising; tra i più esemplari ed efficaci vi è la corporate
fettivo ($0,83) di quando esce da una sweatshop, una
flag, la bandiera americana in cui le stelle degli Stati
fabbrica subappaltatrice del terzo mondo.
sono simbolicamente sostituite dai loghi delle più
Il culture jamming non si manifesta, però, solo con la
note corporation americane (Nike, Microsoft, Apple,
tecnica del subvertising, ma è oggi una rete complesShell, Coca Cola, Mc Donald’s ecc.).
sa che utilizza sempre più la rete per diffondere in
I bersagli privilegiati di Adbusters sono le multinamodo capillare le sue campagne. Rientrano nelle
zionali del tabacco, di alcool, del fast food e di moazioni di “guerriglia semiologica” (Eco, 1973) le tecda. È il caso delle “spubblicità” contro l’industria del
niche di sniping attuate dai banditi dei cartelloni pubtabacco: il cammello Joe Camel, testimonial delle
blicitari, come il Billboard Liberation Front, il media
omonime sigarette, è ritratto come Joe Chemo in una
hoaxing, come le beffe mediatiche realizzate da Luserie di parodie ambientate in un centro oncologico,
ther Blissett o il caso Serpica Naro, la clonazione dei
con il cammello malato terminale in preda ai rimorsi
siti web, le azioni di sabotaggio degli stereotipi di
per gli effetti dannosi del tabacco.
genere, come le Guerrilla Girls, e molto altro ancoMc Donald’s, già oggetto di una durissima campagna
ra. Gli attivisti, negoziando il significato degli enundi boicottaggio nel 1990 per i suoi messaggi pubbliciciati mediali (Hall, 1980), assumono il ruolo di attori
tari ingannevoli sul cibo (il processo denominato Mc
della comunicazione e dimostrano le possibilità di
Libel) e nel 2004 protagonista del documentario Suresistenza creativa e artistica insite nell’utilizzo critiper size me, è travolta dalle azioni di subvertising. Veco dei repertori mediali.
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Il giudice o lo storico?
Nell’inchiesta italiana sul Sistema Condor le storie di venticinque desaparecidos
e le responsabilità degli apparati repressivi latinoamericani negli anni Settanta
di Federica Martellini
Febbraio 2008. Il New York Times pubblica un articolo su un’inchiesta italiana. Nei due mesi precedenti
giornali argentini, uruguayani, brasiliani si sono occupati dello stesso tema. L’inchiesta, che è partita dieci
anni fa, indaga sulla cosiddetta Operazione (o Sistema) Condor, un accordo segreto stretto nel 1975 fra
sei paesi latinoamericani (Cile, Argentina, Uruguay,
Paraguay, Bolivia e Brasile) che istituì fra i servizi di
sicurezza e di intelligence degli stati coinvolti – all’epoca tutti governati da regimi dittatoriali – una forma
di collaborazione repressiva illegale, una fitta rete di
scambio di informazioni sugli oppositori politici e un
sistema di mutua collaborazione nella cattura, detenzione e trasferimento illegale di cittadini da un paese
all’altro. Il supporto che gli apparati repressivi di ciascun paese assicuravano agli altri era logistico e operativo e implicò nella maggior parte dei casi la tortura
e la segreta eliminazione dei detenuti politici.
La fase istruttoria dell’inchiesta italiana sul Condor
si è conclusa il 24 dicembre scorso con l’emissione
da parte del G.I.P. Luisanna Figliolia di 140 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti ex
dittatori, militari, agenti dei servizi di sicurezza e di
intelligence che a vario titolo, in veste di torturatori,
sequestratori, capi militari o cariche governative furono coinvolti, nell’ambito del Sistema Condor, nella
scomparsa fra il 1974 e il 1980 di venticinque cittadini italo-argentini, italo-uruguayani e italo-cileni.
Dora Marta Landi e Alejandro José Logoluso, argentini, 22 e 21 anni, arrestati nel 1977 ad Asunción, torturati dalla polizia paraguyana e scomparsi su un aereo della marina militare argentina. Alejandro era militante della Gioventù peronista, un movimento universitario, Marta solo la sua fidanzata. Le loro foto
segnaletiche, le schede e i verbali sulla loro detenzione nelle carceri paraguayane sono riemerse quindici
anni fa, fra i documenti del cosiddetto “Archivio del
terrore”. La giovane maestra Maria Emilia Islas, sequestrata con il marito e la figlia Mariana di 18 mesi,
lo studente di architettura e disegnatore Juan Pablo
Recagno, il dirigente sindacale Gerardo Gatti, tutti
vittime a Buenos Aires nel 1976 delle retate contro il
P.V.P., un partito politico dell’opposizione uruguayana. Luis Stamponi, guerrigliero argentino arruolatosi
nelle fila dell’E.L.N. boliviano e sua madre, la sessantaquattrenne Mafalda Corinaldesi. Queste alcune
delle venticinque vittime per le quali si procede a
Roma. E tuttavia il procedimento giudiziario italiano
Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile sono i
paesi coinvolti nel Sistema Condor
non si limita alla ricostruzione dei casi individuali
ma si propone di dimostrare la sistematicità delle
pratiche repressive illegali e quindi le più ampie responsabilità degli apparati repressivi all’epoca vigenti nei paesi coinvolti arrivando a fornire, secondo
Reed Brody, portavoce europeo di Human Rights
Watch, citato proprio nell’articolo del New York Times «il più ambizioso quadro d’insieme tracciato fino ad ora sull’Operazione Condor».
Dal punto di vista giudiziario la prima e più eclatante
conseguenza dell’inchiesta italiana è stata l’arresto a
Salerno, dove da qualche tempo si era stabilito, di
Néstor Jorge Fernández Troccoli, ex agente dei servizi di intelligence del Fusna, un corpo speciale della
marina uruguayana. In Italia Troccoli è indagato in
relazione a sei dei venticinque casi presi in esame e
su di lui pendeva già un mandato di cattura internazionale emesso dalla magistratura uruguayana.
Ma gli effetti dell’Inchiesta Condor di Roma non dovrebbero tardare a manifestarsi anche in America Latina. Se è infatti assai improbabile che vengano concesse estradizioni (sia in Uruguay che in Argentina
nel suo dorato esifra l’altro la giustilio brasiliano o Auzia sta procedendo
gusto Pinochet, che
nei confronti di
persino dopo il clamolti di quei 140),
moroso arresto a
tuttavia qualcosa si
Londra nel 1998, è
muove: secondo
riuscito sino alla fiquanto riportato a
ne a sfuggire alla
metà febbraio dal
giustizia.
quotidiano argentiCiò che è più imno Página 12 una
portante sottolineaserie di militari non
re è tuttavia che la
ancora in carcere
valenza dell’inchiepotrebbero rischiare
sta italiana, come
di finire agli arresti
di altre analoghe
in seguito alle ordiportate avanti negli
nanze arrivate dalultimi anni (penso
l’Italia. Fra i loro
ad esempio alle innomi spicca quello
chieste spagnole
dell’ex generale arma anche ai procesgentino Albano
si celebrati in FranHarguindeguy, micia e in Belgio e
nistro degli interni
agli altri processi
durante la dittatura.
già conclusi o in
In Brasile invece, Gerardo Francisco Gatti Antuña, Juan Pablo Recagno Ibarburu, Alejandro José
Logoluso
Di
Martino,
Dora
Marta
Landi
Gil,
Edmundo
Sabino
Dossetti
Techeira,
corso di svolgimendove di fatto non ci
Humberto Domingo Bellizzi Bellizzi, Armando Bernardo Arnone Hernandez,
to a Roma) va al di
sono mai stati pro- Raul Edgardo Borelli, Maria Emilia Islas de Zaffaroni, Hector Orlando Giordano
là dell’orizzonte
cessi, l’azione della Cortazzo, Ileana Sara Maria Garcia Ramos de Dossetti, Julio Cesar D'Elia
puramente giudimagistratura italia- Pallares, Yolanda Iris Casco Ghelpi de D'Elia, Horacio Domingo Campiglia
ziario. Per la possina sta provocando Pedamonti, Lorenzo Ismael Viñas Gigli, Mafalda Corinaldesi de Stamponi, Luis
Faustino Stamponi Corinaldesi, Jaime Patricio Donato Avendaño, Raul Gambaro
bilità che hanno di
forti reazioni e Nuñez, Juan Josè Montiglio Murua, Juan Bosco Maino Canales, Maria Cecilia
fare in qualche moqualche timore fra Magnet Ferrero, Guillermo Tamburini e Daniel Alvaro Banfi Baranzano e Omar
Roberto
Venturelli
Leonelli
dei
quali
non
compare
la
foto
do rete le une con
coloro che erano
le altre e di poter
convinti di poter
accedere a una mobeneficiare ormai
le immensa di fonti, queste iniziative giudiziarie codell’impunità. Così ha commentato Jair Krischke,
stituiscono importanti contesti di ricostruzione storipresidente del Movimento de Justiça e Direitos Huca. Gli atti giudiziari diventano a loro volta fonti
manos dello stato di Rio Grande do Sul, in una repreziose che, intrecciandosi con il materiale prodotcente intervista: «l’iniziativa della giustizia italiana
to da tutti quegli organismi e istituzioni che lavorano
aiuta a sollevare quel velo di silenzio e oblio che si
sugli archivi, selezionando documenti e producendo
stava creando. L’impatto è stato molto forte e anche i
dossier, vanno ad alimentare il patrimonio di conomezzi d’informazione stanno seguendo il caso con
scenze storiche su capitoli drammatici della storia
estremo interesse. Nei prossimi mesi, quando i due
contemporanea e contribuiscono a stimolare la rirami del Parlamento torneranno a riunirsi, un senatoflessione. Una riflessione e un’attenzione che non rire ci ha già detto che chiederà alla Commissione diguardano soltanto il passato ma che dovrebbero parritti umani del Senato di convocare i militari coinvollare anche al presente soprattutto in un momento
ti nel caso affinché diano una loro dichiarazione. La
storico come quello odierno in cui, ad esempio, le
costituzione non permette l’estradizione di un cittadiextraoridinary rendition sembrano tornate (o contino brasiliano, ma il potere giudiziario ha il dovere di
nuano) ad essere una pratica diffusa e in cui però si
giudicare questi criminali in Brasile e non può ignoha spesso la sensazione che notizie come queste rirare ciò che la giustizia italiana sta chiedendo».
schino di passare sotto silenzio o, nel migliore dei
Non saranno pochi forse i repressori che dovranno
casi, di essere “digerite” dall’opinione pubblica (ma
fare i conti con un pensionamento meno tranquillo di
anche dalle istituzioni) come uno dei tanti effetti
quello preventivato e di cui hanno finora potuto becollaterali di quella ipocrita e perversa esportazione
neficiare personaggi come Alfredo Stroessner, il gedella democrazia che è forse, nelle sue molteplici
nerale paraguayano che con una dittatura personale
forme, una delle costanti più insidiose nelle relazioautoritaria e corrotta ha dominato per 35 anni il suo
ni internazionali del nostro tempo.
paese e che, novantaquattrenne, ha finito i suoi giorni
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22
Jenoside in Ruanda: tra significanti
globali e interpretazioni locali
Il percorso linguistico del riconoscimento di una barbarie
di Michela Fusaschi
Da anni svolgo la
mia ricerca di
terreno in Ruanda sui temi dell’identità e della
memoria, alla
quale si è andata
associando una
collaborazione
con l’Unatek di
Kibungo, piccola
università che ha
stretto un accordo quadro con il
nostro Ateneo, e
la supervisione
di un progetto di
cooperazione locale decentrata
sostenuto dalla
Provincia di Roma. Nella primavera del 1994 in cento giorni questo
piccolo paese nel cuore dell’Africa ha conosciuto la
tragica esperienza di quello che sul piano internazionale, tardivamente, è stato riconosciuto come il terzo
genocidio della storia dell’umanità.
Accanto a una lettura esterna dei fatti del 1994, in
un’ottica antropologica ho sempre ritenuto importante recuperare il punto di vista degli attori sociali
per ricostruire le dinamiche di dominazione che
hanno condotto all’agire genocidario. Per comprendere il carattere programmatico del genocidio ruandese occorre percorrere la storia del paese: la cosiddetta Rivoluzione sociale del 1959 e l’Indipendenza
nel 1962 posero fine alla monarchia di espressione
Tutsi. Gregoire Kayibanda fu proclamato presidente
della prima Repubblica ruandese a seguito della vittoria del partito Parmehutu. Attraverso una politica
etnicista, già attuata dai colonizzatori e confermata
nella nuova situazione, si determinarono le condizioni della progressiva estraniazione della componente Tutsi, ritenuta nemica della nuova nazione
che, da quel momento, si sarebbe fondata sul presunto primato storico dell’insediamento degli Hutu,
riproposto a partire dal 1973 da Juvenal Habyarimana, secondo presidente della Repubblica e grande ispiratore dell’agire genocidario. Il 6 aprile
1994, l’attentato contro l’aereo di Habyarimana se-
gnò l’inizio dei massacri,
presentati come lo scatenamento incontrollato
dell’ira popolare della
componente hutu contro
la minoranza tutsi. Solo
in maggio, giunto sul posto, José Ayala Lasso,
Commissario dell’ONU
pronunciò la parola genocidio. Quasi tutti i media avevano parlato di
lotte tribali o interetniche, di odi razziali e atavici, non spiegando adeguatamente le vere ragioni del conflitto.
Un’ampia letteratura
scientifica ha invece confermato che il ‘94 fu il
tentativo della “soluzione finale” programmata da decenni e quando nel luglio la mattanza ebbe fine, circa un milione di ruandesi, tutsi e hutu moderati, avevano perso la vita alle “barriere” e in tutti quei luoghi nei quali avevano
cercato rifugio.
Se sul piano internazionale, la colpevole situazione
di stallo fu direttamente connessa alla difficoltà politica di dare un nome alla barbarie, determinando
un ritardo irreparabile nei soccorsi; su quello locale,
per ben altre ragioni, si è discusso molto su come
nominare quell’orrore. In kinyaruanda non esiste
una parola per designare il genocidio anche perché
come le ricerche storico-antropologiche hanno dimostrato Tutsi, Hutu e Twa non erano delle etnie:
hanno condiviso per secoli lingua (kinyaruanda) e
le medesime istituzioni culturali (ad esempio il matrimonio misto). La divisione etnica che si è realmente prodotta all’interno della società, creando le
“etnie”, trova le sue origini proprio nella politica
coloniale.
A livello locale nominare l’innominabile è diventata
una questione vitale per ottenere un riconoscimento
delle vittime su scala globale dando così origine ad
un interessante processo di costruzione di un vocabolario “glocale”. Nei primi anni del post genocidio
venivano impiegate due parole: ishyano e itsembatsemba. Ishyano significa qualcosa di sorprendente e
allo stesso tempo, traduce
ruandese il concetto di geun’azione sconveniente, la
nocidio che viene sempre
sventura e la disgrazia. Itdeclinato in una forma unisembatsemba, è invece una
ca e singolare, proprio coonomatopea che dal verbo
me l’espressione Shoa tragutsemba esprime devastaduce inequivocabilmente la
zione e annientamento. Ensingolarità del genocidio
trambi i termini evocano lo
degli ebrei.
– dovrebbe
sterminio, ma genericaItsembaúbw oko
mente e quindi se ne scelmanifestare l’intenzione di
sero altri due: itsembabari-costruire un’identità lo–
tutsi e itsembaúbwoko. Il
cale di visibilità globale,
primo per designare l’ecciovvero quella della vittima,
dio di un gruppo, i Tutsi. Il Una sopravvissuta racconta la sua testimonianza a Michela
ri-utilizzando un termine
secondo contiene il termi- Fusaschi
dalla complessa stratifica– che può signifine úbwoko,
zione semantica. Local–
care categoria o specie, ma tradizionalmente si tramente però itsembaúbwoko, presenta problematiche
duceva espressamente con clan (gruppo di disceninterpretative mentre a livello globale è difficile da
denza che si riconosce in un capostipite comune, ancomprendere anche per la marginalità del Ruanda
che mitico). Nella società tradizionale il clan comsullo scacchiere internazionale.
prendeva tutti: Hutu, Tutsi e Twa; l’appartenenza ad
Da qualche tempo pubblicamente è comparso un teruno dei molti clan definiva l’identità di un qualsiasi
mine “glocale”: jenoside. Verosimilmente si tratta di
ruandese, trascendendo la questione etnica, così couna “pidginizzazione” della parola che nelle lingue
me si è conosciuta con la colonizzazione. Nel 1935,
impiegate dalle grandi organizzazioni internazionali
usando metodi arbitrari, i belgi eseguirono un censi(inglese e francese), si scrive quasi nello stesso momento fissando sulle carte di identità la menzione etdo, genocide e génocide e che, nel contesto ruandese,
nica, quella per cui nel ‘94 si viveva o moriva, utilizè stata adattata alla fonetica del kinyaruanda sosti–
zando proprio il termine úbwoko che da quel motuendo la lettera iniziale g con j e la lettera c con s.
mento non significava più clan ma “etnia” o “razza”,
Questo nuovo vocabolo, jenoside, a livello globale
stravolgendo una realtà sociale plurisecolare e indovrebbe consentire un riconoscimento e una comcamminando, ora sì, le due “etnie” verso loro tragiprensione immediata, fornendo un’attestazione unico destino.
versale del ’94; ciò consentirebbe di riconoscere an–
Itsembaúbwoko diviene parola che i ruandesi nella
che a livello locale le vittime della barbarie senza
Conferenza Mondiale sul razzismo di Durban
possibilità di equivoci, perché le identità implicano
(2001), chiedono di utilizzare al fine di riconoscere
una traduzione e una conversione in quanto sono un
il loro genocidio a livello globale. Questo neologiessere per gli altri e la manifestazione delle identità
smo, coniugando due espressioni dotate di un senso
contemporanee non può che passare attraverso un
autonomo, prova ad adeguare al contesto locale
utilizzo di significanti globali.
L’etnicizzazione del sociale
Parla l’antropologo Jean-Loup Amselle
di Michela Monferrini
Qualche anno fa lei disse che la globalizzazione
non è certo un fenomeno nuovo.
Oggi, e sempre più, tale processo sembra crescere
in maniera esponenziale. Lei è sempre della stessa
idea?
Effettivamente io credo che la globalizzazione attuale, ciò che chiamiamo mcdonaldizzazione,
co-cocalizzazione, non sia un fenomeno nuovo. Ci
sono state altre forme di globalizzazione, anche mol-
to lontane nel tempo, come quella provocata dall’impero romano, o la diffusione di religioni universaliste
come il Cristianesimo o l’Islam, che hanno rappresentato delle fasi di globalizzazione, in particolare
per l’Africa, che io ho studiato a lungo. L’islam, in
particolare, diffusosi nell’Africa subsahariana a partire dal decimo secolo, ha rappresentato una fase di
globalizzazione nella misura in cui la diffusione della
religione ha provocato una ridefinizione dei rapporti
23
24
Jean-Loup Amselle, al centro, con gli organizzatori della giornata, da
sinistra Luigi M. Lombardi Satriani (Università La Sapienza), Michela
Fusaschi e Francesco Pompeo (Università degli Studi Roma Tre)
Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École
des Hautes Études en Sciences Sociales
(EHESS) di Parigi, direttore del dottorato in Antropologia sociale e Etnologia, redattore capo dei
Cahiers d’études africaines e autore di numerose
pubblicazioni, tra cui Logiche meticcie. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999),
Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007), nelle quali si è occupato, tra gli altri argomenti, di multiculturalismo, subalternità,
postcolonialismo, soffermandosi anche sulla riflessione antropologica contemporanea italiana.
Il suo ultimo libro, ancora inedito in Italia, è
L’occident décroché. Enquête sur le postcolonialisme.
tra le società africane e ha portato ad
Quanto ha da insegnare la storia
una opposizione e distinzione tra le
culturale africana all’Occidente?
società musulmane e quelle non muQuesto è uno dei temi che affronto
sulmane come quella pagana, quella
nel mio ultimo libro, L’Occident défeticista, quella animista.
croché, l’Occidente sganciato, indiDunque la globalizzazione attuale è
cando l’esistenza di modi di pensare
piuttosto originale, ma ci sono state
diversi da quello occidentale: c’è un
altre forme dello stesso fenomeno nei
modo di pensare africano, uno asiatisecoli precedenti.
co, uno latino-americano, e molti altri
Se parlando di etnia si rischia di
ancora.
cadere in errore, di appoggiare viUno dei capitoli del mio libro si chiasioni filo-razziste della società, qual
ma proprio Alla ricerca d’un paraè il nuovo concetto che in primo
digma africano, e vi conduco l’analiluogo il mondo occidentale deve
si di un istituto (Codresia, Consiglio
apprendere?
per lo Sviluppo delle Risorse EconoIl termine etnia può ricoprire un’ammiche e Sociali in Africa) che si trova
pia gamma di significati, e ha valore
a Dakar, in Senegal, la cui opera didiverso a seconda dei contesti, dei
mostra l’esistenza della ricerca d’un
periodi in cui lo si utilizza. Oggi si L’Occident décroché, l’ultima opera di senso sociale africano.
Jean-Loup Amselle
sente la necessità di destoricizzare il
Questo per dire che ci sono diverse
concetto di etnico e risituarlo nel solinee di pensiero, diversi paradigmi,
ciale.
e che il senso sociale non è uguale dappertutto, ma
I Malinké, o Malinka, sono un popolo che abita, dal
ciò non significa che possano esistere antropoloMedioevo, una regione del Mali, e il loro nome ha
gie, sociologie, storie diverse: tutte le discipline
sempre designato una classe di guerrieri. Successihanno una sola storia davanti, una sola origine, e
vamente, con la colonizzazione, non solo i Malinké
questa origine è strettamente legata alla terra afrihanno incominciato ad esser considerati un’etnia,
cana.
ma la nozione stessa di categoria sociale ha assunto
Qual è stato, nei suoi studi, il passo in avanti che
la valenza di etnia, collegandosi al significato di
vuole rappresentare con questo suo ultimo liformazione politica: ogni chefferie (organizzazione
bro?
politica dell’Africa Occidentale tradizionale verticiQuest’ultimo lavoro si ricollega ai miei libri precesta spesso stereotipata dal colonizzatore, ndr.), stadenti. Nell’Arte africana contemporanea c’era già
terello o regno africano, con la colonizzazione, è diuna riflessione su postcolonialismo e primitivismo, e
ventato ciò che può definirsi un’etnia. Anche per
questo ne è un po’ la continuazione.
questo l’Africa è stata sempre considerata la terra, il
Quel che ora vorrei dimostrare è che gli studi postcocontinente delle etnie e proprio per questo il termiloniali si riferiscono a un’antropologia e un’etnologia
ne ha già subito una destoricizzazione: il significato
desuete, molto contestabili. Le società di oggi hanno
che aveva in altri luoghi, prima della colonizzazioinvece bisogno di un’antropologia più moderna, più
ne, è stato dimenticato.
contemporanea.
Lectio Magistralis di Jean-Loup Amselle
Venerdì 15 febbraio, presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università Roma Tre,
l’antropologo francese Jean-Loup Amselle, invitato dell’Osservatorio sul Razzismo e in occasione dell’assemblea generale dell’Aisea (Associazione italiana delle scienze etnoantroplogiche),
ha tenuto la lectio magistralis dal titolo L’etnicizzazione del sociale, prendendo le mosse dal
suo libro Au cœur de l’ethnie. Ethnie, tribalisme
et État en Afrique (1985), ora pubblicato in Italia
da Meltemi Editore col titolo L’invenzione dell’etnia.
L’opera, firmata assieme a Jean Bazin, JeanPierre Dozon, Jean-Pierre Chrétien, Claudine Vidal ed Elikia M’Bokolo, analizzando la contemporanea realtà sociale africana, e particolarmente
situazioni come quelle di Mali, Ruanda, Burundi, Congo, Costa d’Avorio, esprime il rifiuto del
valore semantico che oggi si attribuisce a termini
ed espressioni come etnia o identità etnica, termini ed espressioni nati assieme ad un’idea di
minoranza e di discriminazione razziale, e che
oggi, secondo lo studioso, non farebbero altro
che rafforzare l’idea d’un’identità nazionale
bianca dominante.
L’idea di Amselle è che la lotta di queste minoranze stia oggi sostituendo le rivendicazioni sociali di cinquant’anni fa, e l’etnicizzazione del
sociale sarebbe proprio la scomparsa dello Stato,
delle grandi istituzioni di un tempo, dei partiti
come macchina politica, nella battaglia dell’integrazione sociale. In particolar modo, in Francia,
Amselle guarda con preoccupazione alla crisi e
alla sparizione del Partito comunista francese,
così come alla crisi della CGT, la più grande organizzazione sindacale francese, «crisi che nasce
anche dalla constatazione della eterogeneità della classe operaia».
In altre parole, lo Stato sembra oggi demandare
il suo compito d’integrazione delle minoranze
visibili a organizzazioni formate da microgruppi, che non sanno e non possono affrontare il
problema se non ribadendo la loro identità etnica, spesso chiedendo l’aiuto a realtà religiose
locali, quindi non facendo altro che aumentare il
proprio livello di ghettizzazione, restando bloccate ai margini della società.
Non solo. Perché lo Stato (francese, ma ci sono
analogie con la situazione italiana, studiata da
Amselle), starebbe prendendo una strada che
l’antropologo non esita a definire razzista, e qui
vengono citati ad esempio alcuni recenti avvenimenti francesi, come la creazione di un Ministero dell’identità nazionale, dell’immigrazione
e del co-sviluppo, l’approvazione di una legge
sull’immigrazione che include il ricorso ai test
del DNA per i ricongiungimenti famigliari, la
creazione dell’Istituto di ricerca sull’immigrazione e l’integrazione, presieduto dall’accademica Hélène Carrère d’Encausses, la creazione
di una commissione dell’immigrazione per
quote e la soppressione, da parte del Consiglio
costituzionale, delle statistiche etniche.
Lo studioso parla pertanto di biopolitica o politica di sorveglianza (riprendendo le espressioni di
Foucault e di Agamben) ad indicare comunque
«una situazione ai limiti della democrazia», in
cui un governo tenta di mascherare qualcosa che
è invece riconoscibilissimo, e cioè la presenza e
la messa in atto di idee appartenenti alla destra
estrema di Le Pen.
Questo porta inevitabilmente ad un’errata interpretazione dei fatti politico-sociali, come la rivolta delle banlieues parigine del 2005, e ancor
più quella del 2007. Ne è un esempio la dichiarazione di Hélène Carrère d’Encausses, secondo
la quale a origine dei fatti ci sarebbe stata la poligamia delle famiglie di molti “ragazzi selvaggi”, cioè quei ragazzi che hanno partecipato attivamente agli scontri.
Amselle evidenzia come, in realtà, ad abitare
quelle zone siano sì persone di varie provenienze, ma di cittadinanza francese ormai da molto
tempo, persone, francesi, che hanno la sfortuna
di vivere confinate ai margini della società, in
periferie degradate e senza prospettive. Il problema è sociale dunque, e non certamente etnicorazziale.
E tuttavia, proprio presentando i problemi della
nazione come problemi di derivazione razziale,
si mascherano le tematiche sociali che andrebbero, ma non vengono, affrontate. Il pensiero di
Amselle su questo punto è stato palesemente dimostrato, come lui stesso ricorda, durante le ultime elezioni presidenziali, in cui, paradossalmente, i candidati di destra e di sinistra, proponevano gli stessi temi politici: se Sarkozy, per la destra, proclamava di voler difendere l’identità nazionale francese, non diversamente faceva la
candidata socialista Ségolène Royal.
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«Occhiali scuri, non ci sono gli occhi»
Storia di un disastro colposo. Bhopal 1984
di Alessandra Ciarletti
2 dicembre 1984. A Ram sembra
una notte come tutte le altre, fuori un caldo tiepido, rassicurante.
Si addormenta esausto. Dorme da
poche ore quando sua madre lo
sveglia tirandolo per un braccio.
Apre gli occhi con difficoltà e
una vampata di aria tossica quasi
glieli incendia dentro. La madre
lo trascina letteralmente fuori di
casa e per le strade della città si
sono già riversate centinaia di
persone. La città è Bhopal,
Madhya Pradesh, al centro dell’India e al centro del più grave
incidente chimico-industriale della storia.
In quella notte si riversarono nell’atmosfera calda
della città circa 40 tonnellate di isocianato di metile
(MIC), pesticida di ultima generazione prodotto dalla
Union Carbide, una multinazionale americana. Ufficialmente quella notte circa 2.000 persone chiusero
per sempre gli occhi. Stime non ufficiali si attestano
sui ventimila morti.
Il pesticida prodotto in questa zona verde dell’India
avrebbe dovuto rendere migliori i raccolti nelle regioni meno fortunate del continente.
Questa è la storia di una tragedia umana e di un degrado ambientale che fa seguito alla perdita economica. La storia si ripete spesso senza eccessivi guizzi di fantasia: una multinazionale investe un’ingente
quantità di denaro in un paese “terzo” e il guadagno
è garantito. I profitti però tardano ad arrivare e si
inizia a disinvestire. Manovra veloce negli ambienti
rarefatti dell’alta finanza con ricaduta letale nella
realtà, fatta di impianti iper-tecnologici e produzione
di prodotti chimici altamente instabili. Che ruolo
gioca l’uomo “locale” in questo rapporto di causaeffetto? Come una vestale è lì che controlla e si accerta che tutto funzioni come gli hanno spiegato importanti ingegneri americani quattro anni prima,
quando il presidente della Union Carbide premeva il
bottone che avviava la produzione dell’insetticida
indiano. Solo che i guadagni sperati non si verificano, perché in India il clima è imprevedibile: un anno
non c’è acqua sufficiente e le colture muoiono, l’anno successivo ce ne è troppa. Così i contadini non
sono in grado di garantire ogni anno lo stesso consumo di pesticidi. Già nel 1982 la crisi conduce a una
repentina riduzione del personale specializzato, cir-
ca il 40%. L’anno successivo si
sospende la produzione del MIC,
ma le quantità già prodotte restano stipate in serbatoi sotterranei.
E le vestali? Non ci sono più, abbattute come costi superflui. La
sicurezza, tanto cara all’inizio
alla Union Carbide da farle donare all’ospedale di Bhopal le attrezzature necessarie in caso di
contaminazioni gassose, diventa
la prima voce di spesa da eliminare. Gli impianti di sicurezza
vengono disattivati, dalla refrigerazione delle vasche del MIC fino allo spegnimento della fiamma pilota della torre
di combustione. Le 63 tonnellate di isocianato “dormono”, stoccate nei serbatoi sotterranei, ormai privi
di refrigerazione.
Il 26 ottobre 1984, la fabbrica dalle uova d’oro viene
chiusa. Non c’è neanche una testa d’uomo che si aggiri all’interno delle sue strutture. Fuori, tutto intorno, la città vive. La notte tra il 2 e 3 dicembre del
1984 all’esterno la temperatura si aggira intorno ai
20 gradi. Notte tiepida per quella latitudine, decisamente rovente per il MIC.
L’isocianato è un composto organico dell’azoto, quasi incolore ma dall’odore pungente. Deve essere conservato a una temperatura non superiore a zero gradi.
A contatto con l’acqua il suo stato liquido diventa
gassoso. Tossico e irritante tanto da procurare una
temporanea o irreversibile – dipende dai casi – cecità, ma anche difficoltà respiratorie, enfisemi, emorragie e morte. A Bhopal il MIC divenuto gas, quella
notte non trovò valvole di sfiato e, saturate le condutture, esplose. Non si saprà mai il numero preciso delle vittime, perchè il vento soffiava da nord a sud, dalla fabbrica verso le bidonville.
Accade così che l’acqua, elemento di vita per eccellenza, diventi vettore di morte immediata. Capita così che l’uomo piegato a logiche di profitto, smetta i
panni del creatore e indossi quelli dell’homo homini
lupus.
Nel 1989 un accordo sancì che Union Carbide
avrebbe pagato al governo indiano circa 470 milioni
di dollari. Nel 1991 l’accordo fu riesaminato da un
tribunale indiano che imputò alla Union Carbide e a
Warren Anderson, presidente della multinazionale al
tempo della strage, la responsabilità dell’esplosione
sono di 500 volte superiori
della fabbrica. Seguì un
agli standard stabiliti dalprocesso al quale né la
l’Organizzazione mondiale
multinazionale né Anderper la sanità. L’intera zona
son presenziarono. Furono
non è stata ancora bonifidichiarati latitanti e succata. Per quel che ci è dato
cessivamente la Union
immaginare i corrugati
Carbide fu venduta. Chi
glocalizzati arriveranno
comprò la multinazionale
prima della bonifica. Incomprò al netto, lasciando
tanto altre multinazionali
le responsabilità sul piatto
continuano per logica di
della tara. Le vittime di
profitto a voltare le spalle
Bhopal, che da quella notalla sicurezza, altrove, in
te si riverberano fino ad Due vittime del disastro. Bhopal, 1984
luoghi diversi, ma l’uomo
oggi e chissà ancora per
è ovunque lo stesso, come il cielo e il sole.
quanti anni, chiedono giustizia. Quindicimila sono i
Forse verrà un giorno in cui nessuno potrà più permorti stimati negli anni successivi al disastro, almemettersi il lusso di giocare nel giardino dei vicini,
no centomila gli indiani che soffrono di malattie rel’ecosistema avvisa da tempo che è inesorabilmente
spiratorie croniche, derivate da quelle ferali esaladanneggiato. Quel giorno, un pugno di uomini vorrà
zioni.
sedersi su un fazzoletto di terra, ormai privo di risorOggi la popolazione continua ad ammalarsi perché
se. Si dirà poi che, troppo piccolo, sprofondò.
l’acqua è contaminata, i suoi valori di inquinamento
Il gran rifiuto delle ecoballe
Il dramma napoletano come emblema di un sistema globale iniquo e scellerato
di Valentina Cavalletti
«La città di Leonia rifà se
stessa tutti i giorni: ogni
mattina la popolazione si
risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti,
estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di
latta ancora intonsi,
ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio» (Ita- Sito di stoccaggio di ecoballe
lo Calvino, Le città invisibili).
Il rifiuto è un business in quanto circola, come le
merci, si muove su camion che lo trasportano da un
luogo ad un altro, entrando prepotentemente a far
parte del mercato. Saviano con Gomorra ha sbiadito
i contorni di uno scenario che avevamo soltanto vagamente intuito. La “munnezza è oro” perché instancabilmente produciamo rifiuti, che sono gli scarti
delle nostre tavole, gli imballaggi dei nostri consumi,
il simbolo del nostro sistema economico. Produciamo ricchezza procapite da cui generiamo inevitabil-
mente scorie più o meno
nocive. E se il prodotto interno lordo si misura sulla
base delle merci che consumiamo e che ci scambiamo sul mercato, tanto più è
alto il PIL tanto più alta
sarà la merce che avremo
consumato e di conseguenza la mondezza che avremo prodotto, non soltanto
in termini di rifiuti solidi
urbani ma anche in termini
di inquinamento, di utilizzo sfrenato delle risorse, di
consumo dell’energia.
La vicenda di Napoli diventa emblematica da una
miriade di punti di vista. Sta poi a noi evidentemente trarne degli insegnamenti. Napoli è finita sulle
prime pagine di tutti i giornali e c’è chi grida scandalizzato alle ricadute negative in termini di immagine per il nostro bel paese. Ma il caso campano
sembra piuttosto essere la dimostrazione di un meccanismo perverso, malato, e che a buon bisogno si
ritorce contro la stessa specie umana che l’ha prodotto.
27
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t’anni di sversamenti illegali
«Dove portino ogni giorno il
di rifiuti tossici provenienti
loro carico gli spazzaturai nesdal nord e centro Italia (come
suno se lo chiede: fuori della
ben raccontato in Biùtiful
città, certo; ma ogni anno la
cauntri, film-documentario di
città s’espande, e gli immonEsmeralda Calabria, Andrea
dezzai devono arretrare più
D’Ambrosio e Peppe Ruggielontano; l’imponenza del gettiro). I bambini, che giocano ad
to aumenta e le cataste s’innalacchiaparella e a nascondino
zano, si stratificano, si dispietra i cumuli di rifiuti; le dongano su un perimetro più vane e gli uomini del napoletasto. Aggiungi che più l’arte di
no e del casertano, vittime di
Leonia eccelle nel fabbricare
un alto indice di mortalità
nuovi materiali, più la spazzacausato da tumori e di un alto
tura migliora la sua sostanza,
tasso di malformazioni congeresiste al tempo, alle intempenite (come dimostrano i dati
rie, a fermentazioni e combupubblicati nello studio Trattastioni. È una fortezza di rimamento dei rifiuti in Campasugli indistruttibili che circonnia: impatto sulla salute umada Leonia, la sovrasta da ogni
na coordinato dall’Organizzalato come un acrocoro di monzione mondiale della sanità e
tagne».
pubblicato in italiano sul sito
Sembra che ci vorranno oltre
Locandina
del
film
Biùtiful
cauntri
(2007)
di
web della Protezione civile
40 anni per smaltire le ecoEsmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe
italiana). E perché Roma non
balle che continuano ad accu- Ruggiero
si senta esclusa, i bambini di
mularsi nei siti di stoccaggio.
un asilo nido comunale alle
E tutto se ci fossero dei terpendici di Monte Mario, per fare soltanto un esemmovalorizzatori attivi, che di fatto sono invece in
pio, possono vantarsi di avere come vicini di casa
costruzione. E poi perché continuare a incentivare
giardini che sono latrine a cielo aperto. I cittadini
gli inceneritori, in completa controtendenza con il
di paesi e città che hanno nome e cognome sulla
resto d’Europa e del mondo? Gli inceneritori non
carta geografica e che non fanno parte della letterarisolvono il problema ma più semplicemente lo tratura, come presagiva drammaticamente Calvino desformano. D’altronde in natura nulla si crea e nulla
scrivendo Leonia. E il pensiero è una catena e non
si distrugge. È un semplice principio della termodisi ferma. Non si può fermare, non si deve fermare
namica. Non è vero che ciò che si brucia, se pur
se vogliamo provare a diventare un paese civile.
con tutte le norme di sicurezza, smaltisce i rifiuti
L’emulazione è il fondamento di ogni buona educaproducendo energia pulita. Le sostanze bruciate a
zione. C’è da imitare forse quel che accade nei 145
determinate temperature (meno di 900°) producono
comuni campani, che nel 2006 hanno superato l’odiossina. Quelle bruciate alle giuste temperature
biettivo minimo del 35% di raccolta differenziata
(superiori ai 900°) si trasformano in nanoparticelle,
previsto dal Decreto Ronchi (e di cui ben 75 comuche non riescono ad essere filtrate da nulla, neanni con percentuale al di sopra del 50%). «I comuni
che dai nostri polmoni. Ma si continua imperterriti
ricicloni – sottolineano da Legambiente – rappresulla strada, nonostante le relazioni di intellettuali
sentano l’avamposto di una Campania più moderna
e scienziati che certificano, se ce ne fosse bisogno,
e più pulita: hanno imparato a trattare bene i rifiuti,
quanto esemplificato perfettamente dalla normativa
creando economia e lavoro. Insomma hanno saputo
europea, che prevede nell’ordine: la riduzione, la
trasformare i rifiuti da problema a risorsa. Nella
raccolta differenziata e il riciclaggio, il recupero
realtà la soluzione per uscire dall’emergenza esiste:
energetico senza combustione (fermentazione
estendere al territorio campano, cominciando da
anaerobica della frazione organica) e, soltanto alla
Napoli, l’esperienza dei comuni ricicloni, complefine di questo virtuoso ciclo integrato dei rifiuti, il
tare l’impiantistica regionale realizzando almeno
recupero energetico con combustione. Il problema
20 impianti di compostaggio e chiudere con i 14
è che le vittime di questa politica miope sono semanni di commissariamento che hanno deresponsapre e soltanto gli ultimi anelli della catena produttibilizzato la politica nazionale, regionale e locale».
va. Chi campa con un orto o con un allevamento di
La nostra mondezza può ritrovare da subito la propecore o di mucche. Che non può più vendere né le
pria identità: rifiutarsi di trasformarsi in ecoballe e
annurche né le mozzarelle di bufala e che per libecoscientemente accettare di riciclarsi per trasforrarsene ci deve scrivere sopra made in china. Le
marsi in verità.
pecore sono già morte di diossina a causa di tren-
Gli OGM, pro e contro
Intervista a Giulia Caneva e Paraskevi Tavladoraki
a cura di Martina D’Ermo
Qual è la giusta definizione di OGM? Lei professoressa è favorevole a questo tipo di biotecnologie?
G.C. «Negli organismi geneticamente modificati viene inserito un gene che
conferisce delle nuove proprietà ritenute utili all’uomo. Nel caso delle piante
questi geni vengono generalmente introdotti con l’obiettivo che siano più resistenti a certe malattie o in Giulia Caneva
grado di sopravvivere a
temperature normalmente critiche, permettendo così
una resa produttiva più elevata a breve termine.
Per i motivi che esprimerò in seguito, io però sono
sfavorevole a queste biotecnologie».
P.T. «Un organismo geneticamente modificato
(OGM) è un essere vivente che possiede un patrimonio genetico modificato tramite tecniche di ingegneria genetica che consentono l’aggiunta, l’eliminazione o la modifica di elementi genici. Le modifiche apportate al genoma dell’organismo, utilizzando questo
approccio biotecnologico, sono facilmente prevedibili, controllate e selezionate, oltre che di piccole dimensioni.
In realtà la modificazione del genoma delle piante è
stata operata per secoli, prima dell’avvento dell’ingegneria genetica, tramite diverse tecniche. Una di queste tecniche è la mutazione casuale o indotta in seguito all’esposizione a radiazioni o a agenti chimici
mutageni. Un’altra tecnica di manipolazione genetica
degli organismi, oggi molto diffusa e che ha dato risultati molto buoni, è l’incrocio, non solo tra individui della stessa specie, ma anche tra specie per le
quali è possibile riscontrare una compatibilità riproduttiva o per le quali è comunque possibile rimuovere le barriere di incompatibilità. Utilizzando queste
strategie tuttavia, le modificazioni genetiche sono
poco prevedibili e possono coinvolgere una estesa
porzione del genoma. Inoltre, la selezione per il carattere desiderato è un processo laborioso e costoso.
Sì, sono favorevole all’utilizzo delle biotecnologie in
quanto possono avere innumerevoli applicazioni. In
particolare, tanto per fare qualche esempio, le biotecnologie vegetali possono contribuire ad ottenere
piante resistenti ai patogeni
e vari stress ambientali,
piante ad alto contenuto
nutrizionale come anche
piante in grado di produrre
prodotti farmaceutici e vaccini edibili».
Secondo alcune tesi scientifiche le colture alimentari geneticamente modificate potrebbero rappresentare un’importante risorsa nella lotta contro la
fame. La cosiddetta Rivoluzione verde degli anni
Sessanta e Settanta è riuscita a incrementare la
produttività dei raccolti e ad aiutare milioni di
persone a combattere la fame e la povertà. Ora si
parla di un passaggio dalla Rivoluzione verde alla
rivoluzione genetica, ma come possiamo assicurarci che i paesi in via di sviluppo e con problemi
finanziari, riescano a istituire sistemi adeguati di
valutazione dei rischi per l’ambiente e la salute
umana, sia prima che dopo l’impiego delle biotecnologie?
P.T. «Voglio innanzitutto precisare che la fame e la
povertà in alcune zone del mondo non si possono di
certo risolvere unicamente con le biotecnologie in
generale e le biotecnologie vegetali in particolare.
Anche se le biotecnologie vegetali possono contribuire allo sviluppo dei paesi poveri aumentando la
produttività agricola, migliorando il valore nutrizionale del cibo e rendendo i paesi poveri autonomi nella produzione di cibo, sono assolutamente necessarie
anche altre strategie di sviluppo, come per esempio
investire sulle persone (istruzione, acqua, igiene, servizi sanitari), investire sulla crescita economica,
creare condizioni politiche stabili, ridistribuire le risorse etc. In un tale contesto, l’istituzione di sistemi
adeguati di valutazione dei rischi per l’ambiente e la
salute umana provenienti dall’impiego delle biotecnologie non dovrebbe essere molto problematico.
Inoltre, le conoscenze ottenute da analoghi sistemi di
controllo effettuati dai paesi ricchi potrebbero rendere più semplici i controlli necessari nei paesi poveri.
D’altra parte, in questi discorsi sulla valutazione dei
rischi, bisogna prendere in considerazione anche la
gravità della povertà. Se la mortalità della popolazio-
29
30
ne risultasse molto elevata,
dovuta per esempio alla
scarsità della produzione
agricola per via dell’elevata siccità e salinità del terreno, come realmente accade in certe zone del continente africano, che senso
avrebbe la valutazione del
rischio quando con pochi
semi di piante resistenti a
queste condizioni si potrebbero salvare delle vite
umane? Sopratutto alla lu- Paraskevi Tavladoraki
ce del fatto che finora non
è stato verificato scientificamente alcun rischio derivante dall’impiego delle biotecnologie vegetali».
G.C. «Sono decisamente contraria all’ipotesi, perché non penso che gli OGM siano in grado di sconfiggere la fame e la povertà in alcune zone del mondo. Non voglio negare che in questo modo si potrebbe avere più raccolto e più produzione nell’immediato, ma perché compromettere l’equilibrio che
lega le piante di ogni regione geografica con il loro
ambiente?
Ripeto, la produttività a breve termine è più elevata,
ma bisogna anche tener presente da dove proviene il
seme (spesso viene comprato da multinazionali) e i
costi. Con queste tecniche esiste la necessità di acquistare i semi dai produttori non potendoli ottenere
da scorte della produzione agricola, e questo è molto
grave perché limita l’autonomia degli agricoltori e
genera dipendenza dalle multinazionali fornitrici, per
le quali il profitto è invece chiaro. Poi è necessario
valutare la sostenibilità ambientale degli OGM. È
questo un punto molto critico, perché anche la storia
insegna che quando si è cercato di introdurre piante
più produttive a scapito della diversità preesistente e
degli equilibri ecologici del sistema, spesso si è andato incontro a crisi ancora più gravi. Basti pensare
che l’introduzione di estese monocolture di patate in
Irlanda, eliminando le colture tradizionali, giustificata per le stesse motivazioni di oggi – ridurre la fame
e la povertà – ha invece determinato uno degli episodi più tragici della storia agricolo-economica del
Nord Europa. L’attacco della peronospora, malattia
fungina prima non conosciuta, che nella seconda metà dell’800 ha distrutto rapidamente ogni raccolto.
Ciò, in assenza di fonti alimentari alternative e di
mezzi di lotta al patogeno, ha provocato oltre un milione di morti di fame e un milione e mezzo di emigrati verso l’America su una popolazione preesistente di otto milioni. È invece importante mantenere la
diversità genetica, come garanzia di un sistema che
sappia reagire naturalmente a squilibri ambientali.
Mi chiedo: perché non provare invece a imitare la na-
tura e ripristinare gli ecosistemi in equilibrio con
l’ambiente, in modo da diminuire i costi?»
I risultati delle coltivazioni sperimentali di OGM
sono stati chiari. In alcuni
dei casi studiati, gli erbicidi adatti alle colture hanno danneggiato piante e
animali che si trovavano
nell’ambiente circostante.
Una cosa che non ci dovrebbe stupire, visto che
l’impiego di queste biotecnologie ci consente di far sì che le colture non vengano danneggiate da parassiti. Ma quali potrebbero essere i rischi per la salute di persone e animali che si nutrono di alimenti geneticamente modificati o a base di OGM?
G.C. «I rischi degli OGM per quanto riguarda l’uomo non sembrerebbero molto gravi, però è bene dire
che non sono neanche sufficientemente noti a livello
scientifico; in altre parole non ne sappiamo molto.
Per quanto riguarda l’ambiente, oltre al rischio collegato alla riduzione della biodiversità, fatto di per sé
molto grave, va ricordato che gli OGM sono un potenziale elemento di squilibrio, un potenziale rischio
ambientale, che al momento non siamo in grado di
valutare appieno. Le informazioni attualmente disponibili non sono infatti ancora adeguate, in quanto certi fenomeni si devono valutare a lungo termine e in
situazioni ambientali diversificate».
P.T. «Le molteplici ricerche che sono state effettuate
e che tuttora si stanno effettuando non hanno evidenziato per la salute delle persone e degli animali alcun
rischio generalizzato dall’applicazione delle biotecnologie vegetali. Non è stato evidenziato alcun rischio anche dai prodotti specifici attualmente rilasciati sul mercato. Questo non esclude la possibilità
che nel futuro un nuovo prodotto biotecnologico provochi dei problemi alla salute degli animali. Per
esempio, quando una proteina viene espressa in un
nuovo organismo potrebbe diventare un allergene,
anche se le conoscenze dei ricercatori permettono la
possibilità di prevedere un tale evento. Per questo
motivo, ogni nuovo prodotto OGM deve essere analizzato (come in realtà attualmente accade) prima del
suo rilascio sul mercato».
Queste colture possono andare incontro a un’impollinazione incrociata con altre piante, con conseguenze imprevedibili? Non rischiano di diventare una minaccia per la biodiversità e per l’integrità degli ecosistemi?
P.T. « L’impollinazione incrociata delle piante OGM
con altre piante non OGM non si può escludere e po-
trei asserire che questa possibilità forse rappresenta
l’unico rischio reale dell’impiego delle biotecnologie
vegetali. Tuttavia, non per tutte le piante questa possibilità rappresenta un vero rischio. Dipende dalle caratteristiche di dispersione e di sopravvivenza del
polline, la compatibilità o incompatibilità sessuale
tra le piante, l’ecologia delle piante che ricevono il
polline OGM e infine il tipo di modificazione genetica avvenuta. In tale maniera, la minaccia per la biodiversità e l’integrità degli ecosistemi diventa remota, ma va tenuta in considerazione. In ogni caso, si
può drasticamente ridurre la possibilità di impollinazione incrociata utilizzando specifiche pratiche di
coltivazione delle piante, come per esempio evitando
la coltivazione di piante OGM vicino alle regioni dove crescono i loro parenti selvatici, lasciare tra i vari
campi agricoli zone non coltivate da piante OGM.
D’altra parte l’impiego di piante OGM può portare
benefici all’ambiente in generale e alla biodiversità
in maniera più specifica, come per esempio salvare
specie vegetali in via di estinzione, diminuire la
quantità di pesticidi e fertilizzanti utilizzati, limitare
lo sfruttamento dei terreni e dell’acqua».
G.C. «Alcuni incroci casuali con piante selvatiche
sono stati osservati sperimentalmente, sia pure con
bassa frequenza. È difficile, per i motivi sovraesposti, valutare l’effettivo rischio anche perché bisognerebbe differenziare un tipo di OGM da un altro».
Il cibo, le abitudini alimentari, le tradizioni gastronomiche, tutto il settore delle economie agroalimentari affondano le proprie radici e sono una
parte importante delle identità culturali e sociali
di aree geografiche e comunitarie. Una diffusione
su vasta scala e a livello planetario delle colture
geneticamente modificate non rappresenta anche
una pericolosa spinta verso l’omologazione, la
standardizzazione, la perdita di identità?
G.C. «C’è un’ulteriore perdita di biodiversità, un rischio da non trascurare, uno smarrimento di culture e
tradizioni che non si devono tralasciare. Se non si
evitano questi fenomeni, si potrà avere uno sradicamento dell’uomo dal suo contesto territoriale, perché
se se ne fa un uso massiccio ogni zona diventerà
uguale alle altre e le nazioni perderanno la loro agricoltura tradizionale e il loro paesaggio tipico, frutto
dell’interazione atavica fra uomo e natura, con conseguenze a vari livelli. Oltre all’aspetto identitario
che ogni luogo deve conservare, proprio facendo leva
sugli aspetti economici che giustificano l’introduzione degli OGM, si deve osservare che, nel caso di usi
indiscriminati e non attentamente calibrati, esiste il
potenziale rischio di perdite di tipo economico per
quanto riguarda il turismo, come ad esempio la perdita di paesaggi agricoli spesso fortemente caratterizzanti un territorio (es. oliveti tradizionali, sistemi terrazzati misti, agrumeti, vigneti), che sono essi stessi
un attrattore turistico. Dobbiamo invece evitare l’omologazione e combattere affinché la diversità si
conservi in ogni suo aspetto».
P.T. «Anch’io credo che le abitudini alimentari sono
una parte importante dell’identità culturale e sociale
delle varie aree geografiche e vadano sempre tenute
in considerazione. Per questo motivo ritengo che sia
molto importante che le biotecnologie vegetali si applichino su piante di interesse locale ed è di fatto
questo che si sta cercando di ottenere in vari paesi in
via di sviluppo. In questa maniera si garantisce anche
un elevata produttività agricola, utilizzando delle varietà adattate alle condizioni ambientali locali, nonché lo sviluppo di ricerca autonoma».
Roma Tre e la ricerca
L’anno accademico 2007-2008 è stato per Roma Tre l’anno della ricerca. Il nostro Ateno ha organizzato
infatti su questo tema quattro giornate di approfondimento e di riflessione. Gli incontri si sono svolti a partire da febbraio 2007 e fino al 6 marzo scorso e sono stati dedicati rispettivamente alla programmazione e
valutazione della ricerca, alla sua valorizzazione economica, alla formazione e avviamento ad essa e alle
strutture e ai supporti.
Nel corso dell’ultimo appuntamento ci si è interrogati sullo sviluppo delle diverse fisionomie dei Dipartimenti, sul rapporto tra autonomia, iniziativa del centro e esigenze provenienti dall’esterno e fra Dipartimenti e Facoltà, sul ruolo del centri di ricerca, delle biblioteche, dei laboratori, degli uffici amministrativi e
di supporto.
Sono intervenuti, oltre al Magnifico Rettore Guido Fabiani e al Prorettore alla ricerca Renato Moro, Mario
De Nonno, coordinatore del collegio dei direttori di Dipartimento e Alessandro Verra, direttore del Dipartimento di Matematica. Hanno inoltre partecipato alla tavola rotonda Alfonso Miola, coordinatore della
Commissione ricerca 2 del Senato Accademico, il Direttore Amministrativo Pasquale Basilicata, e i direttori di Dipartimento Renato Funiciello, Elio Matassi e Andrea Vidotto. Tutti i materiali relativi alle quattro
giornate sono disponibili on line, sul sito web di Ateneo.
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Roma: città eterna o metropoli
globalizzata?
Intervista all’assessore uscente all’urbanistica Roberto Morassut
a cura di Federica Martellini
incontri
Roberto Morassut riveste dal 2001 l’incarico di assessore all’urbanistica e
alle politiche di programmazione e pianificazione del territorio del Comune di Roma.
Anche prima di rivestire responsabilità dirette di governo si è occupato a
lungo di Roma e del suo territorio. È stato vicepresidente del comitato
promotore per la candidatura olimpica dal 1996 al 1997. Come consigliere comunale si è occupato della riforma del trasporto pubblico locale,
delle aziende di servizio pubblico e della riforma amministrativa di Roma Capitale e della Città Metropolitana. Durante il suo assessorato ha
condotto i lavori che hanno portato all’approvazione del nuovo piano regolatore.
Secondo quanto emerge dall’annuale rapporto del
l’UNFPA, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, nel 2008 per la prima volta nella storia dell’umanità la popolazione globale che vive nelle città
supererà quella insediata nelle campagne. L’era
della globalizzazione è anche l’era delle città e delle
megalopoli. Quanto è importante il ruolo delle amministrazioni locali e in particolare di una città come Roma che ha, se così si può dire, una vocazione
globale ante litteram, nell’attenuare l’impatto dei
processi globali e in particolare nell’affrontare problemi legati alla vivibilità come l’inquinamento, l’abitabilità, l’inclusione e l’esclusione?
Non è un mistero che Roma aspiri a essere una grande città internazionale, ossia a entrare nella rete delle
altre aree urbane per divenirne un nodo essenziale. Il
nuovo Piano Regolatore è stato disegnato con l’occhio a questo obiettivo: basti vedere quanto si è investito sul tema dell’accessibilità, sulla dotazione infrastrutturale, sull’accoglienza, sulla crescita socio-economica. Guai a ritenere, peraltro, la globalizzazione
un male in sé. Le opportunità che essa offre sono
davvero infinite, e una città come Roma non può ritrarsi dinanzi a queste chance e alle risorse che ne
derivano. Il punto è un altro, e riguarda l’identità urbana, che per Roma (la città eterna) è davvero un tema capitale. Con molta probabilità, l’Urbe, tra le
grandi città, è quella a più alta, diciamo così, densità
storica. Ciò implica grandiose responsabilità per chi
la governa. E così, accettare la sfida della globalizzazione ne comporta anche un’altra, di sfida: ossia la
salvaguardia dell’identità urbana. Io credo che l’identità non sia una questione astratta, mitica, letteraria. L’identità è un fatto reale, e riguarda l’anima
quotidiana di una città: ciò vuol dire tutelare l’ambiente, i parchi, il verde, le ville storiche; preservare
le vestigia storiche; migliorare giorno dopo giorno la
qualità della vita; equilibrare e risanare l’ambiente
urbano; conservare la comunità locale, secondo un
altissimo indice di “inclusione”. Grandissima e duplice sfida, dunque. Di una cosa sono certo. Lo skyline di Roma resterà lo stesso. Non accadrà quel che è
accaduto e sta accadendo in altre grandi metropoli,
che stanno assumendo una conformazione sempre
più simile tra loro, al punto da renderle indistinguibili sotto certi aspetti, a causa di oggetti architettonici o
soluzioni urbane standardizzate e globalizzate.
Il suo assessorato si è fatto promotore del rilancio
della grande architettura a Roma, dall’Auditorium alla Città dei giovani, nell’area degli ex Mercati generali, dalla nuova Fiera di Roma all’ultimo progetto messo in cantiere, il Ponte della Musica al Flaminio. Quanto è difficile portare avanti
progetti di modernizzazione senza perdere il senso
di un patrimonio storico, architettonico, culturale
e umano come quello di Roma?
Lo dicevo prima. Si tratta, in generale, di una doppia
sfida: internazionalizzazione e modernizzazione, da
una parte – tutela e salvaguardia, dall’altra. Globalizzazione verso l’esterno – inclusione e composizione
sociale, invece, all’interno. Sappiamo bene che “aggiungere” oggetti urbani di qualità al tessuto esistente
significa promuovere uno sviluppo che potrebbe portarci anche lontano dal nostro più tipico modello urbano (ormai millenario). Tuttavia, Roma deve costruire (e sta costruendo) una propria via alla modernizzazione, il cui esito sarà quello di collocarla con successo nel novero della grandi metropoli, senza che essa
perda alcuna delle qualità storico-ambientali che la
contraddistinguono. In certe occasioni la sfida parrà
davvero complessa. Prendiamo il caso dell’Ara Pacis,
e dell’alto grado di innovazione che essa ha introdotto
in quel quadrante del centro storico. Io sono certo che
questa immissione di grande architettura (e di sviluppo urbano) nei tessuti cittadini sia assolutamente indispensabile; e sia un ingrediente ineliminabile perché
Roma possa davvero tutelare e rafforzare la propria
identità. La modernizzazione è una componente essenziale dell’identità urbana, e quest’ultima non è un
dato statico, ma un processo storico in cui l’innovazione è, appunto, una componente ineliminabile.
Si è parlato e si parla molto della cosiddetta “cura
del ferro” ovvero dell’incentivazione del trasporto
su rotaie e del conseguente sviluppo di una rete
metroferroviaria più efficiente.
In una città da questo punto di vista molto difficile come Roma a che punto è il percorso verso una
mobilità che sia il più possibile sostenibile per
l’ambiente e per i cittadini?
Quindici anni fa il gap infrastrutturale tra Roma e il
resto d’Europa era davvero abissale. Si trattava di
porre le basi di un nuovo sviluppo. Dovevamo, in sostanza, quasi partire da zero. Oggi la situazione è migliore, ma nei prossimi anni cominceremo a raccogliere la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Rispetto al 1993, la metro A è stata ristrutturata e ha
nuovi treni. La metro B sarà prolungata da Piazza Bologna a Conca d’Oro (i lavori sono in corso). La rete
tranviaria è stata integralmente ristrutturata, e oggi
disponiamo di una linea moderna in più, l’8. Sono anche nate le ferrovie metropolitane, e oggi fanno rete
all’interno del sistema metrebus, accanto alle metro e
alle ferrovie in concessione. La metropolitana C, la linea più grande d’Europa, è in cantiere. La D è in fase
avanzata di progetto. L’Atac non è più la vecchia
azienda malandata di qualche anno fa, e la rete dei
bus è stata integralmente ridisegnata. Sono fatti. Che
preludono ad altri fatti futuri. Abbiamo messo in movimento un meccanismo virtuoso, che migliorerà senz’altro l’accessibilità e la mobilità romana.
Negli ultimi quindici anni l’Università Roma Tre è
stata uno degli attori principali, in collaborazione
con il Comune, della valorizzazione e riqualificazione del territorio nell’area Ostiense - Marconi.
Questa esperienza può rappresentare in qualche
modo un modello della collaborazione fra istituzioni nel processo di rilancio e rigenerazione di alcune zone della città e in particolare di quelle più
periferiche?
Non esagero a dire che un aspetto essenziale del nuovo modello romano risiede nell’intreccio virtuoso tra
crescita urbana, risanamento e sviluppo del sistema
universitario, formativo e culturale in genere. Roma
Tre è davvero un paradigma: un’università che cresce
sull’onda della riqualificazione del quartiere e che
promuove lo sviluppo prima ancora di trarne vantaggio. L’Università non diviene un volano di sviluppo
urbano solo in astratto e in linea di principio, ma traina, sospinge, promuove concretamente la crescita e
la riqualificazione urbana. Al vecchio modello speculativo, alla crescita disordinata, all’espansione a macchia d’olio, abbiamo sostituito un modello di sviluppo sostenibile: cultura, formazione, ambiente, rete su
ferro, crescita equilibrata, policentrismo urbano. È il
pregio essenziale del nuovo Piano Regolatore. Ed è
anche il lascito principale che lasciamo a Roma.
Sostenibilità e riqualificazione
dell’ambiente urbano
Conversazione con Andrea Vidotto, Direttore del Dipartimento di progettazione
e studio dell’architettura
di Camilla Spinelli
Quando si parla di sostenibilità in architettura,
quali sono le problematiche che si vanno ad affrontare?
Sicuramente il tema della sostenibilità è molto ampio
e abbraccia più ambiti che si manifestano anche nella
varietà di ricerche affrontate nel nostro Dipartimento.
Oggi però, si può notare una differenza rispetto a
quello che facevamo una decina d’anni fa. Mi spiego:
prima eravamo orientati a prendere coscienza delle
ricerche che si stavano facendo in Europa, relativamente alla sperimentazione di progetti riguardanti insediamenti edilizi orientati a dimostrare la loro sostenibilità dal punto di vista energetico. Adesso invece,
sviluppiamo ragionamenti e affrontiamo tematiche
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che prendono in esame
aspetti più circoscritti; parlo di tutti quegli studi che
oltre alla riqualificazione
dell’ambiente urbano si
occupano in modo specifico dell’“involucro” dell’edificio.
A questo proposito, il
dottorato del Dipartimento di Progettazione
e studio dell’architettura in Progetto urbano
sostenibile, credo pren- Andrea Vidotto
da in esame proprio
questo problema.
Si, in questo dottorato cerchiamo di orientare la ricerca dei giovani in modo tale da poter affrontare
tematiche che abbiano un’applicazione pratica.
Come in molti altri paesi europei anche in Italia
possiamo constatare che gran parte dei nostri edifici urbani sono malati dal punto di vista energetico
e anche degradati dal punto di vista estetico. Il tema del recupero della qualità e della conservazione
fisica è diventato predominante. Se consideriamo
gli edifici d’abitazione, una parte importante della
“cura” deve riguardare l’identità dell’edificio, la
facciata, la sua pelle. Massicci interventi innovativi
diventeranno sempre più indispensabili. Quando
per esempio si sente parlare di “facciate verdi” ci si
riferisce a soluzioni che sono molto interessanti e
sofisticate ma che non sono altro che lo sviluppo
della tradizionale schermatura “verde”, realizzata
sulle facciate di una casa, che contribuisce a purificare l’aria e a limitare la trasmissione termica rispetto a quello che accade per un edificio che si
scalda costantemente sotto il sole.
Prospetto sud della Vasca Navale
Come vede studiamo i temi della sostenibilità per
risolvere problemi di carattere generale attraverso
processi e procedure
adatti ma ci occupiamo
anche di come l’ambiente
urbano possa essere riqualificato se per esempio lo si vuole trasformare, con progetti adeguati,
in un ambiente a misura
di bambini, di anziani
ecc.
Parlando più in generale, come sta affrontando
questo problema l’Italia?
Il nostro paese dovrebbe cambiarsi la testa. Oggi il
problema del consumo energetico è gravissimo.
Sprechiamo moltissimo negli edifici che realizziamo e non abbiamo messo in atto una politica di trasformazione nel modo di costruire. Non ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di utilizzare il
sole rispetto alla maggior parte dei nostri partner
europei, i quali peraltro ricorrono alle energie rinnovabili con l’uso di dispositivi energetici diversi e
facendo molta sperimentazione. Per comprendere
problematiche così estese credo sia ancora utile fare un esempio. In Italia non si pensa al fatto che
quando una parte del patrimonio pubblico, penso
alla case popolari, viene venduto agli abitanti si
potrebbero preventivamente concordare azioni collettive di responsabilità per farsi carico della riqualificazione dell’edificio in cui si vive. Curarlo dal
punto di vista energetico dovrebbe essere uno degli
obiettivi principali. Mano privata e mano pubblica
si dovrebbero unire per finanziare la realizzazione
di operazioni di manutenzione straordinaria sull’edificio ai fini del risparmio energetico.
Dal punto di vista teorico questo discorso è giusto, ma nella maggioranza dei casi le famiglie
non riescono a “vedere” il risparmio che si ha se
si sceglie l’energia rinnovabile.
Il problema infatti è far partecipare il cittadino al
“gioco” serio della sostenibilità. Anche considerando questioni minime bisognerebbe facilitare un
controllo più accessibile per poter tenere d’occhio
mensilmente i consumi dell’elettricità, del gas, e
dell’energia usata per il riscaldamento di casa. Introdurre questi dispositivi aiuterebbe molto a capire che una certa spesa d’investimento iniziale - finalizzata al risparmio - può dare successivi vantaggi e farebbe vivere meglio.
Come si sta muovendo l’Università Roma Tre
nel campo della sostenibilità?
Abbiamo progettato per l’Ateneo una serie di edifici che hanno caratteristiche tali da essere considerati sostenibili a pieno titolo. Parlo di nuove sedi
per laboratori di ricerca nella zona del Valco S.
Paolo, dell’ampliamento della ex Vasca Navale per
i dipartimenti di Ingegneria, di un edificio destinato a case per studenti finanziato dall’ADISU. C’è
stata da parte nostra molta attenzione sull’uso delle
energie rinnovabili.
Saranno edifici dotati di dispositivi per la captazione dell’energia solare, ciò significa che useranno
questa energia a proprio vantaggio e riusciranno
anche ad immetterne il surplus nella rete pubblica.
Inoltre sono edifici molto ben schermati dal sole e
potranno contare per il ricambio dell’aria e anche
per il raffrescamento estivo su soluzioni di ventilazione naturale.
È nostro intento procedere ad un affinamento della qualità ambientale complessiva del Valco, con
il disegno di tutte le aree pubbliche e di connessione fra i diversi edifici. L’Ateneo ha le migliori
opportunità per confermare il suo ruolo di protagonista dello sviluppo urbano sostenibile in una
parte importante della città in cui si è già insediato e dove estenderà la propria identità architettonica.
Resta il fatto che ai fini della sostenibilità uno degli obiettivi principali è quello di realizzare operazioni di carattere simbolico. Bisogna far sí che
questi temi, questi slogan, diventino realistici, concreti, visibili e percepibili dalla gente. Bisogna sperimentare per convincere.
C’è una cultura del vivere e del consumare che va
cambiata e questo si può ottenere se si effettuano
interventi che abbiano una forte capacità paradigmatica.
Globalizzazione ed ecumenismo
Intervista ad Andrea Riccardi, docente di storia contemporanea e fondatore
della Comunità di S. Egidio
a cura di Michela Monferrini
La globalizzazione è un’ottima occasione di scambio interculturale
e di dialogo tra popoli o un pericolo per il riaffermarsi di certe
correnti che di fronte alla convivenza cercano di ribadire la propria identità culturale e soprattutto religiosa?
La globalizzazione è innanzitutto un
fatto, un dato storico, non una scelta.
Se ne discute ormai da quasi vent’anni, poiché il fenomeno ha tratto
enorme impulso dalla caduta del muro di Berlino e la fine del sistema co- Andrea Riccardi
munista, ma esso ha radici molto più
antiche, che rimandano persino al tempo dell’Europa del Cinquecento o della conquista dell’America.
Certo l’accelerazione contemporanea, dovuta alla
straordinaria mobilità e alla rivoluzione tecnologica
e telematica, è stata impetuosa. Dunque va accettata e non demonizzata.
Occasione di scambio o pericolo? È
entrambe le cose. Certo, la globalizzazione favorisce la rinascita dei nazionalismi e dei fondamentalismi,
ma il vecchio patriarca Athenagoras,
erede di una tradizione ecumenica
cristiana e bizantina, diceva: «tutti i
popoli sono buoni, ognuno merita rispetto e ammirazione». In lui, pulsava una visione universalistica dell’uomo e delle nazioni. In un mondo
frammentato e globalizzato come
quello contemporaneo, non riterrei
negativo a priori cercare di ribadire la propria identità. È necessario sapere chi si è. Il fatto è che si tratta
di un processo aperto, che include le proprie origini
e tradizioni, ma anche il confronto con la contempo-
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raneità. E la mia identità non è mai contro gli altri,
ma sempre accanto agli altri.
Perché la convivenza genera paura, e dunque
chiusura, scatenando il fanatismo? È a causa
della scarsa conoscenza dell’altro, di un’errata
educazione alla coabitazione?
A tutti i livelli e di fronte alle situazioni più diverse, ci si ripete la domanda: come vivere insieme?
Se la pongono politici e intellettuali; ma la sentono
l’uomo e la donna comuni, che osservano le vicende quotidiane e si ritrovano senza una soluzione ai
problemi e senza un ideale di società. Eppure la
realtà è che, mentre ci rivolgiamo questa domanda,
noi già viviamo assieme, a tante latitudini. Oltre alla coabitazione con l’altro, fatta di vicinanza fisica
e geografica, si realizza una convivenza virtuale,
per cui la vita, la cultura, i gusti degli uni raggiungono quelli degli altri attraverso i canali della globalizzazione. Le tradizioni e i sapori si mescolano
nel mondo globale. I viaggi portano gli uni nei paesi degli altri. L’emigrazione crea legami profondi.
La mobilità degli uomini, delle loro idee e delle loro abitudini, non conosce confini. Vivere insieme è
un destino inevitabile, anche se non sembra sempre
rassicurante.
La comunicazione tra l’Occidente e il cosiddetto
Terzo Mondo è un dialogo o un monologo?
Quanto avrebbe da insegnare all’Occidente un
continente come l’Africa, crogiuolo di culture?
Dopo la lunga e contrastata vicenda storica del colonialismo, che, pur tra tante nefandezze, è stata
portatrice di uno sguardo dell’Europa verso il continente africano; esauritasi la fase del confronto tra
i due imperi, in cui l’Africa era un terreno rilevante
di posizionamento strategico, oggi i due mondi
sembrano aver perso interesse persino alla comunicazione stessa tra di loro. Quali i motivi di questo
“black out” tra Europa e Africa, che si consuma negli anni Novanta? Si esaurisce, con l’allontanarsi
dal colonialismo, il “senso di colpa” europeo: le
nuove generazioni europee sono ormai distanti dall’avventura in Africa e hanno, nonostante la globalizzazione, meno legami e meno senso di responsabilità verso il continente nero. D’altra parte anche
gli africani, specialmente quelli più giovani, vivono
oggi come un senso di rivalsa nei confronti degli
europei e sembrano dirci: lasciateci stare, non vogliamo i vostri modelli o i vostri consigli, l’Africa
agli africani!
Io invece sostengo da tempo che il futuro dei due
continenti è quello di uno spazio e di un destino
comuni, per questo parlo di Eurafrica. Il passato
coloniale, la comunanza di lingue e culture, la vicinanza geografica, l’immigrazione, legano indisso-
lubilmente Europa e Africa. Lo spazio euro-africano è una realtà della storia e del futuro.
Basterebbe il dialogo interreligioso a risolvere la
situazione mediorientale?
Il mosaico mediorientale è molto, molto complesso. Certo un dialogo appassionato, franco, sincero
aiuterebbe molto e costituirebbe un grande sostegno per quei cristiani che, in Libano, in Turchia, in
Iraq, in Siria, in Palestina, sentono di non avere, di
fronte a situazioni difficili e dolorose, altra alternativa se non la fuga. La situazione dei cristiani d’Oriente è ancora ricca, ma anche complessa, sofferta:
nasconde in sé potenzialità grandi. Questi cristiani
non sono solo le vittime dell’intolleranza musulmana, ma sono una grande chance per il mondo
musulmano, per non essere solo con se stesso. La
scomparsa dell’altro non è soltanto la sua fine, ma
anche la fine della base per la convivenza pacifica
e la democrazia.
Il dialogo tra la Chiesa e la popolazione, credente e atea, è corretto o la recente protesta di studenti e professori contro la visita del Papa all’Università La Sapienza dimostra che c’è un problema?
Se un Papa, o chiunque altro al suo posto, non può
far visita tranquillamente alla più antica istituzione
universitaria romana, allora vuol dire che l’università italiana non è libera, il che mi pare grave. In
realtà, questo Papa, fine teologo ed intellettuale,
ha tutte le carte in regola per continuare ed approfondire una delle migliori eredità del Concilio, a
cui il suo predecessore Giovanni Paolo II ha dato
grande impulso, cioè il dialogo con i non credenti
e con il mondo della cultura laica. Il dialogo tra
laici e cattolici è una delle sfide fondamentali di
questo nuovo secolo perché è la strada, forse l’unica, che può allontanare conflitti laceranti e distruttivi della stessa convivenza umana. Del resto, la
modernità e il progresso, se da una parte hanno favorito una comprensione più profonda della realtà,
dall’altra hanno riversato sull’uomo contemporaneo una mole di paure e di angosce, senza peraltro
il sostegno di quei valori che davano senso alla vita. Oggi la questione etica torna con forza all’attenzione degli spiriti più attenti, proprio per l’urgenza di porre un argine alla crescita di un individualismo generalizzato, che percorre trasversalmente individui e collettività e che conduce inesorabilmente a una società conflittuale, dove il più
forte ha sempre ragione sul più debole. Questa è la
posta in gioco e mi pare che valga la pena di affrontarla con tenacia ed umiltà, al di là delle polemiche di cortissimo respiro, che lasciano sempre il
tempo che trovano.
La lotta delle donne zapatiste,
tra rivoluzione e autodeterminazione
Ramona vive nel primo incontro delle donne zapatiste con le donne del mondo
Las mujeres luchando, el mundo trasformando
dal Chiapas, Monica Pepe
Murales, Caracol Oventic
Incontro internazionale delle donne zapatiste con le donne della
società civile
poter sviluppare la loro personalità. Un po’ alla volta
si sta modificando la pianificazione familiare: anche
nei villaggi gli uomini le lasciano frequentare le clases de salud y de educación, occupandosi loro dei
bambini, degli animali e di tenere pulita la casa». Il
suo castigliano è eccellente. «Prima di ogni cosa le
donne devono imparare a parlare la lingua che consente loro di studiare e di fare politica attiva all’interno delle Giunte»; mostra orgogliosa i libri di anatomia e di medicina che è riuscita a raccogliere in questi anni. «A La Realidad ogni tre mesi organizziamo
un corso di ostetricia e ogni due mesi uno per il primo soccorso. È molto importante che tutte sappiano
fare della piccola chirurgia, sapere con quali erbe curare le malattie di base, fare pronto intervento agli incidenti dei contadini. D’altra parte noi non abbiamo
il diritto e la possibilità di usufruire degli ospedali
del mal governo messicano. Ma siamo riusciti con il
tempo a costruire nostri ospedali e presidi medici,
anche se per gli interventi chirurgici dobbiamo attendere che arrivino medici del mondo sviluppato».
Molte indigene impiegano tre giorni di cammino e di
camion per raggiungere il caracol, «ma non ci rinuncerei per niente al mondo» dice Maribel. L’umanità
con cui Pervinca le guarda rende l’incontro qualcosa
di molto diverso da una lezione. E la semplicità mentre spiega che devono conoscere il loro corpo, decidere loro quando avere figli - in media ne hanno sei e chiedere ai loro mariti di avere una sessualità più
responsabile e attenta ai loro desideri regala a tutte
reportage
«Che scienza è senza umanità? Non comprendo perché le persone che hanno studiato non vogliano condividere la conoscenza con le popolazioni indigene
che ne hanno bisogno. L’Università della Selva comunque è qui che ti aspetta, quando vuoi tornare sarai
la benvenuta». È Consuelo a parlarmi, una promotora
de salud avanzada di La Realidad, cuore del territorio
zapatista, uno dei cinque caracoles che riuniscono il
territorio delle comunità rivoluzionarie del Chiapas. A
La Realidad si arriva dopo almeno otto ore di viaggio
e di strade sconnesse, ripagati da una vegetazione dirompente e mozzafiato. Non c’è tragitto in cui i ‘carros’ non si fermino almeno una volta per essere immediatamente riparati dagli stessi conducenti zapatisti, sempre con un sorriso. Ho trascorso alcuni giorni
a La Realidad con la carovana dell’associazione Ya
Basta che da anni porta avanti il progetto di una turbina ecocompatibile che produce energia elettrica e rende autonomo il caracol. La forma di buon governo
delle comunità zapatiste lotta dal 1994 per la completa autonomia dal governo messicano e organizza con
grande determinazione il sistema scolastico e sanitario in tutti i municipi e nei villaggi.
Consuelo non è sposata, studia da autodidatta da circa venti anni. Pervinca, la ginecologa italiana della
carovana che è lì per insegnare alle altre promotoras
de salud è impressionata dalla sua preparazione. «In
Italia saresti una grande professoressa» le dice con
convinzione. «La salute delle donne è molto importante - risponde sorridendo Consuelo - e gli uomini
sono sempre più consapevoli che le donne devono
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Alle loro spalle un’enorme
un sorriso. Quando scatto
bandiera dell’Ezln con il
le foto, sempre dopo avere
benvenuto alla Selva Lachiesto il permesso, ridono
candona e all’Altra Campaschermendosi e tirandosi
gna. La prima delegazione
su la bandana rossa per coè quella delle donne de La
prirsi il volto.
Garrucha: sono responsabiLascio La Realidad con il
li regionali, rappresentanti
ricordo di un paradiso neldelle Giunte del Buon Gola selva, prati immensi cirverno della Comandancia
condati dalle case di legno
dell’Ezln, promotrici di sacon i murales più belli che
lute ed educazione. Nei tre
abbia mai visto, il fiume
giorni si succederanno
popolato dalle indigene
le delegazioni delle zapatiche lavano i panni, una Le donne zapatiste raggiungono in fila il luogo dell’incontro
ste degli altri quattro carapartita di pallone con i
coles. A scandire le pause
bambini zapatisti, le stese
lo stesso stacco musicale che diventerà la colonna sodi chicchi bianchi di caffè rivolti al sole.
nora dell’incontro, le donne zapatiste in fila indiana
Eppure anche in questo paradiso le incursioni dei midevono essere sempre le prime ad entrare e lasciare la
litari messicani sono molto frequenti e si stanno faplenaria. L’atmosfera è magica, l’energia travolgente
cendo più minacciose e violente in tutto il territorio.
soprattutto grazie alla Comandanta Ramona, scomparAnche quando all’inizio del viaggio eravamo diretti
sa lo scorso anno, a cui è dedicato l’incontro. Quasi
alla Garrucha siamo stati fermati dai militari. È un
tutte le zapatiste ricordano nei loro interventi questa
gioco delle parti. Loro sanno perfettamente perché
piccola grande donna - al tavolo dei negoziati i suoi
sei lì e del tuo sostegno ai zapatisti, ma vogliono
piedi non toccavano il pavimento - che al matrimonio
guardarti in faccia e sperare che qualcosa non vada
preferì la lotta per il suo popolo e contro la globalizzaper il verso giusto. Un ragazzo della carovana si volzione. Il suo mestiere diceva era di svegliare la gente e
ta verso di me, mi chiede di tirargli su la zip della
il 1° gennaio 1994 era al comando degli indigeni che
felpa senza farmi vedere. Sotto ha una maglietta delconquistarono San Cristobal de Las Casas. È questa la
l’Ezln, l’Esercito di Liberazione Nazionale Zapatista
data in cui gli zapatisti, con armi di fortuna e pochi
e i militari non apprezzano. L’Ezln è stato il primo
mezzi, sono insorti contro le persecuzioni e le umiliaesercito rivoluzionario a nominare donne, lesbiche e
zioni del mal governo messicano occupando più di 80
trans come propri referenti.
villaggi per difendere i diritti e la cultura indigena, e
Stiamo raggiungendo il ‘Primo incontro delle donne
costringendolo a trattare.
zapatiste con le donne del mondo’, tre giorni dedicati
«Noi donne zapatiste uniamo la nostra forza e dimoal protagonismo politico delle donne nell’esperienza
striamo ai nostri compagni che non siamo utili solo in
zapatista e saranno solo loro a parlare. Agli uomini è
cucina e in famiglia, ma possiamo svolgere qualsiasi
stato richiesto di servire la comida, tenere in ordine
compito all’interno della comunità e abbiamo diritto
l’accampamento e pulire le latrine, ma all’interno
al nostro salario. Abbiamo la responsabilità della sadello spazio del dibattito non sono ammessi.
lute collettiva, dell’istruzione, dell’agricoltura e lavoEntriamo nel caracol de La Garrucha ed è la prima volriamo con gli uomini negli organi politici del Buon
ta che un luogo mi investe di così tante emozioni e teneGoverno». Le loro parole sono semplici e penetranti
rezza. Sotto un sole battente una moltitudine di indigeni
«Educhiamo i bambini e le bambine ad aver rispetto
e indigene colorate e laboriose lavorano in decine di
tra di loro, formiamo militiendas di legno per accoziane e miliziani. Il 1° genglierci e preparare i pasti:
naio del 1994 come donne
tortillas, huevos, frijoles.
zapatiste abbiamo dimoL’incontro è già cominciato
strato al mondo intero di
ed entro nell’enorme fabaver lottato per recuperare
bricato di legno, ci saranno
la nostra madre terra, toalmeno 1000 donne da tutgliendola ai latifondisti che
to il mondo, i ragazzi risfruttavano il lavoro dei
mangono ai margini esterni
contadini indigeni. Lottiacome gli fanno presente le
mo per fermare la privatizzapatiste. In fondo il palco
zazione e contro il capitalicon il tavolo da cui parlano
smo». Prende la parola
almeno 40 indigene, giovaMarina, una bambina di
ni e anziane, in abito tradinove anni anche lei con il
zionale e passamontagna. Murales, Caracol La Garrucha
passamontagna, che proclamandosi orgogliosamente
zapatista dichiara tra l’entusiasmo generale «non accettiamo briciole né elemosine dal mal governo».
La lotta clandestina prima dell’insurrezione, la Ley
Revolucionaria de Mujeres di Ramona e il sangue
versato da molte di loro hanno trasformato la condizione delle donne nella comunità. La loro partecipazione in massa al levantamiento, in una società pervasa da un machismo imperante come quello messicano, è stata una rivoluzione nella rivoluzione. Oggi
le donne rappresentano un terzo dei militanti dell’esercito ribelle.
All’interno della struttura militare e della dirigenza
politica, le zapatiste possono essere insurgentes donne guerrigliere che vivono sulle montagne sempre in
armi, comandanti civili con incarichi di natura politica, miliziane, cioè donne addestrate a combattere in
caso di necessità. La base di
appoggio femminile, rappresentata da tutte le donne dei
villaggi zapatisti, ha il compito
di rifornire gli insurgentes.
Molti interventi raccontano la
condizione delle donne prima
dell’insurrezione. Ester, Amalia, Eugenia e le altre ricordano
le violenze e lo sfruttamento
dei latifondisti messicani quando lavoravano nei campi. Non
avevano diritti e se partecipavano a una delle loro assemblee, non sapendo parlare il castigliano, venivano umiliate dai
loro stessi compagni. «Bambini in spalla lavoravamo dall’alba alle dieci di sera e quando
tornavamo a casa dovevamo
Le donne zapatiste e Mafalda
occuparci di tutto senza mai
poter uscire di casa. Il giorno
dopo aver partorito dovevamo subito riprendere il lavoro, eravamo trattate come bestie». Ne hanno fatta
di strada le donne zapatiste. L’alcol è rigorosamente
proibito in tutto il territorio ed è stata una loro vittoria, dal momento che gli uomini spesso tornavano a
casa ubriachi e le picchiavano.
«Grazie al lavoro collettivo abbiamo imparato a leggere e scrivere e stiamo imparando anche l’inganno
delle parole del mal governo». Molte insistono sulla
forza della comunità, «la società è fatta di donne e
uomini, di anziani e bambini. Solo tutti insieme potremo farla progredire». Se una di loro è in difficoltà
con la lingua o troppo emozionata nel parlare, si alza
immediatamente un’altra compagna per aiutarla a finire autonomamente l’intervento. La loro sorellanza
è la loro forza.
Non posso fare a meno di ridere guardando di tanto
in tanto il murales alla destra della presidencia con
una guerrigliera armata e la scritta No anorexia, Si
cellulitis. Le zapatiste sanno usare internet e conoscono bene le distorsioni della nostra società capitalista. Il loro senso dell’umorismo è grande anche
quando alla fine delle singole sessioni danno la possibilità alle donne della società civile del mondo di
fare delle domande. Rigorosamente per iscritto attraverso biglietti che dall’ultima alla prima fila vengono
passati di mano in mano. Una domanda parla complicato e di sovrastrutture politiche, la compagna
Ofelia guarda le altre e dice con bonaria sufficienza
«questa non si capisce, passiamo alla prossima». Tutta la sala scoppia a ridere.
Qualcuna chiede come si comportano quando una di
loro subisce violenze dal marito. Sandra risponde
ferma «È compito di tutte le donne zapatiste sorvegliare che le altre compagne non subiscano più violenze dai loro mariti, provando a intervenire. Se un
uomo persiste nelle violenze
viene punito dalla giustizia zapatista»; si ferma qualche secondo «ma sappiamo che molte donne nel mondo, anche nei
paesi più avanzati, subiscono
violenze e discriminazioni. Vi
invito compagne della società
civile del mondo ad unirvi e
globalizzare la nostra lotta».
Due panche dietro di me ci sono le donne di Atenco, tutte
impugnano un machete brandendolo in alto per tutti e tre i
giorni senza mai abbassarlo.
Applaudono gli interventi delle
compañeras zapatistas, facendo sbattere le lame tra di loro
tanto da risuonare in tutta la
sala. Ad Atenco non lontano da
Città del Messico, nel maggio
del 2006 una brutale repressione del governo messicano contro i venditori di fiori e
i contadini del Fronte dei Popoli in difesa della Terra
provocò l’arresto di centinaia di persone, tra cui quarantasette donne molte delle quali denunciarono violenze sessuali da parte delle forze dell’ordine. Con la
profonda convinzione che la terra non si vende, le
donne di Atenco scesero per le strade armate di machete per esprimere il proprio dissenso alla espropriazione dei territori voluta dal Presidente Fox e
contribuirono alla vittoria. La loro testimonianza è
coraggiosa e vibrante, «se proveranno ancora a toglierci la terra noi continueremo a resistere lottando.
È la loro parola contro la nostra, loro hanno armi e
lacrimogeni ma quello che abbiamo noi è molto più
potente: il diritto e la ragione». Alcune di queste donne però sono ancora in carcere. Il loro grido risuona
forte per tre volte nella sala «Por las presas polticas,
libertad!». E la sala esplode «Ramona vive, la lucha
sigue!».
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L’impero del socialiberismo
Ovvero quando il dragone si accorge che invece che su una sedia di legno
è meglio sedersi su un divano di pelle (finta)
dalla Cina, Indra Galbo
Un viaggio in Cina, per noi europei,
è un viaggio verso qualcosa che
sentiamo lontano sia dal punto di vista linguistico che culturale. È una
di quelle esperienze che ti fanno
guardare dentro e ti pongono solo
domande alle quali difficilmente riesci a dare subito una risposta. Da
questo punto di vista il mio viaggio
non ha fatto eccezioni. Ai primi
giorni di euforia e curiosità sono seguiti lunghi momenti di riflessione,
di analisi, di dubbi.
Prima di partire ero felice all’idea di
avere come destinazione Xi’an in
quanto pensavo che, a differenza della Pechino delle Olimpiadi o della
Shanghai dei super grattacieli, fosse
ancora un po’ salvaguardata dalla
Xi’an, vista dal Grande Muro
macchina globalizzatrice che sta portando la Cina ad essere vittima e carnefice di questo sistema. Invece già percorrendo il traXi’an, negozi su Chang an Lu
gitto dall’aeroporto alla città, vedendo una moltitudine
di fabbriche alle quali seguivano interminabili filoni di
case popolari, mi sono reso conto che anche Xi’an, così come altre importanti città, è nel bel mezzo di quella che il Partito Comunista Cinese afferma essere una
rinascita economica, ma che in realtà sta producendo,
in proporzioni maggiori, le stesse disuguaglianze sociali che già possiamo vedere nel resto del mondo. Ma
facciamo un breve passo indietro.
Dal 1978, dopo la morte di Mao (1976), il PCC abbandona l’ideologia marxista-leninista in favore di
una nuova da esso creata e chiamata socialismo cinese che afferma di poter coniugare il comunismo con
l’economia di mercato. Qui inizia quello che può definirsi un vero e proprio caos politico-sociale in
quanto, convinzioni politiche personali a parte, è
semplice capire che questa sorta di ibrido socio-economico in realtà è una vera e propria menzogna. Con
le promesse di ricchezza, di prosperità e di sicurezza,
in Cina è stata operata la più meschina operazione di
ingegneria politica del dopoguerra caratterizzata da
interpretazioni alquanto distorte sia dell’ideologia
marxista sia, in forma minore, di quella liberista.
Ma cosa hanno di distorto questi due modelli ormai
fusi nella realtà cinese? Per quanto riguarda quello
marxista c’è da dire che i cinesi lo studiano fin da piccoli a scuola, ma il fatto incredibile è che lo apprendo-
no senza studiarne l’autore principale: in sostanza analizzano il pensiero marxista-leninista senza studiare
Marx. Anche un bambino comprenderebbe che la cosa
è alquanto strana: è un po’ come studiare la matematica senza saper contare. Ovviamente ai futuri cittadini
non viene spiegata né l’equazione merce-denaro-merce che nel sistema capitalistico diventa denaro-mercedenaro, né il concetto di alienazione dell’operaio e
nemmeno l’impossibilità dell’avvento di un sistema
capitalistico a seguito di una rivoluzione popolare. Si
studia quindi un pensiero politico distorto adattabile
alle esigenze del momento storico che però di comunista ha ben poco. Per quanto riguarda il modello liberista la sua distorsione riguarda fondamentalmente la
sua negazione: sulla carta la Cina è un paese comunista non liberista. Negando ciò la classe dirigente e imprenditoriale può così usufruire di tutti i vantaggi economici del nuovo capitalismo senza però essere obbligata a rispettarne gli obblighi che comporta.
Cosa comporta questa mescolanza di sistemi politici?
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: condizioni di lavoro atroci e pericolose, repressione, controllo dei media, sfruttamento indiscriminato delle risorse, inquinamento, autodistruzione della propria
identità culturale, pena capitale ed uno stato sociale
praticamente assente.
A volte viene istintivo pensare come sia possibile
che la popolazione possa vivere con delle condizioni
come queste; questo però è un falso problema in
quanto la popolazione, intesa come corpo sociale,
non riesce a percepire queste conseguenze come
Xi’an, fabbriche e abitazioni
eventuali cause di problemi rilevanti, bensì vede
questo come un periodo di passaggio, una sorta di
fase transitoria che li porterà ad un futuro prospero e
felice. Questa futura prosperità sembra già essere la
protagonista se si fa una chiacchierata con un qualsiasi cinese: le prime tre domande che vi verranno
fatte saranno 1) come ti chiami 2) da dove vieni 3)
quanto guadagni. Infatti, un’altra cosa che è cambiata in Cina negli ultimi due decenni è la percezione
della funzione del denaro all’interno della società: il
modello consumistico obbliga inevitabilmente ad
una interpretazione della realtà diversa dal passato
perché diverse sono le modalità e gli scopi di utilizzo della moneta.
C’è chi afferma che l’avvento del modello liberista
porterà con sé anche uno sviluppo democratico e politico, ma questo appare alquanto improbabile in
quanto è opportuno ricordare che la Cina è coinvolta
in questo processo da una ventina d’anni e di riforme
democratiche e diritti ancora non se ne è vista l’ombra. Si potrebbe completare questo pensiero dicendo
anche che forse tutto ciò fa comodo e fa parte del
gioco. Se infatti da noi determinati diritti e tutele per
i lavoratori sono stati conquistati al prezzo di dure
lotte politiche e sociali e si è quindi tenuti a rispettarli, è facile per un imprenditore spostare mezzi di produzione e capitali dove queste tutele non ci sono.
In Cina, quindi come abbiamo detto, non si sta sviluppando un sistema completamente nuovo e originale, ma un ibrido di due modelli socio-economici.
Parlando in termini rousseauniani questo processo
porta ad uno sdoppiamento sia della società che dell’individuo: da un lato la volontà generale che si
identifica sostanzialmente in una volontà del governo
di gestire la massa promettendo una prosperità difficile da ottenere per tutti, dall’altro la volontà del singolo che porta a sviluppare un livello di individualismo imparagonabile a qualsiasi altra realtà in quanto
proprio abbinato ad una volontà di massa e per questo in grado di sviluppare conseguenze culturali che
probabilmente riusciremo a toccare con mano tra
qualche decennio.
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Il fiume dai capelli rossi
Lo Stato di Amapà e le donne vittime di escalpelamento
dall’Amazzonia, Elena Mortelliti
Amazzonia.
Lo Stato dell’Amapà, nell’estremo nord del Brasile,
La maggior parte di queste barche non è registrata.
è ricoperto interamente dalla foresta amazzonica ed è
È fatta circolare illegalmente, non rispettando nemuno dei posti più belli che mi sia capitato di vedere.
meno le più elementari norme di sicurezza. Quindi
Ci troviamo alla foce del Rio delle Amazzoni, laddosi tratta spesso di barche pericolose, basti pensare
ve uno dei fiumi più grandi al mondo incontra l’oche il motore solitamente si trova in un abitacolo poceano, nei suoi mille estuari rigonfi d’acqua.
sto al centro dell’imbaracazione, dove spesso siedoIl Rio è in molti tratti l’unica strada percorribile in
no anche i passeggeri. Succede così che i proprietari
questa terra dalla foresta fitta e inospitale; per questo
dunque le popolazioni dei ribeirinhos, gli abitanti del fiume, utilizzano come mezzo di
trasporto le imbarcazioni.
Si tratta di zone remote, poco
considerate dal resto del paese, più preoccupato ad affrontare i problemi della giungla
d’asfalto. Ma anche la giungla verde, fatta di fiumi e alberi, nasconde purtroppo storie tragiche che per troppi anni sono state rimosse.
Lo scorso dicembre ero a
Macapà, la capitale dell’Amapà, per preparare un documentario che voglio girare in
quelle zone. Nel momento in
cui ho deciso di realizzare
questo lavoro sapevo che
avrei dovuto affrontare temaUn’imbarcazione sul Rio delle Amazzoni, Stato di Amapá
tiche legate allo stato di isolamento che caratterizza quest’area, ma non sospettavo di
della barca per risparmiare, non muniscano di una
venire a conoscenza di una tragedia perpetrata nel
adeguata protezione il motore, che ruota ininterrottatempo che mi ha profondamente colpita. Parlo della
mente per tutta la durata del viaggio a velocità e forrealtà in cui vivono le donne autoctone vittime di
za elevate. Può capitare che durante il viaggio, reso
escalpelamento. A noi può sembrare una parola intalvolta instabile dalle piogge e dal vento, i passegdecifrabile, dal suono fastidioso; per loro significa
geri vengono trascinati da una parte all’altra della
una vita segnata dal dolore. Ho pensato fosse un imbarca.
perativo morale diffondere la notizia e cercare un
Il disagio diventa dramma nel momento in cui ad esmodo per aiutarle.
sere sballottate da una parte all’altra sono bambine o
Andiamo con ordine.
donne con capelli lunghi: questi ultimi, imbrigliati
A Macapà alcuni mesi fa è nata un’associazione di
nel motore, provocano lo escalpelamento. L’escalpedonne che lottano per dare dignità e aiuto economico
lamento, come si può intuire è una ferocissima scoalle vittime dello escalpelamento.
perchiatura della testa, con conseguente deformazioLo escalpelamento è lo scoperchiamento del cuoio
ne della faccia, perché spesso comporta anche la ricapelluto, che raggiunge anche orecchie, sopracciglia
mozione di orecchie, sopracciglia, naso, qualora non
e talvolta parti del naso e di cui rimangono vittime
implichi la morte.
molte di quelle donne che utilizzano delle barche per
attraversare il fiume, unico modo per muoversi in
Questa atrocità non è affatto un fenomeno isolato in
Negli ultimi anni, grazie al coraggio di Maria Triniquesta zona dell’Amazzonia, è anzi piuttosto diffuso,
dade Gomes, si è costituita la Associação das Mulciononostante, forse per pudore, non trova espressioheres Vítimas de Escalpelamento do Amapá, di cui
ne a livello nazionale.
Maria Trinidade è la presidentessa. Ad oggi l’assoUso il termine atrocità perchè è l’unico che mi è veciazione conta 68 associate, tutte vittime di escalpenuto in mente quando mi sono trovata di fronte a dellamento.
le donne deformate e rese mostruose da un evento
Di recente alla Camera dei deputati del Brasile è staapparentemente così superabile.
ta presentata una proposta di legge per garantire un
Incredibile che per una copertura mancante su un
intervento gratuito di chirurgia plastica alle vittime e
motore, che avrebbe il costo di circa 100 dollari,
per stabilire il diritto al lavoro fuori da ogni discrimimigliaia di donne vivano in una condizione di emarnazione per queste donne. Al momento la proposta
ginazione, di dolore e grande sofferenza, senza
nemmeno ottenere un aiuto dallo
Stato.
Le donne sono le principali vittime
di questa tragedia anche perché costrette, a causa dei dettami della
confessione evangelica, molto diffusa nella zona, a tenere i capelli lunghi e a non tagliarli mai.
Sembra una ridicola congiura risolvibile con pochi accorgimenti da una
società razionale e pragmatica come
la nostra, ma non lo è altrettanto per
delle popolazioni semplici, che vivono in un quasi totale isolamento, in
una regione in cui lo Stato non ha
ancora provveduto a censire i suoi
abitanti. Nell’Amapà vivono persone
che a stento sanno di appartenere a
una società, di essere cittadini, sono
persone che vivono di quello che pescano, del loro raccolto e che si pongono ben pochi problemi oltre quello del mero sostentamento. È ovvio Due donne vittime di escalpelamento
che in questo contesto l’accortezza
di coprire i motori delle barche non
non è ancora diventata legge e così queste donne non
è contemplata, anche perchè quella copertura costegodono di nessun tipo di indennità, non sono consirebbe loro quanto il guadagno di un mese. Così nel siderate invalide e le chirurgie plastiche di cui necessilenzio più assoluto si consumano tragedie di cui nestano con urgenza non fanno parte del piano sanitario
suno parla, di cui nessuno legge. Eppure solo nello
pubblico.
stato dell’Amapà le vittime di escalpelamento sono
Voglio precisare che questa realtà non appartiene socirca 1.400.
lo al Brasile, ma si estende in ogni regione ricoperta
Le vittime di escalpelamento sono perlopiù bambine
dalla foresta fluviale e attraversata dal Rio: ovvero
che a seguito dell’incidente vengono spesso abbandel 60% del territorio del Brasile, ma anche zone deldonate dalla famiglia, incapace di elaborare il dramla Colombia, del Perù, del Venezuela, dell’Ecuador,
ma e di accettare un “mostro” in casa. Crescono così
della Bolivia, della Guyana, del Suriname e della
ai margini della comunità, come vagabonde, oppure
Guyana Francese.
sono rinchiuse in casa e trascorrono la loro vita in
completa segregazione.
Spero di riuscire a contribuire attraverso il mio laAl dolore intimo si aggiunge quello fisico, perché
voro a diffondere il più possibile la conoscenza di
queste bambine, poi donne, soffrono di dolori acutisquesta drammatica realtà e attraverso la mobilitasimi alla testa. Invalide a tutti gli effetti, sono imposzione internazionale indurre il governo brasiliano
sibilitate a fare la maggior parte dei lavori che richiead accelerare l’approvazione della proposta di legge
dono sforzo fisico. Discriminate dalla comunità in
(1879/2007) e a occuparsi della realtà di queste
cui vivono, cadono in depressione e vivono una vita
donne.
di stenti.
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Sezione studenti iscritti
Corri... ma più veloce della luce!
orientamento
di Gessica Cuscunà
Si sa, chi intraprende l’Università ha fatto una scelta
(consapevole?) tenendo conto delle proprie inclinazioni e non trascurando di tenere presente le eventuali
possibilità di lavoro tra senso di realtà e vecchi e nuovi
pregiudizi. La sfida? Arrivare in fondo al percorso nel
minor tempo possibile con il massimo del risultato ed
entrare, con un ultimo sprint, nel mondo del lavoro. A
tal fine l’Università italiana si è attrezzata con Riforma, contro-Riforma, pre-Riforma, ecc. con il risultato,
forse non nuovo, che stando ai dati ufficiali, il numero
dei fuoricorso o di coloro che decidono di abbandonare gli studi è costantemente in aumento. Questo è un
fenomeno che anche Roma Tre sta monitorando. Un
gruppo di lavoro composto da docenti, da studenti seniores e dall’Ufficio orientamento si sta occupando di
esaminare tutto ciò che ha a che fare con il percorso
universitario al fine di proporre migliori e più efficaci
strategie di orientamento in itinere. L’idea è quella di
osservare quali sono le forme di tutorato messe in atto
dai diversi Corsi di laurea, qual è stato l’andamento
della dispersione negli ultimi cinque anni e qual è la
percezione che gli studenti hanno dell’Università. Pur
essendo ancora in una fase di analisi forse qualche riflessione la possiamo fare, partendo proprio dai protagonisti di tutte queste azioni: gli studenti iscritti.
Daniel Pennac nel suo ultimo libro Diario di scuola riabilita l’imperfezione considerandola non come punto
di partenza verso la perfezione ma come strada alternativa alla migliore realizzazione di Sé. In particolare
secondo l’autore «le strade oggi tragicamente imperfette verso la crescita personale sono la mancanza di
sogni, la mancanza di lentezza e la mancanza di gratuità». Certo non è il caso di generalizzare ma, forse,
le affermazioni di Pennac fanno saltare all’occhio una
questione attuale nel nostro villaggio globale (quante
contraddizioni!): il tempo. Il tempo della crescita, il
tempo della riflessione, il tempo della ribellione, il
tempo dell’assimilazione, il “giusto tempo”. Quale?
Quanto? Il percorso universitario dovrebbe rappresentare una fase evolutiva della vita nella quale, dice lo
scrittore parigino, «lo scontro tra ignoranza e conoscenza è un fenomeno violento» in quanto lo studente,
a volte, sente la «paura di sbagliare e di fallire». Una
paura ingigantita dalle aspettative personali e del mondo circostante. Ma si sa, come in un gioco perverso,
tutto ciò che è proibito si manifesta. E allora dice Pennac «il segreto della nuova pedagogia è far passare la
paura» e «il lavoro dei docenti è quello di infondere il
desiderio di sapere». Chissà, magari facendo un tale
esercizio, si saprà cosa si è, cosa si vuole, cosa si può
rischiare. Magari l’avvenire sembrerà meno minaccioso. Non deve essere sembrato così a Nathalie! «L’avvenire, un strana minaccia. (…) Nathalie scende le
scale di corsa (…) singhiozzando (…). Sono le cinque
e mezzo, quasi tutti gli studenti se ne sono andati. Sono uno degli ultimi professori a passare lì. Il tam tam
dei passi sugli scalini, l’esplosione dei singhiozzi (…)
Nathalie giunta ai piedi delle scale. “Che succede Nathalie? Resistenza di principio: “Niente prof, niente”. I
singhiozzi raddoppiano (…) “Pro…profes…sore..
non… non… riesco a capi… non riesco a capire”. “A
capire cosa?” “La pr… la pro…”. E di colpo il tappo
salta, ed esce tutto d’un fiato “La proposizione-subordinata-concessiva-introdotta-da-congiunzione”. Silenzio. Non ridere. “La proposizione-subordinata-concessiva?”. “È lei a ridurti in questo stato?” Che sollievo!».
La realtà dei servizi di Roma Tre
Due studenti raccontano la loro esperienza
di Francesco Rossi e Carlo Guglielmo Vitale
Nel panorama universitario romano, emerge chiaramente da parte di Roma Tre un impegno verso la disabilità fuori dal comune. Infatti, dove le altre università si fermano la nostra inizia: il lavoro per l’abbattimento delle barriere architettoniche è, ad esempio,
solo il primo passo verso l’inclusione di noi studenti
disabili. L’Ufficio studenti in situazione di disabilità,
istituito presso il nostro Ateneo, ha certamente una rilevanza notevole: offre infatti servizi, come ad esempio il trasporto e l’accompagnamento, che consentono
e agevolano la nostra fremirati, in modo tale da asquenza
universitaria,
sicurare un’assistenza adein riferimento alle specifiguata anche per l’uso dei
che esigenze di ognuno.
servizi igienici. Altri aspetOgni attività è dettagliati da migliorare sono i contamente descritta nel sito
tatti con le segreterie didathttp://host.uniroma3.it/uffitiche e le segreterie studenci/accoglienzadisabili/ doti. Forse sarebbe auspicabive tra l’altro è stato attivato
le anche l’istituzione di un
un apposito web form per
maggior numero di tutors
effettuare la richiesta di
all’interno delle Facoltà
ogni servizio. Il sito è uno
per l’assistenza prettamenstrumento ideato per prente didattica. Sicuramente le
dere visione di ogni infor- Sede dell’Ufficio studenti in situazione di disabilità, Divisione
difficoltà ultimamente regimazione per noi utile, dalla politiche per gli studenti
strate, che hanno compordescrizione della tipologia
tato per alcune settimane
di servizi erogati con le relative modalità per farne ril’interruzione dei servizi di assistenza alla persona e
chiesta, alle attività seminariali, ai contatti con i refedi interpretariato della lingua dei segni italiana (LIS),
renti di Facoltà. Tuttavia, pur non potendo dimenticahanno inevitabilmente creato dei disagi. Sebbene sia
re che la nostra università, per ora, è l’unica nel terristato assicurato il servizio trasporto dalla propria abitorio romano a offrire alcune tipologie di servizi spetazione alla sede universitaria e viceversa, la mancancifici, per noi indispensabili, ci sono comunque aspetza del personale preposto ad esempio al servizio alla
ti che andrebbero migliorati. Ad esempio per quanto
persona ha comportato infatti notevoli difficoltà per
riguarda la fornitura di materiale didattico che comnoi studenti in relazione alla frequenza ai corsi in aula
porta la trasformazione di un libro in una versione ace alla presenza in sede di esame. Confidando dunque
cessibile (digitale, in linguaggio braille, ingrandimennell’impegno di tutti coloro che mantengono vivi i dito…) i tempi sono ancora lenti. E ancora: per il persoversi servizi, l’augurio è che possano migliorare semnale preposto al servizio di assistenza alla persona sapre e che continuino ad essere erogati con costanza e
rebbe opportuno prevedere dei corsi di formazione
continuità.
Le trasformazioni del giornalismo
nell’era di internet
Gli effetti della globalizzazione sulla carta stampata in una tesi di laurea
in Sociologia dei processi culturali e comunicativi
di Silvia Venanzoni
La proliferazione dei giornali on line e l’estrema velocità di circolazione delle notizie ha indotto qualcuno a
profetizzare la scomparsa dei quotidiani cartacei, già
incalzati dalla concorrenza della televisione e stremati
dalla rincorsa dei mezzi audiovisivi. Un periodo questo, che ha generato timori ed incertezze nel mondo
editoriale dando vita ad una spaccatura di pensiero verso un immaginario futuro di questa nuova tendenza rispetto alla stampa tradizionale. Da una parte si schierano i visionari, i quali avevano predetto la morte della
carta stampata e dei quotidiani; dall’altra gli scettici,
convinti che nei primi anni di attività il giornale on line
non avrebbe mai raggiunto un suo equilibrio.
Ma, come possiamo apprendere dalla nostra quotidianità, questo decennio ha smentito gli uni e gli al-
tri. La storia dei media insegna che l’affermazione
dei nuovi mezzi di comunicazione non ha mai determinato la scomparsa dei precedenti. Li ha piuttosto
costretti a una rivisitazione completa delle proprie
caratteristiche.
Il mercato potrà subire le più profonde modifiche sino a parlare di trasformazione del mercato stesso, ma
qualsiasi evento tecnologico principale o collaterale
che si verificherà non comporterà la fine del prodotto
cartaceo né lo stesso potrà essere sostituito completamente dai formati digitali. Prodotti presenti sia in
formato cartaceo che in quello digitale saranno usati
per scopi più diversi in un sano equilibrio determinato dalla domanda di mercato completandosi a vicenda: ad esempio i giornali tradizionali potranno punta-
45
46
re su approfondimentori hanno accettato
ti, articoli di opinioseriamente le opporne, riflessioni e vicetunità e le sfide di Inversa, lasciare ai corternet. Lo scenario
rispondenti giornali
più probabile che si
on line spazio per gli
potrà presentare è
aggiornamenti contiquello di una coesinui, 24 ore su 24 in
stenza, ovvero di un
tempo reale per le
completamento a vipiù diversificate incenda, tra media diformazioni, dalle nogitali e media traditizie di cronaca a
zionali.
quella di politica non Confronto tra una pagina di La Repubblica e la sua corrispondente pagina web La carta piena di
trascurando gli oroodore acre di stampa
scopi e qualunque tematica “gettonata” al momento.
e i bits sono entrambi sopravissuti e il giornale di
L’avanzamento tecnologico ha quindi portato ad una
carta e quello on line non sono diventati dei prodotti
vera e propria “esplosione” dell’attività editoriale on
concorrenti ma mezzi di informazione indirizzati a
line a dimostrazione che “a forza o ragione” gli edidifferenti occasioni di consumo.
Il ruolo dell’Europa nel mondo globale
La proposta di Maria Zambrano in una tesi di laurea in Filosofia
di Ester Monteleone
Il tema dell’identità e della cittadinanza europea è oggi di grande attualità. Maria Zambrano, filosofa spagnola degli anni Quaranta, ha anticipato nei suoi saggi molti dei problemi che attualmente ci toccano e fanno discutere. La sua proposta di nuova
cittadinanza europea, pur negli
evidenti limiti della distanza storica, risulta significativa anche
per l’uomo del XXI secolo che
abita il mondo globale.
La filosofa andalusa parte da
una diagnosi del malessere del- Maria Zambrano
l’Europa, che attribuisce a tre
malattie: il naturalismo, inteso come la natura senza
la libertà, il liberalismo, inteso come l’individuo senza la comunità, e l’assolutismo, ossia il potere senza
il diritto. La grave crisi dell’Europa è per lei soprattutto crisi filosofica, iniziata quando la metafisica occidentale nata dalla meraviglia, thaumázein, si è allontanata dall’immediatezza della vita, dedicandosi,
esclusivamente, a declinare il pensiero puro. In questo senso, Talete, Platone, Aristotele, Cartesio, Hegel,
sarebbero tutti colpevoli. Questa brusca lacerazione
del legame del pensiero con la realtà, ha prodotto anche l’allontanamento dal Sacro originario.
Ma dopo la diagnosi, la proposta. Zambrano la articola in due direzioni: il ritorno alle radici ed il rinnova-
mento del politico. Il ritorno alle
radici non è archeologico, piuttosto archetipico. Si tratta di scavare nella cultura europea e riportare alla luce alcuni modelli, alcune figure-mentori dell’occidente.
Innanzitutto Antigone, mito dai
molteplici significati, figura sacrificale che segna il passaggio
all’«aurora della coscienza»; in
secondo luogo Sant’Agostino e
Maimonide, che esprimono la ricerca dell’interiorità e l’unità tra
scienza e filosofia. Circa il rinnovamento del politico, Zambrano
auspica la realizzazione di un’autentica democrazia, possibile solo in una società dove
la persona sia la protagonista.
Una nuova cittadinanza europea è comunque realizzabile solo grazie ad alcune modalità di relazione interpersonale: la pietas, intesa come capacità di trattare con chi è diverso da sé; la philía, legame amicale
che rende possibile il superamento dell’indifferenza
e dell’estraneità; infine l’amore, aperto alla dimensione orizzontale e verticale.
Da Maria Zambrano, donna e filosofo, ci viene dunque offerto se non un programma di azione, perlomeno un invito a pensare, che è anche un aiuto a riconoscere se stessi: una condizione indispensabile per riconoscere gli altri.
Eva tentata e tentatrice: come uscire
da questo vetusto complesso culturale
Analisi dell’intervista a Margherita Hack
uscita sul precedente numero di Roma Tre News
di Valentina Bellafante
Nell’intervista rilasciata dalla celeberrima astrofisica Margherita
Hack si raccontano i suoi inizi ed i suoi pensieri circa il mondo che
oggi circonda l’ambiente scientifico.
Partendo dalla domanda più classica, attraverso un percorso approfondito sui temi più attuali, impariamo a conoscere il nuovo pensiero
scientifico diffuso oggigiorno.
La scienziata risponde lanciando un energico messaggio ai giovani:
“Farsi forza ed affrontare le difficoltà con competitività e aggressività sportiva (riconoscendo il proprio valore e quello di un ipotetico
avversario)”. È infatti questo che l’ha portata avanti: la sua grande
capacità di credere in se stessa.
Successivamente viene affrontato un argomento molto delicato:
complessi d’inferiorità delle donne nel campo del lavoro, in particolare nel settore scientifico; tema sempre attuale e mai superato totalmente, infligge pene morali incredibili che, pertanto, sono difficili da
superare. Così, affrontando il problema, la professoressa sostiene che
l’atteggiamento nei confronti delle donne sia dovuto ed incoraggiato
a partire dai modelli educativi ricevuti. Le donne sono sovente emarginate da mestieri ritenuti inadatti alle loro attitudini: pregiudizio
questo derivante dal profondo della nostra cultura.
Anche la chiesa, che è una delle istituzioni più importanti del nostro
paese ed è considerata un sommo esempio di educazione e cultura
emargina il ‘gentil sesso’ in numerose occasioni. Basti pensare ai vescovi o ai sacerdoti: fra loro non si è mai vista una donna! Si può
persino andare a ritroso nei millenni e trovare episodi come il peccato originale, in cui l’incarnazione della curiosità e della tentazione è
una donna: Eva.
Questi avvenimenti o credenze, indipendentemente dalla loro veridicità, fanno sì che la donna viva in secondo piano senza raggiungere
livelli alti quanto un uomo potrebbe fare.
Tali pregiudizi devono essere combattuti in prima battuta proprio
dalle donne stesse perciò, nell’intervista, la Hack esorta al rifiuto dei
complessi d’inferiorità. L’arretratezza del pensiero, legato alle tradizioni e alla cultura vetusta, porta notevoli svantaggi alla scienza, che
non consistono solo in nocive emarginazioni sociali e/o lavorative di
alcune classi, ma anche in veri e propri atti di censura avviati per
mano di un’etica molto soggettiva. Le severe e rigide dottrine del Vaticano, citate dall’astrofisica, sono un chiaro esempio di come venga
moderata la ricerca opponendovi argomenti religiosi che dovrebbero
essere estranei alla scienza in quanto laica, come sostiene l’intervistata citando la ricerca sulle cellule staminali.
Il freno etico imposto dal Vaticano è legato a un’antica e dogmatica
concezione di Dio; da qui la riflessione della professoressa Hack, la
quale sostiene che scienza e religione debbano viaggiare su due binari diversi “la scienza indaga le leggi della natura […] la religione si
basa sulla fede che di per sé trascende la natura”.
Il desiderio dei ricercatori è, quindi, la libertà d’indagine; anche se,
talvolta, si possa incorrere in un eccesso di essa violando la natura,
come sostiene l’intervistatrice.
A questo proposito Margherita Hack risponde inglobando numerosi
concetti basilari della ricerca scientifica, quale il suo scopo primario
ed allo stesso tempo l’etica del ricercatore: migliorare la condizione
degli uomini progredendo in funzione del loro benessere; lasciandoci
così comprendere che la scienza è attenta a non nuocere alla natura.
Essa, infatti, mira a far del bene e molte volte, al principio di un
esperimento, non ci si rende conto della sua eventuale pericolosità;
mentre molte altre volte gli interventi in natura producono grandiose
scoperte come gli OGM, che non hanno registrato effetti negativi.
Insomma la scienza ci è d’aiuto e come tale deve essere un obiettivo
perseguibile da tutti allo stesso modo lasciando decadere gli ideali
antichi di una morale stagnante ed i pregiudizi sulle donne…
Perché in fondo, ma veramente in fondo, la differenza tra donna e
uomo è solo una X!
Gita fuori porta
L’esperienza extrascolastica che non facilita
nuovi contesti di socializzazione
di Margherita Fantoli
Per quanto riguarda la nostra classe, non è mai stata fatta nessuna
esperienza specifica per unificare il gruppo. E nemmeno un’esperienza che, per sbaglio, ci sia riuscita. Sorvolando il fatto che laboratori teatrali, musicali, o scambi culturali sono un lusso che a ben pochi è concesso, nemmeno i più comuni viaggi culturali hanno dato
una mano.
I problemi iniziano dalla scelta della mèta: la classe puntualmente si
spacca in gruppi e sotto gruppi; Lisbona, Parigi, Berlino, Praga. Forti
dei nostri radicati valori civili, procediamo con una democratica votazione: ovviamente nessuno ottiene la maggioranza assoluta, e vince il gruppo che fortunatamente conta più presenti in quel giorno.
Orbene, dopo cotanto litigare, la classe propone dunque una mèta,
alternativamente bocciata dall’insegnante accompagnatore o dalla
preside. Alla fine si parte in una città che non aveva votato nessuno
con una classe di cui non si conosce nessuno. Ma che importa? Abbiamo comunque cinque giorni per stare insieme e divertirci!
La fase veramente critica si presenta prima della partenza con la distribuzione nelle camere! Oddio! Dormire sembra un’attività che vada
fatta solo con persone particolarmente affini, se no, si sa, si fanno gli
incubi. Sotterfugi, piani segreti, pianti, colpi di stato: ogni mezzo è
lecito per accaparrarsi le 2 amichette/i in stanza. Alla fine, tappandosi il naso, tutti si ritrovano con qualcuno.
Si parte! L’arrivo in albergo è spesso causa di ulteriori sconvolgimenti: le stanza non sono da 3 ma da 4 e da 2. Di nuovo pianti, colpi
di stato, piani segreti, litigate, con un’intrigante novità: l’omino a cui
tutto ciò va riferito non parla un’acca di italiano.
A questo punto iniziano le giornate: sballottati tra musei, cattedrali,
strade, monumenti; tutti presi dal sonno, la fame, il mal di piedi, il
freddo, il caldo, figuriamoci se abbiamo tempo di socializzare! Si
scambiano parole di lamentela o urla entusiaste alla vista di un paio
di ballerine con quelle quattro persone che già si conoscono e che
mostreranno solidarietà nei nostri confronti. Anche a pranzo è difficile stare tutti insieme; come si conciliano gli interessi di: alternativi-noglobal anti mc donald, allergici- celiaci dalla dieta controllatissima, aspiranti modelle con esigenze ben precise, e infine i fan dell’hamburger e patatine? Ognuno quindi si ritrova col proprio gruppo
di appartenenza e mira verso un locale diverso. La sera sarebbe
l’occasione adatta, ma prima bisogna sormontare un grosso scoglio:
l’insegnante che vorrebbe restare in albergo. La classe è a questo
punto unitissima e mostra un fronte compatto dinnanzi al malcapitato insegnante. Fronte che però si spezza non appena l’insegnante acconsente all’uscita. Sì, ma dove? Discoteca! Parco! Pub! Hard Rock
Cafè! Se si va in discoteca, io non esco! Al che l’insegnante spazientito ritira la sua concessione e tutti in albergo. Come si può socializzare dopo questa pessima figura? Ognuno arroccato sulle sue
posizioni si ritira con le solite 4 persone che frequenta e che chiaramente volevano fare la sua stessa cosa. E la serata va via così, in camera, in albergo, in gruppetti. Insomma le giornate vanno così, certo non mancano momenti di sana allegria tutti insieme, ma sono rari! Per lo più si sta con le stesse persone di sempre e anzi, la convivenza forzata per cinque giorni, induce anche alla non sopportazione di queste stesse.
rubriche
Orme
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Non tutti sanno che
Elezioni del Rettore:
tempi e modi
Il 18 marzo u.s. presso l’aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza si è svolta la presentazione delle candidature e dei
programmi per l’elezione del Magnifico Rettore per il
quadriennio 2008-2012.
Ha aperto la seduta il decano dell’Ateneo, prof. Adolfo Di
Majo.
Si candidano a ricoprire il nuovo mandato:
- Vito Michele Abrusci, Preside della Facoltà di Lettere
e Filosofia;
- Guido Fabiani, attuale Magnifico Rettore;
- Mario Girardi, Preside della Facoltà di Scienze
MM.FF.NN.
- Giorgio Piccinato, Direttore del Dipartimento di Studi
urbani
- M. Paola Potestio, Preside della Facoltà di Economia.
Trovandoci in presenza di un candidato che ha già svolto
due o più mandati consecutivi (art.10, comma 7, lettera b,
Statuto) il calendario elettorale risulta così fissato:
1) La prima votazione avrà luogo nei giorni 28 e 29 aprile
2008 con il seguente orario:
giorno 28 aprile, inizio operazioni di voto ore 9.00;
chiusura seggio ore 18.00
giorno 29 aprile, inizio operazioni di voto ore 9.00;
chiusura seggio ore 17.00. Subito dopo avranno inizio
le operazioni di scrutinio che proseguiranno fino a loro
completa ultimazione.
2) È stata stabilita la data del 9 maggio 2008 alle ore
11.00, presso l’Aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza in via Ostiense 161, per la presentazione pubblica
di eventuali ulteriori candidature e delle linee programmatiche che gli ulteriori candidati intendono
perseguire nel periodo del mandato.
3) La seconda votazione avrà luogo nei giorni 29 e 30
maggio 2008 con gli stessi orari di cui sopra.
4) La terza votazione avrà luogo nei giorni 3 e 4 giugno
2008 con gli stessi orari di cui sopra.
5) L’eventuale ballottaggio avrà luogo il giorno 11 giugno
2008 con il seguente orario:
inizio operazioni di voto ore 9.00; chiusura seggio ore
18.00. Subito dopo avranno inizio le operazioni di
scrutinio che proseguiranno fino a loro completa ultimazione.
Alcune informazioni sui criteri e le modalità di voto.
Il Rettore è eletto a scrutinio segreto, secondo le seguenti
procedure.
In presenza di un candidato che abbia già svolto due o più
mandati consecutivi:
- nella prima votazione il Rettore è eletto a maggioranza
assoluta degli aventi diritto al voto. In caso di non avvenuta elezione, il candidato che abbia già svolto due o
più mandati consecutivi se non ha conseguito il voto di
almeno un terzo degli aventi diritto al voto, non può
proseguire nell’iter elettorale;
- nel caso di mancata elezione nella prima votazione, la
seconda votazione deve avvenire dopo 30 giorni. Durante questo intervallo possono essere presentate ulteriori candidature;
-
nella seconda e terza votazione il Rettore è eletto a
maggioranza assoluta dei votanti;
- in caso di mancata elezione si procede con il metodo
del ballottaggio fra i due candidati che nell’ultima votazione hanno riportato il maggior numero di voti. Nel
ballottaggio risulta eletto il candidato che riporta il
maggior numero di voti e, a parità di voti, il più anziano in ruolo.
Il seggio elettorale unico sarà articolato in più sedi di votazione.
Il seggio elettorale unico sarà in Via Ostiense, 139. Presso
questo seggio sono iscritti a votare i seguenti elettori:
- personale docente appartenente alla Facoltà di Giurisprudenza, al Consiglio di Corso di studi in Scienze
della Formazione primaria, al Consiglio di Collegio didattico in Scienze e tecnologie delle arti, della musica
e dello spettacolo;
- personale tecnico-amministrativo e bibliotecario appartenente a tutta l’Amministrazione centrale (salvo
l’area del Personale), alla Facoltà di Giurisprudenza,
al Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Formazione primaria, al Consiglio di Collegio didattico
in Scienze e Tecnologie della arti, della musica e dello spettacolo, ai Dipartimenti di: Comunicazione e
spettacolo, di Storia e teoria generale del diritto, Diritto dell’economia e analisi economica delle istituzioni, Diritto europeo – studi giuridici nella dimensione nazionale, europea, internazionale, Sezione giuridica della Biblioteca di area giuridico-economicopolitica, Sezione spettacolo della Biblioteca di area
delle arti.
In via Silvio D’Amico, 77 ci sarà il Comitato di sede di
votazione n. 2, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori:
- il Personale Docente appartenente alla Facoltà di Economia e alla Facoltà di Scienze Politiche;
- il Personale tecnico-amministrativo-bibliotecario appartenente a tutta l’area del Personale, alla Facoltà di
Economia, alla Facoltà di Scienze Politiche; ai Dipartimenti di: Economia, Scienze aziendali ed economicogiuridiche, Istituzioni pubbliche, Economia e società,
Studi internazionali; Sezione economica e storico-politico-sociale della Biblioteca di area giuridico-economico.politica.
In via Ostiense 234 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 3, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti
elettori:
- personale Docente appartenente a: Facoltà di Lettere e
Filosofia, salvo il Consiglio di Collegio didattico in
Scienze e Tecnologie delle arti, della musica, dello
spettacolo;
- personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Lettere e Filosofia, salvo il
Consiglio di Collegio didattico in Scienze e Tecnologie delle arti, della musica, dello spettacolo; Dipartimenti di: Filosofia, Italianistica, Letterature comparate, Linguistica, Studi storici geografici antropologici, Studi sul mondo antico, Studi americani; Biblioteca di area umanistica, salvo Sezione “A. Broccoli”.
In via Vasca Navale, 79 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 4, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti
elettori:
- personale Docente appartenente a: Facoltà di Ingegneria e Facoltà di Scienze M.F.N.;
-
personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Ingegneria e Facoltà di Scienze
M.F.N.; Dipartimenti di: Elettronica applicata, Informatica e automazione, Ingegneria elettronica, Ingegneria meccanica e industriale, Scienze dell’ingegneria civile, Strutture, Biologia, Fisica, Matematica, Scienze
geologiche; Biblioteca di area scientifica-tecnologica;
Centro C.I.S.DI.C.
Presso piazza della Repubblica, 10 ci sarà il Comitato di
sede di votazione n. 5, presso il quale sono iscritti a votare
i seguenti elettori:
- personale Docente appartenente a: Facoltà di Scienze
della Formazione, salvo il Consiglio di Corso di Studi
in Scienze della Formazione Primaria;
- personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Scienze della Formazione, salvo il
Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria; Dipartimenti di: Studi storico-artistici-archeologici e sulla conservazione, Scienze dell’educazione, Progettazione educativa e didattica, Studi dei
processi formativi, culturali e interculturali nella società contemporanea, Progettazione e studio dell’architettura; Sezione “A.Broccoli” della Biblioteca di area
umanistica, Sezione Storia dell’arte “L.Grassi” della
Biblioteca di area delle arti.
Presso via Madonna dei Monti, 40 ci sarà il Comitato di
sede di votazione n. 6, presso il quale sono iscritti a votare
i seguenti elettori:
- personale Docente appartenente a: Facoltà di Architettura;
- personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Architettura; Dipartimenti di: Studi urbani; Sezione Architettura “E. Mattiello” della Biblioteca di area delle arti; Centro CE.S.I.F.
L’elettorato attivo relativo alla componente studentesca è
ripartito in base alla rispettiva Facoltà di appartenenza.
I collaboratori ed esperti linguistici sono ripartiti tra il
Seggio n. 1, se afferenti al C.L.A. e il seggio n. 3, se afferenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia.
Il Personale T.A.B. assegnato alla S.S.I.S è incluso negli
elenchi del Personale T.A.B. del seggio n. 1.
Il Personale T.A.B. assegnato al C.A.B. è incluso negli
elenchi del Personale T.A.B. del seggio n. 4.
Votiamo!
Per maggiori informazioni relative ai decreti e ai programmi
di ciascun candidato si prega di consultare la pagina web
http://www.uniroma3.it/news.php?news=893
Coro polifonico dell’Università
degli Studi Roma Tre
Musica di Roma, il traguardo del centesimo concerto. Il
coro può vantare al suo attivo collaborazioni con formazioni orchestrali e realtà musicali di grande prestigio,
come l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera di Roma, l’Auditorium Parco della Musica e l’Orchestra Filarmonica di Stato di San Pietroburgo.
Al centro di un’intensa rete di rapporti con i cori e le orchestre delle università italiane e straniere, il Coro ROMA TRE nel 2006, insieme ai rappresentanti dei cori
delle università di Roma Tor Vergata e della Sapienza, ha
fondato l’A.C.U. - Associazione Cori Universitari - e dal
2007, in qualità di socio fondatore della A.C.U., è membro del Coordinamento diritto alla musica, promosso dalle Commissioni consiliari Cultura e Politiche giovanili
del Comune di Roma.
Coro polifonico Roma Tre
Stagione concertistica 2008
MAGGIO
Venerdì 16, 18.30
Coro Polifonico ROMA TRE
Alma College Choir (Alma, Michigan, USA)
Requiem K 626 di W.A. Mozart, per soli coro e orchestra
Università degli Studi Roma Tre
Facoltà di Lettere e Filosofia
Aula Magna
Via Ostiense 236
Sabato 17, 19.30
Patriarcale Basilica di San Paolo fuori le mura
Via Ostiense
Coro Polifonico ROMA TRE
Alma College Choir (Alma, Michigan, USA)
Requiem K 626 di W.A. Mozart, per soli,coro,ed orchestra
GIUGNO
a cura di Isabella Ambrosini
Il Coro ROMA TRE, coro ufficiale dell’Ateneo formato
da studenti e personale di Roma Tre, di cui è Direttore
Artistico e Musicale il M° M. Isabella Ambrosini e Presidente la Prof.ssa Marinella Rocca-Longo ha superato
nell’ottobre scorso, con le esibizioni dell’ottobre 2007
presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della
Cattedrale di Empoli (FI)
Centro Studi Musicali Ferruccio Busoni
Rassegna corale
Università degli Studi Roma Tre
Stadio degli Eucalipti
Cerimonia di premiazione del Campionato di calcio
Concerto
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50
OTTOBRE
via Vinchesi e Francesco Tomasello, genitori di Giuseppe, un bambino di 20 mesi al quale nel febbraio scorso è
Auditorium Parco della Musica
stata diagnosticata questa patologia. I medici non avevaEstate romana
no dato ai genitori molte speranze, ma cominciando una
Evento musicale del Coordinamento diritto alla musica
cura di vitamine da loro fornita, il piccolo sta meglio, anche se riscontra purtroppo problemi alla vista e non riesce a stare in piedi o seduto. La volontà di aiutare a
NOVEMBRE
guarire Giuseppe e tutti gli altri bambini affetti dalla
stessa anomalia ha spinto questi genitori a istituire una
Università degli Studi Roma Tre
fondazione che avesse come scopo quello di trovare un
Facoltà di Lettere e Filosofia
ricercatore scientifico e i fondi per avviare una ricerca
Aula Magna
genetica.
Via Ostiense 236
Non solo la ricerca è stata avviata, grazie al contributo del
Coro Polifonico ROMA TRE
Professor Massimo Zeviani dell’Istituto Besta di Milano,
Cattedra di canto del Conservatorio di musica di Perugia
ma poco meno di un mese fa il ricercatore stesso, insieme
Festival Pucciniano
al suo staff, in collaborazione con il laboratorio Istitur fur
Humangenetik di Monaco e al Dottor Holger Prokisch, ha
individuato il gene deficitario che è denominato NDUFS1
con una doppia mutazione.
In seguito sono stati presi contatti con i maggiori esperti
Un grande contributo italiano
internazionali, e ora si sta cercando di ottenere un progetto
alla ricerca
di ricerca finalizzato a una terapia, anche sperimentale che
possa essere applicata a tutti i bambini affetti dalla mutaLa fondazione Giuseppe Tomasello onlus
zione di questo gene.
ha dato il via allo studio di una rara malattia
Un altro obiettivo importante che si sta raggiungendo è
mitocondriale
l’acquisto di un nuovo macchinario chiamato Lightscanner, uno strumento ad alta efficienza e a basso costo neldi Elisabetta Bischetti
la diagnostica molecolare delle patologie ereditarie,
comprese le malattie mitocondriali. Esso in Germania ha perI mitocondri sono le centrali enermesso di individuare le mutaziogetiche delle nostre cellule che atni genetiche di Giuseppe, ma in
traverso un processo assai compliItalia non è ancora presente in
cato, tramite il flusso di elettroni
nessuna struttura ospedaliera. Inlungo una serie di complessi enzifatti l’attuale tempistica nel nomatici (catena respiratoria) genestro paese, per l’individuazione
rano ATP, la principale molecola
dei geni deficitari è di parecchi
trasportatrice di energia della celmesi e spesso per molti bambini
lula.
la diagnosi viene effettuata tropMutazioni a carico del DNA mitopo tardi, invece attraverso questo
condriale e/o DNA genomico posmacchinario i tempi di analisi sasono ridurre la capacità di questi
ranno azzerati.
organelli di produrre energia con
La sua validità è stata testata
la conseguente comparsa di malatdall’Istituto Besta di Milano e il
tie alla muscolatura cardiaca e
suo acquisto sarà finanziato trascheletrica, al sistema nervoso
mite i concerti Gospel
centrale, reni e tessuti endocrini,
(www.forjoy.it) che si terranno a
mettendo a rischio la sopravvivenfine febbraio e ad aprile a Firenza dei bambini affetti da queste
patologie.
ze e a Incisa Val d’Arno, ai quali
Un notevole contributo alla ricerpossono partecipare tutti coloro
ca su una rara malattia metaboliche vogliono contribuire a sosteca dei mitocondri denominata
nere questo progetto. Per tutte le
Deficit del complesso 1 della caaltre informazioni necessarie a
tena respiratoria mitocondriale
sostenere la ricerca si può conviene dalla fondazione Giuseppe L’appello in favore della Fondazione Giuseppe
sultare il sito www.giuseppetoTomasello onlus costituta da Sil- Tomasello
masello.it.
Teatro Palladium: concorso di scrittura creativa
Fino al 15 giugno 2008 è possibile partecipare al concorso di scrittura creativa, promosso dal Teatro Palladium
e dedicato agli studenti di Roma Tre.
Per maggiori informazioni: http://concorsi.teatro-palladium.it/scrittura2008/index.php
L’Occidente visto dai media arabi
Il pluralismo della comunicazione tra est e ovest
Si è tenuto il 26 e 27
gennaio scorso, presso
il Teatro Palladium, un
weekend di appuntamenti sull’argomento
L’Occidente visto dai
media arabi: viaggio a
trecentosessanta gradi
nell’universo, da noi
perlopiù sconosciuto,
della televisione araba,
attraverso la proiezione
di programmi come
Block 13, versione kuwaitiana del noto South
Park, Fobia Baghdad,
programma che spiega La locandina dell’incontro
la vita della classe media in Iraq sotto l’occupazione degli Usa, o ancora
Al Ittijah al mouakis, talk show di Al Jazeera, per arrivare ad alcuni programmi a tema religioso di Al Risala tv, o alla proiezione del film Driving to Zigzigland, coproduzione tra Usa e Palestina, alla presenza del produttore Khalaf (siriano).
Particolarmente esplicativa della situazione di coabitazione di generi diversi nella televisione araba, la
selezione di filmati da Lbc tv e Al Manar (entrambe
libanesi), e dunque la contrapposizione tra una televisione che guarda all’Occidente con occhio benevolo, portando in Medio Oriente format da noi più che
collaudati, come Star Academy (il nostro Amici),
Survivor e La Fattoria, e un’altra, di proprietà di
Hezbollah, che critica duramente i modelli e la politica occidentali.
Momento saliente di tale full immersion, il dibattito
condotto dalla curatrice del progetto, la ricercatrice
sui media arabi Donatella Della Ratta: una tavola rotonda a cui hanno partecipato il siriano Anzour, regista, e il conduttore di Al Jazeera Al Kasim, lo sceneggiatore iracheno Al Maliky, l’autore televisivo
saudita Al Otibi e infine il direttore kuwaitiano di Al
Risala tv Al Suwaidan, alla presenza inoltre del deputato al Parlamento italiano Fouad Allam e della
giornalista ed europarlamentare Lilli Gruber.
Si è trattato di più voci provenienti da paesi tra loro
anche molto differenti, ma uniti dall’esistenza di un
forte intreccio, inscindibile, tra cultura, politica e religione, tanto che difficile è stato riuscire a mantenere il discorso su temi puramente televisivi, senza parlare, ad esempio, della guerra e delle relative respon-
sabilità del mondo occidentale (responsabilità
che vengono attribuite
al governo americano,
unico argomento sul
quale si sono trovati tutti d’accordo).
Nel riportare il discorso
sui propri binari, è stata
presentata una televisione che ha ammesso di
essere condizionata dalla presenza di argomenti tabù, ma che ugualmente non smette di
cercare espedienti per
superare tali barriere,
nella convinzione che lo
sviluppo di alcuni paesi mediorientali possa giungere
anche dai media e comunque, quotidianamente e proprio perché è là che se ne sente un maggior bisogno,
è in quei paesi che vanno in onda programmi veramente coraggiosi, e questo avviene a testimonianza
del fatto che se dall’Occidente si può prendere tanto,
è anche vero che molto si può dare. Al Jazeera ha
corrispondenti in tutto il mondo che parlano la lingua
del posto e ne conoscono la storia, la cultura. Non altrettanto si può dire per ogni singolo paese occidentale, dove tra l’altro si assiste ad un’impennata di generi televisivi di puro intrattenimento (non ne è esente l’Italia).
Solo guardando all’universo della soap opera, il
mondo arabo insegna che non è detto che generi nati
a scopo di svago e di alleggerimento della programmazione, non possano arrivare a trattare temi più seri, e a costituire un momento di riflessione. Il cittadino arabo, amante del genere drammatico, chiede
che anche da tali canali gli venga insegnato qualcosa
e questo è quel che oggi avviene, anche grazie alla
proliferazione di canali televisivi privati, lo stesso
fenomeno delle potenzialità satellitari cui noi assistiamo. La differenza è tutta nel fatto che se nel
mondo occidentale questo comporta una programmazione più differenziata, frammentata e specializzata, che quindi accontenta lo spettatore attirando la
sua attenzione esclusivamente su ciò che il suo gusto
personale sceglie, in area mediorientale significa invece la possibilità di una maggiore libertà artistica,
laddove l’arte vuole essere un canale d’educazione
del pubblico.
recensioni
di Michela Monferrini
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52
Il libero mercato fa bene come
un elettroshock
Shock Economy di Naomi Klein: l’ascesa del capitalismo dei disastri
di Ornella Mollica
Naomi Klein, nata a Montreal, il 5 maggio 1970, è una giornalista,
scrittrice e attivista canadese; per anni corrispondente da Baghdad,
ha ricevuto numerosi premi e ha una rubrica su The Guardian e su
The Nation; ha anche pubblicato su testate prestigiose come New
York Times e Village Voice. Autrice del famoso saggio No logo, che
viene considerato il manifesto del movimento no-global.
Shock economy, pubblicato nel
settembre del 2007, è un libro
che studia gli effetti e le applicazioni delle teorie liberiste di Milton Friedman e della scuola di
Chicago in diversi stati del pianeta, dagli anni Sessanta fino al
2007.
La tesi principale sostenuta dall’autrice è che «l’applicazione di
queste politiche (che prevedono
privatizzazioni, tagli alla spesa
pubblica e liberalizzazioni dei salari) sia stata effettuata sempre
senza il consenso popolare, approfittando di uno shock causato da
un evento contingente, provocato
ad hoc per questo scopo oppure
generato da cause esterne».
Klein analizza a livello sociologico, economico e politico gli effetti del libero mercato in paesi colpiti da
tragedie naturali, tali da provocare un shock collettivo.
Tra questi shock l’autrice annovera le torture e il regime di Pinochet in Cile nel 1973, il crollo del muro
di Berlino e l’instabilità economica in Polonia e Russia all’inizio degli anni Ottanta, l’inflazione inarrestabile in Bolivia, l’effetto della guerra delle Falkland in Gran Bretagna negli stessi anni, la guerra in
Iraq e la distruzione di New Orleans per opera dell’u-
ragano Katrina in tempi più recenti.
Il suo libro è «una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia
ufficiale: che il liberalismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia – la giornalista aggiunge – mostrerò che questo fondamento è stato invariabilmente partorito dalle più brutali forme di
coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo».
Nel suo saggio Naomi Klein afferma con forza come «la tortura
è stata una partner silenziosa nella rivoluzione liberalista globale» sottolineando «che è uno
strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si
ribella».
Ma perché la giornalista parla di shock? Semplicemente perché lo shock è una paralisi psicologica.
L’esempio più chiaro è stato lo shock dell’11 settembre: «Bush è stato in grado di ottenere quello che prima dell’11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre private».
L’autrice conclude il suo libro riflettendo sul fatto
che, dietro al cosiddetto shock economy, in realtà si
cela il desiderio di «irraggiungibile purezza, di imbiancare la tela e tirar su dal nulla la società ideale».
«Le parole sono pietre»
Nell’ambito del progetto Ethicamente, una giornata di studio sull’etica
della comunicazione
di Federica Martellini
«L’etica della comunica(o dovrebbe pervadere) le
zione è il senso della resingole discipline perché
sponsabilità sociale della
come sottolinea ancora dalcomunicazione. Così come
la Chiesa «la cultura proin una società di tipo milifessionale non è data solo
tare sono i militari che deda una somma di materie.
terminano il modo in cui si
La professione, lo spirito
vive, nella società della cocon cui si entra nella promunicazione sono coloro
fessione si forma qui, poi è
che comunicano a determitroppo tardi. Anche se, da
narlo: producono, riproduquesto punto di vista, oggi
cono, rielaborano, forgiano
l’Università continua a esvalori in continuazione, sesere per molti studenti
lezionando e proponendo
un’occasione mancata perle informazioni che contriché il problema non viene
buiscono a formare la viposto se non da docenti
sione complessiva della
particolarmente sensibili o
società. Non soltanto la
appassionati».
gerarchia dei valori ma anScorro, sul sito del Miniche la gerarchia di problestero l’elenco delle iniziatimi, che determina a sua
ve legate al progetto Ethivolta una gerarchia di vacamente, un convegno a
lori. Quindi credo che tutto
Roma su Etica in carriera.
ciò che contribuisce a geIl caso delle carriere uninerare comunicazione deversitarie nell’Italia di ogLa
campagna
di
Amnesty
International
in
occasione
termina il nostro spazio
gi, un altro a Palermo sulle
delle Olimpiadi di Pechino 2008
mentale e anche il nostro
Mafie in Europa, uno a Gespazio morale». Così Nannova su etica e formazione,
do dalla Chiesa al margine della giornata su L’etica
un forum a Ferrara su Etica e scienza per l’ambiente.
della comunicazione promossa dal Dipartimento CoA Roma Tre l’11 marzo si parla di etica e comunicamunicazione e spettacolo e dal Collegio didattico in
zione. Giacomo Marramao commenta la situazione
Scienze della comunicazione, lo scorso 11 marzo,
involutiva che sta vivendo oggi l’Italia, parla di una
nell’aula magna della Facoltà di Lettere e filosofia,
dinamica democratica ostaggio di logiche corporatinell’ambito del progetto Ethicamente.
ve, delle tante caste di cui si compone la classe diriEthicamente è un progetto del Ministero dell’Univergente, altrettanti sistemi chiusi e autoreferenziali.
sità e della ricerca che ha ormai un anno di vita. È staParla di una comunicazione (pubblicitaria, televisiva)
to presentato nel marzo 2007 in un’altra aula magna,
che insegue al ribasso la domanda anziché contribuialla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, un luogo
re a crearne una di qualità. Parla di regole.
scelto non a caso perché lì, come si legge sul sito del
Mario De Caro parla della comunicazione della scienministero, si sono laureati tanti servitori dello stato che
za nei media. Mostra il video di un recente servizio
hanno pagato con la vita la debolezza dell’etica pubtrasmesso dal Tg2, suscitando nella platea un misto di
blica. E proprio alle università è dedicato il progetto
ilarità e sconcerto. Il servizio recensisce un libro che
che si propone di promuovere la cultura della legalità
contesta la teoria scientifica dell’evoluzionismo. A
fra le nuove generazioni, di mettere in atto una riforma
supporto della tesi viene intervistata una scienziata
più profonda di quelle degli ordinamenti didattici o del
che dice di credere nella creazione e nella redenzione,
sistema dei crediti. Una riforma che riguarda il tipo di
poi un monsignore comunica che lui «non si sente» di
cultura che all’interno del mondo accademico si tradiscendere da uno scimpanzè. «L’Italia è l’unico paesmette, che attiene, appunto, alla dimensione etica,
se occidentale nel quale la televisione pubblica può
che trascende (o dovrebbe trascendere), che pervade
mandare in onda un servizio del genere».
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Ascoltando mi vengono in mente tante cose diverse.
Una pubblicità di qualche tempo fa nella quale compariva Valentino Rossi in una stalla: «dalle stelle alle stalle…» diceva, ironizzando sui suoi illeciti fiscali. Come
dire: non mi vergogno per niente se hanno scoperto che
evado le tasse. E questo viene proposto come modello.
Mi viene in mente Gherardo Colombo in un’intervista di Enzo Biagi, l’anno scorso, dopo la decisione di
lasciare la magistratura per dedicarsi alla diffusione
della cultura della legalità fra i giovani. Parlava, anche lui, delle regole, della sofferta relazione dei cittadini con la legalità.
Mi tornano in mente, ancora, le parole di dalla Chiesa
sulla televisione pubblica «che trasforma i casi di cronaca nera in talk show, che gradualmente ti inietta l’idea che un delitto possa diventare un gioco di società». O ancora sulla mancanza della memoria delle no-
I commenti
Mario Morcellini, Preside della Facoltà di Scienze della comunicazione, Università La Sapienza
«Sappiamo che la comunicazione ha un ruolo decisivo nello smottamento dei valori del passato e nella ricostruzione di valori nuovi e nel lavoro di chi si
occupa di comunicazione dovrebbe apparire una
produzione di valori, una produzione di sentimenti
di identità e di partecipazione. Nel momento stesso
in cui la comunicazione attacca il potere di disposizione dei valori, cioè l’architettura dei valori condivisa dalla società precedente è chiaro che se non ne
costruisce una nuova finisce per essere produttrice
di anomia. Si ha oggi la terribile sensazione che la
comunicazione oscilli continuamente fra produzione di controvalori e produzione di anomia. Vista
dal punto di vista politico la vicenda è un po’ meno
drammatica e cioè anche se il corpo della comunicazione non è esaltante in termini di qualità, tuttavia la capacità dei soggetti di prendere le misure alla comunicazione e di riuscire a implementarla con
la propria soggettività è forse superiore a quella
che gli studiosi vedono. Il pubblico è più composto
di soggetti che di automi, più di persone che di tagliandi di audience e quindi tutto sommato nell’insieme di elementi di antagonismo rispetto alla crisi
della modernità ci sono una capacità di adeguarsi
rispetto ai disvalori che la dice lunga sul fatto che
senza valori noi non possiamo vivere».
Roberto Pujia, Presidente del Collegio didattico
in Scienze della comunicazione, Università degli
Studi di Roma Tre
«Mi pare che gli interventi che si sono succeduti
nell’arco del giornata hanno inequivocabilmente
messo in luce in primo luogo la necessità di tema-
stre classi dirigenti che, attente solo alla realtà contingente, sembrano aver perso il senso della storia e dei
processi storici. Penso alle commemorazioni televisive che si susseguono in questi giorni, in occasione del
trentesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro,
spesso piene di retorica e indifferenti, appunto, dei
processi storici. E mi torna in mente Winston Smith,
il protagonista di 1984, che ogni giorno doveva cancellare e riscrivere le notizie della cronaca di ieri per
allinearle alla presente visione dei fatti e della storia,
eliminando per sempre nei “buchi della memoria» i
documenti della storiografia di domani.
È stata una giornata di studio ricchissima di spunti di
riflessione. Una di quelle giornate dalle quali si esce
con l’impressione che forse, fra tanti sofisti, alberga
ancora, a volte, il barlume della limpidezza e del coraggio di qualche Socrate.
tizzare la comunicazione come un ambito al quale
deve necessariamente essere sotteso un impegno
etico considerata la pervasività e l’impatto nella società attuale dei processi di comunicazione, e della
dimensione globale che essa assume nel mondo
contemporaneo. I processi di comunicazione, soprattutto quelli della comunicazione pubblica quale
che siano i mezzi investono inoltre e interagiscono
con le mutevoli architetture dei rapporti tra i gruppi
sociali, etnici e le strutture di governo determinando
i modi dell’interazione nella struttura complessiva
delle società complesse. Una particolare responsabilità grava poi su coloro che operano direttamente
nei media per i quali talora l’etica coincide da un lato con una corretta padronanza delle metodologie e,
dall’altro, con l’indipendenza dai poteri forti».
Gianpiero Gamaleri, docente di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa, Università degli Studi Roma Tre
«Quanto più la comunicazione si intreccia con il potere, tanto più deve ispirarsi a criteri etici. Ne deriva
che dovrebbe essere costante la tendenza allo studio
e all’applicazione degli strumenti istituzionali e organizzativi più idonei a verificare che i vari flussi di
comunicazione si ispirino a un criterio socialmente
utile. Individuerei tre criteri di indirizzo e di verifica.
Il primo riguarda gli organismi del sevizio pubblico,
e cioè la Rai, che occorre – a mio avviso – sempre
più legare a un indirizzo di tipo parlamentare e non
governativo. I privati invece hanno bisogno di rifarsi
a codici deontologici propri a salvaguardia di un uso
corretto della comunicazione. Ultima e decisiva
istanza è infine quella formativa in cui l’Università e
in particolare i corsi di comunicazione devono far
interiorizzare alle giovani generazioni dei criteri etici per l’uso della comunicazione».
Mentre stiamo chiudendo questo numero di Roma Tre News
arrivano notizie incalzanti e contrastanti sulla sorte di Ingrid
Betancourt, la ex candidata alla presidenza della Colombia,
da oltre sei anni prigioniera delle FARC (Fuerzas armadas
revolucionarias de Colombia).
In questo numero abbiamo parlato di globalizzazione, di diritti umani, di etica, di ambiente, di comunicazione. Crediamo che Ingrid Betancourt, una donna rapita da guerriglieri
che combattono il governo cui lei stessa si opponeva, che si
è battuta contro la corruzione, la violenza e l’ipocrisia del
potere, che crede profondamente che «vivere è impegnarsi»
sia in qualche modo un simbolo.
Sperando cha la missione umanitaria promossa dalla Francia
in queste ore riesca a restituirle
la libertà, pubblichiamo qui alcuni brani di una sua lettera indirizzata alla madre e ai figli e
quella che al momento è l’ultima immagine di Ingrid Betancourt. Entrambe risalgono al novembre scorso.
«È un momento molto difficile
per me. Chiedono le prove che
sono viva e ti apro l’animo in
questo scritto. Fisicamente sto
male. Non mangio, non ho fame, mi cadono molti capelli.
Non ho voglia di niente. Credo
che sia la cosa migliore che possa capitare, non aver voglia di
niente, perché qui, in questa
giungla, l’unica risposta a qualunque richiesta è “no”. Dunque, è meglio non avere voglia di nulla ed essere almeno libera dai desideri. Sono ormai tre anni che chiedo un dizionario enciclopedico per poter leggere qualcosa, per imparare
qualcosa, per mantenere viva la curiosità intellettuale. Continuo a sperare che, almeno per compassione, me ne procurino uno, ma è meglio non pensarci». […]
«Voglio chiederti, mamma cara, di dire ai ragazzi di mandarmi tre messaggi alla settimana. Niente di speciale, se questo
è anche il loro desiderio e se avranno voglia di farlo. Non ho
bisogno d’altro se non di essere in contatto con loro. È la sola informazione vitale, essenziale, indispensabile, il resto
non mi interessa più».[…]
«Ho le mani sudate e la mente annebbiata, finisco per fare le
cose molto più lentamente del normale. Le marce sono per
me un calvario perché il mio equipaggiamento è molto pesante e non riesco a sostenerlo. Ma tutto è stressante, perdo
le cose o me le sottraggono, come i jeans che Mélanie (è la
figlia, ndr) mi aveva regalato a Natale e che avevo addosso
quando mi hanno preso. L’unica cosa che sono riuscita a
conservare è la giacca e questa è stata davvero una benedizione, poiché le notti sono gelide e non ho altro per coprirmi». […]
«Prima, approfittavo di ogni occasione per fare un bagno nel
fiume. Dato che sono la sola donna del gruppo, lo devo fare
quasi completamente vestita: pantaloncini, camicia e stivali.
Prima mi piaceva nuotare nel fiume, ma adesso non ne ho
più neppure la forza. Sono debole, sembro un gatto davanti
all’acqua. Io che amavo tanto l’acqua, non mi riconosco
più». […]
«Nel corso degli anni non ho potuto pensare ai ragazzi e il
dolore per la morte di papà ha assorbito tutta la mia capacità
di resistenza. Piangevo pensando a loro, mi sentivo soffocare, incapace di respirare. […] Sono quasi impazzita a causa
della morte di mio padre. Non ho mai saputo come sia accaduto, chi c’era, se mi ha lasciato un messaggio, una lettera,
una benedizione». […]
«Alla mia Melelinga, mio sole di primavera, mia principessa
della costellazione del cigno, a lei che amo tanto, desidero
dire che sono la madre più orgogliosa di questa terra. E se
dovessi morire oggi stesso, me ne andrei soddisfatta della vita, ringraziando Dio per i miei figli. Mélanie, ti ho sempre
detto che sei la migliore, molto migliore di me, una specie di
versione perfezionata di ciò che io avrei voluto essere. È per
questo, con l’esperienza che ho accumulato nella vita e nella
prospettiva che mi offre il mondo visto a distanza, che ti
chiedo, amore mio, di prepararti per raggiungere le mete più
alte. Al mio Lorenzo, al mio Loli Pop, il mio angelo della luce, il mio re dagli occhi azzurri, il mio musicista che canta e
mi incanta, al signore del mio cuore, voglio dire che dal
giorno in cui è nato e fino ad oggi è stato la fonte delle mie
gioie». […]
«Mamita, ci sono tante persone che voglio ringraziare per il
fatto di ricordarsi di noi, per non averci abbandonato. Per un
lungo periodo, siamo stati come i lebbrosi che rovinano la
festa. Noi, i sequestrati, non siamo un tema “politicamente
corretto”, suona meglio dire che bisogna affrontare con fermezza la guerriglia, anche se dovesse costare il sacrificio di
vite umane. Di fronte a ciò, il silenzio. Solo il tempo può
aprire le coscienze ed elevare gli spiriti. […] Bene, Mamita,
che Dio ci aiuti, ci guidi, ci dia la pazienza e ci protegga per
sempre e addio».
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n. 1/2008 - Scenari globali