ROMA TRE News n. 1 - 2008 Scenari globali Interviste Guido Fabiani. Roma Tre e lo sviluppo sostenibile Oliviero Toscani «Tra cervello e cuore» Jean-Loup Amselle L’etnicizzazione del sociale Dal Chiapas. La lotta delle donne zapatiste tra rivoluzione e autodeterminazione Dalla Cina. L’impero del socialiberismo Dall’Amazzonia Lo Stato di Amapà e le donne vittime di escalpelamento Università degli Studi Roma Tre - Via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it Sommario Editoriale 3 Primo piano La realtà dei servizi di Roma Tre Due studenti raccontano la loro esperienza di Francesco Rossi e Carlo Guglielmo Vitale 44 Le trasformazioni del giornalismo nell’era di internet Gli effetti della globalizzazione sulla carta stampata in una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi di Silvia Venanzoni 45 46 Globalizzazione Analisi delle conseguenze economiche di Paolo Leon 5 Il ruolo dell’Europa nel mondo globale La proposta di Maria Zambrano in una tesi in Filosofia di Ester Monteleone Il prezzo delle regole L’impatto ambientale dei processi globali di Giovanni Scarano 6 Rubriche «La globalizzazione che funziona» L’università come territorio di incontro di Maria Vittoria Tessitore 8 10 «La fabbrica del consenso» Dialogo filosofico tra Giorgio De Vincenti e Noam Chomsky a cura di Alessandra Ciarletti 11 Vandana Shiva Un occhio critico sulla globalizzazione di Camilla Spinelli 14 Oliviero Toscani. «Tra cervello e cuore» di Alessandra Ciarletti 16 La guerra dei marchi Il culture jamming come fenomeno di resistenza culturale di Lia Luchetti 18 Il giudice o lo storico? Nell’inchiesta italiana sul Sistema Condor le storie di venticinque desaparecidos di Federica Martellini 20 22 23 «Occhiali scuri, non ci sono gli occhi» Storia di un disastro colposo. Bhopal 1984 di Alessandra Ciarletti 26 Il gran rifiuto delle ecoballe Il dramma napoletano come emblema di un sistema globale iniquo e scellerato di Valentina Cavalletti 27 Giulia Caneva e Paraskevi Tavladoraki Gli OGM, pro e contro a cura di Martina D’Ermo 29 Incontri Roberto Morassut. Roma: città eterna o metropoli globalizzata? 32 a cura di Federica Martellini Andrea Riccardi. Globalizzazione ed ecumenismo a cura di Michela Monferrini 33 35 Reportage La lotta delle donne zapatiste, tra rivoluzione e autodeterminazione dal Chiapas, Monica Pepe 37 L’impero del socialiberismo dalla Cina, Indra Galbo 40 Il fiume dai capelli rossi dall’Amazzonia, Elena Mortelliti 42 Orientamento Sezione studenti iscritti Corri... ma più veloce della luce! di Gessica Cuscunà L’Occidente visto dai media arabi Il pluralismo della comunicazione tra est e ovest di Michela Monferrini 51 Il libero mercato fa bene come un elettroshock Shock Economy di Naomi Klein: l’ascesa del capitalismo dei disastri di Ornella Mollica 52 «Le parole sono pietre» Nell’ambito del progetto Ethicamente, una giornata di studio sull’etica della comunicazione di Federica Martellini 53 Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre numero 1/2008 Direttore responsabile Anna Lisa Tota Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Jean-Loup Amselle. L’etnicizzazione del sociale di Michela Monferrini Andrea Vidotto. Sostenibilità e riqualificazione dell’ambiente urbano di Camilla Spinelli 47 48 Recensioni Guido Fabiani. Roma Tre e lo sviluppo sostenibile di Monica Pepe Jenoside in Ruanda: tra significanti globali e interpretazioni locali Il percorso linguistico del riconoscimento di una barbarie di Michela Fusaschi Orme Non tutti sanno che 44 Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti Redazione Marco Angelino (studente del C.d.L. in Finanza), Ugo Attisani (Ufficio orientamento), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Tommaso D’Errico (studente del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (studente del C.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (studentessa del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione) Hanno collaborato a questo numero M° Isabella Ambrosini (direttore del Coro polifonico Roma Tre), Valentina Bellafante (studentessa IV B del Liceo scientifico Federigo Enriques), Elisabetta Bischetti (studentessa del C.d.L. in Scienze biologiche), Martina D’Ermo (studentessa del C.d.L. in Lettere), Giorgio De Vincenti (Direttore del Dipartimento Comunicazione e spettacolo), Margherita Fantoli (studentessa II C del Liceo classico Luciano Manara), Michela Fusaschi (docente di Antropologia culturale), Paolo Leon (docente di Economia pubblica), Lia Luchetti (collaboratrice della cattedra di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Ornella Mollica (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Ester Monteleone (studentessa laureata presso il C.d.L. in Filosofia), Elena Mortelliti (regista di documentari), Francesco Rossi (studente C.d.L. in Scienze giuridiche), Giovanni Scarano (docente di Economia dell’ambiente coordinatore del Master in Ingegneria ed economia dell’ambiente e del territorio), Maria Vittoria Tessitore (docente di Teatro inglese del Novecento e coordinatrice del Master in Politiche dell’incontro e mediazione culturale in contesto migratorio), Silvia Venanzoni (studentessa laureata presso il C.d.L. in Teoria della comunicazione), Guglielmo Vitale (studente C.d.L. in Scienze politiche) Immagini e foto Adbusters Media Foundation, Amnesty International, Martina D’Ermo, Fondazione Giuseppe Tomasello, Indra Galbo, Maila Iacovelli, Magellan Geographix, Santa Barbara CA, Elena Mortelliti, Monica Pepe, Stefania Pepoli, Francesco Pompeo, Oliviero Toscani, Orazio Truglio, www.chomsky.info, www.naomiklein.org, www.urbanhonking.com Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Impaginazione e stampa Stilgrafica s.r.l. Via Ignazio Pettinengo 31-33 - 00159 Roma 06 43588200 - www.stilgrafica.com Copertina Kaifeng, mercato notturno Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998 La globalizzazione delle ingiustizie, dei rifiuti e delle “cattive idee” di Anna Lisa Tota Anna Lisa Tota Globalizzazione e diritti umani: un tema difficile quello che abbiamo scelto per questo numero, ma indubbiamente un tema centrale e scottante, con cui dobbiamo e vogliamo confrontarci. Sui processi di globalizzazione si sono spesi negli ultimi decenni fiumi di inchiostro: dal sistema-mondo di Wallerstein alla shock-economy di Naomi Klein, dal cosmopolitismo di Edward Said alle monocolture della mente di Vandana Shiva o alla guerra dei semi, per citare soltanto alcuni fra i molti autori possibili. I grandi teorici della globalizzazione hanno analizzato i profondi mutamenti negli assetti geopolitici del nostro globo. Quando le economie diventano sovranazionali, quando gli stati cessano di detenere il monopolio della sovranità politica sul territorio perché interdipendenti gli uni dagli altri, l’assetto complessivo del globo viene totalmente ridefinito. Muta la struttura, l’articolazione e la fisionomia del potere, mutano le Weltanschauungen dei cittadini, muta il panorama complessivo entro cui possiamo nel discorso pubblico (globale) radicare il passato e guardare al futuro. Ci sono molte dimensioni su cui interrogarsi nel processo di globalizzazione: in questo numero ne articoliamo soltanto alcune, dovendo necessariamente operare delle scelte. Per noi allora la globalizzazione è in primo luogo interdipendenza: interdipendenza nei consumi ad esempio, per cui se io consumo ciò che a te serve per sopravvivere, devo imparare a riflettere sul fatto che il mio consumo alla lunga finirà per minare la tua possibilità di sopravvivere. O ancora: se il mio consumo inquina, significa che sto distruggendo pezzi dell’ambiente che non mi appartengono. Posso decidere di pagare, acquistando così il diritto di inquinare e riproporre così la logica ferrea del capitalismo e del mercato. Tuttavia stabilire il prezzo equo di questa distruzione è un’operazione tutt’altro che scontata e, soprattutto, il prezzo non può essere fissato da chi acquista, quando chi vende è così povero da non avere nessun potere negoziale oppure è semplicemente impossibilitato a far sentire la propria voce perché non c’è, come nel caso delle generazioni future. Ma l’interdipendenza riguarda anche i pensieri, le parole e le immagini, per cui ciò che vedo a Baltimora è simile a ciò che posso vedere a Lisbona o a Roma, se sono dinnanzi ad esempio al cartellone pubblicitario della Coca-Cola o della Nike. E allora abbiamo chiesto a Oliviero Toscani di raccontarci il corpo anoressico della campagna pubblicitaria Nolita e di spiegarci perché le immagini possono essere potenti più delle parole. Un’altra dimensione chiave della globalizzazione è la sostenibilità, un concetto che proviene dalla riflessione ambientalista. Sostenibilità significa imparare a riflettere e a tenere conto di tutti i costi effettivi implicati da ciò che produciamo e consumiamo. Gli economisti hanno elaborato concetti raffinati per comprendere queste questioni, come ad esempio quello di esternalità positive e negative: se una petroliera affonda e distrugge la fauna di una certa area costiera, questi costi saranno da computare quando affidiamo alle navi il trasporto del petrolio, con cui riscaldiamo le nostre case o riforniamo le nostro automobili oppure no? Chi può pagare nell’“economia dei disastri”, come dice Naomi Klein? Sono davvero casi così eccezionali e imprevedibili oppure il disastro è globalizzato e globalizzabile? Fra i molti casi, di cui avremmo potuto scrivere, abbiamo deciso di parlare di Bhopal, che è ormai poco trendy e decisamente fuori moda, frequentata come è soltanto dai pochi che si ostinano a non dimenticare. Ma senza andare così lontano, avremmo potuto parlare di Seveso oppure delle molte discariche al Nord e al Sud, dove si sono stoccati per anni rifiuti troppo inquinanti. Parleremo di rifiuti ovviamente, perché la cronaca ce lo impone… La redazione Ma la globalizzazione è anche multiculturalismo: essa ha comportato fenomeni migratori crescenti, con masse di persone (“cittadini”) che hanno scelto di spostarsi dai luoghi in cui si muore a quelli in cui la speranza media di vita, almeno apparentemente, è più alta. La trappola ideologica alla base di questi spostamenti è che, se è pur vero che i cittadini e le cittadine europee hanno una speranza media di vita di molte volte superiore a quella dei cittadini e delle cittadine ruandesi, ciò vale appunto per gli europei che in Europa ci vivono e non certo per i ruandesi che clandestinamente riescono a immigrarci. Arriviamo così all’altra questione centrale che vogliamo affiancare al concetto di globalizzazione: quella dei diritti umani. E allora parliamo di Ruanda, di Chiapas, di Cina e di Amazzonia. Un libretto, pubblicato qualche anno or sono, si intitolava: La globalizzazione delle cattive idee. Ho sempre pensato che questo titolo nella sua semplicità fosse geniale: noi globalizziamo le merci, i mercati, la forza lavoro, le informazioni, i consumi, le idee, le innovazioni, ma anche le ingiustizie, i rifiuti, l’inquinamento e … le cattive idee, appunto. Ciò che non si può fare in un paese si esporta semplicemente in un altro. C’è sempre un luogo dove anche l’illecito diventa lecito e con la globalizzazione questi luoghi ora sono più accessibili, più vicini. Questo numero non è l’ennesimo sguardo pessimista sul futuro, è semplicemente un numero critico, dove ci interroghiamo sul futuro che vogliamo. Dopo anni di lotte ambientaliste, abbiamo imparato che noi siamo il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Una frase celebre di qualche anno fa diceva: “chi inquina l’acqua, prima o poi beve”. Ma l’inquinamento quando è globale non è soltanto acustico, elettromagnetico, ambientale. C’è un inquinamento nuovo che si estende all’area del simbolico: è l’inquinamento delle parole e dei pensieri, è l’inquinamento dei marchi, degli stili di vita e delle immagini. Non è un caso che in questo numero parliamo di culture jamming, ovvero di sabotaggio o interferenza culturale: infatti, noi siamo anche le parole che ascoltiamo e le immagini che vediamo. La globalizzazione delle idee buone e cattive, dunque, la globalizzazione del simbolico sono i terreni centrali su cui ci interroghiamo, perché oltre ai conflitti armati, ci sono le guerre dei sogni - come ricorda Marc Augé - le guerre degli immaginari. Le egemonie culturali, l’asservimento e la dominazione degli altri si possono conseguire con le armi, ma sempre più nella contemporaneità si ottengono attraverso la colonizzazione degli immaginari, l’asservimento dei pensieri, la dominazione dei sogni. In definitiva, Marcuse, Adorno e i suoi amici sono sempre di grande attualità, anche se talora un po’ datati… Globalizzazione Analisi delle conseguenze economiche Alla luce della crisi finanziaria e dell’incombente recessione, c’è da chiedersi se la globalizzazione subirà dei cambiamenti. Da un Paolo Leon lato, infatti, è impossibile che le autorità monetarie centrali, di qua e di là dall’Atlantico, non determinino nuove regole quanto agli strumenti finanziari commerciati, sia nazionalmente sia internazionalmente. La crisi dei sub prime, com’è noto, non è la crisi di un particolare mercato finanziario (quello delle cartelle fondiarie), ma è la crisi dei soggetti che trattano ogni tipo di carta finanziaria e commerciale. Poiché si è rivelato possibile costruire titoli che sono la composizione di altri titoli, e poiché questa composizione non è realmente nota a chi li acquista, né ha una relazione stringente con il sottostante (la redditività dell’azienda, della merce, del settore o del paese), il prodotto finanziario ha vita propria, basata sulla fiducia dell’emittente e sull’abbondanza di liquidità da investire. In queste circostanze, simili a quelle del capitalismo selvaggio dell’Ottocento, è inevitabile un intervento regolativo. D’altra parte, bisogna anche riconoscere che la globalizzazione finanziaria produce moneta endogena, della quale si riforniscono anche gli stati. Si tratta della liquidità creata dagli stessi emittenti i titoli discussi sopra; quanto più liquido è il titolo, tanto più si comporta come moneta. Le imprese finanziarie, per acquistare un titolo, ne vendono un altro: quando i valori borsistici crescono, e se non ci sono limiti di norme o regolamenti alla creazione di titoli (apparentemente) liquidi, la moneta si forma nella quantità necessaria per acquistarli. Così, la speculazione, in buona parte, finanzia se stessa: fino a quando i tassi di interesse negli USA erano bassi, e più bassi del tasso di inflazione sommato al tasso di crescita reale, la moneta cresceva indisturbata, insieme alla speculazione e non rispondeva alle politiche monetarie delle banche centrali. Quando queste decidono di interrompere il gioco alzando i tassi di interesse, facendo emergere il rischio dei titoli, la moneta endogena si asciuga e il sistema finanziario entra in la crisi. Le stesse banche centrali, di fronte alla crisi – che evi- dentemente non si aspettavano – sostituiscono la liquidità mancante con la creazione di moneta. Se volevano battere l’inflazione proveniente dalla moneta endogena, finiscono per ridarle momento con la moneta esogena. Questo spiega come mai, per un lungo periodo, i prezzi delle materie prime sono cresciuti più rapidamente della domanda: petrolio e materie prime sono diventati titoli di credito, sui quali si specula senza un rapporto stretto con il sottostante - il prezzo dei titoli rappresentativi delle materie prime cresce, senza che sia cresciuta in una qualche proporzione la domanda di materie prime. Quando poi il meccanismo speculativo tende a rompersi – come oggi – i prezzi delle materie prime non si riducono, perché quando gli acquirenti abbandonano i titoli spazzatura trattati in borsa, acquisteranno titoli rappresentativi delle materie prime più di quanto facevano in precedenza, quando tutti i titoli vedevano crescere i loro valori – e anche qui non c’entra la domanda, ma la prospettiva che i prezzi continueranno a crescere. Se la bolla speculativa ha una bassa relazione con il sottostante, tuttavia la recessione influenza certamente il sottostante (la produzione) e aggrava la crisi finanziaria: se il sottostante è in crisi, si riducono profitti e rendite, si licenzia e si riducono i salari. Di nuovo, le materie prime sono un’eccezione, perché si tratta di beni primari, la cui domanda è poco elastica all’andamento dei prezzi e del reddito complessivo. Prima o poi, naturalmente, tutto crollerà, ma fino a quel punto le autorità sono ingannate dalla globalizzazione finanziaria, in modi perfino incredibili. Così, si pensa che l’aumento del prezzo del petrolio sia frutto di scarsità, e i governi tendono ad adottare politiche di risparmio e di diversificazione: sempre politiche giuste, salvo per il fatto – già avvenuto più di una volta – che quelle politiche verranno abbandonate il giorno in cui i prezzi delle materie prime torneranno a livelli più vicini all’equilibrio tra domanda e offerta. Come abbiamo già ricordato, la Riserva federale USA con maggior impeto, e la Banca centrale europea con grande prudenza, spingono per ridurre o non aumentare i tassi di interesse, pur in presenza di inflazione (determinata dall’aumento dei prezzi delle materie prime). L’idea è che riducendo i tassi e alimentando la liquidità nel sistema globale, le borse non perderanno punti, e si pone un freno ad un calo rovinoso degli indici. Si pensa anche che una riduzione dei tassi spinga le imprese ad investire e, per- primo piano di Paolo Leon 5 6 ciò, a far crescere il valore termina una tendenza staaggiunto. Tuttavia, questa gnazionista all’economia speranza è mal riposta: se europea, e riduce il tasso c’è una recessione, la domondiale di crescita del manda di beni e servizi caPIL. Il problema, tuttavia, la o non cresce; anche a è ancora quello del dollaminori tassi di interesse, ro: quanto più la Cina (e non conviene alle imprese altri) diversificano i loro intraprendere nuovi inveinvestimenti finanziari, stimenti, per i prodotti dei tanto più debole è il dollaquali la domanda si attarro, e tanto maggiore la rida. Piuttosto, poiché pocerca di beni rifugio, cotranno prendere a prestito me le materie prime. Sia a tassi bassi, andranno alla Corporate U.S. flag, spoof ad realizzato da Adbusters pure lentamente, l’equiliricerca di titoli ad alto renbrio si potrebbe ricostruidimento. Così, la riduzione re, se la svalutazione del dei tassi non ha effetti reali, ma ha solo quello di tedollaro facesse crescere l’avanzo nei conti con l’enere in piedi una domanda di titoli, altrimenti calanstero degli USA. L’evidenza è che il disavanzo atte. La crisi finanziaria è solo frenata, ma non sostituituale o resta costante o diminuisce poco, perché gli ta da un boom e, come abbiamo indicato, l’effetto USA hanno ormai poco da esportare. Sembra prodelle politiche monetarie espansive è soprattutto prio che si sia in attesa di uno shock esterno, senza quello di sostituire la moneta endogena sparita. il quale il mercato finanziario resta sostenuto da Uno dei nodi difficili da sciogliere è il rapporto tra fragilissime politiche, e la recessione prosegue il le grandi economie emergenti e i mercati finanziari. suo corso. Fino a epoca recente, i surplus cinesi di bilancia Questa crisi dimostra, ancora una volta, che la globacorrente dei pagamenti erano investiti in titoli denolizzazione va governata: ma non sembra si stia forminati in dollari. Poiché il dollaro si è (o, meglio, è mando un consenso tra governi intorno alle regole stato) indebolito, i surplus cinesi hanno la scelta se necessarie e alle istituzioni che dovrebbero farle rirestare sui mercati americani, acquistando a basso spettare. Non è un caso che il Fondo monetario interprezzo titoli, ma con il rischio della crisi finanzianazionale sia in profonda crisi, e tenda ormai a conria, o rivolgersi a mercati denominati in euro. Profondersi con la Banca mondiale, nella prospettiva di babilmente, questo cambiamento è in corso: il rafuna più grande istituzione di benevolenza verso i forzamento conseguente dell’euro, a sua volta, depaesi più poveri. Ci manca Bretton Woods. Il prezzo delle regole L’impatto ambientale dei processi globali di Giovanni Scarano Giovanni Scarano Gli effetti della globalizzazione sulla gestione delle risorse naturali e sulla tutela e conservazione degli ecosistemi terrestri possono essere valutati in modo estremamente vario e controverso. Ciò dipende in parte dal fatto che si ha a che fare con un fenomeno complesso e multidimensionale, che può interagire con gli ambienti naturali attraverso migliaia di strade diverse. Se si privilegia però un punto di vista meramente economico, si può ricondurre la complessità della globalizzazione a due sole grandi classi di fenomeni: l’espansione del commercio internazionale e l’incremento dei flussi di investimenti esteri. Di seguito si prenderanno quindi in considerazione solo gli effetti ambientali di questi due tipi di fenomeni. Il commercio internazionale, in quanto attività di puro scambio, non produce alterazioni dirette degli ambienti naturali. Può però generare impatti ambientali attraverso l’incremento dei trasporti su lunga distanza, ma soprattutto attraverso le variazioni del reddito l’introduzione di quote per le dei paesi partecipanti, le modifiimportazioni di automobili cazioni della divisione internastraniere, che ha spinto le case zionale del lavoro e la riduzione automobilistiche giapponesi a dei gradi di libertà nell’adozione concentrare i propri sforzi delle regolamentazioni ambiencommerciali nella vendita di tali. cilindrate più elevate, di magSecondo i fautori del libero gior valore ma anche dotate di scambio, la crescita del reddito minore efficienza nei consumi generata dal commercio internaenergetici e nelle emissioni inzionale tende a migliorare, nel quinanti. Un ulteriore esempio lungo periodo, l’impatto amè fornito dall’eccessivo uso di bientale dei sistemi economici. fertilizzanti, anticrittogamici e Ciò avviene attraverso il migliomacchine effettuato dall’agriramento dell’efficienza nello coltura europea, consentito da sfruttamento delle risorse natupolitiche protezioniste e di sorali, l’instaurarsi di processi di stegno dei prezzi. transizione demografica virtuoGli effetti dell’uragano Katrina a New Orleans Infine, il libero commercio può si, che tendono a stabilizzare la porre vincoli alla libertà dei gopopolazione mondiale, e un inverni di scegliere le forme di regolamentazione amcremento dei livelli di reddito pro capite e delle enbientale più opportune per il benessere delle proprie trate fiscali capace di garantire un maggiore livello di collettività, al fine di non intaccare unilateralmente la sensibilità e di tutela ambientali. capacità competitiva dei produttori nazionali o di non I paesi che conferiscono oggi maggior valore alla turidurre la capacità del paese di attrarre investimenti tela ambientale trarrebbero ulteriori benefici dal libeesteri. Le regolamentazioni ambientali, infatti, increro scambio. Potrebbero infatti penalizzare, mediante mentano i costi di produzione degli investitori, e la litasse o standard, le produzioni interne più inquinanti beralizzazione dei movimenti di capitali potrebbe senza dover rinunciare ai consumi corrispondenti, creare ulteriore incentivo ad abbassare gli standard che potrebbero essere soddisfatti con l’importazione. ambientali come fattore di attrazione per gli investiSul mercato mondiale vi saranno infatti probabilmenti esteri. Questi orientamenti di politica economimente paesi che, avendo abbondanza di risorse natuca possono a volte trovare giustificazione nella prorali o minori livelli di reddito, attribuiranno minor spettiva di potenziare il posizionamento strategico di valore agli impatti ambientali e troveranno quindi un sistema economico nazionale, ma possono anche conveniente espandere le produzioni più inquinanti a essere la mera conseguenza sui governi delle pressiofini di esportazione. ni di gruppi di interesse organizzati. I detrattori del commercio internazionale, invece, riI gruppi di pressione operanti nei vari paesi possono tengono che esso può solo aumentare i divari esistengiocare anche un altro ruolo nell’interazione tra libeti tra paesi ricchi e paesi poveri, producendo un detero scambio e problemi ambientali. Alcuni di essi, in rioramento delle condizioni sociali di ampi settori particolari congiunture economiche, possono infatti della popolazione mondiale che porterà con sé nuovi trovare conveniente mobilitare ampi movimenti di impatti negativi su alcuni fra i più fragili ecosistemi opinione in difesa di propri interessi protezionistici naturali, quali, ad esempio, le foreste pluviali. sulla base di principi che appaiono di respiro più geI mutamenti nella divisione internazionale del lavoro nerale. E i problemi ambientali, quando sono opporpossono a loro volta generare effetti su diversi fronti. tunamente inseriti nel contesto di previsioni apocalitIn un contesto di libero scambio è infatti possibile, tiche, si mostrano particolarmente adatti a questo come accennato poco prima, che i paesi poveri troviscopo. Questo tipo di strategie opportuniste può però no incentivi a specializzarsi in produzioni a forte imfacilmente generare asimmetrie nel rapporto tra paesi patto ambientale, con gravi rischi di degrado delle loricchi e paesi poveri. La sensibilità ambientale tende ro risorse ambientali e del loro benessere sociale. infatti oggi a concentrarsi nei primi, mentre nei sePossono inoltre formarsi incentivi allo sviluppo del condi si concentra la maggior parte degli ambienti commercio di sostanze pericolose, generando le connaturali da tutelare. Le campagne protezionistiche venienze a esportare i rifiuti tossici dai paesi ricchi condotte in nome della difesa dell’ambiente o della nei paesi poveri. tutela della salute possono così finire per assecondare I liberoscambisti ritengono però che il protezionismo l’interesse strategico dei paesi ricchi a incoraggiare produca normalmente distorsioni nella composizione la liberalizzazione commerciale dei paesi poveri o del prodotto sociale che generano a loro volta ricaduemergenti, riservandosi di difendere i propri mercati te negative sul fronte ambientale. Un esempio tipico nel nome di valori etici di ordine superiore. è fornito dagli effetti ottenuti negli Stati Uniti dal- 7 8 «La globalizzazione che funziona» L’università come territorio di incontro di Maria Vittoria Tessitore Si potrebbe dire che il termine globalizzazione definisce un atto compiuto, un fenomeno che caratterizza in modo pervasivo la modernità contemporanea. Definisce per lo più la sul cambiamento radicale di prospettiva e di funzionamento delle istituzioni internazionali – i soggetti collettivi della società globalizzata – e sulla consapevolezza generalizzata dei soggetti individuali. Ma il terreno di osservazione della realtà sociale in azione resta per il soggetto individuale il territorio locale. Dove la dinamica transnazionale presente ai livelli di vertice nella gestione finanziaria, politica, commerciale è spesso letta e vissuta secondo una prospettiva fortemente nazionale. Una rivendicazione di diritti da parte del capitale globale si accompagna nell’analisi di Saskia Sassen a una rivendicazione di diritti di cittadinanza da parte di settori svantaggiati Maria Vittoria Tessitore sfera del potere economico, cui si aggregano a caduta gli ambiti del potere sociale, politico e culturale. Il termine fa pensare a un processo di omogeneizzazione del mondo, un appiattimento delle individualità, un annientamento delle differenze. Ma un’osservazione anche approssimativa del mondo ci presenta paesi, gruppi e individui attraversati, possiamo dire pure afflitti, da un vortice di guerra infinita, da conflitti a tutti i livelli, radicalizzati e segnalati in una distanza sempre più profonda tra ricchi e poveri. A sentire Joseph Stiglitz il fallimento della globalizzazione economica – che pure avrebbe potuto colmare le ingiuste differenze di sviluppo nel mondo – risiede nella gestione che ne ha fatto la politica incapace sia di governare i processi, sia di affrontare gli effetti sui percorsi (o i destini?) di vita degli individui. Tant’è che conclude il suo più recente libro Making Globalization Work (in italiano La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2006) con un capitolo politico, ricco di suggestioni «per una globalizzazione democratica». Le suggestioni di Stiglitz per una possibile gestione efficace della globalizzazione si concentrano Locandina di uno degli appuntamenti organizzati dal Master in Politiche dell’incontro e mediazione culturale in contesto migratorio della popolazione urbana. E il settore svantaggiato della popolazione urbana è percepito a livello territoriale come composto per lo più da migranti, persone che hanno prevalentemente un orizzonte di aspettativa e di progetto certamente composito e a carattere globale. All’immigrazione come «processo fondativo della nuova politica economica transnazionale» Sassen dedica tutta la prima parte del suo libro Globalization and its Discontents (titolo che in italiano supera brillantemente l’ostacolo del riferimento shakespeariano e diventa Globalizzati e Scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002). Se trasferiamo questo quadro sommario della globalizzazione al territorio a noi più vicino che è quello dell’università, vediamo in che modo questo può considerarsi alla stregua delle città globali osservate da Sassen, e come luogo di formazione della consapevolezza individuale auspicata da Stiglitz. L’università è spazio limen nella vita dei cittadini e delle cittadine, dove si costruisce ricerca e su questa base si praticano i saperi in direzione della formazione delle nuove generazioni. L’università è quindi il luogo deputato di formazione di una cultura aggiornata nei saperi, è anzi sicuramente un moltiplicatore di cultura. E quindi è il nocciolo fertile di costruzione della cittadinanza. Come si può trascurare la dimensione transnazionale della cultura di cittadinanza? E dove si esercita tale dimensione? Se la ricerca è già per sua natura transnazionale, globale, sia per quanto riguarda la collaborazione sui progetti, sia, quindi, per quanto riguarda l’interazione funzionale tra soggetti ricercatori (un po’ meno per quanto riguarda la messa in comune dei prodotti, altro problema politico legato allo sviluppo), ancora c’è molto da fare nell’ambito localmente italiano quanto all’apertura del territorio-università a studenti provenienti da altre culture e in particolare ai cittadini e alle cittadine residenti in Italia ma affiliati a nazionalità diverse. L’accesso agli studi e alla socialità che si esprime nel territorio-università permette di valorizzare quella componente della globalizzazione identificata da molti osservatori nella popolazione migrante. È ipotizzabile, anzi auspicabile, il formarsi di una popolazione studentesca di giovani uomini e donne che affermando e declinando le loro singolari identità plurime collaborino alla costruzione di una nuova cultura transnazionale. Partecipando al ruolo delle città globali che Sassen definisce siti strategici non solo per il capitale globale ma anche per la transnazionalizzazione del lavoro anche la città-università (o l’università-nella-città come il Rettore Fabiani definisce Roma Tre) può/deve costituire un sito strategico per il capitale intellettuale della ricerca globale, e per la transnazionalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici dello studio che localmente si pratica. Un’italianista al DAMS Un ricordo di Gioia Sebastiani di Maria Vittoria Tessitore È difficile pensare che non sia più tra noi. È facile rappresentarla alla nostra memoria: la sua presenza nelle nostre attività fin dagli inizi ha assunto per me, ma per molte e molti di noi, un ruolo sempre più significativo. Abbiamo condiviso l’onere e il piacere di traghettare il gruppo ancora indistinto delle matricole DAMS dagli studi letterari di stampo liceale ai primi strumenti di analisi e ricerca sul testo e sulla storia della letteratura. Una sfida su cui Gioia ha lavorato mettendo in campo con grande generosità il suo amore per gli studi letterari e il rigore della ricerca. Nella convinzione che educare alla letteratura e alla lettura è indicare una finestra che si apre al mondo Gioia ha praticato attentamente l’arte dell’ascolto in interminabili sessioni di ricevimento studenti di cui catturava l’esplicitazione delle mancanze come l’affermazione di un bisogno che meglio si poteva soddisfare se espresso come desiderio e aspirazione. La sua estrema attenzione alla proprietà del linguaggio, la sua meticolosità nella ricerca, la puntualità, la precisione e la correttezza estrema che ha sempre mostrato nelle talvolta pressanti funzioni universitarie sono state un grande regalo di cui le siamo grati, e che non dimenticheremo di sicuro. Gioia Sebastiani, Pofessore associato presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo e docente nei Corsi di Studio in DAMS è venuta a mancare il 14 febbraio 2008. 9 10 Roma Tre e lo sviluppo sostenibile Può un’istituzione universitaria coniugare la propria espansione nel territorio con il rispetto per l’ambiente? di Monica Pepe Il concetto di sviluppo sostenibile come miglioramento della qualità della vita di una comunità, nel rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali, è entrato sempre più a far parte del linguaggio comune. Ma cosa vuol dire concretamenGuido Fabiani te, come si può coniugare all’interno di una struttura pubblica come una università? Roma Tre, che è al 16° anno di vita accademica, dovrebbe essere stata facilitata rispetto ad altri Atenei a realizzare le proprie strutture secondo criteri di sviluppo sostenibile. Ne parliamo con il Rettore Guido Fabiani. «Roma Tre è nata anche come progetto urbanistico oltre che accademico. Nel recuperare le aree industriali dismesse nella zona Ostiense ci siamo impegnati da subito a conservare ove possibile le prerogative originarie delle strutture, ma è con la realizzazione delle nuove Facoltà avvenuta negli ultimi anni che abbiamo potuto fare investimenti strutturali più avanzati nella direzione del risparmio energetico, del rispetto dell’ambiente e anche di una ‘naturalizzazione’ del territorio. Il Polo della Vasca Navale di prossima realizzazione sarà un modello eccellente per una completa integrazione degli spazi pubblici con quelli universitari all’interno del territorio. È prevista una separazione del traffico carrabile da quello pedonale, alcuni servizi pubblici come la piscina e l’asilo saranno a disposizione dei cittadini, così come un orto botanico diffuso, ovvero non un unico spazio verde, ma molte aree sparse di vegetazione diversificata anche con piante di pregio. Certo gli scenari di innovazione tecnologica che si aprono oggi ci spingono a fare sempre meglio per la difesa dell’ambiente. Ma senza guardare solo al futuro, invito tutti a visitare l’area in cui sono insediati i dipartimenti di Geologia, Matematica, alcune aule di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali e le strutture sportive circostanti. Molto spesso sono gli stessi docenti a prendersi cura delle aree verdi e stiamo lavorando per apportare ulteriori miglioramenti». Nel 2007 Roma Tre ha siglato un contratto Green Network spa, grazie al contributo del Dipartimento di Ingegneria meccanica e industriale, che consente di realizzare una serie di interventi migliorativi finalizzati all’efficienza energetica. «Molto presto porteremo a termine un sistema di monitoraggio che ci consentirà di rilevare eventuali anomalie dei consumi nell’erogazione della energia elettrica dalla rete alle cabine di ogni singola struttura. Questo ci consentirà di intervenire con dispositivi ad hoc che ridurranno i consumi». Anche all’interno delle singole Facoltà è prevista l’installazione di audit di monitoraggio dei consumi energetici che consentiranno di rilevare le dispersioni termiche durante l’inverno e di ottimizzare tutte le utenze energivore oltre a quelle elettriche. Il primo ad esserne dotato sarà l’edificio del Rettorato. Lo scorso anno inoltre sono state distribuite gratuitamente 100.000 lampadine a basso consumo a docenti, personale, studenti e famiglie. È senz’altro importante sensibilizzare studenti e personale ad una gestione domestica responsabile delle risorse ambientali, ma quali sono gli altri ambiti di intervento oltre a quello energetico? «Vorrei solo aggiungere che stiamo concentrando i nostri sforzi anche nella direzione delle energie rinnovabili. A breve presenteremo uno studio per realizzare l’applicazione del fotovoltaico all’edificio del Rettorato da estendere alle altre strutture, mentre nel nuovo Campus della Vasca Navale tutti gli edifici saranno costruiti con una copertura di pannelli fotovoltaici. Senz’altro un’altra questione cruciale è lo smaltimento dei rifiuti e Roma Tre ha sempre puntato sulla raccolta differenziata come impegno prioritario per la difesa dell’ambiente. Da un anno a questa parte abbiamo incrementato a 150 unità i raccoglitori per la carta, 200 per i toner e le pile usate distribuiti in tutte le strutture. Stiamo inoltre concludendo un accordo per inaugurare la raccolta interna di plastica e vetro». Già l’emergenza rifiuti a Napoli, è uno dei temi caldi del dibattito politico attuale. Chiedo al Rettore Fabiani cosa farebbe come membro della comunità scientifica se dovesse intervenire in tale circostanza. «Offrirei l’Università come sede permanente per dibattere la questione in modo rigorosamente scientifico e divulgativamente corretto. E proporrei ad alcuni dipartimenti di collaborare alle azioni di monitoraggio ambientale». «La fabbrica del consenso» Dialogo filosofico tra Giorgio De Vincenti e Noam Chomsky a cura di Alessandra Ciarletti Noam Chomsky è uno scienziato e teorico della comunicazione statunitense. Ha rivoluzionato gli studi linguistici con la teoria generativista che ha avuto fondamentali ricadute nell’ambito della ricerca psicologica, logica, filosofica. Attualmente è professore emerito presso il Department of Linguistic and Philosophy del Massachusetts Institute of Technology (MIT). All’attività accademica Chomsky affianca un notevole impegno politico e sociale. A partire dalla sua forte presa di posizione contro la guerra in Vietnam, non ha mai rinunciato a porsi come coscienza critica della società occidentale. La costante e acuta critica nei confronti della politica estera di diversi paesi, in primo luogo gli Stati Uniti, così come l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali, lo hanno reso uno degli intellettuali più celebri e seguiti della sinistra radicale americana. Parlando di democrazia, Chomsky afferma che è il miglior sistema, ma al tempo stesso cita la risposta che diede il Mahatma Gandhi a chi gli chiedeva cosa pensasse della civiltà occidentale: «Forse è una buona idea, perché non realizzarla?». Chomsky continua dicendo che secondo una teoria diffusa negli Stati Uniti, «la democrazia è un sistema del quale i cittadini sono spettatori e non attori. A intervalli regolari, hanno il diritto di mettere una scheda nell’urna, di scegliere nella classe dei capi qualcuno che li diriga. Fatto ciò, tornano a casa, badano ai fatti propri, guardano la televisione, fanno da mangiare e consumano e non devono disturbare il manovratore. Questa è la democrazia. Quando si inceppa, la reazione è interessante. In Europa, per esempio, si è mai discusso della prima ricerca pubblicata nel 1975 dalla Commissione trilaterale e intitolata La crisi della democrazia? Negli Stati Uniti una ricerca simile scatena reazioni molto più vivaci che in Europa. (…) L’Europa si illude di avere intellettuali impegnati, ma fatte salve rare eccezioni la realtà è molto diversa. I progressi che ci sono stati non sono venuti dagli intellettuali, ma prima di tutto dalle forze popolari e spesso dalle organizzazioni della classe operaia». Queste parole suonano particolarmente incisive rapportate al momento storico italiano. La speranza ci fa dire che il popolo italiano ce la farà e sarà coeso, l’amarezza che deriva da una disincantata lettura dei fatti ci fa dire che siamo all’ennesimo gioco delle parti. Qual è lo stato di salute della democrazia italiana? Chomsky distingue molto opportunamente la democrazia come metodo elettorale da un concetto più complesso di democrazia, che mette in gioco una vasta e costante orchestrazione partecipativa dei cittadini a quella che viene chiamata la cosa pubblica. Chomsky ha sostenuto in più occasioni che oggi gli Stati Uniti vivono qualcosa che somiglia più a una monarchia che non alla democrazia dei padri fondatori della nazione, parlando dell’attenuazione delle garanzie costituzionali che si è registrata nel suo Paese negli ultimi decenni e citando come esempio per tutti le cosiddette guerre del Presidente, dichiarate da Bush senza rispetto per le garanzie previste dalla costituzione statunitense. In questo brano è molto critico anche con l’Europa e con gli intellettuali europei. Ha ragione, soprattutto per quanto riguarda l’incapacità degli intellettuali di bilanciare l’ingigantimento del ruolo culturale dei politici. Prendiamo per esempio il nostro Paese: i media, e prima di tutto le televisioni, per motivi di mercato da un lato e di controllo politico sui palinsesti dall’altro, hanno ridotto sempre più il ruolo della cultura nel quadro dei loro programmi, e hanno proposto al pubblico i politici, in forma sempre più diretta e massiccia, con la conseguenza che i politici hanno finito con il rappresentare quasi l’intero spettro della riflessione sui temi della vita civile, dandosi come leader di opinione e come garanti dei valori. Un ruolo che in passato era ampiamente condiviso con gli intellettuali. Quando Enrico Belinguer, per esempio, propose la “questione morale” e il “compromesso storico”, era circondato da intellettuali che avevano un ruolo nella messa a punto di 11 12 quei processi, e magari erano critici e tutt’altro che organici; c’era una vita culturale intensa, nel nostro Paese, una vita culturale in cui le scienze, le arti, la letteratura, la poesia, il cinema giocavano un ruolo forte. Oggi siamo molto lontani da quella condizione, c’è come un’eclisse della cultura e una sovraesposizione della politica, che assume compiti che farebbe bene a demandare a un più ampio contesto ragionativo e discorsivo, anche perché molto spesso quando li assume lo fa con funzioni di garanzia nei confronti di poteri forti, tra i quali è centrale in Italia (anche se non è l’unico) il potere ideologico ed economico della Chiesa cattolica. Così accade che all’inizio del 2007 in una crisi di governo di ventiquattr’ore si sganci il tema dei “dico” dal programma di governo perché altrimenti i cattolici escono dalla maggioranza; e che importanti leader politici possano dichiarare senza pensarci troppo di voler procedere in un futuro non lontano verso una forma presidenziale di Stato, che significa cambiare buona parte delle garanzie costituzionali su cui si fonda la Repubblica italiana. E perfino che un politico autorevole possa intravedere una possibilità di lesioni permanenti come prevenzione della pedofilia: una mostruosità incivile e incostituzionale. O ancora il fatto che un candidato del PD sostenga pubblicamente in televisione (Ballarò) che i controlli dell’ispettorato del lavoro nelle aziende devono essere preceduti da un congruo preavviso. Che è come dare il via libera agli abusi. Tutto questo, purtroppo, ci fa cogliere molto bene il distacco della politica dalla vita civile e quanto sia reale il problema della democrazia oggi in Italia, non meno che in altri paesi: bisognerebbe da un lato rileggere attentamente la nostra Costituzione, che è il nostro “luogo” per eccellenza di incubazione della democrazia, il dna della nostra democrazia, e dall’altro attuarla facendo vivere la democrazia nel senso che ho detto, piuttosto che ridurla al sistema elettorale per una delega in bianco ai rappresentanti politici, che già ora, come si vede, mostrano di non essere davvero rappresentativi. Figuriamoci con una delega in bianco. Ed è il motivo per il quale oggi più che mai sono in molti a chiedersi se non sia il caso di disertare le urne. Il che è un problema gravissimo. La democrazia è un processo dialogico e ragionativo complesso per la messa a punto dei fini e dei mezzi per conseguirli, un processo che per definizione richiede la più vasta partecipazione possibile dei cittadini, un processo che non ha mai fine e che coinvolge la società a tutti i livelli. Qualunque semplificazione di questa complessità è inconstituzionale e rappresenta un ritorno indietro sul piano non solo politico ma anche di civiltà. Personalmente sono molto più preoccupato della delega in bianco che non della coesione, che potrebbe essere di pura facciata, visto che questo paese tende sempre più a configurarsi politicamente come un coacervo di corporazioni. E questo è un grande problema culturale: significa che il dibattito si è molto abbassato e che la tensione verso la solidarietà, l’armonia e la giustizia sociale si è molto allentata. E se, come ho detto, la nostra democrazia coincide in larga misura con l’attuazione della Costituzione, appare ben sintomatico il fatto che nessun politico oggi faccia riferimento a questo compito. È il segno di una forte attenuazione della vivacità culturale del nostro paese. E, conseguentemente, è il segno di una riduzione in atto della nostra democrazia. Il prof. Chomsky, ricordando i movimenti femministi degli anni Settanta, dice «all’interno del movimento le donne cominciarono a lamentarsi perché gli uomini, mentre affermavano di lottare per i diritti umani, stavano di fatto opprimendo le donne». Nel nostro paese proprio in questi giorni si è acceso un importante dibattito sul diritto alla vita. Alcuni illustri docenti delle accademie romane hanno esercitato il loro diritto alla libertà di parola stilando un documento in cui emerge chiaramente che il diritto alla vita non è godibile da tutti alla stessa maniera perché, riconoscendolo come valore assoluto, esso è addirittura primario rispetto alla stessa vita di chi la dà. Potenza e atto. Mi chiedo, è sempre vita quella di una donna violata o non lo è già più dal momento che il nostro diritto pur prevedendo la pena, non si fa garante di quella vita spezzata? Pensa che sarà mai riconosciuto il dovere al silenzio di fronte al dolore delle donne? Credo che questo genere di dibattito in Italia nasca inquinato e quindi assuma connotazioni e scopi impropri. L’inquinamento deriva dalla presenza dell’integralismo cattolico, che svolge un ruolo di copertura degli interessi economici di una lobby medica molto potente collegata da importanti fili con il Vaticano. Questo fa sì che quando si parla della fecondazione assistita e dell’aborto non lo si fa alla luce della ragione e in spirito di verità, ma da una prospettiva falsata in cui ideologia e bassi interessi economici si sposano perfettamente. A questo si deve aggiungere la misoginia intrinseca alla cultura cattolica, che gioca un ruolo importante nella questione. Il risultato è che non si fa chiarezza sui termini dei problemi e si mescola tutto. Per esempio, già all’epoca del referendum sull’aborto le forze più vive del cattolicesimo italiano si erano espresse in difesa della legge sull’aborto con ampie motivazioni, di fondo (con un discorso sulla crescita del feto e sulla distinzione tra la presenza di una persona umana e quella che è invece una sua semplice possibilità) e pragmatiche (con un discorso sull’opportunità di sottrarre al dominio delle “mammane” e della clandestinità questo problema). E la legge ha funzionato, permettendo una riduzione degli aborti in Italia. E soprattutto tutelando la salute e la vita delle donne, che dobbiamo imparare a considerare come il primo degli scopi. Oggi un dibattito del genere non sembra nemmeno possibile. Per fortuna il movimento delle donne e la loro consapevolezza sono cresciuti e hanno conquistato un qualche diritto di parola, anche se non ancora nella pienezza che Giorgio De Vincenti in tanti auspichiamo. Ne è prova il successo della sottoscrizione via internet di “liberadonna” espressione della condanna che le donne hanno decretato alla violenza della polizia nei confronti di una donna di Napoli che aveva abortito -, sottoscrizione che ha ricevuto un numero altissimo di adesioni (e non solo di donne: siamo stati in molti, uomini, a sottoscrivere). In questo senso, al giusto richiamo al silenzio per il dolore delle donne va aggiunto io credo l’appoggio di tutti perché le donne parlino. E tutto questo nella consapevolezza che le donne, che sulla vita sono di certo le più competenti, sanno autoregolarsi assai meglio di quanto non potrebbe accadere in virtù di leggi a loro estranee e frutto dell’atavica misoginia di cui parlavo. Va detto inoltre che sull’intero terreno dell’eros la cultura cattolica mostra limiti antichi e ottusità che hanno dell’incredibile. Un esempio per tutti: il divieto dell’uso degli anticoncezionali, uso che oltre ai sacrosanti (questi sì!) motivi di salvaguardia della salute, da un punto di vista culturale più ampio presenta anche il motivo dell’affidamento della fecondità al complesso della vita di ciascun essere umano e di ciascuna coppia (o addirittura di più estesi gruppi sociali, e comunque nel rispetto di scelte personali di non fecondità), e non certo al singolo atto sessuale. È una piccola grande cosa che mostra quanto sia arretrata la Chiesa cattolica su temi della vita quotidiana di tutti e quanto formalismo ideologico infici la sua dottrina. «I regimi totalitari sono più trasparenti, più immediatamente leggibili e in fin dei conti meno interessanti. Non hanno bisogno di una grande efficacia perché tengono sempre in serbo la possibilità di usare la forza e la paura. (…) Voglio sottolineare ancora una volta che quando le società si democratizzano e la coercizione smette di essere uno strumento di controllo e di emarginazione facile da mettere in opera, le élite si rivolgono naturalmente alla propaganda. (…) le grandi aziende di pubbliche relazioni, pubblicità, arti grafiche, cinema, televisione hanno innanzitutto la funzione di controllare le menti. Devono creare “bisogni artificiali” e far sì che le persone si dedichino a soddisfarli, ognuna per conto suo, isolata dalle altre. In questo sistema gli intellettuali svolgono un ruolo di prim’ordine». E dice «Più che una categoria di persone, si tratta di un atteggiamento che consiste nell’informarsi, nel riflettere seriamente sulle vicende umane e nel ben articolare la propria comprensione e la propria perspicacia. Conosco persone prive della benché minima istruzione che sono, ai miei occhi, intellettuali notevoli. E conosco scrittori e universitari rispettati che sono ben lontani dal corrispondere a quell’ideale. Gli “intellettuali riconosciuti” sono un’altra faccenda. Con questo termine intendo quelli che all’interno del proprio sistema di potere sono insigniti con il titolo di “intellettuali responsabili” come in Occidente si qualificano essi stessi, d’altronde. A volte vengono detti “intellettuali tecnocratici” per distinguerli dagli “intellettuali sovversivi” che seminano zizzania e sono “irresponsabili”». Di recente l’opinione pubblica si è divisa di fronte alla spaccatura verificatasi tra gli intellettuali riguardo alla opportunità della presenza del Papa all’interno della più antica accademia romana. Senza arrivare a etichettare gli atteggiamenti mentali, ci può dire qual è la missione dell’università, luogo deputato per eccellenza alla formazione degli intellettuali? Di fatto l’università, piuttosto che formare intellettuali, forma i futuri professionisti. La qualità di intellettuale è qualcosa di diverso. Si può essere ottimi professionisti e non essere affatto degli intellettuali. E direi che di norma le cose stanno proprio così. Inoltre, lo status di intellettuale non dipende necessariamente dal titolo di studio. Lo sottolinea Chomsky nel passo appena citato, e la mia esperienza va nella stessa direzione. Molti anni fa mi sono trovato a condividere la lotta politica con sindacalisti che erano ferrovieri e operai, con un grado di istruzione scolastica non elevato. Alcuni di loro, per la capacità di interpretare le cose, per la chiarezza con cui impostavano i problemi, per la dimensione vasta e universale delle loro argomentazioni e della loro visione del mondo, erano certamente degli intellettuali, e qualche volta di alto livello, e io ho imparato moltissimo da loro. Quella del sindacato, ma anche quella delle sezioni e delle 13 14 cellule del PCI, era spesso una scuola eccellente per la formazione di quel discorso culturale di base cui accennavo sopra e di cui oggi sento la mancanza. Non perché rimpianga quell’epoca o quel partito, ma perché nulla è stato fatto per riempire il vuoto che si è determinato quando quei luoghi di dibattito e formazione si sono esauriti. E lì c’è sicuramente una responsabilità molto pesante dei politici, che hanno scientemente ridotto il dibattito democratico nella società civile, in favore della richiesta di delega di cui ho parlato prima. Ciò detto, ben venga la capacità dell’università, quando c’è, di aiutare la formazione di intellettuali. E dal mio punto di vista è certo che chi lavora al suo interno dovrebbe operare perché questa capacità emerga e si consolidi. Ma appunto, se vogliamo raggiungere questo scopo non possiamo darla per scontata: il bravo tecnico, come dicevo, non è necessariamente un intellettuale. Quest’ultimo si qualifica come tale in virtù della dimensione in cui sa affrontare i problemi, una dimensione capace di guardare agli elementi di universalizzazione e di farsi carico delle componenti esistenziali che lavorano nel reale e anche dentro le specifiche competenze dei vari campi professionali. Insomma, l’intellettuale si caratterizza per la profondità e lo spessore umano e sociale in cui sa collocare le problematiche cui si dedica. Ben venga l’università capace di agevolare questo tipo di formazione. Ripeto però che non basta conoscere la storia della filosofia per essere intellettuali. Né la letteratura, né le arti. Né il diritto, né l’ingegneria, né l’urbanistica, né la fisica, né la biologia. Quello dell’intellettuale vero e non “tecnocratico”, per usare la giusta espressione di Chomsky, è un compito più sottile, che richiede altro dalla pura competenza disciplinare, per quanto alta voglia essere. E qui si torna al discorso sul processo democratico come luogo più autentico della cultura di un Paese, e alla responsabilità che tutti abbiamo di permettere a questo luogo di vivere. L’università può (e a mio avviso deve) dare il suo contributo a questa vita, ma non lo farà per tra- dizione, automaticamente, o per statuto: lo farà solo se sospinta da coloro che al suo interno sono davvero degli intellettuali, e ciò non accadrà senza contrasti. Anche perché la politica oggi nel nostro paese non vuole intellettuali veri, che per definizione sono critici, ma, appunto, gli intellettuali “tecnocratici” di cui parla Chomsky, che costituiscano gruppi di sostegno e propaganda. Quanto al caso del papa alla Sapienza, si tratta di un esempio, che si colloca ai livelli minimi della sopravvivenza del sapere. Voglio dire che le perplessità dei firmatari circa il ruolo inaugurale offerto a Ratzinger dal rettore erano il minimo che una comunità scientifica potesse e dovesse fare di fronte alla violazione di qualsiasi spirito scientifico contenuta nella dichiarazione di Ratzinger su Galileo. Una dichiarazione che assai più che al passato guarda al presente e al futuro, e che mostra un profondo disprezzo per l’intelligenza dell’uomo, che pure, per la tradizione ebraico-cristiana, è il dono precipuo che Dio ha fatto agli esseri umani, senza il quale l’umanità nemmeno esisterebbe e di conseguenza non avrebbe senso parlare né del Cristo né dell’intera tematica della salvezza. Credo che la Chiesa avrebbe tutto da guadagnare se ricominciasse a pensare, a questo e ad altri temi, come per esempio quello dell’evoluzionismo, ispirandosi ai suoi migliori teologi: penso per esempio a Pierre Teilhard de Chardin, gesuita, geologo e paleontologo evoluzionista di fama internazionale, nonché teologo e mistico di altissimo livello. Un intellettuale scomodo, che la Chiesa di Roma obbligò a vivere lontano (per lo più in Cina), arrivando perfino a chiedergli di bruciare i suoi testi di teologia, che non ebbe mai il permesso di pubblicare mentre era vivo. Per fortuna, consigliato da altri eminenti teologi, non lo fece. Sono un’eccellente lettura (per esempio, Il fenomeno umano) sia per i cristiani sia per i laici che vogliano incontrarsi con la parte più viva della teologia cattolica. E sono l’esempio della possibilità di una Chiesa molto diversa da quella oscurantista di oggi. Vandana Shiva Un occhio critico sulla globalizzazione di Camilla Spinelli Nei momenti più importanti della storia dell’uomo esistono dei personaggi che si distinguono per i loro pensieri, le loro opere o per la loro semplice voglia di mettere in risalto problemi che, senza un forte inter- vento, rimarrebbero sconosciuti alla maggioranza della popolazione mondiale. La globalizzazione è senz’altro un elemento chiave della modernità. Nel dibattito su questo tema fin Questa operazione introppo esteso, si divece di giovare alle vidono storici, scienfamiglie indiane, ha ziati, giornalisti, proportato alla perdita fessori universitari. della biodiversità, alDa una parte coloro l’incremento dell’inche la giustificano, quinamento delle acdall’altra coloro che que, attraverso lo scola disprezzano. lo di fertilizzanti e Vandana Shiva è uno pesticidi, e alla dipendei massimi esperti denza economica che di ecologia sociale nasce per ragioni di alla quale si devono forza tra contadini e proprio quegli studi multinazionali. I priche criticano il masmi si ritrovano a dosiccio intervento delver comprare i semi la globalizzazione geneticamente modinei paesi del cosidficati che purtroppo detto Terzo Mondo necessitano di pesticicome l’India, in cui Vandana Shiva è una fisica, un’economista indiana nonché di, erbicidi e macchilei è nata e cresciuta. uno dei massimi esperti di ecologia sociale, leader con ne agricole acquistaI suoi studi hanno lo Ralph Nader e Jeremy Rifkin, dell’International Forum on bili direttamente dalla scopo di mettere in Globalization. stessa multinazionale. risalto tutti quei proÈ direttrice della Research Foundation for Science, TechnoÈ un dato di fatto che blemi che le multinalogy and Ecology. questo meccanismo zionali occidentali Nel 1993 ha ricevuto il Right Livelihood Award e il Global genera dipendenza e stanno creando pro500 Annual dall’UNEP (United Nation Environment Promolti contadini sono prio in questo paese, gramme) e l’Earth Day International Award of the United costretti a vendere la distruggendo la bioNations (UN) per il suo continuo lavoro nella difesa e conpropria terra per ripadiversità terrestre e servazione del pianeta terra. gare i debiti. la semplice vita quoTra i suoi libri più conosciuti: Monocultures of the Mind: BioShiva critica fortetidiana dei contadini diversity, Biotechnology and Agricolture (1993), Biopiracy: the Plunder of Nature and Knowledge (1997), Stolen Harmente l’agricoltura o dei pescatori dei vest: The Hijacking of the Global Food Supply (1999), Globaindustriale che oggi si villaggi costieri. lization’s New Wars: Seed, Water and Life Forms (2005), è trasformata in una Per più di 10.000 anEarth Democracy; Justice, Sustainability, and Peace (2005). guerra contro gli econi gli agricoltori hansistemi; questo si può no lavorato con la osservare anche dai natura sviluppando nomi, strani e fuoriluogo, che le multinazionali attrimigliaia di varietà colturali adatte ai diversi climi e buiscono ai propri erbicidi: la Monsanto ha chiamato culture. Oggi questa enorme diversità è minacciata il suo Round – Up (Retata), mentre l’American Hodalla cosiddetta “pirateria genetica”: le monoculture me Products ha optato per Pentagon (Pentagono) e e i monopoli stanno distruggendo la ricca varietà di Avenge (Vendicare). semi che la natura e la cura degli agricoltori hanno L’India, come molti altri paesi del Sud del mondo, creato nel corso dei millenni. dovrebbe invece continuare ad avere un’agricoltura Shiva punta il dito contro il governo statunitense che basata sulla diversità, le decentralizzazione e il minegli anni Sessanta ha imposto all’India, con il sosteglioramento della produttività delle piccole aziende gno della Banca Mondiale, metodi di coltivazione agricole attraverso metodi ecologici. chimici e industriali sotto l’etichetta della RivoluzioOggi più che mai secondo la Shiva, siamo tutti parte ne verde. di questa macchina distruttrice: i governi del Nord All’inizio questa avrebbe dovuto rappresentare un apche impongono la loro agenda agli abitanti del Sud proccio innovativo alla produzione agricola, che attradel mondo, ma anche noi semplici cittadini proprio verso l’accoppiamento di varietà ad alto potenziale per il nostro atteggiamento di semplice distacco vergenetico e sufficienti input di fertilizzanti e altri proso tutti quei problemi che ci appaiono lontani geodotti, avrebbe dovuto garantire un incremento delle graficamente e “sentimentalmente”. produzioni agricole. Ma così non è stato. 15 16 «Tra cervello e cuore» Intervista a Oliviero Toscani di Alessandra Ciarletti Oliviero Toscani è nato a Milano e ha studiato fotografia alla Hochschule fur Gestaltung di Zurigo. I suoi lavori sono conosciuti e riconosciuti a livello internazionale e la sua forza creativa ha lavorato per i più famosi giornali e marchi del mondo. Per la United Colors of Benetton ha dato vita a immagini e strategie di comunicazione che hanno fatto scuola. Nel 1990 ha creato e diretto la rivista internazionale Colors; nel 1993 ha inventato e diretto Fabrica, un centro per le arti e la ricerca della comunicazione moderna, producendo libri, mostre, esposizioni e film. I suoi lavori sono stati esposti alla Biennale di Venezia, San Paolo del Brasile, alla Triennale di Milano e nei musei di arte moderna di Mexico City, Helsinky, Roma, Lausanne e Francoforte. Il suo lavoro contro la pena di morte è un’esposizione richiesta in tutto il mondo. Negli ultimi anni ha fondato un nuovo centro di ricerca della comunicazione moderna chiamato La Sterpaia. Vive in Toscana, produce olio di oliva e alleva cavalli. Nella sua recente campagna Nolita lei gioca con il significato e il significante, imprimendo alla pubblicità un carattere di denuncia di segno opposto. Perché ha scelto questo tema? Lavoro da anni sull’anoressia, ho anche girato un film su questo tema, Bianca, sedici anni, presentato al Festival di Locarno. È la confessione di una ragazzina di sedici anni da cui si capisce bene per quale ragione ci si ritrova a vivere quella condizione. Bisogna mostrare a tutti la realtà di questa malattia, nella maggior parte dei casi causata dagli stereotipi imposti dal mondo della moda, ma non solo. Anche la recente campagna Nolita si muove in questa direzione: ha fatto molto discutere l’immagine della ragazza anoressica ed è stata molto osteggiata, tanto è vero che a Milano è durata pochissimo e a Roma tre giorni in più. In Francia addirittura non hanno accettato l’affissione considerando l’immagine troppo forte. In ogni caso, per me, è molto interessante che finalmente proprio un’azienda di moda abbia capito l’importanza del problema, ne abbia preso coscienza e con coraggio rischi, facendo questa campagna. La pubblicità non deve uniformare, piuttosto deve essere in grado di destabilizzare. Di quelle immagini si è a lungo parlato, ma sulle strade non sono durate a lungo. Di quanta libertà dispone oggi un creativo eticamente attento e che prezzo paga? È dura perché non si possono fare delle cose, non dico che non facciano pensare, ma che non siano nelle norme del consumismo, dell’economia, del profitto e quindi del consumo. È molto difficile, perchè le istituzioni sono quello che sono e anche i committenti sono per lo più avvezzi a logiche di mercato. Devo dire che per quella che è la mia esperienza ho sempre avuto la fortuna di incontrare persone che capivano ciò che volevo dire e ho sempre disposto della mia libertà creativa. Ma per avere libertà, bisogna garantire ai committenti il pieno e talvolta non basta. I Benetton li ho arricchiti da matti eppure non è bastato perché di fronte alla mia campagna sulla pena di morte si sono ritirati. Il rischio viene sempre considerato una perdita; sostanzialmente non c’è coraggio, mentre la comunicazione e l’arte in generale, dovrebbero essere sempre coraggiose. In particolar modo, la comunicazione dovrebbe essere in grado di trovare nuove soluzioni senza trattare i problemi in modo problematico; essa dovrebbe mettere in evidenza i nodi sociali non ancora risolti. In questo senso si deve correre il rischio. L’arte è un rischio. Globalizzazione e censura, due aspetti che caratterizzano i nostri tempi.. Che ruolo è riservato all’arte? Può ancora denunciare o è ormai totalmente soggiogata a logiche di mercato? Parafrasando Pasolini, in un paese in cui si può tutto non si fa nulla, viceversa dove non si può nulla, si fa qualche cosa. C’è tanta gente che non vuole spostare il proprio punto di vista e i censori purtroppo sono dei subumani con una mancanza totale di creatività e di generosità nei confronti della vita. La storia non ricorda nessun tipo di censura che con il tempo si sia dimostrata intelligente. La censura è stupida, becera, violenta. Il ruolo dell’arte è un ruolo complesso, posso dire che quando è censurata ha fatto il suo dovere. L’arte deve traghettare, deve accendere la luce in nuovi spazi. Io non amo la violenza, anzi mi disturba molto, non la sopporto. Non guardo mai film violenti. Nella violenza manca completamente la bellezza della tragedia. Ma oggi nessuno vuole più vedere la tragedia. La condizione umana a volte è tremenda. Un’immagine non è mai scioccante, è la realtà che è scioccante. Lei ci ha abituato nel tempo a immagini scioccanti che se non sovvertono tutti i luoghi comuni, almeno li mettono in evidenza. Al di là di un’irrinunciabile inclinazione a una sana sovversione, quando crea pensa che la sua istanza di libertà possa essere utile a qualcuno? È innanzitutto utile a me e probabilmente a un’altra persona. Se ciascuno di noi riuscisse ad essere utile ad una persona soltanto, avrebbe fatto tantissimo. Se si riuscisse a fare del bene almeno a un’altra persona, il mondo in breve avrebbe il doppio delle cose che gli servono. L’arte è una questione di valori, se è solamente estetica è mediocre. A me interessa documentare l’uomo e la sua condizione, tutto il resto è cornice spesso evitabile. Quando creo non rinuncio mai alla mia etica, al mio modo di guardare, di essere curioso del mondo e della bellezza che contiene, spesso bellezza tragica. La curiosità non censura mai e si porta dietro il fardello del coraggio che fa mettere l’occhio dove la maggior parte della gente volta le spalle. La volontà di capire meglio le cose che accadono, sì, credo che questo sia il motore principale. Quale è la soddisfazione maggiore? La soddisfazione è come la creatività: deve essere una conseguenza. Io non mi sono mai definito un creativo, sono gli altri che lo dicono quando guardano il mio lavoro. La creatività è una conseguenza ed è in stretta relazione con la soddisfazione. In ogni caso io non ricerco consenso; la ricerca costante del consenso inizia dalla scuola: si studia per ottenere buoni voti non per imparare, ma del resto sono pochissimi i maestri che insegnano per amore dell’insegnamento, la maggior parte in realtà amano giudicare. Oramai si fa tutto per il consenso: ci si rifanno le labbra, i seni, il naso per ottenere consenso, per adeguarsi a un modello La campagna pubblicitaria Nolita di bellezza che non è la propria, si rinuncia perfino alla propria personalità fisica per conformarci a una bellezza commerciale, una bellezza definita dai mezzi di comunicazione di massa. Questo che ci dice? Che si vive in una costante paura di essere rifiutati. Benissimo. Io fortunatamente non ho questa paura. Mi propongo per quello che sono e se non piaccio non è un problema. Anzi devo dire che le critiche mi piacciono e mi fanno bene, mi fanno riflettere e tante volte capire qualcosa che magari mi è sfuggito. Nessuno è perfetto. Mi considero una persona particolarmente fortunata e privilegiata, innanzitutto per il periodo storico in cui sono nato e cresciuto, per le esperienze che ho maturato, per le cose che ho e comunque sia ci tengo a precisare che questa mia fortuna non ha mai corrisposto un favore politico. Da quando sono nato, non ho mai votato un partito che sia andato al governo. È incredibile! Credo che la politica sia una cosa fatta da imbecilloidi. Io appartengo sempre al 2%; in tutte le cose c’è il due per cento. Nella mia bottega vengono cento ragazzi, due hanno veramente talento…magari ce lo hanno anche gli altri, ma gli altri sono più attenti a riscuotere consenso, vogliono conformarsi al successo e per questo ricercano come prima cosa il consenso. In questo modo si va dritti verso la mediocrità. Immagini globalizzate: l’anoressica di Nolita e i corpi denutriti di molta parte del mondo. Percentuale di rischio di globalizzare, ovvero, sedare le coscienze? La pubblicità se ne giova? Tutto è pubblicità: il Papa che parla la domenica vestito di bianco è un comizio pubblicitario; in un certo senso la pubblicità l’hanno inventata loro, è la voce della cultura moderna. La Repubblica fa pubblicità a una certa politica, il Corriere a un’altra e L’Unità a un’altra ancora e via così. No? Dobbiamo smettere di ragionare a compartimenti stagni, a valori dati. Tutto è strumentalizzato in funzione del prodotto. Guardi che anche credere in Dio è un prodotto. Ormai la pubblicità condiziona il gusto, la cultura, la morale, l’etica della gente. Per un bambino la pubblicità è relativa al suo libro di scuola. Il messaggio cifrato, ma poi ormai mica tanto, è che si è ciò che si consuma, ciò che ci si mette addosso, quindi l’identità è diventata qualcosa di estremamente superficiale. Non ci si stupisce più di niente, travolti dall’effimero. Siamo anoressici, stiamo attraversando un pe- 17 18 riodo di anoressia culturale. Liquidiamo ciò che non comprendiamo nel modo più semplicistico possibile. Sono comunque ottimista, credo nell’evoluzione. Certo è che al momento c’è una predominanza di infelicità. Basta guardarsi intorno la mattina in tram: non si trova un volto felice. Non solo. Non ce ne è uno che emani voglia di vivere, solo sguardi feroci. Per quale motivo essere infelici? Io questo proprio non lo capisco. Si vive una volta sola e l’infelicità è un lusso che l’uomo in quanto tale non può permettersi. La mia grande fatica quotidiana nasce da una spinta contraria, dalla consapevolezza nitida di non voler essere assolutamente così. Per natura vado contro ai dati di fatto socialmente accettati: bisogna essere in un determinato modo, bisogna lavorare in tal altro. Ecco, neanche quando andavo al liceo riuscivo ad adeguarmi: capii in fretta che era molto più divertente andare al cinema e in quegli anni mi sono fatto una cultura cinematografica incredibile, la scuola non mi ha insegnato così tanto. Io conosco in prima persona tutti i film degli anni Cinquanta. Ho imparato l’inglese così. In sintesi, però, ero un autodidatta con un incredibile senso di colpa, perché non andavo a scuola e dovevo raccontare balle ai miei genitori, dovevo falsificare le assenze. A cosa non può rinunciare? All’istinto. Saper seguire il proprio istinto è una garanzia di felicità. Il resto ci porta all’infelicità. Certo non è facile ascoltarlo, bisogna imparare e non c’è nessuno che lo possa insegnare perché tutta l’educazione che riceviamo è volta a cancellarlo, a farci perdere questa fondamentale sensibilità. Viviamo in tempi di incertezza, il lavoro, l’ambiente minacciato, la salute precaria.. L’insicurezza cara alla creatività è stata soppiantata da una precarietà reale vissuta ogni giorno. Ne deriva una necessità contraria, di stabilità, di punti fermi che il sistema placa con analgesici effimeri che non fanno altro che dilazionare la sofferenza. La sicurezza non esiste, è una balla! È un’operazione di marketing. L’unica cosa certa è che moriremo. Bisogna quindi vivere fino a quel momento nel modo più allegro, civile e bello possibile. Senza avere paura. Bisognerebbe innanzitutto eliminare la televisione. Il fatto che esista non comporta necessariamente che bisogna averla. Io l’ho fatto tanto tempo fa. Non c’è bellezza, etica, energia vitale in queste facce da programmi demenziali intrisi di buonismo. La guerra dei marchi Il culture jamming come fenomeno di resistenza culturale di Lia Luchetti Nella società dei consumi, le deprecabili, non sono tutelati aziende hanno compreso da da alcun diritto sindacale e ritempo di poter avere accesso alcevono un salario insufficiente la realtà quotidiana dei consuper vivere. A tale sfruttamento matori attraverso il marchio o cercano di rispondere i gruppi brand, più che con il semplice di consumo critico, paragonati prodotto. Il marketing ha assunda Naomi Klein a un esercito to così un ruolo dominante nel armato di spilloni che vuole far sistema e la fase di produzione scoppiare i palloncini gonfi delle merci viene data in appalto d’aria (i marchi). Questi divera società d’oltreoceano (le cosi movimenti possiedono un siddette zone franche) che devoelemento in comune: la volonno produrre la merce al prezzo tà di andare oltre l’imperialipiù basso possibile, per lasciar smo del marchio per svelare spazio agli investimenti sul cosa c’è dietro le strategie di branding. Di qui la corsa verso marketing delle corporation. il cosiddetto “peso zero” (Klein, Il consumo equo e solidale e il 2000): chi possiede di meno e boicottaggio rappresentano una produce le immagini, anziché i modalità di resistenza culturale Spoof ad realizzato da Adbusters contro il clown prodotti, vince la corsa. fondata sull’utilizzo del potere All’interno di questi distretti Ronald testimonial di Mc’Donalds dei consumatori in termini di industriali si trovano fabbriche scelta o di rifiuto di un prodotto. Il commercio equo e solidale manifesta il potere dei dove milioni di persone, soprattutto giovani donne e consumatori di scegliere quali prodotti comprare. bambini, lavorano in condizioni di sicurezza e igiene Chiede maggiore dignidiamo il clown Ronald tà per il produttore, con l’adesivo grease cioè una retribuzione (unto) attaccato sulla dignitosa del lavoro, bocca, oppure la scena maggiore giustizia nel di un’operazione chirurcommercio, per valogica con in primo piano rizzare i costi reali di il grafico del monitor lavorazione, e maggiore che assume l’inconsueprotagonismo del conta forma di M (gli archi sumatore, per garantire d’oro del logo) perché il la trasparenza di tutte le paziente è stato colpito fasi commerciali. da “Big Mac attack”. Il boicottaggio consiste, Come non citare, poi, le invece, nell’interruzione falsificazioni della camorganizzata e temporapagna pubblicitaria AbBrand baby, spoof ad realizzato da Adbusters nea dall’acquisto di uno solut Vodka, che abbina o più prodotti per indural nome del noto alcolire le società, con un calo di vendite, ad abbandonare co una serie di vocaboli attraenti (absolut fun, absolut comportamenti scorretti che creano ingiustizia sociajoy, absolut party). Nelle mani dei jammers lo slogan le, impoverimento delle risorse e inquinamento. diventa, al contrario, Absolute end, con il profilo di Il movimento del culture jamming (in italiano interuna bottiglia disegnata per terra con il gesso, come ferenza culturale) comprende, soprattutto negli Stati fosse la scena un incidente stradale. Uniti e in Canada, diversi gruppi di attivisti che opeInfine, sono molteplici gli spoof ad che rispondono rano in risposta allo strapotere dei media e delle mulall’obiettivo di sabotare l’industria della moda, retinazionali mediante la manipolazione simbolica dei sponsabile di trasmettere l’ideale di «bellezza=snelmarchi. lezza=giovinezzazza» (Capecchi, 2006). Uno dei Le azioni dei culture jammers consistono nel capobersagli preferiti dai jammers è l’azienda Calvin volgere il significato dei repertori mediali utilizzando Klein. Nell’anti-campagna sul profumo Obsession il linguaggio stesso dell’advertising: i messaggi pubfor women, lo slogan è associato all’immagine di una blicitari, con un’operazione simile al bricolage sottodonna di spalle, piegata di fronte ad un water sul culturale (Hebdige, 1979) e al détournement (Depunto di dare di stomaco, simbolo di un rifiuto patobord, 1967), vengono spostati dalla loro collocazione logico del cibo che può insorgere adeguandosi ai moper essere inseriti in un campo semantico opposto. delli di femminilità imposti dal mondo della moda e Questa modalità di azione viene definita subvertising della pubblicità. (subvert+advertising). Anche Nike, prototipo di marchio svincolato dal proMovimento ispiratore di queste pratiche è la rivista dotto (Klein, 2000), non sfugge agli attacchi. Uno canadese Adbusters che, dal 1989, è celebre per gli spoof ad, ritratto della campagna di boicottaggio che spoof ad, le parodie di alcune pubblicità, di cui sfrutnel 1994 mise sotto accusa la Nike per le condizioni ta l’estetica riconosciuta e il simbolismo forte per codi lavoro nelle sue fabbriche asiatiche, mostra una struire un messaggio antagonista. Adbusters ha cosneaker nera su cui è scritto il prezzo in dollari pagastruito moltissimi spoof ad con la tecnica del subverto nei negozi per un paio di Nike ($250) e il costo eftising; tra i più esemplari ed efficaci vi è la corporate fettivo ($0,83) di quando esce da una sweatshop, una flag, la bandiera americana in cui le stelle degli Stati fabbrica subappaltatrice del terzo mondo. sono simbolicamente sostituite dai loghi delle più Il culture jamming non si manifesta, però, solo con la note corporation americane (Nike, Microsoft, Apple, tecnica del subvertising, ma è oggi una rete complesShell, Coca Cola, Mc Donald’s ecc.). sa che utilizza sempre più la rete per diffondere in I bersagli privilegiati di Adbusters sono le multinamodo capillare le sue campagne. Rientrano nelle zionali del tabacco, di alcool, del fast food e di moazioni di “guerriglia semiologica” (Eco, 1973) le tecda. È il caso delle “spubblicità” contro l’industria del niche di sniping attuate dai banditi dei cartelloni pubtabacco: il cammello Joe Camel, testimonial delle blicitari, come il Billboard Liberation Front, il media omonime sigarette, è ritratto come Joe Chemo in una hoaxing, come le beffe mediatiche realizzate da Luserie di parodie ambientate in un centro oncologico, ther Blissett o il caso Serpica Naro, la clonazione dei con il cammello malato terminale in preda ai rimorsi siti web, le azioni di sabotaggio degli stereotipi di per gli effetti dannosi del tabacco. genere, come le Guerrilla Girls, e molto altro ancoMc Donald’s, già oggetto di una durissima campagna ra. Gli attivisti, negoziando il significato degli enundi boicottaggio nel 1990 per i suoi messaggi pubbliciciati mediali (Hall, 1980), assumono il ruolo di attori tari ingannevoli sul cibo (il processo denominato Mc della comunicazione e dimostrano le possibilità di Libel) e nel 2004 protagonista del documentario Suresistenza creativa e artistica insite nell’utilizzo critiper size me, è travolta dalle azioni di subvertising. Veco dei repertori mediali. 19 20 Il giudice o lo storico? Nell’inchiesta italiana sul Sistema Condor le storie di venticinque desaparecidos e le responsabilità degli apparati repressivi latinoamericani negli anni Settanta di Federica Martellini Febbraio 2008. Il New York Times pubblica un articolo su un’inchiesta italiana. Nei due mesi precedenti giornali argentini, uruguayani, brasiliani si sono occupati dello stesso tema. L’inchiesta, che è partita dieci anni fa, indaga sulla cosiddetta Operazione (o Sistema) Condor, un accordo segreto stretto nel 1975 fra sei paesi latinoamericani (Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile) che istituì fra i servizi di sicurezza e di intelligence degli stati coinvolti – all’epoca tutti governati da regimi dittatoriali – una forma di collaborazione repressiva illegale, una fitta rete di scambio di informazioni sugli oppositori politici e un sistema di mutua collaborazione nella cattura, detenzione e trasferimento illegale di cittadini da un paese all’altro. Il supporto che gli apparati repressivi di ciascun paese assicuravano agli altri era logistico e operativo e implicò nella maggior parte dei casi la tortura e la segreta eliminazione dei detenuti politici. La fase istruttoria dell’inchiesta italiana sul Condor si è conclusa il 24 dicembre scorso con l’emissione da parte del G.I.P. Luisanna Figliolia di 140 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti ex dittatori, militari, agenti dei servizi di sicurezza e di intelligence che a vario titolo, in veste di torturatori, sequestratori, capi militari o cariche governative furono coinvolti, nell’ambito del Sistema Condor, nella scomparsa fra il 1974 e il 1980 di venticinque cittadini italo-argentini, italo-uruguayani e italo-cileni. Dora Marta Landi e Alejandro José Logoluso, argentini, 22 e 21 anni, arrestati nel 1977 ad Asunción, torturati dalla polizia paraguyana e scomparsi su un aereo della marina militare argentina. Alejandro era militante della Gioventù peronista, un movimento universitario, Marta solo la sua fidanzata. Le loro foto segnaletiche, le schede e i verbali sulla loro detenzione nelle carceri paraguayane sono riemerse quindici anni fa, fra i documenti del cosiddetto “Archivio del terrore”. La giovane maestra Maria Emilia Islas, sequestrata con il marito e la figlia Mariana di 18 mesi, lo studente di architettura e disegnatore Juan Pablo Recagno, il dirigente sindacale Gerardo Gatti, tutti vittime a Buenos Aires nel 1976 delle retate contro il P.V.P., un partito politico dell’opposizione uruguayana. Luis Stamponi, guerrigliero argentino arruolatosi nelle fila dell’E.L.N. boliviano e sua madre, la sessantaquattrenne Mafalda Corinaldesi. Queste alcune delle venticinque vittime per le quali si procede a Roma. E tuttavia il procedimento giudiziario italiano Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile sono i paesi coinvolti nel Sistema Condor non si limita alla ricostruzione dei casi individuali ma si propone di dimostrare la sistematicità delle pratiche repressive illegali e quindi le più ampie responsabilità degli apparati repressivi all’epoca vigenti nei paesi coinvolti arrivando a fornire, secondo Reed Brody, portavoce europeo di Human Rights Watch, citato proprio nell’articolo del New York Times «il più ambizioso quadro d’insieme tracciato fino ad ora sull’Operazione Condor». Dal punto di vista giudiziario la prima e più eclatante conseguenza dell’inchiesta italiana è stata l’arresto a Salerno, dove da qualche tempo si era stabilito, di Néstor Jorge Fernández Troccoli, ex agente dei servizi di intelligence del Fusna, un corpo speciale della marina uruguayana. In Italia Troccoli è indagato in relazione a sei dei venticinque casi presi in esame e su di lui pendeva già un mandato di cattura internazionale emesso dalla magistratura uruguayana. Ma gli effetti dell’Inchiesta Condor di Roma non dovrebbero tardare a manifestarsi anche in America Latina. Se è infatti assai improbabile che vengano concesse estradizioni (sia in Uruguay che in Argentina nel suo dorato esifra l’altro la giustilio brasiliano o Auzia sta procedendo gusto Pinochet, che nei confronti di persino dopo il clamolti di quei 140), moroso arresto a tuttavia qualcosa si Londra nel 1998, è muove: secondo riuscito sino alla fiquanto riportato a ne a sfuggire alla metà febbraio dal giustizia. quotidiano argentiCiò che è più imno Página 12 una portante sottolineaserie di militari non re è tuttavia che la ancora in carcere valenza dell’inchiepotrebbero rischiare sta italiana, come di finire agli arresti di altre analoghe in seguito alle ordiportate avanti negli nanze arrivate dalultimi anni (penso l’Italia. Fra i loro ad esempio alle innomi spicca quello chieste spagnole dell’ex generale arma anche ai procesgentino Albano si celebrati in FranHarguindeguy, micia e in Belgio e nistro degli interni agli altri processi durante la dittatura. già conclusi o in In Brasile invece, Gerardo Francisco Gatti Antuña, Juan Pablo Recagno Ibarburu, Alejandro José Logoluso Di Martino, Dora Marta Landi Gil, Edmundo Sabino Dossetti Techeira, corso di svolgimendove di fatto non ci Humberto Domingo Bellizzi Bellizzi, Armando Bernardo Arnone Hernandez, to a Roma) va al di sono mai stati pro- Raul Edgardo Borelli, Maria Emilia Islas de Zaffaroni, Hector Orlando Giordano là dell’orizzonte cessi, l’azione della Cortazzo, Ileana Sara Maria Garcia Ramos de Dossetti, Julio Cesar D'Elia puramente giudimagistratura italia- Pallares, Yolanda Iris Casco Ghelpi de D'Elia, Horacio Domingo Campiglia ziario. Per la possina sta provocando Pedamonti, Lorenzo Ismael Viñas Gigli, Mafalda Corinaldesi de Stamponi, Luis Faustino Stamponi Corinaldesi, Jaime Patricio Donato Avendaño, Raul Gambaro bilità che hanno di forti reazioni e Nuñez, Juan Josè Montiglio Murua, Juan Bosco Maino Canales, Maria Cecilia fare in qualche moqualche timore fra Magnet Ferrero, Guillermo Tamburini e Daniel Alvaro Banfi Baranzano e Omar Roberto Venturelli Leonelli dei quali non compare la foto do rete le une con coloro che erano le altre e di poter convinti di poter accedere a una mobeneficiare ormai le immensa di fonti, queste iniziative giudiziarie codell’impunità. Così ha commentato Jair Krischke, stituiscono importanti contesti di ricostruzione storipresidente del Movimento de Justiça e Direitos Huca. Gli atti giudiziari diventano a loro volta fonti manos dello stato di Rio Grande do Sul, in una repreziose che, intrecciandosi con il materiale prodotcente intervista: «l’iniziativa della giustizia italiana to da tutti quegli organismi e istituzioni che lavorano aiuta a sollevare quel velo di silenzio e oblio che si sugli archivi, selezionando documenti e producendo stava creando. L’impatto è stato molto forte e anche i dossier, vanno ad alimentare il patrimonio di conomezzi d’informazione stanno seguendo il caso con scenze storiche su capitoli drammatici della storia estremo interesse. Nei prossimi mesi, quando i due contemporanea e contribuiscono a stimolare la rirami del Parlamento torneranno a riunirsi, un senatoflessione. Una riflessione e un’attenzione che non rire ci ha già detto che chiederà alla Commissione diguardano soltanto il passato ma che dovrebbero parritti umani del Senato di convocare i militari coinvollare anche al presente soprattutto in un momento ti nel caso affinché diano una loro dichiarazione. La storico come quello odierno in cui, ad esempio, le costituzione non permette l’estradizione di un cittadiextraoridinary rendition sembrano tornate (o contino brasiliano, ma il potere giudiziario ha il dovere di nuano) ad essere una pratica diffusa e in cui però si giudicare questi criminali in Brasile e non può ignoha spesso la sensazione che notizie come queste rirare ciò che la giustizia italiana sta chiedendo». schino di passare sotto silenzio o, nel migliore dei Non saranno pochi forse i repressori che dovranno casi, di essere “digerite” dall’opinione pubblica (ma fare i conti con un pensionamento meno tranquillo di anche dalle istituzioni) come uno dei tanti effetti quello preventivato e di cui hanno finora potuto becollaterali di quella ipocrita e perversa esportazione neficiare personaggi come Alfredo Stroessner, il gedella democrazia che è forse, nelle sue molteplici nerale paraguayano che con una dittatura personale forme, una delle costanti più insidiose nelle relazioautoritaria e corrotta ha dominato per 35 anni il suo ni internazionali del nostro tempo. paese e che, novantaquattrenne, ha finito i suoi giorni 21 22 Jenoside in Ruanda: tra significanti globali e interpretazioni locali Il percorso linguistico del riconoscimento di una barbarie di Michela Fusaschi Da anni svolgo la mia ricerca di terreno in Ruanda sui temi dell’identità e della memoria, alla quale si è andata associando una collaborazione con l’Unatek di Kibungo, piccola università che ha stretto un accordo quadro con il nostro Ateneo, e la supervisione di un progetto di cooperazione locale decentrata sostenuto dalla Provincia di Roma. Nella primavera del 1994 in cento giorni questo piccolo paese nel cuore dell’Africa ha conosciuto la tragica esperienza di quello che sul piano internazionale, tardivamente, è stato riconosciuto come il terzo genocidio della storia dell’umanità. Accanto a una lettura esterna dei fatti del 1994, in un’ottica antropologica ho sempre ritenuto importante recuperare il punto di vista degli attori sociali per ricostruire le dinamiche di dominazione che hanno condotto all’agire genocidario. Per comprendere il carattere programmatico del genocidio ruandese occorre percorrere la storia del paese: la cosiddetta Rivoluzione sociale del 1959 e l’Indipendenza nel 1962 posero fine alla monarchia di espressione Tutsi. Gregoire Kayibanda fu proclamato presidente della prima Repubblica ruandese a seguito della vittoria del partito Parmehutu. Attraverso una politica etnicista, già attuata dai colonizzatori e confermata nella nuova situazione, si determinarono le condizioni della progressiva estraniazione della componente Tutsi, ritenuta nemica della nuova nazione che, da quel momento, si sarebbe fondata sul presunto primato storico dell’insediamento degli Hutu, riproposto a partire dal 1973 da Juvenal Habyarimana, secondo presidente della Repubblica e grande ispiratore dell’agire genocidario. Il 6 aprile 1994, l’attentato contro l’aereo di Habyarimana se- gnò l’inizio dei massacri, presentati come lo scatenamento incontrollato dell’ira popolare della componente hutu contro la minoranza tutsi. Solo in maggio, giunto sul posto, José Ayala Lasso, Commissario dell’ONU pronunciò la parola genocidio. Quasi tutti i media avevano parlato di lotte tribali o interetniche, di odi razziali e atavici, non spiegando adeguatamente le vere ragioni del conflitto. Un’ampia letteratura scientifica ha invece confermato che il ‘94 fu il tentativo della “soluzione finale” programmata da decenni e quando nel luglio la mattanza ebbe fine, circa un milione di ruandesi, tutsi e hutu moderati, avevano perso la vita alle “barriere” e in tutti quei luoghi nei quali avevano cercato rifugio. Se sul piano internazionale, la colpevole situazione di stallo fu direttamente connessa alla difficoltà politica di dare un nome alla barbarie, determinando un ritardo irreparabile nei soccorsi; su quello locale, per ben altre ragioni, si è discusso molto su come nominare quell’orrore. In kinyaruanda non esiste una parola per designare il genocidio anche perché come le ricerche storico-antropologiche hanno dimostrato Tutsi, Hutu e Twa non erano delle etnie: hanno condiviso per secoli lingua (kinyaruanda) e le medesime istituzioni culturali (ad esempio il matrimonio misto). La divisione etnica che si è realmente prodotta all’interno della società, creando le “etnie”, trova le sue origini proprio nella politica coloniale. A livello locale nominare l’innominabile è diventata una questione vitale per ottenere un riconoscimento delle vittime su scala globale dando così origine ad un interessante processo di costruzione di un vocabolario “glocale”. Nei primi anni del post genocidio venivano impiegate due parole: ishyano e itsembatsemba. Ishyano significa qualcosa di sorprendente e allo stesso tempo, traduce ruandese il concetto di geun’azione sconveniente, la nocidio che viene sempre sventura e la disgrazia. Itdeclinato in una forma unisembatsemba, è invece una ca e singolare, proprio coonomatopea che dal verbo me l’espressione Shoa tragutsemba esprime devastaduce inequivocabilmente la zione e annientamento. Ensingolarità del genocidio trambi i termini evocano lo degli ebrei. – dovrebbe sterminio, ma genericaItsembaúbw oko mente e quindi se ne scelmanifestare l’intenzione di sero altri due: itsembabari-costruire un’identità lo– tutsi e itsembaúbwoko. Il cale di visibilità globale, primo per designare l’ecciovvero quella della vittima, dio di un gruppo, i Tutsi. Il Una sopravvissuta racconta la sua testimonianza a Michela ri-utilizzando un termine secondo contiene il termi- Fusaschi dalla complessa stratifica– che può signifine úbwoko, zione semantica. Local– care categoria o specie, ma tradizionalmente si tramente però itsembaúbwoko, presenta problematiche duceva espressamente con clan (gruppo di disceninterpretative mentre a livello globale è difficile da denza che si riconosce in un capostipite comune, ancomprendere anche per la marginalità del Ruanda che mitico). Nella società tradizionale il clan comsullo scacchiere internazionale. prendeva tutti: Hutu, Tutsi e Twa; l’appartenenza ad Da qualche tempo pubblicamente è comparso un teruno dei molti clan definiva l’identità di un qualsiasi mine “glocale”: jenoside. Verosimilmente si tratta di ruandese, trascendendo la questione etnica, così couna “pidginizzazione” della parola che nelle lingue me si è conosciuta con la colonizzazione. Nel 1935, impiegate dalle grandi organizzazioni internazionali usando metodi arbitrari, i belgi eseguirono un censi(inglese e francese), si scrive quasi nello stesso momento fissando sulle carte di identità la menzione etdo, genocide e génocide e che, nel contesto ruandese, nica, quella per cui nel ‘94 si viveva o moriva, utilizè stata adattata alla fonetica del kinyaruanda sosti– zando proprio il termine úbwoko che da quel motuendo la lettera iniziale g con j e la lettera c con s. mento non significava più clan ma “etnia” o “razza”, Questo nuovo vocabolo, jenoside, a livello globale stravolgendo una realtà sociale plurisecolare e indovrebbe consentire un riconoscimento e una comcamminando, ora sì, le due “etnie” verso loro tragiprensione immediata, fornendo un’attestazione unico destino. versale del ’94; ciò consentirebbe di riconoscere an– Itsembaúbwoko diviene parola che i ruandesi nella che a livello locale le vittime della barbarie senza Conferenza Mondiale sul razzismo di Durban possibilità di equivoci, perché le identità implicano (2001), chiedono di utilizzare al fine di riconoscere una traduzione e una conversione in quanto sono un il loro genocidio a livello globale. Questo neologiessere per gli altri e la manifestazione delle identità smo, coniugando due espressioni dotate di un senso contemporanee non può che passare attraverso un autonomo, prova ad adeguare al contesto locale utilizzo di significanti globali. L’etnicizzazione del sociale Parla l’antropologo Jean-Loup Amselle di Michela Monferrini Qualche anno fa lei disse che la globalizzazione non è certo un fenomeno nuovo. Oggi, e sempre più, tale processo sembra crescere in maniera esponenziale. Lei è sempre della stessa idea? Effettivamente io credo che la globalizzazione attuale, ciò che chiamiamo mcdonaldizzazione, co-cocalizzazione, non sia un fenomeno nuovo. Ci sono state altre forme di globalizzazione, anche mol- to lontane nel tempo, come quella provocata dall’impero romano, o la diffusione di religioni universaliste come il Cristianesimo o l’Islam, che hanno rappresentato delle fasi di globalizzazione, in particolare per l’Africa, che io ho studiato a lungo. L’islam, in particolare, diffusosi nell’Africa subsahariana a partire dal decimo secolo, ha rappresentato una fase di globalizzazione nella misura in cui la diffusione della religione ha provocato una ridefinizione dei rapporti 23 24 Jean-Loup Amselle, al centro, con gli organizzatori della giornata, da sinistra Luigi M. Lombardi Satriani (Università La Sapienza), Michela Fusaschi e Francesco Pompeo (Università degli Studi Roma Tre) Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, direttore del dottorato in Antropologia sociale e Etnologia, redattore capo dei Cahiers d’études africaines e autore di numerose pubblicazioni, tra cui Logiche meticcie. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007), nelle quali si è occupato, tra gli altri argomenti, di multiculturalismo, subalternità, postcolonialismo, soffermandosi anche sulla riflessione antropologica contemporanea italiana. Il suo ultimo libro, ancora inedito in Italia, è L’occident décroché. Enquête sur le postcolonialisme. tra le società africane e ha portato ad Quanto ha da insegnare la storia una opposizione e distinzione tra le culturale africana all’Occidente? società musulmane e quelle non muQuesto è uno dei temi che affronto sulmane come quella pagana, quella nel mio ultimo libro, L’Occident défeticista, quella animista. croché, l’Occidente sganciato, indiDunque la globalizzazione attuale è cando l’esistenza di modi di pensare piuttosto originale, ma ci sono state diversi da quello occidentale: c’è un altre forme dello stesso fenomeno nei modo di pensare africano, uno asiatisecoli precedenti. co, uno latino-americano, e molti altri Se parlando di etnia si rischia di ancora. cadere in errore, di appoggiare viUno dei capitoli del mio libro si chiasioni filo-razziste della società, qual ma proprio Alla ricerca d’un paraè il nuovo concetto che in primo digma africano, e vi conduco l’analiluogo il mondo occidentale deve si di un istituto (Codresia, Consiglio apprendere? per lo Sviluppo delle Risorse EconoIl termine etnia può ricoprire un’ammiche e Sociali in Africa) che si trova pia gamma di significati, e ha valore a Dakar, in Senegal, la cui opera didiverso a seconda dei contesti, dei mostra l’esistenza della ricerca d’un periodi in cui lo si utilizza. Oggi si L’Occident décroché, l’ultima opera di senso sociale africano. Jean-Loup Amselle sente la necessità di destoricizzare il Questo per dire che ci sono diverse concetto di etnico e risituarlo nel solinee di pensiero, diversi paradigmi, ciale. e che il senso sociale non è uguale dappertutto, ma I Malinké, o Malinka, sono un popolo che abita, dal ciò non significa che possano esistere antropoloMedioevo, una regione del Mali, e il loro nome ha gie, sociologie, storie diverse: tutte le discipline sempre designato una classe di guerrieri. Successihanno una sola storia davanti, una sola origine, e vamente, con la colonizzazione, non solo i Malinké questa origine è strettamente legata alla terra afrihanno incominciato ad esser considerati un’etnia, cana. ma la nozione stessa di categoria sociale ha assunto Qual è stato, nei suoi studi, il passo in avanti che la valenza di etnia, collegandosi al significato di vuole rappresentare con questo suo ultimo liformazione politica: ogni chefferie (organizzazione bro? politica dell’Africa Occidentale tradizionale verticiQuest’ultimo lavoro si ricollega ai miei libri precesta spesso stereotipata dal colonizzatore, ndr.), stadenti. Nell’Arte africana contemporanea c’era già terello o regno africano, con la colonizzazione, è diuna riflessione su postcolonialismo e primitivismo, e ventato ciò che può definirsi un’etnia. Anche per questo ne è un po’ la continuazione. questo l’Africa è stata sempre considerata la terra, il Quel che ora vorrei dimostrare è che gli studi postcocontinente delle etnie e proprio per questo il termiloniali si riferiscono a un’antropologia e un’etnologia ne ha già subito una destoricizzazione: il significato desuete, molto contestabili. Le società di oggi hanno che aveva in altri luoghi, prima della colonizzazioinvece bisogno di un’antropologia più moderna, più ne, è stato dimenticato. contemporanea. Lectio Magistralis di Jean-Loup Amselle Venerdì 15 febbraio, presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, l’antropologo francese Jean-Loup Amselle, invitato dell’Osservatorio sul Razzismo e in occasione dell’assemblea generale dell’Aisea (Associazione italiana delle scienze etnoantroplogiche), ha tenuto la lectio magistralis dal titolo L’etnicizzazione del sociale, prendendo le mosse dal suo libro Au cœur de l’ethnie. Ethnie, tribalisme et État en Afrique (1985), ora pubblicato in Italia da Meltemi Editore col titolo L’invenzione dell’etnia. L’opera, firmata assieme a Jean Bazin, JeanPierre Dozon, Jean-Pierre Chrétien, Claudine Vidal ed Elikia M’Bokolo, analizzando la contemporanea realtà sociale africana, e particolarmente situazioni come quelle di Mali, Ruanda, Burundi, Congo, Costa d’Avorio, esprime il rifiuto del valore semantico che oggi si attribuisce a termini ed espressioni come etnia o identità etnica, termini ed espressioni nati assieme ad un’idea di minoranza e di discriminazione razziale, e che oggi, secondo lo studioso, non farebbero altro che rafforzare l’idea d’un’identità nazionale bianca dominante. L’idea di Amselle è che la lotta di queste minoranze stia oggi sostituendo le rivendicazioni sociali di cinquant’anni fa, e l’etnicizzazione del sociale sarebbe proprio la scomparsa dello Stato, delle grandi istituzioni di un tempo, dei partiti come macchina politica, nella battaglia dell’integrazione sociale. In particolar modo, in Francia, Amselle guarda con preoccupazione alla crisi e alla sparizione del Partito comunista francese, così come alla crisi della CGT, la più grande organizzazione sindacale francese, «crisi che nasce anche dalla constatazione della eterogeneità della classe operaia». In altre parole, lo Stato sembra oggi demandare il suo compito d’integrazione delle minoranze visibili a organizzazioni formate da microgruppi, che non sanno e non possono affrontare il problema se non ribadendo la loro identità etnica, spesso chiedendo l’aiuto a realtà religiose locali, quindi non facendo altro che aumentare il proprio livello di ghettizzazione, restando bloccate ai margini della società. Non solo. Perché lo Stato (francese, ma ci sono analogie con la situazione italiana, studiata da Amselle), starebbe prendendo una strada che l’antropologo non esita a definire razzista, e qui vengono citati ad esempio alcuni recenti avvenimenti francesi, come la creazione di un Ministero dell’identità nazionale, dell’immigrazione e del co-sviluppo, l’approvazione di una legge sull’immigrazione che include il ricorso ai test del DNA per i ricongiungimenti famigliari, la creazione dell’Istituto di ricerca sull’immigrazione e l’integrazione, presieduto dall’accademica Hélène Carrère d’Encausses, la creazione di una commissione dell’immigrazione per quote e la soppressione, da parte del Consiglio costituzionale, delle statistiche etniche. Lo studioso parla pertanto di biopolitica o politica di sorveglianza (riprendendo le espressioni di Foucault e di Agamben) ad indicare comunque «una situazione ai limiti della democrazia», in cui un governo tenta di mascherare qualcosa che è invece riconoscibilissimo, e cioè la presenza e la messa in atto di idee appartenenti alla destra estrema di Le Pen. Questo porta inevitabilmente ad un’errata interpretazione dei fatti politico-sociali, come la rivolta delle banlieues parigine del 2005, e ancor più quella del 2007. Ne è un esempio la dichiarazione di Hélène Carrère d’Encausses, secondo la quale a origine dei fatti ci sarebbe stata la poligamia delle famiglie di molti “ragazzi selvaggi”, cioè quei ragazzi che hanno partecipato attivamente agli scontri. Amselle evidenzia come, in realtà, ad abitare quelle zone siano sì persone di varie provenienze, ma di cittadinanza francese ormai da molto tempo, persone, francesi, che hanno la sfortuna di vivere confinate ai margini della società, in periferie degradate e senza prospettive. Il problema è sociale dunque, e non certamente etnicorazziale. E tuttavia, proprio presentando i problemi della nazione come problemi di derivazione razziale, si mascherano le tematiche sociali che andrebbero, ma non vengono, affrontate. Il pensiero di Amselle su questo punto è stato palesemente dimostrato, come lui stesso ricorda, durante le ultime elezioni presidenziali, in cui, paradossalmente, i candidati di destra e di sinistra, proponevano gli stessi temi politici: se Sarkozy, per la destra, proclamava di voler difendere l’identità nazionale francese, non diversamente faceva la candidata socialista Ségolène Royal. 25 26 «Occhiali scuri, non ci sono gli occhi» Storia di un disastro colposo. Bhopal 1984 di Alessandra Ciarletti 2 dicembre 1984. A Ram sembra una notte come tutte le altre, fuori un caldo tiepido, rassicurante. Si addormenta esausto. Dorme da poche ore quando sua madre lo sveglia tirandolo per un braccio. Apre gli occhi con difficoltà e una vampata di aria tossica quasi glieli incendia dentro. La madre lo trascina letteralmente fuori di casa e per le strade della città si sono già riversate centinaia di persone. La città è Bhopal, Madhya Pradesh, al centro dell’India e al centro del più grave incidente chimico-industriale della storia. In quella notte si riversarono nell’atmosfera calda della città circa 40 tonnellate di isocianato di metile (MIC), pesticida di ultima generazione prodotto dalla Union Carbide, una multinazionale americana. Ufficialmente quella notte circa 2.000 persone chiusero per sempre gli occhi. Stime non ufficiali si attestano sui ventimila morti. Il pesticida prodotto in questa zona verde dell’India avrebbe dovuto rendere migliori i raccolti nelle regioni meno fortunate del continente. Questa è la storia di una tragedia umana e di un degrado ambientale che fa seguito alla perdita economica. La storia si ripete spesso senza eccessivi guizzi di fantasia: una multinazionale investe un’ingente quantità di denaro in un paese “terzo” e il guadagno è garantito. I profitti però tardano ad arrivare e si inizia a disinvestire. Manovra veloce negli ambienti rarefatti dell’alta finanza con ricaduta letale nella realtà, fatta di impianti iper-tecnologici e produzione di prodotti chimici altamente instabili. Che ruolo gioca l’uomo “locale” in questo rapporto di causaeffetto? Come una vestale è lì che controlla e si accerta che tutto funzioni come gli hanno spiegato importanti ingegneri americani quattro anni prima, quando il presidente della Union Carbide premeva il bottone che avviava la produzione dell’insetticida indiano. Solo che i guadagni sperati non si verificano, perché in India il clima è imprevedibile: un anno non c’è acqua sufficiente e le colture muoiono, l’anno successivo ce ne è troppa. Così i contadini non sono in grado di garantire ogni anno lo stesso consumo di pesticidi. Già nel 1982 la crisi conduce a una repentina riduzione del personale specializzato, cir- ca il 40%. L’anno successivo si sospende la produzione del MIC, ma le quantità già prodotte restano stipate in serbatoi sotterranei. E le vestali? Non ci sono più, abbattute come costi superflui. La sicurezza, tanto cara all’inizio alla Union Carbide da farle donare all’ospedale di Bhopal le attrezzature necessarie in caso di contaminazioni gassose, diventa la prima voce di spesa da eliminare. Gli impianti di sicurezza vengono disattivati, dalla refrigerazione delle vasche del MIC fino allo spegnimento della fiamma pilota della torre di combustione. Le 63 tonnellate di isocianato “dormono”, stoccate nei serbatoi sotterranei, ormai privi di refrigerazione. Il 26 ottobre 1984, la fabbrica dalle uova d’oro viene chiusa. Non c’è neanche una testa d’uomo che si aggiri all’interno delle sue strutture. Fuori, tutto intorno, la città vive. La notte tra il 2 e 3 dicembre del 1984 all’esterno la temperatura si aggira intorno ai 20 gradi. Notte tiepida per quella latitudine, decisamente rovente per il MIC. L’isocianato è un composto organico dell’azoto, quasi incolore ma dall’odore pungente. Deve essere conservato a una temperatura non superiore a zero gradi. A contatto con l’acqua il suo stato liquido diventa gassoso. Tossico e irritante tanto da procurare una temporanea o irreversibile – dipende dai casi – cecità, ma anche difficoltà respiratorie, enfisemi, emorragie e morte. A Bhopal il MIC divenuto gas, quella notte non trovò valvole di sfiato e, saturate le condutture, esplose. Non si saprà mai il numero preciso delle vittime, perchè il vento soffiava da nord a sud, dalla fabbrica verso le bidonville. Accade così che l’acqua, elemento di vita per eccellenza, diventi vettore di morte immediata. Capita così che l’uomo piegato a logiche di profitto, smetta i panni del creatore e indossi quelli dell’homo homini lupus. Nel 1989 un accordo sancì che Union Carbide avrebbe pagato al governo indiano circa 470 milioni di dollari. Nel 1991 l’accordo fu riesaminato da un tribunale indiano che imputò alla Union Carbide e a Warren Anderson, presidente della multinazionale al tempo della strage, la responsabilità dell’esplosione sono di 500 volte superiori della fabbrica. Seguì un agli standard stabiliti dalprocesso al quale né la l’Organizzazione mondiale multinazionale né Anderper la sanità. L’intera zona son presenziarono. Furono non è stata ancora bonifidichiarati latitanti e succata. Per quel che ci è dato cessivamente la Union immaginare i corrugati Carbide fu venduta. Chi glocalizzati arriveranno comprò la multinazionale prima della bonifica. Incomprò al netto, lasciando tanto altre multinazionali le responsabilità sul piatto continuano per logica di della tara. Le vittime di profitto a voltare le spalle Bhopal, che da quella notalla sicurezza, altrove, in te si riverberano fino ad Due vittime del disastro. Bhopal, 1984 luoghi diversi, ma l’uomo oggi e chissà ancora per è ovunque lo stesso, come il cielo e il sole. quanti anni, chiedono giustizia. Quindicimila sono i Forse verrà un giorno in cui nessuno potrà più permorti stimati negli anni successivi al disastro, almemettersi il lusso di giocare nel giardino dei vicini, no centomila gli indiani che soffrono di malattie rel’ecosistema avvisa da tempo che è inesorabilmente spiratorie croniche, derivate da quelle ferali esaladanneggiato. Quel giorno, un pugno di uomini vorrà zioni. sedersi su un fazzoletto di terra, ormai privo di risorOggi la popolazione continua ad ammalarsi perché se. Si dirà poi che, troppo piccolo, sprofondò. l’acqua è contaminata, i suoi valori di inquinamento Il gran rifiuto delle ecoballe Il dramma napoletano come emblema di un sistema globale iniquo e scellerato di Valentina Cavalletti «La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio» (Ita- Sito di stoccaggio di ecoballe lo Calvino, Le città invisibili). Il rifiuto è un business in quanto circola, come le merci, si muove su camion che lo trasportano da un luogo ad un altro, entrando prepotentemente a far parte del mercato. Saviano con Gomorra ha sbiadito i contorni di uno scenario che avevamo soltanto vagamente intuito. La “munnezza è oro” perché instancabilmente produciamo rifiuti, che sono gli scarti delle nostre tavole, gli imballaggi dei nostri consumi, il simbolo del nostro sistema economico. Produciamo ricchezza procapite da cui generiamo inevitabil- mente scorie più o meno nocive. E se il prodotto interno lordo si misura sulla base delle merci che consumiamo e che ci scambiamo sul mercato, tanto più è alto il PIL tanto più alta sarà la merce che avremo consumato e di conseguenza la mondezza che avremo prodotto, non soltanto in termini di rifiuti solidi urbani ma anche in termini di inquinamento, di utilizzo sfrenato delle risorse, di consumo dell’energia. La vicenda di Napoli diventa emblematica da una miriade di punti di vista. Sta poi a noi evidentemente trarne degli insegnamenti. Napoli è finita sulle prime pagine di tutti i giornali e c’è chi grida scandalizzato alle ricadute negative in termini di immagine per il nostro bel paese. Ma il caso campano sembra piuttosto essere la dimostrazione di un meccanismo perverso, malato, e che a buon bisogno si ritorce contro la stessa specie umana che l’ha prodotto. 27 28 t’anni di sversamenti illegali «Dove portino ogni giorno il di rifiuti tossici provenienti loro carico gli spazzaturai nesdal nord e centro Italia (come suno se lo chiede: fuori della ben raccontato in Biùtiful città, certo; ma ogni anno la cauntri, film-documentario di città s’espande, e gli immonEsmeralda Calabria, Andrea dezzai devono arretrare più D’Ambrosio e Peppe Ruggielontano; l’imponenza del gettiro). I bambini, che giocano ad to aumenta e le cataste s’innalacchiaparella e a nascondino zano, si stratificano, si dispietra i cumuli di rifiuti; le dongano su un perimetro più vane e gli uomini del napoletasto. Aggiungi che più l’arte di no e del casertano, vittime di Leonia eccelle nel fabbricare un alto indice di mortalità nuovi materiali, più la spazzacausato da tumori e di un alto tura migliora la sua sostanza, tasso di malformazioni congeresiste al tempo, alle intempenite (come dimostrano i dati rie, a fermentazioni e combupubblicati nello studio Trattastioni. È una fortezza di rimamento dei rifiuti in Campasugli indistruttibili che circonnia: impatto sulla salute umada Leonia, la sovrasta da ogni na coordinato dall’Organizzalato come un acrocoro di monzione mondiale della sanità e tagne». pubblicato in italiano sul sito Sembra che ci vorranno oltre Locandina del film Biùtiful cauntri (2007) di web della Protezione civile 40 anni per smaltire le ecoEsmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe italiana). E perché Roma non balle che continuano ad accu- Ruggiero si senta esclusa, i bambini di mularsi nei siti di stoccaggio. un asilo nido comunale alle E tutto se ci fossero dei terpendici di Monte Mario, per fare soltanto un esemmovalorizzatori attivi, che di fatto sono invece in pio, possono vantarsi di avere come vicini di casa costruzione. E poi perché continuare a incentivare giardini che sono latrine a cielo aperto. I cittadini gli inceneritori, in completa controtendenza con il di paesi e città che hanno nome e cognome sulla resto d’Europa e del mondo? Gli inceneritori non carta geografica e che non fanno parte della letterarisolvono il problema ma più semplicemente lo tratura, come presagiva drammaticamente Calvino desformano. D’altronde in natura nulla si crea e nulla scrivendo Leonia. E il pensiero è una catena e non si distrugge. È un semplice principio della termodisi ferma. Non si può fermare, non si deve fermare namica. Non è vero che ciò che si brucia, se pur se vogliamo provare a diventare un paese civile. con tutte le norme di sicurezza, smaltisce i rifiuti L’emulazione è il fondamento di ogni buona educaproducendo energia pulita. Le sostanze bruciate a zione. C’è da imitare forse quel che accade nei 145 determinate temperature (meno di 900°) producono comuni campani, che nel 2006 hanno superato l’odiossina. Quelle bruciate alle giuste temperature biettivo minimo del 35% di raccolta differenziata (superiori ai 900°) si trasformano in nanoparticelle, previsto dal Decreto Ronchi (e di cui ben 75 comuche non riescono ad essere filtrate da nulla, neanni con percentuale al di sopra del 50%). «I comuni che dai nostri polmoni. Ma si continua imperterriti ricicloni – sottolineano da Legambiente – rappresulla strada, nonostante le relazioni di intellettuali sentano l’avamposto di una Campania più moderna e scienziati che certificano, se ce ne fosse bisogno, e più pulita: hanno imparato a trattare bene i rifiuti, quanto esemplificato perfettamente dalla normativa creando economia e lavoro. Insomma hanno saputo europea, che prevede nell’ordine: la riduzione, la trasformare i rifiuti da problema a risorsa. Nella raccolta differenziata e il riciclaggio, il recupero realtà la soluzione per uscire dall’emergenza esiste: energetico senza combustione (fermentazione estendere al territorio campano, cominciando da anaerobica della frazione organica) e, soltanto alla Napoli, l’esperienza dei comuni ricicloni, complefine di questo virtuoso ciclo integrato dei rifiuti, il tare l’impiantistica regionale realizzando almeno recupero energetico con combustione. Il problema 20 impianti di compostaggio e chiudere con i 14 è che le vittime di questa politica miope sono semanni di commissariamento che hanno deresponsapre e soltanto gli ultimi anelli della catena produttibilizzato la politica nazionale, regionale e locale». va. Chi campa con un orto o con un allevamento di La nostra mondezza può ritrovare da subito la propecore o di mucche. Che non può più vendere né le pria identità: rifiutarsi di trasformarsi in ecoballe e annurche né le mozzarelle di bufala e che per libecoscientemente accettare di riciclarsi per trasforrarsene ci deve scrivere sopra made in china. Le marsi in verità. pecore sono già morte di diossina a causa di tren- Gli OGM, pro e contro Intervista a Giulia Caneva e Paraskevi Tavladoraki a cura di Martina D’Ermo Qual è la giusta definizione di OGM? Lei professoressa è favorevole a questo tipo di biotecnologie? G.C. «Negli organismi geneticamente modificati viene inserito un gene che conferisce delle nuove proprietà ritenute utili all’uomo. Nel caso delle piante questi geni vengono generalmente introdotti con l’obiettivo che siano più resistenti a certe malattie o in Giulia Caneva grado di sopravvivere a temperature normalmente critiche, permettendo così una resa produttiva più elevata a breve termine. Per i motivi che esprimerò in seguito, io però sono sfavorevole a queste biotecnologie». P.T. «Un organismo geneticamente modificato (OGM) è un essere vivente che possiede un patrimonio genetico modificato tramite tecniche di ingegneria genetica che consentono l’aggiunta, l’eliminazione o la modifica di elementi genici. Le modifiche apportate al genoma dell’organismo, utilizzando questo approccio biotecnologico, sono facilmente prevedibili, controllate e selezionate, oltre che di piccole dimensioni. In realtà la modificazione del genoma delle piante è stata operata per secoli, prima dell’avvento dell’ingegneria genetica, tramite diverse tecniche. Una di queste tecniche è la mutazione casuale o indotta in seguito all’esposizione a radiazioni o a agenti chimici mutageni. Un’altra tecnica di manipolazione genetica degli organismi, oggi molto diffusa e che ha dato risultati molto buoni, è l’incrocio, non solo tra individui della stessa specie, ma anche tra specie per le quali è possibile riscontrare una compatibilità riproduttiva o per le quali è comunque possibile rimuovere le barriere di incompatibilità. Utilizzando queste strategie tuttavia, le modificazioni genetiche sono poco prevedibili e possono coinvolgere una estesa porzione del genoma. Inoltre, la selezione per il carattere desiderato è un processo laborioso e costoso. Sì, sono favorevole all’utilizzo delle biotecnologie in quanto possono avere innumerevoli applicazioni. In particolare, tanto per fare qualche esempio, le biotecnologie vegetali possono contribuire ad ottenere piante resistenti ai patogeni e vari stress ambientali, piante ad alto contenuto nutrizionale come anche piante in grado di produrre prodotti farmaceutici e vaccini edibili». Secondo alcune tesi scientifiche le colture alimentari geneticamente modificate potrebbero rappresentare un’importante risorsa nella lotta contro la fame. La cosiddetta Rivoluzione verde degli anni Sessanta e Settanta è riuscita a incrementare la produttività dei raccolti e ad aiutare milioni di persone a combattere la fame e la povertà. Ora si parla di un passaggio dalla Rivoluzione verde alla rivoluzione genetica, ma come possiamo assicurarci che i paesi in via di sviluppo e con problemi finanziari, riescano a istituire sistemi adeguati di valutazione dei rischi per l’ambiente e la salute umana, sia prima che dopo l’impiego delle biotecnologie? P.T. «Voglio innanzitutto precisare che la fame e la povertà in alcune zone del mondo non si possono di certo risolvere unicamente con le biotecnologie in generale e le biotecnologie vegetali in particolare. Anche se le biotecnologie vegetali possono contribuire allo sviluppo dei paesi poveri aumentando la produttività agricola, migliorando il valore nutrizionale del cibo e rendendo i paesi poveri autonomi nella produzione di cibo, sono assolutamente necessarie anche altre strategie di sviluppo, come per esempio investire sulle persone (istruzione, acqua, igiene, servizi sanitari), investire sulla crescita economica, creare condizioni politiche stabili, ridistribuire le risorse etc. In un tale contesto, l’istituzione di sistemi adeguati di valutazione dei rischi per l’ambiente e la salute umana provenienti dall’impiego delle biotecnologie non dovrebbe essere molto problematico. Inoltre, le conoscenze ottenute da analoghi sistemi di controllo effettuati dai paesi ricchi potrebbero rendere più semplici i controlli necessari nei paesi poveri. D’altra parte, in questi discorsi sulla valutazione dei rischi, bisogna prendere in considerazione anche la gravità della povertà. Se la mortalità della popolazio- 29 30 ne risultasse molto elevata, dovuta per esempio alla scarsità della produzione agricola per via dell’elevata siccità e salinità del terreno, come realmente accade in certe zone del continente africano, che senso avrebbe la valutazione del rischio quando con pochi semi di piante resistenti a queste condizioni si potrebbero salvare delle vite umane? Sopratutto alla lu- Paraskevi Tavladoraki ce del fatto che finora non è stato verificato scientificamente alcun rischio derivante dall’impiego delle biotecnologie vegetali». G.C. «Sono decisamente contraria all’ipotesi, perché non penso che gli OGM siano in grado di sconfiggere la fame e la povertà in alcune zone del mondo. Non voglio negare che in questo modo si potrebbe avere più raccolto e più produzione nell’immediato, ma perché compromettere l’equilibrio che lega le piante di ogni regione geografica con il loro ambiente? Ripeto, la produttività a breve termine è più elevata, ma bisogna anche tener presente da dove proviene il seme (spesso viene comprato da multinazionali) e i costi. Con queste tecniche esiste la necessità di acquistare i semi dai produttori non potendoli ottenere da scorte della produzione agricola, e questo è molto grave perché limita l’autonomia degli agricoltori e genera dipendenza dalle multinazionali fornitrici, per le quali il profitto è invece chiaro. Poi è necessario valutare la sostenibilità ambientale degli OGM. È questo un punto molto critico, perché anche la storia insegna che quando si è cercato di introdurre piante più produttive a scapito della diversità preesistente e degli equilibri ecologici del sistema, spesso si è andato incontro a crisi ancora più gravi. Basti pensare che l’introduzione di estese monocolture di patate in Irlanda, eliminando le colture tradizionali, giustificata per le stesse motivazioni di oggi – ridurre la fame e la povertà – ha invece determinato uno degli episodi più tragici della storia agricolo-economica del Nord Europa. L’attacco della peronospora, malattia fungina prima non conosciuta, che nella seconda metà dell’800 ha distrutto rapidamente ogni raccolto. Ciò, in assenza di fonti alimentari alternative e di mezzi di lotta al patogeno, ha provocato oltre un milione di morti di fame e un milione e mezzo di emigrati verso l’America su una popolazione preesistente di otto milioni. È invece importante mantenere la diversità genetica, come garanzia di un sistema che sappia reagire naturalmente a squilibri ambientali. Mi chiedo: perché non provare invece a imitare la na- tura e ripristinare gli ecosistemi in equilibrio con l’ambiente, in modo da diminuire i costi?» I risultati delle coltivazioni sperimentali di OGM sono stati chiari. In alcuni dei casi studiati, gli erbicidi adatti alle colture hanno danneggiato piante e animali che si trovavano nell’ambiente circostante. Una cosa che non ci dovrebbe stupire, visto che l’impiego di queste biotecnologie ci consente di far sì che le colture non vengano danneggiate da parassiti. Ma quali potrebbero essere i rischi per la salute di persone e animali che si nutrono di alimenti geneticamente modificati o a base di OGM? G.C. «I rischi degli OGM per quanto riguarda l’uomo non sembrerebbero molto gravi, però è bene dire che non sono neanche sufficientemente noti a livello scientifico; in altre parole non ne sappiamo molto. Per quanto riguarda l’ambiente, oltre al rischio collegato alla riduzione della biodiversità, fatto di per sé molto grave, va ricordato che gli OGM sono un potenziale elemento di squilibrio, un potenziale rischio ambientale, che al momento non siamo in grado di valutare appieno. Le informazioni attualmente disponibili non sono infatti ancora adeguate, in quanto certi fenomeni si devono valutare a lungo termine e in situazioni ambientali diversificate». P.T. «Le molteplici ricerche che sono state effettuate e che tuttora si stanno effettuando non hanno evidenziato per la salute delle persone e degli animali alcun rischio generalizzato dall’applicazione delle biotecnologie vegetali. Non è stato evidenziato alcun rischio anche dai prodotti specifici attualmente rilasciati sul mercato. Questo non esclude la possibilità che nel futuro un nuovo prodotto biotecnologico provochi dei problemi alla salute degli animali. Per esempio, quando una proteina viene espressa in un nuovo organismo potrebbe diventare un allergene, anche se le conoscenze dei ricercatori permettono la possibilità di prevedere un tale evento. Per questo motivo, ogni nuovo prodotto OGM deve essere analizzato (come in realtà attualmente accade) prima del suo rilascio sul mercato». Queste colture possono andare incontro a un’impollinazione incrociata con altre piante, con conseguenze imprevedibili? Non rischiano di diventare una minaccia per la biodiversità e per l’integrità degli ecosistemi? P.T. « L’impollinazione incrociata delle piante OGM con altre piante non OGM non si può escludere e po- trei asserire che questa possibilità forse rappresenta l’unico rischio reale dell’impiego delle biotecnologie vegetali. Tuttavia, non per tutte le piante questa possibilità rappresenta un vero rischio. Dipende dalle caratteristiche di dispersione e di sopravvivenza del polline, la compatibilità o incompatibilità sessuale tra le piante, l’ecologia delle piante che ricevono il polline OGM e infine il tipo di modificazione genetica avvenuta. In tale maniera, la minaccia per la biodiversità e l’integrità degli ecosistemi diventa remota, ma va tenuta in considerazione. In ogni caso, si può drasticamente ridurre la possibilità di impollinazione incrociata utilizzando specifiche pratiche di coltivazione delle piante, come per esempio evitando la coltivazione di piante OGM vicino alle regioni dove crescono i loro parenti selvatici, lasciare tra i vari campi agricoli zone non coltivate da piante OGM. D’altra parte l’impiego di piante OGM può portare benefici all’ambiente in generale e alla biodiversità in maniera più specifica, come per esempio salvare specie vegetali in via di estinzione, diminuire la quantità di pesticidi e fertilizzanti utilizzati, limitare lo sfruttamento dei terreni e dell’acqua». G.C. «Alcuni incroci casuali con piante selvatiche sono stati osservati sperimentalmente, sia pure con bassa frequenza. È difficile, per i motivi sovraesposti, valutare l’effettivo rischio anche perché bisognerebbe differenziare un tipo di OGM da un altro». Il cibo, le abitudini alimentari, le tradizioni gastronomiche, tutto il settore delle economie agroalimentari affondano le proprie radici e sono una parte importante delle identità culturali e sociali di aree geografiche e comunitarie. Una diffusione su vasta scala e a livello planetario delle colture geneticamente modificate non rappresenta anche una pericolosa spinta verso l’omologazione, la standardizzazione, la perdita di identità? G.C. «C’è un’ulteriore perdita di biodiversità, un rischio da non trascurare, uno smarrimento di culture e tradizioni che non si devono tralasciare. Se non si evitano questi fenomeni, si potrà avere uno sradicamento dell’uomo dal suo contesto territoriale, perché se se ne fa un uso massiccio ogni zona diventerà uguale alle altre e le nazioni perderanno la loro agricoltura tradizionale e il loro paesaggio tipico, frutto dell’interazione atavica fra uomo e natura, con conseguenze a vari livelli. Oltre all’aspetto identitario che ogni luogo deve conservare, proprio facendo leva sugli aspetti economici che giustificano l’introduzione degli OGM, si deve osservare che, nel caso di usi indiscriminati e non attentamente calibrati, esiste il potenziale rischio di perdite di tipo economico per quanto riguarda il turismo, come ad esempio la perdita di paesaggi agricoli spesso fortemente caratterizzanti un territorio (es. oliveti tradizionali, sistemi terrazzati misti, agrumeti, vigneti), che sono essi stessi un attrattore turistico. Dobbiamo invece evitare l’omologazione e combattere affinché la diversità si conservi in ogni suo aspetto». P.T. «Anch’io credo che le abitudini alimentari sono una parte importante dell’identità culturale e sociale delle varie aree geografiche e vadano sempre tenute in considerazione. Per questo motivo ritengo che sia molto importante che le biotecnologie vegetali si applichino su piante di interesse locale ed è di fatto questo che si sta cercando di ottenere in vari paesi in via di sviluppo. In questa maniera si garantisce anche un elevata produttività agricola, utilizzando delle varietà adattate alle condizioni ambientali locali, nonché lo sviluppo di ricerca autonoma». Roma Tre e la ricerca L’anno accademico 2007-2008 è stato per Roma Tre l’anno della ricerca. Il nostro Ateno ha organizzato infatti su questo tema quattro giornate di approfondimento e di riflessione. Gli incontri si sono svolti a partire da febbraio 2007 e fino al 6 marzo scorso e sono stati dedicati rispettivamente alla programmazione e valutazione della ricerca, alla sua valorizzazione economica, alla formazione e avviamento ad essa e alle strutture e ai supporti. Nel corso dell’ultimo appuntamento ci si è interrogati sullo sviluppo delle diverse fisionomie dei Dipartimenti, sul rapporto tra autonomia, iniziativa del centro e esigenze provenienti dall’esterno e fra Dipartimenti e Facoltà, sul ruolo del centri di ricerca, delle biblioteche, dei laboratori, degli uffici amministrativi e di supporto. Sono intervenuti, oltre al Magnifico Rettore Guido Fabiani e al Prorettore alla ricerca Renato Moro, Mario De Nonno, coordinatore del collegio dei direttori di Dipartimento e Alessandro Verra, direttore del Dipartimento di Matematica. Hanno inoltre partecipato alla tavola rotonda Alfonso Miola, coordinatore della Commissione ricerca 2 del Senato Accademico, il Direttore Amministrativo Pasquale Basilicata, e i direttori di Dipartimento Renato Funiciello, Elio Matassi e Andrea Vidotto. Tutti i materiali relativi alle quattro giornate sono disponibili on line, sul sito web di Ateneo. 31 32 Roma: città eterna o metropoli globalizzata? Intervista all’assessore uscente all’urbanistica Roberto Morassut a cura di Federica Martellini incontri Roberto Morassut riveste dal 2001 l’incarico di assessore all’urbanistica e alle politiche di programmazione e pianificazione del territorio del Comune di Roma. Anche prima di rivestire responsabilità dirette di governo si è occupato a lungo di Roma e del suo territorio. È stato vicepresidente del comitato promotore per la candidatura olimpica dal 1996 al 1997. Come consigliere comunale si è occupato della riforma del trasporto pubblico locale, delle aziende di servizio pubblico e della riforma amministrativa di Roma Capitale e della Città Metropolitana. Durante il suo assessorato ha condotto i lavori che hanno portato all’approvazione del nuovo piano regolatore. Secondo quanto emerge dall’annuale rapporto del l’UNFPA, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, nel 2008 per la prima volta nella storia dell’umanità la popolazione globale che vive nelle città supererà quella insediata nelle campagne. L’era della globalizzazione è anche l’era delle città e delle megalopoli. Quanto è importante il ruolo delle amministrazioni locali e in particolare di una città come Roma che ha, se così si può dire, una vocazione globale ante litteram, nell’attenuare l’impatto dei processi globali e in particolare nell’affrontare problemi legati alla vivibilità come l’inquinamento, l’abitabilità, l’inclusione e l’esclusione? Non è un mistero che Roma aspiri a essere una grande città internazionale, ossia a entrare nella rete delle altre aree urbane per divenirne un nodo essenziale. Il nuovo Piano Regolatore è stato disegnato con l’occhio a questo obiettivo: basti vedere quanto si è investito sul tema dell’accessibilità, sulla dotazione infrastrutturale, sull’accoglienza, sulla crescita socio-economica. Guai a ritenere, peraltro, la globalizzazione un male in sé. Le opportunità che essa offre sono davvero infinite, e una città come Roma non può ritrarsi dinanzi a queste chance e alle risorse che ne derivano. Il punto è un altro, e riguarda l’identità urbana, che per Roma (la città eterna) è davvero un tema capitale. Con molta probabilità, l’Urbe, tra le grandi città, è quella a più alta, diciamo così, densità storica. Ciò implica grandiose responsabilità per chi la governa. E così, accettare la sfida della globalizzazione ne comporta anche un’altra, di sfida: ossia la salvaguardia dell’identità urbana. Io credo che l’identità non sia una questione astratta, mitica, letteraria. L’identità è un fatto reale, e riguarda l’anima quotidiana di una città: ciò vuol dire tutelare l’ambiente, i parchi, il verde, le ville storiche; preservare le vestigia storiche; migliorare giorno dopo giorno la qualità della vita; equilibrare e risanare l’ambiente urbano; conservare la comunità locale, secondo un altissimo indice di “inclusione”. Grandissima e duplice sfida, dunque. Di una cosa sono certo. Lo skyline di Roma resterà lo stesso. Non accadrà quel che è accaduto e sta accadendo in altre grandi metropoli, che stanno assumendo una conformazione sempre più simile tra loro, al punto da renderle indistinguibili sotto certi aspetti, a causa di oggetti architettonici o soluzioni urbane standardizzate e globalizzate. Il suo assessorato si è fatto promotore del rilancio della grande architettura a Roma, dall’Auditorium alla Città dei giovani, nell’area degli ex Mercati generali, dalla nuova Fiera di Roma all’ultimo progetto messo in cantiere, il Ponte della Musica al Flaminio. Quanto è difficile portare avanti progetti di modernizzazione senza perdere il senso di un patrimonio storico, architettonico, culturale e umano come quello di Roma? Lo dicevo prima. Si tratta, in generale, di una doppia sfida: internazionalizzazione e modernizzazione, da una parte – tutela e salvaguardia, dall’altra. Globalizzazione verso l’esterno – inclusione e composizione sociale, invece, all’interno. Sappiamo bene che “aggiungere” oggetti urbani di qualità al tessuto esistente significa promuovere uno sviluppo che potrebbe portarci anche lontano dal nostro più tipico modello urbano (ormai millenario). Tuttavia, Roma deve costruire (e sta costruendo) una propria via alla modernizzazione, il cui esito sarà quello di collocarla con successo nel novero della grandi metropoli, senza che essa perda alcuna delle qualità storico-ambientali che la contraddistinguono. In certe occasioni la sfida parrà davvero complessa. Prendiamo il caso dell’Ara Pacis, e dell’alto grado di innovazione che essa ha introdotto in quel quadrante del centro storico. Io sono certo che questa immissione di grande architettura (e di sviluppo urbano) nei tessuti cittadini sia assolutamente indispensabile; e sia un ingrediente ineliminabile perché Roma possa davvero tutelare e rafforzare la propria identità. La modernizzazione è una componente essenziale dell’identità urbana, e quest’ultima non è un dato statico, ma un processo storico in cui l’innovazione è, appunto, una componente ineliminabile. Si è parlato e si parla molto della cosiddetta “cura del ferro” ovvero dell’incentivazione del trasporto su rotaie e del conseguente sviluppo di una rete metroferroviaria più efficiente. In una città da questo punto di vista molto difficile come Roma a che punto è il percorso verso una mobilità che sia il più possibile sostenibile per l’ambiente e per i cittadini? Quindici anni fa il gap infrastrutturale tra Roma e il resto d’Europa era davvero abissale. Si trattava di porre le basi di un nuovo sviluppo. Dovevamo, in sostanza, quasi partire da zero. Oggi la situazione è migliore, ma nei prossimi anni cominceremo a raccogliere la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Rispetto al 1993, la metro A è stata ristrutturata e ha nuovi treni. La metro B sarà prolungata da Piazza Bologna a Conca d’Oro (i lavori sono in corso). La rete tranviaria è stata integralmente ristrutturata, e oggi disponiamo di una linea moderna in più, l’8. Sono anche nate le ferrovie metropolitane, e oggi fanno rete all’interno del sistema metrebus, accanto alle metro e alle ferrovie in concessione. La metropolitana C, la linea più grande d’Europa, è in cantiere. La D è in fase avanzata di progetto. L’Atac non è più la vecchia azienda malandata di qualche anno fa, e la rete dei bus è stata integralmente ridisegnata. Sono fatti. Che preludono ad altri fatti futuri. Abbiamo messo in movimento un meccanismo virtuoso, che migliorerà senz’altro l’accessibilità e la mobilità romana. Negli ultimi quindici anni l’Università Roma Tre è stata uno degli attori principali, in collaborazione con il Comune, della valorizzazione e riqualificazione del territorio nell’area Ostiense - Marconi. Questa esperienza può rappresentare in qualche modo un modello della collaborazione fra istituzioni nel processo di rilancio e rigenerazione di alcune zone della città e in particolare di quelle più periferiche? Non esagero a dire che un aspetto essenziale del nuovo modello romano risiede nell’intreccio virtuoso tra crescita urbana, risanamento e sviluppo del sistema universitario, formativo e culturale in genere. Roma Tre è davvero un paradigma: un’università che cresce sull’onda della riqualificazione del quartiere e che promuove lo sviluppo prima ancora di trarne vantaggio. L’Università non diviene un volano di sviluppo urbano solo in astratto e in linea di principio, ma traina, sospinge, promuove concretamente la crescita e la riqualificazione urbana. Al vecchio modello speculativo, alla crescita disordinata, all’espansione a macchia d’olio, abbiamo sostituito un modello di sviluppo sostenibile: cultura, formazione, ambiente, rete su ferro, crescita equilibrata, policentrismo urbano. È il pregio essenziale del nuovo Piano Regolatore. Ed è anche il lascito principale che lasciamo a Roma. Sostenibilità e riqualificazione dell’ambiente urbano Conversazione con Andrea Vidotto, Direttore del Dipartimento di progettazione e studio dell’architettura di Camilla Spinelli Quando si parla di sostenibilità in architettura, quali sono le problematiche che si vanno ad affrontare? Sicuramente il tema della sostenibilità è molto ampio e abbraccia più ambiti che si manifestano anche nella varietà di ricerche affrontate nel nostro Dipartimento. Oggi però, si può notare una differenza rispetto a quello che facevamo una decina d’anni fa. Mi spiego: prima eravamo orientati a prendere coscienza delle ricerche che si stavano facendo in Europa, relativamente alla sperimentazione di progetti riguardanti insediamenti edilizi orientati a dimostrare la loro sostenibilità dal punto di vista energetico. Adesso invece, sviluppiamo ragionamenti e affrontiamo tematiche 33 34 che prendono in esame aspetti più circoscritti; parlo di tutti quegli studi che oltre alla riqualificazione dell’ambiente urbano si occupano in modo specifico dell’“involucro” dell’edificio. A questo proposito, il dottorato del Dipartimento di Progettazione e studio dell’architettura in Progetto urbano sostenibile, credo pren- Andrea Vidotto da in esame proprio questo problema. Si, in questo dottorato cerchiamo di orientare la ricerca dei giovani in modo tale da poter affrontare tematiche che abbiano un’applicazione pratica. Come in molti altri paesi europei anche in Italia possiamo constatare che gran parte dei nostri edifici urbani sono malati dal punto di vista energetico e anche degradati dal punto di vista estetico. Il tema del recupero della qualità e della conservazione fisica è diventato predominante. Se consideriamo gli edifici d’abitazione, una parte importante della “cura” deve riguardare l’identità dell’edificio, la facciata, la sua pelle. Massicci interventi innovativi diventeranno sempre più indispensabili. Quando per esempio si sente parlare di “facciate verdi” ci si riferisce a soluzioni che sono molto interessanti e sofisticate ma che non sono altro che lo sviluppo della tradizionale schermatura “verde”, realizzata sulle facciate di una casa, che contribuisce a purificare l’aria e a limitare la trasmissione termica rispetto a quello che accade per un edificio che si scalda costantemente sotto il sole. Prospetto sud della Vasca Navale Come vede studiamo i temi della sostenibilità per risolvere problemi di carattere generale attraverso processi e procedure adatti ma ci occupiamo anche di come l’ambiente urbano possa essere riqualificato se per esempio lo si vuole trasformare, con progetti adeguati, in un ambiente a misura di bambini, di anziani ecc. Parlando più in generale, come sta affrontando questo problema l’Italia? Il nostro paese dovrebbe cambiarsi la testa. Oggi il problema del consumo energetico è gravissimo. Sprechiamo moltissimo negli edifici che realizziamo e non abbiamo messo in atto una politica di trasformazione nel modo di costruire. Non ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di utilizzare il sole rispetto alla maggior parte dei nostri partner europei, i quali peraltro ricorrono alle energie rinnovabili con l’uso di dispositivi energetici diversi e facendo molta sperimentazione. Per comprendere problematiche così estese credo sia ancora utile fare un esempio. In Italia non si pensa al fatto che quando una parte del patrimonio pubblico, penso alla case popolari, viene venduto agli abitanti si potrebbero preventivamente concordare azioni collettive di responsabilità per farsi carico della riqualificazione dell’edificio in cui si vive. Curarlo dal punto di vista energetico dovrebbe essere uno degli obiettivi principali. Mano privata e mano pubblica si dovrebbero unire per finanziare la realizzazione di operazioni di manutenzione straordinaria sull’edificio ai fini del risparmio energetico. Dal punto di vista teorico questo discorso è giusto, ma nella maggioranza dei casi le famiglie non riescono a “vedere” il risparmio che si ha se si sceglie l’energia rinnovabile. Il problema infatti è far partecipare il cittadino al “gioco” serio della sostenibilità. Anche considerando questioni minime bisognerebbe facilitare un controllo più accessibile per poter tenere d’occhio mensilmente i consumi dell’elettricità, del gas, e dell’energia usata per il riscaldamento di casa. Introdurre questi dispositivi aiuterebbe molto a capire che una certa spesa d’investimento iniziale - finalizzata al risparmio - può dare successivi vantaggi e farebbe vivere meglio. Come si sta muovendo l’Università Roma Tre nel campo della sostenibilità? Abbiamo progettato per l’Ateneo una serie di edifici che hanno caratteristiche tali da essere considerati sostenibili a pieno titolo. Parlo di nuove sedi per laboratori di ricerca nella zona del Valco S. Paolo, dell’ampliamento della ex Vasca Navale per i dipartimenti di Ingegneria, di un edificio destinato a case per studenti finanziato dall’ADISU. C’è stata da parte nostra molta attenzione sull’uso delle energie rinnovabili. Saranno edifici dotati di dispositivi per la captazione dell’energia solare, ciò significa che useranno questa energia a proprio vantaggio e riusciranno anche ad immetterne il surplus nella rete pubblica. Inoltre sono edifici molto ben schermati dal sole e potranno contare per il ricambio dell’aria e anche per il raffrescamento estivo su soluzioni di ventilazione naturale. È nostro intento procedere ad un affinamento della qualità ambientale complessiva del Valco, con il disegno di tutte le aree pubbliche e di connessione fra i diversi edifici. L’Ateneo ha le migliori opportunità per confermare il suo ruolo di protagonista dello sviluppo urbano sostenibile in una parte importante della città in cui si è già insediato e dove estenderà la propria identità architettonica. Resta il fatto che ai fini della sostenibilità uno degli obiettivi principali è quello di realizzare operazioni di carattere simbolico. Bisogna far sí che questi temi, questi slogan, diventino realistici, concreti, visibili e percepibili dalla gente. Bisogna sperimentare per convincere. C’è una cultura del vivere e del consumare che va cambiata e questo si può ottenere se si effettuano interventi che abbiano una forte capacità paradigmatica. Globalizzazione ed ecumenismo Intervista ad Andrea Riccardi, docente di storia contemporanea e fondatore della Comunità di S. Egidio a cura di Michela Monferrini La globalizzazione è un’ottima occasione di scambio interculturale e di dialogo tra popoli o un pericolo per il riaffermarsi di certe correnti che di fronte alla convivenza cercano di ribadire la propria identità culturale e soprattutto religiosa? La globalizzazione è innanzitutto un fatto, un dato storico, non una scelta. Se ne discute ormai da quasi vent’anni, poiché il fenomeno ha tratto enorme impulso dalla caduta del muro di Berlino e la fine del sistema co- Andrea Riccardi munista, ma esso ha radici molto più antiche, che rimandano persino al tempo dell’Europa del Cinquecento o della conquista dell’America. Certo l’accelerazione contemporanea, dovuta alla straordinaria mobilità e alla rivoluzione tecnologica e telematica, è stata impetuosa. Dunque va accettata e non demonizzata. Occasione di scambio o pericolo? È entrambe le cose. Certo, la globalizzazione favorisce la rinascita dei nazionalismi e dei fondamentalismi, ma il vecchio patriarca Athenagoras, erede di una tradizione ecumenica cristiana e bizantina, diceva: «tutti i popoli sono buoni, ognuno merita rispetto e ammirazione». In lui, pulsava una visione universalistica dell’uomo e delle nazioni. In un mondo frammentato e globalizzato come quello contemporaneo, non riterrei negativo a priori cercare di ribadire la propria identità. È necessario sapere chi si è. Il fatto è che si tratta di un processo aperto, che include le proprie origini e tradizioni, ma anche il confronto con la contempo- 35 36 raneità. E la mia identità non è mai contro gli altri, ma sempre accanto agli altri. Perché la convivenza genera paura, e dunque chiusura, scatenando il fanatismo? È a causa della scarsa conoscenza dell’altro, di un’errata educazione alla coabitazione? A tutti i livelli e di fronte alle situazioni più diverse, ci si ripete la domanda: come vivere insieme? Se la pongono politici e intellettuali; ma la sentono l’uomo e la donna comuni, che osservano le vicende quotidiane e si ritrovano senza una soluzione ai problemi e senza un ideale di società. Eppure la realtà è che, mentre ci rivolgiamo questa domanda, noi già viviamo assieme, a tante latitudini. Oltre alla coabitazione con l’altro, fatta di vicinanza fisica e geografica, si realizza una convivenza virtuale, per cui la vita, la cultura, i gusti degli uni raggiungono quelli degli altri attraverso i canali della globalizzazione. Le tradizioni e i sapori si mescolano nel mondo globale. I viaggi portano gli uni nei paesi degli altri. L’emigrazione crea legami profondi. La mobilità degli uomini, delle loro idee e delle loro abitudini, non conosce confini. Vivere insieme è un destino inevitabile, anche se non sembra sempre rassicurante. La comunicazione tra l’Occidente e il cosiddetto Terzo Mondo è un dialogo o un monologo? Quanto avrebbe da insegnare all’Occidente un continente come l’Africa, crogiuolo di culture? Dopo la lunga e contrastata vicenda storica del colonialismo, che, pur tra tante nefandezze, è stata portatrice di uno sguardo dell’Europa verso il continente africano; esauritasi la fase del confronto tra i due imperi, in cui l’Africa era un terreno rilevante di posizionamento strategico, oggi i due mondi sembrano aver perso interesse persino alla comunicazione stessa tra di loro. Quali i motivi di questo “black out” tra Europa e Africa, che si consuma negli anni Novanta? Si esaurisce, con l’allontanarsi dal colonialismo, il “senso di colpa” europeo: le nuove generazioni europee sono ormai distanti dall’avventura in Africa e hanno, nonostante la globalizzazione, meno legami e meno senso di responsabilità verso il continente nero. D’altra parte anche gli africani, specialmente quelli più giovani, vivono oggi come un senso di rivalsa nei confronti degli europei e sembrano dirci: lasciateci stare, non vogliamo i vostri modelli o i vostri consigli, l’Africa agli africani! Io invece sostengo da tempo che il futuro dei due continenti è quello di uno spazio e di un destino comuni, per questo parlo di Eurafrica. Il passato coloniale, la comunanza di lingue e culture, la vicinanza geografica, l’immigrazione, legano indisso- lubilmente Europa e Africa. Lo spazio euro-africano è una realtà della storia e del futuro. Basterebbe il dialogo interreligioso a risolvere la situazione mediorientale? Il mosaico mediorientale è molto, molto complesso. Certo un dialogo appassionato, franco, sincero aiuterebbe molto e costituirebbe un grande sostegno per quei cristiani che, in Libano, in Turchia, in Iraq, in Siria, in Palestina, sentono di non avere, di fronte a situazioni difficili e dolorose, altra alternativa se non la fuga. La situazione dei cristiani d’Oriente è ancora ricca, ma anche complessa, sofferta: nasconde in sé potenzialità grandi. Questi cristiani non sono solo le vittime dell’intolleranza musulmana, ma sono una grande chance per il mondo musulmano, per non essere solo con se stesso. La scomparsa dell’altro non è soltanto la sua fine, ma anche la fine della base per la convivenza pacifica e la democrazia. Il dialogo tra la Chiesa e la popolazione, credente e atea, è corretto o la recente protesta di studenti e professori contro la visita del Papa all’Università La Sapienza dimostra che c’è un problema? Se un Papa, o chiunque altro al suo posto, non può far visita tranquillamente alla più antica istituzione universitaria romana, allora vuol dire che l’università italiana non è libera, il che mi pare grave. In realtà, questo Papa, fine teologo ed intellettuale, ha tutte le carte in regola per continuare ed approfondire una delle migliori eredità del Concilio, a cui il suo predecessore Giovanni Paolo II ha dato grande impulso, cioè il dialogo con i non credenti e con il mondo della cultura laica. Il dialogo tra laici e cattolici è una delle sfide fondamentali di questo nuovo secolo perché è la strada, forse l’unica, che può allontanare conflitti laceranti e distruttivi della stessa convivenza umana. Del resto, la modernità e il progresso, se da una parte hanno favorito una comprensione più profonda della realtà, dall’altra hanno riversato sull’uomo contemporaneo una mole di paure e di angosce, senza peraltro il sostegno di quei valori che davano senso alla vita. Oggi la questione etica torna con forza all’attenzione degli spiriti più attenti, proprio per l’urgenza di porre un argine alla crescita di un individualismo generalizzato, che percorre trasversalmente individui e collettività e che conduce inesorabilmente a una società conflittuale, dove il più forte ha sempre ragione sul più debole. Questa è la posta in gioco e mi pare che valga la pena di affrontarla con tenacia ed umiltà, al di là delle polemiche di cortissimo respiro, che lasciano sempre il tempo che trovano. La lotta delle donne zapatiste, tra rivoluzione e autodeterminazione Ramona vive nel primo incontro delle donne zapatiste con le donne del mondo Las mujeres luchando, el mundo trasformando dal Chiapas, Monica Pepe Murales, Caracol Oventic Incontro internazionale delle donne zapatiste con le donne della società civile poter sviluppare la loro personalità. Un po’ alla volta si sta modificando la pianificazione familiare: anche nei villaggi gli uomini le lasciano frequentare le clases de salud y de educación, occupandosi loro dei bambini, degli animali e di tenere pulita la casa». Il suo castigliano è eccellente. «Prima di ogni cosa le donne devono imparare a parlare la lingua che consente loro di studiare e di fare politica attiva all’interno delle Giunte»; mostra orgogliosa i libri di anatomia e di medicina che è riuscita a raccogliere in questi anni. «A La Realidad ogni tre mesi organizziamo un corso di ostetricia e ogni due mesi uno per il primo soccorso. È molto importante che tutte sappiano fare della piccola chirurgia, sapere con quali erbe curare le malattie di base, fare pronto intervento agli incidenti dei contadini. D’altra parte noi non abbiamo il diritto e la possibilità di usufruire degli ospedali del mal governo messicano. Ma siamo riusciti con il tempo a costruire nostri ospedali e presidi medici, anche se per gli interventi chirurgici dobbiamo attendere che arrivino medici del mondo sviluppato». Molte indigene impiegano tre giorni di cammino e di camion per raggiungere il caracol, «ma non ci rinuncerei per niente al mondo» dice Maribel. L’umanità con cui Pervinca le guarda rende l’incontro qualcosa di molto diverso da una lezione. E la semplicità mentre spiega che devono conoscere il loro corpo, decidere loro quando avere figli - in media ne hanno sei e chiedere ai loro mariti di avere una sessualità più responsabile e attenta ai loro desideri regala a tutte reportage «Che scienza è senza umanità? Non comprendo perché le persone che hanno studiato non vogliano condividere la conoscenza con le popolazioni indigene che ne hanno bisogno. L’Università della Selva comunque è qui che ti aspetta, quando vuoi tornare sarai la benvenuta». È Consuelo a parlarmi, una promotora de salud avanzada di La Realidad, cuore del territorio zapatista, uno dei cinque caracoles che riuniscono il territorio delle comunità rivoluzionarie del Chiapas. A La Realidad si arriva dopo almeno otto ore di viaggio e di strade sconnesse, ripagati da una vegetazione dirompente e mozzafiato. Non c’è tragitto in cui i ‘carros’ non si fermino almeno una volta per essere immediatamente riparati dagli stessi conducenti zapatisti, sempre con un sorriso. Ho trascorso alcuni giorni a La Realidad con la carovana dell’associazione Ya Basta che da anni porta avanti il progetto di una turbina ecocompatibile che produce energia elettrica e rende autonomo il caracol. La forma di buon governo delle comunità zapatiste lotta dal 1994 per la completa autonomia dal governo messicano e organizza con grande determinazione il sistema scolastico e sanitario in tutti i municipi e nei villaggi. Consuelo non è sposata, studia da autodidatta da circa venti anni. Pervinca, la ginecologa italiana della carovana che è lì per insegnare alle altre promotoras de salud è impressionata dalla sua preparazione. «In Italia saresti una grande professoressa» le dice con convinzione. «La salute delle donne è molto importante - risponde sorridendo Consuelo - e gli uomini sono sempre più consapevoli che le donne devono 37 38 Alle loro spalle un’enorme un sorriso. Quando scatto bandiera dell’Ezln con il le foto, sempre dopo avere benvenuto alla Selva Lachiesto il permesso, ridono candona e all’Altra Campaschermendosi e tirandosi gna. La prima delegazione su la bandana rossa per coè quella delle donne de La prirsi il volto. Garrucha: sono responsabiLascio La Realidad con il li regionali, rappresentanti ricordo di un paradiso neldelle Giunte del Buon Gola selva, prati immensi cirverno della Comandancia condati dalle case di legno dell’Ezln, promotrici di sacon i murales più belli che lute ed educazione. Nei tre abbia mai visto, il fiume giorni si succederanno popolato dalle indigene le delegazioni delle zapatiche lavano i panni, una Le donne zapatiste raggiungono in fila il luogo dell’incontro ste degli altri quattro carapartita di pallone con i coles. A scandire le pause bambini zapatisti, le stese lo stesso stacco musicale che diventerà la colonna sodi chicchi bianchi di caffè rivolti al sole. nora dell’incontro, le donne zapatiste in fila indiana Eppure anche in questo paradiso le incursioni dei midevono essere sempre le prime ad entrare e lasciare la litari messicani sono molto frequenti e si stanno faplenaria. L’atmosfera è magica, l’energia travolgente cendo più minacciose e violente in tutto il territorio. soprattutto grazie alla Comandanta Ramona, scomparAnche quando all’inizio del viaggio eravamo diretti sa lo scorso anno, a cui è dedicato l’incontro. Quasi alla Garrucha siamo stati fermati dai militari. È un tutte le zapatiste ricordano nei loro interventi questa gioco delle parti. Loro sanno perfettamente perché piccola grande donna - al tavolo dei negoziati i suoi sei lì e del tuo sostegno ai zapatisti, ma vogliono piedi non toccavano il pavimento - che al matrimonio guardarti in faccia e sperare che qualcosa non vada preferì la lotta per il suo popolo e contro la globalizzaper il verso giusto. Un ragazzo della carovana si volzione. Il suo mestiere diceva era di svegliare la gente e ta verso di me, mi chiede di tirargli su la zip della il 1° gennaio 1994 era al comando degli indigeni che felpa senza farmi vedere. Sotto ha una maglietta delconquistarono San Cristobal de Las Casas. È questa la l’Ezln, l’Esercito di Liberazione Nazionale Zapatista data in cui gli zapatisti, con armi di fortuna e pochi e i militari non apprezzano. L’Ezln è stato il primo mezzi, sono insorti contro le persecuzioni e le umiliaesercito rivoluzionario a nominare donne, lesbiche e zioni del mal governo messicano occupando più di 80 trans come propri referenti. villaggi per difendere i diritti e la cultura indigena, e Stiamo raggiungendo il ‘Primo incontro delle donne costringendolo a trattare. zapatiste con le donne del mondo’, tre giorni dedicati «Noi donne zapatiste uniamo la nostra forza e dimoal protagonismo politico delle donne nell’esperienza striamo ai nostri compagni che non siamo utili solo in zapatista e saranno solo loro a parlare. Agli uomini è cucina e in famiglia, ma possiamo svolgere qualsiasi stato richiesto di servire la comida, tenere in ordine compito all’interno della comunità e abbiamo diritto l’accampamento e pulire le latrine, ma all’interno al nostro salario. Abbiamo la responsabilità della sadello spazio del dibattito non sono ammessi. lute collettiva, dell’istruzione, dell’agricoltura e lavoEntriamo nel caracol de La Garrucha ed è la prima volriamo con gli uomini negli organi politici del Buon ta che un luogo mi investe di così tante emozioni e teneGoverno». Le loro parole sono semplici e penetranti rezza. Sotto un sole battente una moltitudine di indigeni «Educhiamo i bambini e le bambine ad aver rispetto e indigene colorate e laboriose lavorano in decine di tra di loro, formiamo militiendas di legno per accoziane e miliziani. Il 1° genglierci e preparare i pasti: naio del 1994 come donne tortillas, huevos, frijoles. zapatiste abbiamo dimoL’incontro è già cominciato strato al mondo intero di ed entro nell’enorme fabaver lottato per recuperare bricato di legno, ci saranno la nostra madre terra, toalmeno 1000 donne da tutgliendola ai latifondisti che to il mondo, i ragazzi risfruttavano il lavoro dei mangono ai margini esterni contadini indigeni. Lottiacome gli fanno presente le mo per fermare la privatizzapatiste. In fondo il palco zazione e contro il capitalicon il tavolo da cui parlano smo». Prende la parola almeno 40 indigene, giovaMarina, una bambina di ni e anziane, in abito tradinove anni anche lei con il zionale e passamontagna. Murales, Caracol La Garrucha passamontagna, che proclamandosi orgogliosamente zapatista dichiara tra l’entusiasmo generale «non accettiamo briciole né elemosine dal mal governo». La lotta clandestina prima dell’insurrezione, la Ley Revolucionaria de Mujeres di Ramona e il sangue versato da molte di loro hanno trasformato la condizione delle donne nella comunità. La loro partecipazione in massa al levantamiento, in una società pervasa da un machismo imperante come quello messicano, è stata una rivoluzione nella rivoluzione. Oggi le donne rappresentano un terzo dei militanti dell’esercito ribelle. All’interno della struttura militare e della dirigenza politica, le zapatiste possono essere insurgentes donne guerrigliere che vivono sulle montagne sempre in armi, comandanti civili con incarichi di natura politica, miliziane, cioè donne addestrate a combattere in caso di necessità. La base di appoggio femminile, rappresentata da tutte le donne dei villaggi zapatisti, ha il compito di rifornire gli insurgentes. Molti interventi raccontano la condizione delle donne prima dell’insurrezione. Ester, Amalia, Eugenia e le altre ricordano le violenze e lo sfruttamento dei latifondisti messicani quando lavoravano nei campi. Non avevano diritti e se partecipavano a una delle loro assemblee, non sapendo parlare il castigliano, venivano umiliate dai loro stessi compagni. «Bambini in spalla lavoravamo dall’alba alle dieci di sera e quando tornavamo a casa dovevamo Le donne zapatiste e Mafalda occuparci di tutto senza mai poter uscire di casa. Il giorno dopo aver partorito dovevamo subito riprendere il lavoro, eravamo trattate come bestie». Ne hanno fatta di strada le donne zapatiste. L’alcol è rigorosamente proibito in tutto il territorio ed è stata una loro vittoria, dal momento che gli uomini spesso tornavano a casa ubriachi e le picchiavano. «Grazie al lavoro collettivo abbiamo imparato a leggere e scrivere e stiamo imparando anche l’inganno delle parole del mal governo». Molte insistono sulla forza della comunità, «la società è fatta di donne e uomini, di anziani e bambini. Solo tutti insieme potremo farla progredire». Se una di loro è in difficoltà con la lingua o troppo emozionata nel parlare, si alza immediatamente un’altra compagna per aiutarla a finire autonomamente l’intervento. La loro sorellanza è la loro forza. Non posso fare a meno di ridere guardando di tanto in tanto il murales alla destra della presidencia con una guerrigliera armata e la scritta No anorexia, Si cellulitis. Le zapatiste sanno usare internet e conoscono bene le distorsioni della nostra società capitalista. Il loro senso dell’umorismo è grande anche quando alla fine delle singole sessioni danno la possibilità alle donne della società civile del mondo di fare delle domande. Rigorosamente per iscritto attraverso biglietti che dall’ultima alla prima fila vengono passati di mano in mano. Una domanda parla complicato e di sovrastrutture politiche, la compagna Ofelia guarda le altre e dice con bonaria sufficienza «questa non si capisce, passiamo alla prossima». Tutta la sala scoppia a ridere. Qualcuna chiede come si comportano quando una di loro subisce violenze dal marito. Sandra risponde ferma «È compito di tutte le donne zapatiste sorvegliare che le altre compagne non subiscano più violenze dai loro mariti, provando a intervenire. Se un uomo persiste nelle violenze viene punito dalla giustizia zapatista»; si ferma qualche secondo «ma sappiamo che molte donne nel mondo, anche nei paesi più avanzati, subiscono violenze e discriminazioni. Vi invito compagne della società civile del mondo ad unirvi e globalizzare la nostra lotta». Due panche dietro di me ci sono le donne di Atenco, tutte impugnano un machete brandendolo in alto per tutti e tre i giorni senza mai abbassarlo. Applaudono gli interventi delle compañeras zapatistas, facendo sbattere le lame tra di loro tanto da risuonare in tutta la sala. Ad Atenco non lontano da Città del Messico, nel maggio del 2006 una brutale repressione del governo messicano contro i venditori di fiori e i contadini del Fronte dei Popoli in difesa della Terra provocò l’arresto di centinaia di persone, tra cui quarantasette donne molte delle quali denunciarono violenze sessuali da parte delle forze dell’ordine. Con la profonda convinzione che la terra non si vende, le donne di Atenco scesero per le strade armate di machete per esprimere il proprio dissenso alla espropriazione dei territori voluta dal Presidente Fox e contribuirono alla vittoria. La loro testimonianza è coraggiosa e vibrante, «se proveranno ancora a toglierci la terra noi continueremo a resistere lottando. È la loro parola contro la nostra, loro hanno armi e lacrimogeni ma quello che abbiamo noi è molto più potente: il diritto e la ragione». Alcune di queste donne però sono ancora in carcere. Il loro grido risuona forte per tre volte nella sala «Por las presas polticas, libertad!». E la sala esplode «Ramona vive, la lucha sigue!». 39 40 L’impero del socialiberismo Ovvero quando il dragone si accorge che invece che su una sedia di legno è meglio sedersi su un divano di pelle (finta) dalla Cina, Indra Galbo Un viaggio in Cina, per noi europei, è un viaggio verso qualcosa che sentiamo lontano sia dal punto di vista linguistico che culturale. È una di quelle esperienze che ti fanno guardare dentro e ti pongono solo domande alle quali difficilmente riesci a dare subito una risposta. Da questo punto di vista il mio viaggio non ha fatto eccezioni. Ai primi giorni di euforia e curiosità sono seguiti lunghi momenti di riflessione, di analisi, di dubbi. Prima di partire ero felice all’idea di avere come destinazione Xi’an in quanto pensavo che, a differenza della Pechino delle Olimpiadi o della Shanghai dei super grattacieli, fosse ancora un po’ salvaguardata dalla Xi’an, vista dal Grande Muro macchina globalizzatrice che sta portando la Cina ad essere vittima e carnefice di questo sistema. Invece già percorrendo il traXi’an, negozi su Chang an Lu gitto dall’aeroporto alla città, vedendo una moltitudine di fabbriche alle quali seguivano interminabili filoni di case popolari, mi sono reso conto che anche Xi’an, così come altre importanti città, è nel bel mezzo di quella che il Partito Comunista Cinese afferma essere una rinascita economica, ma che in realtà sta producendo, in proporzioni maggiori, le stesse disuguaglianze sociali che già possiamo vedere nel resto del mondo. Ma facciamo un breve passo indietro. Dal 1978, dopo la morte di Mao (1976), il PCC abbandona l’ideologia marxista-leninista in favore di una nuova da esso creata e chiamata socialismo cinese che afferma di poter coniugare il comunismo con l’economia di mercato. Qui inizia quello che può definirsi un vero e proprio caos politico-sociale in quanto, convinzioni politiche personali a parte, è semplice capire che questa sorta di ibrido socio-economico in realtà è una vera e propria menzogna. Con le promesse di ricchezza, di prosperità e di sicurezza, in Cina è stata operata la più meschina operazione di ingegneria politica del dopoguerra caratterizzata da interpretazioni alquanto distorte sia dell’ideologia marxista sia, in forma minore, di quella liberista. Ma cosa hanno di distorto questi due modelli ormai fusi nella realtà cinese? Per quanto riguarda quello marxista c’è da dire che i cinesi lo studiano fin da piccoli a scuola, ma il fatto incredibile è che lo apprendo- no senza studiarne l’autore principale: in sostanza analizzano il pensiero marxista-leninista senza studiare Marx. Anche un bambino comprenderebbe che la cosa è alquanto strana: è un po’ come studiare la matematica senza saper contare. Ovviamente ai futuri cittadini non viene spiegata né l’equazione merce-denaro-merce che nel sistema capitalistico diventa denaro-mercedenaro, né il concetto di alienazione dell’operaio e nemmeno l’impossibilità dell’avvento di un sistema capitalistico a seguito di una rivoluzione popolare. Si studia quindi un pensiero politico distorto adattabile alle esigenze del momento storico che però di comunista ha ben poco. Per quanto riguarda il modello liberista la sua distorsione riguarda fondamentalmente la sua negazione: sulla carta la Cina è un paese comunista non liberista. Negando ciò la classe dirigente e imprenditoriale può così usufruire di tutti i vantaggi economici del nuovo capitalismo senza però essere obbligata a rispettarne gli obblighi che comporta. Cosa comporta questa mescolanza di sistemi politici? Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: condizioni di lavoro atroci e pericolose, repressione, controllo dei media, sfruttamento indiscriminato delle risorse, inquinamento, autodistruzione della propria identità culturale, pena capitale ed uno stato sociale praticamente assente. A volte viene istintivo pensare come sia possibile che la popolazione possa vivere con delle condizioni come queste; questo però è un falso problema in quanto la popolazione, intesa come corpo sociale, non riesce a percepire queste conseguenze come Xi’an, fabbriche e abitazioni eventuali cause di problemi rilevanti, bensì vede questo come un periodo di passaggio, una sorta di fase transitoria che li porterà ad un futuro prospero e felice. Questa futura prosperità sembra già essere la protagonista se si fa una chiacchierata con un qualsiasi cinese: le prime tre domande che vi verranno fatte saranno 1) come ti chiami 2) da dove vieni 3) quanto guadagni. Infatti, un’altra cosa che è cambiata in Cina negli ultimi due decenni è la percezione della funzione del denaro all’interno della società: il modello consumistico obbliga inevitabilmente ad una interpretazione della realtà diversa dal passato perché diverse sono le modalità e gli scopi di utilizzo della moneta. C’è chi afferma che l’avvento del modello liberista porterà con sé anche uno sviluppo democratico e politico, ma questo appare alquanto improbabile in quanto è opportuno ricordare che la Cina è coinvolta in questo processo da una ventina d’anni e di riforme democratiche e diritti ancora non se ne è vista l’ombra. Si potrebbe completare questo pensiero dicendo anche che forse tutto ciò fa comodo e fa parte del gioco. Se infatti da noi determinati diritti e tutele per i lavoratori sono stati conquistati al prezzo di dure lotte politiche e sociali e si è quindi tenuti a rispettarli, è facile per un imprenditore spostare mezzi di produzione e capitali dove queste tutele non ci sono. In Cina, quindi come abbiamo detto, non si sta sviluppando un sistema completamente nuovo e originale, ma un ibrido di due modelli socio-economici. Parlando in termini rousseauniani questo processo porta ad uno sdoppiamento sia della società che dell’individuo: da un lato la volontà generale che si identifica sostanzialmente in una volontà del governo di gestire la massa promettendo una prosperità difficile da ottenere per tutti, dall’altro la volontà del singolo che porta a sviluppare un livello di individualismo imparagonabile a qualsiasi altra realtà in quanto proprio abbinato ad una volontà di massa e per questo in grado di sviluppare conseguenze culturali che probabilmente riusciremo a toccare con mano tra qualche decennio. 41 42 Il fiume dai capelli rossi Lo Stato di Amapà e le donne vittime di escalpelamento dall’Amazzonia, Elena Mortelliti Amazzonia. Lo Stato dell’Amapà, nell’estremo nord del Brasile, La maggior parte di queste barche non è registrata. è ricoperto interamente dalla foresta amazzonica ed è È fatta circolare illegalmente, non rispettando nemuno dei posti più belli che mi sia capitato di vedere. meno le più elementari norme di sicurezza. Quindi Ci troviamo alla foce del Rio delle Amazzoni, laddosi tratta spesso di barche pericolose, basti pensare ve uno dei fiumi più grandi al mondo incontra l’oche il motore solitamente si trova in un abitacolo poceano, nei suoi mille estuari rigonfi d’acqua. sto al centro dell’imbaracazione, dove spesso siedoIl Rio è in molti tratti l’unica strada percorribile in no anche i passeggeri. Succede così che i proprietari questa terra dalla foresta fitta e inospitale; per questo dunque le popolazioni dei ribeirinhos, gli abitanti del fiume, utilizzano come mezzo di trasporto le imbarcazioni. Si tratta di zone remote, poco considerate dal resto del paese, più preoccupato ad affrontare i problemi della giungla d’asfalto. Ma anche la giungla verde, fatta di fiumi e alberi, nasconde purtroppo storie tragiche che per troppi anni sono state rimosse. Lo scorso dicembre ero a Macapà, la capitale dell’Amapà, per preparare un documentario che voglio girare in quelle zone. Nel momento in cui ho deciso di realizzare questo lavoro sapevo che avrei dovuto affrontare temaUn’imbarcazione sul Rio delle Amazzoni, Stato di Amapá tiche legate allo stato di isolamento che caratterizza quest’area, ma non sospettavo di della barca per risparmiare, non muniscano di una venire a conoscenza di una tragedia perpetrata nel adeguata protezione il motore, che ruota ininterrottatempo che mi ha profondamente colpita. Parlo della mente per tutta la durata del viaggio a velocità e forrealtà in cui vivono le donne autoctone vittime di za elevate. Può capitare che durante il viaggio, reso escalpelamento. A noi può sembrare una parola intalvolta instabile dalle piogge e dal vento, i passegdecifrabile, dal suono fastidioso; per loro significa geri vengono trascinati da una parte all’altra della una vita segnata dal dolore. Ho pensato fosse un imbarca. perativo morale diffondere la notizia e cercare un Il disagio diventa dramma nel momento in cui ad esmodo per aiutarle. sere sballottate da una parte all’altra sono bambine o Andiamo con ordine. donne con capelli lunghi: questi ultimi, imbrigliati A Macapà alcuni mesi fa è nata un’associazione di nel motore, provocano lo escalpelamento. L’escalpedonne che lottano per dare dignità e aiuto economico lamento, come si può intuire è una ferocissima scoalle vittime dello escalpelamento. perchiatura della testa, con conseguente deformazioLo escalpelamento è lo scoperchiamento del cuoio ne della faccia, perché spesso comporta anche la ricapelluto, che raggiunge anche orecchie, sopracciglia mozione di orecchie, sopracciglia, naso, qualora non e talvolta parti del naso e di cui rimangono vittime implichi la morte. molte di quelle donne che utilizzano delle barche per attraversare il fiume, unico modo per muoversi in Questa atrocità non è affatto un fenomeno isolato in Negli ultimi anni, grazie al coraggio di Maria Triniquesta zona dell’Amazzonia, è anzi piuttosto diffuso, dade Gomes, si è costituita la Associação das Mulciononostante, forse per pudore, non trova espressioheres Vítimas de Escalpelamento do Amapá, di cui ne a livello nazionale. Maria Trinidade è la presidentessa. Ad oggi l’assoUso il termine atrocità perchè è l’unico che mi è veciazione conta 68 associate, tutte vittime di escalpenuto in mente quando mi sono trovata di fronte a dellamento. le donne deformate e rese mostruose da un evento Di recente alla Camera dei deputati del Brasile è staapparentemente così superabile. ta presentata una proposta di legge per garantire un Incredibile che per una copertura mancante su un intervento gratuito di chirurgia plastica alle vittime e motore, che avrebbe il costo di circa 100 dollari, per stabilire il diritto al lavoro fuori da ogni discrimimigliaia di donne vivano in una condizione di emarnazione per queste donne. Al momento la proposta ginazione, di dolore e grande sofferenza, senza nemmeno ottenere un aiuto dallo Stato. Le donne sono le principali vittime di questa tragedia anche perché costrette, a causa dei dettami della confessione evangelica, molto diffusa nella zona, a tenere i capelli lunghi e a non tagliarli mai. Sembra una ridicola congiura risolvibile con pochi accorgimenti da una società razionale e pragmatica come la nostra, ma non lo è altrettanto per delle popolazioni semplici, che vivono in un quasi totale isolamento, in una regione in cui lo Stato non ha ancora provveduto a censire i suoi abitanti. Nell’Amapà vivono persone che a stento sanno di appartenere a una società, di essere cittadini, sono persone che vivono di quello che pescano, del loro raccolto e che si pongono ben pochi problemi oltre quello del mero sostentamento. È ovvio Due donne vittime di escalpelamento che in questo contesto l’accortezza di coprire i motori delle barche non non è ancora diventata legge e così queste donne non è contemplata, anche perchè quella copertura costegodono di nessun tipo di indennità, non sono consirebbe loro quanto il guadagno di un mese. Così nel siderate invalide e le chirurgie plastiche di cui necessilenzio più assoluto si consumano tragedie di cui nestano con urgenza non fanno parte del piano sanitario suno parla, di cui nessuno legge. Eppure solo nello pubblico. stato dell’Amapà le vittime di escalpelamento sono Voglio precisare che questa realtà non appartiene socirca 1.400. lo al Brasile, ma si estende in ogni regione ricoperta Le vittime di escalpelamento sono perlopiù bambine dalla foresta fluviale e attraversata dal Rio: ovvero che a seguito dell’incidente vengono spesso abbandel 60% del territorio del Brasile, ma anche zone deldonate dalla famiglia, incapace di elaborare il dramla Colombia, del Perù, del Venezuela, dell’Ecuador, ma e di accettare un “mostro” in casa. Crescono così della Bolivia, della Guyana, del Suriname e della ai margini della comunità, come vagabonde, oppure Guyana Francese. sono rinchiuse in casa e trascorrono la loro vita in completa segregazione. Spero di riuscire a contribuire attraverso il mio laAl dolore intimo si aggiunge quello fisico, perché voro a diffondere il più possibile la conoscenza di queste bambine, poi donne, soffrono di dolori acutisquesta drammatica realtà e attraverso la mobilitasimi alla testa. Invalide a tutti gli effetti, sono imposzione internazionale indurre il governo brasiliano sibilitate a fare la maggior parte dei lavori che richiead accelerare l’approvazione della proposta di legge dono sforzo fisico. Discriminate dalla comunità in (1879/2007) e a occuparsi della realtà di queste cui vivono, cadono in depressione e vivono una vita donne. di stenti. 43 44 Sezione studenti iscritti Corri... ma più veloce della luce! orientamento di Gessica Cuscunà Si sa, chi intraprende l’Università ha fatto una scelta (consapevole?) tenendo conto delle proprie inclinazioni e non trascurando di tenere presente le eventuali possibilità di lavoro tra senso di realtà e vecchi e nuovi pregiudizi. La sfida? Arrivare in fondo al percorso nel minor tempo possibile con il massimo del risultato ed entrare, con un ultimo sprint, nel mondo del lavoro. A tal fine l’Università italiana si è attrezzata con Riforma, contro-Riforma, pre-Riforma, ecc. con il risultato, forse non nuovo, che stando ai dati ufficiali, il numero dei fuoricorso o di coloro che decidono di abbandonare gli studi è costantemente in aumento. Questo è un fenomeno che anche Roma Tre sta monitorando. Un gruppo di lavoro composto da docenti, da studenti seniores e dall’Ufficio orientamento si sta occupando di esaminare tutto ciò che ha a che fare con il percorso universitario al fine di proporre migliori e più efficaci strategie di orientamento in itinere. L’idea è quella di osservare quali sono le forme di tutorato messe in atto dai diversi Corsi di laurea, qual è stato l’andamento della dispersione negli ultimi cinque anni e qual è la percezione che gli studenti hanno dell’Università. Pur essendo ancora in una fase di analisi forse qualche riflessione la possiamo fare, partendo proprio dai protagonisti di tutte queste azioni: gli studenti iscritti. Daniel Pennac nel suo ultimo libro Diario di scuola riabilita l’imperfezione considerandola non come punto di partenza verso la perfezione ma come strada alternativa alla migliore realizzazione di Sé. In particolare secondo l’autore «le strade oggi tragicamente imperfette verso la crescita personale sono la mancanza di sogni, la mancanza di lentezza e la mancanza di gratuità». Certo non è il caso di generalizzare ma, forse, le affermazioni di Pennac fanno saltare all’occhio una questione attuale nel nostro villaggio globale (quante contraddizioni!): il tempo. Il tempo della crescita, il tempo della riflessione, il tempo della ribellione, il tempo dell’assimilazione, il “giusto tempo”. Quale? Quanto? Il percorso universitario dovrebbe rappresentare una fase evolutiva della vita nella quale, dice lo scrittore parigino, «lo scontro tra ignoranza e conoscenza è un fenomeno violento» in quanto lo studente, a volte, sente la «paura di sbagliare e di fallire». Una paura ingigantita dalle aspettative personali e del mondo circostante. Ma si sa, come in un gioco perverso, tutto ciò che è proibito si manifesta. E allora dice Pennac «il segreto della nuova pedagogia è far passare la paura» e «il lavoro dei docenti è quello di infondere il desiderio di sapere». Chissà, magari facendo un tale esercizio, si saprà cosa si è, cosa si vuole, cosa si può rischiare. Magari l’avvenire sembrerà meno minaccioso. Non deve essere sembrato così a Nathalie! «L’avvenire, un strana minaccia. (…) Nathalie scende le scale di corsa (…) singhiozzando (…). Sono le cinque e mezzo, quasi tutti gli studenti se ne sono andati. Sono uno degli ultimi professori a passare lì. Il tam tam dei passi sugli scalini, l’esplosione dei singhiozzi (…) Nathalie giunta ai piedi delle scale. “Che succede Nathalie? Resistenza di principio: “Niente prof, niente”. I singhiozzi raddoppiano (…) “Pro…profes…sore.. non… non… riesco a capi… non riesco a capire”. “A capire cosa?” “La pr… la pro…”. E di colpo il tappo salta, ed esce tutto d’un fiato “La proposizione-subordinata-concessiva-introdotta-da-congiunzione”. Silenzio. Non ridere. “La proposizione-subordinata-concessiva?”. “È lei a ridurti in questo stato?” Che sollievo!». La realtà dei servizi di Roma Tre Due studenti raccontano la loro esperienza di Francesco Rossi e Carlo Guglielmo Vitale Nel panorama universitario romano, emerge chiaramente da parte di Roma Tre un impegno verso la disabilità fuori dal comune. Infatti, dove le altre università si fermano la nostra inizia: il lavoro per l’abbattimento delle barriere architettoniche è, ad esempio, solo il primo passo verso l’inclusione di noi studenti disabili. L’Ufficio studenti in situazione di disabilità, istituito presso il nostro Ateneo, ha certamente una rilevanza notevole: offre infatti servizi, come ad esempio il trasporto e l’accompagnamento, che consentono e agevolano la nostra fremirati, in modo tale da asquenza universitaria, sicurare un’assistenza adein riferimento alle specifiguata anche per l’uso dei che esigenze di ognuno. servizi igienici. Altri aspetOgni attività è dettagliati da migliorare sono i contamente descritta nel sito tatti con le segreterie didathttp://host.uniroma3.it/uffitiche e le segreterie studenci/accoglienzadisabili/ doti. Forse sarebbe auspicabive tra l’altro è stato attivato le anche l’istituzione di un un apposito web form per maggior numero di tutors effettuare la richiesta di all’interno delle Facoltà ogni servizio. Il sito è uno per l’assistenza prettamenstrumento ideato per prente didattica. Sicuramente le dere visione di ogni infor- Sede dell’Ufficio studenti in situazione di disabilità, Divisione difficoltà ultimamente regimazione per noi utile, dalla politiche per gli studenti strate, che hanno compordescrizione della tipologia tato per alcune settimane di servizi erogati con le relative modalità per farne ril’interruzione dei servizi di assistenza alla persona e chiesta, alle attività seminariali, ai contatti con i refedi interpretariato della lingua dei segni italiana (LIS), renti di Facoltà. Tuttavia, pur non potendo dimenticahanno inevitabilmente creato dei disagi. Sebbene sia re che la nostra università, per ora, è l’unica nel terristato assicurato il servizio trasporto dalla propria abitorio romano a offrire alcune tipologie di servizi spetazione alla sede universitaria e viceversa, la mancancifici, per noi indispensabili, ci sono comunque aspetza del personale preposto ad esempio al servizio alla ti che andrebbero migliorati. Ad esempio per quanto persona ha comportato infatti notevoli difficoltà per riguarda la fornitura di materiale didattico che comnoi studenti in relazione alla frequenza ai corsi in aula porta la trasformazione di un libro in una versione ace alla presenza in sede di esame. Confidando dunque cessibile (digitale, in linguaggio braille, ingrandimennell’impegno di tutti coloro che mantengono vivi i dito…) i tempi sono ancora lenti. E ancora: per il persoversi servizi, l’augurio è che possano migliorare semnale preposto al servizio di assistenza alla persona sapre e che continuino ad essere erogati con costanza e rebbe opportuno prevedere dei corsi di formazione continuità. Le trasformazioni del giornalismo nell’era di internet Gli effetti della globalizzazione sulla carta stampata in una tesi di laurea in Sociologia dei processi culturali e comunicativi di Silvia Venanzoni La proliferazione dei giornali on line e l’estrema velocità di circolazione delle notizie ha indotto qualcuno a profetizzare la scomparsa dei quotidiani cartacei, già incalzati dalla concorrenza della televisione e stremati dalla rincorsa dei mezzi audiovisivi. Un periodo questo, che ha generato timori ed incertezze nel mondo editoriale dando vita ad una spaccatura di pensiero verso un immaginario futuro di questa nuova tendenza rispetto alla stampa tradizionale. Da una parte si schierano i visionari, i quali avevano predetto la morte della carta stampata e dei quotidiani; dall’altra gli scettici, convinti che nei primi anni di attività il giornale on line non avrebbe mai raggiunto un suo equilibrio. Ma, come possiamo apprendere dalla nostra quotidianità, questo decennio ha smentito gli uni e gli al- tri. La storia dei media insegna che l’affermazione dei nuovi mezzi di comunicazione non ha mai determinato la scomparsa dei precedenti. Li ha piuttosto costretti a una rivisitazione completa delle proprie caratteristiche. Il mercato potrà subire le più profonde modifiche sino a parlare di trasformazione del mercato stesso, ma qualsiasi evento tecnologico principale o collaterale che si verificherà non comporterà la fine del prodotto cartaceo né lo stesso potrà essere sostituito completamente dai formati digitali. Prodotti presenti sia in formato cartaceo che in quello digitale saranno usati per scopi più diversi in un sano equilibrio determinato dalla domanda di mercato completandosi a vicenda: ad esempio i giornali tradizionali potranno punta- 45 46 re su approfondimentori hanno accettato ti, articoli di opinioseriamente le opporne, riflessioni e vicetunità e le sfide di Inversa, lasciare ai corternet. Lo scenario rispondenti giornali più probabile che si on line spazio per gli potrà presentare è aggiornamenti contiquello di una coesinui, 24 ore su 24 in stenza, ovvero di un tempo reale per le completamento a vipiù diversificate incenda, tra media diformazioni, dalle nogitali e media traditizie di cronaca a zionali. quella di politica non Confronto tra una pagina di La Repubblica e la sua corrispondente pagina web La carta piena di trascurando gli oroodore acre di stampa scopi e qualunque tematica “gettonata” al momento. e i bits sono entrambi sopravissuti e il giornale di L’avanzamento tecnologico ha quindi portato ad una carta e quello on line non sono diventati dei prodotti vera e propria “esplosione” dell’attività editoriale on concorrenti ma mezzi di informazione indirizzati a line a dimostrazione che “a forza o ragione” gli edidifferenti occasioni di consumo. Il ruolo dell’Europa nel mondo globale La proposta di Maria Zambrano in una tesi di laurea in Filosofia di Ester Monteleone Il tema dell’identità e della cittadinanza europea è oggi di grande attualità. Maria Zambrano, filosofa spagnola degli anni Quaranta, ha anticipato nei suoi saggi molti dei problemi che attualmente ci toccano e fanno discutere. La sua proposta di nuova cittadinanza europea, pur negli evidenti limiti della distanza storica, risulta significativa anche per l’uomo del XXI secolo che abita il mondo globale. La filosofa andalusa parte da una diagnosi del malessere del- Maria Zambrano l’Europa, che attribuisce a tre malattie: il naturalismo, inteso come la natura senza la libertà, il liberalismo, inteso come l’individuo senza la comunità, e l’assolutismo, ossia il potere senza il diritto. La grave crisi dell’Europa è per lei soprattutto crisi filosofica, iniziata quando la metafisica occidentale nata dalla meraviglia, thaumázein, si è allontanata dall’immediatezza della vita, dedicandosi, esclusivamente, a declinare il pensiero puro. In questo senso, Talete, Platone, Aristotele, Cartesio, Hegel, sarebbero tutti colpevoli. Questa brusca lacerazione del legame del pensiero con la realtà, ha prodotto anche l’allontanamento dal Sacro originario. Ma dopo la diagnosi, la proposta. Zambrano la articola in due direzioni: il ritorno alle radici ed il rinnova- mento del politico. Il ritorno alle radici non è archeologico, piuttosto archetipico. Si tratta di scavare nella cultura europea e riportare alla luce alcuni modelli, alcune figure-mentori dell’occidente. Innanzitutto Antigone, mito dai molteplici significati, figura sacrificale che segna il passaggio all’«aurora della coscienza»; in secondo luogo Sant’Agostino e Maimonide, che esprimono la ricerca dell’interiorità e l’unità tra scienza e filosofia. Circa il rinnovamento del politico, Zambrano auspica la realizzazione di un’autentica democrazia, possibile solo in una società dove la persona sia la protagonista. Una nuova cittadinanza europea è comunque realizzabile solo grazie ad alcune modalità di relazione interpersonale: la pietas, intesa come capacità di trattare con chi è diverso da sé; la philía, legame amicale che rende possibile il superamento dell’indifferenza e dell’estraneità; infine l’amore, aperto alla dimensione orizzontale e verticale. Da Maria Zambrano, donna e filosofo, ci viene dunque offerto se non un programma di azione, perlomeno un invito a pensare, che è anche un aiuto a riconoscere se stessi: una condizione indispensabile per riconoscere gli altri. Eva tentata e tentatrice: come uscire da questo vetusto complesso culturale Analisi dell’intervista a Margherita Hack uscita sul precedente numero di Roma Tre News di Valentina Bellafante Nell’intervista rilasciata dalla celeberrima astrofisica Margherita Hack si raccontano i suoi inizi ed i suoi pensieri circa il mondo che oggi circonda l’ambiente scientifico. Partendo dalla domanda più classica, attraverso un percorso approfondito sui temi più attuali, impariamo a conoscere il nuovo pensiero scientifico diffuso oggigiorno. La scienziata risponde lanciando un energico messaggio ai giovani: “Farsi forza ed affrontare le difficoltà con competitività e aggressività sportiva (riconoscendo il proprio valore e quello di un ipotetico avversario)”. È infatti questo che l’ha portata avanti: la sua grande capacità di credere in se stessa. Successivamente viene affrontato un argomento molto delicato: complessi d’inferiorità delle donne nel campo del lavoro, in particolare nel settore scientifico; tema sempre attuale e mai superato totalmente, infligge pene morali incredibili che, pertanto, sono difficili da superare. Così, affrontando il problema, la professoressa sostiene che l’atteggiamento nei confronti delle donne sia dovuto ed incoraggiato a partire dai modelli educativi ricevuti. Le donne sono sovente emarginate da mestieri ritenuti inadatti alle loro attitudini: pregiudizio questo derivante dal profondo della nostra cultura. Anche la chiesa, che è una delle istituzioni più importanti del nostro paese ed è considerata un sommo esempio di educazione e cultura emargina il ‘gentil sesso’ in numerose occasioni. Basti pensare ai vescovi o ai sacerdoti: fra loro non si è mai vista una donna! Si può persino andare a ritroso nei millenni e trovare episodi come il peccato originale, in cui l’incarnazione della curiosità e della tentazione è una donna: Eva. Questi avvenimenti o credenze, indipendentemente dalla loro veridicità, fanno sì che la donna viva in secondo piano senza raggiungere livelli alti quanto un uomo potrebbe fare. Tali pregiudizi devono essere combattuti in prima battuta proprio dalle donne stesse perciò, nell’intervista, la Hack esorta al rifiuto dei complessi d’inferiorità. L’arretratezza del pensiero, legato alle tradizioni e alla cultura vetusta, porta notevoli svantaggi alla scienza, che non consistono solo in nocive emarginazioni sociali e/o lavorative di alcune classi, ma anche in veri e propri atti di censura avviati per mano di un’etica molto soggettiva. Le severe e rigide dottrine del Vaticano, citate dall’astrofisica, sono un chiaro esempio di come venga moderata la ricerca opponendovi argomenti religiosi che dovrebbero essere estranei alla scienza in quanto laica, come sostiene l’intervistata citando la ricerca sulle cellule staminali. Il freno etico imposto dal Vaticano è legato a un’antica e dogmatica concezione di Dio; da qui la riflessione della professoressa Hack, la quale sostiene che scienza e religione debbano viaggiare su due binari diversi “la scienza indaga le leggi della natura […] la religione si basa sulla fede che di per sé trascende la natura”. Il desiderio dei ricercatori è, quindi, la libertà d’indagine; anche se, talvolta, si possa incorrere in un eccesso di essa violando la natura, come sostiene l’intervistatrice. A questo proposito Margherita Hack risponde inglobando numerosi concetti basilari della ricerca scientifica, quale il suo scopo primario ed allo stesso tempo l’etica del ricercatore: migliorare la condizione degli uomini progredendo in funzione del loro benessere; lasciandoci così comprendere che la scienza è attenta a non nuocere alla natura. Essa, infatti, mira a far del bene e molte volte, al principio di un esperimento, non ci si rende conto della sua eventuale pericolosità; mentre molte altre volte gli interventi in natura producono grandiose scoperte come gli OGM, che non hanno registrato effetti negativi. Insomma la scienza ci è d’aiuto e come tale deve essere un obiettivo perseguibile da tutti allo stesso modo lasciando decadere gli ideali antichi di una morale stagnante ed i pregiudizi sulle donne… Perché in fondo, ma veramente in fondo, la differenza tra donna e uomo è solo una X! Gita fuori porta L’esperienza extrascolastica che non facilita nuovi contesti di socializzazione di Margherita Fantoli Per quanto riguarda la nostra classe, non è mai stata fatta nessuna esperienza specifica per unificare il gruppo. E nemmeno un’esperienza che, per sbaglio, ci sia riuscita. Sorvolando il fatto che laboratori teatrali, musicali, o scambi culturali sono un lusso che a ben pochi è concesso, nemmeno i più comuni viaggi culturali hanno dato una mano. I problemi iniziano dalla scelta della mèta: la classe puntualmente si spacca in gruppi e sotto gruppi; Lisbona, Parigi, Berlino, Praga. Forti dei nostri radicati valori civili, procediamo con una democratica votazione: ovviamente nessuno ottiene la maggioranza assoluta, e vince il gruppo che fortunatamente conta più presenti in quel giorno. Orbene, dopo cotanto litigare, la classe propone dunque una mèta, alternativamente bocciata dall’insegnante accompagnatore o dalla preside. Alla fine si parte in una città che non aveva votato nessuno con una classe di cui non si conosce nessuno. Ma che importa? Abbiamo comunque cinque giorni per stare insieme e divertirci! La fase veramente critica si presenta prima della partenza con la distribuzione nelle camere! Oddio! Dormire sembra un’attività che vada fatta solo con persone particolarmente affini, se no, si sa, si fanno gli incubi. Sotterfugi, piani segreti, pianti, colpi di stato: ogni mezzo è lecito per accaparrarsi le 2 amichette/i in stanza. Alla fine, tappandosi il naso, tutti si ritrovano con qualcuno. Si parte! L’arrivo in albergo è spesso causa di ulteriori sconvolgimenti: le stanza non sono da 3 ma da 4 e da 2. Di nuovo pianti, colpi di stato, piani segreti, litigate, con un’intrigante novità: l’omino a cui tutto ciò va riferito non parla un’acca di italiano. A questo punto iniziano le giornate: sballottati tra musei, cattedrali, strade, monumenti; tutti presi dal sonno, la fame, il mal di piedi, il freddo, il caldo, figuriamoci se abbiamo tempo di socializzare! Si scambiano parole di lamentela o urla entusiaste alla vista di un paio di ballerine con quelle quattro persone che già si conoscono e che mostreranno solidarietà nei nostri confronti. Anche a pranzo è difficile stare tutti insieme; come si conciliano gli interessi di: alternativi-noglobal anti mc donald, allergici- celiaci dalla dieta controllatissima, aspiranti modelle con esigenze ben precise, e infine i fan dell’hamburger e patatine? Ognuno quindi si ritrova col proprio gruppo di appartenenza e mira verso un locale diverso. La sera sarebbe l’occasione adatta, ma prima bisogna sormontare un grosso scoglio: l’insegnante che vorrebbe restare in albergo. La classe è a questo punto unitissima e mostra un fronte compatto dinnanzi al malcapitato insegnante. Fronte che però si spezza non appena l’insegnante acconsente all’uscita. Sì, ma dove? Discoteca! Parco! Pub! Hard Rock Cafè! Se si va in discoteca, io non esco! Al che l’insegnante spazientito ritira la sua concessione e tutti in albergo. Come si può socializzare dopo questa pessima figura? Ognuno arroccato sulle sue posizioni si ritira con le solite 4 persone che frequenta e che chiaramente volevano fare la sua stessa cosa. E la serata va via così, in camera, in albergo, in gruppetti. Insomma le giornate vanno così, certo non mancano momenti di sana allegria tutti insieme, ma sono rari! Per lo più si sta con le stesse persone di sempre e anzi, la convivenza forzata per cinque giorni, induce anche alla non sopportazione di queste stesse. rubriche Orme 47 48 Non tutti sanno che Elezioni del Rettore: tempi e modi Il 18 marzo u.s. presso l’aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza si è svolta la presentazione delle candidature e dei programmi per l’elezione del Magnifico Rettore per il quadriennio 2008-2012. Ha aperto la seduta il decano dell’Ateneo, prof. Adolfo Di Majo. Si candidano a ricoprire il nuovo mandato: - Vito Michele Abrusci, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia; - Guido Fabiani, attuale Magnifico Rettore; - Mario Girardi, Preside della Facoltà di Scienze MM.FF.NN. - Giorgio Piccinato, Direttore del Dipartimento di Studi urbani - M. Paola Potestio, Preside della Facoltà di Economia. Trovandoci in presenza di un candidato che ha già svolto due o più mandati consecutivi (art.10, comma 7, lettera b, Statuto) il calendario elettorale risulta così fissato: 1) La prima votazione avrà luogo nei giorni 28 e 29 aprile 2008 con il seguente orario: giorno 28 aprile, inizio operazioni di voto ore 9.00; chiusura seggio ore 18.00 giorno 29 aprile, inizio operazioni di voto ore 9.00; chiusura seggio ore 17.00. Subito dopo avranno inizio le operazioni di scrutinio che proseguiranno fino a loro completa ultimazione. 2) È stata stabilita la data del 9 maggio 2008 alle ore 11.00, presso l’Aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza in via Ostiense 161, per la presentazione pubblica di eventuali ulteriori candidature e delle linee programmatiche che gli ulteriori candidati intendono perseguire nel periodo del mandato. 3) La seconda votazione avrà luogo nei giorni 29 e 30 maggio 2008 con gli stessi orari di cui sopra. 4) La terza votazione avrà luogo nei giorni 3 e 4 giugno 2008 con gli stessi orari di cui sopra. 5) L’eventuale ballottaggio avrà luogo il giorno 11 giugno 2008 con il seguente orario: inizio operazioni di voto ore 9.00; chiusura seggio ore 18.00. Subito dopo avranno inizio le operazioni di scrutinio che proseguiranno fino a loro completa ultimazione. Alcune informazioni sui criteri e le modalità di voto. Il Rettore è eletto a scrutinio segreto, secondo le seguenti procedure. In presenza di un candidato che abbia già svolto due o più mandati consecutivi: - nella prima votazione il Rettore è eletto a maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto. In caso di non avvenuta elezione, il candidato che abbia già svolto due o più mandati consecutivi se non ha conseguito il voto di almeno un terzo degli aventi diritto al voto, non può proseguire nell’iter elettorale; - nel caso di mancata elezione nella prima votazione, la seconda votazione deve avvenire dopo 30 giorni. Durante questo intervallo possono essere presentate ulteriori candidature; - nella seconda e terza votazione il Rettore è eletto a maggioranza assoluta dei votanti; - in caso di mancata elezione si procede con il metodo del ballottaggio fra i due candidati che nell’ultima votazione hanno riportato il maggior numero di voti. Nel ballottaggio risulta eletto il candidato che riporta il maggior numero di voti e, a parità di voti, il più anziano in ruolo. Il seggio elettorale unico sarà articolato in più sedi di votazione. Il seggio elettorale unico sarà in Via Ostiense, 139. Presso questo seggio sono iscritti a votare i seguenti elettori: - personale docente appartenente alla Facoltà di Giurisprudenza, al Consiglio di Corso di studi in Scienze della Formazione primaria, al Consiglio di Collegio didattico in Scienze e tecnologie delle arti, della musica e dello spettacolo; - personale tecnico-amministrativo e bibliotecario appartenente a tutta l’Amministrazione centrale (salvo l’area del Personale), alla Facoltà di Giurisprudenza, al Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Formazione primaria, al Consiglio di Collegio didattico in Scienze e Tecnologie della arti, della musica e dello spettacolo, ai Dipartimenti di: Comunicazione e spettacolo, di Storia e teoria generale del diritto, Diritto dell’economia e analisi economica delle istituzioni, Diritto europeo – studi giuridici nella dimensione nazionale, europea, internazionale, Sezione giuridica della Biblioteca di area giuridico-economicopolitica, Sezione spettacolo della Biblioteca di area delle arti. In via Silvio D’Amico, 77 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 2, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori: - il Personale Docente appartenente alla Facoltà di Economia e alla Facoltà di Scienze Politiche; - il Personale tecnico-amministrativo-bibliotecario appartenente a tutta l’area del Personale, alla Facoltà di Economia, alla Facoltà di Scienze Politiche; ai Dipartimenti di: Economia, Scienze aziendali ed economicogiuridiche, Istituzioni pubbliche, Economia e società, Studi internazionali; Sezione economica e storico-politico-sociale della Biblioteca di area giuridico-economico.politica. In via Ostiense 234 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 3, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori: - personale Docente appartenente a: Facoltà di Lettere e Filosofia, salvo il Consiglio di Collegio didattico in Scienze e Tecnologie delle arti, della musica, dello spettacolo; - personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Lettere e Filosofia, salvo il Consiglio di Collegio didattico in Scienze e Tecnologie delle arti, della musica, dello spettacolo; Dipartimenti di: Filosofia, Italianistica, Letterature comparate, Linguistica, Studi storici geografici antropologici, Studi sul mondo antico, Studi americani; Biblioteca di area umanistica, salvo Sezione “A. Broccoli”. In via Vasca Navale, 79 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 4, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori: - personale Docente appartenente a: Facoltà di Ingegneria e Facoltà di Scienze M.F.N.; - personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Ingegneria e Facoltà di Scienze M.F.N.; Dipartimenti di: Elettronica applicata, Informatica e automazione, Ingegneria elettronica, Ingegneria meccanica e industriale, Scienze dell’ingegneria civile, Strutture, Biologia, Fisica, Matematica, Scienze geologiche; Biblioteca di area scientifica-tecnologica; Centro C.I.S.DI.C. Presso piazza della Repubblica, 10 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 5, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori: - personale Docente appartenente a: Facoltà di Scienze della Formazione, salvo il Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria; - personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Scienze della Formazione, salvo il Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria; Dipartimenti di: Studi storico-artistici-archeologici e sulla conservazione, Scienze dell’educazione, Progettazione educativa e didattica, Studi dei processi formativi, culturali e interculturali nella società contemporanea, Progettazione e studio dell’architettura; Sezione “A.Broccoli” della Biblioteca di area umanistica, Sezione Storia dell’arte “L.Grassi” della Biblioteca di area delle arti. Presso via Madonna dei Monti, 40 ci sarà il Comitato di sede di votazione n. 6, presso il quale sono iscritti a votare i seguenti elettori: - personale Docente appartenente a: Facoltà di Architettura; - personale tecnico-amministrativo-bibiliotecario appartenente a: Facoltà di Architettura; Dipartimenti di: Studi urbani; Sezione Architettura “E. Mattiello” della Biblioteca di area delle arti; Centro CE.S.I.F. L’elettorato attivo relativo alla componente studentesca è ripartito in base alla rispettiva Facoltà di appartenenza. I collaboratori ed esperti linguistici sono ripartiti tra il Seggio n. 1, se afferenti al C.L.A. e il seggio n. 3, se afferenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Il Personale T.A.B. assegnato alla S.S.I.S è incluso negli elenchi del Personale T.A.B. del seggio n. 1. Il Personale T.A.B. assegnato al C.A.B. è incluso negli elenchi del Personale T.A.B. del seggio n. 4. Votiamo! Per maggiori informazioni relative ai decreti e ai programmi di ciascun candidato si prega di consultare la pagina web http://www.uniroma3.it/news.php?news=893 Coro polifonico dell’Università degli Studi Roma Tre Musica di Roma, il traguardo del centesimo concerto. Il coro può vantare al suo attivo collaborazioni con formazioni orchestrali e realtà musicali di grande prestigio, come l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera di Roma, l’Auditorium Parco della Musica e l’Orchestra Filarmonica di Stato di San Pietroburgo. Al centro di un’intensa rete di rapporti con i cori e le orchestre delle università italiane e straniere, il Coro ROMA TRE nel 2006, insieme ai rappresentanti dei cori delle università di Roma Tor Vergata e della Sapienza, ha fondato l’A.C.U. - Associazione Cori Universitari - e dal 2007, in qualità di socio fondatore della A.C.U., è membro del Coordinamento diritto alla musica, promosso dalle Commissioni consiliari Cultura e Politiche giovanili del Comune di Roma. Coro polifonico Roma Tre Stagione concertistica 2008 MAGGIO Venerdì 16, 18.30 Coro Polifonico ROMA TRE Alma College Choir (Alma, Michigan, USA) Requiem K 626 di W.A. Mozart, per soli coro e orchestra Università degli Studi Roma Tre Facoltà di Lettere e Filosofia Aula Magna Via Ostiense 236 Sabato 17, 19.30 Patriarcale Basilica di San Paolo fuori le mura Via Ostiense Coro Polifonico ROMA TRE Alma College Choir (Alma, Michigan, USA) Requiem K 626 di W.A. Mozart, per soli,coro,ed orchestra GIUGNO a cura di Isabella Ambrosini Il Coro ROMA TRE, coro ufficiale dell’Ateneo formato da studenti e personale di Roma Tre, di cui è Direttore Artistico e Musicale il M° M. Isabella Ambrosini e Presidente la Prof.ssa Marinella Rocca-Longo ha superato nell’ottobre scorso, con le esibizioni dell’ottobre 2007 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Cattedrale di Empoli (FI) Centro Studi Musicali Ferruccio Busoni Rassegna corale Università degli Studi Roma Tre Stadio degli Eucalipti Cerimonia di premiazione del Campionato di calcio Concerto 49 50 OTTOBRE via Vinchesi e Francesco Tomasello, genitori di Giuseppe, un bambino di 20 mesi al quale nel febbraio scorso è Auditorium Parco della Musica stata diagnosticata questa patologia. I medici non avevaEstate romana no dato ai genitori molte speranze, ma cominciando una Evento musicale del Coordinamento diritto alla musica cura di vitamine da loro fornita, il piccolo sta meglio, anche se riscontra purtroppo problemi alla vista e non riesce a stare in piedi o seduto. La volontà di aiutare a NOVEMBRE guarire Giuseppe e tutti gli altri bambini affetti dalla stessa anomalia ha spinto questi genitori a istituire una Università degli Studi Roma Tre fondazione che avesse come scopo quello di trovare un Facoltà di Lettere e Filosofia ricercatore scientifico e i fondi per avviare una ricerca Aula Magna genetica. Via Ostiense 236 Non solo la ricerca è stata avviata, grazie al contributo del Coro Polifonico ROMA TRE Professor Massimo Zeviani dell’Istituto Besta di Milano, Cattedra di canto del Conservatorio di musica di Perugia ma poco meno di un mese fa il ricercatore stesso, insieme Festival Pucciniano al suo staff, in collaborazione con il laboratorio Istitur fur Humangenetik di Monaco e al Dottor Holger Prokisch, ha individuato il gene deficitario che è denominato NDUFS1 con una doppia mutazione. In seguito sono stati presi contatti con i maggiori esperti Un grande contributo italiano internazionali, e ora si sta cercando di ottenere un progetto alla ricerca di ricerca finalizzato a una terapia, anche sperimentale che possa essere applicata a tutti i bambini affetti dalla mutaLa fondazione Giuseppe Tomasello onlus zione di questo gene. ha dato il via allo studio di una rara malattia Un altro obiettivo importante che si sta raggiungendo è mitocondriale l’acquisto di un nuovo macchinario chiamato Lightscanner, uno strumento ad alta efficienza e a basso costo neldi Elisabetta Bischetti la diagnostica molecolare delle patologie ereditarie, comprese le malattie mitocondriali. Esso in Germania ha perI mitocondri sono le centrali enermesso di individuare le mutaziogetiche delle nostre cellule che atni genetiche di Giuseppe, ma in traverso un processo assai compliItalia non è ancora presente in cato, tramite il flusso di elettroni nessuna struttura ospedaliera. Inlungo una serie di complessi enzifatti l’attuale tempistica nel nomatici (catena respiratoria) genestro paese, per l’individuazione rano ATP, la principale molecola dei geni deficitari è di parecchi trasportatrice di energia della celmesi e spesso per molti bambini lula. la diagnosi viene effettuata tropMutazioni a carico del DNA mitopo tardi, invece attraverso questo condriale e/o DNA genomico posmacchinario i tempi di analisi sasono ridurre la capacità di questi ranno azzerati. organelli di produrre energia con La sua validità è stata testata la conseguente comparsa di malatdall’Istituto Besta di Milano e il tie alla muscolatura cardiaca e suo acquisto sarà finanziato trascheletrica, al sistema nervoso mite i concerti Gospel centrale, reni e tessuti endocrini, (www.forjoy.it) che si terranno a mettendo a rischio la sopravvivenfine febbraio e ad aprile a Firenza dei bambini affetti da queste patologie. ze e a Incisa Val d’Arno, ai quali Un notevole contributo alla ricerpossono partecipare tutti coloro ca su una rara malattia metaboliche vogliono contribuire a sosteca dei mitocondri denominata nere questo progetto. Per tutte le Deficit del complesso 1 della caaltre informazioni necessarie a tena respiratoria mitocondriale sostenere la ricerca si può conviene dalla fondazione Giuseppe L’appello in favore della Fondazione Giuseppe sultare il sito www.giuseppetoTomasello onlus costituta da Sil- Tomasello masello.it. Teatro Palladium: concorso di scrittura creativa Fino al 15 giugno 2008 è possibile partecipare al concorso di scrittura creativa, promosso dal Teatro Palladium e dedicato agli studenti di Roma Tre. Per maggiori informazioni: http://concorsi.teatro-palladium.it/scrittura2008/index.php L’Occidente visto dai media arabi Il pluralismo della comunicazione tra est e ovest Si è tenuto il 26 e 27 gennaio scorso, presso il Teatro Palladium, un weekend di appuntamenti sull’argomento L’Occidente visto dai media arabi: viaggio a trecentosessanta gradi nell’universo, da noi perlopiù sconosciuto, della televisione araba, attraverso la proiezione di programmi come Block 13, versione kuwaitiana del noto South Park, Fobia Baghdad, programma che spiega La locandina dell’incontro la vita della classe media in Iraq sotto l’occupazione degli Usa, o ancora Al Ittijah al mouakis, talk show di Al Jazeera, per arrivare ad alcuni programmi a tema religioso di Al Risala tv, o alla proiezione del film Driving to Zigzigland, coproduzione tra Usa e Palestina, alla presenza del produttore Khalaf (siriano). Particolarmente esplicativa della situazione di coabitazione di generi diversi nella televisione araba, la selezione di filmati da Lbc tv e Al Manar (entrambe libanesi), e dunque la contrapposizione tra una televisione che guarda all’Occidente con occhio benevolo, portando in Medio Oriente format da noi più che collaudati, come Star Academy (il nostro Amici), Survivor e La Fattoria, e un’altra, di proprietà di Hezbollah, che critica duramente i modelli e la politica occidentali. Momento saliente di tale full immersion, il dibattito condotto dalla curatrice del progetto, la ricercatrice sui media arabi Donatella Della Ratta: una tavola rotonda a cui hanno partecipato il siriano Anzour, regista, e il conduttore di Al Jazeera Al Kasim, lo sceneggiatore iracheno Al Maliky, l’autore televisivo saudita Al Otibi e infine il direttore kuwaitiano di Al Risala tv Al Suwaidan, alla presenza inoltre del deputato al Parlamento italiano Fouad Allam e della giornalista ed europarlamentare Lilli Gruber. Si è trattato di più voci provenienti da paesi tra loro anche molto differenti, ma uniti dall’esistenza di un forte intreccio, inscindibile, tra cultura, politica e religione, tanto che difficile è stato riuscire a mantenere il discorso su temi puramente televisivi, senza parlare, ad esempio, della guerra e delle relative respon- sabilità del mondo occidentale (responsabilità che vengono attribuite al governo americano, unico argomento sul quale si sono trovati tutti d’accordo). Nel riportare il discorso sui propri binari, è stata presentata una televisione che ha ammesso di essere condizionata dalla presenza di argomenti tabù, ma che ugualmente non smette di cercare espedienti per superare tali barriere, nella convinzione che lo sviluppo di alcuni paesi mediorientali possa giungere anche dai media e comunque, quotidianamente e proprio perché è là che se ne sente un maggior bisogno, è in quei paesi che vanno in onda programmi veramente coraggiosi, e questo avviene a testimonianza del fatto che se dall’Occidente si può prendere tanto, è anche vero che molto si può dare. Al Jazeera ha corrispondenti in tutto il mondo che parlano la lingua del posto e ne conoscono la storia, la cultura. Non altrettanto si può dire per ogni singolo paese occidentale, dove tra l’altro si assiste ad un’impennata di generi televisivi di puro intrattenimento (non ne è esente l’Italia). Solo guardando all’universo della soap opera, il mondo arabo insegna che non è detto che generi nati a scopo di svago e di alleggerimento della programmazione, non possano arrivare a trattare temi più seri, e a costituire un momento di riflessione. Il cittadino arabo, amante del genere drammatico, chiede che anche da tali canali gli venga insegnato qualcosa e questo è quel che oggi avviene, anche grazie alla proliferazione di canali televisivi privati, lo stesso fenomeno delle potenzialità satellitari cui noi assistiamo. La differenza è tutta nel fatto che se nel mondo occidentale questo comporta una programmazione più differenziata, frammentata e specializzata, che quindi accontenta lo spettatore attirando la sua attenzione esclusivamente su ciò che il suo gusto personale sceglie, in area mediorientale significa invece la possibilità di una maggiore libertà artistica, laddove l’arte vuole essere un canale d’educazione del pubblico. recensioni di Michela Monferrini 51 52 Il libero mercato fa bene come un elettroshock Shock Economy di Naomi Klein: l’ascesa del capitalismo dei disastri di Ornella Mollica Naomi Klein, nata a Montreal, il 5 maggio 1970, è una giornalista, scrittrice e attivista canadese; per anni corrispondente da Baghdad, ha ricevuto numerosi premi e ha una rubrica su The Guardian e su The Nation; ha anche pubblicato su testate prestigiose come New York Times e Village Voice. Autrice del famoso saggio No logo, che viene considerato il manifesto del movimento no-global. Shock economy, pubblicato nel settembre del 2007, è un libro che studia gli effetti e le applicazioni delle teorie liberiste di Milton Friedman e della scuola di Chicago in diversi stati del pianeta, dagli anni Sessanta fino al 2007. La tesi principale sostenuta dall’autrice è che «l’applicazione di queste politiche (che prevedono privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni dei salari) sia stata effettuata sempre senza il consenso popolare, approfittando di uno shock causato da un evento contingente, provocato ad hoc per questo scopo oppure generato da cause esterne». Klein analizza a livello sociologico, economico e politico gli effetti del libero mercato in paesi colpiti da tragedie naturali, tali da provocare un shock collettivo. Tra questi shock l’autrice annovera le torture e il regime di Pinochet in Cile nel 1973, il crollo del muro di Berlino e l’instabilità economica in Polonia e Russia all’inizio degli anni Ottanta, l’inflazione inarrestabile in Bolivia, l’effetto della guerra delle Falkland in Gran Bretagna negli stessi anni, la guerra in Iraq e la distruzione di New Orleans per opera dell’u- ragano Katrina in tempi più recenti. Il suo libro è «una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia ufficiale: che il liberalismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia – la giornalista aggiunge – mostrerò che questo fondamento è stato invariabilmente partorito dalle più brutali forme di coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo». Nel suo saggio Naomi Klein afferma con forza come «la tortura è stata una partner silenziosa nella rivoluzione liberalista globale» sottolineando «che è uno strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si ribella». Ma perché la giornalista parla di shock? Semplicemente perché lo shock è una paralisi psicologica. L’esempio più chiaro è stato lo shock dell’11 settembre: «Bush è stato in grado di ottenere quello che prima dell’11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre private». L’autrice conclude il suo libro riflettendo sul fatto che, dietro al cosiddetto shock economy, in realtà si cela il desiderio di «irraggiungibile purezza, di imbiancare la tela e tirar su dal nulla la società ideale». «Le parole sono pietre» Nell’ambito del progetto Ethicamente, una giornata di studio sull’etica della comunicazione di Federica Martellini «L’etica della comunica(o dovrebbe pervadere) le zione è il senso della resingole discipline perché sponsabilità sociale della come sottolinea ancora dalcomunicazione. Così come la Chiesa «la cultura proin una società di tipo milifessionale non è data solo tare sono i militari che deda una somma di materie. terminano il modo in cui si La professione, lo spirito vive, nella società della cocon cui si entra nella promunicazione sono coloro fessione si forma qui, poi è che comunicano a determitroppo tardi. Anche se, da narlo: producono, riproduquesto punto di vista, oggi cono, rielaborano, forgiano l’Università continua a esvalori in continuazione, sesere per molti studenti lezionando e proponendo un’occasione mancata perle informazioni che contriché il problema non viene buiscono a formare la viposto se non da docenti sione complessiva della particolarmente sensibili o società. Non soltanto la appassionati». gerarchia dei valori ma anScorro, sul sito del Miniche la gerarchia di problestero l’elenco delle iniziatimi, che determina a sua ve legate al progetto Ethivolta una gerarchia di vacamente, un convegno a lori. Quindi credo che tutto Roma su Etica in carriera. ciò che contribuisce a geIl caso delle carriere uninerare comunicazione deversitarie nell’Italia di ogLa campagna di Amnesty International in occasione termina il nostro spazio gi, un altro a Palermo sulle delle Olimpiadi di Pechino 2008 mentale e anche il nostro Mafie in Europa, uno a Gespazio morale». Così Nannova su etica e formazione, do dalla Chiesa al margine della giornata su L’etica un forum a Ferrara su Etica e scienza per l’ambiente. della comunicazione promossa dal Dipartimento CoA Roma Tre l’11 marzo si parla di etica e comunicamunicazione e spettacolo e dal Collegio didattico in zione. Giacomo Marramao commenta la situazione Scienze della comunicazione, lo scorso 11 marzo, involutiva che sta vivendo oggi l’Italia, parla di una nell’aula magna della Facoltà di Lettere e filosofia, dinamica democratica ostaggio di logiche corporatinell’ambito del progetto Ethicamente. ve, delle tante caste di cui si compone la classe diriEthicamente è un progetto del Ministero dell’Univergente, altrettanti sistemi chiusi e autoreferenziali. sità e della ricerca che ha ormai un anno di vita. È staParla di una comunicazione (pubblicitaria, televisiva) to presentato nel marzo 2007 in un’altra aula magna, che insegue al ribasso la domanda anziché contribuialla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, un luogo re a crearne una di qualità. Parla di regole. scelto non a caso perché lì, come si legge sul sito del Mario De Caro parla della comunicazione della scienministero, si sono laureati tanti servitori dello stato che za nei media. Mostra il video di un recente servizio hanno pagato con la vita la debolezza dell’etica pubtrasmesso dal Tg2, suscitando nella platea un misto di blica. E proprio alle università è dedicato il progetto ilarità e sconcerto. Il servizio recensisce un libro che che si propone di promuovere la cultura della legalità contesta la teoria scientifica dell’evoluzionismo. A fra le nuove generazioni, di mettere in atto una riforma supporto della tesi viene intervistata una scienziata più profonda di quelle degli ordinamenti didattici o del che dice di credere nella creazione e nella redenzione, sistema dei crediti. Una riforma che riguarda il tipo di poi un monsignore comunica che lui «non si sente» di cultura che all’interno del mondo accademico si tradiscendere da uno scimpanzè. «L’Italia è l’unico paesmette, che attiene, appunto, alla dimensione etica, se occidentale nel quale la televisione pubblica può che trascende (o dovrebbe trascendere), che pervade mandare in onda un servizio del genere». 53 54 Ascoltando mi vengono in mente tante cose diverse. Una pubblicità di qualche tempo fa nella quale compariva Valentino Rossi in una stalla: «dalle stelle alle stalle…» diceva, ironizzando sui suoi illeciti fiscali. Come dire: non mi vergogno per niente se hanno scoperto che evado le tasse. E questo viene proposto come modello. Mi viene in mente Gherardo Colombo in un’intervista di Enzo Biagi, l’anno scorso, dopo la decisione di lasciare la magistratura per dedicarsi alla diffusione della cultura della legalità fra i giovani. Parlava, anche lui, delle regole, della sofferta relazione dei cittadini con la legalità. Mi tornano in mente, ancora, le parole di dalla Chiesa sulla televisione pubblica «che trasforma i casi di cronaca nera in talk show, che gradualmente ti inietta l’idea che un delitto possa diventare un gioco di società». O ancora sulla mancanza della memoria delle no- I commenti Mario Morcellini, Preside della Facoltà di Scienze della comunicazione, Università La Sapienza «Sappiamo che la comunicazione ha un ruolo decisivo nello smottamento dei valori del passato e nella ricostruzione di valori nuovi e nel lavoro di chi si occupa di comunicazione dovrebbe apparire una produzione di valori, una produzione di sentimenti di identità e di partecipazione. Nel momento stesso in cui la comunicazione attacca il potere di disposizione dei valori, cioè l’architettura dei valori condivisa dalla società precedente è chiaro che se non ne costruisce una nuova finisce per essere produttrice di anomia. Si ha oggi la terribile sensazione che la comunicazione oscilli continuamente fra produzione di controvalori e produzione di anomia. Vista dal punto di vista politico la vicenda è un po’ meno drammatica e cioè anche se il corpo della comunicazione non è esaltante in termini di qualità, tuttavia la capacità dei soggetti di prendere le misure alla comunicazione e di riuscire a implementarla con la propria soggettività è forse superiore a quella che gli studiosi vedono. Il pubblico è più composto di soggetti che di automi, più di persone che di tagliandi di audience e quindi tutto sommato nell’insieme di elementi di antagonismo rispetto alla crisi della modernità ci sono una capacità di adeguarsi rispetto ai disvalori che la dice lunga sul fatto che senza valori noi non possiamo vivere». Roberto Pujia, Presidente del Collegio didattico in Scienze della comunicazione, Università degli Studi di Roma Tre «Mi pare che gli interventi che si sono succeduti nell’arco del giornata hanno inequivocabilmente messo in luce in primo luogo la necessità di tema- stre classi dirigenti che, attente solo alla realtà contingente, sembrano aver perso il senso della storia e dei processi storici. Penso alle commemorazioni televisive che si susseguono in questi giorni, in occasione del trentesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, spesso piene di retorica e indifferenti, appunto, dei processi storici. E mi torna in mente Winston Smith, il protagonista di 1984, che ogni giorno doveva cancellare e riscrivere le notizie della cronaca di ieri per allinearle alla presente visione dei fatti e della storia, eliminando per sempre nei “buchi della memoria» i documenti della storiografia di domani. È stata una giornata di studio ricchissima di spunti di riflessione. Una di quelle giornate dalle quali si esce con l’impressione che forse, fra tanti sofisti, alberga ancora, a volte, il barlume della limpidezza e del coraggio di qualche Socrate. tizzare la comunicazione come un ambito al quale deve necessariamente essere sotteso un impegno etico considerata la pervasività e l’impatto nella società attuale dei processi di comunicazione, e della dimensione globale che essa assume nel mondo contemporaneo. I processi di comunicazione, soprattutto quelli della comunicazione pubblica quale che siano i mezzi investono inoltre e interagiscono con le mutevoli architetture dei rapporti tra i gruppi sociali, etnici e le strutture di governo determinando i modi dell’interazione nella struttura complessiva delle società complesse. Una particolare responsabilità grava poi su coloro che operano direttamente nei media per i quali talora l’etica coincide da un lato con una corretta padronanza delle metodologie e, dall’altro, con l’indipendenza dai poteri forti». Gianpiero Gamaleri, docente di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa, Università degli Studi Roma Tre «Quanto più la comunicazione si intreccia con il potere, tanto più deve ispirarsi a criteri etici. Ne deriva che dovrebbe essere costante la tendenza allo studio e all’applicazione degli strumenti istituzionali e organizzativi più idonei a verificare che i vari flussi di comunicazione si ispirino a un criterio socialmente utile. Individuerei tre criteri di indirizzo e di verifica. Il primo riguarda gli organismi del sevizio pubblico, e cioè la Rai, che occorre – a mio avviso – sempre più legare a un indirizzo di tipo parlamentare e non governativo. I privati invece hanno bisogno di rifarsi a codici deontologici propri a salvaguardia di un uso corretto della comunicazione. Ultima e decisiva istanza è infine quella formativa in cui l’Università e in particolare i corsi di comunicazione devono far interiorizzare alle giovani generazioni dei criteri etici per l’uso della comunicazione». Mentre stiamo chiudendo questo numero di Roma Tre News arrivano notizie incalzanti e contrastanti sulla sorte di Ingrid Betancourt, la ex candidata alla presidenza della Colombia, da oltre sei anni prigioniera delle FARC (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia). In questo numero abbiamo parlato di globalizzazione, di diritti umani, di etica, di ambiente, di comunicazione. Crediamo che Ingrid Betancourt, una donna rapita da guerriglieri che combattono il governo cui lei stessa si opponeva, che si è battuta contro la corruzione, la violenza e l’ipocrisia del potere, che crede profondamente che «vivere è impegnarsi» sia in qualche modo un simbolo. Sperando cha la missione umanitaria promossa dalla Francia in queste ore riesca a restituirle la libertà, pubblichiamo qui alcuni brani di una sua lettera indirizzata alla madre e ai figli e quella che al momento è l’ultima immagine di Ingrid Betancourt. Entrambe risalgono al novembre scorso. «È un momento molto difficile per me. Chiedono le prove che sono viva e ti apro l’animo in questo scritto. Fisicamente sto male. Non mangio, non ho fame, mi cadono molti capelli. Non ho voglia di niente. Credo che sia la cosa migliore che possa capitare, non aver voglia di niente, perché qui, in questa giungla, l’unica risposta a qualunque richiesta è “no”. Dunque, è meglio non avere voglia di nulla ed essere almeno libera dai desideri. Sono ormai tre anni che chiedo un dizionario enciclopedico per poter leggere qualcosa, per imparare qualcosa, per mantenere viva la curiosità intellettuale. Continuo a sperare che, almeno per compassione, me ne procurino uno, ma è meglio non pensarci». […] «Voglio chiederti, mamma cara, di dire ai ragazzi di mandarmi tre messaggi alla settimana. Niente di speciale, se questo è anche il loro desiderio e se avranno voglia di farlo. Non ho bisogno d’altro se non di essere in contatto con loro. È la sola informazione vitale, essenziale, indispensabile, il resto non mi interessa più».[…] «Ho le mani sudate e la mente annebbiata, finisco per fare le cose molto più lentamente del normale. Le marce sono per me un calvario perché il mio equipaggiamento è molto pesante e non riesco a sostenerlo. Ma tutto è stressante, perdo le cose o me le sottraggono, come i jeans che Mélanie (è la figlia, ndr) mi aveva regalato a Natale e che avevo addosso quando mi hanno preso. L’unica cosa che sono riuscita a conservare è la giacca e questa è stata davvero una benedizione, poiché le notti sono gelide e non ho altro per coprirmi». […] «Prima, approfittavo di ogni occasione per fare un bagno nel fiume. Dato che sono la sola donna del gruppo, lo devo fare quasi completamente vestita: pantaloncini, camicia e stivali. Prima mi piaceva nuotare nel fiume, ma adesso non ne ho più neppure la forza. Sono debole, sembro un gatto davanti all’acqua. Io che amavo tanto l’acqua, non mi riconosco più». […] «Nel corso degli anni non ho potuto pensare ai ragazzi e il dolore per la morte di papà ha assorbito tutta la mia capacità di resistenza. Piangevo pensando a loro, mi sentivo soffocare, incapace di respirare. […] Sono quasi impazzita a causa della morte di mio padre. Non ho mai saputo come sia accaduto, chi c’era, se mi ha lasciato un messaggio, una lettera, una benedizione». […] «Alla mia Melelinga, mio sole di primavera, mia principessa della costellazione del cigno, a lei che amo tanto, desidero dire che sono la madre più orgogliosa di questa terra. E se dovessi morire oggi stesso, me ne andrei soddisfatta della vita, ringraziando Dio per i miei figli. Mélanie, ti ho sempre detto che sei la migliore, molto migliore di me, una specie di versione perfezionata di ciò che io avrei voluto essere. È per questo, con l’esperienza che ho accumulato nella vita e nella prospettiva che mi offre il mondo visto a distanza, che ti chiedo, amore mio, di prepararti per raggiungere le mete più alte. Al mio Lorenzo, al mio Loli Pop, il mio angelo della luce, il mio re dagli occhi azzurri, il mio musicista che canta e mi incanta, al signore del mio cuore, voglio dire che dal giorno in cui è nato e fino ad oggi è stato la fonte delle mie gioie». […] «Mamita, ci sono tante persone che voglio ringraziare per il fatto di ricordarsi di noi, per non averci abbandonato. Per un lungo periodo, siamo stati come i lebbrosi che rovinano la festa. Noi, i sequestrati, non siamo un tema “politicamente corretto”, suona meglio dire che bisogna affrontare con fermezza la guerriglia, anche se dovesse costare il sacrificio di vite umane. Di fronte a ciò, il silenzio. Solo il tempo può aprire le coscienze ed elevare gli spiriti. […] Bene, Mamita, che Dio ci aiuti, ci guidi, ci dia la pazienza e ci protegga per sempre e addio». Vi piacerebbe scrivere su Roma Tre News? Volete inviarci racconti, poesie, fotografie, disegni? Se vi piace questo giornale potete iscrivervi alla nostra mailing list oppure potete segnalarci idee, opinioni, critiche, apprezzamenti. Per contattare la redazione scrivete a: [email protected]. ROMA TRE