COMUNICAZIONE
Il Sole-24 Ore
CORPO
Domenica 26 Giugno 2005 - N. 173 — Pagina 37
F ESTIVAL
A CORPO
Il sontuoso «Manuale tipografico» di Alberto Tallone, la summa di un geniale artigiano
Classico a chiare lettere
C
+
di Stefano Salis
È
una questione di carattere. Al di là della semplice
battuta colpisce, nei grandi artigiani che hanno fatto la
storia dell’arte tipografica, la
predisposizione gioiosa e orgogliosa verso il proprio lavoro.
Fatto di passione, equilibrio, armonia, rispetto
della tradizione e di dedizione totale.
Aldo Manuzio scriveva
in una lettera: «Non mi
pento della fatica e dell’impegno, cui da
molti anni mi
sobbarco nel diffondere i buoni
autori a servizio vostro e delle
buone lettere. Anzi sono spesso
pieno di gioia, perché nasconderlo?». Gli faceva eco, mezzo
millennio dopo, un altro grande
stampatore-tipografo-editore italiano, Alberto Tallone (che a
Manuzio e Bodoni si ispirò sempre nella sua trentennale attività). Assunto come apprendista
nell’officina tipografica del suo
maestro — quel Darantiere che
qualche anno dopo gli avrebbe
ceduto l’attività e i "ferri del
mestiere" (letteralmente, i caratteri, il torchio e le macchine,
tuttora perfettamente efficienti
ad Alpignano) —, quando gli fu
concesso di comporre il suo primo libretto non si trattenne con
la madre: «Scrivi spesso al più
felice degli operai: il tuo figlio
Madino».
Eric Gill, incisore, grafico,
designer e scultore inglese di
grande fama ai primi del Novecento (nonché creatore di un
alfabeto di sobria eleganza,
provate a cercarlo sul vostro
computer: è il GillSans, ce
l’avete tra i font disponibili),
esausto dal suo lavoro proclamava: «L’unico modo per riformare le moderne lettere è abolirle». Una decisione ben drastica per uno che, nella sua autobiografia aveva esclamato:
«L’incisione di lettere! Lavoro
più di ogni altro grandioso».
Insomma: costruire un alfabeto — e lasciarlo in eredità a
tutta la comunità degli scriventi
— è uno dei modi più sicuri di
oltrepassare il proprio tempo e
per essere ricordati a lungo. Alberto Tallone lo aveva capito
benissimo. E basta dare un’occhiata, anche da profani, alla
monumentale edizione che vede
la luce in questi giorni dalla sua
stamperia del Manuale tipografico dedicato ai frontespizi e ai
tipi maiuscoli tondi e corsivi.
Reca la firma di Alberto (a 37
anni dalla scomparsa) e l’indicazione che si tratta di un primo
volume. Infatti Enrico Tallone,
figlio e prosecutore dell’intrapresa paterna, sta meditando di
farne altri due: un secondo
sull’impaginazione della prosa,
della poesia, del teatro e della
musica, e un terzo sugli inchiostri e la carta da stampa.
Va detto subito che si tratta
di un lavoro importantissimo.
Non è il classico manuale che
indica (non aspettatevi consigli), ma un manuale che mostra,
attraverso l’evidenza. È un manuale estetico, alla Bodoni,
stampato su carte italiane (Sicilia, Pescia, Fabriano) come se-
SEGNI
Una rassegna di alfabeti e frontespizi
di grande valore documentario:
da Petrarca e Dante fino a Neruda,
pochi editori possono pubblicare
gli originali per raccontare la loro storia
DELLA PUBBLICITÀ
L’urlo
della mediocrità
assoluta
M
+
di Giulia Ceriani
U
rla. Violente, agghiaccianti, di quelle che ti fanno sobbalzare sulla sedia e poi buttare uno sguardo traverso a
quello che sta intorno per capire se tutto ancora va bene.
I film di Cannes 2005 — 52ª edizione del Festival Internazionale
della Pubblicità — sono costellati di urla di fronte a una realtà
che diventa d’improvviso terrificante. Perché non c’è più latte
(«Got Milk?»), perché papà non ha come al solito il quotidiano
sportivo stampato sul viso («L’Equipe»), perché mi è stato
strappato un oggetto qualunque (Pampers): si grida forte per dire
dolore sorpresa paura, poi tutto ritorna a suo modo normale.
Non è una bella storia. E nemmeno un trucco di quelli che
divertono e magari funzionano. La scena pubblicitaria che si
racconta attraverso il media più generalista, quello televisivo,
urla per farsi sentire, esagera i toni, approfitta per quanto si può
dell’iperbole (Marmite, una valanga di concentrato di manzo per
le vie della città) e del paradosso (Mercedes srl, impossibile
credere che esista, e ci si cozza contro facendo jogging)
per provare a essere convincente. Ma fatica a essere anche solo divertente, o a bucare
in qualunque altro modo la soglia dell’indifferenza.
È, in realtà, storia più vera
del vero, dove tutto quello che
non avrebbe potuto essere,
che difficilmente si immaginava, è invece realtà certa e data,
ed è chiaro che il pubblicitario
fatica a provocare quell’autoriflessività, quello strappo al già
visto e sentito, che solo può
procurare attenzione. Così resta — ma per l’osservatore
del costume, per il consumatore si teme un po’ meno — l’affresco vasto e preciso di una
congiuntura che si racconta per quello che può, nelle sue contraddizioni vistose: spiando i grandi ricchi dal buco della serratura
per replicarne gli stereotipi (H&M, che fa dire a Karl Lagerfeld
«If you are cheap nothing helps» in modo crudamente letterale), rappresentando la solitudine di coppia (lui e lei al tavolino, lei protesta perché lui lavora troppo, lui le prende la mano
per consolarla e comincia a cliccare), mettendo in scena temi
del dibattito sociale come il matrimonio gay, il rapporto con
la natura sempre più spesso mostruosa, il sesso solitario e a
distanza (Axe, «How dirty boys get clean»), la storia ignorata
(History Channel), la duplicità di chi può essere animalista e
poi macellaio (il tempo di un drink).
l Festival, di questo appiattimento dell’immaginario sul reale,
sembra essere a suo modo consapevole, e prova a rispondere
con un nuovo premio alla radio, e poi dando uno spazio
sempre più vasto ai mezzi del "below the line", con i premi alla
comunicazione "direct" (case histories tra le più interessanti), al
digitale, all’uso dei media; con il focus, all’interno della sezione
"outdoor", dato alla comunicazione ambientale, a tutto quello
che è installazione, evento urbano e finanche "street art". E
soprattutto, con i Titanium Award, premio dedicato alla comunicazione integrata che ha selezionato pochissime campagne e che
non è stato di fatto attribuito, ma che ha focalizzato alcuni
esempi di assoluto riguardo (Volvo 106, Mini Counterfeits) per
l’uso di mezzi non convenzionali: semplici modi di comunicare,
fuori dai vincoli dei canali mediatici predefiniti.
Perché la partita si gioca ormai massimamente da questa
parte della linea, e sembra ovvio ripetere che in un mondo
ultrasaturo di comunicazione vistosamente emessa, la sorpresa
può cogliere solo alle soglie dell’inatteso, là dove un evento
anche piccolo possa sovvertire la routine dell’esperienza. Non
è il canonico trenta secondi di un’arena superaffollata a
poterlo fare; possono, invece, ancora per qualche tempo (quello che precederà la futura assuefazione), fenomeni apparentemente fuori dalle righe, pronti a ricontestualizzare di volta in
volta il proprio discorso: performance e micro-installazioni
(un reggiseno senza una coppa appeso tra gli altri in negozi a
libero servizio di intimo, per una campagna anti-cancro, ad
esempio), "sticker" e "communities" e passaparola.
Così non stupisce, ed è un gran bel segno, che il premio in
teoria più ambito — quello per lo spot tv — sia andato al film
di animazione per il motore diesel di Honda («Grrr», agenzia
Wieden+Kennedy, Londra), colorato e insolito e fantastico e
vagamente psichedelico, a smentire la vulgata che i premi del
Festival siano sempre abbastanza prevedibili ed esprimano o
l’opportunità (low quality, a dire il vero) dei mercati asiatici o
il gusto di una cultura anglosassone volentieri esplicita e
understated («Fresh smooth and real», come recita la birra
Bud), con la quale, certo, le prudenze nostrane e la pruderie
catto-osservante poco hanno a spartire. Non a caso, l’Italia non
ha vinto proprio nulla (tranne un bronzo con il film «Reverse»
di Leo Burnett Milano), e anche il bel film «Gandhi» di
Telecom Italia (Young & Rubicam) è apparso stonatamente
epico nel clima di generale ripensamento dei modi di comunicazione in una direzione assolutamente orientata a tracciati
non canonici. Sempre piacevoli per pulizia formale e invenzione outdoor e stampa, ma anche qui ha vinto la campagna più
street di tutte quante, quella di Tbwa Parigi per Emi.
Gli spot faticano
a imporsi
sull’indifferenza
e sovraccaricano
i toni, rinunciando
alla fantasia.
L’Italia non vince
nessun premio
In alto:
esercitazioni
degli studenti
del Maryland
Institute
College
of Art,
caratteri
disegnati da
Bruce Willen;
a destra,
«Cyberspace
and civil
society»,
poster, 1996
(designer
Hayes
Henderson).
La figura
umana è
ottenuta
rimescolando
gli argomenti
del convegno
Sopra: un alfabeto dal «Manuale» di Alberto Tallone, si tratta del Tallone Maiuscolo Corsivo c. 48 inciso nel 2000;
a destra: una copertina di «McSweeney’s» (2002), la rivista fondata e diretta da Dave Eggers. La copertina è fatta utilizzando solo caratteri Garamond.
È il layout ossessivo a fornire un’idea di contemporaneità (dal libro di Ellen Lupton, «Thinking with type», Pap)
ARCHITETTURA DELLE PAGINE
P
rendete una designer tra le più
attive negli Stati Uniti, mettetela
a riflettere (con allievi delle principali scuole di design), su come si organizza lo spazio bianco di una pagina
perché prenda una forma che l’occhio percepisca subito come adatta
al contenuto che sta veicolando. Fatela abbondare in disegni, copertine,
illustrazioni, alfabeti, vecchi e nuovi
e ancora non mai pubblicati: avrete
gno di continuità per un’altra
grande tradizione dell’artigianato italiano. Ma ha un surplus
formidabile. Tutti i frontespizi
allegati, infatti, sono originali,
provengono direttamente dalla
macchina piana di Alberto. In
più, ciascun esemplare è un unicum, in quanto non tutti i frontespizi erano disponibili in egual
numero e, mentre in tutti risulta
reimpresso uno dei primi frontespizi di Tallone, composto in
forma circolare, quando ancora
era allievo di Darantiere, gli altri exempla variano da copia a
copia. Da Petrarca a Dante, da
Neruda a Ovidio, da Cavour al
Pinocchio (con le illustrazioni
finissime di Chiostri): il catalogo di Tallone è eterogeneo e
come risultato un’eccellente guida rapida (così è concepita), ma critica,
per designer, editori, editor, grafici e
studenti su quello che c’è da sapere
sull’impaginazione.
Questo è in sintesi il lavoro che ha
fatto Ellen Lupton con Thinking with
Type (Princeton Architectural Press,
New York 2005, pagg. 180, $ 19,95).
Si tratta di una vera e propria costruzione architettonica (non a caso il
"disordinato", come deve esserlo quello di un editore che non
segue alcuna logica commerciale ma stampa quello che più gli
piace e sente vicino alla propria
sensibilità. I frontespizi di Tallone, con quella inconfondibile
libro vede la luce presso una casa
editrice che si dedica principalmente
all’architettura) che ha per terreno
una pagina e per fondamenta i segni
dell’alfabeto. E non solo di carta.
Opportunamente, Lupton analizza
anche le enormi potenzialità di impaginazione dei siti web: da quelli di
informazione ai motori di ricerca.
Che fanno dell’impaginazione indovinata la loro arma più potente. (S.Sa.)
forma a calice che dà subito un
senso d’ordine e nitidezza
all’occhio, sono un esempio di
classicità rinnovata. Come notava già Gianfranco Contini:
«estro e raziocinio dominavano
Alpignano».
M APPE
Un atlante per navigare
tra moda, internet e tv
I
n ordine alfabetico: cinema, design, editoria, internet, moda, musica, pubblicità, radio, teatro, telefonia, televisione. Sono le discipline
mappate nell’Atlante della comunicazione curato da Fausto Colombo, da
poco uscito presso l’editore Ulrico
Hoepli di Milano. Un progetto editoriale ambizioso e intrigante: innanzitutto proprio per lo spettro tematico
preso in considerazione, che mette sullo stesso piano settori solitamente trattati distintamente, evidenziandone gli
intrecci. Globalizzazione e digitalizzazione sono i fenomeni maggiormente
caratterizzanti gli ultimi cinquant’anni, come sottolineano Colombo e Mario A. Maggioni (entrambi dell’Università Cattolica di Milano), qualunque fenomeno — sia esso sociale,
economico, politico o tecnologico —
non può più essere compreso nella
sua singolarità, ma deve essere contestualizzato in una rete di relazioni e di
flussi: così anche la comunicazione,
termine dai significati molteplici, che
per l’appunto per essere propriamente
inteso deve essere indagato nei suoi
vari livelli, culturale, economico, infrastrutturale, e così via.
Sebbene nulla vieti di leggere l’Atlante come un libro, voce dopo voce
per oltre 400 pagine, da "abbigliamento" a "zipping", la struttura del volume invita a una frequentazione ipertestuale, navigando come si fosse in
rete. Non solo affidandosi ai rimandi,
seguendo dunque il filo di un percorso tematico, ma partendo da quello
che risulta essere l’aspetto più interessante del volume: ovvero la sua organizzazione concettuale, evidenziata
sinteticamente in una serie di mappe.
Queste condensano l’impianto teorico
del libro, e fanno al contempo da
timone al lettore. Ad esse si affianca
un secondo strumento (come il precedente sviluppato da Maggioni), anch’esso sintetico: sono visualizzazioni di dati spesso più eloquenti di lunghe analisi, dall’esportazione di cravatte e papillon da Italia e Cina verso
il resto del mondo, all’implementazio-
ne del sistema operativo open source
Linux. È proprio questo sforzo di integrazione e di sintesi che risulta l’aspetto più innovativo del volume — al di
là delle singole voci, concise e chiare,
parche di riferimenti sugli autori, prive di indicazioni bibliografiche, talvolta (dichiaratamente) parziali.
Per nessuna delle discipline trattate
l’Atlante intende infatti considerarsi
esaustivo, ma per tutte diviene uno
strumento utile, in quanto illustra un
quadro di insieme che è tanto difficile
condensare quanto importante avere
presente. Come un atlante geografico,
appunto: che per farci vedere quanto
l’occhio nudo non potrebbe mai cogliere, occulta una parte consistente
di quanto questo sarebbe in grado di
registrare. (Chiara Somajni)
«Atlante della comunicazione», a cura
di Fausto Colombo, Hoepli, Milano
2005. pagg. 414, Á 36,00.
Tallone lavorava con i suoi
cinque alfabeti da lui disegnati
nel 1949 (in corpo 12): una serie completa di maiuscolo tondo
e corsivo, minuscolo tondo e
corsivo, maiuscoletto. I suoi libri, composti per lo più con i
suoi caratteri, il Caslon e il Garamond, consegnano il suo atelier agli indirizzi certi del grande artigianato tipografico, come
a suo tempo lo erano i laboratori di Bodoni, degli Elzeviri, dei
Giunti (sia pure con le proporzioni dovute). Per l’opera di
tutti questi maestri del libro
vale una frase dello stesso
Gill: «La bellezza che irradia
dal lavoro degli uomini è la
bellezza del sacro». I gesti di
chi compone manualmente un
testo hanno a che fare con quelli di un sacerdote. Partecipano
la complessità della rappresentazione della verità. Non è certo un caso che il primo libro
ad uscire da un torchio sia stato una Bibbia.
Alberto Tallone, «Manuale tipografico dedicato ai frontespizi e
ai tipi maiuscoli tondi e corsivi»,
Tallone editore, Alpignano 2005,
con frontespizi originali, Á
240,00;
Da ricordare: Eric Gill, «Sulla tipografia», Sylvestre Bonnard, Milano 2005, pagg. 120, Á 18.00.
I
DEI TEMPI
Un numero della rivista e una monografia sulle illustrazioni per il «New Yorker»
di Domenico Rosa
B
+
A
ll in line è il primo libro
pubblicato da Saul Steinberg, nel 1945. Barando, potremmo tradurlo come «tutto nella
linea» e sarebbe un titolo profetico
del lavoro del disegnatore rumeno
scomparso nel 1999. «I disegni sono fatti di niente», diceva. I suoi
sono fatti in elegante frugalità di
mezzi, una sottile linea continua,
uniforme, disarmante. Capace però
di "comprendere", in ogni senso,
segni appartenenti a culture figurative divergenti, universi stilistici
contraddittori. Quella linea, che
qualcuno definisce una linea narrativa, una linea di pensiero, è vivisezionata nell’ultima, bellissima, monografia del semestrale «Riga», a
cura di Marco Belpoliti e Gianluigi
Ricuperati, con testi, tra gli altri, di
Ernst Gombrich, Harold Rosenberg, Roland Barthes, Italo Calvino, Tullio Pericoli.
Attraverso la parodia degli stili
artistici, Steinberg mina l’autorità
di una Storia dell’Arte incapace di
collocarlo al suo interno. La smonta e la rimonta a pezzi fuori conte-
Steinberg, tutto in una Riga
Saul Steinberg, disegno per il n. 25 del «New Yorker», 1961
sto, in una sorta di Las Vegas umanoide in cui Topolino convive con
Abramo Lincoln e gli Hell’s Angels. Rosenberg, il più influente
critico d’arte americano del secolo
scorso, definisce il suo lavoro una
stenografia di stili. Imitando, Steinberg annulla se stesso; pone il problema dell’identità in una società,
quella statunitense, dalle molte, forse troppe identità.
La ricerca dell’originalità non
esclude le molte opzioni possibili
per privilegiarne una, ma le include tutte. Come per Picasso. Come
per Joyce. Steinberg si definiva
uno scrittore che aveva trovato nel
disegno la più rigorosa, precisa e
morale delle espressioni, ma per interpretarla reclamava
la sotterranea connivenza del lettore
in nome di un comune bagaglio storico e culturale. La
contemporaneità
come complicità.
Grande creatore
di sinestesie, meccanismo per il quale
associamo ad esempio un’immagine a
un’idea astratta, Steinberg ha disegnato la forma della musica e dei
dialoghi. Con lui le parole diventano personaggi, i numeri oggetti, la
calligrafia disegno. Ha fatto tavoli
in legno con sopra qualche oggetto
personale, una data, una matita, che
sono piccole autobiografie. Ha indossato maschere di cartone disegnato prima di farsi fotografare, metafora della mimetizzazione per un uomo fuggito dalla dittatura comunista
rumena e dalle leggi razziali italiane.
Tra le firme di
«Riga» c’è anche
Ian Frazier, autore
dell’introduzione a
Steinberg at the
New Yorker, un robusto volume a cura di Joel Smith appena uscito negli
Stati Uniti che celebra la collaborazione con il settimanale, durata 60 anni.
Una produzione prolifica, 1.200 disegni di cui 89 copertine, di cui il
libro propone una selezione, divisa
per argomenti. Il «New Yorker» fu
per Steinberg la palestra, il dovere,
"i compiti a casa", ma fu anche il
Si definiva
«uno scrittore
che aveva trovato
nel disegno la forma
di espressione più
rigorosa e morale»
suo rifugio, la sua Patria, il suo
mondo "politico", dove lasciar
esplodere tutta la sua carica sovversiva. La cadenza settimanale imponeva una disciplina produttiva sconosciuta a Steinberg, che procedeva con una preparazione del disegno molto accurata ed eseguiva il
definitivo alla velocità di un respiro. Diffidava del talento, del virtuosismo, «non voglio che la mia mano prenda il sopravvento sul mio
cervello», affermava. Il suo modo
di congegnare la sorpresa, di costruire seducenti trappole visive,
era perfetto per le copertine del
settimanale newyorchese, che tradizionalmente cercano un sorriso
"freddo" da parte del lettore. Steinberg interpretò lo spirito del «New
Yorker» come nessuno. Sosteneva
di aver inventato una professione,
ma detestava essere un professionista. «È più facile disegnare che
spiegare — diceva —, ogni spiegazione è una spiegazione di troppo».
«Riga 24, Saul Steinberg», Marcos
y Marcos, Milano 2005, pagg. 412,
Á 18,00;
«Steinberg at the New Yorker», Joel
Smith, Harry Abrahams, New York
2005, pagg. 240, $ 50,00.
Y
+
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