Questo testo appare nel Libro “MASSA E MERIBA, Itinerari di fede nella storia delle
comunità di Base” Claudiana – Tempi di Fraternità, , Torino 1980, pp555-581
LA ECCLESIOGENESI
DELLE COMUNITÀ DI BASE
di AMILCARE GIUDICI
I. IL DISSENSO RELIGIOSO IN ITALIA
Per comprendere il discorso ecclesiale delle comunità di base è innanzitutto
importante collocare quest'ultime dentro il movimento, storicamente molto più ampio,
del dissenso cattolico. Le comunità di base infatti segnano un salto di qualità nel modo
di porsi del dissenso di fronte alla chiesa: prima di loro dissentire vuole dire emigrare
— nel senso di vivere in diaspora mettendo fra parentesi e sotto silenzio la propria fede
fino magari a svuotarla completamente —; dopo di loro dissentire può anche voler dire
costruire un'alternativa, reinventare comunitariamente la propria fede e riscoprire il
significato stesso dalla chiesa. Le comunità di base devono allora essere viste come il
fenomeno più significativo di quel cristianesimo critico che a un certo punto ha visto
nella soluzione di emigrare un'uscita inefficace, sia sul piano personale sia su un piano
politico-ecclesiale. A causa di queste connessioni tra il movimento delle comunità di
base e il dissenso cattolico più generale è opportuno dire qualcosa, molto brevemente,
su quest'ultimo.
Il dissenso cattolico italiano non è spuntato come un fungo all'indomani della
chiusura del concilio Vaticano II e neppure è semplicemente riconducibile alle forze
rivoluzionarie sorte nel '68. Esso viene da molto più lontano e affonda le sue ultime e
più profonde radici in quella lacerazione tra chiesa e società che segna il parto stesso
della società "moderna".
La società moderna sorge per mezzo di un distacco dalla tutela universale della
chiesa medioevale, e questo distacco penetra nella coscienza europea e vive in essa
come un trauma. La conversione antropologica, la rivoluzione industriale, la
conseguente visione secolarizzata del mondo e della storia, l'emergere della laicità
come valore emblematico, sono di volta in volta i pilastri portanti di un cammino che è
anche una fuga dalla chiesa e da quanto essa rappresenta. E la chiesa italiana nonostante
alcuni sforzi significativi, non è mai riuscita a ricucire la lacerazione iniziale, non è mai
riuscita a colmare lo spazio che la separa dall'uomo moderno: essa appare
costantemente in ritardo. A un certo punto — possiamo pensare agli anni che seguono la
prima guerra mondiale e in un modo più preciso a quelli che seguono la seconda — la
percezione di questo ritardo della chiesa e la coscienza di una rottura forse incolmabile
raggiungono anche le masse italiane.
Il dissenso, prima riservato ad alcuni intellettuali e poi presente in un modo
ancora sporadico, diviene a questo punto un fenomeno di massa. Ma questo dissenso si
traduce in un abbandono della pratica religiosa, in un lasciar perdere, in una mancanza
di incisività che la chiesa viene ad avere sulle coscienze di molte persone: qui dunque
dissentire vuol dire "emigrare", vuol dire semplicemente "lasciar perdere".
Dopo gli anni '50 avviene una evoluzione significativa: si sviluppa all'interno
stesso della chiesa un dissenso culturale-teologico, che precipita in alcune riviste a
discreta diffusione.
A seguito di questo dissenso culturale e collegato con esso si sviluppa un
dissenso interno alla chiesa, che non emigra più e che senza prendere forme autonome
rispetto all'istituzione vive dentro di essa con atteggiamenti di malessere e con istanze
critiche. L'evoluzione di questo dissenso, che possiamo superficialmente considerare
come il terreno su cui fioriranno le comunità di base, è segnata da due avvenimenti
storici che incidono oltre la provincia italiana. Si tratta del pontificato di Giovanni
XXIII e del concilio Vaticano II.
La figura di Giovanni XXIII (1958-1963) fu vissuta da molti, anche in Italia,
come una specie di dimostrazione che alcune cose nel campo della religione e della
chiesa possono cambiare; molti credenti vissero attraverso la sua figura una forte
speranza in un rinnovamento serio del fatto religioso. Egli funzionò — in una certa
percentuale anche suo malgrado — come elemento catalizzatore che aumentando le
speranze finì con il rinfocolare il dissenso.
Le attese riposte in questo pontefice trapassarono, non senza alcune difficoltà ma
anche senza forti scosse, nel concilio Vaticano II (1962-1965). Una valutazione
complessiva di questo concilio rimane problematica: sul piano di una riflessione
teologica esso segna sicuramente un passo avanti, ma anche un lavoro di equilibratura e
perfino di compromesso su alcuni punti. Sul piano di un rinnova-mento profondo della
vita di fede e della vita ecclesiale esso demandò a commissioni, a organismi centrali e
alle conferenze episcopali. Quando si trattò di tradurre nella vita di tutti i giorni il frutto
del lavoro conciliare l'area critica della chiesa italiana ebbe sicuramente la sensazione di
una grande delusione.
La speranza in qualcosa di nuovo — speranza che veniva anch'essa oramai da
lontano essendo sorta subito dopo gli anni cinquanta ed essendosi nutrita della figura
profetica di Giovanni XXIII e delle attese conciliari — rimase qui in Italia fortemente e
decisamente stroncata.
Ulteriori attese sembrarono fuori luogo: si fece strada la convinzione che un
serio rinnovamento non poteva più essere atteso dall'alto. Alla luce degli avvenimenti
successivi si deve sicuramente dar ragione a quanti videro in una buona parte della
gerarchia italiana una volontà restauratrice, un ritorno al passato, uno sforzo per
impedire che le intuizioni più innovatrici del Concilio passassero nella realtà dei fatti.
È a questo punto — siamo alla vigilia del '68 — che alcuni gruppi iniziano un
cammino di ricerca autonomo nel campo della fede, un cammino che inizialmente non
ha ancora la coscienza di voler essere un'alternativa, ma che di fatto mette in atto
dinamiche completa-mente nuove rispetto alla tradizione. Questo cammino inizia nella
maggior parte dei casi così: un gruppo di persone entra in conflitto con la parrocchia per
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una questione determinata, magari piccola, ma che diventa emblematica e che raccoglie
e rappresenta un disagio molto più vasto, molto più lungo. Dopo una breve trattativa il
gruppo si stacca dalla parrocchia e inizia una sua strada. L'evoluzione successiva
consiste nella creazione di collegamenti con gruppi analoghi. Ben presto questi gruppi
si definiscono "comunità", verso gli anni settanta si aggiunge una specificazione
tutt'altro che secondaria "di base".
Ho fatto questo preambolo storico perché è solo a partire da questa premessa
storica che si può comprendere la prima ecclesiologia delle comunità di base. Queste
comunità sorgono inizialmente in "polemica" con la chiesa istituzionale: una polemica
che trova il suo senso vero in una delusione di qualcosa che era maturato in una decina
d'anni, ma che a sua volta rinverdisce quell'antica lacerazione che preme sulla coscienza
dell'uomo moderno. Questa lacerazione si attualizza come separazione della religione
dalla vita, del cielo dalla terra, della pratica religiosa dalla lotta politica. Si tratta allora
di ripensare da capo che cosa vuol dire credere!2
II. LA PRIMA ECCLESIOLOGIA DELLE COMUNITÀ DI BASE
1. Comunità - Comunione - Chiesa
La prima ecclesiologia che si impone può essere focalizzata dal concetto di
comunione: era un concetto non estremamente nuovo, già tematizzato dal Concilio, già
presente nelle trattazioni teologi-che, perfino già utilizzato da diversi movimenti. E
tuttavia la sua assunzione a cardine portante della ecclesiologia delle comunità di base
portò a modificazioni specifiche di questo concetto, e della corrispondente
ecclesiologia.
Contro l'istituzione che tende a vedere la comunione come l'unione di tutti i
fedeli attorno alla gerarchia apostolica, intesa quest'ultima come garante della qualità
ecclesiale della comunione (cioè: c'è chiesa dove c'è comunione con i legittimi pastori),
le comunità di base intesero la comunione, che fa esistere la chiesa, come un evento che
sorge per opera dello Spirito. Questo evento avviene con la collaborazione creativa del
libero e spontaneo incontrarsi umano. La chiesa è quindi necessariamente sempre un
even-to: è il fatto stesso di riunirsi, non la congregazione risultante da questa unione. La
chiesa è l'evento che si compie come insorgenza di una comunione umana e religiosa
attorno all'annuncio del Van-gelo. La comunione non è il risultato di una chiesa
fittiziamente pensata come stante prima della comunione, ma è il fatto stesso della
comunione che avviene ora e qui.
Che cosa si sostituisce alla gerarchia come asse portante della comunione? Si
sostituisce la fede in Gesù Cristo, oggettivamente raggiunto per mezzo del gesto
sacramentale e per mezzo della parola scritta. Da qui prende origine quella centralità
che assume la Bibbia in tutte le comunità di base: la Parola, continuamente letta e
meditata, è il centro e il fondamento della comunità. L'evento della comunione
ecclesiale risulta così composto da due elementi fonda-mentali: un oggettivo riferirsi a
Cristo e un soggettivo essere coin-volto nel rapporto della comunione. Il Vangelo che
viene annunzia-to non è prima di tutto un libro, ma è una buona notizia che uno dice ad
un altro: chi annuncia non può che annunciare una sua storia personale nella quale il
Cristo incontrato è penetrato fino a sconvolgerla totalmente. Colui che accoglie
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l'annuncio non fa altro che accettare di essere coinvolto anche lui nella medesima
vicenda. Ciò che risulta è un incontro interpersonale, è una comunione 3.
Non c'è più allora nessun posto per la gerarchia? Qual è la sua funzione e il suo
senso in questa ecclesiologia?
L'attuale apparato gerarchico rappresenta una forma organizzativa che la chiesa
si è data. La determinazione storico-concreta che la chiesa assume nei diversi tempi e
nei diversi luoghi non è stata stabilita una volta per sempre da Gesù Cristo, ma rimane
una responsabilità e una iniziativa della chiesa stessa'. Tuttavia anche questo aspetto
terrestre della chiesa, aspetto necessario per l'esistere della chiesa, si fonda su un
carisma dello Spirito. Coloro che svolgono questo carisma compiono il servizio della
comunione: nel senso che attraverso la loro funzione la comunione che costituisce la
chiesa-comunità diventa una comunione universale. La gerarchia è lo strumento
attraverso il quale la comunione si manifesta e vive come comunione "cattolica"; è lo
strumento attraverso il quale la singola comunità è aiutata a partecipare alla comunione
di tutte le altre comunità cristiane.
La concezione ecclesiologica delle comunità di base deve ancora essere chiarita
nei confronti di alcune posizioni circolanti, che met-tono ugualmente a fondamento
della chiesa il concetto e la realtà della comunione.
Nell'intendere la chiesa come comunione è estremamente facile creare il piccolo
gruppo, chiuso e felice in se stesso, fare setta più che chiesa. E estremamente facile
cadere in uno psicologismo: con-fondere cioè l'esperienza della fede con le emozioni
sentimentali del trovarsi bene fra amici, fino ad assumere, più o meno coscientemente,
come criterio di verità il proprio soddisfacimento sentimentale. E ancora facile cadere
nello spiritualismo dualistico: vivere il proprio rapporto con Dio al di fuori e
indipendentemente dal mondo, pensare alla propria salvezza come staccata dalla
salvezza di tutti gli altri. Infine è ancora estremamente facile diventare integralisti: fare
cioè della propria esperienza di fede un criterio assoluto di verità valevole in tutti i
campi trasformando il proprio credo in un'arma di giudizio.
In riferimento a queste impostazioni le comunità di base hanno inteso la
comunione ecclesiale come comunione che si consuma nella comunione mondana e
politica, come comunione che si spezza nella costruzione della giustizia, come
comunione che assume la responsabilità di una scelta di classe e si misura con la
fattualità storica. La comunione è un cerchio spezzato, sventrato dal mondo: la chiusura
di questo cerchio avverrà solo nel Regno, avverrà solo quando chiesa e mondo
coincideranno perfettamente.
Una comunità che si fonda su questa comunione non vive più per se stessa, non
pensa più a se stessa; essa viene continuamente dispersa per costruire nel mondo
l'incontro con il Risorto. Essa non vive più nel tempio, poiché anche il suo Signore ha
definitivamente abbandonato il recinto del tempio nell'attimo stesso in cui ha
abbandonato il chiuso luogo della tomba. Questa comunità ama il mondo più del
tempio, e a causa di questo amore non può "concordare" nulla con il mondo, perché non
ha bisogno di difendersi. Quando una simile comunità vive fino in fondo la vocazione
della sua responsabilità di fronte al mondo e si fa esodo continuo, quando ancora si fa
carico dei problemi dei "poveri", allora lo spiritualismo e lo psicologismo e tutte le altre
cose simili a queste vengono radicalmente debellati. E quando la comunione con l'altro
— intendi: il non cristiano — diventa una dimensione stessa della comunione con il
fratello nella fede, allora ogni integralismo è estromesso in partenza. Allora la storia
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concreta, con i fatti di tutti i giorni e con tutti i segni dei tempi, diventa anch'essa parola
di Dio, e allora ogni mitico innalzamento della parola biblica è superato per una
concreta assunzione della storia5.
In questa impostazione la fede da certezza diventa una ricerca per costruire tutto
da capo, diventa una speranza che spinge all'azione. E la comunione diventa una
promessa da costruire.
Qui non vi è alcun posto per un ecclesiocentrismo nuovo, non vi è alcun posto
per una teologia gloriae né vi è posto per pensare a un ricompattamento della chiesa
contro o di fronte alla società.
Ma non vi è neppure posto per una teologia crucis che svuoti l'uomo e la
mondanità della loro ebbrezza esistenziale e del loro spessore teologico. Qui la
pinguedine dell'antico Testamento fa par-te dell'evangelo che la comunità annuncia e a
cui crede con tutte le sue forze.
2. Una chiesa del popolo
La prima ecclesiologia delle comunità di base dunque si incentra su due nozioni
essenziali: chiesa come comunione e questa comunione saldamente ancorata alla Parola
che unisce al Cristo.
Una terza caratteristica è costituita dal carattere "laico", preso qui nel senso di
opposto al clero.I1 movimento delle comunità di base insorge contro il carattere
marcatamente clericale della struttura ecclesiale e avvia un'esperienza di chiesa gestita
dai laici. Il rifiuto del clero, visto come strumento di un molteplice potere, raggiunge
forme radicali in alcune comunità. Quando questo rifiuto diviene riflessione critica
trova le sue motivazioni a partire dalla chiesa come comunione: il concetto di
comunione esclude una divisione della chiesa lungo la linea del potere, esclude che ci
sia qualcuno che costantemente insegna ad altri che costantemente imparano, esclude
che ci sia qualcuno che " confeziona" i sacramenti ed altri che li consumano, esclude in
breve una gerarchizzazione della comunità. Una riflessione positiva su questo problema
riscopre il sacerdozio dei fedeli, come situazione salvifica fondamentale che contiene in
sé tutti i "poteri sacerdotali", riscopre ancora attraverso la mediazione del Nuovo
Testamento che Gesù ha eliminato ogni intermediario tra l'uomo e Dio, e che a ciascuno
è dato lo Spirito per accedere direttamente al Padre.
Una successiva riflessione sui carismi aiuta a superare un egualitarismo
inefficace e infecondo, ma il rifiuto di una casta di persone poste sopra la comunità,
preparate a parte, funzionali a un ampio sistema incontrollabile e gravemente
compromesso con il potere, rimane e innesca tutta una lunga serie di problemi teologici
ed esistenziali.
L'evoluzione di questa dimensione laica è aiutata dal successivo sviluppo delle
comunità di base: partite come comunità prevalente-mente giovanili e influenzate dal
mondo culturale, ben presto si radicano in mezzo al popolo più semplice e anche in
mezzo agli anziani6. Per un istinto connaturale a questi strati della popolazione emerge
una volontà di sentire e di vivere la comunità religiosa come realtà di base, come
esperienza di gente.
Tutto questo non si riduce a riflessioni teoriche: nelle comunità di base la gente
legge e studia la Bibbia, prepara e presiede momenti di preghiera, gestisce la vita della
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comunità, partecipa a tutte le decisioni che la comunità deve prendere. A turno qualcuno
struttura la celebrazione della eucarestia, qualche volta qualche comunità celebra
l'eucarestia senza il prete. Nelle comunità più numerose esistono diversi gruppi di
persone che si occupano dei diversi compiti, della catechesi dei bambini, del
collegamento con altre comunità e così via. Le decisioni vengono sempre prese in
assemblea dove tutti partecipano e dove spesso si sviluppa un confronto critico
rilevante. Dire che qui la chiesa cresce dal basso è tutt'altro che uno slogan!7
Una quarta nota di questa prima ecclesiologia delle comunità di base che vorrei
sottolineare è il carattere carismatico-profetico: non nel senso che queste parole
assumono in alcuni circoli spirituali ad impostazione mistico-evasiva, ma nel senso che
la comunità crede che lo Spirito le dia tutti i doni necessari alla sua esistenza e alla sua
missione e che ciascuno abbia un suo carisma. In termini più correnti nella nostra
cultura si dovrebbe dire che la comunità, pur nella sua piccolezza e nella sua fragilità, si
riappropria di tutto quello che costituisce la chiesa. Carisma indica anche creatività,
libertà e duttilità nel vivere le diverse situazioni e nel leggere i segni dei tempi, indica
ancora disponibilità al nuovo contro le fissazioni giuridiche e le codificazioni
tradizionali. La caratteristica carismatico-profetica allora da una parte emana dalla
abolizione della gerarchizzazione all'interno della comunità — l'essere cioè la comunità
una fraternità dove ciascuno ha qualcosa da dare e dove ci si riappropria degli strumenti
religiosi — e dall'altra si ricongiunge a un preciso modo di porsi nella storia e nel
mondo, ossia a un'apertura costante ai segni della storia.
Quando la comunità è viva, capace di accompagnare il cammino di liberazione di
ciascuno, dinamicamente inserita e provocata dal pezzo di mondo in cui vive, cosciente
del cammino che compie; allora la comunità sente che tutto questo è per lei un dono
dello Spirito.
3. Osservazioni
Ho presentato in alcuni punti schematici quella che mi sembra essere stata la
prima ecclesiologia delle comunità di base. Vorrei ora fare qualche rilievo su questo
modo di intendere la chiesa da parte del movimento delle comunità di base.
a) L'apparire delle comunità di base, qui in Italia come altrove, deve
indubbiamente essere considerato nella grossa crisi della società moderna. Essa produce
una profonda atomizzazione dell'esistenza e un generale anonimato delle persone; in
questo modo è naturale che sorgano gruppi e comunità ad ogni livello. Ma secondo
l'introduzione che ho fatto il sorgere delle comunità di base nel nostro paese è dovuto in
modo particolare alla crisi della istituzione stessa della chiesa cattolica: le comunità di
base nascono per un ritardo della chiesa ad affrontare problemi che premono sulla
coscienza religiosa. Questa genesi storica spiega molte cose riguardo alla prima
ecclesiologia che ho esposto. Si sente in essa l'influenza di un intento polemico nei
confronti dell'istituzione ecclesiastica: contro il concetto gerarchico di chiesa si fa
strada il concetto di comunione; contro la massiccia organizzazione si impone la piccola
comunità; contro la sicurezza e la diffusione dei sacramenti si diffonde la riflessione
sulla Parola. A una chiesa gestita fino in fondo dal clero si sostituisce una comunità
fatta di laici, a una gerarchia si sostituisce una fratellanza evangelica. Al posto delle
norme organizzativa e giuridiche subentra un impulso carismatico. Si direbbe che le
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comunità di base intendono la chiesa proprio come ciò che essa storica-mente qui da
noi non è.
Il contesto della polemica spiega anche quel residuo di ecclesiocentrismo che in
questa fase sopravvive in alcune comunità di base: si ritorna con una certa enfasi sul
concetto di comunità, in alcuni momenti ci si ripiega all'interno della propria comunità.
Soprattutto esso spiega il ripetersi troppo frequente di discorsi contro la chiesa e la
conduzione di alcune giuste battaglie in un modo eccessivamente ecclesiale 8.
A causa di questa situazione si può dire che in questa prima fase il problema e il
tema della chiesa occupa un posto relativamente rilevante nelle riflessioni e nei dibattiti
delle comunità di base, e anche questo è ecclesiocentrismo.
b) Riflettendo su questa ecclesiologia iniziale non possono sfuggire alcune chiare
assonanze con la teologia protestante: il ruolo della Parola che raduna la comunità, il
concetto di comunità credente non legato alla gerarchia ma alla risposta alla Parola, la
teologia dei carismi, ecc. Questa prima impressione viene largamente confermata dai
fatti: le comunità di base, soprattutto qui al Nord, hanno fatto un cammino ecumenico
molto significativo con alcune chiese protestanti.
Su molte cose ci si trova d'accordo, ed alcune cose si fanno assieme. E fuori
discussione che tutto il dissenso cattolico si è largamente nutrito della riflessione
protestante, e questo è quanto mai comprensibile essendo il protestantesimo stesso una
forma storica di dissenso.
Bisogna tuttavia fare alcuni importanti rilievi su questo punto. Innanzitutto si
deve prendere atto che lo stesso mondo cattolico sta ampiamente ricuperando i temi
fondamentali della Riforma sia a livello teologico sia a livello di vita ecclesiale. Il
Vaticano II fa testo in questo senso: molte novità non sono altro che il ricupero di
alcune istanze della Riforma9.
In secondo luogo va detto che il termine protestante non è sinonimo di sbagliato
e neppure di non cattolico: dire che una determinata teoria è protestante non significa
dire che quindi è sbagliata e neppure significa dire che per ciò stesso è rigettata dalla
chiesa cattolica.
Dopo queste due osservazioni bisogna aggiungere che non vi è una pura e
semplice coincidenza fra questa prima ecclesiologia delle comunità di base e
l'impostazione protestante, e questo per alcune sottolineature specifiche del movimento
delle comunità di base. Queste sottolineature sono:
— l'attenzione alla storia mondana, vista anch'essa come luogo della Parola di Dio;
— il clima di secolarizzazione dentro il quale la fede viene ripensata;
— lo sforzo costante e profondo di superare ogni dualismo tra esperienza di fede ed
esperienza mondana.
Ma poi non è completamente anacronistico voler contrapporre oggi il mondo
protestante a quello cattolico e per di più a quello del dissenso?
Lo sviluppo successivo dell'ecclesiologia mostrerà da solo la specificità della
riflessione delle comunità di base, le quali si muovono tra i due mondi — quello
cattolico e quello protestante — con una certa autonomia derivata dalle provocazioni
storiche attuali.
7
c) Un'ultima osservazione: i due rilievi precedenti potrebbero far pensare che le
comunità di base abbiano semplicemente reagito all'impostazione cattolica cogliendo a
spizzichi la teologia protestante. Una simile impressione sarebbe completamente falsa.
Le comunità hanno fatto un duro lavoro di riflessione sulla Bibbia, sulla propria
fede e sul senso di ritrovarsi assieme come credenti. Questa riflessione è provocata dal
dilagare della insignificanza della fede, è provocata dal fatto che l'area della sinistra,
con cui si lavora a gomito a gomito, mette radicalmente in dubbio il senso e il perché
della fede. E più che una riflessione teologica conta il fatto che le comunità hanno
messo in atto un loro modo di stare assieme come credenti, un modo che dura da quasi
dieci anni. E a partire da questa prassi ecclesiale che si deve estrarre una loro teologia
sulla chiesa.
Già in questa prima fase è difficile trovare discorsi alternativi sulla chiesa, e quando
si trovano sono più spesso spunti, singoli aspetti che di volta in volta vengono
appuntati. Ma qui inizia nella prassi spicciola un nuovo modo di trovarsi come credenti,
un nuovo modo di porsi come credenti di fronte al mondo, un nuovo modo di gestire il
problema della fede e della comunità.
III. I MOTIVI DI UNA EVOLUZIONE
Ho parlato di una prima ecclesiologia delle comunità di base, ad essa ne succede
una seconda, completamente diversa nelle sue dinamiche profonde; tra le due si
collocano alcuni avvenimenti storici ed alcune maturazioni culturali che determinano il
passaggio dalla prima alla seconda. Vorrei ora fermarmi brevemente su questi fatti e su
queste componenti culturali.
a) Il primo grande avvenimento che segna la storia della comunità è
quell'insieme di fatti e di riflessioni che compongono il così detto "sessantotto". Qui il
dissenso cattolico scopre il politico, e lo scopre non già come attività accessoria, extrapersonale, attinente semplicemente al sociale, ma come dato determinante la
strutturazione della persona e come possibilità massima di costruire creativa-mente la
storia. Il politico diventa una dimensione necessaria del proprio essere al mondo,
diventa una componente indispensabile della comunità che vuole svolgere una
"missione": in breve diventa una componente essenziale alla fede. A partire da questo
punto credere vuol dire sperare in una società più giusta o semplicemente giusta; amore
vuol dire spendersi per la realizzazione di questa speranza che anticipa l'utopia del
Regno.
L'incontro con il politico comporta storicamente l'incontro con il marxismo e il
dissenso cattolico ha vissuto questo incontro senza mezze misure confrontando ogni
asserto di fede con la critica marxista. Ne è uscito un lavoro estenuante, pieno di crisi
per molti, ma anche fecondo di apporti importanti sia per la coscienza politica che per
una diversa riflessione sulla fede. Questo confronto ha pratica-mente occupato tutta la
storia del movimento delle comunità di base, fino a produrre una pacifica convivenza
della scelta marxista (non necessariamente in senso partitico) con la scelta della fede
cristiana.
Questo appuntamento storico non si è limitato a produrre dibattiti e riflessioni
nuove, ha causato una scelta di campo che è stata quella della "sinistra". Questa scelta è
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stata gravida di conseguenze per tutti quei fatti che hanno segnato la storia italiana dal
'68 ai nostri giorni. Quali le conseguenze per la ecclesiologia delle comunità di base?
Molte e importanti!
Come prima cosa il superamento di ogni residuo ecclesiocentrismo: la scoperta
del politico, non tanto teoricamente ma nella prassi quotidiana, dà subito la sensazione
di un uscire al largo, di un radicarsi nella realtà, di aprire orizzonti più ampi. Lo sguardo
si sposta dalla chiesa alla società: non bisogna cambiare innanzitutto la chiesa, ma
bisogna cambiare la società a cui la chiesa è funziona-le. L'obiettivo fondamentale per il
credente diviene la comunione con l'uomo in luogo della semplice comunione con il
credente; diviene ancora la lotta per una società diversa in luogo di una ristretta lotta per
una chiesa diversa. La comunità cristiana si trova così esposta a incontri e a contatti
diversi: uomini e donne che si definiscono atei vivono ai confini di molte comunità di
base.
In questa scoperta del politico e in questa scelta di " sinistra " si vuole evitare
ogni integrismo, e questo avviene per il fatto che non è la comunità in quanto tale che
agisce politicamente, ma sono i singoli componenti che all'interno degli strumenti
politici comuni vivono il loro impegno politico. Questa impostazione aiuta la comunità
a disperdersi, finendo ancora una volta con il diminuire l'importanza della comunità. Vi
è qui un'assunzione radicale della storia che giunge ad eliminare la possibilità di
tracciare un confine tra la chiesa e la società10
La nuova coscienza politica che si diffonde nelle comunità di base giunge a farsi
un grave giudizio sulla chiesa-istituzione: essa è vista come un grosso centro di potere e
come sostegno e avallo della società capitalista. La comunione con una simile chiesa
non può essere che conflittuale, in questo senso il margine di separazione si allarga
notevolmente. Questo giudizio è provocato, sembra quasi inutile dirlo, dall'assunzione
del criterio marxista di valutare la realtà.
b) Il secondo dato che incide sull'evoluzione dell'ecclesiologia delle comunità di
base è il progressivo aumento di una componente popolare; a questo fatto ho già
accennato prima, ma è bene riprenderlo a questo punto per mostrarne tutte le
conseguenze. La componente popolare aggiunge due apporti significativi: una necessità
di affrontare il problema della religiosità popolare e una decongestione della polemica
ecclesiale11.
Il ricupero della religiosità popolare comporta a sua volta una maggior attenzione
ai bisogni religiosi dell'uomo, una maggior attenzione alle tradizioni e un modo più
duttile di vivere le novità di fede. E a causa di questa componente che le comunità di
base si pongono il problema della catechesi dei bambini e dei relativi sacramenti.
Ma quello che maggiormente mi sembra importante è l'apporto per un ulteriore
superamento dell'ecclesiocentrismo: le diverse bat-taglie, quand'anche condotte contro
la gerarchia come a Lavello e a Gioiosa Jonica, mostrano che la chiesa non è la cosa più
importante. Le lotte mirano a cambiare la società, sono contro la borghesia terriera e il
potere mafioso che strumentalizzano la gerarchia ecclesiastica. Proprio per raggiungere
questo obiettivo — il cambiamento della società — diviene ogni giorno più
indispensabile non fare un'altra chiesa, perché questo significherebbe porsi ai margini
della stessa società italiana 12.
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Ma il problema non è solo questo né può essere ridotto a una semplice strategia, il
problema più vero è che a un certo punto il tema della chiesa è diventato secondario per
le coscienze religiose delle comunità di base.
c) Come terzo ed ultimo punto vanno ricordate alcune istanze culturali che hanno
contraddistinto la storia di questi ultimi dieci anni. Ricorderò qui solo quelle che hanno
maggiormente influenza-to il tema che ci interessa.
1) La gente sente in una misura sempre crescente il bisogno di diventare
partecipe dei processi storici, essa è sempre meno disposta a lasciarsi condurre e
guidare da altri, è sempre meno disposta a demandare ad altri le scelte importanti da
fare. Si assiste, anche in mezzo alle numerose contraddizioni che sconvolgono i tempi
attua-li, a una crescente volontà di "riappropriarsi" di tutto quello che costituisce e
determina il problema dell'uomo e della donna. Riappropriarsi significa gestire in prima
persona quanto interessa e condiziona la propria persona. Si parla di una
riappropriazione della politica, riappropriazione dei mezzi culturali, della salute, del
corpo, della sessualità, ecc.
Nelle comunità di base questo programma si è specificato anche come impegno a
riappropriarsi del problema religioso: dunque delle istanze religiose, dei simboli e del
linguaggio, della Bibbia e della teologia. In questa riappropriazione religiosa le
comunità operano una scelta tra ciò che ritengono più importante e ciò che sembra
secondario o addirittura da lasciar perdere. Ne risulta un insieme nuovo, dove ogni
singola verità e ogni singolo "trattato" va considerato alla luce dell'insieme. Quando le
comunità hanno cominciato a gestire il problema globale della fede la ecclesiologia è
stata ridimensionata.
2) Un'altra dimensione importante della nostra attuale cultura è l'esprimersi
dell'incentramento antropologico come tema che interessa tanto la singola persona
quanto i gruppi e l'intera collettività. Questo filone trova le sue espressioni più
significative nel concetto di "liberazione", assunto ormai a criterio sommo ed universale
di valore, nella ricerca di una qualità della vita nuova e più alta e nel desiderio di
costruire un mondo più abitabile e più a misura dell'uomo e della donna. I valori
recepiti in questo contesto funzionano da criterio per valutare ogni altro valore, ivi
compresa la religione. Se si deve reinventare una fede, se si deve impostare da capo e di
nuovo il problema religioso, l'una e l'altro debbono armonizzarsi e contribuire alla
liberazione delle persone e alla progettazione di un mondo più umano. Nella loro
pochezza e nella loro debolezza le comunità di base stanno lavorando a questo progetto.
Ma allora è di nuovo nella globalità di questo vasto impianto che ogni singolo tema va
collocato e studiato.
3) Una terza caratteristica della nostra cultura è una sottesa sfiducia nella ragione
— un modo raffinato per esprimere il rifiuto di tutto quel mondo derivato
dall'illuminismo che ci ha condizionati fino a pochi giorni fa e insieme un modo per
rifiutare la leadership degli intellettuali e dei capi — e corrispettivamente una
sottolinea-tura della funzione "ontologica" della "prassi". Tutto quanto sa di ragione e
tutto quanto è prodotto dagli intellettuali viene tacciato di ideologia. Al di là di ogni
esagerazione è stata riscoperta l'essenzialità del fare, è stata ritrovata la casualità storica
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legata al tradurre in atto, al mettere in azione, al fare qualcosa. Sotto questa spinta
culturale la sequela di Cristo, prima di essere una teologia, è intesa appunto come una
prassi, un fare quello che ha fatto Gesù di Nazareth. Sempre in questo contesto si è
ripetutamente parlato di una ortoprassi, più importante e più essenziale di una
ortodossia. Sta qui una ragione per il passaggio della ecclesiologia alla ecclesiogenesi
che dobbiamo ora illustrare.
IV. LA SUCCESSIVA ECCLESIOGENESI
Negli ultimi anni il tema e il problema della chiesa diventano secondari; lo
sforzo di elaborare una ecclesiologia, come trattato teologico sulla chiesa, si attenua.
Nelle produzioni delle comunità di base è difficile trovare elaborati tendenti a
circoscrivere il concetto di chiesa che le comunità vogliono portare avanti.
La polemica con la chiesa-istituzione si evolve: diviene un impegno e una lotta
per cambiare la società, la chiesa-istituzione non è più l'obiettivo principale, ma è il
risultato di un processo più vasto, processo che coinvolge l'intera società. La stessa lotta
contro la chiesa si riaccende solo in alcuni appuntamenti storici che decidono l'assetto
della società: il referendum sul divorzio, le elezioni politi-che, la legislazione sull'aborto
con la conseguente obiezione di co-scienza, l'attuazione della legge 382 e la revisione
del concordato. Dunque a un certo punto la chiesa, sia come realtà concreta sia come
tema teologico, diviene secondaria, non è più la polarità fondamentale per questi
credenti che si ritrovano nelle comunità di base.
Tuttavia questa è solo la faccia negativa di un cammino più complesso che tenta
addirittura di reinventare la chiesa a partire dalla prassi. Alla ecclesiologia (discorso
sulla chiesa) subentra una ecclesiogenesi (un mettere in atto la chiesa) 13. Alla domanda
«che cosa è la chiesa?» viene sostituita un'altra domanda «dove è in atto la chiesa?». E
chiaro che queste due domande non stanno mai completamente separate — come posso
dire dove è la chiesa se non so che cosa è ? — ma la loro inversione non è priva di
significato perché stabilisce il primato della prassi e stabilisce anche come si possa e si
debba fare teologia: la prima domanda deriva dalla seconda e non viceversa.
Questa ecclesiogenesi è un'esperienza recente, ancora in atto, ancora non
depositata né filtrata, è un'esperienza in movimento che difficilmente può essere colta in
tutta la sua globalità. E solo possibile "narrare" qualcosa, "raccontare" ciò che sta
avvenendo. E solo possibile, partendo dalla storia, cogliere qualche nota dominante.
1. La comunità cristiana è là dove si attua la prassi messianica
La prassi non è il semplice e nudo fare, non è tanto meno il fare contrapposto in
qualche modo al pensare: la prassi deve essere intesa come un modo di essere al mondo
che sintetizza tutte le facoltà della persona, e in modo particolare sintetizza pensiero ed
azione. La prassi è l'essere concreto e storico come risultato di tutti i processi che
concorrono, ciascuno a suo modo, a determinare la realtà di una persona.
Per prassi messianica intendo quella prassi che l'Antico Testamento elabora
attorno alla figura dell'atteso Messia e come suo contenuto specifico, intendo ancora
quella prassi che il Nuovo Testamento descrive come comportamento globale di Gesù
11
di Nazareth e intendo infine quella prassi che si viene ad instaurare nelle comunità
primitive che sorgono sotto la tensione escatologica del Regno14 La triplice
determinazione — il Messia atteso, la persona storica di Gesù e la tensione verso il
Regno — non indica una molteplicità, ma descrive con sfaccettature diverse la stessa
prassi. Il nucleo più profondo di questa prassi è enunciato nel programma del Vangelo
«beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio» (Lc. 6,20). La beatitudine del povero
portata avanti da Gesù ed attesa come segno del Regno escatologico, è la sconfitta del
suo stato di privazione, ed è quindi la sua liberazione completa. La prassi messianica
allora è la prassi di liberazione: là dove una singola persona o un intero popolo si libera,
là il Regno viene annunciato e là dunque in qualche modo la chiesa è in atto.
Per evitare equivoci bisogna fare subito alcune precisazioni:
— nel processo di liberazione non è possibile introdurre una distinzione tra una
liberazione materiale-politica e una liberazione spirituale-ecclesiale: primo perché
l'uomo non è un essere composto da una parte spirituale e da una parte materiale ma
è un tutto organico; secondo perché in Gesù stesso non è separabile l'umano dal
divino; terzo perché il piano della creazione non è disgiunto dal piano della
redenzione e la storia della salvezza non è disgiunta dalla storia profana.
— Questa stretta congiunzione non vuoi dire che la liberazione portata da Gesù si
riduca alla liberazione materiale-politica, essa contiene una dimensione
escatologico-trascendente tipicamente religiosa 15.
— La liberazione materiale-politica è "segno" e "caparra" di una liberazione più
completa e più radicale, che è attesa da Dio come risposta alla condizione
dell'esistenza e della storia umana. Questo rimando ad un'altra liberazione non è un
nesso estrinseco, aggiunto dalla predicazione, ma è il nucleo costitutivo profondo,
tipicamente umano, di ogni parziale liberazione. Allora la liberazione materialepolitica è la condizione sine qua non di un'altra liberazione trascendente, così come
il segno materiale è la condizione sine qua non del suo simbolo correlato.
Là dove si compie un processo di liberazione il Regno viene annunciato, anche se
magari solo in un modo "inconscio". Là allora la chiesa esisterà formalmente non
appena il rimando al vangelo di Gesù e all'attesa del suo Regno diventerà esplicito dato
della coscienza che configurerà una fraternità escatologica. La nuova creazione che
anticipa il Regno si fa presente come liberazione nella storia profana, nel mondo,
nell'umanità in quanto tale, e si fa pre-sente anche nella chiesa solo in quanto anch'essa
è una parte del mondo. La comunità cristiana allora non possiede la realtà del Regno,
che si anticipa nei processi del mondo, ma possiede solo una coscienza di questa realtà
in riferimento al messaggio di Gesù Cristo.
Là dove si "attua" la beatitudine del povero, nel senso che la sua condizione di
povertà viene sconfitta e superata, là il Regno viene anticipato realmente e là si può
allora anche " annunciare " la beatitudine del povero. La prassi messianica di Gesù non
conosce un annuncio distinto da un concreto operare che mette in atto la liberazione che
annuncia: tutti i miracoli sono questa prassi di liberazione che si attua e sono gesti di
liberazione materiale (liberazione dalle malattie e dalle infermità).
Qui la chiesa è buttata fuori dalle sue ristrettezze ideologiche e dalle sue discussioni,
è buttata fuori dalle penombre dei templi e dai sacri recinti. Qui la chiesa è liberata da
ogni polemica con il mondo da ogni politica concordataria nei suoi confronti. Qui la
chiesa è davvero disseminata, dispersa ai quattro venti, qui essa è davvero "svuotata"
(Fil. 2,6-11). Qui la comunione non è più un problema intra-ecclesiale, ma è la
12
comunione che si vive con l'uomo, è la solidarietà vissuta dentro nei processi di
liberazione, è lo stare dentro nello stesso destino di tutti senza alcuna uscita di
sicurezza. Si tratta di una comunione nuova!
Si tratta di una chiesa diversa, una chiesa che si ritrova là dove il povero viene
aiutato e liberato, secondo il senso ecclesiale profondo del brano di Mt. 25,31-46. Dove
si trova la chiesa vera: nella comunione manifesta in cui si annuncia la Parola e
vengono amministrati i sacramenti, o invece nella fraternità latente che si stabilisce fra i
poveri quando si liberano, quando vengono sfamati, visitati, vestiti, ecc.? Il giudice del
mondo si manifesterà come presente nel povero, allora anche la sua chiesa si
manifesterà come la comunione dei poveri 16.
La fraternità escatologica — espressione abbastanza diffusa nelle comunità di. base
— non è solo né principalmente una fraternità ecclesiale, ma è una realtà mondana che
si costruisce, con gradazioni diverse, nel cammino storico della speranza e della
liberazione.
E’ chiaro che qui non è possibile stabilire in modo preciso i con-fini della chiesa, qui
non è possibile erigere uno steccato che divida la chiesa dal mondo e il mondo dalla
chiesa. Chiesa e mondo sono qui due realtà che si compenetrano: il mondo si ritrova
dentro la chiesa come coscienza che lo esprime e la chiesa si ritrova dentro al mondo
come luogo dove si compiono i segni del Regno e i gesti della salvezza. La distinzione
tra chiesa e mondo si vanifica, come dentro al credente si vanifica la distinzione tra la
sua componente di credente e la sua componente umana. Ma più che altro, prima di
ogni disquisizione teologica, è l'interesse a questa distinzione che non esiste più, non
esiste più la coscienza della chiesa come dato separato dalla coscienza del mondo. E
infatti perché mai dovrebbe esistere?
Va aggiunto che tutto questo per le comunità di base non è un nuovo discorso sulla
chiesa, ma è piuttosto un'esperienza in atto: le comunità partecipano alla vita mondana e
politica senza una frattura corporativistica. Esse si trovano a camminare accanto a
uomini e donne che non si dicono cristiani, ma che condividono in tutto le aspirazioni
di giustizia e di liberazione. Alcune volte uomini e don-ne che si definiscono "atei"
partecipano ad alcuni momenti della comunità e si trovano a loro agio. E a partire da
questi fatti che il rapporto tra comunità cristiana e mondo circostante è diventato
diverso, si è smussato fino a diventare problema secondario. All'interno di questo nuovo
rapporto si colloca, per esempio, la lotta al concordato, non più come semplice lotta
contro la chiesa istituzione, ma più profondamente come bisogno di un'armonia nuova
tra il proprio essere credente e il proprio essere mondano-politico.
2. La povertà come costitutivo della chiesa
L'ecclesiogenesi messa in atto dalle comunità di base svuota la chiesa, la rende
povera non solo sul piano economico-strutturale, ma soprattutto sul piano teologico. La
comunità credente riconosce che il Regno si anticipa nella storia come dato che la
precede. Il suo compito è semplicemente quello di riconoscere dove storicamente si
svolge il processo di liberazione che annuncia il Regno. Essa è al servizio di Dio, ma di
un Dio che la precede, che ha sposato egli stesso il mondo, di un Dio che si è profanato
dentro la storia umana distruggendo lo spazio sacro, che è il terreno di cultura di ogni
chiesa. Essa è al servizio del suo Signore, ma questi si proclama Signore del mondo e si
13
nasconde negli abbassamenti più impensabili rifiutando ogni epifania religiosa. Essa
non può più credersi il recettacolo della grazia, perché Dio svende la sua grazia a buon
prezzo sui pubblici mercati. La sorte della chiesa non è per nulla invidiabile, quando
riesce a essere ciò che deve essere, essa è il semplice dito puntato verso il Regno, la
semplice voce che rimanda ad altro e che scopre un prodigio che si compie al di fuori di
lei. La chiesa, quando è pienamente se stessa, è costantemente il Giovanni Battista che
si ritira per far posto ad un altro (Giov. 3,28-30).
In questa distretta teologica la comunità cristiana non ha un io proprio né dal
punto di vista teologico né dal punto di vista di una organizzazione storica: la sua
essenza profonda è un esistere-per-gli-altri ". Essa è dissolta nella sua funzione e nella
sua missione: non c'è più posto per un contarsi e per un contemplarsi. Essa appare ogni
tanto, quando la Parola la raduna per celebrare la cena, allora può succedere che il
Signore si manifesti nello spezzare del pane (Lc. 24,31).
Così la chiesa è povera, e sta davanti a Dio proprio per questa sua povertà, e per
questa stessa povertà sta anche davanti al mondo per compiere il servizio che Dio le
chiede. Ed è ancora questa povertà che può diventare comunione con tutti e per tutti, è
questa povertà che la rende strumento di liberazione per tutti e non solo per i suoi
adepti.
Viene alla mente una pagina profetica di Bonhoeffer: «Parimenti la chiesa di
Gesù Cristo è il luogo (ossia lo spazio nell'ambito del mondo) in cui si manifesta e si
annuncia la signoria di Cristo nel mondo intero. Questo spazio della chiesa non esiste
dunque per se stesso, ma si prolunga sempre al di là dei propri limiti, appunto perché
non è lo spazio di una associazione culturale che debba difendere la propria esistenza
nel mondo, ma è il luogo in cui si testimonia che tutta la realtà ha il suo fondamento in
Gesù Cristo... Lo spazio della chiesa non esiste dunque per sottrarre al mondo una parte
dei suoi domini, bensì per mostrargli che esso rimane mondo, e precisamente il mondo
amato e riconciliato da Dio. La chiesa perciò non vuole né deve estendere il proprio
spazio per sovrappor-lo a quello del mondo, non chiede più spazio di quello che le
occorra per servire il mondo rendendogli testimonianza di Gesù Cristo e della
riconciliazione del mondo con Dio in Lui. La chiesa può difendere il proprio spazio
soltanto lottando non per esso ma per la salvezza del mondo. Altrimenti la chiesa
diventa una "associazione religiosa" che lotta per se stessa e cessa di essere la chiesa di
Dio e del mondo... Se si vuole parlare di uno spazio o sfera della chiesa bisogna tener
presente che tale spazio è costantemente frantumato, annullato, superato dalla
testimonianza che la chiesa rende a Gesù Cristo »18.
Alcune delle intuizioni presenti in questa ecclesiogenesi delle comunità di base
sono presenti anche nella Gaudium et spes, dove la chiesa è vista nella sua profonda
solidarietà con il mondo e nel suo servizio da rendere al mondo, «creato e conservato in
esistenza dall'amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del
peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del maligno, liberato e
destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento»
19
. E ancora: «La chiesa cammina insieme con l'umanità tutta e sperimenta assieme al
mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l'anima della società
umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» 20.
E la stessa costituzione si chiude parlando di «un mondo da costruire e da
condurre al suo fine: i cristiani... niente possono desiderare più ardentemente che
servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo »21.
14
Già nel Vaticano II allora «Invece di pensare in due termini distinti chiesa e
mondo, si è preferito pensare l'una e l'altro in riferimento al Regno di Dio »22 e allora la
chiesa è vista nel suo servizio al mondo, disseminata e dispersa dentro di esso. In questo
disperdimento, in questo sciogliersi del lievito nella pasta, la chiesa è ricondotta a
un'estrema povertà, prima strutturale-economicopolitica e poi teologica.
3. Un nuovo discorso teologico
Partendo da questa prassi, da questo modo di fare chiesa messo in pratica dalle
comunità di base, è possibile enucleare alcune linee teologiche portanti, quasi estrarre
un discorso teologico che dopo alcuni anni sembra emergere con relativa chiarezza. Lo
farò in modo schematico.
La chièsa è compresa a partire da due polarità:
— nel suo riferirsi al Regno: la chiesa non è più compresa a partire dalla
salvezza, la chiesa non è il Regno, ma essa esiste in questo tempo di attesa come segno
e come annuncio del Regno stesso. La comunità cristiana deve paradossalmente
ancorarsi al "non ancora", deve appendersi al futuro, per essa è assolutamente
normativa l'ansia per il Regno. Tutto quello che essa è: il suo volto storico, le sue sintesi
dottrinali, le sue strutture, i suoi ministeri, i suoi piccoli pezzi di potere, in breve tutto
quanto essa è deve servire per testimoniare e annunciare il Regno. Gesù ha predicato il
Regno, la chiesa è sorta ed esiste per continuare ad annunciare l'evangelo del Regno.
— nel suo riferirsi al mondo: quello che la chiesa è, lo è per una missione nei
confronti del mondo. Il mondo costituisce il termine a cui l'esistenza della chiesa è
ordinata, il termine a cui si rivolge la sua missione evangelizzatrice. Di fronte al mondo
e nei confronti del mondo la chiesa è «universale sacramento di salvezza»23, luce del
mondo e sale della terra. La comunità cristiana esiste per ricapitolare in Cristo tutte le
cose e per raccogliere l'umana famiglia in un solo popolo di Dio 24.
— Le due precedenti polarità determinano in modo armonico la configurazione
storica della chiesa: essa ha un messaggio (il Regno) da rivolgere a un interlocutore (il
mondo). Ma queste due polarità sottolineano entrambe il carattere di "servizio" che
costituisce la chiesa: un servizio al Regno e un servizio al mondo. Questo duplice
servizio stabilisce quello " svuotamento" della chiesa circolante nel-la ecclesiogenesi
delle comunità di base. Ed è ancora questo servizio, assunto a nota determinante e
qualificante l'esistere storico della chiesa, che comanda la povertà della chiesa, non più
come qualità morale, ma come qualità esistenziale e teologica.
Bisogna ancora rendersi conto che dietro questa visione della chiesa emerge un
generale quadro teologico in cui essa si inserisce come parte armonica in un universo
più complesso. Senza entrare in merito a questo intero quadro conviene accennare qui
ad alcuni pilastri portanti di questo universo teologico.
a) Dio è visto ad un tempo come il Tutt'altro dell'eredità barthiana e insieme
come il mistero, kenoticamente presente per una sua volontà di profanarsi, che è vicino
all'uomo con un appello umanizzante e con una chiamata alla crescita continua. Il
possibile incontro con questo Dio avviene nella misteriosa profanità dell'esistenza, di
15
cui l'espressione religiosa è lo strumento ermeneutico nel senso più pieno del termine.
Da qui la relativizzazione della chiesa.
b) Sorge come conseguenza un rapporto religiosamente più profondo con il
mondo e con la storia: queste realtà sono sentite esistenzialmente come componenti
della propria persona e della propria fede, esse sono vissute come "amiche" non tanto
per la loro obiettiva bontà — che anzi ogni giorno portano nuove contraddizioni e
nuove delusioni — ma per una specie di accettazione aprioristica secondo la quale sono
sentite in ogni caso come necessarie e indispensabili "compagne di viaggio". Dal punto
di vista religioso il mondo e la storia sono il luogo della rivelazione di Dio, il luogo
dove si consuma la comunione con Dio e il luogo dove si consuma il mistero del
proprio essere.
c) Allora non vi è più nessun bisogno di contrapporsi agli altri (quelli che non
sono credenti), ma vi è anzi un desiderio di fare comunione con loro, di stare con loro.
C'è perfino un trovarsi meglio con gli altri, con coloro che appunto non credono, che
con i propri fratelli nella fede; come se quello fosse appunto il proprio posto naturale.
V. RIFLESSIONI TEOLOGICO - CRITICHE
Nel 1975 la rivista «Concilium» dedicava un intero numero alle comunità di
base, nell'editoriale di quel numero si legge: «Un fatto è certo: col fenomeno delle
comunità di base, esiste nella chiesa attuale qualcosa, fino a poco tempo fa non presente
in questa for-ma, ma che oggi è diventato una questione ed istanza non più da
sottovalutarsi » 26.
Partendo da questo dato di fatto rimane tuttavia aperta una discussione teologica,
proprio in riferimento alla portata ecclesiale delle comunità di base. Dopo aver esposto
a grandi linee l'evoluzione ecclesiologica delle comunità di base italiane, è ora
opportuno entrare in merito a questa discussione teologica.
1. Le comunità di base sono "chiesa" in senso vero e proprio?
Le comunità di base sono "chiesa" in senso vero e proprio oppure contengono solo
aspetti parziali della chiesa e rappresentano tentativi marginali di rinnovare la chiesa?
Questa domanda ha diverse risposte, collocate su piani diversi.
— Le comunità di base, con i pastori e con i teologi che in esse lavorano,
ritengono di essere una presenza vera e autentica della chiesa cattolica. Per formulare
questo giudizio le comunità di base partono da una comprensione della chiesa come
servizio al vangelo (annuncio del Regno con un riferimento esplicito a Gesù Cristo
morto e risorto) in una comunità umana particolare (servizio al mondo) in comunione
con tutte le chiese particolari che formano la chiesa universale. Da queste premesse la
chiesa delle comunità di base si determina storicamente come una comunità di fratelli
radunata attorno alla mensa della Parola e del pane in comunione con tutte le altre
chiese, si determina ancora come sacramento di liberazione totale dell'uomo e come
entità ecclesiale dotata dei carismi necessari alla sua esistenza.
16
— Sul piano del magistero, accettato dalle comunità di base come strumento
della comunione che lega tutte le chiese particolari, esistono numerosi interventi sia
generali sia particolari.
a) La seconda conferenza dell'episcopato latinoamericano (Medellin 1968) ebbe
parole di elogio e di incoraggiamento per il movimento delle comunità di base
latinoamericane. In particolare sulla loro consistenza ecclesiale disse: «La comunità
ecclesiale di base è quindi il primo fondamentale nucleo ecclesiale che, al suo livello,
deve responsabilizzarsi della ricchezza dell'espansione della fede, così come del culto
che ne è espressione. Essa è, inoltre, cellula iniziale di strutturazione ecclesiale e punto
focale dell'evangelizzazione, nonché, attualmente, fattore primordiale di promozione umana e di sviluppo» 27.
b) La conferenza di Puebla (1979), nonostante le difficoltà in cui si è svolta e il
diverso momento storico in cui si è collocata, non è stata meno schiva di approvazioni e
di elogi: «Segnaliamo con gioia, quale importante fatto ecclesiale particolarmente
nostro e quale "speranza della chiesa", la moltiplicazione di piccole comunità. Sono
luoghi propizi al sorgere dei nuovi servizi dei laici». E un poco più avanti continua: «Le
CEB (comunità ecclesiali di base) sono espressione dell'amore preferenziale della
chiesa per il popolo umile, che in esse si esprime, si avvalora e purifica la sua
religiosità; le CEB danno al popolo concreta possibilità di partecipazione all'impegno
ecclesiale e all'impegno di trasformare il mondo»28.
È chiaro che queste conferenze episcopali si riferiscono alla realtà dei loro paesi,
non si può quindi trasferire immediatamente il loro giudizio su altre comunità di base.
Tuttavia è importante rendersi conto che il movimento delle comunità di base ha una
piattaforma comune che supera le situazioni dei singoli paesi. Così, per venire subito a
noi, le comunità italiane, pur radicalizzando alcune istanze teologiche, si ritrovano
ampiamente nella riflessione teologica che viene dall'America Latina. Nei vari incontri
internazionali ci si trova sostanzialmente d'accordo sulle linee essenziali e più
importanti »29.
c) Nell'esortazione apostolica Evangeli nuntiandi di Paolo VI (8/12/1975) si
prende in considerazione il movimento internazionale delle comunità di base. Paolo VI
opera una distinzione tra comunità di base che operano in collaborazione con la
struttura ecclesiale — e a queste comunità riconosce un significato ecclesiale
importante in quanto sono «una speranza per la chiesa universale» 30 — e comunità di
base che si pongono ai margini della chiesa contestandola, per le quali è «un abuso»
chiamarsi «comunità ecclesiali di base».
Questa distinzione di Paolo VI continua ad essere un costante punto di
riferimento per l'episcopato italiano.
d) I1 sinodo episcopale del 1977 (Roma 30/9 - 29/10) ha un breve accenno alle
comunità di base nel messaggio finale rivolto al popolo di Dio. Parlando della chiesa
come ambito naturale della catechesi, il sinodo prende in considerazione le diverse
modalità in cui la chiesa si fa presente e parla delle «piccole comunità ecclesiali».
«Queste nuove comunità, scrive il Sinodo, offrono nuove possibilità alla chiesa:
possono essere infatti un lievito nella massa e nel mondo in trasformazione;
contribuiscono a manifestare più chiaramente sia la verità che l'unità della chiesa... La
17
catechesi può trovare in esse nuovi luoghi dove realizzarsi, dal momento che ivi i
membri della comunità si annunziano reciprocamente il mistero di Cristo »31.
e) Per quanto riguarda la situazione della chiesa italiana esistono tre dati
importanti:
1) una nota pastorale dei vescovi piemontesi in data 11-4-197832. Si tratta di
un'analisi dettagliata del movimento delle comunità di base e delle piccole comunità
ecclesiali, si entra nel vivo della impostazione teologica di queste comunità. Sotto il
tono aperto del dialogo i vescovi piemontesi sollevano forti riserve quando, parlando
espressamente delle comunità di base, scrivono: «si affermano posizioni teologichepastorali che sembrano in contrasto con alcuni elementi essenziali per la chiesa secondo
la tradizione apostolica ed ecclesiale o che almeno con tali elementi difficilmente si
adeguano. Da quelle posizioni risulta modificata in maniera inaccettabile la
ecclesiologia, con grave danno della stessa comunione ecclesiale».
Subito di seguito questi elementi vengono esplicitati: un misconoscimento della
tradizione, annullamento di «ogni differenza» tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio
dei fedeli, una democrazia di base assunta a modello ecclesiale, un'assenza di rapporti
con la chiesa universale e una lettura «materialista della Bibbia »33
Nonostante queste forti riserve i vescovi piemontesi si rivolgono alle comunità di
base intendendole come componenti ecclesiali e come parte viva della chiesa.
2) Nel primo discorso rivolto al consiglio permanente della C.E.I. Giovanni
Paolo II ha parlato delle comunità di base, come realtà ecclesiali da «ricuperare alla
piena comunione ecclesiale» 34. Il papa ha insistito sulla necessità di riaprire un dialogo
facendo ogni sforzo possibile. «Bisognerà, ha detto, creare nuove occasioni di incontro
e di confronto, in un clima di apertura e di cordialità, alimentato alla mensa della Parola
di Dio e del pane eucaristico ». La particolare circostanza in cui fu pronunciato questo
discorso — il primo incontro del Papa con il consiglio permanente della C.E.I. — dà a
questa menzione delle comunità di base un rilievo tutt'altro che trascurabile.
3) Nella XVI assemblea generale della C.E.I. (Roma 14-18 maggio 1979) si è
molto parlato delle comunità di base, anche se il documento finale non fa alcun cenno a
tutto questo. Nel dibattito emerso è stata ripresa la distinzione di Paolo VI tra comunità
di base ecclesiale, cioè riconosciute come parte viva della chiesa, e comunità non
ecclesiali. Il cardinal Poma, presidente uscente della C.E.I. ha proposto i criteri per
operare questa distinzione: «l'ortodossia, l'ortoprassi, la comunione pastorale (nel senso
paolino della parola, «in aedificationem ecclesiae») nella comunione col vescovo e
nell'accettazione del sacerdote mandato o approvato dal vescovo» 35
L'insieme di tutti questi documenti del magistero dà, almeno implicitamente, un
riconoscimento alla portata ecclesiale delle comunità di base, e questo riconoscimento è
la premessa stessa da cui si comprendono anche le perplessità critiche sollevate dal
magistero.
— Vi è un terzo, ed ultimo, piano in cui l'essere chiesa delle comunità di base è
stato discusso: è il piano teologico. Questa riflessione teologica non si è sviluppata
18
tanto in Italia, ma ampiamente all'estero, soprattutto in America Latina. La situazione e
le conclusioni di questa discussione si possono vedere nell'opera, già citata, di L. Boff36.
Dal confronto dei tre piani esposti — la riflessione delle comunità di base, le
posizioni del magistero e la discussione teologica — emerge da sola e senza difficoltà la
risposta alla prima domanda che ci eravamo posti.
2. La ecclesiologia delle comunità di base non è una semplice riedizione della
ecclesiologia protestante?
Nello sforzo di destrutturalizzare la chiesa e nella elaborazione di una chiesa
intesa come semplice "servizio" non si ritorna a risolvere la chiesa nella coscienza dei
fedeli, come già il protestantesimo liberale?37O comunque: una chiesa che mette in
primo piano la Parola e il gesto sacramentale e relativizza la funzione gerarchicogiuridica non coincide forse con la chiesa protestante?
Ho già accennato sopra a questa problematica e vi ho dato alcune risposte.
Ritengo che un'attenta analisi di come si stia evolvendo l'ecclesiogenesi delle comunità
di base, sia in Italia sia all'estero, manifesti chiaramente l'impossibilità di far coincidere
pienamente il movimento delle comunità di base con il mondo protestante.
Voglio qui solo aggiungere alcuni fatti significativi a questo riguardo:
— il movimento delle comunità di base non è confluito, né vi sono ragionevoli
prospettive perché ciò avvenga in futuro, nel mondo protestante.
— Lo stesso mondo protestante italiano, che ha iniziato un rapporto ecumenico
molto profondo e molto articolato con le comunità di base, ha più volte sottolineato la
diversità, proprio anche nella visione ecclesiologica, delle due impostazioni.
— Il mondo cattolico tradizionale, infine, non può accusare le comunità di base di
orizzontalismo o di socialismo o di integrismo di sinistra e contemporaneamente di
protestantesimo liberale. Se queste due accuse hanno ragione di esistere entrambe, visto
che si tratta di una realtà in atto, di una prassi, bisogna per forza di cose ritenere che
siamo di fronte a una sintesi nuova, forse non completamente schizofrenica. E quanto
vorrei ora in conclusione illustrare.
3. Conclusione
Forse è in atto qualcosa di nuovo, o almeno sta sorgendo, forse questi "vagiti",
da nessun sapiente ideati e da nessun grande evento storico programmati, annunciano
una chiesa diversa. Sono in molti a dirlo: dai sociologi ai teologi! «Le comunità di base
contengono in se stesse una profezia; l'attuazione che si fa avanti trasforma la promessa
in realtà storica di una chiesa nuova, sorta dalla fede che illumina il popolo di Dio» 38.
Si tratta di un evento storico nuovo, ancora non completamente sviluppato, ma
già intuibile nella sua importanza e nella sua novità. Forse nessuno crede ancora fino in
fondo a quello che le comunità di base vogliono dire per la chiesa, e per la chiesa in
questa cultura secolarizzata.
Qui, per la prima volta a quanto io sappia, è davvero una prassi storica di base
che si impone e che comanda una riflessione teologica. Qui la teologia subentra proprio,
non solo come fides quarens intellectum, ma come factum mirabile quarens
19
comprehensionem. In altre parole: non siamo più di fronte a un asserto di fede,
ideologica-mente inteso, che vuole chiarezza razionale; ma ci troviamo di fronte a un
fatto storico — e dunque si tratta di fare davvero teologia a partire dalla storia — che
interpella il linguaggio culturale e preme per ottenere una comprensione armonica
globale. Questo fatto storico è una nuova prassi di vivere e sentire la fede.
E dietro questa prassi ci sta, per dirla in termini precisi, un salto ermeneutico, un
salto di qualità nel porsi storicamente come credenti. Non si tratta di un salto
ermeneutico elaborato a tavolino, neppure si tratta di un'invenzione copernicana fatta da
qualche genio o di una fulminazione puntuale che ha colpito qualche profeta.
Si tratta invece di un salto ermeneutico che sta maturando storicamente
all'interno di un ampio processo evolutivo: è un salto ermeneutico che viene alla luce
adagio adagio e che si va imponendo adagio adagio.
Il contenuto di questo processo ha allora una sua specificità: una specificità
ugualmente distante dalla tradizione cattolica e dalla riforma protestante.
NOTE
1
' Basti pensare a «Rocca», «Il gallo», «Testimonianze», «Il tetto» e più tardi a «Sette giorni»;
per alcuni aspetti collateriali si deve ricordare anche «Questitalia» e «Note di cultura».
2
Un'espressione molto frequente nei ciclostilati delle comunità è quella di «reinventare la
fede», «reinventare la chiesa». Una presentazione sintetica di questa tematica si può vedere nel
volume delle comunità,piemontesi: Una fede da reinventare, Torino, Claudiana, 1975.
3
Si ricordi il testo della prima lettera di Giovanni (1,1-4).
4
Per lo sviluppo di questa tesi si veda: L. Boy, Ecclesiogenesi. Le comunità di base
reinventano la chiesa, Roma, 1978, pp. 72-100, con la bibliografia quivi citata.
5
È questo un aspetto essenziale, anche se non l'unico, che differenzia l'ecclesiologia delle
comunità di base da quella della tradizione protestante, e questa differenziazione ha uno
spessore teorico e pratico molto rilevante.
6
La componente popolare delle comunità di base è molto più rilevante al Sud che al Nord; qui
al Nord si è avuto l'evoluzione di cui parlo in alcune comunità particolari e più numerose.
7
Mi riferisco, per fare un solo esempio fra le numerosissime pubblicazioni e ciclostilati, al
libretto: Comunità di base. La chiesa cresce dal basso, Torino, Tempi di Fraternità, 1976.
8
Penso per esempio alla battaglia sull'abrogazione del concordato, battaglia che attraversa
l'intera storia del movimento, ma che molto spesso abbiamo visto come problema ecclesiale,
invece di intenderlo come problema di questa società e quindi prevalentemente politico.
9
Basti pensare alla dottrina sul sacerdozio dei fedeli, alla visione della chiesa come popolo di
Dio, alla introduzione delle lingue nazionali nella liturgia, alla comunione sotto le due specie,
alla collegialità episcopale.
10
Questa dinamica è una componente che specifica le comunità di base nei confronti della
tradizione protestante.
11
Scrive giustamente Marcello Vigli: «Diffusa è stata anche la consapevolezza di evitare ogni
tentazione settaria di porsi fuori del reale processo di maturazione delle masse popolari che non
sentono il bisogno di un'altra chiesa, ma di una chiesa altra». Cfr.: «Concilium», n. 4, 1975, p.
33.
12
A questo riguardo mi sembra quanto mai significativa la "fraterna" polemica sorta nei
confronti del mondo evangelico-protestante: c'è stata da parte protestante una sollecitazione a
20
rompere gli indugi, a chiarire definitivamente la nostra ecclesiologia con la sottesa convinzione
che tra la chiesa cattolica da una parte e la chiesa protestante dall'altra non sia possibile una
terza alternativa (tertium non datur). Questo dibattito è stato in parte ospitato da «Com Nuovi
Tempi»: si veda per esempio l'articolo di Sergio Ribet e la risposta di Gianni Novelli sul n. 42
(3 dicembre 1978) a pag. 10.
13
La sintesi dell'esperienza ecclesiale delle comunità di base come "ecclesiogenesi" invece che
"ecclesiologia" è di Leonardo Boff, in riferimento alle comunità di base dell'America Latina. Si
veda: Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la chiesa, Roma, 1978: Le comunità di
base reinventano la chiesa, Bologna, 1978. Nonostante molte differenze, anche sostanziali,
sono convinto che questa interpretazione renda conto anche dell'esperienza delle comunità di
base dell'Italia.
14
Per fare un solo rimando si vedano queste tre dimensioni che focalizzano un'unica prassi: Is.
61, 1-2; Lc. 4,18-19; At. 2,44-45; 4,34.
15
Fin qui siamo in pieno accordo con quanto dice l'Evangelii nuntiandi di Paolo VI
(8/12/1975), n. 31-32.
16
Cfr. J. MOLTMANN, La chiesa nella forza dello Spirito, Brescia, 1976, pp. 171-176.
17
H. KUNG, La chiesa, Brescia, 1969, p. 454.
18
Cfr. Etica, Milano, 1969, 170.
19
Gaudium et spes, ed. Dehoniane, n. 1321.
20
Gaudium et spes, n. 1443.
21
Gaudium et spes, n. 1643.
22
Così Y. CONGAR in Un popolo messianico, Brescia, 1976, p. 144. Personalmente però
condivido il parere di quei teologi (per esempio L. Rutti) che ritrovano in questa costituzione
un dualismo strisciante tra mondo e chiesa. Le nuove istituzioni non riescono a lasciarsi alle
spalle una pesante tradizione che contrappone la chiesa al mondo.
23
Lumen gentium, n. 415 e Gaudium et spes, n. 1459.
24
Ad gentes, n. 1088.
25
Si ricordi l'analoga considerazione di Bonhoeffer in Resistenza e Resa, Milano, 1969, p. 215.
26
L'editoriale è firmato da A. Mtiller e N. Greinacher. Cfr. «Concilium» n. 4, 1975, p. 18.
27
Medellin. Documenti della seconda conferenza dell'episcopato latinoamericano, Bologna,
1977, pp. 224-225.
28
Puebla - Documenti, Bologna, 1979, pp. 227 e 230.
29
Questo è stato, per esempio, verificato molto bene in un incontro internazionale, svoltosi in
Olanda nei giorni 23-25 marzo 1979, nel quale le comunità di base latinoamericane e le
comunità europee hanno steso un documento comune.
30
Evangelii Nuntiandi, n. 28, ed. Paoline, p. 55.
31
Cfr. «Il regno documenti», '77,21, 540.
32
Cfr. «Il regno documenti», 77,11, pp. 262-264.
33
Le comunità di base del Piemonte risposero, punto per punto, con un documento apparso su
«Tempi di Fraternità», luglio-agosto 1978, pp. 4-5.
34
Cfr. «L'osservatore romano», 24 gennaio 1979, pp. 1-2.
35
Cfr. «Avvenire», 18 maggio 1979, p. 1.
36
Ecclesiogenesi, pp. 23-46. Si veda anche l'articolo di J. Marins, in «Concilium» n. 4, 1975,
pp. 43-54.
37
Senza citare esplicitamente le comunità di base, sembra che si riferisca ad esse con questa
critica Giuseppe Colombo: Comunità cristiana, parrocchia e comunità civile, in «Rivista del
clero italiano», gennaio 1979, pp. 3-11 (particolarmente a p. 10).
38
L. BoFF, op. cit., p. 65.
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la ecclesiogenesi delle comunità di base