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Ogni mese una
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Newsletter
sulla salute del tuo cuore?
N. 5-6 MAGGIO-GIUGNO 2010
www.centrolottainfarto.it
ANNO
XXVIII
Di invidia si può morire
N. 5-6 MAGGIO-GIUGNO 2010
Poste Italiane SpA
Spedizione in abbonamento postale
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1 comma 2 DCB - Roma
Una pubblicazione del:
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Online
CONOSCERE E CURARE IL CUORE
Il Congresso a casa tua
2010
CONOSCERE E CURARE IL CUORE
2010
Il Congresso, in versione audiovisiva, è
disponibile online sul sito
www.centrolottainfarto.it.
Sono inoltre pubblicati in formato PDF i testi dei relatori.
È un servizio che la Fondazione offre gratuitamente ai
medici iscritti al Congresso 2010.
I medici che hanno versato la quota minima possono
richiedere il volume degli Atti del Congresso o gli Atti
online con un contributo di € 30,00.
Crediti formativi ECM
I crediti formativi ECM conseguiti
sono disponibili online.
Gli interessati possono collegarsi al sito
della Fondazione www.centrolottainfarto.it
e seguire la procedura indicata.
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Sommario breve
maggio-giugno 2010
Foto iStockphoto.it
Il cardiopatico in vacanza
133
D’invidia si può morire
139
40 Idee per Conoscere e Curare il Cuore 2011
170
Lettere a Cuore e Salute
172
News
Medicina al femminile
142
176
Noci, statine e Little Tony
145
Fibrillazione atriale e andamento lento
147
Helenio Herrera
149
Diagnosi di aneurisma a.
153
Aneurisma addominale
158
Genetica e cardiopatia ischemica
161
Diuretici tiazidici
180
Ancora sui diuretici
182
Braccio o polso?
183
Il ballistocardiogramma
185
Un cuore amico
188
Aforismi
190
Quaderno a Quadretti
165
www.centrolottainfarto.it
Cuore e Salute
E-mail: [email protected]
Rivista di cardiologia divulgativa e di educazione sanitaria
per i soci del Centro per la Lotta contro l’Infarto-Fondazione Onlus
Direttore Responsabile
Franco Fontanini
Anno XXVIII - n. 5-6 Maggio-Giugno 2010
Tariffa Associazione senza fini di lucro: Poste Italiane SpA - Spedizione
in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art 1 comma 2 DCB - Roma
Pubblicazione registrata al Tribunale di Roma il 3 giugno 1983 n. 199
Coordinamento Editoriale
Lilli D’Agostino
Associata Unione Stampa Periodica Italiana
Abbonamento annuale
Italia e 20,00 - Estero e 35,00
Direzione, Coordinamento Editoriale, Redazione di Cuore e Salute
Tel. 06.6570867 - E-mail: [email protected]
Amministrazione e Abbonamenti
Centro per la Lotta contro l’Infarto-Fondazione Onlus, Cuore e Salute
Viale Bruno Buozzi, 60 - 00197 Roma
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Redazione
Mario Albertucci
Filippo Altilia
Vito Cagli
Bruno Domenichelli
Antonella Labellarte
Salvatore Milito
Mario Motolese
Massimo Pandolfi
GianPietro Sanna
Luciano Sterpellone
Vice Direttori
Eligio Piccolo
Francesco Prati
Editore
Centro per la Lotta contro l’Infarto Fondazione Onlus
Viale Bruno Buozzi, 60 - Roma
Progetto Grafico
Gentil Srl [Valentina Girola]
Realizzazione impianti e stampa
Varigrafica Alto Lazio Srl - Nepi (VT)
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n.5-6
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sommario 2010
p. 144
XII comandamenti per il cardiopatico che va in vacanza
133
Di invidia si può morire Franco Fontanini
139
News
Aggiornamenti cardiologici Filippo Stazi e Francesco Prati
142
• Gastroprotettori, non a tutti! [E. P.]
144
Noci, statine e Little Tony Eligio Piccolo
145
Per la fibrillazione atriale niente andamento lento!
147
Filippo Stazi
La palla di Tiche
HH, il mediocre calciatore che si autoinventò
Mister e vinse tutto Franco Fontanini
• Dimagrire e riprendere peso [E. P.]
p. 147
Tutto quello che si deve sapere su …
Aneurisma dell’aorta
Aneurisma addominale:
l’importanza di una diagnosi precoce
149
152
153
Rocco Giudice
Aneurisma addominale Eligio Piccolo
• Aneurismi aortici [Franco Fontanini]
p. 153
158
160
Dal Congresso Conoscere e Curare il Cuore 2010
Genetica e cardiopatia ischemica: le applicazioni cliniche
sono ancora lontane? Daniela Lina, Diego Ardissimo
161
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p. 165
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Pagina 131
• Il Viagra stupisce ancora? [E. P.]
169
Quaderno a Quadretti Franco Fontanini
165
40 Idee per Conoscere e Curare il Cuore 2011
170
Lettere a Cuore e Salute
172
- La sempiterna dieta in bianco [F. F.]
- Anticoagulanti, anticoagulati e Centri di Sorveglianza [Filippo Stazi]
Medicina al femminile Vito Cagli
• Abbassare la pressione per ridurre il rischio di infarto
è sempre vero? [Vito Cagli]
Diuretici tiazidici: i più longevi tra i farmaci
antiipertensivi Filippo Stazi
• Ancora sui diuretici [Vito Cagli]
176
179
180
182
Braccio o polso: questo è il problema Pasquale Bossa
183
Ballistocardiogramma: una metodica abbandonata
185
Silviano Fiorato
p. 180
• Ricordo del Prof. Spalato Signorelli [Franco Fontanini]
187
Un cuore amico Eligio Piccolo
188
Aforismi
190
p. 185
L’Editore si scusa per eventuali omissioni o inesattezze delle fonti delle immagini, dovute a difficoltà di comunicazione con gli autori.
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Cuore e Salute è una pubblicazione del
Il Centro per la Lotta contro l’Infarto - Fondazione Onlus, nato nel 1982 come Associazione
senza fini di lucro, dopo aver ottenuto, su parere del Consiglio di Stato, il riconoscimento di
personalità giuridica con decreto del 18 ottobre 1996, si è trasformato nel 1999 in Fondazione,
ricevendo in tale veste il riconoscimento governativo. È iscritto nel registro Onlus.
Il Centro per la Lotta contro l’Infarto - Fondazione Onlus riunisce popolazione e medici, ed è
sostenuto economicamente dalle quote associative e dai contributi di privati, aziende ed enti. Cura
la diffusione nel nostro paese dell’educazione sanitaria e della cultura scientifica ai fini della prevenzione delle malattie di cuore, in particolare dell’infarto miocardico, la principale causa di
morte. Per la popolazione ha allestito la mostra Cuorevivo che ha toccato tutti i capoluoghi di
regione, pubblica l’Almanacco del Cuore e la rivista mensile Cuore e Salute. Per i medici organizza dal 1982 il congresso annuale Conoscere e Curare il Cuore. La manifestazione, che si tiene a
Firenze e che accoglie ogni anno diverse migliaia di cardiologi, privilegia gli aspetti clinico-pratici
sulla ricerca teorica.
Altri campi d’interesse della Fondazione sono le indagini epidemiologiche e gli studi di prevenzione
della cardiopatia ischemica in Italia. In particolare negli ultimi anni ha partecipato con il “Gruppo di
ricerca per la stima del rischio cardiovascolare in Italia” alla messa a punto della “Carta del Rischio
Cardiovascolare”, la “Carta Riskard HDL 2007” ed i relativi software che permettono di ottenere rapidamente una stima del rischio cardiovascolare individuale.
La Fondazione ha inoltre avviato un programma di ricerche sperimentali per individuare i soggetti più
inclini a sviluppare un infarto miocardico. Il programma si basa sull’applicazione di strumentazioni
d’avanguardia, tra cui la Tomografia a Coerenza Ottica (OCT), e di marker bioematici.
Infine, in passato, la Fondazione ha istituito un concorso finalizzato alla vincita di borse di studio
destinate a ricercatori desiderosi di svolgere in Italia un programma di ricerche in ambito cardiovascolare, su temi non riguardanti farmaci o argomenti di generico interesse commerciale.
Presidente
Consiglio Generale
FRANCESCO PRATI
MARIO ALBERTUCCI, ALESSANDRO BOCCANELLI,
BRUNO DOMENICHELLI, FRANCO FONTANINI,
GIANCARLO GAMBELLI, CESARE GRECO, FABIO
MENGHINI, ALESSANDRO MENOTTI, MARIO
MOTOLESE, FRANCESCO PRATI
Presidente onorario
MARIO MOTOLESE
Consiglio di Amministrazione
MARIO ALBERTUCCI, BRUNO DOMENICHELLI,
FRANCO FONTANINI, FABRIZIO IMOLA, ANTONELLA
LABELLARTE, MARIA TERESA MASCAGNI, MARIO
MOTOLESE, ELIGIO PICCOLO, FRANCESCO PRATI,
FILIPPO STAZI
Soci sostenitori
ASTRAZENECA, BANCA FIDEURAM, BANCA NAZIONALE
DEL LAVORO, BAYER SCHERING PHARMA, BOEHRINGER
INGELHEIM ITALIA, BRISTOL-MYERS SQUIBB, FERROVIE
DELLO STATO, I.F.B. STRODER, ISTITUTO LUSO FARMACO
D ’ITALIA, ITALFARMACO, MEDTRONIC ITALIA, MERCK
SHARP & DOHME, NOVARTIS FARMA, PFIZER ITALIA,
RCS RIZZOLI PERIODICI, ROCHE, ZAMBON ITALIA.
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XII comandamenti
per il cardiopatico
che va in vacanza
maggio-giugno [n. 5-6/2010]
Foto di L.D.A.
I - Non fatevi prendere dall’euforia delle vacanze
In ordine o acciaccato che sia il vostro cuore, non abbandonatevi ai facili entusiasmi tanto frequenti nei primi giorni di ferie. Non si deve far
tutto il primo giorno: vogare, nuotare, fare jogging, tennis, ballare: la
vacanza deve essere soprattutto distensione.
In montagna, al mare o in campagna, qualunque sia l’attività preferita,
fatela sempre con gradualità.
Ad una certa età specialmente, non si possono fare escursioni, lunghe
nuotate, riprendere sport abbandonati, senza preparazione.
Il caldo immagazzinato dal corpo fa salire la pressione arteriosa,
aumenta la frequenza cardiaca e accresce il lavoro del cuore.
Nelle ore più calde è opportuno fare la siesta in ambiente ombroso e
distensivo. Per le attività più faticose si
scelgano le ore ancora
fresche del mattino o
quelle della sera,
quando la temperatura è scesa.
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La marcia è lo sport più consigliabile per
tutti, è bene preferire prati, boschi, pinete o la riva del mare, che, oltre al beneficio fisico, daranno conforto psichico per
la bellezza del paesaggio. La durata della
marcia deve variare secondo il grado di
allenamento e, nel caso di ammalati di
cuore, di riabilitazione.
Si cominci sempre con pochi chilometri,
aumentando nei giorni successivi in modo
da marciare da trenta minuti a due ore, ad
un’andatura di 6-7 chilometri l’ora.
La marcia rapida è un esercizio fisiologico, benefico e senza inconvenienti; è
consigliabile, però, controllare di tanto
in tanto la frequenza del polso che deve
restare al di sotto del limite massimo che
viene calcolato sottraendo gli anni a 230:
un sessantenne deve mantenere la frequenza al di sotto di 160, meglio che non
superi mai, neppure durante il massimo
sforzo, i 140 battiti al minuto. Chi si è
accorto che i jeans o i pantaloncini dell’estate precedente sono diventati stretti
in cintura, non si riproponga di perdere
in pochi giorni i chili accumulati intensificando l’attività sportiva: per perdere
peso, più del moto, sono indispensabili
adeguate restrizioni dietetiche. Non si
deve mai entrare di colpo in acqua, ma è
bene immergere nell’ordine gambe,
braccia, viso, nuca, torace, schiena, in
modo da facilitare l’adattamento del
corpo alla temperatura dell’acqua.
Opportuno non spingersi da soli troppo
al largo, e uscire dall’acqua prima di
avvertire senso di raffreddamento. Se la
pelle impallidisce o si avvertono brividi,
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vuol dire che vi è stata un’eccessiva perdita di calore e i centri che regolano la
temperatura del nostro corpo non possono riequilibrarsi se si resta nell’acqua.
Anche il ballo è un’attività fisica che può
essere benefica, ma si evitino le ore piccole che lasciano il segno il giorno dopo.
Importante è un buon sonno in una
camera che non sia calda.
II - Viaggiate senza fretta
È sconsigliabile per tutti programmare
viaggi con tappe obbligate imponendosi
di visitare il maggior numero possibile
di località, viaggiando magari anche
durante la notte.
Meglio scegliere una sede gradita e in
quella trascorrere tutto il periodo della
vacanza.
Le ferie possono costituire anche un’occasione culturale, ma non devono mai
essere una fatica a causa di lunghi tragitti in strade dal traffico intenso, attese
snervanti per gli imbarchi, con lunghi
spostamenti, affaticanti.
L’automobile dovrebbe essere usata il
meno possibile, meglio riscoprire la bicicletta; a pochi chilometri dalla località di
villeggiatura prescelta possiamo scoprire ignorate bellezze paesaggistiche o
artistiche.
Sconsigliabile eccedere anche nella
curiosità di voler gustare tutte le specialità gastronomiche delle varie regioni.
Coloro che a settembre raccontano entusiasti ciò che hanno visto e fatto nel
recente viaggio di tremila chilometri,
non hanno fatto una vacanza.
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centri ben distribuiti sul territorio e
sulle grandi isole. Il portatore di pacemaker ripassi il libretto che gli è stato consegnato dopo l’impianto: evitare le attività fisiche che causano affaticamento,
mancanza di respiro, vertigini, i salti,
tuffi, gli urti e le pressioni che possono
provocare spostamenti dello stimolatore,
il quale può essere disturbato anche da
scariche elettriche e dalla vicinanza a
motori elettrici o a scoppio.
IV - Portate un elettrocardiogramma
recente e una breve relazione del
vostro medico
Prima di partire è bene che l’ammalato
informi il medico dei suoi progetti di
vacanze in modo da avere la sua approvazione circa la località prescelta.
In quell’occasione è bene che si faccia
Foto di Edi Turriani
III - Evitate le località prive di adeguata assistenza medica
Coloro che hanno avuto qualche disturbo
cardiocircolatorio debbono sempre informarsi preventivamente sulle possibilità
di assistenza che troveranno nel luogo
prescelto per la vacanza.
Il cambiamento del modo di vivere, le
fatiche dei viaggi, favoriscono il riapparire di disfunzioni che sono rimaste a
lungo quiescenti al punto da venire
dimenticate.
I portatori di pace-maker, quando si
recano fuori dalla loro zona e lontano dal
loro centro di controllo, debbono procurarsi una pianta con le sedi presso le
quali potranno recarsi qualora si renda
necessaria assistenza.
È bene che questa sia facilmente raggiungibile. In Italia vi sono più di cento
maggio-giugno [n. 5-6/2010]
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prescrivere tutti i farmaci necessari, sia
per le cure di mantenimento sia per
eventuali emergenze.
Porti con sé la copia della prescrizione
in modo da poterla mostrare al medico di
cui può aver bisogno.
È preferibile che porti con sé le medicine
per evitare il rischio di interrompere
anche per breve tempo le cure.
La precauzione diviene ancor più importante nel caso che l’ammalato si rechi
all’estero dove le medicine hanno nomi
diversi.
Salvo che non sopravvengano fatti nuovi,
è consigliabile evitare che il medico al
quale l’ammalato si rivolge durante le
vacanze, anche se suscita la massima
fiducia, modifichi le terapie. Eventuali
correzioni potranno essere fatte dopo il
rientro a casa: la vacanza è il periodo
meno adatto per cambiare terapia o per
provarne di nuove.
V - Scegliete il mezzo di trasporto più
adatto a voi
Anche per questo l’ammalato di cuore
deve chiedere consigli al medico curante.
Poiché la maggioranza delle persone va
in vacanza in automobile riportiamo un
decalogo per il cardiopatico del volante:
• mettetevi al volante solo se vi sentite
bene;
• limitate sempre la velocità e fate tappe
corte 150-200 km;
• evitate le strade con traffico congestionato;
• tenete nel cruscotto le medicine consi-
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gliatevi per le emergenze;
• non guidate sotto l’effetto di medicine
che diano sonnolenza;
• fate pasti leggeri escludendo gli alcolici;
• non spingete la macchina in caso di
guasto, non cambiate le gomme, non
caricate e scaricate bagagli;
• non viaggiate mai soli; fatevi accompagnare da qualcuno che possa darvi il
cambio alla guida;
• fermatevi sul bordo della strada se
avvertite qualche disturbo riferibile al
cuore;
• non guidate se vi sentite stanchi.
VI - Non fate imprudenze in stazione
Il trasporto delle valigie, le corse per
paura di perdere il treno, sono cause non
rare di scatenamento di attacchi cardiaci
e debbono essere assolutamente evitati:
sarebbe il modo peggiore di iniziare le
vacanze.
L’ammalato di cuore deve scegliere treni
nei quali è possibile prenotare il posto
ed evitare le giornate di ressa; se viaggia
di notte, il letto è indispensabile.
VII - Non riscoprite la racchetta a 50
anni
Se la bicicletta, la marcia, il nuoto, il jogging, praticati senza velleità sportive,
rappresentano attività adatte a tutti, non
così il tennis che va considerato uno
sport ad alto impegno cardiaco, del tutto
inadatto per chi ha disturbi cardiaci
anche di lieve entità.
La natura degli sforzi del tennista è
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caratterizzata da sforzi brevi e violenti:
la battuta, la risposta, i salti, interrompono, anche se in maniera transitoria, la
normale respirazione. Il cuore non ha
mai il tempo di adattarsi allo sforzo e
scarse possibilità di recupero all’infuori
delle interruzioni che si fanno fra un
punto e l’altro.
A 50 anni anche coloro che lo praticano
regolarmente non si lascino indurre a
gareggiare con avversari più giovani o
più esperti.
Non va dimenticato che il tennis sollecita l’emotività del giocatore.
VIII - Non date ascolto alle cure miracolose del vicino di ombrellone
Molti ammalati amano parlare delle loro
malattie: è un genere di conversazione
che sarebbe meglio evitare, anche perché sovente risulta noiosa per l’interlocutore.
Può accadere che due ammalati di cuore
si ritrovino vicini d’ombrellone: in questo caso la comune malattia – che spesso
è invece tutt’affatto diversa nonostante
alcune apparenti similitudini – diviene
l’argomento costante senza variazioni.
Molti ammalati si considerano dei grandi esperti di cardiologia: ostentano grandi nozioni sulle cause di cardiopatia e
soprattutto sui mezzi di cura.
Anche se trovate molte analogie fra i
vostri disturbi e quelli del vicino e anche
se questi riferisce di averli eliminati grazie ad un farmaco che vi consiglia con
calore, non lasciatevi mai tentare.
Proseguite regolarmente con le cure che
vi ha prescritto il vostro medico prima
della vacanza, anche se non vi liberano
totalmente dai disturbi, senza sperimentarne di nuove anche se descritte miracolose.
IX - Reintegrate le perdite di potassio
D’estate la traspirazione aumenta, si
suda con facilità, e col sudore il nostro
organismo insieme all’acqua perde
potassio. L’acqua persa viene facilmente
reintegrata perché viene stimolata la
sete, ma è necessario reintegrare anche
il potassio perso che è indispensabile al
buon funzionamento del cuore.
Il pericolo di abbassamento del potassio
del sangue (ipopotassiemia) è particolarmente accentuato negli ammalati che
prendono diuretici, farmaci che accrescono l’eliminazione del potassio con le
urine.
Il medico valuterà l’opportunità o meno
di prescrivere potassio; un’alimentazione ricca di verdura e frutta, sempre consigliabile durante la stagione calda, sarà
sufficiente a mantenere nella norma i
livelli plasmatici di potassio, tuttavia è
bene sapere che possiedono un alto contenuto di potassio le albicocche secche,
le lenticchie, i dadi da brodo, i piselli
secchi, le prugne secche, l’uva passa, le
mandorle, il prezzemolo, il prosciutto
affumicato e la salsa di pomodoro.
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Marilyn Monroe e Tom Ewel in
una scena del film “Quando la
moglie è in vacanza”
X - Evitate la cura del sole e l’aria condizionata
La tintarella non fa bene, neppure alla
pelle, anche se migliora l’aspetto.
Con l’esposizione al sole non si deve
scherzare; il caldo immagazzinato dal
corpo fa salire la pressione, fa battere il
cuore svelto, non giova alla circolazione
delle gambe.
È bene rinunciare anche ai condizionamenti: meglio tenere le persiane chiuse
durante il giorno e aprirle dopo il tramonto.
XI - Non superate i 2000 metri
Salendo di quota, la percentuale di ossigeno dell’aria diminuisce: coloro che soffrono di angina pectoris o di disturbi circolatori cerebrali possono risentirne perché i globuli rossi ne trasportano meno.
Vanno evitate soprattutto le ascensioni
in funivia che fanno compiere grandi
sbalzi di quota in breve tempo.
L’aereo, invece, non comporta pericoli
perché, grazie alla pressurizzazione, non
ci si discosta dalla pressione che si ha a
mille metri di quota.
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XII - Evitate le tentazioni del marito
solo in città
Gli ammonimenti a questo proposito
sono assai numerosi, ad elencarli tutti si
rischierebbe di divenire noiosi.
È vero che molte mogli di ammalati di
cuore eccedono nel ruolo tutelare trasformandosi spesso in fastidiosi controllori, ma è anche vero che molti mariti,
liberati da ogni sorveglianza, rischiano
di commettere pericolose imprudenze.
Ricordiamo solo quelle innocenti: le cene
troppo ricche, il poker che si protrae per
gran parte della notte, le sfide sportive
fra colleghi o fra scapoli e ammogliati.
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Di invidia
si può morire
di Franco Fontanini
Salomone sentenziò che il diavolo e la morte entrarono nel mondo portati dall’invidia, Abele fu la prima vittima.
L’invidioso vive in un ininterrotto disagio e sta male a causa delle tensioni mai scaricate e compresse nell’inconscio che lo portano alla
nevrosi, somatizza negli organi maggiormente sensibili alla vita emotiva, avverte spesso fitte al cuore, ha sbalzi di pressione, aritmie, gastralgie, ulcera duodenale, anoressia, colite, impotenza e sarebbe colpito più
spesso dall’infarto.
Qualcuno sostiene che senza l’invidia vivremmo ancora nelle caverne
e, secondo Bertrand Russel, non ci sarebbe la democrazia.
L’invidia condiziona il ricco e il povero, il genio e il mediocre. Bacone
diceva che colpisce anche i re perché c’è sempre qualcuno più re
degli altri. Saul era invidioso della fama di David, i trofei di
Milziade toglievano il sonno a Temistocle, Cassio per invidia
congiurò contro Giulio Cesare, Michelangelo invidiò a Raffaello
l’avvenenza e, a sua volta, fu duramente invidiato dallo scultore Pietro Torrigiano che non sopportava di vederlo tanto ammirato e onorato, tanto che spesso litigavano.
Davanti a Santa Maria del Carmine a Firenze fecero un vero
e proprio match pugilistico nel quale Michelangelo ebbe la
peggio. Un pugno in faccia gli fratturò il naso che rimase
deturpato.
I pittori sarebbero i più colpiti, Tiziano non volle più
nella sua bottega il giovane Tintoretto per il timore che
qualcuno dicesse che l’allievo aveva superato il maestro,
maggio-giugno [n. 5-6/2010]
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Raffaello
Sanzio
Caravaggio trattava male chi elogiava
altri pittori. Secondo il Vasari il Francia
morì roso dall’invidia per Raffaello, ma
neppure i letterati ne sono immuni:
Montesquieu parlava male di tutti gli
altri scrittori, Ibsen, a Londra, dichiarò
pubblicamente di non aver mai sentito
parlare di uno scrittore danese di nome
Andersen, l’amico che nella notte telefonò a Quasimodo per dargli la notizia del
Nobel, sapendo che aveva avuto l’infarto,
gli consigliò di prendere un tranquillante e di andare a letto. “Starò tutta la notte
al telefono, gli rispose, per dare un
dispiacere a tutti gli invidiosi”.
Perfino il mite Pascoli non tollerava che
si parlasse bene di D’Annunzio e confessò che l’invidia non era letteraria, bensì
per la bella residenza del Vate.
L’architetto Le Pautre cadde stecchito
alla notizia che il re gli aveva preferito il
rivale Mansart per il piano urbanistico
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Michelangelo
Buonarroti
di Parigi, Castillo fu stroncato dalla rabbia per i successi di Utrillo, Francois per
quelli di Maguy e di Demarteau.
Raggiunse la leggenda, probabilmente
inventata, l’invidia che tormentò per
tutta la vita Salieri nei confronti di
Mozart, del quale avrebbe copiato le
musiche e venne persino sospettato di
essere responsabile della sua morte prematura con un lento avvelenamento.
L’invidia non ha niente a che fare con la
competizione che è attiva, ottimistica,
speranzosa, priva di acredine, e nasce
dalla fiducia di riuscire ad emulare e
raggiungere chi sta più in alto, mentre
l’invidia è astiosa, distruttiva, pessimistica, priva di speranza e cerca solo di far
cadere i rivali. Chi soffre d’invidia non
ha fiducia nel proprio io. È diversa anche
dalla gelosia, che è caratterizzata dal
timore di perdere ciò che si ha, oggetto o
persona.
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Pagina 141
Altra caratteristica dell’invidioso è che
non ammette mai di esserlo.
Scarsamente considerata e giudicata non
grave nel Cristianesimo medioevale, oggi
secondo i teologi l’invidia è da considerare
in crescita per i continui cambiamenti della
nostra società consumistica che la favorisce.
Il caso più clamoroso di invidia regale è
quello di Luigi XIV, il Re Sole, divorato dall’invidia per Nicolas Fouquet, sovrintendente generale delle finanze statali e
padre del “Grande Secolo” che paradossalmente fiorì sotto un re di scarsa cultura,
del quale si diceva che avesse fatto in tutto
tre bagni compreso quello della levatrice.
Il Re Sole era invidioso dell’eleganza di
Fouquet, della sua cultura, della sua
Nicolas Fouquet
(XVII secolo)
splendida biblioteca, della sua amicizia
con gli artisti, della sua straordinaria
abilità nel compiere miracoli economici,
perfino del suo cuoco, il famoso Vatel
che, oltre ad essere un impareggiabile
maestro d’arte culinaria, sapeva organizzare feste sontuose.
Sebbene il re fosse un instancabile amatore, con una serie interminabile di favorite e di figli – la sola Marchesa di
Montespan gliene dette otto – era invidioso del fascino che Fouquet esercitava
sulle donne.
Luigi XIV era un grande lavoratore e un
famoso egoista, diffidente dei parigini e
dei parlamentari, e ripeteva in continuazione, alludendo a Fouquet: “Mi sembra
che mi si privi della mia gloria, quando
altri può ottenere fama, gloria e ricchezza senza di me”.
Lo stupendo castello di Vaux che
Fouquet si fece costruire, fu responsabile dell’attacco di invidia del re che lo
ritenne più bello del suo Palais Royal di
Parigi, scatenò il suo desiderio di vendetta e segnò la fine di Fouquet.
Con la complicità di Coulbert, altrettanto
invidioso, l’accusò di irregolarità amministrative, di malversazioni e di essere pericoloso per la nazione. Il castello di Vaux
era troppo sfarzoso, quello di Belle-Ile en
Mer troppo fortificato e minaccioso.
Arbitro assoluto, giudicò opportuna una
punizione esemplare per chi “ambiva a
diventare arbitro dello Stato”.
Fouquet, condannato alla confisca dei
beni e al bando perpetuo, finì i suoi giorni nel carcere di Pinerolo.
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NEWS
Aggiornamenti
cardiologici
di Filippo Stazi e Francesco Prati
La psoriasi aumenta il rischio cardiovascolare: come già descritto nello scorso numero di
Cuore e Salute la psoriasi, una malattia infiammatoria cronica della pelle, sembra essere un fattore di rischio indipendente per la comparsa di aterosclerosi, infarto miocardico e stroke.
Quanto detto ha trovato un’ulteriore conferma in uno studio recentemente pubblicato
sull’European Heart Journal in cui 3.603 pazienti affetti da psoriasi severa sono stati confrontati con 14.330 soggetti sani provenienti dalla stessa popolazione. Dopo aggiustamento per i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare la psoriasi si è rivelata un fattore di rischio indipendente per mortalità da cause cardiovascolari con un HR di 1,57. È degno di nota come l’aumento del rischio variasse in funzione dell’età, risultando maggiore (HR 2,69) nei soggetti quarantenni che in quelli sessantenni (HR 1,92). Ulteriori studi sono necessari per determinare la
causa di questa associazione nonché l’effetto che il controllo della psoriasi può avere sul
rischio cardiovascolare. (Eur H J on line 27 Dec 2009)
La forza della mano degli anziani predice il loro rischio di morte: è noto da tempo come
negli anziani una ridotta forza muscolare sia associata ad una prognosi sfavorevole in termini
di disabilità fisica, declino mentale e mortalità. Un recente studio olandese pubblicato sul
Canadian Medical Association Journal ha mostrato come, nei grandi anziani, la forza della
mano nell’afferrare gli oggetti sia un valido surrogato della forza muscolare totale, costituisca
un parametro altamente indicativo del loro rischio di morte per qualsiasi causa e possa essere
un semplice strumento di stratificazione prognostica. La forza della presa della mano di 555
soggetti è stata valutata con un semplice dinamometro all’età di 85 anni e poi ripetuta a 89
anni. Nel corso di un follow-up di 9,5 anni 444 pazienti andavano incontro al decesso (80%). Il
rischio di morte era maggiore nei soggetti che a 85 anni presentavano il più basso terzile di
forza della mano (HR 1,35), in quelli che a 89 anni erano nei due terzili inferiori (HR 2,04) e,
infine, in coloro che erano nel terzile con la maggiore perdita relativa di forza tra le due misurazioni (HR 1,72). (CMAJ 2010. DOI: 10.1503/cmaj.091278)
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Ticagrelor versus clopidogrel nelle sindromi coronariche acute: sono stati recentemente
pubblicati i risultati dello studio PLATO che ha confrontato l’ultimo arrivato tra i farmaci antipiastrinici, il ticagrelor che è un inibitore reversibile del P2Y12 ed il clopidogrel in pazienti con
sindrome coronarica acuta (SCA), con e senza sopraslivellamento ST, destinati a strategia terapeutica interventistica. 6.732 pazienti sono stati trattati con ticagrelor (180 mg in dose di carico e 90 mg due volte al giorno come mantenimento) e 6.676 con clopidogrel (dose di carico
300-600 mg, mantenimento 75 mg al giorno). Entrambe le terapie sono state condotte in associazione all’aspirina e proseguite per 6-12 mesi. L’end point combinato di morte, infarto miocardico e stroke si è verificato in 569 soggetti del gruppo ticagrelor ed in 668 pazienti del gruppo clopidogrel (p = 0.0025). Non si sono invece registrate differenze significative nella frequenza di sanguinamenti, sia totali (11,6% vs 11,5%, p = 0,8803) che severi (3,2% vs 2,9%, p =
0,3785). La conclusione degli autori è che il ticagrelor sembra essere un’opzione preferibile
rispetto al clopidogrel in pazienti con SCA destinati a strategia interventistica precoce.
(Lancet 2010; 375: 283-293)
Chirurgia tradizionale ed endovascolare per gli aneurismi dell’aorta addominale: in uno
dei numeri di maggio del New England Journal of Medicine sono stati pubblicati i risultati
dell’EVAR Trial, in cui 1252 pazienti con aneurismi dell’aorta addominale di diametro ≥5,5 cm
sono stati randomizzati al trattamento con chirurgia tradizionale od endovascolare. La terapia
endovascolare mostrava migliori risultati precoci con un tasso di mortalità operatoria a 30
giorni dell’1,8% contro il 4,3% del gruppo sottoposto a chirurgia tradizionale ma tale beneficio
non si confermava alla fine dello studio, in parte a causa del non trascurabile tasso di rotture
fatali dell’endoprotesi. Alla fine del follow up non si riscontravano quindi differenze significative tra i due gruppi in termini di mortalità da tutte le cause. L’incidenza di complicazioni correlate al graft e di reinterventi era invece maggiore nel gruppo della chirurgia endovascolare.
(N Engl J Med 2010; 362: 1863-1871)
Chirurgia tradizionale ed endovascolare per gli aneurismi dell’aorta addominale II: sempre nello stesso numero del New England Journal of Medicine sono stati pubblicati anche i risultati dello studio DREAM in cui 351 pazienti con aneurismi dell’aorta addominale ≥5 cm sono
stati randomizzati alla chirurgia tradizionale od a quella endovascolare. Dopo 6 anni di osservazione era sopravvissuto il 69,9% dei pazienti trattati convenzionalmente ed il 68,9% di quelli
sottoposti a chirurgia endovascolare. La necessità di un reintervento era invece significativamente maggiore nel gruppo endovascolare (29,6%) che in quello trattato con chirurgia a cielo
aperto (18,1%). (N Engl J Med 2010; 362: 1881-1889)
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Gastroprotettori, non a tutti!
Prima o dopo c’era da prevederlo. L’uso quasi d’abitudine dei gastroprotettori, inibitori della pompa
protonica, derivati dell’omeprazolo o del pantoprazolo, non potevano non dare qualche sorpresa.
Farmaci utilissimi, non c’è alcun dubbio, per proteggere la mucosa gastrica ed evitare certi disturbi
fastidiosi, specie in coloro che devono assumere molte altre pastiglie o
sono facili alle gastriti; in commercio si trovano sotto mille nomi, tutti
diversi l’uno dall’altro per la gioia della fantasia, ma non per quella del
paziente che non capisce a cosa servano, né del medico che, se non l’ha
ordinato lui, deve andare sul prontuario per leggerne il principio attivo.
Sono sostanze certamente attive, lo dimostra il grande successo nel
prenderle e nel prescriverle, ma non possono essere completamente
innocue. A parte alcuni disturbi digestivi dovuti al blocco dell’acidità
gastrica, vi sono quelli più importanti dell’interferenza con altri farmaci
che il paziente assume, la cui azione può venire in qualche modo
contrastata. Significativa è quella con gli anticoagulanti (coumadin e
sintrom), il cui INR per il controllo della loro efficacia oscilla in modo
imprevedibile creando problemi per il dosaggio. Da qualche tempo
viene segnalata con sempre maggiore allarme la loro interferenza con
gli antiaggreganti piastrinici prescritti a chi è stato sottoposto a stent
nelle coronarie. I gastroprotettori infatti riducono la loro azione
protettiva e rendono più facili le recidive di infarto (Arch Intern Med, aprile 2010).
Attenzione quindi alla facile prescrizione degli omeo-pantoprazolici! Meglio un disturbetto gastrico
oggi che un tappo coronarico domani.
Eligio Piccolo
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Noci, statine,
e Little Tony
di Eligio Piccolo
Giorni fa mi ritorna un paziente che controllo da tempo e lo interpello
sui grassi del sangue e le statine che gli ho prescritto. Mi guarda un po’
imbarazzato e poi confessa: “Sa, da qualche tempo le ho sospese, ho
preso il flaconcino, non ricordo il nome, mi scusi sa, quello di Little
Tony... e dopo un mese il colesterolo, che non riuscivo mai ad abbassare, si è portato sotto i 200!”.
Mi sono sentito, scusate l’arditezza del paragone, come Galileo davanti
al Cardinale Bellarmino. Ho cercato di glissare, facendo finta quasi di
non aver sentito, ho fatto le solite raccomandazioni sulla dieta e il peso;
ogni discorso serio a quel punto avrebbe lasciato lui non convinto e me
poco convincente.
Cerchiamo di metterci dalla parte del povero paziente e immaginare ciò
che gli frulla in testa quando il suo medico insiste con le statine, un
altro invece gli raccomanda soprattutto dieta e attività fisica, e la TV gli
offre miracolosi flaconcini, così belli ed attraenti da
confonderli con lo yogurt; mentre lui, colesterolo
alto o basso, non si accorge di nulla, non sente la
differenza e vorrebbe che qualcuno gliela spiegasse. I valori di LDL, HDL e trigliceridi, che il
tabulato degli esami marca con un asterisco perfino se superano o stanno sotto di un centesimo
rispetto ai valori normali, lo terrorizzano e
ben venga colui che gli propaganda con allegrezza un elisir.
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Oggi leggo su Archive of Internal
Medicine (maggio 2010) che le noci, le
mandorle, le nocciole, i pistacchi, le arachidi sono in grado di abbassare i grassi
nocivi del sangue in modo significativo
(dal 6% all’11%), specie in coloro che non
si sono troppo allargati nel giro-vita o
nel giro-anche, ossia mantengono un
buon indice fra peso e statura. Non è una
novità, lo sanno tutti, ma questo articolo
è una revisione seria, di ben 25 trial condotti in sette paesi, e pazientemente
rivalutata dai Nutrizionisti del “Instituto
de Salud Carlos III” di Barcellona.
Le noci e affini contengono dal 50% al
75% di acidi grassi del tipo insaturo,
quelli per intenderci che fanno bene, ma
anche fibre utili per l’intestino, oltre a
minerali importanti come il rame, il
magnesio e il potassio, vitamine varie e
perfino quegli antiossidanti e fitosterolici così essenziali, dicono, nella protezione dei nostri vasi. Le noci fanno anche
parte della dieta cosiddetta mediterranea, la cui efficacia nel controllare il
colesterolo, nel ridurre le malattie cardiovascolari e nel migliorare la vita è
oramai assodata come fosse un
Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Quegli studi epidemiologici infatti hanno
poi verificato che se la frutta secca rap-
presenta una consistente proporzione
della dieta, dal 10% al 20%, essa produce
gli stessi vantaggi della mediterranea
nel prevenire le malattie legate all’arteriosclerosi. Purché non si perda di vista,
ribadiscono, il peso corporeo e il suo
indice con l’altezza.
Certo è più comodo prendersi una pastiglietta di statine la sera che rimpinzarsi
di “bagigi”, come chiamano dalle mie
parti le noccioline americane, e dover
rinunciare con languore alla porchetta o
al fegato alla veneziana. È un’alternativa
difficile da discutere e da proporre nel
nostro mondo del benessere, pieno di
tante golosità e, per contraltare, di tanti
avvertimenti medici. A qualcuno però,
alla fine dei molti discorsi e delle sofisticate analisi degli esegeti del metabolismo, non può non venirgli un dubbio: e
se invece di confrontare il colesterolo
con le statine o con i flaconcini di Little
Tony, confrontassimo i loro effetti con
quelli della dieta o delle noci sulla nostra
salute? Potremmo forse ottenere qualche
idea più chiara e meno viziata da tanti
ragionamenti statistici, non sempre
disinteressati.
Lasciamo comunque alle nuove ricerche
su statine e diete una più utile valutazione del medico nei singoli casi.
testimonianze
Cuore e Salute mi educa, mi consiglia e mi diverte. Grazie.
Franco, Venezia
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Per la fibrillazione atriale
niente andamento lento!
di Filippo Stazi
La fibrillazione atriale è l’aritmia cardiaca più comune e la sua frequenza aumenta con l’età, tanto da interessare circa il 10% delle persone con più di ottanta anni. Essa è caratterizzata da una totale irregolarità del battito cardiaco e si associa spesso ad un aumento della frequenza cardiaca, cioè del numero delle contrazioni che il cuore compie
ogni minuto.
Per il trattamento di tale aritmia sono disponibili due differenti strategie terapeutiche, quella denominata “controllo del ritmo” e quella definita “controllo della frequenza”. Nella prima l’obiettivo è il ripristino,
mediante i farmaci o la cardioversione elettrica (l’erogazione di una
scossa elettrica al cuore capace di resettarne il ritmo), e poi il mantenimento del normale ritmo sinusale, nella seconda si opta per la cronicizzazione dell’aritmia badando solo a prevenire l’eventuale aumento della frequenza cardiaca.
Numerosi studi negli ultimi anni hanno dimostrato la
sostanziale sovrapponibilità delle due strategie terapeutiche sia in termini di sopravvivenza, che di qualità di
vita o di prevenzione degli eventi celebrovascolari (la
più temibile complicanza della fibrillazione atriale).
Alla luce di tali risultati la strategia di controllo della
frequenza si è andata sempre più diffondendo anche in
considerazione della sua maggiore semplicità. Non
sono però noti quali siano i valori di frequenza cardiaca
auspicabili e se una maggiore riduzione dei battiti si
associ ad un miglioramento della prognosi. Ciò nono-
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Foto di LDA
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stante le linee guida, basandosi su dati
empirici e non “evidence-based”, raccomandano uno stretto controllo della frequenza cardiaca anche se questo, necessitando di una terapia farmacologica più
aggressiva, può comportare un aumento
degli effetti indesiderati dei farmaci nonché del carico assistenziale sia per i
medici che per i pazienti.
Un recente studio olandese pubblicato
sul New England Journal of Medicine
dello scorso marzo ha cercato di chiarire
questa zona d’ombra. A tale scopo 614
pazienti con fibrillazione atriale permanente sono stati randomizzati in uno studio di non inferiorità in due gruppi, nel
primo l’obiettivo era il raggiungimento
di una frequenza cardiaca a riposo, inferiore a 110 battiti per minuto (bpm), nel
secondo, il gruppo a controllo più
aggressivo, la frequenza cardiaca non
doveva superare gli 80 bpm a riposo ed i
110 bpm durante sforzo moderato. Dopo
circa 3 anni di follow up l’end point primario dello studio (una combinazione di
morte per cause cardiovascolari, ricoveri
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ospedalieri per scompenso cardiaco,
stroke, embolie sistemiche, sanguinamenti maggiori ed eventi aritmici) si era
verificato nel 12.9% dei soggetti del
primo gruppo e nel 14.9% del secondo,
senza significative differenze tra i due
gruppi.
Al momento non è possibile sapere se
eventuali differenze tra i due tipi di trattamento potrebbero emergere in un
periodo di follow up più prolungato. Ciò
nonostante, la conclusione degli autori
era che in caso di fibrillazione atriale
permanente in cui si opti per il controllo
della frequenza, una strategia meno
aggressiva sia da preferire anche in considerazione del minore impegno richiesto sia al medico che al paziente.
In sintesi, per la fibrillazione atriale
niente andamento lento, anche perché,
come ricordava l’editoriale di accompagnamento, questo studio ricorda a tutti
come sia più importante trattare il
paziente nel suo complesso piuttosto che
un suo singolo parametro, peraltro
importante, come la frequenza cardiaca!
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La palla di Tiche
a cura di
Franco Fontanini
Tiche, imperscrutabile figlia di Zeus, amava giocare. Chi veniva colpito dalla sua palla moriva perchè il suo cuore cessava di battere.
Nella rubrica La palla di Tiche viene ricordato un personaggio del nostro tempo o del passato, illustre o sconosciuto, morto d’infarto. I medici e i lettori sono invitati a segnalarci casi di
loro diretta conoscenza che presentino peculiarità meritevoli di essere conosciute.
HH, il mediocre calciatore
che si autoinventò Mister e vinse tutto
Ci sono due motivi per ricordare Helenio Herrera: il centenario della sua probabile
nascita, e la disputa, appena iniziata ma già violenta, fra i suoi fans e quelli di José
Mourinho, l’uomo del giorno: nuovo Herrera o vecchio Rocco?
Una sentenza ardua fra due rivali, entrambi allenatori dell’Inter, entrambi iberici,
ammalati di protagonismo, a distanza di mezzo secolo, in uno sport che nel frattempo è totalmente cambiato.
Herrera, di età imprecisata, monoglotta, con linguaggio
approssimativo, arrivò nel 1960 con la fama di “mago”,
senza molte vittorie nel palmares, centomila dollari
all’anno di stipendio premi esclusi, che aumentarono
di anno in anno.
Il secondo, bello, poliglotta, elegante, holliwoodiano,
sovraccarico di successi. In comune hanno solo lo stipendio da capogiro, la presunzione, la sicurezza di sé,
il protagonismo e la megalomania.
Herrera, precorrendo Berlusconi, trasformò il calcio in
spettacolo planetario, enfatizzò la figura dell’allenatore, e soprattutto inventò il Mister, protagonista assoluto degli stadi, l’”uomo contro tutti”.
Era un hidalgo istrionesco e geniale, fanfarone dispotico e paranoico, che considerava il suo lavoro una missione. Divenne “Habla Habla”, a metà fra un parrucchiere di Toledo, consapevole della sua acconciatura e
un professionista di tango, come lo definì Edmondo
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Mourinho
Berselli, brillante saggista modenese
direttore de “Il mulino” che, per scrivere
di Mariolino Corso, si trasformò, a sorpresa, in immaginifico affabulatore calcistico senza eguali.
Mourinho, con la mira di andare ancora
più avanti, ha studiato Herrera a fondo
in tutti gli aspetti tecnici e caratteriali, e
su un quaderno segreto scritto da H.H.
durante vent’anni, in franco-ibericoitaliano, che lasciò in eredità a Giacinto
Facchetti, il suo allievo prediletto, dove
sono riportati il suo modo di fare gli allenamenti, la preparazione psicologica, il
diverso modo di affrontare le partite
diurne e quelle notturne e i metodi
occulti per caricare i suoi calciatori al
momento di scendere in campo, le regole
dello spogliatoio. Aveva in mente di fare
di Facchetti un attaccante, sbagliando
come di più non si poteva.
Presumeva di insegnarci il calcio moderno che lui aveva inventato, portò all’este-
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ro come suo, il modulo difensivo all’italiana, con l’Inter di Moratti Senior vinse
campionati, coppe, champion, tutto quello che si poteva vincere, finché un infarto lo mise fuori gioco.
Era nato in Argentina, figlio di un sivigliano poverissimo, onesto, anarchico e
analfabeta, che quando Helenio aveva tre
anni emigrò in Marocco alla vana ricerca
di un po’ di fortuna. Abitò in una capanna
abbandonata di Baires, per mangiare
Helenio fece qualche furtarello, il padre lo
redarguiva sempre, ma spesso si toglieva
anche lui la fame con la refurtiva.
Oggi a Baires c’è una grande strada dedicata a lui, il re del Marocco volle conoscerlo e si dice che pensasse di dargli in
moglie sua sorella.
Quando l’Inter, in omaggio al re, andò a
giocare a Baires, Herrera, insieme al dottor Quarenghi, andò alla ricerca della
capanna dove era vissuto quindici anni,
e con i piccoli occhi andalusi pieni di
lacrime gli disse: “Capisce perché i soldi
mi fanno perdere la testa?” È la sola
volta che fu visto piangere, sorridere non
sapeva.
In volo da Sofia a Barcellona, l’aereo fu
investito da un uragano notturno, tutti
piangevano, urlavano, pregavano, alcuni
svennero, appena tornò un po’ di calma
si sentì la sua voce metallica che disse:
“L’allenamento di domani è spostato alle
undici”.
Dal Marocco andò in Spagna, poi in
Francia dove giocò senza alcun successo,
come terzino, in una squadretta del
dipartimento delle Ardenne.
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Dopo la guerra, col diploma di moniteur
physique, iniziò a fare l’allenatore dicendo che era stato selezionato per la nazionale militare, senza che si sapesse se
francese o marocchina, quasi certamente
nessuna delle due. Era partito
dall’Argentina a tre anni, e diceva di aver
iniziato a giocare nelle giovanili del
“River Plate”.
“È sempre stato un gran bugiardo, diceva
la terza moglie, ma non un falso, è convinto di essere egli stesso la verità”.
Possedeva una carica prorompente, convinto di sé fino al ridicolo, sempre enfatico con programmi minuziosi; dopo un
mese che era in Italia adottò il libero e
impostò il gioco scarno sulla difesa, andò
per il mondo vantandosi di aver inventato
il catenaccio e il “contropiede”, con i quali
ottenne vittorie come nessun altro mai. Il
suo motto ossessivo era “taca la bala”,
personale versione meneghina dello slogan madrileno “ataqua la pelota”.
Galvanizzava i giocatori dando loro una
carica irrefrenabile, prima della partita
li sottoponeva al “suo” training autogeno: saliva su una panca al centro dello
spogliatoio rigorosamente chiuso a tutti
e per mezz’ora li chiamava ad un appello
solenne che cominciava dal portiere.
Sarti scattava in piedi restando rigido
sull’attenti, come un granatiere, dopo di
che Herrera gli chiedeva minaccioso chi
fosse il più grande portiere del mondo.
“Io”, rispondeva Sarti senza esitare, con
voce ferma.
Il rito durava mezz’ora o più, nessuno ha
mai accennato al più tenue dei sorrisi.
Solo Tagnin, modesto gregario prezioso
per l’inesorabile marcamento all’avversario che gli veniva assegnato, alla
domanda chi fosse il miglior mediano del
mondo, rispose “Mi no!” e rischiò di
essere cacciato.
Immune dall’ironia, ignorava l’autocritica, non ha mai ammesso un errore, tappezzava di slogan e proclami lo spogliatoio. Non temeva nessuno, un giornalista
che lo criticò, la pagò a caro prezzo.
In oltre vent’anni che rimase in Italia
non apportò alcun miglioramento al suo
personale “patois”.
Famosa la sua avarizia, pretese l’ingaggio in dollari, al netto, per essere sollevato dalla sofferenza di pagare le tasse. I
suoi premi erano doppi rispetto ai giocatori, prendeva anche i premi delle squadre juniores, quando un’azienda regalò
una cravatta ai giocatori, in forza della
clausola contrattuale, ne pretese due.
Appena poté, regalò ai genitori una villa
principesca con una biblioteca costata
150 mila dollari, anche se erano entrambi analfabeti.
Non riuscì a cancellare dal viso i segni
della miseria infantile, vestiva in maniera spesso clamorosa, con scarpe bianche
come confetti e un enorme anello d’oro
con inciso H.H., ma evidentemente possedeva un suo fascino.
Uno studente di liceo, in un tema scrisse
che i tre personaggi più grandi al mondo
erano Giovanni XXIII, John Kennedy e
Helenio Herrera.
Imponeva rigorosi ritiri ai calciatori –
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per sé pretendeva una diaria extracontratto – dopo le ventidue, quando i giocatori erano a letto, ogni sera sgusciava via
convinto che nessuno lo vedesse, mentre
tutti facevano finta di ignorarlo, per
incontrare una delle tante donne che
aveva in ogni parte del mondo.
Fiora Gandolfi, una bella giornalista
della “Stampa” che andò ad intervistarlo
e lo sposò pochi mesi dopo, racconta che
era sordo, ci vedeva poco a causa della
cataratta, ma guidava spericolatamente.
“Non sentendolo ritornare per giorni me
lo immaginavo in fondo ad un burrone,
invece fino all’ultimo c’era sempre qualche “altra”.
L’ultima volta partì dicendo dove andava:
a Casablanca dov’è sepolta sua madre.
Dopo qualche giorno telefonò da un
ospedale francese dov’era ricoverato:
non ce la faceva più a respirare per un
attacco cardiaco. All’arrivo della moglie,
se n’era andato firmando, sotto la sua
responsabilità.
La telefonata successiva le arrivò da
Roma e le disse: “I romanisti vorrebbero
trattenermi in ospedale, figurati se sto
con loro!”
Andò in ospedale a Venezia e non ne
uscì più per l’aggravarsi dell’infarto. Tre
giorni prima della morte gli arrivò l’ultima lettera d’amore: la portò la Gandolfi e
gliela lesse perché non ci vedeva più.
Era convinto che fare l’amore fosse una
cosa positiva, fonte di vitalità, secondo la
tradizione orientale.
Aveva 81 anni, ma tutti sapevano che
aveva falsificato il certificato di nascita
togliendosi almeno sei anni.
Era stato un mediocrissimo calciatore, i
suoi critici dicono che in panchina era
cieco e Picchi diventava il regista in
campo, ma è stato per tre decenni la personalità di maggior spicco nel mondo del
calcio. Mou, suo malgrado, dovrà aspettare ancora un po’ per superarlo, se ci
riuscirà.
Senza Herrera, Serse Cosmi, fiumarolo
perugino, non sarebbe mai stato chiamato “Mister”.
Dimagrire e riprendere peso
Nonostante ci siano personaggi vissuti a lungo e in buona salute portando con disinvoltura il loro
sovrappeso, l’obesità, come dicono le statistiche, non fa certamente bene. Gli studi medici infatti non
appoggiano quella minoranza fortunata, piuttosto ci
avvertono che un indice di massa corporea oltre i 30,
corrispondente grosso modo a un adulto di un metro e
settanta con un peso oltre i 90 kg, rischia
l’ingrossamento del cuore, danni alle coronarie,
insufficienza cardiaca, pressione alta, colesterolo,
diabete ed altre quisquilie. Mettersi a dieta in modo tale
da ridurre il peso del 7-8% (7 kg nell’esempio citato)
consente di migliorare anche il rischio in modo ben
quantificabile. Se poi, come succede spesso, ci si lascia
andare e si riacquista una parte del peso perduto non si
perde tutto il vantaggio, che possiamo riacquistare con
ulteriori sacrifici. ( JACC dicembre 2009).
E.P.
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TUTTO QUELLO CHE SI DEVE SAPERE SU …
aneurisma dell’aorta
Aneurisma
dell’aorta addominale:
l’importanza di una diagnosi precoce
di Rocco Giudice
L’aneurisma dell’aorta addominale (AAA) rappresenta una patologia
con incidenza significativa nelle fasce di età media ed avanzata, stimata tra il 4 e l’8% negli uomini e tra lo 0,5 e l’1% nelle donne con più di
60 anni. Colpisce oltre 700.000 persone in Europa, circa 84.000 in
Italia. Personaggi illustri quali Charles De Gaulle ed Albert Einstein
sono morti per AAA rotto. Negli Stati Uniti è la 13a causa di morte ed è
responsabile dello 0,8% dei decessi, mentre nel nostro Paese, per la
stessa patologia, ogni anno muoiono 6.000 persone.
L’aorta è l’arteria più importante del nostro organismo e, nel corso della
vita di un uomo, assorbe la forza d’urto di 2,5-3 miliardi di battiti cardiaci, distribuendo un volume di sangue pari a circa 200 milioni di
litri. Questo “carico di lavoro” può far sì che, in presenza di condizioni
predisponenti che determinino un indebolimento della parete del vaso,
con perdita sostanziale della sua resistenza elastica,
l’aorta vada incontro ad una dilatazione permanente
e progressiva, con rischio di rottura e conseguente
emorragia spesso fatale. La porzione più frequentemente colpita da questa patologia è quella addominale, in particolare il tratto di aorta al di sotto delle
arterie renali: a questo livello il diametro normale
del vaso è di 2 cm circa, mentre parliamo di aneurisma quando raggiunge o supera i 4 cm (Figura 1).
La causa che porta all’indebolimento della parete
Figura 1.
Aneurisma dell’aorta addominale (AAA)
nel tratto sottorenale.
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dell’arteria e, quindi, alla formazione
dell’aneurisma è rappresentata il più
delle volte dall’aterosclerosi; meno frequentemente la malattia è dovuta a traumi, infezioni, alterazioni genetiche. I
pazienti a rischio di avere un AAA sono
generalmente di sesso maschile, di età
superiore ai 60 anni, solitamente fumatori ed ipertesi (il fumo di sigaretta, in
particolare, aumenta di 6 volte il rischio
di sviluppare un AAA). È descritta anche
una familiarità per questo tipo di malattia, talvolta una vera e propria trasmissione genetica con modalità autosomica
dominante legata al cromosoma X.
È da sottolineare il fatto che la presenza
di un aneurisma dell’aorta addominale
non comporta di solito alcun disturbo
per il paziente: spesso la diagnosi viene
fatta per scoperta occasionale nel corso
di una visita medica, oppure a seguito di
un’ecografia, una TAC o una Risonanza
Magnetica eseguite per altri motivi.
Talvolta è il paziente stesso che riferisce
al medico di avvertire un qualcosa “che
batte” all’interno del proprio addome.
Meno frequentemente può essere presente un dolore in regione lombare,
dovuto alla compressione esercitata da
parte dell’aneurisma sui corpi vertebrali
e sulle radici nervose. Raramente ci sono
segni e sintomi di embolia periferica
(classica la cosiddetta “sindrome del dito
blu”), a causa del distacco di materiale
trombotico contenuto nell’aneurisma che
va ad occludere le arterie o arteriole a
valle.
Eclatanti sono, invece, i sintomi in caso
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di rottura dell’aneurisma: l’abbondante
emorragia interna che si determina in
tale situazione, infatti, comporta un violento dolore addominale o lombare, con
anemia e marcata ipotensione, che rendono imperativo un trattamento immediato.
Come è facile intuire, un aneurisma, per
effetto della pressione sanguigna, tende
progressivamente a crescere (mediamente 5 mm per anno) ed il rischio di
rottura aumenta con l’aumentare delle
dimensioni dell’aneurisma stesso. Il
tasso di rottura annuale per un AAA di
diametro tra 4 e 5,4 cm è pari allo 0,51%, aumenta al 6,6% per aneurismi tra i
6 ed i 7 cm di diametro, fino ad arrivare
al 19% per aneurismi oltre i 7 cm.
Calcolato come rischio di rottura a 5
anni, ciò significa rispettivamente 5%,
33% e 95%. La rottura dell’aneurisma è
un evento drammatico, mortale nel 100%
dei casi non trattati; è da sottolineare,
peraltro, che sopravvive solo il 50% dei
pazienti con AAA rotto che arrivano ad
un Ospedale attrezzato per questo tipo di
chirurgia e vengono sottoposti ad intervento in emergenza. È per questo che si
raccomanda di trattare il paziente prima,
quando l’aneurisma raggiunge dimensioni cosiddette “a rischio” che giustifichino il ricorso all’intervento (diametro
pari o superiore a 5,5 cm secondo le
attuali linee-guida). I risultati del trattamento in elezione, infatti, sono del tutto
soddisfacenti, con una mortalità inferiore al 5%. L’indicazione all’intervento,
comunque, andrà sempre constestualiz-
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aneurisma dell’aorta
zata nel singolo paziente, tenendo in
debita attenzione l’età e l’aspettativa di
vita così come la presenza di concomitanti patologie che potrebbero aumentare in maniera significativa il rischio operatorio.
Proprio perché si tratta di una malattia
insidiosa, che frequentemente non dà
alcun segno di sé fino al momento della
rottura, è di fondamentale importanza
che i pazienti cosiddetti a rischio eseguano periodicamente dei controlli. Infatti,
la diagnosi precoce di un AAA, anche se
di piccole dimensioni, consente di impostare un corretto programma di followup per valutarne la crescita nel tempo ed
intervenire, comunque, prima che si
arrivi alla rottura. In quest’ottica di prevenzione, un gesto clinico semplice
come la palpazione dell’addome può
essere determinante: soprattutto in presenza di pazienti non obesi e specie se si
tratta di aneurismi di dimensioni non
piccole, è facile riscontrare una massa
con ben distinte caratteristiche di pulsatilità. È stato dimostrato come un’attenta
palpazione dell’addome eseguita all’altezza dell’ombelico consenta di identificare un AAA di diametro >5cm in un
soggetto magro nel 100% dei casi. Oltre
alla visita specialistica, un esame ecografico dell’aorta addominale è sufficiente per confermare o meno la diagnosi.
Esami più sofisticati (TAC, RM, angiografia) sono necessari per definire con precisione le caratteristiche morfologiche e
dimensionali dell’aneurisma ed acquisire, quindi, tutte le informazioni necessa-
rie per procedere all’intervento.
L’indicazione al trattamento elettivo, alla
luce di quanto esposto, si pone per un
AAA di diametro > 5,5 cm, o quando la
velocità di crescita della sacca risulti
significativa (> 5 mm/anno); è, comunque, opportuno intervenire in tutti i casi
in cui il paziente accusi sintomi imputabili all’aneurisma. Il trattamento chirurgico tradizionale consiste nel sostituire il
tratto di aorta dilatata con una protesi in
materiale biocompatibile (generalmente
Dacron, più raramente PTFE), che viene
suturata alle porzioni sane del vaso
(Figura 2). Grazie al progresso delle tec-
Figura 2.
Schema del trattamento chirurgico
tradizionale per AAA.
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Figura 3.
Schema del trattamento
endovascolare per AAA
niche chirurgiche ed anestesiologiche,
ed alla disponibilità di Sale di Terapia
Intensiva post-operatoria sempre più
attrezzate ed efficienti, i risultati dell’inter vento nei Centri Specialistici di
Chirurgia Vascolare sono molto buoni,
con una mortalità decisamente contenuta (inferiore al 5%). Di solito il paziente
soggiorna in Terapia Intensiva per le
prime 24-48 ore post-operatorie. La
ripresa dell’alimentazione è possibile in
3a-4a giornata e la dimissione avviene
mediamente dopo 7-8 giorni dall’intervento. L’incidenza di complicanze a
distanza è rara ed il trattamento è da
considerare come soluzione pressoché
definitiva del problema.
Da ormai 15 anni, inoltre, è possibile utilizzare una tecnica meno invasiva che,
nei casi con anatomia favorevole, consente il trattamento di un AAA evitando
di ricorrere all’apertura chirurgica dell’addome. Si tratta della cosiddetta procedura endovascolare: attraverso mini-
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incisioni a livello inguinale, con l’ausilio
di strumentazione e materiali tecnologicamente sempre più evoluti, è possibile
passare dei cateteri all’interno dei vasi e
raggiungere per tale via l’aneurisma aortico, rilasciando al suo interno una protesi particolare detta “endoprotesi”.
L’endoprotesi si espande fino ad aderire
alle porzioni sane dell’aorta e delle arterie iliache rispettivamente a monte ed a
valle dell’aneurisma, che risulta, così,
escluso dal circolo: in tal modo la sacca
aneurismatica, non più sottoposta
all’azione della pressione sanguigna,
non può rompersi (Figura 3).
L’intervento è molto ben tollerato dal
paziente e può essere eseguito anche in
anestesia locale o loco-regionale. La mortalità è pari a circa 1/3 di quella del trattamento chirurgico convenzionale, con
perdite ematiche trascurabili e bassa
incidenza di complicanze perioperatorie.
Il paziente si alimenta già dal giorno
successivo all’intervento e la degenza
post-operatoria è sensibilmente ridotta,
con possibile dimissione dopo 3-4 giorni
dalla procedura. Tuttavia, è molto importante che il paziente con endoprotesi si
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aneurisma dell’aorta
Figura 4.
Controllo TC in paziente con AAA trattato per via
endovascolare: la freccia mostra mezzo di contrasto al
di fuori dell’endoprotesi, espressione di riperfusione
della sacca aneurismatica (“endoleak”).
sottoponga per tutta la vita a periodici
controlli mediante ecocolordoppler e,
soprattutto, TAC dell’addome: è possibile, infatti, che nel corso degli anni la
sacca aneurismatica venga riperfusa dal
sangue (cosiddetto “endoleak”) o,
comunque, ripressurizzata, con nuovo
rischio di rottura (Figura 4). Il riconoscere precocemente queste situazioni consente in genere di porvi rimedio con successo. Si calcola che il 15-20% dei
pazienti sottoposti a trattamento con
endoprotesi di un AAA necessiti di un
reintervento (in genere sempre con tecnica endovascolare) nel corso dei primi
4-5 anni dopo l’impianto.
In definitiva, le opzioni terapeutiche a
disposizione del chirurgo vascolare con-
sentono di trattare con ottimi risultati in
regime elettivo il paziente portatore di
un AAA. È importante riconoscere precocemente la patologia onde poter avviare
un percorso terapeutico o di monitoraggio adeguato. Nei pazienti di sesso
maschile oltre i 60-65 anni, quindi, e
soprattutto in presenza di fattori di
rischio specifici (ipertensione, fumo,
ipercolesterolemia, diabete, coronaropatia, arteriopatia periferica, stenosi delle
carotidi, broncopneumopatia ostruttiva,
familiarità per malattia aneurismatica) è
consigliabile un accurato esame obiettivo dell’addome alla ricerca di masse pulsanti, da integrare con uno studio ecografico volto a definire il diametro aortico. Proprio in tal senso, infatti, si è
recentemente mossa la Società Italiana
di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare,
promuovendo un programma di screening ecografico per l’aneurisma dell’aorta addominale da riservare ai soggetti di
sesso maschile di età compresa tra i 65 e
Figura 5.
Campagna di screening ecografico dell’AAA
promossa dalla Società Italiana di Chirurgia
Vascolare ed Endovascolare.
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aneurisma dell’aorta
Aneurisma
addominale
di Eligio Piccolo
Ne avevamo trattato in questa rivista qualche anno fa e da allora non è
che le nozioni principali siano granché cambiate. L’aneurisma dell’aorta
addominale, ossia la dilatazione eccessiva della nostra arteria principale
nel suo tratto retrointestinale, dopo che ha fornito le arterie per i reni,
rimane sempre una malattia di tutto riguardo e degna della massima
attenzione per i pericoli che ne possono derivare, in primis la sua rottura. Quando ciò succede si crea un’emergenza che mette a repentaglio la
vita del malato cosicché la migliore terapia è la sua prevenzione, quella
di sempre: vigilare che il diametro del vaso non superi certi limiti.
Ciò che è cambiato invece è, da un lato, il significato che si deve dare oggi
a questa forma di arteriosclerosi e, dall’altro, il tipo di intervento da decidere quando il calibro dell’aneurisma raggiunge i valori di rischio.
Per quanto riguarda il significato della malattia in sé,
uno studio francese pubblicato di recente sul JACC
(2010;55:898), ove si mette a confronto questa localizzazione della malattia arteriosclerotica con la forma che
colpisce i vasi più a valle, nelle gambe, dimostra che i
pazienti con arteriopatia più alta, aorta e iliache, sono
più spesso maschi e fumatori, mentre quelli con compromissione più a valle, femorali e sue diramazioni, sono più
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anziani, diabetici e ipertesi. Ma il dato
più significativo è che la prognosi, ossia
la mortalità nel tempo, è tre volte maggiore nei primi rispetto ai secondi.
Circa il secondo problema, ossia l’intervento per riparare l’aneurisma quando
la sua dimensione diventa a rischio, oggi
si avvale di due procedure, entrambe
efficaci: quella chirurgica, di sostituzione del tratto malato con un “tubo” artificiale, e quella percutanea di introduzione attraverso l’arteria femorale all’inguine di un grosso stent capace di proteggere dall’interno l’aorta malata, come si fa
per le coronarie. Quest’ultimo trattamento evita naturalmente la chirurgia e
l’anestesia generale.
I risultati sono stati valutati in varie
ricerche, l’ultima delle quali è l’inglese
EVAR (NEJM, 11 aprile 2010) in cui si
sono confrontati 626 casi operati chirurgicamente con 626 trattati con lo stent.
La mortalità entro i primi 30 giorni è
risultata più del doppio nei sottoposti a
chirurgia, ma in quelli trattati con lo
stent le complicazioni successive sono
state maggiori, sicché a distanza di 4
anni gli esiti si pareggiavano.
Di questo studio è interessante anche un
codicillo relativo a un gruppo di pazienti
che per l’età e per altre malattie concomitanti sono stati considerati a maggior
rischio e trattati o con la tecnica meno
traumatica dello stent oppure lasciati al
loro destino: la mortalità dopo 8 anni fu del
doppio in questi ultimi (12.7% vs 25.6%).
In conclusione, la chirurgia cardiovascolare e l’angioplastica hanno fatto passi notevoli per risolvere il problema terapeutico
di questi pazienti, comunque vengano
operati. Certamente i progressi tecnologici delle procedure meno invasive (stent)
non potranno che avanzare, aiutando
anche i malati più compromessi dall’età e
da altre malattie, mentre quelli chirurgici
cambieranno di poco, sicché il futuro si
pensa che sarà sempre più affidato alle
prime, mentre la decisione di lasciare il
malato al suo destino senza alcun intervento sarà sempre più rara.
testimonianze
Cuore e Salute è diverso dagli altri giornali, mi sembra scritto per me, mi piacerebbe che
mi arrivasse più spesso.
Roberta, Padova
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aneurisma dell’aorta
Aneurismi aortici
Noti da vari secoli agli anatomici, gli aneurismi di vari tratti dell’aorta erano inaccessibili ai chirurghi, i
quali ben conoscevano la loro pericolosità per la non rara possibilità di rottura e creavano molte
perplessità ai medici circa la loro eziologia.
Jean Baptiste Bouillaud, che diverrà famoso per la scoperta dell’endocardite reumatica, si laureò con
una tesi dedicata agli aneurismi dell’aorta nel 1824. Broca trent’anni più tardi, scrisse il primo trattato
sull’argomento. All’inizio del Novecento, con l’avvento della radiologia, Beclere, un pediatra che restò
affascinato dalla chiarezza delle immagini che permettevano di osservare la forma e la motilità del
cuore, grazie alle prime teleradiografie, individuò i caratteri degli aneurismi profondi.
Molto si disputò sulle cause che potevano risiedere all’origine degli aneurismi, la maggioranza dei
quali venivano attribuiti alla concomitante sifilide inveterata.
Laennec fu tra i primi a sostenere che l’aterosclerosi poteva essere un fattore causale altrettanto
importante.
La scoperta del treponema fatta da Schaudin nel 1905 e della reazione di Wassermann consentirono di
precisare il ruolo della lue e di riconoscere altre cause più o meno frequenti degli aneurismi, quali i
traumi e le infezioni. A lungo perdurò la credenza che gli aneurismi dell’aorta toracica fossero causati
dalla sifilide e quelle del tratto addominale dall’aterosclerosi.
Laennec descrisse fra i primi anche gli aneurismi dissecanti, con elevata mortalità, che venivano molto
spesso scambiati per infarto del miocardio. L’angiografia venosa, che consentì notevoli progressi,
venne eseguita dal 1948, quella arteriosa dieci anni più tardi. Oggi la diagnosi è ecocardiografica.
I primi tentativi chirurgici non ebbero quasi mai successo, da cinquant’anni i casi positivi sono andati
sempre più aumentando, ma il rischio permane elevato.
F.F.
Aneurisma dell’arco aortico,
ripreso da un trattato inglese
del 1815.
Grave arteriosclerosi dell’aorta con
iniziale dilatazione del tratto
addominale osservata da J. J. Wepfer
in un cadavere nel 1695.
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DAL CONGRESSO
CONOSCERE E CURARE
IL
CUORE
2010
di Daniela Lina e Diego Ardissino
Unità Operativa Complessa di Cardiologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria, Parma
Genetica e cardiopatia ischemica:
le applicazioni cliniche sono ancora lontane?
L’infarto miocardico è una patologia multifattoriale, che deriva dall’interazione di molteplici fattori di rischio genetici ed ambientali.
L’associazione causale fra i fattori di rischio ambientali e lo sviluppo di
infarto miocardico è stata chiaramente documentata ed il ruolo di questi
fattori è stato ben definito dal punto di vista fisiopatologico. Viceversa,
sebbene il ruolo dei fattori di rischio genetici sia da lungo tempo ipotizzato sulla base degli studi epidemiologici, di fatto, al momento, relativamente poco è noto circa la base genetica della malattia.
La familiarità per cardiopatia ischemica è un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di infarto miocardico e questa associazione non
può essere spiegata dalla sola esposizione agli stessi fattori di rischio
ambientali. In effetti, nel caso di gemelli monozigoti, che condividono
lo stesso patrimonio genetico, la morte cardiaca in età giovanile di uno
dei due gemelli comporta che il gemello sopravvissuto abbia un rischio
di quindici volte maggiore di andare incontro allo stesso evento se di
sesso femminile e di otto volte se di sesso maschile rispetto al caso in
cui nessuno dei due gemelli muoia per morte cardiaca. Il rischio è invece significativamente inferiore nel caso di gemelli dizigoti, che hanno
in comune solo la metà del proprio patrimonio genetico, con un rischio
incrementato di sei volte per le femmine e di due volte per i maschi.
Questa influenza geneticamente determinata si conferma, seppur in
maniera meno significativa, sia per gli uomini che per le donne, in
tutte le fasce di età, suggerendo che la componente di rischio genetica,
pur essendo massima rispetto alla componente di rischio ambientale in
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età giovanile, sia comunque significativa
a qualsiasi età. Peraltro, sebbene i fattori
genetici contribuiscano allo sviluppo dei
classici fattori di rischio cardiovascolare,
quali il diabete mellito, l’ipertensione
arteriosa e l’ipercolesterolemia, il ruolo
della predisposizione genetica all’infarto
miocardico non è limitato allo sviluppo
di questi fattori, ma ha anzi un valore
incrementale ed indipendente.
Negli ultimi dieci anni sono stati quindi
effettuati numerosi tentativi, mediante
l’approccio del gene candidato e dell’analisi di linkage, per identificare le varianti
genetiche associate al rischio di infarto
miocardico. I risultati sono stati tuttavia
poco incoraggianti e di pressoché nulla
consistenza sul piano clinico perché tra
le diverse varianti genetiche proposte
quelle frequentemente rappresentate
nella popolazione non sono mai state
riprodotte, mentre quelle che sono risultate effettivamente correlate allo sviluppo di infarto miocardico spiegavano solo
una minima parte (<1%) dei casi. Questo
è riconducibile a diverse ragioni. In
primo luogo il genoma umano è estremamente polimorfico e, probabilmente, la
maggior parte dei polimorfismi ha scarso o nullo effetto sul fenotipo, per cui
non è semplice identificare varianti
genetiche “funzionalmente significative”. Inoltre, la patogenesi dell’infarto
miocardico acuto, e della cardiopatia
ischemica più in generale, è estremamente complessa dal punto di vista
molecolare, risultando dall’interazione
di molteplici componenti, per cui l’in-
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fluenza fenotipica di ogni singola variante genetica risulta lieve.
Solo molto recentemente, una nuova
metodica di analisi genomica, chiamata
genome-wide association study (GWA), ha
fornito risultati promettenti permettendo
di identificare comuni varianti genetiche
che influenzano lo sviluppo di alcune
malattie complesse quali la degenerazione maculare, il diabete mellito, la malattia
di Crohn, l’artrite reumatoide, l’obesità ed
anche l’infarto miocardico. Tale metodica,
partendo dalla mappatura del genoma
umano ed in particolare dalla mappa
degli aplotipi (Haplotype Map) che individua le varianti genetiche (single nucleotide polymorphism, SNP) più frequentemente e stabilmente presenti nel genoma
umano, utilizzando chip che permettono
di analizzare sino ad 1.000.000 di SNP
per ogni individuo, è in grado di individuare piccole regioni del DNA che massimamente si differenziano tra i sani ed i
malati. Questi SNP massimamente diversi
tra sani e malati non necessariamente
costituiscono essi stessi le sequenze
genetiche responsabili della malattia, ma,
piuttosto, sono sequenze nucleotidiche
ubicate in vicinanza o all’interno della
regione genetica che influenza la malattia. L’approccio “genome-wide” è rivoluzionario in quanto permette lo studio di
varianti genetiche associate ad una determinata patologia lungo l’intero genoma,
con livelli di risoluzione prima inimmaginabili e, a differenza dell’approccio del
gene candidato, indipendentemente da
ipotesi patogenetiche.
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Nel 2007 diversi studi indipendenti condotti con tale metodica hanno chiaramente documentato l’associazione tra
alcune comuni varianti genetiche della
regione cromosomica 9p21.3 in linkare
disequilibrium tra loro e lo sviluppo di
infarto miocardico e cardiopatia ischemica più in generale. Al momento attuale
le varianti genetiche (tra cui rs10116277,
rs1333040, rs2383206, rs10757278, e
rs1333049) di questa regione cromosomica rappresentano il marcatore genomico del rischio di infarto miocardico
più consolidato. Infatti tale associazione
è stata replicata e confermata in diverse
popolazioni indipendenti tra cui la popolazione italiana dello “Studio Genetico
nell’Infarto Miocardico Giovanile”.
Quest’ultimo è uno studio nazionale prospettico caso-controllo che ha coinvolto
125 Unità Coronariche italiane. I casi
erano pazienti con documentata anamnesi di infarto miocardico giovanile
prima dei 45 anni di età e sottoposti a
studio coronarografico eseguito entro i
sei mesi successivi all’evento. I controlli
erano soggetti sani con anamnesi negativa per eventi tromboembolici singolarmente appaiati ai casi per età, sesso ed
origine geografica. In questo studio, la
variante rs1333040 è quella che ha presentato il più forte segnale di associazione. I 1508 soggetti colpiti da infarto miocardico e non sottoposti ad angioplastica
primaria al momento del primo infarto
sono poi stati seguiti per un periodo di
circa 20 anni relativamente al ricorrere
di eventi cardiovascolari, vale a dire
morte, re-infarto o rivascolarizzazione
coronarica, mediante angioplastica coronarica percutanea e mediante by-pass
aortocoronarico (endpoint primario combinato). La variante genetica rs1333040
ha influenzato in maniera significativa
l’endpoint primario dello studio, vale a
dire il ricorrere di eventi cardiovascolari;
l’analisi dei singoli componenti dell’endpoint primario ha poi evidenziato che
tale influenza era mediata dall’effetto
sulla rivascolarizzazione coronarica.
L’identificazione delle varianti genetiche
della regione cromosomica 9p21.3 è il
primo risultato effettivamente consistente nell’ambito della ricerca della predisposizione genetica alla cardiopatia
ischemica essendo di fatto il primo dato
chiaramente riprodotto nell’ambito di
diverse popolazioni, peraltro tutte di
dimensioni significative, ed essendo la
variante genetica frequentemente rappresentata nella popolazione. Tuttavia, a
fronte di questi dati entusiasmanti, bisogna dire che la funzione della variante
genetica non è ancora nota. Ciò che è
noto è poco e cioè che la sequenza genetica a cui appartengono gli SNP identificati è collocata in prossimità delle
sequenze codificanti dei geni di due chinasi ciclica-dipendenti, CDKN2A e
CDKN2B, e che le proteine codificate da
questi geni, chiamate p16 INK4a , ARF e
p15INK4b hanno un ruolo nella regolazione della proliferazione, della senescenza
e dell’apoptosi cellulare in diverse tipologie di cellule, tutti processi fondamentali
per lo sviluppo dell’aterosclerosi e della
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cardiopatia ischemica ad essa conseguente.
L’identificazione dei primi marcatori
genomici associati al rischio di infarto
miocardico ha segnato l’inizio di una
nuova era in grado di rivoluzionare la
pratica clinica; la conoscenza delle
varianti genetiche che condizionano il
rischio di infarto miocardico rappresenta
sicuramente una nuova e preziosa risorsa sul piano clinico aprendo le porte,
anche in ambito cardiovascolare, come
già è stato in ambito oncologico, alla
terapia effettivamente modulata sulle
specifiche caratteristiche biologiche del
singolo individuo, vale a dire alla “medicina personalizzata”. La scoperta di questi marcatori condurrà infatti all’integrazione dei fattori di rischio genetici ed
ambientali per la costruzione di uno
score per il calcolo del rischio cardiovascolare globale in cui l’aggiunta delle
varianti genetiche aumenterà la capacità
di predire il rischio rispetto all’uso dei
soli fattori di rischio tradizionali; la
migliore stratificazione del rischio su
base individuale consentirà l’attuazione
di una più efficace strategia di prevenzione, primaria e secondaria.
Un esempio di tale applicazione è quello
effettuato da Brautbar et al., (AHA 2008)
nella popolazione dello studio
Atherosclerosis Risk in Communities
(ARIC) in cui è stata testata l’aggiunta
della variante rs1075724 della regione
9p21 ai classici fattori di rischio per la
stima del rischio cardiovascolare. In
10004 soggetti caucasici il rischio è stato
p. 164
inizialmente stimato mediante lo score
ARIC, che utilizza i fattori di rischio tradizionali, ed è stato poi rivalutato considerando anche la variante genetica. Per i
pazienti nella classe di rischio “intermedio-basso” (5-10%) ed “intermedio-alto”
(10-20%), l’aggiunta della variante della
regione cromosomica 9p21.3 determinava un cambiamento della classe di
rischio che implicava potenziali cambiamenti nel trattamento farmacologico, tra
cui ad esempio l’aggressività del trattamento con statine, in una proporzione
significativa di pazienti. Allo stesso
modo, quando la stessa variante genetica
era aggiunta allo score per il rischio di
Framingham, il 17,1% dei pazienti a
rischio “intermedio-basso” e il 15,8% dei
pazienti a rischio “intermedio-alto “
venivano riclassificati.
In conclusione, al momento questa
nuova era è solo in fase embrionale e la
ricerca di questi marcatori genomici
nella pratica clinica può essere applicata
solo in determinati casi selezionati per
motivare l’adozione di un adeguato stile
di vita atto a contrastare la suscettibilità
genetica allo sviluppo della malattia.
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Quaderno a Quadretti
di Franco Fontanini
WOODY ALLEN CONTRO FREUD
Allen era un piccolo ebreo dei caseggiati popolari che
frequentava la sinagoga per prelevare dalla cassetta
delle offerte per la Patria in Palestina le monete per
andare al cinema.
D’altra parte ha sempre confessato che non desiderava
affatto andare a Gerusalemme.
Sua madre, immune da pregiudizi, gli diceva che se una
grossa macchina con alla guida un signore l’invitava a
salire, di non essere scortese.
Guadagnò i primi soldi come gagman, vendendo battute
e barzellette ai giornali e agli attori di varietà, coi quali
comperò, dopo interminabili trattative, l’orologio dal
nonno morente.
La sua indimenticabile battuta: “Gesù è morto, Marx è
morto e io sto poco bene,” gli valse il soprannome di
“genius”.
Divenne sceneggiatore, regista e attore di successo e,
appena se lo poté permettere, si affidò agli psicanalisti.
Trovò sempre da ridire sulle idee di Freud, ma gli piaceva che desse
tanta importanza al sesso al punto da trovare similitudini fra la chiesa
e i genitali femminili, fra una collina boscosa e il monte di Venere e
una lunga scalinata che gli faceva venire in mente il rapporto sessuale.
Non gli piaceva invece la sua fissazione di interpretare i sogni.
L’abbandonò definitivamente per la sua interpretazione dell’invidia del
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pene: non aveva capito niente, commentò, pensava che fosse riferita solamente
alle donne.
CHURCHILL E IL CREATORE
Si narra che Winston Churchill non
volesse donne fra i suoi ministri perché
quando hanno le loro cose, diceva, sono
capaci di dichiarare una guerra.
Fece una sola eccezione e, per non correre rischi, ogni volta che doveva affidarle
qualche mansione delicata, prima si informava che non fosse nei giorni critici. Si
mise tranquillo solo quando seppe che la
signora non aveva più mestruazioni.
A Yalta si intratteneva fino alle ore piccole con Stalin a chiacchierare e soprattutto a bere, da buoni amici, whisky o
wodka alternati. Entrambi erano convinti
di essere il più forte bevitore, e c’è chi
afferma che alzare il braccio al vincitore
sarebbe stato molto spesso arduo.
Ciò nonostante, di buon’ora, Churchill si
alzava per scrivere le sue memorie di
guerra.
Un mattino, dopo una notte particolarmente impegnata, aveva lacune di
memoria. Sapendo che avevano trattato
argomenti importanti, al momento di
scrivere pensò di chiedere alcune conferme a Stalin, ma anche lui era lacunoso
nei ricordi.
“Passami l’interprete di stanotte,” insisté
Churchill. Stalin restò perplesso per un
attimo, come se cercasse di raccogliere
le idee, poi ebbe un’improvvisa lucidità:
Churchill, Roosvelt e Stalin
a Yalta
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“Mi dispiace, Winston, non è possibile
l’ho fatto fucilare mezz’ora fa”. Aveva
avuto il dubbio di aver detto troppe cose:
fare l’interprete ai tiranni è sempre stato
pericoloso.
Nel 1949, Churchill appariva sovente abulico e depresso: scriveva saltuariamente,
faceva acquarelli senza entusiasmo, trascorreva ore in assoluto mutismo.
Sebbene il suo prestigio e la sua influenza internazionale fossero rimasti inalterati, la sconfitta elettorale del ’45 subito
dopo la fine della guerra vittoriosa,
aveva lasciato il segno. Non sembrava
più l’uomo che aveva chiesto agli inglesi,
con un’orazione definita degna di
Shakespeare, “sangue e fatica per la vittoria ad ogni costo”.
Beveva più del solito e oziava per intere
giornate, come se inseguisse pensieri di
cui non faceva partecipe nessuno.
I sudditi del Regno Unito, da parte loro,
sembravano aver dimenticato che gli
dovevano tutto.
Un vecchio amico disse che Churchill,
per stare bene, avrebbe dovuto vincere
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L’albero della manna
una guerra al giorno.
Anche gli storici concordano unanimemente sul fatto che era “un grande uomo
per situazioni eccezionali”. C’è anche chi
ha insinuato che avesse l’animo del dittatore: amava infatti ripetere che le democrazie funzionano bene quando a comandare sono in due e uno è ammalato.
Nel giorno del settantacinquesimo compleanno, confidò ad un amico: “Sono
pronto ad incontrare il mio Creatore. Se
il mio Creatore sarà pronto ad affrontare
il cimento di incontrare me, è tutta un’altra faccenda”.
LA MANNA O LA FORZA DELLE
CREDENZE
L’origine della manna ha sempre appassionato storici e medici: nessuna definizione venne considerata convincente.
In un passo dell’Esodo viene descritta
come una brina granulosa, in un altro
simile al seme del coriandolo e con il sapore di focaccia al miele, nei libri dei Numeri
è descritta simile alla farina e che il popolo
ne faceva focacce molto nutrienti.
I profeti spiritualizzarono la manna e ne
fecero il simbolo dello spirito dei doni di Dio.
I frati romani dell’Ara Coeli, che avanzarono l’ipotesi che cadesse non dal cielo,
ma dagli alberi dove si formava, furono
tacciati di ignoranza grossolana.
Per la gente la manna fu sempre qualcosa che cadeva dal cielo, che si poteva raccogliere e mangiare quando si era colti
dalla fame.
Per secoli moltissimi hanno scritto sulla
manna, anche se nessuno l’aveva mai vista.
I reduci dall’Africa affermavano di averne
visto enormi quantità, altri nelle stesse
regioni non ne avevano trovato traccia.
A Napoli circolava abbondante e molti
fecero buoni affari con la vendita, al punto
che Isabella, moglie del re Federico, ci
mise sopra una tassa.
Le cadute più frequenti e copiose rimasero sempre quelle di Napoli.
L’Altomare, un autorevole medico napoletano, fu il primo uomo di scienza a
condividere l’ipotesi degli scettici frati
romani, ma la sua opinione non cambiò
niente. Quando venne ufficialmente
incaricato di studiare il problema, lo fece
con grandissimo impegno, tanto che può
essere considerato l’ideatore della prova
“in doppio”.
Convinto che la manna trovata al calcio
degli alberi non avesse niente a che fare
con il cibo miracoloso mandato in dono
da Dio agli ebrei durante il viaggio
dall’Egitto alla Palestina, ma fosse una
sostanza farinosa prodotta dagli alberi,
cercò tutti i modi possibili per darne la
prova inconfutabile, in modo da non
essere maltrattato come i monaci
dell’Ara Coeli.
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Fraxinus Ornus
Scelse perciò un certo numero di alberi
sotto i quali la manna veniva abitualmente ritrovata e ne coprì la metà con
un lenzuolo appositamente confezionato,
lasciando l’altra metà a cielo scoperto.
Al mattino poté dimostrare che la quantità di manna era la stessa sotto gli alberi coperti e sotto quelli scoperti. Per i
non pochi increduli ripeté più volte la
prova sempre con lo stesso risultato.
Dimostrò anche che non tutti gli alberi
producevano la manna, ma solamente
alcune specie di frassini, prova che non
scalfirono minimamente la credenza che
la manna cadesse dal cielo.
Per Cristoforo Magneno, un professore di
Pavia che la riprodusse in laboratorio, la
manna era composta da cinque sostanze
una delle quali era “l’alito rorido”, mettendo così d’accordo Galeno, Teofrasto e i
positivisti, per i quali l’alito rorido era
costituito da vapori sotterranei. Non a
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caso la manna più abbondante veniva
trovata sulle pendici del Vesuvio e nella
piana dell’Etna.
A metà dell’800 la manna venne trovata
per l’ultima volta nel giardino di un convento di Pavia, come testimoniarono
anche alcuni docenti dell’università.
L’origine più accreditata, anche se non
da tutti condivisa, fu quella del Pigafetta
che, insieme a Magellano, l’aveva esaminata di persona nelle Molucche, prodotta
da insetti che la depositavano durante la
notte sugli alberi da dove cadeva sulla
terra in alcuni periodi dell’anno.
Può darsi che Pigafetta, che era stato
molto più in mare che in terra, non avesse mai visto il miele.
L’opinione attuale è che la manna fosse
fatta di piccoli talli di licheni commestibili che crescono nelle zone desertiche afroasiatiche. Quando sono secchi, i talli possono essere portati via dal vento e cadere
come neve, oppure che fosse prodotta da
tamerici dette appunto mannifere, come
mucillaggine dolciastra di alto valore
nutritivo, che esce dal tronco quando questo viene eroso da una cocciniglia.
Gli ebrei sarebbero stati salvati dalle
tamerici.
La manna vista dall’Altomare era probabilmente la linfa di alcune specie di frassini, di sapore zuccherino, che essiccando diventa una polvere bianca che nelle
campagne, fino a non molto tempo fa,
veniva data ai bambini come lassativo.
La manna è la migliore dimostrazione
che in tutte le epoche le credenze e i pregiudizi hanno prevalso sulla verità.
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Il Viagra stupisce ancora
Stupisce non solo il vecchietto che aveva gia rinunciato a certe velleità, ma anche il paziente,
quello vero, e lo stesso medico, stufo di redigere soltanto le riccette che imbarazzano sia lui che il
richiedente.
La rivista medica più accreditata, il New England Journal of Medicine di maggio 2010, conferma
ufficialmente quanto era stato
osservato in qualche caso, ossia che
i malati con certe pneumopatie
croniche beneficiano del Sildenafil
(Viagra) somministrato giornalmente
per molte settimane. Il meccanismo
attraverso il quale il farmaco ottiene
il beneficio è piuttosto complesso,
ma lo si può sintetizzare nel
miglioramento dello scambio
gassoso tra i polmoni e il sangue.
Siamo ancora ai dati preliminari,
mancano alcune precisazioni sui casi
che ne trarranno più vantaggio e
sugli effetti non desiderati che
impediscono la continuazione della
cura, informazioni che solo
l’esperienza clinica ci fornirà; ma ci
Union Square, New York, foto di Stefano Di Carlo
manca anche un altro dato che
l’articolo non precisa, forse per non
scadere nella pruderie: se alle dosi attuate, 20 mg tre volte al giorno, che sono poco meno di tre
delle famose compresse celesti, i pazienti siano rimasti soddisfatti, entusiasti o indifferenti.
Eligio Piccolo
libri ricevuti
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• Trattamento percutaneo
dell’insufficienza mitralica: i risultati
promettenti dello studio EVEREST.
• Le calcificazioni coronariche
aumentano nei maratoneti. Lo sport
“eccessivo” può fare male?
• Ipertensione polmonare primitiva e
secondaria: diagnosi e terapia.
• Sindrome di Brugada: per chi è
indicato il defibrillatore?
• Statine e prevenzione primaria nella
donna: che cosa ci insegna lo studio
JUPITER?
• La riforma sanitaria statunitense: quali
saranno i suoi risvolti?
• I risultati deludenti dello studio
ACCORD nella prevenzione
cardiovascolare del diabetico.
• Trapianto di cuore. Cos’è cambiato dai
tempi di Barnard?
• WPW asintomatico: stratificazione del
rischio o ablazione in tutti i casi?
• Recenti sviluppi nel trattamento del
diabete di tipo 2.
• Cardiomiopatie familiari: qual’è il ruolo
della clinica?
• Aspirina nella prevenzione primaria: a
chi va consigliata?
• Genetica e cardiopatia ischemica: il
legame si fa più stretto.
• Le cardiopatie congenite dell’adulto.
• Danni del sale: nella dieta è troppo.
• Quale è il rischio di trombosi negli stent
medicati di seconda generazione?
• La terapia genica in cardiologia: stato
dell’arte e sviluppi futuri.
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• HDL e aterosclerosi: dai grandi anziani
di Limone sul Garda ai nuovi farmaci
per il cuore.
• Il by-pass a cuore battente riduce il
rischio operatorio a parità di efficacia?
• Coronarografia ed angioplastica per
approccio radiale: è forse la soluzione
al problema delle complicanze degli
accessi arteriosi.
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XXVIII Congresso di Cardiologia del
Centro per la lotta contro l’infarto Fondazione Onlus
Firenze, Palazzo dei Congressi, 4-5-6 marzo 2011
• Televisione e obesità.
• Come prevenire l’ischemia cerebrale
silente da fibrillazione atriale? Il ruolo
dell’ablazione.
• Viaggio nelle coronarie: le nuove
frontiere dell’imaging non invasivo e
delle tecniche intracoronariche.
• Il dabigatran ci libera dall’INR. Per chi
è indicato?
• I tanti falsi positivi dei test di ischemia:
cause e significato clinico.
• Risorse limitate e spesa sanitaria:
considerazione sui costi nella cura dei
pazienti.
• La scelta delle tienopiridine dopo
angioplastica coronarica.
• Tomografia ottica a luce coerente
(OCT): studio in vivo delle coronarie.
• Possiamo applicare degli score del
rischio per scegliere tra by-pass ed
angioplastica?
• Miocardio non compatto: che cosa ne
sappiamo?
• Quale frequenza tenere nella fibrillazione
atriale? I risultati sorprendenti dello
studio RACE II.
• Una vecchia diatriba: quando operare
la stenosi aortica asintomatica di
grado importante?
• Variabilità della pressione arteriosa, un
nuovo predittore di rischio?
• Che nesso c’è tra la psoriasi e le
malattie cardiovascolari?
• Commotio cordis. Quanto incide nelle
aritmie, nella morte improvvisa e nelle
lesioni miocardiche?
• Perché il diabete ha più aterosclerosi?
• Come si interpreta un trial clinico?
• Bassi livelli di vitamina D: un nuovo
fattore di rischio coronarico?
• L’ECG nell’ingrandimento ventricolare
sinistro: cosa rimane nella pratica
clinica?
• Ulcerazione ed erosione di placca:
qualche tassello in più nel puzzle della
genesi dell’infarto.
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La Posta
Lettere a Cuore e Salute
D.
R.
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La sempiterna dieta in bianco
Ho sessant’anni, a quaranta soffrii a lungo di una gastrite assai
fastidiosa, con dolori sia immediatamente dopo i pasti, sia a distanza.
Dalle ripetute cure mediche non ottenni alcun beneficio, e i disturbi
passarono solamente con una rigorosa dieta in bianco, che non ho
mai più sospeso, perché ogni volta che ho provato, subito i disturbi
ricomparivano. Ormai l’osservo con diligenza nonostante l’imbarazzo
che mi causa ogni volta che sono invitata a pranzo e in casa perché
dobbiamo fare un doppio menu.
Mio marito mi dice che sono “maniaca e fissata”, ma non credo
proprio, cerco solo di stare bene.
Anna Maria, Roma
Suo marito potrebbe non avere tutti i torti, ma non ci permettiamo di
dirlo in mancanza di una gastroscopia che documenti le condizioni
della sua mucosa gastrica.
Un’osservanza tanto
rigorosa sa di riflesso
condizionato, oppure i
disturbi da Lei lamentati
fanno pensare ad una
dispepsia funzionale,
disturbo assai frequente,
non preoccupante, che in
genere regredisce
spontaneamente.
Lei ci fa tornare in mente
le terapie che nonne,
mamme e zie ci
propinavano senza via di
scampo per i più diversi
disturbi. La dieta in
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bianco era la loro panacea per ogni disturbo gastro-enterico, per
disturbi ritenuti dipendenti da disfunzioni di stomaco e intestino, per
l’alitosi, l’aerofagia, il mal di testa, i brufoli, l’acne, nonché nei
prodromi e nella convalescenza dell’influenza e di ogni altra malattia.
Tutte le malattie dello stomaco, senza differenza, erano la loro
specialità, il loro bagaglio terapeutico era esiguo: c’era un emetico,
il mosto cotto, la camomilla, e per il novantanove per cento dei casi
la dieta in bianco. Per moltissimi igienisti, la dieta in bianco era
considerata anche il modo migliore per mantenersi in buona salute.
Niente contro questa dieta universale e sempiterna, gli effetti
benefici della quale erano sicuri anche se non sono mai stati
adeguatamente controllati, che però presenta almeno due
inconvenienti anche se non di grande rilievo: il burro ha un
considerevole contenuto calorico, 20 grammi sviluppano 150 calorie,
ed è ricco di acidi grassi insaturi che favoriscono l’ipercolesterolemia.
Ci sono pertanto due categorie di persone per le quali la dieta in
bianco non è consigliabile: coloro che non vogliono aumentare di
peso o hanno qualche chilo di troppo da smaltire, e coloro che hanno
problemi legati all’eccesso di colesterolo nel sangue.
Per queste persone sono preferibili gli spaghetti conditi con ragù o
con pomodoro, che in genere vengono anche meglio digeriti.
Poiché Lei, grazie alla dieta in bianco sta bene, non c’è nessuna
ragione che l’abbandoni, a patto che non glielo imponga a Suo marito.
F.F.
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2a lettera a Cuore e Salute
D.
Anticoagulanti, anticoagulati e Centri di Sorveglianza
Ho letto con attenzione l’articolo di Filippo Stazi sulla liberazione
dall’INR. Premetto che sono in terapia anticoagulante (TAO) dal 1994 a
seguito di una operazione alla valvola aortica.
Nel corso degli anni successivi ho avuto momenti di fibrillazione
atriale a seguito di sforzi o qualche pranzo pesante. Momenti superati
con la cardioversione elettrica sempre utilizzando il farmaco
Coumadin nella misura proposta dal Centro di Sorveglianza da noi
voluto presso l’Arcispedale S. Anna di Ferrara fin dal 1989, seguendo
l’esperienza degli amici di Padova dove, come è noto, è nata la
cardiochirurgia. I miei controlli variano da due-tre settimane fino al
mese, tranne in caso di interventi chirurgici o assunzione di altri
farmaci che interagiscono con l’anticoagulante.
Circa la dieta, pochi i problemi, basta seguire una dieta equilibrata
senza allarmare i pazienti che si alimentano con verdura verde a foglia
larga, che può essere consumata normalmente in giuste proporzioni.
Ben venga il Dabigatran e vedremo come utilizzarlo al meglio.
Nel nostro Paese sono oltre un milione i pazienti anticoagulati con
solo 358 Centri di Sorveglianza che possono quindi controllarne solo
il 20%. Di qui la nostra richiesta di una loro maggiore presenza presso
tutte le strutture ospedaliere, il cui costo sarebbe limitato allo
spostamento di pochi medici e infermieri addetti ai prelievi, il tutto in
day hospital. I referti inoltre vengono inviati al domicilio del paziente
o al suo medico curante con un fax nella stessa giornata del prelievo.
Infine occorre avere sempre presente che la TAO è una terapia
preventiva di grande importanza per tutti coloro che possono avere
problemi cardiologici, trombosi, ictus.
Sauro Baraldi,
Presidente Associazione Pazienti Anticoagulati (Provincia di Ferrara)
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R.
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Egregio Sig. Baraldi,
concordo con Lei sull’importante funzione svolta dai Centri di
Sorveglianza della terapia anticoagulante orale.
Il numero di tali centri è però, come da Lei ricordato, purtroppo
inadeguato e nell’attuale periodo di vistosi tagli della spesa
sanitaria è difficile prevederne un incremento.
Tale realtà rende, a mio avviso, ancora più importante l’introduzione
di nuovi farmaci anticoagulanti che non necessitino di un costante
monitoraggio dell’INR.
Ringraziandola per il suo prezioso contributo voglia gradire i miei
più distinti saluti.
Filippo Stazi
libri ricevuti
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Medicina
al femminile
di Vito Cagli
Nel 1881 su 18.950 medici che esercitavano la professione in Italia vi
erano 2 donne; nel 2006 tra i laureati in medicina vi sono stati 2.316
uomini e 3.827 donne. Si è compiuta dunque una “rivoluzione”: le donne,
da testimoni sparute di un diritto ad esercitare la professione medica,
sono passate ad essere la maggioranza dei laureati in medicina.
Queste informazioni, accanto a molte altre tra cui quelle che seguono,
ci vengono fornite da un libro di grande interesse, Donne di medicina,
che la professoressa Giovanna Vicarelli, docente di Sociologia economica nell’Università Politecnica delle Marche, ha pubblicato con “Il
Mulino” nel 2008.
Ma chi erano quelle due donne che aprirono la lista
delle laureate in medicina? La prima a laurearsi nel
nostro Paese fu Ernestina Paper, la seconda, Maria
Farnè Velleda; qualche notizia su di loro è reperibile
anche online (http://scienzaa2voci.unibo.it).
Ernestina Paper era nata in una famiglia ebrea
(Puritz-Manasse) di Odessa; aveva iniziato gli studi
di medicina a Zurigo, li aveva proseguiti a Pisa, per
laurearsi infine a Firenze dove aveva frequentato
l’ultimo biennio di pratica clinica presso il Regio
Istituto di Studi Superiori che equivaleva ad una
università; esercitò la professione a Firenze dedicandosi alle malattie delle donne e dei bambini; in una
rivista dell’epoca viene descritta come «non solo
colta, ma seriamente istruita; un tipo tutto femmini-
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Maria Montessori con
un gruppo di bambini
le; una graziosa personcina alta e flessibile […] moglie madre amorosissima
trova il tempo per tutti i suoi doveri».
Quanto a Maria Velleda Farné, aveva
compiuto tutti i suoi studi a Torino e
Michele Lessona – professore di anatomia comparata e rettore dell’università
di Torino – scrisse, in coincidenza con la
sua laurea: «Il giorno in cui essa prenderà l’aggregazione, i vecchi dottori si
lagneranno meno dell’uso ancora in
vigore in quest’università che al nuovo
aggregato tutti diano un bacio».
Si poteva sperare che con il nuovo secolo, il ‘900, le dottoresse potessero avere
meno difficoltà rispetto a quelle di quante le avevano precedute. In realtà, se era
vero che non si frapponevano più ostacoli legali, restava però il fatto che la loro
opera era poco richiesta anche nell’ambito della cura delle donne e dei bambini.
Comunque la scelta di queste pioniere
non era soltanto una scelta professionale, era anche un gesto concreto per affermare il diritto della donna a ricoprire
quei posti nella società che la tradizione
voleva fossero riservati soltanto agli
uomini. Erano per lo più, quelle prime
dottoresse in medicina, espressione di
ambienti colti e intellettuali, progressisti, come nel caso di Maria Montessori
(laurea 1896), quando non addirittura
rivoluzionari, come nel caso di Anna
Kuliscioff (laurea 1885).
Nel 1931, su quasi sessantamila medici
registrati in Italia, poco più dell’1% era
costituito da donne (795 in tutto) e negli
anni seguenti non si supererà il 5%.
Eppure già dal 1921 le donne medico
erano riunite in una loro associazione.
Ma ostacoli e difficoltà non mancavano:
vi erano pensionati di suore che negavano l’alloggio a studentesse di medicina
considerate un cattivo esempio e anche,
una volta laureate, alcune rinunciavano
alla professione e tornavano da dove
erano venute per sottrarsi alle chiacchiere e alle maldicenze.
Poi venne la seconda guerra mondiale e
nel dopo guerra si registrò un profondo
mutamento del clima sociale, mentre la
diffusione dell’assistenza mutualistica
cambiava profondamente gli assetti e gli
equilibri della professione medica.
Venne anche il Sessantotto con la contestazione studentesca, le lotte dei lavoratori, la rivolta generazionale, la rivendicazione del ruolo paritario delle donne
rispetto agli uomini. Così nell’ultimo
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terzo del secolo lo scenario era profondamente diverso, tanto sul piano sociologico, quanto su quello medico da quello di
pochi decenni prima. La posizione delle
donne medico era cambiata: il loro
numero nel 1976 era pari a quasi un
terzo del totale e più della metà lavorava
in ospedale. Tuttavia pochi erano i medici ospedalieri donna che giungevano alla
posizione apicale e anche negli anni successivi la chirurgia restava una specializzazione a cui erano iscritte soltanto il
5.2 % delle donne contro un 16.3 % degli
specializzandi uomini ( dati del 1996).
E oggi, negli anni Duemila? Alle soglie
del nuovo millennio le donne iscritte
all’Ordine dei Medici risultavano essere
il 29 % del totale (contro il 7% del 1964),
ma già nel 2005 si era saliti al 34 %, il
che corrisponde in numeri assoluti a
120.360 dottoresse iscritte all’Albo, di
cui soltanto il 2% circa non eserciterebbe
la professione. Vicarelli delinea «l’archetipo» della donna medico italiana dei
nostri giorni con i tratti che risultano
dallo stralcio che segue: «Una professionista di circa 43 anni, più giovane dei
suoi colleghi, che proviene da una famiglia di status socio-economico-culturale
medio-alto, è sposata con un uomo
appartenente alla stessa classe sociale
ed ha figli. Ha intrapreso questa professione perché animata dalla passione
verso la ricerca scientifica o da una forte
predisposizione alla cura degli altri, ed
ha scelto una specialità dell’area medica.
Considera il suo lavoro impegnativo, ma
al contempo stimolante e gratificante, e
ritiene di aver soddisfatto le aspettative
che vi riponeva. Svolge l’attività professionale in forma dipendente, senza ricoprire alcun incarico di tipo sanitario
manageriale; è iscritta a società scientifiche e/o a sindacati ma non riveste cariche al loro interno» (pp.120-1).
Come giustamente osserva l’Autrice
dello studio di cui abbiamo cercato di
dar conto, si apre ora il problema di
quanto e in che modo la massiccia presenza di medici donna possa modificare
Anna Kuliscioff a Firenze, 1908
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la pratica della medicina. Vi sono indizi
di una maggiore capacità delle donne
medico di esercitare una medicina ”centrata sul paziente”, cioè sui suoi bisogni
e sulle sue attese, al di là della sola prestazione tecnica. Anche la capacità di
lavorare in un team sarebbe migliore
nelle donne rispetto agli uomini. Se così
fosse si potrebbe concludere che in una
medicina afflitta dal rischio dell’ipertecnicismo la presenza delle donne medico
servirebbe da antidoto per un approccio
al paziente troppo freddo e sbrigativo.
Forse queste osservazioni, che potrebbero avere il rischio di incasellare i medici
donna in un vecchio stereotipo dell’angelo della corsia, sono premature. Le
donne medico che vediamo in corsia o
negli ambulatori non ci sembrano in
verità molto diverse dai loro colleghi
uomini. Speriamo soltanto che se proprio vi dovessero essere differenze
secondo i sessi nel modo di esercitare la
medicina, queste si traducano in un vantaggio per gli uni come per le altre, ma
soprattutto per i pazienti.
Abbassare la pressione per ridurre il rischio di
infarto è sempre vero?
Parrebbe di no, almeno se la terapia anti-ipertensiva è condotta con certe associazioni di
farmaci.
Un gruppo di ricercatori americani (Boger-Megiddo I et al BMJ 2010;340:c103) ha esaminato
le cartelle di 353 pazienti ipertesi che avevano sofferto di un infarto del miocardio o di ictus
cerebrale e, come controllo, quelle di 952 ipertesi che non avevano avuto né infarto, né ictus.
I pazienti dell’uno, come dell’altro gruppo, erano tutti a basso rischio cardio-vascolare ed
erano stati trattati tutti con un diuretico associato ad un secondo farmaco anti-ipertensivo.
Il risultato dello studio è stato che il trattamento con diuretici + calcio antagonisti sarebbe
associato ad un più elevato rischio di infarto del miocardio a confronto con l’impiego di
diuretici + beta-bloccanti o di diuretici + ACE-inibitori o bloccanti recettoriali dell’angiotensina.
L’associazione calcio antagonisti diidropridinici + diuretici tiazidici o analoghi era da molti
anni sconsigliata anche dalle linee-guida in quanto priva di un significativo effetto antiipertensivo additivo rispetto all’impiego di uno solo dei due farmaci; ora possiamo anche
aggiungere che l’associazione diuretici + calcio-antagonisti sembrerebbe essere anche meno
protettiva nei confronti dell’insorgenza di infarto del miocardio.
Vito Cagli
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Diuretici tiazidici:
i più longevi tra i
farmaci antiipertensivi
di Filippo Stazi
Foto di LDA
La terapia diuretica dell’ipertensione arteriosa ha avuto inizio nel 1937
con la scoperta che la sulfonamide causava acidemia e una lieve diuresi
come conseguenza dell’inibizione a livello renale di un enzima chiamato
anidrasi carbonica. Alla fine degli anni 50 divennero poi disponibili i
diuretici tiazidici che furono i primi farmaci antiipertensivi orali efficaci
e con un accettabile profilo di tollerabilità. A distanza di mezzo secolo i
tiazidici rimangono ancora importanti presidi della terapia antiipertensiva. Tali farmaci, infatti, riducono la pressione arteriosa quando somministrati in monoterapia, migliorano l’efficacia di altri antiipertensivi quando usati in associazione e si sono dimostrati capaci di ridurre
la morbilità e la mortalità connesse con l’ipertensione arteriosa.
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La maggior parte dei diuretici tiazidici
ha un’emivita di 8-12 ore che ne permette la monosomministrazione giornaliera.
In particolare, il clortalidone presenta
un’emivita di circa 2 giorni e può essere
pertanto efficace nei soggetti con la tendenza a saltare ogni tanto l’assunzione
del farmaco.
L’effetto antiipertensivo dei tiazidici si
esplica attraverso un effetto a breve termine ed uno a lungo termine. Il primo è
conseguenza dell’effetto diuretico propriamente detto mentre il meccanismo
sottostante al secondo non è stato ancora
chiarito. Una delle ipotesi più verosimili
è la riduzione delle resistenze vascolari
totali per un effetto vasodilatatorio diretto od indiretto. La frequente comparsa di
tolleranza (ossia di perdita di efficacia
terapeutica) in corso di terapia diuretica,
la cui eziologia è anche questa non ancora chiara, può essere facilmente ovviato
dall’aumento di dosaggio o dalla combinazione di diuretici di tipo differente.
In media i tiazidici inducono una riduzione della pressione arteriosa sistolica
di 10-15 mmhg e di quella diastolica di
5-10 mmhg e sono particolarmente indicati nelle forme di ipertensione dette a
bassa renina o sale-sensibili, quali
comunemente si riscontrano negli anziani e negli obesi.
Attualmente i tiazidici vengono utilizzati
a basse dosi (12,5 o 25 mg al giorno) che
ottengono l’effetto terapeutico auspicato
in circa il 50% dei soggetti. Nello studio
SHEP (Systolic Hypertension in the
Elderly Program), ad esempio, 12,5 mg
di clortalidone al giorno hanno ben controllato la pressione arteriosa per numerosi anni in più del 50% dei soggetti.
L’aumento da 12,5 a 25 mg al dì otteneva
la risposta terapeutica in un ulteriore
20% dei pazienti e, infine, il dosaggio di
50 mg/die risultava efficace nell’80 –
90% dei casi.
L’efficacia dei diuretici tiazidici nel diminuire il rischio di eventi cardiovascolari
maggiori è stata dimostrata per la prima
volta nel 1967 dal Veterans Affaire
Cooperative Study. A partire da allora
numerose meta-analisi hanno confermato la capacità di questi farmaci di ridurre
il rischio di scompenso (-40/50%), ictus
(-30/40%), cardiopatia ischemica (-15/20%)
e mortalità da tutte le cause (-10%).
I principali effetti collaterali legati
all’uso dei tiazidici consistono nella possibile comparsa di ipopotassiemia, ipomagnesiemia e ipercalcemia, nell’aumento dell’uricemia e in un lieve aumento della probabilità di insorgenza di diabete mellito.
Bisogna segnalare, infine, che la concomitante terapia con farmaci antinfiammatori non steroidei diminuisce l’efficacia dei tiazidici i quali, a loro volta, possono indurre un aumento del 5-10% dei
livelli di colesterolo totale e LDL.
In conclusione crediamo che si possa
senz’altro affermare che poche scoperte
farmacologiche hanno inciso tanto e
tanto a lungo nel trattamento di una
malattia come l’introduzione dei diuretici tiazidici nella terapia dell’ipertensione
arteriosa.
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Ancora sui diuretici
“Sono i primi e restano i migliori”. Così potrebbe suonare, in base allo studio ALLHAT uno
slogan per sostenere l’utilità dell’impiego dei diuretici come primo farmaco nella terapia
dell’ipertensione arteriosa.
Comparsi nel 2002, i risultati di questo ampio studio, che arruolava 42 418 pazienti,
comparava l’effetto di quattro diversi farmaci anti-ipertensivi (diuretici tiazidici, alfa-bloccanti,
calcio-antagonisti, ACE-inibitori) come terapia iniziale e sanciva la superiorità dei diuretici,
furono sottoposti da più parti a molte critiche.
Ma gli autori dello studio insistono
e con un ampio riesame dei loro
dati, arricchito anche dall’aggiunta
di quelli di altri studi, ribadiscono la
loro convinzione secondo cui:
«Si conferma la conclusione
originaria di ALLHAT che i diuretici
tiazidici rimangono la terapia
iniziale preferita nella maggior parte
dei pazienti con ipertensione»
(Archives of internal medicine
2009;169:832-842).
Resta tuttavia un’obiezione di fondo
e l’ ha formulata nel modo più
chiaro Enrico Agabiti Rosei in un
editoriale comparso sull’ultimo
numero di Ipertensione e
prevenzione cardiovascolare
(2009;16:VII), in cui si afferma:
«Le considerazioni sui farmaci di
prima scelta sono sostanzialmente
inutili e praticamente obsolete, perché la grande maggioranza dei pazienti deve essere
trattata con combinazioni di diversi farmaci antipertensivi, al fine di ottenere un’adeguata
riduzione dei valori pressori».
E, vorremmo aggiungere, rispetto a determinati farmaci, come ACE-inibitori o inibitori
recettoriali dell’angio-2, la somministrazione in pazienti pretrattati con diuretici a dosi piene
può talora esporre al rischio di un’eccessiva caduta della pressione arteriosa.
Insomma, alla fin fine, i trial ci offrono dati preziosi, ma questi vanno utilizzati alla luce delle
condizioni e delle caratteristiche del singolo paziente.
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Braccio o polso:
questo è il problema
di Pasquale Bossa
Mi ritrovo, ancora una volta dalla parte sbagliata e, in questo caso, per
quanto riguarda la possibilità di ammettere all’uso routinario gli sfigmomanometri elettronici da polso, al momento ufficialmente sconsigliati. Si ripete un po’ la vicenda di qualche anno fa, quando l’uso dei
primi sfigmomanometri elettronici e la pratica dell’automisurazione
erano generalmente mal visti. A me, per moltissimi anni, invece, avendo l’accortezza di valutare sempre misurazione elettronica e misurazione tradizionale insieme, nella grande platea dei soggetti di ambulatori
specialistici sul territorio, queste pratiche si erano rivelate preziose.
Fu poi l’autorevolezza degli interventi dei massimi esperti in materia,
come Prati, Cagli, Dal Palù, Verdecchia, a sancire il loro ingresso nella
normale attività clinica, con risultati certamente molto
apprezzabili. Devo ora, analogamente, segnalare
che se la misurazione al polso presenta potenziali inconvenienti, che, giustamente, l’hanno finora sconsigliata, questi sono evitabili facilmente e perciò, la sua potenziale utilità rende il rapporto vantaggio/svantaggio molto interessante.
In breve, il rischio fondamentale è che
la pressione possa avere una caduta e
quindi manifestare un gradiente, scendendo da un segmento superiore, il
braccio, a un segmento inferiore, il
polso. Questo può accadere per una ste-
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nosi tra i due distretti arteriosi, più frequentemente acquisita, in soggetti
anziani, per patologia sclerotica.
Il vantaggio essenziale è che la pratica
dell’automisurazione costituisce una
indubbia facilitazione, specie in soggetti
anziani, d’inverno, riducendo quasi del
tutto la complessità della manovra, che è
la causa, a mio avviso, di quel rialzo
pressorio fugace, ma ingannevole e allarmante, che quasi sempre si verifica alla
prima misurazione, anche se fatta dal
paziente stesso.
La presenza di un gradiente è facilmente valutabile dal medico con la misurazione ai due diversi livelli, così come si
deve o si dovrebbe sempre fare, all’inizio, e su tutte e due le braccia.
Questa controindica la misurazione al
polso, mentre un’ aritmia consistente
controindica quella elettronica; ma sono
entrambe relativamente rare.
Certamente importante è istruire il
paziente a compiere correttamente la
piccola operazione. Un buon contributo
può essere dato a questa finalità dall’adozione di una semplice scheda, da
tenere a cura del paziente, in cui segnare il livello della pressione e configurare
un grafico del suo andamento, in modo
da facilitare la individuazione di quel
“profilo pressorio individuale” che è il
presupposto per una terapia personalizzata e per un migliore coinvolgimento
del paziente nella sua gestione.
testimonianze
Porto Cuore e Salute spesso in classe per i miei scolari e conservo ancora il fascicolo
dedicato a loro che vorrei che ristampaste.
Prof. Rosella C., Roma
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Ballistocardiogramma:
una metodica abbandonata
di Silviano Fiorato
Quando incontravo Pier Luigi Prati, mio coetaneo, al congresso fiorentino “Conoscere e Curare il Cuore” ci stringevamo le mani e, nonostante
l’affabile sorriso, ci guardavamo con uno sguardo di nostalgia; era uno
sguardo rivolto agli anni della nostra gioventù, quando avevamo condiviso – negli anni cinquanta del Novecento - un vivo interesse alla ballistocardiografia.
Una marea di pubblicazioni, tra cui le nostre – e con Prati c’erano
Fontanini e Carbonara, su Minerva Medica - esaltavano il valore diagnostico e prognostico di quella “nuova” metodica, che i giovani cardiologi di adesso neppure conoscono per sentito dire.
Si trattava della rappresentazione grafica degli impulsi trasmessi al corpo
dall’attività meccanica del cuore e dell’aorta, fino alla biforcazione iliaca.
I grandi nomi della cardiologia ne avevano studiato la validità per oltre
venti anni, a partire dal 1939:
Rappaport, Mandelbaum,
Selinger, Starr ed altri si
erano dedicati ad una attenta
analisi della metodica, valutandone le capacità diagnostiche e prognostiche; in particolare si era evidenzata la possibilità di seguire il recupero
postinfartuale e di verificare
le variazioni indotte sull’attività cardiaca dai primi farma-
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ci ipotensivi che stavano spuntando sul
mercato internazionale; ed anche – quasi
una curiosità – le alterazioni prodotte dal
fumo di sigaretta sulla morfologia del
tracciato: cinque minuti di inalazione
avrebbero consentito di individuare, con
apposito test, un probabile rischio coronarico legato al fumo.
Negli anni ‘60 fu fondata una Società
Internazionale di Ballistocardiografia
(“Society for ballistocardiographic research”) che teneva congressi annuali in
Europa e negli Stati Uniti.
La conclusione pratica di tutte queste
ricerche, a prescindere dalle capacità
diagnostiche e prognostiche della metodica, si era via via concentrata sulla
capacità di valutare la forza contrattile
del cuore mediante la registrazione di un
ballistocardiogramma.
Oggi non se ne parla più, di fronte all’evoluzione tecnologica della cardiologia che
ha relegato nell’oscurità dell’oblio tutte le
metodiche di cinquant’anni fa, ad eccezione dell’elettrocardiografia.
Non ho recenti notizie dell’ impiego della
ballistocardiografia nella medicina spaziale, dove era stato introdotto per verficarne la maggior fedeltà in assenza di
interferenze indotte da vibrazioni
ambientali; ma mi domando ancora se
l’ombra di malinconia nel sorriso di Pier
Luigi Prati non nascondesse anche la
nostalgia per un vecchio tentativo di
valutare, con un metodo molto semplice,
la validità della contrazione cardiaca.
Al Prof. Fiorato direi che di quel ricordo di oltre mezzo secolo fa ci è rimasta molta
nostalgia, compresa quella per la ballistocardiografia che, dopo iniziali promesse deluse, non aggiunse niente alle informazioni ancorché limitate, fornitici dai mezzi diagnostici dell’epoca.
Il suo ricordo avrebbe fatto piacere al Prof. Prati.
Franco Fontanini
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Ricordo del Prof. Spalato Signorelli
Un altro amico carissimo del gruppo anni ’50 ci ha lasciato
con garbo, tristemente com’era suo carattere: Spalato
Signorelli, amatissimo cardiologo da una vita, dell’Ospedale
della città dov’era nato. Fra la Mayo Clinic e l’Ospedale San
Sebastiano di Correggio, senza esitare avrebbe scelto il
secondo dove lo vollero giovanissimo primario, per mozione
popolare.
Indimenticabile, mite, taciturno, altissimo, curvo, impossibile
conversare con lui per strada: faceva passi di quasi due metri,
ed era pendolarmente un metro avanti e un metro indietro, il
suo interlocutore lo vedeva solamente transitare.
Studioso di storia della medicina, appassionato bibliofilo, una
ventina di anni fa, in un remoto scaffale della Biblioteca di
Reggio Emilia, trovò un vecchio volume dai caratteri di stampa sbiaditi, pubblicato nel 1612, dal
titolo che lo fece sobbalzare: “Mortis Repentinae examen”.
Ce l’annunciò con incontenibile enfasi, esclusiva degli esploratori e degli
archeologi. L’autore del tomo, Paolo Grassi, era nato a Correggio come lui e come
lui era stato primario dell’Ospedale, quattro secoli prima.
Medico di corte dei Gonzaga, compose poesie come a quei tempi si confaceva
ad un uomo di cultura, dottissimo, dissertò di filosofia, di botanica, di
epidemiologia, persino sulla natura e l’interpretazione dei sogni e fu un medico
di leggendaria bravura.
Chiamato a Modena a curare il duca Cesare d’Este gravemente ammalato, lo
guarì scatenando l’invidia del medico personale del duca e degli altri medici
modenesi. Il duca pochi giorni dopo morì, si disse avvelenato dai medici astiosi.
Il trattato sulla morte improvvisa che scatenò tanta felicità nel Professor
Signorelli, è considerato la prima pubblicazione sull’argomento, precedente di
circa un secolo a quella celebre del Lancisi, ritenuta la prima.
Signorelli, con l’aiuto di un anziano sacerdote latinista, tradusse tutta l’opera
che venne pubblicata a cura del Centro per la Lotta contro l’Infarto.
Grazie all’eccezionale acume intellettivo il Grassi considerò il cuore principale
responsabile delle morti subitanee e codificò i fondamenti della prevenzione e i
principali fattori di rischio coronarico.
Più di quattrocento anni fa, nell’Ospedale San Sebastiano e San Rocco di Correggio veniva
consigliata, per evitare la morte prematura, di correggere quantitativamente e qualitativamente
l’alimentazione, riducendo le carni grasse a favore dei cereali e delle verdure.
Veniva inoltre sconsigliata la vita troppo sedentaria. Queste stesse raccomandazioni vengono oggi
fatte all’Associazione Amici del Cuore voluta dal Professor Signorelli, che svolge un’esemplare
campagna di controlli cardiologici e di insegnamenti di igiene sanitaria della popolazione con
ottimi risultati.
F.F.
I lettori che desiderano ricevere il volume di Paolo Grassi possono richiederlo alla segreteria
del Centro per la Lotta contro l’Infarto.
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Un cuore
amico
di Eligio Piccolo
Per molti cardiologi Alberto Galassi viene associato al professionista
dei bei tempi andati, presente a tutti i congressi, con il suo dolcevita
bianco, più interessato alle conclusioni cliniche e meno alle sofisticherie dei superspecialisti; abituato a scrivere di suo pugno le lunghe lettere al medico curante, ricche di sottolineature e di puntualizzazioni. Ad
altri invece, con benevola malizia sono certo, piace vederlo come il
barone medico siciliano, ben inserito nella terra che disprezza i “quaquaraqua”; di quelle figure che a qualcuno fece venire poi una certa
nostalgia per l’impegno con cui sapevano portare avanti la realizzazione del lavoro e la carriera dei loro allievi.
Se preciserò invece che egli non era siciliano, né di nascita né di anamnesi, ma bolognese, desterò forse una certa incredulità perché il suo
modo di porgersi, la prudenza nel parlare, la preferenza per il “ni ni, so
so” anziché il “si si, no no” lo facevano
sembrare più siculo dei siculi.
Evidentemente, vivendo nella terra dei
Lampedusa e degli Sciascia, egli con la
sua intelligenza e sensibilità aveva imparato che si poteva realizzare a Catania la
stessa medicina che a Milano, rispettando
si capisce certe tradizioni. Non fu estranea a questa formazione l’essere stato
allievo di un grande maestro, un uomo di
sicuro ingegno, quali la Sicilia genera
spesso, ma che pretendeva non solo lo
I professori Galassi, Prati, Rovelli e Piccolo.
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“jurare in verba magistri” ma anche l’indiscutibilità delle sue decisioni. E quella
di destinarlo a primario cardiologo di
Catania, allora considerata una diminutio rispetto alla carriera universitaria, fu
invece per lui il predellino per inserirsi
nella specialità in più rapida ascesa.
Conobbi Alberto negli anni ‘70 a
Firenze, entrambi in lista per entrare nel
consiglio direttivo della Cardiologia
Nazionale. Fummo eletti e ritornammo
in treno fino a Bologna insieme. Parlò
solo lui e di quella conversazione, si fa
per dire, non ricordo assolutamente
nulla perché, come mi fu chiaro negli
anni a seguire, la sua dialettica era tutta
tesa a non farmi cogliere alcuna affermazione precisa, e nemmeno alcuna negazione. Quando divenimmo amici, e Dio
sa quanto lo fummo, potei inserirmi con
più libertà negli scambi di opinioni sia
nel nostro lavoro che nelle confidenze
riservate. Avevo oramai la sua stima e la
fiducia che non l’avrei “quaquaraquato”.
Organizzammo in quegli anni, anzi fece
tutto da sé, il Congresso Nazionale a
Catania. Riuscì benissimo, ma il secondo
giorno vidi Alberto molto preoccupato.
Chiesi:
“Che succede?”
“Mi sono dimenticato di invitare all’inaugurazione il Prefetto”.
“Ma da noi non si usa”, cercai di minimizzare. Mi guardò come per dirmi: qui
siamo in un altro mondo. Pare che una
cesta di rose alla signora del Prefetto e
altri piccoli favori siano riusciti a mettere tra parentesi quello sgarro.
Le attenzioni e la gentilezza erano certo
nel suo DNA. Non si dimenticava mai gli
auguri o i complimenti anche per cose di
poca importanza. Venne a trovarmi a
Panarea durante una mia breve vacanza
colà e ci portò nella sua motobarca per
un giro tra le Eolie. In altra occasione, di
ritorno da un concorso in Sicilia, mi
volle accompagnare all’aeroporto. Era il
giorno di Sant’Agata, la Patrona. Lo pregai di fermarmi a una bancarella per
comperare i dolciumi tipici. Chiesi al
venditore il prezzo:
“Ventimela”, nella sua cadenza, ma subito alle mie spalle arrivò la voce decisa
dell’assistente Circo:
“Dicesse?”
“Diecimela”. Credo che non potetti pagare nemmeno quel cinquanta per cento.
Ci telefonammo varie volte nell’anno e
mezzo che la sofferenza del male si faceva sempre più padrona della sua vita e
in ognuna aveva sempre un pensiero
gentile per quello che noi amici scrivevamo in Cuore e Salute.
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aforismi
Non attribuiamo i guai di Roma all’eccesso di popolazione.
Quando i romani erano solo due, uno uccise l’altro.
> G. Andreotti
Una bella giornata si vede dal mattino. Falso. Dal mattino si vede
una bella nottata.
> E. Piccolo
Gli uomini, ancor oggi, si dividono in tre categorie: gli sposati, gli
omosessuali e gli omosessuali sposati.
> R. Trudeau
Non è detto che tuo marito abbia sempre torto.
> N. Simone
Se ti dicono che hai dei bei capelli o dei begli occhi, vuol dire che
non sei gran che.
> Detto popolare
Se ti capita di incontrare con tutta l’innocenza di questo mondo,
una ex fidanzata, tua moglie lo saprà prima che tu torni a casa.
> A. Block
Corteggiare una donna vuol dire inseguirla finché non ti
acchiappa.
> J. Galant
Gli uomini non conoscono le donne però si divertono a cercare di
conoscerle, anche se non ci riescono quasi mai.
> F. Fontanini
Le fotomodelle dovranno pur parlare, uscire, andare a letto con
qualcuno, ma quel qualcuno non sarai tu.
> Anonimo
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a cura di
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Franco Fontanini
Divertiti perché comunque non puoi cambiare nulla.
> C. Conelly
Un proverbio, saggezza popolare, dice che chi dorme non piglia
pesci, ma ignora che, dacché mondo è mondo, la gente ha sempre
preferito dormire a prendere pesci.
> F. Fontanini
La donna non sa che tipo di marito non vuole fino a quando non
l’ha sposato.
> J. Collins
Come? Nessun alibi? Allora deve essere innocente.
> F. Giborain
Taluni sono ossessionati dall’ovvio, forse per mancanza di originalità.
> M. Missale
La principale differenza fra i politici di ieri e quelli di oggi è che i
primi nascevano ricchi, i secondi lo diventeranno.
> F. Fontanini
Gli apostoli non ci sono più: oggi sono tutti padreterno.
> Detto popolare.
Grande è la dignità del gatto finché non arriva un cane.
> Anonimo
Si vuole essere amati dagli altri o perché lo esige il nostro amore
per loro o la nostra vanità.
> M. Missale
Quando la donna non ama più diventa comprensiva e generosa.
> A. Morandotti
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Sostenete e diffondete
Cuore e Salute
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CONOSCERE E CURARE IL CUORE
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CONOSCERE E CURARE IL CUORE
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ANNO
XXVIII
Di invidia si può morire
N. 5-6 MAGGIO-GIUGNO 2010
Poste Italiane SpA
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D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
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