PERIODICO QUADRIMESTRALE A CARATTERE INFORMATIVO-PROFESSIONALE EDITO A CURA DELL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO
Anno XIV - N. 1/2004
A causa di risalenti refusi
tipografici, gli anni di pubblicazione di Toga Lecchese
sono stati indicati in modo
non corretto sui precedenti
numeri, nel senso che, con il
presente numero, la rivista
entra nell’effettivo quattordicesimo anno di pubblicazione.
SOMMARIO
L’intervento del nuovo Presidente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3
Consiglio dell’Ordine Biennio 2004-2005: incarichi ai Consiglieri
..
“
4
..................................
“
4-5
La difesa dell’imputato nel processo di abuso sessuale di minore
“
6-7
Le barzellette di Popy
.......................................................
“
7
Liquidazione delle spese: obblighi di motivazione
e modalità di impugnazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“
8-9
Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione
della pena su richiesta delle parti (legge 12/06/03 n. 134) . . . . . . . . .
“ 10-13
Tre miliardi di battiti
“
14
“
15
La difesa penale e il tema della verità
..........................................................
Circolare per i praticanti avvocati
........................................
Piccolo memorandum per il “migliore dei mondi forensi possibili”
Regolamento della pratica forense approvato
da tutti gli ordini del distretto dell’Emilia Romagna
Aderente ASTAF
Associazione Stampa Forense
Direttore Responsabile:
RENATO COGLIATI
Stampa:
..
“ 16-17
..................
“ 18-19
Giurisprudenza Lecchese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“
Associazione stampa forense - A.STA.F.
Congresso annuale 7 febbraio 2004 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“ 21-23
Convenzioni in deroga ai minimi tariffari professionali . . . . . . . . . . . . . . .
“
L’arbitrato nella riforma delle società
“ 25-26
....................................
20
24
Le casse private vanno escluse dalla riforma
della previdenza pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“
Seminario Cassa Forense “Il Procedimento di Cassazione:
tecniche di redazione del ricorso e regole del procedimento:
programma e scheda di partecipazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“ 28-29
Aggiornamento Albi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“ 30-38
In giro per mostre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“ 39-40
27
CATTANEO PAOLO GRAFICHE S.R.L.
ANNONE BRIANZA - LECCO
Autorizzazione n. 2/91 del Tribunale di Lecco
2
Cari Colleghi,
il Consiglio dell’Ordine nella seduta del 6 Gennaio scorso, mi ha eletto
Presidente.
Immediatamente il mio pensiero è corso ai due Presidenti dell’Ordine che
come me tanti altri Colleghi hanno avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare:
l’Avv. Vincenzo Condò, storico Presidente dell’Ordine che più di trenta anni fa mi
spronava agli esami e l’Avv. Eligio Cesana, Presidente dell’Ordine per tanti anni,
ma sopratutto per me caro Maestro.
Ricordando loro, mi rendo conto che la società civile e professionale è profondamente cambiata se mi ha permesso di essere nominata vostro Presidente.
Ritengo però che non sono cambiati e non devono cambiare l’impegno e la
serietà che deve contraddistinguere la nostra Professione.
Certamente gli stimoli non mancano se molti giovani abbracciano la professione di Avvocato.
È però compito di coloro che hanno avuto anche la fortuna di formarsi all’esempio dei Colleghi che ho ricordato e di molti altri che ci hanno preceduto, di
inculcare nei più giovani Colleghi la convinzione che la nostra professione non è
solo un mezzo di sostentamento, ma un compito sociale ed un servizio alla giustizia.
Nel ringraziarVi della stima accordatami, Vi assicuro della mia attenzione e di
quella di tutti i Consiglieri nel risolvere i problemi inerenti la nostra professione
ed in particolare quelli Lecchesi.
Sarà mia premura seguire l’ampliamento del Tribunale affinché si acceleri la
soluzione del problema degli spazi, ormai non più rinviabile; l’attenzione nei confronti della formazione, con la programmazione di incontri di studio anche in collaborazione con altri Ordini Professionali; il contatto con il Politecnico affinché si
possa disporre di consulenza specializzata nonché l’attenzione sui problemi quotidiani di gestione della Giustizia a Lecco.
Per quanto riguarda l’accordo di onore di cui tanto si è discusso nelle passate
settimane, lo stesso è già stato approfondito dal Consiglio nelle due prime sedute
anche alla luce dei suggerimenti pervenuti dall’Assemblea. Il Consiglio ha ritenuto di rinviare la decisione finale sull’argomento dopo l’elezione del nono membro.
Colgo l’occasione per ringraziare tutti i Colleghi uscenti per la loro dedizione e
competenza e per ringraziare i nuovi Consiglieri che già dalle prime sedute hanno
dato prova di voler fare e sopratutto di aver compreso lo spirito di servizio che
deve guidare il nostro compito.
Ringrazio inoltre il Collega Avv. Cogliati che con la sua dedizione ci permette
di stampare Toga Lecchese.
Cordialmente.
FRANCESCA ROTA
3
Consiglio
dell’Ordine
La difesa penale e il tema della verità
Biennio 2004/2005
INCARICHI AI CONSIGLIERI:
Procedimenti disciplinari:
avv. Elena Barra
avv. Walter Cerviatti
avv. Gianmaria Ratti
avv. Umberto Tomalino
Rapporti con i praticanti:
avv. Grazia Scurria - Responsabile
avv. Walter Cerviatti
avv. Antonio Corti
avv. Gianmaria Ratti
Commissione liquidazione parcelle:
Penale: avv. Elena Barra
Civile: avv. Walter Cerviatti
Responsabile per le conciliazioni: avv.
Enrico Azzoni
Patrocinio a spese dello Stato:
Ammissioni: avv. Elena Barra
Parere congruità parcelle penali: avv.
Elena Barra
Parere congruità parcelle civili: avv.
Walter Cerviatti
Responsabili biblioteca:
avv. Umberto Tomalino - Responsabile
avv. Antonio Corti
Consiglio Direttivo A.L.P.L.
Avv. Gianmaria Ratti
Referente C.N.F. per la formazione:
Avv. Grazia Scurria
Incontri di studio:
avv. Grazia Scurria
avv. Umberto Tomalino
Servizi informatici ed Internet:
avv. Antonio Corti
Contatti con il Politecnico:
avv. Umberto Tomalino
4
La nuova figura di difensore innescata
dalla rivoluzione processuale del codice
Vassalli, rinfocolata dalla L. 479/99 (c.d.
Carotti), portata al proprio apice con la L.
397/00 sulle indagini difensive,rende non
più eludibile il chiarimento del ruolo dell’avvocato che tale innovativa realtà è
chiamato a vivere ed a far vivere.
In questa prospettiva si è sviluppato
un forte dibattito che la Camera Penale
di Como e Lecco ha l’orgoglio di avere
provocato a livello nazionale e che ha
addirittura indotto il Presidente
dell’Unione Camere penali Italiane, avv.
Randazzo, a pubblicare un interessante
pamphlet intitolato, per l’appunto
“L’avvocato e la verità” (ed. Sellerio2003), mentre la rivista “Gli oratori del
giorno” ha raccolto numerosi interventi
di appassionati e studiosi della materia.
Purtroppo la trattazione del tema in
questione viene troppo spesso svolta
senza l’applicazione di rigorosi criteri
ermeneutica e con troppa approssimazione logica: ne derivano contrapposizioni talvolta solo apparenti o contraddizioni di fatto prive di fondamento.
Contraddizione concettuale evidente
è, per esempio, quella di coloro i quali
affermano che neppure dovrebbe porsi il
problema della “difesa del colpevole”
posto che solo alla sentenza definitiva
sarebbe “consentito” … stabilire chi sia
“colpevole”; salvo poi, costoro, affrontare il problema dell’utilizzazione di prove
“false” (vedi il tribolato art. 14 Codice
Deontologico del C.N.F.) senza rendersi
conto che simmetricamente, rispetto al
problema del “colpevole”, anche per stabilire se si sia in presenza di “prove
false”, occorrerebbe allora attendere la
decisione giudiziale definitiva.
Infatti per attestare la “falsità” di
una prova deve necessariamente valere
la medesima regola di giudizio applicata
per determinare la “colpevolezza” di un
individuo.
Non confondiamo le idee con paralogismi fuorvianti e bandiamo, altresì, le
ovvietà: a cominciare dalla “ovvietà”
più “ovvia” di tutte, riguardante la tipologia di “verità” della quale dobbiamo
parlare.
Stabiliamo subito che l’unica
“verità” rilevante sul piano operativo
non può essere se non la “verità processuale”: ossia quel giudizio di valore
che lega la validità della affermazione
circa la sussistenza o meno di un fatto,
non a conoscenze o considerazioni
extraprocessuali, ma alla correttezza
del procedimento dialettico utilizzato.
Sicché, in questa visione essenzialmente “laica” della verità, il giudizio
“vero/falso” attesterà semplicemente
(e sufficientemente) che un dato fatto
sarà risultato il solo compatibile (vero) o
non compatibile (falso) con gli elementi
evidenziati attraverso il procedimento
acquisitivo ed argomentativo utilizzato.
Sarà la correttezza o meno del metodo impiegato a determinare poi la esattezza del giudizio.
Inutile disperderci in dubbi metafisici su concetti di “verità assoluta” o di
“verità di fatto” ecc. ecc.
E la “verità processuale” (sintetizzo
allo estremo confutando quella che io
considero una riduttiva concezione della
“verità processuale” espressa da alcuni) può anche fondarsi su di una “confessione” resa dall’accusato al proprio
difensore; non sussiste alcuna ragione
logica perché l’avvocato non debba
tenerne conto, sia pure a seguito di un
corretto vaglio dei suoi contenuti,
modalità e circostanze.
Qualora la confessione risulti attendibile, il difensore “saprà”, per una
ragione “processuale” e senza alcun
bisogno di scomodare le categorie
della “verità assoluta”, che il proprio
assistito è, per “verità processuale”,
colpevole.
Ma che dire, poi, della vastissima e
frequentissima casistica delle situazioni
nelle quali è il difensore stesso a suggerire all’indagato una versione dei fatti
addirittura difforme rispetto a quella
riferitagli dall’assistito!
Siamo onesti! Quante volte è proprio
il difensore che “costruisce a tavolino”
ciò che il proprio assistito dovrà “raccontare” al magistrato?
E in tutti questi casi – che corrispondono probabilmente la grande maggioranza nella tipologia degli interventi
difensivi – non vi è forse la irrefutabile
consapevolezza del difensore che tali
narrazioni esprimono una certamente
inveritiera rappresentazione degli accadimenti, concorrendo irrimediabilmente
a costruire falsi elementi orientati verso
la elaborazione di una verità processuale indubbiamente menzognera?
E allora qui cito l’avv. Chiusano:
“Non nascondiamoci dietro un dito”!
***
Altra “ovvietà” su cui non occorre
nemmeno soffermarci è costituita dal
fatto che qualsiasi imputato, per qualsiasi delitto, ha diritto ad essere difeso.
Più complicato è riuscire a sottrarsi
ad un empirismo operativo e passare
alla individuazione di canoni generali di
comportamento allorché il difensore si
renda conto che, processualmente parlando, il proprio assistito è colpevole
ma intende essere difeso “come innocente”.
Il tema è complesso e non può essere qui adeguatamente affrontato: mi
limiterò ad una breve considerazione.
A me pare evidente che (a prescindere dalla sensibilità etica individuale)
sul piano operativo vi sia un limite
assoluto alla esplicazione di una attività
difensiva in favore del “colpevole”: io
individuo tale limite laddove, per sostenere l’innocenza di colui che so (processualmente) essere colpevole, fossi
costretto a sostenere il mendacio di una
persona offesa che so (processualmente) essere effettivamente vittima, o il
mendacio di un teste che so (processualmente) essere veritiero.
Così come mi sembrerebbe insopportabile rivendicare una inesistente
(per mia conoscenza “processuale”)
innocenza, utilizzando prove, sia pure
non da me introdotte, che so (processualmente) essere false.
Se non valessero nemmeno questi
limiti comportamentali che considero
minimi, mi domanderei quale funzione e
che qualità etica potrebbe mai esprimere una avvocatura che svolgesse la sua
“missione” (così è qualificata la nostra
professione nel Codice Deontologico
Forense) avvalendosi di mezzi tanto
squalificanti.
E mi chiederei di quale “nobiltà”
(termine abusato in una infinità di proclami che gli organi rappresentativi dell’avvocatura partoriscono ad ogni piè
sospinto) pretenderemmo ammantare
un professionista cui fosse lecito utilizzare disinvoltamente sistemi da baro:
ossia un professionista il quale considera lecito giocare con le carte truccate
purché non siano state da lui personalmente truccate o inserite nel mazzo!
Qui, ognun vede, non sfioro nemmeno il problema se siamo o non siamo
pubblici ufficiali (cosa che, riferita al
generale compito difensivo, mi sembra
un’altra ovvietà) ma ambirei almeno
pensare che neppure ci sia lecito essere
azzeccagarbugli di così basso conio:
protesi al conseguimento di un risultato
vantaggioso purchessia per il nostro
assistito, pensando che nel raggiungimento di questo fine bassamente utilitaristico consista la “nobile missione”
dell’avvocato difensore.
Io voglio credere ad un’altra misura
di professionista!
Voglio credere ad un avvocato che
sia prima di tutto difensore della
“toga”, baluardo di qualsiasi accusato
(reo o innocente che sia) e di qualsiasi
vittima, nonché emblema di quella
libertà che solo può vivere se è garantita dal rispetto delle leggi da cui anche il
colpevole di qualsivoglia nefandezza ha
diritto di trarre la propria tutela.
Un avvocato che, attraverso la
“toga” così onorata, sia difensore dell’assistito non certo per garantirgli un
utile qualsiasi (con l’unico limite del
favoreggiamento), ma quell’utile,
sostanziale e processuale, che l’applicazione di corretti parametri valutativi
ed operativi consente, nel rispetto della
funzione di elevato contenuto civile alla
quale lo strumento processuale è orientato.
In molti casi la individuazione di tali
parametri è agevolata, sia pure con
accettabili approssimazioni, dalla natura della vicenda giudiziaria (per esempio in ragione della modesta gravità
degli addebiti o della semplicità o chiarezza del dato valutativo o delle conseguenti strategie): ma in moltissimi altri
casi l’avvocato, la parte assistita ed il
processo stesso non possono essere
lasciati in balìa di parametri valutativi
rimessi a sensibilità etica ed al senso
del ruolo professionale del singolo
difensore.
Per questa ragione la Camera penale
di Como e Lecco è impegnata, nell’ultimo anno del mio mandato, a rendere
sempre più diffusa la cultura del nuovo
avvocato difensore inteso quale rappresentante di un momento caratterizzato
da elevato profilo ideale e consapevole
della imprescindibile funzione sociale
che la difesa, sia pure espressione di
interessi di parte, è chiamata a svolgere
attraverso lo strumento giudiziario.
AVV. RENATO PAPA
IMPORTANTE
dal CONSIGLIO DELL’ORDINE
Si invitano tutti i colleghi che già non
vi avessero provveduto a comunicare
all’Ordine gli incarichi giudiziari ottenuti nel corso del 2003, in adempimento di quanto previsto nella circolare del 11 ottobre 2002 a seguito di
delibera del Consiglio dell’Ordine in
data 4 ottobre 2002.
5
La difesa dell’imputato nel processo
di abuso sessuale di minore
Premetto che, sia che si rappresenti
la parte civile, sia che ci si trovi a difendere l’imputato, la posizione del difensore è estremamente difficile.
Mai come in questi casi tormenta il
dubbio di trovarsi dalla parte giusta e di
operare quindi con quella piena libertà,
autonomia e indipendenza, lealtà e correttezza, con l’obbligo del segreto professionale, così come la figura dell’avvocato è stata configurata nella proposta di legge di riforma dell’ordinamento
della professione di avvocato elaborata
dal Consiglio Nazionale Forense.
La difesa dell’imputato sconta il pregiudizio contro di lui non solo del
Pubblico Ministero presso il Tribunale
ordinario, che dovrà condurre le indagini, ma anche e forse più del Pubblico
Ministero presso il Tribunale per i
Minorenni, che di norma è il primo a
ricevere la segnalazione.
Infatti, da chiunque provenga la
denuncia o la segnalazione, il Tribunale
per i Minorenni subito viene investito del
caso, in quanto, non solo la Questura e i
Carabinieri, ma anche i servizi sociali,
hanno l’obbligo, tutte le volte: che sono
coinvolti minori, di trasmettere gli atti al
Tribunale per i Minorenni e specificatamente al Pubblico Ministero.
L’ indagato viene di solito a sapere
di aver assunto tale veste dopo aver
ricevuto la notifica del decreto del
Tribunale per i Minorenni, che allontana
il figlio dall’abitazione familiare o come ora dovrebbe più spesso accadere
- che ordina il suo allontanamento dalla
residenza familiare o comunque la
sospensione dei rapporti con il figlio.
La difesa quindi si deve svolgere su
due fronti- Tribunale per i Minorenni e
Tribunale Ordinario.
Quando poi la denuncia interviene
nel corso del giudizio di separazione,
6
come spesso accade, vi è anche il
Giudice della separazione, che può
adottare provvedimenti.
La magistratura ordinaria e il
Tribunale per i Minorenni, che pure
dovrebbero strettamente collaborare,
non sempre lo fanno.
Da un lato il Tribunale per i
Minorenni accetta ciecamente la relazione, che gli perviene di solito dai servizi sociali del territorio e non vaglia in
alcun modo l’attendibilità della segnalazione, che spesso si è rivelata frutto
di fraintendimenti, cattive interpretazioni, suggerite da pregiudizi, da un atteggiamento colpevolista, perché ad essere colpevolisti non si sbaglia mai e non
si può correre il rischio di approfondire
meglio, perché l’approfondimento
potrebbe recare pregiudizio al minore.
Sulla scorta di questa impostazione,
tanti casi si sono dimostrati dolorosi
calvari per chi li ha subiti, per i minori
stessi coinvolti, ma purtroppo il sistema
non cambia.
La fiducia che il Tribunale per i
Minorenni nutre nei confronti degli psicologi e degli assi- stenti sociali dei
Servizi sociali è cieca e assoluta; del
resto sostengono di non poter fare
diversamente, in guanto i servizi sono la
loro longa manus e qui non possiamo
dilungarci sulla natura del Tribunale per
i Minorenni, che resta un organo amministrativo, che ben poco ha a che vedere con l’amministrazione della giustizia.
Contro il decreto del Tribunale per i
Minorenni il difensore può promuovere
ricorso avverso il Tribunale stesso, trattandosi di decreti non definitivi, assunti
spesso senza nemmeno sentire il PM.,
“stante l’urgenza”; nella prima fase
delle indagini, il difensore non ha altra
possibilità, ma il Tribunale per i
Minorenni non prende alcun provvedi-
mento, perché con il primo -decreto ha
già incaricato i servizi di produrre, entro
tre o sei mesi, una relazione sulla situazione del minore.
Tutto quindi resta fermo e spesso
nemmeno si può prendere visione di
questa relazione dei servizi in quanto
“secretata”, essendo un documento
relativo all’indagine penale in corso.
Solo quando si procede all’incidente
probatorio per sentire il minore, il difensore può prendere visione degli atti di accusa, ma qui si apre un difficile capitolo.
Non esiste alcuna regola che imponga al G.I.P. di nominare un consulente,
che conduca l’interrogatorio, quindi,
volta a volta, il Giudice stesso procede
direttamente (ma può anche avvalersi
dell’ausilio di un familiare del minore o
di un esperto in psicologia infantile) o
delega un consulente, che non è un
vero e proprio consulente d’ufficio perché spesso viene scelto tra il personale
dipendente dell’A.S.L..
A norma dell’art. 398 comma 5 bis
c.p.p., il Giudice è tenuto a stabilire con
ordinanza il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere
all’incidente probatorio; l’udienza può
svolgersi anche in un luogo diverso dal
tribunale ed in particolare in locali
muniti di un vetro a specchio direzionale ovvero, in mancanza presso l’abitazione dello stesso minore.
La norma è carente in ordine alle
modalità procedimentali nel senso che
non è dato comprendere se l’ausilio di
un familiare consista in una presenza
rassicurante, ma rigorosamente muta,
ovvero se l’esperto possa intervenire
per far rilevare al giudice domande
inopportune o, addirittura, per rivolgersi
direttamente al minore.
L’audizione protetta si svolge in un
locale dotato di un vetro a specchio uni-
direzionale e di un impianto di videoregistrazione e di citofono interno.
Nella prima stanza vengono ad essere dislocati il minore, a volte affiancato
da un esperto in psicologia, in ausilio
del Giudice.
La presenza del Giudice è importante
perché ha lo scopo di far percepire al
minore il significato processuale dell’atto.
Purtroppo ho dovuto registrare un
caso in cui il Giudice ha deciso di non
essere presente nella stanza con il
minore, dove è rimasta solo la madre e
una dottoressa dipendente dell’A.S.L..
Nell’altra stanza, posta dietro lo specchio, sono presenti tutti gli altri soggetti, incluso l’indagato, che comunicano
con un interfono.
L’audizione protetta si presta a critiche, in quanto, evitando qualsiasi contatto tra il mino- re e l’imputato, si danneggia sensibilmente il fondamentale
diritto dell’accusato di confrontarsi con
il suo accusatore e si induce il giudice a
conferire particolare credibilità alla vittima di abusi sessuali, condannando
quindi l’imputato con una frequenza
maggiore, che non nel caso in cui il processo si svolga secondo le regole dell’ordinario dibattimento.
A norma dell’art. 194 c.p.p., in genere, insieme all’incidente probatorio,
viene richiesta una consulenza sull’attendibilità del minore, i cui risultati
dovrebbero essere discussi in sede di
incidente probatorio, prima di effettuare
l’audizione del minore.
Si tratta di accertare se il minore,
soprattutto se in tenera età, sia in
grado di differenziare i suoi pensieri e
sentimenti dai dati reali, percependo
con nettezza la distinzione tra le proprie
emozioni e gli accadimenti della vita,
soprattutto in relazione alle sue concezioni di verità e bugia.
Spesso in questo tipo di procedimenti viene disposta, a volte nelle
forme dell’incidente probatorio, a volte
per incarico del P.M., una perizia ginecologica sul minore.
È evidente che se la perizia ginecologica viene svolta per incarico del P.M.,
il difensore dell’ indagato non ne sa
niente, mentre l’esito viene comunicato
al Tribunale per i Minorenni, con il
quale quindi il confronto e le possibilità
di difesa sono ridotte ai minimi termini.
L’impegno del difensore avanti il
Tribunale per i Minorenni non può essere che quello di scalzare le certezze
suscitate dalle relazioni dei servizi
sociali e di ottenere l’ ammissione di
una perizia d’ufficio sulla attendibilità
del minore, sulla vera natura del suo
disagio, ma non sempre il difensore riesce a scalzare le false certezze e quindi
non gli resta che puntare sulla richiesta
di perizia in sede penale, ma anche lì
non sempre il giudice applica l’art. 194
c.p.p..
In buona sostanza la difficoltà di
difesa si basa sul fatto che le prove a
carico sono spesso rappresentate,
oltre che dalla deposizione del minore,
dalle deposizioni delle psicologhe o
assi- stenti sociali dei servizi, che
hanno raccolto le confidenze del minore, ma è facile capire come, se i cosiddetti operatori dei servizi non hanno la
necessaria super specializzazione
richiesta in questi casi, gli errori sono
molto comuni.
Dall’analisi dei darti, risultano in
aumento i casi in cui vengono coinvolti
in procedimenti penali infamanti persone, che poi risultano innocenti. Del
resto, quando un fenomeno diventa un
problema sociale, uno dei rischi è quello di gonfiare le statistiche e di far
diventare visibili fatti, che non esistono;
la sensibilizzazione diviene così ipersensibilizzazione e questo porta a una
preoccupante crescita di fraintendimenti ed errori, anche da parte di specialisti del settore, che hanno un’idea
spesso stereotipata e la mantengono
nonostante sia contraddetta dal- la loro
stessa casistica, in quanto hanno un
atteggiamento verificazionista, piuttosto che falsificazionista.
FRANCA ALESSIO
LE BARZELLETTE
DI POPY
Il giudice all’imputato: “allora, mi dica il
motivo per cui ha ucciso sua moglie”
“Perché l’ho trovata nelle braccia del suo
amante!”
“Va beh, ma perché proprio sua moglie e
non l’amante?”
“Signor giudice – sospirando – meglio una
sola volta mia moglie, che un giorno sì e
uno no i suoi amanti”.
❂
Discorso tra due amici: “allora come è
andata la separazione giudiziale ?”
“Benissimo! il giudice era il primo marito
di mia moglie!”
❂
Il giudice all’imputato: “si procede ora
alla lettura del certificato penale dell’imputato”
“Faccia pure – dice l’imputato – però poi
non dica che ho tirato in lungo il processo
apposta!”
❂
Udienza di separazione.
La moglie al giudice: “Signor Presidente,
io vorrei tanto concludere una consensuale, ma a mio marito cosa è venuto in
mente di chiedere l’affidamento di nostro
figlio! ma ci pensa, signor Presidente! Io
l’ho portato nove mesi in grembo, io l’ho
allattato, io per due anni non l’ho perso di
vista un secondo! Signor Presidente, lo
deve affidare a me!”
Il Presidente con la fronte corrugata, rivolto al marito : “Lei cosa ha da dire sull’argomento?”
Il marito: ”Senta, signor Presidente, mettiamo che lei si trovi davanti ad una macchinetta che distribuisce cioccolata: lei
infila una monetina, schiaccia il bottone, e
la macchinetta le scodella una bella cioccolata calda. Ebbene, mi dica, secondo lei
a chi appartiene la cioccolata, alla macchinetta o a lei ?”
Il giudice dopo una breve pausa di riflessione : “Il bambino viene affidato al padre.
La seduta è tolta”.
7
Liquidazione delle spese:
obblighi di motivazione e modalità di impugnazione
La liquidazione delle spese giudiziali
da parte del giudice costituisce materia
spinosa, già affrontata in questa rivista,
con speciale riferimento ai problemi sollevati dalla giurisprudenza in tema di
compensazione1.
Altro tema oggetto di numerosissime
pronunce della Cassazione è quello relativo agli obblighi di motivazione che vincolano il giudice nella determinazione delle
spese, e alle possibilità di impugnazione
in caso di violazione di tali obblighi.
A una prima lettura delle massime la
materia sembra viziata da contraddizioni
insanabili, che però si rivelano, esaminando le sentenze per esteso, più apparenti che reali.
Si può infatti disegnare un percorso
coerente, suddiviso secondo i diversi
aspetti di volta in volta portati all’esame
della Corte.
1) OBBLIGHI DI MOTIVAZIONE NEL
RIDURRE LA NOTA SPESE.
È orientamento costante e incontrastato, e ribadito anche di recente, quello
per cui “il giudice, in presenza di una nota
specifica della parte non può limitarsi ad
una globale determinazione, in misura
inferiore a quelle esposte, dei diritti di
procuratore ed onorari di avvocato, ma ha
l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione o riduzione2 di voci da lui
operata allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione
a quanto risulta dagli atti e alle tariffe, in
relazione all’inderogabilità dei relativi
minimi a norma dell’art. 24 della legge n.
794 del 1942”: così Cass. sez. lav .,
1/8/2002, n. 114833, per la quale la decisione che non si attenga a tale principio è
ricorribile per mancanza di motivazione e
per violazione di legge, in relazione
appunto all’art. 24 l. 794/42.
Cass., sez. lav., 21/7/2001, n. 9947
specifica ulteriormente che tale obbligo
8
di motivazione vale sia per gli onorari
che per le competenze, e anche per gli
esborsi indicati in nota spese; anche per
essi, il giudice deve indicare le voci della
tariffa in base alle quali li considera
ingiustificati o eccessivi.
Il principio in esame è affermato sia
nel caso di liquidazione delle spese
effettuata nella sentenza che chiude il
giudizio (ex art. 91 c.p.c.), sia nel caso di
decisione sull’istanza di liquidazione ex
artt. 28 e 29 l. 794/42, salvo aggiungere,
per quest’ultimo caso, che dato il carattere sommario del procedimento l’ordinanza non deve essere motivata come
una sentenza, ma ugualmente deve
esporre almeno sommariamente il ragionamento seguito e le ragioni per cui
siano stati disconosciuti compensi o rimborsi indicati in parcella (Cass.
13/1/1997, n. 246).
Infine, è degna di rilievo anche Cass.,
sez. lav ., 28/12/1998, n. 12856, la quale
chiarisce che la Corte, se accoglie il ricorso avverso la decisione che non contenga
alcuna motivazione circa la riduzione
della nota spese, può, ex art. 384 c.p.c.,
“provvedere direttamente alla determinazione del dovuto, non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto“.
2) È AMMESSA LA LIQUIDAZIONE
GLOBALE DELLE SPESE, CON
SEPARATA INDICAZIONE DEGLI
ONORARI, MA SOLO IN PRESENZA DI NOTA SPESE.
Fatti salvi gli oneri di motivazione
che si sono visti, altro principio costantemente ribadito è che il giudice -che
deve sempre mettere le parti in condizione di verificare il rispetto dei limiti di
tariffa – può liquidare le spese legali
con una somma globale, purché siano
indicati in maniera separata gli onorari,
con la formula “si liquidano le spese in
complessivi Euro ..., di cui Euro ... per
onorari”. Secondo la Cassazione, ciò
permette alla parte, per esclusione, di
verificare quanto è stato liquidato a titolo di competenze ed esborsi4. In verità il
discorso, per avere una logica, richiede
una specificazione, che puntualmente si
ritrova con la lettura per esteso delle
sentenze: il principio esatto è che la
liquidazione globale fatta nel modo che
si è detto è ammissibile solo quando la
parte abbia presentato nota spese specifica: in questo caso (e solo in questo), si
presume che il giudice abbia voluto attenersi a quanto in essa indicato, e quindi
si può verificare quanto abbia inteso
liquidare. Così Cass., 30/7/2002, n.
11276 e Cass., 16/2/1995, n. 17075.
In pratica: una volta sottratti gli onorari, la cui indicazione specifica è ovviamente necessaria perché il loro importo
può fluttuare tra i minimi e i massimi di
legge, si presume che il giudice abbia
riconosciuto le voci di competenze ed
esborsi indicate dalla parte in nota spese,
e si può così verificare se la liquidazione
corrisponda alla richiesta: qualora così
non fosse, e mancasse adeguata motivazione, la sentenza è impugnabile, anche
in Cassazione, come visto sub A).
Addirittura, Cass., 1/2/2000, n. 1073,
dopo avere confermato in via generale la
necessità dell’indicazione degli onorari,
ammette la liquidazione globale con
un’unica cifra comprensiva di tutte le
voci, quindi anche degli onorari, qualora
tale somma sia conforme al totale indicato in nota spese, definita il “naturale
riscontro” della liquidazione del giudice.
Quando invece non sia stata presentata la nota spese, il giudice, che ha il
poteredovere di liquidare ugualmente le
spese giudiziali sulla base degli atti di
causa, “deve indicarli specificamente
nella misura necessaria a consentire il
controllo di conformità” ai limiti minimi
e massimi della tariffa (Cass.,
30/7/2002, n. 112766), ossia deve richia-
mare espressamente le attività che riconosce essere state svolte dal difensore e
liquidare le spese di conseguenza.
Ciò perché, mancando il “naturale
riscontro” della nota spese, sarebbe
impossibile scomporre una liquidazione
globale imputando a ogni tipo di voce (
onorari / competenze / spese imponibili /
spese non imponibili) la relativa quota di
spese.
3) IMPUGNAZIONE E ONERE DI SPECIFICAZIONE
Come si è visto sub 1) e sub 2), il
capo della sentenza relativo alle spese è
impugnabile, anche in Cassazione, e la
liquidazione delle spese può essere
legittimamente fatta in misura globale,
salva l’indicazione degli onorari.
Destano quindi perplessità le massime come quella di Cass., 23/5/2002, n.
7527, per la quale la liquidazione degli
onorari “non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità se non
quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume
essere state violate”; la contraddizione
con la possibilità concessa al giudice di
liquidare gli onorari con un’unica somma
globale è però solo apparente: leggendo
la stessa sentenza Cass., 7527/2002 per
esteso si chiarisce il malinteso, quando
la Corte statuisce: “fa specificazione va
intesa nel senso di indicazione anche dei
conteggi che rilevino l’inadeguatezza
delle somme liquidate, non potendoli
svolgere questa Corte attraverso accertamenti di fatto”.
Il ricorso che originò tale decisione
era presentato da un avvocato che impugnava l’ordinanza emessa a termine di
procedimento ex art. 28 l. 794/42 per la
liquidazione degli onorari nei confronti
del cliente: illegale lamentava che il
Tribunale avesse ridotto al di sotto del
minimo di legge l’ammontare degli onorari indicati in parcella. Ciò era dimostrato dal fatto che la somma dei minimi
tariffari previsti per gli onorari relativi
alle attività svolte era superiore a quanto liquidato dal Tribunale.
Ebbene la Corte ritiene il ricorso non
sufficientemente specifico, ricordando
che la tariffa forense allegata al D.M.
5/10/1994, n. 585 prevede per ciascuna
attività un onorario base, indicato in un
minimo e un massimo, stabilendo poi i
coefficienti per cui tale onorario va moltiplicato a seconda dello scaglione di
valore della causa.
Illegale avrebbe perciò dovuto indicare specificamente la voce della tariffa
che prevedeva tale onorario minimo
(nella specie il n. 53 del paragrafo X), e
quella che stabiliva il coefficiente di
moltiplicazione (nella specie il paragrafo
IX, richiamato dal n. 56 del paragrafo X),
e avrebbe dovuto sviluppare il conteggio
utilizzando tali fattori, ossia onorario
base x coefficiente = onorario dovuto.
Illegale, invece, aveva indicato solo il
risultato finale di tale conteggio, senza
però indicarne i fattori, per cui la Corte
non poteva verificare la fondatezza del
ricorso.
Tante altre sentenze ribadiscono lo
stesso principio 7, forse un po’ troppo
rigoroso, a fronte del fatto che sono pubblicate, e diffusissime, le tariffe forensi
con gli importi già calcolati per ciascuna
attività e ciascuno scaglione.
Altro principio stabilito dalla giurisprudenza (analogo a quello appena
visto) è quello per cui il ricorso in
Cassazione contro la liquidazione delle
spese deve riportare le singole voci della
nota spese ridotta globalmente8: analoga è anche la ratio di tale onere: se il
ricorrente non richiama, ossia non riproduce le voci della nota spese di cui
lamenta il mancato rispetto, la Corte non
è in grado di verificare la doglianza, pertanto il ricorso non è autosufficiente, e
quindi è inammissibile.
Emblematica al riguardo è Cass.,
118/2002, n. 11483, già citata sub 1), in
quanto dichiara l’obbligo del giudice di
motivare adeguatamente la liquidazione
di onorari e competenze in misura inferiore a quanto chiesto in nota spese.
Ebbene, nel caso di specie il ricorso
riguardava sia la misura degli onorari sia
quella delle competenze e delle spese,
ma veniva accolto solo riguardo agli
onorari, “le cui voci, contenute nella
relativa nota presentata al giudice, sono
state riportate ne l ricorso per cassazione”; invece, continua la Corte, “non è
fondata la doglianza relativa alle spese
vive e ai diritti di procuratore, essendo
mancata qualsiasi loro specificazione da
parte del ricorrente idonea a consentire
un controllo di legittimità”.
RICAPITOLANDO
Non è richiesto che il ricorrente indichi le specifiche-attività che lamenta
non essere state riconosciute dal giudice
(es.: partecipazione alle udienze) o che il
giudice avrebbe liquidato in misura inferiore ai minimi di tariffa (es.: per la partecipazione alle udienze è stato liquidato
Euro ... invece di Euro ...). Ciò sarebbe
impossibile, a fronte di una liquidazione
globale, che non permette di capire ne
se sia stata riconosciuta la partecipazione alle udienze, ne quanto sia stato per
essa liquidato.
Il ricorrente può senz’altro sottoporre
alla Corte la somma degli onorari che
richiede, o la somma dei minimi tariffari,
e lamentare che la sentenza impugnata
li ha liquidati in misura inferiore: deve
però, a tal fine, riportare tutte le voci
della nota spese e indicare i conteggi
che portano a tali somme.
GIULIO BINI
1
Cfr. i contributi di Stefano Graziosi in Bologna Forense n.
3/1994, pag. 15; n. 3/1996, pag. 31, e n. 2/2000, pag. 32.
2
L’endiadi “eliminazione o riduzione” è opportuna, perché la riduzione del liquidato rispetto al richiesto può
derivare o dal fatto che il Giudice ha ritenuto errato lo
scaglione indicato oppure, fermo questo, dal fatto che
non ha ritenuto effettivamente svolte delle attività riportate in nota spese.
3
Conformi, oltre a quella di seguito nel tes!o, Cass.,
18/10/2001, n. 12741; Cass., 16/3/2000, n. 3040; Cass.
2/7/1999, n. 6816; Cass., 30/10/1998, n. 10864; Cass.
Sez. lav. 15/12/1997, n. 12672; Cass., 27/10/1995, n.
8872; Cass. 5/8/1985, n. 4387; Cass., 6/3/1982, n. 1441;
Cass., 7/5/1981, n. 2977.
4
In tal senso, tra le tante, Cass.,3/1/1995, n. 52; Cass.,
26/7/2002, n. 11006.
5
La cui massima recita: “La liquidazione globale può
essere ammessa (in ogni caso con indicazione separata
degli onorari di avvocato rispetto ai diritti di procuratore)
solo se sia stata presentata la nota delle spese a cura
della parte cui vanno rimborsate, dovendosi in tal caso
presumere che il giudice abbia voluto liquidare le spese
in conformità di tale nota”.
6
Di cui è interessante notare che si pronunciò sul ricorso del soccombente in appello, che lamentava l’eccessività delle somme liquidate, da lui ritenute superiori ai
massimi di tariffa. La Corte accoglieva il ricorso, rinviando alla Corte perché procedesse a nuova liquidazione.
7
Cass. sez. lav., 12/1112001, n. 14011; Cass., 31411999,
n. 3267; Cass., 1911011993, n. 10350.
8
Cass., 1811012001, n. 12741; Cass., 16/3/2000, n. 3040.
9
Modifiche al codice di procedura penale in materia
di applicazione della pena su richiesta delle parti
(Legge 12.06.03 N. 134)
Vari sono stati gli interventi di grandi
nomi del Mondo Accademico, della
Magistratura e della Avvocatura italiana
che, nell’arco degli ultimi mesi, si sono
apprestati a commentare la legge 12/06/03
n° 134.
Fra i più importanti, ricordo quelli intervenuti al convegno, dal titolo: “Il patteggiamento allargato: scenari sistematici e problemi interpretativi”, tenutosi il 07/11/03
presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Milano, ove si
sono avvicendati: Mario Chiavario,
Presidente dell’Associazione tra gli Studiosi
del Processo Penale, Vittorio Grevi,
Vicepresidente della medesima, Giorgio
Marinucci, Direttore dell’Istituto di Diritto
Penale e Procedura Penale presso
l’Università degli Studi di Milano, Paolo
Ferrua, Ordinario di Procedura Penale presso l’Università di Torino, Paolo Ielo,
Magistrato presso il Tribunale di Milano ed
Ennio Amodio, Ordinario di Procedura
Penale presso l’Università degli Studi di
Milano. Nonché i relatori avvicendatisi, il
03/07/03, al convegno, intitolato:
“Modifiche al Codice di Procedura Penale
in materia di applicazione della pena su
richiesta delle parti (Legge 12/06/03, n°
134)”, ed organizzato, presso il Palazzo di
Giustizia di Milano, dal Consiglio Superiore
della Magistratura Ufficio dei Referenti per
la Formazione Decentrata del Distretto di
Milano, di alcuni dei quali mi appresto ad
affrontare le singole posizioni, rinviando ad
una prossima trattazione il completamento
dell’analisi delle stesse.
I primi contributi alla discussione sono
stati forniti da due Giudici per le Indagini
Preliminari appartenenti al Tribunale di
Milano, Renato Bricchetti e Luca Pistorelli, i
quali hanno esposto il tema del nuovo
modello di patteggiamento, che non inciderebbe sull’unitarietà dello istituto (artt. 1-3
legge 12/06/03, n° 134).
Le ragioni e le prospettive
della riforma
Da tempo andava diffondendosi l’idea
che le potenzialità processuali del patteg10
giamento fossero soffocate da limiti di
pena troppo angusti, il potere negoziale
delle parti imbattendosi nello invalicabile
ostacolo dei due anni di pena detentiva
“soli o congiunti a pena pecuniaria”, sicché
l’entità di quest’ultima, idealmente convertita ex art. 135 c.p. in pena detentiva, riduceva oltremodo l’ingresso al rito, una volta
che l’imputato aspirasse a contenere il trattamento sanzionatorio entro i limiti della
concessione della sospensione condizionale, attesa la diversa disciplina contemplata
dall’art.163 cp.
All’innalzamento del “tetto” ha ora
provveduto, seppure con alcuni distinguo, la
legge in parola, che, aggiungendo al primo
comma dell’art.444 cpp un nuovo comma 1bis, ha modificato il comma 1, elevando il
limite massimo di pena detentiva applicabile su richiesta delle parti a cinque anni, ma
lasciando immutata la precisazione circa
l’applicazione autonoma di questa ultima, o
congiunta a pena pecuniaria.
Il nuovo comma aggiunto dalla novella
all’art. 444 c.p.p. introduce, invece, un
catalogo di cause oggettive e soggettive di
esclusione dall’accesso all’istituto, la cui
operatività è peraltro circoscritta dalla
stessa norma esclusivamente al caso in cui
accusa e difesa vogliano concordare una
pena detentiva inferiore ai cinque anni, ma
superiore ai due, che costituivano l’unico
ed originario limite posto dal codice per
l’ammissibilità del patteggiamento.
La legge 134/03 non ha introdotto un
“nuovo” istituto (una sorta di “terzo” rito
alternativo), che si affianchi al patteggiamento già contemplato nel codice di rito,
bensì ridisegnato quest’ultimo, ampliandone d’applicazione, risultando dovuta, tale
precisazione, alla luce della distinzione
operata, nel comma 1-bis dell’art. 444
c.p.p. e nel nuovo testo dell’art. 445 cpp,
tra il patteggiamento di una pena inferiore
ai due anni o superiore a questo limite, al
fine dell’applicazione di alcune disposizioni
speciali.
Invece, anche a seguito delle modifiche
apportate dalla novella, l’istituto rimane
disegnato, in maniera unitaria, come rito
alternativo a quello ordinario, legato alla
negoziazione della entità della pena tra
accusa e difesa, con implicita rinunzia, da
parte dell’imputato, allo accertamento
dibattimentale dei fatti contestatigli, in
cambio dell’applicazione di una diminuzione fino ad un terzo della pena medesima.
In quest’ambito il legislatore ha tracciato un’inedita linea di demarcazione, rappresentata dalla negoziazione di una pena
detentiva non superiore ai due anni, prevedendo soltanto in questi casi l’operatività
dei benefici originariamente collegati alla
scelta del rito, ed ammettendo, sempre
solo in questi casi, un accesso indiscriminato al patteggiamento, senza limitazioni,
cioè, legate al tipo di reato o di autore.
Potendo, l’essenza del provvedimento
di riforma, essere individuata nell’innalzamento dei limiti della pena detentiva negoziabile ai sensi dell’art.444 cpp, l’obiettivo
prefissatosi dal legislatore attraverso il
provvedimento in esame consiste nell’alleggerimento del contenzioso penale, col
conferimento al patteggiamento della massima potenzialità deflattiva.
Ma il legislatore sembra aver peccato
di un eccesso di ottimismo, potendosi prevedere, nella più rosea delle ipotesi, che si
assisterà ad un significativo aumento delle
richieste di patteggiamento, calibrate su
pene superiori rispetto al passato, soltanto
da parte di quegli imputati che non temono
in maniera particolare i tempi di rapida formazione del giudicato immanenti al rito, o
perché stanno già scontando lunghe pene
detentive, o perché detenuti in via cautelare per reati con pene edittali assai elevate
ed in situazioni processuali che non lasciano prevedere la possibilità di potere, prima
della condanna definitiva, lucrare lospirare
dei termini custodiali.
È ragionevole attendersi un incremento
delle richieste di applicazione di pene
detentive superiori ai due anni, ma contenute entro i limiti di accesso ai benefici
previsti dallo ordinamento penitenziario,
ovvero di pene da calcolare in continuazione su quelle irrogate con precedenti patteggiamenti, che, complessivamente consi-
derate, determinerebbero lo “sforamento”
della barriera dei due anni.
Ma se, al di fuori di questi casi, non si
vede per quale ragione l’imputato dovrebbe chiedere l’applicazione di una anche
consistente pena detentiva, che sarebbe in
breve tempo chiamato a scontare, senza
poter accedere agli altri benefici tradizionali del rito, ora riservati esclusivamente al
patteggiamento “minor”, va osservato che
la prassi insegna come le fattispecie sopra
individuate già trovavano adeguata composizione nell’accesso al rito abbreviato.
In altri termini, il risultato principale
che la riforma sembra in grado di produrre
è quello di provocare un “travaso” da un
rito alternativo all’altro (dall’abbreviato al
patteggiamento), con effetti affatto neutri
sul numero dei procedimenti che approdano alla fase dibattimentale in primo grado,
ed, eventualmente, apportando un sollievo
soltanto ai carichi delle Corti d’Appello.
In definitiva, sorge spontaneo chiedersi
se l’unico “valore aggiunto” rinvenibile
nella legge 134/03 non sia rappresentato
dalla previsione di una generalizzata restituzione in termini per la proposizione della
richiesta di patteggiamento e dalla
sospensione dei dibattimenti (minimo 45
giorni, a richiesta dell’imputato), operate
dalla norma transitoria dell’art. 5!
Il patteggiamento “allargato”
e le esclusioni oggettive
e soggettive (art. 1)
Il nuovo comma 1-bis aggiunto dalla
novella all’art.444 cpp prevede due cause,
una oggettiva e l’altra soggettiva, di esclusione dal patteggiamento della pena
detentiva superiore ai due anni.
La disposizione preclude l’accesso
all’applicazione di una pena superiore a
tale limite quando si procede per i delitti
previsti dall’art.51,commi 3-bis e 3-quater cioè per quelli di criminalità organizzata e
di terrorismo -, nonché a coloro che sono
stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, ovvero recidivi, nell’ipotesi della recidiva reiterata di cui
all’art. 99, 4° co. c.p..
Quindi, qualora ricorrano le fattispecie
testé elencate, la situazione normativa
rimane identica a quella passata, traducendosi la prevista esclusione nell’impossibilità di fruire dell’innalzamento a cinque
anni del tetto di pena detentiva raggiungibile col patteggiamento, ma non nel divie-
to di accedere al patteggiamento contenuto entro i limiti di pena originariamente
previsti dal codice di rito.
La formula utilizzata dal legislatore
(“sono stati dichiarati”) suggerisce, peraltro, che la preclusione “soggettiva” non si
estenda ai procedimenti nei confronti di
coloro che dovrebbero essere dichiarati
delinquenti abituali, professionali e per
tendenza, o recidivi in occasione dell’applicazione della pena richiesta ai sensi anche
del nuovo testo dell’art. 444, 1° co. c.p.p.,
bensì soltanto a quelli nei cui confronti le
summenzionate dichiarazioni siano state
adottate in una precedente sentenza.
Le esclusioni sono ancorate ad una
ritenuta maggior gravità di talune classi di
reati ed alla dichiarata pericolosità di talune tipologie di delinquenti.
Le esclusioni “soggettive” vanno ad
aggiungersi agli altri effetti “negativi” collegati alle dichiarazioni di delinquenza qualificata o alla recidiva già contemplati dall’ordinamento penale, quali: l’inapplicabilità dell’amnistia e dell’indulto, l’inammissibilità della oblazione delle contravvenzioni punite con pena alternativa, la non concedibilità della sospensione condizionale
della pena e del perdono giudiziale, il raddoppio dei termini per la riabilitazione.
Le esclusioni “oggettive” s’inseriscono,
invece, nel cd. “doppio binario” processuale, riservato a quei procedimenti che abbiano ad oggetto reati considerati “ipso iure”
di elevatissimo allarme sociale, e che contempla una disciplina differenziata e meno
garantita in materia di segretazione delle
iscrizioni nel registro ex art.335 cpp, di
intercettazioni telefoniche, di durata delle
indagini preliminari, di loro proroga, ecc.
Entrambe le cause di esclusione, peraltro, suscitano qualche perplessità in ordine
alla loro compatibilità con i principi costituzionali, quanto meno sotto il profilo della
razionalità che giustificherebbe le discriminazioni introdotte, rappresentando una
novità l’impedimento dello accesso ad un
rito alternativo in ragione della dichiarata
pericolosità dell’imputato o della gravità
del reato contestato.
Mal si comprende perché l’esclusione
non riguardi l’accesso al patteggiamento
“tout court”, ma soltanto a quello “allargato”, dovendo valere in ogni caso la qualificazione di legittima causa di esclusione dal
rito della ritenuta maggior gravità di alcuni
reati, attesa la valutazione compiuta dal
legislatore in astratto, cioè per categorie di
reati.
Né l’obiezione, che proprio la maggiore
entità della pena che dovrebbe essere
applicata in concreto legittimerebbe la
scelta legislativa, presenta pregio, trascurando la possibilità, per l’imputato per quei
reati, di raggiungere – comunque sfruttando una diminuente processuale – la stessa
pena che avrebbe richiesto di patteggiare,
attraverso il rito abbreviato, cui coerenza
imporrebbe gli venisse ugualmente impedito di accedere.
Ma ancor più irrazionale sembra la possibilità per l’imputato, la cui pericolosità
sia stata certificata da una dichiarazione di
delinquenza qualificata o dal riconoscimento della recidiva reiterata, di accedere
comunque al patteggiamento “minore” e
non a quello “allargato”, atteso che la
minore entità della pena applicata in concreto non scalfisce la pregressa affermazione di tale pericolosità, che anzi viene
confermata dal fatto oggettivo che comunque egli ha nuovamente violato la legge
penale, commettendo un ulteriore reato,
per cui chiede la applicazione della pena.
Inoltre, atteso che le situazioni di delinquenza qualificata e la recidiva, per essere
riconosciute, vanno previamente contestate dal pubblico ministero, si manifesta un
ulteriore profilo di potenziale disparità in
dipendenza del comportamento tenuto dall’organo dell’accusa, potendo questi consentire all’imputato il futuro accesso al
patteggiamento “allargato” semplicemente non contestando la recidiva, benché
sussistente, senza dover nemmeno dar
conto dei motivi della sua scelta.
Sotto altro profilo, l’adozione di una
disciplina processuale differenziata per i
procedimenti aventi ad oggetto i reati di
criminalità organizzata e di terrorismo si è
sempre giustificata in ragione della sua
funzionalità alla garanzia dell’effettività
delle indagini e dei processi che li riguardano, alla luce del peculiare contesto in cui
tali reati vengono consumati.
L’esclusione del patteggiamento, seppure solo nella sua forma “allargata”, sembra invece assumere un carattere quasi
“punitivo” e funzionale soltanto ad esigenze di rassicurazione della opinione pubblica
(del tipo: con gli autori di certi reati lo
Stato non scende a patti), tanto più che
colui che è imputato di questi reati rinunzia
alla celebrazione del dibattimento ed
11
accetta l’applicazione di una pena, anche
rilevante, con conseguente risparmio di
energie processuali, né più né meno che
ogni altro imputato, rinunziando, cioè, a
molto più di quello cui deve rinunziare per
raggiungere lo stesso livello di pena attraverso il giudizio abbreviato.
Ma, a parte la perplessità che la norma
suscita sul piano della sua legittimità
costituzionale, essa genera non pochi problemi sul piano applicativo, dovendocisi
chiedere cosa accadrà quando un imputato
che abbia patteggiato una prima volta una
pena di tre anni, per un reato non ricompreso nel catalogo del comma 1-bis dell’art. 444 c.p.p., chieda successivamente
l’applicazione di un’altra pena di alcuni
mesi, come aumento per la continuazione
su quella precedentemente riportata, ma in
relazione ad un reato che, seppur meno
grave, rientra tra quelli per cui è precluso il
rito nella forma “allargata”.
Ed in termini altrettanto problematici si
presenta il caso inverso, dove il primo patteggiamento , contenuto inevitabilmente
entro i due anni, sia stato concesso per un
reato di criminalità organizzata o di terrorismo, e a dover essere patteggiato in continuazione sia un reato “comune”, ponendo,
in entrambi i casi, lo “sforamento” dell’entità della pena complessiva nella fascia
“protetta”, un problema di ammissibilità
dell’accesso al secondo patteggiamento
che non si presenta di facile soluzione, evidenziando quanto poco saggio sia stato
introdurre nel sistema processuale questo
elemento di rigidità.
La legge 134/03 apre effettivamente
nuovi orizzonti al patteggiamento, ma a
quello “minor”, determinando, l’innalzamento dei limiti edittali delle pene che
possono essere sostituite ai sensi degli
artt. 53 ss. L. 689/81, ad opera dell’art. 4
della novella, un inevitabile aumento delle
richieste ex art. 444 c.p.p., soprattutto nei
casi in cui la sanzione possa essere contenuta entro i sei mesi di pena detentiva e,
dunque, sostituita con quella pecuniaria.
È ragionevole attendersi un incremento
delle richieste di patteggiamento per pene
detentive contenute entro i limiti di accesso ai benefici previsti dall’ordinamento
penitenziario, e sarebbe stato opportuno,
per una migliore razionalizzazione del
sistema, far coincidere i reati per i quali il
patteggiamento “allargato” è escluso con
quelli per i quali non può essere disposta
12
la sospensione dell’esecuzione ex art.
656,5° co. c.p.p..
Questo secondo catalogo di reati, desumibile dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, esplicitamente richiamato dall’art. 656,9°co. cpp, è più ampio, con la
conseguenza che, in relazione a tali reati,
l’eventuale accesso al patteggiamento
“allargato” non potrebbe essere assistito
dall’eventuale sospensione dell’esecuzione
della pena.
Infine, il legislatore non ha “allargato”
il patteggiamento nella fase esecutiva,
essendo rimasto inalterato l’art. 188 disp.
att. c.p.p., il quale prevede che, nel caso di
più sentenze di patteggiamento pronunciate in procedimenti separati, il condannato
ed il pubblico ministero possono chiedere
al giudice dell’esecuzione l’applicazione
del reato continuato “quando concordano
sull’entità della sanzione sostitutiva o della
pena, sempre che quest’ultima non superi
complessivamente due anni di reclusione o
di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria”.
Non essendo chiaro se si sia trattato di
scelta consapevole o mera dimenticanza,
non essendo percepibili le ragioni della
prima, atteso che l’allargamento del patteggiamento potrebbe essere, negli stessi
casi, ammissibile nella fase di cognizione,
s’insinua il dubbio di una sopravvenuta
incompatibilità della citata disposizione di
attuazione con i principi affermati dall’art.
3 Cost.
Gli incentivi non applicabili
al patteggiamento “allargato”
(articolo 2)
Il menu degli incentivi del patteggiamento, diversi dalla diminuzione di pena, è
contenuto nell’art. 445 c.p.p., cui l’art. 2
della legge in esame ha apportato significative modifiche, quali la risistemazione e
suddivisione nei nuovi commi 1 ed 1-bis
del precedente comma 1, precisando, il
nuovo comma 1, che i “benefits” rappresentati dall’esonero delle spese processuali e dall’applicazione di pene accessorie
e di misure di sicurezza detentive conseguono solo alla sentenza che applichi una
pena detentiva non superiore a due anni
“soli o congiunti a pena pecuniaria”, sotto
questo profilo, rimanendo tutto come in
passato.
L’indagato o imputato che accederà al
patteggiamento “allargato” dovrà, invece,
essere condannato al pagamento delle
spese del procedimento e si vedrà applicare, sussistendone i presupposti e senza
necessità di accordo, pene accessorie e
misure di sicurezza, dovendosi, ciò, verificare anche nel caso di una sentenza che si
limiti ad applicare, su richiesta, aumenti di
pena detentiva per i reati “satellite” di
un’accertata continuazione: si pensi al
caso in cui, con una prima sentenza di patteggiamento, sia stata applicata all’indagato o imputato la pena detentiva di due
anni e, di conseguenza, non sia stata pronunciata la condanna al pagamento delle
spese di procedimento, né siano state
applicate pene accessorie o misure di sicurezza. Se, con una seconda sentenza, si
applica al medesimo imputato o indagato,
per un reato in continuazione, un aumento
di pena detentiva comportante il superamento del limite dei due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, il giudice, con
questa seconda sentenza, dovrà condannarlo al pagamento delle spese anche del
primo procedimento e, se del caso, applicargli, anche in relazione al primo procedimento, pene accessorie e misure di sicurezza.
Le novità del comma 1 dell’art. 445
c.p.p. si estendono alla confisca, affermando, la nuova disposizione, che con la sentenza di patteggiamento va disposta la
confisca “nei casi previsti dall’art. 240
c.p.”, mentre il precedente comma 1 prevedeva che con la sentenza di patteggiamento potesse essere disposta la confisca nei
soli casi previsti dall’art. 240, 2° co. c p.
È venuto meno, dunque, il richiamo al
secondo comma della disposizione anzidetta, che limitava non poco le potenzialità
applicative del rito negoziale: richiamare il
secondo comma dell’art. 240 c.p., infatti,
voleva dire dare spazio alla sola confisca
obbligatoria, cioè a quella delle cose che
costituiscono il prezzo del reato e di quelle,
la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce
reato.
Ed era proprio questa limitazione ad
indurre il legislatore a dettare, col passare
del tempo, disposizioni che derogavano
alla restrizione, prevedendo espressamente la possibilità di ordinare la confisca con
la sentenza di patteggiamento.
Essendo venute meno le anzidette limitazioni, col richiamo dell’intero art. 240
c.p., quindi anche delle ipotesi di confisca
“facoltativa” delle cose che servirono o
furono destinate a commettere il reato e di
quelle che ne sono il profitto o il prezzo,
ora può essere disposta la confisca “facoltativa” anche se la pena detentiva patteggiata non supera i due anni.
Infine, va ricordato che l’applicazione
della misura di sicurezza patrimoniale,
anche quando facoltativa, non può essere
oggetto di trattativa ed accordo tra le parti,
né quest’ultimo può essere condizionato
alla sua mancata adozione (rimessa all’esclusiva valutazione del giudice).
L’ultima parte del precedente comma 1
dell’art. 445 c.p.p. è ora confluita, senza
modificazioni, nel nuovo comma 1-bis, il
quale prevede che la sentenza di patteggiamento, anche quando pronunciata dopo
la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi,
essendo rimasta inalterata la previsione
secondo cui la sentenza di patteggiamento, salve diverse disposizioni di legge, è
semplicemente “equiparata” ad una pronuncia di condanna, della cui natura non
partecipa.
È tuttora fatta salva la previsione dell’art. 653 c.p.p., segnatamente del comma
1-bis, secondo il quale la sentenza penale
irrevocabile di condanna ha efficacia di
giudicato nel giudizio di responsabilità
disciplinare davanti alle pubbliche autorità
quanto all’accertamento della sussistenza
del fatto della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato l’ha commesso.
La riforma è intervenuta anche sul
comma 2 dell’art. 445 cpp, contemplante la
peculiare causa di estinzione del reato collegata alla condotta tenuta dall’imputato
dopo la pronuncia della sentenza di patteggiamento.
Il 2° comma è stato modificato per precisare che l’ambito applicativo della causa
estintiva concerne soltanto la sentenza di
patteggiamento con la quale sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a
due anni, essendo, l’intervento legislativo,
finalizzato a far sì che questo peculiare
beneficio non si estenda al patteggiamento “allargato”, cui, di riflesso, non si estendono le disposizioni secondo le quali i
provvedimenti previsti dall’art. 445 c.p.p.
non sono riportati nei certificati, generale e
penale, del casellario giudiziale e nel certificato dei carichi pendenti richiesti dall’interessato.
L’estensione della revisione
alla sentenza di patteggiamento
(articolo 3)
L’art. 3 della legge, modificando il
comma 1 dell’art. 629 c.p.p., estende alle
sentenze di patteggiamento l’istituto della
revisione, risolvendo, la novella, il contrasto
esistente tra dottrina e giurisprudenza sull’estensione del rimedio straordinario anche
alle sentenze ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
La prima, infatti, è da sempre schierata
per l’ammissibilità della revisione anche
nel caso dell’applicazione della pena su
richiesta dell’imputato, al più distinguendo
tra l’ipotesi in cui la richiesta di revisione si
fondi sulla scoperta di elementi probatori
inediti soltanto dopo la pronunzia della sentenza e quella in cui, invece, venga proposta con riguardo a fatti già conosciuti dall’imputato ed alla cui introduzione aveva
rinunziato optando per il rito alternativo.
La giurisprudenza – che pure aveva inizialmente considerato ammissibile la revisione delle pronunzie di patteggiamento,
ancorché sulla base della loro ritenuta
natura di sentenze di condanna – si è,
invece, allineata sulle posizioni espresse
dalle Sezioni Unite, per cui proprio in ragione della non equiparabilità della sentenza
di patteggiamento ad una pronunzia di
condanna, non sarebbe possibile chiederne
la revisione.
La modifica apportata dall’art. 3 legge
134/03 pone termine al contrasto interpretativo, rendendo ammissibile, senza alcun
limite, la revisione delle sentenze pronunziate ex art. 444 c.p.p..
Peraltro, l’inciso innestato nel testo del
1° comma dell’art. 629 c.p.p. (“o delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444,
2°comma”), dopo le parole “la revisione
delle sentenze di condanna o dei decreti
penali di condanna”, sembra assumere
rilevanza ben oltre il ristretto ambito dello
istituto della revisione, evidenziando, il
ricorso alla particella disgiuntiva “o” e la
stessa volontà del legislatore di considerare in maniera autonoma, nell’ambito della
disposizione, le sentenze di patteggiamento, un’implicita adesione alla posizione,
ormai prevalente nella giurisprudenza di
legittimità, secondo cui tali sentenze non
sono assimilabili a quelle di condanna.
Affermazione che trova conforto nell’evoluzione compiuta dal testo normativo nei
diversi passaggi parlamentari, durante i
quali è stata progressivamente eliminata
l’originaria impostazione di attribuire efficacia nel processo civile ed amministrativo
alla sentenza di patteggiamento, quanto
meno con riguardo al profilo dell’accertamento del fatto e della sua attribuibilità
all’imputato.
Se la novella avesse presentato effettivamente questa norma sarebbe stato sempre più difficile negare l’assimilabilità della
suddetta sentenza a quella di condanna,
giacché per legge lo accertamento in essa
contenuto veniva considerato esaustivo in
punto di sussistenza del fatto contestato e
di colpevolezza dell’imputato.
SONIA BOVA
Il collega avv. Francesco Giordano,
già Commissario di Polizia dal 1958
al 1972 e poi Questore, ha pubblicato nel novembre scorso il romanzo
che sarebbe riduttivo definire giallo
“Delitto alla Rocca di Parè”, peraltro luogo incantevole dove qualche
altro nostro collega ha la fortuna di
risiedere.
In questo luogo, incastonato tra i
colori del lago, dei monti e del
cielo, ad un passo dal Paradiso, è
ambientato il romanzo tratto “da
fatti realmente accaduti” nell’anno
1966 che cattura il lettore per la
fitta trama degli eventi, raccontati
dal Commissario che professionalmente è stato un attore della triste
vicenda umana rivissuta nel libro.
Il racconto si rivela non una fredda
trasposizione di fatti rivissuti in termini burocratici; ma il racconto è
“colorato” di quanto necessario per
farlo piacere a chi dal linguaggio
investigativo non è attratto o a chi
come noi per professione ne ha
dimestichezza ma smessi gli abiti di
lavoro vuole pensare ad altro…
ammesso che ciò sia possibile!
“Dottore, è scomparso Zampaglione!” è l’inizio del libro… la fine
scopritela voi.
RENATO COGLIATI
13
Tre miliardi di battiti
Caro Cogliati,
forse un anno fa, scrissi quello che trovi
allegato a questa lettera. Lo so bene, non è
roba da “Toga Lecchese”, ma l’avevo scritta
pensando alla tua cortese domanda “Non mi
dai niente da pubblicare?”. Ora, se il prodotto
è quello che è, te lo mando tuttavia, almeno
per dimostrare la mia buona volontà e la mia
attenzione alle tue richieste.
Insomma, piuttosto che buttarla via io
(povera creatura, ma sempre creatura...),
lascio a te di buttarla via.
L’idea di questa specie di autobiografia
m’è venuta quando ho calcolato che il mio
cuore, ma gli altri non sono diversi, aveva battuto, da quando sono nato, più di tre miliardi
di volte, un numero che mi fa impressionare
(e, aggiornando e correggendo il calcolo, mi
sto avvicinando ai 3 miliardi e mezzo). Adesso
comincia a essere un po’ stanco.
Mi piacerebbe leggere “Toga Lecchese”,
che sarebbe l’unico legame residuo (in pratica) col mondo che è stato il mio per più di 53
anni. Non si può, pagando una specie di
abbonamento, riceverla?
Non ti annoio di più. Cordialmente
ARMANDO PANZERI
Cominciò al solito modo, tenuto per i
piedi dalla signora Rosa levatrice, con uno
strillo che annunciava l’avvento della ventilazione polmonare e la mia autonomia cardiocircolatoria.
Quando avevo quattro e cinque anni mio
padre mi mandava a prendere il giornale
all’edicola (tale anche di forma), davanti al
museo, per antonomasia, quello di Palazzo
Belgioioso, opera insigne del tassidermista
rag. Carlo Vercelloni (degli animali impagliati
mi impressionava la silenziosa fissità). I vicini
di casa ricordarono a lungo, sulla “risciulada”
di Via Garibaldi (così si chiamava al tempo la
strada dove nacqui, poi ribattezzata - sorte
maligna - via Mentana) un “Corriere della
sera” dispiegato dal quale spuntavano due
manine e le punte delle scarpe: tutto il resto
di me dietro la grande vela latina del foglio,
che ovviamente non sapevo leggere ma di cui
mi incuriosivano e mi affascinavano tutti quei
segni neri ben allineati.
Dopo quel primo battito a testa in giù, ce
ne furono tanti altri, qualcuno più forte, come
ad esempio per la scoperta del sesso, di cui
nessuno mi aveva mai parlato perché così
usava allora. O come nel 1944 quando fuggivo dalla chiamata “ai lavori agricoli leggeri”
in Germania per quelli del primo semestre
1926; fuggivo in bicicletta con un cugino
prete verso Varenna, quando fummo fermati
da un autocarro di “repubblichini” a mitra
puntati perché - dissero - qualcuno gli aveva
sparato poco prima.
Io avevo la carta d’identità falsificata con
la scolorina che aveva fatto un alone intorno
14
al “7” che aveva sostituito il “6”. Ma l’aspetto certamente non bellicoso di un prete e di
un ragazzotto su biciclette da donna tranquillizzò i militi e noi potemmo proseguire il
nostro viaggio attraversando il lago su una
barchetta a remi con le biciclette coricate di
traverso e debordanti. Indi, il percorso della
Valmenaggio fino a Porlezza, e infine a
Tavordo, dove c’era il Collegio Arcivescovile
S. Ambrogio, che era la nostra meta. Un’oasi
di pace specie in quell’estate di guerra, sicché il collegio ospitava soltanto alcuni sacerdoti e una mezza dozzina di ragazzi, ovviamente più giovani di me.
Ma dopo qualche settimana, l’oasi di
pace fu requisito dalla X MAS, e io diedi
lezioni di italiano e matematica a un militare
che si preparava per non so quale esame
(cosa facessero lì quelli della X Mas non lo so
proprio, salvo che fosse per una specie di
vacanza; venne in visita l’attore Osvaldo
Valenti, in divisa anche lui, e una notte ci vennero addirittura i partigiani, che portarono via
senza colpo ferire quel poco di armi e vettovaglie che i soldati avevano: fu una cosa
molto tranquilla, io lo seppi il mattino dopo, e
ripensandoci m’è venuto il sospetto che la
incursione fosse in qualche modo combinata).
Sta di fatto che il Collegio Arcivescovile
di Tavordo per me non era più né un’oasi di
pace né un rifugio sicuro sicché convenne
riprendere la strada di Lecco per uno scampo
meno avventuroso: quale sia stato in verità,
non sto a dire.
Arrivato il 25 aprile, e entrati in Lecco gli
Americani, accolti da una gran follaesultante,
per me si presentava il problema dell’Università. L’anno prima mi ero iscritto a giurisprudenza alla Cattolica, ma di frequentare non se
ne parlava nemmeno. I pochissimi treni erano
composti di carri bestiame, ed erano presi
d’assalto mentre erano ancora in movimento
verso la stazione. Sporadiche lezioni, esami
pochissimi. Per concludere nel quadriennio,
decidemmo in famiglia che dovevo restare
fisso a Milano, e così verso la fine del 1947,
insieme a un amico che tentava medicina,
presi una camera in Via Fratelli Bronzetti
(famiglia Aprile): portavamo da casa cibi cotti
e riso che lessavamo di nascosto su un fornelletto elettrico con spirale incandescente a
vista, scolatura nel water tra pentoletta e
coperchio; qualche volta un pasto in trattoria.
Fu così che a novembre 1948 mi laureai
con una tesi sulle attenuanti generiche, centoventi pagine dattiloscritte senza una ribattitura da mia sorella Amelia.
Anche quella fu una occasione di gran
batticuore, come lo furono nel 1951/52 (gli
scritti, e poi gli orali) gli esami di procuratore
legale. Nel frattempo avevo fatto pratica
negli studi dell’avv. Vincenzo Condò e dell’avv. Franco Calvetti: due Maestri cui devo
molto del poco che feci come professionista.
Dall’avv. Calvetti (che aveva studio in via
Cavour assieme all’avv. Gianni Discacciati e
al dott. Ugo Merlini commercialista) vedevo
una ragazzetta sveglia coi capelli scuri che
teneva la contabilità per i clienti del dott.
Merlini. Non lo capii subito, ma quella era la
donna della mia vita, e mi diede tanti tuffi al
cuore, tante tachicardie, prima e dopo il
matrimonio, perché nel 1958 ci sposammo, e
mi sta accanto ancora adesso con inesauribili
tesori d’amore. Sia benedetta.
Misi su studio molto presto, col dott.
Alessandro Rusconi commercialista e poi
anche Sindaco di Lecco, al n. 1 di via Cavour
con targa in strada “DOTT. ARMANDO PANZERI PROCURATORE LEGALE”.
Nei primi tempi, per la verità, lavoro ce
n’era poco e la seconda parte del pomeriggio
era dedicata al tresette a scarto (“secondo le
regole di Ghitarella”) al Caffè Colonne, col
Pretore Monetti, i Cancellieri Caputo e
Zuppardo, e il padre dell’avv. Giorgio Tonetti
che era usciere alla sede della Banca d’Italia
in Piazza Garibaldi.
Col passare degli anni il lavoro aumentò,
ma continuai a ringraziare il cielo ogni volta
che dalla porta entrava un nuovo cliente.
Sussulti di cuore ne ebbi molti ancora, perché
nei primi anni facevo molto penale e il dibattimento mi emozionava sempre. Di penale ne
feci molto anche come vice Pretore onorario
(per 27 anni e mezzo); ma, e non posso dire
che fu una mia scelta, mi ritrovai via via a
essere sempre più un civilista (il penale lo
abbandonai definitivamente quando cambiò il
codice di procedura).
Nemmeno a fare il civilista cessarono i
sussulti del cuore perché insieme a quella
poca scienza che mi andavo procurando e a
una innata serietà (che forse fu qualche volta
male interpretata) ci misi sempre la partecipazione affettiva e la cura della forma, attento però a non confondere il mio contributo
professionale con le soggettive convinzioni
del cliente.
Ho sempre fermamente creduto che il
primo dogma dell’etica professionale sia l’assoluta fedeltà al cliente (fino al punto di congedarlo quando fosse necessario a salvaguardia della mia onestà mentale e morale) evitando però con altrettanto rigore di diventare
un semplice, ottuso, o cinico, strumento meccanico.
E così, da uomo senza qualità (tante
scuse a Musil) ho dato volta a cinquantatrè
anni di avvocatura, e - questa volta per mia
meditata decisione - ho cessato l’attività professionale.
Mi piacerebbe, dopo tre miliardi e più di
battiti del mio cuore, poter ripetere per me la
frase con cui S. Paolo riassume la sua vita:
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.
Circolare per i praticanti avvocati
Regolamento della pratica forense (D.P.R. 10.04.1990 n. 101)
In applicazione del provvedimento normativo di cui all’oggetto ed ai fini dello svolgimento della pratica forense, all’atto dell’iscrizione viene distribuito ai praticanti avvocati un
libretto di pratica professionale.
Tale libretto è diviso per periodi semestrali
di pratica, ed ogni semestre comprende le
seguenti sezioni:
- Udienze: dovranno esserne indicate almeno
venti e non più di tre per ogni giorno, precisando l’Ufficio giudiziario, il nome del
Giudice, il numero di R.G. e le parti. Dovrà
inoltre essere specificata l’attività svolta nell’udienza (e non l’incombente per cui viene
disposto il rinvio ad altra data); non sono
considerate valide le udienze in cui è stato
disposto un mero rinvio della causa; potranno essere annotate tutte le udienze avanti
qualsivoglia organo giurisdizionale (ivi comprese le Commissioni Tributarie);
- Atti giudiziali o attività stragiudiziali: dovranno essere riportati almeno dieci atti, precisando l’oggetto della causa o dell’attività a
cui lo stesso inerisce e il tipo di atto giudiziale o stragiudiziale redatto dal praticante; a
differenza della parte riservata alle udienze,
non è necessario indicare i nomi delle parti
in causa.
- Questione giuridica: dovrà essere trattata
illustrando brevemente il fatto preso in
esame e le problematiche giuridiche sottese
alla fattispecie, con possibili riferimenti alla
giurisprudenza in materia.
(Tale esercizio potrà essere d’aiuto al praticante anche in vista della redazione delle
prove d’esame, quindi si consiglia di scriverlo
di proprio pugno, cercando di renderlo leggibile anche per quanto riguarda la grafia, che
risulterà in quella sede non meno importante
dei contenuti).
Il libretto, compilato e completato con la
certificazione di veridicità delle sue risultanze
da parte dell’avvocato, presso lo studio del
quale è svolta la pratica, dovrà poi essere
depositato presso il Consiglio al termine di
ogni semestre.
Il Consiglio ha la facoltà, che si riserva di
esercitare in sede di verifica semestrale, di
procedere con ogni mezzo all’accertamento
della veridicità di quanto risultante dal libretto,
per cui preme far osservare la responsabilità
per attestazioni non veritiere, sia del praticante che dell’avvocato, il quale abbia rilasciato
l’attestazione di cui al precedente capoverso.
Compiuta la verifica e gli eventuali accertamenti, il Consiglio restituirà il libretto, dopo
avervi apposto il proprio visto.
Per opportuno controllo dell’esercizio
della pratica professionale, la certificazione
della partecipazione all’udienza richiederà
due formalità:
a) la regolare tenuta del libretto con l’indicazione delle udienze cui il praticante ha partecipato;
b) l’indicazione, nel verbale dell’udienza, della
partecipazione del praticante unitamente
all’indicazione del nominativo del dominus
o del sostituto di questi; la produzione, in
allegato al libretto, di copia semplice del
relativo verbale è richiesta solo per le
udienze effettuate fuori dal circondario del
Tribunale. L’Ordine effettuerà verifiche a
campione circa la corrispondenza tra quanto risultante dal libretto e quanto risultante
dai verbali di udienza. Tale controllo non
verrà effettuato qualora si alleghi al libretto
fotocopia semplice del verbale di udienza o
venga apposto sullo stesso libretto un visto
attestante la presenza all’udienza da parte
di un Consigliere.
Al termine del primo anno di pratica il praticante avvocato dovrà depositare, in allegato
al libretto, una separata relazione che illustri
le attività prevalenti svolte e le questioni,
anche di natura deontologica, affrontate nel
relativo periodo.
Di concerto con gli altri Ordini della
Lombardia, il nostro Consiglio dell’Ordine ha
fatto proprio l’intento volto ad un controllo
effettivo e più rigoroso dello svolgimento della
pratica forense. A tal fine, al compimento del
primo e del secondo anno di pratica, il praticante verrà convocato dal Consiglio dell’Ordine per un colloquio atto a verificare l’effettività e la proficuità della pratica svolta.
Nel caso in tale sede emergessero dubbi
sull’effettività o sulla proficuità della pratica
certificata, il praticante, unitamente al proprio
dominus, verranno convocati avanti al Consiglio dell’Ordine, per un ulteriore colloquio.
Al termine del periodo di due anni dall’iscrizione nel Registro dei Praticanti, dopo il
predetto colloquio, il Praticante potrà richiedere il certificato di compiuta pratica, che verrà
rilasciato dall’Ordine, la cui territorialità determinerà la Corte d’Appello ove dovrà essere
sostenuto l’esame di Stato per l’accesso alla
professione di avvocato.
I praticanti avvocati i quali, una volta abilitati all’esercizio del patrocinio, intendano
svolgere o continuare a svolgere la pratica al
di fuori dello studio dell’avvocato, dovranno:
a) comunicare al Consiglio tale loro intenzione;
b) tenere e compilare come sopra il libretto,
omessa la certificazione dell’avvocato, ed
esibirlo al Consiglio al termine di ogni
semestre;
c) trattare almeno 25 nuovi procedimenti
all’anno, di cui o almeno 5 procedimenti
penali quali difensori di fiducia o almeno 5
cause civili di cognizione.
In tal caso si ricorda che questo Consiglio
raccomanda al praticante avvocato di prestare
attenzione nella scelta e nella tipologia della
carta intestata e della targa che segnala lo
studio professionale. Si ricorda in particolare
che i termini e i caratteri di stampa utilizzati
non devono ingenerare confusione nel pubblico rispetto alla effettiva qualifica del professionista, nè il praticante potrà utilizzare la
denominazione di “Studio legale”, riservata al
professionista iscritto all’Albo Professionale. Il
Consiglio dell’Ordine è disponibile ad esaminare e chiarire eventuali dubbi in merito.
Il Consiglio, inoltre, ha deliberato di aderire all’indirizzo della sentenza della Corte di
Cassazione a sezioni unite n. 13863 del
4/7/1991, non permettendo che l’esercizio
della pratica professionale possa essere esercitato al di fuori della circondario del Tribunale. (Tale sentenza, nel prendere in esame un
ricorso avverso il diniego all’iscrizione di un
praticante avvocato che intendeva svolgere la
pratica presso un avvocato avente studio nel
circondario di altro Tribunale, ha affermato il
principio che la pratica professionale può
essere esercitata solo nel medesimo mandamento del Tribunale presso cui il praticante
risulti iscritto, onde permettere un effettivo
controllo sullo svolgimento della pratica).
Quindi sarà consentita l’iscrizione nel Registro
dei praticanti avvocati esclusivamente a coloro che abbiano a svolgere la pratica professionale nello studio di un avvocato iscritto presso
l’Ordine Avvocati di Lecco e avente studio nel
circondario del medesimo Tribunale. A tal fine
verranno effettuati colloqui di controllo, uno
alla scadenza del primo anno di pratica e
prima del rilascio dell’abilitazione, e l’altro
alla scadenza del secondo anno e prima del
rilascio del certificato di compiuta pratica.
Il Consiglio, con riferimento ai colloqui di
controllo sulla effettività e diligenza della pratica forense, ha deliberato che, in caso di
esito negativo del colloquio precedente la certificazione di compiuta pratica, potrà riservarsi
la facoltà di denegare il rilascio del certificato
stesso. Quando l’esito negativo riguardi il colloquio al termine del primo anno, verrà inviato
al praticante e al suo dominus un avvertimento scritto, con l’invito ad una maggiore diligenza. Restano salve diverse e più gravi sanzioni
ove si accertasse la non veridicità circa la
dichiarazione sull’attività svolta.
Per ogni ulteriore chiarimento il sottoscritto e il consigliere Scurria sono a Vostra disposizione.
Lecco, 12 dicembre 2003
Il Presidente
MARCO ROSSI
15
Piccolo memorandum
per il “migliore dei mondi forensi possibili”
“Niente è umiliante
se alla base c’è il rispetto”
PREAMBOLO
L’idea di questo “breve ma intenso” memorandum è nata dagli incontri e discussioni attorno al tavolo di
un bar tra alcuni giovani praticanti
avvocati, pieni di speranze, entusiasmo e voglia di cambiare il mondo
attraverso la propria professione e i
propri sogni.
Giovani praticanti che, usciti dal
mondo dell’Università, si sono trovati
catapultati in una realtà all’inizio
incomprensibile e spesso non corrispondente ai sogni cullati durante il
periodo universitario.
Alcuni di noi si sono sentiti persi e
hanno deciso di mollare….altri continuano ad esercitare la professione
come automi e senza più passioni….altri ancora si trovano a svolgere mansioni meramente impiegatizie
e non è dato loro conoscere il vero
significato della professione.
Ebbene, questo vademecum è
indirizzato soprattutto ai praticanti
(ma anche agli avvocati), che in fondo
sognano ancora, nel loro piccolo, di
sentire viva dentro sé la consapevolezza di esercitare una professione
che è arte, dialettica e soprattutto
strumento di affermazione di valori
umani.
Abbiamo, quindi, pensato ai giovani neo laureati smarriti che per la
prima volta si trovano a confrontarsi
con uffici, cancellerie, voluminosi
16
fascicoli da consultare, i quali, magari, travolti da scadenze e atti da redigere, dimenticano la bellezza della
professione che hanno scelto.
Ai praticanti che già esercitano,
da più o meno tempo, forse senza più
coscienza di farlo per passione, ma
solamente come mero impiego lavorativo; speriamo che leggendo questo
memorandum ricordino che stanno
costruendo, passo dopo passo, un
percorso che, seppur faticoso, sarà
poi costellato di soddisfazioni per sé
e per gli altri.
E infine abbiano redatto il presente
memorandum nella speranza che
possa essere letto anche dai Domini,
dimentichi talvolta delle difficoltà
attraversate e dei problemi incontrati
durante la pratica professionale: il loro
lavoro e il loro comportamento deve
essere riflesso e trasparenza di professionalità e umanità tali da trasmettere ai praticanti la passione e l’orgoglio di appartenere al mondo legale.
Da ultimo, ci auguriamo che i problemi e le difficoltà, nei quali ciascuno, come è naturale, si imbatterà, non
siano fonte di vergogna e di chiusura,
ma siano, invece, motivo di condivisione per maturare come singoli e per
creare complicità e solidarietà all’interno della categoria del praticante.
ANPA – Sez. di Lecco
(Associazione nazionale
praticanti e avvocati)
Dott. Raffaele Cherchi
Dott. Lorenzo Della Bella
Dott.ssa Chiara Scavelli
Dott. Stefano Sironi
“ ….ogni slancio è cieco
fino a quando non è sapere,
ed ogni sapere è vano
fino a quando non è lavoro,
e ogni lavoro è vuoto
tranne fuorché quando è amore...”
K. Gibran
Scopo principale della pratica forense è imparare la professione con la
dedizione e la passione propria dell’esercizio di un’arte.
***
L’attività professionale del praticante
si svolge alle dipendenze di un dominus, il quale è colui che ha il dovere
di rispettarlo come persona e come
professionista.
Compito del dominus è di istruire
adeguatamente il praticante, di sottoporre alla sua attenzione una
gamma completa e variegata di atti e
problematiche giuridiche, di consentirgli la regolare partecipazione alle
udienze e di fornirgli gli strumenti e i
mezzi necessari per espletare tali
compiti in un ambiente professionalmente e umanamente idoneo.
***
Compito del praticante avvocato è di
comprendere che la professione che
intende svolgere è complessa e delicata e deve essere improntata ai principi
di onestà, correttezza e professionalità, consci che comportamenti scorretti possono essere fonte di generalizzazioni negative per la categoria.
***
Apprendere tale professione seriamente significa dedicare ad essa
tempo, sforzi, e dedizione.
E’ proprio durante il periodo di pratica professionale che il praticante
avvocato fonda le basi della propria
preparazione che non può essere
sommaria e sbrigativa.
Ricordiamoci che saremo chiamati
professionisti.
***
Doveri principali del praticante sono:
puntualità, efficienza, disponibilità,
aggiornamento, rispetto
di sé stessi, rispetto del cliente,
rispetto dei colleghi, rispetto del
dominus, rispetto delle regole.
Imperativi morali sono: il rispettare e
il farsi rispettare, la coscienza del
giusto professionale e del giusto
comune, il rispetto dei propri colleghi
e l’essere sempre in credito di favori.
***
Ogni praticante avvocato dovrebbe
impegnarsi quotidianamente affinché
la professione non diventi una sterile
catena di montaggio di pratiche e atti
tese ad un mero guadagno economico, ricordando che dietro ogni foglio
esiste una storia, uomini con problemi e preoccupazioni che confidano
nella nostra professionalità, serietà,
impegno e correttezza
***
E’ fondamentale la creazione di una
coscienza comune, di una voglia di
comunità, di un desiderio di condivi-
sione di fatiche che è più facile
affrontare come categoria, di un’identificazione in problemi comuni
che, tra persone che vivono la medesima esperienza professionale, possono essere compresi e meglio superati.
Spirito di iniziativa e di proposizione
del singolo sono fondamentali per la
crescita dell’interno del gruppo.
Isolarsi nella singola identità del proprio studio professionale impedisce il
confronto costruttivo con le realtà circostanti, limita i propri orizzonti e
impedisce la crescita del singolo così
come del gruppo.
Entriamo a far parte di uno status e
quindi ricordiamoci che verso di esso
abbiamo dei doveri ben precisi.
Ogni praticante ha diritto ad un’equa
retribuzione per l’attività professionale svolta, che non dovrebbe consistere in un mero emolumento simbolico,
ma dovrebbe essere proporzionale
all’apporto lavorativo dato all’interno
dello studio professionale, tenuto
conto della dignità di una persona
che vuole dedicare alla professione
tempo e passione ma non può permettersi, nel frattempo, altre fonti di
reddito.
***
***
Il comportamento del praticante deve
essere caratterizzato anche da umiltà
nell’apprendimento: ciò significa
svolgere le attività assegnate dal
dominus, ma solo se relative al proprio lavoro, e non in contrasto con la
propria crescita e la propria dignità
umana e professionale.
Essere consapevoli significa capire
se ciò che si sta facendo è produttivo
per noi stessi e che coscienza significa soprattutto non assecondare
richieste che ci possono degradare
come categoria o come essere
umano.
L’umiliante non consiste solo in quello che si fa ma anche nel modo in cui
si viene trattati.
Il rapporto dialettico praticante –
dominus, se improntato ai suddetti
principi, è motivo di arricchimento e
di crescita per il mondo forense e non
solo: da un lato il praticante con i
propri ideali, utopie e la voglia di
apprendere, dall’altro il dominus con
la propria correttezza e professionalità, fondata sull’esperienza e sulle
problematiche da lui già, a suo
tempo, affrontate e superate.
***
***
Ricordiamo che svolgere mansioni
solo e meramente impiegatizie non
rientra tra le competenze del praticante avvocato.
***
Forza e coraggio, credi in te stesso e
nel tuo lavoro, non lasciare nulla di
intentato, tutto ciò che arriverà te lo
sarai creato e di questo tu un giorno
sarai fiero.
17
Regolamento della pratica forense approvato
da tutti gli Ordini del distretto dell’Emilia Romagna
Quale spunto di ulteriore riflessione e
rielaborazione riteniamo utile pubblicare il
Regolamento per la pratica forense adottato
dagli Ordini del distretto dell’Emilia
Romagna.
ARTICOLO 1
Il praticante che intenda iscriversi deve presentare, oltre ai documenti richiesti dall’art.
1 del R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, apposita
dichiarazione scritta nella quale sia espressamente specificato se :
- svolge attività lavorativa;
- svolge pratica per 1’iscrizione ad altri ordini professionali;
- frequenta corsi post-universitari;
- effettua servizio militare o civile;
- svolge qualsiasi altra attività retribuita a
carattere continuativo.
In relazione alle predette attività il praticante è tenuto ad indicare le modalità in cui le
stesse vengono svolte, nonché a comunicare
tutte le variazioni relative alle stesse che
intervengano nel corso della pratica.
ARTICOLO 2
Alla domanda del praticante dovrà essere
allegata una dichiarazione dell’avvocato
presso cui questo svolgerà la pratica in cui
lo stesso, sotto la propria personale responsabilità, dovrà:
- indicare il numero e il nome di eventuali
altri praticanti;
- indicare la sistemazione all’interno dello
Studio;
- attestare la frequenza allo Studio (così
come dichiarata dal praticante );
- garantire l’uso delle attrezzature dello
Studio e l’esame delle pratiche (previo eventuale periodo di prova non superiore a tre
mesi);
- escludere espressamente lo svolgimento
da parte del praticante di mansioni di mera
segreteria.
L’avvocato, per poter accogliere un praticante presso il proprio Studio, deve essere
iscritto all’Albo degli avvocati con un’anzianità superiore agli anni due.
Per ogni avvocato è consentito avere un
massimo di due praticanti, salva motivata
deroga concessa da parte del Consiglio
dell’Ordine su circostanziata istanza del
medesimo avvocato.
18
ARTICOLO 3
Il praticante deve annotare sul libretto della
pratica l’attività svolta di semestre in semestre, per la durata di due anni decorrenti
dalla data della delibera d’iscrizione nel
registro dei praticanti.
La frequenza dello Studio può essere sostituita, per un periodo non superiore ad un anno,
dalla frequenza di uno dei corsi post-universitari previsti dall’art. 18 del R.D.L. 27 novembre
1933, n. 1578, convertito con modifiche dalla
legge 22 gennaio 1934, n. 36 e disciplinati a
norma dell’art. 2 del D.P.R. 10 aprile 1990, n.
101. A tali corsi il Consiglio potrà equipararne
altri, organizzati e tenuti anche all’estero, previa valutazione della loro specifica capacità
formativa in ragione della loro struttura, del
programma, dell’indirizzo teorico-pratico e
della qualità dei soggetti organizzatori.
Il diploma di specializzazione, conseguito
presso le scuole di specializzazione per le
professioni legali di cui all’art. 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e
successive modificazioni, è valutato, ai fini
del compimento del periodo di pratica, per il
periodo di un anno, secondo i criteri di cui
alla delibera 28 settembre 2002 del
Consiglio Nazionale Forense. In ogni caso, la
domanda di iscrizione al Registro speciale
dei praticanti di cui all’art. 17 R.D.L.
27/11/1933 n. 1578 non ha effetti retroattivi, conformemente a quanto deliberato da
questo Consiglio con delibera 28/10/2002.
ARTICOLO 4
Il libretto va compilato con tre tipi di annotazioni: le udienze cui il praticante ha assistito; gli atti giudiziali e stragiudiziali alla cui
redazione il praticante ha partecipato, nel
numero minimo di dieci; le questioni giuridiche di maggior interesse alla cui trattazione
il praticante ha assistito o collaborato nel
numero minimo di due.
ARTICOLO 5
Le udienze devono essere almeno venti in
ogni semestre, con esclusione di quelle di
mero rinvio. Sono di mero rinvio le udienze
nelle quali non vi è stata alcuna attività
difensiva (ad esempio, quelle di assegnazione a sentenza se non c’è stata la discussione orale della causa).
Nello stesso giorno è consentito partecipare
a non più di tre udienze.
La presenza del praticante all’udienza deve
risultare da annotazione sul libretto della
pratica, previamente vidimato dal Presidente
del Consiglio dell’Ordine o da un suo delegato. A tal fine dovrà essere indicato, per ciascuna udienza, la data, il numero di ruolo, il
nome delle parti, l’autorità giudiziaria, una
succinta descrizione dell’attività svolta, nonché la firma del giudice ovvero del coadiutore presente in udienza. Il libretto dovrà essere sottoscritto dal praticante e dal professionista presso il quale la pratica è svolta.
Della partecipazione all’udienza del praticante potrà essere dato atto nel verbale d’udienza.
Qualora le udienze indicate si svolgano nei
periodi in cui il praticante risulta impegnato
in attività comunicate ai sensi dell’art. 1, il
praticante, alla presentazione del libretto
per la vidimazione semestrale, dovrà allegare documentazione scritta dei titoli in base
ai quali ha potuto astenersi dall’impegno
extra praticantato.
ARTICOLO 6
Gli atti, giudiziali e stragiudiziali, devono
essere indicati specificamente (ad esempio:
atto di citazione, atto di precetto, transazione,
contratto, etc.) con l’enunciazione del loro
oggetto (ad esempio: pagamento somma,
risarcimento danno, compravendita, etc.).
Al Consiglio dell’Ordine, a sua discrezione e
secondo i criteri che riterrà opportuni, è
riservata la facoltà di richiedere ai praticanti
di produrre copie, debitamente censurate
nel rispetto del segreto professionale, degli
atti che il praticante ha indicato nel libretto.
ARTICOLO 7
Delle questioni giuridiche trattate deve
essere esposto, seppur succintamente, il
tema.
ARTICOLO 8
Il libretto, con tutte le annotazioni di cui
sopra e con l’attestazione del professionista
presso il cui Studio la pratica si è svolta in
ordine alla loro veridicità, deve essere presentato presso la segreteria dell’Ordine a
scadenze semestrali. Le annotazioni devono
riguardare esclusivamente il semestre di
riferimento ed avere per oggetto esclusivamente le cause e le questioni trattate dallo
Studio presso il quale si è svolta la pratica.
La presentazione del libretto presso la
segreteria dell’Ordine deve avvenire, a pena
di decadenza, entro sessanta giorni dalla
fine del relativo semestre. Il calcolo dei
semestri va fatto secondo il calendario
comune, con i criteri dettati dagli ultimi due
capoversi dell’art. 2963 del codice civile a
partire dalla data di prima iscrizione nel
registro dei praticanti.
ARTICOLO 9
Al termine di entrambi gli anni di pratica
deve essere presentata, contestualmente al
libretto, un’ampia relazione illustrativa delle
attività svolte nell’anno, anche se già indicate nel libretto, compresi i problemi di natura
deontologica eventualmente trattati nello
stesso periodo.
È facoltà del Consiglio dell’Ordine effettuare
colloqui, anche programmati, con i praticanti, da svolgersi al termine di uno o più dei
semestri di pratica, secondo i criteri che
riterrà più opportuni, al fine di verificare l’effettività della pratica svolta.
ARTICOLO 10
La Scuola Forense organizzata dal Consiglio
dell’Ordine è utile integrazione della pratica
e la frequenza alla stessa è raccomandata.
La partecipazione del praticante alle singole
lezioni è atte stata mediante la raccolta
delle firme dei presenti.
ARTICOLO 11
Qualora il praticante abbandoni lo Studio del
professionista presso il quale ha iniziato la
pratica per trasferirsi in altro Studio, deve
darne immediata comunicazione scritta al
Consiglio dell’Ordine con allegata dichiarazione dell’avvocato che accetta il praticante con
le stesse modalità di cui all’art. 2. L’eventuale
pratica effettuata nel nuovo Studio prima di
tale comunicazione non sarà riconosciuta ai
fini del certificato di eseguita pratica.
Nel caso in cui il praticante abbandoni lo
Studio, ovvero non vi svolga attività per un
periodo continuativo superiore ai trenta giorni, il professionista presso il quale la pratica
è svolta è tenuto a darne tempestiva comunicazione scritta al Consiglio dell’Ordine.
Su domanda (in cui devono essere indicate
le modalità concrete di svolgimento della
pratica stessa) e previa autorizzazione del
Consiglio dell’Ordine, il praticante potrà
integrare la pratica seguendo anche l’attività di un altro Studio. Il Consiglio dell’Ordine, in sede di autorizzazione, può deliberare
anche in merito alle modalità in cui dovrà
essere svolta la pratica integrata al fine di
essere ritenuta valida.
È fatto salvo, in ogni caso, il limite massimo
di due professionisti per ogni praticante,
salva la motivata deroga di cui all’ultimo
comma dell’art. 2.
In caso di integrazione della pratica, entrambi i professionisti saranno tenuti alla firma
del libretto.
ARTICOLO 12
In caso di mancata, ovvero tardiva presentazione del libretto, così come in caso di mancata approvazione del medesimo, il praticante non potrà usufruire del semestre ai fini
del conseguimento del certificato di compiuta pratica. Lo stesso effetto conseguirà alla
mancata, ovvero tardiva, presentazione della
relazione al termine di entrambi gli anni di
pratica.
In caso di mancata approvazione della relazione annuale tempestivamente presentata,
il praticante potrà presentare una nuova
relazione entro 15 giorni dalla comunicazione che gli verrà data. L’approvazione di tale
nuova relazione avrà effetti ex tunc.
Il Consiglio, nei casi di comprovata impossibilità di provvedere a tali adempimenti potrà
concedere deroghe e proroghe speciali.
ARTICOLO 13
A tutti gli adempimenti di cui agli articoli 1,
3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11 sono tenuti anche i
praticanti i quali, ai sensi dell’art. 8 del
D.P.R. n. 101/1990, svolgono la pratica al di
fuori dello Studio di un avvocato; essi debbono inoltre autocertificare, al termine dell’anno di tirocinio in proprio, almeno 25
nuovi procedimenti trattati nell’anno medesimo ai sensi dell’art. 8 lett. c) del D.P.R.
citato. La mancanza di tale autocertificazione, ovvero l’insufficiente numero dei nuovi
procedimenti, comporteranno l’inefficacia
dell’intero anno ai fini del rilascio del certificato di eseguita pratica.
ARTICOLO 14
Ai sensi dell’art. 4 comma 3 del D.P.R. 10
aprile 1990 n. 101, il Consiglio dell’Ordine
vigila sull’effettivo svolgimento della pratica. A tal fine potrà, a sua discrezione e salvi
altri controlli, eseguire le opportune verifiche presso le Cancellerie, nonché convocare
ed interrogare il praticante ed il professionista ( o i professionisti) presso il cui Studio la
pratica è svolta, allo scopo di vagliare l’idoneità e l’adeguatezza della pratica svolta.
ARTICOLO 15
La pratica può essere svolta parzialmente
all’estero, frequentando lo studio di un avvocato straniero o di un avvocato italiano che
abbia uno studio all’estero, a patto che la
stessa sia limitata a non più di due semestri,
escluso comunque l’ultimo, e che sia previamente autorizzata dal Consiglio dell’Ordine.
A tal fine il praticante dovrà presentare una
dettagliata richiesta di autorizzazione a cui
dovrà essere allegata anche la dichiarazione
dell’avvocato presso il cui Studio sarà accolto.
Il Consiglio dell’Ordine, esaminata la
domanda e se del caso sentito il richiedente,
autorizza la pratica indicando le modalità
concrete in cui la stessa dovrà essere svolta.
Al termine del periodo autorizzato il praticante dovrà presentare una dettagliata relazione dell’attività svolta nello Studio legale
controfirmata dal professionista presso il
quale la pratica è svolta.
Qualora le condizioni di esercizio della pratica siano ritenute non soddisfacenti, il
Consiglio può non autorizzare la pratica
all’estero, o, qualora non vengano rispettate
le modalità indicate, non convalidare il
periodo precedentemente autorizzato.
ARTICOLO 16
L’accertamento della non veridicità delle
annotazioni trascritte nel libretto, o in altre
atte stazioni rilasciate in relazione allo svolgimento della pratica, potrà comportare conseguenze disciplinari a carico del praticante
e del professionista presso il quale la pratica
è svolta.
In particolare, il professionista è impegnato
moralmente, in omaggio ai principi di lealtà
e correttezza, a seguire il praticante per contribuire alla sua formazione professionale e
deontologica e a verificare e confermare la
veridicità delle relazioni e del libretto.
ARTICOLO 17
Il praticante non abilitato al patrocinio sarà
cancellato d’ufficio dal Registro speciale dei
praticanti una volta conseguito il certificato
di compiuta pratica, mentre il praticante abilitato potrà conservare l’iscrizione per tutto
il periodo di vigenza dell’abilitazione e sarà
cancellato d’ufficio allo scadere dell’abilitazione previa relativa comunicazione da inviare a mezzo lettera raccomandata a.r.
ARTICOLO 18
Questo Regolamento entrerà in vigore a
decorrere dal 11/11/2003.
Al fine di dare allo stesso adeguata pubblicità esso sarà affisso alla bacheca della
sede dell’Ordine ed inviato a tutti gli iscritti
all’Albo e a tutti i praticanti già iscritti nel
Registro. Questi ultimi dovranno uniformarsi
al presente regolamento e, se del caso, produrre la documentazione integrativa necessaria, entro il termine di giorni 60 giorni
dalla sua entrata in vigore, limitandosi, i
praticanti al secondo anno di pratica, alla
documentazione relativa allo stesso.
Gli avvocati che, al momento di entrata in
vigore del presente regolamento, hanno già
ammesso a frequentare il proprio studio più
di due praticanti possono continuare a seguire gli stessi fino al compimento della pratica.
19
Giurisprudenza Lecchese
TRIBUNALE DI LECCO
Sentenza del 5.11.2001 n. 475
Giudice dott. Spera
AC CE RTAM E NTO DI R ITTO DI
PROPRIETA’ - USUCAPIONE
POSSESSO - COMPOSSESSO E
CONDETENZIONE - GODIMENTO DE L B E N E DA PARTE DE I
SINGOLI POSSESSORI - ESTENSIONE DEL POSSESSO OLTRE I
LIMITI DEL POTERE DEL SINGOLO COMPOSSESSORE - CONDIZIONI
MOTIVI DELLA DECISIONE
Come emerge dalla stessa prospettazione di parte attrice nonché dall’atto
di divisione prodotto sub 4, titolare del
diritto di proprietà dei terreni eri il
padre dell’attore, ***. Su tali terreni è
stata poi costruita una casa che, secondo parte attrice, era di esclusiva proprietà della madre dell’attore, ***.
In difetto di atto scritto, necessario
ex art. 1350 n. c.c. per la costituzione
del diritto di superficie, la proprietà
della casa distinta da quella del terreno
può derivare soltanto da un diritto di
natura personale, che trova la sua fonte
in un contatto atipico con effetti meramente obbligatori e non soggetto a rigori di forma né di pubblicità (v. la recentissima Cass. n. 7300 del 29/05/01; in
termini Cass. n. 1392 dell’11/2/98 e
Cass. Sezz. un. n. 3351 del 2/6/84).
Nel caso di specie può effettivamente
ritenersi che tra il padre dell’attore, proprietario dei terreni, e la madre dell’attore medesimo sia effettivamente intervenuto un accordo di tale natura. Ciò, in
particolare, può ricavarsi dal fatto che,
con il testamento 16/10/79, la madre
dell’attore, deceduta nel 1981, lasciava
la casa al figlio ***; e dal fatto che negli
anni successivi né il padre né le sorelle
dell’attore abbiano mai impugnato tale
disposizione testamentaria.
Ritenuto per tali ragioni che la proprietà della casa fosse esclusivamente
della madre dell’attore, e poiché con il
citato testamento la proprietà di tale
casa venne lasciata al figlio, deve pertanto concludersi che la proprietà di
tale immobile spetti ormai effettivamente all’attore medesimo.
20
Diverse considerazioni vanno fatte
con riferimento al terreno. Esso era di
proprietà del padre dell’attore, come
emerge dalla stessa prospettazione di
parte attrice nonché dall’atto di divisione prodotto sub 4.
Poiché è stato accertato sulla base
delle testimonianze che, fino alla morte
dei genitori dell’attore, l’immobile
oggetto di causa è stato utilizzato congiuntamente da essi e dall’attore medesimo, si tratta di accertare se quest’ultimo, e/o la madre prima di lui, abbiano
acquisito per usucapione la proprietà o
la comproprietà del terreno.
A tale questione deve, peraltro, essere data risposta negativa: a fronte, infatti, del fatto che la convivenza nell’ambito di un unico modello familiare deve,
quantomeno, far presumere l’inesistenza
di un possesso esclusivo da parte di
qualcuno dei conviventi (v., sul punto,
Trib. Voghera n. 170 del 12/7/88 e Trib.
Salerno del 9/10/80), è mancata la
prova – ed anzi dalle risultanze delle
prove orali sembra emergere, al contrario, che tutta la famiglia abbia vissuto
pacificamente nel medesimo immobile
– che l’attore, e la madre prima di lui,
abbiano realizzato atti incompatibili con
il possesso del padre dell’attore, proprietario dei terreni.
Il caso è per certi versi analogo a
quello dell’esercizio congiunto del possesso da parte dei comproprietari, regolato dal 2° comma dell’art. 1102, laddove prevede che “Il partecipante [alla
comunione] non può estendere il suo
diritto sulla cosa comune in danno degli
altri partecipanti, se non compie atti
idonei a mutare il titolo del suo
possesso”. Ciò, in altre parole, come
ritenuto dalla giurisprudenza, che “La
disposizione dell’art. 1102, comma 2°,
c.c. (...) impedisce al compossessore che
abbia utilizzato la cosa comune oltre i
limiti della propria quota non solo l’usucapione ma anche la tutela possessoria
del potere di fatto esercitato fino a
quanto questo non si rilevi incompatibile con l’altrui possesso” (v. Cass. n.
12231 del 25/11/95). Ed ancora, “Il
partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa del bene
comune senza necessità di interversio
possessionis, ma attraverso l’estensione
del possesso medesimo in termini di
esclusività. A tal fine si richiede, tuttavia, che tale mutamento del titolo si
concreti in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un
possesso esclusivo ed animo domini
della cosa incompatibili con il permanere del compossesso altrui sulla stessa e
non soltanto in atti di gestione della
cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente
tollerati dagli altri (art. 1141 c.c.) o
ancora atti che, comportando solo il
soddisfacimento di obblighi o erogazioni
di spese per il miglior godimento della
cosa comune, non possano dar luogo a
una estensione del potere di fatto sulla
cosa nella sfera di altro compossessore”
(v. Cass. 10294 del 23/10/90).
Consegue da quanto testé esposto
che – poiché non è stato dimostrato, e
neppure allegato, che durante la vita dei
genitori dell’attore, siano stati, dalla
madre (che, anzi, nel proprio testamento
neppure dispone dei terreni) prima e
dall’attore stesso poi, posti in essere atti
incompatibili con il possesso del padre –
deve escludersi che, durante la vita di
questi, sia stata usucapita la proprietà
dei terreni. Tali conclusioni non sono
contraddette dal fatto che i testi hanno
riferito che l’attore sosteneva le spese di
manutenzione degli immobili. Va considerato, infatti, che il testamento della
madre prevedeva l’obbligo per l’attore
di provvedere al mantenimento dei
genitori, obbligo che – deve ritenersi –
comprendeva anche il pagamento delle
spese inerenti gli immobili da lui abitati.
L’usucapione dei terreni non può,
infine, ritenersi perfezionata successivamente alla morte del padre dell’attore, nei confronti dei coeredi, dato che
questo evento si è verificato soltanto
nel 1997.
In definitiva, mentre può essere
accertata la proprietà esclusiva dell’attore della casa oggetto di causa, la proprietà dei terreni deve ritenersi sussistere in capo a tutti gli eredi del padre
delle parti, secondo le regole della successione legittima. Ai sensi dell’art. 566
c.c., pertanto, l’attore deve ritenersi
proprietario dei terreni oggetto di
causa per la sola quota di 1/3.
Omissis
A CURA DI STEFANO CALVETTI
Associazione Stampa Forense – A.STA.F.
Congresso annuale 7 febbraio 2004
Cari amici,
Da Latina in poi l’ASTAF ha rappresentato
una continuità di azione coerente nel contesto delle problematiche che coinvolgono l’Avvocatura sul piano professionale e
politico percorrendo la via della collaborazione con le strutture istituzionali ed
associazionali.
Nel novembre del 2001 a Napoli ebbi a
sostenere che la nostra azione si era svolta su tre fronti:
1) Consolidamento dei rapporti con i
direttori delle riviste forensi aderenti
all’ASTAF per renderne più significativo il ruolo.
2) Rafforzamento dei rapporti con le istituzioni forensi (C.N.F., O.U.A. e CASSA
di PREVIDENZA), con le Associazioni
dell’ Avvocatura più rappresentative
(A.N.F., U.I.F., A.I.G.A., CAMERE PENALI E CIVILI) nonché con la Magistratura
(A.N.M. e C.S.M.).
3) Mantenere vivo il dialogo con i giornalisti della carta stampata e radio-televisivi per rendere sempre più sostanziale quell’ideale percorso iniziato a
Latina nell’ottobre del 1998.
Nel biennio 2002-2003 l’attività del
Consiglio Direttivo e del Collegio dei
Probiviri è andata oltre i tre settori di
intervento richiamati ed ha posto altri
paletti di crescita, un nuovo terreno di
confronto: l’Europa.
L’esperienza vissuta a Bruxelles da una
delegazione ASTAF, su invito della
Commissione Giustizia del Parlamento
Europeo, ha determinato una riflessione
di fondo concernente l’esigenza di
approfondire quanto accade in altri paesi
europei: se esiste una stampa giuridicoforense; se è vivo, come in Italia, un rapporto conflittuale tra Avvocatura,
Giustizia, Politica e Comunicazione
mediatica.
Il nostro impegno è stato costante, di
sacrificio ma soddisfacente.
Sul fronte interno:
1) Sono state programmate numerose iniziative:
a) Abbiamo ottenuto l’autorizzazione a
pubblicare il “Notiziario ASTAF” che
ha cadenza bimestrale e dovrà
costituire un cordone ombelicale
con le riviste associate, nonché con
gli Ordini Forensi, le Associazioni,
l’OUA, il C.N.F. e la Cassa.
b) Abbiamo nominato tre commissioni:
Revisione statuto, Coordinamento
riviste, finanze, tutte in funzione.
c) Revisione dello statuto. la
Commissione sta studiando alcune
variazioni per rendere lo strumento
più moderno anche in considerazione dell’evolversi della funzione
associativa. Il lavoro non è ancora
ultimato ma il prossimo Consiglio
potrà certamente esaminare le proposte e portarle all’esame della
assemblea straordinaria per la loro
approvazione definitiva.
d) Coordinamento riviste. In questo
biennio è stata valutata positivamente l’idea di costituire un coordinamento regionale, laddove l’impegno giornalistico è più massiccio,
oppure inter-regionale laddove logisticamente è più favorevole questa
soluzione, al fine di rendere operativo il raccordo tra i direttori delle
riviste. Allo stato abbiamo costituito due coordinamenti: nelle Regioni
Puglia e Campania.
Prossimo appuntamento: Sicilia e
Calabria.
e) Settore finanziario. Le nostre risorse sono soltanto le quote di adesione. Se avessimo dovuto impostare la
nostra attività su questa unica entrata, certamente non avremmo potuto
intraprendere alcuna iniziativa e non
avremmo potuto conquistare quella
visibilità che oggi ci inorgoglisce. Ci
siamo mossi. Sul piano più generale
abbiamo sensibilizzato, con la preziosa collaborazione del Presidente del
Collegio dei Probiviri Marcello
Colloca, il Presidente della Cassa
Maurizio de Tilla il quale sta studiando alcune forme di sponsorizzazione
per l’ASTAF che potrebbero darci
ossigeno sufficiente. Inoltre abbiamo
risolto il problema della sede, in
quanto, in accoglimento di una
nostra istanza, la Cassa ha riconosciuto alla nostra Associazione la
funzioni di “custodi” della stampa
giuridico-forense e di conseguenza
ha disposto l’assegnazione di alcuni
locali con la nostra targhetta ASTAF
dotati di un computer e di un telefono, dove potremo operare in modo
più concreto: siamo in attesa della
definizione dell’iter burocratico che
consenta alla Cassa di consentire
l’utilizzo di detti locali. Da ricordare
la simpatia concreta con la quale gli
Ordini ospitano le nostre iniziative,
facendosi carico delle spese organizzative, e della Cassa che è sempre a
noi vicino con contributi di sostegno.
Abbiamo gettato il seme e per il
prossimo biennio è possibile che
anche il C.N.F. e l’O.U.A. siano di
sostegno.
f) Sito internet. Come è a vostra
conoscenza, abbiamo allestito,
anche se con sacrificio economico,
un sito internet, www.astaf.net, che
sta riscuotendo interesse come si
desume dall’utilizzo giornaliero del
sito in continua crescita. Ancora una
volta prego i direttori di quelle riviste che abbiano un collegamento in
rete di comunicare gli estremi del
sito e la e-mail di competenza alla
signora Anna Raccuja per aprire il
relativo link e dar modo, quindi, di
utilizzare in pieno la conoscenza
21
della rivista e dell’Ordine od associazione di riferimento. Questo
avviene già per numerose riviste e
sarebbe utile che avvenga per tutte
le testate. I componenti del
Consiglio e del Collegio dei Probiviri
sono dotati, inoltre, di casella postale per cui è possibile corrispondere
con chiunque di noi per notizie, chiarimenti, suggerimenti. Tuttavia sono
dolente rappresentare che il mancato versamento della quota da parte
di alcuni soci su richiesta del segretario Marcello Pacifico, quota che
comprende anche la tariffa per il
mantenimento del sito, ha determinato la esclusione, certamente
momentanea, per quanti si sono resi
inadempienti: in effetti il costo del
sito è suddiviso pro quota, per cui
l’inadempienza comporta l’oscuramento da parte del gestore, per
mancata corresponsione dell’importo convenuto.
g) Adesioni. Continuiamo a crescere.
Al 31 dicembre abbiamo confermato il numero di quaranta, tenuto
conto che alcune testate hanno cessato la pubblicazione ed altre sono
subentrate. Naturalmente il rinnovato Consiglio dovrà deliberare per
il prossimo biennio sul mancato versamento delle quote da parte di
alcune testate ed ovviamente sugli
effetti di detta inadempienza.
Questa la cronaca di una attività che non
ha risparmiato nessuno di noi, impegnati
a non tralasciare alcuna iniziativa mirata
al potenziamento della Associazione. Il
nostro intento è di arrivare a concepire
una soluzione organizzativa che favorisca
la possibilità di attuare un dialogo immediato con i direttori o loro delegati, fornendo notizie e spunti giornalistici da utilizzare nel proprio territorio di competenza. Gli strumenti potranno essere in tempi
medi il Notiziario ASTAF ed in tempi brevi
il sito internet se avremo la fortuna di
potenziare economicamente questo modo
di comunicazione. Il sistema internet è
costoso e certamente con le nostre sole
poche risorse non siamo in grado oggi di
22
fare un salto di qualità. Ma la nostra perseveranza è tale che prima o poi riusciremo a trovare una soluzione che ci permetta di guardare oltre con fiducia. A tal fine
il nostro scopo deve essere quello di
ricercare costantemente una maggiore
considerazione da parte delle Istituzioni
dell’Avvocatura e delle Associazioni più
rappresentative. Noi siamo un organismo
di servizio nell’interesse dell’Avvocatura
in particolare e dei cittadini in modo più
generale. Abbiamo dato prova delle
nostre capacità di relazionarci con l’esterno, soprattutto con il mondo della
Politica, della Magistratura e del
Giornalismo. Abbiamo dato prova di avere
idee mirate alla scoperta di modi nuovi di
comunicazione e di avere la concretezza
per realizzarle: in ordine di tempo, l’attuazione a Bologna di una idea, che sembrava impossibile porre in essere per le
difficoltà oggettive di natura economica
ed organizzativa, ha eliminato ogni dubbio ed ogni incertezza sulla nostra capacità di portare a termine iniziative complesse. La nostra Associazione ha raggiunto, inoltre, una credibilità fondata
sull’equilibrio e sul consenso, nel momento in cui riusciamo a far discutere intorno
ad un tavolo i responsabili di varie categorie professionali e politiche, ed in particolare della Magistratura, avvenimento
che ormai si ripete da qualche anno.
Questo stato di servizio deve convincere i
nostri interlocutori a sostenerci ed a fornire all’ASTAF soluzioni tecniche ed economiche per poter programmare ulteriori
iniziative di servizio nell’interesse generale. Noi siamo convinti della utilità che
rappresentiamo con le nostre riviste e le
nostre idee per l’avvocato, il cittadino, il
magistrato, il giornalista. Siamo altresì
consapevoli che la funzione dell’avvocato-giornalista si va sviluppando giorno per
giorno, che l’esigenza di ricercare nuove
forme di comunicazione richiede maggiore professionalità: il contributo dell’avvocato impegnato nel giornalismo non costituisce oggi solo ed esclusivamente un
hobby ma significa un momento di crescita sul piano della formazione e della
esperienza. Tutto ciò per evidenziare
come sarebbe utile per l’Avvocatura che
anche il C.N.F., sempre attento ai momenti evolutivi, valutasse l’opportunità di
riconoscere all’ ASTAF un piccolo spazio,
come ha già fatto la Cassa di Previdenza
ed allo stato sta facendo l’O.U.A..
Sul fronte esterno :
Anche su questo piano l’attività
dell’ASTAF è stata intensa. Normalmente
siamo invitati a partecipare, e naturalmente siamo presenti nei limiti delle nostre
possibilità, ad incontri territoriali indetti
dal C.N.F., O.U.A., Cassa ed Associazioni
più rappresentative. Siamo stati altresì
presenti negli appuntamenti più significativi a livello nazionale con una piena visibilità e portando il nostro umile contributo:
all’Ottava Conferenza Nazionale della
Cassa di Previdenza svoltasi a Sorrento, al
Congresso Straordinario dell’O.U.A. tenutosi a Verona e successivamente a
Palermo nel dicembre scorso.
Stampa forense europea. Come ho precisato all’inizio di questa relazione, il C.D.
si è posto il problema dell’Europa, della
opportunità di un dialogo con alcuni Paesi
per un approfondimento di alcune nostre
curiosità: se esiste una stampa forense
come in Italia ed in caso affermativo se è
possibile ipotizzare la costituzione di una
associazione europea, se è vissuta una
conflittualità tra i poteri dello Stato come
qui da noi. Il Consiglio, rilevata la importanza dell’avvenimento e valutata l’opportunità di avviare un discorso di verifica a
livello europeo, ha approvato l’idea ed
abbiamo gettato le basi per il prosieguo
di un discorso che richiede certamente
tempi non brevi Abbiamo preso contatti
con alcune organizzazioni europee e certamente nel prossimo biennio il Consiglio
Direttivo potrà varare un primo progetto
europeo sul piano associativo. A tal fine
abbiamo ritenuto opportuno, al momento,
effettuare la traduzione della nostra storia in lingua inglese e francese per una
migliore conoscenza dell’ASTAF.
Quindi su questa via europea siamo ormai
prossimi al traguardo, in sintonia con la
volontà espressa dai direttori in occasione dell’incontro svoltosi a Bologna nel
2002. Ma è giusto che questa assemblea
ribadisca la decisione di proseguire su
questa linea, nel senso di condividere o
meno questa ulteriore prospettiva per la
nostra associazione di allargare il raggio
della propria azione, per dar modo al neo
Consiglio di concretizzare quanto già
posto in essere.
LE NOSTRE CONSULTE. Il secondo
momento di grande rilevanza l’abbiamo
vissuto con l’organizzazione delle
Consulte. Di Bologna abbiamo avuto modo
di dire tutto, soprattutto della grande idea
di rappresentare un nostro forte messaggio attraverso un modo diverso di comunicare e cioè con una rappresentazione teatrale, ricca di humor e ironia: “In nome del
popolo... processo al Processo”. Non è
stato facile concretizzare questa idea, realizzare una scenografia che fosse alla portata delle nostre possibilità economiche,
salvaguardando comunque la dignità della
novità. I protagonisti sono stati all’altezza
del compito loro affidato e desidero ricordarli ancora una volta per ringraziarli della
gratuita ma egualmente sincera collaborazione: i giornalisti Massimo e Roberto
Martinelli, Carlo Nordio Presidente della
Commissione Riforma del Codice Penale,
gli avvocati Sergio Rossi e Luigi Di Maio, i
dieci giovani aspiranti giornalisti della
Scuola di Giornalismo di Bologna che
hanno composto la giuria popolare, il
Presidente dell‘Ordine dei Giornalisti
dell‘Emilia Romagna Claudio Santini per
la sua preziosa collaborazione.
La novità è stata apprezzata, diciamo che
ha avuto successo e probabilmente potrà
essere ripetuta in occasione di altre iniziative. Anche il 2003 è stato un altro
anno ricco di risultati.
La Quinta Consulta di Vibo Valentia ha
avuto molto successo e ampio consenso.
La magistratura ha ritenuto di comunicarci il loro gradimento per aver ideato un
momento di confronto su un tema di grande attualità che si è sviluppato in maniera
civile e costruttiva, con una presenza attiva dell’ASTAF per la partecipazione tra i
relatori del nostro Carlo Petrone, la cui
relazione ha avuto molti apprezzamenti:
ed hanno manifestato la loro adesione
per prossimi appuntamenti. Lo stesso
dicasi per le strutture istituzionali ed
associative dell’Avvocatura che ci hanno
confortato con la loro presenza ed il loro
sostegno. Naturalmente un sentito ringraziamento devo rilvorgerlo all’amico
Marcello Colloca, al Presidente
dell’Ordine di Vibo Valenzia Pontoriero ed
alla Unione degli Ordini Forensi della
Calabria che hanno dato modo a tutti noi
di vivere una bellissima esperienza in un
clima di familiarità e di amicizia.
approfondimento in un percorso da portare avanti insieme. Pochi giorni fa con
Marcello Pacifico e la sig.ra Raccuja
abbiamo avuto un incontro con alcuni rappresentanti della Unione per elaborare i
contenuti di un dibattito confronto su di un
tema stimolante, la unicità della giurisdizione, da tenersi verso la fine di aprile nel
Lazio: naturalmente l’incontro ha avuto
carattere interlocutorio e sarà concretizzato verso la fine di febbraio in attesa che
l’ASTAF abbia rinnovato le cariche sociali.
Consolidamento di rapporti. Il 2003 è
stato quindi un anno positivo per il consolidamento dei rapporti: abbiamo rafforzato
in maniera costruttiva il dialogo con
l’A.N.M. determinando le condizioni ed i
presupposti per un confronto sulle tematiche che riguardano il mondo della giustizia. Questo rapporto si è aperto anche con
il C.S.M. che oggi ritiene positivo avere
un contatto con la nostra struttura tant’è
che ha inviato al Vs. Presidente uscente il
testo dei pareri sulle proposte governative
di modifica dell’Ordinamento Giudiziario.
Con il C.N.F. si è costruito un rapporto
fondato sulla credibilità e sul rispetto: il
presidente Remo Danovi ci è stato vicino
sostenendoci nelle iniziative e favorendo
un approfondimento costruttivo.
Con l’Unione Camere Penali, presieduta da Randazzo, si è consolidato un riconoscimento sostanziale della funzione
dell’ASTAF, tant’è che siamo stati invitati
al loro Congresso di Chianciano anche per
far parte del tavolo di concertazione con i
rappresentanti delle associazioni più rappresentative per valutare le condizioni di
una comune visione di azione da parte di
tutta l’Avvocatura: in nostra rappresentanza ha partecipato l’amico Carlo Petrone.
Con la Cassa naturalmente esiste, come
è notorio, un rapporto di amicizia e di
profonda stima che ha favorito il consolidarsi di una comune visione sul significato
della funzione della nostra Associazione.
Con l’Organismo Unitario, oggi presieduto da Michelina Grillo, ed a cui ho già
manifestato il nostro gradimento per
averLa alla guida di un organismo cui crediamo, abbiamo concordato un protocollo
di intesa che deve vedere per il 2004-05
l’ASTAF maggiormente impegnata nella
costruzione organizzativa della politica
forense sia sul piano della informazione
che della convegnistica.
Con l’Unione Camere Civili, presieduta
dall’amico Grimaudo, egualmente abbiamo convenuto un rapporto di collaborazione più stretto, per far si che questo tormentato settore della nostra vita professionale possa trovare momenti di
Con l’A.N.F. abbiamo maturato momenti
di reciproca collaborazione, che si sono
andati rafforzando soprattutto per l’amicizia che ci ha legato prima al segretario
Sergio Paparo, poi al Segretario
Michelina Grillo, e che senz’altro per questo biennio si consolideranno con il nuovo
segretario Piergiorgio Loi che abbiamo
avuto modo di apprezzare in altri momenti
ed al quale rivolgo le nostre felicitazioni e
gli auguri di buon lavoro.
CONCLUSIONI. Penso di non aver altro
da aggiungere. Questa è l’analisi di due
anni di lavoro che il Consiglio Direttivo ed
il Collegio dei Probiviri collegialmente
hanno portato avanti insieme a tutti Voi e
che sottopongo alla vostra approvazione.
Ringrazio gli amici del Consiglio e del
Collegio dei Probiviri per avermi sostenuto nel biennio trascorso e per avermi sopportato anche quando diventavo assillante nel richiedere l’impossibile. I due organi statutari, infatti, hanno costituito una
buona squadra che ha favorito con l’impegno di tutti il realizzarsi di tante iniziative.
MARIO RAPANÀ
Presidente A.STA.F.
23
Una lettera del presidente del Consiglio nazionale forense, Remo Danovi, all’ABI
Convenzioni in deroga ai minimi tariffari professionali
Si contesta il diffuso sistema di
attuare convenzioni contrarie
alle regole tariffarie e deontologiche. Altra analoga comunicazione era stata inviata negli
scorsi mesi all’ANIA
Dal Consiglio nazionale forense al
presidente dell’Associazione bancaria italiana, dottor M. Sella.
Illustre presidente,
desidero sottoporre alla sua attenzione una problematica non nuova, ma
aggravata negli ultimi mesi da rinnovate iniziative di vari Istituti di credito, in taluni casi attuate sull’intero
territorio nazionale,
Il Consiglio nazionale forense, quale
organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana, ha ricevuto infatti numerose segnalazioni di
convenzioni e prassi in uso presso
primari istituti bancari, per regolare i
rapporti con i legali di fiducia. Tali
convenzioni prevedono regolamentazioni che non soltanto disciplinano la
corresponsione degli onorari professionali con compensi inferiori ai minimi tariffari indicati dall’ormai lontano
d.m. 5 ottobre 1994, ma determinano
di fatto un appiattimento qualitativo
delle prestazioni professionali.
Come certamente le sarà noto, il
sistema tariffario degli avvocati prevede massimi derogabili con il consenso delle parti e minimi inderogabili. I comportamenti segnalati configurano pertanto inequivocabilmente
una reiterata violazione di legge (con
24
le relative conseguenze sul piano
della invalidità contrattuale) e di
regole deontologiche, di rilevanza
disciplinare. La prassi segnalata è
inoltre aggravata dalla circostanza
che gli atluali minimi tariffari, in
attesa delle nuove tariffe forensi da
tempo elaborate dal Consiglio nazionale e attualmente all’esame del
ministro della Giustizia, sono divenuti palesemente inadeguati.
Non è ovviamente questa la sede per
soffermarsi sulla legittifiazione del
sistema tariffario delle professioni
regolamentate. Mi limito a considerare che il mantenimento di un sistema di onorari professionali (anche
con i minimi inderogabili), lungi dal
rappresentare una fiera tutela corporativa, costituisce garanzia pubblica
della qualità della prestazione e
della congruità della retribuzione, in
un ambito che non può essere affidato totalmente al libero mercato e alla
concorrenza indiscriminata.
A conforto di tale interpretazione si è
recentemente pronunciata la Corte di
giustizia delle Comunità europee,
che il 19 febbraio 2002 (sentenza in
causa C35-99) ha posto fine a un
annoso dibattito circa la compatibilità del sistema tariffario con l’articolo 85 del Trattato Ce (ora articolo 81,
nel testo consolidato), chiarendo
come la deliberazione da parte del
ministro per la Giustizia, conseguente alla proposta del Consiglio nazionale, salvaguardi in realtà la valenza
pubblicistica del relativo procedimento, in funzione della protezione
degli interessi generali della collettività, e non già degli interessi specifici della categoria professionale.
Senza dimenticare che le regole professionali tutelano interessi qualificati “pubblici” dall’ordinamento.
In ogni caso la questione non è solo
quella di garantire l’applicazione del
diritto vigente e di tutelare i minimi
tariffari. Le convenzioni in parola,
come ho già sottolineato, appiattiscono di fatto le prestazioni e promuovono a regola la convinzione di
una ripetitività di atti, che mortificano la qualità dell’attività professionale. Peraltro, riguardata sotto il profilo deontologico, la questione, relativamente al professionista che
accetti indiscriminatamente lo stesso
patto dei minimi di tariffa, può assumere anche rilievo di violazione dei
principi di solidarietà e di divieto di
illecita concorrenza. E sotto tale
profùo, ci sembra che non possa pretendersi, in evidente posizione dominante, che a tanto la categoria venga
indotta.
Di qui la richiesta, a lei e alla prestigiosa associazione da lei presieduta,
di intervenire presso tutti gli Istituti
di credito, dando comunicazione dei
rilievi formulati e con l’invito a desistere dai comportamenti segnalati.
Sarò lieto di incontrarla per ogni più
ampia riflessione sul punto, nella
speranza di una proficua futura collaborazione.
Certo di un suo cortese riscontro, le
porgo i migliori saluti.
REMO DANOVI
L’arbitrato nella riforma della società
Il decreto legislativo 17 gennaio 2003
n. 5 disciplina in maniera innovativa non
solo il contenzioso avanti l’autorità giudiziaria ordinaria, ma anche l’arbitrato
nelle controversie societarie; in attesa
degli approfondimenti che giungeranno
nel tempo, può essere utile richiamare
alcuni aspetti essenziali della nuova normativa relativa all’arbitrato.
L’art. 34 (intitolato “Oggetto ed effetti
di clausola compromissorie statutarie’),
dispone:
l. “Gli atti costitutivi delle società (ad
eccezione di quelle che fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio a norma
dell’art. 2325-bis c.c.), possono,
mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la
società che abbiano ad oggetto diritti
disponibili relativi al rapporto sociale”.
Dunque – escluse alcune tipologie di
società, di particolare importanza nella
vita economica del paese, come quelle
quotate in borsa – tutte le controversie societarie aventi ad oggetto diritti
disponibili che possano insorgere fra i
soci, ovvero fra i soci e la società possono essere devolute ad arbitri; in proposito, è da sottolineare che:
a) l’arbitrato in esame è quello che trae
origine dagli atti costitutivi (ivi compresi quelli modificati) e, si dovrebbe
ritenere, anche dagli statuti delle
società predette; la nuova disciplina
sembra non applicarsi agli arbitrati
nati da compromessi.
b) le clausole compromissorie in
esame possono devolvere agli arbitri solo alcune delle suddette controversie, escludendone altre: così,
volendo, si potrà escludere le impugnazioni di delibere assembleari.
2. “La clausola deve prevedere il numero
e le modalità di nomina degli arbitri,
conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società.
Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente
del Tribunale del luogo in cui la società
ha la sede legale”.
Dunque, la clausola deve stabilire in
primo luogo il numero degli arbitri, che
dovrà essere dispari ai sensi dell’art.
809, 1° c.; per le modalità di inizio dell’arbitrato non vi sono previsioni, per
cui la clausola potrà essere formulata
in vari molti modi: ad esempio, la
parte che intenda dar inizio all’arbitrato potrà comunicare alla controparte (o
alle controparti) la propria volontà con
atto notificato tramite ufficiale giudiziario; la stessa comunicazione andrà
inviata anche al soggetto, necessariamente estraneo alla società (a pena di
nullità della clausola), cui sono affidate le nomine degli arbitri.
Questo è un aspetto fortemente innovativo della nuova disciplina dell’arbitrato societario: la disciplina in questione sottrae alle parti ogni potere di
nomina degli arbitri, eliminando alcuni
inconvenienti presenti nel sistema tradizionale (così, la non perfetta imparzialità – almeno nella maggioranza dei
casi – degli arbitri nominati dalle
parti), ed impone che essi vengano
nominati da soggetto estraneo alla
società, a pena di nullità della clausola; il soggetto così designato dovrà
essere privo di ogni rapporto organico
con la società (così, non potrà esserne
socio, amministratore, ecc.); resta
assai delicato il modo in cui si procederà a tale designazione, così che, per
correttezza, sarà preferibile che il soggetto in questione non sia neppure
legato alla società da rapporti professionali (consulenza ecc.), anche se ciò
non sembra vietato dalla norma.
Così, quali soggetti designanti potranno essere indicati i presidenti di ordini
professionali, i presidenti di camere
arbitrali ecc.; è dubbio che possano
essere scelti i presidenti di tribunali, i
quali dovranno provvedere in mancanza di nomine da parte dei soggetti designati; ed è da sottolineare che si tratta
dei tribunali dei luoghi in cui le società
hanno le rispettive sedi legali, e non –
come disposto dall’art. 810 c.p.c. per
l’arbitrato in generale – dei luoghi ove
è la sede dell’arbitrato, ovvero ove è
stato stipulato il contratto ecc.
Nella clausola si indicherà in qual
modo formulare la richiesta (così, si
potrà provvedere con atto notificato
tramite ufficiale giudiziario) ed entro
quale termine l’autorità designante
debba provvedere (ad esempio venti
giorni, riprendendo dall’art. 810).
Qualora il soggetto designato non
provveda alle nomine, la richiesta di
scegliere gli arbitri verrà indirizzata al
presidente del tribunale del luogo in
cui la società ha la sede legale.
3. “La clausola è vincolante per la
società e per tutti i soci, inclusi coloro
la cui qualità di socio è oggetto della
controversia”: sia la società nel cui
atto costitutivo è inserita la clausola,
sia i soci della stessa, sia coloro la cui
qualità di socio è oggetto della vertenza, sono obbligati a rispettare la procedura arbitrale prevista.
4. “Gli atti costitutivi possono prevedere
che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse sa amministratori,
liquidatori, sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito
dell’accettazione dell’incarico, è vincolante nei confronti di costoro”.
La clausola compromissoria, dunque,
può estendere la propria efficacia
anche a soggetti che non siano ancora
in rapporti con la società e che non ne
diventeranno soci, ma che ne saranno
amministratori, liquidatori o sindaci;
nei loro confronti la clausola diverrà
vincolante con la loro accettazione
dell’incarico.
5. “Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie
nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero”.
L’intervento obbligatorio del pubblico
ministero, al di là dei procedimenti
penali, è previsto da specifiche disposizioni di legge: così, l’art. 221 c.p.c. in
tema di querela di falso, l’art. 59 r.d.
21.6.1942, n. 929, in tema di nullità o
decadenza di brevetti per marchi d’impresa; le controversie di tal genere
non possono essere oggetto di clausole compromissorie.
6. “Le modifiche dell’atto costitutivo,
introduttive o soppressive di clausole
25
compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale. I
soci assenti o dissenzienti possono,
entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso”.
L’art. 35 detta la “Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale”:
1. “La domanda di arbitrato proposta
dalla società o in suo confronto è
depositata presso il registro delle
imprese ed è accessibile ai soci”.
Fin dal sorgere del procedimento arbitrale che coinvolga direttamente la
società, come parte attiva o passiva
dello stesso, l’esistenza dell’arbitrato
deve essere resa conoscibile da parte
dei soci tramite deposito presso il
registro delle imprese.
2. “Nel procedimento arbitrale promosso
a seguito della clausola compromissoria di cui all’art. 34, l’intervento dei
terzi a norma dell’articolo 105 del codice di procedura civile è ammesso fino
alla prima udienza di trattazione, nonché l’intervento di altri soci a norma
degli articoli 106 e 107 dello stesso
codice. Si applica l’articolo 820 del
codice di procedura civile”.
Dunque, altra rilevante innovazione
della riforma è la previsione dell’intervento nell’arbitrato di altri soggetti
oltre le parti iniziali: si tratta di un
intervento volontario laddove si è
richiamato l’art. 105, della chiamata in
causa di cui all’art. 106 e dell’intervento iussu iudicis di cui all’art. 107 c.p.c.
È bene sottolineare che le ipotesi di
cui agli artt. 106 e 107 sono applicabili, nell’arbitrato societario, solo nei
confronti di altri soci: infatti, non si
potrebbe obbligare chi sia estraneo
alla società a partecipare all’arbitrato.
L’art. 820 dispone fra l’altro che, in
caso di morte di una delle parti, il termine per la pronuncia del lodo sia prorogato di trenta giorni; pertanto, nei
casi di intervento volontario, di chiamata o di intervento iussu iuducis di un
terzo nell’arbitrato, il termine suddetto
è appunto prorogato di trenta giorni.
Per quanto riguarda la tempistica di
tali interventi e della chiamata, solo
l’intervento volontario risulta limitato
alla prima udienza di trattazione; per
altro, non essendo automaticamente
applicabile agli arbitrati quanto previ26
sto dal codice di rito per il contenzioso
civile ordinario, il concetto di “prima
udienza di trattazione” andrà applicato
con una certa elasticità.
3. “Nel procedimento arbitrale non si
applica l’art. 819, primo comma, del
codice di procedura civile; tuttavia il
lodo è sempre impugnabile, anche in
deroga a quanto previsto per l’arbitrato internazionale dall’art. 838 del codice di procedura civile, a norma degli
articoli 829, primo comma, e 831 dello
stesso codice”.
La disposizione di cui sopra costituisce
altra novità rilevante nel quadro generale dell’arbitrato societario: l’art. 819,
infatti, prevede la sospensione dell’arbitrato “se nel corso del procedimento
sorge una questione che per legge non
può costituire oggetto di giudizio arbitrale” e se gli arbitri “ritengano che il
giudizio ad essi affidato dipende dalla
definizione di tale questione”: con la
nuova disposizione, invece, la sospensione non si applica e gli arbitri
dovranno conoscere, in via incidentale,
anche di questioni di per se non compromettibili.
Il lodo emesso in tali ipotesi sarà sempre impugnabile ai sensi dell’art. 829
c.p.c. (impugnazione per nullità), anche
se le parti lo avessero dichiarato non
impugnabile; e sarà pure sempre
impugnabile per revocazione e per
opposizione di terzo, ai sensi dell’art.
831; infine, il lodo sarà sempre impugnabile anche in deroga a quanto previsto in tema di arbitrato internazionale dall’art. 838, norma che prevede la
non impugnabilità dei lodi salva diversa volontà delle parti.
4. “Le statuizioni del lodo sono vincolanti
per la società”.
La disposizione si presta ad una lettura
banale, secondo cui il lodo vincola chi è
stato parte dell’arbitrato; ma si presta
anche ad una diversa interpretazione,
secondo cui comunque la decisione
degli arbitri vincola la società, ancorché
estranea alla procedura: si tratterebbe
di un altro risultato fortemente innovativo, per il quale si dovrà comunque
attendere adeguati approfondimenti.
5. “La devoluzione in arbitrato, anche
non rituale, di una controversia non
preclude il ricorso alla tutela cautelare
a norma dell’articolo 669-quinquies
del codice di procedura civile, ma se la
clausola compromissoria consente la
devoluzione in arbitrato di controversie
aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete
sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione
dell’efficacia della delibera”.
La norma afferma il principio per cui il
ricorso alla autorità giudiziaria ordinaria per ottenere la tutela cautelare
(sequestro giudiziario, sequestro conservativo, ecc.) è legittimo anche quando la controversia in esame sia devoluta ad arbitri irrituali; e pure dispone
che, quando gli arbitri hanno il potere
di decidere circa la validità di delibere
assembleari, essi hanno anche la facoltà di sospenderne l’efficacia, con
ordinanza non reclamabile.
Anche in questo caso, si tratta di un
notevole ampliamento della funzione
arbitrale: si pensi, infatti, che la
sospensione dell’efficacia di delibere
assembleari può avere conseguenze
assai rilevanti per una società, e che la
non reclamabilità di tale decisione (la
cui efficacia potrebbe venire meno solo
con la deliberazione del lodo, o successivamente a seguito di impugnazione
di quest’ultimo) comporta una maggiore responsabilità, quanto meno morale,
per gli arbitri.
Art. 36. Decisione secondo diritto.
“Anche se la clausola compromissoria
autorizza gli arbitri a decidere secondo
equità ovvero con lodo non impugnabile,
gli arbitri devono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma
dell’art. 829, secondo comma, del codice
di procedura civile quando per decidere
abbiano conosciuto di questioni non
compromettibili ovvero quando l’oggetto
del giudizio sia costituito dalla validità di
delibere assembleari”.
Quando gli arbitri, per decidere la
controversia, abbiano dovuto trattare
anche questioni di per se non compromettibili, il lodo dovrà essere necessariamente emesso secondo diritto, pur se la
clausola compromissoria avesse previsto
una decisione secondo equità, e sarà
comunque impugnabile, pur contro la
volontà dichiarata dalle parti; lo stesso
principio si dovrà applicare in caso di
impugnazione di delibere assembleari.
CARLO COMPATANGELO
Le casse private vanno escluse
dalla riforma della previdenza pubblica
La riforma del sistema pensionistico pubblico che il Governo sta cercando di realizzare,
mediante interventi sulla delega previdenziale
attualmente in discussione al Senato, ha sicuramente intenti virtuosi e ha il pregio, perlomeno, di affrontare una materia delicata e
complessa con interventi organici e strutturali.
Non è mia intenzione entrare nel merito
del provvedimento nei suoi aspetti generali,
né nel dibattito che ne è seguìto, circa gli
effettivi benefici che possono derivarne in termini di riequilibrio del sistema previdenziale
pubblico, devastato dai macroscopici errori di
un passato meno recente.
Non posso esimermi, viceversa, dal confermare un giudizio profondamente negativo
sia per quanto riguarda il metodo che nel
merito, in ordine all’ipotesi di estendere i principi contenuti nell’art. 1 ter, 1° comma, anche
agli Enti privati dei professionisti, che sarebbe
previsto nel 4° comma del medesimo articolo.
Ci troviamo di fronte ad un macroscopico
errore che costituisce un vero e proprio attacco all’autonomia degli Enti previdenziali privati, che non sono stati nemmeno consultati sull’argomento, riservato per legge: alla loro specifica autonomia nor-mativa.
Ma non basta! La brutale applicazione ai
regimi previdenziali dei professionisti di principi propri del regime pubblico potrebbero portare effetti devastanti quali l’abbassamento
(sic!) a sessanta anni dell’età pensionabile:
per le donne, laddove gli ordinamenti previdenziali degli Enti professionali già prevedono
una età pensionabile almeno a sessantacinque anni, senza distinzione di sesso! La selvaggia applicazione dì questo principio causerebbe “buchi” clamorosi nelle gestioni di
molte Casse previdenziali dei professionisti.
Per la sola Cassa Forense un simile provvedimento, sulla base di una prima stima di massima, comporterebbe oneri per circa 250
milioni di Euro. Va segnalata, inoltre, l’ulteriore incongruenza di imporre una anzianità di
iscrizione quarantennale per l’ammissione a
pensione di anzianità a categorie professionali che iniziano per la maggior parte, l’attività
lavorativa intorno ai 26/27 anni, dopo la laurea, il periodo di tirocinio e gli esami di abilitazione.
Le pensioni di anzianità, già limitatissime
nel numero, sarebbero così destinare a sparire
per tutti i professionisti, con evidente disparità di trattamento con le altre categorie di
lavoratori, dipendenti e autonomi.
L ‘assoluta carenza di informazioni in ordine alla realtà delle Casse professionali è, inoltre, testimoniata dall’inserimento di tali Enti
fra quelli destinatari di una norma (art. 1,
comma 2, lettera 9-bis) che fissa un massima-
le ai nuovi trattamenti pensionistici pari ad
almeno _ 516,46 al giorno (circa 30 milioni
mensili di vecchie lire!). Importo che è ben al
di là di qualsiasi trattamento pensionistico
massimo erogato da tutti gli Enti previdenziali
dei professionisti. Appare del tutto oscuro
come tale disposizione possa trovare applicazione al mondo delle Casse professionali. Un
eventuale innalzamento degli attuali tetti in
modo così eclatante causerebbe la rovina
delle Casse e una simile interpretazione non
sembra in linea con le finalità dell’intero provvedimento legislativo. Quale che sia la corretta. interpretazione della norma, essa non può
trovare una razionale applicazione per le
Casse previdenziali dei professionisti.
È evidente, invece, che ben altri sono gli
interventi legislativi necessari a stabilizzare i
sistemi previdenziali delle Casse Professionali
e a garantirne la sostenibilità nel lungo periodo. Alcuni di questi interventi, peraltro, sono
previsti nella delega previdenziale, già approvata dalla Camera dei Deputati e attualmente
all’esame del Senato.
Altri sono stati messi a punto dall’Adepp,
dopo una intensa fase di studio che ha coinvolto tutti gli Enti previdenziali privati, e sottoposti all’attenzione del Ministro del Welfare,
On. Roberto Maroni, al quale è stato chiesto
un incontro.
In particolare le richiesta di modifiche ed
emendamenti alla delega previdenziale investono l’art. 6 del d.d.l. 2058/S, che riguarda
specificatamente gli Enti previdenziali privatizzati, di cui si chiede l’ampliamento mediante
l’aggiunta di una serie di commi relativi alle
seguenti materie:
l. Possibilità di gestire direttamente, anche in
forma congiunta, la previdenza complementare, adattando alla specificità degli Enti
alcuni: norme del D. Lgs. 124/93;
2. Possibilità dì istituire fondi immobiliari o
acquisire società immobiliari o quote delle
stesse anche tramite conferimento di
immobili in proprietà, con atri soggetti a
imposte di registro ipotecarie e catastali in
misura fissa;
3. semplificazione delle procedure: di approvazione ministeriale delle delibere degli
Enti nei casi in cui tale approvazione è
richiesta, con previsione di fornire di silenzio assenso in caso dì mancato diniego
entro 120 giorni dalla. comunicazione;
4. Possibilità, da parte degli Enti che lo ritenessero necessario, di introdurre il sistema
contributivo di calcolo delle pensioni previsto dalla legge 335/95 adattandone, in
modo flessibile, i parametri demografici
finanziari alla categoria professionale di
riferimento;
5. Estensione della tutela sanitaria integrativa
prevista nel 1° comma del d.d.l., 2058/S
anche agli Enti previdenziali di nuova costituzione (Biologi, Psicologi, Periti industriali,
Infermieri ed Ente pluricategoriale). L’Adepp,
inoltre, ha fatto propria la richiesta di introdurre alcuni fondamentali correttivi ai sistemi previdenziali degli Enti istituiti ai sensi
del D. Lgs. 103/96 per alcune categorie professionali (Psicologi, Biologi, Periti Industriali, ecc.) come proposto dagli Enti stessi.
A tal fine si è suggerita l’introduzione,
mediante apposito emendamento, di un articolo 6 bis che contenga misure specifiche per
tali Enti.
Il pacchetto degli emendamenti sottoscritti dall’Adepp contiene anche la richiesta
di adeguare la delega previdenziale all’accordo recentemente sottoscritto presso il Ministero del Welfare in tema di totalizzazione,
recependone il testo, con conseguente soppressione dell’art. 1, comma 2, lettera o) del
d.d.l. 2058/S, che contiene i principi di delega in parte incompatibili con la nuova disciplina dell’istituto.
L’articolata proposta dell’Adepp si chiude
con la richiesta di integrazione dì due articoli
(art. 1, comma 2, lettera 1 e art. 3, comma 3)
tendenti a risolvere definitivamente ogni dubbio circa il regime previdenziale cui sottoporre
le attività di co., co., co., svolte da soggetti
iscritti agli Albi e ad adeguare il regime fiscale delle Casse professionali almeno a quello,
di maggior favore, previsto per i fondi pensione integrativi.
Quest’ultima previsione, in particolare,
assume una rilevanza decisiva se si pensa che
oggi, sugli Enti previdenziali dei professionisti
grava una vera e propria doppia tassazione
che colpisce sia il momento dell’accumulo
delle riserve e gli investimenti sia in un
momento successivo, le rendite pensionistiche corrisposte agli iscritti.
La capacità propositiva dimostrata dalle
Casse Professionali merita l’attenzione di tutti
coloro cui sanno veramente a cuore i problemi
previdenziale di un milione di professionisti.
Credo sinceramente che i segnali di apertura e
di sensibilità politica recentemente manifestati dal Governo (vedasi la rapida approvazione
della legge sul “tetto” per le indennità di maternità alle libere professioniste) conducano ad
un radicale ripensamento sull’infausta norma
di equiparazione al regime pubblico e al recepimento delle articolate proposte dell’Adepp.
In caso contrario i professionisti italiani
sapranno, ancora una volta, stringersi a difesa
dell’autonomia delle loro Casse dì Previdenza.
MAURIZIO DE TILLA
(Presidente Adepp e Cassa Forense)
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Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza
Fondazione dell’Avvocatura Forense Italiana
Università di Camerino
Dipartimento di Discipline Giuridiche Sostanziali e Processuali
Auditorium Cassa Forense
Via Ennio Quirino Visconti, 6 ingresso galleria – Roma
Ciclo di seminari su:
Prof. Avv. Ferruccio Auletta
(Professore Associato di Diritto Processuale Civile – Università di Perugia)
Prof. Avv. Gianpiero Balena
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari)
Cons. Bruno Balletti
(Giudice Corte Suprema di Cassazione)
Prof. Avv. Girolamo Bongiorno
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Roma “La Sapienza”)
Prof. Avv. Domenico Borghesi
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Modena e Reggio Emilia)
Il giudizio di Cassazione: tecniche di redazione del ricorso e regole del procedimento
Prof. Avv. Antonio Briguglio
Giovedì 15 aprile 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00
(Presidente III Sezione Civile – Corte di Cassazione)
Il ricorso ordinario per Cassazione in Via Principale.
Tecniche di deduzione dei motivi ex nn. 1, 2 e 4
art. 360 C.P.C. Il principio di autosufficienza.
Le condizioni di ammissibilità.
Prof. Avv. Federico Carpi
(Straordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Roma Tor Vergata)
Prof. Vincenzo Carbone
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bologna)
Prof. Avv. Sergio Chiarloni
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Torino)
Prof. Avv. Franco Cipriani
Simulazione di un atto - Dibattito
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari)
Giovedì 29 aprile 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Cattolica del Sacro Cuore)
Il ricorso ordinario per Cassazione in Via Principale.
Tecniche di deduzione dei motivi ex nn. 3 e 5
art. 360 C.P.C. Il principio di autosufficienza.
Le condizioni di ammissibilità.
Prof. Avv. Claudio Consolo
Prof. Avv. Vittorio Colesanti
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Padova)
Prof. Avv. Giorgio Costantino
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari)
Pres. Giuseppe Ianniruberto
Simulazione di un atto - Dibattito
(Presidente IV Sez. Lavoro Corte Suprema di Cassazione)
Giovedì 13 maggio 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00
(Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato – Università di Roma “La Sapienza”)
Il controricorso e il ricorso incidentale.
Il ricorso incidentale condizionato.
Prof. Avv. Francesco Paolo Luiso
Simulazione di un atto - Dibattito
(Straordinario di Diritto Processuale Civile – Università Federico II di Napoli)
Prof. Avv. Nicolò Lipari
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Pisa)
Prof. Avv. Giuseppe Olivieri
Venerdì 4 giugno 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00
Prof. Avv. Renato Oriani
Il procedimento. La decisione. Cassazione
con o senza rinvio. Cassazione sostitutiva
e rimedi esperibili. Rapporti con il giudizio di rinvio.
Avv. Paolo Emilio Pagano
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Federico II di Napoli)
(Avvocato in Napoli)
Prof. Avv. Salvatore Patti
Simulazione di un atto - Dibattito
(Ordinario di Diritto Privato – Università di Roma “La Sapienza)
Giovedì 17 giugno 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00
(Ordinario di Diritto Commerciale - Emerito dell’Università di Messina)
Il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. I regolamenti di
giurisdizione e di competenza. Il ricorso per revocazione.
Prof. Avv. Nicola Picardi
Simulazione di un atto - Dibattito
(Docente di Diritto Fallimentare Università “Cà Foscari” di Venezia)
Modalità di svolgimento di ciascun seminario:
• Relazioni di base
• Interventi programmati
• Simulazione di un atto
• Dibattito
Prof. Avv. Vincenzo Panuccio
(Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Roma “La Sapienza”)
Prof. Avv. Mauro Pizzigati
Avv. Ernesto Procaccini
(Avvocato in Napoli)
Prof. Avv. Andrea Proto Pisani
(Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Firenze)
Prof. Avv. Pietro Rescigno
(Ordinario di Diritto Civile – Università di Roma “La Sapienza”)
Prof. Avv. Bruno Sassani
Relatori invitati
Prof. Avv. Modestino Acone
(Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Roma Tor Vergata)
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Napoli “Federico II”)
(Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Milano)
Prof. Avv. Guido Alpa
Prof. Romano Vaccarella
(Ordinario di Diritto Civile – Università di Roma “La Sapienza”)
(Giudice Corte Costituzionale)
Prof. Avv. Giovanni Arieta
Prof. Avv. Giovanni Verde
(Professore di Diritto Processuale Civile – Università di Camerino)
(Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Luiss “Guido Carli” Roma)
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Prof. Avv. Giuseppe Tarzia
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Aggiornamento Albi
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In giro per mostre...
ALBERT ANKER
(1831 - 1910)
Martigny - Fondation Pierre Gianadda
19 DICEMBRE 2003 - 23 MAGGIO 2004
Tutti i giorni, ore 10 - 18
Dal 19 dicembre al 23 maggio prossimi la
Fondation Pierre Gianadda di Martigny
ospiterà un’importante retrospettiva dell’opera di Albert Anker.
Da vivo, Anker è stato una celebrità internazionale. A partire dal 1859 ha partecipato regolarmente al Salon de Paris, dove
ottenne numerose medaglie.
Figlio di veterinario, nasce l’1 aprile 1831
ad Anet (Ins, in tedesco, Canton Berna) e lì
cresce, sul confine di due culture, quella
francofona e quella tedesca. Completa le
scuole dell’ obbligo a Neuchatel, dove frequenta i primi corsi di disegno, e consegue
quindi la maturità a Berna. Dall’autunno
del 1853, si trasferisce ad Halle, in
Germania per proseguire gli studi di teologia iniziati in Svizzera. Insoddisfatto all’idea di una carriera ecclesiastica, Anker
decide alla fine di diventare artista.
Si stabilisce a Parigi, dove segue i corsi
del pittore e docente svizzero Charles
Gleyre, presso cui già si erano formati
molti suoi compatrioti e dove sarebbero
poi passati i neoimpressionisti Claude
Monet, Auguste Renoir ed Alfred Sisley.
Nello stesso tempo si iscrive all’Ecole des
Beaux-Arts e comincia ad andare al Louvre
a copiare i maestri antichi. Ad Anet, nella
casa della sua infanzia, nel 1863, dopo la
morte del padre, allestisce un atelier e nel
1864 sposa Anna Ruefli, amica della sorella defunta. La coppia avrà sei bambini,
due dei quali moriranno, però, in tenera
età. La famiglia Anker passa regolarmente
l’inverno a Parigi e l’estate ad Anet.
Spesso l’artista si reca in Italia, dove si
dedica, fatto eccezionale, alla pittura di
paesaggio, in particolare con acquerelli
leggeri e atmosferici in cui dà evidenza
alla delicatezza della sua tavolozza.
La sua maestria nella tecnica dell’acquerello gli sarà particolarmente utile nel
corso degli ultimi dieci anni della sua vita,
quando, in seguito ad un attacco apoplettico, che gli rende inservibile la mano
destra, sarà costretto a rinunciare ai lavori
su tela per rivolgersi a motivi che gli erano
cari da sempre, le immagini della vita
rurale, trattate con un incrollabile vigore
creativo in centinaia di acquerelli.
Albert Anker è senz’altro il pittore svizzero
più popolare del XIX secolo, grazie anche
al fatto che i suoi personaggi -giovani
ragazze che lavorano a maglia, scolari
vivaci e allegri e vecchi che fumano la
pipa -sono facilmente accessibili al grande
pubblico. La sua arte è profondamente
radicata nella sua passione per la gente
semplice.
Anker fa una vita ordinata: il suo quotidiano è perfettamente organizzato. Egli registra regolarmente le sue spese e le sue
entrate su un «Livre de vente». Dopo la
nascita del primo figlio, si trova costretto
a cercare un’altra fonte di guadagno. E la
trova nel 1866 collaborando con Theodore
Deck, ceramista alsaziano, che lo incarica
di dipingere su piatti e pannelli ritratti e
personaggi tratti dalla storia e dalla mitologia.
Una continuità e una stabilità sorprendente segnano la sua opera, che manifesta
sempre il suo grande interesse per I’uomo.
È difficile dividere la sua creatività per
tappe, al fine di evidenziare il mutare progressivo della sua visione delle cose. La
sua tematica comprende da una parte
scene di genere con vari personaggi, dalla
composizione molto accurata, tratti dal
vivere rurale – la scuola, gli affari del
comune, gli avvenimenti importanti, come
matrimoni, battesimi e altro – e dall’altra i
ritratti di persone del suo ambiente. Anker
non ama i ritratti su ordinazione, ma dipinge i bambini che incontra nel suo quotidiano e che lo vanno a trovare nell’atelier.
Anker è vissuto nell’epoca del realismo. Il
suo realismo personale ignora la critica
sociale di un Millet o di un Daumier, così
come il trasfigurativo-aneddotico di un
Vautrier o di un Defregger. I suoi temi prin-
cipali ruotano attorno ai fatti e alle persone di tutti i giorni. Le ragazze che lavorano, gli scolari attenti, i vecchi bevitori, le
vecchie ingobbite costituiscono tipi particolari della sua rappresentazione; sono
esseri umani che appartengono a tutte le
età, dipinti secondo le sfaccettature più
varie, sorpresi nel compimento del loro
lavoro in un ambiente familiare.
In un certo numero di nature morte raffinate, Anker dà anche prova della sua capacità di realizzare una pittura eccezionale,
col minimo di gestualità.
La mostra della Fondation Pierre Gianadda
documenta, anche con un nutrito gruppo di
opere presentate qui per la prima volta,
tutte le tecniche di Anker – pittura, disegno, acquerello e ceramica – e tutte le sue
tematiche.
La rassegna intende rendere omaggio al
carattere intuitivo dell’ artista e alla finezza della sua pittura, così come al suo
senso della forma, del colore e delle tonalità. Nel ripercorrere tutto il suo iter creativo ci si rende conto che a ragione è da
considerare uno dei più importanti pittori
svizzeri di tutti i tempi di Martigny.
La cura dell’esposizione è affidata a
Therèse Bhattacharya-Stettler, conservatore al Kunstmuseum di Berna e autrice
del catalogo ragionato di Anker.
Il catalogo della mostra, pubblicato da
Fondation Pierre Gianadda, riproduce a
colori tutte le opere esposte. Testi di
Therèse Bhattacharya-Stettler (prezzo di
vendita: CHF 45.—; e 30.—).
Biglietto di ingresso: Fr. 15.- / e 10,50;
terza età: Fr. 13.- / e 9,00; famiglie: Fr.
35.- / e 24,50; bambini oltre 10 anni e
studenti: Fr. 8.- / e 5,60. Prezzi speciali
per gruppi.
Comprende anche la visita alla Collection
Franck, al Parco delle sculture, al Museo
gallo-romano, al Museo dell’automobile.
Informazioni: 0041.27.7223978 (in Italia:
031.269393); sito intemet:www.gianadda.ch
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In giro per mostre...
PIERO DORAZIO
RETROSPETTIVA A LOCARNO
La Pinacoteca Casa Rusca di Locarno, ospita sino al prossimo 30 maggio, una mostra retrospettiva del pittore Piero
Dorazio (Roma 1927); senza dubbio la rassegna più puntuale nell’affrontarne storicamente la creatività lungo tutto l’iter
evolutivo dell’artista. Locarno ha diversi significati per Dorazio, che, giovane artista, veniva spesso a fare visita a Jean Arp
che vi soggiornava. Arp, come noto, ha avuto un ruolo centrale nel processo che ha portato Dorazio al riconoscimento
della propria identità artistica, così come sono state significative l’amicizia e la collaborazione con altri artisti di stanza a
Locarno. La rassegna di Casa Rusca accoglie dipinti realizzati tra il 1947 e il 2003, che mostrano sia il processo personale
che Dorazio ha intrapreso nella sua formazione artistica, sia il percorso che, proprio grazie al suo contributo fondamentale,
ha consentito all’Italia di tenere il passo con la scena artistica mondiale moderna. Le opere esposte, quadri fondamentali
della produzione dell’artista, sono di provenienza, prevalente, della sua collezione privata, presupposto questo che, ovviamente, garantisce l’elevata qualità dell’esposizione. L’impostazione della mostra è stata curata da Annette PapenbergWeber, che è anche autrice della monografia che accompagna la mostra. L’opera di Dorazio ha ottenuto negli ultimi
decenni una considerazione e un riconoscimento costanti non solo tra gli addetti ai lavori ma anche tra collezionisti pubblici e privati di tutto il mondo. L’artista già dal 1959 aveva messo a fuoco la propria originale espressione e da allora le
sue opere sono state proposte in numerose esposizione internazionali di rilievo, a partire da Documenta II di Kassel del
1959 e dalla Biennale di Venezia del 1960, dove gli fu dedicata un’intera sala, così come pure avvenne nel 1966. Non
molto ampio, purtroppo, l’orario di visita della mostra, aperta tutti i giorni, escluso il lunedì, dalla ore 10:00 alle ore 12:00
e dalle 14:00 alle 17:00. Il biglietto di ingresso è di franchi 7 (e 5,00) ridotto franchi 5 (e 3,50), scolaresche gratuito. Il bel
catalogo, edito da Skira, è in vendita, in mostra, al prezzo di franchi 60 (e 40,00).
CANOVA
VAN DYCK
RIFLESSI ITALIANI
MILANO
PALAZZO REALE
SALA DELLE CARIATIDI
DAL 19 FEBBRAIO AL 20 GIUGNO 2004
INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI:
02 54912
www.vandyck.it
(1757-1822)
Grande antologica,
ripercorre l’opera dell’artista veneto
alla ricerca del bello ideale:
400 capolavori
tra cui marmi, monocromi, disegni
BASSANO DEL GRAPPA
MUSEO CIVICO
PIAZZA GARIBALDI
DAL 22 NOVEMBRE 2003
AL 12 APRILE 2004
INFORMAZIONI:
800685644
www.mostracanova.it
Rubrica a cura di RENATO COGLIATI
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Anno XIV - N. 1/2004