PERIODICO QUADRIMESTRALE A CARATTERE INFORMATIVO-PROFESSIONALE EDITO A CURA DELL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO Anno XIV - N. 1/2004 A causa di risalenti refusi tipografici, gli anni di pubblicazione di Toga Lecchese sono stati indicati in modo non corretto sui precedenti numeri, nel senso che, con il presente numero, la rivista entra nell’effettivo quattordicesimo anno di pubblicazione. SOMMARIO L’intervento del nuovo Presidente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 3 Consiglio dell’Ordine Biennio 2004-2005: incarichi ai Consiglieri .. “ 4 .................................. “ 4-5 La difesa dell’imputato nel processo di abuso sessuale di minore “ 6-7 Le barzellette di Popy ....................................................... “ 7 Liquidazione delle spese: obblighi di motivazione e modalità di impugnazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 8-9 Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti (legge 12/06/03 n. 134) . . . . . . . . . “ 10-13 Tre miliardi di battiti “ 14 “ 15 La difesa penale e il tema della verità .......................................................... Circolare per i praticanti avvocati ........................................ Piccolo memorandum per il “migliore dei mondi forensi possibili” Regolamento della pratica forense approvato da tutti gli ordini del distretto dell’Emilia Romagna Aderente ASTAF Associazione Stampa Forense Direttore Responsabile: RENATO COGLIATI Stampa: .. “ 16-17 .................. “ 18-19 Giurisprudenza Lecchese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ Associazione stampa forense - A.STA.F. Congresso annuale 7 febbraio 2004 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 21-23 Convenzioni in deroga ai minimi tariffari professionali . . . . . . . . . . . . . . . “ L’arbitrato nella riforma delle società “ 25-26 .................................... 20 24 Le casse private vanno escluse dalla riforma della previdenza pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ Seminario Cassa Forense “Il Procedimento di Cassazione: tecniche di redazione del ricorso e regole del procedimento: programma e scheda di partecipazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 28-29 Aggiornamento Albi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 30-38 In giro per mostre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 39-40 27 CATTANEO PAOLO GRAFICHE S.R.L. ANNONE BRIANZA - LECCO Autorizzazione n. 2/91 del Tribunale di Lecco 2 Cari Colleghi, il Consiglio dell’Ordine nella seduta del 6 Gennaio scorso, mi ha eletto Presidente. Immediatamente il mio pensiero è corso ai due Presidenti dell’Ordine che come me tanti altri Colleghi hanno avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare: l’Avv. Vincenzo Condò, storico Presidente dell’Ordine che più di trenta anni fa mi spronava agli esami e l’Avv. Eligio Cesana, Presidente dell’Ordine per tanti anni, ma sopratutto per me caro Maestro. Ricordando loro, mi rendo conto che la società civile e professionale è profondamente cambiata se mi ha permesso di essere nominata vostro Presidente. Ritengo però che non sono cambiati e non devono cambiare l’impegno e la serietà che deve contraddistinguere la nostra Professione. Certamente gli stimoli non mancano se molti giovani abbracciano la professione di Avvocato. È però compito di coloro che hanno avuto anche la fortuna di formarsi all’esempio dei Colleghi che ho ricordato e di molti altri che ci hanno preceduto, di inculcare nei più giovani Colleghi la convinzione che la nostra professione non è solo un mezzo di sostentamento, ma un compito sociale ed un servizio alla giustizia. Nel ringraziarVi della stima accordatami, Vi assicuro della mia attenzione e di quella di tutti i Consiglieri nel risolvere i problemi inerenti la nostra professione ed in particolare quelli Lecchesi. Sarà mia premura seguire l’ampliamento del Tribunale affinché si acceleri la soluzione del problema degli spazi, ormai non più rinviabile; l’attenzione nei confronti della formazione, con la programmazione di incontri di studio anche in collaborazione con altri Ordini Professionali; il contatto con il Politecnico affinché si possa disporre di consulenza specializzata nonché l’attenzione sui problemi quotidiani di gestione della Giustizia a Lecco. Per quanto riguarda l’accordo di onore di cui tanto si è discusso nelle passate settimane, lo stesso è già stato approfondito dal Consiglio nelle due prime sedute anche alla luce dei suggerimenti pervenuti dall’Assemblea. Il Consiglio ha ritenuto di rinviare la decisione finale sull’argomento dopo l’elezione del nono membro. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i Colleghi uscenti per la loro dedizione e competenza e per ringraziare i nuovi Consiglieri che già dalle prime sedute hanno dato prova di voler fare e sopratutto di aver compreso lo spirito di servizio che deve guidare il nostro compito. Ringrazio inoltre il Collega Avv. Cogliati che con la sua dedizione ci permette di stampare Toga Lecchese. Cordialmente. FRANCESCA ROTA 3 Consiglio dell’Ordine La difesa penale e il tema della verità Biennio 2004/2005 INCARICHI AI CONSIGLIERI: Procedimenti disciplinari: avv. Elena Barra avv. Walter Cerviatti avv. Gianmaria Ratti avv. Umberto Tomalino Rapporti con i praticanti: avv. Grazia Scurria - Responsabile avv. Walter Cerviatti avv. Antonio Corti avv. Gianmaria Ratti Commissione liquidazione parcelle: Penale: avv. Elena Barra Civile: avv. Walter Cerviatti Responsabile per le conciliazioni: avv. Enrico Azzoni Patrocinio a spese dello Stato: Ammissioni: avv. Elena Barra Parere congruità parcelle penali: avv. Elena Barra Parere congruità parcelle civili: avv. Walter Cerviatti Responsabili biblioteca: avv. Umberto Tomalino - Responsabile avv. Antonio Corti Consiglio Direttivo A.L.P.L. Avv. Gianmaria Ratti Referente C.N.F. per la formazione: Avv. Grazia Scurria Incontri di studio: avv. Grazia Scurria avv. Umberto Tomalino Servizi informatici ed Internet: avv. Antonio Corti Contatti con il Politecnico: avv. Umberto Tomalino 4 La nuova figura di difensore innescata dalla rivoluzione processuale del codice Vassalli, rinfocolata dalla L. 479/99 (c.d. Carotti), portata al proprio apice con la L. 397/00 sulle indagini difensive,rende non più eludibile il chiarimento del ruolo dell’avvocato che tale innovativa realtà è chiamato a vivere ed a far vivere. In questa prospettiva si è sviluppato un forte dibattito che la Camera Penale di Como e Lecco ha l’orgoglio di avere provocato a livello nazionale e che ha addirittura indotto il Presidente dell’Unione Camere penali Italiane, avv. Randazzo, a pubblicare un interessante pamphlet intitolato, per l’appunto “L’avvocato e la verità” (ed. Sellerio2003), mentre la rivista “Gli oratori del giorno” ha raccolto numerosi interventi di appassionati e studiosi della materia. Purtroppo la trattazione del tema in questione viene troppo spesso svolta senza l’applicazione di rigorosi criteri ermeneutica e con troppa approssimazione logica: ne derivano contrapposizioni talvolta solo apparenti o contraddizioni di fatto prive di fondamento. Contraddizione concettuale evidente è, per esempio, quella di coloro i quali affermano che neppure dovrebbe porsi il problema della “difesa del colpevole” posto che solo alla sentenza definitiva sarebbe “consentito” … stabilire chi sia “colpevole”; salvo poi, costoro, affrontare il problema dell’utilizzazione di prove “false” (vedi il tribolato art. 14 Codice Deontologico del C.N.F.) senza rendersi conto che simmetricamente, rispetto al problema del “colpevole”, anche per stabilire se si sia in presenza di “prove false”, occorrerebbe allora attendere la decisione giudiziale definitiva. Infatti per attestare la “falsità” di una prova deve necessariamente valere la medesima regola di giudizio applicata per determinare la “colpevolezza” di un individuo. Non confondiamo le idee con paralogismi fuorvianti e bandiamo, altresì, le ovvietà: a cominciare dalla “ovvietà” più “ovvia” di tutte, riguardante la tipologia di “verità” della quale dobbiamo parlare. Stabiliamo subito che l’unica “verità” rilevante sul piano operativo non può essere se non la “verità processuale”: ossia quel giudizio di valore che lega la validità della affermazione circa la sussistenza o meno di un fatto, non a conoscenze o considerazioni extraprocessuali, ma alla correttezza del procedimento dialettico utilizzato. Sicché, in questa visione essenzialmente “laica” della verità, il giudizio “vero/falso” attesterà semplicemente (e sufficientemente) che un dato fatto sarà risultato il solo compatibile (vero) o non compatibile (falso) con gli elementi evidenziati attraverso il procedimento acquisitivo ed argomentativo utilizzato. Sarà la correttezza o meno del metodo impiegato a determinare poi la esattezza del giudizio. Inutile disperderci in dubbi metafisici su concetti di “verità assoluta” o di “verità di fatto” ecc. ecc. E la “verità processuale” (sintetizzo allo estremo confutando quella che io considero una riduttiva concezione della “verità processuale” espressa da alcuni) può anche fondarsi su di una “confessione” resa dall’accusato al proprio difensore; non sussiste alcuna ragione logica perché l’avvocato non debba tenerne conto, sia pure a seguito di un corretto vaglio dei suoi contenuti, modalità e circostanze. Qualora la confessione risulti attendibile, il difensore “saprà”, per una ragione “processuale” e senza alcun bisogno di scomodare le categorie della “verità assoluta”, che il proprio assistito è, per “verità processuale”, colpevole. Ma che dire, poi, della vastissima e frequentissima casistica delle situazioni nelle quali è il difensore stesso a suggerire all’indagato una versione dei fatti addirittura difforme rispetto a quella riferitagli dall’assistito! Siamo onesti! Quante volte è proprio il difensore che “costruisce a tavolino” ciò che il proprio assistito dovrà “raccontare” al magistrato? E in tutti questi casi – che corrispondono probabilmente la grande maggioranza nella tipologia degli interventi difensivi – non vi è forse la irrefutabile consapevolezza del difensore che tali narrazioni esprimono una certamente inveritiera rappresentazione degli accadimenti, concorrendo irrimediabilmente a costruire falsi elementi orientati verso la elaborazione di una verità processuale indubbiamente menzognera? E allora qui cito l’avv. Chiusano: “Non nascondiamoci dietro un dito”! *** Altra “ovvietà” su cui non occorre nemmeno soffermarci è costituita dal fatto che qualsiasi imputato, per qualsiasi delitto, ha diritto ad essere difeso. Più complicato è riuscire a sottrarsi ad un empirismo operativo e passare alla individuazione di canoni generali di comportamento allorché il difensore si renda conto che, processualmente parlando, il proprio assistito è colpevole ma intende essere difeso “come innocente”. Il tema è complesso e non può essere qui adeguatamente affrontato: mi limiterò ad una breve considerazione. A me pare evidente che (a prescindere dalla sensibilità etica individuale) sul piano operativo vi sia un limite assoluto alla esplicazione di una attività difensiva in favore del “colpevole”: io individuo tale limite laddove, per sostenere l’innocenza di colui che so (processualmente) essere colpevole, fossi costretto a sostenere il mendacio di una persona offesa che so (processualmente) essere effettivamente vittima, o il mendacio di un teste che so (processualmente) essere veritiero. Così come mi sembrerebbe insopportabile rivendicare una inesistente (per mia conoscenza “processuale”) innocenza, utilizzando prove, sia pure non da me introdotte, che so (processualmente) essere false. Se non valessero nemmeno questi limiti comportamentali che considero minimi, mi domanderei quale funzione e che qualità etica potrebbe mai esprimere una avvocatura che svolgesse la sua “missione” (così è qualificata la nostra professione nel Codice Deontologico Forense) avvalendosi di mezzi tanto squalificanti. E mi chiederei di quale “nobiltà” (termine abusato in una infinità di proclami che gli organi rappresentativi dell’avvocatura partoriscono ad ogni piè sospinto) pretenderemmo ammantare un professionista cui fosse lecito utilizzare disinvoltamente sistemi da baro: ossia un professionista il quale considera lecito giocare con le carte truccate purché non siano state da lui personalmente truccate o inserite nel mazzo! Qui, ognun vede, non sfioro nemmeno il problema se siamo o non siamo pubblici ufficiali (cosa che, riferita al generale compito difensivo, mi sembra un’altra ovvietà) ma ambirei almeno pensare che neppure ci sia lecito essere azzeccagarbugli di così basso conio: protesi al conseguimento di un risultato vantaggioso purchessia per il nostro assistito, pensando che nel raggiungimento di questo fine bassamente utilitaristico consista la “nobile missione” dell’avvocato difensore. Io voglio credere ad un’altra misura di professionista! Voglio credere ad un avvocato che sia prima di tutto difensore della “toga”, baluardo di qualsiasi accusato (reo o innocente che sia) e di qualsiasi vittima, nonché emblema di quella libertà che solo può vivere se è garantita dal rispetto delle leggi da cui anche il colpevole di qualsivoglia nefandezza ha diritto di trarre la propria tutela. Un avvocato che, attraverso la “toga” così onorata, sia difensore dell’assistito non certo per garantirgli un utile qualsiasi (con l’unico limite del favoreggiamento), ma quell’utile, sostanziale e processuale, che l’applicazione di corretti parametri valutativi ed operativi consente, nel rispetto della funzione di elevato contenuto civile alla quale lo strumento processuale è orientato. In molti casi la individuazione di tali parametri è agevolata, sia pure con accettabili approssimazioni, dalla natura della vicenda giudiziaria (per esempio in ragione della modesta gravità degli addebiti o della semplicità o chiarezza del dato valutativo o delle conseguenti strategie): ma in moltissimi altri casi l’avvocato, la parte assistita ed il processo stesso non possono essere lasciati in balìa di parametri valutativi rimessi a sensibilità etica ed al senso del ruolo professionale del singolo difensore. Per questa ragione la Camera penale di Como e Lecco è impegnata, nell’ultimo anno del mio mandato, a rendere sempre più diffusa la cultura del nuovo avvocato difensore inteso quale rappresentante di un momento caratterizzato da elevato profilo ideale e consapevole della imprescindibile funzione sociale che la difesa, sia pure espressione di interessi di parte, è chiamata a svolgere attraverso lo strumento giudiziario. AVV. RENATO PAPA IMPORTANTE dal CONSIGLIO DELL’ORDINE Si invitano tutti i colleghi che già non vi avessero provveduto a comunicare all’Ordine gli incarichi giudiziari ottenuti nel corso del 2003, in adempimento di quanto previsto nella circolare del 11 ottobre 2002 a seguito di delibera del Consiglio dell’Ordine in data 4 ottobre 2002. 5 La difesa dell’imputato nel processo di abuso sessuale di minore Premetto che, sia che si rappresenti la parte civile, sia che ci si trovi a difendere l’imputato, la posizione del difensore è estremamente difficile. Mai come in questi casi tormenta il dubbio di trovarsi dalla parte giusta e di operare quindi con quella piena libertà, autonomia e indipendenza, lealtà e correttezza, con l’obbligo del segreto professionale, così come la figura dell’avvocato è stata configurata nella proposta di legge di riforma dell’ordinamento della professione di avvocato elaborata dal Consiglio Nazionale Forense. La difesa dell’imputato sconta il pregiudizio contro di lui non solo del Pubblico Ministero presso il Tribunale ordinario, che dovrà condurre le indagini, ma anche e forse più del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i Minorenni, che di norma è il primo a ricevere la segnalazione. Infatti, da chiunque provenga la denuncia o la segnalazione, il Tribunale per i Minorenni subito viene investito del caso, in quanto, non solo la Questura e i Carabinieri, ma anche i servizi sociali, hanno l’obbligo, tutte le volte: che sono coinvolti minori, di trasmettere gli atti al Tribunale per i Minorenni e specificatamente al Pubblico Ministero. L’ indagato viene di solito a sapere di aver assunto tale veste dopo aver ricevuto la notifica del decreto del Tribunale per i Minorenni, che allontana il figlio dall’abitazione familiare o come ora dovrebbe più spesso accadere - che ordina il suo allontanamento dalla residenza familiare o comunque la sospensione dei rapporti con il figlio. La difesa quindi si deve svolgere su due fronti- Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario. Quando poi la denuncia interviene nel corso del giudizio di separazione, 6 come spesso accade, vi è anche il Giudice della separazione, che può adottare provvedimenti. La magistratura ordinaria e il Tribunale per i Minorenni, che pure dovrebbero strettamente collaborare, non sempre lo fanno. Da un lato il Tribunale per i Minorenni accetta ciecamente la relazione, che gli perviene di solito dai servizi sociali del territorio e non vaglia in alcun modo l’attendibilità della segnalazione, che spesso si è rivelata frutto di fraintendimenti, cattive interpretazioni, suggerite da pregiudizi, da un atteggiamento colpevolista, perché ad essere colpevolisti non si sbaglia mai e non si può correre il rischio di approfondire meglio, perché l’approfondimento potrebbe recare pregiudizio al minore. Sulla scorta di questa impostazione, tanti casi si sono dimostrati dolorosi calvari per chi li ha subiti, per i minori stessi coinvolti, ma purtroppo il sistema non cambia. La fiducia che il Tribunale per i Minorenni nutre nei confronti degli psicologi e degli assi- stenti sociali dei Servizi sociali è cieca e assoluta; del resto sostengono di non poter fare diversamente, in guanto i servizi sono la loro longa manus e qui non possiamo dilungarci sulla natura del Tribunale per i Minorenni, che resta un organo amministrativo, che ben poco ha a che vedere con l’amministrazione della giustizia. Contro il decreto del Tribunale per i Minorenni il difensore può promuovere ricorso avverso il Tribunale stesso, trattandosi di decreti non definitivi, assunti spesso senza nemmeno sentire il PM., “stante l’urgenza”; nella prima fase delle indagini, il difensore non ha altra possibilità, ma il Tribunale per i Minorenni non prende alcun provvedi- mento, perché con il primo -decreto ha già incaricato i servizi di produrre, entro tre o sei mesi, una relazione sulla situazione del minore. Tutto quindi resta fermo e spesso nemmeno si può prendere visione di questa relazione dei servizi in quanto “secretata”, essendo un documento relativo all’indagine penale in corso. Solo quando si procede all’incidente probatorio per sentire il minore, il difensore può prendere visione degli atti di accusa, ma qui si apre un difficile capitolo. Non esiste alcuna regola che imponga al G.I.P. di nominare un consulente, che conduca l’interrogatorio, quindi, volta a volta, il Giudice stesso procede direttamente (ma può anche avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile) o delega un consulente, che non è un vero e proprio consulente d’ufficio perché spesso viene scelto tra il personale dipendente dell’A.S.L.. A norma dell’art. 398 comma 5 bis c.p.p., il Giudice è tenuto a stabilire con ordinanza il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio; l’udienza può svolgersi anche in un luogo diverso dal tribunale ed in particolare in locali muniti di un vetro a specchio direzionale ovvero, in mancanza presso l’abitazione dello stesso minore. La norma è carente in ordine alle modalità procedimentali nel senso che non è dato comprendere se l’ausilio di un familiare consista in una presenza rassicurante, ma rigorosamente muta, ovvero se l’esperto possa intervenire per far rilevare al giudice domande inopportune o, addirittura, per rivolgersi direttamente al minore. L’audizione protetta si svolge in un locale dotato di un vetro a specchio uni- direzionale e di un impianto di videoregistrazione e di citofono interno. Nella prima stanza vengono ad essere dislocati il minore, a volte affiancato da un esperto in psicologia, in ausilio del Giudice. La presenza del Giudice è importante perché ha lo scopo di far percepire al minore il significato processuale dell’atto. Purtroppo ho dovuto registrare un caso in cui il Giudice ha deciso di non essere presente nella stanza con il minore, dove è rimasta solo la madre e una dottoressa dipendente dell’A.S.L.. Nell’altra stanza, posta dietro lo specchio, sono presenti tutti gli altri soggetti, incluso l’indagato, che comunicano con un interfono. L’audizione protetta si presta a critiche, in quanto, evitando qualsiasi contatto tra il mino- re e l’imputato, si danneggia sensibilmente il fondamentale diritto dell’accusato di confrontarsi con il suo accusatore e si induce il giudice a conferire particolare credibilità alla vittima di abusi sessuali, condannando quindi l’imputato con una frequenza maggiore, che non nel caso in cui il processo si svolga secondo le regole dell’ordinario dibattimento. A norma dell’art. 194 c.p.p., in genere, insieme all’incidente probatorio, viene richiesta una consulenza sull’attendibilità del minore, i cui risultati dovrebbero essere discussi in sede di incidente probatorio, prima di effettuare l’audizione del minore. Si tratta di accertare se il minore, soprattutto se in tenera età, sia in grado di differenziare i suoi pensieri e sentimenti dai dati reali, percependo con nettezza la distinzione tra le proprie emozioni e gli accadimenti della vita, soprattutto in relazione alle sue concezioni di verità e bugia. Spesso in questo tipo di procedimenti viene disposta, a volte nelle forme dell’incidente probatorio, a volte per incarico del P.M., una perizia ginecologica sul minore. È evidente che se la perizia ginecologica viene svolta per incarico del P.M., il difensore dell’ indagato non ne sa niente, mentre l’esito viene comunicato al Tribunale per i Minorenni, con il quale quindi il confronto e le possibilità di difesa sono ridotte ai minimi termini. L’impegno del difensore avanti il Tribunale per i Minorenni non può essere che quello di scalzare le certezze suscitate dalle relazioni dei servizi sociali e di ottenere l’ ammissione di una perizia d’ufficio sulla attendibilità del minore, sulla vera natura del suo disagio, ma non sempre il difensore riesce a scalzare le false certezze e quindi non gli resta che puntare sulla richiesta di perizia in sede penale, ma anche lì non sempre il giudice applica l’art. 194 c.p.p.. In buona sostanza la difficoltà di difesa si basa sul fatto che le prove a carico sono spesso rappresentate, oltre che dalla deposizione del minore, dalle deposizioni delle psicologhe o assi- stenti sociali dei servizi, che hanno raccolto le confidenze del minore, ma è facile capire come, se i cosiddetti operatori dei servizi non hanno la necessaria super specializzazione richiesta in questi casi, gli errori sono molto comuni. Dall’analisi dei darti, risultano in aumento i casi in cui vengono coinvolti in procedimenti penali infamanti persone, che poi risultano innocenti. Del resto, quando un fenomeno diventa un problema sociale, uno dei rischi è quello di gonfiare le statistiche e di far diventare visibili fatti, che non esistono; la sensibilizzazione diviene così ipersensibilizzazione e questo porta a una preoccupante crescita di fraintendimenti ed errori, anche da parte di specialisti del settore, che hanno un’idea spesso stereotipata e la mantengono nonostante sia contraddetta dal- la loro stessa casistica, in quanto hanno un atteggiamento verificazionista, piuttosto che falsificazionista. FRANCA ALESSIO LE BARZELLETTE DI POPY Il giudice all’imputato: “allora, mi dica il motivo per cui ha ucciso sua moglie” “Perché l’ho trovata nelle braccia del suo amante!” “Va beh, ma perché proprio sua moglie e non l’amante?” “Signor giudice – sospirando – meglio una sola volta mia moglie, che un giorno sì e uno no i suoi amanti”. ❂ Discorso tra due amici: “allora come è andata la separazione giudiziale ?” “Benissimo! il giudice era il primo marito di mia moglie!” ❂ Il giudice all’imputato: “si procede ora alla lettura del certificato penale dell’imputato” “Faccia pure – dice l’imputato – però poi non dica che ho tirato in lungo il processo apposta!” ❂ Udienza di separazione. La moglie al giudice: “Signor Presidente, io vorrei tanto concludere una consensuale, ma a mio marito cosa è venuto in mente di chiedere l’affidamento di nostro figlio! ma ci pensa, signor Presidente! Io l’ho portato nove mesi in grembo, io l’ho allattato, io per due anni non l’ho perso di vista un secondo! Signor Presidente, lo deve affidare a me!” Il Presidente con la fronte corrugata, rivolto al marito : “Lei cosa ha da dire sull’argomento?” Il marito: ”Senta, signor Presidente, mettiamo che lei si trovi davanti ad una macchinetta che distribuisce cioccolata: lei infila una monetina, schiaccia il bottone, e la macchinetta le scodella una bella cioccolata calda. Ebbene, mi dica, secondo lei a chi appartiene la cioccolata, alla macchinetta o a lei ?” Il giudice dopo una breve pausa di riflessione : “Il bambino viene affidato al padre. La seduta è tolta”. 7 Liquidazione delle spese: obblighi di motivazione e modalità di impugnazione La liquidazione delle spese giudiziali da parte del giudice costituisce materia spinosa, già affrontata in questa rivista, con speciale riferimento ai problemi sollevati dalla giurisprudenza in tema di compensazione1. Altro tema oggetto di numerosissime pronunce della Cassazione è quello relativo agli obblighi di motivazione che vincolano il giudice nella determinazione delle spese, e alle possibilità di impugnazione in caso di violazione di tali obblighi. A una prima lettura delle massime la materia sembra viziata da contraddizioni insanabili, che però si rivelano, esaminando le sentenze per esteso, più apparenti che reali. Si può infatti disegnare un percorso coerente, suddiviso secondo i diversi aspetti di volta in volta portati all’esame della Corte. 1) OBBLIGHI DI MOTIVAZIONE NEL RIDURRE LA NOTA SPESE. È orientamento costante e incontrastato, e ribadito anche di recente, quello per cui “il giudice, in presenza di una nota specifica della parte non può limitarsi ad una globale determinazione, in misura inferiore a quelle esposte, dei diritti di procuratore ed onorari di avvocato, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione o riduzione2 di voci da lui operata allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi a norma dell’art. 24 della legge n. 794 del 1942”: così Cass. sez. lav ., 1/8/2002, n. 114833, per la quale la decisione che non si attenga a tale principio è ricorribile per mancanza di motivazione e per violazione di legge, in relazione appunto all’art. 24 l. 794/42. Cass., sez. lav., 21/7/2001, n. 9947 specifica ulteriormente che tale obbligo 8 di motivazione vale sia per gli onorari che per le competenze, e anche per gli esborsi indicati in nota spese; anche per essi, il giudice deve indicare le voci della tariffa in base alle quali li considera ingiustificati o eccessivi. Il principio in esame è affermato sia nel caso di liquidazione delle spese effettuata nella sentenza che chiude il giudizio (ex art. 91 c.p.c.), sia nel caso di decisione sull’istanza di liquidazione ex artt. 28 e 29 l. 794/42, salvo aggiungere, per quest’ultimo caso, che dato il carattere sommario del procedimento l’ordinanza non deve essere motivata come una sentenza, ma ugualmente deve esporre almeno sommariamente il ragionamento seguito e le ragioni per cui siano stati disconosciuti compensi o rimborsi indicati in parcella (Cass. 13/1/1997, n. 246). Infine, è degna di rilievo anche Cass., sez. lav ., 28/12/1998, n. 12856, la quale chiarisce che la Corte, se accoglie il ricorso avverso la decisione che non contenga alcuna motivazione circa la riduzione della nota spese, può, ex art. 384 c.p.c., “provvedere direttamente alla determinazione del dovuto, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto“. 2) È AMMESSA LA LIQUIDAZIONE GLOBALE DELLE SPESE, CON SEPARATA INDICAZIONE DEGLI ONORARI, MA SOLO IN PRESENZA DI NOTA SPESE. Fatti salvi gli oneri di motivazione che si sono visti, altro principio costantemente ribadito è che il giudice -che deve sempre mettere le parti in condizione di verificare il rispetto dei limiti di tariffa – può liquidare le spese legali con una somma globale, purché siano indicati in maniera separata gli onorari, con la formula “si liquidano le spese in complessivi Euro ..., di cui Euro ... per onorari”. Secondo la Cassazione, ciò permette alla parte, per esclusione, di verificare quanto è stato liquidato a titolo di competenze ed esborsi4. In verità il discorso, per avere una logica, richiede una specificazione, che puntualmente si ritrova con la lettura per esteso delle sentenze: il principio esatto è che la liquidazione globale fatta nel modo che si è detto è ammissibile solo quando la parte abbia presentato nota spese specifica: in questo caso (e solo in questo), si presume che il giudice abbia voluto attenersi a quanto in essa indicato, e quindi si può verificare quanto abbia inteso liquidare. Così Cass., 30/7/2002, n. 11276 e Cass., 16/2/1995, n. 17075. In pratica: una volta sottratti gli onorari, la cui indicazione specifica è ovviamente necessaria perché il loro importo può fluttuare tra i minimi e i massimi di legge, si presume che il giudice abbia riconosciuto le voci di competenze ed esborsi indicate dalla parte in nota spese, e si può così verificare se la liquidazione corrisponda alla richiesta: qualora così non fosse, e mancasse adeguata motivazione, la sentenza è impugnabile, anche in Cassazione, come visto sub A). Addirittura, Cass., 1/2/2000, n. 1073, dopo avere confermato in via generale la necessità dell’indicazione degli onorari, ammette la liquidazione globale con un’unica cifra comprensiva di tutte le voci, quindi anche degli onorari, qualora tale somma sia conforme al totale indicato in nota spese, definita il “naturale riscontro” della liquidazione del giudice. Quando invece non sia stata presentata la nota spese, il giudice, che ha il poteredovere di liquidare ugualmente le spese giudiziali sulla base degli atti di causa, “deve indicarli specificamente nella misura necessaria a consentire il controllo di conformità” ai limiti minimi e massimi della tariffa (Cass., 30/7/2002, n. 112766), ossia deve richia- mare espressamente le attività che riconosce essere state svolte dal difensore e liquidare le spese di conseguenza. Ciò perché, mancando il “naturale riscontro” della nota spese, sarebbe impossibile scomporre una liquidazione globale imputando a ogni tipo di voce ( onorari / competenze / spese imponibili / spese non imponibili) la relativa quota di spese. 3) IMPUGNAZIONE E ONERE DI SPECIFICAZIONE Come si è visto sub 1) e sub 2), il capo della sentenza relativo alle spese è impugnabile, anche in Cassazione, e la liquidazione delle spese può essere legittimamente fatta in misura globale, salva l’indicazione degli onorari. Destano quindi perplessità le massime come quella di Cass., 23/5/2002, n. 7527, per la quale la liquidazione degli onorari “non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate”; la contraddizione con la possibilità concessa al giudice di liquidare gli onorari con un’unica somma globale è però solo apparente: leggendo la stessa sentenza Cass., 7527/2002 per esteso si chiarisce il malinteso, quando la Corte statuisce: “fa specificazione va intesa nel senso di indicazione anche dei conteggi che rilevino l’inadeguatezza delle somme liquidate, non potendoli svolgere questa Corte attraverso accertamenti di fatto”. Il ricorso che originò tale decisione era presentato da un avvocato che impugnava l’ordinanza emessa a termine di procedimento ex art. 28 l. 794/42 per la liquidazione degli onorari nei confronti del cliente: illegale lamentava che il Tribunale avesse ridotto al di sotto del minimo di legge l’ammontare degli onorari indicati in parcella. Ciò era dimostrato dal fatto che la somma dei minimi tariffari previsti per gli onorari relativi alle attività svolte era superiore a quanto liquidato dal Tribunale. Ebbene la Corte ritiene il ricorso non sufficientemente specifico, ricordando che la tariffa forense allegata al D.M. 5/10/1994, n. 585 prevede per ciascuna attività un onorario base, indicato in un minimo e un massimo, stabilendo poi i coefficienti per cui tale onorario va moltiplicato a seconda dello scaglione di valore della causa. Illegale avrebbe perciò dovuto indicare specificamente la voce della tariffa che prevedeva tale onorario minimo (nella specie il n. 53 del paragrafo X), e quella che stabiliva il coefficiente di moltiplicazione (nella specie il paragrafo IX, richiamato dal n. 56 del paragrafo X), e avrebbe dovuto sviluppare il conteggio utilizzando tali fattori, ossia onorario base x coefficiente = onorario dovuto. Illegale, invece, aveva indicato solo il risultato finale di tale conteggio, senza però indicarne i fattori, per cui la Corte non poteva verificare la fondatezza del ricorso. Tante altre sentenze ribadiscono lo stesso principio 7, forse un po’ troppo rigoroso, a fronte del fatto che sono pubblicate, e diffusissime, le tariffe forensi con gli importi già calcolati per ciascuna attività e ciascuno scaglione. Altro principio stabilito dalla giurisprudenza (analogo a quello appena visto) è quello per cui il ricorso in Cassazione contro la liquidazione delle spese deve riportare le singole voci della nota spese ridotta globalmente8: analoga è anche la ratio di tale onere: se il ricorrente non richiama, ossia non riproduce le voci della nota spese di cui lamenta il mancato rispetto, la Corte non è in grado di verificare la doglianza, pertanto il ricorso non è autosufficiente, e quindi è inammissibile. Emblematica al riguardo è Cass., 118/2002, n. 11483, già citata sub 1), in quanto dichiara l’obbligo del giudice di motivare adeguatamente la liquidazione di onorari e competenze in misura inferiore a quanto chiesto in nota spese. Ebbene, nel caso di specie il ricorso riguardava sia la misura degli onorari sia quella delle competenze e delle spese, ma veniva accolto solo riguardo agli onorari, “le cui voci, contenute nella relativa nota presentata al giudice, sono state riportate ne l ricorso per cassazione”; invece, continua la Corte, “non è fondata la doglianza relativa alle spese vive e ai diritti di procuratore, essendo mancata qualsiasi loro specificazione da parte del ricorrente idonea a consentire un controllo di legittimità”. RICAPITOLANDO Non è richiesto che il ricorrente indichi le specifiche-attività che lamenta non essere state riconosciute dal giudice (es.: partecipazione alle udienze) o che il giudice avrebbe liquidato in misura inferiore ai minimi di tariffa (es.: per la partecipazione alle udienze è stato liquidato Euro ... invece di Euro ...). Ciò sarebbe impossibile, a fronte di una liquidazione globale, che non permette di capire ne se sia stata riconosciuta la partecipazione alle udienze, ne quanto sia stato per essa liquidato. Il ricorrente può senz’altro sottoporre alla Corte la somma degli onorari che richiede, o la somma dei minimi tariffari, e lamentare che la sentenza impugnata li ha liquidati in misura inferiore: deve però, a tal fine, riportare tutte le voci della nota spese e indicare i conteggi che portano a tali somme. GIULIO BINI 1 Cfr. i contributi di Stefano Graziosi in Bologna Forense n. 3/1994, pag. 15; n. 3/1996, pag. 31, e n. 2/2000, pag. 32. 2 L’endiadi “eliminazione o riduzione” è opportuna, perché la riduzione del liquidato rispetto al richiesto può derivare o dal fatto che il Giudice ha ritenuto errato lo scaglione indicato oppure, fermo questo, dal fatto che non ha ritenuto effettivamente svolte delle attività riportate in nota spese. 3 Conformi, oltre a quella di seguito nel tes!o, Cass., 18/10/2001, n. 12741; Cass., 16/3/2000, n. 3040; Cass. 2/7/1999, n. 6816; Cass., 30/10/1998, n. 10864; Cass. Sez. lav. 15/12/1997, n. 12672; Cass., 27/10/1995, n. 8872; Cass. 5/8/1985, n. 4387; Cass., 6/3/1982, n. 1441; Cass., 7/5/1981, n. 2977. 4 In tal senso, tra le tante, Cass.,3/1/1995, n. 52; Cass., 26/7/2002, n. 11006. 5 La cui massima recita: “La liquidazione globale può essere ammessa (in ogni caso con indicazione separata degli onorari di avvocato rispetto ai diritti di procuratore) solo se sia stata presentata la nota delle spese a cura della parte cui vanno rimborsate, dovendosi in tal caso presumere che il giudice abbia voluto liquidare le spese in conformità di tale nota”. 6 Di cui è interessante notare che si pronunciò sul ricorso del soccombente in appello, che lamentava l’eccessività delle somme liquidate, da lui ritenute superiori ai massimi di tariffa. La Corte accoglieva il ricorso, rinviando alla Corte perché procedesse a nuova liquidazione. 7 Cass. sez. lav., 12/1112001, n. 14011; Cass., 31411999, n. 3267; Cass., 1911011993, n. 10350. 8 Cass., 1811012001, n. 12741; Cass., 16/3/2000, n. 3040. 9 Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti (Legge 12.06.03 N. 134) Vari sono stati gli interventi di grandi nomi del Mondo Accademico, della Magistratura e della Avvocatura italiana che, nell’arco degli ultimi mesi, si sono apprestati a commentare la legge 12/06/03 n° 134. Fra i più importanti, ricordo quelli intervenuti al convegno, dal titolo: “Il patteggiamento allargato: scenari sistematici e problemi interpretativi”, tenutosi il 07/11/03 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, ove si sono avvicendati: Mario Chiavario, Presidente dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale, Vittorio Grevi, Vicepresidente della medesima, Giorgio Marinucci, Direttore dell’Istituto di Diritto Penale e Procedura Penale presso l’Università degli Studi di Milano, Paolo Ferrua, Ordinario di Procedura Penale presso l’Università di Torino, Paolo Ielo, Magistrato presso il Tribunale di Milano ed Ennio Amodio, Ordinario di Procedura Penale presso l’Università degli Studi di Milano. Nonché i relatori avvicendatisi, il 03/07/03, al convegno, intitolato: “Modifiche al Codice di Procedura Penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti (Legge 12/06/03, n° 134)”, ed organizzato, presso il Palazzo di Giustizia di Milano, dal Consiglio Superiore della Magistratura Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata del Distretto di Milano, di alcuni dei quali mi appresto ad affrontare le singole posizioni, rinviando ad una prossima trattazione il completamento dell’analisi delle stesse. I primi contributi alla discussione sono stati forniti da due Giudici per le Indagini Preliminari appartenenti al Tribunale di Milano, Renato Bricchetti e Luca Pistorelli, i quali hanno esposto il tema del nuovo modello di patteggiamento, che non inciderebbe sull’unitarietà dello istituto (artt. 1-3 legge 12/06/03, n° 134). Le ragioni e le prospettive della riforma Da tempo andava diffondendosi l’idea che le potenzialità processuali del patteg10 giamento fossero soffocate da limiti di pena troppo angusti, il potere negoziale delle parti imbattendosi nello invalicabile ostacolo dei due anni di pena detentiva “soli o congiunti a pena pecuniaria”, sicché l’entità di quest’ultima, idealmente convertita ex art. 135 c.p. in pena detentiva, riduceva oltremodo l’ingresso al rito, una volta che l’imputato aspirasse a contenere il trattamento sanzionatorio entro i limiti della concessione della sospensione condizionale, attesa la diversa disciplina contemplata dall’art.163 cp. All’innalzamento del “tetto” ha ora provveduto, seppure con alcuni distinguo, la legge in parola, che, aggiungendo al primo comma dell’art.444 cpp un nuovo comma 1bis, ha modificato il comma 1, elevando il limite massimo di pena detentiva applicabile su richiesta delle parti a cinque anni, ma lasciando immutata la precisazione circa l’applicazione autonoma di questa ultima, o congiunta a pena pecuniaria. Il nuovo comma aggiunto dalla novella all’art. 444 c.p.p. introduce, invece, un catalogo di cause oggettive e soggettive di esclusione dall’accesso all’istituto, la cui operatività è peraltro circoscritta dalla stessa norma esclusivamente al caso in cui accusa e difesa vogliano concordare una pena detentiva inferiore ai cinque anni, ma superiore ai due, che costituivano l’unico ed originario limite posto dal codice per l’ammissibilità del patteggiamento. La legge 134/03 non ha introdotto un “nuovo” istituto (una sorta di “terzo” rito alternativo), che si affianchi al patteggiamento già contemplato nel codice di rito, bensì ridisegnato quest’ultimo, ampliandone d’applicazione, risultando dovuta, tale precisazione, alla luce della distinzione operata, nel comma 1-bis dell’art. 444 c.p.p. e nel nuovo testo dell’art. 445 cpp, tra il patteggiamento di una pena inferiore ai due anni o superiore a questo limite, al fine dell’applicazione di alcune disposizioni speciali. Invece, anche a seguito delle modifiche apportate dalla novella, l’istituto rimane disegnato, in maniera unitaria, come rito alternativo a quello ordinario, legato alla negoziazione della entità della pena tra accusa e difesa, con implicita rinunzia, da parte dell’imputato, allo accertamento dibattimentale dei fatti contestatigli, in cambio dell’applicazione di una diminuzione fino ad un terzo della pena medesima. In quest’ambito il legislatore ha tracciato un’inedita linea di demarcazione, rappresentata dalla negoziazione di una pena detentiva non superiore ai due anni, prevedendo soltanto in questi casi l’operatività dei benefici originariamente collegati alla scelta del rito, ed ammettendo, sempre solo in questi casi, un accesso indiscriminato al patteggiamento, senza limitazioni, cioè, legate al tipo di reato o di autore. Potendo, l’essenza del provvedimento di riforma, essere individuata nell’innalzamento dei limiti della pena detentiva negoziabile ai sensi dell’art.444 cpp, l’obiettivo prefissatosi dal legislatore attraverso il provvedimento in esame consiste nell’alleggerimento del contenzioso penale, col conferimento al patteggiamento della massima potenzialità deflattiva. Ma il legislatore sembra aver peccato di un eccesso di ottimismo, potendosi prevedere, nella più rosea delle ipotesi, che si assisterà ad un significativo aumento delle richieste di patteggiamento, calibrate su pene superiori rispetto al passato, soltanto da parte di quegli imputati che non temono in maniera particolare i tempi di rapida formazione del giudicato immanenti al rito, o perché stanno già scontando lunghe pene detentive, o perché detenuti in via cautelare per reati con pene edittali assai elevate ed in situazioni processuali che non lasciano prevedere la possibilità di potere, prima della condanna definitiva, lucrare lospirare dei termini custodiali. È ragionevole attendersi un incremento delle richieste di applicazione di pene detentive superiori ai due anni, ma contenute entro i limiti di accesso ai benefici previsti dallo ordinamento penitenziario, ovvero di pene da calcolare in continuazione su quelle irrogate con precedenti patteggiamenti, che, complessivamente consi- derate, determinerebbero lo “sforamento” della barriera dei due anni. Ma se, al di fuori di questi casi, non si vede per quale ragione l’imputato dovrebbe chiedere l’applicazione di una anche consistente pena detentiva, che sarebbe in breve tempo chiamato a scontare, senza poter accedere agli altri benefici tradizionali del rito, ora riservati esclusivamente al patteggiamento “minor”, va osservato che la prassi insegna come le fattispecie sopra individuate già trovavano adeguata composizione nell’accesso al rito abbreviato. In altri termini, il risultato principale che la riforma sembra in grado di produrre è quello di provocare un “travaso” da un rito alternativo all’altro (dall’abbreviato al patteggiamento), con effetti affatto neutri sul numero dei procedimenti che approdano alla fase dibattimentale in primo grado, ed, eventualmente, apportando un sollievo soltanto ai carichi delle Corti d’Appello. In definitiva, sorge spontaneo chiedersi se l’unico “valore aggiunto” rinvenibile nella legge 134/03 non sia rappresentato dalla previsione di una generalizzata restituzione in termini per la proposizione della richiesta di patteggiamento e dalla sospensione dei dibattimenti (minimo 45 giorni, a richiesta dell’imputato), operate dalla norma transitoria dell’art. 5! Il patteggiamento “allargato” e le esclusioni oggettive e soggettive (art. 1) Il nuovo comma 1-bis aggiunto dalla novella all’art.444 cpp prevede due cause, una oggettiva e l’altra soggettiva, di esclusione dal patteggiamento della pena detentiva superiore ai due anni. La disposizione preclude l’accesso all’applicazione di una pena superiore a tale limite quando si procede per i delitti previsti dall’art.51,commi 3-bis e 3-quater cioè per quelli di criminalità organizzata e di terrorismo -, nonché a coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, ovvero recidivi, nell’ipotesi della recidiva reiterata di cui all’art. 99, 4° co. c.p.. Quindi, qualora ricorrano le fattispecie testé elencate, la situazione normativa rimane identica a quella passata, traducendosi la prevista esclusione nell’impossibilità di fruire dell’innalzamento a cinque anni del tetto di pena detentiva raggiungibile col patteggiamento, ma non nel divie- to di accedere al patteggiamento contenuto entro i limiti di pena originariamente previsti dal codice di rito. La formula utilizzata dal legislatore (“sono stati dichiarati”) suggerisce, peraltro, che la preclusione “soggettiva” non si estenda ai procedimenti nei confronti di coloro che dovrebbero essere dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi in occasione dell’applicazione della pena richiesta ai sensi anche del nuovo testo dell’art. 444, 1° co. c.p.p., bensì soltanto a quelli nei cui confronti le summenzionate dichiarazioni siano state adottate in una precedente sentenza. Le esclusioni sono ancorate ad una ritenuta maggior gravità di talune classi di reati ed alla dichiarata pericolosità di talune tipologie di delinquenti. Le esclusioni “soggettive” vanno ad aggiungersi agli altri effetti “negativi” collegati alle dichiarazioni di delinquenza qualificata o alla recidiva già contemplati dall’ordinamento penale, quali: l’inapplicabilità dell’amnistia e dell’indulto, l’inammissibilità della oblazione delle contravvenzioni punite con pena alternativa, la non concedibilità della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale, il raddoppio dei termini per la riabilitazione. Le esclusioni “oggettive” s’inseriscono, invece, nel cd. “doppio binario” processuale, riservato a quei procedimenti che abbiano ad oggetto reati considerati “ipso iure” di elevatissimo allarme sociale, e che contempla una disciplina differenziata e meno garantita in materia di segretazione delle iscrizioni nel registro ex art.335 cpp, di intercettazioni telefoniche, di durata delle indagini preliminari, di loro proroga, ecc. Entrambe le cause di esclusione, peraltro, suscitano qualche perplessità in ordine alla loro compatibilità con i principi costituzionali, quanto meno sotto il profilo della razionalità che giustificherebbe le discriminazioni introdotte, rappresentando una novità l’impedimento dello accesso ad un rito alternativo in ragione della dichiarata pericolosità dell’imputato o della gravità del reato contestato. Mal si comprende perché l’esclusione non riguardi l’accesso al patteggiamento “tout court”, ma soltanto a quello “allargato”, dovendo valere in ogni caso la qualificazione di legittima causa di esclusione dal rito della ritenuta maggior gravità di alcuni reati, attesa la valutazione compiuta dal legislatore in astratto, cioè per categorie di reati. Né l’obiezione, che proprio la maggiore entità della pena che dovrebbe essere applicata in concreto legittimerebbe la scelta legislativa, presenta pregio, trascurando la possibilità, per l’imputato per quei reati, di raggiungere – comunque sfruttando una diminuente processuale – la stessa pena che avrebbe richiesto di patteggiare, attraverso il rito abbreviato, cui coerenza imporrebbe gli venisse ugualmente impedito di accedere. Ma ancor più irrazionale sembra la possibilità per l’imputato, la cui pericolosità sia stata certificata da una dichiarazione di delinquenza qualificata o dal riconoscimento della recidiva reiterata, di accedere comunque al patteggiamento “minore” e non a quello “allargato”, atteso che la minore entità della pena applicata in concreto non scalfisce la pregressa affermazione di tale pericolosità, che anzi viene confermata dal fatto oggettivo che comunque egli ha nuovamente violato la legge penale, commettendo un ulteriore reato, per cui chiede la applicazione della pena. Inoltre, atteso che le situazioni di delinquenza qualificata e la recidiva, per essere riconosciute, vanno previamente contestate dal pubblico ministero, si manifesta un ulteriore profilo di potenziale disparità in dipendenza del comportamento tenuto dall’organo dell’accusa, potendo questi consentire all’imputato il futuro accesso al patteggiamento “allargato” semplicemente non contestando la recidiva, benché sussistente, senza dover nemmeno dar conto dei motivi della sua scelta. Sotto altro profilo, l’adozione di una disciplina processuale differenziata per i procedimenti aventi ad oggetto i reati di criminalità organizzata e di terrorismo si è sempre giustificata in ragione della sua funzionalità alla garanzia dell’effettività delle indagini e dei processi che li riguardano, alla luce del peculiare contesto in cui tali reati vengono consumati. L’esclusione del patteggiamento, seppure solo nella sua forma “allargata”, sembra invece assumere un carattere quasi “punitivo” e funzionale soltanto ad esigenze di rassicurazione della opinione pubblica (del tipo: con gli autori di certi reati lo Stato non scende a patti), tanto più che colui che è imputato di questi reati rinunzia alla celebrazione del dibattimento ed 11 accetta l’applicazione di una pena, anche rilevante, con conseguente risparmio di energie processuali, né più né meno che ogni altro imputato, rinunziando, cioè, a molto più di quello cui deve rinunziare per raggiungere lo stesso livello di pena attraverso il giudizio abbreviato. Ma, a parte la perplessità che la norma suscita sul piano della sua legittimità costituzionale, essa genera non pochi problemi sul piano applicativo, dovendocisi chiedere cosa accadrà quando un imputato che abbia patteggiato una prima volta una pena di tre anni, per un reato non ricompreso nel catalogo del comma 1-bis dell’art. 444 c.p.p., chieda successivamente l’applicazione di un’altra pena di alcuni mesi, come aumento per la continuazione su quella precedentemente riportata, ma in relazione ad un reato che, seppur meno grave, rientra tra quelli per cui è precluso il rito nella forma “allargata”. Ed in termini altrettanto problematici si presenta il caso inverso, dove il primo patteggiamento , contenuto inevitabilmente entro i due anni, sia stato concesso per un reato di criminalità organizzata o di terrorismo, e a dover essere patteggiato in continuazione sia un reato “comune”, ponendo, in entrambi i casi, lo “sforamento” dell’entità della pena complessiva nella fascia “protetta”, un problema di ammissibilità dell’accesso al secondo patteggiamento che non si presenta di facile soluzione, evidenziando quanto poco saggio sia stato introdurre nel sistema processuale questo elemento di rigidità. La legge 134/03 apre effettivamente nuovi orizzonti al patteggiamento, ma a quello “minor”, determinando, l’innalzamento dei limiti edittali delle pene che possono essere sostituite ai sensi degli artt. 53 ss. L. 689/81, ad opera dell’art. 4 della novella, un inevitabile aumento delle richieste ex art. 444 c.p.p., soprattutto nei casi in cui la sanzione possa essere contenuta entro i sei mesi di pena detentiva e, dunque, sostituita con quella pecuniaria. È ragionevole attendersi un incremento delle richieste di patteggiamento per pene detentive contenute entro i limiti di accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, e sarebbe stato opportuno, per una migliore razionalizzazione del sistema, far coincidere i reati per i quali il patteggiamento “allargato” è escluso con quelli per i quali non può essere disposta 12 la sospensione dell’esecuzione ex art. 656,5° co. c.p.p.. Questo secondo catalogo di reati, desumibile dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, esplicitamente richiamato dall’art. 656,9°co. cpp, è più ampio, con la conseguenza che, in relazione a tali reati, l’eventuale accesso al patteggiamento “allargato” non potrebbe essere assistito dall’eventuale sospensione dell’esecuzione della pena. Infine, il legislatore non ha “allargato” il patteggiamento nella fase esecutiva, essendo rimasto inalterato l’art. 188 disp. att. c.p.p., il quale prevede che, nel caso di più sentenze di patteggiamento pronunciate in procedimenti separati, il condannato ed il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione del reato continuato “quando concordano sull’entità della sanzione sostitutiva o della pena, sempre che quest’ultima non superi complessivamente due anni di reclusione o di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria”. Non essendo chiaro se si sia trattato di scelta consapevole o mera dimenticanza, non essendo percepibili le ragioni della prima, atteso che l’allargamento del patteggiamento potrebbe essere, negli stessi casi, ammissibile nella fase di cognizione, s’insinua il dubbio di una sopravvenuta incompatibilità della citata disposizione di attuazione con i principi affermati dall’art. 3 Cost. Gli incentivi non applicabili al patteggiamento “allargato” (articolo 2) Il menu degli incentivi del patteggiamento, diversi dalla diminuzione di pena, è contenuto nell’art. 445 c.p.p., cui l’art. 2 della legge in esame ha apportato significative modifiche, quali la risistemazione e suddivisione nei nuovi commi 1 ed 1-bis del precedente comma 1, precisando, il nuovo comma 1, che i “benefits” rappresentati dall’esonero delle spese processuali e dall’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza detentive conseguono solo alla sentenza che applichi una pena detentiva non superiore a due anni “soli o congiunti a pena pecuniaria”, sotto questo profilo, rimanendo tutto come in passato. L’indagato o imputato che accederà al patteggiamento “allargato” dovrà, invece, essere condannato al pagamento delle spese del procedimento e si vedrà applicare, sussistendone i presupposti e senza necessità di accordo, pene accessorie e misure di sicurezza, dovendosi, ciò, verificare anche nel caso di una sentenza che si limiti ad applicare, su richiesta, aumenti di pena detentiva per i reati “satellite” di un’accertata continuazione: si pensi al caso in cui, con una prima sentenza di patteggiamento, sia stata applicata all’indagato o imputato la pena detentiva di due anni e, di conseguenza, non sia stata pronunciata la condanna al pagamento delle spese di procedimento, né siano state applicate pene accessorie o misure di sicurezza. Se, con una seconda sentenza, si applica al medesimo imputato o indagato, per un reato in continuazione, un aumento di pena detentiva comportante il superamento del limite dei due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, il giudice, con questa seconda sentenza, dovrà condannarlo al pagamento delle spese anche del primo procedimento e, se del caso, applicargli, anche in relazione al primo procedimento, pene accessorie e misure di sicurezza. Le novità del comma 1 dell’art. 445 c.p.p. si estendono alla confisca, affermando, la nuova disposizione, che con la sentenza di patteggiamento va disposta la confisca “nei casi previsti dall’art. 240 c.p.”, mentre il precedente comma 1 prevedeva che con la sentenza di patteggiamento potesse essere disposta la confisca nei soli casi previsti dall’art. 240, 2° co. c p. È venuto meno, dunque, il richiamo al secondo comma della disposizione anzidetta, che limitava non poco le potenzialità applicative del rito negoziale: richiamare il secondo comma dell’art. 240 c.p., infatti, voleva dire dare spazio alla sola confisca obbligatoria, cioè a quella delle cose che costituiscono il prezzo del reato e di quelle, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato. Ed era proprio questa limitazione ad indurre il legislatore a dettare, col passare del tempo, disposizioni che derogavano alla restrizione, prevedendo espressamente la possibilità di ordinare la confisca con la sentenza di patteggiamento. Essendo venute meno le anzidette limitazioni, col richiamo dell’intero art. 240 c.p., quindi anche delle ipotesi di confisca “facoltativa” delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e di quelle che ne sono il profitto o il prezzo, ora può essere disposta la confisca “facoltativa” anche se la pena detentiva patteggiata non supera i due anni. Infine, va ricordato che l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale, anche quando facoltativa, non può essere oggetto di trattativa ed accordo tra le parti, né quest’ultimo può essere condizionato alla sua mancata adozione (rimessa all’esclusiva valutazione del giudice). L’ultima parte del precedente comma 1 dell’art. 445 c.p.p. è ora confluita, senza modificazioni, nel nuovo comma 1-bis, il quale prevede che la sentenza di patteggiamento, anche quando pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi, essendo rimasta inalterata la previsione secondo cui la sentenza di patteggiamento, salve diverse disposizioni di legge, è semplicemente “equiparata” ad una pronuncia di condanna, della cui natura non partecipa. È tuttora fatta salva la previsione dell’art. 653 c.p.p., segnatamente del comma 1-bis, secondo il quale la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato l’ha commesso. La riforma è intervenuta anche sul comma 2 dell’art. 445 cpp, contemplante la peculiare causa di estinzione del reato collegata alla condotta tenuta dall’imputato dopo la pronuncia della sentenza di patteggiamento. Il 2° comma è stato modificato per precisare che l’ambito applicativo della causa estintiva concerne soltanto la sentenza di patteggiamento con la quale sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni, essendo, l’intervento legislativo, finalizzato a far sì che questo peculiare beneficio non si estenda al patteggiamento “allargato”, cui, di riflesso, non si estendono le disposizioni secondo le quali i provvedimenti previsti dall’art. 445 c.p.p. non sono riportati nei certificati, generale e penale, del casellario giudiziale e nel certificato dei carichi pendenti richiesti dall’interessato. L’estensione della revisione alla sentenza di patteggiamento (articolo 3) L’art. 3 della legge, modificando il comma 1 dell’art. 629 c.p.p., estende alle sentenze di patteggiamento l’istituto della revisione, risolvendo, la novella, il contrasto esistente tra dottrina e giurisprudenza sull’estensione del rimedio straordinario anche alle sentenze ai sensi dell’art. 444 c.p.p.. La prima, infatti, è da sempre schierata per l’ammissibilità della revisione anche nel caso dell’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, al più distinguendo tra l’ipotesi in cui la richiesta di revisione si fondi sulla scoperta di elementi probatori inediti soltanto dopo la pronunzia della sentenza e quella in cui, invece, venga proposta con riguardo a fatti già conosciuti dall’imputato ed alla cui introduzione aveva rinunziato optando per il rito alternativo. La giurisprudenza – che pure aveva inizialmente considerato ammissibile la revisione delle pronunzie di patteggiamento, ancorché sulla base della loro ritenuta natura di sentenze di condanna – si è, invece, allineata sulle posizioni espresse dalle Sezioni Unite, per cui proprio in ragione della non equiparabilità della sentenza di patteggiamento ad una pronunzia di condanna, non sarebbe possibile chiederne la revisione. La modifica apportata dall’art. 3 legge 134/03 pone termine al contrasto interpretativo, rendendo ammissibile, senza alcun limite, la revisione delle sentenze pronunziate ex art. 444 c.p.p.. Peraltro, l’inciso innestato nel testo del 1° comma dell’art. 629 c.p.p. (“o delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, 2°comma”), dopo le parole “la revisione delle sentenze di condanna o dei decreti penali di condanna”, sembra assumere rilevanza ben oltre il ristretto ambito dello istituto della revisione, evidenziando, il ricorso alla particella disgiuntiva “o” e la stessa volontà del legislatore di considerare in maniera autonoma, nell’ambito della disposizione, le sentenze di patteggiamento, un’implicita adesione alla posizione, ormai prevalente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui tali sentenze non sono assimilabili a quelle di condanna. Affermazione che trova conforto nell’evoluzione compiuta dal testo normativo nei diversi passaggi parlamentari, durante i quali è stata progressivamente eliminata l’originaria impostazione di attribuire efficacia nel processo civile ed amministrativo alla sentenza di patteggiamento, quanto meno con riguardo al profilo dell’accertamento del fatto e della sua attribuibilità all’imputato. Se la novella avesse presentato effettivamente questa norma sarebbe stato sempre più difficile negare l’assimilabilità della suddetta sentenza a quella di condanna, giacché per legge lo accertamento in essa contenuto veniva considerato esaustivo in punto di sussistenza del fatto contestato e di colpevolezza dell’imputato. SONIA BOVA Il collega avv. Francesco Giordano, già Commissario di Polizia dal 1958 al 1972 e poi Questore, ha pubblicato nel novembre scorso il romanzo che sarebbe riduttivo definire giallo “Delitto alla Rocca di Parè”, peraltro luogo incantevole dove qualche altro nostro collega ha la fortuna di risiedere. In questo luogo, incastonato tra i colori del lago, dei monti e del cielo, ad un passo dal Paradiso, è ambientato il romanzo tratto “da fatti realmente accaduti” nell’anno 1966 che cattura il lettore per la fitta trama degli eventi, raccontati dal Commissario che professionalmente è stato un attore della triste vicenda umana rivissuta nel libro. Il racconto si rivela non una fredda trasposizione di fatti rivissuti in termini burocratici; ma il racconto è “colorato” di quanto necessario per farlo piacere a chi dal linguaggio investigativo non è attratto o a chi come noi per professione ne ha dimestichezza ma smessi gli abiti di lavoro vuole pensare ad altro… ammesso che ciò sia possibile! “Dottore, è scomparso Zampaglione!” è l’inizio del libro… la fine scopritela voi. RENATO COGLIATI 13 Tre miliardi di battiti Caro Cogliati, forse un anno fa, scrissi quello che trovi allegato a questa lettera. Lo so bene, non è roba da “Toga Lecchese”, ma l’avevo scritta pensando alla tua cortese domanda “Non mi dai niente da pubblicare?”. Ora, se il prodotto è quello che è, te lo mando tuttavia, almeno per dimostrare la mia buona volontà e la mia attenzione alle tue richieste. Insomma, piuttosto che buttarla via io (povera creatura, ma sempre creatura...), lascio a te di buttarla via. L’idea di questa specie di autobiografia m’è venuta quando ho calcolato che il mio cuore, ma gli altri non sono diversi, aveva battuto, da quando sono nato, più di tre miliardi di volte, un numero che mi fa impressionare (e, aggiornando e correggendo il calcolo, mi sto avvicinando ai 3 miliardi e mezzo). Adesso comincia a essere un po’ stanco. Mi piacerebbe leggere “Toga Lecchese”, che sarebbe l’unico legame residuo (in pratica) col mondo che è stato il mio per più di 53 anni. Non si può, pagando una specie di abbonamento, riceverla? Non ti annoio di più. Cordialmente ARMANDO PANZERI Cominciò al solito modo, tenuto per i piedi dalla signora Rosa levatrice, con uno strillo che annunciava l’avvento della ventilazione polmonare e la mia autonomia cardiocircolatoria. Quando avevo quattro e cinque anni mio padre mi mandava a prendere il giornale all’edicola (tale anche di forma), davanti al museo, per antonomasia, quello di Palazzo Belgioioso, opera insigne del tassidermista rag. Carlo Vercelloni (degli animali impagliati mi impressionava la silenziosa fissità). I vicini di casa ricordarono a lungo, sulla “risciulada” di Via Garibaldi (così si chiamava al tempo la strada dove nacqui, poi ribattezzata - sorte maligna - via Mentana) un “Corriere della sera” dispiegato dal quale spuntavano due manine e le punte delle scarpe: tutto il resto di me dietro la grande vela latina del foglio, che ovviamente non sapevo leggere ma di cui mi incuriosivano e mi affascinavano tutti quei segni neri ben allineati. Dopo quel primo battito a testa in giù, ce ne furono tanti altri, qualcuno più forte, come ad esempio per la scoperta del sesso, di cui nessuno mi aveva mai parlato perché così usava allora. O come nel 1944 quando fuggivo dalla chiamata “ai lavori agricoli leggeri” in Germania per quelli del primo semestre 1926; fuggivo in bicicletta con un cugino prete verso Varenna, quando fummo fermati da un autocarro di “repubblichini” a mitra puntati perché - dissero - qualcuno gli aveva sparato poco prima. Io avevo la carta d’identità falsificata con la scolorina che aveva fatto un alone intorno 14 al “7” che aveva sostituito il “6”. Ma l’aspetto certamente non bellicoso di un prete e di un ragazzotto su biciclette da donna tranquillizzò i militi e noi potemmo proseguire il nostro viaggio attraversando il lago su una barchetta a remi con le biciclette coricate di traverso e debordanti. Indi, il percorso della Valmenaggio fino a Porlezza, e infine a Tavordo, dove c’era il Collegio Arcivescovile S. Ambrogio, che era la nostra meta. Un’oasi di pace specie in quell’estate di guerra, sicché il collegio ospitava soltanto alcuni sacerdoti e una mezza dozzina di ragazzi, ovviamente più giovani di me. Ma dopo qualche settimana, l’oasi di pace fu requisito dalla X MAS, e io diedi lezioni di italiano e matematica a un militare che si preparava per non so quale esame (cosa facessero lì quelli della X Mas non lo so proprio, salvo che fosse per una specie di vacanza; venne in visita l’attore Osvaldo Valenti, in divisa anche lui, e una notte ci vennero addirittura i partigiani, che portarono via senza colpo ferire quel poco di armi e vettovaglie che i soldati avevano: fu una cosa molto tranquilla, io lo seppi il mattino dopo, e ripensandoci m’è venuto il sospetto che la incursione fosse in qualche modo combinata). Sta di fatto che il Collegio Arcivescovile di Tavordo per me non era più né un’oasi di pace né un rifugio sicuro sicché convenne riprendere la strada di Lecco per uno scampo meno avventuroso: quale sia stato in verità, non sto a dire. Arrivato il 25 aprile, e entrati in Lecco gli Americani, accolti da una gran follaesultante, per me si presentava il problema dell’Università. L’anno prima mi ero iscritto a giurisprudenza alla Cattolica, ma di frequentare non se ne parlava nemmeno. I pochissimi treni erano composti di carri bestiame, ed erano presi d’assalto mentre erano ancora in movimento verso la stazione. Sporadiche lezioni, esami pochissimi. Per concludere nel quadriennio, decidemmo in famiglia che dovevo restare fisso a Milano, e così verso la fine del 1947, insieme a un amico che tentava medicina, presi una camera in Via Fratelli Bronzetti (famiglia Aprile): portavamo da casa cibi cotti e riso che lessavamo di nascosto su un fornelletto elettrico con spirale incandescente a vista, scolatura nel water tra pentoletta e coperchio; qualche volta un pasto in trattoria. Fu così che a novembre 1948 mi laureai con una tesi sulle attenuanti generiche, centoventi pagine dattiloscritte senza una ribattitura da mia sorella Amelia. Anche quella fu una occasione di gran batticuore, come lo furono nel 1951/52 (gli scritti, e poi gli orali) gli esami di procuratore legale. Nel frattempo avevo fatto pratica negli studi dell’avv. Vincenzo Condò e dell’avv. Franco Calvetti: due Maestri cui devo molto del poco che feci come professionista. Dall’avv. Calvetti (che aveva studio in via Cavour assieme all’avv. Gianni Discacciati e al dott. Ugo Merlini commercialista) vedevo una ragazzetta sveglia coi capelli scuri che teneva la contabilità per i clienti del dott. Merlini. Non lo capii subito, ma quella era la donna della mia vita, e mi diede tanti tuffi al cuore, tante tachicardie, prima e dopo il matrimonio, perché nel 1958 ci sposammo, e mi sta accanto ancora adesso con inesauribili tesori d’amore. Sia benedetta. Misi su studio molto presto, col dott. Alessandro Rusconi commercialista e poi anche Sindaco di Lecco, al n. 1 di via Cavour con targa in strada “DOTT. ARMANDO PANZERI PROCURATORE LEGALE”. Nei primi tempi, per la verità, lavoro ce n’era poco e la seconda parte del pomeriggio era dedicata al tresette a scarto (“secondo le regole di Ghitarella”) al Caffè Colonne, col Pretore Monetti, i Cancellieri Caputo e Zuppardo, e il padre dell’avv. Giorgio Tonetti che era usciere alla sede della Banca d’Italia in Piazza Garibaldi. Col passare degli anni il lavoro aumentò, ma continuai a ringraziare il cielo ogni volta che dalla porta entrava un nuovo cliente. Sussulti di cuore ne ebbi molti ancora, perché nei primi anni facevo molto penale e il dibattimento mi emozionava sempre. Di penale ne feci molto anche come vice Pretore onorario (per 27 anni e mezzo); ma, e non posso dire che fu una mia scelta, mi ritrovai via via a essere sempre più un civilista (il penale lo abbandonai definitivamente quando cambiò il codice di procedura). Nemmeno a fare il civilista cessarono i sussulti del cuore perché insieme a quella poca scienza che mi andavo procurando e a una innata serietà (che forse fu qualche volta male interpretata) ci misi sempre la partecipazione affettiva e la cura della forma, attento però a non confondere il mio contributo professionale con le soggettive convinzioni del cliente. Ho sempre fermamente creduto che il primo dogma dell’etica professionale sia l’assoluta fedeltà al cliente (fino al punto di congedarlo quando fosse necessario a salvaguardia della mia onestà mentale e morale) evitando però con altrettanto rigore di diventare un semplice, ottuso, o cinico, strumento meccanico. E così, da uomo senza qualità (tante scuse a Musil) ho dato volta a cinquantatrè anni di avvocatura, e - questa volta per mia meditata decisione - ho cessato l’attività professionale. Mi piacerebbe, dopo tre miliardi e più di battiti del mio cuore, poter ripetere per me la frase con cui S. Paolo riassume la sua vita: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Circolare per i praticanti avvocati Regolamento della pratica forense (D.P.R. 10.04.1990 n. 101) In applicazione del provvedimento normativo di cui all’oggetto ed ai fini dello svolgimento della pratica forense, all’atto dell’iscrizione viene distribuito ai praticanti avvocati un libretto di pratica professionale. Tale libretto è diviso per periodi semestrali di pratica, ed ogni semestre comprende le seguenti sezioni: - Udienze: dovranno esserne indicate almeno venti e non più di tre per ogni giorno, precisando l’Ufficio giudiziario, il nome del Giudice, il numero di R.G. e le parti. Dovrà inoltre essere specificata l’attività svolta nell’udienza (e non l’incombente per cui viene disposto il rinvio ad altra data); non sono considerate valide le udienze in cui è stato disposto un mero rinvio della causa; potranno essere annotate tutte le udienze avanti qualsivoglia organo giurisdizionale (ivi comprese le Commissioni Tributarie); - Atti giudiziali o attività stragiudiziali: dovranno essere riportati almeno dieci atti, precisando l’oggetto della causa o dell’attività a cui lo stesso inerisce e il tipo di atto giudiziale o stragiudiziale redatto dal praticante; a differenza della parte riservata alle udienze, non è necessario indicare i nomi delle parti in causa. - Questione giuridica: dovrà essere trattata illustrando brevemente il fatto preso in esame e le problematiche giuridiche sottese alla fattispecie, con possibili riferimenti alla giurisprudenza in materia. (Tale esercizio potrà essere d’aiuto al praticante anche in vista della redazione delle prove d’esame, quindi si consiglia di scriverlo di proprio pugno, cercando di renderlo leggibile anche per quanto riguarda la grafia, che risulterà in quella sede non meno importante dei contenuti). Il libretto, compilato e completato con la certificazione di veridicità delle sue risultanze da parte dell’avvocato, presso lo studio del quale è svolta la pratica, dovrà poi essere depositato presso il Consiglio al termine di ogni semestre. Il Consiglio ha la facoltà, che si riserva di esercitare in sede di verifica semestrale, di procedere con ogni mezzo all’accertamento della veridicità di quanto risultante dal libretto, per cui preme far osservare la responsabilità per attestazioni non veritiere, sia del praticante che dell’avvocato, il quale abbia rilasciato l’attestazione di cui al precedente capoverso. Compiuta la verifica e gli eventuali accertamenti, il Consiglio restituirà il libretto, dopo avervi apposto il proprio visto. Per opportuno controllo dell’esercizio della pratica professionale, la certificazione della partecipazione all’udienza richiederà due formalità: a) la regolare tenuta del libretto con l’indicazione delle udienze cui il praticante ha partecipato; b) l’indicazione, nel verbale dell’udienza, della partecipazione del praticante unitamente all’indicazione del nominativo del dominus o del sostituto di questi; la produzione, in allegato al libretto, di copia semplice del relativo verbale è richiesta solo per le udienze effettuate fuori dal circondario del Tribunale. L’Ordine effettuerà verifiche a campione circa la corrispondenza tra quanto risultante dal libretto e quanto risultante dai verbali di udienza. Tale controllo non verrà effettuato qualora si alleghi al libretto fotocopia semplice del verbale di udienza o venga apposto sullo stesso libretto un visto attestante la presenza all’udienza da parte di un Consigliere. Al termine del primo anno di pratica il praticante avvocato dovrà depositare, in allegato al libretto, una separata relazione che illustri le attività prevalenti svolte e le questioni, anche di natura deontologica, affrontate nel relativo periodo. Di concerto con gli altri Ordini della Lombardia, il nostro Consiglio dell’Ordine ha fatto proprio l’intento volto ad un controllo effettivo e più rigoroso dello svolgimento della pratica forense. A tal fine, al compimento del primo e del secondo anno di pratica, il praticante verrà convocato dal Consiglio dell’Ordine per un colloquio atto a verificare l’effettività e la proficuità della pratica svolta. Nel caso in tale sede emergessero dubbi sull’effettività o sulla proficuità della pratica certificata, il praticante, unitamente al proprio dominus, verranno convocati avanti al Consiglio dell’Ordine, per un ulteriore colloquio. Al termine del periodo di due anni dall’iscrizione nel Registro dei Praticanti, dopo il predetto colloquio, il Praticante potrà richiedere il certificato di compiuta pratica, che verrà rilasciato dall’Ordine, la cui territorialità determinerà la Corte d’Appello ove dovrà essere sostenuto l’esame di Stato per l’accesso alla professione di avvocato. I praticanti avvocati i quali, una volta abilitati all’esercizio del patrocinio, intendano svolgere o continuare a svolgere la pratica al di fuori dello studio dell’avvocato, dovranno: a) comunicare al Consiglio tale loro intenzione; b) tenere e compilare come sopra il libretto, omessa la certificazione dell’avvocato, ed esibirlo al Consiglio al termine di ogni semestre; c) trattare almeno 25 nuovi procedimenti all’anno, di cui o almeno 5 procedimenti penali quali difensori di fiducia o almeno 5 cause civili di cognizione. In tal caso si ricorda che questo Consiglio raccomanda al praticante avvocato di prestare attenzione nella scelta e nella tipologia della carta intestata e della targa che segnala lo studio professionale. Si ricorda in particolare che i termini e i caratteri di stampa utilizzati non devono ingenerare confusione nel pubblico rispetto alla effettiva qualifica del professionista, nè il praticante potrà utilizzare la denominazione di “Studio legale”, riservata al professionista iscritto all’Albo Professionale. Il Consiglio dell’Ordine è disponibile ad esaminare e chiarire eventuali dubbi in merito. Il Consiglio, inoltre, ha deliberato di aderire all’indirizzo della sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 13863 del 4/7/1991, non permettendo che l’esercizio della pratica professionale possa essere esercitato al di fuori della circondario del Tribunale. (Tale sentenza, nel prendere in esame un ricorso avverso il diniego all’iscrizione di un praticante avvocato che intendeva svolgere la pratica presso un avvocato avente studio nel circondario di altro Tribunale, ha affermato il principio che la pratica professionale può essere esercitata solo nel medesimo mandamento del Tribunale presso cui il praticante risulti iscritto, onde permettere un effettivo controllo sullo svolgimento della pratica). Quindi sarà consentita l’iscrizione nel Registro dei praticanti avvocati esclusivamente a coloro che abbiano a svolgere la pratica professionale nello studio di un avvocato iscritto presso l’Ordine Avvocati di Lecco e avente studio nel circondario del medesimo Tribunale. A tal fine verranno effettuati colloqui di controllo, uno alla scadenza del primo anno di pratica e prima del rilascio dell’abilitazione, e l’altro alla scadenza del secondo anno e prima del rilascio del certificato di compiuta pratica. Il Consiglio, con riferimento ai colloqui di controllo sulla effettività e diligenza della pratica forense, ha deliberato che, in caso di esito negativo del colloquio precedente la certificazione di compiuta pratica, potrà riservarsi la facoltà di denegare il rilascio del certificato stesso. Quando l’esito negativo riguardi il colloquio al termine del primo anno, verrà inviato al praticante e al suo dominus un avvertimento scritto, con l’invito ad una maggiore diligenza. Restano salve diverse e più gravi sanzioni ove si accertasse la non veridicità circa la dichiarazione sull’attività svolta. Per ogni ulteriore chiarimento il sottoscritto e il consigliere Scurria sono a Vostra disposizione. Lecco, 12 dicembre 2003 Il Presidente MARCO ROSSI 15 Piccolo memorandum per il “migliore dei mondi forensi possibili” “Niente è umiliante se alla base c’è il rispetto” PREAMBOLO L’idea di questo “breve ma intenso” memorandum è nata dagli incontri e discussioni attorno al tavolo di un bar tra alcuni giovani praticanti avvocati, pieni di speranze, entusiasmo e voglia di cambiare il mondo attraverso la propria professione e i propri sogni. Giovani praticanti che, usciti dal mondo dell’Università, si sono trovati catapultati in una realtà all’inizio incomprensibile e spesso non corrispondente ai sogni cullati durante il periodo universitario. Alcuni di noi si sono sentiti persi e hanno deciso di mollare….altri continuano ad esercitare la professione come automi e senza più passioni….altri ancora si trovano a svolgere mansioni meramente impiegatizie e non è dato loro conoscere il vero significato della professione. Ebbene, questo vademecum è indirizzato soprattutto ai praticanti (ma anche agli avvocati), che in fondo sognano ancora, nel loro piccolo, di sentire viva dentro sé la consapevolezza di esercitare una professione che è arte, dialettica e soprattutto strumento di affermazione di valori umani. Abbiamo, quindi, pensato ai giovani neo laureati smarriti che per la prima volta si trovano a confrontarsi con uffici, cancellerie, voluminosi 16 fascicoli da consultare, i quali, magari, travolti da scadenze e atti da redigere, dimenticano la bellezza della professione che hanno scelto. Ai praticanti che già esercitano, da più o meno tempo, forse senza più coscienza di farlo per passione, ma solamente come mero impiego lavorativo; speriamo che leggendo questo memorandum ricordino che stanno costruendo, passo dopo passo, un percorso che, seppur faticoso, sarà poi costellato di soddisfazioni per sé e per gli altri. E infine abbiano redatto il presente memorandum nella speranza che possa essere letto anche dai Domini, dimentichi talvolta delle difficoltà attraversate e dei problemi incontrati durante la pratica professionale: il loro lavoro e il loro comportamento deve essere riflesso e trasparenza di professionalità e umanità tali da trasmettere ai praticanti la passione e l’orgoglio di appartenere al mondo legale. Da ultimo, ci auguriamo che i problemi e le difficoltà, nei quali ciascuno, come è naturale, si imbatterà, non siano fonte di vergogna e di chiusura, ma siano, invece, motivo di condivisione per maturare come singoli e per creare complicità e solidarietà all’interno della categoria del praticante. ANPA – Sez. di Lecco (Associazione nazionale praticanti e avvocati) Dott. Raffaele Cherchi Dott. Lorenzo Della Bella Dott.ssa Chiara Scavelli Dott. Stefano Sironi “ ….ogni slancio è cieco fino a quando non è sapere, ed ogni sapere è vano fino a quando non è lavoro, e ogni lavoro è vuoto tranne fuorché quando è amore...” K. Gibran Scopo principale della pratica forense è imparare la professione con la dedizione e la passione propria dell’esercizio di un’arte. *** L’attività professionale del praticante si svolge alle dipendenze di un dominus, il quale è colui che ha il dovere di rispettarlo come persona e come professionista. Compito del dominus è di istruire adeguatamente il praticante, di sottoporre alla sua attenzione una gamma completa e variegata di atti e problematiche giuridiche, di consentirgli la regolare partecipazione alle udienze e di fornirgli gli strumenti e i mezzi necessari per espletare tali compiti in un ambiente professionalmente e umanamente idoneo. *** Compito del praticante avvocato è di comprendere che la professione che intende svolgere è complessa e delicata e deve essere improntata ai principi di onestà, correttezza e professionalità, consci che comportamenti scorretti possono essere fonte di generalizzazioni negative per la categoria. *** Apprendere tale professione seriamente significa dedicare ad essa tempo, sforzi, e dedizione. E’ proprio durante il periodo di pratica professionale che il praticante avvocato fonda le basi della propria preparazione che non può essere sommaria e sbrigativa. Ricordiamoci che saremo chiamati professionisti. *** Doveri principali del praticante sono: puntualità, efficienza, disponibilità, aggiornamento, rispetto di sé stessi, rispetto del cliente, rispetto dei colleghi, rispetto del dominus, rispetto delle regole. Imperativi morali sono: il rispettare e il farsi rispettare, la coscienza del giusto professionale e del giusto comune, il rispetto dei propri colleghi e l’essere sempre in credito di favori. *** Ogni praticante avvocato dovrebbe impegnarsi quotidianamente affinché la professione non diventi una sterile catena di montaggio di pratiche e atti tese ad un mero guadagno economico, ricordando che dietro ogni foglio esiste una storia, uomini con problemi e preoccupazioni che confidano nella nostra professionalità, serietà, impegno e correttezza *** E’ fondamentale la creazione di una coscienza comune, di una voglia di comunità, di un desiderio di condivi- sione di fatiche che è più facile affrontare come categoria, di un’identificazione in problemi comuni che, tra persone che vivono la medesima esperienza professionale, possono essere compresi e meglio superati. Spirito di iniziativa e di proposizione del singolo sono fondamentali per la crescita dell’interno del gruppo. Isolarsi nella singola identità del proprio studio professionale impedisce il confronto costruttivo con le realtà circostanti, limita i propri orizzonti e impedisce la crescita del singolo così come del gruppo. Entriamo a far parte di uno status e quindi ricordiamoci che verso di esso abbiamo dei doveri ben precisi. Ogni praticante ha diritto ad un’equa retribuzione per l’attività professionale svolta, che non dovrebbe consistere in un mero emolumento simbolico, ma dovrebbe essere proporzionale all’apporto lavorativo dato all’interno dello studio professionale, tenuto conto della dignità di una persona che vuole dedicare alla professione tempo e passione ma non può permettersi, nel frattempo, altre fonti di reddito. *** *** Il comportamento del praticante deve essere caratterizzato anche da umiltà nell’apprendimento: ciò significa svolgere le attività assegnate dal dominus, ma solo se relative al proprio lavoro, e non in contrasto con la propria crescita e la propria dignità umana e professionale. Essere consapevoli significa capire se ciò che si sta facendo è produttivo per noi stessi e che coscienza significa soprattutto non assecondare richieste che ci possono degradare come categoria o come essere umano. L’umiliante non consiste solo in quello che si fa ma anche nel modo in cui si viene trattati. Il rapporto dialettico praticante – dominus, se improntato ai suddetti principi, è motivo di arricchimento e di crescita per il mondo forense e non solo: da un lato il praticante con i propri ideali, utopie e la voglia di apprendere, dall’altro il dominus con la propria correttezza e professionalità, fondata sull’esperienza e sulle problematiche da lui già, a suo tempo, affrontate e superate. *** *** Ricordiamo che svolgere mansioni solo e meramente impiegatizie non rientra tra le competenze del praticante avvocato. *** Forza e coraggio, credi in te stesso e nel tuo lavoro, non lasciare nulla di intentato, tutto ciò che arriverà te lo sarai creato e di questo tu un giorno sarai fiero. 17 Regolamento della pratica forense approvato da tutti gli Ordini del distretto dell’Emilia Romagna Quale spunto di ulteriore riflessione e rielaborazione riteniamo utile pubblicare il Regolamento per la pratica forense adottato dagli Ordini del distretto dell’Emilia Romagna. ARTICOLO 1 Il praticante che intenda iscriversi deve presentare, oltre ai documenti richiesti dall’art. 1 del R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, apposita dichiarazione scritta nella quale sia espressamente specificato se : - svolge attività lavorativa; - svolge pratica per 1’iscrizione ad altri ordini professionali; - frequenta corsi post-universitari; - effettua servizio militare o civile; - svolge qualsiasi altra attività retribuita a carattere continuativo. In relazione alle predette attività il praticante è tenuto ad indicare le modalità in cui le stesse vengono svolte, nonché a comunicare tutte le variazioni relative alle stesse che intervengano nel corso della pratica. ARTICOLO 2 Alla domanda del praticante dovrà essere allegata una dichiarazione dell’avvocato presso cui questo svolgerà la pratica in cui lo stesso, sotto la propria personale responsabilità, dovrà: - indicare il numero e il nome di eventuali altri praticanti; - indicare la sistemazione all’interno dello Studio; - attestare la frequenza allo Studio (così come dichiarata dal praticante ); - garantire l’uso delle attrezzature dello Studio e l’esame delle pratiche (previo eventuale periodo di prova non superiore a tre mesi); - escludere espressamente lo svolgimento da parte del praticante di mansioni di mera segreteria. L’avvocato, per poter accogliere un praticante presso il proprio Studio, deve essere iscritto all’Albo degli avvocati con un’anzianità superiore agli anni due. Per ogni avvocato è consentito avere un massimo di due praticanti, salva motivata deroga concessa da parte del Consiglio dell’Ordine su circostanziata istanza del medesimo avvocato. 18 ARTICOLO 3 Il praticante deve annotare sul libretto della pratica l’attività svolta di semestre in semestre, per la durata di due anni decorrenti dalla data della delibera d’iscrizione nel registro dei praticanti. La frequenza dello Studio può essere sostituita, per un periodo non superiore ad un anno, dalla frequenza di uno dei corsi post-universitari previsti dall’art. 18 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modifiche dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 e disciplinati a norma dell’art. 2 del D.P.R. 10 aprile 1990, n. 101. A tali corsi il Consiglio potrà equipararne altri, organizzati e tenuti anche all’estero, previa valutazione della loro specifica capacità formativa in ragione della loro struttura, del programma, dell’indirizzo teorico-pratico e della qualità dei soggetti organizzatori. Il diploma di specializzazione, conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all’art. 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni, è valutato, ai fini del compimento del periodo di pratica, per il periodo di un anno, secondo i criteri di cui alla delibera 28 settembre 2002 del Consiglio Nazionale Forense. In ogni caso, la domanda di iscrizione al Registro speciale dei praticanti di cui all’art. 17 R.D.L. 27/11/1933 n. 1578 non ha effetti retroattivi, conformemente a quanto deliberato da questo Consiglio con delibera 28/10/2002. ARTICOLO 4 Il libretto va compilato con tre tipi di annotazioni: le udienze cui il praticante ha assistito; gli atti giudiziali e stragiudiziali alla cui redazione il praticante ha partecipato, nel numero minimo di dieci; le questioni giuridiche di maggior interesse alla cui trattazione il praticante ha assistito o collaborato nel numero minimo di due. ARTICOLO 5 Le udienze devono essere almeno venti in ogni semestre, con esclusione di quelle di mero rinvio. Sono di mero rinvio le udienze nelle quali non vi è stata alcuna attività difensiva (ad esempio, quelle di assegnazione a sentenza se non c’è stata la discussione orale della causa). Nello stesso giorno è consentito partecipare a non più di tre udienze. La presenza del praticante all’udienza deve risultare da annotazione sul libretto della pratica, previamente vidimato dal Presidente del Consiglio dell’Ordine o da un suo delegato. A tal fine dovrà essere indicato, per ciascuna udienza, la data, il numero di ruolo, il nome delle parti, l’autorità giudiziaria, una succinta descrizione dell’attività svolta, nonché la firma del giudice ovvero del coadiutore presente in udienza. Il libretto dovrà essere sottoscritto dal praticante e dal professionista presso il quale la pratica è svolta. Della partecipazione all’udienza del praticante potrà essere dato atto nel verbale d’udienza. Qualora le udienze indicate si svolgano nei periodi in cui il praticante risulta impegnato in attività comunicate ai sensi dell’art. 1, il praticante, alla presentazione del libretto per la vidimazione semestrale, dovrà allegare documentazione scritta dei titoli in base ai quali ha potuto astenersi dall’impegno extra praticantato. ARTICOLO 6 Gli atti, giudiziali e stragiudiziali, devono essere indicati specificamente (ad esempio: atto di citazione, atto di precetto, transazione, contratto, etc.) con l’enunciazione del loro oggetto (ad esempio: pagamento somma, risarcimento danno, compravendita, etc.). Al Consiglio dell’Ordine, a sua discrezione e secondo i criteri che riterrà opportuni, è riservata la facoltà di richiedere ai praticanti di produrre copie, debitamente censurate nel rispetto del segreto professionale, degli atti che il praticante ha indicato nel libretto. ARTICOLO 7 Delle questioni giuridiche trattate deve essere esposto, seppur succintamente, il tema. ARTICOLO 8 Il libretto, con tutte le annotazioni di cui sopra e con l’attestazione del professionista presso il cui Studio la pratica si è svolta in ordine alla loro veridicità, deve essere presentato presso la segreteria dell’Ordine a scadenze semestrali. Le annotazioni devono riguardare esclusivamente il semestre di riferimento ed avere per oggetto esclusivamente le cause e le questioni trattate dallo Studio presso il quale si è svolta la pratica. La presentazione del libretto presso la segreteria dell’Ordine deve avvenire, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla fine del relativo semestre. Il calcolo dei semestri va fatto secondo il calendario comune, con i criteri dettati dagli ultimi due capoversi dell’art. 2963 del codice civile a partire dalla data di prima iscrizione nel registro dei praticanti. ARTICOLO 9 Al termine di entrambi gli anni di pratica deve essere presentata, contestualmente al libretto, un’ampia relazione illustrativa delle attività svolte nell’anno, anche se già indicate nel libretto, compresi i problemi di natura deontologica eventualmente trattati nello stesso periodo. È facoltà del Consiglio dell’Ordine effettuare colloqui, anche programmati, con i praticanti, da svolgersi al termine di uno o più dei semestri di pratica, secondo i criteri che riterrà più opportuni, al fine di verificare l’effettività della pratica svolta. ARTICOLO 10 La Scuola Forense organizzata dal Consiglio dell’Ordine è utile integrazione della pratica e la frequenza alla stessa è raccomandata. La partecipazione del praticante alle singole lezioni è atte stata mediante la raccolta delle firme dei presenti. ARTICOLO 11 Qualora il praticante abbandoni lo Studio del professionista presso il quale ha iniziato la pratica per trasferirsi in altro Studio, deve darne immediata comunicazione scritta al Consiglio dell’Ordine con allegata dichiarazione dell’avvocato che accetta il praticante con le stesse modalità di cui all’art. 2. L’eventuale pratica effettuata nel nuovo Studio prima di tale comunicazione non sarà riconosciuta ai fini del certificato di eseguita pratica. Nel caso in cui il praticante abbandoni lo Studio, ovvero non vi svolga attività per un periodo continuativo superiore ai trenta giorni, il professionista presso il quale la pratica è svolta è tenuto a darne tempestiva comunicazione scritta al Consiglio dell’Ordine. Su domanda (in cui devono essere indicate le modalità concrete di svolgimento della pratica stessa) e previa autorizzazione del Consiglio dell’Ordine, il praticante potrà integrare la pratica seguendo anche l’attività di un altro Studio. Il Consiglio dell’Ordine, in sede di autorizzazione, può deliberare anche in merito alle modalità in cui dovrà essere svolta la pratica integrata al fine di essere ritenuta valida. È fatto salvo, in ogni caso, il limite massimo di due professionisti per ogni praticante, salva la motivata deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 2. In caso di integrazione della pratica, entrambi i professionisti saranno tenuti alla firma del libretto. ARTICOLO 12 In caso di mancata, ovvero tardiva presentazione del libretto, così come in caso di mancata approvazione del medesimo, il praticante non potrà usufruire del semestre ai fini del conseguimento del certificato di compiuta pratica. Lo stesso effetto conseguirà alla mancata, ovvero tardiva, presentazione della relazione al termine di entrambi gli anni di pratica. In caso di mancata approvazione della relazione annuale tempestivamente presentata, il praticante potrà presentare una nuova relazione entro 15 giorni dalla comunicazione che gli verrà data. L’approvazione di tale nuova relazione avrà effetti ex tunc. Il Consiglio, nei casi di comprovata impossibilità di provvedere a tali adempimenti potrà concedere deroghe e proroghe speciali. ARTICOLO 13 A tutti gli adempimenti di cui agli articoli 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11 sono tenuti anche i praticanti i quali, ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. n. 101/1990, svolgono la pratica al di fuori dello Studio di un avvocato; essi debbono inoltre autocertificare, al termine dell’anno di tirocinio in proprio, almeno 25 nuovi procedimenti trattati nell’anno medesimo ai sensi dell’art. 8 lett. c) del D.P.R. citato. La mancanza di tale autocertificazione, ovvero l’insufficiente numero dei nuovi procedimenti, comporteranno l’inefficacia dell’intero anno ai fini del rilascio del certificato di eseguita pratica. ARTICOLO 14 Ai sensi dell’art. 4 comma 3 del D.P.R. 10 aprile 1990 n. 101, il Consiglio dell’Ordine vigila sull’effettivo svolgimento della pratica. A tal fine potrà, a sua discrezione e salvi altri controlli, eseguire le opportune verifiche presso le Cancellerie, nonché convocare ed interrogare il praticante ed il professionista ( o i professionisti) presso il cui Studio la pratica è svolta, allo scopo di vagliare l’idoneità e l’adeguatezza della pratica svolta. ARTICOLO 15 La pratica può essere svolta parzialmente all’estero, frequentando lo studio di un avvocato straniero o di un avvocato italiano che abbia uno studio all’estero, a patto che la stessa sia limitata a non più di due semestri, escluso comunque l’ultimo, e che sia previamente autorizzata dal Consiglio dell’Ordine. A tal fine il praticante dovrà presentare una dettagliata richiesta di autorizzazione a cui dovrà essere allegata anche la dichiarazione dell’avvocato presso il cui Studio sarà accolto. Il Consiglio dell’Ordine, esaminata la domanda e se del caso sentito il richiedente, autorizza la pratica indicando le modalità concrete in cui la stessa dovrà essere svolta. Al termine del periodo autorizzato il praticante dovrà presentare una dettagliata relazione dell’attività svolta nello Studio legale controfirmata dal professionista presso il quale la pratica è svolta. Qualora le condizioni di esercizio della pratica siano ritenute non soddisfacenti, il Consiglio può non autorizzare la pratica all’estero, o, qualora non vengano rispettate le modalità indicate, non convalidare il periodo precedentemente autorizzato. ARTICOLO 16 L’accertamento della non veridicità delle annotazioni trascritte nel libretto, o in altre atte stazioni rilasciate in relazione allo svolgimento della pratica, potrà comportare conseguenze disciplinari a carico del praticante e del professionista presso il quale la pratica è svolta. In particolare, il professionista è impegnato moralmente, in omaggio ai principi di lealtà e correttezza, a seguire il praticante per contribuire alla sua formazione professionale e deontologica e a verificare e confermare la veridicità delle relazioni e del libretto. ARTICOLO 17 Il praticante non abilitato al patrocinio sarà cancellato d’ufficio dal Registro speciale dei praticanti una volta conseguito il certificato di compiuta pratica, mentre il praticante abilitato potrà conservare l’iscrizione per tutto il periodo di vigenza dell’abilitazione e sarà cancellato d’ufficio allo scadere dell’abilitazione previa relativa comunicazione da inviare a mezzo lettera raccomandata a.r. ARTICOLO 18 Questo Regolamento entrerà in vigore a decorrere dal 11/11/2003. Al fine di dare allo stesso adeguata pubblicità esso sarà affisso alla bacheca della sede dell’Ordine ed inviato a tutti gli iscritti all’Albo e a tutti i praticanti già iscritti nel Registro. Questi ultimi dovranno uniformarsi al presente regolamento e, se del caso, produrre la documentazione integrativa necessaria, entro il termine di giorni 60 giorni dalla sua entrata in vigore, limitandosi, i praticanti al secondo anno di pratica, alla documentazione relativa allo stesso. Gli avvocati che, al momento di entrata in vigore del presente regolamento, hanno già ammesso a frequentare il proprio studio più di due praticanti possono continuare a seguire gli stessi fino al compimento della pratica. 19 Giurisprudenza Lecchese TRIBUNALE DI LECCO Sentenza del 5.11.2001 n. 475 Giudice dott. Spera AC CE RTAM E NTO DI R ITTO DI PROPRIETA’ - USUCAPIONE POSSESSO - COMPOSSESSO E CONDETENZIONE - GODIMENTO DE L B E N E DA PARTE DE I SINGOLI POSSESSORI - ESTENSIONE DEL POSSESSO OLTRE I LIMITI DEL POTERE DEL SINGOLO COMPOSSESSORE - CONDIZIONI MOTIVI DELLA DECISIONE Come emerge dalla stessa prospettazione di parte attrice nonché dall’atto di divisione prodotto sub 4, titolare del diritto di proprietà dei terreni eri il padre dell’attore, ***. Su tali terreni è stata poi costruita una casa che, secondo parte attrice, era di esclusiva proprietà della madre dell’attore, ***. In difetto di atto scritto, necessario ex art. 1350 n. c.c. per la costituzione del diritto di superficie, la proprietà della casa distinta da quella del terreno può derivare soltanto da un diritto di natura personale, che trova la sua fonte in un contatto atipico con effetti meramente obbligatori e non soggetto a rigori di forma né di pubblicità (v. la recentissima Cass. n. 7300 del 29/05/01; in termini Cass. n. 1392 dell’11/2/98 e Cass. Sezz. un. n. 3351 del 2/6/84). Nel caso di specie può effettivamente ritenersi che tra il padre dell’attore, proprietario dei terreni, e la madre dell’attore medesimo sia effettivamente intervenuto un accordo di tale natura. Ciò, in particolare, può ricavarsi dal fatto che, con il testamento 16/10/79, la madre dell’attore, deceduta nel 1981, lasciava la casa al figlio ***; e dal fatto che negli anni successivi né il padre né le sorelle dell’attore abbiano mai impugnato tale disposizione testamentaria. Ritenuto per tali ragioni che la proprietà della casa fosse esclusivamente della madre dell’attore, e poiché con il citato testamento la proprietà di tale casa venne lasciata al figlio, deve pertanto concludersi che la proprietà di tale immobile spetti ormai effettivamente all’attore medesimo. 20 Diverse considerazioni vanno fatte con riferimento al terreno. Esso era di proprietà del padre dell’attore, come emerge dalla stessa prospettazione di parte attrice nonché dall’atto di divisione prodotto sub 4. Poiché è stato accertato sulla base delle testimonianze che, fino alla morte dei genitori dell’attore, l’immobile oggetto di causa è stato utilizzato congiuntamente da essi e dall’attore medesimo, si tratta di accertare se quest’ultimo, e/o la madre prima di lui, abbiano acquisito per usucapione la proprietà o la comproprietà del terreno. A tale questione deve, peraltro, essere data risposta negativa: a fronte, infatti, del fatto che la convivenza nell’ambito di un unico modello familiare deve, quantomeno, far presumere l’inesistenza di un possesso esclusivo da parte di qualcuno dei conviventi (v., sul punto, Trib. Voghera n. 170 del 12/7/88 e Trib. Salerno del 9/10/80), è mancata la prova – ed anzi dalle risultanze delle prove orali sembra emergere, al contrario, che tutta la famiglia abbia vissuto pacificamente nel medesimo immobile – che l’attore, e la madre prima di lui, abbiano realizzato atti incompatibili con il possesso del padre dell’attore, proprietario dei terreni. Il caso è per certi versi analogo a quello dell’esercizio congiunto del possesso da parte dei comproprietari, regolato dal 2° comma dell’art. 1102, laddove prevede che “Il partecipante [alla comunione] non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Ciò, in altre parole, come ritenuto dalla giurisprudenza, che “La disposizione dell’art. 1102, comma 2°, c.c. (...) impedisce al compossessore che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota non solo l’usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato fino a quanto questo non si rilevi incompatibile con l’altrui possesso” (v. Cass. n. 12231 del 25/11/95). Ed ancora, “Il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa del bene comune senza necessità di interversio possessionis, ma attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività. A tal fine si richiede, tuttavia, che tale mutamento del titolo si concreti in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa incompatibili con il permanere del compossesso altrui sulla stessa e non soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri (art. 1141 c.c.) o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazioni di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possano dar luogo a una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore” (v. Cass. 10294 del 23/10/90). Consegue da quanto testé esposto che – poiché non è stato dimostrato, e neppure allegato, che durante la vita dei genitori dell’attore, siano stati, dalla madre (che, anzi, nel proprio testamento neppure dispone dei terreni) prima e dall’attore stesso poi, posti in essere atti incompatibili con il possesso del padre – deve escludersi che, durante la vita di questi, sia stata usucapita la proprietà dei terreni. Tali conclusioni non sono contraddette dal fatto che i testi hanno riferito che l’attore sosteneva le spese di manutenzione degli immobili. Va considerato, infatti, che il testamento della madre prevedeva l’obbligo per l’attore di provvedere al mantenimento dei genitori, obbligo che – deve ritenersi – comprendeva anche il pagamento delle spese inerenti gli immobili da lui abitati. L’usucapione dei terreni non può, infine, ritenersi perfezionata successivamente alla morte del padre dell’attore, nei confronti dei coeredi, dato che questo evento si è verificato soltanto nel 1997. In definitiva, mentre può essere accertata la proprietà esclusiva dell’attore della casa oggetto di causa, la proprietà dei terreni deve ritenersi sussistere in capo a tutti gli eredi del padre delle parti, secondo le regole della successione legittima. Ai sensi dell’art. 566 c.c., pertanto, l’attore deve ritenersi proprietario dei terreni oggetto di causa per la sola quota di 1/3. Omissis A CURA DI STEFANO CALVETTI Associazione Stampa Forense – A.STA.F. Congresso annuale 7 febbraio 2004 Cari amici, Da Latina in poi l’ASTAF ha rappresentato una continuità di azione coerente nel contesto delle problematiche che coinvolgono l’Avvocatura sul piano professionale e politico percorrendo la via della collaborazione con le strutture istituzionali ed associazionali. Nel novembre del 2001 a Napoli ebbi a sostenere che la nostra azione si era svolta su tre fronti: 1) Consolidamento dei rapporti con i direttori delle riviste forensi aderenti all’ASTAF per renderne più significativo il ruolo. 2) Rafforzamento dei rapporti con le istituzioni forensi (C.N.F., O.U.A. e CASSA di PREVIDENZA), con le Associazioni dell’ Avvocatura più rappresentative (A.N.F., U.I.F., A.I.G.A., CAMERE PENALI E CIVILI) nonché con la Magistratura (A.N.M. e C.S.M.). 3) Mantenere vivo il dialogo con i giornalisti della carta stampata e radio-televisivi per rendere sempre più sostanziale quell’ideale percorso iniziato a Latina nell’ottobre del 1998. Nel biennio 2002-2003 l’attività del Consiglio Direttivo e del Collegio dei Probiviri è andata oltre i tre settori di intervento richiamati ed ha posto altri paletti di crescita, un nuovo terreno di confronto: l’Europa. L’esperienza vissuta a Bruxelles da una delegazione ASTAF, su invito della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo, ha determinato una riflessione di fondo concernente l’esigenza di approfondire quanto accade in altri paesi europei: se esiste una stampa giuridicoforense; se è vivo, come in Italia, un rapporto conflittuale tra Avvocatura, Giustizia, Politica e Comunicazione mediatica. Il nostro impegno è stato costante, di sacrificio ma soddisfacente. Sul fronte interno: 1) Sono state programmate numerose iniziative: a) Abbiamo ottenuto l’autorizzazione a pubblicare il “Notiziario ASTAF” che ha cadenza bimestrale e dovrà costituire un cordone ombelicale con le riviste associate, nonché con gli Ordini Forensi, le Associazioni, l’OUA, il C.N.F. e la Cassa. b) Abbiamo nominato tre commissioni: Revisione statuto, Coordinamento riviste, finanze, tutte in funzione. c) Revisione dello statuto. la Commissione sta studiando alcune variazioni per rendere lo strumento più moderno anche in considerazione dell’evolversi della funzione associativa. Il lavoro non è ancora ultimato ma il prossimo Consiglio potrà certamente esaminare le proposte e portarle all’esame della assemblea straordinaria per la loro approvazione definitiva. d) Coordinamento riviste. In questo biennio è stata valutata positivamente l’idea di costituire un coordinamento regionale, laddove l’impegno giornalistico è più massiccio, oppure inter-regionale laddove logisticamente è più favorevole questa soluzione, al fine di rendere operativo il raccordo tra i direttori delle riviste. Allo stato abbiamo costituito due coordinamenti: nelle Regioni Puglia e Campania. Prossimo appuntamento: Sicilia e Calabria. e) Settore finanziario. Le nostre risorse sono soltanto le quote di adesione. Se avessimo dovuto impostare la nostra attività su questa unica entrata, certamente non avremmo potuto intraprendere alcuna iniziativa e non avremmo potuto conquistare quella visibilità che oggi ci inorgoglisce. Ci siamo mossi. Sul piano più generale abbiamo sensibilizzato, con la preziosa collaborazione del Presidente del Collegio dei Probiviri Marcello Colloca, il Presidente della Cassa Maurizio de Tilla il quale sta studiando alcune forme di sponsorizzazione per l’ASTAF che potrebbero darci ossigeno sufficiente. Inoltre abbiamo risolto il problema della sede, in quanto, in accoglimento di una nostra istanza, la Cassa ha riconosciuto alla nostra Associazione la funzioni di “custodi” della stampa giuridico-forense e di conseguenza ha disposto l’assegnazione di alcuni locali con la nostra targhetta ASTAF dotati di un computer e di un telefono, dove potremo operare in modo più concreto: siamo in attesa della definizione dell’iter burocratico che consenta alla Cassa di consentire l’utilizzo di detti locali. Da ricordare la simpatia concreta con la quale gli Ordini ospitano le nostre iniziative, facendosi carico delle spese organizzative, e della Cassa che è sempre a noi vicino con contributi di sostegno. Abbiamo gettato il seme e per il prossimo biennio è possibile che anche il C.N.F. e l’O.U.A. siano di sostegno. f) Sito internet. Come è a vostra conoscenza, abbiamo allestito, anche se con sacrificio economico, un sito internet, www.astaf.net, che sta riscuotendo interesse come si desume dall’utilizzo giornaliero del sito in continua crescita. Ancora una volta prego i direttori di quelle riviste che abbiano un collegamento in rete di comunicare gli estremi del sito e la e-mail di competenza alla signora Anna Raccuja per aprire il relativo link e dar modo, quindi, di utilizzare in pieno la conoscenza 21 della rivista e dell’Ordine od associazione di riferimento. Questo avviene già per numerose riviste e sarebbe utile che avvenga per tutte le testate. I componenti del Consiglio e del Collegio dei Probiviri sono dotati, inoltre, di casella postale per cui è possibile corrispondere con chiunque di noi per notizie, chiarimenti, suggerimenti. Tuttavia sono dolente rappresentare che il mancato versamento della quota da parte di alcuni soci su richiesta del segretario Marcello Pacifico, quota che comprende anche la tariffa per il mantenimento del sito, ha determinato la esclusione, certamente momentanea, per quanti si sono resi inadempienti: in effetti il costo del sito è suddiviso pro quota, per cui l’inadempienza comporta l’oscuramento da parte del gestore, per mancata corresponsione dell’importo convenuto. g) Adesioni. Continuiamo a crescere. Al 31 dicembre abbiamo confermato il numero di quaranta, tenuto conto che alcune testate hanno cessato la pubblicazione ed altre sono subentrate. Naturalmente il rinnovato Consiglio dovrà deliberare per il prossimo biennio sul mancato versamento delle quote da parte di alcune testate ed ovviamente sugli effetti di detta inadempienza. Questa la cronaca di una attività che non ha risparmiato nessuno di noi, impegnati a non tralasciare alcuna iniziativa mirata al potenziamento della Associazione. Il nostro intento è di arrivare a concepire una soluzione organizzativa che favorisca la possibilità di attuare un dialogo immediato con i direttori o loro delegati, fornendo notizie e spunti giornalistici da utilizzare nel proprio territorio di competenza. Gli strumenti potranno essere in tempi medi il Notiziario ASTAF ed in tempi brevi il sito internet se avremo la fortuna di potenziare economicamente questo modo di comunicazione. Il sistema internet è costoso e certamente con le nostre sole poche risorse non siamo in grado oggi di 22 fare un salto di qualità. Ma la nostra perseveranza è tale che prima o poi riusciremo a trovare una soluzione che ci permetta di guardare oltre con fiducia. A tal fine il nostro scopo deve essere quello di ricercare costantemente una maggiore considerazione da parte delle Istituzioni dell’Avvocatura e delle Associazioni più rappresentative. Noi siamo un organismo di servizio nell’interesse dell’Avvocatura in particolare e dei cittadini in modo più generale. Abbiamo dato prova delle nostre capacità di relazionarci con l’esterno, soprattutto con il mondo della Politica, della Magistratura e del Giornalismo. Abbiamo dato prova di avere idee mirate alla scoperta di modi nuovi di comunicazione e di avere la concretezza per realizzarle: in ordine di tempo, l’attuazione a Bologna di una idea, che sembrava impossibile porre in essere per le difficoltà oggettive di natura economica ed organizzativa, ha eliminato ogni dubbio ed ogni incertezza sulla nostra capacità di portare a termine iniziative complesse. La nostra Associazione ha raggiunto, inoltre, una credibilità fondata sull’equilibrio e sul consenso, nel momento in cui riusciamo a far discutere intorno ad un tavolo i responsabili di varie categorie professionali e politiche, ed in particolare della Magistratura, avvenimento che ormai si ripete da qualche anno. Questo stato di servizio deve convincere i nostri interlocutori a sostenerci ed a fornire all’ASTAF soluzioni tecniche ed economiche per poter programmare ulteriori iniziative di servizio nell’interesse generale. Noi siamo convinti della utilità che rappresentiamo con le nostre riviste e le nostre idee per l’avvocato, il cittadino, il magistrato, il giornalista. Siamo altresì consapevoli che la funzione dell’avvocato-giornalista si va sviluppando giorno per giorno, che l’esigenza di ricercare nuove forme di comunicazione richiede maggiore professionalità: il contributo dell’avvocato impegnato nel giornalismo non costituisce oggi solo ed esclusivamente un hobby ma significa un momento di crescita sul piano della formazione e della esperienza. Tutto ciò per evidenziare come sarebbe utile per l’Avvocatura che anche il C.N.F., sempre attento ai momenti evolutivi, valutasse l’opportunità di riconoscere all’ ASTAF un piccolo spazio, come ha già fatto la Cassa di Previdenza ed allo stato sta facendo l’O.U.A.. Sul fronte esterno : Anche su questo piano l’attività dell’ASTAF è stata intensa. Normalmente siamo invitati a partecipare, e naturalmente siamo presenti nei limiti delle nostre possibilità, ad incontri territoriali indetti dal C.N.F., O.U.A., Cassa ed Associazioni più rappresentative. Siamo stati altresì presenti negli appuntamenti più significativi a livello nazionale con una piena visibilità e portando il nostro umile contributo: all’Ottava Conferenza Nazionale della Cassa di Previdenza svoltasi a Sorrento, al Congresso Straordinario dell’O.U.A. tenutosi a Verona e successivamente a Palermo nel dicembre scorso. Stampa forense europea. Come ho precisato all’inizio di questa relazione, il C.D. si è posto il problema dell’Europa, della opportunità di un dialogo con alcuni Paesi per un approfondimento di alcune nostre curiosità: se esiste una stampa forense come in Italia ed in caso affermativo se è possibile ipotizzare la costituzione di una associazione europea, se è vissuta una conflittualità tra i poteri dello Stato come qui da noi. Il Consiglio, rilevata la importanza dell’avvenimento e valutata l’opportunità di avviare un discorso di verifica a livello europeo, ha approvato l’idea ed abbiamo gettato le basi per il prosieguo di un discorso che richiede certamente tempi non brevi Abbiamo preso contatti con alcune organizzazioni europee e certamente nel prossimo biennio il Consiglio Direttivo potrà varare un primo progetto europeo sul piano associativo. A tal fine abbiamo ritenuto opportuno, al momento, effettuare la traduzione della nostra storia in lingua inglese e francese per una migliore conoscenza dell’ASTAF. Quindi su questa via europea siamo ormai prossimi al traguardo, in sintonia con la volontà espressa dai direttori in occasione dell’incontro svoltosi a Bologna nel 2002. Ma è giusto che questa assemblea ribadisca la decisione di proseguire su questa linea, nel senso di condividere o meno questa ulteriore prospettiva per la nostra associazione di allargare il raggio della propria azione, per dar modo al neo Consiglio di concretizzare quanto già posto in essere. LE NOSTRE CONSULTE. Il secondo momento di grande rilevanza l’abbiamo vissuto con l’organizzazione delle Consulte. Di Bologna abbiamo avuto modo di dire tutto, soprattutto della grande idea di rappresentare un nostro forte messaggio attraverso un modo diverso di comunicare e cioè con una rappresentazione teatrale, ricca di humor e ironia: “In nome del popolo... processo al Processo”. Non è stato facile concretizzare questa idea, realizzare una scenografia che fosse alla portata delle nostre possibilità economiche, salvaguardando comunque la dignità della novità. I protagonisti sono stati all’altezza del compito loro affidato e desidero ricordarli ancora una volta per ringraziarli della gratuita ma egualmente sincera collaborazione: i giornalisti Massimo e Roberto Martinelli, Carlo Nordio Presidente della Commissione Riforma del Codice Penale, gli avvocati Sergio Rossi e Luigi Di Maio, i dieci giovani aspiranti giornalisti della Scuola di Giornalismo di Bologna che hanno composto la giuria popolare, il Presidente dell‘Ordine dei Giornalisti dell‘Emilia Romagna Claudio Santini per la sua preziosa collaborazione. La novità è stata apprezzata, diciamo che ha avuto successo e probabilmente potrà essere ripetuta in occasione di altre iniziative. Anche il 2003 è stato un altro anno ricco di risultati. La Quinta Consulta di Vibo Valentia ha avuto molto successo e ampio consenso. La magistratura ha ritenuto di comunicarci il loro gradimento per aver ideato un momento di confronto su un tema di grande attualità che si è sviluppato in maniera civile e costruttiva, con una presenza attiva dell’ASTAF per la partecipazione tra i relatori del nostro Carlo Petrone, la cui relazione ha avuto molti apprezzamenti: ed hanno manifestato la loro adesione per prossimi appuntamenti. Lo stesso dicasi per le strutture istituzionali ed associative dell’Avvocatura che ci hanno confortato con la loro presenza ed il loro sostegno. Naturalmente un sentito ringraziamento devo rilvorgerlo all’amico Marcello Colloca, al Presidente dell’Ordine di Vibo Valenzia Pontoriero ed alla Unione degli Ordini Forensi della Calabria che hanno dato modo a tutti noi di vivere una bellissima esperienza in un clima di familiarità e di amicizia. approfondimento in un percorso da portare avanti insieme. Pochi giorni fa con Marcello Pacifico e la sig.ra Raccuja abbiamo avuto un incontro con alcuni rappresentanti della Unione per elaborare i contenuti di un dibattito confronto su di un tema stimolante, la unicità della giurisdizione, da tenersi verso la fine di aprile nel Lazio: naturalmente l’incontro ha avuto carattere interlocutorio e sarà concretizzato verso la fine di febbraio in attesa che l’ASTAF abbia rinnovato le cariche sociali. Consolidamento di rapporti. Il 2003 è stato quindi un anno positivo per il consolidamento dei rapporti: abbiamo rafforzato in maniera costruttiva il dialogo con l’A.N.M. determinando le condizioni ed i presupposti per un confronto sulle tematiche che riguardano il mondo della giustizia. Questo rapporto si è aperto anche con il C.S.M. che oggi ritiene positivo avere un contatto con la nostra struttura tant’è che ha inviato al Vs. Presidente uscente il testo dei pareri sulle proposte governative di modifica dell’Ordinamento Giudiziario. Con il C.N.F. si è costruito un rapporto fondato sulla credibilità e sul rispetto: il presidente Remo Danovi ci è stato vicino sostenendoci nelle iniziative e favorendo un approfondimento costruttivo. Con l’Unione Camere Penali, presieduta da Randazzo, si è consolidato un riconoscimento sostanziale della funzione dell’ASTAF, tant’è che siamo stati invitati al loro Congresso di Chianciano anche per far parte del tavolo di concertazione con i rappresentanti delle associazioni più rappresentative per valutare le condizioni di una comune visione di azione da parte di tutta l’Avvocatura: in nostra rappresentanza ha partecipato l’amico Carlo Petrone. Con la Cassa naturalmente esiste, come è notorio, un rapporto di amicizia e di profonda stima che ha favorito il consolidarsi di una comune visione sul significato della funzione della nostra Associazione. Con l’Organismo Unitario, oggi presieduto da Michelina Grillo, ed a cui ho già manifestato il nostro gradimento per averLa alla guida di un organismo cui crediamo, abbiamo concordato un protocollo di intesa che deve vedere per il 2004-05 l’ASTAF maggiormente impegnata nella costruzione organizzativa della politica forense sia sul piano della informazione che della convegnistica. Con l’Unione Camere Civili, presieduta dall’amico Grimaudo, egualmente abbiamo convenuto un rapporto di collaborazione più stretto, per far si che questo tormentato settore della nostra vita professionale possa trovare momenti di Con l’A.N.F. abbiamo maturato momenti di reciproca collaborazione, che si sono andati rafforzando soprattutto per l’amicizia che ci ha legato prima al segretario Sergio Paparo, poi al Segretario Michelina Grillo, e che senz’altro per questo biennio si consolideranno con il nuovo segretario Piergiorgio Loi che abbiamo avuto modo di apprezzare in altri momenti ed al quale rivolgo le nostre felicitazioni e gli auguri di buon lavoro. CONCLUSIONI. Penso di non aver altro da aggiungere. Questa è l’analisi di due anni di lavoro che il Consiglio Direttivo ed il Collegio dei Probiviri collegialmente hanno portato avanti insieme a tutti Voi e che sottopongo alla vostra approvazione. Ringrazio gli amici del Consiglio e del Collegio dei Probiviri per avermi sostenuto nel biennio trascorso e per avermi sopportato anche quando diventavo assillante nel richiedere l’impossibile. I due organi statutari, infatti, hanno costituito una buona squadra che ha favorito con l’impegno di tutti il realizzarsi di tante iniziative. MARIO RAPANÀ Presidente A.STA.F. 23 Una lettera del presidente del Consiglio nazionale forense, Remo Danovi, all’ABI Convenzioni in deroga ai minimi tariffari professionali Si contesta il diffuso sistema di attuare convenzioni contrarie alle regole tariffarie e deontologiche. Altra analoga comunicazione era stata inviata negli scorsi mesi all’ANIA Dal Consiglio nazionale forense al presidente dell’Associazione bancaria italiana, dottor M. Sella. Illustre presidente, desidero sottoporre alla sua attenzione una problematica non nuova, ma aggravata negli ultimi mesi da rinnovate iniziative di vari Istituti di credito, in taluni casi attuate sull’intero territorio nazionale, Il Consiglio nazionale forense, quale organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana, ha ricevuto infatti numerose segnalazioni di convenzioni e prassi in uso presso primari istituti bancari, per regolare i rapporti con i legali di fiducia. Tali convenzioni prevedono regolamentazioni che non soltanto disciplinano la corresponsione degli onorari professionali con compensi inferiori ai minimi tariffari indicati dall’ormai lontano d.m. 5 ottobre 1994, ma determinano di fatto un appiattimento qualitativo delle prestazioni professionali. Come certamente le sarà noto, il sistema tariffario degli avvocati prevede massimi derogabili con il consenso delle parti e minimi inderogabili. I comportamenti segnalati configurano pertanto inequivocabilmente una reiterata violazione di legge (con 24 le relative conseguenze sul piano della invalidità contrattuale) e di regole deontologiche, di rilevanza disciplinare. La prassi segnalata è inoltre aggravata dalla circostanza che gli atluali minimi tariffari, in attesa delle nuove tariffe forensi da tempo elaborate dal Consiglio nazionale e attualmente all’esame del ministro della Giustizia, sono divenuti palesemente inadeguati. Non è ovviamente questa la sede per soffermarsi sulla legittifiazione del sistema tariffario delle professioni regolamentate. Mi limito a considerare che il mantenimento di un sistema di onorari professionali (anche con i minimi inderogabili), lungi dal rappresentare una fiera tutela corporativa, costituisce garanzia pubblica della qualità della prestazione e della congruità della retribuzione, in un ambito che non può essere affidato totalmente al libero mercato e alla concorrenza indiscriminata. A conforto di tale interpretazione si è recentemente pronunciata la Corte di giustizia delle Comunità europee, che il 19 febbraio 2002 (sentenza in causa C35-99) ha posto fine a un annoso dibattito circa la compatibilità del sistema tariffario con l’articolo 85 del Trattato Ce (ora articolo 81, nel testo consolidato), chiarendo come la deliberazione da parte del ministro per la Giustizia, conseguente alla proposta del Consiglio nazionale, salvaguardi in realtà la valenza pubblicistica del relativo procedimento, in funzione della protezione degli interessi generali della collettività, e non già degli interessi specifici della categoria professionale. Senza dimenticare che le regole professionali tutelano interessi qualificati “pubblici” dall’ordinamento. In ogni caso la questione non è solo quella di garantire l’applicazione del diritto vigente e di tutelare i minimi tariffari. Le convenzioni in parola, come ho già sottolineato, appiattiscono di fatto le prestazioni e promuovono a regola la convinzione di una ripetitività di atti, che mortificano la qualità dell’attività professionale. Peraltro, riguardata sotto il profilo deontologico, la questione, relativamente al professionista che accetti indiscriminatamente lo stesso patto dei minimi di tariffa, può assumere anche rilievo di violazione dei principi di solidarietà e di divieto di illecita concorrenza. E sotto tale profùo, ci sembra che non possa pretendersi, in evidente posizione dominante, che a tanto la categoria venga indotta. Di qui la richiesta, a lei e alla prestigiosa associazione da lei presieduta, di intervenire presso tutti gli Istituti di credito, dando comunicazione dei rilievi formulati e con l’invito a desistere dai comportamenti segnalati. Sarò lieto di incontrarla per ogni più ampia riflessione sul punto, nella speranza di una proficua futura collaborazione. Certo di un suo cortese riscontro, le porgo i migliori saluti. REMO DANOVI L’arbitrato nella riforma della società Il decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 disciplina in maniera innovativa non solo il contenzioso avanti l’autorità giudiziaria ordinaria, ma anche l’arbitrato nelle controversie societarie; in attesa degli approfondimenti che giungeranno nel tempo, può essere utile richiamare alcuni aspetti essenziali della nuova normativa relativa all’arbitrato. L’art. 34 (intitolato “Oggetto ed effetti di clausola compromissorie statutarie’), dispone: l. “Gli atti costitutivi delle società (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325-bis c.c.), possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale”. Dunque – escluse alcune tipologie di società, di particolare importanza nella vita economica del paese, come quelle quotate in borsa – tutte le controversie societarie aventi ad oggetto diritti disponibili che possano insorgere fra i soci, ovvero fra i soci e la società possono essere devolute ad arbitri; in proposito, è da sottolineare che: a) l’arbitrato in esame è quello che trae origine dagli atti costitutivi (ivi compresi quelli modificati) e, si dovrebbe ritenere, anche dagli statuti delle società predette; la nuova disciplina sembra non applicarsi agli arbitrati nati da compromessi. b) le clausole compromissorie in esame possono devolvere agli arbitri solo alcune delle suddette controversie, escludendone altre: così, volendo, si potrà escludere le impugnazioni di delibere assembleari. 2. “La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale”. Dunque, la clausola deve stabilire in primo luogo il numero degli arbitri, che dovrà essere dispari ai sensi dell’art. 809, 1° c.; per le modalità di inizio dell’arbitrato non vi sono previsioni, per cui la clausola potrà essere formulata in vari molti modi: ad esempio, la parte che intenda dar inizio all’arbitrato potrà comunicare alla controparte (o alle controparti) la propria volontà con atto notificato tramite ufficiale giudiziario; la stessa comunicazione andrà inviata anche al soggetto, necessariamente estraneo alla società (a pena di nullità della clausola), cui sono affidate le nomine degli arbitri. Questo è un aspetto fortemente innovativo della nuova disciplina dell’arbitrato societario: la disciplina in questione sottrae alle parti ogni potere di nomina degli arbitri, eliminando alcuni inconvenienti presenti nel sistema tradizionale (così, la non perfetta imparzialità – almeno nella maggioranza dei casi – degli arbitri nominati dalle parti), ed impone che essi vengano nominati da soggetto estraneo alla società, a pena di nullità della clausola; il soggetto così designato dovrà essere privo di ogni rapporto organico con la società (così, non potrà esserne socio, amministratore, ecc.); resta assai delicato il modo in cui si procederà a tale designazione, così che, per correttezza, sarà preferibile che il soggetto in questione non sia neppure legato alla società da rapporti professionali (consulenza ecc.), anche se ciò non sembra vietato dalla norma. Così, quali soggetti designanti potranno essere indicati i presidenti di ordini professionali, i presidenti di camere arbitrali ecc.; è dubbio che possano essere scelti i presidenti di tribunali, i quali dovranno provvedere in mancanza di nomine da parte dei soggetti designati; ed è da sottolineare che si tratta dei tribunali dei luoghi in cui le società hanno le rispettive sedi legali, e non – come disposto dall’art. 810 c.p.c. per l’arbitrato in generale – dei luoghi ove è la sede dell’arbitrato, ovvero ove è stato stipulato il contratto ecc. Nella clausola si indicherà in qual modo formulare la richiesta (così, si potrà provvedere con atto notificato tramite ufficiale giudiziario) ed entro quale termine l’autorità designante debba provvedere (ad esempio venti giorni, riprendendo dall’art. 810). Qualora il soggetto designato non provveda alle nomine, la richiesta di scegliere gli arbitri verrà indirizzata al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. 3. “La clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia”: sia la società nel cui atto costitutivo è inserita la clausola, sia i soci della stessa, sia coloro la cui qualità di socio è oggetto della vertenza, sono obbligati a rispettare la procedura arbitrale prevista. 4. “Gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse sa amministratori, liquidatori, sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell’accettazione dell’incarico, è vincolante nei confronti di costoro”. La clausola compromissoria, dunque, può estendere la propria efficacia anche a soggetti che non siano ancora in rapporti con la società e che non ne diventeranno soci, ma che ne saranno amministratori, liquidatori o sindaci; nei loro confronti la clausola diverrà vincolante con la loro accettazione dell’incarico. 5. “Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero”. L’intervento obbligatorio del pubblico ministero, al di là dei procedimenti penali, è previsto da specifiche disposizioni di legge: così, l’art. 221 c.p.c. in tema di querela di falso, l’art. 59 r.d. 21.6.1942, n. 929, in tema di nullità o decadenza di brevetti per marchi d’impresa; le controversie di tal genere non possono essere oggetto di clausole compromissorie. 6. “Le modifiche dell’atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole 25 compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso”. L’art. 35 detta la “Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale”: 1. “La domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto è depositata presso il registro delle imprese ed è accessibile ai soci”. Fin dal sorgere del procedimento arbitrale che coinvolga direttamente la società, come parte attiva o passiva dello stesso, l’esistenza dell’arbitrato deve essere resa conoscibile da parte dei soci tramite deposito presso il registro delle imprese. 2. “Nel procedimento arbitrale promosso a seguito della clausola compromissoria di cui all’art. 34, l’intervento dei terzi a norma dell’articolo 105 del codice di procedura civile è ammesso fino alla prima udienza di trattazione, nonché l’intervento di altri soci a norma degli articoli 106 e 107 dello stesso codice. Si applica l’articolo 820 del codice di procedura civile”. Dunque, altra rilevante innovazione della riforma è la previsione dell’intervento nell’arbitrato di altri soggetti oltre le parti iniziali: si tratta di un intervento volontario laddove si è richiamato l’art. 105, della chiamata in causa di cui all’art. 106 e dell’intervento iussu iudicis di cui all’art. 107 c.p.c. È bene sottolineare che le ipotesi di cui agli artt. 106 e 107 sono applicabili, nell’arbitrato societario, solo nei confronti di altri soci: infatti, non si potrebbe obbligare chi sia estraneo alla società a partecipare all’arbitrato. L’art. 820 dispone fra l’altro che, in caso di morte di una delle parti, il termine per la pronuncia del lodo sia prorogato di trenta giorni; pertanto, nei casi di intervento volontario, di chiamata o di intervento iussu iuducis di un terzo nell’arbitrato, il termine suddetto è appunto prorogato di trenta giorni. Per quanto riguarda la tempistica di tali interventi e della chiamata, solo l’intervento volontario risulta limitato alla prima udienza di trattazione; per altro, non essendo automaticamente applicabile agli arbitrati quanto previ26 sto dal codice di rito per il contenzioso civile ordinario, il concetto di “prima udienza di trattazione” andrà applicato con una certa elasticità. 3. “Nel procedimento arbitrale non si applica l’art. 819, primo comma, del codice di procedura civile; tuttavia il lodo è sempre impugnabile, anche in deroga a quanto previsto per l’arbitrato internazionale dall’art. 838 del codice di procedura civile, a norma degli articoli 829, primo comma, e 831 dello stesso codice”. La disposizione di cui sopra costituisce altra novità rilevante nel quadro generale dell’arbitrato societario: l’art. 819, infatti, prevede la sospensione dell’arbitrato “se nel corso del procedimento sorge una questione che per legge non può costituire oggetto di giudizio arbitrale” e se gli arbitri “ritengano che il giudizio ad essi affidato dipende dalla definizione di tale questione”: con la nuova disposizione, invece, la sospensione non si applica e gli arbitri dovranno conoscere, in via incidentale, anche di questioni di per se non compromettibili. Il lodo emesso in tali ipotesi sarà sempre impugnabile ai sensi dell’art. 829 c.p.c. (impugnazione per nullità), anche se le parti lo avessero dichiarato non impugnabile; e sarà pure sempre impugnabile per revocazione e per opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 831; infine, il lodo sarà sempre impugnabile anche in deroga a quanto previsto in tema di arbitrato internazionale dall’art. 838, norma che prevede la non impugnabilità dei lodi salva diversa volontà delle parti. 4. “Le statuizioni del lodo sono vincolanti per la società”. La disposizione si presta ad una lettura banale, secondo cui il lodo vincola chi è stato parte dell’arbitrato; ma si presta anche ad una diversa interpretazione, secondo cui comunque la decisione degli arbitri vincola la società, ancorché estranea alla procedura: si tratterebbe di un altro risultato fortemente innovativo, per il quale si dovrà comunque attendere adeguati approfondimenti. 5. “La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’articolo 669-quinquies del codice di procedura civile, ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”. La norma afferma il principio per cui il ricorso alla autorità giudiziaria ordinaria per ottenere la tutela cautelare (sequestro giudiziario, sequestro conservativo, ecc.) è legittimo anche quando la controversia in esame sia devoluta ad arbitri irrituali; e pure dispone che, quando gli arbitri hanno il potere di decidere circa la validità di delibere assembleari, essi hanno anche la facoltà di sospenderne l’efficacia, con ordinanza non reclamabile. Anche in questo caso, si tratta di un notevole ampliamento della funzione arbitrale: si pensi, infatti, che la sospensione dell’efficacia di delibere assembleari può avere conseguenze assai rilevanti per una società, e che la non reclamabilità di tale decisione (la cui efficacia potrebbe venire meno solo con la deliberazione del lodo, o successivamente a seguito di impugnazione di quest’ultimo) comporta una maggiore responsabilità, quanto meno morale, per gli arbitri. Art. 36. Decisione secondo diritto. “Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri devono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell’art. 829, secondo comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari”. Quando gli arbitri, per decidere la controversia, abbiano dovuto trattare anche questioni di per se non compromettibili, il lodo dovrà essere necessariamente emesso secondo diritto, pur se la clausola compromissoria avesse previsto una decisione secondo equità, e sarà comunque impugnabile, pur contro la volontà dichiarata dalle parti; lo stesso principio si dovrà applicare in caso di impugnazione di delibere assembleari. CARLO COMPATANGELO Le casse private vanno escluse dalla riforma della previdenza pubblica La riforma del sistema pensionistico pubblico che il Governo sta cercando di realizzare, mediante interventi sulla delega previdenziale attualmente in discussione al Senato, ha sicuramente intenti virtuosi e ha il pregio, perlomeno, di affrontare una materia delicata e complessa con interventi organici e strutturali. Non è mia intenzione entrare nel merito del provvedimento nei suoi aspetti generali, né nel dibattito che ne è seguìto, circa gli effettivi benefici che possono derivarne in termini di riequilibrio del sistema previdenziale pubblico, devastato dai macroscopici errori di un passato meno recente. Non posso esimermi, viceversa, dal confermare un giudizio profondamente negativo sia per quanto riguarda il metodo che nel merito, in ordine all’ipotesi di estendere i principi contenuti nell’art. 1 ter, 1° comma, anche agli Enti privati dei professionisti, che sarebbe previsto nel 4° comma del medesimo articolo. Ci troviamo di fronte ad un macroscopico errore che costituisce un vero e proprio attacco all’autonomia degli Enti previdenziali privati, che non sono stati nemmeno consultati sull’argomento, riservato per legge: alla loro specifica autonomia nor-mativa. Ma non basta! La brutale applicazione ai regimi previdenziali dei professionisti di principi propri del regime pubblico potrebbero portare effetti devastanti quali l’abbassamento (sic!) a sessanta anni dell’età pensionabile: per le donne, laddove gli ordinamenti previdenziali degli Enti professionali già prevedono una età pensionabile almeno a sessantacinque anni, senza distinzione di sesso! La selvaggia applicazione dì questo principio causerebbe “buchi” clamorosi nelle gestioni di molte Casse previdenziali dei professionisti. Per la sola Cassa Forense un simile provvedimento, sulla base di una prima stima di massima, comporterebbe oneri per circa 250 milioni di Euro. Va segnalata, inoltre, l’ulteriore incongruenza di imporre una anzianità di iscrizione quarantennale per l’ammissione a pensione di anzianità a categorie professionali che iniziano per la maggior parte, l’attività lavorativa intorno ai 26/27 anni, dopo la laurea, il periodo di tirocinio e gli esami di abilitazione. Le pensioni di anzianità, già limitatissime nel numero, sarebbero così destinare a sparire per tutti i professionisti, con evidente disparità di trattamento con le altre categorie di lavoratori, dipendenti e autonomi. L ‘assoluta carenza di informazioni in ordine alla realtà delle Casse professionali è, inoltre, testimoniata dall’inserimento di tali Enti fra quelli destinatari di una norma (art. 1, comma 2, lettera 9-bis) che fissa un massima- le ai nuovi trattamenti pensionistici pari ad almeno _ 516,46 al giorno (circa 30 milioni mensili di vecchie lire!). Importo che è ben al di là di qualsiasi trattamento pensionistico massimo erogato da tutti gli Enti previdenziali dei professionisti. Appare del tutto oscuro come tale disposizione possa trovare applicazione al mondo delle Casse professionali. Un eventuale innalzamento degli attuali tetti in modo così eclatante causerebbe la rovina delle Casse e una simile interpretazione non sembra in linea con le finalità dell’intero provvedimento legislativo. Quale che sia la corretta. interpretazione della norma, essa non può trovare una razionale applicazione per le Casse previdenziali dei professionisti. È evidente, invece, che ben altri sono gli interventi legislativi necessari a stabilizzare i sistemi previdenziali delle Casse Professionali e a garantirne la sostenibilità nel lungo periodo. Alcuni di questi interventi, peraltro, sono previsti nella delega previdenziale, già approvata dalla Camera dei Deputati e attualmente all’esame del Senato. Altri sono stati messi a punto dall’Adepp, dopo una intensa fase di studio che ha coinvolto tutti gli Enti previdenziali privati, e sottoposti all’attenzione del Ministro del Welfare, On. Roberto Maroni, al quale è stato chiesto un incontro. In particolare le richiesta di modifiche ed emendamenti alla delega previdenziale investono l’art. 6 del d.d.l. 2058/S, che riguarda specificatamente gli Enti previdenziali privatizzati, di cui si chiede l’ampliamento mediante l’aggiunta di una serie di commi relativi alle seguenti materie: l. Possibilità di gestire direttamente, anche in forma congiunta, la previdenza complementare, adattando alla specificità degli Enti alcuni: norme del D. Lgs. 124/93; 2. Possibilità dì istituire fondi immobiliari o acquisire società immobiliari o quote delle stesse anche tramite conferimento di immobili in proprietà, con atri soggetti a imposte di registro ipotecarie e catastali in misura fissa; 3. semplificazione delle procedure: di approvazione ministeriale delle delibere degli Enti nei casi in cui tale approvazione è richiesta, con previsione di fornire di silenzio assenso in caso dì mancato diniego entro 120 giorni dalla. comunicazione; 4. Possibilità, da parte degli Enti che lo ritenessero necessario, di introdurre il sistema contributivo di calcolo delle pensioni previsto dalla legge 335/95 adattandone, in modo flessibile, i parametri demografici finanziari alla categoria professionale di riferimento; 5. Estensione della tutela sanitaria integrativa prevista nel 1° comma del d.d.l., 2058/S anche agli Enti previdenziali di nuova costituzione (Biologi, Psicologi, Periti industriali, Infermieri ed Ente pluricategoriale). L’Adepp, inoltre, ha fatto propria la richiesta di introdurre alcuni fondamentali correttivi ai sistemi previdenziali degli Enti istituiti ai sensi del D. Lgs. 103/96 per alcune categorie professionali (Psicologi, Biologi, Periti Industriali, ecc.) come proposto dagli Enti stessi. A tal fine si è suggerita l’introduzione, mediante apposito emendamento, di un articolo 6 bis che contenga misure specifiche per tali Enti. Il pacchetto degli emendamenti sottoscritti dall’Adepp contiene anche la richiesta di adeguare la delega previdenziale all’accordo recentemente sottoscritto presso il Ministero del Welfare in tema di totalizzazione, recependone il testo, con conseguente soppressione dell’art. 1, comma 2, lettera o) del d.d.l. 2058/S, che contiene i principi di delega in parte incompatibili con la nuova disciplina dell’istituto. L’articolata proposta dell’Adepp si chiude con la richiesta di integrazione dì due articoli (art. 1, comma 2, lettera 1 e art. 3, comma 3) tendenti a risolvere definitivamente ogni dubbio circa il regime previdenziale cui sottoporre le attività di co., co., co., svolte da soggetti iscritti agli Albi e ad adeguare il regime fiscale delle Casse professionali almeno a quello, di maggior favore, previsto per i fondi pensione integrativi. Quest’ultima previsione, in particolare, assume una rilevanza decisiva se si pensa che oggi, sugli Enti previdenziali dei professionisti grava una vera e propria doppia tassazione che colpisce sia il momento dell’accumulo delle riserve e gli investimenti sia in un momento successivo, le rendite pensionistiche corrisposte agli iscritti. La capacità propositiva dimostrata dalle Casse Professionali merita l’attenzione di tutti coloro cui sanno veramente a cuore i problemi previdenziale di un milione di professionisti. Credo sinceramente che i segnali di apertura e di sensibilità politica recentemente manifestati dal Governo (vedasi la rapida approvazione della legge sul “tetto” per le indennità di maternità alle libere professioniste) conducano ad un radicale ripensamento sull’infausta norma di equiparazione al regime pubblico e al recepimento delle articolate proposte dell’Adepp. In caso contrario i professionisti italiani sapranno, ancora una volta, stringersi a difesa dell’autonomia delle loro Casse dì Previdenza. MAURIZIO DE TILLA (Presidente Adepp e Cassa Forense) 27 Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Fondazione dell’Avvocatura Forense Italiana Università di Camerino Dipartimento di Discipline Giuridiche Sostanziali e Processuali Auditorium Cassa Forense Via Ennio Quirino Visconti, 6 ingresso galleria – Roma Ciclo di seminari su: Prof. Avv. Ferruccio Auletta (Professore Associato di Diritto Processuale Civile – Università di Perugia) Prof. Avv. Gianpiero Balena (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari) Cons. Bruno Balletti (Giudice Corte Suprema di Cassazione) Prof. Avv. Girolamo Bongiorno (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Roma “La Sapienza”) Prof. Avv. Domenico Borghesi (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Modena e Reggio Emilia) Il giudizio di Cassazione: tecniche di redazione del ricorso e regole del procedimento Prof. Avv. Antonio Briguglio Giovedì 15 aprile 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00 (Presidente III Sezione Civile – Corte di Cassazione) Il ricorso ordinario per Cassazione in Via Principale. Tecniche di deduzione dei motivi ex nn. 1, 2 e 4 art. 360 C.P.C. Il principio di autosufficienza. Le condizioni di ammissibilità. Prof. Avv. Federico Carpi (Straordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Roma Tor Vergata) Prof. Vincenzo Carbone (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bologna) Prof. Avv. Sergio Chiarloni (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Torino) Prof. Avv. Franco Cipriani Simulazione di un atto - Dibattito (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari) Giovedì 29 aprile 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00 (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Cattolica del Sacro Cuore) Il ricorso ordinario per Cassazione in Via Principale. Tecniche di deduzione dei motivi ex nn. 3 e 5 art. 360 C.P.C. Il principio di autosufficienza. Le condizioni di ammissibilità. Prof. Avv. Claudio Consolo Prof. Avv. Vittorio Colesanti (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Padova) Prof. Avv. Giorgio Costantino (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Bari) Pres. Giuseppe Ianniruberto Simulazione di un atto - Dibattito (Presidente IV Sez. Lavoro Corte Suprema di Cassazione) Giovedì 13 maggio 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00 (Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato – Università di Roma “La Sapienza”) Il controricorso e il ricorso incidentale. Il ricorso incidentale condizionato. Prof. Avv. Francesco Paolo Luiso Simulazione di un atto - Dibattito (Straordinario di Diritto Processuale Civile – Università Federico II di Napoli) Prof. Avv. Nicolò Lipari (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Pisa) Prof. Avv. Giuseppe Olivieri Venerdì 4 giugno 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00 Prof. Avv. Renato Oriani Il procedimento. La decisione. Cassazione con o senza rinvio. Cassazione sostitutiva e rimedi esperibili. Rapporti con il giudizio di rinvio. Avv. Paolo Emilio Pagano (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Federico II di Napoli) (Avvocato in Napoli) Prof. Avv. Salvatore Patti Simulazione di un atto - Dibattito (Ordinario di Diritto Privato – Università di Roma “La Sapienza) Giovedì 17 giugno 2004 – ore 10:00-13:00 / 15:00-18:00 (Ordinario di Diritto Commerciale - Emerito dell’Università di Messina) Il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. I regolamenti di giurisdizione e di competenza. Il ricorso per revocazione. Prof. Avv. Nicola Picardi Simulazione di un atto - Dibattito (Docente di Diritto Fallimentare Università “Cà Foscari” di Venezia) Modalità di svolgimento di ciascun seminario: • Relazioni di base • Interventi programmati • Simulazione di un atto • Dibattito Prof. Avv. Vincenzo Panuccio (Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Roma “La Sapienza”) Prof. Avv. Mauro Pizzigati Avv. Ernesto Procaccini (Avvocato in Napoli) Prof. Avv. Andrea Proto Pisani (Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Firenze) Prof. Avv. Pietro Rescigno (Ordinario di Diritto Civile – Università di Roma “La Sapienza”) Prof. Avv. Bruno Sassani Relatori invitati Prof. Avv. Modestino Acone (Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Roma Tor Vergata) (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università di Napoli “Federico II”) (Ordinario di Diritto Processuale Civile - Università di Milano) Prof. Avv. Guido Alpa Prof. Romano Vaccarella (Ordinario di Diritto Civile – Università di Roma “La Sapienza”) (Giudice Corte Costituzionale) Prof. Avv. Giovanni Arieta Prof. Avv. Giovanni Verde (Professore di Diritto Processuale Civile – Università di Camerino) (Ordinario di Diritto Processuale Civile – Università Luiss “Guido Carli” Roma) 28 Prof. Avv. Giuseppe Tarzia 29 Aggiornamento Albi 30 31 32 33 34 35 36 37 38 In giro per mostre... ALBERT ANKER (1831 - 1910) Martigny - Fondation Pierre Gianadda 19 DICEMBRE 2003 - 23 MAGGIO 2004 Tutti i giorni, ore 10 - 18 Dal 19 dicembre al 23 maggio prossimi la Fondation Pierre Gianadda di Martigny ospiterà un’importante retrospettiva dell’opera di Albert Anker. Da vivo, Anker è stato una celebrità internazionale. A partire dal 1859 ha partecipato regolarmente al Salon de Paris, dove ottenne numerose medaglie. Figlio di veterinario, nasce l’1 aprile 1831 ad Anet (Ins, in tedesco, Canton Berna) e lì cresce, sul confine di due culture, quella francofona e quella tedesca. Completa le scuole dell’ obbligo a Neuchatel, dove frequenta i primi corsi di disegno, e consegue quindi la maturità a Berna. Dall’autunno del 1853, si trasferisce ad Halle, in Germania per proseguire gli studi di teologia iniziati in Svizzera. Insoddisfatto all’idea di una carriera ecclesiastica, Anker decide alla fine di diventare artista. Si stabilisce a Parigi, dove segue i corsi del pittore e docente svizzero Charles Gleyre, presso cui già si erano formati molti suoi compatrioti e dove sarebbero poi passati i neoimpressionisti Claude Monet, Auguste Renoir ed Alfred Sisley. Nello stesso tempo si iscrive all’Ecole des Beaux-Arts e comincia ad andare al Louvre a copiare i maestri antichi. Ad Anet, nella casa della sua infanzia, nel 1863, dopo la morte del padre, allestisce un atelier e nel 1864 sposa Anna Ruefli, amica della sorella defunta. La coppia avrà sei bambini, due dei quali moriranno, però, in tenera età. La famiglia Anker passa regolarmente l’inverno a Parigi e l’estate ad Anet. Spesso l’artista si reca in Italia, dove si dedica, fatto eccezionale, alla pittura di paesaggio, in particolare con acquerelli leggeri e atmosferici in cui dà evidenza alla delicatezza della sua tavolozza. La sua maestria nella tecnica dell’acquerello gli sarà particolarmente utile nel corso degli ultimi dieci anni della sua vita, quando, in seguito ad un attacco apoplettico, che gli rende inservibile la mano destra, sarà costretto a rinunciare ai lavori su tela per rivolgersi a motivi che gli erano cari da sempre, le immagini della vita rurale, trattate con un incrollabile vigore creativo in centinaia di acquerelli. Albert Anker è senz’altro il pittore svizzero più popolare del XIX secolo, grazie anche al fatto che i suoi personaggi -giovani ragazze che lavorano a maglia, scolari vivaci e allegri e vecchi che fumano la pipa -sono facilmente accessibili al grande pubblico. La sua arte è profondamente radicata nella sua passione per la gente semplice. Anker fa una vita ordinata: il suo quotidiano è perfettamente organizzato. Egli registra regolarmente le sue spese e le sue entrate su un «Livre de vente». Dopo la nascita del primo figlio, si trova costretto a cercare un’altra fonte di guadagno. E la trova nel 1866 collaborando con Theodore Deck, ceramista alsaziano, che lo incarica di dipingere su piatti e pannelli ritratti e personaggi tratti dalla storia e dalla mitologia. Una continuità e una stabilità sorprendente segnano la sua opera, che manifesta sempre il suo grande interesse per I’uomo. È difficile dividere la sua creatività per tappe, al fine di evidenziare il mutare progressivo della sua visione delle cose. La sua tematica comprende da una parte scene di genere con vari personaggi, dalla composizione molto accurata, tratti dal vivere rurale – la scuola, gli affari del comune, gli avvenimenti importanti, come matrimoni, battesimi e altro – e dall’altra i ritratti di persone del suo ambiente. Anker non ama i ritratti su ordinazione, ma dipinge i bambini che incontra nel suo quotidiano e che lo vanno a trovare nell’atelier. Anker è vissuto nell’epoca del realismo. Il suo realismo personale ignora la critica sociale di un Millet o di un Daumier, così come il trasfigurativo-aneddotico di un Vautrier o di un Defregger. I suoi temi prin- cipali ruotano attorno ai fatti e alle persone di tutti i giorni. Le ragazze che lavorano, gli scolari attenti, i vecchi bevitori, le vecchie ingobbite costituiscono tipi particolari della sua rappresentazione; sono esseri umani che appartengono a tutte le età, dipinti secondo le sfaccettature più varie, sorpresi nel compimento del loro lavoro in un ambiente familiare. In un certo numero di nature morte raffinate, Anker dà anche prova della sua capacità di realizzare una pittura eccezionale, col minimo di gestualità. La mostra della Fondation Pierre Gianadda documenta, anche con un nutrito gruppo di opere presentate qui per la prima volta, tutte le tecniche di Anker – pittura, disegno, acquerello e ceramica – e tutte le sue tematiche. La rassegna intende rendere omaggio al carattere intuitivo dell’ artista e alla finezza della sua pittura, così come al suo senso della forma, del colore e delle tonalità. Nel ripercorrere tutto il suo iter creativo ci si rende conto che a ragione è da considerare uno dei più importanti pittori svizzeri di tutti i tempi di Martigny. La cura dell’esposizione è affidata a Therèse Bhattacharya-Stettler, conservatore al Kunstmuseum di Berna e autrice del catalogo ragionato di Anker. Il catalogo della mostra, pubblicato da Fondation Pierre Gianadda, riproduce a colori tutte le opere esposte. Testi di Therèse Bhattacharya-Stettler (prezzo di vendita: CHF 45.—; e 30.—). Biglietto di ingresso: Fr. 15.- / e 10,50; terza età: Fr. 13.- / e 9,00; famiglie: Fr. 35.- / e 24,50; bambini oltre 10 anni e studenti: Fr. 8.- / e 5,60. Prezzi speciali per gruppi. Comprende anche la visita alla Collection Franck, al Parco delle sculture, al Museo gallo-romano, al Museo dell’automobile. Informazioni: 0041.27.7223978 (in Italia: 031.269393); sito intemet:www.gianadda.ch 39 In giro per mostre... PIERO DORAZIO RETROSPETTIVA A LOCARNO La Pinacoteca Casa Rusca di Locarno, ospita sino al prossimo 30 maggio, una mostra retrospettiva del pittore Piero Dorazio (Roma 1927); senza dubbio la rassegna più puntuale nell’affrontarne storicamente la creatività lungo tutto l’iter evolutivo dell’artista. Locarno ha diversi significati per Dorazio, che, giovane artista, veniva spesso a fare visita a Jean Arp che vi soggiornava. Arp, come noto, ha avuto un ruolo centrale nel processo che ha portato Dorazio al riconoscimento della propria identità artistica, così come sono state significative l’amicizia e la collaborazione con altri artisti di stanza a Locarno. La rassegna di Casa Rusca accoglie dipinti realizzati tra il 1947 e il 2003, che mostrano sia il processo personale che Dorazio ha intrapreso nella sua formazione artistica, sia il percorso che, proprio grazie al suo contributo fondamentale, ha consentito all’Italia di tenere il passo con la scena artistica mondiale moderna. Le opere esposte, quadri fondamentali della produzione dell’artista, sono di provenienza, prevalente, della sua collezione privata, presupposto questo che, ovviamente, garantisce l’elevata qualità dell’esposizione. L’impostazione della mostra è stata curata da Annette PapenbergWeber, che è anche autrice della monografia che accompagna la mostra. L’opera di Dorazio ha ottenuto negli ultimi decenni una considerazione e un riconoscimento costanti non solo tra gli addetti ai lavori ma anche tra collezionisti pubblici e privati di tutto il mondo. L’artista già dal 1959 aveva messo a fuoco la propria originale espressione e da allora le sue opere sono state proposte in numerose esposizione internazionali di rilievo, a partire da Documenta II di Kassel del 1959 e dalla Biennale di Venezia del 1960, dove gli fu dedicata un’intera sala, così come pure avvenne nel 1966. Non molto ampio, purtroppo, l’orario di visita della mostra, aperta tutti i giorni, escluso il lunedì, dalla ore 10:00 alle ore 12:00 e dalle 14:00 alle 17:00. Il biglietto di ingresso è di franchi 7 (e 5,00) ridotto franchi 5 (e 3,50), scolaresche gratuito. Il bel catalogo, edito da Skira, è in vendita, in mostra, al prezzo di franchi 60 (e 40,00). CANOVA VAN DYCK RIFLESSI ITALIANI MILANO PALAZZO REALE SALA DELLE CARIATIDI DAL 19 FEBBRAIO AL 20 GIUGNO 2004 INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI: 02 54912 www.vandyck.it (1757-1822) Grande antologica, ripercorre l’opera dell’artista veneto alla ricerca del bello ideale: 400 capolavori tra cui marmi, monocromi, disegni BASSANO DEL GRAPPA MUSEO CIVICO PIAZZA GARIBALDI DAL 22 NOVEMBRE 2003 AL 12 APRILE 2004 INFORMAZIONI: 800685644 www.mostracanova.it Rubrica a cura di RENATO COGLIATI 40