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BRUNO PINSUTI BERRINO
COMMENTI BIBLICI 1
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BARRIERE
GIONA
I NIPOTINI DI GIOBBE
IPNOTICA SPIRALE
L’ANTAGONISTA
L’INGANNO DELLA SOLITUDINE
MONOLOGO SUI LIMITI DI FELICITÀ
IL SACRO NON E’ UN FOSSILE
IMMORTALITÀ
MATERNITÀ
ROSSANA
MARIUS
JUPITER
BISOGNO DI FUTURO
MARATONA DELL’ANIMA
FEDE E IPERSPAZIO
L’AMBIVALENZA DEL SILENZIO (La parola e il silenzio)
ANNO 587 A.C. (Muro fragile)
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BARRIERE
APPROPRIAZIONE INDEBITA ... DI DIO
Quando una chiesa cresce elimina gradualmente il suo Dio. Più una religione è forte
più il Dio che predica è debole.
Ogni religione che proclama verità assolute deve usare poi la forza per mantenerle.
Nell'angoscia l'uomo cerca il dialogo con Dio. I sacri riti si offrono come intermediari
sicuri.
La ritualità gestita bene ha i suoi costi. E la paura invischiata nel mistero diventa
fonte di generose sovvenzioni.
Ogni parola rivelata ha due impronte: una nitida (Dio) e una polverosa (uomo).
Quando l'autorità religiosa sigilla definitivamente la parola rivelata chiude il dialogo
fra uomo e Dio.
L'autorità sacra è dura a morire. Il potere è il suo albero della vita. Si può eliminare
Dio esaltandolo e rubandogli l'identità.
Bruno di Roma
Roma, 18/12/2007
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GIONA
UN PROFETA PICCOLO PICCOLO
Nella lunga storia profetica d'Israele Giona rappresenta una categoria di soggetti
egoisti e intellettualmente miopi disposti a testimoniare Dio giocando a nascondino pur di
salvare i propri privilegi. Dopo la lunga e dolorosa esperienza dell'esilio di -Israele, Giona
viene scelto dal Signore per recarsi a Ninive terra nemica, luogo di tanti guai, per invitare la
popolazione alla conversione.
Probabilmente con l'intenzione di pensarci bene, il neo eletto profeta si imbarca a
Giaffa per dirigersi a Tarsis (Spagna), località agli antipodi di Ninive. Si può chiamare più
esattamente, una fuga ma numerosi imprevisti ne bloccano l'attuazione. Un Libro breve
quello di Giona. Personaggio quasi fiabesco, per un racconto simbolico in cui l'azione e il
dialogo si svolgono principalmente fra Dio e il profeta. Emergono contenuti chiaramente
didattici pervasi di ostinazione umana e ironia divina. Un libro valido per molte epoche e
per molti altri Giona.
Forse più che un racconto è una tragicommedia concisa e intensa.
PROLOGO: A Giona Dio affida lo sgradevole compito di recarsi in campo nemico
per proclamarvi che la malvagità ha raggiunto il culmine. Per non subire le conseguenze
dell'ira divina gli abitanti di Ninive devono cambiare condotta. ATTO I : Giona, piuttosto
stordito si chiede, 'Perché? E perché proprio ioT
Rischio per rischio preferisce imbarcarsi e affrontare un lungo viaggio dovei pericoli
potrebbero esserci ma potrebbe anche andare bene. Con ogni probabilità a Tarsis non sono
a conoscenza delle esigenze del Dio di Israele e del compito affidato a Giona. Un disegno
lineare che viene subito sconvolto da una tempesta (provocata naturalmente da Dio), che fa
scricchiolare la nave e mette una gran paura ai marinai. Però Giona si defila, scende nella
stiva e si addormenta profondamente.
A dar man forte al Signore interviene pure la superstizione dei marinai. Chi è che
porta iella? Ognuno di loro si confronta coi propri dei e con la propria coscienza ma non ne
escono motivazioni plausibili. E allora tirano a sorte (la paura è più forte della tempesta), e
la colpa ricade su Giona. Lo svegliano senza tanti complimenti e il fuggitivo ammette di
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avere le sue responsabilità nei confronti di Dio. Di fronte a quei volti spauriti e minacciosi,
decisi a salvarsi e a salvare la nave, Giona si rimette nelle loro mani. E quelle mani lo
buttano a mare. E il mare subito si placa. E Giona? Un grosso pesce se lo ingoia (sempre
per volere divino).
ATTO II : Giona è solo nel ventre del pesce ma è cibo disgustoso. Il tapino
sopravvive terrorizzato in quell'umido ambiente denso di angoscia e tenebre.
Prega. Prega con la forza dei disperati. Sente di essere solo e di avvicinarsi al
momento di perdere il soffio vitale. E' una preghiera che appartiene alla tradizione di coloro
che gettati nella profondità della propria coscienza devono affrontare le paure dell'ignoto.
"L'acqua mi sommerge fino alla gola, l'abisso mi circonda, le alghe si attorcigliano al mio
capo. Sprofondo alle radici delle montagne, la terra, per sempre chiude le sue porte su di
me." (Giona 2,6-7)
Immagini poetiche e drammatiche molto efficaci, in grado di mostrare i limiti di tutti
coloro (molti), che vivendo spensierati nell'appagamento della propria apparenza e
appartenenza a una qualche forma di vita privilegiata, hanno il terrore di dover ascoltare i
suggerimenti della propria interiorità. La paura inconfessata è di trovarvi cose spiacevoli e
non gratificanti. O anche la semplice constatazione di stare sprecando la propria vita, o di
non sfruttare al meglio le qualità della propria intelligenza, o ancora di non avere il
coraggio di confrontarsi con le qualità degli altri. Mancando la presenza di un terapeuta
Giona è costretto a chiedere aiuto a quel Dio da cui sta fuggendo:
"Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito, dalla profondità
degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce... La salvezza viene dal Signore."
(Giona 2,3,10) Per riconoscenza Giona promette di offrire un sacrificio e attuare la
missione che gli era stata affidata. A questo punto il profeta recalcitrante viene rigettato dal
pesce sulla spiaggia.
Termina così, con un lieto finale il secondo atto ma come si vedrà in seguito, da
questa esperienza Giona ha imparato molto poco.
ATTO III : Per la seconda volta Dio rinnova al profeta il compito di recarsi nella
lontana Ninive (grande città la cui estensione corrisponde a tre giorni di cammino) per
invitare i cittadini alla conversione.
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A corto di vis oratoria e con tecnica a dir poco sconsiderata Giona affronta i niniviti
con un messaggio monotono che è quasi un ultimatum: "Ancora quaranta giorni e Ninive
sarà distrutta." (Giona 3,4) Questo attacco rozzo contro una città nemica è al limite della
follia. Probabilmente l'aria arcigna e un guizzo di pazzia nello sguardo raggiungono lo
scopo. Infatti i cittadini e la massima autorità accolgono la profezia con grande timore e
cercano un rimedio efficace.
Il re di Ninive attorniato dai più nobili cittadini emana un decreto severo di penitenza.
Per tutti un digiuno salutare: "Uomini e bestie si vestano di sacco e si invochi Dio con tutte
le forze: ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue
mani. Chissà che Dio non cambi, si impietosisca..." (Giona 3,8-10). Per essere in armonia
con Dio è sufficiente mutare la malvagità e la violenza in sincerità e solidarietà. E avviene
il miracolo. Ninive è risparmiata. Anche questo atto si potrebbe chiudere con un lieto fine
ma la cosa non piace a Giona. Dio che fa? Perché concede la sua benevolenza e
comprensione ai nemici? Dalla bocca del profeta escono parole amare (anche grette e
provinciali). "Per questo volevo fuggire a Tarsis; perché tu sei un Dio misericordioso e
clemente, longanime, di grande amore..." In altre parole, i privilegi e la consuetudine con
chi sta in alto devono essere appannaggio di pochi intimi. Concederli a tutti risulta uno
spreco offensivo.
Dal petto di Giona prorompe un grido di dolore: "Signore, toglimi la vita perché è
meglio per me morire che vivere." (Giona 4,2,3) "Ti sembra giusto sdegnarti cosiT' replica
subito Signore. Per tutta risposta Giona esce indispettito dalla città e, in luogo isolato, si
costruisce un riparo con sterpaglie in attesa di notizie consolatone da parte di Dio.
EPILOGO: Dinnanzi alla stupida cocciutaggine umana che pretende un rapporto
privilegiato, formale e senza amore, Dio si mette quasi a giocare usando una buona dose di
ironia.
Durante la notte, mentre Giona è preda di un dormiveglia agitato, Dio fa crescere
veloce nei pressi del misero rifugio di sterpi, una grossa pianta di ricino così che il profeta
brontolone possa godere dell'ombra nelle ore di calura. Giona si rallegra per questo gesto di
attenzione nei suoi riguardi. A volte anche i lamenti pagano.
Ma poi Dio manda un venne a rodere la pianta che in poco tempo secca. Giona non
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dice nulla ma con il sorgere del sole, complice un vento orientale afoso, è costretto a
lamentarsi, anzi chiede nuovamente di morire.
Con pazienza, quasi cow- rassegnazione Dio fa notare al depresso profeta che quei
lamenti sono la conseguenza della sua pochezza di spirito e non della bontà divina. L'amore
del Signore si rivolge a qualunque uomo disposto ad accoglierlo. E così vale per gli abitanti
che hanno ascoltato la parola del profeta. Dio conclude: "Ti dai pena per una pianta di
ricino, la cui presenza non ti è costata fatica... e io non dovrei aver pietà di Ninive?..."
(Giona 4,10-11)
La lezione per Giona (ma forse non l'ha capita), è chiara. Chi cerca di migliorarsi
comunicando con Dio, migliorando anche il rapporto con altre persone, altri popoli, attinge
alla vera saggezza.
I confini di ogni tipo spesso sono il recinto predisposto per i pavidi e gli ignoranti. In
tale recinto, anche un semplice rapporto di confidenza non mette radici e lascia spazi
mentali enormi al manifestarsi della violenza che (come diceva il re di Ninive), ognuno si
ritrova poi nelle proprie mani.
Bruno di Roma
Roma, 8/10/2005
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I NIPOTINI DI GIOBBE
(A(h) Satan!)
Giobbe e le sue tremende disgrazie. Giobbe che prima si dispera ma poi deciso
affronta un discorso aspro e a tratti polemico con Dio. (gli esperti dibattono molto di quale
dio si tratti ma il problema principale è come la coscienza lo possa escludere dal dolore)).
Giobbe che ascolta degli amici anziani la cui sapienza non riesce a scalfire il concreto e
indigeribile argomento della sofferenza acuita a sua volta dalla miseria. Giobbe in balia
delle sue disgrazie. Giobbe che si è incarnato milioni e milioni di volte lasciando quel
medesimo problema sempre senza un convincente spiraglio di soluzione. Giobbe ... un
fratello universale, alle prese con quel tipo infido (a-satan), sempre in agguato per
propinare tormenti a chi si illude di aver trovato appoggi sicuri alla propria felicità.
Nel racconto, alla saggezza di maniera degli anziani si sovrappone l'indignazione di
una generazione giovane. Una manipolazione molto probabile del testo ci presenta Eliu,
individuo pieno di eloquenza, con la voglia di scuotere la tradizione religiosa fossilizzata.
Parla molto il giovane e anche bene ma non aggiunge elementi di rilievo allo spinoso
discorso. Si parte da Dio e a lui si fa ritorno cercando di non risultare blasfemi al giudizio
degli anziani: molti sono i modi di comunicazione per indurre l'uomo a non peccare così da
non cadere poi nelle reti del male. Dio usa anche i sogni con immagini forti. Infatti :Tarla
nel sogno, visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini ... Li spaventa con brusche
apparizioni, per distogliere l'uomo dal male e tenerlo lontano dall'orgoglio e preservare
l'anima dalla fossa."(Giob. 33,14-18) Lo spirito giovane che possiede sempre qualche
grammo di speranza in più, parte da questa constatazione per formulare una più suggestiva
ipotesi(proposta?). Va bene l'angelo accusatore (Satana) ma sarebbe auspicabile scampare
alla morte se Dio, nella sua benevolenza, affiancasse all'uomo(ogni tanto) un angelo
protettore-difensore. Più e più volte con questo sistema si tornerebbe continuamente
giovani e la morte conoscerebbe, almeno parzialmente, la sua sconfitta. (cfr. Giob. 33,2326) Ma il problema della sofferenza rischia palesemente di essere posticipato e rinnovato.
Dopo aver formulato questa rosea proposta di mortalità differita anche il giovane critico
ritorna nell'alveo delle ovvietà tradizionali. Chi è Giobbe per chiedere conto a Dio? (Giob.
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34,32 ssg.)
Il tormentose che politici, filosofi,dottrine e chiese varie non hanno mai cessato di
riproporre, per innumerevoli, sterminati nipotini sfortunati di Giobbe, ruota sempre
mellifluo intorno all'argomento. Si cercano e propongono giustificazioni esteriori (Dio è il
più chiamato in causa) ma si svicola facilmente dal pensiero che la causa è interiore
all'uomo.Un gioco perverso di dominio e altruismo. Nell'infantile speranza di raggiungere
sicurezza, si gioca dapprima sulla solidarietà e poi si passa ai vantaggi per operare la
sopraffazione ma il male intanto ha esteso il suo potere anche su chi si crede al sicuro. E a
questo punto entra in scena il dolore dell'innocente.
Per i malcapitati nipotini di Giobbe, dietro l'angolo, è in agguato con ipocrita
insistenza l'incubo del peccato. Con false smorfie di orrore, il ghignante "accusatore",
coinvolge in modo perverso chi provoca il dolore e chi disgraziatamente lo subisce senza
colpa. Dai tempi di Giobbe ad oggi non si è fatta molta strada. Strutture multiple geodivine
contrappongono all'immensa bontà-perfezione di Dio la fragile e violenta volontà umana. Il
guaio sta nel fatto che il confronto-scontro non riesce mai a dare risposte convincenti:
anche con l'umanità redenta e salvata dall'intervento di Cristo. In questo caso l'anima è
salva ma il corpo passa continuamente i suoi guai. Eppure Cristo per togliere fiato alla
filosofia peccato-sofferenza, aveva risanato molti corpi, cercando di far capire che il male
fisico non si doveva per forza confondere sempre con il peccato. Con nobili sentimenti
l'apostolo` Paolo diceva di completare con le sofferenze personali (2Cor.,12,9-10) quelle
patite da Cristo. Molto bello. Con un difetto evidente: dopo aver ribadito che tutti sono stati
riscattati dalla morte (l. Cor. 15,26) e destinati a nuova vita, ( sorretti da una vana attesa
della seconda imminente venuta di Gesù) il mondo ha continuato e continua a navigare
sulla vecchia e sgangherata barca senza bussola(ftinziona solo quella spirituale). La
teologia,infuocata da buone intenzioni e razionali argomentazioni, trascura tacitamente il
corpo rimandando il suo problema ad una futura e postuma trasformazione. Qualche dubbio
aleggia: che sia il corpo un difetto della creazione? Ma in principio, nel paradiso terrestre,
l'uomo era felice e rispondeva alle intenzioni del Creatore. E allora perché Adamo è caduto
come una pera troppo matura alla prima provocazione?
Cristo, (l'Unigenito del Padre)non va mai dimenticato, si è inserito nella storia
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prendendo un corpo umano e del suo corpo ne ha fatto un secondo innovativo prototipo
investito dalla grazia divina. La sagge7.7,q popolare a differenza delle elucubrazioni
teologiche, anticipa e da immediatezza a tale aspetto. La grazia si inserisce in sentieri più
umili e concreti: il suo compito consiste nell'abbattere e comunque rendere sopportabile il
dolore. L'uomo non può affidarsi al superamento del dolore solo sperando di morire.
Sorgono,nella tradizione plurisecolare della sofferenza purificatrice per colpe
personali e globali, domande impellenti a cui dare risposte. Accogliere e sostenere la
sofferenza come stimolo a fare del bene? Ma la sofferenza e il male non portano alla
depressione e annientamento della mente e del corpo? E inoltre per Dio che valore ha: un
corpo sottoposto a tortura? un corpo massacrato di botte? Un corpo divorato dal fuoco o
soffocato dalle macerie? Un corpo infantile aggredito da una delle innumerevoli malattie in
circolazione? Un corpo ... la fantasia umana non ha limiti per inventare, classificare mali e
dolori.Tenendo per buona la grazia spirituale, resta aperto il problema della sofferenza
fisica a cui le religioni non danno soluzioni accettabili a parte quella non esaustiva legata al
peccato. La risposta più importante sta nella coscienza di ognuno (luogo in cui Dio,se
accolto, può solo cooperare).
Occorre innanzitutto frenare l'egoismo e stimolare la mente per combattere con
efficacia ogni forma di sofferenza. Facile a dirsi e difficile da realizzare. Scantonare nei
sentieri misteriosi di Dio significa eludere con finta eleganza il problema. Meno sprechi per
ricerche distruttive, più energia per trovare un equilibrio che conceda una vita dignitosa al
di là dei soliti marchingegni per oligarchie più o meno estese. La solidarietà non deve
vivere solo peri momenti di emergenza ma per ogni passo della vita che appartiene a tutti
(specie diverse comprese).
La potenza di Dio non si discute (pare l'abbia usata con criterio a parte qualche
eccesso di fiducia con l'uomo) ma nelle vicende umane occorre mantenersi fedeli al senso
di giustizia che spesso, grida senza essere ascoltato.
Cosi suggerisce Giobbe dopo aver percepito con un certo fastidio la voce dei saggi
teologicamente e formalmente corretta: "Per la vita di Dio che mi ha privato del mio diritto,
per l'Onnipotente che mi ha amareggiato l'animo, finché ci sarà in me un soffio di vita ...
fino alla morte non rinunzierò alla mia integrità. Mi terrò saldo nella mia giustizia senza
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cedere... " (Giob. 27,2-5). La sua anima parla con Dio ma per se rivendica coerenza e
responsabilità a cui non vuole ne può rinunciare.
L'uomo e la sua storia. L'uomo e i suoi difetti. L'uomo e le sue innegabili capacità. ASatan è una perfida proiezione-intrusione che asseconda l'aspetto debole della vita ma è
soltanto una parte che,volendo, si può contrastare con efficacia.
L'obbiettivo per i sofferenti nipotini di Giobbe e raggiungere e mantenere la propria
integrità. Emergeranno così abbondanti forze per togliere sempre più spazio alla sofferenza
e al dolore senza scomodare le responsabilità di Dio.
Bruno di Roma
Roma, 16/12/2007
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IPNOTICA SPIRALE
(Verso quale direzione?)
Che il IV vangelo sia opera dell'apostolo Giovanni o di qualche suo discepolo è
questione dibattuta e aperta (così come la datazione- circa l'anno 100), ma molto più
intrigante è l' analisi di alcune parti che compongono quello scritto sacro. In particolare un
gruppo di capitoli (XIV-XVI) richiama altri scritti di matrice misterico-filosofico-religiosa
comune alla vasta cultura tardo-ellenica. In questa poi si trovano influssi giudaici (esseni)e
radici più antiche che affondano nella religione
Non manca naturalmente nel vangelo giovanneo un intenso affiato mistico rivolto a
chi si sente attratto dalla potenza del Logos che attinge la sua forza nell'intima natura del
Padre.
Cértamente per il IV vangelo si tratta di una visione mistica che rimarca una frattura
evidente con le pazze incongruenze del mondo e con una profonda nostalgia per tutto ciò
che esige il riscatto dalla corruzione. Ma di quale mistica si tratta? E in che dimensione?Le
parole sono leggere e pesanti allo stesso tempo. Agganciano il pensiero e lo trascinano
verso il punto focale del messaggio. La conoscenza è continuamente riportata nel cerchio
della divinità la quale non disdegna anzi ama legarsi alle vicende umane.I1 divino dunque
come cibo concreto o se si vuole come medicina, come sana relazione per guarire la
normale
schizofrenia
umana
incapace
di
salvare
la
propria
creatività
dal
l'insopprimibile,ripetitivo istinto di distruzione_
Entrare nel divino e uscire dal limite. Doppio movimento di spirale. L'occhio regge?
A differenza di quanto dirà in seguito Piotino, non si tratta di fuga (risalita)verso l'alto " da
solo a solo" (fughè mònu tò mònon"- Plotino p. 1363), per perdersi nell'Unità incorruttibile,
avendo scrollato ogni desiderio e rapporto con il molteplice sensibile e riposare appagato
nel silenzio immobile di dio.La visione giovannea avvicina in modo spericolato
l'incorruttibile con la fragilità e l'effimero e non nutre timori per i desideri umani. Dio fa
sentire il suo legame con l'uomo.
Tale visione si distingue pure dalla rivelazione contenuta nelle opere attribuite ad
Ermete Trismegisto. "Concepire dio è difficile, descriverlo è impossibile..., ed è difficile
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entrare in compagnia con l'eterno." (p. 889) Allora si chiede: da quale matrice è nato
l'Essere umano, da quale seme? La matrice è colui che "è sapienza intelligente nel silenzio."
(p.3 79) E proprio in virtù dì questo che dopo la separazione delle creature androgine in due
generi(Dio è maschile e femminile e sussiste come vita e luce), il vero obiettivo non si può
ignorare: "Colui che ha l'intelletto riconosca di essere immortale e sappia che la causa della
morte è la passione d'amore." (pp.83 - 84) Dunque il legame con dio esiste ma occorre
prendere coscienza che tale legame sarà immortale solo riconoscendo e privilegiando
quanto il Logos del dio creatore ha infuso nelle creature."Sappi che quanto in te vede e ode
è il Logos del Signore, e che il Nous è Dio Padre: essi non sono separati l'uno dall'altro; la
vita infatti, è l'unione di questi due." (p.79- Ermete Trism. In "Pimandro")
Nella visione giovannea il discorso, pur con qualche tratto ermetico si sviluppa
nell'intimità delle relazioni rivelando che il disegno di Dio Padre é quello di prolungare e
inserire nel rapporto con il Logos e lo Spirito Consolatore anche l'uomo. E' innegabile che
il Logos giovanneo sia dotato di una forza particolare che attira e coinvolge in una fusione
singolare l'umanità, la storia e Colui che determina il tempo della storia stessa. Nelle parole
mistiche del vangelo convivono cenni enigmatici, a volte ironici, promesse che scardinano
gli istinti umani, miracoli di convivenza con il sublime; il tutto regolare come lo sciacquio
delle interminabili onde del mare che vanno a sciogliersi sulla spiaggia.
Una prima lettura crea uno stato di allerta. Dove portano quelle parole? Sono nel
tempo o fuori del tempo? Si è costretti a rileggere lentamente e con meraviglia si scopre che
il collegamento con la divinità rende pleonastico il concetto di tempo. Il discorso è
diretto,attuale,metaforico, metafisico e reale. Si è presi da un momentaneo stordimento ma
poi senza faticasi segue la traccia indicata dalle frasi. L'ipnosi delle parole apre lentamente
la porta della coscienza e, vincendo la paura della vertigine, si affrontano altezza e abisso,
due dimensioni in apparenza diverse, che si fondono.
"Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di
me..."Gli disse Filippo: Signore, mostraci il Padre e ci basta." Gli rispose Gesù:"Da tanto
tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto Filippo?" (XIV,6-8) Vedere una persona che
ne rivela concretamente un'altra non è cosa per menti semplici. Così Gesù ricorre al
linguaggio per immagini: "Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo,... ogni tralcio
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che porta frutto lo pota perché porti più frutto. ...Chi rimane in me e io in lui porta molto
frutto. _Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. .. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena."(XV,1,8,11) Un
discorso intimista? Pare di no, infatti già a premessa del comandamento dell'amore ci sono
stati rimandi concreti: "Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne `farà di più
grandi. ...Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò."(XIV,12-13) E siccome sa di
doverli lasciare soli aggiunge: "Io pregherò il Padre che vi darà un altro Consolatore,
perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità." (XIV, 16)
E per scacciare dubbi o paure residue Gesù mette in chiaro quale sia il rapporto che
intercorre tra lui e i discepoli e ribadisce: "Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi e vi
ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello
che chiederete al Padre nel nome mio ve lo conceda. Questo vi comando amatevi gli uni gli
altri." (XV, 16-17) I1 frutto che viene da Dio non è mai effimero.
Il desiderio umano di stringere rapporti di fiducia e familiarità con Dio trova
appagamento nelle avvolgenti parole di questi testi. L'uomo può vivere con Dio nel tempo e
fuori del tempo riottenendo la dimensione dell'immortalità-Prezioso regalo. Come
#c9ogliere questo dono? Stando semplicemente attenti alle indicazioni di Gesù, clbàiQòsi
della sua sapienza divina fatta carne e della sua luminosa presenza. "Io sono la luce del
mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà luce della vita." (Gv. 8,12) E
ancora: " Io sono il pane della vita. ... Chi mangia la mia carnee beve il mio sangue ha la
vita eterna, ... dimora in me e io in lui; ...chi mangia di me vivrà per me. ...Questo è il pane
disceso dal cielo, ... chi mangia questo pane vivrà in eterno." (Gv. 6,48, e 55-58) Gli stessi
discepoli ascoltando simili discorsi restano disorientati e Gesù di rimando: "Questo vi
scandalizza? ... E' lo Spirito che da la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho
dette sono spirito e vita." (Gv.6,6-62) Chiaro dunque il riferimento al tipo di nutrimento.Ma
se i discepoli dubitano altre persone, scribi e farisei gente di ottima levatura, non riescono a
trattenere il livore di fronte a simili affermazioni. Cercano in tutti i modi di attaccare Gesù
facendolo passare per blasfemo e indemoniato. "Abbiamo ragione di dire che sei un
Samaritano e hai un demonio.
Rispose Gesù:"Io non ho un demonio. _In verità vi dico se uno osserva la mia parola
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non vedrà mai la morte."
Gli risposero i giudei:"Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo 'e morto come
anche i profeti; ... chi pretendi di essere?"
Rispose Gesù: "... Chi mi glorifica è il Padre mio del quale voi dite 'è nostro Dio', e
non lo conoscete... Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno: lo
vide e se ne rallegrò."
Gli dissero allora: "Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo? Rispose Gesù:
" In verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono."
Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui, ma Gesù si nascose e uscì dal
tempio." (Gv. 8,48-59) Dialogo spigoloso tra due scuole di pensiero. Aperta provocazione
contro la tradizione da difendere, con novità spiazzanti che ribaltano tutte le certezze
depositate negli scrigni sacri della casta erede dei precetti divini. Una storia senza fine che
non ha mai trovato pause e che anche oggi non accenna a diminuire. In fondo i Farisei,
come i dotti teotecnici che si sono succeduti nei secoli con numerosi innesti malati, a volte
letali, sulla Vite curata dal Padre, garantivano la Legge disprezzando il popolo sempliciotto.
La linfa vitale viene interrotta dalla griglia fitta della precettistica. Niente di più innaturale e
antidivino, almeno stando alle indicazioni di questo vangelo. Contro Gesù e il popolo
credulone che gli da retta dicono i Farisei:" Questa gente che non conosce la legge è
maledetta."(Gv. 7,49) Le molte leggi favoriscono errori e sensi di colpa. Gesù guarisce un
cieco dalla nascita e i Farisei se la prendono con il miracolato che reputa il suo guaritore
come venuto da Dio. Certo non può essere un demonio. Rabbiosa la reazione:"Sei nato
tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? E lo cacciarono fuori." (Gv.9,32-34) Amore
reciproco e gioia piena? Mah! Resta ancora dannatamente difficile imparare ad amare.
Bisognerà affidarsi anche alla pazienza di Dio perché riapra i canali della linfa-parola di
vita, facendo aleggiare lo Spirito Consolatore sugli umili.
Bruno di Roma
Roma/9/2007
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L'ANTAGONISTA
(L'infanzia di Satana)
Intorno all'uomo, nel suo complesso rapporto con la divinità, si aggira costantemente
la presenza di spiriti creati da Dio e a lui subordinati. Dovrebbero essere ( lo sono per fede)
puri spiriti ma non di rado prendono sembianze umane per eseguire visibilmente alcuni
compiti loro affidati da Dio stesso.
Dice a proposito l'apostolo Paolo: "Egli fa gli angeli pari ai venti, e i suoi ministri
come una fiamma di fuoco." (Ebrei 1,7) O come canta il salmista: "... fai dei venti i tuoi
messaggeri, delle fiamme guizzanti i tuoi ministri. "(Salmo 103,4) A guardia del Paradiso
terrestre Dio pone i cherubini e "la fiamma di una spada folgorante"(Genesi 3,24).Con
verosimiglianza, sempre m un passo del Genesi si parla dei Figli di Dio che guardando dal
cielo le figlie degli uomini, si invaghiscono di loro, scendono sulla terra e si uniscono
carnalmente ad esse dando origine ad una stirpe particolare: "sono questi gli eroi
dell'antichità, uomini famosi." (Genesi 6,4) Che tali figli di Dio siano stati uomini e non
angeli,dato il sibillino contenuto di quei versetti, resta una questione senza plausibile
risposta. Solo in alcuni testi Apocrifi vetero testamentari si parla esplicitamente di angeli. Il
passo citato mette però in evidenza che in seguito a questi contatti tra esseri celesti e donne
terrene il peccato dilaga sulla terra.
Troppo abituati considerare il male un prodotto degli spiriti maligni a cui in modo
scriteriato si assoggetta la volontà umana, si salta un passaggio fondamentale per capire
bene la crescita e la trasformazione di quegli spiriti nella storia biblica. Premesso che il
male l'uomo lo conosce già dalla sua prima esperienza nel giardino di Dio, è interessante
seguire le orme della personificazione: dallo spirito al servizio di Dio, a quello cattivo, e
poi fino al nome di Satana. Infatti dai passi biblici della primitiva storia dei patriarchi e del
nascente regno di Israele, la funzione dello spirito pensato o descritto nelle sembianze di
persona umana, non è necessariamente cattiva. Lo spirito è comunque sempre sottomesso
alla volontà di Dio e alle sue indicazioni. Assume il compito di messaggero, di contrasto
alle azioni non approvate da Dio, e a volte anche quello di distruttore.
Quando Giacobbe benedice i figli di Giuseppe cita l'angelo che nella vita lo ha
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"liberato da ogni male" (Gen. 48,16) O quando lo stesso Giacobbe sta per ricongiungersi
con Esaù, gli angeli gli si fanno incontro per indicargli il luogo dove sostare e lui riconosce:
"questo è l'accampamento di Dio." (Gen. 32.2)
Nella lotta per la conquista della terra promessa, ci si imbatte in una curiosa storia
dove il re di Moab cerca l'aiuto dell'indovino Balaam perché con i suoi scongiuri maledica
gli Israeliti e li possa sconfiggere. Dio interviene direttamente per dissuadere l'indovino da
un simile progetto invitandolo a seguire le sue direttiva. Forse per soldi, forse per paura,
Balaam sella la sua asina per raggiungere il re di Moab, ma "... l'angelo (maleak) del
Signore si pose sulla strada per ostacolarlo (le¬satan-lo)." (Num. 22,22 e 32.) Nel racconto
l'asina vede e riconosce l'angelo di Dio e si ferma più volte impaurita di fronte all'insistente
e deciso oppositore celeste prendendosi sempre una dose di bastonate e maltrattamenti dal
padrone. L'angelo non rende un buon servizio all'asina però la narrazione é pervasa da una
certa comicità per cui alla fine la figura dell'asino sciocco e umiliato tocca all' indovino.
Nel primo libro delle Cronache viene citato "Satan" che insorge contro Israele: "Egli spinse
Davide a censire gli israeliti," ( 1 Cron.21,1) Alla base di questa idea c'è la segreta volontà
di contare le forze umane e militari disponibili saltando magari qualche comando divino.
Dio non la prende bene e manda l'angelo sterminatore. Poi ci ripensa e Davide per
riconoscenza gli erige un altare propiziatorio ed espiatorio. Non così avviene nella famosa
notte prima che gli israeliti lascino l'Egitto: lo sterminatore (a-mmascekit) non viene
fermato da Dio e fa morirei figli primogeniti delle famiglie egiziane.(Vsodo 12,23)
Nel I Libro dei Re il profeta Michea rivela al re Acab perché i profeti di corte lo
abbiano male informato sulla guerra da intraprendere contro Ramat di Galaad. Non bisogna
affidarsi alle convenienze politiche semplicemente o alle menzogne ed avere profeti
condiscendenti. Bisogna ascoltare il profeta di Dio; Michea ha "visto il Signore seduto sul
trono; tutto l'esercito del cielo gli stava intorno... Il Signore ha domandato: 'Chi ingannerà
Acab perché muova contro Ramat di Galaad e vi periscaT ... Si è fatto avanti uno spirito
che- postosi davanti al Signore- ha detto: ' ... Andrò e diventerò spirito di menzogna sulla
bocca di tutti i suoi profeti.' Quegli ha detto:'Lo ingannerai senz'altro; ci riuscirai; va' e fa
così.' " (1 Re 22,21 ss.)
A proposito dell'esercito che attornia in cielo la maestà di Dio e all'occorrenza fa da
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tramite con gli uomini è interessante la descrizione che il profeta Ezechiele da nelle sue
misteriose e fantasmagoriche visioni. Si tratta dei cherubini che si muovono fra bagliori di
fuoco (purificatore) sopra il tempio: "La gloria del Dio di Israele, dal cherubino sul quale si
posava,si alzò verso la soglia del tempio chiamò l'uomo vestito di lino che aveva al fianco
la borsa da scriba... (Ez.9,3) Disse all'uomo vestito di lino: 'Va fra le ruote che sono sotto il
cherubino e riempi il cavo delle mani dei carboni accesi che sono fra i cherubini e spargili
sulla città." (Ez. 10,2)
L'esempio più classico dello spirito cattivo (ra'ha) si incontra nelle vicende del Re
Saul. "Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul ed egli veniva atterrito da uno spirito
cattivo (rukah ra'ha) da parte del Signore. Allora i servi di Saul gli dissero: `Vedil un
cattivo spirito sovrumano ti turba. Comandi il signore nostro... e noi cercheremo un uomo
abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà
mano alla cetra e ti sentirai meglio.' Rispose uno dei giovani: 'Ecco, ho visto il figlio di
lesse il Betlemmita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di
parole, di bell'aspetto e il Signore è con lui.'
Saul mandò messaggeri a lesse... Davide giunse da Saul e cominciò a stare alla sua
presenza. Saul gli si affezionò molto... Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul.
Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito
cattivo si ritirava da lui."(I Sam. 16,14-23) Questa è la parte bella del racconto
(musicoterapia) ma bisognerà poi aggiungere altre considerazioni.
Da questi esempi risulta ancora lontana l'accezione di esseri spirituali portatori e
istigatori del male. Nel racconto molto noto di Giobbe, Satan, spirito piuttosto
vagabondo,ha dimestichezza con Dio, gli parla e assume il ruolo di accusatore (anche di
cinico detrattore) contro l'irreprensibile condotta di quell'uomo stimato sia in cielo che in
terra. In gioco, nella vicenda di sapore sapienziale, c'è il prototipo di una situazione che si
ripete senza interruzione, e forse oggi ancora più drammaticamente, tra il giusto che soffre
e il malvagio a cui va tutto bene. Il dialogo tra le due potenze oggi scatenerebbe polemiche
e reazioni innominabili. E pur vero che il discorso affonda le radici in un passato lontano
ma la sostanza è sempre sgradevolmente attuale. Sulla pelle di Giobbe si organizza u na
sfida con prove pesantissime, quasi da suicidio e Satan, Dio consenziente, si sbizzarrisce
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poi in tormenti vari. L'incontro: 'Un giorno i figli di Dio(bene' a-elohim) andarono a
presentarsi davanti al Signore e anche Satana (a-Satan: Faccusatore),aridò in mezzo a loro.
Il Signore chiese a Satana: `Da dove vieni?' Satana rispose al Signore: 'Da un giro che ho
percorso sulla terra.' Il Signore disse a Satana: 'Hai posto attenzione al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male.' Satana
rispose al Signore e disse: 'Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai messo forse una
siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto é suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue
mani e il suo bestiame abbonda sulla terra- Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e
vedrai come ti benedirà in faccia!' Il Signore disse a Satana: Ecco quanto possiede è in tuo
potere, ma non stendere la mano su di lui.' Satana si allontanò dal Signore."(Giob.1,6 -12) E
naturalmente mise in atto le più esecrabili angherie contro Giobbe. In questo dialogo tra
spiriti, quello inferiore mostra una impudenza e un'ironia quasi di scherno verso quello
superiore. E viene da pensare a un Satana simile a certi uomini e fuori da ogni regola
morale.
Forse è il caso di dire che con questo brano biblico lo spirito sottomesso a Dio esce
dal limbo adolescenziale e afferma una propria autonoma identità assumendo su due fronti
il ruolo di vero e ostile Antagonista. Satana suona bene e molti sono in grado di
riconoscerlo e prenderlo come modello anche senza vederlo. La sua essenza di spirito
capace di nuocere viene continuamente rafforzata e rigenerata proprio dagli atti e dalla
mente dei suoi estimatore.
Tornando alla vicenda di Saul c'è da aggiungere che dopo la musica liberatoria lo
spirito cattivo se ne va ma ne emerge un altro ben peggiore. Un'invidia colma di rancore
agita la mente del re fino a spingerlo ad uccidere (senza riuscirvi) Davide. (I Sani. 18,10 e
19,9)
Il bene degli altri è sempre difficile da accettare; la riconoscenza può deturpare la
propria immagine e va respinta. Ecco dunque l'invidia dell'uomo che, moltiplicata milioni e
milioni di volte, come una madre, crea e fa vivere quel mostro spirituale a cui trai tanti
appellativi si da anche il nome di Satana.
Così riassume il libro della Sapienza: "Per l'invidia di Satana la morte venne nel
mondo; quelli che appartengono a lui la subiscono." (Sap.2,24)
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Bruno di Roma
Roma, 26/11/2005
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L'INGANNO DELLASOLITUDINE
(Mistici: tra fede, delusioni e speranze)
Diceva Meister Eckhart nei suoi sermoni "la conoscenza e l'intelletto uniscono
l'anima a Dio," e ancora,"se cerchi in qualche modo il tuo utile non troverai mai Dio,perché
non cerchi soltanto lui. Tu cerchi qualcosa insieme a Dio, proprio come se facessi di Dio
una candela con cui cercare qualcosa ..." ("Meister Eckhart- La Via del Distacco" a cura di
M. Vannini, ed. Mondadori 1999, pp. 43-44)
La storia umana, in particolare quella religiosa, è ricca di ambiguità nel suo
confrontarsi con Dio. Soprattutto quando i fattori negativi si accumulano e pesano
enormemente nelle coscienze, il ricorso a un Essere superiore, chiamato comunemente Dio,
diventa pressante e ossessivo. Infatti, nel tentativo di uscire dal male costante ed endemico
che tormenta in particolare gli esseri pensanti, si cerca una scappatoia chiamando in causa
appunto la divinità affinché attenui in qualche modo la contraddittoria e lacerante
convivenza umana.
Ma Dio, in pratica, a parte alcuni momenti in cui comunica attraverso i profeti, non
interviene direttamente nelle vicende umane, così che questa non partecipazione viene
spesso scambiata come assenza, come abbandono. La Provvidenza il più delle volte assume
la funzione di placebo. E l'uomo? Dal canto suo manifesta invece una profonda assenza di
responsabilità. Dimenticando più o meno consapevolmente la propria natura animale carica
di istintualità, come un novello Giobbe, cerca il dialogo con Dio, ma solo per mascherare la
sua pigrizia nel non usare al meglio la propria intelligenza. Troppo spesso la capacità
speculativa non porta alla sapienza di biblica memoria ma alla rivendicazione di diritti, di
derivazione divina, per esercitare il potere a scapito di altri. (E' un difetto che aleggia anche
negli apparati religiosi).
Alla base di tale constatazione giace un sottile gioco di ipocrisia. Prendendo le mosse
dall'attività introspettiva che lancia qualche spiraglio di presenza divina, si procede poi
all'elaborazione di un dio macchiato di evidenti pecche umane. In tale contesto la presenza
dell'Essere deve cedere spazio al demone dell'avidità e ad una sfilza interminabile di
desideri, richieste e concessione di privilegi. L'immagine di Dio quindi, si confonde anche
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con le più banali debolezze umane. Qui sta dunque, in assenza di risposta, la radice di una
ingannevole solitudine.
Nessuna meraviglia allora se molti alimentano un falso contatto con Dio. In questo
caso il silenzio dall'alto è più che giustificato. Ma allora chi crede e della fede ne fa una
ragione di vita?
Va ribadito che esistono in sintesi due tipologie di credenti. Sono molti quelli che si
affidano ai custodi delle sacre verità,o perché presi da molti impegni di varia natura o
perché mancano di strumenti e cultura per considerare a fondo il problema. Per comodità ,
per necessità o per debolez7A, accettano una fede blindata, contornata da molti precetti.
Tutto guanto succede, fa parte del mistero di Dio,della sua imperscrutabile Provvidenza. I
conti si tireranno alla fine ma intanto possono contare su importanti garanzie. La mistica
costituisce un problema marginale.
Esiste poi una fede più impegnativa: il messaggio rivelato viene accolto non come un
blocco di granito indistruttibile ma come parola profetica che va costantemente resa attuale
e vitale con la ricerca, il dubbio e l'impegno, secondo l'evoluzione della propria coscienza e
di quella collettiva. Con questa prospettiva la rivelazione rispetta il cammino (purtroppo
lento!) dei popoli, e impegna l'intelligenza umana, questa scintilla che configura una
porzione di somiglianza con Dio, come descritta nel racconto della Genesi. In tale contesto
l'esperienza mistica non è per tutti,ma il desiderio di poter contattare direttamente
l'intelligenza Superiore è forte.
Ma, per dirla con le riflessioni di un altro teologo, la parola non può subire
imposizioni, "è già detta e ancora da dire; è dentro un gruppo umano, ma non può essere
catturata da un sistema e obbligata a una verità. E' consegnata prima di tutto all'avventura e
al dramma di vivere. La 'parola' non è confine o difesa, ma stimolo alla decisione e
all'inventiva ( ... ) Tutto ciò significa che bisogna amare più l'uomo che la parola." Anche la
fede,di conseguenza, se non si identifica in una serie di canoni da credere,entra in questa
prospettiva. E quindi fede non è sicurezza, "né rispetto al destino personale,né contro le
paure fondamentali dell'uomo. Subisce la fragilità e il bisogno di indovinare della vita;
ricerca e costruisce un futuro sulle leggi della fiducia, come avviene per l'amore." (M.
ALDROVANDI, "Passione e disincanto", ed. CENSIS, Milano 1993, p.258) Seguendo
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queste indicazioni la rivelazione diverrà completa solo nel passaggio finale dal sensibile
alla misteriosa dimensione dell'Infinito. Il desiderio mistico sarà moltitudine appagata, fuori
da ogni notte.
E comunque, come già accennato, il desiderio più grande di alcune persone di fede,
nonostante il peso ingombrante della corporeità, è di trovare la via ascetica che conduca a
un rapporto non effimero, anzi esclusivo, con Dio.
Cosi,mentre l'intelligenza ontologica va alla ricerca di non facili o incerti argomenti
sull'essenza di Dio, sulla natura immortale dell'anima, sulla valenza del creato, altro è
l'orientamento del mistico. "Si tratta di un doppio atteggiamento esperienziale: fare
ontologia per "toccare con mano" l'inintelligibilità dell'origine e fare ascesi per "toccare con
mano" la terra promessa non all'intelligenza ontologica, ma alla psicospiritualità sapienziale
umana." (L.Lombardi Vallauri, "NERA LUCE-saggio su cattolicesimo e apofatisMo% ed.
Le Lettere, Firenze 2001, p.286).
Personalmente credo che il desiderio del mistico, lodevole in sé e rispondente a un
suo bisogno interiore, contenga anche un atteggiamento non maturo. In cambio di alcune
rinunce si tenta l'avventura di un rapporto esclusivo (narcisista?), dando per scontato che,
acquisiti determinati meriti, la risposta sia consequenziale. Quando l'attesa risposta tarda o
non arriva, nasce la sofferenza interiore che contagia anche il corpo. Così si parla di buio,
di assenza, di abbandono. Fortunatamente per molti mistici, la constatnzione delle proprie
fragilità,e soprattutto la capacità di dare forza alla parola con autentici atti d'amore e di
concreta solidarietà, diventano una risposta diretta a Dio, il quale da loro si aspetta
precisamente questo. Si tratta perciò di una risposta già implicita nella domanda. Non c'è
buio o abbandono ma finalità chiare.
Nel rapporto tra natura e uomo e tra uomini e propri simili entra in atto la crudeltà che
distrugge, in cinico spregio di ogni bene, cose e persone. Un certo concetto di Provvidenza,
che ha fatto dell'uomo un eterno questuante, si ritrova puntualmente fuori sede nei momenti
di più acuta e disperata sofferenza. Non si può usare Dio come domestico. Di fronte a
ripetute distruzioni e violenze, Dio dovrebbe attivarsi e rimettere ordine, sedare gli istinti,
pacificare gli animi. Più che assenza di Dio si deve rimarcare l'ossessiva e distruttiva
presenza dell'uomo. Anche la natura, che hai suoi ritmi ed è in continua trasformazione,
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non è tenuta in grande considerazione nello sconsiderato uso dell'intelligenza umana.
Infatti, oltre i problemi che la natura contiene in sé, l'uomo abusa e letteralmente distrugge
l'ambiente con interventi avventatati e pericolosi. Lo tsunami di recente memoria è un
esempio di pessima combinazione uomo-natura. Esempi a noi più vicini quasi ogni giorno
confermano che determinati disastri nascono da uno scriteriato abuso del territorio. La
Rivelazione, più volte apparsa sulla terra, non rappresenta un deposito bancario da
cui si preleva, ma un messaggio opportuno per migliorare e presentarsi al paventato
`redde rationem', con un bagaglio di saggezza e solidarietà che ancora stenta a decollare
Bisogna dunque ripartire da un sano e meno velleitario rispetto di Dio. Più
responsabilità personali, meno formule e più fatti. E meno abusi sull'impiego delle garanzie
divine per giustificare le mancanze terrene. Più coraggio di vivere senza debordare con la
violenza.
Per noi che crediamo, nonostante lunghi momenti di dubbio e di buio, nonostante le
strutture che camminano per strade poco divine, la Parola rivelatrice va intesa proprio come
liberazione progressiva da tutte le peggiori incrostazioni storico- religiose che
interferiscono nel rapporto con Dio. Ogni uomo deve sentire l'inganno e l'abbandono solo
quando perde il contatto costruttivo con i suoi simili. Dopo aver rimediato a questa
mancanza, ognuno può allora dedicare una parte della sua esperienza al passaggio
personale dalla molteplicità all'Unità, così come suggeriva il filosofo Piotino per l'inizio
della fuga "da solo a Solo". (Plotino, "Enneadi",VI, 9-11). Questo diverrà il momento
mistico esclusivo, in cui l'anima intuisce che la luce è prossima e non ci saranno più notti.
E proprio Dio è in attesa che la felicità e la giustizia di cui è depositario, a Lui
vengano riportate in dono anche dagli uomini. Con tale gesto le creature si potranno
riconoscere nella somiglianza divina. Rimanere nell' ombra di Dio, rincorrendo i
precetti,carpendo privilegi e in balia degli istinti, costituisce un'ipocrita, pia empietà. In
questa ombra, è certo, si annida la vera solitudine, una prigione iniqua per l'anima e per la
mente.
Bruno di Roma
Roma, 7/5/2011
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MONOLOGO SUI LIMITI DI FELICITA'
IL RASSEGNATO PESSIMISMO DI QOÈLET
Alla domanda importante su quale sia la vera felicità dell'uomo, il sapiente Qoélet
inizia un disincantato monologo affermando "Vanità delle vanità, tutto è vanità. "(Qoel. o
Ecciesiaste, 1,1) Questo il primo grande limite e la disillusione sulla felicità umana. A
sorreggere questa riflessione c'è anche il contesto e la cultura in cui è immerso il genere
umano. "Io, Qoélet... ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e
un inseguire il vento. Ciò che è storto non si può raddrizzare/ e quel che manca non si può
contare." (1,12-15)
Nel mosaico che si presenta a Qoélet ci sono tratti deformati e tasselli mancanti che
neanche la sapienza è in grado di colmare o rettificare.
"Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la
follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché: "molta sapienza,/
molto affanno,/ chi accresce il sapere aumenta il dolore. "((1,17-18) Una cruda
constatazione che conclude l'introduzione di Qoélet il quale, con una certa faccia tosta,
presenta la sua riflessione come testamento del saggio biblico per eccellenza, cioè
Salomone. Per dare più importanza su quanto si accinge ad esporre vanta poi un'ascendenza
reale qualificandosi come "figlio di Davide, re di Gerusalemme." (1, 1) La critica testuale
lo colloca invece verso la metà del Y sec. A. C.; uomo di cultura e perlomeno benestante
ma non certo di ceto nobile. Ma questi sono dettagli che non intaccano la poesia di cui è
impregnata la sua valutazione a volte tenera e altre volte disincantata dell'esistenza. Il
sottile filo della vanità che spezza ogni emergente illusione lo costringe a volare basso per
entrare nel cuore dei problemi con semplicità ed efficacia. Poesia che tiene d'occhio
tradizione e aspettative. Ispirazione poetica che considera ogni avvenimento e ogni singolo
individuo come un attimo fuggente che si concatena a quanto o à chi viene dopo,
costituendo una sorta di circolarità in cui la novità è solo apparente; questo perché la
memoria non è in grado di tenere il passo del precario e rapido movimento di cose e
persone. Illusione e dubbio sorreggono la vanità dell'esperienza.
L'intuizione di Qoélet sta nel fatto che tutto si ripete e continuerà a ripetersi secondo
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un disegno prestabilito. Dunque, ogni individuo procede lasciando le proprie orme sulla
polvere fatta turbinare dal vento su un cammino già programmato. Polvere di chi è venuto
prima e non è più, polvere di cose già accadute che si stanno per ripetere. "Ciò che è stato
sarà,/ e ciò che si è fatto si rifarà;/ non c'è niente di nuovo sotto il sole. " (1,9) L'uomo
perciò di fronte alle più varie situazioni è indotto a dare risposte scontate senza presumere
di stravolgerne l'andamento. Esistono comunque momenti della vita, tra gioia e tristezza, in
cui si vorrebbe dare un senso meno meccanico
delle cose che accadono. E allora? "Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e
bere, e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani
di Dio. " (2,24) E a riprova aggiunge :"Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile.
Non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. " (3,14)
Ma come un pesce che boccheggia fuori dall'acqua Qoélet continua ad indagare su
quanto si annida nel cuore dell'uomo e su quanto potrebbe dare sapore e gioia ad ogni
essere che ha ricevuto il soffio vitale di Dio.
La sapienza costringe l'uomo a farsi troppe domande a cui non sempre sa dare
risposte e quindi va trattata con una dose di prudenza per evitare inutili sofferenze,
soprattutto in vista del traguardo finale: "Il saggio ha gli occhi in fronte/ e lo stolto
cammina al buio./ Ma so anche che un'unica sorte è riservata ad entrambi. "(2,14)
I beni materiali? Il saggio ha provato ad accumulare denaro,oggetti preziosi,servi e
musicisti,donne e divertimenti. La tristezza di fondo non è sparita. E a proposito della fatica
profusa in tale accaparramento aggiunge: "Ho preso in odio ogni lavoro da me fatto sotto il
sole perché dovrò lasciarlo al mio successore... a un altro che non ha per nulla faticato.
Anche questo è vanità e grande sventura." (2,17 e 21) E inoltre: "Con il crescere dei beni i
parassiti aumentano. "(5,10)
Uno sguardo al contesto sociale spinge Qoélet ad altre amare riflessioni:"Ma ho
anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità, al posto della giustizia c'è
l'empietà. Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l'empio perché c'é un tempo per ogni cosa
e ogni azione. "(3,19) Naturalmente tutto è legato alla breve vita di ciascuno e alla
benevolenza di Dio. Angustiarsi troppo delle ingiustizie non aiuta molto: "Sulla terra si ha
questa delusione: vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dagli empi con le loro opere,
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e vi sono empi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche
questo è vanità. " Il rimedio non è eccezionale ma va preso e goduto per quello che vale:
"Perciò approvo l'allegria, perché l'uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e
bere e stare allegro. "(8,14-15) E sempre su questo tasto: " Vi è una sorte unica per tutti...
Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace. "(9,2 , 9)
Nella evidente difficoltà di liberarsi da questa ragnatela avvolgente Qoélet prova a
mettersi nei panni di Dio, nel suo pensiero: "Poi riguardo ai figli dell'uomo mi sono detto.
Dio vuole provarli e mostrare che essi di per sé sono come bestie. Infatti la sorte degli
uomini e quella delle bestie è la stessa... c'è un soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità
dell'uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la stessa dimora,
tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell'uomo
salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra? Mi sono accorto che nulla
c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere perché questa è la sua sorte. Chi potrà
infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui? " (3,19,22)
Alla base di queste riflessioni si può scorgere un rimprovero neppure troppo velato a
Dio: come si può sopportare di avere la sapienza e poi essere equiparati alla sorte delle
bestie? Come si fa a elevare il pensiero a Dio se poi si finisce letteralmente nella polvere? Il
richiamo alla sorte in comune con le bestie, a ben vedere, lascia intuire una sofferenza
interiore, una voglia di ribellione, imbrigliata dal timore che incute la potenza di Dio. E
infatti a Dio, o meglio alla sua casa ci si deve avvicinare con le idee chiare, con pensiero
attento e lingua a posto: "Bada ai tuoi passi. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio
offerto dagli stolti che non comprendono neppure di
far male... "(4,17) Evitare promesse inutili: "Non essere precipitoso con la bocca e il
tuo cuore non si affretti a proferire parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei in
terra; perciò le tue parole siano parche... "(5,1-2)
Qoélet indica a sé stesso e a chi lo ascolta le linee più elementari e sicure per non
turbare in qualche modo le possibili occasioni di felicità ma allo stesso tempo, mettendo in
guardia da tutto ciò che potrebbe essere di intralcio, insinua fra le parole il dispiacere di non
avere argomenti altrettanto certi per smentire il suo pessimismo e le sue paure. L'ombra
della morte e il giudizio di Dio che incrinano ogni entusiasmo gli permettono comunque un
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canto finale di elegiaca poesia, ricco di rimandi allegorici. Considerando la giovinezza
come, il periodo più adatto alla felicità ( tutti i sensi sono desti e accendono le emozioni),
Qoélet invita a non sprecare neppure un attimo del tempo che verrà dopo: "Dolce e la luce/
e agli occhi piace vedere il sole./ Anche se l'uomo vive per molti anni se li goda tutti,/ e
pensi ai giorni tenebrosi che saranno molti. "(11,7-8) Il giovane deve godere ma anche
essere consapevole: "Sta' lieto o giovane... e si rallegri il tuo cuore in quei giorni della
giovinezza... sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà a giudizio. "(11,9) E più
avanti negli anni: "Ricordati del tuo creatore... prima che vengano i giorni tristi,quando
fiorirà il mandorlo (capelli bianchi),e la locusta (i piedi) si trascinerà a stento, e il cappero
(vigore sessuale) non avrà più effetto... prima che si rompa il cordone d'argento (il legame
con la vita),poiché l'uomo se ne va nella dimora eterna... e ritorni alla polvere come era
prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato. " (12,1,5,7)
La saggezza non corruttibile appartiene solo a Dio. All'uomo viene concessa un po' di
felicità compatibile con la precarietà della vita. Inutile cercare di andare oltre poiché godere
con fatica equivale a soffrire. Mangiare, bere, amare: ribadendo queste cose stabilite da Dio
Qoélet traccia il confine dell'esperienza umana e anche della saggezza. Dalla modesta
ciotola in cui ha versato tale saggezza ne trae qualche sorso amarognolo di soddisfazione.
Avendo però parlato troppo a ruota libera o perlomeno in modo originale, rimarcando con
insistenza una certa avarizia divina nei confronti dell'uomo, Qoélet conclude le sue
riflessioni riportando il discorso nel solco più tradizionale. "Temi Dio e osservai suoi
comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto. Infatti Dio citerà in giudizio ogni azione,
tutto ciò che è occulto, bene o male. " (12.13) Questo confronto è l'unico spiraglio che
Qoélet intravede nel futuro dell'uomo. Il soffio vitale con la morte torna a Dio ma e pur
sempre quel soffio che ad ogni generazione, si ripresenta con caratteristiche predefinite e
alimenta la vita di nuovi (clonati?) individui. In questo si intravede una certa eternità, fatta
di polvere, di vanità, nell'illusione che tutto sia diverso mentre la vita si ripete sempre
uguale.
Nascere, vivere, morire, si percepisce un sottofondo di noia cosmica che non appaga
neppure il saggio Qoélet. Non lo dice ma l'uomo secondo lui dovrebbe avere obiettivi e
finalità migliori. Purtroppo sotto il sole soffia implacabile il vento della vanità.
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Runo di Roma
Roma, 10/12/2005
BARRIERE
Quando una chiesa cresce elimina gradualmente il suo Dio. Più una religione è forte
più il Dio che predica è debole.
Ogni religione che proclama verità assolute deve usare poi la forza per mantenerle.
Nell'angoscia l'uomo cerca il dialogo con Dio. I sacri riti si offrono come intermediari
sicuri.
La ritualità gestita bene ha i suoi costi. E la paura invischiata nel mistero diventa
fonte di generose sovvenzioni.
Ogni parola rivelata ha due impronte: una nitida (Dio) e una polverosa (uomo).
Quando l'autorità religiosa sigilla definitivamente la parola rivelata chiude il dialogo
fra uomo e Dio.
L'autorità sacra è dura a morire. Il potere è il suo albero della vita. Si può eliminare
Dio esaltandolo e rubandogli l'identità.
Bruno di Roma
Roma, 18/12/2007
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IL SACRO NON E’ UN FOSSILE
Paolo l’Apostolo dei Gentili, divulgatore di un vangelo ricevuto direttamente dall’alto, così
afferma a tal proposito scrivendo ai Galati: “Vi dichiaro che il vangelo da me annunciato
non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né appreso da uomini ma per
rivelazione di Gesù Cristo.”(Ep. ai Galati, 1,11)
E nella lettera a Timoteo, suo compagno di viaggi, di predicazioni e sofferenze, nonché
collaboratore nella stesura di alcune sue epistole, ripete a proposito del suo vangelo:
“Ricorda che Gesù Cristo è risorto dai morti, secondo il mio vangelo, per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non ha catene.”(2 Timot.,
2,8-9)
La frase che fa riflettere, non riguarda tanto la resurrezione, su cui Paolo fonda con
continuità la sua predicazione per rinfocolare le speranze di eternità a cui tende l’animo
umano, quanto invece la dichiarazione secondo cui la parola divina non ha catene. A parte
il fatto che la critica, almeno in parte, manifesta dubbi sul vero autore dello scritto (le
analisi testuali lasciano intravedere problematiche da inserire tra fine e inizio del primo e
secondo secolo), è proprio il contenuto delle due lettere inviate a Timoteo che lascia capire
quanto le parole (anche umane con intenzioni divine), non possono rimanere a lungo
incatenate.
La fede richiama la speranza e invita a credere nelle parole che seguono il vento dello
Spirito e perciò non sono mai pronunciate in modo definitivo. Il vento dello Spirito non si
può fermare mediante riti o invocazioni ma accompagna progressivamente la storia
dell’uomo. Pretendere che le parole vengano definite sacre, invariabili, intoccabili, significa
interferire in modo scorretto nella stessa attività dello Spirito. Ma si sa, le catene al vento
non si possono mettere, neanche rivendicando poteri desunti dallo stesso Spirito a discapito
della sua eterna libertà.
Dopo aver esortato il suo discepolo ad evitare discussioni profane e chiacchiere inutili che
si radicano spesso come un cancro negli animi (1 Tim., 2,16-17), Paolo affronta un tema
che dovrebbe dare forza e coraggio a chi si trova nella sofferenza e nonostante tutto spera.
Infatti, l’escatologia dovrebbe essere ormai prossima, il ritorno di Cristo farà risorgere i
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giusti dalla morte e accoglierà nel suo regno direttamente quelli ancora viventi. Certo, ci
sarà un giudizio. Non è un mistero che in migliaia di anni la storia ha riservato alle vicende
umane momenti terribili. E anche molti uomini, all’approssimarsi di tale evento finale
saranno ingordi, egoisti, vanitosi, superbi, violenti, miscredenti, intolleranti, traditori,
sfrontati e ipocriti. Infatti si presenteranno “con la parvenza della pietà mentre ne hanno
negata la forza interiore.”(2 Tim.,3,1-5 e 1 Tim. 4,1 sseg.)
Ma poi la parusia si è defilata, spostandosi nell’orizzonte del tempo. Ancora una sequenza
di secoli, pochi per l’eternità ma pesanti per l’umanità, in cui la pietà è stata umiliata
costantemente da crudeltà e cinismo. Ma questo stato di cose non rientrava nella visione
immediata di Paolo. Infatti nella prima epistola invita i credenti a offrire preghiere,
domande e suppliche per i re e quanti stanno al potere e così per il poco tempo che resta
”trascorrere una vita calma e tranquilla con pietà e dignità.(…) Uno solo, infatti è Dio, e
uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in
riscatto per tutti.”(1Tim., 2,1-6) Costringere tali parole a prolungarsi immutabili nel tempo
potrebbe ingannare non per la figura del mediatore, ma per l’esercizio umano del potere che
facilmente si lascia prendere la mano. Mentre da un lato chi domina, legifera per regolare la
convivenza civile, dall’altra tende ad arrogarsi inqualificabili libertà. In tal caso il potere
non nobilita il potente ma lo squalifica agli occhi dei molti che non sono in grado di
difendersi.
Comunque, è sempre meglio sapere che il mediatore sistemerà ogni pendenza ma intanto la
violenza (di ogni potere) rende spesso vuota la forza della parola dichiarata sacra. Pregare,
e supplicare in terra chi umilia o ruba letteralmente la vita agli altri, costituisce il massimo
della sottomissione ma non include normalmente un atto d’amore.
Un altro passo invita chi vive in schiavitù a trattare con ogni rispetto il padrone; nel caso
poi che quello sia anche cristiano, deve essere considerato come un fratello (1 Tim.,6,1-2)
Richiesta sublime ma ingannevole. L’uomo non accetta di essere trattato come un semplice
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animale di fatica; e privarlo arbitrariamente della libertà individuale significa tenerlo in
schiavitù. E purtroppo per secoli le sacre strutture sono state disattente su tale aspetto.
Hanno dichiarato libera l’anima se battezzata, ma con formule un po’ farisaiche hanno
sorvolato sullo stato di servitù nuda e cruda dei più deboli e meno fortunati.
La parola ispirata in questo caso va circoscritta e messa sotto critica, in virtù
dell’intelligenza che Dio ha dato all’uomo. Il servizio inteso come carità o solidarietà, in
relazione alla bontà di Dio che tende la mano all’uomo, non prevede la schiavitù.
Sempre nella prima epistola a Timoteo, tra le varie direttive, una é rivolta al genere
femminile. Direttiva che oggi per molte donne suona provocatoria e offensiva. Contro
quelle parole è ora la femminilità a rifiutare quel tipo di sacralità. Così le parole del testo
:”La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non concedo ad alcuna donna di
insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo(…),
non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di
trasgressione.”(1 Tim., 2,11-14) Mah!?
Oggi si può argomentare che a quel tempo, complice pure una tradizione millenaria, la vita
sociale aveva impostazioni rigide e discriminanti verso il mondo femminile e di
conseguenza i sacri dettami dovevano essere capiti nell’ambito della mentalità corrente. Ma
resta anche vero che in seguito, la volontà di salvaguardare certi ruoli di genere, ha tenuto a
lungo in catene la stessa parola sacra, dimenticando la prevedibile intenzione di Dio nei
riguardi della evolutiva storia umana.
Bisognerebbe capire o accettare, come scriveva con acume un saggio teologo qualche anno
fa che nel sacro la parola non può subire imposizioni assolute e invecchiare nella polvere
in quanto :” è già detta e ancora da dire; é dentro un gruppo umano, ma non può essere
catturata da un sistema e obbligata a una verità. E’ consegnata prima di tutto all’avventura e
al dramma di vivere. (…) La ‘parola’ già detta ha, dunque, bisogno di incarnarsi. Deve
ricevere da noi il volto transitorio di un’epoca, di una cultura, di una situazione, di una
persona, di un gruppo umano. E’ soggetta alle inquietudini di chi vive e soffre dentro
condizioni irrisolvibili della storia. (…)
Problema. Annunciare la ‘parola’ significa chiarire la Scrittura, i messaggi del papa, dei
vescovi eccetera? Se la ‘parola’ riguardasse solo gli incontrollabili ultraterreni, potrebbe
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essere così. Se riguarda l’umanità in cammino non è più evidente. L’uomo stesso entra
come componente, non solo ermeneutica, ma come oggetto di lettura. Non però, la
definizione astratta dell’uomo, ma la somma delle realtà positive e negative della sua
esistenza, la sua carica inventiva, l’accumularsi delle sue produzioni (…) Il contesto
liturgico-sacramentale ruota di frequente su se stesso, favorisce l’interiorizzazione
individuale e gratificante, non è parte del processo dinamico, universale della vita di
adesso. Per il cristiano, la speranza del futuro ha il volto della lotta e spesso della
disperazione presente, dove maturano le attuazioni della vita e l’attesa del Dio dei
viventi.”(*)
La parola chiede dunque di vivere nel presente in divenire, in ogni occasione in cui ognuno
si sente coinvolto da quel messaggio che continua ad incarnarsi per non smarrire la
speranza . Quella speciale parola, in sintonia con la percezione interiore in contatto costante
con la realtà esterna, resta dunque sempre passibile di miglioramento, di compimento, fino
al momento in cui si sentirà finalmente completata nella perfezione dell’immortalità.
BiBi P.
3/2/2013
(*) ALDROVANDI M., “Passione e disincanto”, ed. Censis, Milano 1993, pp.
258,260,262,267.
IMMORTALITA’
(cercare-conoscere)
Capita a volte,nella profondità della coscienza, che un lampo improvviso di luce lasci
intravedere qualcosa di Dio. Tracce luminose restano debolmente imprigionate nella
complessa rete della mente generando un malessere sotterraneo che alla fine stimola la
curiosità. E’ il primo piccolo passo per approfondire l’origine interiore di quel lampo e
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saperne di più. Per molti è così che inizia la caccia a Dio: quell’Essere che misteriosamente
osa disturbare e sollecitare quei pochi solchi di conoscenza che, nel breve tempo di vita
concesso, ognuno riesce a tracciare senza mai sentirsi appagato totalmente. Dal covo
recondito ove si annidano i desideri che balzano fuori, a volte anche in modo incontrollato e
pericoloso, il desiderio di Dio sta sempre all’erta perché rappresenta una possibile scalata
verso un orizzonte più ampio. Pensare Dio nella sua ineffabile esistenza significa entrare
nel territorio sconfinato di una conoscenza oltre i limiti della realtà sensibile. Prefigura una
possibilità continua e appagante di scoperte; allontana l’ansia di finire nel nulla. Dunque è
anche caccia all’immortalità. Conoscere costa fatica ma ad ogni tappa di conoscenza si
acquistano mezzi e forze adatte per continuare ad approfondire. Le soste diventano sempre
più brevi e il desiderio di raggiungere la porta dell’eternità diventa spasmodico. E
nonostante questa febbre di conoscenza per un traguardo che comporta anche il rischio del
dubbio e della delusione, ci si rende conto che la ricerca non si esaurisce in poche tappe. E
sicuramente dovrà continuare anche dopo aver varcato i confini del tempo. Ma il traguardo
più importante che la vita può offrire è la conquista della consapevolezza del proprio
destino che, anche senza il corpo, è proiettato nella sua rigenerabile energia in una durata
senza fine. Molti hanno cercato di dare una descrizione di quanto potrà capitare dopo. Si
parla diffusamente di luce, di beatitudine, della concessione da parte di Dio di farsi
contemplare (in che misura non si sa). Nell’economia cosmica ogni energia ha la sua
funzione. La consapevolezza del proprio esistere in continua ricerca finirà per adattarsi e
rientrare nel grande flusso della complessità dell’universo. Come sarà possibile
contemplare Dio? Luci e suoni celestiali sono appena una virgola di quanto la coscienza di
ciascuno potrà percepire.
Dal macrocosmo al microcosmo il desiderio di conoscere passerà senza tormenti da un
appagamento a un altro. Sono talmente tante le cose sconosciute, interessanti e
meravigliose che l’eternità risulterà un dettaglio. Ogni scoperta costituirà un particolare
divino che si svela alla coscienza e senza vedere Dio faccia a faccia se ne potrà gustare un’
infinità di riflessi appaganti. E tutto questo in compagnia di uno stuolo sterminato di
esistenze che avranno piacere e desiderio di godere con quanti condividono la bellezza di
quella esperienza. Dice il pio salmista: “Tu (Dio),mi prenderai per mano, mi guiderai col
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tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria.” (Sal. 72,23-24) Invece l’intelletto di
quanti hanno disprezzato il dovere di conoscere, dovrà riorganizzarsi e cominciare a cercare
con ansia e rischio la guida di quella mano e quel consiglio che non ha saputo accettare in
precedenza.
BiBi P.
04/02/ 2013
MATERNITA’
Uno spunto interessante e misterioso sul rapporto tra Dio e umanità è offerto dal prologo
del vangelo di Giovanni: “Deum nemo vidit unquam: Unigenitus Filius, qui est in sinu
Patris, ipse enarravit.”(Gv. 1,18) Così il testo latino che conclude in questo modo quanto
affermato nell’incipit :”In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat
Verbum …”(Giov.,1,1), per proseguire poi con :” Et Verbum caro factum est et habitavit in
nobis …”(Gv., 1,14)
Sulla figura del Logos il testo greco è simile ma nel rapporto divino offre un elemento in
certa misura più esplicito: “monoghenés theos, o òn eis tòn kòlpon patròs, ekeìnos
exeghésato.” L’Unigenito è in Dio. Il termine greco ‘kolpos’(in prima accezione: ventre,
viscere, grembo, utero), è linguisticamente
più consono alla terminologia umana di
generazione. Tale chiarezza è invece meno evidente nella versione latina. Nella traduzione
greca dei Settanta, e in quella del Nuovo Testamento, per il ventre materno viene usato in
prevalenza il termine koilìa. Il Lessico dello Zorrell, nel contesto del Prologo, preferisce il
richiamo al seno e non accenna minimamente al ventre o all’utero, e considera l’Unigenito
adagiato sul petto del Padre. In effetti dotare Dio Padre di utero lo porrebbe sul crudo
livello della gestazione umana, e a stretto confronto con il corpo della donna con tutte le
riserve antiche e meno antiche legate al mondo e al corpo femminile. Seno, un termine
meno diretto, più dolce che richiama piuttosto l’aspetto gratificante e nutritivo della
maternità. Ma se l’Unigenito è stato, usando il linguaggio umano, generato dal Padre, può
anche riposare confidenzialmente sul suo petto ma è nel grembo del Padre che viene
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custodito il mistero del Verbo che nel tempo diventerà carne mediante l’altrettanto
misterioso intervento dello Spirito Santo.
A fronte di tali considerazioni appaiono prospettive speculative che probabilmente non si
esauriranno mai e andranno ad aumentare le molte pagine di Patristica dei primi secoli e
tante altre che costituiscono la teologia dei secoli seguenti. Ma perlomeno saranno indice
del cammino in cui l’intelligenza umana, col passare del tempo, tenta di migliorare il suo
rapporto con Dio. Quasi certamente il timore di un Dio che oltrepassi le formule codificate
metterebbe in crisi la già frastagliata costellazione delle comunità cristiane, ma superare
tale timore potrebbe creare un rapporto nuovo, meno limitante o antropomorfico sul
concetto di Dio. Se l’uomo credente, (ma anche chi fosse attratto in qualche modo dalla
sacra scrittura), riuscisse a indagare ancora su questo rapporto generativo e creativo della
divinità, potrebbe aprire la mente alla comprensione almeno ipotetica di un Dio che non
dovrebbe restare chiuso negli spazi angusti che la storia della speculazione teologica gli ha
confezionato o anche negato. Rivendicare per Dio Padre una capacità materna, in contrasto
con la forza e la potenza terrena del maschio, sbilanciandola verso la debolezza femminile,
potrebbe ricomporre anche i frammentati e conflittuali rapporti umani. Rapporti che da
lungo tempo hanno messo in stato subalterno la vitale capacità generativa (donna maternità), rispetto a quella distruttivo-impositiva (dominio-potere maschile).
Il testo evangelico citato aiuta a superare le differenze: l’Unigenito è generato e vive
nell’intimità generante del Padre, non per rimanere infantile ma perché in quel luogo
esiste l’essenza stessa di creatività. Una via sempre aperta alla novità nella sostanza perfetta
e completa della divinità. La novità è la risposta alle aspettative umane.
Per questo è scritto:”Ecco, faccio nuove tutte le cose.”(Apoc. 21,5)
E’comunque da queste considerazioni che si dovrebbe partire per capire forse meglio
quanto è avvenuto con l’incarnazione e con la maternità di Maria.
Un Padre che genera rende comunque giustizia per una discriminazione troppo a lungo
sostenuta contro l’identità femminile. L’uomo normalmente ma non sempre, tende in modo
naturale a stabilire un rapporto con Dio, ma facendo questo non può o non dovrebbe
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abusare delle differenze inerenti la propria specie di appartenenza.
La maternità di Maria di Nazareth. Dalla sacra scrittura di lei si hanno notizie piuttosto
scarne (il vangelo di Luca il più generoso!). La tradizione cristiana ortodossa e non dei
primi secoli (tra assensi e limitazioni), ne ha fatto una creatura speciale a metà strada tra
Dio e l’uomo.
Nel Concilio di Efeso del 431 i padri conciliari ‘osano’ e definiscono Maria usando
l’appellativo di “Theotokos, Deipara, Madre di Dio”. Una definizione eccezionale che però
crea dei problemi alla comune comprensione umana. I partecipanti di quel concilio lo
hanno intuito e forse sono andati appena poco oltre le più belle e devote intenzioni. In
precedenza a Nicea nel 325 e in seguito, mentre si stringeva il cerchio della discussione
intorno alla figura carismatica di Gesù, stabilendo che era vero Dio e insieme vero uomo,
sulla figura di Maria la preoccupazione maggiore era di farne una vergine, con prerogative
personali e materne del tutto speciali grazie all’intervento divino. Del resto all’origine del
peccato la condanna principale per la donna era di partorire nel dolore. Inoltre la
trasmissione della colpa d’origine avveniva e avviene ancora oggi attraverso il seme
maschile. Necessario dunque anche l’intervento dello Spirito Santo all’atto della
fecondazione.
Papa Ormisda nel marzo del 521 scriveva all’imperatore Giustino: “Proprium autem Filii
Dei, ut in novissimis temporibus Verbum caro fieret et abitare in nobis, ita intra viscera
Sanctae Mariae virginis genitricis Dei unitis utrisque sine aliqua confusione naturis, ut qui
ante tempora erat Filius Dei, fieret Filius hominis et nasceretur ex tempore hominis more,
matris vulvam natus aperiens et virginitatem matris deitatis virtute non solvens. Dignum
plane Deo nascente mysterium, ut servaret partum sine corruptione, qui conceptum fecit
esse sine semine servans quod ex Patre erat, et repraesentans quod ex matre suscepit …”
(cfr. Denzinger-Schonmetzer,”Enchiridion Symbolorum”,ed.XXXIII, a.MCMLXV, p.130131). Segnale forte, contro la situazione iniziale di condanna avvenuta nell’Eden, ma che
non si amalgama bene con le sofferenze fisiche patite da Cristo, a cui la chiesa con
insistenza associa anche quelle della madre nel contesto complessivo della salvezza. E
ancora, non è il sesso che rende impura una persona ma sono i pensieri che contaminano le
azioni umane.
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Per avere il coraggio di dire qualcosa di più e trovare una spiegazione, sganciata in
qualche modo dai limitanti aspetti fisici legati a quella maternità, bisognerebbe
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indagare ancora sulla particolare simbiosi esistente fra Dio e uomo e confermare la
riflessione applicandola alla copia Maria-Gesù.
C’è, impropriamente o umanamente parlando, una voglia eterna di Dio di immergersi
nell’esperienza di una sua creatura alimentata dall’intelligenza. Tutta la metafisica su Dio,
increato, invisibile, infinito, eterno, viene segnata con l’immissione nel divenire
dell’Unigenito Figlio che sta nel grembo del padre.
La cosa più interessante e degna di attenzione detta oggi da un teologo sul problema si può
riassumere così: “Dio e uomo devono essere pensati come la medesima cosa da sempre. Il
Figlio di Dio che diviene uomo in un momento preciso della storia è l’archetipo eterno
dell’uomo, da sempre sussistente in Dio(…) Si può sostenere che Dio diviene realmente
uomo, senza alcuna diminuzione della sua divinità, solo pensando che egli, da sempre, non
solo ha in sé, ma è in sé, l’dea di uomo …”(MANCUSO V.,”Quale Dio sta nei cieli”, in
“La Repubblica”, venerdì 23 settembre 2005, p. 47).
Questa eterna idea divina dell’uomo, è dunque presente nel grembo generante del Padre,
indipendentemente dal tempo e precede storicamente l’origine del peccato. Nel 375 papa
Damaso ribadiva a Paolino vescovo di Antiochia: Confitendum (est) … Filius Dei
humanum suscepisse corpus, animam, sensum, is est integrum Adam, et, ut expressius
dicam, totum veterem nostrum sine peccato hominem.”( in Denzinger- Scon.,
“Enchiridion”, cit., pag.64) Togliere il peccato dall’esperienza di un essere umano risulta
talmente eccezionale che difficilmente rientra negli schemi mentali della vita quotidiana. Si
è costretti a pensare che il divenire contiene in sé l’imperfezione e per questo l’intelligenza
e la volontà devono continuamente cercare e rincorrere la fonte della perfezione che sta
all’origine di tutto, cioè il grembo generante del Padre. Il credente ormai sa che in quel
contenitore eccellente di vita l’integrità è e sarà sempre presente. Considerando con più
passione questo fatto, é facile intuire che non solo una ma due creature esenti dal peccato,
eternamente pensate, entrano nella storia umana e non si possono separare: madre e figlio.
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L’essenza divina contiene in sé anche l’idea eterna e archetipica di Madre. Le formule
umane risultano sempre incomplete nei confronti di Dio. Maria andrebbe inserita meglio
nella dinamica del Figlio dell’uomo che da sempre e per sempre ha necessità di una madre.
Questa coppia è la manifestazione umana della divinità che genera, ama, crea e rinnova.
Circa il dogma che ha stabilito in un determinato e conflittuale momento storico i ‘limiti’ di
Dio (Padre, Figlio, Spirito Santo), appare a chi si avvicina per la prima volta a questa
triplice unità, come una lastra di marmo levigata che protegge la mente umana da un reale
contatto-dialogo con Dio. Ogni essere vivente passa attraverso la maternità e da lì
scaturisce la sua capacità di relazione. Le leggi vengono dopo. Le dogmatiche qualità
divine, insieme alle prerogative elaborate dall’indagine teologica, dimenticano però di
evidenziare l’aspetto materno che sempre da Dio proviene.
A Maria, nella storia, è stato demandato tale compito. Madre della Chiesa? Di tutti? Ogni
tanto la Madonna appare e talvolta piange per i peccati del mondo. Non è che
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lo fa per alcuni miliardi di esseri esclusi che vivono nell’indigenza e nell’ingiustizia? E
perché non nominare i responsabili di tale situazione? Per non sbilanciarsi? Madre di Dio e
responsabilità reali. Madre partecipe del mistero divino e segno di un’autentica
emancipazione umana da realizzare in virtù dell’annuncio nuovo trasmesso da suo figlio il
Cristo.
Molto è stato detto ma non per questo si deve smettere di riflettere ancora con serena
attenzione su questa figura, di cui sulla terra l’umanità, senza distinzione e con meno
ipocrisia, ha estremo bisogno per migliorare i suoi rapporti sulla terra e con Dio.
BiBi P.
10/02/2013
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ROSSANA
(***I Racconti del Rio)
L’ultima volta che Adriano vide Rossana frequentava già da circa tre anni il seminario dei
frati.
Suo malgrado, nonostante i consigli del vecchio Quaresima, morto tragicamente qualche
anno prima, era stato indotto insistentemente dai parenti a intraprendere quella carriera
sicura, in un luogo privilegiato. Dove la divisa aveva la sua importanza e i possibili
imprevisti erano ben calcolati. Del resto, per un anno finite le elementari, aveva lavorato in
una piccola fabbrica di penne stilografiche. Nove ore al giorno, per sei giorni. Compenso
settimanale duemilacinquecento lire.
Studiare era considerato un lusso. In collegio invece,con una piccola retta mensile costituita
dall’assegno famigliare, poteva istruirsi. Prima di partire per il nuovo collegio Adriano
pestò i piedi con rabbia e disappunto perché ancora non aveva smaltito i postumi del
periodo precedente, quando, come orfano,
aveva conosciuto le pesanti conseguenze
dell’amore divino applicato da uomini pieni di fervore. Ma nonostante le attuali proteste per
questa seconda esperienza, non ci fu niente da fare. Per fortuna nel nuovo ambiente le cose
erano diverse.
Si pregava, si studiava ma il trattamento era molto più dolce. Non si stava male, ed era più
sopportabile accettare le manifestazioni che Dio affidava ai responsabili del collegio. Certo
tutto era finalizzato a scoprire e coltivare i germi della chiamata divina e in seguito poter
rivestire la sacra divisa che la Madonna aveva dato ai suoi servi devoti alcuni secoli prima.
Alla fine dell’anno scolastico c’erano le vacanze estive da trascorrere in famiglia. Un mese
scarso. Questo periodo era considerato delicato e pericoloso. Veniva chiamato “la
vendemmia del diavolo”, nel senso che alcuni, abbagliati dalle lusinghe del mondo non
rientravano al collegio. La vacanza costituiva in pratica una prova da superare. Come aiuto
ognuno riceveva un libretto dalla copertina nera intitolato “Il Giovane Provveduto”, da
consultare ogni giorno e naturalmente all’insorgere di possibili tentazioni.
Adriano, come già in passato, si recava quindici giorni in campagna dagli zii, fra quelle
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colline della sua prima infanzia. Là il tempo era fermo e non c’erano particolari distrazioni.
Però quell’anno, presso il rio, vicino alla cascina dei Bertozzo, era stata organizzata la festa
del Popolo, vale a dire quella dei Comunisti. Gente da non frequentare assolutamente in
quanto nemici della chiesa e scomunicati. Paolino dei Losa suo amico ed altri, gli fecero
una testa così perché il sabato sera si recasse con loro alla festa. C’erano solo brave
persone, si conoscevano tutti, anche quelli delle borgate vicine. Andavano a messa la
domenica e quando bestemmiavano non erano in disaccordo con Dio ma con quanto
succedeva sulla terra. Si bestemmiava per abitudine e alle rimostranze del parroco ognuno
aveva qualche motivo pratico per giustificarsi. Avevano organizzato anche una “Pesca” di
beneficenza per aiutare i giovani “pionieri” delle Repubbliche Sovietiche. E poi c’era
Rossana che dava i numeri della fortuna e anche altro.
Capì chi era Rossana quando, presentandosi sul posto con un po’ di anticipo per rendersi
conto del clima della festa, vide il carretto e quella donna che in passato chiamavano
Quartina e in seguito Consolina. Già da alcuni anni, nei mesi estivi, girava per i paesi fra le
colline con un carretto tirato da una cavalla magra. Aveva un passato di cui si vantava
spesso: era stata una promettente allieva di danza classica. Per campare però era approdata
come ballerina nell’avanspettacolo. La guerra l’aveva costretta poi a desistere e a mettersi
in proprio con altre attività di fortuna.
In un primo tempo la gente la chiamava Quartina. Non per il vino in quanto era astemia ma
perché improvvisava delle rime poetiche per chi sperando nella buona sorte, le dava un po’
d’aiuto. Aveva un aspetto piacevole e giovanile, sorrideva con grazia e la gente in genere
l’accoglieva con simpatia. I suoi versi venivano ricordati anche a distanza di tempo. Quelli
sui padroni della guerra: “Ci hanno invitati a corte/per ballare con la morte./Che ha fatto il
suo lavoro,/ora basta, tocca a loro.” Le previsioni del tempo: “”Se hai dolore alla spalla/
lascia i buoi dentro la stalla./E col vento fastidioso/il lavoro è faticoso.” Per una ragazza
che doveva sposarsi: “Non bruciare la polpetta/ se il moroso va di fretta./E mantieni la
modestia,/altrimenti lui va in bestia.”
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Per il venticinquesimo di matrimonio dei Pontone, invitata ad un pranzo che non finiva più,
Consolina esagerò con qualche verso. Qualcuno maliziosamente l’aveva convinta a bere un
po’ di vino. Un bicchiere scarso la mandò subito nel mondo dei poeti. In piedi su una sedia
cominciò a declamare: “O amabili Pontone,/dopo tante cose buone,/ mi sovvien che fate
festa/ per quel chiodo nella testa,/che per anni vi ha impegnati/ dentro il letto e anche nei
prati …”Le prese improvviso il singhiozzo e allora cambiò ritmo: “Orsù impetuosa Piera/
alza la vela nera,/ prima che il prode Attilio/ nel mar porti scompiglio …” Da Piera le arrivò
in fronte un uovo sodo. Attilio disse al figlio più grande di accompagnarla fuori. Quella
volta finì così e per un po’ di tempo non si fece più vedere.
Quando riapparve aveva cambiato colore ai capelli. Da castani a biondi. Le faceva
compagnia un pappagallino che diceva “Viva Gesù” ma anche qualche parolaccia. Lei
distribuiva foglietti con i numeri da giocare al lotto e soprattutto prometteva preghiere
particolari a seconda delle necessità. Era incappata in una crisi mistica e propagandava la
devozione alle varie madonne che però non corrispondevano a quelle dei più noti santuari.
Comunque aveva una parola di conforto per tutti, e la gente cominciò a chiamarla
Consolina.
Per chi allattava prometteva preghiere alla madonna della capra. Il latte di capra abbonda di
elementi nutritivi. Per chi soffriva di vene varicose si rivolgeva alla madonna dell’ortica. Le
proprietà dell’ortica vanno ben oltre lo spiacevole effetto urticante. A don Ameriso che
soffriva di cirrosi epatica, aveva osato promettere una preghiera alla madonna della menta
perché gli rinfrescasse certe idee sulle donne, ma quello piccato la mandò via ricordandole
di abbandonare i suoi liberi costumi e di prendere esempio dalla vita dei santi.
Alla zampa del pappagallino che si chiamava “Baloss”,(‘birbante’ in dialetto), era legato un
piccolo barattolo in cui, chi si raccomandava, doveva versare un obolo. La bestiola
rispondeva a tutti “Viva Gesù”, ma se l’offerta era scarsa, un breve colpo di tosse della
padrona lo avvisava di aggiungere al pio ringraziamento un: “tirchio spilorcio”. L’effetto
risultava poco religioso anzi suonava quasi come una bestemmia. Così capitò appunto con
don Ameriso che cacciò Consolina come una Maddalena impenitente.
Siccome la donna si manteneva sempre in buona forma ed esteticamente piacente, lasciò da
parte le madonne strane e si propose con il nome d’arte “Rossana”. Offriva sempre i
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numeri della fortuna ma ai contadini golosi regalava anche altre cose personali molto
intime. Ebbe un buon successo anche se le donne, mangiata la foglia, cominciarono a non
darle troppa confidenza, e quando la vedevano trovavano per i mariti e i figli più grandi
varie scuse
per impegnarli nei vari lavori della cascina. Ma evidentemente non era
sufficiente, fienili e capanni degli orti,bisognosi di manutenzione, coprivano con
discrezione le scappatelle consolatorie.
Adriano fece amicizia con Rossana in modo del tutto casuale. Stava tornando a casa con un
secchiello di latte avuto dai Merlecca per aver tenuto al pascolo le loro pecore. Rossana,
che qualche malalingua soprannominava anche Diavolina, aveva fatto sosta presso il ponte
sopra il rio, sulla strada che dava verso il cimitero. Aveva acceso un fuoco e stava facendo
bollire della cicoria. Mentre era girata a sistemare delle cose sul carretto, la gonna lunga e
ampia, sfiorando il fuoco si stava incendiando. La vecchia cavalla spaventata scalpitava e
nitriva mentre la sua padrona sentendo quel calore improvviso si dava gran manate sul di
dietro. Adriano in un attimo corse in aiuto e le rovesciò addosso il latte che aveva nel
secchiello. Rossana, passato lo spavento, lo abbracciò. Gli aveva salvato la vita o almeno
una parte importante per continuare a campare senza problemi. Adriano era ancora un
ragazzo, di quella parte sapeva poco. Rossana lo ringraziò e gli disse che con lui aveva un
debito che prima o poi avrebbe saldato. Gli diede due numeri da giocare e qualche soldo
per ricomprare il latte. Ogni anno poi lo voleva incontrare,in fondo con gli uomini si
annoiava. Parlare con un ragazzo che ancora guardava la vita senza calcoli e avidità la
faceva sentire bene, gli ridava un po’ di fiducia.
Ecco, a distanza di qualche anno Adriano la rivedeva in quella festa proibita. C’era un
grande telone tirato fra gli alberi. Su un grande tavolo, pane, vino, gazzose salami e dolci
fatti in casa. E su un carro da fieno i premi della “pesca”; legata a una stanga anche una
pecora come primo premio.
Completavano il tutto due bandiere rosse con la falce e il martello e al tronco di un pioppo
appesi due ritratti: un uomo con i baffi e sotto un altro tipo con gli occhiali.
Il carretto di Rossana era piazzato nelle vicinanze, sotto un grande salice. Una tenda, tra il
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carretto e l’albero, separava la zona riservata. Su un tavolino alcuni portafortuna e il solito
Baloss abbarbicato su di un trespolo, con l’immancabile ciotolina per le offerte. Nel becco
aveva un piccolo morso; dato il carattere della festa se ne doveva stare zitto e non dire
“Viva Gesù”.
Adriano si avvicinò e Rossana, intenta a sistemare delle zampe di coniglio sul tavolino,
senza voltarsi disse :”E’ ancora presto, ripassa più tardi.” Poi si girò e lo vide. “Guarda,
guarda, Adriano! Come ti sei allungato!” Aveva le labbra rosse come il peperoncino e un
profumo che stordiva. Il seno molto scoperto si godeva l’aria di campagna. Abbracciò il
ragazzo e gli schioccò due baci decisi sulle guance. “Sono proprio contenta di rivederti. Eri
sparito di circolazione. Ho poi saputo che non abiti più da queste parti. Questa sera però
dobbiamo festeggiare.”
Prese dal carretto due aranciate. “Sono fresche. Le ho appena comprate al bancone della
festa. Sono felice che tu sia venuto a trovarmi. Con te ho sempre un debito. E poi, da quella
volta, mi ricordi il candore di quando ero piccola. Senti un po’, che dice la gente di me?”
“Che sei bella, simpatica, che regali la fortuna e anche altre cose particolari …!” rispose
Adriano.
“Ah, ah, non sei più tanto candido”, fece lei, “vediamo un po’ …” Le stava per rispondere
che ormai si era messo in una condizione speciale ma lei veloce e senza pensarci troppo gli
aveva già piazzato la mano in una certa zona. Adriano, bianco come un lenzuolo si irrigidì
come un baccalà. “Oh, rilassati” scherzò Rossana,” mica ti ha morso la tarantola.” Ormai
aveva lei il controllo della situazione, e con il profumo
lo aveva completamente
imbambolato. Passata la tensione al ragazzo parve di galoppare tranquillo verso la libertà.
“Prometti bene. Cresci e ti regalerò qualche altra emozione”, gli disse Rossana fissandolo e
sorridendo maliziosa.
Adriano contento e preoccupato allo stesso tempo, le disse che stava frequentando il
seminario. Lei a quella notizia rise veramente divertita. “Chissà che sensi di colpa
adesso!Ma dai, non è successo niente di strano. Se mi dici che non ti è piaciuto
ricomincio!” A quella scherzosa minaccia stava per dire di no ma subito pensò al dopo e in
fretta rispose che gli era proprio piaciuto.
“Adriano, non so se resisterai in seminario, ma sappi che d’estate mi puoi trovare da queste
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parti. Però adesso devo pensare agli affari.” Lo baciò con naturalezza sulla bocca e lo
spinse oltre la tenda. Alla festa cominciava ad esserci gente.
Non si divertì molto perché i pensieri restavano incollati a quei minuti passati con Rossana.
Si era comportato come un “giovane sprovveduto”, ma era pur vero che sul libretto di
pronto soccorso l’argomento era piuttosto avaro di dettagli e consigli concreti. E trovava
anche difficile cacciare via un profondo senso di rimorso di cui non riusciva però a stabilire
i confini e neppure le vere ragioni.
Il giorno seguente alla messa, con la testa confusa e quel vago profumo che gli era rimasto
addosso, non fece la comunione. Come sbrogliare la questione? Per i comunisti avrebbe
forse riscosso una certa comprensione ma per Rossana no. Due mondi distanti: da una parte
il piacere improvviso vissuto con sorpresa e naturale semplicità, dall’altra la negazione del
piacere come peccato. Non c’era modo di farli convivere e rimandò il problema alla fine
delle vacanze.
Ogni mese veniva al collegio un confessore dalla città. Manteneva sempre una maschera
severa e si informava in particolare dei toccamenti pericolosi e delle amicizie particolari. In
realtà quasi nessuno dei giovani seminaristi sapeva esattamente di che si trattasse. Quando
incautamente qualcuno ammetteva quei fatti, lui alzava la voce, comminando penitenze
pesanti. Chi stava in fila, aspettando il suo turno, capiva che c’erano problemi con il sesto
comandamento.
Per Adriano la reprimenda fu solenne: aveva contaminato il suo corpo, tempio dello Spirito
Santo e per di più con una peccatrice. Aveva offeso Dio e fatto appassire il tenero germe
della vocazione.
E poi, quella invasione sconsiderata nel campo degli avversari della chiesa!Intollerabile!
Per riflettere ed espiare quei fatti gravissimi, traendone il dovuto giovamento, la penitenza
fu salutare. Tre recite complete del rosario da smaltire in due giorni, con il salmo
“Miserere” a conclusione di ogni decina(45 in tutto). Durante la ricreazione, nelle ore di
studio e prima di addormentarsi portò a termine l’atto espiatorio.
Lentamente il germe della vocazione riprese vigore. Il salmo “miserere” ormai lo sapeva a
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memoria. E nella memoria rimase comunque a lungo il ricordo di Rossana, una peccatrice
che in quelle cose, ci metteva tanto impegno e simpatia. Possibile che per arrivare a Dio, si
dovesse per forza cancellare una parte così importante della creazione? Dio probabilmente
su quel punto aveva ecceduto, o magari, per distrazione, calcolato male gli effetti. Gli
uomini con la divisa ne erano convinti e quindi erano pronti a dargli una mano per
rimediare.
BiBi P.
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MARIUS
(Saluti extra)
Il Grande Architetto che presiede l’immensa struttura cosmica, nel sistema della stella
Fenix, cedendo a numerose richieste, ha dovuto riservare un pianeta a quanti devono ad
ogni costo inviare saluti postumi, prima di raggiungere la destinazione finale come previsto
dalle regole cosmiche. A capo della petizione un baldo informatico terrestre di nome
Marius.
Il Grande Architetto, commosso dalla tenacia di quel tecnico ansioso, ha legato il suo
nome al pianeta concedendogli di inaugurare la complessa struttura per le proiezioni
olografiche con relativa trasmissione di saluti. Tempo dieci dei vecchi minuti (più due
minuti per eventuali lacrime di commozione), forse pochi ma sufficienti. Infatti non
bisogna trascurare il fatto delle liste d’attesa (pur essendo la struttura adatta a milioni di
proiezioni), dell’immenso stuolo degli estimatori dei saluti postumi.
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Ci sono inoltre da tener presenti i vari riti di passaggio dei confini spazio temporali. In
pratica esistono diversi gruppi e scuole di pensiero su quanto avviene negli istanti dilatati
dall’angoscia, nel passaggio da uno stato all’altro. In molti casi il soggetto che parte, si
sente circondato da figure conosciute o a lui legate affettivamente. Con loro spesso si parla
non del viaggio da intraprendere ma del più e del meno perdendosi in mille ricordi del
passato.
In quei momenti possono apparire anche le immagini accigliate e minacciose dei creditori.
Poveri cretini, ormai il denaro si è volatilizzato tra parenti e spese per il biglietto di
partenza. Accidenti! Il più delle volte le persone che si vorrebbero salutare sono assenti e
intanto si profila la bocca nera della galleria di partenza. Uno stato di agitazione fuori
controllo spinge ad affrettare il passo. C’è chi corre e sbanda, chi mostra la schiena ma
viene risucchiato dal cosiddetto tunnel; chi si alza di qualche metro da terra (corpo astrale?)
e vede il subbuglio che lo circonda; chi si arrabbia per le sciocchezze che a ruota libera
pronunciano i presenti sul suo conto mentre gli vien meno la voce per rispondere picche. E’
proprio un momentaccio.
Altri che hanno seguito tecniche di meditazione orientale vengono abbagliati da una luce
aliena (fari oltre il confine?), e sentono musica extraterrestre irresistibile simile a quella del
pifferaio magico. Sono persone che hanno prenotato la prima classe ma che sul momento
vorrebbero cambiare la data del viaggio.
Marius? Un filantropo che, esponendosi in prima persona, ha disturbato l’Eccellentissimo
per rimettere ordine nelle partenze convulse o sbagliate. Ecco, ora lui finalmente, di fronte
a parenti ed amici convenuti per un saluto fuori tempo. Seduto, con sorriso serafico sul
contenitore lucido e odoroso d’incenso che racchiude il suo corpo, guarda con intensità le
persone che lo hanno amato e pure quelle che gli hanno creato problemi. Alzando la mano
in segno di commiato, ricorda i loro nomi; rivela che il passaggio è stato veloce e indolore e
che lo attendono altre esperienze. Tutti piangono e lui: “Addio. Vi ho aperto la strada dei
saluti. Vi aspetto!” Tra i presenti gran movimento di mani e scongiuri. Però grande il
Marius!
BiBi P.
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SOTER
(missione speciale)
Oltre Andromeda, nell’ammasso aperto Nous, una civiltà costituita da gracili ma
intelligenti creature, stava per dare inizio ad una importante missione di recupero. Si
trattava di una comunità che in tempi lontani, con l’aiuto di alieni provenienti da quello
stesso nucleo di stelle, era approdata su Gunland, nel sistema della gigante blu Igea. Senza
troppi rimpianti avevano lasciato il luogo della loro origine (il pianeta Gheopòlem), posto
stupendo ma scarso di presenze civili e con alto tasso di aggressività belluina. La loro
iniziale speranza era di poter tornare presto alla terra d’origine con opportune soluzioni
biotecniche in grado di migliorare sia i discendenti dei loro antenati, nonché all’occorrenza,
le loro traumatiche relazioni sociali.
Alcuni eventi cosmici, tra cui l’esplosione di una stella del sistema aperto, avevano alterato
la sequenza di passaggi spazio-temporali che a suo tempo avevano favorito il primitivo
esodo. Questo fatto aveva quindi ritardato una tempestiva ed efficace missione di aiuto. Ma
superate le difficoltà e ricorrendo alla fusione di luce e materia oscura, per dare potenza ed
energia ottimale ai motori per il viaggio, mille discendenti a bordo di una enorme
astronave, partirono dunque per la missione “Salvezza” verso Gheopòlem. Quello che
recavano in dono era un’aggiunta biologica importante per migliorare la primigenia elica
genetica. Aggiunta che già per loro, pur indebolendo un poco la forza fisica, aveva dato
innegabili vantaggi cognitivi e un ottimo controllo sugli istinti aggressivi. Inoltre questa
costituiva anche un certo rimedio sul versante dell’immortalità, rendendo possibile una
forma aggiornata di partenogenesi. Il processo si rendeva necessario quando la conoscenza
troppo avanzata, dopo alcune migliaia di fasi temporali, si proiettava alla ricerca di un
supporto fisico diverso e di livello meno ingombrante, lasciando al nuovo venuto l’eredità
cognitiva acquistata in precedenza. In tal modo veniva anche cancellato l’arcaico concetto
del possesso esclusivo su cose e persone, con la trasmissione gratuita e indolore della
vocazione insopprimibile per la conoscenza e la solidarietà in ogni avanzamento e
progresso.
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Quando si viaggia nello spazio profondo, anche per le intelligenze evolute, le sorprese non
mancano mai. I coloni spaziali, pieni di buone intenzioni e alla ricerca delle loro origini,
ebbero a metà viaggio un incontro piuttosto strano e foriero di quanto avrebbero potuto
scoprire in seguito. La loro rotta stava incrociando quella di un’altra struttura spaziale
misteriosa. Furono tentate varie forme di contatto non aggressivo ma quando la vicinanza lo
permise da quella sorta di enorme arca vagante, partì una violenta bordata di energia
distruttiva.
Soter Max, il capitano della missione, sfiorando un sensore, trasformò quell’energia in una
specie di rete paralizzante che rispedì al mittente bloccandone movimenti e altri possibili
attacchi. Fu imposto il contatto galattico e così i coloni scoprirono nella struttura aliena, un
gruppo di loro antenati, tecnicamente progrediti, ma in fuga e in preda ad angoscia
distruttiva.
Si trattava di maschi e femmine di atavica memoria in cerca di nuovi territori da
colonizzare. Li guidava un capo spirituale intransigente che si imponeva sul gruppo come
emanazione fisica del SEC ovvero del Supremo Ente Cosmico.
Il momento del contatto veniva ad inserirsi in un momento drammatico all’interno di quella
comunità. Era in atto un giudizio senza contraddittorio contro elementi rei di aver messo in
dubbio, anzi complottato contro le direttive religiose del capo che si faceva venerare col
titolo di Beatitudine Spaziale.
I malcapitati, uomini e donne considerati irriducibili, stavano per ascoltare la loro condanna
e subire poi il sacrificio della disintegrazione. Tutto quel che restava delle loro energie
andava ad alimentare le ormai scarse riserve dei biomotori dell’arca per proseguire il
viaggio. Sua beatitudine, contando sull’approvazione dell’Ente Supremo, aveva intrapreso
l’avventura nello spazio con la stiva stracarica di esseri dotati di bioenergia. Il compito di
questi era di riprodursi e, sacrificandosi per il bene della comunità, non fare mancare mai il
propellente per il viaggio. Ma tra malattie e scarsità di nutrimento le cose si stavano
mettendo piuttosto male.
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Riti propiziatori erano previsti per i sacrifici normali, ma nel caso in questione si trattava
ipocritamente di sfruttare l’insubordinazione come esempio di empietà da punire nel modo
più severo e utile. Le vittime del processo sommario, debitamente insultate da tutti, stavano
per finire la loro avventura come scorie espulse dai motori, disperdendosi nello spazio,
mentre chi restava levava un inno di ringraziamento all’Ente Supremo così lungimirante
verso i devoti e ossequiosi viaggiatori.
Soter, bloccando quell’imminente sacrificio, si offrì di cedere parte delle proprie
abbondanti riserve di energia in cambio dei condannati, promettendo di scortare tutti gli
altri fino al primo pianeta abitabile. Urla di gioia accolsero quel gesto di aiuto.
Sua beatitudine chiese qualche attimo per collegarsi spiritualmente onde ricevere il parere
del suo dio. Pensò velocemente come realizzare un proficuo atto di pirateria e poi con occhi
languidi diede la sua risposta: “Dio vuole così e così sia!”
Soter ordinò ai suoi di trasferire gli empi insubordinati sulla propria astronave e di rifornire
poi di energia quella di sua Beatitudine. Per prudenza rimaneva sul posto a controllare che
tutto si svolgesse secondo i patti.
All’improvviso una gabbia calò improvvisa, imprigionando Soter e due suoi compagni. Sua
Beatitudine si avvicinò esibendo un ghigno di disprezzo: “Illusi! Contro la forza le buone
intenzioni non contano. Lo stabilisce il primo comandamento del nostro Supremo che dice:
‘Per ogni preda colpite veloci e con l’inganno.’ Abbiamo abbandonato Gheopòlem
applicando questo principio e lasciando dietro di noi una scia di inutili cadaveri . Gente che
da viva mirava ad un grado superiore di civiltà inseguendo il sogno di ottenere una società
perfetta. Idioti! Pretendevano di rinunciare al piacere insopprimibile di predare tutto quanto
potesse capitare a tiro. Egregio capitano, su Gheopòlem abbiamo lasciato solo polvere. Ed
ora, sempre per volere del Supremo, lei e la sua gente siete destinati alla stessa fine.
Costituite un ottimo sacrificio e …” Non terminò la frase.
Un breve batter di ciglia da parte di Soter e la gabbia scomparve, mentre il corpo del
predatore stava svanendo nel nulla. Imprigionata in una sfera di energia, di sua beatitudine
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rimase integra solo la testa con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. I suoi pesanti e preziosi
paludamenti sacri scivolarono giù con irreale lentezza nel silenzioso stupore collettivo.
Appena un attimo e un immenso urlo liberatorio accompagnò l’inaspettata fine del despota
religioso. Si fece avanti un vegliardo, Eliu, che secondo alcuni devoti possedeva il dono
della profezia e chiese umilmente a Soter: “Tu sei giusto. Dacci la luce della tua religione e
noi ne godremo il suo beneficio. Da te che hai poteri speciali chiedo di ottenere l’autorità e
l’onere di nuova guida religiosa.”
Una donna giovane, Susan, si affiancò al nuovo aspirante e a sua volta si propose come
alternativa: “Sono bella e ricca di qualità. Soprattutto sono intelligente. Sarebbe ora di
trasmettere certi compiti nelle mani di un genere più sensibile che sappia valorizzare la vita
e non la distruzione.”
E Soter con un fondo di amara ironia : “La religione deve rendere tutti liberi. Ogni figura
sacra che non rispetta la libertà è inutile e dannosa. E l’Essere supremo non sarà mai suo
complice. Qualsiasi tipo di fede non può mai abbassarsi ad umiliare l’intelligenza a
qualunque genere appartenga. Noi stavamo per recarvi un dono speciale. Rimandiamo
questo dono ad una prossima fase. Ora vi daremo le coordinate per raggiungere il pianeta
Shalom nella costellazione denominata Irene.”
Da un anonimo in prima fila: “Però un dono, essendo ormai orfani della nostra dispotica
guida, sarebbe molto gradito. Siamo pronti a dedicarti inni perenni di ringraziamento se ci
trasmetti un poco della tua sapienza.”
Soter :”Dopo che avrete sostato nei vari porti dell’impegno e della lealtà, incontrerete la
sapienza
lasciando navigare l’intelligenza nel silenzio. Considerando bene quanto
accaduto, credo sia opportuno che prima dobbiate masticare e digerire l’aspro sapore della
pace. Poi vi faremo avere quel dono, ma forse sarà anche superfluo. Addio.”
BiBi P.
13/02/2013
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JUPITER
(Coelum Dei)
Avvolto nella nebbia di tripodi fumanti d’incenso, Jupiter risuona di cantilene e preghiere
di miliardi di voci provenienti dall’universo profondo. Si tratta di un pianeta enorme e
speciale che raccoglie invocazioni e richieste lagnose, petulanti o disperate da individui la
cui civiltà e ancora agli esordi. Si tratta di soggetti dotati di intelligenza instabile e istinti
fuori controllo, bisognosi di un supporto continuo di quella presenza onnicomprensiva che
chiamano Dio.
Per chi volesse individuare tale pianeta tra le costellazioni dovrebbe orientarsi nei paraggi
della Vulpecula ma con scarsa fortuna. C’è un che di mistero che non lo rende accessibile
(a parte le preghiere che vi sono portate dal vento cosmico), se non a pochi fortunati.
Per ognuna delle numerose neociviltà sparse fra i sistemi stellari, solo alcuni individui di
età e provenienza sconosciuta (li chiamano sapienti), hanno facoltà di accedere al
misterioso Jupiter per comunicazioni di speciale importanza. Ogni civiltà nutre la
convinzione di essere unica o superiore e perciò tali presenze devono auto proteggersi dalla
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morbosa curiosità e dai possibili assalti dei soliti personaggi bisognosi di un contatto
privilegiato con l’Entità che regge l’universo.
Tra le varie intelligenze che abitano negli spazi cosmici, la più problematica pare sia quella
del pianeta Arthe. Su Jupiter una vasta zona è riservata ai tripodi di quella variegata
concentrazione di esseri pensanti ma confusi ancora da sogni infantili. Gli abitanti più
evoluti, tanto per essere chiari, nella paura di essere sorpassati da una delle numerose specie
inferiori (le più temute pecore, oche e galline), con tratti di puerile supponenza millantano
rivelazioni inconfutabili così da permettere loro di allungare gli arti prensili su tutto quanto
possa calmare la loro smania di possedere.
I più abili, tramite mistici contatti divini, hanno elaborato una serie di leggi e disposizioni
per rendere più facile e credibile il controllo sul mercato delle ricchezze e delle persone
sparse sul territorio. Naturalmente hanno pilotato le immancabili richieste su due fronti.
Uno a livello locale: per dare seguito ad ogni richiesta, sono necessarie adeguate offerte
anticipate. L’altro prevede l’invio, dopo attento esame delle petizioni, a Jupiter. Lassù, i
vari ierosatrapi, giurano di pagare l’affitto di tripodi speciali che, con l’aroma penetrante
dell’incenso, tengono desta la benevolenza di Dio per eventuali, possibili risposte
favorevoli.
Qualcuno con messaggi più seri ha cercato di correggere questa tendenza ingannevole ed
endemica ma con risultati irrisori. Da quelle parti tutto viene trasformato e fagocitato
dall’inesorabile e ipertrofico appetito dei soliti. L’emulazione inoltre genera di continuo
nuovi pretendenti e scatena di conseguenza gravi scontri di inciviltà tanto che i misteriosi
saggi del posto hanno da poco interrotto il contatto con Jupiter. E abbandonando in segreto
l’insalubre luogo, con l’abile uso delle reti di comunicazione, hanno lasciato un messaggio
chiaro: “Dio è in completo disaccordo con i sistemi rivelati in voga su Arthe. E non
riconosce nessuna norma etica, igienica o sociale promulgata in suo nome. Ognuno impari
a prendersi finalmente delle responsabilità. I tripodi su Jupiter ormai sono spenti. Chi può
abbandoni il pianeta e ne cerchi uno meno empio. Le religioni stanno per divorarsi. Quelle
che non saranno divorate
moriranno per indigestione.”
Questa la situazione in quel
lontano pianeta. I più hanno accolto il messaggio come uno scherzo.
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BiBi P.
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BISOGNO DI FUTURO
Non aver paura della solitudine interiore, per ogni persona in grado di pensare, è la prima
importante tappa per esplorare la vasta ricchezza del silenzio.
Perché il silenzio? Perché il rumore continuo e assordante della vita quotidiana, spesso
senza senso, impedisce la percezione degli impulsi intuitivi e creativi.
La capacità di elaborare questi impulsi costituisce un aspetto non secondario di essere, di
esistere. Soprattutto di scoprire vie prima sconosciute per raggiungere ciò che all’inizio
della solitudine veniva percepito come mancante o assente.
Nel caos frenetico delle compulsive e venali attività umane la prima grande assenza (che in
parte alimenta la paura) è quella di Dio. O meglio da ogni parte si dice che c’è ma in pratica
nessuno ne sente la presenza. Infatti mi gli atti distruttivi operati dall'uomo un lamentoso
ritornello chiama in causa l'assenza di Dio.
Questa assenza pesa soprattutto perché a garantirne la presenza ci sono invece le grandi
chiese, le religioni più importanti: esiste una provvidenza che vede e predispone là dove
l’occhio umano non è in grado di vedere o vede male.
Il difetto più grande di queste strutture religiose sta nel fatto che accumulano potenza a
scapito del dio che predicano. Più è grande il potere delle religioni e più risulta illusoria e
astratta la potenza di Dio. In pratica Dio viene messo sotto una campana di vetro. Certo non
si può e non si deve dire che è mummificato ma di sicuro gli manca l’aria. Questo avviene
semplicemente perché ogni potere religioso (i vertici), proietta su Dio la propria
giustificazione di potere per alimentare interessi economici, approfittando delle paure di
altri esseri più deboli. Oggi ci sono ancora religioni importanti che fondano la loro potenza
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sulla magia del divino. Ed è su tale linea che a volte Dio viene sollecitato a parlare
mediante i profeti. La parola profetica può dare una frustata energetica o costituire una
trappola senza uscite. Questo perché su ogni rivelazione le impronte sono due: una nitida
ascrivibile alla passione che l’animo sincero sente per Dio; l’altra velata e confusa che si
può adattare alle convenienze della grettezza umana. Visto come va la storia da qualche
millennio, sembra assodato che la presunzione umana al potere proclami continuamente
Dio e le sue verità e ne usurpi tranquillamente l’identità.
Contro questa tentazione perenne e inguaribile qualche parola rivelata, consona cioè alle
più vere aspirazioni umane, pare resistere alle varie manipolazioni, forse perché retaggio di
esperienze collettive antichissime difficilmente cancellabili. La profezia guarda al futuro. E
dal futuro si attende una risposta.
La novità per ogni gruppo religioso si prefigura perciò come un "dopo". Il dopo presuppone
che il nuovo, per essere tale, dovrà liberarsi definitivamente da tutte le dispute, divisioni,
guerre e ipocrisie accumulate per conto dell'essere supremo. Chi avrà millantato di
possedere la verità dovrà fare molti passi indietro in virtù di quelle parole che vengono
proclamate da un lontano passato e che dal futuro sono in procinto di tornare per rendere
giustizia a chi ha sete di Dio.
E i templi innalzati a gloria di Dio? Saranno inutili. Verranno eliminati.
Per chi ha riposto le sue speranze in Gesù di Nazaret, una risposta chiara su tale argomento
viene dalla Rivelazione o Apocalisse dell’apostolo Giovanni. Nella Nuova Gerusalemme
che dal futuro apparirà e scenderà dal cielo a coprire le brutture e il vecchiume della terra,
non ci sarà posto per nessun tempio, " ... perché il Signore l'onnipotente e l’Agnello sono il
suo tempio."(Ap. 21,22)
Questa la prima grande speranza che caratterizza il dopo. Presenze viventi al posto di pietre
innalzate per tenere in ombra la vitalità divina.
E non ci sarà neppure l’alibi per chi nonostante il nuovo assetto si ostinerà a chiamare il
Signore con il suo vecchio nome. Non avrà risposta perché anche il Nome sarà nuovo. (Ap.
3,12) E la novità non si ferma. Dice infatti l'Agnello: "Faccio nuove tutte le cose." (Ap.
21,5) Questa la seconda grande speranza. Un potente soffio vitale che non rianima un corpo
decrepito ma ne vivifica un altro totalmente rinnovato. Il vecchio modello, come si dice
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oggi, verrà rottamato senza alcuna nostalgia. Tutta la sapienza umana finalizzata a costruire
e distruggere si ritroverà esausta su mucchi di resti obsoleti e in disfacimento. Le
aberrazioni prodotte dagli arcaici sistemi saranno preda del fuoco insieme alla morte e
all'inferno.(Ap. 20,14)
Dalle speranze alla grande attesa. Quando? Come e cosa attendere?
Sulla prima domanda le stime temporali risentono di valutazioni relative e non coordinate
esattamente sui tempi limitati della vita terrestre. Stando al prologo della Rivelazione le
parole profetiche vanno ascoltate e messe in pratica con attenzione e fedeltà "perché il
tempo è vicino." (Ap. 1,3) Per ogni vita singola il termine è ingannevole. Per la storia della
terra già i tempi sono diversi e dilatati e lo sono ancor di più se inseriti nel contesto
dell'universo.
Cosa accadrà alle varie comunità di credenti? Alcune saranno premiate in virtù della loro
vigilanza e attaccamento alla parola. Questo si evidenzia nelle lettere iniziali della
Rivelazione inviate alle sette chiese della Frigia (Asia Minore) rappresentate ciascuna da un
angelo. Di particolare interesse è quella inviata all'angelo della chiesa di Laodicea. In quel
testo è indicato ciò che indispone la pazienza e le attese dell'Agnello: "Così parla l'Amen...
il Principio della creazione di Dio: 'Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo.
Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto
per vomitarti dalla mia bocca'... "(Ap. 3,14 ssg.) Il testo lascia qualche stupore. C'è forse
mancanza d'amore? L'amore c'è ma l'obiettivo è sbagliato e l'Amen rivela subito ciò di cui è
preda l'anima di quella comunità. "Tu dici: ‘Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno
di nulla’, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo." (Ap.
3,17) Per il Signore la chiesa attaccata alle ricchezze ha abbassato l'obiettivo della propria
speranza, è indigeribile e la vomita. Da questa indicazione ognuno può confrontarsi con la
sua comunità e capire se ci sono le condizioni per essere vomitato.
E per coloro che non sono tiepidi? Intanto la possibilità di riavvicinarsi all'albero della vita,
quello precluso dopo il fattaccio del paradiso terrestre. (Ap. 22,2) Altre indicazioni non
possono essere che imprecise altrimenti la novità non sarebbe più tale. Per ora solo Dio può
vedere ciò che sarà per quelli che lo attendono.
"Occhio non vide... quello che hai preparato per coloro che ti aspettano." (Is. 64,4)
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Ma il tempo della novità, occorre ripeterlo, per ogni uomo è scandito dall'ansia che divorai
giorni e le notti e questo, in certo modo, vale anche per le altre creature soggette al ciclo
breve della vita. Già. L’uomo e le altre creature sono accomunate da una medesima attesa.
(Ap. 5,13)
Come dice bene Paolo nella sua epistola ai Romani la sofferenza dell'uomo va di pari passo
con la sofferenza degli altri esseri viventi: "La creazione stessa attende con impazienza, la
rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù
della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti
che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola,
ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo." (Rom. 8,19-23; anche Ebrei 9,23)
Pare quasi di capire che su questa terra sia inevitabilmente raccolta una quantità di creature
destinate da tempi lontanissimi alla sofferenza e alla lotta per la sopravvivenza a cui
comunque fa sempre da sfondo la morte. In un posto per molti versi bello e piacevole paura
e violenza non danno tregua, rendendo la vita dell'uomo simile a quell’inferno tanto
minacciato e temuto. Forse quando l’Apocalisse dice che gli Inferi (luogo e simbolo del
potere della morte), verranno bruciati nello stagno di fuoco si riferisce proprio a questa
situazione in cui il male distrugge sistematicamente ogni momento felice e chiude alla
speranza qualunque spiraglio di luce. La visione profetica riapre il discorso. "Il mare
restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli Inferi resero i morti da loro custoditi e
ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello
stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel
libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco." (Ap. 20,13-15)
Anche nella seconda epistola attribuita all'apostolo Pietro, tanto sui tempi quanto sulle
modalità della trasformazione o rinnovamento finale, le considerazioni sono inquietanti e si
aggiungano alle sofferenze adombrate da Paolo nelle doglie del parto. Anzi la nascita della
novità deve essere preceduta dal dissolvimento delle vecchie realtà nel calore distruttivo del
fuoco per fare spazio al regno della giustizia:
" ... davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo... Il
giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi
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consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta... E poi,
secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile
dimora la giustizia... " (2 Ptr. 3,8,10,13).
A questo testo, per secoli considerato minaccioso e catastrofico, oggi la scienza affianca
una teoria che, pur non essendo rassicurante, segue comunque una ipotesi scientifica. Il sole
del nostro sistema, al termine del suo ciclo si trasforma ed esplode in una fase parossistica
in cui la sua corona di fuoco arriva a consumare irrimediabilmente la terra. Soluzione
terribile.
A parte il problema del giudizio finale, dove si sposta il confine di un cielo nuovo a
protezione di una nuova terra? In tanta incertezza almeno una notizia buona o almeno
un'altra speranza: la giustizia che nella vecchia storia ha sempre avuto vita grama e stentata,
dal futuro si affaccia stabile e sicura secondo la promessa veritiera di Gesù. L’altra notizia
non buona ma da tenere in considerazione è la questione del tempo e dei modi che
accompagneranno il dissolvimento finale. Intanto il giorno del Signore verrà come un
"ladro", al di fuori di ogni calcolo umano. E il tipo di distruzione non sarà più pilotato
dall'uomo ma imputabile all'azione fragorosa degli elementi celesti. Di fronte alle
incertezze e alle paure apocalittiche il credente non può che rafforzare la sua convivenza
comunitaria, attuando con mezzi impropri' e goffamente le indicazioni che provengono
dalla Rivelazione. Come dice Paolo scrivendo agli Efesini dobbiamo superare le paure
sapendo che: "Dio è capace di realizzare infinitamente ben oltre ciò che noi possiamo
aspettarci o immaginare." (Ef. 3,20) Per ora infatti "Ancora non è manifesto ciò che
saremo."(1 Giov. 3,2)
Comunque qualche altra cosa dalle profezie trapela. Ancora Giovanni, nella parte finale
della sua profezia, da un quadro carico di promesse: "Vidi poi un nuovo cielo e una nuova
terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche
la città Santa, la Nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio,... Udii allora una voce
potente che usciva dal trono:
‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini
Egli dimorerà tra loro
ed essi saranno il suo popolo
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ed egli sarà il Dio-con-loro.
E tergerà ogni lacrima dai loro occhi,
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate.”
E colui che sedeva sul trono disse: ‘Ecco,io faccio nuove tutte le cose e soggiunse’: ‘Scrivi,
perché queste parole sono certe e veraci’
Ecco sono compiute.
Io sono l'Alfa e l'Omega,
il Principio e la Fine... ‘ “(Ap. 21,1-6)
La novità che avanza dal futuro porterà alle creature un corpo nuovo , un nuovo ambiente e
uno stato d'animo finalmente liberato dall'ansia. La curiosità umana sulla nuova vita già
dilagava nelle prime comunità di credenti. Paolo, per soddisfare le domande della chiesa di
Corinto su tale argomento, abbozza una spiegazione in parte dedotta dalla natura e in parte
dalla potenza fornita dallo Spirito di Dio: "... ciò che tu semini non prende vita se prima
non muore... E Dio gli da un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo...
Così anche la resurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si
semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un
corpo animale, risorge un corpo spirituale... E come abbiamo portato l’immagine dell'uomo
di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste... "(1 Cor. 15,36-38, 42-43, 49)
Bastano i testi citati per rendersi conto che l’uomo ha una fame estrema di futuro. Non
quello effimero che non lo sazia mai ma del futuro che lo liberi dall'angoscia di perdere la
propria identità e la forza del proprio pensare. Nessun tentativo è in grado, pur con tutto
l'aiuto della ragione, di eliminare questo bisogno, perché quel tipo di futuro è l'unico capace
di rendere relative tutte le sconfitte accumulate e dare a ciascuno la forza necessaria per
completare la proprio esperienza di vita.
In ogni previsione profetica, il bisogno di non morire è sorretto da una certezza che
potrebbe essere illusoria ma che in alternativa potrebbe giacere nella memoria più antica,
quasi una traccia di cose già avvenute altrove. Cose ed esseri che hanno conosciuto la
novità,
che
l'hanno
dolorosamente
persa,
che
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stanno
accumulando
sempre
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drammaticamente altre esperienze in attesa di riagganciare il nuovo che da qualche parte li
attende.
Che dire delle religioni e dei loro apparati legislativi e impositivi? Per molti vanno bene
così. Ci sono dei doveri da compiere e un premio a fine corsa.
Invece la speranza del nuovo implica l'ascolto della coscienza, l’uso dell’introspezione e
dell’intelligenza e questo mette all'angolo l’invadenza delle varie chiese, la loro esclusiva
pretesa di interpretare il pensiero divino. Per tornare alle riflessioni iniziali si può anche
pensare che più una chiesa è debole (di potere) più le coscienze sono in grado di percepire
la novità che viene da Dio.
Roma,10/6/2005
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Bruno P.B.
MARATONA DELL'ANIMA
L’anima essendo la forza dell’intelligenza non può mai scendere oltre il non essere. Però
appena ha il coraggio di salire contemplando, ritrova pienamente se stessa e questo
significa che sta per rispecchiarsi nell'Assoluto. In altre parole passa dallo stato di copia alla
congiunzione della sua vera essenza originale. Arriva cioè alla fine del suo viaggio. Se la
contemplazione si interrompe, il cammino dell’essere può proseguire comunque ricorrendo
alle virtù che scopre nel proprio mondo interiore; recuperando il contatto animaintelligenza si riconquista la saggezza e quindi riprendere il percorso che porta all’Assoluto:
"Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti cose di
quaggiù, via che non si compiace più delle cose terrene, fuga da solo a solo."(Plotino,
Enneadi VI 9,11 - p.1363)
Ma è una fuga piena di imprevisti, di ostacoli e richiami dei sensi che attingono energie
nascoste pur di ingoiare luce e stimoli, tutto per non lasciar morire gli ultimi improrogabili
desideri. La vita si alimenta nella tensione verso cose che ancora non possiede. Sicuramente
appena conquistate non appartengono più all'attesa ma subito la vita regala altro spazio per
ulteriori conquiste.
Una catena a cui si aggiungono sempre nuovi anelli e la fuga non è mai libera e solitaria.
L’Assoluto vuole l'esclusiva e si propone come traguardo. Verso di lui convergono tutti
coloro che attendono la conferma della propria immortalità. Ma la trappola insidiosa delle
proprie caratteristiche materiali non sono esattamente un regalo della divinità. Si rende
necessaria una paziente e spesso lunga ascesi.
Il più delle volte la fuga risulta tardiva in quanto si attende che i sensi abbiano perso molte
loro velleità di contatti così che la mente possa superare meglio gli ostacoli. Capita poi a
sorpresa che oltre ogni imposizione religiosa esteriore nascano forme di meditazionepreghiera del tutto eccezionali. Nel riposo del corpo può rivelarsi uno stato molto
particolare in cui il saggio assapora la veglia dell’anima con occhi che si aprono alla
visione; e nel silenzio gode della gestazione del bene che il Logos gli infonde. Sotto
l’ispirazione del soffio divino della verità l’anima pronuncia la sua benedizione:"Santo è
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Dio, Padre di tutti gli esseri, Santo è Dio, il cui volere è compiuto dalle sue Potenze; Santo
è Dio che vuole essere conosciuto e che è conosciuto dai suoi; Santo sei Tu, che con il
Logos hai costituito gli esseri; Santo sei Tu, di cui ogni natura per sua natura, è immagine;
Santo sei Tu, al quale la Natura non ha dato forma; Santo sei Tu, che sei più forte di ogni
potenza; Santo sei Tu, che sei maggiore di ogni eccellenza; Santo sei Tu, che sei superiore
alle lodi. Ricevi le offerte sacrificali di parole provenienti da un’anima pura e da un cuore
che tende verso di te, o indicibile, o inesprimibile, o tu che puoi essere pronunciato soltanto
nel silenzio." (Ermete Trismegisto in "Pimandro", p.90-91) Per trovare il sentiero di Dio
serve soltanto il silenzio. Il silenzio si apre anche all’accoglienza delle rivelazioni di altri
che non pretendono il marchio di proprietà.
Roma, 31/12/2009
Bruno P.B.
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FEDE E IPERSPAZIO
(La Terra dei Giusti)
Dalle pietre cariche di magia ai miti e poi agli dei che intervengono nella storia dell’uomo,
l’intelligenza è giunta a scoprire e a valorizzare la divinità, ponendola al di sopra o al di là
del sensibile e mantenendosi tuttavia a stretto contatto con essa. Facendo tesoro di molte
tradizioni orali e in seguito di quelle scritte l'uomo ha trovato un filone originale per
distinguersi e anche per confrontarsi con Dio. Un Dio dotato di enorme potere creativo,
superiore e diverso da tutte le espressioni della materia, ma strettamente legato alla creatura
intelligente, capace questa di riconoscerlo e in grado di entrare in sintonia con lui.
Tolta di mezzo ogni ingannevole immagine di Dio, l’uomo ha poi dovuto compensare
questa mancanza attingendo alle proprie qualità e ispirazioni adattandole a Dio. Operazione
molto imperfetta, a tratti efficace ma non sufficiente a giustificare pienamente la superiorità
e la perfezione di Dio. Inconsciamente forse si cela in questa operazione la volontà di
permettere all'occorrenza una reciproca invasione di campo. Ne risulta un rapporto
sbilanciato difficilmente correggibile almeno su questa terra, dove il potere di Dio deve
arginare la scorrettezza umana tesa a mantenere il sopravvento sia in ambito sociale che in
quello religioso.
Ma già dai tempi più antichi della storia biblica viene ipotizzata una via di fuga costituita
dall'esistenza di uno spazio diverso dove Dio, l'uomo e la giustizia trovano un terreno
adatto per una convivenza senza conflitti.
Ognuno legge la Bibbia con la libertà che gli permette il proprio grado di fede. Se poi il
lettore non è credente la libertà gli concede anche di essere scettico rispetto alla rivelazione
a cui altri si affidano. Ma le figure bibliche a cui si farà cenno lasciano spazio per
interrogativi interessanti anche per chi non crede.
Stando alle indicazioni delle sacre scritture esiste un altro luogo o forse più luoghi nelle
profondità dello spazio, dove esseri terrestri vivono ormai da secoli da millenni. Sono
persone accomunate da particolari connotazioni che la parola rivelata si premura di
precisare. Ci viene detto poco o nulla invece sulla regione dello spazio dove queste persone
dimorano. Ci é riferito soltanto che nei vari corsi della storia umana alcuni individui non
hanno conosciuto la morte. Che amavano talmente Dio e i suoi precetti che Dio stesso li ha
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prelevati vivi e vegeti da questo mondo per trasferirli in un altro più sicuro e inaccessibile
dove le vibrazioni tra il divino e l'umano, senza contaminazioni, si potessero sentire in
perfetta armonia.
Esaminando i testi non pare proprio si tratti di racconti allegorici. Vengono usati termini
concreti per azioni altrettanto concrete. Come già detto, le parole rivelate si possono
leggere con atteggiamenti diversi. Con una visione laica e critica e allora quello che si legge
assume un valore molto relativo. Oppure con una disposizione di fede: di conseguenza in
questa ottica viene in aiuto il riferimento allo spirito dell'uomo che ritorna a Dio o ancora la
richiesta di un atto di fede puro e semplice per cui ciò che la rivelazione propone va
accettato così come viene enunciato.
L’apostolo Paolo, nella lettera agli Ebrei, esaltando la fede dei Patriarchi ricorda con molta
serietà l'epigono di questi uomini strappati alla terra da parte di Dio. ENOC, il settimo
patriarca nella discendenza da Adamo (Luca 3,37), così viene ricordato da Paolo: "Per fede
Enoc fu trasportato via in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più perché Dio lo
aveva portato via. Prima infatti di essere trasportato via ricevette la testimonianza di essere
gradito a Dio. Senza la fede però è impossibile essergli graditi." (Ebrei, 11,5)
Di fronte a un simile testo le domande che si accavallano sono più di una e le risposte
affondano in possibili ipotesi che non riguardano semplicemente la fede e lo spirito ma
mettono in gioco l'affettività divina e la sua possibile commistione con la fisicità
emozionale dell'uomo.
Paolo del resto riprendeva come autentica una tradizione antichissima corroborata da una
nota contenuta nel racconto del libro del Genesi in poche righe: "L’intera vita di Enoch fu
di trecentosessantacinque anni. Poi Enoch camminò con Dio. E non fu più perché Dio
l'aveva preso con sé." (Genesi 5,24). Nella sintesi stringata di queste frasi ci sono due
indicazioni: 'camminare con Dio' si può leggere anche in senso figurato ma l'atto di
prendere con se una persona, nel contesto vetero testamentario significa stare fisicamente
con l'entità o essere che ha compiuto questo tipo di azione. Il Dio della collera, delle
punizioni per le infedeltà umane, di fronte all'amore che qualche uomo giusto nutre per Lui
pare quasi emozionarsi, accendersi di passione. Emerge un aspetto femminile dolce e
geloso tipico del sentimento umano. Invertendo i ruoli tradizionali a noi noti Dio "rapisce"
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la creatura che ama.
Antropomorfismo certo. Ma la spiegazione risulta troppo semplice per essere esauriente.
Tra Dio e uomo il legame coinvolge l'esistere e lo stesso atto creativo. L' intima
connessione tra le due esistenze costringe la più forte a conservare un tesoro irrinunciabile.
Dio 'rapisce' colui che ama e lo fa per suscitare altre adesioni. Nel libro del "Siracide"
infatti si legge: "Enoc piacque al Signore e fu rapito, esempio istruttivo per tutte le
generazioni."(44,16) Che Dio senta di continuo l'esigenza dell'amore dell'uomo giusto e ne
sia particolarmente attratto, lo si può constatare anche da un altro brano nel libro della
"Sapienza": "...Divenuto caro a Dio, fu amato da lui, e poiché viveva fra peccatori, fu
trasferito, fu rapito perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l'inganno non ne
rovinasse l’animo... La sua anima fu gradita al Signore; perciò Egli lo tolse in fretta da un
ambiente malvagio." (Sapienza 4,10)
C’è dunque uno spazio in cui Dio trasporta le persone che ama. Le leggi che regolano la
vita sulla terra in quel luogo non hanno valore. Mancano infatti malvagità e malizia, astuzia
e peccato. Oggetto di amore sono però solo uomini maschi.
Per avere almeno una vaga idea di come possano avvenire i rapimenti divini ci viene in
aiuto la vicenda del profeta Elia, rapito a sua volta dopo un preavviso di cui erano a
conoscenza varie persone, tra queste il suo discepolo Eliseo. "Mentre camminavano
conversando (Ella ed Eliseo) ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro
due. Elia salì nel turbine verso il cielo." (2 RE, 2,11) Il rapimento e la conservazione dei
giusti da parte di Dio racchiude anche un intento escatologico. Infatti tanto per Enoch (ep.
di Giuda 1,14) che per Elia ci sarà un ritorno per giudicare gli empi e i malvagi. Così il
"Siracide": 'Fosti assunto in un turbine di fioco, su un carro di cavalli di fuoco, designato a
rimproverare i tempi futuri, per placare l'ira prima che divampi..."(Sir. 48,9-10) E ancora in
Malachia: "-Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del
Signore..." (Mal. 3,23) Di questo ritorno se ne accenna anche nel Nuovo testamento, nel
Vangelo di Matteo: "Allora i discepoli gli domandarono: "Perché dunque gli Scribi dicono
che prima deve venire Elia?" Ed egli rispose: "Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa."(Mt.
17,11)
Nel "Quarto Libro di Esdra", un testo considerato apocrifo ma ritenuto sacro e ispirato
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almeno nei primi secoli del cristianesimo, si legge ancora a proposito di giusti e di giudizio
finale: "Allora compariranno gli uomini che un tempo sono stati rapiti in cielo, che fin dalla
loro nascita non hanno assaggiato la morte." (Gli Apocrifi, Ed. Piemme, 2004, p.311-312)
Anche ad Esdra toccherà la sorte di quei giusti, così rivela lo spirito che gli descrive i tempi
che precederanno il giudizio. "Ma tu verrai rapito dagli uomini e da allora in poi resterai
con mio figlio e con tutti i tuoi simili finché i tempi non finiranno ( ... ) Allora Esdra fu
rapito in cielo e fu accolto nel luogo ove stanno i suoi pari." ("Gli Apocrifi", ed. Piemme, p.
339 e 341). Per sapere qualcosa di più sul luogo destinato ai giusti bisogna affidarsi ad un
altro testo apocrifo: il "Libro Etiopico di Enoc".
Anche in questo caso visioni apocalittiche vetero testamentarie (sec. II-I a.C.) con
commistioni posteriori di elementi cristiani, confermano la credenza di un luogo
privilegiato in cui dimorano i giusti scelti da Dio. Enoc racconta ciò che vede e anche ciò
che riguarda la sua persona: "E dopo di ciò il nome di Enoc fa esaltato durante la sua vita
dagli abitanti della terra (... ) Il suo nome fu sollevato sul carro degli spiriti e tra di loro
scomparve.
Da quel giorno io non vengo più enumerato tra di loro, ed Egli mi pose tra due regioni
celesti, tra il nord e l'ovest, là dove gli angeli presero le corde per misurarmi il luogo degli
eletti." (Libro etiopico di Enoc", in "Gli Apocrifi", ed. Piemme, p. 390). Il nome nella
cultura antica era sinonimo di persona. Enoc dunque su un carro particolare viene
trasportato in una regione dello spazio posta tra settentrione e occidente. Di questo spazio
abbiamo una ulteriore precisazione che però è senza coordinate celesti: "Allora lo spirito
rapì Enoc nel cielo dei cieli e io vidi là nel mezzo di quella luce un edificio di pietre di
cristallo e tra quelle pietre lingue di fuoco vivente. "("Libro Etiopico di Enoc", (ritenuto
sacro dalla chiesa Copta), in "Gli Apocrifi", ed. Piemme, a cura di E. Weidinger, p. 391).
Di conseguenza m quel determinato spazio esiste un ipercielo dove i giusti godono di una
iperprotezione.
Non si può a questo punto omettere di ricordare la figura di Melchisedek, sacerdote
cananeo al tempo delle vicende del patriarca Abramo (cfr. Gen. 14,17-20 e Sal.109.4). S.
Paolo nella lettera agli Ebrei ne fa l'epigono del compimento della perfezione sacerdotale
operata da Cristo. Così lo ricorda S. Paolo: " Questo Melchisedek infatti, re di Salem,
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sacerdote del Dio Altissimo andò incontro ad Abramo e lo benedisse; a lui Abramo diede la
decima di ogni cosa e il suo nome tradotto significa re di giustizia, e quindi anche re di
Salem, cioè re di pace. Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio
di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno." (Ebr.
7,1-4)
Di fronte a tali affermazioni c'è da rimanere perlomeno sbalorditi. Il messaggio che vuoi
tramandare l'apostolo Paolo però è lampante. Dio sceglie il suo sacerdote al di sopra delle
parti, delle leggi e delle convenienze sociali, ne fa un soggetto speciale al di fuori del tempo
e dello spazio. Non si tratta comunque di una semplice figura simbolica; quel tipo di
sacerdote è vivo, prototipo del nuovo sacerdote che, è Cristo. Le conseguenze si riversano
perciò sul vecchio sistema sacerdotale. La classe dei Leviti, quella della legge mosaica, e
superata. Abramo a suo tempo vide e onorò in Melchisedek la perfezione di Dio che si
ergeva sopra ogni limite di appartenenza o imposizione legislativa. I leviti riscuotevano le
decime di ogni guadagno in quanto esseri mortali; nel caso di Melchisedek, ancora prima
che nascesse la classe sacerdotale1e riscuote uno di cui si attesta che vive." (Ebr. 6.8)
Della dimora di Melchisedek l'apostolo Paolo non dice nulla ma resta il profondo mistero di
questa figura senza genealogia ma vivente ed eterno (in senso reale) nel suo sacerdozio. Dai
Vangeli abbiamo comunque una indicazione di come e dove viene esercitato il sacerdozio
dallo stesso Gesù, divenuto nuovo sacerdote secondo la maniera di Melchisedek.
Gesù risorto, dopo la discesa agli inferi, rivestito di gloria, ritorna al cielo in uno spazio che
gli appartiene di diritto: "Gesù... fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio (Mc. 16,19).
Luca negli "Atti degli Apostoli" dice qualcosa di più. Dopo ultime raccomandazioni ai suoi
discepoli: " Gesù ... fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro
sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo, mentre egli se ne andava, ecco due uomini
in bianche vesti si presentarono a loro: "Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?
Questo Gesù che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo
in cui l'avete visto andare in cielo." (Atti 1,9 ss.) La stessa cosa è ribadita dall'apostolo
Giovanni: "Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il figlio dell'uomo che è disceso
dal cielo."(Gv. 3,13 e 6,38)
Sappiamo dai testi biblici già citati che le cose non stanno esattamente così ma è certo che
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il doppio percorso di discesa e salita con uno scopo salvifico appartiene solo a Cristo. Per
concludere, l'epistola di S. Paolo agli Efesini in cui spiega il motivo di quel doppio
movimento: "Ma che significa la parola ascese se non che prima discese quaggiù sulla
terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire
tutte le cose." (Ef. 4,9-10) Anche in questo caso viene citato un supercielo. Le domande
continuano ad essere molte. Una risposta almeno balza evidente alla mente: nella coscienza
intima dell'uomo giace una insopprimibile fede-speranza di spazi infiniti, e desiderio di
ribellione ad una costrizione terrena che mortifica l'enorme voglia di libertà. Ma in primo
luogo l’Infinito è dentro l'uomo, gli appartiene dalla notte dei tempi. In questo caso per
inoltrarsi negli spazi sconfinati non occorre un carro di fuoco ma disposizione profonda alla
meditazione.
La fede, requisito per piacere a Dio, non è sorretta dai dogmi ma dalla ricerca continua e
non sempre gratificante dei segnali divini. Dice ancora l'apostolo Paolo: "La fede è sostanza
delle cose che si sperano e base per indagare quelle che non si vedono." (Ebr. 11,1) La
speranza nutre l’indagine, e il dubbio tiene in vita la fede.
Roma, 22/4/2005
Bruno P.B.
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L'AMBIVALENZA DEL SILENZIO
(La parola e il silenzio)
Quando Dio parla, ci ricorda il salmista, " la terra, sbigottita, tace." (Sal. 75,9)
Oppure come dice Sofonia, se il Signore sta per emettere la sua definitiva sentenza:
"Silenzio alla presenza del Signore Dio." (Sof 1,7)
Nel trasmettere il suo messaggio Dio richiede silenzio e attenzione. Dopo tocca all'uomo
diffondere correttamente la parola di Dio. Ma pare che da tempo immemorabile e fino ad
oggi, sia in voga il gioco delle tre carte. La parola vincente di Dio resta molte volte
intrappolata nelle mani di chi si assume per le strade del mondo il compito lucroso di
trasmetterla e all'occorrenza, di travisarla o addomesticarla per fini personali o per interesse
di gruppi privilegiati. A volte anche di tacerla.
Oggi però siamo sommersi di messaggi. I mezzi di comunicazione rovesciano addosso agli
ascoltatori milioni di parole inutili, fuorvianti, stupide e ipocrite. Tutti coloro che smerciano
prodotti disparati, anche la felicità religiosa, non si chiedono se le parole possono toccare lo
spirito o la mente di chi ascolta, ma solo se le parole possono sbalordire chi ascolta per
indurlo con irrefrenabile curiosità a comprare. Anche le varie comunità di credenti, sempre
con le migliori intenzioni, hanno fatto della predicazione uno strumento così ben lubrificato
che le parole scorrono senza fermarsi sui reali problemi della gente. Già, la gente: ascolta
migliaia di parole che sembrano tutte vere o verosimili ma non ha la possibilità di
interloquire con chi parla o impone asetticamente il prodotto, vile o divino che sia.
Di fronte a questa marea per molti non resta che l'isola del silenzio per una o più pause di
riflessione. Come suggeriva Qoélet, c'è " un tempo per tacere e un tempo per parlare."(3,7)
E comunque come avverte il Siracide non sempre il silenzio ha un valore contemplativo o
di saggezza: "C'è chi tace ed è ritenuto saggio, e c'è chi è odiato per la sua loquacità. C'è chi
tace perché non sa che cosa rispondere, e c'é chi tace perché conosce il momento propizio.
L'uomo saggio sta zitto fino al momento opportuno. "(S ffi. 20,6-7) E a scanso di brutte
figure aggiunge: "Meglio scivolare sul pavimento che con la Imigua."(Sir. 20,18) Questi
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consigli valevano a quel tempo e valgono ancora più oggi con l'inflazione della parola. Lo
stordimento però è talmente forte che nessuno li ascolterebbe tanto sono lontani dagli
interessi dei comunicatoci. Alla parola che dilaga quale silenzio come difesa?
L'uomo, nella sua memoria più antica, porta impresse le diverse valenze del silenzio.
Quando Caino offre a Dio i frutti della terra e il Signore mostra invece di gradire gli agnelli
di suo fratello Abele, ci troviamo di fronte ad un primo esempio irritante e negativo di
silenzio. Quello di Caino è un mutismo generato dalla depressione e dall'odio. '11 Signore
gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato
e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: 'Perché sei irritato e perché è
abbattuto il tuo volto? Se agisci bene non dovrai forse tenere alzato il tuo volto? Ma se non
agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta." Pizzicato in questo modo Caino non
risponde e incassa. Con una scusa invita in campagna il fratello e lo uccide. (Gen. 4,4 -7)
Sempre drammatico ma carico di speranza il silenzio che accompagna Noé e la fine del
diluvio. La veemenza delle acque ha cancellato la prepotente brutalità umana coinvolgendo
anche le altre creature. Il silenzio aleggia intorno all'arca dei superstiti .
dà uúà féritòià p òs-s-ibili sèg-ni es mi
-senza avere spos
Nóè scruta te ' di Vita ri ià. Manda più volte esploratori alati (corvo e colomba), in cerca di
indizi vitali. La prima "parola" gli giunge sotto forma di un rametto di olivo riportato dalla
colomba. E' una parola per gli occhi che, nella desolazione operata dal diluvio, vale come
un grido lìberatorìo di gìoìa- (cfr. Gen. 8,10)
Tra parola e silenzio ci sono somiglianze e connivenze. A questo proposito ancora la
riflessione del Siracide: " ... Unica sia la tua parola. Sii pronto nell'ascoltare, lento nel
proferire una risposta... Nel parlare ci può essere onore e disonore; la lingua dell'uomo è la
sua rovina." (Sir. 5,11 ssg.) E dai Proverbi: "Se ti sei esaltato per stoltezza e se poi hai
riflettuto, metti una mano sulla bocca... "(Prov. 30,32)
Anche il silenzio si pone sullo stesso binario: può passare dalla saggezza e dalla riflessione
alla vigliaccheria e all'indifferenza. Nei momenti più tragici della storia un certo tipo dì
silenzio sia ìn alto (Dio) che ìn basso (crudeltà umana), è sinonimo dì sofferenza senza
senso. La metafisica si dissocia dalla realtà fisica. Ognuno va per la sua strada in attesa di
un ipotetico "poi" sempre in ritardo sui disastri. Può anche essere che i disegni di chi sta in
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alto abbiano un senso, ma la parte più debole è costretta solo a subire la sofferenza. Se però
l'uomo accetta di essere responsabile dei suoi silenzi nocivi spunta allora un'altra
considerazione, vale a dire il confronto tra chi infligge un male e chi lo assume per
rivelarne tutta la nauseante crudeltà e metterlo all'angolo. La Bibbia ha dei passi
significativi a questo proposito anche se c'è subito da aggiungere che l'uomo, essendo di
dura cervice, non si accontenta mai di un esempio solo. Da Isaia parole pregnanti sul "servo
di Dio": Non ha apparenza ne bellezza per attirare i nostri sguardi... Eppure egli si è
caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori... per le sue piaghe noi siamo
stati guariti. "(Is. 53,2-5) Questa citazione ci porta a considerare la figura di Gesù di
Nazaret e la narrazione, tra parole scarne e silenzio di morte, della sua passione. Così
Matteo: "Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le
tre, Gesù grido a gran voce: 'Elì,Elì, lama sabactàni', che significa :'Dio mio, Dio mio
perché mi hai abbandonato? Udendo questo alcuni dei presenti dicevano: 'Costui chiama
Elia.' E subito uno di loro corse a prendere una spugna e imbevutala di aceto la fissò su una
canna e così gli dava da bere. Altri dicev-ano:'Lascia vediamo se viene Elia a salvarlo.' E
Gesù emesso un alto grido spirò. "(Mat. 27,45-5 0) Poi, nel muto stupore di questa morte
ingiusta, "il velo del Tempio si squarciò m due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce
si spezzarono, i sepolcri si aprirono..."(Mat. 27,51-52) Incisiva descrizione: c'è l'abbandono
di riferimenti sicuri (Dio), la terra che si ribella e gli uomini in preda all'ignoranza e alla
stupidità. Aleggia un forte pathos nel fissare 1'attìíno in cui il silenzio, complice la morte. si
libera con violenza della parola. Come sottofondo solo commenti senza senso.
Eppure, prima di questo drammatico epilogo, le intenzioni erano ottime e ben suffragate
dall'alto. Parole brevi e fatti concreti: '11 vostro parlare sia sì, sì; no,no; il di più viene dal
maligno."( Mat. 5,37) infatti: "Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno
dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio."(Mat. 7,21). A chi verrà consegnato
questo regno? "Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio." (Lc-. 6,20) 1 molteplici
rimandi evangelici su questo t~ pur non escludendo altri destinatari, lasciano intendere che
l'ostentazione della ricchezza costituisce un grave ostacolo per entrare nel regno del Padre.
Nelle vicende umane il possesso dei beni da forza alla parola di chi è ricco. Chi non ha
nulla difficilmente sarà ascoltato. Il consiglio migliore è che stia zitto. Se mai si potrà rifare
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più avanti nel Regno preannunciato.
Queste considerazioni ci riportano alle riflessioni iniziali sull'uso disinvolto delle ricchezze
da parte di alcuni responsabili di spicco nelle comunità religiose. Esistono momenti rituali
talmente impregnati di esibizione -che inducano molti credenti all'esaltazione euforica di
una fede fatta di colori, grida di giubilo, emozioni facili, abbondanza, e illusione di una
anticipazione dì beatitudine totale. La cosa sarebbe anche accettabile se di fronte non ci
fosse il grido enorme della povertà a cui, mentre sta per esplodere, viene sempre messa la
sordina mediante la beneficenza a scadenze cicliche. Questo si verifica in quei particolari
momenti pseudo rituali quando enormi lavatrici mistiche sciacquano le coscienze. E gli
occhi dell'anima, ripuliti da sedimenti di avida cisposità, finalmente vedono e costringono
le mani a versare qualche moneta sui poveri affinché il loro urlo non si alzi mai a svegliare
il nascosto terrore dei ricchi di perdere tutto. (Non sempre però la manovra riesce.)
Ci sono due modi di essere chiesa, ( tra le varie confessioni), e pur essendo unica la sposa
di Cristo, da una parte continuano cortei di gerarchia paludata e titolata che parla e predica
ad effetto e dall'altra processioni di individui privati di tutto, anche della voce. Prevale una
chiesa potente che si autopromuove, che indaga -anche volentieri sui poveri e sulla povertà
ma senza disturbare il mondo della ricchezza_
Civorrebbe più coraggio e trasformare il silenzio repressivo o elusivo in poche parole
significative e in fatti liberatori. In fondo la figura del servo di Jùvhé, esaltata dalla
testimonianza di Cristo, costituisce l'esempio concreto da seguire. Chi veste di porpora e
seta ha ben poco o niente da spartire per esempio con un abbé Pìerre, una Madre Teresa, o
una piccola Sorella. Per fortuna esistono queste figure speciali, molto spesso sconosciute,
che nel silenzio, con il loro impegno, forniscono energia alla parola e alla -solidarietà.
Prendersi carico di una situazione disastrata per ridare senso alla dignità umana. Ad ogni
sofferenza deve corrispondere un forte gesto d'amore.
BiBi
Roma, 19112/2005
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ANNO 587 A.C. (Muro fragile)
Il mistero di un muro che si frappone fra l'uomo e il suo mondo interiore, fra una comunità
e il suo riferimento divino, viene espresso in modo vivace e senza veli dalle visioni
profetiche di Ezechiele: un visionario dai colori ora cupi (collera di Dio) ora brillanti (la
potenza divina). Il profeta è già in esilio e sulle rive del canale di Chébar (Babilonia) vede
scorrere le immagini di una Gerusalemme malata e decadente. Nel criticare il
comportamento scorretto dei suoi conterranei verso Dio Ezechiele lancia a tutti e a ciascuno
una visione introspettiva di notevole potenza. Nei primi capitoli l'enorme forza divina viene
descritta con fantastiche esplosioni di luce e di fuoco, con riverberi di immensi getti
luminosi verso la terra. Una enorme calotta fra nubi e lampi di energia sovrasta il tempio.
Ma a parte Ezechiele, i bagliori e i rumori prolungati di tuono (la gloria di Dio), di quella
che oggi qualcuno potrebbe scambiare per una enorme astronave aliena con relativa flotta
di mezzi di collegamento con la terra, a suo tempo non incantava nessuno. E perché? Anche
allora, inconsciamente, prevaleva la paura che la luce mettesse troppo in evidenza tutte le
debolezze sorrette dalle false ma gratificanti superstizioni. Il tempio (ritenuto magicamente
indistruttibile) era invaso dagli idoli stranieri; parte del popolo già in esilio e Gerusalemme
ad un passo dalla distruzione totale.. Molti preferivano chiudere gli occhi e affidarsi
all'illusione di più domestiche e ingannevoli risorse. Nei pressi del tempio spopolava l'idolo
della gelosia (un groviglio di malizie e odio):agli umani provocava invidia e ostilità e su
Dio gettava ombre di ridicolo discredito. Come frantumare questa barriera che inibiva
l'amore e l'intesa da ambo le parti? Lo spirito divino solleva per i capelli Ezechiele e lo
trasporta verso il tempio e là, presso l'idolo della gelosia, gli indica un muro con una
breccia. Per capire, *per scoprire cosa si nasconda oltre il muro, il profeta deve completarne
l'abbattimento. Le barriere artificiose e ambigue vanno eliminate. Il consiglio dello spirito:
"Figlio dell'uomo, sfonda la parete."(Ez.8,8) Operazione non difficile: l'effimero si sgretola
facilmente:"Sfondai la parete ed ecco apparve una porta. Mi disse : 'entra e osserva...' Io
entrai e vidi ogni sorta di rettili e di animali,... e idoli raffigurati intorno alle pareti."( Ez.
8.8-10)
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Eliminato il muro la porta d'ingresso non da alcun problema; chi entra in contatto con le
presenze di quella stanza si sente ingenuamente al sicuro: in primo luogo ogni anima affida
a quelle pareti tutto ciò che non vuole manifestare all'esterno; ci sono debolezze,
tradimenti,istinti aggresivi e di vendetta, progetti di violenza e rivalsa che riposino in attesa
del loro momento su uno strato misto di cinismo e malessere che tutto avvolge in un
torpore insano.L'altro motivo di sicurezza è garantito dalla prese'wà sacerdotale. Ecco
"Settanta anziani, ognuno con un turibolo, da cui un profumo saliva in nubi di incenso "(Ez.
8,11). Dovunque si annida una debolezza fiorisce una sacra presenza con relativi sacri
appetiti.
Abbattere il muro non serve. Ogni idolo ha bisogno del suo servizievole sacerdote.
Accampando suggerimenti divini il muro verrebbe subito ricostruito. Molteplici ombre
sacre danno più illusioni consolatorie di un Dio che dialoga senza inganni con le sue
creature. Ma la falsità non può averla vinta e dovrà cedere alla Verità.
Vivere costantemente nell'inganno rende però difficile capire quale sia la verità. Come si fa
a rinsavire? Che prevede Ezechiele come rimedio divino?
Tremenda la visione simbolico-cannibalesca per cui, coloro che confidano nell'impunità
delle magie scellerate del tempio, diverranno ingredienti per una cucina orribile. Così dice
Dio al profeta: "Metti su la pentola,/ e versaci l'acqua./Getta dentro i pezzi di carne,/tutti i
pezzi buoni,/la coscia e la spalla,/ e riempila di pezzi scelti; prendi il meglio del gregge.
Mettici sotto la legna/ e falla bollire molto.../ fa consumare la carne,/ riducila in poltiglia/ e
le ossa siano riarse..." (Ez. 24,3-5).
Difficile sradicare il vizio dell'empietà. Nessuno rinuncia spontaneamente a distruggere il
muro eretto a protezione del proprio dio. Questo è un avvenimento che solo il tempo
realizza facendo crollare le vecchie superstizioni, con dolorose purificazioni imposte
dall'esterno. Il guaio è che la lezione viene presto rimossa. Si presenta sempre qualcuno
che, in nome di dio, vuole di nuovo smerciare un po' di beata sacralità a prezzi di
concorrenza. E i compratori non mancano mai.
BiBi
Roma, 20/4/2007
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