Breve storia delle percussioni - Dai giannizzeri turchi a Edgar Varése
di Jacopo Leone Bolis
Per diversi secoli, dal 29 maggio 1453 (giorno della caduta di Costantinopoli nelle mani del sultano
turco Maometto II) fino alle ultime decadi del XVII secolo, l’Impero Ottomano rappresentò un vero e
proprio spauracchio per l’Europa cristiana. Le truppe turche, dopo essersi imposte con la forza nel
mondo arabo-musulmano (sia in Medio Oriente che nel Maghreb), puntarono, con alterne fortune,
alla conquista del Continente Europeo. Tale politica espansionista doveva obbligatoriamente
percorrere un preciso corridoio geografico: la Penisola Balcanica. Inizialmente l’espansionismo
turco sembrò non conoscere ostacoli. Già nel 1389, con la battaglia di Polje (Kosovo), le truppe
turche avevano sconfitto e costretto all'impotenza l’accanita resistenza serba e bosniaca. Tra il XIV
e il XVII secolo, l’intera Penisola Balcanica cadde in mano turca. L’apice di tale politica
espansionista venne raggiunto nel 1526 quando le truppe del sultano Solimano I sconfissero,
presso la cittadina di Mohács (Ungheria meridionale), le truppe cristiane di re Luigi II d’Ungheria
(caduto sul campo di battaglia insieme a molti altri nobili e alti ecclesiasti ungheresi). Tuttavia,
dopo questi significativi successi militari, la potenza dell’Impero Ottomano iniziò, seppur molto
lentamente, a scemare. Nel 1571 la flotta turca subì una grave sconfitta militare a Lepanto (golfo di
Corinto, Grecia) contro la flotta della Lega Santa (coalizione militare italo-spagnola nata per porre
un freno all'espansionismo turco nel Mediterraneo orientale). Successivamente, le truppe
austriache e europee imposero due durissime battute d’arresto alla politica espansionista turca:
nell'agosto 1664 gli austriaci riportarono una significativa vittoria militare sui turchi nei pressi del
convento di San Gottardo (sito a metà strada tra Graz e Vienna) e, soprattutto, nel 1683, durante il
celeberrimo assedio di Vienna, le truppe ottomane subirono una dura disfatta militare a opera di un
potente esercito europeo (formato da truppe austriache, tedesche e polacche capitanate da
Giovanni III di Polonia) accorso in aiuto all'importante città austriaca (vera e propria possibile porta
d’ingresso al Continente Europeo per le truppe ottomane). Con la ritirata turca dalla capitale
asburgica ebbe definitivamente inizio quel lento declino militare, politico e, soprattutto, economico
e culturale che portò alla scomparsa dell’Impero Ottomano a seguito della Prima Guerra Mondiale
(1914 - 1918). Così come la battaglia di Poitiers (svoltasi nell’ottobre 732 tra le truppe berbere e
arabe del califfato Omayyade e le milizie franche di Teodorico IV, quest’ultime capitanate da Carlo
Martello, maggiordomo di palazzo della corona merovingia) aveva arrestato sul versante
occidentale dei Pirenei l’espansione arabo-islamica in Europa Occidentale, così il fallito assedio di
Vienna del 1683 aveva messo la parola fine ai disegni imperialisti turchi in Europa Centrale.
Con il venire meno della potenza militare turca e, conseguentemente, con l’affievolirsi della sua
minaccia (di natura tanto bellica quanto religiosa), i rapporti economici e culturali tra i regni del
Vecchio Continente e l’Impero della Sublime Porta poterono andare rafforzandosi. Nel corso di
pochi anni, molti monarchi europei decisero di creare ensemble musicali che ricalcassero, in modo
abbastanza fedele, le potenti e squillanti sonorità delle bande musicali turche che, per moltissimi
anni (dal XIII al XVII secolo), avevano accompagnato con i loro suoni fragorosi (ottenuti tramite
cimbali, tamburi e diversi altri strumenti) le scorribande degli eserciti musulmani nella Regione
Balcanica. Ad esempio, Augusto il Forte (1670 - 1733), re di Polonia (con il nome di Augusto II) e
elettore di Sassonia, organizzò presso la sua corte una banda musicale composta da quattro
cembalisti. Ben presto questo esempio venne seguito, all’incirca nel 1740, anche dalla potente
casa regnante degli Asburgo. La cosiddetta ‘musica turca’, una musica fortemente incentrata
sull’uso di diversi strumenti a percussione appartenenti tanto alla famiglia dei
membranofoni (tamburi) quanto a quella degli idiofoni (cimbali, triangolo e mezzaluna, quest’ultima
denominata anche cappello turco), divenne molto di moda nelle corti europee del XVIII secolo.
Grazie a questa moda, all’esotico desiderio delle classi aristocratiche di ascoltare musiche
incentrate sull’uso di strumenti a percussione (strumenti fino ad allora un poco bistrattati dalla
prassi musicale colta europea) molti musicisti di alto calibro decisero di dare ampio spazio nelle
proprie composizioni a strumenti quali timpani, tamburi militari e cimbali. Franz Joseph Haydn
(1732 - 1809) compose la celeberrima Sinfonia n. 100 in Sol maggiore (1793/94), l’ottava delle
dodici sinfonie londinesi composte dal genio tedesco, dando talmente tanto spazio agli strumenti a
percussione (timpano, grancassa, triangolo e piatti) che tale sinfonia divenne celebre con il
nomignolo di ‘militare’ (visto il suo suono marziale e fragoroso). In realtà, Haydn aveva già
sperimentato qualcosa del genere, ovvero l’utilizzo di strumenti a percussione per creare passaggi
musicali fragorosi e ricolmi di energia, nel secondo movimento della Sinfonia n. 94 in Sol
maggiore (la seconda delle dodici sinfonie londinesi di Haydn, 1791), la cosiddetta ‘sinfonia della
sorpresa’. Infatti, più volte nel secondo movimento vi sono degli improvvisi accenti orchestrali e dei
rapidissimi crescendo dinamici che il compositore evidenziò, con grande intelligenza, tramite l’uso,
seppur parco e ben ponderato, dei timpani. Ormai gli strumenti a percussione, seppur con funzioni
spesso secondarie o al più coloristiche, erano entrati di diritto nell’arte musicale colta occidentale.
Neppure Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791), il geniale compositore salisburghese, rimase
sordo a tale moda. Nel terzo e ultimo movimento (Rondò alla turca) della Sonata in La maggiore K
331 (1778 - 1783) Mozart cercò d’imitare, tramite un approccio compositivo estremamente ritmato
e brioso (incentrato sull’uso di acciaccature e accordi rapidamente arpeggiati), i suoni fragorosi
delle bande musicali turche. Questo desiderio d’imitazione nei confronti della cosiddetta ‘musica
turca’ aveva spinto molti costruttori di strumenti a tastiera (principalmente i costruttori di fortepiano,
il precursore dell’odierno pianoforte) all’ideazione del ‘pedale delle turcherie’, un particolare pedale
che, se azionato, tramite una serie di complessi marchingegni permetteva di imitare con il proprio
strumento a tastiera le sonorità della grancassa, del timpano e di diversi cimbali. Una similare
attenzione imitativa nei confronti della ‘musica turca’ la si ritrova anche in una celebre
composizione operistica di Mozart: il Ratto dal serraglio (1782), su libretto di Johann Gottlieb
Stephanie. Si tratta di un’opera a metà strada tra commedia e opera buffa, ambientata proprio in
Turchia (presso la corte dell’inesistente Pascià Selim, probabile rilettura del nome turco Solimano)
e ricolma di passaggi musicali incentrati sull’uso di strumenti a percussione.
Le prime misure del terzo movimento (Minuetto, moderato) della Sinfonia n. 100 in Sol maggiore di Franz
Joseph Haydn. Da notare l’apparire energico (f, forte), fin dalle primissime battute di questo movimento, dei
timpani in Sol e in Re.
Le battute 9 - 16 del secondo movimento (Andante) della Sinfonia n. 94 in Sol maggiore di Franz Joseph
Haydn. L’improvviso fortissimo (ff) alla sedicesima battuta, seguente alla placida esecuzione del tema
introduttivo, permise a questa composizione di ottenere l’appellativo di ‘sinfonia della sorpresa’.
Le prime battute del terzo movimento (Rondò alla turca) della Sonata in La maggiore K 331 di
Wolfgang Amadeus Mozart.
Dopo Haydn e Mozart non poteva certo mancare Ludwig van Beethoven (1770 - 1827). Anche
l’ultimo dei tre maestri della cosiddetta Scuola di Vienna, l’anello di congiunzione tra la cultura
musicale classica e il successivo fervore romantico, non rimase indifferente al fascino
della ‘musica turca’ e degli strumenti a percussione. Tale impulso compositivo a cavallo tra
esotismo e fragore sonoro, infatti, lo si ritrova in ben tre composizioni del geniale compositore di
Bonn: ne Le rovine di Atene (1811), composta da nove sezioni (Ouverture - Coro - Duetto - Coro Marcia alla turca - Armonia nel teatro - Marcia e coro - Coro - Coro conclusivo), dove vi è una
celebre Marcia turca incentrata sull’uso di strumenti a fiato e strumenti a percussione, ne La vittoria
di Wellington (1813), composizione orchestrale scritta da Beethoven per omaggiare la vittoria
dell’alleanza antifrancese capitanata da Arthur Wellesley duca di Wellington contro le truppe
napoleoniche (battaglia svoltasi nei pressi della cittadina spagnola di Vitoria sita nei Paesi Baschi
spagnoli), composizione musicale dove gli strumenti a percussione servono a imitare e ricreare i
fragori tipici di un conflitto a fuoco, e nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia in Re minore Op.
125 (1824) dove gli strumenti a percussione enfatizzano l’intonazione da parte del coro del
testo An die Freude (Inno alla gioia) del poeta tedesco Friedrich Schiller (1759 - 1805), elemento
testuale ricco di echi conflittuali e esplicitamente romantici.
Le prime sette battute della Marcia alla turca (Vivace) presente ne Le rovine di Atene di Ludwig van
Beethoven (nell’organico orchestrale sono presenti il triangolo, i piatti e il tamburo grande/grancassa).
Con il passare degli anni la moda della cosiddetta ‘musica turca’ andò affievolendosi ma, grazie a
questa importante parentesi esotica nella cultura musicale europea, gli strumenti a percussione
riuscirono a entrare a pieno titolo nell’organico strumentale sinfonico e, più in generale, nelle
fantasie compositive dei musicisti europei. Tuttavia non solo i suoni fragorosi delle percussioni
mediorientali fecero breccia nei cuori e nelle menti dei compositori occidentali. Infatti, anche le
melodie provenienti dalla penisola Anatolica ebbero un certo successo nell’allora cultura musicale
del vecchio continente. Così come il tema della marcia dei dervisci ne Le rovine di Atene di
Beethoven era incentrato sull’uso dell’intervallo di quarta eccedente (il famoso tritono), intervallo
musicale tipico della cultura orientale ma assai malvisto in Europa fin da epoca altomedioevale,
allo stesso modo nell’opera l’Olandese volante (1843) il padre del teatro musicale moderno, il
tedesco Richard Wagner (1813 - 1883), decise di affidare l’incedere melodico del verso
corale Schwarzer Hauptmann, geh’ an’s Land (Nero capitano, scendi a terra) a tale intervallo
musicale, marchio di fabbrica dell’incedere melodico dell’allora ormai quasi dimenticata ‘musica
turca’.
Il canto Schwarzer Hauptmann, geh’ an’s Land (Nero capitano, scendi a terra) presente verso la conclusione
della scena prima del terzo atto de L’Olandese volante di Richard Wagner (in rosso sono evidenziati i
movimenti melodici ascendenti di quarta eccedente Fa - Si).
Per tutto il XIX secolo gli strumenti a percussione furono al servizio delle fantasie dei compositori
europei che in essi videro una nuova tavolozza timbrica grazie alla quale arricchire, con suoni
energici e fragorosi, le proprie peregrinazioni compositive. Per fare un esempio, il compositore
francese Georges Bizet (1838 - 1875) portò alla ribalta il tamburo basco (detto tamburello)
inserendolo nella celebre canzone Les tringles des sistres tintaient (la cosiddetta Chanson
bohème) presente nel secondo atto della sua celebre opera Carmen (1875). Ancora una volta una
strumento a percussione, in questo caso specifico il tamburo basco, fu l’espediente sonoro grazie
al quale dare un tocco esotico (e una nota di colore dal sapore vagamente orientale) a una
composizione musicale altrimenti schiettamente occidentale. È giusto sottolineare in questa sede
come Bizet non fu il primo compositore a usare questo particolare strumento, infatti il tamburo
basco ebbe qualche fugace apparizione nelle opere Paride ed Elena (1770) e Eco e
Narciso (1779) di Christoph Willibald Gluck (1714 - 1787) e nelle sei Danze Tedesche K.
571 (1787) di Wolfgang Amadeus Mozart.
Un’altra composizione che diede ampio spazio al tamburo basco fu la Danza Araba (dalla scena
prima del secondo atto del balletto Lo schiaccianoci del 1891/92) del russo Pëtr Il'ič Čajkovskij
(1840 - 1893). Altre composizioni musicali dove gli strumenti a percussione svolgono importanti
ruoli espressivi e coloristici sono il poema sinfonico Prélude à l'après-midi d'un faune (Preludio al
pomeriggio di un fauno, 1894) del francese Claude Debussy (1862 - 1918), i
balletti Petruška (1911) e Le Sacre du Printemps (1913) di Igor Stravinskij (1882 - 1971) e il
celebre Bolero (1924) del compositore francese Maurice Ravel (1875 - 1937), brano musicale che
raggiunse subito una significativa celebrità e che venne composto su commissione della ballerina
russa Ida Rubinstein (1885 - 1960).
Le prime quattro battute del Bolero di Maurice Ravel.
Tuttavia fu solo con alcuni compositori del XX secolo che le percussioni riuscirono a liberarsi dai
ruoli quasi esclusivamente subalterni in cui erano state rilegate per secoli e, conseguentemente, a
divenire strumenti musicali capaci d’incarnare il perno estetico di intere composizioni musicali. I
compositori a cui si deve tale importante emancipazione degli strumenti a percussione furono
l’inglese William Turner Walton (1902 - 1983), il russo Dmitrij Šostakovič (1906 - 1975) e,
soprattutto, lo statunitense Edgar Varése (1883 - 1965). William Turner Walton scrisse la Facade
Suite n. 1 (1926) e la Facade suite n. 2 (1938) per trasporre in musica e accompagnare con suoni
e slanci melodici alcuni sollazzi poetici scritti dalla letterata britannica Edith Sitwell (1887 - 1964).
In entrambe queste composizioni gli strumenti a percussione giocano un ruolo assolutamente
centrale. Senza di essi, infatti, l’intera impalcatura sonora delle composizioni, incentrate su una
continua alternanza di brani musicali estremamente cinetici e ricchi di energia, verrebbe meno.
Nell’organico orchestrale di queste due interessanti composizioni di William Turner Walton notiamo
la presenza di percussioni quali il tamburo militare, la grancassa, i timpani, il tamburo basco e
diversi idiofoni a suono indeterminato quali piatti, castagnette, il triangolo e le maracas e idiofoni a
suoni determinati quali lo xilofono e il glockenspiel. Ma il passo successivo, ovvero il comporre
musica utilizzando solamente (o quasi) strumenti a percussione, venne realizzato da Šostakovič e
Varése. L’Interludio del primo atto dell’opera Il Naso (1927 - 1928) di Dmitrij Šostakovič, dramma
teatrale tratto dall’omonimo romanzo di Nikolaj Gogol (1809 - 1852), mostra un sapore sonoro
fortemente percussivo e, a dirla tutta, non nasconde ma, anzi, esplicita con chiarezza la sua
essenza un poco angosciante e militare. Questo fragoroso Interludio serve a descrivere
musicalmente la notte agitata dopo la quale il protagonista del breve romanzo di Gogol e dell’opera
di Šostakovič, l'assessore di collegio Kovalèv, si sveglia senza naso. Questo passaggio
musicale venne pensato e composto da Šostakovič sul finire degli anni venti del secolo scorso e, a
mio avviso, è forse la prima composizione musicale occidentale dove l’emancipazione degli
strumenti a percussione è ormai completa e assoluta. Si tratta, infatti, di un momento musicale
privo di qualsiasi sapore melodico o armonico. L’intero Interludio è realizzato utilizzando strumenti
a percussione sia appartenenti alla famiglia degli idiofoni che dei membranofoni. Lo strumento
cardine di tale passaggio musicale è, senza dubbio, il tamburo militare, o snare drum, che con i
suoi colpi energici e le sue brevi ma decise rullate segmenta in maniera razionale lo spazio sonoro
entro il quale si muove (e si agita) l’intero Interludio. La stessa completa emancipazione degli
strumenti a percussione (e, soprattutto, degli strumenti a percussione a suono indeterminato) la si
ritrova in Ionisation (1931) dello statunitense Edgar Varése. Questa composizione venne pensata
e scritta da Varèse per tredici esecutori e numerosi e differenti strumenti a percussione.
Sebbene Ionisation avesse ricevuto, fin dalla sua prima esibizione, non pochi commenti negativi,
essa divenne, in un lasso di tempo piuttosto breve, una delle composizioni maggiormente
apprezzate di Varèse. Tale fatica creativa del compositore statunitense presenta una struttura
formale molto precisa e rigorosa. Vi è, difatti, una introduzione (dal silenzio iniziale si giunge
all’energico vibrare della pelle del tamburo militare, il tutto per la durata di circa 30’’) alla quale
segue, seppur in maniera non sempre chiarissima, una sezione incentrata sullo sviluppo degli
elementi ritmici e sonori apparsi nell’introduzione. Questa sezione esplorativa, generata tramite lo
sfruttamento delle potenzialità espressive connesse agli elementi acustici presentati nella
breve introduzione, perdura fino al crescendo della sirena che, con il suo timbro chiaro e deciso,
annuncia l’inizio di un’altra sezione del brano. Alla comparsa di un nuovo soggetto musicale,
caratterizzato da quintine di sedicesimi, corrisponde l’inizio di quel raffinato gioco dialettico tra il
nuovo soggetto musicale, appena apparso dopo il crescendo della sirena, e le idee musicali già
valorizzate durante l’introduzione e il proseguo della composizione. Questo gioco dialettico e
coloristico perdura fino alla coda del brano dove l’energia cinetica e timbrica ampiamente
sviluppatasi nel corso della precedente sezione dialogica si conclude su un lento ma inesorabile
smorzarsi dinamico che porta, implacabilmente, al sopirsi di ogni energia sonora e cinetica. Tale
approccio assolutamente non aleatorio all’agire compositivo da parte di Varèse appare quale vero
e proprio contraltare alla natura prettamente ritmico/percussiva del brano il quale
obbligatoriamente, vista la sua natura genetica, ignora completamente qualsiasi pensiero
compositivo di natura accordale (la verticalità in Ionisation è completamente connessa a più o
meno complessi incastri sonori di natura ritmica e percussiva fondati su necessità prettamente
coloristiche e formali). In Ionisation Varèse mischia sapientemente antichità e contemporaneità,
emozione e raziocinio, pathos (energia, forza vitale, istinto) e logos (ragione, ponderatezza,
intelligenza razionale). Con Walton, Šostakovič e Varése gli strumenti a percussione raggiunsero
una invidiabile libertà espressiva e, soprattutto, al pari dei loro più blasonati colleghi d’orchestra,
poterono divenire il fulcro sonoro e estetico di intere composizioni musicali. Le percussioni, in poco
meno di tre secoli, passarono dall’essere semplici note di colore dal sapore esotico all’essere,
viceversa, strumenti musicali capaci di dare vita a composizioni musicali complesse e affascinanti
(senza l’obbligatorio ausilio di qualsivoglia altro strumento).
Bibliografia essenziale
. Luigi della Croce, Ludwig van Beethoven: le nove sinfonie e le altre opere per orchestra,
Pordenone: Edizioni Studio Tesi srl, 1991.
. Giorgio Pestelli, L’età di Mozart e di Beethoven, Biblioteca di cultura musicale della società
Italiana di Musicologia, vol. VII, Torino: EDT srl, 1991.
. Guido Facchin, Le percussioni, Torino: EDT srl, 2000.
. Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Cles (TN - Italia): Mondadori Editore, 2009.
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