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fondazione venezia 2000
per
fondazione di venezia
almanacco della presenza veneziana nel mondo
almanac of the venetian presence in the world
Marsilio
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a cura di/edited by Fabio Isman
hanno collaborato/texts by Gino Benzoni
Sandro Cappelletto
Annalisa Cosentino
Giuseppe De Rita
Fabio Isman
Rosella Lauber
si ringraziano/thanks to Fabio Achilli
Graziano Arici
Elena Casadoro
Elena D’Este
Sylvia Ferino Pagden
Augusto Gentili
Andrea Landolfi
Giorgio Manacorda
Giorgio Mastinu
Nuria Schoenberg Nono
in collaborazione con Fondazione di Venezia
collaboration with
traduzione inglese David Graham
English translation
progetto grafico/layout Studio Tapiro, Venezia
© 2010 Marsilio Editori® s.p.a.
in Venezia
isbn 88-317-0840
www.marsilioeditori.it
In copertina: Zorzi da Castelfranco, detto Giorgione, Ritratto di giovane uomo
(Antonio Brocardo?), Budapest, Hungarian Szépművészeti Múzeum.
Front cover: Zorzi da Castelfranco, called Giorgione, Portrait of a Young Man
(Antonio Brocardo?), Budapest, Hungarian Szépművészeti Múzeum.
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sommario/contents
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Un vero policentrismo
con tanti nobili ma anche grandi ciarlatani
A genuine polycentrism with numerous nobles
and also grand charlatans
Giuseppe De Rita
Tra spie, dipinti e sinfonie, Venezia
è vicinissima all’Europa dell’Oriente
Among spies, paintings and symphonies
Venice is very close to Central-Eastern Europe
Fabio Isman
A est di Vienna diplomatici
e tanti intrighi, mercati e carne bovina
East of Vienna: diplomats and lots of intrigue,
markets and beef
Gino Benzoni
L’arte alla corte di Rodolfo ii: collezionismo magico
e passione per la pittura veneta
Art in the court of Rudolph ii:
magical collecting and a love of venetian painting
Rosella Lauber
Gli alberghi nel centro storico? Erano cari già nel Seicento,
assai meglio dormire a Padova
The old city? Already pricey in the 17th century
better to sleep in Padua
Annalisa Cosentino
145
Un Diario polacco di Nono rifiutato a Varsavia
a causa del “golpe” del 1981
A ‘Polish Diary’ by Nono refused by Warsaw
due to the ‘coup’ of 1981
Sandro Cappelletto
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Hanno scritto / Contributors
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che cosa trova venezia, da danzica fino al mar nero
un vero policentrismo
con tanti nobili
ma anche grandi ciarlatani
Giuseppe De Rita
1. Giuseppe Arcimboldo,
Vertumnus (Rodolfo II), 1590
circa, Balsta (Svezia),
Skokloster Slott.
Giuseppe Arcimboldo,
Vertumnus (Rudolph II),
c. 1590, Balsta (Sweden),
Skokloster Slott.
l’editoriale
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Y Cosa hanno significato Venezia e la sua cultura per l’area europea che si stende oltre Vienna? A questa domanda tentiamo di
rispondere quest’anno, guidati dalla curiosità di capire se Venezia abbia avuto significato non solo per le grandi capitali imperiali (Vienna appunto, e San Pietroburgo), analizzate in due
nostre precedenti esplorazioni; ma anche per le tante realtà socioculturali che hanno per secoli convissuto nello smisurato e
indistinto territorio che va da Danzica al Mar Nero, fra l’altro
non troppo abitato dai naturali promotori e acquirenti di cultura alta.
Y Valeva la pena di andare a vedere? I lettori potranno giudicare da soli, ma è certo che le pagine che seguono inducono a un
grande coinvolgimento: sia perché vi si incontrano personaggi di
grande vigore e di grande curiosità intellettuale (e non sono solo imperatori, re, principi ed elettori); sia perché vi si ritrovano
tanti e diversi luoghi di condensazione dei flussi creativi e commerciali della produzione culturale veneziana (da Buda a Praga,
a Cracovia, a Varsavia); sia perché i termini “quantitativi” di tali
flussi risultano di tutto rispetto, non secondi spesso alle “movimentazioni” verso realtà molto più legate alla tradizione veneziana (ad esempio sorprende che Praga, tre secoli fa, fosse un’autentica miniera di musica veneziana, così come sorprendono la
quantità di nobili che collezionavano a metà Seicento e che i
conti Kaunitz, il cui palazzo viennese costituisce il punto di vista
per un celebre panorama della capitale austriaca di Bernardo
Bellotto, possedessero duemila dipinti); e sia, infine, perché il
panorama complessivo che ne discende è di un grande policentrismo di piccole e medie città, piccoli e medi acquirenti e committenti, piccoli e medi artisti veneziani coinvolti nella dinamica della creazione e del collezionismo culturale. Certo, un posto
eminente lo occupa Rodolfo ii; ma la sua indubbia importanza
(a lui dobbiamo fra l’altro il trasferimento della corte da Vienna
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che cosa trova venezia da danzica fino al mar nero
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2. Ægidius ii Sadeler, da
Adriaan de Vries,
L’imperatore Rodolfo II a cavallo,
incisione, Parigi,
Bibliothèque Nationale de
France.
Ægidius ii Sadeler, after
Adriaan de Vries, The
Emperor Rudolph II on
Horseback, etching, Paris,
Bibliothèque Nationale de
France.
3. Ægidius ii Sadeler,
L’imperatore Rodolfo II,
incisione, Praga, Národní
Galerie.
Ægidius ii Sadeler, The
Emperor Rudolph II, etching,
Prague, Národní Galerie.
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a Praga, e la creazione del suo incantato centro storico) non sovrasta più di tanto il citato grande policentrismo.
Y Un policentrismo, occorre dire, che incide anche sulla dimensione umana, quasi sociologica, che in esso si esprime. Erano tempi e società confuse e spesso convulse; e si capisce che gli
ambasciatori e i mercanti della Serenissima notassero «sconcertati, allibiti, esterrefatti» la grande quantità di maghi, ciarlatani,
donne ad alta disponibilità, fantasiosi affabulatori, imbroglioni,
spie, e mercanti di schiavi addirittura, che frequentavano città, e
persone che ambiziosamente assimilavano la grande cultura veneziana. Le terre “oltre Vienna” non erano certamente di grande eleganza nei comportamenti collettivi (come notò anche l’avventuroso Casanova); averci dato gli elementi per capire questa
loro mediocre fisicità (anche nel bere e mangiare, oltre che in
più complessi traffici) è merito non secondario dei contributi
qui raccolti.
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what venice found between gdansk and the black sea
a genuine polycentrism
with numerous nobles
and also grand charlatans
editorial
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Giuseppe De Rita
4. Una pianta seicentesca
della città polacca di
Zamosc, “la piccola
Padova”, progettata e
pianificata dall’architetto
patavino Bernardo
Morando dal 1581, per
conto del cancelliere Jan
Zamoyski.
A 17th-century painting
of the Polish city of
Zamosc, “little Padua”,
designed and planned by
the Paduan architect
Bernardo Morando from
1581, on behalf of the
chancellor Jan Zamoyski.
Y What did Venice and its culture mean to the European area
that extends beyond Vienna? This is the question we try to respond to this year,
guided by our curiosity
about whether Venice
was of significance not
only to the grand imperial capitals (Vienna
and St Petersburg), as
analysed in two of our
previous explorations,
but also to the many socio-cultural realities
that for centuries coexisted in the boundless,
indistinct lands that
range from Gdansk to
the Black Sea; areas,
moreover, not highly populated by natural promoters and purchasers of high culture.
Y Was it worth going to see? The reader can judge for himself,
but it is certain that the pages that follow are very engaging, for
a number of reasons. Firstly, because figures of great vigour and
intellectual curiosity are met there (not only emperors, kings,
princes and electors). Secondly, because there are many different places where the creative and commercial flows of Venetian
cultural production condensed (from Buda to Prague, Krakow
and Warsaw). Thirdly, because the ‘quantitative’ terms of such
flows are very considerable – often not secondary to the ‘movement’ towards places much more closely linked to Venetian tradition (for example it is a surprise that three centuries ago
Prague was a genuine gold mine of Venetian music, that a very
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what venice found between gdansk and the black sea
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5. Bernardo Bellotto,
La chiesa del Sakramentki a
Varsavia, Varsavia, Zamek
Kròlewski w Warszawie;
dipinto per re Stanislao
Augusto nel 1777, il
quadro è portato in Russia
dallo zar Nicola i, nel
1832; ritorna nel 1922 e,
trafugato dai nazisti, dal
1940 al 1945 è in
Germania.
8
Bernardo Bellotto,
The Church of the Sakramentki in
Warsaw, Warsaw, Zamek
Kròlewski w Warszawie;
painted for King
Stanislaus August in 1777,
the painting was taken to
Russia by Tsar Nicholas i,
in 1832; it was returned
in 1922 and, stolen by the
Nazis, was in Germany
from 1940 to 1945.
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6. Bernardo Bellotto,
Il palazzo del principe Kaunitz a
Vienna, Mariahilf, 1759,
Budapest, Szépművészeti
Museum: Wenzel Anton
Kaunitz-Rietberg, qui
ritratto, per quarant’anni
ha retto la politica estera
austriaca; la famiglia,
morava, possedeva oltre
2.000 dipinti.
Bernardo Bellotto,
The Palace of Prince Kaunitz in
Vienna, Mariahilf, 1759,
Budapest, Szépművészeti
Museum: Wenzel Anton
Kaunitz-Rietberg,
portrayed here, directed
Austrian foreign policy
for forty years; the family,
Moravian, owned more
than 2000 paintings.
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large number of nobles collected art in the mid-seventeenth
century, and that the Kaunitz counts, whose Viennese palace is
the viewing point for a celebrated panorama of the Austrian
capital by Bernardo Bellotto, owned 2000 paintings). Finally,
it is because the overall picture created is of a great polycentrism
of small and medium towns, small and medium buyers and
commissioners, small and medium Venetian artists involved in
the dynamic of creation and cultural collecting. Rudolph ii certainly occupied a preeminent place in all
this, but his undoubted importance (to him
we owe the transfer of
the court from Vienna
to Prague, and the
creation of its charming old city centre)
does not significantly
overshadow such polycentrism.
Y This polycentrism also influenced the human, almost sociological dimension that is expressed in it. They were muddled and
often frantic societies at times, and it can be understood that
Venetian ambassadors and merchants were ‘disconcerted, dismayed and dumbfounded’ by the great number of magicians,
charlatans, readily available women, imaginative storytellers,
swindlers, spies and even slave merchants who frequented the
city, and people who ambitiously assimilated grand Venetian culture. The lands ‘beyond Vienna’ were certainly not of any great
elegance in terms of collective behaviours (as the adventurous
Casanova also noted). And providing the means for understanding this mediocre physical nature of theirs (in eating and drinking, but also in more complex dealings) is no secondary merit of
the contributions collected here.
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a praga, varsavia, bucarest, sofia infiniti artisti e curiosità
tra spie, dipinti e sinfonie
venezia è vicinissima
all’europa dell’oriente
il regesto
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Fabio Isman
1. Sebastiano Ricci, Medoro
e Angelica, Sibiu, Museo
Nazionale Bruckenthal.
Sebastiano Ricci, Medoro
and Angelica, Sibiu,
Bruckenthal National
museum.
Y Quella parte d’Europa più travagliata, dai confini spesso tanto mutevoli, che a Est sta tra l’Austria, la Russia, e il grande impero del Turco (di cui l’Ungheria era demarcazione), ha sempre
avuto parecchio a che fare con la Serenissima. A Venezia, la presa di
Buda riempiva le pagine del Giornale dal Campo Cesareo di Girolamo
Albrizzi nel 1686 e, dieci anni dopo, Teodoro Mioni la raccontava ne La Turca fedele. Rapporti antichi: san Gerardo Sagredo collabora con il re magiaro santo Stefano, che papa Silvestro i incorona nel 1001. E nel Quattrocento, quando la città della laguna
non assomiglia a nessun’altra non solo per la fisicità, i legami
erano già stretti, magari attraverso la famosa biblioteca di Mattia
Corvino: la Repubblica gli manda broccati nel 1461 e 1464, per
l’incoronazione; ed egli, nel 1476, fa acquistare a Venezia gioielli e una collana, dono di nozze per la fidanzata Beatrice d’Aragona, ritratta su un codice proprio con quel monile. Manoscritti di Mattia passano alla Marciana: ne restano quattro, dei 180
noti e sparpagliati in quarantadue biblioteche del mondo; un
frate, mandato dal re, vive e muore nel convento di San Zanipolo: il priore ottiene almeno il codice miniato Averulinus, diviso in
venticinque libri, presentato in italiano nel 1482 a Mattia, che lo
fa tradurre in latino. Il terzo libro descrive i marmi di Carrara e
il loro impiego in San Marco; cita “Angelus Muranus”, che inventa le decorazioni in vetro colorato, e il figlio pittore, sepolto
a Santo Stefano; spiega come i veneziani edificassero i ponti. A
Venezia, nascono tre delle 189 Corvine a stampa; una, del 1473, è
di un fondatore dell’arte in laguna, Vindelinus de Spira (del
1469 il primo libro, le Epistolae ad familiares di Cicerone, fig. 2);
“Maestro Cassianus”, artista dei codici, pare che, appresa l’arte
in laguna, lavori a Buda; del resto, c’è chi attribuisce a Benedetto da Padova le incisioni dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco
Colonna, 1499, «il libro più bello al mondo» (fig. 3). Re Mattia è legato agli Zeno: Caterino, nel 1471 ambasciatore dai re di
Persia e di Georgia, diventa cavaliere a Buda; Mattia gli chiede un
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a praga, varsavia, bucarest, sofia infiniti artisti e curiosità
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2. Cicerone, Epistolae ad
familiares, Venezia,
Biblioteca Nazionale
Marciana: stampato nel
1469 da Giovanni da Spira
in carattere romano è il
primo libro edito in città.
Cicero, Epistolae ad familiares,
Venice, Biblioteca
Nazionale Marciana:
printed in 1469 by
Giovanni da Spira in
Roman type, it was the
first book published in
Venice.
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organo, che non parte perché lui muore prima ed è al Museo
Correr. Nel Cinquecento, Niccolò Zeno possedeva cento Corvine: pergamene miniate, legatura originale. Anch’esse disperse
ormai altrove.
Y In seguito i nessi diverranno più numerosi,
anche in altre parti di quell’Europa. Dal Seicento
alla prima metà del Sette, oltre cento artisti italiani lavorano in Ungheria: molti nati in laguna. Più
scultori e pittori che architetti, anche se cinquecento fortezze si debbono a costruttori militari, tra
cui il veneziano Agostino Serena, a corte dal principe di Transilvania; lo ricorda una scritta sul portone del castello di Radnut. Lavora anche per il
principe Gyorgi Rakoczi i, e muore tornando a casa. Dei veneziani fortificano pure Tokaj, Sarospatak e Szamosujuvar. Ma, indubbiamente, sono più
gli artisti con il pennello che con squadra e compasso. Il principe ungherese Gabor Bethlen scrive
a Carlo Saraceni, «Carlo Veneziano», per averlo
a corte; e vi arriva Pietro Liberi: Leopoldo i lo fa
nobile, degli Esterházy una sua Venere sdraiata. Tra
gli scultori, Antonio Corradini (1668-1752), per
otto anni a Vienna, scolpisce a Gyor l’Arca santa, apprezzata da Carlo vi: ricorda il suo sepolcro di san
Giovanni Nepomuceno, nel duomo di Praga; e
Giovanni Giuliani, cistercense a Heiligenkreuz
(veneziano del 1663, nel 1744 muore in Austria):
lascia a Pozsony una Via Crucis, oggi al museo di
Bratislava; una venerata statua della Vergine dai
carmelitani di Gyor; un altare a Baratudvar, che è l’austriaca
Mönchhof. Migra invece Michele Fabris, detto Ongaro, ungherese del 1644 che lavora a Venezia e vi decede quarant’anni dopo; sposa Zaneta Laghi; «guadagna moltissimo, ma li vizi gli fecero consumare molto»; il figlio Michele vende libri in laguna;
lui lascia opere alla Salute, a San Pietro in Castello, San Clemente e Murano, nella cappella di Francesco Vendramin, lavora con Baldassarre Longhena. A Venezia, con Johann Carl Loth,
opera a lungo Janos Spillenberger; ha successo Janos Kupezky,
che vi ritrae anche il pittore di Norimberga Johann Blendinger:
il quadro, già Schulenburg, è a Monaco. Vi soggiornano anche
Johann Justus Preisler, Paul Troger e Daniel Gran (dipinge a
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3. Francesco Colonna,
silografia dalla
Hypnerotomachia Poliphili,
un capolavoro di Aldo
Manuzio edito nel 1499,
Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana.
Francesco Colonna,
woodcut from the
Hypnerotomachia Poliphili, a
masterpiece by Aldo
Manuzio published in
1499, Venice, Biblioteca
Nazionale Marciana.
4. L’imponente facciata di
Palazzo Czernin, sul colle
di Hradčany e davanti alla
chiesa di Loreto, il più
importante palazzo
nobiliare della città,
costruito dal 1669 e dal
1934 sede del ministero
degli Esteri di Praga.
The impressive facade of
Palazzo Czernin, on
Hradčany hill and in
front of the church of
Loreto, the most
important noble building
in the city, built from
1669 and since 1934
occupied by the Prague
Ministry of Foreign
Affairs.
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villa Cornaro). Come contrappasso, lavorano invece a Praga i
veneziani Giulio Licinio (vi muore alla fine del Cinquecento:
suoi dipinti erano nel castello di Bratislava), Giacomo Contarini (forse dal 1579 al 1593, prima di
tornare a casa), e Paolo Piazza, che
arriva dopo il 1600, con il nome di
Fra Cosmas. Ma anche il tedesco
Hans von Aachen, che decede a
Praga nel 1615 e dal 1574 è a bottega a Venezia, e tanti altri. La conquista e il saccheggio dei soldati di
Cristina di Svezia, nel 1686, mutano gli orizzonti.
Y L’arte veneziana era di casa al castello di Praga (lo diciamo altrove), almeno perché Rodolfo ii era stato educato dallo zio Filippo ii a Madrid, dove fin all’aprile 1548 si coltivava il culto di
Tiziano: da quando Carlo v lo convoca in tutta fretta per realizzare il prototipo dei ritratti equestri, che poi ispirerà Rubens,
van Dyck e Velázquez. Rodolfo, un secolo dopo che è dipinta nel
1506, vuole a Praga la venezianissima Madonna del Rosario di Albrecht Dürer, da San Bartolomeo, ai piedi di Rialto (vedi p. 52);
chiede di decorare due soffitti del palazzo d’Estate a Veronese,
che nel 1575 (forse un dono per l’imperatore) ritrae il gioielliere Jakob König (vedi p. 96). E Paulus Franck, detto Paolo Fiammingo che morrà nel 1596 a Venezia, lascia più di sei dipinti nel
castello della città di Kafka, Smetana e Dvořák, sopra ponte Carlo, dove debutta il Don Giovanni di Mozart e che evoca il Golem del
Gran Rabbino Jehuda Löw ben Bezalel e gli alchimisti di via dell’Oro.
Y Il collezionismo era diffuso: il principe transilvano Gabor
Bethlen arreda il palazzo con acquisti nella Serenissima, ed era in
contatto con il mercante Daniel Nys (che, a Venezia, vende i
beni dei Gonzaga). Persa la collezione dei dipinti di Janos
Listy, morto a Venezia, stimata da Niccolò Bambini e Gregorio
Lazzaroni: anche con opere di Tintoretto e Bassano. Il fenomeno è ancora più macroscopico nell’attuale Repubblica Ceca:
in Moravia, nasce la raccolta di Karl von Liechtenstein, vescovo di Olomouc; e a Praga, quella del nobile Jan Humprecht
Czernin (figg. 4, 5), più volte a Venezia, mecenate e committente anche in laguna. Plenipotenziario di Leopoldo i, nel
1663 possedeva già trecento dipinti, e comperava ancora; per
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5. Il lato di Palazzo
Czernin sul giardino di
Praga che giunge fino al
cinquecentesco quartiere
di Novy Svet (Nuovo
Mondo).
The side of Palazzo
Czernin on Prague
gardens, which reaches
through to the 16thcentury district of Novy
Svet, New World
6. Domenico Fetti, Copia
dalle Nozze Aldobrandini,
Praga, Národni Galerie,
già in Palazzo Ducale a
Mantova e dal 1655 nella
collezione dell’arciduca
Leopoldo Guglielmo.
Domenico Fetti,
Aldobrandini Wedding Couple,
Prague, Národni Galerie,
formerly in the Ducal
Palace, Mantua, and from
1655 in the collection of
the archduke Leopold
William.
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tre anni vive sul Canal Grande: nel 1661, ha diciannove Pietro
Della Vecchia; per lui, lavorano ventun pittori della città, tra
cui Liberi, Sebastiano Mazzoni, Loth, Girolamo Forabosco,
Giovanni Battista Langetti. A Bruxelles
nel 1647, conosce l’arciduca Leopoldo
Guglielmo: lo aiuta a creare la più
straordinaria collezione, oggi l’ossatura
del Kunsthistorisches Museum a Vienna
(fig. 6). Ma oltre ai contemporanei, nel
più grandioso palazzo nobiliare di Praga
presso la Chiesa di Loreto, Czernin ammassa Giorgione, Tiziano, i Bassano; e i
discendenti continuano, anche se nel
1778 la raccolta subisce pesanti vendite
all’asta, e poi diventa Lobkowicz per un
matrimonio (fig. 7). C’è perfino La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro in cui Antonio Zanchi (17311722) riprende il celebre soggetto di Veronese a palazzo Pisani
Moretta (ormai a Londra), mentre a Venezia, a palazzo Albrizzi, è il suo Alessandro accanto al corpo di Dario.
Y Raccoglie veneziani anche Frantisek Antonìn Hovora, conte
Berka di Dubà (1647-1706); è un amore vero: diviene plenipotenziario in laguna dal 1699 al 1703, sposa una Montecuccoli.
Nel 1692, redige un catalogo, per vendere parte della raccolta al
principe Liechtenstein (ma gli non riesce); i suoi quadri sono
alla Galleria Nazionale di Praga; firme anche altolocate ma assai
meno le tele (fig. 8): spesso, sono di Palma il Giovane, qualche
«Soldato di Giorgione» cela Pietro Della Vecchia (figg. 9, 10). A
Praga, oltre ai Lobkowicz (uno va a Londra per acquistare cavalli, però torna con tanti quadri: anche due Canaletto), altri nobili compravano tele veneziane: i Rosenberg; i Nostitz; i Liechtenstein (iniziano nel Quattrocento, quando Giorgio ii è prevosto a Santo Stefano di Vienna); gli Albrecht di Wallenstein, duchi di Frydlant (quattro Vedute di Michele Marieschi; ospitano
anche Casanova); i conti Kaunitz (vedi p. 9, 840 pezzi a Slavkov;
alla fine, saranno oltre duemila dipinti; anche due Jacopo Amigoni, di quando stava a Monaco di Baviera, fig. 11). Più tarda la
raccolta dei conti Sternberg (nel 1704, 650 quadri). Al castello
di Dobris è finito, chissà come, un bel Capriccio con colonnato di Canaletto, simile a uno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Y Buona parte delle raccolte private sono ormai nei musei (un
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libro del 1937 ne contava quindici d’arte, di livello internazionale, soltanto in Romania); così, per dirne una, a Budapest, la
Pinacoteca statale sembra un dizionario di storia dell’arte nel
Veneto: non manca nessun nome, più o
meno grande, dal Quattrocento in poi.
E analogamente in tutte le altre attuali
capitali. Budapest, poi, oltre alla collezione Esterházy (l’omonima Madonna di
Raffaello, Correggio, Leonardo, Dürer,
Rembrandt), si fregia anche di un interessante dono del 1836 dell’arcivescovo
Eger János László Pyrker (1772-1847),
che tra l’altro comprende la Sacra conversazione di Tiepolo, il Ritratto di Caterina Cornaro di Gentile Bellini (vedi p. 49) e il
Ritratto di giovane uomo di Giorgione (fig.
12): un’antica dicitura sul dipinto forse
ne rivela anche il nome, Antonio Brocardo. Perfino gli angeli che sorreggono
l’urna sepolcrale sull’altar maggiore del
Duomo di Praga derivano da una tipologia veneziana: Corradini «rivede in
formula fantastica ciò che aveva già visto» in laguna; forse, il prototipo è l’altare maggiore di San Pietro di Castello
di Longhena, dove sull’urna è in ginocchio il beato Lorenzo Giustiniani, scolpito nel 1665 da Giusto Le Court; ma
altre sono a San Giuliano e, per l’urna
di san Crescenzione, alla Salute. Ancor
più numerosi i dipinti delle raccolte ecclesiastiche, specie a Praga e Olomouc
(in parte finite a Kromĕříž, che ha anche il Marsia di Tiziano, un Veronese,
quattro Jacopo Bassano, fig. 13): ai vescovi, le parrocchie, i monasteri e i conventi, Venezia, evidentemente, piace moltissimo.
Y Per carità: è soprattutto il Seicento e non lo sfolgorante
Cinque, dei più celebri campioni dell’arte; è specialmente il secolo in cui, tra le lagune, l’arte pittorica è anche il frutto dell’appeal dei grandi nomi precedenti, e, oltre a quelli nati in città
(fig. 14), prosperano gli artisti che all’ombra di San Marco si
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7. Sebastiano Ricci,
L’Assunzione della Vergine,
Mĕlník, collezione Mĕlník
Lobkowicz, in prestito alla
Národni Galerie di Praga.
Sebastiano Ricci, The
Assumption, Mĕlník, Mĕlník
Lobkowicz collection, on
loan to the Národni
Galerie of Prague.
8. Palma il Giovane, Cristo
e l’adultera, Praga, Národni
Galerie; il quadro, già del
conte Františ Antonin
Berka di Dubá prima del
1692, era ritenuto di
Tintoretto, poi di
Veronese.
Palma Giovane, Christ and
the Adulteress, Prague,
Národni Galerie; the
painting, formerly owned
by Count Františ Antonin
Berka di Dubá until 1692,
was thought to be by
Tintoretto, then by
Veronese.
abbeverano. Tra loro, Domenico Fetti da Roma e Mantova; Johann Liss da Oldenburg; Bernardo Strozzi da Genova; Loth da
Monaco; Saraceni dalla città dei papi; Nicolas Regnier che, da
Roma, diventa Nicolò Renieri e dal 1625 ha subito successo: già
nel primo anno veneziano acquista sue opere il principe Liechtenstein, mentre Saraceni è presto in bella vista nel Castello a
Praga; sono, rispettivamente, un’Allegoria della Sapienza (simile a
una di Palazzo Reale a Torino; questa, del 1626; fig. 15), accompagnata da quella della Vanità; e un San Sebastiano (fig. 16), che
risente dell’Estasi di san Francesco di Caravaggio di Hartford, dipinto verso il 1606 a Roma e presto migrato.
Y Bona Sforza (1494-1557), dal 1518 regina polacca e granduchessa di Lituania, stringe già i legami con la Serenissima, che poi
s’intensificano. Nel suo secolo, arrivano Giovan Battista Ferro e
“Petrus Venetus”: lascia una grande Crocifissione nella cattedrale di
Cracovia nel 1547, che ancora ricorda Mantegna. Re Sigismondo Augusto, morto nel 1572, inizia una collezione di quadri. Ma
molto muta con Sigismondo iii e il maresciallo di corte Mikolaj
Wolski. A Venezia, era di moda Antonio Vassilacchi, detto l’Aliense (1556-1629), e nella sua bottega nascono le opere, religiose e non, per il sovrano (fig. 17). Lo vorrebbero pittore di
corte; ma lui rifiuta, come già con Filippo ii di Spagna. Invia in-
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a praga, varsavia, bucarest, sofia infiniti artisti e curiosità
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9. Pietro Della Vecchia,
Lo spadaccino bianco, Praga,
Národni Galerie; negli
inventari del conte Berka
di Dubà, era attribuito a
Giorgione.
Pietro Della Vecchia,
The White Swordsman, Prague,
Národni Galerie; in the
inventories of Count
Berka di Dubà, it was
attributed to Giorgione.
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vece il primo aiuto, Tommaso Dolabella, bellunese, in origine
forse Della Bella, che vive in Polonia oltre cinquant’anni. Le sue
opere sono andate distrutte dal fuoco; restano invece a Venezia
un soffitto di Palazzo Ducale con il doge Cicogna
che adora il Sacramento;
opere sacre dai domenicani polacchi; una Battaglia
di Lepanto nel castello; il
merito di aver importato
la pittura storica. Anche
Palma il Giovane dipinge
per il re, e a San Giovanni, a Varsavia; merita il
Guinness della sfortuna una
Madonna con il Battista e san
Stanislao: la prende Napoleone; viene restituita;
poi fatta saltare, con la
chiesa, dai nazisti nel
1944. A Tintoretto, il
cancelliere Jan Zamoyski
commissiona pitture per
812 fiorini: però arriveranno nel 1604, con cinque anni di ritardo.
Y Singolare è il caso di
Lorenzo Bellotto, primogenito quasi ignoto di Bernardo, nato
forse nel 1744. Alcune indagini in Polonia hanno permesso di
contraddire chi non gli riconosceva alcuna tela: firmata ed eseguita a ventun’anni, a Dresda, una Veduta ideale finita a Northampton (Massachusetts). E sue, in collaborazione con il padre, una
Veduta di Roma con la piazza della Rotonda e una Veduta di Roma con il Foro
Boario, finite al museo Puškin di Mosca e firmate «Canaletti» nel
1769. Per Stanislao Augusto, collabora con il padre in quattordici dipinti, di cui sei Vedute di Roma identificate, che rileggono incisioni di Piranesi. Del figlio, morto nel 1770, le parti «più deboli» delle tele, mentre Bernardo opera per i Liechtenstein e i
Kaunitz: almeno in due Vedute di Vienna e due Vedute di Varsavia; in
una di queste, si riconoscono in un angolo il padre, che dipinge parlando con il re, e il geografo di corte Ermanno Carlo di
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10. Pietro Della Vecchia,
Lo spadaccino rosso, Praga,
Národni Galerie, pure
creduto un Giorgione.
Pietro Della Vecchia,
The Red Swordsman, Prague,
Národni Galerie, also
thought to be a
Giorgione.
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Perthées suo genero, con il figlio, morto nell’anno della tela
(figg. 18, 19). Lasciano anche il bozzetto per un soffitto nel castello di Ujasdow. Con un salto di qualche decennio (Bellotto senior scompare a Varsavia,
1780), per Isabella Czartoryski e Stanislao Lubomirski, Antonio Canova
(1757-1822) inventa l’Amorino stante (fig. 20), coniugando all’estasi amorosa l’interpretazione
dell’idea di re; da lui i
coniugi volevano anche
un Venere e Adone; Valeria
Tarnowska, nello studio
a Roma, compera un Perseo, ormai a New York, al
Metropolitan; e l’Est europeo ridonda di costruzioni ispirate da Andrea
Palladio (l’irrealizzato
progetto per la Casa
Bianca di Thomas Jefferson è la più fedele tra
le imitazioni della Rotonda nel Vicentino): Stanislaw Potocki voleva simile a San Giorgio Maggiore la chiesa di Sant’Anna a Varsavia.
Y Oltre all’arte, il pentagramma. Nelle biblioteche veneziane
restano tanti brani musicali per i regnanti di quella fetta di Europa, o loro dedicati: dal Forestiere illuminato intorno le cose piu rare, e curiose, antiche, e moderne della citta di Venezia, e dell’isole circonvicine; con la descrizione delle chiese, monisterj, ospedali, Tesoro di S. Marco, fabbriche pubbliche... Opera adornata di molte bellissime vedute in rame delle fabbriche piu cospicue di questa metropoli. Prodotta sotto gli auspicj di s.a.r. Federigo Cristiano principe reale di Polonia e elettore di Sassonia, incisioni di Francesco Zucchi
e Giuseppe Filosi, edito da Giovanni Battista Albrizzi nel 1740,
alla “ecloga piscatoria” Mopso di Antonio Vivaldi: una sorta di serenata ammirata da Ferdinando di Baviera nel carnevale 1739 e
ormai perduta; al Coro delle muse l’anno dopo, «serenata da cantarsi a
sua altezza Federico Cristiano figlio del regnante Augusto di Polonia ed elettor di
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Sassonia dalle figlie di coro del pio Ospitale della Pieta di Venezia», su libretto
di Carlo Goldoni, musica di Gennaro d’Alessandro, maestro di
cappella (per la sera, Vivaldi scrive la Sinfonia rv 149). Coeve
Partenope nell’Adria, serenata per festeggiare le felicissime reali nozze di sua maesta
D. Carlo Borbone Re delle Due Sicilie con la
principessa Amalia figlia di Federico Augusto
3. elettore di Sassonia Re di Polonia di
Ignazio Fiorillo, su commissione
di Giuseppe De Baesa, l’ambasciatore delle Due Sicilie, testo di
«Bastian Bianciardi detto Domenico Lalli»; e L’Olimpiade di Giovan
Battista Pergolesi, fatta eseguire in
autunno dallo stesso ambasciatore,
che evidentemente si dava da fare,
al teatro Grimani di San Giovanni
Crisostomo. Coinvolti nei concerti dell’anno i quattro ospedali
veneziani: Vivaldi dirige le putele di
quello di Santa Maria della Pietà.
A carnevale 1739, per Federico
Cristiano al Grimani, tocca al Viriate, dramma per musica di Adolphe Hasse, testo del solito Lalli;
Cleonice gli è dedicata nel 1740:
stesso teatro e autore, ma libretto
di Pietro Metastasio. Quell’anno,
debutta al Sant’Angelo, Candaspe regina de Sciti, parole di Bartolomeo Vitturi, musica di Giovanni
Battista Casali: opere (ma spesso anche autori) di cui anche gli
specialisti, ormai, si sono abbondantemente dimenticati.
Y Tre secoli fa, Praga era un’autentica “miniera” di musica veneziana, specialmente sacra. Come a Kromĕříž, vi si conservano
parecchi “fondi”: nomi a cavallo tra Sei e Settecento, da Antonio Caldara ad Antonio Lotti a Marc’Antonio Ziani. Il riminese Antonio Draghi scrive l’oratorio Abelle di Boemia o San Venceslao, e
Giovanni Maria Bassani, padovano, trasforma in aria tedesca
l’Armonia delle Sirene, 1680; si fa tedesco anche Corelli, cui si adattano le parole O reiner Himmelbrot. Lotti è a Praga con una compagnia d’opera; in città, vi sono oltre cento composizioni, è a servizio anche a Dresda: dalla sua Missa sapientiae, Jan Dismas Zelenka
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11. Antonio Celesti,
La sposa di Roma, Castello di
Slavkov (Austerliz), Museo
Storico; è tra i dipinti
raccolti dai Kaunitz
rimasti nella Repubblica
Ceca e non trasferiti a
Vienna.
Antonio Celesti, The Bride
of Rome, Slavkov Castle
(Austerlitz), Historical
Museum; it is one of the
paintings collected by the
Kaunitz that remained in
the Czech Republic and
was not transferred to
Vienna.
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trae una copia che è antigrafo di quella che Bach fa per sé. Vi sono anche musicisti di cui sappiamo poco, come Francesco Antonio Urio, maestro di cappella ai Frari. Nel 1723, Caldara scrive
a Praga un solenne graduale; ma in città c’è molto altro di suo.
Per rendere le armonie più solenni, si aggiungono dei tromboni: per esempio, a un Magnificat vivaldiano. Tra i veneziani (o
quasi), presenti Antonio Bertali, Alessandro Grandi, allievo di
Giovanni Gabrieli e vice di Monteverdi a San Marco, Giovanni
Battista Bassani, Giovanni Alberto Ristori (il cui Orlando furioso,
prima opera, debutta nel 1713 a Venezia): è figlio dell’organizzatore di una delle compagnie di teatro di cui diremo; a Dresda, al
servizio dell’elettore di Sassonia Augusto ii, dirige la Cappella di
Polonia dal 1718 al 1733.
Y In quel Paese, il teatro italiano di Ladislao iv Vasa, dal 1632
al 1648, è ricordato come «manifestazione delle più riuscite del
barocco; il grande emporio musicale e teatrale fu Venezia», dove si formano due compagnie per Dresda e Varsavia, che raggiungono Mosca, o durano al proscenio una ventina d’anni a
inizio Settecento. In quella di Andrea Bertoldi, è attrice Maria
Giovanna Farussi, detta Zanetta Buranella, madre di sei figli tra
cui Giacomo Casanova. Il più alto poeta diventa Metastasio; e
quando nel 1765 la capitale inaugura il primo teatro aperto al
pubblico a pagamento, il direttore, Carlo Tomatis (un giocatore
d’azzardo che si spaccia per conte), mette in scena quasi soltanto opere di Goldoni: dieci in poco tempo, anche musicate dai
veneziani Piccinni, Gassman, Galuppi; era arrivato in Polonia
proprio dalla Serenissima, portandosi una trentina di persone. Del
resto, Arlecchino e Pantalone, in quei tempi, percorrono tutto
il continente.
Y Anche le plaghe a tutta prima maggiormente estranee alle correnti dell’arte occidentale hanno un che di veneziano: nel Settecento, per tanti anni, Antonmaria Del Chiaro, a Bucarest, è segretario del potente voivoda Constantin Brâncoveanu, che fonda
chiese e monasteri ortodossi; descrive il palazzo sorto dal 1459, di
cui restano solo le memorie; la sua chiesa, del 1558, era la più antica nella capitale: fino a metà Ottocento, vi venivano conferiti i
poteri ai principi della Valacchia. Un San Girolamo penitente di Lorenzo Lotto (fig. 21), già del barone Samuel Bruckenthal di cui
diremo, diverso da quelli del Louvre e dal quasi coevo esemplare
di Castel Sant’Angelo a Roma, dipinto verso al 1513, è rimasto al
Museo nazionale (e a Cracovia, una Madonna: pure giovanile e an-
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12. Zorzi da Castelfranco,
detto Giorgione, Ritratto di
giovane uomo (Antonio
Brocardo?), Budapest,
Hungarian Szépművészeti
Múzeum.
Zorzi da Castelfranco,
called Giorgione, Portrait of
a Young Man (Antonio
Brocardo?), Budapest,
Hungarian Szépművészeti
Múzeum.
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che lei scoperta da Bernard Berenson), con una Vergine, circa
1430, di Domenico Veneziano. Vetri e specchi di Murano a Sinaia: nel castello un po’ kitsch di Peles, palazzo reale di Carol i dal
1870; e in giardino, statue, fontane e vasi veneziani. Interessante
in Transilvania, tra fortezze del Cinquecento e ricordi dei Daci, è
Sibiu (in latino Cibinium, in ungherese Nagyszeben e in tedesco
Hermannstadt, per chiarire, nei mutevoli confini, la koiné dei
luoghi), capitale europea della cultura nel 2007, prima città della Romania con la luce non a gas (1896), e seconda in Europa con
un tram elettrico (1904). Bruckenthal, governatore e consigliere
di Maria Teresa d’Austria, impegna la vita a collezionare: i dipinti più rilevanti sono al museo di Bucarest: anche Antonello da
Messina (fig. 22) Tiziano e Lotto; ma nella galleria del palazzo, a
Sibiu appunto, c’è ancora, tra l’altro (figg. 1, 23), un Ecce Homo di
Tiziano (fig. 24), con ben 300 mila libri.
Y Tra tanti scambi positivi, ne esistono pure di assai meno nobili. Fin dal x secolo, le popolazioni dell’Est europeo e quelle slave approdano al nostro Paese anche in catene. Fuggono, o sono
portate, al Nord e al Sud; verso il Mille, a Palermo esiste la Porta
Slavorum. I patriarchi di Aquileia le chiamano in Friuli come forza lavoro: tra Gradisca e Palmanova, fino al xii secolo, nascono
settanta villaggi sloveni. Nella penisola, acquistano schiavi quaranta città italiane; stando al doge Tommaso Mocenigo, Venezia,
ancora nel xv secolo, ne vende almeno mille all’anno soltanto a
Milano, per 30 mila ducati; nel 1661, novantadue bosniaci acquistati alle Bocche di Cattaro, per lo più donne e bimbi. Del resto,
nell’Islam che ingloba parte di quelle terre, la schiavitù vive fino a
tutto il xix secolo. A Venezia, esistono poi anche dei gruppi organizzati: la Scuola dalmata di San Giorgio e Trifone, con il suo
ciclo dei tre Carpaccio incentrati su San Giorgio uccide il drago, è di
metà Quattrocento; e del 1528 la chiesa in calle dei Furlani. Per
non dire delle spie, in quelle marche di confine (dal 1396, per
cinque secoli, la Bulgaria è nell’impero turco), spesso infiltrate o
intercettate: dipende. Proprio in funzione di bastione antiIstanbul esplicano buona parte delle attività meno confessabili.
Y Si chiamano raccordi i memoriali presentati al Consiglio dei
Dieci, tra i massimi organi della Repubblica, preposto alla sorveglianza; in uno, il cavalier Pietro Franco, a marzo 1600, da
Varsavia, promette un intervento dell’imperatore, per evitare
furti e omicidi degli Uscocchi, cristiani in fuga dal Turco sull’Adriatico, divenuti pure pirati. Talora, le spie erano doppie: a fi-
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13. Antonio Bellocci, Iride
e Alcione, Kromĕříž,
Arcivescovado di
Olomouc, Castello.
Antonio Bellocci, Iris and
Alcyone, Kromĕříž,
Archbishopric of
Olomouc, Castle
collection.
14. Pietro Della Vecchia,
Apollo, Praga, collezione
famiglia František Křižík.
Pietro Della Vecchia,
Apollo, Prague, František
Křižík family collection.
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ne secolo, il servita Aurelio Boccalini informa il re di Polonia
finché, smascherato dall’ambasciatore a Varsavia Giovanni Tiepolo, muta fronte e passa al servizio degli Inquisitori; intanto, il
nunzio pontificio Vincenzo dal Portico aveva mandato degli “avvisi”, e un ignoto sottratto lettere che, nel 1646, Boccalini spedisce a Ladislao iv; 80 anni dopo, spende dei bei quattrini l’ambasciatore a Vienna per “coltivarsi” un tale, che ogni anno viaggia in Moldavia e Valacchia. Da Vienna all’Ungheria, per dieci
anni fino al 1747, è ottimo informatore il segretario del conte
Luigi Pio di Savoia, poi ambasciatore d’Austria, dove egli continua l’attività segreta. E in Ungheria diventa governatore Alvise
Gritti, il figlio naturale del doge Andrea (suoi ritratti di Tiziano
sono ora al Metropolitan di New York, vedi p. 51, alla National
Gallery di Washington e – forse – di Londra, in una raccolta del
Wisconsin; quando si dice altrove).
Y Nel 1570, il Consiglio dei Dieci invia “esploratori”, per cento ducati e una cifra per ottenere informazioni, a Erdel, in
Transilvania; anche il prete Francesco Lunato: talora, la tonaca è
comoda. Pure fra’ Cipriano da Lucca non ha troppe remore: è al
servizio dell’imperatore, difende con il papa gli Uscocchi, poi a
Praga critica la fortezza di Palma che si sta costruendo, e va in
Croazia; Venezia cerca invano, per cinquecento ducati, di «trovar persona che per alcuna via cauta gli habbia a levar la vita». La
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guerra al Turco è senza quartiere: perché ne incendino la flotta,
la revoca di un bando e cinquemila ducati, alcuni versati in anticipo però tagliati a metà, sono promessi a due fratelli di Napoli in
Romania nel 1467, e presto giungono due altre offerte analoghe.
L’ennesima è del 1695, sempre dalla Romania: Giacomo Galizi,
greco, non ha successo: è introdotto tra i mercanti di schiavi, alcune spie dicono che, in realtà, miri a bruciare le galee. In Ungheria, a marzo 1528, sono invece avvelenate le uve (ed era ancora lontana la guerra tra Tocaj e
Friulano), e ben due volte s’era già
progettato di far fuori il re d’Ungheria, nel 1415 e 1419: «Non solum bonum, sed necessarium».
Y Venezia non deve soltanto difendere le terre, ma perfino proteggere i commerci, tutelare i prodotti. Così un altro prete, padre
Ercolini, nel 1751 compie un lungo viaggio, anche in Moravia e
Ungheria, per un’azione non
troppo pastorale: sapere dei trattati commerciali, le tariffe, le fabbriche. E (nomen omen) Marco Carburi, docente di Chimica sperimentale a Padova, per ammodernare quelle di rame visita in quattro anni miniere, fabbriche e zecche di Piemonte, Austria, Germania, Boemia, Ungheria. Nel 1740
e 1750 c’è pericolo di peste: spediti confidenti anche in Ungheria (e
il capitano Francesco Butcovich fino in Valacchia), per sapere del
contagio. Ma ogni tanto, la Serenissima si lascia scappare l’affare: a fine Cinquecento, l’ebreo Abramo
Colorni le offre un trattato di
“Scotographia”, summa crittografica per rendere sicure le comunicazioni; i funzionari del doge
non rispondono, e così, tre anni dopo, nel 1593, egli lo pubblica a Praga (fig. 25). Perché nessuno è mai perfetto, vero?
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among spies, paintings and
symphonies venice is very close
to central-eastern europe
the regest
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Fabio Isman
15. Nicolas Regnier, poi
Nicolò Renieri, Allegoria
della Sapienza, Opava, Slezké
semské muzeum,
per dono del principe
Johann ii von
Liechstenstein.
Nicolas Regnier, then
Nicolò Renieri, Allegory of
Wisdom, Opava, Slezké
semské muzeum, gifted by
Prince Johann ii von
Liechstenstein.
Y That much troubled part of Europe, with often very changeable confines, that to the east does not border Austria, Russia
nor the grand empire of the Turkish sultan (of which Hungary
was the demarcation), always had quite a lot to do with the Serenissima. In Venice, the taking of Buda filled the pages of Girolamo
Albrizzi’s Giornale dal Campo Cesareo in 1686, and, ten years later,
Teodoro Mioni wrote about it in La Turca fedele. Early relations:
San Gerardo Sagredo collaborated with the Magyar king Santo
Stefano, who was crowned by Pope Sylvester i in 1001. And in the
fifteenth century, when Venice did not resemble any other city,
not only in terms of its physical nature, the ties were already
close, possibly through Matthias Corvinus’s famous library. The
Republic sent him brocades in 1461 and 1464 for the coronation; and he, in 1476, purchased jewellery and a necklace in
Venice, a wedding gift for his fiancé Beatrice of Aragon, who is
portrayed on a codex wearing precisely that jewel. Matthias’s
manuscripts went into the Marciana: four of them remain, of the
180 known that are scattered around the world in 42 libraries. A
monk, sent by the king, lived and died in the convent of San Zanipolo: the prior obtained at least the illuminated codex Averulinus,
divided into 25 books, presented in Italian in 1482 to Matthias,
who had it translated into Latin. The third book describes the
marble of Carrara and its use in St Mark’s; it cites “Angelus Muranus”, who invented the decorations in coloured glass, and his
painter son, buried in Santo Stefano; it explains how the Venetians built bridges. Three of the 189 Corvine printed appeared in
Venice; one of them, of 1473, is by a founder of art in the city,
Vindelinus de Spira (the first book, of 1469, is the Epistolae ad familiares by Cicero, fig. 2). It seems that “Maestro Cassianus”,
artist of codices, learnt the art in Venice and worked in Buda; on
the other hand there are some who attribute the etchings in
Francesco Colonna’s Hypnerotomachia Poliphili of 1499, ‘the most
beautiful book in the world’ (fig. 3), to Benedetto da Padova.
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16. Carlo Saraceni,
San Sebastiano, Praga,
collezioni del Castello,
acquisito prima del 1685.
Carlo Saraceni, Saint
Sebastian, Prague, Castle
collection, acquired
before 1685.
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King Matthias was tied to the Zeno: Caterino, in 1471 ambassador of the kings of Persia and Georgia, became a knight in Buda. Matthias asked him for an organ, which was not sent as he
died first, and is now in the Museo Correr. In the sixteenth century, Niccolò Zeno owned 100
Corvine: illuminated parchments,
original bindings. These too are
now scattered elsewhere.
Y The connections subsequently
became more numerous, also in
other parts of that Europe. From
the seventeenth century to the first
half of the eighteenth, more than
100 Italian artists worked in Hungary, many born in Venice. There
were more sculptors and painters in
the court of the prince of Transylvania than architects, though 500
fortresses were raised by military
builders, among whom was the
Venetian Agostino Serena; he is remembered by an inscription on the
doorway of Radnut castle. He also
worked for Prince Gyorgi Rakoczi i,
and died on his way home. Venetians also fortified Tokaj, Sarospatak and Szamosujuvar. But there were certainly more artists
working with brush than T square and compass. The Hungarian
prince Gabor Bethlen wrote to Carlo Saraceni, ‘Carlo Veneziano’, to invite him to his court; and Pietro Liberi went
there, too: Leopold i made him a noble, his Reclining Venus is at the
Esterházy. Among the sculptors, Antonio Corradini (16681752), in Vienna for eight years, sculpted the holy sarcophagus in
Gyor, appreciated by Charles vi: it recalls his sepulchre of Saint
John of Nepomuk in Prague cathedral; and Giovanni Giuliani, a
Cistercian in Heiligenkreuz (Venice, 1663 - Austria, 1744), left
a Via Crucis in Pozsony, now in Bratislava museum, a venerated
statue of the Virgin at the Carmelites of Gyor and an altar in
Baratudvar, which is the Austrian Mönchhof. Michele Fabris,
called Ongaro, however, migrated. He was born in Hungary in
1644, worked in Venice and died there 40 years later. He mar-
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17. Antonio Vassillacchi,
detto l’Aliense, La raccolta della manna,
Praga, collezioni del Castello,
dove è documentato dal 1685.
Antonio Vassillacchi, called Aliense,
The Gathering of the Manna, Prague,
Castle collections, where it was
documented from 1685.
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18. Bernardo Bellotto,
Veduta di Varsavia con la Vistola
dal sobborgo di Praga, Zamek
Kròlewski w Warsawie,
collezioni del Castello
reale, ordinato dal re
Stanislao Augusto forse
nel 1770.
Bernardo Bellotto, View of
Warsaw with the Vistola from the
Suburb of Prague, Zamek
Kròlewski w Warsawie,
Royal Castle collections,
commissioned by King
Stanislaus August possibly
in 1770.
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ried Zaneta Laghi; ‘he earns a lot, but his vices cause him to consume plenty’; his son Michele sold books in Venice; he left works
in the Salute, in San Pietro in Castello, in San Clemente and
Murano, and worked with Baldassarre Longhena in the chapel of
Francesco Vendramin. Janos Spillenberger worked for a long
period in Venice, with Johann Carl Loth; Janos Kupezky was also successful – he was portrayed by the Nuremberg painter Johann Blendinger; the painting, formerly in Schulenburg, is now
in Munich. Johann Justus Preisler, Paul Troger and Daniel Gran
also stayed there (the latter painted at Villa Cornaro). In exchange, several Venetians worked in Prague: Giulio Licinio (who
died there at the end of the sixteenth century; his paintings were
in Bratislava castle), Giacomo Contarini (possibly from 1579 to
1593, before going home) and Paolo Piazza, who arrived after
1600, under the name
of Fra Cosmas. But also
the German Hans von
Aachen, who died in
Prague in 1615 and
from 1574 worked in a
Venice workshop, and
many others. The horizons changed with the
conquest and sack by
the soldiers of Christine of Sweden in 1686.
Y Venetian art was at
home in Prague castle
(we note elsewhere), if only because Rudolph ii had been educated by his uncle Philip ii in Madrid, where the worship of Titian had been cultivated since April 1548, when Charles v had
called him in great haste to paint the prototypes of the equestrian portraits that then inspired Rubens, van Dyck and Velázquez.
A century after it was painted in 1506, Rudolph wanted the very
Venetian Virgin of the Rosary by Albrecht Dürer from San Bartolomeo, at the foot of the Rialto bridge (see p. 52), in Prague.
He asked Veronese to decorate two ceilings in the Summer
Palace; who also painted the jeweller Jakob König (see p. 96) in
1575 (possibly as a gift to the emperor). Paulus Franck, called
Paolo Fiammingo, who died in Venice in 1596, left more than six
paintings in the castle of the city of Kafka, Smetana and Dvořák,
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19. Bernardo Bellotto
che dipinge, con il figlio,
morto in quello stesso
anno, particolare della
fig. 18.
Benardo Bellotto with his
son, detail of Fig. 18: the
son, who died that year, is
seen in the painting with
the artist painting.
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above Charles Bridge, where Mozart’s Don Giovanni was first performed and which evokes the Golem of the Great Rabbi Lehuda
Löw ben Bezalel and the alchemists of the Golden Lane.
Y Collecting was widespread: the Transylvanian prince Gabor
Bethlen furnished the palace with purchases from Venice, and
was in contact with the merchant Daniel Nys (who sold the Gonzaga assets in Venice). The painting collection of Janos Listy,
who died in Venice, containing works by Tintoretto and Bassano, and praised by Niccolò Bambini and Gregorio Lazzaroni,
is lost. The phenomenon is even more macroscopic in the present Czech Republic. The collection of Karl von Liechtenstein,
bishop of Olomouc, was begun in Moravia; and in Prague that
of the nobleman Jan Humprecht Czernin, who visited Venice
several times and was a patron and client here, too (figs. 4, 5).
Plenipotentiary
of
Leopold i, in 1663 he
already owned 300
paintings and bought
more; he lived on the
Grand Canal for three
years. In 1661 he had 19
works by Pietro Della
Vecchia; 21 painters
from the city worked
for him, among whom
were Liberi, Sebastiano
Mazzoni, Loth, Girolamo Forabosco and
Giovanni Battista Langetti. In Brussels in
1647, he knew the archduke Leopold William: he helped him create his extraordinary
collection, now the basis of the Kunsthistorisches Museum in
Vienna (fig. 6). But apart from contemporary artists, Czernin
also collected Giorgione, Titian and the Bassanos in his
grandiose noble palace in Prague near the Church of Loreto;
and the descendants continue, though in 1778 the collection
suffered from major auction sales, and then became Lobkowicz
by a marriage (fig. 7). There is even The Family of Darius before
Alexander in which Antonio Zanchi (1731 -1722) takes up the celebrated subject painted by Veronese in the Palazzo Pisani
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20. Antonio Canova,
Amorino stante o Amorino
Lubomirski, 1786, Lańcut,
Muzeum Zamek w
Lańcucie.
Antonio Canova, Standing
Cherub or Lubomirski Cherub,
1786, Lańcut, Muzeum
Zamek w Lańcucie.
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Moretta (now in London), while his Alexander and the Body of Darius
is in Venice, at the Palazzo Albrizzi.
Y Frantisek Antonìn Hovora, Count Berka of Dubà (16471706) also collected Venetians; it was a real love: he became
plenipotentiary in Venice from 1699 to 1703 and married a
Montecuccoli. In 1692 he drafted a catalogue in order to sell
some of his collection to Prince Liechtenstein (but was unable
to); his paintings are in the Prague National Gallery. Some of the
signatures are high-ranking, but not so the paintings (fig. 8):
many are by Palma Giovane, the odd ‘Soldier by Giorgione’ hides
Pietro Della Vecchia (figs. 9, 10). In Prague, apart from the
Lobkowicz (one of them went to London to buy horses, but came
back with lots of paintings, including two Canalettos), other nobles bought Venetian paintings: the Rosenbergs, the Nostitzes,
the Liechtensteins (they began in the fifteenth century, when
George ii was provost at Saint Stephen in Vienna); the Albrechts
of Wallenstein, dukes of Frydlant (four Views by Michele Marieschi; they also hosted Casanova); the counts Kaunitz (see p. 8;
840 pieces in Slavkov; in the end there were to be more than
2000 paintings; also two Jacopo Amigonis, from when he was in
Munich, fig. 11). The Sternberg counts’ collection was later
(1704, 650 paintings). A fine Capriccio with Colonnade by Canaletto, similar to one in the Venice Accademia, ended up, who knows
how, in Dobris castle.
Y A good part of the private collections is now in museums (a
1937 book counted 15 art collections of an international level
in Romania alone); such that, to mention only one, the State
Art Gallery in Budapest seems a real dictionary of the history of
Veneto art: no name of more or less prominence from the fifteenth century on is missing. Likewise in all the other current
capitals. Furthermore, Budapest, apart from the Esterházy collection (Raphael’s Madonna of the same name, Correggio,
Leonardo, Dürer, Rembrandt), also boasts an interesting donation made in 1836 by the archbishop Eger János László Pyrker (1772-1847), which includes the Holy Conversation by Tiepolo,
the Portrait of Caterina Cornaro by Gentile Bellini (see p. 49) and
the Portrait of a Young Man by Giorgione (fig. 12): an early inscription on the painting may reveal his name, Antonio Brocardo.
Even the angels that hold the sepulchral urn on the main altar
in Prague Cathedral are derived from a Venetian type: Corradini ‘reworked in imaginary form that which he had already
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21. Lorenzo Lotto,
San Girolamo penitente, 1513
circa, Bucarest, Muzeul
National de Arta al
României; il dipinto era
del barone Samuel von
Bruckenthal.
Lorenzo Lotto, Saint Jerome
Penitent, c. 1513, Bucharest,
Muzeul National de Arta
al României; the painting
was owned by Baron
Samuel von Bruckenthal.
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22. Antonello da Messina,
Crocifissione, Bucarest,
Muzeul National de Arta
al României; già di von
Bruckenthal, fino al 1948
era al museo di Sibiu.
Antonello da Messina,
Crucifixion, Bucharest,
Muzeul National de Arta
al României; formerly
owned by von
Bruckenthal, at the Sibiu
museum until 1948.
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seen’ in Venice. The prototype may have been the main altar in
San Pietro di Castello by Longhena, where the Blessed Lorenzo Giustiniani is kneeling on the urn, sculpted in 1665 by
Giusto Le Court; but there are others in San Giuliano and, for
the urn of San Crescenzione, at the Salute. The number of
paintings in the religious collections is even greater, especially
in Prague and Olomouc (some ended up in Kromĕříž, which
also has Titian’s Marsia, a Veronese and four Jacopo Bassanos,
fig. 13): Venice was evidently much liked by the bishops, parishes, monasteries and convents.
Y But it is mainly seventeenth-century work, not that of the dazzling sixteenth and the most famous champions of art. This is primarily the century when painting in Venice resulted partly from
the allure of the big earlier names and, apart from those born in
the city (fig. 14), artists who chose to work here also prospered.
They included Domenico Fetti from Rome and Mantua; Johann
Liss from Oldenburg; Bernardo Strozzi from Genoa; Loth from
Munich; Saraceni from the city of the popes; Nicolas Regnier,
who in Rome became Nicolò Renieri and had immediate success
from 1625: he was already bought by Prince Liechtenstein in his
first year in Venice, while Saraceni was soon being exhibited in
Prague castle; the works are, respectively, an Allegory of Wisdom (similar to one in the Palazzo Reale, Turin, of 1626; fig. 15), accompanied by an Allegory of Vanity; and a Saint Sebastian (fig. 16), which
shows signs of Caravaggio’s Ecstasy of Saint Francis in Hartford, painted around 1606 in Rome and soon taken away.
Y Bona Sforza (1494-1557), queen of Poland and grand
duchess of Lithuania from 1518, established close ties with the
Serenissima, which then intensified. In her century, Giovan Battista Ferro and ‘Petrus Venetus’ arrived, leaving a big Crucifix in
Krakow cathedral in 1547, which still recalls Mantegna. King
Sigismund August, died in 1574, began a painting collection.
But much changed with Sigismund iii and the court marshal
Mikolaj Wolski. In Venice Antonio Vassilacchi, called Aliense
(1556-1629), was fashionable, and religious and other works for
the sovereign were created in his workshop (fig. 17). The king
wanted him as court painter, but he refused, as he had previously also refused Philip ii of Spain. He sent his first assistant instead, Tommaso Dolabella of Belluno, perhaps originally Della
Bella, who lived in Poland for more than 50 years. His works
were destroyed by fire; what remains are a ceiling in the Doge’s
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Palace with Doge Cicogna worshipping the Sacrament, religious
works for the Polish Dominicans, a Battle of Lepanto in the castle
and the merit of having begun historical painting. Palma Giovane also painted for the king, and in San Giovanni, Warsaw. His
Virgin with John the Baptist and Saint Stanislaus deserves the world record
for bad luck: Napoleon took it, it was returned, then blown up
along with the church by the Nazis in 1944. The chancellor, Jan
Zamoyski, commissioned paintings from Tintoretto for 812
florins: but they arrived in 1604, six years late.
Y The case of Lorenzo Bellotto, the almost unknown first son of
Bernardo, possibly born in 1744, is interesting. Some investigations in Poland have allowed those who didn’t attribute him any
works to be contradicted: an Ideal View, signed and painted at the age
of 21 in Dresden, is now in Northampton (Massachusetts). Working with his father, he also painted two Roman Views: with the Piazza della Rotonda and the Foro Boario, which ended up in the Pushkin
Museum in Moscow signed ‘Canaletti’ in 1769. He worked with his
father on 14 paintings for Stanislaus August, of which six Views of
Rome reworking etchings by Piranesi have been identified. The
‘weakest’ part of the works is by the son, who died in 1770, while
Bernardo worked for the Liechtensteins and the Kaunitzs: at least
in two Views of Vienna and two Views of Warsaw. The father can be recognised in a corner of one of these, painting and talking to the king,
as can the court geographer Ermanno Carlo di Perthées, his sonin-law, with his son, who died in the year of this work (figs. 18, 19).
They also left the sketch for a ceiling in Ujasdow castle. A few
decades later (Bellotto senior died in Warsaw in 1780), Antonio
Canova (1757-1822) invented the Standing Cherub (fig. 20) for Isabella Czartoryski and Stanislaus Lubomirski, combining the ecstasy of love with the interpretation of the idea of king; the couple also wanted a Venus and Adonis from him. Valeria Tarnowska bought a
Perseus in the Rome studio, which is now at the Metropolitan in New
York. And in Eastern Europe there is an abundance of buildings
inspired by Andrea Palladio (the unbuilt design for Thomas Jefferson’s White House is the most faithful imitation of the Rotonda in
Vicenza); Stanislaus Potocki wanted the church of Saint Anne in
Warsaw to resemble San Giorgio Maggiore.
Y In addition to art there was the pentagram. There are many
musical pieces composed for the rulers of that part of Europe,
or dedicated to them, in Venetian libraries: from the Stranger enlightened about the rare, curious, ancient and modern things of the city of Venice,
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23. Girolamo Forabosco,
San Gerolamo, Sibiu, Museo
Nazionale Bruckenthal;
l’opera è firmata.
Girolamo Forabosco, Saint
Jerome, Sibiu, Bruckenthal
National Museum; the
work is signed.
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and of the surrounding islands; with a description of the churches, monasteries,
ospedali, Treasure of St Mark’s, public buildings... Work adorned with numerous beautiful views in copper of the most notable buildings in this city. Produced
under the auspices of HRH Frederick Christian, royal prince of Poland and elector
of Saxony, etchings by Francesco
Zucchi and Giuseppe Filosi, published by Giovanni Battista Albrizzi in 1740, to the ‘ecloga piscatoria’ Mopso by Antonio Vivaldi,
a kind of serenade admired by
Ferdinand of Bavaria at the carnival of 1739 and now lost; and the
Chorus of the Muses the following
year, ‘serenade to be sung to his highness
Frederick Christian son of the ruling August
of Poland and elector of Saxony by the
daughters of the choir of the charitable Ospitale della Pieta of Venice’, to a libretto by Carlo Goldoni, music by
Gennaro d’Alessandro, choir
master (Vivaldi wrote Symphony
rv 149 for the evening). The
Neapolitan in Adria, serenade to celebrate
the most joyful marriage of his majesty D.
Charles Bourbon king of the Two Sicilies to
Princess Amalia, daughter of Frederick August III, elector of Saxony and king of Poland by Ignazio Fiorillo, commissioned by Giuseppe De Baesa, ambassador of the Two Sicilies,
lyrics by ‘Bastian Bianciardi called Domenico Lalli’, and The
Olympiad by Giovan Battista Pergolesi, that was commissioned by
the ambassador himself, who had evidently been busy, at the
Grimani theatre of San Giovanni Crisostomo, are from the
same period. The four Venetian ospedali were involved in the
concerts that year; Vivaldi conducted the ‘putele’ from that of
Santa Maria della Pietà. At the Carnival of 1739, the Viriate, a
‘drama for music’ by Adolphe Hasse, lyrics as usual by Lalli, was
presented for Frederick Christian at the Grimani; Cleonice was
dedicated to him in 1740: same theatre and composer, but libretto by Pietro Metastasio. That year, the Candaspe regina de Sciti,
with lyrics by Bartolomeo Vitturi, music by Giovanni Battista
Casali, made its debut at the Sant’Angelo; works (but often also
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composers) that even the specialists have now completely forgotten.
Y Three centuries ago, Prague was a genuine ‘goldmine’ of
Venetian music, especially religious. Several collections are held,
such as in Kromĕříž, with names of the turn of the seventeenth
century, from Antonio Caldara to Antonio Lotti and Marc’Antonio Ziani. Antonio Draghi of Rimini wrote the oratory Abelle of Bohemia or Saint Wenceslas, and Giovanni Maria
Bassani of Padua transformed the Harmony
of the Sirens into a German aria in 1680;
Corelli was also made German, with the
words O reiner Himmelbrot being adapted to
his music. Lotti was in Prague with an
opera company; there are more than 100
compositions in the city, and also at the
service of Dresden. Jan Dismas Zelenka
took a copy from his Missa sapientiae, which
is the manuscript of that which Bach made
his own. There were also musicians about
little is known, such as Francesco Antonio
Urio, choir master at the Frari. In 1723
Caldara wrote a solemn gradual in
Prague; but there is much more of his in
the city. Trombones were added to make
the harmonies more solemn; to a Vivaldi
Magnificat for example. Among the Venetians (or almost) there were Antonio Bertali, Alessandro Grandi,
pupil of Giovanni Gabrieli and assistant to Monteverdi at St
Mark’s, Giovanni Battista Bassani, Giovanni Alberto Ristori
(whose Orlando furioso, his first work, had its debut in Venice in
1713): he was the son of the organiser of one of the theatre companies we shall discuss; in Dresden, at the service of the elector of
Saxony August ii, directed the Polish Choir from 1718 to 1733.
Y The Italian theatre of Ladislaus iv Vasa, from 1632 to 1648, is
recalled in that country as a ‘manifestation of the most successful
of the Baroque; the grand musical and theatrical emporium was
Venice’ where two companies were formed for Dresden and Warsaw, which went to Moscow, and remained on stage for about 20
years at the start of the eighteenth century. In that of Andrea
Bertoldi, Maria Giovanna Farussi, called Zanetta Buranella, was
an actress; she had six sons, one of whom was Giacomo Casanova.
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Metastasio became the most important poet; and when the capital
opened its first theatre to a paying public in 1765, the director
Carlo Tomatis (a gambler who presented himself as a count),
staged almost only works by Goldoni: ten in a short period, also
set to music by the Venetians Piccinni, Gassman and Galuppi. He
had arrived in Poland precisely from the Serenissima, taking with
him about 30 people. On the other hand, Harlequin and Pantaloon ran all around the continent in those days.
Y The regions, too, which were previously completely extraneous to the currents of western art, had something of Venice. Antonmaria Del Chiaro, in Budapest for many years in the eighteenth century, was secretary to the powerful voivode Constantin
Brâncoveanu, who founded Orthodox churches and monasteries; he described the palace built in 1459, of which only memories remain; its church, of 1558, was the oldest in the capital.
The princes of Walachia had their powers bestowed on them
there up until the mid-nineteenth century. A Saint Jerome Penitent
by Lorenzo Lotto (fig. 21) has remained in the national museum
(and in Krakow there is a Madonna, also an early work and also
discovered by Bernard Berenson), and a Madonna, c. 1430, by
Domenico Veneziano. The Lotto was previously owned by the
baron Samuel Bruckenthal, who will be discussed below, and differs from those in the Louvre and the almost contemporary example in the Castel Sant’Angelo, Rome, painted around 1513.
There are Murano mirrors and glass in Sinaia, in the slightly
kitsch castle of Peles, royal palace of Carol i from 1870; and with
statues, fountains and Venetian vases in the garden. In Transylvania, Sibiu (in Latin Cibinium, in Hungarian Nagyszeben and
in German Hermannstadt, to clarify the koiné of the places with
the changing borders), between sixteenth-century fortresses and
memories of the Dacians, is interesting. It was the European
capital of culture in 2007, the first city in Romania with non-gas
lighting (1896) and the second in Europe to have an electric
tram (1904). Bruckenthal, governor and councillor to Maria
Theresa of Austria, spent his life collecting. His most important
paintings are now in the Bucharest museum, including Antonello da Messina (fig. 22), Titian and Lotto; but in the palace
gallery there is still, among others (figs. 1, 23), an Ecce Homo by
Titian, along with a good 300,000 books.
Y Among the many positive exchanges, there were also those
less noble. From the tenth century, the Slav people and those of
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Eastern Europe also came to Italy in chains. They escaped, or
were taken to north and south; there is a Porta Slavorum in Palermo from around 1000. The patriarchs of Aquileia called them
to Friuli as labour: 70 Slovenian villages appeared between
Gradisca and Palmanova, up until the twelfth century. Forty Italian cities bought slaves. According to Doge Tommaso Mocenigo,
Venice still sold at least a thousand a year to Milan alone in the
fifteenth century, for 30,000 ducats; in 1661, 92 Bosnians were
bought at the Bocche di Cattaro, mainly women and children.
On the other hand, most of those countries were under Islamic
rule, which allowed slavery right through to the end of the nineteenth century. In Venice there were also organised groups: the
Dalmatian Scuola di San Giorgio e Trifone, with its cycle of
three Carpaccios centred on Saint George Killing the Dragon, is from
the mid-fifteenth century; and the church in Calle dei Furlani
dates from 1528. Not to mention the spies, in those border areas that were often infiltrated or intercepted (Bulgaria was in the
Turkish empire for five centuries from 1396): it depends. A
good part of the less easily admitted activities was related to the
bastion against Istanbul.
Y The memorials presented to the Council of Ten, one of the
highest organs of the Republic responsible for surveillance, were
called ‘raccordi’. In one of these, of March 1600 from Warsaw, the
cavalier Pietro Franco promised an action by the emperor to prevent thefts and the murders by the Uskoks, Christians fleeing the
Turk in the Adriatic who had also become pirates. At times the
spies were double agents: at the end of the century the Servite
Aurelio Boccalini informed the king of Poland until, being exposed by Giovanni Tiepolo, the ambassador to Warsaw, he
changed sides and went into the service of the Inquisitors. In the
meantime, the papal nuncio Vincenzo dal Portico had sent ‘advice’, and an unknown person stole letters that, in 1646, Aurelio Boccalini had sent to Ladislaus iv; 80 years later, the ambassador to Vienna spent considerable sums to ‘groom’ a person
who each year travelled to Moldavia and Walachia. The secretary
of Count Luigi Pio of Savoy was an excellent informer from Vienna to Hungary, for ten years until 1747; he was then ambassador in Austria, where he continued his secret activities. And
Alvise Gritti, the natural son of Doge Andrea, became governor
in Hungary (the doge’s portraits by Titian are now in the Metropolitan in New York (see p. 51), at the National in Washington
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25. Abramo Colorni, il
frontespizio della
Scotographia, overo scienza di
scrivere oscuro, edita a Praga,
1593.
Abramo Colorni, the
frontispiece of the
Scotographia, overo scienza di
scrivere oscuro, published in
Prague, 1593.
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and – possibly – in London, in a collection in Wisconsin; when
is noted elsewhere).
Y In 1570, the Council of Ten sent ‘explorers’ to Erdel in
Transylvania, for 100 ducats and with a code for obtaining information; also the priest Francesco Lunato: at times the tunic is
handy. Fra Cipriano da Lucca was also less than hesitant. He was
in the service of the emperor, defended the Uskoks with the
pope, then in Prague criticised the fortress of Palma that was being built, and went to Croatia. Venice sought
in vain, for 500 ducats, to ‘trovar persona che
per alcuna via cauta gli habbia a levar la vita’.
The war with the Turk was merciless: two
brothers from Napoli in Romania were promised a repeal of their expatriation and 5000
ducats, some paid in advance, though divided
in half, to burn their fleet in 1467, and two
other similar offers were made shortly after.
The umpteenth was in 1695, again in Romania: Giacomo Galizi, Greek, was unsuccessful: he was introduced
among the slave merchants, but some spies said that he actually
intended to burn the galleys. In Hungary, in March 1528, the
grapes were poisoned (and the war between Tocaj and Friulano was
still some way off), and it had already been planned twice to do
away with the king of Hungary, in 1415 and 1419: ‘Non solum
bonum, sed necessarium’.
Y Venice not only had to defend its lands, but even protect the
trade, safeguard the products. So another priest, Father Ercolini,
made a long journey in 1751, also to Moravia and Hungary, to fulfil a task that was not exactly pastoral: to find out about trade
agreements, tariffs and factories. And (nomen omen) Marco Carburi, lecturer in experimental chemistry at Padua, visited mines,
factories and mints in Piedmont, Austria, Germany, Bohemia and
Hungary in four years, to modernise those of copper. In 1740 and
1750 there was the danger of plague: confident expeditions also
went to Hungary (and Captain Francesco Butcovich as far as
Walachia) to find out about the contagion. But every now and then
the Serenissima let a deal slip by: at the end of the sixteenth century, the Jew Abramo Colorni offered it a treatise on ‘Scotography’,
a cryptographic summa for making communications safe; the doge’s
officers did not reply, and so, three years later, in 1593, he published it in Prague (fig. 24). Because nobody is perfect...
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come mutano i paesi negli atti della «metropoli dell’universo»
a est di vienna diplomatici
e tanti intrighi,
mercati e carne bovina
Gino Benzoni
1. Giovanni Contarini,
Caduta del regno di Saturno,
Praga, collezioni del
Castello dal 1590 circa;
l’autore era nella capitale
ceca forse nel 1579, e
certamente nel 1587 e nel
1593.
Giovanni Contarini, Fall
of the Reign of Saturn, Prague,
Castle collections from
c. 1590; the painter was
possibly in the Czech
capital in 1579, and
certainly in 1587 and
1593.
Y Gli inviati all’estero sono gli «occhi» dello stato, scorgono
per primi i «punti neri» all’orizzonte, osserva in un trattatello
del 1595, De legato (Cracovia 1595 e Dantisci 1646), il diplomatico polacco Cristoforo Warszewicki (1543-1603), avendo supponibilmente in mente quelli marciani, se non altro perché Venezia è cardine nel suo paesaggio mentale in cui proprio la similitudo istituibile tra il regno polacco e la repubblica marciana avvalora anche il suo paese; ne è ben persuasa una sua Oratio ad Rempublicam habita 4 martii… 1602 (Venetiis 1602). Costoro, assicura sempre a fine Cinquecento Scipione Ammirato, conoscono il paese
che li ospita più degli stessi abitanti. I veneziani sono proprio
«l’occhio del mondo», ha già constatato Stephan Gerlach, al seguito dell’ambasciatore cesareo David Ungnad a Costantinopoli
nel 1573-1579, così riconoscendo loro un di più di capacità
d’informazione a tutto campo. La risultanza d’uno sguardo generale, sommando le occhiate parziali degli ambasciatori nelle
capitali europee e del bailo presso il Turco, permette a Palazzo
Ducale di contemplare il «theatro del mondo», «vedere gli incendi altrui», e così «conoscere a spese d’altri» quanto a Venezia «per ben reggere se stessa, convenga», come teorizza compiaciuto Simone Contarini nel 1608, reduce dal baliaggio costantinopolitano. È anche previsione di politica estera, accorta
navigazione nel cangiar delle congiunture, calcolo di quanto si
sta annunciando come prossimo ad accadere. È in ciò affinata
una classe politica che affonda le sue radici nel lungo medioevo
in cui ha navigato mercatando, mercatato navigando, sempre ansiosa, nel suo assiduo trafficare, di notizie sulle «condizioni delle mercanzie», sui relativi prezzi, sempre pronta a situarsi negli
spazi più lucrosi della dinamica economica.
Y Ancorché decisamente rimpicciolita in un mondo enormemente dilatato dalle scoperte, definitivamente ridimensionata
nel peso relativo, enfiando, surrogatoriamente, la mediocritas ad
aurea mediocritas, Venezia nel Cinquecento si ostina a dirsi «me-
i documenti
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tropoli dell’universo». Anche se le sue navi non solcano gli
oceani, anche se estranea al rapinoso avventarsi sul Nuovo Mondo, in certo qual modo la città si risarcisce dell’assenza con il segno perentorio d’una comprensione geografica e cartografica
superiore a quella degli stessi scopritori e conquistatori. Veneziano, nel 1506, il planisfero che costituisce la prima carta a
stampa europea ricettiva delle Antille e dell’America del Sud.
Veneziano l’aggiornamento tempestivo, nel succedersi di stampe
e ristampe della Geografia tolemaica, del corredo illustrativo a tallonare il sembiante del globo d’un tratto enormizzato.
Y E, se il continente europeo non occorre scoprirlo, c’è una
vasta area – non sfuggita alle Navigationi et viaggi ramusiani – cui Venezia guarda da Palazzo Ducale e che i suoi diplomatici e i suoi
operatori commerciali e anche i da lei fuggiti per motivi religiosi hanno modo di conoscere di persona. «Tra i regni del mondo bellissimo», esclama nel 1525, al rientro dall’Ungheria, il segretario veneto Vincenzo Guidotto. Venezia è in rapporto con
Mattia Corvino (1440-1490, fig. 2), ammirata della sua reggia,
della biblioteca. «Notarius missus in Hungariam» nel 1361 Bartolomeo Ursio. E ben prima, in Ungheria, il martire, e santo dal
1083, Gerardo che, già abate del monastero benedettino di San
Giorgio in Isola, ne fonda un altro sulle rive del Maros, per diventare poi, nel 1030, episcopus di Csanád; e muore nel 1046 annegando nel Danubio, in questo spintonato da un gruppo di pagani. Ma come sarà arrivato da quelle parti il santo? Ad ogni modo gli itinerari Venezia-Buda devono essere ben usuali se Bernardo Giustinian (1405-1489), lo storico quattrocentesco di
Venezia, si premura d’indicarli. È di carne bovina proveniente
dall’Ungheria che Venezia s’approvvigiona. E all’importazione
provvedono pure mercanti veneziani che, per questo, si stabiliscono a Buda a fine Quattro e nel primo Cinquecento (fig. 3).
E tra le innumeri conoscenze di Casanova (1725-1798), stralciabile quel Pier Antonio Capretta importatore, per “incarico” del
governo veneto, di bestiame ungherese. Sulla qualità della carne
di questo, comunque, l’avventuriero non si pronuncia. In compenso, ha precise opinioni sul «vino d’Ungheria»: è robusto,
generoso; a berne troppo, non ci si regge più in piedi. Tuttavia,
nel suo girare come una trottola, a Buda Casanova non capita.
Non è una città che l’attiri. Comunque di essa, quand’è ancora
turca, si sa che consta di cinque addensamenti urbani: «il castello o fortezza»; «la città superiore»; «il borgo longo», quel-
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2. Mattia Corvino (primo
a destra, accanto a san
Venceslao e con i re
Buda iv e Maria) in un
antico disegno, pubblicato
a Firenze nel 1831 da
Giulio Ferrario, ne
Il costume antico e moderno…
Matthias Corvinus (first
on the right, next to Saint
Wenceslas and with King
Buda iv and Maria) in an
early drawing, published
in Florence in 1831 by
Giulio Ferrario,
in Il costume antico e moderno…
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lo superiore; «la città degli hebrei»; quella «d’acqua». Notevoli i «bagni caldi o terme», aggiunge il tipografo Girolamo Albrizzi in L’origine del Danubio (Venetia 1684-85).
Y Certo che l’arrivo della Mezzaluna, prima o dopo, era scontato. I settandue «contadi» del regno di Mattia, sottolinea al rientro a Venezia nel 1519 (fig. 4) Alvise Bon, si sono ridotti a cinquantacinque. Di fatto, governa il consigliere Giorgio Szakmany;
questi, che è pure vescovo, «se imbriaga volentieri», come gli altri cortigiani. Sconcertante per gli ambasciatori veneziani, abituati a un senato solito riunirsi prima e dopo «disnà», aver
a che fare con ministri con cui si tratta
solo di mattina. Smodati come sono a tavola, «da poi disnar» hanno bisogno di
almeno «4 hore» di sonno a smaltire il
troppo bere e troppo mangiare. Il che
certo non giova a guidare con senno il
minorenne Ludovico (1506-1526), il figlio di Ladislao ii Jagellone. Il ragazzo
(così, il 22 dicembre 1523, al rientro da una «legation» di cinquantacinque mesi, l’«orator» in Ungheria Lorenzo Orio) «vive
come una bestia» e «lassa» ai consiglieri il «governar», fin succube delle loro indicazioni. «Di cose di stato non capisce niente». Di autentica statura politica, invece, Giovanni Zápolyai, ultimo re nazionale ungherese. È quello che, il 24 aprile 1535, dietro
istanza del protonotario pordenonese Girolamo Rorario, nunzio
apostolico alla corte d’Ungheria, conferisce al pittore Giovanni
Antonio Pordenone e ai suoi discendenti il titolo di cavaliere; così, contento l’artista, ma anche l’ormai piccolo re, che si sente un
minimo autorevole. Antecedentemente, alleandosi con la Porta,
era riuscito a insediarsi a Buda. Qui, il 26 dicembre 1530, designa «gubernator regni Hungariae» Alvise Gritti (1480-1534), filius bastardus dell’allora doge Andrea Gritti (fig. 5), che a Costantinopoli, dove è nato e preferisce tornare, è divenuto straricco e influente. Esautorando Zápolyai, punta alla totale integrazione di
Buda nel sistema ottomano, peraltro azzardando nel 1533 l’instaurazione di un regno personale. A lui grata Venezia per l’invio
di grossi quantitativi di grano, ma non fino a compromettere i
rapporti con l’impero per sostenerne le ambizioni personali. Sicché l’aspirazione a “farsi re”, priva d’appoggio, naufraga. Ed è un
suo stesso uomo a trucidarlo il 29 settembre 1534.
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Y E in Ungheria, non più l’arrivo dei diplomatici veneziani.
Ma all’“occhio” di questi subentra l’attenzione storiografica attestata dai titoli prodotti dalle tipografie lagunari. Si va dall’anonima Historia di Zighet ispugnata da Soliman… l’anno 1556 (Venetia 1570)
a L’Ungheria spiegata… ove si leggono tutte le cose successe dal 373 d.C. al 1595
(Venetia 1595) del poligrafo Giovanni Nicolò Doglioni; a Le campagne d’Ungheria de gl’anni 1663 e 1664 (Venetia 1665) del polesano
Girolamo Brusoni; all’Idea generale del regno d’Ungheria (Venetia
1684) del benedettino, nato francese, Casimir Freschot. La
Mezzaluna, fallito l’assedio di Vienna del 1683, arretra paurosamente. Riconquistata Buda nel 1686. Ed ecco tempestivamente
stampata, a dar conto di quanto appena riconquistato, L’Ungheria
compendiata (Venetia 1687) del conte Ercole Scala, trascorrente da
Agria a Canissa, da Strigonia a Temesvar, soffermandosi di fronte al «famoso ponte di Essech». Invece non pubblicata una ponderata storia dell’Ungheria animata da
un’impostazione antiasburgica del veneziano Gian Michele Bruto (1517-1592),
scappato da Venezia nel 1555
per l’accusa di eresia; ritornato l’autore al cattolicesimo, si adopera a che resti
inedita.
Y Contigua all’Ungheria,
la Transilvania (spiega il gentiluomo veronese Leonida Pindemonte a fine Cinquecento) «siede alla sinistra del Danubio in
forma quasi d’anfiteatro». Veneto, nativo di Serravalle, Giorgio
Tomasi: già segretario di Sigismondo Báthory e protonotario
apostolico, autore dello scritto storico-genealogico La Battorea…
nella quale si contengono l’origine della casa… l’historia delle attioni… de’ Battori… (Conegliano 1609) e della monografia Delle guerre et rivolgimenti… d’Ungaria e della Transilvania (Venetia 1621). Particolare attenzione dedica il pubblico storiografo veneziano e futuro doge Nicolò Contarini (1553-1631) a Michele il Bravo: ne ricostruisce la
vicenda da vinattiere a Costantinopoli a «patrone della Transilvania, della Valacchia e Moldavia», consultando i dispacci dell’ambasciatore a Vienna e del bailo a Costantinopoli; e, quasi incarnazione dell’astuzia volpina e della forza leonina del principe
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3. I due sobborghi di
Buda e di Pest un secolo
dopo Mattia Corvino in
un’incisione del 1617,
Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana.
The two suburbs of Buda
and Pest a century after
Matthias Corvinus in an
etching of 1617, Venice,
Biblioteca Nazionale
Marciana.
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machiavelliano, l’energico processo d’unificazione tragicamente
troncato dal proditorio assassinio, del 18 o 19 agosto 1601, ordito dal generale cesareo Giorgio Basta.
Y Partendo da Venezia, il fiorentino Anton Maria Del Chiaro
raggiunge nel 1710, per Sarajevo e Belgrado, la corte valacca di
Costantino Brăncoveanu, promotore d’una ventata italianizzante tradotta in giardini, appunto, all’italiana ed edifici riecheggianti forme veneziane. Un po’ precettore, un po’ segretario alla corrispondenza, Del Chiaro è testimone angosciato dell’eliminazione, da parte della Porta, del voivoda e di quella di Stefano Cantacuzeno suo successore, nonché dell’imprigionamento,
da parte degli imperiali, di Nicola Maurocordato. Occupata dai
cesarei Bucarest il 25 novembre 1716, Del Chiaro preferisce andarsene portandosi a Vienna e da questa rientrando a Venezia. E
qui, nel 1718, stampata la sua Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia, che, oltre al racconto delle recenti vicende di quell’«infelice provincia» sino all’irruzione dei «tedeschi» (da sottolineare
l’attualità dello scritto: esce nell’anno in cui, il 21 luglio a Passarowitz, viene registrata la spinta espansiva asburgica), presenta,
primo in occidente, uno spaccato etnografico; fissati, nella percezione ambientale, «costumi, riti e religione degli abitanti».
E, soprattutto, sottolineata la «gran correlazione colla lingua latina» della «valaca favella», evidenziata dal glossario; e segnalato l’uso dell’ausiliario avere «come noi italiani». Col che un
implicito invito a riandare alla Dacia trianea. E l’Analecta lapidum
vetustorum et nonnullarum in Dacia antiquitatum (Patavini 1593), dedicata
«ad cancellarium summum» di Transilvania Wolfgang Kovacsóczy, autore questi d’una De laudibus… Stephani Batorei… voivodae
Transilvaniae… oratio (Venetiis 1571), potrebbe a tal fine esser utile.
Y E Bucarest (mai menzionata nei Diarii sanudiani; vale a dire
che, allora, nel Cinquecento, per Palazzo Ducale era invisibile)
con Del Chiaro assume un minimo di consistenza e parvenza. La
corte è un «palazzo in pietra», con marmorea «scala maestra»,
un suggestivo giardino quadrato «disegnato secondo il buon gusto» italiano, una loggia. In muratura il «recinto»: un tratto di
distinzione rispetto a tutte le altre dimore che s’accontentano di
palificate di rovere. Bucarest è «di forma rotonda» con un circuito avvolgente rade abitazioni. Sui cinquemila gli abitanti;
modestissimo il tenore di vita, salvo i pochi nobili e i forestieri
agiati, presenti nelle loro dimore «cristalli» veneziani e/o boemi. Vanto della embrionale città il monastero fatto erigere
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4. Gentile Bellini, Ritratto
di Caterina Cornaro, eseguito
verso il 1500, Budapest,
Hungarian Szépművészeti
Múzeum.
Gentile Bellini, Portrait of
Caterina Cornaro, painted
around 1500, Budapest,
Hungarian Szépművészeti
Múzeum.
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dall’«arcivescovo di Valachia» Antim Ivireanul; indizio di civiltà l’avviamento d’una stamperia. Un po’ poco, a ogni modo (anche se sentori di città sono fiutabili nei due hani, sorta di chiostri
cintati da mura, con «portici» lungo i quali s’allineano «botteghe fatte a volta»), perché il genio vagante dei viaggiatori per vocazione se ne incuriosisca; tanto che Il viaggiatore moderno… guida per
chi viaggia… (Bassano 1794) Bucarest l’ignora, limitandosi a segnalare quale «metropoli», sede del voivoda, Targoviflte. Menzionata, in compenso, Sofia: metropoli della Bulgaria (rapportabile direttamente a Venezia nel Trecento, quando c’erano accordi
commerciali facilitanti gli operatori veneti; e appurato, nel
1352, un «Marco Lionardo venitian consolo» a Varna), residenza del «beglierbey della Grecia… primo fra tutti» nella Turchia europea. Un tantino meno stringato su Sofia (talvolta nominata nei Diarii sanudiani se vi fa sosta il sultano, se vi si concentrano truppe) Lo stato presente di tutti i paesi… (in 9 volumi, Venetia 1734-1745), versione italiana della Modern history of the present state of all nations… (London 1731) di Thomas Salmon (1679-1767).
Situata «sulle rive dell’Iskar», sulla via da Belgrado a Costantinopoli, in una pianura tra due monti, è «senza alcuna fortificazione». Turca dal 1396, in compenso abbonda di «parecchi bagni caldi». Vi giunge, da visitatore apostolico, il vescovo di Nona
Pietro Cedolini, il 10 maggio 1581: centocinquanta circa i cattolici assistiti da due sacerdoti e con una cappella per il culto.
Y Priva d’interesse Sofia per Venezia nel medioevo; il mare non
la bagna. E priva d’interesse anche in età moderna. Per stimolare l’occhio di Palazzo Ducale occorre la Praga capitale imperiale,
al posto di Vienna, quanto meno dal 1583 al 1612, quand’è imperatore Rodolfo ii (figg. 6, 7). Rapidi, sbrigativi su Praga in sé
gli inviati marciani. Basta, per loro, registrare che è la principale città boema, dal circuito di «circa miglia sette», con il «ponte […] sopra il fiume Molta». Ma lo sguardo non la perlustra,
concentrato nell’aspetto esteriore e nella psicologia d’un imperatore fuligginoso, caliginoso, tenebroso, bizzarro (fig. 8), instabile, umorale, sulfureo, psicolabile, maniaco depressivo, sospettoso, morboso, neghittoso, ciclotimico, imprevedibile, inaffidabile, saturnino, superstizioso, bigotto (ma anche tollerante),
dalla curiosità onnivora, con una smania collezionistica insaziabile (figg. 9, 10), che s’impolvera sfogliando libracci misteriosi,
che alambicca, distilla, guarda le stelle, traffica con la magia
bianca e quella nera, convoca Keplero e Brahe, decora col cava-
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lierato il pittore veneziano Giovanni Contarini (figg. 1, 11), si lascia camuffare da autunno da Arcimboldo (vedi p. 4), calamita
un andirivieni d’astrologi, astronomi, maghi, pittori, scultori,
ebanisti, orafi, pedanti, ciarlatani, loschi avventurieri, sfacciati
questuanti, imbroglioni, ciurmatori, intellettuali inquieti, torrenziali chiacchieroni, bugiardi patentati, spacciatori di progetti inverosimili, escogitatori di mirabolanti fanfaluche, fantasiosi
affabulatori. Sconcertati, allibiti, esterrefatti gli ambasciatori
della Serenissima con siffatto sovrano in una corte che è tutta frastornata, sballottata, strattonata da un diluvio di notizie contraddittorie, d’avvisi e contravvisi, da un andar e venir di corrieri, agenti, spie, controspie, che è tutto un rimbombar del fragore delle armi del nemico che avanza, un continuo tremar per la
minaccia del Turco. Con questo l’impero è in guerra. Ma come
può battersi se (così un dispaccio del 13 febbraio 1596 dell’ambasciatore Tommaso Contarini) «Sua Maestà et li suoi stati sono
esausti de denari»? Il diplomatico e il suo governo, peraltro,
sanno bene che, per non irritare la Porta, la Serenissima è fermissima a non contribuire col benché minimo sostegno finanziario
alla guerra turco-imperiale in corso; per cui a Rodolfo ii e ai
suoi ministri non resta che sperare che «l’impeto» ottomano
s’attardi lontano, in qualche modo trattenuto, magari si stanchi
per conto proprio, inciampi su se stesso, faccia marcia indietro
per timore dello scià di Persia Abbas.
Y Bisogna attendere il Settecento inoltrato perché qualcuno,
veneziano o veneto, dica qualcosa su Praga. Di certo non Casanova, troppo occupato di quel che ha mangiato, delle persone
che ha incontrato, dell’albergo dove alloggia, delle donne disponibili, della sorte al gioco, per dilungarsi a descrivere quel che gli
appare da un’eventuale camera con vista. Troppo preso di sé l’avventuriero, per dimenticarsi di sé, per guardare fuori di sé. Non
così il veneziano Giovanni Benedetto Giovanelli che, a Praga
nell’autunno del 1748, annota diligente essere la città tripartita
(la «nuova» in piano, la «vecchia» in mezzo, la «piccola» su
una «grande collina», abitata questa dal grosso della nobiltà, illustrata dalla cattedrale, dal palazzo arcivescovile, dal «regio castello», dalla residenza del governatore) e con il «bel ponte sopra la Moldau». Così a mo’ di guida turistica per un soggiorno
d’una settimana. Praga è, indubbiamente, una bella città. Consigliabile andarci di proposito a constatarlo (fig. 12).
Y Non così Danzica, città porto «governata assolutamente da
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5. Tiziano Vecellio, Il doge
Andrea Gritti, Washington,
National Gallery; il filius
bastardus Alvise è
nominato governatore
d’Ungheria nel 1530.
Titian, Doge Andrea Gritti,
Washington, National
Gallery; his filius bastardus
Alvise was appointed
governor of Hungary in
1530.
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sé» del più grande Mediterraneo creato dal respiro d’un’economia mondo che, virtualmente globale, fa arrivare quello nel
Baltico e viceversa. Anche senza andarci, Danzica la si percepisce. Così capita nel 1610 all’ambasciatore in Olanda Tommaso
Contarini nel constatare quanto
Amsterdam si rifornisca di “grani” da quella, «conducendosene
da 30-40 vasselli per volta».
Questi (ripete nel 1618 Antonio
Donà che, rappresentante della
Serenissima a Londra, transita
per l’Olanda) «vanno in Dancica per formenti», grano, segale,
cereali. E sull’acquisto di granaglie conta pure Venezia, che, a tal
fine, vi invia nel 1590 il segretario Marco Ottobon. Piazza ben
più conveniente Danzica che
non Königsberg o Elbing, conferma, «a causa della maggior sicurezza delle persone con cui si
tratta, più ricche e meno barbare
che altrove». Città d’almeno
200 mila abitanti, in gran parte
tedeschi (ma non mancano i
francesi e gli italiani, specie veneti), parecchi dei quali sin
«ricchissimi», per via del «comodo e frequentatissimo mercato», i «grandissimi», incessanti «traffichi» specie di «formenti e biade». Da un lato, nel 1593, vi sorge la borsa, «luogo
ove si raccolgono i mercatanti», gli operatori dell’import-export;
dall’altro, professando costoro fedi diverse, registrata la compresenza di queste dalla ventina di chiese in tutto, cattoliche,
luterane, calviniste. Una reciproca tolleranza, che mantiene le
sinergie e le interazioni d’un’economia dinamicamente attiva,
d’una portualità intensificata. Una libertas d’ascoltare la propria
coscienza di cui approfitta il nobile napoletano Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), esule da decenni per motivi religiosi, per trascorrere a Danzica (cui, donando nel 1591 i propri quasi 1.200 volumi fornisce la base costitutiva della biblioteca civica aperta nel 1596) gli ultimi suoi anni. Ma, prima di
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6. Albrecht Dürer, Festa del
Rosario, 1506, Praga,
Národní Galerie; già a
Venezia, chiesa di San
Bartolomeo, è acquistata
nel 1606 da Rodolfo ii
per 900 ducati.
Albrecht Dürer, Festival of
the Rosary, 1506, Prague,
Národní Galerie;
formerly in Venice,
church of San
Bartolomeo, it was bought
in 1601 by Rudolph ii for
900 ducats.
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riparare a Danzica, Bonifacio, denunciato nel 1559 all’inquisizione di Venezia, s’era trasferito a Cracovia nel 1561. Ossia nell’allora capitale del regno di Polonia, una fiorente rigogliosa
città (fig. 13), al centro di
un bacino minerario, nell’incrocio di grandi vie
commerciali, con lo splendido castello di Wawell, il
mercato dei tessuti il cui
attico è attribuito a Giovanni Maria Mosca. Noto
anche come Zuan Padovan,
attivo, soprattutto come
scultore medaglista, anche
alla corte polacca di Sigismondo i, a Cracovia, Bonifacio vi muore il 29 gennaio 1574, dopo trentacinque anni di permanenza,
operoso sino alla fine: i
documenti lo dicono «lapicida», «murator», «lapidum
sculptor», «lapicida regio», «italus lapicida», «sculptor».
Influenze artistiche dal Veneto su Cracovia nel Cinquecento. E
anche, in quel secolo, un intermittente collegamento postale
Venezia-Cracovia: sui dieci giorni i tempi di percorrenza previsti per i corrieri. E nel Seicento, i mercanti fanno la spola tra
le due città, come richiedono gli affari, pur di far affari.
Y Non è il caso di quanti, non pochi, arrivano a Cracovia (fig.
14), specie da metà Cinquecento per almeno un trentennio, ma
scoraggia l’editto d’espulsione degli eretici promulgato a Parczow
il 7 agosto 1564, per fuggire dalle grinfie inquisitoriali, adunche
e prensili anche a Venezia e dintorni; questi, dal fare la spola si
guardano bene. Sventurato invece il francescano bellunese Giulio Maresio (1522-1567) che, accostatosi a Cracovia al calvinismo, tornato a Belluno e denunciato, è poi decapitato a Roma.
Per i dissidenti religiosi, intollerante e repressiva anche la vera
immagine di perfetta repubblica quale Venezia si proclama. Né
brilla per tolleranza la Ginevra di Calvino. A Cracovia i perseguitati, i raminghi, i fuggiaschi hanno modo di sistemarsi, credere non cattolicamente, anche non combaciare con l’irrigidirsi del calvinismo, perfino rettificare il proprio credo. Ci capita
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Nicolò Paruta, patrizio lagunare passato alla Riforma, ma non a
proprio agio a Ginevra, che finisce per mettere casa definitiva ad
Austerlitz. Medico di Stefano Bathory, il filoanabattista padovano Nicolò Buccella (autore d’una sdegnata Refutatio…, Cracovice
1588, in cui respinge l’accusa che quello sia morto repentinamente, il 12 dicembre 1586, per sua incompetenza professionale) muore a Cracovia nel 1599, avendo nel frattempo stinto il
proprio anabattismo nell’approdo semplificato a una lettura
della Bibbia «secondo […] coscienza», avviata un’attività imprenditoriale con cui organizza trasporti di sale, presta a interesse,
progetta l’impianto d’una cartiera in Livonia, per aiutarlo nella
quale chiama parenti e amici da Padova. Ed è un suo nipote quel
Filippo Buccella, anch’egli imprenditore inventivo, che spiritualmente pare legarsi ad ambienti antitrinitari. In Italia, anche
a Venezia, le pratiche nicodemiche nell’incubo d’una delazione
magari d’un familiare, i sospetti dell’inquisizione, il carcere, la
tortura, la morte o, peggio, l’umiliazione dell’abiura, la perdita
del rispetto di sé (specie quando l’abiura è accompagnata da delazioni), l’angoscia d’attendere piombi addosso, l’accusa di relapso. E in tal caso, la morte più atroce. A Cracovia, a Cracovia!
Gonfio di rabbia il veneziano Giovan Francesco Commendone
(1524-1584), nunzio pontificio in Polonia, perché nel 1563, a
Cracovia, constata la presenza d’eretici d’ogni risma: è fautore di
una linea fluviale sul Dniester e, in alternativa all’inoltro a Danzica, trasporta grano polacco al Mar Nero e prosegue per Venezia, ma trova zwingliani, luterani, calvinisti, anabattisti, antitrinitari, anticattolici, eterodossi. Magari, nel far propaganda, nel
proselitismo, nel degenerare delle discussioni, si scontrano, si
dividono. Però sembrano quasi concordi nel vagheggiare un’Italia che, «ripiena di infiniti» finti cattolici, di falsi “papisti” costretti a simulare «per timor del castigo», è lì lì per esplodere,
per insorgere in nome del Vangelo liberato, della verità ridata ai
credenti. Forse, sull’onda di siffatta rifondazione rivoluzionaria,
di siffatta risemantizzazione etica, qualcuno spera di tornare.
Ma, intanto, a Cracovia è possibile respirare nelle proprie credenze e campare lavorando.
Y Il bergamasco Giuseppe Milesi fa lo spadaio; il veneziano
Antonio Destesi fabbrica maioliche; geometra alla corte, il veneto Pietro Franco abbraccia il calvinismo. E se la sua anima lievita con la libera lettura della Bibbia tradotta da Brucioli, al suo improvvisarsi estrattore di sale non arride il successo. Sicché sup-
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7. Albrecht Dürer, Jakob
Fugger il vecchio, Augusta,
Staatsgalerie; i Fugger,
banchieri, erano i più
doviziosi occupanti del
Fondaco dei Tedeschi, a
Rialto, e tra i committenti
della Festa del Rosario.
Albrecht Dürer, Jakob
Fugger I, Augusta,
Staatsgalerie; the Fugger,
bankers, were the
wealthiest occupants of the
Fondaco dei Tedeschi, at
Rialto, and among the
commissioners of Festival of
the Rosary.
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plica l’intervento soccorrevole del cancelliere ed etmano Jan Zamoyski (1542-1605). A lui, politico e umanista, offre i servigi
Buonaiuto Lorini, inviando il 15 dicembre 1597 da Venezia una
copia appena pubblicata del proprio trattato Delle fortificazioni…
Arruolato dal medesimo il padovano Bernardo Morando, che
nel 1600 morrà in Polonia; distintosi con significativi interventi a
Varsavia, e nell’erezione di Zamosc, la piccola Padova (vedi p. 7),
sede dell’accademia dei rampolli nobiliari (docente d’Anatomia e
chirurgia vi è Giovanni Leoniceno, nato a Este), armonioso
gioiello architettonico e urbanistico, replica orientale della città
dove il committente ha studiato e nel 1563 è eletto rettore dell’Universitas iuristarum. Realizzazione conclusa in un ventennio e avviata nel 1579. Mentre Zamosc è prossima all’ultimazione, nel
1598 inizia per volontà di Sigismondo iii Waza, di cui è archiatra il veneziano Giovan Battista Gemma (1555-1608), il trasferimento della capitale a Varsavia, la cui posizione è geograficamente centrale; l’operazione può dirsi conclusa nel 1611.
Y Ovviamente Cracovia ci rimette in immagine, luminosità,
prestigio. Le resta, tuttavia, il principale mercato di drappi del
regno; sempre vivace la comunità mercantile italiana (e non
mancano in questa i veneziani e i veneti); e qualcuno ottiene la
cittadinanza: v’arriva, nel 1688, carico di debiti da Venezia, tal
Giovan Battista Morettini, che a Cracovia, ove morrà nel 1724,
si riprende. Intanto, la diplomazia da Palazzo Ducale fa capo a
Varsavia. Aggredita dal Turco a Candia, la Repubblica preme per
una offensiva polacca che alleggerisca l’impari conflitto. Ma vane le insistenze in tal senso. Scoppia nel 1648 la rivolta cosacca
capeggiata da Bohdan Chmielnicki. A tentare d’indurre anche
questi a volgere le armi contro il Turco arriva, agente della Repubblica nel 1650, ancorché senza veste ufficiale, il prete bellunese Michele Bianchi (1603-1667), che nel 1655 contatterà,
sempre per conto di Venezia, pure lo zar; e di queste sue missioni cariche di disagi e rischi sarà rimeritato con l’arcipretato nella verde tranquillità di Pieve d’Alpago. Informati e informanti il
governo veneto l’ambasciatore a Varsavia Giovanni Tiepolo;
quello straordinario Andrea Contarini; il segretario Girolamo
Cavazza tra il 1645 e il 1652. E informatore sui cosacchi ribelli
pure il prete Bianchi. Ma l’informazione è potere? Almeno in
questo caso no. Venezia non ottiene che il regno polacco, tacitata in qualche modo la ribellione interna, pensi a darle, attaccando per conto proprio, concreto aiuto nella guerra che fronteg-
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gia. In compenso l’informazione è suscettibile di tradursi in storiografia, d’esporre come le cose sono andate. E, in effetti, con
l’Historia delle guerre civili di Polonia (Venetia 1671) di Michele Bianchi,
si sa quel che è successo in
Polonia dal 1648 al 1651.
Y Di lì a qualche decennio Venezia è di nuovo
aggredita dal Turco. A
Varsavia l’8 aprile 1715
l’ambasciatore straordinario Daniele Dolfin
prova a convincere il re
Augusto ii di Sassonia a
una mossa contro la Mezzaluna. Ma la pretesa è
fuori luogo. È «assai più
facile accordare l’acqua e
il fuoco che i polacchi e i
sassoni». Inutile che
Dolfin si affanni a persuadere nobili locali, ministri e cortigiani al seguito del re, e dal re favoriti, a mobilitarsi contro
il Turco. Ospitato con
tutti i riguardi dal ministro Jacob Heinrich Fleming, commensale ingozzato con i migliori bocconi e irrorato con i vini più
prelibati in pantagruelici banchetti: non per questo si bada a
quel che dice. Suo malgrado, è «spettator otioso» d’un’impotenza regia tremebonda con Carlo xii di Svezia, senza autorità
con la nobiltà indigena, mentre sul distruttivo «fuoco» delle
discordie interne soffia Pietro i il Grande. Amarissimo, per
Dolfin, il calice quotidiano d’un fallimento al rallentatore. Un
tormentoso rodio la sensazione di «sciupare la vita» lontano da
Venezia, in un «angolo remoto della terra», abbandonato dalla
civiltà; la sperimentazione quotidiana dello sfascio d’un paese
«in rovina»; l’assistere al collassare d’un sistema «misto confuso di monarchia et aristocrazia». Per fortuna Eugenio di Savoia
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stravince, il 5 agosto 1716, a Petrovaradin. Superfluo, ormai,
l’attivarsi della Polonia. A fine agosto, con sollievo, Dolfin si
congeda da Augusto ii, il re con in testa una «corona di spine».
Y E poi? Se si salta al 1764, ecco, viaggiatore «solo per diporto», Casanova, ancorché senza «passaporto», che pretende di
passare da Riga (fig. 15) a Pietroburgo; «la mia Repubblica – replica a chi glielo rimprovera – non è in guerra con nessuna potenza»; grosso modo dice che Venezia non dà fastidio a nessuno,
è talmente innocua da garantire pure l’innocuità di Casanova. In
effetti, l’argomentare è persuasivo. Tanto che, anziché rimandarlo indietro, il «governatore di Narva» gli concede una sorta
di lasciapassare. Sempre nel 1764, eletto re di Polonia Stanislao
Augusto Poniatowski, intronizzato in uno stato dependance, sotto
tutela. In compenso Varsavia, già murata nella descrizione d’Alessandro Guagnino, veronese cui nel 1579 era andato a male il
tentativo di metter su una compagnia commerciale veneto-polacca, anzi circondata «di doppio muro e fossa», con forte e castello, «magnifico ponte» ligneo sulla Vistola, s’è sviluppata,
ingrandita. Le ventiquattro Vedute di Bernardo Bellotto (17201780), che, pittore di corte dal 1768, vi resta sino alla fine dei
suoi giorni, ne sono veritiera testimonianza (fig. 16). Grosso
modo, è nella Varsavia fissata dal pennello dell’artista veneziano
(vedi pp. 8 e 30) che Casanova nel 1765-1766 soggiorna con
l’additivo emozionante, rispetto alle sue abitudini (tavola, gioco,
conversazione, donne, ma su questo versante non granché),
d’un clamoroso duello. Nitido, nella sua memoria, quel soggiorno, al pari di tanti altri circostanziato. Ma nell’Histoire de ma
vie, un paio di volte, a proposito della Polonia, di cui racconta
anche nell’Istoria delle turbolenze della Polonia (Gorizia 1774), l’inciso
precisa che «oggi la Polonia non esiste neanche più». Di per sé,
avesse protratta la stesura delle sue memorie sin a ridosso della
morte a Dux (odierna Duchcov, nella Repubblica Ceca), il 4
giugno 1798, una siffatta lugubre precisazione avrebbe potuto
applicarla anche a Venezia.
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east of vienna:
diplomats and lots of intrigue,
markets and beef
Gino Benzoni
Y Foreign correspondents are the ‘eyes’ of the state, they are the
first to notice the ‘dark spots’ on the horizon, notes the Polish
diplomat Cristoforo Warszewicki (1543-1603) in a treatise of
1595, De legato (Krakow 1595 and Gdansk 1646). He is presumably thinking of those of Venice, if not only because Venice was
central to his mental landscape in which the ‘similarity’ that
could be established between the Polish Kingdom and the Venetian Republic was still valid in his country; he is quite convinced
of this in his Oratio ad Rempublicam habita 4 martii… 1602 (Venetiis
1602). They know the country that hosts them better than the inhabitants themselves, confirms Scipione Ammirato, again at the
end of the sixteenth century. Stephan Gerlach, in the entourage
of David Ungnad, the imperial ambassador to Constantinople in
1573-79, had already noted that the Venetians are the real ‘eyes
of the world’, thus recognising that they had an additional capacity for all-round information. The result of a general observation, summing up the partial views of the ambassadors in European capitals and the bailo to the sultan, allowed the Doge’s
Palace to contemplate the ‘theatro del mondo’, ‘to see the fires
of others’, and thus ‘to know at the cost of others’, what ‘befits’
Venice to ‘properly govern itself’, as Simone Contarini happily
theorises in 1608, on his return from the post of bailo in Constantinople. It was also a forecast of foreign policy, shrewd sailing through changing trends and calculation of what was evidently about to take place. It was in such refinement that a political class sank its roots in the long middle age in which it had navigated marketing, marketed navigating, always concerned in its
assiduous dealings with news on the ‘condition of the goods’, on
the relative prices, always ready to place itself in the most lucrative spaces of the economic dynamics.
Y Although decidedly whittled down in a world enormously extended by discoveries, its relative weight definitively downsized,
Venice persisted in calling itself the ‘metropolis of the universe’
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8. Paulus Franck, detto
Paolo Fiammingo, Nascita
di Atena dal capo di Zeus,
Praga, collezioni del
Castello; l’artista (Anversa
1540 circa-Venezia 1596)
lavora per i Fugger e per
Rodolfo ii.
Paulus Franck, called
Paolo Fiammingo, Birth of
Athena from the Head of Zeus,
Prague, Castle collections;
the artist (Antwerp c.
1540-Venice 1596)
worked for the Fugger and
for Rudolph ii.
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in the sixteenth century, distending the mediocritas to aurea mediocritas in order to compensate. Even if its ships did not ply the
oceans, even if it was not part of the plundering rush to the New
World, in a certain way it made up for this absence by the
peremptory sign of a geographical and cartographic understanding superior to that of the discoverers and conquistadors themselves. The planisphere that represented the first printed European map to include the Antilles and South America, in 1506,
was Venetian. The rapid updating of the prints and reprints of
the Ptolemaic Geografia and its illustrations, in hot pursuit of the
appearance of a globe that had all of a sudden been hugely expanded, was also Venetian.
Y And, although the European continent did not discover it, a
vast area - which did not escape Ramusio’s Navigationi et viaggi – was
watched over by Venice from the Doge’s Palace and by its diplomats and merchants, as those who had fled the city for religious
reasons were also able to learn first hand. ‘Among the kingdoms
of the beautiful world’, exclaimed the Venetian secretary Vincenzo Guidotto on his return from Hungary in 1525. Venice was in
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contact with Matthias Corvinus (1440-1490, fig. 2), admired
for his palace and his library. ‘Notarius missus in Hungariam’ in
1361 Bartolomeo Ursio. And, much earlier, Gerard, the former
abbot of the Benedictine monastery of San Giorgio in Isola, and
martyr and saint from 1083, founded another monastery in
Hungary on the banks of the Maros, and then became ‘episcopus’
of Csanád in 1030. He died in 1046, by drowning in the
Danube, into which he had been pushed by a group of pagans.
But how did the saint come to be in these parts? The Venice-Buda route must in any case have been fairly well-trod if Bernardo
Giustinian (1405-89), the fifteenth-century Venetian historian,
takes the trouble to point it out. It was from Hungary that Venice
supplied itself with beef, which was imported by Venetian merchants who settled in Buda for this purpose at the end of the fifteenth and early sixteenth centuries (fig. 3). The numerous acquaintances of Casanova (1725-98) surely did not include Pier
Antonio Capretta, importer of Hungarian livestock by ‘appointment’ to the Venetian government. Or at least the adventurer
does not comment on the quality of his meat. However, he has
clear opinions on ‘Hungarian wine’: it is robust, generous; and
if you drink too much of it you can no longer stay on your feet.
However, Casanova never went to Buda in his busy travels. It was
not a city that attracted him. But it is known that it had five urban centres when it was still in Turkish hands: ‘the castle or
fortress’; ‘the upper city’; ‘the long’ and ‘upper village’; ‘the city
of the Jews’; ‘the city of water’. The ‘hot or thermal baths’ are
noteworthy, adds the printer Girolamo Albrizzi in L’origine del
Danubio (Venetia 1684-85).
Y It was certainly taken for granted that sooner or later the
Turks would arrive. The 72 ‘districts’ of Matthias’s kingdom were
reduced to 55, as Alvise Bon pointed out on his return to Venice
in 1519 (fig. 4). The councillor Giorgio Szakmany, who was also
a bishop, and who ‘willingly got drunk’ like the other courtiers,
virtually ruled. Having to deal with ministers only in the mornings was disconcerting for the Venetian ambassadors, who were
used to a senate that normally met before and after ‘disnà’. Excessive as they were in dining, they then needed at least ‘four hours’
sleep ‘after disnar’ to digest the excessive amounts of food and
drink taken. Which certainly did not help the minor Louis
(1506-1526), son of Ladislav ii Jagiello, to rule prudently. The
boy (as noted by the ‘orator’ in Hungary, Lorenzo Orio, on his
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return from a ‘legation’ of 55 months on 22 December 1523)
‘lives like an animal’ and ‘leaves governance’ to the councillors,
to the point of being a slave to their suggestions. ‘He understands
nothing of the affairs of state’. John Zapolya, however, the last
Hungarian national king, had real political stature. It was he
who, on 24 April 1535, conferred the title of knight on the
painter Giovanni Antonio Pordenone and his descendants, at
the request of the Pordenone protonotary Girolamo Rorario,
apostolic nuncio to the court of Hungary. The artist was thus
contented, but so was the now diminished king, who felt a little
authoritative. He had previously managed to settle himself in
Buda, allying himself with the sultan. On 26 December 1530 he
had nominated Alvise Gritti (1480-1534) ‘gubernator regni
Hungariae’ here. Gritti was the ‘filius bastardus’ of the then doge
Andrea Gritti (fig. 5), who had become extremely rich and influential in Constantinople, where he had been born and preferred to return. Depriving Zapolya of power, he aimed at the
complete integration of Buda into the Ottoman system, furthermore chancing the establishment of a personal kingdom in 1533.
Venice was grateful to him for sending large quantities of grain,
but not to the point of compromising relations with the empire
to support his personal ambitions. So the ambition of ‘making
himself king’, without support, foundered. And it was one of his
own men who killed him on 29 September 1534.
Y Venetian diplomats no longer went to Hungary. But their
‘eye’ was replaced by historiographic attention, as is evident from
the titles published in Venice. These ranged from the anonymous Historia di Zighet ispugnata da Soliman… l’anno 1556 (Venetia 1570)
to L’Ungheria spiegata… ove si leggono tutte le cose successe dal 373 d.C. al 1595
(Venetia 1595) by the polygraph Giovanni Nicolò Doglioni; Le
campagne d’Ungheria de gl’anni 1663 e 1664 (Venetia 1665) by Girolamo
Brusoni of Palese; and the Idea generale del regno d’Ungheria (Venetia
1684) by the French born Benedictine, Casimir Freschot. Their
siege of Vienna in 1683 having failed, the Ottomans fearfully
withdrew. Buda was retaken in 1686. And an account of what had
just been reconquered was quickly printed, L’Ungheria compendiata
(Venetia 1687) by Count Ercole Scala, passing from Agria to
Canissa, from Esztergom to Timisoara, and dwelling on the
front at the ‘famous bridge of Essech’. A careful history of Hungary with an anti-Habsburg theme by the Venetian Gian Michele
Bruto (1517-92), however, was not printed. He fled Venice in
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9. Antonio Balestra,
L’educazione di Amore,
Mĕlnik, castello,
Collezione Mĕlnik
Lobkowicz.
Antonio Balestra,
The Education of Cupid,
Mĕlnik, castle, Mĕlnik
Lobkowicz Collection.
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1555 accused of heresy; the author having returned to Catholicism, he worked to ensure it remained unpublished.
Y Bordering Hungary, Transylvania (explains the Veronese
gentleman Leonida Pindemonte at the end of the sixteenth century) ‘lies to the left of the Danube almost in the form of an amphitheatre’. Giorgio Tomasi, a native of Serravalle in the Veneto, was former secretary to Sigismondo Báthory and apostolic
pronotary. He wrote the historical-genealogical La Battorea… nella
quale si contengono l’origine della casa…
l’historia delle attioni… de’ Battori…
(Conegliano 1609) and the
monograph Delle guerre et rivolgimenti… d’Ungaria e della Transilvania
(Venetia 1621). The Venetian
public historian and future doge
Nicolò Contarini (1553-1631)
devoted considerable attention to
Michele il Bravo: he reconstructed his story, from wine merchant
in Constantinople to ‘patrone of
Transylvania, Valacchia and Moldavia’, by consulting the
despatches of the ambassador to
Vienna and the bailo in Constantinople; and, almost the incarnation of the foxy cunning and leonine strength of the Machiavellian prince, the resolute process of unification tragically cut
short by his treacherous murder, on 18 or 19 August 1601, ordered by the imperial general Giorgio Basta.
Y Leaving from Venice, the Florentine Anton Maria Del
Chiaro reached the Walachian court of Costantino Brăncoveanu
in 1710, via Sarajevo and Belgrade. The latter promoted a surge
of Italianisation that was translated into Italian gardens and
buildings mimicking Venetian styles. Del Chiaro, part tutor and
part correspondence secretary, was the distraught witness to the
elimination by the sultan of the voivode and of Stefano Cantacuzeno, his successor, along with the imprisonment by the imperials of Nicola Maurocordato. Bucharest having been occupied
by the imperials on 25 November 1716, Del Chiaro preferred to
leave, going first to Vienna and then on to Venice. And here, in
1718, he published his Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia.
Apart from his account of the recent events of that ‘unhappy
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10. Johann Carl Loth,
La cacciata di Adamo ed Eva dal
Paradiso, Jindřichùv
Hradec, Castello, già nella
Collezione dei conti
Czernin, acquistato a
Venezia nel 1663.
Johann Carl Loth,
The Expulsion, Jindřichùv
Hradec, Castle, formerly
in the collection of the
Czernin counts,
purchased in Venice in
1663.
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province’ up to the invasion of the ‘Germans’ (the topicality of
the writing must be noted: it came out in the year when the Habsburg’s expansive thrust took place, on 21 July at Passarowitz), he
presents the first ethnographic cross section in the West, fixing
the ‘customs, rites and religions of the inhabitants’ in the perception of the area. And, above all, he emphasises the ‘great correlation’ of the ‘Walachian tongue’ ‘to the Latin language’, highlighted by the glossary; and he notes the use of the auxiliary ‘to
have’ ‘like we Italians’; thus making an implicit entreaty to go
back to the Dacia of Trajan. And the Analecta lapidum vetustorum et
nonnullarum in Dacia antiquitatum (Patavini 1593), dedicated ‘ad cancellarium summum’ of Transylvania, Wolfgang Kovacsóczy, author of a De laudibus… Stephani Batorei… voivodae Transilvaniae… oratio
(Venetiis 1571), could have been useful for such purposes.
Y Bucharest (never mentioned in Sanudo’s Diarii; which thus
means that in the sixteenth century it was invisible to the Doge’s
Palace) takes on a minimum of consistency and appearance with
Del Chiaro. The court is a ‘stone palace’ with marble ‘main
staircase’, an appealing square garden ‘designed according to
good [Italian] taste’, and a loggia. The ‘wall’ is in masonry: a
mark of distinction compared to all the other houses that were
simply fenced with oak. Bucharest is ‘of circular shape’, with a
circuit enclosing sparse houses. About 5000 inhabitants; a very
simple lifestyle, apart from a few nobles and comfortable foreigners, with Venetian and/or Bohemian ‘crystal’ in their homes.
He boasts of the monastery in the embryonic city, built by the
‘archbishop of Walachia’ Antim Ivireanul; and the opening of a
printing works as a sign of civilisation. A little too little, in any
case (even if traces of city can be found in the two ‘hani’, a kind
of masonry walled chapel with ‘porticoes’ along which there is a
row of ‘vaulted shops’), for the traveller’s travelling expert par excellence to be curious about it; such that Il viaggiatore moderno… guida
per chi viaggia… (Bassano 1794) ignores Bucharest, restricting itself
to noting Targoviflte, the seat of the voivode, as a ‘metropolis’.
Sofia, on the other hand, is mentioned: Bulgarian city (directly
related to Venice in the fourteenth century, when there were
trade agreements benefiting Venetian traders; with confirmation
of a ‘Marco Lionardo venitian consolo’ in Varna in 1352), residence of the ‘beglierbey of Greece… foremost’ in European
Turkey. Lo stato presente di tutti i paesi… (in nine volumes, Venetia
1734-45), the Italian version of the Modern history of the present state of
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all nations… (London 1731) by Thomas Salmon (1679-1767), is a
little less concise on Sofia (at times nominated in Sanudo’s Diarii: the sultan stops there, troops are concentrated there). It is
situated ‘on the banks of the Iskar’, on the road from Belgrade to
Constantinople, on a plain between two mountains and ‘without
any fortification’. Turkish from 1396, on the other hand it is
rich in ‘numerous hot baths’. The bishop of Nona Pietro Cedolini went there as an apostolic visitor on 10 May 1581: about
150 Catholics served by two priests and with a chapel for worship.
Y Sofia was of no interest to Venice in the middle ages; it is untouched by the sea. And it remained without interest in the modern age, too. Only when Vienna was replaced as imperial capital
by Prague was the eye of the Doge’s Palace attracted, at least from
1583 to 1612, when Rudolph ii was emperor (figs. 6, 7). The
Venetian envoys were quick and businesslike on Prague. It was
sufficient for them to note that it was the main city of Bohemia,
with a circuit of ‘about seven miles’, with the ‘bridge... over the
river Moldau’. But the look goes no further, concentrating only
on the external appearance and psychology of the emperor, who
is smutty, sombre, gloomy, bizarre (fig. 8), unstable, amoral,
sulphurous, psychologically unstable, manic depressive, suspicious, morbid, slothful, cyclothymic, unpredictable, unreliable,
gloomy, superstitious, prejudiced (but also tolerant), of an omnivorous curiosity, with an insatiable desire for collecting (figs.
9, 10), who gets himself dusty leafing through mysterious tomes,
who distils, he looks at the stars, dabbles in white magic, in black
magic, summons Kepler and Brahe, decorates the Venetian
painter Giovanni Contarini (figs. 1, 11) with a knighthood, lets
himself be tricked out as autumn by Arcimboldi (see p. 4), attracts a coming and going of astrologers, astronomers, magicians, painters, sculptors, wood carvers, jewellers, pedants, charlatans, shady adventurers, cheeky beggars, swindlers, tricksters,
restless intellectuals, torrential chatterboxes, patent liars, vendors of unlikely projects, excogitators of astonishing fictions,
imaginative storytellers. The ambassadors of the Serenissima
were disconcerted, dismayed and dumbfounded by such a sovereign in a court that was entirely muddled, pushed and pulled by
a flood of contradictory news, advice and counter advice, by a
coming and going of couriers, agents, spies, counter spies, that
was all a roar of the advancing enemy’s arms, a constant trembling before the threat of the Turk. With this the empire was at
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11. Giovanni Contarini,
Autoritratto, Firenze,
Galleria degli Uffizi.
Giovanni Contarini, Selfportrait, Florence, Galleria
degli Uffizi.
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war. But how could one fight if (as a despatch of 13 February
1596 from the ambassador Tommaso Contarini noted) ‘His
Majesty and his states are without money?’. The diplomat and his
government, moreover, knew quite well that, in order not to annoy the sultan, Venice was absolutely set
on not contributing even a minimum
amount of financial aid to the TurkishImperial war under way; so there was
nothing for Rudolph ii and his ministers to do than to hope that the Ottoman
‘impetus’ lingered far off, was in some
way held back, perhaps tiring of its own
accord, tripping over itself, turning back
in fear of Abbas, the Shah of Persia.
Y It was necessary to wait until the mideighteenth century before anyone,
Venetian or Veneto, said anything about
Prague. Certainly not Casanova, who was
too concerned with what he had eaten,
the people he had met, the hotel he
stayed in, the available women and his
luck at gambling to dwell on describing
that which appeared from a possible
room with a view. The adventurer was
too self absorbed to be able to forget
himself and look beyond himself. Such was not the case with the
Venetian Giovanni Benedetto Giovanelli, who, in Prague in Autumn 1748, diligently noted that the city was in three sections
(the ‘new’ part on the plain, the ‘old’ in the middle and the
‘small’ part on a ‘big hill’, the latter inhabited by most of the nobility, honoured by the cathedral, the archbishop’s palace, the
‘royal castle’ and the governor’s residence) and with the ‘beautiful bridge over the Moldau’. So a kind of tourist guide for a
week’s stay. Prague was, undoubtedly, a fine city. It was thus recommended that one went there to learn this (fig. 12).
Y Not so Gdansk, an ‘entirely self-governed’ port city, which
brought the larger Mediterranean created by the breadth of a virtually global world economy to the Baltic and vice versa. Gdansk
was perceived even without actually going there. Indeed, in 1610
Tommaso Contarini, the ambassador in Holland, noted the extent to which Amsterdam supplied itself with ‘grain’ from there,
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‘bringing in from 30-40 ships at a time’. These ‘go to Gdansk
for wheat’, grain, rye and cereals (repeats Antonio Donà in 1618,
Venice’s representative in London, travelling through Holland).
Venice also counted on it for the purchase of cereals, to this end
sending the secretary Marco Ottobon there in 1590. Gdansk was
a much more favourable market than Konigsberg or Elbing, he
confirms, ‘due to the greater security of the people you deal with,
richer and less barbarous than elsewhere’. A city of at least
200,000 inhabitants, mainly German (but there were also
French and Italians, especially Venetians), many of whom were
‘very wealthy’ thanks to the
‘favourable and very busy
market’, the ‘enormous’ incessant ‘trade’, especially in
‘wheat and fodder’. On one
hand, the stock exchange
opened in 1593, ‘a place
where merchants gather’, the
import-export operators; on
the other, they professed different faiths, as the presence
of about twenty churches in all
is noted, Catholic, Lutheran
and Calvinist. Such reciprocal
tolerance maintained the synergies and interactions of a
dynamically active economy,
with intensified port traffic.
Such libertas to attend to one’s
own conscience was made the
most of by the Neapolitan
Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), an exile of
decades for religious reasons,
who spent his last years in
Gdansk (to which he provided
the constituent foundation of the civil library opened in 1596 by
donating his almost 1200 books in 1591). But before going to
Gdansk, Bonifacio, reported to the Venetian inquisition in
1559, had moved to Krakow in 1561 (fig. 13). This was the capital of the kingdom of Poland at the time, a flourishing, exuber-
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12. Giovanni Battista
Pittoni, Il sacrificio di
Polissena, Praga, Národni
Galerie, già dei conti
Thun.
Giovanni Battista Pittoni,
The Sacrifice of Polyxena,
Prague, Národni Galerie,
formerly of the Thun
counts.
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ant city at the centre of a mining basin, the crossroads of major
trade routes, with the splendid castle of Wawell and the textile
market whose attic is attributed to Giovanni Maria Mosca.
Known also as Zuan Padovan, he also worked in the Polish court of
Sigismund i in Krakow, mainly as a medal sculptor. Bonifacio
died there on 29 January 1574, after a stay of 35 years, busy to
the end: the documents call him a ‘lapicide’, ‘mason’, stone
sculptor’, ‘royal lapicide’, ‘Italian lapicide, ‘sculptor’. So there
were artistic influences from the Veneto in sixteenth-century
Krakow; and also, in that century, an intermittent regular
Venice-Krakow postal connection: about ten days journey for
the couriers. And in the seventeenth century, merchants shuttled
between the two cities, as business demands, business at all costs.
Y It did not concern many who arrived in Krakow (fig. 14), but
the edict to expel heretics promulgated in Parczow on 7 August
1564 was discouraging for not a few, for at least thirty years. They
kept an open eye when moving between cities in order to escape
the prehensile, aquiline clutches of the Inquisition, also in
Venice and its surrounds. The Belluno Franciscan Giulio Maresio (1522-67) was unfortunate. He had moved towards Calvinism in Krakow and on his return to Belluno was reported, and
beheaded in Rome. The real image of a perfect republic that
Venice proclaimed itself to be was also intolerant and repressive
to religious dissidents. Calvin’s Geneva didn’t exactly shine for
tolerance, either. In Krakow the persecuted, the wanderers, the
escapers were able to establish themselves, to have non-Catholic
beliefs, and also did not have to adhere to the inflexibility of
Calvinism, or even rectify their belief. Such was the case of
Nicolò Paruta, a Venetian noble who had moved to the Reformation, but he was not happy in Geneva and ended up settling
permanently in Austerlitz. Doctor to Stefano Bathory, the Paduan Anabaptist sympathiser Nicolò Buccella (author of the indignant Refutatio…, Cracovice 1588, in which he rejects the accusation that Bathory had died suddenly, on 12 December 1586,
due to his professional incompetence) died in Krakow in 1599,
his own Anabaptism having in the meantime faded in the simplified approach to a reading of the Bible ‘according to... conscience’. He launched a business with which he organised shipments of salt, loaned money at interest, planned the layout of a
paper mill in Livonia, and sent for relatives and friends in Padua to assist him. His nephew Filippo Buccella, another inventive
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13. Lorenzo Lotto,
Madonna con il Bambino e santi,
1508 circa, Cracovia,
Muzeum Narodowe: dalla
Spagna, il quadro arriva al
conte Puslowski.
Lorenzo Lotto, Virgin and
Child with Saints, c. 1508,
Krakow, Muzeum
Narodowe: the painting
came from Spain to
Count Puslowski.
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entrepreneur, seemed to spiritually align himself with antitrinitarian circles. In Italy, also in Venice, Nicodemite practises were
followed in the nightmare of being informed on, possibly by a
member of one’s family, the suspicions of the Inquisition, prison, torture, death or, worse, the humiliation
of abjuration, the loss of self-respect
(especially when the abjuration was
accompanied by informing), the worry of waiting weighed heavily, the accusation of relapse. And in that case
there was the most atrocious death. In
Krakow, in Krakow! The Venetian
papal nuncio in Poland, Giovan
Francesco Commendone (1524-84),
was livid with rage at the number of
heretics of every kind in Krakow in
1563. He set up a river transport line
on the Dniester and, as well as to
Gdansk, carried Polish grain to the
Black Sea and continued on to
Venice, but found Zwinglians,
Lutherans, Calvinists, Anabaptists,
antitrinitarians, anti-Catholics, heterodoxies. Perhaps they would clash
in promoting propaganda, in proselytism, in the degeneration of arguments, or be divided. But they
seemed more or less agreed on cherishing an Italy that, ‘full of
infinite’ false Catholics, false ‘Papists’ forced to dissemble ‘for
fear of chastisement’, was about to explode, to rebel in the name
of the freed Gospel, of the truth returned to the believers. Possibly, some hoped to return on the wave of such a revolutionary
refoundation, of such ethical re-semanticisation. But in the
meantime, in Krakow, it was possible to breath easily in one’s
own beliefs and establish oneself by hard work.
Y Giuseppe Milesi of Bergamo worked as a sword maker; the
Venetian Antonio Destesi made majolica; Pietro Franco, Veneto, court surveyor, embraced Calvinism. And though his spirits
soared with the free reading of the Bible translated by Brucioli, his
attempts to make himself into a salt extractor were not crowned
with success. So he appealed to the chancellor and hetman Jan
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14-15. Una pianta di
Cracovia e, sotto, una di
Riga nel Cinquecento,
tratte da Georgius Braun e
Franciscus Hogenbergius,
Ciuitates orbis terrarum, in 6
voll., Colonia, 1572-1617,
Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana.
A plan of Krakow and,
below, of Riga in the 16th
century, by Georgius
Braun and Franciscus
Hogenbergius, Ciuitates orbis
terrarum, in 6 vols.,
Cologne, 1572-1617,
Venice, Biblioteca
Nazionale Marciana.
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Zamoyski (1542-1605) for assistance. This politician and humanist was offered the services of Buonaiuto Lorini, who sent
him a newly published copy of his treatise Delle fortificazioni… on 15
December 1597 from Venice. And he enlisted the Paduan
Bernardo Morando, who was to die in Poland in 1600. He distinguished himself with significant works in Warsaw, and in the
construction of Zamosc, little Padua (see p. 9), home of the
academy of noble scions (Giovanni Leoniceno, born in Este,
taught anatomy and
surgery there). This
harmonious architectural and town planning jewel was an eastern replica of the city
where the client had
studied, and in 1563
been elected rector of
the ‘universitas iuristarum’. The work was
begun in 1579 and
completed in about
twenty years. While
Zamosc was nearing
completion, in 1598
the transfer of the capital to Warsaw, whose position is geographically central, began at the request of Sigismund iii Wasa, whose
archiater was the Venetian Giovan Battista Gemma (1555-1608);
the operation was concluded in 1611.
Y Krakow obviously lost its image, lustre and prestige. In any
case, it was still the main fabric market in the kingdom. The Italian mercantile community was always lively (and did not lack
traders from Venice and the Veneto); and some obtained citizenship: a certain Giovan Battista Morettini arrived there in 1688
from Venice, laden with debt, and got back on his feet in Krakow,
where he was to die in 1724. In the meantime, the diplomacy of
the Doge’s Palace was based in Warsaw. Attacked by the Turks in
Crete, the Republic pushed for a Polish offensive that would
lighten the uneven conflict. But entreaties for this were in vain.
The Cossack revolt led by Bohdan Chmielnicki broke out in
1648. An agent of the Republic arrived in 1650 to try to persuade
these to turn their arms against the Turks, too, though without
the documents
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how countries change in the deeds of the 'universal metropolis'
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16. Bernardo Bellotto,
Capriccio architettonico,
Varsavia, Zamek Kròlewski
w Warsawie, collezioni del
Castello reale,
probabilmente portato da
Dresda nel 1767
dall’artista, che si eterna
in abiti da nobile
veneziano, era di re
Stanislao Augusto
Poniatowski; dal 1939, al
museo nazionale della
capitale polacca.
Bernardo Bellotto,
Architectural Caprice, Warsaw,
Zamek Kròlewski w
Warsawie, Royal Castle
collections, probably
taken to Dresden in 1767
by the artist, who made
himself eternal in the
clothing of a Venetian
nobleman; it originally
belonged to King
Stanislaus August
Poniatowski; in the
national museum of
Warsaw since 1939.
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official authorisation. This was the Belluno priest Michele
Bianchi (1603-67), who in 1655 was also to contact the Tsar,
again on behalf of Venice. He was to be rewarded for these difficult and risky missions with the archpriesthood in the rural tranquillity of Pieve d’Alpago. The ambassador to Warsaw, Giovanni
Tiepolo, the extraordinary Andrea Contarini and Girolamo
Cavazza, secretary between 1645 and 1652, kept the Venetian government informed. The priest Bianchi was also an informer on
the rebel Cossacks. But was information power? In this case, at
least, no. Venice did not succeed in getting the Polish kingdom,
its internal rebellion in some ways calmed, to offer solid assistance
in the war it was facing by attacking on its account. In compensation information is prone to being translated into historiography, of showing how things went. And, in fact, with the Historia delle
guerre civili di Polonia (Venetia 1671) by Michele Bianchi, it is known
what happened in Poland between 1648 and 1651.
Y A few decades later Venice was again attacked by the Turks. In
Warsaw on 8 April 1715 the special ambassador Daniele Dolfin
tried to convince the king, August ii of Saxony, to make a move
against the sultan. But the claim was misplaced. It is ‘much easier to reconcile water and fire than the Poles and the Saxons’. It
was useless Dolfin scurrying to persuade local nobles, ministers
and courtiers in the king’s retinue, and those favoured by the
king, to mobilise against the Turks. He was welcomed with the
greatest of respect by the minister Jacob Heinrich Fleming, who
lavished the best morsels and finest wines on him in gargantuan
banquets, but this did not mean any note was taken of what he
said. Despite himself, he was the ‘spettator otioso’ of an impotent, vacillating kingdom under Charles xii of Sweden, without
the authority of the local nobility, while Peter the Great fanned
the destructive ‘fire’ of internal dissent. The daily chalice of a
failure to slow things down was very bitter for Dolfin. The feeling he was ‘wasting away his life’ far from Venice, in a ‘remote
corner of the world’, abandoned by civilisation, was a tormenting worry; the daily observation of the collapse of a country ‘in
ruins’; the witnessing of the fall of a ‘confused, mixed system of
monarchy and aristocracy’. Luckily Eugenio of Savoy won resoundingly at Petrovaradin on 5 August 1716. It was now superfluous to mobilise Poland. At the end of August, Dolfin thankfully took his leave of August ii, the king with a ‘crown of thorns’
on his head.
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Y And then? If one jumps forward to 1764, here is Casanova,
who travels ‘only for entertainment’, though still without a ‘passport’, thinking he can go from Riga (fig. 15) to St Petersburg.
‘My Republic’, he replies to anyone upbraiding him, ‘is not at
war with any power’; more or less saying that as Venice doesn’t
give trouble to anyone and is so innocuous, then that also ensures the innocuousness of Casanova. In fact, the argument was
persuasive. Such that, rather than sending him back, the ‘governor of Narva’ granted him a kind
of permit. Still in 1764, Stanislaw
August Poniatowski was elected
king of Poland, enthroned in a
state of dependance, under protection. In compensation, Warsaw had
developed and expanded. In the
description of Alessandro Guagnino of Verona, who in 1579 had
failed in an attempt to set up a
Veneto-Polish trading company, it
was already walled, or, rather, it was
surrounded ‘by a double wall and
moat’, with fortress and castle and
a ‘magnificent’ wooden ‘bridge’
over the Vistola. The 24 Views by
Bernardo Bellotto (1720-80),
court painter from 1768, who
stayed there till the end of his days,
are truthful testimony of it (fig.
16). It was more or less in the Warsaw fixed by the brush of the Venetian artist (see pp. 8 and 30) that
Casanova stayed in 1765-66, with the exciting addition to his
normal habits – dining, gambling, conversation, women (but
nothing special in this direction) – of a sensational duel. That
stay remained clear in his memory, like many closely described
others. But in mentioning Poland in the Histoire de ma vie, and
again in the Istoria delle turbolenze della Polonia (Gorizia 1774), he incidentally specifies a couple of times that ‘Poland no longer even
exists’. If he had extended the writing of his memoirs to his death
in Dux on 4 June 1798, he could have applied such a mournful
specification to Venice, too.
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la diaspora dalla serenissima e «l’autunno» di praga
l’arte alla corte di rodolfo ii:
collezionismo magico
e passione per la pittura veneta
Rosella Lauber
1. Jacopo Robusti, detto
Tintoretto, L’origine della Via
Lattea, Londra, The
National Gallery.
Jacopo Robusti, called
Tintoretto, The Origin of the
Milky Way, London, The
National Gallery.
Y La neve della notte appena trascorsa aveva creato l’occasione
per l’imperatore Rodolfo ii di scendere dall’arroccato castello e
di percorrere le strade del cerchio incantato di Praga vecchia. La
rara testimonianza è affidata a una lettera, indirizzata dalla capitale boema il 3 febbraio 1579, del segretario ducale Aurelio
Pomponazzo al consigliere dei Gonzaga, Aurelio Zibramonti. In
quel giorno, il residente Giorgio Carretto segnala in una missiva, come la precedente nell’archivio statale mantovano, che Sua
Maestà con ventiquattro slitte «ha passeggiato per Praga, et è
comparso due volte in questa piazza molto allegro». La notizia
sorprende: la figura solitaria e malinconica del sovrano asburgico si mostra in veste inedita, mentre scivola in corteo trionfale,
concedendosi alla piazza con allegria. Il ritratto di Rodolfo ii
(Vienna 1552-Praga 1612), «il più grande mecenate delle arti
esistente al mondo» secondo Karel van Mander (1604), è tramandato da linee diverse, partecipi più dell’ombra che della luce, ctonie ovvero sotterranee. Il creatore di una straordinaria
collezione, ricca per oltre un quarto di quadri italiani e soprattutto veneziani, vive appartato sul colle di Hradčany, nel cuore
della città percorsa dalla Moldava, Vltava in ceco.
Y Per volere di Rodolfo ii, nel 1583 la corte si trasferisce da
Vienna a Praga, l’antica capitale scelta da Carlo iv. Nella città
della Metamorfosi, il genio proteiforme di Rodolfo crea una prodigiosa sede imperiale; sin dal 1576-1579 realizza il Sommerpalast,
la camera da letto imperiale, lo studio, le stanze estive. Arricchisce la dimora di naturalia e mirabilia, ori, argenti e specchi “magici”, vetri veneziani e boemi, diaspri e agate, cammei, monete e
medaglie, vasi e maioliche egizie, oltre a pitture e sculture antiche e moderne, rilievi e bronzi, tessuti, mosaici. Incunaboli e
miniature sfilano accanto a Kunstbüchern e manoscritti, compresi il
Codex Argenteus e il Codex Gigas, detto «Bibbia del Diavolo», preso
in prestito nel 1594 al monastero di Broumov e mai restituito. I
materiali risultano sfidati da virtuosismi tecnici, anche di mae-
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stri italiani quali Abondio, Miseroni e Castrucci (fig. 2), trasferitisi a Praga, dove Rodolfo sviluppa pure l’arte vetraria, mentre
incentiva prospezioni minerarie e fonda una città a suo nome,
Rudolfov. Avoca quasi l’esclusiva sulle pietre di Boemia, con cui
a Firenze i Caroni realizzano per lui in sette anni una tavola detta l’«ottava meraviglia del mondo». Al castello, in un caos improntato di horror vacui, affastella opere in quattro sale a volta con
trentasette armadi, casse e scrigni, sino all’esclusivo studio, Šackomora, gabinetto d’arte, di curiosa e artificialia. Si circonda di preziosi e rarità vegetali e animali, degli amati cavalli, di corna e selci, mandragore e ossa di giganti, una testa di Polifemo e manufatti miniaturizzati su gusci di noci e noccioli di ciliegia, coppe di
bezoar e chiodi e magneti «dicesi provenienti dall’Arca di Noè»;
persino un grumo di creta della valle di Ebron, «fango del protoplasto Adamo». Scorrono globi, strumenti astronomici e musicali, Automaten e orologi d’argento anche a forma di barca. Piume di colibrì e uova di struzzo, pitture giapponesi e «huaca»
(animati idoli, in quechua), forieri di forza soprannaturale come
per gli Incas, compongono l’esotico indianisch. Le rudolfine Kunstund Wunderkammern quasi riflettono il libro divino; evocato pure
nell’Orbis sensalium pictus, 1618, creato da Comenio, vescovo dei
Fratelli Boemi, ideatore della scuola materna e della pansofia.
Y Rodolfo, fra astrologia giudiziaria e alchimia, convinto d’essere «un’anima dannata», appare segnato dalla «melanconia»,
acuita nella svolta del 1600, tra presagi millenaristici e crisi religiose; in quell’anno, a Roma, è arso Giordano Bruno, che nel
1588 s’era recato a Praga, protetto dall’imperatore. Il nunzio apostolico Antonio Puteo scrive: «È Sua Maestà reputata di complessione colerica et melanconica». Rodolfo alterna apatia a scatti feroci, anche inclini al suicidio, degni di Bulgakov. Nel suo sangue
scorre per doppia ascendenza l’eredità di Giovanna la Pazza, la
«loca» bisnonna moglie di Filippo il Bello e madre di Carlo v.
Presso il figlio di questi, Filippo ii, è inviato l’adolescente Rodolfo nel 1563; in sette anni diviene «spagnuolo», nel rigore della
corte, dove si sarebbe innescata la miccia lenta di manie di grandezza e persecutorie. Spettacolari le sue investiture: a vent’anni,
1572, diviene sovrano d’Ungheria; a ventitré, è riconosciuto re di
Boemia poi re dei Romani; nel 1576, è imperatore del Sacro Romano Impero, ne detiene il trono per trentasei anni. Verso il
1602, chiede a Vermeyen una nuova corona «pro sacra sua persona» (Vienna, Schatzkammer), sui disegni di Dürer per l’Ehrenpfor-
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2. Bottega di Giovanni
Castrucci, Veduta di Hradčany,
commesso in pietre dure,
Praga, Uměleckoprůmyslové
museum v Praze.
Workshop of Giovanni
Castrucci, View of Hradčany,
intarsia in hardstone,
Prague,
Uměleckoprůmyslové
museum v Praze.
te del trisnonno Massimiliano i; secondo il veneziano Soranzo, vale 500 mila scudi. Non bada a spese: discendente di mecenati e
collezionisti come il nonno paterno Ferdinando i (1503-1564), il
padre Massimilano ii (1527-1576; sposo di Maria, figlia di Carlo
v) e lo zio paterno Ferdinando del Tirolo (1529-1595), che crea la
magnifica raccolta d’Ambras, anche con la Saliera di Cellini, ora a
Vienna. Karl, figlio di Ferdinando e margravio di Burgau, svende
la collezione nel 1605 per 170 mila fiorini a Rodolfo ii, cui era già
pervenuta quella del fratello Ernst, con emblematici Bruegel il
Vecchio, tra cui Cacciatori nella neve (Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 3). Nel periodo spagnolo, Rodolfo cresce fra le raccolte ricche di pitture veneziane del nonno materno Carlo v (15001558) e dello zio Filippo ii (1527-1598).
Y Nel 1576, l’anno della morte di Tiziano, Rodolfo ascende al
trono; nel 1583 porta a Praga la corte, insieme alla passione “dinastica” per i dipinti veneziani, soprattutto di Vecellio. Nelle collezioni imperiali giungono molti quadri di Tiziano; così, nel
1600 il cardinal Montalto da Roma invia a Rodolfo la Danae (a
Vienna dal 1723, ora Kunsthistorisches Museum; fig. 4). Alle
raccolte rudolfine risalirebbe il Riposo dalla fuga in Egitto (documentato nel 1660 presso l’arciduca Leopoldo Gugliemo a Vienna; dal
1851 in Inghilterra, nella raccolta Munro di Novar; tramite Christie’s, dal 1878 è nella collezione del marchese di Bath a Longleat
House, Warminster, Wiltshire). Analoga sarebbe l’antica provenienza della Vanità, nel 1748 al castello di Schleissheim e dal 1836
all’Alte Pinakothek di Monaco. Numerosi capolavori rudolfini,
in particolare di Tiziano e veneziani, seguono un travagliato iter a
partire dal Sacco di Praga del 1648; gran parte del bottino giun-
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3. Pieter Bruegel il
Vecchio, Cacciatori nella neve
(Inverno), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Pieter Bruegel i, Hunters in
the Snow (Winter), Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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ge a Cristina di Svezia, seguendola ad Anversa e a Roma. Per eredità, i quadri passano al cardinal Azzolino; nel 1692, i discendenti li vendono al principe Odescalchi; nel 1721, li acquista il
duca d’Orléans; infine, verranno alienati in un’asta privata al
Lyceum di Londra, 1798-1799. Di qui, le strade divergono. La
Venere con Cupido e un suonatore di liuto, comprata dal visconte Fitzwilliam, è nell’omonimo museo di Cambridge dal 1816. Il Ritratto di
Laura Dianti, tramite raccolte inglesi, giunge alla collezione Kisters
di Kreuzlingen (fig. 5), venduto a New York nel 1956-1957;
«opera stupenda», raffigurerebbe l’amante del duca Alfonso i;
Cesare d’Este la dona a Rodolfo ii, nelle cui raccolte è definita
«una turca». Analogo è il percorso sino al 1798-1799 di altre tele tizianesche, compresa una Maddalena penitente che un’incisione
avvicina alle versioni di Stoccolma e di Tokyo.
Y Nell’inventario imperiale
del 1621, fra i dipinti attribuiti a Tiziano compare un
soggetto forse identificabile
con quello descritto in una
lettera al duca di Mantova,
inviata da Praga il 21 agosto
1600 da Aderbale Manerbio.
Il residente narra come Rodolfo gli avesse mostrato
«una dea Venere, un Adone,
et un cane» in una «camera
dove sono molte pitture», quale dono di Vincenzo i Gonzaga del
1598 (di recente ne è stata proposta un’identificazione nel tizianesco Venere e Adone a Somerley, Ringwood, Hampshire, Earl of
Normanton). Nelle molteplici redazioni del tema, Venere è modellata sull’antico rilievo detto Letto di Policleto, di cui Ghiberti possedeva una versione, secondo Vasari venduta a Giovanni Gaddi:
forse la stessa poi in collezione Pio di Carpi, quindi comprata da
Ippolito ii d’Este, infine acquistata da Rodolfo ii e perduta nel
Sacco di Praga. Tra gli omaggi del duca di Mantova spicca, 1603,
l’agognata gemma con capita iugata, che Rodolfo stringe fra le mani
nel suo «studio o gabinetto dove tiene le cose più care» (secondo
le ultime ipotesi, il cammeo di San Pietroburgo, non quello di
Vienna). Spesso, l’imperatore si aggiudica i pezzi nelle trattative
sfinendo la controparte. Così nel 1600 si arrende François, con-
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4. Tiziano Vecellio, Danae,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Titian, Danae, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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te di Cantecroy, nipote ed erede del cardinale de Granvelle (amico e committente di Tiziano), alienando i trentadue quadri che
l’imperatore richiede con una lista personalmente redatta, comprensiva persino del prezzo, 13 mila «talari»: irrisorio e pari alla
cifra, già rifiutata, offerta dal cardinal Farnese per una singola
opera, Il martirio dei diecimila di Dürer. Nei desiderata di Rodolfo, fra i
dipinti compare anche «una Venere in sul letto con un organista
di Titian», forse identificabile con una versione ora a Madrid, quella firmata e con Cupido (menzionata nel 1626 nell’Alcazar ed entrata al Prado nel 1838; fig. 6), che Rodolfo avrebbe poi scambiato con Filippo iii per quadri di Correggio; ma la tela potrebbe anche provenire dai beni del segretario di Stato di Filippo ii, Diego
de Vargas. Già nel 1598, alla morte dello zio Filippo ii, Rodolfo
aveva allertato l’ambasciatore a Madrid,
Hans Khevenhüller, per ottenere i
quadri della raccolta reale spagnola, oltre a quelli confluitivi dalla collezione
dell’ex segretario Antonio Pérez, dopo
la sua caduta in disgrazia del 1579. I migliori, però, se li aggiudica Pompeo
Leoni, che li rivende a Rodolfo ii tra
1601 e 1603: partono per Praga raffinati dipinti, di cui l’imperatore ammira l’invenzione, come il Cupido che fabbrica l’arco dell’“alchemico” Parmigianino
(Vienna, Kunsthistorisches Museum;
fig. 7), insieme alla sensualità, sublime
negli Amori di Giove di Correggio, cui appartengono la Danae della
Galleria Borghese, la Leda di Berlino e i viennesi Giove e Io (fig. 8)
e Ratto di Ganimede (fig. 9), inseguito da vent’anni dal disperato
Khevenhüller per la sapiente brama di Rodolfo.
Y Lo stesso Khevenhüller elogia Tintoretto alla corte di Praga;
conosce l’artista a Venezia e qui gli compra almeno tre dipinti;
ad Arganda, vicino a Madrid, ne appende due in villa, Nove Muse
e Ratto d’Europa: se ne perdono le tracce in Spagna nel 1610, nonostante le proteste di Rodolfo ii, che le aveva ricevute in eredità insieme a un Ratto di Elena. L’imperatore, che legge testi latini,
poliglotta, sensibile ad arte speculatoria e oroscopia genetliaca,
nella sua collezione vanterebbe l’Origine della Via Lattea di Tintoretto (fig. 1). L’opera, rintracciabile negli inventari rudolfini del
1621 e 1637, riemerge nella collezione del marchese de Seignelay
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5. Tiziano Vecellio, Ritratto
di Laura Dianti,
Kreuzlingen, collezione
Heinz Kisters.
Titian, Portrait of Laura
Dianti, Kreuzlingen, Heinz
Kisters collection.
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nel 1690, forse tagliata allora nel lato inferiore; nel 1724 è del
duca d’Orléans, mentre all’asta del Lyceum di Londra la compra
nel 1798 per cinquanta ghinee Michael Bryan, l’organizzatore
della vendita; entro il 1831 passa al conte di Darnley e nel 1890
l’acquisisce la National Gallery. Nel dipinto, Giove si proietta
dall’alto con il piccolo Ercole, nato dall’unione con Alcmena di
Tebe, e per garantirgli l’immortalità lo accosta al seno dell’addormentata consorte Giunone; la gelosa dea però si sveglia e
spruzzi del suo latte schizzano al cielo attraverso la volta celeste,
dando origine alla “via lattea”, altri invece si spargono a terra e
si trasformano in gigli. Il quadro è descritto nelle Maraviglie dell’arte (1648), con altri di Tintoretto, dedicati a Ercole, per Rodolfo ii, alle cui preferenze si correlano pure l’accuratezza e la
lussureggiante cromia: «Per Ridolfo ii Imparatore dipinse quattro quadri di favole per le sue stanze, con figure à par del vivo».
Accanto alla tela di mano di Tintoretto, per gli altri tre dipinti
descritti da Ridolfi si sono richiamate versioni o copie, corrispondenti al Concerto di Muse in giardino (come quello a Dresda,
o il distrutto Parnaso), a Ercole caccia Sileno dal letto di Onfale (evocato da
quello a Budapest, Szépművészeti Múzeum) e a Ercole e Onfale (ricordato dalla versione già in collezione Battistelli, Firenze). La
predominanza del letto, in tre soggetti su quattro, rende possibile fossero destinati a una camera privata dell’imperatore.
Y Risultano invece controverse l’ubicazione originaria, come
pure la riconducibilità ad acquisto o a committenza diretta di
Rodolfo ii, del ciclo di Veronese con le quattro Allegorie d’amore
(Londra, The National Gallery; figg. 10-13). Le tele quadrate,
con scorci dal sotto in su, possono aver ornato i lati del soffitto
di una stanza nuziale in un palazzo veneziano, per passare a Praga entro il 1637, quando le registra un inventario rudolfino: nel
taccuino italiano, van Dyck schizza due delle allegorie, forse presenti a Venezia ancora nel 1622 circa, o note tramite copie e incisioni. Infatti le tele, databili verso il 1575, secondo un’ipotesi
alternativa si riferirebbero al Sommerpalast di Praga proprio negli
anni del rinnovamento rudolfino; destinate a decorare il soffitto, sarebbero state escluse dagli inventari più antichi, mentre
compaiono dal 1637, forse per mutamenti espositivi. Alla decorazione della stessa sala praghese, questa volta delle pareti, risalirebbero altri Veronese: nel Riposo (1584), Borghini elenca quattro soggetti mitologici dipinti «all’Imperadore», dominati soprattutto da Venere e Amore; nelle Maraviglie (1648), Ridolfi det-
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6. Tiziano Vecellio, Venere
con Cupido e organista,
Madrid, Museum
Nacional del Prado.
Titian, Venus and Cupid with
Organist, Madrid, Museum
Nacional del Prado.
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taglia tre analoghe «inventioni» per Rodolfo: nessuno di questi
si riscontra però negli inventari. Dopo il Sacco del 1648 e i successivi passaggi sino al duca d’Orléans, all’asta londinese del
1798 le quattro Allegorie d’amore, invendute, sono rilevate dall’organizzatore Bryan e bandite il 14 febbraio 1800 per una quarantina di ghinee; passano nella raccolta Darnley e infine nella National Gallery dal 1890. Dopo un comune percorso dal Sacco sino all’asta del Lyceum, si separano altre tele di Veronese registrate negli elenchi praghesi
(già ritenute parte d’un coerente ciclo per Rodolfo, indagini e restauri anche recenti ne
dubitano): approda a New York
Venere e Marte con due Amori e il cavallo, acquistato dal Metropolitan
Museum of Art nel 1910 da
Lord Winborne (fig. 14). Mercurio, Erse e Aglauro, acquistato da
lord Fitzwilliam, è a Cambridge
dal 1816 (fig. 15). Nel 1912, giungono alla Frick Collection sia
Ercole al bivio sia La saggezza e la forza (figg. 16, 17). Diverse copie e
frammenti (reliquie, per Zeri), in collezioni private e pubbliche,
sono riferibili all’antica registrazione inventariale di un «Marte
in piedi armato e Venere nuda» che lo arma, con amorini e cavallo; a Vienna se ne conserva una copia seicentesca. Di provenienza praghese, forse rudolfina, è pure Venere e Adone morente con
amorini, dal 1947 al Nationalmuseum di Stoccolma.
Y Nelle collezioni di Rodolfo sarebbe giunta verso il 1605 anche la tela di Veronese con il ritratto di Hans Jacob König (Praga, Národní Galerie; fig. 18), documentata nel castello di Praga
dal 1685. König, nato a Füssen, suocero di Girolamo Ott, agisce fra il Nord, Roma, Firenze e Venezia: qui entrambi i mercanti e collezionisti risiedono e sono attivi, legati anche ai Fugger. Il «König Joylieren di Venetia», mercante, editore di stampe e orafo, effigiato da Tintoretto e Veronese, colleziona dipinti nordici e veneziani, ritratti e autoritratti di pittori; è in stretto contatto con Rodolfo ii, almeno dal 1580, e diviene suo agente. A corte sarà promotore di von Aachen, di cui conserva due
autoritratti, oltre a effigi di Spranger, Ligozzi, Giambologna. La
raccolta König è smembrata nel 1605 circa e almeno quindici ri-
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tratti passano a Praga. Da essa potrebbe pervenire a Rodolfo il
Ratto d’Europa di Veronese ora a Londra, come di recente proposto. L’opera è riconoscibile nell’inventario rudolfino del 1637, e
forse già in una lista del 1610-1619 circa, come pure in un elenco König del 1603. Dopo il Sacco di Praga, il quadro passa a
Cristina di Svezia, che lo porta ad Anversa e a Roma, sino al duca d’Orléans nel 1721; all’asta del 1798, è acquistato da Willett
per duecento ghinee; per centoquaranta lo compra Holwell Carr
alla vendita Willett del 1813; infine è donato alla National Gallery nel 1831.
Y Nonostante si procuri ritratti di arciduchesse facendo credere di cercar moglie, Rodolfo non convolerà a nozze, sconsigliato
da un oroscopo perché un discendente legittimo gli avrebbe sottratto il regno. A lungo fra le amanti è favorita Anna Maria Stradová, che gli darà almeno otto figli naturali; il primo è il feroce
don Julio (César de Austria), trovato morto a ventitré anni nel
castello di Krumlov, dov’era rinchiuso pazzo furioso. Anna Maria era nata da Ottavio Strada, governatore delle raccolte imperiali alla morte del padre Jacopo, il veterano «Šacmistr» amico di
Serlio; nella fastosa dimora viennese di Jacopo, il giovane Rodolfo avrebbe imparato a dipingere. Nel 1567, Jacopo e Ottavio Strada sono a Venezia, ritratti l’uno da Vecellio nella celebre tela ora a
Vienna, l’altro da Tintoretto (ne tramanda memoria una versione
al Rijksmuseum di Amsterdam). A Praga, Ottavio collabora ai volumi di emblemi illustrati da Sadeler, i Symbola (1601-1603) culminanti nelle imprese di Rodolfo e nel suo motto adsit.
Y Nel 1595, l’imperatore promulga una Lettera di Maestà innalzando per decreto la Pittura fra le Arti, non più tra i mestieri, e
l’affranca da regole corporative. Maestri a corte vengono investiti di privilegi e titoli; nel 1591 diviene Kammermaler Joseph Heintz
il Vecchio, aggiornato sulla pittura italiana e che nei suoi viaggi
sosta pure a Venezia; a Praga mostra influssi anche di Tintoretto
(fig. 19), mentre il figlio dipingerà fra le lagune dal 1625 fino alla morte, 1678. Ridolfi cita i due Heintz nelle Maraviglie, quando
racconta l’invio da Venezia dei Mesi di Bassano a Rodolfo («VeneziAltrove» 2009). L’imperatore apprezza tanto il ciclo, da
chiamarne a Praga l’autore: Jacopo Bassano sarà tra i pochi a opporre un rifiuto, come pure Federico Zuccari. Invece il veneziano Giovanni Contarini (vedi p. 65) è a Praga, almeno dopo il
1587 e nel 1593, quando accompagna nelle Fiandre l’arciduca
Ernst. Secondo Ridolfi, dipinge ritratti, favole mitologiche «et
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7. Francesco Mazzola,
detto Parmigianino, Cupido
che fabbrica l’arco, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Francesco Mazzola, called
Parmigianino, Cupid Carving
his Bow, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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altre simili inventioni; onde incontrò nel gusto di quella Maestà», tanto da ottenere doni e titoli. Boschini (1660) l’introduce come «degno Cavalier, e di Ridolfo Imperator segondo prediletto pitor», lungo la linea tizianesca; la Caduta del regno di Saturno svela pure relazioni con Heintz il Vecchio (Praga, Národní
Galerie; vedi p. 42). Quando torna a Venezia, nel 1596, Contarini prende casa a San Moisè e si veste con spada, cappello di
piume e collana d’oro donata dall’imperatore: come nell’autoritratto agli Uffizi (vedi p. 65). Era giunto a Praga un altro veneziano, fra i primi pittori cesarei insieme a Martino Rota: Giulio
Licinio, che dalla Serenissima procura a Rodolfo quadri e spunti. Arriva pure il veneto Paolo Piazza alias Fra Cosmas, pittore
cappuccino nel convento a Hradčany. Accanto ai veneziani, affluiscono dipinti di nordici trasferiti a Venezia, quali Pozzoserrato e Paolo Fiammingo, attivi anche per i banchieri Fugger. Di
Paolo Fiammingo, fin dal 1573 a Venezia (dove nel 1584 è iscritto alla Fraglia dei pittori), le collezioni rudolfine annoverano
molti esemplari, forse comprese tele ora alla Národní Galerie,
quali la Nascita di Atena dal capo di Zeus (vedi p. 58); numerosi suoi
quadri risultano anche in raccolte veneziane, inclusa quella di
Alessandro Vittoria, amico di Jacopo Strada. Da Vittoria passa a
Rodolfo l’emblematico Autoritratto allo specchio di Parmigianino
(Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 20). L’autore lo regala a Clemente vii, il quale lo dona a Pietro Aretino, che lo porta ad Arezzo dove l’osserva Vasari; giunge a Valerio Belli, e attraverso Elio Belli, con la mediazione di Andrea Palladio e alla presenza di Francesco Pisani, è acquistato per dieci scudi da Vittoria a Venezia, da cui perviene a Rodolfo ii.
Y La sezione veneta della Kunstkammer dell’imperatore vanta anche opere di Andrea Schiavone, Andrea Vicentino e Pordenone.
Fra i numerosi soggetti di Paris Bordon negli inventari, Venere e
Flora con Amore e Marte (San Pietroburgo, Ermitage) sembra influire sull’Allegoria del regno di Rodolfo II di Dirck de Quade Ravestijn
(Praga, Národní Galerie). Rodolfo dà vita a una corte cruciale
per il Manierismo europeo. È promotore di artisti quali Spranger e Sadeler, von Aachen e Heintz il Vecchio, de Vries e Mont,
Jamnitzer e Vianen, Stevens e Savery, Joris e Jacob Hoefnagel,
Hofmann e Gundelach: tutti riuniti nella cosmopolita «École di
Prague» a comporre lo “stile rudolfino”, innervato d’erotismo e
virtuosismo, osservazione della natura, apoteosi di simboli imperiali, fra mecenatismo e trionfi militari, compresa la ricon-
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quista di Raab, nel 1598. Di notte, Rodolfo scende ad accarezzare le opere, animato di passione esclusiva; urla di gioia mentre
porta in camera l’agognato rilievo di Giambologna, ottenuto da
Modena. Karel van Mander narra anche le Vite di molti pittori rudolfini, compreso l’amico
Bartholomeus Spranger, che dopo un periodo
italiano è a Praga nel 1580 e l’anno seguente
diviene Kammermaler. In suoi sensuali dipinti
come Ercole, Deianira e Nesso (Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 21), dal ciclo destinato a decorare il palazzo imperiale, traspaiono
influssi veneziani e di Giambologna (mai andato a Praga di persona); gli è assegnata una
stanza accanto a quella di Rodolfo, che vuole
osservarlo mentre dipinge. Piante e bestie
sembrano comporre un linguaggio segreto
della natura, fra locuste e farfalle intorno a
una rosa sfatta, nelle opere di Joris Hoefnagel, passato per Roma e Venezia, e dal 1590 a
Praga, dove realizza vedute, volumi sul regno
animale, disegni botanici, immagini per il
manuale calligrafico di Bocksay. Nelle scene
agresti e bibliche di Roelandt de Savery è incluso anche il primo ritratto del dodo, uccello scoperto dagli olandesi alle Mauritius,
1598, immediatamente presente nel serraglio
rudolfino.
Y Influssi di Tintoretto rivelano Joseph
Heintz il Vecchio e Hans von Aachen (fig. 22),
che dal 1574 soggiorna più volte fra le lagune,
copiando, oltre a Robusti, Bassano e Veronese; grazie ai Fugger e a König, è introdotto a Monaco e poi a Praga, 1592. Diviene fiduciario di Rodolfo con il singolare titolo di
«Kammermaler von Haus aus» (pittore di camera a casa propria). Alla ricerca di quadri, spazia dai Paesi Bassi, a Mantova e a
Venezia, dove è nel 1603. Qui l’imperatore contatta anche Hans
Rottenhammer, che in laguna acquista, restaura, vernicia dipinti
per lui, forse anche tramite gli Ott. Il pittore cura la messa in sicurezza per il trasporto a Praga della Pala del Rosario (vedi p. 42),
mentre nella sua bottega forse se ne realizza una copia, poi in collezione Grimani a Venezia. L’imperatore chiede riproduzioni di
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capolavori che non riesce a ottenere, comprese copie di Rubens
da Correggio. Quali agenti, adopera persino ambasciatori, ma
non solo; per acquistare oggetti d’arte a Venezia, anticipa una
somma anche all’«ebreo giramondo» Seligman, che invece l’incamera e sparisce. Rodolfo tesse arazzi (che disegna e colleziona,
pure di Bosch) e intreccia anche una rete capillare per gli acquisti. Informato dell’affiorare sul mercato di
quadri e collezioni,
esercita una precoce
connoisseurship. Riconosce la mano degli artisti, compreso Dossi, e
spesso li vuole a corte:
nell’estate 1604, rimane «due ore e mesa assentato senza moversi
guardar li quadri delli
mercati di frutta e pescaria» inviati dal duca
di Savoia, e sollecita la
ricerca a Cremona
dell’autore, se vivente,
per portarlo a corte.
Y L’imperatore appare come Vertumno in
un criptoritratto descritto anche da Lomazzo, che forse fornisce a Rodolfo opere
di Leonardo (e nell’inventario del 1621 compaiono due voci già
riferite alla Dama con l’ermellino, documentata solo dal 1809 presso i
Czartoryski a Cracovia). La concettuosa immagine del Vertumno è
eseguita nel 1590 circa da Arcimboldo, l’«ingegnosissimo pittor
fantastico», artista ufficiale a Vienna, con Ferdinando i (152664) e Massimiliano ii (1564-1576), poi a Praga. Nel suo lavorare
a grottesco risaltano teste-composte e reversibili, babelici accumuli fitomorfi o zoomorfi, o con utensili o libri; contraffatti
profili “parlanti”, serie d’elementi e stagioni. Rodolfo concede il
rientro a Milano nel 1587 al vecchio pittore, a patto che continui
a inviare opere e a fargli da agente. Così Arcimboldo invia a Pra-
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8. Antonio Allegri, detto
Correggio, Giove e Io,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Antonio Allegri, called
Correggio, Jupiter and Io,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
9. Antonio Allegri, detto
Correggio, Ratto di
Ganimede, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Antonio Allegri, called
Correggio, Rape of
Ganymede, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
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ga Flora e appunto il Ritratto di Rodolfo II come Vertumno (Balsta, Svezia,
Skokloster Slott; vedi p. 4), la divinità che presiede all’avvicendamento delle stagioni e alla maturazione dei frutti specialmente in
autunno. Così, «l’Autunno» di Praga ostenta un popone in
fronte, ha una pera invece per il naso; una ciliegia e una mora
vermiglia formano gli occhi; le guancie sporgono con pesca e melappia; due nocciole disegnano i baffi, una castagna spinosa il pizzo di un’irta barba, fra capelli di tralci, grappoli e spighe, mentre
fiori e ortaggi formano collo e spalle. Rodolfo, «signore di tutto
il mondo», invia una lettera e nomina il pittore comes palatinus.
Y Ai piedi del castello (fig. 23) gli alchimisti dell’imperatore,
molti giunti da Venezia, avrebbero abitato le «casette di bambola» della tortuosa Viuzza d’Oro (fig. 24), già dimora di orafi (in
quella strada onirica vivrà pure Kafka, ma anche madame de
Thèbes). L’imperatore si circonda di maghi, naturalisti e scienziati; chiama anche il veneto Giacomo Alvise Cornaro, mentre
spicca l’astronomo danese Tycho Brahé («loquace» per Galileo), cui succede a corte Giovanni Keplero, accolto mentre altrove era perseguitato per la fede evangelica. Il tedesco dedica a
Rodolfo ii l’Astronomia Nova, 1609, con le prime due leggi del movimento dei pianeti intorno al Sole, seguite nel 1619 dalla terza,
mentre nel 1627 mette a punto le Tabule Rudolphiniane per calcolare la posizione dei pianeti. Secondo la leggenda, si deve a Brahé
(dalla protesi argentea e dorata che sostituiva il naso, perso in un
duello) la profezia a Rodolfo d’una fatale sorte legata al leone
africano da lui domato. Il superstizioso sovrano muore pochi
giorni dopo il prediletto felino, a lungo osservato a vista quando, lasciata l’ala del castello sopra il Fossato dei Cervi, scendeva
nei giardini, fra statue, giochi d’acqua, serre. L’imperatore è
minacciato da nemici esterni e interni; teme il fratello Mattia,
che lo costringe ad abdicare e gli succede al trono (1612-1619);
dieci mesi più tardi scompare Rodolfo. Dopo il 1612 s’inasprirono le tensioni fra cattolici e protestanti; l’esempio del padre
aveva favorito la tolleranza di Rodolfo ii, che con la bolla del 9
luglio 1609 concede libertà religiosa; ma alla sua morte se ne teme la revoca. Si giunge alla Defenestrazione di Praga, primo atto della guerra dei Trent’anni (1618-1648), quando il 23 maggio 1618
due luogotenenti e un segretario, chiesta udienza al Castello, al
termine di controversie sono gettati dai protestanti fuori dalla
finestra. L’8 novembre 1620, si svolge una decisiva battaglia alla
Montagna Bianca, che segna il declino della gloria boema; Mas-
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10. Paolo Caliari, detto
Veronese, Allegoria d’amore.
La donna contesa tra amore
mondano e amore onesto
(L’infedeltà), Londra, The
National Gallery.
Paolo Caliari, called
Veronese, Allegory of Love.
Deciding between Worldly Love
and Honest Love
(Unfaithfulness), London,
The National Gallery.
11. Paolo Caliari, detto
Veronese, Allegoria d’amore.
L’uomo dominato dall’amore
disonesto (Il disinganno),
Londra, The National
Gallery.
Paolo Caliari, called
Veronese, Allegory of Love.
The Man Ruled by Dishonest Love
(Scorn), London, The
National Gallery.
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similano di Baviera lascia Praga con 1.500 carri di bottino; dopo l’occupazione sassone, 1631, s’allontanano dal castello oltre
cinquanta veicoli di preziosi.
Y Imperversano su Praga scorrerie di diversi eserciti sino alla
pace di Vestfalia del 1648, all’indomani di una strenua seppur vana resistenza alle truppe svedesi del conte von Königsmarck, che
depredano la città. Il generale tortura il tesoriere Dionysio Miseroni per ottenere le chiavi della Kunstkammer con l’inventario redatto nel 1647, oltre a farne compilare un altro. Sembra che il
terribile Sacco del 1648 sia stato innescato proprio per ottenere
le raccolte di Rodolfo ii, per la figlia del re Gustavo ii Adolfo,
Cristina di Svezia. Il bottino praghese approda a Stoccolma e la
regina commenta a Lord Arundel: «Un numero infinito di pezzi, ma fuori di trenta, o quaranta che sono originali italiani, io
non fo conto alcuno degl’altri»; anzi, volentieri cederebbe i quasi cinquecento Dürer e nordici in cambio di un paio di Raffaello. Dopo l’abdicazione e la conversione, nel 1655 Cristina si trasferisce a Roma, a palazzo Riario alla Lungara, insieme alla raccolta, con cinquantasette quadri del lotto praghese, soprattutto
Correggio e veneziani, mentre gli altri rimangono a Stoccolma
(preda di successivi incendi, 1697 e 1702). Porta con sé volumi
rudolfini, compreso il Codex Gigas (dal 1649 a Stoccolma, Kungliga Biblioteket), molti poi pervenuti nella Biblioteca Vaticana.
Dopo il Sacco arrivano in Svezia anche opere accaparrate da diversi comandanti; il busto in bronzo di Carlo v di Leone Leoni e
quello imperiale voluto a pendant da Rodolfo, realizzato da Adriaan
de Vries (fig. 25), entrano nelle raccolte di Königsmarck, che
aveva fatto incetta di cinque carri di preziosi. Alla morte dell’ultimo erede nel 1806, i due bronzi con altri esemplari del bottino
di Praga, inclusi ventiquattro dipinti di Giulio Romano, sono acquistati dall’ambasciatore austriaco von Lodron-Laterano, che li
dona alla Corona (Vienna, Kunsthistorisches Museum). A Stoccolma giungono centinaia di capolavori, come la statua equestre
di Rodolfo di Giambologna e l’Adamo ed Eva di Dürer; in Svezia si
conservano molte teste-composte di Arcimboldo; la maggior parte delle opere rudolfine risulterà divisa.
Y Alla morte dell’imperatore, le collezioni vengono stimate 17
milioni di monete d’oro; il veneziano Soranzo racconta da Praga,
5 marzo 1612, che ogni giorno, in ciascun angolo e ripostiglio nascosti nella reggia-fondaco, si scoprono oggetti e «pitture in numero di tremila, e più quadri di mano di pittori famosi antichi e
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moderni, che non solo riempiono tutte le sale, tutte le gallerie,
tutte le stanze, ma ve ne sono una quantità immensa involti et ammassati in mucchi di modo che abbondano tanto che invece di ornar il palazzo lo rendono quasi un fontico». Mattia trasporta
quadri a Vienna; altri sono spartiti
tra membri della dinastia, come
Massimiliano iii e gli arciduchi Alberto e Isabella a Bruxelles (1615).
Nel 1619, i calvinisti rivoluzionari di
Praga impongono la vendita delle figure nude «oscene». In seguito alla
riconquista cattolica, «gli dei olimpici, le Grazie, le Muse e le ninfe
vanno in esilio», sostituiti da «ospiti nuovi e stranieri: tutti quei santi
spagnoli e no, dai volti arcigni e mistici», lamenterà Chytil. Nel 1749,
per risanare le finanze, Maria Teresa
d’Asburgo svende ad Augusto iii di
Sassonia molti dipinti, ora a Dresda.
Durante la guerra dei Sette anni, nel
1757, il castello di Praga è preso a
cannonate e nella fretta, per metterle in salvo, si frantumano molte opere. Nel 1780, Giuseppe ii ordina
d’adibire il castello a caserma e si
bandisce un’asta, 13 e 14 maggio
1782, per far spazio e liberarsi di
opere e oggetti «superflui».
Y Chissà cosa avrebbe provato Rodolfo ii, modello anche per l’Utz di
Chatwin (dove nel finale il “barone”
ceco Utz sembra disfarsi dell’amata
collezione di porcellane Meissen,
trascinandosi verso il viottolo di una
discarica), nell’assistere, alla vigilia
dell’asta del 1782, al lancio nel Fossato dei Cervi di alcuni suoi fragili oggetti preziosi, ammassati in
ceste. Le inette stime preliminari della vendita sviliscono i suoi
capolavori, tanto da far precipitare a trenta crazie l’Ilioneus, pagato
10 mila ducati da Rodolfo; mentre si attestano a uno o due fiori-
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ni le valutazioni per i migliori quadri, compresa la celebre Festa del
Rosario di Dürer (Praga, Národní Galerie; vedi p. 52), seppur danneggiata nel 1635, durante la guerra dei Trent’anni. L’opera era
tra le glorie della collezione sottratte
alla Serenissima. L’esito settecentesco è
impietoso a paragone con le cure di
Rodolfo per acquistare quella famosa
grande tela del «germanus» Dürer,
autore anche dell’incisione Melencolia
I, fra i pittori preferiti del saturnino
imperatore. La pala era stata commissionata nel 1506 dalla Confraternita dei tedeschi, per l’altare di San
Bartolomeo a Rialto, a Venezia. Qui
Rodolfo la compra nel 1606 per novecento ducati; affinché non si rovini, dispone che sia avvolta in tappeti
e trasportata a spalla oltre le Alpi da
una squadra di energumeni, con
l’ordine di mantenerla in verticale.
Nel castello di Praga, ancora nel
1876 e a metà Novecento, riaffiorano opere di Rodolfo; già alla sua
morte, il ciambellano Makovský svela
che il sovrano aveva «nascosto e murato» ingenti preziosi; nelle memorie, 1619, Dačický evoca il mistero dei
tesori imperiali, mentre tutto «era
un continuo dryps-draps». Leopoldo Guglielmo, amante della pittura
veneta, a metà Seicento porta a Praga
le opere comprate all’asta della collezione Buckingham, insieme ad altre
del re Carlo i, e con le supersititi rudolfine avvia la seconda Galleria del
castello.
Y «Rodolpho di poche parole», per l’ambasciatore veneto, costringe i diplomatici a eterne attese; riceve invece “gabbamondo”;
lo circondano artifici e congegni; è ipocondriaco; per confessore
ha un cabalista, Pistorius. Nel 1584, dalla Polonia raggiunge Praga il filosofo elisabettiano John Dee, con il negromante Eduard
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12. Paolo Caliari, detto
Veronese, Allegoria d’amore.
La rinuncia all’amore disonesto
(Il rispetto), Londra, The
National Gallery.
Paolo Caliari, called
Veronese, Allegory of Love.
Renouncing Dishonest Love
(Respect), London, The
National Gallery.
13. Paolo Caliari, detto
Veronese, Allegoria d’amore.
Il premio dell’unione onesta
(L’unione felice), Londra,
The National Gallery.
Paolo Caliari, called
Veronese, Allegory of Love.
The Reward of the Honest Union
(Happy Union), London,
The National Gallery.
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Kelley, che compra due case: una già abitata, secondo la leggenda,
da Faust, o Felice, o Kuttenberg (poiché nato a Kutná Hora, da
cui l’identificazione con Gutemberg, l’inventore della stampa). I
due “maghi” inglesi collegano la regina vergine Elisabetta all’imperatore celibe Rodolfo ii, notava Evans. Entrambi i sovrani, garanti di equilibri crollati alla loro morte, segnano profetici avamposti di prospettiva liberale contro la montante reazione. Intanto,
nella città ebraica, “quinto quartiere” di Praga, le lancette dell’orologio municipale corrono à rebours, per Apollinaire. Il ghetto
raggiunge l’età aurea nel periodo rudolfino; il ricco Mordechaj finanzia pure l’imperatore per le collezioni e contro i turchi; il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel (fig. 26) è ricevuto a corte e nell’udienza del 16 febbraio 1592 discute con il sovrano problemi della
comunità ebraica. Ciò nutre la Golemlegende, secondo cui Rabbi
Löw crea il fantoccio di creta, Jossile Golem, per farsi aiutare a
suonare le campane dell’antica sinagoga. Se il termine ebraico
Golem («gójlem» in jiddisch) rinvia all’embrionale «grumo informe» del Salmo 139 e nel Talmud evoca il non compiuto, nell’immaginario praghese l’imperfetto assume le sembianze del gigante d’argilla, in bilico tra servitù e ribellione. Il Golem si anima
quando gli si introduce in bocca lo schem (foglietto con l’impronunciabile nome di Dio), e si affloscia se glielo si sottrae. Può innescare il Golem anche l’incisione sulla fronte del vocabolo Emet
(Verità), la cui iniziale, se cancellata, ne decreta la Met (Morte).
Antitetica all’ingegno del suo artefice è l’operosa schiavitù del Golem, privo di intelligenza razionale (a differenza d’un robot: termine ceco da robota, fatica fisica, corvée, suggerito al boemo Karel Capek per designare gli automi del suo dramma R.U.R., 1920; in slavo antico rob è «schiavo», precisa Ripellino in Praga magica). Negli
anni di Rodolfo fu portato in città dalla Spagna anche il Bambino
di Praga o Jezulátko, taumaturgico simulacro di cera esposto a Santa Maria delle Vittorie. La saga dei fantocci e del Golem s’esalta
nella Praga rudolfina.
Y Le opere riunite dall’imperatore («dio bisognoso di aiuto»
per Max Brod, 1916) lo rievocano ovunque, seppur disseminate
in diversi musei, quasi a emblema dei viaggi del pellegrino praghese: il Poutník del Labirinto comenico, che si reca nel mondo
dopo la disfatta della Montagna Bianca. A Hradčany, intanto,
sopravvive la memoria delle collezioni, nella magione incantata
voluta dal suo ideatore, novello Faust: Rodolfo ii, dio bisognoso
di tutto, infinito nell’inesausta ricerca di perfezione.
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the diaspora from the serenissima and the prague ‘autumn’
art in the court of rudolph ii:
magical collecting
and a love of venetian painting
Rosella Lauber
14. Paolo Caliari, detto
Veronese, Venere e Marte con
due Amori e il cavallo, New
York, The Metropolitan
Museum of Art.
Paolo Caliari, called
Veronese, Venus and Mars
with Two Cherubs and a Horse,
New York, The
Metropolitan Museum of
Art.
Y The snow of the previous night had created the opportunity
for the emperor Rudolph ii to come down from his protected
castle and drive through the streets of the enchanted circle of Old
Prague. This rare testimony is provided by a letter sent from the
Bohemian capital on 3 February 1579 by the ducal secretary Aurelio Pomponazzo to the Gonzaga councillor, Aurelio Zibramonti. On that day, the resident Giorgio Carretto noted in a missive,
like the previous one in the Mantua state archive, that his majesty
with 24 sleighs ‘drove through Prague, and appeared twice in this
square very cheerfully’. The information is surprising: the solitary
and melancholy figure of the Habsburg sovereign is shown in an
unusual way, riding along in triumphal parade, happily giving
himself up to the crowd. The portrait of Rudolph ii (Vienna
1552-Prague 1612), ‘the greatest art patron in the world’ according to Karel van Mander (1604), has been handed down along
different chthonic or underground lines, privy more to the shadows than the light. The creator of an extraordinary collection,
more than a quarter of which was made up of Italian and especially
Venetian paintings, lived apart, on the hill of Hradčany, in the
heart of the city crossed by the Moldova, or Vltava in Czech.
Y Rudolph ii moved the court from Vienna to Prague in 1583,
the ancient capital chosen by Charles iv. He created a prodigious
imperial seat in the city of the Metamorphoses with his multiform
intelligence; from 1576-79 he created the Sommerpalast, the imperial bedroom, the studio and the summer rooms. He enriched
the residence with naturalia and mirabilia, gold, silver, ‘magic’ mirrors, Venetian and Bohemian glass, jaspers and agates, cameos,
coins and medals, vases and Egyptian majolica, along with ancient and modern paintings and sculptures, reliefs and bronzes,
fabrics and mosaics. Incunabula and miniatures appeared alongside Kunstbüchern and manuscripts, including the Codex Argenteus
and the Codex Gigas, called the ‘Devil’s Bible’, borrowed from the
Broumov monastery in 1594 and never returned. The materials
the account
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15. Paolo Caliari, detto
Veronese, Mercurio, Erse e
Aglauro, Cambridge,
Fitzwilliam Museum.
Paolo Caliari, called
Veronese, Mercury, Herse and
Aglauros, Cambridge,
Fitzwilliam Museum.
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were worked with technical virtuosity, also by Italian masters such
as Abondio, Miseroni and Castrucci (fig. 2), who had moved to
Prague. Rudolph also developed glass art there, while encouraging prospecting for mines and establishing a city in his name,
Rudolphov. He demanded the almost exclusive use of Bohemian
stone; the Caroni in Florence used this to make a table for him,
which took seven years and was known as the ‘eighth wonder of
the world’. In the castle, amid a chaos marked by horror vacui, he
amassed works in four vaulted rooms with 37 cabinets, trunks
and cases, through to the exclusive studio, the Šackomora, an art
studio of curiosa and artificialia. He surrounded himself with precious and rare vegetable and animal things, his beloved horses,
horn and flint, mandrake and the bones of giants, a head of
Polyphemus and miniaturised creations on walnut shells and
cherry stones, cups of bezoar and nails and magnets ‘said to be
from Noah’s ark’; even a lump of clay from the valley of Hebron,
‘mud of the protoplast, Adam’. There were globes, astronomical
and musical instruments, Automaten and silver clocks, also in the
form of a boat. The exotic indianisch consisted of humming-bird
feathers, ostrich eggs, Japanese paintings and ‘huaca’ (animated
idols in Quechua), harbingers of supernatural powers, as for the
Incas. Rudolph’s Kunst- und Wunderkammern almost reflected the divine book; also evoked in the Orbis sensalium pictus, 1618, created by
Comenius, Bohemian Brothers bishop, inventor of the nursery
school and of pansophy.
Y Among astrological readings and alchemy, convinced he was
‘a damned soul’, Rudolph seemed marked by a ‘melancholy’ that
intensified at the turn of the year 1600, amid millennial forebodings and religious crises. Giordano Bruno was burnt to death
in Rome that same year, having gone to Prague in 1588 under the
protection of the emperor. The apostolic nuncio Antonio Puteo
wrote: ‘His Majesty is known for his choleric and melancholy
constitution’. Rudolph swung between apathy and ferocious outbursts worthy of Bulgakov, also inclined towards suicide. The
legacy of Joanna the Mad ran in his blood by dual ascendance, his
‘loca’ great-grandmother, married to Philip the Handsome and
the mother of Charles v. Rudolph was sent to the son of this
man, Philip ii, as an adolescent in 1563 and spent seven years
there, becoming ‘spagnuolo’ in the severity of the court where
the slow fuse of manias of grandeur and persecution would have
been lit. His investiture was spectacular: he became king of Hun-
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gary in 1572 at the age of 20; at 23 he was recognised as king of
Bohemia and then king of the Romans; in 1576 he became emperor of the Holy Roman Empire, and remained on its throne
for 36 years. Towards 1602 he asked Vermeyen for a new crown
‘pro sacra sua persona’ (Vienna, Schatzkammer), to the designs
by Dürer for the Ehrenpforte of his great-great-grandfather Maximilian i; it was worth 500,000 scudi according to the Venetian
Soranzo. He spared no expense, being the descendant of patrons
and collectors like his paternal grandfather Ferdinand i (150364), his father Maximilian ii (1527-76; husband of Maria,
daughter of Charles v) and his paternal uncle Ferdinand of Tyrol (1529-95), who created the magnificent Ambras collection,
also with the Salt Cellar by Cellini, now in Vienna. Karl, son of
Ferdinand and margrave of Burgau, sold the collection in 1605
for 170,000 florins to Rudolph ii,
who had already inherited that of his
brother Ernst, with emblematic
works by Bruegel i, including the
Hunters in the Snow (Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 3). In his
Spanish period, Rudolph grew up
among the rich collections of
Venetian paintings owned by his
maternal grandfather Charles v
(1500-58) and his uncle Philip ii
(1527-98).
Y Rudolph ascended to the throne
in 1576, the year Titian died; in
1583 he took the court to Prague,
along with his ‘dynastic’ love of
Venetian paintings, especially those
of Titian. Many of his paintings
went into the imperial collections.
In 1600 Cardinal Montalto sent the
Danae to Rudolph from Rome (in
Vienna from 1723, now in the Kunsthistorisches Museum; fig. 4). The
Rest on the Flight into Egypt is probably also from Rudolph’s collections (documented in 1660 with the archduke Leopold William
in Vienna; from 1851 in England, in the Munro of Novar collection; since 1878, via Christie’s, it has been in the collection of
the account
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the diaspora from the serenissima and the prague ‘autumn’
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16. Paolo Caliari, detto
Veronese, Ercole al bivio,
New York, The Frick
Collection.
Paolo Caliari, called
Veronese, Hercules at the
Crossroads, New York, The
Frick Collection.
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the marquis of Bath at Longleat House, Warminster, Wiltshire).
The early provenance of the Vanity is probably the same. It was at
Schleissheim castle in 1748 and has been in the Alte Pinakothek
in Munich since 1836. Many of his masterpieces, in particular by
Titian and Venetian artists, followed a troubled pathway after the
Sack of Prague in 1648. Most of
the booty went to Christine of
Sweden, following her to Antwerp
and Rome. The paintings then
passed by inheritance to Cardinal
Azzolino. In 1692 his descendants
sold them to Prince Odescalchi,
in 1721, they were bought by the
duke of Orleans, and were finally
sold at a private auction at the
Lyceum in London, 1798-99.
The ways parted after this. The
Venus with Cupid and a Lutist, bought by
Viscount Fitzwilliam, has been in
the museum of that name in
Cambridge since 1816. The Portrait
of Laura Dianti went into the Kisters
collection in Kruezlingen (fig. 5),
through English collections, sold
in New York in 1956-57. ‘An astonishing work’, it is thought to
portray the lover of Duke Alphonse i. Cesare d’Este gave it to Rudolph ii, in whose collection
it was defined as ‘a Turk’. The route taken by other Titian paintings was the same until 1798-99, including a Penitent Magdalene that
is likened by an etching to the versions in Stockholm and Tokyo.
Y A painting that may be identified as the one described in a
letter sent from Prague on 21 August 1600 by Aderbale Manerbio to the duke of Mantua appears among those attributed to
Titian in the imperial inventory of 1621. The resident says that
Rudolph had shown him ‘a goddess Venus, an Adonis and a dog’
in a ‘room with many paintings’, as a gift from Vincenzo i Gonzaga in 1598 (it has recently been suggested that this may be identified as the Venus and Adonis by Titian at Somerley, Ringwood,
Hampshire, Earl of Normanton). In the numerous variant on
the subject, Venus was modelled on the ancient relief known as
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17. Paolo Caliari, detto
Veronese, La saggezza e la
forza, New York, The Frick
Collection.
Paolo Caliari, called
Veronese, Wisdom and
Strength, New York, The
Frick Collection.
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the Bed of Polycletus, of which Ghiberti owned a version, then sold
to Giovanni Gaddi according to Vasari. This may be the same
one that was later in the Pio di Carpi collection, bought first by
Ippolite ii of Este, and finally by Rudolph ii but lost in the Sack
of Prague. The coveted gem with capita iugata stands out among the
tributes made by the duke of
Mantua in 1603, which Rudolph
clutched in his hands in the ‘studio or cabinet where he keeps his
most precious items’ (according
to the latest hypotheses, this was
the St Petersburg cameo, not that
of Vienna). The emperor often
won the pieces in bargaining by
wearing down his counterpart.
Thus in 1600, François, count of
Cantecroy, nephew and heir of
Cardinal de Granvelle (friend
and patron of Titian) conceded,
selling the 32 paintings that the
emperor had asked for in a personally drafted list, even including the price, 13,000 ‘thalers’: a
paltry sum and the same as that,
previously refused, offered by
Cardinal Farnese for a single
work, The Martyrdom of the Ten Thousand by Dürer. A ‘Venus in her Bed with an Organist by Titian’ also appears among the paintings listed in Rudolph’s desiderata.
This may perhaps be identified as a version now in Madrid,
signed and with Cupid (mentioned in 1626 in the Alcazar, before going into the Prado in 1838; fig. 6), which Rudolph was
then to exchange with Philip iii for paintings by Correggio; but
the painting could also have come from the assets of Philip ii’s
secretary of state, Diego de Vargas. In 1598, on the death of his
uncle Philip ii, Rudolph had engaged the ambassador to Madrid,
Hans Khevenhüller, to obtain the paintings in the Spanish royal collection, including those that had gone into it from the collection of the former secretary Antonio Pérez, after his fall from
grace in 1579. But the best were obtained by Pompeo Leoni, who
then sold them to Rudolph ii between 1601 and 1603. Refined
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the diaspora from the serenissima and the prague ‘autumn’
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18. Paolo Caliari, detto
Veronese, Ritratto di Hans
Jacob König, Praga, Národní
Galerie.
Paolo Caliari, called
Veronese, Portrait of Hans
Jacob König, Prague,
Národní Galerie.
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paintings were sent to the emperor in Prague, who admired their
invention, as in Cupid Carving his Bow by the ‘alchemist’ Parmigianino (Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 7), and their sensuality, sublime in Correggio’s Loves of
Jupiter, which included the Danae at the
Galleria Borghese, the Leda in Berlin
and the Jupiter and Io (fig. 8) and Rape of
Ganymede (fig. 9) in Vienna, pursued
for 20 years by the desperate Khevenhüller to gratify Rudolph’s informed
yearnings.
Y Khevenhüller himself praised
Tintoretto at the Prague court. He
had met the artist in Venice and
bought at least three paintings from
him there. He hung two in his villa at
Arganda, near Madrid: Nine Muses and
a Rape of Europe. All trace of these was
lost in Spain in 1610, despite the
protests of Rudolph ii, who had inherited them along with a Rape of Helen.
The emperor, a polyglot who read
Latin, was sensitive to speculative art and birthday horoscopy,
and is thought to have boasted the Origin of the Milky Way by Tintoretto in his collection (fig. 1). This appears in Rudolph’s inventories of 1621 and 1637, and re-emerges in the collection of
the marquis of Seignelay in 1690, possibly when it was cut on its
lower side. In 1724 it belonged to the duke of Orleans and was
then bought at auction at the Lyceum of London in 1798 for 50
guineas by Michael Bryan, the organiser of the sale. During 1831
it went to the count of Darnley and in 1890 was bought by the
National Gallery. In the painting, Jupiter casts himself from on
high with the little Hercules, born from the union with Alcmene
of Thebes, and places him at the breast of his sleeping consort,
Juno, to ensure his immortality. The jealous goddess, however,
awakens and her milk spurts across the heavens through the celestial vault, giving rise to the ‘milky way’; other drops scatter on
the earth and turn into lilies. The painting is described in the
Maraviglie dell’arte (1648) with others featuring Hercules painted
for Rudolph ii by Tintoretto, whose precision and luxuriant
colours complied with Emperor’s preferences: ‘He painted four
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works of fables for the rooms of Emperor Rudolph ii, with lifelike figures’. Alongside the painting by Tintoretto, versions or
copies are recalled of the other three paintings described by Ridolfi, corresponding to the Concert of Muses in the garden (like that in
Dresden, or the destroyed Parnassus), Hercules Chasing Silenus from the
Bed of Omphale (evoked by that in Budapest, Szépművészeti
Múzeum) and Hercules and Omphale (recalled by the version previously in the Battistelli collection, Florence). The predominance
of the bed in three subjects out of four suggests that they were intended for one of the emperor’s private rooms.
Y The original location of the Veronese cycle with the four Allegories of Love (London, The National Gallery; figs. 10-13), however, is controversial, as is the possibility of linking their purchase or direct commissioning to Rudolph ii. The square paintings, with bottom-up views, may have decorated the sides of the
ceiling in the nuptial chamber of a Venetian palazzo before going
to Prague prior to or in 1637, when they are recorded in one of
Rudolph’s inventories. Van Dyck sketched two of the allegories in
his Italian notebook, when they may have still been in Venice in
around 1622, or known through copies and etchings. Indeed, an
alternative theory on the paintings, which date from around
1575, would refer them to the Sommerpalast in Prague precisely in
the years of Rudolph’s renovations; intended to decorate the
ceiling, they would have been excluded from the earliest inventories, while appearing from 1637, possibly because of exhibition
changes. Other Veronese paintings are thought to come from the
decoration of the same Prague room, this time the walls: Borghini lists four mythological subjects in his Riposo (1584), painted
‘for the emperor’, dominated mainly by Venus and Cupid; in the
Maraviglie (1648), Ridolfi notes three similar ‘inventions’ for
Rudolph, though none of these is in the inventories. After the
Sack of 1648 and subsequent changes of ownership until the
duke of Orleans, the four Allegories of Love were unsold in the London auction of 1798 and taken in by the organiser Bryan. They
were then sold on 14 February 1800 for about 40 guineas, going
firstly into the Darnley collection and eventually to the National
Gallery in 1890. After a similar path from the Sack to the
Lyceum auction, other works by Veronese in the Prague lists were
separated (previously thought part of a consistent cycle for
Rudolph, though recent restorations and studies place this in
doubt): the Venus and Mars with Two Cherubs and a Horse went rather to
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the diaspora from the serenissima and the prague ‘autumn’
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19. Joseph Heintz il
Vecchio, Ecce Homo,
Dresda, Staatliche
Kunstsammlungen,
Gemäldegalerie Alte
Meister.
Joseph Heintz i, Ecce Homo,
Dresden, Staatliche
Kunstsammlungen,
Gemäldegalerie Alte
Meister.
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New York, purchased by the Metropolitan Museum of Art in
1910 from Lord Winborne (fig. 14). Mercury, Herse and Aglauros,
bought by Lord Fitzwilliam, has been in Cambridge since 1816
(fig. 15). The Hercules at the Crossroads and the Wisdom and Strength
(figs. 16, 17) went into the Frick Collection in 1912. Various
copies and fragments (relics, to Zeri), in private and public collections, can be referred to the early inventory registration of an
Armed Mars Standing and Nude Venus who arms him, with cherubs and
horse; a seventeenth-century copy is in Vienna. The Venus and
Adonis Dying with Cherubs is also of Prague, possibly Rudolphian,
provenance, and has been in the National Museum of Stockholm
since 1947.
Y The Veronese painting with the portrait of Hans Jacob König
(Prague, Národní Galerie; fig. 18), documented in Prague Castle from 1685, would seem to have gone into Rudolph’s collections around 1605. König, born in Füssen, father-in-law of
Girolamo Ott, acted between the north, Rome, Florence and
Venice, where both merchants and collectors lived and had business, also related to the Fugger. The ‘König Joylieren di Venetia’, merchant, publisher of prints and goldsmith, portrayed by
Tintoretto and Veronese, collected northern and Venetian
paintings, portraits and self-portraits of painters. He was in
close contact with Rudolph ii, at least from 1580, and became his
agent. He was to promote von Aachen at court, of whom two selfportraits are conserved, as well as portraits of Spranger, Ligozzi
and Giambologna. The König collection was dispersed in about
1605 and at least 15 portraits went to Prague. The Rape of Europe by
Veronese, now in London, could have come from there, as has
been recently suggested. The work can be recognised in
Rudolph’s inventory of 1637, and possibly already in a list of
about 1610-19, as in a König list of 1603. After the Sack of
Prague, the painting went to Christine of Sweden, who took it to
Antwerp and Rome, then to the duke of Orleans in 1721. It was
bought at auction in 1798 by Willett for 200 guineas; then by
Holwell Carr for 140 at the Willett sale of 1813. It was finally donated to the National Gallery in 1831.
Y Despite procuring portraits of archduchesses on the pretext
of seeking a wife, Rudolph never married, discouraged by a
horoscope suggesting that a legitimate descendant would take
over his reign. The long-time favourite among his lovers was Anna Maria Stradová, who gave him at least eight illegitimate chil-
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20. Francesco Mazzola,
detto Parmigianino,
Autoritratto allo specchio,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Francesco Mazzola, called
Parmigianino, Self-portrait
in the Mirror, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
100
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dren. The first was the ferocious Don Julio (César de Austria),
found dead at the age of 23 in Krumlov castle, where he had been
locked up raving mad. Anna Maria was the daughter of Ottavio
Strada, governor of the imperial collections on the death of his
father Jacopo, the veteran ‘Šacmistr’ friend of Serlio. The young
Rudolph would have learnt to paint in Jacopo’s sumptuous Vienna residence. In 1567 Jacopo and Ottavio Strada were in Venice,
one painted by Titian in the celebrated work now in Vienna, the
other by Tintoretto (memory of which is handed down by a version in the Rijksmuseum, Amsterdam). In Prague, Ottavio contributed to the volumes of illustrated emblems by Sadeler, the
Symbola (1601-03), culminating in those of Rudolph and his
motto adsit.
Y In 1595 the emperor promulgated a Letter of Majesty, raising
painting by decree to one of the arts and no longer a craft, and
enfranchised it with corporate rules. Court masters were endowed with privileges and titles. Joseph Heintz i, who was updated on Italian painting and had also stayed in Venice on his travels, became Kammermaler in 1591. In Prague he also showed the influence of Tintoretto (fig. 19), while his son painted in Venice
from 1625 until his death in 1678. Ridolfi mentions the two
Heintzs in his Maraviglie, when he describes the sending of the
Months by Bassano from Venice to Rudolph (see VeneziAltrove
2009). The emperor liked the cycle so much he called the
painter to Prague, but Jacopo Bassano was one of the few who refused him, as did Federico Zuccari. The Venetian Giovanni
Contarini was in Prague, however, at least after 1587 and in
1593, when he accompanied the archduke Ernst to Flanders. According to Ridolfi he painted portraits, mythological tales ‘and
other similar inventions; to satisfy the tastes of that Majesty’,
such as to obtain gifts and titles. Boschini (1660) introduces him
as a ‘worthy knight, and Emperor Rudolph’s second most preferred painter’ in the style of Titian; the Fall of the Reign of Saturn also shows relations with Heintz i (Prague, Národní Galerie; see p.
42). When he returned to Venice in 1596, Contarini set up
house in San Moisè and dressed with sword, plumed hat and the
golden necklace given him by the emperor, as in the self-portrait
in the Uffizi (see p. 65). Another Venetian who went to Prague
was Giulio Licinio, one of the first imperial painters, along with
Martino Rota; he procured paintings and ideas from Venice for
Rudolph. Paolo Piazza, alias Fra Cosmas, a Capucin painter in
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the convent of Hradčany, also arrived from the Veneto. Alongside the Venetians, Prague attracted northern painters who had
moved to Venice, such as Pozzoserrato and Paolo Fiammingo,
who also worked for the Fugger bankers. Rudolph’s collections
included many works by Paolo Fiammingo, who was in Venice
from 1573 (where he enrolled in the Guild of painters in 1584).
They possibly included some now in the Národní Galerie, such
as the Athena’s Birth out of the Head of Zeus (see p. 58). Many of his
paintings were also in Venetian collections, including that of
Alessandro Vittoria, a friend of Jacopo Strada. The emblematic
Self-portrait in the Mirror by Parmigianino (Vienna, Kunsthistorisches Museum; fig. 20) went to Rudolph from Vittoria. The
painter gave it to Clement vii, who gave it to Pietro Aretino, who
took it to Arezzo where Vasari saw it. It then went to Valerio Belli and, through Elio Belli, mediated by Andrea Palladio and in
the presence of Francesco Pisani, was bought for 10 scudi by Vittoria in Venice, from whom it went to Rudolph ii.
Y The Veneto section of the emperor’s Kunstkammer also boasted
works by Andrea Schiavone, Andrea Vicentino and Pordenone. Among the numerous subjects by Paris Bordon in
the inventories, the Venus, Flora,
Mars and Cupid (St Petersburg,
Hermitage) seems to have influenced the Allegory of the
Reign of Rudolph II by Dirck de
Quade Ravestijn (Prague,
Národní Galerie). Rudolph established a court
that was crucial to European Mannerism. He promoted artists like Spranger
and Sadeler, von Aachen,
Heintz i, de Vries, Mont,
Jamnitzer, Vianen, Stevens,
Savery, Joris and Jacob Hoefnagel,
Hofmann and Gundelach: all brought
together in the cosmopolitan École di Prague
to compose the ‘Rudolphine style’, animated by
eroticism and virtuosity, observation of nature, the apotheosis of
imperial symbols, between patronage and military triumphs, in-
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21. Bartholomeus
Spranger, Ercole, Deianira e il
centauro Nesso, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
Bartholomeus Spranger,
Hercules, Deianeira and the
Centaur Nessus, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie.
102
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cluding the reconquest of Raab, 1598. At night, Rudolph would
go down and caress the works, inspired by a rarefied passion; he
would cry with joy as he took the coveted relief by Giambologna,
obtained in Modena, to his bedroom. Karel van Mander also describes the Lives of many Rudolphine painters, including his
friend Bartholomeus Spranger, who after a period in Italy was in
Prague in 1580 and the following
year became Kammermaler. Influences of Venice and of Giambologna (who never went to
Prague himself) are apparent in
his sensual paintings, such as Hercules, Deianeira and Nessus (Vienna,
Kunsthistorisches Museum; fig.
21), from the cycle intended to
decorate the imperial palace; he
had a room next to that of
Rudolph, who could watch him
painting. Plants and animals seem
to compose a secret language of
nature, among locusts and butterflies around a wilting rose, in the
works of Joris Hoefnagel, who
went from Rome to Venice, and
was in Prague from 1590, where he
produced views, volumes on the
animal kingdom, botanical drawings and illustrations for Bocksay’s
calligraphy manual. The rural and
Biblical scenes of Roelandt de Savery feature the first portrayal of the Dodo, a bird discovered by
the Dutch in Mauritius in 1598 and immediately added to
Rudolph’s serraglio.
Y Influences of Tintoretto can be seen in the works of Joseph
Heintz i and Hans von Aachen (fig. 22), who stayed in Venice
several times since 1574, copying not only Robusti, but also Bassano and Veronese. Thanks to the Fuggers and König, he was introduced to Munich and then Prague in 1592. He became a fiduciary of Rudolph with the singular title of ‘Kammermaler von
Haus aus’ (chamber painter in his own home). His search for
paintings took him to the Netherlands, Mantua and Venice,
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22. Hans von Aachen,
Bacco, Cerere e Cupido, Praga,
Národní Galerie.
Hans von Aachen, Bacchus,
Ceres and Cupit, Prague,
Národní Galerie.
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which he visited in 1603. The emperor also contacted Hans Rottenhammer here, who bought, restored and varnished paintings
for him in Venice, possibly also through the Otts. The painter
took care of the preparations for transporting the Rosary Altarpiece
(noted below) to Prague, while a copy of it was possibly also made
in his workshop, then in the Grimani collection in Venice. The
emperor called for reproductions of
masterpieces he was unable to obtain,
including copies of Rubens by Correggio. Even ambassadors acted as
agents, but not only. He also advanced a sum of money to the ‘Jewish
world traveller’ Seligman to purchase
art in Venice, but he took it and disappeared. Rudolph wove tapestries
(which he designed and collected, also by Bosch), and a widespread network for purchases. Informed about
the appearance on the market of
paintings and collections, he exercised a premature ‘connoisseurship’.
He could identify the hand of the
artist, including that of Dossi, and
often wanted them in his court. In
summer 1604 he spent ‘two and a
half hours absent, immobile, looking
at the paintings of the fruit and fish
markets’ sent by the duke of Savoy,
and instigated the search in Cremona for its painter, if alive, so he
could be brought to court.
Y The emperor appears as Vertumno in a crypto-portrait described also by Lomazzo, who may have supplied Rudolph with
works by Leonardo (and two entries previously referring to the
Lady with Ermine, documented only from 1809 at the Czartoryskis
in Krakow, appear in the inventory of 1621). The convoluted
image of Vertumno was painted in about 1590 by Arcimboldo, the
‘very ingenious imaginative painter’, official artist in Vienna
with Ferdinando i (1526-64) and Maximilian ii (1564-76), then
in Prague. His grotesque style features composite heads and reversible, babelish, phytomorphic or zoomorphic accumulations,
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23. Il castello di
Hradčany a Praga.
Hradčany castle, Prague.
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tools or books, ‘speaking’ false profiles, series of elements and
seasons. Rudolph allowed the elderly painter to return to Milan
in 1587, provided he continued to send works and act as his agent.
So Arcimboldo sent Flora to Prague, and the Portrait of Rudolph II as
Vertumno (Balsta, Sweden, Skokloster Slott; see p. 4), the divinity
who presides over the changing of the seasons and the ripening of
fruits, especially in autumn. A melon is shown as the forehead of
the Prague ‘Autumn’, while a pear represents the nose and a cherry and vermilion berry the eyes; the cheeks swell with peach and
apple; two hazelnuts make the moustache, a thorny chestnut the
tip of the bristly beard, with hair of grape shoots, bunches of
grapes and ears of wheat, while flowers and vegetables form the
neck and shoulders. Rudolph, ‘lord of the whole world’, sent a
letter and nominated the painter comes palatinus.
Y The emperor’s alchemists, many from Venice, would have
lived in the ‘doll’s houses’ at the foot of the castle (fig. 23) in the
winding Golden Lane (fig. 24), previously the home of jewellers
(Kafka, as well Madame de Thebes were also to live in that
dreamlike road). The emperor surrounded himself with magicians, naturalists and scientists. He also called Giacomo Alvise
Cornaro of the Veneto, while the Danish astronomer Tycho
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24. La Viuzza d’Oro a
Praga.
The Golden Lane,
Prague.
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Brahé stood out (‘loquacious’, to Galileo), who was succeeded at
court by Johann Kepler, welcomed here while elsewhere pursued
for his evangelical faith. The latter dedicated his Astronomia Nova,
1609, to Rudolph ii, with the first two laws of the movement of
the planets around the sun, followed in 1619 by the third, while
in 1627 he completed his Tabule Rudolphiniane to calculate the position of the planets. Legend has it that it was Brahé (with his silver and gilt prosthesis in place of the nose he had lost in a duel)
who made the prediction that Rudolph would come to a fatal end
involving the African lion he had tamed. The superstitious sovereign died a few days after his beloved cat, long kept under close
watch when, on leaving the wing of the castle above the Deer
Moat, it would go down into the gardens, among the statues, water games and glasshouses. The emperor was threatened by internal and external enemies. He feared his brother Matthias, who
forced him to abdicate and succeeded to the throne (1612-19);
Rudolph died ten months later.
After 1612, tensions between
Catholics and Protestants were
strained. The example set by
Rudolph’s father encouraged
his tolerance, and he granted
religious freedom with a Bull of
9 July 1609, but on his death it
was feared this would be revoked. The first act of the Thirty Years’ War (1618-48), the
Defenestration of Prague, took
place on 23 May 1618, when two
lieutenants and a secretary who
had requested audience at the
castle were thrown out of the
windows by the Protestants at
the end of the discussions. A decisive battle took place on 8 November 1620 at White Mountain, marking the decline of Bohemian glory. Maximilian of Bavaria left Prague with 1500 wagons of booty; after the Saxon occupation, 1631, more than 50
vehicles of precious goods left the castle.
Y Raids by various armies stormed through Prague up until the
Peace of Westphalia of 1648, after a strenuous but vain resistance
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25. Adriaan de Vries, Busto
di Rodolfo II, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Kunstkammer.
Adriaan de Vries, Bust of
Rudolph II, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Kunstkammer.
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to the Swedish troops of Count von Königsmarck, who looted
the city. The general tortured the treasurer Dionysio Miseroni to
obtain the keys to the Kunstkammer with the inventory drawn up in
1647, and to have him compile another one. It seems that the
terrible Sack of 1648 was triggered precisely to take Rudolph ii’s
collections for the daughter of King Gustav ii Adolf, Christine
of Sweden. The Prague booty went to Stockholm and the queen
commented to Lord Arundel: ‘An infinite number of pieces, but
apart from the thirty or forty that are Italian originals, I care
nothing for the others’; indeed, she happily traded the almost
500 Dürer and northern paintings for a pair of Raphaels. After her abdication and conversion, Christine moved to Rome
in 1655, to the Palazzo Riario alla Lungara, along with her collection. This included 57 paintings from the Prague lot, primarily Correggio and Venetians, while the others remained in
Stockholm (prey to subsequent fires in 1697 and 1702). She also took with her some Rudolphine books, including the Codex
Gigas (since 1649 at the Kungliga Biblioteket in Stockholm),
many of which went into the Vatican Library. After the Sack,
works bagged by various commanders also went to Sweden. The
bronze bust of Charles v by Leone Leoni and the imperial one
commissioned by Rudolph as a pendant, made by Adriaan de
Vries (fig. 25), went into the collections of Königsmarck, who
had bought up five wagons of precious goods. On the death of
the last heir in 1806, the two bronzes and other examples from
the Prague booty, including 24 paintings by Giulio Romano,
were bought by the Austrian ambassador von Lodron-Laterano, who donated them to the Crown (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Hundreds of masterpieces went to Stockholm, such as the equestrian statue of Rudolph by Giambologna and the Adam and Eve by Dürer; many compositeheads by Arcimboldo are also in Sweden; most of Rudolph’s
works were dispersed.
Y The collections were valued at 17 million gold coins on the
death of the emperor. The Venetian Soranzo reported from
Prague on 5 March 1612 that objects were being discovered every
day, in every corner and hidden cupboard of the ‘warehouse’palace, along with ‘paintings numbering 3000, and more paintings by famous early and modern artists, that not only fill all the
rooms, galleries and halls, but an immense number of which are
wrapped and stacked up, being so plentiful that rather than en-
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hancing the palace they almost make it into a warehouse’.
Matthias shifted paintings to Vienna; others were divided among
the members of the dynasty, such as Maximilian iii and Archduke
Albert and Isabel in Brussels (1615). In 1619, the revolutionary
Calvinists of Prague ordered the sale of the ‘obscene’ nude figures. Following the Catholic reconquest, ‘the Olympian gods,
the Graces, the Muses and the nymphs went into exile’, replaced
by ‘new and foreign guests: all those Spanish and other saints,
with their stern and mystical faces’,
lamented Chytil. In 1749, Maria Theresa
of Habsburg sold many paintings to August
iii of Saxony to restore the finances, which
are now in Dresden. During the Seven
Years’ War, Prague castle was bombarded by
cannon, 1757, and many works were shattered in the haste to save it. In 1780 Josef ii
ordered the castle to be turned into a barracks and held an auction on 13 and 14 May
1782 to make room and free it of ‘superfluous’ works and objects.
Y Who knows what Rudolph ii would have
made of the scene on the eve of the auction
of 1782, when some of his fragile precious
objects were gathered into chests and
thrown into the Deer Moat. (The emperor
was also the model for Chatwin’s Utz, where
in the finale the Czech ‘baron’ Utz seems to
get rid of his much loved collection of
Meissen porcelain, dragging it off towards
the path to a dump). The inept preliminary
estimates of the sale demeaned his masterpieces, such as to drop the Ilioneus, bought by Rudolph for
10,000 ducats, to a mere 30 crazie; while the best paintings were
sold off for a few florins, including the famous Festival of the Rosary
by Dürer (Prague, Národní Galerie; see p. 52), albeit damaged
in 1635 during the Thirty Years’ War. This was one of the glories
of the collection taken from Venice. The eighteenth-century
events were ruthless compared to the care taken by Rudolph to
buy the famous big painting by the ‘germanus’ Dürer, who also
created the Melancholy I etching, and was one of the saturnine emperor’s preferred painters. The altarpiece had been commis-
the account
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the diaspora from the serenissima and the prague ‘autumn’
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sioned in 1506 by the ‘Confraternita dei tedeschi’ for the altar of
San Bartolomeo at Rialto, Venice. Rudolph bought it there in
1606 for 900 ducats. In order to ensure it would not be damaged, he arranged for it to be wrapped in carpets and carried over
the Alps on the shoulders of a team of roughs, with orders to
keep it vertical. Some of Rudolph’s works re-appeared in Prague
castle again in 1876 and even in the mid-twentieth century. At
the time of his death the chamberlain Makovský revealed that the
sovereign had ‘hidden and walled up’ numerous precious items.
In his memoirs of 1619, Dačický evokes the mystery of the imperial treasures, while everything ‘was a constant “dryps-draps”’.
Leopold William, a lover of Venetian art, took the works bought
at the auction of the Buckingham collection to Prague in the
mid-seventeenth century. He founded the second Castle Gallery
with these and others from King Charles i, and with the Rudolphine survivors.
Y ‘Rudolph of few words’ to the Venetian ambassador, compelled diplomats to eternal waits; but received ‘tricksters’; he
surrounded himself with artifices and devices; he was a
hypochondriac; he had a cabalist, Pistorius, as confessor. In
1584, the Elizabethan philosopher John Dee and the necromancer Eduard Kelley went to Prague from Poland. Kelley
bought two houses: one previously inhabited, legend has it, by
Faust, or Felice, or Kuttenberg (because born in Kutná Hora,
thus the identification with Gutenberg, the inventor of printing). The two English ‘magicians’ connected the virgin Queen
Elizabeth to the celibate Emperor Rudolph ii, noted Evans. Both
sovereigns, guarantors of a stability that collapsed on their
deaths, were prophetic outposts of a liberal perspective against
mounting reaction. In the meantime, the hands of the municipal clock in the Jewish town, the Fifth District of Prague, ran à rebours, according to Apollinaire. The ghetto reached its golden age
in the Rudolphine period; the rich Mordechaj also financed the
emperor for his collections and against the Turks; the rabbi Jehuda Löw ben Bezalel (fig. 26) was received at court, and in the
audience of 16 February 1592 discussed the Jewish community’s
problems with the sovereign. This nourished the Golemlegende, according to which Rabbi Löw created the clay puppet, Jossile
Golem, to help him ring the bells of the ancient synagogue. The
Jewish term Golem (‘gójlem’ in Yiddish) refers to the embryonic ‘unformed clot’ of Psalm 139 and in the Talmud evokes the in-
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the account
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26. La confraternita della
morte sulla tomba di
Rabbi Jehuda Löw ben
Bezalel, acquarello.
The brotherhood of death
on the tomb of Rabbi
Jehuda Löw ben Bezalel,
watercolour.
complete, while in the Prague imagination the imperfect assumes
the features of the clay giant, suspended between servitude and
rebellion. The Golem is animated when the shem (a note bearing
the unpronounceable name of God) is introduced into the
mouth, and wilts if removed. The Golem can also be triggered by
cutting the beginning of the word Emet (Truth), whose initial, if
removed, makes it into Met (Death). The industrious slavery of
the Golem is the antithesis of its artifice, as it lacks rational intelligence (unlike a robot: Czech term from ‘robota’, physical effort, corvée, as suggested to the Bohemian Karel Capek in designing the automatons of his drama R.U.R., 1920; in ancient Slav rob
is ‘slave’, specifies Ripellino in Praga Magica). In the Rudolph years
the Holy Child of Prague, or Jezulátko, a wax thaumaturgical simulacrum venerated in the Church of Our Lady Victorius, was
taken to the city from Spain. The saga of the puppets and the
Golem was glorified in Rudolph’s Prague.
The reunited works of the emperor (‘god in need of help’ to Max
Brod, 1916) are evoked everywhere, though disseminated around
various museums, almost exemplifying the travels of the Prague
pilgrim: Poutník in Comenius’s Labyrinth, who travels the world
after the White Mountain defeat. In Hradčany, meanwhile, the
memory of the collections survives, in the enchanted dwelling of
its inventor, the new Faust: Rudolph ii, god in need of everything,
unbounded in his inexhausted search for perfection.
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quando ai cechi rii e calli (sporche) piacevano soltanto di notte
gli alberghi nel centro storico?
erano cari già nel seicento,
assai meglio dormire a padova
Annalisa Cosentino
1. Ventaglio con vedute di
Venezia, metà xviii secolo,
Greenwich, The Fan
Museum: uno dei ricordi
che i viaggiatori
riportavano dalla città.
Fan with view of Venice, mid18th century, Greenwich,
The Fan Museum: one of
the mementoes travellers
brought back from the
city.
i viaggiatori
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Y «La bella città dalla quale è così duro partire»: così Jaroslav Seifert (1901-1986), l’illustre poeta ceco insignito del Nobel nel 1984 (figg. 2, 3), definisce Venezia, in una poesia della
raccolta La cometa di Halley (Halleyova kometa, 1967), intitolata proprio Viaggio a Venezia. Si serve dunque di uno dei più triti cliché
sulla «bella città», dai visitatori alternativamente percepita e
innumerevoli volte descritta come luogo di ineguagliabile
splendore e di altrettanto intenso, deprimente, mortifero
squallore. In questa poesia, volta in versi italiani da Sergio Corduas nell’antologia Vestita di luce (1986), il poeta praghese non
manca tuttavia di accennare con ironia anche all’eterno contrasto veneziano, evocando le consuete immagini di incanto accanto ad altre molto meno romantiche:
Si può dire forse così:
l’amore va e va e va
e non v’è angolo
dove non sia a casa sua.
E i baci si allungano veloci
come a primavera le giornate.
E il gondoliere
con riso cattivo
pescò col remo davanti a noi
ciò che lì al mattino gettano dalla finestra
i dormienti d’amor prudente
perché non hanno stufe.
E per questo ci siamo una volta destati
solo nell’amoroso silenzio di un quadro
dove c’erano soltanto due colonne rosa
e un pezzetto di mare.
E tu subito strappasti le dita
dalla mia mano!
Ridammi la mano!
Sarebbe triste, nella bella città
dalla quale è così duro partire.
E repentina
dalla piazza risonò la lusinga
di una musica dolce.
I palazzi stavano infilzati nel mare
come pèttini antichi
con perle e bruscoli d’oro,
ma nelle lagune era sporco e limo.
Y Nelle sue Corrispondenze dall’Italia (Italské listy) del 1923 (tradotte
in italiano soltanto nel 1992 con l’impreciso titolo letterale di
Fogli italiani) il grande giornalista e grande narratore ceco Karel
Čapek (1890-1938; fig. 4), coglie con il consueto acume l’ostacolo che si trova regolarmente di fronte chi si accinga a scrivere
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di Venezia: si è quasi certi di cadere almeno in qualcuno dei tanti stereotipi lagunari. «Non vorrei scrivere molto di Venezia:
penso che ciascuno la conosca. Somiglia davvero, in modo quasi
fastidioso, ai vari “souvenirs de Venice”» (fig. 1). Venezia metteva Čapek a disagio. La frequentissima immagine del contrasto di
splendore e decadenza ricorre spesso anche in ciò che della città
scrivono i visitatori cechi, e naturalmente soprattutto coloro i
quali la visitano nei secoli recenti, decaduti i fasti della Serenissima
Repubblica.
2-3. Jarosalv Seifert, in
due immagini, più
giovane e anziano, premio
Nobel per la letteratura
1984.
Jarosalv Seifert, in two
pictures, younger and
older, Nobel prize for
literature 1984.
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Y Quanto alle epoche più lontane, non sono tante le relazioni
di viaggio in Italia scritte da autori cechi. Questa scarsezza potrebbe spiegarsi almeno in parte con la precoce, già trecentesca,
attitudine protestante della Boemia, i cui figli preferivano mete
più consone alla loro mentalità antipapale – come ad esempio la
Francia –, o anche, semplicemente, alla loro esigenza di ricerca
spirituale; e in questo secondo caso, Venezia si visitava almeno di
passaggio, essendo il porto da cui salpare per la Terrasanta. Ai
viaggiatori cechi sembra fosse congeniale la maniera di raccontare i viaggi inaugurata proprio da un veneziano, quel Marco Polo
che aveva narrato la sua spedizione in Oriente con dovizia di informazioni su ciò che aveva visto e vissuto. Scarni dunque in genere quanto ad abbellimenti fantastici e ipotesi utopistiche, i
primi resoconti cechi testimoniano di Venezia fatti molto concreti, che i viaggiatori trovavano interessanti per sé e per i propri lettori, per lo più senza cedere a fascinazioni e mitologie vere o presunte. Secondo alcuni, i resoconti di viaggi rinascimentali anticipano addirittura la moderna «literatura faktu», quei
libri cioè che raccontano gli eventi attraverso documenti e testimonianze, un genere molto gradito ai lettori cechi. Chi desiderasse l’elenco e l’analisi dei libri di viaggio cechi dal Medioevo ai
nostri giorni, potrà agevolmente trovarlo nei tanti dotti studi
dedicati all’argomento; qui basti osservare che i resoconti di due
viaggi in Palestina via Venezia sono tra le più belle relazioni scritte da viaggiatori cechi al tramontare del Rinascimento.
Y Al 1546 risale il Viaggio da Praga a Venezia e poi da lì per mare fino in Palestina (Cesta z Prahy do Benátek a odtud potom po moři azˇ do Palestyny) di
Oldřich Prefát z Vlkanova (1523-1565), matematico e astronomo che delle due soste a Venezia, all’andata e al ritorno, descrive minuziosamente l’impegno per l’organizzazione concreta del
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viaggio, fornendo così una preziosa guida ai suoi lettori e forse
futuri viaggiatori: dopo l’itinerario del viaggio fino a Venezia,
con la precisa indicazione delle distanze tra i vari luoghi attraversati, nel secondo capitolo (intitolato «Contratto tra il patron
ovvero l’amministratore della nave e i pellegrini»), Prefát racconta dettagliatamente gli articoli che compongono il contratto
per la fornitura della nave per la Palestina, per poi dedicare molto spazio a quanto servirà durante il viaggio, ad
esempio il cibo; nel descrivere la nave e il suo
contenuto, aggiunge una pregevole illustrazionedi una nave con tante vele tra i flutti. Il terzo capitolo tratta della celebre processione che si teneva il giorno del Corpus Domini a Venezia (fig. 5),
e dell’omaggio reso ai pellegrini: Prefát descrive la
cerimonia dal punto di vista dei pellegrini, soddisfatto dell’attenzione che i veneziani prestano affinché a costoro sia riservato un trattamento particolare.
Y All’inizio del Seicento, Kryštof Harant z
Polžic a Bezdružic (1564-1621), nobile e diplomatico, scrittore e compositore, racconta il suo
Pellegrinaggio ovvero Viaggio dal regno di Boemia alla città di
Venezia, da lì per mare in Terrasanta (Putování aneb Cesta z
království Českého do města Benátek, odtud po moři do Země
svaté), compiuto nel 1598. Offre al lettore informazioni precise sulla storia e le bellezze artistiche
di Venezia, rendendole concrete grazie a frequenti paragoni con la storia e l’architettura praghesi.
Ma è alla descrizione puntuale e meticolosa del sistema amministrativo e giudiziario veneziano,
corredata dei nomi riportati in italiano delle varie cariche e funzioni, che dedica gran parte del
secondo capitolo del suo celebre resoconto. L’efficiente amministrazione veneziana in genere colpiva i visitatori: tra i cechi, ne aveva già scritto Václav Šašek z Bířkova nel xv secolo. L’attesa a Venezia di poter partire per mare si prolunga (fig. 6),
e per non dover presto conoscere carenza di denaro, Harant e i
suoi accompagnatori decidono di lasciare la locanda “Al Leon
Bianco” (fig. 7) e le osterie veneziane, troppo care, e di recarsi
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ad aspettare a Padova che la nave sia pronta per salpare. La buona conoscenza di Venezia e dei veneziani sarebbe comunque tornata utile al diplomatico ceco; molto interessato all’Oriente, e in
particolare all’impero ottomano, Harant è costretto talvolta a nascondere la sua identità di suddito asburgico; per poter andare in Turchia, si
spaccia allora per veneziano, come racconta nella
prefazione al suo Pellegrinaggio: «Volendo purtuttavia avvantaggiare me stesso nonché altri per mia
cagione, mi recai sempre in quelle terre (grazie
all’amato Signore Iddio) celando intanto la mia
identità e la mia patria, indotto a ostentare la signoria dei signori veneziani».
4. Karel Čapek è uno dei
maggiori viaggiatori cechi
del Novecento in laguna.
Karel Čapek was one of
the main 20th-century
Czech travellers to Venice.
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Y I diari di viaggio in Italia si fanno più numerosi a partire dall’inizio dell’Ottocento; la loro
lunga serie è inaugurata da un’opera di grande valore sia letterario, sia storico e culturale. Milota
Zdirad Polák (1788-1856), raffinato poeta ceco e
ufficiale dell’esercito asburgico, non è un viaggiatore per sua scelta personale: segue in Italia il generale di cui è attendente. Il suo Viaggio in Italia (Cesta do Itálie), che si svolge tra il 1815 e il 1818, ha come meta Napoli, dove Polák trascorrerà la maggior parte del tempo. Nell’avvicinarsi a Venezia, dichiara dapprima piacevole sorpresa nel vedere dalla barca la magnificenza dei palazzi che si stagliano sul
mare. Poi, quando scende nella città, modifica l’idea primitiva:
Dopo circa un’ora e un quarto, scorsi Venezia che si apriva davanti a me
a mezzaluna nel mare. La vista da questo lato tuttavia non suscita grande meraviglia, giacché si naviga in mezzo a case diroccate e senza finestre oppure con le finestre coperte da carta e stracci. Poco dopo tuttavia
mi ripresi, giacché entrando nel canale principale vidi due file di un
centinaio di palazzi meravigliosamente costruiti e imbarcazioni di ogni
genere e nazionalità, rallegrandomi per tanta magnificenza. Il ponte
più alto e spazioso, con un arco che si incurva arditamente in altezza e
porta da un lato all’altro del canale principale, è chiamato Ponte Rialto. Non è particolarmente adorno, ma è perciò tanto più degno di interesse per il costruttore. Tra i vari superbi palazzi di questo lato si trova il cosiddetto Fondaco dei Tedeschi (fig. 8). Sceso dalla gondoletta
(una barca), presi a camminare per le vie, così strette che due uomini
non possono evitarsi. Avvertendo l’odore malsano che ristagnava in
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quelle strettoie piene di gente e la puzza insopportabile che saliva dai
canali, mi feci un’idea diversa della bellezza della città.
Y Prima di intraprendere il viaggio, Polák si è documentato bene; il suo resoconto si apre con una breve ma esauriente storia di
Venezia, per poi tornare all’osservazione immediata dell’ambiente, che gli conferma la prima impressione, non del tutto positiva. Sebbene enumeri le bellezze artistiche e architettoniche
della città mostrando gradimento oltre che coscienziosa erudizione, Polák è senza dubbio interessato anche a cogliere e raccontare l’atmosfera e la vita attuale della città, di cui segnala la
decadenza: ad esempio osserva che all’Arsenale poco rimane dell’antica operosità e ricchezza di materiale; avverte che i veneziani sono buoni mercanti, abili a contrattare; si lamenta della
grande quantità di mendicanti insistenti; con sollievo accoglie la
notte che scende a celare la sporcizia, di giorno particolarmente
evidente e fastidiosa. Con l’intenzione di fornire una relazione
esauriente, menziona anche i teatri veneziani: «Per il pubblico
svago il primo luogo è Piazza San Marco; poi c’è il Teatro La Fenice, il più grande, un edificio bello e ben decorato; notevole è
anche il Teatro San Benedetto. Nei teatri si incontra tutta la bella giovane società veneziana» (fig. 9).
Y Il Viaggio in Italia di Polák comincia a essere pubblicato a puntate sulla rivista «Dobroslav» a partire dal 1820. Molto probabilmente lo legge, rimanendone colpito, anche Karel Hynek
Mácha (1810-1836), il celebre poeta romantico ceco che visita
Venezia nel 1834. Gli appunti veneziani del Diario del viaggio in Italia (Deník na cestû do Itálie) di Mácha, frammentari e brevissimi, testimoniano alcune impressioni intense, sia dirette, sia mediate:
così l’esclamazione «O Venezia, Venezia», ad esempio, riecheggia l’enfasi byroniana. Mácha registra rapidamente, come li vede
percorrendoli, i luoghi. Le sue annotazioni veloci hanno un ritmo incalzante, un passo sostenuto; non sono note descrittive,
ma appunti che trattengono la percezione immediata, sebbene
presuppongano, senza esplicitarle, conoscenze pregresse. «Arrivati a Mestre. Partiti su una barca (fig. 10). Per la prima volta vista Venezia. Acqua salata. Entrati a Venezia. Camminato per la
città, per la prima volta Markusplatz». Piazza San Marco, con la
basilica, sembra aver impressionato particolarmente il giovanissimo poeta, che nelle poche righe del Diario dedicate a Venezia la
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menziona tre volte. Il breve elenco dei luoghi attraversati si alterna a notazioni su cibi e bevande, sulle costose osterie («Ci abbiamo lasciato anche le scarpe»), sul mal di mare una volta salito sulla nave che l’avrebbe portato a Trieste, la meta successiva del
viaggio: «Seekrankheit [cioè mal di mare, n.d.r.]. Siamo usciti sul
ponte. La nave dondolava. Venezia all’orizzonte. Poi siamo rientrati». Successivamente, Mácha rielaborerà le sue impressioni
veneziane nel romanzo Gli zingari (Cikáni), del 1835, pubblicato in
italiano soltanto nel 1997. Nel quattordicesimo capitolo del romanzo, ambientato a Venezia, il gondoliere che si è fatto zingaro racconta le pene d’amore che lo inducono a continui spostamenti tra un luogo e l’altro della città. Non manca naturalmente piazza San Marco; ma ci sono anche Rialto (fig. 11), i Giardini napoleonici, il ponte dei Sospiri, già registrati nel Diario. Lo
zingaro parte infine per Trieste, come aveva fatto Mácha nel suo
viaggio. L’armamentario romantico è potenziato nel riflesso
dell’acqua: «Il sole tramontava su Venezia e lunghe strisce rosse
si stendevano sul cielo e sulla superficie dell’acqua. [...] Sull’isola del Lido sedevo solitario con lo sguardo rivolto a oriente,
quando la luna piena fece capolino dal mare oscuro. Parole senza senso, giuramenti senza scopo lanciavo in un sussurro incontro alla luna che sorgeva dietro il mare. Le onde argentee spiccavano sullo sfondo della riva oscura».
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Pezzetti di carta bianca incollati al pianterreno comunicano al mondo
indifferente che il palazzo si può affittare, altri pezzetti al pianterreno
Y Il Viaggio in Italia di Polák, che Mácha aveva letto su «Dobroslav», esce in volume nel 1862, continuando a svolgere la sua
funzione di capostipite e modello dei resoconti successivi. Senza
dubbio vi si ispira Jan Neruda (1834-1891; fig. 12), grande narratore e grande giornalista cui Karel Čapek non di rado e non a
caso viene accostato, nel visitare e raccontare Venezia. Le sue corrispondenze dall’Italia, che uscivano su «Národní listy» nel 1868
(poi nel 1872 in un volume di bozzetti di viaggio riuniti sotto il
titolo di Benátská zrcadla, e cioè Specchi veneziani), riecheggiano spesso
le osservazioni di Polák, quasi Neruda intendesse rispondergli in
un dialogo a distanza. Anche questi, come già lo scrittore precedente, si lamenta dell’aspetto trasandato e della sporcizia di Venezia, probabilmente sorpreso per il decadimento della città, che gli
sembra attraente e incantevole solo alla luce della luna:
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5. Francesco Guardi,
La processione del Corpus
Domini, Parigi, Musée
du Louvre.
Francesco Guardi,
The Corpus Domini Procession,
Paris, Musée du Louvre.
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quando ai cechi rii e calli (sporche) piacevano soltanto di notte
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e poi sopra a tutti i piani che il palazzo si può comprare. Le due rive
del Canal Grande ne sono cosparse come di cerotti e fanno sapere che
la Venezia di un tempo ha ormai lasciato Venezia. Chi adesso viene a
comprare un palazzo è nel migliore dei casi una danzatrice arricchita
come la Taglioni, e chi lo prende in affitto è un sognatore come Byron.
E ti mostrano palazzo Mocenigo e palazzo Giustiniani, e ti dicono che
vi hanno vissuto Byron e Chateaubriand, guadagnandosi una mancia.
Il Canal Grande è poetico solamente alla luce
notturna, quando non se ne vede l’abbandono e la sporcizia.
E ancora:
6. Bollettino di sanità
rilasciato a Venezia nel
1656 a “Enrico Dalbergo
polono”, Stoccolma,
Riksarkivet.
Bill of health issued in
Venice in 1656 to “Enrico
Dalbergo polono”,
Stockholm, Riksarkivet.
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Venezia è come una donna divenuta superba
perché consapevole della sua beltà, ma è invecchiata; vuole la storia della propria bellezza, lunga e ricca, ma pure ancora il presente.
[...] Venezia comincia ormai a essere, anzi
ormai è una città di rovine, le più magnifiche
e belle del mondo, ma rovine. Dopo quattro
secoli di decadimento, ora va a pezzi e sprofonda. Verrà il giorno in
cui i suoi pezzi smangiati finiranno a colmare i vuoti nella fangosa laguna. [...] Anche il veneziano è una rovina. [...] Al giorno d’oggi si
contano a Venezia 30.000 poveri, 14.000 dei quali sono mendicanti.
[...] C’è silenzio nella città delle lagune. Se si escludono le lunghe,
strette e buie Mercerie, dove i mercanti e gli artigiani lavorano davanti ai laboratori spalancati facendo un po’ di baccano italiano, se si
escludono forse due mercati, quello del pesce e quello delle verdure
presso Rialto, la storica fine delle commerciali Mercerie, se si esclude
Piazza San Marco di sera (figg. 13, 14), c’è silenzio. Anche le osterie
sulle Rive, dove il gondoliere e il marinaio un tempo sbraitavano, ora
sono più silenziose. C’è silenzio nei pressi della Piazzetta da cui sulla
nave d’oro, il Bucintoro (fig. 15), usciva il doge eletto per immergere
il preziosissimo anello nel grembo marino, la sua sposa; e al porto, dove in altri tempi erano ancorate fino a trecento navi veneziane, adesso
sono appena sei le navi straniere di grandi dimensioni. All’arsenale,
dove un tempo 16.000 operai entravano ogni mattina salutando «Evviva San Marco!», è tutto morto: l’arsenale si è trasferito a Genova.
[...] Venezia esiste e non esiste. La guida vi mostra molte cose che furono. E vi mostra anche quel che è stato sottratto, ad esempio da Napoleone, e durante la restaurazione si dovette riportare indietro. Ma
gli oggetti d’arte che, segretamente o apertamente, dai palazzi sono finiti e finiscono in un qualsiasi “cabineto di antichità” annerito dal fumo, e di qui all’estero, probabilmente non torneranno più. E tanto
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meno tornerà la perduta indipendenza. Venezia non può essere una
città assoggettata, provinciale, seconda, terza o quarta. Se non è al livello più alto, non vive più.
È qui evidente il sentimento patriottico e antiasburgico di Neruda, che scrive di Venezia ma allude a Praga.
Y Come nel suo capolavoro, i bellissimi Racconti di Malá Strana,
Neruda compone immortali quadri di vita praghese illuminando i luoghi con il racconto dei caratteri e dei comportamenti
delle persone, così anche in questi bozzetti veneziani si sofferma
spesso sull’aspetto e l’agire della gente. Si potrebbe dire che anche in questi ritratti Neruda voglia qua e là rispondere a Polák, il
quale aveva apprezzato le sembianze dei veneziani; Polák scriveva
infatti: «I veneziani mi piacciono di più degli altri italiani.
Hanno di solito un bel fisico. La cordialità che manifestano sia
tra di loro che nei confronti degli stranieri, li rende gradevoli.
Le ragazze, in effetti, sono pallide, ma la loro carnagione più
bianca della neve e gli occhi neri li cercheremmo invano nelle
terre germaniche». E Neruda sembra ribattere: «Se uno slavo
vuol giungere alla terra promessa della bellezza femminile, non
gli rimane che restarsene a casa propria. Alla bella Caterina Cornaro essere un “tipo veneziano” sarà pure tornato utile per salire sul trono cipriota, ma questa è ormai storia; il suo palazzo è
diventato il monte di pietà ovvero il banco dei pegni, e forse è
proprio lì che le veneziane hanno portato la loro bellezza, anche
quella ormai storica, mantenendo a portata di mano soltanto il
minimo indispensabile per la vita di tutti i giorni. A dire il vero,
anche le donne molto giovani mi hanno fatto l’impressione di
essere state riposte in un armadio qualche secolo fa, lì dimenticate e ora poi recuperate, ammuffite, impolverate e stropicciate.
Laddove ho visto qualcosa di decisamente fresco, non stavo studiando il tipo storico veneziano, bensì il tipo austriaco-guarnigionesco, storico ormai anche quello. Forse le belle ragazze sarebbero di più anche a Venezia, se si pettinassero, si lavassero ed
evitassero di sistemare l’abito come un lenzuolo cascante; e però
l’italica carnagione olivastra non è lavata, la chioma corvina è arruffata!». E ancora:
In Italia è antica regola scendere nelle locande migliori; sono infatti
sempre pessime.
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quando ai cechi rii e calli (sporche) piacevano soltanto di notte
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7. Antonio Canal, detto
Canaletto, Taccuino di disegni
già di Francesco Algarotti,
dettaglio con l’insegna
della Locanda “Al Leon
bianco” accanto alla casa
del console Smith (per
gentile concessione di
Damiano Lapiccirella,
Firenze).
Antonio Canal, called
Canaletto, Sketchbook,
formerly of Francesco Algarotti,
detail of the sign of the
Locanda “Al Leon bianco”
next to Consul Smith’s
house (by kind permission
of Damiano Lapiccirella,
Florence).
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- Potrei avere una camera bella e pulita?
- C’è l’imbarazzo della scelta, signor! Purtroppo in questo momento
non ve n’è nessuna del tutto pronta, voglia per cortesia attendere solo
un istante. Ehilà, ehi, Rita! La tre è fatta? –
chiama il portiere verso il primo piano, strattonando il campanello come un indemoniato.
Poco dopo compare alla finestra la testa spettinata di una ragazza forse ventenne, dotata di un
viso decente e naturalmente di occhi neri.
- Che numero? – domanda con un acuto soprano.
- La tre. È pronta?
- No!
- Allora si sbrighi, per favore, sono stanco.
Lenzuola pulite nel letto, Rita, e acqua fresca
nel lavabo, capisce?
- Sì signor! – Sparisce.
Intanto contrattavo con il portiere il prezzo della camera, cosa che qui è abituale come da noi
contrattare al mercato. In Italia devi contrattare
su tutto, e laddove nella bottega vedi scritto
“prezzi fissi”, offri la metà.
Il portiere mi porge il libro per la registrazione. Compilo le varie rubriche e attendo. Ero
piuttosto provato dopo il viaggio in mare, che per via di una tempesta
era durato 16 ore invece di 6, e per non aver dormito, e quindi avrei
gradito rinfrescarmi almeno lavandomi. Comincio a lamentarmi e il
portiere a suonare e a gridare:
- Ehilà, ohè, ehilà, Rita, Rita! (Margherita)
Finalmente ricompare Rita alla finestra.
- Per tutti i diavoli, ancora niente?
- Ma sì, ho solo dimenticato di chiamare il signor!.
Y Tuttora godibili, i racconti di viaggio di un maestro dello stile narrativo come Jan Neruda attendono ancora di essere tradotti in italiano. Leggendo le impressioni veneziane di Čapek, è
inevitabile accostarle alle sue. I due grandi scrittori cechi sono
entrambi abili nel cogliere l’essenza dei luoghi e la natura delle
persone. Di Venezia, nei loro testi, spiccano gli aspetti di decadimento (non gli stilemi decadenti dal punto di vista estetico;
fig. 16); ma entrambi evitano di indulgere al cliché del contrasto
morte-bellezza. E non a caso, in entrambe le corrispondenze è
forte l’accento posto sul sentimento civile e democratico: Neru-
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8. Cerchia di Bernardo
Bellotto, Veduta del Canal
Grande con il Fondaco dei
Tedeschi com’era nel tardo
Settecento (è il palazzo a
sinistra), Ascoli Piceno,
Pinacoteca Civica.
Circle of Bernardo
Bellotto, View of the Grand
Canal with the Fondaco dei
Tedeschi as it was in the late
18th century (the palazzo
is on the left), Ascoli
Piceno, Pinacoteca Civica.
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da aspira a un ordinamento democratico, che nell’antica Serenissima aveva un modello; Čapek manifesta fastidio, e talora astio
esplicito, nei confronti delle camicie nere che cominciano a
scorrazzare per l’Italia. Inoltre, Venezia non gli sembra democratica neppure dal punto di vita architettonico: «Ma ora so
perché mi infastidisce la bellezza di Venezia. Venezia ha solo palazzi e chiese (fig. 17); la casa di un uomo comune non è nulla.
Nuda, stretta e
buia, priva di cornicione e portale,
senza neppure una
colonna, puzzolente come un
dente guasto, pittoresca soltanto
perché minuscola
come una conigliera, non mostra la
benché
minima
necessità di bellezza; girovagando per
la città, non vi allieterà la vista di un cornicione o di un ingresso ornato che voglia accogliere il visitatore. È povertà, ma senza virtù. E quei
duecento palazzi non sono cultura, ma soltanto ricchezza; non è
vita nella bellezza, è esibizione. E non venite a dirmi che dipende dall’assoluta insufficienza di spazio; assoluta è qui soltanto
l’indifferenza».
Y È manifesta l’insofferenza per l’ingiustizia e la diseguaglianza che rivela il sincero impegno civile e democratico di Čapek.
Ma per lo stesso motivo, la sua indignazione si placa di fronte ai
valori universali, di cui Venezia, antica e venerabile, non è certo
priva; nell’elencare quel che di Venezia gli è piaciuto, Čapek ricorda «le viuzze veneziane, laddove non ci sono canali o palazzi.
Sono così ingarbugliate che tuttora nessuno le ha indagate tutte;
in alcune forse non è mai entrato un piede umano. Le migliori
sono larghe un metro intero e lunghe al punto da contenere un
gatto con tutta la coda. È un labirinto in cui erra perfino il passato, senza poter trovare l’uscita».
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when the czechs liked the (dirty) alleys and canals only at night
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when the czechs liked the (dirty) alleys and canals only at night
the old city? already pricey
in the 17th century
better to sleep in padua
travellers
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Annalisa Cosentino
9. Giacomo Ceruti, detto
il Pitocchetto, Maschere e
popolana, Bergamo,
Accademia Carrara.
Giacomo Ceruti, called
Pitocchetto, Masks and
Commoner, Bergamo,
Accademia Carrara.
Y ‘The beautiful city from which it is so hard to leave’ is how Venice is defined by Jaroslav Seifert (1901-1986), the illustrious
Czech poet awarded the Nobel Prize in 1984 (figs. 2, 3), in a
poem from the collection Halley’s Comet (Halleyova kometa, 1967), entitled precisely Italian Journey. So he makes use of one of the most
trite clichés on the ‘beautiful city’, differently perceived by visitors
and often described as a place of incomparable splendour and
equally intense, depressing, pernicious squalor. In this poem,
turned into Italian lines by Sergio Corduas in the anthology Vestita di luce (1986), the Prague poet does not fail, however, to also note with irony the eternal Venetian contrast, evoking the usual images of enchantment alongside others much less romantic:
You could perhaps say:
love goes on and on and on
and there is no corner
where it is not at home.
And the kisses quickly lengthen
like the days in spring.
And with an evil laugh the gondolier
fished out before us with his oar
that which sleepers of prudent love
throw there from the window in the
morning
because they have no stove.
And so we once awoke
And you immediately tore your fingers
alone in the amorous silence of a picture
from my hand!
where there were only two pink columns Give me back your hand!
and a patch of sea.
It would be sad, in the beautiful city
from which it is so hard to leave.
The palaces were impaled on the sea
And suddenly, the flattery of soft music
like ancient combs
rang from the piazza.
with pearls and specks of gold
but in the lagoon there was filth
and slime.
Y In his Correspondence from Italy (Italské listy) of 1923 (translated into Italian only in 1992 under the imprecise, literal title of Fogli
italiani), the grand Czech journalist and narrator Karel Čapek
(1890-1938; fig. 4) understands with his usual acumen the obstacle that regularly appears to those trying to write about Venice: he is almost certain to fall into at least some of the numerous
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lagoon stereotypes. ‘I would not want to write much on Venice: I
think that everyone knows it. It really does resemble the various
souvenirs de Venice in an almost annoying way’ (fig. 1). Venice made
Čapek uncomfortable. The very frequent image of the contrast
between splendour and decadence often also recurs in that which
the Czech visitors write on the city, and of course especially those who visited it in recent centuries when the magnificence of the
Serenissima had declined.
Y There were not many reports of travels in Italy written by
Czech authors in earlier times. This scarcity could be at least
partly explained by Bohemia’s early, already fourteenth-century, Protestant leaning. Its sons preferred destinations more
in keeping with their anti-papal mentality – such as France –
or, simply, with their need for spiritual research; and in this
latter case, Venice was visited at least in passing, being the port
from which one set sail for the Holy Land. Czech travellers
seemed to like the manner of reporting their travels that had
been initiated by a Venetian. Marco Polo had told of his expedition to the Orient with a wealth of detail on what he had seen
and experienced. So there are generally few imaginative embellishments or utopian theories in the first Czech accounts. These document very concrete facts about Venice, which the travellers found interesting in themselves and for their readers, more or less without falling into real or presumed enchantments
and mythologies. According to some, the reports of Renaissance travels actually anticipate the modern ‘literatura faktu’, those
books that recount events through documents and testimonies,
a genre much appreciated by Czech readers. Anyone wishing to
find a list and analysis of Czech travel books from the middle
ages to the present can easily find one in the many scholarly
studies on the subject; here it is sufficient to observe that the
summaries of two trips to Palestine via Venice are among the
best reports written by Czech travellers at the close of the Renaissance.
Y The Journey from Prague to Venice and from there by sea to Palestine (Cesta
z Prahy do Benátek a odtud potom po moři azˇ do Palestyny) by the mathematician and astronomer Oldřich Prefát z Vlkanova (1523-1565)
dates from 1546. He writes about his two stops in Venice, outbound and return, carefully describing the effort that went into
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travellers
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10. Giandomenico
Tiepolo, Il Burchiello,
Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie;
il mezzo di trasporto, si
legge nel quadro, era
destinato «a ricevere
gente», popolare tra i
viaggiatori stranieri,
collegava Venezia e le città
dell’entroterra,
Giandomenico Tiepolo,
The Burchiello, Vienna,
Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie;
the vessel, intended “to
receive people”, as can be
read in the painting,
connected Venice and the
mainland cities and was
popular with foreign
travellers.
the real organisation of the voyage and thus providing a precious
guide to his readers and possibly to future travellers. After the
itinerary of the journey to Venice, with precise indications of the
distances between the various places visited, in the second chapter (entitled Contract between the patron or administrator of the ship and the
pilgrims), Prefát recounts in detail the articles that make up the
contract for the supply of the ship to Palestine, then devoting
much space to what will be needed on the trip, for example food.
In describing the ship and its contents, he adds an exquisite illustration of a ship with numerous sails between the waves. The
third chapter discusses the famous procession that was held on
the Feast of Corpus Domini in Venice (fig. 5), and the tribute
made to the pilgrims: Prefát describes the ceremony from the
pilgrims’ point of view, pleased with the attention given by the
Venetians to ensure they receive special treatment.
Y At the start of the seventeenth century, Kryštof Harant z
Polžic a Bezdružic (1564-1621), nobleman and diplomat, writer
and composer, recounts his Pilgrimage or Journey from the kingdom of Bohemia to the city of Venice, from there by sea to the Holy Land (Putování aneb Cesta z království Českého do města Benátek, odtud po moři do Země svaté) made
in 1598. He offers the reader precise information on the history
and artistic beauties of Venice, making these tangible by his frequent comparisons with the history and architecture of Prague.
But he dedicates most of the second chapter of his famous account to a precise and detailed description of the Venetian administrative and legal system, accompanied by the Italian names
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11. Antonio Canal, detto
Canaletto, Il ponte di Rialto,
Selkirk, Collection of the
Trustees of the Ninth
Duke of Buccleuch’s
Chattels Fund.
Antonio Canal, called
Canaletto, Rialto Bridge,
Selkirk, Collection of the
Trustees of the Ninth
Duke of Buccleuch’s
Chattels Fund.
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of the various offices and functions. Visitors were generally
struck by Venice’s efficient administration: among the Czechs,
Václav Šašek z Bířkova had already written about it in the fifteenth
century. The wait in Venice before leaving by sea lengthened and,
in order to ensure their money did not run short (fig. 6), Harant
and his companions decided to leave the Leone Bianco inn (fig.
7) and the Venetian osterie, being too expensive, and to go and wait
in Padua till the ship was ready to set sail. His good knowledge of
Venice and the Venetians was in any case to be useful to the Czech
diplomat; very interested in the Orient, particularly the Ottoman
empire, Harant was at times forced to conceal his identity as a
Habsburg subject. So in order to go to Turkey he presented himself as a Venetian, as he recounts in the preface to his Pilgrimage:
‘Wanting all the same to improve my position, if for no other reason than my reason, I often went to those lands (thanks to the beloved Lord God) concealing my identity and homeland, inspired
to flaunt the lordship of the Venetian nobility’.
Y The diaries of travels in Italy become more numerous from
the start of the nineteenth century. The long series begins with a
work of great literary, historical and cultural value. Milota Zdirad Polák (1788-1856), a refined Czech poet and officer in the
Habsburg army, was not a traveller by personal choice: he followed a general to Italy as his orderly. The destination of his Italian
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Journey (Cesta do Itálie), which takes place between 1815 and 1818, is
Naples, where Polák spent most of his time. In nearing Venice,
he at first declares that he is pleasantly surprised to see from the
ship the magnificence of the palaces standing out on the sea.
Then, when he disembarks in the city, he changes his mind:
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After about an hour and a quarter, I noticed that Venice opened up
before me like a crescent in the sea. The view from this side nevertheless did not arouse any great wonder, as we sailed between dilapidated
houses without windows, or with the windows covered in paper and
rags. But I soon cheered up, as on entering the main canal I saw two
rows of hundreds of wonderfully built palaces and boats of every kind
and nationality, heartening me with so much magnificence. The highest and widest bridge, with an arch that curves boldly upwards and
leads to the other side of the main canal, is called the Ponte Rialto. It
is not much decorated, but for this is more worthy of interest to the
builder. Among the various superb palaces on this side there is the socalled Fondaco dei Tedeschi (fig. 8). Having got out of the gondoletta (a
boat), I started walking the streets, so narrow that two men cannot
avoid one another. Noticing the sickly smell that hung over those narrow alleys full of people and the unbearable stench that rose from the
canals gave me a different idea of the city’s beauty.
Y Polák informed himself well before making the trip. His story
begins with a brief but comprehensive history of Venice, then
goes back to the immediate observation of its surrounds, which
confirm his first, not entirely positive impression. Although he
lists the artistic and architectural beauties of the city, showing appreciation and conscientious erudition, Polák is undoubtedly also interested in capturing and describing the atmosphere and
real life of the city, whose decay he points out. For example, he
observes that little remains at the Arsenale of the old industry
and material wealth; he notes that the Venetians are good merchants, skilled at bargaining; he complains about the large number of insistent beggars; with relief he greets the night that comes
down and hides the filth, which is particularly evident and annoying during the day. He also mentions the Venetian theatres,
with the aim of providing an exhaustive report: ‘The best place
for public entertainment is Piazza San Marco; there is then the
Teatro La Fenice, the biggest, a fine, well decorated building; the
Teatro San Benedetto is also noteworthy. All of Venice’s beautiful young society meets in the theatres’ (fig. 9).
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12. Jan Neruda, grande
narratore e giornalista
della seconda metà
dell’Ottocento.
Jan Neruda, great
narrator and journalist of
the second half of the 19th
century.
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Y Polák’s Italian Journey was published in instalments from 1820
in the magazine Dobroslav. Karel Hynek Mácha (1810-1836), the
famous Czech romantic poet who visited Venice in 1834, quite
probably read it and was struck by it. The Venetian notes in his
Diary of an Italian Journey (Deník na cestû do Itálie), fragmentary and very
concise, document some intense impressions, some direct, some
indirect: such as the exclamation ‘O Venice, Venice’, echoing Byron’s rhetoric. Mácha quickly
records the places as he sees them, rushing
through. His rapid notes have a relentless
rhythm, a steady pace. They are not descriptive
remarks, but notes that suggest an immediate
perception, though they presuppose prior knowledge, without being explicit. ‘Arrived in Mestre. Left by boat (fig. 10). Saw Venice for the
first time. Salt water. Went into Venice. Walked
around the city, Markusplatz for the first time’.
St Mark’s Square, with the cathedral, seems to
have particularly struck the very young poet, who
mentions it three times in the few lines dedicated to Venice in his Diary. The short list of places
seen alternates with notes on food and drink,
and the expensive osterie (‘We even left our
shoes’), and the sea-sickness when on board the
ship that took him to Trieste, the next stop on
his trip: ‘Seekrankheit (i.e. sea-sickness: ed.). We went out on the
deck. The ship rocked. Venice on the horizon. Then we went
back inside’. Mácha subsequently worked up his Venetian impressions in the novel Gypsies (Cikáni) of 1835, published in Italian
only in 1997. In the fourteenth chapter of the book, set in Venice, the gondolier who has become a gypsy tells of the torments of
love that force him to make continuous moves from one part of
the city to another. St Mark’s Square is of course not missing; but
there is also Rialto (fig. 11), the Giardini Napoleonici and the
Bridge of Sighs, already recorded in the Diary. In the end the gypsy
leaves for Trieste, as Mácha had done on his journey. The romantic tool box is developed in the reflection of the water: ‘The
sun set on Venice and long red stripes stretched out on the sky and
the surface of the water. [...] I sat alone on the island of Lido with
my gaze turned to the east, when the full moon appeared from the
dark sea. I whispered meaningless words, aimless vows at the moon
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that rose behind the sea. Silver waves stood out against the background of the dark shore’.
13. Ippolito Caffi, Venezia,
sera di carnevale (o serenata),
Venezia, Galleria d’arte
moderna di Ca’ Pesaro.
Ippolito Caffi, Venice,
Carnival Evening (or serenade),
Venice, Galleria d’arte
moderna di Ca’ Pesaro.
Y Polák’s Italian Journey, which Mácha had read in ‘Dobroslav’,
came out as a book in 1862, continuing to represent the origin
and model of subsequent accounts. It undoubtedly inspired Jan
Neruda (1834-1891; fig. 12), the great narrator and journalist to
whom Karel Čapek is often and not by chance
compared, in visiting and
describing Venice. His
correspondence from
Italy, which came out in
‘Národní listy’ in 1868
(then in 1872 in a book
of travel sketches brought
together under the title
Benátská zrcadla, or Venetian
Mirrors), often echoes Polák’s observations, almost
as if Neruda intended responding to him in a distance dialogue.
He too, like the previous writer, bewailed the shabby appearance
and filth of Venice, probably surprised by the decay of the city,
which seemed attractive and enchanting to him only in the light
of the moon:
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Pieces of white paper stuck on the ground floor inform an indifferent
world that the palazzo is for rent, other pieces on the ground floor and
then above on all floors that it is for sale. They are scattered across the
two banks of the Grand Canal like sticking plasters and make you realise that for some time now Venice has left Venice. Those now coming to
buy a palazzo are in the best of cases nouveau riche dancers like Taglioni, and
those who rent them dreamers like Byron. And they show you Palazzo
Mocenigo and Palazzo Giustiniani, and tell you that Byron and Chateaubriand lived there, earning themselves a tip. The Grand Canal is
poetic only in the nocturnal light, when you can’t see the dereliction
and rubbish.
And again:
Venice is like a woman become haughty because aware of her beauty,
but she has aged; she is missing the long, rich past of her beauty, but
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also the present. [...] Venice has by now begun to be, or rather is a city
of ruins, the most magnificent and beautiful in the world, but ruins.
After four centuries of decline, it is now going to pieces and sinking.
The day will come when its
worn parts will end up filling
the spaces in the muddy lagoon. [...] Even the Venetian is a ruin. [...] At present
there are 30,000 poor people in Venice, 14,000 of
whom are beggars. [...] There is silence in the lagoon
city. If you leave out the
long, narrow, dark Mercerie, where merchants and
craftsmen toil in front of
open workshops making something of an Italian racket,
if you leave out perhaps two
markets, those of fish and
vegetables at Rialto, the historical end of the commercial Mercerie, if you leave
out St Mark’s Square in the
evening, there is silence
(figs. 13, 14). Even the osterie
on the banks, where the gondolier and sailor once ranted, are now quieter. There
is silence around the Piazzetta from which the elected
doge left on the golden ship,
the Bucintoro (fig. 15), to
immerse the very precious
ring in the lap of the sea, his
bride; and at the port, where
in past times up to 300 Venetian ships were anchored,
there are now just six large foreign ships. At the Arsenale, where 16,000
workers once entered every morning crying out ‘Viva St Mark!’, everything is dead: the arsenal has moved to Genoa. [...] Venice exists and
doesn’t exist. The guide shows you many things that once were. And he
also shows you what has been taken away, for example by Napoleon, and
during the restoration should have been brought back. But the art ob-
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14. Francesco Guardi,
La Piazzetta verso la Libreria,
Vienna, Gemäldegalerie
der Akademie der
bildenden Künste Wien.
Francesco Guardi,
The Piazzetta Towards the
Library, Vienna,
Gemäldegalerie der
Akademie der bildenden
Künste Wien.
15. Antonio Canal ,detto
Canaletto, Il ritorno del
Bucintoro, Mosca, Museo
Pushkin.
Antonio Canal called
Canaletto, The Return of the
Bucintoro, Moscow, Pushkin
Museum.
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jects that have gone from the palazzi secretly or openly, end up in some
‘antiques cabinet’ darkened by smoke, and then abroad, probably never to
return. And much less so will its lost independence return. Venice cannot be a subjugated, provincial, second, third or fourth city. If it is not
at the highest level, it is no longer alive.
travellers
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Neruda’s patriotic, anti-Habsburg sentiment is evident here, writing about Venice but alluding to Prague.
Y As in his masterpiece, the wonderful Stories of Malá Strana, where Neruda composes immortal pictures of Prague life, illuminating the places with an account of the characters and the behaviour of the people, in these Venetian sketches, too, he often
dwells on the appearance and actions of the people. It could be
said that here and there in these portraits Neruda again wants to
respond to Polák, who had appreciated the look of the Venetians;
Polák had written: ‘I like the Venetians more than other Italians.
They usually have a fine figure. The friendliness they show both
to each other and to strangers makes them appealing. The girls
are actually pale, but their whiter than snow colouring and black
eyes would be sought in vain in Germanic lands’. And Neruda
seems to reply: ‘If a Slavic person wants to reach the promised
land of female beauty, there is nothing for it but to stay at home.
Being a “Venetian type” was useful for the beautiful Caterina
Cornaro in ascending the throne of Cyprus, but this is now history; her palazzo has become the monte di pietà or pawnbrokers, and
perhaps it is precisely there that the Venetians have taken their
beauty, including the now historic beauty, keeping on hand the
minimum needed for everyday life. To tell the truth, the very
young women also gave me the impression that they had been put
into a wardrobe some centuries ago, forgotten there and now taken out, mouldy, dusty and creased. Wherever I saw anything decidedly fresh, I was not studying the historical Venetian type, but
the Austrian garrison type, which is now also historical. Perhaps
there would be more beautiful girls in Venice if they were to
comb their hair, wash and avoid wearing their dresses like hanging bed sheets; but the olive Italian skin is not washed, the jetblack hair tousled!’. And again:
In Italy it is an old rule to go to the best inns; in fact, they are always
terrible.
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16. Giovanni Boldini,
Venezia. San Marco, Ferrara,
Museo Boldini.
Giovanni Boldini, Venice.
St Mark’s, Ferrara, Museo
Boldini.
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“Can I have a nice, clean room?”
“You are simply spoilt for choice, signor! Unfortunately at this moment
none of them are ready, would you mind kindly waiting just a moment.
Hey, Rita! Is number three
done?”, the porter calls up to the
first floor, tugging the bell like a
madman.
A moment later the uncombed
head of a girl, possibly twenty, endowed with a decent face and of
course, black eyes, appears at the
window.
“What number?”, she asks in a
shrill soprano.
“Three. Is it ready?”
“No.”
“Well hurry up please, I’m tired.
Clean sheets on the bed, Rita, and
fresh water in the basin, understand?”
“Sì, signor!”, and disappears.
In the meantime I haggle with the
porter over the price of the room,
something that is normal here, like
in our market. In Italy you have to
bargain over everything, and when
you see a sign in a shop saying
“fixed price”, offer half.
The porter gives me the register. I
fill it in and wait. I was fairly weary
after the sea voyage, which had taken 16 hours instead of six because
of a storm, and because I hadn’t
slept, so I would have liked to
freshen up at least by washing. I started to complain and the porter to
ring and shout:
“Hey, hoi, hey, Rita, Rita?” (Margherita)
Rita finally reappears at the window.
“What the devil, still nothing?”
“Oh yes, it’s just that I forgot to call the signor!.
Y The still enjoyable travel stories of a master with a narrative
style like Jan Neruda’s have yet to be translated into Italian. Reading Čapek’s impressions of Venice, it is inevitable to compare
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17. Giovanni Liss, Maria
Maddalena, Slavkov
(Austerlitz), castello,
Historické muzeum.
Giovanni Liss, Mary
Magdalene, Slavkov
(Austerlitz), castle,
Historické muzeum.
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them to his. The two great Czech writers are both able to grasp
the essence of the places and the nature of the people. The signs
of decay (not aesthetically decadent stylistic elements; fig. 16)
stand out in their writings on Venice, but both avoid indulging
in the cliché of the beauty-death contrast. And, not by chance, the accent
placed on the civic and democratic sentiment is strong in both: Neruda aspires to a democratic order, which had a
model in the old Serenissima; Čapek
shows annoyance, and at times explicit
animosity, towards the black shirts that
are beginning to roam about Italy. Furthermore, Venice does not seem democratic to him even from an architectural
point of view: ‘But now I know why Venice’s beauty annoys me. Venice has
only palaces and churches (fig. 17); the
home of the common man is nothing.
Naked, narrow and dark, lacking cornice or doorway, without even a column,
stinking like a rotten tooth, picturesque
only because it is as small as a rabbit
hutch, it does not show even the smallest need for beauty; wandering around the city, the view is not lightened by a cornice or
an ornate entrance to greet the visitor. It is poverty, but without
virtue. And those 200 palazzi are not culture, but only wealth;
there is no life in the beauty, only exhibition. And don’t go telling me that it is due to the absolute lack of space; the only absolute here is indifference’.
Y The impatience with the unfairness and lack of equality that
shows Čapek’s sincere civic and democratic commitment is obvious. But, for the same reason, his indignation is calmed before universal values, of which ancient, venerable Venice is certainly not lacking; in listing that which he liked in Venice, Čapek
recalls ‘the Venetian alleys, where there are no canals or palazzi.
They are so muddled that so far no one has examined them all; in
some perhaps no human foot has ever entered. The best are a metre wide and long enough to hold a cat and all its tail. It is a labyrinth in which even the past roamed about, unable to find the exit’.
travellers
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l’estrema commistione 30 anni fa, su parole di cacciari
un diario polacco di nono
rifiutato a varsavia
a causa del golpe del 1981
la musica
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Sandro Cappelletto
1. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario Polacco
n. 2, pagina di studio per
il testo.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
worksheet for the text
Fondazione Archivio Luigi
Nono, Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
Y «Nell’ottobre del 1981 la direzione del Festival Musicale di
Varsavia mi invita a comporre un Diario Polacco 2 per l’edizione che
si sarebbe dovuta svolgere quest’anno. Poi il 13 dicembre. Degli
amici che mi avevano invitato non ho più avuto notizie. La direzione è stata sciolta, il Festival non si è più tenuto. Ancora di più
ho voluto scrivere questo Diario. Lo dedico agli amici e compagni
polacchi che nell’esilio, nella clandestinità, in prigione resistono –
sperano anche se disperati, credono anche se increduli». Così
Luigi Nono (Venezia, 1924-1990) ricordava la genesi di Diario polacco n. 2, scritto per tre voci di soprano, un mezzosoprano e soltanto due strumenti, un flauto e un violoncello (fig. 1). Accanto a
loro, dentro quelle voci e quei suoni, la presenza del live-electronics,
capace di dilatarli in uno spazio che al compositore piaceva immaginare come «infinito possibile». Uno spazio dove l’ascolto si
sottrae al consueto rapporto frontale tra spettatore e musicista, e
dove la dimensione del tempo sfugge a una logica vettoriale. Nessuna freccia che parte da un punto e tende e raggiunge una meta,
ma una circolarità, dei lunghi momenti di stasi, di attesa, di silenzio oppure di improvvise esplosioni tra un suono e il successivo.
Y Diario polacco n. 2 è una “opera sacra”, e certamente non l’unica, composta da Nono che oggi, vent’anni dopo la sua morte,
placati le polemiche, le interpretazioni schematiche, gli errori di
valutazione sempre certi quando a prevalere nel giudizio sono
l’ideologia e il preconcetto, appare come artista tra i più attenti
e tesi verso una dimensione spirituale del proprio operare. E per
questo, capace anche di forti, non manipolabili, necessarie
espressioni politiche. Diario polacco n. 2, pensato inizialmente per
Varsavia, nasce a Venezia, per il Festival della Biennale Musica, il
3 ottobre 1982, direttore Roberto Cecconi, elettronica creata a
Freiburg, alla Scuola grande di San Rocco (fig. 2). E rappresenta il più alto omaggio concepito da un artista del Novecento italiano “verso” l’Oriente europeo, allora così lontano, così altro,
rispetto a quello che conosciamo oggi.
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Quando stanno morendo, i cavalli respirano,
quando stanno morendo, le erbe intristiscono,
quando stanno morendo, i soli si spengono,
quando stanno morendo,
gli uomini cantano.
2. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2, pagina di studio per
il testo sul dattiloscritto di
Massimo Cacciari.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
worksheet for the text on
Massimo Cacciari’s
typescript
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
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Y Questi i versi del poeta russo Velemir Chlebnikov (1885-1922), che
Massimo Cacciari pone come conclusivi del libretto (figg. 3, 4). Lo scrittore e studioso veneziano, e futuro sindaco della città, si rivela anche in questa occasione fedele, nei testi destinati
alla musica, a una tecnica di montaggio sempre evocativo, mai narrativo.
Cacciari non propone versi o prose
proprie; sceglie invece, con vastissima
libertà di orizzonte temporale, citazioni da autori numerosi e diversi, le
cui parole e immagini riescono tuttavia a fondersi in una unitaria concezione drammaturgica. Un indirizzo al
quale Cacciari si manterrà sempre fedele, e che nel 1984 raggiungerà, sempre per Nono (fig. 5), un altissimo
punto di definizione nel Prometeo - tragedia dell’ascolto in cui il musicista collaborerà anche con Emilio Vedova e Renzo Piano (fig. 6)
Y Assieme a quelli di Chlebnikov, in Diario polacco n. 2 figurano
versi di altri quattro poeti, tutti dell’Est europeo: l’ungherese
Endre Ady (1877-1919), i russi Alekandr Blok (1880-1921) e
Boris Pasternak (1890-1960) e, unico allora vivente, il polacco
Czeslaw Milosz (1911-2004). Sue queste poche parole, di attesa
e speranza; di trasfigurazione:
Spedisci la tua seconda anima
oltre i monti, oltre il tempo;
dimmi che cosa hai visto,
aspetterò.
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3. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2, pagina di studio per
il testo di Chlebnikov sul
dattiloscritto di Massimo
Cacciari.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
worksheet for
Chlebnikov’s text on
Massimo Cacciari’s
typescript
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
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Y Rilette ora, alcune immagini proposte dal libretto sono semplicemente profetiche, come è concesso ai poeti:
Mosca – chi sei?
Io so che voi siete
Lupi ortodossi.
Ma come mai, come mai non udite
il fruscio dell’ago della sorte,
questa sarta mirabile?
Guai a voi,
che avete preso un angolo falso del cuore…
la musica
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Y Così Chlebnikov, in versi scritti quando l’urss era appena
nata, e riletti – era appunto il 1981 – quando aveva già iniziato il
suo scricchiolio, che rapidamente si
trasformerà in crollo.
Y Nono (fig. 7) e Cacciari presentano così il proprio lavoro al pubblico di
quella Biennale Musica (fig. 8):
«Questa poesia vede da sempre il tempo d’avvento come simbolo di speranza e naufragio. Angoscia apocalittica è
sperare disperati – credere increduli.
Disperare e basta è pessimismo intellettuale – credere e basta trombettismo
burocratico. Questa poesia ha il suo
luogo: dove l’Europa fa barriera e
ponte verso l’Asia; dove essa incessantemente resiste in sé, nel suo proprio,
nel suo ethos, e incessantemente si discute e si interroga… Qui soltanto sono possibili nuovi, veri inizi – come è
possibile una vera fine… Ogni cosa
forse potrà ancora sottrarsi a quel destino di morte cui vuole consegnarla l’inverno dei “lupi ortodossi”. Se sapremo custodire quest’attesa, potremo ancora “far
luce al giorno”, rifiutare la morte che ora ci viene. Ora ci viene
morte, ma non sarà mai la Morte, finché queste voci parleranno
– finché Czeslaw Milosz darà ancora luogo, nel suo linguaggio
alla patria polacca – e in Ungheria la lingua di Ady e in Russia
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4. Luigi Nono con
Massimo Cacciari durante
le prove di Prometeo. Tragedia
dell’ascolto, Venezia, chiesa
di San Lorenzo, 1984.
Luigi Nono with Massimo
Cacciari during rehearsals
of Prometeo. Tragedia
dell’ascolto, church of San
Lorenzo, Venice 1984
© Graziano Arici
5. Un primo piano del
musicista.
Luigi Nono
© Graziano Arici
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quella di Pasternak. “Io non ho alzato la bandiera bianca”: anche
“quando stanno morendo, gli uomini cantano”».
Y Ci sono altre due considerazioni da non evitare, e riguardano
il rapporto della città con l’Oriente, e lo svilupparsi, in essa, della
musica contemporanea. La capitale dei dogi ha da sempre intrattenuto fecondi e multiformi rapporti con tutta quella parte del
vecchio continente che guarda verso est: ne è stata come un naturale trampolino della penisola; questa è da sempre, storicamente,
una tra le sue tante funzioni. Ancora
da prima che divenisse quasi molo
d’imbarco di avventurosi crociati
quanto meno indirizzati alla Terrasanta. E la commissione di Diario polacco n.
2 a Luigi Nono non è che uno delle
estreme manifestazioni di questa realtà, seguita soltanto, abbattuto ormai il
Muro ed ampliato il numero dei visitatori, dai turisti di massa in arrivo da
quelle terre, anch’essi in ossequio al
must che la basilica di San Marco
chiunque la deve ammirare almeno
una volta nella vita, pellegrini come gli
islamici la Kaba.
Y E l’altra osservazione è che, tra le
lagune, la musica contemporanea è
stata di casa sempre. La città non è
soltanto quella dei Willaert, Monteverdi, Cavalli, Lotti, Legrenzi, Galuppi e Bertoni (per citare alcuni tra
i maestri di cappella in San Marco),
di Vivaldi e Marcello, Albinoni e
Hass (per evocarne altri): dopo esserlo stato, anche in questo
quasi unica nel panorama europeo, ha saputo perfino dedicarsi
all’oggi. La Biennale di Musica Contemporanea ne è un esempio; la scelta di Igor Stravinskij di far debuttare alla Fenice il The
Rake’s Progress, la Carriera di un libertino (1951), ne è un altro, come
quella di volervi essere sepolto; Britten e Prokofief non hanno
solo compiuto effimere puntate all’ombra del campanile. Ma,
soprattutto, la nascita quasi contemporanea (quattro anni più
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La sua musica inaugurerà la Fenice 2011
e celebrerà i 50 anni di Marsilio
Y Esattamente 50 anni dopo, Luigi Nono, con la sua prima opera per il teatro,
aprirà la stagione lirica de La Fenice: dal 30 gennaio 2011, quattro repliche di Intolleranza 1960, e il 28 un’anteprima con 800 invitati per i 50 anni dell’editore
Marsilio. Ricostruiranno la vicenda un libro e una mostra, a cura di Angela Ida De
Benedictis e Giorgio Mastinu, cui la Fondazione presieduta da Nuria Schoenberg
Nono ha concesso abbondanti documenti, nell’ex studio di Emilio Vedova, alle
Zattere. Regia, scene, costumi e luci della ripresa sono a cura dello iuav, e segneranno, dopo vent’anni, il ritorno nel teatro di Luca Ronconi che, con altri tra cui
Vera Marzot, sarà tra i tutors del nuovo allestimento, reso possibile da Marsilio. Il
libretto, da un’idea di Angelo Maria Ripellino, ha testi suoi, di Alleg, Brecht, Cesaire, Éluard, Fučík, Majakovskij e Sartre; la versione sarà quella italiana della prima, il 13 aprile 1961 nel medesimo teatro. Nuria Schoenberg, dal 1955 moglie di
Nono, ricorda che «di Vedova era amico da sempre; Gigi lo ha cercato forse da
quando aveva 17 anni, è stato tra i primi da cui mi ha portato non appena arrivata a Venezia, e tra gli ultimi che ha voluto visitare, quando stava già male; che l’ex
studio sia stato allestito da Renzo Piano, mi ricorda che l’architetto lavorò parecchio con Gigi per realizzare Prometeo, era il 1984».
Y Mezzo secolo fa, Intolleranza 1960, azione scenica in due parti, fu un evento. È
direttore del Festival Internazionale Musica Contemporanea della Biennale Mario
Labroca. Nono la scrive in tre mesi, anche “esiliando” negli Usa Nuria dalla madre, con la primogenita Silvia, nata da poco. Alla prima, diretta da Maderna, tante contestazioni: fischi, strepiti, volantini dell’estrema destra dal loggione; lo spettacolo interrotto più volte; la stessa polizia porta via chi manifesta; nelle immagini, si vedono al proscenio Carlo Scarpa e Vedova, suoi costumi, luci e scene: «In
piedi, dai suoi due metri, urlava “fuori i fascisti”», rievoca Nuria. La trama «si
può leggere come la storia di un emigrante che dalle miniere di Marcinelle torna
nel Polesine alluvionato: tante allusioni alla storia italiana degli anni cinquanta,
quasi un ricordo ai 150 dell’unità del Paese», spiega un documento del teatro; anche allora, l’Italia celebrava un giubileo. Tra i documenti in mostra, ve ne sono
dello stesso Vedova e di Teche Rai, interviste registrate allora ai maggiori protagonisti e altre più recenti. L’opera di Nono non è stata mai più rappresentata in lingua originale, ma, da allora, sempre in tedesco: così a Colonia (1962) e Norimberga (1970), in un’altra quindicina di edizioni in Germania fino ad Hannover lo
scorso 9 settembre, a Firenze (1974) e altrove. (f.i.)
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6. Luigi Nono (a destra)
con Renzo Piano e,
dietro, Emilio Vedova e
Giacomo Manzoni
in occasione della prima
di Prometeo. Tragedia
dell’ascolto, Venezia, chiesa
di San Lorenzo, 1984.
Luigi Nono (right) with
Renzo Piano and, behind,
Emilio Vedova and
Giacomo Manzoni
at the premier of Prometeo.
Tragedia dell’ascolto, church
of San Lorenzo, Venice
1984.
© Graziano Arici
7. Luigi Nono con Alvise
Vidolin durante le prove
per Prometeo. Tragedia
dell’ascolto, Venezia, chiesa
di San Lorenzo, 1984.
Luigi Nono with Alvise
Vidolin during rehearsals
for Prometeo. Tragedia
dell’ascolto, church of San
Lorenzo, Venice 1984
© Graziano Arici
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giovane il primo) di due campioni della musica più attuale, come Nono e Bruno Maderna, è assolutamente singolare. Maderna (1920-1973, fig. 9) se ne va troppo presto; ma con Luciano
Berio e Nono, aveva già parecchio lavorato: a Darmstadt e allo
studio di fonologia della Rai di Milano, di cui divenne direttore
anche dell’Orchestra sinfonica, ormai purtroppo dimessa. E
Nono, prima studia per cinque anni con Gian Francesco Malipiero (1882-1973), massimo esponente perfino di una generazione, quella «dell’Ottanta», e non a caso tra i ricopritori di
Vivaldi, ma poi prosegue proprio con Maderna, cui fu sempre
legato da fraterna amicizia.
Y Quasi vent’anni ormai ci separano da queste riflessioni e
dalla creazione di Diario Polacco n. 2. La cronaca di quel tempo è
diventata già storia, memoria che non deve scomparire. Il «13
dicembre 1981», precisa Nono nella presentazione: quel giorno, il generale Wojciek Jaruzelski (fig. 10), nominato primo
ministro l’11 febbraio dello stesso anno e il 18 ottobre primo segretario del Comitato Centrale del Partito dei lavoratori polacchi, proclama la legge marziale per stroncare gli scioperi operai
e il crescente movimento di opposizione che si stava diffondendo nel paese: «Per impedire l’invasione dell’Unione Sovietica», dichiarò Jaruzelski in un’intervista retrospettiva al quotidiano tedesco «Der Spiegel» del 1992.
Y È un periodo in cui la storia della Polonia e dell’Europa
orientale corrono, precipitano. Tre anni prima, il 16 ottobre
1978, il cardinale polacco Karol Józef Wojtyla era stato eletto papa, prendendo il nome di Giovanni Paolo ii (fig. 11). Primo
pontefice non italiano dopo oltre quattro secoli: per l’esattezza
dal 1522, quando il conclave dei cardinali aveva indicato l’olandese Adriano vi, destinato a regnare un anno soltanto. Nell’agosto del 1980, nei cantieri navali Lenin della città di Gdansk,
Danzica, aveva organizzato i primi, riusciti scioperi contro il regime comunista un nuovo sindacato: Solidarnosc. Suo leader era
Lech Walesa (fig. 12): un operaio, proclamato Premio Nobel per
la pace nel 1983, e che nel 1990 verrà eletto presidente di quella che era intanto diventata un’altra Polonia.
Y Rifiutando la commissione del Festival di Varsavia, Nono dice, insieme, un “no” e un “sì”: prende le distanze da un regime
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illiberale, ma accetta di scrivere un’opera ispirata da quella stessa negazione di libertà. A scorrere il suo catalogo, l’idea di affidare alla musica il compito di testimoniare la libertà negata non
ha mai conosciuto confini geografici, né temporali: dagli artisti
ritenuti pazzi perché non omogenei al pensiero dominante e
imbarcati a forza sulla Narrenschiff, la “nave dei folli” medievale
che di fiume in fiume, di porto in porto, percorreva senza tregua e senza approdo l’Europa del Medioevo, ai minatori peruviani del Novecento, in lotta per
difendere diritti elementari.
Dalla proclamata empatia intellettuale per le “visioni” di Giordano Bruno, bruciato come eretico in Campo de’ Fiori a Roma
nel 1600, all’omaggio ai protagonisti della Resistenza italiana,
ai desaparecidos eliminati dal regime militare argentino, alla difesa
degli operai polacchi, il «canto
sospeso» di Nono sta sempre
dalla parte di chi «spera anche se
disperato».
Y Questo Diario polacco è indicato
come n. 2: il n. 1 risaliva al 1958 (il
titolo precisa: Composizione per orchestra n. 2 - Diario polacco 1958) e
aveva conosciuto la sua prima
esecuzione, il 2 settembre 1959,
ai “corsi estivi” di Darmstadt, la
cittadina tedesca diventata, in
quegli anni e ancora nei successivi, il punto d’incontro di tutti i
più significativi compositori europei e statunitensi. Più che una
scuola, un laboratorio dove alcuni già riconosciuti maestri e
molti giovani autori si confrontavano con una franchezza, una
voglia di difendere ciascuno le proprie persuasioni che, oggi, appare soltanto benefica. Non era il dogmatismo a prevalere, ma il
confronto, anche aspro e dunque liberatorio.
Y Quel primo “canto polacco” del 1958 si riferisce a un soggiorno del compositore a Varsavia, in occasione del Secondo Fe-
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stival Internazionale di Musica Contemporanea. Scrive Gianmario Borio, attento studioso di Nono: «I ventotto episodi dell’opera, che nella loro frammentarietà e slegatezza rispecchiano il
rapido susseguirsi di immagini, sensazioni, incontri, sorprese e
riflessioni, possono essere considerati come annotazioni di un
immaginario diario musicale». Il lavoro è significativo, nel percorso creativo dell’autore, perché costituisce il primo esempio di
distribuzione spaziale delle fonti acustiche: suono e spazio al servizio di uno “spunto” iniziale
affidato a un “impulso umano”, come ricorda lo stesso
compositore: «Le mie opere
partono sempre da un impulso
umano: un evento, un’esperienza, un testo della nostra
esistenza tocca il mio istinto e
la mia coscienza e pretende che
io, come musicista e come uomo, ne dia testimonianza. Naturalmente, in tutto ciò mi è
completamente estranea la
concezione primitiva di una
musica a programma, descrittiva. Infatti all’impulso proveniente dalla sfera umana, si aggiunge la realizzazione musicale con i mezzi peculiari ed
esclusivi della musica. L’unica
realtà è quella della struttura
del suono, costruita sui diversi
parametri costituenti il linguaggio musicale».
Y Spazio, suono, umanesimo, sono categorie costanti della sua
scrittura. Al tempo di Diario polacco n. 2, tra i critici è ancora una
volta Massimo Mila, che aveva seguito Nono da sempre, con rigoroso affetto, a capire di più e meglio: «La nuova patria di
Nono musicista è il Suono. Non più armonia, non più contrappunto (anche se la presenza di suoni contemporanei è frequentissima, quasi costante). Questi parametri della musica sono stati cancellati. Il Suono, con i suoi misteri, con la sua vita segreta, è
il terreno e il campo della musica di Nono» (fig. 13). Mila, che
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vedrà nel Prometeo l’apogeo di questa nuova poetica riconducibile
forse, nel percorso di Nono, anche a periodi precedenti gli anni
ottanta, ci offre un’altra immagine significativa: questa musica è
come «la superficie di un lago calmissimo», increspato però da
brevi, improvvise tempeste, da grida squarcianti, da sommovimenti profondissimi che risalgono verso la superficie (fig. 14).
8. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2, studio per
l’esecuzione dell’opera
nella Scuola Grande di
San Rocco, con
l’indicazione della
posizione dei solisti, delle
voci e del movimento del
suono nello spazio.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
study for performing the
work in the Scuola
Grande di San Rocco,
with indications of the
position of the soloists
and voices, and the
movement of sound in
space.
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
la musica
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Y Anche le voci e gli strumenti di Diario polacco n. 2 si muovono
all’interno di questa contrastata dialettica (fig. 15). La violenza
del gesto sonoro si dirada, racchiusa in grumi tanto densi quanto concisi. Ma esplode quando le voci sembrano voler scappare
via dai “lupi ortodossi”. La preoccupazione di Nono non è quella di rendere comprensibili i versi, pur così significativi, dei
poeti prescelti; ma di creare con le voci e con i suoni, partendo
proprio da quelle visioni letterarie, un’atmosfera che è insieme
di attesa e di compianto; che, disperata, spera. Un’attitudine del
tutto antirealistica, che deve dilatarsi, moltiplicarsi nello spazio
dell’ascolto, quasi a voler oltrepassare ogni limite architettonico,
per far emergere «la vita segreta del suono», il suo misterioso
potere di suggestione e coinvolgimento. Quando questo secondo, e più significativo, Diario polacco verrà eseguito (grazie alla
lungimiranza dell’allora cardinale patriarca Marco Cé) nella basilica di San Marco, l’aspetto sacro e rituale del lavoro emergerà
con diretta e profondissima evidenza.
Y Questo Diario polacco, questo sguardo ad Oriente doveva appartenere a un autore veneziano. Della sua città Nono amava il suo
essere luogo-ponte, capitale aperta per eccellenza: acqua, non
mura, a facilitare gli ingressi e le partenze. Dal suo punto di vista, il fascino primo di Venezia stava nell’essere «un multiverso
acustico» dove i richiami, le onde dei suoni, delle voci, del vento, non conoscono limiti, non si fermano addosso a qualche parete, ma vanno, si rifrangono e moltiplicano, percorrono spazi
che diventano affascinante labirinto. Sono Venezia e la sua laguna la città e le acque protagoniste di … sofferte onde serene… per pianoforte e nastro magnetico, scritto per Maurizio Pollini. In una
geografia del mondo che ponga al suo centro un “impulso umano”, Venezia è luogo che accoglie e unisce: è qui che «l’Europa
fa barriera e ponte verso l’Asia». Nei trentatré minuti di Diario
polacco n. 2 questa realtà diventa musica e questa musica si tende,
con i suoi propri mezzi, in utopia. Un orizzonte che riteneva ne-
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the extreme mixture 30 years ago, on cacciari’s words
a ‘polish diary’ by nono
refused by warsaw
due to the ‘coup’ of 1981
music
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Sandro Cappelletto
9. Luigi Nono con Nuria
Schoenberg – figlia del
compositore e sposata nel
1955 e ora “vestale” della
Fondazione omonima – e
Bruno Maderna a
Darmstadt, 1955.
Luigi Nono with Nuria
Schoenberg, the
composer's daughter, who
married in
1955 and is now a 'vestal'
of the Foundation of the
same name, and Bruno
Maderna in Darmstadt,
1955.
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
Y ‘In October 1981 the direction of the Warsaw Music Festival
invited me to compose a Polish Diary 2 for the festival that was to
have taken place that year. Then the 13th of December. I have
heard nothing more of the friends who invited me. The direction was dissolved, the Festival no longer held. I wanted to write
this Diary even more. I dedicate it to my Polish friends and companions in exile, underground or in prison who resist - who hope even if desperate, believe even if incredulous.’ This is how
Luigi Nono (Venice, 1924-90) recalled the genesis of Polish Diary
No. 2, written for three soprano voices, a mezzo-soprano and just
two instruments: a flute and cello (fig. 1). Live-electronics were then
present alongside them, inside those voices and sounds, capable
of expanding them in a space that the composer liked to think of
as a ‘possible infinite’. It is a space where listening is removed
from the usual frontal relationship between spectator and musician, and where the dimension of time evades a vectorial logic.
There is no arrow that leaves from one point and strains to reach
an apple, but a circularity, long moments of stasis, of waiting, of
silence or of sudden explosions between one sound and the next.
Y Polish Diary No. 2 is a ‘religious work’, and certainly not the only
one composed by Nono. Now, twenty years after his death, that
the controversies, the schematic interpretations and the errors of
evaluation that are always certain when ideology and preconception predominate in making judgement have been calmed, he
seems to be one of the most attentive artists straining towards a
spiritual dimension in his work. And for this reason, he was also
capable of strong, non-falsifiable, necessary political expressions. Polish Diary No. 2, initially conceived for Warsaw, was born in
Venice, for the Biennale Music Festival, on 3 October 1982, director Roberto Cecconi, electronic music created at Freiburg, at
the Scuola Grande di San Rocco (fig. 2). And it represents the
highest tribute conceived by a twentieth-century Italian artist
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‘towards’ the European East, then so far away, so different, compared to that which we know today.
When they are dying, horses breathe,
when they are dying, leaves languish,
when they are dying, suns fade,
when they are dying,
men sing.
Y These are the lines by the Russian poet Velemir Chlebnikov
(1885-1922) that Massimo Cacciari used to conclude the ‘libretto’ (figs 3, 4). On this occasion, too, the Venetian scholar, writer and future mayor, applied an editing technique to the texts
intended for the music that is always evocative, never narrative.
Cacciari did not propose his own verses or prose; he chose, rather, with enormous freedom on a temporal horizon, citations
from numerous different authors, whose words and images can
nevertheless merge in a unitary, dramaturgical conception. This
was a direction Cacciari was to maintain, and that was to attain –
again for Nono (fig. 5) – a very high point of definition in the
Prometheus - tragedy of listening in 1984 (for this work, the musician
collaborated with Emilio Vedova and Renzo Piano, fig. 6) .
Y Along with those of Chlebnikov, lines by four other poets appear in Polish Diary No. 2, all from Eastern Europe: the Hungarian
Endre Ady (1877-1919), the Russians Alekandr Blok (18801921) and Boris Pasternak (1890-1960) and, the only one then
alive, the Pole Czeslaw Milosz (1911-2004). These words of expectation and hope, of transfiguration, are his:
Send your second spirit
beyond the mountains, beyond time;
tell me what you have seen
I will wait.
Y Reread now, some images proposed by the ‘libretto’ are
simply prophetic, as is given to poets:
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Moscow - who are you?
I know that you are
Orthodox wolves
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His music will open the 2011 Fenice season
and celebrate Marsilio’s 50th anniversary
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Y Exactly 50 years later, Luigi Nono will open the La Fenice opera season with his
first work for the theatre: from 30 January 2011, four performances of Intolleranza
1960, and on the 28th a preview with 800 invited guests for Marsilio Editore’s 50th
birthday celebrations. The event will be reconstructed by a book and an exhibition,
curated by Angela Ida De Benedictis and Giorgio Mastinu, who have been provided with numerous documents by the Foundation directed by Nuria Schoenberg
Nono, in Emilio Vedova’s former studio at the Zattere. The iuav will be in charge
of the direction, scenes, costumes and lighting of the revival. After 20 years, it will
also mark the return to the theatre of Luca Ronconi who, along with others including Vera Marzot, will be among the tutors for the new staging made possible by Marsilio. The libretto, from an idea by Angelo Maria Repellino, contains works by him,
and by Alleg, Brecht, Cesaire, Éluard, Fučík, Majakovskij and Sartre; the version
will be the Italian one of the premier on 13 April 1961 in the same theatre. Nuria
Schoenberg, Nono’s wife from 1955, recalls ‘that he had always been a friend of Vedova; Gigi had sought him out from when he was perhaps 17, he was one of the first
he took me to see when I arrived in Venice, and one of the last he wanted to visit
when he was ill; that the former studio be designed by Renzo Piano, I remember
that the architect worked a lot with Gigi to produce Prometeo, it was 1984’.
Y Half a century ago, Intolleranza 1960, a stage action in two parts, was an event. Mario
Labroca was the director of the Biennale Festival Internazionale Musica Contemporanea. Nono wrote it in three months, also ‘exiling’ Nuria from her mother in the
us, with their first, recently born daughter, Silvia. There were numerous protests at
the premiere, conducted by Maderna: booing, hissing, handbills from the neo-fascists from the gallery; the show was interrupted several times; the police themselves
took away those who protested; in the pictures Carlo Scarpa and Vedova can be seen
on stage, along with the costumes, lights and scenery: ‘Standing up, to his full two
metres, he shouted “out with the Fascists”’, recalls Nuria. The plot ‘can be read as the
story of an emigrant who from the mines of Marcinelle goes home to the flooded
Polesine: many allusions to the Italian history of the 1950s, almost a memoir of the
150 years of Italian unity’, explains the theatre programme; then, too, Italy was celebrating a jubilee. Among the documents on show, there are some of Vedova himself
and Teche Rai, interviews recorded at the time with the main figures and other more
recent ones. Nono’s work was never again presented in the original language, but,
since then, always in German: in Cologne (1962) and Nuremburg (1970), in another 15-odd versions in Germany through to that in Hannover on 9 September 2010
and in Florence (1974). (f.i.)
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But how come, how come you do not hear
the rustle of the needle of fate,
this exquisite seamstress?
Woe betide you,
who have taken a false corner of the heart...
Y Thus Chlebnikov, in lines written when the ussr had just
been founded, and reread – it was 1981 – when its groaning that
would rapidly turn into collapse had already
begun.
10. Il generale Wojciek
Jaruzelski in una
copertina di «Time» del
1981.
General Wojciek Jaruzelski
on the cover of Time
magazine in 1981.
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Y Nono (fig. 7) and Cacciari presented
their work to the audience at the Music Biennale with these words (fig. 8): ‘This poetry
has always seen the future as a symbol of hope and failure. Apocalyptic anxiety is to hope
in desperation – to believe incredulously.
Solely despairing is intellectual pessimism –
solely believing is bureaucratic trumpeting.
This poetry has its place: where Europe is a
barrier and bridge towards Asia; where it incessantly resists in itself, in its own self, in its
ethos, and incessantly questions and discusses... Only here are new, real starts possible –
as a real end is possible... Everything may
perhaps still remove itself from that fate of
death to which the winter of the ‘orthodox wolves’ wants to consign it. If we know how to safeguard this expectation, we may still
‘bring light to the day’, reject the death that now comes toward
us. Death now comes toward us, but it will never be the Death, as
long as these voices speak – as long as Czeslaw Milosz still gives a
place in his language to the Polish homeland – and in Hungary
the language of Ady and in Russia that of Pasternak. ‘I have not
raised the white flag’: even ‘when they are dying, men sing’.
Y There are two other considerations that must not be ignored,
and concern the city’s relationship with the East and its development of contemporary music. The capital of the doges always wove fertile, multifaceted relations with all that part of the old continent that looks eastward: it was like the peninsula’s natural
springboard for this; this was always, historically, one of its many
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functions; even before it became almost the departure point for
adventurous crusaders on their way to the Holy Land. And commissioning Luigi Nono to compose Polish Diary No. 2 was none
other than one of the extreme manifestations of this reality, followed only – the Wall having been knocked down and
the number of visitors having increased – by the mass
of tourists arriving from those lands, they too in
thrall to the ‘need’ for everyone to admire St Mark’s
basilica at least once in their life, pilgrims, like the
Kaaba for Muslims.
11. Karol Jósef Wojtyla,
papa Giovanni Paolo ii
dal 1978.
Karol Josef Wojtyla, Pope
John Paul ii from 1978.
12. Il sindacalista Lech
Walesa, premio Nobel per
la pace nel 1983, e dal
1990 presidente del suo
Paese.
The trade unionist Lech
Walesa, winner of the
Nobel peace prize in
1983, and president of
Poland from 1990.
music
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Y The other observation is that contemporary music has always been at home in Venice. The city is not
only that of Willaert, Monteverdi, Cavalli, Lotti, Legrenzi, Galuppi and Bertoni (to mention just some
of the choir masters at St Mark’s), or of Vivaldi, Marcello, Albinoni and Hass (to recall others): after having been this, in which it was almost unique in the
European panorama, it has even been able to dedicate itself to the present. The Contemporary Music
Biennale is one example of this; the choice of Igor
Stravinski to give The Rake’s Progress (1951) its debut at
the Fenice is another, like that of wanting to be buried here; Britten and Prokofief made more than just
passing forays to the shadow of the bell tower. But,
above all, the almost contemporary birth of two
champions (the first being four years younger) of the
most topical music, Nono and Bruno Maderna, is
absolutely singular. Maderna (1920-73, fig. 9) died too early; but
he had already worked considerably with Luciano Berio and
Nono: in Darmstadt and in the rai phonology studio in Milan,
also becoming conductor of the rai Symphony Orchestra, now
unfortunately disbanded. And Nono initially studied for five
years with Gian Francesco Malipiero (1882-1973), who was the
greatest exponent of a generation, that ‘of the 80s’, and not by
chance one of those who covered Vivaldi, then continued precisely with Maderna, to whom he was always tied by a fraternal
friendship.
Y Almost twenty years now separate us from these reflections
and the creation of Polish Diary No. 2. The story of that time has
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now become history, memory that must not fade. ‘13 December
1981’, specifies Nono in the presentation: that day, General
Wojciek Jaruzelski, nominated prime minister on 11 February of
that same year and on 18 October first secretary of the Central
Committee of the Polish Workers Party, proclaimed martial law
in order to crush the workers’ strikes and the growing opposition
movement that was spreading across the country: ‘To prevent the
invasion of the Soviet Union’, declared Jaruzelski (fig. 10) in a
retrospective interview with the German daily Der Spiegel in 1992.
Y It was a period when the history of Poland and of Eastern
Europe raced, fell. Three years before, on 16 October 1978, the
Polish cardinal Karol Józef Wojtyla had been elected pope, taking the name of John Paul ii (fig. 11). He was the first non-Italian pope for more than four centuries; precisely, since 1522,
when the conclave of cardinals had selected the Dutchman
Adrian vi, though destined to rule for only one year. In August
1980, the first successful strikes against the communist party
had been organised in the Lenin shipyards of Gdansk by a new
trade union: Solidarnosc. Its leader was Lech Walesa (fig. 12), a
worker awarded the Nobel Peace Prize in 1983, and who in 1990
was elected president of what had in the meantime become a
different Poland.
Y Refusing the commission from the Warsaw Festival, Nono
said ‘yes’ and ‘no’ at the same time. He distanced himself from
an illiberal regime, but agreed to write a work inspired by that same negation of freedom. Running through his catalogue, the
idea of giving music the task of testifying to denied liberty knew
no geographical or temporal confines: from the artists regarded
as crazy because not agreeing to the dominant thinking and forced to embark on the Narrenschiff, the medieval ‘ship of fools’ that
sailed through Europe from river to river, from port to port,
endlessly and without docking, to the Peruvian miners of the
twentieth century, fighting to defend elementary rights; from the
proclaimed intellectual empathy for the ‘visions’ of Giordano
Bruno, burnt as a heretic in Campo de’ Fiori, Rome, in 1600,
to the tribute to the leaders of the Italian Resistance, the ‘desaparecidos’ eliminated by the Argentine military regime and the defence of the Polish workers, Nono’s ‘suspended song’ is always on
the side of those who ‘hope even if in despair’.
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13. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2, primi schizzi
musicali.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
first musical drafts
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
Y This Polish Diary is indicated as No. 2: the No. 1 dated from 1958
(the precise title is Composition for orchestra No. 2 - Polish Diary 1958)
and had had its first performance on 2 September at the ‘summer courses’ in Darmstadt, the German town that in those and
subsequent years became the meeting point for all the most significant European and American composers. More than a
school, it was a workshop where some already recognised masters
and many young composers frankly compared notes, each with a
wish to defend their own persuasions that, now, seems only advantageous. It was not dogmatism that prevailed, but comparison, at times bitter, and therefore liberating.
Y That first ‘Polish song’ of 1958 refers to the composer’s stay in
Warsaw during the Second International Festival of Contemporary Music. Gianmario Borio, an attentive scholar of Nono, writes: ‘The twenty-eight episodes of the work, which in their fragmentary and disconnected nature reflect the rapid succession of
images, sensations, meetings, surprises and reflections, may be
considered as notes in an imaginary musical diary’. The work is
significant in the composer’s creative pathway because it constitu-
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the extreme mixture 30 years ago, on cacciari’s words
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tes the first example of the spatial distribution of the acoustic
sources: sound and space at the service of an initial ‘cue’ entrusted to a ‘human impulse’, as the composer himself recalls: ‘My
works always start from a human impulse.
An event, an experience, a weft of our existence touches my instinct and consciousness and expects that I, as musician and
man, give it testimony. The original conception of programmed, descriptive music is of course completely extraneous to
me in all this. Indeed, the impulse arising
out of the human sphere is joined by the
musical performance with the peculiar
and exclusive means of music. The only
reality is the structure of the sound, constructed on the different parameters making up the musical language’.
14. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2, pagina di studio per
il testo sul dattiloscritto di
Massimo Cacciari.
Luigi Nono, Quando stanno
morendo. Diario polacco n. 2,
worksheet for the text on
Massimo Cacciari’s
typescript
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
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Y Space, sound and humanism are the
constant categories of his writing. At the
time of Polish Diary No. 2, Massimo Mila was
once again one of the critics. He had always followed Nono with rigorous affection, in order to understand more and
better: ‘The new homeland of Nono the musician is sound. No
longer harmony, no longer counterpoint (even though the presence of contemporary sounds is very frequent, almost constant).
These parameters of the music have been removed. Sound, with
its mysteries, its secret life, is the ground and field of Nono’s
music’ (fig. 13). Mila, who was to see in the Prometheus the culmination of this new poetics, which could perhaps also be related to
periods in Nono’s development prior to the 1980s, offers us
another significant image: this music is like ‘the surface of a very
calm lake’, though ruffled by short, sudden storms, by lacerating
cries, by very deep stirrings that rise towards the surface (fig. 14).
Y The voices and instruments of Polish Diary No. 2 also move inside this contrasted dialectic (fig. 15). The violence of the sound
gesture dissipates, enclosed in clots as dense as they are concise.
But it explodes when the voices seem to want to flee the ‘Orthodox wolves’. Nono’s concern is not that of making the lines of the
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chosen poets comprehensible, despite their significance, but of
creating an atmosphere with sounds and voices, starting precisely
from those literary visions; an atmosphere that is both anticipation and lament, that, in desperation, hopes. It is an attitude that is
entirely anti-realistic, that must dilate, multiply in the listening space, almost as if wishing to surpass
every architectural limit, to bring
out ‘the secret life of sound’, its
mysterious power to evoke and involve. When this second and more
significant Polish Diary was performed in St Mark’s basilica (thanks
to the farsightedness of the then
cardinal Patriarch Marco Cé), the
religious and ritual aspect of the
work emerged with direct and very
profound clarity.
15. Luigi Nono, Quando
stanno morendo. Diario polacco
n. 2. Studio per
l’esecuzione dell’opera
nella Scuola Grande di
San Rocco, con
l’indicazione della
posizione dei solisti, delle
voci e del movimento del
suono nello spazio.
Study for performing the
Diario in the Scuola
Grande di San Rocco with
notes on the position of
the soloists and voices,
and the movement of
sound in space.
Fondazione Archivio Luigi Nono,
Venezia
© Eredi Luigi Nono
per gentile concessione
music
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Y This Polish Diary, this look at the
East had to come from a Venetian
composer. Nono loved the fact
that his city is a bridge-place, an
open capital par excellence: water, not walls, facilitating entrances
and departures. From his point of view, the initial charm of Venice lay in its being ‘an acoustic multiverse’, where the evocations, the waves of sounds, of voices, of the wind, know no
bounds, do not stop against some wall, but run, refract and multiply, follow spaces that become a fascinating labyrinth. Venice
and its lagoon, the city and the waters are the protagonists of
...hard-won serene waves... for piano and magnetic tape, written for
Maurizio Pollini. In a geography of the world that places a ‘human impulse’ at its centre, Venice is the place that welcomes and
unites: it is here that ‘Europe acts as a barrier and bridge towards
Asia’. In the thirty-three minutes of Polish Diary No. 2, this reality
becomes music and this music aspires by its own means to utopia. A horizon that he thought necessary.
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gli autori
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hanno scritto / contributors
gino benzoni, già ordinario di Storia della storiografia nell’università Ca’ Foscari di Venezia, è direttore dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato veneziano, alla Fondazione Giorgio Cini.
gino benzoni, former professor of the History of Historiography at
Ca’ Foscari University, Venice; he is director of the Istituto di Storia
della Società e dello Stato veneziano at the Fondazione Giorgio Cini.
sandro cappelletto,, veneziano, vive a Roma; è storico della musica
e scrittore, critico del quotidiano «La Stampa» di Torino.
sandro cappelletto,, Venetian, lives in Rome; he is a music historian, writer and critic for the daily La Stampa of Turin.
annalisa cosentino insegna Letteratura ceca e Traduzione letteraria
nelle Università di Udine e di Roma. Si occupa di critica letteraria e
letteratura ceca moderna e contemporanea.
annalisa cosentino teaches Czech Literature and Literary Translation at Udine and Rome Universities. She specialises in literary criticism and modern and contemporary Czech literature.
giuseppe de rita,, romano, è segretario generale del censis, e ha presieduto, tra l’altro, il cnel, e la Fondazione Venezia 2000.
giuseppe de rita,, Roman, is secretary general of censis, and is former chairman of cnel and the Fondazione Venezia 2000.
fabio isman,, giornalista e scrittore, vive a Roma, è stato inviato speciale del quotidiano «Il Messaggero»; è il curatore di «VeneziAltrove».
fabio isman,, journalist and writer, lives in Rome; he is a former special correspondent for the daily Il Messaggero and editor of VeneziAltrove.
rosella lauber,, storica dell’arte, insegna e svolge ricerche allo iuavIstituto Universitario di Architettura di Venezia, e all’Università di
Udine, dove vive.
rosella lauber,, art historian, teaches and carries out research at the
iuav-Istituto Universitario di Architettura di Venezia, and the University of Udine, where she lives.
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abbiamo pubblicato / back issues
1/2002
2/2003
L’editoriale / Perché questo Almanacco
Una diaspora senza rimpianti
(quando la città era un centro di produzione)
Giuseppe De Rita
L’editoriale / Una vitalità così esplosiva che doveva tracimare altrove
Il vero rimedio alla diaspora:
riannodarne i fili per ridare radici ai capolavori
Giuseppe De Rita
Il “caso” / Un “altrove” che si cela a Palazzo Ducale
L’ultimo deposito: 350 quadri “proibiti”
da due secoli, c’era anche un Tintoretto
Fabio Isman
Il documento / A inizio ’800, un diplomatico racconta
Monsignore, il catalogo delle vendite è questo
(cronaca di una grande razzia)
Fabio Isman
La collezione da riscoprire / Cristoforo Orsetti
e i suoi 92 capolavori
Come sono andati dispersi (un Bassano è in Texas)
i rari dipinti di un mercante
Stefania Mason
L’indagine / Restano in città solo 22 opere
su 260 segnalate nel ’500
Breviario per una diaspora: in quali musei
sono finiti i dipinti descritti da Michiel
Rosella Lauber
L’“altrove” / Tiepolo dal Brenta alla Tour Eiffel
Venezia è anche sulla Senna:
la singolare storia del museo Jacquemart-André
Francesca Pitacco
Il caso / Un regesto delle biblioteche di nobili e cittadini
Come è nato e dove s’è disperso il più grande
patrimonio di codici e libri al mondo
Marino Zorzi
La musica / Vivaldi perduto e ritrovato
Due secoli di assoluto oblio (dal 1761 al 1928)
poi il ritorno. Ma a Torino
Sandro Cappelletto
La musica / Un celebre solista e uno strumento unico al mondo
Dal 1743, ad oggi: le peripezie del più famoso violino
costruito da Guarneri in laguna
Sandro Cappelletto
L’opera sparita / I tanti misteri di un “Ecce Homo”
Augusto Gentili dà la caccia a un famoso Tiziano: era
partito per la Russia
Intervista a cura di Fabio Isman
Il dipinto / Un capolavoro di Vittore Carpaccio e i suoi infiniti misteri
Forse, si può dare un nome al Cavaliere Thyssen;
e questo è il suo contesto
Intervista ad Augusto Gentili
Il documento inedito / 4.800 biglietti, un tesoro in fumo
Nel ’700, una doppia lotteria polverizza una
collezione: e un Raffaello è a New York
Linda Borean
Il “mistero” / Il Merisi è tra i pochi artisti assenti in Laguna
Come e perché la Serenissima non ha conosciuto
la grande arte di Caravaggio
Stefania Mason
L’asta / Il grande “cosmografo” Coronelli
A uno sceicco (370 mila euro) un celebre
mappamondo: l’incredibile vita di chi lo fece
Fabio Isman
Il museo / A Boston, l’Isabella Stewart Gardner
Per soddisfare il suo “plaisir” l’eccentrica mistress
ruba al Canale anche i balconi
Ketty Gottardo
La mostra / Palazzi e collezioni, ora ricomposte
Ganimede vola, ma a Bonn (ovvero:
come si può ricostruire quanto esisteva a Venezia)
Fabio Isman
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3/2004
4/2005
L’editoriale / Dalla Laguna al mondo intero
Continuando a vagabondare
Giuseppe De Rita
L’editoriale / C’è stata una diaspora:
ma come s’era formata tanta fortuna?
Le molte luci ed ombre in cinque secoli
di un collezionismo assai colto e fastoso
Giuseppe De Rita
Il “caso” / L’interno di un palazzo e tanti celebri dipinti finiti negli USA
Cosí un intero angolo di città ha traslocato:
è andato in Pennsylvania, a Filadelfia
Fabio Isman
La musica / Un Grimani fa emendare il libretto scomodo
Eliogabalo, prima censura: un’opera del ’600
in scena nel 2004; ma in Belgio
Sandro Cappelletto
L’inedito / In un carteggio del ’700, tanti segreti delle vendite veneziane
«Voglio dei dipinti vergini e senza macola»,
scrive l’inglese al mercante
Linda Borean
Il dipinto / Alla Frick Collection di New York,
un mondo intero in una tavola
Cosa racconta Giovanni Bellini
in quel San Francesco, che è uno dei suoi capolavori
Intervista ad Augusto Gentili
La scoperta / Da Venezia a New York,
l’epopea del “San Francesco” di Bellini
Dal 1525, quando lo vide Michiel,
ricostruite tutte le tappe (o quasi) della preziosa tavola
Rosella Lauber
La storia / Le collezioni dall’800 in poi:
normali vicende di dare e avere
Quelli che non hanno venduto
(e Correr in fin di vita lascia alla città il suo museo)
Giandomenico Romanelli
Il “giallo” / Una collezione di capolavori ormai alquanto mutilata
Ma quei disegni di Quarenghi come sono finiti
(e quando) a San Pietroburgo?
Giovanna Nepi Sciré
Il museo / La Wallace Collection di Hertford House, Londra
Per oltre la metà di un secolo un capolavoro
di Tiziano è stato dimenticato in bagno
Francesca Pitacco
156
L’inedito / Un manoscritto di fine ’800,
autentico “specchio dei tempi”
C’erano 300 raccolte private (molte assai singolari):
e 70 sono state svendute così
Fabio Isman
La scoperta / L’artista di Messina vive in laguna pochi
ma fondamentali mesi
A Venezia ne dipinge almeno 20;
però oggi di Antonello un solo quadro rimane in città
Rosella Lauber
Il personaggio / Il “sacco” del patrimonio pubblico:
anche un’asta di 5.000 tele
I registri della dispersione. E Pietro Edwards decide:
«A Vienna, Milano, da cedere»
Intervista con Giovanna Nepi Sciré, di Fabio Isman
La musica / Dalla Spagna alla Marciana tramite Farinelli,
il “re dei castrati”
Tutte le sonate di Scarlatti sono a Venezia:
ecco il loro tortuoso percorso
Sandro Cappelletto
Il mistero / Dispute e tante scoperte attorno
a tre importanti ritratti del ’500
L’Ariosto di Tiziano (Londra) non è Ariosto;
e il Barbarigo non si sa chi sia
Giorgio Tagliaferro
Il museo / La National Gallery di Edimburgo,
ma anche tante ville e residenze
Tiziano, Giorgione & Company:
quando gli scozzesi facevano man bassa in laguna
Francesca Pitacco
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5/2006
6/2007
L’editoriale / Non una dispersione insensata,
ma un fenomeno da studiare
«Si rigenera l’attesa...».
I mille vortici di una diaspora che sempre stupisce
Giuseppe De Rita
L’editoriale / Un modello che vuole ricrearsi
Verso una nuova forma
Giuseppe De Rita
L’archeologia / Tante razzie, poi infinite fughe: ecco dove
Sono emigrate 9 statue su 10 di quelle raccolte
nella città che fu dei dogi
Irene Favaretto
La sorpresa / Due mostre a Washington e Vienna,
specchio della diaspora
Come spiegare la grande arte di Venezia
del Cinquecento senza dipinti rimasti in laguna
Fabio Isman
La scoperta / L’Ecce Homo di Tiziano ritrovato al Puskin:
l’avevano rubato
Dei 106 dipinti già dei Barbarigo finiti in Russia,
tre quarti sono ormai dispersi
Irina Artemieva
Il racconto / Le curiosità di 10 secoli di rapporti,
spesso fecondi ma anche difficili
Quando a Costantinopoli Venezia era di casa
(arte in cambio di caffè)
Fabio Isman
L’indagine / Tante odisee: il patriarca fugge sui tetti,
lo salva il vessillo turco
Smembrati ed emigrati così dieci immensi Tiepolo
già dei Querini Stampalia
Tiziana Bottecchia
L’artista / Le mille peripezie dei dipinti nati per la città,
dove di suo resta il 7%
Itinerario di una diaspora: giro del mondo
in cerca dei Tiziano non più a Venezia
Rosella Lauber
Il dipinto / Un Giovane e tanti indizi: anche una data fasulla
Venezia-New York e ritorno: la storia assai singolare
di un ritratto forse di Giorgione
Augusto Gentili
La musica / La breve vita d’un autore a suo tempo assai stimato,
poi dimenticato
Emerge da secoli d’oblio il genio di Rigatti,
rinasce, ma non in laguna
Sandro Cappelletto
L’inedito / Nuovi documenti su una delle ultime opere dell’artista
Ecco perché Il culto di Cibele, un capolavoro
di Mantegna, sfugge a Venezia, e va a Londra
Rosella Lauber
La storia / Venduti in gran segreto 90 dipinti e 200 sculture
Come passa per la laguna (e poi finisce a Londra)
la raccolta dei Gonzaga
Leandro Ventura
Il progetto / Decolla un’iniziativa di catalogazione senza uguali in Italia
Un «Indice delle provenienze» per conoscere tutto
del collezionismo veneziano
Stefania Mason
La musica / Importanti recuperi di opere che erano sparite
Le sue note finite nell’oblio, a Torino e in altre città:
Galuppi ritorno dopo 300 anni
Sandro Cappelletto
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8/2009
san pietroburgo e la città dei dogi
la città degli asburgo e quella dei dogi
L’editoriale / Neva e laguna:
arte, edifici e il rapporto tra vita e morte
Due città legate da un mistero
Giuseppe De Rita
L’editoriale / La città dell’imperatore e quella del doge
Dalla rimozione e il rancore alla riscoperta
del grande patrimonio comune
Giuseppe De Rita
La rivelazione / Due notti in incognito;
analoghe le piante delle due città
Anche con un viaggio segreto lo zar Pietro prende la
Serenissima come modello
Sergej Androsov
La storia / Quattro secoli di rapporti tra confronti, rivalità, sospiri
Da Venezia fino a Vienna andata e ritorno:
per chi suona la campana?
Gino Benzoni
Un regesto / Due secoli di rapporti con la Serenissima
e infinite curiosità
Come gli artisti della laguna riempiono
di opere le residenza della nuova città
Fabio Isman
La storia / Due zarine creano la maggiore raccolta
veneziana all’estero
E il violinista fa la spola con San Marco
per arredare tanti palazzi
Irina Artemieva
La musica / La traiettoria di uno sviluppo,
da Galuppi a Cimarosa & company
Caterina ii, con il “Buranello”,
dà alla città stile e perizia artistica
Sandro Cappelletto
La cronaca / Che cosa celano i Giorgione, Tiziano
e Veronese della zarina
La vendita sconvolge il mondo: da Parigi all’Hermitage
i capolavori veneti di Crozat
Rosella Lauber
Il contesto / Uno storico nemico,
che priva la Serenissima della libertà
Tra ambasciatori e spie artisti e musicisti: secoli di
rapporti in cagnesco
Fabio Isman
I libri, i poeti / Dal Settecento fin quasi al 2000:
l’attrazione e la ripulsa
La laguna come un’alterità a portata di mano.
E poi, il mito della città morta
Andrea Landolfi
Il racconto / Una predilezione che inizia forse nel 1533, con Tiziano
Un acquisto dietro l’altro, nasce la più ricca
e documentata raccolta veneziana all’estero
Sylvia Ferino Pagden
La curiosità / Compravendite e trasferimenti dei «Mesi»,
capolavori di Leandro
Dalla laguna fino agli Asburgo: i tanti viaggi di un ciclo
di 12 Bassano (ma uno è sparito)
Francesca Del Torre Scheuch
La musica / Vicende di note (e di gonnelle) tra le due capitali
Nello stesso anno, il 1787, due Don Giovanni:
ma quanto diversi tra loro
Sandro Cappelletto
L’indagine / Sotto la dominazione austriaca
esiste già una “banda del buco”
«Vendere a ogni costo»: spariscono 5000 dipinti,
ma tornano cavalli e leone
Rosella Lauber
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ANNO
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Venezia Altrove: Almanacco 2010